Il Fatto Quotidiano (25 Ott 2009)

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Tra i due litiganti, Berlusconi e Tremonti, gode Bossi. Che dice: ho messo pace ma adesso il Veneto è mio

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€ 1,20 – Arretrati: € 2,00 Spedizione abb. postale D.L. 353/03 (conv.in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 1 Roma Aut. 114/2009

Domenica 25 ottobre 2009 – Anno 1 – n° 29 Redazione: via Orazio n° 10 – 00193 Roma tel. +39 06 32818.1 – fax +39 06 32818.230

PD, PRIMARIE SOTTO CHOC MARRAZZO LASCIA MA NON SI DIMETTE Adesso se ne vada (e Berlusconi pure)

Il governatore si autosospende per evitare elezioni subito nel Lazio. Dice:“Sono una vittima”, ma “ho le mie debolezze nella sfera privata”. Oggi un partito smarrito va al voto per scegliere il nuovo segretario pag. 2,3,4,5 e 6 z

di Marco Travaglio

iero Marrazzo si deve dimettere. Peccato: non governava male. Ma deve andarsene: la patetica manfrina dell’”autosospensione” in vista di un “percorso” che porterà chissà quando al passo d’addio è imbarazzante per tutti, ma soprattutto per lui, chiuso nel freezer in versione Findus. Se ha ceduto al ricatto anziché denunciare l’estorsione, non può più ricoprire una carica pubblica. Il fatto poi che sia stato ricattato per mesi getta un’ombra sul suo governo passato e anche su quello futuro. Ma l’unica cosa che non si può (più) dire è che sia sotto ricatto, ora che questo è stato smascherato e i suoi autori arrestati. E infatti è proprio quel che scrive Pierluigi Battista, sedicente “terzista”, sul Corriere della sera: “Un governatore sotto ricatto è politicamente dimezzato e azzoppato, impossibilitato a svolgere con serenità e responsabilità istituzionale le funzioni che gli sono proprie”. Solennissima sciocchezza: visto che i ricattatori sono in galera, il ricatto non c’è più. Ma è comunque consolante che il Battista, alla sua età, sia riuscito finalmente a chiedere le dimissioni di un politico coinvolto in uno scandalo, sia pur con la penna intinta nella vaselina cerchiobottista, anzi cerchiobattista (“Marrazzo deve valutare se fare un passo indietro non sia l’unico gesto pieno di dignità…”). Purtroppo non l’ha mai chiesto per Silvio Berlusconi. Anzi, il Battista e il Corriere han sempre detto il contrario: gli scandali non devono impedire al premier di “andare avanti” e i giornali che chiedono le sue dimissioni, o qualche risposta alle domande, “organizzano campagne” e “alimentano lo scontro”. Poco importa se quegli scandali rendevano e rendono tuttora il Cavaliere ricattabile e forse ricattato. Se Mills sa di aver preso 600 mila dollari da “Mr.B.”; se Dell’Utri conosce tanti altarini e li tiene per sè, così come Previti e tanti altri complici; se Provenzano gli scriveva lettere d’amore e minacce; se Vito Ciancimino lo avvertiva dal carcere “Se passa molto tempo sarò costretto a uscire dal mio riserbo che dura da anni…”; se Gaspare Spatuzza parla di lui dopo anni di silenzio e racconta che nel ’93 i Graviano minacciavano di “parlare” se qualcuno non fosse entrato in politica; se la D’Addario e interi plotoni di “ragazze” più o meno a tassametro andavano e venivano dalle sue case e/o dalle sue alcove, armate di registratori e telefonini con videocamera; se Saccà doveva piazzarne alcune a Raifiction perché questa o quella “sta diventando pericolosa”, cioè ha iniziato a parlare; ecco, se centinaia di persone conoscono fatti tali da poter rovinare la reputazione del presidente del Consiglio, o quel che ne resta, e per vicende un po’ più gravi di qualche vizietto privato, forse è il caso di pretendere “un passo indietro” anche da lui perché “politicamente dimezzato e azzoppato, impossibilitato a svolgere con serenità e responsabilità istituzionale le funzioni che gli sono proprie”. Invece il Pompiere della Sera, insieme al capo dello Stato e ad altri estintori umani, chiede alle opposizioni di sedersi al tavolo con lui per riformare addirittura la Giustizia e la Costituzione. Cade così l’ultimo velo dalle ipocrisie dei “terzisti”. Chi invoca le dimissioni di Marrazzo, ma non di Berlusconi, non è un terzista. E’ un berlusconiano travestito.

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Emergenza Pd di Furio Colombo

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iamo entrati in una furiosa galleria del vento in cui tutto ciò che era cattivo diventa peggiore; le minacce – anche quelle che sembravano eccessive e da fumetto – diventano fatti. E una certa abiezione (il mobbing di un giudice mediante troupe televisiva di Berlusconi, eventi lungamente orchestrati, che poi accadono improvvisi, come Boffo e Augias) si rivela routine: oggi una, domani un'altra. Improvvisamente si apre una nuova scena: “l'affare Marrazzo”, dove tutto è poco spiegato.

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Udi Luca Telese BINDI: SÌ È QUESTIONE MORALE L’INCHIESTA x Davanti al gip i quattro carabinieri “mele marce”

TRANS E DROGA STORIA DEL RICATTO Adesso i video sarebbero due, come le estorsioni ai danni del governatore del Lazio. L’agguato a via Gradoli e il via vai nelle redazioni di giornali e tv per piazzare il filmato di Marco

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il libro

Perché la mafia non vuole le intercettazioni Ingroia pag. 10 e 11z

ncalabria Nave dei veleni migliaia in piazza Longobardi pag. 8z

Lillo

via Gradoli 96, in questa Ifu npalazzina in cortina dove tenuto prigioniero dalle Brigate Rosse Aldfo Moro, ha concluso la sua carriera Piero Marrazzo. In una sera di luglio, probabilmente il 3, dopo una giornata di lavoro, il governatore si è infilato con la sua auto nel buio della notte giù per un budello ripido e tortuoso che parte dal verde della Cassia. pag. 5 z

ora di trarre una conclusione seria e grave: si apre nel“È la politica una nuova questione morale, che tocca anche il Pd. Un minuto dopo le primarie dovremo riunirci e aprire una rif lessione”. Il caso Marrazzo, per Rosy Bindi è la spia di un malespag. 18 z sere della politica.

CATTIVERIE Anche molti giovani credono nel posto fisso. Di solito è la casa dei genitori. (www.spinoza.it)


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Domenica 25 ottobre 2009

Se nessuno arriva al 51% si va al ballottaggio

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PD NELLA BUFERA

l voto di oggi potrebbe non essere risolutivo: secondo lo statuto del Pd, infatti, se nessuno dei tre candidati dovesse raggiungere il 51% la scelta passerebbe alla nuova assemblea nazionale, che viene scelta dalle primarie, con una sorta di ballottaggio. È questo il prodotto di un regolamento molto macchinoso e

criticatissimo, che ha cercato di tenere insieme la necessità di dare un peso ai tesserati, senza rinunciare allo strumento delle primarie. Per arrivare a oggi, prima si sono svolti i congressi di circolo, che hanno portato al voto dei tesserati: ha vinto Bersani, che ha ottenuto il 55,1% dei consensi, poi Dario Franceschini con il 36,9%, infine Ignazio Marino con il 7,9%.

Queste tre candidature sono state vagliate dalla convenzione nazionale (composta da 1000 delegati eletti nelle convenzioni principali) che le ha ratificate e approvate. Oggi la parola passa ai cittadini: tutti possono votare, basta pagare 2 euro e dichiararsi elettori del Pd. Ma non è detto che stasera si arrivi ad eleggere il nuovo segretario.

16 0TTOBRE 2005

ELETTORI: 4 MILIONI VINCITORE: PRODI 14 OTTOBRE 2007

ELETTORI: 3,5 MILIONI VINCITORE: VELTRONI 25 OTTOBRE 2009

ELETTORI PREVISTI: 1,5-2 MILIONI

Una festa rovinata

Tra le ombre e gli scandali, oggi il Pd sceglie il suo leader: clima sfavorevole, risultato non scontato di Luca Telese

cco, questa è la festa delle primarie, il rito bello della democrazia, il giorno in cui decidono gli elettori e i cittadini: dalle sette del mattino alle otto di sera, con il certificato elettorale e un documento in mano. Eppure è anche un giorno segnato dalle ombre, dalle domande e dai dubbi, dai piccoli grandi pasticci, il giorno in cui sul partito soffia un vento di bufera, gli echi dello scandalo Marrazzo, l’onda d’urto che - in una delle regioni più importanti - fa traballare una giunta di centrosinistra. Luci, ombre, dimissioni. E’ il giorno in cui l’Italia progressista e di centrosinistra va a votare per i suoi dirigenti: ma anche quello in cui si rivela la stanchezza per le tante deleghe in bianco, per gli scandali, per l’opposizione intermittente (a volte sì a volte no), per tante le soluzioni di compromesso dei leader del Pd, che finiscono sempre per tenere insieme capre e cavoli. Ad esempio l’ultima trovata: quella delle dimissioni che non dimettono. “Autosospensione”, l’ha chiamata Piero Marrazzo. “Un gesto di responsabilità”, gli hanno risposto in coro gli esponenti della sua coalizione dai leader al consigliere regionale. Perchè Marrazzo, anche se vittima di una orribile estorsione, ha pensato di poter mentire ai suoi elettori? Perchè nel gruppo dirigente del partito si scoprono doppie vite e doppie verità? L’unica cosa certa è che questa dell’autosospensione è un pasticcio da azzeccagarbugli, che serve a mantenere in vita una giunta regionale, e a impedire che si vada al voto in un momento di difficoltà. Era la cosa più giusta da fare? Chissà. Pagherà in termini di credibilità? E’ tutto da dimostrare. Risultato aperto. Ma quella di oggi è una festa democratica, comunque vada: se non al-

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tro perchè è la prima volta che il risultato non è già scritto. Non fu così per le primarie di coalizione che designarono Romano Prodi senza che ci fossero veri rivali. Non fu così quando si investì Walter Veltroni, con un pronunciamento così unanime dei gruppi dirigenti che gli unici (e coraggiosi) sfidanti) Enrico Letta e Rosy Bindi si dovettero spartire con fatica il 30% dei voti residui. Numeri variabili. Invece questa è una festa della democrazia anche perché nemmeno il voto che ha portato Pierluigi Bersani in testa fra gli iscritti può ipotecare il risultato. I numeri parlano chiaro: nel congresso del Pd erano chiamati alle urne 800mila iscritti, se ne sono presentati la metà. Il 55% di Bersani corrisponde a poco più di 200 mila voti. Se, come nella peggiore delle ipotesi votassero un milione e mezzo di iscritti, sia Ignazio Marino che Dario

Franceschini possono (teoricamente) ribaltare il pronostico perchè la base elettorale cambierà e crescerà enormemente. Quanti voteranno? Anche questo dubbio, domani sarà sostituito da un numero che sarà un risposta. La differenza con la destra. Questa è la festa della democrazia, se non altro perchè nel centrodestra nessuno è stato

Nessun altro partito in Italia ha consultato gli elettori per decidere il proprio segretario

FACEBOOK

“Mi manda RaiTrans”

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olidarietà, amarezza e tanta ironia. Così su Facebook gli utenti commentano la vicenda del ricatto, delle smentite, e poi dell'autosospensione del governatore del Lazio. Sulla pagina di Marrazzo si accavallano i commenti al post lasciato ieri dal governatore: (“Sono sconcertato e amareggiato. Il video è una bufala” scriveva il governatore). “I fatti sono incontestabili: Marrazzo si è dimesso, Berlusconi non ci pensa nemmeno” scrive Pierpaolo. “Ma ci fosse uno normale in politica” aggiunge Franco. “Tutta la mia solidarietà!”, taglia corto Enza. Di tutt'altro tono i commenti sulla neonata pagina “Marrazzo Transclub”. “Dopo i calzini di Fassino color turchese.... ora il perizoma di Marrazzo ...tigrato!!!!” dice Fabrizio. Chiosa al veleno per un altro utente: “Mi manda RaiTrans!" (f.m.)

mai chiamato a decidere su di un leader, su di un gruppo dirigente, su un candidato. Il che per gli elettori che domani andranno a votare è un motivo di orgoglio. Ma non è nemmeno un alibi che può coprire le tante mancanze che su questo giornale abbiamo raccontato: il voto dei ccapibastone e dei signori delle tessere, per esempio. Oppure le altre partite di potere: insieme ai leader, per esempio, viene eletta una assemblea nazionale che però viene designata per liste bloccate. E insieme ai leader e all’assemblea si vota anche per i segretari regionali. In barba alla chiarezza, soprattutto al Sud, sono proliferate le liste fai da te, le piccole operazioni di trasformismo, i giochi di potere per cui dietro un unico nome ci sono anche sette simboli. Regole alla prova. Ma questa sarà una festa democratica, senza dubbio, perchè nessun altro mai in Italia (al di là delle elezioni) è arrivato a consultare quattro milioni di cittadini. E’ una festa democratica, comunque vada, anche perchè

c’è già chi la mette in discussione. Non è un mistero che a un leader come Massimo D’Alema il percorso indicato dall’attuale statuto non piaccia: “In America - dice l’ex ministro degli esteri - gli elettori decidono i candidati e gli iscritti il leader. Da noi è esattamente il contrario: gli iscritti decidono i candidati, e non si sa chi decide il leader”. D’Alema dice che se vincerà Bersani sarà il caso di rivedere la regola più contestata. Quella che permette a chiunque di andare a votare, purché abbia pagato due euro e sottoscritto una dichiarazione di voto a favore del Pd. Ma ci si può affidare a una autocertificazione? Mentre i leader del Pd sono pronti a tollerare che in questo modo partecipino elettori di altri partiti della coalizione, in grosso punto interrogativo è se - soprattutto a livello locale - dovessero andare al voto elettori di centrodestra. Uno dei padri dello Statuto del partito, Stefano Ceccanti, sostiene che anche questo è un punto di forza del Pd, e che gli inquinamenti sono impossibili o marginali. Fi-

nora, ufficialmente è uscito allo scoperto solo Francesco Storace: “Noi della Destra andremo a votare per Bersani”. Solo una provocazione? L’interessato ha risposto ironico: “Vorrei che Storace non se l’avesse a male, se gli dico che preferirei che si astenesse...”. Ma forse questa è una festa democratica anche perchè c’è un po’ di disordine sotto il cielo. il paradosso possibile. Certo, sulla carta è possibile anche un risultato paradossale: gli elettori di domani potrebbero dare un responso diverso, se non opposto, a quello fornito dagli iscritti. E se il margine fra i primi due fosse molto esiguo, in Assemblea i voti del terzo uomo risulterebbero determinanti, malgrado il cosiddetto “lodo Scalfari” (chi arriva primo vince e basta) e le tante rassicurazioni. Sì, comunque vada questa è una grande festa democratica. Chi vince dovrà risolvere i problemi di identità del Pd e costruire una nuova coalizione. Roba da far tremare le vene. Meno difficile, se un paio di milioni di persone ti danno una mano.

di Federico Mello

LA BASE A RESISTE E SPERA “Ora pensiamo alle primarie”

lla vigilia delle primarie, a Roma, c'è un vento forte e freddo. Un vento che non riesce a spazzare via il malumore che aleggia nelle sezioni del Pd per gli sviluppi della vicenda Marrazzo. La sezione di via La Spezia, vicino a piazza San Giovanni, è completamente nascosta dai lavori della metropolitana: ci vuole un po' per trovare il civico giusto (il 79). Ma poi, una volta arrivati, è in piena attività: ci sono le prove di uno spettacolo teatrale proprio nello stanzone che oggi è adibito a seggio. In un'altra stanza, un po' buia e cupa, ci sono i giovani militanti “tutti sotto i trentadue anni”. Controllano su Internet in tempo reale le mosse del governatore: “Marrazzo si è autosospeso - vengono a sapere in diretta - così si può evitare il commissariamento della Regione”. Niente complottismo, dicono loro “Però l'altra volta l'omicidio di Fortugno il giorno delle primarie, questa volta il caso Marazzo alla vigilia...”. Nonostante ciò “le primarie andranno bene, almeno come quelle


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Oggi saranno aperti 10.000 seggi, in campo 70.000 volontari

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PD NELLA BUFERA

olontariato, gazebo, ma anche tecnologia fornita dalla più grande azienda mondiale di consulenza aziendale: è un mix di tradizione e di futuro l'organizzazione delle primarie del Pd di oggi, che vedranno lavorare circa 70.000 volontari in 10.000 seggi in Italia e nel mondo. La trasmissione dei dati dai gazebo al centro, infatti, verrà effettuata da un sofisticato sistema

PIERLUIGI BERSANI

IL SUPERFAVORITO NON SI SBILANCIA

55% di Paola

Zanca

a campagna congressuale è LMarrazzo. finita. Travolta dal caso Ma avanti tutta, come da programma. Nel giorno in cui sulle pagine dei giornali vengono a galla i racconti della vita privata del governatore del Lazio, nessuno stravolgimento delle agende. Pierluigi Bersani sabato è in Lombardia. Niente scosse, né legami tra la sospensione dell'incarico di Marrazzo (“Un atto di responsabilità”, dice) e il voto di oggi. In tutta la giornata, racconta, nessun cittadino gli ha posto il problema, nessuno che abbia detto “non vado più a votare”. Baci e ab-

bracci come sempre. Prima un passaggio a Malpensa, poi Garbagnate e Monza, e di corsa in macchina a Milano, alla Marcia sul lavoro di Arci e Cgil. Chiude la sua corsa alla segreteria in corteo, perché “l'unità del lavoro è un bene pubblico” e io “ce la metterò tutta per farvi tornare ad avere voce”. È l'antitesi del “corriamo da soli” di veltroniana memoria. Sogna un'opposizione che costruisca un'alternativa, che faccia “breccia tra i cittadini”. Forse anche per questo, l'ultima settimana del Bersani candidato, escluso il tempo dedicato all'attività parlamentare, è lontana da Roma. Prima nelle Marche e in Abruzzo, poi in Liguria, Piemonte, Veneto. In mezzo, qualche passaggio in tv, tanti incontri e una selezione delle sue migliori battute. Tremonti? “Il posto fisso? Che intende, fisso a casa o a lavorare?”.

Le primarie? “Siamo fuori come i balconi: i cittadini scelgono il segretario del Pd e non i parlamentari”. Storace vota Bersani? “Astenersi perditempo”. Nel suo quartier generale, a piazza Santi Apostoli, intanto, regna il sereno: solo cinque o sei collaboratori sono rimasti a presidiare le agenzie di stampa. “Abbiamo venti punti di vantaggio – spiegano – non dovrebbero esserci problemi. Se la vicenda Marrazzo avrà delle ripercussioni saranno più che altro sul voto di opinione, e non è quello che ci riguarda”. Fortuna ha voluto che l'ex presidente Marrazzo, ufficialmente sostenitore della mozione Bersani, non si sia speso più di tanto nella campagna congressuale, né si sia candidato nelle liste per l'elezione dell'Assemblea nazionale. Difficile dunque che oggi qualcuno associ il volto di

IGNAZIO MARINO

L’AMAREZZA DI CHI CERCA PULIZIA di Caterina

Perniconi e Michele de Gennaro e dimissioni di Piero Marrazzo irLrenorompono come un fulmine a ciel senell’ultimo giorno di campagna elettorale di Ignazio Marino. È l’unico ad aver scelto Roma per convincere gli indecisi e si è ritrovato nell’occhio del ciclone mediatico, avendo dalla sua anche una buona fetta di dirigenti del partito capitolino. Quando risponde alle domande sull’argomento, il terzo classificato alla segreteria Pd assomiglia più a un pugile suonato che a un segretario. Ha impostato tutta la sua strategia sul ricambio e la “pulizia” all’interno del partito ma di fronte all’ennesima vicenda giudiziaria è costretto a non sbilanciarsi. L’accordo con Bersani e Franceschini è quello di una posizione unitaria. Ma-

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rino però ci tiene a dare il suo giudizio: “Spero che nei prossimi giorni le dimissioni annunciate da Marrazzo diventino formali”. Grande assente Goffredo Bettini mentre Michele Meta e Ileana Argentin pranzano col candidato e i suoi sostenitori a Garbatella. Nelle facce, smarrimento e tante domande, che coprono il lungo percorso che aveva caratterizzato la campagna elettorale “old style” del chirurgo. Una moltitudine di tappe, mercati, fabbriche, università, ospedali. La promessa di serietà e meritocrazia. E una domanda ricorrente da parte della gente: “Lunedì vi ricorderete ancora di noi? ”. C’è chi chiede più opposizione, e Marino spiega: “Votate me, vedrete che non

che hanno eletto Veltroni” ci dice Giulia, la segretaria della sezione che parla con frasi nette e un inconfondibile tono “da partito”. Loro sostengono Bersani: “Il Partito democratico non ha inciso, sopravvive da due anni. Ora serve un partito 'che c'è', strutturato nei territori”. Durerà , chiediamo, questo Pd? “Speriamo che sia l'ultimo partito al quale ci iscriviamo” risponde Daphne, nome greco e cadenza romana. Di lì a poco la stessa risposta ce la dà Federico, diciotto anni, candidato per Franceschini nella storica sezione di via dei Giubbonari: “Il Pd durerà per decenni”. Federico è gentile e risponde a tutti: oggi sono lui e Pasquale, classe 1936, a tenere aperta la sezione. Passano in tanti per chiedere come votare, dove trovare il seggio. Una ragazza giovanissima, con la mamma, chiede informazioni. Lei voterà Marino, sua madre, invece, non voterà “sono troppo incazzata” ci urla andando via. Tutti parlano di Marrazzo “doveva denunciare subito quei carabinieri” scuote la testa un simpatizzante che ha la residenza in Liguria e non potrà votare perché non si è registrato (bi-

telefonico/telematico elaborato dalla Accenture che consentirà di sapere in poche ore chi è il vincitore. In serata ci saranno i risultati ufficiosi, quelli ufficiali a metà della giornata di lunedì. I seggi saranno aperti dalle 7 alle 20. Sul sito internet del partito c'é un sistema per trovare il seggio; in alternativa si può fare il numero verde. Potranno dire la loro anche i sedicenni (in questo caso, basta la carta di identità),

Bersani a quello del governatore travolto dallo scandalo. Il sospiro di sollievo, comunque, ieri si è tirato: “Non potevamo affrontare la campagna delle regionali con un presidente in queste condizioni”. Ora, l'exit strategy suona più o meno così: “Vedete? Noi siamo diversi. Berlusconi non si è dimesso, Marrazzo sì”. L'unica possibilità per uscirne a testa alta. E provare a dare “un senso a questa storia”. Lo slogan della campagna di Bersani: più che il titolo di una canzone, la conferma che, per lui, la storia di adesso “un senso non ce l'ha”.

nonché gli stranieri residenti in Italia: per gli extracomunitari sarà necessario mostrare il permesso di soggiorno. Gli studenti fuori sede potranno iscriversi, entro domani, al seggio della città dove risiedono. Quanti andranno ai seggi dovranno versare un contributo di 2 euro e firmare anche la dichiarazione di essere elettori del Pd. I seggi predisposti saranno 9.800 in Italia e 130 all’estero.

