La Voce del Ribelle - Marzo 2010

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ISSN 2035-0724

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Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm. Anno 3 - numero 18 - Marzo 2010

Mensile Anno 3, Numero 18 Direttore politico

Massimo Fini Direttore responsabile

Valerio Lo Monaco

World Wide Web: INTERNET CI STA SVUOTANDO Fini: BASTA PAROLE. SI AVVICINA L’ORA DEL SANGUE Diritto di parola: IL FESTIVAL DELL’INCOMPETENZA Usa: ALL’ATTACCO CONTRATODOS Grillo e Di Pietro: IL “PENSIERO” CHE NON C’È

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Anno 3, numero 18, marzo 2010 Direttore Politico Massimo Fini Direttore Responsabile Valerio Lo Monaco (valeriolomonaco@ilribelle.com) Redazione: Ferdinando Menconi, Federico Zamboni (redazione@ilribelle.com)

Si avvicina l’ora del sangue

Art director: Alessio Di Mauro

di Massimo Fini

Hanno collaborato a questo numero: Sara Santolini, Francesco Bertolini, Alessia Lai, Alessio Mannino, Eduardo Zarelli, Saverio Pipitone

Il Web. E il nulla.

Segreteria: Sara Santolini (sarasantolini@ilribelle.com) 340/1731602 Progetto Grafico: Antal Nagy Mauro Tancredi La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via Trionfale 8489 00135 Roma P.Iva 06061431000 Redazione: Via Trionfale 6415 00135 Roma tel. 06/97274699 fax 06/97274700 email: info@ilribelle.com Agenzie di Stampa: Adn Kronos Il Velino Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316 del 18 Settembre 2008 Prezzo di una copia: 5 euro Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista

di Valerio Lo Monaco

Non capisco però intervengo di Federico Zamboni

Internet: “chiacchiere e distintivo”? di Sara Santolini

Il sudanese dai piedi piccoli di Francesco Bertolini

U.S.A. contra todos di Alessia Lai

Moleskine marzo 2010 Grillo, Di Pietro e il pensiero che non c’è di Alessio Mannino

Shock Shopping: la malattia che ci consuma di Eduardo Zarelli

Stampa: Grafica Animobono sas. via dell’Imbrecciato, 71/a - 00149 Roma

La “realtà” dei non-luoghi e l’evoluzione in distretto commerciale

Pubblicità di settore: adv@ilribelle.com

di Saverio Pipitone

Email: redazione@ilribelle.com www. http://www.ilribelle.com

Dacci oggi la nostra meta di Federico Zamboni

Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti.

Il film: V 45° per ribelle di Ferdinando Menconi

Chiuso in redazione il 25/02/2010

Il vero taglio da fare

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Leggo al minimo. Il Tempo divora gli occhi e il resto. Ma “La Voce del Ribelle” merita di vivere. Qualcuno... chissà... Guido Ceronetti


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Si avvicina

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l’ora del sangue

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di Massimo Fini

an tenerezza e pena il "popolo della sinistra" e "il popolo della destra" che seguono con grande trepidazione le scaramucce pre elettorali dei partiti e poi, a seconda del risultato, l'uno scende in piazza a festeggiare, ballando, cantando, saltando, agitandosi, senza rendersi conto che col voto è andato a legittimare, per l'ennesima volta, un regime che lo ha reso suddito e che la sua unica scelta è stata quella di indicare da quale oligarchia preferisce essere comandato, schiacciato, umiliato, e che se avesse vinto la formazione contrapposta non sarebbe stato diverso. Questa finzione dell'alternanza (una delle tante "fictio" su cui si basa la democrazia rappresentativa, un sistema, come io ho scritto altre volte, assai ingegnoso, per metterlo nel culo alla gente, e soprattutto alla povera gente, col suo consenso) è particolarmente evidente in un sistema bipolare o bipartitico, soprattutto oggi, in una società senza più classi, composta da un quasi indifferenziato ceto medio, e dove, dopo la caduta del comunismo, tutti i partiti o poli che dir si voglia, a parte qualche eccezione senza rilievo, hanno abbracciato quel libero mercato che, insieme al modello di sviluppo industrial-finanziario, è il meccanismo reale che detta le condizioni della nostra esistenza, gli stili, i ritmi, la velocità parossistica della nostra vita, e di cui la democrazia, su cui si fondano le illusioni di quei due "popoli", è solo l'involucro legittimante, la carta più o meno luccicante che ricopre la caramella avvelenata. In mancanza di vere alternative questo enorme ceto medio si divide fra destra e sinistra con la stessa razionalità con cui si tifa Roma

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invece che Lazio, Milan o Inter, Sampdoria o Genoa, per cui quando il "popolo della sinistra" (o della destra) festeggia una vittoria i vantaggi che ne trae sono puramente immaginari o, nella migliore delle ipotesi, sentimentali, come son quelli del tifoso, mentre i ricavi reali vanno non a quegli spettatori illusi ma a chi sta giocando la partita del potere. Ad ogni tornata elettorale c'è un solo sconfitto sicuro, che non è la fazione che l'ha perduta, ma proprio quel popolo festante, insieme a quell'altro che è rimasto a casa a masticare amaro per le stesse irragionevoli ragioni per cui il primo è sceso in piazza. Vinca il Milan o l'Inter, la Roma o la Lazio, è sempre lo spettatore a pagare lo spettacolo. Quanto ai giocatori, ai vincenti andrà sicuramente la parte più consistente del bottino, ma anche ai perdenti non mancheranno premi di consolazione. Fra le oligarchie politiche esiste infatti, checché ne strillino in contrario, un tacito patto per non portare il gioco alle estreme conseguenze. Non conviene a nessuno. C'è tutta la vasta area del sottogoverno e del parastato che consente di ritagliare le giuste prebende per i perdenti, garantendosi così che alla tornata successiva, a parti invertite, sia ricambiato il favore. Per quanto in competizione per il potere le oligarchie sono unite da un interesse comune che prevale su tutti gli altri: l'interesse di classe. Quella politica, con i suoi adentellati nella Pubblica amministrazione e nell'imprenditoria malavitosa, è in pratica l'unica classe rimasta su piazza. Presa nel suo complesso la nomenklatura, non è molto diversa da quella sovietica, e il suo obiettivo primario è l'autoconservazione e il mantenimento del potere e dei vantaggi e dei privilegi che vi sono connessi. E il nemico mortale di un oligarca non è tanto un altro oligarca, col quale si può sempre trovare un accordo se non addirittura mettersi insieme per combinare certi loschi affari bipartisan, come abbiamo potuto ben vedere, grazie alle indagini della Magistratura, dal 1992 ai giorni nostri. Perché si fa parte della stessa classe, si partecipa allo stesso gioco, ci si sbertuccia di giorno davanti agli schermi della Tv e si va a cena la sera, strizzandosi l'occhio, quasi increduli per aver fatto il colpo alla Ruota della Fortuna, e irridendo, come faceva il sindaco di Milano Pillitteri mentre incassava le tangenti, a «quei pirla che non hanno capito come va il mondo». Il nemico è proprio il popolo di cui va vampirizzato il consenso e il denaro, ma che va tenuto a bada e a debita distanza sugli arcana del potere democratico perché continui a credere, o almeno a fingere di credere, al gioco. Scrive apertis verbis un liberale doc, l'americano John Hertz: «Più una organizzazione è democratica "sulla carta", cioè "per legge" o nei suoi intenti, più gli strateghi che sono nelle posizioni chiave ritengono necessario asserire il loro peso, la loro influenza e la loro "indispensabilità", al fine di difendersi dal controllo popolare». Le democrazie sono, storicamente e statisticamente, i regimi più corrotti. Poiché i partiti hanno bisogno del consenso se lo comprano. Con le ruberie, con le tangenti, con gli affari illegali, con il clientelismo, con le affiliazioni mafiose. I sostenitori della democrazia affermano che ciò è


frega niente di...: le elezioni regionali ***** lo sciopero della fame della Bonino *****1/2 le Olimpiadi di Vancouver *** i paletti politici ai talk show ***** la nuova starletta di Berlusconi 1/2 Pannella *****1/2

Massimo Fini

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Non ce ne

fisiologico, è il prezzo da pagare alla libertà. Ma in Italia la corruzione negli ultimi trent'anni ha superato ogni tollerabile fisiologia ed è diventata patologia. Anche perché non si vergogna più di se stessa, agisce con la massima spudoratezza e protervia, non ha nemmeno quell'ipocrisia, che come dice La Roche Focauld, «è il pedaggio che il vizio paga alla virtù». In questo senso l'Italia, Paese da sempre laboratorio (qui, con i mercanti fiorentini e piacentini, è nata la Modernità, qui si affermò il fascismo padre di ogni totalitarismo novecentesco), è estremamente interessante. Perché con la sua corruzione proterva, esibita, impudente e imprudente smaschera la vera natura delle democrazie, anche di quelle che la occultano più abilmente. Noi italiani subiamo questo sistema da più di mezzo secolo, pecore da tosare, asini attaccati al basto da far trottare finché schiattino, irrisi, derisi, vilipesi mentre siamo noi, come i contadini dell' ancient régime a sostenere, col nostro lavoro, il peso della Nazione. Io credo che l'epoca delle parole sia finita. Ne abbiamo usate tante, inutilmente. Ed è ovvio che sia così, perché la democrazia è un sistema basato sulle parole e le parole in malafede prevarranno sempre sulle altre. Così è stato per quasi sessant'anni con un'accelerazione esponenziale nell'ultimo quarto di secolo. Le democrazie, così sensibili oggi alla violenza, che è il tabù dei tabù, sono nate su bagni di sangue (e al loro esterno continuano a spargere sangue come se fosse un loro esclusivo diritto: vedi Serbia, vedi Iraq, vedi Afghanistan e, se non china la testa su un suo diritto indiscutibile, quello di crearsi, col nucleare civile, un'alternativa energetica, presto anche l'Iran). È venuta l'ora che siano ripagate con la stessa moneta.


Il Web. E il nulla di Valerio Lo Monaco

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on si volta chi a stella è fisso". Leonardo da Vinci. Chi le rincorre tutte, invece, rischia non solo il torcicollo, la vertigine e il capogiro, ma continuando a girare inutilmente su se stesso, rischia di cadere rovinosamente a terra. Internet è una galassia infinita.Tanto grande da non poterla contenere. E l'unico mezzo che abbiamo per orientarci, e in un certo senso per dominarla e renderla utile al nostro scopo (ammesso che ne abbiamo uno) è la nostra capacità di navigarci dentro. Dunque di avere un orientamento. Un obiettivo, meglio: un motivo per il quale lo si va a usare. A quanto pare, per i più, come in tanti altri campi dell'esistenza, a mancare è lo scopo. Dunque il reale motivo per navigare all'interno della rete. E quindi, di conseguenza, i punti di riferimento attraverso i quali tentare di tracciare una rotta ogni volta che si accende il computer. Il mezzo si presta molto all'arringa ma poco al ragionamento complesso (e necessario per capire realmente le cose). Si presta poco alla riflessione e ai tempi più lunghi della pausa - quella che si può avere tra una pagina e l'altra di un libro, ad esempio - per riflettere e per assorbire realmente ciò che si sta leggendo. Internet si presta in modo decisivo alla perdita di concentrazione, saltando da una pagina all'altra, da un input all'altro, da un commento a un post che è rilevante a uno che non lo è, da un richiamo pubblicitario a notizie che, impaginate nello stesso modo, pur essendo di tipologia e rilevanza completamente differente, appaiono, per la struttura stessa del mezzo sul quale sono pubblicate, della medesima importanza. A tutto questo c'è rimedio. Ma il rimedio implica la vigilanza e l'attenzione. La selezione spietata che si deve fare tra i vari stimoli e i tempi che si dedicano a ognuno di essi. Il che comporta una personalizzazione nell'utilizzo del mezzo. Ovvero una scelta, che presuppone un obiettivo. Cosa che i più hanno difficoltà a individuare. E in questo risiede il problema principale. Con tutta evidenza dunque, chi vuole usare internet (e non esserne usato) o meglio mettere in forma la mole di possibilità che la rete comporta, deve innanzitutto selezionare. Dunque stabilire a chi (o a cosa) dare fiducia in tale e indispensabile lavoro. Se una persona, un gruppo di persone - tipicamente, una redazione - oppure una macchina (ad esempio un motore di ricerca). In un contesto dove tutto è messo sullo stesso piano, tutto ha in teoria la stessa rilevanza. Ovvero tutto ha nessuna rilevanza. Selezione, indirizzo, e messa in prospettiva diventano dunque imprescindibili, a meno di disperdersi nel mare magnum. L'esempio più semplice: cercare qualcosa. A questo proposito, generalizzando, ci sono due possibilità. Si digita l'argomento su un motore di ricerca oppure si utilizza un contatto diretto con qualcuno. Attraverso un sito, o una email, ma pur sempre con qualcuno che, dall'altra parte dello schermo, digiterà a sua volta il suggerimento secondo il proprio criterio. Delle due, dunque, l'una: ci si affida a una macchina o a un uomo. Dare la fiducia all'una oppure all'altro determina già da sé una differenza fondamen-


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tale. Non solo tecnica, ma sociologica. Antropologica, addirittura. In soldoni: in internet, o ci affidiamo a una macchina - ovvero all'azienda che lo gestisce che ci darà una risposta attraverso algoritmi, rilevanza delle pagine viste e necessità pubblicitarie a indirizzarci a un sito oppure a un altro, oppure ci affidiamo a qualcuno, o a un gruppo di persone con le quali c'è, almeno intellettualmente, una sorta di reciprocità, per arrivare alla risposta. Il discorso è chiaro, la scelta è tra l’uomo e la macchina. La possibilità maggiore che esiste per il mondo del web, a nostro avviso, non è tanto il fatto di trovare di tutto, quanto quello di trovare la persona (che ha pubblicato un contenuto) della quale ci si può fidare. Oltre, è evidente, alla possibilità che il web consente di comunicare con un numero maggiore di persone. È, in sostanza, la possibilità di poter dialogare con la persona specifica che utilizza tale macchina. A fronte di avatar, nickname e pseudonimi, ci sarà chi, mettendoci la faccia, un nome e un cognome, inizierà un dialogo, e ci sarà chi, riconoscendogli fiducia, accetterà tale dialogo. La capacità di gestire informazioni da parte di ognuno di noi è infatti giocoforza limitata. Il web estende i rumori e la mole di stimoli a dis-misura. Se non ci accorgiamo della nostra limitatezza nel gestirli, rischiamo di disperderci nella massa, nel rumore inutile, nel frastuono che a tutto serve fuorché a conoscere, approfondire, risultare utile. La cosa è semplice e può essere applicata a tutto. Il punto strettamente collegato a internet è dunque la rimozione dei limiti: la nostra società offre la falsa promessa della illimitatezza, del tutto possibile e del di più è meglio. Questo comporta, necessariamente, la perdita dei punti di orientamento. Non si possono prendere dei punti di orientamento, non ci si può orientare se non, appunto, all'interno di limiti. La rimozione dei limiti, l'illimitatezza, porta sullo stesso piano ogni cosa, giacché ogni cosa sembra apparentemente possibile. Ma dove ogni cosa conta, nulla ha più valore, ha più senso. È invece proprio nel senso (direzione e significato) che si annida una delle chiavi di lettura più importanti. Anche con internet, prendere coscienza di questo, capire che la sua illimitatezza è in realtà la sua debolezza, deve indurci a tornare a capire l'importanza dei limiti. Sarà ognuno di noi a doverli porre. Ci si dovrà autolimitare - sfida difficile ma indispensabile, in un mondo che spinge in senso opposto - perché una volta capiti e stabiliti i propri limiti, ci si potrà iniziare nuovamente a orientare. E dunque ritrovare il senso di ciò che si sta facendo.Anche in rete. Ogni giorno in cui si naviga sul web - e scendiamo sul pratico - esiste un limite fisico in merito al numero di siti che è possibile consultare, un limite intellettivo in merito al numero di informazioni che si riesce a leggere, recepire, elaborare e rendere utili al fine della propria conoscenza. Ognuno di noi copre mediamente sempre lo stesso percorso, ovvero visita un certo numero di siti al giorno. Generalmente sempre gli stessi. Naturalmente si trova sempre qualcosa di nuovo (raramente di utile) ma in media, i siti visitati sono sempre gli stessi, dunque, a meno di non cadere trappola delle rete (cosa comune, a dire il vero) per esempio navigando a caso da un sito all'altro, da una notizia all'altra, da uno stimolo all'altro, ognuno di noi già opera, anche inconsciamente, una selezione. Si tende insomma, anche su internet, a essere abitudinari. Si consultano alcuni siti, alcuni blog, alcuni portali. Oltre è impossibile senza disperdersi, senza diluire la propria attenzione e il proprio tempo nell'inutilità dell'illimitato. Il con-

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cetto è chiaro: la risorsa è scarsa (tempo, attenzione, capacità di gestire le informazioni e gli stimoli) mentre l'offerta è illimitata (milioni di pagine web, link, rimandi, dispersioni di vario genere). Il web è insomma a prima vista una opportunità infinita, ma si rivela, si è rivelato (per i più) una trappola infernale in grado di eliminare qualsiasi vera utilità, di annacquare la propria capacità di apprendimento e riflessione. È diventato una arma di distrazione di massa atta a disinnescare del tutto le pulsioni umane e naturali dell'uomo. La sfida è sottrarsi a questo effetto dannoso. È, in altre parole, piegare internet a un ritorno necessario all'umano, per poterne cogliere le reali, nuove e utilissime possibilità, lasciando invece andare alla deriva i miliardi di navigatori dispersi nell'oceano del tutto e del nulla, del frastuono e del silenzio della ragione. Quanti riescono a cogliere tale sfida e quanti, invece, sono preda di questa bestia? Il bilancio sulla società, a oggi, è dunque presto fatto. E i termini più adatti per definire lo stato delle cose sono pochi: distrazione, dispersione, depotenziamento, caos. Al momento, quella che è stata definita come la "più grande rivoluzione moderna" - e probabilmente lo è - non è riuscita a impedire alla società di arrivare dove è attualmente. Non è riuscita, per i più, neanche a far prendere coscienza dello stato della società stessa. Non è riuscita, ancora, a innescare una sorta di rivoluzione di cui ci sarebbe pure un disperato bisogno. Non è riuscita, a quanto pare, a fare in modo che la contro informazione potesse implicare dei ragionamenti differenti - e diffusi - sul mondo e sulla società. Per quanto attiene ai grandi numeri, gli unici effetti evidenti sono la distrazione delle persone da altre attività che sarebbero più utili personalmente e a livello collettivo e, di fatto, una possibilità di espressione illimitata. Ovvero la possibilità per tutti di urlare a più non posso. Il che comporta oltre a un rumore impressionante e controproducente, anche il fatto - sul quale sino a ora non si è riflettuto molto - di essere sottoposti alle urla di chi non ha nulla da dire, o di chi ha da dire cose che hanno poco o nullo valore. I punti cardine, a nostro avviso, per un utilizzo consapevole del mezzo sono, affatto paradossalmente, negli estremi opposti a quelli che sono offerti dalla rete stessa: riduzione, selezione, limite. Ridurre il numero delle fonti a quelle che umanamente è possibile gestire e assorbire, dunque selezionarle accuratamente grazie a rapporti con persone, e non con macchine, con le quali condividere un discorso, e limitare i propri campi di interesse per focalizzarsi su ciò che realmente conta per se stessi. Quali sono i motivi per i quali si inizia a navigare? Ancora prima di accendere il computer e connettersi, bisognerebbe porsi questa domanda. E se la risposta è (consciamente o meno) qualcosa di più che non il semplice "distrarmi e perdere tempo andando alla deriva", allora si potrà tracciare una rotta. Per ora, quanti seguono una rotta all'interno del web appaiono la minoranza assoluta, rispetto a quanti navigano, condividono, si incrociano, si scontrano e si perdono senza un motivo preciso. La decadenza della società nella quale viviamo è fedelmente rispecchiata nelle abitudini della maggior parte dei navigatori. E probabilmente oggi ne è anche una conseguenza.


ANALISI

Non capisco

però intervengo

Effetti collaterali, e perversi, della cosiddetta democrazia: il diritto di parola scambiato per il diritto all’incompetenza

G

di Federico Zamboni

li studiosi dei processi di formazione la chiamano “incompetenza inconsapevole”. È il gradino più basso nella scala dell’apprendimento. Più che un gradino, anzi, è il pianerottolo che sta in fondo. La combinazione peggiore tra quello che (non) si sa e quello che si crede di sapere. Lo stato di beata ignoranza di chi è talmente impreparato da non rendersi nemmeno conto di esserlo: gli esperti dibattono lungamente sui dettagli, fino a esagerare in senso opposto e a rimanere intrappolati nei labirinti delle più sofisticate sottigliezze; lui, il nostro lieto somarello, trincia giudizi a raffica, senza mai domandarsi se è effettivamente in grado di farlo. In un altro tipo di società, capace di non confondere l’uguaglianza ai fini elettorali con un’uguaglianza altrettanto indiscriminata nell’ambito del dibattito politico e culturale, la questione non si porrebbe. L’ignorante presuntuoso sarebbe nulla di più di un personaggio folcloristico. Una macchietta – fastidiosa per chi la incontra, ma irrilevante sul piano sociale – come ce ne sono sempre state: il tipo che pontifica al bar o in ufficio, fin tanto che qualcuno più preparato di lui non si prende la briga di rimetterlo a posto sbugiardandolo, con la generale approvazione dei presenti, e costringendolo a prendere atto pubblicamente che i suoi non sono affatto veri e propri giudizi ma semplici impressioni ammantate di sicumera. Chiacchiere presuntuose che poggiano, si fa per dire, su premesse puramente emotive. Simpatie e antipatie travestite da concetti e da ragionamenti. Pregiudizi talmente sedimentati da diventare un ammasso cristallizzato di materiali di scarto.

