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luca sossella registro editore


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Questa non è (ancora) una rèclame

ma lo sarà


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Questa non è (ancora) una rèclame

ma lo sarà


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Indice

8 9 10 12 14 16 18 20 22 24

Registro registra, commenta e segnala alcuni titoli delle pubblicazioni di Luca Sossella Editore Direttore Nome Cognome Caporedattore Nome Cognome Art director Nome Cognome Progetto grafico Nome Cognome Impaginazione Nome Cognome

1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 1.7 1.8 1.9 1.10

GENEALOGIA La fine è l’inizio Due lettere Gli idioti di famiglia Lei fra due anni sarà sparito Lettera sulla gratuità Paradigma del rifiuto Che cos’è la peer-review? Etica e tecnica della parola Libri perduti ed esemplari unici

70 4.1 CHE COS’È L’EDUCAZIONE? 70 4.2 Educare gli educatori Bruno Munari

71 4.3 Lezioni d’Europa 71 4.4 Difendere la scuola Piro Calamandrei

72 4.5 Storie interrotte 74 4.7 Imparare a imparare 76 4.8 Lettera a un Ministro della Pubblica Istruzione Vittorio Gassman, Luca Sossella

Guido Vitiello

78 5.1 INFOECONOSFERA 78 5.2 Libri dall’infoeconosfera 78 5.3 In pieno Medi@evo 28 28 28 29

2.1 2.2 2.3 2.4

NOSTALGIA DEL PRESENTE La grande scimmia Lo sguardo della scimmia Dentro la mutazione. Intervista a Giulio Blasi

Distribuzione Nome indirizzi ecc...

30 2.5 Brevi istruzioni per continuare a leggere Gino Roncaglia

32 2.6 Cosmopolitiche 32 2.7 L’accadere dell’impossibile

Franco Berardi Bifo

80 5.4 In che senso? 82 5.5 Artigiani del digitale 82 5.6 Sull’attualità del pensiero di Adriano Olivetti. Dialogo tra Andrea Granelli e Giulio Sapelli

84 5.7 Crowdsourcing 84 5.8 Impresa evolutiva 85 5.9 Che cos’è l’impresa?

Odifreddi intervista Derrida

Inserzionisti Questa non è (ancora) ... Celle-ci nest pass (encore) ... This isn’t (yet)... Esto no es (todavía)...

33

2.8 La volontà di comprendere Odifreddi intervista Chomsky

36 2.9 Discorso sulla decrescita 36 2.10 Per una decrescita felice Francesco Dal Mas intervista Andrea Zanzotto

38 2.11 Rosi Braidotti 38 2.12 Nomadismo 40 2.13 Il secolo lungo

88 88 89 89 90 92 94

6.1 6.2 6.3 6.4 6.5 6.6 6.7

HAPAX LEGOMENON Roversi Zanzotto Parola plurale Arte poetica Da arte poetica a canGura Benvenuti in un mondo che non può essere migliore Massimo Gezzi intervista John Ashbery

94 6.8 Bordini 96 6.9 Poesia e ispirazione 98 6.10 Attrezzi agricoli e rutabaghe in un paesaggio 44 3.1 VOCE 44 3.2 La voce come medium 44 3.3 Parla la Pizia nel nostro cd Marco Belpolti

John Ashbery

99 6.11 Sonetto della smemoratezza Moira Egan

98 6.12 Dieci domande a scelta multipla Jhon Ashbery

46 3.4 La parola disincarnata Intervista a Gabriele Frasca

48 3.5 Antologia personale di Vittorio Gassman 48 3.6 Traghettare la poesia nel terzo millennio Luca Sossella

49 3.7 Poco prima del sipario

100 6.13 Poesia che mi guardi 100 6.14 Spiare cenni arcani di partenza Davide Pugnana

102 6.15 Vivavox/L’infinito mélo 102 6.16 Saba e la poesia onesta

Luciano Lucignani

50 3.8 Un ricordo Roberto Herlitzka

Massimo Raffaeli

103 6.17 Scusa il ritardo Mark, scusa il ritardo... 104 6.17 Quello che resta da fare ai poeti

52 3.9 Carmelo Bene 51 3.10 Peggio per noi

Umberto Saba

Giancarlo Dotto

54 54 55 56 56 58 58 58 60 61 63 66 66

luca sossella editore

3.11 3.12 3.13 3.14 3.15 3.16 3.17 3.18 3.19 3.20 3.21 3.22 3.23

Meditazione orale Testimonianza e profezia Memoria ex auditu Incipit Incipit di incipit Baliani Bollani Vocalizzare la pagina Popolizio Che cos’è che cos’è? Che cos’è? 2010 Che cos’è? Dai cancelli d’acciaio Vere sustanze son ciò che tu vedi Paolo Giovannetti

110 7.1 TRACCE DELLO SGUARDO 110 7.2 Estetica contemporanea 110 7.3 La ribellione delle arti Edmondo Berselli

112 112 113 114 1 15 116

5

Lo spazio critico Il re è nudo Iconografia dell’autore Alighiero e Boetti Cinema Paesaggio con fratello rotto

118 8.1 PAROLE D’ORDINE 118 8.2 Amicizia

68 3.24 Per una fondazione della voce Massimiliano Manganelli e Aldo Mastropasqua

7.4 7.5 7.6 7.7 7.8 7.9

Alberto Abruzzese

122

Tabula gratulatoria


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Indice

8 9 10 12 14 16 18 20 22 24

Registro registra, commenta e segnala alcuni titoli delle pubblicazioni di Luca Sossella Editore Direttore Nome Cognome Caporedattore Nome Cognome Art director Nome Cognome Progetto grafico Nome Cognome Impaginazione Nome Cognome

1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 1.7 1.8 1.9 1.10

GENEALOGIA La fine è l’inizio Due lettere Gli idioti di famiglia Lei fra due anni sarà sparito Lettera sulla gratuità Paradigma del rifiuto Che cos’è la peer-review? Etica e tecnica della parola Libri perduti ed esemplari unici

70 4.1 CHE COS’È L’EDUCAZIONE? 70 4.2 Educare gli educatori Bruno Munari

71 4.3 Lezioni d’Europa 71 4.4 Difendere la scuola Piro Calamandrei

72 4.5 Storie interrotte 74 4.7 Imparare a imparare 76 4.8 Lettera a un Ministro della Pubblica Istruzione Vittorio Gassman, Luca Sossella

Guido Vitiello

78 5.1 INFOECONOSFERA 78 5.2 Libri dall’infoeconosfera 78 5.3 In pieno Medi@evo 28 28 28 29

2.1 2.2 2.3 2.4

NOSTALGIA DEL PRESENTE La grande scimmia Lo sguardo della scimmia Dentro la mutazione. Intervista a Giulio Blasi

Distribuzione Nome indirizzi ecc...

30 2.5 Brevi istruzioni per continuare a leggere Gino Roncaglia

32 2.6 Cosmopolitiche 32 2.7 L’accadere dell’impossibile

Franco Berardi Bifo

80 5.4 In che senso? 82 5.5 Artigiani del digitale 82 5.6 Sull’attualità del pensiero di Adriano Olivetti. Dialogo tra Andrea Granelli e Giulio Sapelli

84 5.7 Crowdsourcing 84 5.8 Impresa evolutiva 85 5.9 Che cos’è l’impresa?

Odifreddi intervista Derrida

Inserzionisti Questa non è (ancora) ... Celle-ci nest pass (encore) ... This isn’t (yet)... Esto no es (todavía)...

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2.8 La volontà di comprendere Odifreddi intervista Chomsky

36 2.9 Discorso sulla decrescita 36 2.10 Per una decrescita felice Francesco Dal Mas intervista Andrea Zanzotto

38 2.11 Rosi Braidotti 38 2.12 Nomadismo 40 2.13 Il secolo lungo

88 88 89 89 90 92 94

6.1 6.2 6.3 6.4 6.5 6.6 6.7

HAPAX LEGOMENON Roversi Zanzotto Parola plurale Arte poetica Da arte poetica a canGura Benvenuti in un mondo che non può essere migliore Massimo Gezzi intervista John Ashbery

94 6.8 Bordini 96 6.9 Poesia e ispirazione 98 6.10 Attrezzi agricoli e rutabaghe in un paesaggio 44 3.1 VOCE 44 3.2 La voce come medium 44 3.3 Parla la Pizia nel nostro cd Marco Belpolti

John Ashbery

99 6.11 Sonetto della smemoratezza Moira Egan

98 6.12 Dieci domande a scelta multipla Jhon Ashbery

46 3.4 La parola disincarnata Intervista a Gabriele Frasca

48 3.5 Antologia personale di Vittorio Gassman 48 3.6 Traghettare la poesia nel terzo millennio Luca Sossella

49 3.7 Poco prima del sipario

100 6.13 Poesia che mi guardi 100 6.14 Spiare cenni arcani di partenza Davide Pugnana

102 6.15 Vivavox/L’infinito mélo 102 6.16 Saba e la poesia onesta

Luciano Lucignani

50 3.8 Un ricordo Roberto Herlitzka

Massimo Raffaeli

103 6.17 Scusa il ritardo Mark, scusa il ritardo... 104 6.17 Quello che resta da fare ai poeti

52 3.9 Carmelo Bene 51 3.10 Peggio per noi

Umberto Saba

Giancarlo Dotto

54 54 55 56 56 58 58 58 60 61 63 66 66

luca sossella editore

3.11 3.12 3.13 3.14 3.15 3.16 3.17 3.18 3.19 3.20 3.21 3.22 3.23

Meditazione orale Testimonianza e profezia Memoria ex auditu Incipit Incipit di incipit Baliani Bollani Vocalizzare la pagina Popolizio Che cos’è che cos’è? Che cos’è? 2010 Che cos’è? Dai cancelli d’acciaio Vere sustanze son ciò che tu vedi Paolo Giovannetti

110 7.1 TRACCE DELLO SGUARDO 110 7.2 Estetica contemporanea 110 7.3 La ribellione delle arti Edmondo Berselli

112 112 113 114 1 15 116

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Lo spazio critico Il re è nudo Iconografia dell’autore Alighiero e Boetti Cinema Paesaggio con fratello rotto

118 8.1 PAROLE D’ORDINE 118 8.2 Amicizia

68 3.24 Per una fondazione della voce Massimiliano Manganelli e Aldo Mastropasqua

7.4 7.5 7.6 7.7 7.8 7.9

Alberto Abruzzese

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Tabula gratulatoria


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Il secolo lungo

Nostalgia del presente

Proviamo a connettere l’imperativo Just do it! al processo del divenire-impercettibile, o della fusione con l’ambiente circostante. Si delinea allora una sequenza temporale diversa, un mutamento qualitativo di coordinate che si configura come un processo vero e proprio del divenire. E il presente viene inondato da futuri possibili, con un taglio netto rispetto al passato, se per passato intendiamo una sedimentazione di abitudini, un’accumulazione istituzionalizzata di esperienza la cui autorità è garantita dalla memoria dominante o molare e dalle identità che essa produce. Divenire-impercettibile è una sorta di trascendenza che ci immerge nell’impossibile, nell’inaudito: un presente affermativo. È ciò che Deleuze chiama “un evento” – ovvero l’esplosiva realizzazione di un futuro sostenibile. Gli ambienti acustici nel nostro mondo controllato dalla tecnologia hanno la capacità di avvicinare ed evocare l’infinito. Hanno una qualità “postumana” che ricorda gli insetti per quanto riguarda la velocità, l’intensità di tono e variazione che essi producono. Spaziando dall’inaudibile all’inaudito, la musica techno estende le frontiere della nostra percezione collettiva fino all’estremo. La musica contemporanea attua il de-centramento del soggetto umano e produce di conseguenza suoni che riflettono la struttura eterogenea dei soggetti nomadi. Facendo una mappa acustica dei cambiamenti e delle mutazioni di intensità e molteplicità, la musica rizomatica sostituisce l’ideale platonico di armonia, o il modello rappresentativo modernista, con una più coraggiosa ricerca di improbabili sincronizzazioni con forze umane e non umane. Mi sembra una buona rappresentazione dello sforzo etico che ci impegna a creare le condizioni di possibilità per trasposizioni sostenibili nell’era dell’egemonia del bios/zoe. Rosi Braidotti

2.12

2002 Rosi Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, a cura di Anna Maria Crispino. Ecco che cos’è la scrittura: diventare poliglotti nella propria lingua madre. Lo stato nomade, più che dall’atto del viaggiare, è definito da una presa di coscienza che sostiene il desiderio del ribaltamento delle convenzioni date: è una passione politica per il divenire, per la trasformazione o il cambiamento radicale.

La carta geografica del soggetto nomade è di natura intrinsecamente transitoria, implica la necessità di scrivere e riscrivere, leggere e rileggere. Segnala i luoghi di sosta temporanea nel procedere di un percorso di ricerca teorica che si muove su un arco teso: a un estremo, il riconoscimento che le identità sono sempre mutevoli, dunque contingenti

e retrospettive – quello che siamo già stati/e – e all’altro estremo il lavoro per prefigurare quelle forme del soggetto che possiamo diventare.

Coi nomadi non si può parlare. Non conoscono la nostra lingua, anzi non ne hanno neppure una propria. Tra di loro s’intendono come le cornacchie. Di continuo risuona il loro gracchiare. Il nostro modo di vivere, le nostre istituzioni sono loro incomprensibili quanto indifferenti. Perciò rifiutano anche qualsiasi tentativo di intendersi a segni. Puoi slogarti le mascelle e lussarti le mani, ma loro non ti capiscono, né mai ti comprenderanno. Spesso fanno delle smorfie, si muove allora il bianco degli occhi, mentre la bocca si gonfia di bava; ma con questo non voglion né dir qualcosa e neanche spaventare; ma fanno così, perché è loro abitudine. Non si può dire che usino violenza. Dinanzi a un loro intervento ci si fa da parte e si cede tutto. [...] “Come andrà a finire?” ci chiediamo tutti. “Quanto sopporteremo ancora questo peso e tormento? Il palazzo imperiale ha attirato i nomadi, ma non riesce ad allontanarli. Il portone resta chiuso; la guardia che prima entrava e usciva marciando solennemente, se ne sta dietro le inferriate. A noi è affidata la difesa della patria, ma non siamo all’altezza della situazione; né ci siamo mai vantati di esserlo. È un malinteso, ed è quello che ci manda in rovina.” Franz Kafka, Un vecchio foglio

38

2.13

Doveva essere il secolo breve. Le guerre dovevano durare il tempo di un lampo. C’era un orizzonte, raggiunto il quale l’umanità sarebbe stata redenta. E invece il secolo non smette mai di finire, prigioniero degli ex e dei post. I conflitti si spostano, mutano, si smaterializzano: ma continuano a sanguinare. E l’orizzonte non si è avvicinato nemmeno di un passo. Una foschia densa, irrespirabile, lo ha sottratto alla vista. Per cambiare di segno a questa fine che si trascina nel suo finire, occorre cercare indizi di inizi. Idee capaci di collocarsi dopo. Uno sguardo sul fuori, verso l’alterità irriducibile. Per disegnare lo spazio di un altro presente. Per sostituire un’affermazione a tutte le negazioni della modernità. Approfondire la crisi della razionalità e dell’individuo fino a spalancarla. Fino a rovesciarla. Fino a vedere nuove forme di socialità, nuove opportunità per il pensiero, laddove si pensava ci fossero solo il deserto e la barbarie.

2000 Pierre Lévy, Il fuoco liberatore, con la partecipazione di Darcia Labrosse.

2002 François Jullien, Il tempo. Elementi di una filosofia del vivere

2003 Michel Maffesoli, L’istante eterno. Ritorno del tragico nel postmoderno

La porta aperta All’età di dieci anni andavo a scuola con la chiave di casa, perché tornavo prima dei miei genitori, che a volte lavoravano fino a tardi. Una sera d’inverno, arrivato davanti alla porta di casa, cercai la chiave senza trovarla. La casa era isolata. Scendeva la notte. Non avevo la chiave. Aspettai davanti alla porta. Un’ora, due ore, tre ore. I miei genitori non tornavano. Iniziai a pensare che non sarebbero mai più tornati. Mi misi a piangere. Mi sentivo molto solo, abbandonato, esiliato, sventurato. Alla fine arrivarono i miei genitori. “Perché piangi?” mi chiesero; “siccome abbiamo visto che avevi dimenticato la chiave, abbiamo lasciato apposta la porta aperta.” Spinsi la porta. Era aperta. Non mi era nemmeno passato per la testa di provare ad aprirla senza la chiave. Pierre Lévy

Sulla base della mia strategia filosofica, ho tentato, passando per il pensiero cinese, di uscire dalla grande piega del tempo. La Cina, infatti, ha pensato il momento stagionale e la durata, ma non un involto che li contiene entrambi, ossia il tempo omogeneo e astratto. Come può essere, ci si chiede immediatamente, un pensiero che non ha pensato il corpo in movimento, da cui ci deriva la concezione del tempo fisico, come numero del movimento, che non oppone il temporaneo all’eterno o l’essere al divenire, origine della metafisica, e il cui linguaggio, infine, essendo privo di coniugazione non offre la possibilità di opporre differenti tempi, futuro, presente, passato? Esiste allora un’alternativa al pensiero del tempo? Il tentativo di dispiegarla ci porta a considerare, a proposito del tempo, che cosa possa essere la stagione, così come, in riferimento alla dis-tensione temporale che permette un’estensione nel tempo, quale sia la transizione continua che costituisce il processo delle cose. François Jullien

Il grande cambiamento di paradigma che è in corso d’opera rappresenta, dunque, in funzione di questo presenteismo, lo slittamento da una concezione del mondo egocentrizzata verso un’altra lococentrizzata. Nel primo caso, cioè la modernità che si chiude, il primato è accordato a un individuo razionale che vive in una società contrattuale; nel secondo caso, ossia la postmodernità nascente, la posta in gioco è rappresentata da gruppi, da neotribù, che ricoprono degli spazi specifici con cui entrano in accordo. Nel dramma moderno troviamo la pretesa ottimista alla totalità: di me stesso, del mondo, dello Stato. Nel tragico postmoderno, al contrario, troviamo tensione verso l’interezza, che induce alla perdita del piccolo me in un Sé più vasto, quello dell’alterità naturale o sociale. Il narcisismo individualista è drammatico, mentre il primato del tribale, questo sì, è tragico. Michel Maffesoli

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Il secolo lungo

Nostalgia del presente

Proviamo a connettere l’imperativo Just do it! al processo del divenire-impercettibile, o della fusione con l’ambiente circostante. Si delinea allora una sequenza temporale diversa, un mutamento qualitativo di coordinate che si configura come un processo vero e proprio del divenire. E il presente viene inondato da futuri possibili, con un taglio netto rispetto al passato, se per passato intendiamo una sedimentazione di abitudini, un’accumulazione istituzionalizzata di esperienza la cui autorità è garantita dalla memoria dominante o molare e dalle identità che essa produce. Divenire-impercettibile è una sorta di trascendenza che ci immerge nell’impossibile, nell’inaudito: un presente affermativo. È ciò che Deleuze chiama “un evento” – ovvero l’esplosiva realizzazione di un futuro sostenibile. Gli ambienti acustici nel nostro mondo controllato dalla tecnologia hanno la capacità di avvicinare ed evocare l’infinito. Hanno una qualità “postumana” che ricorda gli insetti per quanto riguarda la velocità, l’intensità di tono e variazione che essi producono. Spaziando dall’inaudibile all’inaudito, la musica techno estende le frontiere della nostra percezione collettiva fino all’estremo. La musica contemporanea attua il de-centramento del soggetto umano e produce di conseguenza suoni che riflettono la struttura eterogenea dei soggetti nomadi. Facendo una mappa acustica dei cambiamenti e delle mutazioni di intensità e molteplicità, la musica rizomatica sostituisce l’ideale platonico di armonia, o il modello rappresentativo modernista, con una più coraggiosa ricerca di improbabili sincronizzazioni con forze umane e non umane. Mi sembra una buona rappresentazione dello sforzo etico che ci impegna a creare le condizioni di possibilità per trasposizioni sostenibili nell’era dell’egemonia del bios/zoe. Rosi Braidotti

2.12

2002 Rosi Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, a cura di Anna Maria Crispino. Ecco che cos’è la scrittura: diventare poliglotti nella propria lingua madre. Lo stato nomade, più che dall’atto del viaggiare, è definito da una presa di coscienza che sostiene il desiderio del ribaltamento delle convenzioni date: è una passione politica per il divenire, per la trasformazione o il cambiamento radicale.

La carta geografica del soggetto nomade è di natura intrinsecamente transitoria, implica la necessità di scrivere e riscrivere, leggere e rileggere. Segnala i luoghi di sosta temporanea nel procedere di un percorso di ricerca teorica che si muove su un arco teso: a un estremo, il riconoscimento che le identità sono sempre mutevoli, dunque contingenti

e retrospettive – quello che siamo già stati/e – e all’altro estremo il lavoro per prefigurare quelle forme del soggetto che possiamo diventare.

Coi nomadi non si può parlare. Non conoscono la nostra lingua, anzi non ne hanno neppure una propria. Tra di loro s’intendono come le cornacchie. Di continuo risuona il loro gracchiare. Il nostro modo di vivere, le nostre istituzioni sono loro incomprensibili quanto indifferenti. Perciò rifiutano anche qualsiasi tentativo di intendersi a segni. Puoi slogarti le mascelle e lussarti le mani, ma loro non ti capiscono, né mai ti comprenderanno. Spesso fanno delle smorfie, si muove allora il bianco degli occhi, mentre la bocca si gonfia di bava; ma con questo non voglion né dir qualcosa e neanche spaventare; ma fanno così, perché è loro abitudine. Non si può dire che usino violenza. Dinanzi a un loro intervento ci si fa da parte e si cede tutto. [...] “Come andrà a finire?” ci chiediamo tutti. “Quanto sopporteremo ancora questo peso e tormento? Il palazzo imperiale ha attirato i nomadi, ma non riesce ad allontanarli. Il portone resta chiuso; la guardia che prima entrava e usciva marciando solennemente, se ne sta dietro le inferriate. A noi è affidata la difesa della patria, ma non siamo all’altezza della situazione; né ci siamo mai vantati di esserlo. È un malinteso, ed è quello che ci manda in rovina.” Franz Kafka, Un vecchio foglio

38

2.13

Doveva essere il secolo breve. Le guerre dovevano durare il tempo di un lampo. C’era un orizzonte, raggiunto il quale l’umanità sarebbe stata redenta. E invece il secolo non smette mai di finire, prigioniero degli ex e dei post. I conflitti si spostano, mutano, si smaterializzano: ma continuano a sanguinare. E l’orizzonte non si è avvicinato nemmeno di un passo. Una foschia densa, irrespirabile, lo ha sottratto alla vista. Per cambiare di segno a questa fine che si trascina nel suo finire, occorre cercare indizi di inizi. Idee capaci di collocarsi dopo. Uno sguardo sul fuori, verso l’alterità irriducibile. Per disegnare lo spazio di un altro presente. Per sostituire un’affermazione a tutte le negazioni della modernità. Approfondire la crisi della razionalità e dell’individuo fino a spalancarla. Fino a rovesciarla. Fino a vedere nuove forme di socialità, nuove opportunità per il pensiero, laddove si pensava ci fossero solo il deserto e la barbarie.

2000 Pierre Lévy, Il fuoco liberatore, con la partecipazione di Darcia Labrosse.

2002 François Jullien, Il tempo. Elementi di una filosofia del vivere

2003 Michel Maffesoli, L’istante eterno. Ritorno del tragico nel postmoderno

La porta aperta All’età di dieci anni andavo a scuola con la chiave di casa, perché tornavo prima dei miei genitori, che a volte lavoravano fino a tardi. Una sera d’inverno, arrivato davanti alla porta di casa, cercai la chiave senza trovarla. La casa era isolata. Scendeva la notte. Non avevo la chiave. Aspettai davanti alla porta. Un’ora, due ore, tre ore. I miei genitori non tornavano. Iniziai a pensare che non sarebbero mai più tornati. Mi misi a piangere. Mi sentivo molto solo, abbandonato, esiliato, sventurato. Alla fine arrivarono i miei genitori. “Perché piangi?” mi chiesero; “siccome abbiamo visto che avevi dimenticato la chiave, abbiamo lasciato apposta la porta aperta.” Spinsi la porta. Era aperta. Non mi era nemmeno passato per la testa di provare ad aprirla senza la chiave. Pierre Lévy

Sulla base della mia strategia filosofica, ho tentato, passando per il pensiero cinese, di uscire dalla grande piega del tempo. La Cina, infatti, ha pensato il momento stagionale e la durata, ma non un involto che li contiene entrambi, ossia il tempo omogeneo e astratto. Come può essere, ci si chiede immediatamente, un pensiero che non ha pensato il corpo in movimento, da cui ci deriva la concezione del tempo fisico, come numero del movimento, che non oppone il temporaneo all’eterno o l’essere al divenire, origine della metafisica, e il cui linguaggio, infine, essendo privo di coniugazione non offre la possibilità di opporre differenti tempi, futuro, presente, passato? Esiste allora un’alternativa al pensiero del tempo? Il tentativo di dispiegarla ci porta a considerare, a proposito del tempo, che cosa possa essere la stagione, così come, in riferimento alla dis-tensione temporale che permette un’estensione nel tempo, quale sia la transizione continua che costituisce il processo delle cose. François Jullien

Il grande cambiamento di paradigma che è in corso d’opera rappresenta, dunque, in funzione di questo presenteismo, lo slittamento da una concezione del mondo egocentrizzata verso un’altra lococentrizzata. Nel primo caso, cioè la modernità che si chiude, il primato è accordato a un individuo razionale che vive in una società contrattuale; nel secondo caso, ossia la postmodernità nascente, la posta in gioco è rappresentata da gruppi, da neotribù, che ricoprono degli spazi specifici con cui entrano in accordo. Nel dramma moderno troviamo la pretesa ottimista alla totalità: di me stesso, del mondo, dello Stato. Nel tragico postmoderno, al contrario, troviamo tensione verso l’interezza, che induce alla perdita del piccolo me in un Sé più vasto, quello dell’alterità naturale o sociale. Il narcisismo individualista è drammatico, mentre il primato del tribale, questo sì, è tragico. Michel Maffesoli

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ricordati che esiste pure qualcosa che ha una lingua diversa dalla vostra. Che, dalla sua prigione, qualcuno chiedeva di ritornare all’aria. Che le vostre parole risuonavano tanto meglio in quanto una voce vi era prigioniera. Amplificando i vostri dire di una risonanza senza fine. Luce irigaray

2003 Michel Maffesoli, La parte del diavolo. Elementi di sovversione postmoderna, traduzione di Isabella Pezzini.

2004 François Jullien, Il nudo impossibile

2006 Jean-Luc Nancy, In cielo e in terra. Piccola conferenza su Dio

Questo libro vuole indicare una tendenza di fondo della vita postmoderna: il legame organico del bene e del male, del tragico e dell’esultanza. Stupefacente paradosso, è accettando il male nelle sue diverse modulazioni, che si può trovare una certa gioia di vivere. Amor fati nietzschiano che diventa un “amore del mondo” per quel che è. Amore della necessità empiricamente vissuto e che dunque bisogna adoperarsi a pensare. La vita empirica, che deve essere il nostro referente ultimo, “sa” tutto questo perfettamente. Non vi è nulla di originale nelle pagine che seguono: queste idee sono in tutte le teste. Ma bisogna avere il coraggio di formularle. Niente di originale in ciò che è originario. Forse è proprio quel che voleva sottolineare Heidegger notando la prossimità che c’è in greco tra il dolore e il linguaggio (Algos, Logos). Nei nostri termini, diremo che il dolore della “parola perduta” incita a dare la parola al dolore ritrovato, e in questo modo a (ri)tornare a un umanismo integrale. Quello che sa riconoscere la parte del diavolo. Michel Maffesoli

Quando si raffigura un uomo vestito si cerca di rendere l’essere umano in quanto persona, colta nella sua individualità; ma quando si rappresenta un corpo nudo, si vuole impossessarsi di un’essenza. O piuttosto, lo si voglia o no: è il nudo che fa l’essenza. Inversamente, se la Cina non ha dipinto né scolpito dei nudi, è proprio, in fin dei conti, per una ragione “teorica”: perché non ha concepito – separato e promosso – un piano che consista di essenze e la sua immaginazione, pertanto, non si è compiaciuta delle incarnazioni di essenze che sono, per noi, le figure mitologiche. La lingua cinese può astrarre, ma in compenso, non personifica; l’arte letterata esprime di sbieco, ma senza allegorizzare. François Jullien

Volevo chiedere: dove comincia il cielo? Questo me l’hanno appena spiegato, poco prima che iniziassimo. È stato un astronomo, Daniel Kunth: è lui che me l’ha detto. Mi ha raccontato che gli avevano detto: “Il cielo comincia rasoterra”. Trovo quest’espressione straordinaria. Vuol dire che il cielo è rasente la terra. Parlo usando delle immagini, in maniera simbolica. Vuol dire che non appena finisce la terra comincia il cielo, comincia questa dimensione di apertura. “Rasente” significa però anche: sempre, in ogni posto, a stretto contatto con la terra, c’è il cielo. Jean-Luc Nancy

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pero será

2003 Luce Irigaray, Amante marina

40

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Battesimo dell’ombra E bisognava che tutti voi mi aveste persa di vista perché, verso di voi, io ritornassi con un altro sguardo. E, certo, il più pesante è stato di accostare, per amore, le labbra. Di richiudere questa bocca che sempre voleva scorrere. Ma, senza quel ritiro, non vi sareste mai

but it will be

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ricordati che esiste pure qualcosa che ha una lingua diversa dalla vostra. Che, dalla sua prigione, qualcuno chiedeva di ritornare all’aria. Che le vostre parole risuonavano tanto meglio in quanto una voce vi era prigioniera. Amplificando i vostri dire di una risonanza senza fine. Luce irigaray

2003 Michel Maffesoli, La parte del diavolo. Elementi di sovversione postmoderna, traduzione di Isabella Pezzini.

2004 François Jullien, Il nudo impossibile

2006 Jean-Luc Nancy, In cielo e in terra. Piccola conferenza su Dio

Questo libro vuole indicare una tendenza di fondo della vita postmoderna: il legame organico del bene e del male, del tragico e dell’esultanza. Stupefacente paradosso, è accettando il male nelle sue diverse modulazioni, che si può trovare una certa gioia di vivere. Amor fati nietzschiano che diventa un “amore del mondo” per quel che è. Amore della necessità empiricamente vissuto e che dunque bisogna adoperarsi a pensare. La vita empirica, che deve essere il nostro referente ultimo, “sa” tutto questo perfettamente. Non vi è nulla di originale nelle pagine che seguono: queste idee sono in tutte le teste. Ma bisogna avere il coraggio di formularle. Niente di originale in ciò che è originario. Forse è proprio quel che voleva sottolineare Heidegger notando la prossimità che c’è in greco tra il dolore e il linguaggio (Algos, Logos). Nei nostri termini, diremo che il dolore della “parola perduta” incita a dare la parola al dolore ritrovato, e in questo modo a (ri)tornare a un umanismo integrale. Quello che sa riconoscere la parte del diavolo. Michel Maffesoli

Quando si raffigura un uomo vestito si cerca di rendere l’essere umano in quanto persona, colta nella sua individualità; ma quando si rappresenta un corpo nudo, si vuole impossessarsi di un’essenza. O piuttosto, lo si voglia o no: è il nudo che fa l’essenza. Inversamente, se la Cina non ha dipinto né scolpito dei nudi, è proprio, in fin dei conti, per una ragione “teorica”: perché non ha concepito – separato e promosso – un piano che consista di essenze e la sua immaginazione, pertanto, non si è compiaciuta delle incarnazioni di essenze che sono, per noi, le figure mitologiche. La lingua cinese può astrarre, ma in compenso, non personifica; l’arte letterata esprime di sbieco, ma senza allegorizzare. François Jullien

Volevo chiedere: dove comincia il cielo? Questo me l’hanno appena spiegato, poco prima che iniziassimo. È stato un astronomo, Daniel Kunth: è lui che me l’ha detto. Mi ha raccontato che gli avevano detto: “Il cielo comincia rasoterra”. Trovo quest’espressione straordinaria. Vuol dire che il cielo è rasente la terra. Parlo usando delle immagini, in maniera simbolica. Vuol dire che non appena finisce la terra comincia il cielo, comincia questa dimensione di apertura. “Rasente” significa però anche: sempre, in ogni posto, a stretto contatto con la terra, c’è il cielo. Jean-Luc Nancy

esto no es (todavía) un anuncio

pero será

2003 Luce Irigaray, Amante marina

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Battesimo dell’ombra E bisognava che tutti voi mi aveste persa di vista perché, verso di voi, io ritornassi con un altro sguardo. E, certo, il più pesante è stato di accostare, per amore, le labbra. Di richiudere questa bocca che sempre voleva scorrere. Ma, senza quel ritiro, non vi sareste mai

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luca sossella editore

Steven Connor La voce come medium Storia culturale del ventriloquio

Voce

3.1

3.2

VOCE dial. sard. boze; rum. boce, bocesci gridare; prov. votz; fr. voix; sp. e port. voz; lat. voc-em, acc. di vox, dalla rad. indoeurop. vak-, che è nel sscr. vac’-mi, vi-vac’mi, con raddoppiamento di radice, dico, chiamo, vac’as, zendo vâcs, parola, canzone, vâc’, vac’-anam discorso, linguaggio; e anche l’a. ted. ga wah-an, mod. er-wäh-nen, menzionare, gi-wah-t, menzione, l’ant. pruss. en-wack-è-mai = lat. invocàmus, invochiamo; wackis, grido, l’a. slav. vyk-anije = sloven. e bulg. vik-a clamore, il serb. vik-ati vociferare; gr. ‘èpos per *Fèpos, *Fèk-os, parola, discorso, canto, carme, ‘ops per *Fòps *Fòks voce, canto, discorso (cfr. Convito, Epico, Epopea, Invitare, Ortoepia). Suono che esce dalla laringe umana e anche dalla gola degli animali, e fig. il suono degli strumenti musicali. Vale anche Parola, Vocabolo; fig. Opinione della gente; Voto, Suffragio. “Voce in capitolo” = Frase presa ai capitoli dei canonici e degli ordini monastici, che significa Avere autorità in qualche negozio. Deriv. Vocale, onde Semivocale; Vocerèlla; Vociàccia-ina-one; Vociare, popolarmente Bociare = Gridare; Vociolìna; comp. Equivoco; Vociferare. Comp. da Vocàre Vocàbolo; Vocativo; Vocazione; Avocare; Avvocato; Convocare; Evocare; Invocare; Provocare; Revocare. Cfr. Invitare; Preconizzare.

2007 Steven Connor, La voce come medium. Storia culturale del ventriloquio. La mia voce viene e va. Mentre per voi proviene da me, io la sento fuoriuscire da me. In questo “venire da” e “andare verso” risiedono tutti i problemi e le meraviglie della voce dissociata. La mia voce, innanzitutto, proviene da me in senso corporeo. È prodotta per mezzo dei miei apparati vocali – il respiro, la laringe, i denti, la lingua, il palato e le labbra. È la stessa voce che sento risuonare nella testa, amplificata e modificata dalle ossa del mio cranio, nello stesso istante in cui vedo e ascolto i suoi effetti sul mondo. Il fatto che le emozioni – almeno in Occidente – siano comunemente ritenute localizzate non nella testa ma nel cuore, deve avere senz’altro qualcosa a che vedere con il fatto che la voce è emessa dallo sterno tramite il respiro dei polmoni.

Se la mia voce è uno degli attributi che permettono la mia identificazione, come il colore dei miei occhi, dei capelli e della pelle, o come il mio portamento, il fisico e la punta delle dita, essa è però diversa dagli altri miei attributi per il fatto che non mi appartiene e che non è attaccata a me. Io produco la mia voce in un modo in cui non posso dire di produrre quegli altri attributi. Parlare è eseguire un lavoro, e a volte – come qualunque attore, insegnante o predicatore sa – è un lavoro veramente arduo. Il lavoro ha la voce o le azioni della voce come suo sviluppo e prodotto; dare voce è il

È l’espressione di me stesso, cioè la rinnovata e continua azione di produrre me stesso in quanto agente vocale e produttore di segni e suoni, che afferma questa continuità e questa sostanza. Ciò che una voce, qualsiasi voce, dice sempre, qualuque sia il particolare e parziale significato delle parole che emette, è questo: questa voce, non è soltanto una voce, una particolare combinazione di toni e timbri; è la voce o il farsi voce. Ascoltate, sembra dirci: qualche essere sta emettendo una voce. Steven Connor

Parla la Pizia nel nostro cd1 3.3

Marco Belpoliti

LENGIZ!

LIBRI IN TUTTI I CAMPI DELLA CONOSCENZA ALEXANDER RODCHENKO, 1925

1

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processo che simultaneamente crea un suono articolato e fa sì che il mio essere si auto-produca. Qui, adesso, sono io che parlo; ora, di nuovo, sono sempre io. Se quando parlo do la sensazione a voi e a me stesso di essere più intimamente e costantemente là rispetto ad altre volte, se la voce mi fornisce una persistenza acustica, ciò non avviene perché espello o deposito me stesso tramite la mia voce nell’aria, come la coda di vapore di un aeroplano.

43

“Tuttolibri”, 1 marzo 2008.

La voce, ha scritto uno psicoanalista, Guy Rosolato, è il più grande potere di emanazione del corpo, come sperimentiamo nel pianto dei bambini; il linguaggio per la prima volta nasce nella bocca dolorosamente vuota. Il pianto, scrive Steven Connor in La voce come medium, è la forma più pura dell’accordo tra voce e potere. Il XX secolo appare come dominato dal pianto mediato e amplificato dai mezzi tecnologici, da quello che lo studioso inglese definisce l’uso “aggressivo-sadico della voce”. Il suo libro, uno dei più originali pubblicati negli ultimi anni da un editore italiano, ricostruisce la storia culturale del ventriloquio, ovvero di come si siano per secoli prodotte voci attraverso ciò che non è esattamente una bocca, bensì, come dice l’etimo della parola “ventriloquio”, il ventre. Connor parte da un asserto: non solo le voci sono prodotte dai corpi, ma possono esse stesse produrre corpi. La prima figura di questa voce è quella della Pizia, l’oracolo delfico, voce estatica attraverso cui s’inventa l’idea della profezia come effetto del corpo femminile sconvolto per mezzo di una voce inumana, delirante, violenta: la voce del dio. L’oracolo di Delfi è il punto di contatto e di distinzione tra il pagano e il cristiano, l’irrazionale e il razionale, il femminile e il maschile, il corporeo e lo


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luca sossella editore

Steven Connor La voce come medium Storia culturale del ventriloquio

Voce

3.1

3.2

VOCE dial. sard. boze; rum. boce, bocesci gridare; prov. votz; fr. voix; sp. e port. voz; lat. voc-em, acc. di vox, dalla rad. indoeurop. vak-, che è nel sscr. vac’-mi, vi-vac’mi, con raddoppiamento di radice, dico, chiamo, vac’as, zendo vâcs, parola, canzone, vâc’, vac’-anam discorso, linguaggio; e anche l’a. ted. ga wah-an, mod. er-wäh-nen, menzionare, gi-wah-t, menzione, l’ant. pruss. en-wack-è-mai = lat. invocàmus, invochiamo; wackis, grido, l’a. slav. vyk-anije = sloven. e bulg. vik-a clamore, il serb. vik-ati vociferare; gr. ‘èpos per *Fèpos, *Fèk-os, parola, discorso, canto, carme, ‘ops per *Fòps *Fòks voce, canto, discorso (cfr. Convito, Epico, Epopea, Invitare, Ortoepia). Suono che esce dalla laringe umana e anche dalla gola degli animali, e fig. il suono degli strumenti musicali. Vale anche Parola, Vocabolo; fig. Opinione della gente; Voto, Suffragio. “Voce in capitolo” = Frase presa ai capitoli dei canonici e degli ordini monastici, che significa Avere autorità in qualche negozio. Deriv. Vocale, onde Semivocale; Vocerèlla; Vociàccia-ina-one; Vociare, popolarmente Bociare = Gridare; Vociolìna; comp. Equivoco; Vociferare. Comp. da Vocàre Vocàbolo; Vocativo; Vocazione; Avocare; Avvocato; Convocare; Evocare; Invocare; Provocare; Revocare. Cfr. Invitare; Preconizzare.

2007 Steven Connor, La voce come medium. Storia culturale del ventriloquio. La mia voce viene e va. Mentre per voi proviene da me, io la sento fuoriuscire da me. In questo “venire da” e “andare verso” risiedono tutti i problemi e le meraviglie della voce dissociata. La mia voce, innanzitutto, proviene da me in senso corporeo. È prodotta per mezzo dei miei apparati vocali – il respiro, la laringe, i denti, la lingua, il palato e le labbra. È la stessa voce che sento risuonare nella testa, amplificata e modificata dalle ossa del mio cranio, nello stesso istante in cui vedo e ascolto i suoi effetti sul mondo. Il fatto che le emozioni – almeno in Occidente – siano comunemente ritenute localizzate non nella testa ma nel cuore, deve avere senz’altro qualcosa a che vedere con il fatto che la voce è emessa dallo sterno tramite il respiro dei polmoni.

Se la mia voce è uno degli attributi che permettono la mia identificazione, come il colore dei miei occhi, dei capelli e della pelle, o come il mio portamento, il fisico e la punta delle dita, essa è però diversa dagli altri miei attributi per il fatto che non mi appartiene e che non è attaccata a me. Io produco la mia voce in un modo in cui non posso dire di produrre quegli altri attributi. Parlare è eseguire un lavoro, e a volte – come qualunque attore, insegnante o predicatore sa – è un lavoro veramente arduo. Il lavoro ha la voce o le azioni della voce come suo sviluppo e prodotto; dare voce è il

È l’espressione di me stesso, cioè la rinnovata e continua azione di produrre me stesso in quanto agente vocale e produttore di segni e suoni, che afferma questa continuità e questa sostanza. Ciò che una voce, qualsiasi voce, dice sempre, qualuque sia il particolare e parziale significato delle parole che emette, è questo: questa voce, non è soltanto una voce, una particolare combinazione di toni e timbri; è la voce o il farsi voce. Ascoltate, sembra dirci: qualche essere sta emettendo una voce. Steven Connor

Parla la Pizia nel nostro cd1 3.3

Marco Belpoliti

LENGIZ!

LIBRI IN TUTTI I CAMPI DELLA CONOSCENZA ALEXANDER RODCHENKO, 1925

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processo che simultaneamente crea un suono articolato e fa sì che il mio essere si auto-produca. Qui, adesso, sono io che parlo; ora, di nuovo, sono sempre io. Se quando parlo do la sensazione a voi e a me stesso di essere più intimamente e costantemente là rispetto ad altre volte, se la voce mi fornisce una persistenza acustica, ciò non avviene perché espello o deposito me stesso tramite la mia voce nell’aria, come la coda di vapore di un aeroplano.

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“Tuttolibri”, 1 marzo 2008.

La voce, ha scritto uno psicoanalista, Guy Rosolato, è il più grande potere di emanazione del corpo, come sperimentiamo nel pianto dei bambini; il linguaggio per la prima volta nasce nella bocca dolorosamente vuota. Il pianto, scrive Steven Connor in La voce come medium, è la forma più pura dell’accordo tra voce e potere. Il XX secolo appare come dominato dal pianto mediato e amplificato dai mezzi tecnologici, da quello che lo studioso inglese definisce l’uso “aggressivo-sadico della voce”. Il suo libro, uno dei più originali pubblicati negli ultimi anni da un editore italiano, ricostruisce la storia culturale del ventriloquio, ovvero di come si siano per secoli prodotte voci attraverso ciò che non è esattamente una bocca, bensì, come dice l’etimo della parola “ventriloquio”, il ventre. Connor parte da un asserto: non solo le voci sono prodotte dai corpi, ma possono esse stesse produrre corpi. La prima figura di questa voce è quella della Pizia, l’oracolo delfico, voce estatica attraverso cui s’inventa l’idea della profezia come effetto del corpo femminile sconvolto per mezzo di una voce inumana, delirante, violenta: la voce del dio. L’oracolo di Delfi è il punto di contatto e di distinzione tra il pagano e il cristiano, l’irrazionale e il razionale, il femminile e il maschile, il corporeo e lo


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Voce

spirituale. Origene e San Giovanni Crisostomo sostenevano che la sacerdotessa si accovacciasse su una fessura della roccia e che il demone – così era interpretato il dio pagano – entrava in lei attraverso gli organi genitali e mediante questi stessi organi parlava. “Parlare con la pancia”, detto del ventriloquio, non è altro che una metafora del sesso. Solo a partire dalle capacità riproduttive della voce, evidenziate dalle tecnologie dell’amplificazione, dal telefono al microfono, noi possiamo capire cosa sia stato nel passato remoto il ventriloquio. Gli ultimi capitoli del libro, i più interessanti, mostrano come la nascita del telefono sia parallela alla diffusione dello spiritismo nell’Ottocento, e come il grammofono, padre dei riproduttori moderni, si relazioni con il nostro passato dimenticato. “Il corpo isterico-ventriloquo della concezione arcaica – scrive – è intrappolato nell’apparecchio tecnologico del telefono.” Nell’Ulisse Leopold Bloom riflette sui mezzi per preservare la memoria dei morti e questo lo porta a ipotizzare l’uso del grammofono per mantenere le relazioni tra vivi e morti: un grammofono in ogni tomba. Se il telegrafo rappresentava “le ossa asciutte della corrispondenza”, il telefono appare un medium “miracolosamente umido” con cui trasmettere sospiri, colpi di tosse, tutte le inflessioni della voce umana: la sessualizzazione estrema della voce. Qualcosa di inanimato e insieme di fortemente animato, un aspetto su cui non riflettiamo quasi più, avendo trasformato la comunicazione telefonica in un sostituto del colloquio face to face. Connor ci fa riflettere su moltissime cose, inattese e sorprendenti, come il rapporto tra “l’immaginario vocalico” della cultura americana e la sua forma democratica: le qualità performative della parola vivente; sulla voce come potente mezzo sia sovversivo sia di dominio. Anzi, leggendo La voce come medium si capisce come questi due aspetti siano strettamente intrecciati. Noi moderni, e postmoderni, diffidenti verso ogni cosa, laicizzati e così poco propensi alla superstizione, in realtà di fronte alla voce del ventriloquo siamo spaesati. Connor ci spiega perché: la voce dissociata è la vera dominatrice della società attuale attraverso radio, televisione, dischi, cd. Il ventriloquio rende evidente come l’arcaico non sia scomparso ma si trovi ancora in mezzo a noi, e ci domini ampiamente. Se nelle culture alfabetiche le parole sono pensate come forme di registrazione, capaci di raccogliere i segni delle esperienze e di depositarli in un luogo, nelle culture auditive le parole sono eventi e non solo oggetti mnemonici. È facile vedere qui uno degli aspetti del ritorno dell’oralità di cui ci hanno parlato McLuhan e Ong. La nostra società è tanto auditiva quanto scritta. Una società abitata da eterne voci che echeggiano nelle nostre orecchie attraverso le cuffie di un iPod, oppure risuonano negli spazi aperti riprodotte da un microfono di un leader che parla. Senza il microfono e la radio Hitler non ci sarebbe stato. Nella nostra epoca il conquistatore è sempre “alto-parlante” e, come conclude un vecchio aneddoto riferito da Connor, Stalin è solo Gengis Kahn con un telefono.

La parola disincarnata. 3.4

44

? Intervista a ! Gabriele Frasca.

Attraverso il libro di Steve Connor, La voce come medium, abbiamo imparato che il potere è una voce dissociata. Che l’uomo, prima ancora di parlare, è parlato. In che modo una storia della parola, che è una storia del potere, “inaudita” (è il caso di dirlo) come quella di Connor, può parlare al presente e del presente? Prendiamola così, convocando in prima battuta Lacan: il linguaggio è un parassita, vale a dire un agente patogeno esterno che ci viene inoculato. C’è poco da girarci intorno: siamo condannati a trascorrere tutta la vita con un estraneo, che come se non bastasse si arroga anche il diritto di parlare i nostri pensieri, sotto i quali confonde una specie di nota continua, tecnicamente un ostinato, che ripete senza tregua: “vai, vai, vai...”. Lo diceva con la solita encomiabile orchestrazione di sussurri Beckett: “donde / la voce che dice / vivi // da un’altra vita”. Facile che, alla prima cosa che non va, si finisca col sentire le voci. È un po’ la nostra condanna, certo; solo che, se questa non ci venisse com’è giusto comminata, non ci sarebbe in realtà nemmeno ominazione. Chi aspetta il cyborg per un po’ di postumano, dovrebbe rileggere Darwin e darlo per avvenuto. Ecco perché quando suona disincarnata, la parola ha tanto potere. Fruscia un cespuglio quattro chiacchiere di vento, e si finisce ginocchioni.

Connor ha scritto un’appassionante “storia culturale del ventriloquio”, partendo dagli oracoli per finire alla tragedia delle possessioni e alla farsa dei pupazzi. In realtà, un capitolo dopo l’altro, sono le tecniche con cui si scorpora la parola che il suo saggio analizza, mettendo a giorno il modo in cui funzionano i media, tutti. L’alfabeto, la radiotrasmissione, il digitale non hanno altra funzione che disincarnare la parola, fino a sublimarla in uno spirito che possa incarnarsi di nuovo. La voce che risuona senza corpo ha del miracoloso, perché è come imbattersi direttamente nel parassita, ma è un trucco (e di grandi conseguenze, se è così che avviene fra noi il transito dell’informazione); e a nessuno, messo nelle condizioni estatiche di un tale incontro, viene da pensare che in realtà, scorporato dal suo ospite, il parassita nemmeno vivrebbe. Senza contare che un simile sospetto, se fossimo tanto sani da nutrirlo (come Fedro dopo l’equivoco tête à tête con Socrate), ne ingenererebbe subito un altro: se senza corpo la voce risuona, non è che per caso sta utilizzando la mia carne come cassa di risonanza? È l’aspetto politico, e attuale, della storia del ventriloquio: una voce disincarnata diviene facilmente potere, His Master’s Voice, ma solo a patto che, per essere veramente sottratta al corpo, sia spinta ancora più dentro nella carne, dall’apparato fonatorio (che è il nostro continuo contatto con l’esterno, che neanche a dirlo è solo aria) alle remote profondità del ventre. Qualcosa ci parla dentro. E mica è un problema. Se è per questo, surriscalda Socrate il suo ragazzino incantato, ci scrive pure. Hai parlato spesso della necessità di “fare le orecchie alla pagina”. Che porta con sé la necessità di “ri-fare le orecchie” al lettore, che da oltre cinquecento anni è “tutt’occhi”. Quali sono secondo te le forme (format, formati) che possono permettere alla voce di evadere dalle gabbie tipografiche, per risvegliarci dal “sortilegio” mediale che ci ha ipnotizzato? Tutte quelle che slatentizzano la voce, costringendo a sentirsi, all’unisono, un corpo e un parassita. Il file audio è quello che funziona alla perfezione (ha liberato ai suoi albori persino la musica, come notò per tempo Arnheim), ma anche un libro può esserlo (perché in verità lo è stato). L’udito, lo sappiamo, è con l’olfatto il senso dei sensi dei mammiferi: se una massa di carne appetitosa (quale siamo) aspettasse di imbattersi faccia a faccia con il suo predatore, sarebbe bell’e spacciata. Lo deve invece sentire, facendolo persino risuonare dentro. Il simbolico nasce all’origine fra orecchie e muso, e quanto all’origine stessa, beh è proprio con il muso che ha a che fare, riprogrammando la bocca (os) che in noi diventa viso. È la viseità di cui parlavano Deleuze e Guattari. Da questo punto di vista, come specie, abbiamo fatto del nostro meglio (non staremmo altrimenti nemmeno qui a raccontarcelo). Ci siamo evoluti.... nel superuomo? No, in due mezze cose, con l’interfaccia. Siamo tutti poveri diavoli, due-in-uno, e per fortuna. Il pericolo che corriamo non è ascoltare o parlare le parole degli altri (quali altre parole potremmo mai parlare?), è ritenere invece nostre, e del nostro sprofondo, le parole che sono in superficie, e sono di tutti. Un qualsiasi psicanalista, gira e gira, lì finisce. Ecco perché ci giochiamo tutto fra langue e parole. Non è un passatempo l’arte, è l’ominazione. Quando ascolto una voce, o tiro fuori la mia per leggere un testo, sento quanto è mio (un appartenere), e quanto non lo è eppure in quel momento è ciò che per davvero mi appartiene (e mi fa appartenere). Compio l’arte, che è la congiunzione di due tecniche: quella dell’ascolto e quella del discorso. Cioè sento me e sento l’altro (in me). È il senso del “comandamento nuovo” del vangelo di Giovanni: “amatevi l’un l’altro” (allelus), consapevoli che non ce n’è uno, fra di noi dico, che non sia già di suo un “l’un l’altro”. La cultura tipografica, hai scritto, ha denarrativizzato il sapere, rinchiudendo il racconto nel ghetto dell’intrattenimento. Dobbiamo ritornare a “raccontarci delle storie”, per riappropriarci del sapere? Le lunghe emissioni di silenzio prodotte dalla catena di montaggio tipografica, che ci hanno imposto la lettura silenziosa con cui in realtà mettiamo a nanna i pensieri, servivano al progetto individuale, e individuante, della cultura borghese, tutta proprietà privata ed economia (domestica). C’era insomma bisogno che si contasse per uno, uno e uno e uno, per chiamare all’appello una classe che letteralmente non contava, e aveva l’imperativo di distinguersi dagl’innumerevoli innominabili (mettendo nelle condizioni ogni “eletto” di essere uno, e dunque un valore di variabile). Si è fatta la “sfera pubblica” così, con la letteratura da ruminare in proprio, non certo l’arte. L’arte, lo ripeto, si fa solo se si congiungono due tecniche. Ed è con l’arte che si fa comunità, non certo classe (o schiera in uniforme, o ronda o squadra incamiciata). Devo insomma essere messo nelle condizioni di accorgermi che ho l’extracomunitario in casa, anzi dentro di me, se voglio per davvero appartenere a una comunità. Se non si è in grado di fare questo lavoro, facendo toccare le due mezze cose che siamo attraverso l’arte della voce, rischiamo di diventare lo spettro del nostro cadavere insepolto, alla ricerca della terra che lo contenga. Che ci piaccia o meno, abbiamo invece un corpo, e ne traiamo profitto facendolo schizzare via nel cosmo, solo se seppellito nella voce.

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spirituale. Origene e San Giovanni Crisostomo sostenevano che la sacerdotessa si accovacciasse su una fessura della roccia e che il demone – così era interpretato il dio pagano – entrava in lei attraverso gli organi genitali e mediante questi stessi organi parlava. “Parlare con la pancia”, detto del ventriloquio, non è altro che una metafora del sesso. Solo a partire dalle capacità riproduttive della voce, evidenziate dalle tecnologie dell’amplificazione, dal telefono al microfono, noi possiamo capire cosa sia stato nel passato remoto il ventriloquio. Gli ultimi capitoli del libro, i più interessanti, mostrano come la nascita del telefono sia parallela alla diffusione dello spiritismo nell’Ottocento, e come il grammofono, padre dei riproduttori moderni, si relazioni con il nostro passato dimenticato. “Il corpo isterico-ventriloquo della concezione arcaica – scrive – è intrappolato nell’apparecchio tecnologico del telefono.” Nell’Ulisse Leopold Bloom riflette sui mezzi per preservare la memoria dei morti e questo lo porta a ipotizzare l’uso del grammofono per mantenere le relazioni tra vivi e morti: un grammofono in ogni tomba. Se il telegrafo rappresentava “le ossa asciutte della corrispondenza”, il telefono appare un medium “miracolosamente umido” con cui trasmettere sospiri, colpi di tosse, tutte le inflessioni della voce umana: la sessualizzazione estrema della voce. Qualcosa di inanimato e insieme di fortemente animato, un aspetto su cui non riflettiamo quasi più, avendo trasformato la comunicazione telefonica in un sostituto del colloquio face to face. Connor ci fa riflettere su moltissime cose, inattese e sorprendenti, come il rapporto tra “l’immaginario vocalico” della cultura americana e la sua forma democratica: le qualità performative della parola vivente; sulla voce come potente mezzo sia sovversivo sia di dominio. Anzi, leggendo La voce come medium si capisce come questi due aspetti siano strettamente intrecciati. Noi moderni, e postmoderni, diffidenti verso ogni cosa, laicizzati e così poco propensi alla superstizione, in realtà di fronte alla voce del ventriloquo siamo spaesati. Connor ci spiega perché: la voce dissociata è la vera dominatrice della società attuale attraverso radio, televisione, dischi, cd. Il ventriloquio rende evidente come l’arcaico non sia scomparso ma si trovi ancora in mezzo a noi, e ci domini ampiamente. Se nelle culture alfabetiche le parole sono pensate come forme di registrazione, capaci di raccogliere i segni delle esperienze e di depositarli in un luogo, nelle culture auditive le parole sono eventi e non solo oggetti mnemonici. È facile vedere qui uno degli aspetti del ritorno dell’oralità di cui ci hanno parlato McLuhan e Ong. La nostra società è tanto auditiva quanto scritta. Una società abitata da eterne voci che echeggiano nelle nostre orecchie attraverso le cuffie di un iPod, oppure risuonano negli spazi aperti riprodotte da un microfono di un leader che parla. Senza il microfono e la radio Hitler non ci sarebbe stato. Nella nostra epoca il conquistatore è sempre “alto-parlante” e, come conclude un vecchio aneddoto riferito da Connor, Stalin è solo Gengis Kahn con un telefono.

La parola disincarnata. 3.4

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? Intervista a ! Gabriele Frasca.

Attraverso il libro di Steve Connor, La voce come medium, abbiamo imparato che il potere è una voce dissociata. Che l’uomo, prima ancora di parlare, è parlato. In che modo una storia della parola, che è una storia del potere, “inaudita” (è il caso di dirlo) come quella di Connor, può parlare al presente e del presente? Prendiamola così, convocando in prima battuta Lacan: il linguaggio è un parassita, vale a dire un agente patogeno esterno che ci viene inoculato. C’è poco da girarci intorno: siamo condannati a trascorrere tutta la vita con un estraneo, che come se non bastasse si arroga anche il diritto di parlare i nostri pensieri, sotto i quali confonde una specie di nota continua, tecnicamente un ostinato, che ripete senza tregua: “vai, vai, vai...”. Lo diceva con la solita encomiabile orchestrazione di sussurri Beckett: “donde / la voce che dice / vivi // da un’altra vita”. Facile che, alla prima cosa che non va, si finisca col sentire le voci. È un po’ la nostra condanna, certo; solo che, se questa non ci venisse com’è giusto comminata, non ci sarebbe in realtà nemmeno ominazione. Chi aspetta il cyborg per un po’ di postumano, dovrebbe rileggere Darwin e darlo per avvenuto. Ecco perché quando suona disincarnata, la parola ha tanto potere. Fruscia un cespuglio quattro chiacchiere di vento, e si finisce ginocchioni.

Connor ha scritto un’appassionante “storia culturale del ventriloquio”, partendo dagli oracoli per finire alla tragedia delle possessioni e alla farsa dei pupazzi. In realtà, un capitolo dopo l’altro, sono le tecniche con cui si scorpora la parola che il suo saggio analizza, mettendo a giorno il modo in cui funzionano i media, tutti. L’alfabeto, la radiotrasmissione, il digitale non hanno altra funzione che disincarnare la parola, fino a sublimarla in uno spirito che possa incarnarsi di nuovo. La voce che risuona senza corpo ha del miracoloso, perché è come imbattersi direttamente nel parassita, ma è un trucco (e di grandi conseguenze, se è così che avviene fra noi il transito dell’informazione); e a nessuno, messo nelle condizioni estatiche di un tale incontro, viene da pensare che in realtà, scorporato dal suo ospite, il parassita nemmeno vivrebbe. Senza contare che un simile sospetto, se fossimo tanto sani da nutrirlo (come Fedro dopo l’equivoco tête à tête con Socrate), ne ingenererebbe subito un altro: se senza corpo la voce risuona, non è che per caso sta utilizzando la mia carne come cassa di risonanza? È l’aspetto politico, e attuale, della storia del ventriloquio: una voce disincarnata diviene facilmente potere, His Master’s Voice, ma solo a patto che, per essere veramente sottratta al corpo, sia spinta ancora più dentro nella carne, dall’apparato fonatorio (che è il nostro continuo contatto con l’esterno, che neanche a dirlo è solo aria) alle remote profondità del ventre. Qualcosa ci parla dentro. E mica è un problema. Se è per questo, surriscalda Socrate il suo ragazzino incantato, ci scrive pure. Hai parlato spesso della necessità di “fare le orecchie alla pagina”. Che porta con sé la necessità di “ri-fare le orecchie” al lettore, che da oltre cinquecento anni è “tutt’occhi”. Quali sono secondo te le forme (format, formati) che possono permettere alla voce di evadere dalle gabbie tipografiche, per risvegliarci dal “sortilegio” mediale che ci ha ipnotizzato? Tutte quelle che slatentizzano la voce, costringendo a sentirsi, all’unisono, un corpo e un parassita. Il file audio è quello che funziona alla perfezione (ha liberato ai suoi albori persino la musica, come notò per tempo Arnheim), ma anche un libro può esserlo (perché in verità lo è stato). L’udito, lo sappiamo, è con l’olfatto il senso dei sensi dei mammiferi: se una massa di carne appetitosa (quale siamo) aspettasse di imbattersi faccia a faccia con il suo predatore, sarebbe bell’e spacciata. Lo deve invece sentire, facendolo persino risuonare dentro. Il simbolico nasce all’origine fra orecchie e muso, e quanto all’origine stessa, beh è proprio con il muso che ha a che fare, riprogrammando la bocca (os) che in noi diventa viso. È la viseità di cui parlavano Deleuze e Guattari. Da questo punto di vista, come specie, abbiamo fatto del nostro meglio (non staremmo altrimenti nemmeno qui a raccontarcelo). Ci siamo evoluti.... nel superuomo? No, in due mezze cose, con l’interfaccia. Siamo tutti poveri diavoli, due-in-uno, e per fortuna. Il pericolo che corriamo non è ascoltare o parlare le parole degli altri (quali altre parole potremmo mai parlare?), è ritenere invece nostre, e del nostro sprofondo, le parole che sono in superficie, e sono di tutti. Un qualsiasi psicanalista, gira e gira, lì finisce. Ecco perché ci giochiamo tutto fra langue e parole. Non è un passatempo l’arte, è l’ominazione. Quando ascolto una voce, o tiro fuori la mia per leggere un testo, sento quanto è mio (un appartenere), e quanto non lo è eppure in quel momento è ciò che per davvero mi appartiene (e mi fa appartenere). Compio l’arte, che è la congiunzione di due tecniche: quella dell’ascolto e quella del discorso. Cioè sento me e sento l’altro (in me). È il senso del “comandamento nuovo” del vangelo di Giovanni: “amatevi l’un l’altro” (allelus), consapevoli che non ce n’è uno, fra di noi dico, che non sia già di suo un “l’un l’altro”. La cultura tipografica, hai scritto, ha denarrativizzato il sapere, rinchiudendo il racconto nel ghetto dell’intrattenimento. Dobbiamo ritornare a “raccontarci delle storie”, per riappropriarci del sapere? Le lunghe emissioni di silenzio prodotte dalla catena di montaggio tipografica, che ci hanno imposto la lettura silenziosa con cui in realtà mettiamo a nanna i pensieri, servivano al progetto individuale, e individuante, della cultura borghese, tutta proprietà privata ed economia (domestica). C’era insomma bisogno che si contasse per uno, uno e uno e uno, per chiamare all’appello una classe che letteralmente non contava, e aveva l’imperativo di distinguersi dagl’innumerevoli innominabili (mettendo nelle condizioni ogni “eletto” di essere uno, e dunque un valore di variabile). Si è fatta la “sfera pubblica” così, con la letteratura da ruminare in proprio, non certo l’arte. L’arte, lo ripeto, si fa solo se si congiungono due tecniche. Ed è con l’arte che si fa comunità, non certo classe (o schiera in uniforme, o ronda o squadra incamiciata). Devo insomma essere messo nelle condizioni di accorgermi che ho l’extracomunitario in casa, anzi dentro di me, se voglio per davvero appartenere a una comunità. Se non si è in grado di fare questo lavoro, facendo toccare le due mezze cose che siamo attraverso l’arte della voce, rischiamo di diventare lo spettro del nostro cadavere insepolto, alla ricerca della terra che lo contenga. Che ci piaccia o meno, abbiamo invece un corpo, e ne traiamo profitto facendolo schizzare via nel cosmo, solo se seppellito nella voce.

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Voce

3.5

2000 Antologia personale di Vittorio Gassman. Poesia italiana dell’Ottocento e del Novecento. Quattro cd audio a cura di Luca Sossella; prefazione di Mario Luzi; musica di Nicola Piovani. Voci: Vittorio Gassman, Franca Nuti, Roberto Herlitzka, Lina Sastri, Franco Giacobini, Ludovica Modugno, Paola Pavese, Paolo Giuranna. L’arte – sosteneva Leopardi – accresce la vitalità dell’uomo. E in Mario Luzi, che ringraziamo per il viatico donato a questa nostra iniziativa, riecheggia lo stesso pensiero quando dice: “La poesia aggiunge vita alla vita. Una vita al quadrato.” Bastano queste premesse e promesse di felicità, di vitalità, a innamorarci della poesia, a sentirne – direi – la necessità in tempi duri e cupi come quelli che viviamo. In quanto alla mia modesta esperienza personale, posso dire di aver spesso trovato nella poesia elementi di consolazione, di chiarificazione e di stupore,

perché i veri poeti ci stupiscono sempre un po’. I poeti realizzano il piccolo miracolo laico invocato da Dostoevskij: d’accordo, sappiamo che due più due fa quattro, ma quanto più bello sarebbe se almeno una volta facesse cinque. Da tutto questo risulta evidente – io spero – il senso niente affatto professorale, anzi, tutto privato, che mi ha deciso a realizzare questa antologia, e lo stesso dicasi dei criteri seguiti nella scelta dei testi e dei collaboratori. Infatti, salva la personalità e libertà stilistica di ciascuno, credo che si sia imparentati fra noi da alcune convinzioni

comuni che sintetizzo. Primo: se un’opera è scritta in versi un motivo c’è e va rispettato. Secondo: in ogni testo di un vero poeta si celebra la conciliazione tra Apollo e Dioniso, razionale e irrazionale. Quindi la passione va accompagnata dalla tecnica. Quanto all’annoso e uggioso quesito se la poesia sia o no recitabile, io non scorderò mai il senso di gioiosa libertà che emanava dalle recite di alcuni grandi dicitori che ho ascoltato, e non scorderò mai i tanti poeti con cui mi sono alternato nella dizione pubblica dei loro versi, da Pasolini a Evtusenko, da Rafael Alberti a Pablo Neruda. Vittorio Gassman

Traghettare la poesia nel terzo millennio 3.6

46

Luca Sossella

Il diciannove aprile del millenovecentonavantanove abbiamo iniziato la registrazione delle voci. Avevamo già scelto e ricomposto in un collage i testi di alcuni poeti dell’Otttocento e del Novecento: l’idea, all’origine del progetto, subito dopo il primo incontro con Vittorio Gassman a Trieste, era di scrivere un libro nuovo con testi già scritti: una forma di ars combinatoria che disponeva i testi in un cielo riconoscibile per i lettori di poesia a venire. A Genova, secondo incontro, si era deciso di procedere a ritroso dal Novecento alle origini della lingua italiana. A Bologna, terzo incontro, eravamo consapevoli che solo l’amore per l’iperbole ci permetteva di inserire alcuni poeti, provocatoriamente, ed escluderne altri. Seguirono incontri settimanali, e a fine settembre tutte le voci erano registrate. Ora dobbiamo togliere, diceva. Togliere, levare. Dovrà essere un’opera lieve. Non è un’antologia. È una nuova poesia lunga due secoli. Una tecnica letteraria fra le tante, ripresa dalla stoiografia ottocentesca, prossima all’ambizione di Walter Benjamin di scrivere un libro fatto solo di citazioni. La tendenza del teatro della chiacchiera è di dar voce, disse Vittorio, la nostra operazione invece vorrà, in fuga dalla volgarità, subtrahere piuttosto che deducere. Giurammo sulle nostre spade (poetiche) che la metafora alchemica avrebbe dovuto essere il decanthare.


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Voce

3.5

2000 Antologia personale di Vittorio Gassman. Poesia italiana dell’Ottocento e del Novecento. Quattro cd audio a cura di Luca Sossella; prefazione di Mario Luzi; musica di Nicola Piovani. Voci: Vittorio Gassman, Franca Nuti, Roberto Herlitzka, Lina Sastri, Franco Giacobini, Ludovica Modugno, Paola Pavese, Paolo Giuranna. L’arte – sosteneva Leopardi – accresce la vitalità dell’uomo. E in Mario Luzi, che ringraziamo per il viatico donato a questa nostra iniziativa, riecheggia lo stesso pensiero quando dice: “La poesia aggiunge vita alla vita. Una vita al quadrato.” Bastano queste premesse e promesse di felicità, di vitalità, a innamorarci della poesia, a sentirne – direi – la necessità in tempi duri e cupi come quelli che viviamo. In quanto alla mia modesta esperienza personale, posso dire di aver spesso trovato nella poesia elementi di consolazione, di chiarificazione e di stupore,

perché i veri poeti ci stupiscono sempre un po’. I poeti realizzano il piccolo miracolo laico invocato da Dostoevskij: d’accordo, sappiamo che due più due fa quattro, ma quanto più bello sarebbe se almeno una volta facesse cinque. Da tutto questo risulta evidente – io spero – il senso niente affatto professorale, anzi, tutto privato, che mi ha deciso a realizzare questa antologia, e lo stesso dicasi dei criteri seguiti nella scelta dei testi e dei collaboratori. Infatti, salva la personalità e libertà stilistica di ciascuno, credo che si sia imparentati fra noi da alcune convinzioni

comuni che sintetizzo. Primo: se un’opera è scritta in versi un motivo c’è e va rispettato. Secondo: in ogni testo di un vero poeta si celebra la conciliazione tra Apollo e Dioniso, razionale e irrazionale. Quindi la passione va accompagnata dalla tecnica. Quanto all’annoso e uggioso quesito se la poesia sia o no recitabile, io non scorderò mai il senso di gioiosa libertà che emanava dalle recite di alcuni grandi dicitori che ho ascoltato, e non scorderò mai i tanti poeti con cui mi sono alternato nella dizione pubblica dei loro versi, da Pasolini a Evtusenko, da Rafael Alberti a Pablo Neruda. Vittorio Gassman

Traghettare la poesia nel terzo millennio 3.6

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Luca Sossella

Il diciannove aprile del millenovecentonavantanove abbiamo iniziato la registrazione delle voci. Avevamo già scelto e ricomposto in un collage i testi di alcuni poeti dell’Otttocento e del Novecento: l’idea, all’origine del progetto, subito dopo il primo incontro con Vittorio Gassman a Trieste, era di scrivere un libro nuovo con testi già scritti: una forma di ars combinatoria che disponeva i testi in un cielo riconoscibile per i lettori di poesia a venire. A Genova, secondo incontro, si era deciso di procedere a ritroso dal Novecento alle origini della lingua italiana. A Bologna, terzo incontro, eravamo consapevoli che solo l’amore per l’iperbole ci permetteva di inserire alcuni poeti, provocatoriamente, ed escluderne altri. Seguirono incontri settimanali, e a fine settembre tutte le voci erano registrate. Ora dobbiamo togliere, diceva. Togliere, levare. Dovrà essere un’opera lieve. Non è un’antologia. È una nuova poesia lunga due secoli. Una tecnica letteraria fra le tante, ripresa dalla stoiografia ottocentesca, prossima all’ambizione di Walter Benjamin di scrivere un libro fatto solo di citazioni. La tendenza del teatro della chiacchiera è di dar voce, disse Vittorio, la nostra operazione invece vorrà, in fuga dalla volgarità, subtrahere piuttosto che deducere. Giurammo sulle nostre spade (poetiche) che la metafora alchemica avrebbe dovuto essere il decanthare.


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Poco prima del sipario

Voce

E in quel momento, scherzando, ma la voe mi tremava, gli recitai, si fa per dire, imitandolo, l’epigramma di Marziale: “I versi che declami sono miei / Fidentino: ma se li dici male / ecco, diventano tuoi.” “Ma se li dico bene, ecco diventano miei”, concluse Vittorio. “Sai perché stiamo facendo quesa operazione?” mi chiese un giorno, mentre stavamo registrando il quarto cd – la chiamava operazione. Banalmente gli dissi che credevo di saperlo. “Te lo dico io perché: siamo obbligati a farlo dal disgusto per ciò che siamo costretti a pensare e a dire.” Vittorio era abitato da un angelo che aveva in odio la volgarità. Dopo la traversata dell’assenza mi trovo nella tranquilla malinconia del silenzio: potresti anche sostituire i termini: sono intercambiabili – è sempre il vuoto. Ho atteso una tua telefonata. Scusa Vittorio, non volevo disturbarti. Non importa, so bene che piuttosto che parlare del disgraziato quotidiano è meglio rimanere in silenzio. Il silenzio sollecita mille risposte e pone mille domande. La senti la voce, le notti insonni. Ognuno possiede l’inferno che si è guadagnato. L’inadattabilità è una costante oltre la storia, di tutta la storia. Il dolore è privilegio. E io sono privilegiato. Moltissimo. Mi sembra di aver doppiato la sofferenza, e lo dico senza preoccuparmi degli idioti che hanno fatto della sofferenza un esercizio letterario, ma, vedi, non esiste una gradazione del male: non ci sono i minimi e i massimi dolori: il dolore copre uno spazio e lo copre sempre tutto. La separazione da sé è davvero indicibile. Io non ho paura dell’ovvio, di sembrare banale, e non lo sono se ti dico che ho assistito alla mia rinascita. Ho visto nel suono buio dell’acqua la descrizione dell’ansia. Come una scrittura. Una scrittura. Un alfabeto non mio, ma a me comprensibile, però senza corrispettivo: intraducibile. Mi sono ascoltato, senza menzogne e senza ragione, con poco oro, tutto il mio oro. Dopo non avrai più bisogno di tradurre, di descrivere in una lingua che non ci appartiene, nella lingua di nessuno. La partitura era composta. A maggio del duemila (dopo la decantazione) sono state tolte alcune interpretazioni, riascoltate, corrette, tolte definitivamente. Bisogna essere puntuali, diceva. Alla fine gli dissi: “Questo era un mio sogno. E si è realizzato.” Dicono male che il tal desiderio è stato soddisfatto. Non si soddisfano i desideri, conseguito che ne abbiamo l’oggetto, ma si spengono, cioè si perdono e abbandonano per la certezza acquistata di non poterli mai soddisfare. – Leopardi? – Bravo, Leopardi, sì. Era l’ultima volta che vedevo Vittorio. L’ho sentito ancora al telefono, due volte, e ogni volta che mi parlava della sua fragilità, mi sento fragile, gracile, diceva, avvertivo il senso dell’eredità nel contenuto dell’operazione e il lascito di un mandato. Controluce, nell’inferno della volgarità del quotidiano, vi era la passione puntuale di traghettare la poesia per i lettori a venire.

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3.7

Luciano Lucignani

L’autunno del 1997. Un tempo così vicino, e ormai così lontano. Eravamo a Bologna, in una tappa della tournée di Anima e corpo. Seduti a un caffè non distante dall’Arena del Sole, il teatro dove recitavamo, prendevamo un gelato. A un tratto Vittorio allontanò da sé il bicchiere ormai vuoto, dette un’occhiata all’orologio e ruppe il silenzio: “Dobbiamo andarcene. Alle sette abbiamo un appuntamento.” “Abbiamo?”, dissi io. “C’entro anch’io?” “Tu soprattutto.” Mise una banconota sul tavolo, poggiandoci sopra il bicchiere perché non volasse via, e si alzò. “Andiamo al mio albergo.” “Potrei sapere qualche cosa di più?”, azzardai. “Ne so poco anch’io. Comunque... Mi ha telefonato un giovane editore. Di qui, di Bologna. Vuole fare una serie di dischi sulla poesia italiana. O meglio dei compact disc, dei CD, insomma.” “È un lavoro che riguarda te. Tu dici i versi, io no.” “Certo. Ma c’è tutto un lavoro da fare. Scegliere i poeti, trovare gli interpreti, preparare le note biografiche. Insomma, tutto quello che c’è da fare. Io voglio occuparmene. Ho il tempo. E la voglia. Ma vorrei che tu mi aiutassi in questa operazione.”

Incontrammo il nostro futuro editore nella hall dell’Hotel Roma, dove Vittorio abitava. Luca Sossella, un giovane alto, gioviale e severo, camicia bianca e impeccabile vestito scuro. Su invito di Vittorio Sossella espose il suo piano. Pubblicare una serie di CD audio che avrebbero dovuto contenere una scelta della poesia italiana, dalle origini fino a oggi. Suggeriva di cominciare con la poesia moderna, da Foscolo in poi, per agganciare più facilmente gli eventuali acquirenti. Vittorio avrebbe avuto la direzione dell’impresa e avrebbe inciso una parte delle poesia scelte. “Avrò bisogno di alcuni collaboratori”, disse Vittorio, quando Sossella ebbe terminato la sua esposizione. “Lui”, e accennò a me, “per tutta la parte organizzativa, poi altri dicitori di versi. Ce ne sono alcuni bravissimi, per esempio Franca Nuti e Roberto Herlitzka. Ma possiamo aggiungerne altri, per certe cose speciali: Lina Sastri per le poesie in dialetto napoletano, Paolo Giuranna, Renzo Giovampietro, forse anche Nino Manfredi...” La serata finì in un tripudio d’entusiasmo; tutto lasciava prevedere che presto ci saremmo messi all’opera. Invece non fu così. Era difficile lavorare durante la tournée, e rimandammo tutto al nostro ritorno a Roma.

