Documenti e studi 11

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DOCUMENTI E STUDI DI SyNaxIS 11


DOCUMENTI E STUDI DI SyNaxIS

Pubblicazioni dello Studio Teologico S. Paolo - Catania


«… un giorno la morte introdurrà un vuoto straordinariamente silente, e noi accoglieremo tale vuoto con fede, speranza e in simile silenzio come la nostra vera essenza; un giorno tutta la nostra vita precedente, per quanto lunga, ci apparirà come un’unica breve esplosione della nostra libertà, che ci sembrava estesa solo perché la vedevamo come al rallentatore, una esplosione in cui la domanda si è trasformata in risposta, la possibilità in realtà, il tempo in eternità, la libertà offerta in libertà tradotta in atto; un giorno scopriremo, terribilmente spaventati e ineffabilmente giubilanti, che questo vuoto enorme e silente, che noi sentiamo come morte, è in verità riempito da quel mistero originario che diciamo Dio, dalla sua luce pura e dal suo amore che tutto ci toglie e tutto ci dona; un giorno da questo insondabile mistero vedremo emergere il volto di Gesù, il Benedetto, vedremo che esso ci guarda e che questa concretezza è il superamento divino di tutta la nostra vera accettazione dell’incomprensibilità del Dio senza forme: ecco, ecco all’incirca come vorrei, non dico descrivere ciò che viene, ma perlomeno indicare balbettando come possiamo provvisoriamente attenderlo, nel mentre sperimentiamo il tramonto stesso della morte come l’inizio di ciò che viene». K. Rahner



FraNCESCO BraNCaTO

La questione deLLa morte neLLa teoLogia contemporanea teoLogia e teoLogi



PrEMESSa La preoccupazione di partenza di questo studio non è tanto la presentazione di una panoramica del tutto esauriente e perfettamente compiuta della questione della morte nella teologia contemporanea (tema di per sé molto vasto e quindi difficilmente racchiudibile in uno spazio ridottissimo come questo), quanto piuttosto la segnalazione di alcuni elementi che emergono costantemente nel dibattito teologico odierno su questa problematica, soprattutto attraverso il riferimento alla produzione teologica cattolica degli ultimi decenni. In questo contributo non è quindi mia intenzione tentare di proporre l’ennesima teologia della morte, ma intendo solamente esporre per grandi linee i punti centrali del confronto teologico contemporaneo, i contributi dei maggiori teologici e quindi in generale lo status quaestionis dell’odierna teologia della morte. L’attenzione si concentrerà quasi esclusivamente sull’escatologia cattolica, con qualche riferimento ad autori di area protestante, e tralascerà lo studio della teologia della morte che si evince dai documenti del recente magistero ecclesiastico e in particolare dai principali documenti del Concilio Vaticano II, poiché ciò richiederebbe uno studio a parte e certamente più articolato. Non è certo facile rintracciare una prospettiva a partire dalla quale presentare per linee generali la situazione in cui versa l’attuale riflessione teologica sul tema umano e cristiano della morte. Sarebbe stato possibile suddividere lo studio attraverso il riferimento ai temi principali e alle questioni complementari (universalità della morte; la morte come fine dello stato di pellegrinaggio; la morte come fine del meritare; “naturalità” della morte; morte/vita; etica della morte; ecc.), mettendo in evidenza l’originale apporto di ciascuno dei teologi per il loro approfondimento critico. Sarebbe stato anche possibile presentare di seguito, in maniera più o meno articolata, il percorso fatto da ogni singolo teologo nel suo tentativo di far luce sulla morte; sarebbe stata una strada altrettanto legittima e positiva, così come sarebbe stato possibile intraprendere altre strade che in un modo o nell’altro ci avrebbero ugualmente condotti ad esaminare e a guardare da una particolare angolatura la stessa questione. Tutte strade valide, ognuna delle quali presenta dei vantaggi e degli inevitabili svantaggi e limiti, ma ho preferito analizzare il pensiero dei singoli autori a partire dalle diverse aree linguistiche a cui essi appartengono (soprattutto tedesca, italiana e 7


spagnola), cercando di volta in volta di far emergere, dove c’è stato, lo scambio di opinioni e il confronto che è avvenuto tra di essi. Ho guardato comunque non solo allo sviluppo del pensiero del singolo teologo, magari nel suo riferimento critico con la posizione degli altri colleghi, ma anche a quei temi principali che sono connessi alla questione della morte, cercando di presentare i tratti fondamentali del dibattito teologico che essi hanno suscitato. Ciò forse esporrà in alcuni momenti lo studio al rischio di cadere in inevitabili ripetizioni, o di dare l’impressione che la discussione attuale sia più articolata e viva di quanto lo è in realtà. In ogni caso lo sforzo continuo di questo contributo sarà quello di tenere unite le fila del discorso perché venga salvaguardato almeno un obiettivo: offrire una panoramica il più possibile comprensiva (certamente non del tutto onnicomprensiva!) sia del pensiero del singolo teologo sull’argomento, sia delle questioni studiate grazie all’apporto di ciascuno degli autori presi in considerazione. Non si può tuttavia dimenticare che la teologia deve avere sempre chiara la consapevolezza che a problemi come quelli sulla vita e sulla morte non è mai possibile dare una risposta con una semplice formula; essi trovano la loro vera risposta invece solo nella traduzione e nell’assimilazione della formula nella vita stessa. Per questo, tutto quanto viene puramente detto in riferimento a questo tema, ha l’impronta del provvisorio, e non potrebbe essere altrimenti.

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INTrODUzIONE Sören Kierkegaard definisce la morte un pedagogo serio che non mente e dice la verità per intero senza indulgere al gioco delle razionalizzazioni e delle maschere. Da essa partono domande che mettono l’uomo alle corde, poiché in qualunque mondo straniero l’uomo penetri, riesce sempre ad orientarsi; solo nella morte egli non si orizzonta più perché in essa fa esperienza dello spaesamento e del naufragio. La morte è «dipartita verso l’ignoto — afferma Lévinas —, dipartita senza ritorno, ‘senza lasciare un recapito’»1. È anche per questo che l’epoca attuale spesso chiude gli occhi di fronte alla Pornography of Death. È quanto mai vero a questo proposito quanto dice Pascal: «Gli uomini, non potendo guarire la morte e sperando di essere più felici hanno deciso di non pensarci. È tutto ciò che hanno saputo escogitare per consolarsi. Ma è un rimedio ben misero perché, invece di affrontare il male, non vogliono che nasconderlo fino a quando si può»2. Il mondo dell’era tecnologica e dell’ingegneria genetica non ha tempo per pensare alla morte e si limita a portare disperatamente avanti il tentativo, non del tutto confessato, di prolungare l’evento biologico della vita ritardando l’evento biologico della morte e illudendosi che questo basti per smorzare il terrore provato dall’uomo di fronte al pensiero della morte, della propria morte3. al perché esistenziale posto dall’uomo davanti alla morte, si sostituisce così il perché medico e scientifico che non fa altro che precisare le cause dell’avvenuto decesso. È proprio a questo proposito che ariès fa notare che nella società contemporanea «la morte è divenuta l’innominaE. LéVINaS, Dio, la morte e il tempo, Milano 1996, 50. B. PaSCaL, Pensieri, Cinisello Balsamo 1986, 139. 3 Come fa notare H.U. von Balthasar, l’uomo si ribella contro il tentativo di essere ridotto a puro mezzo per la realizzazione della specie, perché rassegnarsi a ciò significherebbe tapparsi gli orecchi di fronte al grido di angoscia che sale dalla persona violentata dal progresso e dalla tecnica, e che denuncia il tentativo di ridurre l’uomo, la sua vita e la sua morte, alla sola dimensione biologica (cfr Il tutto nel frammento, Milano 1970, 49). L’uomo, tuttavia, si distingue da tutti gi altri esseri viventi che come lui sono sottoposti alla legge naturale del “muori e diventa”. Solamente l’uomo è un essere così singolo da pensarsi in sé e da non dissolversi nella sopravvivenza della specie. Egli non accetta l’avvicendarsi di vita e morte che perennemente si rinnova e impara a conoscere la sua morte: egli sa di morire e non semplicemente muore e soccombe al suo ineluttabile destino. 1 2

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bile; ormai tutto avviene come se né io, né tu, né quelli che mi sono cari, fossimo più mortali. Tecnicamente ammettiamo di poter morire, stipuliamo assicurazioni sulla vita per salvaguardare la famiglia dalla miseria, ma in verità, in fondo al nostro cuore ci sentiamo immortali. E sorpresa, la nostra vita non sembra per questo più lunga»4. Già Tolstoj mette a nudo il terrore provato dall’uomo nel momento in cui prende coscienza dell’ineluttabilità della morte, della propria morte e della propria inesorabile fine. Egli rivela l’inutilità di qualsiasi censura o di qualsivoglia strategia di fronte al suo sopraggiungere, e lo fa attraverso le parole del protagonista di un suo breve ma intenso racconto: Ivàn Il’ìc# vedeva che stava morendo, ed era in uno stato di disperazione continua. Il fondo alla sua anima sapeva che stava morendo, ma non riusciva lo stesso ad abituarsi a quest’idea; non solo, non riusciva a capirla, non ci riusciva assolutamente. Il sillogismo elementare che aveva studiato nel manuale del Kizevetter: Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale, per tutta la vita gli era sembrato giusto ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso. Un conto era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri…’Caio è mortale, certo, è giusto che muoia. Ma per me, per me, piccolo Vanja, per me, Ivàn Il’ìc#, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, per me è tutta un’altra cosa. Non può essere che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile’. Questi erano i suoi sentimenti5.

Ma qual è la reazione psicologica che l’uomo ha di fronte alla morte? Perché l’uomo istintivamente è portato a scongiurare ed esorcizzare un 4 PH. arIÈS, Storia della morte in Occidente dal medioevo ai nostri giorni, Milano 1975, 84. «Malgrado i tentativi di censura — fa notare Petrini — la morte interroga l’uomo. a questo supremo interrogativo si può rispondere con l’atteggiamento dell’uomo che dubita e vive nell’angoscia della ricerca di certezze e garanzie sul dopo-morte; dello stoico, dominato dalla rassegnazione; dell’uomo etico che ha osservato le sue regole morali e considera compiuta la vita; dell’uomo semplice e umile che accetta la morte come una necessità in più oltre le tante che ha dovuto subire nel corso della vita; dell’ateo che vede nella morte l’ultima fase di un ciclo naturale; del credente che vede nella morte un passo necessario, anche se doloroso, per legarsi con il tempo definitivo di Dio» (M. PETrINI, Accanto al morente, Milano 1990, 22). 5 L.N. TOLSTOj, La morte di Ivàn Il’ìc#, Milano 2002, 53-54.

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evento che gli si presenta come in-scongiurabile e in-esorcizzabile proprio perché assolutamente ineluttabile e inevitabile? C’è da dire a questo riguardo che di fronte alla morte l’uomo può avere diverse reazioni a seconda delle posizioni metafisiche che più o meno consciamente presuppone e assume. Nella misura in cui parte da una posizione materialistica o naturalistica, egli sarà portato a concepirsi come un organismo vivente, corpo e spirito, destinato tutto intero alla morte. Quest’ultima lo riguarda nella sua integralità: ogni uomo (tutti gli uomini) non è altro che un morto vivente, e la morte il semplice dissolversi di quell’illusione chiamata vita. Davanti alla morte egli può solamente avere una reazione ancora più primitiva, riconducibile alla sua animalità, che consiste nella radicale ripugnanza nei confronti di ciò che viene colto, già in uno stadio pre-riflesso, come violentemente contrario all’innato istinto di conservazione proprio di ogni essere vivente. Ma accanto a queste due possibili forme di reazione di fronte alla morte o alla sua semplice fattualità, ce n’è una terza che traduce lo stato di ciò che M.F. Sciacca ama definire «ignoranza interrogante e perciò di apertura alla ricerca»6. Di fronte alla morte l’uomo può cioè avere atteggiamenti contrastanti e opposti, ma non può eliminare il carattere misterico di questa realtà, né evitare l’incontro con essa. Essa impone all’uomo un cammino di ricerca che va percorso sino in fondo. L’uomo può certo illudersi e convincersi che in definitiva quest’ultima non sia altro che un evento inconsistente e insignificante, e può farlo assolutizzando la vita e naturalizzando la morte. rinunciare alla riflessione sul senso della morte significa però abbandonarsi sfiniti ed esausti all’angoscia che deriva dal pensiero che essa sia l’assurdo che rende assurda la vita, annullandola, nullificandola, nientificando ogni sua aspirazione e attesa nel momento in cui le sopravviene. Nella misura in cui l’uomo moderno continua a ricacciare la morte fuori dalla zona chiara della coscienza, trasformandola in una nozione astratta, priva di alcuna relazione con l’uomo concreto o di incidenza sulla sua vita, la sua stessa esistenza apparirà sempre più come una «parentesi assurda e inesplicabile, quasi un giuoco di specchi nella distesa del nulla»7.

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M.F. SCIaCCa, Morte e immortalità, Milano 1959, 5. Ibid., 44.

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anche l’eventuale prolungamento della longevità biologica a tempo più o meno indeterminato, non può attutire completamente la paura dell’uomo di fronte al mistero della morte, né tanto meno può rispondere adeguatamente alla sua domanda di vita. In verità, come recitava un antico adagio, “in mezzo alla vita siamo attorniati dalla morte”. La morte, come la nascita del resto, è infatti uno ‘spiraglio’ attraverso cui lo sguardo dell’uomo intravede l’infinito; solo uno sguardo miope si rifiuta di penetrare in esso e di cogliervi la ricchezza di senso a cui l’uomo aspira e che cerca incessantemente8. Mentire su di essa significa mentire sul significato stesso della vita dell’uomo e sul senso della sua storia personale e della storia del mondo intero. Se l’uomo chiude gli occhi di fronte all’inesorabile realtà della morte e del morire, chiude gli occhi di fronte a se stesso e a ciò che ha tentato di costruire9. «Se la morte dell’uomo non ha senso — afferma Boros — allora tutta la sua vita è votata al nulla; se invece la morte ha una pienezza di essere che la vita non ha, allora occorre che operiamo un mutamento radicale nella nostra interpretazione e nel nostro apprezzamento della vita […] il tentativo di trovare un ubi consistam dell’esistenza deve porsi

8 L. Boff è assolutamente persuaso che «ci sarà una situazione nella quale l’uomo sarà totalmente se stesso come adempimento del principio-speranza che vibra in lui e come manifestazione piena di ciò che in lui è latente», in modo che l’homo absconditus emerga come homo revelatus, e che questa possibilità unica sia per lui proprio la morte. «L’uomo muore a rate. Ogni secondo e ogni momento rappresentano vita consumata». Tuttavia in lui la curva biologica non coincide con quella personale, anzi quest’ultima è di segno opposto alla prima: mentre la curva biologica si affievolisce sempre più e si appiattisce sul punto terminale dell’esistenza dell’uomo, la curva personale cresce sempre più, si sviluppa, allarga i suoi orizzonti e si espande proprio con il punto terminale, cioè con la morte. 9 È ancora Tolstoj che attraverso Ivan Il’ic# mette in risalto la verità di questo dato: «Il principale tormento di Ivan Il’ic# era la menzogna. Era questa menzogna a tormentarlo, era che non volessero riconoscere che sapevano e che anche lui sapeva, ma mentissero invece sulla sua condizione e costringessero anche lui ad una parte nella menzogna. Era questa menzogna ai suoi danni, la vigilia della sua morte, questa menzogna che doveva ridurre l’atto terribile e solenne della sua morte al livello delle loro visite di cortesia […] che era un orribile tormento per Ivan Il’ic#. E stranamente, molte volte, mentre gli altri eseguivano i loro numeri su di lui, era stato ad un filo dal gridare in faccia a tutti: smettetela di dire bugie, lo sapete benissimo, e lo so benissimo anch’io che sto morendo, almeno finitile di mentire. Ma non aveva mai avuto il cuore di farlo» (L.N. TOLSTOj, La morte di Ivan Il’ic#, cit., 61-62).

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anzitutto come ricerca del significato della morte»10. E questo è un dato che sembrava ormai definitivamente acquisito, almeno nel passato.

10 L. BOrOS, Mysterium mortis. L’uomo nella decisione ultima, Brescia 1979, 27. a questo proposito N. Greinacher e a. Müller affermano: «Sappiamo bene che ovunque gli uomini sentono la morte come problema di estrema gravità, per quanto diverse siano le loro reazioni di fronte a tale fenomeno. Se si accetta questo fatto nella sua crudezza e non si ricorre ad uno schema antropologico che noi stessi ci siamo costruiti […], la morte ci apparirà per quella che è sempre stata: il punto in cui si concentra la questione del senso dell’uomo e il luogo in cui il problema della trascendenza assume una dimensione corporea» (Il morire come tema di prassi ecclesiale, in Concilium 4 [1974] 16).

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CaPITOLO I La MOrTE E IL MOrIrE. UNa DOMaNDa aPErTa L’antichità classica generalmente non riconosceva grande importanza alla morte perché riteneva che facesse parte del perenne e inarrestabile ciclo cosmico come momento essenziale e necessario per il fluire continuo, ininterrotto e ordinato dell’universo. Tuttavia era viva la consapevolezza che non è solo l’uomo che muore, ma tutte le cose: il sacrificio di una parte rende possibile e addirittura favorisce la vita e la sopravvivenza di quel tutto in cui ogni cosa è inserita e di cui partecipa. Ciò che comunque distingue l’uomo da tutte le altre cose che lo circondano è la consapevolezza di essere un mortale, di dover morire, che il cammino che sta percorrendo è inesorabilmente diretto verso l’incontro con la fine, la morte. Qualsiasi consolazione su questo punto si rivela illusoria e falsa. anche Eschilo lo aveva compreso bene, tanto che nel suo Prometeo incatenato smaschera la vacuità di quella cieca speranza che proprio l’eroe che aveva avuto l’ardire di rubare e sottrarre il fuoco agli dei aveva offerto agli uomini, facendo loro dimenticare che la vita è in fondo regolata sul modello biologico in cui la crescita e la maturità portano inevitabilmente alla senescenza e alla morte11. In un secondo momento, sotto la spinta del dualismo di stampo platonico, in cui al valore assoluto riconosciuto al principio spirituale dell’uomo corrispondeva la svalutazione della sua componente materiale (il corpo), la filosofia comprenderà sempre più se stessa come una preparazione alla morte e giungerà a ritenere quest’ultima come qualcosa di desiderabile proprio perché libera lo spirito dalla prigione del corpo e guarisce l’anima dalla malattia della vita. Per questa ragione il rapporto con l’evento della morte per il mondo classico appariva fondamentalmente «COrO: Nei doni concessi non sei magari andato oltre? PrOMETEO: Sì, ho impedito agli uomini di vedere la loro sorte mortale. COrO: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia? PrOMETEO: Ho posto in loro cieche speranze. COrO: Un grande giovamento hai così donato ai mortali» (ESCHILO, Prometeo incatenato, in Tragedie e frammenti, Torino 1987, vv. 247-251). 11

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sereno e non conosceva delle evidenti frizioni, ma ciò a prezzo della ‘diluizione’ e della perdita dell’uomo e della sua esistenza, nonché dell’unità e dell’integrità della sua persona. La saggezza antica, in sostanza, riesce solo a schivare la morte, ma non arriva a dare all’uomo delle risposte soddisfacenti alle sue domande fondamentali. La filosofia contemporanea da parte sua ha smascherato le lacune della riflessione classica su questa questione, ne ha evidenziato i limiti (svalutazione dell’esistenza storica dell’uomo e della dignità della materia e quindi del corpo umano; riduzione della morte a conclusione della ‘prigionia’ dell’anima nel carcere del corpo; ecc.) ed ha avuto il coraggio di parlare del carattere drammatico e tragico della morte e del morire proprio perché ha parlato soprattutto del loro profondo significato umano12. Nel mondo di oggi, tuttavia, sempre più soggetto al fenomeno del secolarismo, si assiste al tentativo, in parte riuscito, di realizzare un programma di ‘privatizzazione’ e ‘spettacolarizzazione massmediale’ della morte. Da un lato il morente viene sempre più lasciato solo a se stesso, consegnato a centri specializzati (ospedali, case di cura, cliniche) che oramai si sono quasi del tutto sostituiti alla famiglia del malato e del moribondo che vive la propria morte nella più desolante solitudine e nel più doloroso anonimato (non circondato dai propri cari, dagli amici, dai vicini). Dall’altro lato la morte viene presentata come un evento ordinario a cui si assiste quasi da spettatori di fronte ad uno schermo. I mezzi di comunicazione di massa, infatti, mettono quotidianamente l’uomo di fronte al fatto della morte di numerose persone in tutto il mondo (guerre, stragi, omicidi, incidenti, esecuzioni capitali, ecc.), e nello stesso tempo rendono la morte come un fatto culturalmente e socialmente invisibile (una morte vicina ma sedata e non coinvolgente). La società consumistica contemporanea scoraggia qualsiasi tentativo da parte dell’uomo di pensare alla morte, e per raggiungere questo scopo promuove ciò che è stato da più parti definito il processo di tabuizzazione e rimozione della morte, caratterizzato da un suo costante e sistematico movimento di negazione e repressione nell’esperienza quotidiana (sostituzione del tabù del sesso con quello della morte)13. «Lo spettacolo serve quasi ad esorcizzare una morte Cfr E. MOrIN, L’uomo e la morte, roma 1980, 224. La stessa Commissione Teologica Internazionale, all’inizio degli anni Novanta ‘fotografava’ il contesto culturale e sociale odierno denunciando il crescente secolarismo che spegne la speranza dell’uomo e del mondo e restringe drasticamente l’orizzonte dell’esi12 13

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che si ammira — sottolinea zuccaro — ma che non si vuole. Si tratta di una nuova trovata per svuotare l’horror mortis, ma eliminando, così, anche la profunditas mortis»14. La teologia da parte sua ha invece sentito sempre più forte l’urgenza di cogliere la profondità di senso insita in questo evento fondamentale dell’esistenza dell’uomo, perché la morte non può essere un semplice brutum factum inspiegabile, la radice del sempiternus horror che ha terrorizzato l’uomo di tutti i tempi e tutti i luoghi. riconoscendo nella morte un evento che va al di là della semplice fattualità del decesso e dell’elettroencefalogramma piatto, la teologia ha tentato di dare delle risposte a questo mistero dell’esistenza dell’uomo, e lo ha fatto a partire dalla testimonianza della rivelazione, ma anche lasciandosi aiutare dalla riflessione filosofica e sociologica che proprio su questo argomento negli ultimi decenni è cresciuta considerevolmente. Nel passato il problema della morte non ha mai costituito l’oggetto di una vera e propria teologia, sebbene i dati biblici e la conseguente riflessione patristica siano in grado di giustificare lo sviluppo di una vera teologia sull’argomento. Colzani fa notare che «la stessa analisi della morte di Gesù, che pure avrebbe potuto offrire degli stimoli, si è per lo più stenza unicamente all’esistenza attuale. Proprio all’inizio del documento la Commissione ammette che «al fenomeno del secolarismo è immediatamente unita la persuasione ampiamente diffusa, e certo non senza l’intervento dei mezzi di comunicazione di massa, che l’uomo, come tutte le altre cose che esistono nello spazio e nel tempo, non è altro che materia e che con la morte svanirebbe totalmente. Inoltre la cultura attuale, che si sviluppa in questo contesto storico, si sforza con tutti i mezzi di far dimenticare la morte e le domande che inevitabilmente sono unite ad essa» (Alcune questioni attuali riguardanti l’escatologia, in La Civiltà Cattolica I [1992], 460). Per un’analisi accurata di questo complesso fenomeno che sta segnando la cultura del mondo contemporaneo (soprattutto del mondo occidentale), si rimanda soprattutto agli studi di PH. arIÈS, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Bari 1980; ID., Storia della morte in Occidente, cit. Si vedano, inoltre: M. NOVELLE, La morte e l’Occidente dal 1300 ai nostri giorni, Bari 1993, e soprattutto j. zIEGLEr, I vivi e la morte. Saggio sulla morte nei paesi capitalisti, Milano 1978. 14 C. zUCCarO, Il morire umano.Un invito alla teologia morale, Brescia 2002, 45. Per questo teologo la riflessione credente non può limitarsi ad indagare l’evento della morte quasi a margine della sua riflessione sull’uomo, e deve superare la tentazione di «concentrare l’attenzione sul sostantivo, che lascerebbe credere all’esistenza di una morte ipostatizzata» (ibid., 179), per comprendere come «il sostantivo non esiste senza il verbo che lo fa vivere: il morire. Per questo motivo ogni discorso sulla morte, intesa come condizione universale, non può prescindere dal morire, che tocca più precisamente il vivente, nell’atto di prendere possesso della sua morte» (ibid., 180).

