LUCA DE NAPOLI - IL RICHIAMO DELL'ULIVO

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Il richiamo dell’ulivo

Luca De Napoli Studio Byblos

Luca De Napoli

IL RICHIAMO DELL’ULIVO

Studio Byblos

Proprietà letteraria riservata

© De Napoli Luca

ISBN: 9791280343963

Luglio 2023

Prefazione

Luca De Napoli è una piacevole sorpresa della narrativa. Autore di quattro racconti che sono ambientati in Puglia, la parte dell’Italia intrisa di storia mediterranea, crocevia, forse più delle altre, tra oriente e occidente. Onnipresente nelle campagne pugliesi suo simbolo e pure suo araldo, l’olivo, questo mistico dono della Terra che offre da millenni l’oro liquido, alimento, toccasana, preziosa merce di scambio. I protagonisti dei racconti sono personaggi attuali, tutti di nazionalità estera e legati al mondo dell’arte e della cultura, che cercano l’equilibrio interiore e sé stessi tra chiese, cripte, monasteri, manieri, piazze, tradizioni, profumi, modi di fare e di dire di un luogo che ha in sé una mistica forza percepita da chi apprezza il connubio tra arte, cultura e civiltà contadina millenaria.

Da notare, e piacevole, il fatto che la fine di ogni racconto è un colpo di scena architettato appositamente da Luca De Napoli che si rivela padrone di uno stile piano, capace di creatività narrativa, maturo. Nella mia vita ho letto tantissimo e confesso che questi racconti li porterò ad esempio conversando con le mie conoscenze sul modo di fare letteratura d’intrattenimento mentale.

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La Vergine di Costantinopoli

La Vergine di Costantinopoli

Nadia fissava il pavimento del centro di accoglienza, avvolta in un lenzuolo pulito, seduta su di un materasso duro. Fissava le geometrie delle piastrelle, gli intarsi che, come tasselli di un mosaico antico, si incastravano in un gioco di chiaroscuri, illuminati dalla luce di un sole pallido, nonostante fosse pieno giugno. Era uno sguardo assente il suo, sebbene sembrasse intenta a scrutare quell’intarsio di bianco e di nero con viva curiosità, come una turista che si trovasse a Sant’Apollinare dopo un corso di storia del mosaico.

Una voce la destò da quel torpore.

“Nadia, Nadia, ascoltami”.

La voce era quella di una signora ucraina, un po’ in carne, sui quaranta. Era vestita con una camicia carica di colori sgargianti, che alla luce del sole la rendevano più accesa di un’opera d’arte di Cesare Catania. Michaela, così si chiamava la donna, era una delle traduttrici ufficiali del centro. Era sposata con Ernesto, un impiegato statale romano, e viveva in Italia da dieci anni. Nei suoi occhi celesti non c’era più traccia della cerulea freddezza dei cieli della sua terra natia, ma ardeva la fiaccola vivace del sole della capitale. Sembrava tutta allegra per quell’ufficio che le era stato assegnato, perché la faceva sentire improvvisamente importante. Di tanto in tanto alcune note testate giornalistiche accorrevano per intervistarla, e lei, inizialmente abituata a mantenere un basso profilo, ci aveva fatto ormai l’abitudine, ed in pochi giorni si era abituata a sentirsi una piccola star. Accanto a lei svettava la figura di un’altra donna, ossuta e molto alta, con un sorriso stampato sul viso, come quello della Monnalisa, gentile

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ed enigmatico, che sembrava allenato da anni a rassicurare qualsiasi interlocutore. La donna parlava la sua lingua musicale, ma Nadia teneva fisso lo sguardo su Michaela, dalla bocca della quale sapeva dipendere i suoi destini.

“Nadia, sei stata affidata alle cure di un centro di accoglienza nel Sud Italia, oggi stesso dovrai partire con l’autobus delle 15:00 da Roma per raggiungere la città di Bari”.

“Sud Italia? Bari?” Chiese Nadia con voce bassa e sconnessa, come se stesse ancora pensando agli intrecci delle piastrelle che stava fissando poco prima.

