Spazi e corpi. Il progetto urbanistico contemporaneo_Dossier

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Cristina Bianchetti

Spazi e corpi. Il progetto urbanistico contemporaneo

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01QJAPQ – Urbanistica A Corso di studi magistrale Architettura Città Costruzioni a.a. 2018-2019, anno II°, periodo didattico I° Mercoledì 8.30-13.00 Aula 204 Sede Facoltà di Architettura Lingotto Politecnico di Torino Prof. Cristina Bianchetti tutors: Michele Cerruti But, Agim Enver Kërçuku, Eloy Llevat Soy, Lorenza Manfredi, Luis Martin Sanchez, Ianira Vassallo Progetto grafico: Agim Enver Kërçuku


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Three Studies of Lucian Freud Francis Bacon 1969

Spazi e corpi. Il progetto urbanistico contemporaneo


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Spazi e corpi. Il progetto urbanistico contemporaneo

#0 10 ottobre 2018 _ p. 8

Introduzione. Intorno al corpo

Primo modulo: le radici

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#1 17 ottobre 2018 _ p. 10

Lo spazio cura il corpo. Napoli e Palermo – l’ingegneria sanitaria del XIX° e l’igienismo contemporaneo

#2 24 ottobre 2018 _ p. 12

Lo spazio cura il corpo. Central Park, Olmsted e il paesaggismo tra XX° e XXI° secolo

#3 31 ottobre 2018 _ p. 14

Il corpo diventa misura dello spazio: i laboratori moderni. Existenzminimum, Francoforte 1929 Kitchen work triangle, NY (Christine Frederick) 1912-1940 Frankfurter Küche, Margarete Schütte Lihotky, Frankfurt (19271928)

#4 14 novembre 2018 _ p. 16

Il corpo che non c’è. Lo strutturalismo ibrido di John Habracken


Secondo modulo: gli sfondi #5 21 novembre 2018 _ p. 18 Lectio di Gabriele Pasqui

Cosa può un corpo? Il cavallo, Deleuze e Spinoza

#6 28 novembre 2018 _ p. 20 Lectio di Carlo Olmo

Cosa può un corpo? Il corpo è strumento. Il corpo è mondo

#7 5 dicembre 2018 _ p. 22

Cosa può un corpo? Le relazioni tra corpi. Extimité, intimité

Terzo modulo: corpi nello spazio pubblico #8 12 dicembre 2018 _ p. 24

Le lotte urbane negli anni 70

#9 19 dicembre 2018 _ p. 26

Alleanze tra corpi nella letteratura di genere

# 10 9 gennaio 2019 _ p. 28

Letture critiche del progetto dello spazio pubblico

Discussione seminariale e conclusioni # 11 16 gennaio 2019 _ p. 30

Intorno al corpo, nello spazio urbano

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Spazi e corpi. Il progetto urbanistico contemporaneo è un corso rivolto a studenti che intendono, alla fine del loro percorso magistrale, approfondire l’urbanistica contemporanea e il suo progetto. É un corso tematico, nel quale i rapporti tra lo spazio e il corpo divengono chiave interpretativa delle forme di organizzazione, uso e progettazione dello spazio urbano. É un corso interdisciplinare per l’interazione tra saperi tecnici e umanistici. É un corso sviluppato attraverso lezioni e seminari che affianca al docente titolare e a autorevoli contributi esterni, un’attiva partecipazione degli studenti. Obiettivo del corso è fornire conoscenze sui modi con i quali la reciproca implicazione di corpo e spazio ridefinisce l’ambito del progetto urbanistico. Ci si occuperà, pertanto, del modo in cui il progetto urbanistico tiene/non tiene in considerazione il rapporto tra spazio e corpo. Ovvero delle pratiche progettuali attente al corpo. Nell’affrontare questo tema, è necessario tenersi ben saldi ad una prospettiva disciplinare: il rischio è perdersi nelle infinite diramazioni del rapporto corpo-mondo che le arti visive, il design, il teatro e molte altre discipline hanno sperimentato. Questo quaderno illustra in modo sintetico i contenuti di ciascuna lezione e ha lo scopo di fornire il quadro completo dei percorsi conoscitivi che verranno proposti. Serve ad orientare e preparare gli studenti alle singole lezioni che prevedono un loro ruolo attivo. Il quaderno potrà essere implementato degli appunti degli studenti e degli approfondimenti da loro sviluppati durante il corso. Prerequisiti per frequentare è aver seguito con profitto i corsi di Urbanistica del triennio e avere sviluppato un autentico interesse per il tema proposto.

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10 ottobre 2018

Introduzione. Intorno al corpo

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Il corso raccoglie idee, materiali, suggestioni intorno al rapporto tra progetto urbanistico e corpo, come intorno ad un centro di gravità. Un centro che ha preso forme differenti lungo il 900, ponendo attenzione ai rapporti di cura, di misurazione, di comfort, benessere. Un centro che tutt’oggi permane molto forte. La stessa cultura digitale che tanto peso ha avuto dagli anni 90, nella progettazione urbanistica, architettonica e di design non ha dissolto questo centro di gravità che continua a richiedere rinnovata consapevolezza. Marx parlava delle macchine tessili, come di un «filare senza dita», per farci vedere il mondo come un intreccio di gesti generati dai corpi e (in questo caso) dai loro artefatti. Lo ricorda Giovanni Anceschi, in una riflessione sul protagonismo contemporaneo del Leib. La cultura tedesca, come in molti ricordano, utilizza due parole per corpo: la parola Körper e la parola Leib. Körper vuol dire il corpo ridotto a cosa, oggetto di osservazione clinica. Corpo fisico o materiale. Insieme di organi. O corpo morto, privo di vita. Leib è il corpo come lo viviamo nella vita: una parola parente di leben che vuol dire vita, e anche con liebe che vuol dire amore. Le protesi funzionano con il corpo vivente, esercitano una funzione attiva: così i telai di Marx, le forchette o il bastone sul quale ci poggiamo. Oppure la matita, “straordinaria protesi tecnica” – Pasqui, ricordando Sini – del lavoro conoscitivo. «La mano, l’occhio, il nostro corpo funzionano con le protesi più complicate in modo analogo a quello in cui funziona il braccio con il bastone: formano cioè specifici assemblaggi (occhio-schermo, mano-matita, ecc.), che aprono, definiscono e delimitano le possibilità stesse delle operazioni compiute». Questo modo di guardare al corpo e alle sue protesi ha strettamente a che fare con le nostre pratiche educative, tecniche, progettuali. Potremmo aggiungere che costruisce lo spazio che abitiamo. Questo è il nostro corpo, apertura al mondo, intenzionalità alle cose, risposta agli stimoli, immenso groviglio di protesi, costruzione dello spazio. É il rapporto corpo-mondo quello decisivo, non anima e corpo, snodo tradizionale della cultura religiosa, artistica e scientifica occidentale. A questa angolazione è dedicata la prima lezione il cui obiettivo è costruire alcuni orientamenti utili ad affrontare i percorsi successivi e, in particolare, il modo in cui il rapporto spazio-corpo ha costruito e costruisce tutt’ora, orientamenti progettuali. Molto diversi a seconda che si sviluppino nella medicina e nell’ingegneria sanitaria del XIX° secolo, nelle pratiche di riconoscimento e classificazione dei corpi nell’antropometria giudiziaria, nel funzionalismo moderno o in quello contemporaneo, nel paesaggismo, nel progetto dello spazio pubblico.

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17 ottobre 2018

Lo spazio cura il corpo. Napoli e Palermo – l’ingegneria sanitaria del XIX° e l’igienismo contemporaneo

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La prima lezione è dedicata al tema dell’igienismo nel XIX° e nel XXI° secolo. Campo dell’ingegneria sanitaria nella costruzione della città moderna, l’igienismo si esplica come un insieme ben strutturato di studi e di pratiche di intervento nella città, orientato a renderla più salubre. L’epidemia di colera che colpisce l’Italia nelle estati del 1884 e 1885 è drammatica anche se, certo, non inaspettata. Porta a maturazione proposte principalmente da parte dei tecnici che si riconoscono entro l’area dell’ingegneria sanitaria. I progressi raggiunti dalla scienza in materia di igiene collettiva rendono desueti cordoni sanitari e quarantene. Per arrestare l’epidemia si combatte l’origine batterica in campo ambientale. Ovvero nei luoghi che mancano di efficaci sistemi di afflusso e deflusso delle acque. Le tecniche di intervento nei tessuti urbani richiamate dal termine “sventramento” hanno qui la loro origine. L’igiene costituisce un punto di vista unitario sulla città. Su quella di superficie e su quella sotterranea. Le indagini sul risanamento di Napoli, ma anche la costruzione delle reti fognarie a Palermo costituiscono i capisaldi di un modo nuovo di pensare alla città, a partire dalla salute. Nel XXI° secolo le malattie più diffuse sono evidentemente altre: obesità, diabete, malattie cardiocircolatorie. Inquinamento, sedentarietà, errata nutrizione concorrono allo sviluppo di queste patologie che sono mutate, da infettive, a croniche. Uguale tuttavia è la pretesa di contenerne le manifestazioni attraverso un’azione sullo spazio. L’importanza dei temi dell’accessibilità, della connettività, della mobilità, nelle sue diverse e molteplici forme, hanno a che fare anche con questo ritorno di attenzione ad una cura del corpo attraverso lo spazio. Ancora una volta è evidente il carattere pedagogico della progettazione. L’ansia di cui è affetto il progetto contemporaneo, circa le connessioni tra salute, progetto e ambiente, è esplorato dalla ricerca Imperfect Health The medicalization of Architecture, che ha dato luogo all’omonima esposizione al Centre Canadienne d’Architecture di Montreal, nel 2012. Se l’igienismo vuole medicalizzare lo spazio, è possibile un’azione inversa di de-medicalizzazione? G. Zucconi (1989), La città contesa, Jaca Book, Milano, cap. 1 “Gli igienisti” La città come cura e la cura della città - https://www.curacitta.com/ M. Zardini G. Borasi (eds) (2012) Imperfect Health The medicalization of Architecture, CCA Montreal

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24 ottobre 2018

Lo spazio cura il corpo. Central Park, Olmsted e il paesaggismo tra XX° e XXI° secolo

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La seconda lezione è dedicata al rapporto tra spazio-corpo-natura. Al centro di questo rapporto, nel XIX° secolo troviamo Frederick Law Olmsted e i suoi progetti di parchi pubblici: Central Park a New York (1857), Prospect Park a Brooklyn (1865) tra i più celebri. La genealogia dei parchi pubblici trova un precedente nella progettazione dei cimiteri immersi nel verde all’interno della città della prima metà dell’800. Come questi, ambisce a dotare le città di luoghi di incontro sociale e di alto valore paesistico. Sigmund Freud avrebbe detto, da lì a poco, che rappresenta una forma di riscatto via della città del senso di colpa nei confronti della natura. Quella di Olmsted è un’idea visionaria della vita urbana come vita salubre, ricca sul piano etico e relazionale. I parchi sono oasi urbane non più riservate alle élites. La progettazione di parchi diviene, dopo più di un secolo, oggetto specifico nell’ambito del progetto di paesaggio. Il tema del paesaggio ha percorso l’intero 900 fino agli ultimi decenni del secolo, quando si riaffaccia con forza e irruenza. E la progettazione del parco assume un ruolo importante entro l’idea di benessere offerto a tutti. Ma l’High Line è davvero la versione contemporanea di Central Park? E come trattare l’opposizione tra parco e ecumene che viene riproposta con forza prima da Augustin Berque e poi dall’imperativo rivolto agli urbanisti da Sébastien Marot “making a world”? il parco si oppone all’ecumene come parte di mondo nella quale naturale-rurale-urbano stanno assieme senza sopraffarsi. Dove non c’è nulla di abrasivo, duro, antagonista come nel moderno. Julia Czerniak, George Hargreaves (2007), Large Parks, Princeton Architectural Press, NY Charles Waldheim, (2006) “Landscape as Urbanism” in Id, ed. Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, NY, pp. 35-53 Augustin Berque (2016) Écoumène. Introduction à l’étude des milieux humains, Belin Litterature Et Revues, Paris Sébastien Marot, “Making a World” in (2017) Common Grounds, Decombes Rampini 2005-2015, Birkhauser, Monaco

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31 ottobre 2018

Il corpo diventa misura dello spazio: i laboratori moderni. Existenzminimum, Francoforte 1929 Kitchen work triangle, NY (Christine Frederick) 1912-1940 Frankfurter KĂźche, Margarete SchĂźtte Lihotky, Frankfurt (1927-1928) 14


La terza lezione è dedicata al rapporto tra corpo e progetto moderno. Il tema è la misura, la parametrizzazione. Un tema che è stato centrale, comunicato da vere e proprie icone del moderno: il Modulor di Le Corbusier, come l’autoritratto di El Lisitskij (Il costruttore, 1924) in cui l’occhio e la mano si fondono con gli strumenti della precisione e della misura: compasso e carta quadrettata. In campo abitativo e urbano, il tema della parametrizzazione rimanda all’existenzminimum l’existenzminimum, ovvero alla ricerca delle misure necessarie e sufficienti a garantire condizioni minime dell’abitare (non solo dell’abitazione). La relazione che Walter Gropius ha tenuto al CIAM di Francoforte del 1929, prende avvio dal cambiamento delle condizioni lavorative, sociali, demografiche e familiari conseguenti ai nuovi rapporti tra capitale e lavoro. «Il problema dell’alloggio minimo» è, nelle parole di Gropius, «stabilire il minimo elementare di spazio, aria, luce e calore necessari all’uomo per essere in grado di sviluppare completamente le proprie funzioni vitali». Lo sforzo per ridurre la superficie dell’alloggio ad una misura minima, comporta un’analisi precisa del modo in cui l’abitazione corrisponde ai corpi e alle azioni di chi abita. Le radici di un tale orientamento potrebbero essere ritrovate nell’uso della fotografia segnaletica, dell’antropometria giudiziaria nel XIX°. O, più coerentemente, nel lavoro progettuale di due donne: Christine Frederick che, tra il 1912 al 1940, a New York, sperimenta i principi del taylorismo applicati al lavoro industriale, nell’ambiente domestico. E Margarete Schütte Lihotky che in Germania, a fianco dei maestri del Moderno, sperimenta i principi della Frankfurter Küche, la Cucina di Francoforte: espressione di uno spazio minimo per un individuo razionale nei movimenti e nelle azioni. La cucina come laboratorio: ambiente domestico che meglio di ogni altro si presta ad una riformattazione dello spazio ad opera dello scientific management (come nella parodia della Norvegia degli anni 50 del film di Bent Hamer, Kitchen Stories). Le conseguenze di questa stagione sono da un lato nella riflessione sullo standard, dall’altro (e in modo non disgiunto) nello sforzo per rendere la casa accessibile a «le plus grande nombre». Ovvero nei programmi di costruzione di edilizia standardizzata nella Golden Age. Aspetto materiale, concreto e ben visibile dell’État social e delle sue politiche riformiste, quasi per intero deflagrate sotto la forza dell’ondata neo-liberista degli anni 80. Carlo Aymonino (1971), L’Abitazione razionale, Marsilio, Padova https://www.ediblelongisland.com/2014/03/17/christine-frederick-kitchen-innovator-efficiency/ https://www.youtube.com/watch?v=41pyty0-lgs Jean-Luis Cohen, Vanessa Grossman V. (2016), AUA Une architecture de l’engagement 1960-1985, La Découvert, Paris Bent Hamer (2003), Kitchen Stories, Norvegia, 95”

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14 novembre 2018

Il corpo che non c’è Lo strutturalismo ibrido di John Habracken

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La quarta lezione è dedicata alle ricadute dello strutturalismo in architettura. L’idea che ogni elemento possa essere concepito, prima ancora che per sé stesso, come parte di un sistema basato sulle relazioni tra gli elementi attraversa numerose discipline a partire dagli anni 60, dall’antropologia (Claude Lévy-Strauss), alla critica letteraria (Gérard Genette, Roland Barthes), alla psicanalisi (Jaques Lacan), alla filosofia (Michel Foucault). Lo strutturalismo influenzerà fortemente anche il pensiero architettonico e urbanistico dei due decenni successivi, in particolare con la convinzione che l’opera (in questo caso il progetto o il discorso sull’architettura) possa essere intesa come un insieme organico scomponibile in elementi e unità, il cui valore funzionale è determinato dall’insieme dei rapporti fra ogni singolo livello dell’opera e tutti gli altri. Strutturalisti possono dirsi Bakema, van Eyck e gli Smithson e un insospettato Quaroni nella definizione di Urbanistica del 1969. Il rapporto con il corpo è ambiguo. Poiché, se è vero che lo strutturalismo decreta la morte del soggetto che “scompare”, è anche vero che si istituiscono legami più complessi tra spazio e corpo, come mostra l’opera di John Habracken. La lezione è costruita in particolare su questo autore: sul ripensamento delle tecniche di prefabbricazione nel campo dell’housing che lo hanno portato a una mediazione tra metodi industrializzati e le concrete condizioni di produzione dell’abitare. E pertanto verso la definizione d’infrastrutture abitabili, definite Supports, che permettano un certo grado di operatività attraverso il coinvolgimento organizzato, dei diversi attori del processo di costruzione. Uno strutturalismo “ibrido” dunque in cui regole, supporti e pratiche dell’abitare si compongono come in un gioco. In chiusura la lezione affronta in modo sintetico le rivisitazioni contemporanee dello strutturalismo. N.J. Habraken (1999), Supports: an alternative to mass housing, Urban International Press, U.K. N.J. Habraken (1998), The Structure of the Ordinary, MIT Press, Cambridge, London Herman Hertzemberger (2015). Architecture and Structuralism. The Ordering of Space, NAI010, Rotterdam Tomàs Valena (2011), Structuralism Reloated, Menges, Stuttgard-London

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21 novembre 2018

Cosa può un corpo? Il cavallo, Deleuze e Spinoza

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«Perché chi detiene il potere ha sempre bisogno che le persone siano affette da tristezza? Le passioni tristi sono necessarie, provocare passioni tristi è essenziale all’esercizio del potere». Queste parole che sembrano riflettere la cronaca politica di questi mesi, sono attribuite da Deleuze a Spinoza nella lezione introduttiva al ciclo che il filosofo ha tenuto all’Università di Vincennes, tra il novembre 1980 e il marzo 1981 (ora in Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombrecorte, Verona 2007, p.46). Le idee gioiose e le idee tristi aumentano e diminuiscono la nostra capacità di agire. «Le idee si avvicendano in noi, ognuna con il suo grado intrinseco di perfezione e realtà. Io, colui cui le idee sono date, non smetto di trascorrere da un grado di perfezione all’altro – aumento diminuzione-aumento-diminuzione della potenza di agire […] in relazione alle idee che possiedo. É una variazione continua» (45). Noi siamo «un costrutto prodotto dalle idee che si succedono in noi. In relazione a questa successione di idee la nostra potenza di agire e la nostra forza di esistere aumentano e diminuiscono seguendo un andamento ininterrotto» (47). Qual è l’azione del corpo in questa cornice di idee, affetti e potenza di agire? Le idee, le sensazioni (gli affetti nel senso spinoziano), sono una composizione di corpi: «la composizione di corpi, uno che agisce e l’altro che viene segnato dalla traccia del primo. Un raggio di sole si posa su di voi. É l’effetto che il sole induce su di voi. Non si tratta del sole preso in sé stesso. Ma dell’azione del sole nei vostri confronti» (48). Il corpo è la permanenza attraverso tutti questi cambiamenti. E sono questi a dirci di noi. Siamo agli antipodi di Cartesio: non è possibile conoscersi se non attraverso la composizione continua di corpi. Ho conoscenza di me stesso attraverso l’azione che gli altri corpi esercitano su di me. Gli affetti sono anche al centro di ciò che un corpo (di un uomo, di un animale) è capace. Il cavallo da corsa e il cavallo da lavoro appartengono alla stessa specie, eppure sono capaci di cose diverse e le malattie in cui possono incorrere (gli affetti) sono diversi. Inutile classificarci per genere e specie. Discutendo di Spinoza, Deleuze aiuta a mettere a fuoco la dimensione corporea dell’azione. E il suo essere nel mondo in modo indissolubile. Due aspetti che riguardano anche le nostre pratiche. Lectio di Gabriele Pasqui: Incontri buoni e cattivi. Deleuze su Spinoza

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28 novembre 2018

Cosa può un corpo? Il corpo è strumento. Il corpo è mondo

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«Il mio corpo […] è intorno ad esso che le cose si dispongono, è rispetto ad esso, come rispetto ad un sovrano, che ci sono un sopra, un sotto, una destra, una sinistra, un avanti, un dietro, un vicino, un lontano. Il corpo è il punto zero del mondo. Dove i percorsi, gli spazi si incrociano […]» É intorno al corpo che le cose si dispongono. Il corpo è quel piccolo frammento di spazio con il quale letteralmente faccio corpo, come nella citazione foucaultiana riportata nelle righe precedenti, venata di una insospettabile aria fenomenologica. La sesta lezione è dedicata al modo in cui la riflessione fenomenologica costituisce una base per un discorso su spazio e corpo. In particolare nella declinazione di due testimoni della fenomenologia francese. Per Maurice Merleau-Ponty il fondamento originario dell’esperienza non è la coscienza pura (il pensiero riflessivo, impotente a rendere ragione dell’esperienza del mondo), né quello sguardo scientifico di cui scrive in apertura al suo ultimo saggio, che «manipola le cose e rinuncia ad abitarle» (L’occhio e lo spirito, SE, Milano, 1989:13). Il fondamento dell’esperienza è il corpo percettivo come fenomeno irriducibilmente ambiguo nel suo essere riflesso del mondo, costituito della stessa «carne del mondo», e obiettivazione intenzionale del mondo. Per Jean Paul Sartre la coscienza è sempre «in situazione», cioè definita dai suoi limiti corporei, sociali e storici, nonché dal rapporto di reciprocità con il corpo vivente degli altri uomini; nel contempo, però, essa è continua istanza di liberazione, sia pure condizionata, che intenziona nuovi possibili orizzonti di senso. Il corpo che orienta, conosce. Il mondo è mondo, è spazio, è strumento. É affetto di esposizioni negative o positive. Passibile di incontri buoni e cattivi. Come rianimare il corpo nelle pratiche. E, specificamente, in quelle che attengono i nostri saperi. Le due lezioni pongono una questione che, nella cultura politecnica è centrale, ovvero cosa sia strumento di conoscenza e azione. Foucault M. (2008) Il corpo, luogo di utopia, Nottetempo, Roma (1966) Maurice Merleau-Ponty (1989), L’occhio e lo spirito, SE, Milano1989

Lectio di Carlo Olmo: La lezione fenomenologica, il corpo lo spazio e la cultura politecnica

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5 dicembre 2018

Cosa può un corpo? Le relazioni tra corpi. Extimité, intimité

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La settima lezione è dedicata a esplorare l’utilità di due categorie lacaniane, quelle di extimité e intimité. Jaques Lacan introduce nel VII seminario (1960 – pub 1986) l’idea di extimité. Meglio, di un’intimité che si rovescia all’esterno. La realtà interna, intima, è irriducibile all’intimità. Le due categorie sono utili a riconfigurare un approccio relazionale che riconosce modi diversi delle relazioni tra soggetti (e tra corpi) nello spazio urbano. L’intimité segna lo spazio dello stare da soli. Quello per cui «l’enfer, c’est les autres». Qui interessa lo star da soli non tra le mura domestiche (il rifugio in un mondo senza cuore di Christopher Lasch), ma tra gli altri. Nella città, lo spazio dell’intimité è il luogo della sospensione del tempo, dello stare al di fuori dello sguardo dell’Altro. Fuori dallo sguardo invadente, intrusivo, benthamiano. Dalla sorveglianza, dall’azione, da ciò che ci sta intorno. Il diritto a rimanere nascosti, a mantenere il silenzio, è ciò che fa valere il soggetto contro l’Altro, lo sottrae dal potere totalitario dell’Altro. La figura dell’intimità ha una relazione stretta con il potere: una dimensione politica che solitamente viene riconosciuta solo alla dimensione pubblica.