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soffermata sul dogma della redenzione senza riflettere a fondo sulla discesa di Gesù nel regno dei morti»15. Lo stesso teologo denuncia il fatto che la teologia nel passato si è piuttosto preoccupata di sviluppare una spiritualità della morte che una vera e propria riflessione sistematica sull’argomento: L’arte del ben morire del cardinale Bellarmino e l’Apparecchio alla morte di Sant’alfonso Maria de’ Liguori non a caso sono state tra le opere più conosciute e riedite; opere che, nonostante gli indubitabili limiti, hanno comunque avuto l’innegabile merito di aver tentato di ricondurre la questione della morte all’uomo e alla sua vita, facendola così diventare il principio ispiratore del vivere (mortem facere)16. La teologia contemporanea ha di certo recuperato molti elementi che manifestano la reale ricchezza della teologia e della riflessione spirituale ed ascetica del passato, e non ha mancato di sottolineare più volte come ad esempio «la visione teologica della morte proietta lo sguardo meno nell’aldilà che nell’aldiquà»17, per cui una profonda penetrazione di questo mistero umano e cristiano non può non avere dei riverberi anche sulla comprensione dell’ordine sociale e politico, sull’etica e sulla spiritualità cristiane. La teologia oggi ha praticamente cambiato orizzonte rispetto alla teologia tradizionale, pur mantenendo fondamentalmente intatte le tematiche affrontate in precedenza circa la morte (universalità della morte;

15 G. COLzaNI, L’escatologia nella teologia cattolica degli ultimi 30 anni, in aSSOCIazIONE TEOLOGICa ITaLIaNa L’escatologia contemporanea. Problemi e prospettive, edd. G. Canobbio – M. Fini,, Padova 1995, 111. 16 Cfr G. COLzaNI, La vita eterna. Inferno,purgatorio, paradiso, Milano 2001, 193. Il Medioevo non ha posto molta attenzione alla morte biologica, all’evento della morte in sé, ma ha evidenziato soprattutto la sua dimensione spirituale. L’uomo medievale temeva la morte dell’anima, ovvero la perdizione eterna, mentre riteneva la morte biologica quasi come una compagna di viaggio, una presenza costante nella sua vita quotidiana e in quella della società intera. Il memento mori scandiva così la vita e il trascorrere inesorabile del tempo orientato all’istante fatale in cui egli sarebbe stato chiamato a decidere definitivamente per il proprio destino eterno. Con il rinascimento continua a dominare il campo la concezione della morte come fonte di insegnamento morale, ma alle vecchie artes moriendi che avevano caratterizzato il periodo immediatamente precedente, sopraggiunge un altro genere letterario costituito da agevoli opuscoletti (La preparazione alla morte) che avevano un’indole prettamente parenetica e l’obiettivo di ammonire il lettore a non sprecare il tempo ma a viverlo bene. a questo proposito cfr PH. arIÈS, L’uomo e la morte, cit., 121-136; a. TENENTI, Il senso della morte e l’amore per la vita nel Rinascimento, Torino 1982. 17 G. BOF, Morte, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, II, ed. L. Pacomio, Torino 1977, 618.

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rapporto morte/peccato; la morte come unione con Cristo)18. In passato essa trattava di questo argomento in un duplice contesto: da una parte se ne parlava nell’ambito del rapporto colpa/castigo (forte connotazione giuridica), in cui veniva inserita la considerazione intorno alla morte di Cristo e della Vergine Maria; dall’altra come semplice punto di contatto con l’aldilà, come fine dello stato di prova e introduzione nello status termini. La visione dell’uomo condizionava direttamente la visione della morte, e viceversa. Poiché l’essere umano era concepito come il prodotto dell’unione di anima e corpo, la morte era vista di conseguenza come un fatto che interessava unicamente il corpo, il suo disfacimento organico, e in nessun modo l’anima, sostanza spirituale. Per queste ragioni, secondo ruiz de la Peña un’antropologia statica ed essenzialista come quella che soggiace alla trattazione della morte nella manualistica classica, vedrà in essa un fenomeno individualistico e naturale, mentre la valorizzazione della persona come entità dinamica cercherà di integrare la morte nell’esistenza stessa dell’uomo, di metterne a nudo gli elementi di rottura relazionale che essa contiene e la sua diretta incidenza sulla persona19. La teologia nella sua rinnovata attenzione per l’importanza della persona ha dunque tentato di inquadrare il tema della morte nell’ambito della riflessione sull’uomo (la sua vita, la sua fine e il fine della sua esistenza), riconoscendo in essa un tema squisitamente umano e con un grande risvolto antropologico. La comprensione di questo tema è un passo essenziale per l’intelligenza stessa del mistero dell’uomo e del significato e valore della sua azione nel e per il mondo20. anche Lorizio ne è convinto, tanto da dire che «la risposta alla domanda “che cos’è la morte?” 18 Come fa notare C. zuccaro (cfr Il morire umano, cit., 149), la tradizione ecclesiale ha compreso la morte sotto tre prospettive principali che sono state riassunte sinteticamente dal Catechismo della Chiesa Cattolica. Essa è innanzitutto una realtà che riguarda tutti gli esseri viventi ed è un evento naturale; è il termine della vita terrena. E poiché la vita è misurata dal tempo che scorre, così come per tutti gli altri esseri viventi anche per l’uomo la morte rappresenta la fine normale della sua vita (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1992, n. 1007). La morte, poi, è conseguenza del peccato perché è entrata nel mondo a causa del peccato (ibid., n. 1008). Essa, infine, è trasformata da Cristo il quale l’ha assunta in un atto di totale e libera sottomissione al Padre suo, trasformandola così da maledizione in benedizione (ibid., 1009). 19 Cfr j.L. rUIz DE La PEña, El hombre y su muerte. Antropología teológica actual, Burgos 1971, 376. 20 «Un discorso sulla morte, che ne voglia essere “interpretazione”, può svilupparsi all’interno di un preciso modello antropologico. La concezione della morte è legata cioè stret-

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porta in sé una domanda ancora più impegnativa: “che cos’è l’uomo?»21. Non può esserci una corretta trattazione della questione della morte al di fuori o al di là di una comprensione dell’uomo e della sua natura, poiché tra le due questioni c’è una reciproca implicanza. La teologia contemporanea ha preso consapevolezza, cioè, che è necessario superare lo scoglio contro cui si infrangeva la riflessione della teologia classica in cui il tema della morte era pressoché sganciato dalla riflessione sull’uomo, prescindeva da esso, e trattato come un semplice preambolo alla vera e propria riflessione intorno ai novissimi dell’uomo, non rientrando così di per sé direttamente né nell’antropologia, né nell’escatologia. In questo stato di cose si colloca il rinnovato interesse per la questione della morte da parte della teologia, anche negli anni in cui la materia escatologica ha sofferto di un certo isolamento rispetto alle altre discipline teologiche. Questo interesse si è dimostrato principalmente negli ultimi decenni, in particolare a partire dalla seconda metà degli anni Settanta in cui ha conosciuto una nuova fioritura, soprattutto se si tiene conto del fatto che gli studi dedicati a questa tematica si sono moltiplicati vertiginosamente, anche a motivo degli stimoli e dei suggerimenti derivanti dalla riflessione filosofica, e specialmente grazie alla riconsiderazione del messaggio biblico su questo tema. Pubblicazioni sull’argomento; settimane di studio; Colloqui; Simposi; ecc. sono stati numerosissimi ed hanno affrontato dalle più diverse angolature la questione umana e cristiana della morte22. tamente alla concezione di uomo che si ha» (N. GaLaNTINO, Storicità, senso e dimensione comunitaria della morte, in Morte e sopravvivenza, ed. G. Lorizio, roma 1995, 174). 21 G. LOrIzIO, Mistero della morte come mistero dell’uomo, Napoli 1982, 113. a questo va aggiunto che «il senso dell’esistenza dell’uomo supera i limitati confini della storia della singola persona per entrare a far parte di quelli più ampi della comunità, così la morte del singolo uomo smette di essere un fatto individuale per divenire un momento significativo nella storia dell’intera comunità» (N. GaLaNTINO, Storicità, senso e dimensione comunitaria della morte, cit., 174). 22 agli inizi degli anni Settanta, K. rahner poteva constatare amaramente: «Si scorra una qualunque bibliografia e si resterà atterriti di fronte alla deficienza o addirittura alla mancanza totale di vere ricerche dogmatiche sulla teologia della morte. Poeti e filosofi vi pensano. Nella teologia di oggi s’insegna freddamente una volta, in un contesto qualunque, che la morte è dovuta al peccato originale. Questo è, press’a poco, tutto» (Saggio di uno schema di dogmatica, in ID., Saggi teologici, roma 1965, 70). Sebbene sia vera questa osservazione di rahner, è anche possibile vedere proprio in quel periodo lo sviluppo di una rinnovata attenzione per questo tema della teologia. In questa sede non mi è possibile

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Negli ultimi anni la riflessione teologica su questa tematica si sta dunque lentamente liberando dalla situazione di stallo in cui era stata tenuta sino a qualche tempo fa, e questo anche per il rinnovato interesse per il valore pastorale, oltre che teologico, di questo tema da parte di molti teologi evangelici e cattolici (jüngel, Balthasar, rahner, Boros, ed altri) e soprattutto da parte del Vaticano II che si è soffermato sulla considerazione di questa questione soprattutto in Gaudium et Spes (specialmente il numero 18)23. Per quanto concerne l’ultimo Concilio si può dire soltanto che non a caso nei suoi documenti si è fatto diretto riferimento alla morte particolarmente nella Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, nel desiderio di far giungere a tutti gli uomini il messaggio di speranza del vangelo. La Chiesa sa che davanti al mistero della morte l’enigma della condizione umana diventa sommo, poiché l’uomo non solo si affligge al pensiero della morte, ma soprattutto al pensiero che con essa tutto finisca e che il proprio destino sia quello della dissoluzione e il nulla. Ma essa sa anche che questo pensiero è in stridente contraddizione con quanto l’uomo sente nel profondo del proprio spirito e con quell’istinto che gli fa aborrire la prospettiva del nulla e della rovina eterna. Quella risposta alla questione della morte che non può essere trovata né nella scienza, né in un prolungamento indefinito della segnalare la vastissima produzione letteraria su questo argomento. Mi limito ad indicare solamente alcuni studi di natura storica, sociologica, antropologica e psicologica. Oltre ai già citati testi di Ph. ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi e Storia della morte in Occidente, si vedano: j. CHOrON, La morte nel pensiero occidentale, Bari 1971; W. FUCHS, Le immagini della morte nella società moderna, Torino 1973; L.V. THOMaS, Antropologia della morte, Milano 1976; V. jaNKéLéVITCH, La mort, Paris 1977; E. KUBLErrOSS, La morte e il morire, assisi 1979. Per quanto riguarda la teologia si vedano: V. MELCHIOrrE, Sul senso della morte, Brescia 1964; M. BOrDONI, Dimensioni antropologiche della morte. Saggio sulle ultime realtà cristiane, roma 1969; j. GrEGOIrE, La mort du Christ et la mort du chrétien: perspectives christologiques sur la mort chrétienne, in La Foi et le Temps 2 (1972) 343-359; G. GrESHaKE, Ricerche per una teologia del morire, in Concilium 4 (1974) 103-122; P. GrELOT, Dalla morte alla vita, Torino 1975; j. KrEMEr, Essi vivranno. Sei capitoli su morte, risurrezione, vita nuova, Brescia 1978; j.P. MaNIGUE – B. aNDré, Il ritorno della morte, Brescia 1976; F. GIaNFraNCESCHI, Svelare la morte, Milano 1979; e soprattutto K. raHNEr, Sulla teologia della morte. Con una digressione sul martirio, Brescia 1965; L. BOrOS, Mysterium mortis. L’uomo nella decisione ultima, cit.; E. jüNGEL, Morte, Brescia 1972. 23 Per quanto riguarda la presentazione critica dei principali interventi del recente magistero, si rimanda a M. FarrUGIa, La morte nell’insegnamento ufficiale recente, in Morte e sopravvivenza. In dialogo con Xavier Tilliette, ed. G. Lorizio, roma 1995, 243-253.

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longevità biologica, è offerta unicamente dalla fede che annuncia la redenzione definitiva dell’uomo dalla morte per opera di Cristo morto e risorto. Il testo conciliare ripropone così la sostanza della dottrina e nello stesso tempo si sforza di offrirla all’uomo contemporaneo colto nella sua reale situazione storica, in un tempo di grandi incertezze in cui va alla ricerca di risposte concrete e serie alle sue domande fondamentali sul senso della vita e della morte. a quanto detto va aggiunto che dalle affermazioni della Benedictus Deus di Benedetto xII del 1336 un testo magisteriale di uno spessore così importante non aveva affrontato più o meno direttamente la questione della morte. È tuttavia possibile cogliere immediatamente una grande disparità tra i due documenti (il primo di indole dogmatica e il secondo di natura più pastorale), ma è soprattutto importante notare come la teologia dei secoli successivi alla dichiarazione di Benedetto xII, sino ad arrivare praticamente alla riflessione dei primi decenni del Novecento — con il rinnovamento teologico — e quindi al Vaticano II, si sia limitata a ripetere e ad approfondire le principali enunciazioni del documento medievale senza un significativo progresso nella comprensione dell’escatologia cristiana e in particolare della questione della morte. Il Vaticano II da parte sua ha ripreso e rilanciato la dottrina classica della Chiesa sulla morte, sintetizzata in due asserti fondamentali: da un lato ha affermato la definitività e l’irrevocabilità dell’esistenza terrena, conclusa dalla morte, dall’altro lato ha parlato del valore decisivo della stessa per la sorte eterna e definitiva dell’uomo nell’aldilà, ed ha quindi tentato di tradurre queste verità per l’uomo e il mondo di oggi24. Tralasciando in questa sede la considerazione puntuale di come il Vaticano II si sia accostato al tema della morte, va fatto notare soprattutto come nel dopo-concilio in un primo momento sembrava che l’indagine teologica sulla morte si fosse per così dire quasi arenata e non riuscisse più, come era avvenuto nel suo passato prossimo, a dialogare compiutamente con la cultura contemporanea. Oggi il processo di ‘risveglio’ non è ancora del tutto concluso, poiché se da una parte sono sempre più numerosi i contributi nell’ambito delle scienze umane sulla morte e il suo significato Per ulteriori approfondimenti rimando tra l’altro anche ad un mio lavoro: F. BraNCaTO, Verso il rinnovamento del trattato di escatologia. Studio di escatologia cattolica dal preconcilio ad oggi (numero monografico), Sacra Doctrina 2 (2002), in particolare le pp. 54-80. 24

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profondamente antropologico (filosofia, psicologia e sociologia), a mio avviso non sono altrettanto numerosi — o perlomeno particolarmente significativi — i contributi della teologia contemporanea, specialmente se questa viene messa a confronto con quanto proviene prevalentemente dall’indagine filosofica. La teologia contemporanea, infatti, non sempre riesce a mantenere perfettamente il passo con il progresso di quella che si potrebbe definire — forse impropriamente — la ‘riflessione laica’ sulla questione della morte, e in alcune occasioni si mostra quasi impacciata nella sua indagine25. In ogni caso, la teologia si sta sforzando di accostarsi in maniera sempre più puntuale a questa problematica, ed ha di certo qualcosa di interessante e importante da dire anche all’uomo di oggi, e nelle pagine che seguiranno il mio sforzo consisterà prevalentemente nel tentativo di individuare e segnalare gli elementi fondamentali dell’attuale riflessione teologica su questo tema centrale della dottrina.

25 a questo proposito si può dire che «l’ateismo moderno vuole avere un significato profondamente umano, essere un umanesimo, libero da ogni legame religioso proprio di una concezione antropologica superata e inaccettabile. Ciò spiega perché si sia radicalmente trasformato il modo con cui l’uomo si rapporta in concreto all’evento della morte, tanto che mai come nel pensiero contemporaneo la morte è stata fatta oggetto della riflessione filosofica» (a. MarraNzINI, L’ultima esperienza di un teologo: K. Rahner in attesa dell’incontro definitivo con “Colui che viene”, in Morte e sopravvivenza, ed. G. Lorizio, roma 1995, 358).

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CaPITOLO II La NEOSCOLaSTICa E IL TraTTaTO DE NOVISSIMIS La svolta antropologica della filosofia contemporanea, come è stato anticipato, ha conferito un’importanza decisiva alla ricerca sulla morte quale questione capace di chiarire anche il mistero dell’uomo. a questo si aggiunga l’interesse mostrato per questo tema dagli studi storici, sociologici e psicologici, che l’hanno imposto come tema cruciale della cultura e del pensiero dell’uomo contemporaneo. La questione della morte era precedentemente inserita nel trattato sui novissimi come “corridoio di passaggio” verso gli stadi della vita ultraterrena in cui veniva a trovarsi l’anima separata. Soprattutto nei trattati di matrice neoscolastica, infatti, essa rappresentava semplicemente un evento puntuale che veniva a mettere fine all’esistenza temporale dell’essere umano, il definitivo spegnersi dell’energia vitale propria di ogni singolo individuo e perciò stesso il punto di contatto con l’aldilà. L’approccio a questo tema, come ho avuto modo di dire, assumeva il più delle volte un carattere ascetico e mistico e il suo significato veniva confinato nell’importanza che poteva avere per il comportamento etico e morale dell’uomo. I manuali classici sui novissimi collocavano la sua trattazione all’inizio dell’escatologia individuale la cui preoccupazione preponderante era quella di addurre argomenti a favore dell’escatologia intermedia (affermazione della tesi secondo cui la morte è unicamente la separazione dell’anima dal corpo, determina lo sfacelo del corpo e lascia assolutamente inalterato il principio spirituale dell’essere umano)26. In particolare, la maggior parte dei manuali utilizzati nelle varie università G. Gozzelino a questo proposito fa una precisazione che mi sembra opportuno proporre in questo contesto. Egli afferma che in verità la morte intesa come separazione del corpo dall’anima, e non propriamente dell’anima dal corpo, è dovuta all’incapacità del corpo di mantenere le condizioni necessarie per l’esistenza corporea a causa del suo disfacimento. Si muore, in sostanza, perché il corpo non ha più la capacità di continuare ad esistere come materia informata dall’anima, per cui abbandona il principio spirituale che lo informa e lo anima (cfr Nell’attesa della beata speranza. Saggio di escatologia cristiana, Torino 1993, 440). a questo riguardo si tenga presente anche j. raTzINGEr, Teologia della morte, in ID., Dogma e predicazione, Brescia 1974, 235-236. 26

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pontificie come anche nei seminari e negli istituti teologici, parlavano della morte esclusivamente all’inizio della trattazione, e per definirla utilizzavano il linguaggio e le immagini della Scrittura (spesso senza un’adeguata ermeneutica), evitando accuratamente di inoltrarsi nello studio e nell’approfondimento della questione. Nell’ambito della trattazione dell’escatologia individuale (de novissimis hominis) i manuali in genere parlavano della morte come ingresso in alteram vitam in quanto essa imponitur finis presenti vitae simulque incipit pro singulis hominibus vita altera seu aeterna. Essa era generalmente definita come privatio vitae ed era scomposta in mors spiritualis e in mors corporali. L’attenzione della riflessione si inclinava soprattutto verso la morte corporale, descritta come dissolutio del composto umano (anima e corpo). Lennerz, ad esempio, nel suo De novissimis ne parla come della separatio animae immortalis a corpore o ancora più semplicemente come della separatio animae a corpore27, mentre Piolanti preferisce parlare di dissolutio unionis animae et corporis28, adottando così anch’egli le definizioni più comuni della morte proprie dei manuali neoscolastici: dissolutio, expoliatio, peregrinatio a corpore, depositio tabernaculi, ecc., in cui l’accento era posto sulla rottura dell’unità del composto umano e sulla conseguente considerazione dell’anima separata e delle sue caratteristiche essenziali. L’unico approccio possibile a questo tema era dunque esclusivamente quello negativo: la considerazione della morte come separazione, scissione, lacerazione, dissoluzione. Questa visione lasciava inevitabilmente in ombra — anzi taceva quasi del tutto — il possibile approccio positivo alla questione, ovvero la comprensione della stessa come compimento, fine, incontro escatologico con Cristo risorto, esodo e passaggio verso il Padre, ecc. In questo quadro era quasi normale che anche la dimensione pasquale della morte e del morire dell’uomo venissero fatte passare sotto silenzio, così come venivano fatti passare sotto silenzio il suo aspetto personale e la sua dimensione esistenziale, con tutto ciò che questo deficit immancabilmente generava. H. LENNErz, De Novissimis, romae 1940, 96-97. a. PIOLaNTI, De novissimis, romae 1960, 2. anche C. Pozo, nelle dispense redatte per gli alunni degli atenei romani, dopo aver parlato della morte come della conclusione dello stato di pellegrinaggio, afferma che la morte è il momento «in quo anima desinit informare corpus» e in cui l’uomo decide definitivamente (definitive) del proprio destino (De Novissimis, romae 1966, 60-61). 27 28

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Bartmann, proprio alla fine del III tomo del suo Manuale di teologia dogmatica tratta dell’escatologia cristiana dopo aver parlato dei sacramenti. La morte, sebbene sia descritta nel suo manuale come il passaggio agli stadi definitivi del cristiano, come l’incontro con Cristo, è anche e soprattutto il varco che introduce l’uomo nella vita beata, nella perdizione eterna o nel purgatorio. Dell’evento della morte viene detto che è conseguenza del peccato e che è la fine del tempo del merito e del demerito29. La riflessione è ricondotta a pochi punti fondamentali che anche gli altri manuali neoscolastici propongono con una certa regolarità e sistematicità, senza particolari apporti e riflessioni personali da parte dei teologi: presentare la morte come termine della vita storica dell’uomo, ovvero come finis praesentis vitae; come terminum probationis et meriti; affermare la mortis universalitas secondo l’insegnamento della Scrittura che associa l’universalità della morte a quella del peccato; la mortis incertitudo quoad tempus e quindi l’importanza della vigilanza come virtù propria del cristiano. Infine, unitamente alla questione della morte, i manuali neoscolastici trattavano della questione dell’anima separata che occupava uno spazio considerevole nell’economia della riflessione. riguardo a quest’ultimo punto gli autori erano preoccupati di affermare che solum corpus moritur, non autem anima, e che contrariamente a quanto sostengono i materialisti, anima separata vere est immortalis, e che questo dato poggia non solo sulla testimonianza autorevole della Scrittura e della Tradizione, ma anche su prove ex ratione theologica o semplicemente ex ratione30. Si può anzi affermare che per la maggior parte dei teologi del tempo — fra questi non bisogna dimenticare anche Billot, Lercher, Tanquerey, oltre ai già citati Piolanti, Lennerz e Bartmann — la preoccupazione principale era proprio quella di definire e difendere la dottrina dell’immortalità dell’anima contro gli attacchi del materialismo moderno, con un intento di natura prevalentemente apologetica. In questo quadro, la trattazione della morte era subordinata a questo fine primario che avrebbe permesso lo studio degli stati dell’anima separata nell’aldilà. Ciò che importava, a questo punto, era infatti la presentazione puntuale dei diversi “ricettacoli” che avrebbero accolto l’anima separata dopo la sua dipartita dal corpo (inferno, purgatorio, paradiso).

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Cfr D. BarTMaNN, Manuale di teologia dogmatica, III, alba 1950. Cfr aD. TaNQUErEy, Synopsis Theologiae Dogmaticae, III, romae 194725, 756-761.

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1. Qualche rilievo critico Dallo studio dei manuali di matrice neoscolastica emerge una visione della morte cui sottende una specifica concezione dell’uomo che è stata presa di mira dalla teologia evangelica che vi ha visto un chiaro retaggio della filosofia greco-platonica di stampo dualista, inconciliabile con la visione unitaria dell’uomo propria della riflessione biblica, e per questa ragione oramai divenuta praticamente improponibile all’uomo contemporaneo sempre più attento a salvaguardare l’integrità della persona non solo nella sua spiritualità, ma unitamente nella sua corporeità e mondanità31. Diversi teologi, anche cattolici, hanno letto nell’antropologia classica, accusata di dualismo, un ostacolo per la giusta cognizione dell’uomo e del suo destino ultimo. a questi ratzinger risponde che la speranza cristiana è sì rivolta all’uomo intero, la persona umana integralmente considerata, ma «la dualità che distingue ciò che è costante da ciò che è variabile è necessaria per la logica stessa della realtà. Per questo motivo la distinzione tra anima e corpo è indispensabile»32. Gozzelino, inoltre, fa notare che quella tendenza dimentica che assieme alla visione 31 alcuni autori — fa notare Lorizio — sostengono che anche l’anima cessa di esistere con il corpo e che alla seconda venuta di Cristo l’uomo verrà ricreato ex novo da Dio, secondo il ricordo che egli conserva (tra questi autori basta ricordare P. althaus). Qualche autore più ‘mite’ sostiene, invece, che dopo la morte l’anima continua ad esistere, ma in forma larvata, assopita e sonnacchiosa: la risurrezione verrà a scuotere l’anima dal suo sonno e a ricongiungerla al corpo. Tra gli altri va ricordato innanzitutto O. Cullmann che vuole rimettere in evidenza tutta la drammaticità del mistero della morte e l’immane potenza del negativo che porta in sé, senza mascherarla attraverso la facile scorciatoia della speranza nella risurrezione o della comprensione della stessa come fatto riguardante unicamente il corpo. Per questo teologo la drammaticità e la serietà della morte risiedono nel fatto che a morire è in effetti tutto l’uomo, e non soltanto il suo corpo, come se quest’ultimo fosse un rivestimento estrinseco e irrilevante dello spirito. Cullmann è perciò convinto che pensare teologicamente la morte significhi anche ritornare alla visione biblica di questo mistero: la morte come interruzione della relazione con Dio, con il mondo e con gli altri viventi; la morte come rottura del dialogo vitale che impegna e costituisce la persona; la morte come l’isolamento estremo e la solitudine radicale di cui fanno esperienza i defunti nello sheol. La risposta a questo dramma risiede unicamente nell’annuncio della risurrezione finale come partecipazione ed estensione della stessa risurrezione di Cristo dai morti: non c’è altra luce che possa illuminare uesto mistero umano e cristiano (cfr O. CULLMaNN, Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti?, Brescia 1977; ed anche G. LOrIzIO, Mistero della morte come mistero dell’uomo, cit.). 32 j. raTzINGEr, Escatologia. Morte e vita eterna, assisi 19963, 170.