DARIO FRANCESCHINI

È TEMPO DI RISCHIARE di Carlo Tecce

uel ragazzo di cinquant'anni Qchiache scrive romanzi e canticLuciano Ligabue, l'altra metà

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di Walter Veltroni con inflessione ferrarese, prova a incazzarsi con stile e malinconia. Dario Franceschini è sul miglio finale e correrà per quattro comizi in un giorno. Con voce basBERSANI sa: “Forse questo è il mio ultimo discorso da segretario, ma non moriremo di prudenza”. L’agenda resta come da Con trasporto: “Gli elettori sono parte di noi: voi potete decidere e allora lotteremo programma. “L’unità del per cambiare noi stessi e l'Italia”. Con determinazione: “Non è tempo di calcoli prilavoro è un bene pubblico. vati. Chi cerca di sopravvivere è condannato a perdere”. Franceschini seleziona parole Faremo breccia tra la calde e spuntate, non vuole tradire il suo gente” passato nella vigilia che indica il futuro. Pretende coerenza dal partito che condannava i festini di palazzo Grazioli e ora non può inFRANCESCHINI dugiare su Piero Marrazzo: per l'attuale segretario, il governatore dovrebbe dimetterForse l’ultimo giorno da si. A mezzogiorno anticipa la nota congiunsegretario. “Non è tempo di ta con Bersani e Marino, ma poi si nasconde: “Su Marrazzo c’è il comunicato del partito. Non dico altro”. Il Pd è unico, anche se adescalcoli privati. Chi cerca di so sono in tre per un posto: “Non mi intesopravvivere perde” ressano le percentuali, le Primarie saranno una straordinaria prova di democrazia, la testimonianza che siamo più forti dei nostri MARINO errori”. Non rinuncia al simbolismo caro al suo predecessore e nemmeno alla formula Alla fine di una campagna americana del “ticket”: da Marzabotto, da quel pezzo d'Italia sfregiato dal nazismo, old style. ”Spero di non elegge i suoi vice ideali. Non due a caso, un arrivare terzo. Non urlo, ma nero e una donna: Jean Leonard Touadi e Debora Serracchiani. Franceschini non è diversarò più severo degli altri”. so da se stesso, nemmeno nelle ore che scandiscono migliaia di voti. Promette: giurerò sulla Costituzione, a Ferrara con il tricolore e la banda musicale. Rivela: il motto 'adesso' urlerò ma sarò mille volte più severo”. è un omaggio a don Primo Mazzolari. E' un fluire incesSpera di non arrivare terzo. sante tra poesia e commozione: “Mi hanno ringraziato per Venerdì era volato in Lombardia, la reaver fatto il segretario in questi mesi. E' stata l'esperienza gione che al momento gli sta regalando più bella della mia vita”. Commiato con orgoglio. Non c'è più consensi nella corsa alla segreteria, prosa, accusano i bersaniani: non c'è un riferimento chiaro per confrontarsi con i lavoratori della all'economia, non c'è un programma preciso. I sostenitori Leuci, storica azienda illuminotecnica di Franceschini preferiscono il coinvolgimento emotivo. Il che per la crisi è in procinto di licendeputato Franco Laratta è in corteo ad Amantea contro le ziare 102 dipendenti su 130. Dopo navi e i veleni dimenticati in mare: “Siamo per un progetto aver ascoltato le istanze degli operai il affascinante”. Che il candidato riempie di contenuti dalla chirurgo presenta la sua diagnosi: “Si città di famiglia: “Non possiamo lasciare potrebbe diversificare parte della proalla destra i temi della libertà. Non duzione e salvare il posto di lavoro di possiamo farli esultare perché saretutti. Conosco un imprenditore del mo in pochi a votare. Forza!”. A Fernord molto attivo nella green econorara l'altra metà di Walter diventa my. Entro un mese ve lo porto qui”. Dario, l'avvocato - devoto di ZaccaPoche parole, concrete. Che fanno gnini - che a 27 anni firmava un sagspuntare il sorriso sul volto dell’opegio biblico: “Il partito Popolare a raia che gli sta accanto. Un’infusione di Ferrara. Cattolici socialisti e speranza che merita un impegno anfascisti nella terra di Groche se a primarie concluse non divensoli e don Minzoni”. E ora terà il segretario. di Franceschini.

sognava farlo entro venerdì sera). “Un tempo si rischiava di essere espulsi per una sbronza” conferma Pio Albanesi, un vecchio militante. Ma ora bisogna pensare solo al nuovo segretario: “E chi verrà eletto poi non deve candidarsi per fare il premier. Chiunque vince deve pensare solo al partito, portarlo avanti e farlo crescere”. “E' la prima volta che voto alle primarie” ci dice invece un ragazzone alto e piazzato “Sono orientato per Bersani, ma sono perplesso su chi lo appoggia”. E Marrazzo? “Andrebbe giudicato per quello che ha fatto in Regione. Non ha fatto miracoli ma la situazione che ha trovato era disastrosa, anche il governo nazionale gli ha messo i bastoni tra le ruote”. Il ragazzo va via, e sorride a tutti. Una signora infreddolita in attesa è contenta di quel semplice sorriso: “Nonostante tutti i problemi – ci dice – qua ci riconosciamo. E per un Le primarie – libera giorno è bello, sentirsi meno interpretazione soli”. Dello scandalo non vuole dirci niente. “Oggi pen- de “I bari” di Caravaggio, di Roberto Corradi siamo solo alle primarie”.


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Il precedente Abruzzo: l’addio di Del Turco e le nuove urne

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PD NELLA BUFERA

a storiaccia di Ottaviano Del Turco – luglio del 2008 - era diversa: tangenti, sanità, arresti. Del Turco era il governatore della regione Abruzzo, accusato per associazione a delinquere, corruzione e concussione. Al collega del Pd arrivò anche la solidarietà di Piero Marrazzo: “Umana e non di casta. Spero la magistratura

faccia presto chiarezza e non in tempi biblici”. Del Turco si prese qualche giorno di riflessione, poi direttamente dal carcere comunicò le sue dimissioni. La guida fu affidata al vicepresidente Enrico Paolino e il Consiglio regionale approvò dei provvedimenti dettati dagli obblighi di legge. La Giunta ebbe il compito di attivare le

procedure per le elezioni anticipate: obbligo di indire le elezioni entro 90 giorni e 45 giorni per la campagna elettorale. Le elezioni – che non coincidevano con altre consultazioni – sono costate circa 16 milioni di euro e si sono tenute – nonostante qualche rinvio - il 15 dicembre. Vinse Gianni Chiodi del Pdl.

ORA LO AMMETTE

“Mie debolezze”: il governatore dribbla le dimissioni L’autosospensione crea un altro pasticcio di Wanda Marra

i autosospendo”. Ha provato a resistere, Piero Marrazzo, ma alla fine ha dovuto cedere all’evidenza dei fatti e delle loro conseguenze. E al pressing continuo della sua giunta e del suo partito. Pochi minuti dopo le 16 di ieri ha affidato a una nota ufficiale le sue decisioni: “Ho detto la verità ai magistrati. Si tratta di una vicenda personale in cui sono entrate in gioco mie debolezze inerenti alla mia sfera privata”. La nota è arrivata dopo una riunione della giunta che ha concordato la “exit strategy”. Marrazzo, dunque, spiega: "Ho deciso di autosospendermi immediatamente e a tal fine ho conferito al vicepresidente la delega ad assumere la provvisoria responsabilità di governo e di rappresentanza ai sensi della normativa vigente, rinunciando a ogni indennità e beneficio connessi alla carica". Con queste parole, il Governa-

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Mossa per evitare il commissariamento e votare a marzo Addio formale a dicembre Piero Marrazzo

tore della Regione Lazio cessa di esercitare i suoi poteri e li passa con delega immediata al Vicepresidente della Giunta, Esterino Montino. Secondo l’articolo 45, comma 2 dello Statuto regio-

nale, infatti, l’ autosospensione comporta la sostituzione con il vicepresidente che assume la provvisoria responsabilità di governo e di rappresentanza. Restano in carica, dunque, sia la

Giunta che il Consiglio regionale. Poche righe da Marrazzo anche per spiegare le motivazioni di questa decisione: "In considerazione degli importanti provvedimenti di governo e legisla-

tivi che nell’immediato dovranno essere assunti, in virtù della particolare congiuntura economica e in relazione alle funzioni che svolgo in qualità di commissario di Governo, ho deciso di aprire un percorso che porti alle mie dimissioni". È una scelta in qualche modo atipica l’autosospensione. Ma se, soprattutto nel centrodestra, c’è chi la considera “un pasticcio”, senza mezzi termini, il centrosinistra la motiva come una scelta di responsabilità, un modo per arrivare alle elezioni, già previste per il 28 e il 29 marzo, senza passare per il commissariamento (e senza dover affrontare subito una campagna elettorale difficile). L’alternativa, con dimissioni vere e proprie, sarebbe stata il commissariamento e le elezioni tra 90 giorni. In questo modo, il percorso che la maggioranza avrebbe concordato con Marrazzo prevederebbe, invece, le dimissioni entro fine anno, in maniera da arrivare al voto, come già previsto, alla fine di marzo. Nella delega a Montino, comunque, si dovrebbe fare riferimento ad un impedimento di fatto nello svolgimento della carica di presidente della Regione e si dovrebbe parlare espressamente di indisponibilità per motivi di salute. Che si tratti di fatto di “dimissioni politiche” è quanto sottolinea la maggioranza. Non a caso la parola “dimissioni” compare nella nota di Marrazzo. In questo senso va anche il commento congiunto dei tre candidati alla segreteria del Pd: “La scelta di Marrazzo di dimettersi, attraverso un breve percorso che garantisca il funzionamento della Regione Lazio, è un atto di responsabilità". "Con la decisione di Marrazzo si apre una fase di confronto, soprattut-

PRIMARIE E STATUTO

Sindaco di lista civica? Vade retro!

S

guazzano tra codici e asterischi con rinomata comodità. Più che il Partito democratico, sembra il partito dei legulei. Il sindaco di Massa - Roberto Pucci - non potrà votare alle Primarie perché ha vinto le Comunali con una lista civica al ballottaggio con il candidato ufficiale del Pd. Il coordinatore provinciale della mozione Franceschini - Ernesto Manfredi - legge, rilegge e detta: “No, non può. No! L'articolo 2 comma 8 recita espressamente: 'Sono esclusi dall'albo degli elettori le persone che siano iscritte ad altri partiti politici o aderiscono a gruppi di organi istituzionali'. Capito?” Qualcuno dovrà ricordare allo Statuto che Pucci è tra i fondatori del Pd. E qualcuno dovrà comunicare a Manfredi che a Massa, dove sono tutti schierati con Franceschini, a Bersani potevano lasciare la preferenza del sindaco.

Pd in mezzo al guado, per la candidatura alla presidenza ridda di nomi ma nessuno si butta to con la giunta, per capire da quando formalmente lui presenterà le dimissioni", dichiara Esterino Montino precisando immediatamente che Marrazzo non sarà ricandidato (cosa che a

IL PERSONAGGIO

DALLA SANITÀ ALL’AUTO BLU: LA PARABOLA DEL “DIVO PIERO” di Alessandro

Ferrucci

osa farò da ‘grande’?... Ho “C preso una scelta e non torno indietro: oramai la mia strada è quella della politica”. Auschwitz, campo di sterminio di Birkenau, 7 ottobre del 2007, il presidente della Regione Lazio è in Polonia con due squadre di calcio giovanile vincitrici del “Trofeo della Memoria”. Aria fredda, cielo grigio, si-

L’immagine ingombrante del padre Jo, lo stile duro ma distaccato Ora il declino

lenzio assoluto. Ognuno riflette con se stesso, con la propria coscienza, poi si confronta con gli altri. Così Marrazzo che, davanti a tutti, dichiara i suoi obiettivi a metà mandato. È tranquillo della maggioranza regionale, è convinto di aver costruito un eccellente rapporto con i media; è sicuro di aver capito come presentarsi agli elettori: un professionista dedicato alla politica, con qualche accento veltronistico, condito da pragmatismo giornalistico e dalla libertà di trattare sia con la sinistra che con l’Udc. Insomma, l’homo novus. In fin dei conti la normale evoluzione del suo personaggio televisivo: duro, inflessibile, pronto a piazzare la domanda scomoda a chiunque, ad abbracciare i suoi telespettatori. Per qualcuno un “capo-popolo”. “Mi manda Rai3” il suo

trampolino, quindi la richiesta ufficiale da parte di Walter Veltroni di correre alla presidenza laziale. Un giorno di riflessione, qualche telefonata ad amici e confidenti, e poi via, “probabilmente - racconta una donna a lui molto vicina - anche per smarcarsi dal perenne confronto con un padre ingombrante”, quel Giuseppe “Jo” Marrazzo anche lui giornalista, ma impegnato sulla criminalità organizzata. Altro tipo di “malfattori”. Certo, credeva l’impegno politico più semplice, non un “boccone” solo, ma quasi. Invece, appena nominato, ecco la questione sanità, con un buco da 10 miliardi di euro (sì, 10 miliardi!) lasciato dalla precedente gestione guidata da Francesco Storace. Obbligatorio un piano di rientro sanguinoso con tagli verticali e manovre contestate, in primis la chiusura dell’unico

di Carlo Tecce

ospedale del centro storico di Roma, il San Giacomo. E ancora le polemiche per l’utilizzo “leggero” dell’auto blu da parte sua e degli altri componenti della maggioranza; o per certi atteggiamenti considerati divistici: dal chiedere una sorta di picchetto d’onore al suo arrivo in Regione, allo snobbare quotidianamente la mensa dei dipendenti; fino al pretendere un formale “buongiorno presidente” quando, fino al giorno prima delle elezioni, amava un comune “ciao Piero”. “Piccole cose, è vero - racconta un dirigente laziale - ma che, in un ambiente di lavoro, danno il metro di chi ti tratta dall’alto in basso. Con lui la linea di demarcazione era evidente: non parlava con nessuno, mai una battuta o un momento di relax. Non sapevamo niente”. Fino a giovedì.

lui invece sembrava ancora possibile fino a venerdì sera), ma che il centrosinistra sceglierà il candidato alla presidenza del Lazio con le primarie. Ipotesi annunciata anche dal segretario del Lazio del Pd, Roberto Morassut, secondo il quale "a questo punto le primarie sono la soluzione migliore". Intanto, hanno già cominciato a girare una serie di nomi di possibili candidati. I primi si sono già dichiarati indisponibili: dallo stesso Montino, a David Sassoli, Enrico Gasbarra e Rosi Bindi Nel ventaglio delle possibilità più o meno probabili sono stati anche considerati Giovanna Melandri e Walter Veltroni. Mentre spunta il nome di Luigi Nieri di Sinistra e Libertà, attuale Assessore al Bilancio, programmazione economico-finanziaria. Intanto, va all’attacco Francesco Storace (che è stato il precedente Governatore battuto da Marrazzo): "Una buffonata. L'autosospensione del presidente della Regione e la cessione dei poteri al vicepresidente non stanno in nessun articolo dello statuto regionale”. D’altra parte quella dell’autosospensione è soluzione che non è mai stata adottata in nessuna Regione. Il senatore Andrea Augello chiarisce: "Mi riesce difficile accettare un pasticcio istituzionale in cui Montino diventa presidente della Regione senza alcuna investitura elettorale popolare". Ma le reazioni del centrodestra non sono del tutto allineate: si va da Quagliariello, vicecapogruppo del Pdl al Senato, che considera “pilatesca” la scelta dell’autosospensione a Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera, che si dice “sinceramente rammaricato”, passando per Gasparri secondo il quale “la presunta superiorità morale della sinistra va in archivio”.


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Già da agosto il tape offerto a redazioni e giornali

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PD NELLA BUFERA

n'idea di verità, quantomeno un tentativo di sciogliere una vicenda intricata, arriva dalle carte giudiziarie, dagli atti d'indagine della Procura di Roma. Si parla del “piano segreto delle mele marce”, il ricatto ordito dai quattro carabinieri della compagnia Trionfale ai danni del governatore Piero Marrazzo. C'è

il filmato: “Si vede anche della polvere bianca che, per le circostanza e le dichiarazioni rese, consisteva con ogni evidenza in cocaina”. Nel verbale di Marrazzo si scoprono altri retroscena della serata: “Mentre era in compagnia di tale Natalie, fecero ingresso due uomini che si presentarono come Carabinieri. Gli stessi si fecero consegnare dalla parte lesa

il portafogli”. Marrazzo precisa che “in camera c'era cocaina, ma non ne ho fatto uso”. I quattro militari volevano vendere il video al miglior offerente e si rivolsero a Scarfone. Già ad agosto - il video di un minuto e mezzo risalente a luglio - risultava in giro a Milano tra redazioni di giornali e settimanali.

VIA GRADOLI E LA CACCIA AL SECONDO VIDEO Dalla casa di Natalie al “giro” trans: il doppio mondo di Marrazzo di Marco Lillo

ia Gradoli 96, palazzina Imeco. In questo stabile signorile in cortina dove fu tenuto prigioniero dalle Brigate Rosse Aldo Moro, ha concluso la sua carriera Piero Marrazzo. In una sera di luglio, probabilmente il 3, dopo una lunga giornata di lavoro, il Governatore si è infilato con la sua auto nel buio della notte giù per un budello ripido che parte dal verde della Cassia. Ha parcheggiato nel piazzale interno ha salito con passo svelto le scale che collegano il parcheggio al cortile, sotto gli occhi degli inquilini affacciati sui balconi per l’afa: viados brasiliani, operai rumeni, colf etiopi. Furtivamente si è infilato nell’alveare di trenta miniappartamenti per scendere con passo svelto le due rampe della scala con il cuore in gola sperando di non incontrare nessuno. Fin quando non ha sentito il rumore della porta del seminterrato di Natalie chiudersi alle sue spalle. Sembra folle pensare che questo giornalista-politico, figlio di un cronista di mafia, potesse sentirsi sicuro in quel luogo simbolo dei misteri della prima repubblica, dove i servizi segreti e l’ex capo del Sisde erano proprietari di molti appartamenti negli anni settanta. Eppure Marrazzo si è rilassato con Natalie proprio in questo appartamento dal profumo esotico tra i mobili etnici, con la colonna sonora della musica rumena al massimo volume al piano di sopra e i lamenti della figlia neonata dei vicini ispanici. La serata col trans brasiliano dal fisico imponente (un metro e ottanta) e la voce suadente, è stata la trasgressione che ha decretato la sua fine. Il Governatore ha ammesso le “debolezze private”. Ma in troppi le conoscevano. Uno dei pochi italiani del palazzo racconta: “si dice che Marrazzo frequentasse non solo via Gradoli (dove i viados occupano tre appartamenti) ma anche Largo Sperlonga e via Capena”. Una voce risalente nel tempo che era giunta all’orecchio dell’investigatore Pierpaolo Pasqua, che abita qui vicino, nel 2005. I suoi uomini avevano contattato un altro trans, Veronica, pensando di usare le prove della relazione al fine di stroncare la candidatura del giornalista. Quella manovra saltò ma il neogovernatore, non fece tesoro dello scampato pericolo. Dalle indagini del Ros che casualmente si è imbattuto nella banda dei 4 carabinieri della compagnia Trionfale che lo ri-

V

cattavano, emerge uno scenario ancora più inquietante di quanto sembrasse all’inizio. Gli inquirenti sono a caccia di un secondo video di durata più lunga di quello sequestrato, che non supera i due minuti. Secondo questa ipotesi investigativa il filmato di 15 minuti circa che poteva imbarazzare Marrazzo sarebbe stato registrato ben prima della sera dell’irruzione in casa di Natalie. I Carabinieri del Trionfale, per ragioni di servizio, conoscevano bene i trans della Cassia. La squadretta dei ricattatori conosceva tutti i segreti piccoli e grandi dei trans che spesso - oltre al sesso - offrono ai clienti anche la droga. Come nei telefilm americani i carabinieri chiudevano un occhio e sfruttavano le magagne legali per avere confidenze e concludere così operazioni antidroga. Tra le confidenze ricevute dai viados a un certo punto sarebbe spuntata anche la storia, tutta da verificare, del Governatore ricattato. Tra i trans girava la voce che esistesse addirittura un video, più antico e più lungo di

quello girato sul telefonino e che sarà sequestrato nell’indagine in corso, che poteva imbarazzare il Governatore. Qualcuno diceva in giro persino che il Governatore fosse ricattato da qualcuno che aveva in mano il filmato. A questo punto i carabinieri avrebbero pensato di replicare il colpaccio aggiungendo però l’ulteriore carico inti-

Le voci sulle frequentazioni di viados già dal 2005: l’idea del ricatto, poi non se ne fece nulla midatorio della loro divisa per convincere Piero Marrazzo a pagare. Il piano sarebbe stato eseguito alla prima occasione

ghiotta. Agli inizi di luglio, grazie alla dritta giusta avrebbero saputo che quella sera il politico sarebbe stato nel seminterrato di Natalie e che sul tavolino ci sarebbe stata la cocaina. Il trans, al momento, non è indagato perché si ritiene che non sia stata lei a preparare la trappola. Probabilmente l’uomo chiave è il pusher. I Carabinieri lo stanno cercando indagando nel mondo dei transessuali. Lo scopo è ricostruire esattamente come è nata l’irruzione di luglio in via Gradoli. E anche capire se il secondo video esista davvero. Anche perché nell’interrogatorio di ieri i tre carabinieri accusati di estorsione contro Mar-

Lo snodo della vicenda nello stabile che fu la prigione di Aldo Moro, i pedinamenti, poi l’irruzione razzo si sono difesi insinuando un complotto più grande di loro dietro le indagini del Ros dei Carabinieri. “Avevamo fatto una

semplice operazione investigativa e”, sostengono, “ci hanno voluto incastrare”. Un’altra questione sulla quale gli inquirenti vogliono vedere chiaro è la seconda fase dell’operazione: il tentativo di vendita del video ai giornali e alle agenzie milanesi, come la Photo Masi. Nell’interrogatorio di ieri molte domande hanno riguardato il fotografo Max Scarfone, lo stesso che aveva seguito il portavoce di Prodi, Silvio Sircana. Sembra che i tentativi di piazzare le immagini siano partiti ad agosto. E i pm di Roma vogliono capire esattamente cosa sia accaduto tra Roma e Milano in questi due mesi.

L’INTERVISTA

GIORGIO BOCCA: “ORMAI LA SINISTRA COPIA LA DESTRA” di Gian Piero Calapà

e parole di Giorgio Bocca, Lgiornalismo uno degli ultimi grandi del italiano, spesso sono come aculei che si conficcano in una ferita già aperta. Come lo scorso agosto, quando scrisse su l’Espresso che in Sicilia i carabinieri “fanno parte fondamentale del patto di coesistenza sul territorio, di controllo del territorio condiviso con la Chiesa e con la mafia”. Le sue frasi sono ruvide come può esser ruvido solo un anziano piemontese che ha fatto la Resistenza e che oggi fa fatica a distinguere, nell’agone politico, il bene dal male. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa parlò di accuse farneticanti, riferendosi a quell’articolo, che Pierferdinando Casini definì “infame”. Ora il “caso Marrazzo” e tre uomini dell’Arma arrestati con l’accusa di estorsione. “Sinistra e destra sono senza differenza - spiega Bocca - . Complotto o no, uno che ricopre un ruolo istituzionale non dovrebbe comportarsi, anche in privato, come ha fatto il governatore del Lazio”. Forse anche i carabinieri

coesistono, ovunque, con una società malata giunta a un punto bassissimo della Storia di questo Paese? “Ho avuto parecchie noie dopo quell’articolo. Sono stato definito più volte un anti-italiano, preferirei davvero evitare di parlare dei carabinieri. E, aggiungo, se il Fatto pensava, intervistando me sulla vicenda Marrazzo, di voler fare un pezzo di sinistra ha sbagliato a cercare me”. Nessun intento premeditato da parte nostra. Escludendo i carabinieri dal discorso, non pensa che il governatore sia stato vittima di un complotto? “Non è questo il punto. Ammesso anche che si sia trattato di un complotto mi pare che Marrazzo fu già vittima di un pedinamento o qualcosa di simile in passato. Il presidente di una Regione dovrebbe essere ben più accorto e assumere dei comportamenti anche consoni al ruolo istituzionale che ricopre. In America non ci sarebbe stato nessun tentennamento sulle dimissioni, qui siamo fatti così”. Ritiene, quindi, che Mar-

razzo abbia sbagliato tutto, anche nel comportamento tenuto nelle prime ore a scandalo ormai scoppiato? “Abbia pazienza: uno che dice che tiene alla sua famiglia e poi va con i trans… secondo me quanto meno è un tipo strano... Sarà che sono un piemontese.” Insomma, anche per lei siamo al così fan tutti? Destra e sinistra, tutti uguali. Non pensa sia proprio quello che voleva dimostrare l’apparato che si è messo in moto? Sì, la sinistra è come la destra. L’apparato non può dimostrar nulla, però, nel caso del giudice Raimondo Mesiano.

Pedinato e sbattuto su Canale5 mentre aspettava il suo turno dal barbiere. Ripeto: bisogna essere consci del ruolo che si ricopre: chi fa il governatore non può e non deve permettersi cose che magari possono anche apparire lecite per un uomo comune. Marrazzo, se è stato vittima, si è prestato ad esser vittima”. Ieri Pierluigi Battista sul Corriere della Sera si spingeva a chiedere a Marrazzo di valutare se fare un passo indietro chiedendosi “quanto sia stata condizionata l’attività pubblica di un presidente che da mesi vive costantemente in una condizione di ricatto”. La stessa cosa che alcuni rilevarono per Berlusconi nella vicenda delle escort. “Premetto che non leggo mai ciò che scrive Battista e ritorno a dire che è uno schifo generale. Prenda l’ex ministro

Clemente Mastella quando ammette di aver raccomandato solo amici innocenti, chiedendo che cosa ci fosse di male. Trovo incomprensibile il modo di intendere l’onestà di tutta la nostra classe dirigente. Ci sono due modi di concepire la politica. Io scelgo quello espresso da una figura come Giuliano Vassalli”. L’Italia è stata sempre così? Oppure ritiene che sia in corso un’escalation tra pedinamenti, dossier e buchi della serratura? “Non è sempre stato così, nessuno si sognò mai di pedinare Aldo Moro perché c’erano in giro voci di una sua relazione con una cantante”. Vede luce alla fine del tunnel? “Questo è un Paese in cui non mi riconosco più. Non mi riconosco più negli italiani. Forse hanno fatto bene a definirmi anti-italiano”.

Complotto? L’esponente Pd non ha scuse. I carabinieri? Lasciamo perdere, ho già dato...