Extimité. Il termine è utilizzato per indicare il movimento che spinge a mettere in luce una parte della vita privata, sia fisica che psichica. Si esibisce il proprio mondo interiore, costruendo scambi con altri individui, ritenuti prossimi. Allo stare nascosti dell’intimité, si sostituisce il desiderio di esibire il proprio sé, costruire legami densi con soggetti che pensiamo condividano i nostri stessi valori e pertanto identifichiamo attraverso noi stessi. Anche qui c’è un rapporto con il potere: la sovraesposizione del sé è stata a lungo soffocata nelle convenzioni, nell’educazione, nelle forme di apprendimento di come «stare in pubblico», nella repressione di quello che è giudicato un esibizionismo fuori luogo, equivoco, condannabile. L’extimité dilata lo spazio pubblico, lo riempie della presenza intima dei corpi, delle emozioni, dei turbamenti. Extimité e intimité mettono in gioco angoscia, inquietudine, estraneità, non solo comunanza, vicinanza. Al centro di un tale approccio c’è ancora una volta il corpo. Nella forma dei turbamenti, delle passioni, delle angosce. Nelle frontiere mobili tra intimitè ed extimité è possibile indagare l’oscillazione continua tra movimenti di sottrazione e esposizione, che trasformano lo spazio pubblico nella scena nella quale si dispongono storie, relazioni, linguaggi. Cristina Bianchetti (2016) Spazi che contano, Donzelli, Roma Anthony Vidler, (2009) La deformazione dello spazio, Postmedia, Milano Marco Ferreri (1974) Touche pas à la femme blanche, Francia-Italia, 108”

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#8

12 dicembre 2018

Le lotte urbane negli anni 70

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Nelle dimostrazioni di massa che si svolgono nelle strade e nelle piazze, i corpi si riuniscono, si muovono e parlano insieme, rivendicano uno spazio in quanto pubblico. A questo tema sono dedicate la nona e la decima lezione. A partire da una riflessione sulla nozione di massa in Canetti. Lo scrittore nato in Bulgaria da famiglia ebraica di origine spagnola, ma di lingua e formazione viennese, condensa nella massa i caratteri del Novecento. In questa due prime lezioni lo spazio pubblico è inteso in senso eminentemente politico. Le lotte urbane sono state tra le più importanti azioni collettive degli ultimi decenni del 900. I significati politici messi in atto dalle manifestazioni non sono solo legati al discorso scritto o orale. Lo stare assieme in molti, il movimento, l’immobilità, il collocarsi con il corpo in mezzo all’azione di un altro, non costituiscono atti individuali, ma forme d’azione che articolano un nuovo spazio politico. La presenza dei corpi è dunque elemento centrale delle forme di protesta, dei raduni, delle manifestazioni urbane. É emblematico che questa presenza trovi la sua espressione massima nei momenti più critici di passaggio (o di flessione): a Milano, ad esempio nella metà degli anni 70, quando si dà quella che forse è stata la più importante manifestazione musicale e controculturale italiana di quegli anni, promossa dalla rivista Re Nudo. «Nel giugno 1976 – scrive quaranta anni dopo, Michele Serra su L’Espresso – Milano fu sconvolta dal festival del proletariato giovanile, organizzato dalla rivista Re Nudo. Un’esaltazione di libertà assoluta, che avrebbe segnato il tramonto della speranza». Serra parla dei corpi che incarnano la declinante anima hippy del movimento giovanile di quegli anni (negli Usa era già declinato da un pezzo). «Con il senno di poi – aggiunge - possiamo dire che la copertina dell’Espresso (due giovani donne nude) è un omaggio agli sconfitti. Perché il terzo Festival del Proletariato Giovanile, a Milano nel Parco Lambro del giugno 1976 passò poi alla storia come il grande rito di passaggio dagli anni del sogno agli anni di piombo. Il clima di liberazione collettiva (le danze, il nudismo, la musica, peace and love) che cede la scena, almeno in parte, all’arbitrio energumeno delle prime bande autonome, o più banalmente dei cani sciolti. Un mondo che si disarticola. Un colossale equivoco che mostra tutta la sua fragilità e vaniloquenza: tenere insieme la rivoluzione proletaria e il viaggio in India, la canna del fucile e la canna e basta, Mao e Jerry Rubin». Elias Canetti (1981), Massa e potere, Adelphi, Milano David Harvey (2013) Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, Dedalo, Bari http://espresso.repubblica.it/visioni/2016/06/20/news/quando-a-parco-lambro-fini-il-futuro-1.273580

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19 dicembre 2018

Alleanze tra corpi nella letteratura di genere

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Dopo l’enfasi posta sulle forme virtuali della politica, il carattere mediatico della leadership (e del corpo del leader), dopo le sperimentazioni in rete delle consultazioni elettorali (e i deliranti auspici che ciò possa darsi anche per le funzioni parlamentari), all’avvio del secondo decennio degli anni 2000, i corpi sono tornati al centro dell’attenzione. I corpi di centinaia (migliaia) di uomini e donne si sono resi visibili per manifestare, per ribellarsi, per esserci. In ambienti diversi e con obiettivi differenti in Africa, in Europa, negli Stati Uniti: la precarietà, la disoccupazione, la mancanza di libertà, la discriminazione razziale, sociale, sessuale. O a favore di qualcosa di sottratto: l’istruzione pubblica, le garanzie sanitarie, la tutela dell’ambiente. È, come scrive Roberto Esposito, una ritrovata presenza dei corpi. O meglio, di ciò che i corpi rappresentano per il semplice fatto di esserci, prima ancora che di parlare e di rivendicare. Per un diritto di apparizione nella sfera pubblica. La nona lezione è dedicata a questo ritorno. O meglio al ritorno dei corpi nello spazio pubblico e usa come riferimento il testo di Judith Butler L’alleanza dei corpi (Nottetempo 2017 – ed or. 2015). Un libro che trova spunto dalle manifestazioni di dissenso contro le logiche neoliberiste o contro governi e poteri repressivi che nel decennio precedente si sviluppano in contesti e situazioni diverse: dal movimento Occupy alle proteste di Atene, dalle cosiddette “primavere arabe” al Parco Gezi di Istanbul, dalle mobilitazioni queer a quelle degli immigrati irregolari. Al di là delle differenze, l’alleanza dei corpi in queste azioni collettive affronta ed “espone” all’attenzione di tutti una serie di temi interconnessi come la precarietà, la vulnerabilità, la rivendicazione di una vita vivibile e l’esclusione dalla sfera pubblica di apparizione. Ciò che viene sviluppato nella lezione è un aspetto dell’articolato discorso di Butler: il modo in cui l’alleanza dei corpi costruisce (insieme al politico) lo spazio in cui si dà. «… ad essere in gioco, e talvolta ad essere conteso, quando le folle si radunano – scrive Butler – è proprio il carattere pubblico dello spazio» (2015:116). La materialità dello spazio si ritrova qui, come in Hanna Arendt, la filosofa di cui è considerata erede e con la quale ha un contrastato rapporto di accordo e disaccordo. Laddove l’accordo è sul fatto che lo spazio e il luogo si creino attraverso l’azione plurale (2015:120). Non si capisce il significato della città nella tradizione occidentale, dello spazio pubblico e del suo progetto, senza tenere conto del loro essere luogo dell’azione plurale. Hanna Arendt (2006), Vita Activa, Bompiani, Milano, (ed. or. 1954 ?) Judith Butler (2017), L’alleanza dei corpi, nottetempo, Milano

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# 10

9 gennaio 2019

Letture critiche del progetto dello spazio pubblico

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Alla fine si torna al progetto dello spazio pubblico. Cosa resta del disegno di suolo che negli anni 80 ambiva a ridefinire, attraverso lo spazio aperto e pubblico, l’intera città? Allora, la tradizione italiana (Gregotti, Secchi), quella svizzera (Daghini, Descombes, Mariani, Reichlin e, naturalmente, Corboz), quella spagnola (Bohigas ma su questo tema, indimenticabile, il lenzuolo bianco di Alvaro Siza) facevano del progetto dello spazio pubblico un modello progettuale e didattico capace di tenere assieme architettura, urbanistica, paesaggio, conservazione. In quegli anni si ridefiniscono nuovi paradigmi teorici: la teoria della modificazione, il territorio come palinsesto, il progetto di suolo. Teorie che aiutano a mettere in atto strategie e tattiche che vengono riprese in modo estensivo. Dove si è rifugiato oggi il progetto dello spazio pubblico? Nei manuali che costruiscono spazi per individui ridotti a silhouette scarnificate: il bambino, l’anziano, la famiglia arcobaleno … Nell’arredo urbano, “da catalogo”, a generare spazi sempre più uniformi. Nell’enfasi rispetto agli aspetti sensoriali dove ciò che conta è soprattutto l’alta qualità dei materiali: un’arte urbana che è principalmente e sostanzialmente un’arte per ricchi. Nella tecnicalità di buon livello e sofisticata dei progetti tesi a riportare qualità nei piccoli e grandi centri urbani che pensano ad un ruolo del progetto ancora riparatore, al contempo minuto e vago: un vago rimemorare del lavoro a punto e croce. E poi, molti buoni principi, che appaiono principalmente retorici: attenzione ai limiti, alle frontiere porose, agli usi plurimi e temporanei…. La convinzione che usi e vantaggi dell’urbanità possono essere aumentati con attenzione all’ambiance, alla topografia, alla scenografia, all’umidità e alla temperatura. In questa vasta letteratura, quando ci si riferisce ai soggetti, questi sono o felicemente partecipanti: l’urbanità “si intensifica”, vero e proprio un ossimoro. Oppure sono stereotipi. Cosa implicherebbe un’attenzione ai corpi? Come si progettano spazi per l’extimitè o urban interiors? Cosa rimane della carica politica degli spazi dei raduni, delle manifestazioni? Come possono essere ripensati approcci relazionali? Queste domande, messe a punto a partire dai contenuti delle lezioni precedenti, sono strumenti per letture critiche dei progetti che il corso consegna agli studenti e che saranno, in questa lezione. Alvarto Siza (1986) Professione poetica, Quaderni di Lotus, Electa, MIlano Vittorio Gregotti (1986) “Modificazione”, Questioni di architettura, Einaudi, Torino André Corboz (1983), “Le territoire comme palimpseste”, Diogène, n. 121, 14-35. Ora in P. Viganò, a cura di Ordine sparso, Angeli, Milano, 1988

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# 11

16 gennaio 2019

Discussione seminariale e conclusioni Intorno al corpo, nello spazio urbano

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La pedagogia costruita attraverso lo spazio orientata ad un abitare igienico e salubre, il rapporto del corpo con la natura, le aporie della misurazione, lo sparire dei corpi nello strutturalismo, l’extimité e l’intimité, i conflitti, le manifestazioni, le alleanze tra corpi sono alcuni degli aspetti che ridefiniscono ciò che nello spazio, è intorno al corpo. Ben oltre le tradizionali attenzioni che le nostre discipline prestano ad angolazioni proporzionali, ergonomiche, funzionali e dimensionali. Ben oltre le modellistiche, le logiche funzionali e le silhouette che bene raccontano una storia di scorporazione di cui l’urbanistica, come il diritto, l’economia, la filosofia sono state fatte oggetto. Il progetto urbanistico deve tornare a rendere visibile il rapporto tra corpo e spazio sul quale, più o meno consapevolmente, si costruisce. É l’intrico delle relazioni tra corpo e spazio che rende lo spazio conoscibile, e trasformabile. Gli studi sullo spazio pubblico e sulle sue forme nella città contemporanea, hanno sottolineato il carattere cruciale di questo intrico. Serve dunque riflettere su cosa un corpo può fare, sul suo essere strumento sempre calato nelle pratiche (nel mondo), sulle sue ossessioni, turbamenti, sui caratteri individuati di genere, razza, età, salute, posizione nel mondo. Il corso propone un insieme orientato di idee per questo pensiero progettuale. Con l’aiuto di pochi libri e autori, selezionati in funzione della loro forza relativamente a questo tema. Il seminario conclusivo muove dal lavoro degli studenti che a partire dalle suggestioni fornite, propongono esempi progettuali utili a costruire una discussione collettiva.

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Progetti

Spazi e corpi

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Mariolina Giancarli, Pieraldo Marchegiani, Graziela de Oliveira Mendes, Paolo Pischedda

CentralE Park IGIENISMO BENESSERE

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MAPPA AEREA DI CENTRAL PARK, 1963


All’inizio del 1800, la giovane società americana, sorta da poco più di 20 anni, cercò di darsi una dignità, prendendo spunto dai caratteri socio-culturali delle nazioni dell’antica Europa, nel tentativo di colmare il divario storico. La nascente nazione era affamata di spazi e risorse, improntando la sua cultura, attraverso il concetto del pensiero “Destino Manifesto”, ad una forte antropizzazione del territorio, visto come un portare la civiltà nel mondo ancora rurale. Parallelamente a queste idee, ne furono concepite altre totalmente opposte: la cura del territorio, il rispetto del carattere rurale, la creazione di società basilari radunate in fattorie o piccole città giardino. Questo confronto ha una sua campionatura efficace nella realizzazione della città di New York, in cui il carattere fortissimo di antropizzazione si esplica attraverso l’uso massiccio della lottizzazione urbana in una maglia estremamente regolare dall’evidente carattere umano. Dall’altra, invece, abbiamo la necessità di donare a questo spazio sovra-congestionato uno altrettanto di fuga, di distacco dal mondo urbano: un landscape pittoresco rurale. Ecco perché le prime aree verdi che si affacciano sul panorama americano, non sono i parchi... bensì i cimiteri. Downing, uno dei primi paesaggisti americani, sottolinea, in un suo saggio del 1849, come i “rural cemeteries” siano “un palliativo alla carenza di aree verdi e parchi nelle città”, ma facendo comunque notare come si stiano gettando le fondamenta per uno strumento urbanistico di tipo paesaggistico. New York fu una delle prime città a divenire una discarica di problemi generati a livello globale: sacche di popolazioni di etnie diverse si trovarono a condividere forzatamente la penisola di Manhattan, formando spazi locali frammentati e circoscritti. Gli amministratori della città cercarono di affrontare questa sfida (l’immigrazione di varie popolazioni eterogenee) con soluzioni locali. Fu qui che entrò in gioco il movimento dei parchi, con la sua forte impronta sociale, distinguendosi profondamente da quelli delle città europee dove la maggior parte delle aree verdi presenti nel vecchio continente furono infatti concepite e dedicate ad una fascia elitaria di popolazione. Negli Stati Uniti abbiamo tutt’altro panorama: il problema dello schiavismo è uno dei caratteri principali di una percezione sociale democratica dell’epoca, in cui lo stesso Olmsted, ideatore del parco, esprime una dura critica ed è uno dei principali fautori dell’uso della paesaggistica come strumento urbanistico per risolvere le contraddizioni sociali emergenti. Si viene così ad applicare la teoria utopica (opposta appunto allo schiavismo imperante) ad una serie di cruciali scelte politiche. Furono le inchieste sanitarie le prime ad analizzare le necessità di curare il benessere sociale sotto tutti i punti di vista: a livello urbanistico, per evitare la sovrappopolazione; su quello sanitario, creando un adeguato sistema fognario; le aree verdi, per garantire spazi per lo svago e l’attività fisica. Il dibattito acquisisce così tanto peso da arrivare ad influenzare la spesa pubblica e la relativa organizzazione amministrativa, gettando le basi per il futuro principale parco di New York. In questo dibattito entrò in gioco la volontà preponderante di una casta sociale composta da magnati, editori e intellettuali. Questi, attraverso un pensiero paternalista, sentivano l’esigenza di realizzare, a scopo didattico, un’area per curare il punto di vista culturale e sociale della popolazione povera in continua crescita demografica. Questa élite intendeva elevare New York agli standard di riferimento mondiali: se città come Londra o Parigi avevano già i loro bellissimi parchi usufruiti da una società colta ed educata secondo un atteggiamento civile, New York non sarebbe dovuta essere da meno, comunicando al mondo l’ingresso della città tra i modelli di riferimento a cui aspirare. L’idea era quindi imporre, in modo sottile ed attraverso la progettazione di nuovi spazi pubblici creati da persone colte alle persone non benestanti, dei campioni a cui aspirare: comportamenti, indumenti, portamento, ecc.Era perciò fondamentale realizzare un parco la cui pianificazione e relativa manutenzione fossero un fiore all’occhiello dell’intento didattico calato dall’alto di una popolazione intellettuale verso il basso del popolino.

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Prima di Central Park era presente un terreno formato da cave, avvallamenti, paludi e baracche abusive. Se nei luoghi si raccolgono le pulsioni e nascono i desideri umani, è compito dell’amministrazione locale progettare uno spazio in cui l’esperienza umana viene raccolta, la sua condivisione organizzata, le sue aspirazioni concepite, assorbite e ideate attorno ai luoghi del domani. La ricetta utilizzata fu quella di omogeneizzare i luoghi al fine d’intensificare la spinta all’inclusione, così da coltivare il sentimento favorevole della mescolanza. Si decise di creare spazi pubblici aperti, invitanti ed ospitali che tutte le categorie di residenti sarebbero tentati di frequentare regolarmente, per condividere consapevolmente e volentieri la loro diversità. Si partì bonificando tutta l’area centrale di Manhattan, così da donare una via di fuga dalla città caotica. Questo colmò tre principali aspetti: quello del corpo malato fisicamente, quello del benessere e quello della convivenza/confronto tra diverse culture. Il primo è ricollegato ad una risposta garantita dalle infrastrutture urbane, come il garantire fogne e nettezza urbana efficienti, acqua pulita e l’accesso a disponibilità sanitarie. Il secondo punta a fornire degli spazi attrezzati che diventino luoghi per agevolare una vita sana e consentire al cittadino di vivere in città senza rinunciare a stare bene. Il terzo, in cui si mira alla fusione degli orizzonti in cui si sprona alla comprensione reciproca frutto di un’esperienza condivisa: il vivere insieme il parco pubblico. La persona viene spronata, attraverso i luoghi in cui svolge la sua quotidianità, al confronto, all’educazione della salute individuale, sia fisica che mentale: il suo corpo è stimolato dai suoi simili, dal piacere visivo delle passeggiate, dai paesaggi e dal rapporto con la natura. 36


Bibliografia: Olmsted Jr, Frederick Law (Editor), Forty years of landscape architecture Central Park 1853-1895, New York, 1928 Ayn Rand, La virtù dell’egoismo, New York, 1964 Eric Homberger, New York City, Milano, 2003 Manuel Castells, Spazio fisico e spazio dei flussi, in La città delle reti, Venezia, 2004 Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Parigi, 2004 Pierre Donadieu, Campagne Urbane, Roma, 2006 Paola Di Biagi, La Città pubblica, Torino, 2008 Leonardo Benevolo, Le origini dell’urbanistica moderna, Roma-Bari, 2009 Daron Acemoglu & James Robinson, Perché le nazioni falliscono, Milano, 2013 Gianpaola Spirito, In-Between places. Forme dello spazio relazionale dagli anni Sessanta a oggi, Roma 2015 Cristina Bianchetti, Spazi che contano. Il progetto urbanistico in epoca neo-liberale, 2016 Zygmunt Bauman, Città di Paure, Città di Speranze, Roma, 2018 Sitografia: Cenni storici su New York, newyorkcity.it, <https://www.newyorkcity.it/cenni-storici-su-new-york/> (consultato il 27 ottobre 2018) Vittorio Zucconi, Manhattan quando Park Avenue era un villaggio di fango, la Repubblica, <https://ricerca.repubblica. it/repubblica/archivio/repubblica/2012/01/10/manhattan-quando-park-avenue-era-un-villaggio.html> (consultato il 27 ottobre 2018) Il piano di New York del 1811, Architettura e Viaggio, <http://www.architetturaeviaggi.it/web_056.php > (consultato il 27 ottobre 2018)

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#2

Fatima Abd El Aziz, Annamaria Giardina, Alessandra Manca, Irene Sciannocca.