“Sì, Bari, è una città della Puglia, nel Sud. È la città dove c’è la tomba di San Nicola sai?”

“San Nicola!” Esclamò Nadia, come se le avessero di colpo spalancato una finestra su di un mondo conosciuto. Si segnò devotamente e accennò un timido sorriso di impercettibile felicità.

“Sì, Nadia, tuttavia la tua destinazione finale non è Bari, ma un paese più piccolo che si chiama Acquaviva delle Fonti. C’è un centro dove potrai restare e imparare l’italiano, e ti aiuteranno anche a cercare un buon lavoro. È gestito dalla Diocesi locale. Sono molto bravi e si prenderanno cura di te, vedrai”.

Il timido sorriso che era apparso sul volto di Nadia si eclissò improvvisamente, come se quelle parole fossero state una gelida folata di vento che avesse chiuso all’improvviso quell’insperata finestra. Nadia gettò uno sguardo indispettito sulla donna alta che si accompagnava a Michaela, come se fosse lei la responsabile dell’inattesa fine di quel piccolo sogno. La donna continuava però a fissarla con il solito sorriso enigmatico ed imperturbabile ricamato sul viso, sicché Nadia tornò a rivolgersi verso

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Michaela, rassegnandosi al suo nuovo destino.

“C’è il mare ad Acquaviva?” Chiese Nadia con voce speranzosa, cercando nuovi punti di contatto tra il suo futuro ed il suo passato. Michaela si consultò con la Monnalisa, e dopo accurate ricerche scoprirono che ad Acquaviva il mare purtroppo non c’era, ma che era molto vicino.

Nadia tornò momentaneamente a perdersi con lo sguardo nei tasselli delle piastrelle che componevano il pavimento, come per cercare di intravedere in quei disegni privi di forma la sua nuova meta. Sospirò e accennò un sì con il capo verso le due donne, che si affrettarono ad istruirla sui particolari del suo nuovo viaggio.

Erano le 15:00 in punto quando l’autobus si staccò dalla pensilina numero 4 dell’autostazione Tiburtina, in direzione Bari. Nadia sedeva in uno dei primi posti, non lontana dal conducente. Era un martedì non troppo caldo di giugno, e l’autobus era mezzo vuoto. La ragazza se ne stava seduta da sola, accanto al finestrino, con il posto vacante di fianco. Non che a lei la cosa importasse molto, dal momento che era china sul suo cellulare, e china restò per tutta la durata del lungo tragitto di sei ore, che l’avrebbe condotta alla sua nuova destinazione. Di tanto in tanto alzava il capo e si guardava intorno, scossa dalle alte voci di alcuni dei suoi compagni di viaggio, i quali non tenendo conto delle raccomandazioni recitate a mo’ di litania prima della partenza, chiacchieravano rumorosamente con i loro interlocutori telefonici, scoppiando ora in fragorose risate, ora in scatti di ira improvvisa. Nonostante il paesaggio fosse a tratti stupendo e gradevole, Nadia pareva non esserne attratta. Era tutto troppo diverso dalle coste della sua amata Mariupol, la città da cui proveniva e dove era cresciuta. Si era da poco laureata presso la facoltà di storia della Mariupol State University

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con il massimo dei voti. Era lì, tra i banchi dell’università, che aveva conosciuto Aleksej, un giovane appassionato di calcio e di letteratura. La grande passione per il calcio del giovane, che giocava nella FC Mariupol, lo aveva condotto fino a traguardi importanti, giungendo quasi a sfiorare la convocazione nella nazionale ucraina. All’ultimo minuto però, gli era stato preferito un altro giocatore. Aleksej ci era rimasto davvero male, e per una settimana si era portato, dipinta sul viso, un’espressione incredibilmente tetra, che Nadia cercava di scacciare in molti modi. Lo aveva preso anche affettuosamente in giro: “Cosa giochi a fare? Ti fai sempre male. Il calcio non fa per te”. Ma Aleksej non aveva nessuna intenzione di darsi per vinto. Era sicuro che di lì a due anni sarebbe stato convocato.