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Domenica 25 ottobre 2009

Le inchiesta in Puglia il violentatore seriale e il killer di Castellamare di Luca Telese

o credo che sia l'ora di trarre una conclusione seria e grave: si apre oggi nella politica italiana una nuova questione morale, che tocca anche il Pd. Un minuto dopo le primarie, il 25 ottobre, dovremo riunirci e aprire una riflessione”. Il caso Marrazzo, per Rosy Bindi è la spia di un malessere della politica. E quindi dovrebbe diventare anche un punto di svolta: il momento in cui si inverte la marcia. Onorevole Bindi, che cosa pensa di questa storia? “I problemi giudiziari che si sono aperti rappresentano fatti isolati, per fortuna, ma devono farci riflettere severamente. Anche noi siamo attraversati dalla debolezza che la politica di oggi vive. Corriamo il rischio che le gente ci dica: ecco, siete tutti uguali, tra di voi non ci sono differenze. Ecco perché bisogna tornare a un profilo alto”. Cosa significa esattamente? “Dopo anni in cui molti si sono fatti incantare dal pensiero debole, dalla banalizzazione dei ruoli e delle carriere, o si torna al valore morale della politica, oppure subiremo il degrado al pari degli altri”. Teorizza il primato della politica? “È molto più semplice: se la politica non ha consenso, non è autorevole e non esprime dignità non ha la forza di indirizzare i processi: li subisce, e le ingiustizie aumentano”. Marrazzo ha sbagliato... “Mi ha colpito il fatto che abbia mentito. Per debolezza, certo. Ma non doveva. Mi colpisce che si sia esposto ad un ricatto così grave e lo abbia subito. Mi

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PD NELLA BUFERA

rima il caso Puglia, poi Luca Bianchini e la settimana scorsa la tegola del killer di Castellamare. Pochi mesi da spezzare il fiato, al Partito democratico. Alberto Tedesco, ex assessore regionale della Sanità, ora senatore del Pd, è coinvolto nell’inchiesta di Bari legata a Giampiero Tarantini e alla malasanità.

Poi a luglio ecco il violentatore seriale: Bianchini. Un uomo dalla doppia vita: di giorno ragioniere contabile e militante del Pd, di notte stupratore. A lui attributi almeno 15 casi, viene incastrato dalla prova del Dna e da un video registrato da una telecamera di un garage. Infine il killer di Luigi Tommasino, consigliere comunale di Castellamare di Stabia, aveva una

tessera in tasca. Era la tessera del Pd. Peggio: Catello Romano frequentava la stessa sede politica dell´uomo ucciso, in corso Vittorio Emanuele a Castellamare. La stessa strada che il consigliere comunale frequentava per interessi politici e per lavoro, perché a pochi metri da quella sede di partito aveva il suo negozio di abbigliamento.

“BASTA MELINE, LA QUESTIONE MORALE NEL PD C’È ECCOME” Bindi: big politici soli e senza senso della misura colpisce soprattutto l'idea della doppia vita: mi spinge a riflettere sulla solitudine in cui vivono molti che fanno politica anche al massimo livello”. Davvero un leader può essere solo? “Oh sì. Penso che il leaderismo e la proliferazione dei ruoli monocratici hanno reso i politici più soli, più esposti”. Perché? “Intanto perché bruciano le tappe. Nei vecchi manuali di pedagogia si parla di formazione e solidità del carattere. In politica questa è una condizione necessaria. Se non ce l'hai crolli, perché il peso è terrificante”. E poi?

“Nella prima repubblica un leader era espressione di una comunità che lo passava al vaglio. Oggi, spesso, arrivi paracadutato da un altro mondo, senza riferimenti. E la politica è un mondo che ti svuota”. Perché? “È una vita in cui arrivi in un posto e già devi ripartire, in cui passi il tempo a parlare, e sei costretto a tirare fuori tutto quello che hai. O che non hai. Ci sono giorni in cui ti senti solo perché nessuno può condividere questo ritmo”. Lei sente di aver rinunciato a molto? (Le scappa un sorriso amaro). “Uno rinuncia quasi a tutto. Sono riuscita, non so come, a

mantenere qualche spazio privato, familiare, qualche spiraglio spirituale. Ma non mi nascondo che è un impegno totalizzante. Chi ci arriva tardi può venirne scosso”. Che fa, tesse l'elogio del professionismo politico? “Per carità: sono la prima a dire che ci dobbiamo aprire alla società. Ma quel che è accaduto è la prova che non si può neanche improvvisare”. È difficile tenere insieme le due cose... “Posso citare Fanfani? Quando arrivava un ragazzo e gli diceva: 'voglio fare politica', lui rispondeva: 'Prima

trovati una lavoro, poi torna'”. I politici oggi sono meglio o peggio del paese? “Ogni società ha i politici che si merita. Ma proprio per questo chi fa politica deve avere l'ambizione di essere un po' meglio del mondo che rappresenta”.

Da Marrazzo alle primarie inquinate al sud: “Rischiamo che la gente dica ‘ecco, siete tutti uguali’. Se non si è autorevoli non si è in grado di dare una linea E si finisce per subire il corso delle cose”

MONDO TRANSGENDER

“NON SIAMO UN FENOMENO DA BARACCONE, SIAMO IL TERZO SESSO” di Stefano Caselli

fa presto a dire trans. Anzi, più spesso si fa male. SnoiPerché se le parole sono importanti, talvolta lo soancora di più le declinazioni, le coniugazioni. La persona transessuale – o meglio, il transgender – è priva di un’identità certa nel linguaggio, prima ancora che nella vita quotidiana. E questo accade ogni volta che – ultimo l’affaire Marrazzo – la questione della transessualità guadagna spazio in cronaca: “Esiste una raccolta esilarante di articoli di giornale – racconta Mirella Izzo, presidente di ‘Crisalide AzioneTrans’ – dove il soggetto transgender viene descritto in continui balletti di passaggio dal maschile al femminile. Esilarante però, solo se si ha molto senso dell’umorismo. ‘Il’ trans nella fattispecie, non è la declinazione giusta da usare né in ragione del rispetto all’identità della persona, né per la lingua italiana”. È una richiesta precisa quella di Mirella e del mondo che lei rappresenta: “Sarebbe carino che l’informazione non coniugasse più rispetto alla biologia, ma all’identità, al cervello, alla psiche e alle emozioni”. Non è una questione di forma, è un discorso di sostanza, che investe la vita quotidiana di migliaia di persone in Italia (tra i tre e i cinquemila transgender nel nostro Paese secondo alcune stime). “Il transgender – prosegue Mirella – è una persona con uno sviluppo corporeo maschile o femminile ma che dentro di sé prova sensazioni diverse: dal rifiuto totale, fin dall’età infantile, del proprio sesso a situazioni più sfumate di disagio, che in genere si trascinano fino all’età adulta. Esistono persone che rifiutano specificamente i

genitali, altre invece si sentono donna, ma cercano prima i caratteri sociali esterni, secondari: l’assenza di barba, il seno eccetera”. Il problema reale è che la legge italiana non riconosce la condizione di transgender, a meno che non si decida di intervenire chirurgicamente per cambiare sesso: “Il problema in questo Paese – ancora Mirella – è che senza intervento non è possibile avere i documenti a posto, in accordo con ciò che ti senti. Io all’anagrafe sono ancora registrata con un nome maschile e lo Stato non mi garantisce la privacy. Per stipulare un contratto con una compagnia telefonica mi è capitato di sentirmi dire: ‘Signora, scusi, per questo c’è bisogno che venga suo marito’; ho dvuto rispondere ‘mio marito sono io’…”. Un stigma sociale, che si ripercuote spesso nella difficoltà di trovare un lavoro qualsiasi, soprattutto per la transgender: “Senza documenti adeguati, anche il datore di lavoro più open minded si ritrova con problemi insormontabili. Quasi sempre ti dicono di ripassare quando sarai a posto con i documenti, quindi dopo l’operazione. Un intervento complesso, invasivo, che non tutte sono disposte – o sentono il bisogno – di subire”. Questo fa sì che molte “non operate” si prostituiscano. Un mondo dove – a quanto pare – lo stigma sociale si supera con disinvoltura: “La transessuale (quindi da maschio a femmina) – spiega Mirella – richiama il pensiero del mito dell’androgino. Questa ricerca del possesso fisico dell’androginia ha molte ragioni, dal ‘famolo strano’ di verdoniana memoria alla ricerca del femminile in sé che si è perduto o forzatamente nega-

Dai documenti alla ricerca di un lavoro: un’odissea Per vivere spesso c’è solo la prostituzione

to. O forse, più semplicemente, ci sono uomini che prediligono la trangender. Stiamo parlando di un ‘terzo sesso’, che soltanto la contemporaneità ha dipinto come fenomeno moderno e deviante rispetto alla tradizionale bipartizione codificata dalle grandi religioni monoiteiste. Ma è vecchio come il mondo, come dimostra lo studio di molte civiltà, da quella dei pellerossa a quelle orientali. Da noi, per secoli, si è tentato di curare, di far sentire maschio chi, invece, si sentiva donna, con clamorosi fallimenti, suicidi. Solo a partire agli anni ‘40 la medicina ha compreso che l’unico modo per affrontare il fenomeno fosse adeguare il corpo alla psiche e non viceversa”. Possibilmente, anche nel linguaggio.

Lei esprime una condanna morale? “No, ho grande comprensione, anche per Marrazzo: la sua lettera è dignitosissima”. Però si autosospende e non si dimette. La destra dice che è una presa in giro. (sorride) “Ah sì? Strano. A me andrebbe benissimo se Berlusconi si autosospendesse”. In molti dicono: il Pd ha fatto la morale a Berlusconi però ha scheletri nell'armadio. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra è una massima non funziona in questo caso: domandare correttezza e rigore è un diritto, non una gara di virtuosismo. E poi il caso Berlusconi non è paragonabile a nessun altro. Marrazzo ha ammesso e si è dimesso, in due giorni. Berlusconi non solo non si è dimesso, ma non ha ammesso”. La preoccupata che a Castellamare un iscritto del Pd sia ucciso da un altro iscritto? “Subito dopo le primarie dobbiamo riunirci e guardarci negli occhi su tutti questi problemi. Uno dei punti su cui discutere è lo stato del partito al Sud”. I dirigenti minimizzano. “Sfoglio i giornali di oggi e vedo: la moglie di Mastella al confino. La moglie di Abelli in carcere, e la moglie di Marrazzo che fugge per difendere i suoi figli. Queste immagini, raccontano la crisi che viviamo?”. Gad Lerner dice che se lei si fosse candidata alla segreteria del Pd sarebbe stata sicuramente eletta. “Lo ringrazio, ma sarei stata solo un terzo incomodo. Le due candidature erano già delineate. E Bersani ha il profilo giusto per costruire non solo l'opposizione, ma anche l'alternativa a Berlusconi”. Bersani viene dal Pci. “È il leader più innovativo. È giusto che il segretario del Pd venga anche da lì. Altrimenti sarebbe come fare l'Europa senza la Germania”. E' soddisfatta del confronto tra i candidati? “Per nulla. Marino ha attaccato D'Alema, ed è il direttore scientifico di Italianieruropei! Dario ha usato toni populisti e demagogici. E poi la nomina di Tuadì: anche un bambino capisce che l'ha scelto solo perché è di colore. Dopo Obama nessuno può pensare che fare un vice basti per essere anti-discriminatoria”.

IL GIORNALE DELLE BUFALE

LE BUGIE CHI LE CONDONA? iovedì Il Giornale di Feltri diffama Santoro in prima pagina: “Si fa la villa col condono. Sanatoria lampo per il tele-tribuno. Il fustigatore di costumi compra casa ad Amalfi. Problema: c’è un abuso e la regolarizzazione viene negata da 23 anni. Ma per lui la giunta di sinistra fa il miracolo”. Naturalmente, trattandosi del Giornale, è tutto falso. Il sindaco di Amalfi smentisce tutto all’Ansa: “Santoro non l'ho mai incontrato. La richiesta di condono dei precedenti proprietari per un vano di 37 mq arriva nel 1985, l’ufficio tecnico chiede tre integrazioni, i proprietari non rispondono. Finalmente nel gennaio 2009 si attivano,

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l'11 maggio ricevono il nullaosta e versano 2000 euro”. Un mese dopo la villa viene venduta a Santoro”. Ma Il Giornale non pubblica la smentita “perché non smentisce nulla. Non abbiamo parlato di ‘irregolarità’ nell'acquisto, ma raccontato la tempistica della transazione”. Già, una tempistica falsa, visto che il condono non l’ha fatto Santoro né è giunto a tempo di record (ma dopo 24 anni!). Feltri ripete addirittura la diffamazione: parla di “miracolo della pubblica amministrazione” e lascia intendere che Santoro sia un privilegiato, mentre non si è mai rivolto agli uffici comunali. È la stampa di regime, bellezza.


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Bossi fa il pacere e attacca: colpa degli invidiosi

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ECONOMIA POLITICA

ono i soliti pasticcioni del Pdl”. Così Umberto Bossi ha descritto la situazione che si era creata in questi giorni nel governo. Dopo l’incontro di Arcore e la partecipazione a Milano all’ Assemblea federale degli amministratori lombardi eletti nelle liste della Lega, Bossi ha spiegato: “Nei partiti ci sono persone invidiose. C'é gente che vuole spendere perché

pensa che solo così viene eletta invece la gente ti elegge solo se ha stima di te”. Ma “ora non si può spendere perché altrimenti l'Europa ci uccide”, ha aggiunto, dando così implicitamente ragione al ministro dell’Economia Giulio Tremonti criticato nella maggioranza perché non finanzierebbe le richieste dei vari ministeri. “Adesso - ha però ribadito Bossi - abbiamo trovato la soluzione”. Ma la

questione Irap - con allo studio ipotesi diversissime e spalmate in più anni, come l'aumento della franchigia per le imprese più piccole, o la deduzione del costo del lavoro e degli interessi passivi dal reddito di impresa - è tornato il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia: “Berlusconi e Tremonti passate dagli annunci ai fatti”, ha detto in occasione del Forum della Piccola industria.

TREMONTI RIDE ANCORA Il ministro che non resiste alle battute sui colleghi firma la tregua con Berlusconi di Vittorio

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a notte a Pavia deve avergli portato consiglio, E ieri, quando ha varcato il cancello di Arcore per chiarirsi con il premier, Giulio Tremonti era decisamente un altro. Più tranquillo, poco incline alle battute, conscio di avere in mano carte pesanti come la sostenibilità del debito pubblico sui mercati internazionali. Un appuntamento decisivo, quello di ieri in Brianza, preparato da una serata passata al telefono con quelle tre, quattro persone delle quali il ministro dell’Economia si fida e con le quali si è sfogato e ha analizzato punti di forza e punti di debolezza alla vigilia dello “show down” con il Cavaliere. Ancora intorno all’ora di cena, quando Tremonti ha deciso di non farsi vedere all’appuntamento di Lecce del “suo” Aspen, il professore di Sondrio era davvero caricato a molla. Chi gli ha parlato ha raccolto innanzitutto i suoi sfoghi, più contro Fini che contro i colleghi Scajola, Fitto, Prestigiacomo. Del presidente della Camera non ha gradito le parole consegnate venerdì a Francesco Verderami del Corriere della Sera, con

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quell’accusa di “bloccare già in commissione qualunque provvedimento preveda una spesa”. “Il mese scorso Io ho difeso Fini proprio con un’intervista sul Corriere, quando era lui a essere sotto accusa. E questa è la sua gratitudine”, ha ripetuto Tremonti venerdì notte a chi gli chiedeva come sarebbe andata a finire. Il famoso contro-programma economico, invece, sembrava preoccuparlo molto meno. “Figurarsi se mi metto a rispondere agli apocrifi” e giù le solite ironie, anche pesanti, dedicate ai vari Baldassarri e Scajola. Sulle competenze economiche di colleghi “junior” come Fitto e Prestigiacomo, e sull’onestà perso-

Qualcuno dei suoi consiglieri ha rivisto lo spettro del 2005

nale di chi “sta con le banche e le grandi imprese”, Tremonti ha sciorinato il repertorio dei vecchi tempi, fatto di nomignoli e battutacce. Qualcuno dei suoi consiglieri, considerata la vis polemica del ministro, ha però rivisto lo spettro del 2005, quando Tremonti agevolò con cura la propria defenestrazione anche con simpatiche abitudini come quella di chiamare un certo collega “Pietro Gamba di legno” (e quello, a fine Consiglio, se ne lagnava con Gianni Letta). Ma già quando è andato a dormire, Tremonti era un altro. Sapeva che Bossi l’avrebbe difeso a tutta forza. E i suoi interlocutori, tutta gente che sta lontano da Roma e non ha interessi di Palazzo, gli hanno consigliato di puntare sul suo prestigio internazionale e su ciò che questo significa in termini di tassi sui titoli pubblici.

“Prof, se lunedì ti dimetti, di quanto salgono i rendimenti dei Btp?”, gli ha chiesto uno di loro. E lui secco: “Cento punti base, più di quanto costi abbattere l’Irap”. Il resto l’ha fatto Joaquin Almunia, commissario europeo agli Affari economici e monetari, con l’intervista al Sole 24 Ore che ieri mattina ha fatto un po’ tremare Palazzo Chigi: “Sull’Irap no comment, ma l’Italia ha il record europeo del debito e deve stare attenta al rimbal-

zo dei tassi”. E caso strano ieri ad Arcore è stata siglata una tregua totale, con Bossi che ha annunciato personalmente l’addio a un taglio dell’Irap secco prima delle Regionali e Tremonti che si è ben guardato dal chiedere la vicepresidenza del Consiglio. Già, l’abolizione totale dell’Irap era proprio la misura che gli anti-Tremonti chiedevano e che Silvio Berlusconi aveva incautamente promesso due giorni fa.

“Se lunedì ti dimetti, quanto salgono i Btp?”. “Più di quanto costi abbattere l’Irap”

IL CASO EUTELIA

I LAVORATORI LICENZIATI: “OCCUPEREMO L’AZIENDA” di Beatrice

Borromeo

1.192 dipendenti di Agile che hanno ricevuto Ireagire. la lettera di licenziamento ora si preparano a Pochi giorni fa hanno trattenuto dei di-

rigenti nella sede di Napoli, denunciando il mobbing dell'azienda visto che per non farli lavorare aveva addirittura staccato la luce. Il motivo, dicono dal sindacato, è chiaro: la Agile, controllata al 100 per cento da Omega, ha rilevato duemila lavoratori da Eutelia per licenziarli, evitando a quest'ultima di padi Francesco Bonazzi IPSE DIXIT gare 54 milioni di euro di trattamenti di fine rapporto. La domanda è: perchè Omega si presta al lavoro sporur abituato agli attacchi concentrici, se c’è un tema co? Cosa ci guadagna sul quale Giulio Tremonti non sopporta critiche è ad acquisire un intero quello della lotta al riciclaggio. Al di là delle polemiche ramo d'azienda (quello che si occupava di di giornata, per il ministro parlano i suoi libri, dei quali Information Technology) spesso ama rivendicare il valore profetico. Per esempio, se poi lo tiene fermo? I ne “Lo Stato criminogeno” (Laterza, 1997), tra i dipendenti si stanno “fattori generali di crisi giuridica” si trovano tre vibranti mobilitando per ottepagine dedicate ai “corpi mafiosi”. Da esperto nere risposte. “A parte commercialista, già allora Tremonti puntava il dito il Fatto e Repubblica contro “gli oltre 50 punti territoriali off-shore”, che “le racconta Fausto, un dicentrali bancarie e finanziarie che fanno l’arbitraggio pendente di Agile nessuno si occupa di tra i flussi “in” (proventi di attività illecite) e “out” noi. La stampa ci igno(investimenti in attività lecite) utilizzano come “punti ra, eppure qui si tratta di passaggio e lavanderia”. E in quei centri, scriveva del licenziamento maTremonti, il denaro delle mafie “circola in forma scherato di più di dueapolide, anonima e irresponsabile”. Chissà se il rientro mila persone, già effetdi milioni di euro permesso dal ministro in questi giorni tivo per 1.192. Ci stancon il suo scudo fiscale è definibile in egual maniera: no lasciando senza gli ammortizzatori socia“apolide, anonimo, irresponsabile”. Sarebbe davvero li, senza gli stipendi arda “Stato criminogeno”. retrati, senza contributi. Nella più totale con-

“STATO CRIMINOGENO”

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Berlusconi, Bossi e Tremonti (FOTO ANSA)

fusione, anzi disperazione”. I dipendenti lamentano anche l'indifferenza della politica: “Il responsabile lavoro del Pd, Cesare Damiano – si sfoga un altro lavoratore – ha promesso mari e monti e non ha concluso nulla. L'Italia dei Valori ha fatto un'interrogazione parlamentare che è caduta nel vuoto. Fausto Bertinotti è passato, ci ha dato una pacca sulle spalle, e se n'è andato.” I lavoratori hanno quindi deciso di ricorrere a forme di protesta più eclatanti. “Occuperemo le sedi principali di Agile, a Firenze o a Roma, forse già oggi - dicono in azienda - e sequestreremo altri dirigenti. Non ci lasceremo buttare per strada nel silenzio, senza nemmeno la cassaintegrazione o la liquidazione. Stanno aggirando le leggi ed è ora che qualcuno intervenga”. Una giovane donna, impiegata di Phonemedia, altra società acquisita dal gruppo Omega, denuncia che “siamo in 3500, anche noi senza stipendio. Ora che hanno licenziato i colleghi di Agile, siamo terrorizzati. La situazione è pessima. Nessuno sa nulla. I locali aziendali sono sporchi, le condizioni igieniche disastrate: i bagni non vengono puliti da settimane e la spazzatura riempie i pavimenti”. Omega, la società che acquisisce personale da Eutelia per licenziarlo, da mesi rinuncia a commesse e appalti e, secondo i lavoratori, mira a fallire per disfarsi di migliaia di persone senza pagare loro il tfr. Chi c’è ai vertici? Claudio Marcello Massa, 62 anni, ligure, è l’amministratore unico delle società Agile, Omega, Libeccio (società inglese che dovrebbe fondersi con Omega, permettendole di applicare il diritto inglese, che non prevede ammortizzatori sociali in caso di licenziamento) e Omega Finance. Massa è stato coinvolto in altre vicende simili a quella Agile-Omega, di cui ha dato conto la stampa locale: nel 2001 quella per il crac della cartiera Arbatax2000, nel 2008 lo scandalo del parco marino “Sea park”, in cui centinaia di lavoratori dell’ex Ideal Standard hanno perso im-

provvisamente il posto anche se lo stabilimento di Salerno per cui lavoravano era in piena espansione. E’ stato amministratore unico di sei società che sono fallite e ne ha liquidate dieci. Il 18 settembre 2009 Massa annuncia 1.300 esuberi perchè i lavoratori erano “improduttivi”. Nella dirigenza del gruppo Omega c’è anche Sebastiano Liori, amministratore unico di quattro società che sono in fallimento, anch’egli coinvolto nel crac Arbatax. Assieme a loro lavora Giancarlo Tammi, consigliere di Omega, amministratore delegato di Omega Net e di altre due società, e consigliere di U.V.T. spa (società fallita). Tammi, come riporta il Sole 24 ore, è a capo della conglomerata romana di Omega che quest’estate (il 19 agosto) ha rilevato dalla famiglia Carta il 100% di Visetur spa, tour operator con ministeri ed enti pubblici tra i suoi clienti principali. Costo totale dell’operazione: 8 milioni di euro. Ma oggi Agile-Omega comunica che si trova “nella necessità di provvedere ad una riduzione del personale al fine di rapportare l’organico alle reali esigenze organizzative e produttive e pervenire al necessario riequilibrio economico-produttivo dell’azienda. L’ammontare delle eccedenze è pari a 1.192 unità”. Queste “unità”, bisogna ricordarlo, sono state assunte solo quattro mesi fa.