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Una sorta di discarica in cui si trova di tutto, e in cui tutto c’è arrivato chissà come, che viene scambiata per un tempio della conoscenza, nel quale rifornirsi di quello che serve per dire la propria su qualsiasi cosa. Per giudicare qualsiasi cosa. Dal calcio all’economia. Dalle canzonette di Sanremo alla politica internazionale. Dai cascami della comunicazione di massa ai massimi sistemi della filosofia, della scienza e della religione.

Le illusioni di Internet La Rete è aperta a tutti, e questo è il suo pregio. La Rete è aperta a tutti e questo, se non si è in grado di gerarchizzare i diversi apporti e di distinguere tra le discussioni superficiali e le riflessioni approfondite, è il suo vizio. E il suo pericolo. Internet, infatti, dà a qualunque pagina un aspetto fondamentalmente simile, creando l’illusione che ciascuna di esse abbia la stessa dignità e la stessa funzione. E che, pertanto, chiunque possa trasformarsi all’istante in un operatore culturale e mediatico. Mentre in passato la pubblicazione di un testo, all’interno della stampa periodica o dell’editoria libraria, presupponeva comunque un qualche genere di selezione, per quanto opinabile, oggi questo filtro preventivo è venuto meno. Non soltanto di fatto, ma anche in teoria. O meglio, nel comune sentire di una parte sempre più vasta della popolazione. Una volta, o bene o male, l’aspirazione a pubblicare veniva ponderata dal diretto interessato con un minimo di cautela. E laddove non ci fosse stata questa sana, spontanea, doverosa autovalutazione, avrebbero provveduto i responsabili della testata giornalistica o della casa editrice. Quando si leggeva l’avvertenza che i materiali non richiesti, e non ritenuti idonei, sarebbero stati “cestinati”, l’espressione andava intesa in senso letterale. L’incaricato cominciava a leggere e, di solito nel giro delle prime cinque o dieci righe, capiva subito che aria tirava. Dopo di che, nella stragrande maggioranza dei casi, faceva fare allo scritto la fine che esso meritava: giù nel cestino – e speriamo che quello sciagurato dell’autore non ci riprovi. Lo stesso discorso, mutatis mutandis, valeva ovviamente per i convegni culturali e, a maggior ragione, per i consessi accademici. Non è che si potesse intervenire solo perché se ne aveva voglia e si riteneva che quel desiderio equivalesse a un diritto assoluto. L’accesso era regolamentato. O almeno, se non altro, subordinato a una valutazione preliminare delle conoscenze in quel determinato campo. L’applicazione pratica poteva essere discutibile e persino iniqua, ma in se stesso il criterio restava, e resta, ineccepibile. Se l’oggetto del confronto è la Beat Generation, aver letto

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“Sulla strada” di Kerouac non è ancora abbastanza per prendere la parola ed esporre il proprio punto di vista. Amare, od odiare, i lunghi viaggi in autostop lo è ancora meno. Sarà spiacevole a dirsi, in quest’epoca di dilagante e ingannevole egualitarismo, ma la cruda e ineludibile realtà è che l’espressione di un parere, tanto più in pubblico, è comunque il punto di arrivo di un percorso che deve essere cominciato molto tempo prima. La dimensione pubblica esige un prologo assolutamente privato. In una parola, lo studio. Lungo, insistito, e almeno a tratti faticoso. Come per qualsiasi atleta di qualsiasi disciplina: prima di scendere in campo bisogna essersi allenati. E migliorati. Se la gente salisse su un ring con la stessa disinvoltura con cui interviene su Internet, o in una trasmissione radiotelevisiva, la sua sorte sarebbe segnata. Ne prenderebbe un sacco e una sporta. Con l’unico vantaggio, magari, di avere il tempo di riconsiderare la propria folle avventatezza, mentre giace in un letto ad aspettare di riprendersi, malconcia com’è.

Tutti uguali, oh yes! L’equivoco, come accennavamo all’inizio, risiede in un’idea distorta di democrazia. Quando l’articolo 21 della Costituzione afferma che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, e subito dopo aggiunge che “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, dovrebbe essere chiaro che si tratta di un’affermazione di principio, che va contemperata dalla consapevolezza individuale e collettiva di ciò che si deve intendere per “pensiero”. In questo come in tanti altri ambiti, del resto, bisognerebbe tenere sempre presente che il testo elaborato dall’assemblea costituente risale a oltre sessant’anni fa e si iscrive, perciò, in un contesto profondamente diverso da quello attuale. Sul piano scolastico, ad esempio, era semplicemente impensabile che gli studenti, o presunti tali, si ponessero sul medesimo piano dei loro insegnanti, o addirittura in antitesi. La conseguenza negativa poteva essere un eccesso di disciplina e di rigidità, che sfociava in un apprendimento passivo e acritico, ma quella positiva era abituare tutti a farsi carico della propria preparazione culturale, se volevano guadagnarsi il diritto a mettere in discussione le tesi altrui.

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Il Sessantotto ha fatto benissimo ad attaccare il nozionismo e l’asservimento dell’istruzione alle esigenze del “sistema”, ma ha sbagliato completamente nell’identificare l’alternativa in una presunta autosufficienza culturale, garantita per diritto di nascita, dei singoli e delle masse. L’errore, fatale, è stato sovrapporre due piani che vanno mantenuti distinti: quello esistenziale, al cui interno si possono fare i conti solo con se stessi, e quello della conoscenza, in cui non ci si può sottrarre a una (lunga) fase di apprendimento come prologo indispensabile a qualsiasi scelta degna di tal nome. Qui in Occidente, per fortuna, non siamo arrivati ai deliri della “rivoluzione culturale” voluta da Mao nel presupposto, aberrante, che l’eredità storica fosse un condizionamento perverso da eliminare in toto. Questo affrancamento puerile e sommario dal passato – dalla “autorevolezza” del passato – qui da noi non è esploso in una violenza iconoclasta e non si è tradotto nella distruzione sistematica delle opere d’arte e delle altre vestigia lasciate dalle generazioni precedenti. I suoi effetti si sono prodotti in maniera più strisciante, ma ci sono stati ugualmente. L’idea che si è affermata, e che si è radicata anche in molti di quelli che non hanno avuto nulla a che fare con la sinistra più o meno estrema, e che magari si ritengono in totale disaccordo con essa, è che non sussiste nessun obbligo di preparazione specifica, per dare giudizi su qualsivoglia aspetto della realtà. A me mi piace il Grande Fratello. Embé? A me mi piace Berlusconi. Embé? A me mi piace Napolitano. Embé? A me mi piace quello che mi piace, per quanto tempo mi pare e non devo neanche stare a spiegarti il perché.

Il Sistema ringrazia La cosa interessante, e che meriterebbe un’analisi a sé, è che il Sessantotto ha finito col rivelarsi funzionale a quello stesso sistema che pretendeva di abbattere. Il disconoscimento dell’ordine preesistente, infatti, è degenerato in un rifiuto del principio stesso di ordine, inteso come una proiezione “verticale” che anteponga i valori etici ai desideri, e ai capricci, del singolo. E qual è il valore etico minimo, dal quale non si può prescindere al di là di ogni possibile articolazione sociale? Semplice. Il valore della responsabilità. Non solo quella prettamente giuridica, che vincola al rispetto,

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sostanziale non meno che formale, della legge; ma una responsabilità estesa, e onnicomprensiva, che si declina a livello individuale, perseguendo lo sviluppo e l’affinamento delle proprie doti, e che sommando gli sforzi di ognuno diventa l’architrave della crescita collettiva. Nelle società liberiste i concetti di sviluppo e di crescita esistono eccome, ma sono meramente quantitativi, e materialistici. La promessa che viene fatta al singolo è che, se accetta la schiavitù del ciclo produttivo e della competizione economica, riceverà come contropartita la libertà di fare quello che vuole, creandosi il proprio microcosmo personale in cui, compatibilmente col suo reddito e la sua capacità di spesa, potrà trastullarsi come meglio crede. Il messaggio è che non c’è nessun consumo che sia intrinsecamente migliore di un altro. E questo – eureka! – perché non c’è nulla che sia intrinsecamente superiore. La liceità delle scelte individuali, che di per se stessa non è in discussione, purché non pretenda di trasformare il proprio piccolo arbitrio nell’apoteosi dell’ignoranza, finisce così col degradarsi a rimozione di qualsiasi discrimine tra l’alto e il basso. In qualsiasi contesto e perciò, fatalmente, anche in quello culturale.Tu leggi Dostoevskij e io Dan Brown? Tu ascolti Beethoven e io Pupo? Tu vai a teatro e io al Bagaglino? Questione di gusti. Anzi: a dirla tutta Dostoevskij mi annoia e Dan Brown mi diverte. Se vuoi te lo presto. Così ti diverti un po’ anche te... Il passaggio successivo è quello dal quale siamo partiti. Se non c’è nessun obbligo di competenza in campo culturale, figuriamoci se può esserci in quello dell’attualità. Una volta che uno abbia visto il tiggì, o sfogliato uno qualsiasi dei quotidiani gratuiti (vantaggiosi, vero? non costano niente), la sua parte l’ha fatta. Siccome sa che oggi la Borsa è salita, o è scesa, dirà la sua sulla Borsa. Siccome gli è simpatico Berlusconi gli darà manforte: si sa che ce l’hanno tutti con lui. Siccome gli è antipatico gli darà addosso: molto meglio Prodi, o Veltroni, o quand’anche Pierferdi, purché Silvio si levi di mezzo. Siccome sa – o gli dicono – che le brave forze dell’Occidente sono in Afghanistan a combattere i talebani per portare anche là la democrazia e il benessere, rabbrividirà per l’ultimo attentato o si inorgoglirà per l’ultima offensiva. Tutto all’impronta, alla come-viene-viene, infiocchettando i propri pseudo giudizi con qualsiasi frammento di notizia o di dichiarazione che confermi le premesse e che gli faccia credere di avere ragione. Di avere proprio ragione, eccheccazzo. Tutta una vita a dar retta a questa parodia di “think tank” che gli è cresciuta in testa come un cancro e che, adesso, sforna tesi e conclusioni a getto continuo. Come la sua adorata televisione, più o meno.

Federico Zamboni

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ANALISI

Internet:

“chiacchiere e distintivo”?

Ecco i fenomeni più importanti, in termini numerici, che riguardano la diffusione della rete in ambiente domestico. Su tutti, intrattenimento, pubblicità e distrazione. Appare che si connettano tante più persone quanto meno abbiano da dire, da conoscere, da incidere. Per ora.

C

di Sara Santolini

onsiderando l’ultimo rapporto della Nielsen NetRacing1, elaborato su rilevazioni degli ultimi due anni, i dati che saltano subito agli occhi sono quelli che riguardano la percentuale delle famiglie italiane nelle quali è presente un pc (il 57% del totale) e delle quali usa internet (il 47,9%). Se prendiamo in considerazione il comportamento mondiale – com’è giusto che sia, vista la diffusione del fenomeno internet – il trend di questa piccola osservazione casalinga è confermato. Secondo il DMMF (Worldwide Digital Marketplace Model and Forecast) elaborato dall’IDC2, l’attuale aumento esponenziale del numero dei fruitori del web – tramite computer, supporti mobili e “online videogames console”- è destinato a crescere ancora, e ad avere nuove importanti peculiarità. I dati del DMMF provengono da studi effettuati su oltre 40 Paesi e lo studio ha ovviamente dei risvolti economici – in realtà serve a fare delle indagini di mercato – ma il quadro che ne viene fuori dà la possibilità di fare altri tipi di riflessioni. Basta pensare che il risultato fondamentale dell’indagine è che nel 2009 poco meno di un quarto della popolazione mondiale - 1,6 bilioni di persone - ha utilizzato Internet. Inoltre sembra che entro il 2013 più di un terzo della popolazione mondiale sarà formato da netizen (cittadini del mondo virtuale), arrivando a quota 2,7 bilioni di persone connesse abitualmente al web. Ma non è solo la quantità degli accessi a rendere il

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WorldWideWeb così importante per l’analisi. A questo proposito è interessante avviare delle riflessioni a partire dall’analisi delle cose più importanti accadute nel web dal 2000 al 20103, utilizzando una classifica dell’International Academy of Digital Arts4 di New York – il cui merito in proposito è stato quello di essersi letteralmente inventato il Weeby Awards, una sorta di premio che l’istituto assegna ogni anno a una realtà virtuale che si è distinta per importanza o innovazione. L’obiettivo, centratissimo, è quello di tirare le somme e cercare di capire cosa internet ha significato per il cambiamento della cultura e della vita di tutti i fruitori del web. Al primo posto c’è il portale di annunci gratuiti Craigslist5. Si tratta in particolare della nascita del primo sito attraverso il quale si può fare liberamente compravendita di oggetti di tutti i tipi sul web, dagli animali ai dvd. Non solo più di 624 milioni di persone hanno utilizzato internet per acquistare beni nel 2009, per un traffico pari a circa 8 trilioni di dollari, ma nei prossimi tre anni il traffico totale appare destinato a diventare oltre il doppio dell’attuale6. Inoltre non bisogna sottovalutare il fatto che attraverso internet si acquistano merci fidandosi del marchio o dell’intuito. Sembra una stupidaggine, ma solo cinquant’anni fa era impensabile per qualsiasi massaia acquistare dei beni senza avere un rapporto personale di conoscenza e fiducia con il venditore. Questa caratteristica comportamentale, se si è affievolita con la nascita dei supermercati - dove si acquista ogni genere di beni (e ancor più delle catene di negozi) dove non è più importante il rapporto tra venditore e acquirente ma tra marchio e massa di consumatori - è stata praticamente azzerata dalla nascita e dall’ampliarsi dell’e-commerce. È vero che esistono certificazioni che rendono più sicuri gli acquisti on line, ma acquistare un bene tramite internet significa comunque fidarsi di un sito, non di un venditore in carne e ossa.

La pubblicità Al secondo posto c’è Google Adwords, la sezione di google che consente alle aziende di elaborare autonomamente un proprio messaggio commerciale e di pubblicarlo sul popolarissimo motore di ricerca. Questo sistema permette, attraverso i tag (le parole-

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chiave) di far arrivare l’annuncio pubblicitario più facilmente al proprio target di riferimento. Ma il secondo posto non è stato assegnato a Google Adwords per questo motivo - che senz’altro rende il servizio appetibile per le aziende - ma per il cambiamento che tale mezzo ha provocato nel mercato pubblicitario. Non solo per avere una pubblicità mirata e d’effetto sul web non c’è bisogno di rivolgersi a dei professionisti del settore, ma soprattutto non c’è bisogno di investire molti soldi. Questo ha permesso a molte aziende di accedere alla pubblicità su internet ma, allo stesso tempo, ha moltiplicato in maniera esponenziale il numero di messaggi pubblicitari - spesso vanificandone l’effetto. Nonostante ciò, sempre facendo riferimento agli studi dell’IDC, nel 2009 sarebbero stati spesi circa 61 bilioni di dollari in pubblicità on line, toccando il 10% del totale della pubblicità effettuata su tutti i media durante l’anno. Anche questo dato è destinato a salire e ad arrivare al 15% entro il 2013, per una cifra superiore ai 100 bilioni di dollari.

La pseudocultura Al terzo posto troviamo Wikipedia, l’enciclopedia on line elaborata e distribuita dalla stessa comunità virtuale: infatti, dopo essersi iscritto, ogni utente può partecipare alla sua realizzazione proponendo nuove voci, modificandone di già esistenti o chiedendone la cancellazione. Questo contenitore comincia però a far sentire i primi segni dell’eccessiva fiducia riposta nelle potenzialità della libera circolazione dei contenuti. Il problema fondamentale al quale Wikipedia sembra stia andando incontro è la perdita di collaboratori7. Secondo uno studio di Felipe Ortega, ricercatore dell’università Re Juan Carlos di Madrid, i volontari dell’enciclopedia on line sarebbero in netta riduzione in parte perché le voci più interessanti e generali sarebbero già state elaborate, in parte per le regole che Wikipedia avrebbe introdotto per limitare gli scontri tra collaboratori e in parte per i casi di introduzione di contenuti errati, che ne hanno già messo in dubbio l’attendibilità. Ma questo dato è più interessante se viene considerato alla luce del fatto che alla diminuzione di volontari produttori di contenuti non corrisponde un’altrettanta diminuzione di fruitori. Anzi, sembra che la consultazione sia aumentata del 20%

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tra il 2008 e il 2009: si vuole usufruire dei contenuti gratuiti senza in cambio produrre nulla. Ma probabilmente dietro la fuga di collaboratori c'è anche un’altra motivazione. Wikimedia Foundation, l'organizzazione che coordina Wikipedia, ha invitato ultimamente gli utenti che usufruiscono del sito a sostenere il progetto attraverso una donazione per contribuire ai costi di mantenimento dell’enciclopedia virtuale. Finora infatti Wikipedia è sempre stata un’enciclopedia gratuita, cui quindi chiunque può accedere senza restrizioni e senza pagare nulla. Ovviamente non solo si tratta di una politica che non può durare - la realizzazione e la gestione dei siti hanno un prezzo che non può non essere a carico di chi ne usufruisce - ma soprattutto, qualora continuasse a durare, sarebbe deleteria. La motivazione è semplice: è difficile che contenuti di qualità – che provengano quindi da esperti o professionisti del settore - possano essere prodotti sul lungo termine a costo zero. Al quarto posto c’è la chiusura di Napster nel 2001. Si trattava di una applicazione che permetteva lo scambio di dati in modalità peer to peer (pari a pari) tra gli utenti. La chiusura del sito è legata alla diffusione tra gli utenti della pratica dello scambio senza intermediari, che elude ogni forma di controllo del copyright e che, essendo ovviamente più conveniente per gli utenti perché a costo zero, ha soppiantato del tutto l’attività dei mediatori. Questo mette in difficoltà, però, tutti coloro che vivono di diritto d’autore – dal musicista allo scrittore - e cambia (in negativo) la percezione del valore del lavoro intellettuale. Al quinto posto c’è la quotazione in borsa di Google, nel 2004. Questo evento segna la presa di coscienza del mercato sull’importanza del web. Oggi Google è il primo motore di ricerca al mondo per numero di accessi8. Al sesto posto c’è la nascita di Youtube, e in generale di tutti i sistemi di condivisione di video on line. Questo evento ha cambiato le possibilità di condivisione di contenuti visivi: chiunque abbia una videocamera o un telefonino e una connessione internet può usufruirne. Inoltre, qualsiasi cosa accada nel mondo, esiste potenzialmente la possibilità che qualcuno possa riprenderla e che, in tempo reale, possa pubblicarla sul sito. Oggi esistono milioni di canali tematici di intrattenimento, informazione ma anche formazione (come nel caso dei tutorial). Al settimo posto c’è la nascita di Facebook e Twitter, i più famosi network della rete che ormai sono anche i siti più visitati al mondo. L'importanza dei social network, tra l'altro, è confermata da una ricerca di Hitwise9 che riguarda le pagine più visualizzate del web. Bill Tancer, un dirigente di questa società di monitoraggio di Internet, ha da poco pubblicato un libro intitolato “Click: What Millions of People are Doing Online and Why It Matters”. L’inchiesta, sulla quale si incentrano le riflessioni di Tancer, è stata effettuata nel 2009 su più di dieci milioni di utenti di internet statunitensi. Al di là delle note di colore - che comunque possono risultare interessanti come il picco registrato nelle ricerche della parola “antidepressivi“

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durante le festività statunitensi del Thanksgiving, il dato più importante riguarda i siti più visitati. Contro ogni pronostico, sembra che ci sia una sensibile diminuzione degli accessi sui siti pornografici: la percentuale, che era del 20% nel 2000, sarebbe calata al 10%. Al contrario in netta ascesa sarebbero appunto i social network, primo fra tutti Facebook, ma anche MySpace e Youtube. Insomma la nostra quotidianità su internet riguarderebbe in primo luogo questo tipo di siti, nei quali si “socializza” con gli altri netizen. All’ottavo posto c’è il rilascio sul mercato dell’i-phone, inteso come inizio della diffusione degli smartphone in generale. A oggi le applicazioni per gli smartphone consentono ormai di fare (quasi) le stesse cose che si fanno dal computer di casa, dallo scaricare video a mandare mail, e questo li ha resi sempre più appetibili sul mercato. È interessante notare che se gli Stati Uniti, dalla loro, continuano a detenere il primato per quanto riguarda il numero di fruitori del web, è la Cina ad essere in prima fila in questo settore emergente con i suoi 85 bilioni di connessioni mobili10. Ma non solo. Il fatto che l’IDC preveda un incremento generale, per il 2009, degli smartphone - incremento che si prevede porterà a far almeno raddoppiare in tutto il mondo il numero degli accessi mobili a internet entro il 2013, ci dà la misura del fenomeno a livello mondiale. Questo dato non significa altro che il tempo e lo spazio dedicati alla navigazione internet non sono più racchiusi tra l’ufficio e la scuola o le mura domestiche, ma si ampliano in tutto lo spazio e tutto il tempo a nostra disposizione: siamo collegati costantemente attraverso una connessione mobile. Al nono posto c’è la campagna elettorale di Barak Obama e al decimo le proteste contro l’elezione di Ahmadinejad sul web. Al di là della scelta degli eventi in sé (non bisogna dimenticare che la classifica proviene da un istituto statunitense) questi due ultimi dati mostrano in modo lampante come il web faccia ormai parte di ogni aspetto della nostra vita: non solo il consumo, l’informazione, lo scambio di dati e la socializzazione ma anche la comunicazione politica.

