Il Fatto Quotidiano (27 Novembre 2009)

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B. avvisa Fini: sulla giustizia e le riforme si va avanti come dico io. Chi non è d’accordo è fuori dal partito

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€ 1,20 – Arretrati: € 2,00 Spedizione abb. postale D.L. 353/03 (conv.in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 1 Roma Aut. 114/2009

Venerdì 27 novembre 2009 – Anno 1 – n° Redazione: via Orazio n° 10 – 00193 Roma tel. +39 06 32818.1 – fax +39 06 32818.230

“GUERRA CIVILE”

Premi Politzer di Marco Travaglio

L’incredibile minaccia di Berlusconi che attacca i giudici L’ira del premier per le indagini sulla mafia

Quasi tutti in galera i vecchi soci di Schifani Cavaliere cileno di Antonio

di Marco Lillo

e Peter Gomez

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Padellaro

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a storia di Renato Schifani è spesso ridotta all’elenco dei suoi clienti. Si fa presto a dire: Schifani era l’avvocato dei mafiosi per poi sottolineare che Schifani non lo sapeva e che comunque era tutto legale. Il fatto è che il presidente del Senato prima di approdare a Palazzo Madama nel 1996 non è stato solo un avvocato ma anche tante altre cose. pag. 3 z

Udi Silvia Truzzi

Udi Marco Politi

TABUCCHI: L’ITALIA È FRITTA

IL SILENZIO RUMOROSO DEL PAPA

francesi, italici otto gli occhi allibiti delle Rlareumori echi. Come si fa a far par- S nazioni europee è in corso la stampa italiana di un in Italia un esperimento di ma-

efinizione di guerra civile: conflitto armato condotto da una caso italiano con protagoni- celleria giuridica senza preceparte della popolazione contro sti italiani? Se ne scrive Ol- denti. La Chiesa tace. Eppure il un’altra, ovvero contro le forze tralpe, naturalmente e fulcro della sua “dottrina sodello Stato poste a difesa dell’ordine e nient’affatto lapalissiana- ciale”, risiede in un concetto: della sicurezza. E poi: l’articolo 286 del mente. pag. 4 z il bene comune. pag. 18 z Codice penale prevede la pena dell’ergastolo per chi commetta fatti diretti a suscitare la guerra civile nel territorio dello Stato. Rileggiamo adesso l’ultima dichiarazione attribuita a Silvio Berlusconi: “C’è un tentativo di far cadere il governo condotto soprattutto dalla magistratura che ha preso una deriva eversiva e che porta il paese sull’orlo della guerra civile”. Il nesso di causa ed effetto tra le due frasi è lampante (lasciamo stare il solito giochino della smentita dopo che il sasso è stato tirato). Berlusconi, giunto forse all’ultimo atto dello sciagurato attacco contro la Costituzione repubblicana avverte i pm che indagano sui referenti politici delle stragi mafiose del ‘92 e ‘93 (Capaci, via D’Amelio, Milano, Firenze, Roma) a non osare varcare la soglia di Palazzo Chigi. Poiché se il presidente del Consiglio fosse indagato, come si vocifera da settimane, ciò sarebbe considerato Momenti di tensione ieri pomeriggio a Roma tra gli operai sardi della Alcoa e le forze dell’ordine (F A ) un golpe contro il governo eletto dalla maggioranza dei cittadini, con il rischio ALTA TENSIONE x Scontri a Roma tra polizia e lavoratori sardi appunto di una guerra civile. Cosa farebbe allora il governo? Darebbe ordine di arrestare i magistrati “golpisti” rei di aver complottato contro gli organi dello Stato? Ma i veri golpisti sono i rappresentanti della legge, oppure colui e coloro che alla legge cercano di sfuggire con ogni mezzo e a qualsiasi prezzo? Nella comunicazione di tipo cileno non può mancare un duro avvertimento di tipo “lealista” rivolto ad alleati e suSfilano due storie INTRODUZIONE bordinati. Su ogni tema, INEDITA DI caso balotelli annuncia il caudillo di Ardi aziende a rischio, TRAVAGLIO core, si decide a maggioma la crisi non QUADRO DELLE ranza e chi non condivide SENTENZE c’entra Furini pag. 11 z è fuori. Capito GianfranA OTTO ANNI DAL co Fini? Stato d’emergenBEST-SELLER za anche per la tv pubbliSCANDALO Beha pag. 15z ca nella quale non saranDOPO LE no più ammessi processi SENTENZE disastri MONDADORI E contro il governo. Se non ALFANO fossimo sospesi tra il Ritrovata dramma e la farsa verrebla tigre di Putin. be da chiedersi in quale Il suo caimano è invece ancora stadio verranno rinchiusi a piede libero gli oppositori. Pagani pag. 15z

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OTO

ALCOA, EUTELIA RABBIA E LOTTA n

Basta parlare (e scrivere) degli imbecilli

CATTIVERIE

EDITORI RIUNITI

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A Cecchi Gori hanno tolto anche i pop corn

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a notizia è uscita sull’Ansa alle 19.17 dell’altroieri: Gaspare Spatuzza racconta di aver visto Renato Schifani, all’inizio degli anni Novanta, incontrare in segreto Filippo Graviano. Schifani è presidente del Senato. Graviano è il boss che di lì a poco avrebbe insanguinato l’Italia con le stragi. Ieri la stampa si è scatenata. A parte Il Fatto e il Corriere, che la mettono dove deve stare e cioè in prima pagina, gli altri giornali la nascondono. Repubblica: mezzo sottotitolo a pag. 23. La Stampa: taglio basso a pag. 9. Libero: micropezzo a pag. 8. L’Unità: una breve a pag. 14. Il Giornale: una breve a pag. 6 dal titolo comico: “Spatuzza ‘Mai visto quel boss’ Schifani indignato denuncia” (cioè, par di capire: Spatuzza nega di aver mai visto quel boss di Schifani che, offeso dalla smentita, lo querela). Ma c’è un giornale che alla notizia non dedica nemmeno mezza riga: Il Riformista di Polito el Drito, che ci costa 2,5 milioni l’anno e vende circa 3 mila copie al giorno (costo netto per la collettività: 2,80 euro a copia). Il samizdat degli Angelucci pubblica in prima pagina un corsivo di Antonello Piroso che, inebriato dalle percentuali da albumina degli ascolti del suo show su La7 che lo porteranno presto a “Matrix”, ha deciso di passare definitivamente alla clandestinità scrivendo sul Riformista. Il Piroso è un giornalista decisamente controcorrente: è allergico alle notizie. Se gliene capita una per sbaglio, gli vengono le bolle e i puntini rossi su tutto il corpo. Per questo ha censurato il reportage sulla trattativa Stato-mafia e si è molto offeso perché abbiamo dato notizia della censura. Nel suo mondo alla rovescia, non si deve giustificare chi tace le notizie, ma chi le dà. Così ieri, anziché occuparsi di Schifani e Graviano, ha pensato bene di ripubblicare un vecchio e sfortunato articolo di Giuseppe D’Avanzo che, nel maggio 2008, se la prendeva col sottoscritto per aver raccontato da Fabio Fazio i vecchi rapporti societari nella Siculabroker fra Schifani e due bei tipetti poi finiti in galera per mafia: Mandalà e D’Agostino. Per carità, gl’infortuni capitano a tutti: in quel pezzo D’Avanzo scriveva che le liaisons dangereuses della seconda carica dello Stato erano roba vecchia e “non se n’è più parlato perché un lavoro di ricerca indipendente non ha offerto alcun ulteriore elemento di verità” (il Fatto e l’Ansa dimostrano che ulteriori elementi di verità su Schifani & his friends ce ne sono a iosa: basta cercarli). Anche Paolo Ruffini, direttore di Raitre e noto campione di libertà, già celebre per aver collaborato alla chiusura di “Raiot” di Sabina Guzzanti, corse in soccorso di Schifani accusandomi di avere “gratuitamente offeso la seconda carica dello Stato” e prosternandosi in pubbliche scuse, senza verificare se quel che avevo detto era vero. Avrebbe potuto riunire un consiglio di famiglia, essendo figlio dell’ex ministro dc Attilio Ruffini e della sorella dell’onorevole forzista Enrico La Loggia, pure lui socio della Siculabroker fondata dal padre Giuseppe. Invece, pirosianamente, se la prese con chi dava le notizie. Ora mezza sinistra ne piange la prematura dipartita da Raitre. Una prece. Ricapitolando: proprio mentre emergono clamorose novità sui rapporti fra Schifani e un altro mafioso, l’ennesimo, lo sventurato Riformista censura la notizia e, al posto, pubblica i deliri di Piroso e il vecchio pezzo di un altro giornale in cui si afferma che non ci sono né ci saranno mai più novità su Schifani e i mafiosi. Il tutto sotto il titolo: “Lezioni di giornalismo a chi?”. Già, a chi? A quelli che han sentito dire in America che il giornalismo è il cane da guardia del potere. Ma hanno equivocato il senso. Infatti sono tutti lì che ringhiano sull’uscio di Palazzo Chigi e Palazzo Madama per proteggere Berlusconi e Schifani dalle notizie. E dalla più terribile delle minacce: il loro passato.

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Venerdì 27 novembre 2009

Spatuzza: l’ho visto incontrare il boss Graviano

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COSE LORO

l pentito Gaspare Spatuzza riporta la memoria indietro negli anni. Palermo, mafia: “Ho cercato nella mia memoria di collocare i rapporti di Filippo Graviano su Milano. In proposito preciso che Filippo talvolta utilizzava l’azienda Valtras dove lavoravo come luogo d’incontri. Accanto a questa c’era il capannone di cucine componibili

di Pippo Cosenza dove si svolgevano pure incontri, dove ricordo di aver visto diverse volte la persona che poi mi è stata indicata essere l’avvocato di Cosenza. Preciso che in queste circostanze questa persona contattava sia il Cosenza che il Filippo Graviano in incontri congiunti”. L’avvocato era Renato Schifani, il presidente del Senato: “La cosa mi fu

I soci di Schifani? Arrestati, condannati e confiscati ANNI DOPO ESSER STATI IN AFFARI CON IL SENATORE UNO DOPO L’ALTRO SONO FINITI IN CARCERE di Peter Gomez

e Marco Lillo a storia di Renato Schifani è spesso ridotta all'elenco dei suoi clienti. Si fa presto a dire: Schifani era l’avvocato dei mafiosi per poi sottolineare che Schifani non lo sapeva e che comunque era tutto legale. Il fatto è che il presidente del senato prima di approdare a Palazzo Madama nel 1996 non è stato solo un avvocato ma anche tante altre cose. Per esempio è stato titolare di quote in tre società. La prima è la Desio Immobiliare, una cooperativa nata nel 1976 che ha assegnato nel 1986 l’appartamento nel quale il politico ha risieduto fino a luglio scorso. La seconda è la Sicula Brokers, una compagnia assicurativa nata nel 1979 e la terza è la Gms, creata nel 1992 insieme a due amici per svolgere attività legale a Roma e rimasta inattiva. Nei prossimi giorni ci dedicheremo a Desio e Gms oggi vi raccontiano la storia della Sicula Brokers. Scavando negli archivi si scopre che una decina di soci di queste vecchie società sono stati poi arrestati per le accuse più varie, dalla mafia alla bancarotta, dalla corruzione alla truffa. Ma non è questo il punto. Dietro ogni arresto (avvenuto sempre dopo l’ingresso dell’avvocato nella compagine) si apre uno spaccato rivelatore. Per chi coltiva il vizio della memoria è un esercizio prezioso. Se si può comprendere l’Italia di oggi solo guardando alle sue radici, così per scoprire chi è il nostro presidente del senato sarà interessante guardare da dove viene Renato Schifani. Nato a Palermo, figlio di un dipendente dell’ufficio urbanistica, Antonino, 88 anni, Renato è uno studente brillante che si di-

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ploma nel 1968 al liceo scientifico Cannizzaro con la “pagella d'oro”. Mentre infuria la contestazione Schifani studia. Si laurea in giurisprudenza con 110 e lode sposa Francesca, dalla quale avrà due figli, Andrea e Roberto (al quale passerà lo studio) e dopo una breve esperienza in banca, entra giovanissimo a studio di Giuseppe La Loggia, il padre di Enrico, l’ex ministro degli affari regionali. La Loggia padre nel 1956 è stato presidente della Regione Siciliana. Nel 1968 si candida ed entra in Parlamento insieme al genero Attilio Ruffini, ministro della difesa e prima ancora avvocato dei cugini Salvo, legati alla mafia e ricchissimi, che lo faranno eleggere con i loro voti. Quando Schifani entra a studio, La Loggia è presidente della Commissione Bilancio e la sua famiglia è potentissima. grazie anche all’appoggio elettorale di galoppini come Nino Mandalà, poi arrestato come capomafia di Villabate e intercettato negli anni novanta mentre racconta di avere minacciato Enrico La Loggia di raccontare i trascorsi elettorali con il padre. La Sicula Broker nasce il 19 febbraio 1979 su impulso di papà La Loggia che fa entrare il figlio Enrico, il collaboratore Renato Schifani e i suoi galoppini e amici. Ma il vero socio forte è il più grande operatore italiano, il gruppo Taverna di Genova che ne detiene il 51 per cento e ha scelto i La Loggia per sbarcare in

Sicilia, in un settore nel quale contano gli appoggi politici. Tra i soci siciliani ben quattro finiranno in seguito dietro le sbarre: Benni D’Agostino, Francesco Maniglia, Antonino Mandalà e Luciano De Lorenzo. Mentre un quinto, Giuseppe Lombardo, amministratore delle società dei cugini mafiosi Ignazio e Nino Salvo, sarà solo indagato con loro. La Sailem di Benni D’Agostino, la Ifis di Maniglia e Giuseppe Lombardo hanno il 10 ciascuno. La Loggia e Schifani, come gli altri piccoli soci hanno quote intorno al 4 per cento. Il consiglio è composto di nove membri: il presidente è Enrico La Loggia, il vicepresidente è Giuseppe Giudice, allora 26enne, figlio del comandante generale della Guardia di Finanza, Raffaele Giudice. Ovviamente sarà arrestato anche lui. Tre volte. Ma andiamo per ordine. Il primo mandato di arresto (sempre per fatti che nulla hanno a che fare con la Sicula Brokers) è per Francesco Renato Schifani, Enrico La Loggia e Nino Mandalà in una illustrazione di Emanuele Fucecchi

Del crocifisso e del lettone chi l’ha detto che una giornata d’ufficio di presidenza del Pdl, convocato, sciolto e riconvocato da sé medesimo, non sia una pacchia di pacchi per Silvio Berlusconi? All’ora del tè ha scartato un paio di lukum alle rose offerti dal primo ministro del Kuwait, nel tardo pomeriggio la lettera di Kirill, il Patriarca ortodosso di Mosca. Piena solidarietà all’amico italiano, soffocato da udienze, sentenze e intralci vari. Ci voleva la Corte europea sul crocifisso nelle scuole italiane. Giustizia a orologeria. Kirill si rivolge al cattolico praticante di Santa Romana Chiesa, al marito di due letti e del lettone di Putin,

La carriera da avvocato nello studio La Loggia, la “Sicula Broker” e il sodale di nome Mandalà

di Carlo Tecce

LEGITTIMI IMPEDIMENTI

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Maniglia. Nell’autunno del 1979 è indagato per ricorso abusivo al credito poi la sua azienda fa crack e Maniglia si dà alla latitanza nel 1980. Maniglia era ricchissimo e frequentava il jet set, ma nel processo contro Vito Ciancimino si scoprirà che era socio del sindaco mafioso di Palermo già dagli anni sessanta. Il pentito Antonino Calderone racconterà che a Roma nei suoi uffici si incontravano i Calderone e il loro referente politico: Salvo Lima. Dopo Maniglia tocca al vicepresidente della sicula Brokers:

al pierre delle feste in villa e nei palazzi: “La tradizione cristiana dell’Italia e degli altri paesi europei non può essere oggetto di esame da parte di istituzioni dei diritti umani. I simboli religiosi cristiani sono parte dell’identità comune europea. Senza è impensabile il presente e il futuro di questo continente”. E il passato? Quel 31 dicembre 1986, un cenone di Capodanno con Bettino. Berlusconi telefona a Dell’Utri: “Iniziamo male l’anno. Dovevano venire due di ‘Drive In’ e ci hanno fatto il bidone. E anche Craxi è fuori della grazia di Dio. Poi finisce che non scopiamo più! Se non comincia così l’anno, non si scopa più!”. Amen.

Giuseppe Giudice, arrestato il 18 dicembre del 1980. Giudice è il figlio del generale delle Fiamme Gialle Raffaele, che era stato già arrestato per lo scandalo petroli. Negli atti di quel processo si scoprono alcuni dettagli utili per capire il contesto: il figlio era socio di un petroliere arrestato, mentre il padre (condannato definitivamente a 4 anni e morto nel 1994) era stato nominato comandante grazie alla sponsorizzazione di Giulio Andreotti (finanziato dai petrolieri) e di Salvo Lima, siciliano come lui. Quando il colonnello Giovanni Visicchio arrestò il boss Luciano Liggio nel 1976, il comandante Giudice lo apostrofò: “lei è un finanziere, la smetta di fare il carabiniere”. Giuseppe Giudice uscirà indenne dalle accuse ma sarà arrestato altre due volte, a Roma (estorsione tentata) e a Palermo, per bancarotta. Anche un altro ex socio di Schifani, l’avvocato Lu-

confermata da Filippo al Tolmezzo allorquando commentavo questi incontri, mi diceva che l’avvocato del Cosenza, che anche io avevo visto a colloquio con lui, era in effetti l’attuale presidente del Senato. Preciso che anche io avendo in seguito visto Schifani sui giornali e in televisione l’ho riconosciuto come la persona che vedevo all’epoca”.

LETTERA ARRIVATA MARTEDÌ

MINACCE AL PRESIDENTE DI PALAZZO MADAMA

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ercoledì l’accusa di Spatuzza: ho visto Schifani assieme a Graviano. Ieri Palazzo Madama ha reso noto che nei confronti del presidente del Senato – martedì – è arrivata una lettera di minacce. Datata “Reggio Emilia, 21 novembre 2009”. Nella lettera si sostiene che sarebbe “nell’occhio dei picciotti”; e si aggiunge che durante “un incontro a Reggio Emilia” – l’entourage del presidente però nega che abbia fatto visita in questa città – ci sarebbe stata una “telefonata”, e si lancia un avvertimento: “Stia attento perché è in pericolo la sua vita e quella dei suoi familiari”. Le misure di sicurezza per Schifani sono state rafforzate. Al senatore è arrivata la solidarietà bipartisan.

ciano De Lorenzo, aveva legami con il peggio della Dc. Anche lui scambiava assegni con Vito Ciancimino e anche lui figura nelle carte dell’inchiesta del giudice Falcone, che lo interrogò, senza indagarlo. Si rifarà nel 2007 quando sarà arrestato a Palermo per la bancarotta Finasi. Quisquilie rispetto al curriculum dei due soci davvero “pesanti”: Benni D’Agostino e Antonino Mandalà, legati a doppio filo ai “capi dei capi”. D’Agostino a Totò Riina, Mandalà a Provenzano. Benni D’Agostino, dopo essere stato uno degli uomini più ricchi della Sicilia, grazie ai suoi legami con la mafia, si è pentito e ha raccontato: “mio padre mi presentò Michele Greco, (il papa della mafia) nel 1977. E mi disse che era una persona ‘intisa’ (cioé mafiosa ndr). Lo riincontrai nel 1979 o 1980 sul traghetto da Palermo a Napoli e mi trattò come un figlio raccontandomi dei suoi incontri con Andreotti”. Nel periodo in cui D’Agostino fonda la Sicula Brokers è così vicino al Papa che questi gli confida i suoi rapporti più segreti. Non basta. Negli anni novanta, Totò Riina è il socio occulto della società Reale, intestata all’ex socio di Schifani. Lo racconta il pentito Giovanni Brusca: “la Reale Costruzioni era all’epoca, controllata da Riina. Totò mi raccomanda questa impresa, intestata a DAgostino, e ho capito successivamente il perché, quando mi disse: ‘l’impresa Reale, fai finta che è mia’”. D’Agostino ha raccontato: “con Salvo Lima facevamo una serie di lavori e poi quando c’era l’elezione e lui mi chiedeva per esempio cento milioni io li tiravo fuori”. Non bisogna stupirsi se in questo ambientino troviamo Nino Mandalà. Fondatore del primo club di Forza Italia a Villabate e padre di Nicola, l’uomo che ha curato la latitanza di Bernardo Provenzano. Nino Mandalà, storico capomafia di Villabate, è stato condannato in primo grado a 8 anni molto tempo dopo la sua partecipazione con Schifani. Tutti i soci degli inizi dell’assicurazione (che esiste ancora e ha cambiato nome) sono usciti presto. Il loro è stato solo un fugace incrocio di destini. Renato Schifani sulla Sicula Brokers ha spiegato la sua posizione ai magistrati di Firenze, quando ha querelato il pentito Francesco Campanella per le sue accuse. “Mandalà era incensurato fino al 1998 ed era un cliente ed elettore di Giuseppe La Loggia quando nel 1979 nasce la Sicula

Brokers. Io ero solo un giovane avvocato dello studio e ho accettato di addivenire alla richiesta del presidente La Loggia di entrare nella società per una piccola quota del 4 per cento. Poi ho versato solo i tre decimi come risulta dai libri sociali. La Loggia padre chiamò a farne parte persone che allora erano di spicco, al di sopra di ogni sospetto. Come Benni D’Agostino e Giuseppe Lombardo. Io sono rimasto solo un anno e qualche mese. Ad aprile del 1980 ho detto a Giuseppe La Loggia che non volevo versare gli altri sette decimi e sono uscito. Anche Mandalà fino al 1997 non è stato attenzionato nemmeno dai Carabinieri, era talmente insospettabile che fu eletto al congresso provinciale di Forza Italia presideduto da Alfredo Biondi”. Il giudice per le indagini preliminari ha archiviato la sua querela ma sostanzialmente gli ha dato ragione: “Vero è che la qualifica di uomo d’onore prescinde dal formale riconoscimento che se ne ottiene con il suffragio giudiziario. Ma è altrettanto vero però che una mera frequentazione professionale discendente da affari di natura civilistica quelli di cui si occupava in via esclusiva l’avvocato Schifani, non impone certo l’onere per il professionista dì recidere i predetti rapporti per via del sospetto (ammesso che tale fosse) di illecite condotte dal proprìo assistito in tutt’altri contesti consumate e sfociate peraltro solo anni dopo, in procedimenti penali”. Una conclusione opinabile. E che comunque non vale per un politico. Anche perché dopo avere scoperto in quale ginepraio lo avevano cacciato i La Loggia, Schifani non ha certo preso le distanze da loro. Anzi. Grazie a Enrico La Loggia l’avvocato Schifani (certamente bravo ma raccomandato) ha ottenuto nel 1994 una consulenza da 60 milioni di vecchie lire dal comune di Villabate, retto da una giunta vicina al solito Nino Mandalà (che se ne prendeva il merito mentre era intercettato). E, sempre grazie a La Loggia, Renato Schifani è entrato nel partito che gli ha cambiato la vita. Sarà vero, come dice il gip che agli avvocati può capitare di difendere clienti che poi si rivelano mafiosi. Sarà vero che può capitare di farci affari insieme. Ma viene un giorno in cui si deve scegliere. Si può tagliare i ponti con chi ti ha messo in queste situazioni imbarazzanti. Oppure si può continuare a far finta di niente. Schifani ha scelto la seconda strada. E oggi è presidente del senato.


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L’opposizione: frasi inquietanti, democrazia a rischio

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COSE LORO

una dichiarazione adatta all’epoca di Weimar, corrisponde la preoccupata reazione della politica. Il primo a rispondere all’intemerata di Berlusconi è Massimo Donadi, capogruppo Idv alla Camera. “I pm trascinano l’Italia verso la guerra civile? Berlusconi assomiglia sempre di più a un Pinochet. Le sue dichiarazioni paranoiche e deliranti evocano uno scenario cileno, ma

affermazioni, poi smentite, di Berlusconi, sono di una gravità allarmante. Tutto ciò testimonia e tradisce la parossistica tensione che anima il presidente del Consiglio e il disagio sempre più evidente di una parte consistente della maggioranza. Un grande partito di opposizione – aggiunge – ha il dovere di respingere affermazioni della natura e della gravità di quelle scaturite e di rassicurare la popolazione”.

per fortuna l’Italia ha forti anticorpi democratici. Le pose da caudillo di quest’uomo sempre più solo e screditato, in Italia e in Europa, sono il chiaro segno della sua inadeguatezza e non dureranno a lungo perché il paese è stanco e ha bisogno di un governo che sappia affrontare e superare la crisi economica”. A ruota Anna Finocchiaro capogruppo al Senato del Pd: “L’esito dell’ufficio politico del Pdl, unito alle presunte

L’AV VERTIMENTO

Il premier e l’incubo delle inchieste su Cosa Nostra: i pm vogliono farmi cadere. Aut aut a Fini. La Russa: lodo costituzionale

Silvio Berlusconi di Antonella Mascali

e Sara Nicoli ilvio Berlusconi vuole ad ogni costo leggi, non importa se incostituzionali, che fermino i magistrati. Non solo e non tanto quelli di Milano, ma soprattutto quelli di Palermo, Firenze e Caltanissetta che stanno indagando sulla trattativa Stato-mafia e sulle stragi del ’92-’93. Sa che un’iscrizione nel registro degli indagati potrebbe essere vicina, dopo le recenti accuse di Massimo Ciancimino e del collaboratore Gaspare Spatuzza, confluite nel

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processo d’appello di Palermo a carico di Marcello Dell’Utri. E Gianfranco Fini deve accettare che i pm e giudici siano mbrigliati in ogni modo, altrimenti è fuori dal Pdl, anche se l’ha fondato insieme a lui. Il presidente del Consiglio è arrivato ieri a palazzo Grazioli per un supervertice senza far fiatare i suoi ha sparato immediatamente contro la magistratura, accusandola di fatto di eversione. Ha detto che c’è una persecuzione nei suoi confronti che porta sull’orlo della guerra civile. Di fronte a queste parole ci sarebbe stato il plauso del ministro Ange-

lino Alfano e dell’avvocato-parlamentare Niccolò Ghedini. Poco dopo l’ufficio stampa del Pdl ha smentito che Berlusconi abbia parlato di guerra civile, nonostante l’affermazione fosse stata riportata anche da diverse agenzie di stampa. A Il Fatto risulta che dopo i primi lanci della notizia dal Quirinale sarebbe partita una sollecitazione perché palazzo Chigi smorzasse i toni. Da qui la smentita, ma dentro palazzo Grazioli quelle parole sono state sentite chiaramente e riferite. Berlusconi, nelle due ore di summit, ha proseguito con la sua invettiva dicen-

do che da parte di certi magistrati c’è in atto il tentativo di buttare giù il governo e la maggioranza eletta democraticamente dai cittadini e quindi in questo momento per fermarli intanto si deve approvare il cosiddetto processo breve. Il cavaliere ha parlato anche del caso Cosentino, definendo le accuse di collusione con la camorra mosse dalla Procura di Napoli paradossali. Si è speso in parole solidali anche nei confronti del presidente del Senato, Renato Schifani, tirato in ballo da Spatuzza. Poi Berlusconi ha ordinato una riforma della giustizia di tipo costituzionale che preveda anche quella che è una delle sue ossessioni: la separazione delle carriere. Non poteva mancare l’attacco ad alcune trasmissioni della Rai che a suo dire processano sempre governo e maggioranza. Una situazione, ha detto Berlusconi, che deve finire. Nessuna citazione specifica, ma si sa che nel mirino del premier ci sono Annozero e le

B. vuole una legge che lo ripari e evoca la “guerra civile” Preoccupazione del Quirinale per l’escalation

Dietro la Standa spuntano i Graviano

trasmissioni di RaiTre dell’appena defenestrato direttore Paolo Ruffini. Riferimenti tanto chiari da smuovere la reazione del presidente di Viale mazzini, Garimberti, che ha rivendicato il pluralismo della tv di Stato. E comunque i diktat di Berlusconi ai suoi hanno avuto risultati immediati. All’uscita da palazzo Grazioli La Russa ha detto che la maggioranza riproporrà il lodo Alfano, questa volta con legge costituzionale (anche perché non potrebbe fare altrimenti dopo la bocciatura della

Consulta ) e sosterrà compatto il ddl “processi brevi”. Per la Lega in arrivo il “no” al voto per chi non è italiano. L’ufficio di presidenza è durato due ore, più che una riunione è stata un monologo di Berlusconi. La prova generale del discorso che il premier vuole fare agli italiani sulla giustizia, probabilmente in televisione, a reti unificate. Magari dopo il 4 dicembre, il giorno in cui Spatuzza dovrà testimoniare al processo Dell’Utri, in trasferta a Torino per motivi di sicurezza.