Nadia sapeva bene che c’erano in circolazione giocatori più forti di lui, e che le probabilità che fosse davvero convocato erano piuttosto scarse. Inoltre era preoccupata che, per inseguire questa chimera, il ragazzo trascurasse gli studi. Tuttavia non lo scoraggiava troppo apertamente. Si limitava a costringerlo a lasciar perdere quel dannato pallone che aveva sempre tra i piedi, ed a portarlo in biblioteca per studiare un po’ insieme in vista degli esami. Poi, all’improvviso, era sopraggiunto il vento gelido della guerra, che gli aveva strappato dal cuore e dalle mani il suo amore. Aleksej non aveva neanche voluto attendere la chiamata alle armi. Alle prime avvisaglie dell’invasione russa era corso ad arruolarsi, con la stessa generosità con la quale si era fino a quel momento dedicato anima e corpo allo sport. Da quel momento per Nadia erano incominciati giorni di indicibili sofferenze. Quel telefono, che lei usava così poco fino allora, era diventato l’oggetto della speranza. Appena sveglia, dopo notti passate in dormiveglia, si precipitava a leggere i messaggi, e lì restava appesa, tutto il giorno, dimenticandosi talvolta perfino di mangiare. Si immergeva nella lettura

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dei quotidiani esteri, cercando di carpire con speranza notizie di pace, di distensione, di fine del conflitto. Ma più il tempo passava, più quelle speranze venivano disattese, e le ombre di una guerra lunga ed infinita si addensavano sempre più sul suo amato Paese, tenendo il suo cuore in eterna apprensione. Aleksej la tranquillizzava, le parlava di sicura vittoria, le prometteva di tornare presto, e che presto sarebbero tornati nella biblioteca di Mariupol insieme. Subito dopo la laurea di Nadia, i venti della guerra si erano abbattuti gagliardi su Mariupol, e lei, che viveva con una sua zia, si era trovata rinchiusa in quella trappola mortale. Sua zia, la cui salute era già minata da tempo, non era sopravvissuta a lungo a quell’orribile assedio, e a Nadia, rimasta sola, non restò altro da fare che approfittare di uno dei corridoi umanitari che venivano aperti a singhiozzo, per lasciare la sua amata Mariupol e trovare rifugio all’estero. Era così giunta a Roma, dove era rimasta per circa un mese, ed ora le era stata assegnata questa nuova, misteriosa destinazione. Sebbene avesse studiato delle meraviglie dell’antica Roma all’università e ne fosse rimasta impressionata, non era mai uscita dal centro di accoglienza che la ospitava. Passava le sue giornate fissando il vuoto, e non appena il fuso lo permetteva, si chinava sul cellulare alla ricerca dei messaggi di Aleksej, che la rassicurava con molte dolci parole sul fatto che tutto sarebbe finito bene. Ma avrebbe potuto scriverle qualsiasi cosa, non aveva importanza. A Nadia bastava saperlo vivo. Era ormai come se la sua forza vitale fosse legata indissolubilmente a quella di lui, in un gioco di energie magnetiche distanti.

L’autobus giunse a destinazione qualche minuto dopo le 21:00. Gli indisciplinati passeggeri si erano già in gran parte alzati dai loro sedili da diversi minuti, e si erano accalcati di fronte alle uscite prima del tempo.

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Inutili erano stati i richiami del conducente, e anche i borbottii di sdegno di alcuni signori più attempati rimasti seduti al loro posto. Non appena le porte si aprirono il piccolo torrente umano proruppe verso l’esterno. Gli abbracci, i baci e le risate sguaiate si susseguivano non appena gli occhi dei viaggiatori, per nulla stanchi, scorgevano quelli dei loro conoscenti in attesa. Da ultimo anche Nadia fece capolino fuori dall’autobus, guardandosi attorno con aria smarrita. Fissava tutti all’intorno, con sguardo indagatore, cercando di scorgere col pensiero la fantomatica signorina Anna, che sarebbe dovuta venire a prenderla.

“Nadia Zakharova?”

