IDA VENTURI - LA MADRE, LA BELLEZZA

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LA MADRE, LA BELLEZZA

La bellezza è un’emozione che trova la sua genesi nelle tracce delle memorie inconsce lasciate dagli occhi e dal volto della madre.

Ida Venturi

Ida Venturi

LA MADRE, LA BELLEZZA

Uno sguardo femminile sulle emozioni estetiche

La bellezza è un’emozione che trova la sua genesi nelle memorie lasciate dagli occhi e dal volto della madre

Studio Byblos

In memoria di mia madre la cui bellezza ha ispirato questo saggio.

Ai miei figli ed ai miei nipoti riflesso della sua bellezza

Proprietà letteraria riservata

© Ida Venturi

ISBN: 9791282018098

Novembre 2024

Prefazione

Dalla bellezza di mia madre che ha stupito i miei occhi di bambina, dall’intensità degli affetti e delle emozioni, dalle suggestioni da essa suscitate, ha preso avvio questo saggio.

Un saggio che nel parlare della bellezza e della sua forza evocativa si incammina nei luoghi della psicologia e, timidamente, si affaccia in quelli del mito, della filosofia e dell’arte.

Ma è appropriato, è lecito parlare di bellezza in tempi come quelli attuali in cui il male e la violenza sembrano sommergere gran parte del mondo? È davvero possibile o solo futile distrazione?

Ponendomi l’interrogativo, non resisto alla seduzione di introdurre il mio discorso con le parole attraverso cui Francoise Cheng, scrittore e poeta, ha aperto, nel 2007, la prima delle sue cinque meditazioni sulla bellezza:

“In questi tempi di miserie onnipresenti, violenze cieche, catastrofi naturali o ecologiche, parlare di bellezza può sembrare incongruo, sconveniente e persino provocatorio. Quasi uno scandalo. Ma proprio per questo, si vede come, all’opposto del male, la bellezza si colloca agli antipodi di una realtà con la quale dobbiamo fare i conti.” (1)

D’altro canto, anche il filosofo Theodor W. Adorno, in alcune sue considerazioni, ha sottolineato quanto l’esperienza estetica implichi una separazione, comporti una presa di distanza da una realtà intollerabile per consentire un momento di liberazione e di antitesi rispetto all’esistente. (2)

Confortata da queste riflessioni ho volto lo sguardo verso quel “vasto mare del bello” al cui interno, riecheggiando Platone, le idee del vero, del buono e del giusto hanno dimorato per secoli. Al cui interno, dall’antichità

fino al medioevo, è stata colta la presenza del richiamo verso una dimensione in grado di oltrepassare il livello reale per elevarsi all’assoluto e al trascendente. Un richiamo che, in età moderna, la nuova disciplina dell’Estetica ha orientato sulla sfera sensibile-percettiva. Vale a dire su quelle esperienze umane in cui a risvegliare l’emozione della bellezza saranno le sensazioni, il gusto, il sentimento del piacere ed il libero gioco dell’immaginazione e dell’intelletto.

Poi, nel soffermarmi su ciò che asseriva la filosofia antica, ho preso in considerazione quel fenomeno in virtù del quale la bellezza sa farsi immagine ricostitutiva di qualcosa di perduto, di spezzato. Ho riflettuto su quanto sappia predisporre ad un ricongiungimento, ad una ricomposizione con un originario senso di unità e con vissuti di compiutezza.

E, rammentando Agostino d’Ippona secondo cui la bellezza delle cose create pur non appagando pienamente il cuore umano sa suscitare in esso un’arcana nostalgia, ho intuito come un desiderio struggente per un passato che non è più possa, attraverso la bellezza, essere risvegliato. Ho intuito, insomma, come essa sappia evocare quelle atmosfere, quei momenti della vita in cui tutto sembra aver preso forma all’insegna del sentimento della perfezione.

Così com’è stato narrato in ogni forma di Paradiso. Così com’è stato vissuto, per dirla con Baudelaire, nei luoghi del “verde paradiso dei giardini d’infanzia”. Luoghi al cui interno il corpo della madre ha custodito in sé il nucleo più intimo della nostra identità e dove emozioni ed affetti non esprimibili in parole hanno annullato ogni bisogno ed ogni differenza. Dove tutti hanno sperimentato quella meravigliosa condizione di pienezza e di integrità che l’attività psichica, misteriosamente, ha saputo, poi, trasformare in “bellezza”.

Dato che molte evidenze psicoanalitiche sembrano indicare che la nostra sensibilità estetica sia in relazione ad esperienze emozionali che hanno assunto la forma della bellezza proprio grazie “all’oggetto primario”. Grazie alla madre, la cui immagine rimanda a quel senso d’armoniosa e uni-

taria totalità vissuto nel mitico tempo delle origini. Uno stretto legame unisce il mistero della bellezza al mistero dell’esistenza. E le donne, di quel legame, sono lo snodo, sono la cerniera. Per questo, il cuore del presente lavoro, pur senza ignorare le molteplici declinazioni del bello, è abitato dal femminile. Perché le donne, con il loro essere generatrici di vita (per essere tali non è indispensabile partorire figli quanto alimentare, in ogni suo aspetto, la vita), per le loro capacità di promuoverla, diffonderla e custodirla, della bellezza rievocano le componenti originarie.

