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L’ETICA DEL MULO
romanzo di
Maurizio Micelli
Studio Byblos
A
mia madre, (che mi ha insegnato a non dare fastidio)
Proprietà letteraria riservata
© Maurizio Micelli
ISBN: 9791282018043
Dicembre 2024
Bisognerà perdonarsi per aver smarrito la vocazione, assumere un portamento degno e rinunciare una volta per tutte a quella vergognosa postura, buona solo per adorare infime divinità.
LIBRO PRIMO
PARTE I
La terra di nessuno
Non c’è dubbio che, indagando nella più profonda intimità del mio essere, valutato obbiettivamente il tenore di vita della mia famiglia, le concrete possibilità che l’avvenire mi riservasse un futuro pieno di successi e benessere, risultassero decisamente scarsine. Alla fine di ogni tentativo di proiezione predittiva, si presentava al mio cospetto un ragazzino gracile e timoroso. Un problematico me stesso schiacciato dalla rassegnata percezione di una ineludibile, incombente mediocrità.
Eppure, qualcosa, in quel campo da tennis, se pur affaticato e impiastricciato di sudore e terra rossa, mi imponeva di crederci fino in fondo, di provarci fino all’esaurimento delle ultime residuali energie. Con quello sforzo quasi disperato, cercavo di affrancarmi dalla condizione di individuo sbiadito e ordinario. Affiorava all’improvviso una prepotente necessità di… superamento.
Cosa sospingesse la volontà fino all’indolenzimento di tutte le parti del corpo al solo scopo di mettere a segno almeno un unico, miserabile, memorabile punto contro un avversario più forte, lo avrei compreso solo molti anni più tardi. All’epoca, mi parve giusto ringraziare la potenza degli sport individuali, di cui la vita si sarebbe rivelata la specialità più impegnativa.
Antonio
“Non saltare, non saltare.”
Ripeteva questo ammonimento di continuo. Antonio, il mio primo maestro, il mio migliore amico.
Ma cavolo, ho visto anche Federer saltare per colpire la palla nel punto
L’etica del mulo
giusto della racchetta. In realtà non avevo il fiato né la mobilità per spostarmi di continuo sul campo da tennis, saldare i piedi per terra, assumere la corretta posizione e colpire la palla con forza e precisione, aspetto fondamentale in quello sport.
Antonio, più grande di me di sei anni, il mio romanzo di formazione vivente. Mi insegnava il tennis, la buona musica, il gusto per la cultura.
M’intimidiva con consigli ripetuti all’infinito, tanto per imporre la sua superiorità, credo. Forse voleva solo essere “il maestro”. Entrambe le cose probabilmente.
Era un caro amico, stronzo quanto basta.
“Guarda che non sono Margherita.”
“L’importante che non mi diventi capricciosa.”
Mi fulminava sempre con una battuta folgorante, velocità della luce.
“Ok. Ci sto. Vedrai!”
Avrò avuto diciotto anni, mi ero appena emancipato da un bar di quartiere, abbastanza sgangherato da risultare utile come palestra di vita.
Era nei pressi di casa, i miei mi consentivano di scendere per giocare a calciobalilla. Roba seria, non scherziamo. Sfide infinite finite a botte. Tornei con gli altri bar, orgoglio egocentrico dei grandi giocatori che mi consideravano una riserva di lusso, convocabile all’occasione. Un onore per l’epoca.
Mi spiaceva solo che quei grandi bevitori di birra, raccontatori di balle, e imprese tanto improbabili quanto autoglorificanti, che incrementavano la narrazione epica in progressione geometrica e proporzionata al tasso alcolico, non mi avrebbero mai insegnato come diventare classe dirigente del paese.
M’insegnarono piuttosto a disprezzarla. Avevano i morsi del disagio sociale sulla schiena, rimediavano come potevano.
A quei tempi, non ci avrei scommesso un gettone del calciobalilla, ma su certe cose, espresse in “dialetto sporco”, corredate da parolacce e sen-
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tenze, avevano ragione.
Avrebbero avuto ragione, altroché. Molti anni dopo, avrei scoperto quanto l’istinto poteva analizzare efficacemente, questioni che la ragione elaborava qualche volta, in maniera piuttosto leziosa.
