scorie contemporanee-antologia poeti

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SCORIE CONTEMPORANEE Antologia dei poeti de “La Gru�

Daniele De Angelis, Loris Ferri, Simone Lago, Emiliano Michelini, Davide Nota, Stefano Sanchini, Matteo Zattoni con una lettera prefazionale di Flavio Santi e un saggio introduttivo di Gianluca Pulsoni


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Lettera prefazionale

Cari Daniele, Davide, Emiliano, Loris, Matteo, Simone e Stefano, Massimo Ferretti, grande poeta mai a sufficienza celebrato, diceva che i marchigiani sono i russi d’Italia. Cioè? Lev Tolstoj spiegava così l’anima del suo popolo: il russo “non crede che sia possibile sapere qualcosa pienamente”. Ecco dunque il carattere del marchigiano-russo: un senso profondo e lancinante di manque che innesca una ricerca continua e inesausta del reale, un’esplorazione spasmodica del mondo, mai doma, mai prona. Questa premessa è essenziale per capire il vostro spirito, e pazienza poi se non siete tutti marchigiani. Vorrà dire che siete tutti “russi”. Lo spirito è quello, per osmosi e contaminazione. Lo spirito famelico della poesia. Poesia vissuta come dannazione. Come ossessione. Come follia. E dunque come salvezza. Qualcosa di fisico. Di violento. “È il latrato del lupo che entra nelle scarpe” (Emiliano Michelini). State tentando l’unica via praticabile: porsi di fronte al tutto del mondo, che però non può mai essere tutto, è sempre e soltanto qualcosa – voi lo sapete –, che rischia poi di diventare d’un tratto nulla. Descrivere, criticare, minimizzare, massimizzare, esaltare, derubricare, tendere, contrarre, sintetizzare, diluire la bestia dalla triplice testa, il tutto-qualcosa-niente che è la vita, il mondo. Lo state facendo molto bene. Sì: “il mondo è il torso nudo di un ragazzo / senza grazia sulla pista, brutale” (Davide Nota). Sì: “quante colombe di sangue // gravide, dovranno ancora solcare / nella loro lugubre marcia, / la pelle cupa del mondo?” (Loris Ferri). Sì: “c'è del margine ancora entro i limiti del mondo” (Simone Lago). Sì: “il reale è quello che ci portiamo / dentro, il presente / solo quello che si scrive / poiché l’unico che resta” (Stefano Sanchini). Sì: “l’amare la vita, la vita morente / la morta vita… o la presente morte…” (Loris Ferri). Il niente divoratore incombe: “come fare a cambiare il mondo / se non riusciamo / neanche più a cambiare / canale […]?” (Matteo Zattoni). Ed è il niente appunto di una società divenuta inutile e letale spettacolo di sé. Non c’è salvezza o redenzione, anche questo voi lo sapete, ma agite as if… Come se salvezza ci fosse. Come se il cambiamento fosse intrinseco all’uomo. Come se, un giorno, la poesia potesse vincere. Come se… Come se… A tutti voi non posso che augurare di proseguire così. Come fraterno congedo vi allego un pensiero del vostro frère russo-marchigiano Osip Mandel’stam: 3


“così, agitando le braccia, borbottando, arranca vacillando la poesia; la poesia, che fa girare la testa, che è beatamente inebetita, e che pure è l’unica cosa sobria e desta al mondo”. Continuate a essere folli e vigili.

Flavio Santi

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LE GRU: TEATRI E OFFICINE (2004–2006)

L’eredità – infatti – non è mai un dato, è sempre un compito. Jacques Derrida, Spettri di Marx

Ma là dove s’aspetta di più il fiore, è proprio altrove che si fa il fermento, né Neoavanguardia, né Neotradizione, forse il Duecento, dopo il Novecento... Gianni D’Elia, Trovatori

Uno. La realtà. Siamo nel 2004, nel periodo autunnale e freddo, nella provincia di Ascoli Piceno, confine delle Marche e luogo di transito per il Sud d’Italia per più di un italiano come vuole anche la storia, che secolare voleva la “marca picena” il confine dello stato pontificio, e dell’immunità che tutto il popolo dei cristiani residenti aveva nei confronti dello straniero. Dopo l’esperienza auto-prodotta di una piccola rivista ciclostilata, di nome La Biblioteca di Babele, conclusasi in un ripensamento collettivo sulle necessità che tenevano uniti tutti i membri, giovanissimi, della redazione, Davide Nota e Daniele de Angelis progettano assieme l’idea di un’altra rivista, pungente e positivamente polemica: fertile di spunti ma nei modi poetica. Come un gesto accanito sulle cose e sugli argomenti. Qualcosa di breve, che abbia in un ciclo tematico il suo punto di forza e la sua conclusione. E che, soprattutto, si muova nell’ambito di temi forti, perché soprattutto sentiti. E allora, come muoversi? Ben dentro il loro lavoro poetico, con Davide in attesa di pubblicare il suo primo libro, Battesimo, come una urgenza immediata, e Daniele, invece, alle prese con una fitta e continua rielaborazione dei suoi versi, i due individuano e tracciano subito una linea fondamentale per il progetto: un arco di tre temi, centrali per dare spunti e suggestioni al lettore. E oltre a ciò l’insistita importanza dei modi e degli stili degli articoli: dovranno essere brevi, concisi. A mo’ di trafiletti ed elzeviri di giornale: centrale l’argomento del numero, da trattare nella più piena libertà di qualsiasi “descrizione densa”. La partecipazione è aperta: tutti posso scrivere, tutti sono invitati a farlo, sotto la verifica della redazione. Tutto, ma proprio tutto è utile per allargare e dirigere una discussione. L’importante è condividere, soprattutto le differenze; l’importante è lanciare, 5


spunti e incontri d’idee. Detto questo, nei due poeti e scrittori subentrarono subito due preoccupazioni: a chi allargare la redazione e con quale somma far partire il progetto. La prima preoccupazione si risolse in tempi brevi: quasi immediatamente Davide e Daniele chiesero a Riccardo Fabiani, studioso di politica e interessato alla sociologia, nonché amico comune e partecipante all’esperienza della precedente rivista, se avesse voluto collaborare: come redattore, per dare un taglio “diverso” agli articoli, per andare un po’ fuori dall’ hortus conclusus della letteratura. E lui accettò di buon grado: anzi, con forte interesse. Fu poi il mio turno: dopo alcune discussioni forti con Davide Nota, talvolta persino equivocate negli argomenti dal sottoscritto si decise che dovevo anch’io partecipare in prima persona al progetto: avrei contribuito alle argomentazioni con lo sviluppo, quando fosse possibile, dell’aspetto teorico e pensante che spesso e in modo inconscio informa il fenomeno “poesia”. La seconda preoccupazione, invece, si mostrò aggirabile utilizzando i finanziamenti già depositati per la precedente rivista, La Biblioteca di Babele, da parte del comune di Ascoli Piceno. Sotto forma di associazione, potevamo ricevere fondi: e così fu, prima dal comune della città, utilizzando i precedenti finanziamenti; poi dalla provincia stessa: e in questo caso il finanziamento arrivò a La Gru in quanto nuova associazione. Pochi soldi, ma gestibili in un’ottica di un ciclo a breve termine, con grafica povera, con due citazioni in alto ai lati della prima pagina, a presentare e argomentare il tema del numero, di formato quasi ottocentesco per struttura e dimensioni: ma appunto essenziale e classico nel tono. Poi, nel caso ci fosse stato bisogno di altra moneta, ci si sarebbe auto-tassati; ma fondamentale doveva quindi essere una cosa: far circolare gratis la rivista. Gratis. Nelle librerie d’Italia, tra i collaboratori, tra l’ambiente accademico, tra gli amici: far circolare gratis la rivista attraverso una distribuzione svolta per passaparola, come passepartout, nelle varie “Italie”. E successo dell’esperimento fu: perché e-mail che ci arrivavano alla nostra casella di posta testimoniavano che la rivista circolava e circolava bene: gente di Bologna, di Venezia, di Milano, di Bari, di Catania ci chiedeva del nostro lavoro interessandosi, creando un buon movimento, una discussione “fluida”. E gli amici, alla fine, con l’allargamento della redazione a Stefano Sanchini e Loris Ferri, conosciuti tramite la mediazione di Gianni D’Elia, sono risultati essere anche dentro l’ambito della letteratura, con i vecchi e nuovi contatti di poeti, saggisti e operatori culturali che si aveva, che soprattutto all’inizio Davide aveva, anche per la precedente esperienza della rivista cartacea e per i suoi inizi poetici, con le sue prime pubblicazioni in antologie e riviste. A conti fatti i numeri della rivista, foglio quadrimestrale di poesia e realtà, furono quattro e tali sono rimasti: uno in più dei previsti all’inizio, perché in quest’arco di tempo uscirono i due libri di D’Elia su Pasolini, come uno dei segni più incisivi sul ripensamento della lezione del poeta, di cui si sono “omaggiate” e “oltraggiate” le memorie nel 2005. L’eredità della poesia di Pasolini meritava di essere discussa in un numero speciale, il terzo, che comprendeva “arcani” a firma 6


Hirshman – ma poi anche in parte nel quarto – sotto il segno di un colpo d’occhio che in un amen potesse sintetizzare diverse voci ed esperienze. Così come questo alla fine era l’intento nascosto da cui siamo partiti, in modi diversi ma con uguale fine: mostrare, anche, diverse voci come esperienze: in un colpo d’occhio solo, in un amen, in un sì. Alla realtà così come al mondo. Ecco perché lo sguardo è spezzato; ecco perché la gru. 2. Il lavoro che muove La Gru è complesso: dietro di sé ha un articolo-preludio, accanto a sé la miriade di contatti, e scontri, testimoniati in tante e-mail e lettere di persone disinteressate alle lettere e chiamate in causa in prima persona da noi stessi, perché con le loro opere ci hanno dato il ritmo e la traccia del nostro progetto, ogni volta sempre e di nuovo. E davanti, ancora, alla rivista, c’è questo libro “antologico”, che è in realtà una vera e propria summa analogica di quanto è stato pensato e prodotto sulle pagine della rivista. Preludio, interludi, e finale: un movimento continuo investe il nostro giornale quasi a invertire i termini della nostra esperienza: che ha nel foglio il riverbero d’effetto, il senso e il motivo, di tutto quanto gli si è mosso e ha camminato accanto, come a tentare di creare un vero e proprio foglio-mondo1. Effetto ma anche culturale terra: così che a leggere i versi antologici si possa bene dirli come approdo e richiamo a quanto si è sedimentato, ma anche naufragio d’altrove, o anche dialettica forte, contraddittoria, con altre voci in cui non ci si riconosce dai tratti. Ed è tutto importante: tutto torna come riflusso e come motivo “verticale”, che apre a possibilità altre: per altre educazioni e per alte costruzioni. Ma ricominciando, e con ordine… Dalla finestra lo sguardo è spezzato. Si scontra su parallelepipedi. Segmenti lunghi che s’intersecano. Altri sono rette verso il cielo, strette e tozze ma più alte. Sono condomini e grattacieli di un quartiere periferico, nato negli anni ’60, che continua a crescere e mutare. In qualche parte, come propaggine troppo lontana dal cuore, muore, incancrenito. Rimangono lì i suoi resti, aspettando una nuova lottizzazione e altre case o centri commerciali2. La “zona” da cui si parte è come sempre indefinita: come un passaggio, sempre casuale ma sorprendentemente decisivo, tra immaginario e realtà. In ogni punto in cui ci si addentra, nel gioco della piazza, della morfologia della società e dei suoi spettacoli, c’è inesorabile la presa degli occhi e del cuore: un giogo, invisibile, in cui anche lo sguardo cade. Ogni punto, nel quadro che ci astrae il paesaggio, è 1

Il senso “originario” di questa espressione è del filosofo e logico C. S. Peirce. Poi l’espressione è stata spesso usata e ribadita in Italia dagli studi del filosofo Carlo Sini, studioso tra i primi e migliori dello stesso pragmatista americano. 2 Cfr. Daniele de Angelis, La gru, in La Gru n. 0

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periferia e nuovo centro: ma tutto cade impoverito da secoli, da un’estetica di resti indifferenti, invadenti come scorie: ma di cui non sappiamo leggere nulla: a nostro discapito, forse per nostra responsabilità, ci marcano i segni… e la loro mancanza. Ma… per vedere ogni sua proliferazione, vecchia o nuova, bisognerebbe salire su una di quelle gru, aste sottili e vuote, fili di ferro, già al lavoro su toppe di terra o ai margini, in zone meticcie tra campagna e città. Da una di queste gru si osserverebbero chiazze di colore e forma diversi; dipende dal gusto degl’ingegneri, dal piano regolatore. Ogni chiazza con la sua vita specifica, micro diversificazioni della macchia più grande3. E dunque se la terra è inospitale ci salverà, per ora, almeno fin quanto ci basti al respiro, l’aria: l’aria della cultura, come cultura. E cosa serve, allora, se non uno slancio, e il volo? Se il panorama è impossibile da decifrare, ricco com’è di nebbia e di densità, il problema non è il tutto, ma il punto di vista, limitato e aderente, ma che sempre più accanendosi con le cose, non riesce a guardarle: perché poi esso stesso non sa, e non può, guardarsi. E così una gru. Un mezzo meccanico finché si vuole, ma funzionale e per di più relazionale: un mezzo, appunto4. Ma anche una misura e assieme una dismisura: un simbolo che contiene molti lati di una realtà ripresa nello spazio e nel tempo, messi assieme nel nesso di uno stesso iato. Ma anche: a) Segno di ri-composizione: tra terra e cielo, s’apre in un gesto che iscrive l’orizzonte nello sguardo e che dona uno scenario in cui si può proiettare un mondo, in cui lo sguardo spezzato e caduto si fa oggetto tra oggetti, toccato nella stessa rete, dalla stessa aura e trama di significati: di storie, di ricordi, di echi stranieri ed emozionali. b) Cifra di lavoro: le molteplici tracce della vita che resiste al tempo della moda e della morte sono tutte trascolorate nel respiro e nel dolore del lavoro, e nel progetto; nella spinta propulsiva del laboratorio che, continuamente, si produce come officina di oggetti, di vie, di immagini nuove: ma anche di vite e di stili. Così che la presenza di una gru è il metro di un cantiere: stavolta povero ma sempre aperto, che lavora sugli elementi empedoclei del mondo; sui silenzi del mondo e della storia; sul risveglio del senso; sull’etica come arte; sul giudizio di valore e il valore del giudizio; sulla ricchezza dei segni e dei sensi, sul dialogo come invenzione; sulla modernità delle emozioni. 3

Cfr. Daniele de Angelis, idem «La gru di cui parla è parente stretta della scavatrice pasoliniana. L’idea dello sguardo d’insieme è il filo rosso dei due numeri della rivista che mi hai mandato, è l’aspirazione ad un insieme fatto di stratificazioni, eventi, realtà differenti che cospirano alla formazione di quell’organismo mobile, inafferrabile e dialogico che è la Realtà». Da Carta sporca, blog di poesia impura, dicembre 2006: Giovanni Falsetti, TRE LETTERE DI GIOVANNI FALSETTI. 4

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c) Tratto di unione: tra i vari elementi complessivi della realtà, compresa stessa l’idea e le idee di realtà che scaturiscono dagli incontri. Dopo che un segno ha lavorato all’interno di un movimento di una certa cifra, esso può cristallizzarsi in tratto condiviso tra diversi sensi, diverse azioni, diversi uomini. Ma anche collegare la visione all’occhio che la contempla, integrando lo stesso occhio nell’altro quadro, in un unico spettacolo del mondo, come una promessa. Ma anche, infine, tentare d’aprirsi alla questione cruciale di capire quanto ci resta di esperienze passate: culturali e poetiche. Per ricomporre l’infranto di una cultura disorganica alla crisi, proiettata sempre più in un passato di cui oggi vi è poco e forse solo il ricordo, mitizzato e al contempo demonizzato.

Uno.

La comunicazione. «Il presente è un paese straniero: e dunque, da conquistare». Se volessimo rovesciare così un importante assunto gramsciano troveremo fertile l’implicazione dialettica tra presente e passato nel tratto d’unione che è la cultura. Esaltata, nella sua organicità con la storia, nei punti di rottura – gli eventi – della stessa storia: in un travaso perpetuo con la materia prima del mondo: “visioni d’interno / riflesso d’esterno” dentro e fuori una trama che permette una diffusione e dispersione di segni tesi a tramare una pittura, e dunque una epica, dei realia. Ma ricominciando, e stavolta dentro quest’ordine, di questo libro, di questa glossa. Non si dà cultura se non kulturkritik, in piena critica alla cultura nell’accezione di cultura organica allo stato5. Ma è questa critica, questo termine detto critica, ad avere l’alone di ambiguità e di mistero che concretizza gli equivoci. Evadendo i riferimenti ai dizionari, nel lavoro de La Gru s’è insistito nel produrre una diversa accezione della voce critica: fuori dalla figura del critico, non considerata né come problema e né come domanda fondamentale. Esiste la critica: storicamente, come primo dato. E spesso, nel mondo occidentale, sono stati i filosofi ad averci donato critiche teoretiche ed etiche, sull’uomo e sulle sue formae mentis. Critiche autonome, opere complesse: talvolta anche vere e proprie cosmologie nascoste. Ma sempre “opere”: nell’accezione appunto di opere prime: sguardi e gesti pan-oramici sulla realtà, trasportata come materia prima. Ed è qui il rimando alla portata di un’opera, come opera a stretto contatto con l’urgenza e con l’evidenza dei realia: in una lotta tra liberazione di idee e trattazione dei sensi e del senso.

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Così Giorgio Colli legge in Nietzsche questo termine, in maniera pressoché filologica e avulsa da qualsiasi interpretazione restrittiva e costrittiva (cfr. La ragione errabonda, Adelphi)

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Ma persiste anche un fare critica nell’accezione di una idea di critica stessa organica… ad ogni atto del fare: come laboratorio continuo; come negativo del proprio operare, che è ancora un operare, ma diverso; come resistenza al non senso degli specialisti autonomi. E, in ambedue le accezioni, si riscontra l’eccezione di una idea di critica testimone della realtà come opera e fedele all’uomo come movimento personale, intimo, chiarificatore, privato: come trasporto dei realia dalla “prosa del mondo” alla rete dei significati aperti dal senso. Ma anche a stretto contatto con i paradossi del reale stesso: nell’acquisizione delle aporie che fanno e disfanno la cosa: che sono le pratiche, gli abiti del sapere poetico, che dal punto di vista degli stessi poeti – trovatori6 si stringono attorno al secolare problema di interrogare il senso dei nomi, affinché tutto acquisti la propria risonanza globale, come in una eco. E affinché si capisca che la filosofica questione di fissare i nomi alle fantomatiche “cose”, i fenomeni e la stessa storia, che non sono7 , è correlata all’altra necessità – istantanea, poetica, bruciante – di significare le “cose”, donandogli quell’aura spazio-temporale che è propria di ogni elemento: quello di essere “soglia”, metafora cosmica – poiché tra oggetto e oggetto, tra il tutto è detto e il niente è stato detto, nel più rispettoso silenzio, c’è presenza in grado esplosivo, che attende di essere innescata. E con la stessa prassi dei versi s’arriva ad illuminare, interrogando, la questione della stessa cosa come senso dei propri gesti e delle proprie intenzioni: come creazione partecipata e plurale. Fin dentro la cultura, intesa come insieme delle rappresentazioni mentali socialmente elaborate e condivise8, la prassi lirico-poetica ha esercitato il suo lavoro di macchina – limite, andando a svelare spesso l’assolutizzazione e il non-senso della parola e la parabola del racconto, e per metonimia della “storia”, dissolto nel verso. Ogni volta, un nuovo paesaggio di materiale “storico” diventava e diventa un passaggio immanente, al limite della codificazione e dello stacco tra impensato e automatismo del linguaggio. E ogni volta, la prassi lirico-poetica ha lavorato affinché il chiasmo tra atto del fare e materiale primo del reale si potesse mantenere il più possibile nella zona di passaggio9 tra cultura e natura, evitando accelerazioni gravose – ideologismi vari – e ricadute residuali – frammenti vari che spesso nascondono l’ideologia del frammento fine a se stesso. E in questo paesaggio, in questo momento che è apice e soglia del linguaggio, tutta

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Cfr Gianni D’Elia, I nuovi trovatori, in La Gru n.0 La realtà, 2004 Non esistono i fatti, esistono le interpretazioni. Ogni fatto è prima di tutto una interpretazione. Quest’assunto, oggi nietzschiano ma che ha trascorsi eminentemente vedici, è ancora duro da digerire nella società dell’informazione spettacolarizzata. Ma è da trattare come una vera e propria “scoperta”: e si sa, che nelle scienze mediche, cioè nelle scienze che curano l’interiorità, ogni “scoperta” soppianta le precedenti, non più praticabili per la ricerca e la cura. 8 La definizione, “storica”, è del grande antropologo medico Tullio Seppilli. La si è citata per comodità, icasticità e brevità: fermo restando che si contano almeno più di 300, e tutte valide, definizioni di cultura. 9 Cfr Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri ed. 7

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l’astrazione del mondo tocca con profondità la vertigine come effetto e riflesso dell’immediato. Ed è in questa “zona” che ravvisiamo un passaggio importantissimo: e che chiamiamo segno della crisi di una cultura. Qui, è però da intendersi crisi come “termine” della dialettica cultura-natura, analogia e ripetizione di quella tra altre presenze: storia e realtà, passato e presente. In seno alla ripetizione impazzita di questo meccanismo dialettico, che crea sempre numerosi ostacoli, deviazioni, soglie e che trova nuovi “oggetti”, possiamo ben dire che l’espressione a cui tutto ciò fa il verso è lo stesso “sapere poetico”. O meglio, che in seno a ciò, la poesia, ogni qual volta che si apre a queste altre presenze, nello spazio e nel tempo, per accettarle o per negarle, è la forma aperta di questa “crisi”. 2. La critica è legata allora al “segno” della crisi: come se essa fosse non un rito, ma una traccia fisiologicamente nata per essere espulsa. Come allora spessore legato ad ogni gesto-in-azione. Ed è legata, allora, allo stesso atto del fare. Ma con quale nesso? Il linguaggio dei mass-media è lo squadrismo culturale che fustiga e mette in riga la realtà, plasmandola a sua immagine e somiglianza; ed ecco decine e decine di orwelliane neo-lingue lisce, superficiali, malleabili, pronte all'uso e al consumo della comunicazione e dei suoi imperativi di sopravvivenza e riproduzione. Semplificare per controllare: se le parole sono espressione particolare di idee universali, la lingua ci racconta di una battaglia già vinta dalla comunicazione. Di fronte a tutto ciò, la Poesia è soltanto un'ultima resistenza, sempre più addomesticata, resa innocua e passiva perché banalmente intimista e dunque spendibile in questo abbagliante mercato post-moderno10. Dice bene Riccardo Fabiani nel collegare la tensione di una resistenza, anonima perché plurale, ma sempre a rischio perché minore e momentanea, nel suo essere soglia ed “eventuale”, con la stessa rilevanza poetica. Ma poi aggiunge… Non sarà la Poesia da sola a salvarci da questo naufragio: c’è bisogno di studio, coraggio intellettuale e fermento culturale; una rinascita filosofica parallela ad una rigenerazione artistica che salvi l'Europa dalla sua soffocante sterilità e che ci liberi dall'insopportabile dittatura della comunicazione e dei suoi derivati. Per tornare alla parola e alle idee11. Sotto una possibile, passabile facile comprensione, il dettato esposto apre a una integrazione possibile non da poco, che è stato uno dei nostri punti più dibattuti. 10 11

Cfr. Riccardo Fabiani, Contro la comunicazione, in La Gru n. 1 Cfr. Riccardo Fabiani, idem