Nella prima parte del saggio, sorretta da una visione evolutiva, ho accennato a quell’affascinante fenomeno per cui uno dei fattori determinanti per “l’emergere della mente” sembra sia collegato alla singolare capacità, posseduta dai nostri progenitori, di aver saper saputo manifestare i loro nascenti pensieri in forma simbolica ed estetica. Ricordandomi poi come Darwin, nel suo mirabolante viaggio fosse, tra l’altro, rimasto colpito dalla grande quantità di energie spese dagli individui da lui osservati al fine di poter conquistare la bellezza corporea, ho descritto quanto il desiderio dell’attrattività fisica sia stato, dalle epoche più antiche fino ai nostri giorni, fenomeno presente in tutte le società. Ma al pensiero greco al cui interno la figura umana ha testimoniato un desiderio di perfezione sia nel corpo che nello spirito, al pensiero greco che ha visto il corpo non solo come veicolo di vita, ma di bellezza, ho riservato uno spazio particolare.

Poiché grazie a quel sentimento per cui, davanti al bello, si prova una sorta di richiamo divino, e grazie ad Afrodite, rappresentazione inconscia dell’immagine primordiale di bellezza, i greci hanno intravisto un piano di realtà ulteriore a quello sensibile.

Infatti, tramite lo stupore destato dalla dea la cui bellezza è simbolo dell’archetipo femminile dell’amore e della creatività, i Greci, per dirla con l’immaginale visione di James Hilmann, hanno realizzato come il “divino” potesse essere “visto e udito, odorato, gustato e toccato”.

D’altronde, attraverso il patrimonio visuale fornito da reperti archeolo-

gici provenienti già dal Paleolitico superiore, sono ben note le concezioni che sostengono fortemente l’ipotesi secondo cui nella preistoria la presenza femminile, per il suo rimandare alla potenza creatrice dell’universo, abbia costituito un momento rivelativo del divino.

Ho dato, pertanto, una particolare enfasi alla narrazione della Grande Madre. Ho indugiato sulle monumentali figure della maternità primigenia descrivendo i diversi nomi ed i diversi aspetti di quell’unica “Dea” che ha regnato nell’Europa antica. Ho mostrato, insomma, come le “Grandi Madri” siano state indiscusse protagoniste di culti e di vicende mitologiche in cui corporeità e bellezza hanno avuto, senza dubbio alcuno, un ruolo fondamentale.

La figura femminile, potenziale generatrice della vita e del senso del bello alla vita connesso è stata, nel saggio, messa in rilievo anche tramite le chiavi interpretative suggerite dalla antropologia e dalla psicoanalisi.

Nell’ambito delle concezioni elaborate da Ellen Dissanayake, l’antropologa che ha collocato il dischiudersi dell’esperienza estetica ed artistica in seno alle primissime interazioni tra genitori e figli, ho brevemente illustrato come, in ogni epoca ed in tutte le culture, le madri, mediante i loro gesti giocosi e mediante i loro comportamenti soffusi da profonde capacità empatiche, abbiano contribuito a gettare il seme dell’immaginazione creativa in ogni nascente psiche.

Volgendo il pensiero alla psicoanalisi ho, poi, introdotto l’idea visionaria di Donald Meltzer per il quale la nascita dell’esperienza estetica aprirebbe la mente del bambino alla conoscenza. Secondo l’autore, infatti, grazie ad una innata ed umana competenza, il neonato scoprirebbe la bellezza del mondo proprio in seno all’attrazione incantata che il volto della mamma sa suscitare in lui. Ma quel volto, nel dire dello psicoanalista, desterebbe nel piccolo anche il primo dilemma cognitivo in quanto, ella, gli apparirebbe bellissima ed, insieme, enigmatica.

Non stupisce, certo, che Salvador Dali abbia sottotitolato con la frase “Mia madre, mia madre, mia madre” una delle sue principali opere.

“L’enigma del desiderio”. E non è certo a caso che Freud abbia attribuito agli appassionati moti affettivi rivolti dal bimbo alla mamma una forza tale per cui, ogni altro successivo desiderio, avrebbe significato la reiterata domanda di quel primo, impossibile amore. Tanto che, all’interno della psicoanalisi, la nostalgia sarebbe divenuta significante del bisogno frustrato di ritorno alla madre.

In virtù di quella nostalgia, ho sostenuto come il desiderio di ritorno allo stato fusionale degli inizi pur accomunando uomini e donne sia, da quest’ultime, percepito con intensità tutta particolare. Poiché, l’essere depositarie della stessa matrice corporea e sessuale della madre rende le donne più inclini al bisogno di ricongiungersi con quel vissuto di armoniosa totalità delle origini. Rende le donne più inclini al sogno di poter trovare, nella bellezza, quella meravigliosa condizione di felicità sperimentata in seno al paradiso, ormai perduto, della relazione primaria.

Nella parte centrale del saggio, la bellezza colta dalla vista, dal più “acuto dei sensi” permessi al nostro corpo, è stata suggerimento per constatare come il bello congiunto allo sguardo sappia accogliere una dimensione che nel medesimo tempo racchiude in sé immaginazione, fantasia, pensiero ed affettività.