Se avessi parlato loro di Bergson e di Intuizionismo, non mi avrebbero mai più invitato a giocare a biliardino. Ma tanto non correvo rischi. All’epoca non avevo idea di chi fosse Bergson.
L’istinto, coraggioso avamposto della prudente ragione!
Decidevo istintivamente, appunto, di correre a rete, non facevo mai in tempo. Antonio, tutte le volte, m’infilava con un passante. Bisognava correre più in fretta, conquistare la rete subito, sennò la palla ti sorpassa, batte nel tuo campo e… punto perso. Putt...
“Sei in mezzo al campo, nella terra di nessuno.”
Me lo ripeteva sempre, stramaledetto amico mio. Aveva ragione.
Quell’idea di abitare una situazione intermedia mi avrebbe ossessionato diverse volte nella vita. Antonio, Il primo maestro.
“Ma non lo sai che prima o poi l’allievo...” Accennai timidamente.
Antonio mi guardò per fulminarmi con accondiscendenza ostentata, sotto intendendo commiserazione, provando ad intimorirmi solo per averlo pensato.
“Non lo sai che prima o poi l’allievo... diventa seppia? Cosa credevi?”
Battutona, seguiva sganasciamento e pranzo dai i suoi. Amicizia salva.
Lo adoravo, ero certo che lui sarebbe diventato classe dirigente del paese e avrebbe aiutato pure me a ricavarmi un posto al sole.
Ma il maledetto giocava bene anche a calciobalilla.
Diversi anni più tardi
Antonio diventò uno scrupoloso avvocato, io disegnavo case e giardini.
Conquistare una laurea che implicasse la possibilità di uno status pre-
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stigioso, era stato il mio personale riscatto. collaboravo con Flavio, interior designer. Col tempo cambiano le frequentazioni, le amicizie, quelle formative restano, anche se in certi momenti sembrano evaporare. Invece sono lì, pronte a riaffiorare con tutto il carico di dorata nostalgia.
Avevo trascorso insieme a lui gli anni dell’adolescenza, lui già studente di giurisprudenza, io ancora al liceo.
Partite a tennis, lunghe conversazioni nella sua Diane 6 risalente agli anni ‘70. Il nostro meraviglioso catorcio.
Restavamo a discutere fino all’alba, facevamo progetti, parlavamo di tennis, filosofia, musica. C’era lealtà, amicizia vera, quella che ti fa dire: “puoi contare su di me per sempre”, e anche: “nessuna persona al mondo sa di me le cose che sai tu”.
Quando partii per Roma per studiare architettura nella città più importante al mondo per patrimonio architettonico culturale, ero pieno di speranze e voglia di scoprire nuove realtà.
Sentivo però la mancanza del mio amico come una stilettata nel fianco. Sentivo la mancanza di sua madre, una fata dolce, capelli candidi, sembravano diamanti, mi pareva circondata da un’aura azzurrina, come gli occhi carichi di dolcezza. Mi trattava come un figlio.
Il papà di Antonio, un generale in pensione, proveniva da una prestigiosa famiglia di alti ufficiali leccesi.
Quell’uomo era l’essenza stessa della serenità. E, nonostante la formazione militaresca, appariva come l’idea più lontana possibile dal concetto di bellicosità.
Aveva fatto la guerra, ne portava le conseguenze che si sarebbero aggravate nel tempo.
Tornato miracolosamente dal campo di concentramento di Sandbostel, viveva con pienezza la gioia e la quiete della vita famigliare. La trasmetteva anche a me. Aveva fatto il suo dovere. La pace e la gioia dei figli e della moglie non potevano essere più meritati.
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Credo che il generale dovesse affrontare, come tutti i padri del mondo, l’irruenza, le intemperanze e i casini generati dai figli adolescenti. Avevo la sensazione che il senso paterno e del dovere, gli consentisse di affrontare certi patemi con una rarissima capacità. Una sorta di comprensiva determinazione.
Sono certo che in cielo ci sia un gran bel posto, dove certe esistenze possono continuare a dispiegarsi come nella vita terrena. Con l’unica differenza che l’azzurrino di mamma Lisa, starà certamente permeando tutto l’ambiente circostante.