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Qual è il nesso per operare una strategia contro la comunicazione? Questa la nostra chance: scommettere su un tratto d’unione che produca una cifra di lavoro e che sia atto ad un segno di ricomposizione, tra quel bisogno di studio, coraggio intellettuale e fermento culturale e quella Poesia che è soltanto un’ultima resistenza, anche se sempre più addomesticata. Questa continuità nella discontinuità dei generi fa entrare dentro una diversa ottica delle arti, del pensiero e della letteratura. Sotto il segno di una etica della scrittura12 che va intesa come obliqua ai generi. L’accento, nel nostro caso, l’accento del lavoro, cade interno alle somiglianze di ciascuna prassi. Sotto il segno di quella resistenza, all’opinione, alla facilità, al relativismo come fenomeni di gestione e controllo delle espressioni, è necessario recuperare il senso del rifiuto e dell’impuro: il “no” deciso ad ogni forma di “omologazione”. Ed è qui che viene incontro il problema capitale, poiché ciascuna forma di omologazione poi, alla fine, agisce in seno ad un insieme di cui fa parte, e a cui anche fatalmente si assimila. Ed è fatale che poi, si adegui, alla “cultura” stessa. Alla cultura nell’accezione proprio di colo, “colonizzare”. Ed è allora così che si deve leggere il conflitto tra poesia e cultura: saltando dal piano estetico del “giudizio” in una risonanza etica dei valori dei propri e altrui gesti. Fin dentro l’atto di creazione, in una confluenza politica oltre che simbolica del gesto, interrogare le proprie azioni come azioni capaci di muovere un mondo contro la sua stessa soglia, in cui la cultura, se rimane tale, non basta più. Interrogarle, come se13 avessero, queste azioni, risonanza politica, di risveglio “critico”, di empasse. Ma come fare? Eccola, allora, la domanda14. 3. Il senso del rifiuto e dell’impuro sono una via “negativa”, che è la soglia che appartiene alla dimensione critica dell’officina linguistica e al teatro della parola poetica. Soglia comune, come detto, in cui partono le variazioni, i come, e le risposte diverse allo stimolo che accompagna lo stesso intento: il rifiuto, il “no” a un movimento di colonizzazione: di codici, di intenzioni altrui, di storia altrui. Soglia comune, come detto. E condivisa. E ciò rende critica e poesia vicine in una particolare “osmosi”: qualcosa, tra di loro, in prossimità della soglia, accade. Ma è da sempre, che accade. Due discorsi che, da sempre, s’intrecciano nel silenzio inavvertito in una trama unica, imperfetta e mutevole: in una unica prassi, in cui critica e poesia ritornano ad avere la loro risonanza “originaria”. 12

Cfr C. Sini, L’etica della scrittura, Il saggiatore. “Come se”: come se davvero sia necessario sforzarsi di pensare non-separato, e felicemente nonliberato, il pensiero, e dunque l’interrogazione, dall’evidenza dei realia. Occorre sforzo, capacità immaginativa, sensibilità: da sempre presenti in ogni atto, ma spesso mai fino in fondo esperiti e fatti esperire alla coscienza. “Come se”: è la modalità congiuntiva che apre all’immaginazione teatrale (cfr. V. Turner, Dal rito al teatro) 14 Cfr Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri ed. 13

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Ecco. Sospendendo il “giudizio”, il nesso che lega arbitrariamente l’io con l’altro, il soggetto con l’oggetto, e dunque, in ultima istanza, il proprio io sul mondo, arriveremo a separare l’io dal mondo. E a riflettere, sull’io a sé e sul mondo a sé. «…No, / non si può essere più quelli di una volta. Ed io che ho vissuto solo una notte / e già esausto torno come da una guerra civile, come potrò abbandonarmi / domani al mondo, con quali speranze, con quali aspettative? Le elezioni / amministrative sono già qualcosa che neppure mi ricordo, getterò / una mezza croce su una sinistra mezza senza sapere neppure il perché / primoridiale del mio gesto; no, non sono le occasioni ma le finalità / che mancano, le ragioni... e in questo modo torno a casa, solo, / come un pezzo di carne per le strade della nuova Europa15...» Sospendere il giudizio, nel nostro caso, è bene dirlo, significa sospendere l’azione legante del giudizio all’oggetto. Ma anche trattenere la risonanza creativa dello stesso giudizio, in seno al nostro atto e alla nostra azione. E, sospendere il giudizio, apre alla possibilità di riflessione su sé stesso dell’atto di creazione: poiché ogni giudizio, “spogliato” della sua dimensione di prevaricazione, assume la conformazione di atto creativo, ex nihilo. Puro. Ma c’è anche di più. Se l’azione del giudizio fa ombra all’atto creativo che il giudizio porta con sé, essa stessa – l’azione cioè – implica anche l’esistenza percettiva, agli occhi dell’altro io, dell’oggetto: del prodotto, e dunque dell’effetto, dell’atto creativo dell’altro. E allora “sospendere” il giudizio, qui, equivale a costringerlo ad un suo ripensamento, ad un suo rovesciamento parziale: che mette in crisi, e cioè in variazione, tutto: la percezione del soggetto, la percezione dell’oggetto; il senso del giudizio, la sua azione; l’atto del giudizio, la sua potenza. Questa energia svela ciò che “resta”, come “resto”, rifiuto del giudizio: il suo atto riflesso verso se stesso, isolato, sospeso nelle negazioni a tutte le vie che portano a facili risoluzioni, quadri, prevaricazioni, nei confronti degli elementi percepiti e delle sue visioni. L’io a sé è, nella sua solitudine, vivo: e non può far altro che guardarsi dentro, per ora. Perché il fuori gli è ancora troppo lontano, giustamente lontano: non riuscendo a scorgere che ancora una sola forma per tutto, un’apparenza falsa, che non nasconde nulla ancora, che è forse solo promessa di qualcosa; che riesce solo a vedere ma non ancora ad essere… «… Tu, quando avrai corroso ulteriormente / la resistenza dell’umano, preparati ad uscire: / il vero mondo è lì, lì fuori16.»

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Cfr Davide Nota, da La carne, ora nell’Antologia. Cfr Davide Nota, da La condanna, ora nell’Antologia

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Sospendere il giudizio, allora, vuol dire negare l’altro io, l’altra cosa. Ma poi, dentro e dopo questa prima verifica, cercare altro nello stesso io: ciò che si rifiuta, ciò che non sta bene, nella “nuda vita”. Ecco. E ora veniamo al “mondo”… a sé. Il mondo è il mondo come volontà e rappresentazione: che non è un estremo congedo estetico, o estatico, ma un’incredibile, ancora una volta poco dibattuta occasione, o meglio, soglia. Il mondo è opera, allora: o anche, per ora, all’opera. È una visione: «A volte occorre prendere la penna al balzo / e scrivere come uno scarico industriale / perché il mondo è il torso nudo di un ragazzo / senza grazia sulla pista, brutale...17», una interrogazione: «E quale me allora sfugge / fra le strade che portano un nome, per quali / precisi cantoni potrei svoltare, cadere / in uno spazio bianco e profondissimo, / per quali insondabili riferimenti perdermi / allontanando da me lo spavento / del tuo occhio e quello / di questo paese infetto / che collima sul mio volto per mezzo dei passanti, / di tutti i tuoi passati, e le disarmanti / soggettive di ogni scorcio di via, da ogni / bifora più alta e la più secca e bassa luce / che mi staglia come un segno, / il più inutile sulla carta.18», un ritratto: «eppure, sul solido cranio dura / una nudità incosciente e pura / nell’ammassare memorie / come scogli difformi, vera / non potendosi negare / neppure nell’assenza…19». Tre esempi, di “esposizione” di un

mondo. Ma davvero è bene che s’insista sul fatto, come risonanza di una pluralità di forme, nella differenza nascosta tra una medesima forma e la sua anomalia – differenza che apre al molteplice – che v’è una corrispondenza precisa con la pluralità di mondi, a cui le forme rimandano. E l’idea di mondo, in quest’accezione, può ben essere letta come croce-via. Croce-via di monadi, le forme, le voci, le immagini… e di nomadi, nella dispersione di questi stessi segni: da altrove a altrove. Ecco, un croce-via, dove la parola viaggia tra una dimensione microscopica e una macroscopica evasione: tra croce della parola e parola messa in croce. Ma un mondo ha anche elementi originari, per essere tale, nel senso che essi sono costitutivi della sua archeo-logia. Dell’orizzonte in cui s’iscrive la visione. Ed è qui che l’io a sé “partecipa” nel mondo, venendo al mondo. Ma procediamo con ordine. L’io è nel suo isolamento soggetto a sé stesso, oggetto tra oggetti non ai suoi occhi, ma agli occhi dell’altro. Oggetto, parte, frammento, gramma, di una visione più grande del suo sguardo, di cui il suo sguardo prende parte. Ma di cui anche il suo sguardo dà l’inizio. Il tratto peculiare, la cifra. In un movimento oscillatorio, sussultorio, in cui varie sono le stratificazioni interne dell’io: come in un vero e 17

Cfr Davide Nota, Discoteca, ora nell’Antologia. Cfr. Simone Lago, Agosto, ora nell’Antologia. 19 Cfr. Daniele de Angelis, Sul volto II, ora nell’Antologia. 18

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proprio fenomeno di incorporazione medico e antropologico, s’iscrive nel fuori l’“orma” della presenza dell’io, e fin dentro l’io, s’iscrive invece la rete di linee astratte e vorticose che fanno e disfanno la trama e il derma del reale: linee “stratigrafiche”, geo-logiche, che producono sedimenti come memorie, pensieri come venti e frecce; che formano il paesaggio dell’anima, fin dentro l’interiorità di una voce: «faccia che s’apre a se stessa fino alle lacrime / a sventare ogni vergogna, così preziosa / in quel mostrarsi distratta e senza posa, / come un insensato gioco, un contrattempo / alle feroci imboscate del giorno..20». L’io come parte della visione che lo ri-guarda,

come parte di quell’ archeo-logia che segna un mondo come tale: assieme ad un orizzonte, ad una soglia, e dunque ad una terra e al suo limite: un territorio. E il cielo. E a tutte le presenze postume alla natura inorganica, prese nella percezione della vita vivente… «…La natura tutta, si manifesta in profonda armonia, / persino la morte, tu invece sei lo strumento stonato / in questo grande concerto, che nulla chiede in cambio / e non conosce denaro. Riscopri sotto i tuoi sterili cementi / la terra che il tuo cibo ti offre e quello degli altri viventi, / lei nasconde il fuoco che non solo ti scalda, ma ogni cosa / trasforma e tutto rinnova. Tu padre dei nomi, figlio / del linguaggio che parli, fermati e taci!21» L’io a sé, il mondo a sé: ognuno, soglia dell’altro, ognuno, preso in un fenomeno di incorporazione con l’altro… Fino a che uno diventi specchio e dunque metafora dell’“altro”. Giacché allora nessun io e nessun mondo a sé: sospesi in un momento che è anti-storico e critico, sono mescolati in una unica “figura”, transeunte, sospesa e pluriforme, interna a qualsiasi differenza, poiché è differenza22. Ma qui, appunto, non basta più sospendere il giudizio, proprio e dunque anche altrui, secondo la logica di ogni dialettica inclusiva ed esclusiva, ma occorre che il sapere venga spinto verso la zona “esogena” del non-sapere: fino al punto estremo. Fino a che non venga messa in atto questa mancanza che marca. Sapere che implode, forse: oppure che per contiguità con i propri atti diviene per metonimia altro. Questo è il passo, allora, che rovescia il negativo altrove. Se il sapere va verso il non sapere, è molto importante allora ricordarsi il senso del rifiuto e dell’impuro che ogni discorso, autenticamente culturale e che affronta il linguaggio, condivide. Discorso poetico, come “simbolo” che lega la poiesis alla praxis dentro e fuori il gesto che carpisce il senso della verità. E anche discorso critico, come variazione radicale e totale di ogni ordine e disordine e come risonanza e postura di ogni strategia pragmatica. E in questa loro accezione 20

Cfr Daniele de Angelis, Sul volto III, ora nell’Antologia. Cfr Stefano Sanchini, L’uomo e i quattro elementi, ora nell’Antologia. 22 Il rimando è alla celeberrima nozione di Derrida, così tradotta nelle principali versioni italiane, cfr. La disseminazione, La scrittura e la differenza, la voce e il fenomeno etc. 21

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“originaria”, e fluida, s’avverte la loro confluenza verso la mobilità del sapere, fino ad oltrepassare il culmine del sapere stesso, appunto la fase negativa, il segno di crisi: rovesciando ancora una volta la prospettiva della visione. Da sapere a non sapere, certo. Ma alla fine è il non sapere, praticato fin alle estreme possibilità da ogni soggetto, soggetto a tutto il bene e il male possibile, che svela essere una delle tante immagini si cui il saper fare fa mostra di sé. Sapere e non sapere, ma anche sapere è saper fare: in questa concatenazione, risposta inavvertita e sempre all’opera dentro e fuori ogni dialettica io/mondo, abbiamo visto sospendersi come svuotato il giudizio. Sospeso, nello specchio di Dioniso. Ma si può dir meglio. Il giudizio è spesso una maschera. La distanza tra ogni io e ogni altro oramai è dentro l’immagine, come elemento archeo-logico, di quella figura pluriforme in cui sono mescolati ogni io e ogni mondo. Questa distanza, la dimensione del giudizio, è anche lo spazio in cui viaggia ogni doppio del giudizio: il valore. Ogni parola data, per definire, per giudicare, e anche rappresentazione di un rapporto, di una dialettica. O, se vogliamo, un’astrazione di simboli. E… come uniti da un doppio legame, valore e giudizio sono implicitamente mescolati in ogni azione, ma separati da ogni atto. E, sospendendo il giudizio, in atto nel suo momento di negatività, accade allora di frantumare anche la mediazione, ovvero sia l’immagine, dello stesso: il valore.

4. L’io-mondo: eccola, la figura. Appurato il senso originario del discorso poetico e del discorso critico, è nella prassi in atto, nella profusione tra la soglia del nonsapere23 e la potenza del saper fare che compare sempre questa figura. Come figura di sensazione, secondo una logica ben celebre24. In cui sia la poesia e sia la critica, in quanto pratiche, si riconoscono nel medesima “immagine riflessa”: in cui negativizzati, cioè spogliati delle loro evidenze, fluttuano valori e giudizi; immagini e parole sospese e reiterate, nella loro sospensione, in ogni atto di creazione. Immagini e parole, sospese e reiterate: ma secondo quale precisa prospettiva? Dove ricade l’occhio?

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Non sapere, con o senza “tratto” distintivo. Ma anche non potere: com’è chiaro il legame tra sapere e potere (ri)scoperto da tutto il grande lavoro di M. Foucault. 24 Cfr. G. Deleuze, Francis Bacon, Logica della sensazione, Quodlibet ed, Macerata, 1995.

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Tra io e mondo, non v’è, come detto, niente in comune sul piano orizzontale della comunicazione: niente in comune, o tutto in comune. Ma diciamo meglio: tra io e mondo non v’è simbiosi sul piano della comunicazione. Essi, sono degradati a figure della stessa comunicazione: figure, o “ombre”, della sua ideologia. «… ci crediamo superiori / al passato, ci autogiustifichiamo senza nome / del padre del figlio e dello spirito santo / confondiamo la morale col corrispettivo maschile / dell’umore, l’utile con l’utilizzabile / la bellezza vera col surrogato dell’estetica / il fine giustifica i media?25» Ma sul piano verticale della sensazione, invece… « … dietro di loro – c’è tutto un mondo / attorno solo da mettere a fuoco / e che guardandolo dà e prende fuoco. 26» Il segno del fuoco, in cui sono sospesi presente, futuro e passato, mescolati nella luce, dentro la luce, a favore della luce… dove è fatale il saper fare, che brucia ogni sapere, e ogni potere: contro, anche, se stessi. Verso una via di fuga, via del qui e dell’ora… «…Chi potrebbe accogliere l’ipotesi / che nulla è adatto all’uomo se non il sogno? / Non queste strade, non queste parole / ma solo il bisogno di altre? 27» Il sogno, che custodisce il senso del vedere e l’incanto di essere visti, da se stessi, come qualcosa di più di se stessi, di diverso. Di più grande della vita stessa: che è, come dire, sentire d’andare avanti, verso il soggettivo, ma come preannunciato, già oltre: già verso l’epocale. Eccola, la promessa.

Uno.

L’eresia. La poesia custodisce un segreto, l’incontro tra due dimensioni immemoriali della vita vivente: l’arcaico e l’anarchico. Dentro e fuori il linguaggio, in una risonanza dove ogni gesto ha spessore e riscontro, nel suo cadere altrove, possiamo ben dire come anche, ogni arte, verso la sua formazione di prassi, nasconde una sua risonanza critica: ogni arte, allora, si riflette come anche critica. Scioglie dei nodi, delle sinapsi, delle congiunture, già verso quel primo contratto sociale che lega nelle catene di montaggio 25

Cfr M. Zattoni, da Il mondo senza spettacolo, ora nell’Antologia. Cfr. M. Zattoni, da Levati i tuoi occhiali, anzi no magari… ora nell’Antologia. 27 Cfr D. Nota, da Lo specchio, ora nell’Antologia 26

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linguistico, il linguaggio al mondo. E verso il linguaggio, in primo luogo, ogni arte è critica: verso il linguaggio che ogni volta, come unica volta, unica chance, affronta. Andando contro il proprio tempo: rinviandolo, marcandolo. E sospendendolo nella figura del suo giudizio… in modo da far risuonare il proprio diritto a dissentire, e il senso del proprio delirare: «[…] 2. Eresia del corpo, come resistenza alla sconfitta storica e alla dissoluzione personale, che si eleva, in senso lato, alla condizione degli uomini deportati: “ benché morto e rimorto, debbo vivere” …3. Eresia del classico inteso come “il nuovo” come ciò “ che deve ancora avvenire “; questa la sola condizione per una vera Rivoluzione, che sia culturale, e non armata. Così da identificare i poeti, come gendarmi dell’Etimo. 28» Nella sospensione del giudizio e nella sospensione del valore sta la chiave che retro-flette la portata immaginifica, l’energia e il flusso di ogni atto del fare e di ciascuna sua concretizzazione. Poiché da qui, seguendo questa traccia, ogni punto di vista sulle cose si rovescia, anche, nel suo punto di fuga: e viceversa, producendo una amplificazione inaudita di tutto. Di tutto. Ma abbiamo già visto: il senso del rifiuto e dell’impuro, la risonanza politica di ogni atto, lo spessore critico di ogni arte, l’io-mondo… Modi del fare e del disfare, e non di dire: modi di fare esperienza della verità nel suo essere in errore29. Ma l’errore è la via dell’errare, del divenire. Ma procediamo, per ordini. Ogni arte è critica: dal punto di vista del linguaggio, della storia, delle idee, del tempo, della politica, della società… ovverosia, per esemplificare, dal punto di vista dell’altro: dell’altro che dice e che guarda. Ogni arte è critica: crisi messa in pratica sulle cose, sul linguaggio, dentro e fuori un mondo, uno spazio, un tempo. Ogni arte è critica: momentanea, soglia d’altrove, ricca di suggestioni ma sempre in procinto di diventare altro da sé, poiché continuamente fluttuante, essa, come detto, fa dell’errore il proprio viatico per andare. Per trasmettersi, totalmente. Ma questo, come detto, è il punto di vista dell’altro: la caduta nel tempo, della vita. Così come sono solo segni, risonanza di qualcosa di impresentabile, e straniero! Queste parole… 28 29

Cfr Loris Ferri, da Umanesimo eretico in O. Mandelstam, in La Gru n.3 La costante significativa del pensiero di Carlo Sini, cfr. L’enciclopedia dei saperi, Jaca Book.

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Ma qualcosa continuamente si fa percepibile, sempre: trasmettibile, nel suo senso di verità, nel linguaggio come sesto senso degli esseri… Cos’è arte dal punto di vista, e quindi anche di fuga… dell’arte? Questa domanda è il principio; ma il principio, nel nostro caso, è il rinvio: è il rimbalzo. Il doppio e la rovina. Questa domanda apre all’eresia come senso della verità: nello spazio e nel tempo, tra io e mondo. Forse è stato già percepito,ma stavolta, allora, è bene ribadirlo: è arduo, difficile, spesso vano, attaccare il linguaggio con il linguaggio, come a formare un circolo. E forse, vizioso. Ma a ben guardare, è una situazione un po’ diversa, per ora, dall’immagine del cerchio, che continua però a non infrangersi. Il linguaggio, è stato detto, e spesso fatto, è la casa dell’essere: non c’è che ringraziare, non da meditare30. È, allora, anche, per metonimia, una terra, una patria. E da qui, possono nascere, e ci sono, le lingue dei territori: abitate da voci. E da moltitudini. Si può anche ben dire così: il linguaggio è cultura. Dentro e fuori le cose, è il valore del tempo. Il valore che dona il tempo: ogni tempo storico. Ma guardiamo stavolta noi, bene, dentro e fuori il linguaggio… cosa vediamo a tutti gli effetti? Forse continuamente dei resti, una archeo-logia di resti, una visione di un perpetuo passato, in cui ogni presente è astrazione… Nulla di più, nulla di meno. L’attimo e l’evento non lasciano tracce. Ma forse, per vederle, in realtà noi abbiamo bisogno di uno sguardo diverso: che non guardi sulle cose, ma tra di esse. E cosa vediamo, allora? E come? La cultura è l’aria del tempo, di ogni tempo: l’aria che respiriamo. Il linguaggio è invece, come detto, del tempo il suo valore: il suo indice. Ciò che, allora, segna le cose: in quanto parole. Ed è chiaro, certamente. Nella più piena evidenza, noi parliamo le parole: parole che parlano una storia che appartiene ad altre epoche, ad altri eventi. Una storia inorganica al presente

30

Cfr la geniale è al contempo catastrofica, equivocata, tesi di Heiddegger (sulla relazione linguaggioringraziamento cfr. Che cosa significa pensare)

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che rappresentiamo: una storia morta, come in eterno, che vivono solo le pietre e il vento. Una storia che noi, con queste parole, facciamo rinvenire. Parole sempre postume, allora. Ma si può dir meglio, forse. Parole, testimoni di una sopravvivenza: noi, sopravvissuti a ogni testimonianza. Per parole, come per ordini ben scanditi, e precisi. Ma, a ben sentire, solo l’eco è percepibile: specie con gli occhi, muti; o forse è meglio dire nel silenzio, che s’avvertono come resti d’altrove, di uno spazio estraneo e di un tempo estraneo, ogni volta, oramai, quelle parole. E fin qui colpisce, l’evidenza del segno. Ma una cultura del linguaggio può anche professare questo credo, in piena autonomia: il credo di segnare le cose in quanto cose. Fino all’estrema identificazione: il linguaggio, oltre che come casa, anche – e forse grazie a questa identificazione – come cosa dell’essere. Come cosa: in sé, per sé, a sé. Si è letto? Come casa e come cosa. Siamo in piena metafora, o meglio: in pieno principio metaforico. Nella somiglianza, nell’analogia: nel medesimo spazio che “corre”, per così dire, chi percorre il linguaggio. Come casa e come cosa… segnare le cose in quanto cose. Qualcosa non torna, ora. Come fare? O meglio, come guardare?

2.

Ma le “cose” – i fenomeni, i fatti, le presenze – non sono. Non sono. Come si sa, forse da sempre; ma come certamente ci è stato insegnato, da poco più di un secolo. Non esistono i fatti: ma solo le interpretazioni. E questa, sia chiaro, è una affermazione fuor di metafora. Le cose non sono. Il che è come dire che saranno e sono state: eternamente da venire e da vanire, dentro e quindi fuori la parola… del mondo. E dentro e fuori il mondo della parola. Le cose saranno e sono state: dallo stesso punto, dallo stesso momento, dalla stessa “parola”. Ma ancora, e con maggior precisione…

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Le cose sono dette dalle pratiche: abiti che le vestono. E che le significano. Come da un bel po’ di tempo spiega la filosofia 31. Il linguaggio è; le cose non sono. Ecco, allora, gli ordini. Ed è da queste premesse, che da sempre, parte la promessa del poema della vita vivente e immemoriale. Poema che svela i nodi e le aporie del nostro cammino, in canto. E allora torniamo, per ora, sulle nostre tracce: sappiamo di più come muoverci. Ma possiamo ora indovinare anche dove guardare. Il linguaggio è casa e cosa dell’essere. Due affermazioni vere: testimonianze praticate, che hanno un loro fondamento. Può sembrare strano, ma davvero una verità, qui, non esclude l’altra. Poiché qui parla il medesimo senso della verità. Ed è questo il punto. Al che se noi si dice il linguaggio come casa dell’essere e il linguaggio come cosa in sé, l’assoluto dell’essere, trascendente o materialista che sia, siamo, e permaniamo, in una verità che ha il suo senso e il suo fondamento nel linguaggio stesso. Ecco, il come cosa e come casa sono modi di dire del linguaggio: figure di esso, legate ad esso. Tutto ciò, sia chiaro, non nega l’evidenza: che il linguaggio è. Ma va, facendo quel che abbiamo fatto, e cioè un ritorno sulle nostre tracce, ancora insaziabilmente avanti. La figura della casa: l’ oikos, la dimora. In tutte le sue forme, compresa quella principe, la parola: la parola come dimora della voce. E questa è senza dubbio un’immagine. Ma ecco, tornando alla “casa”… È così che abbiamo un paesaggio, un nostro orizzonte, via via più definito: la terra che percorriamo, l’aria che respiriamo… fino ad incontrare le prime costruzioni, i primi lavori in corso… e i primi gruppi di lavoratori: che parlano una lingua a loro comune, costruita nel tempo. È il loro primo linguaggio: fatto di gesti, di nomi, di voci. È una terra, ma anche a ben guardare un insieme di territori: poco più in là, a margine, altre comunità producono altre costruzioni, altre azioni: altri gesti, altre voci, altri nomi… È una terra sì: ma anche una patria, un continente di condivisione di vite. Di vite e di vissuti. 31

Cfr C. Sini e tutta la sua Enciclopedia dei saperi, edita per Jaca Book.