Nel parlare dello sguardo maschile e riflettendo sulla sua valenza penetrativa, ho ipotizzato che le donne, prima di averlo tanto desiderato quale conferma alla loro avvenenza possano, in realtà, averlo temuto. In merito allo sguardo femminile ho accennato, anche grazie alla narrazione del mito, al suo immenso potere. E, nell’introdurre il tema relativo allo sguardo che il “sociale” ha proiettato sul genere femminile, ho ricordato come tale sguardo abbia recato con sé dinamiche tali per cui, le donne, sono state incluse in un’organizzazione di legami che ha assegnato loro, in modo perentorio, il dovere di “essere belle”! Considerando il controllo di genere che da tale imperativo è scaturito ho sottolineato quanto “quel dovere” abbia, nel femminile, assunto spesso il volto dell’imposizione all’osservanza di ideali estetici irraggiungibili segnalandone le relative,

nefaste, conseguenze.

Tuttavia, ho proposto un’ulteriore lettura. Quella per cui la ricerca infinita di bellezza che caratterizza le donne oltre ad essere interpretata alla luce di un discorso patriarcale (seguendo il quale, esse, finiscono col divenire oggetti il cui valore dipende dalla capacità di attrarre, di sedurre), possa venire intesa anche quale manifestazione del bisogno di ritrovare e rafforzare il legame con la madre.

Ho avanzato, infatti, l’ipotesi che l’attenzione, a volte esagerata, posta dalle donne alla cura del proprio fisico, al di là del voler accendere il desiderio nell’uomo, al di là del tentativo di conquistare potere e prestigio sociali, possa sottendere un’esigenza di continuità con le cure corporee ricevute nei primi tempi dell’esistenza.

Possa, insomma, sottendere un desiderio di vicinanza al materno, al femminile, al sessuale e, conseguentemente, possa indicare un comportamento finalizzato anche a tessere ed a rafforzare l’identità. Poiché, quella femminile, è un’identità davvero delicata dal momento che, per presupposti biologici e per attese sociali, è caratteristicamente mutevole.

Ho creduto, dunque, di poter suggerire che l’indulgere delle donne sulla propria bellezza non sia da ricondurre, in modo esclusivo, ad atteggiamenti di esasperata vanità o all’incapacità di saper mettere in discussione canoni socioculturali di cui è, ormai, tempo di disfarsi. Non sia atteggiamento prioritariamente riferibile a sistemi di comunicazione messi in atto da una cultura maschile che desidera la donna “bella e stupida” o “seducente e muta”.

E nel riflettere come la causalità sociale non sia mai pensabile (soprattutto in ambito psicologico) quale interpretazione esaustiva dei fenomeni, ho avanzato l’ipotesi per cui l’importanza data al volersi sentire, ed al voler apparire belle che caratterizza le donne, pur rispondendo a logiche patriarcali, a gerarchie di potere, a strategie di politicizzazione dei corpi ed a fenomeni di oggettivazione sessuale, possa essere messa in relazione anche ad altre narrazioni.

Possa essere messa in relazione, ad esempio, alle contro-narrative del

post femminismo secondo cui adoperarsi per avere un aspetto attraente rimanda anche alla scelta operata, in modo consapevole, da donne sicure di sé e capaci di autodeterminarsi. Oppure, ad archetipi narrativi che indicano quanto la predisposizione a dare la vita ed a custodirla tramite la dedizione e la cura a sé ed agli altri, sia da ricondurre ad un’intima natura femminile.

Sia da collegare a modelli di comportamento che opportunamente affrancati dagli aspetti oblativi e sacrificali, da sempre richiesti alle donne (e tanto svantaggiosi per la conquista dei loro diritti), sanno dare espressione ad una voce morale differente ed alta. Sanno dare espressione ad atteggiamenti di sollecitudine e di cura volti a proteggere, in forma e misure diverse, la fragile condizione umana.

Come si narra in un antico mito, dove una divinità dalle sconosciute origini è destinata ad accogliere l’uomo formandolo prima, e tenendolo in vita poi: il mito di “Cura”.

Tramandato dallo scrittore romano Igino, il mito è stato, poi, rivisitato meravigliosamente da Heidegger, il filosofo che intende la “cura” quale condizione originaria che accompagna l’intera vicenda esistenziale dell’uomo. (3)

Facile ed intuitiva è la correlazione della donna quale personificazione della figura mitologica di “Cura”. Perché la donna, per il suo mettere al mondo la vita (sia come maternità realizzata, sia come maternità potenziale), per la sua predisposizione a proteggere ed a custodire l’esistenza, per il suo dare priorità agli affetti ed alle relazioni, è particolarmente incline ad estendere a tutti gli esseri umani cura, amore, generosità e creatività. E senza contrapporre la dimensione etica della cura per gli altri alla dimensione estetica per la cura verso sé stessa, ella, nel saper realizzare insieme l’una e l’altra fa, di entrambe, pratica sociale e pratica personale.

Nell’ultima parte dello scritto, dopo aver brevemente presentato ed elaborato alcune delle interpretazioni formulate dagli autori più prestigiosi della psicoanalisi riguardo al fenomeno dell’enorme investimento posto, dal femminile, sull’attrattività fisica, ho considerato con attenzione quanto

possa essere importante che le donne, all’interno dei tanti significati presenti nel loro ostinato bisogno di bellezza, sappiano cogliere anche il celato desiderio di creare un ponte che le ricongiunga alla madre.