Pranzavamo, eravamo in cinque a tavola: Antonio, i genitori, il fratello maggiore e l’altro figlio: io.
Il terzo, il minore, si era già sposato anticipando i fratelli più grandi.
La loro casa di campagna era un rifugio di benessere e gioia famigliare nella quale mi sentivo totalmente a mio agio.
Quei genitori erano la rappresentazione vivente della coppia che si adora per tutta la vita. Una devozione reciproca che in questo racconto può sembrare uno stratagemma narrativo, ma è così aderente alla realtà, che prima di pubblicare, dovrò chiedere autorizzazione ai figli per i riferimenti specifici che sto utilizzando. Non ci fu una volta in cui, arrivando all’improvviso, mamma Lisa mi facesse sentire ospite, apparecchiavamo tutti insieme, esitavo sempre nell’aggiungere il mio coperto. Papà Ràul mi guardava, sorrideva, lo aggiungeva lui “il posto a tavola.” Antonio non preavvisava mai, né arrivando diceva:
“Michele oggi mangia con noi.”
La mia sola presenza implicava la permanenza per il pranzo.
Ero un ragazzo timido, ma tanta ospitalità non poteva che essere l’estensione della gioia di essere famiglia. La mia seconda famiglia. Gli anni passano in fretta, succede sempre quando aneli al futuro.
Che sciocchezza!
Antonio confessò che fare l’avv. ed essere scrupolosi era divenuto un
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ossimoro. Lo chiamavo così:
“Ehi avv.”
Rispettatissimo in tribunale, dal presidente, dal cancelliere, da tutti, insomma.
Subiva la smodata bramosia dei clienti, che volevano vincere a tutti i costi, che avessero ragione o no era solo un dettaglio. L’Iocrazia imperante, non teneva in alcun conto la possibilità di perdere la causa.
“Avvocato, ma si rende conto che il tribunale ha dato ragione a quella gentaglia?… La legge li tutela, la legge li tutela, una legge del cazzo, evidentemente...
E lei pure, avevo dei testimoni, amici affezionati, ma lei non li ha voluti... non ho capito per chi lavora.”
Anche i colleghi gli apparivano come svuotati, privi di ogni decenza, accompagnavano questa trasformazione da esseri umani in vampiri. Accettavano di tutto, testimoni di comodo e soprattutto soldi, soldi, soldi. Certo… nessuno lavora gratis, ma insomma...
“Li puoi fermare in un solo modo”, disse Antonio, “infilando nel loro cuore un bel paletto di frassino”
Non aveva perso l’humor, ma lo smalto sì. Era in poltrona, la solita figura di autorevole imponenza non mi pareva più la stessa dopo la dieta forzata e la rinuncia alla pipa.
“Antò, io riparto, ci troviamo lì, tanto.”
Lui in provincia, io nella poco rassicurante metropoli, non faceva alcuna differenza.
La svolta antropologica prevedeva varie declinazioni della stessa avanzante mediocrità.
Anche a diverse centinaia di chilometri di distanza, sia io che lui eravamo finiti, chi lo avrebbe mai detto, nella terra di nessuno.
Quel valore medio che si espandeva sempre di più nella società e dal
quale era impossibile sfuggire. Circostanza in cui perdi il punto a tennis, i parametri etici e l’identità. Cominci a non piacerti affatto e rischi di scivolare nell’autocommiserazione.
Ti guardi intorno cercando punti di riferimento, ma la palla ti ha già superato.
Nuove generazioni arrembanti avanzano come un esercito compatto, intente a contendersi il prossimo centimetro quadrato di potere, a ridosso dell’obbiettivo, ognuno per sé e botte da orbi.
Sindrome della monade, trionfante egocentrismo privo di qualsiasi senso sociale. Possibilità alternative non sono contemplate. La società li aveva preparati a questo, anzi, ci… aveva preparati a questo.
La storia personale degli individui che costellavano quella generazione, era come un foglio bianco sul quale, parafrasando Marx, lo spirito del tempo stava scrivendo il suo racconto.