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Tutto ciò però ha consistenza, o meglio, lo esige, implicitamente, poiché lo si esperisce, questo insieme di intrecci, per lo più nei modi e spesso in modo inavvertito: come lo è dal punto di vista di ogni vissuto. Lungi dal conferire verità come quantum d’assoluto alla “cosa in sé”, essa la diremo vera nel legame con la verità del senso del linguaggio: almeno, con una delle sue verità, la consistenza. Così ogni parola vincola la cosa: ogni cosa, la parola. E così si può arrivare al linguaggio come cosa stessa. Ma come è stato detto, ed ora è chiaro, lo abbiamo iniziato a vedere: casa e cosa, nel loro legame con il linguaggio e l’essere, sono figure dello stesso linguaggio, e dell’essere. Ma possiamo anche aggiungere una postilla, eventuale. Per rendere più chiara, ancora, la visione, possiamo pensare casa e cosa dell’essere – così diciamo in altro modo il linguaggio – anche come valore e giudizio dell’essere. Si può, è possibile? Certamente opinabile, ma certamente, anche, è un modo di dire il linguaggio ancora coerente al linguaggio stesso: perché è modo di dire, perché è modo metaforico. Coerente ai due già storici modi di dire. E di fare, anche. Valore e giudizio dell’essere: forse così l’immagine inizia a definirsi. Il dentro e il fuori iniziano a intrecciarsi e a stratificarsi sulla nostra immagine, fino quasi a farla diventare quel punto di vista e punto di fuga del mondo. E dunque, iomondo. È stato detto, e scritto: dentro e fuori le cose va il linguaggio. Questa affermazione, sappiamo ora, è vera: nell’ordine della stessa consistenza che produce il linguaggio. Ma c’è qualcosa di più, che si nasconde… Dentro le cose… cosa c’è? Cosa si vede? Abbiamo detto, cosa e casa, insieme a giudizio e valore. Ma ora aggiungiamo: esteriorità ed interiorità. Dentro le cose, v’è possibilità di sostare: v’è la forma e lo spazio della casa. Di luogo e di transito. Fuori le cose, v’è… alla fine… ancora l’immagine della casa: il linguaggio come – si sa – casa dell’essere. E viceversa, quindi: dentro la casa, le cose – i suoi elementi – e fuori la casa, cioè fuori dalla forma e da quello spazio in cui sostavamo, come in transito, di nuovo cose. Questo, a ben guardare, è la situazione del linguaggio. O, se vogliamo, l’

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“essere del linguaggio”. Ma qui l’ “essere” stesso, è preso nella sua verità dell’essere in errore: nella sua formazione storica, o meglio storio-grafica32. Essere, cosa, casa… figure del linguaggio, allora. Ma dietro, anche, alcune figure più profonde, e più nascoste: l’interiorità e l’esteriorità; il dentro e fuori le cose. Ma da qui, quindi, manca solo un tassello… Abbiamo detto, è stato detto: le cose non sono. E poi, le pratiche sono gli abiti delle cose. Abbiamo detto, e poi rincorso, con queste parole, le parole essere, cosa, casa, interiorità, esteriorità… rincorso in un percorso ad ostacoli, che nel suo groviglio s’interseca e si lega: in sentieri interrotti, portandoci in un bosco. Un groviglio, un geroglifico di linee: linee legate in uno spazio… astratto: in una idea di linguaggio come simbolo e continente, che lega. Un’idea, un’immagine: che rimbalza e fa eco, da altro a altro. Ed è forse che così questa immagine diviene sempre più simile ad un circolo: in cui anche rovesciare una figura è lecito, è pre-vedibile. È di norma. Rovesciare, maltrattare etc. tutto è reso nei modi propri percepiti dentro questo circolo: risposte ai martellamenti e ai rumori che ciascuno di noi produce fuori. Tanto che noi se non ci producessimo in questo baccano avremmo l’impressione di non percepire quel circolo… e magari per nostra astrazione avremmo anche la presunzione di non farlo esistere. Non avvertendo invece i segni di questo circolo che invece ogni volta qui passa, e ci trapassa. Ma abbiamo detto, e iniziato a vedere… ma ora iniziamo a vedere meglio: o meglio, pratichiamo un saper vedere. Verità come senso della verità e verità di un senso continuamente intrecciati: questo è stato ed è un primo passo33. Ed ecco, quindi, le figure del linguaggio… Essere, cosa, casa… e ora interiorità ed esteriorità: con queste nuove figure, scopriamo ancora un riflesso, sempre all’opera ma sempre inavvertibile, della strategia del linguaggio. Un riflesso: o meglio, una complementare immagine del suo senso, una complementare verità della sua dimensione molecolare.

32 33

Cfr ancora Carlo Sini e quell’opera capitale che è L’etica della scrittura. E in tutte le sue conseguenze, la più evidente è la non identificazione dell’oggettività con la verità.

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Perché lo abbiamo detto: le verità del senso di definizioni come quelle che vedono il linguaggio come casa e cosa dell’essere non essendo in contraddizione – perché continuamente praticabili, perché legittimate nel fondamento e nei principi stessi del linguaggio – aprono al senso della verità del linguaggio. Il linguaggio come sesto senso: il linguaggio dal punto di vista e di fuga del linguaggio. Come in un chiasmo, che svela una incorporazione: le verità del suo senso e il senso delle sue verità si producono come prassi che intreccia qualsiasi discorso… e che, nel momento, dice le cose. E l’immagine ora sta divenendo più netta… Fuori e dentro le cose, e non più la cosa, v’è il molteplice: quell’urto, quel rimbalzo che produce rovine e fa indietreggiare, portando indietro, per la potenza della stessa onda d’urto, lo sguardo. Ma fuori e dentro le cose è un movimento che in realtà produce le cose: le segna come parole e ne dona le immagini, il loro fuori, la loro consistenza; e il loro dentro, poi… nel residuo di tracce e delle evidenze di quelle tracce che lascia il molteplice. Dentro e fuori: due fasi del movimento che è tra le cose. Che nella distanza dà, agli occhi dell’altro, la presenza e l’immagine delle cose. Ecco, allora, tutta l’immediatezza della presa, e della resa, di uno sguardo analitico: che scompone e ricompone, nel suo saper vedere, senza soluzione di continuità. Fino ad articolare il divenire nulla, ovvero la prassi continua, di sé stesso: come sguardo che sorvola e amplifica. Fino ad essere microscopio interno alle cose… fino a rivelarne il loro essere, anche, insieme frammenti inconciliabili riuniti dal caso e per ordine incidentale. E questo sguardo svela, ogni volta, l’inconsistenza del linguaggio come altra verità del suo senso, “corollario” del suo essere. È chiaro, allora: se il linguaggio è, perché è consistenza, come cosa in sé, viceversa, non è. Perché è inconsistente. È chiaro: come una immagine, da prendere nella sua lettera, fuor di metafora. Il linguaggio non è ed è, allo stesso tempo, come ci disse ancora il pensiero più avanzato34. E continuamente dice nulla e altro da sé: disseminando segni e disegni un po’ d’ovunque.

34

Cfr Jacques Lacan, e in particolare Gli scritti

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Ed ora è chiaro: nel rovesciamento di prospettiva, casa e cosa, essere, interiorità ed esteriorità sono immagini e presenze, o se vogliamo le cose, che lo stesso linguaggio, in quanto pratica, veste e significa. Nella sua a-temporalità cronologica: negli atti, in un continuo movimento di incorporazione totale. Qui, è ribattuto il sentiero: siamo tornati indietro, abbiamo visto la strada, ne abbiamo fatto un’immagine e una proiezione. O meglio, una soglia: una descrizione in atto.

3.

L’arte dal punto di vista, e di fuga… dell’arte. Qui tocchiamo il punto di massima cecità, dentro la luce. E di massimo rischio d’annichilimento. Ma tutto, allora, è qui da percorrere fino in fondo. Ci siamo già chiariti, per una questione: l’arte è critica, in tutte le sue varianti. Da ogni punto di vista la si guardi. Ogni punto, eccetto il proprio: il proprio guardarsi dentro. Abbiamo poi detto e ripercorso alcune tracce grammatologiche proprie del rapporto del linguaggio con la realtà: fino a che la loro simbiosi ci ha rivelato come ogni prospettiva essenzialista sulle cose sia riduttiva. E come, se percorso fino in fondo, il sentiero del linguaggio, intrecciato con gli spiragli della realtà, porti fuori qualsiasi groviglio: facendo dell’intuizione un fine oltre che una fine, e arrivando diritti alla percezione di essere nel continuum del proprio prodursi in pratiche. Così che il linguaggio proprio derivi dalla storia della cultura e ogni volta s’intrecci con essa, in pratica: come se dal punto di vista di noi altri che lo parliamo come cosa e lo viviamo come casa delle nostre abitudini, non riuscissimo, se non quando riusciamo a vederlo, a pensarlo come quel che è: in maniera anti-essenzialista. Aria più vicina a noi, ma più densa, più pesante, più contaminata: ma ancora una volta, fuor di metafora Così che il linguaggio sia davvero soglia: quello specchio di Dioniso che l’iomondo non abita più, ma di cui lo stesso linguaggio è abito e segno: di immagine, di presenza e di crisi.

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E ora andiamo fino in fondo all’eresia: e cioè, viaggiamo sul movimento che va dal fondo di un problema fino al suo riflesso in immagine, in superficie. Può già essere utile una indicazione di partenza: spostare, intersecare, congiungere e ridividere i molteplici piani che rinveniranno nella nostra azione. O meglio: estendere senza soluzione di continuità uno sull’altro e uno con l’altro questi piani, che troveremo nella nostra rigorosa ricerca del fondo. Ma tutto accade, appunto, come in uno specchio. E questo specchio, si sa, è la via che ci apre alla fonte, da sempre. E qui, occorre ritrovare la risonanza “analitica” del nostro sguardo. Abbiamo detto, e abbiamo visto: lo sguardo “scompone” e “ricompone”, fino a trovare nel nulla messo in pratica l’unione tra frammenti inconciliabili venuti d’altrove delle cose stesse. Ma diciamo ancora meglio: lo sguardo analitico è cieco nella sua ricerca, poiché alla fine s’imbatte in una soglia che svela il nulla interno ed esterno delle cose, e si lega – in questo frangente, come si lega sempre – al circolo dei nostri saperi: per trovare quello che non si cerca, per cercare quello che non si può trovare, come un vero e proprio saper vedere. Lo sguardo, quindi, confluisce nella sensazione viva e ogni volta immemoriale dell’io-mondo. Ed è grazie allo sguardo, al pensiero che si fa sguardo, che testimoniamo fino alla cecità, che osserviamo, in fondo, resti; resti di cui sono fatte e disfatte da sempre le cose: una archeo-logia dell’orizzonte che già vede lo sguardo, nel suo tramonto, nel suo punto cieco – punto di vista e di fuga dal mondo – farsi oggetto fra oggetti. O meglio resto fra resti. E in questo non esser più in nessun rifugio, in nessuna casa, continuiamo a seguire delle tracce… Con questo sguardo analitico alla fine sappiamo che le cose non sono: lo sappiamo ancora una volta. Ma sappiamo ancora qualcosa di più: di un legame, al fondo di quella fonte che è il mondo al nostro specchio, che c’è tra sguardo e cose, in questa soglia della negazione, del rifiuto e della resistenza. In questa soglia che dice, ancora, il senso del rifiuto e dell’impuro come verità del nostro guardare e partecipare al mondo e agli eventi. Sguardo e cose, legati…

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E qui affondiamo nella verità della domanda che produce il principio: cos’è arte, per l’arte35. Leghiamoci quindi allo sguardo… Se le cose non sono, e lo sguardo è cieco nella sua ricerca, al fondo, come fa a prenderle? Come quando si parlava di linguaggio, e del fondamento dell’essere, della cosa e della casa, il problema in realtà non sussiste, se non come riflesso e immagine di una prassi ben più radicata nell’anomia dell’atto del fare. Anomia, come avrei potuto dire nichilismo, o anarchia. Lì, perché quelle figure sono vere, abbiamo appreso che il loro fondamento sta, dimora, nel linguaggio stesso, che è la loro dimora ma che al contempo, essendo prassi, non è che continuamente in potenza, in atto – il che è come esprimere il legame della sua consistenza e della sua inconsistenza eterne. Qui, lo sguardo, s’è detto, si mette in circolo con gli altri saperi, e quindi con le altre pratiche, quando ha affondato nel nulla stesso delle cose, e cioè nel loro cuore. Ed esse, le cose, in questo movimento, sono sempre in procinto di diventare altro da sé: nella trama del mondo, toccate da altri oggetti, acquistano, nella loro risonanza critica, altre sfumature… E quindi: lo sguardo diventa altro, e cioè un sapere. Ma anche, come lo è da sempre, le cose diventano altro. E lo sguardo, nel suo silenzio, ce lo dice da sempre. Salta allora la mediazione tra oggetto e sguardo: fino in fondo alle cose è un falso problema quello di prenderle, essendo già noi, in questo rovesciamento, oggetto fra oggetti. Noi, quando siamo presi in quest’anomia dell’atto del fare che ci fa perdere, e sostare momentaneamente, nel bosco del linguaggio. Salta la mediazione perché abbiamo il linguaggio come nostra soglia: e l’oggetto e lo sguardo, come detto, sono ambedue cose tra cose, sospese come in uno specchio, senza distanza verificabile tra esse. Salta la mediazione, quindi. Ma cresce, silenzioso, anche qualcos’altro, allora.

35

Cfr. anche Giorgio Agamben, in L’uomo senza contenuto, in cui si parla di questa domanda capitale, già posta da Nietzsche (un’arte per artisti…)

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In accordo col senso delle cose stesse e dello sguardo, sappiamo con certezza che il non essere delle cose qui, e altrove, è da intendersi come l’attraversamento della soglia. Dal punto di vista allora, e di fuga. O più precisamente, dal punto in cui il linguaggio sia ridotto proprio ad immagine di soglia. E questo punto non può che essere di vista nello stesso tempo della propria fuga: la cui massima intensità non può che essere un punto cieco. E questa soglia non può essere che la porta aperta sull’io-mondo: o, se vogliamo, ora, lo stesso specchio di Dioniso36 in fieri. Ecco, allora, il cuore della questione… Ogni atto convoglia i sensi, ivi compreso anche il linguaggio, che dona il senso della creazione: e li coinvolge nella sua sensazione, nella sua profusione. E nemmeno lo sguardo ne è risparmiato, anzi… È proprio nell’atto del fare che lo sguardo, in ogni dinamica, prende forza e intensità, fino a coinvolgere nel suo andare a fondo, tutti gli altri sensi che intervengono. Il suo punto di massima intensità s’acceca, s’inabissa: e questo lato negativo diviene comune a tutti. Lato negativo in cui le cose sostano: ma non cambiano di segno, bensì, come si sa, si sospendono. Ed ecco il punto. Quest’estrema intensità apre alla visionarietà dello sguardo: o meglio, è lo sguardo che in questo punto cieco, quello che attraversa, libera visionarietà iridescente. Straniera: che rende le cose nella loro coerenza, per quello che non sono: dal loro nulla interno, comune al nulla dello sguardo, al loro nulla esterno, comune al vuoto momentaneo del loro segno; ma in un movimento che tocca altre cose, altri fenomeni, altre storie… in una vicinanza diffusa tra oggetto e oggetto, ivi compresi noi stessi. In un orizzonte che via via completa i suoi elementi e la sua archeo-logia che dona un mondo. Ed ecco, quindi: le cose non sono. Che è anche come dire, le opere non sono. Anche. Le opere. Le opere non sono solo opere, se le guardiamo, o proviamo a guardare, nell’ottica nei nostri atti, e fino in fondo, dentro le nostre pratiche. Eternamente in circolo, esse aspirano di più ad essere quello che sono: perché ogni gesto è confluenza di infiniti piani trovati, strategie e rimandi, infinite risonanze. Infinite, come si sa, sono le interpretazioni: che è come dire, anche, che

36

Cfr Gianluca Pulsoni, Lo specchio di Dioniso, in La Gru n.3

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infinite sono quindi le cose, e i loro rimandi. Noi tra essi: né dentro né fuori. Ed ora è chiaro. Così che allora, il senso, o meglio la verità del senso del nostro fare porta a questo: a leggere e vedere le opere in quanto cose e… in quanto cose, continuamente in fieri. Ma più precisamente, la verità del senso del nostro fare confluisce nel senso della verità che porta ogni nostro atto: nel segnare con la visionarietà ogni stesso atto, nel credere alla sua immanenza perpetua, nel rovesciare continuamente la prospettiva, nell’intensificare ogni modo del fare per non ricadere in un modo solo di dire, e di essere. Nel rovesciamento di prospettive, appunto: in cui un’opera non è solo un’opera, così come s’intendeva il dionisiaco37dello spettacolo. Un’opera, come detto, che non è solo un’opera: così come un mondo che “non è” solo un mondo. Poiché è e non è un mondo: poiché, appunto, le cose non sono. Ed è in questo stato che si muove l’arte. E che si vede, in quanto attività. E appunto questa la dimensione dell’arte dal suo interno: fluida, pericolosa, transeunte, piena d’apparenze che nasconde… questo allora è il senso, e le verità di esso, legato ad ogni atto del fare. In cui ogni cosa è anche altro, per necessità e per arbitrio. Questo, in fondo, la verità del suo senso. E allora qui s’esprime l’eresia nella sua prima istanza: nel cercare di tradurre la verità del senso dell’arte, dal punto di vista dell’arte stessa. Dopo che ogni comunicazione è saltata o è diventata barriera. Tradurre questo senso, qui ed ora. Ma grazie a quali vie? Le vie sono molteplici, è chiaro. Ma lo sfondo dovrebbe mantenersi sempre il medesimo: quello etico e nella fattispecie dell’etica della scrittura. Dal canto nostro abbiamo abbozzato, nel nostro lavoro, un disegno. Legato alla traduzione, parziale e momentanea, ma tentata, di questo senso capitale. « […] Così è la prospettiva pragmatica, contro il punto di vista “etnocentrico” di uno studio semantico. Così la tradizione contro la comunicazione. E nella cancellazione della linea del tempo e nell’ampliarsi dell’orizzonte dello spazio, postulare come letterale pre37

Cfr la prefazione di G. Colli a Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi ed. E soprattutto la nozione greca di spettacolo a cui Colli allude.

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testo “contro la comunicazione”, vorrebbe intendere spoliare l’assunto da qualsivoglia possibile equivoco: la poesia non è nell’ordine del quotidiano e delle idee, ma in quello “extraordinario”dell’emozione e del sentimento. Non comunica, non ha bisogno di “messaggi”. Essa “tocca”. E la vita della tradizione è proprio ciò che la porta “in superficie”: la creatività “poietica” che grazia ex nihilo ed ex novo il linguaggio. intima come l’alterità, irriducibile alle singolarità. Ed è appunto che è solo col porsi “contro” la comunicazione che si “dice” l’ “Altro”, lasciandolo parlare. Così, l’orale non cesserebbe; forse, non l’ha mai fatto. Ma questo, allora, ci aprirebbe ad un inquietante e arcaico enigma, “proprio” del fare poetico: che la lingua, “prima” di essere nell’ordine della comunicabilità, rientrerebbe nell’ordine della creatività. E con più “forza”38»

Ecco, fino a che si scapoli il linguaggio nel suo essere primo e avanti a tutti. Così che ogni volta, ogni io, tenti di guardarsi al proprio specchio, nella propria introspezione, per prima leggere ma poi vedere quanto davvero ci manchi ad essere. E quanto, dal vero, siamo anche altro: parte dell’immagine che a mano a mano vediamo e attraversiamo, allo specchio. Parte necessaria e ogni volta arbitraria di quello specchio in cui il dio vede, come riflesso a sé stesso, il mondo. E in cui il mondo, circonda e forse guarda, come l’eterno suo doppio, l’uomo. Fino a che la rete prenda entrambi i suoi poli in un’unica icastica figura, che è sensazione: che è io-mondo. Questo, come detto, è lo stato che riguarda l’arte dal suo punto di vista. E di fuga. In completa furia, e amore, nei propri atti: fino a far saltare tutto, anche, oppure a sospendere tutto. Ivi compresi i giudizi e i valori. Ed ecco il punto. L’arte è anarchia: la sua prassi è anarchia, perché è sospensione dei giudizi e dei valori, continuamente in crisi: è un precipitare, ma alla fine un rivolgimento in atto che fa il verso all’origine. È la sola chance: di indovinare nella curva della vita la propria avventura: come la vita e la propria opera d’arte: la propria esistenza come propria proprietà. E tra storia e utopia s’inarca, da sempre, l’avventura. 4. Nelle pratiche siamo eternamente: sono sue figure l’entrata in essa e l’uscita da essa. Tutte e due figure della soglia.

38

Cfr. G. Pulsoni, da L’invenzione della tradizione, in La gru no. 1.

30


Abbiamo detto: l’eresia è cercare di tradurre non le opere, ma la verità, o le verità, del loro senso. Tra io e io: tradurre quelle verità che sono l’Altro, il loro non essere: il loro diventare altro. Così come questo senso lo è del mondo. Forzare allora la propria lettura: anche a costo dell’oblio, o del plagio, come molta grande letteratura ci insegna. Forzare le cose per tradurre il senso, e dare giustizia ad ogni operato, in cui opera e operazione co-esistono: in quanto, in primo luogo, energheia, energia in liberazione e dissipazione. L’eresia allora come deviazione della dialettica io/mondo: come riduzione della comunicazione a dispersione di segni e disseminazione di figure. Ma l’eresia, ora, come ritorno sui propri passi, i precedentemente praticati. Come movimento a ritroso: il nostro, come sempre. Dietro e davanti le spalle: qui, ora, non fa differenza. Poiché si tratta di un ritorno. Per capire, ogni volta, una esperienza che ci attraversa. Per capire, certo. Ma si può dire ancora meglio: per carpire di quella esperienza la via, il cammino, la strada. Che attraversi il bosco del linguaggio. Abbiamo detto: l’anarchia come rivolgimento all’origine. E vediamo ora cosa troviamo, in questo ritorno… ogni volta, sui nostri passi percorsi e ripercorsi, sempre titubanti, lasciandoci alle spalle i nostri propri pensieri e le nostre sensazioni. Ma proprio alle spalle? È lì l’origine, e dietro di noi è la via dell’eresia? Per praticare una via abbiamo bisogno di tracce. Abbiamo le nostre, certo. Ma nel cammino, più si va avanti, e più aumentano le incertezze e le scoperte: più si va avanti, lo si è visto, e più si sospendono il giudizio e i valori, poiché continuamente li si esperimenta. Ci sono allora le tracce. Le nostre. Ma non solo. Le nostre, come quelle di altri, di tutti gli altri. Più fresche, meno battute, ma sempre confuse: miriadi nella loro somiglianza. Tracce che come al solito si perdono nel bosco, e che noi vanamente e stupidamente cerchiamo di ripercorrere. Come tutti coloro che guardano i segni cercando di identificare di chi siano, e non dove portino. Ma il franco cacciatore ha lo sguardo un po’ più acuto. E forse, vecchio, è un po’ più cieco, di fronte a queste tracce. Egli vede qualcos’altro: forse per esperienza e non proprio per cecità.