La scelta degli autori e delle poesie non fu difficile. Ma impiegò più tempo del previsto per la precisione con la quale Vittorio volle stabilire la durata di ciascun pezzo, in modo che alla fine ogni CD avesse la lunghezza prevista. L’esecuzione dai vari brani non comportò particolari difficoltà. A parte alcune defezioni, del resto previste (Giovampietro con problemi di salute, Manfredi con precedenti impegni di lavoro televisivo) tutto andò nel migliore dei modi. Vittorio fece la parte del leone, com’era, del resto, nei piani, e sia la Nuti che Herlitzka furono al meglio delle loro qualità (l’ascoltatore può rendersene conto da alcuni brani di Pascoli e di Saba detti dalla Nuti, e da quelli di Leopardi interpretati da Herlitzka). In accordo con Sossella chiedemmo a Mario Luzi di dettare una breve introduzione alla nostra scelta. Tutto era dunque pronto per passare all’edizione, quando sopravvenne la malattia che impedì a Gassman di partecipare a quelle pratiche pubblicitarie necessarie in simili occasioni. Fino all’imprevista, repentina fine del nostro grande attore, il 29 giugno 2000.

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Poco prima del sipario

Voce

E in quel momento, scherzando, ma la voe mi tremava, gli recitai, si fa per dire, imitandolo, l’epigramma di Marziale: “I versi che declami sono miei / Fidentino: ma se li dici male / ecco, diventano tuoi.” “Ma se li dico bene, ecco diventano miei”, concluse Vittorio. “Sai perché stiamo facendo quesa operazione?” mi chiese un giorno, mentre stavamo registrando il quarto cd – la chiamava operazione. Banalmente gli dissi che credevo di saperlo. “Te lo dico io perché: siamo obbligati a farlo dal disgusto per ciò che siamo costretti a pensare e a dire.” Vittorio era abitato da un angelo che aveva in odio la volgarità. Dopo la traversata dell’assenza mi trovo nella tranquilla malinconia del silenzio: potresti anche sostituire i termini: sono intercambiabili – è sempre il vuoto. Ho atteso una tua telefonata. Scusa Vittorio, non volevo disturbarti. Non importa, so bene che piuttosto che parlare del disgraziato quotidiano è meglio rimanere in silenzio. Il silenzio sollecita mille risposte e pone mille domande. La senti la voce, le notti insonni. Ognuno possiede l’inferno che si è guadagnato. L’inadattabilità è una costante oltre la storia, di tutta la storia. Il dolore è privilegio. E io sono privilegiato. Moltissimo. Mi sembra di aver doppiato la sofferenza, e lo dico senza preoccuparmi degli idioti che hanno fatto della sofferenza un esercizio letterario, ma, vedi, non esiste una gradazione del male: non ci sono i minimi e i massimi dolori: il dolore copre uno spazio e lo copre sempre tutto. La separazione da sé è davvero indicibile. Io non ho paura dell’ovvio, di sembrare banale, e non lo sono se ti dico che ho assistito alla mia rinascita. Ho visto nel suono buio dell’acqua la descrizione dell’ansia. Come una scrittura. Una scrittura. Un alfabeto non mio, ma a me comprensibile, però senza corrispettivo: intraducibile. Mi sono ascoltato, senza menzogne e senza ragione, con poco oro, tutto il mio oro. Dopo non avrai più bisogno di tradurre, di descrivere in una lingua che non ci appartiene, nella lingua di nessuno. La partitura era composta. A maggio del duemila (dopo la decantazione) sono state tolte alcune interpretazioni, riascoltate, corrette, tolte definitivamente. Bisogna essere puntuali, diceva. Alla fine gli dissi: “Questo era un mio sogno. E si è realizzato.” Dicono male che il tal desiderio è stato soddisfatto. Non si soddisfano i desideri, conseguito che ne abbiamo l’oggetto, ma si spengono, cioè si perdono e abbandonano per la certezza acquistata di non poterli mai soddisfare. – Leopardi? – Bravo, Leopardi, sì. Era l’ultima volta che vedevo Vittorio. L’ho sentito ancora al telefono, due volte, e ogni volta che mi parlava della sua fragilità, mi sento fragile, gracile, diceva, avvertivo il senso dell’eredità nel contenuto dell’operazione e il lascito di un mandato. Controluce, nell’inferno della volgarità del quotidiano, vi era la passione puntuale di traghettare la poesia per i lettori a venire.

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Luciano Lucignani

L’autunno del 1997. Un tempo così vicino, e ormai così lontano. Eravamo a Bologna, in una tappa della tournée di Anima e corpo. Seduti a un caffè non distante dall’Arena del Sole, il teatro dove recitavamo, prendevamo un gelato. A un tratto Vittorio allontanò da sé il bicchiere ormai vuoto, dette un’occhiata all’orologio e ruppe il silenzio: “Dobbiamo andarcene. Alle sette abbiamo un appuntamento.” “Abbiamo?”, dissi io. “C’entro anch’io?” “Tu soprattutto.” Mise una banconota sul tavolo, poggiandoci sopra il bicchiere perché non volasse via, e si alzò. “Andiamo al mio albergo.” “Potrei sapere qualche cosa di più?”, azzardai. “Ne so poco anch’io. Comunque... Mi ha telefonato un giovane editore. Di qui, di Bologna. Vuole fare una serie di dischi sulla poesia italiana. O meglio dei compact disc, dei CD, insomma.” “È un lavoro che riguarda te. Tu dici i versi, io no.” “Certo. Ma c’è tutto un lavoro da fare. Scegliere i poeti, trovare gli interpreti, preparare le note biografiche. Insomma, tutto quello che c’è da fare. Io voglio occuparmene. Ho il tempo. E la voglia. Ma vorrei che tu mi aiutassi in questa operazione.”

Incontrammo il nostro futuro editore nella hall dell’Hotel Roma, dove Vittorio abitava. Luca Sossella, un giovane alto, gioviale e severo, camicia bianca e impeccabile vestito scuro. Su invito di Vittorio Sossella espose il suo piano. Pubblicare una serie di CD audio che avrebbero dovuto contenere una scelta della poesia italiana, dalle origini fino a oggi. Suggeriva di cominciare con la poesia moderna, da Foscolo in poi, per agganciare più facilmente gli eventuali acquirenti. Vittorio avrebbe avuto la direzione dell’impresa e avrebbe inciso una parte delle poesia scelte. “Avrò bisogno di alcuni collaboratori”, disse Vittorio, quando Sossella ebbe terminato la sua esposizione. “Lui”, e accennò a me, “per tutta la parte organizzativa, poi altri dicitori di versi. Ce ne sono alcuni bravissimi, per esempio Franca Nuti e Roberto Herlitzka. Ma possiamo aggiungerne altri, per certe cose speciali: Lina Sastri per le poesie in dialetto napoletano, Paolo Giuranna, Renzo Giovampietro, forse anche Nino Manfredi...” La serata finì in un tripudio d’entusiasmo; tutto lasciava prevedere che presto ci saremmo messi all’opera. Invece non fu così. Era difficile lavorare durante la tournée, e rimandammo tutto al nostro ritorno a Roma.

La scelta degli autori e delle poesie non fu difficile. Ma impiegò più tempo del previsto per la precisione con la quale Vittorio volle stabilire la durata di ciascun pezzo, in modo che alla fine ogni CD avesse la lunghezza prevista. L’esecuzione dai vari brani non comportò particolari difficoltà. A parte alcune defezioni, del resto previste (Giovampietro con problemi di salute, Manfredi con precedenti impegni di lavoro televisivo) tutto andò nel migliore dei modi. Vittorio fece la parte del leone, com’era, del resto, nei piani, e sia la Nuti che Herlitzka furono al meglio delle loro qualità (l’ascoltatore può rendersene conto da alcuni brani di Pascoli e di Saba detti dalla Nuti, e da quelli di Leopardi interpretati da Herlitzka). In accordo con Sossella chiedemmo a Mario Luzi di dettare una breve introduzione alla nostra scelta. Tutto era dunque pronto per passare all’edizione, quando sopravvenne la malattia che impedì a Gassman di partecipare a quelle pratiche pubblicitarie necessarie in simili occasioni. Fino all’imprevista, repentina fine del nostro grande attore, il 29 giugno 2000.

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Voce

Un ricordo 3.8

Roberto Herlitzka

Non vorrei fare come quegli attori che, parlando di un grande collega scomparso, finiscono per citare e lodare soprattutto se stessi, ma forse oggi proprio quel grande mi induce a farlo, perché ha cominciato lui, prima additandomi pubblicamente, insieme a pochi altri, come buon lettore di Dante, e chiamandomi poi a recitarlo accanto a sé, con Ugo Pagliai e Paola Gassman, auspice Antonio Calenda, sul palco del teatro Rossetti di Trieste, dove, dopo quarant’anni e più che lo incontravo soltanto da spettatore, condividemmo gli applausi, il mare di pubblico e anche giornate in cui sentii tutto il fascino privato dell’uomo di cui conoscevo soltanto quello scenico. Mi ha dato ancora quest’altra occasione, che avrebbe dovuto iniziare una collaborazione e invece purtroppo la conclude, lasciandomi e risvegliandomi ricordi preziosi e riflessioni che vorrei riferirvi. Comincio raccontando un episodio minimo e personale, che mi sarebbe parso impensabile un giorno divulgare, e che ho confidato solo a mia moglie, un anno dopo che era successo. Non sono neanche sicuro di far bene, ma lo faccio lo stesso, intanto perché, se permettete, me ne voglio vantare, e poi perché, ripensandoci, mi ha fatto capire una cosa importante. Eravamo seduti accanto nello studio di registrazione, e stavamo ascoltando o aspettando o ragionando, non ricordo di preciso, e lui mi ha detto: “io ti voglio tanto bene”, con un tono fraterno, antico e adolescenziale, come di chi ha scoperto un compagno di scuola, con cui sente di condividere, o di aver potuto condividere qualcosa di essenziale. Non so come reagii, certo balbettando qualche inadeguata fesseria; immaginate un po’ di sedervi accanto al Mosè di Michelangelo e sentirlo che vi dice: “ti voglio bene”. Uno ci rimane, si domanda: “Ah ma allora parla, perché gli hanno chiesto perché non parli?” Ma Gassman era un Mosè che parlava, e io ho capito il perché: eravamo immersi nella poesia, e lui ha sentito che io, come lui, sulla poesia fondavo tutta la mia vita di attore. Per Gassman la poesia, intendo la poesia come letteratura, era la materia viva, da cui nasce il nostro lavoro, o se vogliamo chiamarlo col suo nome, la nostra arte. Certo ci sono poi le mille sacrosante escursioni in tutte le forme di spettacolo, ma la base, la radice vera è quella e beato chi lo sente e lo capisce. Gli attori italiani, con tutto il rispetto e fatte le debite eccezioni, considerano i versi come un ramo collaterale, opzionale del loro repertorio, nel quale eventualmente esibirsi gratificando gli uditori. Io credo che Gassman si sia sentito un po’ isolato in questo campo, e non solo per la sua eccellenza, e forse ha riconosciuto in me un connivente. E a proposito di versi, concludo con due o tre ricordi che lo riguardano. Tantissimi anni fa ascoltai un suo disco in cui recitava un sonetto di Foscolo, Alla sera. All’ultimo verso dove dice “dorme” fece uno scarto di tono inobliabile che dava tutto il senso della gravità fatale di quella poesia. Basterebbe quel “dorme” a dimostrare che la poesia non va semplicemente letta, ma interpretata, esattamente come il teatro, esattamente come la musica, per trasmettere agli altri anche una sola delle infinite cose che ciascuno vi può trovare. Tant’è vero che quando la leggiamo internamente, se ne siamo colpiti ne facciamo, dentro la nostra mente, una rappresentazione senza risparmi. All’attore il compito, difficilissimo ma legittimo, di comunicare le sue scoperte in modo efficace e credibile per tutti, o almeno per qualcuno. E ancora di quel tempo lontano ricordo il modo in cui disse: “l’anima stanca accogli” nel finale dell’Adelchi di Manzoni. Oggi si tende ad appianare la recitazione, con risultati spesso indiscutibili perché plausibili; ma gli attori che hanno provato, e ancora provano, a toccare tutti i tasti del loro strumento, e a estenderne la portata, possono sbagliare più facilmente, ma quando non sbagliano raggiungono lo spirito di chi ascolta in modo ben più che plausibile. Un ultimo ricordo: quando eravamo a Trieste Gassman disse il XXXIII del Paradiso, durante il quale ebbe non dico qualche mancamento ma qualche sospensione di memoria. Non penso affatto che il pubblico lo abbia avvertito, ma che abbia sentito qualcosa di simile a quello che io, sperando che la mia notazione gli suonasse, come era, un complimento estremo, poi gli dissi: “Tale era la tensione cosmica della tua recitazione, che quelle pause, invece che allentarla, vi entravano come spazi siderali.”

3.9

2003 Voce dei Canti di Giacomo Leopardi “Meglio non veder niente ma sentire come si deve” raccomandò Carmelo Bene a chi assisteva all’evento memorabile Voce dei Canti, di cui fu protagonista nel 1998, nel bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi. Un documento video straordinario di tre ore e mezza, per la prima volta in DVD. Un laboratorio orale in divenire, proprio una scuola necessaria, giacché “non insegnandosi più il verso, da noi, il calo di qualità e di talento è ormai irrimediabile. L’orecchio se n’è andato”, disse Carmelo Bene. La voce è

E dopo tanta celebrazione poetica, se ci fosse Gassman sarebbe arrivato il momento di qualche giocoso sberleffo; ma lui non c’è più e senza di lui ci è un po’ passata la voglia di giocare.

50

Alla fine Carmelo Bene è arrivato a coincidere con il proprio desiderio. Essere pura voce. Risuonare, e basta, dentro ognuno dei suoi ascoltatori. La sua voce è un fantasma sempre ritornante, che ci fa eco dentro per dirci, per dire che ci riguarda: riguarda noi, “vivi a casaccio”, che sputiamo sulla vita che è stata, noi che non saremo mai, perché “solo è chi manca, e perciò ritorna.”

51

scritta per essere cantata e la fierezza fragile e onnipotente del più grande poeta moderno, il suo delirio cosmico, vengono restituiti da Bene a pura oralità, “un terzo orecchio dell’inconscio”. Voce dei Canti è uno spettacolo labirintico e risonante d’arcani rinvii come un sogno, e non perché Il sogno ne costituisce un

capitolo, ma in quanto permette d’intravedere dietro modulazioni momentaneamente distaccate l’Altro, cioè il Bene d’allora, mentre per ciascuno è in atto il recupero privato del proprio Leopardi, amato, appropriato, sofferto in ogni adolescenza. Franco Quadri


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Voce

Un ricordo 3.8

Roberto Herlitzka

Non vorrei fare come quegli attori che, parlando di un grande collega scomparso, finiscono per citare e lodare soprattutto se stessi, ma forse oggi proprio quel grande mi induce a farlo, perché ha cominciato lui, prima additandomi pubblicamente, insieme a pochi altri, come buon lettore di Dante, e chiamandomi poi a recitarlo accanto a sé, con Ugo Pagliai e Paola Gassman, auspice Antonio Calenda, sul palco del teatro Rossetti di Trieste, dove, dopo quarant’anni e più che lo incontravo soltanto da spettatore, condividemmo gli applausi, il mare di pubblico e anche giornate in cui sentii tutto il fascino privato dell’uomo di cui conoscevo soltanto quello scenico. Mi ha dato ancora quest’altra occasione, che avrebbe dovuto iniziare una collaborazione e invece purtroppo la conclude, lasciandomi e risvegliandomi ricordi preziosi e riflessioni che vorrei riferirvi. Comincio raccontando un episodio minimo e personale, che mi sarebbe parso impensabile un giorno divulgare, e che ho confidato solo a mia moglie, un anno dopo che era successo. Non sono neanche sicuro di far bene, ma lo faccio lo stesso, intanto perché, se permettete, me ne voglio vantare, e poi perché, ripensandoci, mi ha fatto capire una cosa importante. Eravamo seduti accanto nello studio di registrazione, e stavamo ascoltando o aspettando o ragionando, non ricordo di preciso, e lui mi ha detto: “io ti voglio tanto bene”, con un tono fraterno, antico e adolescenziale, come di chi ha scoperto un compagno di scuola, con cui sente di condividere, o di aver potuto condividere qualcosa di essenziale. Non so come reagii, certo balbettando qualche inadeguata fesseria; immaginate un po’ di sedervi accanto al Mosè di Michelangelo e sentirlo che vi dice: “ti voglio bene”. Uno ci rimane, si domanda: “Ah ma allora parla, perché gli hanno chiesto perché non parli?” Ma Gassman era un Mosè che parlava, e io ho capito il perché: eravamo immersi nella poesia, e lui ha sentito che io, come lui, sulla poesia fondavo tutta la mia vita di attore. Per Gassman la poesia, intendo la poesia come letteratura, era la materia viva, da cui nasce il nostro lavoro, o se vogliamo chiamarlo col suo nome, la nostra arte. Certo ci sono poi le mille sacrosante escursioni in tutte le forme di spettacolo, ma la base, la radice vera è quella e beato chi lo sente e lo capisce. Gli attori italiani, con tutto il rispetto e fatte le debite eccezioni, considerano i versi come un ramo collaterale, opzionale del loro repertorio, nel quale eventualmente esibirsi gratificando gli uditori. Io credo che Gassman si sia sentito un po’ isolato in questo campo, e non solo per la sua eccellenza, e forse ha riconosciuto in me un connivente. E a proposito di versi, concludo con due o tre ricordi che lo riguardano. Tantissimi anni fa ascoltai un suo disco in cui recitava un sonetto di Foscolo, Alla sera. All’ultimo verso dove dice “dorme” fece uno scarto di tono inobliabile che dava tutto il senso della gravità fatale di quella poesia. Basterebbe quel “dorme” a dimostrare che la poesia non va semplicemente letta, ma interpretata, esattamente come il teatro, esattamente come la musica, per trasmettere agli altri anche una sola delle infinite cose che ciascuno vi può trovare. Tant’è vero che quando la leggiamo internamente, se ne siamo colpiti ne facciamo, dentro la nostra mente, una rappresentazione senza risparmi. All’attore il compito, difficilissimo ma legittimo, di comunicare le sue scoperte in modo efficace e credibile per tutti, o almeno per qualcuno. E ancora di quel tempo lontano ricordo il modo in cui disse: “l’anima stanca accogli” nel finale dell’Adelchi di Manzoni. Oggi si tende ad appianare la recitazione, con risultati spesso indiscutibili perché plausibili; ma gli attori che hanno provato, e ancora provano, a toccare tutti i tasti del loro strumento, e a estenderne la portata, possono sbagliare più facilmente, ma quando non sbagliano raggiungono lo spirito di chi ascolta in modo ben più che plausibile. Un ultimo ricordo: quando eravamo a Trieste Gassman disse il XXXIII del Paradiso, durante il quale ebbe non dico qualche mancamento ma qualche sospensione di memoria. Non penso affatto che il pubblico lo abbia avvertito, ma che abbia sentito qualcosa di simile a quello che io, sperando che la mia notazione gli suonasse, come era, un complimento estremo, poi gli dissi: “Tale era la tensione cosmica della tua recitazione, che quelle pause, invece che allentarla, vi entravano come spazi siderali.”

3.9

2003 Voce dei Canti di Giacomo Leopardi “Meglio non veder niente ma sentire come si deve” raccomandò Carmelo Bene a chi assisteva all’evento memorabile Voce dei Canti, di cui fu protagonista nel 1998, nel bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi. Un documento video straordinario di tre ore e mezza, per la prima volta in DVD. Un laboratorio orale in divenire, proprio una scuola necessaria, giacché “non insegnandosi più il verso, da noi, il calo di qualità e di talento è ormai irrimediabile. L’orecchio se n’è andato”, disse Carmelo Bene. La voce è

E dopo tanta celebrazione poetica, se ci fosse Gassman sarebbe arrivato il momento di qualche giocoso sberleffo; ma lui non c’è più e senza di lui ci è un po’ passata la voglia di giocare.

50

Alla fine Carmelo Bene è arrivato a coincidere con il proprio desiderio. Essere pura voce. Risuonare, e basta, dentro ognuno dei suoi ascoltatori. La sua voce è un fantasma sempre ritornante, che ci fa eco dentro per dirci, per dire che ci riguarda: riguarda noi, “vivi a casaccio”, che sputiamo sulla vita che è stata, noi che non saremo mai, perché “solo è chi manca, e perciò ritorna.”

51

scritta per essere cantata e la fierezza fragile e onnipotente del più grande poeta moderno, il suo delirio cosmico, vengono restituiti da Bene a pura oralità, “un terzo orecchio dell’inconscio”. Voce dei Canti è uno spettacolo labirintico e risonante d’arcani rinvii come un sogno, e non perché Il sogno ne costituisce un

capitolo, ma in quanto permette d’intravedere dietro modulazioni momentaneamente distaccate l’Altro, cioè il Bene d’allora, mentre per ciascuno è in atto il recupero privato del proprio Leopardi, amato, appropriato, sofferto in ogni adolescenza. Franco Quadri


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Voce luca sossella editore

Carmelo Bene Lectura Dantis

una vita, lasciando solo una luce fioca da tela fiamminga sul suo viso sfinito, la barba lunga e alle spalle il quadro dell’amico Marotta, Amore e Psiche. Mi ha chiesto in fin di voce di aggiustargli la coperta di lana sulle gambe. “Le gambe, non le sento più.” Di piegare i quattro orli, tutti allo stesso modo, simmetrici. L’ho fatto senza chiedermi perché, era tempo perso con lui chiedersi perché. Solo dopo aver controllato che tutto fosse al suo posto, si è abbandonato con le mani intrecciate sul petto. “Adesso voglio dormire”, le ultime parole rivolte a Luisa, la compagna insostituibile degli ultimi anni. E si è preparato a morire. Somigliando impeccabile ai comatosi che aveva tante volte spiato nelle foto di guerra di David Harali, nelle poesie di Gozzano, nei Cristi di Mantegna, nei racconti di Poe e nei manuali di anatomia di Krafft-Ebing. La morte migliore possibile, vegliato dal brusio delle donne che lo amano e che lo hanno amato, la femminile disattenzione che da sempre scortava i suoi eroi morenti di scena.

2004 Lectura Dantis, un testo di 32 pagine e un cd audio di 46 minuti.

cd audio

“Io mi scuso, per il vento che ha turbato questa dizione, questo canto, e sebbene ringrazi gli astanti ricordo un po’ a tutti che ho dedicato questa mia serata, da ferito a morte, non ai

morti, ma ai feriti dell’orrenda strage.” Così terminò Carmelo Bene, a Bologna, il 31 luglio 1981, dalla Torre degli Asinelli davanti a un oceano di persone

(misteriosamente silenziose) quella notte che, un anno dopo la strage, cantò, dominato dalla grazia, la sua Lectura Dantis.

2005 Pinocchio, un testo di 22 pagine e 2 cd audio per 93 minuti. Pinocchio s’immerge nelle meraviglie di Alice e dall’incontro dei due mondi vien fuori una lezione crudele. Insostenibile per gli adulti. Necessaria per i bimbi. Lo spettacolo è dedicato a chi è ancora capace di spavento e di stupore. Il debutto mondiale è per l’“innocenza”. Non si può invitare a teatro

l’infanzia, lusingarla con la promessa della favola, sottrar loro la favola, e pretendere un trionfo. Un trionfo equivarrebbe in quel caso a un miracolo. Il miracolo è puntualmente

avvenuto. Al Teatro Verdi di Pisa i bimbi hanno applaudito a lungo, e quell’applauso aveva qualcosa di molto caro a me perché affermava senza equivoco nell’assenza di ogni “Pescecane” l’unica vera

L’aveva detto agli amici più intimi. Il suo ultimo spettacolo sarebbe stato una veglia funebre. Del manichino stremato che restava in lui, in fondo a tutti i suoi Pinocchi, a tutti i Lorenzacci e gli Amleti, in fondo ai sipari strappati, le pellicole bruciate, gli infarti e le emicranie, il fegato che fa acqua, bottiglie e farmaci scolati, il bisturi e il verso, tutto precipitato, tutto in apnea e il monaco insonne, migliaia di notti bianche, pagine e pagine, una scorribanda che lo ha lasciato, che ci ha lasciato, senza fiato. Il cancro era tornato. Era già in metastasi e non lo sapeva quando leggeva Dante nel castello di Otranto, lo scorso agosto, l’ultima esibizione pubblica davanti alla sua gente. Memorabile, raccontano i presenti. Era stanco Carmelo. Se ne infischiava del mondo che lo adorava o lo detestava, del tempo che gli restava o non gli restava. Era deciso a conquistarsi una lucida follia alla Friedrich Nietzsche. Il suo “depensamento”. Non usciva più di casa. Cantava arie di Rossini e farfugliava fitto mentre scriveva con la pazienza dei monaci amanuensi. “Ogni tanto mi viene di buttarmi giù dal terrazzo”, mi diceva nella sua casa di Otranto, “ma poi ci ripenso, sarebbe una volgare piazzata.” Mille volte spacciato e miracolato. Anche stavolta sembrava potercela fare. Nonostante 200 metastasi, infezioni, ernie, versamenti, l’addome che si apriva, la carne marcia. Per l’ennesimo massacro da bisturi aveva scelto un chirurgo, Husher, che gli ricordava le rovine della casa del suo prediletto Edgar Allan Poe. Deliri sempre illuminanti, i suoi. Perdeva budella e pezzi d’intestino ma questo non gli impediva di dare lezioni notturne in francese su Cèline all’infermiere che lo vegliava. Una delle ultime notti, gli tornò la voglia di scrivere, ma le mani erano così deboli che non riusciva più nemmeno a reggere il suo pennarello di china. Carmelo Bene era troppo per chiunque di noi. E, adesso che non c’è più, ognuno si porta via il pezzo preferito della sua sconfinata biografia. L’attore sublime, l’intellettuale aforistico, il cineasta, lo scrittore, il poeta, la voce, il performer televisivo. Lo scandaloso e il solitario, l’incantatore e il serpente, il vampiro e la ferita sempre aperta. Un orco impastato di tenerezza. Non era possibile stargli al fianco più di qualche tempo senza patire le ustioni, senza dover cercare tregua altrove, nel mondo dei normali, dove non tutto precipita contro il limite. Più che una vita, un’impresa di demolizione la sua. Aveva il carisma di un divo rock e lo dimostrò quella notte a Bologna, ammaliando i duecentomila con la lettura di Dante. “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta”, salutata con un boato come un riff di Jimi Hendrix. La lettura di Jacques Lacan (che gli rese omaggio a Parigi in camerino), le amicizie con Gilles Deleuze e con Pierre Klossowski orientarono dagli anni ’80 tutta la sua opera contro l’impostura del soggetto parlante. Scoprì le grandi macchine del suono e se ne invaghì perdutamente. Affabulava notti intere di Svetonio e di Elliot, di Artaud e di Cioran, ma era la rassicurante bellezza dell’inorganico la speculazione preferita dei suoi ultimi anni. Era nato lo stesso giorno, la stessa ora, lo stesso minuto, 15 anni dopo, di Vittorio Gassman, l’amico rivale che lo applaude in piedi all’Olimpico nel buio di platea, dopo un Adelchi, poco prima di morire. Tutto era un ring per lui. Disumano per eccesso di umanità, combattente feroce per quanto consapevole della disfatta. Ogni cosa una sfida. Come quella notte, lui come sempre mollemente sdraiato sul gomito sinistro, a curiosare nel dormiveglia dell’insonne un film sulla vita di John Holmes. Holmes che dice “Ho avuto quattordicimila donne” e lui che riemerge stizzoso “Ma se persino io non sono arrivato a cinquemila.” Lo stesso che si commuoveva fino alle lacrime quando parlava all’amico della grandezza di Von Masoch. Ora posso solo dire che la sua mancanza ci brucia le tempie. E a nulla ci serve recitare la storiella del genio mai nato e dunque mai morto. Che mille gradi Celsius sono bastati a ridurlo in cenere. Ma non a riscaldarlo. Aveva sempre freddo, Carmelo. E odiava l’idea di diventare un mucchio di gelatina in fondo a una bara. “Delle mie ceneri fate quello che volete”, ripeteva, “magari una bella crostata per colazione.” Abbiamo smesso da tempo di chiederci da dove sia mai piovuto questo essere così speciale che ora qualunque starnuto può disperdere nella volgare polluzione del pianeta. Non è solo l’amico che manca, ma quella voce, chissà dove è andata, quella voce che ci dava calma e forza, quella voce che era la nostalgia di tutto ciò che abbiamo perduto senza avere mai avuto. Che solo a sentirla ci spediva in paradiso. Lui, quella creatura speciale, lui non c’è più. Peggio per noi.

possibilità di commozione. Che sarà di voi adulti? Abbiate l’umiltà di abdicare almeno come spettatori. Carmelo Bene

2006 Manfred. George G. Byron – Robert Schumann, un fascicolo di 32 pagine, con testi di Giorgio Manganelli e Gilles Deleuze, e un cd audio di 75 minuti. Orchestra e coro del Teatro alla Scala. Registrazione dal vivo effettuata al Teatro alla Scala di Milano il 1 ottobre 1980. eco alla sfida di Byron, simile a l’immortalità della propria nell’ombra. L’impenitenza Grazie alla veggenza “uditiva” un esorcismo delle proprie finale di Manfred termina anima, mentre si dibatte e divinatrice di Carmelo Bene, ossessioni, di cui Carmelo comunque contro i démoni e le potenze l’orchestrazione del Manfred Bene e Lydia Mancinelli celesti che di volta in volta nell’attualizzazione dello byroniano di Schumann, scandiscono le varie fasi con la l’assalgono – egli stesso spazio degli spiriti di cui accompagnata dal coro della simula talora i loro sussurri loro voce. Tra l’orchestra e il Carmelo Bene si rivela qui, Scala, è restituita nel suo carattere di oratorio insinuanti – oppure sorgono a ancora una volta, l’evocatore coro, Carmelo dà vita alla vaticinante – mentre gli legioni con tutto il coro, per fisionomia di Manfred agitato eccezionale. accordi di Schumann fanno poi sparire di nuovo dal desiderio furioso di abolire Pierre Klossowski

Peggio per noi 3.10

52

Giancarlo Dotto

È stato di parola. Ha messo in scena la sua morte. Lo ha fatto con il perfezionismo di sempre, la cura maniacale dei dettagli. Questa volta ha scelto anche il pubblico. Pochi intimi. Nessuna replica. Per la sua ultima impresa d’attore ha rinunciato al prediletto Beyer, il microfono con cui faceva all’amore. Non c’era più nulla da amplificare. Gli avevano inciso, insieme al colon e al peritoneo, anche un pezzo di diaframma e la sua voce non era più la sua voce. “Non ha più le armoniche”, si disperava con chi provava a consolarlo. Aveva urlato notti intere, come un lupo in gabbia. Spellato dall’orrore ancora prima che dal dolore. Con quella poca voce che gli restava. Aveva invocato la morfina, il cianuro, l’eutanasia. “Che devo fare? Ditemi cosa devo fare?” Un giorno ha smesso di invocare. Ha smesso di lamentarsi. Delle fitte atroci, dei cani che abbaiavano là fuori, dello stomaco che perdeva i pezzi. Ha smesso con le allucinazioni. Che altro erano quei bambini che in giardino cantavano Tu scendi dalle stelle, tra agli angeli di gesso dell’Hamlet Suite? Ha fatto sistemare una pagina di giornale sullo specchio in camera da letto per non vedere più riflessa la sua immagine agonizzante, ha oscurato la stanza, spento il suo Sony 34 pollici acceso da

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Voce luca sossella editore

Carmelo Bene Lectura Dantis

una vita, lasciando solo una luce fioca da tela fiamminga sul suo viso sfinito, la barba lunga e alle spalle il quadro dell’amico Marotta, Amore e Psiche. Mi ha chiesto in fin di voce di aggiustargli la coperta di lana sulle gambe. “Le gambe, non le sento più.” Di piegare i quattro orli, tutti allo stesso modo, simmetrici. L’ho fatto senza chiedermi perché, era tempo perso con lui chiedersi perché. Solo dopo aver controllato che tutto fosse al suo posto, si è abbandonato con le mani intrecciate sul petto. “Adesso voglio dormire”, le ultime parole rivolte a Luisa, la compagna insostituibile degli ultimi anni. E si è preparato a morire. Somigliando impeccabile ai comatosi che aveva tante volte spiato nelle foto di guerra di David Harali, nelle poesie di Gozzano, nei Cristi di Mantegna, nei racconti di Poe e nei manuali di anatomia di Krafft-Ebing. La morte migliore possibile, vegliato dal brusio delle donne che lo amano e che lo hanno amato, la femminile disattenzione che da sempre scortava i suoi eroi morenti di scena.

2004 Lectura Dantis, un testo di 32 pagine e un cd audio di 46 minuti.

cd audio

“Io mi scuso, per il vento che ha turbato questa dizione, questo canto, e sebbene ringrazi gli astanti ricordo un po’ a tutti che ho dedicato questa mia serata, da ferito a morte, non ai

morti, ma ai feriti dell’orrenda strage.” Così terminò Carmelo Bene, a Bologna, il 31 luglio 1981, dalla Torre degli Asinelli davanti a un oceano di persone

(misteriosamente silenziose) quella notte che, un anno dopo la strage, cantò, dominato dalla grazia, la sua Lectura Dantis.

2005 Pinocchio, un testo di 22 pagine e 2 cd audio per 93 minuti. Pinocchio s’immerge nelle meraviglie di Alice e dall’incontro dei due mondi vien fuori una lezione crudele. Insostenibile per gli adulti. Necessaria per i bimbi. Lo spettacolo è dedicato a chi è ancora capace di spavento e di stupore. Il debutto mondiale è per l’“innocenza”. Non si può invitare a teatro

l’infanzia, lusingarla con la promessa della favola, sottrar loro la favola, e pretendere un trionfo. Un trionfo equivarrebbe in quel caso a un miracolo. Il miracolo è puntualmente

avvenuto. Al Teatro Verdi di Pisa i bimbi hanno applaudito a lungo, e quell’applauso aveva qualcosa di molto caro a me perché affermava senza equivoco nell’assenza di ogni “Pescecane” l’unica vera

L’aveva detto agli amici più intimi. Il suo ultimo spettacolo sarebbe stato una veglia funebre. Del manichino stremato che restava in lui, in fondo a tutti i suoi Pinocchi, a tutti i Lorenzacci e gli Amleti, in fondo ai sipari strappati, le pellicole bruciate, gli infarti e le emicranie, il fegato che fa acqua, bottiglie e farmaci scolati, il bisturi e il verso, tutto precipitato, tutto in apnea e il monaco insonne, migliaia di notti bianche, pagine e pagine, una scorribanda che lo ha lasciato, che ci ha lasciato, senza fiato. Il cancro era tornato. Era già in metastasi e non lo sapeva quando leggeva Dante nel castello di Otranto, lo scorso agosto, l’ultima esibizione pubblica davanti alla sua gente. Memorabile, raccontano i presenti. Era stanco Carmelo. Se ne infischiava del mondo che lo adorava o lo detestava, del tempo che gli restava o non gli restava. Era deciso a conquistarsi una lucida follia alla Friedrich Nietzsche. Il suo “depensamento”. Non usciva più di casa. Cantava arie di Rossini e farfugliava fitto mentre scriveva con la pazienza dei monaci amanuensi. “Ogni tanto mi viene di buttarmi giù dal terrazzo”, mi diceva nella sua casa di Otranto, “ma poi ci ripenso, sarebbe una volgare piazzata.” Mille volte spacciato e miracolato. Anche stavolta sembrava potercela fare. Nonostante 200 metastasi, infezioni, ernie, versamenti, l’addome che si apriva, la carne marcia. Per l’ennesimo massacro da bisturi aveva scelto un chirurgo, Husher, che gli ricordava le rovine della casa del suo prediletto Edgar Allan Poe. Deliri sempre illuminanti, i suoi. Perdeva budella e pezzi d’intestino ma questo non gli impediva di dare lezioni notturne in francese su Cèline all’infermiere che lo vegliava. Una delle ultime notti, gli tornò la voglia di scrivere, ma le mani erano così deboli che non riusciva più nemmeno a reggere il suo pennarello di china. Carmelo Bene era troppo per chiunque di noi. E, adesso che non c’è più, ognuno si porta via il pezzo preferito della sua sconfinata biografia. L’attore sublime, l’intellettuale aforistico, il cineasta, lo scrittore, il poeta, la voce, il performer televisivo. Lo scandaloso e il solitario, l’incantatore e il serpente, il vampiro e la ferita sempre aperta. Un orco impastato di tenerezza. Non era possibile stargli al fianco più di qualche tempo senza patire le ustioni, senza dover cercare tregua altrove, nel mondo dei normali, dove non tutto precipita contro il limite. Più che una vita, un’impresa di demolizione la sua. Aveva il carisma di un divo rock e lo dimostrò quella notte a Bologna, ammaliando i duecentomila con la lettura di Dante. “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta”, salutata con un boato come un riff di Jimi Hendrix. La lettura di Jacques Lacan (che gli rese omaggio a Parigi in camerino), le amicizie con Gilles Deleuze e con Pierre Klossowski orientarono dagli anni ’80 tutta la sua opera contro l’impostura del soggetto parlante. Scoprì le grandi macchine del suono e se ne invaghì perdutamente. Affabulava notti intere di Svetonio e di Elliot, di Artaud e di Cioran, ma era la rassicurante bellezza dell’inorganico la speculazione preferita dei suoi ultimi anni. Era nato lo stesso giorno, la stessa ora, lo stesso minuto, 15 anni dopo, di Vittorio Gassman, l’amico rivale che lo applaude in piedi all’Olimpico nel buio di platea, dopo un Adelchi, poco prima di morire. Tutto era un ring per lui. Disumano per eccesso di umanità, combattente feroce per quanto consapevole della disfatta. Ogni cosa una sfida. Come quella notte, lui come sempre mollemente sdraiato sul gomito sinistro, a curiosare nel dormiveglia dell’insonne un film sulla vita di John Holmes. Holmes che dice “Ho avuto quattordicimila donne” e lui che riemerge stizzoso “Ma se persino io non sono arrivato a cinquemila.” Lo stesso che si commuoveva fino alle lacrime quando parlava all’amico della grandezza di Von Masoch. Ora posso solo dire che la sua mancanza ci brucia le tempie. E a nulla ci serve recitare la storiella del genio mai nato e dunque mai morto. Che mille gradi Celsius sono bastati a ridurlo in cenere. Ma non a riscaldarlo. Aveva sempre freddo, Carmelo. E odiava l’idea di diventare un mucchio di gelatina in fondo a una bara. “Delle mie ceneri fate quello che volete”, ripeteva, “magari una bella crostata per colazione.” Abbiamo smesso da tempo di chiederci da dove sia mai piovuto questo essere così speciale che ora qualunque starnuto può disperdere nella volgare polluzione del pianeta. Non è solo l’amico che manca, ma quella voce, chissà dove è andata, quella voce che ci dava calma e forza, quella voce che era la nostalgia di tutto ciò che abbiamo perduto senza avere mai avuto. Che solo a sentirla ci spediva in paradiso. Lui, quella creatura speciale, lui non c’è più. Peggio per noi.

possibilità di commozione. Che sarà di voi adulti? Abbiate l’umiltà di abdicare almeno come spettatori. Carmelo Bene

2006 Manfred. George G. Byron – Robert Schumann, un fascicolo di 32 pagine, con testi di Giorgio Manganelli e Gilles Deleuze, e un cd audio di 75 minuti. Orchestra e coro del Teatro alla Scala. Registrazione dal vivo effettuata al Teatro alla Scala di Milano il 1 ottobre 1980. eco alla sfida di Byron, simile a l’immortalità della propria nell’ombra. L’impenitenza Grazie alla veggenza “uditiva” un esorcismo delle proprie finale di Manfred termina anima, mentre si dibatte e divinatrice di Carmelo Bene, ossessioni, di cui Carmelo comunque contro i démoni e le potenze l’orchestrazione del Manfred Bene e Lydia Mancinelli celesti che di volta in volta nell’attualizzazione dello byroniano di Schumann, scandiscono le varie fasi con la l’assalgono – egli stesso spazio degli spiriti di cui accompagnata dal coro della simula talora i loro sussurri loro voce. Tra l’orchestra e il Carmelo Bene si rivela qui, Scala, è restituita nel suo carattere di oratorio insinuanti – oppure sorgono a ancora una volta, l’evocatore coro, Carmelo dà vita alla vaticinante – mentre gli legioni con tutto il coro, per fisionomia di Manfred agitato eccezionale. accordi di Schumann fanno poi sparire di nuovo dal desiderio furioso di abolire Pierre Klossowski

Peggio per noi 3.10

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Giancarlo Dotto

È stato di parola. Ha messo in scena la sua morte. Lo ha fatto con il perfezionismo di sempre, la cura maniacale dei dettagli. Questa volta ha scelto anche il pubblico. Pochi intimi. Nessuna replica. Per la sua ultima impresa d’attore ha rinunciato al prediletto Beyer, il microfono con cui faceva all’amore. Non c’era più nulla da amplificare. Gli avevano inciso, insieme al colon e al peritoneo, anche un pezzo di diaframma e la sua voce non era più la sua voce. “Non ha più le armoniche”, si disperava con chi provava a consolarlo. Aveva urlato notti intere, come un lupo in gabbia. Spellato dall’orrore ancora prima che dal dolore. Con quella poca voce che gli restava. Aveva invocato la morfina, il cianuro, l’eutanasia. “Che devo fare? Ditemi cosa devo fare?” Un giorno ha smesso di invocare. Ha smesso di lamentarsi. Delle fitte atroci, dei cani che abbaiavano là fuori, dello stomaco che perdeva i pezzi. Ha smesso con le allucinazioni. Che altro erano quei bambini che in giardino cantavano Tu scendi dalle stelle, tra agli angeli di gesso dell’Hamlet Suite? Ha fatto sistemare una pagina di giornale sullo specchio in camera da letto per non vedere più riflessa la sua immagine agonizzante, ha oscurato la stanza, spento il suo Sony 34 pollici acceso da

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3.11

2005, Pier Paolo Pasolini, Meditazione orale, con una nota di Gianni Scalia e un ricordo di Sergio Bardotti, un testo di 24 pagine e un cd audio di 50 minuti.

Cinque testi poetici scritti e detti da Pier Paolo Pasolini. I primi quattro sono stati registrati nel 1962, il quinto nel 1970. Sono frammenti di un progetto della Rca e del suo direttore artistico,

Nanni Ricordi, che aveva affidato a Sergio Bardotti , allievo di Lanfranco Caretti, la creazione di una collana di “letteratura parlata”, dal titolo: La loro voce, la loro opera.

Pasolini offre una lettura senza enfasi, senza effetti interpretativi attoriali, solo il ghiaccio d’acciaio del dolore: una ferita senza lacrime, una scrittura inesprimibile che corre sotto i corpi vivi e i corpi morti del reale. Un documento vocale sotto il quale si intravede la forza disarmata della profezia, la tenacia fragile della testimonianza. La sua voce è la migliore introduzione alla poesia di Pasolini. La ricerca di una parola che possa lacerare il sipario della rassegnazione: al di là dello stile vi è una pronuncia sacrale, asciutta. La tensione verso una nuova pedagogia. Una lezione di misura: metrica, passione, civiltà. La forza della lealtà che ritorna, come in sogno, in questo tempo stanco e opaco.

3.12

Testimonianza e profezia Se provassimo invece a dire che Pasolini è un testimone? Che cosa vuol dire testimone? Testimone e testimonianza hanno una risonanza religiosa cristiana, legata a “martire”. Il senso è di chi attesta, e attesta perché vede con i propri occhi e ascolta con le proprie orecchie. Testimone oculare e auricolare (come direbbe Canetti). E che si fa trasmettitore di questa testimonianza. Testimone nel suo tempo, non soltanto del suo tempo. In un certo senso Pasolini è “inattuale”. Testimone, e profetico. Pasolini ha avuto, sappiamo, premonizione della sua morte, ha avuto presagi di ciò che sarebbe potuto accadere, ha anticipato situazioni a venire lungo la sua decifrazione del tempo. Profeta, in senso biblico, non è colui che predice il futuro, è colui che, apocalitticamente (nel senso etimologico di disvelamento) svela nel presente ciò che altri non vedono, o non vogliono vedere, occultato dall’ignoranza delle cause profonde, dall’indifferenza morale e civile, dalla complictià. Gianni Scalia Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di lì, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che allora la gente ha pagato per “scegliere”. Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e “collabora” (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal “potere”? Pier Paolo Pasolini Profezia è la capacità di percepire l’evidenza della situazione, della realtà, passata, presente e futura, e di esprimerla e renderla pubblica senza paura per ciò che tale rivelazione potrà comportare. La viltà spesso lascia il velo sopra l’accadere, non svela. Dunque la profezia è la capacità di leggere il passato e il presente, e non solo il futuro. Lo strumento principale del profeta è l’uso della parola. Commentando il verso “Lodino Dio dalle loro gole, e una spada a doppio taglio (chever pipiot) nello loro mani”, Rabbi Nachman di Brezlav fa notare che pipiot deriva da Peh, “bocca”. La spada a doppio taglio è la lingua, la capacità di parlare in modo giusto e alle persone giuste. Parola e comunicazione sono alla base della profezia, nevuhà. In ebraico Nevuhà contiene i due suoni principali N-BAH. Tale radice, con lo scambio delle componenti, diventa il greco PH-N. Phánai è “parlare”, phonè è “voce”. La radice indo-europea per “parlare” è BHA e in ebraico PEH è “bocca”. B e P sono intercambiabili. La Nun che si trova davanti al suono Bha indica le Cinquanta Porte dell’Intelligenza, raggiunte dal più grande dei Profeti. L’unione delle due lettere Nun e Beit in aramaico significa “portare frutto, germinare”. Profetare, quindi, è parlare, insegnare, produrre frutto.

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2005, Pier Paolo Pasolini, Meditazione orale, con una nota di Gianni Scalia e un ricordo di Sergio Bardotti, un testo di 24 pagine e un cd audio di 50 minuti.

Cinque testi poetici scritti e detti da Pier Paolo Pasolini. I primi quattro sono stati registrati nel 1962, il quinto nel 1970. Sono frammenti di un progetto della Rca e del suo direttore artistico,

Nanni Ricordi, che aveva affidato a Sergio Bardotti , allievo di Lanfranco Caretti, la creazione di una collana di “letteratura parlata”, dal titolo: La loro voce, la loro opera.

Pasolini offre una lettura senza enfasi, senza effetti interpretativi attoriali, solo il ghiaccio d’acciaio del dolore: una ferita senza lacrime, una scrittura inesprimibile che corre sotto i corpi vivi e i corpi morti del reale. Un documento vocale sotto il quale si intravede la forza disarmata della profezia, la tenacia fragile della testimonianza. La sua voce è la migliore introduzione alla poesia di Pasolini. La ricerca di una parola che possa lacerare il sipario della rassegnazione: al di là dello stile vi è una pronuncia sacrale, asciutta. La tensione verso una nuova pedagogia. Una lezione di misura: metrica, passione, civiltà. La forza della lealtà che ritorna, come in sogno, in questo tempo stanco e opaco.

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Testimonianza e profezia Se provassimo invece a dire che Pasolini è un testimone? Che cosa vuol dire testimone? Testimone e testimonianza hanno una risonanza religiosa cristiana, legata a “martire”. Il senso è di chi attesta, e attesta perché vede con i propri occhi e ascolta con le proprie orecchie. Testimone oculare e auricolare (come direbbe Canetti). E che si fa trasmettitore di questa testimonianza. Testimone nel suo tempo, non soltanto del suo tempo. In un certo senso Pasolini è “inattuale”. Testimone, e profetico. Pasolini ha avuto, sappiamo, premonizione della sua morte, ha avuto presagi di ciò che sarebbe potuto accadere, ha anticipato situazioni a venire lungo la sua decifrazione del tempo. Profeta, in senso biblico, non è colui che predice il futuro, è colui che, apocalitticamente (nel senso etimologico di disvelamento) svela nel presente ciò che altri non vedono, o non vogliono vedere, occultato dall’ignoranza delle cause profonde, dall’indifferenza morale e civile, dalla complictià. Gianni Scalia Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di lì, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che allora la gente ha pagato per “scegliere”. Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e “collabora” (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal “potere”? Pier Paolo Pasolini Profezia è la capacità di percepire l’evidenza della situazione, della realtà, passata, presente e futura, e di esprimerla e renderla pubblica senza paura per ciò che tale rivelazione potrà comportare. La viltà spesso lascia il velo sopra l’accadere, non svela. Dunque la profezia è la capacità di leggere il passato e il presente, e non solo il futuro. Lo strumento principale del profeta è l’uso della parola. Commentando il verso “Lodino Dio dalle loro gole, e una spada a doppio taglio (chever pipiot) nello loro mani”, Rabbi Nachman di Brezlav fa notare che pipiot deriva da Peh, “bocca”. La spada a doppio taglio è la lingua, la capacità di parlare in modo giusto e alle persone giuste. Parola e comunicazione sono alla base della profezia, nevuhà. In ebraico Nevuhà contiene i due suoni principali N-BAH. Tale radice, con lo scambio delle componenti, diventa il greco PH-N. Phánai è “parlare”, phonè è “voce”. La radice indo-europea per “parlare” è BHA e in ebraico PEH è “bocca”. B e P sono intercambiabili. La Nun che si trova davanti al suono Bha indica le Cinquanta Porte dell’Intelligenza, raggiunte dal più grande dei Profeti. L’unione delle due lettere Nun e Beit in aramaico significa “portare frutto, germinare”. Profetare, quindi, è parlare, insegnare, produrre frutto.

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2007 Fabio Mauri, Memoria ex auditu, un poemetto iconografico di 44 pagine e un cd audio di 72 minuti. Come se fosse dentro una delle opere di Fabio Mauri, la voce di Fabio Mauri viene proiettata su un fondale nero, buio. Sul quale inizia a tremare una luce, debole, chiara: è la memoria, che faticosamente cerca. Lentamente, come una chiazza che si espande, si delinea un profilo. Ma nessuno può dire di chi sia quel volto. Se il volto dell’artista, o quello dell’opera. Probabilmente, entrambi.

3.15

3.14 La voce ricostruisce una serie di stanze dell’ascolto, entro cui vengono rievocati, come fossero progetti, i ricordi. Un “poemetto iconografico” ripercorre gli itinerari artistici di Mauri, come una guida (rigorosamente incongrua) attraverso la quale seguire i percorsi della voce. Le immagini si sovrappongono alle parole, in una dissolvenza incrociata che è il vero metodo di questa memoria che scaturisce dall’ascolto: memoria ex auditu.

Non si può scrivere una storia senza date. Lo sto facendo. Devo controllare. Ho diciotto quaderni, non più aperti da cinquant’anni, legati da uno spago. Per ora il tempo irresponsabile della memoria vaga, tra fronte e sopracciglio, con mezze immagini, e per metà nel flusso di altri tempi imprecisi, simulando una contemporaneità abituale e una connivenza di senso. Fabio Mauri

specchio d’artista: una riflessione, una presa della parola che equivale a un prendere le distanze dagli scriventi al soldo del nulla o, peggio, del molto poco. a te, che mi stai leggendo tra cent’anni e ti meravigli delle banalità senza importanza qui e ora chiamate con tutt’altro nome e con un’enfasi per te, graziato fra i molti, felicemente incomprensibile, e a te, disgraziato più di tutti, che non mi hai mai letto né mai mi leggerai Aldo Busi

Incipit di incipit Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminescenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, stupore di essercela tanto presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quanto si è poi rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato. Seminario sulla gioventù Quand’è che si è vecchi? Quando non ci si piace più e il pensiero di piacere a qualcuno, tu che non ti piaci più, ti riempie di sgomento, e di orrore, per te e l’improvvida creatura, segnata dai fulminanti traumi della sua crescita sentimentale, alla quale potresti far gola perfino tu, perché, suvvia, se non fosse un magma di poco di buono non si accontenterebbe perfino di te e in modo così chiaro e disteso, con tanta semplice semplicità; si è diventati vecchi quando ti svegli nel cuore della notte, una notte senza cuore e né capo né coda, diciamo alla tre e dieci del mattino, accendi la prima sigaretta e cominci a riempire l’annaffiatoio al lento rivolo del rubinetto del bagno di sotto, dove la pressione stamattina non potrebbe essere più bassa e più snervante l’attesa del pieno a filo del tettuccio, e vai avanti e indietro dieci volte dai vasi di geranio del balcone e dalle aiuole col gelsomino rampicante e la rosa e il cespuglio di trifoglio rosa incastonate nelle scale dell’entrata e i due pungitopo nelle giare calabre, e quando dopo un’ora di zelo riparatore guardi soddisfatto il tuo operato e fai per rientrare, senti un rumore strano alle tue spalle, come di denti del giudizio o monetine scroscianti su un tamburo, ti giri a bocca beante e in quell’istante è cominciato a piovere. Seminario sulla vecchiaia. Romanzo (interrotto e interrato) Giuditta trascina una bambolina di pezza e guarda fisso davanti a sé. Angelo guida a passo d’uomo, gira la testa verso di lei. La bimba non si scompone. Cammina a piedi nudi nel suo costumino blé e la strada polverosa ha le sinuosità di un ruscello essiccato. Giuditta incede come una bagnante tradita ma fiera sul carbone ardente del catrame. Angelo le sorride, invano. Giuditta, dopo la faccenda dei suoi tre carnefici mancati coi quali aveva stretto il patto di sangue, non vuole più saperne di lui. Oh, portarla con sé al lago, vederla di nuovo fare la trot-

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2004 Aldo Busi, Incipit Il 1 ottobre 2004 all’Auditorium di Roma, in una sala gremita, Aldo Busi legge un brano inedito e sette incipit di sette suoi romanzi. La letteratura avviene. Gli incipit – vale a dire i cominciamenti che contengono di un’opera lo svolgimento e l’epilogo – vengono letti dallo Scrittore che riproduce il flusso psichico della voce narrante con cui sono stati scritti. Una festa orale della lingua italiana per scoraggiare i “giovani autori”, un manuale di scrittura per i non lettori di ogni età. Uno

tola nell’acqua, asciugarla, pettinarla, metterla davanti al banco dei gelati. Giuditta si ferma a un vaso, armeggia, scompare giù per una discesa; voci di grandi che si levano a chiamarla. La bambolina infilzata nell’aculeo di una foglia di agave. Sarebbe questa la fine riservata a un “puttano” come lui? Vita standard di un venditore provvisorio di collant Da tempi placentari Teodora sognava palloncini colorati, dalla superficie coriacea, infissi in un cielo senza colore, un fondale vago come qualcosa d’incerto se esistere o no. E tenuti per il nodo stesso dell’imboccatura, non svolazzanti, perché non c’era spago allentato da una mano che si disavvinghiasse da un fuso. Erano palloncini infinitesimali, capocchie simili a gocce d’acqua nera appena sghembe, in cima a pali della luce appuntiti, matite giganti o guglie di chiesa. Queste luminescenze di aria dura vibravano orizzontali come tante teste recise che neghino con il mento. Poi uno dei palloncini prendeva a enfiarsi e lei viveva la meraviglia di vederlo aumentare sempre più e ogni istante era quello dello scoppio rimandato all’istante ulteriore e sempre più dilagava la massa dalla pelle sempre più sottile e tesa nello spazio immaginifico dove lei aveva preso a rincorrere a perdifiato la goccia nera perché s’era accorta che quella vescica aveva l’imboccatura nel suo stesso ombelico e da lì suggeva il polposo gas che la stava svuotando per proiettarla verso incomprensibili galassie. La delfina bizantina Sarei così denso da amare: per esempio dalle labbra mieteresti grappoli di sferee umidità vocali e con il battito dattilografico del vecchio organo potresti trascorrere molte notti ad ascoltare concerti di pura retorica non dissimili da temporali di primavera. E pensa cosa questi globuli assenti potrebbero per te focalizzare sulla carta incendiando l’accademia della lontananza, l’arcadia delle tristezze pratiche nell’attesa che nuove architetture di cispa crollino sotto il rubinetto aperto d’improvviso da ogni risveglio. Non ti parlerei semplicemente d’amore, non si tratta solo d’amore: è coinvolto in questa storia il fluire circostanziato del sangue che si fa inchiostro e lui si racconterebbe attraverso la pressione dei polpastrelli sulla carne di cellulosa. Io, in questa bella storia d’amore che devasta tanto più quanto meno c’è, c’entro sempre meno e non di più o di meno di tutti quanti, inclusi gli esclusi. Sodomie in corpo 11

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2007 Fabio Mauri, Memoria ex auditu, un poemetto iconografico di 44 pagine e un cd audio di 72 minuti. Come se fosse dentro una delle opere di Fabio Mauri, la voce di Fabio Mauri viene proiettata su un fondale nero, buio. Sul quale inizia a tremare una luce, debole, chiara: è la memoria, che faticosamente cerca. Lentamente, come una chiazza che si espande, si delinea un profilo. Ma nessuno può dire di chi sia quel volto. Se il volto dell’artista, o quello dell’opera. Probabilmente, entrambi.

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3.14 La voce ricostruisce una serie di stanze dell’ascolto, entro cui vengono rievocati, come fossero progetti, i ricordi. Un “poemetto iconografico” ripercorre gli itinerari artistici di Mauri, come una guida (rigorosamente incongrua) attraverso la quale seguire i percorsi della voce. Le immagini si sovrappongono alle parole, in una dissolvenza incrociata che è il vero metodo di questa memoria che scaturisce dall’ascolto: memoria ex auditu.

Non si può scrivere una storia senza date. Lo sto facendo. Devo controllare. Ho diciotto quaderni, non più aperti da cinquant’anni, legati da uno spago. Per ora il tempo irresponsabile della memoria vaga, tra fronte e sopracciglio, con mezze immagini, e per metà nel flusso di altri tempi imprecisi, simulando una contemporaneità abituale e una connivenza di senso. Fabio Mauri

specchio d’artista: una riflessione, una presa della parola che equivale a un prendere le distanze dagli scriventi al soldo del nulla o, peggio, del molto poco. a te, che mi stai leggendo tra cent’anni e ti meravigli delle banalità senza importanza qui e ora chiamate con tutt’altro nome e con un’enfasi per te, graziato fra i molti, felicemente incomprensibile, e a te, disgraziato più di tutti, che non mi hai mai letto né mai mi leggerai Aldo Busi

Incipit di incipit Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminescenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, stupore di essercela tanto presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quanto si è poi rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato. Seminario sulla gioventù Quand’è che si è vecchi? Quando non ci si piace più e il pensiero di piacere a qualcuno, tu che non ti piaci più, ti riempie di sgomento, e di orrore, per te e l’improvvida creatura, segnata dai fulminanti traumi della sua crescita sentimentale, alla quale potresti far gola perfino tu, perché, suvvia, se non fosse un magma di poco di buono non si accontenterebbe perfino di te e in modo così chiaro e disteso, con tanta semplice semplicità; si è diventati vecchi quando ti svegli nel cuore della notte, una notte senza cuore e né capo né coda, diciamo alla tre e dieci del mattino, accendi la prima sigaretta e cominci a riempire l’annaffiatoio al lento rivolo del rubinetto del bagno di sotto, dove la pressione stamattina non potrebbe essere più bassa e più snervante l’attesa del pieno a filo del tettuccio, e vai avanti e indietro dieci volte dai vasi di geranio del balcone e dalle aiuole col gelsomino rampicante e la rosa e il cespuglio di trifoglio rosa incastonate nelle scale dell’entrata e i due pungitopo nelle giare calabre, e quando dopo un’ora di zelo riparatore guardi soddisfatto il tuo operato e fai per rientrare, senti un rumore strano alle tue spalle, come di denti del giudizio o monetine scroscianti su un tamburo, ti giri a bocca beante e in quell’istante è cominciato a piovere. Seminario sulla vecchiaia. Romanzo (interrotto e interrato) Giuditta trascina una bambolina di pezza e guarda fisso davanti a sé. Angelo guida a passo d’uomo, gira la testa verso di lei. La bimba non si scompone. Cammina a piedi nudi nel suo costumino blé e la strada polverosa ha le sinuosità di un ruscello essiccato. Giuditta incede come una bagnante tradita ma fiera sul carbone ardente del catrame. Angelo le sorride, invano. Giuditta, dopo la faccenda dei suoi tre carnefici mancati coi quali aveva stretto il patto di sangue, non vuole più saperne di lui. Oh, portarla con sé al lago, vederla di nuovo fare la trot-

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2004 Aldo Busi, Incipit Il 1 ottobre 2004 all’Auditorium di Roma, in una sala gremita, Aldo Busi legge un brano inedito e sette incipit di sette suoi romanzi. La letteratura avviene. Gli incipit – vale a dire i cominciamenti che contengono di un’opera lo svolgimento e l’epilogo – vengono letti dallo Scrittore che riproduce il flusso psichico della voce narrante con cui sono stati scritti. Una festa orale della lingua italiana per scoraggiare i “giovani autori”, un manuale di scrittura per i non lettori di ogni età. Uno

tola nell’acqua, asciugarla, pettinarla, metterla davanti al banco dei gelati. Giuditta si ferma a un vaso, armeggia, scompare giù per una discesa; voci di grandi che si levano a chiamarla. La bambolina infilzata nell’aculeo di una foglia di agave. Sarebbe questa la fine riservata a un “puttano” come lui? Vita standard di un venditore provvisorio di collant Da tempi placentari Teodora sognava palloncini colorati, dalla superficie coriacea, infissi in un cielo senza colore, un fondale vago come qualcosa d’incerto se esistere o no. E tenuti per il nodo stesso dell’imboccatura, non svolazzanti, perché non c’era spago allentato da una mano che si disavvinghiasse da un fuso. Erano palloncini infinitesimali, capocchie simili a gocce d’acqua nera appena sghembe, in cima a pali della luce appuntiti, matite giganti o guglie di chiesa. Queste luminescenze di aria dura vibravano orizzontali come tante teste recise che neghino con il mento. Poi uno dei palloncini prendeva a enfiarsi e lei viveva la meraviglia di vederlo aumentare sempre più e ogni istante era quello dello scoppio rimandato all’istante ulteriore e sempre più dilagava la massa dalla pelle sempre più sottile e tesa nello spazio immaginifico dove lei aveva preso a rincorrere a perdifiato la goccia nera perché s’era accorta che quella vescica aveva l’imboccatura nel suo stesso ombelico e da lì suggeva il polposo gas che la stava svuotando per proiettarla verso incomprensibili galassie. La delfina bizantina Sarei così denso da amare: per esempio dalle labbra mieteresti grappoli di sferee umidità vocali e con il battito dattilografico del vecchio organo potresti trascorrere molte notti ad ascoltare concerti di pura retorica non dissimili da temporali di primavera. E pensa cosa questi globuli assenti potrebbero per te focalizzare sulla carta incendiando l’accademia della lontananza, l’arcadia delle tristezze pratiche nell’attesa che nuove architetture di cispa crollino sotto il rubinetto aperto d’improvviso da ogni risveglio. Non ti parlerei semplicemente d’amore, non si tratta solo d’amore: è coinvolto in questa storia il fluire circostanziato del sangue che si fa inchiostro e lui si racconterebbe attraverso la pressione dei polpastrelli sulla carne di cellulosa. Io, in questa bella storia d’amore che devasta tanto più quanto meno c’è, c’entro sempre meno e non di più o di meno di tutti quanti, inclusi gli esclusi. Sodomie in corpo 11

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Vocalizzare la pagina

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Io sì. Il primo cazzo lo intravedo appena, ma lo intravedo in tutta la sua magnificenza tendere la stoffa sdrucita dei jeans di lui che si è steso nella sezione centrale del jumbo semivuoto destinazione finale Sidney. Dorme il giovanotto biondo scuro e non ha l’espressione del finto sonno, dorme proprio, e sogna. Io me ne sto in piedi e fumo, sbircio in lungo e in largo in questo corpo umano che non potrebbe essere in questo momento e in questo modo più nudo e indifeso. Nel sonno mi regala un gesto insperato: il braccio sinistro si sposta da sotto il fianco e lui, corrugando appena la fronte, dirige la mano possente sulla cerniera, la manipola e con essa l’ingombro duro che c’è sotto, come a liberarlo da peli impigliati. Avevo infatti sentito dire che le ultime generazioni anglosassoni non vengono più circoncise e che il filetto è tornato a piacere. Cazzi e canguri (pocchissimi i canguri)

3.17

In tempi di sordo consenso, non resta che “vocalizzare” la pagina, utilizzando le stesse risorse dei media elettronici e mettendo in crisi il concetto di autore unico. In un’epoca post-tipografica, pervasa dal rimbombo talvolta insultante della comunicazione, pensare alla letteratura come un oggetto estetico e volatile legato alla voce è l’unico rimedio contro la marginalità, imposta dal profitto, di ogni forma d’arte che non sia immediatamente riconducibile a merce (e moneta) d’intrattenimento spettacolarculturale. Autore e fruitore si incontrano, le due figure si contaminano. Come ha scritto Zumthor ne La presenza della voce, l’ascoltatore “fa parte” dell’esecuzione, e la orienta: la lettura accade. La parola detta non esiste in assenza, richiede la presenza di un uditorio, la invoca, anche polemicamente. La voce è testimonianza di una tradizione, e invenzione di un genere letterario nuovo, anzi antichissimo: la letteratura d’ascolto. L’arte del discorso è confinata nel piombo del libro da solo cinquecento anni: per millenni ha utilizzato come medium la voce, la forza dell’espressione orale. “Pubblicare” un’opera, per i latini, significava declamarla ad alta voce e la scrittura funzionava come semplice “partitura” del testo da interpretare.

3.18

Un triplice esperimento di archeologia ottocentesca. Fantasmi vocali, che provengono e ritornano da esperienze culturali che colloquiano coi margini e si collocano al confine con l’ombra. Massimo Popolizio raccoglie quelle voci e le restituisce al pubblico. Nel punto esatto in cui si incontrano la scienza e la letteratura, la ragione e la vertigine dell’abisso, nascono Il caso Salgari, Il caso Artusi e Il caso Lombroso, tre cd audio che riproducono gli eventi realizzati all’Auditorium di Roma, a cura di Claudio Longhi, con la partecipazione di Lino Guanciale e il coordinamento di Claudia Di Giacomo.

Il padre per quanto imperfetto di un perfetto Scrittore è costituito da tutti gli altri Scrittori, anche forestieri, che lo Scrittore si sceglie (unico fra gli umani, Egli si sceglie la paternità), ma la madre o è quella che si ritrova o meglio che sia orfano del tutto. La mia è quella. E artistica per eccellenza, come la mia vera lingua madre: dialettale e non codificata, senza letteratura – senza passato – che non sia orale. Nudo di madre. Manuale del perfetto Scrittore ...qualcuno di scollegato dal resto del sangue in circolo sul pianeta, ecco chi farebbe per me, uno non collegabile a una madre, a un padre, a dei fratelli, a dei nonni, a degli zii, a dei cugini, a mogli o amanti del passato o del presente... del presente men che mai... qualcuno che non mi causi schifo di già per le sue origini irrimediabilmente umane, organiche, organicamente parentelari, e schifo anche per i suoi attuali legacci carnali cui presentarmi con esagerata disinvoltura o, previo appuntamento, da farmi vedere di nascosto seduti alla terrazza di un bar mentre mangiano un gelato perché fa famiglia, contesto, curriculum del cazzo socializzato e ottemperanza alla messa della domenica santificata insieme, una bara che avvolge una bara dentro una bara con l’ultimo che scava per tutti quanti meno uno, che già sta scavando per lui, e quindi per me che non c’entro niente; Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo

2006 Marco Baliani, Stefano Bollani, Il rumore del cuore Il gatto nero di Edgar Allan Poe, a cura di Lisa Ginzburg, cd audio di 65 minuti.

ismi viventi, un cuore e un gatto, vengono occultati, creduti la loro tragica vitalità, entrambi danno segnali della loro cuore batte sotto un tappeto, e la sua eco rimbomba orecchie di chi vi cammina. Soffocata tra la calce di una ogna di un gatto lancia i suoi temibili anatemi.

cupa fantasia di Poe concepisce per entrambi i racconti ispositivo letterario, per cui è il segnale di sopravvivenza supposti organismi soppressi, la leva che non soltanto artefici dell’occultamento, ma scardina la facciata della done a nudo il nocciolo di verità, la natura spaventosamente sante che si nasconde dietro qualsiasi apparenza.

oghi inquietanti su cosa possa significare sopprimere, fallire. Due metafore della cruda realtà con cui si è costretti quale sia stato il tentativo di rimozione.

Il rumore del cuore Il gatto nero di Edgar Allan Poe

collezione edita in collaborazione sica per Roma

ISBN 978-88-87995-95-8

Un cd audio di 65 minuti

cd audio

Marco Baliani Stefano Bollani Il rumore del cuore Il gatto nero di Edgar Allan Poe

luca sossella editore

Marco Baliani Stefano Bollani

3.16

Due organismi viventi, un cuore e un gatto, vengono occultati, creduti morti; ma nella loro tragica vitalità, entrambi danno segnali della loro esistenza. Un cuore batte sotto un tappeto, e la sua eco rimbomba terribile nelle orecchie di chi vi cammina. Soffocata tra la calce di una parete, la carogna di un gatto lancia i suoi temibili anatemi.

La fervida, cupa fantasia di Poe concepisce per entrambi i racconti un identico dispositivo letterario, per cui è il segnale di sopravvivenza lanciato dai supposti organismi soppressi, la leva che non soltanto smaschera gli artefici dell’occultamento, ma scardina la facciata della storia, mettendone a nudo il nocciolo di verità, la natura

spaventosamente violenta e pulsante che si nasconde dietro qualsiasi apparenza. Due apologhi inquietanti su cosa possa significare sopprimere, nascondere: e fallire. Due metafore della cruda realtà con cui si è costretti a fare i conti, quale sia stato il tentativo di rimozione. Lisa Ginzburg

2005 Massimo Popolizio, Il caso Salgari, lettere alla moglie, ai figli e agli editori. A tutti i nietzscheani salgariani, a tutti coloro che un giorno hanno pensato di riscrivere la propria vita, e poi si sono accorti che erano senza carta (e senza metaforico inchiostro). A tutti coloro a cui almeno una volta è venuto in mente di cancellare per sempre la finzione d’esserci. A tutti quelli che vorrebbero scrivere per non dire null’altro che la conoscenza di quanto è sconosciuto. A tutto coloro che scrivono, in vista della verità, una parola che non c’è e forse non ci sarà nemmeno

Sì, lo spettacolo che abbiamo costruito mi ha ricordato il modo in cui lavorano certi scrittori ebrei: Kafka, Benjamin, Bloch; rappresentanti di una cultura in grado anche di dissacrare, di divertirsi con ciò che dovrebbe sembrare tragico. Siamo stati irriverenti, intendo dire, capaci di restituire qualcosa di tenebrosamente ironico. Questo genere di eventi dovrebbe servire a sviluppare una nuova drammaturgia dei testi, che non significa solo leggere, o solamente suonare, ma mettere in piedi una vera e propria jam sassion, uno spazio di improvvsazione a misura di una particolare sintonia artisitca. Marco Baliani A tratti, è molto più importante il suono del significato. In uno dei due racconti, a un certo punto, Poe scrive la frase: “come un orologio avvolto nell’ovatta”. Non ho neanche pensato a cosa la frase volesse dire: mi sono fatto prendere dal suono delle parole, e ho immaginato la musica attenendomi a quello. Stefano Bollani

59

domani. A tutti quelli che scrivendo “domani” si illudono che vi sia la possibilità di iniziare un nuovo corso. A tutti coloro che (non) hanno il privilegio di comprendere il destino. A tutti quelli che hanno compreso che non si esce (e sono comunque altrettanto vuoti e ignari e tristi) da questo eterno circolo: Tu sei quel che è il tuo profondo, stimolante desiderio. Com’è il tuo desiderio, così è la tua volontà. Com’è la tua volontà, così è la

tua azione. Com’è la tua azione, così è il tuo destino. (Brahadaranyaka, Upanisad IV, 4.5) E anche a tutti coloro che abitano la sventura di sfruttare il talento altrui senza il freno del dolore. A tutti i mercanti. A tutti quelli che imbrogliano se stessi indossando una maschera uguale al loro volto. A tutti coloro che rispettano il volto dell’altro. L’editore


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Vocalizzare la pagina

Voce

Io sì. Il primo cazzo lo intravedo appena, ma lo intravedo in tutta la sua magnificenza tendere la stoffa sdrucita dei jeans di lui che si è steso nella sezione centrale del jumbo semivuoto destinazione finale Sidney. Dorme il giovanotto biondo scuro e non ha l’espressione del finto sonno, dorme proprio, e sogna. Io me ne sto in piedi e fumo, sbircio in lungo e in largo in questo corpo umano che non potrebbe essere in questo momento e in questo modo più nudo e indifeso. Nel sonno mi regala un gesto insperato: il braccio sinistro si sposta da sotto il fianco e lui, corrugando appena la fronte, dirige la mano possente sulla cerniera, la manipola e con essa l’ingombro duro che c’è sotto, come a liberarlo da peli impigliati. Avevo infatti sentito dire che le ultime generazioni anglosassoni non vengono più circoncise e che il filetto è tornato a piacere. Cazzi e canguri (pocchissimi i canguri)

3.17

In tempi di sordo consenso, non resta che “vocalizzare” la pagina, utilizzando le stesse risorse dei media elettronici e mettendo in crisi il concetto di autore unico. In un’epoca post-tipografica, pervasa dal rimbombo talvolta insultante della comunicazione, pensare alla letteratura come un oggetto estetico e volatile legato alla voce è l’unico rimedio contro la marginalità, imposta dal profitto, di ogni forma d’arte che non sia immediatamente riconducibile a merce (e moneta) d’intrattenimento spettacolarculturale. Autore e fruitore si incontrano, le due figure si contaminano. Come ha scritto Zumthor ne La presenza della voce, l’ascoltatore “fa parte” dell’esecuzione, e la orienta: la lettura accade. La parola detta non esiste in assenza, richiede la presenza di un uditorio, la invoca, anche polemicamente. La voce è testimonianza di una tradizione, e invenzione di un genere letterario nuovo, anzi antichissimo: la letteratura d’ascolto. L’arte del discorso è confinata nel piombo del libro da solo cinquecento anni: per millenni ha utilizzato come medium la voce, la forza dell’espressione orale. “Pubblicare” un’opera, per i latini, significava declamarla ad alta voce e la scrittura funzionava come semplice “partitura” del testo da interpretare.

3.18

Un triplice esperimento di archeologia ottocentesca. Fantasmi vocali, che provengono e ritornano da esperienze culturali che colloquiano coi margini e si collocano al confine con l’ombra. Massimo Popolizio raccoglie quelle voci e le restituisce al pubblico. Nel punto esatto in cui si incontrano la scienza e la letteratura, la ragione e la vertigine dell’abisso, nascono Il caso Salgari, Il caso Artusi e Il caso Lombroso, tre cd audio che riproducono gli eventi realizzati all’Auditorium di Roma, a cura di Claudio Longhi, con la partecipazione di Lino Guanciale e il coordinamento di Claudia Di Giacomo.

Il padre per quanto imperfetto di un perfetto Scrittore è costituito da tutti gli altri Scrittori, anche forestieri, che lo Scrittore si sceglie (unico fra gli umani, Egli si sceglie la paternità), ma la madre o è quella che si ritrova o meglio che sia orfano del tutto. La mia è quella. E artistica per eccellenza, come la mia vera lingua madre: dialettale e non codificata, senza letteratura – senza passato – che non sia orale. Nudo di madre. Manuale del perfetto Scrittore ...qualcuno di scollegato dal resto del sangue in circolo sul pianeta, ecco chi farebbe per me, uno non collegabile a una madre, a un padre, a dei fratelli, a dei nonni, a degli zii, a dei cugini, a mogli o amanti del passato o del presente... del presente men che mai... qualcuno che non mi causi schifo di già per le sue origini irrimediabilmente umane, organiche, organicamente parentelari, e schifo anche per i suoi attuali legacci carnali cui presentarmi con esagerata disinvoltura o, previo appuntamento, da farmi vedere di nascosto seduti alla terrazza di un bar mentre mangiano un gelato perché fa famiglia, contesto, curriculum del cazzo socializzato e ottemperanza alla messa della domenica santificata insieme, una bara che avvolge una bara dentro una bara con l’ultimo che scava per tutti quanti meno uno, che già sta scavando per lui, e quindi per me che non c’entro niente; Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo

2006 Marco Baliani, Stefano Bollani, Il rumore del cuore Il gatto nero di Edgar Allan Poe, a cura di Lisa Ginzburg, cd audio di 65 minuti.

ismi viventi, un cuore e un gatto, vengono occultati, creduti la loro tragica vitalità, entrambi danno segnali della loro cuore batte sotto un tappeto, e la sua eco rimbomba orecchie di chi vi cammina. Soffocata tra la calce di una ogna di un gatto lancia i suoi temibili anatemi.

cupa fantasia di Poe concepisce per entrambi i racconti ispositivo letterario, per cui è il segnale di sopravvivenza supposti organismi soppressi, la leva che non soltanto artefici dell’occultamento, ma scardina la facciata della done a nudo il nocciolo di verità, la natura spaventosamente sante che si nasconde dietro qualsiasi apparenza.

oghi inquietanti su cosa possa significare sopprimere, fallire. Due metafore della cruda realtà con cui si è costretti quale sia stato il tentativo di rimozione.