Il nuovo che avanza.
Bisognava pur campare. Anche brillare, perché no, senz’altro ostentare. “Papà aveva fatto di tutto per vedermi dottore”. Aveva passato la vita tra rinunce e testa bassa. Ma io, Pinuccio, la testa la potrò finalmente sollevare. Orgoglio e riscatto delle nuove generazioni.
Quando entro nei negozi io, adesso, infatti, mi fanno lo sconto. Se non mi riconoscono, trovo il modo per ricordar loro chi sono. Anche se spendo solo dieci euro, debbo sentire il rispetto. Non è per i soldi, ci mancherebbe, ma… la classe... non è acqua.
“Uarda, uarda Pinucciu, lu figghiu ti lu curnutu mo faci lu mietucu... nne ccisi cristiani!”
“Guardalo Pinuccio, il figlio del cornuto” (parlavano di Cchino, Francesco).
La moglie, notoriamente, la prestava a tutti. Sì, la prestava. Se non
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gliel’avessero ridata indietro, come avrebbe potuto poi prestarla ad altri.
“La mugghieri la ‘mpresta a tutti, poi nci la tannu anggretu, cussì la ‘mpresta arretu.”
E parlando sempre del figlio del cornuto, aggiungevano: “Adesso fa il medico... ne ha ucciso di gente.”
Francesco, (Cchinu), sempre ubriaco, aveva delegato alla moglie la gestione della famiglia. Famiglia numerosa, parentela diffusa, si supponeva. Lei, povera donna ambiziosa, voleva almeno uno dei figli laureato.
L a u r e a t o! Entrando nei negozi sarebbe stato ossequiato da un piccolo sconto. Sono soddisfazioni.
Seduti fuori dal bar, nella mezza stagione, raccontavano di essere stati tutti, almeno una volta, da Ester, la moglie di Francesco, o Cchinu, se preferite. Non tanto per il gusto di lei, ma quanto per il gusto di sfottere Cchinu. Per quanto, oramai, quell’uomo, fosse “inumiliabile”.
Dubitavano di quei professionisti del domani, frutto di famiglie disgraziate e incolte. Ma intanto si spaccavano la schiena per mandare i propri, di figli, all’università.
Bisogna sempre individuare qualcuno che sta peggio, che sta sotto, per tirare a campare. Dare corpo alla stessa propria profezia che la futura classe dirigente del paese sarebbe stata poca cosa, “Tranne Giovanni mio, che piglia quasi tutti trenta.”
La birra da tre quarti, ingurgitata a canna, dava una piacevole leggerezza, confortava nell’intimo le intuizioni formulate in anticipo sugli anni a seguire, relativi alla società prossima ventura. Conferiva consistenza ebbra a quella predizione.
Erano gli anni Ottanta del ventesimo secolo, in quei bar, operai, muratori, piccoli artigiani, sarebbero scomparsi.
Invecchiando si sarebbero rifugiati all’ombra prestigiosa conferita dai figli, oramai affermati professionisti. Rispettati, nonché fruitori di sconti di rispetto nei negozi. Quella antropologia sarebbe stata sostituita da piccoli 16
spacciatori, tossicomani, gente violenta, balordi di varia pericolosità. Gli artigiani e i contadini iniziavano ad eclissarsi, il disagio sociale diventava più duro. Credo che tra le due cose ci fosse un rapporto ben preciso; l’irruenza di certe connotazioni sociali sarebbe divenuta inarrestabile.
Un differente senso della collettività guadagnava terreno, lasciava spazio ad un mondo sempre meno solidale, più competitivo, in realtà più impaurito e violento.
La realtà contadina, sobria e risparmiosa, sarebbe stata sostituita dalla (in)civiltà dei consumi, che avrebbe finito per svuotare identità radicatesi in secoli di duro e coscienzioso lavoro e obbligo di decenza.
La gente semplice percepiva la propria stessa identità nel vivere e operare a regola d’arte, tenere alto il senso del dovere. Le nuove generazioni avrebbero invece incaricato lo status economico e i cosiddetti status symbols di rappresentarli quali ambasciatori della loro, di identità. Alcuni di gusto veramente pacchiano. I nuovi apostoli della avanzante società dovevano misurarsi con forte spirito di competizione. Occorreva gente tosta, preparata, sfidante.