La giovane si voltò di scatto alla sua destra. Di fronte a lei si trovava una ragazza minuta, di carnagione piuttosto scura, vestita con una T-shirt bianca ed un paio di jeans attillati. Aveva sul viso un’espressione ansiosa ma felice, come se si trovasse in prossimità di un red carpet in attesa di intervistare qualche importante stella del cinema. Accanto a lei c’era una donna più alta, bionda, con i capelli legati. L’espressione del suo viso era seria e sicura, e lasciava trasparire un non so che di austero.

“Sì, sono io” disse Nadia nella sua lingua madre, con voce timida, non essendo ancora pienamente sicura del fatto che le due donne fossero lì per lei.

“Contentissima di conoscerti. Io sono Anna, e lei è la tua traduttrice Irina”.

Irina si precipitò a tradurre le parole della ragazza italiana con voce calma ed accennando un debole sorriso, mentre Anna stringeva calorosamente la mano di Nadia con un’espressione entusiasta, come compiacendosi con sé stessa per averla riconosciuta al primo colpo.

Le tre donne si avviarono verso un piccolo pulmino bianco, parcheg-

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giato lì vicino. Nadia sedette accanto al conducente, un uomo brizzolato che attendeva impassibile all’interno del veicolo, mentre Anna e Irina si sistemarono dietro. La giovane ucraina sarebbe voluta tornare al suo amato cellulare e continuare con i suoi fitti scambi di messaggi, ma la vivacità e la curiosità di Anna si imposero sui suoi desideri. Lungo la strada che porta da Bari ad Acquaviva (poco più di 30 minuti di viaggio) la giovanissima animatrice del centro stordì la nuova arrivata con un misto di premure e curiosità, continuando a gesticolare ed a muovere ansiosamente le braccia. Tra le altre cose stilò un elenco completo delle attività che si svolgevano all’interno del centro, perdendosi in mille dettagli superflui, che Irina, visibilmente stizzita, traduceva di malavoglia e con voce fredda, come per smorzare l’eccessivo ed immotivato entusiasmo di Anna per quelle attività che le parevano così straordinarie.

Lo strazio di Nadia ebbe termine quando il pulmino raggiunse la sua destinazione, e si fermò di fianco alla Chiesa di Sant’Agostino, in Acquaviva delle Fonti. Le tre donne scesero, ed entrarono per la piccola porta che conduce alle stanze del centro di accoglienza. Nadia le percorse stanca, trascinando la sua valigia sul pavimento nuovo, e giunta in prossimità della stanza che le era stata assegnata si voltò per ringraziare Irina ed Anna. Le sue parole, in verità piuttosto di circostanza, parvero ad Anna come un bel regalo di Natale, e la indussero erroneamente a credere che la sua snervante facondia pugliese fosse stata apprezzata dalla nuova arrivata. Le due si ritirarono, e Nadia restò sola nella sua nuova camera. Trasse subito fuori dalla tasca del suo abito il cellulare, ma non c’era alcuna novità. Perciò, messo in carica il telefono, si sdraiò sul letto ancora vestita. La stanchezza

l’assalì d’un tratto e in pochi minuti si addormentò. Prima di chiudere gli occhi il suo sguardo si posò per pochi istanti su di una immagine della

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Vergine, appesa alla parete bianca, da poco verniciata. Sembrava un’icona ortodossa, e si meravigliò di vederla in quel luogo così lontano dalla sua terra. Avrebbe voluto pregarla prima di dormire, ma il sonno la vinse prima che potesse farlo.