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unitaria dell’uomo proposta dalla Scrittura, non bisogna scartare la parallela asserzione della sua complessità: se si sottace questo dato, si finisce per esasperare l’antropologia unitaria della Bibbia e si scade in una sorta di monismo che comprime l’essere umano e la sua vera natura. Sebbene l’uomo non sia meramente un essere composto, è anche vero che egli è un essere complesso, e sebbene gli elementi che lo determinano — corpo ed anima — non diano origine ad una sorta di dualismo, è anche vero che sono irriducibili l’uno all’altro e non possono essere assolutamente assimilati e confusi tra di essi, in una unità soffocante33. In questo senso, conclude Gozzelino, può essere ritenuto che «l’interpretazione della morte, pur non potendo ridursi a quanto viene espresso dalla formula della separazione del corpo dall’anima, non sia in grado di prescinderne»34 perché salva l’identità dell’uomo vissuto storicamente con colui che viene risuscitato alla fine dei tempi e non consente di pensare alla morte come al disfacimento totale e assoluto della persona che solo alla risurrezione verrebbe ri-creata35. La separazione, infatti, così fortemente sostenuta dalla teologia classica, da un lato denuncia la drammaticità della morte, il doloroso distacco che si consuma nell’essere stesso dell’uomo, ma dall’altro consente di concepire la sopravvivenza del suo elemento spirituale, poiché il dialogo che Dio intrattiene con la persona umana viene garantito, oltre la morte, dall’azione stessa del Creatore (ragione teologica), ma anche dalla permanenza del principio soggettivo dell’uomo che non può subire la corruzione al pari del corpo e della materia (ragione antropologica)36. Cfr G. GOzzELINO, Nell’attesa della beata speranza, cit., 441. Ibid., 443. 35 L. c. 36 La Commissione Teologica Internazionale sottoscrive in qualche maniera la convinzione secondo cui la morte non può essere intesa semplicemente come la separazione dell’anima dal corpo con il conseguente disfacimento della parte organica e fisica dell’essere umano e l’assoluta imperturbabilità di quella spirituale, ed afferma che «la morte scinde l’uomo intrinsecamente. Più ancora poiché la persona umana non è solamente l’anima, ma l’anima e il corpo essenzialmente uniti, la morte colpisce la persona» (Alcune questioni attuali riguardanti l’escatologia, cit., 479). Su questo punto non si può non condividere il giudizio lapidario di Farrugia il quale afferma che «se la Commissione avesse dato maggiore risalto a tale passaggio, avrebbe certamente dato un maggiore contributo alla ricerca teologica contemporanea» (M. FarrUGIa, La morte nell’insegnamento ufficiale recente, cit., 248). Essa invece ha rivelato, come tutti gli altri interventi magisteriali recenti, una carenza fondamentale nella sua riflessione sulla morte e non si è spinta nell’approfondimento delle realtà antropologiche contenute in questo evento. Non va tuttavia dimenticato 33 34

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Tornando comunque a riconsiderare più direttamente il valore della riflessione neoscolastica sulla questione della morte, si può aggiungere che per quanto essa abbia avuto il merito innegabile di salvaguardare gli elementi fondamentali della dottrina della Chiesa sull’escatologia, con il suo avvento e la sua affermazione si è anche avvertita lentamente, ma con più forza, la crisi che ha investito l’escatologia cattolica, poiché la trattazione del tema escatologico era divenuta dominio assoluto ed esclusivo dei manuali di scuola in cui i cosiddetti novissimi avevano una scarsa incidenza sulla strutturazione della materia teologica e sull’intero discorso teologico. I novissimi (più direttamente il giudizio, l’inferno, il purgatorio, il paradiso, a cui si accede attraverso la morte) rappresentavano infatti solamente l’ultimo capitolo della dogmatica, con un legame estrinseco e fittizio con l’insieme della riflessione teologica e con uno scarso riferimento alle altre discipline. Questo stato di cose ha portato lentamente all’oblio dell’escatologia dalla riflessione teologica. Tuttavia già a partire dagli inizi della seconda metà del ’900, da parte cattolica si è cominciato a mostrare un particolare interesse per l’escatologia, anche grazie agli stimoli derivanti dalla teologia evangelica e al rinnovamento degli studi biblico-patristici e liturgici, nonché all’opera di teologi del calibro di Congar, de Lubac, von Balthasar e rahner, i cui contributi in qualche maniera si sarebbero resi ancora più visibili nella riflessione del Vaticano II. È a partire dalla fase postconciliare, infatti, che l’escatologia cattolica ha registrato un periodo di particolare rinascita. Essa è stata riletta attraverso categorie rinnovate, e questo dato è facilmente documentabile anche attraverso l’interesse sempre crescente da parte dei teologi cattolici per quello che non può essere semplicemente giudicato come un capitolo della dogmatica, ma una prospettiva fondamentale attraverso cui riconsiderare l’intero messaggio cristiano e quindi le essenziali verità della fede della Chiesa. Con queste premesse, negli ultimi anni, anche per merito delle dottrine di ispirazione antropologica circa il tema della morte come evento specificamente umano — fa notare M. Bordoni — si è anche prodotto lo

che la Commissione ha trattato direttamente soltanto i nodi essenziali della dottrina escatologica della Chiesa (anche in riferimento alla morte), fissandone i punti essenziali, mentre ha lasciato al confronto teologico il compito di inoltrarsi in ulteriori approfondimenti delle varie questioni.

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sviluppo di una teologia inedita sulla morte37. Ciò che secondo Bordoni interessa i teologi moderni non è tanto la condizione dell’anima dopo la morte (questione che aveva assorbito le attenzioni della teologia medievale e che ha contrassegnato la stessa riflessione manualistica neoscolastica), ma il momento stesso della morte come istante decisivo nella vita personale dell’uomo. Molta parte di questa teologia si mostra abbastanza critica nei confronti della teologia precedente, accusata tra l’altro di una grave insufficienza antropologica, di aver allentato i rapporti di confidenza con la testimonianza biblica, di essersi imparentata con la filosofia di stampo ellenistico per quanto riguarda soprattutto la concezione dualista dell’uomo, con la conseguente comprensione della morte come dissoluzione di tale composto, e di aver così dimenticato che con la morte l’anima cessa di essere forma corporis e quindi viene privata della sua funzione primaria che la fa essere ciò che effettivamente è. Martelet a questo proposito è convinto che una corretta visione dell’uomo sbarra la strada a qualsivoglia errata comprensione della vita e della morte. Per parlare adeguatamente dell’uomo, afferma il teologo, è necessario escludere ogni forma di dualismo che assegna al corpo un posto decisamente marginale rispetto all’anima. Perché si scampi a questo pericolo, secondo il teologo sarebbe più opportuno che si sostituisse al concetto di anima, ritenuto troppo sostanzialistico e aperto ad un fraintendimento dualistico, quello di “spirito”, perché quest’ultimo fa del corpo la sua espressione legandolo alla sua potenza, in quanto nel corpo esso ha il suo “luogo” e in esso si manifesta. Così come non è possibile trattare del corpo umano, né nella vita né nella morte, come un elemento secondario, posticcio e quasi aggiunto all’essenza intima dell’essere umano, «così non si vedrà mai nella morte una “liberazione” dello spirito, poiché il nostro corpo fa parte integrante della nostra identità di uomini, e questo anche nella morte, in cui tuttavia il corpo viene abolito»38. Tanto meno la morte significa l’annientamento dello spirito. L’uomo, infatti, nella morte subisce uno scacco tragico e reale, perché viene colpito proprio nella sua personale maniera di manifestarsi. Ma questa sconfitta non è assoluta, «in quanto la potenza che viene sconfitta, cioè lo spirito, è sì ridotta al silenzio, ma non soppressa né annientata»39. Questo non toglie che la morte rimane il 37 38 39

M. BOrDONI, Dimensioni antropologiche della morte, cit., 51. G. MarTELET, L’aldilà ritrovato. Una cristologia dei novissimi, Brescia 1977, 23. Ibid., 27.

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dramma totale, assoluto, la partenza senza ritorno, il silenzio, che annulla il rapporto storico, l’unico che attualmente conosciamo, dell’uomo con il mondo, con se stesso, con gli altri. Ciò che conta ora è comprendere che la relazione con il corpo è parte integrante della costituzione essenziale dell’anima. La corporeità è già compresa immediatamente e originariamente nell’essenza stessa dell’anima: la morte è dunque un momento intrinseco dell’anima stessa40. Per aver dimenticato questo dato fondamentale, o perlomeno per non averlo messo pienamente in evidenza e averlo sottaciuto, questa teologia viene accusata di avere disumanizzato e depersonalizzato la morte e di averla trasformata in mero decesso biologico o fisico-organico (Medical Death), privo di qualsiasi valore per l’uomo e per la sua intera esistenza. Per Boff non è possibile rappresentarsi la morte come mera scomposizione del composto uomo (anima e corpo), perché in verità «il corpo non è qualcosa nell’uomo e dell’uomo: è l’uomo tutto intero come modo di accedere al mondo e di essere-nel-mondo»41. Esso è, cioè, il modo in cui lo spirito vive nel mondo, incarnato nella materia. La morte perciò non può 40 Cfr M. BOrDONI, Dimensioni antropologiche della morte, cit., 56. In diversi punti anche GS 14 insegna che l’uomo è unità di corpo ed anima, e che quest’ultima è spirituale e immortale, accogliendo così un modello antropologico ampiamente canonizzato dalla tradizione. Tuttavia, fa notare la Commissione Teologica Internazionale, sebbene l’antropologia riproposta indirettamente dal Concilio includa una dualità di elementi ( lo schema “corpo-anima”) — che rendano ragione della dottrina della duplice fase e quindi dell’esistenza di uno stadio intermedio tra la morte e la risurrezione escatologica — che si possono separare in modo che uno di essi (l’anima spirituale e immortale) possa sussistere come separato, non è comunque legittimo vedere in queste affermazioni alcuna sorta di dualismo di stampo platonico, perché la “dualità” di elementi esprime al contempo l’intrinseca unità dell’uomo e la tendenza dell’anima separata a ricongiungersi con il proprio corpo nella risurrezione finale (cfr Alcune questioni attuali riguardanti l’escatologia, cit., 476). La Commissione accoglie in toto le dichiarazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede — la cui intenzione non è quella di trattare della questione della morte, quanto piuttosto quella di chiarire alcune questioni fondamentali concernenti «quel che avviene tra la morte del cristiano e la risurrezione universale» (Alcune questioni concernenti l’escatologia, in Enchiridion Vaticanum 6, n. 1536) ed afferma che se è importante mettere in evidenza la drammaticità della morte intesa come rottura ed evento che riguarda direttamente l’uomo, è altresì fondamentale mantenere ferma la convinzione della Chiesa che alla morte dell’uomo sopravviva «un elemento spirituale dotato di coscienza e di volontà, in modo che sussista il medesimo “io” umano mancante intanto del complemento del suo corpo» (Alcune questioni attuali riguardanti l’escatologia, cit., 477), “io” umano che viene chiamato comunemente ‘anima’. 41 L. BOFF, Vita oltre la morte, cit., 31.

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essere definita come separazione perché non c’è nulla da separare: essa è invece una cesura tra un tipo di corporeità, limitato e biologico, ristretto al corpo, e un tipo di corporeità illimitato, pancosmico, consono al nuovo modo di essere dell’uomo dopo la morte. Nella morte il corpo cessa di essere quasi una barriera che separa l’uomo dagli altri esseri e soprattutto dagli altri uomini, e diviene espressione radicale della comunione che la persona instaura con le cose e con la totalità del cosmo. La morte è dunque il passaggio tra due modi di essere dell’unica persona umana nel suo rapporto con il corpo, la materia e il cosmo, e fa sì che nel transito dall’uno all’altro, dalla temporalità all’eternità, egli raggiunga totalmente la propria maturità e quindi se stesso42. La grave insufficienza della teologia precedente su questo punto ha così svelato il bisogno che anche il tema della morte venisse riletto attraverso categorie rinnovate. Questo insieme di cose, pertanto, ha portato la teologia contemporanea ad operare un radicale rinnovamento dell’escatologia cristiana attraverso una maggiore fedeltà alle fonti e un’attenzione particolare alle istanze dell’uomo moderno, e in questo contesto a riordinare la sua attenzione sulla spinosa questione del morire e della morte.

42 Cfr ibid., 32-33. Sebbene nelle sue argomentazioni il teologo si muova sostanzialmente nell’alveo delle affermazioni paoline circa il corpo risorto, si può comunque sottolineare la superficialità con cui egli sbrigativamente identifica l’eternità con il modo di essere dell’uomo dopo la propria morte: per quanto riguarda l’essere umano, infatti, così come diversi teologi hanno fatto notare, si può più opportunamente parlare di “eternità partecipata”, poiché l’eternità vera e propria è una prerogativa divina e solo per grazia viene donata all’uomo nel rispetto della sua natura e delle sue caratteristiche essenziali. anche nell’aldilà l’uomo resta sempre una creatura e un essere limitato, distinto da Dio e dal suo modo d’essere, e con la morte non abbandona totalmente e assolutamente il suo rapporto con lo spazio e il tempo che caratterizzano la sua esistenza terrena, ma entra in una relazione nuova e inedita, di cui non abbiamo però notizie chiare e distinte, con il mondo e gli altri uomini.

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CaPITOLO III ISTaNzE DI rINNOVaMENTO PEr La TEOLOGIa 1. La riflessione teologica e l’indagine filosofica Comprendere l’attuale riflessione teologica sulla questione della morte e l’atteggiamento che la società di oggi e in particolare l’uomo dell’era postmoderna hanno di fronte a questo evento così importante, significa anche richiamare alla memoria almeno gli elementi generalissimi e di rintracciare le linee principali dei diversissimi approcci dell’indagine filosofica a questa problematica. Tutto questo nella consapevolezza che l’attuale trattazione teologica ha ancora un debito non indifferente nei confronti della riflessione laica sulla questione della morte e del morire, per cui risulta indispensabile e imprescindibile conoscere per sommi capi le tappe fondamentali della “storia della morte” nel pensiero filosofico contemporaneo, sebbene ciò esuli completamente dall’oggetto di questo studio. La riflessione credente della Chiesa primitiva ha tentato di dialogare con la cultura del tempo accogliendone alcune intuizioni (ad esempio la stessa concezione della filosofia come commentatio mortis propria degli stoici; la vita come preparazione alla morte e come continuo morire), ma ha anche stabilito con fermezza il punto discriminante tra il suo messaggio e le correnti filosofiche con cui entrava in contatto. La fede della Chiesa ha sempre avuto chiaro che il punto di riferimento fondamentale per la sua riflessione sulla morte è Cristo e la sua morte, e per questa ragione il suo discorso intorno alla questione della morte ha avuto un carattere fondamentalmente soteriologico. La teologia contemporanea ha rivalorizzato questo dato imprescindibile e centrale della fede cristiana e del suo messaggio ed ha perciò riletto il mistero della morte umana attraverso la grammatica offerta dalla morte di Cristo intesa come evento di salvezza dell’uomo e del mondo intero dal dominio del peccato e della morte. Fatta questa premessa si può dire che il pensiero filosofico ha tentato di segnalare alcuni possibili, e disperati, rimedi alla questione della morte e del morire. Tra i molti espedienti avanzati da quella che può essere definita 35


la “sponda scettica” del pensiero contemporaneo (basta pensare all’opera di Schopenhauer e a ciò che il suo pensiero ha significato per autori come Feuerbach, Marx e Nietzsche), si evidenzia il tentativo di sottrarre l’individuo all’ineluttabilità del destino che lo attende avanzando l’idea di una salvezza che non potendo cambiare la finitudine e la fugacità della vita, cerca di cambiare l’uomo con le sue disposizioni d’animo, indicandogli alcune vie di fuga dal tremendo terrore che egli prova di fronte al sopraggiungere della fine. La salvezza che viene offerta all’uomo è però solamente di natura psicologica e non lo riguarda veramente, esistenzialmente: egli può superare la paura cieca provata di fronte alla morte solamente liberando il nucleo più intimo del proprio essere, mortificando il proprio egoismo e liberandosi dalla zavorra delle passioni che lo tiene legato alla realtà effimera e passeggera. L’unica pace che l’uomo può conquistare è quella che scaturisce dalla coscienza che il suo personale destino è legato a quello del resto dell’universo e dell’umanità, e che il suo sacrificio, che si risolve nell’ascesi esercitata contro la sete spasmodica di vivere, è ricompensato dalla sopravvivenza della realtà e della specie. Una soluzione, questa, che non può soddisfare assolutamente il desiderio di vita che l’uomo porta in sé e che la morte minaccia di azzerare. Sebbene siano interessanti i contributi offerti da autori come Schopenhauer, Feuerbach e Nietzsche sul tema della morte, nel suo tentativo di guardare con occhi nuovi alla questione della morte, la teologia ha fatto riferimento innanzitutto a quelle che H. Küng ama definire le “opzioni filosofiche” dell’esistenzialismo. In particolare essa si è confrontata soprattutto con il pensiero di M. Heidegger e con la sua idea dell’anticipazione della morte nell’esistenza stessa dell’uomo (secondo questo filosofo la morte è il compimento dell’esistenza individuale; l’uomo può esistere nella totalità del suo essere soltanto se conosce ‘in anticipo’ la propria morte)43. Heidegger, laicizzando l’esistenzialismo kierkegaardiano, spoglia la morte di ogni significato soteriologico e la concepisce non più come qualcosa che si aggiunga alla fine all’Esser-ci per 43 Heidegger è convinto che proprio la fine dell’uomo, la sua morte, costituisca l’esistente nella sua integralità, poiché è vero che finché l’Esser-ci è esistente, esso non raggiunge la propria ‘totalità’, e nel momento in cui l’acquisisce, questo guadagno comporta la perdita dell’essere-nel-mondo, per cui non la si può sperimentare come esistente (cfr M. HEIDEGGEr, Essere e tempo, Milano 1976); si veda pure U.M. UGazIO, Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Milano 1976.

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dissolverlo o per compierlo, ma come qualcosa che lo investe fin dal principio. Il non-ancora che è la morte come possibilità ultima, domina da sempre l’Esser-ci che a sua volta è un esser-possibile, per cui l’autenticità dell’esistenza consiste tutta nell’essere-per-la-morte44. La morte da una parte è la misura dell’essenza finita dell’uomo, dall’altra la misura dell’essere che appare in modo finito nello stesso uomo. alla luce della morte, e soltanto in essa, l’uomo diviene autentico, e sullo sfondo della morte anche la libertà acquista spessore. La morte, infatti, rendendo insicuro il domani concentra l’interesse della libertà sulle decisioni dell’oggi che appaiono definitive e totali: la sua costante presenza nella vita è dunque la condizione e la ragione per cui ogni istante abbia la sua pienezza. Facendo sì che l’esistenza sia una possibilità permanente finché c’è l’esistente, essa è la possibilità che tutte le altre possibilità divengano impossibili, cioè la possibilità dell’impossibilità di ogni progetto. Esistere autenticamente significa avere il coraggio di guardare in faccia alla possibilità del proprio non essere, accettare la propria finitezza e l’angoscia che pone di fronte al nulla di senso, al non senso dei progetti umani e della stessa esistenza esposta costantemente alla morte45. La teologia si è confrontata anche con j.P. Sartre che critica duramente la tesi heideggeriana poiché è convinto che la morte non sia tanto il compimento dell’esistenza, ma ciò che le toglie significato e consistenza. Se infatti l’uomo deve morire, la sua vita non ha senso, i suoi progetti rimarranno irrisolti e lo stesso significato dei problemi resterà indeterminato. Il filosofo francese ha così preteso di smascherare con estrema crudezza il carattere drammatico della morte e la sua assurdità per l’esistenza umana46. Essendo la morte la nullificazione sempre possibile dei possibili dell’uomo, nullificazione che è quindi fuori dalle possibilità dello stesso, è qualcosa di assurdo rispetto alla vita e non può perciò avere quel carattere personalizzante che Heidegger le attribuiva. Egli ritiene perciò inaccettabile l’analisi esistenziale dell’essere-per-la-morte operata da Heidegger e contesta di conseguenza il fatto che la morte entri a far parte dello statuto ontologico dell’uomo: essa è invece un fatto che si pone al di

M. HEIDEGGEr, Essere e tempo, cit., 308. Per ulteriori approfondimenti si rimanda all’interessante testo di G. SCHErEr, Il problema della morte nella filosofia, Brescia 1995, 66-79; 258-267. 46 Di j.P. Sartre si veda soprattutto L’essere e il nulla, Milano 1972. 44 45

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fuori dell’essere, e viene a frantumare ogni progetto umano e ogni possibile libertà personale. L’evento della morte, come il suo corrispettivo, la nascita, è un evento impersonale e inatteso che non può in alcun modo essere preparato, né tanto meno anticipato, perché rappresenta l’ingresso imprevisto dell’imprevisto e imprevedibile nei progetti umani, e nega perciò ogni possibilità all’esistenza. In questa prospettiva non è possibile redimere la morte. L’esistenza dell’uomo è immersa nella non-speranza, il futuro lascia spazio al nulla e l’uomo non può far altro che tentare di realizzare nel suo presente le esperienze permesse dalla libertà, nella consapevolezza che la vita è un mucchio di esperienze e progetti quasi sempre irrealizzabili, ma certamente sempre privi di qualsiasi finalità sia storica che trascendente47. La teologia ha poi stabilito un confronto costruttivo con la riflessione di K. jaspers per il quale la morte è invece sinonimo di pienezza e di realizzazione dell’uomo, la situazione-limite per eccellenza che rimane per lui sempre irrapresentabile e impensabile, ma che si rivela essere per questi — quando la vive nella morte delle persone più care — l’evento che segna il sorgere di una coscienza più intensa dell’esistenza48. La morte è perciò la situazione-limite principale contro cui ogni forma di ribellione sarebbe del tutto priva di senso. Certo, essa si presenta all’esperienza umana in tutta la sua crudezza e come tale risulta insopportabile. Di fronte a questa realtà la reazione più semplice ed istintiva da parte dell’uomo è negativa: si deve vivere facendo spazio al nulla e come vuole il caso. Ma per lui si apre uno spiraglio e una via d’uscita da questo vicolo cieco nella misura in cui egli la vive nella morte dell’altro, o meglio nella morte di una persona cara: lì si avverte la durezza e la solitudine della morte, ma è anche lì che si

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Cfr a questo proposito G. SCHErEr, Il problema della morte nella filosofia, cit.,

226-228. 48 Di K. jaspers si veda soprattutto Metafisica, Milano 1972, ma anche Filosofia, Torino 1978. Unitamente alla riflessione che l’esistenzialismo ha elaborato intorno alla questione della morte, non va dimenticato anche quanto è emerso dalle considerazioni della corrente razionalistica (la morte è un puro non-senso, una non-realtà); o dell’idealismo hegeliano (la morte è un momento della storia dello spirito, ed è per ciò stesso morte del soggetto empirico e non di quello trascendentale). Per quanto riguarda poi la prospettiva nietzschiana e freudiana, esse hanno snudato ulteriormente il carattere drammatico e tragico della morte e del morire dell’uomo, ed hanno mitigato una concezione eccessivamente positiva, quasi trionfalistica, della morte denunciando anche il suo carattere di sconfitta. Per ulteriori approfondimenti cfr H. KüNG, Vita eterna? Riflessioni sull’aldilà, Milano 1998, 53-58.