Insomma, ho espresso il punto di vista secondo cui lo slancio continuo alla conquista dell’immagine desiderata possa e, debba, nel femminile, chiamare in causa un particolare modo di entrarvi in rapporto. Perché se quello slancio non sottende la continuità del contatto con le esperienze estetiche originarie, la bellezza può recare inganno anziché verità, occultamento e non svelamento. Può, da simbolo che ricongiunge alla madre, trasformarsi in dia-bolo, in demone che turba la mente. Non è a caso che molte giovani donne, anche dopo aver affrontato interventi di medicina o di chirurgia estetica seguiti da splendidi risultati, nel realizzare quanto la nuova, desiderata immagine, sia stata, per dirla con Stendhal, niente altro che “promessa di felicità” si ritrovino, poi, con disagi psichici ancor più intensi.

Nel delineare il legame complesso per cui ogni figlia, pur con distacchi e riavvicinamenti, è unita tenacemente alla madre (unione che la bellezza, proprio per il suo essere congiunta alla sfera del materno, intensifica e perpetua), ho avviato al termine il saggio. Per completarlo con l’immagine perturbante della donna che di fronte allo specchio, insieme ai suoi desideri, libera i suoi timori fantasmatici.

E per concluderlo con la riflessione di quanto le infinite complessità psicologiche dell’estetica femminile rendano impossibile svelare l’intimo segreto che, da sempre, spinge le donne alla conquista della “dolcissima e amabilissima bellezza”.

BIBLIOGRAFIA

1) F. Cheng Cinque meditazioni sulla bellezza Bollati Boringhieri 2007

2) Theodor Adorno Teoria Estetica Einaudi 1977

3) Martin Heidegger Essere e Tempo Oscar Mondadori 2014

Parte prima

CAPITOLO I

NEL GRAN MARE DEL BELLO

1.1. Dall’armonia della bellezza classica all’estetica del quotidiano

Simon Weil, una delle più significative pensatrici del ventesimo secolo, era convinta che la bellezza fosse il mistero più grande del mondo. (1)

Pensare la bellezza e il suo mistero è stato un bisogno che la riflessione umana non ha mai eluso e che ha condotto tutti gli orientamenti della conoscenza a farne oggetto di ricerca. Una ricerca incessante ed appassionata tanto da aver costituito terreno di reciproco dialogo tra le forme più disparate del sapere. Non c’è da stupirsi se Platone considerò sorelle “philosophia” (amore per la conoscenza) e “philokalia” (amore per la bellezza) al punto tale da giungere ad utilizzare i due termini come sinonimi. (2)

La bellezza ha pervaso profondamente il mondo. È stata colta nell’armonia e nella dissonanza, è stata contemplata sia nello splendore che nella semplicità degli eventi. Presente in terra e connessa al cielo per la sua capacità di sollecitare la parte divina dell’umano, nella storia del pensiero i suoi molteplici significati hanno lasciato un riverbero anche nella sofferenza, nella ferita e nel dolore.

Tuttavia dalle poliedriche, complesse, contraddittorie letture volte ad ingabbiarne il senso, la bellezza è sempre e, comunque, sfuggita. Ma, forse, è stata proprio questa sua inafferrabilità, questa sua vaghezza a renderla fonte perpetua di meraviglia. A renderla respiro poetico del mondo e sorgente inesauribile di attente riflessioni.

L’assoluta rilevanza posta dalla mentalità greca alla bellezza è fenomeno assai conosciuto. È noto, infatti, come sia stata proprio la civiltà greca ad introdurre l’idea del bello non quale fenomeno semplicemente riconducibile ai sensi, ma come fondamento originario di un ordine intrinseco alle

cose. Ed è noto come bello e buono fossero, in quella cultura, profondamente radicati.

Peraltro, la connessione intrinseca ed inscindibile tra l’idea del bello e quella del buono emerge anche interrogando l’etimologia. Poiché, pur se nell’antichità era l’aggettivo latino “pulchrum” a definire il bello, in seguito fu il termine “bellus”, diminutivo di una forma antica di buono, ad identificarlo.

La bellezza legata al bene è, dunque, una concezione che, da sempre, sembra aver affascinato l’umanità. Una concezione affermata pienamente da Pitagora per il quale “bello, buono e vero” sono tra loro tanto intrecciati da risultare inseparabili ed espressa meravigliosamente da Platone secondo cui “bello, buono e vero” sono essenze celesti. Sono idee.

Per Platone, il bello rimanda ad un’idea assoluta ed eterna. Rimanda ad un’ascesa conoscitiva che sollecitata dall’inebriante spinta di Eros (il quale anela alla sapienza e, quindi, alla cosa più bella che esista), induce a procedere sempre più in alto. Non per conseguire piaceri limitati ed effimeri, ma per giungere alla contemplazione di una forma di bellezza superiore a quella che risplende nei corpi e, ancor più, nelle anime. Superiore a quella che si ritrova nelle umane attività, nelle leggi e nelle scienze.

In definitiva la bellezza, nel dire di Platone, induce ad un cammino che ascende dal corporeo all’incorporeo per aprirsi, infine, a forme immutabili ed eterne. A forme che sempre sono. Come quella rappresentata dal “gran mare del bello”! Origine e principio unitario di tutte le cose.

Fortemente ispirato dal filosofo ateniese anche Plotino intenderà la bellezza come un tralucere dell’intelligibile nelle cose sensibili. Ma, cambiando prospettiva, egli farà corrispondere la ricerca del bello ad un percorso interiore, ad un’ascesi compiuta dall’anima alla scoperta della dimensione conoscitiva più vera. Ad un viaggio paragonabile, in un certo senso, a quello di Ulisse, il cui fine ultimo era tornare alla sua terra natale. Per Plotino, insomma, la ricerca del bello corrisponderà ad un viaggio di ritorno al principio. Al luogo dove tutto ha avuto origine.