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Vi sono delle orme: qualche animale è passato di lì. È dentro il bosco, o forse ne è già fuoriuscito. Ha lasciato impronte, “orme” che il franco cacciatore segue accanto: che non ripercorre, per non rischiare di deformarle. Non ha senso, è chiaro. Le riconosce un po’: ha bisogno di seguirle per capire in primo luogo dove portino. Così conosce, lui, gli animali: ma ha bisogno di conoscerne le orme per saperli, da qualche parte, presenti. O magari assenti. Ma allora deve seguirle un po’ di più. Per trovare davvero in quei luoghi che vede gli animali che ha intuito aver lasciato quelle orme. Come magari un dono: e lo sono, così, le orme. Per ogni franco cacciatore… Così la Tradizione è un’orma. Come molte altre idee praticate, in quanto cose. Ma c’è di più. Essa può moltiplicarsi, fino a disegnare una via. Dipende dalla scelta e dalla velocità di ogni animale, per non essere preda: appena esso sente un pericolo, fugge via: magari nascondendosi nel bosco. E la via che si traccia è l’eresia: il rapporto muto e vivo che il franco cacciatore ha con le assenze degli altri. Non può comunicare con gli animali: è risaputo. L’uomo è dotato di linguaggio incomprensibile agli animali: lo si dice da sempre. Eppure, grazie alle loro orme e ai segni da loro emessi, intrattiene con loro, gli animali, un rapporto speciale fatto di grande attenzione ed empatia, stando accanto ai loro sentieri. Ai sentieri dove loro portano. La Tradizione, dunque, sta ogni volta in un’orma e in una via: in un movimento che mette in dubbio, passo dopo passo, giudizi e valori, i nostri. Tanto grandi sono ogni volta le scoperte che si fanno: che quelle orme, e quella via, ci danno. Come un dono. E qui, come detto, non è più importante capire se siano dietro o avanti a noi. La via la si segue, accanto. Ogni volta è varia; ogni volta è possibile. Dipende dagli animali, e dagli altri cacciatori che si sono incamminati prima di noi. Essa, più propriamente parlando, la si mette in pratica. La si interroga. Sicché è naturale anche astrarsene, soffermarvisi molto, attendere altri segni ed echi: poiché la scoperta è sempre dietro l’angolo. Ma bisogna, se si vuole la preda, cercare, e continuare a farlo: ha un vantaggio di tempo su di noi, che è già passato. E che tentiamo, allora, di colmare. Orma e via sono quindi dei doni, come detto. Tradizione ed eresia: detto in altro modo.

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Doni, o anche, se vogliamo eredità. E qui si tocca la seconda istanza “eretica” del nostro voler dire e fare gruppo, comunità, collettivo. E rivista. Eresia nel suo essere via dell’eredità, essere per una eredità. Così allora il franco cacciatore, che segue i segni, le orme e la via. Ora gli è chiaro qualcosa che aveva da sempre solo intuito: di non essere solo. Altri cacciatori vi furono prima di lui, o forse già avanti. E forse ancora qualche loro traccia, accanto alle orme, egli riuscirà a trovarla. Ora le può distinguere, ha capito che la sua intuizione era una felice e primitiva osservazione di altre tracce, accanto alle orme che seguiva. E ne ha imitato il modo. Ecco, egli fa tesoro di quelle tracce che gli illuminano le orme. Se prima lo percepiva, ora lo sa. E ha dato nuovo lustro a questa intuizione: che è un atto del fare, è chiaro. Quel cacciatore ha lasciato la sua eredità: non importa se è vivo o morto, se è lì o altrove. E non importa allora neanche il suo nome, poiché qualcosa ha lasciato. E in quel qualcosa lui s’è ritrovato. Ma il cacciatore, che osserviamo, non ha in eredità solo le vie e il lavoro concreto di altri cacciatori: che può verificare ogni volta, poiché può vedere dove, quelle tracce accanto alle orme, portino. Egli ha e continua ad avere in eredità ciò che la sua stessa prassi gli fa, mano a mano, scoprire: la via, l’orma, le tracce, i segni emessi dagli animali. Certo. Ma anche quell’attenzione, e la sua postura, e i suoi modi, che lo fanno muto e osservante con grande rigore: sempre in procinto di mettersi in cammino, ora forse un po’ più sicuro delle sue azioni. O forse, ha solo iniziato a percepire un mondo che si muove costantemente, e silenziosamente, con lui. Da sempre, ogni volta che un gesto si compie: ovvero, si attua. «[…] E’ necessario ritrovare un’eredità perduta, sepolta. O di nuovo reinventarla. Partiamo dal niente, senza mezzi, senza capacità. Con un grado di istruzione risibile rispetto ai nostri predecessori. Ma a muoverci è una necessità talmente fisiologica di salvezza dall’ inesistenza quotidiana, da apparirci più convincente di ogni giustificazione teorica. Scavare, studiare: trovare nell’abisso fratelli e padri. Per l’ennesima volta autoproclamare il nostro diritto di essere vivi. Se non nella vita frustrata dall’epoca, per lo meno nell’opera, come barlume di speranza, come consegna di una rinnovata memoria, perché tutto questo sopravvivere non sia definitivamente vano. Riniziare quindi dalla vita, oltre lo spettacolo di massa: parlare ed ascoltare l’esistente, la realtà (interiore e condivisa), negare ogni tabù politico o estetico: continuamente vivi, aperti, spalancati. […] 39» 39

Cfr Davide Nota, L’eredità, in La gru n. 2

33


Ecco. Anche nella letteratura, poiché è, lo si sa ora, prassi. O meglio, discorso di una prassi ben precisa: e dunque di una etica, in un continuo intreccio e intrico. Come il franco cacciatore, così il poeta, e l’umanista. Così l’intellettuale, il filosofo e il letterato. Così l’uomo, in quanto essere-in-pratica e in quanto corpo. L’eredità, allora, come continua trasmissione di elementi: tutti in gioco, e nelle nostre mani. E che ogni volta uniscono e sovrappongono il passato, il presente e il futuro, come diversi tempi estesi. In un unico orizzonte, mutevole, sospesi. E noi, sulla soglia, che guardiamo e avanziamo verso quell’orizzonte come il franco cacciatore: come un compito da adempiere, la nostra preda, una promessa tacita a quanti sono venuti – è nostro dovere – e soprattutto a quanti verranno – è loro diritto: lasciare le nostre tracce come parte fresca, e viva, del nostro bagaglio. Ed è, allora, che il nostro dire è giusto, coerente alla nostra pratica: vicino e continuo al nostro fare, come nostra – di tutti, di chi era e di chi sarà – promessa di ricchezza. Ogni volta accanto al loro fare e non al loro essere, continuiamo osservando. Che è anche, ogni volta, una premessa di ricchezza: tacitamente, continuamente vissuta. L’eredità, allora, come tesoro.

Uno.

Il poema. L’anarchia è lo stato della nostra prassi: l’anarchia nella verità del suo senso. Ma come risuona la nostra prassi? Per quali accenti e colori? È di risonanze arcaiche, la poesia. Ma l’origine, ogni volta, è il cuore del quotidiano: il cuore del linguaggio come prima istanza degli esseri. E da qui, arrivano tutte le coloriture possibili, dalla perversione patita del quotidiano, «E allora prepariamoci tu ed io / per questa sera giù alle fabbriche / fra le selve di lamiera / dove si balla sincopati col piglio / dei cani rabbiosi40…», alla pornografia come quotidiano

stupore41. Fino a quel legame totale che lega, nei versi dell’animale uomo, la poesia con il sangue, inavvertito e vivo come qualsiasi evento dell’esistenza: « … La circolazione del sangue, il limite…/ la cittadella del serpente / quando il paese si trasforma in anarchia / e scende ripido verso la discesa / con forbici enormi nelle mani / quando il

40 41

Cfr. Simone Lago, da Un piano per il sabato sera, ora nell’Antologia. Cfr Davide Nota, La doccia, ora nell’Antologia.

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singhiozzo era una lacrima / e un fiore che esplode riscalda i fratelli, / la psicologia stretta fra le labbra / quando forse era troppo tardi / io me lo domando…e tu? 42»

Ecco. L’incontro tra arcaico e anarchico, nell’intreccio della prassi, dà risonanze antiche al modernissimo e fa dell’attualità una rivendicazione della storia: un suo lamento, una sua presa. O resa. E questo incontro, che è dialogo, fa tutto il racconto dell’avventura che la poesia intrattiene col tempo e con la vita degli uomini, tra vita vissuta e vita immemoriale, o vivente. Ed è proprio in questo intreccio tra il dato dell’esperienza e l’intuizione immemoriale dell’eternità in vita che si muove la poesia. E che muove la poesia. Discorso mistico, “fumoso”? Ma quando tu vedi la notte, e hai conoscenza della sera, guardi dalla finestra, da un punto qualsiasi. In viaggio o fermo, poco importa. Guardi e tu vedi un paesaggio urbano e sonoro: e prendi il passaggio in viaggio in tutto il suo peso. Guardi ma accade anche l’incontro nell’attimo del tuo sguardo con quel paesaggio. Accade e dici, a te stesso e in pieno mercato, che per quanto ripasserai di lì non vedrai che cambiamenti, interventi, modificazioni… ancora altri frammenti in costruzione: resti su resti. Già lì pre-vedi: e già capisci come il tuo sguardo stia intrattenendo un incontro con queste macerie, forse da sempre. E lo sguardo ti rimane come resto di quel fulmine che ti ha attraversato. Poi guardi in alto, per curiosità e per sfida: o forse per volerti immaginare sottomesso da qualcosa di nuovo. Guardi su e vedi la luna. E pensi – perché non sempre la voce con la parola può dire tutto, e questo lo sai – a quante volte eternamente accade questa stessa ripetizione, della luna, che si farà vedere in modi diversi ogni volta, non facendoti capire. E cioè farà sostare lì il tuo pensiero, tu che lì sarai ad aspettare; ma non potrai quanto la luna: che ha tempi altri da te.

42

Cfr Emiliano Michelini, La circolazione del sangue, ora nell’Antologia.

35


Guardi… e abbassi lo sguardo: prima trovi la luna, poco più in basso il paesaggio civile e sociale. Guardi e abbassi lo sguardo, per amore della terra, forse. Anche. Ed è in quella distanza che si curva e cade davvero l’incontro del tuo sguardo con lo stato di ciò che vedi, e nella via di come lo vedi. Lo sguardo si nasconde come altro oggetto e altra traccia, tra quel che hai visto: la luna ha fatto lì sostare il tuo pensiero, il tuo vedere analitico; il paesaggio il tuo sguardo. Ma lo sguardo ti nasconde ciò che davvero è la scoperta, ogni volta: che non puoi capire la distanza tra la luna e il paesaggio, ma la puoi vedere. Che è nel tuo paesaggio, con te compreso: col tuo pensiero, col tuo sguardo. Non la puoi capire, ma la vedi. E nel tuo orizzonte intuisci che puoi vedere qualcosa di impossibile, in un amen, in un sì. Puoi vedere il ripetersi di attimi d’eternità: che si ripetono da sempre, forse. Sicuramente da prima di te, della tua venuta al mondo. Puoi vedere e intuire questa eternità-in-vita della luna che si fa presente: che lega l’eternità della sua venuta alla immemorialità della nostra vita. E del nostro sguardo. Che lega, in uno sguardo toccato l’eternità-in-vita e la storia in costruzione, di mano in mano. E perversamente, da sempre, in distruzione. Così che tutto ciò che viviamo, ecco: non è solo presente; il presente, qui, non è mai solo. *** E allora l’intreccio, tra esperienza e vita vivente: ciò che fa la nostra vita, e la vita come nostra. E la poesia muove da ciò, ci racconta inavvertitamente ciò. Poiché cosa è se non l’incontro tra l’esperienza del mondo, il linguaggio, e dunque le parole, i resti, le derive, i detriti che ogni volta il dettato, come un eterno riflusso riporta in vita, al suo culmine eternamente già esploso ed eternamente da esplodere, e l’immemorialità della vita, che ha verso ma nessuna destinazione? Ma diciamo meglio. Diciamo che questa figura dell’incontro è disseminata in tutto il cammino compiuto fino a che, nell’idea di poema, e cioè nella messa in pratica e in crisi del linguaggio che resta e s’arresta come soglia, questo racconto – fatto di fatica, dolore, sopportazione, gioie – cambia, si ferma.

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Nell’idea di poema messa in pratica: nell’idea dunque messa a morte, in cui linguaggio davvero si definisce oltre che come pena anche come custode della morte, e tomba quindi. Nell’idea dunque come messa a morte: nell’eco, anche, delle cose morte. Lì, poiché è anche una risonanza arcana della vita, risiede la voce del poema, che è inenarrabile e non recensibile. Questa figura dell’incontro – tra io e mondo, tra realtà e linguaggio, tra vivente e tempo, tra arcaico e anarchico, tra tradizione ed eresia – non procede più, nel poema. Le parole lo hanno raccontato: sono la storia, i resti, di quest’incontri, ogni volta. In loro è scritta, ogni volta, questa storia e questa serie di incontri. Non procede, ma cambia. Come detto. E cambia in maniera che l’incontro, il dialogo, tra queste forme aperte, diventi un altro racconto, un racconto di qualcos’altro: che intreccia chi scrive e chi legge, e cioè osserva, in una unica rete. Dove sono già cadute teoria e prassi, soggetto e oggetto. Ma questo racconto, che fa rinvenire nel quotidiano risonanze arcaiche, evidenti43, e che svela tutta la “natura” del linguaggio come quotidiano vissuto, è racconto del mondo. Racconto di come va il mondo per dove. Per quale verso va il mondo, allora? Se il poema come specchio di Dioniso nell’anarchia del fare disfa in canto il racconto del cammino che abbiamo fatto, esso stesso si fa l’ideale racconto aperto, ideale prosecuzione di quella forma aperta che era segno di crisi e di poesia, di come e dove va il mondo. Che non è, così come l’uomo, che non è. Ancora. E il mondo va come è detto e parlato nel linguaggio in quanto soglia: discorso al nostro limite e già oltre. Il mondo come poema, che racconta e dice i suoi autori che lo cantano, in una eco delle storie dei nomi. E il mondo, allora, va, dove va il verso: lì va a finire e a definirsi, ogni volta. Va verso il verso che fa continuamente camminare, sulla sua croce – la croce della parola – e sulla sua via – la parola messa in croce nel verso – la voce che anima l’inorganico, col nostro sentimento dell’impossibile, in cui il sangue è di tutti e in cui questo stesso sentimento è condiviso.

43

Insistiamo ancora ad associare in primissimo luogo la poesia al sangue, come bene dice Emiliano Michelini nella sua silloge, senza ideologismi o ricadute varie.

37


Va verso il verso, ogni volta, il mondo: va verso il suo tramonto, il suo lamento, e verso l’alba e un nuovo sole, in cui l’eternità è nuova, la novità è eternità. E su questo verso prende piede l’origine del canto che ogni volta è canto di un’origine e di una originarietà sempre rinnovata e praticata, fino ad essere ritrovata nel suo profondo, nel suo oblio. Così come ogni volta è un nuovo sole44.

2.

il poema del mondo è un fatto / oscuro! ma chi l’epica narrerà / della tragedia nuova, o che / uguale si ripete nella sorte, / veloce il tempo cavalca / come un aguzzino, e tace / ogni memoria volatilizzata / e voglio dire ai nuovi epici / cantori, che nelle notti più sconce / le lucciole dei marciapiedi / più vita tessono, che i poeti / contemporanei…perché l’intuire il mistero del

singolo è l’empatia del sangue innominabile e l’oblio che è la profondità dell’origine che si muove in me, da me, per me e come nell’altro… oh il volere! il non volere / il volere di nuovo furenti / sapere la cosa viva, vibrante / lo slancio o giovinezza / incosciente e indoma! - che faccia cantare / l’universo col trucco alle puttane / gli ubriachi e la polpa marcia / delle bollette; o il segreto che muove… verso quel disagio umano

che s’esprime nell’andare verso le cose, anche nel non potere: anche quando le cose non hanno verso di essere… E noi persi nei suoni, dentro soli artificiali / imprigionando i pensieri, i filtri delle cose, / suoni su suoni e mal di testa… E altri naufraghi, altre genti e ancora / in un vasto gorgo si leveranno morte / evocherà il lamento, un piacere vile / o la piaga del male che riveste…

Ma Si sentono le voci, anche adesso / che la ragazza ha detto: / “morirei per le stelle / e non per questa lamiera d’amore / che inchioda la mia adolescenza…”. Ed anche se lui dice che non se l’aspettava / lei diceva che niente esiste / “come quella volta che hai abusato del mio nome”e che c’è Sul quel muro un’altra scritta: / “scomparire, qui” possiamo rinvenire, come sempre e ancor meglio. … In questa conca orribile di muri / solo le ombre rimangono violente / sugli stabilimenti e le ringhiere / o come epitaffi alla memoria le panchine / riportano in vita un vociare di morto / che si raggruma… / E nel parco la giostra divelta adesso / è un fosso dove prima invece un perno… / Tutto è negato a chi si muove / innamorato delle cose: non pretendere / bisogna, dimenticare in fretta… / guardarsi dalla fede, imparare / a far di conto…

Ed è qui che siamo, e siamo sempre dove non siamo andati…

44

Cfr Eraclito.

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Ed è per questo che Tu, quando avrai corroso ulteriormente / la resistenza dell’umano, preparati ad uscire: / il vero mondo è lì, lì fuori… Anche se dispiegare le ali e volare / non è facile, lasciare le terre / che hanno udito il primo canto / quando l’alba col suo guanto / ti rinfresca le piume sonnolenti, / è la fame che senti, più forte / del petto che edifica il nido, / a metterti sulle calde correnti / in cerca di cibo o del destino, / anatra airone cenerino…bisogna ridere commuoversi gridare / antisociali e belli parlare / a voce alta, parlare sempre… Ma scoprire con triste meraviglia che tutti i punti sono punti / morti che portano visioni genealogiche, esperienze di vissuto / e rivissuto è il mio cammino ad ogni fonte, generata dal fuoco erosa dal vento / purificata nell’acqua, la pietra / dal cuore duro che non inganna / insanguinata da mille battaglie / allo stesso modo indifferente al pianto / del pastore, alla preghiera del santo / ascoltò i gemiti d’amore / le vendette, e l’uomo che solo / e da solo scelse la morte.

Il corpuscolo d’umanità che sono, che siamo! Che spesso ci tormenta e si tormenta col nostro piacere… Abito alla periferia di me, vorrei tornare / dove non sono mai stato con la placenta come / abito nella pancia della balena, impiantarmi dei finti / ricordi di un finto passato appassire / piano piano vicino al muretto basso del cortile / giocare col rampicante in giardino senza per forza / seguirlo anche in tutti i suoi sviluppi verticali, assestarmi / a meno di un millimetro dal limite ultimo / del mondo, tornare indietro ridendo per l’assurdo / sforzo cieco e umido, stasera non ci sono per nessuno / sono al centro di me, sono solo.

Nella conoscenza della sera… E quando capita la sera ti accorgi che / la visione della città nella veste spoglia / si articola in linee precise e per lo più / rette; / ma quanti tagli e quali angolature fanno / cornici, sottolineature e definizioni di spazi / e come e in che geometrie lo sguardo, mobile, / fra reticoli, impalcature, sostegni e fughe / vertiginose…allora lo sospettavi, ma solo ora lo sai, che il paesaggio che ti circonda è innamorato di te / e tu te ne accorgi nei giorni d’amore / quando incontri la donna che colma il tu cuore / quant’è piccolo il tuo cuore, o quanto distratto sei, / il tuo respiro sta sulle foglie degli alberi / e tu ti senti il protagonista del mondo e del mondo / inventato, che chiami il regno dei cieli, tu che sei / la morale e la legge, cosa saresti senza l’acqua / che si dona a te e tu inquini, costruttore di bombe / ascolta la silenziosa esplosione del fiore / che col suo odore e colore guarisce i tuoi mali.

Sicché adesso sento Un accento che il silenzio / non conosce, puntellava gli angoli in casa, / portandomi al buio, fino alla porta a vetri / per sostare e lascio il vino la chitarra e il canto / a te pietra che vita non hai / ma Dio solo ti è pari nell’anima… … Così parlano a me la pietre / quando a questi ruderi torno / qui conosco ciò che non sono e lascio il vino la chitarra e il canto / a te pietra che vita non hai / ma Dio solo ti è pari nell’anima… O una canzoncina didascalica / per vivo ripensarmi in ciò che resta / per non cedere al suolo che rimescola / la cenere la cenere alla vita. / ‘Sta notte balleremo fino all’alba / sopra il suolo che si sfalda, che cede: / nel vuoto giorno vuoto del dovere / io ti battezzo cementizia grazia.

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Ed è così che tutte le ossa disperse nella storia / adesso affiorano dietro agli scogli / illuminate da un oltraggio chiaro.

Gianluca Pulsoni

Questo testo non è mio. Nasce da me ma con me ha attraversato pochi momenti. Esso è dedica, pensiero aperto, ferito, ma baldanzoso: è ringrazimento a certe firme che mi hanno dedicato, loro sì, i loro versi e le loro parole e vicinanze. Io qui sono anche l’autore: ma come gli altri, ispiratori dei molteplici livelli di lettura e dei versi, nell’intrico del tempo e delle parole che abbiamo condiviso assieme e che anche ci hanno diviso. Da me parte questo testo: ma come uno strano movimento che va verso un lavoro svolto e lo fugge: punto di vista e di fuga, come detto, dove mi cade tutto addosso e solo qualcosa riesce a fuggire, saltando altrove. Da cui s’espande una musica che abbiamo ben ascoltato e di cui Daniele De Angelis, Loris Ferri, Simone Lago, Emiliano Michelini, Davide Nota, Stefano Sanchini, Matteo Zattoni sono i musicisti. Ma che è anche ben da prima inziata, e che continuerà con altre parole, forse, ma con la stessa voce, con cui già ne La Gru Franco Buffoni, Tiziana Cera Rosco, Alba Donati, Jack Hirshman, Enrico Piergallini, Andrea Ponso, Luigi Alberto Sanchi, Riccardo Fabiani, Flavio Santi e il semprevivo Salvatore Toma sono in stretta vicinanza. E risonanza. E altri, in questo caso a me vicini, come Domenico Brancale e Giovanni Falsetti, Jonny Costantino e Marco Dotti: straordinari, nelle loro presenze a sé e nei loro suggerimenti a cui molto devo e dovrò. Ma una dedica particolare va a Gianni D’Elia, eretico incivile nella civiltà, trovatore tra trovatori nell’eterno: l’esclusione, in questo caso, è l’unico senso che avanza nella sua diversità, come una forza che viene dal passato. E che spero ritrovi, perché si può solo ritrovare, in diversi nomi a lui vicini. Questo scritto è il tentativo, a mio modo, di dialogare con i suoi versi, destinati come epigrafe e come inizio di questo nostro incontro. A tutti voi.

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Daniele De Angelis

Daniele De Angelis Sul volto

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[Dopo che ho suonato e non t’ho trovato…]

Dopo che ho suonato e non t’ho trovato (che non c’eri) m’è scoppiata dentro una risata, e sulle labbra, perpetuata ad ogni passo d’un tragitto estraneo, un raccordo sbrancato in rami curvati tra centro commerciale, zona industriale e autostrada per il mare. Sopra marciapiedi e terrapieni sordi, come suole di gomma, il muschio cresciuto intorno agli scoli è generazione dell’umido e dell’ombra (infiltrazioni testarde come gli estuari) mentre si sovrappone il fiume che affossato dentro all’argilla dalla ringhiera del ponte procede in un’acqua ocra che non specchia ma contro i tronchi e gli argini s’increspa e schiuma.