Sara Santolini

Note: 1) Awtrends, www.netracing.org 2)www.idc.com 3) www.webbyawards.com/press/topmomentsdecade.php 4)www.iadas.it 5)www.craigslist.org 6)dati dell’IDC 7)www.ansa.it/web/notizie/rubriche/tecnologia/2009/11/25/visualizza_new.html _1621130422.html 8)www.nielsen-online.com 9)www.hitwise.com/us/datacenter/main/dashboard-10133.html 10) dati dell'IDC

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REPORTAGE

Il sudanese

dai piedi piccoli

Preghiere e lavoro. Una landa desertica trasformata in cemento. Palazzi che cedono. Sogni trasformati in incubi. Costruiti sul sangue degli schiavi. Il nostro inviato in Arabia Saudita.

A

di Francesco Bertolini

vrà avuto il 37, piedi piccoli su un corpo da gigante. Era appena tornato da Karthoum, dov’era andato al funerale del fratello, ma non sembrava particolarmente triste. Un ristorante italiano a Karthoum, diceva, sarebbe un grande affare, oggi il Sudan è il paese del futuro, delle grandi opportunità. Ma nel frattempo era tornato a Riyadh, dove il business è già oggi, non si deve aspettare. E Abdul, così si chiamava il sudanese dai piedi piccoli, lo sapeva bene, voleva diventare ricco e poi tornare in Sudan da signore. Vip business development, così recitava il suo biglietto da visita, tipica qualifica di chi non ha qualifica, che in altri tempi e in altri luoghi si sarebbe definito faccendiere. Ma in questo angolo di rigido mondo islamico i faccendieri proliferano, e ognuno di loro millanta conoscenze con qualche membro della enorme famiglia reale che controlla gran parte dei proventi derivanti dal petrolio. Coffee land si chiama il posto in cui Abdul ci convoca, in attesa che arrivi un fantomatico funzionario del governo che gestisce direttamente tutti gli investimenti legati all’energia. Dopo un’ora arriva; voce hollywoodiana e sguardo attento chiede innanzitutto di capire come siamo finiti a quel tavolo, in questi posti ogni parola e ogni cosa deve essere capita, perché ogni parola e ogni cosa può creare problemi o portare ricchezza, anche se non riesco a capire l’utilità della ricchezza per chi vive a Riyadh, città sterminata di cui nessuno conosce ormai il numero di abitanti. La vita qui è scandita dalle preghiere e dal lavoro, come un enor-

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me convento, dove invece che coltivare orti e preparare liquori di erbe, si costruiscono autostrade e palazzoni. Autostrade che finiscono in altre autostrade che finiscono in altri grandi raccordi e così via in un girone infernale che ha trasformato questa desolata landa desertica in qualcosa secondo me di molto peggio e cioè una desolata landa di cemento, dove Abdul ingurgita un caffè doppio dietro l’altro, per mantenersi sveglio e forte come, dice lui, un cammello sudanese. Nella coffee land ovviamente, come in tutta l’Arabia Saudita, non vi è traccia di alcol, severamente vietato, pena l’incorrere nel terribile ente per la protezione delle virtù e il divieto del vizio che potrebbe comminare centinaia di frustate se non addirittura la morte per il consumo di bevande alcoliche. Caffè arabico beve anche il governativo, che è sempre più sospettoso, alla ricerca di un suo ruolo in questo affare; forse percepisce il fatto che a me di questo, come di altri affari non interessa assolutamente niente e così dopo pochi minuti di reciproca finzione ci si saluta rimandando il tutto a successive email che tutti sanno benissimo non verranno mai inviate, ne tantomeno scritte o pensate. Ma c’è un altro affare che Abdulmoniem Al Gadal, nome completo del sudanese, cerca in extremis di arraffare: un suo contatto ha giù un enorme terreno e 130 milioni di euro sul conto pronti per realizzare un enorme stoccaggio di merci refrigerate e sta cercando un socio straniero che gli venda le attrezzature e la tecnologia; il funzionario italiano che mi accompagna in questo incontro, da buon funzionario della camera di commercio italo araba, chiede un progetto con qualche indicazione in più, ma qui progetti non si fanno, si deve scommettere sul sudanese dai piedi piccoli: prendere o lasciare. E la scommessa su cui si sta muovendo questo paese è una scommessa con una posta in gioco molto alta, una posta che coinvolge non solo la capacità di questa monarchia assoluta di mantenersi al potere coniugando una modernità apparente con una società islamica rigida, ma coinvolge l’equilibrio di tutta la regione e di conseguenza del mondo intero. L’Arabia Saudita è infatti il paese con le maggiori scorte di petrolio al mondo, e il suo stretto legame con gli Stati Uniti è qualcosa di veramente paradossale se visto da qua. Si è fatta una guerra per esportare la democrazia e ci si è alleati con il più rigido regime al mondo, dove la parola democrazia non ha alcun senso; si usano le donne afghane come giustificazione per lo sterminio dei talebani e di decine di migliaia di civili di quel disgraziato paese, e si è alleati di un paese in cui le donne non esistono, non hanno alcun diritto, se non quello di vagare come fantasmi nei pochi mall affacciati sempre su queste superstrade trafficatissime.

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Indossano l’abaya, la tunica nera delle musulmane più osservanti e hanno il capo coperto da burqa integrali o da niqab, che consente una piccola fessura per gli occhi e osservandole mi torna alla mente l’antica leggenda che fa risalire a Tamerlano e alla sua moglie fedifraga l’origine del burqua, quando, per nascondere i segni indelebili di un bacio focoso dell’amante, prima la moglie e poi lo stesso Tamerlano tornato dalla guerra e scoperto il tradimento, lo imposero a tutte le donne del regno che aveva Samarcanda come capitale. Ma Tamerlano e il fascino delle leggende dell’Asia Centrale sembrano così lontani in questi squallidi centri commerciali dove le donne hanno dei piani a loro riservati e sognano le griffe internazionali presenti in questi centri, che qui fanno affari d’oro e che in Occidente parlano del ruolo sociale dell’impresa. I soldi non han colore, così come la politica che ormai ne è figlia. È la real politik si dice, è vero, è sempre stato così, ma mai come in questa fase storica l’opinione pubblica è presa in giro, soprattutto perché i più grandi crimini che si compiono in quest’epoca vengono commessi con motivazioni umanitarie, di rispetto dei diritti delle donne, di rispetto del lavoro. Ma in questa città, dove cellulari ricoperti da brillanti vengono esisbiti come trofei dalle donne fantasma e suonano in continuazione, questi concetti sembrano non essere mai esistiti. Le donne non hanno diritti e i lavoratori sono considerati merce da scambiarsi come un telefonino. Basta vederli, su queste impalcature dall’equilibrio precario, senza nessuna protezione, mentre cotruiscono l’ennesimo palazzone che sarà poi occupato dall’azienda dei telefoni o da qualche filiale di multinazionale americana. Vengono dal Pakistan, dall’India, dal Bangladesh e anche tra i disperati esiste una gerarchia; in fondo alla lista ci sono i Bengalesi, pagati 80 euro al mese per rischiare la vita su travi pericolanti o per arrostirsi ai 50 gradi estivi mentre asfaltano le nuove strade, che lasciano negli svincoli tristi spazi verdi che diventano anch’essi grigi, perché gli impianti di irrigazione non riescono a contrastare la sabbia che spira dal deserto che stringe la città. Questi svincoli verdi dovrebbero ricordare che Riyadh è il plurale di rawda e significa giardini, nome che assume un tono strano nel traffico di suv e macchinoni americani. Il costo quasi nullo della benzina contribuisce ulterior-

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mente all’uso della macchina per qualunque spostamento anche perché ad oggi Riyadh non ha nessun tipo di trasporto pubblico; ancora una volta in questa come in altre parti del mondo che si modernizzano velocemente il primo obiettivo è costruire strade e palazzi, crescere, in un delirio del fare che può portare solo disastri. Le crepe non tardano ad arrivare, Dubai ne è l’esempio: Burj Dubai, il più alto grattacielo del mondo inaugurato il 4 gennaio scorso non tiene; crepe sono emerse al 124esimo dei 160 piani del grattacielo. La torre è stata chiusa per "problemi tecnici", ha spiegato Emaar Properties, il colosso immobiliare che sta dietro l'ambizioso progetto, colosso che ha costruito mezzo golfo persico. Il sorriso dello sceicco Mohammed al Maktum, padrone di Dubai, ha perso un po’ di smalto ultimamente. Le onnipresenti gru si sono prese una pausa nel panorama, come ferme nel tempo. Ci sono innumerevoli edifici fermi a metà, all’apparenza abbandonati, così come le migliaia di auto non pagate e lasciate in aeroporto con le chiavi dentro da chi è fuggito dal paradiso che si sta trasformando in inferno. Nelle costruzioni più scintillanti, come l’enorme hotel Atlantis, un gigantesco castello rosa, edificato in 1000 giorni ad un costo di più di un miliardo di euro su un isola artificiale costruita ad hoc, l’acqua piovana filtra dal soffitto e le tegole si staccano dal tetto. Questa terra da favola è stata costruita su un sogno e adesso comincia a diventare un incubo. Ora che la folle esplosione dei cantieri si è fermata ed il vento sta girando, i segreti di Dubai stanno lentamente emergendo, segreti di una città costruita da zero nell’arco di pochi decenni selvaggi di macro-credito e di uccisione dell’ecosistema, di soprusi e di schiavitù e che non potrà far altro che concludere la sua folle corsa con uno schianto. Ma nonostante le avvisaglie che Dubai sta dando, nessuno sembra farci caso. Il Kingdome Tower di Riyadh, edificio avveniristico e simbolo della città, con il suo ristorante al settantasettesimo piano, segue quella direzione, anche se va detto che Riyadh non ha ancora puntato a una crescita verso l’alto, non ha ancora la skyline definita; le tute blu impolverate lavorano soprattutto alla costruzione di brutti palazzoni. Grande mercato per le costruzioni questo; il cemento è ovunque, dai posti di blocco davanti agli alberghi o lungo le strade per paura delle autobombe alle barriere lungo le grandi arterie di traffico o per segnalare

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cambiamenti nella circolazione; i blocchi di cemento sono pesantissimi, ma qui nessuno si preoccupa di chi li deve spostare. Riyadh oggi, così come già Dubai, Abu Dhabi, Doha e tutte le città del Golfo ieri, cresce sul sangue degli schiavi, arrivati qui per sostenere le loro povere famiglie in Bangladesh o nel sud dell’India e ritrovatisi poi in trappola, con il passaporto sequestrato dai loro datori di lavoro, il quotidiano rischio della vita e stipendi poco più alti di quelli che avevano in patria. È così che nascono le nuove grandi opportunità economiche. Li vedi al mattino, a far colazione al Marriott o allo Sheraton, sono americani soprattutto, con le loro valigiette e i loro computer, con progetti di nuove infrastrutture e nuove costruzioni. Invece di finanziare studi e ricerche sui nuovi mercati sarebbe interessante capire l’intensità di vite spremute e poi gettate per queste opere; ma nessun ministero occidentale, nessuna università, nessuna azienda finanzierà mai uno studio di questo tipo e così quelle valigiette e quei computer, reali armi di distruzione di massa del nostro tempo, mantengono i loro macabri segreti. Sono rasati come solo gli americani sanno essere, spesso grassi come solo gli americani sanno essere e convinti della loro missione: costruire, qui c’è così tanto da fare! I sauditi hanno i soldi e comprano il lavoro così come qualunque altra merce, visto che loro di lavorare non ne hanno la benché minima voglia, lavorano solo nel settore pubblico, ingrassando pletore di inefficienti funzionari e ingrassando loro stessi, gonfiati da un miscuglio di fast food americani e dolci arabi. L’Arabia Saudita è il Paese in cui più di un quarto della popolazione soffre di diabete di origine alimentare e fa sorridere sapere che il Governo avrebbe avvertito la popolazione che il consumo di locuste non dovrebbe essere considerato un’adeguata terapia contro il diabete e invita a non mangiare gli insetti in quanto potenzialmente contaminati dai veleni impiegati nei programmi di eradicazione. I miei pochi giorni a Riyadh son terminati, ritorno all’aeroporto per imbarcarmi sul volo per il Cairo; mi trovo di fronte a una lunghissima fila fuori dallo scalo, ma per uno strano gioco del destino che fa sì che a volte lo straniero sia visto come un nemico e altre volte come un ospite, mi trovo quasi senza rendermene conto, in pochi minuti, seguendo le indicazioni degli addetti all’aeroporto, al check in e al controllo passaporti. Il gate è il 14 e nella porta a fianco è indicato il volo per Peshawar; mi sembra di essere in una scuola coranica, i pachistani tornano a casa con i loro carichi di speranze e con gli occhi stanchi. Osservo i loro piedi, hanno sandali e scarpe pesanti, non ci sono scarpe da ginnastica occidentali, e non vi sono piedi piccoli come quelli di Abdul, il sudanese.

Francesco Bertolini francesco.bertolini@unibocconi.it

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ANALISI

U.S.A.

contra todos

Dopo l’ultimo capitolo della occupazione militare di Haiti, vale la pena ripercorrere almeno le recenti, fondamentali, tappe, della strategia statunitense per riprendere il controllo del “cortile di casa” latinoamericano. Ma c’è anche chi non ci sta e combatte, come i paesi aderenti all’ALBA.

L

di Alessia Lai

a quarta flotta, le basi colombiane aperte agli Usa e ora la vera e propria invasione di Haiti con la scusa della missione umanitaria post-terremoto. Washington ha già da tempo preso le misure del cambiamento latinoamericano degli ultimi anni ed ha via via approntato rimedi nel tentativo di controllarlo e contenerlo. Più muscolari, come il ripristino della flotta che dal primo luglio del 2008 ha ricominciato ad incrociare il mar dei Caraibi. Più ambigue, come l’atteggiamento nei confronti del recente golpe honduregno: secondo alcune fonti preparato con l’assistenza dell’ambasciata Usa a Tegucigalpa ma poi ufficialmente respinto da Obama e comunque infine legittimato con il riconoscimento di Porfirio Lobo quale legittimo successore del deposto Manuel Zelaya. Più opportuniste, come il massiccio dispiegamento di forze militari a Port-au-Prince dopo il sisma che ha devastato Haiti lo scorso 12 gennaio.Washington non si è fatta sfuggire l’opportunità di stabilire una testa di ponte nel Caribe. A due passi da Cuba, di fronte alle coste del Venezuela di Hugo Chávez, del Salvador di Mauricio Funes, del Nicaragua di Daniel Ortega, dell’Honduras riconquistato alla destra conservatrice ma nella quale i movimenti sociali restano in fermento e mobilitati contro un golpe che non è certo finito con le elezioni del 29 novembre.Almeno 17 mila militari sono sbarcati ad Haiti, stabilendo una presenza sul territorio di quattro volte superiore a quella registrata, proporzionalmente, in Afghanistan. Militari che girano per la capitale haitiana in assetto di guerra, attrezzati come se stessero facendo un’incursione in territorio

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nemico e non una missione umanitaria. Quello di organizzatore degli aiuti al popolo colpito dal sisma sembrava essere il ruolo per il quale un Barack Obama in preoccupante calo di consensi si era autocandidato e autoeletto. A parole. La realtà sta nel fatto che con la scusa della missione umanitaria, peraltro sostenuta invece da altre istituzioni ed Ong estranee all’amministrazione Usa,Washington ha di fatto “conquistato” Haiti. E non è un termine volutamente forzato, visto che il 18 gennaio,sei giorni dopo il terremoto,il presidente haitiano Rene Preval, fino ad allora praticamente inesistente come il suo governo, ha sottoscritto un accordo con il quale ha ceduto il controllo del territorio agli Stati Uniti d’America. Chiedendo formalmente al governo statunitense di garantire la sicurezza, il presidente haitiano ha sottoscritto un comunicato congiunto nel quale è stata sancita in modo formale la legalità della presenza di militari nordamericani sull’isola e si sono autorizzate le truppe Usa al controllo del Paese per «la stabilità e la ricostruzione a lungo termine» di Haiti. Preval ha, in poche parole, abdicato in favore dell’amministrazione statunitense. Il terremoto ha permesso di “dare un’imbiancata” a quello che Washington ha fatto per anni: ingerirsi nelle questioni haitiane, occupando il Paese per 30 anni ai primi del ‘900 e favorendo e teleguidando rivolte e colpi di Stato fino ad oggi. Ora c’è il paravento della missione umanitaria nell’immediato e della ricostruzione nel futuro. La realtà è che gli Usa hanno conquistato una base importante per il controllo dell’area caraibica in un momento storico nel quale il vento bolivariano soffia sui Paesi che vi si affacciano. Lo hanno denunciato immediatamente Chávez, Ortega, Castro. I leader latinoamericani, una volta palesatasi l’imbarazzante entità delle forze militari Usa dispiegate ad Haiti, non anno esitato a parlare di «occupazione militare» sottolineando che i loro sforzi in favore di Haiti si sono concretizzati nell’invio di medici, cibo, acqua e medicinali, non di truppe da sbarco arrivate sul palazzo presidenziale come se stessero conquistando la sede del governo di Saddam Hussein. Un atteggiamento che ha infastidito non solo i diretti interessati, gli “inquilini” del Caribe e di tutta l’America Latina. La Francia, la cui pulsione alla “grandeur” permette ancora di non prostrarsi del tutto alle prepotenze statunitensi, non ha infatti tollerato – scatenando una feroce polemica – che i cargo di Médecins Sans Frontières venissero respinti dall’aeroporto della capitale haitiana,

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controllato dagli Usa. E Mosca, con l’ormai consolidata arte diplomatica dell’era Putin-Medvedev, senza fare nomi né accuse dirette ha però sollevato dubbi sull’effettiva necessità di una tanto massiccia presenza militare. Una magra consolazione, comunque, visto che le proteste non hanno suscitato nessuna condanna da parte dell’Onu, che pure guidava ad Haiti una missione di stabilizzazione, la Minustah, le cui forze sono state anch’esse, come la popolazione, colpite dal terremoto. Se un coordinamento doveva esserci era quello delle Nazioni Unite, storicamente deputate per questo genere di operazioni e responsabilità. La massiccia militarizzazione statunitense tuttavia, oltre che ad occupare Haiti è servita, ancora una volta, a ridimensionare il ruolo di una Onu già da tempo ridotta a stampella degli Usa: tirata in ballo quando appoggia le loro politiche e quelle dei loro alleati, puntualmente ignorata quando cerca di svolgere il ruolo super partes che le dovrebbe spettare. Quel che resta sono i quasi 20mila militari statunitensi impiegati nell’isola che fu Hispaniola: a guardia dei resti del palazzo presidenziale, delle banche, dei quartieri “ricchi” rimasti in piedi – quasi a fare ulteriore sfregio alla moltitudine di poveri e affamati che già prima del terremoto affliggeva Haiti. E soprattutto a guardia dei Caraibi.