Alcuni dei dirigenti non sono nuovi a pratiche del genere: più volte hanno liquidato aziende e dipendenti


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Domenica 25 ottobre 2009

DISASTRI AMBIENTALI

IL GOVERNO FA FINTA DI NIENTE MA LA NAVE DEI VELENI C’È Ad Amantea migliaia in piazza di Enrico Longobardi

ioggia, vento, maltempo non hanno fermato il popolo che vuole la verità sulle navi dei veleni. Ieri Amantea - cittadina sul litorale tirrenico cosentino – ha vissuto una giornata intensa, fatta di emozioni, partecipazione, rabbia. Una grande manifestazione con decine di migliaia di persone. E ancora dibattiti, concerti, presentazione di libri, tutti su un tema: venga a galla la verità sulle navi dei veleni. Sul lungomare di Amantea – da ieri intitolato a Natale De Grazia, simbolo assieme ad Ilaria Alpi e Miran Hrovatin della lotta alle ecomafie - si sono ritrovati giovani e istituzioni, politici e ambientalisti, tutta la Calabria (e non solo) che vuole l’immediata messa in sicurezza di una zona in cui sono state affondate navi cariche di veleni, rifiuti radioattivi che la ‘ndrangheta ha inabissato nel Tirreno. C’erano davvero tutti, ieri: politici di centrosinistra (il centrodestra ha disertato perche la manifestazione – ha sostenuto – era stata strumentalizzata dalla sinistra), da Di Pietro a Loiero, da Bova a Bonelli; parlamentari e consiglieri regionali, ma

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soprattutto decine e decine di sindaci di tutta la regione, con le fasce tricolori ed i gonfaloni. Poi tutte le sigle dell’ambientalismo, i ragazzi delle scuole, i pescatori che stanno subendo il danno economico forse più rilevante, la Cgil e la gente normale, quella che legge i giornali e ascolta le tv e da settimane in Calabria si interroga sul perchè non si faccia praticamente niente sulle navi. Una vicenda che è tutto un paradosso italiano: un pentito di ‘ndrangheta rivela, infatti, che difronte a Cetraro (50 km a nord di Amantea) c’e’ uno scafo con scorie tossiche affondato dalle cosche del luogo su commissione. Un battello della Regione

L’ ‘ndrangheta ha inabissato lo scafo a Cetraro, sul litorale tirrenico cosentino

Calabria inquadra una nave di quel tipo con fusti ancora chiusi. Ma niente. Il Governo manda in zona un battello che ancora non si capisce cosa debba fare e non c’è alcun piano operativo per il recupero del carico. Intanto indagano le procure e la Dda di Catanzaro e del pentito non si ha traccia: non si sa se qualcuno lo abbia ascoltato di recente, se abbia o no un programma di protezione. Una confusione ai limiti dell’ incredibile, che ieri la manifestazione ha portato allo scoperto. ‘’Noi – denuncia Legambiente – chiediamo l’intervento serio del governo, per il recupero del carico ma anche perchè si dia il massimo sostegno alle procure impegnate nelle indagini’’. E la Cgil nel rammentare come la salute sia un bene da tutelare insieme all’ecosistema marino ieri ha ribadito come sia indispensabile l’intervento degli organismi internazionali, Ue e Nazioni unite, per provvedere al recupero delle navi sospette. “La magistratura – afferma Di Pietro – dovrà fare il suo corso. La cosa certa è che il silenzio e l’omertà sono un atteggiamento mafioso e chi sapeva e non ha parlato deve vergognar-

si e rifugiarsi nella fogna’’. Applauditissimo dal palco è stato padre Alex Zanotelli: “Sono qui prima di tutto come ex missionario comboniano perchè sono stato silurato dalla rivista Nigrizia dopo avere iniziato a parlare dei traffici di veleni con la Somalia’’. E a tutto questo ampio movimento da Roma il ministro Stefania Prestigiacomo non ha trovato di meglio che parlare di “speculazione politica di pezzi della sinistra’’. Intanto la nave è ancora lì, a

500 metri di profondità e non si sa cosa contenga, mentre poco piu a sud di Amantea, in un sito di terra dove sono state stipate negli anni scorie tossiche, è stato già accertato che il grado di inquinamento è sei volte superiore alla media tollerabile dall’organismo umano. Qualcuno prima o poi dovrà dire la verità ai calabresi e agli italiani. La manifestazione di Amantea è in questo senso più che un grido di allarme da non lasciare inascoltato.

di Debora Aru

saliti sulla torre aragonese, con Sperono le loro bandiere, per cinque giorni, tentare di riaprire un destino che sembrava segnato. Sono i dipendenti del petrolchimico di Porto Torres, gli ultimi protagonisti della incredibile stagione delle proteste operaie inaugurata dai lavoratori dell'Innse arrampicati sulla loro gru. La richiesta dei lavoratori turritani è precisa: non bisogna siglare l´accordo con l´Eni. Ma la firma sul protocollo di intesa tra Eni, Polimeri Europa, Syndial e i sindacati nazionali di settore Cgil, Cisl e Uil che avrebbe dovuto evitare la chiusura di uno dei più importanti stabilimenti italiani (insieme a Porto Marghera) c'è stata nella notte di martedì, seguita poi dalla riunione del comitato per l´area di crisi voluto dal Governatore Ugo Cappellacci. Per giorni le tute blu di Porto Torres sono rimase arrampicate sui merli: bandiere rosse e rabbia, famiglie coni il cuore sospeso, dirette televisive. Ma niente di fatto: L´Eni, con buona pace dei sindacati nazionali e contro la volontà degli operai, dice che investirà 800 milioni: 101 milioni di euro tra il 2010 e il 2013 per interventi su impianti e servizi mirati al recupero dell'efficienza e del risparmio energetico; 150 milioni di euro per realizzare

un centro logistico per prodotti petroliferi e 530 milioni ai programmi di bonifica di falda, suoli, demolizioni di impianti dismessi e serbatoi non utilizzabili. Verrà anche rilanciato il Cracking, il centro del petrolchimico fondamentale per la produzione di etilene, proporzionandolo però alle esigenze della regione. E i posti di lavoro? «Dei 700 lavoratori diretti da qui al 2010 - spiega Sergio Gigli della Femca-Cisl- ne resteranno 530 all´interno dello stabilimento. 40 lavoreranno per la Syndial, che si occuperà della bonifica, 35 per l'Eni Trading Shipping che si occuperà dei serbatoi. Gli altri restano in mobilità fino al pensionamento». Un´intesa storica, secondo i dirigenti nazionali dei sindacati firmatari. «Storica lo è per davvero - attacca Antonio Rudas segretario Cgil Sassari - perché non si è mai visto nella storia, che i vertici nazionali dei sindacati non si consultassero coi gruppi territoriali e gli operai e firmassero un patto senza il loro consenso». Rudas, ha deciso proprio per questo motivo di dichiarare le sue dimissioni do-

po l´accordo. «Io sapevo che l´intesa non ci sarebbe stata e l´ho comunicato agli operai. Ciò non è avvenuto ma io ci avevo messo la faccia». Rudas inoltre avverte: "Purtroppo l´Eni si è rivelata totalmente inaffidabile, sia sul piano giuridico che su quello politico. Qualsiasi intesa dovesse essere raggiunta oggi con questa società è da intendersi come un atto vuoto e insignificante. Già nel 2003, infatti, Eni sottoscrisse l´accordo sulla chimica e di quel patto non ha mantenuto neanche una virgola». Anche Arnaldo Melissa (Uil) si dissocia: «Gli 800 milioni di euro - spiega Melissa - sono solo sulla carta perché tolti quelli per le bonifiche dovuti per legge e i 150 milioni per la logistica che serviranno per stoccare idrocarburi non prodotti nel Nord Sardegna, alla fine restano solo 101 milioni di euro per la manutenzione nei prossimi due anni e gli esuberi del personale, che da 750 arriverà a quota 530». La novità dell´accordo, inoltre, è la nascita di un megadeposito di idrocarburi nel Golfo dell´Asinara, il più grande del Mediterraneo, ma questo

Operai contro l’accordo firmato con l’Eni Le promesse del premier? La chimica affonda

OMICIDIO DI GARLASCO

Riparte il processo ad Alberto Stasi

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eri il via al processo contro Alberto Stasi accusato dell’omicidio della fidanzata Chiara Poggi. Dopo la richiesta di ulteriori indagini in ritorno nell’aula al piano terra del Tribunale di Vigevano dove il gup Stefano Vitelli è pronto a riascoltare accusa e difesa prima di emettere la sua sentenza. Presenti, oltre all’unico imputato, anche la famiglia della vittima: papà Giuseppe, mamma Rita e il figlio Marco. Al centro della discussione di una serie di eccezioni che accusa e parte civile solleveranno rispetto alle quattro perizie superpartes consegnate al giudice. Poi, probabilmente ci sarà spazio per iniziare la vera discussione che riparte dalla consulenza informatica sul computer di Alberto. Consulenza che garantisce un alibi all’unico imputato.

CAMORRA

Preso Esposito del clan Sarno

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ei suoi confronti c’era un’ordinanza di custodia cautelare per un omicidio avvenuto nel 2003 nel quartiere napoletano di Scampia. In manette all’alba di ieri è finito Salvatore Esposito, 27 anni, ritenuto dagli investigatori legato in passato al clan Di Lauro e ora esponente del clan Sarno.

PORTO TORRES

LA RIVOLTA DEL PETROLCHIMICO: “TRADITI DAI SINDACATI NAZIONALI”

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MALTEMPO

Un morto nel foggiano Una manifestazione a Porto Torres (FOTO ANSA)

suscita forti critiche anche fra le istituzioni locali che non sono state chiamate in causa. Per Gianfranco Ganau, sindaco di Sassari «l’accordo di Eni è un passo indietro, il megadeposito non è nei nostri obiettivi». Anche per il primo cittadino di Porto Torres, Luciano Mura, i sindacati non avrebbero dovuto firmare: «E' un modello di non-sviluppo, un polo logistico che blocca le altre economie e scatena una battaglia del petrolio con la Saras (le raffinerie di Moratti a Sarroch, vicino a Cagliari ndr)». Aggiunge il sindaco Mura: «È evidente che l´Eni prosegue nella sua azione di disimpegno dalla chimica sarda e l´unica cosa certa che vuole fare è il polo logistico. Per il resto, infatti, le bonifiche sono un obbligo di legge e non possono essere spese come investimento». Adesso si attendono i risultati del comitato di crisi di Cappellacci, che sulla grave difficoltà del comparto petrolchimico della asfittica industria sarda si gioca le promesse della campagna elettorale. Su tutte, quelle di Berlusconi, che durante la sfida con Soru disse: "Risolverò io". Il prossimo nuovo incontro a Roma (data da fissare) sarà però più complesso del previsto. Ora c´è un accordo nazionale con l´Eni e per gli operai sarà più difficile sancire col governo un´intesa che rispetti le reali necessità del territorio.

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n uomo è morto ieri dopo che la sua vettura è finita nelle acque di un canale, vicino al casello autostradale di Poggio Imperiale, in provincia di Foggia. Si chiamava Nazario Garofalo, di 76 anni.

MILANO

Gara d’auto sportive in centro

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l volante di auto sportive prese a noleggio, a velocità folle e, secondo i carabinieri, in gara l'uno contro l'altro per le vie del centro di Milano. Due schegge che nemmeno la pattuglia dei militari è riuscita in un primo momento a inseguire. Alla fine, però, i protagonisti, due giovani uomini d'affari russi, sono stati raggiunti: ora rischiano una multa da 5mila a 20mila euro.


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STORIE ITALIANE

IL POPOLO DI LIBERA Tanti giovani e donne per la tre giorni dell’associazione fondata da don Ciotti

di Nando Dalla Chiesa

ltro che Mourinho. La vera ‘special one’ è lei, Marika, l’unica responsabile regionale di un’organizzazione di massa in Italia che di mestiere faccia la cassiera in un supermercato. Marika è la coordinatrice di Libera in val d’Aosta. Passa la giornata a battere scontrini anche se è laureata in scienze delle comunicazioni con una tesi sui comportamenti dei mass media di fronte a un grande delitto di mafia. Non si cruccia per il suo attuale destino, sa che cosa sia la crisi, ma si tiene in allenamento con la sua laurea, facendo la corrispondente da Aosta per un grande quotidiano nazionale. Ogni volta che può, porta la sua faccia sorridente nei luoghi in cui si progettano imprese antimafia o si ascoltano i testimoni della lotta per la legalità. Marika rappresenta bene il popolo di Libera riunito a Roma per la tre giorni di Contromafie, che chiude oggi all’Auditorium di via della Conciliazione dopo avere ricevuto, venerdì scorso, il suggello di un intervento fuori programma del presidente della Repubblica. Bastano pochi secondi per ave-

A

re il polso estetico e anagrafico di questo popolo. Giovani, tanti giovani, vestiti nelle fogge più varie. Da quella eclettica del rasta al grigio-blu dell’aspirante prete, dallo zaino appiccicato alla schiena ai riccioli della ragazza in viaggio, dal giaccone del poliziotto in borghese agli scout. Molti in fila per avere una borsa colorata di Libera o per le magliette con le frasi simbolo dell’antimafia. Ma ci sono anche persone in età matura, la maggioranza donne. Insegnanti, assistenti sociali, casalinghe. E familiari di vittime, che qui trovano il calore e il rispetto che la società spesso nega. Ci sono preti veri. Sarebbe strano, d’altronde, che non ce ne fossero in un’associazione così fortemente segnata dal lavoro e dal carisma di don Luigi Ciotti, il suo fondatore. Ma, come un giorno ebbe scherzosamente a notare Francesco Forgione, da presidente laico della commissione parlamentare antimafia, i preti “sono veramente tanti”. Don Tonino, don Antonio detto Tonio, don Marcello, e altri ancora, compresi diversi don Luigi (non Ciotti). In borghese. Ben mimetizzati, nessun tono da sacrestia e quindi difficilmente riconoscibili anche quando parlano. Finché non te li trovi inopinatamente a celebrar messa in qualche occasione ufficiale. Don Milani, don Diana, padre Puglisi, ma soprattutto monsignor Tonino Bello, tornano come riferimenti obbligati nelle loro citazioni. I più giovani gradiscono. Basta guardarli. Ansiosi di sapere, raccoglitori entusiasti di aforismi, meglio se eredità di qualche eroe della lotta per la democrazia, che vi saprebbero snocciolare nel momento più impensato, anche a cena, a memoria. Martin Luther King o Antonino Caponnetto, Falcone e Borsellino o Anna Politkovska-

ja: l’elenco è lungo e mai casuale. Sono sedicenni o diciottenni che seguono i propri insegnanti più impegnati, con l’aria deferente di chi è arrivato a un grande appuntamento. Ma anche ventenni venuti in proprio, oppure più adulti e già esperti di lavoro associativo o di mobilitazioni civili. Raramente hanno imparato la mafia attraverso le fiction televisive, di cui colgono imprecisioni e superficialità con la prontezza degli osservatori di razza. Quasi sempre si sono formati grazie a quel formidabile fiume carsico di cultura civile che è rappresentato dalle migliaia di incontri, seminari, convegni, presentazioni di libri, cineforum, realizzati in questi anni in tutta Italia. E che ha fatto sì che Peppino Impastato sia diventato una leggenda per i giovani delle valli bergamasche (minacciando il senso dell’identità leghista) o che la terribile storia di Rita Atria, morta suicida a diciassette anni, commuova le scuole del Piemonte o dell’Emilia. Tra loro ci sono molti di quelli che ogni anno (sono migliaia in tutto) vanno da nord verso sud a offrire lavoro gratuito sui terreni confiscati alle organizzazioni criminali. dei loro principali punti Unlucanodi riferimento si chiama GiaFaraone: è il giovane presidente della cooperativa “Placido Rizzotto”, ormai giunta, anche grazie alle consulenze di Slow Food, a livelli di eccellenza nel vino bianco. Gianluca porta i suoi occhialini tondi e il suo ciuffo biondo scuro in giro per l’Italia, per fare sapere che nella storia i corleonesi non sono solo Riina e Provenzano ma anche, appunto, Placido Rizzotto e i suoi compagni. Lo ribadisce con orgoglio, mentre don Ciotti se lo coccola con gli occhi. Visto che Gianluca è un po’ il simbolo di quel grande movimen-

Il Presidente della Repubblica e don Ciotti - anche nelle foto piccola - durante la manifestazione “Contromafie” (FOTO GUARDARCHIVIO)

to, da lui inventato, che portò a metà degli anni ‘90 a raccogliere un milione di firme affinché dei beni confiscati si potesse fare un uso sociale, una fonte di lavoro pulito. Cerca di essere severo, don Ciotti, anche con queste sue creature. Le invita a non cercare applausi e a lavorare sodo. Esempio dei costumi in vigore nell’associazione, sui quali occorrerebbe riflettere: chi ha esperienza di politica e di associazionismo coglie in questo una diversità radicale. Le tessere di adesione non contano per fare maggioranze interne. Qui alle maggioranze non ci pensa nessuno. Nessuna possibile ambizione di carriera. Gli incarichi li propone don Ciotti. E a tutti va bene, nessuno protesta reclamando “democrazia”. Per la semplice ragione che le sue decisioni rispecchiano criteri di moralità. Per il confortante mo-

Citano don Milani e Martin Luther King, chiedono legalità e di vivere in una società onestà tivo che se qualcuno fa il furbo viene prontamente emarginato, mica va avanti come nei partiti. Chi non ne può più di impegnarsi in ambienti arrivisti e inquinati, trova qui, alla fine, una specie di oasi per militanti delusi e orfani delle buone utopie. Con una garanzia: che ‘Luigi’ alla fine le sue scelte le com-

VITTIME DI COSA NOSTRA

“MIO PADRE, SINDACALISTA, UCCISO DAI CORLEONESI NEL DOPO GUERRA” di Antonella Mascali

ggi la conclusione degli Stati geneObera.rali dell’antimafia, organizzati da LiSe vivessimo in un Paese civile, a organizzare Contromafie, avrebbe dovuto pensarci un’istituzione. Anzi, se fossimo in un paese davvero civile, nell’anno 2009 dovremmo parlare di mafia al passato. Ma come diceva Giovanni Falcone, “questo Paese, per essere dalla parte della legalità, dovrebbe avere un morto ammazzato eccellente all’anno”. È la classe politica, in particolar modo, che in questi decenni non ha voluto davvero sconfiggere la criminalità organizzata. Se non fosse così, lo Stato avrebbe sconfitto le mafie. Come ha fatto con i terroristi Eppure, nonostante tutto, ci sono persone che questa battaglia la vogliono vincere con quella parte della società che ogni giorno si impegna perché la legalità entri nel dna degli italiani. Sono i familiari delle vittime delle mafie che consumano tutte le ferie (e dovrebbe esserci una legge che conceda loro dei permessi) per insegnare la cultura dell’antimafia nelle scuole, nelle carceri, ovunque li chiamino perché, come diceva il capo del pool antimafia, Antonino Caponnetto, “la mafia ha più paura della cultura che della giustizia”.

Tanti non hanno avuto neppure giustizia e denunciano l’abbandono dello Stato. Ancora adesso i familiari delle vittime di mafia sono di serie B rispetto a quelli delle vittime di terrorismo. I benefici per legge non sono ancora uguali e fino al gennaio 2008 erano di gran lunga inferiori. Cento di loro sono arrivati a Roma all’appuntamento con don Ciotti, l’unico - ci hanno detto - che si è fatto carico del loro dolore e ha dato la forza perché il lutto si trasformasse in impegno sociale. Margherita Asta, nel libro Lotta Civile, ha raccontato: “La mafia mi ha tolto la famiglia, ma l’antimafia me ne ha data per certi aspetti una più grande”. La madre Barbara e i fratelli Giuseppe e Salvatore sono stati uccisi nel 1985 a Pizzolungo (Trapani) per errore. Il vero obiettivo era il giudice Carlo Palermo. Libera ha anche una coordinatrice dei familiari, è Stefania Grasso, figlia dell’imprenditore Vincenzo Grasso, ucciso a Locri nel 1989 perché si rifiutò di pagare il pizzo: “Vorrei far riflettere su cosa voglia dire svegliarsi il giorno dopo che ti è stata strappata una persona cara. Ma vorrei anche far sapere che noi questo dolore lo abbiamo affrontato, perché crediamo nella battaglia per la legalità”. Suo padre non ha avuto giustizia, gli assassini di Vincenzo Grasso sono rimasti impuniti, così

come quelli dei sindacalisti uccisi in Sicilia tra gli anni ’40 e ‘50. Questi morti non solo non hanno un colpevole ma non sono neppure risconosciuti dallo Stato come vittime di mafia. E cosa sono Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale, i morti di Portella della ginestra? Una legge ottusa prevede questo status solo per gli omicidi avvenuti a partire dal 1969 e quindi i familiari di chi è morto prima non hanno alcun beneficio. Insieme a Libera, ne chiedono la modifica . È la battaglia che porta avanti Antonina Azoti, figlia di un sindacalista della Cgil ucciso a Baucina, nel palermitano, il 21 dicembre del ’46. Nicolò Azoti era impegnato nell’attuazione dei decreti Gullo: ai contadini che si costituivano in cooperativa venivano distribuite le terre incolte o i feudi mafiosi mal coltivati. Il sindacalista, il giorno in cui assieme ad altri contadini va prendersi la terra di Biagio Varisco, legato ai corleonesi, viene minacciato di morte. Una decina di giorni dopo, Azoti viene ferito con 5 colpi di pistola davanti alla Cgil. Morirà in ospedale, ma prima riesce a parlare con i carabinieri. “Non c’è stato alcun processo, le indagini furono una farsa”, ci racconta la figlia, che si è documentata da adulta. Quando morì il padre aveva solo 4 anni e mezzo, ma conserva alcuni ricordi: “Lo rivedo mentre

giocava con me sul suo banco di lavoro da ebanista, o quando suonava nella banda del paese”. La signora Azoti parla del padre in pubblico solo nel ’92, dopo la strage di Capaci, accanto all’albero Falcone: “la mafia ha ucciso un uomo di 37 anni che lottava per i diritti dei contadini, il suo nome è Nicolò Azoti, sono la figlia e non l’ho conosciuto. Non riuscivo a muovermi da lì, per la gratitudine verso quel luogo che mi aveva dato il coraggio finalmente di raccontare. Da quel momento sono una testimone della lotta contro la mafia e mi batto insieme agli altri familiari perché anche i nostri morti vengano riconosciuti dallo Stato. Abbiamo scritto al Presidente della Repubblica, ai presidenti della commissione parlamentare antimafia. Finora nessuno ci ha ascoltato. Finchè non avverrà, è come se fossero stati uccisi più volte”.

Gli omicidi per mafia prima del 1969 non esistono per legge: nessun beneficio per i figli di quei morti

pie solo su un parametro, i meriti sul campo. Nulla di più democratico. È un popolo informato, quello di Libera. Difficilmente chi gli parla può raccontare frottole. Anche la casalinga, qui, ne sa di mafia, di camorra e di ‘ndrangheta. Più di tanti parlamentari e sindaci. A volte questa sapienza ha qualcosa di enciclopedico che ti sconcerta. Perché fatti di cronaca, secondari anche per uno studioso, assumono qui un valore centrale, dovuto magari a un incontro umano, a una testimonianza ascoltata in una parrocchia o in una scuola. Trovi giovani che si sono letti tutto Travaglio e Saviano imparando a memoria gli episodi di collusione dei politici. Segni di una debolezza dell’informazione ‘ufficiale’ alla quale loro reagiscono cercando altre fonti, in perfetto spirito autodidatta. Per questo Libera ha siglato decine di protocolli con le università italiane. Nel suo popolo ci sono docenti universitari che hanno fatto una scelta eccentrica rispetto al sapere più classico delle istituzioni. Da Stefania Pellegrini, la combattiva sociologa del diritto bolognese che da anni fa seminari per centinaia di studenti di tutte le facoltà, si tratti di giurisprudenza o di farmacia, ad Alessandra Dino, sociologa palermitana che mescola nei suoi affollati seminari nazionali studenti, cancellieri di tribunale e commissari di polizia. Su tutti e tutto veglia, in nome e per conto di don Ciotti, la pasionaria Gabriella. In “un’altra vita”, come dice lei, “campionessa italiana di maratona”. Ora ha al suo fianco l’efficiente timidezza di Simona. La maratona però sembra quasi una metafora di questa associazione. Perché anche uno dei suoi nuovi beniamini, Rachid, palermitano di colore, è stato campione di maratona tanto da avere rappresentato l’Italia alle Olimpiadi di Sidney. Rachid, che venerdì ha avuto un’ovazione, oggi usa l’atletica per tirar fuori i ragazzi delle borgate di Palermo dalle tentazioni di Cosa Nostra. La maratona. Come a dire “non si vince correndo i cento metri”, la vittoria in poco tempo non si ottiene. Tempo e fatica. E poca gloria. Solo il piacere di fare le sfide che contano.


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IL LIBRO

INTERCETTAZIONI ECCO PERCHÈ LA MAFIA NON LE VUOLE L di Antonio Ingroia

RIFORMA ALFANO

Le bugie della politica che ha paura delle indagini

uscito in questi giorni “C’era una volta l’intercettazione” (edizione Stampalternativa/Nuovi Equilibri) di Antonio Ingroia, Procuratore aggiunto presso la Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Nonchè Pubblico Ministero in importanti processi di mafia e politica (Contrada, Dell’Utri, Mori, trattative fra Stato e mafia). Il libro, con prefazione di Marco Travaglio, esamina “La giustizia e le bufale della politica. Lo strumento d'indagine, la sua applicazione per reati di mafia e i tentativi d'affossamento”, come recita il sottotitolo. Cioè spiega le conseguenze devastanti della controriforma Alfano-Ghedini sulle intercettazioni, in cantiere in Parlamento, e confuta i luoghi comuni e le bugie diffuse a piene mani da politici e commentatori per demolire il più importante strumento investigativo per l’accertamento della verità giudiziaria e l’individuazione dei colpevoli. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo ampi stralci del secondo capitolo, dedicato alle intercettazioni nei grandi processi di mafia. Ricordiamo infine che il Pm sarà ospite del circolo Fuori Orario (Taneto di Gattatico, vicino a Reggio Emilia) il 28 ottobre alle 20.30 per presentare il volume.

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Qui a fianco, il Procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, autore del libro di cui pubblichiamo uno stralcio; nell’altra pagina, un’illustrazione di Marilena Nardi.