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- Quattro giornate - La crepa -

Brucio giornali vecchi quotidiani secchi sotto le fascine e fanno un fumo nero d’inchiostro che macchia le dita, oppure blu di fotografie a colori in prima pagina; subito assottigliati, sfaldati, svolazzano. Il ciocco sfocato suda l’acqua rimasta tra gli anelli rappresa, poi il fumo s’infiamma. Dalla parete scende fino al pavimento di piastrelle spaccate, una crepa nera come un segno impreciso di matita, ruvida dove sbreccia l’intonaco in fragili scaglie. Dice il contadino del casolare accanto - che la casa s’ crolla a fa’ passà ‘n anne che lu spacche è prefunne, ce se po’ ‘nzaccà nu curtielle ‘ndiere; nisciù l’è ‘ccommodata in tutte stu tiembe, manghe nu laveritte e l’acqua quande piov ‘ngima la collina la terra resmove e chesta se ne cala. Il caffè dalla moca sbocca sopra il ferro smaltato dei fornelli, sbatte e forma pozze; scivolano i libri dalla borsa gettata di fretta sul tavolo, come sporta bucata. Odore d’acquazzone viene alle finestre; come un ematoma le nuvole addensate sopra le colline, le piante innervosite. Dal tetto precipita una necessità, le chiazze dei coppi spazzati via dal vento erasi, come dure squame dal coltello… …rassettare i ricordi, pur stando in affitto.

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- Neon -

Su una sedia a rotelle s’è messo a dormire; il braccio puntato con forza alla barella gli regge la testa (senz’ombra il pavimento). La porta scorrevole di legno chiaro, enorme quadrato, dispone a compulsare targhe alle braccia conserte sul petto, al passeggio decerebrato, come muscione sul vino. Ha l’ago nel braccio quand’esce, di una flebo trasparente, e la nausea che l’ammutolisce (il vomito sul panno assorbente, teso sotto al mento, gettato nel secchio tra garze macchiate di sangue, lacci e flaconi vuoti). Lo straccio della donna delle pulizie scia percorsi, come bava di lumache; - che ci ha? sta meglio ora? ‘na volta ce l’ho ‘vuto pur’io, poi nu dottore m’ha segnato ‘na cura… infiniti acciacchi presi e sofferti in anni e anni di lavoro, solo per simpatia con malati sempre nuovi, a questa stessa ora. Il contagocce spinge a essere pazienti; risalgono parole, e poi, frasi peste. Un rosso slavato sul volto, sangue stinto rimescola un sorriso tirato nel freddo dell’alba, che fa piegare le spalle, incurvare la schiena, come fossero nude, senza giacca; e si spezza il dettato nient’altro che il fiato.

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- Il salto -

C’è un muro di nebbia sull’acqua, e affonda il buio; dal mare negato sbucano onde che graffiano come zampe di gatto da sotto al divano. Il cane sulla spiaggia corre in mezze lune di polvere; si ferma, ci guarda ed aspetta uno scatto un grido, per riprendere il gioco; ma noi parliamo d’altro schivando alghe secche ammassi tumefatti, acidi ricami. Gli chalet ancora chiusi, la sabbia spessa frantumi di conchiglie, legni e tu già pensi a quando non potremo passeggiare più che a controllare sdraio ed ombrelli piazzano vigilanti del cazzo sulle loro moto strane, a quattro ruote, con torce che t’accusano e cercano siringhe, birre o profilattici. Un rivolo lento, denso, spacca la spiaggia viene dalla campagna curva tra le fabbriche e sfocia in questa pozza smangiata dalle onde, un odore di frigo rotto, cibo sfatto; - ho paura del salto - e accorci la gonna con vergogna - ho le gambe troppo grosse - dici poi trovi il tempo giusto, il gesto paziente che incide la sabbia come il cardo la pelle.

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- Il cappio -

Dagl'alberi stecchiti appaiono i nidi legni e paglie intrecciati. E' un sartiame di rami la neve caduta sciolta, quello che resta è una mota un'erba più viscida, scura, dove l'auto arranca come pachiderma sprofonda nella melma. Le frasche di pini e abeti come costole spezzate, colli rotti; bianca dagli strappi è la fibra fracida, tesa ad imbarazzarti. L'intralcio del legno davanti casa io e mio padre lo dipaniamo, le fronde stuccate le trasciniamo (fischiano nella terra i solchi) accanto al forno, un tempo solo porcilaia. Quelli attaccati quasi solo alla corteccia dalla scala li trancia la lama canina grigia sfarina, come squalo, quel bianco polvere pungente negl'occhi e tra i capelli. Pende come una liana il filo di ferro dal fico, come un cappio, legato sul ramo cresciuto fesso, dove il nodo ritorto lo strozza l'impicca, di stagione in stagione. E' l'evidenza, un cielo piallato di nuvole; potrei lasciar stare, demandare a terzi questa catasta, questo shangai, chiamare un bravo giardiniere ed invece slabbro questa fracchia, sporco ancor di più le scarpe le mani, perché è giorno da racconciare.

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- Ritratto -I-

Hai pisciato sul pavimento credendolo un cesso, e quando arrivo sei a terra e Fabrizio ti getta le braccia sotto le braccia e stringe, ti mette in piedi, che ci scherzi, ci sorridi e a malapena riconosci che c’è notte. Mentre lo straccio si fa scuro torni sotto le lenzuola - revattene a dermĂŹ - mi ridi, come in un sonno senza fondo che fatica il mattino, il risveglio; e sfondando il cuscino posso solo dirti ancora, come preghiera.

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- II -

- TiĂŠ la faccia sdrecita - avrei voglia di dirti ma resto zitto, mentre davanti allo specchio ti faccio la barba. La pelle come sabbia cambia forma al tocco delle lame, si piega sprofonda, e ho paura a calcare, di farti male ferirti; eppure fiducioso distendi il mento o ti confondi, fissando, con il riflesso.

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- III -

- I’ vade a stramazz’ - ci dice dopo pranzo con la mano sulla guancia - puo’ me pertete su? - per dire bar; con gli occhi cerca conferma, un sì che arriva dopo la frutta, ogni giorno a rincuorarlo che la siesta non stordisca il pomeriggio tutto, e che la cinta serve e si stringe ancora come al collo d’un sacco nel ficcarci dentro, anche l’aria per domani. Pure se il viaggio è un caldo che inforca i polmoni e la gola, quello che marchia è la portiera sbattuta con forza, il finestrino sbalzato quasi in frantumi, e i saluti, che non t’abituano.

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- IV -

Mi sono svegliato e il cielo era ancora bianco un’alba ancora fredda, come le ciabatte ai piedi del letto. Un accento che il silenzio non conosce, puntellava gli angoli in casa, portandomi al buio, fino alla porta a vetri per sostare, mentre traboccavi la tazza di cereali latte caffÊ, e sframmicavi dentro, biscotti -a fare una pappa, una malta. Seduto, ti c’abbarbicavi con le labbra al bordo sottile, e rinserravi le mani prima del mattino, riprendendoti il tempo.

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- Sul volto -I-

Tra la foto della prima comunione, in quei colori già tardivi, e il tuo volto tutto preso nelle guance mentre sorridi da dietro al vetro, non filtrano che pochi accidenti pochi lievi spostamenti, come crinali di colline conosciute, mutate nelle masse e nei colori di nuove colture‌ ‌quei tratti palesi e muti che in superficie sono già il mio sguardo e ogni altro; e servirebbe il tatto a dire meglio, ma aperta la porta prevediamo a vicenda, nei saluti e nelle domande, i movimenti smorzati e chiari delle bocche.

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- II -

Faccia continuamente esposta, eppure, in ogni istante che la si porta a zonzo, paralizzata al sole feroce o nel riflesso crudo del televisore, poggiata sulle spalle a dissiparsi più di tutto il resto, coperto; eppure, sul solido cranio dura una nudità incosciente e pura nell’ammassare memorie come scogli difformi, vera non potendosi negare neppure nell’assenza… …e alle volte pieghi la testa in avanti quando il sole tra i palazzi è radente, denso.

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- III -

Arrivare a temere che il viso si spacchi come frutto tra le mani, mentre rigido trattiene una risata; vedere i muscoli tesi di guance palpebre e labbra, strappati come tiranti di svolazzanti tendoni ai tenaci picchetti sfuggiti, alla terra compatta; faccia che s’apre a se stessa fino alle lacrime a sventare ogni vergogna, cosÏ preziosa in quel mostrarsi distratta e senza posa, come un insensato gioco, un contrattempo alle feroci imboscate del giorno.

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- IV -

Davanti al lago gelato, il plaid sopra la terra coperta di muschio, bagnata, dalla neve da poco sciolta, restiamo sdraiati nel crepitio del ghiaccio che nel vino rosso al caldo si spacca (il bicchiere di plastica tra le mani) e pensiamo che a tornarci anche solo domani, si troverebbero del bianco, il prato e le rocce denudati… …ad incontrarsi smemorati tra cinquant’anni o poco meno, quale valore assegneremo al saper scovare le tracce degli scomposti anni, registrazioni e segni, dalle facce ricevuti come inaspettati amori? …un uccello che non sappiamo forse un corvo, vola uno scabro semicerchio, sopra al ghiaccio del lago.

Note: di prossima pubblicazione presso Otium Edizioni

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Il parcheggio era uno spiazzo disegnato da strisce, arato dalla vernice, quattro lumi agli angoli i lampioni, uno era spento, fulminato, a destra della panchina in ferro. Lì due ragazzi chiacchieravano nei giubbini stretti in pancia, le mani calde in tasca: - …no, qui non capita, non succede la stessa cosa… - …dici? nemmeno io ci credo! tanto… - …certo, qua è diverso, se succede è diverso… Sulla sinistra un vialetto di siepi basse, smangiate e sbuciate, portava fino all’entrata anti-panico d’un palazzetto dello sport, con le finestre tonde, incassate come oblò, quasi fosse una nave arenata, spiaggiata sopra uno strapunto di campagna, a tralucere della falsità dei neon e delle voci e delle urla, che bagnavano di sforzi i vetri. Poi, da sopra il tetto prefabbricato e piatto, il fumo bianco, per un istante come un grumo, di caldaia. L’asfalto chiazzato sprofondava nel centro di morchie scure, sudate e pisciate dalle coppe dell’olio spaccate, o da serbatoi arruzziniti; pozzanghere tanto marce, da frastornare i musi ai cani. Come costellazioni le gingomme stavano spase a terra, stese a spegnersi nelle suole e nelle ruote, che mentre passavano le impregnavano di peso, distratte. Quei due lampioni piantati lì come stipiti inutili, ripiegati sopra coni di luce appuntita, contro i campi, che li comprendi solamente dalle sfere ambrate di qualche arroccato sui colli; e quando chiudi gli occhi, di scatto, ti resta sotto le palpebre solo un parallelepipedo fluorescente, con nel mezzo niente, neppure un solco, un suono. Le biciclette stratificate sul muro, come inchiodate, e i motorini a rappulle sui cavalletti come uccelli sui rami, con marmitte e catene stavano in paralisi, in un odore di benzina miscelata e grasso scuro. Puntuale, un vecchio arrivava all’immondezzaio tozzo ed ammaccato, e spingendo il pedale spalancava il pistone la lamiera, per fargli gettare dentro un sacchetto, una parabola, a precipitare su quel fondo cecato. Uscivano i ragazzi con le borse in nailon e le sciarpe al collo, dicendo che già si sentiva che l’inverno era arrivato: - …a piglià’ il motorino il freddo ti mozza le dita… Rullavano i rocchetti gelati e pizzicavano l’aria le accensioni elettriche, per andare a prendere direzioni subito disciolte, oltre quello spiazzo, in un ritorno per cena col telegiornale, prima d’affondare, come barche di carta.

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Loris Ferri

Loris Ferri Demoni e fiori di provincia

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Loris Ferri

- Demoni e fiori di provincia [ora si sono schiusi i fiori autunnali…]

ora si sono schiusi i fiori autunnali per colei che ha edificato, mattone su mattone il luogo di questi versi, quelli che solo ieri informi e solitari la rossa dinamo incendiaria dell’estate nel sottosuolo schiudeva impunemente. fiori di vile spregio, pigri fioriti nel folto tra brume nell’umile poema dei marciapiedi…

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Loris Ferri

[cala la notte nella sua rete di buio…]

cala la notte nella sua rete di buio l’aria imbruna come una toppa sul lungomare. che umore nero muove il tempo e quale cerimonia funebre appieda i barcaroli… un esercito di spurghi come lingue gialle senza posa serpeggia all’angolo del molo; di nuovo pesaro nella nebbia, è una luce di miniera… come serve del fango, le gru, nel porto sono la voce disperata di una città che sale! sale nella nebbia nel suo passo funebre, sale allo sprofondo…

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Loris Ferri

[ oh il volere! il non volere…]

oh il volere! il non volere il volere di nuovo furenti sapere la cosa viva, vibrante lo slancio - o giovinezza incosciente e indoma! - che faccia cantare l’universo col trucco alle puttane gli ubriachi e la polpa marcia delle bollette; o il segreto che muove due teneri occhi come pallide lune! oh si, pallidi occhi fondi simili a nude pozzanghere… Amore! amore, tutta la paura pensala in questa parola: amare disperatamente, amare follemente il mistero tutto. e l’intuire di me stesso il violento eppure inscindibile abisso più insoluto, che sento e che è: l’amare la vita, la vita morente la morta vita… o la presente morte…

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[vita che te ne vai passeggiando…]

vita che te ne vai passeggiando fra queste mucchia di case e ombre, fra cespi di lamiere e sogni infranti oh! come un tenere bacio vi siete venduta il verginale spirito di ciottoli… largo, all’indegna cagna del progresso! non è per voi, l’aria fresca del fossato né vi commuove pisciare sulle erbe sono vuote come bettole giornaliere le vostre promesse da becchino! noi, seguiremo il giorno arso di spine o la geografia muta della sconfitta ed ora nel lucore preservale traboccano i liquori dei compagni, i pochi ancora spiriti rimasti a contemplare alla deriva il tempo, che insegna a morirne condannati, poiché nulla dietro a sé lascia se non il nulla… la scienza non vi appartiene, vita! hanno corde inaudite la musica e il tonfo…

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[ode sentimentale delle canaglie…]

mi incammino per strade buie e maligne portando la vita a spasso, in ventisette atti come uno strascico di amore tradito e sul volto arruffato la muta bisaccia di stanche pupille, goffe tacche da cormorano. voi ribelli cari compagni assetati che fianco a fianco, uno a uno a scherma tenete la lama torrenziale della materia altro non trovo che questo zirlare in corde da spennata cornacchia e chiare acque, vedreste, in tormento; fredde acque sino al cuore che sciama nell’onda, vivo mischiando al marino bigoncio il fossile scaffale battuto, sulla riva che a marcire se ne sta schiaffeggiato dai venti. è pari alla mia fiamma di esile spirito; dal sale fu levigato e in due parti si è aperto il suo torace da mollusco. come da un inferno primordiale e impalpabile toccò per il digrigno duro, ai teppisti le cicatrici sconce, e le anime infuocate della pietra mescolandone il nome nel canto della fresa tonante; il tuono iracondo e le notturne amanti dei fari. la bocca grigia del selciato bacia i bei corpi avvolti in minigonne e tacchi. ripenso:” sii felice uomo!” chiusa in bianche pareti l’avvenente donna fraseggia, nel bere, le sue isteriche chiacchiere da poàna

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nella sala le bestie abbeverano i musi disseminando in polvere, le loro cieche statue; additano in me uno sproposito fiero attaccabrighe dello sfacelo! ma non più qui il vino si beve con gli occhi, e le labbra a stento si lasciano aprendo, ad un canto stonato. quelli che alla faccenda resistono ai tavoli, poi nel soffuso candore delle taverne brindano giovani con l’oro e le lacrime e la terra sono pietre lontane ai loro iridi di lucida coppa ovunque ci volgiamo, vecchie canaglie, irrimediabilmente il disprezzo ci precede come l’umido odore dei grugni, l’obliqua pioggia. un po’ di brace allo scandalo dei versi: canto insieme al notturno fogliame lo scroscio triste che a primavera le palpebre fosche dei pioppi riveste o le siepi che celano, come radici nuove i riarsi fiori di cespe siringhe; neppure il giardino è l’antico sogno infantile. l’uomo ferito nella fragranza dell’ago, vede a picco crollare l’imbarcadero furono acque terrestri, acque dove navigano tornii e fanali, e l’universo forgiò il giorno e la notte forgiò delle insegne. la natura è sgomento follia naufragio.

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piccola falce di luna triste e aguzza in questa notte sospiro per il tuo muto riservo anche per te forse, forse per la tiepida calura sono meschino, più di un fastidio e sulle parole trema la dissennata carta truccata di un truffatore! goccia a goccia in lacrime sole come l’oblio sono, come una lingua assente; e che incosciente donna allora l’amore concederebbe ad un povero cristo, poeta mediocre di inganni vestito di stracci e stucchevole sentimentalismo? grigie strade di bitume mosso portano sino al luogo dove un portico di marmo il suo pietroso abbraccio apre, brulicando una marea di ossa e silenzio so che in risposta lì, lascerò come al varo di un segreto viaggio notturno il mio nome e di segni una landa sontuosa; sorge una fossa! pari ai pari è l’utopia dell’abbandono ovunque ci volgiamo, vecchie canaglie, irrimediabilmente il disprezzo ci precede; semplice, con un coltello di paura e lucore nell’ultimo raggio scompaio, in seno alla sera…

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[voglio salpare come questa vela…]

voglio salpare come questa vela che ammaina l’orizzonte e con mozzi bruciati dal sole a oriente di queste acque rincasa… ma palpitante è il mare che il barbaro poema dei balcani risuona, sopra i quattro venti con parole di dolore e scroscio e distese sulla pelle molle giunsero nel naufragio marino le grida dei kalashnijkov! quante colombe di sangue gravide, dovranno ancora solcare nella loro lugubre marcia, la pelle cupa del mondo? quanti e quali dèi saranno i nuovi vendicatori rugginosi? lustrati su palchi, o nelle chiacchiere d’oro, gli uomini, oh gli uomini dai superbi microfoni accesi mostrando il lenzuolo del pianto reggono, dèi ubridi, lo scettro rabbioso e il suono confusionale… falsi chierici di una lingua oscura! le lacrime dei dispersi non hanno ancora residenza finché muto sarà lo spirito dei dissolti, in corpo e anima qui sta il mondo alla fine della storia! qui il suo tronco insanguinato che germoglia l’arcano di fiori macabri…

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il poema del mondo è un fatto oscuro! ma chi l’epica narrerà della tragedia nuova, o che uguale si ripete nella sorte, veloce il tempo cavalca come un aguzzino, e tace ogni memoria volatilizzata e voglio dire ai nuovi epici cantori, che nelle notti più sconce le lucciole dei marciapiedi più vita tessono, che i poeti contemporanei… restiamo qui ancora più dispersi nel basso di un reale disurbano noi, eredi ancora del Cristobàl Colòn, a ricomporre in resti la visione…

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[altri naufraghi, altre genti e ancora…]

altri naufraghi, altre genti e ancora in un vasto gorgo si leveranno morte evocherà il lamento, un piacere vile o la piaga del male che riveste… e benedica pure, il chierico sciacallo, ma ahimè! è un male puramente umano un male di pura ragione, o bestie, del più feroce delirio divino… nel grembo già pesano i defunti, tra loro s’azzuffano i morti di fame e altrove, nelle sale del progresso, con pietà liberale è retto, l’urto delle costole. e come un rantolo di woltz onnipotente presenziano i caduti sui ripetitori, ma io debbo giacere tra le ossa rotte perché si faccia la musica del dire…

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[il mare compone…]

il mare compone la sua nenia triste, sonora tra brume liquidi di scarico e plastiche nude compagne nel canto. madre non è diverso il senso che su questo molle ciglio mi lega; fra cosce d’acque ed erbe fresche erano incontri vino amori estivi. il mare impreca la sua furia, il mare tace. gli uomini i battelli la luce pigra del mattino. tutto è disseccato; resta il volo sepolcrale dei gabbiani… le foglie delle tamerici sono bestiame in letargo. la Nautica vicino al molo, è un fragore immobile. il mare: un vecchio che brontola a mollo in un guanto di tazza. mia landa troglodita, Pesaro! tu mi accoltelli mia amante tradita. ora dimmi, dimmi che fare del tuo misero tramonto da quattro soldi…

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[Gradara, è il quinto canto dell’inferno…]

Gradara, è il quinto canto dell’inferno. le dita del giorno sono spezzate in notte. così scalpitano in cielo le stelle, come una mandria di rubli infuocati. i pochi innamorati che ancora salgono su queste mura di stivali vecchi, nulla più hanno che li leghi a quei malandrini e galeotti loro predecessori. dalle taverne con il resto scompaiono, in bocca alla notte. sulla roboante macchina infilano la notte, in un coltello di lamiera. a noi che hanno reso familiare la scienza degli addii, ed in cielo è chiaro più di un lume penzolante che abbiano maggior fascino le chimere e quando a volto scoperto come un paralume scapigliato e con cenci vestiti e l’aria da monelli per strade cupe ci aggiriamo, possediamo terribilmente i tratti di antichi rubacuori scanzonati che da rotti luminelli fuggono per non pagare il conto… e la notte, madre di piaceri furtiva, ci è fedele nell’idea! e che importa se alle fresche acque a noi è toccato, il cuore dei marciapiedi… ogni donna ha un tratto che stupisce. ognuna un segno, che noi riconosciamo… altro non so dire se non che al giorno appartengo, della metamorfosi…

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a una dama sinuosa…

non vi scordate mia cara si! mia tornita, mia tenera canaglia dal seno turgido quanto fu leggero il vostro piccolo fiore finché volle e come cogliere si sia lasciato sul nero catrame. vana, meravigliosamente vana fu l’ossessione di un amore nel luogo nativo. io ne ero schiavo e voi, naufraga all’eccesso nei pensieri… l’anima solitaria vaga con gli occhi di uno scheletro impuro; si traveste da allegra maschera ma talvolta dentro vi dimora come un tedio misterioso nel destino di sapervi un giorno sposa inclemente, bianca sposa dei giochi abitudinari, avere figli da accudire nell’inverno dei piaceri e allora in me come un antico male vedrete, da scacciare sulla porta… velleità! nessun amante superbo vi farà bruciare come allora. ma a me, non è più d’abitare la soglia della vostra innocenza…

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a una donna come tante…

lei sperava in qualche cosa di migliore, lei viveva come un vecchio paralume rotto, e ogni volta ogni volta che le si apriva in cuore una ferita, lei per tutti era solo l’attricetta come tante dei McDonald’s… e ho rivisto quella foto tra le scale e il cesso rotto; una donna dai capelli sciolti e mossi - di una bellezza in rovina e grigi occhi di lapide infossati che di resto in resto, un altro fiore depone nel suo cimitero contemporaneo… il grande, l’immenso sogno Americano passa per vecchie tubature di provincia, dove fedele è la ruggine compagna e altro non si celebra che i resti…

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Loris Ferri

[ho sognato in un letto che è bara…]

ho sognato in un letto che è bara e ha la vasta forma di un relitto - sogno agitato e tormentato di visioni il viaggio dopo la morte, amici e tutti i sensi erano tesi, come braccia dilatate al profondo nero; pace e terrore in un fuso di brivido dove bizzarra la mente fa scherzi di solenni ricordi mai vissuti, il fascino convulso, che gli spazi incanta… e immobile e senza rotta è il viaggio. ahimè! dove naviga la nudità sola…

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Simone Lago Visioni d’interno, riflesso d’esterno

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- Agosto -

E quando capita la sera ti accorgi che la visione della città nella veste spoglia si articola in linee precise e per lo più rette; ma quanti tagli e quali angolature fanno cornici, sottolineature e definizioni di spazi e come e in che geometrie lo sguardo, mobile, fra reticoli, impalcature, sostegni e fughe vertiginose per gli spigoli mai spezzati di via Dante precipita dai fori delle grate; ci investe, sì e il disagio d’improvviso coglie noi due ombre alle vetrate. E quale me allora sfugge fra le strade che portano un nome, per quali precisi cantoni potrei svoltare, cadere in uno spazio bianco e profondissimo, per quali insondabili riferimenti perdermi allontanando da me lo spavento del tuo occhio e quello di questo paese infetto che collima sul mio volto per mezzo dei passanti, di tutti i tuoi passati, e le disarmanti soggettive di ogni scorcio di via, da ogni bifora più alta e la più secca e bassa luce che mi staglia come un segno, il più inutile sulla carta. Mia cara vorrei dirti di non più pensare alle sfumature dei miei contorni, di ricordare che fuori la finestra qualcosa c’insegue e sa dov’è il confine della nostra conciliazione.