Grandi manovre yankee Ma questo è solo l’ultimo capitolo di una strategia che da qualche tempo rappresenta la risposta statunitense al dilagare nel continente latinoamericano di partiti, movimenti e governi decisi ad affrancare il continente dall’influenza straniera rappresentata in primis da Washington e a seguire dalle multinazionali ad essa legate. Un passato che aveva fatto dell’America Latina il banco di prova delle tendenze iperliberiste della scuola di Chicago e di tutto ciò che ne conseguiva in termini sociali. Tra la fine dell’amministrazione Bush e il primo anno di quella del democratico Obama, le manovre statunitensi si sono servite prima di tutto del ripristino della quarta flotta. Un gesto in perfetto stile repubblicano, una dimostrazione di potenza militare. La quarta flotta incrocia nel Caribe, è direttamente subordinata al Comando Sud degli Stati Uniti (United States Southern Command) che oltre a questo nuovo strumento di controllo poteva già contare sulle basi di Guantanamo a Cuba, Comalapa in El Salvador, quelle di Aruba e Curacao (olandesi, ma gli Usa possono utilizzarle), Panama e Soto Cano in Honduras - sede della

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Joint Task Force Bravo, la forza di pronto intervento per l’area caraibica composta stabilmente da 550 militari e un centinaio circa di contractor statunitensi. Quest’ultima base ci riporta direttamente ai fatti accaduti negli ultimi mesi a Tegucigalpa. Nel 2008 il presidente Manuel Zelaya aveva chiesto a Washington di ridiscutere la loro presenza nel Paese manifestando la volontà di trasformare la base utilizzata dalla Task Force Bravo nella località Palmerola in un aeroporto civile vista la situazione di rischio presentata dallo scalo Tocontín. Una cosa che «non si fa dalla notte alla mattina» ebbe modo di commentare John Negroponte, un personaggio dal curriculum ben noto e dai bui trascorsi latinoamericani: fu ambasciatore proprio in Honduras ai tempi in cui gli squadroni della morte armati e addestrati dagli Usa sconfinavano nel vicino El Salvador per dare la caccia ai sandinisti. Era il giugno del 2008, e in qualità di sottosegretario di Stato Negroponte stava effettuando un giro dell’America centrale. Ebbe degli incontri con Zelaya, ma non solo. Si riunì anche con la presidentessa della Corte Suprema de Justicia, Vilma Morales, e con il presidente del Parlamento Roberto Micheletti. Un anno dopo, la Morales avrebbe firmato il documento che destituiva Manuel Zelaya e Micheletti sarebbe diventato il “nuovo” presidente honduregno: era il golpe del 28 giugno 2009. Ma Zelaya non aveva solamente osato proporre il ritiro degli statunitensi dalla base di Palmerola, aveva anche aderito all’Alba, l’Alianza bolivariana para los pueblos de nuestra América,lo strumento di integrazione creato su spinta di Hugo Chávez e basato sui principi del socialismo del XX secolo. Organizzazione alla quale aderisce anche l’Ecuador di Rafael Correa che l’anno scorso ha deciso di non rinnovare la concessione – in scadenza al settembre del 2009 - per l’uso da parte delle forze Usa della base di Manta, altra installazione strategica per il Comando Sud. A quel punto rischiare di perdere anche Soto Cano era impensabile. E in un momento storico nel quale tutto ciò pareva “fuori tempo massimo”Tegucigalpa è stato il banco di prova per una nuova strategia golpista che ha creato un pericoloso precedente per il Continente.

I cari, vecchi golpe A differenziare il governo Bush e quello Obama c’è infatti l’uso e la gestione dei colpi di Stato: se si confrontano le reazioni statunitensi al rovesciamento di Zelaya con l’atteggiamento tenuto ai tempi del tentato golpe contro Chávez in Venezuela, nel 2002, si comprendono le differenze di approccio tra le amministrazioni repubblicane e quelle democratiche. Nel caso venezuelano Bush riconobbe immediatamente il presidente golpista (fortunatamente per poco) Carmona Estanga. Mentre Obama ha immediatamente preso le distanze dai golpisti honduregni pur specificando, a scanso di equivoci, di non condividere l’orientamento politico di Zelaya. Ma di fronte alle strategie dilatorie con le quali il golpista

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Micheletti intendeva chiaramente prendere tempo per arrivare alle elezioni di novembre,Washington non ha mosso un dito,delegando la mediazione della crisi al presidente del Costa Rica, Oscar Arias, certo politicamente più vicino alla destra conservatrice dei golpisti che alle istanze bolivariane sposate da Zelaya. Il risultato è stato un accordo cavilloso, quello di San José, che ha permesso ai golpisti di arrivare alle elezioni e far votare – in un clima di repressione e intimidazione per gli oppositori – un conservatore come Porfirio Lobo. A quel punto Washington ha dato la sua benedizione a queste “elezioni democratiche” riconoscendo per prima il nuovo mandatario honduregno. Insomma una perfetta operazione di maquillage che sta già dando i suoi frutti, con l’Ue pronta a ristabilire i contatti economici con Tegucigalpa e l’Osa – che aveva espulso l’Honduras dopo il golpe – sul punto di avviare le pratiche per la riammissione. Nemmeno a dirlo, il primo Paese latinoamericano a riconoscere Porfirio Lobo è stato la Colombia. Bogotà è un’altra pedina fondamentale del Risiko che Washington sta giocando nell’ex cortile di casa. Sempre con la nuova amministrazione democratica, meno propensa a mostrare i muscoli ma forse più subdola della precedente, è arrivato infatti l’accordo con la Colombia per l’utilizzo militare di sette basi del Paese latinoamericano. Il governo di Álvaro Uribe, ansioso di vedere finalmente approvato il Tlc con Washington, peraltro un cappio che Bogotà si sta stringendo volontariamente al collo, ha aperto le sue basi ad almeno 1400 soldati e 800 civili-contractors statunitensi, tutti col beneficio dell’immunità diplomatica. Il motivo ufficiale è la solita lotta alla droga. Il fallimento del Plan Colombia avrebbe dovuto insegnare qualcosa al governo Uribe: il traffico di stupefacenti verso gli Usa non si è mai interrotto né è diminuita la produzione. Forse perché il vero scopo, anche del Plan Colombia, era un altro: cercare di annientare la guerriglia delle Farc, accusate all’uopo di essere a capo del narcotraffico ma in realtà un pericolo per i governi di destra amici degli Usa. Non è un caso che Chávez prima e Morales poi abbiano cacciato la Dea, l’agenzia statunitense per la lotta al narcotraffico, da Venezuela e Bolivia accusandola di essere in realtà un’agenzia di spionaggio e sovversione ai danni dei loro governi. Álvaro Uribe dal canto suo non vede nulla di strano nel concedere a Washington l’uso di ben sette basi estendendo a militari e personale civile statunitense l’impunità in genere riservata ai soli diplomatici. Per la cronaca: Mauricio Funes, da poco eletto presidente di El Salvador tra le fila del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional, il movimento che negli anni ’80 lottò contro la dittatura, poche settimane fa ha tenuto a precisare che non aderirà mai all’Alba.

Alessia Lai

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MOLESKINE marzo 2010

Dal Ribelle Quotidiano

Quella che segue, nella pagine di Moleskine relative a marzo 2010, è una selezione di alcuni articoli pubblicati nella edizione quotidiana (online) de La Voce del Ribelle. Sul web affrontiamo temi inerenti l’attualità, con incursioni brevi - e spesso anche dense - per offrire degli spunti di riflessione sugli avvenimenti quotidiani oltre agli approfondimenti che invece lasciamo alle pagine stampate del mensile. Stampare parte di questi brevi articoli arricchisce, a nostro avviso, anche il mensile che avete tra le mani. Un giorno sarà, di fatto, memoria storica dei mesi passati. Da tenere sempre a mente, per “leggere” anche i fatti del giorno. L’edizione quotidiana, grazie al sostegno degli abbonati che hanno deciso di aderirvi, sta crescendo rapidamente. Sia con contenuti scritti sia dal punto di vista multimediale, per esempio con la trasmissione Noi nel Mezzo, tutti i lunedì in diretta alle 16 e 30. Grazie a tutti.

Stato, mafia e deduzioni Onestà intellettuale impone di usare cautela: solo chi ha la sfera di cristallo - o la verità in tasca... può realmente dire con esattezza se ci siano state (e se ci siano tuttora) delle collusioni tra Stato e Mafia. Così come solo la Magistratura, e non è neanche sicuro, potrà dire se le gravissime parole di Ciancimino sono vere o meno, in merito all'accordo con la Mafia alla base della nascita e del successo di Forza Italia, immediatamente dopo Tangentopoli e quella che viene definita "stagione delle stragi". Una cosa è certa però, anzi, molte cose sono già certe. È certo, ad esempio, che alcune supposizioni chiunque può farle. Anzi che ha il dovere di farle. E certa è anche la liceità di porsi alcune domande, per arrivare, appunto, a delle supposizioni. Non ci esimeremo dal farle, dunque, poiché l'argomento naturalmente merita. Ma ancora prima sono certe altre cose. È certo, ad esempio, che anche Andreotti abbia avuto delle frequentazioni mafiose. È scritto nei verbali, anche se per le stesse, Andreotti, non ha mai pagato. Non perché sia stato assolto dall'averle avute, quanto perché le accuse, in merito, sono cadute in prescrizione. Ciò non impedisce al divino Giulio di sedere ancora nel nostro Senato. È certo poi che tanti politici, di ieri e di oggi, hanno

avuto frequentazioni mafiose, è certo che molti di questi sono stati condannati, è certo che molti Comuni sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose. Sono certi inoltre appalti di stampo mafioso, così come sono certi tanti pentiti che parlano di collusioni tra Mafia e Stato. Sopra ogni altra cosa, dunque, è lecito in materia nutrire legittimi dubbi. Ognuno può trarre le conclusioni che crede, ma è certo altresì che ponendosi alcune domande, le conclusioni alle quali si può sinceramente arrivare, anche se solo a titolo, appunto, di supposizioni, non sono molto dissimili dalle parole di Ciancimino. Perché come è possibile pensare che siano stati uccisi dei Magistrati proprio nel momento in cui si erano avvicinati alla politica nell'indagare su fatti di stampo mafioso, senza credere che qualcosa di vero ci sia? Come è possibile che nel nostro Parlamento siedano tanti politici incriminati per crimini legati direttamente o indirettamente ad ambienti mafiosi senza farsi venire qualche dubbio? Come è possibile che il nostro Presidente del Consiglio, che appella Mangano (e sappiamo tutti chi era) quasi fosse un patriota, impegni la maggior parte del suo tempo a promulgare leggi e leggine per evitare di farsi processare e quindi non pensare che dei processi abbia paura eccome? Come è possibile che pur inasprendo - a quanto pare - la lotta alla Mafia, essa riesca ancora ad avere una influenza così estesa nel nostro Paese senza pensare poi che forse, tali inasprimenti, sono più sui numeri che nei fatti? Sopra ogni altra cosa, come è possibile, in uno Stato che si proclama di diritto, che una azienda (che di questo si tratta) come la Mafia, riesca imperterrita a fare affari di così grande penetrazione e rilevanza economica senza avere la politica come appoggio, se non altro continuando a dare appalti ad aziende che puzzano di Mafia da almeno mille chilometri di distanza? Fuori di metafora, la domanda più ovvia da rivolgersi, a questo punto, è la seguente: è possibile pensare che uno Stato come il nostro non abbia al suo interno, a livello politico, qualche tipo di collusione con la Mafia? Ciancimino o meno, già formularsi una domanda del genere, spiega tutto. V.L.M.


Unità d’italia: dove? Festeggiare cosa?

Tangentopoli, ovverosia città delle tangenti: secondo alcuni stiamo per tornare a quell’epoca, se non ci siamo già. Purtroppo è un’analisi ottimistica perché, proseguendo nell’allegoria della città, nella Prima Repubblica un “piano urbanistico” c’era, il denaro della corruzione passava per le segreterie dei partiti, che centralizzati com’erano, necessitavano di quel flusso di denaro per prosperare e mantenere mastodontiche macchine organizzative. Le risorse andavano razionalmente gestite, c’erano una logica e un metodo, non c’era spazio per cani sciolti. Certamente si creavano anche fortune individuali da usarsi in prospettiva di latitanze dorate, ma era un marcio ordinato che serviva al sistema. Oggi il piano urbanistico è saltato: la corruzione non è più funzionale ai partiti, che hanno sistemato le cose per prelevare direttamente dalle tasche dei contribuenti il denaro necessario perla struttura, ma sono i partiti diventati funzionali a gruppi e cordate di tangentari che agiscono in maniera autonoma e scoordinata a meri fini privati. Il partito serve loro per raggiungere posizioni chiave e legittimare le loro richieste, non è più il contrario. È questo “abusivismo edilizio” a regnare incontrastato nella nuova città delle tangenti, che, senza più regole (criminali) né logica, rende la situazione ancor più perniciosa di allora. Il sistema dei partiti, delle grandi centrali organizzate di corruzione, usava, sì, il paese per mantenersi, ma ben sapeva che non poteva uccidere la gallina dalle uova d’oro. Adesso la situazione è radicalmente cambiata, non c’è più un sistema, nessuna mente a regolare i flussi di denaro sottratti alla nazione, tutto avviene a titolo personale, malgestito in piccoli gruppi, che spesso si intersecano secondo schemi che oltrepassano gli schieramenti. La vacca non si pensa più a mungerla al meglio, la si sta uccidendo senza però neppure pensare a ottimizzarne la macellazione. Gli sprechi non sono solo nella gestione dello Stato, ma anche nella stessa gestione delle tangenti. Non siamo di nuovo a tangentopoli ma siamo di fronte ad una situazione ben peggiore che, grazie anche alla sua struttura parcellizzata, sarà molto più difficile far venire pienamente alla luce e stroncare. F.M.

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Abusivismo in Tangentopoli

Ieri sul Corriere l’ineffabile Galli della Loggia, senza fornire uno straccio di argomento, metteva in guardia dalla critica al Risorgimento e all’Unità d’Italia in quanto tale. Sommo delitto, ma legittima offesa: dove sta scritto, chi l’ha deciso il divieto di discussione sull’unificazione di questo Stato raccogliticcio e privo di nerbo nazionale? L’editorialista delle cause vincenti per una volta si è fatto avvocato di una causa persa, quella del 150° anniversario che si celebrerà l’anno venturo, di cui lui, storico, in teoria dovrebbe occuparsi in mezzo a un variopinto comitato di garanti dalle competenze storiografiche alquanto discutibili (alcuni nomi: l’ubiquo Gianni Letta, il giurista Gustavo Zagrebelsky, la scrittrice Dacia Maraini, il filosofo Marcello Veneziani – successivamente dimessosi – il giornalista Pietrangelo Buttafuoco, il ballerino Roberto Bolle). In teoria, dicevamo, perché la cassa è vuota.A pensar bene di svuotarla è stato il ministro dell’economia Giulio Tremonti (per una volta: bravo!). Il budget messo a disposizione in origine per i 350 festeggiamenti sparsi per la penisola era assai cospicuo: ben 1 miliardo di euro. Già a metà 2009,Tremonti dichiarava che quel miliardo non c’era più. Nel settembre scorso il suo collega alla cultura, il poeta Sandro Bondi, presentava al Capo dello Stato, l’ex comunista internazionalista Giorgio Napolitano, il calendario ufficiale del rito: ridotto a misera cosa rispetto agli intenti iniziali. Il piano originario era un faraonico elenco di elargizioni che con la ricorrenza c’entravano poco, ma c’entravano molto con il consenso: 6 milioni per un museo dell’arte nuragica a Cagliari, 100 milioni per la nuova sede dell’Istat a Roma, 42 per i restauri di Palazzo d’Accursio a Bologna, 17 al Polo archeologico di Canosa di Puglia, 8 per i restauri dell’Istituto per le Relazioni con l’Oriente di Macerata, 8 per la nuova sede dell’Herbarium Mediterraneo a Palermo, 7 per il restauro dell’hotel del Parco del Valentino a Torino, persino 10 per i “nemici” storici del Centro studi della Mitteleuropa di Udine. Dopo le forbici tremontiane, sono rimaste in piedi solamente undici opere: 7 già iniziate, altre 4 da finanziare integralmente. Queste ultime vale la pena di elencarle: l’Auditorium del Maggio Fiorentino (100 milioni previsti), il Palazzo del Cinema a Venezia, il Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria, l’Auditorium di Isernia (30 milioni previsti). Come si vede, il legame con la proclamazione del Regno d’Italia nell’anno di grazia 1861 resta opinabile. Ma tant’è: trattandosi dell’Italia, siamo di fronte ad una festa all’italiana. Dove si arraffa quel che si può sfruttando l’occasione propizia. E l’occasione è il mito dell’Unità. Ci provano, a inculcare l’idea di un’unanimità corale per un sentimento di Patria che non c’è, ma basta grattare un poco e si scorge subito la cartapesta. L’Italia è oggi qualcosa di definibile come “terra dei padri” (chè questo significa “patria”)? È nel qui e ora che si dovrebbe trovare quel collante immediato, naturale, comune, profondamente e diffusamente sentito che è il patriottismo. Un collante


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che negli Italiani non esiste. E non esiste per il semplice motivo che non possediamo un'immagine condivisa e rispettata del passato unitario. Per forza: l'unificazione risorgimentale è stata affare di sparute minoranze idealiste e soprattutto campo di manovra di una potenza regionale, il Piemonte dei Savoia, che ha fatto e disfatto tutto il possibile per mangiarsi lo Stivale. Plebisciti taroccati, repressioni contro i ribelli (fatti passare per "briganti"), centralismo schiacciasassi su una plurisecolare realtà di ricchi particolarismi, terra bruciata dell'economia meridionale a tutto vantaggio di quella lombardo-piemontese, negazione della questione sociale (differenza fra paese reale e paese legale) e della questione locale (le tradizioni politiche, civili e culturali pre-unitarie): fu una strage, voluta e programmata, di ciò che i popoli italici erano stati fino a quel momento. Attenzione: fino ad allora, il senso patrio per quei popoli era dato non dalle conformazioni statali che nei secoli si succedettero caoticamente, magari sotto il tallone dello straniero (francese, spagnolo, austriaco, etc).Tranne eccezioni, come la Serenissima Repubblica di Venezia, i regni si erano creati e rimescolati sulla base di convenienze ed esigenze di pura realpolitik.Tuttavia resisteva rigoglioso un sostrato costituito dalle molto più solide e popolari usanze comunitarie, che solo la modernità e lo Stato unitario hanno in gran parte spazzato via in questi ultimi centocinquant’anni. Gl'italiani, in altre parole, non hanno mai avuto una patria intesa come identificazione di Stato, Nazione, Popolo. Né quando era un crogiolo di rissosi staterelli, né tanto meno quando venne inglobata come un carciofo nel regno sabaudo. Hanno sempre e solo avuto attaccamento per il proprio piccolo microcosmo di volta in volta municipale, regionale o altro. Da un punto di vista politico, insomma, non esistettero mai nemmeno le cosiddette piccole patrie. Se non per riconoscenza che le popolazioni davano agli Stati pre-risorgimentali in cambio della più o meno larga possibilità che essi lasciavano alla particolarità locali per sussistere e prosperare (in questo, e solo in questo senso, secondo noi, andrebbe recuperato e attualizzato il concetto di piccola patria). Ciò che rendeva italiani gl'Italiani prima del 1861 era il fatto che, giustamente, se ne stavano abbarbicati sulle proprie specificità difendendole gelosamente dall'ingerenza del potere statale di turno. L'italiano era tale per definizione perchè si sentiva un non-italiano. Era milanese, fiorentino, romano, genovese, salentino, sardo, siciliano. Ma italiano, no. E neppure asburgico, borbonico, papalino o devoto al reuccio sopra di lui. Bisognerebbe prendere atto in primo luogo che tale localismo allergico all'amor di qualsiasi autorità è rimasto - anche se oggi, inquinato alle midolla, si mischia con l'individualismo consumistico tipico dell'Occidente moderno, demolitore di ogni tradizione e memoria, e perciò di ogni rispetto patrio. E in secondo luogo che esso, fatto di campanili, piane, valli e al massimo regioni linguistiche (dialettali), è l'autentica ricchezza dell'espressione geografica chiamata Italia. D'Azeglio ha perso: gl'Italiani non si sono mai fatti. Quale Unità… A.M.

Si scrive “tecnici”, si legge “banchieri” Tremonti attacca il sistema bancario internazionale, secondo copione, e Draghi lo difende, in maniera altrettanto prevedibile. Nell’ultimo botta e risposta tra i due, arrivato a latere del G7 che si è appena concluso a Iqualit, remota località del Canada settentrionale non lontana dal Circolo polare artico, non c’è nulla di nuovo. I due “avvocati” hanno tenuto fede ai rispettivi ruoli, difendendo gli interessi dei rispettivi “clienti”. Il ministro dell’Economia tira acqua al mulino della politica, e ribadisce che spetta ai governi definire le nuove norme della finanza mondiale. Il governatore di Bankitalia replica che quelle modifiche devono essere raggiunte con il concorso di tutti i soggetti coinvolti. Formalmente è accomodante, al punto che in via preliminare precisa che non c’è «nessuna polemica». Nella sostanza è lapidario, visto che quello che aggiunge suona come un’affermazione irrefutabile. Come il più logico e indiscutibile dei principi: «tutti partecipano all’elaborazione delle regole, politici e tecnici». A prima vista, se non si è sufficientemente smaliziati, può sembrare una precisazione all’insegna del buon senso, intonata com’è al consueto ritornello delle riforme “condivise”. O quanto meno del confronto con le parti sociali, per restare in ambito economico. In realtà le parole di Draghi nascondono al loro interno una mistificazione più sottile. E più insidiosa. Parlare di tecnici, infatti, significa utilizzare un termine capzioso, che mira a suggerire un’idea di oggettività. I tecnici come elementi “super partes”, che formulano i propri giudizi sulla base di nient’altro che non sia la loro competenza, di rango fatalmente superiore a quella di chiunque altro. I tecnici che aiutano i politici a comprendere l’effettiva natura dei problemi sui quali essi, forti del mandato popolare, si accingono a intervenire. I tecnici, per sintetizzare, che trasformano la politica in scienza. L’astrazione in concretezza. Le aspirazioni confuse in decisioni pratiche. E praticabili, essendo state plasmate in modo tale da poter coesistere con le condizioni generali su cui si andranno a innestare. La frase di Draghi va riscritta, se la si vuole capire correttamente. E una volta che la si sia riscritta suona così: «tutti partecipano all’elaborazione delle regole, politici e banchieri». Un messaggio che è stato espresso sommessamente, quasi en passant, ma che vale un monito: il potere bancario non acconsentirà a nessuna modifica che non sia stata concordata in via preventiva. Se si tratta solo di gettare un po’ di fumo negli occhi dell’opinione pubblica, facendo vedere che si è posto un freno a certi abusi del passato, trovare un accordo sarà non


solo possibile ma addirittura consigliabile. Dare nuova credibilità al sistema è interesse anche delle banche. Ma che nessuno si sogni – ammesso e non concesso che dietro le alzate di scudi di Obama e di Tremonti vi sia qualcosa di più di una pantomima, o di una lotta intestina alla finanza internazionale – di andare oltre. Non saranno coloro i quali stanno vincendo la partita, a permettere che il casinò chiuda anzitempo. F.Z.