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manifesta la comunicazione in pienezza con gli altri. Essa così cessa di essere un vuoto baratro e viene assunta nella vita; essa diviene la situazionelimite che può dare senso all’intera esistenza dell’Esserci49. Per Küng, in sostanza, il necessario confronto con queste correnti di pensiero, così come con l’intera riflessione filosofica, ha aiutato e continua ad aiutare la teologia nell’intelligenza critica dell’oggetto della sua indagine, con la consapevolezza che quest’ultimo resterà senza una precisa risposta se la filosofia non riuscirà a fare un salto ulteriore che travalichi i confini imposti ad una indagine razionale, perché in ultima analisi «la filosofia restituisce il problema alla teologia»50 e da sola non è in grado di dire qualcosa di esauriente sulla questione della morte e soprattutto su ciò che l’uomo può attendersi nell’aldilà51. La teologia deve mantenere aperto il suo conto con la filosofia, ma con la coscienza che la rivelazione è la sua ultima e anche prima fonte di conoscenza del mistero umano della morte. L’indagine filosofica, infatti, quando si accosta al mistero della fine dell’uomo, si scopre fragile e insicura, sia perché la morte, come la nascita, rappresenta quella zona di confine di cui all’uomo non è dato di parlare per esperienza diretta o attraverso il riferimento ad altro (la malattia o la perdita di una persona cara, per quanto rimandino più o meno direttamente all’evento della morte personale, non sono mai del tutto assimilabili a quell’esperienza particolarissima, insostituibile e indelegabile che l’uomo fa della propria morte e del proprio morire), sia perché difficilmente egli può parlare compiutamente di una realtà nella quale si trova assolutamente 49

Cfr a questo proposito G. SCHErEr, Il problema della morte nella filosofia, cit.,

217-226. H. KüNG, Vita eterna? Riflessioni sull’aldilà, cit., 58. C. zuccaro, nel suo pregevole saggio Il morire umano, cit., in cui si prefigge di «dare inizio ad una riflessione che si configuri come un tentativo di teologia morale del morire» (p. 8), sul rapporto tra filosofia e teologia soprattutto in riferimento alla questione della morte, ribadisce in maniera sintetica quella che ormai si può considerare una definitiva acquisizione e una profonda convinzione della teologia contemporanea, e cioè che «l’impossibilità della filosofia a varcare la soglia della morte e ad entrare nell’orizzonte dell’indicibile umano rientra nel suo statuto epistemico e, se rettamente intesa, non può significare il rifiuto della teologia, come scienza che attinge la sua origine dalla rivelazione. È che non può esistere contraddizione e punto di rottura tra le conclusioni della ragione filosofica e quelle della ragione teologica, ma deve esserci continuità, nel senso che la testimonianza della ragione filosofica, giunta alle soglie di una verità estrema e non più ulteriormente narrabile con i propri strumenti, viene consegnata alla teologia, la quale la integra e la recupera pienamente in una dimensione di fede» (p. 18). 50 51

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inserito e coinvolto. Solo nella misura in cui il domandare del filosofo si incontra con l’ascoltare del teologo, dell’uomo di fede che cerca nella testimonianza della rivelazione le risposte alle sue domande fondamentali sulla vita e sulla morte, questo mistero oscuro dell’esistenza dell’uomo potrà ricevere una nuova luce. L’indagine filosofica, infatti, nel momento in cui si accosta ad un tema così delicato e cruciale come quello della morte, cosciente che non è chiamata a riflettere tanto su una questione astratta, la “morte” appunto, quanto piuttosto su una realtà che riguarda l’uomo in ciò che egli ha di più intimo e in ciò che egli è nel suo più intimo essere, cioè nella misura in cui comprende che il suo compito è quello di riflettere sulla “morte dell’uomo”, essa naturalmente si tradurrà in un vero e proprio percorso sapienziale che intende cogliere, attraverso la comprensione del senso della morte, il senso stesso dell’uomo e del mondo, e questo percorso si incrocerà anche in maniera altrettanto inevitabile — a meno che la filosofia chiuda gli occhi e si turi gli orecchi — con il percorso fatto dalla fede pensante e condotto dall’indagine teologica su questa fondamentale e quanto mai delicata questione dell’esistenza dell’uomo. Il riferimento alla filosofia aiuterà la teologia ad esercitare con sforzo il pensiero e la ragione credente, poiché «le cose non sono, per principio, più facili per la teologia che per la filosofia. Per cui nessuna seria opzione di pensiero può venire trascurata. Ogni parola sulla morte, al di là del silenzio, vuole essere giustificata»52. Questa constatazione legittima ulteriormente lo stretto rapporto che la teologia contemporanea ha tentato di stabilire con la riflessione filosofica. Nella sua indagine la teologia non ha tuttavia recepito e immagazzinato acriticamente tutta la mole di materiale che le proveniva dalle scienze umane, ma ha operato su di esso un accurato lavoro di selezione e un successivo lavoro di approfondimento, orientata dalla luce della Scrittura e della tradizione ecclesiale. Confrontando i contributi delle scienze umane con la riflessione biblica su questo tema, la teologia ha riequilibrato gli eccessi di alcune posizioni filosofiche o scientifiche e nello stesso tempo ne ha messo in evidenza il valore e i vantaggi. Tra gli innegabili meriti e valori che la filosofia contemporanea ha, si può indubbiamente annoverare il suo rinnovato interesse per la persona umana, la sua esistenza e il suo destino. La filosofia occidentale, in 52

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H. KüNG, Vita eterna? Riflessioni sull’aldilà, cit., 62.


particolare, globalmente maturata in un contesto intriso di principi e valori cristiani ed evangelici che lungamente ne hanno perlomeno orientato, in parte anche determinato, i percorsi di indagine e di riflessione, ha a sua volta contribuito perché la teologia contemporanea rivalorizzasse e rispolverasse alcune questioni precedentemente fatte passare sotto silenzio, oppure alle quali non veniva riconosciuta la giusta importanza. Tra queste c’è indubbiamente quella della morte e del morire, come eventi determinanti e significanti per la persona umana e la sua esistenza. anche secondo ruiz de la Peña, come già affermava Küng, il giusto valore che la teologia contemporanea ha riconosciuto al rapporto tra il tema della morte e quello dell’uomo le deriva pure dall’influsso esercitato su di essa dalla filosofia esistenzialista. Questo può essere presentato non certo come una osmosi che unisce il pensiero esistenzialista (soprattutto jaspers, Heidegger, Marcel) a quello di molti teologi cattolici (tra i quali vanno ricordati soprattutto Schmaus, rahner e Boros), ma certamente come un felice connubio e una fruttuosa intesa. Molti teologi, infatti, hanno saputo recepire gli stimoli e i suggerimenti che provengono dalla filosofia esistenzialista ed hanno elaborato una teologia in dialogo con l’uomo contemporaneo, attenta alle sue domande e questioni. Sfortunatamente, precisa ruiz de la Peña, il più delle volte si è trattato di interscambio unidirezionale, perché nella maggior parte dei casi è stata la riflessione filosofica a fornire e a indicare alla teologia delle vie di comprensione del mistero della morte, mentre la seconda, purtroppo non sufficientemente attenta a quanto poteva ricavare soprattutto dalla testimonianza della Scrittura e della ricca tradizione patristica, non ha saputo trovare granché di stimolante e di vivo da offrire alla prima53. a questo va aggiunto quanto fa notare Greshake, il quale non volendo esasperare il ruolo svolto dall’esistenzialismo a favore della teologia contemporanea, afferma che dalla prospettiva teologica che è derivata dall’incontro del pensiero credente con la riflessione esistenzialista a stento fu preso in considerazione l’uomo concreto che muore. La morte, non il morire, il momento della fine, non quanto nel tempo precede immediatamente la fine fu l’oggetto proprio dell’interesse. In realtà — continua

53

Cfr j.L. rUIz DE La PEña, El hombre y su muerte, cit., 386.

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il teologo — morire e morte sono l’un l’altra strettamente connessi e in questo senso nei diversi progetti per una “teologia della morte” si trovano anche notevoli indicazioni per una teologia del morire54,

indicazioni che tuttavia richiederebbero ulteriori esplicitazioni e approfondimenti. Fatte queste precisazioni si può dire che l’assunzione della prospettiva umanista da parte cattolica ha portato a collocare la morte in relazione all’esistenza stessa dell’uomo, come evento che la provoca e l’interroga, che si proietta sull’intero arco della sua vita e le conferisce un forte orientamento escatologico, e non semplicemente in rapporto al destino ultraterreno dell’essere umano. La morte non è un fatto che sopraggiunga all’uomo dall’esterno, un fatto che egli è costretto a subire e basta, ma è soprattutto la sua morte, un fatto che lo riguarda direttamente e che egli non può derogare ad altri. Egli non solo muore, ma vive la propria morte, quella morte che gli appartiene, che è sua, che lui soltanto può sperimentare; quella morte che ha imparato a conoscere nell’intero corso della propria vita, che ha colto soprattutto negli eventi luttuosi che l’hanno contrassegnata e che ora ri-conosce e accoglie definitivamente. La riflessione esistenzialista ha aiutato la teologia a riappropriarsi della morte come evento carico di un significato umano oltre che teologico: se essa appartiene all’uomo, al singolo, come la sua proprietà più intima — in «maniera particolarissima» direbbe jüngel55 — allora essa non può non essere l’evento in cui l’uomo è chiamato ad esprimere in maniera più compiuta la propria personalità e ad esercitare la propria libertà (ciò che appartiene più intimamente all’uomo non può essere un evento in sé antropologicamente irrilevante). La morte non viene colta unicamente nella sua fatticità, come un fatto puntuale che accade nella vita dell’uomo, come la pura e semplice fine delle funzioni vitali del suo corpo, ma come evento esistenziale che lo interessa in quanto persona, individuo, in sé e nel suo imprescindibile rapporto con gli altri e con il mondo intero. Questa presa di coscienza ha lentamente condotto la teologia cattolica a rileggere in maniera critica la classica visione dell’uomo di stampo dualista, che, seppure mai inequivocabilmente consacrata dalla 54 55

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G. GrESHaKE, Ricerche per una teologia del morire, in Concilium 4 (1974) 103-104. E. jüNGEL, Morte, cit., 21.


dottrina ufficiale della Chiesa, tuttavia è servita agli interventi magisteriali come categoria antropologica per la comprensione dell’uomo, della stessa morte e dell’aldilà. Non aggiungendo altro a quanto è stato già espresso, posso solamente dire che il superamento di quel dualismo antropologico che non trova una giustificazione incontrovertibile nella testimonianza scritturistica, non può comunque condurre ad un monismo assoluto e sterile, come già si è detto, perché ciò non darebbe ragione di quanto la tradizione di fede della Chiesa afferma circa l’immortalità dell’anima e la natura dello stadio intermedio tra la morte e la risurrezione. La filosofia ha inoltre suggerito alla teologia l’importanza di recuperare la centralità dell’indole relazionale dell’uomo, la sua essenziale apertura al mondo e agli altri uomini, come espressione e realizzazione della sua personalità. La teologia ha così rivalorizzato la peculiare temporalità dell’esistenza incarnata e il ruolo di mediazione rappresentato e svolto dal corpo, nonché il riconoscimento della libertà umana come libertà situata e storica. Non va infine neppure dimenticata l’importanza della filosofia per l’individuazione del ruolo ermeneutico svolto dalla morte per la comprensione stessa dell’uomo e della sua esistenza come esercizio e attuazione della libertà. Sono stati teologi come Schmaus (il quale ha perseguito un progetto di dialogo/apertura con la cultura contemporanea) e soprattutto come rahner e Boros che hanno intavolato un confronto critico e spesso davvero fruttuoso principalmente con la filosofia esistenzialista, ed hanno saputo penetrare la questione della morte con una forza ed una incisività di cui era forse carente la presentazione classica, anche grazie alle suggestioni che hanno accolto da parte della riflessione filosofica56. Il dialogo con la filosofia ha così riavviato una collaborazione che il processo di secolarizzazione — e le reazioni ad esso — aveva in parte interrotto, provocando non pochi danni ad entrambe le scienze, e particolarmente all’azione pastorale e catechetica della Chiesa. La teologia, come già si è anticipato, ha comunque corretto e completato alcuni punti importanti della filosofia esistenzialista in quanto ha messo in luce il carattere penale della morte (castigo per la colpa e giudizio di Dio sul

56

Cfr j.L. rUIz DE La PEña, El hombre y su muerte, cit., 388.

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peccatore), il significato di transito verso la vita eterna e soprattutto il suo carattere ecclesiologico/comunitario e cristologico. Si può inoltre dire che secondo ruiz de la Peña anche la teologia protestate ha influito molto sulla teologia cattolica della morte, soprattutto quella di lingua tedesca. Tra i maggiori influssi che essa ha esercitato, grazie anche ad un confronto più diretto e aperto avuto con la filosofia esistenzialista, si possono senza dubbio elencare i seguenti: rivalutazione del corpo e della corporeità; vigorosa accentuazione del carattere unitario dell’essere umano come superamento del classico dualismo di corpo e anima; importanza riconosciuta alla relazione dell’uomo con Dio come momento costitutivo della sua stessa personalità, rapporto mantenuto, anzi intensificato, proprio nella morte e oltre la morte stessa. È importante notare, tuttavia, che la teologia cattolica, a differenza di quella evangelica, ha saputo conservare tutti gli elementi fondamentali della dottrina e non si è lasciata totalmente assorbire dalle cangianti ed eterogenee tendenze della cultura del mondo contemporaneo. Questo dato ha fatto sì che quanto le proveniva dalla riflessione delle scienze umane venisse di volta in volta vagliato attraverso il ricorso alla testimonianza biblica e della tradizione viva della Chiesa e venisse così riproposto al cristiano e alla sua fede, senza cadere nel rischio di facili assolutizzazioni o nella tentazione di rinchiudersi in posizioni ormai ritenute definitivamente acquisite e irreformabili, e nello stesso tempo senza “adattarsi” con estrema facilità a quanto le veniva chiesto dalle scienze umane, in particolare dalla riflessione filosofica.

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CaPITOLO IV L’IPOTESI DELL’OPzIONE FINaLE La teologia di questi ultimi decenni ha tentato di smascherare la drammaticità della morte mettendo in chiaro ciò che essa significa per l’uomo intero, per la persona considerata nella sua pluridimensionalità, poiché tocca direttamente la sua socialità, la sua capacità comunicativa e la sua interiorità più profonda57. Essa ha voluto sottolineare il fatto che la morte riguarda l’uomo nella sua stessa dimensione spirituale e personale, perché è l’evento, forse l’unico, che dà il volto definitivo alla sua esistenza, ciò che fa sì che egli raggiunga l’adempimento personale da sempre perseguito attraverso e in tutti i suoi atti finiti e le sue scelte categoriali. Se l’uomo nel suo processo vitale è sempre materia e spirito, necessità e libertà, natura e persona, anche il morire deve portare in sé questa dialettica. In tal senso il morire non può essere un semplice fatto che raggiunga l’uomo dall’esterno e che l’uomo deve accettare impotente e passivo, ma deve significare il suo dinamico realizzarsi dall’interno, un attivo portarsi-a-compimento della persona che giunge così ad autopossedersi in pienezza. La morte appare allora come il momento privilegiato della totale realizzazione della coscienza personale verso cui l’uomo tende costantemente in ogni atto conoscitivo, perché con essa viene a cessare il modo di esistenza corporeo, e con esso quel limite che non gli permetteva di essere perfettamente presente a se stesso senza alcuna forma di mediazione. Per L. Boros, in particolare, «nella morte si apre per l’uomo la possibilità per il suo primo atto pienamente personale. Essa costituisce il luogo veramente privilegiato del divenire della coscienza, della libertà, dell’incontro con Dio e della decisione sul destino eterno»58. L’ipotesi teologica di Boros, che ha dominato il confronto teologico degli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo e che ancora oggi non manca di suscitare molta curiosità e interesse, è quella che considera la morte come “opzione finale”. 57 58

Cfr j.j. TaMayO-aCOSTa, L’escatologia cristiana, roma 1996, 347. L. BOrOS, Mysterium mortis, cit., 30.

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Questa teoria, che ha alle spalle soprattutto delle preoccupazioni non solo teologiche, ma anche di natura pastorale (la volontà salvifica universale di Dio; la fissazione che la morte comporta per se stessa nel fine ultimo e quindi la questione dell’ostinazione dei dannati; la salvezza dei bambini non battezzati o di coloro che nella vita non riescono a raggiungere la maturità psicologica; i casi di morte improvvisa; ecc.), e che costruisce gran parte delle sue fondamenta su argomentazioni di natura filosofica, ha anche lo scopo di dare una valida risposta alla “depossessione” ed espropriazione della morte di cui è fatto oggetto l’uomo contemporaneo, grazie anche all’analisi dell’atteggiamento assunto da Gesù di fronte alla propria morte59. La tesi, che nella sua originale formulazione alcuni teologi, forse a torto, attribuiscono direttamente a K. rahner (in verità era stata già formulata nelle sue linee essenziali soprattutto da H.E. Hengstenberg, P. Glorieux e da r. Troisfontaines), è stata comunque sistematizzata e riproposta in maniera più organica e compiuta da L. Boros, e a partire dalle sue affermazioni ha preso l’avvio un acceso e interessante dibattito che è giunto fino a noi e che ha coinvolto molti teologi evangelici e cattolici. Ci si chiede se nella morte si dia all’uomo una possibilità eccezionale di scelta del fine ultimo, per il dono di una grazia particolare e in condizioni psicologiche tali che in questo atto l’essere umano raggiunga finalmente la sua definitività. In particolare, Boros rigetta l’idea di una morte intesa unicamente come termine dell’esistenza storica e contingente dell’uomo a favore di una comprensione della stessa come compimento del suo cammino di personalizzazione. Secondo il teologo, la persona umana proprio nell’istante della 59 In verità — precisa G. Greshake — proprio l’analisi dell’esperienza di Gesù e il suo atteggiamento di fronte alla morte, alla propria morte, mostra che il suo morire è una risposta anche alla fine di molti che muoiono senza “morire” (vittime delle guerre, della violenza, degli incidenti, della morte di massa in cui l’individuo passa sotto silenzio, delle malattie che portano immediatamente e senza preavviso alla morte, ecc.), senza avere cioè la possibilità di consumare il processo di maturazione interiore della persona. Gesù è dunque morto anche lui senza consolazione e amicizia, senza essere accompagnato e sostenuto da parole di speranza e di amore e senza portare la vita e la sua opera interiormente a compimento. Il morire di Gesù ha un senso anche per quelle morti proprio perché Dio nell’assumere l’assurda morte del Figlio come propria, e nell’aprire proprio ad essa il futuro della risurrezione, ha mostrato come egli sia vicino anche al morire di tutti coloro che muoiono della morte improvvisa, banale, casuale e senza senso e quindi senza maturazione e realizzazione piene (cfr Ricerche per una teologia del morire, cit., 122).

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morte sarebbe nelle condizioni di porre una decisione pienamente personale e senza alcun condizionamento perché avrebbe a disposizione un istante di tempo sui generis collocato al di fuori sia del tempo cronologico che caratterizza l’esistenza attuale, sia della vera e propria condizione definitiva, atemporale ed escatologica60. Boros arriva a queste conclusioni dopo aver percorso alcune vie di comprensione della morte e del morire umani. La prima pista seguita è quella dell’analisi blondeliana del volere; la seconda via è costituita dall’analisi della conoscenza, secondo il pensiero di j. Marechal; la terza è rappresentata dall’analisi bergsoniana della percezione e della memoria; la quarta, forse la più convincente e certamente la più suggestiva, è quella dell’analisi dell’amore secondo il pensiero di G. Marcel che vede nell’esperienza dell’amore un’anticipazione della stessa morte (la morte della persona amata come esperienza della propria personale morte). La quinta pista, poi, a cui seguiranno quelle dell’esperienza poetica e quella dell’attuazione kenotica dell’esistenza, propone un’analisi della dialettica esistenziale della storia dell’individuo61. Per Boros, in sostanza, nell’uomo interiore avviene una progressiva e sempre crescente conquista di nuove possibilità che tendono a trasformare, personalizzandole, le energie dell’uomo esteriore, sin quando viene raggiunto il punto più alto di tale trasformazione proprio nella morte, quando l’anima umana, sganciata dai legami del corpo, ma non per questo divenuta acosmica, stabilisce un rapporto nuovo e inedito con il cosmo e con Dio (rahner, come si vedrà più avanti, parlerebbe a questo proposito di carattere “pancosmico” raggiunto dall’anima dopo la morte).

60 G. Greshake è convinto che la teoria della decisione finale in verità non si cura per nulla dell’uomo che muore, per cui non è di alcun aiuto né per lui, né per le persone che di lui si curano, in quanto è dell’idea che «collocando l’atto della decisione nel momento della morte, la teoria si sottrae all’obiezione che tale non è l’esperienza concreta del morire, poiché l’uomo spesso si spegne impotente e senza coscienza o dopo una straziante agonia o anche colto improvvisamente dalla morte, così che non si dà affatto la possibilità di una libera decisione. Tale obiezione viene aprioristicamente evasa ricorrendo al momento istantaneo della morte che fondamentalmente non è osservabile o verificabile e che non si identifica con il processo temporale del morire» (Ricerche per una teologia del morire, cit., 106). Per il teologo, invece, propriamente parlando è «il tempo immediatamente prima della fine, il morire [a dare all’uomo] un’ultima possibilità, in forza della libertà, di decidere la propria vita» (ibid., 115). 61 Cfr L. BOrOS, Mysterium mortis, cit., 133-136. Cfr anche G. LOrIzIO, Mistero della morte come mistero dell’uomo, cit., 164-169.

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Secondo Colzani, la tesi dell’opzione finale, nella versione proposta da Boros, si allontana enormemente dalle considerazioni fatte da rahner circa la necessità di “personalizzare” la morte, perché «solo apparentemente valorizza il carattere personale della morte: in realtà concentra sulla sola fine della vita quella disposizione totale e libera al compimento di sé che rahner distendeva in tutta l’esistenza»62. E sono state soprattutto queste le critiche mosse alla tesi propugnata da Boros da parte di molti teologi preoccupati di salvaguardare sia il valore delle decisioni categoriali fatte dall’uomo durante il corso della sua esistenza storica in ordine al proprio fine, sia il significato escatologico della sua intera esistenza63. Inoltre, secondo Colzani, così come per altri teologi prima di lui, questa ipotesi teologica «finisce per motivare l’opzione finale in forza di una condizione spirituale che fa perno sull’anima separata, emarginando il corpo e riproponendo un debito platonico e dualistico»64. ruiz de la Peña, ancora prima di Colzani accusa le affermazioni di Boros di creare una indebita distinzione tra colui che durante l’esistenza storica ha posto delle decisioni libere e il soggetto (l’anima separata) chiamato invece a decidere della propria sorte nell’istante a-temporale della morte. Nel momento della morte lo spirito umano sarebbe capace di una riflessione perfetta e incondizionata su di sé, e sarebbe altresì in grado di cogliere se stesso, e con sé gli altri, il mondo e Dio, raggiungendo quella libertà che gli rende possibile un’opzione finale e definitiva pro o contro Dio65. G. COLzaNI, L’escatologia nella teologia cattolica degli ultimi 30 anni, cit., 118. Tra gli altri si veda anche la posizione di F.j. Noke, per il quale anziché parlare di situazione del tutto straordinaria al momento della morte sarebbe più corretto pensare ad atti del “morire” che l’uomo è chiamato a compiere nel corso della propria vita (cfr Escatologia, Brescia 1997, 142-143). Delle obiezioni in questo senso vengono mosse anche da G. MarTELET, L’aldilà ritrovato, cit., 28. 64 G. COLzaNI, L’escatologia nella teologia cattolica degli ultimi 30 anni, cit., 118. Criticano questa tesi anche altri teologi: a. rUDONI, Escatologia, Torino 1972, 103-108; G. GrESHaKE, Breve trattato sui novissimi, cit., 67-68; a. GIUDICI, Morte, in Nuovo Dizionario di Teologia, ed. G. Barbaglio – S. Dianich, roma 19823, 961-975; G. MOIOLI, L’escatologico cristiano. Proposta sistematica, Milano 1994, 234-235; j.L. rUIz DE La PEña, L’altra dimensione. Escatologia cristiana, roma 1988, 307-315; C. POzO, Teologia dell’aldilà, roma 19864, 450-458. 65 In un suo editoriale, La Civiltà Cattolica esprime in qualche maniera le sue simpatie per la tesi dell’opzione finale, sebbene affermi la necessità che questa sia conforme «alla vita precedente; perciò, generalmente parlando, chi nella vita è stato radicalmente e coscientemente senza Dio o contro Dio, al momento della morte ratifica questa scelta, e viceversa. Tuttavia, la morte è per tutti gli uomini, anche per coloro che hanno vissuto ignorando Dio 62 63

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Ciò che questa tesi vuole sostenere è che proprio nella morte l’uomo si possiede attivamente nel modo più perfetto, diviene capace di caricarsi di tutto il peso della propria esistenza e così orientarla in modo definitivo. Questo modo di concepire la morte secondo lo stesso rahner non rischia di svilire la vita, anzi spinge ad assumerla seriamente perché ne rivela ancora più compiutamente il carattere storico, unico e irripetibile, e nello stesso tempo la tensione verso la pienezza e un fine autentico. La morte comporterebbe una scelta che riassume in un solo atto tutte le decisioni precedenti ed esprimerebbe così in maniera incondizionata e cosciente la tendenza profonda insita nell’anima: le determinazioni parziali preparano, in questo quadro, l’ultimo atto di libertà, ma non per questo lo determinano rigorosamente, poiché nella morte, mediante un supremo esercizio di libertà, l’uomo assume l’atteggiamento più personale e singolare, ma non in assoluta discontinuità con quanto lo ha preceduto66. Nelle affermazioni di Boros (presenti in forma più equilibrata anche in rahner) c’è comunque molta verità. Nel suo contributo si riscontra chiaramente il desiderio di rivalorizzare la dimensione profondamente antropologica, oltre che teologica, del morire e della morte stessa. Ma certamente si può anche notare che nel modo di procedere del teologo bulgaro è forse latente una concezione della libertà un po’ estranea all’esperienza storica e contingente dell’uomo: la libertà di cui si parla, infatti, è assolutamente pura e incondizionata, quasi divina. Ci si dimentica che ogni qualvolta l’uomo è chiamato ad esercitare la propria libertà di scelta, soprattutto come orientamento verso il bene e come tensione verso il fine ultimo della propria vita, egli lo fa in un determinato contesto storico e inserito in quella rete di relazioni e condizionamenti (sia positivi che negativi) che fanno sì che la libertà umana non possa essere in alcun modo concepita come cristallina, chimicamente pura e sterilizzata, immunizzata da tutto ciò che la persona vive e dalla realtà che lo circonda (società, cultura, posizione socio-economica, relazioni affettive e lavorative, credo o combattendolo, un momento di grazia e di salvezza [per cui è pensabile che Dio faccia dono al morente di] grazie particolari» (La vita oltre la morte, 3152 [1981] 109). 66 Lo stesso Boros altrove si era già soffermato su questo argomento ed aveva affermato: «Ma che cosa e chi ci darà la sicurezza di porre la decisione giusta nel momento della morte? L’esito di questa decisione dipenderà da noi stessi.ciò che noi vogliamo essere nel futuro, dobbiamo cominciare ad esserlo nel presente. Ci dobbiamo preparare mediante le molte, piccole e grandi decisioni particolari, alla grande ultima decisione nella morte. La vita è un esercizio per il giudizio» (L. BOrOS, Esistenza redenta, Brescia 1975, 112).