Giovani capaci e arrembanti, avrebbero vissuto tra scienze sociali applicate alla psicologia dell’acquisto e l’obbligo di performare. In compenso avrebbero ottenuto camicie cucite su misura con le cifre griffate a mano.
Alla fine, i grandi giocatori di biliardino, bevitori di birra, raccontatori di balle avvolgenti, avevano visto giusto.
Azzeccato il futuro. E Mestru Ginu, Maestro Gino, rifinito ebanista, spaccava i piatti e tutto ciò che trovava a portata di mano quando il suo Giovanni non superava un esame.
Aveva sentito parlare di amici del figlio che falsificavano il libretto universitario.
“Giovà, fai una cosa del genere e ti taglio la lingua con la ronca. Meglio un diciotto, meglio di tutto la verità.”
Giovanni accettò il diciotto in Biologia molecolare e Mestru Ginu
18 L’etica del mulo
spaccò lo stesso tutto ciò che gli capitò sotto tiro.
La solfa era cambiata, l’ascensore sociale era in piena attività, la lotta si prefigurava più dura.
Occorreva arrivare prima e meglio attrezzati degli altri. Poi, dopo tutta quella fatica, una volta giunti alla meta, nessuno di loro si sarebbe sognato di mettere in dubbio quel sistema sociale.
Ci mancherebbe. Fottere qualcuno? Ma dai, ci sta, e se non lo faccio io lo farà qualcun altro. E, d’altra parte, se non lo faccio, a questo punto, che faccio?
Faccio ciò che mi viene richiesto, e faccio pure tanti soldi.
Viaggio tanto, scendo in hotel di lusso, tutto pagato, riunioni in prestigiose meeting room di grandi alberghi. basta non parlare mai di deontologia. Le gratificazioni e le coccole aziendali arriveranno in automatico.
Quando siamo a Milano, dopo cena, facciamo una scappata a Mendrisio, accogliente cittadina in territorio svizzero a pochi chilometri a nord di Como.
Colleghi allegri col vento in poppa mi trascinano oltre confine. M’insegnano a vivere.
“E dai Giovanni, muoviti, vieni con noi.”
Un bel locale, si stuzzica, si beve qualcosa serviti da giovani ragazze, belle e disponibili. Basta pagare.
Qui non c’è il bigottismo nostrano, ci si diverte, si spende un po’, ma... ne vale la pena. E, visto che oramai sono bravo, porto utili alla mia azienda, nel modulo di trasferta metto pure le spese di quella serata diversiva.
Tanto pagano. Pagano tutto. Fanno finta di nulla, barro la voce “Pubbliche relazioni”. Eccerto... che ne sapete... ho offerto un aperitivo ad un cliente che farà un ordine strabiliante... ho tutto sotto controllo. Non si temono imprevisti. Crescono le variabili in gioco? Bene, mi diverto di più, sono una bestia, un mostro di efficienza, dinamismo, lucidità.
Dio... è tutta vita.
Poi, i baroni della medicina, i direttori e i presidenti delle aziende sanitarie, iniziai a portarceli sul serio, sembravano apprezzare parecchio la Svizzera e la sua cultura. Sembrava che la realtà si piegasse alle mie intuizioni. Che portentosa sensazione di... beh sì... di quasi onnipotenza.
“Papà, sto bene, tranquillo.”
“Lavori sodo, almeno?”
Mestru Ginu pensava al lavoro sodo degli artigiani, quindi raccomandava e insisteva su valori che conosceva.
La notte prima, a Mendrisio, Giovanni aveva giocato di brutto, come mai si sarebbe immaginato nella vita. Che mondo fantastico. Altro che fare il falegname. Grazie papà per avermi sostenuto, sospinto e anche minacciato pur di vedermi laureato.
Mestru Ginu, voleva sapere se ai suoi sacrifici, rispondesse un’adeguata profusione d’impegno da parte del suo Giovanni.
“Insomma, Giovà, lavori sodo o no? Rispondi!”