A CAMPAGNA di (dis-)informazione che ha occupato i mass media e il dibattito pubblico degli ultimi anni ha convinto molti italiani che le intercettazioni sono uno strumento pericoloso ed insidioso, usato in modo liberticida da una magistratura inquirente che tiene di fatto tutti i cittadini sotto controllo. Prevalgono slogan e semplificazioni, di cui sono esempi lampanti l’affermazione tranchant di un politico di lungo corso come l’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella il quale, nel dicembre 2007, ha dichiarato che “Le intercettazioni sono un’emergenza civile”, e le dichiarazioni, non meno drastiche, di un famoso giornalista come Bruno Vespa, il quale, nel corso di un dibattito televisivo piuttosto concitato, ha affermato che “Le intercettazioni sono una schifezza” (sic!). In tanti pontificano, ma pochi sanno veramente qualcosa sulla pratica attuale delle intercettazioni. Quali siano le intercettazioni oggi rese possibili dalle più moderne tecnologie e che tipo di intercettazione venga usata in prevalenza. E quel che è forse peggio, nessuno sa alcunché circa i risultati delle intercettazioni negli anni. Pochi sanno che è proprio grazie alle intercettazioni che si è fatta la storia giudiziaria del nostro Paese. Ed altrettanto pochi sono quelli che sanno quanto dobbiamo alle intercettazioni: quanti delitti impediti e stragi evitate, quanti assassini individuati e arrestati, quanti cittadini salvati, quante armi recuperate, quanta droga sequestrata. Ma anche quante corruzioni scoperte! […] Bisogna raccontare la storia delle intercettazioni, che è anche la nostra storia. […] Pochi sanno che perfino i più importanti processi di mafia, apparentemente fondati solo sulle chiamate in correità dei collaboranti, sono nati grazie ad alcune fortunate intercettazioni. Prendiamo proprio il maxi-processo, il più importante processo di mafia, che non è enfatico definire “storico”, sia per i suoi effetti di (parziale) disgregazione dell’organizzazione mafiosa, sia per il suo esito e cioè la condanna definitiva di gran parte dei 475 imputati decretata dalla Corte di Cassazione il 30 gennaio 1992, sentenza contro la quale Cosa Nostra nella primavera-estate del ’92 reagì con la più violenta strategia stragista della sua storia. Tutti sanno che i pilastri sui quali si fondava l’impianto di quel processo erano le rivelazioni dei pentiti della ‘prima generazio-

ne’ ed in particolare quelle di Tommaso Buscetta. Ma pochi si chiedono come nacque la collaborazione di Buscetta: fu il frutto di un certosino lavoro di investigazione che ebbe come suo epilogo, prima, l’arresto di Buscetta in Brasile, e poi la sua estradizione dall’estero e la sua collaborazione. Ma ancor prima, l’attività investigativa si era concentrata su Buscetta anche in virtù di una fortunata ed importante intercettazione telefonica che ne fece cogliere ancor meglio lo spessore criminale e il ruolo nevralgico in Cosa Nostra, nel pieno della guerra di mafia scatenata dai corleonesi di Riina e Provenzano nei primi anni ’80. È il 1981, in piena guerra di mafia, quando i poliziotti mettono sotto controllo Ignazio Lo Presti, ingegnere palermitano con parentele eccellenti, essendo sposato con una cugina di Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori siciliani, ricchissimi imprenditori e uomini d’onore, grandi elettori della Dc, che verranno poi inquisiti ed arrestati da Falcone. Ed è proprio durante l’intercettazione del telefono di Lo Presti che vengono ascoltate alcune telefonate intercontinentali, che sono delle vere e proprie richieste di soccorso, Sos che partono da Palermo, da Lo Presti, per conto dei cugini Salvo, e giungono oltreoceano, in Brasile. All’altro capo del filo c’è un uomo che viene chiamato convenzionalmente ‘Roberto’, ma che si scopre essere in realtà proprio Buscetta, al quale viene caldamente chiesto di tornare in Sicilia. La guerra di mafia impazza e bisogna schierarsi. Solo lui, col suo carisma - gli dicono - può fermare la furia omicida dei corleonesi. Buscetta capisce che non è aria per lui, che la guerra è persa, che i corleonesi, i più sanguinari e “tragediatori” di tutti, hanno ormai cambiato il volto di Cosa Nostra e prevarranno. Perciò, rifiuta la proposta di tornare e di mettersi a capo di coloro i quali sono destinati a diventare ‘i perdenti’, le famiglie mafiose facenti capo a Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Rosario Spatola, Salvatore Inzerillo e così via. Ma quella telefonata è come un flash, un improvviso fascio di luce che investe Buscetta, ne evidenzia l’importanza ed il ruolo, ne contrassegna la localizzazione. Ecco allora che gli investigatori moltiplicano gli sforzi per arrestarlo, alla fine riuscendovi. Ed è da quell’arresto che inizia tutto. Il terremoto giudiziario da cui nascerà tutto quel che venne dopo […]. Chi sa di mafia ricorda certamente che fra le pietre miliari dell’antimafia giudiziaria c’è il ‘processo dei 114’, che mise alla sbarra per la prima volta Luciano Leggio, la primula rossa di Corleone, il primo capo storico dei corleonesi. Un processo dalla storia insanguinata, fondato sul famoso ‘rapporto giudiziario dei 114’ firmato dall’allora capitano dei carabinieri Giuseppe Russo, poi ucciso il 20 agosto 1977 a Ficuzza, una borgata a due passi da Corleone, e successivamente istruito dal giudice Cesare

Fu una conversazione che chiarì il ruolo centrale di Buscetta, poi diventato pentito chiave nello storico maxi-processo a Cosa Nostra

Il procuratore aggiunto Antimafia racconta l’impor tanza dei controlli telefonici per le investigazioni Terranova, anch’egli ucciso dalla mafia a Palermo il 25 settembre 1979. E su cosa si fondava quell’istruttoria, se non su un mosaico probatorio costituito prevalentemente da intercettazioni telefoniche, accompagnate da notizie processualmente inutilizzabili come quelle di derivazione confidenziale, ed elementi di contorno quali - ad esempio - il frutto dei causali controlli nei confronti di alcuni mafiosi risultati effettivamente in rapporto di frequentazione con altri soggetti sospettati di appartenere alla medesima ‘consorteria criminale’ (così veniva definita nella prosa dei vecchi rapporti di polizia). E perfino fin dalle prime battute dell’indagine sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro avvenuta a Palermo il 16 settembre 1970, registrazioni e intercettazioni furono al centro dell’attenzione degli investigatori, così come lo sono tuttora, più di trent’anni dopo, nel processo attualmente in corso davanti alla corte d’assise di Palermo a carico di Totò Riina, l’erede di Leggio. Si favoleggia di un’intercettazione mai trascritta e mai più ritrovata (distrutta da qualcuno?), di una telefonata proveniente da Parigi con la quale Vito Guarrasi, uno degli uomini più potenti di Palermo, avrebbe incaricato Antonino Buttafuoco, commercialista palermitano sospettato di essere emissario dei rapitori, di verificare presso la famiglia De Mauro cosa avesse scoperto il giornalista. Così come, ancora oggi, è al centro di accurati approfondimenti, anche tecnici, la registrazione dell’ultimo discorso pubblico di Enrico Mattei a Gagliano Castelferrato, un paesino in provincia di Enna. Un nastro scoperto da Mauro De Mauro che - ricordano i familiari - il giornalista ascoltava e riascoltava ossessivamente col suo registratore per cogliere meglio una frase pronunciata da qualcuno, che stava sul palco con Mattei, e che era stato registrata accidentalmente ed a sua insaputa. Una sorta di intercettazione ambientale involontaria ed ante litteram, che De Mauro riteneva costituisse la chiave per svelare il giallo del disastro aereo di Bascapè ove si è ormai accertato che Mattei venne ucciso. Un’intercettazione su cui oggi si è riaccesa l’attenzione, perché ritenuta la possibile chiave anche del sequestro e poi della soppressione di De Mauro, motivo per cui è ripartita la caccia all’originale della registrazione, mentre si fanno sofisticate perizie per “ripulire” la traccia sonora contenuta nelle copie che di quell’intercettazione circolano.

L’

elenco sarebbe lunghissimo. Le intercettazioni casuali hanno spesso svolto un ruolo fondamentale in tante importanti inchieste. Mi riferisco alle conversazioni intercettate nei confronti di soggetti mai sottoposti a intercettazione diretta, ma colti in conversazione con personaggi già oggetto di indagine e perciò sotto controllo, le ‘intercettazioni indirette’ che hanno tante volte consentito di scoprire reati, individuare criminali, prevenire delitti. Nel processo a Bruno Contrada (poi condannato in via definitiva a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa), si è accertato ad esempio che nel 1983 l’imputato, quando era capo di gabinetto dell’alto commissario antimafia, intratteneva rapporti con Nino Salvo, il potente esattore legato alla mafia, che in quel periodo era oggetto delle indagini di Falcone, che ne disporrà poi l’arresto e che rimase piuttosto interdetto per il fatto che Contrada non gli avesse mai fatto menzione di quei contatti telefonici come sarebbe stato suo dovere. E dell’esistenza di tali rapporti Contrada-Salvo Falcone prima, e i giudici del processo Contrada


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poi, ebbero notizia e prova soltanto per effetto di un’intercettazione casuale e diretta di una conversazione registrata sull’utenza telefonica in uso a Nino Salvo, allora messo sotto controllo su provvedimento di Falcone […]. E che dire delle intercettazioni ambientali? È noto che si tratta di uno dei più preziosi strumenti per indagare sulle organizzazioni segrete, segretezza che va violata per cogliere notizie dall’interno del sodalizio criminale. Una buona microspia, piazzata nel luogo giusto, può fare sfracelli più di qualsiasi altro mezzo di prova. Bastano capacità investigative e un pizzico di fortuna. Cose che non mancarono alle giubbe rosse canadesi che, un giorno del lontano 1976, riusciti ad infiltrarsi nel clan mafioso dell’italo-americano Paul Violi, imbottirono di microspie la sua latteria, intercettando così preziosissime conversazioni, di grande utilità per ricostruire le dinamiche e le organizzazioni criminali operanti in Québec, ma che rivelarono anche i traffici illeciti e gli stretti legami fra la criminalità di Montreal e boss siciliani di spessore come i Cuntrera e i Caruana. Non solo. Perché quelle intercettazioni svelarono anche la struttura di Cosa Nostra della provincia di Agrigento, in anticipo rispetto alle rivelazioni di Buscetta, sicché, quando finalmente vennero conosciute dal pool dell’ufficio istruzione di Palermo, furono utilizzate a conferma delle risultanze istruttorie del maxiprocesso […].

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ulla sapremmo oggi della strage di Capaci, dove il 23 maggio 1992 perse la vita Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e i poliziotti di scorta, se non vi fosse stata un’intercettazione chiave. Tutti sanno quanto determinanti furono le rivelazioni sulla dinamica della strage fatte da Santino Di Matteo, uno dei componenti del commando che uccise Falcone sistemando il tritolo in un cunicolo sottostante l’autostrada, ma nessuno ricorda che quella rivelazione fu il frutto di un lungo lavorio investigativo che trovò i suoi primi risultati importanti proprio in un’intercettazione, ambientale questa volta. Fu un altro collaboratore di giustizia, Pino Marchese, il primo pentito dei corleonesi, ad aprire uno spiraglio di verità indicando come soggetti specialmente pericolosi Antonino Gioè e Gioacchino La Barbera, due mafiosi all’epoca poco noti. Il suo ‘suggerimento’ venne subito accolto e si avviò una massiccia attività di indagine su quei due uomini: intercettazioni telefoniche, pedinamenti, microspie nei locali da loro frequentati, attività di osservazione, ventiquattr’ore su ventiquattro. Si arrivò così al covo di via Ughetti, appartamento che, opportunamente microfonato, consentì l’ascolto e la registrazione della conversazione in cui i due fecero esplicito riferimento alla strage di Capaci, chiamata appunto l’attentatone, facendo intendere il loro personale e diretto coinvolgimento nella strage. Fu così che quell’intercettazione indirizzò le energie investigative su un gruppo di soggetti, quelli più vicini a Gioè e La Barbera. Da lì nacque un’imponente operazione di polizia che si concluse con l’arresto di tanti mafiosi, fra cui proprio i due protagonisti del colloquio. Ciascuno di loro ebbe poi una reazione diversa. Gioè, roso dai sensi di colpa verso Cosa Nostra per essersi fatto cogliere nell’atto di commentare la strage e preoccupato del suo futuro, decise di farla finita e si tolse la vita in carcere (e i dubbi talvolta emersi su quel suicidio non hanno poi trovato conferma). La Barbera, subito dopo il “pentimento” di Di Matteo, iniziò anch’egli a collaborare ed aiutò così in modo decisivo a individuare e punire gli esecutori della strage. Del resto, lo stesso Santino Di Matteo, che fu il primo ad autoaccusarsi della strage, venne arrestato soprattutto sulla base dell’esito di quell’attività d’intercettazione, cosa che poi lo indusse a collaborare. Riepilogando, tutto parte dall’intercettazione di via Ughetti, cui seguono la collaborazione di Santino Di Matteo, quella di La Barbera, fino a quella di Giovanni Brusca, colui il quale premette il pulsante del telecomando che azionò l’ordigno esplosivo di Capaci. Anche in questo caso, dunque, ancora una volta un’intercettazione ha fatto da sasso che ha scatenato una valanga. La valanga di collaborazioni sulla strage di Capaci da cui sono derivati arresti a centinaia, decine di processi, miriadi di ergastoli e condanne, sequestri e confische di interi patrimoni per svariati milioni di euro. Le intercettazioni hanno avuto ruolo decisivo anche nella rivelazione di relazioni imbarazzanti sul delicato crinale dei rapporti collusivi fra mafia e politica, mafia e affari, mafia e istituzioni, sullo scivoloso terreno della contiguità mafiosa, livello al quale non sempre giungono le rivelazioni dei collaboratori, non al corrente delle relazioni più riservate che i capimafia preferiscono tenere per sé e non comunicare all’interno dell’organizzazione criminale se non quando indispensabile. Talune intercettazioni acquisite in processi come quelli al senatore Marcello Dell’Utri e al senatore Salvatore Cuffaro ne sono eloquenti esemplificazioni. Fra tutte, una delle più storiche è rimasta quella in cui Vittorio Mangano, il famoso stalliere di Arcore, parla di ca-

valli che devono essergli recapitati presso un hotel. Si tratta dell’intercettazione ricordata nella famosa intervista rilasciata nelle sue ultime settimane di vita da Paolo Borsellino, il quale, dopo aver definito Mangano “una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel nord Italia”, ed aver evidenziato che nelle telefonate intercettate col termine “cavalli” si alludeva a partite di eroina, commentò ironicamente “se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all’ippodromo o comunque al maneggio, non certamente dentro l’albergo”. Per aiutare il lettore vorrei anche rammentargli che il Vittorio Mangano di cui parlava Borsellino in questa intervista è lo stesso mafioso definito eroe da Marcello Dell’Utri e perfino dallo stesso Presidente Berlusconi. Per non parlare delle intercettazioni degli anni ’80, acquisite nel processo Dell’Utri, relative a conversazioni telefoniche fra quest’ultimo e il mafioso Gaetano Cinà, o quando lo stesso Dell’Utri parla di Vittorio Mangano con Silvio Berlusconi. Ed ancora altre intercettazioni, di epoca più recente, fra cui quelle delle conversazioni telefoniche intrattenute dallo stesso Dell’Utri, ora con un collaboratore di giustizia per incontrarlo e - secondo l’accusa - per influire sulle sue dichiarazioni nel suo processo, ora con la sorella del trafficante di droga Vito Roberto Palazzolo che gli chiede un intervento per aiutarlo in alcuni problemi giudiziari. Il che dimostra che è un falso luogo comune presentare i più noti processi per fatti di mafia nei confronti di personaggi pubblici come fondati sulle sole dichiarazioni accusatorie di collaboratori di giustizia, in quanto molto del materiale probatorio è costituito invece da intercettazioni, il cui materiale d’accusa proviene dalla stessa voce dell’accusa-

Se fosse stata in vigore la legge oggi al vaglio del Parlamento, non sapremmo nulla dei rapporti tra Dell’Utri e Mangano

to, dalle sue stesse parole. Non parliamo, poi, delle intercettazioni nei processi per reati finanziari o contro la pubblica amministrazione, materie nelle quali è oggi estremamente difficile disporre di prove testimoniali, sicché solo le intercettazioni consentono salti di qualità alle possibilità di approfondimento investigativo. Dalla famosa microspia del bar Mandara che registrava le conversazioni fra magistrati del processo Squillante a quelle più recenti fra Gianpiero Fiorani e il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio che hanno determinato le dimissioni di quest’ultimo, fino alle indagini su Calciopoli, Unipol, i ‘furbetti del quartierino’ e così via. Non c’è indagine di rilievo su questo terreno, ormai, che non abbia nelle intercettazioni, telefoniche o ambientali, la parte più consistente della sua piattaforma probatoria. E pur senza confondere le intercettazioni vere e proprie con la mera acquisizione dei dati di traffico telefonico, i cosiddetti “tabulati” delle chiamate in entrata ed in uscita di una certa utenza telefonica, non si può tuttavia trascurare l’apporto conoscitivo, tutt’altro che indifferente, che questo tipo di ulteriore opportunità investigativa ha fornito a tantissime indagini di prim’ordine, da quelle per fatti di criminalità organizzata, mafiosa, terroristica e comune, a quelle per altri delitti. Di recente sono tornati alla ribalta i tanti, troppi misteri attorno alla strage di via D’Amelio, ove un’autobomba della mafia (e probabilmente non solo mafia) fece saltare in aria Paolo Borsellino con i suoi agenti di scorta sotto casa dell’anziana madre che era andato a trovare. Ebbene, le piste principali battute in questi anni hanno a che fare proprio con tabulati ed intercettazioni. Dai tabulati sono emersi strani contatti con il Cerisdi, un centro studi che ha sede su Monte Pellegrino, la montagna che sovrasta Palermo, luogo ove sembra si trovasse una sorta di base operativa del Sisde, da dove si è perfino ipotizzato che potesse essere stato azionato il telecomando dell’autobomba di via D’Amelio, e tali contatti coinvolgevano anche un uomo legato alla mafia, dipendente di una società telefonica, a sua volta sospettato di avere messo illecitamente sotto controllo le utenze telefoniche in uso a Borsellino e ai suoi familiari, ed avere perciò intercettato le telefonate con le quali Borsellino aveva preannunziato alla madre la sua visita in via D’Amelio nel pomeriggio di quella maledetta domenica 19 luglio 1992. Per

non parlare delle altre strane triangolazioni telefoniche fra personaggi, luoghi, ambienti, sospettati di essere coinvolti nella determinazione, organizzazione ed esecuzione della strage. Certo, è un peccato che proprio ora, che si sono aperti nuovi squarci di luce su una vicenda rimasta troppo a lungo nell’oscurità dei depistaggi, della verità occultata e della giustizia negata, non sia possibile acquisire i dati del traffico telefonico di quelle utenze che appaiono oggi di interesse investigativo, perché la normativa che tutela la privacy dei cittadini lo impedisce. Peraltro, accanto alla storia delle grandi indagini, che hanno appassionato l’intero Paese e che tanti italiani conoscono, non va poi dimenticata l’utilità delle intercettazioni nella giustizia ordinaria, quella più vicina alla vita quotidiana del cittadino. Rievocando la mia esperienza personale, ricordo una miriade di casi giudiziari che hanno trovato soluzione grazie a intercettazioni telefoniche. Fra gli altri, c’è un caso di omicidio apparentemente irrisolto che mi è rimasto ben impresso, probabilmente perché capitatomi agli inizi della carriera, Pubblico Ministero alle prime armi nell’ufficio di Marsala il cui procuratore capo era Paolo Borsellino. Caso difficile e destinato ad affollare gli archivi giudiziari dei tanti omicidi senza colpevoli, specie nella terra dell’omertà e dell’impunità. Le modalità del delitto dicevano poco. La vittima, un benzinaio, era stato ucciso da un ignoto assassino che lo aveva atteso quando l’uomo si era recato, come ogni mattina, sul posto di lavoro per aprire la sua pompa di benzina e gli aveva sparato con un fucile. Un classico agguato che poteva far pensare ad un omicidio di mafia, magari destinato all’archiviazione. Diversamente dal solito, però, nella perquisizione nella pompa di benzina fu trovato qualcosa di interessante e inconsueto. Un biglietto, ove la vittima aveva annotato qualcosa in modo criptato, una sorta di crittogramma dalla cui decifrazione si ricavò una frase agghiacciante: “se mi uccidono è stato…” con l’indicazione di un cognome. Nel frattempo, una fonte anonima segnalò alla polizia una relazione extraconiugale fra la moglie della vittima ed un uomo che portava il cognome cripticamente indicato nel biglietto. Questi elementi consentirono di mettere sotto controllo il telefono della vedova e di intercettare una conversazione fra i due amanti clandestini dal tenore inequivocabile. Non so quale sia stato l’esito del processo perché io poi mi trasferii alla Procura di Palermo seguendovi Paolo Borsellino che, nel frattempo, vi era stato nominato procuratore aggiunto della direzione distrettuale antimafia, ma è certo che solo quell’intercettazione aprì uno spiraglio di luce su una vicenda buia e senza verità.

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etto per inciso, se il disegno di legge governativo oggi all’esame del Parlamento, fosse stato disciplina vigente all’epoca dei fatti, quell’intercettazione sarebbe stata impossibile, perché mancavano, prima dell’intercettazione, gli “evidenti indizi di colpevolezza” a carico dei due sospettati che il progetto di riforma prevede quale presupposto indefettibile per l’ammissibilità dell’intercettazione. Quello spiraglio di luce non si sarebbe mai aperto. Quanti altri ne rimarranno chiusi per sempre nel prossimo futuro? […] E ricordo anche un altro episodio di quel mio primo periodo a Marsala, straordinario apprendistato al fianco di un fuoriclasse come Paolo Borsellino, il mio maestro. Si trattava di un’indagine per voto di scambio con l’incriminazione di un (allora) importante politico locale. Altri tempi, tempi in cui Mani Pulite era ancora lontana, lontana la debolezza della politica e la reazione popolare che accompagnò quella stagione. Erano le prime avvisaglie del disvelamento di un sistema che ancora una volta emerse spontaneamente dai “loro” discorsi, dalle conversazioni di faccendieri ed uomini politici. Roba da fare rizzare i capelli nell’Italia di quei tempi (che in seguito ne avrebbe viste molte di più e di peggio) tanto che Borsellino mi disse: “è roba da fare tremare i polsi, ma è il nostro dovere e bisogna andare sino in fondo!”. E così facemmo. Il principio cardine della nostra carta costituzionale, che fa tutti i cittadini eguali di fronte alla legge, anche quella penale, ce lo imponeva e così facemmo. Fu quella la nostra bussola, anche negli anni a seguire. È forse questo il vero problema? È forse per questo che da anni ormai, anno per anno, si succedono leggi che finiscono per (o meglio hanno proprio la finalità di) indebolire l’azione della magistratura, come il disegno di legge di controriforma delle intercettazioni? È forse per questo che ci si impegna ad estendere le zone di impunità, come le leggi che hanno ampliato prerogative ed immunità parlamentari e istituzionali, o quelle che hanno ristretto tempi e per l’acquisizione delle prove (intercettazioni e collaboratori) e per la chiusura dei processi (diminuendo i tempi per la prescrizione dei reati ed allungando i tempi del processo)? Voi che ne dite?