Draghi

“SUD, CLAN INFILTRATI NEGLI ENTI LOCALI”

“Grava su ampie parti del nostro Sud il peso della criminalità organizzata”: è l’allarme lanciato dal governatore di Bankitalia Mario Draghi. La malavita “infiltra le pubbliche amministrazioni, inquina la fiducia fra i cittadini, ostacola il funzionamento del libero mercato concorrenziale, accresce i costi della vita economica e civile”. “Alla radice dei problemi del Sud - ha poi evidenziato - stanno la carenza di fiducia tra cittadini e tra cittadini e istituzioni, la scarsa attenzione prestata al rispetto delle norme”.

Palermo, tre sedi facevano capo ai boss. “Sostenevano Forza Italia” di Peter Gomez

è la Standa. I grandi magazzini che Istatildalproblema finire degli anni ‘80 e sino al 1995 sono di proprietà di Silvio Berlusconi. Una parte importante delle indagini sui mandanti occulti delle stragi e sulla seconda trattativa tra Stato e mafia passa infatti attraverso la storia delle sedi palermitane dei mega-store targati Fininvest. Mentre a Firenze il gip Anna Favi ha detto sì alla riapertura della vecchio fascicolo, archiviato nel ‘98, in cui Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri erano stati indagati per concorso negli attentati ai monumenti della primavera estate ‘93, gli investigatori vanno a caccia d’indizi per capire come è nato il presunto rapporto tra il premier, il suo braccio destro Dell’Utri, e i boss di Brancaccio, Filippo e Giuseppe Graviano. Gaspare Spatuzza, il superpentito che ha parlato di una sorta di patto politico siglato intorno al Natale del ‘93 dai due capimafia con i vertici della nascente Forza Italia, non lo sa. Spatuzza sa invece che a Palermo, nei primissimi anni Novanta, furono aperte tre sedi Standa in immobili controllati dalla famiglia di Gaspare Finocchio: un costruttore multimiliardario, considerato un prestanome dei Graviano, e già arrestato nel 1985 dal giudice Giovanni Falcone, ma poi assolto al termine del maxi-processo. Dice Spatuzza: “Ricordo che le Standa aperte in quel periodo erano tre e che facevano tutte ca-

po a Michele Finocchio (il figlio di Gaspare ndr) o alla sua famiglia. Michele era una persona vicinissima ai Graviano, così come lo era stato suo padre Gaspare, molto legato a Michele Graviano, il genitore di Filippo e Giuseppe. Di queste tre Standa una è a Brancaccio, in via Azzolino Hazon, una in via Duca della Verdura, mentre la terza è in corso Calatafimi, che mi pare far parte, così come la seconda, del mandamento mafioso di Porta Nuova”. Il particolare, per chi conosce le cose di Cosa Nostra, è tutt’altro che secondario. Stando alla sentenza di condanna in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa contro Marcello Dell’Utri, chi solitamente si occupava di trovare i locali dove piazzare le nuove sedi dei grandi magazzini Fininvest a Palermo era proprio l’ex manager di Publitalia. Nella sua agenda ci sono molti appunti riguardanti edifici a volte proposti da altri personaggi ritenuti vicini a Graviano. Alcuni collaboratori di giustizia, considerati attendibili dal tribunale, hanno poi spiegato che nel caso dei Molini Virga (un grande opificio che sembrava essere destinato ad ospitare una Standa-Euromer-

cato) era stato Giuseppe Graviano in persona a seguire le procedure d’acquisto da parte della famiglia di costruttori, poi condannati per fatti di mafia:i Piazza-Zummo. Adesso spuntano invece i Finocchio, di nuovo arrestati nel 2003 perchèritenuti teste di legno di Cosa Nostra e delle famiglie mafiose di Brancaccio e Roccella . Insomma agli investigatori pare sempre più credibile che davvero gli affari palermitani della Standa venissero mediati dai Graviano. E che il legame poi sfociato, secondo Spatuzza, nell’accordo politico, sia nato nell’ambito di quel rapporto. In una relazione della Dia (Direzione investigativa antimafia) di Milano inviata alla procura di Firenze nel 1996 e depositata ieri al processo contro Dell’Utri, si parla di una fonte confidenziale (un indagato per mafia) che “nella primavera del ‘92 o del ‘93 aveva accompagnato Giuseppe e Filippo Graviano al ristorante “L’Assassino” di Milano, dove i due avrebbero dovuto incontrare Dell’Utri”. La fonte, che non ha però assistito all’incontro, ricorda anche di una o due conversazioni telefoniche tra Giuseppe Graviano e l’attuale senatore. Telefonate

L’indagine sui mandanti occulti delle stragi Dossier Dia, un confidente: finanziarono il nuovo partito

fatte da casa dell’informatore tra il ‘91 e il ‘92 in cui si parlava di affari immobiliari in Lombardia e in Sardegna. Ovvero d’investimenti nelle due regioni dove i fratelli terribili hanno trascorso la loro latitanza durante i mesi delle stragi. Dell’Utri anzi, secondo la fonte, avrebbe ricevuto molti capitali dai Graviano attraverso un parente dell’eurodepuato Dc, Salvo Lima (ucciso nel ‘92). Mentre i boss di Brancaccio sarebbero stati interessati “a finanziare il nascente movimento politico Forza Italia che avrebbe dovuto garantire gli interessi dei boss al posto della Dc”. Gli informatori, ovviamente, non hanno valore di prova, ma le dichiarazioni della fonte sono molto simili nella parte riguardante i finanziamenti politici) a quelle fatte da un amico di Dell’Utri: il finanziere siciliano Filippo Alberto Rapisarda, fondatore a Milano di uno dei primi club di Forza Italia. Se tutto questo è vero resta un dato. I Graviano e i vertici Finivesti dialogavano già prima dell’inizio della campagna stragista. E così le parole del pentito Spatuzza diventano davvero inquietanti. Dice il collaboratore: “Io penso che chi stava gestendo la trattativa aveva bisogno di accreditarsi come la persona che poteva mettere fine alle stragi. (Insomma) prima ti faccio fare le stragi e poi vado a cercare l’interlocutore per dire ‘vedi che ho la possibilità di far finire tutto’”. Quella di Spatuzza è solo una deduzione, ma fa lo stesso paura.


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Il Cnel: no alla vendita all’asta dei beni confiscati ai mafiosi

A

COSE LORO

nche il Cnel si schiera contro l'emendamento alla Finanziaria che consente la vendita all’asta dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Mentre anche i giudici scendono in campo con don Ciotti per dire no alla vendita dei beni confiscati alla mafia. L' Assemblea del Cnel all’unanimità ha ritenuto "assolutamente indispensabile mantenere l’asse portante della legge

109/96 che vieta la vendita dei beni confiscati e destina gli stessi ai Comuni, allo Stato, alla società civile, alle cooperative di giovani e di lavoratori. La vendita all’asta è decisamente da evitarsi". L'Assemblea del Cnel ritiene inoltre necessario "un intervento del Governo teso a rimuovere i problemi che sono emersi in questi tredici anni di vigenza della legge. In particolare e in sintesi sarebbe opportuno: assegnare ad una Agenzia,

appositamente nominata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il compito di gestire i beni confiscati dotando la stessa dei poteri, dei finanziamenti e del personale tecnico e specialistico in grado di assicurare, in tempi certi, che il bene confiscato sia definitivamente consegnato all’assegnatario, evitando così le difficoltà nelle assegnazioni dei beni a fini sociali".

L’ITALIA? È FRITTA

Antonio Tabucchi parla di stampa libera (e non) Ai giornalisti italiani dice: fatevi sentire in Europa di Silvia

Truzzi

umori francesi, italici echi. Come si fa a far parlare la stampa italiana di un caso italiano con protagonisti italiani? Se ne scrive Oltralpe, naturalmente e nient’affatto lapalissianamente. Il tam tam è partito dalla terra di Montesquieu, dove in questi giorni ci si occupa di una maxi richiesta di risarcimento danni indirizzata ad Antonio Tabucchi. Mittente: Renato Schifani, offeso da un pezzo firmato dallo scrittore e apparso sull’Unità. L’appello – lanciato dall’editore Gallimard su Le Monde e sottoscritto da intellettuali, premi Nobel e giornalisti di tutto il mondo – s’intitola “Nous soutenons Antonio Tabucchi”. Beffardo destino o lungimirante profezia dell’autore di “Sostiene Pereira”. Professor Tabucchi, perché questo appello dalla Francia? Lo chiedo io a voi. Perché non l’ha fatto prima la stampa italiana? E’ un problema non mio. Si sarà fatto almeno un’idea. Ripeto: la questione non riguarda me, riguarda la stampa e gli editori italiani. È stato fatto da un editore francese in Francia. Evidentemente c’era un vuoto in Italia. È un vuoto che riguarda solo questo caso o è generale? La Commissione europea, il Parlamento europeo, il Consiglio d’Europa hanno adottato una direttiva con cui invitano l’eventuale querelante a portare in tribunale non

R

soltanto il nome e la persona che lo ha criticato, ma anche il giornale sul quale il testo in questione è apparso. Il giornale è persona giuridica. In America non è possibile citare un giornalista o uno scrittore escludendo la testata su cui è uscito l’articolo oggetto del contendere. Motivo: se un giornalista che ha criticato un politico molto importante – o un miliardario o l’amico di un miliardario – venisse portato in giudizio come se fosse un privato cittadino, sarebbe massacrato dalla potenza della persona criticata. Quindi la direttiva europea, fatta a somiglianza della legge americana, è pensata per difendere la libertà di parola, la libertà di espressione dalla quale discende la libertà di stampa. Perché la libertà di stampa è una conseguenza della libertà di parola. Sono libertà sorelle. Vero. Ma se si isola una persona e la si porta davanti a un giudice, il potente scoraggia fortemente ogni suo eventuale futuro critico. È un sistema intimidatorio: i giovani non si permetteranno mai di fare una cosa simile, con un precedente così pesante. Corrisponde allo schema maoista, quando Mao diceva: colpirne uno per educarne cento. L’Italia è maoista? Non so se maoista, fascista, mafiosa o piduista. Dicevo semplicemente: in un paese civile si cita in giudizio anche il giornale. Non è accaduto nel caso del suo pezzo su Schifani apparso sull’Unità. Per questo la Francia – che è ancora un paese civile – ha

L’APPELLO

I FAMILIARI DELLE VITTIME DI MAFIA

E

cco la lettera appello firmata da 370 familiari di vittime di mafie inviata al presidente della Camera, della commissione Antimafia e capigruppo della Camera per chiedere che venga ritirato l’emendamento sulla vendita dei beni confiscati: “Conduciamo la nostra attività di contrasto al dilagare dei fenomeni mafiosi e criminali. La confisca e l’utilizzo a fini sociali del patrimonio dei mafiosi ha assunto nel nostro paese un valore simbolico irrinunciabile per la lotta alle mafie. Trasformare in scuole, caserme, istituti di assistenza, luoghi di pubblica utilità tutti quegli edifici sottratti alla criminalità restituisce dignità allo Stato che si dichiara convinto di volere sconfiggere le mafie. Quella legge ha reso possibile l’assegnazione dei terreni confiscati ai Riina, ai Provenzano, ai Rogoli, agli

pensato di farlo sapere. Perché tutto questo era ignoto in Italia. L’appello francese nasce per far conoscere il caso agli italiani. Altrimenti il senatore Schifani aveva buon gioco: escludendo l’iniziativa dell’Unità, ha ottenuto l’effetto migliore. Quello del silenzio stampa. Nessuno in Italia aveva dato notizia che uno scrittore aveva ricevuto una richiesta di risarcimento danni di un milione e trecentomila euro per un articolo di giornale. La morale è che abbiamo bisogno di una tutela sovranazionale? È solo una constatazione. L’appello francese è servito a far sì che in Italia si sapesse. E’ successo anche per altre vicende italiane. La stampa internazionale ci guarda con un certo stupore per il modo che abbiamo di dare, o non dare, le notizie. Di fare, o non fare, le domande. Come stampa italiana dovreste farvi voi delle domande. E poi farne alcune anche all’Europa. L’Europa fa finta che questa anomalia italiana non esista: sostiene che la libertà di stampa nei paesi membri è

Schiavone e ai Piromalli a cooperative di lavoro, lontane dalle infiltrazioni mafiose, che tra mille difficoltà e continue intimidazioni li hanno trasformati in fattori di produzione di “legalità”. Modificare la legge 109/96 e introdurre la possibilità che i beni confiscati non assegnati possano essere venduti significa, in pratica, riconsegnarli alle mafie. Come potete credere che ci sia veramente la possibilità che quei beni, venduti sul libero mercato, siano acquistati da onesti cittadini e non dagli stessi mafiosi a cui sono stati sottratti? Vorreste farci credere che siete in grado di escludere che i mafiosi possano riprendersi quello che, con enormi sacrifici ed impegno, eravamo riusciti a togliere loro? Onorevoli dunque vi chiediamo di votare contro il provvedimento approvato dal Senato il 13 novembre 2009, per non indebolire e non cancellare i principi della legge 109/96 e di adoperarvi ad ogni livello per evitare che tale provvedimento possa diventare esecutivo”.

garantita. Vi sembra normale? Forse dipende dal fatto che non esiste praticamente più un editore puro. E dal legame tra politica, imprenditoria e stampa. Se voi – voi giornalisti, dico – credete che sia anormale è vostro dovere andare a Bruxelles – non è nemmeno tanto lontana – e chiedere conto di questa situazione. Spetta a voi muovervi. Non potete pretendere che i cittadi-

ni-lettori prendano un treno e vadano a protestare. Quel treno lo devono prendere i direttori dei giornali che si sentono lesi nella possibilità di svolgere liberamente il loro lavoro. Torniamo a Schifani. Il nostro giornale ha pubblicato la storia di un palazzo costruito da un imprenditore mafioso nel quale hanno trascorso la latitanza boss di prima grandezza. Schifani, prima che quell’imprenditore fosse arrestato lo aveva difeso contro due signore, riconosciute poi come vittime della prepotenza dell’imprenditore. Nessuno ha chiesto conto, in nessun modo e in nessuna sede, di questo fatto. Non è un reato, ma è un dato rilevante: politicamente e sotto il profilo dell’opportunità per la seconda carica dello Stato. La stampa indipendente non

l’ha ripresa. Quindi la notizia è falsa. Non è stata smentita nemmeno da Schifani. Insisto: è falsa. E aggiungo: se non è falsa la vostra notizia, sono falsi gli organi di informazione. Questa storia sarebbe una bomba in qualunque altro paese. In Italia no. Allora? Allora chiedo: che senso hanno le manifestazioni che sono state fatte sul pericolo che corre la libertà di stampa? A cosa servono? Ma perché i giornalisti indipendenti convocano una manifestazione sulla libertà di stampa che corre il pericolo di essere soffocata, se si soffoca con le sue stesse mani? Che fare, quindi? Se le cose stanno così e se voi non fate niente, lasciamo andare l’Italia dove deve andare. Perché l’Italia, se nemmeno c’è più una stampa a far la guardia al potere, è fritta. Si ricostruirà sulle macerie, come dopo la Seconda guerra mondiale. Nemmeno un consiglio su quale possibile resistenza, sperando di scongiurare le macerie? Gli italiani, non solo giornalisti, che ritengono violata o diminuita la loro libertà di essere informati, possono assumere un giurista internazionale che difenda la loro causa di fronte all’Europa. Potete essere rappresentati da un avvocato che documenti come, per esempio, una certa percentuale della stampa e delle televisioni italiane appartenga a un’unica persona – supponiamo che sia il 70 o 80 per cento – e con questa documentazione vi presentate come se foste davanti a un tribunale. Dopodiché l’Ue deve anche assumersi le proprie responsabilità. Ma se non lo fate l’Europa lascia correre. Il laissez-faire forse ha anche convenienze. Oggi c’è un referente, non vedo perché non interpellarlo. C’è un circolo vizioso in questo paese che deve essere rotto. Diamo per presupposto che i margini di libertà dell’informazione sono stati progressivamente ridotti. C’è un problema di democrazia: il consenso

Schifani mi ha chiesto un milione e 300 mila euro di danni per un articolo Ma i giornali italiani ne hanno parlato solo dopo l’appello lanciato su Le Monde dei cittadini si forma attraverso i media. Certo che c’è, ma il Parlamento italiano non lo risolve. L’unica possibilità è un’istanza superiore. L’Europa ha precise regole. Scusi, ma l’Europa non ci potrebbe dire “sbavagliatevi” da soli? No: c’è una Carta europea. Perché non si accoglie la Turchia? La Ue ha anche un compito di sorveglianza. Non è soltanto la moneta unica. Lei vive in Portogallo. Ci tornerebbe in Italia? Vivo in Portogallo per ragioni personali. Ma comunque sì, anche se non mi piacciono affatto tutte le leggi ad personam che si sono susseguite in questi anni. Preferisco non doverle subire. Anzi, a proposito di leggi. Faccio io ora una domanda. Sono lontano, ma leggo i giornali italiani. Ciampi è stato di nuovo eletto presidente della Repubblica? No. Il presidente è Napolitano. Mi stupisco, ho avuto una specie di déjà vu. Su Repubblica di qualche giorno fa ho letto un pezzo su Ciampi. Ciampi: no alle leggi ad personam. Ma Ciampi ha avuto il suo settennato per fare quello che credeva. Ha firmato le leggi che desiderava. Il lodo Schifani era una legge ad personam e lui l’ha firmata. E poi, ai tempi, su Repubblica si ripeteva che non bisognava tirare Ciampi per la giacca. E che succede ora? Sempre su Repubblica Ciampi tira per la giacca Napolitano. Ma queste cose dovrebbe dirle Napolitano. È un consiglio al presidente? No, un’osservazione. Mi provoca confusione. Sui giornali italiani si dibatte di Ciampi che dà consigli su leggi che lui avrebbe potuto non firmare. Ma che diavolo capita in Italia?


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Il Pd non aderisce al 5 dicembre, il resto dell’opposizione attacca

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PROTESTE

entre gli organizzatori si preparano al No B. Day, l’opposizione continua a dividersi sull’opportunità o meno della partecipazione. In particolare fa discutere la posizione del Partito democratico, che ha al momento deciso di non scendere in piazza, ma di lasciare libere le partecipazioni individuali.

Pier Luigi Bersani continua a dichiarare che il suo partito “non si fa tirare per la giacca dagli altri sulle manifestazioni come quella del 5 dicembre e le valuterà”. E intanto i Democratici saranno in piazza l’11 e il 12 dicembre. Ma la scelta di non partecipare al No B. Day non convince gli altri esponenti dell’opposizione. Il più duro di tutti è stato Di

Pietro che ha esortato il segretario del Pd a “non fare il primo della classe” e a partecipare alla manifestazione. Il segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero, invece, invita Bersani a “non fare il pesce in barile”. Mentre Oliviero Diliberto gli chiede: “Perché fare due manifestazioni a distanza di soli sette giorni l’una dall’altra?”

NOI SIAMO I LINK CONTRO B. Quelli del No B. day sono arrivati a 330mila di Federico Mello

bbiamo tradotto l’indignazione generale in una pagina Facebook”. Solo gli organizzatori del No Berlusconi Day alla loro prima conferenza stampa, ieri mattina a Roma, in un bottega del Commercio equo e solidale. Si presentano per la prima volta in pubblico: “Si è creata un'opinione pubblica 2.0 – dicono – persone che si mettono in Rete e sono capaci di influenzare l'agenda politica e mediatica”. Sono ragazzi giovani e dalla facce normali, con loro anche Gianfranco Mascia, il fondatore dei comitati Bo.Bi, “Boicotta il Biscione”. Mascia lanciò i suo comitati all'indomani della discesa in campo di Berlusconi, chiedendo ai cittadini di non guardare i canali Mediaset e di non comprare i prodotti che queste pubblicizzavano: “Ce ne sono ancora una cinquantina in tutta Italia”. Se ci fosse un premio per il cittadino più antiberlusconiano Mascia sarebbe l’uomo da battere: è da 15 anni in prima linea in ogni battaglia, girotondi compresi. “Questa è una protesta diversa, una 'iniziativa digitale' – dice al Fatto Quotidiano – in primo luogo perché i girotondi raccoglievano persone in gran parte deluse dalla sinistra. Questo No B. Day è diverso: questi ragazzi non hanno mai fatto politica”. Le differenze sono anche comunicative: “C'è Internet soprattutto, che adesso è esploso. E quindi non c'è un comitato centrale, un gruppo ristretto di persone che lancia una proposta raccolta poi dagli altri. Questa è una mobilitazione ‘molti a molti’ con migliaia di persone che

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fanno le cose insieme, con un senso ma in maniera spontanea”. Spontaneismo e organizzazione. In effetti questo è lo scivolosissimo sul quale i ragazzi del No B. Day sono riusciti a tenersi in equilibri fino ad adesso. Emerge chiaro anche dalla conferenza stampa. Sono presenti alcuni cronisti della carta stampata, le telecamere della 7 e la televisione nazionale giapponese “Stiamo seguendo i processi a Berlusconi”: evidentemente non esiste un Minzolini con gli occhi a mandorla. Prende la parola Massimo Malerba, un ragazzo di Catania che nella vita è l’impiegato. “Ringraziamo la stampa democratica – esordisce – che ha raccontato a dovere l'evento. Non ringraziamo il Tg1, il Tg2 e tutti i telegiornali che sostengono fatti non veri. Ovvero che questa manifestazione è stata lanciata dai partiti: da Rifondazione e dall'Italia dei valori. Non è vero”. Intanto, una web-cam riprende in diretta e rimanda tutto in Rete. In tempo reale vengono pubblicati gli aggiornamenti sulla pagina Facebook dove tutto è cominciato (gli iscritti sono arrivati a

Immagini di una manifestazione (FOTO ANSA)

I pullman sono arrivati a 400 e le donazioni a 7000 euro, con una media di 11 euro 330.000). Dal Web arrivano domande e proposte. “Viòla contro chi vìola” lo slogan più gettonato. Viola come il colore scelto dai manifestanti che indossano sciarpe, o giacche, o semplici fiocchi intorno al polso. “Noi non ci occupiamo di teoria istituzionale – aggiunge Massimo – non ci interessano le conseguenze delle dimissioni di Berlusconi. Noi chiediamo che lui si dimetta e si faccia processare. Ancora di più alla luce delle nuove notizie su possibili coinvolgimenti con la mafia”.

“Anche se questo movimento che è nato da sé, continuerà, come libera forma di mobilitazione di cittadini”. Parlano di “link” di collegamenti che nell'ipertesto Internet collegano le pagine tra loro. “Così siamo nati. Siamo link tra persone e associazioni”. I pullman confermati sono 400 e le donazioni sono arrivate a 7000 euro, con una media di 11 euro a offerta. “Tutto raccolto su noberlusconiday.org e su Facebook” conferma Max Mannino, improvvisatosi tesoriere. Da qui ai prossimi giorni, fino al 5 dicembre, lanceranno delle “viola-azioni”, delle iniziative di “viral marketing” per tenere alta l'attenzione sulla manifestazione (“ne vedrete delle belle” promettono). Intanto, così come successe per la bandiera della pace, hanno invitato tutti ad

www.ilfattoquotidiano.it

VERSO 50.000 ADESIONI Sono oltre 47.000 le adesioni dei lettori all’appello “Adesso basta” contro le leggi ad personam lanciato del nostro giornale. Continuate ad aderire sul nostro sito.