Il Parc Andrè Citroën

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Partendo dal patrimonio industriale esistente, nasce a Parigi nel 1985 il Parco Andrè Citroën, su quella che era l’area della ex fabbrica Citroën, che nel 1915 si era insediata sulla banchina sinistra della Senna, fino agli anni 70, quando, a causa della crisi petrolifera, la fabbrica chiuse i battenti perché accorpata alla Peugeot, affinché i suoi operai non perdessero il lavoro. La crisi segnò il passaggio dal 1972 al 1982 della cultura industriale a quella post-industriale e tutta la produzione si spostò nelle periferie delle città creando dei vuoti urbani, che, trovandosi nelle aree centrali delle città, caratterizzavano parti importanti di esse. Nel 1970 il comune di Parigi acquistò l’area della società Citroën per lo sviluppo di un piano ZAC e nel 1972 vennero demolite le strutture esistenti cancellando ogni memoria del passato, peculiarità questa, che invece non caratterizzerà altri parchi che verranno realizzati successivamente, come il Parc de Bercy, creato nel 1993 nel 12° arrondissement di Parigi. In esso, infatti, vengono mantenute le preesistenze della vegetazione come gli alberi secolari. Il concorso indetto, infatti, per la creazione del parco, viene impostato con lo scopo di creare un luogo della memoria, in cui il ricordo del passato rimanesse continuamente presente, partendo dal sito in cui lo stesso Parc de Bercy nasceva, ovvero un ex deposito di vini. Per il Parc Citroen fu indetto quindi, altresì un concorso, che prevedeva la partecipazione in coppia di un architetto e un paesaggista, per evitare che, così come era successo per il Parc de la Villette, diventasse un luogo puramente architettonico, che doveva stupire e meravigliare il visitatore, con le sue “Follies”. Al concorso arrivano dunque primi ex-aequo due progetti, il primo presentato da Gilles Clement e Patrick Berger, e il secondo da Alain Provost e Jean Paul Viguier, che avevano un unico obiettivo comune: creare un grande spazio centrale disegnato ai lati da dei corpi d’acqua e dare un carattere decisivo agli elementi che costituiscono il parco. Per questo motivo e con l’intento di celebrare la natura si trova un compromesso fra i due progetti, grazie alla collaborazione delle due coppie vincitrici che si divisero l’area: alla coppia Clèment- Berger viene affidato il giardino bianco, le due serre e i giardini seriali verso la Senna, mentre alla coppia Viguier-Provost il giardino nero e il parterre centrale. Entrambi, inoltre, si occupano del viadotto, degli arredi urbani, dell’illuminazione e dei dislivelli. In modo più generale, poi, le regole da rispettare erano due: - mantenere le proporzioni con la capitale nell’osservare gli spazi pubblici. - creare una simbiosi profonda tra il parco e la vita dei vegetali, mettendo al centro la figura del giardiniere-architetto e il nuovo concetto di giardino in movimento, che sarà alla base dell’intero progetto e ne caratterizzerà l’intera esistenza. Il caso di Parc Citröen, a proposito, può essere facilmente associato al principio progettuale che ha portato alla realizzazione della High Line di New York, in quanto entrambi i parchi nascono dalla volontà di conservare il carattere selvaggio della natura che accolgono senza tralasciare, al tempo stesso, una precisa pianificazione a priori: la pavimentazione della High Line, infatti, viene appositamente predisposta con fessurazioni che permettono di ottenere un’apparentemente spontanea azione di sopravvento della vegetazione sul costruito; Il Giardino in Movimento del paesaggista Gilles Clément, invece, viene inserito in un più ampio progetto di ricucitura urbana che comprende l’intero Parc Citröen. Riguardo a tale intervento, il giardino diventa uno spazio dove ogni specie vivente svolge il proprio ciclo di vita naturale dalla nascita alla morte, dove lo scorrere del tempo e dei cicli stagionali determinano una continua trasformazione del paesaggio. Viene paragonato ad un “centro di smistamento” dove convergono le energie che nei giardini

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tradizionali e nei terreni coltivati non trovano ospitalità. Questo concetto trova una declinazione più approfondita in ciò che il paesaggista chiama “incolto”, ovvero tutto ciò che nasce dall’incuria e l’abbandono da parte dell’uomo e che, in questo caso, non ha alcuna accezione negativa. A tal proposito Clément scrive: «Il fatto che l’Ifla (Fondazione internazionale dell’architettura del paesaggio) classifichi le aree industriali abbandonate come dei paesaggi in pericolo è un segnale davvero rivelatore. Si interpreta la riconquista di un terreno, da parte della natura, come una degradazione, quando invece è esattamente il contrario. […] Tutto quello che l’uomo abbandona al tempo, offre al paesaggio la chance di essere contemporaneamente segnato, dalla sua presenza, e liberato». Nel giardino in movimento, dunque, non vi si stabilisce un tragitto preciso che si sviluppa da un punto di inizio ad uno di arrivo ben definiti. Esso è caratterizzato dallo spostamento continuo e caotico dei corpi all’interno di un luogo indefinito, il quale dà infinite possibilità di movimento. Nonostante si possa cogliere l’incombenza dell’energia selvaggia della natura, la quale disegna e determina i luoghi che incontra, tuttavia il giardino è pensato per l’uomo e vissuto dall’uomo. Per questa ragione, il giardiniere è colui che detiene la piena responsabilità di conciliare le esigenze delle persone che vi stanziano, nel rispetto della vegetazione che vi nasce e si sviluppa spontaneamente. In merito ciò si riportano le parole del paesaggista: «Il giardino in movimento interpreta e sviluppa le energie presenti sul luogo e tenta di lavorare il più possibile insieme, e il meno possibile contro, alla natura. […] Dei fiori si stabiliscono in mezzo a un sentiero e obbligano il giardiniere a scegliere: conservare il passaggio o i fiori? Il giardino in movimento raccomanda di rispettare le specie che si insediano in modo autonomo».Pertanto l’azione del giardiniere si traduce nella scelta della tecnica di approccio (e di giardinaggio) più adatta che si esprime attraverso la forma, la percezione e l’organizzazione dello spazio stesso. È quindi vero che alla base del Giardino in Movimento di Parc Citröen vi sia un progetto prestabilito che nulla lascia al caso ma, al tempo stesso, non vi è l’impiego di un preciso disegno che rispecchi degli standard estetici cosicché la natura venga completamente liberata dalla “dittatura del bello”. Un ultimo concetto che si evince dall’intervento di Clément è strettamente legato agli studi naturalistici e degli ambienti climatici che caratterizzano l’area mediterranea, compiuti dallo stesso paesaggista nel corso dei suoi numerosi viaggi. Il Giardino Planetario, così definito, vede l’ampliarsi dei propri confini da un iniziale recinto definito all’intero pianeta, all’interno del quale avviene l’incontro di culture e specie provenienti da ogni angolo della Terra. Sulla base di ciò Clément progettò un primo giardino (“Domaine du Rayol”) sul litorale provenzale, risultato di un collage fra le peculiarità naturalistiche di 5 continenti, sino ad arrivare al parco parigino, nel quale prevede la realizzazione di due grandi serre: l’una adibita ad agrumeto, l’altra predisposta per accogliere specie tropicali in comunione con la vegetazione autoctona. Se Clément si è incentrato sul concetto di natura e movimento, un’altra chiave di lettura la vediamo nella soluzione che appare nel progetto di Provost affiancato da altri due architetti: Jean-paul Viguier e Jean-Francois Jodry . Provost è un paesaggista che insieme a Viguer e Jodry si occupa della composizione del parco utilizzando un linguaggio semplice, tutto costruito sull’uso di due forme geometriche: il quadrato e il rettangolo. Egli, all’interno del parco, progetta il parterre, il giardino nero e la diagonale bianca, una passeggiata pavimentata che attraversa il parco ricongiungendolo con la città circostante e che è l’elemento che dovrebbe concludere e al tempo stesso spezzare la contrapposizione creata dalle due forme geometriche principali sopracitate. La soluzione originaria del progetto prevedeva di fare arrivare la diagonale sulla Senna, ma fu poi modificata nella fase esecutiva.Per quanto riguarda il parterre, invece, è un rettangolo d’erba proiettato verso il fiume ed è considerato uno spazio monumentale di collegamento alle dimensioni urbane. La piazza di conclusione del parco visto dalla senna è un ulteriore punto di


ricucitura fra il luogo e la città esaltato dai giardini bianco e nero che vengono trattati a scala di quartiere per relazionarsi con l’edilizia circostante e legarla all’insieme. La chiave di lettura del progetto è incentrata, in questo caso, sui concetti di architettura e artificio, contrapponendo un elemento naturale, che è il fiume, ad un elemento architettonico-artificiale, che è la diagonale pavimentata, e così anche per tutti gli altri elementi presenti, come ad esempio i giardini contrapposti alle serre. Proseguendo verso il centro del quartiere, quindi, si ha un graduale passaggio dalla natura all’artificio dove l’architettura regola e contiene il verde. Il Parc Citroën rappresenta un emblema per l’immagine poetica che vuole dare di sé. Camminando all’interno del parco, ci si accorge che non si sta solo svolgendo una passeggiata in un luogo fisico-naturalistico, ma si sta camminando all’interno di una vera e propria narrazione solo in parte fisica, che appare principalmente come la rappresentazione di un processo sensoriale-percettivo, carico di significati e simbolismi che scaturiscono dagli elementi naturali stessi e che è possibile comprendere appieno solo se l’osservatore mette in gioco tutti i suoi sensi. E proprio ai sensi sono strettamente legati i sei giardini tematici, i quali riportano il nome di un colore, che è il colore delle piante che vi si trovano all’interno, a cui corrisponde a sua volta anche un metallo, un pianeta, un giorno della settimana e una fase dell’acqua, in forte analogia fra di loro e dando origine a particolari immagini suggestive e cariche di significato, che creano nell’osservatore sentimenti di stupore e al tempo stesso un legame profondo con la natura che lo circonda. Per fare un esempio, il giardino dorato è legato al colore oro, visibile nelle sfumature dorate delle foglie e dei fiori al suo interno, all’oro come metallo, al sole, alla domenica e all’evaporazione dell’acqua. E proprio l’acqua, conseguentemente, assume un ruolo e un’importanza centrali, diventa anch’essa protagonista della simbolica narrazione sensoriale del parco, in quanto elemento naturale. Ciò è chiaramente visibile nella cosiddetta “colonnade” d’acqua, un’area pavimentata da cui fuoriescono a ritmi alternati zampilli d’acqua che creano un gioco dinamico a cui spesso partecipano anche i visitatori, calandosi in questo legame profondo con la natura. Al tempo stesso, grazie al suo costante movimento, l’acqua dà vita ad un racconto sonoro, che mai si ripete in modo uguale e che si sviluppa proprio dagli infiniti suoni che essa emette: scroscii, schizzi, spruzzi, gocciolii ecc., dando vita ad un’ulteriore narrazione sensoriale che si serve, ancora una volta, dei sensi per essere percepita. Grazie a tutti questi particolari e alla moltitudine di linguaggi con i quali il parco vuole esprimere se stesso, è stato definito come un parco che anche un cieco può visitare. E’ un luogo, insomma, solo apparentemente fisico, che racchiude in se stesso infiniti significati e immagini che permettono all’osservatore di entrare in un mondo parallelo costituito da simbolismi e visioni e, al tempo stesso, di godere dello spazio in cui si addentra procedendo con la narrazione, è, in poche parole, il corpo che si espande, traendo piacere nell’immergersi in questo luogo suggestivo e spirituale. Bibliografia: Isotta Cortesi, Il parco pubblico. Paesaggi 1985-2000, Milano, Motta, 2000; Manifesto del Terzo Paesaggio, Gilles Clement, a cura di F. De Pieri, Macerata, Quodlibet, 2005; Patrick Berger : opere e progetti = oeuvres et projets : Mendrisio, Accademia di architettura, 1997 / cura e coordinamento del catalogo a cura di Gabriele Cappellato, Luca Bellinelli, Milano, Skira, 1999; The planetary garden and other writings, foreword by Gilles A. Tiberghien, Gilles Clement, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2015; Giardini e parchi: storia, morfologia, ambiente, Marco Vannucchi, Alinea Editrice, 2003; Storie di architettura attraverso I sensi, Anna Barbara, Postmediabooks, 2011.

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#3

Azzarelli Roberta, Buso Liliana, Mallia Gloria, Sottosanti Chiara

Il secondo spazio

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Camera per studentesse, Residenza “Victoria Studienhaus” a Berlino, G. F.G.Kersting F. Kersting Embroideress, 1812. Camera per studentesse, Residenza “Victoria Studienhaus” a Berlino, TheThe Embroideress, 1812.

Camera per studentesse, Residenza “Victoria

Emilie Winkelmann, 1914. Emilie Winkelmann, 1914. Emilie Winkelmann, 1914. Studienhaus” a Berlino,

G. F. Kersting The Embroideress, 1812.


Il fatto che lo spazio dell’abitare esista è un assunto consolidato e incontrovertibile, risulta invece difficile definire i caratteri generali dell’abitare e i confini di questa azione. Tutti abitiamo, dentro le nostre case, ma abitiamo anche la città, lo spazio urbano. Risulta chiara la distinzione tra l’abitare pubblico e privato, le limitazioni corporali e verbali, comportamentali che caratterizzano il nostro agire nel primo o nel secondo. Lo spazio domestico ammette le nostre perplessità, le fragilità, è uno spazio di tutela, controllato e cristallizzato. Ma all’interno della casa stessa si possono distinguere gli ambienti di condivisione dalle stanze private più interne; il salotto, i corridoi, la sala da pranzo, non sono altro che un’intercapedine tra l’esterno e la dimensione domestica. Il superamento dell’assenza di “una stanza tutta per sé” in cui rifugiarsi nella contemplazione e nello studio in opposizione al caos dello spazio del nucleo familiare è per Virginia Woolf di fondamentale importanza per l’emancipazione della figura femminile; la stanza privata, lo studio, con una grande scrivania, è una parte del sé, luogo di autoaffermazione. E se non è l’ambiente domestico, la casa familiare, negli anni Venti del Novecento a poter offrire uno spazio esclusivo e autonomo nel privato si scopre invece una prima forma di stanza-studio nei primi studentati femminili che sorgono a Berlino dal 1914. E’ il Victoria Studienhaus il primo collegio che prende forma nel ‘14; pensato per 96 studentesse dell’alta e media borghesia tedesca si erige su cinque piani di cui tre occupati dalle stanze singole esposte sul giardino. L’interno è caratterizzato da uno spazio fortemente femminile che esprime se stesso in ogni dettaglio in contrapposizione all’austera facciata esterna: la carta da parati con decorazioni floreali, le tende in Tulle, il lampadario, tessuti fluidi, sottili, delicati, i fiori sul tavolo. L’edificio si adatta ad uno spazio limitato, la forma ad uncino è caratterizzata da una facciata uniforme neoclassica, all’interno si articolano diverse attività; sul retro si mantiene un senso di apertura verso il paesaggio attraverso due ali disuguali, una lunga, stretta e alta e l’altra corta, tozza e bassa, che abbracciano il giardino, un atrio interno, folto di vegetazione e un laghetto fagocitato dalle ninfee. Un paesaggio romantico, intoccabile, una scenografia ingannevole, che nasconde e distoglie lo sguardo dal mondo esterno rinnegandone qualunque incontro visivo. Il Victoria Studienhaus diviene in questo senso una macchina introversa che affronta la città rinchiudendosi dietro la propria facciata ermetica e mutando esclusivamente al proprio interno. Questo illusorio incontro con la città fa dello studentato un corpo a se stante, contenitore impermeabile di corpi anch’essi ingabbiati nel paradosso della libertà isolata, così come avviene nell’utopia dell’idea di vita del Falansterio teorizzata da Fourier. Il complesso residenziale viennese Frauen Werk Stadt di fine Novecento (1992-1997) sembra rileggere ed interpretare le esperienze dello studentato cercando di oltrepassare i limiti della stanza-bolla. Vi è in questo progetto lo studio della donna, delle sue esigenze quotidiane. A fare da sfondo a questo caso studio sono stati soprattutto i dibattiti, le mostre e i concorsi che si svolsero a Vienna tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Anche in questo progetto che si sviluppa a scala di quartiere risulta evidente il carattere contraddittorio, se da una parte si pone al centro del progetto la donna, assegnandole un ruolo attivo, di partecipazione, allo stesso tempo, però, la si esclude dal mondo esterno, progettando il suo mondo in uno spazio chiuso, circoscritto. La separazione dal mondo esterno la si può notare per esempio nella progettazione della cucina, il centro della casa; inserita in un corpo aggettante detto “erker”, è stata progettata in modo da avere una buona luminosità e un affaccio verso le aree verdi: si ha una visuale verso il mondo esterno ma non vi si partecipa, tutto ciò di cui si necessita è all’interno dell’abitazione. Vi è però una differenza dagli esempi precedenti: qui non si dà nessuna valenza estetica. Lo spazio è privo di tutto ciò che è futile, di tutto ciò che in passato serviva per colmare i vuoti, quei vuoti che Gozzano definisce “buone cose di pessimo gusto”. Ecco ancora una volta la frattura irrimediabile tra tessuto urbano e corpo ideologico portatore di valori. In questa lotta prima

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di tutto interna il movimento ideologico (femminista in questo caso, ma inteso in senso più ampio) e la sua presenza/ azione nello spazio diviene quindi il segno di un corpo unico che si muove all’interno della città creando piccole variazioni di tema sul tessuto urbano. La città è in questo senso un insieme di tasselli valoriali, un puzzle di micro - ideologie, micro - politiche, micro - sensazioni che agiscono e modellano la propria porzione di spazio muovendosi faticosamente al suo interno. E ad alimentare questa insoddisfazione perenne della maglia della città è forse primo fra tutti lo spazio pubblico nel suo ruolo illusorio di elemento connettore, conciliatore. Questo luogo che dev’essere versatile, privo di vincoli, di nodi, pareti, muri, fruibile, spazio di condivisione e di espressione. Sorge qui spontaneo l’interrogativo su cosa sia effettivamente la libertà di azione nello spazio pubblico. Ed è proprio in questo punto che avviene la frattura, lo scontro tra lo spazio urbano e il corpo transizionale che si trova libero di fronte al “mare delle infinite possibilità” tanto temuto da Kierkegaard. Lo spazio pubblico della città diviene elemento cristallino, specchio falsato, riflessione di una trasparenza mulatta. Di fronte a questo spazio illusorio, il frammento sembra acquisire familiarità, di fronte ad uno spazio aperto e incontenibile, si assiste ad una scorporazione. L’ordinario diventa quindi il rifugio, i solid objects di cui parla ancora Virginia Woolf sono macchine introverse che a qualunque scala creano mondi ideologicamente strutturati per il contenimento di corpi disgregati. E proprio in questo tentativo di ricomposizione dei frammenti autoportanti, nella colla che fa da incontro tra i corpi al limite tra i cardini e lo spazio esterno, si colloca la forma indeterminata della città. 44


Bibliografia: Gisella Bassanini, Per amore della città, Franco Angeli, Milano, 2008, pp. 127-135. Lina Scavuzzo, Social housing a Vienna: il progetto della residenza come campo di sperimentazione per le politiche pubbliche, Maggioli Editore, 2011, pp.77-100. Leonorado Benevolo, Le origini dell’urbaistica moderna, Editore Laterza, 1991, pp. 85-90. Despina Stratigakos, A women’s Berlin. Building the Modern City, The University of Minnesota, 2008, pp.53-96. Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, Feltrinelli Editore, Milano, 2013. Giovanni Longobardi , La «Casa della Donna» alla Werkbundausstellung. Colonia 1914, Aracne editrice, 2015, pp. 11-20.

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#4

Salcini Alice, Morgese Vito, Zonato Riccardo, Fata Edoardo

Recycled Landscapes

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Vall d’en Joan - Garraf, Spagna


La Vall d’en Joan si trova all’interno del Parco naturale del Garraf, nei pressi di Barcellona. Dal 1974 la valle iniziò ad essere utilizzata come discarica e da allora è stata la destinazione della maggior parte dei rifiuti dell’area metropolitana della limitrofa città. Prima della chiusura del sito, si estendeva per circa 85 ettari. Il progetto di riqualificazione, avviato nel 2002, si proponeva di affrontare con un solo intervento, tre aspetti principali dell’operazione: risolvere un problema tecnico complesso, creare un nuovo spazio pubblico e costruire un paesaggio rinnovato. La componente ecologica-ecosistemica diviene importante elemento progettuale: si cerca di mettere in atto una serie di operazioni che po sano risolvere la situazione compromessa avvalendosi delle conoscenze in campo ambientale. Il risultato del progetto dimostra l’impegno dell’uomo nel recupero degli errori del passato. E’ la proposta di un nuovo modello riparatore nei confronti del Mondo, l’organismo multifunzionale che ci ospita e ci permette la vita. Architettura e ambiente diventano dunque un tutt’uno, un unico corpo funzionale per l’efficacia e il funzionamento del Mondo stesso. Peter Zumthor nel suo libro “Atmosfere” fa riferimento al “corpo dell’architettura”: un insieme di oggetti e materiali che spesso non si vedono e assieme all’ambiente su cui prende forma, vanno a creare un’anatomia, un organismo simile a quello dell’uomo, con una pelle, un’ossatura, una presenza che tocca l’uomo penetrando nel suo esercizio sensoriale. La Vall d’en Joan è un esempio del connubio tra architettura e ambiente, che diventa un unico corpo capace di donare nuove percezioni sensoriali all’uomo rigenerando la natura della propria anima. Questo è il risultato del lavoro svolto anche per il Parco San Giuliano a Venezia. L’area in origine era paludosa e utilizzata come discarica di fanghi industriali e rifiuti urbani. Il territorio è tornato a essere punto di incontro tra la terraferma e la laguna, offrendo aree verdi, spazi ricreativi e una rete di percorsi pedonali e ciclabili inseriti nel sistema del verde. Un luogo che parla non solo di bellezza ma di benessere. Un altro esempio è l’ Houtan Park di Shanghai costruito su un ammasso di detriti, è diventato un paesaggio rigenerante e vivo. Le strategie di rinascita e di riciclo applicate nel progetto hanno trasformato il sito in un sistema vivente che offre molti servizi ecologici. Il sito evoca la memoria del passato e celebra il futuro ecosostenibile, rendendo omaggio a una nuova estetica fondata sull’ideologia delle basse emissioni. Esempio pilota tra tutti è il parco di Palo Alto in California, un intervento di land art che si estende di fronte alla baia di San Francisco: un paesaggio tendenzialmente pianeggiante privo di alberi ad alto fusto, luogo riciclato, senza un confine certo, fatto di enormi distanze, che mettono in risalto una terra desolata. Di fronte a questo panorama si percepiscono di tanto in tanto elementi antropici, caratterizzanti e attentamente studiati. Le scelte paesaggistiche e formali rievocano il paesaggio passato, ma sono anche studiate per rispettare i trattamenti di smaltimento della discarica, ormai sotterrata nel parco. Queste sono solo alcune delle opere di land art e di earthworks progettate e realizzate tentando di “coniugare i tempi del disastro ecologico con i tempi del recupero biologico ed ecologico”. Si cerca di mediare tra la concezione più antica del rifiuto inteso come qualcosa da rifiutare appunto, e la necessità di coinvolgerlo nuovamente nei processi di trasformazione del territorio, sperando che “l’immondizia divenga fenomeno culturale forse capace di suscitare un pensiero e una riflessione” (N. Trasi). Abbiamo deciso di approcciarci al tema secondo due punti di vista: quello dell’oggetto e quello dell’uomo, indagando il rapporto tra esso e la natura. Dal punto di vista dell’oggetto la Vall d’en Joan ha vissuto negativamente la vicinanza a diversi centri urbani che, inconsci della sua storia ed incuranti del suo valore ambientale, hanno sfruttato la sua posizione limitrofa ed appartata, celandovi i rifiuti dell’attività umana e conducendola ad uno stato di profondo e stratificato deterioramento. L’azione di progetto opera per definizione in modo inverso: focalizza il luogo nel suo contesto per trarne valore e cerca di esplicitare questo valore in termini di integrità e di bellezza. Questo può avvenire

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solo grazie ad operazioni fisiche, corporali, che vanno a rinnovare la morfologia del suolo agendo sulle sue parti, sugli strati che lo compongono (korper): tramite l’apporto di nuovo terreno. Sono plasmati terrazzamenti che riducono la pendenza della valle permettendo la cantierizzazione dell’area e la piantumazione di colture capaci di rafforzare il terreno e renderlo di nuovo fertile; un sistema superficiale di tubazioni permette la raccolta delle acque all’interno di serbatoi dedicati, mentre un secondo sistema agisce in profondità, per recuperare il biogas derivante dai rifiuti dell’ex discarica, che tramite combustione è capace di generare energia elettrica. A questo punto sarà la natura del luogo, nei tempi a lei congeniali, capace di appropriarsi della sua nuova corporeità (liebe).