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Domenica 25 ottobre 2009

DAL MONDO

IL GIGANTE BRASILE SI È SVEGLIATO Lula e il nuovo volto della superpotenza: rigore e ordine di Maurizio Chierici

ome la Cina in Asia, il Brasile sta “mangiando” l’America Latina. Padrone dei mercati, riserve invidiate dagli Stati Uniti, prestito di 10 miliardi di dollari al povero Fondo monetario in rosso. Dare soldi al Fmi vuol dire entrare nel salotto degli strateghi dell’economia universale e smetterla di chinare la testa alle regole spietate dei banchieri “bianchi e dagli occhi azzurri”, come ha ripetuto Lula sciogliendo la felicità di mezzo Brasile. Inflazione sotto controllo, parità col dollaro che è stabile anche se assieme a Cina, India e Sudafrica, Lula ha deciso di trasformare il dollaro in moneta di riferimento contabile. Ognuno regola i pagamenti come vuole. Un milione e 800mila nuovi posti di lavoro mentre la crisi svuota uffici e fabbriche del G8 o del G20. Comincia l’ ultimo anno felice per il presidente operaio: quel dito amputato da una pressa. Del presidente sindacalista finito nelle galere del regime militare. Dell’ex ragazzo arrivato a San Paolo dalla miseria di Pernambuco, tremila chilometri su un carro tirato dai buoi. Dopo 7 anni di governo mantiene un gradimento attorno all’ 80% eppure, nel rispetto della democrazia, rifiuta di riscrivere la Costituzione per correre alle elezioni e stravincere per la terza volta. Banche, imprenditori e Brasile dalle tasche vuote lo pretendono a gran voce, ma Lula non ci sta. “È l’uomo del momento”, ripete Obama. E poi Lula saudita, quei giacimenti scoperti in mare. Solo

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Tupi, piattaforme nell’oceano di fronte a San Paolo, raccoglie in un guscio di sale (spessore 2 chilometri) 8 miliardi di barili di un petrolio leggero come il light di Gheddafi. Tanto che dopo aver inventato la benzina rinnovabile succhiata da canna da zucchero, e aver fatto marciare milioni di auto con tecnologia che tutti stanno copiando, il Brasile torna alla benzina normale. Se lo può permettere. “Per salvare l’Amazzonia”, spiega fra gli applausi. Anche se le piantagioni di soia continuano a divorarla. Nei suoi anni di regno 20 milioni di brasiliani sono usciti dalla fame col programma Bolsa Familia. Ma l’analfabetismo resiste, le scuola non bastano perché paese-continente disuguale e con angoli di una disperazione che noi chiudiamo nella parola favela. Non è proprio così: i senza terra lottano per la dignità negata nelle campagne del latifondo, e i meninos do rua muoiono come mosche. Droga, squadre della morte e scontri con le polizie speciali che in questi giorni stanno “ripulendo” Rio: deve sembrare una città tranquilla. Campionati del mondo di calcio, 2014; Olimpiadi 2016. Il paese dove lo sport è religione, prepara l’immagine di una felicità senza crepe, per il momento ancora tante. La novità cresciuta con Lula è l’allargarsi di una piccola borghesia inimmaginabile a metà del Novanta. Insomma, il Brasile corre trascinando il resto del continente latino dove fioriscono governi che Lula ritiene “obsoleti”. Il socialismo del XXIesimo secolo che infiamma Chavez e una certa resistenza alla poltrona che allunga a consumo i mandati presidenziali in Colombia, Bolivia Ni-

caragua, Equador: naturalmente Venezuela. Svuotato il Messico, “paese sull’orlo del fallimento”, la tutela del Brasile si allarga all’America Centrale. Manovra la crisi dell’Honduras accogliendo nell’ambasciata di Tegucigalpa il presidente Zelaya travolto dal golpe organizzato dalle ombre dei servizi Usa che non digeriscono Obama. Ma il Lula che tutti amano sta scivolando nella retorica di un’autocelebrazione alla quale erano sfuggiti non solo i presidenti delle democrazie tranquille, anche gli uomini dal pugno duro. Stalin (innamorato del cinema) non aveva voluto che un attore si mettesse i suoi

baffi. Mai un film su Castro, se non l’intervista di Oliver Stone. Mai su Pinochet. Mai su Mao. Quando sedevano nella poltrona che conta, i capi di stato impedivano si girasse un racconto della loro vita. Lula ci è cascato. Per ragioni elettorali. Nel 2010 il suo Partito dei Lavoratori (Pt) presenterà, al suo posto, Dilma Rousseff, ex guerrigliera e spalla fedele del presidente, dicastero economico al governo: ha appena annunciato di essere guarita da un cancro. Contemporaneamente fa sapere che la bilancia commerciale chiude con 29 miliardi di dollari d’attivo. Brava, ma non basta. Manca del ca-

risma di chi sta per lasciare. Parla come una professoressa noiosa. I rischi possono essere tanti anche con Lula apripista. Ecco l’idea del film. I produttori privati hanno fiutato l’affare perché il governo promette una distribuzione mai sognata dai mercanti di cinema. “Lula figlio del Brasile” verrà distribuito in 400 sale e proiettato su schermi itineranti in ogni angolo del paese: dalle campagne di Rio Grande del Sud, all’ultimo villaggio dell’Amazzonia. Non è tutto. Si sta lavorando per spezzettarlo Luiz Inacio Lula da Silva, 64 anni, da 7 presidente del Brasile. Sotto, il logo del Consiglio d’Europa (FOTO ANSA)

in una mini serie tv in onda su Rede Globo di Roberto Marinho per anni avversario spietato di Lula e ora accodato al trionfo. Rede Globo si è allargata, come nessuna tv delle americhe, per volere dei governi militari. Il vecchio Marinho padre eleggeva i presidenti facendo parlare solo i propri candidati e solo tra una partita di calcio e la telenovela sciacquacuori. Il copione su Lula si ferma al compimento dei 34 anni quando esce di prigione e fonda il Partito dei Lavoratori. Storia di una piccola famiglia: lui, la madre, la moglie, i fratelli. Storia nella quale si specchiano milioni di brasiliani. Il Lula di celluloide è Rui Ricardo Dias. Dieci milioni di sindacalisti sono mobilitati per scaldare un interesse già bollente. La destra di Josè Serra, governatore di San Paolo, sconfitto da Lula alle presidenziali ma con l’idea di candidarsi alle prossime, protesta inquieta. Parole nel vuoto. Perché la folla conta i giorni che mancano al 1° gennaio quando il film apparirà ovunque. Lula, la moglie e Dilma Rousseff in prima fila.

Il paese va a gonfie vele e il presidente tira la volata al successore con un film autocelebrativo

Gli arbitri della libertà di stampa ONG, UOMINI E ISTITUZIONI CHE CONTROLLANO E GIUDICANO GOVERNI E INFORMAZIONE di Andrea Cairola

stata una settimana intensa sul fronte della Ènelvalutazione della libertà di stampa in Italia e mondo. Rsf ha declassato ulteriormente la Penisola agli ultimi posti in Europa. Mentre il Parlamento di Strasburgo ha pilatescamente bocciato sia la risoluzione proposta dal centrosinistra che evidenziava il problema dell'informazione in Italia, sia quella del centrodestra che invece asseriva che in termini di libertà di stampa viviamo nel migliore dei mondipossibili. Ma quali sono le entità internazionali che fungono da “arbitri” della libertà di stampa in un paese?E sulla base di quale mandato formale o sostanziale tutelano, monitorano, soppesano o promuovono la libertà d'informazione? Partiamo da quella forse più nota al grande pubblico: Reporters sans frontiéres (Rsf). È un’ong indipendente e militante, fondata in Francia dall'attivista Robert Menard che nel 1985 con alcuni colleghi giornalisti specializzati in esteri cominciò aiutando alcuni colleghi in pericolo nei rispettivi paesi. Poi s’accorse che non bastava solo aiutare i giornalisti già in difficoltà ma era meglio prevenire con azioni pro stampa libera. Rsf ha poi raggiunto grande notorietà con le campagne contro i paesi “nemici di In-

ternet” e contro le Olimpiadi cinesi. Rsf produce annualmente un indice sulla libertà di stampa nel mondo, su basi tecniche e trasparenti (i parametri di valutazione su www.rsf.org). Da notare che l'indice attribuisce grande peso alle minacce fisiche contro i giornalisti (per esempio dalla criminalità organizzata) e alle trappole giudiziarie che i reporter attraversano mentre cercano di fare il loro mestiere con professionalità e responsabilità. Rsfè finanziata principalmente da individui sostenitori. Cartina di tornasole della credibilità sono la miriade di veleni e patacche sul suo conto: accusata d’esser di volta in volta al soldo di questa o quella intelligence o con chissà quali agende nascoste. È normale: più si fa il lavoro di promuovere la stampa libera con serietà, più tutti i governi si arrabbiano (anche nelle democrazie) con chi fa loro le pulci. Di recente Rsf ha criticato indifferentemente Francia, Usa, Cina, Cuba, Israele, Paesi arabi, e Italia. Dall'altra parte dell'Oceano, un'altra ong che produce annualmente un rapporto sulla libertà di stampaè Freedom House, che di recente ha declassato l'Italia a paese “"”parzialmente libero"”. FH applica criteri diversi da Rsf perchè meno influenzati dalle condizioni di lavoro dei giornalisti (incolumità e rischi giudiziari) e più dall'analisi del pluralismo nel settore dei media. FHè finanziata per gran parte da denaro pubblico

La Corte di Strasburgo ha spesso stabilito i limiti della privacy di chi riveste funzioni pubbliche

del Congresso Usa. Altra ong specializzata in monitoraggi comparativiè l'International press institute con sede a Vienna, mentre la londinese Article 19è nota per vivisezionare le legislazioni in materia di informazione. Sul piano della giurisprudenza internazionale il faroè la Corte europea dei diritti dell'uomo nell'ambito del Consiglio d'Europa (non dell'Ue). La Corte di Strasburgoè incaricata di far rispettare la Convenzione europea sui diritti umani del 1950 che nell'articolo 10 sancisce che “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione”. Ogni cittadino può far ricorso alla Corte una volta che esauriti tutti i gradi di giudizio nazionali, e quindi denunciare un governo/Stato per il mancato rispetto di un diritto umano. Le decisioni sono prese da un collegio di giudici di vari paesi (unico italiano l'ex magistrato Vladimiro Zagrebelsky) e hanno potere vincolante. È la Corte di Strasburgo che per esempio ha in più casi determinato cheè molto limitato il diritto alla privacy di chi riveste una funzione pubblica di alto livello. Decisioni in linea con la giurisprudenza dell'altro tribunalesovranazionale sui diritti dell'uomo: la corte interamericana (mentre esistono embrioni di corti continentali in Africa ed in Asia). A livello Ue invece la libertà d'informazioneè riconosciuta da una pletora di risoluzioni e documenti fondativi, a partire dall'articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali che sancisce l'essenzialità del pluralismo dell'informazione. C'è un progetto della Commissione, con la benedizione del Parlamento europeo, per elaborare degli “Indicatori sul pluralismo

dell'informazione”, che tuttavia nonè ancora operativo. Mentre il Parlamento se interviene lo fa da un punto di vista politico (come dimostrato questa settimana). Sempre in campo intergovernativo, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europea (Osce) dal 1998 ospita il Rappresentante per la libertà dei media, un Ombudsman indipendente che interviene, con azioni diplomatiche riservate o dichiarazioni e reprimende pubbliche, quando valuta che in un paese Osce ci sia una degradazione della libertà di stampa. Attualmente il ruoloè ricoperto dallo scrittore ungherese Miklos Haraszti, che il mese scorso ha chiesto a Berlusconi di ritirare le querele contro i quotidiani. L'avvocato e attivista guatemalteco Frank La Rueè il Rappor teur Onu sulla promozione e la protezione del diritto alla libertà di espressione, sancito nell'articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Mentre l'Unescoè l'agenzia specializzata nella tutela del libero flusso delle informazioni. Infine, ad “arbitrare” sono ovviamente anche i professionisti che esercitano il diritto-dovere di informare: giornalisti ed editori. Insomma, un arbitraggio esercitato da una galassia di attori e un pluralismo nel monitorare il pluralismo dell'informazione che rende più credibile i giudizi tecnici, specialmente quando convergenti.


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DAL MONDO

Gerusalemme si prepara alla terza Intifada

N VATICANO

Iniziano i negoziati con i lefebvriani

P

SCONTRI E INSEDIAMENTI, PALESTINESI SULL’ORLO DELLA RIVOLTA di Roberta Zunini Gerusalemme

ochi giorni fa, arrivati al checkpoint di Qalandia che, dopo la costruzione del muro, è l’accesso a Gerusalemme Est per la maggior parte dei cisgiordani, sempre che siano dotati di permesso d’ingresso israeliano - ci accolgono spari e grida. In pochi secondi, assieme a decine di lavoratori della West Bank - gente che ogni mattina e ogni sera si mette in fila per ore tra metal detector, cancelli e prelievo delle impronte digitali – ci ritroviamo a correre per sfuggire ai lacrimogeni e alle bombe sonore, sparati dai soldati israeliani nascosti dietro a grossi sacchi. Io mi infilo in una stradina e trovo Abas e Tarseen che raccolgono dei sassi, altri ragazzi li stanno già lanciando. Tarseen prima di tirare la pietra che stringe in pugno, dice che è una risposta alla polizia israeliana che da giorni impedisce agli uomini di entrare nella moschea di Al Aqsa a pregare e per quanto lo riguarda è anche una reazione agli sfratti e alle demolizioni delle case di palestinesi in corso a Gerusalemme Est. “So che è una protesta inutile ma non riesco a stare a guardare e basta”, urla. “Gli ebrei devono smetterla di entrare nella Spianata. Sono loro i provocatori. Non abbiamo iniziato noi. La Moschea è il nostro posto, loro hanno il Muro del Pianto, vengono sulla spianata solo per umiliarci”. Con un fazzoletto sulla bocca prende la rincorsa. La pietra, prima di lui, entra e scompare nell'aria fumosa. Nel frattempo un altro ragazzo li raggiunge per avvisarli che nel campo profughi di Shu'fat , sempre a Gerusalemme Est, un soldato israelianoè stato accoltellato forse per le stesse ragioni che hanno scatenato le sassaiole e sono in corso numerosi arresti tra i rifugiati dal ‘48. Proviamo ad andarci ma la zona è stata sigillata. “Non si accede”, dice

P

un soldato israeliano. Da circa un mese l'asticella che segnala il livello di frustrazione nei territori occupati, soprattutto a Gerusalemme Est, sembra essere arrivata alla tacca più alta e la rabbia è ormai pronta a tracimare. La questione religiosa è solo una delle cause. L'umiliazione subita dai palestinesi di Gerusalemme, costretti a mostrare i documenti a polizia e soldati israeliani ogni volta che intendono entrare nella moschea di Al Aqsa a pregare, è palese nei loro sguardi più che nei discorsi. Con i poliziotti in assetto antisommossa e i militari armati è meglio

non discutere animatamente. I controlli servono a respingere i fedeli con meno di cinquant'anni. La restrizione anagrafica è iniziata dopo che circa duecento fedeli si sono barricati per una settimana nella moschea (da quando Israele ha occupato nel 1967 Gerusalemme Est, i palestinesi non possono rimanerci durante la notte) per difenderla da nuove irruzioni di ebrei utraortodossi e coloni. La settimana precedente un gruppo era entrato provocatoriamente nella spianata correndo e recitando ad alta voce versi della Torah mentre i palestinesi stavano pregando; un’ini-

Palestina

ABU MAZEN-HAMAS SFIDA SUL VOTO

Un poliziotto israeliano nei pressi della Spianata (FOTO ANSA)

ziativa deprecata anche dai grandi rabbini. “Siamo nati e viviamo a Gerusalemme Est, le nostre famiglie sono qui da generazioni ma gli israeliani dopo averci occupato ci esasperano facendoci sentire pericolosi intrusi costretti a esibire la blu Id ormai anche per andare a pregare in moschea di venerdì”, dice un medico di 48 anni appena respinto da polizia e militari con l'anziana madre al suo braccio. La carta Blu è il documento che viene rilasciato dal ministero degli Interni israeliano ai gerosolimitani palesinesi identificandoli come residenti temporanei. Tanti gerosolimitani palestinesi hanno problemi anche a causa del muro, che di fatto ha ridisegnato i confini di Gerusalemme Est. Ci sono quelli che, dato il suo percorso zigzagante, sono finiti dentro la municipalità di Gerusalemme, senza però vedersi accordata la residenza, altri invece sono finiti fuori dalla municipalità come gli abitanti di Ram, un villaggio che prima della costruzione della barriera, si trovava sul confine della municipalità di Gerusalemme Est. Si tratta di un meccanismo kafkiano anche quello del rilascio dei permessi di costruzione. "È evidente che si costruisca abusivamente se i per-

messi non vengono accordati”, spiega Sarit Michaeli, portavoce di B'tselem una delle più note organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti umani. “E quando i permessi non vengono rilasciati è gioco facile che i palestinesi vengano sfrattati, le loro case demolite od occupate dai coloni. Queste persone però un tetto lo devono avere. È un circolo vizioso. L'intento persecutorio è evidente soprattutto se paragonato ai progetti di espansione e costruzione di nuovi insediamenti ebraici nella zona di Walaja, sempre a Gerusalemme Est. Tutto questo sta rendendo la situazione di Gerusalemme Est molto fragile”. “Per come sono andate le cose e per come stanno andando, non credo alla fattibilità dei due Stati separati e indipendenti. A causa del fantasma demografico, del timore che i palestinesi diventino più numerosi degli ebrei, Israele porta avanti una politica di giudeizzazione dei territori occupati e soprattutto di Gerusalemme Est che una volta abitata da una maggioranza di ebrei non potrà certo diventare la capitale di uno Stato palestinese”, sottolinea Meir Margalit, assessore comunale e coordinatore dell'Icahd, il comitato israeliano contro le demolizioni di case palestinesi.

Il muro ha di fatto ridisegnato i confini della città, soprattutto nella zona orientale Abu Mazen (nella foto) e i rivali politici di Hamas sono nuovamente ai ferri corti dopo che il presidente dell’Anp ha indetto nuove elezioni presidenziali e politiche per il 24 gennaio 2010. Immediata e scontata la reazione negativa di Hamas, un cui portavoce ha detto ache comunque a Gaza le elezioni non potranno svolgersi e che in Cisgiordania il movimento le boicotterà.

Al via il processo contro Karadzic omani all’Aja inizia il processo all’ex leader dei serbi di Bosnia Radovan Karadzic. Attorno al procedimento penale contro l’ex psichiatra nato in Montenegro ruotano interessi molteplici internazionali che arrivano a toccare il futuro assetto dell’Unione europea. La prima udienza di quello che è il processo più complesso mai affrontato dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (Tpi) non vedrà presente il protagonista che ha deciso di non comparire ma ha confermato che si difenderà da solo. Per il Tribunale dell’Aja la nuova uscita di Karadzic cambia un poco le cose: l’ipotesi più probabile è che i giudici aggiornino la seduta, rimandando la prima udienza a una data da concordare con Karadzic. Un’altra

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renderanno via lunedì in Vaticano i negoziati per riportare i lefebvriani tra le fila della Chiesa. A poco più di vent'anni dalla scomunica con cui Wojtyla scacciò Lefebvre e i vescovi da lui consacrati, digerito il caso del vescovo negazionista Williamson, è tempo di riconciliazione. Forse non priva di polemiche.

soluzione sarebbe nominare un avvocato d’ufficio, che possa rappresentare l’imputato, ma in tal caso Karadzic dovrebbe essere d’accordo e finora ha sempre sostenuto la sua decisione di difendersi da solo. L'ex leader serbo, sulla cui testa pendono 11 capi d’accusa tra cui genocidio e crimini contro l’umanità commessi durante la guerra di Bosnia (1992-1995), ha tentato di boicottare il processo numerose volte. Dal suo trasferimento nel carcere speciale dell’Aja, nel 2008, ha presentato circa 270 mozioni di varia natura per cercare di ritardare il lavoro dei giudici. Non è il solo accusato eccellente a difendersi da solo: anche Slobodan Milosevic, ex presidente jugoslavo, non aveva avvocati. Morì prima che il processo finisse.

Fatemeh Motamedarya, Jafar Panahi e Mojtaba Mir Tahmaseb*

LETTERA DA TEHERAN

PASSAPORTO CINEMA oi siamo iraniani e ognuno di noi ha un solo passaporto. Un passaporto iraniano su cui è inciso lo stemma della Repubblica islamica dell’Iran. I nostri passaporti sono stati requisiti all’aeroporto. Da tanti anni lavoriamo nel cinema e grazie alle nostre opere siamo stati i rappresenti della cultura e dell’identità iraniana nel mondo. Nessun governo ci ha concesso quest’onorificenza e nessun governo può togliercela. Noi ci siamo ispirati alla cultura del nostro Paese e l’abbiamo mostrato al mondo intero. Però, ora, non ci è concesso di superare i confini del nostro Paese; non ci lamentiamo! Non conosciamo nemmeno le motivazioni e le accuse, ma non ci lamentiamo nemmeno per questo. Però, vorremmo continuare a rimanere dei cineasti iraniani indipendenti. Durante tutta la nostra vita artistica avremmo potuto acquisire passaporti di altre nazionalità, ma abbiamo sempre desiderato e voluto essere e rimanere iraniani. Il governo ha il potere di impedirci di oltrepassare i nostri confini nazionali; ma vorremmo ricordargli che le nostre identità non dipendono dai nostri passaporti, anche senza il passaporto noi siamo iraniani. * gli autori sono un’attrice, un regista (Leone d’Oro a Venezia e Orso d’Argento a Berlino) e un attore iraniani

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AL VOTO

Presidenziali in Uruguay

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ggi 2 milioni e mezzo di uruguayani andranno alle urne. In pole position per succedere al presidente Tabaré Vazquez, c’è l’ex guerrigliero Tupamarò (attualmente senatore) José Alberto Mujica, per la coalizione di centrosinistra, oggi al potere. Suo principale rivale, Luis Alberto Lacalle (nella foto), leader dei conservatori. Secondo gli ultimi sondaggi, lo scontro tra i due verrà deciso dal voto degli indecisi, circa il 12% dell’elettorato.

VENEZUELA

Trattative per i due italiani sequestrati

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essuna richiesta di riscatto, ma sarebbero in corso trattative per liberare i due imprenditori trevigiani sequestrati in Venezuela, quasi certamente a scopo di estorsione. I due, rapiti nella notte tra giovedì e venerdì scorso, sono Walter Iannotto, 80 anni, e suo genero Roberto Armellin, 48, nel paese per affari legati ad attività immobiliari. Sarebbero stati presi nella loro villa a Caracas e caricati in una macchina da alcuni banditi armati. La polizia venezuelana sta indagando nel circolo dei familiari e degli amici dei due. Sulla vicenda, la Farnesina, che ha inviato un’unità di crisi a Caracas, mantiene il massimo riserbo.

SOMALIA

Gli estremisti: barba obbligatoria

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Merca, in Somalia non ci si potrà più tagliare la barba. Gli uomini saranno obbligati a portarla per decisione di Al-Shabaab, il gruppo di estremisti islamici considerato il braccio armato di Al Qaida nel paese che controlla alcune zone, tra cui quella di Merca. Nella stessa città, alcune settimane Al-Shabaab aveva imposto agli uomini di non portare denti di argento.


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SECONDOTEMPO SPETTACOLI,SPORT,IDEE in & out

IL RACCONTO

LA MIA BARI, MADRE TRADITRICE

Gf In 13mila ai provini del Grande Fratello: tanti precari

Terzani Bruno Ganz porta sullo schermo lo scrittore italiano

Cassaneide Nell’anticipo di serie A, la Samp umilia il Bologna

Scontri Tre ultras del Viareggio denunciati per aggressione Bari vecchia (FOTO DONATO FASANO)

Dagli anni 80 al “tarantinismo” ne azzurre: le piscine private. e il ragazzino piccoloborgheSsciuto se che sono stato fosse crein questa Pleasantville bididi Nicola Lagioia

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egli anni Ottanta Bari era chiamata “la Milano del Sud”. A differenza di Napoli e Palermo – impegnate a ridefinire la propria vocazione meridionalistica –, la mia città in quel periodo puntava la bussola dei propri desideri verso il capoluogo lombardo. O meglio, con la scusa di imitare Milano, sognava velleitariamente il centro dell’impero. Erano i tempi dell’edonismo reaganiano, e bastava il più fasullo dei boom per montarsi la testa: ricordate? Attraverso una fantasiosa serie di calcoli si tentò anche di dimostrare che l’Italia era la quinta potenza industrializzata del pianeta. Euforizzati dalla fine dell’austerity ma soprattutto dai ripetitori di Canale 5, anche i baresi sognarono una “città da bere”: se Milano aveva Craxi noi avevamo i Kennedy del Tavoliere (aka fratelli Matarrese), se lassù stilisti e copywriter venivano coperti d’oro, a Bari il mattone andava forte, il commercio fioriva, e in via Sparano – una convincente versione sottocosto di via Montenapoleone – le cassiere delle boutique avevano le convulsioni a furia di battere scontrini. Chi nei Settanta aveva messo su una piccola attività, era possibile che adesso possedesse una Ferrari. I centri residenziali dalle parti di via Fanelli e via Bitritto, visti dall’alto di un volo di linea, erano un rapido infittirsi di macchioli-

mensionale adagiata sull’Adriatico, Bari non avrebbe fatto per me ciò che – dai tempi di Dickens e di Baudelaire – ci si aspetta da una città degna di questo nome: svolgere un ruolo iniziatico, essere un posto in cui è possibile fare esperienza. E invece la “Bari da bere” era solo la punta dell’iceberg. Sotto si nascondeva una città notturna, clandestina, feroce e sotterranea, il vero ventre urbano. C’era ad esempio il borgo medioevale, interdetto ai normali cittadini a causa della faida tra i clan Strisciuglio e Capriati. Ma c’erano soprattutto le periferie estreme, e cioè il Cep (da noi ribattezzato Centro Elementi Pericolosi) e Japigia: immensi e desolanti quartieri dormitorio tagliati da strade prive di negozi e cartelloni pubblicitari, dove le scritte sui muri inneggiavano ai boss locali (“Savinuccio, siamo con te!”) e i palazzoni di stampo sovietico abbandonati tra i campi sterrati erano gli stessi che vedevamo al cinema in Christiane F. Japigia era anche un supermercato di eroina a cielo aperto: bastavano pochi minuti in motorino per lasciarsi alle spalle l’eco dei registratori di cassa e sprofondare nel silenzio e nei rituali di un mondo parallelo fatto di spacciatori e piccoli contrabbandieri, esseri antropologicamente alieni con problemi e modi di parlare e di vestire e di pensare completamente diversi rispetto ai tuoi. Japigia attraeva con la forza di un magnete i giovani tossici di tutta la provincia, figli di proletari o rampolli di ricche famiglie che nel lato oscuro della città abbattevano le differenze di classe incarnando l’altra faccia degli anni Ottanta: il dramma degli eroinomani, scandalo vivente e testimonianza di come le scintillanti frivolezze degli yuppies e del «Drive In» fossero il paravento di un malessere sempre più profondo. I Novanta sono stati per Bari un periodo di normalizzazione: il

borgo medioevale è diventato un luogo alla moda pieno di disco-pub, Japigia si è trasformato in un quartiere meno ruvido, il potere emarginatorio della droga è trasmigrato verso l’integrazione dello smascellamento cocainico da colletto bianco, e perfino il prototipo del malavitoso locale (tuta acetata, dialetto da gangsta levantino, volto lombrosiano) è un esemplare meno diffuso. Ma “normalizzazione” è un parola fatalmente troppo simile a “mimetizzazione”, e il sospetto che quelle tute acetate avessero solo cambiato taglio è emerso di tanto in tanto in maniera eclatante, come la notte del rogo del Petruzzelli, quando l’idea che malavita e crema cittadina fossero l’una al servizio dell’altra ha gettato sull’ex Milano del Sud un’ombra lunga diciott’anni. Mentre l’Italia imboccava la via del work in regress abbattendo le speranze della Seconda Repubblica, Bari alternava inaspettati miracoli (trainare Nichi Vendola alla vittoria del 2005) a sbandate colossali (l’eco-

mostro ballardiano “Punta Perotti”, una serie di grattacieli a pochi metri dal mare poi ridotti in cenere in un finale alla Zabriskie Point), cancellando la propria immagine sin troppo novecentesca di città spaccata in due per diventare un vero avamposto del XXI secolo: elegante, ambigua, senza più distinzioni tanto chiare tra “scoperto” e “sotterraneo”, “morale” e “amorale”, “innocuo” e “letale”. uando ho iniziato a scrivere RiQlizzare portando tutto a casa volevo utile coordinate della mia

Il libro RIPORTANDO TUTTO A CASA E’ uscito in questi giorni per Einaudi il nuovo romanzo di Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa (288 pagg, 20 euro). È la storia di tre adolescenti che crescono a Bari durante gli anni Ottanta, attraversando una città divisa in due, dove il denaro scorre rapido tra le strade del centro mentre i quartieri periferici sono invasi dall’eroina. Sullo sfondo, i grandi eventi di quell’epoca – da Cernobyl al massacro di tifosi durante Juve Liverpool, dalla nascita in delle televisioni commerciali al crollo del comunismo –, per raccontare la storia di una generazione tradita, del decennio che ha posto le premesse del disastro politico e civile che stiamo vivendo e soprattutto di una città, fino ad ora poco rappresentata, che solo negli ultimi tempi è si è ritrovata al centro delle cronache non solo nazionali.

adolescenza per raccontare la storia dell’ennesima mutazione antropologica degli italiani e il trauma senza evento di una generazione (la mia) che ha visto ogni speranza – di emancipazione, di benessere, di preservazione della propria dignità – tradita sistematicamente nel corso degli anni. Contavo di farlo stringendo il fuoco su una città poco rappresentata da letteratura e cinema. Ma adesso, con il libro è fresco di stampa, è esploso il caso Tarantini, e Bari è improvvisamente al centro delle cronache non solo nazionali. Soltanto la Realtà è capace di simili colpi da maestro: e l’unione addirittura carnale tra potere e malaffare, l’orgia di veline capi di governo amministratori locali cocaina festicciole karaoke è una delle più potenti allegorie del nostro tempo. Il protagonista del mio romanzo torna in città dopo vent’anni per regolare i conti col passato. Ma se leggiamo Bari come un’impressionante figura retorica che ci riguarda tutti, sta a noi decidere se siamo di fronte al giro di boa o a un punto di non ritorno. Intanto i tifosi della locale squadra di calcio hanno

L’unione addirittura carnale tra potere e malaffare, l’orgia di veline capi di governo, amministratori locali, cocaina e festicciole è una delle più potenti allegorie del nostro tempo già espresso la loro. Poche settimane fa, durante Bari - Atalanta, gli ultras del San Nicola hanno srotolato dalla nord uno striscione inneggiante alla D’Addario. Poi un secondo striscione che recitava: “escort, risse, cocaina/ tessera del parlamentare quanto prima”. Due secondi di silenzio. Quindi sono partiti i cori contro il ministro Maroni.