VIOLANTE E L’IMMUNITA’, SCELTA DI TEMPO SFORTUNATA RILANCIA IL DIALOGO NEL GIORNO DELL’INVETTIVA DEL PREMIER. TENAGLIA E ORLANDO: “NON È MOMENTO” di Luca Telese

edi alla voce dialogo”. Si può es“V sere più sfortunati del povero Luciano Violante? Appena insediato sullo scranno di nuovo responsabile problemi istituzionali del partito democratico, l’ex magistrato aveva fatto le cose in grande. Siccome lo schema

IMITAZIONI

maestro è sempre quello della grande riforma, e il sogno una nuova bicamerale, ce l’aveva messa tutta. Dalle colonne de La Stampa, con una intervista a Antonella Rampino, l’ex presidente della Camera (da tempo specializzato nelle aperture all’avversario) aveva gettato il cuore oltre l’ostacolo, offrendo un ramoscello d’ulivo al Pdl: “Do-

di Sandra Amurri

PRONTO SILVIO? ABBIAMO FATTO TUTTO eri Marcorè, alias Niccolò Ghedini al telefono con Silvio Berlusconi, mercoledì sera durante Parla con me, è un vero e proprio attentato alla vita. Il rischio di morire dalle risate, seppure amare, è altissimo: ”Pronto? Sì, sì, abbiamo risolto tutto sì, sì, stiamo… ma non c’è più posto, abbiamo fatto tutto quanto: detassato il falso in bilancio, abbiamo tolto le tasse di successione e sui grandi patrimoni, abbiamo fatto il lodo Schifani, il salva Rete Quattro, il salva calcio, condoni vari, la salva Cirami, Cirielli cosa dobbiamo fare di più? Quella casella è tutta piena. Ah! anche lo scudo fiscale abbiamo fatto”. Se Neri Marcorè nelle vesti di Ghedini è

N

appendere un drappo viola alle proprie finestre. “Stamparete dei manifesti?” chiede qualcuno. Non ci pensano nemmeno: “No, perché specare carta e soldi? Da giorni abbiamo pubblicato il materiale sul sito. Invitiamo tutti a stampare e diffondere il

materiale nelle scuole, nelle fabbriche, sugli autobus e sulle panchine”. Il percorso è già deciso. Da Piazza della Repubblica, passando per via Sistina, si arriverà in Piazza del Popolo. Stanno facendo di tutto per collegarsi, in diretta, il pomeriggio del 5 dicembre, con i No B. Day che si svolgeranno in mezzo mondo. “Ha aderito anche Daniele Silvestri” dice Sara De Santis, un'attrice trentenne che ha raccolto adesioni di artisti e uomini di cultura. Il cantante romano si unisce, tra gli altri, a Monicelli, Vergassola, Ulderico Pesce e l'europarlamentare del Partito dei Pirati Amelia Anderdotter. Dal palco né politici né volti noti. Solo società civile e artisti. “Per difendere la giustizia e la costituzione”. Giulietto Chiesa, in sala, propone di difendere anche al magistratura dagli attacchi della politica. “Stiamo pensando anche a questo, un magistrato sarà sul palco”. Non lo smettono di ripetere: “Stiamo facendo una cosa nuova, in anticipo rispetto al mondo intero”. Manca poco per avere la conferma più importante, quella dalla piazza. “E tutto questo è dedicato anche a loro” scrivono su Facebook: è la didascalia di una foto con Falcone e Borsellino. Il post con più consensi sulla loro pagina.

corrosivo, in quelle di se stesso è altrettanto duro. “Io al posto di Ghedini gli consiglierei una legge ad personam risolutiva e chiara che sancisca, una volta per tutte, che è un cittadino al di sopra della leggeNulla da dire contro Di Bella, ma denuncia: “Il punto sono le ragioni che hanno portato alla sostituzione di Ruffini, un direttore che funzionava. Visto che vige la regola del mercato, come mai in questo caso si è fatta un’eccezione? Per soddisfare la voglia di egemonia di Berlusconi?“

Un’immagine di Neri Marcorè che imita Nicolò Ghedini durante il programma Parla con me

vrebbe essere la Consulta a decidere sulle autorizzazioni”. Proposta affascinante, giustificata in modo alto: “Non dobbiamo risolvere il problema specifico del presidente del consiglio, ma porre rimedio alle spinte autodistruttive del sistema politico italiano”. Meraviglioso. Altra chiosa: “Magistratura e politica devono trovare forme di leale collaborazione”. Perfetto. La sfortuna di Violante, però, ha voluto che con provvidenziale tempismo, proprio lo stesso giorno, Berlusconi abbia fatto sentire la sua voce. E, a quanto pare, non per raccogliere questa corrispondenza di amorosi sensi: “E’ in atto un tentativo - ha tuonato - di far cadere il governo condotto soprattutto dalla magistratura che ha preso una deriva eversiva. Un tentativo - ha aggiunto il Cavaliere - che porta il Paese sull'orlo della guerra civile”. La leale collaborazione non sembra a portata di mano. Problema: chi lo dice a Violante? Domanda: cosa ne pensano gli altri esponenti del Pd che si occupano di giustizia? Il primo da sentire, ovviamente e Lanfranco Tenaglia, ex ministro ombra del governo voluto da Veltroni. “Intendiamoci - esordisce - Violante non dice nulla di sbagliato, discutere di immunità parlamentare non è affatto un tabù”. Però... “Però pensare che questo si possa fare fuori da un disegno di com-

plessiva riforma mi pare improprio e sbagliato”. Quindi Violante sbaglia? “Non voglio dire questo. Tuttavia...”. Cosa? “Tuttavia è anche vero che, in passato, i voti della Camera hanno prodotto un sostanziale passaggio dall’immunità alll’impunità dei politici”. Conclude Tenaglia: “Sono un po’ pessimista, se devo essere sincero, sulla possibilità che in questo parlamento, e in questo momento, anche alla luce di quello che dice Berlusconi, si possa arrivare a una riforma condivisa come quella che auspica Violante”. Passiamo ad Antonio Orlando, astro emergente del gruppo dirigente del Pd, neo responsabile giustizia del partito: “Vede, quello di Violante è un ragionamento che in astratto è assolutamente convincente”. In astratto? “Sì aggiunge Orlando - si può discutere degli status in un quadro complessivo degli assetti istituzionali....”. Pero? “Però mi pare che in questo momento non ci sia nessuna discussione che si possa avviare su una possibile riforma, anzi”. Anzi? “Non è che si possa fare una revisione della Costituzione per risolvere il problema di un solo processo. Non si può dialogare mentre Berlusconi parla di golpe”. Quindi Violante sbaglia? “No, per carità. Il senso è condivisibile. Ma non ora”. Traduzione: Violante in teoria non sbaglia, ma in pratica sì: dialogo ma-ancato.


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“Cielo” e la strategia del contrattacco del gruppo di Murdoch

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GUERRE MEDIATICHE

l primo canale gratuito riferibile a Sky Italia è nato, si chiama “Cielo” e apre la concorrenza con la tv generalista. “Non manderemo fallita Mediaset, nel breve periodo”: scherza Gary Davey, il direttore di “Cielo”, che inaugura l’ingresso nel nuovo mercato del digitale terrestre di News Corporation, ossia di Rupert Murdoch, già

leader del mercato satellitare a pagamento con Sky. Il nuovo canale, che andrà in onda sul digitale terrestre a partire dal 1 dicembre, competerà con Rai, Mediaset e La7, in quanto avrà in chiaro, e gratis, molti dei contenuti che su Sky sono a pagamento: film, serie tv (da “Life on Mars” a “24”), format italiani (come “Boris” e “Vuoi ballare con me”) e anche il

telegiornale Sky Tg24, con quattro edizioni giornaliere. Cielo si propone di essere un canale giovane: “Pensiamo a un target dai 18 ai 35 anni – ha detto Davey a Roma durante la conferenza stampa di presentazione – vogliamo entrare nell’affare dei quattro miliardi di pubblicità che ci sono nel mercato tv italiano”.

“BERLUSCONI VS BERSANI IN TIVÙ” COSÌ SKY SFIDA MEDIASET E RAI L’ultima mossa nella guerra tra digitale e satellite

Il fermo immagine dello spot di Sky Tg24

di Beatrice Borromeo

e Silvio Berlusconi pensa di vincere facilmente la guerra con Sky, sta sottovalutando la squadra di Rupert Murdoch. L’ultima mossa della televisione satellitare, oltre ad avere obiettivi commerciali, si annuncia politicamente fastidiosa: Sky ha lanciato una campagna per chiedere un confronto televisivo tra il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che si è già detto disponibile, e Berlusconi. L’idea è del direttore di Sky Tg24, Emilio Carelli, ma è stata caldeggiata anche dall’amministratore delegato Tom Mockrid-

S

ge. Negli spot che passano in questi giorni si chiede ai leader di confrontarsi su lavoro, economia e sicurezza. Scorrono le immagini dei grandi duelli televisivi che in tutti i paesi europei e negli Stati Uniti sono abituali, come dire: se davvero si vuole una politica che parli di politica (e non di “gossip”), ecco il microfono. Berlusconi, che non ama i dibattiti su cui può esercitare poco controllo, non gradirà l’offerta. Tanto più se si pensa che dall’ultimo confronto con Romano Prodi, a “Matrix” di Enrico Mentana, era uscito sconfitto. L’iniziativa, che ha un evidente risvolto po-

litico, in azienda viene motivata anche con logiche commerciali: in Italia manca l’offerta di questo tipo di dibattiti e Sky ne approfitta. L’idea è di creare un evento mediatico e far salire gli ascolti. La tecnica è la stessa sin dall’inizio: manca un telegiornale fuori dall’influenza della politica? Nasce Sky Tg24. Non perché a Murdoch interessi l’imparzialità (la sua Fox americana è considerata il più fazioso dei canali), ma perché in Italia non c’è nessun altro che la offra. Questo, in termini di abbonamenti, premia. E Sky, oggi, ne ha bisogno. Perché da quando è cominciata quella che anche Pier

Silvio Berlusconi, numero due di Mediaset, ha definito “quasi una guerra”, gli abbonamenti sul satellite, che prima erano in crescita stabile, si sono bloccati a quota 4 milioni e 800 mila. A beneficiarne, soprattutto, è Mediaset, che offre sul mercato la principale alternativa alla tv satellitare, cioè le carte prepagate Premium. Ma Sky conta di chiudere il 2010 raggiungendo i 5 milioni di abbonati, grazie alle Olimpiadi invernali e ai Mondiali di calcio che si è assicurato in esclusiva. Tutto è cominciato nel novembre di un anno fa, quando il governo, adeguandosi alla normativa europea, ha deciso il raddoppio dell’Iva sugli abbonamenti alla pay tv dal 10 al 20 per cento. Da quel giorno, dicono a Sky, “abbiamo indossato l’elmetto”. E la guerra, infatti, è continuata: Mediaset si è rifiutata di trasmettere gli spot Sky comportandosi, secondo la pronuncia (del 26 ottobre) della prima sezione civile del tribunale di Milano, in maniera anticoncorrenziale. Poi c’è il problema strutturale dell’Auditel, su cui si è duramente espresso, sei mesi fa, Mockridge, denunciando che il termometro degli ascolti è un monopolista in mano ai suoi concorrenti: “Per garantire al mercato un arbitro affidabile è fondamentale che tutte le emittenti insieme scendano sotto il 50 per cento di Auditel”, mentre ora ne controllano i due terzi. In base agli ascolti, vengono investiti ogni anno miliardi di euro in pubblicità, ma la rilevazione dello share è gestita da chi vende spazi pubblicitari e non dagli inserzionisti che li comprano,

cioè i soggetti più interessati all’accuratezza della misurazione. Se quello sull’Auditel è un conflitto latente, la battaglia sul digitale terrestre è in pieno svolgimento: ora Mediaset può veramente competere col satellite, mettendo a disposizione un’ampia offerta di canali mirati sugli interessi del singolo spettatore, cosa che prima riusciva a fare solo Sky. Subito è arrivata la risposta del gruppo di Murdoch, la digital key: una chiavetta Usb che permetterà di vedere tutti i canali non a pagamento trasmessi sul digitale terrestre usando il decoder Sky. Controffensiva di Fedele Confalonieri, presidente Mediaset: un esposto all’Antitrust per bloccarla. Mediaset, come la Rai, ha cominciato da mesi a criptare i suoi programmi sul satellite in vista del passaggio a Tivù-Sat (piattaforma satellitare alternativa dei canali generalisti), più per spingere gli abbonati Sky a lasciare il satellite che per ragioni strettamente economiche. I fedelissimi di Murdoch parlano di una “concorrenza sleale che non ha pari all’estero”, di un “nemico comune composto dal governo, da Mediaset e dalla Rai” che il gruppo australiano è intenzionato a fronteggiare. Anche se ufficialmente James Murdoch e Pier Silvio Berlusconi comunicano solo a cannonate, proseguono sottobanco le trattative nell’ufficio del vero “ministro dei media italiani”, come è chiamato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. Sky, infatti, è pronto a mediare e a chiudere le ostilità. Ma non certo a cedere per primo.

LE MONDE PRENDE IN GIRO IL CAVALIERE SPOPOLA IL MONDO A FORMA DI TETTA DI Emanuela Mastropietro

Parigi

na grossa tetta di gomma rosa e, sotto, la scritUimmagini ta: “Il mondo secondo Berlusconi”. È una delle forti di uno spot de Le Monde Magazine, il settimanale del prestigioso quotidiano francese. Realizzato da Publicis Conseil, una delle più quotate agenzie pubblicitarie d’Oltralpe, il videoclip sta circolando in rete, in particolare su Facebook, alla velocità della luce, riaccendendo ancora una volta le polemiche sulle conseguenze internazionali dei comportamenti di Silvio Berlusconi. Donne e sesso: è tutto quello che evoca, per i francesi, la figura del presidente del Consiglio italiano? “In teoria, questo video non avrebbe dovuto vederlo nessuno, né in Francia né altrove – spiega, un po’ sorpreso, Didier Pourquery, caporedattore de Le Monde magazine. E perché? “L’estate scorsa, per rilanciare il nostro giornale dopo averne rivoluzionato la formula, avevamo commissionato una campagna pubblicitaria

a Publicis Conseil. A fine agosto, l’agenzia ci sottopose diversi videoclip, tutti ispirati alla forma sferica per evocare il globo terrestre e quindi Le Monde”. Silvio Berlusconi era il protagonista di una delle proposte. “In quel momento – ricorda Didier Pourquery – anche in Francia si parlava moltissimo dello scandalo delle escort e delle feste a Villa Certosa; l’agenzia pubblicitaria aveva cavalcato l’attualità e giocato sull’associazione d’idee. Ma la direzione de Le Monde non la ritenne una buona idea. L’immagine venne giudicata un po’ troppo osé e quindi si decise di scartarla. In Francia, non è mai passata in televisione. La campagna pubblicitaria si è orientata verso altri temi”. Ora l’immagine spopola. “Io avevo trovato l’idea piuttosto divertente, ma, devo riconoscerlo, anche un po’ cattivella. Soprattutto riduttiva, qualunque cosa si pensi del presidente del Consiglio italiano”. Ma se è stato rifiutato, perché il clip ora circola su Internet? “Questo proprio non lo so. Non sarebbe

dovuto uscire dalle mura dell’agenzia pubblicitaria”. Invece, il tam-tam degli internauti ne ha fatto uno dei video più gettonati del momento. Accanto alla visione berlusconiana del pianeta, lo spot propone anche la Terra secondo l’ex presidente George W. Bush (divisa tra buoni – gli americani –, e i cattivi, quasi tutti gli altri) e quella secondo la mafia (un globo trafitto da un proiettile). L’obiettivo dell’agenzia era quello di mostrare con ironia la diversità dei punti di vista e delle realtà soggettive, sottolineando implicitamente il pluralismo della rivista francese. Ieri, a Publicis, nessuno ha voluto commentare il successo del clip su Internet né tentare di spiegare come il video sia finito su Facebook e su parecchi blog francesi. La situazione politica italiana appassiona l’opinione pubblica d’Oltralpe: ancora ieri, sul sito d’informazione Rue89, un lungo articolo era dedicato al problema della libertà di stampa e dell’isolamento degli intellettuali italiani.

IL FATTO POLITICO dc

Verso il predellino di Stefano Feltri

e esternazioni di Silvio Lpossono Berlusconi di ieri essere derubricate a ennesimo sfogo contro i giudici o interpretare come l’atteso “predellino”. Durante l’ufficio di presidenza del Pdl che si è riunito ieri (uno degli organismi di coordinamento del partito che si riunisce di rado, ma sempre in momenti decisivi), Berlusconi ha detto di avere “l’impressione di una guerra civile in atto”, espressione poi in parte smentita. Secondo il presidente del Consiglio “è in atto un tentativo di far cadere il governo condotto soprattutto da una parte della magistratura che ha preso una deriva eversiva”. a giorni era atteso un Dcioènuovo “predellino”, un altro discorso come quello – almeno in apparenza improvvisato – con cui nel 2007 Berlusconi annunciò la nascita del Pdl e lo scioglimento di Forza Italia dal predellino della sua auto. Il nuovo “predellino”, secondo le attese, sarebbe dovuto sfociare in un ricorso alle urne, una chiamata degli elettori a sostenere con il voto Berlusconi per riaffermare la supremazia del consenso popolare sui processi penali. Lo sbocco, almeno in una prima fase, sembra essere stato un altro. La strategia è di proseguire con l’approvazione del processo breve, che serve a risolvere i problemi giudiziari più immediati, e in parallelo una riforma costituzionale per reintrodurre il lodo Alfano. “La riforma della giustizia e' assolutamente necessaria”, ha ribadito ieri Berlusconi, con un richiamo alla sacralità del programma che serve come monito ai dissenzienti. Chi non ci sta è fuori. l Partito democratico IFinocchiaro, reagisce con Anna senatrice, secondo cui “l’esito dell'ufficio politico del Pdl, unito alle presunte affermazioni, poi smentite, di Berlusconi, sono di una gravità allarmante”. Alla presentazione di un libro, la presidentessa del Pd Rosy Bindi dialoga con il presidente della Camera Gianfranco Fini: “Ha suscitato alcune attese e noi ci aspettiamo che vengano realizzate e in questo senso è un buon segno che sia stata calendarizzata la legge sulla cittadinanza”. Prove di feeling, nel caso il discorso di ieri fosse davvero un nuovo “predellino” pre elettorale.


Venerdì 27 novembre 2009

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Quando furono condannati ex dirigenti Goodyear di Latina

i chiamavano mister 5%. Due sindacalisti che prendevano mazzette alla Goodyear di Cisterna di Latina in cambio dell’impegno a starsene buoni. E a non rivelare che nella fabbrica di pneumatici gli operai morivano uno dopo l’altro. Di asbestosi e mesotelioma. Il sistema ideato per far arrivare “il compenso” era ingegnoso: i vertici pagavano

il medico aziendale e questi versava una percentuale, il 5% appunto, ai due rappresentanti dei lavoratori. A raccontare tutto durante il processo che in primo grado si è da pochi mesi concluso è stata proprio la vedova del medico. Non se ne saprà molto negli anni a venire, il filone di indagine è stato archiviato. Ma per la morte di 26 ex operai stroncati da tumori

QUELLE FIBRE CHE AFFOGANO I POLMONI

di Stefania Divertito

è un triangolo immaginario che lega Sestri Ponente, Castellammare di Stabia e Monfalcone. Hanno in comune il mare, i cantieri navali, e l’amianto. Lo stabilimento di Monfalcone, con oltre 750 mila metri quadrati, 205 mila dei quali coperti, è il più grande tra i cantieri navali, con un bacino da 350 per 56 metri, 2 gru a cavalletto da 400 tonnellate ciascuna e banchine per 1.260 metri. Vi lavorano 1.930 persone. C’è la storia della cantieristica navale, qui. Lo penso, e ne sento l’emozione mentre sto varcando il cancello principale. Il 4 giugno 1983 fu varato a pochi metri da qui l’incrociatore Garibaldi, allora la portaerei in servizio più piccola del mondo. Ma non riesco a non considerare che oltre alla storia ufficiale passa di qui un’altra storia, decisamente meno gloriosa, che non conosce celebrazioni né memorie ufficiali ma è raccontata da centinaia di testimonianze e di atti eroici. Basta solo cercare nel posto giusto. Monfalcone, provincia di Gorizia, Friuli Venezia Giulia. Credo che sia la più grossa strage da amianto in una zona così circoscritta. Sicuramente la più sottovalutata. Un omicidio di massa che continua al ritmo di 25 malati l’anno, con una diagnosi, il mesotelioma pleurico, che è una sentenza di morte. Una fibra di amianto impiega 24 ore a scendere un metro di altezza. E anche quando ti è entrata dentro, nei tessuti della pleura, può impiegare trent’anni prima di risvegliarsi. Poi ti uccide in meno di un mese, ti uccide annegandoti nel liquido dei tuoi stessi polmoni che cresce a dismisura, e non c’è catetere al mondo che te lo possa drenare via con la stessa rapidità con cui si forma. Lo sanno tutti che va così, a Monfalcone. Perché non c’è famiglia, in questa company town, nata e cresciuta nel progresso e nell’apparente benessere, che non conti almeno un morto per colpa dell’amianto. E l’esser stati “canterini”, come qui chiama-

L

SALUTE

C’

Al via due processi per i morti di amianto a Monfalcone e Torino no i lavoratori della fabbrica che costruisce le navi più grandi e più belle del mondo, talvolta non è neppure il motivo principale. Si sono ammalati semplici cittadini, e le mogli, che lavavano a casa le tute da lavoro. Qualcuno dovrà pagare per tutto questo, si mormora all’edicola, quando il giornale locale strilla in prima pagina l’ennesimo morto di amianto. Ma tra la gente ho sentito soprattutto rassegnazione. Anche se qualcosa potrebbe cambiare: il primo dicembre, davanti al giudice monocratico di Gorizia, si aprirà finalmente – dopo anni di indagini giudiziarie – il processo per omicidio colposo per una ventina di dirigenti della ex Italcantieri di Monfalcone. L’accusa riguarda la morte di 21 operai dello stabilimento navalmeccanico. È il troncone di indagine che comprende i fascicoli avocati lo scorso anno dal procuratore generale della Corte d’appello di Trieste, Beniamino Deidda, dopo essersi reso conto del caos piombato negli uffici giudiziari di Gorizia: una mole di lavoro tale che avrebbe affossato qualsiasi procura. Tra il 1979 e il 2008, nella zona intorno ai cantieri monfalconesi sono stati segnalati circa 900 casi di malattie correlate all’amianto. Tra tutti, la procu-

ra generale di Trieste ha scelto di trattare solo i 42 casi di mesotelioma, e non di altri tipi di malattie professionali, quelli che davano garanzia di arrivare in porto senza prescrizione e quelli che sembravano più difficili dal punto di vista delle indagini. Se non ci fosse l’amianto a Monfalcone dovrebbe registrarsi un caso ogni 17 anni di mesotelio-

ma pleurico. Invece ce ne sono tra i 25 e i 30 l’anno. Più di due al mese. Ma sbaglia chi ritiene che le storie che si raccontano oggi sono figlie di un passato oscuro, ma pur sempre passato. Sono molteplici le testimonianze che riguardano quello che accade ancora oggi nei porti. Claudio Bianchi è il presidente della Lega italiana lotta contro i tumori di Gorizia: “A un

In alto, la copertina del libro di Stefania Divertito. Qui sotto, una foto d’archivio dei tetti dell’Eternit a Casale Monferrato (FOTO ANSA)

polmonari sono stati condannati in primo grado nove ex dirigenti, di cui sette in contumacia. Si tratta per lo più di italo-americani che non trascorreranno mai nemmeno un giorno in galera. “In fabbrica si lavorava come nell’Ottocento – è la testimonianza in aula dei lavoratori – stavamo alle mescite, a contatto con le fibre cancerogene, senza alcuna protezione”.

certo punto il porto di Napoli è stato scelto come terminal del trasporto di amianto dalla Repubblica popolare cinese, che è uno dei maggiori produttori mondiali, ai paesi dell’area mediterranea” racconta. “Ora: è stato chiesto come mai è possibile che dopo la legge del 1992 delle navi straniere contenenti amianto arrivino a un porto italiano e da qui poi ripartano per altre destinazioni. È stato risposto che si tratta di aree poste al di fuori dei confini legali italiani. Insomma secondo il diritto marittimo non arrivano in Italia, in teoria, anche se arrivano in Italia. Questa è una delle mille vie attraverso le quali i lavoratori e tutti noi possiamo essere esposti all’amianto anche dopo la legge del 1992”. Ma questo è solo la prima tappa di una stagione importante per tutti coloro che combattono contro la fibra killer. Il 10 dicembre inizierà a Torino quello imbastito dal pm Raffaele Guariniello contro i vertici della Eternit. Le udienze preliminari iniziarono il 6 aprile. Fu il giorno in cui l’Italia tremò. La notizia del terremoto in Abruzzo piombò come una scarica elettrica tra le migliaia di persone assiepate davanti al tribunale di Torino dove stava nascendo la più imponente e complicata causa di lavoro. Quella collettiva per 2.889 vittime dell’amianto, contro il magnate elvetico Stephan Schmidheiny e il barone belga Jean-Louis de Cartier. I signori dell’Eternit. Hanno chiamato così la loro fabbrica di fibre metalliche.

Eternit. Dal latino “aeternitas”, eternità. Il termine, nel suo significato etimologico, simboleggiava per gli artisti medievali l’azione di “costruire”. Il colosso svizzero è sbarcato a Casale Monferrato nel 1906. In quella terra contadina ha portato lavoro e un po’ di benessere, ma ha lasciato l’impronta indelebile della devastazione. E non solo a Casale, ma anche a Cavagnolo, Bagnoli, Rubiera in Emilia. Però è a Casale Monferrato che si trova l’epicentro di tutta la vicenda. Il 6 aprile, tutta la mattinata fu consumata da questi due pensieri. I magnati alla sbarra e le vittime del terremoto. Il giorno dopo sui giornali quasi non ci fu spazio per raccontare la portata della prima udienza del processo Eternit. Peccato. Secondo i pm torinesi i due imputati sono colpevoli di disastro doloso e omissione volontaria di cautele contro le malattie professionali nelle quattro sedi italiane della loro fabbrica. Molte mogli di dipendenti si sono ammalate probabilmente per aver lavato in casa le tute dei mariti. Secondo la Procura, i due proprietari sarebbero stati a conoscenza del problema, ma non avrebbero preso provvedimenti adeguati. Dalle carte degli inquirenti si legge che per decenni i dipendenti e gli abitanti delle zone in cui l’Eternit aveva sede sarebbero stati esposti a un “disastro” provocato dalla dispersione nell’aria delle fibre d’amianto. La sostanza, lavorata dall’azienda per pavimentare strade e cortili o per coibentare i sottotetti, sarebbe stata trasportata ovunque senza le necessarie misure di sicurezza. Il 22 luglio il gup Cristina Palmesino ha rinviato a giudizio i due oramai anziani imputati per disastro doloso e rimozione volontaria di cautele contro gli infortuni. Nell’aula c’erano 140 cittadini di Casale Monferrato che alla lettura del dispositivo hanno applaudito, dando un segnale inequivocabile alle decine di persone che attendevano fuori dall’aula. Il primo passo verso la giustizia è stato compiuto.

RU486, il Pdl ci prova persino con i cavilli di Paola

Zanca

ominciamo col dire una cosa. Ccommercializzazione, Non esiste nessuno stop alla perché la RU486 in commercio non ci sarà. Che sia chiaro: l’aborto farmacologico non ha nulla a che vedere con il “fai-da-te”, come lo chiama Maurizio Gasparri. Non si va in farmacia, si inghiotte la pillola e passa la paura. Sarà un medico, verificata lo stato di gravidanza e lasciati trascorrere i sette giorni concessi per eventuali ripensamenti, a prescrivere il farmaco e seguirne il decorso. Vincenzo Spinelli, respon-

sabile dei Consultori AIED di Roma è allibito: “Stupisce come un autorevole organo del Parlamento travisi il senso delle conclusioni di un organo tecnico-scientifico come l’AIFA che si è pronunciato per l’inserimento della RU486 esclusivamente nei protocolli ospedalieri, in rigorosa coerenza con lo spirito e il dettato della legge 194”. “I criteri che hanno determinato il voto della Commissione – aggiunge Spinelli – non hanno alcuna motivazione scientifica e medica, ma rispondono solo a una scelta ideologica e politica”. Idea del centrodestra che ieri mattina, dopo una seduta notturna, ha approvato il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla RU486. In pratica “auspica una richiesta di arbitrato che riapra la discussione di merito sul rapporto rischi/benefici e ponga in essere una nuova istruttoria e delibera-

La commissione Sanità del Senato riscontra irregolarità nella procedura autorizzativa, ma non sa dire quali

zione dell’Emea”. L’Emea è l’agenzia europea per il farmaco: la commissione Sanità del Senato il suo intervento lo può solo auspicare, visto che non ha nessun potere vincolante nei confronti della massima autorità comunitaria in materia di valutazione dei medicinali. È questo, di tutta l’ingarbugliata vicenda sull’aborto farmacologico, che fa più specie: che la maggioranza di centrodestra si senta autorizzata a mettere il becco in questioni su cui non ha nessun potere. Per farlo, Pdl e Lega si sono appigliati a un’audizione, quella dell’avvocato Vincenzo Salvatore, responsabile dell’ufficio legale dell’Emea. Salvatore non ha fatto altro che spiegare una legge che tutti già conoscevano: la direttiva comunitaria 83 del 2001, ovvero il codice comunitario sui medicinali. La norma prevede che nel caso di medicinali a fini contraccettivi o abortivi valgano le “legislazioni nazionali in questione”. Tradotto banalmente, non si può vendere

l’RU486 in un Paese in cui l’aborto è vietato. Ma in Italia non solo interrompere una gravidanza è possibile dal 1978, ma è la stessa legge 194 a stabilire che è auspicabile la promozione di “tecniche più moderne, più rispettose dell'integrità fisica e psichica della donna”. Tant’è che noi, nella legge che recepisce la direttiva comunitaria (Dlgs 219/2006), quella clausola sui farmaci anticoncezionali e abortivi non l’abbiamo nemmeno scritta. Invece per la commissione Sanità quel mancato parere richiesto al governo dovrebbe invalidare tutta la procedura di immissione in commercio della RU486. Peccato che nemmeno il presidente della commissione, il Pdl Tommassini, abbia potuto citare a suo sostegno qualche numero di provvedimento. Dice solo che sono state riscontrate “irregolarità nella procedura autorizzativa”. Quali, non lo sa nemmeno il ministro che ora è chiamato a esprimersi sulla questione. Ieri mattina la senatrice radicale

Donatella Poretti ha incontrato Sacconi nei corridoi del Senato. Gli ha chiesto in quale legge sta scritto che il governo deve dare un parere preventivo all’Aifa. Lui si è limitato a dire che si tratta della conclusione a cui è giunta la commissione. Finora (il parere dell’Aifa è del 30 luglio scorso) queste “irregolarità” non erano emerse, probabilmente perché, dice la Radicale Poretti “manca il supporto scientifico”. Le fa eco il senatore Pd Ignazio Marino: “Non capisco come una Commissione che ha compiti legislativi abbia deciso di trasformarsi in uno strumento per giudicare sperimentazioni cliniche già effettuate”. Forse per capire tutto, servono le parole di Francesco Casavola, presidente del Comitato di bioetica: “Nell’ambito delle ricadute nell’immaginario collettivo di ogni prodotto del progresso scientifico, potrebbe apparire più invogliante l’assunzione di una pillola rispetto alla complessità derivante dalla metodica dell’aborto chirurgico”.