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Analizzando il progetto dal punto di vista dell’uomo si è pensato di inserire una terza scala: rendere il sito un posto visitabile, un luogo pubblico che potesse essere usato come parco. Tuttavia, la sua ragione di essere è inseparabile dalla realtà urbana dell’area metropolitana che l’ha originata. Il suo contributo educativo e ambientale rende le sue qualità come servizio pubblico indiscutibile. Si può descrivere, quindi, come un parco metropolitano (fu, infatti, premiato con l’European Prize for Urban Space nel 2004), per le sue dimensioni, la sua prossimità a diversi centri di popolazione, e per il fatto di essere ancorato al Parco naturale del Garraf, il quale agisce come porta d’ingresso grazie al suo collegamento con le GR (Grand Recorrido), che permettono un collegamento con tutto il resto d’Europa. Si determina così un uso e un funzionamento associati a veicoli (pubblici e privati) e una organizzazione diversificata di percorsi coincidenti con quelli creati per la discarica (destinati al transito veicolare) e quelli inclusi nel progetto tecnico per il capping (percorsi pedonali). In quest’ottica, la strada che conduce al sito e il parcheggio per automobili assumono particolare importanza. Questo intervento mostra le attitudini che la società dovrebbe adottare nei confronti dell’ambiente. L’attenzione all’uomo, non solo alla natura, ha creato un accesso pubblico per l’area recuperata dotata di un centro informativo (costruito all’interno di un edificio storico) che spiega il lavoro svolto e i vari progetti. Inoltre, muri di rifiuti guidano il percorso in questo nuovo luogo, ricordando le sue origini, il ruolo che ha interpretato per decenni e il modo in cui è stato recuperato per uso pubblico. Il risultato finale è dato dal dialogo e dalla possibilità di coesistenza all’interno di uno stesso luogo della componente antropica e quella naturale, in cui l’uomo rimedia agli errori commessi riuscendo contemporaneamente a ridare identità e forza ad un luogo che era stato non riconosciuto come tale a causa dell’uomo stesso. Il visitatore si mostra come corpo di piacere, aperto e in armonia con questo luogo, ma con il rimando, dato dalla presenza dei muri contenenti rifiuti, alla situazione precedente, periodo della discarica, in cui si mostrava come corpo di chiusura. Volendo aggiungere una critica al progetto diremmo che data la volontà (espressa dai progettisti e confermata dalla commissione) di sensibilizzare il fruitore di questo nuovo spazio pubblico nei fronti di tematiche molto sentite nella contemporaneità si sarebbe potuto fare in maniera più forte e dando maggiore carattere a questa volontà (per esempio organizzando attività che possano coinvolgere maggiormente il visitatore quali visite guidate alla centrale di conversione energetica e nel sito, oppure ad esempio laboratori pratici per bambini e non - far creare carta riciclata ecc. - in grado di rimanere maggiormente impresse nella mente di chi le svolge. Tutto ciò, inoltre, contribuirebbe a rendere questo luogo meno di mero transito e maggiormente di sosta, cosa che rafforzerebbe la dimensione di spazio pubblico e la fruibilità di questo luogo. Come detto in precedenza, ci si è approcciati al tema di progetto guardandolo attraverso il rapporto tra uomo e natura, legame imprescindibile e complesso. Natura e uomo si danneggiano a vicenda e allo stesso tempo si curano


creando infiniti alti e bassi nella loro relazione vitale. Questo progetto è esplicativo della duplicità di questo rapporto poiché qui troviamo allo stesso tempo distruzione e riparazione. L’uomo dapprima ha deturpato il suolo poi l’ha ripensato, riprogettato, curato, e infine ridonato alla natura. Questo legame tra uomo e natura è stato indagato da più studiosi, artisti e filosofi nel corso della loro vita, uno fra tanti Tim Knowles ideatore di Tree Drawings, un progetto affascinante in cui gli alberi comunicano su tele bianche tramite delle penne applicate alle estremità delle fronde grazie al soffio del vento che fa oscillare i rami e gli alberi sono liberi di esprimersi. Si crea così un momento magico tra uomo e natura che racconta i pensieri di un albero e prende forma sulla tela. Il progetto dell’ex discarica della Vall d’en Joan può essere analizzato tramite questa chiave di lettura, reinterpretando il suolo malato da anni di deturpazioni inflitte dall’uomo, come un corpo malato necessitante di numerosi strati di terreno per separare gli sbagli passati dal presente curativo e dal futuro sano, questi strati sono stati applicati dai progettisti come garze a curare l’infezione inflitta. Ci siamo da subito chiesti qualora fosse possibile riparare ciò che l’uomo ha distrutto, in questo caso il rapporto logorato tra uomo e natura ha trovato la sua strada per tornare integro mostrando le sue cicatrici che segnano il percorso del visitatore nel nuovo parco della valle. Bibliografia: Borasi G., Zardini M., Imperfect health: the medicalization of architecture, Montreal, Lars Muller Publishers, 2012 Czerniak J., Hargreaves G., Large Parks, New York, Princeton Architectural Press, 2007 Mostafavi M., Doherty G., Ecological urbanism, Zurich, Lars Muller Publishers, 2010 Cortesi I., Il progetto del vuoto. Public space in Motion, Firenze, Alinea, 2005 Waldheimwho C., The landscape urbanism, Princeton, Princeton University, 2016 Gessè Solè F., Goula Goula M., Estudi dels heteropters del Parc Natural del Garraf in Sessiò Conjunta d’Entomologia, Barcellona, 2001 Galì T., Regeraciò paisatgìstica de l’abocador a la Vall d’en Joan, Barcellona, Quaderns, 2004 Restauracion del vertedero controlado de la Vall d’en Joan in Catalogo delle buone pratiche per il paesaggio, Firenze, Alinea, 2007

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#5

Ilaria Giuntoli, Jakova Meri, Andrea Dilisa, Rosa Campisi

Il corpo rimosso

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P. Eisenman, Diagrammi, House VI, Cornwall, Connecticut 1972-1975


La decisione di trattare lo Strutturalismo come emblema di una progettazione che rinuncia alla centralità del corpo, è da ricondurre a un interesse condiviso per gli esiti che una tale scelta comporta sulle architetture, non più intese come tramite tra spazio e individuo. Dagli anni Sessanta più inclini alla ricerca del modello ideale e all’astrazione, al Post-strutturalismo anni Ottanta interessato al soggetto che esperendo ricostruisce una narrazione personale, il tratto comune resta il coinvolgimento sempre parziale del corpo, incluso talvolta a posteriori e mai a priori. L’opera di Peter Eisenman con i progetti dell’House VI e della Città della Cultura della Galizia ben si presta a sintetizzare l’evoluzione dello Strutturalismo e al contempo anticipa le ripercussioni dei nuovi mezzi di rappresentazione digitale in cui la scorporazione sembra crescere in parallelo con la complessità dei progetti. L’House VI è da ricondurre al ciclo di case che prendono il nome di Cardboard Architecture, progettate tra il 1967 e il 1988, tutte accomunate da nomi volutamente standardizzati e spersonalizzanti. Costruita nel 1976, si configura come un’architettura concettuale in cui il soggetto è posto in una condizione di straniamento che lo porta a non poter ricondurre la sua esperienza ad un tradizionale modo di abitare l’architettura. Inserito in uno spazio di singoli elementi reiterati infinite volte, l’osservatore è portato inevitabilmente a cercare di ricostruire virtualmente il proprio percorso e la propria posizione. L’instabilità scaturisce quindi da «un intricato intreccio di superfici, spazi e linee […] un terreno di gioco per la mente assoluta»1. Nello sviluppare l’idea di architettura concettuale, Eisenman stesso scrive: «Fare qualcosa di concettuale in architettura richiederebbe prendere gli aspetti pragmatici e funzionali e metterli in una matrice concettuale, dove la loro esistenza primaria non può più essere interpretata»2. Gli elementi minimi, pilastri, travi, scale e solai sono facilmente leggibili e rintracciabili, quello che sfugge sono invece i nessi, ogni lettura viene intrapresa per poi essere abbandonata. Perfino l’uso del colore crea disorientamento, rivelandosi a ben vedere completamente antigerarchico. Gli spazi così come concepiti da Eisenman hanno di fatto ribaltato il paradigma dell’abitare che si riteneva tradizionalmente inscindibile dall’architettura. La sala da pranzo è stata ritagliata in uno spazio marginale, soffocata tra i muri del corridoio, con un pilastro che scende sul pavimento proprio vicino alla tavola da pranzo. Non è quindi il corpo ad adeguare lo spazio alle sue esigenze ma è lo spazio stesso a imporre l’adeguamento al corpo. Il proprietario riferendosi all’House VI ricorda: «Ero solito sbattere la testa contro le scale, ma ho imparato ad abbassarmi. Il punto è che vivendo qui, ti dimentichi dei problemi perché la casa è un continuo processo di apprendimento della forma e dello spazio»3. La stanza da letto invece risulta tagliata da una sottile striscia di vetro che attraversa il pavimento, creando una fessura e precludendo in questo modo ogni forma di privacy. Si genera così una percezione destabilizzante, in cui l’occupante che osserva attraverso questi tagli non solo non riesce a riconoscere un involucro ma non è in grado neppure di distinguere appieno dove sia il piano terra. La specifica forma, dimensione e posizione reciproca degli elementi infatti, induce nello spettatore un meccanismo di spostamento e riorganizzazione mentale delle parti. Si crea così uno spazio mutevole in cui le cui proporzioni cambiano continuamente e in cui si scontrano reale e potenziale, significante e significato. E le tensioni che ne derivano non sono quindi provocate dalla posizione reale dei muri, ma dall’idea che l’osservatore si fa della loro posizione potenziale. L’House VI non va dunque intesa come esperienza estetica ma come esplorazione della gamma di manipolazioni potenziali latenti nella natura dell’architettura, che tuttavia restano inaccessibili, indecifrabili, oscurate da preconcetti culturali. Il progetto della Città della cultura di Galizia sulla cima del Monte Gaias a Santiago de Compostela è invece frutto di un concorso internazionale bandito dalla Giunta di Galizia nel 1999 che fu vinto da Eisenman e inaugurato nel 2011. Il progetto per Santiago segna il passaggio dall’idea di indice, visto come una scrittura interna di un’azione a quella di

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codice, visto come una riscrittura di un’organizzazione interna a partire da una fonte esterna, senza che questa lasci una traccia dell’attività. Codificare è una forma di indice che, nel suo riorganizzare o riscrivere l’originale, cancella le tracce di un processo generalmente trovato in un indice. L’idea di codice non è usato in senso restrittivo ma piuttosto come un codice di DNA con la possibilità di riorganizzare un contesto e in secondo luogo può essere visto come un generatore della terza dimensione.

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Il patrimonio genetico interno del progetto è costituito dalla figura simbolo della conchiglia di San Giacomo che viene iniettata nella planimetria del centro cittadino medievale, da molteplici griglie cartesiane fissate e ruotate, dalle griglie delle flou lines e dal sito del Monte Gaias. Il passaggio dall’idea di indice a quella di codice avviene perché mentre il progetto prende inizio da una serie di piante sovrapposte come un palinsesto, che rappresenta la forma tradizionale di un indice, queste sovrapposizioni sono poi riscritte come una tridimensionale matrice di vettori che agiscono sopra l’indice. Il passaggio avviene proprio per la presenza di queste deformazioni vettoriali estrapolate da un’originale griglia prodotta dal palinsesto delle tre piante sovrapposte (il disegno della strada medievale di Santiago, la griglia astratta cartesiana e la superficie topologica dell’originale sito collinare progettato in una terza dimensione) e che riscrivono la precedente logica organizzativa caratteristica delle piante in due dimensioni assumendo la forma di un codice. Per quanto concerne il determinare la dimensione verticale delle griglie sovrapposte, la sfida era definire una terza dimensione che non fosse semplicemente una estrusione da una condizione planimetrica. Per arrivare a ciò, sono state ideate una serie di differenti linee regolatrici. Queste linee di forza si muovono nella terza dimensione dal piano della copertura creando una serie di spostamenti verticali. Le linee si evolvono non da una singola rotazione della griglia cartesiana ma da rotazioni simultanee simili a un’azione rotante attorno a diversi punti. Quindi le linee di deformazione, che si muovono da nord a sud, e le linee fluide del progetto, che si muovono da est a ovest, sono delle notazioni vettoriali nello spazio generate da un’azione rotante che produce la terza dimensione come una riscrittura codificata dell’indice bidimensionale. Poiché quindi le linee di deformazione e le linee fluide sono state registrate indipendentemente l’una dall’altra in ogni edificio, la matrice risultante non può essere riportata a qualche origine. Non c’è più allora alcuna leggibilità narrativa dell’azione nelle forme risultanti. Eisenman inoltre ponendo il centro originario della città nell’area del sito fa sì che l’organizzazione urbana figura/ sfondo venga superata. Infatti gli edifici sono letteralmente incisi nel terreno a formare un’organizzazione urbana figura/figura in cui architettura e topografia si fondono per diventare figure. Non c’è più una dialettica tra figura e terreno ma piuttosto un terreno che diventa figura. Alla sezione del Monte Gaias non vengono sovrapposti gli edifici ma la sua sezione originaria viene in parte rasata, spianata, scavata e portata a un nuovo livello in modo che l’aggiunta della nuova Ciudad ritrovi non la forma ma l’altezza della collina. Questa operazione nasce dall’incisione nella Terra della planimetria di Santiago medievale, dallo slittamento, sprofondamento delle griglie cartesiane nella Terra scavata e dalla griglia delle flou lines che fluidificano e portano Terra e architettura ad essere tutt’uno. L’incontro in uno stesso luogo di più dimensioni temporali dissimili (quella geologica del Monte Gaias, quella storica di Santiago medioevale, quella artistico-architettonica della griglia cartesiana e della griglia delle flou lines) e la destabilizzazione delle coordinate saziali produce una sorta di ambiguità spazio-temporale e un’ambigua percezione perché il nuovo livello della Ciudad fa sì che piano terra significhi sotto terra mentre fuori significhi dentro; vi è un passaggio dalla luce al buio, dalla luce alla penombra, dalla luce alla luce artificiale, dal fuori al dentro, dal sopra al sotto. Analizzando in parallelo i due progetti presentati, è possibile rintracciare delle analogie evidenti anche sul piano della


rappresentazione grafica. I diagrammi diacronici infatti, mostrano una serie paratattica di “istantanee di un flusso metamorfico”4 fatte di figure poste su uno sfondo muto in cui nulla interviene a darci conto del contesto o della scala degli interventi. Come nelle strutture piagetiane si è di fronte a un sistema di elementi irriducibili in interazione, rispondente unicamente a regole interne e in nessun modo perturbato da fattori esogeni. Sta pertanto all’osservatore, simile all’Angelus Novus di Klee, il compito di raccogliere i lacerti e ricostruire la narrazione. Nella House VI il corpo, ridotto proprio ad osservatore, è il soggetto a cui è preposto il ricongiungimento dei pezzi, dai centomila all’uno, in un processo del tutto simile allo specchio lacaniano in cui il bambino che vi si osserva riflesso, non riesce a riconoscersi nell’immagine unitaria della propria persona che percepisce come disgregata. L’opera La riproduzione vietata di Magritte riecheggia proprio questo senso di spersonalizzazione in cui l’immagine restituita dallo specchio conserva zone d’ombra, riflette la figura ma dal punto di vista sbagliato, precludendo all’individuo la possibilità di identificarvisi. All’interno della House VI il corpo è consapevole di un’avvenuta codifica ma è altrettanto conscio dell’impossibilità di decifrare lo spazio in cui è inserito. E proprio lo spazio è paragonabile a una scacchiera, topos della lettueratura strutturalista, emblema di un sistema auto-organizzato che risponde esclusivamente a logiche interne. Ai singoli pezzi sono associate possibilità di movimento elementari, le regole, e dalla loro combinazione si generano le trasformazioni, in un meccanismo paradossale in cui, come osserva Hertzberger, le restrizioni imposte amplificano le possibilità d’azione. In Finale di partita di Beckett i pezzi-personaggi si muovono all’interno di una scacchiera calata nel vuoto e semplicemente osservano senza tentare di decifrare id dramma in atto. Lo stesso vale per l’House VI in cui il significato sfugge all’individuo proprio perchè risiede nel disegno, all’interno cioè dello stesso sistema che lo ha espulso. A tal proposito Eisenman rivela di non essersi mai recato nelle case della Cardboard Architecture a cantiere chiuso proprio perchè il loro significato è da ricercare nel modello ideale e non nella sua realizzazione empirica imperfetta. Al contrario rivendica l’importanza di visitare la Città della Cultura, rifiutando l’idea della morte dell’individuo almeno per questa seconda fase post-strutturalista della sua produzione. Il corpo cambia ruolo, è espunto ma non inerte e deve esperire. Calato in uno “spazio di negoziazione”5 è portato a interrogarsi, a identificare tra i molteplici significanti in potenza il significato in atto. Il soggetto è quindi rivelatore del significato che tuttavia è “disperso”3, non ha la pretesa di essere univoco. Oggi la distanza tra il corpo e una possibile decodifica è dilatata al punto da vincolarci ad una “visione non più interpretativa”6. Già in questo secondo progetto a generare la forma non è più soltanto l’architetto-demiurgo che plasma in base alla propria libera espressione, ma anche un secondo dispositivo di codifica, una matrice tridimensionale digitale che associa a ogni indice una posizione e un’annotazione corrispondente. Il numero di variabili in gioco aumenta, ampliando dunque anche la complessità. Pertanto, se nello strutturalismo degli anni ’60 – e in parte nel post-strutturalismo – il ricorso alla griglia come dispositivo edificante del discorso architettonico era il modo con cui i progettisti affrontavano il tema dei nessi relazionali, adesso la tecnologia offre elementi diversi su cui poter lavorare. Lo schema di Habraken (compresa la sua finalità sociale), le assonometrie di Eisenman e la scacchiera di Beckett, visti attraverso il filtro materialista di Manuel De Landa, si trasformano in sistemi complessi in cui le maglie, i tracciati e i punti nodali sono formati da un insieme più o meno omogeneo di dati. In questo senso il mutare in forma liquida dello schema, porta alla costituzione della struttura non come somma di singole parti ma come sovrapposizione di differenze intensive: in sostanza la logica strutturalista si risolve all’interno di strutture matematiche ben precise, gli algoritmi. Un algoritmo è procedimento volto alla risoluzione di un problema attraverso passaggi chiari, finiti e univocamente determinati. L’idea di struttura risulta dunque