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religioso, ecc.). La libertà umana è sempre una libertà storicamente situata perché esercitata da un essere, l’uomo, storicamente posto. L’esercizio di questa libertà, non di una libertà in abstracto, è ciò che decide della sua salvezza o della sua perdizione o, in altre parole, della sua opzione positiva o negativa nei confronti di Dio e quindi della finale realizzazione di sé o della propria definitiva frustrazione. La libertà umana è una libertà creata, non ne conosciamo un’altra (quella che l’uomo, posto in uno stato di natura pura, esente dal peccato ed estraneo alla condizione lapsaria che vive, sarebbe in grado di esercitare), per cui non si può con facilità parlare della morte come dell’istante a-temporale in cui l’uomo si troverebbe quasi in un particolare stato di purezza in cui sia in grado di decidere liberamente di sé, perché ormai perfettamente libero da qualsiasi condizionamento naturale e storico. In verità la storicità è inerente all’uomo; egli è ciò che è perché è anche storia, la propria storia, la storia che egli è stato, prima ancora della storia che egli ha vissuto. Proprio perché l’uomo è per diverse ragioni la propria storia, anzi, la storia che Dio ha fatto assieme a lui e per lui, la risposta che Dio si attende, come risposta definitiva alla sua proposta di vita e comunione, è il frutto della libera decisione di un uomo storicamente posto, con il bagaglio — non propriamente con i condizionamenti — della sua vita (gioie, dolori, domande, ansie, inquietudini, amore, libertà, ecc.). La morte è l’istante in cui questa storia dell’uomo, e che l’uomo è, viene raccolta e sintetizzata, e il segno di ciò può essere rintracciato nel doppio significato che riveste l’agonia: essa è sì l’azione con cui l’uomo “raccoglie” l’intera sua esistenza, in ciò che di positivo e di negativo essa è stata, ma rappresenta anche la “lotta” in cui l’uomo è interamente impegnato perché la sua vita possa diventare puro dono e offerta, consegna grata e riconciliata a Dio. Solo in questo senso si può dire che la morte rappresenta il passo decisivo che l’uomo veramente compie verso l’adempimento della propria definitiva personalizzazione67. Non va sottovalutata a questo proposito la posizione di Breuning il quale è invece convinto che «tenendo conto della serietà con cui la Scrittura parla della morte come incarnazione della dannazione si deve anche affermare che, vista umanamente, la morte non può rappresentare affatto un’azione dell’uomo. Nella morte l’uomo ratifica proprio la sua incapacità a disporre volontariamente di sé. La morte nella condizione della dannazione ha il carattere di una disfunzione che l’uomo non può riparare» W. BrEUNING, Morte e risurrezione nella predicazione, in Concilium 2 (1968) 26. Il cristiano allora, deve cercare di morire come Cristo è morto, ma non nel senso di far diventare azione la propria morte, come lo è stata quella di Cristo, ma nel senso di fare propria la morte stessa di Gesù. Cioè, qualunque 67

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In sintesi, come ha sottolineato Tamayo-acosta, le critiche mosse da molti teologi contemporanei alla tesi dell’opzione finale nella forma proposta da Boros, sono fondamentalmente quelle riconducibili alle analisi condotte da G. Greshake. Secondo questo teologo, innanzitutto la teoria di Boros poggia su spiegazioni di un fenomeno non verificabile empiricamente in quanto non tiene effettivamente conto della configurazione concreta del morire. Non risulta neppure facile giustificare l’unità dialettica tra atto libero e passività al momento della morte. Non sembra poi del tutto conforme alla testimonianza biblica l’affermazione secondo cui la vita giunge alla sua intrinseca perfezione proprio quando si produce la morte. Infine, la tesi della decisione ultima pone l’accento sull’istante della morte, attribuendogli un’importanza alquanto esagerata ed eccessiva, con la conseguente — sebbene non coscientemente cercata — svalutazione delle opzioni storiche e categoriali fatte dalla persona nel corso della sua intera esistenza. Queste, ed altre ragioni, hanno portato la teologia contemporanea a guardare con sospetto a quella tesi a cui in un primo momento, invece, aveva guardato con favore, ed ha spinto alcuni teologi a rivederla in alcuni punti sostanziali68. È pur vero, comunque, che la tesi dell’opzione finale positiva trasformazione della morte non può prescindere dal presupposto che la morte è anzitutto e in fin dei conti il contrario di un’azione, quasi che l’uomo possa disporre di sé definitivamente. E questo proprio perché la morte dell’uomo presenta i caratteri della dannazione e quindi l’impossibilità di una autodisponibilità che abbia consistenza davanti a Dio. Solo la morte di Gesù in croce è sfuggita a questa “legge” perché egli, innocente e giusto, ne ha fatto una totale e piena donazione d’amore al Padre e ai fratelli, un amore che non è rimasto inefficace ma che ha assunto su di sé la stretta mortale di tutti gli uomini. La morte dell’uomo può perciò avere qualcosa di positivo soltanto nella misura in cui viene fatta propria la genuina professione di fede secondo cui nell’atto con cui Gesù si è consegnato alla morte c’è anche una speranza per la morte dell’uomo, di ogni uomo incapace di salvezza, abbandonato a se stesso e incapace di amare. La morte vissuta da Cristo — conclude Breuning — è quindi la possibilità stessa che l’uomo possa sperare che qualcosa di lui risulti degno d’amore davanti a Dio. È la morte di Cristo di fronte al Padre l’unica azione salvatrice che rende possibile vivere e morire per lui ed essere così portati dal Figlio al Padre nella sua morte: la morte dell’uomo si presenta, allora, a partire dalla morte di Cristo, come il momento limite della misericordia in cui l’uomo unito a Cristo si pone definitivamente, in lui e per lui, di fronte al Padre e al suo amore, e da Questi viene accolto nel Figlio suo e per il Figlio suo (ibid., 32-35). 68 Cfr j.j. TaMayO-aCOSTa, L’escatologia cristiana, cit., 349-350, in cui si fa riferimento a G. GrESHaKE, Hacia una teología del morir, in Concilium 4 (1974) 76-94, riportato in bibliografia nella sua traduzione italiana. Di quest’ultimo autore si veda anche il più conosciuto Breve trattato sui novissimi, cit.. B. Forte, per fare solo un esempio, pur

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mette in evidenza la serietà della dottrina della volontà salvifica universale di Dio, e anche il fatto che in qualche modo a tutti sia data l’opportunità di poter aderire all’offerta di grazia che Dio rivolge in Cristo (o di rifiutarla!), con un atto veramente personale e libero, con un atto umano e dell’uomo. ruiz de la Peña, come già veniva anticipato, pur riconoscendo i pregi insiti nell’ipotesi teologica difesa da Boros, ritiene che essa racchiuda al suo interno una logica che elargisce una pericolosa concessione allo spiritualismo di stampo dualista, perché se nella morte viene a mancare il soggetto delle decisioni libere (la persona), non si comprende chi possa operare la scelta finale e definitiva pro o contro Dio. La morte deve dare all’uomo di permanere eternamente in ciò che egli ha voluto per tutta intera la sua vita temporale, e non soltanto con una nuova e inedita decisione, in quanto il passaggio dal contingente al definitivo non è l’effetto di un nuovo atto, ma un momento interiore della stessa morte che è presente costantemente nella vita dell’uomo il quale è chiamato a giocarsi tutto durante la propria esistenza stabilmente posta di fronte alla morte. Per il teologo catalano l’obiezione di fondo fatta alla tesi di Boros è quindi di ordine antropologico. «I difensori dell’opzione finale devono propendere per un dualismo inevitabile poiché, senza di esso, l’ipotesi si vedrebbe automaticamente spogliata delle sue attrattive. È l’anima separata quella che attua, sceglie, decide»69, e ciò non è accettabile, perché se il periodo di prova si predica dell’uomo, e non di una sua parte o porzione, non si capisce perché la responsabilità di fronte al fine ultimo debba essere unicamente dell’anima o comunque del solo principio spirituale dell’essere umano. La morte, invece, non fa altro che “cristallizzare” e fissare quel cammino di libertà che l’uomo ha tracciato e lentamente percorso lungo l’intero arco dell’esiapprezzando i pregi di questa ipotesi teologica, ritiene che sia alquanto oscuro il momento in cui viene situato l’atto estremo di libertà compiuto dall’uomo pro o contro Dio. Se esso è veramente umano — annota Forte — dovrebbe situarsi nella storia, per cui non potrebbe per ciò stesso essere caratterizzato da una definitività assoluta. Infatti, se esso è veramente definitivo e assoluto, dovrebbe essere posto al di là del tempo e delle decisioni strettamente storiche e passibili di una qualche revisione. Per questa ragione fondamentale, il teologo partenopeo è dell’idea che bisognerebbe «lasciare indeterminato il modo della decisione finale», affermando semplicemente che di certo per tutti esso rimanderà alla globalità dell’esistenza personale intessuta di tutte le scelte liberamente fatte e degli atti liberamente compiuti in risposta all’offerta di grazia che Dio ha fatto loro (Teologia della storia, Cinisello Balsamo 1991, 327). 69 j.L. rUIz DE La PEña, L’altra dimensione, cit., 312.

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stenza, attraverso quegli atti che mantengono tutta la loro validità e il loro peso anche in ordine al suo fine ultimo e al suo destino. «La morte — continua ruiz de la Peña — è la rivelazione, l’emergenza irreversibile del proprio destino, non in quanto atto nuovo, ma in quanto ricapitolazione della storia personale […], poiché, essendo la fine della persona, consacra l’opera compiuta, sigillandola irrevocabilmente»70. La morte dell’uomo, infatti, così come è avvenuto per Cristo, il quale visse tutta intera la sua esistenza terrena in vista della propria morte, è presente in ogni attimo dell’esistenza dell’uomo, in ogni sua scelta e in ogni sua attuazione, e solo alla luce della risurrezione dai morti diviene transito e non termine, pienezza orientata all’eternità e non distruzione. Von Balthasar critica non solo la tesi dell’opzione finale nella forma proposta da Boros, ma ha delle forti riserve anche nei confronti delle affermazioni di rahner secondo il quale la morte è il momento decisivo dell’esistenza dell’uomo, in cui viene portata a compimento l’auto-attuazione di sé da parte della persona. Secondo von Balthasar — e in questo il teologo si allinea con quanto già espresso da diversi teologi evangelici, tra cui E. Brunner e E. jüngel — la posizione di rahner accusa una mancanza di cristologia e soprattutto una carenza di theologia crucis in quanto appare molto lontana dall’evento della croce e in particolare dall’abisso di morte in cui Cristo è penetrato, affrontando, lui innocente, tutta la tenebra del peccato umano. La solidarietà di Cristo con l’uomo peccatore supera infinitamente la semplice accettazione del suo destino mortale perché implica l’assunzione di quella morte che è espressione e frutto del peccato e dell’abbandono di Dio71. Ciò che si è verificato in Cristo è dunque un fatto inedito Ibid., 315. Cfr H.U. VON BaLTHaSar, Mysterium Paschale, in Mysterium Salutis, VI, a cura di j. Feiner – M. Löhrer, Brescia 1971, 285, citato qui da G. COLzaNI, La vita eterna, cit., 116. È interessante anche la riflessione di zuccaro su questa questione. Il teologo moralista, che si mostra critico nei confronti della posizione di Boros, ma che nello stesso tempo non si sente di abbracciare totalmente la posizione di rahner, tenta di comporre e segnatamente di superare le due prospettive. Per lui «la morte è l’evento con il quale si compie la vita della persona perché essa dichiara terminato il periodo della ricerca e rende possibile alla persona di appropriarsi della sua vita in forma definitiva e compiuta, così come l’aveva fino ad allora concepita e vissuta, nel bene, oppure nel male. […] Compimento dice, allora, due eventi. Da una parte la morte determina l’”appropriazione” del “desiderio efficace di bene o di male” nella misura della profondità propria dell’opzione fondamentale relativa al bene o al male. Dall’altra parte la morte determina anche la “ri-appropriazione” definitiva di tutto il bene o il male concretamente realizzato nei diversi campi d’agire» (C. zUCCarO, Il morire umano, 70 71

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e mai perfettamente riproducibile nell’uomo: questi potrà sì morire di una morte “simile” a quella del suo Signore (nell’obbedienza filiale a Dio e come consegna di sé al Padre, espressione di tutta una vita di obbedienza incondizionata a Colui che lo aveva mandato), ma non potrà mai assumere quella morte che è carica del peccato del mondo e viverla da innocente come atto-azione in perfetta solidarietà con l’umanità peccatrice. Per il teologo svizzero rimane visibile lo scarto tra la morte di tutti gli esseri umani e l’esperienza unica e irripetibile della morte di Gesù, sebbene quest’ultima sia l’unica chiave di lettura per comprendere il vero significato della morte umana colta in tutta la sua estrema negatività e nello stesso tempo, come si vedrà più avanti, nella positività del subabbraccio del Padre.

cit., 208-209). La morte, perciò, non si limita a registrare e a fissare le azioni compiute e le scelte fatte dall’uomo nel corso della sua esistenza, ma «rende pieno lo spazio del desiderio di bene o di male che, nella vita, la persona cercava di realizzare con la scelta di azioni corrispondenti» (ibid., 210), e proprio per questo, rispetto alla morte si può parlare di ‘presenza’ e ‘ulteriorità’ di un compimento aperto perciò stesso all’intervento della grazia.

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CaPITOLO V La MOrTE COME “STIPENDIO” DEL PECCaTO Nel xIx secolo, soprattutto a partire dalla riflessione sistematica dello Schleiermacher, si cominciò a presentare la morte come un fatto naturale, che colpisce l’uomo per il semplice fatto di essere un ente finito, mortale appunto, biologicamente destinato alla dissoluzione fisico-organica. La teologia protestante moderna — fa notare Pannenberg — considera la morte del corpo come qualcosa di naturale, e questa impostazione è condivisa anche dai maggiori teologi evangelici del xx sec. (soprattutto althaus, Brunner, Barth, jüngel) i quali distinguono tra morte ‘naturale’ e morte ‘giudiziale’, intendendo con quest’ultima espressione solo la qualità della separazione da Dio, quella che la ‘morte naturale’ viene ad assumere a seguito del peccato72. Già nella Scrittura, comunque, si vedeva in qualche maniera sentenziata questa sorte inesorabile dell’uomo: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai!» (Gen 3,19). Le conseguenze del peccato d’origine, per i teologi del tempo erano pene di natura prevalentemente spirituale, con una scarsa relazione con la corporeità e la materia poiché la morte dell’uomo veniva assolutamente risucchiata nella vorticosa spirale in cui sono avvolte tutte le cose che nascono, crescono e appunto muoiono. Il teologo fa notare come l’argomento principale in base al quale si afferma che la morte appartiene alla natura creata dell’uomo poggia di fatto sul carattere finito della vita umana. La finitudine è implicita nella creaturalità dell’essere umano e non è riferibile direttamente al peccato e alle sue conseguenze. Da questa premessa si potrebbe trarre una prima conclusione anche riguardo alla morte, che in maniera analoga alla finitudine non sarebbe riferibile direttamente al peccato. Per Pannenberg, al fine di sfuggire alla facile equazione finitudine = morte/mortalità (la finitudine, infatti, non sempre è connessa con la mortalità e la morte) è necessario distinguere tra finitudine e mortalità perché non è plausibile la tesi secondo cui la morte rientra nella natura dell’uomo in quanto essere finito. Tuttavia 72

Cfr W. PaNNENBErG, Teologia Sistematica, III, Brescia 1996, 585-586.

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— continua il teologo — è possibile cogliere «una relazione tra peccato, finitudine e morte. Il peccatore nega la finitudine della propria esistenza, in quanto ‘vuol essere come Dio’ (cfr Gen 3,5). E proprio per questo egli soccombe alla propria finitudine: morendo. La differenza tra finitudine e morte qui si profila nel fatto che la non accettazione del proprio carattere finito espone il peccatore alla morte»73. La fine dell’esistenza dell’uomo viene colta come fine del suo Io che pur vivendo un’esistenza finita pretende la somiglianza con Dio ed aspira all’eternità. Quest’atto di estrema arroganza da parte dell’uomo trasforma la sua finitudine in morte, il che non avverrebbe se egli fosse capace di vivere la vita nella sua interezza e nell’accettazione della finitudine che condivide con tutti gli altri esseri. La teologia ha dunque distinto chiaramente la morte come fine naturale della vita dalla morte come frutto e risultato del peccato e della lontananza da Dio, come segno dello stato kenotico dell’esistenza dell’uomo 74. Per questo stato di cose, secondo alcuni teologi l’uomo posto in un ipotetico stato di natura pura avrebbe sperimentato la morte non come separazione del corpo dall’anima, come rottura, ma come trasformazione (trasposizione di tutto l’uomo — corpo ed anima — nella gloria). La teologia più recente, suffragata anche da alcuni interventi magisteriali75, afferma che il peccato non ha tanto introdotto un diverso tipo di morte 73 Ibid., 586-587. Cfr a questo proposito anche M. BIzzOTTO, Naturale e non-naturale nella morte, in Camillianum 19 (1999) 13-36. 74 Cfr G. COLzaNI, La vita eterna, cit., 191-192. Si veda anche j.j. TaMayO-aCOSTa, L’escatologia cristiana, cit., 343; P. GIaNNONI, La morte salario del peccato e scandalo della creazione, in Vita monastica 194 (1993) 54-67. Sommariamente si può aggiungere che anche già i Padri generalmente erano concordi nell’ammettere una distinzione tra una morte “buona”, una morte “cattiva” e una morte, si potrebbe dire “indifferente”; o, il che è lo stesso, tra una morte “mistica” (rinuncia al peccato), una morte “spirituale” (prodotta dal peccato) e una morte fisica e naturale. Per quanto concerne la morte naturale essi pensano che si tratti innanzitutto di una chiara manifestazione dello sfacelo indotto dal peccato, anche se escludono che si possa parlare in questo caso di male assoluto e profondo proprio per il fatto che colpisce unicamente il corpo e anzi è ciò che permette allo spirito di essere definitivamente con il Signore per sempre. Per questa ragione, pur mantenendo le dovute distinzioni tra le varie accezioni della morte umana, essi parleranno sempre più diffusamente della morte come del vero dies natalis dell’uomo nuovo e di “guadagno”, in quanto inaugurazione di un essere con Cristo più profondo e più intenso di quello terreno (cfr G. GOzzELINO, Nell’attesa della beata speranza, cit., 192-193). 75 Si pensi a questo proposito alla posizione assunta dall’episcopato olandese nel suo Catechismo per gli adulti, in cui si afferma che l’uomo paradisiaco anche se non avesse

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organica, quanto piuttosto ha determinato una diversa interiorizzazione della stessa, per cui anche in uno stato di natura pura la morte biologica sarebbe sopravvenuta, ma sarebbe stata saggiata dall’uomo innocente come un evento di compimento gioioso e trasfigurante. La morte, anche quando viene intesa come separazione dell’anima dal corpo, risulta essere l’abbandono di un modo d’esistere corporeo in cui predomina la legge biologica della carne, e l’introduzione della persona in un modo d’esistenza in cui si attua la piena realizzazione del predominio dello spirito76. Gozzelino sottoscrive la posizione più recente della teologia su questo punto, anche perché a suo giudizio non esaspera la differenza tra la condizione previa al peccato e quella che attualmente e storicamente l’uomo conosce, sebbene sia anche convinto che neppure alcune indirette prese di posizione del recente magistero della Chiesa dirimano definitivamente la questione. Per queste ragioni egli è dell’idea che il problema, molto dibattuto nella storia della teologia e che ha delle indubbie ripercussioni anche sull’antropologia oltre che sull’escatologia, rimanga ancora aperto e oggetto di indagine e approfondimento teologici77. Ciò che è comunque importante sottolineare, è che la teologia distingue la morte “maledetta” dalla cosiddetta “morte benedetta”, quella morte, cioè, che con la risurrezione di Cristo è finalmente diventata ciò per cui Dio l’avrebbe da sempre pensata, cioè il transito nella definitività della comunione col Padre, per il Figlio nello Spirito (solo in questo senso, e mai in un senso diverso da questo, si può dire che la morte, tratteggiata dalla Scrittura come estranea al piano del Dio vivente e amante della vita, può essere pensata come parte del suo progetto di salvezza)78.

peccato non sarebbe vissuto ugualmente all’infinito, perché nel nostro mondo limitato una vita senza morte non è biologicamente pensabile (Cfr CONFErENza EPISCOPaLE OLaNDESE, Catechismo cattolico degli adulti. La confessione della fede della Chiesa, Cinisello Balsamo 1989, 437-438). 76 Cfr M. BOrDONI, Dimensioni antropologiche della morte, cit., 60-61. 77 Cfr G. GOzzELINO, Nell’attesa della beata speranza, cit., 431-432. 78 Da una lettura globale e profonda della Scrittura si ricava l’impressione che essa non sia soltanto storia di salvezza dell’uomo operata da Dio, ma anche rappresenta un lento, lungo e faticoso imparare a morire da adamo fino a Gesù di Nazaret. Una storia che ha trovato compimento in Gesù nella cui obbedienza e nel cui abbandono amoroso al Padre si è compiuta la salvezza dell’uomo, di ogni uomo, la cui morte può divenire il transito da questo mondo al Padre, il passaggio alla vita di comunione con Dio, Vita eterna.

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La morte umana, grazie alla morte di Cristo e per lo stretto legame che la lega a questa, è stata “abilitata” a divenire il compimento della creatura nella gloria della Trinità79. Il rapporto della morte umana con quella di Cristo si palesa giorno dopo giorno e si visibilizza pienamente nella morte-passaggio che si compie al termine dell’esistenza storica dell’uomo: essendo assieme e inscindibilmente una fine e un compimento, essa implica al contempo un passivo “dover morire” segnato dal peccato, e un attivo “voler morire” sostenuto e connotato dalla grazia, ad immagine di quella che è stata l’esperienza dello stesso Cristo, morto a causa del peccato del mondo, ma nel suo filiale abbandono alla volontà del Padre. In questo senso si ha una vera morte umana soltanto se questa avviene “nel Signore”, sia che ciò avvenga ‘esplicitamente’, sia che accada ‘implicitamente’ e in maniera pre-riflessa, in quanto il futuro assoluto si realizza unicamente in Cristo nel quale l’uomo è stato sin dall’origine predestinato, nella sua vita così come nella sua morte. «La mortalità dell’uomo storico — afferma a questo proposito Gozzelino in maniera conclusiva — è cristologicamente determinata. Il suo morire è di diritto un morire in Cristo»80. Da queste considerazioni sembra che non emerga con chiarezza il senso della morte di coloro che muoiono contrassegnati da un’ostinata chiusura all’offerta di grazia che Dio rivolge in Cristo, e che per questo sperimentano ancora quella “morte maledetta” che è l’esito del peccato. È tuttavia importante tenere presente a questo riguardo che la stessa morte di Gesù, cioè quella che egli effettivamente ha assunto su di sé, non è stata tanto “la morte” in senso astratto e in generico, quanto piuttosto “la morte del peccatore”, quella morte, cioè, che porta i segni inconfondibili del peccato e della maledizione. Greshake arriva a dire che Gesù «morì non della “morte bella” dei giusti dell’aT e neppure della morte eroica, armonica quale Platone mostra nell’esempio di Socrate. Morì della morte del peccatore e non è da escludere in amara disperazione […] il suo ultimo grido […] può essere scaturito dalla disperazione per questa assurdità divina»81. Cfr G. GOzzELINO, Nell’attesa della beata speranza, cit., 433. Ibid., 437. 81 G. GrESHaKE, Ricerche per una teologia del morire, cit., 113. Più avanti, tuttavia, il teologo riprende il discorso nelle sue punte più estreme ed afferma — facendo riferimento alle riflessioni di a. Strobel — che «Gesù muore non “maledicendo Dio, ma proprio in una disperata fuga verso di lui”» (ibid.), dimostrando di avere ancora una ferma fiducia nel Padre. 79 80

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Cristo ha paradossalmente assunto anche la morte di coloro che ostinatamente si autoescludono dalla comunione con Dio e con i fratelli a causa del loro peccato. Per questi la morte di Cristo, alla quale restano tuttavia legati, loro malgrado, si manifesta come giudizio che fissa la loro “libera” opzione negativa82. Ma su questo punto, qualora ciò sia possibile, il mistero si fa ancora più fitto e le risposte ancora meno apodittiche. La questione poi secondo cui l’uomo sarebbe stato esentato dalla morte se non avesse peccato (più volte sostenuta o presupposta dalle dichiarazioni del magistero), nella teologia contemporanea viene così risolta a favore di una comprensione della morte nella sua duplice dimensione: da un lato si afferma l’ineluttabilità della morte intesa come fine naturale dell’esistenza storica dell’uomo, del suo organismo e del suo destino di libertà (destino condiviso con tutti gli altri esseri viventi), dall’altro si sottolinea che in assenza di una condizione lapsaria l’uomo avrebbe saggiato in maniera sostanzialmente diversa il trapasso da questa condizione fisica e storica alla condizione definitiva e celeste del compimento83. Moltissimi teologi, infatti, sono concordi nell’affermare che la morte di cui spesso parlano i documenti magisteriali e la stessa tradizione teologica non sia quella fisica, indelebilmente legata all’essenza stessa dell’uomo, alla sua “animalità” e alla sua struttura organica, quanto piuttosto quella spirituale; quella, cioè, che è originata dal peccato e ne è l’estrinsecazione, che viene saggiata come rottura, separazione, distacco. Mentre la “morte separazione” o “morte-rottura” è un disordine introdotto per la contingenza storica del peccato, un disordine che produce nell’uomo la “paura” della morte, l’angoscia e il timore che con essa tutto finisca, il finire biologico e il finire morale possiedono invece un carattere di essenzialità nell’esistenza Cfr G. GOzzELINO, Nell’attesa della beata speranza, cit., 430. La Commissione Teologica Internazionale a questo proposito riprende e ripropone, senza ulteriori chiarimenti e specificazioni, lasciando perciò le porte aperte al confronto teologico, quanto già GS 18 aveva affermato. Per la Commissione «l’assurdo della morte appare più chiaro se consideriamo che nell’ordine storico essa esiste contro la volontà di Dio, poiché “l’uomo sarebbe stato esentato [dalla morte corporale] se non avesse peccato”» (Alcune questioni attuali riguardanti l’escatologia, cit., 479). Con espressioni non de tutto chiare, la Commissione afferma che con la morte “usciamo” (l’uomo/l’anima!) dal corpo e veniamo privati dalla nostra pienezza esistenziale, sebbene questo stato di cose non possa in alcun modo essere ritenuto come definitivo, né come desiderabile in sé, perché la speranza del cristiano non è tanto quella di essere liberato definitivamente dal corpo, considerato un peso per l’anima, quanto quella di essere per sempre in comunione con il Signore (pp. 479-481). 82

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dell’uomo, legato alla sua creaturalità e alla necessità che lo sviluppo organico raggiunga la sua fine e la crescita morale la sua maturità84. ruiz de la Peña si unisce al coro ed afferma ripetutamente che la morte che l’uomo oggi vive è la pena del peccato, la sua più spaventosa rivelazione e il suo frutto più amaro, una sanzione immanente allo stesso, per quanto in un regime di grazia l’uomo non avrebbe certamente fatto l’esperienza di questo tipo di morte85. anche secondo Lorizio la morte prima ancora che castigo per il peccato è dimostrazione concreta dello stesso; è, cioè, la forma manifesta dell’essenza del peccato mortale nella corporeità dell’uomo; è come la materializzazione del peccato nella dissoluzione della corporeità dell’uomo, il disfacimento fisico quasi come dimostrazione fenomenica di quel disfacimento spirituale che è causato dal peccato86. Sembra del tutto acquisito, perciò, il dato secondo cui se l’uomo non avesse peccato, la morte sarebbe stata il compimento pacifico della persona in tutto il suo essere e di tutto il suo essere, il transitus verso lo stato definitivo dell’esistenza. Il peccato ha cambiato questo significato originario della morte, ma la redenzione operata da Cristo ha fatto sì che la morte potesse nuovamente diventare il passaggio da questo mondo al Padre di coloro che sono inseriti in Cristo; la via che conduce i credenti, inseriti in Cristo mediante il battesimo e la vita di grazia, ad essere con Cristo per sempre. Per cui, come afferma lapidariamente Nocke, la vittoria sulla morte non consiste nella sua eliminazione, bensì nella sua trasformazione e poiché «non il semplice fatto che la nostra vita è temporalmente limitata e che noi un giorno moriremo è la conseguenza del peccato, bensì il fatto che noi sperimentiamo la morte come ostile, come un’interruzione, come un Cfr M. BOrDONI, Dimensioni antropologiche della morte, cit., 83-84. Cfr j.L. rUIz DE La PEña, El hombre y su muerte, cit., 369. 86 Cfr G. LOrIzIO, Mistero della morte come mistero dell’uomo, cit., 97. Tillard è persuaso che «se è innegabile che l’evento della morte (morte con la minuscola) è una necessità di natura, è nondimeno evidente, di un’evidenza intuitiva, che la Morte (con la maiuscola) non sarebbe quello che è senza la ferita della libertà umana e l’incoerenza fondamentale del peccato. Essa esisterebbe, ma diversamente. La Morte non sarebbe quella che di fatto è diventata a causa della colpa dell’uomo» (j.M.r. TILLarD, La morte: enigma o mistero?, Magnano 1998, 141). La morte (biologica, naturale) nello stato attuale appare quindi totalmente nella morsa della Morte (frutto del peccato) per cui ogni vivente deve necessariamente fare i conti con una morte contaminata dal peccato; soltanto la vittoria pasquale di Cristo ha svincolato la morte dall’abbraccio sinistro della Morte e ne ha fatto un passaggio alla pienezza di comunione con Dio (ibid., 168). 84 85

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qualcosa che è diretto contro il dinamismo della vita e che pone quindi in discussione il senso di tutta la vita»87. In queste poche battute del teologo tedesco si può sintetizzare la posizione comune alla maggior parte dei teologi contemporanei su questo punto della dottrina. La teologia attuale cerca infatti di mettere in chiaro la serietà del peccato e ciò che esso ha significato e continua a significare per l’uomo e l’universo intero, ma nello stesso tempo vuole mettere in evidenza, con altrettanta forza, la novità prodotta dall’evento Cristo e dal suo mistero di morte e risurrezione: nel mistero pasquale di Cristo ha presso l’avvio il momento risolutivo della storia della salvezza. Ogni cosa è stata sottomessa a lui perché egli possa sottomettere ogni cosa al Padre suo. La morte, segno del peccato, già disfatta da Cristo sulla croce e con la sua risurrezione, è l’ultimo nemico che alla fine sarà definitivamente sconfitto e sottomesso perché Dio sia tutto in tutte le cose (cfr 1Cor 15,28). Von Balthasar è comunque convinto che al di là di tutto ciò che può essere detto, «la morte sta fra natura e antinatura, e inestirpabilmente. Tutti i tentativi teologici volti a separare la negativa antinatura della morte da una primitiva sua naturalezza che competerebbe all’adamo non ancora peccaminoso rimangono fantastici in alto grado»88.