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Venerdì 27 novembre 2009

MISTERI

MARRAZZO Chi lo voleva rovinare?

NAPOLI

ARRESTATO IL CONSIGLIERE TRASFORMISTA

A

Una regia dietro l’affaire del Governatore: iniziano a parlarne i difensori dei carabinieri in carcere Brenda e la sua casa in via Due Ponti (FOTO ANSA) di Rita Di Giovacchino

lla fine la tesi del complotto fa capolino in questa sarabanda di presunti delitti e cadaveri veri, pusher, cocaina, trailer di film porno e telecamere nascoste nelle alcove di via Due Ponti. Investigatori dell’una e dell’altra sponda minimizzano, ma al primo piano della Procura sullo sfondo del caso Marrazzo qualcuno comincia a intravedere la trama di una ‘struttura deviata’. L’ambiente degradato della periferia nord di Roma, crocevia di ogni sorta di traffico, offre generosi spunti per estorsioni, ricatti e, se il ruolo politico ricoperto dalla vittima è importante, forse complotti. Definizione che sottende un intervento subdolo teso ad alterare gli equilibri politici. Proprio come è accaduto con il governatore del Lazio. Ipotesi ancora “metaprocessuale”. Così la definisce un pm. Ma che è stata del tutto respinta da Marrazzo che si è limitato a denunciare una “rapina” compiuta da pubblici ufficiali, ma ha negato con forza ogni ipotesi di ricatto. Invece, a sorpresa, di complotto cominciano a parlarne i difensori dei carabinieri in carcere. “Ho la sensazione che i carabinieri coinvolti nell' affaire Marrazzo siano stati strumentalizzati da una regia diversa. Insomma si sono ritrovati all'interno di un complotto che aveva come obiettivo politico Piero Marrazzo”, ha detto in un'intervista al La Stampa l'avvocato Bruno Von Arx che difende Luciano Simeone, il più giovane dei militari coinvolti in questa faccenda. Pensa davve-

A

ro che ci troviamo di fronte a uno scenario degno di Le Carré? “Le mie parole sono state un po' enfatizzate, penso quello che pensano tutti”, cerca di minimizzare Von Arx penalista napoletano con ascendenze asburgiche che in realtà non smentisce affatto. “Una qualche regia c'è stata, credo piuttosto all'insaputa dei carabinieri intervenuti a via Gradoli”. In particolare del suo assistito, che lavorava alla compagnia Trionfale da pochi mesi. Molti dei quali trascorsi in malattia per un tumore linfatico. Era tornato in servizio alla fine di maggio e il 3 luglio è incappato nell'operazione Marrazzo. Spiega Von Arx: “Erano Tagliente e Testini, trasferiti al Trionfale dalla caserma Tomba di Nerone, che opera nella zona Cassia e Flaminia ad avere consuetudine a trattare i trans. Non a caso erano stati avvertiti da Cafasso, un loro confidente. Non stia a sentire Natalie in televisione: la droga era lì nel piatto e il pusher ora morto si è imbucato nell'appartamento e ha girato il video”. Ovvero Cafasso, un confidente dei carabinieri molto intimo sia di Brenda che di Natalie, amico del maresciallo Tagliente, uno che navigava tra i viados come un pesce nell'acqua. E in possesso di segreti che potevano “rovinare mezza Roma”. Segreti che puntualmente riferiva ai carabinieri. Siamo in presenza di schedature? “Inevitabile, questo è

l'humus del caso Marrazzo”, ribadisce l'avvocato Von Arx. Il fatto è che nessuno dei protagonisti di questa storia racconta la verità. Secondo un alto ufficiale dei carabinieri, che ha avuto un ruolo importante nell'indagine che ha portato all’arresto degli ‘infedeli’, la chiave di tutta la vicenda sta nella rivalità tra Brenda e Natalie. Erano state grandi amiche, poi avevano litigato. A causa di Marrazzo? Forse. Tra loro c'era una vera guerra dietro la quale s'intravede ancora Cafasso che continuava a frequentare entrambe. Un triangolo lacerato da interessi e segreti che finora è costata la vita a due persone e la carriera politica all'ex Governatore. Secondo le amiche di Brenda è stata Natalie, che ora si comporta da vera amica, a tirare il tiro mancino a Marrazzo. D'accordo con Cafasso, con i carabinieri e una certa Giois, un

trans molto legato a un maresciallo della compagnia Trionfale. Un sospetto non del tutto infondato, dice l'ufficiale, che apre però la strada a nuovi veleni. Ipotesi su cui soffia un vecchio amico di Brenda, anzi un ex fidanzato come ammette lui stesso in un’intervista a Novella 2000. Si chiama Giorgio T. e descrive la sua ex come la pedina di un gioco più grande di lei o, se preferite, di lui: ricattato e ricattatore, Brenda aveva collocato una piccola telecamera sopra il letto e filmava in casa i propri clienti. A dirlo è un ex spacciatore, finito più volte in carcere, ma che conosce il mercato del sesso proibito e i forti legami tra viados e carabinieri. Una testimonianza da prendere con le molle visto che ad arrestarlo un paio di volte sono stati proprio Tagliente e Testini. E che si è visto soffiare il ruolo pusher da Cafasso. Lui dice che Brenda era un confidente già dal 2006: a loro passava i filmati con i clienti importanti. Tra questi avvocati, medici e politici. Ma nella casa di via Due Ponti la telecamera non è stata trovata.

Esiste davvero un ‘manovratore’ o una struttura che ha usato a fini politici i protagonisti della vicenda?

mico della capoclan, complice delle minacce alle vittime del racket, incallito trasformista in politica, capace di passare da sinistra a destra e viceversa senza imbarazzo. É il profilo del consigliere comunale di Napoli che compare tra i 18 arrestati per le estorsioni ai danni di imprenditori e commercianti compiute dal clan Sarno, attivo nell’area est di Napoli e comuni limitrofi. Si chiama Achille De Simone, ha 69 anni, è dipendente della Regione e la sua prima elezione, da consigliere a Cercola, risale al lontano 1978. Come riferito nelle 87 pagine dell’ordinanza del Gip Antonella Terzi, che ha accolto le tesi della Dda napoletana, De Simone era in casa di Patrizia Ippolito, moglie del boss pentito Vincenzo Sarno e ‘reggente’ delle attività estorsive, quando la donna ricevette G.D.S. L’uomo voleva fondare un’associazione antiracket a Cercola ma la moglie del boss lo convocò per minacciarlo, intimandogli di comunicarle tutte le denunce che avrebbe ricevuto. L’associazione poi non si fece. Il fatto risale al 3 luglio scorso e ha indotto il Gip a scrivere parole durissime: “Autentico raccapriccio: è forse l’episodio più intriso di mentalità malavitosa, inquinato dal concorrente apporto dell’inqualificabile De Simone”. Inqualificabile secondo i magistrati, incatalogabile secondo i classici schemi ‘destra-sinistra’ della politica. De Simone infatti nel maggio 2006 viene eletto a Napoli in quota Pdci con 596 voti. Ma appena poche settimane dopo già briga per passare in Forza Italia. “Dopo un passato con la Dc, col Psdi e con Forza Italia mi sono candidato coi comunisti solo perché in quel partito ero sicuro di essere eletto”, dice. Nel Pdci in effetti si sono accorti che qualcosa non andava. E lo cacciano cinque giorni dopo il voto. “Se non avessero subito chiesto la mia testa – dice De Simone – avrei comunque intrapreso un percorso con loro. Ma mi hanno insultato”. Di qui il tentativo di tornare tra gli azzurri: “Io e mio fratello, ex consigliere a Volla, siamo da sempre vicini ai fratelli Martusciello”. Proprio questo particolare gli impedisce l’ingresso nel gruppo forzista, per il veto dei leader campani Luigi Cesaro e Nicola Cosentino: il capogruppo è stato nominato con un solo voto di scarto, l’arrivo di De Simone potrebbe alterare gli equilibri. L’ormai ex comunista va nel gruppo misto a sostenere la giunta Iervolino di centrosinistra. Nel frattempo, nel 2008 va a fare l’assessore a Cercola, in una giunta Pdl, assumendo le deleghe all’Ambiente, Sport, e Rapporti con le associazioni. Incarico dal quale si dimette nel febbraio scorso. “Vicenda tristissima che mi addolora molto, ma la mia amministrazione insieme a Tano Grasso è impegnata in un’azione antiracket molto forte” è il commento del sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino. Ma per l’Idv l’arresto di De Simone è l’ennesima goccia in un vaso già traboccato. “Troppi arresti, troppe inchieste: l’esperienza amministrativa della giunta napoletana va chiusa immediatamente” sostiene il coordinatore cittadino dei dipietristi Enzo Ruggiero. Vincenzo Iurillo

HOTEL ROMULUS, L’ULTIMA ‘STAZIONE’ DI CAFASSO E JENNIFER Una notte nell’albergo sulla salaria, accanto alla stanza dei segreti di Carlo Tecce

n rettangolo di vetri e cemento, acUtraffico canto a un cavalcavia che taglia il della via Salaria. Un posto di confine per vacanzieri tedeschi e giovani coppie in fuga. Ospiti occasionali con valigetta ventiquattr'ore, famiglie del sud che affittano un piano intero. Trenta euro per una notte, un lettone a due piazze incollato alla parete rosa, due comodini verdi, un armadio gon-

Frequentato da coppie in fuga, vacanzieri tedeschi, famiglie che affittano interi piani

fiato da orpelli barocchi, le tende macchiate. Per il telecomando serve una caparra, la televisione al plasma è piccola e nuova. L'albergo Romulus è un tre stelle di medio livello, avvolto dalle nebbie della via Salaria, cascato all'improvviso nella storiaccia di Piero Marrazzo, dei transessuali, dei balordi. Qui è morto Gianguerino Cafasso, spacciatore e protettore delle prostitute di via Gradoli. E qui nel parcheggio ugualmente rettangolare, per dieci euro, aveva parcheggiato una Renault e conservato 7 banconote da 20. Per due settimane. “Ero lì con lui quando ha cominciato a sniffare cocaina”, racconta agli inquirenti Jennifer. Il trans alloggiava con Cafasso alla stanza 406, chiusa a doppia mandata da quel mattino del 12 settembre. Dietro una porta di legno sgangherata che cigola come nei classici di Hitchcock, c'era Cafasso che dormiva da ore piegato su se stesso.

Anche quella sera aveva sniffato, non cocaina, eroina purissima vestita di polvere. Una pozione di veleno. “L'abbiamo assaggiata, io ho sentito che era amara. Ho lasciato stare. E ho acceso la tv”. É mattina, la sala sta per chiudere, Jennifer scende quattro rampe di scale per fare colazione. Cafasso è a letto, non si sveglierà più. I soccorsi in ritardo, il sopralluogo, il decesso per infarto. I proprietari cancellano la prenotazione per la notte successiva, e fanno silenzio. Poi l’esame tossicologico rivela che Cafasso non è morto per cause naturali, non perché fosse in sovrappeso e un cocainomane dalla vita sciagurata. Il silenzio diventa un'amnesia: “Chi? Non lo conosco. Cosa? Lavoro al Romulus da due giorni”. Fuori ci sono le telecamere delle tv, dentro sono infastiditi: “Mi dica, dove sono? Vado e le distruggo”. Cafasso non esiste più e al Romulus sembra non sia esistito mai. La 406 è vuota. A destra, a

sinistra, di fronte ci sono turisti spagnoli e inglesi: “Cafasso? What!”. Eppure Rino il pusher e Adriano Da Motta il transessuale avevano cercato riparo proprio qui, all’ombra dei fari della maestosa sede di Sky e di uno stabile periferico della Rai. Nel luogo di evasione dei professionisti di Roma Nord. A pochi metri, al Giocca hotel, nel ‘97 è morto un ragazzo per un festino di droga. Le puttane ci sono ancora. Ovunque. I due amanti non frequentavano la saletta con l’usurata televisione Mivar, semmai ordinavano il whisky in camera e scappavano via di pomeriggio per procurarsi le dosi. Non pranzavano nel ristorante dell’albergo, ora dismesso per ristrutturazione. Non parlavano, chiedevano le chiavi e salivano su. Avevano un computer portatile, le signore della pulizia e i gestori l'avevano notato. Non c'è più. Scomparso. Diluito nelle congetture che sfuggono alla logica dei fatti.

La stazione taxi è un angolo per disoccupati: “Non prendiamo corse. Capita proprio di rado. Chi va al Romulus ci va con l'auto”. La sbarra del cortile è sempre abbassata, ogni movimento è monitorato. La musica in sottofondo è bassa. Le casse sono nascoste tra il soffitto di stucchi bianchi, così lucenti che schiariscono il pavimento a lastroni grigi. Il bancone all'ingresso è d'un marrone antico, la spilla all'occhiello della giaccia del commesso – due chiavi decussate stile Vaticano – sono una gustosa vanità del personale. “Prego, buonasera”. E passano donne avvenenti, uomini con capelli a rasta, operai in missione, giapponesi con il pane sotto il braccio. Un accendino? “Le posso vendere questo per un euro o l'altro per 50 centesimi”. Il secondo. La riservatezza è assicurata. Partire a mezzanotte oppure dormire con la fidanzatina. Nessuna domanda. Qui dove mancano le risposte.


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CRONACHE

I SIGNORI DELLE SLOT MACHINE DEVONO RESTITUIRE I SOLDI Il Tar condanna i concessionari a pagare le penali previste dai contratti con lo Stato di Marco Serrani

l Tar ha condannato i concessionari delle slot machine: dovranno risarcire ai Monopoli una somma miliardaria per non aver pagato le penali previste nel contratto di concessione del 2003. É l’ultima pagina (almeno fino a oggi) dell’ormai famoso scandalo dei 90 miliardi di euro che, secondo la Corte dei Conti, i signori delle slot dovevano restituire allo Stato. Una vittoria clamorosa, peccato che nelle casse pubbliche, se tutto andrà bene, finiranno solo 1,6 miliardi. La storia emerge nel 2007: un procuratore coraggioso della Corte dei Conti calcola che dieci società concessionarie di slot machine devono pagare allo Stato l’equivalente di diverse Finanziarie. Il motivo? Secondo l’accusa, le società non avevano corrisposto le penali previste nella concessione. Un affare descritto per filo e per segno nei documenti del Gat della Finanza e nel rapporto di una

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commissione parlamentare (firmato tra l’altro dal sottosegretario Alfiero Grandi) a lungo ignorato: si sosteneva che le società non avrebbero pagato le penali previste dalla convenzione con i Monopoli. Si raccontava di decine di migliaia di macchinette scollegate dalla rete dei Monopoli per non pagare il Preu (il prelievo previsto per ogni giocata). Non solo. La Finanza e la commissione denunciarono l’utilizzo delle slot da parte della criminalità organizzata per lavare il denaro sporco: a Riposto (Messina), in un bar di pochi metri quadrati, sulla carta risultavano installate 27mila slot. Una montagna, calcolò la Finanza, alta come l’Etna. Ma gli investigatori e la Commissione puntarono il dito anche sulla sorprendente inerzia dei Monopoli che non avevano preteso il pagamento della penale miliardaria. Uno degli scandali più grandi degli ultimi anni, eppure la politica taceva finché non arrivarono un magistrato e gli agenti

E un apparecchio su quattro è irregolare u Una slot machine su 10 è illegale e sfugge a ogni controllo. u Una slot machine su 4 è irregolare, alterata. u Nel 2008 sono stati esaminati 43.806 apparecchi in 11.000 esercizi. u É emerso che il 23,3% degli apparecchi è irregolare. u Gli apparecchi da intrattenimento in Italia sono 312 mila di cui 115 mila slot di prima generazione (comma 6) e 197 mila di seconda generazione (comma 6a). u Pronti per essere immessi sul mercato altri 40 mila apparecchi Vlt (videolottery). u Aumento degli incassi nel periodo 2004-2008: 580 per cento. u Tra gennaio e giugno 2009 gli italiani hanno speso 26.266 milioni di euro, con una crescita del 10,8% rispetto al primo semestre 2008 quando la raccolta fu di 23.701 milioni.

della Finanza. Finché due giornalisti, Marco Menduni e Ferruccio Sansa, non tirarono fuori la storia sulle pagine del Secolo XIX. Il Governo e il Parlamento che continuavano a non dire una parola furono costretti a parlare. Promisero chiarezza. Ma non andò esattamente così, forse anche perché i concessionari – come dimostrano gli atti parlamentari – possono contare su molti rappresentanti politici, a destra come a sinistra, pronti a sostenere le loro ragioni. Il 22 giugno 2007, sull’onda dello scandalo, i Monopoli inflissero le sanzioni alle società. Ma nel 2008 il Tar le bocciò: nel frattempo, infatti, i Monopoli e i concessionari avevano stipulato una nuova convenzione che “rimodulava” le penali. Le somme, perciò, andavano ricalcolate in base ai nuovi criteri. Quindi fu la volta di un nuovo ricorso dei Monopoli e ieri è arrivata la seconda sentenza del Tar. Dirompente: I Monopoli hanno “esercitato correttamente il potere di comminazione delle penali”. Il collegio “non ritiene che sia stata fornita prova adeguata dell’impossibilità della prestazione dovuta, essendosi le ricorrenti (le societlà concessionarie, nrd.) limitate ad apodittiche affermazioni in ordine alle difficoltà riscontrate per il numero elevato degli apparecchi da collegare”. Circostanze “tutte conosciute o conoscibili al momento dell’assunzione dell’impegno contrattuale e in relazione alle quali avrebbe dovuto essere diversamente atteggiato lo sforzo richiesto per l’esecuzione della prestazione dovuta”. Insomma, aveva ragione la Corte dei Conti dicendo che le pe-

entre ci si scanna a colpi di CoM stituzione e mega piani economici, nel governo c’è anche chi pensa alle cose serie. Basta scandali con donnine a palazzo e trasgressioni da cronaca nera. La politica di “chi ce l’ha duro” scivola più saggiamente su body di lycra non troppo sgambati e innocenti coroncine di fiori, s’insinua tra i passi felpati di giovinette che ce la mettono tutta a dimostrarsi leghiste fatte e finite, smaniose di assurgere al titolo di ‘Miss Sole delle Alpi’ bazzicando il bocciodromo di Collegno o discoteche dal nome evocativo come il raffinatissimo “W la...” di Premariacco (Udine). Perché il concorso di Miss Padania, nato undici anni fa tra le risatine degli intellettuali e i “mavalà” dei bauscia avvinghiati a sofisticate modelline milanesi, è diventato una vera macchina da guerra (politica). La consegna dello scettro ufficiale è solo il momento dei flash nazionali e della messa in onda su Rete4, ma il giorno dopo si riparte

di slancio tra pub, balere e sagre di paese: è la Miss-strategy della Lega, insomma. In un anno le selezioni locali sono state una sessantina, dall’Umbria al Trentino e ritorno, con un’azione ramificata nell’infinita provincia centronordista. Domani, per esempio, ci sarà una seratona a Nizza Monferrato e domenica invece tutti a Turate, appena fuori Como. Lì, nella sala comunale polivalente, le belle dovranno lottare senza trucchetti, ché il regolamento parla chiaro: potranno sfilare ragazze “dello stesso sesso registrato sul certificato di nascita, mai coinvolte in fatti contrari alla morale”, nei cui curricula non siano presenti “servizi fotografici e film ritenuti sconvenienti a insindacabile giudizio dell’organizzazione”. Soprattutto, le miss non devono aver rilasciato “dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania”: la fede nordista non ammette indugi. Il premio a cotanta devozione? Emilio Fede assiste puntualmente alle serate più hot e, nonostante i

Anoressico morto in carcere

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n uomo di 32 anni nel centro clinico del carcere romano di Regina Coeli. Simone La Penna, arrestato droga, soffriva di anoressia nervosa. É stato trovato ieri mattina deceduto nel suo leto. A Regina Coeli era arrivato dall’ospedale Belcolle di Viterbo. Pare avesse chiesto l’aiuto di uno psichiatra.

Protezione civile non sarà una Spa

L nali andavano pagate. Le concessionarie vanno condannate, sostiene il Tar. Ma la stessa sentenza di ieri contiene un passaggio che susciterà polemiche: le sanzioni devono essere calcolate con una “preliminare verifica di ragionevolezza e congruità rispetto agli inadempimenti, al loro impattare sulla buona attuazione del rapporto contrattuale, alle conseguenze negative sull’ottimale realizzazione dell'interesse pubblico perseguito”. Ecco il punto: le penali di 90 miliardi sono state rimodulate in base alla nuova convenzione intervenuta tra gli stessi Monopoli e i concessionari. In pratica le due parti in causa – pubblica e privata – si sono messe d’accordo per ridurre le penali a un cinquantesimo di quanto previsto. Con un particolare che suscita molte perplessità: agli inadempimenti del passato saranno applicate penali previste in un secondo tempo. Così lo Stato rinuncia a decine di miliardi di euro. Ieri il Tar ha deciso su tre dei quattro tronconi d’inchiesta – per un totale di 9 miliardi – e ha condannato i concessionari.

Ma dei 90 miliardi dovuti, l’equivalente di 3 Finanziarie, per ora il debito da saldare è di soli 10 milioni

recenti vincoli sulla selezione di meteorine&C, è sempre un onore per Miss Telepadania farsi baciare da un professionista tanto illustre. Ma la più fortunata tra le belle, la sola e unica Miss Padania (che quest’anno si chiama Laura Dora Mazzei) ottiene lo scettro da presidenti come Francesco Alberoni, Willy Pasini e Fabio Testi. Un anno avevano chiamato pure Tinto Brass, e un’altra volta Renato Pozzetto, ma col passare del tempo s’è capito che questa storia delle miss è una cosa più che seria. Invece di sgolarsi ai comizi di piazza, invece di battere capannoni e fabbrichette, è più nobile offrire a queste brave ragazze

a protezione civile non va riorganizzata e tanto meno trasformata in società per azioni”: lo ha detto ieri Guido Bertolaso, smentendo ogni polemica con Elio Vito. “Il ministro non ha mai parlato di una trasformazione in società per azioni della Protezione Civile nazionale, ma della possibilità che si costituisca una società in house con compiti strumentali rispetto alle finalità della Protezione Civile”.

’NDRANGHETA Ma invece di pagarne 9, dovranno sborsare 10 milioni (un millesimo). Ed è solo l’inizio: restano in ballo 80 miliardi. Con le rimodulazioni diventeranno 1,6. Insomma, i concessionari ieri hanno perso sulla questione di principio, ma in sostanza hanno vinto. La penale è stata ridotta a un cinquantesimo di quanto richiesto dalla Corte dei Conti. Ma la questione non è chiusa. Nei prossimi giorni la Cassazione dovrà stabilire chi è competente a decidere sul caso. Se la palla passasse alla Corte dei Conti, i magistrati potrebbero chiedere ancora 90 miliardi di danno erariale.

COME IL CONCORSO DI BELLEZZA È DIVENTATO UNO STRUMENTO DI “ARRUOLAMENTO” POLITICO Paolin

REGINA COELI

BERTOLASO

Miss Padania, un’allegra macchina da guerra di Chiara

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un futuro da star e una serata vivace coi simpatizzanti di tutte le valli. Altro che secessione: Bossi e amici di giuria hanno capito bene che tira più un capello di miss che mille promesse di federalismo fiscale. A dir la verità qualche polemica salta fuori ogni tanto. A Brescia han detto che piazza della Loggia non era l’ideale per far ballare le signorine; a Fabriano (Ancona) un consigliere comunale di sinistra ha protestato con forza contro l’iniziativa della locale sezione leghista (ma il sindaco Pd, colto l’evento, è salito sul palco a premiare); nel 2004 Memo Remigi lamentò presunti brogli nella compilazione delle schede per una serata milanese dal finale infuocato (lo sponsor e gli organizzatori minacciarono denunce incrociate per reciproche inadempienze). Ma Miss Padania va avanti, la corsa procede spedita: a marzo sarà ora di assegnare lo scettro alla nuova reginetta. E forse anche a qualche principe lumbard, salito al trono grazie alle falcate di una nordica donzella.

37 arresti e confische di beni

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rentasette ordini di arresto e numerosi sequestri patrimoniali (per un ammontare di 40 milioni) sono stati eseguiti ieri nel corso dell’operazione Padora, compiuta dalla polizia di Stato nei confronti delle cosche del crotonese. La vasta operazione contro la ‘ndrangheta ha condotto le forze di polizia anche oltre la zona calabrese, per raggiungere con ordini di arresto anche Reggio Emilia e Pavia. Nelle indagini sono stati individuati anche gli autori di tre omicidi e due tentati omicidi. I reati contestati, oltre all’omicidio, sono di associazione di tipo mafioso, estorsioni e traffico di sostanze stupefacenti.

QUERELA AL FATTO

La solidarietà di Sonia Alfano

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ualcosa si muove dopo l’annuncio di querela nei nostri confronti da parte del senatore Cuffaro, dopo l’articolo di mercoledì di Sanda Amurri: “E’ naturale che una certa politica, che in qualunque Paese civile non avrebbe accesso alle aule parlamentari, si mostri intollerante verso quella stampa che si rifiuta di piegare la schiena”. Lo ha detto l’eurodeputata dell’IdV e presidente dell’Associazione familiari vittime di mafia, Sonia Alfano.