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immanente a questo tipo di procedimento, per cui a partire da alcuni dati di input si svolgono le più varie operazioni che forniscono un output, che in ultima analisi si configura come risposta al problema. La modellazione generativa è fortemente legata allo strutturalismo proprio per la facilità dialettica con cui si possono instaurare rapporti vicendevoli sia fra interi algoritmi sia fra gli elementi costitutivi irriducibili individuabili nei parametri. Infatti, l’attività strutturalista consiste essenzialmente nella capacità combinatoria di elementi sulla base di regole che ne determinano la creatività. Per gli algoritmi accade lo stesso. Rispetto al disegno tradizionale si compie allora un passaggio in più: la rappresentazione non è più atto naturale di trascrizione di un pensiero in forma grafica, ma passa attraverso la mediazione di un codice che solo in ultima analisi si concretizza in geometria. Quando si usano procedure di questo tipo la complessità non è generata tanto dalle forme del pensiero, quanto dalle n-esime interazioni della struttura (digitale). Certamente non ogni tipo di dimensione parametrica esalta olisticamente la struttura. Ma allora come si può definire questa tendenza attuale? Come strumento per il form-finding di nuovi elementi di un linguaggio del tutto contemporaneo o come processo creativo e metodologico di cui il progetto urbano – quindi architettonico – si sostanzia? L’approccio digitale al progetto ha dischiuso le porte alla ripetitività di motivi e modi del pensiero che formano il progetto stesso. La parametrizzazione come linguaggio ingegneristico sta producendo in campo architettonico ricerche sempre più insistenti in merito all’uso del pattern – da qui l’interesse verso lo strutturalismo che negli anni ’60 ha utilizzato pattern regolari come matrici generatrici. Uno strutturalismo per così dire formale, che si concentra sullo studio del pattern come forma ripetitiva ignora però il fatto che l’architettura vive della sua spazialità e non di simulazioni. Adottare uno strutturalismo generativo per simulare scelte creative allontana dalla realtà, digitalizzando in maniera anonima il processo - lo spostamento della decisone progettuale dall’azione intellettuale del progettista alla macchina, riduce fortemente il contributo umano nell’architettura. Il caso del progetto Interactions: performative pattern in computational design è forse uno dei primi casi in cui questa eredità si è concretizzata in una ripetitività che nelle versioni più recenti si sta trasformando in una serie di applicazioni in ambito tecnologico che rientrano nelle ricerche circa le responsive skin. La digitalizzazione in architettura è condotta anche attraverso la morbosa attenzione alle scelte dell’individuo: si cerca in tutti modi di guidare lo sviluppo urbano sulla base del comportamento della società. Si assiste così ad una variazione dei nessi relazionali tra gli elementi strutturali del processo in senso quantitativo – in seguito all’aumento delle informazioni che è possibile gestire. Queste ricerche, per non parlare di quelle legate a modelli di crescita urbana basati sugli algoritmi genetici, sono state nel tempo affrontate in diverso modo e studi di fama internazionale come MVRDV sfruttano software per l’analisi del comportamento sociale – come Space Fighter - in modo da trasferire queste informazioni al progetto. Tutto ciò abbinato al concetto transcalare del pixel, costituitivo di molti loro progetti, ha permesso di costruire edifici che prendono come base di partenza la mixité generata dall’algoritmo in unione con le esigenze prestazionali del manufatto. La previsione mira infatti ad anticipare comportamenti sociali che ri-velano la dimensione antropologica dell’architettura. Alla luce di quanto detto la risposta al quesito circa la definizione delle pratiche architettoniche contemporanee resta tutta da indagare, ma il rischio, come sembra, è quello di un ritorno al riduzionismo, al progetto scarnificato tutto preso nel pericoloso gioco funzionalista. Quindi come si inserisce il corpo in questa rilettura? Come si è visto, sinora non si è parlato del corpo proprio perché non è presente nella genesi delprogetto generativo. In continuità con l’eredità post-strutturalista il corpo non è più istanza fondante dello spazio. Al contrario il corpo è ridotto ad una crescente spersonalizzazione che si compie nell’atto progettuale. La retorica della complessità nega la capacità osservatrice e la limita allo sguardo parziale, incapace di una visione unitaria. Ma la


differenza rispetto allo strutturalismo e al post- strutturalismo risiede nel passaggio digitale della rappresentazione, che continua ad allontanare la causa primaria del progetto dall’utente finale. Nella contemporaneità sembra quasi che il corpo sia circoscritto a esplicatore di bisogni, declinati nelle ultra-specializzazioni in metriche e indicatori di un benessere astratto, privato del suo significato in quanto assunto come requisito normativo piuttosto che reale scelta intellettuale. È una tendenza che Y. N. Harari sintetizza bene in Homo Deus in cui afferma che la scienza ha ricondotto l’uomo stesso ad un complesso meccanismo di algoritmi biologici, per cui è sempre possibile prevedere in che modo il corpo agisce (o subisce) nel mondo e nello spazio – ignorando spesso le pratiche quale luogo dell’azione compiuta nell’ingombro. A ben pensare è riconosciuta una valenza corporea maggiore all’edificio rispetto all’uomo. Gli edifici assumono tratti fisici e caratteristiche biomorfiche che fanno cangiare le architetture in senso organicistico fino al confine estremo della negazione, in cui è espunta la capacità del corpo (umano) di fondare lo spazio. Bibliografia delle citazioni: 1. Suzanne Frank, 1994: 25 2. Peter Eisenman, Notes on Conceptual Architecture: Towards a Definition, Casabella, no.359-360, Dic. 1971, p.51. (articolo) 3. Suzanne Frank, 1994: 38 4. Paola Gregory, 2009: 141 5. Desley Luscombe, 2014: 581 6. Peter Eisenman, Iman Ansari, 2013 (intervista) Bibliografia: Y. N. HARARI, Homo Deus. Breve storia del futuro, Milano: Bompiani, 2017 H. HERTZBERGER, Architecture and Structuralism, The Ordering of Space, Rotterdam: Naio10 publishers, 2015 D. LUSCOMBE, ‹‹Architectural concepts in Peter Eisenman’s axonometric drawings of House VI›› in The Journal of Architecture, Abingdon-on-Thames: Routledge, Vol. 19, 2014, pp. 560-606 P. EISENMAN, I. ANSARI, Eisenman’s Evolution: Architecture, Syntax, and New Subjectivity, Intervista, 2013 T. VALENA, Structuralism Reloded. Rule-based design in Architecture and Urbanism, Londra: Edition Axel Menges, 2011 B. HOLLAND, ‹‹Computational Organicism: Examining Evolutionary Design Strategies in Architecture››, in Nexus Network Journal, Basilea: Birkhäuser, Vol. 12, Issue 3, Ottobre 2010, pp. 485–495 P. GREGORY, ‹‹Peter Eisenman. Dallo strutturalismo al Post-strutturalismo: l’architettura come processo autoreferenziale›› in Rassegna di architettura e urbanistica, Vol. 35, Macerata: Quodlibet, 2009, pp. 129-147 C. DAVIDSON, P. EISENMAN, K. FORSTER, L. GALIANO, Codex: The City of Culture of Galicia, New York: Monacelli Press, 2005 P. EISENMAN, ‹‹Digital Scrambler: From Index to Codex›› in Perspecta, Vol. 35, Cambridge: The MIT Press, 2004, pp. 40-53 R. LAEZZA, Peter Eisenman. Città della cultura della Galicia, Santiago di Compostela, Milano: Edizioni UNICOPLI, 2004 L. GALOFARO, Eisenman Digitale, Torino: Testo & Immagine, 1999 M.RUGGIERI TRICOLI, Stabilità e morfogenesi in architettura, Roma: Novecento, 1996 S. FRANK, P. EISENMAN, Peter Eisenman’S House VI: the client’s response, New York: IWhitney Library of Design, 2004 K. FRAMPTON ‹‹Eisenman Revisited: Running Interference›› in ARIE GRAAFLAND (a cura di), Peter Eisenman Recent Projects, Amsterdam: Idea Books, Nieuwe Herengracht, 1989, pp. 47-61

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1978

#6

Davide Patuzzo, Enrico Picchio , Alessia Sangineto

Il corpo sano - Downtown Athletic Club, 1931, New York

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Illustrazione in Delirious New York di Madelon Vriesendorp 1978


Il corpo sano di Patrick Bateman, protagonista del romanzo di Bret Ellis e dell’omonimo film del 2000 diretto da Mary Harron American Psycho, è quello di uomo di finanza che vive freneticamente il quartiere della lower Manhattan ossessionato dal proprio fisico ai limiti della perfezione. La sua routine mattutina si svolge sempre prima di iniziare la giornata lavorativa nel Financial District insieme a quella moltitudine dalla quale cerca di essere accettato tramite le apparenze. Il suo corpo sano però è legato ad una mente malata oltre i limiti dell’ossessione e dell’odio verso il mondo diverso da se stesso. Il Financial District, a sud dell’isola di Manhattan è il quartiere più densamente popolato di grattacieli strettamente a scopo lavorativo fino al 1931 quando il Downtown Athletic Club sente la necessità di avere uno spazio proprio dove svolgere le attività sportive. Avviene così la costruzione del grattacielo omonimo del club situato fronte l’Hudson River. L’edificio diventa un vero e proprio silos di attrazioni impacchettate una sopra l’altra distribuite tramite l’ascensore, prediligendo lo spostamento verticale a quello orizzontale e valorizzando la spettacolarità tipica del manhattismo e della città stupefacente. La verticalità degli anni 30 di New York si trova in contrasto con l’orizzontalità della Roma fascista in cui Benito Mussolini incarica Enrico del Debbio nella costruzione del Foro Mussolini, l’attuale Foro Italico. La locazione scelta è quella della periferia nord-ovest di Roma in cui le depressioni naturali del terreno si sposano perfettamente con gli stadi di atletica. Il culto del corpo nel fascismo è legato ad ideali della Grecia antica, ad una preparazione fisica alla guerra, al controllo polito dei giovani italiani e all’apparenza di uno stato giovane e atletico. L’edonismo del corpo in cerca della perfezione col passare degli anni cresce ancora di più grazie alla nascita del culturismo e del body building, in cui, dagli anni 50 in poi, l’ossessione del raggiungimento di una perfezione quasi statuaria è strettamente legata al concetto del corpo sano. Bibliografia: Caporilli, Gattai, Simeoni, Il Foro Italico e lo Stadio Olimpico: immagini della storia, Roma, Tomo, 1990 Comitato dei monumenti moderni, Il Foro Italico, Roma, Clear Edizioni, 1990 Hubert Damish, Il transfer Manhattan, in «OMA. Rem Koolhaas» di Jacques Lucan, Parigi, Electa France Milan, 1990 Rem Koolhaas, Delirious New York, Rotterdam, the Netherlands: 010 Publishers, 1978 Virginia Kurshan, Downtown Athletic Club Building, in «Landmarks Preservation Commission», 14 November 2000 Mario Paniconi, Criteri informatori e dati sul Foro Mussolini, in «Architettura», Febbraio 1933, fascicolo 2, pp. 76-89 Marcello Piacentini, Il Foro Mussolini in Roma Arch. Enrico Del Debbio, in «Architettura», Febbraio 1933, fascicolo 2 pp.65-75 Richard Sandomir, Home of the Heisman May Have to Shut Doors, in «The New York Times», 2 November 2001 http:// www.downtownclubny.com/html/neighborhood.html - Consultato il 10 Novembre 2018

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#7

Giacco Flavio, Lombardi Antonio, Maiolo Federica, Torchia Mattia

Garden City

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L’idea di Garden City nacque nel XIX secolo per risolvere situazioni critiche che sempre più frequentemente affliggevano i grandi centri urbani europei e americani: il nuovo sistema capitalistico- borghese, che sempre più andava ad affermarsi in questi ambienti, trasformò in poco tempo le strutture economiche e la società, rendendo sempre più fiorenti il settore secondario e quello terziario. I nuclei urbani che fecero da sfondo al diffondersi della seconda rivoluzione industriale furono conseguentemente caratterizzati da un rapido inurbamento (in Inghilterra per esempio la popolazione raddoppiò dal 1750 al 1831), cosa che causò altresì l’aumento delle dimensioni delle città. Come risultato di questi rapidi cambiamenti, si assistette ad un progressivo degrado delle città e delle loro strutture fisiche, contraddistinto dai seguenti elementi: • elevatissima densità residenziale, con il conseguente sovraffollamento dei centri storici e la realizzazione degli slums1 nelle periferie, con condizioni ai limiti della sopravvivenza; • incapacità di gestione della rete di smaltimento dei rifiuti, che portò ad un notevole peggioramento delle condizioni igieniche e ambientali, causa di frequenti epidemie; • pessime condizioni di vita dei lavoratori, per le quali una delle cause fu senza dubbio la contiguità tra spazi residenziali e per la lavorazione industriale; • elevato livello di congestione all’interno della città, la cui morfologia e struttura viaria diventarono inadeguate per ospitare le nuove condizioni appena descritte. Proprio per i motivi appena elencati, alcuni centri urbani tentarono di risolvere le difficoltà stilando nuovi piani urbanistici per la trasformazione delle grandi città: sono celebri gli esempi dei Grands travaux di Haussmann a Parigi (18531870), la prima urbanizzazione pianificata di Vienna (1857), il piano di Barcellona di Ildefonso di Cedrà (1859) e il piano di sistemazione e ampliamento della nuova capitale d’Italia, Firenze (1864). La Garden City: utopia o realtà? Per rispondere a questo interrogativo, è bene fissare un punto dal quale partire: cosa si intende (e soprattutto cosa intendiamo noi) per utopia? È molto facile perdersi tra le miriadi di definizioni in merito a tale termine, ciascuna delle quali è caratterizzata da sfaccettature che la rendono unica e diversa dalle altre. Dal nostro personalissimo punto di vista, quella che più risulta azzeccata in questo contesto è la posizione sostenuta da Karl Marx: egli definì con il termine “utopia” una società perfetta, proiettata in una dimensione spazio-temporale indefinita, nella quale gli uomini dovrebbero potersi realizzare con sé stessi e con gli altri in condizioni del tutto felici; stando alle sue parole, la Garden City potrebbe dunque collocarsi all’interno di questa definizione. Andando oltre però, dal momento che non ci accontentando di una risposta così “veloce e facile”, e analizzando ancora più a fondo i complessi principi base di questo modello, si può notare infatti come Howard avesse studiato, prima ancora dell’aspetto architettonico ed urbanistico, quello economico e sociale: la Garden City fu un chiaro esempio di modello sociale e proprio seguendo tutti gli aspetti appena citati questa nacque e si sviluppò. Oltretutto l’urbanistica di Howard fu l’unico dei sistemi teorizzati nel XIX secolo che venne concretizzato e che dimostrò, dopotutto, una sufficiente flessibilità ad adeguarsi nel tempo alle esigenze di uno sviluppo pianificato a vasto raggio. Più specificatamente, i caratteri essenziali della proposta howardiana non si basarono tanto nello schema e nelle dimensioni dell’insediamento autonomo, completo di industrie e servizi, quanto più nella combinazione di norme e procedure per l ’impianto e la gestione, concepiti in modo da sottrarre l’iniziativa ad ogni possibilità di lucro sul plusvalore delle aree e da garantire il controllo comune

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sulle varie fasi di attuazione. L’idea fu quindi essenzialmente operativa, ed in ciò consiste la sua novità e modernità: il suo successo, benchè ci fossero state criticità sotto diversi aspetti, fu senza dubbio legato alla minuziosa dimostrazione della sua realizzabilità. Al di là delle valutazioni sull’incidenza di questa teoria su particolari aspetti dell’insediamento urbano moderno, il pensiero e l’attività di Howard costituiscono un preciso punto di riferimento per gran parte della cultura urbanistica anglosassone: non crediamo, dunque, che questa abbia rappresentato un’utopia, bensì che sia stata essa stessa la concretizzazione di utopie passate. In conclusione, è bene sempre tenere a mente la complessità di questi nuovi centri urbani (come già più volte detto legati ad aspetti sociali, economici, urbani e architettonici) che al giorno d’oggi vengono sempre più semplificati e oltretutto banalizzati con l’idea di una monotona “città verde”, intesa soltanto tale per gli aspetti legati agli elementi vegetali: occorre dunque diffidare “dalle false imitazioni” oggi dettate per la maggior parte dal marketing e da scopi politici (come dimostrano, ad esempio, i casi di Singapore e Putrajaya).

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Bibliografia: G. Tarantino, Su un rapporto armonico tra uomo e natura: una riflessione etico-giuridica, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, n.12, marzo 2018. E. Howard, Garden city of tomorrow, trad. it. “La città giardino del domani”, Trieste, Asterios, 2017. E. Trystan, Una critica al movimento per la città giardino, in “La città conquistatrice”, giugno 2016. G. Trangos, The dark side of Garden City, in “Architectural Review”, october 2014. C. Scoppetta, Il ruolo dell’utopia nella costruzione dell’urbanistica, in “Esempi di Architettura”, ottobre 2012. J. Craig, The Irony of the Modern Garden Cities in Southeast Asia, in “Green Modernism”, march 2008. C. Dickens, La piccola Dorrit, Torino, Einaudi, 2007. L. Mumford, The city in history. Its origins, its trasformations and its prospects, New York, Harcourt Brace & Co., 1961. L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, Bari, Laterza, 1960, vol. I. C. Doglio, L’equivoco della città giardino, Napoli, Edizioni RL, 1953. E. Howard, To-morrow, a peaceful path to real reform, London, Sonnenschein, 1898. C. Dickens, Bleak House, Bradbury, London, 1853.

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Francesco Boetti, Andrea Gian Maria Gillone, Andrea Tolve

Casa dello Studente di Chieti. Giorgio Grassi

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La stagione degli anni Sessanta in Europa, caratterizzata da movimenti di protesta sociale e culturale, ha rappresentato per l’architettura e l’urbanistica la definitiva crisi del progetto moderno. Il suo metaracconto, inteso come organizzazione, in un tutto lineare e coerente, dei differenti campi del sapere, viene confutato irreversibilmente, presupponendo il compito arduo di rifondare teoricamente le varie discipline. In questo contesto possiamo collocare il movimento della cosiddetta «Tendenza», affermatosi in ambito milanese attorno alle figure di Aldo Rossi e Giorgio Grassi, che dagli inizi degli anni Sessanta avevano cercato di definire un sistema oggettivo di norme e modalità sulle quali fondare una condivisibile teoria della progettazione architettonica e urbana, alternativa a quella della modernità. I principi alla base di tale rifondazione erano l’autonomia disciplinare, il razionalismo come attitudine intellettuale, l’analisi come strumento progettuale e l’identità come richiamo culturale. Con autonomia dell’architettura si intendeva la definizione di un suo proprio statuto, fondato su principi e parametri interni alla disciplina, che con la loro forza e indipendenza favorissero i rapporti con gli altri settori, anziché precluderli. L’approccio razionalista afferma prepotentemente il valore della ragione pura in un momento in cui la sua validità si stava contestando in tutti gli ambiti del pensiero. L’architettura e l’urbanistica vengono declinate come vere e proprie scienze, basate sul metodo sperimentale, sull’analisi e sulla classificazione che definiscono l’elemento minimo del nuovo linguaggio: il tipo. Giorgio Grassi scrive, nel 1967, La costruzione logica dell’architettura, in cui esprime il fondamento razionalista e logico della disciplina architettonica. L’autore individua la nascita del razionalismo nella pubblicazione del Discorso sul metodo di Cartesio; in particolare, la seconda regola del metodo, che afferma di «dividere ogni problema in tante parti minori quante fosse possibile e necessario per meglio risolverlo», esprime l’impostazione progettuale di Grassi. Il progetto è quindi un problema da scomporre in parti minori, da analizzare e risolvere singolarmente, consapevoli però del profondo legame che intercorre fra loro. Grassi riconosce la grande importanza dell’esperienza storica dell’architettura e vi accede in cerca di soluzioni ai problemi di progetto; i riferimenti rappresentano le «buone architetture», in cui il problema specifico è stato risolto in maniera esemplare e di cui egli cerca di penetrare il segreto, per comprendere «la ragione pratica delle forme» e guardando ad esse «per imparare come si fa». Per Grassi l’architettura è autonoma nel senso che si fonda sulla ragione per cui è costruita, trova in se

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stessa le sue motivazioni e i suoi principi, e per tale motivo «non inventa nulla» ma è il frutto dell’esperienza di chi ci ha preceduto. La ricerca di riferimenti lo riporta ai concetti fondamentali di tipo e modello. Il tipo è una soluzione pura, un concetto astratto simile allo schema, è riassunto e al contempo significato profondo di ogni architettura. Il modello invece è una precisa soluzione progettuale, legato al tipo architettonico ma dipendente dal contesto in cui è applicato. La Casa dello Studente di Chieti, progettata nel 1976 con Antonio Monestiroli, sorge su un terreno agricolo, alle pendici della città storica e al margine del borgo di Chieti Scalo. In una zona di disordine urbano e dispersione, l’intervento vuole portare un equilibrio ordinato, riconoscibile e civile attraverso l’elemento pubblico per eccellenza, la strada porticata; per Grassi lo spazio pubblico è quello tradizionale di incontro con gli altri ed emblema della socialità, che esprime la sua funzione civile e didattica e prevede solo le pratiche convenzionali. A tal proposito, l’ambizione del progetto è di fungere da struttura di servizio per l’insediamento circostante, aprendosi alla partecipazione esterna. 64

Ne La costruzione logica dell’architettura Grassi parla di «ansia di certezza» come fattore profondamente umano. Questo si esprime in un bisogno che le cose siano cose, che l’architettura ricerchi l’architettura. Tale ricerca teorica, che ha in lui l’urgenza di «essere della ragione», si esprime in un esigenza di generalità che parte dall’identificazione di elementi costanti, che diventano il fondamento di un architettura civile, per tutti. A questo punto sembra tuttavia venir meno la molteplicità del bisogno umano, la generalità rischia di ignorare la particolarità, scompare l’attenzione al corpo nello spazio.


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#9

Gil Roraima Otero, garcia Aine Barbar, Jovanna Maestre Tammaro

Crematorium Hofheide

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Crematoriodi Hofheide

RCRArquitectes/ CoussĂŠe&GorisArchitecten

2006-2013

Holsbeek, Belgio


Coussée & Goris Architecten, con sede a Gand, si è unito all’ufficio spagnolo RCR Arquitectes per vincere un concorso per la progettazione del Crematorio Hofheide. RCR è stato responsabile dello sviluppo della composizione architettonica. -RCR ARQUITECTES: Rafael Aranda, Carme Pigem e Ramón Vilalta sono i fondatori di RCR ARQUITECTES. È uno studio di architettura spagnola, fondato a Olot (Gerona) nel 1988. I tre membri fondatori hanno terminato gli studi nella scuola d’Architettura di Vallès nel 1987, un istituto di insegnamento che, secondo questi architetti, presta particolare attenzione agli aspetti paesaggistici del design. Una volta finita la laurea, la decisione era di stabilirsi a Olot, città natale del gruppo di architetti, città della provincia catalana di Girona, questo non è un posto senza rilevanza in quanto al suo ambiente naturale; È la capitale della Garrotxa, confina con i Pirenei a nord, ha anche una notevole condizione vulcanica inattiva, un vulcanismo inattivo per migliaia di anni, è uno splendido paesaggio è stato spesso elogiato da poeti e pittori. Le caratteristiche del luogo in cui sono cresciuti e la loro formazione orientata al riconoscimento del paesaggio hanno condizionato questi architetti a mettere a punto la loro sensibilità per l’ambiente paesaggistico. -GLI ATTRIBUTI DI LA NATURA: “ La cosa certa è che costruire, tutto ciò che significa costruire, è necessariamente un atto contro natura, è un atto innaturale ... Quando qualcuno sceglie un cantiere, lo separa dalla natura.”Joseph Rywer. La idea de ciudad. Antropología de la forma urbana en el mundo Antiguo. Hermanan Blume, madrid 1985 pág 217 L’architettura di RCR è molto vicina alla natura: cerca di catturarla, di metterla in valore, di evocare le sue caratteristiche, di rifletterla e, addirittura, di agire come natura. D’altra parte, sappiamo che fare architettura, che è costruire, è come dice l’affermazione un atto innaturale e che l’architettura è un artificio, un fatto artificiale. Si può affermare che RCR intende l’architettura come mediazione tra uomo e natura, come strumento per trasmettere all’essere umano che percepisce e vive quell’architettura gli attributi e i valori del mondo naturale; come mezzzo che rende posibile il piacere di stare con la natura al corpo, “di trovare una morale in essa.” Gli architetti di RCR sono stati fin dall’inizio consapevoli del fatto che avvicinarsi alla natura attraverso l’architettura richiede che abbia una chiara struttura formale di equilibrio, che dia equilibrio e coerenza al lavoro e consenta di stabilire una relazione di affinità con il mondo naturale oltre l’apparenza formale casuale. in questa ricerca si basano su procedure di ordinamento di base come la simmetria e la ripetizione ritmica. In questo approccio alla natura L’architettura di RCR è sviluppata come un dispositivo per catturare l’ambiente esterno, rispondendo alle problematiche del paesaggio con diverse operazioni come: -Topografia: adattamento e contrasto (relazione edificio-terra). -Cornice: apertura e delimitazione (la sua volontà fondamentale di creare un’architettura che sia una cornice per la contemplazione e il godimento del paesaggio, aprendosi verso di essa e al tempo stesso delimitando visivamente). -Filtro :( profondità, sfumature dell’apertura verso l’esterno, agisce come filtri e crea effetti di velatura e distanziamento) RCR oltre ad evidenziare e dialogare con il paesaggio cerca di ricreare con esso gli effetti provocati dal mondo naturale. l’architettura non solo come filtro artificiale verso il paesaggio, che qualifica, organizza e sfuma in profondità

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la sua percezione, ma anche hanno passato a comprenderlo in qualche modo come un filtro naturale che produce in se stesso gli effetti della natura, che replicano questi, quel paesaggio è lo stesso filtro. Questo filtro è un’operazione con cui RCR è riuscita a risolvere ancora una volta l’intenzione di avvicinarsi alla natura, questa volta in un contesto urbano, questo effetto del filtro è un’emulazione della natura organica della luce, il ritmo denso dei rami e l’armonia dei colori, una ricreazione del mondo naturale. Da tutto ciò che è stato detto, si può concludere che, mediando l’opposizione tra natura e cultura e indagando sulle sue strutture formali collegate, il lavoro di RCR stabilisce un linguaggio per l’architettura basato su un intenso dialogo con il mondo naturale e mette in valore gli attributi di quel mondo naturale senza rinunciare agli attributi dell’architettura stessa. - CREMATORIO DI HOFHEIDE: Il crematorio è costruito su un sito paesaggistico all’interno di una delle grandi pianure della regione delle Fiandre, in Belgio. In un “bacino paludoso”, in esso appare il crematorio e lo rafforza, propiziando la formazione permanente di una palude più grande , parte di una passeggiata attraverso il parco che si estende su tutta l’area, portando alle due estremità due cimiteri (uno in buche e l’altro in nicchie).