Nadia si svegliò di soprassalto. Il sole, che filtrava dalla piccola finestra posta accanto al suo letto, sembrava essere già alto. Con la mano tastò il comodino alla ricerca del suo cellulare. Erano le 9:30. Dopo aver scorso la chat con Aleksej alla ricerca di nuovi messaggi lasciò cadere il telefono e si precipitò nel piccolo bagno della sua nuova camera. Detestava alzarsi tardi. Dopo 20 minuti circa era pronta, e uscì in fretta, percorrendo un lungo corridoio, che conduceva ad una grande stanza piena di banchi, con una lavagna lucida appesa alla parete. Le ricordò istintivamente la sua aula universitaria di Mariupol, e ne fu molto felice. Sulla sedia dietro alla cattedra, un ragazzo magro, dai capelli ricci, spulciava una pila di libri, con sguardo perennemente insoddisfatto, come se stesse cercando qualcosa di straordinario ma non gli riuscisse di trovarlo. Non si era minimamente accorto della presenza della ragazza nella stanza. Nadia lo salutò in inglese, con voce timida, come se avesse il timore di interrompere le sue ricerche. Il giovane si voltò di scatto, rispose al saluto nel suo inglese molto buono, e si alzò lasciando sulla cattedra i libri mezzi aperti.

“Piacere di conoscerla, io sono Vito, l’insegnante di italiano, lei è la signorina...?”

“Nadia Zakharova, piacere mio”.

Vito le strinse amabilmente la mano, e sebbene la ragazza fosse molto bella, non l’aggredì con lo sguardo, ma esibì un sorriso educato e gentile. Questo piacque molto a Nadia, che rispose allo stesso modo, fi-

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dandosi istintivamente di questo giovane insegnante dai modi gentili.

“Sei nuova qui?” Proseguì Vito nel suo ottimo inglese.

“Sì, sono arrivata ieri sera con l’autobus, da Roma”.

“Ah, capisco, e di dove sei?”

“Sono ucraina, di Mariupol”.

“Mariupol…” Vito pronunciò il nome della città facendosi molto serio, ed assunse un’espressione pensosa. Nadia se ne accorse e distolse lo sguardo dai suoi occhi, imbarazzata. Il suo viso si velò di sofferenza. Il volto di Vito allora cambiò aspetto, e si fece nuovamente allegro, mentre le sue mani si strinsero attorno ai fianchi, conferendogli una posa disinvolta.

“Beh, Nadia, stamattina puoi fare un giro, sei libera da ogni attività. Acquaviva è un piccolo paese, ma ci sono tante cose belle da vedere”.

“Davvero?” Esclamò Nadia tornando anche lei serena.

“Certo. Fai un giro nel centro storico e poi vai a visitare l’antica cattedrale, che si trova nella piazza principale. Sono sicuro che ti piacerà”.

Sentendolo parlare di centro storico e di una cattedrale Nadia si rallegrò. Tuttavia rimase ancora lì, immobile. Quell’aula con i banchi, quel giovane docente, il pensiero di un centro storico e di una cattedrale antica le avevano riportato alla mente i suoi giorni universitari terminati da poco, e per questo si sentiva a suo agio. Vito fu lieto di vedere il volto della ragazza più disteso, e decise di troncare lì le comunicazioni.

“Allora, buona passeggiata” le disse, e tornò a curvarsi sui libri mezzi aperti che aveva lasciato cadere sulla cattedra.

Lentamente Nadia si avviò verso la porta, guardando di non far rumore per non disturbarlo. Giunta sull’uscio si fermò e fece come per cercare qualcosa di recondito nella sua mente. Ad un tratto la trovò. Si voltò

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verso Vito e gli disse in un italiano acerbo con forte accento slavo:

“Grazie”.

“Prego” rispose il giovane insegnante sorridendo con soddisfazione. Nadia non capì quella parola, ma ne colse il senso, e sorridendo lo lasciò alle sue ricerche.