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CREDITO E IMPRESE

DRAGHI BOCCIA LE PROPOSTE DI TREMONTI Secondo il governatore la Banca del Mezzogiorno non serve desso diranno che vuole dettare l’agenda alla politica, che è un’ingerenza, che il governatore della Banca d’Italia non dovrebbe parlare di provvedimenti politici. E se non lo dicono – e ieri non ci sono state molte dichiarazioni critiche – dentro la maggioranza lo pensano. Perché le parole di Mario Draghi di ieri lasciano pochi margini di ambiguità: “I nostri dati mostrano che non ci sono marcate divergenze nell’andamento del credito bancario tra centro nord e il Mezzogiorno. Con la crisi i prestiti alle famiglie hanno rallentato fortemente in entrambe le aree territoriali, continuando tuttavia a crescere di più al Sud”. E ancora, per chiarire meglio il messaggio: “I prestiti alle imprese e il costo del denaro hanno avuto, pur partendo da livelli diversi, dinamiche simili nelle due aree”. E questo, tradotto in politica economica, significa una cosa sola: la Banca del Mezzogiorno che il ministro

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dell’Economia Giulio Tremonti vorrebbe creare per risolvere le disparità tra Nord e Mezzogiorno nell’accesso al credito, non serve. Perché le disparità non ci sono, oltre che perché fondare una banca scavalcando il potere autorizzativo dell’istituto di via Nazionale. Il convegno che si è tenuto ieri a Roma, nelle sale di palazzo Koch, era atteso da tempo, perché era chiaro che, per tempistica e argomenti, si sarebbe inserito nel dibattito politico con un impatto sicuro. Titolo: “Il Mezzogiorno e la politica economica in Italia”, cioè il punto su cui la maggioranza di governo si divide da quest’estate, quando la Lega proponeva le gabbie salariali e dentro il Pdl iniziava a compattarsi una componente meridionalista che reclamava (e reclama) un maggiore ricorso alla spesa pubblica. Tempi: la Finanziaria 2010 è appena arrivata alla Camera e tra le misure che dovranno essere inserite con gli emendamenti c’è an-

che la tremontiana Banca del mezzogiorno, che ha la sua ultima chanche per entrare dentro la legge di bilancio dopo che al Senato è stata respinta. Il richiamo al ruolo della criminalità organizzata – che Draghi considera un problema ben più serio del credito per il Mezzogiorno – è stato letto anche in chiave politica, alla luce di quello che sta succedendo in questi giorni (trattative Stato - Mafia, pentiti e Renato Schifani ecc. ). Ma per Draghi questa convinzione del ruolo decisivo della criminalità organizzata si traduce in una mossa concreta: “La Banca ha messo risorse di analisi a disposizione della commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e su altre associazioni criminali, per una indagine sul costo economico della criminalità”. Nel discorso di Draghi, c’è anche la pars construens, per indicare al governo in qule direzione muoversi: “Affinché il Mezzogiorno diventi

Il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi

questione nazionale, non retoricamente ma con ragionato pragmatismo, ogniqualvolta si disegni un intervento pubblico nell’economia o nella società occorre predisporre ex ante adeguati correttivi”. L’idea è cioè che non servano interventi specifici, piani straordinari, misure di emergenza come quelle che da sempre si sperimentano nelle regioni meridionali. Quello di cui c’è bisogno– afferma il governatore – è di politiche generali che vengano applicate tenendo conto che produrranno risultati diversi nei diversi contesti e, forti di questa consapevolezza, si trovi il modo di declinarle nel Mezzogiorno così da ottenere l’effetto desiderato. Il richiamo di Draghi al ruolo centrale del “capitale uma-

no” sarà piaciuto al ministro Renato Brunetta, principale avversario di Tremonti in questa fase, che ha sostenuto tale tesi in un suo recente libro “Sud”. Sostenere che bisogna investire su istituzioni, scuole e sistemi per misurare in modo preciso le performance, significa spendere meno per sostenere l’industria, poiché le risorse sono limitate. Dice Draghi: “Le nostre analisi mostrano che i sussidi alle imprese sono stati generalmente inefficaci, si incentivano spesso investimenti che sarebbero

stati effettuati comunque, si introducono distorsioni di varia natura penalizzando frequentemente imprenditori più capaci. Non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo durevole delle attività produttive”. Parole, anche queste, che arrivano con una tempistica politicamente sensibile, mentre si discute del futuro della fabbrica siciliana di Termini Imerese creata dalla Fiat proprio grazie a sussidi decisi nel 1970. (Ste. Fel.)

Bankitalia: il vero sviluppo nel Sud non si costruisce con i sussidi alle imprese

In tribunale parla Gabetti: “Nel 2005 c’erano mani forti sulla Fiat” IL PROCEDIMENTO ALLE HOLDING DEGLI AGNELLI È A RISCHIO SE PASSA LA NORMA SUL PROCESSO BREVE

di Stefano Caselli

e Stefano Feltri difesa pacata, come si Ulustrinaconviene a uno dei più ilesponenti dell’ultima aristocrazia sabauda, ma decisa: “Noi – parola di Gianluigi Gabetti, grande consigliere della famiglia Agnelli – turbative di mercato non ne abbiamo mai fatte”. Il processo Ifil-Exor, di fronte alla prima sezione penale del Tribunale di Torino, è entrato nel vivo con l’interrogatorio del presidente onorario di Exor, nonché ex presidente di Ifil, la cassaforte della famiglia Agnelli. La procura contesta a Gabetti, all’avvocato Franzo Grande Stevens e al notaio Virginio Marrone la diffusione di false

comunicazioni, contenenti notizie idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo delle azioni Fiat, in merito all’affaire dell’equity swap Ifil-Exor, che, nel 2005, consentì agli eredi Agnelli di mantenere il controllo del 30 per cento di Fiat. Nell’estate di quattro anni fa la famiglia rischia di perdere il ruolo di primo azionista del gruppo: le banche stanno per convertire in azioni i loro crediti (allo scadere del cosiddetto prestito convertendo). E Ifil ed Exor, le due holding finanziarie che controllano le società operative, corrono ai ripari. “Smontano” l’equity swap che avevano sottoscritto con la banca d’affari Merrill Lynch. Tradotto: c’era in piedi da mesi un’operazione finanziaria, nota come equity swap, con scadenza dicembre 2006. Prevedeva che la banca tenesse in custodia azioni Fiat da cedere a Ifil a fine contratto in cambio di una contropartita economica (con lo swap una parte paga un interesse, l’altra i rendimenti derivanti dall’aumento delle quotazione delle azioni). A luglio 2005, con sorpresa della stessa banca, è Exor e non Ifil a chiedere le azioni in contemporanea con la scadenza del prestito convertendo. Così, mentre le banche creditrici di Fiat trasformano i crediti in azioni (valutate 10

euro circa), la famiglia Agnelli se ne assicura abbastanza da restare primo azionista, e al prezzo vantaggioso di 5 euro. Il nodo è il seguente: perché Exor, con l’avvocato Grande Stevens, dice alla Consob e quindi al mercato che non c’erano manovre difensive in corso, se l’equity swap era pronto a scattare? La tesi che l’accusa, con il pm Giancarlo Avenati Bassi, prova a dimostrare è che fin dall’inizio l’equity swap fosse stato concepito per rispondere al prestito convertendo, ma in segreto, alle spalle del mercato. La difesa di Gabetti ripercorre quei momenti, i primi della ripresa dopo la fase più critica del Lingotto. Con l’arrivo dell’amministratore delegato Sergio Marchionne inizia la ripresa: “I primi mesi di Marchionne – racconta Gabetti di fronte al presidente del tribunale Giuseppe Casalbore – furono da parte sua, oserei dire, di rimpianto, perché il compito era immane”. Il 9 luglio 2005 – parola di Gabetti – la Borsa “si infiamma” dopo la relazione di Marchionne agli analisti finanziari, in cui si prospetta un radioso futuro per Fiat Auto. A quel punto, secondo la ricostruzione dell’ottantacinquenne presidente onorario di Exor, si scatenano gli appetiti di “mani forti” e non meglio identificati “ardimentosi” pronti a soffiare il controllo del gruppo alla famiglia Agnelli: “Mi rivolsi all’avvocato Franzo Grande Stevens per esami-

nare con ponderatezza se fosse possibile utilizzare il contratto di equity swap su Exor al fine di mantenere il controllo su Fiat e di effettuare sondaggi con Consob”. Gabetti sostiene di aver avuto l’intuizione di usare l’equity swap come strumento difensivo solo alla vigilia di un suo viaggio di convalescenza negli Stati Uniti, quell’estate. Anche se resta sul vago: “Ha poca importanza cercare di stabilire il giorno o la settimana in cui si affacciò alla mia mente questa possibilità”. Invece per l’accusa è fondamentale perché dimostrerebbe che il progetto difensivo partiva da lontano. Gabetti risponde però che a suo tempo,

quando il contratto di swap fu firmato, la Consob non sollevò alcun rilievo (anche perché la scadenza non coincideva con quella del covertendo). La scorsa settimana Marchionne, ascoltato dal tribunale, ha chiarito che a lui era stato assicurato da Gabetti che la famiglia Agnelli avrebbe mantenuto il controllo. Quindi, sostiene l’accusa, Gabetti era in grado di garantirlo perché c’era già pronto l’equity swap che serviva anche a evitare il rischio di dover lanciare un’offerta pubblica d’acquisto per mantenere la presa sulla società. E per risparmiare alla famiglia un aumento di capitale che molti, a cominciare da

Umberto Agnelli, non volevano sostenere (ma Gabetti afferma che con l’operazione gli Agelli hanno rinunciato a un profitto di 740 milioni di euro che avrebbero ottenuto aspettando la scadenza di dicembre 2006 dell’equity swap). La prossima udienza sarà il 4 dicembre, mentre il 7 gennaio ci sarà la requisitoria del pubblico ministero, poi la parola tornerà alla difesa. Secondo i dati forniti dal presidente del tribunale Luciano Panzani, il processo Ifil-Exor (se non si chiude entro giugno) tra quelli torinesi è uno dei più esposti al rischio di estinzione se viene approvata la norma sul “processo breve”.

BANCHE E PROFITTI

QUANDO LA FINANZA SI MANGIA L’INDUSTRIA C’

è una storia che illustra bene il rapporto tra finanza ed economia reale in questi mesi di fine crisi. La racconta bene il Financial Times di ieri, sotto un titolo chiaro: “Corporate valdalism”. La questione è questa. Safilo, il produttore di occhiali, ha un bond in scadenza che va rifinanziato, cioè deve trovare nuovi finanziatori che credano nell’impresa e siano disposti a prestarle denaro. Se non li trova, ci sono 8 mila posti di lavoro a rischio. Il punto è che questi finanziatori latitano, perché il gruppo creditizio olandese Hal cerca di collocare le obbligazioni a un prezzo

troppo elevato, per massimizzare il proprio profitto. Il risultato è che l’emissione obbligazionaria di 280 milioni risulta poco allettante e che Safiloè in bilico, tanto che la scadenza per aderire era oggi ma è stata estesa di altri tre giorni. Perfino il quotidiano della City, l’alfiere cartaceo del libero mercato e di quello che Tremonti chiamerebbe “mercatismo”, riconosce che da parte della banca questo è un comportamento un po’ rischioso in un momento in cui tutti, almeno per un po’, vogliono abbattere i “masters of the universe” della finanza.


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RABBIA OPERAIA

ALCOA IN MEZZO ALLA STRADA Scontri tra la polizia e gli operai sardi a Roma I dipendenti di Eutelia sotto Palazzo Chigi

di Gigi

Furini

ono volate sedie e manganellate, ci sono stati momenti di tensione, ma alla fine l’accordo è stato trovato, anche se è provvisorio: l’azienda Alcoa ha ritirato la procedura di cassa integrazione in attesa di un nuovo incontro coi sindacati che avverrà il prossimo 9 dicembre. Non è stato facile, per i lavoratori dell’Alcoa, raggiungere questo risultato. Gli operai, 3 mila tutto, sono arrivati ieri a Roma dalla Sardegna e dal Veneto, dove il gigante americano dell’alluminio ha i suoi stabilimenti italiani. I lavoratori sardi sono partiti con una nave e sono arrivati a Civitavecchia. Poi in treno fino a Roma dove, dalla stazione Termini, hanno sfilato in corteo fino alla sede del ministero per lo Sviluppo economico. Arrivati in piazza Barberini, i manifestanti sono stati bloccati dalla polizia, e ci sono stati attimi di tensione, con gli operai che hanno usato i caschi come tamburi e la polizia che ha mandato rinforzi in tenuta antisommossa. Arrivano le dichiarazioni dei politici: Antonio Di Pietro, Idv, invita a “presidiare la pizza”, Oliviero Diliberto spiega che “per risolvere la crisi dell’Alcoa il governo potrebbe impiegare mezz’ora, il tempo di telefonare all’Enel per chiedere di applicare alla società le tariffe agevolate”. Infatti il problema è tutto lì, nelle tariffe che la produzione di alluminio richiede per l’enorme consumo di energia. Mentre in tutta Europa Alcoa riesce a pagare 27 euro per megawatt-ora, in Italia la tariffa è salita a 60 euro. Durante la manifestazione gli operai prendono le sedie di un bar e le scagliano contro gli agenti, che rispondono. Un delegato sindacale di Portovesme resta ferito e viene portato in ospedale. La questura si affretta a comunicare che “il manifestante è stato colto da malore”. Commenta il segretario della Cgil Guglielmo Epifani: “La crisi non diventi una questione di ordine pubblico”. Nel ministero comincia l’incontro ma resta assente il ministro Scajola. C’è invece il sottosegretario Stefano Saglia, il presidente della Sardegna Ugo Cappellacci, una delegazione di Cgil, Cisl e Uil e l’amministratore delegato di Alcoa Italia, Giuseppe Toia. Nessuno, a parole, vuole chiudere gli impianti ma bisogna trovare una soluzione al problema dei costi dell’energia. Alla fine l’intesa si trova: il ritiro della cassa integrazione in attesa di trovare il sistema per applicare lo sconto. Così si decide di rinviare l'incontro al 9 dicembre quando, sempre al ministero, saranno aperte le buste per la gara sul mercato energetico. Il ministro Claudio Scajola, rientrato in serata, spiega che gli accordi si possono trovare anche senza “esasperazioni di piazza” e che il governo “è impegnato a tutelare i posti e, se possibile, a crearne di nuovi”. Ma per la Cisl “dalle parole bisogna passare ai fatti”. Come di-

S

Alcune foto dei momenti di tensione ieri, a Roma, durante la manifestazione di protesta dei lavoratori dell’Alcoa, contro il rischio della chiusura degli stabilimenti

Ieri l’incontro tra CRISI governo e lavoratori Eutelia che vogliono l’amministrazione al Piemonte alla Sicilia la situazione nelle straordinaria: Drinovarie realtà industriali è gravissima. A Tosono 160 e a Ivrea più di 200 i lavoratori nulla di fatto della Agile che hanno occupato gli uffici

materia prima solo dopo aver ricevuto i soldi. Noi pensiamo che parte dei denari delle imprese siano finiti nell’avventura del calcio”. A Porto Marghera c’è enorme apprensione per la Fincantieri che produceva navi da crociera: da tempo l’azienda, che dà lavoro a 4 mila persone, non ha commesse. Un incontro con il ministro Scajola e i sindacati è fissato per il 10 dicembre a Roma. A Venezia la crisi della cantieristica ha portato al concordato preventivo per la De Poli, che ha navi da finire ma neanche più un euro in cassa. Risultati: sono a casa 120 lavoratori diretti e altri 280 dell’indotto. Crisi nera alla Speed-line (produzione di cerchi in alluminio) con 150 lavoratori in mobilità e senza possibilità di rientro. Trecento lavoratori rischiano il posto alle Officine Aeronavali (ex Finmeccanica) a causa della crisi del settore, mentre passeranno l’inverno in cassa integrazione i 400 dipendenti della Aprilia-Piaggio di Noale. Non va meglio alla Montefibre, sempre a Porto Marghera, dove rischiano il posto i 400 lavoratori diretti e circa mille delle imprese appaltatrici. “Senza contare le piccole aziende – dicono alla Fiom – che, esauriti i mesi di cassa integrazione, hanno chiuso per sempre i cancelli. Porto Marghera da anni è in calo ma una volta chi perdeva il posto in fabbrica lo ritrovava nelle piccole imprese che hanno creato il mito del nord-est. Ora non più. Esci da qui e non hai alternative”. A Pomigliano perdura la cassa integrazione straordinaria per i 5100 operai della Fiat e c’è preoccupazione dopo le parole di Marchionne (“basta una fabbrica in Brasile per fare ciò che in Italia si produce in sei stabilimenti”). Grande apprensione anche per i 3 mila lavoratori dell’indotto Fiat. Ieri Scajola ha parlato ancora di Termini Imerese: “Quegli impianti non si possono fermare”, ha detto. Ma il rischio esiste. La Cgil ha diffuso un dato: negli ultimi 3 anni in Sicilia sono andati perduti 54 mila posti di lavoro. “La situazione – dice la Cgil – è prossima al collasso”.

LE ALTRE INDUSTRIE AD ALTA TENSIONE

re che si deve trovare la via che porta allo sconto (sull'energia) senza incappare un'altra volta nelle norme della Ue che ha appena condannato l'Alcoa a pagare 300 milioni per aver ricevuto “aiuti di Stato”. É sera quando riparte la nave per la Sardegna e il treno per Venezia. Gli operai cantano vittoria aspettando il 9 dicembre, data entro cui il governo deve trovare lo sconto da praticare ad Alcoa, decidendo di fatto il futuro del settore alluminio in Italia. Intanto a Roma un’altra manifestazione è cominciata sotto palazzo Chigi: cinquecento lavoratori di Eutelia (gruppo Omega) hanno sostenuto la delegazione che ha incontrato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. I lavoratori chiedevano di sollevare la proprietà di Omega dalla gestione dell’azienda e di affidare al governo l’amministrazione straordinaria. Ma, per ora, Letta si è limitato ad ascoltare tutte le parti in causa senza decidere nulla.

contro il piano della Omega (la società controllante che ha già licenziato 1200 dipendenti). In Piemonte i lavoratori della Agile che protestano sono ingegneri o laureati in Fisica e sull’azienda pesa una denuncia alla magistratura perché si sospettano irregolarità nei bilanci. A Volvera (Torino) la multinazionale tedesca Mahle (produzione valvole per motori) vuole chiudere e licenziare i 100 dipendenti (per lunedì è fissato un incontro con i sindacati a Stoccarda). A Ivrea, invece, sono in assemblea permanente i 150 lavoratori della Amarck, azienda tedesca che produce macchinari e che la casa-madre vorrebbe chiudere. Stesso discorso per la Skf, azienda svedese che a Torino occupa 80 lavoratori nella produzione di cuscinetti. “Negli ultimi 18 mesi abbiamo occupato 32 aziende – dice Giorgio Airaudo, della Fiom Piemonte – e le maggiori difficoltà le abbiamo trovate con le multinazionali che chiudono i cancelli e si rifiutano di dialogare”. A Milano ieri mattina cento lavoratori dell’azienda di trasporti Delpa hanno bloccato il cantiere di via Rubattino chiedendo il pagamento dei salari arretrati (quattro mesi). In Veneto c’è forte preoccupazione alla Nuova Pansac, di proprietà di Fabrizio Lori, presidente del Mantova calcio. L’azienda ha tre stabilimenti nel Veneziano (con circa 700 dipendenti), uno a Zingonia e uno a Ravenna, per un totale di mille impiegati. A Mira (Venezia) si producono tessuti traspiranti per pannolini e plastiche per uso alimentare. “Gli stipendi sono in ritardo – dice Riccardo Coletti della Cgil – e l’azienda ha molti debiti. I fornitori danno la

(Gi. Fur.)

Statali: sciopero generale previsto per l’11 diE’ cembre lo sciopero proclamato dalla Cgil-Funzione pubblica che riguarda tutti i comparti pubblici. Il motivo, annuncia in una nota Alessandro Russo della Fp Cgil nazionale, è “il perdurare di un atteggiamento di totale chiusura da parte del governo e il mancato finanziamento dei contratti in Finanziaria”. Si mobilitano anche Cisl e Uil proclamando lo stato di agitazione di tutti i lavoratori pubblici che dal 2 dicembre avvieranno una fase di proteste in tutte le regioni. Il portavoce del Popolo della libertà, Daniele Capezzone, commenta così: “Lo sciopero proclamato dalla Cgil è un grave errore” perché l’Italia, dichiara in una nota, “non ha bisogno di scioperi, e meno che mai nel momento in cui sta arrivando la ripresa”. E conclude: “E’ molto grave che la Cgil insista su una linea immobilista, di contrasto alle riforme e al cambiamento”. Per Capezzone il governo sposa “la svolta meritocratica promossa da Brunetta” e boccia una Cgil che si pone “contro il cambiamento”.


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Venerdì 27 novembre 2009

DAL MONDO

Sfida a chi inquinerà di meno GLI USA: -17% ENTRO IL 2020. LA CINA: RIDURREMO DEL 40% Il referendum per l’indipendenza catalana di Alessandro Oppes Madrid

catalana allo Stato spagnolo sta per diventare una realtà. L– perIla sfida prossimo 13 dicembre, 161 comuni della regione autonoma un totale di 700mila abitanti – voteranno in un referendum

ara delle buone intenzioni tra Cina e Usa. Dopo che il G2, i due giganti politici ed economici - e maggiori inquinatori del pianeta - si sono accordati la settimana scorsa per non far scattare al vertice sul clima di Copenaghen di dicembre i meccanismi per la riduzione globale dei gas serra, ora prima l’America di Obama poi la Cina di Hu Jintao hanno affermato di voler ridurre le emissioni a partire dal 2012 (allo scadere del programma di Kyoto). Washington, annunciando la presenza del presi-

G

BUONE NOTIZIE

dente al vertice, ha detto che tra due anni, superata, come si spera, la fase acuta della crisi economica, si può arrivare alla riduzione dei gas serra del 17%; Pechino ha rilanciato (anche il premier Wen Jiabao sarà in Danimarca) con una misura unilaterale: ridurremo il nostro inquinamento del 40-45% entro il 2020 (data fissata per la riduzione dal protocollo firmato nella città nipponica di Kyoto). “A Copenaghen non possiamo fallire - ha detto il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini augurandosi che la conferenza

si possa chiudere con un accordo vincolante”, proprio quello che in un primo momento i due giganti sino-americani volevano evitare. “Se gli Usa sono pronti a ridurre le emissioni del 17%, l’Ue del 20% e la Cina è pronta a fare la sua parte, si potrebbe arrivare a un accordo, che non è ancora un Trattato, ma è vincolante sotto il profilo politico”, ha commentato il ministro. Per la titolare dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, le posizioni assunte da Cina e Usa “fanno ben sperare” anche se, fa notare, l’annuncio della

a cura della redazione di Cacaonline

L’ISOLA DELLE DONNE Le isole matriarcali di Bijagós L’Onu ha conferito all’arcipelago di Bijagós, 88 isole nella Guinea Bissau di cui solo una ventina abitate, il titolo di Riserva naturale e Patrimonio dell’Umanità. Due le motivazioni: il luogo è un autentico paradiso naturale incontaminato e i pochi villaggi abitati sono gestiti e organizzati con un sistema matriarcale. A comandare e amministrare sono le donne, che oltre a occuparsi dei figli e della casa, si riuniscono per i “consigli comunali”, mentre agli uomini spetta il compito della caccia e dell’agricoltura. Come in tutte le società matriarcali anche a

Bijagós si vive in pace: non esistono scontri e nemmeno il concetto di fazione. La sconsigliamo come meta turistica: non siamo all’altezza. Sono pazzi questi giapponesi Se durante la raccolta porta a porta l’operatore ecologico trova un sacchetto con rifiuti non adeguatamente separati, lascia un biglietto con scritto: “Questa spazzatura è differenziata male, separala seguendo le regole”. Secco e intimidatorio! (di Jacopo Fo, Simone Canova, Maria Cristina Dalbosco, Gabriella Canova)

Cina ha “un linguaggio tecnico per un impegno interno” che è relativo alla riduzione del 40% dei combustibili fossili in ralezione al Pil, ciò “significa il 20% come l’Ue” - l’Italia ha proposto anche una soglia superiore, il 30% - ma è “una svolta”. Giudizio positivo anche da parte del primo ministro svedese e presidente di turno della Ue Fredrik Reinfeldt, e del presidente della Commissione, José Manuel Barroso, i quali auspicano che, comunque, “le indicazioni di Cina e Usa rappresentino un primo passo verso maggiori riduzioni” e dicono di pensare “di discutere sia con la Cina sia con gli Usa su come trasformare queste indicazioni in un accordo internazionale”. La Cina che, secondo la sua agenzia ufficiale, “si trova a far fronte a enormi pressioni e, insieme, a delle difficoltà specifiche per controllare le emissioni di gas serra”, intende affrontare la sfida “sviluppando le energie rinnovabili e il nucleare, mettendo contemporaneamente in campo delle politiche fiscali e finanziarie appropriate”, nonché aumentando gli investimenti nella ricerca per lo sviluppo di “tecnologie a zero emissioni di carbone”, il vero tesoro dietro gli accordi di riduzione e un mercato economico che i cinesi pensano di poter conquistare attraverso le buone intenzioni annunciate ieri. (S.C.)

nel quale gli elettori sono chiamati a esprimere il loro “sì” o “no” all’indipendenza. Niente di ufficiale, ovviamente, per evitare i fulmini della magistratura e del governo di Madrid. Il voto ha puro carattere consultivo e l’organizzazione è curata da privati cittadini riuniti in movimenti che si scioglieranno all’indomani della consultazione. Nessuno dei seggi verrà installato in edifici pubblici, per non correre il rischio di un intervento giudiziario dell’ultim’ora che mandi tutto a monte. Anche se, in realtà, sono parecchi i sindaci e i consigli comunali che si sono espressi a favore del referendum. I promotori hanno però l’appoggio esplicito dei responsabili locali dei due grandi sindacati spagnoli, Ugt e Comisiones Obreras, che metteranno a disposizione le loro sedi. E i partiti, anche se non coinvolti direttamente, cominciano a prendere posizione: a favore del “sì” i nazionalisti di Convergencia i Unió e gli indipendentisti di Esquerra Republicana de Catalunya. I verdi di Iniciativa per Catalunya chiedono ai loro elettori di andare a votare, ma non danno un’indicazione precisa. I due grandi partiti nazionali, socialisti (che guidano il governo della Generalitat) e popolari invitano invece a disertare le urne. Sarà una specie di mega-sondaggio, sotto gli occhi attenti di parecchi osservatori internazionali, e – a seconda del risultato, e dell’affluenza alle urne – le conseguenze politiche potranno farsi sentire molto presto. Si spiega anche così il nervosismo che si respira in questi giorni nei Palazzi del potere di Madrid: è stata la vicepremier Maria Teresa Fernández de la Vega a dire per prima, in modo esplicito, che questo referendum “non si dovrebbe svolgere”. Ma il ministro della Giustizia, Francisco Caamaño, ha dovuto ammettere che non esistono al momento le condizioni per impedirlo, proprio in virtù del suo carattere formalmente “privato”. A inasprire il clima di tensione contribuiscono, però, anche le voci sull’imminente pronunciamento della Corte costituzionale sulla legittimità dello statuto catalano, approvato a larga maggioranza dal Parlamento di Barcellona e ratificato dagli elettori con un plebiscitario 75%. Si dice che i giudici togati potrebbero cassare alcuni punti fondamentali della Carta, negando tra l’altro ai catalani il diritto di definirsi “nazione”. Solo voci, che però hanno già provocato una levata di scudi tra le forze politiche regionali e che potrebbero segnare un drammatico punto di rottura nei rapporti con Madrid. Il primo avvertimento viene proprio dal presidente della Generalitat José Montilla – socialista ma alla guida di un partito regionale che gode di ampia autonomia rispetto al Psoe di Zapatero – secondo il quale rimettere in discussione lo statuto vorrebbe dire “minare la convivenza” in Catalogna. Con un’iniziativa senza precedenti, che ha subito provocato una valanga di reazioni politiche, dodici quotidiani catalani (compresi La Vanguardia e il Periódico de Catalunya) hanno pubblicato ieri in prima pagina un editoriale comune dal titolo “La dignità della Catalogna”, difendendo a spada tratta lo statuto e mettendo in dubbio la legittimità della Corte costituzionale a modificare una decisione presa dal Parlamento regionale, approvata dalle Cortes di Madrid e ratificata dai cittadini. Il premier José Luis Rodríguez Zapatero invita “alla calma”, ma a Barcellona sono ormai in parecchi ad aver perso la pazienza.