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La lunga struttura rettangolare colpisce per il carattere essenziale e monolitico rafforzato dalla copertura di 130 x 22 metri, è una struttura costruita principalmente in cemento -tinto per assomigliare al colore di una pietra ricca di ferro che è comune nella zona- totalmente circondata da una struttura realizzata in fasce verticali d’acciaio che rivestono l’intero volume . Le strisce di acciaio resistenti agli agenti atmosferici in larghezze irregolari creano uno schermo che copre i due terzi superiori delle pareti di cemento esterne. Alcune delle lastre d’acciaio sono delicatamente ritorte per creare un fogliame filtrante orizzontale che genera un’atmosfera avvolta da una luce mutevole che consente di ottenere, su una piattaforma lineare perfettamente definita, la creazione di una percezione spaziale sempre mutante. All’interno, la struttura contiene tutte le funzioni di un crematorio, al piano terra le aree pubbliche che affianca alla reception, agli uffici e all’amministrazione, tutti serviti da un corridoio di distribuzione addossato alla parete nord: due auditorium, un bar caffetteria e i bagni affiancati ad ulteriori spazi per il commiato e locali per la veglia funebre. Invece gli aspetti più funzionali sono collocati su il livello interrato, dotato di due accessi carrabili per i carri funebri, è completamente destinato alle attività più private e alle aree per la cremazione, con i forni e gli spazi per l’esposizione dei feretri. Tutta questa disposizione per favorire i sentimenti sviluppati al piano terra, nel padiglione dell’incontro. RCR ha lavorato, per mettere a punto il progetto, sull’imagine del sarcofago etrusco e i colori della pietra di tufo nei toni del marrone e dell’ocra tornano sia nelle viste virtuali del progetto di concorso, che nelle scelte finali dei materiali di finitura. Mentre a Kortrijk, Souto de Moura ha cercato di creare un’atmosfera domestica optando per interni intonacati di bianco, il crematorio di Hofheide, muove il visitatore verso un’emozione ascetica, assimilibile alla senzasione che si prova nelle abbazie cistercensi e negli edifici romani. L’interno evoca quiete, evitando però qualunque riferimento a simboli religiosi. L’elemento fondamentale del progetto risulta dunque essere la luce eschermata, tutto ruota intorno al silenzio e al controllo della luce naturale. Girovagare per l’incontro, camminare accompagnati, raccogliere consolazioni, “in uno spazio il più vicino possibile alla natura, aumentando la nostra sensazione di farne parte di essa” e che non imporrebbe alcuna credenza o cultura agli afflitti. Raggiunto attraverso una forma di struttura vegetale che approfondisce e attenua l’apertura


verso l’esterno, che funge da filtro e crea effetti di velatura e distanziamento alla ricerca di effetti filtranti di luce, aria, punti panoramici e, in generale, fenomeni atmosferico, emulando la natura minerale e vegetale. Lo scopo di questa ricreazione del mondo naturale di questa architettura, è di evocare le sensazioni naturali, di evocare il passato, nel senso di ritornare a sentire aspetti della natura che sono stati dimenticati nel mondo costruito. Significa oltre il tributo dell’addio al corpo morto, una possibilità al cuerpo vivo di ricordare il piacere della vita attraverso il confronto con queste sensazioni, esperimentare il benessere nell’integrità “corpo-mente-anima”; un luogo dove la vita abbandona la morte.

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Gustavo Aranda, Giulia Calia, F.ederica Canino, Valerio Russo

EcosostenibilitĂ e ZEDlife

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Se si vuole parlare di ecosostenibilità, non si può evitare di parlare di Bill Dunster. Nel suo scritto “A Beginner’s Guide to ZEDlife”, l’autore tratta diverse tematiche inerenti a questo argomento. “la razza umana è la prima specie che ha tentato di pianificare la sua sopravvivenza in modo consapevole, ma la nostra capacitò di farlo è fluttuata nel tempo.” Con questa affermazione inizia l’opera di Bill Dunster, che fin da subito sembra voler essere uno strumento di propaganda. Infatti l’opera tratta i seguenti punti: - stop al cambiamento climatico - lasciare i combustibili fossili nel terreno - sostituire i combustibili fossili con alternative progressivamente valide - rendere le attività umane neutrali per il clima. Vengono definiti dei veri e propri strumenti e le modalità di come essi possano essere applicati. Recentemente è diventato chiaro che non abbastanza persone capiscono il problema, per non parlare della soluzione. Il commento dell’autore è comunque molto schierato e diretto, infatti lui pronuncia le seguenti parole: “la razza umana deve decidere se continuare a prendere parte al problema o diventare parte della soluzione.” Soluzione che lui stesso tenta di dare con la sua guida, con il suo ZEDlife che genera uno ZED Challenge. Formulare quindi uno ZEDlife è un semplice piano per creare una società stabile. Insieme a questi concetti non si può non parlare della ZEDfactory, che è un’iniziativa di Bill DunsterArchitects per la produzione di edifici a emissioni zero. Lo ZED team lavora su una gamma di prodotti ZED, componenti specializzati e pacchetti commerciali che massimizzano prestazioni ambientali garantendo una buona qualità grazie alla produzione standardizzata. Le case ZED, le aree di lavoro o gli edifici pubblici possono essere ordinati “pronti all’uso”. In BedZED, quello che è il suo progetto principale, compaiono i principi descritti dall’architetto. Il modo migliore per inquadrare il progetto è con una descrizione di Alessandro Conte sul sito “in a bottle” Non possiamo chiamarlo quartiere, ne tantomeno città.Forse il modo più adatto potrebbe essere quello di comunità, perché sembra una zona assolutamente fuori dal mondo e, soprattutto, dalla caotica capitale inglese.” Torneremo più tardi a parlare di questo senso di comunità. BedZED, Beddington Zero Energy Development, è un piccolo quartiere nella periferia sud di Londra, precisamente a Sutton. È stato realizzato tra il 2000 e il 2002. Lo schema prevede 82 case e 2500m2 di spazio commerciale e di lavoro. Il quartiere nasce come sostenibile fin dall’idea che è alla base; infatti i materiali naturali e riciclati provengono da un raggio di circa 60 chilometri, così da utilizzare meno petrolio per trasportarli. Esempi di materiali possono essere quindi: - il legno di quercia che isola le facciate degli edifici presente nelle foreste locali - i mattoni o i blocchi di gesso sono realizzati nella regione - i mobili sono costruiti con plastica riciclata. Il progetto aiuta a vivere le persone residenti in modo più sostenibile, senza però sacrificare lo stile di vita moderno e urbano. Le emissioni di carbone sono ridotte quasi a zero e il progetto si fonda su due principi fondamentali: il design semplice e la riduzione delle emissioni di CO2. Le richieste di calore, elettricità e acqua sono molto ridotte. Possiamo poi dire che laddove non arriva l’architettura, il design e la tecnologia subentrano le regole del vivere civile. Ad esempio nel quartiere non si dovrebbero utilizzare auto di proprietà, ma è disponibile un servizio di carsharing e di

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carpooling. Punto fondamentale è la socializzazione, che viene a creare un equilibrio sostenibile dell’intero quartiere, ad esempio, la spesa gestita per lo più online in grande scala e in comune. Il progetto sta quindi promuovendo un forte senso di comunità tra le persone che vivono e lavorano lì. Oltre ad avere il Padiglione, uno spazio di comunità al coperto disponibile per i residenti BedZED, l’eco-villaggio ha il suo grande campo verde comune per il gioco e il relax, più una piccola piazza del paese fiancheggiata da edifici.I veicoli stradali possono circolare e parcheggiare intorno alla periferia di BedZED ma le strade che corrono tra gli edifici sono senza traffico, incoraggiando i bambini a giocare lì e gli adulti a chiacchierare. Questa combinazione di abitazioni ad alta densità (rispetto alle norme suburbane del Regno Unito) e il ricco mix di spazi esterni privati di BedZED e lo spazio esterno condiviso e privo di traffico incoraggia la vicinanza. E’ interessante quindi vedere come questi spazi vengano progettati nei minimi dettagli, dalla vegetazione ai piccoli spazi pubblici, le relazioni del pubblico e del privato. Questi spazi risultano ipertecnologici e iperprogettati.Ma è anche interessante come alcuni aspetti non vengano tenuti in conto nella progettazione, ad esempio l’idea di modellare tutto senza considerare la personalizzazione degli spazi di chi ci vive. L’esempio più evidente è il verde rappresentato nei render e nei disegni, è tutto simile, tutto uguale, gli alberi sono quasi tutti della stessa altezza, forse creano un’idea sbagliata dello spazio. Come possiamo vedere invece la vegetazione può anche crescere e uscire dagli schemi progettuali. Il tema della personalizzazione degli spazi è sicuramente importante.

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L’importanza del segno nello spazio vissuto L’omologazione dello stile di vita tra abitanti di uno stesso quartiere, diventa le fondamentale prerogativa del cosiddetto “vivere sostenibile”. La riduzione del tanto temuto inquinamento urbano sta alla base della progettazione degli esclusivi eco-quartieri, le cui realizzazioni ex-novo nelle parti limitrofe della città, contribuisce ad alleviare la domanda di mobilità del cittadino a favore di un accentramento dei servizi attorno all’utente. La condivisione sta rapidamente diventando un tema di progetto e quindi un requisito fondamentale per l’abitare. Vengono pensati spazi equidistanti da ogni individuo, pratiche e servizi accessibili a tutti, così da garantirne un buon funzionamento in caso di domanda simultanea. E’ però da notare che il tanto citato “sharing” degli ambienti, diventa un fattore limitante della personalizzazione dei luoghi: ci si riferisce non tanto alle aiuole o ai balconi, ma proprio a quegli spazi che un tempo erano officina del tempo libero, spazio-giochi e simboli dell’evocazione del proprio essere. Guerilla Urbanism, Tactical urbanism, si affermano come fenomeni di riappropriazione di uno spazio anonimo e diventano azione abituale per l’occupazione dello spazio pubblico1, che viene reso più intimo e confortevole per chi lo abita. La riappropriazione di questo spazio è quello che determina la necessità di una caratterizzazione dei luoghi, tale da rivendicare nell’ambiente un riconoscimento di sé attraverso simboli e oggetti. E’ qui che la “diversità” acquisisce significato, microspazi difesi e tenuti a debita distanza in virtù di una critica a un egualitarismo solo formale . Il bisogno di “lasciare il segno” da parte di un cittadino è un concetto che Marco Aime ricorda nell’introduzione del libro Abitare illegale, quando descrive il fenomeno delle comunità Wagenplatz in Germania. Nel quartiere di Kreuzberg a Berlino, è possibile notare l’esistenza di una comunità dove varie persone vivono liberamente con regole precise e condivise. Il modello rispetta le individualità, abbatte l’omologazione, si dimostra flessibile (per le regole interne) e consono nel soddisfare il bisogno di libertà e indipendenza. Si tratta di comunità liberamente costruite in uno stile di vita nomade, che hanno un rigetto della politica speculativa del mercato immobiliare e criticano l’iper-commercializzazione dello spazio pubblico, così da superarne la consueta abitudine della costruzione e vendita di un’abitazione. L’autore spiega che si tratta di un vero atto di resistenza all’omologazione , e il terreno scelto di tale atteggiamento è proprio quello dello spazio pubblico. Anche se collegata ad immagini forti che scaturiscono in noi un immediato


sconforto di quest’abitudine abitativa del tutto spontanea e tra l’altro illegale, i Wagenplatz confermano di essere un modello dell’abitare strettamente ecologico (quasi sempre l’energia elettrica è autoprodotta) e dedito alla costruzione di spazi di vita molto creativi e colorati. In questo modo il modello rispetta le individualità, si dimostra flessibile (o almeno uniforme a delle regole interne) e consono al soddisfare il bisogno di libertà e indipendenza. Tutto ciò vuole far riflettere sul fatto che un modello di vita definito ottimale e soddisfacente per ogni essere umano è sicuramente un qualcosa più profondo di una attuale avanguardia tecnologica, certamente definito tale non tanto per le quantità di energie risparmiate al pianeta, ma più per l’autoconfigurazione dell’uomo nello spazio che vive. D’altra parte però, occorre pensare che l’incontrollata chiusura dell’abitante in comunità ristrette, potrebbe limitare la mescolanza di esso con il resto della città. Il rischio sarebbe quello di perdere le occasioni di incontro belle o brutte che siano, di costituire delle “gabbie d’oro” di abitanti elitari oppure confinare delle realtà abitative lontane dal controllo dell’amministrazione. I quartieri ex-novoi (ma anche accampamenti Wagenplatz) contribuiscono nell’abbassare le densità edilizia tanto da far venir meno la mescolanza dei cittadini esterni in favore alla continua affinità e quindi cooperazione di quelli esterni. Lo studio di tale fenomeno ha interessato significativamente l’urbanistica moderna, tanto da trovare nel mixité una risposta funzionale, spaziale e di convivenza sociale. E’ ed è stato uso comune pensare al mixité come una soluzione ad un problema tipicamente sociologico e si è ritrovata nella modifica e sperimentazione edilizia lo strumento per la sua realizzazione. Al tempo stesso è però evidente, basterebbe guardare realtà locali, che la formulazione di un mixité sociale (e non prettamente funzionale) che prevede l’inserimento di ceti popolari in contesti elitari, ha difficilmente portato ad un rapido rinnovamento del quartiere. Indagare tale fenomeno significherebbe consultare la componente sociologica di una città forse anche in termini geografici, la quale di dimostra in grado di indagare meglio quelle realtà socialmente diverse e ravvicinate la cui comunicazione tra vicini di diverso ceto sociale richiede capacità di gestire codici differenziati. Nascondere dietro il concetto di mixité la condizione del buon vivere e dell’integrazione di vicinato è da analizzare in modo critico e cautelativo. D’altra parte è stato ormai quasi mezzo secolo fa quando Gordon Cullen ritrovava nella causalità degli eventi un motore di azione dell’urbanità. Egli affermò che un qualsiasi “dramma” (inteso come azione di interazione) è reso tale grazie alla presenza dell’inconveniente e dell’imprevisto a seguito del susseguirsi di più attività. Non c’è dubbio sul fatto che Cullen visse in un contesto lontano dagli attuali eco-quartieri, soprattutto in quanto era contemporaneo all’ormai superata pianificazione per zona, la cui specializzazione delle mansioni tendeva a non facilitare il contatto tra gli abitanti. Innegabile quindi affermare che secondo il suo punto di vista, la città fosse un qualcosa di casuale governata non tanto dalla legislazione urbana, ma quanto più dalla partecipazione dei presenti e dalle collisioni che ne possono derivare. Affidare al mixité le dinamiche che governano questa “causalità urbana” risulta però essere una semplificazione imprecisa e forse anche un po’ deleteria per l’urbanistica, certamente non considerata errata in sé, ma più per il fatto di non essere completamente adatta nel rispondere al problema dell’assenza dell’interazione sociale. Dopotutto, progettare un realtà di mixité, nella maggioranza dei casi, significa disporre in un unico isolato una megastruttura divisa per piani, i cui ambienti specializzati si accostano l’un l’altro. E anche in questo caso, il percorso di due lavoratori difficilmente si incrocia. Forse è opportuno ammettere che molte volte la mixité è sbrigativamente scambiata per urbanità , essa ne può essere senza dubbio una componente, ma è riduttivo considerarla come il motore principale o come soluzione adottabile per ogni contesto. Proviamo ad inserire in quest’ultima tesi la missione dell’eco-quartiere. Si parla di porzioni di città che devono riuscire ad essere un rifugio, ma allo stesso tempo non scollegate dal centro; autosufficienti, ma non isolate; capaci di stimolare il “vivere insieme”, ma ognuno con la propria indipendenza, insom-

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ma si tratta di dover soddisfare requisiti che si mantengano in un range molto stretto e delineato il cui superamento o non raggiungimento lo si considera un fallimento. Non si vuole negare la capacità avanguardista di un eco-quartiere, anzi si vuole trovare in esso una possibile e concreta costruzione che ben tenere conto che il “vivere sostenibile” è molto più di un cappotto di isolamento di un condominio, è un intreccio di abitudini e pratiche diverse per ogni cittadino, di rivendicazione di sé e di ricerca di libertà di azione.

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Crisi del ’73 e questione ambientale Nel Marzo del 1989 la super-petroliera americana Exxon Valdez, si incagliò durante la sua traversata nell’oceano Pacifico sulle coste dell’Alaska, riversando in mare circa 41 milioni di litri di petrolio greggio e tale disastro ecologico tra i più devastanti della storia contemporanea, portò ad un inasprimento nei trasporti marittimi obbligando le società petrolifere a dotarsi di nuove tecnologie nella costruzione degli scafi. Come scrive Bernardo Secchi, “ogni crisi porta con se una riorganizzazione spaziale, tecnologia, nella produzione e nei rapporti sociali e geopolitici” (La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, 2013); la crisi del ’73 di fatti segnò la fine dei Trenta gloriosi, cioè il periodo di crescita economica a seguito del secondo conflitto mondiale, e comportò un ripensamento sulla produzione e consumo di energia a livello globale. Mentre il petrolio scarseggiava e ne aumentava il prezzo, secondo un rapporto causa-effetto, il governo non modificava i suoi piani a medio termine, limitandosi a provvedimenti occasionali come le prime giornate dell’austerity, con la limitazione della circolazione degli autoveicoli nei giorni festivi e non era così inusuale vedere, specialmente in Italia, i cittadini in sella a mezzi alternativi quali biciclette, pattini o addirittura cavalli; “(…) le strade sembravano scherzose feste più che segni di un vero cambiamento nella politica energetica, nell’avvio di una lotta allo spreco e all’inquinamento” (articolo di Giorgio Nebbia in CNS Ecologia Politica n. 3-4, agosto – dicembre 2003, Anno XIII, fascicolo 54). Da ciò capiamo che tutti i provvedimenti scaturiti a seguito della crisi del 1973 furono percepiti dalla popolazione come circostanziali e non diedero l’avvio ad un reale ripensamento globale nella lotta allo spreco e alla riduzione di CO2; basti pensare che gli effetti della crisi furono riassorbiti in poco meno di un decennio e ben pochi riconobbero in essi i provvedimenti d’emergenza divenuti virali nell’ultimo decennio. A circa 40 anni dalla crisi petrolifera del 1973, la situazione globale non è di certo migliorata: un gruppo di ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, tra cui Il professor Daniel Rothman, ha recentemente pubblicato un articolo secondo cui entro il 2100 la vita sulla Terra potrebbe cessare a causa della crescente quantità di CO2 immessa in atmosfera, per cui se non si attuano drastici cambiamenti si raggiungerà una soglia di non ritorno pari a 310 gigatoni, quantità che la biosfera non è più in grado di contrastare. Di fatti il professor Rothman ha riscontrato che almeno quattro delle cinque estinzioni di massa del passato, si sono verificate quando le emissioni di CO2 nell’atmosfera hanno superato una certa soglia, provocando delle catastrofi che hanno carattere ciclico. Si è anche evinto che è soprattutto durante i periodi di crisi che emerge nello spazio e nella società la differenza. Le diseguaglianze incentivano la divisione sociale e la segregazione delle città, contrapponendo alle zone di degrado le aree riservate ai ceti ricchi, come le Gated community. Le condizioni ambientali proprie delle singole città, nonché gli effetti dei cambiamenti climatici globali, rendono più complessa la situazione delle città contemporanee e abbassano notevolmente la loro vivibilità. Su questo amalgama così complesso plana anche la questione della sicurezza, nata da tematiche quali la miseria, la disgregazione sociale e la solitudine, tutti territori fecondi per azioni illegali e criminali. La crisi quindi, sia essa di carattere sociale o economico, non è un buon paradigma entro cui costruire le città, né l’organizzazione dello spazio è una diga adeguata per frenare lo sfaldamento della società.