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- Un piano per il sabato sera -

-I miei piani per il sabato sera tengono conto ormai solo di dove vai mentre tutto precipita(Non Voglio che Clara)

E allora prepariamoci tu ed io per questa sera giÚ alle fabbriche fra le selve di lamiera dove si balla sincopati col piglio dei cani rabbiosi *** Dilatando lo sguardo in bianco e nero considera il posto nel suo fascino underground; mentre passi le rovine tieni a cuore il nostro volto resistente e poco incline a farsi imbastardire dallo sfascio del cemento e dell'acciaio; potremmo allora reputare se lo vuoi questa sera e la chimica del ballo il nostro oltraggio alla voglia di morire *** C'è un dj che se ne frega delle mani da che sesso dipendiamo, scorda gli stacchi, osserva i nostri denti e fa di tutto per farci innervosire; poi si scusa, dice che è un programma per testare il montare della rabbia *** Questo posto non dista molto dagli scambi che smistano i treni alla stazione (ecco -qualche voce- il segno del disagio la voglia di partire). Non fosse altro invece il desiderio di uno spazio geometrico e ordinato cui infilare un passo sicuro e a tempo indeterminato.

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*** Ed è pur vero mia cara che alla morte si fa seguire l'ironia, per sopportare -se non altro- il logorio dei sentimenti. Perciò balliamo al cospetto dei ruderi e c'impasticchiamo urlando a la santÊ: i distretti industriali ci hanno avuti sani e forti, allevati a brodi plasmon e pilloline zigulÏ. E allora andiamo -tu ed io- questa sera a esorcizzare la loro morte col nostro malcostume

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- Eruzioni di coscienza - I - Mattino -

E' già un esperimento sadico svegliarsi un mattino d'agosto, sui ventotto gradi in camera, prendere le proprie membra come Proust e farle aderire lungo i muri della stanza e misurare, capire che c'è del margine ancora entro i limiti del mondo, che insomma con qualche nostra amputazione lo potremmo ritenere dalla parte del design una struttura piuttosto ergonomica (però dalle fattezze alquanto postmoderne tipo l'uomo vitruviano inscritto con un taglio di stampo picassiano). Ma il caldo è un' esegesi superficiale dello stare in quanto asporta e sublima le paure in qualche grammo d'acqua e minerali; e pure è sciocco pensare di potersi immaginare immersi nel tepore di un mattino di Combray e trovare un filo d'ideazione che colleghi i plausibili margini dei perché. Perché la noia non guarda in faccia la stagione e per birre e Havana-Cola fa smarrire ogni proposito di studio e anagogia della Recherche: così alla fine dell'estate mi ritrovo con lo stesso vizio di filtrare tutto in soggettiva non giungendo all'ideazione di alcunché, scambiando nobili discorsi attorno al tempo in sermoni sul concetto empirico di spazio. Starci quindi è la parola, magari in una stanza con bottiglie vuote al pavimento e alcool nelle vene che sega e muta il corpo in membra lasse inserite a forza in crepe di uno specchio frantumato grande quanto il pavimento, le pareti, il mio paese incarognito. Starci è pure la parola degli amori estemporanei quando azzanni tutto in una volta e poi ne scordi pure il nome e s'installano in testa emozioni mai provate ma soltanto vagheggiate. Starci è infine studiare e sopravvivere, prendere 30 gocce di ansiolitico, camminare a piedi nudi lungo

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i binari dei distretti industriali, a capo chino pensando ai libri, alle possibili risposte e al loro peso francamente insostenibile. E allora penso che per vie traverse gli atenei giochino un ruolo chiave nella formazione di mentalità piuttosto sagge che osservi qualche volta passeggiare per paesaggi suburbani con lo sguardo sollevato alle camere di videosorveglianza. *** Quanto sopra è germogliato dopo un sogno mal gestito in cui Marcel faceva sesso assieme alla mia ex e m'apparivano avvinghiati come koala, appesi allo spigolo lungo della stanza. E allora lì mi son posto il problema delle membra, della loro dimensione e del rapporto con tutte le funzioni misurabili del mondo in cui, come ribadito, stiamo dentro pur con qualche insuperabile approssimazione. Per quanto concerne invece il tempo, il sogno ha intuito la ragione della fissa di Marcel per l'idea di durata nel suo spazio psicologico mostrando il volto di Desy (la mia ex) che appariva piuttosto contrariato. *** Ma è mattino ed è pur sempre tempo di novità. Anche se in realtà è quasi mezzogiorno e il sonno è la porta che permette l'accesso a un nuovo livello di difficoltà; a dirla tutta però si è ben lontani dalla cappa di terrore e mistero di un videogioco tipo Doom: qui no, al massimo è la bocca della Rex che si azzanna qualche braga in jeans e il più della tensione la si scioglie nel frugare fra le tasche che per caso non ci resti qualche cent o qualche carta buona per le cicche. La prima mossa in questo ambiente alieno è scegliere con quale piede scendere dal letto, fosse anche solo scaramanzia oppure il gesto responsabile

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di un pazzo che con l'arnese preferito tasta il suolo e coglie un cenno d'esistenza, sua e della terra che lo sostiene. (Credo pure Armstrong fosse in preda ai medesimi spasmi d'incertezza; e poi d'un tratto -forsescorse l'ampolla col senno di Orlando e piantò la bandiera americana.) E così mi decido col sinistro, e fatto un passo, indossate le ciabatte, mi accorgo come il giorno presenti la medesima texture45 del precedente: qualche libro da diporto sul tappeto, una foto -dentro un'orribile cornice tipo bombonierache mi ritrae nell'atto sacro dell'ingoio di un'ostia dal sapore di loacker, un PC vecchio stampo con monitor marchiato Sampo che benedice di elettroni bulbo e retina. E a proposito di tecnologie vorrei tanto si realizzasse un giorno uno strumento che non fosse legato intimamente alle grandezze empiriche. Per esempio al mio risveglio gradirei che il senso di disagio fosse misurato e proiettato sul soffitto a mo' di quelle sveglie dell'Oregon Scientific in modo da potermi organizzare la giornata, tipo prendere appuntamento da Brugnaro per il rinnovo dell'EN nel caso fossi fortemente impanicato, oppure viceversa, se m'apparisse bella tonda una faccina sorridente, aver coscienza di poter passare la giornata al parco dando granturco ai piccioni in accordo al sufficiente livello di benessere. *** Ma la somiglianza delle forme inganna e il primo segno di una giornata tutta in salita sta nella propria immagine che corre all'impazzata dal più profondo dello specchio; qui si prova il senso di Narciso in un mese di siccità nella figura intorbidita dagli umori della notte. E più s'accalcano le situazioni irrisolte più si sperde il fenotipo, più mutano i geni e si moltiplicano a dismisura i tratti di genesi sociale. E si fanno 45 Il rivestimento grafico che ricopre -in un videogame- le superfici poligonali in modo da dare a queste un aspetto verosimile

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sulla fronte, sullo slargo dei capelli, dentro ai solchi, avanti le reclan di prodotti leviganti e vedo Ken che mi sorride e fa sci nautico e mi propone un dopobarba al botox capace di darmi sorrisi a profusione. In questi istanti di sconcerto vorrei chiamare chi m'ha fatto nella forma dopante di mia madre e chiedere se la sequenza Triangolo-Quadrato-X-Gi첫46 funzioni ancora come mossa speciale per far fronte ai momenti di dubbio esistenziale.

46 Riferimento ai simboli riportati sui joypad della Playstation

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- II - Meriggio -

(E' per infondere voglie alle donne che il Signore si nasconde? Si fa grande il desiderio nelle stanze, le più oscure e disastrate) Un pranzo in solitaria, la TV, ed ecco che si rinnova il rito della comunione col mondo. Sorveglio Studio Aperto e comparo le mie noie con i fumi e gli occhi bassi di Ramallah, e attendo la remissione delle colpe, un rapido sollievo da qualche donna nuda che professi la propria fedeltà alla linea di Al-Quds, ossia, jeans senza veli e funzione push-up. (per info: www.alqudsjeans.com) Gerusalemme la Santa si veste in tentazione occidentale e il tiggì allora infonde un non so che di rassicurante e narra la vicenda di Sufjana, amabile egiziana: col suo sposo Mohammad ha da poco avuto un figlio ma per qualche turbe strana lei non vuole abbandonare la clinica di Padova. Ma il primario allegro afferma che non deve affatto preoccuparsi, che trattasi soltanto di depressione post-parto, un primo segnale di perfetta integrazione sociale. *** -ma dalla precauzione sta nascendo un gridoMilo De Angelis Nell'ora sacra della siesta suona il marocchino al campanello e un po' bestemmio perché lo so che è quel ragazzino tutto secco col borsone, scaricato alle sette del mattino dal furgone che fino a sera è tanto se si beve una lattina di coca e si rimpinza lo stomaco di Fiesta; mi fa una pena tanto misera che quasi più non sento il bisogno di provarla, e poi quel giorno di settembre a una cena in canonica col prete ho imparato che il sospetto non è una forma di peccato.

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Ma lui sta sempre sotto il sole e ad ogni tornata del quartiere gli si segna il labbro di una traccia nuova di secchezza, tanto che il tizio del furgone lo controlla come gli anni sul ceppo di un ontano. Io però m'attengo alla profilassi e non gli apro e anzi filo in bagno a risciacquarmi e guardo sotto gli occhi, ai lati della bocca, il collo, che per caso non mi sia spuntata invece una qualche nuova grinza nonostante tutto l'esercizio volto a debellare ogni sorriso, ogni espressione deturpante. Prevenire, prevenire è il nuovo motto e se possibile comprarsi un nuovo loculo per tempo che per caso non nasca un figlio malformato e che non muoia troppo in fretta dando attimi di stress fuori portata delle dosi standard di antipanico. Prevenire, prevenire rinnovando se possibile il mito della giovane morte idealizzata con la pelle soda e liscia da ventenne imbellettato, noi, mentre qualcun altro si prepara per davvero e non si cura se il brandello avrà più o meno il segno dei diciotto o dei ventanni. Prevenire, prevenire il terrorismo e tuttalpiù si prevede che qualcuno avrà il suo onore appiccicato al marmo e la famiglia la medaglia di un qualche bel colore. Ma l'importante è stare bene, presentarsi con una bella cera l'ora della nostra morte. *** Il cane graffia rabbioso il portoncino, vuole uscire: io mi travesto da buon pastore e gli concedo un po' di libertà al guinzaglio riavvolgibile. Giù per strada incontro Andrea, un tipo ateo e di sinistra tutto incazzato per quella nuova strage in Iraq. Il cane incalza, Andrea pure e mi fa: "Ho come l’impressione ci ritroveremo, guarda, nel giro d’anni o forse lustri, con un prefisso “neo” appiccicato al collo dell’idea di medioevo. E me li vedo lì,

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buoni padroni, dottori e opinionisti menarla quest’idea al guinzaglio, farla pisciare sopra la carta di giornale, di fianco al box della TV satellitare. Spanderanno parole sull’alzata dei barbari, dati alla mano dimostreranno che gli arabi non sono giunti a cavallo per miglia: gli ipertesti di History Channel – in sei puntate- diranno celate invasioni, colate per bus e metrò sfrigolando. Si leveranno nostradami in coro, e da destra a manca scriveranno Londra e New York come le nuove Gog e Magog; ma si confuterà la bibbia con norme preventive, si calcherà la mano attorno al mito del purgatorio e dei suoi gorghi 47 e di chi osò schiantare le due torri. E torneranno per strade i lupi e le volpi, le cicogne sui camini vaticani, campagne frumento per miti pagani, la pioggia la mano che veglia sui vivi e sui morti." *** Andrea una volta predicava in strada la fine del mondo, la venuta degli alieni, un nuovo corso e si portava appresso enormi cartelloni con versetti dal vecchio testamento o citazioni da Carl Sagan; amava definirsi "colui che parla forte senza nulla dire" ché s'immedesimava nella gente al frenetico passaggio davanti al suo megafono, disturbata al cellulare. Qualche anno fa lo presero e di lui si seppe nulla fin quando non riapparve nella nuova veste nichilista. *** Il mio cane scodinzola, annusa il culo al suo cane-guida; uno strattone, un veloce saluto e ad ognuno la sua via.

47 Dante, Inferno XXVI

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- III - Sera (o presagio d'incoscienza notturna) -

A ogni quotidiano ritorno dalle strade attraverso immutabili ordigni e strumenti di orientamento vedo vetrine Sisley, sedi di partito, la vecchia chiesa, i grandi nomi delle vie, e potrei contare giorno dopo giorno ogni passo e scoprirlo uguale per mesi o anni, o se avessi la mano di Grissom,48 col gesso fare il segno inalienabile alle orme del mio cammino. Agli occhi del profiler apparirei un serial-walker capace di coazioni imbarazzanti all'interno di una traccia tutta mentale ma dalle precise rispondenze oggettive, per esempio scrutare il calendario e riconoscere fra i santi i nomi a me pi첫 familiari, parenti preferibilmente, e fare il gioco quello scemo di unire i punti e tirar fuori una mappa del mio stare come prodotto della storia. Ma scoprire con triste meraviglia che tutti i punti sono punti morti che portano visioni genealogiche, esperienze di vissuto e rivissuto; tipo oggi in via del Santo dove ho visto Donatello studiare un modo per far compiere a un cavallo acrobazie tipo Ronaldo palla al piede sopportando il peso di Erasmo Da Narni49, constatando amaramente come la mia linea patriarcale non conti un antenato con la spiccata propensione all'arte e le sue forme, senza contare altre visioni a-storiche e difformi, tramandate dai miei avi tuttalpi첫 in allucinazioni per sentito dire. *** Nell'ora della cena penso a questo appartamento, alla cucina in cui mi siedo e vado, con l'umore sottile, inquinante come il velo di formica che ricopre la mobilia e quest'odore di '60, di bei corredi e averi, e il pavimento con tante fughe quante in volto rughe date in sacrificio per poterci poi appoggiare in sicurezza le suole delle Nike. Ed ecco millenni di storia affacciarsi e configurarsi discendendo nella forma di qualche arnese in nylon, moplen o acetato, un tutto-qui a portata di mano, a mio uso e per lo pi첫 consumo; 48 49

Protagonista di C.S.I. Monumento al Gattamelata, di fronte alla basilica del Santo, a Padova

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la mia casa, le mie cose, la figura malcelata della colpa che per caso non ci scappi la voglia di mollare la baracca e rifondare tutto da un'altra parte per potersi poi affacciare alla struttura della storia un'altra volta, e ripartire poi dall'orto per guardare -ancora- ai grattacieli.

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- IV - Incoscienza notturna -

Vivendo qui s'impara ad ingoiare il giorno come l'ultimo boccone di una cena smisurata nell'uso di aromi artificiali ed artifizi tesi a rimandare la scadenza, e ritrovarsi dopo un'ora con l'affanno e principi di rigurgito, come a ricordare che dopotutto non si è fatto un solo passo avanti e la vita si sta facendo ogni giorno sempre più vigilia di qualcosa che cambia connotati, desideri e aspettative, e poco a poco mi trasforma in spettatore di puntate tutte uguali e replicate. E allora stare come uno stagno nell'attesa del sasso, dello schianto universale. *** Però sei bella libertà, che induci a prepararmi per uscire, a bestemmiare per la casa alla ricerca della lacca, a farmi il ciuffo che per quanto pensato o elaborato (o niente affatto) è sempre “a la qualcosa”; libertà di rispondere al richiamo della voglia di sedersi quattro ore al tavolo del bar ad osservare in modo clinico le variazioni sul tema della gonna, o delle parentesi inguinali. Libertà di lasciarsi sopraffare dalla sete, per puro spirito e piacere nel provare concessioni allo stimolo animale, e pagare come fosse tutto un giro in giostra, ragazze, liquori zuccherini, una babelica struttura che più che in alto mira a nuovi paramenti a perpetuare voglie e brame, sete e fame. Libertà di volerne sempre più e sempre più ne sia concesso. E poi penso a chi mi aspetta giù al portone e suona ché mi sbrighi, e penso -sì- che senza me non berrebbe affatto, dopo anni al bar assieme, finalmente non avrebbe più il pretesto patteggiato con cui socializzare. Perché -dopotutto- come insegna la reclame, siamo amici per la birra e rispondiamo inconsciamente a un richiamo stabilito e non fiatiamo; l'un dell'altro dopotutto frega niente: uno muore e il weekend dopo è tutto apposto e come niente, basta stare in compagnia, cazzi propri, nessun ladro e nessuna spia. Ed è Sabato sera, e ciò che conta è starci, presenziare dare modo a chi s'è visto di dire ad altri in settimana chi s'è visto e aumentare il consenso popolare, guadagnarsi saluti con tante vocali, baci a nomi scagliati per aria e ricordare infine un vago aroma o buoni odori spersi in altre pelli e corpi a seconda del mercato, ascoltare l'ululato che ci abbranca, alzare gli occhi al richiamo della disco sulle nubi come un batman che se ne fotte e si diverte, cercare nella notte la preda-faina che con piglio da cattolica puttana azzanna

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e poi pudica si ritira. Starci in mezzo fino al collo non riuscendo ad aderire a studi di costume che ci vedono del marcio, del malato, e finalmente dire che si sta bene dentro e tanto... e che per quanto si faccia l'occhio critico, ci si elevi dal soppalco della disco s'osservi da lontano persone e situazioni, tuttalpiù se ne ricava nient'altro che una stringa di banali annotazioni pure un poco compiacenti. Incosciente mi condanno a stare fermo con in mano un rum e pera, pur sentendo un qualche cosa che non va; ma mi godo l'assoluta libertà di non capire o non sapere in quali toni o termini parlarne; metti di dire a uno che sta bene, si diverte, che in realtà non è affatto vero che sta bene e se la spassa. Dimmi, a chi credi darà retta? A chi l'angustia o alla pancia grassa?

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Emiliano Michelini La circolazione del sangue

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a mio padre

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- Il ritorno -

Se fossimo insieme dietro il supermercato, con il cuore gettato nei carrelli potremo consolarci con un paio di girelle (nessuno sa cosa facciamo veramente) ma sono tornati gli uccelli-tuono volano sopra le nostre arterie, (tra qualche minuto andremo a prendere il caffè.) Questo amore che non so cosa vuol dire, che sinceramente un poco mi ha stufato anzi, senza un poco, direi completamente ma sono tornati gli uccelli-tuono volano nello stesso modo e nella stessa direzione e ti lasciano in bocca quel sapore come di cenere ingoiata e sai quanto mi ci vuole per nascodermi da loro?

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- La circolazione del sangue -

Quando l’esercito dei batteri sfondò il negozio noi eravamo ancora vivi, e ci hanno fatto uscire uno per uno, chiedendoci gli anni tagliati con il piombo e i lavandini ai lati della casa marcita, quando il cranio si rompe come l’infanzia, come un gioco, un tappeto, un albero di Natale e i colori irrompono dal video. E’ la storia che ci bacia, dopo lo squillo del telefono e i tendini tesi ad ogni obbligo. La circolazione del sangue, il limite… la cittadella del serpente quando il paese si trasforma in anarchia e scende ripido verso la discesa con forbici enormi nelle mani quando il singhiozzo era una lacrima e un fiore che esplode riscalda i fratelli, la psicologia stretta fra le labbra quando forse era troppo tardi io me lo domando…e tu?

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[I corpi sono due…]

I corpi sono due al centro del freddo, nel nucleo, lei vorrebbe dire tante cose ma sente il flusso del sangue dentro i cavi che vivono al suo interno urlare “fermati!” Lui ha stretto nella mano una confezione consumata di McNugget’s Lo hanno appena scartato da un provino per “Amici” C’è questo stanotte, nel cuore di una zona industriale, lui & lei si stringono le mani, sanno che niente li potrà salvare nemmeno le feste di Natale e adesso si sente un foglio che si strappa dove sopra ci sono scritti versi sconosciuti, c’è una frase che ricorre “mentre ti facevi plastificare la patente lei si creava un buco di pietra dentro di se” Sono questi stessi versi che rimbombano stasera nelle orecchie come in ogni altro walkman senza pile e non si può fuggire, ognuno rispolvera le ultime pistole, i proiettili sigarette senza filtro rubate al luna-park. Altre saranno poi le voci che li racconteranno, faranno a gara per avere un posto in prima fila in questo inverno che nessuno ha raccontato gonfio di pillole, senza nessuna musica di sottofondo mentre si contano le presenze su un foglietto stropicciato e gli alberi non fanno più rumore. Il dottore non ha anima e dice che c’era troppa cocaina dentro il corpo, era un sospetto più che fondato tutti lo sapevano e adesso a nulla servono le telefonate a Radio Maria, a nulla servono i consigli, gli orologi, le stanze calde lui dice che non se l’aspettava lei diceva che niente esiste “come quella volta che hai abusato del mio nome”

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- Nella curva -

Lui disse: “c’era anche suo figlio quella sera, controllava le macchine dei carabinieri” incollati a queste vertebre rosa arrivammo assetati, con le chiavi strette in mano, sul muro una scritta “questa è un’altra vita” le indicazioni giuste per arrivare al fiume di asfalto. ………………………………. ………………………………. Il diaframma lacerato, e una domanda, se ci potrà mai essere un futuro diverso da questo che scende dalle scale con una torcia in mano. Il cielo si rovesciò sulle tempie, la marmitta giurò la fedeltà a questa notte, i bambini sentirono la pioggia, si spalancarono le cosce, e poi tornarono. Sul quel muro un’altra scritta: “scomparire, qui”.

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- Un pomeriggio -

Guardammo insieme lo schermo, rompersi in mille pezzi, le pillole per dormire ti tenevano sveglia. Fuori le bambine saltano la corda Come una tradizione, scommettendosi qualcuno e una risata. cos’altro avrei dovuto notare? Per te ho soltanto parole che nascono da una costola, e tu con il viso appiccicato sul futuro, mi dici: “noi non abbiamo scelta” “nessuna facoltà”

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[Si sentono le voci, anche adesso…]

Si sentono le voci, anche adesso che la ragazza ha detto: “morirei per le stelle e non per questa lamiera d’amore che inchioda la mia adolescenza” la vergine schiantata richiama il gatto gli urla dietro, non deve salire le scale sconosciute, qui nessuno ha giurato l’eterno e non sorge mai il sole le finestre sono sempre chiuse di notte qualcuno si sveglia, inventa le gare porta a spasso il cane. Rinasce novembre, piove a dirotto, per lei che dopo le sere sogna qualcos’altro, una nuova droga un sogno senza fughe, qualcosa di assoluto, un pomeriggio di sole. Strabuzza gli occhi, cambia il corso delle cose nel silenzio del suo letto, divora la luna con gli spasmi contrae il ventre e una vena registra gli avvenimenti, le cose.

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- Sala giochi -

Il cielo è divelto, gli alberi, chiamano un nome di nessuno l’orda dei teen-ager muove i primi passi al clangore delle ossa nella cassa “siamo vivi!” hai urlato. E poi una bestemmia non finiranno di chiederci se abbiamo droga, non finiranno. E’ che siamo attaccati qui con questi chiodi ognuno adesso vorrebbe bruciare strappare qualche attimo a questi obblighi prendersi un’altra cosa, un ritmo nuovo, una ragazza. Se ci si schianta tutti insieme avremo la scusa e potremo salire di nuovo la salita mettere la mano nelle tasche, ritrovare quel foglietto stropicciato con sopra scritto il numero e la frase “Simona disposta a tutto”. Non puoi dormire questa notte, hai sgranato le pupille, detto “ti amo” alla prima che hai incontrato, recitato il ruolo del fratricida, agganciato un’altra storia bevuto ancora bevuto sei mio fratello anche stanotte mentre ti esplode l’iride di voci, senti questo sudore, questo freddo, queste voci, “potremo essere qui tutti per te” hai pensato. Adesso ogni orologio è lontano, ogni obbligo è fuori da tua madre e tu preghi perché niente finisca, ridendo implori un altro dicembre che ti ridia la libertà. Ho capito sai, non c’è religione che ti possa conquistare, che ti possa allacciare a qualche cosa… …………………………………….. ora è passato e ti guardi le scarpe e non hai mai voluto essere qui.

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[Lei prese le pillole, quattro o cinque, non ricorda…]

Lei prese le pillole, quattro o cinque, non ricorda senza nessun sole nelle vene con la speranza del vincere nelle pieghe della mano destra non telefonare più, ti prego. Come quando sotto i pali della luce, e tra le arterie dell’autostrada abbiamo dormito insieme scambiandoci i giuramenti, le ricorrenze, le fedeltà mentre l’esercito delle spore ad una ad una pronuncia il nome del gatto nascosto nell’erba non posso sopportare più basta! Nessuna sillaba Stringendo le mani sopra il campo bagnato il colore divorato dalle tempie, il rumore dei camion nella pancia un occhio gettato nella polvere non mi svegliare un’ultima possibilità stretta nei polmoni di questa notte di fame proibita giuramelo adesso, su questa giugulare immortale giuramelo! le spore, solo loro loro lo sapranno.