Il balletto di Tremonti e Draghi Giulio Tremonti e Mario Draghi, i bibì e bibò della finanza italiana. Nella vulgata sono rappresentati come irriducibili avversari, sostenitori di due vie opposte per risolvere la crisi economica: il primo fautore di una sorta di neokeynesismo, più Stato e più controllo pubblico su banche e industrie; il secondo guardiano dell’ortodossia monetarista, con le banche centrali a tenere la politica subalterna ai loro piani partoriti nelle segrete stanze. Poi, di punto in bianco, in nome del santino falso e bugiardo dell’«interesse nazionale», il ministro dell’economia Giulio si fa sponsor del governatore di Bankitalia Mario come candidato presidenza della Banca Centrale Europea. E allora andiamo alla lavagna e rinfreschiamoci la memoria sulle biografie di questi due nemici per caso, ma amici e complici per dovere di casta. Draghi, allievo del professor Caffè, nel 1976 ottiene il dottorato presso il Mit di Boston con Franco Modigliani. Una brillante carriera accademica consacrata nel 1984, ancora giovanissimo per gli standard gerontocratici dell’ambiente, con la nomina a direttore esecutivo della Banca Mondiale. Nel 1991 diventa direttore generale del ministero del Tesoro. Nel giugno del '92 è uno dei partecipanti alla famosa riunione sul panfilo Britannia al largo di Civitavecchia, quando il gotha di Wall Street e della City londinese s'incontrò con i vertici dell'industria e delle banche di Stato italiane per ordire la fine dei campioni nazionali, dati in pasto al mercato internazionale. Presente anche l’allora governatore della Banca d’Italia Ciampi, in quell’occasione ignorata dagli annali ufficiali furono decisi i termini della svendita di mezzo Paese, altrimenti nota come privatizzazione di Iri, Enel, Eni, Ina,Telecom, Credito Italiano, delle industrie siderurgiche e agro-alimentari statali ecc. Complice il filantropo Soros che speculò sulla lira facendoci uscire dallo Sme, la stampa alimentò una campagna martellante per incutere il timore nel popolo italiano di “non entrare in Europa". Condizione essenziale per entrarvi era infatti diminuire l'enorme debito pubblico italiano, e per fare questo il metodo veniva dato per obbligato: vendere massicciamente tutto il comparto industriale di Stato. Draghi fu l’architetto dei grandi saldi: nel 1993 viene messo a capo del Comitato Privatizzazioni. Le dismissioni fecero diminuire il debito pubblico di una quota irrisoria, dal 125% al 110% del Pil. Nel 2000 Ciampi, divenuto Presidente della Repubblica, lo nomina Cavaliere di Gran Croce. E nel 2002, sempre per meriti sul campo, la Goldman Sachs lo accoglie fra le sue file

come vicepresidente per l'Europa. Oggi, l’uomo di fiducia della banca che più ha lucrato sulla crisi mondiale ce lo ritroviamo a presiedere l’istituto di via Nazionale. Domani, potrebbe manovrare l’intera politica monetaria europea. Il signore che ci ritroviamo a sovrintendere il ministero dell’Economia, dal canto suo, è un ragazzo cresciuto all'ombra del ministro socialista Reviglio, un ragioniere di Sondrio che dalle colonne del Manifesto ai fondi sul Corriere della Sera passò nelle liste di Segni nel '93-'94 per poi salire sul carro del vincitore a trentadue denti (Berlusconi, disprezzato fino a un giorno prima). E’ stato il teorico e pratico della "finanza creativa", il maestro di condoni e scudi fiscali. Adesso si fa passare come il Robin Hood (tax) che si scaglia contro banchieri e petrolieri. E’ uno dei papabili a succedere a sua maestà Silvio. Crede di farci fessi con la storiella del "mercatismo", presunto figlio degenere del liberismo. Predica il motto fascista "Dio, Patria, Famiglia".Tre valori, giusti o sbagliati non è il caso di approfondire qui, rasi al suolo proprio dal capitalismo e dai suoi sottoprodotti e sottomarche. Invoca il ritorno a Keynes e all'intervento dello Stato nell'economia, spacciando dosi di debito pubblico tramite i bond che portano il suo nome, quando fino a ieri era assertore della supremazia del privato sul pubblico (vi ricordate la svendita di immobili statali, le famose "cartolarizzazioni"?). Pur di stare a galla, in trent'anni di carriera politica e pubblicistica ha sposato ogni ideologia e il suo contrario: da socialista è diventato liberale, poi si è trasfigurato in liberista berlusconiano, ha poi abbracciato il colbertismo immaginario per finire neo-statalista a tutto tondo, con tunica di crociato e erre moscia da insopportabile saccente. Perché Tremonti sa. Sa tutto. Sa del signoraggio, sa dell'immonda ingiustizia che va sotto il nome di dittatura finanziaria. Come fiscalista era presente anche lui sul Britannia. E ora, questo voltagabbana impunito cambia di nuovo idea e appoggia il compare-rivale Draghi. Lui, nei suoi libri, parla di paura, parla di speranza, parla di profitto ancorato alla giustizia sociale. Parla per ingannare. Parla per tacere tutte le cose che sa. E che non vuole cambiare. Pena la fine del vero potere, quello che accomuna lui, Draghi e l’intera oligarchia politico-affaristica: il potere del denaro unico dio. A.M.


Idv: era tutto un bluff? Non ci hanno colpito, del congresso dell’Italia dei Valori, la sconfitta del duro e puro De Magistris, la consacrazione della svolta istituzionale decisa da Di Pietro, la conferma dell’alleanza strategica col Pd, e nemmeno le parole forti usate da Gioacchino Genchi, l’intercettatore, contro il regime berlusconiano. Era una recita già scritta, in un partito con un padre-padrone e per giunta in finale di chiusura delle candidature per le regionali di fine marzo. A farci riflettere, invece, è stata l’inconsistenza ideale, una volta si sarebbe detto “ideologica”, della formazione dipietrista. Ebbene, qual è l’ideologia dell’IdV? In base alle parole del sui leader, essa si riduce unicamente ai «valori della Costituzione». Siamo di fronte, perciò, ad un partito che non ha nessuna aspirazione ad alcun cambiamento profondo, ma al contrario come scopo programmatico persegue la difesa dell’esistente ordine costituito messo nero su bianco dalla Carta del ’48. Una forza apertamente conservatrice e ostinatamente costituzionale, come si vede. Di qui il legalitarismo come bandiera e l’antiberlusconismo come ragione di vita. Ma l’ex pm di Mani Pulite, che stupido non è, vuole superare questa condizione di minorità politica proiettando nel futuro il proprio esercito di transfughi di destra e sinistra elaborando qualcosa di più del costituzionalismo in chiave anti-Silvio. Il problema è che questo “qualcosa” non c’è, e non può esserci. Per il semplice fatto che la Costituzione non ammette di essere radicalmente cambiata, e soprattutto per un altro, decisivo fatto: i presupposti perché ciò avvenga, ossia un rigetto di massa verso una democrazia di facciata ostaggio di oligarchie politiche, affaristiche, finanziarie, non sono neanche immaginabili, quanto meno per ora. L’Italia dei Valori è il guardiano di valori che, sebbene disattesi nella realtà, la coprono e di fatto la puntellano

Gli scontri di Milano. E gli inganni del melting pot Egiziani contro peruviani. Nordafricani contro sudamericani. La chiave per capire gli scontri di sabato scorso a Milano è qui: nel ruolo determinante giocato dall’appartenenza etnica delle persone coinvolte, non tanto nell’episodio iniziale della rissa e dell’omicidio quanto nelle violenze che hanno seguito la morte del 19enne egiziano. Nel gran parlare di immigrazione, infatti, ciò che di solito si evita di affrontare è il problema dell’integrazione non già dei singoli individui ma

convogliando il malcontento in un’azione difensiva, anziché offensiva, alternativa, di ribellione. È lo sceriffo che combatte una guerra, persa in partenza finché a comandare saranno i signori delle banche e degli affari, per il primato della legge. Ora, finché la legge è questa e tutti vi siamo sottoposti, un minimo di decenza impone di farla rispettare a coloro i quali, in linea di principio, dovrebbero esserne i primi custodi, cioè i politici, e in secondo grado a chi dovrebbe osservarla più di tutti, cioè coloro che hanno più mezzi per aggirarla: i poteri forti. Ecco il senso, ad esempio, dell’appello in difesa della Carta scritto dal direttore politico di questo giornale e da Marco Travaglio. Ma non ci si aspetti un passo oltre a questo, dalle truppe di Di Pietro. Un mio amico e collega, anche lui convinto sostenitore del Manifesto dell’Antimodernità di Massimo Fini, spiegandomi i motivi per cui ha accettato l’offerta di De Magistris di candidarsi come indipendente nelle liste dell’IdV alla regionali, mi ha detto: «Lo faccio per due ragioni: primo, per utilizzare la tribuna elettorale come podio di diffusione delle idee antimoderne, per quel che potrò fare; e secondo, per sfogarmi un po’ e, nel caso venissi eletto, fare il guastatore». Ecco: messa così, un’opposizione interna al sistema ha un senso. Ma un senso eretico, dal momento che questo mio amico dovrà vedersela con gli equilibri col Pd (che producono l’appoggio di un indagato come De Luca in Campania), e ancora di più con la sordità di un partito che dall’orecchio della rivolta contro questo modello di sviluppo e di vita non ci sente, perché l’orecchio per sentire non ce l’ha. Fuor di metafora: pensando esclusivamente a montare la guardia allo status quo legale (cosa, ripetiamo, giusta perché terra terra, perché ci fa ribollire il sangue passare per fessi in un’Italia eternamente dei furbi), i dipietristi non vengono sfiorati dal pensiero tremendo che sia tutto sbagliato, tutto da rifare. A.M.

dei gruppi etnici cui essi appartengono. L’ipotesi comunemente accettata, fin quasi a diventare un dogma, è che l’amalgama (il famigerato “melting pot” statunitense) sia un approdo inevitabile. O presto o tardi, i diversi gruppi troveranno un punto di equilibrio.Volenti o nolenti impareranno a convivere. A capirsi l’un l’altro. O a sopportarsi, quanto meno. La loro coesistenza all’interno del medesimo territorio smetterà di essere un’equazione dalle troppe incognite, in cui la minima variazione di un singolo elemento può cambiare completamente il risultato finale, e diventerà un’operazione sociale come tutte le altre: non importa che vi siano armonia ed equità; basta che il disagio, e l’aggressività che ne deriva, restino sotto il livello di guardia. O che non esplodano se non in modo occasionale, come attacchi di febbre che, per quanto


Nucleare avanti a colpi di governo Il nucleare va avanti. Anche se gli italiani hanno detto di no. Il 10 febbraio scorso, anche se la notizia è passata in secondo piano considerato il risalto dato dai media alla questione Bertolaso, il governo ha approvato il decreto per la scelta dei siti dove costruire le centrali. In regime di perdita della democrazia, come lo sono tutte le democrazie rappresentative, la delega in bianco, senza possibilità di revoca, che gli elettori danno al governo che vanno ad eleggere, ha prodotto dunque l'ennesima scempiaggine nei confronti del popolo sovrano. In merito al nucleare ci sono alcuni punti di ordine pratico da chiarire, oltre a quello esistenziale, ovvio, secondo il quale un mondo che sta distruggendo il pianeta con i suoi consumi non è in grado di operare un cambiamento di rotta, rispetto allo sviluppo insostenibile nel quale si crogiola, e invece di trovare un sistema per ridurre i consumi mette a punto, mediante la tecnologia, dei sistemi in grado di fare più danni di quanti ne risolvano. Ma questo è discorso ampio. Gli altri punti pratici sono invece molto semplici da capire, a patto che si voglia farlo. Il primo punto è relativo al fatto che il nucleare non è una tecnologia compiuta. L'intero processo produttivo crea delle scorie che ancora oggi non si sa come eliminare. Il che significa che si accumulano, e che prima o poi, pertanto, non avremo più il posto per stivare. Cosa nuova con sistema vecchio, dunque. Con ulteriori aggravanti. Il secondo punto è infatti che queste scorie sono dannosissime, non si tratta di polvere da poter nascondere sotto al tappeto, ammesso che questa pratica possa essere accettata senza battere ciglio. Si tratta di scorie che vanno sapute conservare per non renderle dannose, e sappiamo in Italia quanto siamo bravi a trattare cose delicate. Il terzo punto è che il nucleare, rischiosissimo nella gestione stessa del suo processo produttivo - e sappiamo in Italia quanto sono brave, le aziende che normalmente vincono appalti alle "cose" pubbliche, a non far succedere incidenti (lo immaginate un impianto in mano alla Impregilo, ad esempio?) - è una tecnologia che anche i paesi più avanzati che la hanno adottata da decenni stanno dismettendo. Pericolosità e dubbia efficacia i motivi principali. L'interpretazione è dunque tutta legata alla economia. Cioè alle aziende che si "aggiudicheranno" (come se vi fosse la speranza di poter assistere a delle vere gare) gli appalti per la costruzione, la manutenzione, lo stoccaggio dei materiali radioattivi e, da ultimo, la commecializzazione dell'energia prodotta. Questi sono gli attori che beneficeranno delle scelte del governo. Il prezzo di tale scelta, sarà invece pagato da tutti noi. Non solo in moneta sonante, ma in possibilità di incidenti nucleari e tumori. E questo è il regalo che il governo "democraticamente" eletto da buona parte di chi è andato a votare, fa a tutti gli italiani. Vi saranno dibattiti televisivi e sulla carta stampata, dove tenteranno di spiegarci i motivi di tale scelta, dove tenteranno di nascondere, con cavilli burocratici, il fatto di aver preso una decisione opposta a quella presa da tutti gli italiani nel referendum dell'epoca. Ore e ore, pagine e pagine, per diffondere nell'opinione pubblica il verbo di una ineluttabilità della cosa. Vi saranno scontri di piazza, non per difendere un diritto comune, ma per preservare la propria zona dall'installazione delle centrali nucleari (l'esercito è pronto), eppure per evitare di farsi trascinare nel vortice di queste mistificazioni, basterà tenere a mente il principio unico per il quale il governo ha preso questa decisione: la speculazione delle aziende alle quali verranno concessi gli appalti. Cioè gli amici degli amici. Il prezzo lo pagheremo con la nostra vita. V.L.M.

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intensi, sono destinati a esaurirsi nel volgere di pochi giorni. Con “l’aiuto”, magari, del rimedio prediletto dalle questure: polizia in assetto antisommossa e arresti di massa. Repressione a tappeto, l’equivalente di un antibiotico a largo spettro. Ci saranno delle controindicazioni, anche gravi, ma non si può (non si vuole) fare diversamente. Chi governa le società occidentali, in senso economico prima ancora che politico, continua a scommettere su questo. Sulla forza travolgente della seduzione materialista. Sulla convinzione che qualsiasi persona e qualsiasi popolo non siano in grado di resistere alle lusinghe del consumismo, una volta che le abbiano conosciute e sperimentate. Dietro tutte le chiacchiere solidaristiche e umanitarie, l’essenza del progetto di integrazione sull’asse Usa/Ue è il superamento dei legami identitari preesistenti. La logica individualistica che dissolve gli aspetti culturali delle appartenenze originarie e le ridefinisce in base ai valori universali (globali) della ricchezza e del potere. Non sei un egiziano, o un peruviano, o chissà che altro. Sei un consumatore in ascesa. Più ti muovi da solo e più sei libero di accelerare la tua scalata alle posizioni più alte. Alle posizioni più vantaggiose. Ma la teoria, come sempre, è molto più semplice della realtà. Per potersi dispiegare appieno, infatti, la perversa fascinazione del liberismo ha bisogno di elevati livelli di crescita economica, quand’anche simulati per mezzo delle bolle speculative che gonfiano artificiosamente le disponibilità finanziarie e consentono, perciò, di aumentare a dismisura il credito al consumo. Nei momenti di crisi, come quello che stiamo vivendo e che assai difficilmente verrà superato in via definitiva riportandoci agli standard precedenti, le attrattive della competizione esasperata escono fatalmente ridimensionate. Le persone in difficoltà tendono a riconsiderare le proprie scelte, fino a rivalutare l’importanza dei vincoli famigliari e per estensione, laddove non siano stati recisi in via definitiva, di quelli etnici. Presi in se stessi gli scontri di Milano sono solo un avvenimento di cronaca che si è risolto nel giro di poche ore, ma possono servire a ricordarci qualcosa di importante: che la differenza fondamentale tra noi italiani e gli immigrati, specie se extracomunitari, è nel fatto che noi siamo molto più avanti di loro sulla strada (o sulla china) della deriva individualista. Se e quando le tensioni sociali si acuiranno, diventando una vera e propria lotta per la sopravvivenza, chi è ancora capace di fare gruppo rinsalderà i vincoli con chi gli appare più vicino e affine. Egiziani con egiziani. Peruviani con peruviani. E gli italiani, totalmente disabituati a pensarsi come popolo e a perseguire un bene comune, chissà. F.Z.


primi partner commerciali siamo noi e la Germania) e adottino un modello di società diverso dal nostro. E che si mettano addirittura, questi screanzati, a farsi una Io sto con l’Iran. Checché ne dica il Giornale politica energetica indipendente. Che poi, a dirla tutta, berlusconiano, che pur di gettare fango elettorale accerchiato com’è dagli americani installati in sostiene che “i comunisti” stanno dalla parte di Afghanistan, in Irak e persino, con basi sparpagliate Ahmadinejad e Khamenei. E nonostante i pudori da qua e là, nelle ex repubbliche asiatiche sovietiche, con verginelle democratiche di ex comunisti e sinistrati Israele che ha missili nucleari pronti al lancio, l’Iran dall’anima candida, come l’insopportabile Furio avrebbe tutte le ragioni per costituire un proprio Colombo del Fatto. Il sottoscritto non è comunista, deterrente atomico. Cosa dovrebbe fare, harakiri per non è di sinistra, e soprattutto non ritiene che la compiacere l’illimitata sete imperiale degli yankee? È democrazia così come la conosciamo in questa vergognosa bilancia rotta che segna sempre Occidente, questa parodia ben orchestrata, sia un due pesi e due misure a farci istintivamente schierare dogma universale. coi “cattivi” iraniani. E poi c’è un altro fatto, più Perché, al fondo degli alti lai contro l’atomica importante: dobbiamo smetterla di credere che la persiana, c’è solo questo: l’arrogante pretesa delle nostra supposta democrazia sia il miglior governo potenze occidentali di imporre la propria volontà e, possibile. La rivoluzione islamica di Khomeini avversava in prospettiva, il proprio sistema politico e sociale ad sia il comunismo che il capitalismo perché entrambi atei e inconciliabili con l’Islam sciita. I suoi figli e nipoti, un’Iran che non si piega. Ora, lasciamo pure stare in grande maggioranza poiché gli studenti ribelli della che il regime degli ayatollah in questi anni s’è capitale sono una minoranza occidentalizzata e messo docilmente a disposizione degli ispettori strumentalizzata da un’opposizione legata alle Onu, ovviamente ribellandosi quando i loro multinazionali estere (si veda la biografia di Mousavi), mandanti – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia – volevano farne il pretesto per mettere in discussione vi tengono fede e non intendono cedere la propria il sacrosanto diritto alla riservatezza in materia di sovranità. Sono cocciuti nel voler farsi da sé una ricerche d’interesse nazionale (perché nessuno va propria storia, senza interferenze e ricatti. È la loro storia, a ficcare il naso nei laboratori e nelle centrali beninteso, non la nostra. Chi scrive è un democratico americane o inglesi?). E sorvoliamo, a voler esser perché, qui da noi, una democrazia autentica buoni, sull’ostinato pregiudizio per cui è vietato dar dovrebbe garantire il singolo uomo libero. Ma è proprio perché mi ritengo tale che non mi sogno di volerne credito al governo di Teheran quando afferma di esportare la versione spuria e delinquenziale di cui voler proseguire il processo di arricchimento siamo sudditi. Per giunta puntando contro la pistola di dell’uranio a fini civili, allo scopo di diversificare le proprie fonti d’energia (un paese avrà o no il diritto un’altra possibile, devastante guerra. di farlo senza dover chiedere il permesso agli Bei democratici, quelli che pretendono che lo diventino tutti, e a tutti i costi. americani e ai loro servi?). Dice Berlusconi in A.M. ginocchio alla Knesset, ripetendo a pappagallo le tesi di Washington che da Bush a Obama hanno cambiato solo il tono della protervia: Ahmadinejad, come Hitler con gli ebrei, vuole la scomparsa di Israele. Non solo, ma l’Iran è uno stato intollerante e fanatico e la bomba khomeinista è una minaccia per quel piccolo paradiso della civiltà, tutto fiori e bontà, che è appunto Israele. Ma le farneticazioni del ducetto iraniano quanto pesano, a confronto del possesso del nucleare, questo sì militare, in mano agli israeliani? Cosa sono, a confronto dei crimini perpetrati da quei santi dell’esercito sionista nella Striscia di Gaza durante l’operazione “Piombo fuso”? Perché si dovrebbe avere più paura della propaganda a uso interno di Ahmadinejad che non della sessantennale politica di occupazione, segregazione e schiavismo di Tel Aviv sui palestinesi? Dice di nuovo il perbenista di turno: ma in Iran comanda un dispotismo che reprime il dissenso. E qui casca l’asino: il vero motivo, a conti fatti, è che non si tollera, nel tollerante Occidente, che i cittadini dell’antica Persia si governino in piena autonomia dai nostri interessi (en passant, i