La paura del contemporaneo HankissElemér , durante l’evento TEDxDanubia 2011, racconta di come il mondo sia cambiato negli ultimi 25 anni, l’uomo è passato da un sistema di sicurezze a un mondo di incertezze, queste nascono dalla paura di assumersi dei rischi di dover fare una scelta giusta o sbagliata che sia. Uno dei motti principali dell’umanità è sempre stata la sicurezza prima di tutto e per molti migliaia di anni ogni civiltà ha cercato di creare il suo sistema di sicurezza cercando di circondare l’individuo in una specie di sfe-ra simbolica: istituzioni, pensieri, idee, sentimenti e di adattarsi a questa bolla. Esattamente come le bolle di sapone tendono ad indebolirsi nel tempo, cominciano a svanire, scompa-rire, sciogliersi e l’uomo è di nuovo solo, ha bisogno di aiuto, deve essere creato di nuovo e ha bisogno di una nuova cupola ideologica che protegge da pericoli e paure esterne. La paura non è quindi solo una risposta istintiva agli stimoli esterni, ma ha un componente sociale, si prova paura perché si giudica una situazione pericolosa da esperienze dirette, azioni avvenute nella nostra vita, oppure indirette, i cosiddetti da Furedi 2007 “imprenditori di paura”, i quali influenzano il comportamento di altri attori per tutelare i propri interessi. La società contribuisce quindi a suscitare paura, detta al singolo individuo da cosa e da chi dobbiamo avere paura, come dobbiamo reagire e allo stesso tempo ci vengono offerte delle soluzioni per il con-trollo sui nostri comportamenti. In questo modo la paura passa da una specifica “paura di qualcosa” ad un modello simile al frame, in cui ansia e timore diventano un modo per guardare il mondo. In questi ultimi anni quindi la paura è stata raramente considerato come un oggetto a sé ma trattato prevalentemente entro i confini della riflessione sul rischio, sulla criminalità o eventi trasversali. La ri-flessione che ci propone Hankiss nel 2001, è che l’individuo tende a rinunciare ad alcune porzioni di li-bertà in cambio di sicurezza e di difesa delle proprie paure. L’esempio degli Eco quartieri può essere riconducibile alla “bolla” prima citata, un sistema che genera sicurezza e protezione in difesa delle paure che un individuo ha riguardo il futuro del mondo, le cata-strofi e l’estinzione del genere umano. Le campagne di sensibilizzazione coinvolte dai mass media e le istituzioni amplificano il problema, propongono una serie di soluzioni e di regole da rispettare privando, come scrive Hankiss, a rinunciare ad alcune porzioni di libertà.Alcuni esempi più evidenti per esempio nella progettazione di spazi di carattere pubblico iperfunzionali pensati a misura di “soldatino” ovvero una società nella quale l’individuo tende sempre più a perdere il libero arbitrio, perde la possibilità di poter scegliere e si lascia guidare da chi ha dettato le regole.Oppure alla rinuncia della proprietà priva-ta a favore della condivisione di ambienti di servizio, come avviene nel cohousing in modo tale da rice-verne risparmi economici e vantaggi in termini di cooperazione, solidarietà, relazioni e capitale sociale. Bibliografia G. Cullen, Il paesaggio urbano: morfologia e progettazione, Bologna: Calderini, 1967. C. Marcenti, G. Paba, A. Pecoriello, Nicola Solimano (a cura di), Housing frontline, Firenze: University Press, 2011. A. Staid, Abitare illegale, Roma: Milieu, 2017.

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Bizhuta Ledio, Lorusso Pasquale, Shusterman Alon, Stajanovic Srdan

I Playgrounds - Il corpo nello spazio pubblico

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Playground in Buskenblaserstraat


In “L’image de la citè”, del 1968 Paul Waltenspühl ragiona sulle tesi esposte da Kevin Lynch sull’importanza qualitativa del contesto fisico, su come questo condiziona gli abitanti, il grado di soddisfazione della loro città, e le difficoltà di valutare i sentimenti variabili, d’apprezzamento o rifiuto, dell’ambiente in cui vivono. Esistono inoltre, secondo Waltenspühl, le strutture costruite e le strutture sociali, ad esempio un monumento può polarizzare uno spazio architettonico; così come una manifestazione pubblica (una festa, un corteo) possono segnare lo sviluppo della vita sociale. La città è fatta da legami invisibili, risorse consumate, beni scambiati e prodotti. I playground sono una rete “intelligente” e “sensibile” che si giustappone fra di essi. “intelligente” e “sensibile” perché frutto di una bassa partecipazione che sfrutta le forze di coesione, le avversità della città e le usa a suo vantaggio. In essi sono presenti un’appropriazione spontanea degli spazi da parte dei cittadini che continuamente testano, inventano, e stabiliscono, nuove forme d’uso e abitabilità. Invece, i limiti oggettivi e fisici, dovuti alla loro conformazione, dal disegno e dalla natura del suolo, dalle relazioni spaziali con il contesto, e tessuto urbano, in cui sono inseriti, dalla possibilità e facilità d’accesso, dalle delimitazioni fisiche, dai regolamenti scritti in merito alla modalità di frequentazione, o fattori d’altra natura. Secondo Turri, sono gli esseri umani che raccontano loro stessi attraverso il paesaggio, ed è lo spazio pubblico a dare vita al paesaggio. Lo spazio pubblico è fatto dalle persone, fatte di carne ossa e mente. Quando loro cambiano, cambia lo spazio per adattarsi a loro stessi e non viceversa. Lo spazio pubblico, quindi, è stato da sempre un costituente di fondamentale importanza per il funzionamento di un agglomerato urbano, sia per le funzioni svolte al suo interno oltre che un sistema di identificazione culturale e simbolica per i suoi componenti e le sue istituzioni. Il progetto dello spazio pubblico di Aldo van Eyck è stato il precursore del modus operandi di concepire lo spazio moderno, uno spazio per tanti, ma non per tutti. Uno spazio per l’uomo, per connettere e collegare, per creare una atmosfera e una scenografia. Un luogo di possibilità. Si intersecano nei playgrounds una sapiente multidisciplinarità di saperi e esperienze tra urbanistica, programma funzionale, storia, memoria, emozioni, regole, incontri. Le sue opere si inseriscono timidamente “tra e fra”, tra i luoghi che erano e ora non sono più. Nel secondo dopo guerra la città di Amsterdam è dilaniata dal post conflitto mondiale. I massicci bombardamenti hanno lasciato cicatrici e sfregi nell’ecosistema urbano che non sono stati dimenticati. Le menti e i cuori delle future generazioni segnate dalla guerra non ebbero il concetto di spazio pubblico, inteso come spazio per la popolazione che non asservisse a una banale funzione ma funzionasse come una “sandbox”. La ricostruzione era diventata una miniera d’oro per l’industria edile. I grandi investitori fecero risorgere la città ma la chiusero su se stessa. I progetti effettuati nel nome del moderno fallirono le aspettative. I l periodo del secondo dopoguerra venne ricordato come uno dei più grandiosi boom edilizi della storia, degli sviluppi tecnologici superiori e dell’ampliamento della ricchezza. Sarà inoltre ricordato come il periodo che non è riuscito a soddisfare le richieste, le promesse e le aspettative per un ambiente umano. La macchina, la meccanizzazione e il capitalismo sfrenato del boom economico generarono un deficit di spazio pubblico che porto all’occupazione di piazze e grandi viali che furono adibite a aree di sosta e fermata. Le cicatrici della guerra avevano due possibilità in questo scenario, diventare occasione di un esercizio creativo che arricchisse la città ma soprattutto il cittadino o essere abbandonate e diventare oggetto solo di degrado come segno di un passato di una città che non esiste e non esisterà più. Dove non vi era possibilità economica, vi era l’opportunità di creare virtuosismi. Anthony Vidler scrisse sulla città che è un insieme di corpi, corpi che trovano un legame con lo spazio e un canale di trasmissione con lo spazio. Lo spazio della città rende possibili alcune cose e ne limita altre. Il corpo per adattarsi all’essere umano è progettato a misura di uomo ed il corpo può occupare lo spazio materiale o immateriale, nel visibile o nell’invisibile. Esso può essere pieno o vuoto ma mantenere un significato per

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non scadere nel “non luogo”. Il corpo che tocca lo spazio pubblico è anche toccato, sono attraversati dal mondo e ne fanno parte. Agiscono e patiscono in una forma plurisensoriale. Cosa è un corpo nello spazio pubblico? Il corpo nello spazio pubblico è un’idea della mente. Quanto più un corpo ha potere di agire tanto più la mente ha potere di agire. Il corpo immerso nello spazio pubblico è un oggetto della mente umana. Se privato della sua forma o delle sue caratteristiche esso perde ogni potenziale di interazione con il mondo esterno e cessa la sua esistenza. I corpi hanno attrito e spessore, “vivono” e agiscono nello spazio (il corpo vuoto) attraverso il corpo. “Abitiamo la città e le architetture nell’ingombro dei nostri corpi”, ingombranti perché occupano lo spazio ma anche perché il rapporto fisico con la città è un rapporto dove incontriamo la città, lo spazio pubblico urbano e le architetture. I playgrounds si definiscono tramite i rapporti corporali che si innestano fra il loro corpo e il nostro, questo attrito crea l’esperienza plurisensoriale. Come per tutte le forme dell’abitare lo spazio definisce in modo intrinseco il campo delle possibilità e dei limiti ma si lascia aperto al gioco. Gioco inteso come insieme di regole scritte e non che hanno bisogno dello spazio per funzionare. Lo spazio della citta inteso come parchi, le strade le case, i cortili ecc. Vagano nel campo delle possibilità. Offrono intrinsecamente la possibilità di prese, appigli e agganci. I playgrounds quindi “vivono” e agiscono con gli appigli e le possibilità e l’intorno ad esso. È il punto zero catastrofico dove convergono i percorsi e gli spazi che si incrociano. Dove i corpi incontrano altri corpi. I corpi una volta formati sono immediatamente ingaggiati nell’azione anche nella forma difettiva del termine. Sono aperti o chiusi al mondo. Nello spazio urbano, nei luoghi aperti, i corpi sono ingaggiati in legami relazionali complessi con il mondo esterno. Il corpo nello spazio pubblico sono l’oggetto della mente umana. Concependo cosa può un corpo, si potrà capire come funzionano i playgrounds. Al fine di determinare in cosa i playgrounds differiscono fra loro bisogna conoscere il corpo, la mente e lo spazio di ingombro che persiste fra il corpo e un altro corpo. Quanto è più idoneo un corpo rispetto agli altri a fare e patire più cose nell’insieme tanto più è ampia la mente a percepire più cose insieme. Spinoza spiega che l’affetto è la variazione della potenza di agire cioè il modo in cui il corpo diventa più o meno potente. Il corpo incontra il mondo aumentando o diminuendo la sua potenza e questo vale in ogni incontro possibile. Questa variazione della potenza di agire dipende dalle sue “affezioni”, che sono gli stati causati dall’azione di un corpo su un altro che può essere anche reciproca. Se i un corpo ha un tale affezione negativa su un altro il corpo svanisce, smette di esistere. Van Eyck Aldo Van Eyck era il primo di una nuova generazione di architetti a mettere in guardia contro ciò che era chiamato “l’approccio meccanicistico” del divertimento umano che caratterizzò le generazioni precedenti. I playgrounds, quindi, non rispecchiano altro che il pensiero del loro fautore. Pensiero di ricostruzione, riqualificazione della comunità umana. Egli non cerca altro che ridefinire il concetto operativo di gioco, lavoro, evento collettivo e attività individuale al fine di arrivare a una più alta definizione di funzionalità. I Playgrounds diedero a Van Eyck il titolo di umanista. Come meglio verrà definito da Liane Lefaivre, il “ribelle umanista”, siccome egli rappresentò quella cultura della ribellione che caratterizzarono gli anni ’50. I dettami del CIAM si orientavano verso un progetto moderato, funzionale, su larga scala, efficiente. Van Eyck capovolse questa idea di progetto ponendo sullo stesso piano delle funzioni fondamentali della città il tempo libero. Una visione dunque più umana, collettiva, su piccola scala. Questa visione riprende esplicitamente molte delle idee di Theo Van Doesburg: “nessuno spazio nella città è troppo secondario per essere considerato il dominio dell’architettura o dell’urbanistica. La nuova architettura non possiede momenti passivi. Essa ha abbandonato l’uso dello spazio morto”. Egli dichiarava inoltre che la moderna architettura dovrebbe considerare tutte le parti dello spazio con la stessa importanza. Venne ridefinito anche un altro concetto


che fino a quel momento veniva trascurato: il tempo. Ciò che contava era il piano su larga scala, senza tempo, che portava ad una mera riduzione funzionalista. Con i playground il tempo era un concetto che definisce il progetto. Erano azione nello spazio, dove occorreva e dove c’era bisogno. La città quindi era un fenomeno temporaneo. Il bagaglio culturale che Van Eyck aveva appreso da Mulder ha fatto si che bisognasse sottolineare la necessità di allontanarsi dai giardini tradizionali e di fornire parchi giochi con scatole di sabbia e mobili da gioco. L’opportunità di sperimentare e il non lavorare su progetti standard su larga scala ha permesso ad Aldo Van Eyck di creare una regola, andando avanti a progettare non meno di 734 nel corso di 30 anni. Il successo di Van Eyck è stato quello di trasformare i siti cittadini abbandonati da punti ciechi su una mappa della città in quello che un critico contemporaneo incline alla simpatia, John Voelcker, ha definito “una realtà ineludibile”. Così facendo, Aldo ha capovolto l’approccio alla città che, nella sua imponente visione urbanistica, aveva ignorato lo spazio minore, abbandonato tra gli edifici esistenti. I progetti su scala ridotta erano intessute nei buchi trascurati del tessuto urbano, formazioni informali di terreni situati su diversi tipi di lotti, realizzati, come osservava Voecker, da materiali non convenzionali e non sofisticati trovati vicino al sito. I playground di Aldo Van Eyck erano anche precursori di ciò che verrà meglio conosciuto come “i parchi della gente”, negli anni ‘60. La posizione di ogni singolo playground non era il risultato di un piano fatto a priori ma una risposta diretta della domanda popolare. Questo fervore edilizio però non produsse una adeguata documentazione per i posteri ma ci lasciò una tracia indelebile del modus operandi di Aldo Van Eyck, i playground non erano mai stati pianificati. L’idea che ha Aldo Van Eyck di avvicinare il progetto all’interno di un contesto determinato piuttosto che con un insieme di ipotesi prestabilite, è tipica del modo in cui molte persone hanno affrontato i loro rispettivi campi nell’immediato dopoguerra, che si tratti di letteratura, cinema, politica. L’architetto introduce un gruppo di utenza insolito per il tempo: I bambini. Lo fece in modo cosciente con lo scopo preciso di indirizzare l’infanzia dalla periferia al centro dell’attenzione. Il bambino è ovunque e riscopre la città, mentre la città a sua volta riscopre i suoi bambini solamente per un istante (l’istante del gioco). Una città senza il movimento dei bambini è un paradosso. Van Eyck, dunque, usa il bambino per opporsi all’idea modernista della città funzionale e non ci poteva essere posto migliore della città di Amsterdam postbellica. Visti attraverso lo sguardo dei più piccoli le cicatrici della grande guerra e le aree dismesse possono essere reinventate per produrre nuovi significati e nuove progettualità che sorreggano l’incontro tra gli individui e il luogo. Nel playground i bambini sperimentano il mondo e il mondo non è mai uguale ma pone sfide e traguardi sempre differenti. Quindi, si parla di una città in cui si era sempre cercato di conciliare la disciplina collettiva con la creatività individuale. Una visione che in fin dei conti rispecchia tutta il movimento culturale contemporaneo olandese. Interpretazione dello spazio Nel corso degli ultimi decenni, questi giochi sono stati studiati da sociologi, psicologi e dai teorici dell’arte e dell’architettura. L’adozione di un approccio improntato all’inatteso sull’ambiente umano, si basa sul principio che le forme astratte delle sculture o delle attrezzature per il gioco stimolino la creatività del bambino. Le attrezzature invitano il bambino a esplorare attivamente i numerosi appigli (possibilità di azione). Tuttavia, la standardizzazione che tende a caratterizzare l’apparecchiatura ha effetti negativi sulla giocabilità. Questa standardizzazione, che era probabilmente il risultato delle motivazioni estetiche del progettista, potrebbe essere attraente per i bambini quando semplicemente guardano l’attrezzatura, ma non è di fondamentale importanza per loro quando si gioca in esso in quanto gli appigli forniti dalle strutture disordinate sembrano avere un maggiore appeal sul bambino e ne stimola la creatività. Inoltre, l’utilizzo di panchine e altri generi di sedute ha permesso di creare un luogo che invitata i genitori o i

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tutori a sorvegliare i loro figli e raccoglierli insieme. La vita di strada e la comunità sono stati stimolati mettendo in comunicazione differenti fasce di età. Aldo van Eyck ha sancito l’integrazione dei Playgrounds nell’ambiente urbano anche grazie ad altri due mezzi. Ha creato elementi di gioco usando principalmente metallo e cemento al contrario del modus operandi di costruire oggi usando plastica ed elementi duttili. Questi prodotti si adattano in modo naturale con i materiali preesistenti nel contesto cittadino non conservando una accezione negativa di aggiunta o toppa ad un problema che esisteva e che ora non esiste più ma, diventando parte integrante e indistinguibile nell’intorno. Altro elemento fondante è il “carattere urbano” degli elementi di gioco che è stato realizzato con l’uso di forme elementari e geometriche in modo tle da renderle riconoscibili per il bambino come strumento di azione e per l’adulto come strumento di aggregatore. Questo approccio nella costruzione, progettazione e integrazione dei playgrounds è stato un precursore al così detto approccio ecologico sull’ambiente umano. Anni dopo nel ’60 e ’70 lo psicologo americano James Gibson ha sviluppato una teoria che punta sulla comprensione di come gli esseri viventi compreso l’essere umano, percepiscono e agiscono nel loro ambiente naturale. Van Eyck ha criticato i concetti di spazio e di tempo e le nozioni della psicologia che inscatolava i processi in una sequenza di schede precompilate e prodotte in serie, anche Gibson sviluppo un approccio ortodosso nel modo di concepire lo spazio che forse affonda le radici teoriche nella concezione di corpo nello spazio pubblico che professò Van Eyck. Questa psicologia partitiva dall’assunto e presupposto che l’ambiente è privo di significato, costituito esclusivamente di materia in movimento.

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Per capire come sperimentiamo un ambiente (pieno di colori, odori, sapori ecc), la psicologia cognitiva ha affermato che nel processare il mondo circostante il cervello crea una percezione mondiale e sommaria che attribuisce un significato alle informazioni e gli stimoli che le nostre menti ricevono. Gibson ritiene che questo approccio è fuorviante, spazio e tempo sono “non hanno alcuna influenza sul degli esseri umani e sul loro sviluppo. Successivamente perfeziona questa teoria sviluppando un quadro teorico alternativo, concentrandosi su l’animale, l’ambiente il loro rapporto che hanno fra di essi e con altri su una scala ecologica. Sulla base i questa teoria vi è il principio che, l’ambiente in cui viviamo non è fatto di materia in movimento nello spazio; piuttosto si compone di possibilità di azione e, le possibilità di azione sono le “affordance” (ovvero gli appigli). Le “affordances” esistono in virtù di una relazione che i instaura tra le proprietà dell’ambiente circostante e la capacità di azione dell’animale. Quindi, per determinare le “affordances” di un ecosistema pubblico come nei caso dei playgrounds dobbiamo, come per un animale, misurare l’ambiente in termini di capacità di azione dell’animale stesso e sulla possibilità di agire dello stesso sul mondo per modificarlo e di conseguenza poter capire i segni e i significati che gli attribuiamo in concomitanza con lo scopo e le motivazioni dell’animale. Nello studio dell’ambiente dei bambini, Heft (1988) contrappone alle “affordances” una classificazione basata sulle forme e le caratteristiche ambientali” che si ritrova nella nostra descrizione di tutti i giorni del nostro ambiente naturale. La descrizione formale dell’ambiente è indipendenti dagli individui che agiscono in esso e, quindi, si può ricadere nel fornire una visione poco chiara o del tutto errata del significato psicologico delle caratteristiche ambientali”. Ma, si riconosce che un singolo oggetto può avere diversi significati e che essi possono variare da utente ad utente o possono mutare con l’età del soggetto che sperimenta l’ambiente. Un bambino che gioca nel playground può permettersi comportamenti diversi da un animale. Ad esempio, un bambino può sedersi su una panchina, ma può anche salire su di essa o saltarla come un ostacolo. Il termine “affordances” può in aggiunta spiegare, grazie a questi teorici, le semplici forme astratte che van Eyck ha usato come forme per il gioco. Oggetti che non sono nulla, non hanno ne una funzione ne uno scopo per esistere ma


al contrario esistono in quanto funzionali all’immaginazione di un bambino che ne riempie di significati e scopi l’oggetto. I manufatti di Aldo Van Eyck sono immutabili, non si muovono e sono assenti dal cambiamento ma permettono ad un bambino di muoversi e agire. Le strutture ludiche del playgrounds spesso sono affrontabili in vari modi sia da bambini che da utenti. Tuttavia vi è un fenomeno sociale che avviene nel Playground ovvero “l’affordance canonica”. I bambini che si relazionano fra di loro ed imparano l’uso di uno strumento, fanno il modo di tramandare questo uso ad altri bambini che lo utilizzeranno in modo uguale, un modo canonico di affrontare il corpo ma che non esclude le possibilità più bizzarre. La sensibilità del bambino rivolto al mondo può sviluppare una diversa percezione dello spazio che lo circonda grazie alla sua crescita personale e può, di conseguenza generare nuovi significati o stravolgerne di vecchi. I disegni di Aldo van Eyck non mirano a divulgare o interpretare, che cosa sono e come devono essere utilizzati. Le strutture nel playground non hanno un manuale d’uso (oltre che costruttivo), essi piuttosto suggeriscono in maniera vaga quello che potrebbero essere. Van Eyck era molto ispirato dalle semplici, astratte ma potenti forme scultoree di Brancusi. Anche lui ha creato forme elementari che sono generalmente organizzate intorno ai principi della geometria. Spesso Van Eyck anche con la volontà di creare l’inaspettato lavorando con oggetti prefabbricati ricadeva in pattern identici o simili. Nel corso degli ultimi decenni, diversi autori hanno criticato la standardizzazione dei campi da gioco. Ovviamente, i bambini variano nella loro capacità d’azione, lo studio che c’è stato dietro le distanze e l’ergonomia è strutturato per una specifica fascia di età e non può essere usato da utenti differenti o animali senza incorrere nel farsi del male o danneggiare le strutture stesse. Van Eyck ha sviluppato i suoi elementi di gioco in primo luogo per i bambini dai 4 ai 7 anni di età sperimentando le varie forme e strutture con i propri figli. Tuttavia Sporrel sosteneva che il bambino nel giocare all’interno del playground, mentre saltav una grainata egli poteva decidere in modo autonomo di quanto e dove saltare e quindi insistenza il bambino è l’architetto di se stesso. Questa affermazione fa cadere o rende flebili le critiche mosse alle architetture di Van Eyck che incrementavano una standardizzazione dei giochi. Una tale “affordance” potrebbe essere un ingrediente indispensabile del gioco vero e proprio. Le osservazioni conclusive ci portano un quadro chiaro del fenomeno dei playgrounds e sul tema del corpo nello spazio pubblico. Questi campi da gioco non sono concessi ai bambini ma sono per la maggior parte appropriati da essi, non si esclude la presenza però di anziani, teenager o adulti. Hanno riportato dopo la seconda guerra mondiale il gioco, la serenità e hanno portato alla cicatrizzazione di quelle ferite e toppe mal poste che tappezzavano la città. Con nuove modalità di agire tra e fra i corpi si assiste a una interessante lezione compositiva e formale che getterà le basi per un nuovo modo di concepire lo spazio, uno spazio sociale e comunitario dove poter agire e cresce, che si adatti e ci segua lungo il cammino delle nostre vite e che sia un esempio di architettura che non gioca con il tangibile ma più sul campo dell’intangibile. Eredità Analizzando proprio la filosofia di pensiero di questo paese, possiamo arrivare ad un collegamento, nemmeno troppo forzato, tra l’impronta che Van Eyck lasciò in eredità e una disciplina sportiva praticata assiduamente in tutta la nazione e che ha contribuito a diffondere nell’immaginario collettivo europeo e mondiale: il football. L’evoluzione avvenuta in ambito calcistico, inevitabilmente rispecchiò la cultura di un’intera nazione e più di tutte contribuì ad esportare e far conoscere al mondo nel secolo scorso. Come si intreccia una visione di gioco di una disciplina sportiva con la cultura di una nazione?