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- Fratture, contatti I

La ragazza di ghiaccio si perde all’ultima fermata del mattino. Poi così ragionasti dentro il freddo “noi dobbiamo lasciare libere le arterie, far si che i cavi si rilassino” e acquietare ogni bestia, ogni frammento, ogni corsa che decide un pomeriggio. La ragazza di ghiaccio si scioglie i capelli, infila le mani nella borsa e le dita dentro il maschio allagando un’altra auto. E noi persi nei suoni, dentro soli artificiali imprigionando i pensieri, i filtri delle cose, suoni su suoni e mal di testa.

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II

Nella pelle e nelle cosce il testamento, verremo arsi al suono di una radio ed era questo che volevi, mentre sfili le mani dalla borsa crei una nuova indecisione, una nuova figlia di te, delle tue tempie, dei tuoi gesti. Ma io, non so ritrovarti, sei distorto, fai smorfie come se fossero uragani…sbiascichi parole. La ragazza continua il suo calvario, non ritrova l’altra caramella, quella rossa esplosa come un fungo, come un’auto disastrata, cappottata, senza un io. Cosi facendo i frammenti si disgelano e tu ritorni strisciando al distributore, sanguinando…e ti chiede di riportarla a casa e in quella spera ti giocasti il sangue adulto il fumo di un’altra sigaretta.

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- Ode alle hyperninfette -

I ragazzi aspettano l’ennesimo tramonto, con le dita sul pulsante degli scooter quando la piazza si trasforma in un deserto con gli occhiali stretti stretti tra le mani. E le hyperninfette ( come dice Sanguineti) distrattamente salutano un po’ tutti strappano ancora qualche minuto al pomeriggio mentre tutti sono in sella al motorino tanto torneranno subito la sera stessa con i piumini comprati in settimana e il loro primo paio di stivali alla nazista, stretti stretti dentro i jeans del terzo reich.

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- E poi è successo che un’ estate -

E poi è successo che un’estate, ci mettemmo a sanguinare davanti alla vetrina senza fare troppo rumore con le nostra ossa appena nate Luna, Quando la città diventa un mare di tubi dentro il condominio e la stella più luminosa non sa decidere. Chiusi nel metallo nel davanzale finale, dentro la macchina del caffè quando i ragni diventano le strade e nessuna strada è quella giusta Ellie, ti abbiamo cercata, in ogni benzinaio dentro ogni semaforo rosso, dentro ogni videocassetta ti avessimo trovata una volta, una volta soltanto, sarebbe bastato. Per placare la memoria, quando ogni cosa trascolora E diventa inconsistente E si trucca nel modo migliore svegliandosi molto presto la mattina ma non ci siamo riusciti non abbiamo fatto in tempo. Ellie, ghiaccio e sai s’io fossi foco arderei le piazze gli scooter, non avrei pietà più per nessuna e mi rifugerei nella città morente. Per me si va, poi dico no! Ma forse è più semplice dire “ti voglio bene” o una mela al giorno toglie il medico di torno. Ellie, la fuga dalle cellule tumorali

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Emiliano Michelini

Ma c’è speranza, la prima a morire; no, non mi interessa di studiare ho ripetuto fin troppo bene la lezione, so quasi tutto di Marziale perfino la posizione delle virgole sono come loro vogliono.

Ellie, è che qui c’è abbastanza aria per tutti ho detto quasi, quindi alcuni se ne andranno ne ho visti un po’ anche giù al solarium c’era pure la tua amica. Poi dopo ce ne andiamo dove vuoi torniamo anche in quel condominio se lo vuoi Oppure cerchiamo di dare un senso a questo caffè, perché come sai, avevamo studiato per l’aldilà e siamo stati bocciati. Infatti ci tocca restare nell’aldiquà A guardare Paperissima sprint. A rinnovare tutte le nostre tessere scadute.

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Emiliano Michelini

[Le custodie che cadevano, facevano rumore‌]

Le custodie che cadevano, facevano rumore, gli occhi viola, vitrei, poi con quella faccia da mangiafiga ti avvicinasti chiedendomi dei posti, delle ore delle cose, delle sere, delle birre e il tuo giudizio che mi opprime ed il mio che ti schianta ad ogni mossa, è la tua di storia è il latrato del lupo che entra nelle scarpe.

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Davide Nota

Davide Nota Lampi

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Davide Nota

- Discoteca -

A volte occorre prendere la penna al balzo e scrivere come uno scarico industriale perchè il mondo è il torso nudo di un ragazzo senza grazia sulla pista, brutale...

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Davide Nota

- Maggio ‘04 -

Cielo di catarro e urina sopra il travertino sporco. Neanche piove, si condensa questa febbre che ti chiude gli occhi. Fiumicino è nel caos. A Melfi continuano i blocchi della Fiom. La salma di Quattrocchi rotola dall'alto dei cieli spalancando la sua bocca enorme sopra il mondo.

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Davide Nota

- Elemosina -

Sotto le logge di Piazza Immacolata suona un giovane slavo la fisarmonica; è una musica dolce, che distrugge. E' il primo dopo pranzo, e arduo è il piangere sotto un sole che più che al pianto si addice alla morte. Eppure mi affaccio come all'improvviso segnato da un febbrile riflesso, tra la gente che pure è affacciata, o che segue. Si aprono le ante come tante bare dai balconi scoperchiate in una musica lieve, che uccide... Io, zombie tra gli zombie affacciati, lo guardo trascinarsi con quegli occhietti falsi che fanno tenerezza quasi e quel sorriso duro, a denti marci per tutti i piazzaletti del quartiere... ed oggi ancora più lieve sarebbe il morire, lasciarsi cadere; toccare il selciato col sole e la musica, morire in odor di Balcani... Cadono le prime monetine come un pianto metallico, inumano, pegno che un dio in azioni saprà certo raccogliere.

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Davide Nota

da La carne

Mah... non so cosa mi muova a quest'ora lungo queste dissestate strade; le quattro di mattina la bonifica si illumina di una luce spettrale e una livida esigenza di carne si ramifica come un mattinale orgasmo; in fila come ad un mercato di pesce stanno corpi di ragazze; fanno cenno di accostare, sorridono, i denti gialli e il trucco in viso viola slabbrato come da un sudore acido, mortale. Oltre la prima rotonda del centro commerciale, poco dopo il parcheggio della Barilla, stanno i trans seduti sopra seggiole, o in macchine accostate, mostrando seni da ormoni gonfiati, siliconati, calze in nylon sopra mascoline gambe e labbra dure, brasiliane, pronte al male; davanti a me una Punto bianca accosta di giovani ragazzi piena, liceali forse da poco patentati che ubriachi ed ironici qualcosa gridano dal finestrino ripartendo di seconda, subito, in sgommata... ah, la polvere che alzata sopra il corpo marroncino posa del ragazzo dai due sessi una fuliggine pare che quasi annulla questo mare di carne brulla dentro il quale entrambi andiamo; così giro, a una seconda rotonda, facendo come per tornare a casa dopo un vano viaggiare, con l'alba che minaccia una presenza che no, nessuno sarebbe ora capace di accettare con serenità; la strada è un mattatoio di macellate speranze che la pioggia lava con una lucidità che no, non mente, oh... perdono, paese mio che ti percorro come un indifferente malato, come se non ventidue anni ma secoli, millenni di vite fallite trafiggessero un cammino ormai casuale, paese, paese mio che finalmente vedo come un amico aprirti in terminale confidenza, come sei potuto cadere in questo pantano di stracci di merda e di sangue mestruale sui bordi gettati di questo pallido litorale adriatico, come hai potuto? Sì, ricordo le domenicali gite su queste contrade come si ricorda un cadavere all'improvviso dissepolto; madre, madre, tu eri una giovane e bella comunista... si andava al mare col papà e gli amici a parlare del partito, della Russia, e quell'odore, sai, di pizza rossa che prendevi all'alimentari all'angolo fra il lungomare e il porto no, quel sapore non lo dimenticherò mai... Ma ora la Russia non c'è più; il muro si è aperto come il ventre di un morto sprofondato nel mare le cui viscere maciullate già dai vermi si inalberano come meduse tra le acque dell'occidente attonito; mio nonno, il fascista buono, neppure lui c'è più! Sulla destra Ascoli è una scacchiera di cementate lapidi su cui il primo raggio di sole si posa come una lama sui polsi di una adolescente; cinguettano gli uccellini dagli alberi a un indifferente cielo che si apre su questa giornata nuova. Le puttane sono tutte andate a casa, all'improvviso, come gufi. Le prime macchine che incontro, operai o managers, dove poche ore fa un banchetto di carni sudate ergeva a richiamo capezzoli e mutande, ora organizzano un altrettanto desolante parcheggio aziendale, tra tute da lavoro, camicie... […]

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Davide Nota

Penso a tutto questo varcando come un paesaggio sublime il ponticello rialzato che divide la zona industriale dalla città; Monticelli è il primo quartiere che rincasando si trova. Il muro che conduce alla salita di casa è pieno fitto di cartelli elettorali, scritte, offese: vale e elisa troie, comunisti ebrei, anconetani froci, ok... ma non giro come dovrei girare per il piazzale della palazzina, come un ossesso stregato da un gelido albeggiare continuo ancora in terza la stradina che conduce sulla principale strada; qua i lampioni iniziano a scemare già le loro luci, e qualche edicola ha da poco alzato teneramente le serrande, accostando i giornali vecchi sul marciapiede come valigie da disfare; sulla locandina del Corriere provinciale spiaccicata sta la foto di un incidente «schianto sulla nazionale muore giovane ventitreenne» l'idea tra le lamiere della carne accartocciata mi percuote, l'aroma del motore fuso che si mescola alla morte, al sangue; e la carne, la carne spiacciccata tra le porte e la strada, a mattina presto, davanti alle grandi aziende, ai centri commerciali; come potranno grandi dirigenti, impiegati, ignorare domani tutto questo? come potranno dire che tutto ancora sia da vivere quando un corpo gli si è appena spappolato come un pomodoro fracico davanti seminando come grappoli d'uva marcia tutti gli organi malconci come straccetti di sangue accantonati lì in mucchietti di carne che qualche spazzino spazzolerà via presto? No, non si può essere più quelli di una volta. Ed io che ho vissuto solo una notte e già esausto torno come da una guerra civile, come potrò abbandonarmi domani al mondo, con quali speranze, con quali aspettative? Le elezioni amministrative sono già qualcosa che neppure mi ricordo, getterò una mezza croce su una sinistra mezza senza sapere neppure il perchè primoridiale del mio gesto; no, non sono le occasioni ma le finalità che mancano, le ragioni... e in questo modo torno a casa, solo, come un pezzo di carne per le strade della nuova Europa...

Note: poesie tratte da Battesimo (LietoColle, 2005)

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Davide Nota

- La doccia -

No, la vita non è enorme, si incanala come un torrente in rubinetti chiusi e sgocciola, calcarea, di doccia in vano, si raccoglie, tra gli abusi, sciolti dei corpi i resti in acquitrini viola che l'estate dai finestri asciuga; così resta, ad un sapone attiguo, un pelo tuo ricciuto, nero; l'oggi è quanto resta, scoria che la fuga della storia elude: un perizoma sgualcio ai piedi del cesso, un rubinetto semiaperto, il pacchetto dei preservativi che raccolgo e getto… tu t'accasci sulla tavolozza e pisci parlando di Bologna e non capisci che quello che davvero mi stupisce dal tuo corpo defluisce in nuova fogna.

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Davide Nota

- La casa -

Residenza: osceno letto dove tornare alle sette di mattina col fiato disgustato e il membro eretto. Ecco qui: il libretto universitario, un vasetto di yogurt, un accendino. Eh eh… didascalici i miei anni tutti persi. Quanto a noi t’ho scritto una lunga e-mail questa notte perduta tra i file dell’estate (l’ha demolita il caso in un momento). Capisci amico caro il pentimento di averti consegnato questo scalcinato orizzonte di stucco e scotch coi poster scoperchiati in croste sull’intonaco vecchio maculato e le bagnate rughe delle pagine che asciuga questa estate e ingialla… Cmq sia non so più scrivere, hai ragione. Sarò costretto a vivere o morire. Amico mio il nostro amore è buffo. Altro che lo stantuffo attonito, il perpetuo vagito della moglie che s’ingravida di schifo. O casa, dolce casa, disarticolata dimora di piante e di foto di mio padre senza i baffi in un paesino di duecento abitanti coi santi Rocco e Gianni appiccicati al muro, casa di poster che si cascano in avanti dal ruolo scollati dei miei 15 anni, casa delle prime sigarette in balcone, della prima comunione col sesso e con l’alcool, casa di lagrime e rovine: tempietto d’asfalto, museo delle prime poesie: addio.

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Davide Nota

[Tu pensa un po’ che bel Natale…]

Tu pensa un po’ che bel Natale senza albero e famiglia: grazie mille storia d’Italia meschina, storia di eredità contese, di cortese rovina. O una canzoncina didascalica per vivo ripensarmi in ciò che resta per non cedere al suolo che rimescola la cenere la cenere alla vita. ‘Sta notte balleremo fino all’alba sopra il suolo che si sfalda, che cede: nel vuoto giorno vuoto del dovere io ti battezzo cementizia grazia.

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Davide Nota

- Il depuratore -

Nel canale otturato dalle scorie s’incaglia l’esistenza che snatura: assorbe tutto il vivere la storia. Se passa ne distilla un succo amaro che naufraghe le foglie incatramate deposita vigliacco sulle grate. Tu questo come puoi chiamarlo amore? Mi resta indifendibile il segreto di te che all’ombra di un depuratore mi chiedi allora bello come va?

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Davide Nota

- La condanna -

Amico mio la primavera tutto cambia radici sensi sradica deriva la riva la trovammo rosicchiata i nomi dei fiori perduti appena. Non lo aprirò quel libro di botanica, la vita è irrimediabile, del resto… Così a Nicola lo metteranno dentro. Spaccio di eroina, tentata strage. Lui dice due anni al fresco cosa vuoi che siano non è che ci sia granché da fare in città… Leggerò dei libri, mi porterai qualcosa? Certo, ora però l’importante è che… (Piange la madre sotto le lenzuola, prega il rosario, anche se non crede.) Mi ricordo di un racconto che scrivesti (o forse un sogno) di te bambino che ridevi in cima a un albero… dovresti leggerlo, come per dire signor giudice a parte i fatti c’è dell’altro lo capisce che c’è dell’altro nella vita di un uomo? «Non preoccuparti, starò bene. Grazie» Un giorno al fiume mi dicesti sono povero perché ho tutto mal trattato e forse l’unico peccato è proprio questo sciupare doni, le occasioni… (certo, anch’io… in altro modo…). Amico mio la primavera tutto cambia radici sensi sradica rovina la riva la trovammo rosicchiata e i nomi dei fiori… Non siamo mica nati per questo centro di feste universitarie ed empori… Tornare nei boschi neppure ci serve, il silenzio è altrettanto volgare. Le icone del niente sopra gli scooter se ne vanno invece verso il mare

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Davide Nota

dove ridere sfacciatamente sarà il loro modo di sentirsi gente. Poi lo saranno sempre, e senza grida sfacciati padroni di immobili ed aziende o di famiglie corrose dall’invidia… Torti nell’utile, come una garanzia di riuscita, nell’indecente calcolo della nostra ferita. * Tu, quando avrai corroso ulteriormente la resistenza dell’umano, preparati ad uscire: il vero mondo è lì, lì fuori. Sopra i piloni di cemento le scritte di un tempo sono tutte andate via col sole. Resta la macchia di quando cascando pensasti: uccidetemi, al punto che sono non sono più utile a nessuno. L’inopportuno così tenero e sgradito tuo modo di parlare, chissà perché è rimasto quell’alone proprio lì, dove tu eri. «Non sai niente? Siediti, devo parlarti…» In questa conca orribile di muri solo le ombre rimangono violente sugli stabilimenti e le ringhiere o come epitaffi alla memoria le panchine riportano in vita un vociare di morto che si raggruma… E nel parco la giostra divelta adesso è un fosso dove prima invece un perno… Tutto è negato a chi si muove innamorato delle cose: non pretendere bisogna, dimenticare in fretta… guardarsi dalla fede, imparare a far di conto… * «Noi siamo noi per loro che sono così tanti

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Davide Nota

e tutti così loro…» come una mosca sulla carta che l’appiccica canticchia Augusto incrostato al bancone: «condanna è questo stare al margine, è il lager della vita, che nessuna rivoluzione…» «La vita inutile, inutile la vita che trascorre inutilmente e starcelo a dire a cosa serve? A dire: prima o poi… Ma tanto prima o poi niente.» Solo una grande esplosione (per dirla alla Pasolini) salverà questa nazione, o un’invasione di gentaglia, o una carestia… Ma non lo so, ma che ne so io… Fefo dice che bisogna essere estremamente sinceri cioè ridere commuoversi gridare antisociali e belli parlare a voce alta, parlare sempre…

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Davide Nota

- L’origine -

Il fiume risalendo diventava qualcosa di terribile e non l’acqua ma le ferite aperte sotto ai piedi lasciavano percorsi per gli squali. Forse perchè tu vivi adagio, costeggiando non puoi capire, è inutile, l’urgenza di sbagliare, quando di notte scivola la pietra e la scelta è quale spalla fratturare, nient’altro. Ma dove per l’origine? Il passaggio non lo si trova più. La luce che si scolla dalla sera ci lascia dopo il sogno, senza scampo con la via della natura preclusa dai copertoni delle auto in fuga.

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Davide Nota

- Lo specchio -

Questo viso appartenne ad un poeta che un giorno ti battezzò sua musa e che ti amò riconoscendoti sorella perdutamente e con tutto sé stesso. Per l’ultima volta mi illudo di esserci quindi per favore non contraddirmi e dimmi che domani ce ne andremo oppure se non ci credi fai finta. Su queste strade passeranno ragazzi che senza sapere dove sbattere la testa andranno avanti ricavandosi un ruolo se non rispettabile, rispettoso… * Poi nello specchio questo viso che non conosco, all’improvviso questo sorriso atroce. Come chioma al vento va davvero il pensiero dell’uomo mosso dall’utilità del cosmo? E chi saprebbe accettare una simile evenienza? Non la bambina che corre dal padre chiedendo riparo dalle piaghe del giorno né tanto meno noi. E attorno c’è una stanza e la ragazza sorridendo chiede aiuto. Chi potrebbe accogliere l’ipotesi che nulla è adatto all’uomo se non il sogno? Non queste strade, non queste parole ma solo il bisogno di altre? Sorella, senza troppe domande chiudi gli occhi e tira questa bianca striscia sul bordo del lavabo.

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Davide Nota

* Diremo tante cose salutandoci, che non si può permettere alla vita di avere l’ultima parola. Arrivederci amica mia, ciao. I cadaveri buttati in fondo al mare sono ghermiti d’alghe. Tutte le ossa disperse nella storia adesso affiorano dietro agli scogli illuminate da un oltraggio chiaro.

Note: poesie tratte da Il non potere (Zona Editrice, 2007).

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Davide Nota

Lampi

Se pure ti avessi incontrata, vita sarei rimasto immobile, incapace a piangere come di fronte a un morto. Sotto un fiotto di luce se ne stava col suo camice bianco di angelo o di dottoressa. Balliamo dai ‘sta sera sono allegro come un bambino, ehi mi riconosci? TUZ TUZ Noi tutti sui divani a far l’amore con noi stessi, a premere le mani sui sessi solitari… Salutiamoci così, senza lacrime né baci. Basti una stretta di mano a dirsi addio, una pacca sulle spalle, da padre antico... * Con ali di cemento armato tornerà il domani a coglierci, di nuovo impreparati a una seconda vita… * Non rispose. Morimmo sotto braccio, in overdose nel gabinetto di una discoteca marina. I nostri corpi tra due fuochi, fuori la tragedia mattutina, sopra di noi il bianco neon della cabina... Così ci salutammo, nello specchio per ridere di noi nella rovina come pazzi abbarbicati al secchio dell’immondizia. (Il cliente selezionato non è al momento…)

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Davide Nota

Si parlerà domani di eroina o di problematiche legate al vuoto del mondo giovanile. Così muto riuscii a prenderti, selvaggia maestà delle Puglie: ti chiamo selvaggia maestà de li mari: li scogli o l’oblio, il creato e nisciuna: che ridere amore mio che ridere l’infinito che si scaglia oltre il parcheggio abusivo.

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Stefano Sanchini

Stefano Sanchini Dov’è il mio editore?

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Stefano Sanchini

[Generata dal fuoco erosa dal vento…]

Generata dal fuoco erosa dal vento purificata nell’acqua, la pietra dal cuore duro che non inganna insanguinata da mille battaglie allo stesso modo indifferente al pianto del pastore, alla preghiera del santo ascoltò i gemiti d’amore le vendette, e l’uomo che solo e da solo scelse la morte generazioni le passarono accanto e lei rimase lì, dove già era, prima delle stagioni, di cui mai ebbe timore più impassibile di qualunque asceta più solitaria di ogni eremita al di là del bene e del male la pietra fu il primo utensile, che al primate fece più familiare il mondo, arma, che da preda predatore lo rese dalle tempeste e dal gelo dell’Appennino trovò in lei riparo il contadino e le parole di lui, si rifugiarono in lei e poi si fecero fuoco quando decise di ribellarsi all’ingiustizie e l’infamia dei re così parlano a me la pietre quando a questi ruderi torno qui conosco ciò che non sono lascio il vino la chitarra e il canto a te pietra che vita non hai ma Dio solo ti è pari nell’anima…

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Stefano Sanchini

- Una città qualsiasi -

Sale e conchiglie in frantumi ha portato il vento, in questo viale infernale, dove tra fumi, costrette passeggiano le veneri nere. Vendono infreddolite il paradiso terrestre, regalando la mela proibita di cui si nutre la serpe, sono vergini antiche da tempo malate, angeli asessuati, sante con in grembo un Cristo crocifisso dal virus, e non è un solo Pilato a lavarsi le mani, quanti e quali Giuda le hanno tradite e condannate a tanto, chi la merla orgogliosa che tre volte ha cantato la legge che vieta il piacere e il mestiere, togliendo la libertà a chi ne ha voglia rendendo schiave le altre, minorenni e straniere, è il secolo feroce che sbrana la puttana, nessuno la salva eppure ogni notte c’è chi le è vicino, ma non è la belle epoque della sottana o della giarrettiera, infuria la bestia che a forza di botte uccide la preda in questa era dell’usa e getta, e chi quasi per beffa discute ancora di leggi morali o divine intorno la schiera degli innocenti e dei sani, le facce pulite degli altri esseri umani.