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Io sto con l’Iran


A chi sono in mano gli Stati A nostro avviso non è stato dato il giusto risalto alle dichiarazioni del premier greco Papandreou, giorni addietro, in pieno dibattito sugli aiuti richiesti dalla Grecia per superare il momento di terribile crisi e stato della economia nazionale in cui si trova. Beninteso, l'argomento deve essere affrontato sotto diversi punti di vista, perché porta con sé la possibilità di molteplici riflessioni sulla natura del debito, sugli eventuali aiuti della Unione Europea e sui sacrifici che dovranno (o tentare di) fare i cittadini della Grecia. Affronteremo l'argomento diffusamente sulle pagine del mensile, dunque. Qui ci preme tornare su un aspetto in particolare, ovvero l'allarme dato da Papandreou un merito a speculazioni che grandi attori internazionali stanno facendo sullo stato della Grecia. Perché l'argomento può essere facilmente mutuato anche dal nostro paese. Allora brevemente, come si conviene a questo contatto quotidiano, e in parole semplici, cerchiamo di centrare questo (parziale) punto. La Grecia ha un debito pubblico altissimo, e un rapporto deficit pil catastrofico. È inoltre a forte possibilità di default statale (cosa che chi ancora non crede che uno Stato possa fallire deve farsi entrare in testa a martellate, se è necessario). Ora, cosa succede quando uno Stato è a rischio default? Nessuno compera i titoli di stato emessi dal tale paese. A meno che, e questo è il caso, non si promettano interessi da capogiro, come appunto la Grecia, che sta tentando di piazzare i propri titoli con interessi molto alti. Fin qui nulla di strano, o meglio, nulla di nuovo, perché di strano, irresponsabile e insostenibile, già di per sé la cosa lo è. Ma a questo punto si inserisce un altro discorso, strettamente collegato con l'allarme di Papandreou. Ovvero il ritorno dei Cds, ovvero i Credit Default Swap di cui abbiamo sentito parlare molto, visto che è uno di quei prodotti finanziari che hanno contribuito fortemente alla crisi scoppiata nel 2008 e che sortiranno ancora effetti nefasti per il futuro. Cosa sono? Brevemente: una sorta di polizza assicurativa. Si vendono per assicurare cosa? Il rischio di insolvenza, per diverse cose. In questo caso, dei titoli di Stato. Chi li compra? Chi vuole speculare. Un soggetto terzo, rispetto all'emittente del titolo e chi ha comperato il titolo, assume il rischio, dietro lauto pagamento da parte dell'emittente, dell'eventuale insolvenza dell'emittente stesso. Se la quotazione su tale bond sale, significa che il premio della polizza è più caro e dunque che il mercato - attenzione: il mercato - prezza un maggiore rischio di insolvenza. Se lo Stato (in questo caso) va in default, chi ha comperato tali titoli verrà pagato dai Cds. Ora, il mercato, per verificare e prezzare la tenuta di uno Stato, si basa proprio sul prezzo dei Cds (dunque ben oltre il mero interesse che uno Stato sovrano sceglie di dare a

chi acquista i suoi titoli). Che significa? Che con i Cds si può fare speculazione. Ovvero si può acquistarli oggi a un prezzo, quindi scommettere che lo Stato implicato vada sempre peggio, e quindi rivenderli a un prezzo maggiore, generando profitto, a qualcun altro che si assumerà il rischio (o potrà rivenderli a sua volta). Se le condizioni dello Stato peggioreranno chi li avrà comprati a suo tempo li rivenderà a un prezzo più alto e potrà guadagnarci. Ovviamente fregandosene altamente delle condizioni dello Stato in questione, e della situazione dei cittadini di tale Stato. Lo Stato non è affatto sovrano, insomma, ma in preda ai flussi di mercato. Capito il punto? Per concludere (per ora): chi sono i più grandi attori attivi sui Cds? Esattamente le grandi Banche - in primis Jp Morgan, Bank of America, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup. Ovvero le Banche salvate dalla bancarotta da interventi statali, che ora, noncuranti di quanto successo, per il 96% del totale operano esattamente su questo tipo di speculazioni. Ultima riflessione rapida: detto questo, quanto vale un governo di un Paese, per esempio quello greco, visto che in realtà lo Stato è in mano al mercato? E ancora (la cosa riguarda anche noi) quanto valgono milioni di dibattiti televisivi per ascoltare le campagne elettorali di personaggi che poi in molti andranno a votate per non incidere sul nulla? V.L.M.


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Coppa America: fine della poesia della vela Trentatreesima Coppa America: mancano solo gli occhialini 3D per vedere dei puffi blu alti quattro metri che cazzano le vele. Invece neppure quello: per cazzare le vele su questi ordigni mossi dal vento basta premere un pulsante. Fatica, sudore e bestemmie appartengono al passato. La poesia della più antica competizione sportiva del mondo, già fortemente debilitata, ha subito, forse, il colpo di grazia. Qualcuno potrà obiettare che è un visione retrograda, che Oracle e Alinghi sono il massimo della tecnologia che solchi le onde. Balle: la vela è una tecnologia obsoleta fin dai tempi del vapore. Se si vuole modernità sul mare c’è il campionato di motonautica off shore. Basta un buon motore per essere più avanzati: va anche contro vento, anzi addirittura si muove in assenza di vento. Vento, insomma: se non è in un range ristrettissimo le barche non regatano, perché questa ipertecnologia con un refolo di vento in più e un onda che non metterebbe in difficoltà l’ultimo diportista della domenica va in

pezzi. Tecnologia sul mare, invece, dovrebbe anche essere solidità. No, non è alta tecnologia, infatti, ma si tratta solo di seghe progettuali uscite da una lunga battaglia legale che, di tribunale in tribunale, potrebbe uccidere la Coppa America, come ha già ucciso la poesia del vento. Eppure la Coppa America era riuscita col suo fascino a rendere leggenda perfino figure come Lipton, Bic e Gardini. Nell’ordine bustine di the, penne biro e la madre di tutte le tangenti. Ma le loro barche erano altre: il mito amato del Leone di Venezia e la bellezza suprema di Shamrock. Barche vere, mosse dal vento e dal sudore degli uomini, non tecnologia obsoleta d’avanguardia e pulsantiere per Nerd della nautica. Meglio ignorare questa trentatreesima Coppa e passare oltre, sperando che la numero 34 possa riportare la competizione dell’alveo di una tradizione che è, sì, sempre stata un giocattolo per ricchi, ma ricchi amanti del mare che si mettevano in gioco in una regata di boa in boa, non imprenditori che gestiscono un business di tribunale in tribunale. F.M.

Insulti in lattina Italia-Inghilterra 12 a 17 al Flaminio, un’occasione storica mancata di poco, ma è altro l’argomento: è l’insulto che il popolo del rugby ha dovuto mandar giù. Intorno allo stadio e nelle circoscrizioni “sensibili” è stata vietata la vendita di lattine e bottiglie, come fosse in programma una partita di calcio. Ma i tifosi di rugby sono altra gente, amanti del loro sport prima che della squadra, che tifano per una colossale sbronza collettiva, da consumarsi insieme ai supporter avversari, in una grande festa che viene comunemente chiamata “terzo tempo”. Naturalmente non è stata vietata la vendita di alcolici, fuori e dentro lo stadio, allora sì che si sarebbero rischiati gli scontri, e gestire un branco di tifosi di rugby, sobri peraltro, sarebbe stato un compito al limite, se non al di sopra, delle possibilità delle forze dell’ordine. La festa è stata salvata, migliaia di allegri ubriaconi si sono incontrati intorno allo stadio, in barba ai rigurgiti proibizionisti così di moda fra le frange più moralistiche della politica, quelle che osteggiano la musica e ci vogliono tutti a casa alle 2 di notte, ed hanno colorato la città nonostante la sconfitta ed un arbitraggio su cui si recriminava sottovoce e con vergogna, per non essere confusi col popolo dell’Olimpico. L’offesa però è rimasta, niente bottiglie o lattine, e un pizzico di amarezza l’ha lasciato. Per fortuna le forze dell’ordine hanno gestito con intelligenza e i banchetti autogestiti di tifoserie tradizionali, come gli “All Bluff”, dove non c’è commercio, ma ognuno porta del suo e riceve dall’altro, sono stati lasciati in pace. Chi l’ha pagata sono stati quei pochi ambulanti abusi-


vi, che hanno visto le loro lattine sequestrate, e quelli regolari inadeguatamente riforniti di bicchieri di plastica. Un dubbio però sorge: che non fosse per ordine pubblico. Il Peroni Village ha così visto scomparire ogni concorrenza fuori dallo stadio, mentre dentro le lattine Peroni c’erano. All’inizio svuotate in regolamentari bicchieri di plastica dai “bibitari” del Flaminio, ma poi servite in lattina come gli spalti si sono gremiti. Se è per ordine pubblico le lattine sulle gradinate non devono proprio apparire, altrimenti è mera ipocrisia ed è lecito pensare che gli ipocriti abbiano secondi fini. Sappiano comunque gli amministratori: le lattine vuote fanno poca strada e che un tifoso di rugby, qualunque cosa accada, mai e poi mai lancerebbe una lattina piena, a meno che non sia di Coca Cola. F.M.

L’IMBUCATA

XVII, scrivendo di suo pugno una lettera al Papa. Ad ora non sappiamo se l'ulteriore perdono papale l'abbia ottenuto o meno e la coscienza gli sia ritornata pura e candida. La sua faccia è più di bronzo di quella dei bronzi di Riace (e per vederla non bisogna munirsi di biglietto). Adesso, consentitemi una riflessione: nel nostro Bel Paese che assomiglia sempre più a un Jurassic Park, come si scivola in una situazione scabrosa immediatamente si diventa personaggi da copertina: un anno addietro a chi interessava in quale ristorante andasse Marazzo con la mogliettina? Così fan tutti, da Lapo Elkann a Fabrizio Corona, passando per il poco reale Vittorio Emanuele di Savoia. Se un comune mortale cade nella merda, lì resta e tutti gli si allontanano per il tanfo che emana. Quelli invece Marrazzo torna in pista (e in tv?) appena noti alle cronache politico/mondane rinascono a nuova vita. Come la Fenice che risuscita dalle sue Va a trans, chiede al papa di intercedere per il perdono ceneri. Quando si diventa icona mediatica il "capitale divino e dopo scarsi due mesi dal "fattaccio" si fa sociale" così accumulato può essere spendibile in immortalare nella cornice di una ritrovata armonia qualsiasi circostanza: dal rilancio politico a un'ascesa familiare. Eppure aveva "giurato" ( oops, non fatemi essere mondana. Per Marazzo, in attesa di una nuova stagione blasfema) di non poterne più di essere sotto le luci dei politica, resta aperta per il momento la porta dei salotti riflettori. televisivi e della buona società capitolina. Pietro Marazzo, ex presidente della Regione Lazio, travolto Altro caso analogo che fa riflettere è quello di Abdel Fami dallo scandalo trans, è un prisma dalle mille sfaccettature. Marzouk, reduce dalla tragedia di Erba (dove furono Eccolo qui, sorridente, vestito con eleganza casual, un bel massacrati la moglie, il figlio, la suocera e una vicina di quadretto quello di Marazzo & consorte fotografati sul più casa) e da qualche condanna di spaccio di droga: ha noto giornale di gossip. Lasciato alle spalle il severo ritiro iniziato una nuova vita di personaggio pubblico, invitato tra le spesse mura dell'abbazia di Montecassino l'ex ai talk show e paparazzato sulle riviste di gossip in bella conduttore televisivo di “Mi manda RaiTre” ( in attesa di compagnia. Gioca ora il ruolo del bel tenebroso, ora reintegro) si è abbandonato alle gioie di una gita dell'immigrato perseguitato. fuoriporta nel centro storico di Riano, nell’alto Lazio, con la 'Avanti il prossimo, gli lascio il posto mio'....cantava il moglie Roberta Serdoz. sempreverde Cocciante. Il suo pentimento, dicevo, è stato tale che non gli bastava l'assoluzione dai suoi peccati carnali di un qualunque Januaria Piromallo sacerdote ma ha chiesto addirittura quella di Benedetto bellaedannata.splinder.com



METAPARLAMENTO

Grillo, Di Pietro

e il pensiero che non c’è

I tanti limiti, puramente dottrinari, della deriva politica di quei movimenti di risentimento che non riescono a uscire da quel recinto in cui si dannano, puntellandolo anziché abbatterlo.

C

di Alessio Mannino

ercasi disperatamente idea forte: et voilà il cartello affisso sulla testa degli italiani con un qualche residuo senso della dignità. Quella minoranza che si rende perfettamente conto della putrefazione morale, dell’indifferenza, della vigliaccheria in cui vive alla giornata la maggioranza dei furbi e dei fessi. Quei pochi ma sempre più numerosi scontenti a cui prudono l’intelletto e le mani, smaniosi di “fare qualcosa”. Quelli che covano in corpo un sano impulso a ribellarsi. Cittadini desiderosi di tornare ad essere tali che al dunque scelgono due strade: o l’immobilismo, compensato da un frenetico ticchettìo casalingo sui siti di controinformazione; oppure il concentrarsi contro uno specifico male della modernità (la globalizzazione, l’inquinamento, lo strapotere bancario) e arruolarsi in uno degli innumerevoli movimenti “no-qualcosa” sparsi lungo lo Stivale per non darla vinta alla bugia livellatrice dello Sviluppo.

Indignazione a getto continuo C’è una persona che nell’ultimo scorcio di anni ha riassunto in sé questo malessere facendolo esplodere sulla Rete, unica frontiera rimasta sostanzialmente libera dalla polizia del pensiero unico: Beppe Grillo. I suoi monologhi nei tendoni gremiti di gente pagante per farsi due risate intelligenti sono diventati post incendiari, j’accuse quotidiani che dal suo seguitissimo blog inchiodano la disinformatija profusa dai media ufficiali, svelandone tutto il servilismo e l’autocensura. Beppegrillo.it è la punta di diamante di un antisistema d’opinione che sfrutta la libertà e l’economicità di internet per

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fare il controcanto all’establishment politico e giornalistico. E il che è bene, s’intende. I vari Travaglio, Gomez e Corrias, i Giulietto Chiesa e il suo Megachip, le Randazzo, i Blondet, i Ricca, i Comedonchisciotte, Luogocomune e Disinformazione sono i nomi e le sigle più note di questo vasto arcipelago di guastatori dell’agorà mediatica. C’è però anche chi li chiama “professionisti dell’indignazione”. Intenti a lucrare onori, gloria e quattrini dall’industria della denuncia, facendo credere che basti non perdersi un’invettiva web contro lo scandalo del momento per avere la sensazione di essere “presente” nella lotta alle ingiustizie e mettersi così la coscienza a posto. È l’accusa, ad esempio, che l’ex inviato della trasmissione Report, Paolo Barnard, muove ai “paladini dell’antisistema”1, secondo lui colpevoli di atrofizzare il bisogno di cambiamento dell’uomo comune ingolfandolo di libri, inchieste, dvd e articoli a tambur battente. Una gran cassa oziosa e controproducente per Barnard, che invece vorrebbe vedere informazione capillare sul territorio e riconquista da parte del singolo cittadino a farsi da sé la propria idea della società, togliendone la delega a pochi pifferai magici. Indubbiamente, questa dell’individuo indignato e impotente è una realtà. Abbeverarsi a fonti che divulgano ma non quagliano, è un esercizio frustrante. Ma ci sono due contro-obiezioni. La prima è che tutto ciò che smaschera, demistifica, destabilizza crea l’humus fertile per allargare le maglie della sfiducia. Ciascuno con una visuale differente e con un livello di analisi più o meno profondo, Grillo e simili sono agenti della sfiducia, la sana sfiducia che spiana la strada al nuovo. È vento che soffia sul fuoco, e il fuoco va alimentato affinché non si spenga. Siamo in guerra contro un nemico inafferrabile e insidioso, il mito, sapientemente fatto introiettare fin da piccoli, che non esiste miglior modello di vita e miglior organizzazione politica all’infuori di questi a cui offriamo ogni giorno le terga.

Azione sul campo La seconda obiezione ci porta dritto all’altra faccia della medaglia: l’azione. Grazie a internet non siamo mai stati così ricchi di informazione critica, con un clic sul computer si aprono enciclopedie di sapere e di protesta. Eppure tutto scorre e resta così com’è. E noi, ancorché ribollenti di sdegno, in fin dei conti siamo tutti intenti a sbrigare le nostre faccende: fine dell’impegno. Eppur qualcosa si muove. La nostra penisola è

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costellata di volonterosi attivisti che si battono per un problema preciso (gli ambientalisti, ad esempio) o per una battaglia-cardine (la decrescita, il signoraggio) o è disseminata di ribelli, i più agguerriti e intrisi di spirito comunitario, che lottano per l’autonomia (gli indipendentisti sardi, siciliani, veneti, friulani, ecc) o che fronteggiano la grande opera piombata dall’alto con la resistenza di popolo. Questi ultimi sono i centossessanta magnifici “No” riuniti nel Patto di Mutuo Soccorso2, il coordinamento dei movimenti locali a difesa del territorio «contro le grandi opere inutili e contro lo scempio delle risorse ambientali ed economiche»: No Tav, No Dal Molin, No Ponte sullo Stretto, No Scorie, No Mose, No Discariche, No Rigassificatori, No Inceneritori e via di questo passo, di rivolta in rivolta. È soprattutto a questi ultimi che si deve guardare, a queste sentinelle del no che è un sì: sì alle piccole patrie e alla dignità della vita. Perché sono la prima, grezza e informe base di una nuova coscienza libera dalla gabbia della destra e della sinistra. Perché, indignati come sono, agiscono, scendono in strada e si riprendono la piazza, luogo principe della democrazia. Sono vivi, per dio. E fanno circolare il sangue non solo nel cervello, ma là dove ce n’è più disperatamente bisogno: nei muscoli, nelle braccia, nelle gambe.

Limiti del grillismo Il movimentismo dei cento comuni e dei mille borghi d’Italia è benedetto. Così come è benemerita la spinta a riappropriarsi della politica, messa in campo da Grillo con le liste civiche ispirate al suo blog e innestata sui suoi meetup attivi un po’ dappertutto. È il bisogno di democrazia dal basso – ovvero l’unica e vera democrazia. Ma, caro Beppe, se prendiamo il tuo programma3 a cui si ispirano i candidati del MoVimento a 5 Stelle per le regionali di fine marzo, leggiamo dell’acqua pubblica, del verde urbano, della mobilità ecosostenibile, del risparmio energetico, della connessione gratuita, di “rifiuti zero”, di favorire le produzioni locali e del telelavoro. Molto di condivisibile (il primato del pubblico, l’ottica di decrescita, l’attenzione all’ambiente) e qualcosa no. Lavorare attaccati al pc di casa, per dire, incatena il poveraccio alla macchina, quando lo scopo finale dovrebbe essere liberarsi della macchina. Ma è pur vero che qui si sta parlando di punti programmatici per delle elezioni regionali, non di una palingenesi sociale. E allora ok, incoraggiamo i giovani grillini che, scusate il berlusconismo,

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scendono in campo. Sono per lo più ragazzotti acerbi che del “nemico” (i partiti e il clientelismo locale) sanno poco o nulla. Si faranno le ossa, ma Grillo e la potente Casaleggio Associati che lo consiglia dovrebbero sapere che molti di loro se le sono rotte già alle amministrative del 2008, quando la loro impreparazione ha dovuto fronteggiare i mastini della partitocrazia. Classico esempio di come l’azione senza il pensiero non porti da nessuna parte. Tanto è vero che poi Grillo, scegliendo di non scegliere l’opposizione radicale a questo sistema, resta d’un botto deluso da Antonio Di Pietro che si allea – questa volta “strategicamente” – col repellente Partito Democratico e accetta candidature rivoltanti come quella dell’inquisito De Luca in Campania. Da Travaglio, che è un liberaldemocratico tutto d’un pezzo, possiamo aspettarci la sfuriata sul solo peccato di lesa legalità. Ma da Grillo che se la prende, a ragione, coi partiti in quanto tali e che dice chiaro e tondo che la nostra non è una democrazia, inseguire ancora un certo collateralismo con l’Italia dei Valori conferma che il salto d’immaginazione, lui, non l’ha fatto. Non è che poi ci voglia molto: finché la baracca parlamentarista starà in piedi, ogni reale opposizione rimarrà tagliata fuori. È il totem delle elezioni in mano ai partiti-mafie a renderla impossibile, poiché ad ogni voto scatta l’obbligo a-morale di parteciparvi. Con questo non vogliamo dire che fra i grillini così come fra i dipietristi non vi siano persone di tutto rispetto, anzi. Sono forse il meglio che c’è nel recinto partitocratico. Ma sempre dentro quel recinto operano e si dannano, puntellandolo anziché abbatterlo.