Queste idee fortemente visionarie, queste idee riconducibili allo spirito greco secondo cui la bellezza è fondamento creativo e costitutivo dell’ordine intrinseco ad ogni cosa, hanno permeato la cultura occidentale giungendo perfino in quella araba.

In tal modo, con la sua avvolgente luminosità, il bello ha guidato lungo sentieri che dalla frammentazione e dal “Caos” hanno condotto ad un principio strutturante. Hanno condotto al “Cosmo”, vale a dire ad un tutto armonico e ordinato. Ad un Universo contrapposto al disordine del Caos e sorretto da un’armonia da cui tutto è derivato e che, tutto, ha pervaso. Dato che il bello quale armonia manifesterà, per i Greci, l’ordine dell’universo intero.

In realtà, i primi ad avere avuto una visione della bellezza come giusta misura e come armonia si ritiene siano stati i Pitagorici. Poiché Pitagora ed i suoi seguaci teorizzarono un universo retto da una visione esteticomatematica. Teorizzarono, infatti, un “Kosmos” (termine che in greco antico significava anche ordine e bellezza), fondato sulla forma più elevata e perfetta della proporzione fra le parti e sul meraviglioso accordarsi dei suoni.

I Pitagorici concepirono, insomma, un universo tale per cui, anche dal movimento dei corpi celesti, sarebbe scaturita una musica dolcissima: l’armonia delle sfere. Una musica celestiale che gli uomini non avrebbero, però, percepito per l’inadeguatezza dei loro sensi.

Così, nel ricondurre il mondo ad un’armonia modellata sulla somma simmetria delle forme e sul perfetto accordarsi dei corpi celesti, i Greci, nel fulgore del “Kosmos”, scoprirono un “ordine bello”.

In Europa l’idea che il bello fosse insito nell’ordine, nella simmetria, nella corretta proporzione e nella composizione risultante dal tutto piuttosto che dalle singole parti, si diffuse in maniera talmente duratura da persistere per circa due millenni. Tanto da passare alla storia con il felice appellativo di “Grande Teoria” o teoria generale del bello. (3)

La “Grade Teoria” non si limitò, comunque, ad esprimere i requisiti in-

dispensabili di quella buona forma al cui interno, nel mondo antico, veniva identificata la bellezza.

Il fatto, ad esempio, che la luce, per la propria natura eterea e impalpabile sia stata, da sempre, simbolo privilegiato di Dio, ha fatto si che la bellezza venisse naturalmente celebrata nello splendore, simbolo della perfezione divina.

Non è a caso che in un’ epoca permeata da grande spiritualità come quella medioevale venisse data grande importanza all’estetica della luce, all’estetica della “claritas”. Infatti, per gli uomini del Medioevo, i requisiti della bellezza consistevano, oltre che nell’ordine e nella proporzione, anche nella luminosità che rifulge ed illumina.

In breve, il bello quale materia di conoscenza, il bello inteso come armonia, ordine, proporzione e simmetria, il bello che grazie allo splendore della luce rivela la trama intelligibile del mondo, furono idee che da Platone giunsero fino al barocco e, secondo alcuni, fino al Romanticismo. Furono concezioni che, per dirla con Remo Bodei, costituirono la culla del razionalismo occidentale. (4)

Ma, nel XVIII secolo, nuove idee derivate dall’empirismo filosofico secondo cui la conoscenza umana deriverebbe prevalentemente dai sensi ed i primi avvistamenti del movimento romantico al cui interno la dimensione dei sentimenti veniva esaltata in modo vertiginoso, misero in crisi la concezione della “grande teoria del bello”.

Durante tutto il settecento, infatti, l’Europa è permeata da temi che concernono il sentimento, il gusto, l’immaginazione e il genio. Filosofi del calibro di Hume o di Locke si dedicano con passione ai fenomeni soggettivi e, con vigore, confutano le idee innate. Le correnti letterarie preromantiche della seconda parte del secolo si caratterizzano per una irriducibile individualità ed uno dei movimenti più significativi dell’epoca, lo “Sturm und Drang” (sconvolgimento ed impeto), inneggiando alla rivalutazione del sentimento e dell’irrazionale, polemizza in modo aspro contro il classicismo.

Queste nuove correnti culturali ribadiscono, con forza, la necessità dell’affrancamento da una scuola orientata a vincolare l’espressione del bello a regole oggettive ed, a volte, tanto minuziose da giungere a condizionare la libertà creativa dell’artista.

Di conseguenza, già di per sé non facilmente afferrabile, il bello diverrà sempre più sfuggente ai vari tentativi di definizione. La soggettività, la creatività, il genio e il gusto soppianteranno le regole geometriche e matematiche scompaginando, in modo irrevocabile, il concetto dell’ordine cosmico quale modello di bellezza, di verità e di bontà.

La “Grande Teoria” verrà, insomma, messa in discussione dall’idea rivoluzionaria per cui la bellezza è soggettiva e non oggettiva, particolare e non universale.

Si affermerà, allora, la dimensione del vago e del poco definito, si concederà sempre più spazio a quell’espressione del “non so che” il cui successo sarà enorme anche in ambito poetico e filosofico. Si riterrà più vicino al sentire, piuttosto che allo spiegare, ciò che appare tanto enigmatico ed imponderabile, ciò che è tanto sottile da sottrarsi ad ogni tentativo di analisi. Si dirà “sì” al punto di vista per cui la forma imprecisa può essere migliore del perfettamente compiuto e maggiormente poetica rispetto all’integro.