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SECONDO TEMPO

BIOGR AFIE

LUCIANONE A PIEDE LIBERO Dopo anni di esagerazioni, Gaucci è tra noi Tornato dall’esilio caraibico, rivuole il pallone

di Malcom Pagani

on c’era cernia o banchetto che tenesse, bellezza dipinta da Gauguin che consolasse, tramonto capace di estinguere la nostalgia. Si sentiva come un personaggio di Alexandre Dumas, Luciano Gaucci. Una litanìa desolante: “Me manca Roma”. La casa di Bavaro Beach a Santo Domingo, villetta numero 23, le mattonelle giallo ocra, le abbronzature terra di Siena, la figura pingue spiaggiata sull’arenile. Noia e inattività, depressione latente, anche in una landa familiare in cui: “Ognuno se fa le regole pe’ sè”. Inseguito da ordini di cattura per associazione a delinquere (poi derubricata) e bancarotta fraudolenta (patteggiamento per tre anni e conseguente indulto), debiti per decine di milioni di euro e riprovazione, Luciano infilò i costumi in valigia e scelse a caso (e in fretta) sul mappamondo delle possibilità. Figli e fratelli alle spalle, arrestati in sua vece, macerie dimenticate, quadri di Chagall e De Chirico messi all’asta, esilio sopportato a stento e minacce transcontinentali, per non perdere l’abitudine, ai nemici di un tempo. Obbiettivi preferiti, Carraro e Geronzi. Ai Caraibi, Il telefono squillava e Luciano lasciava briglia ai cattivi pensieri. Ora che tra le strade della capitale o nei ristoranti all’ombra del Bernini, lo si scorge occupare con barbarica baldanza lo spazio largo di un’epoca lontana, non è difficile credere all’ultimo proclama apocrifo lanciato dal suo fan club su Facebook. “Presto mi vedrete al timone di una grande squadra italiana e allora si vedrà, chi c’aveva davvero ragione”. Non l’ha scritto lui medesimo, che con il computer, ha la stessa confidenza a più riprese mostrata con l’Accademia della Crusca, ma uno dei tanti sostenitori anonimi che vorrebbero rivederlo al comando. Non disdegnerebbe Verona o Bologna. Ora è in pace, perchè, per dirla con lui, “Non conviene a nessuno litigare per tutta la vita”. Con Lucianone, l’invenzione era assicurata. Intraprese la gavetta, divenne ricco, acquistò società come caramelle. In prima, come in terza serie. Sicilia, Marche, Umbria. Andreotti gli consigliò di comprare la Lazio. Lui, romanista fino al midollo, rifiutò. Col Perugia, dopo aver preallertato i suoi ragazzi nel maggio 2000, alla vigilia della gara con la Juve, con la consueta gentilezza: “Se non vincete, vi sbatto due mesi

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in tourneè cinese”, alla banda di Cragnotti (targata Capitalia) fece vincere uno scudetto. Poi, mondato il peccato originario, tentò di rilevare in vasta compagnia un agonizzante Napoli. Vantò discendenze campane, si fece fotografare tra i tifosi, prima di cedere e rischiare il destino di Masaniello: "Gaucci/ maiale/ per te finisce male". Acqua fresca, per uno come lui. “Ho sempre coltivato un’ambizione sfrenata. Sono nato per comandare. Da gregario, rendo la metà. Avrei potuto vendere caldarroste all’angolo della strada, ma sarebbe stata comunque una prospettiva migliore che finire sotto il controllo di qualcuno”. Così si diede da fare e in un ventennio, disegnò un’inaudita cometa da self made-man. Comprò Materazzi, Gattuso e Grosso (tre campioni del mondo) con 50 milioni del vecchio conio, ingaggiò Gheddafi Jr. e gli regalò, in

della Dc andreottiana e un pranzo cardinalizio, seppe trasformare la sua impresa di pulizia, “La Milanese”, fondata nel ‘74: “C’era bisogno di un nome che fosse sinonimo di efficienza”, in un moloch da 3.500 dipendenti, il sublime è di casa, che lo scrivente di cognome faccia Catullo, regala a tutta la vicenda, un afrore celestiale. Nel volume, che a Roma e Perugia ha registrato il quasi esaurito, Gaucci si libera. Rivelazioni sulla genesi del rapporto tra Fini e la Tulliani: “ Lui ci vide e senza curarsi del traffico, attraversò con la scorta Via del Corso per salutarci e abbracciarci. Meglio, per salutare e abbracciare lei. Le macchine suonavano all'impazzata, i due però non si facevano infastidì da niente”, rimpianti, rancori, lampi di generosità, non alieni alla sua figura di padre-padrone. Quando sbarcò a Fiumicino, dopo tre anni da latitante, scivolò rapido

Partì come autista, si trasformò in ristoratore, tentò di comprare Roma e Napoli

Nelle edicole, la biografia sulla dorata e prolungata latitanza al sole di Santo Domingo

contrasto con leggi della Fisica e buon gusto, un quarto d’ora contro la Juve. Poi aprì alle donne. “Il mio Viagra sono le ragazze. Mi piacciono giovani”. Tante, benedette e subito. Rapporti amorosi, infatuazioni professionali, incontri disorientanti. Lady D e la Regina Elisabetta. Oggi Jaaira, 28 anni, bellissima, ieri le mogli e le rivoluzioni in gonnella. Carolina Morace, tracciò il solco. A Viterbo, sintonia totale. Prima che la passione terminasse per colpa di un preparatore atletico che Luciano voleva demansionare: “Ah Carolì e che comandi te? No bella, qui comando io”. E allora, esonero. Una specialità. Erano i tempi in cui sulle tribune del piccolo stadio, faceva dispiegare striscioni per George Bush: “Bush for President”, ricevendone in cambio missive sentimentali da Washington e inviti alla Casa Bianca. “Dear Luciano, il mio cuore è pieno di gioia”. Orizzonti di gloria.

Si fidanzò con Elisabetta Tulliani e trasformò l’ex compagna di scuola del figlio Alessandro, oggi madre di due creature avute dal presidente della Camera Gianfranco Fini, nella numero uno della Sambenedettese Calcio. na delle mille province dell’imUsciapero di Luciano. Quando “Strila notizia”, in un video antimesianeo, tirò fuori un filmato che ritraeva i due nella magione gaucciana di torre Alfina, (fotografia di una megalomanìa oggettiva), tra arazzi e gare di biliardo, Fini si infuriò. Tra uno stendardo del Perugia e un libro da fiera antiquaria, i due tubavano come studenti al primo incontro: “Cosa stai leggendo, Elisabetta?”. “Una grande storia d’amore”. “Come la nostra? Ma lo sai che potrei essere tuo padre?” Con Betta, serafica. Languida: “Che c’entra, anch’io potrei essere tua figlia ma

L’ex presidente del Perugia calcio, Luciano Gaucci, ritornato in Italia dopo un esilio lungo tre anni (FOTO (ANSA))

tra noi c’è un rapporto diverso”. Da allora, sembra trascorsa un’era geologica e nelle edicole, in posizione seminascosta, tra le riviste pornografiche e quelle degli annunci immobiliari, spunta il triplo mento di Gaucci. Ora che per riacquistare il suo regno, darebbe ben più di uno dei tanti cavalli, da Tony Bin in poi, comprati, regalati agli arbitri o venduti a prezzo decuplicato, Luciano riappare fuori tempo massimo. L’ovale intorpidito dal troppo riposo, sulla copertina di un pamphlet dal titolo rivelatorio. “Luciano Gaucci, latitante ai Tropici”. L’ha scritto il suo avvocato e siccome quando si parla dell’ex sguattero e tranviere del ‘39, dell’ex tutto che in pochi anni, tra una commessa

nel non-sense. “Sono rientrato perché, come italiano e come romano, era giusto tornare”. L’italia, la patria, la bandiera. Una fissazione. Quando uno dei mille iraniani, giapponesi o coreani, mancava di rispetto alla Nazione, Luciano impazziva. Con Ahn, il capitano della selezione locale tesserato per il Perugia che a Dajeòn, depotenziò l’acqua santa di Trapattoni e ci eliminò dal Mondiale, usò le maniere forti. “Non lo doveva fare stò ingrato. Straccio il contratto, lo caccio”. Ahn non capì mai. Lui, romana-

mente, se ne fregò. Forse anche per questo, un certo qualunquisticomalpancismo del Paese, lo accompagna anche adesso. Affetto, pacche sulle spalle, foto. Umori primari che con Luciano, immancabilmente trovavano cittadinanza. Il corpo si espandeva al ritmo del successo. “A 43 anni pesavo 69 chili. Sono ingrassato perchè sto attaccato al lavoro dalla mattina alla sera. Due pranzi, due cene”. A ogni affare, un chilo in più. Luciano disponeva, inventava, ricomponeva la realtà a proprio piacimento. A ogni impeto, corrispondeva una rabbia indomabile. Non gli piacevano i poeti, gli pseudointellettuali, gli artisti incapaci di piegarsi al suo credo e provare gratitudine. Spaziava ovunque, Lucianone. Dal salotto di Biscardi, al campo, dalla tribuna alla panchina. Tono baritonale, sintesi fulminanti. Dirigenti, allenatori, giocatori, giornalisti, presidenti anche. L’eleganza, un lusso per eunuchi. Gli esempi, una casistica infinita. “Moncalvo, lei è la cacca del genere umano”. Con l’ex collega Matarrese, il fratello dell’immortale Tonino, si sfogò in una fredda serata umbra di inizio millennio. Il barese sul gradino del Pulmann: “Gaucci, noi siamo di serie A” e Luciano, in scomposta scorsa in cerca del contatto fisico: “Vai a fare in culo, delinquente. Figli di mignotta, tu e tuo fratello, te sei comprato la partita” o con Roberto Baronio, cui, dopo il trattamento nella farm gaucciana, ci vollero anni per riemergere: “Sarà perchè porta il numero 13 sulle spalle o perchè guadagna un sacco di soldi, ma quello è uno sfigato. Quando entra, il Perugia perde”. ei soprannomi che al pari di Ndetestare ogni Narciso, Gaucci fingeva di per appuntarli poi al petto, come una mostrina di cui essere orgogliosi, la fantasia non sperimentava strade originali. Ciclone, uragano, vulcano. Perdere gli provocava un disturbo fisico. Diventava itterico, chiamava i giornalisti di riferimento e poi gli albergatori della provincia. Spalancava l’elenco e certosino, spulciava gli indirizzi delle stamberghe. Una stella o sotto. Poi prenotava stanze fredde e caricava la truppa di reietti su un carro bestiame. Con Galeone, che detestava, scelse un motel con vista sull’ Orte-Cesena: “I ririri sono legittimi, i calciatori non sono schiavi ma rispondono alle norme sui dipendenti. Se non posso agire sugli stipendi, intervengo sulla limitazione della libertà. Il segreto non sta nel ritiro ma nella minaccia di continuarlo finchè non arrivano i risultati. Al 99 per cento, la domenica successiva vincono”. Gaucci vuole ripercorrere ancora quel brivido, agitare la frusta, assaporare perdute senzazioni. “Sono un uomo libero”. Vieni avanti, Luciano.

Meryl e il suo doppio di Roberto

Corradi

ha premiato con il Marc’Aurelio Rvedìoma d’oro alla carriera Meryl Streep. Gioscorso l’attrice ha conosciutp Maria Pia Di Meo, quella che da trent’anni è la sua voce italiana. L’incontro è stato un momento privato della serata che ha permesso a due professioniste di potersi finalmente abbracciare. “E’ stata una gioia - racconta la signora Di Meo - scoprire nella Streep una persona radiosa, umanamente incredibile. Non si può essere attrici del suo livello se non si possiedono

quelle qualità umane che permettono di toccare tutte le corde della sensibilità quando si interpretano ruoli tanto diversi”. Dal canto suo l’attrice statunitense non ha smesso di complimentarsi con la collega italiana. La curiosità di conoscere la voce che da anni traduce in italiano le sue interpretazioni era nata già dai primi film che la Streep aveva sentito doppiati. La sorpresa di poterla soddisfare ha contribuito a rendere indimenticabile il suo soggiorno romano. L’Italia vanta una storia del tutto particolare nel campo del doppiaggio e tra le voci più grandi e più presenti da sempre possiamo

incontro tra la star e la sua doppiatrice Maria Di Meo

naturalmente annoverare il nome di Maria Pia Di Meo. La sua carriera comincia prestissimo. Già a cinque anni, ci racconta l’attrice, aveva avuto le sue prime esperienze in sala. A quell’età si doppiano coetanei, bambine o bambini, senza distinzione per il candore del timbro. Poi il debutto in teatro con Vittorio Gassman e finalmente l’approdo stabile al doppiaggio. Sua la voce della Julie Andrews/Mary Poppins, così come di Audrey Hepburn in “My fair lady”, Sherley McLain in “Irma la dolce”. E poi ancora Barbra Streisand, Jane Fonda, Ursula Andress, Sandra Dee, Faye Dunawaye, Jane Seymour (La signora

del West), e tantissime altre dive, praticamente tutte. Per un momento il talento incontra il talento e non è poco in un periodo in cui, soprattutto da noi, lo spettacolo, il cinema o la tv conoscono anni non proprio luminosissimi. Rimane solo il rammarico per la brevità del momento. Ma ci accontentiamo. L’incontro c’è stato e tanto ci basta. Siamo pur sempre in Italia.


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SECONDO TEMPO

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TELE COMANDO TG PAPI

Giorgino cuor di leone di Paolo

Ojetti

g1 T I “riflettori sul caso Marrazzo” per un “presunto ricatto” con un “presunto video privato”, che lo ritrarrebbe in una situazione “compromettente”. Francesco Giorgino ha aperto così il giorno più lungo del governatore della regione Lazio. Non una parola di più, ignorando del tutto le notizie che avevano già invaso i quotidiani del mattino. Nel tg di Giorgino invece spopolava una di quelle frasi fatte che non hanno senso: “Franceschini, Bersani e Marino si tengono in stretto contatto”. Contatti fulminanti per Marrazzo che, poco dopo, si è ritirato dalla scena. Chiuso il riflettore su Marrazzo, arriva la politica d'altissimo profilo: “Attesa ad Arcore per il vertice chiarificatore fra Berlusconi e Tremonti”. Visto che il Tg1 non ha mai

parlato in precedenza di qualcosa di oscuro, chissà cosa avranno mai da chiarire? Giorgino ha pronta la spiegazione: il chiarimento necessita dopo le parole di Tremonti sul posto fisso e quelle di Berlusconi sull'Irap. Anche a un’intelligenza medio-alta, il nesso è del tutto sfuggito. g2 T Nel breve Tg2 del sabato, assieme a una pallida cronaca del vertice di Arcore (che, parola di Luciano Ghelfi, è andato “benissimo”) c’è solo Marrazzo. L’autosospensione era attesa e nel telegiornale passano sia i sospiri di sollievo del Pd sia l’assalto del centrodestra che sbandiera una specie di “contro questione morale” con esplosiva soddisfazione di Gasparri. I cronisti di Studio Aperto sono andati sul luogo del “delitto” a intervistare un viado

che esercita proprio lì. Dichiarazione buttata in onda: “Marrasso se faceva fotografar siempre”. Emilio Fede precisa sul suo tg: “Il caso si arricchisce di episodi scabrosi”, ma preferisce di gran lunga il “cosiddetto caso Tremonti” e il governo che è “solido”. g3 T Una vena di buonismo ha attraversato tutto il Tg3: Marrazzo è “scosso e ferito”, queste sono le sue “ore più difficili” e Giuliano Giubilei, che si assume il peso di parlare di un amico ed ex-collega, ricorda che Marrazzo “è sempre stato dalla parte dei cittadini sin dai tempi di “Mi Manda Rai Tre”. Roberto Toppetta parla di “pressing” del Pd (oggi ci sono le primarie) che “vuole allontanare la bufera” e – quindi – in un comunicato congiunto “i tre candidati hanno apprezzato l’autosospensione di Marrazzo come un atto di responsabilità”. Comunque, il Tg3 non infierisce sulle “debolezze personali” confessate dall’ex-governatore e vira rapidamente verso temi meno urticanti, meglio quindi Emma Marcegaglia che vuole incassare le promesse di Berlusconi: “Passi dalle parole ai fatti” e abolisca l’Irap.

di Nanni Delbecchi

IL PEGGIO DELLA DIRETTA

Il Picasso di Cologno

i si lamenta della mancanza di nuovo in tv. Ma a ben vedere le sorprese non mancano, e Channo luogo negli angoli più impensati del palinsesto. La fascia mattutina presenta un programma di sperimentazione assoluta come “Mattino 5”, e il polverone suscitato dal servizio sul giudice Mesiano si può comprendere meglio se inquadrato nel ribollente laboratorio mediatico condotto da Claudio Brachino e Federica Panicucci. “Mattino 5” potrebbe parere a prima vista il solito contenitore di cronaca rosa, consigli di bon ton e ospiti di peso (come neoveline ed ex concorrenti del “Grande Fratello”). In realtà, vi si pratica un ribaltamento dei generi degno del Picasso cubista, che non risparmia nemmeno le previsioni del tempo, trasfigurate in un teatrino in cui la Panicucci si diffonde in complimenti sul look del metereologo. Ma tutti i ruoli sono aperti, come in una coppia degli anni Settanta. Brachino, oltre che conduttore, è anche il direttore di Videonews, da cui il programma è prodotto; tuttavia, non è il solo direttore in onda, ce ne sono altri che vanno e vengono. Uno fisso è Maurizio Belpietro (“Libero”), in apertura di traMaurizio Belpietro, smissione. Altri sono presenza costante di ospitati da Brachino “Mattino 5” su Canale 5 medesimo, in ossequio a una par condicio di stampo cubista. Negli ultimi tempi abbiamo visto ruotare Alessandro Sallusti (“il Giornale”), Alessandro Sallusti e Alessandro Sallusti. Avvistato anche Piero Sansonetti, quello che suona a tutti i salotti

per un’offerta, come i testimoni di Geova. Oltre ai direttori multipli, c’è anche l’opinionista solitario. Si tratta di Filippo Facci di “Libero”, sempre per la par condicio. Sguardo intensamente vitreo, Facci denunzia una vaga somiglianza con Bruce Chatwin; però invece di andare in capo al mondo è rimasto a Cologno Monzese e lì ha trovato la sua Patagonia. L’esposizione verbale non è il suo forte e considerando questa oggettiva negazione al mezzo, si potrebbe pensare che si trovi costì perché raccomandato, che so, da Mastella. Invece no. Facci va in tv perché a “Mattino 5” si sperimenta senza limiti, e poi perché è un vero bastian contrario, tanto è vero che gli piacciono le cose per cui è meno tagliato. In questa visione generale, anche lo strano caso dei calzini turchesi svela la sua logica cubista. Esso era impaginato e presentato come uno dei tanti servizi rosa proposti per riprendere a loro insaputa i vip in qualche marachella. Così, vedendo Raimondo Mesiano, molte telespettatrici avranno pensato: ma chi è questo signore? Di quale telenovela è il protagonista? O che sia è il nuovo giudice di “Forum” e abbia un appuntamento con Rita Dalla Chiesa? Ma l’aspetto più sperimentale di tutti era la scritta ‘esclusivo’, che “Mattino 5” piazza sui propri scoop di gossip. Certo, per essere esclusivo era esclusivo. Sfidiamo chiunque ad aver mai spiato qualunque cittadino incensurato mentre fa due passi per la sua città, si siede su una panchina e - tenetevi forte - si accende una sigaretta. Pare fossero a disposizione anche altre immagini, ancor più esclusive; il giudice Mesiano che si reca dal tabaccaio, poi un passante che lo ferma e gli chiede: “Sa dirmi l’ora?”. Brachino però non se l’è sentita di mandarle in onda. Materiale troppo rovente perfino per il Picasso di Cologno.