87 Cfr F.j. NOCKE, Escatologia, cit., 139. È su questo dramma — aggiunge a questo proposito Martelet — che il Cristo, attraverso la sua morte e la sua risurrezione, proietta una luce senza pari, facendone una “ineffabile nascita”. Cristo risorto, infatti, emerge dal fondo della morte dell’uomo — poiché la morte rappresenta realmente l’abisso in cui l’uomo inesorabilmente precipita — e riempie quel vuoto e quel silenzio che la morte significa e in cui scaglia: la morte è dunque un evento che trova una spiegazione in un altro evento, nella risurrezione di Cristo, perché essa consegna l’uomo, espropriato di qualsiasi rapporto di comunione con gli altri e con il mondo, al Signore nell’attesa della trasfigurazione del mondo intero. Senza la risurrezione di Cristo la morte sarebbe rimasta un evento assolutamente irredento e insensato, negativo e oscuro: solo il mistero pasquale di Cristo le ha saputo offrire un esito diverso, per alcuni versi insperato e inatteso, perché da confine invalicabile l’ha trasformata in transito, da fine inesorabile in inizio, da naufragio e oblio dell’uomo e delle sue speranze a compimento e pienezza di vita (cfr G. MarTELET, L’aldilà ritrovato, cit., 120-129). 88 H.U. VON BaLTHaSar, Il tempo e la morte, in ID., Teodrammatica, IV: L’azione, Brescia 1986, 112.

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CaPITOLO VI «aBSOrPTa EST MOrS IN VICTOrIa» (1COr 15,54): La rIFLESSIONE DEI TEOLOGI SULLa QUESTIONE DELLa MOrTE Dopo aver presentato alcune problematiche strettamente legate alla questione della morte, passiamo ora alla parte centrale e più impegnativa di questo studio che consiste nella presentazione del pensiero dei maggiori teologi di lingua tedesca, spagnola e italiana sul tema umano e cristiano della morte, così come è stato espresso principalmente — ma non solo — nelle loro opere maggiori e nei manuali da essi prodotti. Lo scopo che mi prefiggo è quello di cogliere almeno gli elementi essenziali — alcuni dei quali sono già emersi nel corso dell’indagine — del dibattito “odierno” su questo punto centrale della dottrina e dell’escatologia cristiana, abbandonando sin da adesso la pretesa di essere assolutamente esaustivo e tanto meno risolutivo riguardo all’esposizione del loro pensiero e alle questioni più spinose ancora oggetto del confronto teologico. 1. Il contributo dei teologi di lingua tedesca M. Schmaus dedica il II tomo del IV volume della sua famosa Dogmatica Cattolica, che ha segnato veramente un momento importante nella storia della teologia contemporanea, proprio alla trattazione dell’escatologia cristiana. Il pregio dell’opera è certamente quello di costituire uno dei ponti che hanno consentito il passaggio dal vecchio trattato De novissimis di stampo neoscolastico ai manuali di teologia ancora in uso presso le Università Teologiche e gli Istituti di Teologia. Il valore dell’opera risiede anche nello sforzo dell’autore di rileggere i classici novissimi in una chiave nuova, più fedele al dato rivelato, alla testimonianza della Scrittura e della tradizione ecclesiale, più attenta alla riflessione patristica e agli stimoli derivanti dalle scienze umane, in particolare della filosofia (il coraggio di Schmaus è stato anche quello di confrontarsi con il pensiero di autori come Heidegger, rilke, Hegel, Schopenhauer, e non soltanto con esegeti e teologi di diverse estrazioni) in un costante dialogo con l’uomo contemporaneo, le sue questioni e le sue domande. 63


Questo dato si palesa immediatamente anche nella trattazione che l’autore dedica al tema della morte, a cui precedentemente i manuali riservavano soltanto alcune pagine perché era ritenuto il semplice punto di passaggio verso lo studio dei novissimi dell’uomo e del mondo, vero oggetto dell’escatologia cattolica. Nell’opera di Schmaus, invece, sebbene la morte sia ancora presa in considerazione proprio all’inizio dell’escatologia individuale e in rapporto quasi esclusivo con questa, essa ne occupa tuttavia una parte considerevole, forse come non era mai avvenuto prima, e non solo dal punto di vista meramente “quantitativo” (numero di pagine dedicate a questo argomento), ma piuttosto perché ad essa viene riconosciuta un’importanza fondamentale per la stessa comprensione dell’uomo e della sua esistenza. Molti elementi che scaturiscono dalla riflessione del teologo tedesco passeranno alla teologia successiva, soprattutto quelli che sono la conseguenza di un dialogo fruttuoso con la filosofia e i teologi delle altre confessioni cristiane, e se ne troveranno le tracce sparse in buona parte della teologia della seconda metà del secolo scorso. Per questa ragione ritengo che non sia superfluo e tanto meno fuori luogo presentare il pensiero di questo teologo sulla delicata questione della morte. Nell’ambito della trattazione del tema della morte Schmaus affronta anche quello dell’immortalità dell’anima, perfettamente in linea con la teologia classica, ed afferma che anche ammettendo l’immortalità dell’anima, dottrina conforme all’insegnamento della Scrittura e aperta alla promessa principale di Dio che è più direttamente la risurrezione dei morti, la morte conserva la sua serietà perché rimane la fine inesorabile dell’esistenza storica dell’uomo89. riguardo al motivo e al senso della morte, il teologo asserisce che di certo quanto i testi sacri vogliono affermare è che le leggi naturali, sotto la guida della grazia divina, in assenza del peccato si sarebbero esplicate in modo da portare ad una trasformazione della morte che sarebbe stata diversa da quella di cui attualmente facciamo esperienza. L’uomo avrebbe raggiunto “naturalmente”, sebbene sempre per puro dono di Dio, quella forma corporea che nell’ordinamento attuale è conseguibile unicamente mediante la risurrezione dei morti. Quello che la speranza cristiana attende

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Cfr M. SCHMaUS, Dogmatica Cattolica, IV/2, I novissimi, Torino 19692, 332.


per il compimento finale della storia, in un ipotetico stato di natura pura sarebbe stato invece il compimento del singolo individuo90. Nella morte umana, inoltre, Dio dimostra come la vita è possibile soltanto in unione con lui, e che lontano da lui l’uomo non può assolutamente vivere, perché in essa appare qualcosa che va al di là dello sfacelo corporale, della scontata conclusione di un organismo vivente, qualcosa che ha le sue radici direttamente nell’esistenza dell’uomo: la sua inimicizia con Dio. La morte è sì un fatto naturale, ma non solo e forse non primariamente questo. Essa è soprattutto alienazione da Dio, segno doloroso del peccato, “materializzazione” e “visibilizzazione” della colpa dell’uomo e del suo rifiuto di Dio e dell’offerta della sua amicizia. Nonostante Dio rispetti il carattere inviolabile delle leggi naturali che regolano l’esistenza e la fine dell’uomo, egli tuttavia pronuncia sull’uomo peccatore, e prima ancora sul suo peccato, il suo giudizio: le leggi diventano in questo contesto quasi come il “recipiente” in cui viene accolto questo giudizio e concorrono nello smascherare la debolezza e la fragilità dell’uomo lontano da Dio e chiuso alla sua offerta di grazia. La morte è perciò un disordine che si radica nel peccato, è dimostrazione di un avvenimento contro natura, innaturale, perché la natura originariamente dotata della grazia divina, ne è stata successivamente privata proprio a causa del peccato. Schmaus può dunque affermare, senza vedere in ciò alcuna contraddizione, che «la morte proviene da una radice ontologica e da una radice storico-salvifica, dal carattere creaturale dell’uomo e dalla potenza del peccato. Porta quindi anche un duplice volto: è la prova della finitezza e la prova della peccaminosità dell’uomo»91. La stessa morte è entrambe le cose, e come Giano bifronte si rivela come naturale e innaturale al contempo, come termine e come rottura. «Il conforto, che la rivelazione offre dinanzi alla morte, non nasconde ciò che di sinistro e di terribile è insito in essa, ma lo svela nella sua nuda deformità, per aiutare poi a sopportarlo e a superarlo»92. Ma la morte non è solo questo. Con la morte di Cristo, infatti, essa è stata trasformata perché è stata assunta dal Figlio di Dio che si è reso solidale con il destino di morte che appartiene alla vita umana. Nella 90 91 92

Cfr ibid., 358. Ibid., 361. Ibid., 395.

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propria morte Cristo ha acquistato il modo di esistere del Kyrios; è stato, cioè, innalzato ad una forma di esistenza che è al di là della zona della morte, ed essendo egli il centro e il vertice della creazione, la sua morte ha avuto profonde conseguenze per gli uomini e l’universo intero. Il mondo attuale, sottomesso alla caducità, per l’intervento di Dio compirà un processo di trasformazione che lo porterà ad essere perfettamente configurato al modo di esistere del Cristo glorioso ed esaltato93. Il primo chiamato a questa trasformazione è proprio l’uomo, il quale è in grado di aderire liberamente e responsabilmente al progetto di Dio o di rifiutarlo e chiudersi ad esso. Egli è posto di fronte a questa scelta già nel corso della propria esistenza storica e partecipa a questa trasformazione già nel battesimo e nella vita sacramentale94. La morte sta dunque sempre nella visuale di colui che è unito al Cristo crocifisso, ed è la possibilità ultima, sempre presente, della sua vita95. Essa completa questo processo e apporta all’uomo la sua forma definitiva, elaborando in lui il vero volto spirituale. Con la morte si conclude perciò quello che la tradizione teologica chiama lo status viatoris e inizia lo status termini; quella situazione, cioè, in cui non è più possibile per l’uomo prendere delle decisioni che mutino la forma di vita raggiunta nel trapasso. Questo carattere definitivo della morte è testimoniato non solo dalla Scrittura, ma anche dalla tradizione ecclesiale in cui è chiara la convinzione che con essa l’uomo raggiunge proprio gli stadi definitivi della sua esistenza. Inoltre, sebbene la morte sia un fatto naturale, governato da leggi chimico-fisico-biologiche che determinano il decesso e il disfacimento della componente organica dell’essere umano, essa è anche e soprattutto un evento che offre all’uomo una possibilità unica e speciale per esplicare ed esprimere compiutamente il suo essere personale. Essa rappresenta, ovvero, la possibilità più alta offerta all’uomo di sviluppare la propria personalità entro la storia e di determinare per sempre, con la sua libera decisione, la natura del suo destino (autorealizzazione o assoluta alienazione). L’esito Cfr ibid., 367. Proprio nella sezione dedicata alla “ontologia della morte”, l’autore denuncia la presenza costante della morte nella vita dell’uomo, il suo dominio onnipresente che manifesta la fondamentale soggezione della vita a Dio e al suo potere (cfr M. SCHMaUS, Dogmatica Cattolica, cit., 369). 95 Cfr l. c. 93 94

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della decisione è certamente condizionato e preparato dall’andamento dell’intera esistenza storica, nel corso della quale egli quasi si allena per vivere bene l’attimo finale della propria vita. Questo allenamento, precisa Schmaus, comporta un atto analogo alla morte, che consiste principalmente nel continuo distacco dal mondo e nell’assoluta dedizione a Dio96. Perché l’esito sia positivo è comunque necessaria una particolare illuminazione da parte della grazia divina che consenta all’uomo, proprio nel momento in cui crollano le sue forze corporali, di mantenere una vigile coscienza e di raggiungere un’elevata indipendenza affinché possa compiere un atto libero di affidamento estremo a Dio97. Tale atto implica alcuni atteggiamenti fondamentali che l’uomo assume unito a Cristo. La morte è così innanzitutto per l’uomo la partecipazione a quella obbedienza con cui Cristo ha consegnato se stesso alla morte e al progetto del Padre, ma è anche il riconoscimento da parte dell’uomo della santità di Dio e quindi della propria debolezza e colpevolezza. Essa è altresì restituzione a Dio di quell’onore che gli era stato sottratto, per così dire, a causa del peccato. In questo senso ha un carattere penitenziale, perché realizza nell’uomo il suo distacco dal mondo e dalla sua forma esterna e lo rende partecipe dello stesso destino di gloria di Cristo al quale si unisce mediante l’amore. Soltanto l’unione con Cristo e la stretta comunione di vita che il credente instaura con lui, può alleggerire il peso della solitudine che caratterizza la morte umana: essa rimane pur sempre l’esperienza che il singolo è chiamato personalmente a fare, ma l’unione con Cristo lo aiuta a superare il radicale isolamento dell’io perché lo inserisce profondamente in quella comunione mistica, ma non per questo meno reale, che è la communio sanctorum98. In conclusione, l’aspetto cristologico e quello ecclesiologico rischiarano il mistero della morte, ne evidenziano e discriminano il carattere specificamente cristiano, e per Schmaus sono in definitiva ciò che solamente può palesarne anche il valore e il significato autenticamente umano. r. Guardini, nella sua breve opera dedicata allo studio dell’escatologia cristiana, che porta ancora il titolo classico che a questa disciplina teologica veniva dato dalla manualistica neoscolastica, Le cose ultime, parla della morte proprio all’inizio della sua riflessione, e precisa, attraverso un 96 97 98

Cfr ibid., 386. Cfr ibid., 389. Cfr ibid., 402.

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esplicito riferimento sia a Gen 2,15-17 come anche a rm 5,12, che dalla Scrittura appare chiaro che nel progetto originario del Creatore la morte non era contemplata e l’uomo non avrebbe dovuto fare i conti con questa amara realtà. Il teologo di Monaco ammette che una simile affermazione viene a scuotere la sensibilità dell’uomo moderno che è portato a ritenerla come assurda perché oramai figlio di quella scienza che gli ha insegnato a considerare la morte come un evento necessario e naturale, come un aspetto proprio dell’essenza stessa della vita. Pur ammettendo che le obiezioni che si possono muovere alle affermazioni della Scrittura su questo punto sono perlomeno comprensibili, il teologo precisa che le verità enunciate dai testi biblici sono di un’altra indole, parlano di un mistero e non di un’assurdità, di una verità che trascende la ragione umana, cioè sovrarazionale, e non irrazionale o a-razionale. Con queste premesse Guardini può affermare che in assenza di peccato «una fine ci sarebbe sicuramente stata. La forma della vita avrebbe avuto la sua conclusione, ricevendone validità definitiva; ma questa fine non sarebbe stata la morte che oggi conosciamo»99. Poco più avanti il teologo ritorna su questo argomento e sostiene che in verità dai dati della Scrittura non possiamo sapere come la morte si sarebbe configurata nel caso in cui l’uomo non fosse incorso nella colpa. Ciò che la teologia può limitarsi ad ammettere è che «quella fine sarebbe stata al contempo un principio, un passaggio, una trasformazione»100. La morte fa dunque parte della vita dell’uomo, ma non è una parte integrante del suo essere; piuttosto, per la fede cristiana essa è la conseguenza di un atto ed ha perciò un carattere storico più che naturale101. Essa è in sé un fatto privo di senso, anzi rischia di screditare il senso stesso della vita. Quello che può avere un senso è la fine fisica dell’uomo, la necessità che il suo organismo arrivi al punto omega del suo sviluppo che è anche la sua rovina. Unitamente però la fede cristiana riconosce la realtà della morte in sé, ne ammette tutta l’asprezza e rifugge dalla tentazione di mascherarne il vero significato attraverso una visione dionisiaca della vita. Essa non è immediatamente il culmine e il compimento della vita, ma ne è la fine acre,

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r. GUarDINI, Le cose ultime, Milano 1997, 21. Ibid., 29. Cfr ibid., 26.


perché è la conseguenza del peccato di tutti, e tutti debbono prenderne coscienza e pagare il proprio debito102. Queste espressioni da sole mostrano la serietà della morte e l’angoscia giustificata che l’uomo prova di fronte ad essa. Tutto rimarrebbe confinato nell’assurdo se la riflessione credente s’infrangesse davanti a questo scoglio e naufragasse di fronte all’incontenibile angoscia che questo evento sprigiona nel cuore dell’uomo. Per questa ragione la fede apre uno spiraglio e fa una breccia nel buio della morte attraverso quanto la Scrittura ci riferisce circa la morte di Gesù. Con la morte di Cristo, dolorosa e reale più di ogni altra, la morte umana in sé ha subito una trasformazione radicale: essa si è aperta alla speranza nella risurrezione ed è stata rischiarata dalla promessa che in Cristo risorto anche l’uomo, già reso partecipe del suo destino di morte e della sua risurrezione gloriosa, sarà definitivamente liberato dalla morte e dal suo dominio. Oramai non è più possibile a giudizio del teologo di Monaco, parlare della morte senza parlare contestualmente della risurrezione dei morti, perché anche Gesù ha sempre parlato della propria morte in stretta connessione con la sua risurrezione gloriosa103. La risurrezione è ormai entrata a far parte della stessa definizione della morte umana, e per questo non è una giustapposizione gratuita alla questione della morte, un escamotage di matrice teologica per uscire dallo scandalo che questa provoca, ma il giusto contesto, l’unico, in cui la morte può essere compresa nel suo vero significato per l’uomo. Con la morte di Cristo e con la sua risurrezione è stato conferito alla morte un altro carattere che ne fa ciò che avrebbe dovuto essere: il passaggio a una vita nuova ed eterna104. La vita di cui si sta parlando non è una necessità di natura, ma è pura grazia e scaturisce da una morte, quella di Cristo, che questa volta è la serietà del Dio che ama, così come la morte dell’uomo è la serietà dell’uomo amato da Dio105. Cfr ibid., 31-32. Cfr ibid., 32. W. Pannenberg è convinto dell’inscindibile e mutuo riferimento tra morte e risurrezione, ed è dell’avviso che «solo se si comprende in modo teologicamente corretto il significato antropologico della morte, si potrà descrivere adeguatamente pure il contenuto della speranza cristiana di risurrezione», poiché la morte è in sostanza il «presupposto negativo per una speranza nella risurrezione» (Teologia Sistematica, III, cit., 581). 104 Cfr r. GUarDINI, Le cose ultime, cit., 34. 105 Cfr ibid., 37. 102

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«La morte di Cristo è insita in tutta la pena e la devastazione, in tutto l’abbandono e il tormento che la morte può significare — ma questo è il rovescio visibile di quel tutto il cui diritto si chiama resurrezione»106. La morte non può mai essere presa in se stessa prescindendo dal suo rovescio, ovvero dalla risurrezione di Cristo, unico mistero che le conferisce il giusto valore e la corretta misura. Tutto ciò non ne sminuisce il carattere tragico, reale e drammatico, ma l’inquadra in uno spazio storico-salvifico che travalica i limiti dell’indagine filosofica e puramente razionale e si staglia su un terreno che è quello della riflessione credente, della fede pensante che poggia sull’evento inedito della risurrezione escatologica di Cristo ad opera del Padre. E. jüngel, nella sua notissima opera, Morte, parla della morte come del problema fondamentale della vita umana, come di una realtà che è estranea, la più estranea, alla sua esistenza, ma anche la sua proprietà più intima107. Egli concepisce la morte come un evento che raggiunge l’uomo nella sua passività, come qualcosa che gli viene dato, quasi inflitto da Dio. Essa è strettamente congiunta con il mistero della creazione e dell’origine della vita umana: così come è Dio che crea all’inizio tutte le cose, è sempre lui a ‘creare’ la fine dell’uomo il quale però rimane sempre oggetto del suo amore e quindi aperto al futuro preparato per lui108. Il compito della teologia contemporanea, precisa l’autore in sintonia con tutta una corrente della teologia protestante contemporanea e con una parte della stessa teologia cattolica, è quello di de-platonizzare il cristianesimo, e in questo caso quello di aiutare la dottrina cristiana a superare la concezione della morte come pura separazione del corpo e dell’anima, con la conseguente idea dell’immortalità e sopravvivenza di quest’ultima. Una concezione squisitamente cristiana della morte, infatti, deve essere saldamente ancorata alla Scrittura che testimonia a favore della morte dell’uomo e della sua risurrezione, ma non della morte di una sua parte (il corpo) e della conseguente sopravvivenza dell’altra (l’anima). Seguire le indicazioni della Scrittura significa parlare della morte come dello “stipendio del peccato” e come realtà intimamente connessa con la morte di Cristo. Questa è essenzialmente diversa da quella degli eroi greci o dello stesso Socrate, perché è frutto e rivelazione 106 107 108

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Ibid., 38. Cfr E. jüNGEL, Morte, cit., 13-22. Cfr ibid., 131.


del peccato; è quella, cioè, che l’ebreo dell’aT temeva perché sinonimo di solitudine e mancanza di comunione con Dio, vera ed unica sorgente della vita. La morte che Gesù ha assunto è la morte dolorosa del condannato, del reietto, del peccatore, e per questo motivo non può in alcun modo avere gli stessi tratti di quella felice e liberatoria, quasi alienante, di Socrate o dei filosofi pagani109. Con la sua morte Cristo non ha voluto estraniarsi o riscattarsi dal proprio corpo e dal mondo, ma si è reso massimamente solidale con l’uomo, il mondo e il loro destino di corruzione, ed ha così assunto su di sé tutta la negatività della morte110. La morte di Cristo è stata altresì determinante non solo per la sua persona, ma anche per la nascita e soprattutto per lo sviluppo della fede in lui. La Chiesa primitiva ha infatti compreso che nella morte di Gesù c’era stata una manifestazione unica e singolare di Dio. In se stessa la morte in croce non era stata rivelativa del compimento dell’opera di Gesù, poiché ne aveva manifestato il fallimento e ne aveva determinato la violenta interruzione in quanto l’annuncio della vicinanza di un Dio benevolo che aveva caratterizzato la sua predicazione, soprattutto nella sua morte e nel suo grido di dolore lanciato sulla croce, non aveva trovato conferma e rasentava addirittura l’assurdo111. È solo con la risurrezione che Gesù viene proclamato in se stesso “vicinanza di Dio”. Questo fatto ha portato la Chiesa delle origini alla fede in lui, poiché specialmente nella sua morte Dio si era veramente fatto uomo in pienezza (la croce in tal senso può essere ben intesa come il compimento dell’incarnazione del Figlio e della sua kenosi), e nel rapporto con lui, morto sulla croce, aveva dimostrato il suo comportamento divino. «La predicazione della risurrezione di Gesù parla di questo. annuncia ciò che è avvenuto nella morte di Gesù. Ma non si x. Tilliette critica in qualche modo questa posizione di jüngel, così come critica la posizione analoga di j. Moltmann, perché è convinto che per la fede cristiana il vero archetipo escatologico è il Cristo in croce, e che proprio dal Crocifisso promana quella “luce oscura” capace di rischiarare coloro che lasciano questo mondo. Nell’abisso scavato dal grido del redentore il cristiano che muore è chiamato ad immergersi perché anche la sua morte possa essere illuminata. Ebbene, proprio questa morte di Cristo, nella sua solitudine unica, è tuttavia esaltata, trionfale, come la morte dei martiri e non come la manifestazione di un’estrema disperazione (cfr La settimana santa dei filosofi, Brescia 1992, 94-101 e soprattutto Morte e sopravvivenza, in Morte e sopravvivenza, ed. G. Lorizio, roma 1995, 46-47). 110 Cfr E. jüNGEL, Morte, cit., 151. 111 Cfr l. c. 109

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limita ad annunciare; dà insieme la possibilità di parteciparvi. Chi crede prende parte a ciò che è avvenuto in Gesù»112. La morte di Gesù è dunque un fatto estremamente serio perché mette Dio stesso in contatto diretto con la morte. Mentre nell’aT questa significava mancanza di rapporti ed estrema solitudine, «poiché Dio appariva infinitamente lontano dalla morte e per nulla toccato dalla irrelazionalità mortale, nella morte di Gesù egli invece subisce il contatto della morte. Identificandosi con Gesù morto, Dio si è realmente esposto all’estraneità aggressiva della morte, ha esposto la sua divinità alla potenza della negazione»113.