Pertanto, saranno considerate belle le opere non terminate, saranno ritenuti belli gli schizzi che alluderanno a forme vaghe. Insomma, sarà accresciuta ed elogiata la creatività del non definito che, moltiplicando le allusioni e le metafore, consentirà una pluralità di interpretazioni ed una polifonia di sensi.

All’interno di queste atmosfere, ad opera del filosofo Alexander Gottlieb Baumgarten, verso la metà del settecento si farà avanti l’idea di una bellezza non più orientata al raggiungimento di una perfezione misurata in base a canoni ed a norme precostituite, ma volta a suscitare sentimenti più che ad interrogare la ragione e l’intelletto. Si farà avanti l’idea di una verità estetica conosciuta in modo sensibile. Vale a dire in modo che la “sensa-

zione immediata” andrà a costituire il principio di un sapere applicato allo studio del bello, la cui finalità non sarà più quella di accedere al sommo bene.

Ed è proprio con la concezione del bello quale conoscenza intuitiva e sensibile che nascerà “l’Estetica”. (5)

Il termine “Aesthetica”, derivato dal verbo greco “aisthànomai” (percepire, rapportarsi, conoscere attraverso i sensi), è un neologismo coniato dallo stesso Baugmarten. Un neologismo attraverso cui, il filosofo, sembra voglia far riferimento a qualcosa che si esperisce già prima di essere compreso. A qualcosa di emozionale che andrà a costituire il sottofondo della cognizione. L’estetica, di conseguenza, farà emergere una disciplina conoscitiva al cui interno saranno accolte sensazione, immaginazione, sensibilità e gusto.

I caratteri quantitativi ed oggettivi perderanno, allora, il predominio tanto che nella valutazione del bello l’idea di “gusto” implicherà una soggettività dominante.

L’estetica, in definitiva, si riterrà fondata su una comune natura umana la cui attenzione, in modo inspiegabile e imprevedibile, verrà afferrata da qualcosa in grado di suscitare particolari stati d’animo. Da qualcosa in grado di sollecitare l’immaginazione e tutta una gamma di emozioni che daranno adito ad un “giudizio estetico”. Un giudizio necessariamente condizionato dalle differenze individuali ed influenzato, quindi, dalla categoria del soggettivo (cui l’antichità classica non attinse quasi mai) e dall’affettività, che sempre al soggettivo si congiunge.

Il bello diverrà allora estetico, anche se non tutto l’estetico sarà bello in quanto, e con una certa ambiguità semantica, all’interno della nuova disciplina verranno inserite le cosiddette “modificazioni del bello”. All’interno “dell’Estetica” verranno, infatti, inserite le categorie del grazioso, del grottesco… e, perfino, del brutto. D’altra parte, accanto alla propria idea del bello, ogni cultura ha affiancato ad essa una propria concezione del brutto. Nella mitologia greca, ad esempio, erano frequenti storie in cui

si incontravano figure leggendarie di fauni, chimere, minotauri o ciclopi. Figure tutt’altro che aderenti ai tradizionali canoni di bellezza !

A spezzare, comunque, in modo definitivo la visione classica del bello, sarà il “sublime”. Poiché, nell’estetica del settecento, il concetto di “sublime” non verrà inteso come un “bello” superlativo, non verrà circoscritto alle accezioni positive dei sentimenti dell’amore e del piacere. Ma saprà dare espressione e profondità anche a quelle emozioni che originano dalla paura, dallo sgomento e dal terrore del pericolo. In breve, il sublime così concepito metterà in rilievo le emozioni destate “dall’orrendo che affascina”. Come quelle emozioni risvegliate dalla visione delle eruzioni vulcaniche, dai mari in tempesta o dalla natura informe e illimitata dei deserti ostili e desolati.

Di conseguenza, il sublime, per il suo includere nel bello la negatività del dolore, introdurrà una rottura all’interno di quell’ordine cosmico rappresentato da armonie universali.

Poiché, col mettere in evidenza la dimensione minacciosa della vita, evocherà un intreccio di sentimenti la cui enigmaticità e la cui ambiguità non era stata, dalle regole del classicismo, contemplata.

Ma torniamo a Baugmarten ed alla disciplina da lui fondata. Disciplina al cui interno i fecondi collegamenti tra concezioni antiche e moderne promuoveranno il dialogo tra i temi del bello, dell’arte e del sublime e stimoleranno preziose riflessioni su teatro, musica, pittura e scultura. L’estetica diverrà, così, prezioso punto di raccordo tra poetica ed immaginazione rendendo universale la categoria della soggettività. Categoria che, prima del ‘700, era stata quasi completamente ignorata.

La nuova disciplina dell’estetica, inoltre, nel suo rivolgersi sia verso il bello che verso le arti, si adopererà ad integrare le diverse concezioni che, su arte e bellezza, dall’antichità erano giunte fino al Medioevo ed oltre. In tal modo, arte e bellezza, saranno configurate da una forte correlazione, da una interconnessione non ovvia, non scontata come oggi potrebbe apparire. Le “Belle Arti” inizieranno, infatti, a costituire un sistema

unitario solo dal VIII secolo perché le vicende della bellezza furono inizialmente, e per un lunghissimo periodo, non connesse all’arte, ma alla natura.