Le vie che si diramano dalla Chiesa di Sant’Agostino per giungere nella piazza principale di Acquaviva delle Fonti già brulicavano di vita, essendo pieno mattino. Nadia le percorse con la curiosità di chi sente di essere finito in un mondo alieno. Innanzitutto dovette passare una via strettissima, larga meno di un metro, che dalla Chiesa conduce nel cuore del centro storico. La percorse ridacchiando, al pensiero che Michaela non sarebbe mai potuta passarci in mezzo. Uscita da quella strettoia si ritrovò in una delle molte piazzette che adornano la città vecchia. Le sembrava di essere tornata ai tempi del corso di archeologia, uno dei corsi che più la avevano appassionata all’università. Procedendo per le strette vie della città vecchia, scoprì di girare in tondo più volte. Tuttavia la cosa non le dispiaceva, e ogni volta che comprendeva di aver girato a vuoto, prendeva il fermo proposito di imboccare la via opposta a quella presa in precedenza. Le anziane signore che abitavano le piccole case che fiancheggiavano le anguste stradine si fermavano a guardarla con espressione indagatrice, cercando di capire da quale pianeta fosse sbarcata questa nuova creatura. Anche i ragazzi si voltavano per guardarla, purtroppo non con lo stesso sguardo gentile di Vito, bensì con l’espressione del leone che ha avvistato una nuova e prelibata preda. Questo spaventò Nadia, che si mise a camminare a passo più svelto. I vicoli del centro storico si facevano via via più larghi e spaziosi, e la ragazza comprese di non essere lontana

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dalla piazza principale. Giunse ad una piazzola con degli alberi verdi piantati all’interno di una siepe, e qui decise di sostare per un momento. Un anziano signore, appoggiato al suo bastone, le si sedette accanto, dopo averla salutata. L’uomo cominciò a straparlare in una lingua che non sembrava essere italiano, che nulla aveva della musicalità dell’idioma che si era abituata ad ascoltare in quell’ultimo mese, perciò Nadia ne dedusse che doveva trattarsi di un qualche dialetto locale. Mentre l’uomo proseguiva imperterrito con i suoi soliloqui, Nadia continuava a scorrere la chat con Aleksej. Vi trovò nuovi messaggi. Purtroppo le cose sembravano non mettersi troppo bene. Le forze russe avanzavano, gli equipaggiamenti dell’esercito ucraino andavano esaurendosi. Negli ultimi giorni i messaggi di Aleksej si erano fatti decisamente più cupi. Quella sicurezza della vittoria del suo esercito che sembrava animarlo al principio del conflitto stava lasciando il posto alla preoccupazione crescente, e Nadia se ne accorgeva. Da parte sua la ragazza lo aggiornava sui suoi nuovi spostamenti, ed Aleksej si sentiva rincuorato dal saperla in buona salute ed al sicuro. Le prometteva che quando quell’orrore sarebbe finito la avrebbe raggiunta, ed avrebbero visitato l’Italia insieme. Chiuse le comunicazioni con il suo ragazzo, Nadia ripose nella sua borsa il telefono e si avviò verso quello che sembrava essere l’ultimo tratto di strada del centro storico. Giunse così finalmente in Piazza dei Martiri. La piazza era tutta illuminata dal sole battente. La pavimentazione in pietra, l’imponente cattedrale, il palazzo comunale, il palazzo vescovile, troneggiavano sotto il cielo azzurro, tra le voci dei ragazzini che si rincorrevano, e il rumore dei passi svelti delle signore che tornavano cariche di buste dai negozi di frutta e verdura. Il gelataio della piazza aggiungeva via via nuovi tavolini, per soddisfare le richieste dei molti clienti che intendevano ritemprarsi dalla calura estiva.

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A Nadia tutto questo parve come uno stupendo set cinematografico, appositamente preparato per sorprenderla. Si diresse a passo lento verso la magnifica cattedrale, da poco restaurata, e man mano che si avvicinava le pareva sempre più grande ed imponente. Salì i gradini che conducono al sagrato, e si fermò un istante ad ammirare i leoni stilofori all’ingresso, che sembravano voler scoraggiare chiunque avesse l’intenzione di entrare nel santuario per un mero interesse turistico. L’orario delle messe mattutine era passato, e la chiesa era del tutto vuota, ad eccezione di un anziano signore calvo che armeggiava con delle grosse chiavi seduto di fianco all’ingresso. Nadia si segnò devotamente, e prese a passeggiare sotto i grandi archi della navata sinistra, con passo lento e solenne. Sostò un poco davanti al crocifisso posto accanto alla parete, attratta dallo sguardo sofferente ed al tempo stesso compassionevole del Cristo. Si fermò poi un poco più avanti, sotto l’altare laterale sul quale troneggiava la figura di San Michele. Nadia comprese che si trattava dell’arcangelo per via della posa e della spada, ma rimase stupita dalle fattezze così diverse da quelle orientali, con le quali era raffigurato il guerriero di Dio. Dopo essersi inginocchiata davanti al tabernacolo del Sacramento passò poi sotto la navata destra, ammirando il quadro che raffigurava con ogni probabilità un qualche martire trafitto dalle frecce. Distolse poi lo sguardo e sedette su uno dei primi banchi posti a destra dell’altare maggiore. Godendo il fresco del luogo sacro, Nadia fissava il grande crocifisso sospeso nel vuoto sopra l’altare. Anche quel Cristo era diverso da quelli della sua amata Mariupol.