Il rumore del cuore Il gatto nero di Edgar Allan Poe

collezione edita in collaborazione sica per Roma

ISBN 978-88-87995-95-8

Un cd audio di 65 minuti

cd audio

Marco Baliani Stefano Bollani Il rumore del cuore Il gatto nero di Edgar Allan Poe

luca sossella editore

Marco Baliani Stefano Bollani

3.16

Due organismi viventi, un cuore e un gatto, vengono occultati, creduti morti; ma nella loro tragica vitalità, entrambi danno segnali della loro esistenza. Un cuore batte sotto un tappeto, e la sua eco rimbomba terribile nelle orecchie di chi vi cammina. Soffocata tra la calce di una parete, la carogna di un gatto lancia i suoi temibili anatemi.

La fervida, cupa fantasia di Poe concepisce per entrambi i racconti un identico dispositivo letterario, per cui è il segnale di sopravvivenza lanciato dai supposti organismi soppressi, la leva che non soltanto smaschera gli artefici dell’occultamento, ma scardina la facciata della storia, mettendone a nudo il nocciolo di verità, la natura

spaventosamente violenta e pulsante che si nasconde dietro qualsiasi apparenza. Due apologhi inquietanti su cosa possa significare sopprimere, nascondere: e fallire. Due metafore della cruda realtà con cui si è costretti a fare i conti, quale sia stato il tentativo di rimozione. Lisa Ginzburg

2005 Massimo Popolizio, Il caso Salgari, lettere alla moglie, ai figli e agli editori. A tutti i nietzscheani salgariani, a tutti coloro che un giorno hanno pensato di riscrivere la propria vita, e poi si sono accorti che erano senza carta (e senza metaforico inchiostro). A tutti coloro a cui almeno una volta è venuto in mente di cancellare per sempre la finzione d’esserci. A tutti quelli che vorrebbero scrivere per non dire null’altro che la conoscenza di quanto è sconosciuto. A tutto coloro che scrivono, in vista della verità, una parola che non c’è e forse non ci sarà nemmeno

Sì, lo spettacolo che abbiamo costruito mi ha ricordato il modo in cui lavorano certi scrittori ebrei: Kafka, Benjamin, Bloch; rappresentanti di una cultura in grado anche di dissacrare, di divertirsi con ciò che dovrebbe sembrare tragico. Siamo stati irriverenti, intendo dire, capaci di restituire qualcosa di tenebrosamente ironico. Questo genere di eventi dovrebbe servire a sviluppare una nuova drammaturgia dei testi, che non significa solo leggere, o solamente suonare, ma mettere in piedi una vera e propria jam sassion, uno spazio di improvvsazione a misura di una particolare sintonia artisitca. Marco Baliani A tratti, è molto più importante il suono del significato. In uno dei due racconti, a un certo punto, Poe scrive la frase: “come un orologio avvolto nell’ovatta”. Non ho neanche pensato a cosa la frase volesse dire: mi sono fatto prendere dal suono delle parole, e ho immaginato la musica attenendomi a quello. Stefano Bollani

59

domani. A tutti quelli che scrivendo “domani” si illudono che vi sia la possibilità di iniziare un nuovo corso. A tutti coloro che (non) hanno il privilegio di comprendere il destino. A tutti quelli che hanno compreso che non si esce (e sono comunque altrettanto vuoti e ignari e tristi) da questo eterno circolo: Tu sei quel che è il tuo profondo, stimolante desiderio. Com’è il tuo desiderio, così è la tua volontà. Com’è la tua volontà, così è la

tua azione. Com’è la tua azione, così è il tuo destino. (Brahadaranyaka, Upanisad IV, 4.5) E anche a tutti coloro che abitano la sventura di sfruttare il talento altrui senza il freno del dolore. A tutti i mercanti. A tutti quelli che imbrogliano se stessi indossando una maschera uguale al loro volto. A tutti coloro che rispettano il volto dell’altro. L’editore


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Che cos’è che cos’è?

Voce

3.19

2005 Massimo Popolizio, Il Caso Artusi, con un testo di Giorgio Manganelli. “Cammina, cammina, cammina”, “sul far della sera”, il Gatto, la Volpe e Pinocchio arrivarono all’Osteria del Gambero Rosso; si posero a tavola, “ma nessuno di loro aveva appetito”. Il povero Gatto, travagliato di stomaco, “non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana”; la Volpe, poi, ridotta a “grandissima dieta”, “dové contentarsi di una semplice lepre in dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e

galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa e poi non volle altro.” Nell’intemporale Ottocento di Pinocchio emerge una immagine badiale, selvatica, da Boch dialettale, del mangiare italiano, anzi toscano; immagine mostruosa e domestica, come quell’osteria archetipica, campita nel mezzo di una campagna allegorica, pedagogica e maremmana. Si noterà come, da quella mensa spropositata e burlevole, uscita

dalla fantasia eternamente affamata di un Pulcinella visionario, sia assente la pasta; il che, nella ideologia gastronomica italiana, significa che i personaggi con cui abbiamo a che fare sono solo perifericamente umani. Pesci e selvaggina, poi, tengono dell’abissale e del silvano, e in ogni modo connotano una terra solo avaramente umana. Ove non siano né zite, né pappardelle, né bucatini, saremo per certo in paese cimmerio, simbolico e irto. Giorgio Manganelli

Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? Friedrich Nietzsche

prima volta, con brevi concetti, vigorosi, arditi, spesso anche nelle apparenze temerari e tali da sembrare più divinati che dedotti – concetti abbigliati di fretta in qualche prolusione universitaria – le opere di Lombroso, sotto il calore della assidua meditazione e col conforto dello sperimento severo, si organizzano, si arrotondano, ingrandiscono a poco a poco, cosicché, dopo due o tre edizioni, ci ritornano innanzi nel rigoglio della perfetta salute e colle armoniche proporzioni delle

cose complete. A simili lavori, pensati e ripensati, mal si addice un fuggitivo cenno di annunzio. Ma intanto consigliamo i nostri egregi lettori a procurarselo. È una lettura che può essere utile a tutti, poiché tutti hanno un grano, se non di genio, di follia: aggiungiamo che è una lettura anche dilettevolissima – e ciò per le gentili signore, avide di romanzo criminale e di cronaca ergastolina. Carlo Dossi

Che cos’è? non è solo un oggetto, o un prodotto editoriale. È qualcosa che accade. Prima di essere registrate su cd e dvd, le lezioni sono un incontro tra i protagonisti e il pubblico. Tra chi parla e chi ascolta. Sono spazi, luoghi, pieni di persone. Pieni di volontà di sapere e di non arrendersi all’anestesia, ai ricatti del consenso, alla minaccia sempre ritornante dell’analfabetismo, metaforico e letterale.

2010 Oscar Luigi Scalfaro, Che cos’è la Costituzione?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 3 febbraio 2008.

3.20

luca sossella editore

Oscar Luigi Scalfaro Che cos’è la Costituzione?

Che cos’è la Costituzione? Non solo una raccolta di “leggi” destinate a regolare la vita di una società. Constitutionem, dal latino constituere, e cioè “stabilire”, “ordinare”, “dare stabile assetto”; letteralmente “il modo in cui una cosa è stabilita”. Art. 1 L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Art. 2 La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e

dvd

60

Che cos’è? È la volontà di progettare una piccola enciclopedia in cd audio e dvd. Una mappa, un’ampia esposizione delle competenze e dei saperi più evoluti della nostra epoca, disegnata grazie ai ragionamenti di scienziati e progettisti della cultura. Un’esperienza che si fonda sulla memoria del passato per dare risposte comprensibili e responsabili su temi decisivi per il presente e per il futuro. Testimonianze: di chi ha dedicato la vita a una ricerca, per chi vuole continuare a interrogarsi, e costruire un proprio laboratorio di trasformazione.

Le istituzioni culturali da alcuni anni stanno attraversando un’importante fase evolutiva sintetizzabile nel passaggio dalla condizione conservativa, rappresentativa e spettacolare a una dimensione responsabile del processo formativo. In questo panorama le scuole svolgono, naturalmente, un ruolo decisivo, e necessitano di scelte didattiche innovative per edificare nuove forme pedagogiche. Che cos’è? nasce in dialogo con le forme di sperimentazione pedagogica, indica la strada per confrontare diversi percorsi di studio umanistici e per approfondire la discussione scientifica. Creare una mappa per un interscambio di competenze significa analizzare i problemi che l’apprendimento sarà chiamato ad affrontare. Attraverso, anche, la progettazione di nuovi strumenti, dei quali Che cos’è? può rappresentare un prototipo. In questo momento (della verità per molte persone e istituzioni) è necessario inviare segnali forti e chiari, in grado di comunicare (in modo non equivoco e incerto) la propria vocazione culturale, affermando con decisione il proprio ruolo. Bisogna ridefinire alcune parole fondamentali. Ogni libro, del resto, è una pedagogia destinata a formare il suo lettore, diceva Derrida: Che cos’è? dispiega le potenzialità di questa relazione pedagogica, raccogliendo le voci di coloro che hanno attraversato gran parte della loro vita con l’ansia e il desiderio di determinare un orizzonte nuovo. Voci sintetiche, semplicemente complesse, per condensare senza banalizzare. I temi sono ambiziosi ai limiti della superbia e in grado di coinvolgere il pubblico per il loro interesse immediato. Margherita Hack, giustamente, chiese: “Ma si può ragionare dell’universo in un’ora?” No, evidentemente, ma creare la curiosità intellettuale sì. Per quello basta un minuto.

2005 Massimo Popolizio, Il caso Lombroso, con un testo di Luigi Pirandello e una nota di Carlo Dossi. Se dal numero delle edizioni si può trarre un criterio del valore o almeno del successo di un’opera, è certo che questo Genio e follia, edito ora per la quarta volta in breve giro di anni, il che non è poco ove si abbia riguardo alla sua qualità di libro scientifico e all’analfabetismo italiano, si incammina a gran passi alla celebrità. Le opere di Cesare Lombroso, seguono, nel loro sviluppo, la via tenuta dalla maestra natura per le proprie. Presentatesi, in generale, la

Quando si dice la verità si è sicuri, prima o poi, di essere scoperti. Oscar Wilde

61

richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito

della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.


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Che cos’è che cos’è?

Voce

3.19

2005 Massimo Popolizio, Il Caso Artusi, con un testo di Giorgio Manganelli. “Cammina, cammina, cammina”, “sul far della sera”, il Gatto, la Volpe e Pinocchio arrivarono all’Osteria del Gambero Rosso; si posero a tavola, “ma nessuno di loro aveva appetito”. Il povero Gatto, travagliato di stomaco, “non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana”; la Volpe, poi, ridotta a “grandissima dieta”, “dové contentarsi di una semplice lepre in dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e

galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa e poi non volle altro.” Nell’intemporale Ottocento di Pinocchio emerge una immagine badiale, selvatica, da Boch dialettale, del mangiare italiano, anzi toscano; immagine mostruosa e domestica, come quell’osteria archetipica, campita nel mezzo di una campagna allegorica, pedagogica e maremmana. Si noterà come, da quella mensa spropositata e burlevole, uscita

dalla fantasia eternamente affamata di un Pulcinella visionario, sia assente la pasta; il che, nella ideologia gastronomica italiana, significa che i personaggi con cui abbiamo a che fare sono solo perifericamente umani. Pesci e selvaggina, poi, tengono dell’abissale e del silvano, e in ogni modo connotano una terra solo avaramente umana. Ove non siano né zite, né pappardelle, né bucatini, saremo per certo in paese cimmerio, simbolico e irto. Giorgio Manganelli

Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? Friedrich Nietzsche

prima volta, con brevi concetti, vigorosi, arditi, spesso anche nelle apparenze temerari e tali da sembrare più divinati che dedotti – concetti abbigliati di fretta in qualche prolusione universitaria – le opere di Lombroso, sotto il calore della assidua meditazione e col conforto dello sperimento severo, si organizzano, si arrotondano, ingrandiscono a poco a poco, cosicché, dopo due o tre edizioni, ci ritornano innanzi nel rigoglio della perfetta salute e colle armoniche proporzioni delle

cose complete. A simili lavori, pensati e ripensati, mal si addice un fuggitivo cenno di annunzio. Ma intanto consigliamo i nostri egregi lettori a procurarselo. È una lettura che può essere utile a tutti, poiché tutti hanno un grano, se non di genio, di follia: aggiungiamo che è una lettura anche dilettevolissima – e ciò per le gentili signore, avide di romanzo criminale e di cronaca ergastolina. Carlo Dossi

Che cos’è? non è solo un oggetto, o un prodotto editoriale. È qualcosa che accade. Prima di essere registrate su cd e dvd, le lezioni sono un incontro tra i protagonisti e il pubblico. Tra chi parla e chi ascolta. Sono spazi, luoghi, pieni di persone. Pieni di volontà di sapere e di non arrendersi all’anestesia, ai ricatti del consenso, alla minaccia sempre ritornante dell’analfabetismo, metaforico e letterale.

2010 Oscar Luigi Scalfaro, Che cos’è la Costituzione?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 3 febbraio 2008.

3.20

luca sossella editore

Oscar Luigi Scalfaro Che cos’è la Costituzione?

Che cos’è la Costituzione? Non solo una raccolta di “leggi” destinate a regolare la vita di una società. Constitutionem, dal latino constituere, e cioè “stabilire”, “ordinare”, “dare stabile assetto”; letteralmente “il modo in cui una cosa è stabilita”. Art. 1 L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Art. 2 La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e

dvd

60

Che cos’è? È la volontà di progettare una piccola enciclopedia in cd audio e dvd. Una mappa, un’ampia esposizione delle competenze e dei saperi più evoluti della nostra epoca, disegnata grazie ai ragionamenti di scienziati e progettisti della cultura. Un’esperienza che si fonda sulla memoria del passato per dare risposte comprensibili e responsabili su temi decisivi per il presente e per il futuro. Testimonianze: di chi ha dedicato la vita a una ricerca, per chi vuole continuare a interrogarsi, e costruire un proprio laboratorio di trasformazione.

Le istituzioni culturali da alcuni anni stanno attraversando un’importante fase evolutiva sintetizzabile nel passaggio dalla condizione conservativa, rappresentativa e spettacolare a una dimensione responsabile del processo formativo. In questo panorama le scuole svolgono, naturalmente, un ruolo decisivo, e necessitano di scelte didattiche innovative per edificare nuove forme pedagogiche. Che cos’è? nasce in dialogo con le forme di sperimentazione pedagogica, indica la strada per confrontare diversi percorsi di studio umanistici e per approfondire la discussione scientifica. Creare una mappa per un interscambio di competenze significa analizzare i problemi che l’apprendimento sarà chiamato ad affrontare. Attraverso, anche, la progettazione di nuovi strumenti, dei quali Che cos’è? può rappresentare un prototipo. In questo momento (della verità per molte persone e istituzioni) è necessario inviare segnali forti e chiari, in grado di comunicare (in modo non equivoco e incerto) la propria vocazione culturale, affermando con decisione il proprio ruolo. Bisogna ridefinire alcune parole fondamentali. Ogni libro, del resto, è una pedagogia destinata a formare il suo lettore, diceva Derrida: Che cos’è? dispiega le potenzialità di questa relazione pedagogica, raccogliendo le voci di coloro che hanno attraversato gran parte della loro vita con l’ansia e il desiderio di determinare un orizzonte nuovo. Voci sintetiche, semplicemente complesse, per condensare senza banalizzare. I temi sono ambiziosi ai limiti della superbia e in grado di coinvolgere il pubblico per il loro interesse immediato. Margherita Hack, giustamente, chiese: “Ma si può ragionare dell’universo in un’ora?” No, evidentemente, ma creare la curiosità intellettuale sì. Per quello basta un minuto.

2005 Massimo Popolizio, Il caso Lombroso, con un testo di Luigi Pirandello e una nota di Carlo Dossi. Se dal numero delle edizioni si può trarre un criterio del valore o almeno del successo di un’opera, è certo che questo Genio e follia, edito ora per la quarta volta in breve giro di anni, il che non è poco ove si abbia riguardo alla sua qualità di libro scientifico e all’analfabetismo italiano, si incammina a gran passi alla celebrità. Le opere di Cesare Lombroso, seguono, nel loro sviluppo, la via tenuta dalla maestra natura per le proprie. Presentatesi, in generale, la

Quando si dice la verità si è sicuri, prima o poi, di essere scoperti. Oscar Wilde

61

richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito

della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.


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Voce

2010 Andrea Moro, Che cos’è il linguaggio?, registrato dal vivo all’Università di Bologna il 19 aprile 2010. Noi non vediamo la luce. Vediamo solo gli effetti che essa ha sugli oggetti. Sappiamo della sua esistenza solo perché viene riflessa da ciò che incontra nel suo cammino, rendendo cosí visibili gli oggetti, che altrimenti non vedremmo. Cosí un nulla, illuminato da un altro nulla, diventa qualcosa. Allo stesso modo funzionano le parole: non hanno contenuto in sé, ma se incontrano qualcuno che le ascolta diventano qualcosa. Analizzare il linguaggio è come analizzare la luce, ci si trova nella stessa condizione. Andrea Moro Il linguaggio è piú simile a un fiocco di neve che al collo di una giraffa. Le sue proprietà specifiche nascono dalle leggi di natura, non sono qualcosa che si sviluppa come accumulo di fatti storici casuali. Noam Chomsky

2010 Carlo Petrini, Che cos’è il gusto?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 30 marzo 2008.

La gastronomia è la conoscenza ragionata di tutto ciò che si riferisce all’uomo in quanto egli si nutre; serve a scegliere perché serve a capire che cos’è la qualità. Fa sì che si possa provare un piacere dotto e imparare una conoscenza gaudente. L’uomo in quanto si nutre è cultura: la

gastronomia è cultura, prima materiale e poi immateriale. La scelta è un diritto dell’uomo: la gastronomia è libertà di scelta. Il piacere è un diritto di tutti e in quanto tale deve essere il più responsabile possibile: la gastronomia è un fatto creativo, non distruttivo. La conoscenza è un dirittto di

tutti, ma anche un dovere: la gastronomia è educazione. La gastronomia è una scienza che studia la felicità. Tramite il cibo, linguaggio universale e immediato, elemento identitario e oggetto di scambio, essa si configura come una delle più potenti forme di diplomazia della pace.

2010 Stefano Rodotà, Che cos’è il corpo?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 18 maggio 2008.

I corpi si interrogano sul loro destino. Non è una forzatura parlare dei corpi attribuendo loro una specifica autonomia. Ci domandiamo perché il corpo femminile rimanga oggetto di violenza, di ininterrotti tentativi di impossessarsene da parte dei più diversi poteri, eterno “luogo pubblico”. Ci interroghiamo sulla superfluità del corpo: ancora

di quello femminile, di fronte all’utero artificiale; ma pure di quello maschile, per esempio quando si parla di clonazione; del corpo come apparato muscolare, quando si sperimentano le “brain computer interfaces”, la comunicazione diretta tra il cervello e un computer. Ci chiediamo se il corpo venga sempre più imperiosamente percepito e utilizzato come il

luogo d’una continua rappresentazione pubblica, tramite delle relazione con il mondo. Ci inquieta il rapporto tra corpo fisico e corpo elettronico. Ci appare sempre più evidente la percezione del corpo come sede del conflitto tra artificio e natura. E nel corpo, in definitiva, s’incarna (è il caso di dirlo) il progetto del sé.

2010 Gherardo Colombo, Che cos’è la legalità?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 14 ottobre 2008. Bisogno e libertà: e in mezzo l’inesausto interrogarsi dell’uomo intorno al bene e al male. In questo spazio Dostoevskij organizza il dialogo tra Ivan Karamazov e suo fratello Alëša, dentro il quale si inserisce il monologo (una requisitoria contro Gesù, tornato tra gli uomini) del Grande Inquisitore: cos’è bene per l’uomo? Provvedere ai suoi bisogni, materiali e morali, oppure, come ha fatto Gesù, lasciarlo solo al cospetto del male, in balìa della più

62

annichilente libertà? Ivan, l’intellettuale destinato alla follia, ossessionato dal problema della sofferenza degli innocenti, spinge la bestemmia, l’estrema negazione, fino alla visione di una tirannide metafisica, indiscutibile e sovrumana. Il parricidio lo riconduce alla necessità di avere un padre che dispensi la legge e regoli l’infrazione. Alëša, il puro di cuore, come Gesù, tace. Bacia il bestemmiatore. Da dentro l’ortodossia, continua a

sperare nella libertà. Come Gesù, continua a credere nella capacità dell’uomo di rifiutare, se il prezzo è la libertà, il miracolo della soddisfazione di tutti i bisogni (e quindi la giustizia?). Tra soddisfazione dei bisogni e aspirazione alla libertà si colloca la legalità, che è quello stesso interrogarsi sul bene e sul male che spalanca l’abisso: verso il basso per Ivan, verso l’alto per Alëša.

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Voce

2010 Andrea Moro, Che cos’è il linguaggio?, registrato dal vivo all’Università di Bologna il 19 aprile 2010. Noi non vediamo la luce. Vediamo solo gli effetti che essa ha sugli oggetti. Sappiamo della sua esistenza solo perché viene riflessa da ciò che incontra nel suo cammino, rendendo cosí visibili gli oggetti, che altrimenti non vedremmo. Cosí un nulla, illuminato da un altro nulla, diventa qualcosa. Allo stesso modo funzionano le parole: non hanno contenuto in sé, ma se incontrano qualcuno che le ascolta diventano qualcosa. Analizzare il linguaggio è come analizzare la luce, ci si trova nella stessa condizione. Andrea Moro Il linguaggio è piú simile a un fiocco di neve che al collo di una giraffa. Le sue proprietà specifiche nascono dalle leggi di natura, non sono qualcosa che si sviluppa come accumulo di fatti storici casuali. Noam Chomsky

2010 Carlo Petrini, Che cos’è il gusto?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 30 marzo 2008.

La gastronomia è la conoscenza ragionata di tutto ciò che si riferisce all’uomo in quanto egli si nutre; serve a scegliere perché serve a capire che cos’è la qualità. Fa sì che si possa provare un piacere dotto e imparare una conoscenza gaudente. L’uomo in quanto si nutre è cultura: la

gastronomia è cultura, prima materiale e poi immateriale. La scelta è un diritto dell’uomo: la gastronomia è libertà di scelta. Il piacere è un diritto di tutti e in quanto tale deve essere il più responsabile possibile: la gastronomia è un fatto creativo, non distruttivo. La conoscenza è un dirittto di

tutti, ma anche un dovere: la gastronomia è educazione. La gastronomia è una scienza che studia la felicità. Tramite il cibo, linguaggio universale e immediato, elemento identitario e oggetto di scambio, essa si configura come una delle più potenti forme di diplomazia della pace.

2010 Stefano Rodotà, Che cos’è il corpo?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 18 maggio 2008.

I corpi si interrogano sul loro destino. Non è una forzatura parlare dei corpi attribuendo loro una specifica autonomia. Ci domandiamo perché il corpo femminile rimanga oggetto di violenza, di ininterrotti tentativi di impossessarsene da parte dei più diversi poteri, eterno “luogo pubblico”. Ci interroghiamo sulla superfluità del corpo: ancora

di quello femminile, di fronte all’utero artificiale; ma pure di quello maschile, per esempio quando si parla di clonazione; del corpo come apparato muscolare, quando si sperimentano le “brain computer interfaces”, la comunicazione diretta tra il cervello e un computer. Ci chiediamo se il corpo venga sempre più imperiosamente percepito e utilizzato come il

luogo d’una continua rappresentazione pubblica, tramite delle relazione con il mondo. Ci inquieta il rapporto tra corpo fisico e corpo elettronico. Ci appare sempre più evidente la percezione del corpo come sede del conflitto tra artificio e natura. E nel corpo, in definitiva, s’incarna (è il caso di dirlo) il progetto del sé.

2010 Gherardo Colombo, Che cos’è la legalità?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 14 ottobre 2008. Bisogno e libertà: e in mezzo l’inesausto interrogarsi dell’uomo intorno al bene e al male. In questo spazio Dostoevskij organizza il dialogo tra Ivan Karamazov e suo fratello Alëša, dentro il quale si inserisce il monologo (una requisitoria contro Gesù, tornato tra gli uomini) del Grande Inquisitore: cos’è bene per l’uomo? Provvedere ai suoi bisogni, materiali e morali, oppure, come ha fatto Gesù, lasciarlo solo al cospetto del male, in balìa della più

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annichilente libertà? Ivan, l’intellettuale destinato alla follia, ossessionato dal problema della sofferenza degli innocenti, spinge la bestemmia, l’estrema negazione, fino alla visione di una tirannide metafisica, indiscutibile e sovrumana. Il parricidio lo riconduce alla necessità di avere un padre che dispensi la legge e regoli l’infrazione. Alëša, il puro di cuore, come Gesù, tace. Bacia il bestemmiatore. Da dentro l’ortodossia, continua a

sperare nella libertà. Come Gesù, continua a credere nella capacità dell’uomo di rifiutare, se il prezzo è la libertà, il miracolo della soddisfazione di tutti i bisogni (e quindi la giustizia?). Tra soddisfazione dei bisogni e aspirazione alla libertà si colloca la legalità, che è quello stesso interrogarsi sul bene e sul male che spalanca l’abisso: verso il basso per Ivan, verso l’alto per Alëša.

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Valerio Magrelli

Voce Auditorium è una collezione edita in collaborazione con Fondazione Musica per Roma a cura di Luca Sossella

Valerio Magrelli Che cos’è la poesia?

2005 Valerio Magrelli, Che cos’è la poesia?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 13 maggio 2005. tentazione di accostare questa parola al verbo greco “poiein”, da cui deriva il termine “poesia” e il cui etimo significa “fare”? Una proposta simile (paragonare la poesia a una “fatta” umana) potrà sembrare

La voce di Valerio Magrelli è stata registrata dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma e le musiche sono state composte ed eseguite da Carlo Boccadoro

rivoltante o scandalosa, eppure tradisce una profonda pietas per le creature viventi, amate in ogni aspetto, anche il più umile, della loro indifesa, trepida fragilità. 1. PREMESSA 2. AUTORE 3. BARBARISMO 4. CALLIGRAMMA 5. DRAMATIS PERSONA 6. EXPLICIT 7. FIGURA RETORICA 8. GNARUS 9. HAPAX 10. IMPEGNO 11. LETTORE 12. MUSICA 13. NON-SENSE 14. ONOMATOPEA 15. PARONOMASIA 16. QUAESITIO 17. RITMO 18. STROFA 19. TEMATICA 20. URGENZA 21. VIRGOLA 22. ZEPPA 23. CONGEDO

2:28 3:11 2:43 2:23 2:20 1:43 3:13 2:40 1:56 2:21 1:30 2:32 2:04 2:35 2:01 3:44 3:28 1:25 2:47 4:14 2:10 3:22 1:26

ISBN 978-88-87995-94-7

14,00 euro

Un testo di trenta pagine e un cd audio di un’ora

9 788887 995947

2006 Piergiorgio Odifreddi, Che cos’è la logica?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma.

La logica è lo studio del logos: cioè, del pensiero e del linguaggio. O meglio, del pensiero come esso si esprime attraverso il linguaggio. Il che significa che, per capire la logica, bisogna anzitutto incominciare a capire il linguaggio, che almeno nelle

sue versioni indoeuropee si basa su una triapartizione delle parole in tre categorie fondamentali: i sostantivi, gli aggettivi e i verbi, che servono a indicare oggetti, proprietà e azioni (o stati), come nella frase “l’homo sapiens parla”. Ciascuna categoria

Che cos’è la poesia?

Musiche composte ed eseguite da Carlo Boccadoro. In italiano esiste un vocabolo, di origine toscana, per indicare lo sterco della selvaggina e in genere degli animali: la “fatta”. Ebbene, come resistere alla

2007 Renzo Piano, Che cos’è l’architettura?,

In copertina: Tze-Li Huang, Figure alfabetiche, china 2005

3.21

Questo lavoro corrisponde a una specie di diario, o meglio a un resoconto stilato dopo trent’anni di pratica e di ricerca (ovvero di una pratica che consiste nella ricerca). Non ha nulla di sistematico, anzi, andrà piuttosto considerato come un contromanuale. Per questo ho fatto ricorso allo stratagemma dell’abecedario: senza l’appiglio delle sue ventuno voci, credo difatti che, una volta scoperchiato il vaso di Pandora della poesia, sarei stato spazzato via da tanta furia. Ho scelto di afferrarmi al loro esile traliccio, per raccontare qualcosa della mia esperienza, dalla A di “autore” alla Z di “zeppa”.

luca sossella editore

autore

barbarismo

figura retorica

gnarus

non-sense

onomatopea

strofa

tematica

calligramma dramatis persona

hapax

impegno

lettore

registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 7 febbraio 2007. L’architettura è il racconto del tempo, della memoria, della natura e del corpo fuso con il desiderio di trasformare la

explicit

musica

paronomasia

quaesitio

ritmo

urgenza

virgola

zeppa

Piergiorgio Odifreddi Che cos’è la logica?

2007 Eugenio Borgna, Che cos’è la follia?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 28 marzo 2007.

corrisponde a un particolare modo di guardare e vedere il mondo, e ha dato origine a generi letterari complementari: l’epica, la lirica e il dramma, che si concentrano rispettivamente sui personaggi, i sentimenti e gli eventi. cd audio

All’origine della storia dell’umanità – dice Platone – Zeus incarica due fratelli, semidei, Prometeo ed Epimeteo, di distribuire a tutte le specie viventi le “qualità” che consentano loro di sopravvivere. Ma gli uomini vivono ancora dispersi, senza

aggregarsi tra loro. E così restano vulnerabili, continuano a subire aggressioni, e muoiono. Questo accade, continua Platone, perché essi non posseggono ancora l’arte politica, politiké téchne. Occorre a questo punto – così

registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 28 ottobre 2006. Esiste un vocabolo indoeuropeo “yeus” o “yewes”: nel latino arcaico “ioves”, col derivato “iovestos”; donde “ius”, “iustus”, “iustitia”. Il lessico normativo ha due modelli elementari. Uno espone figure geometriche.

Ad esempio, “nomos” da “nemein”, spartire: la “nomothesía” costituisce rapporti nel mondo umano e divino; sopra Zeus, legislatore celeste, vigono norme fondamentali, perché nel cosmo regna la Moira, un equilibrio impersonale. Varie catene semantiche, dal sanscrito “dharma” a “themis”, “thesis”, “thesmós”, significano

Walter Veltroni Che cos’è la politica?

si conclude il mito – un intervento straordinario di Zeus, che dona agli uomini pudore e giustizia, consentendo loro di riunirsi e di fondare città, dalle quali scaturisce l’esercizio dell’arte politica.

2007 Franco Cordero, Che cos’è la giustizia?,

verranno sono dentro lo spazio così come “l’oblio – scrisse Borges – è una delle forme della memoria, il suo remoto sottosuolo, rovescio segreto della medaglia.”

Musiche composte ed eseguite da Carlo Boccadoro cd audio

luca sossella editore

2007 Walter Veltroni, Che cos’è la politica?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 12 dicembre 2006.

faccia del mondo. La costruzione degli oggetti mescola il tempo nello spazio. Lo spazio che ci ospita ci fa dimenticare il tempo, ogni spazio è memoria e futuro. Il tempo quotidiano, della natura e degli anni che

luca sossella editore

Al mio discorso sulla follia, considerata nei suoi aspetti psicopatologici e fenomenologici, si accompagnano (qui) queste mie riflessioni sulla follia, sorella sfortunata della poesia nella definizione di Clemens Brentano, il grande poeta romantico tedesco, nel suo nascere e nel suo manifestarsi in malinconia, in angoscia e in

dissociazione psicotica, che hanno (certo) connotazioni cliniche radicalmente diverse (la malinconia non essendo malattia), nel contesto delle opere poetiche di Emily Dickinson, di Georg Trackl e di Sylvia Plath. Queste riflessioni mi consentono di seguire il cammino misterioso della follia nel cuore di splendide

testimonianze creative che dalla follia non sono state causate ma riformulate nei loro modi di essere e nei loro contenuti. L’immaginazione creatrice è qualcosa che si può alleare alla malattia nelle sue forme di espressione ma che non può essere dalla malattia determinato, e realizzato.

2007 Edoardo Boncinelli, Che cos’è il tempo?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 17 aprile 2007.

luca sossella editore

regola, limite, misura: aggettivi-nomi quali “recht”, “right”, “droit”, “diritto”, indicano la distanza minore tra due punti. L’altra idea, involuta nel famoso testo d’Anassimandro, è che le cose, animate o no, escano dalla matrice e vi riaffondino, scontando reciproche ingiustizie secondo ritmi battuti da Kronos.

Franco Cordero Che cos’è la giustizia?

Il fatto è che non c’è lo strumento, l’organo. Non hai un occhio, non hai un naso, non hai una lingua per sentire il tempo. Hai solo la memoria che, ricollegando certe cose, permette l’invenzione del tempo. Tra l’altro la parola tempo non c’è in tutte le lingue, effettivamente è una cosa estremamente artificiosa. Mentre prima si favoleggiava di un terzo occhio – si parlava della pituitaria – si è visto che esiste una popolazione di

cellule gangliari della retina – poche, non più di una su mille – che invece di vedere misurano grosso modo la lunghezza della giornata di luce. Il ritmo ce l’hanno dentro le singole cellule. Non solo il cervello, come si pensava, ma le singole cellule, anche le cellule del fegato, hanno un ritmo di ventiquattr’ore. Però non c’è un marcatempo, non c’è un orologio che ti permetta di dire un giorno,

due giorni, tre giorni, quattro giorni. Ti permette solo di scandire un giorno, un giorno, un giorno. La teoria psicologica del tempo, del presente, del presente dinamico, dice che l’atomo di coscienza dura da un quarto di secondo a ventitrenta secondi, con una media di tre secondi. Noi viviamo il mondo a flash che durano tre secondi.

cd audio

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Valerio Magrelli

Voce Auditorium è una collezione edita in collaborazione con Fondazione Musica per Roma a cura di Luca Sossella

Valerio Magrelli Che cos’è la poesia?

2005 Valerio Magrelli, Che cos’è la poesia?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 13 maggio 2005. tentazione di accostare questa parola al verbo greco “poiein”, da cui deriva il termine “poesia” e il cui etimo significa “fare”? Una proposta simile (paragonare la poesia a una “fatta” umana) potrà sembrare

La voce di Valerio Magrelli è stata registrata dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma e le musiche sono state composte ed eseguite da Carlo Boccadoro

rivoltante o scandalosa, eppure tradisce una profonda pietas per le creature viventi, amate in ogni aspetto, anche il più umile, della loro indifesa, trepida fragilità. 1. PREMESSA 2. AUTORE 3. BARBARISMO 4. CALLIGRAMMA 5. DRAMATIS PERSONA 6. EXPLICIT 7. FIGURA RETORICA 8. GNARUS 9. HAPAX 10. IMPEGNO 11. LETTORE 12. MUSICA 13. NON-SENSE 14. ONOMATOPEA 15. PARONOMASIA 16. QUAESITIO 17. RITMO 18. STROFA 19. TEMATICA 20. URGENZA 21. VIRGOLA 22. ZEPPA 23. CONGEDO

2:28 3:11 2:43 2:23 2:20 1:43 3:13 2:40 1:56 2:21 1:30 2:32 2:04 2:35 2:01 3:44 3:28 1:25 2:47 4:14 2:10 3:22 1:26

ISBN 978-88-87995-94-7

14,00 euro

Un testo di trenta pagine e un cd audio di un’ora

9 788887 995947

2006 Piergiorgio Odifreddi, Che cos’è la logica?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma.

La logica è lo studio del logos: cioè, del pensiero e del linguaggio. O meglio, del pensiero come esso si esprime attraverso il linguaggio. Il che significa che, per capire la logica, bisogna anzitutto incominciare a capire il linguaggio, che almeno nelle

sue versioni indoeuropee si basa su una triapartizione delle parole in tre categorie fondamentali: i sostantivi, gli aggettivi e i verbi, che servono a indicare oggetti, proprietà e azioni (o stati), come nella frase “l’homo sapiens parla”. Ciascuna categoria

Che cos’è la poesia?

Musiche composte ed eseguite da Carlo Boccadoro. In italiano esiste un vocabolo, di origine toscana, per indicare lo sterco della selvaggina e in genere degli animali: la “fatta”. Ebbene, come resistere alla

2007 Renzo Piano, Che cos’è l’architettura?,

In copertina: Tze-Li Huang, Figure alfabetiche, china 2005

3.21

Questo lavoro corrisponde a una specie di diario, o meglio a un resoconto stilato dopo trent’anni di pratica e di ricerca (ovvero di una pratica che consiste nella ricerca). Non ha nulla di sistematico, anzi, andrà piuttosto considerato come un contromanuale. Per questo ho fatto ricorso allo stratagemma dell’abecedario: senza l’appiglio delle sue ventuno voci, credo difatti che, una volta scoperchiato il vaso di Pandora della poesia, sarei stato spazzato via da tanta furia. Ho scelto di afferrarmi al loro esile traliccio, per raccontare qualcosa della mia esperienza, dalla A di “autore” alla Z di “zeppa”.

luca sossella editore

autore

barbarismo

figura retorica

gnarus

non-sense

onomatopea

strofa

tematica

calligramma dramatis persona

hapax

impegno

lettore

registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 7 febbraio 2007. L’architettura è il racconto del tempo, della memoria, della natura e del corpo fuso con il desiderio di trasformare la

explicit

musica

paronomasia

quaesitio

ritmo

urgenza

virgola

zeppa

Piergiorgio Odifreddi Che cos’è la logica?

2007 Eugenio Borgna, Che cos’è la follia?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 28 marzo 2007.

corrisponde a un particolare modo di guardare e vedere il mondo, e ha dato origine a generi letterari complementari: l’epica, la lirica e il dramma, che si concentrano rispettivamente sui personaggi, i sentimenti e gli eventi. cd audio

All’origine della storia dell’umanità – dice Platone – Zeus incarica due fratelli, semidei, Prometeo ed Epimeteo, di distribuire a tutte le specie viventi le “qualità” che consentano loro di sopravvivere. Ma gli uomini vivono ancora dispersi, senza

aggregarsi tra loro. E così restano vulnerabili, continuano a subire aggressioni, e muoiono. Questo accade, continua Platone, perché essi non posseggono ancora l’arte politica, politiké téchne. Occorre a questo punto – così

registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 28 ottobre 2006. Esiste un vocabolo indoeuropeo “yeus” o “yewes”: nel latino arcaico “ioves”, col derivato “iovestos”; donde “ius”, “iustus”, “iustitia”. Il lessico normativo ha due modelli elementari. Uno espone figure geometriche.

Ad esempio, “nomos” da “nemein”, spartire: la “nomothesía” costituisce rapporti nel mondo umano e divino; sopra Zeus, legislatore celeste, vigono norme fondamentali, perché nel cosmo regna la Moira, un equilibrio impersonale. Varie catene semantiche, dal sanscrito “dharma” a “themis”, “thesis”, “thesmós”, significano

Walter Veltroni Che cos’è la politica?

si conclude il mito – un intervento straordinario di Zeus, che dona agli uomini pudore e giustizia, consentendo loro di riunirsi e di fondare città, dalle quali scaturisce l’esercizio dell’arte politica.

2007 Franco Cordero, Che cos’è la giustizia?,

verranno sono dentro lo spazio così come “l’oblio – scrisse Borges – è una delle forme della memoria, il suo remoto sottosuolo, rovescio segreto della medaglia.”

Musiche composte ed eseguite da Carlo Boccadoro cd audio

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2007 Walter Veltroni, Che cos’è la politica?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 12 dicembre 2006.

faccia del mondo. La costruzione degli oggetti mescola il tempo nello spazio. Lo spazio che ci ospita ci fa dimenticare il tempo, ogni spazio è memoria e futuro. Il tempo quotidiano, della natura e degli anni che

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Al mio discorso sulla follia, considerata nei suoi aspetti psicopatologici e fenomenologici, si accompagnano (qui) queste mie riflessioni sulla follia, sorella sfortunata della poesia nella definizione di Clemens Brentano, il grande poeta romantico tedesco, nel suo nascere e nel suo manifestarsi in malinconia, in angoscia e in

dissociazione psicotica, che hanno (certo) connotazioni cliniche radicalmente diverse (la malinconia non essendo malattia), nel contesto delle opere poetiche di Emily Dickinson, di Georg Trackl e di Sylvia Plath. Queste riflessioni mi consentono di seguire il cammino misterioso della follia nel cuore di splendide

testimonianze creative che dalla follia non sono state causate ma riformulate nei loro modi di essere e nei loro contenuti. L’immaginazione creatrice è qualcosa che si può alleare alla malattia nelle sue forme di espressione ma che non può essere dalla malattia determinato, e realizzato.

2007 Edoardo Boncinelli, Che cos’è il tempo?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 17 aprile 2007.

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regola, limite, misura: aggettivi-nomi quali “recht”, “right”, “droit”, “diritto”, indicano la distanza minore tra due punti. L’altra idea, involuta nel famoso testo d’Anassimandro, è che le cose, animate o no, escano dalla matrice e vi riaffondino, scontando reciproche ingiustizie secondo ritmi battuti da Kronos.

Franco Cordero Che cos’è la giustizia?

Il fatto è che non c’è lo strumento, l’organo. Non hai un occhio, non hai un naso, non hai una lingua per sentire il tempo. Hai solo la memoria che, ricollegando certe cose, permette l’invenzione del tempo. Tra l’altro la parola tempo non c’è in tutte le lingue, effettivamente è una cosa estremamente artificiosa. Mentre prima si favoleggiava di un terzo occhio – si parlava della pituitaria – si è visto che esiste una popolazione di

cellule gangliari della retina – poche, non più di una su mille – che invece di vedere misurano grosso modo la lunghezza della giornata di luce. Il ritmo ce l’hanno dentro le singole cellule. Non solo il cervello, come si pensava, ma le singole cellule, anche le cellule del fegato, hanno un ritmo di ventiquattr’ore. Però non c’è un marcatempo, non c’è un orologio che ti permetta di dire un giorno,

due giorni, tre giorni, quattro giorni. Ti permette solo di scandire un giorno, un giorno, un giorno. La teoria psicologica del tempo, del presente, del presente dinamico, dice che l’atomo di coscienza dura da un quarto di secondo a ventitrenta secondi, con una media di tre secondi. Noi viviamo il mondo a flash che durano tre secondi.

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Voce

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Voce

2008 Giorgio Ruffolo, Che cos’è l’economia?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 26 giugno 2007.

Giorgio Ruffolo Che cos’è l’economia?

2006

2007

2008

2009

2010 800 700 600 500 400 300 200 100 0

cd audio

Non è necessario né è assolutamente prevedibile che il capitalismo abbia i giorni contati, ma i secoli contati sì. Essendo una formazione storica, sta affrontando una delle svolte più vertiginose della sua storia e della sua evoluzione, una trasformazione qualitativa e non soltanto quantitativa della sua struttura. Né da destra né da sinistra, quindi, viene proposta una

soluzione reale al problema “che tipo di crescita?”, anzi, “che tipo di sviluppo?”. La risposta che per ora darei è che la crescita dovrebbe basarsi su tre elementi fondamentali. Il primo è l’equilibrio ecologico, ovvero la giusta proporzione tra quantità e qualità delle risorse. Il secondo è quello che chiamo correlazione sociale, e cioè un tipo di società che non sia disgregata negli elementi di egoismo e di aggressività che

2008 Margherita Hack, Che cos’è l’universo?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 10 luglio 2007. Di questi pianeti terrestri, per ora, se ne è scoperto solo uno, è un pianeta terrestre nel senso che è roccioso e probabilmente con un nucleo di ferro perché ha una densità una volta e mezzo quella della Terra e che orbita intorno a una stella molto più debole del Sole; però si calcola che abbia una temperatura di circa una quarantina di gradi centigradi, cioè tale da permettere acqua liquida, quindi è un pianeta

terrestre su cui la vita potrebbe anche sbocciare, è un pianeta che si trova a venti anni luce dalla Terra e qualcuno ha detto “beh, se la Terra non sarà più abitabile, si potrà sempre andar là!” Però venti anni luce cosa vuol dire? Se potessimo viaggiare a un centesimo della velocità della luce o a un decimillesimo impiegheremmo duemila anni o duecentomila anni? E viaggiare a trecentomila

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lingua è un sistema di comunicazione. La semiotica o semiologia ci dice che è una semiotica. La teoria delle grammatiche ci dice che è un dispositivo per descrivere come grammaticali o come non grammaticali frasi di numero infinito. L’etologia ci dice che è uno dei tanti innumerevoli linguaggi delle specie viventi. Dunque, analogie ci sono, a quanto pare. Ma, una per una,

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Margherita Hack Che cos’è l’universo?

chilometri al secondo vuol dire viaggiare a più di un miliardo di chilometri all’ora; quindi se la luce impiega venti anni, noi potremmo forse riuscire a viaggiare a centomila chilometri all’ora e quindi impiegheremmo un tempo diecimila volte più lungo e cioè duecentomila anni. Quindi per ora teniamoci cara la Terra!

le risposte appaiono generiche. Non ha niente di specifico una lingua? Se cerchiamo di descrivere meglio queste stranezze, ci accorgiamo che forse Saussure non aveva tutti i torti e che una lingua, una qualunque lingua, è un oggetto altamente specifico. Cerchiamo di capire una lingua nella sua specificità: questo è il cammino che vorremmo percorrere.

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Tullio De Mauro Che cos’è una lingua?

cd audio

Dai cancelli d’acciaio è un dantesco (e sterniano) “viaggio presentimentale” attraverso quel groviglio di corpi e poteri, reali e virtuali, che è la contemporaneità. Scritto e letto “in diretta” da Gabriele Frasca, che si fa narr-attore e registra la sua voce in formato mp3. Per un pubblico di sottoscrittori, che via internet hanno prenotato il romanzo e lo hanno ricevuto a casa: nella sua veste materiale, a fascioli, e nell’immaterialità della voce, veicolata dai file audio. Alla fine, i sottoscrittori hanno ricevuto un raccoglitore per “rilegare” i fascicoli, arricchito da una “copertina

mobile” d’autore, un’opera originale di Massimo Bucchi. I sottoscrittori sono anche sotto-scrittori, perché attraverso un blog elaborano reazioni e interazioni, partecipano al processo creativo insieme all’autore, che diventa, di conseguenza, il loro sottosottoscrittore (ma anche: sotto sotto-scrittore). La mediazione editoriale (del sotto-editore, ovviamente) si “deterritorializza”, collocandosi nei nuovi snodi creati da questo farsi dell’opera, e indicando cosí un destino possibile per il “libro” nell’era postgutenbergiana.

Nel 2011 Dai cancelli d’acciaio esce in volume. Viene racchiuso, ironizza il suo autore, nella bara tipografica dalla quale ha tentato di evadere. Ma non riposa in pace. Continua a risuonare: come nella visione di Leopold Bloom, dalla tomba tipografica ci giungono, diffuse dal grammafono mediale, le voci che non smettono di attraversarci.

Frrr, tshhh. Attraverso la pressione rugosa di quel lembo di, cos’era? Pensa, frusciò fosco il brusio nella testa, e la scena si compose. Garza? No, stoffa, grezza, ruvida, e inutilmente tanta, di qua dai nodi che la ravvolgevano all’occipite, da essere stata infilata dentro il saio, fin quasi a sfiorargli le natiche. L’aveva sentita dondolare a ogni passo, quando l’avevano sospinto fra tenebre e bisbigli, come una coda rigettata dal cranio sulla schiena nuda. Fu dunque attraverso la stretta di quella stoffa nera che gli serrava il velo delle palpebre contro l’umida cavità in cui, sporti a vuoto, pulsavano i bulbi degli occhi, ma anche sulla bocca livida con cui succhiava i grumi dolciastri di colla che rilasciava aderendo alle labbra il nastro, e persino sotto i tappi di gomma che gli orchestravano nel cerume il mugliare con cui il sangue informa e vive come un fiato il fango, che sentí d’un tratto il vento freddargli il sudore che, inzuppata la benda, colava dalle tempie sulle mascelle e sul collo. Gli avevano cavato via il cappuccio, allora, ma con quale delicatezza. Da quanto tempo era stato ridotto a compitare, imbudellato come una salsiccia, soltanto la risacca di se stesso? Frrr tshhh, frrr tshhh.

cd audio

2008 Tullio De Mauro, Che cos’è una lingua?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma nel maggio 2008. Che cos’è una lingua? Saussure ha detto una volta che quando cerchiamo di rispondere a questa domanda “siamo abbandonati da tutte le analogie del cielo e della terra”. Cento anni dopo, saremmo tentati di smentire il grande teorico. In effetti, circolano oggi diverse risposte alla domanda inziale. La teoria matematica della comunicazione ci dice che la

sono insiti nello sviluppo economico. Il terzo elemento, infine, è quello più importante, quello che io chiamo la trascendenza e cioè: fino a che punto l’economia è un mezzo per realizzare dei fini e di che fini culturali soprattutto ed etici si tratti, e fino a che punto invece è tutta costretta dentro le sue maglie, dentro la sua prigione e nella sua autoreferenza.

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Voce

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Voce

2008 Giorgio Ruffolo, Che cos’è l’economia?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 26 giugno 2007.

Giorgio Ruffolo Che cos’è l’economia?

2006

2007

2008

2009

2010 800 700 600 500 400 300 200 100 0

cd audio

Non è necessario né è assolutamente prevedibile che il capitalismo abbia i giorni contati, ma i secoli contati sì. Essendo una formazione storica, sta affrontando una delle svolte più vertiginose della sua storia e della sua evoluzione, una trasformazione qualitativa e non soltanto quantitativa della sua struttura. Né da destra né da sinistra, quindi, viene proposta una

soluzione reale al problema “che tipo di crescita?”, anzi, “che tipo di sviluppo?”. La risposta che per ora darei è che la crescita dovrebbe basarsi su tre elementi fondamentali. Il primo è l’equilibrio ecologico, ovvero la giusta proporzione tra quantità e qualità delle risorse. Il secondo è quello che chiamo correlazione sociale, e cioè un tipo di società che non sia disgregata negli elementi di egoismo e di aggressività che

2008 Margherita Hack, Che cos’è l’universo?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 10 luglio 2007. Di questi pianeti terrestri, per ora, se ne è scoperto solo uno, è un pianeta terrestre nel senso che è roccioso e probabilmente con un nucleo di ferro perché ha una densità una volta e mezzo quella della Terra e che orbita intorno a una stella molto più debole del Sole; però si calcola che abbia una temperatura di circa una quarantina di gradi centigradi, cioè tale da permettere acqua liquida, quindi è un pianeta

terrestre su cui la vita potrebbe anche sbocciare, è un pianeta che si trova a venti anni luce dalla Terra e qualcuno ha detto “beh, se la Terra non sarà più abitabile, si potrà sempre andar là!” Però venti anni luce cosa vuol dire? Se potessimo viaggiare a un centesimo della velocità della luce o a un decimillesimo impiegheremmo duemila anni o duecentomila anni? E viaggiare a trecentomila

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lingua è un sistema di comunicazione. La semiotica o semiologia ci dice che è una semiotica. La teoria delle grammatiche ci dice che è un dispositivo per descrivere come grammaticali o come non grammaticali frasi di numero infinito. L’etologia ci dice che è uno dei tanti innumerevoli linguaggi delle specie viventi. Dunque, analogie ci sono, a quanto pare. Ma, una per una,

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Margherita Hack Che cos’è l’universo?

chilometri al secondo vuol dire viaggiare a più di un miliardo di chilometri all’ora; quindi se la luce impiega venti anni, noi potremmo forse riuscire a viaggiare a centomila chilometri all’ora e quindi impiegheremmo un tempo diecimila volte più lungo e cioè duecentomila anni. Quindi per ora teniamoci cara la Terra!

le risposte appaiono generiche. Non ha niente di specifico una lingua? Se cerchiamo di descrivere meglio queste stranezze, ci accorgiamo che forse Saussure non aveva tutti i torti e che una lingua, una qualunque lingua, è un oggetto altamente specifico. Cerchiamo di capire una lingua nella sua specificità: questo è il cammino che vorremmo percorrere.

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Tullio De Mauro Che cos’è una lingua?

cd audio

Dai cancelli d’acciaio è un dantesco (e sterniano) “viaggio presentimentale” attraverso quel groviglio di corpi e poteri, reali e virtuali, che è la contemporaneità. Scritto e letto “in diretta” da Gabriele Frasca, che si fa narr-attore e registra la sua voce in formato mp3. Per un pubblico di sottoscrittori, che via internet hanno prenotato il romanzo e lo hanno ricevuto a casa: nella sua veste materiale, a fascioli, e nell’immaterialità della voce, veicolata dai file audio. Alla fine, i sottoscrittori hanno ricevuto un raccoglitore per “rilegare” i fascicoli, arricchito da una “copertina

mobile” d’autore, un’opera originale di Massimo Bucchi. I sottoscrittori sono anche sotto-scrittori, perché attraverso un blog elaborano reazioni e interazioni, partecipano al processo creativo insieme all’autore, che diventa, di conseguenza, il loro sottosottoscrittore (ma anche: sotto sotto-scrittore). La mediazione editoriale (del sotto-editore, ovviamente) si “deterritorializza”, collocandosi nei nuovi snodi creati da questo farsi dell’opera, e indicando cosí un destino possibile per il “libro” nell’era postgutenbergiana.

Nel 2011 Dai cancelli d’acciaio esce in volume. Viene racchiuso, ironizza il suo autore, nella bara tipografica dalla quale ha tentato di evadere. Ma non riposa in pace. Continua a risuonare: come nella visione di Leopold Bloom, dalla tomba tipografica ci giungono, diffuse dal grammafono mediale, le voci che non smettono di attraversarci.

Frrr, tshhh. Attraverso la pressione rugosa di quel lembo di, cos’era? Pensa, frusciò fosco il brusio nella testa, e la scena si compose. Garza? No, stoffa, grezza, ruvida, e inutilmente tanta, di qua dai nodi che la ravvolgevano all’occipite, da essere stata infilata dentro il saio, fin quasi a sfiorargli le natiche. L’aveva sentita dondolare a ogni passo, quando l’avevano sospinto fra tenebre e bisbigli, come una coda rigettata dal cranio sulla schiena nuda. Fu dunque attraverso la stretta di quella stoffa nera che gli serrava il velo delle palpebre contro l’umida cavità in cui, sporti a vuoto, pulsavano i bulbi degli occhi, ma anche sulla bocca livida con cui succhiava i grumi dolciastri di colla che rilasciava aderendo alle labbra il nastro, e persino sotto i tappi di gomma che gli orchestravano nel cerume il mugliare con cui il sangue informa e vive come un fiato il fango, che sentí d’un tratto il vento freddargli il sudore che, inzuppata la benda, colava dalle tempie sulle mascelle e sul collo. Gli avevano cavato via il cappuccio, allora, ma con quale delicatezza. Da quanto tempo era stato ridotto a compitare, imbudellato come una salsiccia, soltanto la risacca di se stesso? Frrr tshhh, frrr tshhh.

cd audio

2008 Tullio De Mauro, Che cos’è una lingua?, registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma nel maggio 2008. Che cos’è una lingua? Saussure ha detto una volta che quando cerchiamo di rispondere a questa domanda “siamo abbandonati da tutte le analogie del cielo e della terra”. Cento anni dopo, saremmo tentati di smentire il grande teorico. In effetti, circolano oggi diverse risposte alla domanda inziale. La teoria matematica della comunicazione ci dice che la

sono insiti nello sviluppo economico. Il terzo elemento, infine, è quello più importante, quello che io chiamo la trascendenza e cioè: fino a che punto l’economia è un mezzo per realizzare dei fini e di che fini culturali soprattutto ed etici si tratti, e fino a che punto invece è tutta costretta dentro le sue maglie, dentro la sua prigione e nella sua autoreferenza.

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Voce

3.23

Paolo Giovannetti

Vere sustanze son ciò che tu vedi: su Dai cancelli d’acciaio di Gabriele Frasca Di una discoteca curiosamente dantesca, chiamata il Cielo della Luna, racconta Dai cancelli d’acciaio di Gabriele Frasca, e di quanto vi capita nella notte tra il 26 e il 27 settembre 2008 nell’arco di circa quattro ore. Entrare nel Cielo della Luna, “fungo o bubbone” che incombe su Santa Mira, significa cogliere con il massimo raccapriccio che gli schermi (gli schermi dei media nelle loro molteplici declinazioni) instaurano con lo spettatore un rapporto ipocrita ma necessario, costringendolo a confrontarsi con domande affatto primarie: realtà o finzione? e: ha (ancora) senso distinguere fra le due? In gioco è innanzi tutto l’ossessione “modernista” dello snuff movie; e un verso dantesco – “vere sustanze son ciò che tu vedi”, Pd, III, 29 – dovrebbe idealmente accompagnare ed eccitare il lettore in tutto il suo percorso.

Davanti al nuovo romanzo di Gabriele Frasca, siamo insomma – ancora una volta – costretti a ragionare intorno al modo in cui la letteratura, la “lettera che muore”, riesce a rimasticare, assaporare e risputare l’altro da sé dei media. Il cui censimento pregresso è dall’autore qui integrato con l’occorrenza, oltre che appunto della discoteca (unico vero excessus mentis – e corporis – consentito dalle pratiche di massa contemporanee), anche del videogioco, come parte del grande ludus detto Internet. L’interattività sinestetica della Rete, la costruzione di identità “mostruose”, l’avatar che in fondo siamo noi, la ricerca di una fuga narcisistica: in Dai cancelli d’acciaio questi fuochi teorici divengono carne e sangue della storia, motori della narrazione. Insieme, magari, a due grandi speranze: quella di ritrovare il senso liberatorio di un Vangelo perduto (il Protovangelo di Giovanni), e di riscoprire quanto sopravviva dell’utopia che un gruppo di giovani santamiresi aveva praticato alla metà degli anni Settanta. E insieme, ahimè, anche a diverse paure: da quella di incontrare alcuni dei tanti morti viventi che attraversano la recente storia d’Italia (magari un qualsiasi Gerardo Quagliarone, capace però di decidere delle sorti di tutti noi), a quella di avere a che fare con i troppi disperati pronti ad arruolarsi nelle fila di un terrorismo divenuto global, oscenamente postmoderno. Certo, l’auspicio che attraversa il romanzo è che il segno artistico ben formato prima o poi possa tornare a circolare virtuosamente nel mondo. Ma, a scanso di ogni facile chimera, il Cielo della Luna sta lì a ricordarci che anche minimi errori, minimi fraintendimenti possono avere conseguenze disastrose e forse irreversibili; che tante antiche consapevolezze sono sì necessarie, ma del tutto insufficienti.

Per una Fondazione della voce 3.24

Massimiliano Manganelli, Nulla, in letteratura, reca le tracce dell’oralità più della poesia. È come se la poesia, in sostanza, non avesse mai dimenticato del tutto le origini della letteratura, che preAldo Mastropasqua cedono quelle della scrittura. Se così non fosse, non potremmo spiegarci altrimenti quella sorta di impulso necessario che spinge il lettore di poesia, anche il più comune, a pronunciare ad alta voce i versi che ha sotto gli occhi. Ma non sarebbe altrettanto spiegabile il ritorno alla vocalità della poesia cui si assiste in tempi, i nostri, fortemente contrassegnati dalla scrittura. La poesia, insomma, ha bisogno di una voce. Scaturisce da qui, allora, l’idea di una Fondazione della voce, uno spazio virtuale nel quale la poesia prenda corpo, dove le venga restituita la sua fisicità originaria. E se esiste una voce primaria, non può che essere quella dell’autore stesso, primo interprete della propria parola poetica. Negli archivi audiovisivi il materiale da disseppellire e rimettere in circolazione è moltissimo, giacché quasi tutti i poeti del Novecento hanno lasciato testimonianza delle proprie interpretazioni su nastro o su vinile. Naturalmente le fonti principali da cui attingere sono la radio e il disco, strumenti che hanno svolto a lungo un ruolo essenziale nella diffusione della vocalità poetica. Oggi abbiamo a disposizione uno strumento in più, il web, il quale, oltre a possedere maggiori potenzialità rispetto a quelli tradizionali, consente una fruibilità e una interattività senza precedenti. La Fondazione della voce, dunque, vuole costituirsi come il luogo di questa fruizione immediata della parola poetica. Via via che saranno esplorati i principali archivi sonori – da quello della Rai all’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi, fino alla Radio Svizzera Italiana – la Fondazione della voce metterà online i risultati di queste ricerche. Qualche campione vocale sarà pubblicato tra breve sul sito della casa editrice, come prima indicazione per il futuro lavoro di scavo e di recupero.

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Paolo Giovannetti

Vere sustanze son ciò che tu vedi: su Dai cancelli d’acciaio di Gabriele Frasca Di una discoteca curiosamente dantesca, chiamata il Cielo della Luna, racconta Dai cancelli d’acciaio di Gabriele Frasca, e di quanto vi capita nella notte tra il 26 e il 27 settembre 2008 nell’arco di circa quattro ore. Entrare nel Cielo della Luna, “fungo o bubbone” che incombe su Santa Mira, significa cogliere con il massimo raccapriccio che gli schermi (gli schermi dei media nelle loro molteplici declinazioni) instaurano con lo spettatore un rapporto ipocrita ma necessario, costringendolo a confrontarsi con domande affatto primarie: realtà o finzione? e: ha (ancora) senso distinguere fra le due? In gioco è innanzi tutto l’ossessione “modernista” dello snuff movie; e un verso dantesco – “vere sustanze son ciò che tu vedi”, Pd, III, 29 – dovrebbe idealmente accompagnare ed eccitare il lettore in tutto il suo percorso.

Davanti al nuovo romanzo di Gabriele Frasca, siamo insomma – ancora una volta – costretti a ragionare intorno al modo in cui la letteratura, la “lettera che muore”, riesce a rimasticare, assaporare e risputare l’altro da sé dei media. Il cui censimento pregresso è dall’autore qui integrato con l’occorrenza, oltre che appunto della discoteca (unico vero excessus mentis – e corporis – consentito dalle pratiche di massa contemporanee), anche del videogioco, come parte del grande ludus detto Internet. L’interattività sinestetica della Rete, la costruzione di identità “mostruose”, l’avatar che in fondo siamo noi, la ricerca di una fuga narcisistica: in Dai cancelli d’acciaio questi fuochi teorici divengono carne e sangue della storia, motori della narrazione. Insieme, magari, a due grandi speranze: quella di ritrovare il senso liberatorio di un Vangelo perduto (il Protovangelo di Giovanni), e di riscoprire quanto sopravviva dell’utopia che un gruppo di giovani santamiresi aveva praticato alla metà degli anni Settanta. E insieme, ahimè, anche a diverse paure: da quella di incontrare alcuni dei tanti morti viventi che attraversano la recente storia d’Italia (magari un qualsiasi Gerardo Quagliarone, capace però di decidere delle sorti di tutti noi), a quella di avere a che fare con i troppi disperati pronti ad arruolarsi nelle fila di un terrorismo divenuto global, oscenamente postmoderno. Certo, l’auspicio che attraversa il romanzo è che il segno artistico ben formato prima o poi possa tornare a circolare virtuosamente nel mondo. Ma, a scanso di ogni facile chimera, il Cielo della Luna sta lì a ricordarci che anche minimi errori, minimi fraintendimenti possono avere conseguenze disastrose e forse irreversibili; che tante antiche consapevolezze sono sì necessarie, ma del tutto insufficienti.

Per una Fondazione della voce 3.24

Massimiliano Manganelli, Nulla, in letteratura, reca le tracce dell’oralità più della poesia. È come se la poesia, in sostanza, non avesse mai dimenticato del tutto le origini della letteratura, che preAldo Mastropasqua cedono quelle della scrittura. Se così non fosse, non potremmo spiegarci altrimenti quella sorta di impulso necessario che spinge il lettore di poesia, anche il più comune, a pronunciare ad alta voce i versi che ha sotto gli occhi. Ma non sarebbe altrettanto spiegabile il ritorno alla vocalità della poesia cui si assiste in tempi, i nostri, fortemente contrassegnati dalla scrittura. La poesia, insomma, ha bisogno di una voce. Scaturisce da qui, allora, l’idea di una Fondazione della voce, uno spazio virtuale nel quale la poesia prenda corpo, dove le venga restituita la sua fisicità originaria. E se esiste una voce primaria, non può che essere quella dell’autore stesso, primo interprete della propria parola poetica. Negli archivi audiovisivi il materiale da disseppellire e rimettere in circolazione è moltissimo, giacché quasi tutti i poeti del Novecento hanno lasciato testimonianza delle proprie interpretazioni su nastro o su vinile. Naturalmente le fonti principali da cui attingere sono la radio e il disco, strumenti che hanno svolto a lungo un ruolo essenziale nella diffusione della vocalità poetica. Oggi abbiamo a disposizione uno strumento in più, il web, il quale, oltre a possedere maggiori potenzialità rispetto a quelli tradizionali, consente una fruibilità e una interattività senza precedenti. La Fondazione della voce, dunque, vuole costituirsi come il luogo di questa fruizione immediata della parola poetica. Via via che saranno esplorati i principali archivi sonori – da quello della Rai all’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi, fino alla Radio Svizzera Italiana – la Fondazione della voce metterà online i risultati di queste ricerche. Qualche campione vocale sarà pubblicato tra breve sul sito della casa editrice, come prima indicazione per il futuro lavoro di scavo e di recupero.

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Che cos’è l’educazione

4.1

CHE COS’È L’EDUCAZIONE? È il risultato della volontà di “condurre fuori” dallo stato della rozzezza che ignora. L’educazione ci consegna la capacità di scegliere, poiché determina la possibilità di discernere la qualità. In una parola ci aiuta a “distinguere” e in questo giudizio risiede la volontà politica dell’umano.

Educare gli educatori

4.2

Tutto quello che un bambino impara nei primi anni di vita, gli resterà nella mente per sempre. È questa una affermazione di un grande studioso di come si forma la mente umana: Jean Piaget. E dipende dagli educatori se questa nostra società potrà migliorare o peggiorare. Nelle scuole materne giapponesi si insegna a comunicare e a stare con gli altri (che poi siamo sempre noi). Si dice ai bambini che ognuno deve esprimere il proprio impegno ma non imporlo. In questo modo si sommano in un unico corpo tutte le nozioni che formano il sapere. La collettività cresce e ci si trova in un mondo civile. Quando invece qualcuno impone il proprio pensiero a tutti si forma la dittatura con tutte le sue conseguenze. Una persona vale per quello che dà e non per quello che prende (pensiero difficile da capire in un paese di furbi) per cui se ognuno dà il meglio di sé alla collettività , questa si sviluppa e cresce. Se invece ognuno tenta di rapinare gli altri perché lui è il più furbo, ci si trova allo stato in cui siamo noi adesso. Ma il problema è: che cosa insegnare ai bambini perché si formino in modo giusto, creativo e non ripetitivo? Occorre insegnare come si fa a fare, a esprimersi, a comunicare per immagini, a progettare. Tutte le tecniche possono essere trasformate in gioco per facilitarne l’apprendimento, e siccome ogni gioco ha le sue regole, ecco che l’apprendimento viene facilitato, alleggerito, desiderato dai bambini. L’importante è lo sviluppo delle varie personalità, i bambini sono tutti diversi ed è sorprendente per un operatore vedere lo sviluppo delle personalità individuali. Non si devono quindi dare ai bambini soluzioni già fatte, ma insegnare a risolvere i problemi. Non suggerire temi da svolgere ma insegnare a scrivere con proprietà di linguaggio. Per un operatore è molto importante conoscere ciò che un bambino può capire e ciò che non può capire. Non trasformare tutto in favola, ci sono mille modi per interessare e comunicare. Un bambino educato forma una società civile. Un bambino creativo è un bambino felice.

4.3

2009 Lezioni d’Europa. Pensare oltre i confini L’Europa è ancora soltanto un’espressione geografica? È soltanto, oggi, un eterogeneo campo di forze? Perché si possa fare compiutamente l’Europa dal punto di vista istituzionale, è necessario fare gli europei. Educare i cittadini dei diversi paesi a sentire viva e attiva l’idea di una cittadinanza europea. Educare a pensare oltre i confini: come ha tentato di fare il progetto Lezioni d’Europa. L’identità europea, il mercato, la sicurezza alimentare, la salute, il clima: cinque temi connessi all’Europa, affrontati attraverso cinque conferenze, tenute in un ambiente insieme reale e virtuale da cinque personalità che hanno messo a disposizione la propria esperienza e le proprie competenze: Emma Bonino, Mario Monti, Giorgio Calabrese, Paola Testori Coggi, Corrado Cini.

Bruno Munari

Lezioni d’Europa è un format pensato per coinvolgere un pubblico composto da giovani, studenti medi e universitari, ma anche da adulti, da chiunque voglia interrogarsi sul destino del neonato, vecchio continente. Con l’obiettivo di portare i cittadini di oggi e di domani a contatto con alcuni dei problemi “europei” di maggior interesse. Un format multimediale per ampliare la possibilità di partecipazione attraverso i social media e, più in generale, la e-communication. Un format in grado di superare i limiti fisici imposti dal luogo. In un mondo sempre più

70

71

proiettato verso il virtuale, il format di Lezioni d’Europa ha consentito di coniugare passato e futuro, uomini e tecnologia, creando un palcoscenico digitale aperto all’ascolto, al dialogo e al confronto. Grazie alla rete il pubblico (compreso quello degli studenti di undici università che hanno partecipato al progetto svolgendo lezioni parallele sui temi proposti) ha potuto non solo assistere alle singole conferenze ma partecipare, in diretta e in differita, e interagire con i relatori, inviando domande, osservazioni, interventi.

Lezioni d’Europa è un esperimento, un laboratorio editoriale, che ha indicato una direzione: sempre di più l’editoria dovrà tentare la traduzione dei saperi, e la creazione di ambienti di convergenza e compresenza mediale. Creare occasioni di incontro e di collisione dei discorsi, strumenti di amplificazione e conduzione delle parole, da riversare continuamente in formati sempre diversi. Lezioni d’Europa è un esperimento di futuro: dentro e fuori; nei contenuti, e nelle modalità che ha scelto per veicolarli.


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Che cos’è l’educazione

4.1

CHE COS’È L’EDUCAZIONE? È il risultato della volontà di “condurre fuori” dallo stato della rozzezza che ignora. L’educazione ci consegna la capacità di scegliere, poiché determina la possibilità di discernere la qualità. In una parola ci aiuta a “distinguere” e in questo giudizio risiede la volontà politica dell’umano.

Educare gli educatori

4.2

Tutto quello che un bambino impara nei primi anni di vita, gli resterà nella mente per sempre. È questa una affermazione di un grande studioso di come si forma la mente umana: Jean Piaget. E dipende dagli educatori se questa nostra società potrà migliorare o peggiorare. Nelle scuole materne giapponesi si insegna a comunicare e a stare con gli altri (che poi siamo sempre noi). Si dice ai bambini che ognuno deve esprimere il proprio impegno ma non imporlo. In questo modo si sommano in un unico corpo tutte le nozioni che formano il sapere. La collettività cresce e ci si trova in un mondo civile. Quando invece qualcuno impone il proprio pensiero a tutti si forma la dittatura con tutte le sue conseguenze. Una persona vale per quello che dà e non per quello che prende (pensiero difficile da capire in un paese di furbi) per cui se ognuno dà il meglio di sé alla collettività , questa si sviluppa e cresce. Se invece ognuno tenta di rapinare gli altri perché lui è il più furbo, ci si trova allo stato in cui siamo noi adesso. Ma il problema è: che cosa insegnare ai bambini perché si formino in modo giusto, creativo e non ripetitivo? Occorre insegnare come si fa a fare, a esprimersi, a comunicare per immagini, a progettare. Tutte le tecniche possono essere trasformate in gioco per facilitarne l’apprendimento, e siccome ogni gioco ha le sue regole, ecco che l’apprendimento viene facilitato, alleggerito, desiderato dai bambini. L’importante è lo sviluppo delle varie personalità, i bambini sono tutti diversi ed è sorprendente per un operatore vedere lo sviluppo delle personalità individuali. Non si devono quindi dare ai bambini soluzioni già fatte, ma insegnare a risolvere i problemi. Non suggerire temi da svolgere ma insegnare a scrivere con proprietà di linguaggio. Per un operatore è molto importante conoscere ciò che un bambino può capire e ciò che non può capire. Non trasformare tutto in favola, ci sono mille modi per interessare e comunicare. Un bambino educato forma una società civile. Un bambino creativo è un bambino felice.

4.3

2009 Lezioni d’Europa. Pensare oltre i confini L’Europa è ancora soltanto un’espressione geografica? È soltanto, oggi, un eterogeneo campo di forze? Perché si possa fare compiutamente l’Europa dal punto di vista istituzionale, è necessario fare gli europei. Educare i cittadini dei diversi paesi a sentire viva e attiva l’idea di una cittadinanza europea. Educare a pensare oltre i confini: come ha tentato di fare il progetto Lezioni d’Europa. L’identità europea, il mercato, la sicurezza alimentare, la salute, il clima: cinque temi connessi all’Europa, affrontati attraverso cinque conferenze, tenute in un ambiente insieme reale e virtuale da cinque personalità che hanno messo a disposizione la propria esperienza e le proprie competenze: Emma Bonino, Mario Monti, Giorgio Calabrese, Paola Testori Coggi, Corrado Cini.

Bruno Munari

Lezioni d’Europa è un format pensato per coinvolgere un pubblico composto da giovani, studenti medi e universitari, ma anche da adulti, da chiunque voglia interrogarsi sul destino del neonato, vecchio continente. Con l’obiettivo di portare i cittadini di oggi e di domani a contatto con alcuni dei problemi “europei” di maggior interesse. Un format multimediale per ampliare la possibilità di partecipazione attraverso i social media e, più in generale, la e-communication. Un format in grado di superare i limiti fisici imposti dal luogo. In un mondo sempre più

70

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proiettato verso il virtuale, il format di Lezioni d’Europa ha consentito di coniugare passato e futuro, uomini e tecnologia, creando un palcoscenico digitale aperto all’ascolto, al dialogo e al confronto. Grazie alla rete il pubblico (compreso quello degli studenti di undici università che hanno partecipato al progetto svolgendo lezioni parallele sui temi proposti) ha potuto non solo assistere alle singole conferenze ma partecipare, in diretta e in differita, e interagire con i relatori, inviando domande, osservazioni, interventi.

Lezioni d’Europa è un esperimento, un laboratorio editoriale, che ha indicato una direzione: sempre di più l’editoria dovrà tentare la traduzione dei saperi, e la creazione di ambienti di convergenza e compresenza mediale. Creare occasioni di incontro e di collisione dei discorsi, strumenti di amplificazione e conduzione delle parole, da riversare continuamente in formati sempre diversi. Lezioni d’Europa è un esperimento di futuro: dentro e fuori; nei contenuti, e nelle modalità che ha scelto per veicolarli.


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4.4

Che cos’è l’educazione

Difendere la scuola

Discorso pronunciato da Piero Calamandrei nel 1950 al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale.

Siamo qui riuniti in questo convegno che si intitola alla Difesa della scuola. Perché difendiamo la scuola? Forse la scuola è in pericolo? Qual è la scuola che noi difendiamo? Qual è il pericolo che incombe sulla scuola che noi difendiamo? [...] Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà [...]. La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue [...].

Lo Stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è aperta a tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di Stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuole ottime, corrispondenti ai principi posti dallo Stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloro che si rivolgono allo Stato per andare nelle sue scuole. La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituire scuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell’articolo 33 della Costituzione. La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti. La scuola è l’espressione di un altro articolo della Costituzione, dell’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali”. E l’articolo 151: “Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.” Di questi due articoli deve essere strumento la scuola di Stato, strumento di questa eguaglianza civica, di questo rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni [...].

La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società [...]. A questo deve servire la democrazia, permettere a ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.

Quando la scuola pubblica è così forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura [...]. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. [...] Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime. Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci).

Vedete, questa immagine è consacrata in un articolo della Costituzione, sia pure con una formula meno immaginosa. È l’articolo 34, in cui è detto: “La scuola è aperta a tutti. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” Questo è l’articolo più importante della nostra Costituzione. Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo. Seminarium rei pubblicae, dicevano i latini del matrimonio. Noi potremmo dirlo della scuola: seminarium rei pubblicae: la scuola elabora i migliori per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente. Ora, se questa è la funzione costituzionale della scuola nella nostra Repubblica, domandiamoci: com’è costruito questo strumento? Quali sono i suoi princípi fondamentali? Prima di tutto, scuola di Stato. Lo Stato deve costituire le sue scuole. Prima di tutto la scuola pubblica. Prima di esaltare la scuola privata bisogna parlare della scuola pubblica. La scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello Stato sia ottima. Vedete, noi dobbiamo prima di tutto mettere l’accento su quel comma dell’articolo 33 della Costituzione che dice così: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.” Dunque, per questo comma [...] lo Stato ha in materia scolastica, prima di tutto una funzione normativa. Lo Stato deve porre la legislazione scolastica nei suoi principi generali. Poi, immediatamente, lo Stato ha una funzione di realizzazione [...].

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Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, a impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. E allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori, si dice, di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.

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4.4

Che cos’è l’educazione

Difendere la scuola

Discorso pronunciato da Piero Calamandrei nel 1950 al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale.

Siamo qui riuniti in questo convegno che si intitola alla Difesa della scuola. Perché difendiamo la scuola? Forse la scuola è in pericolo? Qual è la scuola che noi difendiamo? Qual è il pericolo che incombe sulla scuola che noi difendiamo? [...] Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà [...]. La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue [...].