Kant, portatore di uno dei pensieri più alti e più complessi dell’estetica settecentesca, ebbe una certa propensione ad accostare il bello con la natura. Per lui, il bello è ciò che piace universalmente, senza concetto, senza uno scopo determinato. Affrancato da ogni costrizione, il bello, è una “finalità che non contiene alcun fine”. Più che fondato sul rispetto di determinate forme, è esperienza di libertà. Di purezza e di contemplazione.

Molto nota la distinzione Kantiana tra “Pulchritudo vaga” e “Pulchritudo adhaerens”. La prima è, dal filosofo tedesco, riferita alla bellezza libera, autentica, che non tenta di riprodurre alcuna immagine. Come può essere la percezione del bello rinvenuta nei fiori o nelle conchiglie. La seconda, la “Pulchritudo adhaerens” (la bellezza aderente), è quella subordinata al concetto di ciò che l’oggetto deve rappresentare. (6)

Sarà, comunque, la “Pulchritudo vaga”, la bellezza libera e indipendente da ogni rappresentazione, quella che sfugge ad ogni strategia di misura, ad essere in grado, secondo Kant, di suscitare un giudizio di gusto “puro”. Ed un “piacere disinteressato”.

Hegel, si distanzierà da Kant. Per il filosofo di Stoccarda ogni oggetto artistico prodotto dall’uomo diverrà più bello della più bella opera della natura. Dato che la forma del bello artistico, per il suo recare in sé un momento della vita dello spirito sarà, potenzialmente, all’altezza di esprimere la manifestazione della verità assoluta.

Tuttavia, nello sviluppo ulteriore delle idee di Hegel, l’arte, intesa quale forma con cui “l’Assoluto” tenta di rappresentare sé stesso, denuncerà i suoi limiti. Ed il pensiero del filosofo finirà con l’opporsi alla rappresentazione dell’arte come modo alto “in cui alla verità si dà esistenza”. (7)

Non sarà così per i Romantici secondo i quali la bellezza non solo è congiunta alla verità, ma ne è addirittura artefice.

... “Non mi sono mai sentito certo di alcuna verità se non ho percepito

chiaramente la sua bellezza “affermava John Keats, il più giovane tra i poeti romantici. E celebri sono ormai divenuti i suoi versi:

“ ...Bellezza è verità, verità è bellezza, questo solo sulla terra sapete. Ed è quanto basta”. (8)

Mossa dalla stessa passione per la verità, a lui farà eco Emily Dickinson, una delle poetesse più originali di tutti i tempi. Nel componimento “Morii per la bellezza” ella, con immagini, consonanze e affinità misteriose, rivelerà come bellezza e verità possano, in modo struggente, dialogare tanto intimamente da giungere a confondersi per sempre. (9)

In aggiunta “Bellezza e Verità”, oltre ad aver permeato il pensiero filosofico ed il linguaggio letterario e poetico, sembrano aver guidato anche il pensiero scientifico.

Tanto da condurre Herman Weil, matematico, fisico e filosofo tra i più influenti del XX secolo, a confidare: …”nelle mie ricerche mi sono sempre sforzato di unire il bello al vero, ma quando dovetti scegliere tra l’uno e l’altro, di solito scelsi il bello”. Tanto da portare Paul Dirac, Premio Nobel cofondatore della meccanica quantistica (autore di un’equazione che, per la sua rilevanza, entrerà nella storia), a dichiarare …“è più importante che le proprie equazioni siano belle piuttosto che esse combacino con gli esperimenti perché se si lavora con la prospettiva di rendere belle le equazioni e si possiede profonda intuizione si è veramente sulla strada del vero progresso nella conoscenza”. (10)

Analogamente, la cosmologa Janna Levin, in una intervista del 2007, ha affermato che la bellezza, intesa nelle determinanti classiche di armonia, simmetria e coerenza è un elemento davvero essenziale nell’opera di uno scienziato al punto che, per ragioni che nessuno capisce completamente, essa può addirittura divenire un criterio per distinguere il giusto dallo sbagliato.

Insomma, l’interrogarsi sulla bellezza ha costituito uno dei legami più forti e intriganti per avvicinare e far dialogare le espressioni più disparate della umana conoscenza. Al punto da poter affermare che la cultura, nel

suo complesso, sarebbe stata e sarebbe, tuttora, impensabile senza di essa. Tentare di comprendere, ad esempio, se la bellezza sia una proprietà delle cose o una reazione dell’uomo alle cose stesse ha aperto la stimolante “querelle” tra oggettività o soggettività del bello. Una “querelle” davvero antica. Forse tanto antica da aver accompagnato la storia del pensiero umano. Nel corso di tale pensiero, tra alterne e complesse vicende, ha prevalso ora l’una ora l’altra delle posizioni. Infatti, è stato già brevemente accennato come dal prevalente oggettivismo della “Grande Teoria” si sia giunti, attraverso la disciplina dell’estetica, alla messa in discussione di una visione della bellezza dalle regole rigidamente definite. Ma vale la pena di ricordare come, già nella Grecia antica, i Sofisti sottoponessero a dure critiche la concezione di oggettività assoluta della bellezza.

Rifuggendo dalle logiche disgiuntive dell’aut-aut per abbracciare quelle congiuntive dell’et-et, non è poi tanto arduo riconoscere sia la oggettività che la soggettività del bello.