D’un tratto un’anziana signora comparve dal nulla, alla sua destra, e fu così che Nadia realizzò che c’erano delle scale che conducevano ad una cripta sotterranea. Si alzò e le scese, facendo attenzione a non inciampare nei ripidi gradini di pietra. La cripta era avvolta nella penombra, sebbene

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fosse pieno giorno. Alcune piccole finestre, poste a destra e a sinistra, la illuminavano debolmente. Appena entrata Nadia guardò istintivamente verso l’alto, e la bocca le si aprì, in un’espressione di meravigliata bellezza. Il soffitto basso, riccamente decorato, tripartito da piccole colonne di marmo dipinto, possedeva un fascino tipicamente orientale. La ragazza restò a guardarlo per qualche minuto, esplorandone ogni dettaglio in lungo e in largo. Finalmente posò lo sguardo più in basso. Due bianche statue di marmo, di gusto neoclassico, adornavano un piccolo altare anch’esso di marmo decorato, e la pallida luce che filtrava dalla vicina finestrella conferiva al complesso scultoreo una grazia simile a quella delle stanze del Canova nell’Ermitage. Lo sguardo stupefatto di Nadia si volse bruscamente a sinistra, per via di uno starnuto che ruppe d’un tratto quel sacro silenzio. Non era sola. Un’anziana signora, seduta su di un piccolo banco, sgranava un rosario fosforescente, pregando a voce bassa. Nadia si diresse verso di lei, e giunta lì accanto, si voltò lentamente, per vedere davanti a quale reliquia l’anziana stesse recitando le sue orazioni. La sua espressione di meraviglia si mutò in estasi. Un altare d’argento scolpito, sormontato da sei candelabri appesi, in stile squisitamente ortodosso, ospitava un’icona orientale della Vergine con il bambino, adornati di corone d’oro. Nadia la riconobbe subito: era l’immagine della Vergine che aveva visto sulla parete della sua stanza la sera precedente. Si chinò verso l’anziana donna, noncurante di disturbare la sua preghiera. Indicò l’icona con sguardo di curiosità, come per chiederne il nome.

“Maria Santissima di Costantinopoli” le disse solennemente la vecchia, con voce perentoria.

Nadia comprese, e il suo cuore palpitò. Si sedette accanto all’anziana signora, e restò a contemplare l’icona della Vergine per molto tempo, con

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il viso solcato da un sorriso molto dolce, dal quale traspariva un profondo senso di sicurezza.