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DAL MONDO

Afghanistan i conti non tornano L’EUROPA NICCHIA SUL NUMERO DEI RINFORZI oppio fronte - interno e internazionale - sull’Afghanistan per il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, con un difficile braccio di ferro che si prospetta con gli alleati europei della Nato sulle nuove truppe. Washington ne vuole 10mila, sul piatto ce ne sono al massimo 5mila, e non tutti saranno operativi sul teatro di guerra. A pochi giorni dall’annuncio, martedì, sulla sua nuova strategia afgana, Obama - che ieri nel giorno del Ringraziamento ha dedicato la festa proprio ai militari (e ai disoccupati) - affronta non solo lo scetticismo dei parlamentari del suo partito, quello democratico, ma anche le perplessità dei partner atlantici alle prese con una opinione pubblica sempre più contraria alla guerra in Afghanistan, visti i pochi risultati ottenuti finora e il numero dei morti. Il New York Times ha scritto di come gli Usa stiano moltiplicando le pressioni sugli alleati europei della Nato per ottenere 10 mila uomini destinati all’Afghanistan, che verrebbero ad aggiungersi ai circa 30mila che Washington intende mobilitare nei prossimi mesi da lanciare in un’offensiva globale nei santuari dei Taliban, concentrati soprattutto nelle aree meridionali del paese con a capo Kandahar, la città non lontana dal confine con il Pakistan. Il quotidiano di New York, citando fonti americane ed europee, ipotizza che gli alleati sono pronti ad offrirne poco più di 5mila al massimo. Martedì Obama illustrerà i dettagli della strategia davanti ai cadetti dell’Accademia militare di West Point, nello Stato di New York: luogo simbolico per convincere la comunità militare statunitense della necessità dell’ulteriore sforzo bellico,

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che secondo i piani della Casa Bianca dovrebbe essere concentrato i tempi relativamente brevi e portare a una pacificazione accettabile del paese per poi poter proporre un disimpegno dal teatro afgano. Ma “i membri della Nato e gli altri alleati esteri si sono detti riluttanti ad inviare soldati supplementari vista la crescente impopolarità della guerra in Afghanistan nei rispettivi paesi e l’aumento delle preoccupazioni legate alla corruzione in seno al governo di Hamid Karzai”, appena riconfermato presidente. Confermando nelle grandi linee le indicazione provenienti dalle capitali europee e dal quartier generale brussellese dell’Alleanza Atlantica, il Times ricorda che solo la Gran Bretagna ha dato la propria disponibilità a inviare 500 uomini in più, mentre sono pronti a rispondere alle richieste di Obama paesi come l’Italia e la Polonia. Il ministro degli Esteri Frattini parlerà delle disponibilità del contingente italiano nei prossimi giorni con il segretario di Stato Hillary Clinton, ma ha ieri detto che prima di parlare di “numeri serve capire cosa fare e la strategia politica” alla base. I francesi hanno già detto di no alla mano tesa degli americani, spiegando che sarebbe meglio dare più risorse alle truppe locali. La Germania, scossa anche da uno scandalo che coinvolge alcuni dei suoi militari sul terreno, ha serie difficoltà ad aumentare il contingente di oltre 4mila uomini. Olanda e Canada, infine, hanno iniziato i negoziati per il ritiro dei propri militari, nei prossimi mesi. Una delle preoccupazioni statunitensi, infine, è che parte delle truppe europee della Nato non saranno direttamente operative. Citando fonti atlan-

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OPPIO E GUERRA IN AFGHANISTAN

IRLANDA

“La Chiesa coprì abusi” Badghis 5.411

Laghman 135 Kabul 132 Day Kundi 3.002

Herat 556

Uruzgan 9.224 Zabul 1.144

Farat 12.405 Helmand 69.833

Kandahar 19.811

Nimoroz 428

Coltivazione di oppio per provincia (in ettari)

Livello di rischio Estremo

Alto

Medio

2 milioni di musulmani si amOcroltre massano attorno al quadrilatero sadella Mecca che custodisce la pietra sacra all’Islam. È l’Haj, il pellegrinaggio che ogni buon musulmano dovrebbe compiere almeno una volta nella vita. Oggi, venerdì, è giorno di Eid, festa, anche per il milione e mezzo di musulmani che vivono in Italia e che pregano rivolti della Mecca, Arabia Saudita. È qui, nel luogo più sacro per l’Umma, la comunità dell’Islam, che esattamente trent’anni fa nacque - secondo le ricostruzioni storiche - il terrorismo islamico per come lo conosciamo oggi e di cui Al Qaeda rappresenta la summa ideologica e strategica. Il 20 novembre 1979, alba di un nuovo secolo islamico (il 1400), un centinaio

a Chiesa cattolica irlandese ha coperto per decenni abusi pedofili e crudeltà compiuti da sacerdoti, e 4 arcivescovi “ossessionati” dalla segretezza hanno protetto “i perpetratori e la loro reputazione”: lo afferma il rapporto dell’arcidiocesi di Dublino, presentato dal ministro della Giustizia irlandese Dermot Ahern.

Basso

Nella mappa le aree di produzione dell’oppio e il tasso di rischio delle varie province afgane

tiche il Nyt ha spiegato che “anche se gli alleati si impegneranno per 5mila o più militari supplementari” dopo l’annuncio di Obama, “questi impegni riguarderanno truppe già presenti in Afghanistan per garantire la sicurezza delle recenti elezioni oltre ad addestratori per l’esercito e la polizia afgana”. Tutti sforzi inutili che si tradurranno in una sconfitta, secondo il nemico: un nuovo rafforzamento militare o un cambio di strategia non eviteranno una sconfitta degli Usa e dei loro alleati in Afghanistan. Lo assicura il mullah Omar, capo spirituale dei Taliban. In un messaggio diffuso ieri alla vigilia della Eid Al Adha, Omar si rivolge 2a chi comanda alla Casa Bianca e sugli americani” per sostenere che “la realtà sul terreno in Afghanistan indica che gli americani e gli altri alleati invasori soffriranno sicuramente una sconfitta”. “Questa - sostiene ancora - è una sconfitta che non può essere ribaltata. Dovreste capire che la coercizione e il militarismo hanno perso il loro splendore. È meglio per voi scegliere il cammino della razionalità invece di quello del militarismo, mettendo fine all’occupazione”. (S.C.)

Washington chiede agli alleati 10mila uomini antiTaliban. L’Italia: presto per parlare di numeri

GRAN BRETAGNA

BLAIR E IL “TRIBUNALE” SULL’IRAQ IRAN

di Andrea Valdambrini Londra

re uomini indossano la maschera di George W. Bush, del suo alleato britannico Tony Blair e dell’attuale premier Gordon Brown. Tra le mani hanno mazzette da 1000 dollari macchiate di sangue, lo stesso sangue che sporca loro anche la faccia, su cui si stampa un ghigno immutabile e poco rassicurante. Così i militanti di Stop the war, il gruppo che al tempo della guerra in Iraq ha dato vita alla più grande manifestazione pacifista nella storia dell’Inghilterra, hanno voluto salutare la prima seduta della commissione d’inchiesta sulla guerra in Iraq, insediatasi nel Queen Elizabeth II Conference Centre di Londra, per indagare, a più di 6anni di distanza, la scelta di intervenire in Iraq. La commissione, guidata dall’ex alto funzionario di Stato Sir John Chilcot, è composta di 5 membri, scelti da Downing Street sebbene su base non politica. Tra loro Jeremy Greenstock, ambasciatore britannico all’Onu tra il 1998 e il 2003, John Scarlett, ex capo del comitato d’intelligence, e Richard Dearlove, dal 1999 al 2004 alla guida dei servizi segreti di Sua Maestà, l’MI6, proverbialmente efficienti. “Siamo persone indipendenti, di mente aperta, e non faremo un buco nell’acqua”, ha promesso Chilcot rivolgendosi tanto ai parenti delle 179 vittime che non hanno dimenticato quella sporca guerra e hanno chiesto ancora una volta giustizia, raccoltisi silenziosamente davanti alla sede della commissione, quanto ai contestatori e ai molti che guardano alla commissione con un certo scetticismo. Salvo poi puntualizzare, nel giorno stesso dell’insediamento, che la commissione non è un tribunale, e che dunque non ci saranno condanne, né penali né morali. Lo scopo del lungo lavoro, che i delegati dovranno terminare non oltre il 2010, sarà dunque principalmente quello di stabilire la legalità dell’intervento in Iraq, deciso dall’allora primo ministro laburista Tony Blair, che schierò l’esercito britannico in prima linea a fianco dell’America repubblicana di Bush e della Spagna conservatrice di Aznar. Tra i testimoni dell’inchiesta sono attesi a deporre vertici militari, diplomatici e dirigenti dei servizi. Ma soprattutto politici, come lo stesso Gordon Brown, l’ex ministro Jack Straw e naturalmente il responsabile dell’azione militare, Tony Blair. Atteso al Queen Esizabeth II Conference Centre, se non ci saranno colpi di scena, tra gennaio e febbraio 2010.

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Il massacro alla Mecca che convertì bin Laden di Stefano Citati

L

di integralisti sunniti wahaabiti - ovvero dello stesso gruppo dal quale proviene la famiglia reale saudita - occuparono con bombe e mitra la Grande Moschea della Mecca. Decine di migliaia di pellegrini rimasero intrappolati, mentre dagli altoparlanti i rivoltosi incitavano i musulmani di tutto il mondo alla guerra santa contro la dinastia Al Saud, salita al potere nel 1926, accusata di tradimento degli ideali islamici e di corruzione (esattamente le stesse colpe di cui viene accusata da Osama bin Laden), e contro i cristiani e gli ebrei. Juhaiman ibn Muhammad ibn Saif al Utaibi che guidava il gruppo armato, annunciava la presa del luogo sacro come atto iniziale dell’arrivo del Mahdi incarnato dal fratellastro Muhammad bin abd Allah al-Qahtani - un salvatore

che veniva a riscattare le terre corrotte dal regime e dall’occidentalizzazione, spinti anche dalla fresca rivoluzione islamica sciita degli ajatollah in Iran. Cinquantamila fedeli rimasero bloccati nel complesso della moschea e anche dopo che molti furono liberati, gli ostaggi rimasero migliaia. La situazione di stallo durò dune settimane e il governo saudita incapace di agire arruolò anche elementi delle forze speciali della sicurezza francese per tentare un blitz. Gli uomini del Gign in una breve cerimonia si convertirono all’Islam per poter entrare nel recinto sacro: la loro prima idea fu quella di allagare l’intera moschea e di immergervi cavi ad alta tensione per fulminare tutti i presenti. Proposta bocciata. Scartati anche i gas velenosi si decise di attaccare il complesso con granate e la resisten-

“Trattative a un punto morto”

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l direttore generale dell’Aiea, il 68enne l’egiziano Mohammed El Baradei (premio Nobel per la Pace 2005), che ha presenziato la sua ultima riunione del board dell’Agenzia atomica internazionale, si è detto “deluso” dalla non cooperazione dell’Iran e ha ammesso che nel negoziato sul suo programma nucleare si è giunti a un “punto morto”.

VATICANO

Critiche ai siti dell’Unesco

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i sono esiti “discutibilissimi” nei criteri con cui l’Unesco sceglie ciò che è Patrimonio universale dell’Umanità: la critica, se pur accompagnata dal riconoscimento dell’importanza dell’agenzia dell’Onu, è arrivata dal responsabile vaticano della cultura, monsignor Gianfranco Ravasi. La Chiesa cattolica, che custodisce “uno scrigno sterminato” di tesori, vede con perplessità certi riconoscimenti: il presule ha citato tra l’altro il Carnevale di Rio.

AUSTRALIA

Assedio di dromedari za fu soffocata. Morirono in tutto 255 persone tra pellegrini, terroristi (in tutto cinquecento) e soldati. Il 22enne Osama bin Laden, la cui famiglia gestiva parte del complesso della Mecca, rimase choccato indelebilmente dall’accaduto: per lui e per molti altri giovani sauditi fu la perdita dell’innocenza, la svolta psicologica e ideologica che li spinse a considerare il regno saudita perso per sempre alla causa del vero Islam e abbracciare il credo dei terroristi wahaabiti della Mecca. Dopo poco Bin Laden lavorava in Pakistan per fornire supporto logistico ai mujahiddin afgani che combattevano i sovietici in Afghanistan e organizzava i trasporti delle armi per i guerriglieri anti-Urss. Il primo passo della sua carriera di terrorista internazionale.

I

l governo del Territorio del Nord, in Australia, ha dichiarato guerra a 6.000 dromedari assetati che tengono sotto assedio la comunità aborigena di Docker River, 350 abitanti, 500 chilometri a nord di Alice Springs, terrorizzando i residenti e distruggendo le condutture di acqua e fognature. Il ministro delle amministrazioni locali, Ron Knight, ha annunciato uno stanziamento di emergenza pari a circa 30mila euro per la loro eliminazione.


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Venerdì 27 novembre 2009

SECONDOTEMPO SPETTACOLI,SPORT,IDEE in & out

Fabio Volo Sono contro Berlusconi ma non datemi del comunista

Luca Toni Ore decisive nella guerra tra Van Gaal e l’attaccante

Demi Moore In copertina su W magazine, ma il corpo è di un’altra

Gregoraci Flavio vuol chiamare nostro figlio Falco

LIBRI DI PIOMBO

Guerra e memoria DA PROUST ALLA P38 Tobagi, Calabresi, Rossa: lessico familiare e terrorismo Walter Tobagi assassinato a Milano il 28 maggio 1980 di Luca Telese

A

ll’inizio non avevo capito bene, ci ho dovuto pensare su. C'era qualcosa di molto importante, nel libro di Benedetta Tobagi su suo padre, ma che non riuscivo a inquadrare bene. L’ho capito quasi alla fine, quando sono arrivato a un capitolo che si intitola “Voci”. In quelle pagine, che sono uno snodo decisivo di tutto il racconto, ci sono due aneddoti che potrebbero condensare tutto il senso del libro. Il primo è quello in cui Benedetta è alle prese con 98 nastri in cui Walter Tobagi ha raccolto tutte le registrazioni delle sue interviste. Qui è drastica: “Ci sono lezioni universitarie, qualche intervento ai congressi. Il tono è vescovile, quasi soporifero”. Parla del padre che ama follemente, ma non cede mai alla tentazione apologetica. Il secondo aneddoto, invece, è il centro di tutto. Arriva proprio alla fine, quando sembra che la ricerca tra i reperti di casa, non abbia salvato proprio nulla del lessico familiare, del papà che Benedetta ha perso, e di cui non possiede nemmeno un ricor-

Fino a qualche anno fa c’era solo la memorialistica assolutoria dei carnefici: la letteratura di Caino do diretto. È a questo punto che “Dopo aver rovistato in ogni angolo di casa, da un armadietto salta fuori una scatola di vecchie cassette scarabocchiate”. Ci sono due nastri anonimi, gusci di plastica affiorati dall’antiquariato degli anni Settanta. In uno dei due c’è un reperto di un minuto e 57 secondi che commuove (sia Benedetta, sia noi che leggiamo): “Stiamo registrando, ragazzi! Questa è la voce del papà che parla!”. L’ho trovato, lo abbiamo trovato. Subito dopo ritornano la voce con la zeppola di Tobagi, la voce del fratello, e il prodigio dell’intervista scherzosa del papà alla stessa Benedetta: “Adesso si sente la voce della Bebina...”.È Walter che ripetutamente la invita a parlare. La bimba affronta il microfono: “Tanti auguri papà”. E’ stato a questo punto che ho capito quello che non riuscivo a mettere a fuoco, prima. Non solo su “Come ti batte forte il mio cuore”, ma su tutta l’ultima letteratura che ha dato voce alle vittime degli anni di Piombo. Fino a non più di tre-quattro anni fa, la memorialistica della stagione più complessa della nostra storia recente, contemplava solo le testimonianze dei carnefici. Per motivi diversi, sembrava che solo Caino fosse destinato a fare notizia. Oggi, dopo alcuni libri-chiave (il più importante è sta-

to “Spingendo la notte più là” di Mario Calabresi, il più completo “Il Silenzio degli innocenti” di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo) arrivano le storie delle vittime, e scalano le classifiche, accumulano le ristampe una sull’altra. Con una particolarità. A scrivere è la seconda generazione: il figlio di Alessandrini, la figlia di Guido Rossa, il figlio di Torregiani, la figlia di Tobagi, Silvia la figlia di Graziano Giralucci (prima vittima delle Br, a Padova nel ‘74) che sta lavorando contemporaneamente a un libro e a un film. Ma questa anomalia ne ha prodotte altre. La prima è che il ricordo della seconda generazione non è meno nitido, ma se possibile più forte di quello della prima: possiede l’amplificazione di una emotività troppo a lungo compressa. La seconda: la letteratura “brigatese”, fatta dai protagonisti, e dagli ex più o meno pentiti, ha una funzione sostanzialmente assolutoria. La letteratura delle vittime della seconda generazione, invece, solo apparentemente, o solo indirettamente ha per oggetto il racconto della lotta armata, e ha una aspirazione civile. al libro di Mario Calabresi, Pdopoenso e quello che mi resta, due anni la sua uscita, non è la storia della vita del commissario, non so-

no Lotta continua e Adriano Sofri, ma l’immagine del bambino che combatte per recuperare il fotogramma di un ricordo, un abbraccio in mezzo a una folla, il padre che solleva il figlio più in alto. Penso al libro di Sabina Rossa, e – malgrado lo stilema sia quello dell’inchiesta –il cuore forte è il recupero del coraggio, le frasi lucidissime di Guido sul senso della storia e l’umanità: il comunista che fa la scelta di vita, e decide che deve testimoniare contro le raccomandazioni di tutti, a rischio della vita, seguendo un imperativo morale. La letteratura brigatista gioca con le prove a discarico, la letteratura civile delle vittime è continuamente tentata dall’assoluto, forse proprio per il desiderio di rispondere con il titanismo alla banalità del male. Sabina Rossa trova la forza di andare a cercare gli uomini del commando che sparò a suo padre: e quando li abbraccia con il suo racconto – ancora una volta le pagine più belle – scopri che dietro non hanno nulla. Volenterosi carnefici: solo automi svuotati di senso, ora che la guerra è finita. Penso al libro di Benedetta e la cosa che più mi ha avvinto è la capacità di raccontare il padre sviscerando la sua biblioteca, i suoi diari, il suo immaginario: l’operazione più letteraria e meno cronachistica che si possa immaginare. E’ la Benedetta trentenne, che solo grazie alla scrittura riesce a passare – come nota lei stessa – dal ruolo di orfana, e di figlia minore – a quello di sorella maggiore, e di custode della memoria. Benedetta Tobagi schiva con asciutta e leggiadra ironia la pubblicistica ufficiale sul

giornalista-martire e ricostruisce un suo Tobagi, diverso da tutti gli altri. Ma anche simile a lei. Ecco, è la stesso prodigio di “Spingendo la notte più in là”. Il Calabresi di Mario è anche un po’ Mario, il Tobagi di Benedetta è anche un po’ Benedetta. Questi figli progressisti proseguono le vite interrotte dei padri, e le sublimano, mentre curano con la scrittura il proprio trauma da abbandono e le proprie ferite. Si va alla scoperta di un nuovo Tobagi, e il lettore segue Benedetta e partecipa con lei alla ricerca. Anzi alla “Recherche”. C’è molto più Proust che Curcio, in questi libri. potrà dire che questo lavoro di Sneiscrittura implica la reinvenziodi una identità. Dal punto di vista letterario non è un limite, ma un pregio, e nella letteratura della memoria questo è un lavoro necessario, per colmare i buchi neri prodotti dai delitti. Benedetta, per esempio combatte una civile battaglia contro “il Tobagi eroe craxiano”. Ricorda con fastidio l’iconografia televisiva in cui il suo Tobagi era quasi cancellato in una dissolvenza a base di garofani. Così come il Calabresi umanissimo raccontato da Mario combatte con il Calabresi grottesco della campagna di demonizzazione di Lotta continua. Il vero Calabresi, il vero Tobagi, il vero Giralucci e il vero Guido Rossa, forse stanno nel mezzo: non hanno avuto la possibilità di emanciparsi dalle maschere mortuarie che la pubblicistica aveva cucito loro addosso: “lo sbirro”, “la spia del Pci”, “il giornalista di Craxi”. I loro figli combattono que-

sti stereotipi con la loro scrittura. Calabresi lo fa con gli strumenti di una grande inchiesta giornalistica ed emotiva, Benedetta con un processo che è tutto letterario. Ha in mano un archivio e un biblioteca, e li usa per sostituire al Tobagi stereotipato, uno nuovo: “Ho intessuto un dialogo a distanza con la voce di carta del giornalista Tobagi, un gioco segreto che ha reso lo studio degli anni settanta più leggero. Per ogni tema andavo a cercare se papà ne aveva scritto e rivolgo le mie domande ai quotidiani ingialliti”. Qui la scrittura del padre diventa una sorta di libro iniziatico. Laico, ma allo stesso tempo sacro. I compiti si dividono: il padre lavora sul passato, il figlio sul futuro. Al punto che quando la Tobagi racconta che gira per le scuole a raccontare questa storia, capisci che dalla storia scritta si è passati omericamente alla narrazione orale. Quanto è diverso l’ovale paffuto del giornaliata del Corriere dal ragazzo che annotava nel suo quaderno: “Dov’è spirito popolare voglio essere io: contro chi lo sfrutta, sia esso un tecnocrate o un capitalista”. Ricorda Benedetta che secondo Sciascia “Tobagi era stato ucciso perché aveva metodo”. Verrebbe anche da dire che è anche grazie a questo metodo (la scrittura autobiografica, l’autoarchivistica) se oggi Tobagi può risorgere nel racconto della figlia. Alla fine non so se “il vero” Tobagi sia quello di Benedetta. Ogni invenzione narrativa è insieme il massimo del tradimento e il massimo della fedeltà. Non è detto che sia una male se la P38 cede il passo alla Madeleine.


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CINEMA/ CECCHI GORI

NEANCHE I POP CORN

requisiti anche i fondi della società che rifocillava gli spettatori di Malcom Pagani

a cassiera si è fermata a Eboli. Al cinema di provincia dei film di Tornatore. Un cantuccio buio, ciò che resta del giorno, lo sbando di un’antica sala nel centro di Roma, con le pozze d’acqua per terra, i cessi inagibili e un freddo contro il quale le decine di persone strette al centro dell’edificio, seguendo l’istinto al pari della fisica, nulla possono. Domenica romana d’autunno. Cinema Empire. Johnny Depp sullo schermo, una maschera annoiata che prima di emettere il biglietto sibila: “Manca il gasolio, vuole entrare lo stesso?”, la fotografia più nitida di un crollo senza resurrezione. Soltanto dieci anni fa, la vita era bella. Ai tempi di Roberto Benigni, della sua favola capace di sovvertire la storia e degli Oscar assegnati in una notte losangelina, con i due toscani abbracciati. Ancora felici. Del gruppo Cecchi Gori, rimangono reliquie. Stritolato da un crac da oltre 1000 miliardi di lire, assalito dai creditori, costretto a mettere sul piatto case, macchine, uffici, library e esercizi, quella che fu la più grande industria cinematografica italiana del dopoguerra (350 opere, Antonioni, Fellini, Scola, Troisi, Olmi, Salvatores) muore senza eutanasia. Giorno dopo giorno. Il colpo decisivo, sferrato all’inizio del nuovo Millennio. Quando anche Geronzi, che pure lo aveva sostenuto, si eclissò al momento opportuno. Tragicomiche avventure a Montecitorio precedute da viaggi elettorali siciliani per cui non sarebbe bastata la penna di Sciascia. Transazioni economiche fallimentari (sempre a danno di Vittorio e con il concorso della stessa politica). Amori da copertina cui offrire in pasto baby doll, showgirl, droga scambiata per zafferano, pigiamini di seta bianca e confusione. A rresti: “Voglio morire ma da solo non ce la faccio, aiutatemi con un’iniezione letale”, accuse, distrazioni di fondi, banca-

L

rotte fraudolente. I propositi di risalita, puntualmente disattesi. Allora, Cecchi Gori deteneva oltre l’80 per cento della settima arte prodotta tra Aosta e Capo Passero. Registi alti e autori popolari, giovani promesse e comici di ogni risma. I Leoni d’oro e gli eroi dell’assalto natalizio al botteghino. Non si faceva nulla se non desiderava Vittorio e il figlio di Mario, il patriarca burbero che all’erede “il mì bischero”, lasciò fortuna e redini, voleva spesso. Una specie di bulimia. Generoso e morbido, itterico e caporalesco, eccessivo e barocco, con il complesso dell’eredità paterna e la presunzione maldestra di potersela cavare in prima persona. Quando cacciò Radice, l’allenatore che i maligni sussurravano avesse disturbato l’intimità familiare, eruttò: “Io sono laureato, sa?”. Poi, prima che Paolo Virzì fosse sequestrato in albergo per mancanza di fondi durante la lavorazione di “My name is Tanino”, e altri autori si strappassero i capelli tra progetti accantonati e set smontati, una visibilità assoluta e ricercata. Pedicure d’alto bordo su yacht da emiro per estati senza risparmio in Costa Smeralda, donne con personalità feroce (Maria Grazia Buccella, Rita Rusic, sposata nell’83, dopo averla incontrata sul memorabile “Attila flagello di Dio”, con cui ebbe un figlio e da cui, oltre ad alcune notevoli scoperte, ricevette un’ingiunzione per 2000 miliardi delle vecchie lire), un tracciato di multiplex, da far invidia alle multinazionali estere. Adesso, mentre sul sito del gruppo, in luogo delle novità editoriali, appaiono gli avvisi lampeggianti delle aste giudiziarie e a Fontanella Borghese, anche i truffatori di professione (che nel momento del declino, si affacciarono come cavallette) si sono stancati di bussare, un rumore di niente. Antonio Skármeta, lo scrittore cileno de “Il postino”, aspetta invano che le buone intenzioni espresse da Vittorio davanti a un tramonto in la-

guna nel settembre del 2006, diventino immagini. “Ricomincio,vedrete, il prossimo film sarà ‘Il ballo della vittoria’ di Trueba”. Nulla. il romanzo di una dinastia pare arrivato all’ultimo capitolo. Vittorio sogna un film sulla sua vita che tenga conto del particolare accanimento riservatogli: “Vorrei intitolarlo ‘Il complotto’ o meglio ‘Senza vergogna-il caso Cecchi Gori’”. Intanto il telefono ha smesso di squillare e gli amici di un tempo, quelli pronti a ridere a comando, a omaggiarlo senza ritegno, a partecipare ai banchetti e a farsi pagare trasvolate, alberghi in Costa Azzurra e sceneggiature remunerate a peso d’oro, hanno fiutato l’aria salata, scomparendo dal quadro uno a uno. A Roma, il collegio dei liquidatori aveva innescato in maggio la procedura per ripianare i debiti provocati dal fallimento del forziere Finmavi dell’ottobre 2006. All’asta undici sale, dall’Adriano all’Atlantic, 31 schermi, il più importante circuito della città. Quasi 83 milioni di euro di valore complessivo stimato, oltre a tre strutture chiuse da anni, lo storico Volturno (nave scuola per generazioni di militari in cerca di un’ora di proibita evasione), l’Excelsior e il New York. Dichiarate insufficienti le prime offerte, la realtà ha continuato a innaffiare il proprio corso e come spesso accaduto gli affluenti hanno inquinato la precaria ansa del fiume Cecchi Gori. Sulla vendita dei beni (in certi casi proprietà degli immobili, in altri solo dell’esercizio cinematografico) si addensa la nebbia. Gli acquirenti (in ballo anche altre proprietà che furono di Vcg in Toscana, a Bari e a Torino) avrebbero dovuto impegnarsi a mantenere per tre anni i livelli occupazionali e a non cambiare la destinazione d’uso. Niente supermercati, né parcheg-