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SECONDO TEMPO a cura di Stefano

Disegni

SATIREu & SATIRIASI Basta satira contro, nasce la satira a favore!

l mondo della satira vive da anni in uno stato di crisi, tra i lavavetri si contano più i disegnatori e i corsivisti. Mancanza di spazi? INo.non Per chi non è accecato dalla faziosità distruttiva la causa è ben altra: quelle persone, forse sobillate da potenze straniere, si ostinano a fare satira contro. Contro il capo del governo e i suoi aiutanti, contro le autorità, senza risparmiare grandi intellettuali come Maurizio Gasparri. Satira contro. Ma perchè? Perché, rosi dal livore, rischiare la salute? Perchè impoverirsi spedendo vignette che mai saranno pubblicate da cauti direttori? Perchè rischiare giuste querele che prosciugano il conto dei genitori o dei nonni? Per aiutare una categoria in difficoltà (alcuni satirici sono anche anziani) il ministro delle Politiche Sociali Sacconi ha distribuito loro l’agile manuale “Satira a favore”, sottotitolo “Far sorridere parlando bene del governo e degli uomini più potenti di noi”, firmato da due penne d'eccezione, Bondi e Capezzone. In una prosa scorrevole i due raccontano le loro imprese al fianco del Premier, dalla difesa di eleganti leggi confezionate su misura alle creative, dadaiste dichiarazioni rese a giornali e tv per negare la realtà o demolire qualche idiota onesto. “Satira a favore” fa ridere ma anche riflettere su quello che si può e non si può dire. “Satira a favore”, nelle migliori librerie di Macherio e nei peggiori bar di Caracas. Andrea Aloi

Mastella indignato: "Ho le mani pulite" FACCIO TUTTO CON I GOMITI! Ceppaloni. Clemente Mastella, dopo un periodo di assenza dal palcoscenico, torna al successo con la sua fenomenale caratterizzazione dell’uomo politico vittima dei complotti. Nonostante una fisicità che lo vorrebbe destinato al ruolo di intrallazzatore, la fantasmagorica genialità delle sue invenzioni verbali, l’intuito drammaturgico post-pop, ne fanno uno dei più grandi interpreti nel ruolo del “politico perseguitato”. Ha lasciato senza fiato la performance che ha tenuto per i giornalisti nella villa di Ceppaloni: Mastella è riuscito a farsi il caffè, a lavarsi i denti ed a telefonare utilizzando soltanto i gomiti. Cosa che, a parte il rilievo artistico, ha ampiamente dimostrato la pulizia delle sue mani, dato che non le usa neanche per tirarsi fuori l’uccello, figuriamoci per prendere le mazzette. “E non ho neanche preso una lira” – ha soggiunto a performance conclusa, strizzando l’occhio a quelli che si sussurravano “certo, c’è l’euro!”. Paolo Aleandri


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SECONDO TEMPO

PIAZZA GRANDE Speranze di un cattivo magistrato di Gabriella Nuzzi*

a scena finalmente si chiude, cala il sipario nero. Regista e attori tirano un respiro di sollievo. “Giustizia è fatta”. Ma la platea è muta, nessuno plaude. L’epilogo è paradossale, grottesco. Due magistrati della Procura di Salerno sono stati severamente puniti dalla sezione disciplinare del Csm. Esautorati delle loro funzioni inquirenti, allontanati dalla sede in cui le esercitano. Cassato un pezzo di vita professionale. Ore, giorni, mesi dedicati, in silenzio, con scrupolo, a studiare carte, leggi, sentenze; a scrivere, indagare, nel tentativo di amministrare una Giustizia eguale per tutti. Tempo sprecato. I giudici disciplinari, che non avevano mai fatto mistero del proprio convincimento e chiaramente interessati al celere seppellimento della vicenda, possono finalmente veder consacrato il proprio verdetto.

L

ono ufficialmente nella lista SPerché, nera dei “cattivi magistrati”. nel legittimo esercizio delle mie funzioni, ho osato indagare su altri magistrati di Catanzaro per gravi delitti di corruzione in atti giudiziari, abuso d’ufficio, falso ideologico, omissione in atti d’ufficio, favoreggiamento, calunnia e così via, connessi all’illegale sottrazione al pm titolare Luigi de Magistris delle inchieste Poseidone e Why Not e alla loro successiva disintegrazione. Ho osato, com’era mio obbligo, sequestrare atti e documenti processuali integranti il “corpo” di quei reati. Ho osato perquisire abitazioni e uffici dei magistrati indagati, per ricercare tracce e cose pertinenti ai reati, necessarie al loro accertamento. Ho osato raccogliere e riscontrare minuziosamente decine e decine di denunce del pm a cui le inchieste erano state sottratte, reo anche lui di aver scoperto il sistema di illecite cointeressenze che domina la gestione del denaro pubblico. Ho osato fare i nomi e i cognomi dei presunti appartenenti e favoreggiatori di quel sistema. Ho osato volere a tutti i costi applicare la legge, senza capire, assai imprudentemente,

Sono nella lista nera. Perché? Ho osato indagare, nel legittimo esercizio delle mie funzioni, su altri magistrati di Catanzaro che nel mio “mestiere” il principio costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge non vale sempre e per tutti. Esiste un superiore principio non scritto, di ordine deontologico: quello dell’”opportunità”. Avrei dovuto chiedermi (e non l’ho fatto): è proprio opportuno indagare il magistrato Tizio, il politico Caio, l’imprenditore Sempronio, il faccendiere Mevio? E’ proprio necessario perquisirne abitazioni e uffici, sequestrare carte e documenti? La risposta è variabile, dipende dalle circostanze. A volte sì, a volte no. Perché, mi dicono, la diligenza del bravo magistrato si misura sulla sua prontezza di riflessi, sulla velocità nell’intuire quando è il caso di agire e quando no; sulla sua capacità di interpretare i segnali; di ricorrere a diplomazia e compromessi; di attendere che i tempi di indagini lentamente scadano; di saper selezionare e infine archiviare. E la sua correttezza sta nell’evitare di fare i nomi di illustri colleghi, politici e imprenditori: questione di privacy. Merito una lezione. Mai eccedere nel perseguire fini di giustizia! Si spera che io abbia inteso, una volta per tutte. Lo ammetto, ignoravo l’esistenza di tali singolari regole “deontologiche”, ovviamente non scritte. Ma, a essere seri, mi sembra che la vera deontologia non c’entri un bel niente: sarebbe dignitoso per la nostra categoria non tirarla in ballo. Si tratta invece di capire le ragioni vere per cui tre pm di Salerno, doverosamente impegnati a far luce su un devastante sistema di corruzioni e collusioni giudiziarie, siano stati “fatti fuori” con gli strumenti della nuova legge disciplinare, pa-

Emergenza Pd di Furio

Colombo

iamo entrati in una furiosa galleria del vento in cui tutto ciò che era cattivo diventa peggiore; le minacce – anche quelle che sembravano eccessive e da fumetto – diventano fatti. E una certa abiezione (il mobbing di un giudice mediante troupe televisiva di Berlusconi, eventi lungamente orchestrati, che poi accadono improvvisi, come Boffo e Augias) si rivela routine: oggi una, domani un'altra. Improvvisamente si apre

S

una nuova scena: “l'affare Marrazzo”, dove tutto è poco spiegato, caricato di lati oscuri e contraddizioni dalla stessa parte lesa che ci appare vittima, soprattutto di disorientamento e solitudine, oltre che di cattivo giudizio. ome i lettori sanno MarCseguito razzo si è “autosospeso” a di questi eventi, una decisione che rende purtroppo ancora più nebbiosa questa storia. Ma le “primarie” Pd saranno in corso. L'impegno dei cittadini, nonostante

gando un prezzo altissimo per la loro indipendenza, politica e associativa. Si tratta di capire perché, al di là della vergognosa farsa della “guerra tra Procure”, gli organi disciplinari stiano consentendo ad altri magistrati, indagati per gravi fatti di corruzione in atti giudiziari e così via, per giunta autori di illecite attività ai danni dei loro indagatori, di continuare impunemente ad amministrare giustizia nei contesti criminosi oggetto delle indagini di Salerno. Quali superiori principi di “deontologia professionale” vigono per costoro? Quale eccezionale criterio di ragionevolezza ha indotto i supremi organi disciplinari a non intervenire anche in questo caso con gli strumenti cautelari? Esistono forse equilibri di poteri - politici, giudiziari, criminali - da preservare e che non possiamo conoscere? E chi ne sarebbero gli inamovibili garanti? Chi gli “eversori” da punire e cacciare? Esiste forse un modus operandi, diverso da quello del contrasto aperto e diretto al crimine organizzato di ogni livello, che tende, invece, sottobanco, all’accordo e al compromesso e che serve a salvaguardare occulti sistemi di interessi? è uno sfondo, in questa noC’ stra vicenda, che si finge di non vedere; o forse, semplicemente, fa troppo paura guardare. Credo, però, che i cittadini abbiano il diritto di sapere a che gioco stanno giocando gli apparati istituzionali, soprat-

tutto, perché quel gioco baro danneggia la vita di integri servitori dello Stato. Ma occorre anche il coraggio del rinnovamento, anche nella magistratura, con riforme serie che non la rendano inerme, ma autenticamente indipendente sia dai condizionamenti esterni del potere politico o criminale, sia da quelli interni che possono derivare dalla dipendenza psicologica ai meccanismi di nomina, promozione, assegnazione di incarichi extra-giudiziari, o per converso, di disciplina. La nostra amara vicenda, che segue quelle di tanti altri colleghi dimenticati o ignorati, dimostra quanto basso sia il punto in cui versa l’attuale “autogoverno” e quanto distante sia dai nobili intendimenti dei Padri Costituenti. Un “autogoverno” totalmente prigioniero delle logiche di appartenenza e spartizione politica e correntizia, anche in spregio al diritto di difesa. E ancor più forte si fa il bisogno di un organo “sindacale” nuovo, in grado di assicurare tutela effettiva ai diritti del magistrato in quanto “pubblico impiegato”, capace di aprirsi ed interloquire con la società civile, senza tesseramenti, condizionamenti politici, ambizioni carrieristiche o di potere. Mi auguro, da buon cattivo magistrato, che l’assordante e granitico silenzio, in cui si è chiuso l’ordine giudiziario riguardo alla vicenda salernitana, serva almeno alla riflessione. * giudice a Latina Il Palazzo di giustizia di Catanzaro (FOTO ANSA)

IL FATTO di ENZO

l

Berlusconi è sfortunato: nel formare la compagnia, ha dovuto arruolare anche dei personaggi che, più che a un governo, fanno pensare a una armata Brancaleone. Lo servono, ma eccedono: e soprattutto, si raccomandava un vero e storico politico francese, «niente zelo». (Corriere della Sera 6 gennaio 2002)

Nell’affare Marrazzo tutto è poco spiegato, caricato di contraddizioni e lati oscuri dalla stessa parte lesa che appare vittima, di disorientamento e solitudine, oltre che di cattivo giudizio l'umiliazione subita, dovrebbe essere di non darla vinta ai mandanti di quei carabinieri che hanno accettato le tre parti in commedia: tutori della legge, ricattatori, venditori su commissione di materiale

compromettente. Il modo di rispondere è votare, domani, per un mondo che si oppone al buco nero in cui sta precipitando l'Italia, a causa di un progetto ben preparato, ma anche per continua contaminazione del peggio. Nel frattempo il presidente del Consiglio scompare, forse in Russia, e si deve rimandare "a data da destinarsi" un Consiglio dei Ministri già convocato per risolvere lo scontro con il più importante dei ministri, quello dell'Economia, Tremonti. Mentre perdura la tormenta, per metà inflitta, per metà subita, nella spirale di uno strano destino, di Berlusconi e dei suoi, molti di coloro che si sentono parte dell'opposizione – incompatibili con questi eventi e persone, vicini al Pd o comunque interessati al suo sopravvivere – andranno a votare per le pri-

fatti di vita

É

di Silvia

Truzzi

SALUTI E BACI (MA MICA SIAMO SCEMI) L

a Perugina (ma ormai è Nestlé: globalizzazione dolce) lancia un concorso sul suo sito Internet per i messaggi dei Baci. Il giudice sarà Federico Moccia, che si è già prodotto in: “La tua voce, il tuo profumo, un tuffo al cuore”. Ma dentro i cioccolatini ci sono anche Shakespeare e Ovidio. E il loro simbolo è una rivisitazione del “Bacio” di Francesco Hayez. Marketing e arte. Del resto perfino i romanzi di Pavese sono diventati vini di un’azienda nelle Langhe. Un bicchiere di “La luna e i falò”, un altro di “La bella estate”: rossi naturalmente, come il sangue sparso in “Tu non sai le colline”. Forse a Ce. Pav. non sarebbe dispiaciuto essere associato a qualcosa della sua terra. Di sicuro i suoi appunti sull’amore non finiranno sui Baci. Anche se tra i molti cupi (il più famoso: “Non ci si uccide per amore di una donna, ci si uccide perché un amore qualunque amore ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”), si affaccia anche l’orizzonte di una speranza (“Battito, tremore, infinito sospirare. Possibile, alla mia età?”). I messaggi nei Baci sono nati, mezza leggenda, da una consuetudine di Luisa Spagnoli - nota per i vestiti, ma era stata “madame” Perugina - che mandava frasi d’amore dentro i cioccolatini al suo innamorato, figlio dell’altro socio dell’azienda dolciaria. Così furono i Baci e l’abitudine di scartarli per leggere qualche banalità (ma i sentimenti non sono originali), a volte fulminanti verità. iviamo dentro la pubblicità. Il che non è per forza un guaio. Un’azienda che produce assorbenti ha cominciato a scrivere sulle bustine frasi a tema. Alcune utili, tipo: “Un piatto di riso aiuta a combattere la stanchezza tipica della sindrome pre-mestruale”. Altre curiose: “Dai primi del Novecento, nei paesi più sviluppati, l'età media della prima mestruazione si è abbassata”. Oppure: “In francese il periodo mestruale si chiama le moment de la lune. Una marca di camice da uomo invece inserisce nella parte interna dell’orlo una frase celebre. Un’alluvione di informazioni, a scopo aziendale. E qui potremmo attaccare un discorso sull’invasione della pubblicità e sul bombardamento cui siamo sottoposti, come consumatori. Però siccome per fortuna le cose si possono sempre guardare da un altro punto di vista, potremmo per esempio dire che non sta scritto da nessuna parte che la cultura deve essere veicolata in un modo solo. Che si apprendono nozioni in modi diversi e anche l’orlo di una camicia va benissimo. Che le idee devono circolare. Che essere-avere non è un aut aut. Che la pubblicità fa parte della società e a volte è utile perché ciò che compriamo non è sempre è un capriccio superfluo. Limiti? L’onestà, prima di tutto. E una consapevolezza: siamo meno scemi di come il mercato ci pensa.

V

marie di quel partito. E credo che saranno tanti, perché è importante, come un salavgente sulle acque di un naufragio, far sapere che sono tanti quelli che non vogliono più essere parte forzata di questo regime che è passato dalla completa assenza di un progetto di governo alla determinata e pianificata produzione del danno. È importante che in molti si vada a votare nei gazebo del Pd perché l'evento è molto più di una manifestazione interna di un partito, sia pure il più grande (fino ad ora) dell'opposizione. È molto più di un benevolo rito democratico. È un modo di occupare spazio, tempo, attenzione con una larga – la più larga possibile – testimonianza di opposizione, un coro civile e compatto che chiede di agire per la salvezza nazionale. Solo in apparenza il problema è "chi

vince" e diventa leader del Pd. Più voti vuole comunque dire più opposizione, nessuna equivoca collaborazione; vuol dire puntare in tanti e insieme verso un'altra Italia. Ma più voti vuol dire anche mandare un segnale: dirà che c'è vita su questo pianeta. E ciò attrarrà l'attenzione di tanti – in politica e fuori dalla politica - che stanno già distaccandosi dal più dannoso – oltre che dal più imbarazzante – capo del Governo che questo Paese abbia mai avuto. L'emergenza è grande per tutti, non solo per la parte che – con vecchia terminologia – chiamiamo "il centrosinistra". L'emergenza della convulsione berlusconiana coinvolge il Paese e il suo futuro. Con un braccio fuori dall'acqua qualcuno, nel Pd che vota, cerca di indicare un percorso. Il tempo è pochissimo.


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SECONDO TEMPO

MAIL Lo stupro di Tarquinia il sindaco si vergogni Parlo al sindaco del comune di Montalto di Castro, Salvatore Carai: è indicibile la sua condotta nella vicenda dello stupro della ragazza residente a Tarquinia, avvenuto nel 2007 a Montalto ad opera di otto e sottolineo otto bestie selvagge che si sono accanite contro una ragazza indifesa. Ha finanziato con soldi pubblici le spese legali di criminali, perchè tali io li considero quei ragazzi. Leggo oggi su "Il Fatto Quotidiano" l'intervista condotta alla ragazza oggetto della violenza, e rimango colpito dalla consapevolezza che questa ragazza ancora ha di ciò che le è successo e di come sia giustificata e leggittimata la rabbia che prova per i comportamenti che sono stati assunti nei suoi confronti. Sono nel campo sanitario pertanto la psiche umana forse la conosco un pò, e sono amareggiato che una ragazza possa provare tanta sofferenza, non solo per lo stupro, ma soprattutto per la solitudine in cui è stata abbandonata insieme alla sua famiglia, ed alle denigrazioni che queste persone hanno dovuto subire. Non importa da quale condizione sociale o famiglia provenga, ha ragione la ragazza che in un passo della sua intervista dice: una donna anche se andasse in giro nuda non dovrebbe essere violentata. Non esistono attenuanti. Chi sostiene il contrario o è molto bigotto, o trae benefici dal dire ciò, come ad esempio scagionare il nipote. Con sentita amarezza Un cittadino disgustato

BOX A DOMANDA RISPONDO PROF NEGAZIONISTA, LA VERGOGNA SI RIPETE

Furio Colombo

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aro Colombo, quest’anno in tanti hanno dimenticato il 16 ottobre. Lo hanno dimenticato alla radio, in tv, nei giornali e persino in parlamento. Il 16 ottobre del 1943 è stato il giorno in cui è iniziato, dopo le leggi razziali, la caccia e la deportazione verso la morte degli ebrei italiani. E’ accaduto nel ghetto di Roma, a due passi dal Vaticano, nel profondo silenzio di tutti. Anche oggi silenzio, se non ci fosse quel “ricercatore” dell’Università La Sapienza di Roma, certo Antonio Caracciolo, che riapre impunemente e in pubblico, lo squallido libro del negazionismo. Non è il caso di rispondergli? Luca e molte altre firme

C

E’ VE RO quest’anno la data del 16 ottobre è stata quasi dimenticata (1017 ebrei romani, intere famiglie inclusi vecchi, neonati, malati gravi sono stati arrestati nella notte da soldati tedeschi su segnalazione di fascisti italiani, e quasi nessuno è ritornato dalla loro destinazione finale, Auschwitz). Ma proprio negli stessi giorno compare a Roma la figura di un negazionista, Antonio Caracciolo, (definito, come Luca ricorda “un ricercatore” della Università La Sapienza) di cui parla per la prima volta “La Repubblica” ( 22 ottobre). Sarebbe un errore soffermarsi sul modesto curriculum scientifico o la qualità espressiva del non giovane ricercatore della Sapienza che ( come dimostra la riproduzione di una pagina online di

Caracciolo) si occupa anche, tra gli scritti della “letterature sionista”, del mio libro “La fine di Israele” (2008). Il vero, drammatico punto di domanda è: che cosa ci fa uno così, con il titolo non si sa quanto auto conferito, di professore? La questione non ha niente a che fare con la libertà accademica. A una persona che afferma pubblicamente di non avere mai capito il senso della parola “antisemitismo” si deve contestare la mancanza di credenziali minime per insegnare qualunque cosa, molto prima di contestare ciò che pubblicamente insegna. Del resto scorrendo le citazioni che “La Repubblica” gli dedica si trova una serie di dichiarazioni di odio e disprezzo vero gli ebrei e di filo nazismo più ottuso e arretrato di quello dei giovani nazi-skin dei nostri giorni. Ci sono due lezioni da trarre subito da una simile notizia. La prima è che questa squallida catena di personaggi e di “insegnamenti” fuori dalla storia e dalla cultura non finiscono. E dunque è ragionevole ma anche necessario non far finta, come si dice a volte nel “Giorno della Memoria” che il rito di ricordare ormai non serve più perché tutti sanno. La seconda lezione è sapere, e cercare di impedire, che una grande università diventi discarica di ciò che resta del peggio del passato. E’ evidente che tocca a docenti e studenti di non tacere. Rettore, preside e colleghi ( se un “docente” così può avere colleghi) devono dare ed esigere spiegazioni. Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano 00193 Roma, via Orazio n. 10 lettere@ilfattoquotidiano.it

Un avvocato di Montalto fa causa al sindaco Riguardo allo stupro di Montalto, sono un avvocato della zona che ha preso alcuni provvedimenti: Innanzituttio, stiamo presentando una denuncia alla Corte dei conti nei confronti del Sig. Carai, sindaco di Montalto, per l’utilizzo di 20mila euro di soldi del comune per finanziare gli stupratori. Oltretutto,stiamo valutando l’opportunità di esercitare un’azione civile di risarcimento dei danni. Vogliamo che tutto il ricavato vada alla vittima della violenza. avv. Paolo Delle Monache

Serracchiani e il Pd senza coraggio di schierarsi Ho letto sul Fatto l'intervista a Debora Serracchiani sul comportamento del sindaco di Montalto di Castro, certo se questo è il nuovo Pd che avanza ci sarebbe da scompisciarsi dalle risate. Poi, vedendo l'appello delle donne del Pd al sindaco perché faccia un passo indietro, senza che nessuno prenda provvedimenti, si capisce che vale più avere nelle mani un comune con un sindaco del genere che magari perdere le prossime amministrative. Certo che da quando Berlinguer sollevò la questione morale ne è passato di tempo. Quella povera ragazza viene abbandonata da tutti, proprio tutti. Non potete accettare quello

IL FATTO di ieri25 Ottobre 1958 Volevano solo un sì laico. Una fede al dito, senza messe e preti. Ma per i due promessi sposi, Mauro Bellandi e Loriana Nunziati, scattò immediata l’anatema di monsignor Fiordelli, Vescovo di Prato che in una violenta omelia li definì “pubblici peccatori e concubini”. Comincia così, nell’Italia bigotta di fine anni Cinquanta, la storiaccia dei “coniugi di Prato”, un caso nazionale ,simbolo della protesta laica contro la Chiesa. La miccia si apre con una lettera del Vescovo destinata ad essere letta ai fedeli da tutti i pulpiti di Prato. “…Il matrimonio civile per due battezzati non è matrimonio, ma solo l’inizio di uno scandaloso concubinato…pertanto ai due giovani saranno negati i sacramenti, non sarà benedetta la loro casa, saranno negati i funerali religiosi”. Contro il pubblico massacro,i Bellandi querelano il Vescovo, condannato a un’ammenda di 40mila lire. Ma il Vaticano non ci sta. Contro la sentenza viene dato l’ordine a tutte le parrocchie di parare a lutto i portali delle chiese e di suonare le campane a morto ogni giorno per 5 minuti. Per i due coniugi sarà l’inizio di un inferno personale. Per il Vescovo ci sarà invece, in appello, l’assoluzione piena per “insindacabilità dell’atto”. Giovanna Gabrielli

che le è stato fatto: è come se fosse stata violentata due volte Mario Gallinotti

Marrazzo irresponsabile e io alle primarie non voto Il governatore Marrazzo è un irresponsabile e si dovrebbe dimettere. I nostri politici sono persone ricattabili, deboli, moralmente ambigue, con sete di potere. E questa descrizione è

tristemente bipartisan, va da Marrazzo a Sircana fino a Berlusconi. Il presidente della Regione sapesse da mesi dell’esistenza del video, e fosse da mesi sotto ricatto, ha deciso di non dimettersi. Questo è gravissimo: ha scelto di non proteggere il suo partito e i suoi elettori. Che mi frega ora delle primarie se questa è la gente? Perchè dovrei andare a votare? Monica

Le primarie, la Calabria e i dubbi di un ragazzo Sono un giovane come tanti, di sinistra, nato a Cosenza 32 anni fa. Ho studiato nella mia città e lì mi sono laureato in ingegneria. Dopodichè, proverbialmente, ho fatto le valigie e son partito. Ora lavoro a Firenze (non mi lamento: ho un contratto a tempo indeterminato, anche se guadagno poco più della metà di quello che guadagnerei facendo lo stesso lavoro, ad esempio, in Germania), ma vivo a Modena perchè che nel frattempo mi sono anche sposato. Sono un pendolare. Ogni mattina scarico la mia copia di FQ e prendo il treno. Ogni mattina mi chiedo cosa posso fare per il Paese, ma soprattutto per la mia terra. [JFK]. Domenica andrò a votare alle primarie insieme a mia moglie ed ai miei amici. Avevamo deciso che avremmo votato il candidato che avesse presentato rappresentanti regionali accettabili (difficile), affidabili (difficilissimo), insomma...puliti (impossibile). Avevamo seri dubbi sui candidati sia di Bersani che di Franceschini. Poi abbiamo scoperto che la candidata a segretario di Marino si sarebbe dimessa per protesta per le "irregolarità e le tecniche mafiose". Insomma, siamo disorientati, ma andremo lo stesso a vo-

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tare, per far vedere che ci siamo. Perchè non credo che, nonostante tutto, sia giusto abbandonare la nave quando sta per affondare. Anzi, non basta non scappare. Bisogna fare di più. Dobbiamo mobilitarci. Noi calabresi, in Italia e nel mondo, ci deobbiamo svegliare e alzare la testa, combattere per cambiare. Altrimenti sarà come sempre, come per le navi dei veleni: stanno li da vent'anni ad inquinarci il

mare ed i pesci così come i nostri politici continuano ad inquinare la nostra vita. Enzo

Pd, Marino almeno c’era al voto sullo scudo Non sono un vip, come quelli intervistati da alcuni quotidiano i sulle primarie del Pd negli ultimi giorni, ma dico la mia: a differenza dei personaggi famosi, che si esprimono solo a favore di Bersani o Franceschini (possibile che non se ne trovi uno che preferisca Marino?), voteró per Ignazio Marino, semplicemente perché mi sembra l'unico con cui sia possibile la vera svolta del Pd. Questo partito non deve più essere legato ai disgustosi inciuci di D’Alema o Veltroni (tutori rispettivamente di Bersani e Franceschini) con Berlusconi. Dei tre candidati Marino è stato l'unico presente in aula durante la votazione sullo scudo fiscale. C. Berlini

I nostri errori L’altro giorno ho confuso la legge 30 sul mercato del lavoro con la 40 sulla procreazione assistita. Ieri ho scritto che i greci gettavano i bambini dalla Rupe Tarpea, invece erano i romani. Gli spartani pare abbandonassero i neonati deformi sul monte Taigeto. Prometto che starò più attento. Marco Travaglio

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