La morte di Gesù non è dunque un fatto che ha riguardato esclusivamente l’uomo-Gesù nella sua componente corporea e nella sua materialità, lasciando del tutto impassibile e indifferente la divinità, ma ha determinato anche un coinvolgimento dello stesso Dio che nel suo Figlio morto non solo ha sfiorato la morte, ma è persino penetrato in essa. La Vita si è inabissata nel baratro della morte e non si è smarrita nella sua oscurità, ma dal di dentro ne ha infranto il dominio e ne ha umiliato il potere. Il Dio che si abbandona alla morte maledetta del peccatore è proprio il Dio che assume su di sé l’ateismo e il peccato dell’uomo grazie alla sua identificazione con Gesù morto per contrastarli e annientarli. Ecco cosa ha di diverso la morte del Nazareno! Essa è la morte di colui che è l’Emmanuele, di Dio fattosi carne e mondo; il Dio, cioè, che è con l’uomo peccatore e condivide con lui il suo cammino verso la morte. La morte dell’uomo ha perciò un significato cristologico e teologico insieme, e proprio per questo ha un reale valore soteriologico che ne muta dal di dentro il senso puramente naturale. a questo si aggiunga, comunque, che «non Dio si è lasciato riconciliare dalla morte di Gesù; è lui, al contrario, che ha riconciliato a sé il mondo smarritosi nella sua alienazione»114. Partecipando così alla morte di Cristo, in cui Dio si è identificato con colui che viene ucciso, avviene anche per il cristiano la “morte della morte”: questa è l’eternizzazione della vita vissuta (tutto quello che l’uomo è stato ed ha vissuto, tutta la contingenza che lo ha caratterizzato), cioè la sconfitta della morte come irrelazionalità 112 113 114

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Ibid., 149. Ibid., 156. Ibid., 161.


totale (tutto l’essere passeggero e mortale dell’uomo è assunto in Dio e in lui e per lui partecipa alla vita eterna)115. Per jüngel, in definitiva, il compito che la fede cristiana ha di deplatonizzare la stessa morte è possibile solo nella misura in cui la teologia cristiana abbandona definitivamente la concezione greca della cosiddetta “morte amica”, perché liberazione definitiva dal carcere del corpo e dalle grinfie della materia che tiene incatenato lo spirito, e rilegge questo mistero attraverso l’esperienza di morte vissuta da Cristo stesso sulla croce, consegna e abbandono, tenebra e luce. K. rahner, sebbene sia perfettamente consapevole che riguardo al tema della morte e del morire il teologo, chiamato a dire la propria dopo il filosofo e lo psicologo, si trova in grande difficoltà, in quanto in realtà nessuno, egli compreso, è in grado di parlare di questi eventi senza che prima li abbia sperimentati nel corpo e nell’anima116, nel suo saggio Sulla teologia della morte raccoglie tuttavia la teologia tradizionale su questa questione attorno alla tesi della morte come fine dello status viae e come castigo del peccato, e tenta di suggerire delle riflessioni utili per la comprensione della realtà della morte117. Soprattutto questo secondo aspetto rivela il grigiore della morte, poiché questa non appare unicamente come il “furto” della vita, di quell’esistenza a cui l’uomo è naturalmente ed Cfr ibid., 163; 173. Proprio perché la morte è l’evento dell’irrelazionalità che interrompe le relazioni vitali, secondo jüngel la morte dell’altro ci riguarda sempre e in ogni caso, diventa addirittura la nostra stessa morte, a seconda del grado di coinvolgimento che abbiamo con lui (ibid., 164). 116 Cfr K. raHNEr, Su una teologia della morte, in ID., Nuovi Saggi, V, roma 1975, 241. In tal senso, fa notare il teologo, soprattutto riguardo a questo argomento le diverse interpretazioni che se ne possono dare non posseggono affatto una obiettività puramente assertiva e costatante, ma partecipano di quella stessa oscurità che contraddistingue la morte (ibid., 244). 117 Oltre a questa opera fondamentale, rahner ha dedicato altri studi alla questione della morte: La morte cristiana, in ID., Nuovi Saggi, II, roma 1968, 347-356; Lo scandalo della morte, ivi, 177-182; Considerazioni teologiche sul subentrare della morte, in ID., Nuovi Saggi, IV, roma 1972, 389-404; Su una teologia della morte, cit., 241-265; Morte, in Sacramentum Mundi, V, Brescia 1976, 531-539; Il morire cristiano, in Mysterium Salutis, x, a cura di j. Feiner – M. Löhrer, Brescia 1978, 557-594. Per l’approfondimento dell’articolato pensiero di rahner sulla morte si rimanda all’ampia ricerca di S. zUCaL, La teologia della morte in Karl Rahner, Bologna 1982. Si vedano pure C.F. SCHICKENDaNTz, Situación de la investigación sobre el tema de la muerte en Karl Rahner, in Stromata 55 (1999) 115137; a. MarraNzINI, L’ultima esperienza di un teologo, cit., 355-384; G. CaVaLCOLI, Morte e risurrezione nel pensiero di Karl Rahner, in Sacra Doctrina 43 (1998) 28-71. 115

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essenzialmente legato, ma anche come la separazione da Dio stesso che è la sorgente della vita. Il contributo del teologo tedesco ha dato un apporto decisivo per la comprensione della morte come questione umana e dell’uomo, e quindi di riflesso come questione teologica, prima ancora che come fatto fisicoorganico scientificamente osservabile. Nella sua concezione della morte è indubbia l’influenza heideggeriana, e per alcuni versi non potrebbe essere altrimenti, sebbene è anche vero che quanto gli proveniva dalla riflessione del filosofo esistenzialista è stato da lui ampiamente rimeditato. Egli ha offerto una riflessione innovativa, poiché fino a qualche tempo fa la teologia poneva l’accento sul “dopo” la morte, sull’aldilà che viene schiuso dalla morte umana, e non tematizzava l’evento della morte in sé. Ciò che conta non è tanto la morte compresa come punto finale dell’esistenza, quanto piuttosto come evento che qualifica l’intera esistenza dalla nascita. È il tema dell’essere-per-lamorte tipico di Heidegger, arricchito dalla personale impronta rahneriana. In questo quadro è proprio rahner che con la sua tesi circa la prolixitas mortis presenta la morte come una realtà perennemente presente nella vita dell’uomo, poiché ogni momento della vita è in sostanza un tratto verso la meta finale e già la porta essenzialmente in se stesso. La vita stessa è una vera morte, e quella che comunemente viene chiamata morte in verità è la fine di quel lungo morire che si verifica durante il corso dell’intera esistenza e che raggiunge il suo punto terminale nell’istante mortale. In tal senso, la prolixitas mortis, che consente al teologo di saldare in un rapporto inscindibile la morte e la libertà umana, non è altro che la vita vista come ambito in cui incombe costantemente e si approssima la morte, una morte di fronte alla quale l’uomo è chiamato continuamente a prendere posizione mediante l’esercizio della propria libertà118. In questo modo «la morte dell’uomo è l’avvento della storia compiuta dalla libertà dell’uomo dinanzi al mistero assoluto, dinanzi a Dio»119; la morte è così l’avvento dell’uomo di fronte a Dio, ciò che permette all’uomo di raggiungere la fine dell’incompiuto, di conseguire quella pienezza che gli si fa dono e offerta e che è Dio stesso. Quanto è rifiutato dagli stati più superficiali della coscienza, cioè la morte, è allora atteso e desiderato dall’intimo dell’uomo, dalle dimensioni più profonde del suo cuore che tendono alla pienezza e all’assoluto. 118 119

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Cfr K. raHNEr, Sulla teologia della morte, cit., 253. K. raHNEr, Considerazioni teologiche sul subentrare della morte, cit., 401.


È ancora rahner che con la tesi della “pancosmicità dell’anima” tenta di superare la concezione della morte — ritenuta di stampo platonico — come separatio dell’anima dal corpo. Per lo strettissimo rapporto che lega questi due elementi e principi, il teologo è convinto che la morte possa sì modificare la loro relazione, ma altresì non sia assolutamente in grado di annullarla, là dove la persona venga intesa come spirito incarnato e non come mero spirito unito estrinsecamente al corpo e perciò alla materia. La corporeità trasfigurata diventerebbe così capace di far apparire concretamente lo spirito, e il corpo della trasfigurazione diverrebbe una pura espressione della cosmicità permanente della persona trasfigurata. La morte non è un evento che riguarda esclusivamente il corpo, perché ammettere ciò significherebbe ritornare ad uno schema rigidamente dualistico e platonico ormai non più assolutamente riproponibile120. Certo non viene negata l’immortalità dell’anima, ma viene affermato chiaramente che, data l’unità sostanziale dell’uomo, la morte non risparmia neppure l’anima, la quale dopo la morte vive una situazione radicalmente diversa da quella della vita terrena: con la morte l’anima, unitamente al trauma subito a causa della scissione dell’unità sostanziale dell’uomo, guadagnerebbe allora un nuovo e immediato rapporto con il cosmo perché oramai non più legata alla determinazione del corpo umano e condizionata dalla sua mediazione121. 120 La teologia, precisa il nostro autore, afferma con chiarezza che «la realtà della morte verrebbe misconosciuta se, in forza di una dicotomia antropologica, si pensasse che essa riguarda soltanto il cosiddetto corpo dell’uomo, mentre la cosiddetta anima […] potrebbe guardare dall’alto, imperturbabile e non toccata, lo svolgimento del destino del cosiddetto corpo», per queste ragioni, continua rahner, è necessario comprendere più che mai che «l’uomo è uno nel suo essere e nel suo agire e la morte lo riguarda tutto» (Su una teologia della morte, cit., 255). In un altro contesto rahner affronta lo stesso argomento ed afferma che l’oggetto della domanda che il teologo è chiamato a porsi è la morte dell’uomo, che non è solo una vita materiale-biologica, ma anche autocoscienza, persona, libertà, responsabilità, amore, fedeltà, è in definitiva storia. Ebbene, si chiede rahner, non è possibile rispondere al quesito posto dalla morte «constatando da un lato la fine della vita biologica e dall’altro facilitandosi la soluzione del problema col ricorrere ottimisticamente al modello delle due parti da sempre tra di loro indipendenti e solo casualmente legate» (Considerazioni teologiche sul subentrare della morte, cit., 399) per cui la morte umana verrebbe ad essere ridotta alla semplice constatazione della fine biologica del composto umano, e non direttamente al dramma vissuto dall’intera persona. 121 Cfr K. raHNEr, Sulla teologia della morte, cit., 25-26; 30. Questa tesi accolta con favore da diversi teologi (vedi ad esempio L. Boff e M. Bordoni) ed avversata da altri (vedi ad esempio j.L. ruiz de la Peña), sarà in un secondo momento rivista in alcuni punti dallo stesso teologo che si accosterà sempre più alla posizione di G. Greshake circa la risurrezione

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È anche importante quanto rahner afferma circa il carattere “velato” della morte. Essa si pone sempre al di là di qualsiasi possibile esperienza empirica o di conoscenza da parte dell’uomo, e perciò stesso è al contempo la più nota e la più problematica delle realtà quotidiane con cui l’uomo si incontra personalmente122. La morte permane infatti nella sua irriducibile e paradossale complessità e sfugge a qualsivoglia tentativo di essere pienamente com-presa da parte di chi è ancora in vita. L’uomo non sarà mai in grado di dire esistenzialmente in modo univoco il senso del proprio morire, perché la morte rimane pur sempre una realtà in fondo contraddittoria in cui s’incontrano fine e compimento, azione e passione, sorte e libertà, essere-presi-completamente-in-possesso ed essere-tolti-a-se-stessi, depersonalizzazione e smarrimento, ma anche pienezza dell’essere se stessi e del darsi123. In questo senso, sebbene la morte sia ciò che più di ogni altra cosa riguarda direttamente l’uomo, questi sa che «non è possibile comprendere col pensiero la propria morte (così come non è possibile comprendere Dio), ridurla in proprio potere e manipolarla. Il pensiero, che sempre tende a mettere a propria disposizione le cose pensate, nel caso della morte fallisce»124, in quanto essa è la contraddizione più radicale e assurda dell’esistenza. Di fronte alla realtà ambivalente e velata della morte, l’uomo sente tutto l’orrore e l’angoscia che essa incute perché in essa egli decide del proprio destino di salvezza o di perdizione. Proprio perché la morte conserva sino alla fine il suo carattere “velato”, il messaggio del cristianesimo non ne offre una spiegazione “razionalistica”, «i suoi enunciati sulla morte possono venir correttamente compresi solo nel contesto delle affermazioni della fede su Dio. Tali affermazioni si muovono sull’orlo dell’ine-

nella morte (cfr K. raHNEr, Prefazione a S. zUCaL, La teologia della morte in K. Rahner, cit., 8). Nitrola, solo per fare un esempio, condivide nelle sue linee fondamentali questa posizione e precisa che intesa in questo modo la morte appare sì come la fine della contingenza dell’uomo, storicamente considerato e condizionato, ma anche come l’inizio di un suo rapporto nuovo, e per molti versi inedito, non più compresso dalle categorie spaziotemporali, con quel mondo a cui precedentemente era legato attraverso il corpo e la sua indispensabile mediazione (cfr a. NITrOLa, Escatologia, Casale Monferrato 1992, 123). 122 Cfr K. raHNEr, Considerazioni teologiche sul subentrare della morte, cit., 392. 123 Cfr ID., Sulla teologia della morte, cit., 38-39. 124 ID., Su una teologia della morte, cit., 256.

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sprimibilità che ha per oggetto il mistero ineffabile, che chiamiamo Dio»125. Per questa ragione il messaggio del cristianesimo non offre una spiegazione “razionalistica” della morte, «i suoi enunciati sulla morte possono venir correttamente compresi solo nel contesto delle affermazioni della fede su Dio»126. Essa è perciò sia la fine come anche il fine dell’esistenza. È insieme interruzione e compimento poiché rimanda alla dialettica intrinseca di ogni libertà umana di essere disposta e di disporre di sé. Nella morte e nel morire, infatti, eventi in cui il cristiano si trova a esperimentare la situazione unica e più radicale della speranza (nella morte il cristiano deve essere più che in ogni altra situazione esistenziale colui che spera), il morente «che possiede in libertà la sua vita, chiede inevitabilmente alla morte di essere la totalità concentrata della sua libera azione svolta durante l’esistenza, in cui tutto il suo passato si concentra»127. Se è vero che la disperazione è in sostanza la radicale mancanza di ogni via d’uscita, il vicolo cieco in cui l’uomo viene a trovarsi soprattutto quando è posto di fronte al mistero della morte, della propria morte, è anche vero che in essa è possibile rintracciare la situazione propria e necessaria della speranza cristiana, in quanto proprio la disperazione, intesa come assenza di soluzioni umane al sopraggiungere della morte, costituisce il presupposto per la possibilità della speranza in senso strettamente teologico. La speranza, infatti, «è possibile solo là dove siamo radicalmente alla fine, dove la possibilità di agire da noi è arrivata realmente al termine […], dove siamo completamente abbandonati, dove ci viene sottratta anche la possibilità di un eroismo della fede o di una apateia stoica o di una protesta selvaggia contro l’assurdità dell’esistenza»128. Ma l’esercizio teologale della speranza da parte dell’uomo, come esercizio massimo anche della sua libertà e della sua decisione per Dio e in lui per la vita eterna, deve essere collocato nel corso della vita e perciò nel morire, e non tanto in quel punto di “vuoto assoluto” che è la morte, in cui l’uomo sperimenta l’impotenza assoluta e deserta in cui non sempre c’è spazio e possibilità perché egli possa compiere un atto dell’uomo129. Nel corso della sua esistenza e

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ID., Considerazioni teologiche sul subentrare della morte, cit., 401. L. c. ID., Su una teologia della morte, cit., 256. Ibid., 257-258. Cfr ibid., 258.

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soprattutto nel suo morire egli potrà trovare lentamente, per la grazia di Dio, il “giusto mezzo” tra la reale e definitiva disperazione che la morte porta con sé, e l’illusione apposta creata per sfuggirla. Questo “giusto mezzo” per rahner consiste proprio nell’abbandono che il morente compie nella fede, con amore e con speranza, al mistero incomprensibile che nella morte si dischiude e agisce e che è il Dio della speranza130. Il significato primario della morte è inoltre quello di evento naturale che avrebbe ugualmente raggiunto l’uomo anche nel caso in cui questi non fosse incorso nella colpa originaria. Con il peccato essa ha tuttavia acquisito un altro senso, che si aggiunge al primo, e che ce la fa comprendere e sperimentare come evento drammatico e doloroso, come ‘morte’ che insidia l’uomo sin nella sua essenza. La morte dopo il peccato può essere perciò un evento di salvezza, ma può assumere anche il carattere di un evento di perdizione, di rottura di comunione con Dio e con gli altri. Che si verifichi un esito piuttosto che l’altro dipende dal fatto che l’uomo vive la morte di Cristo o quella di adamo. La semplice osservazione empirica e l’indagine fenomenica non riusciranno mai a discernere perfettamente tra le morti che avvengono nel Signore e quelle che avvengono nel peccato, ecco perché sino alla fine la morte conserva un carattere essenzialmente velato e nascosto131. La morte, inoltre, non può non avere un’impronta intrinsecamente cristologica. Per questa ragione, così come è avvenuto per il Crocifisso, sarà segno tragico dell’abbandono di Dio («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Mc 15,34) e momento i cui si realizza in pienezza l’abbandono in Dio («Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» Lc 23,46). Essa è perciò ancora passione ed azione, termine e compimento, solitudine e comunione. La teologia non potrà disfarsi di nessuna di queste coppie di elementi e non potrà oscurare nessuno di questi due aspetti perché rappresentano le due facce di un’unica medaglia, ma dovrà mantenere vivo il carattere inconciliabile e irriducibile della morte132. Questa rimane un oscuro mistero, e soltanto nell’apparizione gloriosa di Cristo alla fine dei tempi si potrà vedere compiuta la profezia dell’apocalisse: «Non ci sarà più la morte» (ap 21,4), poiché ciò che completa e dà forma al discorso sulla

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Cfr ibid., 262. Cfr ID., Sulla teologia della morte, cit., 33-36. Cfr ibid., 30.


morte è la presentazione del suo carattere cristologico: la morte del credente come con-morire con Cristo e risorgere con lui133. L’incontro dell’uomo con Cristo e l’innesto nella sua vita e nella sua morte, si realizzano poi in tutti gli atti con cui il credente accoglie e dà il proprio assenso alla grazia di Dio, ma soprattutto si verificano nella vita sacramentale, e in particolare nella celebrazione del battesimo, dell’Eucaristia e dell’unzione degli infermi. Per rahner è comunque importante sottolineare come per la tradizione ecclesiale anche il martirio, affrontato liberamente e per fede, rappresenta una forma privilegiata, forse la più alta, con cui il credente associa la propria fine a quella di Cristo: il martirio, evento in cui appare ciò che l’uomo deve essere ed è chiamato ad essere veramente, ha in tal senso un valore “supersacramentale” perché è 133 alla luce di questo mistero — fa notare Nitrola a commento del pensiero di rahner — la morte «da segno del no è diventata, realmente, segno del sì a Dio, nell’atto di ubbidienza totale e finale, ma in questo anche del sì all’uomo, liberandolo da ciò che lo teneva sotto scacco» (a. NITrOLa, Escatologia, cit., 128). È nella morte, dunque, che l’uomo può finalmente disporsi perfettamente verso l’Indisponibile, verso l’eschaton stesso, poiché essa è la situazione più radicale della speranza in cui egli può riprendere in mano l’intera esistenza personale e consegnarla definitivamente e totalmente a Dio. Bof avanza qualche riserva su questa visione quasi “lineare” e “ammortizzata” della morte, e ricorda che essa rimane pur sempre ciò che sopravviene “tamquam fur et latro”, per cui ha in sé la possibilità di disattendere qualsiasi compimento atteso e sperato, può anche non coincidere con il raggiungimento della maturità spirituale della persona e con il pieno esercizio della sua libertà. Per il teologo italiano la dimensione kenotica della morte deve essere tenuta presente unitamente a quella di pienezza e compimento. Infatti, il primo aspetto, quello strettamente fenomenico con cui la morte si presenta, è quello di sottrarre l’uomo dall’ambito nel quale è posto (relazioni con gli altri uomini e con gli altri enti) e quindi quello che interessa direttamente la mondanità stessa dell’uomo. Bof intende perciò trattare il tema della morte nel quadro dell’antropologia teologica. Per la Scrittura il senso più preciso e compiuto della morte è attingibile unicamente nel contesto dei rapporti che intercorrono tra l’uomo e Dio, in particolare come momento determinante di questi rapporti, segnato di profonda negatività (l’uomo che muore in adamo, lontano da Dio) o di una più profonda positività (l’uomo che muore in Cristo, in perfetta comunione con Dio). La morte è intimamente connessa alla separazione da Dio, all’opposizione a lui; per questa ragione è il segno più tragico e distruttivo del peccato e non solamente uno dei suoi effetti. Nella morte, infatti, proprio per il suo nesso con il peccato, si sperimenta il distacco da Dio e insieme il distacco di Dio: al “no” del peccatore detto a Dio, si contrappone il “no” di Dio pronunciato in Cristo contro il peccato e contro una vita che si ribella alla sua sorgente. Nella prospettiva cristiana, però, la morte acquista un senso inedito e diventa essa stessa il “luogo” della grazia come liberazione dal peccato. La morte addirittura diventa per l’uomo stimolo al timor di Dio e lo spinge al riconoscimento della sua trascendenza e della propria creaturalità e relatività (cfr G. BOF, Morte, cit., 612-613).