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Stefano Sanchini

[Sotto le stelle andare in bicicletta…]

Sotto le stelle andare in bicicletta sulla città che dorme, col mare che ti aspetta, al molo incontrarsi o in altri luoghi furtivi per sentirsi vivi, il piacere di parlare o restarsene in silenzio, ad accogliere la brezza come fosse la carezza della donna ormai lontana. Evitare nei fine settimana i locali della notte, dove tra chimiche sostanze aperitivi colorati, si finisce a fare a botte ad essere ammazzati, chè già ogni giorno un po’ si muore nel millennio che ti bombarda il cuore, e tu cerchi la facile rima in questi anni difficili, ecco l’impegno denunciare tutto quanto lo sdegno verso la civiltà incivile, che prima della parola utilizza il soldo e poi il fucile…e poi pensi e ci pensi alla telefonata amica di Gianni D’Elia che ti risolve l’apatia, proprio l’11 settembre allora ci pensi e ci pensi, che l’esplosioni non sempre, portano il male e la morte proprio adesso, che le giornate son più corte vedi della campana tua di vetro la crepa, così ritorni al metro per cercare di imprimere nel verso il respiro, del sentimento diverso che sia utile anche ad altri e sia più forte di ogni vento…

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Stefano Sanchini

- Metropolitane -

…e poi verso la luce si sale e già prima di essere fuori lo senti quel grande boato che è il nostro vagare… …forse le hanno costruite per questo le metropolitane, per ricordarci il momento iniziale, quando dall’utero della madre si parte … …o forse per ricordarci che non siamo mai partiti, e c’è solo chi scende e chi sale…

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Stefano Sanchini

- L’uomo e i quattro elementi -

Il paesaggio che ti circonda è innamorato di te e tu te ne accorgi nei giorni d’amore quando incontri la donna che colma il tu cuore quant’è piccolo il tuo cuore, o quanto distratto sei, il tuo respiro sta sulle foglie degli alberi e tu ti senti il protagonista del mondo e del mondo inventato, che chiami il regno dei cieli, tu che sei la morale e la legge, cosa saresti senza l’acqua che si dona a te e tu inquini, costruttore di bombe ascolta la silenziosa esplosione del fiore che col suo odore e colore guarisce i tuoi mali. La natura tutta, si manifesta in profonda armonia, persino la morte, tu invece sei lo strumento stonato in questo grande concerto, che nulla chiede in cambio e non conosce denaro. Riscopri sotto i tuoi sterili cementi la terra che il tuo cibo ti offre e quello degli altri viventi, lei nasconde il fuoco che non solo ti scalda, ma ogni cosa trasforma e tutto rinnova. Tu padre dei nomi, figlio del linguaggio che parli, fermati e taci! Oggi io sono fertile…

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Stefano Sanchini

- La morte dell’oste -

L’han trovato che era morto l’han trovato giù nell’orto le cipolle non han pianto i pomodori erano rossi gli ubriachi giù nei fossi lui serviva il nostro vino tra il basilico e il rosmarino tra il finocchio e il cardo santo l’han trovato in ginocchio con la zappa tra le mani due meloni aveva colto i peperoni per domani il domani se ne andato se ne andato verso sera fra tre giorni sarà sepolto domanderanno lui chi era era l’oste l’oste è morto un po’ più triste è il mattino chi servirà il nostro vino chi darà l’acqua al suo orto adesso che l’oste l’oste è morto…

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Stefano Sanchini

- Moka -

A volte, ovunque tu sia bussano i ricordi alla tua porta e tu, non li lasci esitare lì, sulla soglia come degli ospiti li inviti a entrare, prendete assieme un caffè in aroma passato e ogni volta sembra ci provino il gusto a farti assaggiare l’amaro di tutte le volte che ti sei sbagliato così vai nel fondo della tazzina a cercare qualcosa che lo possa addolcire, ma ti perdi nel nero della bevanda che non sai tornare, ti innervosisci e se è notte non riesci a dormire, il dottore dice che la colpa è della caffeina,un alcaloide che il sistema nervoso inquina e del cuore accentua il rumore…

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Stefano Sanchini

[Pensavo alla neve sul tetto che il sole…]

Pensavo alla neve sul tetto che il sole di un marzo ancora non caldo scioglieva, lo stupore che si prova nel petto quando il paesaggio tutto s’imbianca, sentivo la grondaia gocciare immaginavo la goccia che scende si ferma e di come infine scelga di unirsi a una goccia piuttosto che a un’altra il tutto fluiva in un rivolo d’acqua, tante domande fanno i bambini l’adulto ha sempre pronte risposte anche se sbaglia, ma perché la neve ora se sciolta senza porsi alcuna domanda?

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Stefano Sanchini

- Praga -

Jan Hus, la verità è morta col nascere della parola, mai più potremo comprendere il pensiero del cigno, fermo sul ciglio del fiume, in fondo la poesia non è di parole, è l’infinito che a tratti per brevi istanti percepiamo, restando poi arresi, afflitti nell’inferno della materia nel linguaggio di cui siamo fieri. Così quello che vidi, lo vide anche il pittore, quel giorno, lì, sulla tela, furono nostri sentimenti emozioni che non hanno nemmeno un nome. Defenestrare l’anima dal corpo buttarla giù dagli occhi lucidi, ora non basta, insomma provaci tu, se ci riesci, a spiegare questo duraturo incomprensibile frammento: L’arancio sui muri di Praga.

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Stefano Sanchini

- Le colline di Chagall -

Sulle strade nuove sempre si incontrano vecchi amici che dai naufragi tornano felici, alle colline di Chagall caldi dipinti di chi sa di non stare tra i vincitori o i vinti. Qua si guarda la luna che ti guarda. Il poeta è sul ciglio della strada prende appunti sul suo taccuino cresce il grano, tanti sulle panchine attendono la morte questo vino forte che fa paura offri al tuo vicino, non è la sorte è il terrore in cui cresce l’assassino è la tua bomba che ritorna dai paesi sconosciuti dell’oriente crollano nella babele del potente le torri in ferro vetro, la bomba che rimbomba da Madrid e poi a Londra nella metro, è la stagione triste, della fecondazione artificiale si modifica il seme e non sappiamo ancora seminare aride terre fioriscono fiori del male

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Stefano Sanchini

- All’ex-Jugoslavia -

Voglio vivere come gli uomini di questo treno a vapore che tarda, ore e ore sotto il sole lasciandoti sudare e mischiare il tuo odore, con quello degli altri passeggeri stanchi ma mai inquieti vanno a baciare i padri o i figli al di là del confine, che altri da fuori, hanno tracciato per loro. Perché dicono che qui, la terra è guerra. Eppure, oggi la verità è un’altra, e se il treno si ferma o si guasta in questa verde vallata, loro scendono sorridenti a sgranchirsi le gambe, e a raccogliere trai rovi, le more…

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Stefano Sanchini

- Un poeta alla sua amata (la poesia) -

Sono questi i versi che aspettavo le sere d’estate, disteso sui tramonti caldi dei prati e tu sei la giovane contadina dai larghi fianchi, dolce come il peccato, innocente come la colpa che fu, del primo uomo. Venisti alla mia soglia per dissetarti dall’arsura, improvvisa come i temporali, dopo che il tempo ci tenne per secoli e secoli separati. Ora io vengo alla tua terra, con in dono le mie bianche cipolle dissepolte e tu mi offri le tue gardenie di cui così goloso è il sole e avido il neonato. Coprirò la tua carne con la trama sottile di questi versi ma tu lascia, in onore alla muse, che io possa ancora succhiare il nettare, dalle tue cosce dischiuse…

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Stefano Sanchini

- Un professore d’estetica -

La bellezza: il respiro caldo, sul vetro freddo, di chi ci attese. La forma: il tempo che variando varia il mio stato d’animo. La sostanza: il cane, l’amico, le amarene, le sue labbra. Lo stile: le strade abitudinarie che rincasando percorriamo la notte e nessun altro conosce. Le figure retoriche: strutture linguistiche per rappresentare i moti dell’anima. La parola: strumento nato dal brusio del fuoco e dal silenzio dei pesci. L’arte: movimento in continua trasformazione. L’artista: osservatore curioso dal facile innamoramento e che tende a tradurlo in un linguaggio.

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Stefano Sanchini

- Emigrazione Al mio simile, lo straniero e ai suoi occhi che hanno visto ciò che non conosco

Dispiegare le ali e volare non è facile, lasciare le terre che hanno udito il primo canto quando l’alba col suo guanto ti rinfresca le piume sonnolenti, è la fame che senti, più forte del petto che edifica il nido, a metterti sulle calde correnti in cerca di cibo o del destino, anatra airone cenerino e rondine, vi siamo compagni. Lungo, è ancora il viaggio non bisogna affidarsi al cielo ma restare uniti, si deve sull’improvvisa neve sulla forza che cede, ché profondo è il mare non ci si può nel fondo volare. Così noi si va, senza sapere di quali bestie saremo prede…

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Stefano Sanchini

- Francoforte -

Il divertimento si inventa, non si paga oggi questo è l’impegno, indaga, nell’ex-sistere il canto esce fuori dal sistema, così tu sei l’individuo non il numero la statistica, l’arte è l’inutile economico che serve alla rendite del pensiero, siero a quiz a premi, a calcio mercato, la mente è il plus valore, non mento, ed il vissuto di cui padrone è l’essere non è un gran capitale, in quanto passato non è dimostrabile, non vale, se lo rievochi il fatto lo trasformi e nessuno se ne accorge, nemmeno tu che sei l’autore, ma ciò dimostra che nell’attuale mondo delle finzioni, il reale è quello che ci portiamo dentro, il presente solo quello che si scrive poiché l’unico che resta.

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Matteo Zattoni

Matteo Zattoni Un corpuscolo di umanitĂ

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Matteo Zattoni

[Quando arrivi sei il tuono che preannuncia…]

Quando arrivi sei il tuono che preannuncia l’accavallarsi delle nubi hai lampi scuri negli occhi, e la polvere dei tramonti ti si posa sopra e, ora, proprio sulla bocca te ne vai in uno scroscio di pioggia come la rugiada non lasci altra traccia che sulla pianta, l’inciampo d’una lacrima.

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Matteo Zattoni

[Levati i tuoi occhiali, anzi no magari…]

Levati i tuoi occhiali, anzi no magari lascia che sia io a levarteli e poi guardami l’una davanti all’altro anche solo per un attimo di più non sarà necessario, ora rimettili sul naso come se nulla fosse stato ma fallo piano, con la mano con cui lo fai di solito, rimettiti tu a posto dietro di loro – c’è tutto un mondo attorno solo da mettere a fuoco e che guardandolo dà e prende fuoco.

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Matteo Zattoni

- L’abbraccio -

“Tu dormi accanto a me così io mi inchino e accostato al tuo viso prendo sonno come fa lo stoppino da uno stoppino che gli passa il fuoco.” Valerio Magrelli

Affondo il mento nel golfo che formano il tuo collo e l’omero spostandosi il primo di lato, e l’altro lasciandomi spazio per il naufragio si tende naturalmente verso il basso così sento il braccio spezzarsi ad angolo, all’altezza del gomito le dita della mano che risalgono come una scialuppa di salvataggio lungo il dorso, su fino alla base del collo, e qui si ritrovano.

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Matteo Zattoni

[Come ti muovi fai danni incalcolabili…]

Come ti muovi fai danni incalcolabili come certi uragani, li provochi soltanto con il tuo muoverti e lasci agli altri, inermi, l’onere di calcolarli di ricomporsi da soli, i tetti delle case scoperchiate di riassestare le strade, riaprire ai ragazzi le scuole perché si possa tornare tutti a una vita normale, com’era prima senza neanche sapere più quale sia quella vita e se valga la pena di viverla.

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Matteo Zattoni

[Ti ho lasciato abitare il mio corpo…]

Ti ho lasciato abitare il mio corpo un metro e sessantotto per poco di lato, ti lamentavi sempre che per starci in due non c’era spazio così una sera mi hai comunicato lo sfratto come se fossi tu il proprietario so che intanto ne hai trovato un altro più comodo – ti auguro.

Note: poesie tratte da Il nemico (Ponte Vecchio, 2003)

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Matteo Zattoni

- Il portiere -

Il personaggio non ha ruolo, dunque è protagonista. Le iridi trasparenti, un sorriso di comune arguzia. Vede il debole, la sua miseria, e affonda sorridendo. Maurizio Cucchi

Sul campo nessun avversario, solo l’uomo e il portiere calvo del condominio, piccolo portiere notturno, di giorno professore senza professione, un rumore che sveglierebbe tutto il quartiere, ma lui no, non risponde, impreca si accende la pipa, finge di avere qualcosa nell’occhio – un corpuscolo di umanità.

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Matteo Zattoni

[Abito alla periferia di me, vorrei tornare‌]

Abito alla periferia di me, vorrei tornare dove non sono mai stato con la placenta come abito nella pancia della balena, impiantarmi dei finti ricordi di un finto passato appassire piano piano vicino al muretto basso del cortile giocare col rampicante in giardino senza per forza seguirlo anche in tutti i suoi sviluppi verticali, assestarmi a meno di un millimetro dal limite ultimo del mondo, tornare indietro ridendo per l’assurdo sforzo cieco e umido, stasera non ci sono per nessuno sono al centro di me, sono solo.

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Matteo Zattoni

- L’estraneo bilanciato -

Prima persona o terza ben confuse e le due teste sovrapposte ai vetri verdi: le due figure sono forse una. Maurizio Cucchi

A mezzanotte non sono io l’ospite che dorme con il respiro soffice e delicato dell’estraneo che non ha una sola responsabilità sulla casa, come una mamma lo guardo nel sogno e non sono invidioso del suo confidente riposo, del suo tirar su col naso mi potrebbe ingoiare con la bocca grande e vorace, coi denti scoperti sminuzzare in un boccone neanche, poi si sveglierebbe voglioso di raccontare a qualcuno chiunque sia, il buffo sogno si crede al riparo da tutto, si crede al sicuro bilanciato tra l’orma pronta del guanciale e l’altra ancora da plasmare sull’opposto versante, penso che in fondo anch’io sono stato così, confidente e beato ora giro scalzo per una casa non mia di cui sono guardiano sono così stanco, vi giuro, di tutto come se avessi già vissuto molte e molte più vite, e mai nessuna mai che sia felice.

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Matteo Zattoni

- Una notte a Milano -I-

Si arriva nella calma dell’hangar, coperto e senza tempo, inseguono tutti l’inizio del pomeriggio, il suo verso nel passo frenetico e lui, per dispetto, diventa eterna sera capitale decapitata della cultura, una statua come monumento a se stesso, mausoleo di nulla il neon della pubblicità illumina il retro dei sacchi di carne brodo sparso sulle scale un attimo e avresti voglia di correre, ma rimani immobile concentrato sul tuo dolore, egoista anche stavolta.

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Matteo Zattoni

- II -

Alberto e Silvia, sono gli amici la vita e la città ci uccide, poco alla volta, le amicizie non le divide, le diluisce in trame complicate di parole e architetture, piove Milano pesa sulle cose che ci diciamo nell’abitacolo, unico spazio abitato, la morte è un passaggio pedonale di notte senza semaforo in macchina la capitale si sfascia, perde antichità si fa più autentica e devi prenderla sul serio la gente del sabato sera che fluisce al centro, spietata i locali si riempiono, le macchine parcheggiano dove non dovrebbero – e ci si incontra finalmente! in coda per prendere le sigarette.

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Matteo Zattoni

- III -

Milano è una ragazza che si passa tutti quelli del gruppo, tranne uno, stufo di essere fottuto senza godere, la provincia ti rende impotente di fronte alla grande notte del Nord i serpenti del metrò mi hanno già morso i ferro-tranvieri seguono binari che non mi interessano stai attento quando imbocchi il sottopasso guàrdali negli occhi, non abbassare lo sguardo tra poche ore i cyborg torneranno a far piazza pulita della puttana di prima ma stanotte qualcuno avrà fatto l’amore.

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Matteo Zattoni

- IV -

L’uomo che monta sul cofano è lo stesso che tira calci al vetro della macchina che la cavalca dal tettuccio, che scivola sul cristallo di ghiaccio, che si schianta a terra dall’altezza di un metro con suono sordo e cupo, è lo stesso che si rialza dopo qualche minuto barcollando – diresti non umano con la faccia spaccata e l’amico inebetito lo guarda e smette di ridere, capisce benissimo neanche la polvere migliore può farti mai più dimenticare… è domenica mattina, a Milano, i tram passano regolari due balordi in strada fanno schiamazzi forse qualcuno di loro ha bevuto un po’ troppo è un altro uomo.

Note: poesie tratte da Il peso degli spazi (LietoColle, 2005)

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Matteo Zattoni

- Il mondo senza spettacolo -

Non saranno i ragazzini a salvarci dal mondo dello spettacolo, quelli ci nascono e non vedono più lo spettacolo del mondo, non si guardano più intorno allo schermo, la speranza è in qualche vecchio con la pensione minima che sa perché c’era quando ancora non c’era questo Luna Park, Cristo e Marx i grandi assenti, Che Guevara e Gandhi altrettanti marchi per improbabili consensi noi della mia generazione ci crediamo superiori al passato, ci autogiustifichiamo senza nome del padre del figlio e dello spirito santo confondiamo la morale col corrispettivo maschile dell’umore, l’utile con l’utilizzabile la bellezza vera col surrogato dell’estetica il fine giustifica i media?

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Matteo Zattoni

- Come fare a cambiare il mondo -

Taglia, ahi! com’è affilata la forbice dei prezzi di questi tempi sono più povere le famiglie di medio reddito sono più sole nelle ristrettezze economiche, e il capo branco teme il giorno delle bollette ha ripreso a dire il Padre Nostro abbiamo profanato tutto, il mondo è il luogo dell’assurdo, ci si libera sempre a metà, senza stimolo come dopo una lussazione, la spalla può uscire da sé durante la notte… Settantenne denuncia il suo prete per una vita di sensi di colpa per una vita stravolta come fare a cambiare il mondo se non riusciamo neanche più a cambiare canale o la sorte?

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Note biografiche

Gli autori

DANIELE DE ANGELIS è nato ad Ascoli Piceno nel 1981. Laureando in Conservazione dei Beni Culturali presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Perugia. Nel 2001 ha fondato assieme ad alcuni amici l’associazione culturale «La Biblioteca di Babele» e l’omonima rivista. Nel 2004 insieme a Davide Nota ha dato vita al foglio quadrimestrale di poesia e realtà «La Gru» (www.lagru.splinder.com). Sue poesie sono apparse nell’antologia «L’arcano fascino dell’amore tradito, tributo a Dario Bellezza» (Perrone Editore, 2006) e nella rivista “Ciminiera”, oltre che su vari siti internet. Nel 2006 insieme ad Andrea Tosti ha ideato il portale di audiocultura “Enne” (www.figlidienneenne.tk). La sua prima raccolta di poesie Diario di un altro, è in fase di pubblicazione presso la Otium Edizioni (www.otiumedizioni.com).

LORIS FERRI è nato a Fano nel 1978, vive a Pesaro. È laureando all’Università degli studi di Urbino. Suoi testi sono apparsi nel n.72 della rivista «Tratti», sul numero “Il Matto” della rivista di esplorazione «Argo», sull’antologia «L’arcano fascino dell’amore tradito, tributo a Dario Bellezza» (Giulio Perrone editore, 2006) e sul volume «Subway - poeti italiani underground» (Il Saggiatore, 2006).

SIMONE LAGO è nato a Cittadella (PD) nel 1983, abita ad Onara (PD) nei pressi di una palude. Maturità scientifica nel 2002, è iscritto alla facoltà di Lettere Moderne all'Università di Padova. Si avvia alla laurea non senza difficoltà. Scrive poesia perché è l'unica cosa che non ha avuto dai suoi genitori.

EMILIANO MICHELINI è nato a Pesaro nel 1977 ma risiede a Cattolica (RN). Inizia ad appassionarsi alla poesia leggendo alcuni autori francesi dell'800 come Baudelaire, Rimbaud, Laforgue, Eluard per poi appassionarsi sempre di più alla poesia italiana iniziando con Cesare Pavese per poi indirizzare i suoi maggiori interessi sulla produzione del secondo novecento. Legge e ama autori diversissimi tra loro come Montale, Fortini, Giudici, Sanguineti, Balestrini, Amelia Rosselli,

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Pagliarani, Porta, Sereni e in generale la maggior parte della poesia italiana prodotta dagli anni '50 in poi studiando e approfondendo la sua personale passione per il Gruppo '63 che però non influenzerà se non di pochissimo la sua scrittura. È piuttosto un libro come Somiglianze di Milo De Angelis (e comunque quasi tutta la sua produzione), lontanto anni luce dagli esperimenti della neoavanguardia, ad influenzarne fortemente la propria poetica e il proprio stile. Fondamentale sarà anche l'incontro con la scrittura pop-artistica di Aldo Nove ad introdurlo ad una personale "poetica degli oggetti" che prenderà corpo in alcune sue composizioni più ironiche. Alcuni suoi testi sono comparsi sul blog di Gemma Gaetani e sul numero 2 del quadrimestrale di poesia e realtà «La Gru». Attualmente sta lavorando alla sua prima raccolta organica che dovrebbe intitolarsi La luna vista dal McDonald's.

DAVIDE NOTA è nato a Cassano d’Adda (MI) nel 1981, da padre lucano e madre marchigiana. Risiede dalla prima infanzia ad Ascoli Piceno dove è stato redattore del trimestrale letterario «La Biblioteca di Babele» [2001-2004] e del foglio quadrimestrale di poesia e realtà «La Gru» [2005-2006]. Dal 2003 suoi testi sono apparsi su diverse riviste (tra cui «Atelier» e «Lo specchio della Stampa») e antologie di poesia contemporanea. Nel 2005 è uscita per le edizioni LietoColle la sua prima raccolta poetica, Battesimo, con una nota introduttiva di Gianni D’Elia. Nel 2006 ha fondato il blog di poesia impura «Carta sporca». Nel 2007 ha licenziato la sua seconda raccolta poetica, Il non potere, per la casa editrice Zona.

STEFANO SANCHINI è nato a Pesaro nel 1976. Ha pubblicato sue poesie in riviste locali e suoi testi sono apparsi nel volume «L’arcano fascino dell’amore tradito, tributo a Dario Bellezza» (Giulio Perrone editore, 2006) nelle antologie «Logos» (Giulio Perrone editore) e «Poeti underground» (Il Saggiatore, 2006). È stato redattore del quadrimestrale di poesia e realtà «La Gru». Il suo primo libro di poesie, Interrail, è stato pubblicato sul sito francese di letteratura www.iguanaroja.new.fr

MATTEO ZATTONI è nato a Forlimpopoli nel 1980, è laureando in Giurisprudenza. Suoi versi sono stati pubblicati su «Specchio», «Capoverso», «Confini», «La gru», «Nabanassar», «Faranews», «La costruzione del verso & altre cose», «Il segreto delle Fragole 2004», «Poeti romagnoli d’oggi e Giovanni Pascoli» (Il Ponte Vecchio 2005), «La riqualificazione urbana e altre poesie» (Coen Tanugi Editore 2005) e «La realidad en la palabra – Escritores italianos del siglo XX y nuestros días» (Editorial Brujas Scorie Contemporanee

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2005). Ha vinto la Sezione Giovani del Premio Aldo Spallicci 2003. La sua prima raccolta, Il nemico (Il Ponte Vecchio, Cesena 2003), si è classificata al 1° posto exaequo per l’opera prima al Premio Giuseppe Giusti 2003. È stato incluso nell’antologia «Nuovissima poesia italiana» (Mondadori, 2004). Ha vinto il concorso Opera Prima 2004, pubblicando Il peso degli spazi (LietoColle, 2005). Il libro è stato recensito sull’Almanacco dello Specchio 2006, secondo numero della nuova serie.

I curatori

FLAVIO SANTI è nato nel 1973 ad Alessandria, vive tra Pavia, dove lavora, e il Friuli. Traduttore, poeta e narratore, ha pubblicato varie raccolte di poesia: Viticci (1998, premio sandro Penna 1997), Rimis te sachete (2001), Asêt (2003), Il ragazzo X (2004), oltre a numerosi componimenti inseriti in antologie collettive. Nel 1999 ha scritto il suo primo romanzo, Diario di bordo della rosa (PeQuod). Nel 2006 dà alle stampe per Rizzoli il romanzo noir L’eterna notte dei bosconero. Collabora con «Liberazione» e numerose riviste, fra cui «Nuovi Argomenti», «L’indice», «Atelier» e «Strumenti critici».

GIANLUCA PULSONI è nato a San Benedetto del Tronto (AP) nel 1985. È stato redattore del trimestrale letterario «La Biblioteca di Babele» [2001-2004] e del foglio quadrimestrale di poesia e realtà «La Gru» [2005-2006]. Ha collaborato con un articolo al n.19 del quadrimestrale di studi cinematografici «Carte di cinema». Una sua prosa lirica è apparsa sul libro d'arte «Acamasce» (Ctl presse, Amburgo, 2006); una sua intervista è nel numero 87 di «Fucine Mute» dedicato alla poesia. Studia scienze antropologiche all'Università di Perugia.

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Indice

Lettera prefatoria, di Flavio Santi

pag. 3

Le gru: teatri e officine, di Gianluca Pulsoni

pag. 5

Daniele De Angelis, Sul volto

pag. 41

Loris Ferri, Demoni e fiori di provincia

pag. 56

Simone Lago, Visioni d’interno, riflesso d’esterno

pag. 72

Emiliano Michelini, La circolazione del sangue

pag. 87

Davide Nota, Lampi

pag. 103

Stefano Sanchini, Dov’è il mio editore?

pag. 121

Matteo Zattoni, Un corpuscolo di umanità

pag. 137

Note biografiche

pag. 152

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