Lo Stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è aperta a tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di Stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuole ottime, corrispondenti ai principi posti dallo Stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloro che si rivolgono allo Stato per andare nelle sue scuole. La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituire scuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell’articolo 33 della Costituzione. La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti. La scuola è l’espressione di un altro articolo della Costituzione, dell’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali”. E l’articolo 151: “Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.” Di questi due articoli deve essere strumento la scuola di Stato, strumento di questa eguaglianza civica, di questo rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni [...].

La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società [...]. A questo deve servire la democrazia, permettere a ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.

Quando la scuola pubblica è così forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura [...]. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. [...] Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime. Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci).

Vedete, questa immagine è consacrata in un articolo della Costituzione, sia pure con una formula meno immaginosa. È l’articolo 34, in cui è detto: “La scuola è aperta a tutti. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” Questo è l’articolo più importante della nostra Costituzione. Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo. Seminarium rei pubblicae, dicevano i latini del matrimonio. Noi potremmo dirlo della scuola: seminarium rei pubblicae: la scuola elabora i migliori per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente. Ora, se questa è la funzione costituzionale della scuola nella nostra Repubblica, domandiamoci: com’è costruito questo strumento? Quali sono i suoi princípi fondamentali? Prima di tutto, scuola di Stato. Lo Stato deve costituire le sue scuole. Prima di tutto la scuola pubblica. Prima di esaltare la scuola privata bisogna parlare della scuola pubblica. La scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello Stato sia ottima. Vedete, noi dobbiamo prima di tutto mettere l’accento su quel comma dell’articolo 33 della Costituzione che dice così: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.” Dunque, per questo comma [...] lo Stato ha in materia scolastica, prima di tutto una funzione normativa. Lo Stato deve porre la legislazione scolastica nei suoi principi generali. Poi, immediatamente, lo Stato ha una funzione di realizzazione [...].

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Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, a impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. E allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori, si dice, di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.

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Che cos’è l’educazione

Quest’opera, la prima della collezione “Storie interrotte. Il Sud che ha fatto l’Italia” a cura di Fabrizio Barca, Leandra D’Antone e Renato Quaglia, è stata realizzata con il contributo di Studiare Sviluppo srl ©2007 Studiare Sviluppo srl

Nitti

3

Menichella

4

Sturzo

5

Di Vittorio

luca sossella editore

contiene cd audio

12,00 euro

Sulla base delle reazioni (del pubblico e degli storici) a un’iniziativa sperimentale realizzata componendo e mettendo in scena uno spettacolo teatrale su Francesco Saverio Nitti (Forum della Pubblica Amministrazione, Roma 2005), il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione, nella consapevolezza del ruolo della cultura nello sviluppo e nell’ambito di una strategia di diffusione della conoscenza a favore delle Amministrazioni e della società civile, ha promosso questa più ampia iniziativa dal titolo “Storie interrotte”. Alla sua realizzazione, oltre a storici, esperti, artisti e personalità del mondo universitario, del teatro e della cultura italiani, partecipano il Ministero della Pubblica Istruzione, Radio3-Rai, l’Associazione Nazionale delle Attività Teatrali Regionali, gli Editori Laterza, Luca Sossella editore. Il progetto è rivolto alla diffusione, attraverso l’editoria, il teatro, la radio e forme innovative di didattica, della conoscenza di alcune figure storiche del Sud che hanno concorso alla costruzione delle istituzioni nazionali e allo sviluppo del paese.

©2007 Studiare Sviluppo srl

Luciano D’Alfonso Bruno Dente Salvatore Lupo Sergio Zoppi

©2007 luca sossella editore srl via Zanardelli 34 00186 Roma info@lucasossellaeditore.it www.lucasossellaeditore.it

“Il paese ove tutti fanno il loro dovere, il paese ove la solidarietà è grande, non ha eroi. Può avere grandi tecnici, grandi condottieri, politici avveduti, uomini insigni per scienza: non ha eroi”: era questo il paese ideale che Francesco Saverio Nitti immaginava in Eroi e briganti. Questo paese è presente nella nostra storia, ma è debole nella nostra memoria. Storie interrotte nasce dalla consapevolezza che l’oblio attorno a cinque “padri fondatori” come Francesco Crispi, Francesco Saverio Nitti, Donato Menichella, Luigi Sturzo e Giuseppe Di Vittorio, rischia di diventare un buco nella coscienza del paese. Nei ruoli istituzionali che hanno ricoperto, questi personaggi hanno esplorato forme originali di intervento nella società, hanno attuato soluzioni di governo nei rapporti tra pubblico e privato che sfuggono a ogni schematizzazione, hanno posto interrogativi cruciali sui rapporti tra dimensione locale, nazionale, internazionale, ricchi dell’esperienza nelle regioni meridionali d’origine e nella consapevolezza della loro missione nazionale. La storia (le storie) di questi “padri” che hanno creato le premesse determinanti per l’attuale modernità nazionale, può essere ancora necessaria al dibattito che ne accompagna il presente o ne discute il futuro. Storie interrotte è cominciato con uno spettacolo su Francesco Saverio Nitti, presentato al “Forum della pubblica amministrazione” del 2005, a Roma. Un’idea che ha indotto Fabrizio Barca, Leandro D’Antone e Renato Quaglia ad allargare quell’esperimento ad altre quattro figure che hanno segnato la storia del nostro paese (Crispi, Menichella, Sturzo e Di Vittorio) le cui storie potevano essere aggiornate e raccontate nuovamente attraverso modi e contesti multidisciplinari. Nell’autunno del 2006 è stato affidato ad alcuni storici il compito di riscrivere quelle storie interrotte, attraverso dei dialoghi immaginari che avessero per protagonisti queste figure-chiave. I dialoghi sono confluiti integralmente in un libro (edito da Laterza). Teatralizzati da un drammaturgo, sono diventati materia per cinque spettacoli teatrali, uno per ogni personaggio, allestiti da altrettante compagnie del Mezzogiorno (Opera di Melfi, Palermo Teatro Festival, Vesuvioteatro di Napoli, Teatro Kismet OperA di Bari e Scena Verticale di Castrovillari) con ventotto repliche in pochi mesi nella tarda primavera del 2007. Quei dialoghi, che rintracciano momenti salienti della storia del paese, hanno dato origine anche a progetti assorbiti nei programmi di 90 istituti superiori del Mezzogiorno, ognuno dei quali ha costruito uno o più progetti attorno a essi. E ancora quei dialoghi sono diventati materia per degli speciali radiofonici, registrati all’Auditorium Rai di Napoli, in cinque puntate di Radio3 Suite. Le compagnie teatrali hanno portato i cinque spettacoli su 100 palcoscenici italiani, iniziando da quello dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. I cinque “audiodispositivi” hanno portato in libreria i dialoghi, gli interventi, i documenti sonori, i contributi più importanti raccolti, includendo gli speciali radiofonici con le interviste, i brani musicali e alcuni frammenti tratti dalle pièce teatrali. Finito di stampare nel mese di marzo 2008 da Iacobelli srl, Roma Art direction Alessandra Maiarelli

Sulla base delle reazioni (del pubblico e degli storici) a un’iniziativa sperimentale realizzata componendo e mettendo in scena uno spettacolo teatrale su Francesco Saverio Nitti (Forum della Pubblica Amministrazione, Roma 2005), il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione, nella consapevolezza del ruolo della cultura nello sviluppo e nell’ambito di una strategia di diffusione della conoscenza a favore delle Amministrazioni e della società civile, ha promosso questa piú ampia iniziativa dal titolo “Storie interrotte”. Alla sua realizzazione, oltre a storici, esperti, artisti e personalità del mondo universitario, del teatro e della cultura italiani, partecipano il Ministero della Pubblica Istruzione, Radio3-Rai, l’Associazione Nazionale delle Attività Teatrali Regionali, gli Editori Laterza, Luca Sossella editore. Il progetto è rivolto alla diffusione, attraverso l’editoria, il teatro, la radio e forme innovative di didattica, della conoscenza di alcune figure storiche del Sud che hanno concorso alla costruzione delle istituzioni nazionali e allo sviluppo del paese.

Le tre male bestie Testi di Anna Lucia Denitto, Salvatore Lupo Drammaturgia di Paolo Patui Compagnia Scena Verticale di Castrovillari Regia di Dario De Luca Con Enrico Roccaforte, Alfonso Postiglione, Fabio Pelliccori Rosario Mastrota, Ernesto Orrico, Dario De Luca Musica dal vivo Rita Marcotulli (piano), Javier Girotto (sax) 1

Crispi

2

Nitti

3

Menichella

4 Sturzo 5 Di

Vittorio

Storie interrotte. Il Sud che ha fatto l’Italia. Cinque audioriviste a partire dalle cinque puntate di Radio3 Rai condotte da Michele dall'Ongaro e Francesco Durante. Registrate dal vivo all'Auditorium Rai di Napoli con la messinscena di dialoghi teatrali, schede storiche dei cinque protagonisti, reportage di attualità e l'intervento di ospiti. Coordinamento di Lorenzo Pavolini.

4

luca sossella editore

ImmaginePostScript (M/Lradio3.EPS)

12,00 euro

E c’è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Però guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto: è accaduto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi. E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nome di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d’Italia. Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell’avvenire. Siamo fedeli alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale.

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Quest’opera, la quarta della collezione “Storie interrotte. Il Sud che ha fatto l’Italia” a cura di Fabrizio Barca, Leandra D’Antone e Renato Quaglia, è stata realizzata con il contributo di Studiare Sviluppo srl

Anna Lucia Denitto Salvatore Lupo Paolo Patui

Art direction Alessandra Maiarelli

Storie interrotte. Il Sud che ha fatto l’Italia. Cinque audioriviste a partire dalle cinque puntate condotte da Michele dall'Ongaro e Francesco Durante. Registrate dal vivo all'Auditorium Rai di Napoli con la messinscena di dialoghi teatrali, schede storiche dei cinque protagonisti, reportage di attualità e l'intervento di ospiti. Coordinamento di Lorenzo Pavolini.

1

Sturzo

Giuseppe Giarrizzo

Testi di Giuseppe Astuto, Raffaele Romanelli Drammaturgia di Paolo Patui Compagnia Vesuvio Teatro di Napoli Regia di Claudio Di Palma Con Claudio Di Palma, Andrea De Goyzueta, Ciro Damiano, Antonio Marfella, Valentina Vacca Musica dal vivo Rita Marcotulli (piano), Raiz (voce) 2

Finito di stampare nel mese di dicembre 2007 da Iacobelli srl, Roma

Franco Bassanini Lucio Caracciolo

Io sono Crispi

Crispi

©2007 luca sossella editore srl via Zanardelli 34 00186 Roma info@lucasossellaeditore.it www.lucasossellaeditore.it

1. Michele dall’Ongaro presenta gli ospiti 1:24 2. Il mondo politico italiano (documento radiofonico) 1:52 3. Conversazione con Sergio Zoppi 3:12 4. È il 15 maggio 1944 (la voce di Luigi Sturzo) 1:31 5. Conversazione con Salvatore Lupo 1:57 6. Conversazione con Dario De Luca 1:27 7. A Caltagirone, in un ufficio del palazzo municipale, dicembre 1905 8:45 8. Conversazione con Luciano D’Alfonso 4:18 9. Conversazione con Bruno Dente 2:41 10. Conversazione con Salvatore Lupo 1:36 10:14 11. A Roma in una saletta di un istituto religioso, luglio 1924 12. Conversazione con Sergio Zoppi e Salvatore Lupo 6:27 13. Roma, dicembre 1954, corridoio di Montecitorio… 7:58 14. Conversazione con Zoppi, Dente e D’Alfonso 6:01 15. Conversazione con Dario De Luca 1:03 1:03 16. Rita Marcotulli (piano), Javier Girotto (sax) 4:22 17. Don Sturzo, quante avversità… 18. Conversazione con Lupo, Dente, D’Alfonso e Zoppi 6:46

Da farsi di nuovo e meglio. Una specie di cantiere infinito, che non vuol mai chiudere, ma aprire altri discorsi. L’ipotesi è quella di realizzare più che un prodotto editoriale, un’autentica innovazione laboratoriale rispetto al panorama editoriale italiano. Più che una rivista, un’opera in progress, con un’attenzione particolare al disegno grafico, fonografico e tipografico, un laboratorio, una ricerca per determinare nuove competenze.

Luigi

A cura di Fabrizio Barca Leandra D’Antone Renato Quaglia

75

contiene cd audio

Crispi Giuseppe Astuto Claudio Di Palma Paolo Patui Raffaele Romanelli

1

In un contesto culturale e organizzativo che si interroga sui modi dell’apprendimento e sulla necessità di sperimentare modalità di comunicazione adeguate a temi complessi della ricerca (dei quali si voglia rispettare e anzi enfatizzare l’effettiva ricchezza di articolazione), si colloca la collezione delle cinque “audioriviste” dedicate ai cinque protagonisti del progetto Storie interrotte. Contesto, nuova formazione, mappa dei temi e dei riferimenti, progetto, rapporto tra storia, personaggi, educazione: sono alcuni dei riferimenti cardinali su cui si imposta questa sperimentazione editoriale, che si propone non in forma di libro, ma di “dispositivo” audio-visivo. Un periodico audio a cadenza mensile (per cinque mesi), pensato per “raccontare” un percorso e consegnare il resoconto. Un testo fonografico, un indice e una mappa visiva delle competenze che Storie interrotte ha attivato intorno alla rilettura del passato recente del nostro paese. Come un’agenda di cose da farsi.

Francesco

A cura di Fabrizio Barca Leandra D’Antone Renato Quaglia

Storie interrotte un’idea nuova di manuale didattico. Un esperimento che diventa un archetipo per la progettazione di sistemi educativi integrati. Libro, cd, dvd, rivista, trasmissione radiofonica, spettacolo teatrale, diffusione in rete: un continuo lavoro di traduzione delle diverse scritture, per un processo di spostamento e arricchimento del significato, per una integrazione dei saperi che grazie alla loro disponibilità alla trasformazione transmediale favoriscono una fruizione diversificata, e una diffusione capillare e imprevedibile.

4.5

E poi c’è un altro pericolo forse anche più grave: il pericolo del disfacimento morale della scuola. Questo senso di sfiducia, di cinismo, più che di scetticismo che si va diffondendo nella scuola, specialmente tra i giovani, è molto significativo. Il tramonto di quelle idee della vecchia scuola di Gaetano Salvemini, di Augusto Monti: la serietà, la precisione, l’onestà, la puntualità. Queste idee semplici. Il fare il proprio dovere, il fare lezione. E che la scuola sia una scuola del carattere, formatrice di coscienze, formatrice di persone oneste e leali. Si va diffondendo l’idea che tutto questo è superato, che non vale più. Oggi valgono appoggi, raccomandazioni, tessere di un partito o di una parrocchia. La religione che è in sé una cosa seria, forse la cosa più seria, perché la cosa più seria della vita è la morte, diventa uno spregevole pretesto per fare i propri affari. Questo è il pericolo: disfacimento morale della scuola. Non è la scuola dei preti che ci spaventa, perché cento anni fa c’erano scuole di preti in cui si sapeva insegnare il latino e l’italiano e da cui uscirono uomini come Giosuè Carducci. Quello che soprattutto spaventa sono i disonesti, gli uomini senza carattere, senza fede, senza opinioni. Questi uomini che dieci anni fa erano fascisti, cinque anni fa erano a parole antifascisti, e ora son tornati, sotto svariati nomi, fascisti nella sostanza cioè profittatori del regime.


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Che cos’è l’educazione

Quest’opera, la prima della collezione “Storie interrotte. Il Sud che ha fatto l’Italia” a cura di Fabrizio Barca, Leandra D’Antone e Renato Quaglia, è stata realizzata con il contributo di Studiare Sviluppo srl ©2007 Studiare Sviluppo srl

Nitti

3

Menichella

4

Sturzo

5

Di Vittorio

luca sossella editore

contiene cd audio

12,00 euro

Sulla base delle reazioni (del pubblico e degli storici) a un’iniziativa sperimentale realizzata componendo e mettendo in scena uno spettacolo teatrale su Francesco Saverio Nitti (Forum della Pubblica Amministrazione, Roma 2005), il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione, nella consapevolezza del ruolo della cultura nello sviluppo e nell’ambito di una strategia di diffusione della conoscenza a favore delle Amministrazioni e della società civile, ha promosso questa più ampia iniziativa dal titolo “Storie interrotte”. Alla sua realizzazione, oltre a storici, esperti, artisti e personalità del mondo universitario, del teatro e della cultura italiani, partecipano il Ministero della Pubblica Istruzione, Radio3-Rai, l’Associazione Nazionale delle Attività Teatrali Regionali, gli Editori Laterza, Luca Sossella editore. Il progetto è rivolto alla diffusione, attraverso l’editoria, il teatro, la radio e forme innovative di didattica, della conoscenza di alcune figure storiche del Sud che hanno concorso alla costruzione delle istituzioni nazionali e allo sviluppo del paese.

©2007 Studiare Sviluppo srl

Luciano D’Alfonso Bruno Dente Salvatore Lupo Sergio Zoppi

©2007 luca sossella editore srl via Zanardelli 34 00186 Roma info@lucasossellaeditore.it www.lucasossellaeditore.it

“Il paese ove tutti fanno il loro dovere, il paese ove la solidarietà è grande, non ha eroi. Può avere grandi tecnici, grandi condottieri, politici avveduti, uomini insigni per scienza: non ha eroi”: era questo il paese ideale che Francesco Saverio Nitti immaginava in Eroi e briganti. Questo paese è presente nella nostra storia, ma è debole nella nostra memoria. Storie interrotte nasce dalla consapevolezza che l’oblio attorno a cinque “padri fondatori” come Francesco Crispi, Francesco Saverio Nitti, Donato Menichella, Luigi Sturzo e Giuseppe Di Vittorio, rischia di diventare un buco nella coscienza del paese. Nei ruoli istituzionali che hanno ricoperto, questi personaggi hanno esplorato forme originali di intervento nella società, hanno attuato soluzioni di governo nei rapporti tra pubblico e privato che sfuggono a ogni schematizzazione, hanno posto interrogativi cruciali sui rapporti tra dimensione locale, nazionale, internazionale, ricchi dell’esperienza nelle regioni meridionali d’origine e nella consapevolezza della loro missione nazionale. La storia (le storie) di questi “padri” che hanno creato le premesse determinanti per l’attuale modernità nazionale, può essere ancora necessaria al dibattito che ne accompagna il presente o ne discute il futuro. Storie interrotte è cominciato con uno spettacolo su Francesco Saverio Nitti, presentato al “Forum della pubblica amministrazione” del 2005, a Roma. Un’idea che ha indotto Fabrizio Barca, Leandro D’Antone e Renato Quaglia ad allargare quell’esperimento ad altre quattro figure che hanno segnato la storia del nostro paese (Crispi, Menichella, Sturzo e Di Vittorio) le cui storie potevano essere aggiornate e raccontate nuovamente attraverso modi e contesti multidisciplinari. Nell’autunno del 2006 è stato affidato ad alcuni storici il compito di riscrivere quelle storie interrotte, attraverso dei dialoghi immaginari che avessero per protagonisti queste figure-chiave. I dialoghi sono confluiti integralmente in un libro (edito da Laterza). Teatralizzati da un drammaturgo, sono diventati materia per cinque spettacoli teatrali, uno per ogni personaggio, allestiti da altrettante compagnie del Mezzogiorno (Opera di Melfi, Palermo Teatro Festival, Vesuvioteatro di Napoli, Teatro Kismet OperA di Bari e Scena Verticale di Castrovillari) con ventotto repliche in pochi mesi nella tarda primavera del 2007. Quei dialoghi, che rintracciano momenti salienti della storia del paese, hanno dato origine anche a progetti assorbiti nei programmi di 90 istituti superiori del Mezzogiorno, ognuno dei quali ha costruito uno o più progetti attorno a essi. E ancora quei dialoghi sono diventati materia per degli speciali radiofonici, registrati all’Auditorium Rai di Napoli, in cinque puntate di Radio3 Suite. Le compagnie teatrali hanno portato i cinque spettacoli su 100 palcoscenici italiani, iniziando da quello dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. I cinque “audiodispositivi” hanno portato in libreria i dialoghi, gli interventi, i documenti sonori, i contributi più importanti raccolti, includendo gli speciali radiofonici con le interviste, i brani musicali e alcuni frammenti tratti dalle pièce teatrali. Finito di stampare nel mese di marzo 2008 da Iacobelli srl, Roma Art direction Alessandra Maiarelli

Sulla base delle reazioni (del pubblico e degli storici) a un’iniziativa sperimentale realizzata componendo e mettendo in scena uno spettacolo teatrale su Francesco Saverio Nitti (Forum della Pubblica Amministrazione, Roma 2005), il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione, nella consapevolezza del ruolo della cultura nello sviluppo e nell’ambito di una strategia di diffusione della conoscenza a favore delle Amministrazioni e della società civile, ha promosso questa piú ampia iniziativa dal titolo “Storie interrotte”. Alla sua realizzazione, oltre a storici, esperti, artisti e personalità del mondo universitario, del teatro e della cultura italiani, partecipano il Ministero della Pubblica Istruzione, Radio3-Rai, l’Associazione Nazionale delle Attività Teatrali Regionali, gli Editori Laterza, Luca Sossella editore. Il progetto è rivolto alla diffusione, attraverso l’editoria, il teatro, la radio e forme innovative di didattica, della conoscenza di alcune figure storiche del Sud che hanno concorso alla costruzione delle istituzioni nazionali e allo sviluppo del paese.

Le tre male bestie Testi di Anna Lucia Denitto, Salvatore Lupo Drammaturgia di Paolo Patui Compagnia Scena Verticale di Castrovillari Regia di Dario De Luca Con Enrico Roccaforte, Alfonso Postiglione, Fabio Pelliccori Rosario Mastrota, Ernesto Orrico, Dario De Luca Musica dal vivo Rita Marcotulli (piano), Javier Girotto (sax) 1

Crispi

2

Nitti

3

Menichella

4 Sturzo 5 Di

Vittorio

Storie interrotte. Il Sud che ha fatto l’Italia. Cinque audioriviste a partire dalle cinque puntate di Radio3 Rai condotte da Michele dall'Ongaro e Francesco Durante. Registrate dal vivo all'Auditorium Rai di Napoli con la messinscena di dialoghi teatrali, schede storiche dei cinque protagonisti, reportage di attualità e l'intervento di ospiti. Coordinamento di Lorenzo Pavolini.

4

luca sossella editore

ImmaginePostScript (M/Lradio3.EPS)

12,00 euro

E c’è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Però guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto: è accaduto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi. E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nome di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d’Italia. Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell’avvenire. Siamo fedeli alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale.

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Quest’opera, la quarta della collezione “Storie interrotte. Il Sud che ha fatto l’Italia” a cura di Fabrizio Barca, Leandra D’Antone e Renato Quaglia, è stata realizzata con il contributo di Studiare Sviluppo srl

Anna Lucia Denitto Salvatore Lupo Paolo Patui

Art direction Alessandra Maiarelli

Storie interrotte. Il Sud che ha fatto l’Italia. Cinque audioriviste a partire dalle cinque puntate condotte da Michele dall'Ongaro e Francesco Durante. Registrate dal vivo all'Auditorium Rai di Napoli con la messinscena di dialoghi teatrali, schede storiche dei cinque protagonisti, reportage di attualità e l'intervento di ospiti. Coordinamento di Lorenzo Pavolini.

1

Sturzo

Giuseppe Giarrizzo

Testi di Giuseppe Astuto, Raffaele Romanelli Drammaturgia di Paolo Patui Compagnia Vesuvio Teatro di Napoli Regia di Claudio Di Palma Con Claudio Di Palma, Andrea De Goyzueta, Ciro Damiano, Antonio Marfella, Valentina Vacca Musica dal vivo Rita Marcotulli (piano), Raiz (voce) 2

Finito di stampare nel mese di dicembre 2007 da Iacobelli srl, Roma

Franco Bassanini Lucio Caracciolo

Io sono Crispi

Crispi

©2007 luca sossella editore srl via Zanardelli 34 00186 Roma info@lucasossellaeditore.it www.lucasossellaeditore.it

1. Michele dall’Ongaro presenta gli ospiti 1:24 2. Il mondo politico italiano (documento radiofonico) 1:52 3. Conversazione con Sergio Zoppi 3:12 4. È il 15 maggio 1944 (la voce di Luigi Sturzo) 1:31 5. Conversazione con Salvatore Lupo 1:57 6. Conversazione con Dario De Luca 1:27 7. A Caltagirone, in un ufficio del palazzo municipale, dicembre 1905 8:45 8. Conversazione con Luciano D’Alfonso 4:18 9. Conversazione con Bruno Dente 2:41 10. Conversazione con Salvatore Lupo 1:36 10:14 11. A Roma in una saletta di un istituto religioso, luglio 1924 12. Conversazione con Sergio Zoppi e Salvatore Lupo 6:27 13. Roma, dicembre 1954, corridoio di Montecitorio… 7:58 14. Conversazione con Zoppi, Dente e D’Alfonso 6:01 15. Conversazione con Dario De Luca 1:03 1:03 16. Rita Marcotulli (piano), Javier Girotto (sax) 4:22 17. Don Sturzo, quante avversità… 18. Conversazione con Lupo, Dente, D’Alfonso e Zoppi 6:46

Da farsi di nuovo e meglio. Una specie di cantiere infinito, che non vuol mai chiudere, ma aprire altri discorsi. L’ipotesi è quella di realizzare più che un prodotto editoriale, un’autentica innovazione laboratoriale rispetto al panorama editoriale italiano. Più che una rivista, un’opera in progress, con un’attenzione particolare al disegno grafico, fonografico e tipografico, un laboratorio, una ricerca per determinare nuove competenze.

Luigi

A cura di Fabrizio Barca Leandra D’Antone Renato Quaglia

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contiene cd audio

Crispi Giuseppe Astuto Claudio Di Palma Paolo Patui Raffaele Romanelli

1

In un contesto culturale e organizzativo che si interroga sui modi dell’apprendimento e sulla necessità di sperimentare modalità di comunicazione adeguate a temi complessi della ricerca (dei quali si voglia rispettare e anzi enfatizzare l’effettiva ricchezza di articolazione), si colloca la collezione delle cinque “audioriviste” dedicate ai cinque protagonisti del progetto Storie interrotte. Contesto, nuova formazione, mappa dei temi e dei riferimenti, progetto, rapporto tra storia, personaggi, educazione: sono alcuni dei riferimenti cardinali su cui si imposta questa sperimentazione editoriale, che si propone non in forma di libro, ma di “dispositivo” audio-visivo. Un periodico audio a cadenza mensile (per cinque mesi), pensato per “raccontare” un percorso e consegnare il resoconto. Un testo fonografico, un indice e una mappa visiva delle competenze che Storie interrotte ha attivato intorno alla rilettura del passato recente del nostro paese. Come un’agenda di cose da farsi.

Francesco

A cura di Fabrizio Barca Leandra D’Antone Renato Quaglia

Storie interrotte un’idea nuova di manuale didattico. Un esperimento che diventa un archetipo per la progettazione di sistemi educativi integrati. Libro, cd, dvd, rivista, trasmissione radiofonica, spettacolo teatrale, diffusione in rete: un continuo lavoro di traduzione delle diverse scritture, per un processo di spostamento e arricchimento del significato, per una integrazione dei saperi che grazie alla loro disponibilità alla trasformazione transmediale favoriscono una fruizione diversificata, e una diffusione capillare e imprevedibile.

4.5

E poi c’è un altro pericolo forse anche più grave: il pericolo del disfacimento morale della scuola. Questo senso di sfiducia, di cinismo, più che di scetticismo che si va diffondendo nella scuola, specialmente tra i giovani, è molto significativo. Il tramonto di quelle idee della vecchia scuola di Gaetano Salvemini, di Augusto Monti: la serietà, la precisione, l’onestà, la puntualità. Queste idee semplici. Il fare il proprio dovere, il fare lezione. E che la scuola sia una scuola del carattere, formatrice di coscienze, formatrice di persone oneste e leali. Si va diffondendo l’idea che tutto questo è superato, che non vale più. Oggi valgono appoggi, raccomandazioni, tessere di un partito o di una parrocchia. La religione che è in sé una cosa seria, forse la cosa più seria, perché la cosa più seria della vita è la morte, diventa uno spregevole pretesto per fare i propri affari. Questo è il pericolo: disfacimento morale della scuola. Non è la scuola dei preti che ci spaventa, perché cento anni fa c’erano scuole di preti in cui si sapeva insegnare il latino e l’italiano e da cui uscirono uomini come Giosuè Carducci. Quello che soprattutto spaventa sono i disonesti, gli uomini senza carattere, senza fede, senza opinioni. Questi uomini che dieci anni fa erano fascisti, cinque anni fa erano a parole antifascisti, e ora son tornati, sotto svariati nomi, fascisti nella sostanza cioè profittatori del regime.


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4.6

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Che cos’è l’educazione

Imparare a imparare

Beppe Sebaste

Per dirlo subito in una frase, maestro è colui che indica il cammino del ritorno a sé. Colui che aiuta a ritornare a casa. Tornare a casa significa diventare ciò che si è. L’educazione di un maestro consiste quindi nel restituire qualcun altro, che possiamo chiamare discepolo, da un’esistenza inautentica a un’esistenza autentica. Ma questo processo ha bisogno quasi sempre di una preliminare dis-educazione o, se si preferisce, di una de-programmazione, un de-condizionamento. La casa in cui si fa ritorno non è mai la stessa che si è lasciata. Il maestro di cui si tratta in questo libro rimanda quindi a una figura non inaccessibile di educatore. Non tanto chi insegna una determinata tecnica, o arte, e neppure chi insegna “qualcosa”. Perché il maestro non insegna, educa; o meglio: educa insegnando. Egli trasmette un insegnamento che consente al discepolo di diventare a sua volta “maestro”: maestro di se stesso. È quindi maestro quell’insegnante che eccede se stesso e il proprio ruolo, che ha saputo operare una risoluzione e un distacco dal proprio ego (forse per questo è così raro identificare un maestro nell’area dell’espressione letteraria o artistica). Nei maestri che qui presento ogni competenza, ogni sapere, ogni “stile”, è esemplare di un saper vivere, di uno stile di vita, perché l’educazione di un maestro non abbraccia spazi o ambiti privilegiati, ma l’intero piano dell’esistenza. Se Platone nel Filebo paragonava l’arte del filosofo, che è quella di porre le buone domande, all’arte del cuoco di tagliare la carne per il giusto verso, un maestro per la sua trasmissione può usare ogni materiale, perché tutto per lui è idoneo, come nell’arte dell’ikebana o della scultura insegnata da Bruno Munari ai bambini, con materiali riciclati; anche le difficoltà e la penuria sono materiale di educazione e trasmissione, e anche ciò che si sottrae a ogni presa. Come si legge nell’I Ching, l’antico cinese Libro delle Trasformazioni (un libro che a sua volta è già una sorta di maestro), “per un maestro non esiste materiale sterile”, poiché egli sa tutto adoperare e portare a fecondazione. Questo non significa un’indifferenza del maestro al “materiale”, all’oggetto specifico che veicola la trasmissione – che sia danza, meditazione, giardinaggio, scultura, musica, filosofia, lotta, preghiera ecc. –, quanto piuttosto che la specifica materia dell’insegnamento viene superata e trascesa dall’educazione che in essa si trasmette. I veri maestri sono definiti dalla loro pratica di trasmissione di un insegnamento che li precede e li contiene, anche qualora si tratti di autodidatti. Professionisti, per così dire, nel trasmettere la trasmissibilità stessa dell’essere maestro, essi guidano a un risveglio di sé indipendentemente dalla via che si sceglie di percorrere. Per questo c’è una sostanziale equivalenza tra maestri portatori di saperi anche molto diversi tra loro: per fare un esempio che rimane fondamentale, nell’usare il tornio per fare vasi di terracotta, nel tirare con l’arco, nel praticare “qi gong”, nella meditazione profonda, nell’avvicinare e conoscere gli altri, nel lavoro come nell’amore, proprio in tutto, i maestri insegnano che occorre trovare il proprio centro, e che trovare il proprio centro è sempre attingere al proprio ventre, al proprio bacino. Non c’è distinzione tra piano fisico e piano spirituale della persona, e questo è il primo dualismo che i maestri ci portano a risolvere. È stato scritto, con molta giustezza, che è il discepolo che crea il maestro, quando egli è abbastanza maturo per intravedere il bisogno di educazione nel proprio orizzonte. Questa educazione non esclude ma anzi cerca, per comprenderlo e trasformarlo, il materiale psichico preverbale che vi è sotteso. Alla frontiera tra diversi ambiti spirituali e cognitivi, la figura del “maestro” è così adiacente, quando già non le comprende, alle diverse figure odierne del terapeuta, con cui ha in comune il fatto di prendere parte a una relazione di “aiuto” o di “cura”, per quanto varie e diversificate possano essere queste ultime nozioni. Come scrive il filosofo Aldo G. Gargani: “il maestro, quale che sia e quando che sia, se è un maestro, è colui che restituisce il discepolo a se stesso e alla sua condizione di autenticità attraverso trasformazioni ed elaborazioni di pensiero, perché si sa che – per quanto possa risultare incredibile – per diventare se stessi occorre inventarsi”.

4.7

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Che cos’è l’educazione

Imparare a imparare

Beppe Sebaste

Per dirlo subito in una frase, maestro è colui che indica il cammino del ritorno a sé. Colui che aiuta a ritornare a casa. Tornare a casa significa diventare ciò che si è. L’educazione di un maestro consiste quindi nel restituire qualcun altro, che possiamo chiamare discepolo, da un’esistenza inautentica a un’esistenza autentica. Ma questo processo ha bisogno quasi sempre di una preliminare dis-educazione o, se si preferisce, di una de-programmazione, un de-condizionamento. La casa in cui si fa ritorno non è mai la stessa che si è lasciata. Il maestro di cui si tratta in questo libro rimanda quindi a una figura non inaccessibile di educatore. Non tanto chi insegna una determinata tecnica, o arte, e neppure chi insegna “qualcosa”. Perché il maestro non insegna, educa; o meglio: educa insegnando. Egli trasmette un insegnamento che consente al discepolo di diventare a sua volta “maestro”: maestro di se stesso. È quindi maestro quell’insegnante che eccede se stesso e il proprio ruolo, che ha saputo operare una risoluzione e un distacco dal proprio ego (forse per questo è così raro identificare un maestro nell’area dell’espressione letteraria o artistica). Nei maestri che qui presento ogni competenza, ogni sapere, ogni “stile”, è esemplare di un saper vivere, di uno stile di vita, perché l’educazione di un maestro non abbraccia spazi o ambiti privilegiati, ma l’intero piano dell’esistenza. Se Platone nel Filebo paragonava l’arte del filosofo, che è quella di porre le buone domande, all’arte del cuoco di tagliare la carne per il giusto verso, un maestro per la sua trasmissione può usare ogni materiale, perché tutto per lui è idoneo, come nell’arte dell’ikebana o della scultura insegnata da Bruno Munari ai bambini, con materiali riciclati; anche le difficoltà e la penuria sono materiale di educazione e trasmissione, e anche ciò che si sottrae a ogni presa. Come si legge nell’I Ching, l’antico cinese Libro delle Trasformazioni (un libro che a sua volta è già una sorta di maestro), “per un maestro non esiste materiale sterile”, poiché egli sa tutto adoperare e portare a fecondazione. Questo non significa un’indifferenza del maestro al “materiale”, all’oggetto specifico che veicola la trasmissione – che sia danza, meditazione, giardinaggio, scultura, musica, filosofia, lotta, preghiera ecc. –, quanto piuttosto che la specifica materia dell’insegnamento viene superata e trascesa dall’educazione che in essa si trasmette. I veri maestri sono definiti dalla loro pratica di trasmissione di un insegnamento che li precede e li contiene, anche qualora si tratti di autodidatti. Professionisti, per così dire, nel trasmettere la trasmissibilità stessa dell’essere maestro, essi guidano a un risveglio di sé indipendentemente dalla via che si sceglie di percorrere. Per questo c’è una sostanziale equivalenza tra maestri portatori di saperi anche molto diversi tra loro: per fare un esempio che rimane fondamentale, nell’usare il tornio per fare vasi di terracotta, nel tirare con l’arco, nel praticare “qi gong”, nella meditazione profonda, nell’avvicinare e conoscere gli altri, nel lavoro come nell’amore, proprio in tutto, i maestri insegnano che occorre trovare il proprio centro, e che trovare il proprio centro è sempre attingere al proprio ventre, al proprio bacino. Non c’è distinzione tra piano fisico e piano spirituale della persona, e questo è il primo dualismo che i maestri ci portano a risolvere. È stato scritto, con molta giustezza, che è il discepolo che crea il maestro, quando egli è abbastanza maturo per intravedere il bisogno di educazione nel proprio orizzonte. Questa educazione non esclude ma anzi cerca, per comprenderlo e trasformarlo, il materiale psichico preverbale che vi è sotteso. Alla frontiera tra diversi ambiti spirituali e cognitivi, la figura del “maestro” è così adiacente, quando già non le comprende, alle diverse figure odierne del terapeuta, con cui ha in comune il fatto di prendere parte a una relazione di “aiuto” o di “cura”, per quanto varie e diversificate possano essere queste ultime nozioni. Come scrive il filosofo Aldo G. Gargani: “il maestro, quale che sia e quando che sia, se è un maestro, è colui che restituisce il discepolo a se stesso e alla sua condizione di autenticità attraverso trasformazioni ed elaborazioni di pensiero, perché si sa che – per quanto possa risultare incredibile – per diventare se stessi occorre inventarsi”.


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Che cos’è l’educazione

Imparare a imparare

Beppe Sebaste

Per dirlo subito in una frase, maestro è colui che indica il cammino del ritorno a sé. Colui che aiuta a ritornare a casa. Tornare a casa significa diventare ciò che si è. L’educazione di un maestro consiste quindi nel restituire qualcun altro, che possiamo chiamare discepolo, da un’esistenza inautentica a un’esistenza autentica. Ma questo processo ha bisogno quasi sempre di una preliminare dis-educazione o, se si preferisce, di una de-programmazione, un de-condizionamento. La casa in cui si fa ritorno non è mai la stessa che si è lasciata. Il maestro di cui si tratta in questo libro rimanda quindi a una figura non inaccessibile di educatore. Non tanto chi insegna una determinata tecnica, o arte, e neppure chi insegna “qualcosa”. Perché il maestro non insegna, educa; o meglio: educa insegnando. Egli trasmette un insegnamento che consente al discepolo di diventare a sua volta “maestro”: maestro di se stesso. È quindi maestro quell’insegnante che eccede se stesso e il proprio ruolo, che ha saputo operare una risoluzione e un distacco dal proprio ego (forse per questo è così raro identificare un maestro nell’area dell’espressione letteraria o artistica). Nei maestri che qui presento ogni competenza, ogni sapere, ogni “stile”, è esemplare di un saper vivere, di uno stile di vita, perché l’educazione di un maestro non abbraccia spazi o ambiti privilegiati, ma l’intero piano dell’esistenza. Se Platone nel Filebo paragonava l’arte del filosofo, che è quella di porre le buone domande, all’arte del cuoco di tagliare la carne per il giusto verso, un maestro per la sua trasmissione può usare ogni materiale, perché tutto per lui è idoneo, come nell’arte dell’ikebana o della scultura insegnata da Bruno Munari ai bambini, con materiali riciclati; anche le difficoltà e la penuria sono materiale di educazione e trasmissione, e anche ciò che si sottrae a ogni presa. Come si legge nell’I Ching, l’antico cinese Libro delle Trasformazioni (un libro che a sua volta è già una sorta di maestro), “per un maestro non esiste materiale sterile”, poiché egli sa tutto adoperare e portare a fecondazione. Questo non significa un’indifferenza del maestro al “materiale”, all’oggetto specifico che veicola la trasmissione – che sia danza, meditazione, giardinaggio, scultura, musica, filosofia, lotta, preghiera ecc. –, quanto piuttosto che la specifica materia dell’insegnamento viene superata e trascesa dall’educazione che in essa si trasmette. I veri maestri sono definiti dalla loro pratica di trasmissione di un insegnamento che li precede e li contiene, anche qualora si tratti di autodidatti. Professionisti, per così dire, nel trasmettere la trasmissibilità stessa dell’essere maestro, essi guidano a un risveglio di sé indipendentemente dalla via che si sceglie di percorrere. Per questo c’è una sostanziale equivalenza tra maestri portatori di saperi anche molto diversi tra loro: per fare un esempio che rimane fondamentale, nell’usare il tornio per fare vasi di terracotta, nel tirare con l’arco, nel praticare “qi gong”, nella meditazione profonda, nell’avvicinare e conoscere gli altri, nel lavoro come nell’amore, proprio in tutto, i maestri insegnano che occorre trovare il proprio centro, e che trovare il proprio centro è sempre attingere al proprio ventre, al proprio bacino. Non c’è distinzione tra piano fisico e piano spirituale della persona, e questo è il primo dualismo che i maestri ci portano a risolvere. È stato scritto, con molta giustezza, che è il discepolo che crea il maestro, quando egli è abbastanza maturo per intravedere il bisogno di educazione nel proprio orizzonte. Questa educazione non esclude ma anzi cerca, per comprenderlo e trasformarlo, il materiale psichico preverbale che vi è sotteso. Alla frontiera tra diversi ambiti spirituali e cognitivi, la figura del “maestro” è così adiacente, quando già non le comprende, alle diverse figure odierne del terapeuta, con cui ha in comune il fatto di prendere parte a una relazione di “aiuto” o di “cura”, per quanto varie e diversificate possano essere queste ultime nozioni. Come scrive il filosofo Aldo G. Gargani: “il maestro, quale che sia e quando che sia, se è un maestro, è colui che restituisce il discepolo a se stesso e alla sua condizione di autenticità attraverso trasformazioni ed elaborazioni di pensiero, perché si sa che – per quanto possa risultare incredibile – per diventare se stessi occorre inventarsi”.

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Che cos’è l’educazione

Imparare a imparare

Beppe Sebaste

Per dirlo subito in una frase, maestro è colui che indica il cammino del ritorno a sé. Colui che aiuta a ritornare a casa. Tornare a casa significa diventare ciò che si è. L’educazione di un maestro consiste quindi nel restituire qualcun altro, che possiamo chiamare discepolo, da un’esistenza inautentica a un’esistenza autentica. Ma questo processo ha bisogno quasi sempre di una preliminare dis-educazione o, se si preferisce, di una de-programmazione, un de-condizionamento. La casa in cui si fa ritorno non è mai la stessa che si è lasciata. Il maestro di cui si tratta in questo libro rimanda quindi a una figura non inaccessibile di educatore. Non tanto chi insegna una determinata tecnica, o arte, e neppure chi insegna “qualcosa”. Perché il maestro non insegna, educa; o meglio: educa insegnando. Egli trasmette un insegnamento che consente al discepolo di diventare a sua volta “maestro”: maestro di se stesso. È quindi maestro quell’insegnante che eccede se stesso e il proprio ruolo, che ha saputo operare una risoluzione e un distacco dal proprio ego (forse per questo è così raro identificare un maestro nell’area dell’espressione letteraria o artistica). Nei maestri che qui presento ogni competenza, ogni sapere, ogni “stile”, è esemplare di un saper vivere, di uno stile di vita, perché l’educazione di un maestro non abbraccia spazi o ambiti privilegiati, ma l’intero piano dell’esistenza. Se Platone nel Filebo paragonava l’arte del filosofo, che è quella di porre le buone domande, all’arte del cuoco di tagliare la carne per il giusto verso, un maestro per la sua trasmissione può usare ogni materiale, perché tutto per lui è idoneo, come nell’arte dell’ikebana o della scultura insegnata da Bruno Munari ai bambini, con materiali riciclati; anche le difficoltà e la penuria sono materiale di educazione e trasmissione, e anche ciò che si sottrae a ogni presa. Come si legge nell’I Ching, l’antico cinese Libro delle Trasformazioni (un libro che a sua volta è già una sorta di maestro), “per un maestro non esiste materiale sterile”, poiché egli sa tutto adoperare e portare a fecondazione. Questo non significa un’indifferenza del maestro al “materiale”, all’oggetto specifico che veicola la trasmissione – che sia danza, meditazione, giardinaggio, scultura, musica, filosofia, lotta, preghiera ecc. –, quanto piuttosto che la specifica materia dell’insegnamento viene superata e trascesa dall’educazione che in essa si trasmette. I veri maestri sono definiti dalla loro pratica di trasmissione di un insegnamento che li precede e li contiene, anche qualora si tratti di autodidatti. Professionisti, per così dire, nel trasmettere la trasmissibilità stessa dell’essere maestro, essi guidano a un risveglio di sé indipendentemente dalla via che si sceglie di percorrere. Per questo c’è una sostanziale equivalenza tra maestri portatori di saperi anche molto diversi tra loro: per fare un esempio che rimane fondamentale, nell’usare il tornio per fare vasi di terracotta, nel tirare con l’arco, nel praticare “qi gong”, nella meditazione profonda, nell’avvicinare e conoscere gli altri, nel lavoro come nell’amore, proprio in tutto, i maestri insegnano che occorre trovare il proprio centro, e che trovare il proprio centro è sempre attingere al proprio ventre, al proprio bacino. Non c’è distinzione tra piano fisico e piano spirituale della persona, e questo è il primo dualismo che i maestri ci portano a risolvere. È stato scritto, con molta giustezza, che è il discepolo che crea il maestro, quando egli è abbastanza maturo per intravedere il bisogno di educazione nel proprio orizzonte. Questa educazione non esclude ma anzi cerca, per comprenderlo e trasformarlo, il materiale psichico preverbale che vi è sotteso. Alla frontiera tra diversi ambiti spirituali e cognitivi, la figura del “maestro” è così adiacente, quando già non le comprende, alle diverse figure odierne del terapeuta, con cui ha in comune il fatto di prendere parte a una relazione di “aiuto” o di “cura”, per quanto varie e diversificate possano essere queste ultime nozioni. Come scrive il filosofo Aldo G. Gargani: “il maestro, quale che sia e quando che sia, se è un maestro, è colui che restituisce il discepolo a se stesso e alla sua condizione di autenticità attraverso trasformazioni ed elaborazioni di pensiero, perché si sa che – per quanto possa risultare incredibile – per diventare se stessi occorre inventarsi”.


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Lettera a un Ministro della Pubblica Istruzione

Che cos’è l’educazione

4.8

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Vittorio Gassman, Luca Sossella

Caro Ministro della Pubblica Istruzione ricordati di quando eri bambino. Caro Ministro della Pubblica Istruzione ricordati di quando “due più due faceva cinque”. Ricordati quando la parola fuoco bruciava. E la parola fulmine impauriva. Caro Ministro della Pubblica Istruzione cerca di non prestare ascolto, ma di donarlo – l’ascolto. Quest’opera l’abbiamo realizzata orgogliosi della nostra paura. E con la superbia dell’umiltà. Come superbi e umili sanno essere i bambini: per loro ci siamo decisi a realizzarla. Per i bambini che non sanno che farsene della poesia, perché la abitano ancora. La poesia che traduce la parola morte in volontà e la parola dolore in santuario. E la parola perdono in scommessa e la parola fine in inizio. Caro ministro della Pubblica Istruzione ci vuole coraggio per traghettare la poesia nel terzo millennio. Ci vuole coraggio per guardare i figli negli occhi, caro Ministro della Pubblica Istruzione, e nei figli tutti i figli. Abbiamo fatto quello che (ci dicono) siamo capaci di fare, adesso fai quello che sappiamo puoi fare. Dona l’ascolto.


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Lettera a un Ministro della Pubblica Istruzione

Che cos’è l’educazione

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Vittorio Gassman, Luca Sossella

Caro Ministro della Pubblica Istruzione ricordati di quando eri bambino. Caro Ministro della Pubblica Istruzione ricordati di quando “due più due faceva cinque”. Ricordati quando la parola fuoco bruciava. E la parola fulmine impauriva. Caro Ministro della Pubblica Istruzione cerca di non prestare ascolto, ma di donarlo – l’ascolto. Quest’opera l’abbiamo realizzata orgogliosi della nostra paura. E con la superbia dell’umiltà. Come superbi e umili sanno essere i bambini: per loro ci siamo decisi a realizzarla. Per i bambini che non sanno che farsene della poesia, perché la abitano ancora. La poesia che traduce la parola morte in volontà e la parola dolore in santuario. E la parola perdono in scommessa e la parola fine in inizio. Caro ministro della Pubblica Istruzione ci vuole coraggio per traghettare la poesia nel terzo millennio. Ci vuole coraggio per guardare i figli negli occhi, caro Ministro della Pubblica Istruzione, e nei figli tutti i figli. Abbiamo fatto quello che (ci dicono) siamo capaci di fare, adesso fai quello che sappiamo puoi fare. Dona l’ascolto.


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Infoeconosfera

5.1

INFOECONOSFERA Al passaggio del secolo, e del millennio, il sistema dei media si fa sempre più complesso, subisce trasformazioni travolgenti e difficilmente decifrabili. Il millennium bug accende febbri millenaristiche. Ma è una metafora: non finisce il mondo, finisce un’epoca. E ne comincia un’altra: questo è il senso della catastrofe. Il “libro” si decostruisce a contatto con un universo di segni ormai completamente raddoppiato nella rete. E la rete allo stesso tempo è strumento di lavoro, punto di osservazione, luogo di conflitto, territorio strategico. A metà degli anni Novanta la società “Mediaevo” anticipa in Italia l’esplorazione delle relazioni comunicative e dei rapporti di forza socio-economici legati alle innovazioni tecnologiche. I convegni Cibernauti (1994) e Nell’info-econo-sfera (1995), organizzati a Bologna, sollevano interrogativi che stanno per invadere il quotidiano di tutti. Da quell’esperienza, da quelle idee, da quelle persone, nasce un’indagine, che si prolunga nella pratica editoriale, sull’infoeconosfera, sullo spazio complesso in cui comunicazione, economia e cultura diventano un unico ambiente. Un’indagine che ha sfidato la precarietà di un ambito di ricerca in cui gli oggetti sono già invecchiati nel momento stesso in cui li si descrive.

5.2

Libri dall’icoeconosfera

2002 Geert Lovink, Dark fiber, prefazione di Franco Berardi Bifo. L’espressione dark fiber si riferisce al cavo in fibra ottica inutilizzato. Spesso le compagnie depositano una quantità di fibra maggiore di quella necessaria, per ridurre i costi che sarebbero richiesti per farlo di nuovo nel futuro. I cavi oscuri possono essere offerti in leasing a individui o ad altre società che vogliano stabilire connessioni ottiche tra le loro diverse postazioni. In questo caso la fibra non è controllata né connessa alla compagnia telefonica, ma la società o l’individuo forniscono le componenti necessarie per renderla funzionale. 2006 Massimo Melotti, L’eta della finzione. Arte e società tra realtà ed estasi, prefazione di Marc Augé. Le tecnologie, oggi, fanno concorrenza alle religioni e alle filosofie ricomponendo il tempo e lo spazio. I media strutturano il nostro tempo quotidiano, stagionale e annuale. La vita politica, artistica, sportiva non può più essere concepita senza il circuito dei media. Essi modificano la nostra relazione con lo spazio e il tempo imponendoci attraverso la forza delle immagini una certa idea del bello, del vero e del bene e anche una certa idea dell’abituale, del normale e, in fin dei conti, della norma, cioè, oggi, una certa idea del consumo, che essi non smettono di riprodurre perché sono essi stessi dei beni di consumo. Come le altre cosmologie, la cosmotecnologia aliena coloro che la prendono alla lettera. Marc Augé

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2007 Bruno Pellegrini, Io? Come diventare videoblogger e non morire da spettatore, con interventi di Franco Berardi Bifo, Derrick de Kerchove, Giorgio Gori, Gabriele Gresta. Bruno Pellegrini è il fondatore di NessunoTv e di TheBlogTv: esperimenti di televisione fatta dagli utenti.

Controllata da tutti: quindi da nessuno. Un laboratorio in cui si prepara la trasformazione dello spettatore in spettattore.

Ognuno è un medium, se decide di svegliarsi dal torpore dell’ipnosi massmediatica e tornare a dire, con consapevolezza, io!

Nell’epoca contemporanea, limitare il dissenso attraverso il controllo della comunicazione risulta essere una strategia molto più efficace per mantenere il potere di quanto lo siano metodi violenti e coercitivi, come dimostrano la Russia di Putin o l’Iran di Ahmadinejad. Regimi totalitari o semitotalitari sono però solo la punta dell’iceberg e anche nei paesi più liberali le forze che cercano di condizionare e manipolare l’opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione sono sempre attive. Questo avviene per opera non solo di apparati politici (come dimostra la lottizzazione della Rai e il partito-azienda berlusconiano) ma anche di imprese private (come le major discografiche che impongono al mercato i loro prodotti a danno di quelli, spesso più meritevoli, di etichette indipendenti). In tutti i casi vi è un tentativo di ridurre le alternative limitandone la visibilità, favorendo così il mantenimento dello status quo e di tutti i privilegi. La storia dell’uomo e le storie degli uomini ci insegnano però come la diversità dei punti di vista sia un ingrediente fondamentale per lo sviluppo: è, infatti, dal confronto con opinioni e culture diverse che ci si migliora e dall’incontro di idee differenti che nascono le innovazioni. Sostenere il pluralismo nell’ambito dei mezzi di comunicazione significa quindi avere a cuore i principi di democrazia e di progresso ed è il migliore antidoto verso qualsiasi deriva autoritaria e immobilista. Bruno Pellegrini


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5.3

Infoeconosfera

In pieno Medi@evo

Franco Berardi Bifo

Da poco tempo la barbarie si era istallata in Italia. Non si trattava di una breve parentesi, bensì di una mutazione destinata a corrompere l’ambiente stesso della nostra vita per un tempo lunghissimo. Ma non lo sapevamo, non potevamo saperlo. Andammo insieme a New York, io Luca Sossella e il nostro comune amico Andrea Gropplero, per cercare ascolto presso intellettuali americani. Andavamo per avvertirli del fatto che la peste fascista stava ritornando, e stava mettendo radici nel paese che già una volta ne era stato la culla. Avevamo preso alloggio all’Hotel Chelsea, e stavamo distesi sui tre letti della nostra camera, quando Luca parve illuminarsi o rabbuiarsi forse, comunque sbigottirsi. Là fuori in alto sui tetti, tra i neri cilindri dei contenitori e i lampeggianti slogan pubblicitari, gli parve di vedere un’enorme scritta: Mediaevo. La vide davvero? Davvero gli apparve per poi scomparire nel cielo iroso del tramonto? In ogni caso, come Costantino si convertì quando una croce apparsa in cielo gli indicò la strada su cui condurre il mondo, così Luca lesse quella scritta come un annuncio. E tutti e tre, in quel momento, riconoscemmo che quella scritta conteneva ciò che il nostro intuito percepiva intorno: si stava aprendo un orizzonte nuovo all’universo della comunicazione umana, ma nel nostro quell’orizzonte sembrava subito oscurarsi. Nel cielo settembrino di New York la scintillante promessa delle tecnologie di comunicazione sembrava preannunciarsi indissolubilmente unita all’incombere di barbarie antiche. Al ritorno da quel viaggio americano, a metà del primo decennio della Internet, Luca mise in rete mediaevo.com. In quello spazio nacque la prima versione di tempòs, una rivista online che interrogava i segni del futuro inquietante della tecnomutazione, dell’etnomutazione, della biomutazione. Occorreva un editore visionario per compiere quel gesto neuromantico. Il futuro che allora interrogammo si vede oggi largamente dispiegato. Nella primavera di quello stesso anno avevo lavorato con Luca alla preparazione e alla comunicazione del convegno Cibernauti. Cibernauti radunò a Bologna, sotto gli auspici del Consorzio Università Città diretto da Oscar Marchisio, coloro che, in giro per il mondo stavano immaginando il futuro della rete. Parteciparono a quell’incontro Pierre Levy, l’annunciatore della intelligenza collettiva, e lo storico dell’arte Kim Veltman, il sociologo Alberto Abruzzese e il mediologo Derrick De Kerkhove, il fisico Franco Piperno e lo scrittore Norman Spinrad, autore di un romanzo intitolato Bug Jack Barron che già negli anni ’60 aveva prefigurato una dittatura mediatica e biotecnica. Ma c’era anche Antonio Caronia, matematico, e scrittore visionario, la ciberfemminista Sadie Plant, il filosofo Mario Perniola, il critico letterario Philippe Queau, l’ingegnere elettronico umanista e dadaista Piero Lo Sardo e la psicoanalista guattariana Danielle Sivadon. C’era Marco Jacquemet, semio-antropologo, e Franco Bolelli, immaginatore di mondi, e Paolo Virno, uno dei filosofi più importanti del nostro tempo. E per finire due grandi bolognesi che conosco fin da ragazzo: il filosofo Stefano Bonaga, e Roberto Grandi, sociologo e a quell’epoca assessore alla cultura del comune di Bologna. La città di Bologna, in quegli anni ’90 non era ancora definitivamente spenta, qualche residuo barlume di vitalità culturale la agitava ancora, e in quel clima nacque infatti Iperbole, la prima rete civica europea. I cibernauti convenuti parlarono ai cinquecento ragazzi che per due giorni affollarono la sala. Tutti insieme guardammo nella sfera di cristallo che il computer connesso materializzava, e in quella sfera vedevamo meraviglie e orrori.

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L’anno successivo, cioè nel 1995, io e Luca Sossella, col sostegno logistico ed economico del Consorzio Università Città, e grazie alla collaborazione preziosa della signora Elda Antinori, organizzammo un secondo convegno dedicato alle nuove tecnologie. Lo chiamammo: Nell’Infoeconosfera. Anche questo incontro, cui parteciparono soprattutto esperti di pubblicità e di economia finanziaria, cercava di prefigurare poeticamente l’immensa trasformazione che stava iniziando, e si apprestava a sfidare e sconvolgere il linguaggio della letteratura e della politica, e soprattutto la comunicazione e l’economia. In quegli incontri io vedo la radice dell’impresa editoriale che nel decennio successivo ha saputo coniugare il futuribile e il classico, l’acrobazia tecnologica della rete e la perfetta eleganza stilistica e grafica. Questa infatti mi pare la cifra dell’impresa sosselliana. Qualche anno più tardi, precisamente al volgere del millennio, cominciarono a uscire i primi libri della casa editrice. Chissà perché nella vita mi è capitato tante volte di partecipare all’avvio di imprese editoriali di vario genere, barche un po’ incerte, ma trepidanti, che sfidano i flutti. Non so perché mi piace vederle partire per poi lasciarle quando hanno preso il largo. Alla fine del secolo collaborai a un libro sul Millennium bug. Si facevano ipotesi catastrofiche sul bug che avrebbe dovuto bloccare tutti i computer del mondo allo scadere della mezzanotte dell’anno 2000, e invece non provocò nessun effetto. Fu un abbaglio, ma anche una premonizione: l’immaginario collettivo si stava sintonizzando su un nuovo scenario. Dopo il decennio ’90, innovativo progressivo illuminista, ora veniva il decennio zerozero. L’apocalisse annunciata del Millennium bug fu come un sogno premonitore. La vera apocalisse giunse quattro mesi più tardi col crollo finanziario dei titoli tecnologici, e con il dotcomcrash che avviò, nella primavera 2000, la rottamazione del general intellect e la precarizzazione della vita cognitaria. Poi l’apocalisse si insediò stabilmente nella psicosfera globale: fu l’11 settembre del 2001. Nel 2000 la barbarie italiana venne confermata a furor di popolo. Per la seconda volta la media-dittatura conquistava la maggioranza elettorale. Era il giugno dell’anno 2000 quando Luca venne a trovarmi per portarmi la prima copia di Felix, il libro dedicato al pensiero e alla figura di Guattari. Ci sedemmo in terrazza e sfogliando quelle pagine che la sapienza grafica di Luca ha saputo rendere elegantissime, parlammo della tirannide che pochi giorni prima era stata riconfermata. Nel corso di quest’ultimo decennio un esercito precario e nomadico di lavoratori della conoscenza è andato crescendo: la nuova generazione compra libri su Amazon e studia a Londra e Berlino. Per il popolo italiano i libri sono oggetto di scherno. La rozzezza e il cinismo sono al posto di comando anche nell’industria editoriale. Le librerie espongono in pile gigantesche libri di Bruno Vespa. Negli anni di questa miseria la barca editoriale Sossella solca il mare della poesia. Non perché la poesia consoli l’animo nella visione dell’intollerabile, ma piuttosto perché nei covi della poesia trova clandestino rifugio il linguaggio del possibile e la speranza di un futuro umano. 30 dicembre 2010

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Infoeconosfera

In pieno Medi@evo

Franco Berardi Bifo

Da poco tempo la barbarie si era istallata in Italia. Non si trattava di una breve parentesi, bensì di una mutazione destinata a corrompere l’ambiente stesso della nostra vita per un tempo lunghissimo. Ma non lo sapevamo, non potevamo saperlo. Andammo insieme a New York, io Luca Sossella e il nostro comune amico Andrea Gropplero, per cercare ascolto presso intellettuali americani. Andavamo per avvertirli del fatto che la peste fascista stava ritornando, e stava mettendo radici nel paese che già una volta ne era stato la culla. Avevamo preso alloggio all’Hotel Chelsea, e stavamo distesi sui tre letti della nostra camera, quando Luca parve illuminarsi o rabbuiarsi forse, comunque sbigottirsi. Là fuori in alto sui tetti, tra i neri cilindri dei contenitori e i lampeggianti slogan pubblicitari, gli parve di vedere un’enorme scritta: Mediaevo. La vide davvero? Davvero gli apparve per poi scomparire nel cielo iroso del tramonto? In ogni caso, come Costantino si convertì quando una croce apparsa in cielo gli indicò la strada su cui condurre il mondo, così Luca lesse quella scritta come un annuncio. E tutti e tre, in quel momento, riconoscemmo che quella scritta conteneva ciò che il nostro intuito percepiva intorno: si stava aprendo un orizzonte nuovo all’universo della comunicazione umana, ma nel nostro quell’orizzonte sembrava subito oscurarsi. Nel cielo settembrino di New York la scintillante promessa delle tecnologie di comunicazione sembrava preannunciarsi indissolubilmente unita all’incombere di barbarie antiche. Al ritorno da quel viaggio americano, a metà del primo decennio della Internet, Luca mise in rete mediaevo.com. In quello spazio nacque la prima versione di tempòs, una rivista online che interrogava i segni del futuro inquietante della tecnomutazione, dell’etnomutazione, della biomutazione. Occorreva un editore visionario per compiere quel gesto neuromantico. Il futuro che allora interrogammo si vede oggi largamente dispiegato. Nella primavera di quello stesso anno avevo lavorato con Luca alla preparazione e alla comunicazione del convegno Cibernauti. Cibernauti radunò a Bologna, sotto gli auspici del Consorzio Università Città diretto da Oscar Marchisio, coloro che, in giro per il mondo stavano immaginando il futuro della rete. Parteciparono a quell’incontro Pierre Levy, l’annunciatore della intelligenza collettiva, e lo storico dell’arte Kim Veltman, il sociologo Alberto Abruzzese e il mediologo Derrick De Kerkhove, il fisico Franco Piperno e lo scrittore Norman Spinrad, autore di un romanzo intitolato Bug Jack Barron che già negli anni ’60 aveva prefigurato una dittatura mediatica e biotecnica. Ma c’era anche Antonio Caronia, matematico, e scrittore visionario, la ciberfemminista Sadie Plant, il filosofo Mario Perniola, il critico letterario Philippe Queau, l’ingegnere elettronico umanista e dadaista Piero Lo Sardo e la psicoanalista guattariana Danielle Sivadon. C’era Marco Jacquemet, semio-antropologo, e Franco Bolelli, immaginatore di mondi, e Paolo Virno, uno dei filosofi più importanti del nostro tempo. E per finire due grandi bolognesi che conosco fin da ragazzo: il filosofo Stefano Bonaga, e Roberto Grandi, sociologo e a quell’epoca assessore alla cultura del comune di Bologna. La città di Bologna, in quegli anni ’90 non era ancora definitivamente spenta, qualche residuo barlume di vitalità culturale la agitava ancora, e in quel clima nacque infatti Iperbole, la prima rete civica europea. I cibernauti convenuti parlarono ai cinquecento ragazzi che per due giorni affollarono la sala. Tutti insieme guardammo nella sfera di cristallo che il computer connesso materializzava, e in quella sfera vedevamo meraviglie e orrori.

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L’anno successivo, cioè nel 1995, io e Luca Sossella, col sostegno logistico ed economico del Consorzio Università Città, e grazie alla collaborazione preziosa della signora Elda Antinori, organizzammo un secondo convegno dedicato alle nuove tecnologie. Lo chiamammo: Nell’Infoeconosfera. Anche questo incontro, cui parteciparono soprattutto esperti di pubblicità e di economia finanziaria, cercava di prefigurare poeticamente l’immensa trasformazione che stava iniziando, e si apprestava a sfidare e sconvolgere il linguaggio della letteratura e della politica, e soprattutto la comunicazione e l’economia. In quegli incontri io vedo la radice dell’impresa editoriale che nel decennio successivo ha saputo coniugare il futuribile e il classico, l’acrobazia tecnologica della rete e la perfetta eleganza stilistica e grafica. Questa infatti mi pare la cifra dell’impresa sosselliana. Qualche anno più tardi, precisamente al volgere del millennio, cominciarono a uscire i primi libri della casa editrice. Chissà perché nella vita mi è capitato tante volte di partecipare all’avvio di imprese editoriali di vario genere, barche un po’ incerte, ma trepidanti, che sfidano i flutti. Non so perché mi piace vederle partire per poi lasciarle quando hanno preso il largo. Alla fine del secolo collaborai a un libro sul Millennium bug. Si facevano ipotesi catastrofiche sul bug che avrebbe dovuto bloccare tutti i computer del mondo allo scadere della mezzanotte dell’anno 2000, e invece non provocò nessun effetto. Fu un abbaglio, ma anche una premonizione: l’immaginario collettivo si stava sintonizzando su un nuovo scenario. Dopo il decennio ’90, innovativo progressivo illuminista, ora veniva il decennio zerozero. L’apocalisse annunciata del Millennium bug fu come un sogno premonitore. La vera apocalisse giunse quattro mesi più tardi col crollo finanziario dei titoli tecnologici, e con il dotcomcrash che avviò, nella primavera 2000, la rottamazione del general intellect e la precarizzazione della vita cognitaria. Poi l’apocalisse si insediò stabilmente nella psicosfera globale: fu l’11 settembre del 2001. Nel 2000 la barbarie italiana venne confermata a furor di popolo. Per la seconda volta la media-dittatura conquistava la maggioranza elettorale. Era il giugno dell’anno 2000 quando Luca venne a trovarmi per portarmi la prima copia di Felix, il libro dedicato al pensiero e alla figura di Guattari. Ci sedemmo in terrazza e sfogliando quelle pagine che la sapienza grafica di Luca ha saputo rendere elegantissime, parlammo della tirannide che pochi giorni prima era stata riconfermata. Nel corso di quest’ultimo decennio un esercito precario e nomadico di lavoratori della conoscenza è andato crescendo: la nuova generazione compra libri su Amazon e studia a Londra e Berlino. Per il popolo italiano i libri sono oggetto di scherno. La rozzezza e il cinismo sono al posto di comando anche nell’industria editoriale. Le librerie espongono in pile gigantesche libri di Bruno Vespa. Negli anni di questa miseria la barca editoriale Sossella solca il mare della poesia. Non perché la poesia consoli l’animo nella visione dell’intollerabile, ma piuttosto perché nei covi della poesia trova clandestino rifugio il linguaggio del possibile e la speranza di un futuro umano. 30 dicembre 2010

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Infoeconosfera

2007 In che senso? Che cosa sono le relazioni pubbliche, un cofanetto con un libro di 224 pagine, tre dvd con le riprese di sei sessioni per oltre dieci ore di visione. Realizzato con il patrocinio Assorel e Ferpi.

5.4

Negli anni ’60 Pasolini denuncia una progressiva tecnicizzazione del linguaggio che, omologandosi e appiattendosi sui codici comunicativi del neocapitalismo, si impoverisce, perdendo espressività. E creando un mostruoso latinorum post-umanista, opaco e incomprensibile quanto l’antico. Parallelamente, Calvino si batte contro la deriva “burocratica” della lingua, che crea un nuovo, grottesco e perverso, ermetismo. Oggi, è il linguaggio della comunicazione pubblica ad aver colonizzato i discorsi. L’economia, la politica, la cultura parlano con la sintassi e con il lessico delle relazioni pubbliche. La descrizione delle azioni precede le azioni, e le determina. Il come, e il dove, prevalgono sul cosa: il referente è sempre di più il centro vuoto della comunicazione. E l’emittente, e la ragione profonda del suo messaggio, non sempre sono rintracciabili in superficie. Per questo occorre interrogarsi su un vettore: in che senso? In che direzione si muovono le informazioni? Come agiscono, e chi le agisce? In definitiva: che cosa sono le relazioni pubbliche? Le relazioni pubbliche occupano oggi nel mondo oltre 3 milioni di professionisti, con un indotto economico prodotto ogni anno stimabile attorno ai 300 miliardi di euro. In Italia indagini recenti hanno stimato fra i 90 e i 100 mila operatori, con un impatto economico che si aggira dai 12 ai 15 miliardi di euro. Una professione labour intensive che si basa sul prevalente apporto di energie e impegno dei propri operatori piuttosto che sull’investimento di capitali, come succede per altre professioni capital intensive quali la pubblicità. A questo ingente – quanto sconosciuto – impatto economico (e umano) si devono aggiungere i numerosi corsi universitari e para-universitari dedicati alle relazioni pubbliche, cui si iscrivono sempre più studenti. Il progetto In che senso? vuole favorire la crescita della consapevolezza rispetto al ruolo delle relazioni pubbliche nella vita sociale ed economica del nostro Paese, trasferendo ragionamenti, stimoli e conoscenze che permettano lo sviluppo di un comportamento competente a riguardo di un’attività divenuta fondamentale per ogni organizzazione pubblica e privata.

Andrea Granelli Artigiani del digitale

luca sossella editore

di questo breve saggio è suggerire un percorso itale per i progettisti e gli operatori del settore però presente con attenzione il punto di vista e e autentiche (anche quelle meno manifeste) zatori.

PRIMO DVD Lo scenario della professione con Chicco Testa e Furio Garbagnati.

sempre più importante e interagisce con la dimensione fisica, si interconnette. In questo dialogo le due dimensioni non si limitano a giustapporsi e a complementarsi, ma si avvicinano e si modificano reciprocamente: la materia cerca leggerezza e significati e il virtuale corporeità e

TERZO DVD L’analisi e la valutazione con Stefania Romenti e Giampaolo Azzoni. IL LIBRO Lo specchio infranto. Come i relatori pubblici e i giornalisti italiani percepiscono la propria professione e quella dell’altro , a cura di Chiara Valentini e Toni Muzi Falconi. Lessico delle relazioni pubbliche, di Toni Muzi Falconi e Fabio Ventoruzzo.

concretezza. L’obiettivo di questo breve saggio è suggerire un percorso verso il digitale per i progettisti e gli operatori del settore che tenga però presente con attenzione il punto di vista e le esigenze autentiche (anche quelle meno manifeste) degli utilizzatori.

Come creare valore con le nuove tecnologie Prefazione di Patrizia Grieco e un dialogo con Giulio Sapelli

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Qual è la tua prima reazione avvicinando la parola artigianato alla parola digitale? In effetti i due concetti potrebbero andare molto bene insieme. La matrice culturale della Olivetti di Adriano è artigianale in quanto derivava direttamente dalla precedente attività di meccanica di precisione. Costruire una macchina per scrivere era un’attività certamente di tipo artigiano e Adriano si è portato dietro questa sensibilità, questa attenzione ai dettagli e alla qualità. Anche la straordinaria avventura della rivista “Civiltà delle macchine” diretta dall’ingegnere-poeta Leonardo Sinisgalli è un omaggio alla cultura artigiana. La rivista nasceva infatti dal grande amore di Sinisgalli per le botteghe artigiane dove lavoravano i maniscalchi, per i meccanismi, gli ingranaggi, i congegni. Egli usava dire “Io non amo le macchine come Oggetti, le amo come Congegni”. Va anche ricodato che, agli albori dell’industrializzazione, gli operai specializzati si costruivano i propri utensili che poi utilizzavano in fabbrica per produrre “meglio” – con una maggiore precisione (e quindi qualità) e con minore fatica. È stato quando l’impresa si è messa a produrre i propri utensili e a imporli agli operai, che è morta la specializzazione, che il lavoro si è standardizzato e ha spento la creatività (e la dignità umana). La Olivetti si era organizzata per la produzione su commessa, un modo di produrre che rispetta i tempi dell’uomo; in questo senso era ancora una produzione artigiana. È stata la produzione di massa che ha ucciso il tempo dell’uomo imponendogli i tempi della macchina.

Anche sul concetto di proprietà Adriano aveva un punto di vista “rivoluzionario”. Sì. Adriano infatti prospetta una diversa allocazione dei diritti di proprietà della sua stessa fabbrica. Egli vuole trasformarla in una fondazione posseduta un terzo dai lavoratori, un terzo dall’Università di Torino, un terzo dal Comune di Ivrea. Una vera e propria rivoluzione che anticipa il dibattito odierno sui beni pubblici. Con questa visione viene ribadito anche il ruolo e la centralità dell’Università e della ricerca pubblica. In questo caso – ahimé – oggi in Italia siamo molto distanti da quel pensiero.

ISBN 978-88-89829-84-4

12,00 euro

Dialogo tra ? Andrea Granelli e ! Giulio Sapelli

In effetti anche nel mondo del software è molto frequente che i programmatori si costruiscano i propri utensili, dei programmi per generare più velocemente procedure standard, delle collezioni di applicazioni già sviluppate da riutilizzare con semplici procedure di adattamento. Anche il concetto di “software riusabile” va in questa direzione: non è tanto un approccio ecologico per non buttare via nulla quanto piuttosto una serie di utensili per aumentare la produttività dei programmatori. Un altro aspetto che diviene ogni giorno più importante è la centralità dell’utente. Quanto era importante l’utilizzatore per Adriano? Adriano Olivetti era ossessionato dall’uomo in quanto persona, dalla sua forza – spesso inespressa –, dai suoi bisogni. Le sue letture sul personalismo, il suo pensiero fortemente religioso, il suo interesse per la psicologia e la psicoanalisi, avevano messo l’uomo al centro dei suoi pensieri e delle sua agenda di imprenditore – e poi di politico. La tecnologia doveva essere un modo per liberare l’uomo. Egli da giovane si era specializzato nel taglio dei metalli e aveva studiato con grande profondità le modalità di lavoro degli operai. E proprio grazie a queste analisi approfondite aveva compreso che il lavoro aveva spesso al suo interno una dimensione irrazionale, che si esplicitava nella fatica spesso inutile. Dopo il suo viaggio negli Stati Uniti del 1928 egli tornò con una comprensione profonda del metodo scientifico del lavoro – il cosiddetto taylorismo – e intravide in tale metodo la possibilità di portare razionalità nel lavoro e quindi ridurre la fatica inutile e creare un maggior senso di piacere e appartenenza all’azienda, elementi essenziali sia per la qualità dei manufatti sia per la coesione sociale. Il taylorismo visto quindi non come uno strumento del padrone per rendere efficiente la produzione, ma come un aiuto agli operai per ridurre la loro fatica e migliorare nel contempo la qualità dei manufatti. L’“uomo” che considerava era più l’operaio che non l’utilizzatore, perché era nel lavoro in fabbrica il vero rischio dell’alienazione tecnologica. Oggi di operai ce ne sono sempre di meno ed è l’utilizzatore che rischia di essere manipolato, alienato, trasformato dalle tecnologie – soprattutto quelle digitali – ogni giorno più potenti e pervasive. Pertanto è probabile che oggi Adriano si dedicherebbe con maggiore attenzione anche all’utilizzatore finale. Oltretutto egli considerava l’uomo sia come persona sia come membro di una comunità. La coesione sociale era per Adriano una vera ossessione. Di fatto la convivialità diventò uno degli aspetti della cultura olivettiana. Egli temeva che la tecnologia – innanzitutto quando introdotta in maniera massiccia nelle fabbriche – potesse isolare, distruggere la coesione sociale. E probabilmente se ne avesse avuto il tempo, avrebbe notato lo stesso rischio negli strumenti elettronici. Ma era un inguaribile ottimista nei confronti della tecnica, capace secondo lui di generare gli antidoti che avrebbero curato i mali da lei stessa generati. Sarebbe quindi stato un grande paladino dei social network e delle comunità virtulali.

SECONDO DVD La progettazione e l’attuazione con Paolo Iammatteo e Anna Martina.

2010 Andrea Granelli, Artigiani del digitale. Come creare valore con le nuove tecnologie L’economia post-industriale ha sempre più bisogno della “materia digitale”, in tutte le sue articolazioni: dispositivi, sensori, algoritmi, contenuti e interfacce. Quando si parla di terziarizzazione dell’economia non vuol dire che sta scomparendo la dimensione fisica della produzione, ma semplicemente che il virtuale è

Artigiani del digitale

5.5

Andrea Granelli

Dietro ogni informazione, notizia, commento, scandalo, pettegolezzo o proposta che appare all’interno del nostro sistema dei media e che tanto peso ha sulle opinioni, sui comportamenti e sulle decisioni degli italiani è quasi sempre possibile scorgere un portavoce, un addetto stampa, un comunicatore… insomma un relatore pubblico che opera per un’impresa privata, un’amministrazione pubblica o un’organizzazione no-profit. Sono quasi centomila oggi nel nostro Paese i professionisti delle relazioni pubbliche che, per oltre il 50% del tempo sono impegnati a orientare e indirizzare il lavoro del giornalista. È necessario essere consapevoli di questa realtà pervasiva e capire come queste due professioni si relazionano fra di loro.

a post-industriale ha sempre piú bisogno della igitale”, in tutte le sue articolazioni: dispositivi, goritmi, contenuti e interfacce. Quando si parla zazione dell’economia non vuol dire che sta do la dimensione fisica della produzione, ma ente che il virtuale è sempre piú importante e e con la dimensione fisica, si interconnette. dialogo le due dimensioni non si limitano a si e a complementarsi, ma si avvicinano e si o reciprocamente: la materia cerca leggerezza e e il virtuale corporeità e concretezza.

i Francesco Filangeri, rticolare).