Il produttore Vittorio Cecchi Gori disegnato dal tratto di Manolo Fucecchi

gi. Poco spazio vitale per le speculazioni. Forse per questo le offerte (si parlava di Benetton) si sono fatte attendere. Sulle centinaia di dipendenti del settore (costo del lavoro, ritardo negli stipendi e alto numero di impiegati, i problemi) aleggiano nubi minacciose. Per questa ragione (garantire continuità), era intervenuta anche una delibera comunale volta a lasciare la possibilità di riservare il 50% della cubatura ad attività commerciali. Quando sembrava che i tempi dovessero allungarsi, proprio l’altroieri, Massimo Ferrero, proprietario di Global Media, di quote di “Circuito Cinema”, con attività miste

Sequestrate case e appartamenti, svenduto per meno di 60 milioni di euro il patrimonio di una vita tra settore alimentare e celluloide, si è impegnato a versare 59,5 milioni di euro a Ludovico Zocca , il custode giudiziario della Cecchi Gori cinema e spettacolo. Tre milioni già erogati, altri sette alla fine di dicembre. Ulteriori 49,5 entro i successivi sei mesi. Molti soldi, col sospetto che dietro, celato, si nasconda più di un investitore. Togliere l’Adriano a Cecchi Gori, significa abbatterlo definitivamente. Sottraendo al pesce risalito in superficie, acqua, aria e denaro fresco. Oggi, mentre il curatore fallimentare gestisce gli incassi delle sale e l’antico collaboratore, uno degli ultimi rimastigli fedeli, Leandro Pesci, accantona tagli vari per sanare i debiti e pagare i lavoratori, Cecchi Gori, abbandonati gli arresti domiciliari piovuti nel luglio

2008, vola in America alla ricerca di una speranza nuova. Ricominciare all’estero, portando avanti la causa con la Merryl Lynch e quella riguardante Seat-Pagine Gialle col duo Pelliccioli-Colaninno, ancora in auge in Piazza Affari. Partite ancora aperte, con un finale incerto. Mentre gli avvocati preparano il disperato tentativo di stupire, a Vittorio hanno tolto anche i Pop Corn. Gelati, bibite e panini, rappresentano il 20 per cento dell’incasso di una sala. Soldi che dopo il sequestro di una società di catering riconducibile a Cecchi Gori, sono venuti a mancare proprio nel momento meno adatto. “Ho parlato di calcio e mi hanno fatto fuori, ho preso due televisioncine (Mtv e Telemontecarlo, ndr) e mi hanno ucciso. Il potere non metabolizza le persone per bene”. Il sistema aveva pensato a forme di ammortizzatori sociali per i dipendenti delle sale a rischio licenziamento (attualmente non esistono, possono andare in mobilità ma senza assegno), a una vendita in blocco che evitasse di far scegliere tra sale potenzialmente remunerative e immobili con meno appeal. Tutto cancellato dalla mossa di Ferrero che con 25 milioni in meno di

quanto preventivato, rischia di mettere le mani su un patrimonio in desolante svendita. Intanto Vcg, forse per la prima volta, conosce la fatica. Sequestrate le case di Londra e l’appartamento sulla Quinta strada a New York, intatta la speranza di una riemersione che però appare ogni giorno più complicata. A qualcuno, produttori indipendenti in testa, manca il suo entusiasmo senza regole. Altri rimirano i nuovi assetti e non lo rimpiangono. In mezzo c’è Vittorio, bambino come quando recitava ne “Il Sorpasso”, uomo sorpreso nel mezzo del cammino da una tempesta perfetta per tutti, tranne che per lui. Del tycoon che agognava il terzo polo, anelava il superamento, non esclusivamente fisico di Berlusconi “siamo entrambi alti 167 centimetri, però lui ha il tacco” e quando osservava l’Arno sporco, si era messo in testa la meravigliosa idea di depurarlo, rimangono i pezzi della “casa di cristallo” che un giorno, senza preavviso, si trasformò in inferno. Vittorio naviga senza rotta. In fondo ha fatto male solo a se stesso. Mentre chi ne foraggiò la megalomanìa, spesso ha seminato in Borsa illusioni, morti e feriti.

Una modesta proposta: silenzio stampa per gli imbecilli L’ECO MEDIATICA PER I RAZZISTI CHE INSULTANO BALOTELLI È CONTROPRODUCENTE E DISEDUCATIVA di Oliviero Beha

“caso Balotelli” è ormai cronologicaIparlalmente “vecchio”, nel senso che se ne da una stagione abbondante, come pure è vecchia/antica la questione del razzismo da stadio. Solo che sta diventando ogni volta “nuova”, e ricresce su se stessa come una mala erba. Adesso i cori degli ultras juventini anti-Balotelli sono arrivati l’altra sera in Champions a Bordeaux, naturalmente in assenza del loro bersaglio, così come era accaduto in Italia. “Se saltelli muore Balotelli” e via andare, con multe e diffide per la società Juve e il rischio squalifica del campo.

Buffon ha fatto da calmiere a Bordeaux placando i cori. Tra due domeniche c’è Juventus-Inter e il callido Mourinho avrebbe preferito che si giocasse in campo neutro perché il suo giocatore ne risentirebbe. Questo lo stato dell’arte. Quindi mettiamo in fila alcuni elementi della questione: Mario Balotelli innervosisce e indispettisce “anche il suo tecnico” per gli atteggiamenti che tiene in campo e a volte fuori, un “crimine” contro se stesso se è vero che è un talento di Dio che rischia di andare sprecato. Il punto è che è nero, è questo che inscaffala come sommamente “razzista” ogni coro contro di lui. Anche se chi lo sbeffeggia sostiene che ce l’hanno proprio con lui, Mario persona, e lo stesso sarebbe se fosse giallo, pellerossa o barese. Avete letto bene, barese. Il pensiero infatti corre a Cassano, che ha fatto delle “balotellate” in passato. Sarebbe stato razzista prendersela con lui come di questi tempi con Balotelli? E quando il deputato europeo leghista Matteo Salvini, un paio di mesi fa, intonava cori contro i napoletani, solitamente bianchi, era raz-

Mario Balotelli e Marco Materazzi in un momento di relax (FOTO ANSA)

zista oppure no? Oppure era semplicemente un politico ignaro del suo ruolo e delle sue responsabilità, ignaro perfino del fatto che fa parte di una maggioranza di governo che ha licenziato una legge che dovrebbe far sospendere le partite quando si registrino episodi di razzismo negli stadi? Eppure il Salvini, non esattamente Erasmo da Rotterdam, sostiene qualcosa del tipo “lo stadio c’è apposta per sfogarsi e i cori si fanno da sempre”. Ed è un elemento su cui ragionare, perché è insieme vero e ingiusto. Vero perché appunto quella di Balotelli è una questione antica, c’è tutta una letteratura su parole e comportamenti razzisti allo stadio (e altrove, ovviamente), e vero anche perché lo stadio da sempre ha fatto da sfiatatoio, è stato vissuto dalla tribù tifosa ma anche e soprattutto dalle autorità come un “porto franco”. La franchigia da stadio rendeva i delinquenti solo un poco più teppisti del dovuto, i teppisti tenui dei tifosi accesi, i tifosi meno bercianti degli “sportivi” (ma tu dimmi!) e via a scalare. Il precipizio era evidente da un pezzo, e con esso la grande responsabilità culturale di un paese che ha usato il calcio come rollerball, come sfogo per tutto il resto.

In questo processo di decomposizione sociale, culturale e nel senso più profondo politica, i media hanno svolto un ruolo acritico, vendendo per anni l’ignoranza e la sottovalutazione del fenomeno favoriti in questo dal potere sportivo che non voleva mollare neppure una briciola di autonomia, anche a costo di morti e feriti da stadio. ”Non sono dei veri tifosi” è stata la giaculatoria che ci ha accompagnato e ci accompagna ancora in tv, alla radio, sui giornali e un po’ meno su Internet dove tutto prende un’altra piega, senza mediazioni e spesso senza neppure un abbozzo di interpretazione (i blog ci riservano quanto di peggio nella materia, ricordandoci gli esperimenti del microfono aperto di Radio Radicale di anni fa, ben presto “una fogna dell’etere”).Pensate: “Non sono dei veri tifosi” è il massimo dell’elaborazione concettuale e di ordine pubblico contemporanea. Riepilogando: il “caso Balotelli” nasce e si riproduce in questa serra senza aria, la pianta è malata, andrebbe ovviamente tagliata alla radice. Non si può fare, perché malgrado il tentativo balordo di trattarlo da “zona franca”, lo stadio “franco” naturalmente non è, e si lega strettamente a un prima e a un dopo nelle stesse

persone. Fissarsi sull’aspetto razzistico anti-Balotelli, in teoria giusto e ragionevole fin quasi alla banalità, rischia di vendere una merce adulterata, quella dell’indignazione-bancomat, infili la tessera dei cori ignobili e ne esce questa disapprovazione per lo più mediatica, che la politica non raccoglie, dico la politica sportiva e insieme, sovrapposta o interrelata, la politica tout court (al di là del solito “recitativo” delle interrogazione parlamentari, vedi quelle di ieri). Veniamo alla mia modesta proposta buona non in generale ma soltanto oggi e qui, per la fase che stiamo attraversando. Da adesso in poi vengano applicate davvero le leggi, la giustizia sportiva (rappresentata da arbitro, assistenti e quarto uomo alla Orson Welles rivisitato e aggiunto, che sono il terminale in campo appunto delle norme specifiche) interrompa le partite con i cori razzisti sapendo che è previsto da una legge dello Stato che deve essere rispettata. Ma rispettata davvero, rischiando sia di attentare agli interessi del calcio che teme rinculi di tutti i tipi e per questo non applica nulla, sia di esemplificare la fatica di Sisifo, di svuotare il mare con un cucchiaio magari nel ludibrio circostante.


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TELE COMANDO TG PAPI

Il ginecologo Gasparri di Paolo

Ojetti

g1 T Cosa c’è “al centro del confronto politico”? Buttiamoci a indovinare: vuoi vedere che c’è la Finanziaria? E com’è questa Finanziaria? Ovvio, è “leggera”, così sono tutti tranquilli e felici. Vero è che tutti i tagli promessi da Berlusconi quando è in vena di facezie (Irpef, Irap, affitti) sono stati cancellati da Tremonti con un tratto di penna: ma è “leggera” lo stesso, allegria. L’inutile Tg1, famoso per non dare una notizia che è una, passa dal “confronto” allo “scontro politico”. E’ sempre un modo di dire senza senso, utile solo a coprire la realtà, e la sorte della Ru486. E di aborto in aborto, il commento del giorno è stato affidato a Maurizio Gasparri che, smessi i panni del costituzionalista usati per lodare il “processo breve”, in-

dossava ieri il camice del ginecologo. Un riconoscimento al Tg1 comunque va fatto: ha smesso di mandare in onda gli elogi di Obama alla “leadership” di Berlusconi, scritti dal premier medesimo. g2 T La solidarietà di “tutto il mondo politico” a Schifani minacciato di morte da ignoti, passa nei piani alti del Tg2. Se qualcuno, con la testa di Gasparri, potesse commentare, direbbe: minacce a orologeria. Come surrogato, ci pensa Bonaiuti: “Le minacce si aggiungono alle vili accuse di un pentito”. Le due cose non sono affatto interdipendenti, ma l’occasione è succulenta: sembra quasi una prova generale per il giorno in cui qualche pentito dovesse tirare fuori scheletri dagli armadi del “premier”. Scontri fra polizia e operai dell’Alcoa di Por-

to Vesme. Ne resta a terra uno, colpito da manganellate. La polizia smentisce: mai usato il manganello. Falso: in un filmato amatoriale si vedono oggetti lunghetti e neri, che gli agenti randellano sulle teste altrui e con una notevole energia. Una volta, si chiamavano manganellate. Oggi, chissà. g3 T La notizia succosa arriva in corso d’opera e il Tg3 la acchiappa al volo. Berlusconi parla all’ufficio politico del Pdl e spara due affermazioni. Una è una minacciosa previsione: “La magistratura ci sta portando sull’orlo della guerra civile”. La seconda è una minaccia senza previsioni: chi fra noi è contro il processo breve, è fuori dal partito. Chi sono i reprobi, a parte il cofondatore Gianfranco Fini e le truppe che gli sono rimaste fedeli? Conoscendolo, si attende solo che Berlusconi smentisca se stesso, accusando la stampa e le televisioni ostili. Alle berlusconate della sera, il Tg3 antepone però in apertura gli operai dell’Alcoa. Il servizio serve a ricordare che esiste un’altra Italia, ma al Tg3 mancano le immagini decisive viste sul Tg2, quando i poliziotti, come si dice a Roma “menano”.

di Luigi

Galella

IL PEGGIO DELLA DIRETTA

Va in onda il perdono

bbiamo visto emergere il perdono, nella Aattraverso serata di mercoledì. In una prima forma, il portavoce della Comunità di Sant’Egidio. Mario Marazziti ha raccontato a Serena Dandini nel salottino di “Parla con me” (Raitre, 23.10) l’esperienza di un uomo chiuso nel braccio della morte per vent’anni, in Oklahoma. Curtis McCarthy, 44 anni, ha potuto dimostrare la sua innocenza grazie alla revisione del processo e a nuove prove del dna. In un primo tempo era stata questa la causa della sua incriminazione. Ma a distanza di tanti anni si è scoperto che le tracce biologiche sul luogo del delitto non erano le sue. Innocente, ha rischiato la follia e la morte. Ha bruciato la sua vita in un carcere in cui ogni giorno attendeva, e in certi momenti sperava, che la condanna venisse eseguita. Ha lottato per essere riconosciuto innocente. Infine, pur ammettendo che era del tutto estraneo a quel crimine, una volta libero, il governo non lo ha nemmeno risarcito. Marazziti gli ha chiesto se odiasse, ora, e lui ha risposto di no. Più ancora che quella esteriore, Serena Dandini evidentemente, aveconduce “Parla con me” va guadagnato la lisu Raitre bertà interiore: “Se io odiassi sarei ancora prigioniero”. Libero dalle catene dell’odio, poteva permettersi di perdonare, lui, i suoi aguzzini. Un racconto e un uomo che avrebbero incantato Victor Hugo. Il perdono è un con-

cetto alto, scandaloso e rivoluzionario, di origine cristiana. Di contro, l’odio – che a esso si contrappone – è descritto nel Nuovo Testamento come causa di infermità: il maggiore ostacolo alla possibilità della guarigione. Nella stessa serata, Bruno Vespa a “Porta a Porta” (Raiuno, 23.25) intervistava Carlo Castagna, al quale uccisero sua figlia, suo nipote e sua moglie. Il caso di cronaca è noto a tutti come la strage di Erba. I coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi – condannati in primo grado all’ergastolo – a causa di piccole questioni condominiali relative al fastidio provocato dal bambino, considerato troppo rumoroso, decisero di porre fini ai litigi eliminando la fonte di quei rumori. Un crimine tanto efferato quanto futile nelle sue motivazioni. Da subito Castagna fece scandalo perché dichiarò che avrebbe anche potuto perdonare gli assassini. E ora infatti ribadisce quel sentimento. Ci sono concetti che lavorano sotterraneamente. Parole che scavano la terra come talpe, per poi riaffiorare mediaticamente al momento opportuno, come dei lapsus, che prima o poi riveleranno la propria ragione. Intenzioni nobili svilite da un uso strumentale e un po’ miserabile. Una di queste è la parola “odio”, usata dalla politica come un’arma verbale contro gli avversari, che stigmatizza con inaudita violenza la semplice richiesta di giustizia. Un altro per l’appunto è il perdono, attualissimo, deformato e stravolto da slittamenti semantici e disinvolte riformulazioni, in termini di condono, remissione dei peccati e dei debiti. Cancellazione o prescrizione dei reati.


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MONDO

WEB

N

SK1= Cinema 1 SKH=Cinema Hits SKMa=Cinema Mania

mente a offrire un computer collegato a Internet ai propri clienti; eppure, nel resto del mondo, è del tutto normale controllare la posta elettronica mentre si mangia un panino. Lo stesso discorso vale per aeroporti e stazioni. I colossi della Rete, negli Usa, stanno facendo a gara per garantire connettività libera, Google per le festività natalizie offre una rete wi-fi e gratuita in 47 aeroporti. In Italia, se si deve controllare la posta con urgenza dal proprio portatile o dal proprio telefonino, non si troverà in nessuna stazione e in nessun aeroporto un collegamento gratuito: la procedura è troppo onerosa. E ci sono anche gli enti pubblici. Le amministrazioni italiane, dai comuni alle province, che offrono connettività, si trovano ad affrontare problemi enormi per rispettare il decreto Pisanu. I cittadini, quindi, si rivolgono nella stragrande maggioranza ai privati, e questo mentre le città “cablate” sono una realtà in tutta Europa. Come siamo arrivati a questa situazione? Non lo sa nessuno. Il viceministro Romani, dice di “non avere mai sentito parlare” di questa

LO SPORT

I FILM SKF=Cinema Family SKM=Cinema Max

17.45 Tutta colpa di Sara SKF 19.10 Il pap di Giovanna SK1 19.15 I Segreti del lago SKM 19.15 Pa-ra-da SKMa 19.30 Cocktail SKH 19.30 Big trouble - Una valigia piena di guai SKF 21.02 Maratona Remake da paura Riflessi di paura SKM 21.03 Grande, grosso e... Verdone SKF 21.05 Piume di struzzo SKMa 21.18 I perfetti innamoratiSKH 22.40 Streets of Blood SK1 22.57 Maratona Remake da paura Amityville Horror SKM 23.05 Una moglie bellissima SKH 23.07 Breakfast on Pluto SKMa 23.20 First Sunday - Non c pi religione SKF 0.25 Maratona Remake da paura The Eye SKM 0.40 Vicky Cristina Barcelona SK1 1.00 Una reginetta molto speciale SKF 1.05 Cous Cous SKH

SP1=Sport 1 SP2=Sport 2 SP3=Sport 3

19.30 Tennis,ATP World Finals 2009 Da Londra - Singolare Round Robin Gruppo B: Rafael Nadal - Novak Djokovic (Replica) SP3 20.40 Calcio, Serie B 2009/2010 16a giornata Salernitana - Gallipoli (Diretta) SP1 21.45 Tennis,ATP World Finals 2009 Da Londra - Singolare Round Robin Gruppo B: Robin Soderling - Nikolay Davydenko (Diretta) SP3 23.17 Rugby,Test Match 2009 Italia - Sud Africa (Sintesi) SP2 0.00 Tennis,ATP World Finals 2009 Da Londra - Doppio Round Robin Bryan/Bryan Kubot/Marach (Differita) SP3 0.15 Poker, Poker World Series 2005 Episodio 26 (Replica) SP2 2.00 Tennis,ATP World Finals 2009 Da Londra - Singolare Round Robin Gruppo B: Robin Soderling - Nikolay Davydenko (Replica) SP3

RADIO “Radio3Mondo” protagonista l’America Latina Il presidente iraniano ha concluso il suo tour sudamericano, che nei giorni scorsi lo ha portato in Brasile e Bolivia, con una visita al suo principale alleato nella regione, Hugo Chavez. Oltre agli accordi con il Venezuela,Ahmadinejad ha ottenuto un’ importante vittoria politica: l’appoggio di Evo Morales, capo di Stato del paese andino, e del presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva, per i progetti nucleari con fini pacifici. Intanto, il gruppo dei cinque più uno (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, più la Germania) ha preparato una bozza di risoluzione che condanna l’Iran e che potrebbe essere sottoposta al voto dei 35 governatori dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica, riuniti a Vienna per discutere del programma nucleare iraniano e delle conseguenze del rifiuto di Teheran di accettare un compromesso sull’arricchimento dell’uranio. Quali prospettive ha aperto il viaggio del presidente iraniano?

Radiotre 11,30

è ANTEFATTO.IT Commenti al post “Se questo è uno Stato” di Antonio Padellaro

di Federico Mello

Appello a Maroni: “Libera Internet” egli ultimi giorni si è parlato molto di banda larga e degli 800 milioni per sviluppare l’infrastruttura tagliati dal Cipe. Ma ci sarebbe un’altra misura per rilanciare la diffusione di Internet in Italia, una misura che, tra l’altro, sarebbe totalmente a costo zero. È l’abolizione di una norma del decreto Pisanu (pacchetto antiterrorismo) che dal 2005, caso unico nel mondo libero, prevede che bar, internet-cafè, stazioni, aeroporti, enti pubblici, e chiunque intenda offrire una pubblica connessione – sia via cavo sia wireless –ai propri utenti o ai propri clienti, debba, prima di tutto chiedere un’autorizzazione alla questura, poi dotarsi di un software (costoso) che registra tutta la cronologia delle navigazioni e, soprattutto, chiedere a chiunque intenda navigare, un documento d’identità. La misura, prevista per favorire indagini sull’antiterrorismo, risulta un vero e proprio cappio stretto intorno al collo della libera diffusione di Internet. Chi ha un bar, per esempio, ancora prima di organizzarsi per adempiere a tutte le disposizioni di legge, rinuncia bella-

feedbac$ k

norma Pisanu (lo riporta il giornalista Alessandro Longo sul suo blog). Solo la ministra Brambilla si è fatta sentire recentemente: “Il decreto Pisanu, che pure aveva alla base una finalità positiva, ha rappresentato indirettamente un freno alla crescita tecnologica e alla diffusione dei punti di accesso a Internet” ha dichiarato MVB proponendo di abolire la norma per i turisti. Ma sarebbe assurdo abolirla per i turisti, e non per i cittadini italiani. Bisogna aggiungere, inoltre, che le misure del decreto sarebbero dovute durare solo per il 2006. Poi, senza alcun dibattito, senza alcuna verifica dei risultati conseguiti, sono state prorogate già due volte con il decreto “milleproroghe” (quindi anche dal governo Prodi). Quest’anno, alla vigilia di un’eventuale e ulteriore proroga, il blogger Sergio Maistrello ha lanciato un appello: “Decreto Pisanu: quest’anno no”. Adesso l’appello di Maistrello si evolve e diventa: “La carta dei cento”, lanciata da Maistrello assieme ad altre personalità di riferimento in Rete: Alessandro Gilioli, Guido Scorza e Raffaele Bianco. La “carta” viene pubblicata oggi sul settimanale l’Espresso ed è già stata sottoscritta da 100 “imprenditori, politici, manager, blogger, giuristi”. “Si tratta di norme – il

testo dell’appello – che non hanno alcun corrispettivo in nessun paese democratico; nemmeno il Patriot Act Usa, approvato dopo l’11 settembre 2001”. I limiti sono evidenti: “Tra gli effetti di queste norme, ce n’è uno in particolare: il freno alla diffusione di Internet wi-fi, cioè senza fili. Non a caso l’Italia ha 4,806 accessi wi-fi mentre in Francia ce ne sono il quintuplo (...) Questa politica rappresenta una limitazione nei fatti al diritto dei cittadini all’accesso alla Rete e un ostacolo per la crescita civile, democratica, scientifica ed economica del nostro paese”. E quindi la richiesta: “Per questo, in vista della nuova scadenza del 31 dicembre, chiediamo al governo e al Parla-

mento di non prorogare l’efficacia delle disposizioni del decreto Pisanu in scadenza, e di abrogare la previsione relativa all’obbligo di identificazione degli utenti contribuendo così a promuovere la diffusione della Rete senza fili per tutti”. Ieri Il Fatto Quotidiano ha provato a chiedere a Roberto Maroni, titolare del ministero dell’Interno, cosa intenda fare il governo. Non abbiamo ancora avuto risposta. Ma rimaniamo in attesa. Il ministro dichiarò nel 2006, a Vanity Fair: “Scarico illegalmente da Internet perché la musica deve essere libera e accessibile a tutti”. Speriamo sia favorevole anche alla libera diffusione di Internet nel nostro paese.

DAGOSPIA

PATRIZIA A MONTECITORIO

1) Non prendete appuntamenti per mercoledì 2 dicembre: la mitologica Patrizia D’Addario presenterà il suo libro “Gradisca Presidente” (Aliberti editore). Dove? È qui viene il bellum: davanti al Parlamento nei locali della libreria Arion-Montecitorio di Daniele Ciccaglioni. 2) Chiedete perché a Pier Silvio Berlusconi piaccia tanto www.hulu.com... è WIKIPEDIA IN CRISI? 3) Tra Draghi e Gotti Tedeschi IL FONDATORE (E GLI ITALIANI) SMENTISCONO non corre buon sangue. Perché? Uno studio dell’Università Juan Carlos di Madrid ha acceso i Oltre ai fatti riportati dalla riflettori su Wikipedia: secondo lo studio, l’enciclopedia stampa stamattina (Bankitalia libera realizzata da utenti e appassionati, è in profonda crisi, versus Ior) gira voce anche di e la sua versione in inglese avrebbe perso nell’ultimo anno una “multarella” comminata da 49.000 collaboratori. Cifre che hanno fatto nascere dei Bankitalia a Gotti Tedeschi timori sulla sopravvivenza dell’enciclopedia. Jimmy Wales, alcuni mesi orsono... però, che Wikipedia l’ha fondata, smentisce tutto al 4) Chiedete al presidente Telegraph: “Il numero dei nostri collaboratori è stabile, quelli che sono andati via sono rimpiazzati dai nuovi ingressi. Napolitano se è d’accordo riguardo a un’eventuale richiesta Abbiamo perso solo 1.585 utenti attivi dal settembre 2008. berlusconiana di “fiducia” sul D’altronde non possiamo crescere all’infinito”. Parole processo breve... rassicuranti anche per la versione italiana dell’enciclopedia: “Abbiamo quasi mezzo milione di membri, di questi 8.150 sono attivi”, scrive sul suo blog Frieda Brioschi di Wikimedia Italia – negli utlimi sei mesi siamo cresciuti del 2 per cento”. Meglio così.