Di Pietro conservatore Ecco perché ci sembra di dover dire che il grande limite dell’esercito mediatico simboleggiato da Grillo è involontario, storico, umano: l’assenza di idee forti e alternative a tutto questo sistema di vita. E idee forti non ce n’è perché a mancare sono gli uomini. Gli uomini veri: forti e animati da ideali, con la passione per il senso ultimo delle cose. Di qui il fatto che di azione se ne veda poca, o rimanga circoscritta alle questioni locali e settoriali. Per forza: le fa difetto una direttrice di pensiero, un retroterra culturale (un’ideologia, si sarebbe detto una volta). Non c’è una visione del mondo realmente alternativa. Non c’è una prospettiva a lungo termine. Sia chiaro: non siamo nostalgici degli “ismi” otto-novecenteschi. Ma ci manca, e tanto, la nobiltà di aspirazioni che solo obbiettivi più importanti delle nostre piccole, misere esistenze, possono infondere. Prendiamo ancora l’IdV dell’ex pm di Mani Pulite. Qual è l’ideologia dell’IdV? In base alle parole del suo leader, essa si riduce ai «valori della Costituzione». Siamo di fronte, perciò, ad un partito che non ha nessuna aspirazione ad alcun cambiamento profondo, ma al contrario come scopo programmatico persegue la difesa dell’esistente ordine costituito messo nero su bianco dalla Carta

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del ’48. Una forza apertamente conservatrice e ostinatamente costituzionale, come si vede. Di qui il legalitarismo come bandiera e l’antiberlusconismo come ragione di vita. L’Italia dei Valori è il guardiano di valori che, sebbene disattesi nella realtà, di fatto la tengono artificialmente in vita convogliando il malcontento in un’azione difensiva, anziché offensiva, alternativa, di ribellione. È lo sceriffo che combatte una guerra, persa in partenza finché a comandare saranno i signori delle banche e degli affari, per il primato della legge. Ora, finché la legge è questa e tutti vi siamo sottoposti, un minimo di decenza impone di farla rispettare a coloro i quali, in linea di principio, dovrebbero esserne i primi custodi, cioè i politici, e in secondo grado a chi dovrebbe osservarla più di tutti, cioè coloro che hanno più mezzi per aggirarla: i poteri forti. Ecco il senso, ad esempio, dell’appello in difesa della Carta scritto dal direttore politico di questo giornale e da Marco Travaglio. Ma non ci si aspetti un passo oltre a questo, dalle truppe di Di Pietro. Un mio amico e collega giornalista, anche lui convinto sostenitore del Manifesto dell’Antimodernità di Massimo Fini, spiegandomi i motivi per cui ha accettato l’offerta di De Magistris di candidarsi come indipendente nelle liste dell’IdV alla regionali, mi ha detto: «Lo faccio per due ragioni: primo, per utilizzare la tribuna elettorale come podio di diffusione delle idee antimoderne, per quel che potrò fare; e secondo, per sfogarmi un po’ e, nel caso venissi eletto, fare il guastatore». Ecco: messa così, un’opposizione interna al sistema ha un senso. Ma un senso eretico, dal momento che questo mio amico dovrà vedersela con gli equilibri col Pd, e ancora di più con la sordità di un partito che dall’orecchio della rivolta contro questo modello di sviluppo e di vita non ci sente, perché l’orecchio per sentire non ce l’ha. Fuor di metafora: pensando esclusivamente a montare la guardia allo status quo legale (cosa, ripetiamo, giusta perché terra terra, perché ci fa ribollire il sangue passare per fessi in un’Italia eternamente dei furbi), i dipietristi non vengono sfiorati dal pensiero tremendo che sia tutto sbagliato, tutto da rifare. L’uomo della strada s’informa, s’arrabbia, manifesta, s’impegna, firma referendum, sottoscrive appelli e se gli rompono le scatole sotto casa può persino affrontare gli sbirri, ma alla fine della fiera resta un uomo che non si ribella – perché non sa più pensare.

Alessio Mannino

Note: 1) Paolo Barnard,“L’informazione e la deriva dei nuovi paladini dell’antisistema”, http://www.paolobarnard.info/info.php 2) http://www.pattomutuosoccorso.org 3) http://www.beppegrillo.it/listeciviche

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FOCUS

Shock Shopping

U

la malattia che

Nei centri commerciali si è “una comparsa di un set cinematografico all’interno della ricostruzione di un borgo medievale o di una città rinascimentale, dove dietro a una simulata realtà aleggia una precisa regia industriale». Consumando, ci consumiamo. di Eduardo Zarelli

na recente vignetta pubblicata sul quotidiano spagnolo El Pais è ambientata in un salotto con un genitore seduto sul divano che guarda la Tv e il figlio intento a leggere un libro, a cui dice: "Figliolo, siamo a natale, fa più attenzione alle pubblicità". Il periodo delle festività natalizie accentua una tendenza oramai consolidata nell'immaginario collettivo occidentale: lo shopping. Quale "miglior modo" infatti di passare un sabato, una domenica pomeriggio o un qualsivoglia "giorno libero" se non passeggiando nella sgargiante allegria di un centro commerciale? Ogni giorno veniamo bombardati da decine di messaggi pubblicitari, dalla televisione ai cartelloni fino ad arrivare alle promozioni dentro i supermarket, che ci comunicano le ultime novità, ci attraggono con una frase o una bella confezione e ci dicono che quella merce è indispensabile per il nostro stile di vita, ma in realtà è solo un’illusione di un momento di felicità perché quello stesso oggetto ha uno scarso o fuggevole valore d’uso. In un mondo globalizzato in perenne corsa e illimitata crescita, le persone sono alla continua ricerca di stabilità e felicità che vengono sublimate all’interno dei centri commerciali, dove si rifugiano in una appartenenza fittizia fatta di marchi e identità provvisorie. Conglomerati di intrattenimento, inglobano in sé sempre più cose: centri fitness,

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e ci consuma

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ristoranti, sale giochi, cinema multisala e chi più ne ha più ne metta. La diffusione negli ultimi anni di questi empori dell'acquisto ad ogni costo ha dello sbalorditivo. Crescono come funghi, ne fanno uno ogni pochi mesi e nelle aree metropolitane a pochi chilometri l'uno dall'altro. Tralasciando l'evidente fatto che grazie anche a questi mercati iperdimensionati ed ai loro prezzi più o meno convenienti, si disarticola la filiera produttiva e i piccoli negozi stiano scom-

“Nel processo psicologico dello shopping il cervello degli individui produce dopamina o ormoni di felicità e quindi un senso di soddisfazione, entrando in una dimensione di quasi “pellegrinaggio religioso” con l’esaltazione della merce...” parendo (e con loro la socialità relazionale delle piccole, medie e grandi città), quello che lascia da pensare dopo una escursione tra scansie e banconi ricolmi, è l’atmosfera fredda e seriale che vi aleggia. Innanzi tutto, sono pedissequamente tutti uguali. Nonostante gli sforzi per renderli unici, originali e più attrezzati della concorrenza, ovunque si entri la scena che ci si trova davanti è sempre la stessa: gruppi di adolescenti vestiti omogeneamente sparsi qua e là, centinaia di famiglie accalcate con carrelli ricolmi, qualche hostess forzatamente accattivante per le promozioni di turno, un caldo soffocante in inverno ed un freddo raggelante in estate, l’immancabile effluvio dolciastro dell’onnipresente McDonald’s in cui una massa indistinta abbagliata da migliaia di neon - si trafela in un falso movimento. Un centro commerciale è, insomma, la negazione di tutto ciò che è genuino, spontaneo, reciprocitario. Dà l’illusione di poter trovare tutto ciò che serve, ma nonostante i supermercati e le decine di negozi insiti, spesso non si trova quello che si cerca (tanto più se al di fuori delle mode del momento). Tutti propongono la stessa identica merce, ma ben pochi beni prodotti. Si entra per comprare una matita e si esce con cento euro in

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meno, spesi in cose che poco prima non ci servivano affatto. In posti come questi il “consumatore” regna, ma non governa. Ha l’impressione di scegliere ciò che vuole, ma in realtà è già stato tutto deciso da tempo da altri. Pubblicità, promozioni, offerte, marketing, mode e tendenze studiate a tavolino ci vogliono far credere che tutto possa essere ridotto ad una serie di desideri elementari, deculturati, sempre rinnovabili, appagabili passando alla cassa. Nelle cosiddette “cattedrali del consumo” il comprare o il possedere un oggetto è uno degli elementi che consentono di rivendicare un’identità e rappresenta il presupposto di una “aggregazione funzionale”, nella quale ogni adepto condivide un senso di appartenenza. Nel processo psicologico dello shopping il cervello degli individui produce dopamina o ormoni di felicità e quindi un senso di soddisfazione, entrando in una dimensione di quasi “pellegrinaggio religioso” con l’esaltazione della merce. In realtà, le illuminate insegne della distribuzione organizzata con le loro imponenti strutture commerciali, strategie di marketing e misure di fidelizzazione conquistano il nostro tempo libero inducendoci a consumare sempre di più e penetrano nelle menti per persuaderci dell’esistenza di nuovi bisogni. Secondo gli studiosi di psicologia, gli individui rischiano di cadere in una sindrome da shopping o mania del comprare con conseguenti comportamenti compulsivi e impulsi irrefrenabili verso acquisti eccessivi. In questo scenario si inserisce Shock Shopping. La malattia che ci consuma (Arianna Editrice), il nuovo libro di Saverio Pipitone che, dopo lo specifico Schiavi del supermercato, scopre fatti e misfatti della Grande Distribuzione Organizzata (GDO).

I costi sociali di questo shock Shock Shopping è un libro che svela i costi sociali e ambientali della moderna distribuzione, osserva le numerose tecniche di fidelizzazione utilizzate per manipolare il consumatore e approfondisce la vicenda della guerra tra catene di supermercati per la conquista di nuovi spazi. Dopo aver trasmesso al lettore i segreti dei giganti del commercio, l’autore indica anche la possibile alternativa della Piccola Distribuzione Organizzata (PDO), esaminando le diverse esperienze di decrescita, sobrietà e

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semplicità volontaria, nell'ambito di un più ampio dibattito culturale tra conservazione e progresso. «La GDO – ci spiega Pipitone – è il motore dello sviluppo economico e della moderna società dei consumi, in quanto si occupa della distribuzione globale delle merci per raggiungere totalmente la massa dei consumatori e riesce anche ad imporre le proprie strategie su tutta la filiera fino al produttore. Utilizza le strutture dell’ipermercato, shopping center, outlet village, parchi divertimento e centri commerciali, costruite ed organizzate scientificamente, dai percorsi prestabiliti alla merce posizionata negli scaffali, con l’obiettivo di produrre un coinvolgimento emozionale ed una prolungata permanenza del consumatore nel sistema di finzione, illusione ed estraneità creato dai “non luoghi”. La GDO è causa di uno shock – continua l’autore – attuato mediante dei linguaggi di consumo con una grammatica imparata perfettamente dagli individui, che vengono totalizzati con metodi di controllo e trasformati in un “soggetto nuovo” inserito in una continua esperienza di consumo indotto».

Le “insegne” al setaccio In ogni capitolo di Shock Shopping si mette in evidenza un’insegna della distribuzione italiana o internazionale, in relazione ad un particolare aspetto che caratterizza l’attuale contesto economico globale, come per esempio Coop e le liberalizzazioni; Esselunga e il commercio equo e solidale; Lidl e lo spionaggio aziendale; Mediaworld e la spazzatura elettronica; McDonalds e l’industria dell’hamburger; Wal-Mart e la politica del low cost; Ikea e il livellamento imperialista; Mafia Spa nell’affare della distribuzione Despar. L’autore inserisce dei dati numerici e tabelle esplicative ed analizza l’evoluzione delle diverse forme distributive, dalla tradizionale bottega fino agli attuali shopping village, in particolare racconta delle ultime costruzioni di vere e proprie cittadelle del consumo o “distretti commerciali” nel mondo e in Italia, soprattutto al Sud, a cui si può aggiungere anche la recente realizzazione del primo grande centro commerciale a Palermo situato in una superficie di oltre 50 mila mq e localizzato vicino alle arterie autostradali e alla stazione ferroviaria per abbracciare un bacino di oltre 1 milione di consumatori; sempre in Sicilia, entro il 2011 aprirà inoltre nella città turistica di Taormina un factory outlet che si chiamerà “Alcantara Village” con oltre 150 negozi e un bacino di utenza di circa 2 milioni di abitanti. Un approfondimento esplicito di Shock Shopping è infatti dedicato agli outlet center come luoghi di iperconsumo e nuove "piazze della domenica" che sostituiscono gli oramai svuotati centri storici e determinano la trasformazione del cittadino in consumatore, da homo politicus in homo consu-

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mens, con il carrello della spesa che prende il posto della partecipazione e della cittadinanza attiva. «Questo è il caso degli outlet – scrive Pipitone – che propongono un “effetto-città”, con la riproduzione del centro storico in aree fatte da zone pedonali senza auto, fontane, case colorate, numerate e dotate di finte finestre o balconi, finti muri e finti buoni affari con il trionfo del principio del low cost. […] Luoghi, merci e compratori si mescolano a vicenda creando un palcoscenico teatrale in cui si sviluppano le pratiche del consumo, immergendo il consumatore in un magico viaggio all’insegna dello spettacolo e della dimensione ludica dello shopping. Si diventa così come una comparsa di un set cinematografico all’interno della ricostruzione di un borgo medievale o di una città rinascimentale, dove dietro a una simulata realtà aleggia una precisa regia industriale».

Prezzo o valore? La conclusione a cui arriva l’autore in Shock Shopping è la necessità di limitare i consumi recuperando il valore d’uso dei beni e adottando dei comportamenti di acquisto razionali, anche rischiando di diventare - come dice il sociologo polacco Zygmunt Bauman - dei «consumatori avariati, esclusi dalla società dei consumi perché non ragionano con la logica consumista del compralo, goditelo e buttalo via». Andando oltre le categorie destra-sinistra, da un lato, Serge Latouche pensa che «organizzare la decrescita significa rinunciare all’immaginario economico, cioè alla credenza che “di più” significhi “meglio”»; dall’altro, Alain de Benoist considera «errato immaginare la decrescita come un ritorno al passato. Si tratta, invece, di fare decrescere l’idea che lo sviluppo degli scambi mercantili sia una legge naturale della vita». Solo con queste scelte individuali si può contribuire a reindirizzare l'economico nel sociale, identificato con il bene comune. Tornare ad essere “abitanti” consapevoli del proprio territorio, per l’affermazione di modelli di sviluppo sostenibili, legati alle peculiarità socioculturali, sulla cura e la valorizzazione delle risorse locali (cioè, ambientalmente compatibili), con filiere appropriate non speculative e reti di scambio reciprocitarie Principi politici da anteporre a quelli oggi dominanti, perché in un mondo in cui tutto ha un prezzo, nulla ha più valore: la sacralità del vivente sulla mercificazione; l'altruismo sull'egoismo; la reciprocità comunitaria sulla competizione; l'importanza della relazione sociale sul consumo; il gusto del bello, del bene e del vero sull'efficientismo pragmatico. L’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di lei, dunque, responsabile e consapevole.

Eduardo Zarelli

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FOCUS

La realtà

dei “non luoghi” e l’evolu z

“Acquistiamo per possedere, convinti di rispecchiare la nostra personalità negli oggetti consumati, ma poi sono gli stessi oggetti che finiscono per possedere noi.” Ecco i numeri della GDO in Italia.

P

di Saverio Pipitone

er conoscere da vicino l’evoluzione della distribuzione commerciale possiamo visitare lo shopvillage Meridiana, che si trova naturalmente nelle vicinanze dell’autostrada del Sole, all’altezza dell’uscita Casalecchio di Reno e comodamente raggiungibile anche dalla tangenziale di Bologna. Da qualche anno, qui è nata una zona residenziale che comprende appartamenti, negozi, ipermercato, palestra, multisala, ristoranti, pizzerie e tanto intrattenimento: dalla casa allo shopping, il divertimento è assicurato. Una vera e propria città degli acquisti di oltre 40.000 mq; in particolare, lo spazio per il retail occupa 6.200 mq, l’area ristoro 1.800 mq, l’aera parcheggio conta 1.900 posti auto, la palestra è di 5.000 mq, il cinema più di 8.000 mq, per un totale di circa 50 attività commerciali e di servizi. All’interno si trova una piazza, un’arena e una galleria con degli spazi utilizzati per concerti, sfilate di moda, esibizioni di artisti di strada, piste di pattinaggio. Gli ideatori di questa enorme struttura spiegano che la prima decisione fu quella di collocare il centro commerciale a margine dell’area residenziale, in modo da utilizzare al meglio la rete stradale, avvicinare il centro alla stazione metropolitana, costruire aree di attrazione e creare delle sinergie tra le attività che soddisfano le esigenze del consumatore: negozi al dettaglio, tempo

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Centri commerciali come, spazi non identitari, non relazionali e non storici, privi di vita culturale e sociale.

u zione in distretto commerciale

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libero, divertimento, benessere e aree di ristoro. Di conseguenza, quella che un tempo era una zona pedecollinare, oggi è una colata di cemento dove sorgono centri residenziali e commerciali che attirano ogni giorno migliaia di persone. La Meridiana è il classico esempio di “distretto commerciale”, in quanto a meno di due chilometri è situato un altro grande shopping center, con la “stella cometa” di IKEA che guida il consumatore verso il “misticismo consumista”. I moderni distretti commerciali oggi occupano interi quartieri con supermercati, ipermercati, magazzini di tecnologia, abbigliamento, mobili e tutto quello che oramai rientra nel largo consumo accessibile a tutti. Per vedere con i propri occhi altre realtà di questo tipo, dove il consumatore trascorre tutto il suo tempo libero, basta fare un giro per l’EmiliaRomagna, per poi osservare strutture analoghe e ancora più imponenti nei Paesi dell’Europa settentrionale.

Spazi non identitari L’antropologo Marc Augé parla di “non-luoghi”, definendo i centri commerciali come spazi non identitari, non relazionali e non storici, privi di vita culturale e sociale. Quando imbocchiamo l’uscita autostradale verso questi posti, ci ritroviamo immersi in ampi parcheggi su due piani, progettati per accogliere migliaia di automobili; parcheggiamo con estrema facilità e velocemente entriamo - anima e corpo - nelle “cattedrali del consumo”. Prima il dovere e poi il piacere: innanzitutto la spesa settimanale e mensile. È qui che parte la corsa alle offerte, con l’obiettivo di prelevare dagli scaffali più merci possibili e al prezzo più conveniente. La seconda tappa è il consumo di elettronica: elettrodomestici sempre più innovativi e giocattoli tecnologici riempiono la vita quotidiana e la casa; nel carrello dell’”iperconsumatore” possiamo trovare anche frigoriferi, lavatrici, computer, televisori, prodotti di telefonia mobile, tende da campeggio, libri e cd musicali. C’è poi ancora spazio per alcuni articoli sportivi, qualche camicia per rinnovare il guardaroba e mensole a incastro per la libreria; da oggi poi, si

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possono acquistare anche farmaci e automobili. Il modello è quello del “tutto sotto lo stesso tetto”, con le merci disposte ordinatamente e perfettamente sugli scaffali. Quello che colpisce completando il percorso di un ipermercato è la gran quantità di impulsi e messaggi visivi, in contrasto con la completa assenza di richiami olfattivi. Acquistiamo per possedere, convinti di rispecchiare la nostra personalità negli oggetti consumati, ma poi sono gli stessi oggetti che finiscono per possedere noi. Dopo l’acquisto di beni e prodotti anonimi, i distretti commerciali offrono cibo a volontà, senza storia e tradizione gastronomica. Vi è anche la possibilità di “consumare” la visione dell’ultima novità cinematografica, condita dai confort tecnologici dei cinema multisala.