5.6

Sull’attualità del pensiero di Adriano Olivetti

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Infoeconosfera

Infoeconosfera

2007 In che senso? Che cosa sono le relazioni pubbliche, un cofanetto con un libro di 224 pagine, tre dvd con le riprese di sei sessioni per oltre dieci ore di visione. Realizzato con il patrocinio Assorel e Ferpi.

5.4

Negli anni ’60 Pasolini denuncia una progressiva tecnicizzazione del linguaggio che, omologandosi e appiattendosi sui codici comunicativi del neocapitalismo, si impoverisce, perdendo espressività. E creando un mostruoso latinorum post-umanista, opaco e incomprensibile quanto l’antico. Parallelamente, Calvino si batte contro la deriva “burocratica” della lingua, che crea un nuovo, grottesco e perverso, ermetismo. Oggi, è il linguaggio della comunicazione pubblica ad aver colonizzato i discorsi. L’economia, la politica, la cultura parlano con la sintassi e con il lessico delle relazioni pubbliche. La descrizione delle azioni precede le azioni, e le determina. Il come, e il dove, prevalgono sul cosa: il referente è sempre di più il centro vuoto della comunicazione. E l’emittente, e la ragione profonda del suo messaggio, non sempre sono rintracciabili in superficie. Per questo occorre interrogarsi su un vettore: in che senso? In che direzione si muovono le informazioni? Come agiscono, e chi le agisce? In definitiva: che cosa sono le relazioni pubbliche? Le relazioni pubbliche occupano oggi nel mondo oltre 3 milioni di professionisti, con un indotto economico prodotto ogni anno stimabile attorno ai 300 miliardi di euro. In Italia indagini recenti hanno stimato fra i 90 e i 100 mila operatori, con un impatto economico che si aggira dai 12 ai 15 miliardi di euro. Una professione labour intensive che si basa sul prevalente apporto di energie e impegno dei propri operatori piuttosto che sull’investimento di capitali, come succede per altre professioni capital intensive quali la pubblicità. A questo ingente – quanto sconosciuto – impatto economico (e umano) si devono aggiungere i numerosi corsi universitari e para-universitari dedicati alle relazioni pubbliche, cui si iscrivono sempre più studenti. Il progetto In che senso? vuole favorire la crescita della consapevolezza rispetto al ruolo delle relazioni pubbliche nella vita sociale ed economica del nostro Paese, trasferendo ragionamenti, stimoli e conoscenze che permettano lo sviluppo di un comportamento competente a riguardo di un’attività divenuta fondamentale per ogni organizzazione pubblica e privata.

Andrea Granelli Artigiani del digitale

luca sossella editore

di questo breve saggio è suggerire un percorso itale per i progettisti e gli operatori del settore però presente con attenzione il punto di vista e e autentiche (anche quelle meno manifeste) zatori.

PRIMO DVD Lo scenario della professione con Chicco Testa e Furio Garbagnati.

sempre più importante e interagisce con la dimensione fisica, si interconnette. In questo dialogo le due dimensioni non si limitano a giustapporsi e a complementarsi, ma si avvicinano e si modificano reciprocamente: la materia cerca leggerezza e significati e il virtuale corporeità e

TERZO DVD L’analisi e la valutazione con Stefania Romenti e Giampaolo Azzoni. IL LIBRO Lo specchio infranto. Come i relatori pubblici e i giornalisti italiani percepiscono la propria professione e quella dell’altro , a cura di Chiara Valentini e Toni Muzi Falconi. Lessico delle relazioni pubbliche, di Toni Muzi Falconi e Fabio Ventoruzzo.

concretezza. L’obiettivo di questo breve saggio è suggerire un percorso verso il digitale per i progettisti e gli operatori del settore che tenga però presente con attenzione il punto di vista e le esigenze autentiche (anche quelle meno manifeste) degli utilizzatori.

Come creare valore con le nuove tecnologie Prefazione di Patrizia Grieco e un dialogo con Giulio Sapelli

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Qual è la tua prima reazione avvicinando la parola artigianato alla parola digitale? In effetti i due concetti potrebbero andare molto bene insieme. La matrice culturale della Olivetti di Adriano è artigianale in quanto derivava direttamente dalla precedente attività di meccanica di precisione. Costruire una macchina per scrivere era un’attività certamente di tipo artigiano e Adriano si è portato dietro questa sensibilità, questa attenzione ai dettagli e alla qualità. Anche la straordinaria avventura della rivista “Civiltà delle macchine” diretta dall’ingegnere-poeta Leonardo Sinisgalli è un omaggio alla cultura artigiana. La rivista nasceva infatti dal grande amore di Sinisgalli per le botteghe artigiane dove lavoravano i maniscalchi, per i meccanismi, gli ingranaggi, i congegni. Egli usava dire “Io non amo le macchine come Oggetti, le amo come Congegni”. Va anche ricodato che, agli albori dell’industrializzazione, gli operai specializzati si costruivano i propri utensili che poi utilizzavano in fabbrica per produrre “meglio” – con una maggiore precisione (e quindi qualità) e con minore fatica. È stato quando l’impresa si è messa a produrre i propri utensili e a imporli agli operai, che è morta la specializzazione, che il lavoro si è standardizzato e ha spento la creatività (e la dignità umana). La Olivetti si era organizzata per la produzione su commessa, un modo di produrre che rispetta i tempi dell’uomo; in questo senso era ancora una produzione artigiana. È stata la produzione di massa che ha ucciso il tempo dell’uomo imponendogli i tempi della macchina.

Anche sul concetto di proprietà Adriano aveva un punto di vista “rivoluzionario”. Sì. Adriano infatti prospetta una diversa allocazione dei diritti di proprietà della sua stessa fabbrica. Egli vuole trasformarla in una fondazione posseduta un terzo dai lavoratori, un terzo dall’Università di Torino, un terzo dal Comune di Ivrea. Una vera e propria rivoluzione che anticipa il dibattito odierno sui beni pubblici. Con questa visione viene ribadito anche il ruolo e la centralità dell’Università e della ricerca pubblica. In questo caso – ahimé – oggi in Italia siamo molto distanti da quel pensiero.

ISBN 978-88-89829-84-4

12,00 euro

Dialogo tra ? Andrea Granelli e ! Giulio Sapelli

In effetti anche nel mondo del software è molto frequente che i programmatori si costruiscano i propri utensili, dei programmi per generare più velocemente procedure standard, delle collezioni di applicazioni già sviluppate da riutilizzare con semplici procedure di adattamento. Anche il concetto di “software riusabile” va in questa direzione: non è tanto un approccio ecologico per non buttare via nulla quanto piuttosto una serie di utensili per aumentare la produttività dei programmatori. Un altro aspetto che diviene ogni giorno più importante è la centralità dell’utente. Quanto era importante l’utilizzatore per Adriano? Adriano Olivetti era ossessionato dall’uomo in quanto persona, dalla sua forza – spesso inespressa –, dai suoi bisogni. Le sue letture sul personalismo, il suo pensiero fortemente religioso, il suo interesse per la psicologia e la psicoanalisi, avevano messo l’uomo al centro dei suoi pensieri e delle sua agenda di imprenditore – e poi di politico. La tecnologia doveva essere un modo per liberare l’uomo. Egli da giovane si era specializzato nel taglio dei metalli e aveva studiato con grande profondità le modalità di lavoro degli operai. E proprio grazie a queste analisi approfondite aveva compreso che il lavoro aveva spesso al suo interno una dimensione irrazionale, che si esplicitava nella fatica spesso inutile. Dopo il suo viaggio negli Stati Uniti del 1928 egli tornò con una comprensione profonda del metodo scientifico del lavoro – il cosiddetto taylorismo – e intravide in tale metodo la possibilità di portare razionalità nel lavoro e quindi ridurre la fatica inutile e creare un maggior senso di piacere e appartenenza all’azienda, elementi essenziali sia per la qualità dei manufatti sia per la coesione sociale. Il taylorismo visto quindi non come uno strumento del padrone per rendere efficiente la produzione, ma come un aiuto agli operai per ridurre la loro fatica e migliorare nel contempo la qualità dei manufatti. L’“uomo” che considerava era più l’operaio che non l’utilizzatore, perché era nel lavoro in fabbrica il vero rischio dell’alienazione tecnologica. Oggi di operai ce ne sono sempre di meno ed è l’utilizzatore che rischia di essere manipolato, alienato, trasformato dalle tecnologie – soprattutto quelle digitali – ogni giorno più potenti e pervasive. Pertanto è probabile che oggi Adriano si dedicherebbe con maggiore attenzione anche all’utilizzatore finale. Oltretutto egli considerava l’uomo sia come persona sia come membro di una comunità. La coesione sociale era per Adriano una vera ossessione. Di fatto la convivialità diventò uno degli aspetti della cultura olivettiana. Egli temeva che la tecnologia – innanzitutto quando introdotta in maniera massiccia nelle fabbriche – potesse isolare, distruggere la coesione sociale. E probabilmente se ne avesse avuto il tempo, avrebbe notato lo stesso rischio negli strumenti elettronici. Ma era un inguaribile ottimista nei confronti della tecnica, capace secondo lui di generare gli antidoti che avrebbero curato i mali da lei stessa generati. Sarebbe quindi stato un grande paladino dei social network e delle comunità virtulali.

SECONDO DVD La progettazione e l’attuazione con Paolo Iammatteo e Anna Martina.

2010 Andrea Granelli, Artigiani del digitale. Come creare valore con le nuove tecnologie L’economia post-industriale ha sempre più bisogno della “materia digitale”, in tutte le sue articolazioni: dispositivi, sensori, algoritmi, contenuti e interfacce. Quando si parla di terziarizzazione dell’economia non vuol dire che sta scomparendo la dimensione fisica della produzione, ma semplicemente che il virtuale è

Artigiani del digitale

5.5

Andrea Granelli

Dietro ogni informazione, notizia, commento, scandalo, pettegolezzo o proposta che appare all’interno del nostro sistema dei media e che tanto peso ha sulle opinioni, sui comportamenti e sulle decisioni degli italiani è quasi sempre possibile scorgere un portavoce, un addetto stampa, un comunicatore… insomma un relatore pubblico che opera per un’impresa privata, un’amministrazione pubblica o un’organizzazione no-profit. Sono quasi centomila oggi nel nostro Paese i professionisti delle relazioni pubbliche che, per oltre il 50% del tempo sono impegnati a orientare e indirizzare il lavoro del giornalista. È necessario essere consapevoli di questa realtà pervasiva e capire come queste due professioni si relazionano fra di loro.

a post-industriale ha sempre piú bisogno della igitale”, in tutte le sue articolazioni: dispositivi, goritmi, contenuti e interfacce. Quando si parla zazione dell’economia non vuol dire che sta do la dimensione fisica della produzione, ma ente che il virtuale è sempre piú importante e e con la dimensione fisica, si interconnette. dialogo le due dimensioni non si limitano a si e a complementarsi, ma si avvicinano e si o reciprocamente: la materia cerca leggerezza e e il virtuale corporeità e concretezza.

i Francesco Filangeri, rticolare).

5.6

Sull’attualità del pensiero di Adriano Olivetti

85


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5.7

Jeff Howe

Infoeconosfera

Jeff Howe Crowdsourcing

luca sossella editore

web 2.0 consente una conversazione molto un urlo. Ti consente di realizzare qualcosa di dopo post, tweet dopo tweet. È un’arma di massa. Come un fiume che lasci via via detrisponde per arrivare in mare limpido, magari to con altri fiumi. Magari. Ci sono libri che e tante volte che ti sembra di averli letti. Se vete ancora letto, fatelo. Vi cambierà la vita.

ccesso di Howe è stata proprio quella di dare omeno, riuscendo cosí a fornire una sintesi la contribuzione sempre piú diffusa e articoalore partecipativo e di farlo concentrandosi quello economico, proprio in un periodo di sistema. [...] Un passaggio che, in realtà, era ma che, alla pari di altre simili rivoluzioni di o economiche, gli esempi nel campo culturantifico, sportivo sono infiniti) aveva bisogno ioni per emergere. Bruno Pellegrini — CEO di TheBlogTV

Crowdsourcing

Wired Italia

generale il crowdsourcing piú in veste di croenitore. In due anni di lavoro di ricerca, tutsi diversi principi fondamentali. Li ho condenle, che non sono né generali né infallibili, ma guida rudimentale per aiutarvi a esplorare rritorio. Jeff Howe

ISBN 978-88-89829-87-5

Il valore partecipativo come risorsa per il futuro del business Prefazione di Riccardo Luna e introduzione di Bruno Pellegrini

5.8

2010 Jeff Howe, Crowdsourcing. Il valore partecipativo come risorsa per il futuro del business, prefazione di Riccardo Luna; introduzione all’edizione italiana di Bruno Pellegrini; traduzione di Nazzareno Mataldi. La rete ha reso multidirezionale la circolazione delle idee. Produttori e consumatori tendono a coincidere nella figura del prosumer. Gli emittenti chiedono agli utenti feedback, commenti, interazioni. E le aziende chiedono ai consumatori di partecipare all’ideazione dei prodotti. È la creatività della folla: crowdsourcing. Jeff Howe, collaboratore di “Wired”, esperto di media e di industria dell’intrattenimento, indaga l’impatto delle nuove pratiche di condivisione sui

processi economici. Scoprendo che la partecipazione genera valore: la comunità, il tutto, è maggiore della somma delle sue parti. La filosofia dell’open source rende possibile il superamento dell’economia classica fondata sulla massimizzazione del profitto. Costringe le aziende a cambiare l’organizzazione tradizionale del lavoro. La meritocrazia totale e l’intelligenza collettiva rappresentano un’alternativa ai sistemi di produzione basati sui principi del fordismo: la simultaneità degli apporti

dislocati nello spazio agisce contro la linearità della catena di montaggio. Il potenziale “democratico” del crowdsourcing potrebbe innescare meccanismi di contagio ed estendersi oltre l’economia, influenzando la politica. Superando i limiti dell’individualismo l’umanità può superarsi, può essere più di se stessa. Sempre che chi gestisce la transizione sia in grado di prevenirne i rischi: il rischio di erodere l’occupazione e il rischio di un livellamento medio (mediocre) dei contenuti.

2010 Roberto Siagri, Sul futuro dell’impresa, un dvd di 90 minuti e un fascicolo di 32 pagine. Dobbiamo abituarci al cambiamento, a forti cambiamenti, e se i cambiamenti che incontreremo per strada ci sembreranno impossibili, ricordiamoci di una semplice regola: tutto quanto è fisicamente possibile, se conveniente, sarà realizzato. Innestandosi sulle forti discontinuità che ci aspettano, e approfittando dell’inerzia delle imprese che si sentono già arrivate, nuove imprese nasceranno e prospereranno. Le cose accadono più velocemente di quanto si possa immaginare. Questa accelerazione è consentita dall’evoluzione di Internet: con il web 2.0 e le tecnologie del

Cloud ci stiamo addentrando sempre più rapidamente nel futuro in maniera collettiva. Grazie alla globalizzazione delle intelligenze possiamo salire sempre più facilmente sulle spalle dei giganti e compiere passi di progresso sempre più lunghi. Prendo in prestito un’analogia da Buckminster Fuller: stiamo pilotando tutti insieme l’astronave Terra e ci stiamo preparando all’atterraggio in un luogo vasto e alieno, il mondo tecnologico di domani. Non abbiamo grandi poteri per invertire il corso degli eventi, visto che siamo sotto una forte spinta gravitazionale che ci porta dal passato al futuro, dal lento al veloce, dal semplice al

complesso, dall’esterno all’interno. Abbiamo la possibilità di scegliere il nostro punto di atterraggio o lasciare che l’universo lo scelga per noi. Io spero che continueremo a imparare, per poter capire quali sono le forze irresistibili che ci coinvolgono e quali libere scelte abbiamo a disposizione, e che avremo il coraggio e la sensibilità necessari per creare il futuro che meritiamo. E questo futuro, il nostro futuro, in una maniera o nell’altra sarà creato dalle imprese che sapranno innovare.

Impresa evolutiva Un’impresa supera i limiti biologici imposti ai singoli individui: è un’idea, e un’idea può eludere la morte. Il potere, del resto, è la mancanza d’idee. Chi non ha idee vuole bloccare l’esistente. Chi detiene il potere teme le idee capaci di cambiare: potrebbero eliminare le ragioni che determinano il comando. Ma alimentare l’inerzia, oltre a essere dannoso, è inutile: tutto ciò che può accadere accadrà. Se la civiltà è il noto e la barbarie è l’ignoto, l’atto “barbarico” è quello che ci distacca dal passato. Il XXI secolo creerà innovazioni la cui portata sarà pari a quella dei progressi fatti nei precedenti ventimila anni di storia. La rete globale che sta per connettere il mondo intero lavora all’autoconsapevolezza del genere umano. Si va verso la cefalizzazione della terra. Non sono le macchine a essere connesse, ma le menti. Gli ingegni. Le intelligenze. A chi teme che lo sviluppo tecnologico favorisca un processo di deumanizzazione, il trionfo dell’indifferenza fredda delle macchine, risponde la creazione di network umanizzanti. Che non annullano le relazioni umane, ma le potenziano. Mentre la natura diventa tecnologica, la tecnologia sta diventando organica. L’espansione della sfera sensoriale, percettiva, cognitiva, offre un’occasione di miglioramento dell’umano. La miniaturizzazione della tecnologia procede a ritmo esponenziale. Macchine sempre meno ingombranti lasciano spazio alle idee. La conoscenza si istalla su una quantità sempre più ridotta di atomi. Lo spazio di cui un’impresa ha bisogno per agire si riduce. Si riduce la quantità di materia fisica che è necessario mobilitare. È possibile fare sempre di più con sempre di meno.

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5.9

Il progresso tecnologico si muove lungo un vettore che va dal materiale all’astratto. Tempo, spazio, materia ed energia si comprimono, mentre aumenta la quantità delle informazioni da cui tempo, spazio, materia ed energia sono attraversati, e determinati. Quello che si scambia, quello che crea valore, non è più l’atomo, ma il bit. Non è più l’oggetto, ma il flusso e la sua elaborazione. Un’azienda può vivere e innovare solo se è in grado di trasformare il proprio lavoro in collaborazione. Di trasferire il lavoro da un piano verticale a un piano orizzontale. Non si può più controllare tutta la catena di creazione del valore. È in atto una mutazione irreversibile: dall’impresa che impiega dipendenti a tempo pieno si sta andando verso un’impresa senza persone. Il compito di un imprenditore (di un editore) diventa quello di sviluppare connessioni. Collocarsi nei nodi strategici di una rete di collaborazioni. Per creare un processo che non umili il lavoro dell’uomo, ma ne liberi il potenziale, valorizzando le competenze. Il futuro è un gatto. Si avvicina lentamente, poi nel tempo di un balzo ci supera, e ce lo ritroviamo davanti. Durante questi anni pieni di rumore, era impossibile sentire i suoi passi sempre più vicini. Ora è saltato davanti a noi. Viviamo in un mondo che non esiste già più. Si può tentare di conservare la necrosi, come fa chi gestisce il potere. Oppure accettare la sfida della generatività: iniziare, tentare, aprire. Coltivare la volontà di costruire oltre il limite individuale della morte. Immaginare progetti dei quali non possiamo vedere, né prevedere, la fine e l’esito. Pensare la durata della specie, e accordare il nostro lavoro al ritmo di quella durata, liberandolo dalle pastoie dell’adesso.

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Jeff Howe

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Jeff Howe Crowdsourcing

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web 2.0 consente una conversazione molto un urlo. Ti consente di realizzare qualcosa di dopo post, tweet dopo tweet. È un’arma di massa. Come un fiume che lasci via via detrisponde per arrivare in mare limpido, magari to con altri fiumi. Magari. Ci sono libri che e tante volte che ti sembra di averli letti. Se vete ancora letto, fatelo. Vi cambierà la vita.

ccesso di Howe è stata proprio quella di dare omeno, riuscendo cosí a fornire una sintesi la contribuzione sempre piú diffusa e articoalore partecipativo e di farlo concentrandosi quello economico, proprio in un periodo di sistema. [...] Un passaggio che, in realtà, era ma che, alla pari di altre simili rivoluzioni di o economiche, gli esempi nel campo culturantifico, sportivo sono infiniti) aveva bisogno ioni per emergere. Bruno Pellegrini — CEO di TheBlogTV

Crowdsourcing

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generale il crowdsourcing piú in veste di croenitore. In due anni di lavoro di ricerca, tutsi diversi principi fondamentali. Li ho condenle, che non sono né generali né infallibili, ma guida rudimentale per aiutarvi a esplorare rritorio. Jeff Howe

ISBN 978-88-89829-87-5

Il valore partecipativo come risorsa per il futuro del business Prefazione di Riccardo Luna e introduzione di Bruno Pellegrini

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2010 Jeff Howe, Crowdsourcing. Il valore partecipativo come risorsa per il futuro del business, prefazione di Riccardo Luna; introduzione all’edizione italiana di Bruno Pellegrini; traduzione di Nazzareno Mataldi. La rete ha reso multidirezionale la circolazione delle idee. Produttori e consumatori tendono a coincidere nella figura del prosumer. Gli emittenti chiedono agli utenti feedback, commenti, interazioni. E le aziende chiedono ai consumatori di partecipare all’ideazione dei prodotti. È la creatività della folla: crowdsourcing. Jeff Howe, collaboratore di “Wired”, esperto di media e di industria dell’intrattenimento, indaga l’impatto delle nuove pratiche di condivisione sui

processi economici. Scoprendo che la partecipazione genera valore: la comunità, il tutto, è maggiore della somma delle sue parti. La filosofia dell’open source rende possibile il superamento dell’economia classica fondata sulla massimizzazione del profitto. Costringe le aziende a cambiare l’organizzazione tradizionale del lavoro. La meritocrazia totale e l’intelligenza collettiva rappresentano un’alternativa ai sistemi di produzione basati sui principi del fordismo: la simultaneità degli apporti

dislocati nello spazio agisce contro la linearità della catena di montaggio. Il potenziale “democratico” del crowdsourcing potrebbe innescare meccanismi di contagio ed estendersi oltre l’economia, influenzando la politica. Superando i limiti dell’individualismo l’umanità può superarsi, può essere più di se stessa. Sempre che chi gestisce la transizione sia in grado di prevenirne i rischi: il rischio di erodere l’occupazione e il rischio di un livellamento medio (mediocre) dei contenuti.

2010 Roberto Siagri, Sul futuro dell’impresa, un dvd di 90 minuti e un fascicolo di 32 pagine. Dobbiamo abituarci al cambiamento, a forti cambiamenti, e se i cambiamenti che incontreremo per strada ci sembreranno impossibili, ricordiamoci di una semplice regola: tutto quanto è fisicamente possibile, se conveniente, sarà realizzato. Innestandosi sulle forti discontinuità che ci aspettano, e approfittando dell’inerzia delle imprese che si sentono già arrivate, nuove imprese nasceranno e prospereranno. Le cose accadono più velocemente di quanto si possa immaginare. Questa accelerazione è consentita dall’evoluzione di Internet: con il web 2.0 e le tecnologie del

Cloud ci stiamo addentrando sempre più rapidamente nel futuro in maniera collettiva. Grazie alla globalizzazione delle intelligenze possiamo salire sempre più facilmente sulle spalle dei giganti e compiere passi di progresso sempre più lunghi. Prendo in prestito un’analogia da Buckminster Fuller: stiamo pilotando tutti insieme l’astronave Terra e ci stiamo preparando all’atterraggio in un luogo vasto e alieno, il mondo tecnologico di domani. Non abbiamo grandi poteri per invertire il corso degli eventi, visto che siamo sotto una forte spinta gravitazionale che ci porta dal passato al futuro, dal lento al veloce, dal semplice al

complesso, dall’esterno all’interno. Abbiamo la possibilità di scegliere il nostro punto di atterraggio o lasciare che l’universo lo scelga per noi. Io spero che continueremo a imparare, per poter capire quali sono le forze irresistibili che ci coinvolgono e quali libere scelte abbiamo a disposizione, e che avremo il coraggio e la sensibilità necessari per creare il futuro che meritiamo. E questo futuro, il nostro futuro, in una maniera o nell’altra sarà creato dalle imprese che sapranno innovare.

Impresa evolutiva Un’impresa supera i limiti biologici imposti ai singoli individui: è un’idea, e un’idea può eludere la morte. Il potere, del resto, è la mancanza d’idee. Chi non ha idee vuole bloccare l’esistente. Chi detiene il potere teme le idee capaci di cambiare: potrebbero eliminare le ragioni che determinano il comando. Ma alimentare l’inerzia, oltre a essere dannoso, è inutile: tutto ciò che può accadere accadrà. Se la civiltà è il noto e la barbarie è l’ignoto, l’atto “barbarico” è quello che ci distacca dal passato. Il XXI secolo creerà innovazioni la cui portata sarà pari a quella dei progressi fatti nei precedenti ventimila anni di storia. La rete globale che sta per connettere il mondo intero lavora all’autoconsapevolezza del genere umano. Si va verso la cefalizzazione della terra. Non sono le macchine a essere connesse, ma le menti. Gli ingegni. Le intelligenze. A chi teme che lo sviluppo tecnologico favorisca un processo di deumanizzazione, il trionfo dell’indifferenza fredda delle macchine, risponde la creazione di network umanizzanti. Che non annullano le relazioni umane, ma le potenziano. Mentre la natura diventa tecnologica, la tecnologia sta diventando organica. L’espansione della sfera sensoriale, percettiva, cognitiva, offre un’occasione di miglioramento dell’umano. La miniaturizzazione della tecnologia procede a ritmo esponenziale. Macchine sempre meno ingombranti lasciano spazio alle idee. La conoscenza si istalla su una quantità sempre più ridotta di atomi. Lo spazio di cui un’impresa ha bisogno per agire si riduce. Si riduce la quantità di materia fisica che è necessario mobilitare. È possibile fare sempre di più con sempre di meno.

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Il progresso tecnologico si muove lungo un vettore che va dal materiale all’astratto. Tempo, spazio, materia ed energia si comprimono, mentre aumenta la quantità delle informazioni da cui tempo, spazio, materia ed energia sono attraversati, e determinati. Quello che si scambia, quello che crea valore, non è più l’atomo, ma il bit. Non è più l’oggetto, ma il flusso e la sua elaborazione. Un’azienda può vivere e innovare solo se è in grado di trasformare il proprio lavoro in collaborazione. Di trasferire il lavoro da un piano verticale a un piano orizzontale. Non si può più controllare tutta la catena di creazione del valore. È in atto una mutazione irreversibile: dall’impresa che impiega dipendenti a tempo pieno si sta andando verso un’impresa senza persone. Il compito di un imprenditore (di un editore) diventa quello di sviluppare connessioni. Collocarsi nei nodi strategici di una rete di collaborazioni. Per creare un processo che non umili il lavoro dell’uomo, ma ne liberi il potenziale, valorizzando le competenze. Il futuro è un gatto. Si avvicina lentamente, poi nel tempo di un balzo ci supera, e ce lo ritroviamo davanti. Durante questi anni pieni di rumore, era impossibile sentire i suoi passi sempre più vicini. Ora è saltato davanti a noi. Viviamo in un mondo che non esiste già più. Si può tentare di conservare la necrosi, come fa chi gestisce il potere. Oppure accettare la sfida della generatività: iniziare, tentare, aprire. Coltivare la volontà di costruire oltre il limite individuale della morte. Immaginare progetti dei quali non possiamo vedere, né prevedere, la fine e l’esito. Pensare la durata della specie, e accordare il nostro lavoro al ritmo di quella durata, liberandolo dalle pastoie dell’adesso.

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6.1

HAPAX LEGOMENON “Hapax”, da “hapax legomenon”, ossia “detto una sola volta”, è una parola di cui si possiede un’unica attestazione all’interno di un sistema linguistico o di un dato corpus. Ogni poesia è un hapax, in quanto è sempre unica, sola, eccezionale. Un testo poetico può dirsi tale perché, letteralmente, senza eguali. Inassimilabile a medie, statistiche, diagrammi caratteristici della produzione in serie, l’opera d’arte, commovente fossile, giace raccolta nella sua aura come l’insetto dentro la sua ambra, impronta digitale, prodotto individuale fatto a mano, e fatto per passare di mano in mano. Valerio Magrelli

Roberto Roversi ha stampato 32 copie del suo ultimo lavoro poetico “in atto”, L’Italia sepolta sotto la neve. In casa sua ci sono ancora 16 copie. “Perché non so proprio a chi darle o inviarle con una lettera che dica che sono ancora vivo”, ha detto. Ma forse è perché non esiste nessuno che sia abbastanza vivo da riceverle. Affidiamo una delle poesie contenute nel libro, come un messaggio clandestino, a questo registro.

Roversi

6.2

215. Non pubblico più libri dice il giocatore di calcio perché non voglio che qualcuno tagli le pagine del mio libro con un coltello sporco di burro. Non saprei sopportarlo né da vivo né da morto non importano le critiche non l’indifferenza non l’arroganza dei piccoli gnomi della foresta ma lo sfregio dell’atto volgare contro l’umile cuore di un libro appena stampato fragile come l’agnello giovane. Un bosco di alberi parole chiede che l’occhio non si chiuda prima che sia accontentato. La parola ha sempre in serbo una sorpresa o un sopruso per il lettore che non ha strappato la pagina. Un lenzuolo di fuoco ha preso il cuore del pesce navigatore e l’ha coperto d’amianto. (vv. 3 e 4 citazione mnemonica da un testo di cui non ricordo l’autore).

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HAPAX LEGOMENON “Hapax”, da “hapax legomenon”, ossia “detto una sola volta”, è una parola di cui si possiede un’unica attestazione all’interno di un sistema linguistico o di un dato corpus. Ogni poesia è un hapax, in quanto è sempre unica, sola, eccezionale. Un testo poetico può dirsi tale perché, letteralmente, senza eguali. Inassimilabile a medie, statistiche, diagrammi caratteristici della produzione in serie, l’opera d’arte, commovente fossile, giace raccolta nella sua aura come l’insetto dentro la sua ambra, impronta digitale, prodotto individuale fatto a mano, e fatto per passare di mano in mano. Valerio Magrelli

Roberto Roversi ha stampato 32 copie del suo ultimo lavoro poetico “in atto”, L’Italia sepolta sotto la neve. In casa sua ci sono ancora 16 copie. “Perché non so proprio a chi darle o inviarle con una lettera che dica che sono ancora vivo”, ha detto. Ma forse è perché non esiste nessuno che sia abbastanza vivo da riceverle. Affidiamo una delle poesie contenute nel libro, come un messaggio clandestino, a questo registro.

Roversi

6.2

215. Non pubblico più libri dice il giocatore di calcio perché non voglio che qualcuno tagli le pagine del mio libro con un coltello sporco di burro. Non saprei sopportarlo né da vivo né da morto non importano le critiche non l’indifferenza non l’arroganza dei piccoli gnomi della foresta ma lo sfregio dell’atto volgare contro l’umile cuore di un libro appena stampato fragile come l’agnello giovane. Un bosco di alberi parole chiede che l’occhio non si chiuda prima che sia accontentato. La parola ha sempre in serbo una sorpresa o un sopruso per il lettore che non ha strappato la pagina. Un lenzuolo di fuoco ha preso il cuore del pesce navigatore e l’ha coperto d’amianto. (vv. 3 e 4 citazione mnemonica da un testo di cui non ricordo l’autore).

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Hapax legomenon

6.3

Zanzotto

Il 7 ottobre del 2006 alla Scuola grande di San Rocco, a Venezia, all’interno della rassegna “Fare pace” accade lo spettacolo Variazioni babeliche, a cura di Luca Sossella. Roberto Herlitzka legge testi di Gabriele d’Annunzio, Alessanrdo Haber legge testi di Giovanni Papini, Roberto Roversi, Giorgio Caproni, Franco Fortini e Primo Levi; Franco Buffoni, Jolanda Insana e Gabriele Frasca leggono testi propri e di Vittorio Sereni, Giovanni Raboni, Amelia Rosselli. In quell’occasione Luca Sossella incontra a Pieve di Soligo Andrea Zanzotto. Raccoglie la sua voce, per poi diffonderla a Venezia nello spazio pieno di risonanze della Scuola di San Rocco, all’inizio di Variazioni babeliche. Questa che segue è la trascrizione di quel dialogo. Sul sito lucasossellaeditore.it è possibile ascoltare l’audio con le voci di Zanzotto e di Giuseppe Ungaretti: voci circondate da un alone magnetico, che emergono dal fondo magmatico di una coscienza sovrapersonale. Voci che provengono dal gnessulògo dell’inconscio.

Filò uscì nelle edizioni del Ruzzante nel 1976, giusto trent’anni fa. Oggi siamo a Pieve di Soligo, ma siamo anche a Venezia, cioè siamo in nessunlogo (gnessulógo): sì perché siamo a Venezia, in ascolto, nella Scuola di San Rocco. Bene, Venezia non può che evocare in me il ricordo dell’emersione di quella misteriosissima testa di donna: quell’enorme polena che emerge, mostrando solo gli occhi, dal Canal Grande, all’inizio del Casanova di Federico Fellini, per cui lei scrisse alcuni testi in vecio parlar, in dialetto, poi raccolti in Filò. Bene, quella testa che riemerge, io l’ho sempre vista come la rappresentazione di una forza sciamanica, che abita dentro il mare-mostro del quotidiano, nascosta: ed è lo sguardo fisso del poeta, quella polena che mostra gli occhi, il poeta che cerca di sciogliere il nodo radicale e indistricabile, inscioglibile, delle profonde matrici della lingua, connesse con la stessa Terra Madre. In Un’altra poesia dei doni, Borges formula diversi ringraziamenti: per il linguaggio che possiamo dare alla sapienza, per l’oblio che annulla o modifica i passati. A un certo punto, formula il ringraziamento più particolare: al mattino, che ci procura l’illusione di un principio. Lei, parafrasando Al di là del principio di piacere di Freud, una volta ha raccontato della possibilità di instaurare un piacere del principio. Io interpreto tutta la sua poesia attraverso questa volontà di rinnovamento e di trasformazione. Per me, effettivamente, c’è sempre stata una continuità, ma con delle cesure, che poi si rivelavano connesse, tra un libro e l’altro. Anche per esempio in un libro come Pasque, che segna proprio un passaggio molto netto, in realtà sono tutte riprese, ma non così evidenti, di temi che avevo già trattati. Perché, in fin dei conti, io, adesso che sono ormai fuori gioco, penso che ho fatto anche male a rimaner sempre qui. Non è che non mi sia mosso, ho girato per l’Europa abbastanza, anche come emigrante, tra l’altro, in Svizzera. Ma direi che questo distretto, che comprende la zona del Montello, va verso Asolo, verso nord magari fino in Cadore, e a oriente verso il Friuli, per me è l’unico posto dove riesco a mettere a fuoco le cose. Come questa pietra del San Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata Come questa pietra è il mio pianto che non si vede La morte si sconta vivendo

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Ungaretti aveva intravisto benissimo che quel paesaggio, anche fin dai primi momenti, che erano quelli che io descrivevo, aveva dentro delle venature terribili. Un’arcadia in cui c’è il teschio, tema che in fondo ho sviluppato nel Galateo in bosco, in cui la guerra ha tanta parte. Se penso a una poesia che sia una poesia totale, e che dice tutto anche di me, del me di adesso, devo scegliere San Martino del Carso. Io ho insegnato alle medie, al liceo e ho avuto tanti rapporti anche con l’università, ma sempre l’idea di portare un esempio di poesia assolutamente riuscita, necessaria in ogni sua sillaba, in ogni suo suono, mi conduceva proprio a San Martino del Carso. Ungaretti dava veramente l’impressione di un contatto profondissimo con un’innocenza originaria dell’essere. Anche se, leopardianamente, l’essere appare terribilmente misto fin dall’origine di orrori e di esaltazioni, esiste un tramite nascosto, più o meno nascosto, segreto, l’incanto di poter rigenerare nel momento inevitabile delle crisi che

capitano alle persone, che possono essere tutte riportabili all’idea di un mancamento, come un terreno che manca sotto i piedi. Si regredisce fino, appunto, a quella solidità strana che ha il fascino dell’infanzia. Possiamo benissimo parafrasare, in un certo senso, il tema del principio del piacere con quello del piacere del principio. Cioè di questo perenne riominciare dopo ogni batosta. Però, devo dire, a esser sincero, che ci credo sempre meno. Perché tutti gli spifferi sinistri che confondono la realtà attuale ci portano piuttosto a pensieri che deprimono sempre più, a ondate, in un quadro terribile, di distruzione del vecchio tessuto umano. Queste fibre non sono più tali da poter essere tanto docili. Una dissonanza sempre più scriteriata appare anche là dove dovrebbe farsi sentire di più, invece, questo gusto del rivelare e del creare cose nuove, che può coprire tutto l’arco del sapere umano e della creatività umana.

San Martino del Carso Valloncello dell’albero isolato 27 agosto 1916 Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato

Può esprimere anche la tristezza della vecchiaia questa poesia, pur essendo così legata al tema della guerra. Perché la vita è una guerra. Oggi poi che si sta distruggendo il paesaggio, si può ben dire: di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro. Di questo paesaggio non è rimasto che qualche brandello, perché hanno fatto di tutto per distruggerlo. Non parliamo poi del fatto che di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto. Ricordiamo si sta come sui rami degli alberi le foglie [sic]: a una certa età purtroppo gli amici vengono a mancare. Si raccoglie, nella parte finale, questa idea di memoria salvatrice: nel cuore / nessuna croce manca. Ma è una salvezza che costa, è una croce: il mio cuore è il paese più straziato, è la conseguenza di tutto quanto. Io la trovo straordinariamente viva, una tra le più belle poesie che siano mai state scritte. Abbiamo ascoltato Ungaretti leggere Sono una creatura. Una ferita immedicabile del tessuto umano è quella che ci mostra poi Zanzotto leggendo San Martino del Carso: le due poesie sono state scritte a Valloncello dell’albero isolato, il 5 e il 27 agosto del 1916, da Giuseppe Ungaretti. E sono i testi sempre presenti nel libro, per me più significativo, più importante, di Zanzotto, che è il Galateo in bosco. Il bosco è il Montello, dove i corpi di decine di migliaia di morti rappresentano, come lui scrisse, “la tragedia che è rimasta nella terra e nella gente.” Mi pare che ci sia poi una sorta di sovrapposizione...

Per un certo periodo, mentre lavoravo a Filò, soprattutto all’appendice in prosa di Filò, sulle teorie del dialetto, dell’evoluzione delle lingue, un’appendice abbastanza consistente del libro, intanto nelle mie passeggiate avevo già accentuato i giri nel Montello, perché da sempre, da quando ero bambino, ne sentivo parlare. Qua c’erano parecchi mutilati di guerra, anche tra i bambini, perché fino al ’25-’26 chi si inoltrava nel greto del Piave, poteva incappare in proiettili inesplosi. Qua siamo proprio a ridosso del fronte. L’idea del confronto tra galateo e bosco è venuta anche dal fatto che per un certo periodo ho ripreso in mano lì la casa e anche là è un galateo di pazzie o stupidaggini dell’uomo, elencate. C’è un altro testo che io ritengo proprio fondamentale, almeno nella mia esperienza di lettore, di suo lettore, che è Filò, soprattutto il componimento in cui compare il verso Ma ti, vecio parlar, resisti. Li sovrappongo, i lavori che compongono la psuedotrilogia, che poi si è costituita come trilogia. Nel Galateo in bosco, con questa particolare propensione, vedo sempre in filigrana quei testi lievissimi che sono in Filò: sono quelli che incantano e anche commuovono di più, perché ci sono delle scommesse con quel nodo radicale della lingua e lì si vede secondo me la grandezza della sua poesia. Il galateo in bosco è stato scritto dal ’76 al ’78, nel giro di quei tre anni. Poi ha dato anche luogo all’idea di una trilogia, che si riferiva al territorio in cui vivo. E quindi, il sud col Montello e le guerre, il nord con Fosfeni, i monti che vanno sempre più in alto, e Idioma, il paese, dove si sta, con il dialetto anche fortemente rappresentato. Ecco, questo è il disegno che è venuto fuori da sé. In un primo tempo ho parlato di pseudo-trilogia, ma di fatto si è rivelata una trilogia, nel senso che i vari pezzi stanno accostati bene... bene?, non posso dirlo io...

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Hapax legomenon

6.3

Zanzotto

Il 7 ottobre del 2006 alla Scuola grande di San Rocco, a Venezia, all’interno della rassegna “Fare pace” accade lo spettacolo Variazioni babeliche, a cura di Luca Sossella. Roberto Herlitzka legge testi di Gabriele d’Annunzio, Alessanrdo Haber legge testi di Giovanni Papini, Roberto Roversi, Giorgio Caproni, Franco Fortini e Primo Levi; Franco Buffoni, Jolanda Insana e Gabriele Frasca leggono testi propri e di Vittorio Sereni, Giovanni Raboni, Amelia Rosselli. In quell’occasione Luca Sossella incontra a Pieve di Soligo Andrea Zanzotto. Raccoglie la sua voce, per poi diffonderla a Venezia nello spazio pieno di risonanze della Scuola di San Rocco, all’inizio di Variazioni babeliche. Questa che segue è la trascrizione di quel dialogo. Sul sito lucasossellaeditore.it è possibile ascoltare l’audio con le voci di Zanzotto e di Giuseppe Ungaretti: voci circondate da un alone magnetico, che emergono dal fondo magmatico di una coscienza sovrapersonale. Voci che provengono dal gnessulògo dell’inconscio.

Filò uscì nelle edizioni del Ruzzante nel 1976, giusto trent’anni fa. Oggi siamo a Pieve di Soligo, ma siamo anche a Venezia, cioè siamo in nessunlogo (gnessulógo): sì perché siamo a Venezia, in ascolto, nella Scuola di San Rocco. Bene, Venezia non può che evocare in me il ricordo dell’emersione di quella misteriosissima testa di donna: quell’enorme polena che emerge, mostrando solo gli occhi, dal Canal Grande, all’inizio del Casanova di Federico Fellini, per cui lei scrisse alcuni testi in vecio parlar, in dialetto, poi raccolti in Filò. Bene, quella testa che riemerge, io l’ho sempre vista come la rappresentazione di una forza sciamanica, che abita dentro il mare-mostro del quotidiano, nascosta: ed è lo sguardo fisso del poeta, quella polena che mostra gli occhi, il poeta che cerca di sciogliere il nodo radicale e indistricabile, inscioglibile, delle profonde matrici della lingua, connesse con la stessa Terra Madre. In Un’altra poesia dei doni, Borges formula diversi ringraziamenti: per il linguaggio che possiamo dare alla sapienza, per l’oblio che annulla o modifica i passati. A un certo punto, formula il ringraziamento più particolare: al mattino, che ci procura l’illusione di un principio. Lei, parafrasando Al di là del principio di piacere di Freud, una volta ha raccontato della possibilità di instaurare un piacere del principio. Io interpreto tutta la sua poesia attraverso questa volontà di rinnovamento e di trasformazione. Per me, effettivamente, c’è sempre stata una continuità, ma con delle cesure, che poi si rivelavano connesse, tra un libro e l’altro. Anche per esempio in un libro come Pasque, che segna proprio un passaggio molto netto, in realtà sono tutte riprese, ma non così evidenti, di temi che avevo già trattati. Perché, in fin dei conti, io, adesso che sono ormai fuori gioco, penso che ho fatto anche male a rimaner sempre qui. Non è che non mi sia mosso, ho girato per l’Europa abbastanza, anche come emigrante, tra l’altro, in Svizzera. Ma direi che questo distretto, che comprende la zona del Montello, va verso Asolo, verso nord magari fino in Cadore, e a oriente verso il Friuli, per me è l’unico posto dove riesco a mettere a fuoco le cose. Come questa pietra del San Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata Come questa pietra è il mio pianto che non si vede La morte si sconta vivendo

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Ungaretti aveva intravisto benissimo che quel paesaggio, anche fin dai primi momenti, che erano quelli che io descrivevo, aveva dentro delle venature terribili. Un’arcadia in cui c’è il teschio, tema che in fondo ho sviluppato nel Galateo in bosco, in cui la guerra ha tanta parte. Se penso a una poesia che sia una poesia totale, e che dice tutto anche di me, del me di adesso, devo scegliere San Martino del Carso. Io ho insegnato alle medie, al liceo e ho avuto tanti rapporti anche con l’università, ma sempre l’idea di portare un esempio di poesia assolutamente riuscita, necessaria in ogni sua sillaba, in ogni suo suono, mi conduceva proprio a San Martino del Carso. Ungaretti dava veramente l’impressione di un contatto profondissimo con un’innocenza originaria dell’essere. Anche se, leopardianamente, l’essere appare terribilmente misto fin dall’origine di orrori e di esaltazioni, esiste un tramite nascosto, più o meno nascosto, segreto, l’incanto di poter rigenerare nel momento inevitabile delle crisi che

capitano alle persone, che possono essere tutte riportabili all’idea di un mancamento, come un terreno che manca sotto i piedi. Si regredisce fino, appunto, a quella solidità strana che ha il fascino dell’infanzia. Possiamo benissimo parafrasare, in un certo senso, il tema del principio del piacere con quello del piacere del principio. Cioè di questo perenne riominciare dopo ogni batosta. Però, devo dire, a esser sincero, che ci credo sempre meno. Perché tutti gli spifferi sinistri che confondono la realtà attuale ci portano piuttosto a pensieri che deprimono sempre più, a ondate, in un quadro terribile, di distruzione del vecchio tessuto umano. Queste fibre non sono più tali da poter essere tanto docili. Una dissonanza sempre più scriteriata appare anche là dove dovrebbe farsi sentire di più, invece, questo gusto del rivelare e del creare cose nuove, che può coprire tutto l’arco del sapere umano e della creatività umana.

San Martino del Carso Valloncello dell’albero isolato 27 agosto 1916 Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato

Può esprimere anche la tristezza della vecchiaia questa poesia, pur essendo così legata al tema della guerra. Perché la vita è una guerra. Oggi poi che si sta distruggendo il paesaggio, si può ben dire: di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro. Di questo paesaggio non è rimasto che qualche brandello, perché hanno fatto di tutto per distruggerlo. Non parliamo poi del fatto che di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto. Ricordiamo si sta come sui rami degli alberi le foglie [sic]: a una certa età purtroppo gli amici vengono a mancare. Si raccoglie, nella parte finale, questa idea di memoria salvatrice: nel cuore / nessuna croce manca. Ma è una salvezza che costa, è una croce: il mio cuore è il paese più straziato, è la conseguenza di tutto quanto. Io la trovo straordinariamente viva, una tra le più belle poesie che siano mai state scritte. Abbiamo ascoltato Ungaretti leggere Sono una creatura. Una ferita immedicabile del tessuto umano è quella che ci mostra poi Zanzotto leggendo San Martino del Carso: le due poesie sono state scritte a Valloncello dell’albero isolato, il 5 e il 27 agosto del 1916, da Giuseppe Ungaretti. E sono i testi sempre presenti nel libro, per me più significativo, più importante, di Zanzotto, che è il Galateo in bosco. Il bosco è il Montello, dove i corpi di decine di migliaia di morti rappresentano, come lui scrisse, “la tragedia che è rimasta nella terra e nella gente.” Mi pare che ci sia poi una sorta di sovrapposizione...

Per un certo periodo, mentre lavoravo a Filò, soprattutto all’appendice in prosa di Filò, sulle teorie del dialetto, dell’evoluzione delle lingue, un’appendice abbastanza consistente del libro, intanto nelle mie passeggiate avevo già accentuato i giri nel Montello, perché da sempre, da quando ero bambino, ne sentivo parlare. Qua c’erano parecchi mutilati di guerra, anche tra i bambini, perché fino al ’25-’26 chi si inoltrava nel greto del Piave, poteva incappare in proiettili inesplosi. Qua siamo proprio a ridosso del fronte. L’idea del confronto tra galateo e bosco è venuta anche dal fatto che per un certo periodo ho ripreso in mano lì la casa e anche là è un galateo di pazzie o stupidaggini dell’uomo, elencate. C’è un altro testo che io ritengo proprio fondamentale, almeno nella mia esperienza di lettore, di suo lettore, che è Filò, soprattutto il componimento in cui compare il verso Ma ti, vecio parlar, resisti. Li sovrappongo, i lavori che compongono la psuedotrilogia, che poi si è costituita come trilogia. Nel Galateo in bosco, con questa particolare propensione, vedo sempre in filigrana quei testi lievissimi che sono in Filò: sono quelli che incantano e anche commuovono di più, perché ci sono delle scommesse con quel nodo radicale della lingua e lì si vede secondo me la grandezza della sua poesia. Il galateo in bosco è stato scritto dal ’76 al ’78, nel giro di quei tre anni. Poi ha dato anche luogo all’idea di una trilogia, che si riferiva al territorio in cui vivo. E quindi, il sud col Montello e le guerre, il nord con Fosfeni, i monti che vanno sempre più in alto, e Idioma, il paese, dove si sta, con il dialetto anche fortemente rappresentato. Ecco, questo è il disegno che è venuto fuori da sé. In un primo tempo ho parlato di pseudo-trilogia, ma di fatto si è rivelata una trilogia, nel senso che i vari pezzi stanno accostati bene... bene?, non posso dirlo io...

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arte poetica

Hapax legomenon

2005 Parola plurale: sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, a cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublena.

6.4

luca sossella editore

parole plurielle

plurala vorto

gair lluosog

Parola plurale Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli

parola plurale

meervoudig woord

a cura di Giancarlo Alfano • Alessandro Baldacci • Cecilia Bello Minciacchi • Andrea Cortellessa • Massimiliano Manganelli • Raffaella Scarpa • Fabio Zinelli • Paolo Zublena

mnozˇina

verbum plurale

plural word

palabra plural

mitmuslik sõna

paròlî plurèlî

woëd èn ‘t meervoud

Wort Plural

paraula plural

parola pluàle

palavra plural

ISBN 88-87995-91-5

20,00 euro

9 788887 995916

testi di Cesare Viviani • Giuseppe Conte • Maurizio Cucchi • Michelangelo Coviello • Vittorio Reta • Patrizia Cavalli • Milo De Angelis • Biancamaria Frabotta • Michele Sovente • Paolo Prestigiacomo • Vivian Lamarque • Gianni D’Elia • Valerio Magrelli • Patrizia Valduga • Tommaso Ottonieri • Gabriele Frasca • Francesco Scarabicchi • Ferruccio Benzoni • Mario Benedetti • Beppe Salvia • Claudio Damiani • Dario Villa • Remo Pagnanelli • Riccardo Held • Fabio Pusterla • Umberto Fiori • Eugenio De Signoribus • Franco Buffoni • Enrico Testa • Pietro Tripodo • Alessandro Fo • Giuliano Mesa • Marcello Frixione • Lorenzo Durante • Lello Voce • Mariano Bàino • Paolo Gentiluomo • Marco Berisso • Rosa Pierno • Antonio Maria Pinto • Aldo Nove • Rosaria Lo Russo • Franca Grisoni • Emilio Rentocchini • Luciano Cecchinel • Nino De Vita • Giovanni Nadiani • Gian Mario Villalta • Stefano Dal Bianco • Antonella Anedda • Paolo Febbraro • Giacomo Trinci • Vito M. Bonito • Edoardo Zuccato • Nicola Gardini • Andrea Inglese • Fabrizio Lombardo • Elisa Biagini • Giovanna Frene • Paolo Maccari • Florinda Fusco • Flavio Santi • Marco Giovenale • Massimo Sannelli

daudzskaitlis

flertalsord

ger liester

meervoud

kata jamak

lamaluvksanj val

fjalë në shumës

La poesia non serve a niente. Nel frastuono dei media, non solo nessuno la ascolta: nessuno, neanche chi lo vorrebbe, riesce a sentirla. Il pubblico della poesia, è un’intuizione ormai classica, sono i poeti stessi, che scrivono senza leggersi: letteralmente. La Forma si è disgregata. L’alluvione ha sommerso e ha disperso la tradizione. Ha travolto ogni segno riconoscibile della specificità poetica. La critica è disarmata: non esiste il soggetto che possa dominare, discernere, giudicare la marea di parole allineate sul margine sinistro del foglio. Ecco perché è necessario continuare a leggere la poesia, continuare a criticarla. Sforzarsi ancora di comprenderla.

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hitz anitz

La risposta agli apocalittici è un cambio totale di prospettiva. La molteplicità non è più la vertigine che paralizza. È il presupposto dal quale ricominciare. Lo sguardo non è più aereo, è rasoterra: non localizza punti nello spazio, li incontra. Nel tempo, percorre un periodo coestensivo al presente. Collega i fatti che non soltanto sono il presente, ma lo producono. Facendo un’antologia, non si progetta un’ennesima mappa dall’alto, non si opera più sulla base di astrazioni, di modelli cartografici desunti da quelli passati (“generazioni”, “gruppi”, “linee”...); ma lo si percorre in lungo e in largo – questo territorio. Empiricamente – al tracciare lo spazio nell’attraversarlo – nascono opzioni di senso, possibilità di orientamento.

Parola plurale è un’antologia collegiale: non ha coordinatori né collaboratori. La sua immagine-guida non è dunque la bottega, bensì (semmai) l’officina. Un’officina non duramente tayloristica, ma frequentata da operatori autonomi e autosufficienti, all’interno di un organismo che non risulta semplicemente dalla loro somma. I curatori si sono divisi la responsabilità della scelta dei testi e dell’introduzione critica dei sessantaquattro autori antologizzati: ogni inclusione (e di conseguenza ogni esclusione) è stata decisa collegialmente, sulla base della lettura incrociata dei testi proposti, e di una loro discussione articolata e puntuale. Parola plurale è un’antologia che rifiuta di farsi museo, ma che vuole evitare anche l’univocità del manifesto: vuole somigliare a un’assemblea, che convoca intorno a un problema (il problema) una comunità ermeneutica.

2007 Gian Mario Villalta, Vedere al buio Sono venuto qui a guardare gli alberi anche se è buio. Vedo come li incurva la terra e posso raggiungerla dove l’erba falciata sbianca. Sono i miei pensieri più antichi i rami nel buio, la terra guardata.

2007 Michel Deguy, Arresti frequenti. Poesie scelte 1965-2006, traduzione di Mario Benedetti, con un saggio di Martin Rueff. Ancora un istante Signor lettore Il tempo di una parola nuda Tra due girate

2007 Gabriele Frasca, Prime. Poesie scelte 1977-2007 se sporgi un po’ l’eurecchio ad origliare quanto trama oriente in frantumi di specchio t’accorgi che tramonta l’occhidente

2008 Roberto Roversi, Tre poesie e alcune prose. Testi 1959-2004, a cura di Marco Giovenale, con una nota di Fabio Moliterni. adesso che questa città è spampanata e sembra una quercia in novembre e nessuna voce nessuna voce nessuna voce si alza s’alza più s’alza ancora a dire che oggi è ancora ieri.

2008 Jorie Graham, L’angelo custode della piccola utopia. Poesie scelte 1983-2005, a cura di Antonella Francini, con la collaborazione di Jorie Graham. Proprio un ragazzo come te m’ha portato a vederli, i cinquecento B-52 pronti al decollo, ben carichi ben equipaggiati puntati in ogni direzione, motore acceso ogni minuto d’ogni giorno. Risuonano come una malattia dentro l’orecchio dove l’udito trabocca nel rumore dell’ascolto, dove l’ascolto arriva senza essere estinto.

2007 Gregorio Scalise, Opera-opera. Poesie scelte 1968-2007

6.5

Il poeta scrive col viso rivolto a una contraddizione iniziale: niente è più velenoso dello scorrere del pensiero si scrivono poesie ascoltando il riflusso del respiro della pioggia.

2008 John Ashbery, Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, a cura di Damiano Abeni e Joseph Harrison; traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan. Basta così con l’autoanalisi. E adesso, su cosa mettere nella tua poesia-quadro: i fiori sono sempre belli, specie i delphinium. I nomi di bambini conosciuti un tempo e le loro slitte, i razzetti vanno bene – esistono ancora?

2008 Andrea Inglese, La distrazione Questi asfalti sono più puri e levigati degli strapiombi di grattacielo, hanno più storia dei nostri archivi familiari, e sono più misteriosi e fondi degli abitacoli delle auto in sosta quando un passante per caso li scruta.

2008 Geoffrey Hill, Per chi non è caduto. Poesie scelte 1959-2006, cura e traduzione di Marco Fazzini.

2009 Massimo Gezzi, L’attimo dopo 2004-2009 Più di rado si rinvengono coriandoli di carta, a volte di giornali pornografici, altre di firme e scritture impronunciabili, salvate dalle bave o rifilati da chissà che mandibola paziente.

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arte poetica

Hapax legomenon

2005 Parola plurale: sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, a cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublena.

6.4

luca sossella editore

parole plurielle

plurala vorto

gair lluosog

Parola plurale Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli

parola plurale

meervoudig woord

a cura di Giancarlo Alfano • Alessandro Baldacci • Cecilia Bello Minciacchi • Andrea Cortellessa • Massimiliano Manganelli • Raffaella Scarpa • Fabio Zinelli • Paolo Zublena

mnozˇina

verbum plurale

plural word

palabra plural

mitmuslik sõna

paròlî plurèlî

woëd èn ‘t meervoud

Wort Plural

paraula plural

parola pluàle

palavra plural

ISBN 88-87995-91-5

20,00 euro

9 788887 995916

testi di Cesare Viviani • Giuseppe Conte • Maurizio Cucchi • Michelangelo Coviello • Vittorio Reta • Patrizia Cavalli • Milo De Angelis • Biancamaria Frabotta • Michele Sovente • Paolo Prestigiacomo • Vivian Lamarque • Gianni D’Elia • Valerio Magrelli • Patrizia Valduga • Tommaso Ottonieri • Gabriele Frasca • Francesco Scarabicchi • Ferruccio Benzoni • Mario Benedetti • Beppe Salvia • Claudio Damiani • Dario Villa • Remo Pagnanelli • Riccardo Held • Fabio Pusterla • Umberto Fiori • Eugenio De Signoribus • Franco Buffoni • Enrico Testa • Pietro Tripodo • Alessandro Fo • Giuliano Mesa • Marcello Frixione • Lorenzo Durante • Lello Voce • Mariano Bàino • Paolo Gentiluomo • Marco Berisso • Rosa Pierno • Antonio Maria Pinto • Aldo Nove • Rosaria Lo Russo • Franca Grisoni • Emilio Rentocchini • Luciano Cecchinel • Nino De Vita • Giovanni Nadiani • Gian Mario Villalta • Stefano Dal Bianco • Antonella Anedda • Paolo Febbraro • Giacomo Trinci • Vito M. Bonito • Edoardo Zuccato • Nicola Gardini • Andrea Inglese • Fabrizio Lombardo • Elisa Biagini • Giovanna Frene • Paolo Maccari • Florinda Fusco • Flavio Santi • Marco Giovenale • Massimo Sannelli

daudzskaitlis

flertalsord

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kata jamak

lamaluvksanj val

fjalë në shumës

La poesia non serve a niente. Nel frastuono dei media, non solo nessuno la ascolta: nessuno, neanche chi lo vorrebbe, riesce a sentirla. Il pubblico della poesia, è un’intuizione ormai classica, sono i poeti stessi, che scrivono senza leggersi: letteralmente. La Forma si è disgregata. L’alluvione ha sommerso e ha disperso la tradizione. Ha travolto ogni segno riconoscibile della specificità poetica. La critica è disarmata: non esiste il soggetto che possa dominare, discernere, giudicare la marea di parole allineate sul margine sinistro del foglio. Ecco perché è necessario continuare a leggere la poesia, continuare a criticarla. Sforzarsi ancora di comprenderla.

92

hitz anitz

La risposta agli apocalittici è un cambio totale di prospettiva. La molteplicità non è più la vertigine che paralizza. È il presupposto dal quale ricominciare. Lo sguardo non è più aereo, è rasoterra: non localizza punti nello spazio, li incontra. Nel tempo, percorre un periodo coestensivo al presente. Collega i fatti che non soltanto sono il presente, ma lo producono. Facendo un’antologia, non si progetta un’ennesima mappa dall’alto, non si opera più sulla base di astrazioni, di modelli cartografici desunti da quelli passati (“generazioni”, “gruppi”, “linee”...); ma lo si percorre in lungo e in largo – questo territorio. Empiricamente – al tracciare lo spazio nell’attraversarlo – nascono opzioni di senso, possibilità di orientamento.

Parola plurale è un’antologia collegiale: non ha coordinatori né collaboratori. La sua immagine-guida non è dunque la bottega, bensì (semmai) l’officina. Un’officina non duramente tayloristica, ma frequentata da operatori autonomi e autosufficienti, all’interno di un organismo che non risulta semplicemente dalla loro somma. I curatori si sono divisi la responsabilità della scelta dei testi e dell’introduzione critica dei sessantaquattro autori antologizzati: ogni inclusione (e di conseguenza ogni esclusione) è stata decisa collegialmente, sulla base della lettura incrociata dei testi proposti, e di una loro discussione articolata e puntuale. Parola plurale è un’antologia che rifiuta di farsi museo, ma che vuole evitare anche l’univocità del manifesto: vuole somigliare a un’assemblea, che convoca intorno a un problema (il problema) una comunità ermeneutica.

2007 Gian Mario Villalta, Vedere al buio Sono venuto qui a guardare gli alberi anche se è buio. Vedo come li incurva la terra e posso raggiungerla dove l’erba falciata sbianca. Sono i miei pensieri più antichi i rami nel buio, la terra guardata.

2007 Michel Deguy, Arresti frequenti. Poesie scelte 1965-2006, traduzione di Mario Benedetti, con un saggio di Martin Rueff. Ancora un istante Signor lettore Il tempo di una parola nuda Tra due girate

2007 Gabriele Frasca, Prime. Poesie scelte 1977-2007 se sporgi un po’ l’eurecchio ad origliare quanto trama oriente in frantumi di specchio t’accorgi che tramonta l’occhidente

2008 Roberto Roversi, Tre poesie e alcune prose. Testi 1959-2004, a cura di Marco Giovenale, con una nota di Fabio Moliterni. adesso che questa città è spampanata e sembra una quercia in novembre e nessuna voce nessuna voce nessuna voce si alza s’alza più s’alza ancora a dire che oggi è ancora ieri.

2008 Jorie Graham, L’angelo custode della piccola utopia. Poesie scelte 1983-2005, a cura di Antonella Francini, con la collaborazione di Jorie Graham. Proprio un ragazzo come te m’ha portato a vederli, i cinquecento B-52 pronti al decollo, ben carichi ben equipaggiati puntati in ogni direzione, motore acceso ogni minuto d’ogni giorno. Risuonano come una malattia dentro l’orecchio dove l’udito trabocca nel rumore dell’ascolto, dove l’ascolto arriva senza essere estinto.

2007 Gregorio Scalise, Opera-opera. Poesie scelte 1968-2007

6.5

Il poeta scrive col viso rivolto a una contraddizione iniziale: niente è più velenoso dello scorrere del pensiero si scrivono poesie ascoltando il riflusso del respiro della pioggia.

2008 John Ashbery, Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, a cura di Damiano Abeni e Joseph Harrison; traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan. Basta così con l’autoanalisi. E adesso, su cosa mettere nella tua poesia-quadro: i fiori sono sempre belli, specie i delphinium. I nomi di bambini conosciuti un tempo e le loro slitte, i razzetti vanno bene – esistono ancora?

2008 Andrea Inglese, La distrazione Questi asfalti sono più puri e levigati degli strapiombi di grattacielo, hanno più storia dei nostri archivi familiari, e sono più misteriosi e fondi degli abitacoli delle auto in sosta quando un passante per caso li scruta.

2008 Geoffrey Hill, Per chi non è caduto. Poesie scelte 1959-2006, cura e traduzione di Marco Fazzini.

2009 Massimo Gezzi, L’attimo dopo 2004-2009 Più di rado si rinvengono coriandoli di carta, a volte di giornali pornografici, altre di firme e scritture impronunciabili, salvate dalle bave o rifilati da chissà che mandibola paziente.

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Muybridge’s Jumping over a boy’s back

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Hapax legomenon

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Arte poetica è una collana nata per strappare la poesia al dilettantismo e alla clandestinità. Una collana di poesia nata proprio perché la poesia non ha lettori. Il lettore ideale è quello che non esiste: che non esiste ancora. Va inventato insieme al libro: come e più del libro. Arte poetica ha immaginato un nuovo sguardo per la poesia a partire dalle soglie. L’immagine estesa della copertina spalanca il libro, lo rovescia, lo mette di traverso. Critica la prevedibilità del formato. Scardina la visione frontale e inventa una nuova visione. La forma del libro si dilata. Dentro, i versi fanno lo stesso con il linguaggio: lo spalancano, lo rovesciano, lo criticano. Forzano la convenzionalità del pensiero inventando nuove relazioni tra le cose: nuove visioni. Lavorano per smentire l’inesorabilità dell’esistente. Scoprono nessi che possano rappresentare un’alternativa al reale. Arte poetica ha scelto i testi da pubblicare con severità e rigore. Ha proposto dieci volumi in due anni: sei opere di poeti italiani e quattro di poeti stranieri. Tutte le uscite sono state pensate sulla base di un lavoro collettivo di critici e poeti coordinati da Alberto Casadei e Guido Mazzoni. Fra i poeti italiani la collana ha privilegiato (con ragionate eccezioni) gli autori che attendevano una consacrazione definitiva. Quanto ai poeti stranieri, arte poetica ha presentato al pubblico italiano autori che, nei loro paesi, sono considerati dei maestri. Negli ultimi decenni gli editori italiani hanno tradotto pochissima poesia; alcuni autori ormai celebri, che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti e sono da anni candidati al Nobel, erano quasi del tutto sconosciuti in Italia. Arte poetica ha proposto antologie dei loro testi migliori. Le traduzioni, con testo a fronte, sono state precedute da brevi saggi introduttivi. Oltre a lavorare sulla costruzione del catalogo, si è tentato di distribuire la collana affinché fosse visibile nelle migliori librerie. Nulla come la circolazione semiclandestina dei libri allontana i lettori dalla poesia. Chi entra in libreria deve sentire che la poesia non è un genere residuale o minore, ma una forma d’arte in cui l’editore crede. Ora la collana arte poetica doveva necessariamente trasformarsi: dieci titoli sono già una piccola storia, da raccontare e da interpretare. Nella comprensione di questa storia cerchiamo le energie per il prossimo progetto. In questo momento in cui un’epoca si sta chiudendo, c’è bisogno di uno scatto evolutivo, a cominciare dalle forme e dai metodi. Abbiamo provato a cambiare le letture, e forse anche la scrittura, del pubblico della poesia. Ma c’è bisogno di cambiare gli strumenti di comunicazione, e quindi il pubblico, della poesia: allargare, oltre il supporto cartaceo, la diffusione della poesia. Il futuro ha bisogno di noi, anche se il presente non sa che farsene. Nei momenti come questo, di profonda incertezza, bisogna trarre la forza non già dal passato (rifugio debole) ma dall’avvenire che ha in custodia i nostri desideri (e progetti). Anche se non vi saranno che epoche della crisi dobbiamo agire come se seguirà a questa epoca della crisi un’epoca “organica”. La crisi, etimologicamente, separa, e decide: noi vogliamo attraversare la seprazione e affrontare la decisione. Bisogna selezionare le energie più vive, gli individui più preparati, le idee più innovative. Non c’è spazio per le volontà incomplete: depongano pure l’arco, come suggeriva Nietzsche, quelli che non sono sicuri di fare centro. C’è bisogno di un censimento critico costante, severo, da pubblicizzare e condividere. Gli eventi e gli spazi legati alla poesia devono diventare centri in cui la parola poetica si fa allo stesso tempo ambiente e azione, tornando ad accompagnarsi e a legarsi al gesto e alla voce, suoi compagni di culla. Serve una “cosa” che possa riaprire i discorsi e gli spazi. Una cosa che non ha ancora un nome. Nel 1832, di fronte all’ipotesi di fondare una rivista, Leopardi descrive la fatica della nominazione del nuovo: “è molto difficile a definire che cosa debba essere il loro Giornale. Essi medesimi non lo sanno: cioè, diciamo meglio, ne hanno un certo concetto così nella mente, ma quando si viene a volerlo determinare per esprimerlo con parole, nasce una gran confusione. Non si trova altro che idee negative: Giornale non letterario, non filosofico, non politico, non istorico, non di mode, non d’arti e mestieri, non d’invenzioni e scoperte, e via discorrendo.

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Ma un’idea positiva, e una parola che dica tutto, non viene.” Non è più tempo però di nominare per via negativa. La parola con cui vogliamo dire questo salto in avanti, la parola attraverso la quale vogliamo affermare, e gettare noi stessi oltre l’ostacolo, l’abbiamo scelta. La parola, ovvero la cosa, è canGura, marsupio di parole, suoni e segni. Un periodico quadrimestrale orale, a cura di Gabriele Frasca, Luca Sossella e Lello Voce, che utilizzerà la poesia, la sua essenza performativa, la sua complicità con la musica e con le arti figurative, la sua funzione critica, come punto di osservazione e di azione sul reale. Per andare non solo oltre il libro, ma anche oltre la “rivista”. Semmai, sarà una “ascoltata”, che, invece di ripetere la visione, indichi le cose da vedere ancora (e da ascoltare, e da ri-ascoltare). Oltre l’autorialità: un progetto per chi si è liberato dell’“io”, malattia novecentesca, e ha deciso di doppiarlo con un “tu” che muta l’identità in differenza. Un appuntamento, un incontro che corre, ogni quadrimestre, là dove ci sono emergenze e urgenze. Un gesto, che si fa, e un evento, perché avviene. Un memorandum in un paese di smemorati. Un veicolo d’espressione orale, un appuntamento del pensiero, contro i mediatori (parassiti) della comunicazione. Diceva Karl Kraus in quella bibbia di cinica sapienza che è Detti e contraddetti: “Lo scienziato non porta niente di nuovo. Inventa soltanto ciò che serve. L’artista scopre ciò che non serve. Porta il nuovo.” Nominare quello che non ha ancora un nome è un atto poetico. Quindi un atto senza scopo. Come per il giornale presentato da Leopardi: “Noi non miriamo né all’aumento dell’industria, né al miglioramento degli ordini sociali, né al perfezionamento dell’uomo (...) Confessiamo schiettamente che il nostro Giornale non avrà nessuna utilità. E crediamo ragionevole che in un secolo in cui tutti i libri, tutti i pezzi di carta, tutti i fogliolini di visita sono utili, venga fuori finalmente un Giornale che faccia professione d’essere inutile.” CanGura vuole essere un prodotto editoriale innovativo (per formato e riflessione e contributi) rispetto al panorama editoriale italiano. Una entità in divenire, che si aggiorna costantemente, ma con un’attenzione suprema al disegno grafico e tipografico, un laboratorio. Una ricerca, pesante e lievissima, come ci ha insegnato il senso di un’eredità consapevole. CanGura vuole agire come una sonda nel pianeta, nonostante sia sintonizzata sul lettorato italiano. Sarà un’accoglienza di testimonianze: “un crocevia di cammini”. Per chi è ancora in cerca di stili e di scelte non vincolanti. CanGura sarà una pubblicazione di trentasei pagine rilegate a punto metallico, che funzioneranno come un indice esteso, come una struttura e una configurazione. E come un marsupio, nel quale sarà “cangurato” un cd audio che permetterà alle voci di passare attraverso. Ma il vero nucleo di canGura sarà in rete: un sito verso il quale le appendici materiali convergeranno, uno spazio del quale la carta e la plastica sono solo una sineddoche, un segnale. Le parole di carta, oggi, non possono che essere una provocazione e una seduzione, un’istigazione a saltare oltre. CanGura dovrà essere un luogo in cui non si è mai stati: un movimento costante, la descrizione continua di un passaggio. Un contenitore per oggetti anomali, una piazza che favorisca gli incontri, uno snodo. CanGura non vuole essere pesante, solida, ma fluida. Un marsupio con le orecchie, capace di spiccare salti imprevedibili. CanGura vuole essere un link multiplo, che somiglia a un’eco: uno spazio mutante, un rizoma che esplode orizzontalmente. Un ambiente, ispirato a un criterio ecologico, dove valgono i principi della decrescita e si esorcizza l’ombra distruttiva del mercantilismo. CanGura è un’offerta, un dono, e insieme una convocazione. È il luogo in cui comunicazione e comunità riscoprono la loro etimologia condivisa: communis.

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Muybridge’s Jumping over a boy’s back

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Arte poetica è una collana nata per strappare la poesia al dilettantismo e alla clandestinità. Una collana di poesia nata proprio perché la poesia non ha lettori. Il lettore ideale è quello che non esiste: che non esiste ancora. Va inventato insieme al libro: come e più del libro. Arte poetica ha immaginato un nuovo sguardo per la poesia a partire dalle soglie. L’immagine estesa della copertina spalanca il libro, lo rovescia, lo mette di traverso. Critica la prevedibilità del formato. Scardina la visione frontale e inventa una nuova visione. La forma del libro si dilata. Dentro, i versi fanno lo stesso con il linguaggio: lo spalancano, lo rovesciano, lo criticano. Forzano la convenzionalità del pensiero inventando nuove relazioni tra le cose: nuove visioni. Lavorano per smentire l’inesorabilità dell’esistente. Scoprono nessi che possano rappresentare un’alternativa al reale. Arte poetica ha scelto i testi da pubblicare con severità e rigore. Ha proposto dieci volumi in due anni: sei opere di poeti italiani e quattro di poeti stranieri. Tutte le uscite sono state pensate sulla base di un lavoro collettivo di critici e poeti coordinati da Alberto Casadei e Guido Mazzoni. Fra i poeti italiani la collana ha privilegiato (con ragionate eccezioni) gli autori che attendevano una consacrazione definitiva. Quanto ai poeti stranieri, arte poetica ha presentato al pubblico italiano autori che, nei loro paesi, sono considerati dei maestri. Negli ultimi decenni gli editori italiani hanno tradotto pochissima poesia; alcuni autori ormai celebri, che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti e sono da anni candidati al Nobel, erano quasi del tutto sconosciuti in Italia. Arte poetica ha proposto antologie dei loro testi migliori. Le traduzioni, con testo a fronte, sono state precedute da brevi saggi introduttivi. Oltre a lavorare sulla costruzione del catalogo, si è tentato di distribuire la collana affinché fosse visibile nelle migliori librerie. Nulla come la circolazione semiclandestina dei libri allontana i lettori dalla poesia. Chi entra in libreria deve sentire che la poesia non è un genere residuale o minore, ma una forma d’arte in cui l’editore crede. Ora la collana arte poetica doveva necessariamente trasformarsi: dieci titoli sono già una piccola storia, da raccontare e da interpretare. Nella comprensione di questa storia cerchiamo le energie per il prossimo progetto. In questo momento in cui un’epoca si sta chiudendo, c’è bisogno di uno scatto evolutivo, a cominciare dalle forme e dai metodi. Abbiamo provato a cambiare le letture, e forse anche la scrittura, del pubblico della poesia. Ma c’è bisogno di cambiare gli strumenti di comunicazione, e quindi il pubblico, della poesia: allargare, oltre il supporto cartaceo, la diffusione della poesia. Il futuro ha bisogno di noi, anche se il presente non sa che farsene. Nei momenti come questo, di profonda incertezza, bisogna trarre la forza non già dal passato (rifugio debole) ma dall’avvenire che ha in custodia i nostri desideri (e progetti). Anche se non vi saranno che epoche della crisi dobbiamo agire come se seguirà a questa epoca della crisi un’epoca “organica”. La crisi, etimologicamente, separa, e decide: noi vogliamo attraversare la seprazione e affrontare la decisione. Bisogna selezionare le energie più vive, gli individui più preparati, le idee più innovative. Non c’è spazio per le volontà incomplete: depongano pure l’arco, come suggeriva Nietzsche, quelli che non sono sicuri di fare centro. C’è bisogno di un censimento critico costante, severo, da pubblicizzare e condividere. Gli eventi e gli spazi legati alla poesia devono diventare centri in cui la parola poetica si fa allo stesso tempo ambiente e azione, tornando ad accompagnarsi e a legarsi al gesto e alla voce, suoi compagni di culla. Serve una “cosa” che possa riaprire i discorsi e gli spazi. Una cosa che non ha ancora un nome. Nel 1832, di fronte all’ipotesi di fondare una rivista, Leopardi descrive la fatica della nominazione del nuovo: “è molto difficile a definire che cosa debba essere il loro Giornale. Essi medesimi non lo sanno: cioè, diciamo meglio, ne hanno un certo concetto così nella mente, ma quando si viene a volerlo determinare per esprimerlo con parole, nasce una gran confusione. Non si trova altro che idee negative: Giornale non letterario, non filosofico, non politico, non istorico, non di mode, non d’arti e mestieri, non d’invenzioni e scoperte, e via discorrendo.