“Papà,” rispose Giovanni, oramai laureato in biologia e informatore medico scientifico o “venditore di medicine”
“Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.”
Questa frase, non proprio chiarissima, tranquillizzò comunque maestro Gino. Confermava la grande determinazione e la grinta del suo Giovanni.
Chiamò la moglie, ordinò del vino con la sparacina. Mestru Gino poteva premiarsi. Il ciuffetto della pianta di finocchio infilato sopra la bottiglia, da bere a canna, conferiva gusto al vino rosso di pessima qualità.
Se ne fece un litro e andò a riposare. Non era più un ragazzino.
Inebriato dall’alcol e dalla promettente carriera del suo Giovanni, si appisolò, sorridendo nel sonno.
L’etica del mulo 21
La capitale
Io e Flavio, non riuscivamo ad evitare la tentazione di stravolgere i desiderata dei parvenus. C’era gente che in giardino voleva il Pachamama e, poco più in là, un simbolo fallico. Dovevo disegnarlo io e poi parlarne col giardiniere per specificarne i metodi di realizzazione.
Ma vaffanculo! Di’ a tua moglie di dettagliare la forma fallica al giardiniere, se dovesse pensare ad una avance, beh... sappiate che, col rispetto di tutti, io sono estremista etero.
Non ero più il ragazzo timido cresciuto in provincia, figlio di un professore di filosofia, protetto da un amico più grande e più disinvolto.
D’altra parte, anche Antonio, il mio grande amico, si lamentava che in provincia, l’ambiente forense e della giustizia in generale, fossero in pieno degrado. Non aveva idea di ciò che succedeva nella capitale. Arrivismo amorale. Faccendieri operanti intorno alla corte, brulicante di cortigiani e cortigiane, tutti privi di nobiltà.
La Signora e lo Springer Spaniel
La signora non ebbe nessuna difficoltà a spiegare al prestante giardiniere cosa desiderassero, lei e il marito. Soprattutto lei.
Padrona di quella villa hollywoodiana e giardino da Ancien Regime. Vestita di nulla, raggiunse il punto del giardino dove andava riprodotta la Pachamama e il punto dove andava riprodotto l’organo genitale maschile.
“Veda Nico, mio marito ha una grande azienda, dà lavoro e reddito sicuro a molta gente che si sposerà e procreerà le nuove generazioni; per questo vogliamo rappresentare la madre terra e tutto quanto la natura ha fornito allo scopo.”
22 L’etica del mulo
Il concetto veniva espresso dalla padrona al giardiniere come in un filmetto soft porn degli anni Settanta. Evitava però di specificare che il marito, grazie alle leggi sul lavoro di recente introduzione nel nostro paese, assumeva giovani nella sua industria di smaltimento rifiuti, speciali e no, per soli sei mesi;
poi li sbatteva fuori, li sfruttava al massimo, giocando con le speranze di quei ragazzi, desiderosi di uno stipendio, di stabilità e di una prospettiva di vita.
Probabile che la signora non ne fosse al corrente. Probabile che si abbeverasse alla fonte della narrazione che il marito le propinava, e alla gioia di uno status economico che non avrebbe mai potuto immaginare ai tempi in cui faceva l’entraineuse in locali di grido frequentati dall’attuale coniuge, uomo da tempo abituato alla bella vita e ai locali di classe.
Almeno così li consideravano entrambi. Sia marito che moglie.
Il suo ricco industriale, avrebbe assunto altri giovani speranzosi, li avrebbe sfruttati e sbattuti fuori ancora.
La precarizzazione del lavoro introdotta in Italia, in nome del lavoro... glielo consentiva.
Se le aziende saranno libere di licenziare, allora assumeranno.
Potenza dei paradossi. Retorica di quart’ordine. Cui prodest?
Di certo non dispiaceva a quell’Areopago finanziario che dettava l’agenda politica a tutto l’occidente, di cui il nostro Paese rappresenta il ventre molle.
L’idea che il lavoro potesse produrre nuova vita, in fondo, non faceva una grinza, se si esclude quella… piccola omissione, sulla tipologia dei contratti di apprendistato che non sarebbero mai diventati a tempo indeterminato.