Ecco i numeri La GDO conta in Italia 22.000 strutture tra ipermercati, supermercati, discount, grandi magazzini e superfici specializzate; tutto ciò garantisce un fatturato annuo di oltre 100 miliardi di euro. Secondo uno studio elaborato nel 2007 da Larry Smith Italia per il “Gran” Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali (CNCC), la Lombardia è la regione che detiene il primato italiano con 167 shopping center, seguita dall’Emilia Romagna (83) e dal Piemonte (78). Il 73% del comparto retail (dettaglio) è costituito da piccole strutture tra i 5.000 e i 20.000 mq, ma l’obiettivo del settore della GDO è quello di arrivare alle medie francesi e anglosassoni aumentando gli spazi per grandi strutture commerciali. Il rapporto fra superficie di vendita della GDO e abitanti ha registrato nel corso del 2006 un lieve incremento di circa il 4%, passando da 161 a 167 metri quadri ogni 1.000 abitanti. Sempre nel 2006, hanno aperto sul territorio italiano 42 nuovi ipermercati, 220 supermercati (che hanno portato il numero totale a 7.869 supermarket contro i 7.649 del 2005), 400 discount a fronte di complessivi 3.400 punti vendita. Delle vere e proprie “cattedrali del consumo” alla continua ricerca di adepti da manipolare (fidelizzare).

Saverio Pipitone

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MUSICA

Dacci oggi

la nostra meta

Quattro giovani sulla Via Francigena. Il romanzo di Enrico Brizzi diventa un album. La leggenda rock di Bern “il pellegrino dalle braccia d’inchiostro”

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di Federico Zamboni

n vero pellegrinaggio è un rito. Un rito di sottomissione. L’accettazione di una disciplina, e la sua consacrazione a Dio. Come un’offerta che si lascia sulla soglia di un tempio quando le porte sono ancora serrate. Non proprio, non ancora, una preghiera in cui ci si rivolge direttamente alla divinità: una sorta di respirazione preliminare che cerca di stabilizzare il corpo e la mente, il flusso del sangue e quello dei pensieri. Quello delle emozioni. La Via Francigena è uno dei due grandi percorsi tracciati dalla cristianità in Europa. Andava da Canterbury a Roma. Attraversava la Francia e la Svizzera. Superava le Alpi attraverso il Passo del Gran San Bernardo, a 2473 metri di quota, per poi discendere fino alla Città Eterna. Fino alla Cattedrale di Pietro, dove il viaggio aveva termine e il rito era compiuto. Il peccatore aveva trasformato la confessione da parola in azione. Aveva srotolato un interminabile rosario di passi, su strade sconnesse e su sentieri impervi. Si era consegnato alla Provvidenza augurandosi di farcela contro i rischi e i disagi. I rischi incombenti. I disagi inevitabili. Oggi, di quella che fu la Via Francigena rimane ben poco: la memoria del tracciato, fissato nelle antiche mappe, e l’impegno di alcuni conventi ad accogliere i pellegrini. I quali, prima di partire, si saranno fatti rilasciare una carta che ne attesta lo status:

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la “credenziale” da timbrare alla fine di ogni tappa, ogni volta che sia possibile. Il documento che dice, che afferma, che quegli uomini in marcia non sono dei semplici viandanti che amano camminare nel cuore dell’Europa: essi si sono assunti un impegno. Per le ragioni più diverse, che forse loro stessi non comprendono appieno, hanno promesso di avanzare, a passo d’uomo, in una direzione prestabilita. Verso una meta prestabilita. Un impegno solenne, e al tempo stesso umile, che confida nella benedizione di Dio.

Quattro ragazzi moderni... Due sono partiti da Canterbury, e arriveranno a Roma. Due li hanno raggiunti a Losanna, e li lasceranno poco oltre il confine. Di tutti e quattro soltanto uno – il promotore del viaggio, colui che lo racconta – attribuisce a ciò che sta facendo un significato superiore. Un valore simbolico, se non proprio sacro. Le forze della Natura, o del Fato, gli sono state amiche e hanno permesso ai suoi due gemelli, nati prematuri pochi mesi prima, di avere il tempo necessario a rafforzarsi e a colmare lo svantaggio iniziale. I bimbi sono usciti dall’ospedale e ora sono a casa. Sani e salvi. A giocare e a sorridere. A piangere e a urlare. A vivere i primi scorci dell’esistenza là dove ogni bimbo ha il diritto di viverli: nell’abbraccio di una famiglia che gli vuole bene e che si prende cura di lui. Per gli altri tre, invece, è solo una vacanza insolita. Un trekking che per puro caso si snoda sulla falsariga di un itinerario celebre, tramandato dalla Storia e avvalorato dalla Chiesa. Una bella occasione di stare insieme e di fare, insieme, qualcosa che ne vale la pena. Qualcosa che esige un tributo di fatica, alleggerito ma non annullato dal piacere e dalla solidarietà dell’amicizia, e che però, a poco a poco, ti restituisce molta più forza di quella che consuma. Si va, si riprende ad andare a ogni nuovo giorno. Si spezza insieme lo stesso pane. Salato durante il cammino. Dolce a fine giornata. Delizioso nel ricordo.

... e un pellegrino antico Bernhard Hartmann ha una cinquantina d’anni. La sua testa è calva. La sua barba è bianca. Viaggia da solo, sorretto da un’intenzione precisa e definitiva, la cui chiave è nel suo nome. Nel suo nome di battesimo. Si impone a un neonato il nome di un santo e, così facendo, lo si pone sotto la sua protezione. Bernhard, Bernardo. San Bernardo. Il santo che ha dato il nome al passo che permette, lungo la Via Francigena, lungo la Santa Via Francigena, di valicare le Alpi. Bernhard (per gli amici Bern) incontra i quattro italiani davanti all’Abbazia di Saint Maurice d'Agaune. Loro sono davanti al portone chiuso e non riescono a entrare. Tirano il

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pomello di legno e non succede niente. Lo spingono e non succede niente. Strano: gli avevano detto che l’accesso era libero e consentito in qualsiasi momento. Provano a chiamare a gran voce qualche monaco che venga ad aprire. Ma i monaci non sentono. O hanno altro da fare. Bern appare all’improvviso, dall’altra parte della strada. Quando si avvicina vedono che le sue braccia, che sporgono fuori dalle maniche rimboccate fino al gomito, sono completamente tatuate,. «Benvenuti, amici», dice subito, in italiano, mentre li raggiunge. Quindi allunga una mano sul pomello e, senza pensarci un attimo, lo fa ruotare, sbloccando la serratura.

Una è la direzione A Bernhard sembra ovvio: sono tutti e cinque pellegrini che vanno verso l’Italia, ed è naturale che proseguano insieme. Ai ragazzi non sembra ovvio per niente. Non sono pellegrini, certo non nel senso che intende Bern, e preferiscono starsene per i fatti loro. Una cena insieme? Benissimo. Una birra ogni tanto? Nessun problema. Ma tutto il tempo, dalla mattina alla sera, e magari anche la notte, no davvero. Non solo per la differenza di età, e di indole, e di nazionalità. Anche, soprattutto, perché già la prima sera, all’abbazia, il tedesco ha avuto uno scatto di nervi inaspettato e assai poco comprensibile. Il priore si è sbagliato e lo ha chiamato Bertrand. Lui si è inalberato. «Non mi chiamo Bertrand! Mi chiamo Bernhard!». Ha picchiato il palmo sul tavolo. Ha scandito le lettere del suo nome. Ha fatto lo spelling. Come se quell’errore fosse un insulto. Un arbitrio consumato ai suoi danni, poco importa se per leggerezza o per altro, che lo privava, sia pure per un attimo, del proprio nome. E quindi della sua identità. E quindi, quel che è peggio, della protezione del santo cui era stato affidato col sacramento del battesimo. Un brutto momento. Un segnale d’allarme. Ed è ancora nulla, rispetto a quello che è accaduto in seguito. Il cameriere della birreria era un giovane omosessuale fin troppo disinvolto. Prima ha toccato il culo a uno dei ragazzi. Per scherzo. Poi ha detto qualcosa che a Bernhard non è piaciuto. E allora lui, il pellegrino bonario e irascibile con la faccia di un frate e le braccia piene di tatuaggi come un Hell’s Angel, lo ha afferrato alla cintura e scaraventato a terra. Poi lo ha riempito di calci. E quando è intervenuto il proprietario del locale, menando colpi all’impazzata con un “millwall

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brick” – un fascio di fogli di giornale arrotolati così stretti da diventare quasi una spranga, una tipica arma degli ultras inglesi – non ha esitato a spaccargli in testa un portacenere. «In galera – ha detto prima di aggredire il cameriere gay – finiscono per mangiarseli tutti a colazione, i “biscottini” come questo». Per i ragazzi italiani è il punto di non ritorno. O almeno così credono, mentre si allontanano di gran carriera per eclissarsi prima che arrivi la polizia e arresti anche loro, insieme a quel pazzo integralista di Bern.

Dal libro all’album Il romanzo è uscito nel 2007. L’abbinamento alla musica è arrivato quasi subito: non solo un “reading” con un accompagnamento sonoro ma un amalgama vero e proprio, che si è affinato (completato) fino a diventare un album che comprende undici brani e che supera i 46 minuti. Un album che si può scaricare gratuitamente dal sito di Enrico Brizzi. Una piccola, ma riuscita, e coinvolgente,“opera rock”, che riduce di molto lo sviluppo narrativo del libro ma che ne cattura ugualmente lo spirito e, forse, ne accresce addirittura il fascino. La sintesi aumenta la suggestione. Il non sapere come andrà a finire la storia, che anche senza aver letto l’originale appare chiaramente in attesa di sviluppi, spiana la strada alla fantasia. Brizzi recita in modo così coinvolgente da far quasi sembrare che canti. Il gruppo genovese dei “Numero6” lo sostiene con un’intensa pulsazione rock. Nel pezzo di chiusura, “Le promesse che facciamo in viaggio”, i cinque si ricongiungono ancora una volta, come se la loro volontà si dovesse inchinare al destino. E allora ricominciano «a salire insieme, in fila indiana, come quattro figli e il padre fuori di testa che non si ricordavano di avere». Così stanno le cose: a cinquant’anni, e oltre, le sconfitte dell’esistenza diventano più evidenti; ma è chiaro che sono iniziate a maturare molto tempo prima, quando la giovinezza aveva ancora buon gioco a nascondere la verità dietro i mille veli delle possibilità inesplorate e delle ipotesi sul futuro. Il vecchio pellegrino Bern è venuto a indicare ai ragazzi che non potranno restare semplici viandanti all’infinito: o prima o dopo le passeggiate e i trekking devono darsi mete più impegnative. Camminare sulla terra, ma in direzione del Cielo.

Federico Zamboni

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CINEMA

V45°

V

per ribelle

“Parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse, è difficile essere liberi quando ti vendono e ti comprano al mercato”

di Ferdinando Menconi

per ribelle, V a 45° come il motore delle Harley Davidson di Easy Rider. Dennis Hopper e Peter Fonda, forse il mito assoluto del cinema ribelle a partire dal rock di “Born to be wild” che accompagna le due moto durante i titoli di testa nei grandi spazi statunitensi. America ribelle, esiste un’America ribelle anche negli USA, una sfaccettatura che si può amare per quanto si possano detestare gli Yankee. Non esistono solo gli Usa ufficiali, infatti, del demoniaco Bush e di sant’Obama. Non esistono solo gli Usa della sottocultura manageriale o da ghetto che diventa marketing: sono esistiti anche gli USA di Melville, Poe, Steinbeck, Eliot, Pund e Kerouak, e nella scia di quest’ultimo si inserisce Easy Rider. Siamo di fronte a un film “on the road” nella più classica tradizione del cinema e della letteratura ribelle americani. La libertà dei grandi spazi dove tutto è possibile, dove la meta è solo una scusa per il viaggio, come l’Itaca di Kavafis. Una cavalcata attraverso la società americana di allora, ma simbolicamente valido anche oggi, in sella a un Harley, l’archetipo della moto da fuga dalle convenzioni. Moto che se per molti oggi è divenuta modaiola, per

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“...Questo una volta era un grande paese e non riesco a capire cosa gli sia successo...”

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altri è ancora un modo per cavalcare in libertà. Gli Harleysti veri sono una categoria a parte, ma al contrario di tanti altri gruppi di tendenza che nascono e muoiono, non ce n’è uno uguale a un altro e sono qui per restare, come le loro moto. La libertà che trasuda dal film ha la capacità di non fermarsi a livello concettuale, intellettuale, ma dà una sensazione quasi fisica, complici forse i bivacchi a bordo strada e gli orizzonti infiniti delle strade statunitensi. Sembra quasi di sentirlo il vento nei capelli, che negli USA non hanno ancora negato ai biker. Fonda e Hopper: due cavalieri moderni. Il mito della frontiera vissuto cavalcando l’acciaio, il rombo che sostituisce il nitrito, senza perdere però la capacità di essere in linea con la tradizione. Sono due “borderline”, ma sanno rispettare chi

“Non hanno paura di voi, hanno paura di ciò che rappresentate” “Quello che voi rappresentate per loro è la libertà” “E che c’è di male nella libertà, la libertà è tutto” “vive coltivando la terra” quando si tratta del “farmer” pieno di figli perché ha sposato una donna cattolica. Diverso è il loro atteggiamento verso i “figli dei fiori”, che sono piuttosto figli della città che hanno mitizzato la terra senza capirla. Questi vagheggiano età dell’acquario e utopiche vite comunitarie, ma hanno dimenticato che la terra è bassa quando la lavori e pesante quando sei morto. Mondo moderno in rivolta contro se stesso. I motel li rifiutano, troppo strani, mentre l’ospitalità che offre loro il farmer conservatore e il loro modo di mostrare riconoscenza hanno qualcosa dei miti Omerici, della grecità preclassica. E questo nonostante venga, anche, dimostrato pregando, prima del pranzo, il dio di Abramo, cui sia il farmer che la moglie sono devoti. Altro invece è il loro atteggiamento verso le ritualità senza spessore degli hippy che, giustamente, non riescono a prendere sul serio.

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Nel film ribelle anni 70 non poteva certo mancare il rapporto positivo con la droga. Positivo non solo perché a favore delle sostanze psicotrope, ma proprio nel rapportarsi con esse, ben diverso dai vuoti

“Non dire mai a nessuno che non è libero...” “Parlano e riparlano di questa famosa libertà individuale, ma quando vedono un individuo veramente libero hanno paura” riti post sessantottini o dalle false trascendenze da rave party. Altro mito che viene fuori prepotente è quello dell’amore libero, perché di amore si trattava, contro tutte le convenzioni che oggi sono riuscite ad imbrigliarlo in sesso libero e, soprattutto, mercantile, vissuto fra escort e sesso fast food. Quello che loro vivono è amore, anche se dura una sola notte. Possiede poesia, più simile all’unione gandharva che a una scopata post discoteca, non è trasgressione da Lucignolo: la loro è manifestazione di libertà. Nel film anche il casino di New Orleans, città francese dove esiste il carnevale, zona affrancata dal puritanesimo e dove si può bere per strada, ha qualcosa di religioso. È più Chiesa - come tale è arredato - che bordello, ma è meno bordello di molte chiese. Il riferimento alla Prostituzione Sacra della mezzaluna fertile prima che mettesse il velo sarebbe, però, eccessivo: altro livello di cultura e poi il film il legame col cristianesimo non riesce a spezzarlo, non riesce ad affrancarsi fino in fondo dalla morale cristiana e puritana. Anni 70: una stagione di rinnovamento è libertà, di grandi possibilità che ancora pesano sulle coscienze di una generazione che ha fallito ed ha incanalato quel fallimento, che non ha metabolizzato, nelle ritualità e nelle catene del conformismo Liberal. Hanno solo imposto l’altra faccia della medaglia del reazionario da Bible Belt. Non hanno tolto i comuni paraocchi di una mentalità puritana che teme la messa in discussione e il non riconoscimento delle regole imposte. Tutti sono sempre con i tutori dell’ordine, e anche se non sono odiosi come quelli del film saranno sempre tutori dell’ordi-

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ne costituito, mai della Legge. Di ottusi e reazionari che temono il diverso le nostre due Harley ne incontrano parecchi, anzi troppi. Sono questi il frutto di una società americana ripiegata su se stessa che temeva l’ondata di libertà che la stava per travolgere, ma che temeva ancor di più il dover pensare con la propria testa. Che sapeva di non essere libera, ma che non sopportava il sentirselo dire e, soprattutto, il vederselo dimostrare. Nulla di peggio per chi non è libero, ma pretende di esserlo, il dover fronteggiare l’amara realtà della sua schiavitù a canoni e regole “democratici” che di libertà non hanno nulla. Ancor di più lo è oggi per coloro che si vogliono “trasgressivi”: perché il considerarsi trasgressivi implicitamente significa il riconoscimento della regola che si viola e il piacere non deriva dalla libertà, ma dalla violazione. Allora come oggi nulla disturba più chi sa godere della libertà e non del peccato, anche perché questo sottintende che non si riconosce il peccato come tale, che si rifiutano sia quelle regole sia quelle autorità senza le quali i più sarebbero dispersi. Sia poi questa autorità un dittatore dichiarato, un pastore supremo o il politicamente corretto della sinistra cachemire e della destra mulino bianco, poco cambia e il ribelle le ignora. La brutta fine è scontata per i nostri eroi e per chi si unisce a loro: hanno sfidato i benpensanti, anche se verrebbe più da usare l’Orwelliano termine pensabenisti. Nonostante la loro non sia stata una sfida sfrontata e provocatoria, nonostante fosse solo un vivi e lascia vivere devono pagarla scomparendo dalla società: il loro esempio sarebbe pernicioso. Il volere essere lasciati vivere è inaccettabile per un gregge che vuole pascere tranquillo e saldo secondo canoni che permettono di non pensare e di non responsabilizzarsi. Colui il quale dimostra con il suo modo di vivere che possa esistere una valida alternativa al conformismo era - ed è - un nemico da abbattere, meglio se vilmente nella notte oppure con due fucilate a tradimento lungo la sua strada. Nella seconda modalità almeno c’è il morire come si è vissuti: con gli stivali addosso e l’Harley in fiamme come una pira funebre. È, però, sempre morire, è comunque essere sopraffatti dalla schiavo, insomma è sconfitta. La sconfitta, fine inevitabile per ogni ribellismo generico e individualista fine a se stesso. Il ribelle, se vuole sopravvivere, se vuole poter vivere libero, deve evolversi, se non in rivoluzionario, almeno in rivoltoso e strutturare la sua azione, se non per imporre la libertà ai servi, almeno per poterla vivere lui.

Ferdinando Menconi

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parolIle vero avvelenate taglio da fare

C

apire le responsabilità, risalire al peccato originale originali, i peccati odierni, lo sono davvero - cercare di comprendere dove abbia avuto inizio il tutto di ogni cosa, è impresa da biblioteca di Alessandria. Ipotizzare cosa accadrà invece richiede quanto meno l'interpretazione dei versetti di Nostradamus. Tra utilizzatori finali, committenti iniziali, e intermediari temporanei, è come cercare di capire l'Iva.Tu la dai a me che la do a un altro che la dà a un altro e poi a un altro ancora finché si perde da qualche parte off shore. Così il debito pubblico, da Berlusconi a Prodi a Craxi a Andreotti fino a De Gasperi e chi più ne ha più ne metta. Non serve neanche tentare di capire il rapporto deficit-pil che tanto poi ci pensa l'Europa a dirci che tasse avere e come rientrare nei parametri che ci stanno sempre stretti. Ma se fino a poco tempo fa, almeno, tra auto blu, voli di stato con cento persone al seguito, orologi d'oro pagati con carte di credito istituzionali, mignotte, bouvette, armigeri, stampa e varie ed eventuali, almeno qualcosa la si poteva intuire, adesso non si riesce davvero a trovare il bandolo della matassa. Perché uno stato in crisi - chi non lo è? può anche tentare di aumentare i rendimenti dei propri titoli all'infinito - tanto quando mai li ripagherà? - può anche farsi sodomizzare dalla Ue aumentando le tasse nel proprio paese, diminuendo i servizi e richiamando all'austerità i cittadini per debiti che non hanno contratto, ma tanto poi ci pensano i Credit Default Swap a regolare davvero le cose: le banche d'affari che abbiamo salvato noi stessi vendono sul mercato assicurazioni sulla solvibilità dello stato che emette il titolo per pagare il debito, e più alti sono i premi da pagare, più lo stato si trova a non valere nulla. Il circolo è vizioso - molto più vizioso di quello sulla Salaria di Bertolaso, per intenderci - perché se Morgan Stanley & company prestano i soldi allo stato di turno, e poi si rivendono tra loro i derivati sul rischio, quanto pensiamo che possano contare i vari pupazzi di Merkel, Zapatero, Papandreu e Berlusconi? E di conseguenza, quanto potrà mai valere il nostro voto per mandare al governo uno oppure l'altro? Varrebbe la pena, invece che tentare di districare il tutto, di riconoscere il filo e provare a sciogliere i nodi, di darci un taglio secco: fuori dalla Nato, dall'Europa, dall'Euro e da tutto il resto, azzeramento del debito pubblico e si salvi chi può.Tanto qualcuno a vendere Cds si trova sempre, e il bel pacco dono - "pacco" sul serio - possiamo lasciarlo in dote a qualcun altro. A qualche banca americana, per essere precisi. Così, come l'Iva, tutto tornerà all'origine, in una partita di giro finalmente chiusa e in culo a chi ha iniziato il gioco. Steppenwolf

Ci occuperemo invece di...: Cina e India: reportage il fallimento di Copenaghen lo scoppio di fine 2010 borderline: Emily Dickinson perché i giornali non vendono più guerra civile in arrivo



di Alessio Di Mauro


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