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Ma un’idea positiva, e una parola che dica tutto, non viene.” Non è più tempo però di nominare per via negativa. La parola con cui vogliamo dire questo salto in avanti, la parola attraverso la quale vogliamo affermare, e gettare noi stessi oltre l’ostacolo, l’abbiamo scelta. La parola, ovvero la cosa, è canGura, marsupio di parole, suoni e segni. Un periodico quadrimestrale orale, a cura di Gabriele Frasca, Luca Sossella e Lello Voce, che utilizzerà la poesia, la sua essenza performativa, la sua complicità con la musica e con le arti figurative, la sua funzione critica, come punto di osservazione e di azione sul reale. Per andare non solo oltre il libro, ma anche oltre la “rivista”. Semmai, sarà una “ascoltata”, che, invece di ripetere la visione, indichi le cose da vedere ancora (e da ascoltare, e da ri-ascoltare). Oltre l’autorialità: un progetto per chi si è liberato dell’“io”, malattia novecentesca, e ha deciso di doppiarlo con un “tu” che muta l’identità in differenza. Un appuntamento, un incontro che corre, ogni quadrimestre, là dove ci sono emergenze e urgenze. Un gesto, che si fa, e un evento, perché avviene. Un memorandum in un paese di smemorati. Un veicolo d’espressione orale, un appuntamento del pensiero, contro i mediatori (parassiti) della comunicazione. Diceva Karl Kraus in quella bibbia di cinica sapienza che è Detti e contraddetti: “Lo scienziato non porta niente di nuovo. Inventa soltanto ciò che serve. L’artista scopre ciò che non serve. Porta il nuovo.” Nominare quello che non ha ancora un nome è un atto poetico. Quindi un atto senza scopo. Come per il giornale presentato da Leopardi: “Noi non miriamo né all’aumento dell’industria, né al miglioramento degli ordini sociali, né al perfezionamento dell’uomo (...) Confessiamo schiettamente che il nostro Giornale non avrà nessuna utilità. E crediamo ragionevole che in un secolo in cui tutti i libri, tutti i pezzi di carta, tutti i fogliolini di visita sono utili, venga fuori finalmente un Giornale che faccia professione d’essere inutile.” CanGura vuole essere un prodotto editoriale innovativo (per formato e riflessione e contributi) rispetto al panorama editoriale italiano. Una entità in divenire, che si aggiorna costantemente, ma con un’attenzione suprema al disegno grafico e tipografico, un laboratorio. Una ricerca, pesante e lievissima, come ci ha insegnato il senso di un’eredità consapevole. CanGura vuole agire come una sonda nel pianeta, nonostante sia sintonizzata sul lettorato italiano. Sarà un’accoglienza di testimonianze: “un crocevia di cammini”. Per chi è ancora in cerca di stili e di scelte non vincolanti. CanGura sarà una pubblicazione di trentasei pagine rilegate a punto metallico, che funzioneranno come un indice esteso, come una struttura e una configurazione. E come un marsupio, nel quale sarà “cangurato” un cd audio che permetterà alle voci di passare attraverso. Ma il vero nucleo di canGura sarà in rete: un sito verso il quale le appendici materiali convergeranno, uno spazio del quale la carta e la plastica sono solo una sineddoche, un segnale. Le parole di carta, oggi, non possono che essere una provocazione e una seduzione, un’istigazione a saltare oltre. CanGura dovrà essere un luogo in cui non si è mai stati: un movimento costante, la descrizione continua di un passaggio. Un contenitore per oggetti anomali, una piazza che favorisca gli incontri, uno snodo. CanGura non vuole essere pesante, solida, ma fluida. Un marsupio con le orecchie, capace di spiccare salti imprevedibili. CanGura vuole essere un link multiplo, che somiglia a un’eco: uno spazio mutante, un rizoma che esplode orizzontalmente. Un ambiente, ispirato a un criterio ecologico, dove valgono i principi della decrescita e si esorcizza l’ombra distruttiva del mercantilismo. CanGura è un’offerta, un dono, e insieme una convocazione. È il luogo in cui comunicazione e comunità riscoprono la loro etimologia condivisa: communis.

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Hapax legomenon

Benvenuti in un mondo che non può essere migliore.

? Massimo Gezzi intervista ! John Ashbery1

L’antologia curata da Damiano Abeni e Joseph Harrison per luca sossella editore – la prima in assoluto, in Italia, a presentare testi scelti in collaborazione con lei – esce cinquanta anni dopo la prima apparizione di sue poesie in lingua straniera. Anche allora si trattava di un’antologia italiana, ovvero Poesia americana del dopoguerra, a cura di Alfredo Rizzardi. Cosa rappresenta per lei l’Italia e il pubblico italiano? Non saprei dire come le mie poesie siano andate a finire nell’antologia di Rizzardi, dato che a quell’epoca ero piuttosto sconosciuto persino in America. Negli anni Settanta il mio libro Autoritratto in uno specchio convesso attirò molta attenzione, vinse diversi premi letterari e fu tradotto in Italia da Aldo Busi. Speravo che la cosa fosse seguita dalle traduzioni delle mie poesie successive, ma fin qui non era mai successo, anche se un editore italiano aveva opzionato un’altra mia raccolta, rinnovando ripetutamente l’opzione ma senza pubblicare mai il libro. Come spiegare quello che l’Italia e i lettori italiani rappresentano per me? Sono tremendamente importanti, ovvio, come lo sarebbero per chiunque. Sono molto soddisfatto della generosa selezione del mio lavoro operata da Abeni e Egan. Il mio italiano va bene per leggere un giornale, non certo per giudicare la qualità della poesia. Ma dalle conversazioni con i traduttori e da altri commenti, credo che abbiano fatto un lavoro eccellente.

1

Testo già apparso in “Poesia”, 234, gennaio 2009.

A proposito della ormai proverbiale difficoltà della sua poesia: in un saggio del 1991, un poeta e intellettuale italiano, Franco Fortini, ha distinto tra poesia difficile (comunque comprensibile da parte di un lettore volenteroso) e poesia oscura (in ogni caso incomprensibile, anche a chi la scrive). Condivide questa distinzione? E su quale versante collocherebbe la sua produzione poetica? Non saprei immaginare un poeta che si siede e sceglie tra poesia “difficile” e poesia “oscura”. Come si fa a sapere cosa sarà “comprensibile” da parte di un “lettore volenteroso” e cosa sarà “comunque incomprensibile, anche a chi scrive”? Chiedere a me se la mia poesia sia più difficile o più oscura è come chiedermi quale veleno sceglierei per mettere fine alla mia vita. Non ho mai programmato di essere né l’una né l’altra cosa. In ogni modo, i miei gusti letterari si sono formati durante quella che ora sembra la lontana era del modernismo del XX secolo, cioè l’età di Proust, Joyce, Kafka, Henry James, Gertrude Stein e i Surrealisti, per citare solo alcuni scrittori che hanno contribuito alla formazione della mia sensibilità di scrittore. Ovviamente alcuni di questi scrittori sono difficili, e io sono stato sempre attratto da quello che Yeats definiva “il fascino del difficile”, perché avevo l’impressione che dopo aver letto qualcosa di difficile sarei diventato più sapiente. Ora sembra che i lettori non la pensino più così, per lo meno in America, dove la “leggibilità” è tenuta in gran conto, ma io continuo a pensare che la migliore poesia e arte spesso richiedano un certo sforzo per essere apprezzate.

Durante un’intervista lei ha dichiarato che nessuno, in una poesia, vorrebbe trovarsi a leggere di guerra, perché è già abbastanza triste che la guerra esista. In un passaggio di A Wave (1984), poi, si legge: “Le sorprese / Che la storia ci riserba non sono nulla paragonate / Alle violente emozioni che ricaviamo gli uni dagli altri”. La poesia, secondo lei, deve partire solo dalla microstoria individuale, ignorando quella generale? Ovviamente mi sbagliavo quando dicevo che a nessuno piace leggere di guerra in una poesia, dal momento che a molte persone piace (nelle interviste si dicono un sacco di cose di cui poi ci si pente...). Non credo che la poesia dovrebbe “partire solo dalla microstoria individuale, ignorando quella generale”. D’altro canto, non credo che la poesia “debba” (o “non debba”) fare qualcosa.

Che rapporto ha avuto e ha con l’arte e la letteratura italiane? Come è noto, il titolo del suo libro più premiato, SelfPortrait in a Convex Mirror, allude a un dipinto di Parmigianino, mentre The Double Dream of Spring (1970) traduce Il doppio sogno di primavera di Giorgio De Chirico... Non sono sicuro di avere una vera relazione con la letteratura italiana... Certamente amo la pittura del Rinascimento Italiano, come tutti. Detto questo, c’è qualche artista italiano isolato la cui opera mi attrae particolarmente. Uno è il Parmigianino. Una volta ho fatto un viaggio in Italia per vedere quanti più suoi quadri potevo (l’Autoritratto naturalmente è a Vienna, l’ho visto lì). Sassetta, Perugino, Piero di Cosimo, Moretto da Brescia,

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Moroni, Ceruti, Tiepolo, Morandi, di cui attualmente è in corso una mostra al Metropolitan Museum, sono altri miei pittori preferiti (non ho volutamente espresso preferenze per Piero, Leonardo, Michelangelo ecc.). Quanto ai film, al contrario, conosco e mi piacciono soprattutto i più famosi, come Fellini, Pasolini, Antonioni ecc., anche se una volta al Museum of Modern Art ho visto un bellissimo film muto intitolato I topi grigi. Conservo un caro ricordo del Cappotto, basato sul racconto di Gogol e interpretato da Renato Rascel, ma non so chi sia il regista. Non sono troppo esperto, ahimè, di letteratura italiana, a parte Dante, Leopardi, Svevo e Montale, perché non posso prescindere dalle traduzioni inglesi. De Chirico, com’è noto, scrisse in francese, e il suo romanzo Hebdomeros è un capolavoro, al pari di molti dei suoi primi quadri. Lei non ha menzionato i compositori, ma potrei citarle Monteverdi, Scarlatti, Busoni (è italiano, vero?), Casella, Scelsi, Donatoni e Gorli. Non mi piace troppo l’opera – ho qualche problema con la voce umana.

arte poetica John Ashbery Un mondo che non può essere migliore Poesie scelte 1956-2007 traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan

Un imperativo costante della sua scrittura sembra essere quello di non ripetersi, di combattere l’establishment letterario e il poetic decorum, di trovare qualcosa che non abbiamo ancora scoperto e di non soffermarsi su quello che sappiamo già, forse sull’esempio di un poeta che lei stima molto come Raymond Roussel. Un’arte che comunica quello che sappiamo già, ha sostenuto lei, non comunica niente. Quali sentieri inediti sta percorrendo, dopo gli ottant’anni, la poesia di John Ashbery? Sì, direi che è tutto vero, e continua a esserlo anche oggi che ho raggiunto la ridicola età di ottantuno anni. Uno dei suoi traduttori italiani, Nicola Gardini, in un articolo su “Poesia” (152, 2001), ha scritto che lei gli ha confessato di non riuscire a capire perché mai Montale sia considerato così importante. Mi conferma questo dubbio? Non ricordo di aver fatto questa confessione. Se mai l’ho fatta no, non lo penso più. Si sente dire spesso che lei ama più la poesia minore che quella dei “maggiori”. È vero? Probabilmente no, ma posso capire come sia potuta nascere questa impressione dalla scelta di poeti poco noti che ho fatto per le mie Norton Lectures di Harvard. Mi interessava presentare degli autori che avessero avuto un’influenza sulla mia scrittura, e ho omesso i maggiori (tra i quali avrebbero potuto esserci Auden e Wallace Stevens) perché hanno già ricevuto molta attenzione critica.

Anche nel campo dell’arte, lei sembra più affezionato all’arte outsider di Trevor Winkfield o di Henry Darger, da cui ha liberamente tratto Girls on the Run (1999), che ai maestri di prima grandezza. Cosa la attrae di questi artisti? Di nuovo, ho sempre scritto di artisti che non sono troppo conosciuti solo per riportarli all’attenzione dei lettori. Certo, la fama è soprattutto una questione di casualità, e ora gli artisti outsider come Darger spesso sono più famosi degli artisti “insider”... Un critico americano, John Emil Vincent, ha sostenuto che lei, da April Galleons (1987) e soprattutto da Your Name Here (2000) in poi, avrebbe messo in atto una strategia di avvicinamento al lettore, considerandolo con più amore e attenzione di prima. Le sembra un’intuizione giusta? Se sì, si tratta di un mutamento intenzionale? Preferisco pensare di essere stato sempre affezionato ai lettori, persino nei giorni in cui non ne avevo. Per quale altro motivo si dovrebbe scrivere, altrimenti? Sia Damiano Abeni che Joseph Harrison ritengono che Houseboat Days (1977) sia il suo libro migliore. C’è una raccolta che lei predilige, per motivi artistici o personali? E perché? È interessante che entrambi pensino che Houseboat Days sia il mio libro migliore. Secondo me è stato sempre sottovalutato, essendogli toccato in sorte di seguire da vicino il molto più noto Self-Portrait in a Convex Mirror. I miei preferiti potrebbero essere A Worldly Country, solo perché è recente (2007) e io tendo ad amare più di tutti il libro più recente, ma anche Three Poems (1972), che è stato un esperimento di scrittura di una prosa che speravo potesse avere lo stile esuberante della poesia. Non sono sicuro di esserci riuscito, ma mi sono divertito a provarci.

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Benvenuti in un mondo che non può essere migliore.

? Massimo Gezzi intervista ! John Ashbery1

L’antologia curata da Damiano Abeni e Joseph Harrison per luca sossella editore – la prima in assoluto, in Italia, a presentare testi scelti in collaborazione con lei – esce cinquanta anni dopo la prima apparizione di sue poesie in lingua straniera. Anche allora si trattava di un’antologia italiana, ovvero Poesia americana del dopoguerra, a cura di Alfredo Rizzardi. Cosa rappresenta per lei l’Italia e il pubblico italiano? Non saprei dire come le mie poesie siano andate a finire nell’antologia di Rizzardi, dato che a quell’epoca ero piuttosto sconosciuto persino in America. Negli anni Settanta il mio libro Autoritratto in uno specchio convesso attirò molta attenzione, vinse diversi premi letterari e fu tradotto in Italia da Aldo Busi. Speravo che la cosa fosse seguita dalle traduzioni delle mie poesie successive, ma fin qui non era mai successo, anche se un editore italiano aveva opzionato un’altra mia raccolta, rinnovando ripetutamente l’opzione ma senza pubblicare mai il libro. Come spiegare quello che l’Italia e i lettori italiani rappresentano per me? Sono tremendamente importanti, ovvio, come lo sarebbero per chiunque. Sono molto soddisfatto della generosa selezione del mio lavoro operata da Abeni e Egan. Il mio italiano va bene per leggere un giornale, non certo per giudicare la qualità della poesia. Ma dalle conversazioni con i traduttori e da altri commenti, credo che abbiano fatto un lavoro eccellente.

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Testo già apparso in “Poesia”, 234, gennaio 2009.

A proposito della ormai proverbiale difficoltà della sua poesia: in un saggio del 1991, un poeta e intellettuale italiano, Franco Fortini, ha distinto tra poesia difficile (comunque comprensibile da parte di un lettore volenteroso) e poesia oscura (in ogni caso incomprensibile, anche a chi la scrive). Condivide questa distinzione? E su quale versante collocherebbe la sua produzione poetica? Non saprei immaginare un poeta che si siede e sceglie tra poesia “difficile” e poesia “oscura”. Come si fa a sapere cosa sarà “comprensibile” da parte di un “lettore volenteroso” e cosa sarà “comunque incomprensibile, anche a chi scrive”? Chiedere a me se la mia poesia sia più difficile o più oscura è come chiedermi quale veleno sceglierei per mettere fine alla mia vita. Non ho mai programmato di essere né l’una né l’altra cosa. In ogni modo, i miei gusti letterari si sono formati durante quella che ora sembra la lontana era del modernismo del XX secolo, cioè l’età di Proust, Joyce, Kafka, Henry James, Gertrude Stein e i Surrealisti, per citare solo alcuni scrittori che hanno contribuito alla formazione della mia sensibilità di scrittore. Ovviamente alcuni di questi scrittori sono difficili, e io sono stato sempre attratto da quello che Yeats definiva “il fascino del difficile”, perché avevo l’impressione che dopo aver letto qualcosa di difficile sarei diventato più sapiente. Ora sembra che i lettori non la pensino più così, per lo meno in America, dove la “leggibilità” è tenuta in gran conto, ma io continuo a pensare che la migliore poesia e arte spesso richiedano un certo sforzo per essere apprezzate.

Durante un’intervista lei ha dichiarato che nessuno, in una poesia, vorrebbe trovarsi a leggere di guerra, perché è già abbastanza triste che la guerra esista. In un passaggio di A Wave (1984), poi, si legge: “Le sorprese / Che la storia ci riserba non sono nulla paragonate / Alle violente emozioni che ricaviamo gli uni dagli altri”. La poesia, secondo lei, deve partire solo dalla microstoria individuale, ignorando quella generale? Ovviamente mi sbagliavo quando dicevo che a nessuno piace leggere di guerra in una poesia, dal momento che a molte persone piace (nelle interviste si dicono un sacco di cose di cui poi ci si pente...). Non credo che la poesia dovrebbe “partire solo dalla microstoria individuale, ignorando quella generale”. D’altro canto, non credo che la poesia “debba” (o “non debba”) fare qualcosa.

Che rapporto ha avuto e ha con l’arte e la letteratura italiane? Come è noto, il titolo del suo libro più premiato, SelfPortrait in a Convex Mirror, allude a un dipinto di Parmigianino, mentre The Double Dream of Spring (1970) traduce Il doppio sogno di primavera di Giorgio De Chirico... Non sono sicuro di avere una vera relazione con la letteratura italiana... Certamente amo la pittura del Rinascimento Italiano, come tutti. Detto questo, c’è qualche artista italiano isolato la cui opera mi attrae particolarmente. Uno è il Parmigianino. Una volta ho fatto un viaggio in Italia per vedere quanti più suoi quadri potevo (l’Autoritratto naturalmente è a Vienna, l’ho visto lì). Sassetta, Perugino, Piero di Cosimo, Moretto da Brescia,

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Moroni, Ceruti, Tiepolo, Morandi, di cui attualmente è in corso una mostra al Metropolitan Museum, sono altri miei pittori preferiti (non ho volutamente espresso preferenze per Piero, Leonardo, Michelangelo ecc.). Quanto ai film, al contrario, conosco e mi piacciono soprattutto i più famosi, come Fellini, Pasolini, Antonioni ecc., anche se una volta al Museum of Modern Art ho visto un bellissimo film muto intitolato I topi grigi. Conservo un caro ricordo del Cappotto, basato sul racconto di Gogol e interpretato da Renato Rascel, ma non so chi sia il regista. Non sono troppo esperto, ahimè, di letteratura italiana, a parte Dante, Leopardi, Svevo e Montale, perché non posso prescindere dalle traduzioni inglesi. De Chirico, com’è noto, scrisse in francese, e il suo romanzo Hebdomeros è un capolavoro, al pari di molti dei suoi primi quadri. Lei non ha menzionato i compositori, ma potrei citarle Monteverdi, Scarlatti, Busoni (è italiano, vero?), Casella, Scelsi, Donatoni e Gorli. Non mi piace troppo l’opera – ho qualche problema con la voce umana.

arte poetica John Ashbery Un mondo che non può essere migliore Poesie scelte 1956-2007 traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan

Un imperativo costante della sua scrittura sembra essere quello di non ripetersi, di combattere l’establishment letterario e il poetic decorum, di trovare qualcosa che non abbiamo ancora scoperto e di non soffermarsi su quello che sappiamo già, forse sull’esempio di un poeta che lei stima molto come Raymond Roussel. Un’arte che comunica quello che sappiamo già, ha sostenuto lei, non comunica niente. Quali sentieri inediti sta percorrendo, dopo gli ottant’anni, la poesia di John Ashbery? Sì, direi che è tutto vero, e continua a esserlo anche oggi che ho raggiunto la ridicola età di ottantuno anni. Uno dei suoi traduttori italiani, Nicola Gardini, in un articolo su “Poesia” (152, 2001), ha scritto che lei gli ha confessato di non riuscire a capire perché mai Montale sia considerato così importante. Mi conferma questo dubbio? Non ricordo di aver fatto questa confessione. Se mai l’ho fatta no, non lo penso più. Si sente dire spesso che lei ama più la poesia minore che quella dei “maggiori”. È vero? Probabilmente no, ma posso capire come sia potuta nascere questa impressione dalla scelta di poeti poco noti che ho fatto per le mie Norton Lectures di Harvard. Mi interessava presentare degli autori che avessero avuto un’influenza sulla mia scrittura, e ho omesso i maggiori (tra i quali avrebbero potuto esserci Auden e Wallace Stevens) perché hanno già ricevuto molta attenzione critica.

Anche nel campo dell’arte, lei sembra più affezionato all’arte outsider di Trevor Winkfield o di Henry Darger, da cui ha liberamente tratto Girls on the Run (1999), che ai maestri di prima grandezza. Cosa la attrae di questi artisti? Di nuovo, ho sempre scritto di artisti che non sono troppo conosciuti solo per riportarli all’attenzione dei lettori. Certo, la fama è soprattutto una questione di casualità, e ora gli artisti outsider come Darger spesso sono più famosi degli artisti “insider”... Un critico americano, John Emil Vincent, ha sostenuto che lei, da April Galleons (1987) e soprattutto da Your Name Here (2000) in poi, avrebbe messo in atto una strategia di avvicinamento al lettore, considerandolo con più amore e attenzione di prima. Le sembra un’intuizione giusta? Se sì, si tratta di un mutamento intenzionale? Preferisco pensare di essere stato sempre affezionato ai lettori, persino nei giorni in cui non ne avevo. Per quale altro motivo si dovrebbe scrivere, altrimenti? Sia Damiano Abeni che Joseph Harrison ritengono che Houseboat Days (1977) sia il suo libro migliore. C’è una raccolta che lei predilige, per motivi artistici o personali? E perché? È interessante che entrambi pensino che Houseboat Days sia il mio libro migliore. Secondo me è stato sempre sottovalutato, essendogli toccato in sorte di seguire da vicino il molto più noto Self-Portrait in a Convex Mirror. I miei preferiti potrebbero essere A Worldly Country, solo perché è recente (2007) e io tendo ad amare più di tutti il libro più recente, ma anche Three Poems (1972), che è stato un esperimento di scrittura di una prosa che speravo potesse avere lo stile esuberante della poesia. Non sono sicuro di esserci riuscito, ma mi sono divertito a provarci.

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Hapax legomenon

La Library of America ha appena pubblicato il primo volume dei suoi Collected Poems: lei è il primo poeta vivente in assoluto a essere pubblicato da questa prestigiosissima collana. D’altra parte, la sua opera è molto apprezzata anche dalla cultura pop: l’anno scorso, per esempio, lei è stato nominato primo poeta laureato del canale musicale MTV. Che impressione le fanno queste due prime assolute, piuttosto diverse l’una dall’altra? Ne sono molto felice. La pubblicazione della Library of America è un onore sorprendente e piacevolissimo. È proprio come vedere la propria opera pubblicata in Francia dalla Pléiade. Ed è bello sapere che sono stato il primo MTV Poet Laureate, anche se non saprei dire con certezza cosa vuol dire, dato che sono troppo vecchio per guardare MTV. Spero comunque che voglia dire un possibile allargamento del pubblico della poesia.

6.8

Questo libro contiene le poesie di tutti i libri che ho pubblicato; cosa per me tanto più preziosa in quanto buona parte di questi libri era introvabile, come succede assai spesso coi libri di poesia. Ciò nonostante non si tratta di una semplice rassegna. Ho cercato di mantenere la

Lo scorso settembre lei ha fatto il suo debutto come artista visivo, con una mostra di due dozzine di piccoli collages esposti alla Tibor de Nagy Gallery di New York. Prima di tutto, com’è andata la mostra? E poi un’altra domanda: molti critici ripetono che lei usa il collage come il linguaggio e il linguaggio (o la letteratura) come il collage. Crede che sia giusto, e che ci sia davvero una relazione tra la sua scrittura e la sua arte visiva? Nella prefazione alla sua antologia italiana, per esempio, Joseph Harrison paragona le poesie di The Tennis Court Oath (1962) a dei collages.... La mostra è stata una sorpresa, tanto per me quanto per i visitatori della galleria. Avevo quasi dimenticato di aver prodotto dei collages, quando il mio amico, il pittore Trevor Winkfield (la cui mostra ha occupato gran parte della galleria, durante la mia esposizione) me ne ricordò, incoraggiando i proprietari della galleria a rintracciarli (Winkfield usa giustapposizioni di immagini simili al collage, nei suoi quadri, che sono fortemente influenzati da Raymond Roussel). La mostra ha ottenuto buone recensioni sul “New York Times” e su qualche altra pubblicazione. Sarei propenso ad ammettere che c’è stato sempre un fattore collage nella mia poesia, ovvero l’uso di improbabili giustapposizioni di parole e idee al fine di produrre strani e – spero – significativi riverberi. Harrison ha ragione nel collocare questa tendenza specialmente all’altezza di The Tennis Court Oath, quando ero particolarmente legato al collage come modo di sperimentare nuove tecniche di scrittura. Molti interpreti della sua opera hanno usato, per descriverla, delle metafore di tipo pittorico, teatrale, cinematografico o musicale. Qualcuno ha parlato, per esempio, di “tele verbali”, ricordando la sua predilezione per l’espressionismo astratto; altri hanno sostenuto che un lettore, per poter esplorare la nuova geografia disegnata dalle sue parole, deve prima imparare una sorta di nuova scala musicale. Anche lei, del resto, ha sostenuto che quando scrive pensa prima di tutto alla musica (e d’altronde titoli come And the Stars were Shining, o Andante misterioso sono piuttosto eloquenti, in fatto di musica), e ha ammesso il probabile influsso di alcuni registi (Guy Maddin, David Lynch – forse anche Luis Buñuel, ipotizzo io...) sulla sua scrittura. È come se la sua poesia possa essere esplorata e recepita solo tenendo presente la sua profonda intersezione con le altri arti. Cosa ne pensa? Beh, spero che non sia vero e che la mia opera possa esere considerata indipendente da qualsiasi forma d’arte abbia contribuito a ispirarla. Una volta lei ha sostenuto che l’America le è sempre sembrato un paese straniero, e che vivere all’estero fa comprendere da dove veniamo. È sempre di questa opinione? L’America è ancora un paese straniero per lei? Quali sono i poeti o gli scrittori americani che apprezza e frequenta di più? L’America continua a sembrarmi un paese straniero, forse ora più che mai. D’altra parte, nei dieci anni che ho passato in Francia ho scoperto che sentirmi straniero mi piace. È stata Gertrude Stein a notare per prima che vivere a Parigi la faceva sentire più consapevole della sua identità americana. Una lista di poeti e scrittori americani che apprezzo sarebbe molto lunga, se dovessi inserire i contemporanei, inclusi i più giovani, i cui nomi non direbbero nulla ai lettori italiani. Tra i più “vecchi” includerei Whitman, Stevens, Marianne Moore, Elizabeth Bishop, Jane Bowles e anche T.S. Eliot e Auden, anche se a questi due non si sa che nazionalità assegnare. Un’ultima curiosità. Lei ha più volte dichiarato di considerare molto importanti i titoli, aggiungendo che spesso comincia a scrivere a partire dalla suggestione di un bel titolo. Le piace il titolo scelto dai curatori della sua antologia italiana? Anche la copertina le è piaciuta, vero? Sì, tendo a pensare ai titoli per prima cosa. Mi sembrano come un’apertura, un’indicazione rispetto alla direzione che la poesia prenderà. Forse in questo mi ha influenzato Wallace Stevens. I suoi titoli spesso determinano il modo in cui vanno interpretati i testi, per esempio la sua Mrs. Alfred Uruguay: se il poeta non ci avesse detto che la poesia parla di una donna che ha il nome di una nazione, noi leggeremmo quel testo in modo diverso. Sì, il titolo della mia antologia italiana mi piace, e mi piace anche il fatto che la poesia da cui è tratto non compaia nel libro. E la copertina è splendida.

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2010 Carlo Bordini, I costruttori di vulcani. Tutte le poesie 1975-2010 struttura dei libri che avevo pubblicato, ma ci sono stati dei cambiamenti. Per cominciare non ho conservato l’ordine cronologico. Ho cercato di creare una struttura musicale, e con questo criterio ho montato il libro. Ma c’è qualcosa di più; ho cercato di dare forma a un libro nuovo,

indipendentemente dal fatto che esso sia formato dalle poesie che ho scritto nella mia vita. Si potrebbe dire, anzi, anche se si tratterebbe di un paradosso, che il fatto che questo libro sia formato dalle poesie che ho scritto nella mia vita sia puramente casuale. Carlo Bordini

La inquieta e affascinante follia della parola Sfoglio (e leggo) le pagine; alle volte sembra di strisciare le mani sul tronco di un albero che trasmette il brivido del passare del tempo; che ha trapassato e ha resistito a cento naufragi di inverni, alle tempeste (della nostra esistenza turbata). Altre volte la pagina (le pagine) si apre e si ripiega docile, come un ramo nella fioritura di primavera, poi torna a distendersi, improvvisa, in un canto di qualche melodia; come fosse toccata (sfiorata) dalla memoria che sopravviene e adagio la esalta. Roberto Roversi 2008 Carlo Bordini, Non è un gioco. Appunti di viaggio sulla poesia in America Latina L’incontro con un’utopia Nel mese di maggio dello scorso anno ho partecipato al festival di poesia di Bogotà. Bogotà è la capitale della Colombia. Questo piccolo libro è la descrizione di questo viaggio e di ciò che ho veduto. Mi sono imbattuto in una società piena di gravissimi problemi (una guerra civile che dura da moltissimi anni, il traffico di droga) ma animata da una grande tensione etica per cercare di risolverli e, soprattutto, da una tensione etica che si avvale del veicolo della parola, della poesia, come uno degli strumenti necessari e portanti per rifondare la società. In Colombia la poesia è importante e non è avulsa dalla società. Forse sarebbe più giusto dire semplicemente che in Colombia la poesia è importante. Il resto viene da sé. Come ha detto Fernando Rendón, direttore del festival di poesia di Medellín: “Siamo convinti che non ci saranno presente né avvenire possibili senza la poesia. La poesia è la vita di tutti, misteriosa e aperta, che ci invita a immergerci in noi stessi e negli altri, che siamo anche noi”. Carlo Bordini 6.9

2009 Alberto Casadei, Poesia e ispirazione. Percorsi fra miti letterari e neuroscienze L’ispirazione poetica oggi ci sembra un’idea quanto mai fuori moda, contro cui è facile lanciare accuse di misticismo oppure di antiscientificità. Viceversa, facendo ricorso alle teorie delle scienze cognitive, è ormai importante indagare sulle possibili spiegazioni della sua specificità e della sua arazionalità, caratteristiche rilevate da Platone e per lungo tempo governate secondo i canoni aristotelico-oraziani. Fondamentale risulta la connessione fra poiesis e nuove potenzialità ermeneutiche indicate dalla linguistica, dalla cognitive poetics e in generale dagli studi su mente e cervello: se si

ipotizza una via particolare della biologia umana nel creare sinapsi e metafore, si può leggere da un’angolatura inconsueta anche la tendenza della lirica moderna allo sgretolamento delle regole in genere, e di quelle sintattiche in particolare. Questo non implica il rifiuto dell’elaborazione conscia, e anzi le analisi di stilistica storica che qui verranno proposte serviranno a determinare in concreto quanto possiamo capire in più dei grandi testi poetici, soprattutto romantici e postromantici, tenendo conto della loro forma: la quale, di fatto, si determina in rapporto all’emersione dell’esperienza

profonda dell’individuo, ma anche, insieme, in rapporto alla tradizione letteraria e culturale. Almeno in prospettiva, allora, le spiegazioni del “poetico” come funzione della lingua (o addirittura del Linguaggio) o espressione dell’inconscio possono trovare un quadro di riferimento diverso rispetto alle teorie novecentesche. E infine, la marginalità stessa della poesia nel campo di forze della cultura attuale risulterebbe superabile, se alla sua peculiarità gnoseologica venisse attribuito un nuovo valore, non anti- bensì extrascientifico. Alberto Casadei

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Hapax legomenon

La Library of America ha appena pubblicato il primo volume dei suoi Collected Poems: lei è il primo poeta vivente in assoluto a essere pubblicato da questa prestigiosissima collana. D’altra parte, la sua opera è molto apprezzata anche dalla cultura pop: l’anno scorso, per esempio, lei è stato nominato primo poeta laureato del canale musicale MTV. Che impressione le fanno queste due prime assolute, piuttosto diverse l’una dall’altra? Ne sono molto felice. La pubblicazione della Library of America è un onore sorprendente e piacevolissimo. È proprio come vedere la propria opera pubblicata in Francia dalla Pléiade. Ed è bello sapere che sono stato il primo MTV Poet Laureate, anche se non saprei dire con certezza cosa vuol dire, dato che sono troppo vecchio per guardare MTV. Spero comunque che voglia dire un possibile allargamento del pubblico della poesia.

6.8

Questo libro contiene le poesie di tutti i libri che ho pubblicato; cosa per me tanto più preziosa in quanto buona parte di questi libri era introvabile, come succede assai spesso coi libri di poesia. Ciò nonostante non si tratta di una semplice rassegna. Ho cercato di mantenere la

Lo scorso settembre lei ha fatto il suo debutto come artista visivo, con una mostra di due dozzine di piccoli collages esposti alla Tibor de Nagy Gallery di New York. Prima di tutto, com’è andata la mostra? E poi un’altra domanda: molti critici ripetono che lei usa il collage come il linguaggio e il linguaggio (o la letteratura) come il collage. Crede che sia giusto, e che ci sia davvero una relazione tra la sua scrittura e la sua arte visiva? Nella prefazione alla sua antologia italiana, per esempio, Joseph Harrison paragona le poesie di The Tennis Court Oath (1962) a dei collages.... La mostra è stata una sorpresa, tanto per me quanto per i visitatori della galleria. Avevo quasi dimenticato di aver prodotto dei collages, quando il mio amico, il pittore Trevor Winkfield (la cui mostra ha occupato gran parte della galleria, durante la mia esposizione) me ne ricordò, incoraggiando i proprietari della galleria a rintracciarli (Winkfield usa giustapposizioni di immagini simili al collage, nei suoi quadri, che sono fortemente influenzati da Raymond Roussel). La mostra ha ottenuto buone recensioni sul “New York Times” e su qualche altra pubblicazione. Sarei propenso ad ammettere che c’è stato sempre un fattore collage nella mia poesia, ovvero l’uso di improbabili giustapposizioni di parole e idee al fine di produrre strani e – spero – significativi riverberi. Harrison ha ragione nel collocare questa tendenza specialmente all’altezza di The Tennis Court Oath, quando ero particolarmente legato al collage come modo di sperimentare nuove tecniche di scrittura. Molti interpreti della sua opera hanno usato, per descriverla, delle metafore di tipo pittorico, teatrale, cinematografico o musicale. Qualcuno ha parlato, per esempio, di “tele verbali”, ricordando la sua predilezione per l’espressionismo astratto; altri hanno sostenuto che un lettore, per poter esplorare la nuova geografia disegnata dalle sue parole, deve prima imparare una sorta di nuova scala musicale. Anche lei, del resto, ha sostenuto che quando scrive pensa prima di tutto alla musica (e d’altronde titoli come And the Stars were Shining, o Andante misterioso sono piuttosto eloquenti, in fatto di musica), e ha ammesso il probabile influsso di alcuni registi (Guy Maddin, David Lynch – forse anche Luis Buñuel, ipotizzo io...) sulla sua scrittura. È come se la sua poesia possa essere esplorata e recepita solo tenendo presente la sua profonda intersezione con le altri arti. Cosa ne pensa? Beh, spero che non sia vero e che la mia opera possa esere considerata indipendente da qualsiasi forma d’arte abbia contribuito a ispirarla. Una volta lei ha sostenuto che l’America le è sempre sembrato un paese straniero, e che vivere all’estero fa comprendere da dove veniamo. È sempre di questa opinione? L’America è ancora un paese straniero per lei? Quali sono i poeti o gli scrittori americani che apprezza e frequenta di più? L’America continua a sembrarmi un paese straniero, forse ora più che mai. D’altra parte, nei dieci anni che ho passato in Francia ho scoperto che sentirmi straniero mi piace. È stata Gertrude Stein a notare per prima che vivere a Parigi la faceva sentire più consapevole della sua identità americana. Una lista di poeti e scrittori americani che apprezzo sarebbe molto lunga, se dovessi inserire i contemporanei, inclusi i più giovani, i cui nomi non direbbero nulla ai lettori italiani. Tra i più “vecchi” includerei Whitman, Stevens, Marianne Moore, Elizabeth Bishop, Jane Bowles e anche T.S. Eliot e Auden, anche se a questi due non si sa che nazionalità assegnare. Un’ultima curiosità. Lei ha più volte dichiarato di considerare molto importanti i titoli, aggiungendo che spesso comincia a scrivere a partire dalla suggestione di un bel titolo. Le piace il titolo scelto dai curatori della sua antologia italiana? Anche la copertina le è piaciuta, vero? Sì, tendo a pensare ai titoli per prima cosa. Mi sembrano come un’apertura, un’indicazione rispetto alla direzione che la poesia prenderà. Forse in questo mi ha influenzato Wallace Stevens. I suoi titoli spesso determinano il modo in cui vanno interpretati i testi, per esempio la sua Mrs. Alfred Uruguay: se il poeta non ci avesse detto che la poesia parla di una donna che ha il nome di una nazione, noi leggeremmo quel testo in modo diverso. Sì, il titolo della mia antologia italiana mi piace, e mi piace anche il fatto che la poesia da cui è tratto non compaia nel libro. E la copertina è splendida.

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2010 Carlo Bordini, I costruttori di vulcani. Tutte le poesie 1975-2010 struttura dei libri che avevo pubblicato, ma ci sono stati dei cambiamenti. Per cominciare non ho conservato l’ordine cronologico. Ho cercato di creare una struttura musicale, e con questo criterio ho montato il libro. Ma c’è qualcosa di più; ho cercato di dare forma a un libro nuovo,

indipendentemente dal fatto che esso sia formato dalle poesie che ho scritto nella mia vita. Si potrebbe dire, anzi, anche se si tratterebbe di un paradosso, che il fatto che questo libro sia formato dalle poesie che ho scritto nella mia vita sia puramente casuale. Carlo Bordini

La inquieta e affascinante follia della parola Sfoglio (e leggo) le pagine; alle volte sembra di strisciare le mani sul tronco di un albero che trasmette il brivido del passare del tempo; che ha trapassato e ha resistito a cento naufragi di inverni, alle tempeste (della nostra esistenza turbata). Altre volte la pagina (le pagine) si apre e si ripiega docile, come un ramo nella fioritura di primavera, poi torna a distendersi, improvvisa, in un canto di qualche melodia; come fosse toccata (sfiorata) dalla memoria che sopravviene e adagio la esalta. Roberto Roversi 2008 Carlo Bordini, Non è un gioco. Appunti di viaggio sulla poesia in America Latina L’incontro con un’utopia Nel mese di maggio dello scorso anno ho partecipato al festival di poesia di Bogotà. Bogotà è la capitale della Colombia. Questo piccolo libro è la descrizione di questo viaggio e di ciò che ho veduto. Mi sono imbattuto in una società piena di gravissimi problemi (una guerra civile che dura da moltissimi anni, il traffico di droga) ma animata da una grande tensione etica per cercare di risolverli e, soprattutto, da una tensione etica che si avvale del veicolo della parola, della poesia, come uno degli strumenti necessari e portanti per rifondare la società. In Colombia la poesia è importante e non è avulsa dalla società. Forse sarebbe più giusto dire semplicemente che in Colombia la poesia è importante. Il resto viene da sé. Come ha detto Fernando Rendón, direttore del festival di poesia di Medellín: “Siamo convinti che non ci saranno presente né avvenire possibili senza la poesia. La poesia è la vita di tutti, misteriosa e aperta, che ci invita a immergerci in noi stessi e negli altri, che siamo anche noi”. Carlo Bordini 6.9

2009 Alberto Casadei, Poesia e ispirazione. Percorsi fra miti letterari e neuroscienze L’ispirazione poetica oggi ci sembra un’idea quanto mai fuori moda, contro cui è facile lanciare accuse di misticismo oppure di antiscientificità. Viceversa, facendo ricorso alle teorie delle scienze cognitive, è ormai importante indagare sulle possibili spiegazioni della sua specificità e della sua arazionalità, caratteristiche rilevate da Platone e per lungo tempo governate secondo i canoni aristotelico-oraziani. Fondamentale risulta la connessione fra poiesis e nuove potenzialità ermeneutiche indicate dalla linguistica, dalla cognitive poetics e in generale dagli studi su mente e cervello: se si

ipotizza una via particolare della biologia umana nel creare sinapsi e metafore, si può leggere da un’angolatura inconsueta anche la tendenza della lirica moderna allo sgretolamento delle regole in genere, e di quelle sintattiche in particolare. Questo non implica il rifiuto dell’elaborazione conscia, e anzi le analisi di stilistica storica che qui verranno proposte serviranno a determinare in concreto quanto possiamo capire in più dei grandi testi poetici, soprattutto romantici e postromantici, tenendo conto della loro forma: la quale, di fatto, si determina in rapporto all’emersione dell’esperienza

profonda dell’individuo, ma anche, insieme, in rapporto alla tradizione letteraria e culturale. Almeno in prospettiva, allora, le spiegazioni del “poetico” come funzione della lingua (o addirittura del Linguaggio) o espressione dell’inconscio possono trovare un quadro di riferimento diverso rispetto alle teorie novecentesche. E infine, la marginalità stessa della poesia nel campo di forze della cultura attuale risulterebbe superabile, se alla sua peculiarità gnoseologica venisse attribuito un nuovo valore, non anti- bensì extrascientifico. Alberto Casadei

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Hapax legomenon

6.10

Attrezzi agricoli e rutabaghe in un paesaggio

Sonetto della smemoratezza

(da The Double Dream Of Spring, 1970)

(dai Sonetti delle vampate di calore)

John Ashbery

6.11

Moira Egan (per Linda: ehm, ti spiacerebbe ricordarmi come ti chiami di cognome?)

Il primo dei messaggi indecifrati diceva: “Braccio di Ferro stava nel tuono, impensato. Da quella scatola di scarpe di un appartamento, da una tinta livida di tenda, emerge un tangram: un paese.” Intanto la Strega del Mare si rilassava su un divano verde: “Quant’è piacevole passare la vacanza en la casa de Popeye”, e si grattava il pelo solitario sul mento biforcuto. Si ricordò degli spinaci e stava per chiedere a Poldo se aveva comprato gli spinaci. “Pupa bella”, intervenne lui, “le pianure sono addobbate di tuono oggi, e sarà come desideri.” Si grattò la testa sotto al cappello. L’appartamento pareva rimpicciolirsi. “Ma che succede se nessuna piacevole ispirazione ci sprofonda alle stelle? Perché questo è il mio Paese.” D’improvviso si sovvennero che era più a buon mercato in paese. Poldo pensoso apriva una scatola numero 2 di spinaci quando la porta si aprì e Pisellino entrò gattoni. “Com’è piacevole!” Ma Pisellino pareva affranto. Aveva un foglietto spillato al bavaglino. “Tuono e lacrime sono vani”, diceva. “D’ora innanzi l’appartamento di Braccio di Ferro sarà solo spazio ricordato, tossico o salutare, intero o grattato.”

6.12

Dove sei sparita Dea della Memoria? Non trovo neanche un po’ di Riso in questo Oblio, né so concepire che così debba essere per l’essere nella sua storia. La lista dei nomi sulla punta della lingua è un crescente affastellio:

Mnemosine, secondo la mitologia Milan Kundera Ontologia Anafora

la giunzione dove comunicano cellula e cellula nervosa; il fumo profumato di mela di Istanbul; la parte con altare e cupola in fondo alla chiesa; non se ne pronuncia il nome invano in Donegal; la bella attricetta sorella di Jackie Onassis; la città del Sudafrica dove meglio si distilla; i colori autunnali delle foglie giallo-cassis; quella cosa ne La Baia della Bishop fatta di calce e argilla;

Sinapsi Narghilè, detto anche Hookah Abside Il maligno folletto celtico, Pooka Lee Radziwill Paarl, capitale dell’arte vinaria Xantofille Marna, roccia sedimentaria

Una Notte sul Monte Calvo spaventò da morire mio fratello. Non ho parole. E lo so che c’è un nome anche per quello.

Walt Disney: Fantasia Afasia

Dieci1 domande a scelta multipla John Ashbery, nella versione di Damiano Abeni con Moira Egan 1. Il pensare può contribuire a risolvere i problemi perché A) i problemi esistono solo nella mente B) i problemi devono essere presi sul serio C) la mente trionfa sulla materia D) non pensare equivarrebbe a ignorare il problema E) comunque nessun problema può essere risolto del tutto F) è nostro dovere pensare un modo nostro per cavarci dai problemi

Olivia a rotta di collo entrò dalla finestra, la coscia lunga grattata dai gerani. “Ho novità!” ansimò. “Braccio di Ferro costretto come sapete a lasciare il Paese, una sera muffita e ventosa, dalle trame dell’avvizzito padre duplicato, invidioso dell’appartamento e di tutto quello che c’è dentro, me e gli spinaci specialmente, lancia saette d’amorevole tuono al proprio attonito divenire, dispiegando il piacevole arpeggio dei nostri anni. Mai più i raggi piacevoli del sole rinfrescheranno la vostra sensazione di invecchiare, né i tronchi graffiati e il fogliame muscoso, solo tenebra immacolata e tuono.” Lei afferrò Pisellino. “Porto il moccioso al paese.” “Ma non puoi – non ha finito gli spinaci”, incalzò la Strega del Mare, guardandosi attorno impaurita nell’appartamento.

2. Nella frase “Ho passato le vacanze in montagna” la parola “montagna” è il A) soggetto B) predicato C) sostantivo D) verbo E) gerundio F) nessuna delle precedenti

Ma Olivia già non la poteva più sentire. Adesso l’appartamento soccombeva a un silenzio nuovo e arcano. “Però è piuttosto piacevole qui”, pensò la Strega del Mare. “Se è tutto qui ciò che si deve temere dagli spinaci allora non mi dispiace poi tanto. Forse potremmo invitare Alice” – si grattò pensosa un seno pendente – “ma Poldo è un tale sempliciotto di paese, che rutta sempre a quel modo!” Dapprima minuscolo, il tuono

3. Cristoforo Colombo si servì di un uovo per provare che la terra è rotonda perché A) l’uovo è rotondo B) un uovo dà un senso di rotondità C) le uova non sono rotonde ma ellissoidali D) l’uovo è un oggetto familiare E) le uova si possono reperire sulle navi F) l’uovo è venuto prima

presto riempì l’appartamento. Era domestico il tuono, color degli spinaci. Braccio di Ferro rise sotto i baffi e si grattò le palle: era davvero piacevole passare un giorno al paese.

4. Una falange è A) un gruppo di uomini B) un idolo egizio C) un termine che denota forza militare D) un partito politico E) una pianta che si trova in zone paludose F) una promessa che si fa a se stessi 5. In democrazia il presidente è eletto A) per chiamata nominale B) dalla volontà del popolo C) dalla Corte Suprema D) con un voto di maggioranza E) per estrazione F) con il metodo della pagliuzza più corta 6. Libertà di religione significa che A) Dio non esiste B) Dio è morto C) l’individuo è libero di venerare Dio come meglio crede D) si deve andare in chiesa solo di domenica E) si può fare come pare e piace F) non c’è vita dopo la morte 7. L’antiquario è un romanzo di A) Charles Dickens B) William Makepiece Thackeray C) Henry Wadsworth Longfellow

1 Il testo completo, di cui si da qui un estratto, è composta da Cento domande a scelta multipla.

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D) Sir Walter Scott E) Ouida F) Edna Saint Vincent Millay 8. Il proverbio “Non svegliare il can che dorme” significa che A) i cani comunque non dicono la verità B) i cani sono buoni fintanto che dormono C) i cani spesso si fingono morti D) i cani si arrabbiano se li si sveglia E) i cani dormono con un occhio aperto F) un cane da guardia non dorme mai 9. Un senso d’orgoglio ci viene instillato alla vista A) della bandiera del nostro paese B) del Monumento a Washington C) della Valley Forge D) della Statua della Libertà E) della Constitution Hall F) dell’Empire State Building 10. Le “bande del laudano”si riferisce a A) una famosa taverna londinese B) una dose fatale di una potente droga C) un’antica danza paesana inglese D) un tumore che risponde ai farmaci se trattato per tempo E) un thriller spionistico di Edgar Wallace F) un’antica canzone popolare ingles


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Hapax legomenon

6.10

Attrezzi agricoli e rutabaghe in un paesaggio

Sonetto della smemoratezza

(da The Double Dream Of Spring, 1970)

(dai Sonetti delle vampate di calore)

John Ashbery

6.11

Moira Egan (per Linda: ehm, ti spiacerebbe ricordarmi come ti chiami di cognome?)

Il primo dei messaggi indecifrati diceva: “Braccio di Ferro stava nel tuono, impensato. Da quella scatola di scarpe di un appartamento, da una tinta livida di tenda, emerge un tangram: un paese.” Intanto la Strega del Mare si rilassava su un divano verde: “Quant’è piacevole passare la vacanza en la casa de Popeye”, e si grattava il pelo solitario sul mento biforcuto. Si ricordò degli spinaci e stava per chiedere a Poldo se aveva comprato gli spinaci. “Pupa bella”, intervenne lui, “le pianure sono addobbate di tuono oggi, e sarà come desideri.” Si grattò la testa sotto al cappello. L’appartamento pareva rimpicciolirsi. “Ma che succede se nessuna piacevole ispirazione ci sprofonda alle stelle? Perché questo è il mio Paese.” D’improvviso si sovvennero che era più a buon mercato in paese. Poldo pensoso apriva una scatola numero 2 di spinaci quando la porta si aprì e Pisellino entrò gattoni. “Com’è piacevole!” Ma Pisellino pareva affranto. Aveva un foglietto spillato al bavaglino. “Tuono e lacrime sono vani”, diceva. “D’ora innanzi l’appartamento di Braccio di Ferro sarà solo spazio ricordato, tossico o salutare, intero o grattato.”

6.12

Dove sei sparita Dea della Memoria? Non trovo neanche un po’ di Riso in questo Oblio, né so concepire che così debba essere per l’essere nella sua storia. La lista dei nomi sulla punta della lingua è un crescente affastellio:

Mnemosine, secondo la mitologia Milan Kundera Ontologia Anafora

la giunzione dove comunicano cellula e cellula nervosa; il fumo profumato di mela di Istanbul; la parte con altare e cupola in fondo alla chiesa; non se ne pronuncia il nome invano in Donegal; la bella attricetta sorella di Jackie Onassis; la città del Sudafrica dove meglio si distilla; i colori autunnali delle foglie giallo-cassis; quella cosa ne La Baia della Bishop fatta di calce e argilla;

Sinapsi Narghilè, detto anche Hookah Abside Il maligno folletto celtico, Pooka Lee Radziwill Paarl, capitale dell’arte vinaria Xantofille Marna, roccia sedimentaria

Una Notte sul Monte Calvo spaventò da morire mio fratello. Non ho parole. E lo so che c’è un nome anche per quello.

Walt Disney: Fantasia Afasia

Dieci1 domande a scelta multipla John Ashbery, nella versione di Damiano Abeni con Moira Egan 1. Il pensare può contribuire a risolvere i problemi perché A) i problemi esistono solo nella mente B) i problemi devono essere presi sul serio C) la mente trionfa sulla materia D) non pensare equivarrebbe a ignorare il problema E) comunque nessun problema può essere risolto del tutto F) è nostro dovere pensare un modo nostro per cavarci dai problemi

Olivia a rotta di collo entrò dalla finestra, la coscia lunga grattata dai gerani. “Ho novità!” ansimò. “Braccio di Ferro costretto come sapete a lasciare il Paese, una sera muffita e ventosa, dalle trame dell’avvizzito padre duplicato, invidioso dell’appartamento e di tutto quello che c’è dentro, me e gli spinaci specialmente, lancia saette d’amorevole tuono al proprio attonito divenire, dispiegando il piacevole arpeggio dei nostri anni. Mai più i raggi piacevoli del sole rinfrescheranno la vostra sensazione di invecchiare, né i tronchi graffiati e il fogliame muscoso, solo tenebra immacolata e tuono.” Lei afferrò Pisellino. “Porto il moccioso al paese.” “Ma non puoi – non ha finito gli spinaci”, incalzò la Strega del Mare, guardandosi attorno impaurita nell’appartamento.

2. Nella frase “Ho passato le vacanze in montagna” la parola “montagna” è il A) soggetto B) predicato C) sostantivo D) verbo E) gerundio F) nessuna delle precedenti

Ma Olivia già non la poteva più sentire. Adesso l’appartamento soccombeva a un silenzio nuovo e arcano. “Però è piuttosto piacevole qui”, pensò la Strega del Mare. “Se è tutto qui ciò che si deve temere dagli spinaci allora non mi dispiace poi tanto. Forse potremmo invitare Alice” – si grattò pensosa un seno pendente – “ma Poldo è un tale sempliciotto di paese, che rutta sempre a quel modo!” Dapprima minuscolo, il tuono

3. Cristoforo Colombo si servì di un uovo per provare che la terra è rotonda perché A) l’uovo è rotondo B) un uovo dà un senso di rotondità C) le uova non sono rotonde ma ellissoidali D) l’uovo è un oggetto familiare E) le uova si possono reperire sulle navi F) l’uovo è venuto prima

presto riempì l’appartamento. Era domestico il tuono, color degli spinaci. Braccio di Ferro rise sotto i baffi e si grattò le palle: era davvero piacevole passare un giorno al paese.

4. Una falange è A) un gruppo di uomini B) un idolo egizio C) un termine che denota forza militare D) un partito politico E) una pianta che si trova in zone paludose F) una promessa che si fa a se stessi 5. In democrazia il presidente è eletto A) per chiamata nominale B) dalla volontà del popolo C) dalla Corte Suprema D) con un voto di maggioranza E) per estrazione F) con il metodo della pagliuzza più corta 6. Libertà di religione significa che A) Dio non esiste B) Dio è morto C) l’individuo è libero di venerare Dio come meglio crede D) si deve andare in chiesa solo di domenica E) si può fare come pare e piace F) non c’è vita dopo la morte 7. L’antiquario è un romanzo di A) Charles Dickens B) William Makepiece Thackeray C) Henry Wadsworth Longfellow

1 Il testo completo, di cui si da qui un estratto, è composta da Cento domande a scelta multipla.

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D) Sir Walter Scott E) Ouida F) Edna Saint Vincent Millay 8. Il proverbio “Non svegliare il can che dorme” significa che A) i cani comunque non dicono la verità B) i cani sono buoni fintanto che dormono C) i cani spesso si fingono morti D) i cani si arrabbiano se li si sveglia E) i cani dormono con un occhio aperto F) un cane da guardia non dorme mai 9. Un senso d’orgoglio ci viene instillato alla vista A) della bandiera del nostro paese B) del Monumento a Washington C) della Valley Forge D) della Statua della Libertà E) della Constitution Hall F) dell’Empire State Building 10. Le “bande del laudano”si riferisce a A) una famosa taverna londinese B) una dose fatale di una potente droga C) un’antica danza paesana inglese D) un tumore che risponde ai farmaci se trattato per tempo E) un thriller spionistico di Edgar Wallace F) un’antica canzone popolare ingles


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1° dicembre 1938 *

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Papà e mamma, carissimi, non mai tanto cari come oggi, voi dovete pensare che questo è il meglio. Ho tanto sofferto… Deve essere qualcosa di nascosto nella mia natura, un male dei nervi che mi toglie ogni forza di resistenza e mi impedisce di vedere equilibrate le cose della vita… Ciò che mi è mancato è stato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita. 2010 Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino. Anche i miei bambini, che l’anno scorso bastavano, ora non bastano piú. I loro occhi che mi guardano mi fanno piangere… Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione esercita sulle nostre giovinezze sfiorite… La più ampia raccolta di poesie Bernabò e Onorina Dino. In scattate a chee sida Antonia Pozzi: Direte alla Nena che è stato un male improvviso, e che l’aspetto. di Antonia Pozzi finora appendice approfondimenti un elemento figurativo Desidero di essere sepolta a Pasturo, sotto un masso della Grigna, fra cespi per di rododendro. pubblicata, l’intero diario, critici di Fulvio Papi, Dino imprescindibile Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in pace. un’importante scelta di lettere Formaggio, Gabriella comprendere lo sguardo della La vostra Antonia

e alcuni saggi (dalla tesi di laurea su Flaubert a un intervento su Aldous Huxley). I testi sono stati rivisti sui manoscritti, a cura di Graziella

Scaramuzza, Eugenio Borgna, Giovanna Calvenzi, Goffredo Fofi e un intervento di Roberta de Monticelli. Il libro ci guarda attraverso le fotografie

luca sossella editore

Antonia Pozzi

La piú ampia raccolta di poesie finora pubblicata, l’intero diario, un’importante scelta di lettere e alcuni saggi. Con testi rivisti sui manoscritti. A cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino con approfondimenti critici di Fulvio Papi, Dino Formaggio, Gabriele Scaramuzza, Eugenio Borgna, Giovanna Calvenzi, Goffredo Fofi e un intervento di Roberta De Monticelli.

Antonia Pozzi Poesia che mi guardi La piú ampia raccolta di poesie finora pubblicata e altri scritti Poesia che mi guardi

Hapax legomenon

a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino

dell’antologia L’altro sguardo, dedicata alle poetesse del Novecento, con testi che coprono più di un secolo di storia letteraria mondiale. È utile segnalare questo testo non solo perché la sua presenza potrebbe innescare una rilettura, o un allargamento, del canone poetico novecentesco, quanto perché al suo interno, tra Elsa Morante e l’americana Muriel Rukeyser, compare Antonia Pozzi con otto liriche. Accanto a queste poetesse della scena mondiale, Antonia Pozzi si arricchisce di sfumature nuove; affiancata ad altri percorsi, la sua direzione di ricerca si dilata e partecipa all’alterità di uno “sguardo” poetico tutto votato allo scavo del dolore e alla ricerca di una parola assunta su di sé, sul proprio corpo, come scheggia nella carne. Come le altre poetesse, sebbene diverse per contesto e formazione, Antonia crea testi viscerali che spaventano per la loro radicalità conoscitiva; per quel sottosuolo, oscuro e doloroso, che una parola crudele interroga e spinge verso scenari notturni e perturbanti, attraversati da presenze, voci, figure, luoghi, ma anche da un senso della perdita e della precarietà, da una presenza del tempo interno, a cui Eugenio Borgna ha dedicato pagine di estrema acutezza, intrecciando queste tensioni sotto la luce nera della malinconia. Si offre, tuttavia, la possibilità di una comparazione che – per la sua forza teorica e la sua affinità di registro con lo scavo poetico di Antonia Pozzi – permette di illuminare trasversalmente alcuni punti forti dell’uno e dell’altro processo creativo. A riprova di quanto sosteneva Madame de Staël circa l’utilità feconda della traduzione – per cui l’immissione di una voce poetica eccentrica rispetto al contesto avrebbe la capacità di rinnovarlo di linfe nuove e nuove prospettive di visione – ecco che lo spunto interpretativo si appoggia proprio allo scritto in prosa di una poetessa rumena, Ana Blandiana, dal titolo La poesia, tra silenzio e peccato. Non è raro, leggendo i testi di Antonia, trovare la dimensione del “silenzio”: un silenzio restituito per figurazioni metaforiche e simboliche; in scenari ctoni e spazi nudi; attraverso certe fratture di ritmo che staccano le pause del dialogo amoroso tra l’io e un tu fantasmatico, muto e lontano; oppure nel recupero memoriale di luoghi d’intensità (la piccola stazione di Torre Annunziata dove “a tratti parole si frangevano / in sfumature lunghe di silenzio”); fino a toccare soluzioni opposte, meno intimiste e più aperte, come lo slancio di certi vocativi modulati sotto la notte o davanti a orizzonti marini; o, sul piano stilistico, con la scelta dell’esilità strutturale di certi versicoli, dal profilo di guglie eleganti. Della natura di questo “silenzio” connaturato alla poesia, e così costante nel timbro di Antonia, cosa ci può dire la riflessione di Ana Blandiana? Prima di tutto che esso è un silenzio pieno, prossimo all’ascolto, o, meglio, a un’attesa carica di tensione, porosa e assorbente verso i segnali del mondo esterno e dell’interiorità. In questa attenzione fluttuante prende corpo la parola poetica. Come nelle liriche di Ana Blandiana, così nella poesia di Antonia il silenzio agisce per circoscrivere e valorizzare il mistero, per rivestire la parola di funzioni poetiche, ossia dotarla di significati e polivalenze, ambigue e trasparenti a un tempo. Il silenzio da cui prende le mosse lo “sguardo” di Antonia è un margine sottile sul quale le percezioni si raccolgono a fascio: gli steli di tulipani “inarcati sul vuoto pesantemente”; il suono delle campane che riempie l’aria e incurva i pioppi; il “singhiozzo / rattenuto, incessante della terra”; le grandi negazioni delle latitudini umane e metafisiche (“Non avere un Dio / non avere una tomba / non avere nulla di fermo / ma solo cose vive che sfuggono”), o quei gouffres dai bordi sfrangiati che incrinano l’orizzonte di senso di tanti testi. Tutti questi elementi configurano e tematizzano questo “silenzio” di fondo. Basti pensare a un testo esemplare come Novembre, nel quale il silenzio si asciuga nel tono fermo e desolato dell’io lirico, vicino a diventare allegoria della precarietà esistenziale: “E poi – se accadrà che io me ne vada – / resterà qualche cosa / di me / nel mio mondo – / resterà un’esile scia di silenzio / in mezzo alle voci – / un tenue fiato bianco / in cuore all’azzurro.” Le affinità tra Ana Blandiana e Antonia si stringono. Scrivere versi, per entrambe, significa trovare “toni chiari e parole chiare”; lavorare affinché quell’oscurità, corteggiata da tanta poesia moderna, sia tradotta in un dettato di alta politezza formale, piano e comunicativo, ma, nel contempo, così dentro le cose da evitare il rischio di pizzicare corde ingenue e sentimentali. L’istanza del silenzio, intesa dunque da Ana Blandiana come molla generativa della parola poetica, ritorna infine in un verso emblematico di Antonia: “spiare cenni arcani di partenza”. Un verso che, per la sua potenza e la sua densità figurale, si impone come la più efficace definizione del suo pensiero poetante. È come se in questa catena di parole, Antonia fosse riuscita a chiudere la sua più lucida dichiarazione di poetica. Immerso in una porosità silenziosa, lo sguardo “spia”, si colloca nei tagli della realtà e guarda fissamente, pronto a fermare i segni misteriosi, le cose latenti, a trovare i legami lontani; i “cenni” sono definiti, con aggettivo leopardiano, “arcani”, vengono da un loro corso naturale, segreto, talvolta incifrato, vengono da un fondo oscuro, intermittenti, scheggiati. Sembrano aver concluso il loro viaggio, prossimi a disperdersi nel mondo, vengono raccolti per una nuova “partenza”, un viaggio conoscitivo che intende dimostrare qualcosa, dando ascolto al pensiero poetante che scova nessi profondi ed eleva le cose più semplici e quotidiane a poesia.

poetessa. *

Questa non è l'ultima lettera di Antonia, è uno scritto autografo del padre, che ha "ricostruito" a memoria l'ultimo testo della figlia, dopo avere incenerito l'originale.

Poesia che mi guardi è anche un film di Marina Spada, allegato al libro in dvd.

Prima di uccidersi, il 3 dicembre 1938, Antonia Pozzi ha lasciato un’ultima lettera ai genitori. Dopo averla bruciata, il padre l’ha “ricostruita” a memoria. L’autografo contiene questa frase: “fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite...” Fa parte di questa disperazione mortale la crudele oppressione che un’Italia gretta, meschina, conformista, violenta nella sua viltà, ha esercitato sulla vita intellettuale (e fisica) di Antonia Pozzi. “Scrivi il meno possibile”, le avevano detto i suoi amici, letterati e filosofi. Il 4 febbraio 1935 Antonia appuntava nel suo diario “Ma che diritto ho io di parlare dei miei versi?” Una oppressione ambientale, tanto più soffocante quanto più inerziale, “involontaria”. Il pensiero poetico di Antonia Pozzi era infinitamente altro. Pensiero poetico consapevole e pieno, non culturalmente disarmato come troppo a lungo ci hanno fatto credere quei nani che azzoppano i giganti per sembrare più alti. Il pensiero di una donna, in Italia, negli anni Trenta, che diceva lo scandalo dell’esistenza. Troppe forze si sono affrettate a normalizzare la sua voce. Troppi rifiuti sono arrivati a strozzare la sua domanda, a negare la validità del suo interrogativo. A frustrare la ricerca di un “realismo umano” (ancora dal diario del 4 febbraio 1935) che “vorrebbe nascere e non può, in nessuna forma della realtà può esprimersi, come un pianto che non trova gli occhi per cui sgorgare, un sorriso che non ha volto in cui aprirsi. Rifiuti, da tutta la realtà, a ogni passo. E a ogni passo, nuove ricerche per una foce che non esiste. E che non deve esistere. Di questo la coscienza mi avvisa. Donarsi è abdicare alla propria personalità.”

6.14

Davide Pugnana

“Spiare cenni arcani di partenza”: silenzio e parola in Antonia Pozzi

Anche perché l’anima dell’opera non è poi così diversa dal soffio vitale dell’artista, la cui pulsazione di respiro trapassa nell’enunciato. Tale soffio articola cioè una forma, crea una voce, più voci. L’opera riesce, quando ricrea nel silenzio della parola Nadia Fusini scritta il suono della vita che l’ha generata. Mentre la materia prima da cui viene ritagliata la letteratura è la parola, il mistero della poesia è costituito da silenzi che le parole si limitano a circoscrivere e valorizzare. Il mistero non è però mai nebuloso. Esso comincia al di là, non al di qua della trasparenza. Ana Blandiana Sulla soglia dell’ultima e più organica raccolta di scritti di Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, troviamo una nota in corsivo che tocca un punto nodale della storiografia letteraria: invita a riflettere intorno alla presenza di un “catalogo delle rimozioni”, una galleria di figure deraciné che conta un numero altissimo di agnelli sacrificali proprio sul terreno della ricerca lirica femminile. Questo oscuramento dei percorsi poetici femminili si fa visibile soprattutto a partire dall’esclusione sistematica delle poetesse italiane durante la formazione del canone poetico novecentesco, cristallizzato dalle due antologie più famose, quella di Pier Vincenzo Mengaldo (che include un manipolo di testi di Amelia Rosselli) e quella di Edoardo Sanguineti. Nel corso di questo processo di periodizzazione e di sistemazione delle poetiche del Novecento, i nomi delle poetesse italiane sono totalmente assenti. Un accenno a questa produzione marginale si colloca all’altezza del 1951, allorché Giacinto Spagnoletti pubblicò l’antologia Poetesse del Novecento, che segnò l’avvio di carriera della giovanissima Alda Merini. Questa zona di silenzio, e, di riflesso, questo “catalogo delle rimozioni” letterarie femminili, è oggi colmata dalla pubblicazione

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Papà e mamma, carissimi, non mai tanto cari come oggi, voi dovete pensare che questo è il meglio. Ho tanto sofferto… Deve essere qualcosa di nascosto nella mia natura, un male dei nervi che mi toglie ogni forza di resistenza e mi impedisce di vedere equilibrate le cose della vita… Ciò che mi è mancato è stato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita. 2010 Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino. Anche i miei bambini, che l’anno scorso bastavano, ora non bastano piú. I loro occhi che mi guardano mi fanno piangere… Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione esercita sulle nostre giovinezze sfiorite… La più ampia raccolta di poesie Bernabò e Onorina Dino. In scattate a chee sida Antonia Pozzi: Direte alla Nena che è stato un male improvviso, e che l’aspetto. di Antonia Pozzi finora appendice approfondimenti un elemento figurativo Desidero di essere sepolta a Pasturo, sotto un masso della Grigna, fra cespi per di rododendro. pubblicata, l’intero diario, critici di Fulvio Papi, Dino imprescindibile Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in pace. un’importante scelta di lettere Formaggio, Gabriella comprendere lo sguardo della La vostra Antonia

e alcuni saggi (dalla tesi di laurea su Flaubert a un intervento su Aldous Huxley). I testi sono stati rivisti sui manoscritti, a cura di Graziella

Scaramuzza, Eugenio Borgna, Giovanna Calvenzi, Goffredo Fofi e un intervento di Roberta de Monticelli. Il libro ci guarda attraverso le fotografie

luca sossella editore

Antonia Pozzi

La piú ampia raccolta di poesie finora pubblicata, l’intero diario, un’importante scelta di lettere e alcuni saggi. Con testi rivisti sui manoscritti. A cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino con approfondimenti critici di Fulvio Papi, Dino Formaggio, Gabriele Scaramuzza, Eugenio Borgna, Giovanna Calvenzi, Goffredo Fofi e un intervento di Roberta De Monticelli.

Antonia Pozzi Poesia che mi guardi La piú ampia raccolta di poesie finora pubblicata e altri scritti Poesia che mi guardi

Hapax legomenon

a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino

dell’antologia L’altro sguardo, dedicata alle poetesse del Novecento, con testi che coprono più di un secolo di storia letteraria mondiale. È utile segnalare questo testo non solo perché la sua presenza potrebbe innescare una rilettura, o un allargamento, del canone poetico novecentesco, quanto perché al suo interno, tra Elsa Morante e l’americana Muriel Rukeyser, compare Antonia Pozzi con otto liriche. Accanto a queste poetesse della scena mondiale, Antonia Pozzi si arricchisce di sfumature nuove; affiancata ad altri percorsi, la sua direzione di ricerca si dilata e partecipa all’alterità di uno “sguardo” poetico tutto votato allo scavo del dolore e alla ricerca di una parola assunta su di sé, sul proprio corpo, come scheggia nella carne. Come le altre poetesse, sebbene diverse per contesto e formazione, Antonia crea testi viscerali che spaventano per la loro radicalità conoscitiva; per quel sottosuolo, oscuro e doloroso, che una parola crudele interroga e spinge verso scenari notturni e perturbanti, attraversati da presenze, voci, figure, luoghi, ma anche da un senso della perdita e della precarietà, da una presenza del tempo interno, a cui Eugenio Borgna ha dedicato pagine di estrema acutezza, intrecciando queste tensioni sotto la luce nera della malinconia. Si offre, tuttavia, la possibilità di una comparazione che – per la sua forza teorica e la sua affinità di registro con lo scavo poetico di Antonia Pozzi – permette di illuminare trasversalmente alcuni punti forti dell’uno e dell’altro processo creativo. A riprova di quanto sosteneva Madame de Staël circa l’utilità feconda della traduzione – per cui l’immissione di una voce poetica eccentrica rispetto al contesto avrebbe la capacità di rinnovarlo di linfe nuove e nuove prospettive di visione – ecco che lo spunto interpretativo si appoggia proprio allo scritto in prosa di una poetessa rumena, Ana Blandiana, dal titolo La poesia, tra silenzio e peccato. Non è raro, leggendo i testi di Antonia, trovare la dimensione del “silenzio”: un silenzio restituito per figurazioni metaforiche e simboliche; in scenari ctoni e spazi nudi; attraverso certe fratture di ritmo che staccano le pause del dialogo amoroso tra l’io e un tu fantasmatico, muto e lontano; oppure nel recupero memoriale di luoghi d’intensità (la piccola stazione di Torre Annunziata dove “a tratti parole si frangevano / in sfumature lunghe di silenzio”); fino a toccare soluzioni opposte, meno intimiste e più aperte, come lo slancio di certi vocativi modulati sotto la notte o davanti a orizzonti marini; o, sul piano stilistico, con la scelta dell’esilità strutturale di certi versicoli, dal profilo di guglie eleganti. Della natura di questo “silenzio” connaturato alla poesia, e così costante nel timbro di Antonia, cosa ci può dire la riflessione di Ana Blandiana? Prima di tutto che esso è un silenzio pieno, prossimo all’ascolto, o, meglio, a un’attesa carica di tensione, porosa e assorbente verso i segnali del mondo esterno e dell’interiorità. In questa attenzione fluttuante prende corpo la parola poetica. Come nelle liriche di Ana Blandiana, così nella poesia di Antonia il silenzio agisce per circoscrivere e valorizzare il mistero, per rivestire la parola di funzioni poetiche, ossia dotarla di significati e polivalenze, ambigue e trasparenti a un tempo. Il silenzio da cui prende le mosse lo “sguardo” di Antonia è un margine sottile sul quale le percezioni si raccolgono a fascio: gli steli di tulipani “inarcati sul vuoto pesantemente”; il suono delle campane che riempie l’aria e incurva i pioppi; il “singhiozzo / rattenuto, incessante della terra”; le grandi negazioni delle latitudini umane e metafisiche (“Non avere un Dio / non avere una tomba / non avere nulla di fermo / ma solo cose vive che sfuggono”), o quei gouffres dai bordi sfrangiati che incrinano l’orizzonte di senso di tanti testi. Tutti questi elementi configurano e tematizzano questo “silenzio” di fondo. Basti pensare a un testo esemplare come Novembre, nel quale il silenzio si asciuga nel tono fermo e desolato dell’io lirico, vicino a diventare allegoria della precarietà esistenziale: “E poi – se accadrà che io me ne vada – / resterà qualche cosa / di me / nel mio mondo – / resterà un’esile scia di silenzio / in mezzo alle voci – / un tenue fiato bianco / in cuore all’azzurro.” Le affinità tra Ana Blandiana e Antonia si stringono. Scrivere versi, per entrambe, significa trovare “toni chiari e parole chiare”; lavorare affinché quell’oscurità, corteggiata da tanta poesia moderna, sia tradotta in un dettato di alta politezza formale, piano e comunicativo, ma, nel contempo, così dentro le cose da evitare il rischio di pizzicare corde ingenue e sentimentali. L’istanza del silenzio, intesa dunque da Ana Blandiana come molla generativa della parola poetica, ritorna infine in un verso emblematico di Antonia: “spiare cenni arcani di partenza”. Un verso che, per la sua potenza e la sua densità figurale, si impone come la più efficace definizione del suo pensiero poetante. È come se in questa catena di parole, Antonia fosse riuscita a chiudere la sua più lucida dichiarazione di poetica. Immerso in una porosità silenziosa, lo sguardo “spia”, si colloca nei tagli della realtà e guarda fissamente, pronto a fermare i segni misteriosi, le cose latenti, a trovare i legami lontani; i “cenni” sono definiti, con aggettivo leopardiano, “arcani”, vengono da un loro corso naturale, segreto, talvolta incifrato, vengono da un fondo oscuro, intermittenti, scheggiati. Sembrano aver concluso il loro viaggio, prossimi a disperdersi nel mondo, vengono raccolti per una nuova “partenza”, un viaggio conoscitivo che intende dimostrare qualcosa, dando ascolto al pensiero poetante che scova nessi profondi ed eleva le cose più semplici e quotidiane a poesia.

poetessa. *

Questa non è l'ultima lettera di Antonia, è uno scritto autografo del padre, che ha "ricostruito" a memoria l'ultimo testo della figlia, dopo avere incenerito l'originale.

Poesia che mi guardi è anche un film di Marina Spada, allegato al libro in dvd.

Prima di uccidersi, il 3 dicembre 1938, Antonia Pozzi ha lasciato un’ultima lettera ai genitori. Dopo averla bruciata, il padre l’ha “ricostruita” a memoria. L’autografo contiene questa frase: “fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite...” Fa parte di questa disperazione mortale la crudele oppressione che un’Italia gretta, meschina, conformista, violenta nella sua viltà, ha esercitato sulla vita intellettuale (e fisica) di Antonia Pozzi. “Scrivi il meno possibile”, le avevano detto i suoi amici, letterati e filosofi. Il 4 febbraio 1935 Antonia appuntava nel suo diario “Ma che diritto ho io di parlare dei miei versi?” Una oppressione ambientale, tanto più soffocante quanto più inerziale, “involontaria”. Il pensiero poetico di Antonia Pozzi era infinitamente altro. Pensiero poetico consapevole e pieno, non culturalmente disarmato come troppo a lungo ci hanno fatto credere quei nani che azzoppano i giganti per sembrare più alti. Il pensiero di una donna, in Italia, negli anni Trenta, che diceva lo scandalo dell’esistenza. Troppe forze si sono affrettate a normalizzare la sua voce. Troppi rifiuti sono arrivati a strozzare la sua domanda, a negare la validità del suo interrogativo. A frustrare la ricerca di un “realismo umano” (ancora dal diario del 4 febbraio 1935) che “vorrebbe nascere e non può, in nessuna forma della realtà può esprimersi, come un pianto che non trova gli occhi per cui sgorgare, un sorriso che non ha volto in cui aprirsi. Rifiuti, da tutta la realtà, a ogni passo. E a ogni passo, nuove ricerche per una foce che non esiste. E che non deve esistere. Di questo la coscienza mi avvisa. Donarsi è abdicare alla propria personalità.”