Erano le 16:00 meno cinque minuti e l’aula di italiano del centro di accoglienza della chiesa di Sant’Agostino andava via via riempendosi di studenti delle nazionalità più disparate. Anche Nadia vi arrivò, dopo aver passato tutto il primo pomeriggio china sul suo cellulare, chattando con Aleksej. Appena entrata si guardò attorno per scrutare i suoi nuovi compagni di classe, con l’aria seria e severa di chi si appresta a vivere una nuova sfida educativa. In fondo, accanto alla finestra, sedevano tre ragazzi nordafricani, sui trent’anni. Erano intenti a parlare tra di loro nella loro lingua madre, di tanto in tanto prorompendo in fragorose risate. Dalla parte opposta, accanto alla parete, due ragazzini neri con gli occhiali, giovanissimi, scrutavano con grande attenzione i libri che avevano tra le mani, cercando di carpire il significato delle frasi guardando le illustrazioni, e scambiandosi le loro opinioni in inglese, con un’espressione estremamente seria. Più giù, vicino alla cattedra, due ragazze vestite con abiti sgargianti chiacchieravano animatamente in uno spagnolo molto musicale, scambiandosi i telefoni e mostrando l’una all’altra alcune fotografie, la visione delle quali provocava in loro una viva ilarità. Dall’altro lato, sempre vicino alla cattedra, sedeva una ragazza vestita con una T-shirt rossa e una gonna molto leggera dello stesso colore. Se ne stava da sola, con il libro in mano, meditandolo con attenzione, quasi fosse un libro di preghiere. Le sue labbra si muovevano in modo impercettibile, man mano che i suoi occhi scorrevano le righe di un breve dialogo, sotto un’immagine di due ragazzi sorridenti intenti a fare conoscenza. Nadia le si avvicinò, e le chiese in inglese se poteva sedersi lì accanto. La ragazza annuì debolmente, e si scostò

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un poco per farla accomodare.

Alle 16:00 in punto Vito fece il suo ingresso nell’aula, e subito si fece silenzio. Il giovane insegnante dette uno sguardo all’intorno, come per controllare che non mancasse nessuno. Da serio che era esibì subito un sorriso accogliente e domandò nel suo ottimo inglese:

“Bene ragazzi, tutti qui conoscete un po’ di inglese?”

Dai banchi si levò uno “yes” sparso. Quello delle ragazze ispanofone pareva il meno convinto.

“Ottimo” proseguì Vito “Ora vorrei che vi presentaste. Solo il nome e il paese di provenienza ok?”

A turno i ragazzi del corso si presentarono. Le due ragazze venezuelane, Monica e Susana, furono le prime a farlo, in modo piuttosto disinvolto. Seguirono i tre del loggione: Ahmed, dalla Tunisia, Ramzi, dal Marocco, e Mohammed, dal medesimo Paese. James e Jil, rispettivamente provenienti da Congo e Senegal, furono i terzi. Venne poi il turno di Marija, la ragazza albanese che sedeva accanto a Nadia. La giovane ucraina fu l’ultima a presentarsi, esibendo l’inglese migliore di tutti. Come ebbe pronunciato il suo Paese di provenienza, nell’aula il silenzio si fece ancora più fitto. Tutti fissarono lo sguardo su di lei per qualche istante. Vito se ne accorse, e battendo le mani due volte attirò nuovamente gli occhi su di sé.

“Bene ragazzi” proseguì il giovane insegnante con tono deciso.

“Oggi cominciamo un viaggio, un viaggio che vi renderà persone nuove. Nei primi mesi supereremo i livelli A1 e A2. Sono i livelli che permettono di descrivere la realtà. Al termine del livello A2 sarete in grado di interagire con tutto il mondo che vi circonda per soddisfare i vostri bisogni.

Siete pronti?”

Uno “yes” molto convinto si levò dai banchi.

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Indice Biografia di Luca De Napoli 121 Prefazione di Dino Marasà 3 I Racconti: Il mosaico di Otranto 89 La Madonna della Scala 61 Le mummie di Oria 35 La Vergine di Costantinopoli 5

ISBN 9791280343963

Studio Byblos

Publishing House

studiobyblos@gmail.com ‐ www.studiobyblos.com

Palermo ‐Luglio 2023

“Il richiamo dell’ulivo” è una raccolta di quattro racconti tutti ambientati in Puglia. Un viaggio che parte dalla terra di Bari per proseguire tra le province di Taranto e Brindisi, e che termina nel mare del Salento.

L’irresistibile richiamo di queste terre ricche di arte, tradizioni, e cultura attira quattro stranieri nel tacco d’Italia, ed il calore dei borghi antichi li avvolgerà in un vortice di eventi del tutto inattesi. Il fascino della terra degli ulivi traccerà un solco profondo nell’anima dei protagonisti, che in questo crocevia fatto di amori, passioni, sapori e colori marcati e intensi, vivranno esperienze che li segneranno per sempre.

Euro 18,00
Luca De Napoli

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