GRILLO DOCET

LA TECNICA DI ERODE

In alto, il ministro Maroni, sotto Wikipedia e l’homepage del nuovo Paese Sera

è TORNA PAESE SERA LA STORICA TESTATA SU INTERNET

Giancarlo Caselli, procuratore capo della Repubblica di Torino, spiega con parole semplici perché l’ipotesi della legge sul processo breve proposta da Berlusconi sia una colossale porcata ai danni dei cittadini onesti. Il solo fatto che la legge fosse spinta da Alfano e Mavalà Ghedini mi aveva messo sul sospetto. Lo psiconano chiede sempre cento per ottenere 50. Sa che questa legge non può passare. E’ solo un espediente, una riforma per non farsi processare. Bersani è favorevole, Violante non sta più nella pelle. L’inciucio sulla giustizia sta arrivando mentre i problemi del paese possono, come sempre, andare a fanculo. “Tutti gli altri processi sotto i dieci anni, non rientranti nel catalogo delle eccezioni, commessi da incensurati, quando scattano i due anni senza che si sia arrivati a una sentenza di primo grado, muoiono e sono processi per fatti anche gravi, anzi sono processi per fatti di notevolissima gravità: abuso d’ufficio, corruzione semplice e in atti giudiziari, rivelazione di segreti d’ufficio, truffa semplice o aggravata, frodi comunitarie, frodi fiscali, falsi in bilancio, bancarotta preferenziale, intercettazioni illecite, reati informatici, ricettazione, omicidio colposo per colpa medica, maltrattamenti in famiglia, e via seguitando. Muoiono tutti questi processi, se non si rispetta il termine tassativo dei due anni in primo grado e via seguitando: quanti ne muoiono di questi processi? Secondo il ministro Alfano pochi, solo l’1%: se fosse vero la riforma non avrebbe senso. Secondo l’Associazione Nazionale Magistrati sono a rischio di estinzione molti più processi: il 50% dei processi rientranti nella categoria toccata dalla riforma”. L’intervista integrale su beppegrillo.it

Ritorna Paese Sera, lo storico quotidiano fondato nel 1948 dal Partito comunista italiano – concluse le sue pubblicazioni nel 1982. Tornerà solo online su paesesera.it, con lo slogan “Parla Roma”. Ad annunciarlo il consigliere regionale del Lazio Alessio D’Amato, tra i promotori dell’iniziativa della nuova testata telematica. Paesesera.it vuole essere “la voce di Roma attraverso il modello del citizen journalism” con “diffusione dei reporter di strada, dirette sul Web, videogiornale online, inchieste”. Il sito è già online.

Di mafia non so nulla, ma dubito che si possa diventare avvocato di un mafioso se questo non ha la certezza di poter contare al 100% su di te. A quanto risulta quella è gente che ammazza per molto poco (SamuraiSenzaPadrone) Quello che oggi c’è da chiedersi è: visto che B. non è ormai più utile come referente politico per la mafia, su chi stanno iniziando a puntare i clan? Qual è il loro cavallo su cui scommettere? (Cerchiamo di guardare oltre) Basta, è ora che la finiscano: fuori gli indagati, i condannati, i chiacchierati dal Parlamento: se devi difenderti in un processo per mafia, corruzione o altro, come fai a stare al governo o a sedere in Parlamento ed essere un onorevole rappresentante del popolo che ti ha votato? (Cla) In Italia la struttura criminale è diventata Stato insediandosi nelle più alte cariche del paese e in migliaia di istituzioni locali, industriali e finanziarie. Vorrei complimentarmi con Giorgio Napolitano per come sta con questa bella gente come se nulla fosse. Tra un patrocinio, un viaggio di piacere, un weekend a Capri, una cerimonia, una cena ufficiale, un sermone. Bravo Giorgio, hai da essere fiero della Repubblica che guidi (Enzo) Io penso proprio che questo Stato inizi a puzzare davvero in tutto e per tutto: non sciolgono la giunta comunale di Fondi, si scopre che Schifani sia stato l’avvocato di un alto esponente della mafia, si presume che Dell’Utri e Berlusconi fossero i referenti politici di Graviano. Cosentino: lasciamo perdere! (Cico) Ci vuole uno scatto d’orgoglio e levarci tutti in piedi, come un vero popolo, per cacciare a calci nel culo (mi raccomando mettetevi le scarpe con la punta rinforzata) questi farabutti. Mi viene un travaso di bile vedere questi individui che con la loro faccia tosta continuano ad ammantarsi dell’abito della rettitudine e noi costretti a chiamarli onorevoli, senatori, presidenti del Consiglio e così via. Che vergogna essere italiani! (Sanzo) A questi signori al governo che si fanno chiamare “onorevoli”, manca proprio il senso dell’onore e sono privi anche di dignità politica, perché se ce l’avessero non perderebbero un secondo a dimettersi e a presentarsi in tribunale per farsi giudicare. Noi comuni cittadini siamo stanchi di essere malgovernati da mafiosi, drogati e puttanieri (Elisa)


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Venerdì 27 novembre 2009

SECONDO TEMPO

PIAZZA GRANDE Il lato B dei rapporti Stato-Chiesa di Marco

Politi

otto gli occhi allibiti delle nazioni europee è in corso in Italia un esperimento di macelleria giuridica senza precedenti. Non c’è giorno in cui i satelliti del Cavaliere non cerchino di tagliuzzare e rappezzare le leggi per mettere il bavaglio alla magistratura. La Chiesa, i cui vertici insistono costantemente nel dichiarare il loro legame con le sorti del popolo italiano, tace. Eppure il fulcro della sua “dottrina sociale” risiede in un concetto: bene comune. E’ il filo conduttore di encicliche, documenti, discorsi papali. E’ il principio in nome del quale per la dottrina cattolica l’egoismo, l’avidità, la prepotenza sociale, l’ingiustizia vanno respinti e combattuti dai credenti.

S

pesso, se non quotidianaSsiastiche mente, le autorità eccleevocano l’etica della famiglia, l’etica della vita, l’etica della fecondazione, l’etica della salvaguardia del creato, l’etica della solidarietà sociale, l’etica della finanza, l’etica della ricerca scientifica. Stranamente dai Palazzi ecclesiastici non giunge invece, nemmeno fioca, una parola sulla torsione brutale cui il presidente del Consiglio sta sottoponendo le fondamenta del sistema legale italiano. La gerarchia sta cercando di presentare la situazione come un conflitto irrazionale tra eserciti vocianti. Non è così. Non si tratta dello scontro fra due tifoserie. Nelle stanze vaticane, dove si respira un’aria internazionale, si sa benissimo qual è il giudizio che nelle democrazie occidentali è riservato al caso B. Si sa, ma si tace. Ora è anche comprensibile che per diplomazia il Vaticano non voglia entrare nelle questioni interne di un altro Stato. Ma ciò non giustifica l’anomalia del silenziatore imposto alla Chiesa italiana nel suo complesso. Tanti, tantissimi fedeli, ubbidienti al magistero papale, appassionati del Vangelo, alieni dall’alzare la voce, aspettano da settimane che i vertici ecclesiastici pronuncino una parola chiara sulla pretesa che la legge non valga per tutti. Sono assieme alla stragrande maggioranza degli italiani, che ha approvato la Consulta quando ha bocciato il lodo Alfano e che oggi è contraria alla sospensione dei processi e alla reintroduzione dell’immunità ai parlamentari. Anche questo è “cattolicesimo popolare”. Ma la Chiesa tace. “Una viva coscienza della legalità esige che la formulazione delle leggi obbedisca innanzitutto alla tutela e alla promozione del bene comune… Se i comportamenti si slegano dalle norme, perché diventano legge a se stessi, perde senso ogni riferimento a un ordinamento legale. Se i mezzi vengono valutati esclusivamente in base ai

Stranamente dai Palazzi ecclesiastici non giunge, nemmeno fioca, una parola sulla torsione brutale cui il presidente del Consiglio sta sottoponendo le fondamenta del sistema legale italiano loro esiti immediati, scompare la progettualità nella società degli uomini e quindi il riferimento a leggi comuni”. Sono affermazioni contenute in un documento ufficiale della Cei del 1991. Si intitola “Educare alla Legalità”. Basterebbe ricordarlo.

del paziente nel testamento biologico, i finanziamenti alle scuole cattoliche. Molti credenti si chiedono se siano regali talmente importanti da rimuovere ogni preoccupazione per la moralità pubblica, il bene comune, la legalità “intesa come rispetto e osservanza delle leggi (che) è una forma particolare di giustizia” (così la Nota del 1991). Tacciono i vescovi, tace finora l’Avvenire, tace evidentemente scoraggiata dall’alto, gran parte della stampa diocesana. Mosca rara, il settimanale del Patriarca Scola di Venezia. Su “Gente Veneta” si può leggere un’intervista all’ex procuratore generale Fortuna, che dice ciò che tutta l’Italia non ciecamente berlusconiana ha già compreso: “Con il processo breve un’assurda amnistia, la più grande del dopoguerra. Si rischia l’estinzione dei reati senza alcun criterio”. Berlusconi lo sa benissimo. Il silenzio ecclesiastico è l’ultima grande stampella a cui aggrapparsi.

i piani alti della Chiesa si assiste a una contraddizione profonda. Da un lato l’episcopato (affrontando i problemi della criminalità nel meridione) si propone una campagna permanente per inculcare il rispetto della legge, dall’altro chiude gli occhi dinanzi a quella che una personalità equilibrata come Ciampi definisce ormai una costante “manipolazione delle regole”. E’ il prezzo della ragion di Stato. Dalla maggioranza di centrodestra la gerarchia ecclesiastica si attende il sabotaggio della pillola Ru486, la negazione dell’autodeterminazione

A

LA STECCA di INDROl Si può perdere bene e si può perdere male. Se va avanti così – se continua a lasciare sostanzialmente solo il suo candidato – la sinistra si avvia a perdere malissimo. Non è solo questione di stile, che pure conta. È questione di numeri. Se Berlusconi vince, dovrà fare. Se stravince, sarà tentato di strafare (lo conosco, e non ho dubbi). E di un Berlusconi che si considera onnipotente, cari lettori, io faccio volentieri a meno. So che alcuni di voi sognano un personaggio del genere: e non posso farci niente, se non invitarli a leggere la storia d’Italia, e non soltanto quella di questo secolo La stanza di Montanelli, Corriere della Sera, 17 aprile 2001 Una veduta del Vaticano

giustamente

É

di Bruno Tinti

PROCESSO BREVE CON AUTOVELOX U

na mia cara amica che fa il giudice civile mi ha chiesto: “Cosa sai di autovelox?”. Io che ho un’automobile da tamarro (come dice Marco Travaglio) le ho risposto: “Tutto, ma che te ne frega?”. E così ho scoperto che questa poveretta, consigliere di Cassazione (con stipendio adeguato), esperta di diritto societario, di concorrenza sleale e diritto fallimentare; titolare di numerosi processi in materia possessoria (sono cause rognose se mai ce ne sono state) passa un sacco di tempo a trattare gli appelli alle sentenze del giudice di pace in materia di contravvenzioni stradali. Pensate un po’: una multa per sosta vietata, per eccesso di velocità, per aver passato il semaforo con il giallo-rosso invece che con il verde-giallo finisce sul tavolo di questa mia amica; che, tra un processo per responsabilità di consiglieri di amministrazione che hanno deliberato una fusione societaria in presunto conflitto di interessi; e un altro per asserito possesso di beni immobili già appartenuti a ente pubblico; deve stabilire se 30 o 40 euro di multa debbono essere pagate oppure no. Questo triste destino tocca a tutti i giudici civili italiani: centinaia di migliaia di processi (in grado di appello) sulle sentenze dei giudici di pace in materia di infrazioni stradali. E intanto i processi veri si ammucchiano e le parti si chiedono: “Ma che cazzo fa questo giudice?”. A questo punto mi sono ricordato del tempo in cui, da pm, chiedevo decreti penali al gip: guida senza patente, omesso versamento contributi Inps, omessa esposizione della tabella dei giochi leciti e altre decine di minchiate del genere. Tutta roba che aveva il seguente percorso: richiesta al gip di decreto penale per qualche centinaia di euro, decreto emesso dal gip, due o tre tentativi di notifiche andate a male (perché l’imputato si trasferiva e non si sapeva dove andarlo a cercare), quando lo si trovava faceva opposizione, quindi processo in tribunale, poi appello e cassazione. Era una gara con la prescrizione; e vinceva sempre lei. Nel frattempo sulla mia scrivania si ammucchiavano i falsi in bilancio, le frodi fiscali, le corruzioni e le bancarotte. oi è arrivato Alfano e ha detto che non era tollerabile che il processo italiano durasse in media 7 anni e mezzo e quindi ci andava il “processo breve”: dopo 6 anni tutti innocenti. Può anche essere una buona idea: la giustizia deve essere rapida, se no che giustizia è? Quindi facciamo qualche riforma semplice, non costosa e poi via al “processo breve”. In Parlamento ci sono un sacco di magistrati e avvocati che possono spiegare ad Alfano le cose che si debbono fare; qualcuno che può dire ad Alfano che prima di varare il “processo breve” dovrebbe eliminare le sciocchezze che ho raccontato dovrebbe esserci. Qualcuno che può fargli un elenco dei ridicoli reati di cui si può fare a meno (sono centinaia) e spiegargli che prevedere tre gradi di giudizio più il ricorso al prefetto per le contravvenzioni stradali è una cosa folle dovrebbe esserci. Qualcuno che… Ma a questo punto mi sono messo a pensare: e che farebbero i 170.000 avvocati italiani (in Francia ce ne sono 50.000), privati da un giorno all’altro del loro pane quotidiano? Allora niente “processo breve”. Sì ma, e di B. che ne facciamo? Ecco, avete capito cos’è davvero il conflitto di interessi?

P

Articolo 10, diritto d’asilo e respingimenti di Lorenza Carlassare

art.10: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” consente l’ingresso “automatico” nel nostro sistema delle norme internazionali consuetudinarie, regole giuridiche a formazione spontanea che vincolano lo Stato nei confronti di altri soggetti dell’ordinamento internazionale. La consuetudine internazionale entra a livello costituzionale ed è dunque in grado di prevalere sulle stesse disposizioni della Costituzione, con un limite indicato nella sent. n. 48 del 1979: mai si può “consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale”. Di fronte a questi principi la consuetudine recede, la barriera è inAlle autorità superabile. E’ un limite sul quale la Coritaliane è impedito te costituzionale ritorna in più occasiodi adottare ni a proposito di norme poste al livello qualsiasi più alto del sistema (ad esempio, i Patti provvedimento Lateranensi fra Stato di allontanamento e Chiesa regolati all’art. 7 Cost.), e meche possa glio chiarirà in una fasentenza del risolversi, di fatto, mosa 1988 indicando nei diritti fondamentali e nella consegna al nei “principi suprepaese dal quale lo mi” i limiti assoluti che nemmeno con il straniero è fuggito procedimento di re-

L’

visione dell’art. 138 è possibile superare. Adattamento automatico significa che non è necessaria una legge apposita perché una norma consuetudinaria sia parte del nostro sistema, com’è invece richiesto per i trattati internazionali fra l’Italia e uno o più Stati. Numerosi questi ultimi, assai poche invece le norme internazionali consuetudinarie in grado di avere applicazione all’interno dello Stato; le quali tuttavia (lo si vedrà parlando dell’art. 11) possono avere grande rilievo. L’art. 10 ,2°: “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”, attribuisce alla “legge”, non a regolamenti o circolari, la competenza in materia: non al governo, ai ministri o ad altre autorità amministrative, ma solo Parlamento. La legge non può essere in contrasto con un accordo internazionale di cui l’Italia è parte; altrimenti, sottoposta al giudizio della Corte, sarà dichiarata illegittima. Dai lavori preparatori della Costituzione risulta che questa disposizione fu introdotta anche per superare “le condizioni di reciprocità” di cui parla l’art. 16 ma non tutti ritengono che la norma (degli anni Trenta) sia stata implicitamente abrogata dall’art. 10. Va comunque ricordato che varie disposizioni della Costituzione relative ai diritti si applicano anche agli stranieri, ai quali si estende il fondamentale principio di eguaglianza , anche se l’art. 3 parla di “cittadini”: lo ha affermato la Corte costituzionale fin dal 1967 (sent. n. 120). L’art. 10, 3° e 4° comma: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per

reati politici”. L’asilo politico è un vero e proprio diritto soggettivo d’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato in qualunque situazione si presenti. I respingimenti indiscriminati devono fare i conti con questo diritto costituzionalmente attribuito. Anche se è un diritto a un soggiorno temporaneo e provvisorio, alle autorità italiane è impedito di adottare qualsiasi provvedimento di allontanamento che possa risolversi, di fatto, nella consegna al paese dal quale lo straniero è fuggito. Spesso si confonde l’asilo con la condizione di “rifugiato” per la quale la Convenzione di Ginevra (1951) pone condizioni diverse (il fondato timore di essere perseguitato per razza, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale, opinioni politiche): per l’asilo basta l’impossibilità di esercitare “effettivamente” nel proprio paese le libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana. L’art. 10 vieta infine l’estradizione dello straniero per reati politici, come lo vieta per il cittadino l’art. 26;l a connessione con l’asilo è evidente: senza questo divieto la protezione offerta all’esule verrebbe meno in seguito alla richiesta di estradizione dello Stato di provenienza. La legge costituzionale n.1/1967, integrando l’art. 10, stabilisce che il divieto di estradizione non si applica ai delitti di genocidio. E, inoltre, poiché la Costituzione non definisce il “reato politico”, si ritiene valgano a definirlo anche norme internazionali, in particolare la Convenzione sul terrorismo del 1977 che considera “non politici” atti delittuosi eseguiti in modo crudele, contro vita e libertà di persone estranee a movimenti politici. Forse però sarebbe stata necessaria, come per il genocidio, una legge costituzionale. Ma non è l’opinione vincente.


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SECONDO TEMPO

MAIL Associazione esterna, nessun passo indietro

BOX A DOMANDA RISPONDO SGOMBERI ROM FUORILEGGE

Furio Colombo

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In merito al nostro comunicato consegnato questa mattina e inerente alla protesta per la probabile richiesta di abolizione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, siamo lieti di ricevere la nota diramata da Palazzo Chigi. Apprendiamo con piacere che non ci sarà nessuna abolizione di un reato così grave, perché non vi sarà alcuna richiesta da parte del presidente del Consiglio e del suo governo in tal senso.

aro Colombo, leggo che a Milano gli sgomberi dei rom, compresi i bambini, avvengono ormai come fatti di ordinaria amministrazione. Solo che sono atti duri e traumatici fatti di irruzioni, distruzioni e forza fisica sulle persone. E avvengono sempre di notte: un metodo che, per i bambini, si traduce in paura e violenza. Alemanno e Moratti uniti nella lotta contro donne e bambini. Ma che Italia è? Dove siamo finiti? Dario e Francesca

C

Giovanna Maggiani Chelli, Associazione familiari vittime della strage di via dei Georgofili

Cosentino protetto dalla casta

GIANFRANCO FINI ha

dato una definizione di questo mondo che sarà utile a che ne scriverà in futuro. Perché la parola di Fini (una parola di Cambronne all’italiana) viene da destra e dimostra che non ci sono alibi politici per certe mascalzonate. Ma per capire meglio ci servono gli atti del tribunale di Milano a cui molte associazioni del volontariato hanno appena fatto ricorso (9 novembre 2009, avvocati Guariso, Massarotto, Neri). Trascrivo: “Alcuni dei nuclei familiari vittime dello sgombero, risiedevano nell’area di via Rubattivo al numero civico 82, in condizioni di gravissimo disagio abitativo e sociale. Vi sono arrivati dopo essere stati oggetto nell’ultimo anno di altri interventi di sgombero forzato. Ogni volta essi hanno subìto la distruzione della loro abitazione e

La Giunta per le autorizzazioni a procedere ha respinto la richiesta di arresto nei riguardi del sottosegretario Cosentino. Risultato che mi appare scontato e che sarà fatto passare come un’assoluzione. Tutto ciò anche grazie al processo “di primo grado” che è andato in onda a “Porta a Porta” e che aveva già portato all’assoluzione del “povero cristo” Cosentino, processo che è servito esclusivamente a preparare il terreno alla decisione della Giunta per le autorizzazioni. Nessuno si rende conto della gravità delle accuse che gravano sul sottosegretario Nicola Cosentino, di quali sono le

LA VIGNETTA

dei loro beni personali, con l’allontanamento dei minori dalle scuole frequentate, senza alcun supporto sociale e abitativo, e senza garanzia di accesso alle cure mediche essenziali. Le associazioni di volontariato e le scuole di zona avevano iniziato da tempo un percorso di integrazione dei nomadi di via Rubattino, in primo luogo attraverso l’inserimento scolastico dei minori nelle scuole di zona, con un progetto di sostegno e accompagnamento. Nel campo vi sono numerose donne in stato di gravidanza, individui disabili o portatori di handicap come certificato da medici volontari. Tutti gli sgomberi che hanno avuto luogo sul territorio milanese nel corso degli ultimi mesi sono avvenuti senza alcuna preventiva notifica agli interessati, senza alcuna consultazione e dialogo, senza alcuna indicazione di modalità e data e dunque senza possibilità di contraddittorio e difesa, senza alcuna adeguata alternativa”. Come si vede solo poche persone, avvocati e medici, cercano di opporsi a violazioni così clamorose delle leggi italiane e dei trattati internazionali. Ma tutto ciò non è che una scheggia di una grande vergogna, che infama e diffama tutto il nostro paese. La guerra agli zingari, soprattutto a donne e bambini. C’è niente di più spregevole? Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano 00193 Roma, via Orazio n. 10 lettere@ilfattoquotidiano.it

vigilia dell’interrogatorio del pentito Spatuzza e alla possibilità del pentimento del mafioso Graviano, improvvisamente compare un emendamento (vergognoso) alla legge finanziaria che permetterebbe la vendita dei beni confiscati non assegnati entro 60 giorni. Non potrebbe ciò rappresentare l’ennesimo elemento che conferma che ancora oggi tra Stato e mafia ci sia ancora dialogo? Gino

Il testamento biologico e la libertà di scelta

prove che hanno convinto i magistrati a procedere con una richiesta di una tale gravità, questo perché tutti i giornali, fatta eccezione per il Fatto, e tutte le televisioni, evitano di parlarne rendendosi così complici della casta. Direi che non è un caso che, nella classifica 2009 stilata da Freedom House sulla libertà di stampa, l’Italia si trovi al 73° posto a pari punti con Tonga, tra i paesi parzialmente liberi. Grazie, buon lavoro. Gino

Omertà sulla trattativa tra mafia e Stato Solo di recente su alcuni giornali e in poche trasmissioni televisive, forse solo ad “Annozero”, si è ripreso a parlare della trattativa Stato-mafia che caratterizzò il periodo delle stragi del 1992/’93. Una cosa certa è emersa, che lo Stato trattò. Mi sono posto un quesito che mi fa paura, nel senso che ho paura anche solo a scriverlo perché è davvero terrificante se ciò fosse vero. Alla

Caro Oliviero Beha, mi sono commossa leggendo il suo articolo, perché anche io ho vissuto la stessa esperienza con la mia gatta che avevo chiamato Mimmi, anche lei con un tumore , che ci ha lasciati all’età di 14 anni con un’iniezione per evitarle altro dolore fisico e cure purtroppo inutili. Concordo con lei quando parla di questo benedetto testamento biologico; avendo seguito la tragica vicenda del sig. Englaro e di sua figlia, sono preoccupatissima per quello che stanno decidendo questi signori. Stanno minando ogni nostra possibilità di scelta. Fortunatamente con il vostro quotidiano state aprendo delle finestre su tutto quello che ci circonda e che ci viene taciuto. Tutte le mattine, prima di andare al lavoro, scarico il pdf e leggo; è

stato il mio primo abbonamento a un quotidiano. Grazie per quello che avete costruito, un augurio a tutta la redazione. Mara Bertoli

Se Napolitano si dimette al suo posto va Schifani Questa volta non sono proprio d’accordo con la conclusione di Travaglio secondo cui, nel caso di ripresentazione al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dopo il rinvio alle Camere, di una eventuale legge sul processo breve, questi dovrebbe pensare anche a dimettersi. Così ci ritroveremmo Schifani al suo posto! E il presidente del Senato non gode di tutta la mia stima e fiducia, visti gli articoli di Marco Lillo sul suo ruolo di avvocato di mafiosi e viste le ultime dichiarazioni del pentito Spatuzza. Sarebbe un vero incubo.

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Sguardo fiero, braccio destro teso a 170 gradi, mano ritta all’insù, dita unite. Con decreto governativo 27 novembre ‘25, “il saluto romano” irrompe nella vita dell’italiano fascista. Niente più stretta di mano, borghese e antigienica e via allo scatto marziale del braccio che indica virilità e elimina incroci di palmi sporchi e sudaticci. In omaggio a Roma Imperiale e più ancora a D’Annunzio, cui gli storici tendono ad attribuire il vero copyright, il saluto romano, meglio se abbinato a uno stentoreo “Eia,eia,alalà”, diventa liturgia di regime. E, mentre Mussolini dà il buon esempio, allungando il braccio a tutto spiano, gli italiani se la vedranno, di lì a poco, con Storace che nel suo Vademecum stabilirà che se “non è necessario togliersi il cappello”, “è vietato salutare romanamente, restando seduti”. Meglio chiudere con l’ironia di Trilussa… “quella de da la mano a chicchessia/nun è certo un’usanza troppo bella/te po succede ch’hai da strigne/quella d’un ladro, d’un buffone o d’una spia/Deppiù, la mano asciutta o sudarella/contié er bacillo d‘una malattia/che t’entra in bocca e va nelle budella/Invece a salutà romanamente/ce se guadagna un tanto co l’iggiene/eppoi nun c’è pericolo de gnente”. Giovanna Gabrielli

L’abbonato del giorno ALESSANDRO ODOFFO Alessandro e la sua compagna hanno portato il nostro giornale in alta montagna! Ci scrivono: “Il Fatto Quotidiano supera quota 2000 metri”. E nella foto che ci mandano mostrano tutta la loro passione per la stampa libera: “L’informazione libera non ha confini e va urlata a squarciagola ovunque ci si trovi. E noi continueremo a farlo, come lettori, per sostenervi. Continuate così”. Raccontati e manda una foto a: abbonatodelgiorno@ ilfattoquotidiano.it

pregiudizi, ci saremmo aspettati che non fosse modificata la corretta fotografia della realtà. Non avremmo mai pensato che tutto ciò che abbiamo cercato di esprimere, vivere e costruire tramite la nostra protesta venisse distorto. In primo luogo, se i nostri slogan cambiano nella forma ma non nella sostanza nel corso degli anni, non è per una nostra mancanza di originalità, ma bensì perché i governi cambiano ma le loro politiche rimangono immutate. Se dall’anno scorso si è deciso assieme ad altre scuole di utilizzare come mezzo l’occupazione è perché

riteniamo che le riforme e i decreti attuati da due anni a questa parte siano talmente gravi da necessitare l’uso della forma di protesta più forte che conosciamo, non è quindi un vuoto rito annuale atto alla socializzazione. Per quanto riguarda le nostre richieste: non chiediamo di sognare, ma pretendiamo quel futuro che ci viene negato. Noi, studenti dotati di coscienza critica e non passivamente travolti da messaggi e notizie contrastanti, abbiamo organizzato corsi e dibattiti su temi di attualità quali: la mafia, le riforme della scuola, gli omicidi di stato, il razzismo e i problemi climatici per coinvolgere e informare la popolazione scolastica. Ci avvelena a fronte di questo che l’unica attività citata sia un concerto di musica africana. Infine ci teniamo a far presente che le interviste riportate, anche quelle virgolettate che quindi si presume riportino una frase così come è stata detta, su un vago fondo di verità sono in parte travisate in parte inventate. Il Collettivo del Liceo “Mamiani”

Dispiace che il nostro articolo sia stato recepito come un attacco alla “coscienza critica” delle centinaia di ragazzi che, quel giorno, abbiamo visto occupare la scuola con grande senso di responsabilità. Non crediamo di aver modificato “la corretta fotografia della realtà”, ammesso che, come pare suggerire la lettera degli studenti, ne esista una e una sola. M.P.

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Mario Sacchi

Diritto di Replica Noi ragazzi normali travisati dal Fatto Utilizzando un linguaggio forse più umile e terreno, che si addica ai “normali ragazzi del Mamiani”, replichiamo con ordine alle velate critiche espresse dal giornalista Pagani. Da un giornale che è nato rivendicando un’informazione libera, sciolta dalle varie realtà politiche e dai

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IL FATTO di ieri27 Novembre 1925

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