6.14

Davide Pugnana

“Spiare cenni arcani di partenza”: silenzio e parola in Antonia Pozzi

Anche perché l’anima dell’opera non è poi così diversa dal soffio vitale dell’artista, la cui pulsazione di respiro trapassa nell’enunciato. Tale soffio articola cioè una forma, crea una voce, più voci. L’opera riesce, quando ricrea nel silenzio della parola Nadia Fusini scritta il suono della vita che l’ha generata. Mentre la materia prima da cui viene ritagliata la letteratura è la parola, il mistero della poesia è costituito da silenzi che le parole si limitano a circoscrivere e valorizzare. Il mistero non è però mai nebuloso. Esso comincia al di là, non al di qua della trasparenza. Ana Blandiana Sulla soglia dell’ultima e più organica raccolta di scritti di Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, troviamo una nota in corsivo che tocca un punto nodale della storiografia letteraria: invita a riflettere intorno alla presenza di un “catalogo delle rimozioni”, una galleria di figure deraciné che conta un numero altissimo di agnelli sacrificali proprio sul terreno della ricerca lirica femminile. Questo oscuramento dei percorsi poetici femminili si fa visibile soprattutto a partire dall’esclusione sistematica delle poetesse italiane durante la formazione del canone poetico novecentesco, cristallizzato dalle due antologie più famose, quella di Pier Vincenzo Mengaldo (che include un manipolo di testi di Amelia Rosselli) e quella di Edoardo Sanguineti. Nel corso di questo processo di periodizzazione e di sistemazione delle poetiche del Novecento, i nomi delle poetesse italiane sono totalmente assenti. Un accenno a questa produzione marginale si colloca all’altezza del 1951, allorché Giacinto Spagnoletti pubblicò l’antologia Poetesse del Novecento, che segnò l’avvio di carriera della giovanissima Alda Merini. Questa zona di silenzio, e, di riflesso, questo “catalogo delle rimozioni” letterarie femminili, è oggi colmata dalla pubblicazione

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Hapax legomenon

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2011 Maria Grazia Calandrone, Vivavox, poesie edite e inedite lette da maria Grazia Calandrone; L’infinito mélo, pseudoromanzo. Nell’ultimo triennio, l’epifania di Maria Grazia Calandrone ha colto tutti di sorpresa. Se sono ancora possibili sorprese di questo genere, mi dicevo e mi dico, tutto è ancora possibile. Poi mi sono imbattuto in un verso di Anatomia nucleare che sintetizza in un lampo, incenerendolo, tutto questo ragionare: “Il peso enorme delle mie parole è una traccia sommersa, un ultrasuono”. Ed è proprio così. Era questa

6.16

Massimo Raffaeli

infine, mi dicevo, la spiegazione dell’enigma che risponde al suo nome, della sua particolarità di venire da prima, e da lontano. [...] Non assistiamo all’estasi asettica e inumana del crash, bensì a quanto viene dopo (immediatamente dopo, magari). E la temperatura non è gelida; è incandescente, cioè umanissima. Quel che invece perturba, di simile, è la presenza urticante del lessico

tecnico, di quella vulgata: dalla longherina irregolare e scoperta alle ruote gemellari del rimorchio, dalle piastre antisfilamento alla teca muriatica. L’infestante precisione d’un lessico materico, proditoriamente antilirico, in una partitura invece così lirica, è un altro connotato eminente – forse fra tutti il più ammaliante – del peso di questa poesia. Viene da pensare allo Zanzotto

2011 Ehi,

più clinico, all’implacabile radiologo del paesaggio e della storia. Il mio nome è lesione, diceva indemoniato un io della Beltà. Quella Lesione non è ancora cauterizzata, quella ferita non è rimarginata. È qui che sanguina. Responsabile di ciò, si capisce, è la poesia: questa macchina. Così pesante – così sfrecciante. Andrea Cortellessa

Saba e la poesia onesta

Strand con Damiano Abeni. Un video di Alessandra Maiarelli e Luca Sossella. Un documento che tenta un varco fra le opposizioni di sacro e profano, interiore ed esteriore, esterno e interno: la voce, un tempo esperienza sacrale e di comunione della

6.18

Umberto Saba

diversità, conosce in questo lavoro, in mezzo al caotico appiattimento, nell’anestesia generale di una città, un’utilizzazione volta alla trasmissione della poesia di uno dei più significativi poeti al mondo. I testi vengono detti nel ritmo del quotidiano: il poeta (sempre in anticipo) e il traduttore (in ritardo) entrano nei luoghi di una Romapretesto rappresentata da sei

vie d’uscita: la piazza, le rovine, la porta, la scala, la stazione e il giardino. Come nella tradizione la voce (sacra) fa tendere il quotidiano al simbolico, ma questo è un quotidiano sofferto come una preghiera dell’interiorità, una consapevole resa all’impossibilità di dire se stessi. Strand e Abeni riescono però a dare voce a un “fronte interno” attraverso la poesia e

il suo doppio, la traduzione impossibile, sempre in ritardo. E ci si trova di fronte a una nuova disarmata armonia, che altro non alimenta se non il dubbio di portarsi a compimento. La voce ci arriva dallo spiraglio di un video dove si può sentire l’urlo o il sussurro degli invisibili. Si desiderava che il metronomo dell’eterno ritorno fosse il tic-tac del cuore materno.

Quello che resta da fare ai poeti C’è un contrapposto, che se può sembrare artificioso, pure rende abbastanza bene il mio pensiero. Il contrapposto è fra i due uomini nostri più compiutamente noti che meglio si prestano a dare un esempio pratico di quello che intendo per onestà e disonestà letteraria: è fra Alessandro Manzoni e Gabriele d’Annunzio: fra gli Inni Sacri e i cori dell’Adelchi, e il secondo libro delle Laudi e la Nave: fra versi mediocri e immortali e magnifici versi per la più parte caduchi. L’onestà dell’uno e la nessuna onestà dell’altro, così verso loro stessi come verso il lettore (perché chi à un candido rispetto per l’anima propria, lo à anche, all’infuori della stima o disistima, per quella cui si rivolge) sono i due termini cui può benissimo ridursi la differenza dei due valori.

Viviamo in tempi così calamitosi che un prerequisito individuale e morale viene ormai ritenuto dal senso comune un tratto elettivo, decisamente raro, d’ordine culturale e politico. Nel paese della retorica più smaccata e bugiarda, l’onestà si ricarica infatti del suo valore etimologico connettendosi al pregio della onorabilità. Cos’è dunque degno d’onore, qui e ora? Probabilmente quanto si sottrae alla finzione programmatica e non meno rovinosa (dittatura del mercato, rescissione del legame sociale, Pensiero Unico, lotta darwiniana per l’esistenza, esproprio della politica e ideologia del capo) che da almeno vent’anni scorre nella nostra vita quotidiana alla stregua di un mainstream. Tutto ciò si avvalora procedendo da una metafisica del “nuovo” che condanna preventivamente a morte qualunque alterità e si vanta, viceversa, come stato di natura integerrimo, intangibile e persino fatale. Che la metafisica del “nuovo” non fosse né innocua né innocente lo scrisse un secolo fa un poeta triestino, Umberto Saba, tacciato per decenni di provincialismo e anacronismo da averne intaccata la psiche e avvelenata l’esistenza. Quello che resta da fare ai poeti se può essere scambiata per una dichiarazione di poetica investe tuttavia il complesso della cultura e ne parla con semplicità assoluta dalla zona profonda e più reattiva, che è appunto la poesia. Al di là delle apparenze, si tratta di un discorso rivolto all’Italia e allo stato di miseria civile che trent’anni dopo Saba coglierà ramingando per le vie di Milano all’annuncio dei risultati elettorali del 18 aprile ’48: una celebre poesia di Vittorio Sereni lo coglie nella consueta silhouette (berretto, pipa, bastone) mentre va gridando disperato al suo paese l’epiteto di porca, porca… Educato su Petrarca e Leopardi, amante dell’opera di Verdi (benché lettore silenzioso di Nietzsche e attratto dalla psicoanalisi), questo poeta inedito di ventisette anni, ma di rango europeo, manda nel febbraio del 1911 le sue paginette a una rivista d’avanguardia, “La Voce”, che gliele respinge. Et pour cause. Saba vi traccia una linea secolare dalla quale non c’è via di scampo: da un lato, sofisticata e artificiosa, vi si annuncia la poesia del “nuovo”, la pirotecnica dannunziana (che “scambia la cosa con l’ombra della cosa” dirà nelle meravigliose Scorciatoie), vale a dire il succedaneo linguistico e stilistico della ambizione, la glaciale indifferenza che intrama un virtuosismo molto più vicino di quanto non si giurerebbe ai “cartelli stradali” (è così che li chiama) e agli strepiti di Filippo Tommaso Marinetti e dei suoi camerati; dall’altro, vi si manifesta l’austera umiltà di un Manzoni, la ricerca faticosa e persino spietata di una verità che è tale soltanto se pagata in prima persona. Va da sé che agli occhi addolorati, costernati, del giovane Saba il poeta di Alcyone rappresenta la regola e anzi il campione di un esercizio secolare il quale sovrabbonda di alibi e di infingimenti: quello degli Inni Sacri, all’opposto, è l’eccezione isolata, sempre sottovalutata e volentieri, sottotraccia, diffamata. Il futuro firmatario del Canzoniere, colui che ambisce “al cuore delle cose, al centro arroventato della vita” (sono parole del maestro fra i lettori di Saba, cioè Mario Lavagetto) ha già scelto da che parte stare. O la poesia sarà un atto di necessità interiore (Saba scrive la parola in rilievo) e dunque un gesto integralmente motivato dal profondo o sarà solamente vanità, ambiguo ornamento, estetica della malafede. Il secolo che sopravanza Quello che resta da fare ai poeti lo conferma appieno. Sappiamo, da ex cittadini divenuti utenti e sudditi del mondo “nuovo”, che la difesa della parola onesta non spetta oggi in esclusiva alla pratica poetica ma al discorso fra esseri umani come tali, in quanto essa prefigura una divisa etica e, forse, un principio di resistenza politica.

A chi sa andare ogni poco oltre la superficie dei versi, apparisce in quelli del Manzoni la costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione: mentre vede che l’artificio del d’Annunzio non è solo formale ma anche sostanziale, egli si esagera o addirittura si finge passioni e ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento: e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso. Egli si ubriaca per aumentarsi, l’altro è il più astemio e il più sobrio dei poeti italiani: per non travisare il proprio io e non ingannare con false apparenze quello del lettore, resta se mai al di qua dell’ispirazione. Questa austerità, in lui innata, era poi accresciuta da motivi religiosi; perché certo egli credeva che Dio che gli aveva dato il genio, gli avrebbe chiesto conto di ogni parola, direi quasi di ogni interpunzione. Ne viene che quando a uno dei due manca con la perfetta espressione la perfetta opera d’arte, se questi è il Manzoni, non per tanto egli ci diventa antipatico, come uno che erra per imperizia o per paura di derogare da quello che in buona fede ritiene sia il giusto e il vero; se invece è il d’Annunzio egli ci irrita e disgusta come un individuo che spenda la sua ammirevole eloquenza meridionale per imporci una mercanzia sospetta. E se gli imitatori o i minori danno un’idea ancor più precisa di una tendenza, come quelli che o la esagerano o non la superano universalizzandosi, si vede che mentre la lirica del Manzoni, anche immiserita in quella dei seguaci, dà pur sempre qua e là alcune strofe degne di essere apprese con rispetto, le Laudi si gonfiano ed esplodono nei manifesti stradali del Futurismo. Da un manzoniano, anche di non altissimo ingegno, si poteva sempre attendersi qualcosa di buono, perché aveva appreso dal maestro non la necessità di essere un grand’uomo, né uno scrittore originale a ogni costo: ma quella di essere, nella vita come nella letteratura, un uomo onesto. Chi non fa versi per il sincero bisogno di aiutare col ritmo l’espressione della sua passione, ma à intenzioni bottegaie o ambiziose, e pubblicare un libro è per lui come urgere una decorazione o aprire un negozio, non può nemmeno imaginare quale tenace sforzo dell’intelletto, e quale disinteressata grandezza d’animo occorra per resistere a ogni lenocinio, e mantenersi puri e onesti di fronte a se stessi: anche

6.17

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Mark! Scusa il ritardo, scusa il ritardo... Una passeggiata (da mezzogiorno a mezzanotte) di Mark

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LSE_230 x 330 24/02/11 20:00 Pagina 104

Hapax legomenon

6.15

2011 Maria Grazia Calandrone, Vivavox, poesie edite e inedite lette da maria Grazia Calandrone; L’infinito mélo, pseudoromanzo. Nell’ultimo triennio, l’epifania di Maria Grazia Calandrone ha colto tutti di sorpresa. Se sono ancora possibili sorprese di questo genere, mi dicevo e mi dico, tutto è ancora possibile. Poi mi sono imbattuto in un verso di Anatomia nucleare che sintetizza in un lampo, incenerendolo, tutto questo ragionare: “Il peso enorme delle mie parole è una traccia sommersa, un ultrasuono”. Ed è proprio così. Era questa

6.16

Massimo Raffaeli

infine, mi dicevo, la spiegazione dell’enigma che risponde al suo nome, della sua particolarità di venire da prima, e da lontano. [...] Non assistiamo all’estasi asettica e inumana del crash, bensì a quanto viene dopo (immediatamente dopo, magari). E la temperatura non è gelida; è incandescente, cioè umanissima. Quel che invece perturba, di simile, è la presenza urticante del lessico

tecnico, di quella vulgata: dalla longherina irregolare e scoperta alle ruote gemellari del rimorchio, dalle piastre antisfilamento alla teca muriatica. L’infestante precisione d’un lessico materico, proditoriamente antilirico, in una partitura invece così lirica, è un altro connotato eminente – forse fra tutti il più ammaliante – del peso di questa poesia. Viene da pensare allo Zanzotto

2011 Ehi,

più clinico, all’implacabile radiologo del paesaggio e della storia. Il mio nome è lesione, diceva indemoniato un io della Beltà. Quella Lesione non è ancora cauterizzata, quella ferita non è rimarginata. È qui che sanguina. Responsabile di ciò, si capisce, è la poesia: questa macchina. Così pesante – così sfrecciante. Andrea Cortellessa

Saba e la poesia onesta

Strand con Damiano Abeni. Un video di Alessandra Maiarelli e Luca Sossella. Un documento che tenta un varco fra le opposizioni di sacro e profano, interiore ed esteriore, esterno e interno: la voce, un tempo esperienza sacrale e di comunione della

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Umberto Saba

diversità, conosce in questo lavoro, in mezzo al caotico appiattimento, nell’anestesia generale di una città, un’utilizzazione volta alla trasmissione della poesia di uno dei più significativi poeti al mondo. I testi vengono detti nel ritmo del quotidiano: il poeta (sempre in anticipo) e il traduttore (in ritardo) entrano nei luoghi di una Romapretesto rappresentata da sei

vie d’uscita: la piazza, le rovine, la porta, la scala, la stazione e il giardino. Come nella tradizione la voce (sacra) fa tendere il quotidiano al simbolico, ma questo è un quotidiano sofferto come una preghiera dell’interiorità, una consapevole resa all’impossibilità di dire se stessi. Strand e Abeni riescono però a dare voce a un “fronte interno” attraverso la poesia e

il suo doppio, la traduzione impossibile, sempre in ritardo. E ci si trova di fronte a una nuova disarmata armonia, che altro non alimenta se non il dubbio di portarsi a compimento. La voce ci arriva dallo spiraglio di un video dove si può sentire l’urlo o il sussurro degli invisibili. Si desiderava che il metronomo dell’eterno ritorno fosse il tic-tac del cuore materno.

Quello che resta da fare ai poeti C’è un contrapposto, che se può sembrare artificioso, pure rende abbastanza bene il mio pensiero. Il contrapposto è fra i due uomini nostri più compiutamente noti che meglio si prestano a dare un esempio pratico di quello che intendo per onestà e disonestà letteraria: è fra Alessandro Manzoni e Gabriele d’Annunzio: fra gli Inni Sacri e i cori dell’Adelchi, e il secondo libro delle Laudi e la Nave: fra versi mediocri e immortali e magnifici versi per la più parte caduchi. L’onestà dell’uno e la nessuna onestà dell’altro, così verso loro stessi come verso il lettore (perché chi à un candido rispetto per l’anima propria, lo à anche, all’infuori della stima o disistima, per quella cui si rivolge) sono i due termini cui può benissimo ridursi la differenza dei due valori.

Viviamo in tempi così calamitosi che un prerequisito individuale e morale viene ormai ritenuto dal senso comune un tratto elettivo, decisamente raro, d’ordine culturale e politico. Nel paese della retorica più smaccata e bugiarda, l’onestà si ricarica infatti del suo valore etimologico connettendosi al pregio della onorabilità. Cos’è dunque degno d’onore, qui e ora? Probabilmente quanto si sottrae alla finzione programmatica e non meno rovinosa (dittatura del mercato, rescissione del legame sociale, Pensiero Unico, lotta darwiniana per l’esistenza, esproprio della politica e ideologia del capo) che da almeno vent’anni scorre nella nostra vita quotidiana alla stregua di un mainstream. Tutto ciò si avvalora procedendo da una metafisica del “nuovo” che condanna preventivamente a morte qualunque alterità e si vanta, viceversa, come stato di natura integerrimo, intangibile e persino fatale. Che la metafisica del “nuovo” non fosse né innocua né innocente lo scrisse un secolo fa un poeta triestino, Umberto Saba, tacciato per decenni di provincialismo e anacronismo da averne intaccata la psiche e avvelenata l’esistenza. Quello che resta da fare ai poeti se può essere scambiata per una dichiarazione di poetica investe tuttavia il complesso della cultura e ne parla con semplicità assoluta dalla zona profonda e più reattiva, che è appunto la poesia. Al di là delle apparenze, si tratta di un discorso rivolto all’Italia e allo stato di miseria civile che trent’anni dopo Saba coglierà ramingando per le vie di Milano all’annuncio dei risultati elettorali del 18 aprile ’48: una celebre poesia di Vittorio Sereni lo coglie nella consueta silhouette (berretto, pipa, bastone) mentre va gridando disperato al suo paese l’epiteto di porca, porca… Educato su Petrarca e Leopardi, amante dell’opera di Verdi (benché lettore silenzioso di Nietzsche e attratto dalla psicoanalisi), questo poeta inedito di ventisette anni, ma di rango europeo, manda nel febbraio del 1911 le sue paginette a una rivista d’avanguardia, “La Voce”, che gliele respinge. Et pour cause. Saba vi traccia una linea secolare dalla quale non c’è via di scampo: da un lato, sofisticata e artificiosa, vi si annuncia la poesia del “nuovo”, la pirotecnica dannunziana (che “scambia la cosa con l’ombra della cosa” dirà nelle meravigliose Scorciatoie), vale a dire il succedaneo linguistico e stilistico della ambizione, la glaciale indifferenza che intrama un virtuosismo molto più vicino di quanto non si giurerebbe ai “cartelli stradali” (è così che li chiama) e agli strepiti di Filippo Tommaso Marinetti e dei suoi camerati; dall’altro, vi si manifesta l’austera umiltà di un Manzoni, la ricerca faticosa e persino spietata di una verità che è tale soltanto se pagata in prima persona. Va da sé che agli occhi addolorati, costernati, del giovane Saba il poeta di Alcyone rappresenta la regola e anzi il campione di un esercizio secolare il quale sovrabbonda di alibi e di infingimenti: quello degli Inni Sacri, all’opposto, è l’eccezione isolata, sempre sottovalutata e volentieri, sottotraccia, diffamata. Il futuro firmatario del Canzoniere, colui che ambisce “al cuore delle cose, al centro arroventato della vita” (sono parole del maestro fra i lettori di Saba, cioè Mario Lavagetto) ha già scelto da che parte stare. O la poesia sarà un atto di necessità interiore (Saba scrive la parola in rilievo) e dunque un gesto integralmente motivato dal profondo o sarà solamente vanità, ambiguo ornamento, estetica della malafede. Il secolo che sopravanza Quello che resta da fare ai poeti lo conferma appieno. Sappiamo, da ex cittadini divenuti utenti e sudditi del mondo “nuovo”, che la difesa della parola onesta non spetta oggi in esclusiva alla pratica poetica ma al discorso fra esseri umani come tali, in quanto essa prefigura una divisa etica e, forse, un principio di resistenza politica.

A chi sa andare ogni poco oltre la superficie dei versi, apparisce in quelli del Manzoni la costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione: mentre vede che l’artificio del d’Annunzio non è solo formale ma anche sostanziale, egli si esagera o addirittura si finge passioni e ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento: e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso. Egli si ubriaca per aumentarsi, l’altro è il più astemio e il più sobrio dei poeti italiani: per non travisare il proprio io e non ingannare con false apparenze quello del lettore, resta se mai al di qua dell’ispirazione. Questa austerità, in lui innata, era poi accresciuta da motivi religiosi; perché certo egli credeva che Dio che gli aveva dato il genio, gli avrebbe chiesto conto di ogni parola, direi quasi di ogni interpunzione. Ne viene che quando a uno dei due manca con la perfetta espressione la perfetta opera d’arte, se questi è il Manzoni, non per tanto egli ci diventa antipatico, come uno che erra per imperizia o per paura di derogare da quello che in buona fede ritiene sia il giusto e il vero; se invece è il d’Annunzio egli ci irrita e disgusta come un individuo che spenda la sua ammirevole eloquenza meridionale per imporci una mercanzia sospetta. E se gli imitatori o i minori danno un’idea ancor più precisa di una tendenza, come quelli che o la esagerano o non la superano universalizzandosi, si vede che mentre la lirica del Manzoni, anche immiserita in quella dei seguaci, dà pur sempre qua e là alcune strofe degne di essere apprese con rispetto, le Laudi si gonfiano ed esplodono nei manifesti stradali del Futurismo. Da un manzoniano, anche di non altissimo ingegno, si poteva sempre attendersi qualcosa di buono, perché aveva appreso dal maestro non la necessità di essere un grand’uomo, né uno scrittore originale a ogni costo: ma quella di essere, nella vita come nella letteratura, un uomo onesto. Chi non fa versi per il sincero bisogno di aiutare col ritmo l’espressione della sua passione, ma à intenzioni bottegaie o ambiziose, e pubblicare un libro è per lui come urgere una decorazione o aprire un negozio, non può nemmeno imaginare quale tenace sforzo dell’intelletto, e quale disinteressata grandezza d’animo occorra per resistere a ogni lenocinio, e mantenersi puri e onesti di fronte a se stessi: anche

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Mark! Scusa il ritardo, scusa il ritardo... Una passeggiata (da mezzogiorno a mezzanotte) di Mark

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Hapax legomenon

quando il verso menzognero è, preso singolarmente, il migliore. E come la nobiltà dell’atteggiamento così ignora l’estrema rarità del successo, o è capace d’illudersi d’averla pienamente raggiunta, senza nemmeno sapere in che consista, perché non c’è per credere di saper tutto che chi non sa niente. Ma quei pochi che m’intendono e riconoscono nel mio travaglio il loro travaglio, e nella mia speranza la loro speranza, quelli riconosceranno con me che ben pochi passi sono stati ancora fatti in questa che è la via eterna dell’arte, e in questo momento anche la più ardita e la più nuova. Nuova! Ecco la parola che se fa trasalire gli artisti fa tremare i poeti, perché in nessun’arte le inconscie reminiscenze sono più frequenti che in poesia, dove vengon favorite dalla natura stessa e dall’inevitabile virtù del suono, che le imprime indelebilmente nella memoria. Di una poesia non resta solo, come di una prosa, lo spirito che l’animava, ma anche la materia in cui s’è incarnato; non è la commemorazione dei protestanti, ma l’ostia del rito cattolico; tutto il corpo e tutta l’anima del Signore. Quando parlando di un romanzo, di una novella, di un’opera d’arte o di pensiero, si riportano solo i fatti o i sentimenti o le idee che vi sono espressi, di un poeta si ripetono addirittura i versi. E quanto più son facili le involontarie imitazioni tanto più necessaria diventa la loro medicina, che è quello che ò chiamato onestà letteraria: che è prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare, per meschini motivi di ambizione o di successo, di farla parere più vasta e trascendente di quanto per avventura essa sia: è reazione, durante il lavoro, alla pigrizia intellettuale che impedisce allo scandaglio di toccare il fondo; reazione alla dolcezza di lasciarsi prendere la mano dal ritmo, dalla rima, da quello che volgarmente si chiama la vena. Benché esser originali e ritrovar se stessi sieno termini equivalenti, chi non riconosce in pratica che il primo è l’effetto e il secondo la causa; e parte non dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio dell’originalità, per cui non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri ànno detto; non ritroverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcunché di inaspettato. Bisogna – non mi si prenda alla lettera – essere originali nostro malgrado. E infatti, quali artisti lo sono meno che quelli in cui è visibile lo sforzo per diventarlo? Essi non riescono il più delle volte a essere nemmeno personali: e vanno tanto più famosi per la spudoratezza dei furti e la vastità dei saccheggi: in quanto che nello stesso tempo che compiono una rapina la condannano, e si affermano miliardari che vivono del proprio. Anche mi apparisce dannosa la paura di ripeter se stessi: quando un sentimento è innato ed è innato il bisogno dell’espressione, è naturale che fino a che l’uomo non può uscire dal proprio io, quel sentimento e quell’espressione si ripetano, con l’ossessione di chi sente qualcosa che la parola e il suono e tutte le arti e tutti i mezzi esteriori non possono mai rendere alla perfezione: quindi l’inappagamento dopo ogni opera e la speranza di dir meglio la prossima volta. Sono pieni di ripetizioni il Canzoniere del Petrarca e quello del Leopardi e la parte più sublime della Commedia, il Paradiso; perché questi poeti cercavano di sfogare una loro grande passione e non di sbalordire come dei giocolieri, che guai se ripetono due volte lo stesso numero. E se l’ispirazione è sincera, e subisce quindi l’influenza del particolar momento in cui nasce, c’è sempre, per quante volte si ripeta, qualcosa che la contradistingue; una inaspettata freschezza o una più grande stanchezza, uno scorcio di spettatore o di paesaggio, una diversa stagione od ora del giorno; qualcosa che dà al verso il suo colore unico e che solo l’occhio del profano può confondere con l’impressione antecedente. Né questa onestà è possibile che in chi à la religione dell’arte, e l’ama per se stessa e non per la speranza della gloria, ma il paradiso del successo o il purgatorio dell’insuccesso, se non lo lasciano del tutto indifferente, non menomano il suo amore e non lo fanno, per avidità di battimani, volgere né a destra né a sinistra. Così egli si guarda bene dallo sforzare l’ispirazione anzi, per il dubbio d’ingannarsi, resiste a essa, e non le cede che quando à acquistato la violenza dell’istinto. Ma proprio allora è più che mai difficile e necessario questo studio di non oltrepassarsi, di non verseggiare sopra una falsariga d’altri; è nei momenti più impetuosi che si corre

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il rischio di perdere la propria strada, come un cavallo lanciato a un galoppo troppo sfrenato. È pertanto che bisogna con lunga disciplina prepararsi a ricevere la grazia con animo proprio; fare un quotidiano esame di coscienza, rileggersi in quei periodi di ristagno in cui è più possibile l’analisi, cercando sempre di ricordarsi lo stato d’animo che à generato quei versi e rilevando con eroica meticolosità la differenza fra il pensato e lo scritto. Vorrei si facesse per l’arte quello che i modernisti ànno fatto per la religione, senza paura di distruggere quello che amavano dall’infanzia: cade una chiesa e un’altra ne sorge: se dopo la vivisezione alcuno si accorgesse che ben pochi dei suoi sentimenti richiedono la poesia, che faccia solo quel poco o magari niente, e ricerchi in un laborioso ozio quello che può sostituire per lui la poesia in versi. È solo con questo metodo che potrà una buona volta esser messo in chiaro quanto è rimasto di vivo della più antica forma di espressione letteraria, contro la quale oggi ci son tante e in parte così giustificate prevenzioni: solo quando i poeti, o meglio il maggior poeta di una generazione, avrà rinunciato alla degradante ambizione propria – purtroppo! – ai temperamenti lirici, e lavorerà con la scrupolosa onestà dei ricercatori del vero, si vedrà quello che non per forza d’inerzia, ma per necessità deve ancora essere significato in versi. Tolgo dalla mia esperienza personale (come dalla sola possibile) un esempio, che meglio d’una nuda affermazione, può dimostrare la difficoltà che c’è a non introdurre prima e a espellere poi gli elementi estranei alla nostra visione. Una notte, in sogno, avevo sorpreso in me sentimenti di cui mi credevo guarito da anni, avevo e sfogavo beatamente brame di cui nella veglia mi sarei almeno provato a respingere la tentazione. Il giorno, vedendomi in uno specchio assai diverso da come, senza di esso, la mia imaginazione mi rappresenta, mi ricordai a un tratto del sogno; e dal paragone fra quello che era stato per la mia anima il sogno e per il mio corpo lo specchio presi lo spunto a una breve poesia, di cui ecco la prima quartina, come mi venne fatta di getto. Credevo sia un gioco sognare; ma il sogno è un temibile Iddio è il solo che sa smascherare l’animo mio. Rileggendo, dopo alcuni giorni questa strofa, che pure non à nulla di apparentemente falso, io solo avvertivo alcunché di diverso, di discordante dal mio pensiero; e dopo studiato alquanto riuscii a determinare la discordanza nella similitudine fra il sogno e il temibile Iddio. Quando mai avevo pensato di paragonare il sogno a una divinità vendicatrice? Era certo una reminiscenza letteraria, insinuatasi di furto per qualche sottile legame di pensiero o di ritmo. Cercai di rimediarci alla meglio, sostituendo al Dio un semplice giudice. Credevo sia un gioco sognare: ma un giudice è il sogno... Peggio. Originariamente io non avevo pensato affatto a giudici. Mi provai a ritornare indietro, a rifare il processo psicologico da cui era nata la poesia, e fu solo pensando a quelle circostanze che potevano parere le più trascurabili; a circostanze di luogo e di tempo; che mi sovvenne dello specchio e del paragone da cui erano derivati i versi, dove invece esso non appariva cambiato in un Dio o in un giudice. Credevo sia dolce sognare; ma il sogno è uno specchio, che intero mi rende, che sa smascherare l’intimo vero.

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Hapax legomenon

quando il verso menzognero è, preso singolarmente, il migliore. E come la nobiltà dell’atteggiamento così ignora l’estrema rarità del successo, o è capace d’illudersi d’averla pienamente raggiunta, senza nemmeno sapere in che consista, perché non c’è per credere di saper tutto che chi non sa niente. Ma quei pochi che m’intendono e riconoscono nel mio travaglio il loro travaglio, e nella mia speranza la loro speranza, quelli riconosceranno con me che ben pochi passi sono stati ancora fatti in questa che è la via eterna dell’arte, e in questo momento anche la più ardita e la più nuova. Nuova! Ecco la parola che se fa trasalire gli artisti fa tremare i poeti, perché in nessun’arte le inconscie reminiscenze sono più frequenti che in poesia, dove vengon favorite dalla natura stessa e dall’inevitabile virtù del suono, che le imprime indelebilmente nella memoria. Di una poesia non resta solo, come di una prosa, lo spirito che l’animava, ma anche la materia in cui s’è incarnato; non è la commemorazione dei protestanti, ma l’ostia del rito cattolico; tutto il corpo e tutta l’anima del Signore. Quando parlando di un romanzo, di una novella, di un’opera d’arte o di pensiero, si riportano solo i fatti o i sentimenti o le idee che vi sono espressi, di un poeta si ripetono addirittura i versi. E quanto più son facili le involontarie imitazioni tanto più necessaria diventa la loro medicina, che è quello che ò chiamato onestà letteraria: che è prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare, per meschini motivi di ambizione o di successo, di farla parere più vasta e trascendente di quanto per avventura essa sia: è reazione, durante il lavoro, alla pigrizia intellettuale che impedisce allo scandaglio di toccare il fondo; reazione alla dolcezza di lasciarsi prendere la mano dal ritmo, dalla rima, da quello che volgarmente si chiama la vena. Benché esser originali e ritrovar se stessi sieno termini equivalenti, chi non riconosce in pratica che il primo è l’effetto e il secondo la causa; e parte non dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio dell’originalità, per cui non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri ànno detto; non ritroverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcunché di inaspettato. Bisogna – non mi si prenda alla lettera – essere originali nostro malgrado. E infatti, quali artisti lo sono meno che quelli in cui è visibile lo sforzo per diventarlo? Essi non riescono il più delle volte a essere nemmeno personali: e vanno tanto più famosi per la spudoratezza dei furti e la vastità dei saccheggi: in quanto che nello stesso tempo che compiono una rapina la condannano, e si affermano miliardari che vivono del proprio. Anche mi apparisce dannosa la paura di ripeter se stessi: quando un sentimento è innato ed è innato il bisogno dell’espressione, è naturale che fino a che l’uomo non può uscire dal proprio io, quel sentimento e quell’espressione si ripetano, con l’ossessione di chi sente qualcosa che la parola e il suono e tutte le arti e tutti i mezzi esteriori non possono mai rendere alla perfezione: quindi l’inappagamento dopo ogni opera e la speranza di dir meglio la prossima volta. Sono pieni di ripetizioni il Canzoniere del Petrarca e quello del Leopardi e la parte più sublime della Commedia, il Paradiso; perché questi poeti cercavano di sfogare una loro grande passione e non di sbalordire come dei giocolieri, che guai se ripetono due volte lo stesso numero. E se l’ispirazione è sincera, e subisce quindi l’influenza del particolar momento in cui nasce, c’è sempre, per quante volte si ripeta, qualcosa che la contradistingue; una inaspettata freschezza o una più grande stanchezza, uno scorcio di spettatore o di paesaggio, una diversa stagione od ora del giorno; qualcosa che dà al verso il suo colore unico e che solo l’occhio del profano può confondere con l’impressione antecedente. Né questa onestà è possibile che in chi à la religione dell’arte, e l’ama per se stessa e non per la speranza della gloria, ma il paradiso del successo o il purgatorio dell’insuccesso, se non lo lasciano del tutto indifferente, non menomano il suo amore e non lo fanno, per avidità di battimani, volgere né a destra né a sinistra. Così egli si guarda bene dallo sforzare l’ispirazione anzi, per il dubbio d’ingannarsi, resiste a essa, e non le cede che quando à acquistato la violenza dell’istinto. Ma proprio allora è più che mai difficile e necessario questo studio di non oltrepassarsi, di non verseggiare sopra una falsariga d’altri; è nei momenti più impetuosi che si corre

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il rischio di perdere la propria strada, come un cavallo lanciato a un galoppo troppo sfrenato. È pertanto che bisogna con lunga disciplina prepararsi a ricevere la grazia con animo proprio; fare un quotidiano esame di coscienza, rileggersi in quei periodi di ristagno in cui è più possibile l’analisi, cercando sempre di ricordarsi lo stato d’animo che à generato quei versi e rilevando con eroica meticolosità la differenza fra il pensato e lo scritto. Vorrei si facesse per l’arte quello che i modernisti ànno fatto per la religione, senza paura di distruggere quello che amavano dall’infanzia: cade una chiesa e un’altra ne sorge: se dopo la vivisezione alcuno si accorgesse che ben pochi dei suoi sentimenti richiedono la poesia, che faccia solo quel poco o magari niente, e ricerchi in un laborioso ozio quello che può sostituire per lui la poesia in versi. È solo con questo metodo che potrà una buona volta esser messo in chiaro quanto è rimasto di vivo della più antica forma di espressione letteraria, contro la quale oggi ci son tante e in parte così giustificate prevenzioni: solo quando i poeti, o meglio il maggior poeta di una generazione, avrà rinunciato alla degradante ambizione propria – purtroppo! – ai temperamenti lirici, e lavorerà con la scrupolosa onestà dei ricercatori del vero, si vedrà quello che non per forza d’inerzia, ma per necessità deve ancora essere significato in versi. Tolgo dalla mia esperienza personale (come dalla sola possibile) un esempio, che meglio d’una nuda affermazione, può dimostrare la difficoltà che c’è a non introdurre prima e a espellere poi gli elementi estranei alla nostra visione. Una notte, in sogno, avevo sorpreso in me sentimenti di cui mi credevo guarito da anni, avevo e sfogavo beatamente brame di cui nella veglia mi sarei almeno provato a respingere la tentazione. Il giorno, vedendomi in uno specchio assai diverso da come, senza di esso, la mia imaginazione mi rappresenta, mi ricordai a un tratto del sogno; e dal paragone fra quello che era stato per la mia anima il sogno e per il mio corpo lo specchio presi lo spunto a una breve poesia, di cui ecco la prima quartina, come mi venne fatta di getto. Credevo sia un gioco sognare; ma il sogno è un temibile Iddio è il solo che sa smascherare l’animo mio. Rileggendo, dopo alcuni giorni questa strofa, che pure non à nulla di apparentemente falso, io solo avvertivo alcunché di diverso, di discordante dal mio pensiero; e dopo studiato alquanto riuscii a determinare la discordanza nella similitudine fra il sogno e il temibile Iddio. Quando mai avevo pensato di paragonare il sogno a una divinità vendicatrice? Era certo una reminiscenza letteraria, insinuatasi di furto per qualche sottile legame di pensiero o di ritmo. Cercai di rimediarci alla meglio, sostituendo al Dio un semplice giudice. Credevo sia un gioco sognare: ma un giudice è il sogno... Peggio. Originariamente io non avevo pensato affatto a giudici. Mi provai a ritornare indietro, a rifare il processo psicologico da cui era nata la poesia, e fu solo pensando a quelle circostanze che potevano parere le più trascurabili; a circostanze di luogo e di tempo; che mi sovvenne dello specchio e del paragone da cui erano derivati i versi, dove invece esso non appariva cambiato in un Dio o in un giudice. Credevo sia dolce sognare; ma il sogno è uno specchio, che intero mi rende, che sa smascherare l’intimo vero.

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Hapax legomenon

Respirai. Fu come se un bruscolo mi fosse uscito dall’occhio, o un nervetto slogato fosse ritornato al suo posto. Eppure, a rileggere le tre quartine con le tre diverse similitudini non so quale, letterariamente, sia la più efficace. Ma è un caso. E se non si stabilisce come principio che non si può, per il più bel verso di una letteratura, falsare consciamente o no la propria visione, e fare di uno specchio un giudice o un temibile Iddio, per uno in un certo senso più bello, cento saranno di cattiva lega; e il risultato complessivo la morte della personalità. A questa maggiore onestà nel metodo di lavoro, deve necessariamente corrispondere un più austero programma di vita. Il poeta deve tendere a un tipo morale il più remoto possibile da quello del letterato di professione, e avvicinarsi invece a quello dei ricercatori di verità esteriori o interiori, le quali, salvo forse la più alta forma di intellettualità che occorre per investigare le seconde, sono tutt’una cosa. Alcuni poeti della vecchia generazione furono come dei contemplativi, che per nausea dell’antica aspirazione, o per impotenza a raggiungere per quella via l’estasi, vollero diventare una specie d’uomini d’azione. Allora scambiarono l’abito claustrale per l’uniforme soldatesca, e partirono per una guerra dove il loro eroismo diventò vigliaccheria mascherata di temerarietà: dove il loro gesto di comando, tanto più elegante quanto più sbagliato, suscitava il turpiloquio o la giusta indignazione dei commilitoni, così pieni nei loro combattimenti, di un facile buon senso e di un abbominevole senso pratico. Essi disprezzarono la loro alta femminilità per esaltare la virilità abbietta dei conquistatori di mercati e d’imperi. Cercarono i loro modelli e le loro similitudini fra gli eroi dell’armi, quando avrebbero dovuto cercarli fra quelli ben più nobili del pensiero e del sentimento. Al di là del mondo del poeta non c’è che quello dei santi e forse quello dei filosofi; essi, per uscire dalla vecchia cerchia, entrarono in un girone inferiore, fra anime più volgari e aspirazioni più meschine. Ivi essi apparirono al confronto ancor più meschini: e non riuscirono che a sciupare le energie personali e il patrimonio della tradizione. Ai poeti della generazione presente resta da fare quello che dovrebbero fare i figlioli, i cui genitori furono malamente prodighi di averi e di salute: una vita di riparazione e di penitenza, senza la preoccupazione di essere essi o i posteri a cogliere il frutto dell’attività riparatrice. Essi si possono anche confrontare a dei malati, lontani dalla loro patria, la cui ultima speranza di guarigione è l’aria nativa. Così resta a essi, per condurre un’esistenza utile e generare figli sani, un ritorno alle origini: con un’opera forse più di selezione e di rifacimento che di novissima creazione: resta a essi quello che finora fu solo raramente e parzialmente compiuto, la poesia onesta. Trieste, febbraio 1911 Scritto come articolo per la rivista fiorentina “La Voce”, definita da Saba in una lettera a Slataper come la “sola rivista possibile”, ma poi rifiutato, il testo non è più stato pubblicato sotto forma di articolo giornalistico. Ora in Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, con un saggio introduttivo di Mario Lavagetto, Mondadori, Milano 2001, pp.674-681.

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Hapax legomenon

Respirai. Fu come se un bruscolo mi fosse uscito dall’occhio, o un nervetto slogato fosse ritornato al suo posto. Eppure, a rileggere le tre quartine con le tre diverse similitudini non so quale, letterariamente, sia la più efficace. Ma è un caso. E se non si stabilisce come principio che non si può, per il più bel verso di una letteratura, falsare consciamente o no la propria visione, e fare di uno specchio un giudice o un temibile Iddio, per uno in un certo senso più bello, cento saranno di cattiva lega; e il risultato complessivo la morte della personalità. A questa maggiore onestà nel metodo di lavoro, deve necessariamente corrispondere un più austero programma di vita. Il poeta deve tendere a un tipo morale il più remoto possibile da quello del letterato di professione, e avvicinarsi invece a quello dei ricercatori di verità esteriori o interiori, le quali, salvo forse la più alta forma di intellettualità che occorre per investigare le seconde, sono tutt’una cosa. Alcuni poeti della vecchia generazione furono come dei contemplativi, che per nausea dell’antica aspirazione, o per impotenza a raggiungere per quella via l’estasi, vollero diventare una specie d’uomini d’azione. Allora scambiarono l’abito claustrale per l’uniforme soldatesca, e partirono per una guerra dove il loro eroismo diventò vigliaccheria mascherata di temerarietà: dove il loro gesto di comando, tanto più elegante quanto più sbagliato, suscitava il turpiloquio o la giusta indignazione dei commilitoni, così pieni nei loro combattimenti, di un facile buon senso e di un abbominevole senso pratico. Essi disprezzarono la loro alta femminilità per esaltare la virilità abbietta dei conquistatori di mercati e d’imperi. Cercarono i loro modelli e le loro similitudini fra gli eroi dell’armi, quando avrebbero dovuto cercarli fra quelli ben più nobili del pensiero e del sentimento. Al di là del mondo del poeta non c’è che quello dei santi e forse quello dei filosofi; essi, per uscire dalla vecchia cerchia, entrarono in un girone inferiore, fra anime più volgari e aspirazioni più meschine. Ivi essi apparirono al confronto ancor più meschini: e non riuscirono che a sciupare le energie personali e il patrimonio della tradizione. Ai poeti della generazione presente resta da fare quello che dovrebbero fare i figlioli, i cui genitori furono malamente prodighi di averi e di salute: una vita di riparazione e di penitenza, senza la preoccupazione di essere essi o i posteri a cogliere il frutto dell’attività riparatrice. Essi si possono anche confrontare a dei malati, lontani dalla loro patria, la cui ultima speranza di guarigione è l’aria nativa. Così resta a essi, per condurre un’esistenza utile e generare figli sani, un ritorno alle origini: con un’opera forse più di selezione e di rifacimento che di novissima creazione: resta a essi quello che finora fu solo raramente e parzialmente compiuto, la poesia onesta. Trieste, febbraio 1911 Scritto come articolo per la rivista fiorentina “La Voce”, definita da Saba in una lettera a Slataper come la “sola rivista possibile”, ma poi rifiutato, il testo non è più stato pubblicato sotto forma di articolo giornalistico. Ora in Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, con un saggio introduttivo di Mario Lavagetto, Mondadori, Milano 2001, pp.674-681.

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Tracce dello sgfuardo

7.1

TRACCE DELLO SGUARDO Etica ed estetica sono legate a doppio filo perché entrambe affondano le radici nella nostra storia personale ed evolutiva e ne sono un rispecchiamento: l’estetica è il sentimento soggettivo dell’immersione armonica nell’ambiente; l’etica è il sentimento soggettivo, e poi intersoggettivo, di azione armonica con l’ambiente di cui facciamo parte. Così l’etica ci consente di mantenere l’estetica e l’estetica ci serve da guida nell’operare etico. Giuseppe O. Longo

Tracce dello sgfuardo

7.2

La ribellione delle arti

2001 Giuseppe Varchetta, Le tracce dello sguardo, con testi di Fulvio Carmagnola, Aldo Giorgio Gargani, Giuseppe O. Longo. Un libro di immagini, risultato di un reportage all’interno di musei, gallerie, sedi di mostre d’arte figurativa contemporanea in Italia, in Europa e negli Usa. Le immagini sono centrate sullo sguardo, sulla relazione tra gli

osservatori e le opere d’arte immerse nei diversi contesti espositivi. Sono la riproduzione fotografica di un rapporto, di un’apertura. Pino Varchetta, formatore e psicologo dell’organizzazione, traduce in un’immagine

l’essenza della missione educativa: la capacità di individuare lo spazio che rende possibile una relazione, e la responsabilità di difenderlo, di mantenerlo libero.

Viviamo in un’epoca di ibridi, in quella che io personalmente definisco un’ibridazione dei codici simbolici. Tropi del discorso figurato, metafore e metonimie, penetrano nella scienza e attivano nuovi paradigmi di ricerca; la letteratura, le arti, i discorsi, gli ordini retorici delle emozioni, dei sentimenti e degli affetti rivelano nuclei cognitivi rimossi, marginalizzati a lungo e misconosciuti in omaggio a una forma tradizionale di razionalità astratta. Siamo entrati nell’epoca in cui gli uomini si spostano uscendo dai loro ambiti professionali per entrare in un reticolo flessibile di interessi, concezioni, prospettive differenti, flessibili, alternative e autocorrettive, in cui l’unica direzione è segnata dall’amore per la verità, ossia per quella percezione di una realtà altra, sospesa, filtrata attraverso un’attenzione fluttuante e una memoria onirica, palesata a ciascuno di noi in una condizione di ambiguità semantica. Da quell’amore per la verità e per la realtà che è il motore della nostra esistenza affettiva e simbolica, per continuare a essere persone, individui, soggetti e non esseri inerti destinati soltanto a sopravvivere e a durare nel tempo che resta. Aldo Giorgio Gargani

2004 Sul simbolo. Confronti e riflessioni all’inizio del millennio, a cura di Massimo Melotti, con i contributi di Michelangelo Pistoletto, Michel Maffesoli, Walter Santagata, Ugo Volli, Bruno Corà, Sergio Boidi, Paola Bacchi. L’opera d’arte acquisisce una chiara fisionomia etica ed estetica. Per essere effettiva la proposizione etica deve andare oltre la forma o l’azione puramente percettiva, critica ed emblematica: deve attivarsi direttamente nella manipolazione e trasformazione della materia

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sociale. Questo non significa tendere a uno scollamento tra l’intuizione e l’espressione, tra la teoria e la pratica, tra il concetto e la sostanza, anzi significa proprio portare il simbolo a coincidere perfettamente con l’azione. L’azione stessa entra in perfetta simbiosi con il suo significato simbolico. I due paradigmi, simbolo e azione, diventano speculari,

cioè reversibili. L’opera d’arte si allarga, praticamente, superando ogni confine senza sconfinare dalla sua intrinseca proprietà. Michelangelo Pistoletto


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Tracce dello sgfuardo

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TRACCE DELLO SGUARDO Etica ed estetica sono legate a doppio filo perché entrambe affondano le radici nella nostra storia personale ed evolutiva e ne sono un rispecchiamento: l’estetica è il sentimento soggettivo dell’immersione armonica nell’ambiente; l’etica è il sentimento soggettivo, e poi intersoggettivo, di azione armonica con l’ambiente di cui facciamo parte. Così l’etica ci consente di mantenere l’estetica e l’estetica ci serve da guida nell’operare etico. Giuseppe O. Longo

Tracce dello sgfuardo

7.2

La ribellione delle arti

2001 Giuseppe Varchetta, Le tracce dello sguardo, con testi di Fulvio Carmagnola, Aldo Giorgio Gargani, Giuseppe O. Longo. Un libro di immagini, risultato di un reportage all’interno di musei, gallerie, sedi di mostre d’arte figurativa contemporanea in Italia, in Europa e negli Usa. Le immagini sono centrate sullo sguardo, sulla relazione tra gli

osservatori e le opere d’arte immerse nei diversi contesti espositivi. Sono la riproduzione fotografica di un rapporto, di un’apertura. Pino Varchetta, formatore e psicologo dell’organizzazione, traduce in un’immagine

l’essenza della missione educativa: la capacità di individuare lo spazio che rende possibile una relazione, e la responsabilità di difenderlo, di mantenerlo libero.

Viviamo in un’epoca di ibridi, in quella che io personalmente definisco un’ibridazione dei codici simbolici. Tropi del discorso figurato, metafore e metonimie, penetrano nella scienza e attivano nuovi paradigmi di ricerca; la letteratura, le arti, i discorsi, gli ordini retorici delle emozioni, dei sentimenti e degli affetti rivelano nuclei cognitivi rimossi, marginalizzati a lungo e misconosciuti in omaggio a una forma tradizionale di razionalità astratta. Siamo entrati nell’epoca in cui gli uomini si spostano uscendo dai loro ambiti professionali per entrare in un reticolo flessibile di interessi, concezioni, prospettive differenti, flessibili, alternative e autocorrettive, in cui l’unica direzione è segnata dall’amore per la verità, ossia per quella percezione di una realtà altra, sospesa, filtrata attraverso un’attenzione fluttuante e una memoria onirica, palesata a ciascuno di noi in una condizione di ambiguità semantica. Da quell’amore per la verità e per la realtà che è il motore della nostra esistenza affettiva e simbolica, per continuare a essere persone, individui, soggetti e non esseri inerti destinati soltanto a sopravvivere e a durare nel tempo che resta. Aldo Giorgio Gargani

2004 Sul simbolo. Confronti e riflessioni all’inizio del millennio, a cura di Massimo Melotti, con i contributi di Michelangelo Pistoletto, Michel Maffesoli, Walter Santagata, Ugo Volli, Bruno Corà, Sergio Boidi, Paola Bacchi. L’opera d’arte acquisisce una chiara fisionomia etica ed estetica. Per essere effettiva la proposizione etica deve andare oltre la forma o l’azione puramente percettiva, critica ed emblematica: deve attivarsi direttamente nella manipolazione e trasformazione della materia

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sociale. Questo non significa tendere a uno scollamento tra l’intuizione e l’espressione, tra la teoria e la pratica, tra il concetto e la sostanza, anzi significa proprio portare il simbolo a coincidere perfettamente con l’azione. L’azione stessa entra in perfetta simbiosi con il suo significato simbolico. I due paradigmi, simbolo e azione, diventano speculari,

cioè reversibili. L’opera d’arte si allarga, praticamente, superando ogni confine senza sconfinare dalla sua intrinseca proprietà. Michelangelo Pistoletto


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Tracce dello sgfuardo

2005 Josè Ortega y Gasset, La disumanizazzione dell’ arte, con una nota intoduttiva di Edmondo Berselli e un intervento di Elena del Drago.

7.3

Il poeta comincia dove l’uomo finisce. Il destino dell’uomo è di vivere il suo itinerario umano; mentre la missione del primo è d’inventare ciò che non esiste. In questo solo

modo si giustifica la funzione della poesia. Il poeta aumenta il mondo, aggiungendo al reale, che già esiste per se stesso, un continente irreale. Autore deriva da “auctor”,

Edmondo Berselli

La ribellione delle arti

2004 Federico Ferrari, Lo spazio critico. Note per una decostruzione dell’istituzione museale, con i contributi di Johannes Cladders, Rosalind Krauss, Federico Nicolao, Hans Ulrich Obrist, Giulio Paolini, Claudio Parmiggiani, Harald Szeemann.

colui che aumenta. I latini chiamavano così il condottiero che conquistava per la patria una nuova provincia. Josè Ortega y Gasset

La disumanizzazione dell’arte, il “trionfo sull’umano” come supremo piacere dell’artista, la fabbricazione di “ultraoggetti” stilizzati e de-realizzati rendono praticabile un approccio alla realtà in cui lo sguardo individuale è una componente essenziale dell’esperienza estetica. Il punto di vista diventa ovviamente decisivo. Le cose esistono in quanto vengono osservate, da angolature diverse. Ortega non lo dice, ma probabilmente l’esperienza parziale, il frammento valgono quanto la totalità, oppure, come direbbe Walter Benjamin, rimandano a una “totalità morta”, a un’utopia infranta, in sostanza all’impossibilità di ricostruire narrativamente il mondo, dopo che è stato ridotto a disiecta fragmenta dalla scienza e dalla psicologia. [...] Ortega aveva individuato uno stigma profondo dell’arte novecentesca, ossia “l’intrascendenza”. Se l’arte si è ripiegata su se stessa, se non rimanda a nessun aldilà, a nessun codice ulteriore, basta un niente a far saltare le ultime paratie, e a trasformare di conseguenza il mondo dell’estetica in un politeismo senza nemmeno divinità, in “parchi” tematici popolati da piccoli idoli senza importanza. Il destino della disumanizzazione si situa fra Disneyland e l’iPod. Forse Ortega y Gasset aveva intuito, e deliberatamente lasciato cadere, l’idea che alla fine della grande trasformazione dell’arte non sarebbero sopravvissute, a un rilievo sociologico appropriato, due “caste”, una capace di comprendere l’avanguardia e l’altra a essa ostile. Sarebbe restato invece un solo pubblico, un unico target, uno share, un’audience. Sarebbero restati reticoli di mercato, microcollisioni di domanda e offerta, conseguenze cristallizzate di processi economici. Immagini reificate, merci come feticci, avrebbero detto Adorno e Marcuse; residui di imprinting disciplinari per Michel Foucault; emersioni linguistiche sintomatiche secondo Roland Barthes. Ma anche i faccia-a-faccia di un sociologo come Ervin Goffman, vale a dire interazioni sociali ogni volta diverse, ogni volta in grado di produrre significati o almeno indizi di routine differenti e diversamente vissute o interpretate. Sicché potrebbe darsi che alla fine di una traiettoria che si è disegnata sul secolo non ci siano più le caste, e neppure le classi, ma soltanto un flusso non governato di esperienze. Una nuova oggettività, per gli ottimisti. Oppure, più prevedibilmente, il mondo alla McDonald’s, cioè la calcolabilità totale enunciata dal sociologo americano George Ritzer; ma più probabilmente la vita a caso, come nel paradigma pubblicitario della Apple, “Life is Random”. Un esito integrale, che potrebbe far considerare ottimistici, o fin troppo cauti, anche i dualismi di Ortega y Gasset.

2006 Alessandro Masi, Jekyll, Hyde e lo strano caso dell’arte contemporanea. Annotazioni iconografiche sulla schizofrenia Perseo come Hyde, stanco e combattuto dalla crudele realtà (Medusa nel mito come Jekyll nel romanzo) sfida e vince il duello con essa grazie a un inganno (lo scudo che rispecchia gli occhi della Gorgone pietrificandola e la pozione chimica che trasforma la noiosa vita del dottore). Per Jekyll, Hyde è l’altro da sé che ricrea, infrangendo le regole (omicidio come opera d’arte), un’altra morale e che vive una vita parallela alla propria opportunamente fantastica. Hyde è colui che sconfigge la realtà recidendone i legami con la storia come hanno fatto tutti gli artisti che dalle prime avanguardie in poi hanno deciso di porre un punto a capo della loro vita per ritrovarsi nei panni di un fantomatico alter ego abitante di un parallelo mondo artificiale. Seppure sconfitta, la crudele realtà torna a vendicarsi non lasciando altra via di scampo all’artista che la riproposizione di un mondo ancora più vero di quel vero che si pensava di aver per sempre abbattuto: i panni dimessi sono divenuti così gli stessi terribili oggetti di scena. L’artista, ingannando, è rimasto ingannato dalla stessa opera per un incomprensibile errore di mimesi. L’orinatoio di Duchamp è stato surclassato dall’opera realistica e questa dall’evento (happening) che si è fatto così archetipo di un immaginario assassino. Alessandro Masi

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7.4

Fra sé e sé Come scrive Blanchot ne L’espace littéraire, “l’opera è opera solamente quando diviene l’intimità aperta di qualcuno che la scrive e di qualcun altro che la legge: lo spazio violentemente dispiegato dalla contestazione reciproca del potere di dire e del potere di intendere”, del potere di mostrare e del potere di guardare. È all’interno di questo spazio che, oltre all’artista e al pubblico, si muovono anche il critico e il curatore. Sono questi i personaggi che compongono la trama del libro. Lo spazio è il luogo dell’azione. L’artista e la sua opera ne sono i protagonisti. Il pubblico è il coprotagonista che partecipa all’intimità esposta dell’arte. Il

7.5

critico e il curatore sono figuranti alla ricerca di un punto di equilibrio affinché il monologo solipsistico dell’artista sia scongiurato per mezzo di una relazione aperta tra opera e pubblico. Critico e curatore non hanno parti da recitare, hanno il solo compito di far sì che lo spazio espositivo possa “violentemente dispiegarsi”, facendo apparire “l’intimità aperta” di un rapporto. In questo senso, lo spazio espositivo che li accoglie è essenzialmente lo spazio in cui un gesto critico si esercita su un corpo composto dall’insieme – organico, disorganico o post-organico – delle opere (nel loro rapporto mutuale e nel rapporto che esse intrattengono con lo spazio che le ospita). Lo spazio

espositivo, quindi, risponde in modo essenziale alla vocazione primaria di ogni critica: mostrarsi, mostrare il proprio gesto instauratore, lasciando che altro venga alla visione. Al suo interno la critica si espone come quel sapere e quella pratica che aspira a una visione condivisa. Nello spazio la critica si rende visibile, si mostra nella sua nudità e, nello stesso movimento, sospendendosi, mandandosi in crisi, mostra il mistero del visibile e i modi della visione. Per giudicare della bontà della critica dovrebbe sempre valere il detto di Oscar Wilde, “sono solo le persone superficiali a non giudicare dalle apparenze. Il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile.” Federico Ferrari

successo a suon di trovate pubblicitarie e di eventi mediatici, si faceva sempre più frequente lo sconcerto. Quasi nessuno osava, però, dire pubblicamente la vacuità di un simile spettacolo. Troppo grandi erano, ovviamente, gli interessi economici in gioco, ma anche sempre più forte era una sorta di autocensura critico-teorica che, in nome di un fondamentalismo consumistico-democraticopopulista, impediva una presa di posizione forte e contestatrice, capace quanto meno di affermare, con una certa semplicità e onestà, che il re era nudo. Il vestito che gli ultimi cortigiani avevano inventato per soddisfare l’appetito ormai bulimico di un capitalismo sempre più ignorante e cieco era davvero troppo imbarazzante perché

qualcuno non sentisse il bisogno di gridare questo scandalo della ragione e dello sguardo. Questo libro, i cui saggi (pur in buona parte rivisti) risalgono a un periodo che va tra il 2001 e oggi, vuole cercare di portare l’attenzione su questo fatto, così evidente, eppur così difficile da ammettere: siamo alla fine di un’arte di regime, la cui volgarità e povertà intellettuale e visiva è sconcertante. È necessario, affinché qualcosa d’altro possa apparire, che questa illusione ottica sia smascherata e sia rivendicato con forza, senza paure e senza sottostare alle censure dell’ideologia dominante, un altro modo di fare arte, un altro modo di frequentare l’atto creativo, un altro modo di fruire l’opera. Federico Ferrari

2011 Federico Ferrari, Il re è nudo. Aristocrazia e anarchia dell’arte Si ha talvolta l’impressione di non appartenere pienamente al proprio tempo. Si è colti da un malessere nell’ammettere a se stessi di non comprendere fino in fondo ciò che ci circonda. È come se il tempo scorresse a diverse velocità e il nostro orologio biologico fosse inadeguato.

Questa sensazione, per molti tra noi, si è maggiormente acuita negli ultimi anni. Un’insofferenza sempre più grande si è impadronita dei nostri pensieri di fronte al panorama desolante dei maggiori fenomeni artistici contemporanei. I diversi tentativi di teorizzazione di quella che non saprei come altro definire se non arte di corte del tardo-capitalismo postmoderno (da Jeff Koons a Damien Hirst, passando per Maurizio Cattelan e tutti i “contestatori istituzionali” alla Dominique Gonzalez-Foerster, Rirkrit Tiravanija, Philippe Parreno, Chris Ofili o Justine Triet) sono diventati sempre più insopportabili, per la vacuità che li caratterizzava. Nel mondo dell’arte, al di fuori degli “ideologi-senzaideologia”, che ne sancivano il

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Tracce dello sgfuardo

2005 Josè Ortega y Gasset, La disumanizazzione dell’ arte, con una nota intoduttiva di Edmondo Berselli e un intervento di Elena del Drago.

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Il poeta comincia dove l’uomo finisce. Il destino dell’uomo è di vivere il suo itinerario umano; mentre la missione del primo è d’inventare ciò che non esiste. In questo solo

modo si giustifica la funzione della poesia. Il poeta aumenta il mondo, aggiungendo al reale, che già esiste per se stesso, un continente irreale. Autore deriva da “auctor”,

Edmondo Berselli

La ribellione delle arti

2004 Federico Ferrari, Lo spazio critico. Note per una decostruzione dell’istituzione museale, con i contributi di Johannes Cladders, Rosalind Krauss, Federico Nicolao, Hans Ulrich Obrist, Giulio Paolini, Claudio Parmiggiani, Harald Szeemann.

colui che aumenta. I latini chiamavano così il condottiero che conquistava per la patria una nuova provincia. Josè Ortega y Gasset

La disumanizzazione dell’arte, il “trionfo sull’umano” come supremo piacere dell’artista, la fabbricazione di “ultraoggetti” stilizzati e de-realizzati rendono praticabile un approccio alla realtà in cui lo sguardo individuale è una componente essenziale dell’esperienza estetica. Il punto di vista diventa ovviamente decisivo. Le cose esistono in quanto vengono osservate, da angolature diverse. Ortega non lo dice, ma probabilmente l’esperienza parziale, il frammento valgono quanto la totalità, oppure, come direbbe Walter Benjamin, rimandano a una “totalità morta”, a un’utopia infranta, in sostanza all’impossibilità di ricostruire narrativamente il mondo, dopo che è stato ridotto a disiecta fragmenta dalla scienza e dalla psicologia. [...] Ortega aveva individuato uno stigma profondo dell’arte novecentesca, ossia “l’intrascendenza”. Se l’arte si è ripiegata su se stessa, se non rimanda a nessun aldilà, a nessun codice ulteriore, basta un niente a far saltare le ultime paratie, e a trasformare di conseguenza il mondo dell’estetica in un politeismo senza nemmeno divinità, in “parchi” tematici popolati da piccoli idoli senza importanza. Il destino della disumanizzazione si situa fra Disneyland e l’iPod. Forse Ortega y Gasset aveva intuito, e deliberatamente lasciato cadere, l’idea che alla fine della grande trasformazione dell’arte non sarebbero sopravvissute, a un rilievo sociologico appropriato, due “caste”, una capace di comprendere l’avanguardia e l’altra a essa ostile. Sarebbe restato invece un solo pubblico, un unico target, uno share, un’audience. Sarebbero restati reticoli di mercato, microcollisioni di domanda e offerta, conseguenze cristallizzate di processi economici. Immagini reificate, merci come feticci, avrebbero detto Adorno e Marcuse; residui di imprinting disciplinari per Michel Foucault; emersioni linguistiche sintomatiche secondo Roland Barthes. Ma anche i faccia-a-faccia di un sociologo come Ervin Goffman, vale a dire interazioni sociali ogni volta diverse, ogni volta in grado di produrre significati o almeno indizi di routine differenti e diversamente vissute o interpretate. Sicché potrebbe darsi che alla fine di una traiettoria che si è disegnata sul secolo non ci siano più le caste, e neppure le classi, ma soltanto un flusso non governato di esperienze. Una nuova oggettività, per gli ottimisti. Oppure, più prevedibilmente, il mondo alla McDonald’s, cioè la calcolabilità totale enunciata dal sociologo americano George Ritzer; ma più probabilmente la vita a caso, come nel paradigma pubblicitario della Apple, “Life is Random”. Un esito integrale, che potrebbe far considerare ottimistici, o fin troppo cauti, anche i dualismi di Ortega y Gasset.

2006 Alessandro Masi, Jekyll, Hyde e lo strano caso dell’arte contemporanea. Annotazioni iconografiche sulla schizofrenia Perseo come Hyde, stanco e combattuto dalla crudele realtà (Medusa nel mito come Jekyll nel romanzo) sfida e vince il duello con essa grazie a un inganno (lo scudo che rispecchia gli occhi della Gorgone pietrificandola e la pozione chimica che trasforma la noiosa vita del dottore). Per Jekyll, Hyde è l’altro da sé che ricrea, infrangendo le regole (omicidio come opera d’arte), un’altra morale e che vive una vita parallela alla propria opportunamente fantastica. Hyde è colui che sconfigge la realtà recidendone i legami con la storia come hanno fatto tutti gli artisti che dalle prime avanguardie in poi hanno deciso di porre un punto a capo della loro vita per ritrovarsi nei panni di un fantomatico alter ego abitante di un parallelo mondo artificiale. Seppure sconfitta, la crudele realtà torna a vendicarsi non lasciando altra via di scampo all’artista che la riproposizione di un mondo ancora più vero di quel vero che si pensava di aver per sempre abbattuto: i panni dimessi sono divenuti così gli stessi terribili oggetti di scena. L’artista, ingannando, è rimasto ingannato dalla stessa opera per un incomprensibile errore di mimesi. L’orinatoio di Duchamp è stato surclassato dall’opera realistica e questa dall’evento (happening) che si è fatto così archetipo di un immaginario assassino. Alessandro Masi

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7.4

Fra sé e sé Come scrive Blanchot ne L’espace littéraire, “l’opera è opera solamente quando diviene l’intimità aperta di qualcuno che la scrive e di qualcun altro che la legge: lo spazio violentemente dispiegato dalla contestazione reciproca del potere di dire e del potere di intendere”, del potere di mostrare e del potere di guardare. È all’interno di questo spazio che, oltre all’artista e al pubblico, si muovono anche il critico e il curatore. Sono questi i personaggi che compongono la trama del libro. Lo spazio è il luogo dell’azione. L’artista e la sua opera ne sono i protagonisti. Il pubblico è il coprotagonista che partecipa all’intimità esposta dell’arte. Il

7.5

critico e il curatore sono figuranti alla ricerca di un punto di equilibrio affinché il monologo solipsistico dell’artista sia scongiurato per mezzo di una relazione aperta tra opera e pubblico. Critico e curatore non hanno parti da recitare, hanno il solo compito di far sì che lo spazio espositivo possa “violentemente dispiegarsi”, facendo apparire “l’intimità aperta” di un rapporto. In questo senso, lo spazio espositivo che li accoglie è essenzialmente lo spazio in cui un gesto critico si esercita su un corpo composto dall’insieme – organico, disorganico o post-organico – delle opere (nel loro rapporto mutuale e nel rapporto che esse intrattengono con lo spazio che le ospita). Lo spazio

espositivo, quindi, risponde in modo essenziale alla vocazione primaria di ogni critica: mostrarsi, mostrare il proprio gesto instauratore, lasciando che altro venga alla visione. Al suo interno la critica si espone come quel sapere e quella pratica che aspira a una visione condivisa. Nello spazio la critica si rende visibile, si mostra nella sua nudità e, nello stesso movimento, sospendendosi, mandandosi in crisi, mostra il mistero del visibile e i modi della visione. Per giudicare della bontà della critica dovrebbe sempre valere il detto di Oscar Wilde, “sono solo le persone superficiali a non giudicare dalle apparenze. Il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile.” Federico Ferrari

successo a suon di trovate pubblicitarie e di eventi mediatici, si faceva sempre più frequente lo sconcerto. Quasi nessuno osava, però, dire pubblicamente la vacuità di un simile spettacolo. Troppo grandi erano, ovviamente, gli interessi economici in gioco, ma anche sempre più forte era una sorta di autocensura critico-teorica che, in nome di un fondamentalismo consumistico-democraticopopulista, impediva una presa di posizione forte e contestatrice, capace quanto meno di affermare, con una certa semplicità e onestà, che il re era nudo. Il vestito che gli ultimi cortigiani avevano inventato per soddisfare l’appetito ormai bulimico di un capitalismo sempre più ignorante e cieco era davvero troppo imbarazzante perché

qualcuno non sentisse il bisogno di gridare questo scandalo della ragione e dello sguardo. Questo libro, i cui saggi (pur in buona parte rivisti) risalgono a un periodo che va tra il 2001 e oggi, vuole cercare di portare l’attenzione su questo fatto, così evidente, eppur così difficile da ammettere: siamo alla fine di un’arte di regime, la cui volgarità e povertà intellettuale e visiva è sconcertante. È necessario, affinché qualcosa d’altro possa apparire, che questa illusione ottica sia smascherata e sia rivendicato con forza, senza paure e senza sottostare alle censure dell’ideologia dominante, un altro modo di fare arte, un altro modo di frequentare l’atto creativo, un altro modo di fruire l’opera. Federico Ferrari

2011 Federico Ferrari, Il re è nudo. Aristocrazia e anarchia dell’arte Si ha talvolta l’impressione di non appartenere pienamente al proprio tempo. Si è colti da un malessere nell’ammettere a se stessi di non comprendere fino in fondo ciò che ci circonda. È come se il tempo scorresse a diverse velocità e il nostro orologio biologico fosse inadeguato.

Questa sensazione, per molti tra noi, si è maggiormente acuita negli ultimi anni. Un’insofferenza sempre più grande si è impadronita dei nostri pensieri di fronte al panorama desolante dei maggiori fenomeni artistici contemporanei. I diversi tentativi di teorizzazione di quella che non saprei come altro definire se non arte di corte del tardo-capitalismo postmoderno (da Jeff Koons a Damien Hirst, passando per Maurizio Cattelan e tutti i “contestatori istituzionali” alla Dominique Gonzalez-Foerster, Rirkrit Tiravanija, Philippe Parreno, Chris Ofili o Justine Triet) sono diventati sempre più insopportabili, per la vacuità che li caratterizzava. Nel mondo dell’arte, al di fuori degli “ideologi-senzaideologia”, che ne sancivano il

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Tracce dello sgfuardo

Da quando l’autore è morto, non facciamo che inseguirne l’ombra. E riprodurne il feticcio: la faccia, non il volto. Landolfi offre all’obiettivo il palmo della mano aperta.

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2006 Emidio Greco, Niente da vedere niente da nascondere, un film di sessanta minuti sull’opera di Alighiero Boetti e un testo di Stefano Chiodi.

2006 Federico Ferrari, Jean-Luc Nancy, Iconografia dell’autore Nega il proprio viso, ma offre un’altra identità, scritta nelle linee della mano. Sceglie di coincidere interamente con il gesto della sua scrittura. Manganelli insegue un tiranno fantasmatico e plurale, padrone, editore, sovrano, che manca sempre l’appuntamento decisivo. Ma il tiranno ineffabile è lui stesso, l’autore. Trasmigra, imprendibile. Il suo volto è vertiginosamente riflesso negli specchi che crea. Il suo corpo, il corpo pesante e opaco che ossessiona Manganelli, è in continua dissoluzione. Si fa liquido, come l’inchiostro, e poi si rapprende sulla pagina. È quella impressa nel profilo delle parole l’unica fisionomia possibile dell’autore.

{

7.6

7.7

2006 Annemarie Sauzeau, Shaman showman. Alighiero e Boetti, con interventi di Jonathan Monk e Maurizio Cattelan.

A volte lo scrivere è l’unico mezzo rimasto per abitare certi luoghi com’erano, l’unico mezzo rimasto per amare certe persone com’erano. A meno che non esista per mantenere la loro presenza anche un altro mezzo: la filiazione in arte, ovvero l’artista “plurale” inaugurato da Boetti stesso. Esiste una sua opera fatta di undici fogli colorati a biro blu, intitolata I sei sensi. Vi si possono effettivamente decrittare, nei sei primi fogli, i cinque sensi più il sesto ovvero l’intelligenza; gli ultimi cinque rimangono muti, in perfetta monocromia, in

attesa della scoperta o riscoperta di ulteriori doti sensoriali umane. Per esempio la telepatia perduta e altre facoltà virali propizie alla propagazione dell’intelligenza, all’infiltrazione capillare dell’attività neuronale. Della possibile trasmutazione e migrazione dell’energia intuitiva e inventiva avevamo letto in Borges negli anni Sessanta. Si diceva anche all’epoca che i sovietici – la generazione dei Gagarin – forti del retaggio sciamanico siberiano, sperimentassero la telepatia nei voli spaziali. Boetti ne era convinto. La sua

beffarda auto-definizione di “shaman-showman” era davvero lungimirante, come quella “e” che sdoppiando la sua identità lo rese infinitamente multiplo. Non si stupiva di aver già a quarant’anni alcuni discepoli. Non si trattava di quotidiana manovalanza ma di passare a distanza (nello spazio e nel tempo, da filosofo antico più che da maestro rinascimentale) un’attitudine, una disposizione o posizione, l’opposto di una “maniera” o eredità stilistica. Trasmissione incorporea, a distanza e, perché no, nel tempo. Annemarie Sauzeau

7.8

Seduto, un uomo guarda un grande telaio vuoto, un quadro appoggiato a un muro bianco, con la tela sostituita da un vetro trasparente. Un titolo – Niente da vedere niente da nascondere – un nome dalla singolare congiunzione – Alighiero e Boetti – vi appaiono come bianche iscrizioni maiuscole. Dodici quadrati, trentadue e poi sedici lettere. Questa l’immagine secca ed enigmatica, annuncio di simboli e numerologie più complicate, posta in apertura al film dedicato nel 1978 da Emidio Greco all’opera del grande artista torinese. La finestra, il quadrato magico dell’arte rinascimentale, spalancata di fronte all’occhio di un osservatore

famelico e paziente, qui è ridotta a puro scheletro, a quadratura, a diaframma sottile che rimanda solo il tenue riflesso, il fantasma di chi la fronteggia (più avanti, al termine di una lenta zoomata, su quello stesso vetro vedremo rispecchiarsi le sagome dell’operatore e del regista). Niente da vedere, alla lettera, perché l’occhio non penetra il muro che chiude lo spazio, non può procedere oltre; ma anche, dato altrettanto importante, niente da nascondere, appunto, perché la trasparenza qui non è più solo metaforica, ingannevole, ma lampante e incolpevole. Quello costruito da Emidio Greco è un doppio ritratto, o meglio ancora, una doppia

maschera, l’una sovrapposta all’altra: l’artista proiettato nel regista, e viceversa, fedeli entrambi a una cifra di sobrietà misurata e autoimposta, di intelligenza, di parsimonia espressiva, di impassibilità e irreprensibile restraint. Diversissimi, senza dubbio, ma anche somiglianti nella sottrazione emotiva, nella volontà di assentarsi, nell’antisentimentalità. Il tempo, e la ripetizione, il circolo vizioso dell’attesa, dell’illusione del disinganno, e il tentativo di fare della materia sterile e inerte il principio di una nuova tessitura, di una rinnovata percezione del mondo: questa è forse la trama che lega Boetti e Greco, compagni di strada sin dagli

anni Cinquanta, il loro modo comune di sentire. Alla fine, ci suggerisce il film, non si può entrare nei quadrati magici senza portarsi dietro e smarrirvi un po’ della propria sostanza, non si può scorrere l’elenco dei Mille fiumi più lunghi del mondo senza anche noi farci spolpare in sussurri come Phlebas il fenicio (nell’eliotiana Morte per acqua) lungo i corsi mutevoli, così come forse il disordine riuscirà sempre a insinuarsi spavaldo nell’ordine e la grazia di un gesto a sfuggire, almeno per poco, all’avviso terribile della donna di picche alla fine di un semplice gioco di carte. Stefano Chiodi

2002 Renzo Rossellini, Osvaldo Contenti, Chat room Roberto Rossellini, interventi di Carlo Lizzani, Marcella De Marchis Rossellini e Silvia D’Amico; postfazione di Vittorio Giacci. Carissimo Renzo, sono settimane che ruoto intorno a queste poche righe di biografia, ma i vuoti sovrastano i pieni, e più conosco e più sottraggo righe e parole, perché la complessità di una vita, di quella vita, non si può comprimere né in un profilo né in una monografia. Serve

un dialogo, mi son detto, come quelli in cui aveva creduto lo stesso Roberto: un dialogo con qualcuno che ne abbia seguito molta parte della parabola umana e artistica. È così che ho deciso di inviarti questa scheda biografica decurtata dei suoi anni migliori, degli anni che muovono dalla vera nascita

di Roberto, che io colloco nell’alba di Roma “città aperta”. E se Renzo è lontano, come già sapevo da amici comuni, che importa, la tecnologia ci aiuterà: allestiamo una confortevole chat room, la lontananza ci farà essere più obiettivi, meno emotivi. Se sei disposto ad affrontare questo dialogo,

caro Renzo, cominciamo subito, con passione e metodo, a colmare il vuoto che si apre a partire da una Roma occupata da neri aguzzini, nei giorni della paura, delle macerie e della vicina Liberazione. Osvaldo Contenti

2002 Scene italoamericane. Rappresentazioni cinematografiche degli italiani d’America, a cura di Anna Camaiti Hostert e Anthony Julian Tamburri. Spaesamento, ibridazione, marginalità che si fa forza d’interpretare il mondo, come capacità di abbracciarne la complessità eterogenea: sono termini che, estrapolati da una

condizione specifica, quella dell’italoamericano del XX secolo, si affacciano a questo terzo millennio come elementi fondamentali della globalizzazione. Etnicità e progresso, criminalità e

repressione, razzismo e contaminazione, queste le fondamentali polarità che preludono a un’identità sociale e individuale da reinventare, facendo della frammentazione una

suggestiva moltiplicazione delle possibilità umane. La grande forza dei registi italoamericani è legata appunto a questo anticipo vissuto sui tempi della contemporaneità.

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Da quando l’autore è morto, non facciamo che inseguirne l’ombra. E riprodurne il feticcio: la faccia, non il volto. Landolfi offre all’obiettivo il palmo della mano aperta.