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Come essa è correlata con l’architettura, l’urbanistica o, più in dettaglio, con il tema del corpo nello spazio? Possiamo innanzitutto iniziare a dire che la rivoluzione calcistica non è altro che un effetto, il risultato di un modo di pensare comune radicato nei secoli in questo paese legato al luogo e all’ambiente. Possiamo quindi identificare questo modo di pensare con lo spazio e l’organizzazione. La ricerca della flessibilità spaziale è stata una prerogativa costante, non solo della città di Amsterdam, ma a tutto il paese in generale. Analizzando brevemente l’idea che sta dietro al Calcio Totale, possiamo dire che il pilastro del gioco consisteva nel reinventare lo spazio a disposizione con nuove geometrie, che allargavano l’estensione fin lì percepita del campo stesso. Si trattava dunque di creare e occupare spazio nuovo, sistematizzando i movimenti senza uccidere la creatività. Da questa breve descrizione si può facilmente rintracciare l’identificazione con la storia e la geografia dei Paesi Bassi, uno dei territori più affollati e rigidamente organizzati della terra in lotta costante contro l’invasione delle acque. Spazio e cooperazione, i Paesi Bassi nemmeno esisterebbero senza questi due concetti. Dunque ciò che possiamo trarre è un filo diretto con i Playground di Van Eyck, un lavoro svolto proprio nei decenni della fase di crescita di quella generazione che concepì questo stile di gioco. “Crescere giocando tra le strade di quartieri senza rendersi nemmeno conto di essere in città, e nemmeno alla periferia di essa. Cemento, distese di pietre e ghiaia. Giocare su terreni così malmessi e in spazi poco appropriati mi ha costretto a velocizzare pensiero e azione”, come dirà successivamente uno degli artefici principali che visse quell’epoca di Amsterdam in prima persona. L’ulteriore domanda che ci poniamo è perché gli olandesi? La risposta potrebbe essere che gli olandesi hanno una concezione dello spazio in modo innovativo, creativo e astratto perché per secoli hanno dovuto farlo in ogni altro ambito della propria vita. A causa del suo paesaggio insolito, l’Olanda è una nazione di nevrotici dello spazio. La terra è controllata come si conviene per una questione di sopravvivenza nazionale. Il sistema idrico olandese deve essere regolato con precisione perché più del cinquanta per cento del paese è al di sotto del livello del mare. Nella parte occidentale del paese, l’intero paesaggio è opera dell’uomo. Come recita un vecchio detto: “Dio creò il mondo, ma gli olandesi crearono l’Olanda” Il paesaggio olandese ha cosi plasmato il modo in cui gli olandesi vedono il mondo. Rudi Fuchs, direttore dello Stedelijk Museum di Amsterdam e critico d’arte, sostiene che ogni nazione e cultura godano di una propria prospettiva. “Gli psicologi negano che tali differenze esistano, ma è una cosa evidente nell’arte e nella cultura. Chiedi a un qualsiasi olandese di disegnare l’orizzonte e lui ti traccerà una linea dritta. Se lo chiedi a qualcuno dello Yorkshire o della Toscana o di qualunque altro posto, ti ritroverai balzi e colline. Un blu scandinavo sarà freddo e metallico, del tutto diverso da un blu italiano. La pittura italiana è piena di colori caldi tendenti al rosso; quando il rosso compare nelle opere di un artista nordico come Munch, è come sangue nella neve”. Si deduce oltremodo che queste differenze di origine climatica e geografica si riflettono inevitabilmente nella cultura, architettura, pittura, nell’arte. Ritornando, quindi alla generazione calcistica sopra descritta, viene lecito domandarsi. Può essere stata influenzata inconsciamente dalla filosofia di Van Eyck? Quanto, invece, può essere stata influenzata dal fermento culturale di quei decenni? Quanto la cultura nazionale dell’epoca può essere stata impregnata delle idee di questo architetto? Quindi per mera proprietà commutativa i fautori di questa rivoluzione sportiva? Non ci è dato saperlo. O meglio non possiamo avere nessuna certezza. Possiamo solo ipotizzare seguendo le tracce lasciate da tutti i protagonisti sopracitati e da chi in maniera passionale ha cercato di scoprire un filo conduttore di tutto cio. Lo stesso spirito ribelle che troviamo in Van Eyck è tangibile in questa generazione di ragazzi che in qualche modo sicuramente ne sono rimasti contagiati e lo hanno riproposto inconsciamente in ambiti culturali differenti, rimarcando ancor di più l’essenza di una nazione.


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Di Festa Valerio, Magnano Salvatore, Catalogna Daniel

Homo Movens

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Nakagin Capsule Tower, Kisho Kurokawa


Metabolismo Il metabolismo è un movimento architettonico nato in Giappone all’inizio degli anni ’60 che tratta principalmente temi legati alla pianificazione urbana ed allo sviluppo delle città. Inizialmente i progetti e le proposte riguardano prevalentemente le città giapponesi ma in un secondo momento, in concomitanza con la crisi energetica del ’73, il gruppo inizia a dimostrare interesse anche verso l’Africa e li Medio Oriente. I fondatori di “Metabolism”, nome con il quale il movimento venne presentato alla World Design Conference di Tokyo, furono i cinque architetti K. Kurokawa, K. Kikutake, F. Maki, M. Otaka, T. Asada ed il critico N. Kawazoe. In occasione di questo evento il gruppo compose una raccolta utile a presentare al pubblico i punti chiave del loro pensiero. Il loro manifesto “The Proposals for New Urbanism” era composto da 90 pagine e racchiudeva quattro progetti. In ordine vi troviamo Ocean City di Kikutake, Space City di Kurokawa, Towards Group Form di Otaka e Maki ed infine Material and Man di Kawazoe. L’introduzione del manifesto recita:< Il metabolismo è il nome del gruppo, in cui ogni membro propone progetti per il mondo attuale attraverso disegni e illustrazioni concreti. Consideriamo la società umana come un processo vitale - uno sviluppo continuo dall’atomo alla nebulosa. Il motivo per cui usiamo una parola nota in biologia, ovvero metabolismo, è che crediamo che design e tecnologia debbano essere una denotazione della società umana. Non intendiamo il metabolismo come un processo naturale, ma proviamo ad incoraggiare lo sviluppo metabolico attivo della nostra società attraverso le nostre proposte.> Il nome del gruppo (in lingua originale “shinchintaisha”) fu usato per la prima volta da Kawazoe mentre rifletteva su Marine City (un progetto di Kikutake precedente a Ocean City) in merito al funzionamento di ogni organismo il quale scambia materia ed energia tra esso stesso ed il mondo esterno. Inoltre, il termine giapponese può essere inteso come rinnovo fra vecchio e nuovo. In occasione della World Design Conference il gruppo decise di usare l’equivalente inglese del termine, ovvero Metabolism. I metabolisti nei loro progetti tenevano conto di fattori naturali ed antropici estremamente vincolanti in Giappone. La scarsità del suolo in primo luogo ed una serie di eventi traumatici come il terremoto di Kanto del 1923, i progetti utopici per l’est-Asia del 1932 o ancora l’orrore dello scoppio della bomba atomica del 1945, hanno spinto il gruppo a confrontarsi situazioni riconducibili al concetto di Tabula Rasa. Inoltre vi era un’attenzione spiccata nei confronti della società del tempo in continuo cambiamento. In sintonia con il pensiero metabolista, l’architetto e urbanista Kenzo Tange nel suo saggio “Come capire l’architettura moderna in Giappone oggi – per la creazione della tradizione” insiste sulla necessità di sfruttare la trazione come mezzo per l’innovazione. È possibile riconoscere le tematiche appena descritte in un progetto costruito nel 1970 nel cuore di Tokyo ad opera dell’architetto Kisho Kurokawa, ovvero la Nakagin Capsule Tower. L’edificio è composto da due torri alte rispettivamente undici e tredici piani. Concettualmente è possibile dividere la costruzione in tre parti, ovvero il blocco alla base, la struttura portante delle torri ed infine le capsule (140 in totale). Il blocco base occupa il piano terra ed il primo piano ed ospita una hall con reception, un negozio di alimentari, delle docce comuni ed i due blocchi scala con ascensore per l’accesso alle torri. La struttura portante delle torri è costruita in calcestruzzo armato ed acciaio ed oltre ad ospitare il vano scala è predisposta per l’ancoraggio delle capsule. Le capsule sono elementi prefabbricati ed in seguito ancorati alla torre. Ogni capsula è ampia circa 10 m2 (2,5 x 3,8 m; con altezza pari a 2,3 m). Le dimensioni di rifanno alla tradizione del cha no yu ovvero la cerimonia del te. Ogni capsula dispone di una sola apertura circolare con un sistema oscurante a ventaglio metallico appositamente progettato. Anche gli arredi interni sono stati progettati per massimizzare l’ergonomia dell’ambiente, infatti ogni capsula nonostante le dimensioni ridotte disponeva di alcuni stipetti, una radio, un registratore, una tv, un telefono, un frigo bar un letto, ed un vano in resina termoforata per

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i servizi igienici isolato dal resto della capsula. Purtroppo la capsula presenta anche alcune problematiche, come lo scarso isolamento termico e l’impossibilità d’utilizzo del sistema di areazione principale a causa dei residui di amianto presenti al suo interno. Inoltre la capsula è sprovvista di piano cottura e di acqua calda. Attualmente solo poche capsule sono utilizzate mentre le altre versano in stato di forte degrado dovuto alla mancanza di manutenzione. K. Kurokawa, autore del progetto, in merito al concetto della capsula dichiara che: «La Capsula è un’architettura Cyborg. L’uomo, la macchina e lo spazio costruiscono un nuovo corpo organico. L’architettura d’ora in avanti assumerà il carattere di apparecchiatura.»

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HOMO MOVENS Nel 1932 viene pubblicato “The Minimum Dwelling”, di Karel Teige. Il periodo tra le due guerre è stato un momento di forte discussione sul tema dell’abitare. Come stava evolvendo la società e quali erano gli spazi da garantire o da modificare all’interno delle abitazioni? Nel libro Teige introduce il tema, già noto ai modernisti, della dimora minima, non riferendosi ad appartamenti di piccole dimensioni ma a cellule “live-in”, lo spazio per la singola persona è radicalmente riconcepito all’interno di una “casa collettiva”, le funzioni standard vengono eliminate dalle singole unità e rese collettive. La condivisione degli spazi, costringe e garantisce tutti a doversi impegnare per gestire e mantenere la casa. Gli spazi eguagliano i ruoli degli inquilini, aprendo la possibilità all’emancipazione della donna. Esigenze e possibilità plasmano e mutano gli spazi dell’abitare. Quarant’anni dopo Kisho Kurokawa e i Metabolisti leggono la società giapponese e il momento storico che stanno vivendo individuando l’esigenza di ripensare gli spazi abitativi. La tecnologia sta sempre di più migliorando le condizioni di vita e offre grandi possibilità all’uomo. Grandi innovazione e miglioramenti sono introdotti soprattuto nei trasporti. Il movimento del corpo nello spazio cambia. I tempi si riducono e le distanze aumentano. L’uomo si muove all’interno di capsule. gli autobus, le macchine, i treni. La tecnologia sta cambiando il mondo e il modo di muoversi. Nel 1960 Kurokawa pubblica “Homo Movens”, come K. Teige, individua un forte cambiamento in atto all’interno della società. Le persone che vivono le città non possono essere quantificate solo dai residenti, ma bisogna considerare tutti coloro che non dormono nella città ma la vivono. Il Neo-Nomade, colui che usa la città per un periodo del giorno o per periodi della propria vita, “homo Movens”. Kurosawa riconosce nella capsula il giusto modello abitativo di un uomo che trascorre la maggior parte del tempo nella città, che non necessità di una casa ma di un posto in cui dormire. L’individualità diventa un forte tema. In un sistema famigliare neppure l’uomo e la donna dormiranno insieme, ciascuno avrà la propria capsula. La famiglia ha bisogno degli individui in quanto singoli, ma l’individuo non necessità della famiglia. Le capsule sarebbero dovute essere case temporanee, per brevi periodi, vista la “natura” stessa del progetto che nasce con un durata prestabilita. Ma non è andata così. L’uomo non è riuscito a vivere in uno spazio cosi ridotto. K.Kurokawa aveva correttamente individuato il mutamento in atto nella società, ma non lo ha giustamente soddisfatto. Lo stile sedentario ha prevalso sull’idea del Neo-Nomade. L’uomo non è stato in grado di adattarsi allo stile di vita indotto dalla capsula. Lo spazio non è sufficiente per le “cose” dell’uomo. Uno spazio cosi sobrio costringe una vita asciutta, che probabilmente non è propria dell’essere umano. Gli ambienti delle città sono molto vasti, ampi. Gli uffici nei grattacieli, gli ospedali sono enormi padiglioni, le città stanno diventando a-scalari rispetto all’uomo. Il senso della dimensione si perde in ambienti cosi grandi con spazi che seppur apparentemente vicini costringono l’uomo a muoversi costantemente per accedere ai servizi offerti. Il senso di incapacità e di inadeguatezza alle città si fa presente e se il proprio spazio abitativo, dove ci si possa raccogliere all’interno di questi grandi agglomerati sono delle capsule


di 10mq, l’esistenza umana e la forza della propria individualità vengono messi a dura prova. Forse questi è uno dei motivi per cui una scelta cosi radicale ha individuato ma no soddisfatto le esigenze di una società in mutamento. Nella torre mancano delle cucine, spazi comuni, luoghi di incontro. Non c’è possibilità di socializzare. Le capsule sono connesse ad un nucleo ma non c’è mai un contatto l’una con l’altra. Forse questo è il preludio di un società futura fatta di solitudini e individualità distaccate le une dalle altre? TEORIA DELL’ACCESSO Se da un lato la sperimentazione degli spazi “capsula” ha dimostrato la difficoltà di adattamento della coscienza umana ad un’esistenza alienante, dall’altro ha sicuramente aperto al dibattito su come lo stile di vita stesse inevitabilmente mutando a favore di una vita in movimento, in cui gli equilibri si stavano allontanando sempre più da una situazione di stabilità data dalla tradizione familiare e dagli spazi personali quali punti di riferimento del vivere. Questa nuova tendenza è qualcosa di reale o è soltanto una supposizione di Kurokawa? Quali potrebbero essere le cause riconducibili ad un cambiamento tanto radicale? Secondo Kurokawa, l’avvento di nuove tecnologie nell’ambito dei trasporti e la tradizionale propensione della popolazione a spostarsi da una parte all’altra del Giappone - un fenomeno ampiamente dimostrato dalle poesie di alcuni letterati e poeti giapponesi che descrivono “il viaggio come una sorta di casa”, tra cui Basho, maggiore esponente della poesia “Haiku” - avrebbero spinto le popolazioni sempre più a spostarsi da una città all’altra per poter cogliere la “ricchezza di scelte” - come lo stesso Kurokawa afferma - che la città del futuro sarebbe stata in grado di offrire non solo agli abitanti della stessa, ma anche alle regioni limitrofe, costituendo una vera e propria rete di collegamento, opportunità, informazione e cultura in un’ottica di “accentramento” di interessi nelle maggiori città del Giappone. Questo fenomeno, tuttavia, aveva già avuto inizio nell’epoca dello Shogun Tokugawa, che, con l’ascesa al trono, nominò Edo - l’attuale Tokyo - capitale di tutto il Giappone, tentando di spostare tutti i punti di fondamentale interesse all’interno della città con l’intento di creare una “metropoli” vera e propria. Pertanto, tali dinamiche sembrerebbero essere qualcosa di radicato nella cultura del vivere in Giappone già da tempo. Oltretutto, le continue calamità che hanno costretto la nazione ad assistere più e più volte alla distruzione dei propri spazi vitali e alla loro ricostruzione, hanno di certo contribuito a rendere i giapponesi meno legati ai beni di proprietà di quanto lo fossero gli occidentali. In tal senso, la religione stessa si pone quale metafora per comprendere la visione che separa i due atteggiamenti, ripresa dallo stesso Kurokawa: mentre il Cristianesimo è caratterizzato dal tema della Risurrezione, concetto fortemente legato all’immortalità di Cristo e alla sua eternità, il Buddhismo basa la propria esistenza sulla Reincarnazione dello spirito, dove il corpo perde importanza a favore dell’anima. Ciò si traduce nel fatto che la cultura Occidentale ha da sempre tentato di costruire opere che durassero in eterno e tentassero di tramandare la propria identità nei secoli, mentre la cultura giapponese esorcizza tale concetto, credendo che il corpo sia semplicemente un contenitore che può mutare di forma e dimensione, il cui spirito rimarrà per sempre. Pertanto, il quadro proposto sembrerebbe avvalorare le supposizioni di Kurokawa, che anticipa di quarant’anni il concetto che ad oggi è conosciuto col nome “Era dell’Accesso”, teorizzato dal sociologo ed economista americano Jeremy Rifkin. Nel suo libro “The Age of Access: The New Culture of Hypercapitalism” afferma che il benessere e la ricchezza del cittadino non è più data da ciò che uno possiede, ma dalla possibilità di accedere o meno a determinati servizi offerti dallo spazio pubblico. In tal senso, Kurokawa può essere definito un visionario, avendo predetto ciò a cui la società stesse andando incontro, basata sulla perdita di valore dell’abitazione a favore degli spazi pubblici della città. Una visione molto

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forte del mondo, le cui opere non vogliono essere un semplice tentativo ma un vero e proprio punto di svolta, nel tentativo di insignire l’architettura del titolo di motore fondamentale del cambiamento delle dinamiche sociali della città. Infatti, Kurokawa riprende una frase da Carl Marx: “Finora, i filosofi hanno solo interpretato il mondo in vari modi; il punto è di cambiarlo. E’ quello che ho fatto per tutta la mia vita”. Seppure le sue sperimentazioni furono fallimentari in Giappone, dimostrando la difficoltà di abitare uno spazio alienante, oggi il tema rimane attuale e seguito da alcuni esponenti dell’architettura odierna, che hanno reinterpretato i concetti tentando di colmare le lacune lasciate da Kurokawa. 1) OLD OAK - PLP ARCHITECTURE Il progetto, situato nella parte Ovest di Londra, si pone quale maggiore opera di co-living nel mondo, oltre che risposta alle esigenze di alloggi economici. L’architettura che viene proposta sembrerebbe porsi quale sorta di imitazione della minimizzazione spaziale dell’ambiente domestico a favore dello spazio pubblico, e le stesse sembianze dell’alloggio, come testimoniato dalla pianta, sembrano quasi copiare di sana pianta il progetto della capsula di Kurokawa. Ma quali sono i motivi per cui ha funzionato? Probabilmente la risposta all’assenza di spazi di aggregazione nella Nakagin Capsule Tower, ha aiutato gli alloggi a risultare meno alienanti, dove la privacy dell’individuo a cui Kurokawa teneva molto, è comunque rispettata ed affiancata da aspetti più inclusivi, nell’ottica di quella “ricchezza di scelte” di cui egli stesso parlava per la città, qui applicata al singolo edificio. 88

2) GIFU KITAGATA APARTMENT BUILDING - SANAA Sejima e Nishizawa stravolgono il concetto di “capsula”. Infatti, pur rifacendosi alle esatte dimensioni fornite da Kurokawa, essi considerano la ripetizione dello spazio standardizzato quale occasione per articolare spazi dalla destinazione d’uso differente, creando uno ambiente minimale che però tiene conto delle dinamiche sociali del vivere in comune. Oltretutto rispettano alcuni dei temi toccati dai metabolisti, in particolare quello della tradizione - come testimoniato dalla volontà di inserire la tradizionale “stanza del te” all’interno dell’alloggio. Questo potrebbe essere ricondotto al fatto che il quartiere fu progettato da Arata Isozaki, un esponente del movimento metabolista, il che ha spinto probabilmente SANAA ad una riflessione attenta degli spazi e del loro utilizzo - sembrerebbe quasi una volontà di migliorare il concetto spaziale di capsula, la cui aggregazione non comporta soltanto l’aggregazione di individui familiare aventi il proprio spazio di privacy, come per Kurokawa, ma tutta la serie di dinamica tradizionali della famiglia giapponese. 3) DOGMA - THE ROOM OF ONE’S OWN Qui, le dinamiche abitative della capsula sembrerebbero essere quasi riprodotte in toto. La concezione dello spazio quale occasione di solitudine e riflessione segue le stesse dinamiche di Kurokawa, nonché il concetto di distacco dalle dinamiche familiari tradizionali a favore dell’emancipazione dell’individuo - si fa infatti riferimento alla visione della stanza suggerita dalla scrittrice Virginia Woolf nei suoi romanzi, quale mezzo di sfida alla logica patriarcale dello spazio domestico). Tuttavia, gli errori dei metabolisti, insieme con le loro idee, accompagnano il progetto. Lo spazio diventa piuttosto uno spazio di alienazione, ridotto all’osso, quasi inospitale, immerso in uno spazio pubblico che anch’esso tende a racchiudere le dinamiche sociali e a ridurle - una scatola nella scatola. Più che progetto esecutivo, questo si pone quale caso studio che spinga alla riflessione.


Bibliografia Project Japan: Metabolism Talks, Rem Koolhaas, Hans Ulrich Obrist, TASCHEN, 2011 Homo Movens, Kisho Kurokawa, 1969 EACH ONE A HERO- e Philosophy of Symbiosis, Kisho Kurokawa Metabolism in Architecture, Kisho Kurokawa, 1977WW Routine Metabolista, Domus 969 / maggio 2013(articolo), Filipe MagalhĂŁes, Ana Luisa Soares Le Capsule di Kurokawa, Domus 520 / marzo 1973(articolo) Sitografia http://www.kisho.co.jp/page/209.html http://docomomo-us.org/news/metabolist-design-the-nakagin-capsule-tower-japan http://www.kisho.co.jp/page/310.html http://chicagoarchitecturebiennial.org/participants/dogma/

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