Tuttavia, l’argomento, espresso dalla signora, assumeva particolare credibilità. Specie quando la stessa eseguiva lo stracollaudato passo della pantera, che si allontana fatale e sinuosa, che volta la testa, sorride.
E tu, giardiniere, resti lì, un po’ intontito.
Ti sbranerò in altra occasione, sembrava avesse detto ancora lei.
“Prego signora?
“Nulla, non ho mica detto nulla.”
Eppure, Nico, il giardiniere, ci avrebbe giurato.
Tranquillo Nico, sono solo incanti dal mondo di mezzo.
Il dottor... ehm… sì insomma, il dott. Masiello, padrone di tutto, signora e giardiniere compresi, si materializzò di colpo.
Faceva così. Aveva un talento innato per esserci senza esserci e non esserci essendoci. Difficile da spiegare, mi rendo conto, ma aveva fatto fortuna in quel modo.
Pancia e panciotto, orgogliosi l’una dell’altro, avanzavano contendendosi la scena. Felici di ospitare quell’essere smodatamente ricco e percepibile ad occhio umano, solo dopo aver superato l’altezza siepe.
“Amoree! “ gridò alla moglie, più per rassicurarsi che per sentimento, “vedo che hai la situazione in pugno. Brava. Ti piace il nostro giardino?
E l’amico Michele... vero che è un bravo architetto?”
“Non sono amico tuo, stronzetto. E non ho insidiato tua moglie, se è questo che vuoi sapere. Tranquillo!”
Questo in realtà non lo dissi. Non ero più il ragazzo timido di provincia e... ah già, questo l’ho già detto...
“Michele, amico mio!”
“Ancora co... ‘sto amico, devi pagare, sono qui per i soldi, mica per te.”
Neanche questo dissi. Non ero più… va bene, va bene, non ripeto...
“Carissimo dottore Masiello, noi abbiamo finito.” – Esordì.
In effetti ero diventato un po’ più scafato.
“ I progetti sono nelle mani del giardiniere e dell’impresa di costruzioni. Verrà tutto come desiderato. Ora si che può accreditare quanto pattuito.”
24 L’etica del mulo
“Ma io lo avrei fatto prima, lo sa, sulla fiducia.”
Lo gnomo mi aveva messo alla prova, se avessi solo pensato di accettare i soldi prima, non solo non avrebbe sborsato un centesimo, ma avrebbe ingaggiato altri per completare il lavoro.
Ero più furbo dei furbi? Ma no... avevo solo imparato a pensare… in piccolo. Un salto di qualità notevole, in certi contesti. Quanta fatica però. Fesso io. Non pensavo che la mediocrità del mondo potesse ferire così tanto.
“Quando l’ombra dei nani si allunga, vuol dire che è giunta l’ora del tramonto!”
Vecchio proverbio cinese, che adoro per la sua carica simbolica e la sua potenza icastica.
Flavio
“Cosa ci vai a fare a quella conferenza?
“Non lo so, Flavio, voglio distrarmi con altro.”
“Ma non ti servirà mai, né per il nostro lavoro, né per il tuo altro.”
“Per questo ci vado.”
Flavio s’indispettì per la mia risposta. Oddio, lui s’indispettiva facilmente. Infatti, replicò a modo suo.
“Ma che risposta è…? “
Lasciai perdere, a Flavio bisognava lasciare l’ultima parola, e io gliela lasciavo volentieri.
Trascorsero quindici miserabili giorni, e, come avevo previsto, Masiello ci riconvocò.
Conoscevo quelle bestie; non mollano mai.
Flavio continuava a sottovalutarlo. Lui, non so per quale assurdo meccanismo mentale, temeva solo gli uomini... per così dire... fisicati, capaci di forza fisica, insomma.
mani malferme, ma dovevo terminare il lavoro. Potevo concedermi tutto il tempo che il tempo mi avrebbe concesso.
I lunghi anni vissuti in masseria, mi avevano insegnato che la lentezza diventa scrupolo e la vita dignità. Che la morte, prima del suo miserabile trionfo, si dovrà inchinare, almeno per un momento, al cospetto di un uomo inadeguato, trasformatosi in un mulo.
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