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2006 Emidio Greco, Niente da vedere niente da nascondere, un film di sessanta minuti sull’opera di Alighiero Boetti e un testo di Stefano Chiodi.

2006 Federico Ferrari, Jean-Luc Nancy, Iconografia dell’autore Nega il proprio viso, ma offre un’altra identità, scritta nelle linee della mano. Sceglie di coincidere interamente con il gesto della sua scrittura. Manganelli insegue un tiranno fantasmatico e plurale, padrone, editore, sovrano, che manca sempre l’appuntamento decisivo. Ma il tiranno ineffabile è lui stesso, l’autore. Trasmigra, imprendibile. Il suo volto è vertiginosamente riflesso negli specchi che crea. Il suo corpo, il corpo pesante e opaco che ossessiona Manganelli, è in continua dissoluzione. Si fa liquido, come l’inchiostro, e poi si rapprende sulla pagina. È quella impressa nel profilo delle parole l’unica fisionomia possibile dell’autore.

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2006 Annemarie Sauzeau, Shaman showman. Alighiero e Boetti, con interventi di Jonathan Monk e Maurizio Cattelan.

A volte lo scrivere è l’unico mezzo rimasto per abitare certi luoghi com’erano, l’unico mezzo rimasto per amare certe persone com’erano. A meno che non esista per mantenere la loro presenza anche un altro mezzo: la filiazione in arte, ovvero l’artista “plurale” inaugurato da Boetti stesso. Esiste una sua opera fatta di undici fogli colorati a biro blu, intitolata I sei sensi. Vi si possono effettivamente decrittare, nei sei primi fogli, i cinque sensi più il sesto ovvero l’intelligenza; gli ultimi cinque rimangono muti, in perfetta monocromia, in

attesa della scoperta o riscoperta di ulteriori doti sensoriali umane. Per esempio la telepatia perduta e altre facoltà virali propizie alla propagazione dell’intelligenza, all’infiltrazione capillare dell’attività neuronale. Della possibile trasmutazione e migrazione dell’energia intuitiva e inventiva avevamo letto in Borges negli anni Sessanta. Si diceva anche all’epoca che i sovietici – la generazione dei Gagarin – forti del retaggio sciamanico siberiano, sperimentassero la telepatia nei voli spaziali. Boetti ne era convinto. La sua

beffarda auto-definizione di “shaman-showman” era davvero lungimirante, come quella “e” che sdoppiando la sua identità lo rese infinitamente multiplo. Non si stupiva di aver già a quarant’anni alcuni discepoli. Non si trattava di quotidiana manovalanza ma di passare a distanza (nello spazio e nel tempo, da filosofo antico più che da maestro rinascimentale) un’attitudine, una disposizione o posizione, l’opposto di una “maniera” o eredità stilistica. Trasmissione incorporea, a distanza e, perché no, nel tempo. Annemarie Sauzeau

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Seduto, un uomo guarda un grande telaio vuoto, un quadro appoggiato a un muro bianco, con la tela sostituita da un vetro trasparente. Un titolo – Niente da vedere niente da nascondere – un nome dalla singolare congiunzione – Alighiero e Boetti – vi appaiono come bianche iscrizioni maiuscole. Dodici quadrati, trentadue e poi sedici lettere. Questa l’immagine secca ed enigmatica, annuncio di simboli e numerologie più complicate, posta in apertura al film dedicato nel 1978 da Emidio Greco all’opera del grande artista torinese. La finestra, il quadrato magico dell’arte rinascimentale, spalancata di fronte all’occhio di un osservatore

famelico e paziente, qui è ridotta a puro scheletro, a quadratura, a diaframma sottile che rimanda solo il tenue riflesso, il fantasma di chi la fronteggia (più avanti, al termine di una lenta zoomata, su quello stesso vetro vedremo rispecchiarsi le sagome dell’operatore e del regista). Niente da vedere, alla lettera, perché l’occhio non penetra il muro che chiude lo spazio, non può procedere oltre; ma anche, dato altrettanto importante, niente da nascondere, appunto, perché la trasparenza qui non è più solo metaforica, ingannevole, ma lampante e incolpevole. Quello costruito da Emidio Greco è un doppio ritratto, o meglio ancora, una doppia

maschera, l’una sovrapposta all’altra: l’artista proiettato nel regista, e viceversa, fedeli entrambi a una cifra di sobrietà misurata e autoimposta, di intelligenza, di parsimonia espressiva, di impassibilità e irreprensibile restraint. Diversissimi, senza dubbio, ma anche somiglianti nella sottrazione emotiva, nella volontà di assentarsi, nell’antisentimentalità. Il tempo, e la ripetizione, il circolo vizioso dell’attesa, dell’illusione del disinganno, e il tentativo di fare della materia sterile e inerte il principio di una nuova tessitura, di una rinnovata percezione del mondo: questa è forse la trama che lega Boetti e Greco, compagni di strada sin dagli

anni Cinquanta, il loro modo comune di sentire. Alla fine, ci suggerisce il film, non si può entrare nei quadrati magici senza portarsi dietro e smarrirvi un po’ della propria sostanza, non si può scorrere l’elenco dei Mille fiumi più lunghi del mondo senza anche noi farci spolpare in sussurri come Phlebas il fenicio (nell’eliotiana Morte per acqua) lungo i corsi mutevoli, così come forse il disordine riuscirà sempre a insinuarsi spavaldo nell’ordine e la grazia di un gesto a sfuggire, almeno per poco, all’avviso terribile della donna di picche alla fine di un semplice gioco di carte. Stefano Chiodi

2002 Renzo Rossellini, Osvaldo Contenti, Chat room Roberto Rossellini, interventi di Carlo Lizzani, Marcella De Marchis Rossellini e Silvia D’Amico; postfazione di Vittorio Giacci. Carissimo Renzo, sono settimane che ruoto intorno a queste poche righe di biografia, ma i vuoti sovrastano i pieni, e più conosco e più sottraggo righe e parole, perché la complessità di una vita, di quella vita, non si può comprimere né in un profilo né in una monografia. Serve

un dialogo, mi son detto, come quelli in cui aveva creduto lo stesso Roberto: un dialogo con qualcuno che ne abbia seguito molta parte della parabola umana e artistica. È così che ho deciso di inviarti questa scheda biografica decurtata dei suoi anni migliori, degli anni che muovono dalla vera nascita

di Roberto, che io colloco nell’alba di Roma “città aperta”. E se Renzo è lontano, come già sapevo da amici comuni, che importa, la tecnologia ci aiuterà: allestiamo una confortevole chat room, la lontananza ci farà essere più obiettivi, meno emotivi. Se sei disposto ad affrontare questo dialogo,

caro Renzo, cominciamo subito, con passione e metodo, a colmare il vuoto che si apre a partire da una Roma occupata da neri aguzzini, nei giorni della paura, delle macerie e della vicina Liberazione. Osvaldo Contenti

2002 Scene italoamericane. Rappresentazioni cinematografiche degli italiani d’America, a cura di Anna Camaiti Hostert e Anthony Julian Tamburri. Spaesamento, ibridazione, marginalità che si fa forza d’interpretare il mondo, come capacità di abbracciarne la complessità eterogenea: sono termini che, estrapolati da una

condizione specifica, quella dell’italoamericano del XX secolo, si affacciano a questo terzo millennio come elementi fondamentali della globalizzazione. Etnicità e progresso, criminalità e

repressione, razzismo e contaminazione, queste le fondamentali polarità che preludono a un’identità sociale e individuale da reinventare, facendo della frammentazione una

suggestiva moltiplicazione delle possibilità umane. La grande forza dei registi italoamericani è legata appunto a questo anticipo vissuto sui tempi della contemporaneità.

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Tracce dello sgfuardo

7.9

2007 Teatro Valdoca. Paesaggio con fratello rotto, scritto da Mariangela Gualtieri per la regia di Cesare Ronconi.

Paysage avec frère rompu, traduit par Jean-Paul Manganaro.

Interventi di Antonio Audino, Emanuela Dallagiovanna, Milo De Angelis, Marco De Marinis, Rodolfo Di Giammarco, Piergiorgio Giacchè, Maria Grazia Gregori, Franco Loi, Gianni Manzella, Massimo Marino, Sabrina Mezzaqui, Antonio Moresco, Tommaso Ottonieri, Alfredo Pirri, Oliviero Ponte di Pino, Paolo Ruffini, Elena Stancanelli, Ferdinando Taviani, Emanuele Trevi, Valentina Valentini. Apparato fotografico Paolo Rolando Guerzoni, Roberto Biatel. Non facciamo che udire parole funebri. L’assillo quotidiano sull’orrore del mondo e dell’uomo suona alle mie orecchie come solfa del malaugurio. Basta, mi dico. Ringrazio chiunque mi porti una parola luminosa. So quanto sia difficile farlo senza cadere in un’Arcadia di retorica e miele. Ma, mi pare, non si può più fare a meno di questa nominazione del bene. Non si può più rimandare. C’è attesa di una parola che si immerga nei temi più misteriosi, senza logorarli né logorarsi, che arrivi a chi ascolta come forza che risveglia altra forza, come solvente di ogni incrosto duro, di ogni meccanismo ghiacciato. Sono stanca di vedere fotografata l’ira, la nostra faccia lurida, la nostra miseria umana sempre sbattuta in primo piano. Sono stanca di un’arte che inscena tragedie senza catarsi. Troppo

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facile, mi dico, sostare così a lungo nel lato d’ombra della specie. Ora l’impresa più alta e rischiosa è parlare della gioia, pronunciare la parola “amore”. Ritrarre la bellezza del mondo, o almeno tentare di riconciliare gli aspetti ora così polarizzati del principio spirituale e della forza vitale cieca e animalesca, e sentirli come manifestazione di un’unica fonte onnicomprensiva. Non dovremo aspettare di essere nel pieno di un naufragio, o in altre situazioni estreme, per accorgerci che le nostre ultime parole, se potessimo in quel tempo consegnarle, sarebbero semplici modeste e vere parole d’amore. Qui ho tentato dunque, insieme al mio regista e grazie al suo potente contrappunto, di nominare il bene. Mariangela Gualtieri

Landscape with Broken Brother, translated by David Verzoni.


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2007 Teatro Valdoca. Paesaggio con fratello rotto, scritto da Mariangela Gualtieri per la regia di Cesare Ronconi.

Paysage avec frère rompu, traduit par Jean-Paul Manganaro.

Interventi di Antonio Audino, Emanuela Dallagiovanna, Milo De Angelis, Marco De Marinis, Rodolfo Di Giammarco, Piergiorgio Giacchè, Maria Grazia Gregori, Franco Loi, Gianni Manzella, Massimo Marino, Sabrina Mezzaqui, Antonio Moresco, Tommaso Ottonieri, Alfredo Pirri, Oliviero Ponte di Pino, Paolo Ruffini, Elena Stancanelli, Ferdinando Taviani, Emanuele Trevi, Valentina Valentini. Apparato fotografico Paolo Rolando Guerzoni, Roberto Biatel. Non facciamo che udire parole funebri. L’assillo quotidiano sull’orrore del mondo e dell’uomo suona alle mie orecchie come solfa del malaugurio. Basta, mi dico. Ringrazio chiunque mi porti una parola luminosa. So quanto sia difficile farlo senza cadere in un’Arcadia di retorica e miele. Ma, mi pare, non si può più fare a meno di questa nominazione del bene. Non si può più rimandare. C’è attesa di una parola che si immerga nei temi più misteriosi, senza logorarli né logorarsi, che arrivi a chi ascolta come forza che risveglia altra forza, come solvente di ogni incrosto duro, di ogni meccanismo ghiacciato. Sono stanca di vedere fotografata l’ira, la nostra faccia lurida, la nostra miseria umana sempre sbattuta in primo piano. Sono stanca di un’arte che inscena tragedie senza catarsi. Troppo

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facile, mi dico, sostare così a lungo nel lato d’ombra della specie. Ora l’impresa più alta e rischiosa è parlare della gioia, pronunciare la parola “amore”. Ritrarre la bellezza del mondo, o almeno tentare di riconciliare gli aspetti ora così polarizzati del principio spirituale e della forza vitale cieca e animalesca, e sentirli come manifestazione di un’unica fonte onnicomprensiva. Non dovremo aspettare di essere nel pieno di un naufragio, o in altre situazioni estreme, per accorgerci che le nostre ultime parole, se potessimo in quel tempo consegnarle, sarebbero semplici modeste e vere parole d’amore. Qui ho tentato dunque, insieme al mio regista e grazie al suo potente contrappunto, di nominare il bene. Mariangela Gualtieri

Landscape with Broken Brother, translated by David Verzoni.


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Parola d’ordine

8.1

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PAROLE D’ORDINE Il linguaggio non è la vita, dà ordini alla vita. L’unità elementare del linguaggio è la parola d’ordine, scrive Deleuze nei Postulati linguistici. Tutto è discorso indiretto: il linguaggio non ci appartiene, gli apparteniamo. Non lo possediamo, ci possiede. Non è uno strumento: ci domina. L’unica opposizione possibile a questo dominio è tracciare vie di fuga: organizzare evasioni per le parole chiuse nelle prigioni del discorso indiretto.

Un desiderio che è già un progetto editoriale: estrarre parole d’ordine dalle parole d’ordine, fare in modo che la fuga agisca contro la necrosi. Sotto le parole d’ordine esistono parole “lascia passare”, componenti di passaggio che possono produrre smottamenti nelle composizioni stratificate, organizzate, delle parole d’ordine. La stessa parola ha una doppia natura: bisogna estrarre l’una dall’altra, trasformare le composizioni d’ordine in componenti di passaggio. Sostituire un passaggio (un’evasione) a un arresto. Ogni sostantivo, ogni verbo, ogni aggettivo va liberato dall’ordine e messo in fuga, restituito al suo significato originario o destinato a un significato nuovo. Per creare un dizionario non alfabetico e non lineare, organizzato dall’urgenza di riappropriarsi delle parole, mettendole di traverso contro il concatenamento della glossolalia diseducante.

Il dizionario delle parole d’ordine nascerà necessariamente da un progetto collettivo: io, dice ancora Deleuze, è già una parola d’ordine. Occorre convocare una comunità. Ricercatori, poeti, blogger, scrittori, scienziati, saggisti, critici, insegnanti, filosofi, progettisti della cultura: ognuno dovrà scegliere una parola d’ordine da liberare, una parola lasciapassare da estrarre dal flusso delle parole che ci parlano. In un testo che abbia la consistenza di una voce di dizionario.

Metteremo le parole d’ordine una dopo l’altra, inventando classificazioni che confondano le superfici ordinate del sapere, come l’enciclopedia cinese di Borges. I contributi saranno ospitati in una sezione del sito www.lucasossellaeditore.it, e poi diffusi attraverso i circuiti della rete. Se e quando il glossario sarà cresciuto a sufficienza, potrà diventerà un libro: un manuale, un breviario, un’enciclopedia provvisoria.

Amicizia 8.2

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Alberto Abruzzese

Ci chiediamo se l’amicizia, questo tipo di relazione umana di cui ci sembra di sapere tutto perché da sempre celebrata, sia oggi ancora la stessa. Oppure se si stia trasformando e anzi si sia trasformata nel rapido trascorrere di qualche decennio. E perché questo stia accadendo. Dove, riguardo all’amicizia, siamo trascinati e cosa possa significare questo dove verso cui andiamo. L’amicizia è una dimensione che riguarda la persona e questa consiste in un corpo, in una lingua, in una memoria, in bisogni, in desideri. E questi desideri si accendono in un ambiente, l’ambiente in cui la persona abita, lo spazio e il tempo in cui vivono la nostra carne e il nostro spirito. Ora, nel definirci post-moderni, noi non assecondiamo una moda filosofica, un vezzo accademico, un gergo da “colti”, ma – pescando nella nostra personale esperienza quotidiana – ammettiamo che il nostro ambiente è diventato più nuovo del nuovo, più moderno del moderno, insomma sta vivendo una straordinaria trasformazione. Tanto straordinaria, potente, profonda, da gettarci al di là di ogni passata tradizione. Lo dobbiamo ammettere, non possiamo fare altrimenti. Infatti nell’ambiente a cui apparteniamo tutto si sta facendo diverso da ciò che ci hanno raccontato e insegnato: la percezione del nostro corpo, i modi in cui ci esprimiamo e comunichiamo, il rapporto quotidiano che instauriamo tra passato e presente, le necessità che sentiamo e i modi che abbiamo per soddisfarle, le cose che appassionano il nostro immaginario, le forme di trasgressione e conflitto con cui costruiamo la nostra individualità, il tempo e gli spazi di cui disponiamo. Ciascuna di queste trasformazioni ha una sua possibile spiegazione. Nell’insieme possiamo dire che sono proprio le innovazioni tecnologiche a metterne in evidenza l’intensità. E sotto l’impeto di tanto intense metamorfosi l’amicizia come potrebbe restare immutata? Proviamo a elencare alcune emergenze del presente. Dividiamole tra sfera collettiva e sfera individuale. Sul primo versante, quello collettivo, assistiamo a una progressiva frantumazione dei grandi legami sociali che hanno caratterizzato le società di massa. I linguaggi della televisione sono stati lo spazio in cui – per un lungo tratto, dagli anni Cinquanta sino quasi ai giorni nostri – le relazioni umane hanno trovato il modo di far convivere la sfera privata degli affetti quotidiani con la sfera pubblica della società civile. Ma questo processo, giunto alla sua fase culminante, ha dato sempre più forza espressiva alla quotidianità dei bisogni e dei desideri della persona, alla sua vita ordinaria, quella di “ogni giorno”. La sfera privata è entrata in conflitto con quella pubblica.


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Parola d’ordine

8.1

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PAROLE D’ORDINE Il linguaggio non è la vita, dà ordini alla vita. L’unità elementare del linguaggio è la parola d’ordine, scrive Deleuze nei Postulati linguistici. Tutto è discorso indiretto: il linguaggio non ci appartiene, gli apparteniamo. Non lo possediamo, ci possiede. Non è uno strumento: ci domina. L’unica opposizione possibile a questo dominio è tracciare vie di fuga: organizzare evasioni per le parole chiuse nelle prigioni del discorso indiretto.

Un desiderio che è già un progetto editoriale: estrarre parole d’ordine dalle parole d’ordine, fare in modo che la fuga agisca contro la necrosi. Sotto le parole d’ordine esistono parole “lascia passare”, componenti di passaggio che possono produrre smottamenti nelle composizioni stratificate, organizzate, delle parole d’ordine. La stessa parola ha una doppia natura: bisogna estrarre l’una dall’altra, trasformare le composizioni d’ordine in componenti di passaggio. Sostituire un passaggio (un’evasione) a un arresto. Ogni sostantivo, ogni verbo, ogni aggettivo va liberato dall’ordine e messo in fuga, restituito al suo significato originario o destinato a un significato nuovo. Per creare un dizionario non alfabetico e non lineare, organizzato dall’urgenza di riappropriarsi delle parole, mettendole di traverso contro il concatenamento della glossolalia diseducante.

Il dizionario delle parole d’ordine nascerà necessariamente da un progetto collettivo: io, dice ancora Deleuze, è già una parola d’ordine. Occorre convocare una comunità. Ricercatori, poeti, blogger, scrittori, scienziati, saggisti, critici, insegnanti, filosofi, progettisti della cultura: ognuno dovrà scegliere una parola d’ordine da liberare, una parola lasciapassare da estrarre dal flusso delle parole che ci parlano. In un testo che abbia la consistenza di una voce di dizionario.

Metteremo le parole d’ordine una dopo l’altra, inventando classificazioni che confondano le superfici ordinate del sapere, come l’enciclopedia cinese di Borges. I contributi saranno ospitati in una sezione del sito www.lucasossellaeditore.it, e poi diffusi attraverso i circuiti della rete. Se e quando il glossario sarà cresciuto a sufficienza, potrà diventerà un libro: un manuale, un breviario, un’enciclopedia provvisoria.

Amicizia 8.2

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Alberto Abruzzese

Ci chiediamo se l’amicizia, questo tipo di relazione umana di cui ci sembra di sapere tutto perché da sempre celebrata, sia oggi ancora la stessa. Oppure se si stia trasformando e anzi si sia trasformata nel rapido trascorrere di qualche decennio. E perché questo stia accadendo. Dove, riguardo all’amicizia, siamo trascinati e cosa possa significare questo dove verso cui andiamo. L’amicizia è una dimensione che riguarda la persona e questa consiste in un corpo, in una lingua, in una memoria, in bisogni, in desideri. E questi desideri si accendono in un ambiente, l’ambiente in cui la persona abita, lo spazio e il tempo in cui vivono la nostra carne e il nostro spirito. Ora, nel definirci post-moderni, noi non assecondiamo una moda filosofica, un vezzo accademico, un gergo da “colti”, ma – pescando nella nostra personale esperienza quotidiana – ammettiamo che il nostro ambiente è diventato più nuovo del nuovo, più moderno del moderno, insomma sta vivendo una straordinaria trasformazione. Tanto straordinaria, potente, profonda, da gettarci al di là di ogni passata tradizione. Lo dobbiamo ammettere, non possiamo fare altrimenti. Infatti nell’ambiente a cui apparteniamo tutto si sta facendo diverso da ciò che ci hanno raccontato e insegnato: la percezione del nostro corpo, i modi in cui ci esprimiamo e comunichiamo, il rapporto quotidiano che instauriamo tra passato e presente, le necessità che sentiamo e i modi che abbiamo per soddisfarle, le cose che appassionano il nostro immaginario, le forme di trasgressione e conflitto con cui costruiamo la nostra individualità, il tempo e gli spazi di cui disponiamo. Ciascuna di queste trasformazioni ha una sua possibile spiegazione. Nell’insieme possiamo dire che sono proprio le innovazioni tecnologiche a metterne in evidenza l’intensità. E sotto l’impeto di tanto intense metamorfosi l’amicizia come potrebbe restare immutata? Proviamo a elencare alcune emergenze del presente. Dividiamole tra sfera collettiva e sfera individuale. Sul primo versante, quello collettivo, assistiamo a una progressiva frantumazione dei grandi legami sociali che hanno caratterizzato le società di massa. I linguaggi della televisione sono stati lo spazio in cui – per un lungo tratto, dagli anni Cinquanta sino quasi ai giorni nostri – le relazioni umane hanno trovato il modo di far convivere la sfera privata degli affetti quotidiani con la sfera pubblica della società civile. Ma questo processo, giunto alla sua fase culminante, ha dato sempre più forza espressiva alla quotidianità dei bisogni e dei desideri della persona, alla sua vita ordinaria, quella di “ogni giorno”. La sfera privata è entrata in conflitto con quella pubblica.


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Parola d’ordine

Genealogia

Le innovazioni basate sull’informatica – il personal computer, Internet ma in modo massivo, popolare, soprattutto il “telefonino” – hanno allora cominciato a offrire nuovi strumenti espressivi a individui sempre meno disposti a essere inquadrati in identità collettive uniformi e sempre più inclini invece a costruire un proprio mondo personale. Sempre più desiderosi di ricorrere a ogni oggetto di consumo e mezzo tecnico in grado di espandere il loro corpo al di là di ogni barriera sociale e farlo penetrare in nuove sfere simboliche e relazionali. Una lettura troppo superficiale di questo slittamento dal pubblico al privato ci porterebbe a valutarlo in termini del tutto negativi. Così, per quanto riguarda l’amicizia, saremmo di conseguenza costretti a collocarla nello spazio di riflusso e frustrazione dei grandi valori civili, di crisi della solidarietà sociale, di rarefazione della sfera pubblica, di degenerazione delle istituzioni e della politica. Sarebbe un grave errore pensare l’amicizia come rifugio, quando essa potrebbe invece diventare luogo di sperimentazione di nuove forme di vita, proprio quelle nate sulle rovine della modernità, sul crollo di quella società industriale di massa caratterizzata da stati e sistemi economici che si sono fondati sulla tragica opposizione amico-nemico per dare senso alle loro politiche e alle loro guerre. Se vogliamo scoprire ciò che oggi può esserci di nuovo nell’amicizia dobbiamo allora pensarla – e trovarne le tracce già esistenti – partendo dal rifiuto dell’idea pilota infissa col sangue in quel binomio: l’asservimento della quotidianità, della nuda vita delle persone, alle leggi esclusive del conflitto sociale, là dove la sfera dell’amicizia come esperienza di una relazione profonda tra esseri umani viene sottoposta ad amputazione, svuotata di ogni effettivo significato sociale, privata di libertà espressiva e legata dentro confini normativi in tutto estranei ai processi di auto-organizzazione che sono propri dei linguaggi inclusivi del sentire amicale. In altre parole: i territori dell’esperienza contemporanea si prestano a mettere in radicale discussione il dispositivo dell’amicizia nella sua dimensione moderna, dimensione in cui, non a caso, “frammenti di amicizia” possono essere trovati tanto nelle aggregazioni civili quanto in quelle più anomale e perverse, come sette, mafia, massonerie, gruppi lobbisti. Qui l’amicizia è gettata in reti di relazione che fanno ricorso a codici segreti, a norme non scritte e tuttavia ancora più vincolanti. A interessi che fanno tutt’uno con l’amicizia, assecondando la straordinaria miscela che i regimi moderni hanno saputo realizzare tra passioni e funzioni. Ma, del resto, le storie di amicizia ordinaria, privata, legittima, in apparenza puramente affettiva, non sono forse tutte ritagliate proprio intorno a legami che si instaurano e si spezzano passando tra un ambiente e l’altro, un insieme di interessi e un altro? Ecco, accettando questo quadro interpretativo e il senso da assegnare alle trasformazioni ambientali di cui siamo al tempo stesso invasori e invasati, le riflessioni da far maturare nello spazio dell’amicizia dovrebbero fare perno sulla urgente necessità di uscire da sistemi di interesse che non ci aiutano più a vivere e anzi ci feriscono sempre di più. Per capire questo transito epocale bisogna passare dagli strumenti interpretativi della sociologia a quelli dell’antropologia e della psicologia. La sociologia è nata quando è nata la società moderna avanzata e dunque hanno preso forma prepon-

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derante le identità collettive a scapito dei linguaggi emotivi e dei desideri della persona. Solo la psicanalisi lesse allora il mondo in modo radicalmente diverso, scendendo nell’inconscio individuale e mettendo a nudo pulsioni che nulla avevano a che vedere con il “platonismo” delle astrazioni sociali dello stato, delle classi, delle professioni. L’antropologia è una forma di sapere che, un tempo dedicata alle società primitive, si sta sempre più indirizzando verso lo studio di forme espressive del presente che sfuggono alle regole della modernità (emergenza di linguaggi del corpo, tendenza ad aggregazioni tribali e neocomunitarie). La psicologia, scienza dell’individuo a lungo tempo messa a servizio delle norme vigenti nella sfera collettiva, ha ora la possibilità – insieme all’antropologia culturale – di scoprire il senso dei mutamenti che stanno nascendo dal profondo dell’esperienza umana. Siamo ancora portati a immaginare l’amicizia come un sentimento che riguarda la sfera privata degli affetti, non solo un moto d’animo ma anche un trasporto sensoriale – amicizia ha pur sempre la stessa radice semantica di amore – verso un’altra persona che non appartenga all’ambito familiare, in cui il vincolo è invece prestabilito dalla natura (la procreazione) e dalla società (il matrimonio). Ma sappiamo bene quanto la sempre più evidente artificializzazione della natura – si pensi al quadro biotecnologico delle manipolazioni genetiche – si sia spinta ben oltre ciò che un tempo definivamo natura. Si pensi a quanto le distinzioni di genere siano state sconvolte da forme di sessualità in via di sempre più forte legittimazione e a quanto l’idea stessa di legame familiare abbia infranto le regole imposte dalla religione e dallo stato. Le parole amante e amatore – che servono a individuare una specifica tensione istintiva per l’altro da sé, sia esso un corpo o un oggetto o una situazione – ci dicono la forza del sentimento amicale. L’attrazione che esso mette in campo. La sua natura desiderante, di per sé trasgressiva. Tuttavia, come si è detto, l’amicizia può farsi vincolo volontario non perché natura e società non prevedano per essa la stipula di nessun contratto: il fatto che essa non sia stata governata da contratti palesi, fondati su norme giuridiche, istituzionali, pubbliche non ha impedito che essa stessa abitasse in quello spazio non detto, quella “microfisica del potere”, di cui la società moderna si è più servita per sorvegliare e punire. La società, infatti, ha stretto ogni rapporto amicale dentro un confine invalicabile, picchettato da una serie di saperi, luoghi comuni, norme comportamentali, e tabù, come ad esempio l’interdizione delle pratiche omosessuali. Ecco quindi che la nostra attenzione, nel parlare di amicizia, dovrebbe innanzi tutto rivolgersi verso quali interessi oggi ne condizionino una libera espressione, ne blocchino la capacità creativa, la portata innovativa. Quale sia l’impatto psicologico che tali interessi esercitano in noi e quali nuovi interessi si possano generare in quest’epoca di disagio nei confronti del già vissuto. Le relazioni interpersonali – in atto dal vivo attraverso la telefonia mobile e attraverso le varie forme di intrattenimento personale su Internet: videogiochi, siti, chat, blog, ecc. – costituiscono le zone e i nodi di un’esperienza che non si fonda più sulle regole frontali e unidirezionali dello spettacolo ma sull’esperienza diretta di se stessi. Questo è forse il luogo più fertile per innovare la qualità dei legami di amicizia, per ridisegnare le loro attitudini ancor prima del loro ruolo. Per cogliere quanto essi possano sconfinare al di là dei valori e degli scopi che la società si è data.

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Parola d’ordine

Genealogia

Le innovazioni basate sull’informatica – il personal computer, Internet ma in modo massivo, popolare, soprattutto il “telefonino” – hanno allora cominciato a offrire nuovi strumenti espressivi a individui sempre meno disposti a essere inquadrati in identità collettive uniformi e sempre più inclini invece a costruire un proprio mondo personale. Sempre più desiderosi di ricorrere a ogni oggetto di consumo e mezzo tecnico in grado di espandere il loro corpo al di là di ogni barriera sociale e farlo penetrare in nuove sfere simboliche e relazionali. Una lettura troppo superficiale di questo slittamento dal pubblico al privato ci porterebbe a valutarlo in termini del tutto negativi. Così, per quanto riguarda l’amicizia, saremmo di conseguenza costretti a collocarla nello spazio di riflusso e frustrazione dei grandi valori civili, di crisi della solidarietà sociale, di rarefazione della sfera pubblica, di degenerazione delle istituzioni e della politica. Sarebbe un grave errore pensare l’amicizia come rifugio, quando essa potrebbe invece diventare luogo di sperimentazione di nuove forme di vita, proprio quelle nate sulle rovine della modernità, sul crollo di quella società industriale di massa caratterizzata da stati e sistemi economici che si sono fondati sulla tragica opposizione amico-nemico per dare senso alle loro politiche e alle loro guerre. Se vogliamo scoprire ciò che oggi può esserci di nuovo nell’amicizia dobbiamo allora pensarla – e trovarne le tracce già esistenti – partendo dal rifiuto dell’idea pilota infissa col sangue in quel binomio: l’asservimento della quotidianità, della nuda vita delle persone, alle leggi esclusive del conflitto sociale, là dove la sfera dell’amicizia come esperienza di una relazione profonda tra esseri umani viene sottoposta ad amputazione, svuotata di ogni effettivo significato sociale, privata di libertà espressiva e legata dentro confini normativi in tutto estranei ai processi di auto-organizzazione che sono propri dei linguaggi inclusivi del sentire amicale. In altre parole: i territori dell’esperienza contemporanea si prestano a mettere in radicale discussione il dispositivo dell’amicizia nella sua dimensione moderna, dimensione in cui, non a caso, “frammenti di amicizia” possono essere trovati tanto nelle aggregazioni civili quanto in quelle più anomale e perverse, come sette, mafia, massonerie, gruppi lobbisti. Qui l’amicizia è gettata in reti di relazione che fanno ricorso a codici segreti, a norme non scritte e tuttavia ancora più vincolanti. A interessi che fanno tutt’uno con l’amicizia, assecondando la straordinaria miscela che i regimi moderni hanno saputo realizzare tra passioni e funzioni. Ma, del resto, le storie di amicizia ordinaria, privata, legittima, in apparenza puramente affettiva, non sono forse tutte ritagliate proprio intorno a legami che si instaurano e si spezzano passando tra un ambiente e l’altro, un insieme di interessi e un altro? Ecco, accettando questo quadro interpretativo e il senso da assegnare alle trasformazioni ambientali di cui siamo al tempo stesso invasori e invasati, le riflessioni da far maturare nello spazio dell’amicizia dovrebbero fare perno sulla urgente necessità di uscire da sistemi di interesse che non ci aiutano più a vivere e anzi ci feriscono sempre di più. Per capire questo transito epocale bisogna passare dagli strumenti interpretativi della sociologia a quelli dell’antropologia e della psicologia. La sociologia è nata quando è nata la società moderna avanzata e dunque hanno preso forma prepon-

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derante le identità collettive a scapito dei linguaggi emotivi e dei desideri della persona. Solo la psicanalisi lesse allora il mondo in modo radicalmente diverso, scendendo nell’inconscio individuale e mettendo a nudo pulsioni che nulla avevano a che vedere con il “platonismo” delle astrazioni sociali dello stato, delle classi, delle professioni. L’antropologia è una forma di sapere che, un tempo dedicata alle società primitive, si sta sempre più indirizzando verso lo studio di forme espressive del presente che sfuggono alle regole della modernità (emergenza di linguaggi del corpo, tendenza ad aggregazioni tribali e neocomunitarie). La psicologia, scienza dell’individuo a lungo tempo messa a servizio delle norme vigenti nella sfera collettiva, ha ora la possibilità – insieme all’antropologia culturale – di scoprire il senso dei mutamenti che stanno nascendo dal profondo dell’esperienza umana. Siamo ancora portati a immaginare l’amicizia come un sentimento che riguarda la sfera privata degli affetti, non solo un moto d’animo ma anche un trasporto sensoriale – amicizia ha pur sempre la stessa radice semantica di amore – verso un’altra persona che non appartenga all’ambito familiare, in cui il vincolo è invece prestabilito dalla natura (la procreazione) e dalla società (il matrimonio). Ma sappiamo bene quanto la sempre più evidente artificializzazione della natura – si pensi al quadro biotecnologico delle manipolazioni genetiche – si sia spinta ben oltre ciò che un tempo definivamo natura. Si pensi a quanto le distinzioni di genere siano state sconvolte da forme di sessualità in via di sempre più forte legittimazione e a quanto l’idea stessa di legame familiare abbia infranto le regole imposte dalla religione e dallo stato. Le parole amante e amatore – che servono a individuare una specifica tensione istintiva per l’altro da sé, sia esso un corpo o un oggetto o una situazione – ci dicono la forza del sentimento amicale. L’attrazione che esso mette in campo. La sua natura desiderante, di per sé trasgressiva. Tuttavia, come si è detto, l’amicizia può farsi vincolo volontario non perché natura e società non prevedano per essa la stipula di nessun contratto: il fatto che essa non sia stata governata da contratti palesi, fondati su norme giuridiche, istituzionali, pubbliche non ha impedito che essa stessa abitasse in quello spazio non detto, quella “microfisica del potere”, di cui la società moderna si è più servita per sorvegliare e punire. La società, infatti, ha stretto ogni rapporto amicale dentro un confine invalicabile, picchettato da una serie di saperi, luoghi comuni, norme comportamentali, e tabù, come ad esempio l’interdizione delle pratiche omosessuali. Ecco quindi che la nostra attenzione, nel parlare di amicizia, dovrebbe innanzi tutto rivolgersi verso quali interessi oggi ne condizionino una libera espressione, ne blocchino la capacità creativa, la portata innovativa. Quale sia l’impatto psicologico che tali interessi esercitano in noi e quali nuovi interessi si possano generare in quest’epoca di disagio nei confronti del già vissuto. Le relazioni interpersonali – in atto dal vivo attraverso la telefonia mobile e attraverso le varie forme di intrattenimento personale su Internet: videogiochi, siti, chat, blog, ecc. – costituiscono le zone e i nodi di un’esperienza che non si fonda più sulle regole frontali e unidirezionali dello spettacolo ma sull’esperienza diretta di se stessi. Questo è forse il luogo più fertile per innovare la qualità dei legami di amicizia, per ridisegnare le loro attitudini ancor prima del loro ruolo. Per cogliere quanto essi possano sconfinare al di là dei valori e degli scopi che la società si è data.

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Tabula gratulatoria

Damiano Abeni è un epidemiologo, e dal 1973 traduce in italiano poesia anglo-americana. Ha pubblicato volumi di Bidart, Bishop, Bukowski, Ferlinghetti, Ginsberg, Strand, Simic, C. K. Williams, e molti altri. Con Mark Strand ha curato West of Your Cities, antologia bilingue di poeti americani contemporanei. Le sue traduzioni sono accolte in numerose riviste italiane, ed è tra i responsabili di “Nuovi Argomenti”. Con Moira Egan ha pubblicato traduzioni da John Barth, Mark Strand, Josephine Tey e John Ashbery, la cui raccolta Un mondo che non può essere migliore: Poesie scelte 1956-2007 si è aggiudicata un riconoscimento speciale al Premio Napoli (2009). È stato Literature Fellow al Liguria Study Center of the Bogliasco Foundation, e Fellow al Rockefeller Foundation Bellagio Center. È docente di tecnica della traduzione letteraria alla John Cabot University. Alberto Abruzzese (Roma, 14 agosto 1942) è un sociologo, scrittore e saggista. Ha scritto di letteratura, cinema, sociologia della comunicazione e della pubblicità, storia sociale dell’industria culturale e delle innovazioni tecnologiche, mediologia. Ha insegnato sociologia dell’arte e della letteratura, sociologia della conoscenza e sociologia delle comunicazioni di massa presso l’Università Federico II di Napoli. Dal 1992 al 2005 è stato professore ordinario di sociologia delle comunicazioni di massa presso il corso di laurea in Scienze della comunicazione della facoltà di Sociologia dell’università La Sapienza di Roma, di cui è stato presidente tra il 1995 e il 1999. La luca sossella editore ha pubblicato nel 2008 la seconda edizione del suo libro La grande scimmia. Mostri, vampiri, automi, mutanti (1979). Dal 2005 è professore ordinario di sociologia dei processi culturali e comunicativi e direttore dell’istituto di comunicazione presso l’Università Iulm di Milano, dove è anche prorettore per l’innovazione tecnologica e le relazioni internazionali. John Ashbery è nato a Rochester, New York, il 28 luglio 1927. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia, a cominciare dal 1953 con Turandot and Other Poems (Tibor de Nagy Editions). Il suo Self-Portrait in a Convex Mirror (Viking, 1975) ha ottenuto i tre maggiori riconoscimenti americani: il premio Pulitzer, il National Book Award, e il National Book Critics Circle Award. La più consistente antologia delle sue opere in traduzione italiana, Un mondo che non può essere migliore: Poesie scelte 19562007, è stata pubblicata dalla luca sossella editore nel 2007, a cura di Damiano Abeni e Joseph Harrison, per la traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan. Ashbery si è occupato di arti figurative per “Art News” (1965-72), “New York Magazine” (1978-80) e “Newsweek” (1980-85). Ha tradotto dal francese opere di Raymond Roussel, Max Jacob, Alfred Jarry, Antonin Artaud, Pierre Reverdy, Stéphane Mallarmé, e diverse raccolte di poesia di Pierre Martory, delle quali la più recente è The Landscapist: Selected Poems (Sheep Meadow / Carcanet, 2008). Le sue opere sono state tradotte in più di venti lingue. Ha ricevuto innumerevoli premi e riconoscimenti ufficiali. Dal 2006 è membro straniero dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Marco Belpoliti (Reggio Emilia, 1954) si laurea presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Bologna nel 1978, discutendo una tesi in semiotica con Umberto Eco. Insegna sociologia della letteratura e letteratura italiana presso l’Università di Bergamo. Nel 1981 ha fondato, insieme ad altri, la rivista “In forma di parole” e la casa editrice Elitropia. Ha collaborato a

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“Nuovi Argomenti” durante gli anni Ottanta. Dal 1981 collabora stabilmente alle pagine culturali del quotidiano “il Manifesto”, e in particolare all’inserto “Alias”. Dal 1991 è condirettore della rivista “Riga”, edita da Marcos y Marcos. Dal 1998 collabora alle pagine culturali del quotidiano “La Stampa”. Dal 2000 collabora al settimanale “L’espresso” con una rubrica di recensioni librarie. Nel 1997 ha curato l’edizione critica delle opere di Primo Levi uscite presso Einaudi, e successivamente, dello stesso autore, una serie di volumi. Ha collaborato alla sceneggiatura di un film di Davide Ferrario sul ritorno a casa di Levi (La strada di Levi, 2006). Nel 2009 ha pubblicato Il corpo del capo. Del 2010 sono Senza vergogna e Pasolini in salsa piccante. Franco Berardi Bifo è scrittore e media-attivista. Negli anni ’70 partecipò alla redazione di Radio Alice e fondò la rivista “A/traverso”. Partecipò al ’68 bolognese, alle attività del gruppo Potere operaio, e nel 1977 fu uno degli animatori della rivolta degli autonomi desideranti bolognesi. Nei decenni successivi ha collaborato a diverse riviste, come “Semiotexte” (New York), “Chimeres” (Parigi), “Musica 80” (Milano) e “Archipielago” (Barcellona). Attualmente scrive per il mensile “Loop” (Roma) e per la rivista argentina “Crisis” (Buenos Aires). Ha pubblicato articoli e libri sul rapporto tra comunicazione estetica e movimenti sociali, tra i quali Mutazione e ciberpunk (Costa e Nolan), Felix (luca sossella editore), Un’estate all’inferno (luca sossella editore). Nel 2010 ha pubblicato The Soul at Work (“Semiotexte”) e pRecarious Rhapsody. Ha fondato e animato per dieci anni il net magazine www.rekombinant.org. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Milano. Il prossimo libro, After the Future, uscirà nel 2011 per l’editore AK. Giulio Blasi (1964) è laureato in filosofia e ha conseguito un dottorato di ricerca sotto la direzione di Umberto Eco. Amministratore unico di Horizons Unlimited srl, società (attiva dal 1993) che ha lanciato MediaLibraryOnLine. Insegna occasionalmente in alcune scuole di master ed è autore di saggi tra i quali: Semiotics and the Effects of Media Change Research Programmes (VS, 1995); Internet. Storia e futuro di un nuovo medium (Guerini, 1999); The Future of Memory (Brepols, 2002); una serie di articoli sulle biblioteche digitali tra 2009 e 2010. Giancarlo Dotto (Valdagno, 1 giugno 1952) è stato per molti anni l’assistente alla regia di Carmelo Bene, col quale ha scritto Vita di Carmelo Bene, pubblicato nel 2005. Collabora con “La Stampa”, “Gioia”, “Panorama”, “Max” e “L’Espresso”, per il quale ha condotto un’inchiesta sulla prostituzione giovanile. Grande esperto del mondo delle televisioni locali durante il cosiddetto Far West televisivo, ha scritto, insieme a Sandro Piccinini, giornalista sportivo, il libro Il mucchio selvaggio. La strabiliante, epica, inverosimile ma vera storia della televisione locale in Italia, pubblicato nel 2008. È stato spesso ospite in tv come opinionista. Moira Egan ha publicato Cleave; La Seta della Cravatta / The Silk of the Tie; Bar Napkin Sonnets (The Ledge); Spin (Entasis Press). Le sue poesie sono state pubblicate in diverse riviste e antologie, come Best American Poetry 2008. Con Damiano Abeni ha pubblicato traduzioni da John Barth, Mark Strand, Josephine Tey e John Ashbery, la cui raccolta Un mondo che non può essere migliore: Poesie scelte 1956-2007 si è aggiudicata un riconoscimento speciale al Premio Napoli (2009). È stata Mid Atlantic Arts Fellow al Virginia Center for the Creative Arts; Writer in

Massimiliano Manganelli è nato a Tripoli, in Libia, nel 1966. Vive e lavora, come insegnante e traduttore, a Roma. Ha pubblicato saggi su Ungaretti, Sanguineti, Volponi, Lucini, Porta; con il Gruppo Laboratorio ha curato i volumi Luigi Malerba (Lacaita, Manduria 1994) e Paolo Volponi: scrittura come contraddizione (Angeli, Milano 1995). È tra i curatori dell’antologia Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli (luca sossella editore, Roma 2005). Collabora inoltre con la rivista “l’immaginazione”, con il blog Critiqueville e con puntocritico.eu.

Residence al St. James Cavalier Centre for Creativity, Malta; Writing Fellow al Civitella Ranieri Center e Fellow al Rockefeller Foundation Bellagio Center. Lavora per la John Cabot University, dove è responsabile dei workshop poetici e docente di tecnica della traduzione letteraria. Gabriele Frasca (Napoli, 1957) è autore di romanzi, raccolte poetiche e saggi critici, nonché traduttore di Samuel Beckett e Philip K. Dick. Per la nostra casa editrice ha pubblicato Prime. Poesie 1977-2007 (2007), il romanzo Dai cancelli d’acciaio (2011) e, con il gruppo musicale i ResiDante, il cd Il fronte interno (2003). Insegna Letterature Comparate e Media Comparati all’Università per gli Studi di Salerno.

Aldo Mastropasqua vive e lavora a Roma, dove insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università La Sapienza. Ha scritto numerosi saggi sui maggiori poeti e romanzieri italiani contemporanei, con particolare riferimento alle linee di ricerca sperimentali e d’avanguardia, ma si è occupato anche di argomenti di teoria della letteratura e di storia della critica letteraria. Sviluppando un’idea di Giuliano Manacorda, ha dato vita con altri colleghi all’Archivio del Novecento della Sapienza, che raccoglie documentazione a stampa e manoscritta di scrittori e artisti contemporanei. Ha fondato nel 1996 e dirige con Francesca Bernardini la rivista di letteratura contemporanea “Avanguardia” ed è di imminente uscita il primo di una serie di volumi di Letteratura italiana contemporanea da lui curati dal titolo Il Futurismo: la stagione eroica. Nel novembre del 1996, in occasione della Mostra-Convegno Letteratura italiana dal Novecento. Bilancio di un secolo, ha presentato al Palazzo delle Esposizioni di Roma Scatola sonora, audio-antologia dei poeti italiani del Novecento da Marinetti a Sanguineti e Novecento. I protagonisti raccontano, documentario di montaggio con le immagini e le voci dei maggiori scrittori italiani del secolo scorso.

Massimo Gezzi (Sant’Elpidio a Mare, 1976) ha pubblicato due raccolte di poesia: Il mare a destra (Edizioni Atelier, 2004) e L’attimo dopo (luca sossella editore, 2009, Premio Metauro, finalista Premio Palmi e Premio Il Ceppo), di prossima pubblicazione in Spagna. I suoi testi sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo e croato. Come studioso ha curato il volume L’autocommento nella poesia italiana del Novecento: Italia e Svizzera italiana (Pacini Editore, 2010) e l’edizione commentata del Diario del ’71 e del ’72 di Montale (Mondadori, 2010). È traduttore letterario dall’inglese, e attualmente lavora come assistente alla cattedra di Letteratura Italiana dell’Università di Berna. Paolo Giovannetti (1958) insegna Letteratura italiana all’Università Iulm di Milano. I suoi ultimi libri sono: Dalla poesia in prosa al rap (2008) e La metrica italiana contemporanea (2010, con Gianfranca Lavezzi). Roberto Herlitzka (Torino, 2 ottobre 1937) è un attore teatrale e cinematografico. Di origine ceca, è stato allievo di Orazio Costa all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Nel 2004 si è aggiudicato un Nastro d’Argento e un David di Donatello come miglior attore per la sua interpretazione di Aldo Moro nel film di Marco Bellocchio Buongiorno, notte (che gli è valso anche il Premio Horcynus Orca quattro anni dopo), e ha ricevuto un Premio Gassman come miglior attore per gli spettacoli teatrali Lasciami andare madre e Lighea. Vittorio Gassman lo ha voluto al suo fianco per interpretare alcuni testi poetici all’interno della Antologia personale di Vittorio Gassman, pubblicata dalla luca sossella editore nel 2000.

Piergiorgio Odifreddi (Cuneo, 13 luglio 1950) è un matematico, logico e saggista. I suoi scritti, oltre che di matematica, si occupano di divulgazione scientifica, storia della scienza, filosofia, politica, religione, esegesi, filologia e saggistica varia. Ha frequentato l’Istituto Tecnico per Geometri a Cuneo, avendo tra i suoi coetanei e compagni Flavio Briatore, col quale non ricorda di aver mai scambiato una parola. Ha studiato matematica presso l’Università di Torino, dove si è laureato in logica nel 1973. Si è poi specializzato negli Stati Uniti e nella ex Unione Sovietica. Ha insegnato logica presso l’Università di Torino, e dal 1985 al 2003 è stato visiting professor presso la Cornell University, dove ha collaborato con Anil Nerode, Richard Platek e Richard Shore. Oltre all’attività accademica, ha intrapreso una fortunata attività divulgativa, finora raccolta in quattro libri: C’era una volta un paradosso, 2001; Le menzogne di Ulisse, 2004; In principio era Darwin, 2009; Hai vinto, Galileo!, 2009. Cinquanta suoi colloqui con vincitori del Premio Nobel o della Medaglia Fields sono stati raccolti in Incontri con menti straordinarie, 2006. Odifreddi ha organizzato dal 2007 al 2009 all’Auditorium di Roma il Festival della matematica. Molto noti sono i suoi libri che propongono una interpretazione laica e razionalista di alcuni fatti religiosi: Il Vangelo secondo la Scienza, del 1999, e Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), del 2007. Per alcuni anni è stato presente su National Geographic Channel con la rubrica Ai confini della Scienza.

Fabien Kunz è nato in Svizzera. Ha studiato letterature romanze alle Università di Basilea, di Ginevra e di Pisa dove dal 2009 è perfezionando alla Scuola Normale Superiore. Attualmente lavora come assistente al dipartimento di italianistica della LMU di Monaco. Luciano Lucignani (Roma, 11 gennaio 1922). Dopo la maturità classica si iscrive all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma. Suoi compagni del periodo sono Vittorio Gassman, Luciano Salce, Vittorio Caprioli, Adolfo Celi, Mario Landi. Nel dopoguerra, impegnato culturalmente nel PCI, oltre alla recitazione si occupa di regia teatrale, critica, sceneggiature, allestimento di spettacoli. Nel 1955 è coregista del film Kean, di Gassman, e coautore insieme a Celi e Gassman della pellicola L’alibi, del 1968, nella quale i tre amici sono contemporaneamente autori, registi e attori. Si è spento a Roma nel mese di ottobre del 2008.

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Davide Pugnana è nato a Carrara nel 1984. Dopo aver frequentato il Liceo Artistico “Artemisia Gentileschi”, diplomandosi in tecniche pittoriche e plastiche, si è iscritto alla facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, grazie a una parallela istruzione classica in privato, sotto la guida del professor Roberto Greco, suo primo maestro. Massimo Raffaeli scrive su “il Manifesto”, “La Stampa” e i relativi supplementi letterari, “Alias” e “Tuttolibri”. Collabora a numerose riviste (“Nuovi Argomenti”, “Il Caffè illustrato”, “Lo Straniero”) e ai programmi di Radio3 Rai. Ha curato opere di autori italiani contemporanei e ha tradotto a lungo dal francese. La sua produzione è raccolta in una decina di volumi, fra cui Novecento italiano (luca sossella editore 2001) e Don Chisciotte e le macchine. Scritti su Paolo Volponi (peQuod 2007). Gino Roncaglia è docente di Informatica applicata alle discipline umanistiche e di Applicazioni della multimedialità alla trasmissione delle conoscenze presso l’Università degli Studi della Tuscia, dove dirige anche il master universitario in e-Learning e un corso di perfezionamento su futuro del libro, e-book ed editoria digitale. Ha conseguito la laurea in filosofia all’Università di Roma La Sapienza e il dottorato di ricerca in filosofia all’Università di Firenze. Oltre al recentissimo La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro (Laterza, 2010), è autore o coautore di oltre cinquanta fra libri e pubblicazioni, fra cui la fortunata serie di manuali Laterza sull’uso di Internet (6 volumi e oltre 20 ristampe dal 1996 al 2004), il saggio Il mondo digitale (con Fabio Ciotti, Laterza, 2000, 11 ristampe), e un volume sul dibattito logico nella scolastica protestante tedesca (Palaestra Rationis, Olschki, 1996). È coautore – con Mirella Capozzi – del capitolo dedicato alla logica moderna nel volume The Development of Modern Logic edito da Oxford University Press. È socio fondatore e vicepresidente dell’associazione culturale Liber Liber, promotrice del Progetto Manuzio, biblioteca digitale gratuita in rete. Fortemente impegnato nel campo della divulgazione scientifica di qualità, è stato fra gli autori delle trasmissioni televisive di RAI Educational MediaMente, Emilio, Multimedi@scuola, ed è fra i consulenti scientifici della trasmissione Explora Science, per la quale ha realizzato una serie di puntate sulla storia dell’informatica in Italia. È consulente per Internet e nuove tecnologie di RAI New Media. Roberto Roversi (Bologna, 1923). Si arruolò fra i partigiani, appena ventenne, e combatté nella Resistenza in Piemonte. Dal 1948 al 2006 ha svolto l’attività di libraio antiquario gestendo a Bologna la Libreria Palmaverde. Nel 1955 ha fondato con Francesco Leonetti e Pier Paolo Pasolini la rivista “Officina”. Nel 1961 ha dato alla luce una nuova rivista, “Rendiconti”. Di entrambe è stato anche editore. Attorno alla metà degli anni Sessanta ha smesso di pubblicare con i grandi editori, limitandosi esclusivamente a fogli fotocopiati distribuiti liberamente e a collaborazioni con piccole riviste autogestite. Negli anni Settanta ha scritto numerosi testi di canzoni per Lucio Dalla (per gli album Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e, sotto pseudonimo, Automobili), e successivamente altri per il gruppo degli Stadio. Recentemente, le edizioni Pendragon hanno ristampato tre dei suoi testi teatrali (Unterdenlinden, Il Crack e La macchina da guerra più formidabile) sotto la cura del professor Arnaldo Picchi, e hanno pubblicato per la prima volta La macchia d’inchiostro.

Nel 2008 la luca sossella editore ha pubblicato Tre poesie e alcune prose. Testi 1959-2004, antologia curata da Marco Giovenale. Nel 2010 Roversi ha stampato in 32 copie la raccolta poetica L’Italia sepolta sotto la neve. Guido Vitiello è nato a Napoli nel 1975, ma vive e lavora a Roma. Ricercatore presso la Facolta di Scienze della Comunicazione (La Sapienza), collabora con “Internazionale”, “il Riformista” e “il Foglio”. Ha scritto, tra le altre cose, La commedia dell’innocenza, edito dalla luca sossella editore nel 2007. Cura il blog UnPopperUno (www.unpopperuno.net). Andrea Zanzotto è nato nel 1921 a Pieve di Soligo. Ha lavorato come insegnante per le scuole medie inferiori e superiori. Ha partecipato alla Resistenza veneta nelle fila di Giustizia e Libertà. Ha vissuto da emigrante in Svizzera e in Francia. Ha pubblicato il suo primo libro di poesia, Elegia e altri versi, nel 1954, seguito nel 1957 da Vocativo. Da critico letterario ha collaborato a “La Fiera Letteraria”, “Comunità”, “Il Caffè”, “L’Approdo letterario”, “Paragone”, “Nuovi Argomenti”, “Il Giorno”, “l’Avanti!”, il “Corriere della Sera”, per il quale è stato a lungo collaboratore esterno. I suoi saggi critici sono stati raccolti nei volumi Fantasie e avvicinamento, del 1991, e Aure e disincanti del Novecento letterario, 1994. Nel 1962 pubblica IX Egloghe. Nel 1968 esce La beltà, salutato come un libro fondamentale da Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini ed Eugenio Montale. Nel 1969 escono Gli sguardi, i fatti e Senhal, scritto subito dopo lo sbarco sulla luna dell’astronauta americano Neil Armstrong. Ha tradotto testi fondamentali di Bataille come il Nietzsche (1970) e La letteratura e il male (1973). Del 1973 sono anche il volume di versi Pasque e l’antologia Poesie (1938-1972), a cura di Stefano Agosti. Nel 1976 collabora alla realizzazione del Casanova di Fellini, per il quale scrive alcuni testi che saranno poi raccolti in Filò. Con Fellini collaborerà anche per La città delle donne e E la nave va. Nel 1978 viene pubblicato nella collana Lo Specchio Il Galateo in Bosco, con prefazione di Gianfranco Contini. Il libro formerà una trilogia con Fosfeni (1983) e Idioma (1986). Dieci anni dopo, nel 1996, esce Meteo, mentre del 2001 è il libro composito intitolato Sovrimpressioni, che si concentra intorno al tema della distruzione del paesaggio. Nel febbraio 2009 esce In questo progresso scorsoio, una conversazione con Marzio Breda. Nello stesso anno, in occasione del suo ottantottesimo compleanno, il poeta pubblica Conglomerati, raccolta poetica di scritti composti tra 2000 e 2009.


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Tabula gratulatoria

Damiano Abeni è un epidemiologo, e dal 1973 traduce in italiano poesia anglo-americana. Ha pubblicato volumi di Bidart, Bishop, Bukowski, Ferlinghetti, Ginsberg, Strand, Simic, C. K. Williams, e molti altri. Con Mark Strand ha curato West of Your Cities, antologia bilingue di poeti americani contemporanei. Le sue traduzioni sono accolte in numerose riviste italiane, ed è tra i responsabili di “Nuovi Argomenti”. Con Moira Egan ha pubblicato traduzioni da John Barth, Mark Strand, Josephine Tey e John Ashbery, la cui raccolta Un mondo che non può essere migliore: Poesie scelte 1956-2007 si è aggiudicata un riconoscimento speciale al Premio Napoli (2009). È stato Literature Fellow al Liguria Study Center of the Bogliasco Foundation, e Fellow al Rockefeller Foundation Bellagio Center. È docente di tecnica della traduzione letteraria alla John Cabot University. Alberto Abruzzese (Roma, 14 agosto 1942) è un sociologo, scrittore e saggista. Ha scritto di letteratura, cinema, sociologia della comunicazione e della pubblicità, storia sociale dell’industria culturale e delle innovazioni tecnologiche, mediologia. Ha insegnato sociologia dell’arte e della letteratura, sociologia della conoscenza e sociologia delle comunicazioni di massa presso l’Università Federico II di Napoli. Dal 1992 al 2005 è stato professore ordinario di sociologia delle comunicazioni di massa presso il corso di laurea in Scienze della comunicazione della facoltà di Sociologia dell’università La Sapienza di Roma, di cui è stato presidente tra il 1995 e il 1999. La luca sossella editore ha pubblicato nel 2008 la seconda edizione del suo libro La grande scimmia. Mostri, vampiri, automi, mutanti (1979). Dal 2005 è professore ordinario di sociologia dei processi culturali e comunicativi e direttore dell’istituto di comunicazione presso l’Università Iulm di Milano, dove è anche prorettore per l’innovazione tecnologica e le relazioni internazionali. John Ashbery è nato a Rochester, New York, il 28 luglio 1927. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia, a cominciare dal 1953 con Turandot and Other Poems (Tibor de Nagy Editions). Il suo Self-Portrait in a Convex Mirror (Viking, 1975) ha ottenuto i tre maggiori riconoscimenti americani: il premio Pulitzer, il National Book Award, e il National Book Critics Circle Award. La più consistente antologia delle sue opere in traduzione italiana, Un mondo che non può essere migliore: Poesie scelte 19562007, è stata pubblicata dalla luca sossella editore nel 2007, a cura di Damiano Abeni e Joseph Harrison, per la traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan. Ashbery si è occupato di arti figurative per “Art News” (1965-72), “New York Magazine” (1978-80) e “Newsweek” (1980-85). Ha tradotto dal francese opere di Raymond Roussel, Max Jacob, Alfred Jarry, Antonin Artaud, Pierre Reverdy, Stéphane Mallarmé, e diverse raccolte di poesia di Pierre Martory, delle quali la più recente è The Landscapist: Selected Poems (Sheep Meadow / Carcanet, 2008). Le sue opere sono state tradotte in più di venti lingue. Ha ricevuto innumerevoli premi e riconoscimenti ufficiali. Dal 2006 è membro straniero dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Marco Belpoliti (Reggio Emilia, 1954) si laurea presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Bologna nel 1978, discutendo una tesi in semiotica con Umberto Eco. Insegna sociologia della letteratura e letteratura italiana presso l’Università di Bergamo. Nel 1981 ha fondato, insieme ad altri, la rivista “In forma di parole” e la casa editrice Elitropia. Ha collaborato a

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“Nuovi Argomenti” durante gli anni Ottanta. Dal 1981 collabora stabilmente alle pagine culturali del quotidiano “il Manifesto”, e in particolare all’inserto “Alias”. Dal 1991 è condirettore della rivista “Riga”, edita da Marcos y Marcos. Dal 1998 collabora alle pagine culturali del quotidiano “La Stampa”. Dal 2000 collabora al settimanale “L’espresso” con una rubrica di recensioni librarie. Nel 1997 ha curato l’edizione critica delle opere di Primo Levi uscite presso Einaudi, e successivamente, dello stesso autore, una serie di volumi. Ha collaborato alla sceneggiatura di un film di Davide Ferrario sul ritorno a casa di Levi (La strada di Levi, 2006). Nel 2009 ha pubblicato Il corpo del capo. Del 2010 sono Senza vergogna e Pasolini in salsa piccante. Franco Berardi Bifo è scrittore e media-attivista. Negli anni ’70 partecipò alla redazione di Radio Alice e fondò la rivista “A/traverso”. Partecipò al ’68 bolognese, alle attività del gruppo Potere operaio, e nel 1977 fu uno degli animatori della rivolta degli autonomi desideranti bolognesi. Nei decenni successivi ha collaborato a diverse riviste, come “Semiotexte” (New York), “Chimeres” (Parigi), “Musica 80” (Milano) e “Archipielago” (Barcellona). Attualmente scrive per il mensile “Loop” (Roma) e per la rivista argentina “Crisis” (Buenos Aires). Ha pubblicato articoli e libri sul rapporto tra comunicazione estetica e movimenti sociali, tra i quali Mutazione e ciberpunk (Costa e Nolan), Felix (luca sossella editore), Un’estate all’inferno (luca sossella editore). Nel 2010 ha pubblicato The Soul at Work (“Semiotexte”) e pRecarious Rhapsody. Ha fondato e animato per dieci anni il net magazine www.rekombinant.org. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Milano. Il prossimo libro, After the Future, uscirà nel 2011 per l’editore AK. Giulio Blasi (1964) è laureato in filosofia e ha conseguito un dottorato di ricerca sotto la direzione di Umberto Eco. Amministratore unico di Horizons Unlimited srl, società (attiva dal 1993) che ha lanciato MediaLibraryOnLine. Insegna occasionalmente in alcune scuole di master ed è autore di saggi tra i quali: Semiotics and the Effects of Media Change Research Programmes (VS, 1995); Internet. Storia e futuro di un nuovo medium (Guerini, 1999); The Future of Memory (Brepols, 2002); una serie di articoli sulle biblioteche digitali tra 2009 e 2010. Giancarlo Dotto (Valdagno, 1 giugno 1952) è stato per molti anni l’assistente alla regia di Carmelo Bene, col quale ha scritto Vita di Carmelo Bene, pubblicato nel 2005. Collabora con “La Stampa”, “Gioia”, “Panorama”, “Max” e “L’Espresso”, per il quale ha condotto un’inchiesta sulla prostituzione giovanile. Grande esperto del mondo delle televisioni locali durante il cosiddetto Far West televisivo, ha scritto, insieme a Sandro Piccinini, giornalista sportivo, il libro Il mucchio selvaggio. La strabiliante, epica, inverosimile ma vera storia della televisione locale in Italia, pubblicato nel 2008. È stato spesso ospite in tv come opinionista. Moira Egan ha publicato Cleave; La Seta della Cravatta / The Silk of the Tie; Bar Napkin Sonnets (The Ledge); Spin (Entasis Press). Le sue poesie sono state pubblicate in diverse riviste e antologie, come Best American Poetry 2008. Con Damiano Abeni ha pubblicato traduzioni da John Barth, Mark Strand, Josephine Tey e John Ashbery, la cui raccolta Un mondo che non può essere migliore: Poesie scelte 1956-2007 si è aggiudicata un riconoscimento speciale al Premio Napoli (2009). È stata Mid Atlantic Arts Fellow al Virginia Center for the Creative Arts; Writer in

Massimiliano Manganelli è nato a Tripoli, in Libia, nel 1966. Vive e lavora, come insegnante e traduttore, a Roma. Ha pubblicato saggi su Ungaretti, Sanguineti, Volponi, Lucini, Porta; con il Gruppo Laboratorio ha curato i volumi Luigi Malerba (Lacaita, Manduria 1994) e Paolo Volponi: scrittura come contraddizione (Angeli, Milano 1995). È tra i curatori dell’antologia Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli (luca sossella editore, Roma 2005). Collabora inoltre con la rivista “l’immaginazione”, con il blog Critiqueville e con puntocritico.eu.

Residence al St. James Cavalier Centre for Creativity, Malta; Writing Fellow al Civitella Ranieri Center e Fellow al Rockefeller Foundation Bellagio Center. Lavora per la John Cabot University, dove è responsabile dei workshop poetici e docente di tecnica della traduzione letteraria. Gabriele Frasca (Napoli, 1957) è autore di romanzi, raccolte poetiche e saggi critici, nonché traduttore di Samuel Beckett e Philip K. Dick. Per la nostra casa editrice ha pubblicato Prime. Poesie 1977-2007 (2007), il romanzo Dai cancelli d’acciaio (2011) e, con il gruppo musicale i ResiDante, il cd Il fronte interno (2003). Insegna Letterature Comparate e Media Comparati all’Università per gli Studi di Salerno.

Aldo Mastropasqua vive e lavora a Roma, dove insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università La Sapienza. Ha scritto numerosi saggi sui maggiori poeti e romanzieri italiani contemporanei, con particolare riferimento alle linee di ricerca sperimentali e d’avanguardia, ma si è occupato anche di argomenti di teoria della letteratura e di storia della critica letteraria. Sviluppando un’idea di Giuliano Manacorda, ha dato vita con altri colleghi all’Archivio del Novecento della Sapienza, che raccoglie documentazione a stampa e manoscritta di scrittori e artisti contemporanei. Ha fondato nel 1996 e dirige con Francesca Bernardini la rivista di letteratura contemporanea “Avanguardia” ed è di imminente uscita il primo di una serie di volumi di Letteratura italiana contemporanea da lui curati dal titolo Il Futurismo: la stagione eroica. Nel novembre del 1996, in occasione della Mostra-Convegno Letteratura italiana dal Novecento. Bilancio di un secolo, ha presentato al Palazzo delle Esposizioni di Roma Scatola sonora, audio-antologia dei poeti italiani del Novecento da Marinetti a Sanguineti e Novecento. I protagonisti raccontano, documentario di montaggio con le immagini e le voci dei maggiori scrittori italiani del secolo scorso.

Massimo Gezzi (Sant’Elpidio a Mare, 1976) ha pubblicato due raccolte di poesia: Il mare a destra (Edizioni Atelier, 2004) e L’attimo dopo (luca sossella editore, 2009, Premio Metauro, finalista Premio Palmi e Premio Il Ceppo), di prossima pubblicazione in Spagna. I suoi testi sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo e croato. Come studioso ha curato il volume L’autocommento nella poesia italiana del Novecento: Italia e Svizzera italiana (Pacini Editore, 2010) e l’edizione commentata del Diario del ’71 e del ’72 di Montale (Mondadori, 2010). È traduttore letterario dall’inglese, e attualmente lavora come assistente alla cattedra di Letteratura Italiana dell’Università di Berna. Paolo Giovannetti (1958) insegna Letteratura italiana all’Università Iulm di Milano. I suoi ultimi libri sono: Dalla poesia in prosa al rap (2008) e La metrica italiana contemporanea (2010, con Gianfranca Lavezzi). Roberto Herlitzka (Torino, 2 ottobre 1937) è un attore teatrale e cinematografico. Di origine ceca, è stato allievo di Orazio Costa all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Nel 2004 si è aggiudicato un Nastro d’Argento e un David di Donatello come miglior attore per la sua interpretazione di Aldo Moro nel film di Marco Bellocchio Buongiorno, notte (che gli è valso anche il Premio Horcynus Orca quattro anni dopo), e ha ricevuto un Premio Gassman come miglior attore per gli spettacoli teatrali Lasciami andare madre e Lighea. Vittorio Gassman lo ha voluto al suo fianco per interpretare alcuni testi poetici all’interno della Antologia personale di Vittorio Gassman, pubblicata dalla luca sossella editore nel 2000.

Piergiorgio Odifreddi (Cuneo, 13 luglio 1950) è un matematico, logico e saggista. I suoi scritti, oltre che di matematica, si occupano di divulgazione scientifica, storia della scienza, filosofia, politica, religione, esegesi, filologia e saggistica varia. Ha frequentato l’Istituto Tecnico per Geometri a Cuneo, avendo tra i suoi coetanei e compagni Flavio Briatore, col quale non ricorda di aver mai scambiato una parola. Ha studiato matematica presso l’Università di Torino, dove si è laureato in logica nel 1973. Si è poi specializzato negli Stati Uniti e nella ex Unione Sovietica. Ha insegnato logica presso l’Università di Torino, e dal 1985 al 2003 è stato visiting professor presso la Cornell University, dove ha collaborato con Anil Nerode, Richard Platek e Richard Shore. Oltre all’attività accademica, ha intrapreso una fortunata attività divulgativa, finora raccolta in quattro libri: C’era una volta un paradosso, 2001; Le menzogne di Ulisse, 2004; In principio era Darwin, 2009; Hai vinto, Galileo!, 2009. Cinquanta suoi colloqui con vincitori del Premio Nobel o della Medaglia Fields sono stati raccolti in Incontri con menti straordinarie, 2006. Odifreddi ha organizzato dal 2007 al 2009 all’Auditorium di Roma il Festival della matematica. Molto noti sono i suoi libri che propongono una interpretazione laica e razionalista di alcuni fatti religiosi: Il Vangelo secondo la Scienza, del 1999, e Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), del 2007. Per alcuni anni è stato presente su National Geographic Channel con la rubrica Ai confini della Scienza.

Fabien Kunz è nato in Svizzera. Ha studiato letterature romanze alle Università di Basilea, di Ginevra e di Pisa dove dal 2009 è perfezionando alla Scuola Normale Superiore. Attualmente lavora come assistente al dipartimento di italianistica della LMU di Monaco. Luciano Lucignani (Roma, 11 gennaio 1922). Dopo la maturità classica si iscrive all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma. Suoi compagni del periodo sono Vittorio Gassman, Luciano Salce, Vittorio Caprioli, Adolfo Celi, Mario Landi. Nel dopoguerra, impegnato culturalmente nel PCI, oltre alla recitazione si occupa di regia teatrale, critica, sceneggiature, allestimento di spettacoli. Nel 1955 è coregista del film Kean, di Gassman, e coautore insieme a Celi e Gassman della pellicola L’alibi, del 1968, nella quale i tre amici sono contemporaneamente autori, registi e attori. Si è spento a Roma nel mese di ottobre del 2008.

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Davide Pugnana è nato a Carrara nel 1984. Dopo aver frequentato il Liceo Artistico “Artemisia Gentileschi”, diplomandosi in tecniche pittoriche e plastiche, si è iscritto alla facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, grazie a una parallela istruzione classica in privato, sotto la guida del professor Roberto Greco, suo primo maestro. Massimo Raffaeli scrive su “il Manifesto”, “La Stampa” e i relativi supplementi letterari, “Alias” e “Tuttolibri”. Collabora a numerose riviste (“Nuovi Argomenti”, “Il Caffè illustrato”, “Lo Straniero”) e ai programmi di Radio3 Rai. Ha curato opere di autori italiani contemporanei e ha tradotto a lungo dal francese. La sua produzione è raccolta in una decina di volumi, fra cui Novecento italiano (luca sossella editore 2001) e Don Chisciotte e le macchine. Scritti su Paolo Volponi (peQuod 2007). Gino Roncaglia è docente di Informatica applicata alle discipline umanistiche e di Applicazioni della multimedialità alla trasmissione delle conoscenze presso l’Università degli Studi della Tuscia, dove dirige anche il master universitario in e-Learning e un corso di perfezionamento su futuro del libro, e-book ed editoria digitale. Ha conseguito la laurea in filosofia all’Università di Roma La Sapienza e il dottorato di ricerca in filosofia all’Università di Firenze. Oltre al recentissimo La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro (Laterza, 2010), è autore o coautore di oltre cinquanta fra libri e pubblicazioni, fra cui la fortunata serie di manuali Laterza sull’uso di Internet (6 volumi e oltre 20 ristampe dal 1996 al 2004), il saggio Il mondo digitale (con Fabio Ciotti, Laterza, 2000, 11 ristampe), e un volume sul dibattito logico nella scolastica protestante tedesca (Palaestra Rationis, Olschki, 1996). È coautore – con Mirella Capozzi – del capitolo dedicato alla logica moderna nel volume The Development of Modern Logic edito da Oxford University Press. È socio fondatore e vicepresidente dell’associazione culturale Liber Liber, promotrice del Progetto Manuzio, biblioteca digitale gratuita in rete. Fortemente impegnato nel campo della divulgazione scientifica di qualità, è stato fra gli autori delle trasmissioni televisive di RAI Educational MediaMente, Emilio, Multimedi@scuola, ed è fra i consulenti scientifici della trasmissione Explora Science, per la quale ha realizzato una serie di puntate sulla storia dell’informatica in Italia. È consulente per Internet e nuove tecnologie di RAI New Media. Roberto Roversi (Bologna, 1923). Si arruolò fra i partigiani, appena ventenne, e combatté nella Resistenza in Piemonte. Dal 1948 al 2006 ha svolto l’attività di libraio antiquario gestendo a Bologna la Libreria Palmaverde. Nel 1955 ha fondato con Francesco Leonetti e Pier Paolo Pasolini la rivista “Officina”. Nel 1961 ha dato alla luce una nuova rivista, “Rendiconti”. Di entrambe è stato anche editore. Attorno alla metà degli anni Sessanta ha smesso di pubblicare con i grandi editori, limitandosi esclusivamente a fogli fotocopiati distribuiti liberamente e a collaborazioni con piccole riviste autogestite. Negli anni Settanta ha scritto numerosi testi di canzoni per Lucio Dalla (per gli album Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e, sotto pseudonimo, Automobili), e successivamente altri per il gruppo degli Stadio. Recentemente, le edizioni Pendragon hanno ristampato tre dei suoi testi teatrali (Unterdenlinden, Il Crack e La macchina da guerra più formidabile) sotto la cura del professor Arnaldo Picchi, e hanno pubblicato per la prima volta La macchia d’inchiostro.

Nel 2008 la luca sossella editore ha pubblicato Tre poesie e alcune prose. Testi 1959-2004, antologia curata da Marco Giovenale. Nel 2010 Roversi ha stampato in 32 copie la raccolta poetica L’Italia sepolta sotto la neve. Guido Vitiello è nato a Napoli nel 1975, ma vive e lavora a Roma. Ricercatore presso la Facolta di Scienze della Comunicazione (La Sapienza), collabora con “Internazionale”, “il Riformista” e “il Foglio”. Ha scritto, tra le altre cose, La commedia dell’innocenza, edito dalla luca sossella editore nel 2007. Cura il blog UnPopperUno (www.unpopperuno.net). Andrea Zanzotto è nato nel 1921 a Pieve di Soligo. Ha lavorato come insegnante per le scuole medie inferiori e superiori. Ha partecipato alla Resistenza veneta nelle fila di Giustizia e Libertà. Ha vissuto da emigrante in Svizzera e in Francia. Ha pubblicato il suo primo libro di poesia, Elegia e altri versi, nel 1954, seguito nel 1957 da Vocativo. Da critico letterario ha collaborato a “La Fiera Letteraria”, “Comunità”, “Il Caffè”, “L’Approdo letterario”, “Paragone”, “Nuovi Argomenti”, “Il Giorno”, “l’Avanti!”, il “Corriere della Sera”, per il quale è stato a lungo collaboratore esterno. I suoi saggi critici sono stati raccolti nei volumi Fantasie e avvicinamento, del 1991, e Aure e disincanti del Novecento letterario, 1994. Nel 1962 pubblica IX Egloghe. Nel 1968 esce La beltà, salutato come un libro fondamentale da Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini ed Eugenio Montale. Nel 1969 escono Gli sguardi, i fatti e Senhal, scritto subito dopo lo sbarco sulla luna dell’astronauta americano Neil Armstrong. Ha tradotto testi fondamentali di Bataille come il Nietzsche (1970) e La letteratura e il male (1973). Del 1973 sono anche il volume di versi Pasque e l’antologia Poesie (1938-1972), a cura di Stefano Agosti. Nel 1976 collabora alla realizzazione del Casanova di Fellini, per il quale scrive alcuni testi che saranno poi raccolti in Filò. Con Fellini collaborerà anche per La città delle donne e E la nave va. Nel 1978 viene pubblicato nella collana Lo Specchio Il Galateo in Bosco, con prefazione di Gianfranco Contini. Il libro formerà una trilogia con Fosfeni (1983) e Idioma (1986). Dieci anni dopo, nel 1996, esce Meteo, mentre del 2001 è il libro composito intitolato Sovrimpressioni, che si concentra intorno al tema della distruzione del paesaggio. Nel febbraio 2009 esce In questo progresso scorsoio, una conversazione con Marzio Breda. Nello stesso anno, in occasione del suo ottantottesimo compleanno, il poeta pubblica Conglomerati, raccolta poetica di scritti composti tra 2000 e 2009.


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luca sossella editore


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