Il fascino, ad esempio, delle proprietà geometriche e matematiche rivelato dal rapporto numerico della cosiddetta “sezione aurea”, pur essendo conosciuto fin dall’antichità (se ne fece menzione, già nel 300 a.C., negli “Elementi” di Euclide) è, ancora oggi, oggetto di studi e di riflessioni. I suoi appellativi di “numero aureo”, o di “proporzione divina”, si riferiscono ad una costante matematica che tra- sformata in linee e proporzioni sembra avere la proprietà di dar luogo ad una armonia formale riscontrabile sia nella natura (dai petali dei fiori ai fiocchi di neve, dalle conchiglie alle galassie), sia nella creazione di opere di grandi artisti. Ed è proprio la inattesa presenza della sezione aurea negli ambiti più diversi a costituire uno dei fenomeni per cui, da molti studiosi, il bello è stato inteso quale archetipo estetico oggettivo e universale.

Ma, d’altro canto, è anche facile e intuitivo constatare (per dirla col filosofo David Hume) che... “la bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla ed ogni mente percepisce una bellezza diversa.” (11)

4.1 Lo sguardo degli uomini. Desiderato o temuto dal dalle donne?

4.2. Lo sguardo delle donne. Pericoloso irretimento o veicolo d’amore e prima fonte d’identita ̀ ?

4.3. Lo sguardo posto dal sociale sul corpo e sulle immagini femminili

4.4. Lo sguardo della donna tra riconoscimento di sé e cura dell’altro

4.5. Lo sguardo femminile sulla bellezza femminile

4.6. Lo sguardo e lo specchio

PARTE

TERZA

5.1 L’esperienza estetica vissuta dal bambino al seno della madre

5.2. La trasmissione della vita psichica fra le generazioni

5.3. Bellezza e nostalgia delle origini

5.4. Bellezza e sviluppo psicosessuale femminile

5.5. Bellezza femminile e psicopatologia

RINGRAZIAMENTI

Un grazie di cuore a Claudio, compagno di vita, per avermi da sempre incoraggiato ad esprimere riflessioni, idee ed emozioni attraverso la scrittura.

Un grazie particolare al mio collega ed amico Giulio Alfredo Mattone che dopo aver ascoltato il seminario da me tenuto presso la scuola di formazione psicoanalitica “Imago” sul tema della madre e della bellezza, mi ha dato l’idea di farne un libro.

Un grazie speciale all’editore Dott. Dino Marasà senza le cui benevoli sollecitazioni questo lavoro non sarebbe mai giunto al termine.

È proprio vero che il bisogno delle donne di farsi belle sia sempre da ricondurre al desiderio di sedurre gli uomini? O teso alla conquista del prestigio e del successo?

È proprio vero che il mito della bellezza risponde esclusivamente ad un insidioso sistema di credenze messe in atto da una cultura maschile tuttora dominante?

E se l’anelito femminile alla bellezza fosse anche congiunto al sogno, all’illusione di ritrovare l’immagine materna celata nell’inconscio? Se fosse atteggiamento allusivo ad uno spazio simbolico in cui dare continuità, in cui creare un ponte con le prime amorevoli cure ricevute dalla madre?

Questa la tesi dell’autrice che nell’affrontare l’inesauribile tema della bellezza si affaccia nei luoghi della psicologia e del mito, della filosofia e dell’arte.

Il saggio si delinea tra diversi sentieri e differenti linguaggi. Psicologia, mito, filosofia... pur se il cuore pulsante del discorso è abitato dalle donne e dal loro aggirarsi continuo alla ricerca dell’immagine ideale. Alla ricerca di bellezza.

L’autrice, andando oltre i criteri dominanti, interpreta tale ricerca non solo quale espressione di canoni socioculturali per cui la donna, trasformata in oggetto, acquisisce valore in funzione della sua capacità di sedurre.

Ma nell’anelito alla bellezza proprio del femminile coglie, a livello profondo, la narrazione nostalgica della perduta unità con la madre.

studiobyblos@gmail.com ‐ www.studiobyblos.com Palermo ‐ Novembre 2024 ISBN 9791282018098

Studio Byblos Publishing House

È proprio vero che il mito della bellezza femminile risponde solo ad un sistema di credenze messe in atto da una cultura maschile tuttora dominante? È proprio vero che l’incessante ricerca dell’immagine ideale ad opera delle donne riflette sempre il desiderio di sedurre gli uomini ed è spesso finalizzata alla conquista del prestigio e del successo in ogni ambito sociale?

L’anelito femminile alla bellezza non potrebbe essere anche congiunto al sogno, all’illusione di ritrovare l’immagine materna celata nell’inconscio? L’attenzione rivolta dalle donne alla corporeità non potrebbe velatamente alludere alle amorevoli cure ricevute nei primissimi tempi di vita?

Il saggio muove intorno all’inesauribile tema del bello inoltrandosi fra sentieri diversi e differenti linguaggi: psicologia, sociologia, mito, filosofia… ma il cuore del discorso concerne l’estetica femminile. L’autrice, per comprenderne i fondamenti, sofferma in particolar modo lo sguardo sull’interiorità, sull’immaginario, sulle esperienze primarie delle donne. La sua visione coglie un sentire in cui la bellezza diviene simbolo della perduta unità con la madre e fluisce in narrazione nostalgica di lei.

Ida Venturi, docente di discipline psicologiche presso istituti di formazione post laurea, ha pubblicato vari articoli concernenti lo sviluppo psichico femminile. Vive e lavora a Roma come medico psicoterapeuta.

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