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la suprema manifestazione del morire con Cristo e del risuscitare con lui, e proprio per questa ragione, la sola plausibile, soprattutto nella Chiesa primitiva esso era particolarmente desiderabile134. H.U. von Balthasar nella sua Teodrammatica parla della morte soprattutto quando presenta l’ultimo atto del dramma in cui Dio opera per l’uomo e verso l’uomo come dramma trinitario, in particolare della situazione dell’uomo nel subabbraccio del Padre e della sua esistenza nella vita e nella morte di Cristo, ma anche quando parla dell’”azione”, e in particolare dell’orizzonte della drammaticità dell’agire umano e degli elementi fondamentali che costituiscono una teologia cristologica della storia135. Per l’uomo la morte è insieme il limite più estremo della sua esistenza e la sua più intima certezza, poiché egli partecipa al divenire e al perire biologico di tutta la vita cosmica. Il morire gli appare come la più ovvia e familiare delle cose, ma nello stesso tempo, proprio perché egli guarda più in alto verso la norma dell’assoluto, la riconosce e agisce in conformità ai suoi dettami, egli vede nella morte ciò che lo riporta nuovamente davanti alla soglie del mistero e all’interna contraddizione della sua esistenza136. In quanto fa parte della complessiva vita organica del cosmo ed è egli stesso il prodotto di questa vita, la sua morte ha un carattere quotidiano, è un semplice caso di morte in mezzo a tanti altri innumerevoli casi di morte; ma in quanto egli si rapporta spiritualmente ed essenzialmente alla propria morte, e soltanto lui può farlo, allora la sua morte non è più soltanto un caso tra tanti, ma è l’incontro estremamente solitario con il proprio “io” posto nella condizione più inspiegabile e più vitale: l’uomo è il solo, infatti, che riconosce nella morte la sua morte, la

Cfr K. raHNEr, Sulla teologia della morte, cit., 94. Cfr H.U. VON BaLTHaSar, L’uomo nel subabbraccio, in ID., Teodrammatica, V: L’ultimo atto, Milano 1986, 277-316; ID., Il tempo e la morte, cit., Milano 1986, 91-125; ID., Duello della morte, in ID., Teodrammatica, IV: L’azione, Milano 1986, 452-466. 136 Cfr ID., Il tempo e la morte, cit., 109-111. anche altrove il teologo propone queste riflessioni quando, parlando della perfettibilità dell’uomo e in particolare dell’uomo nella contraddizione che si rivela proprio nell’impefettibilità dell’essere, tratta anche della contraddizione massima che riguarda l’essere umano, ovvero la morte, che manifesta in maniera chiara l’impossibilità di compimento della persona sino all’assoluta contraddizione, «poiché la corruzione che essa comporta cancella qualsiasi speranza rimasta vagamente sospesa» (ID., Il tutto nel frammento, cit., 47). 134 135

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morte che lo riguarda personalmente, che lo raggiunge nella sua solitudine e lo interpella137. La morte che si distingue dal “caso” che accade migliaia di volte ogni giorno, in tutte le parti del mondo, per tutte le categorie di uomini e di donne, è la morte con cui si incontra, solitario, l’uomo nella propria morte. Infatti «esiste la “nostra morte”, la morte generale come l’evento più quotidiano, la morte degli anziani e talvolta dei giovani, la morte negli ospedali, sugli avvisi funebri, la morte degli incidenti e dei crimini, delle guerre e dei lager. Esiste questa morte collettiva che non è più quella ogni volta mia, assolutamente isolata […] “Si muore” appunto […]. È la morte intorno a cui gli uomini gesticolano allo stesso modo che si affaccendano intorno alla generazione e alla nascita»138. Questa, morte, si potrebbe aggiungere, da cui si distingue quella che l’uomo inesorabilmente sperimenta come sua, come parte della sua esistenza, è anche quella che è stata definita massmediale, a cui si assiste, di cui in parte si partecipa, ma che non raggiunge nel profondo il singolo, lo spettatore, non lo interpella perché questi non la percepisce come anche la propria morte, la morte che lui stesso deve vivere e morire. Le domande che l’uomo si pone di fronte a questa morte che lo interpella e lo interroga, hanno anch’esse bisogno di una risposta che nessuna scienza o nessun sapere potranno mai dare. Solo Dio può offrire una risposta esauriente, e può farlo non tanto dall’esterno, come sovrano che guarda dal suo trono il dramma cosmico che si svolge sotto i suoi piedi, «ma come un coattore quasi in incognito il quale vuole coesprimere non soltanto la finitezza con la sua gioia e il suo dolore, bensì la stessa fine, la catastrofe e la morte»139. Questo è l’annuncio centrale della fede cristiana: Dio ha pronunziato la parola-risposta al dramma della morte calandosi nel finito e perituro; egli si è caricato della “nostra morte” (che appartiene alla natura umana in quanto specie) e di quella morte che l’uomo percepisce come sua e verso la quale angosciato si muove140. Nella morte che Cristo ha patito e che ha

Cfr ID., Il tempo e la morte, cit., 113-114. Ibid., 118. 139 Ibid., 122-123. Dio stesso, in mezzo all’interrogativo dell’abbandonato (“Mio Dio, perché mi hai abbandonato?”) esprime la sua risposta che è l’unica possibile e valida. Tutte le altre possibili risposte tentate dall’uomo e dal suo ragionare, denunciano da se stesse la loro sostanziale inconsistenza (ibid., 125). 140 Cfr ibid., 123. 137 138

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liberamente accolto — egli che è la parola-risposta di Dio nel ventre della morte dell’uomo — è possibile ritrovare tutte le note essenziali di una morte umana141. Essa è stata la sua assoluta autodedizione al Padre e la sua consegna a lui, senza riserve e senza limiti. Nella consegna che di sé l’Inviato fa all’Inviante si realizza quel subabbraccio in cui sono incluse e raccolte tutte le morti di coloro che muoiono e che sperimentano la morte come rottura odiosa e fine inesorabile e dolorosa dell’esistenza. «Il Figlio di Dio — afferma il teologo svizzero — portando in se stesso e superando la tenebra di ogni falsa morte, si consegna all’interno di questa tenebra nelle “mani”, per ora inavvertite, del Padre che l’aveva mandato»142. La morte che Gesù ha dovuto subire è stata la morte come sorte inesorabile dell’uomo, quella morte che deve essere vinta in tutte le sue dimensioni attraverso un “plus di mortalità”, cioè consumata in tutta la sua interna essenza, “ingoiata” da qualcosa che la sovrasta e la ingloba. È la morte che Gesù ha affrontato non solo attraverso un’azione compiuta e una decisione presa, ma che ha atteso oscuratamente per il compimento della sua “ora”. Egli non ha vissuto la propria morte ad imitazione di coloro che se la procurano per amore della giustizia del mondo, quasi si trattasse di una impresa titanica, ma come la sventura e la colpa del mondo che egli si è caricate sulle spalle in obbedienza filiale al progetto del Padre e nell’attesa dell’adempimento della sua “ora”. Gesù può allora patirla non tanto da eroe che si dimostra ancora in grado di sopportarla da sé, ma da servo sofferente che può reggere l’insopportabile unicamente perché agisce anche nel momento estremo della sua vita, così come era avvenuto per tutta intera la sua esistenza, in obbedienza alla volontà del Padre143. La confidente offerta che 141 La morte presenta diversi aspetti che possono essere illustrati attraverso il ricorso ad esempi tratti dal teatro drammatico: morte come infausto destino; come interprete della vita vissuta; come immanenza in ogni esistenza umana; come azione decisiva e vitale; come sostituzione per altri. Questi aspetti si potrebbero poi ridurre a tre dominanti: la morte come destino (ciò che continuamente incombe sull’uomo dall’esterno come qualcosa di sinistro); la morte come immanente ad ogni istante vitale (interpretazione autentica della vita); la morte come atto conclusivo, onnicomprensivo al pari dell’amore che si pone in assoluto. Tuttavia, in qualunque modo la morte si presenti (come interprete della vita vissuta o come l’atto estremo del vivente che si dona) essa rimane pur sempre un destino amaro per tutti i viventi, una scure che si abbatte su ogni vita umana e il cui significato si sottrae alla disponibilità dell’uomo (cfr ID., Duello della morte, cit., 453-456). 142 ID., L’uomo nel subabbraccio, cit., 280. 143 Cfr ID., Duello della morte, cit., 457-459.

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Cristo fa di sé al Padre avviene quindi nelle tenebre dell’abbandono e del silenzio di Dio, ma anche nel conforto della prossimità del Padre e della sua solidarietà con il Figlio morente144. «L’abbandono introdottosi fra il Padre e il Figlio crocifisso è profondo, è mortale più di ogni altro possibile, temporale o eterno, abbandono di una creatura abbandonata da Dio»145 è un morire-via del Figlio dal Padre in quanto il Figlio è stato fatto peccato (cfr 2Cor 5,21) e può ora abbracciare tutto il mondo del peccato e sprofondarlo nell’abisso della sua obbedienza. Il Figlio muore al peccato del mondo di cui egli si è caricato, ma visto più in profondità — continua von Balthasar — «egli muore a Dio stesso, muore alla definitiva ripulsa da parte di Dio di ciò che è incompatibile con la divina essenza»146, e lo fa per amore (la sua morte è un “morire per”) e per la sua obbedienza kenotica che lo portano a subire il tormento immanente alla colpa del mondo. La morte dello sconfitto è non solo l’espressione dell’angoscia di ogni mortale davanti a Dio, ma proprio nel grido di abbandono sulla croce è soprattutto l’angoscia di Dio per l’uomo, la sua piena solidarietà con il suo destino di morte147. «La croce, in quanto abbraccio dall’alto e da sotto dell’”ultimo nemico, la morte”, [è ciò] che nella sua sconfitta già libera lo spazio per

144 Come già si è visto in jüngel, anche per von Balthasar è importante mettere in evidenza il fatto che «nella tragica, espiatoria sofferenza e morte di un uomo che è nello stesso tempo uomo e Dio, Dio stesso va incontro alla morte, si assoggetta con amore umile e umiliato al destino che governa il mondo degli uomini» (Il tutto nel frammento, cit., 60), perché negare questo significherebbe al contempo negare la verità dell’unione ipostatica, la verità dell’umanità e della divinità dell’unico Cristo. 145 ID., Duello della morte, 460. 146 L. c. 147 altrove lo stesso teologo, denunciando la debolezza delle soluzioni e dei tentativi di risposta che il mondo ha voluto offrire all’uomo sulla questione della morte e della fine inesorabile del cosmo, afferma che soltanto la via dell’amore, che trova compimento proprio in Cristo Gesù, è in grado di dare delle risposte ai perché dell’uomo sulla sua fine e su quella del mondo in cui egli vive e di cui vive. La morte del risuscitato, infatti, è una morte liberamente voluta per amore, nella quale la corruzione di ogni cuore, per la sua incapacità di amare, è superata, espiata, rimossa. Nella morte di Cristo, cioè, è avvenuto il capovolgimento del senso stesso della morte: in lui, infatti, un cuore umano, dall’inizio nell’intimo del cuore di Dio, è amorevolmente sprofondato nell’umano destino e lo ha superato dall’interno, vivendo la sofferenza della contraddizione della morte fino in fondo. Dall’abisso di vuoto e di abbandono, questo amore ha corrisposto all’assoluta gratuità dell’amore divino verso il mondo, per cui «il gesto rapace della morte violenta è superato nell’atteggiamento di abbandono del morituro» (ID., Il tutto nel frammento, cit., 60; ma anche 51-59).

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l’irruzione della luce eterna dentro l’estrema tenebra»148 e rischiara le tenebre di colui che muore “nel Signore”. La morte del credente è perciò falsa quando non è vissuta “nel Signore”; quando vuole, per così dire, svincolarsi dall’abbraccio divino perché ritenuto oppressivo e quasi invadente; quando è ancora assolutamente avvinghiata dal peccato e manifesta unicamente l’alienazione da Dio da parte dell’uomo peccatore. Dio non si arrende neppure di fronte ad una tale morte. La morte di Cristo, infatti, è sostituzione per tutte le morti peccaminose, e per questa ragione, come è stato detto, è l’autodedizione assoluta del Figlio al Padre in un abbandono di Dio e in un’impotenza «che subabbraccia qualsiasi possibile abbandono (da parte di Dio) ed impotenza dei peccatori»149. Nella sua morte Cristo abbraccia ogni morire-diviso-da-Dio dei peccatori, e gli dà un significato radicalmente diverso e nuovo. La lontananza da Dio che si era consumata nel peccatore a causa del peccato, ora viene superata dalla consegna di Cristo al Padre, in cui è contenuta la consegna di ogni peccatore. Tra le due situazioni c’è comunque un’incolmabile differenza e una irrisolvibile asimmetria, poiché il valore del morire “in Cristo” è infinitamente più grande del morire “in adamo”. attirando ogni morte di peccatori entro la sua assoluta dedizione al Padre, e solo a questa condizione, Gesù ne cambia il senso e il valore, facendone il “luogo” manifestativo dell’amore del Padre per il Figlio (e in lui per tutti i suoi figli), e la risposta d’amore del Figlio (e in lui di tutti i figli) al Padre che lo ha mandato. Nella morte di Cristo, infatti, trova la sua massima espressione nel tempo la figliolanza del Figlio e il profondo legame che c’è tra il Padre e il Figlio, seppure nell’estrema separazione dei due sulla croce e nell’abbandono del Figlio da parte del Padre. La consegna che di se stesso il Figlio fa al Padre proprio nella sua morte, manifesta perciò l’amore assoluto che lega i due anche sulla croce, ed è uno spiraglio aperto sull’essenza trinitaria di Dio come comunione d’amore150. Lo Spirito è il “garante” della reciproca dedizione tra Padre e Figlio perfino nella separazione della croce; egli ne è il testimone proprio mediante la sua stessa esistenza che così attua la dedizione del Padre e del Figlio151.

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ID., Duello della morte, 466. ID., L’uomo nel subabbraccio, cit., 280. Cfr ibid., 280-281. Cfr ibid., 283.


L’intero mistero pasquale di Cristo, tutta intera la “storia della consegna”, condensa la soteriologia cristiana, non solamente la sua morte o la sua risurrezione, poiché essa è un evento unitario e armonico, un “dramma” vissuto da Dio stesso che nel suo Figlio si è realmente coinvolto nella vicenda umana e non ne è rimasto come uno spettatore distratto. «La morte del Figlio è in sé già a tal punto adempimento dell’amore salvifico di Dio che egli porta già nascostamente in sé la risurrezione, [per cui] con il suo atto verticale di obbedienza al Padre egli apre orizzontalmente a tutte le morti la portata della risurrezione»152. Quest’ultima per Cristo non è un fatto inatteso e inedito, ma già è contenuta nella sua stessa morte vissuta come massima espressione del suo amore filiale. Per l’uomo in Cristo, essa rimane invece un dono gratuito ed una risposta esuberante da parte di Dio, resa possibile unicamente come partecipazione, altrettanto gratuita, alla morte e risurrezione di Gesù e alla sua donazione al Padre. La risurrezione è l’atto con cui Dio smaschera la debolezza della morte di fronte al suo amore, e nello stesso tempo la rivelazione del suo significato ultimo: soltanto alla fine si comprenderà appieno che la morte è ciò che permette all’uomo di avere l’estrema prova della gloria di potenza del Padre. alla felix culpa segue così la felice morte che ci consente di sperimentare in tutta la sua gloria la straordinaria potenza del Padre che risuscita i morti così come chiama alla vita le cose che ancora non sono (cfr rm 4,17). Il sacramento cristiano è ciò che rende possibile partecipare alla morte “subabbracciante” di Cristo. Infatti, la vita di coloro che sono stati associati mediante il battesimo al mistero pasquale di Cristo, è una vita escatologica, perché è stata incisa da Cristo e perché «è attraversata — non marginalmente ma centralmente — dalla radicalissima morte e radicalissima svolta verso la vita eterna»153. E questo perché oramai la morte, presente costantemente nell’intimo della vita del cristiano, è divenuta in se stessa, a causa del nuovo significato che le ha conferito Cristo stesso, un passaggio a quella vita eterna di cui il credente sente nostalgia e a cui aspira. Certo, non appare chiaro dalle argomentazioni di von Balthasar in che modo venga assolutamente salvaguardata la libertà dell’uomo di decidersi pro o contro Dio nella vita e anche nella propria morte. Nella predestinazione

152 153

L. c. Ibid., 286.

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dell’uomo in Cristo, infatti, non ci si può dimenticare che occupa un posto rilevante la libertà dell’uomo e la sua paradossale, ma reale, possibilità di decidersi contro Dio, di autosottrarsi al suo subabbraccio gratuito, libero e liberante. L’assunzione della morte umana da parte di Cristo nel suo subabbraccio, e quindi nel subabbraccio del Padre nei confronti del proprio Figlio, non compie infatti automaticamente quell’autoespropriazione di sé che il peccatore è chiamato a fare in comunione con Cristo. Nel mondo è ancora presente e operante, infatti, quel mysterium iniquitatis che seduce l’uomo, e che fa sì che non tutte le morti purtroppo avvengano effettivamente «in direzione del Dio vivente»154. Lo stesso teologo svizzero non può non ammettere questa verità tanto amara quanto ineluttabile, ed afferma che nello stato attuale la morte conserva indubbiamente il suo carattere “ambiguo” di punizione fino alla fine del mondo e alla risurrezione dei morti. Solo allora — continua von Balthasar — «si farà esperienza che il Padre può trasformare anche l’ultimo nemico, la morte, in vita eterna, il castigo in ricompensa sublime, la paura in beatitudine eterna»155. Cristo con la sua morte ci ha veramente riscattati dal peccato e dalla morte, ma non bisogna dimenticare che questa salvezza che egli ci ha acquistato — che precede, rende possibile e in cui è racchiusa la morte dell’uomo vissuta come dedizione libera e incondizionata a Dio — non viene comunicata e partecipata senza la libera adesione della persona e l’accoglienza della proposta di grazia che Dio le rivolge in Cristo, tanto meno se si incontra/scontra con il rifiuto dell’uomo. Il “sì” di Cristo rende possibili, genera, qualifica e assume tutti i “sì” degli uomini a Dio, ma non si sostituisce assolutamente ad essi, annullando il loro valore e il loro peso. È vero che il “sì” di Cristo converte anche tutti i “no” che i peccatori hanno detto a Dio, ma è altresì vero che ciò avviene sempre come estrema offerta di grazia e di vita liberamente date e liberamente accolte. Detto questo va aggiunto che un merito non certo trascurabile della riflessione balthasariana, unitamente al tentativo di inquadrare la questione della morte nel dramma trinitario e nel suo naturale contesto e rimando cristologico, è quello di aver fatto riferimento anche alla sua fondamentale dimensione ecclesiologica. In questo il teologo svizzero si trova particolarmente in

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Ibid., 293. L. c.


sintonia con la riflessione conciliare. L’incontro del morente con Cristo è incontro con la Chiesa suo corpo. Il «venir incontro sacramentale di Cristo al morente si verifica nella concretezza della Chiesa […]. Come tutti i sacramenti non vengono mai dati da un Cristo solitario, ma sempre con aggiunta della sua Chiesa, così la Chiesa è presente nell’ineliminabile solitudine del morire. Lo si vede nel modo più chiaro nel suo nucleo, la madre del Signore, che era presente “quando morì” e proprio per questo è pure presente sempre dove c’è uno che muore»156.

Questa visione ecclesiologica, implicante anche quella mariana, per la quale il nuovo adamo non opera senza la nuova Eva, rivela il carattere della misericordia che Cristo ha donato alla morte dell’uomo con la sua propria morte in croce vissuta come estrema espressione della sua pro-esistenza. E questo, conclude von Balthasar, benché nello stato attuale il morente nella sua solitudine continui a gustare qualcosa del carattere di giudizio proprio della morte, poiché ancora vive quella morte avvolta dall’oscurità che segnò anche la morte di Cristo sulla croce, essendone una partecipazione157. G.L. Müller da parte sua esprime l’intenzione di rileggere l’intera escatologia come autorivelazione del Dio trino nel compimento dell’uomo. La prospettiva trinitaria è infatti l’unica in grado di fornire la giusta direzione per la valutazione cristiana del destino dell’uomo e dell’universo. Queste felici premesse, che avrebbero fatto presagire un approccio rinnovato e davvero interessante alla materia escatologica, conducono tuttavia a conclusioni quasi scontate, forse un po’ debitrici nei confronti della riflessione del vecchio De novissimis; comunque non mettono sufficientemente a fuoco la ricchezza che potrebbe derivare all’escatologia cristiana se questa venisse compresa nella corretta angolatura trinitaria. Il discorso del teologo di Monaco rimane infatti fondamentalmente ancorato allo schema classico dell’escatologia e solo occasionalmente inserisce il discorso escatologico, e in particolare quello sulla morte, nel contesto più ampio della rivelazione trinitaria all’uomo nel modo del compimento. Il pensiero di Müller ha tuttavia diversi elementi interessanti che vale la pena sottolineare. 156 157

Ibid., 296. Cfr l. c.

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Dopo aver presentato per grandi linee i dati fondamentali della dottrina classica della Chiesa sull’escatologia e sulle questioni particolari concernenti il futuro dell’uomo e del cosmo (escatologia individuale e universale), nella presentazione sistematica il teologo bavarese espone il suo pensiero parlando della morte come della “ricompensa del peccato” e perciò come della radicale manifestazione dell’abbandono dell’uomo peccatore da parte di Dio. «Nella morte sperimentiamo l’inizio della perdizione; il terrore di fronte ad essa è l’ombra dell’inferno, cioè della perdita non più revocabile di una possibile trascendenza verso l’essere in Dio»158. È proprio questa la morte che Gesù ha assunto su di sé in nostra rappresentanza, lui che non aveva conosciuto il peccato. alla luce della morte di Cristo, la morte dell’uomo presenta il doppio carattere di giudizio sulla perdita di Dio e di libero abbandono nelle mani del Padre. Chi muore “nel Signore” diventa nell’amore una sola cosa con Dio ed eternamente e perfettamente rispondente a lui. La morte non segna un nuovo stato di cose solamente nel rapporto dell’uomo con Dio, ma anche nella relazione dell’essere umano con se stesso e con il mondo. L’anima umana, infatti, è ontologicamente segnata dalla relazione trascendente con Dio, dalla relazione con sé (nell’autointelligenza e nell’autodeterminazione) e dal suo rapporto con il mondo (sotto l’aspetto individuale e sociale). Nella morte, sostiene Müller, queste tre relazioni fondamentali assumono una diversa posizione tra di loro. Per quanto riguarda la prima, si può affermare che proprio nella morte l’uomo entra in un rapporto definitivo con il Cristo risorto nello Spirito, mentre per quanto attiene al rapporto con se stesso, egli è nello stato della certezza e della gioia per la propria salvezza. Infine, per quanto riguarda l’ultimo nesso, quello che l’uomo stabilisce con l’universo, «egli sta in una relazione naturale trascendentale, così come verso la comunità degli uomini sta nel reale rapporto soteriologico della solidarietà salvifica»159. Ciò che è importante, quindi, è ritenere la morte non tanto come un fatto “privato” che tocca direttamente e unicamente il singolo individuo, divenutone la preda del momento, ma come una situazione che si inserisce nella fondamentale struttura dell’essere umano, e in lui e per lui nella struttura stessa dell’universo. La perdita di significato della morte condurrebbe inevitabilmente alla perdita di significato di tutto ciò che è: 158 159

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G.L. MüLLEr, Dogmatica Cattolica, Cinisello Balsamo 1999, 676. ID., Dogmatica Cattolica, cit., 678.


la morte non è quindi una domanda su ciò che non è, o sul destino di ciò che non è più, ma è essenzialmente una domanda posta all’essere e sull’essere, sul senso dell’uomo e di ciò che lo circonda e in cui vive, e la teologia, ancora più della riflessione cosiddetta laica, non può assolutamente eludere questa questione. Per G. Greshake — il quale ripetutamente nelle sue opere manifesta la sua profonda insoddisfazione circa la trattazione di diversi punti dell’escatologia cattolica e si ripropone di ripensarli attraverso una lettura critica della testimonianza biblica e della tradizione ecclesiale — non soltanto la morte è presente nella vita, viene continuamente preannunciata e anticipata in essa attraverso vari indizi (soprattutto la sofferenza, la malattia, la perdita di una persona cara)160, ma anche la vita è presente nella morte, perché è soltanto la morte che dà compimento alla vita, la riscatta da quell’assurdo a cui sarebbe altrimenti destinata se non fosse costitutivamente orientata verso un termine ed una conclusione di pienezza161. Prima che intervenga la morte, infatti, la vita ha sempre un carattere di provvisorietà, è suscettibile di revisione, non ha cioè raggiunto la sua piena definitività. La morte è necessaria perché la vita sia significativa; la paura per la morte può essere vinta non tanto con la sua eliminazione — poiché la morte fisica fa parte della vita dell’uomo — quanto attraverso la speranza che si spinge al di là della morte, quindi soltanto mediante l’apertura alla fede e che la fede realizza162. La morte, se giudicata come delimitazione dell’esistenza temporale dell’uomo, non può essere di per sé la diretta conseguenza del peccato, poiché egli l’avrebbe saggiata (non subita) ugualmente e in ogni caso. La 160 a questo proposito G. Greshake aggiunge: «Il morire non è il fine ultimo e l’orizzonte della vita, così che essa venga ridotta a un esercizio in funzione della morte (ars moriendi) ma al contrario la vita, realtà onnicomprensiva, ha in sé il morire come momento intimo. Perciò la fede cristiana invita chi muore a guardare alla vita» (Ricerche per una teologia del morire, cit., 116). 161 Parlando della concezione della morte propria dell’aT, egli afferma che proprio la riflessione veterotestamentaria «conosce anche l’esperienza del dover morire prima che la vita sia totalmente realizzata e si possa portarla a compimento. C’è la morte improvvisa, prematura, la “cattiva”, la “morte nel mezzo dei giorni”, che già adesso invia agli uomini i suoi segni ammonitori. Malattia, miseria, affanni, solitudine, disperazione sono realtà della morte che già ora mettono le mani sulla vita, la riducono nelle sue qualità positive e la interrompono perfino precocemente» (G. GrESHaKE, Ricerche per una teologia del morire, cit., 110). 162 Cfr G. GrESHaKE, Breve trattato sui novissimi, cit., 47-50.

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conseguenza del peccato è piuttosto il modo in cui l’uomo ha esperienza della morte, avvertita come oscura e assurda rovina della vita163. «L’esperienza della morte del peccatore, e ciò vuol dire la concreta esperienza della morte di tutti noi, è quindi interamente determinata dal peccato. La morte non è più sperimentata in modo “neutrale”, cioè solo come termine temporale della vita terrena e come semplice passaggio alla vita beata con Dio, ma come qualcosa di minaccioso ed angoscioso […]. In questo senso la morte è conseguenza del peccato: viene sperimentata come assurdo, oscuro rovinare della vita, come una realtà inquietante, che è incerta e minacciosa e spinge l’uomo all’angoscia»164.

Tuttavia essa perde il suo intrinseco carattere negativo solo per la fede nella risurrezione dei morti, e non grazie alla semplice dottrina dell’immortalità dell’anima che non rappresenta di per sé il più genuino credo biblico. Infatti, «immortalità dell’anima e risurrezione del corpo sono in origine due immagini di speranza del tutto diverse, che propriamente non hanno nulla a che fare tra loro»165, poiché una pura sopravvivenza dell’anima in Dio dopo la morte non prenderebbe sul serio né la morte, né il superamento della morte stessa166. Secondo il parere di Greshake entrambe vogliono comunque a loro modo affermare che la vita dell’uomo Cfr ibid., 51. Ibid., 52. 165 Ibid., 53. 166 È interessante anche quanto Boff afferma riguardo alla morte intesa come vera rinascita dell’uomo, quale dies natalis in cui abbandona definitivamente il suo modo di essere corruttibile e temporale e si apre pienamente a Dio e al suo modo di essere. In tale contesto è chiaro come il teologo possa parlare della morte come del momento in cui si realizza la risurrezione, poiché con la morte l’uomo entra in un modo di essere in cui vengono abolite le coordinate del tempo e dello spazio. Secondo lui risulta superfluo e incongruente tentare di concepire qualche forma di attesa di una risurrezione supposta alla fine cronologica della storia, perché assolutamente inadeguata al nuovo modo di essere dell’uomo nell’aldilà. Egli cerca tuttavia di recuperare l’aspetto universale e cosmico della risurrezione dei morti mitigando la sua posizione iniziale e affermando che in verità la risurrezione nella morte non sarà del tutto completa sin quando anche il cosmo non avrà raggiunto la pienezza e la glorificazione, a motivo dello stretto legame che intercorre tra l’uomo e l’universo in cui egli è inserito e con cui si relaziona. Soltanto il nucleo personale dell’uomo partecipa perciò della glorificazione nella morte, mentre solo alla fine dei tempi egli raggiungerà in pienezza la gloria e sarà quindi totalmente risuscitato (Cfr L. BOFF, Vita oltre la morte, cit., 35. Il teologo studia a fondo questa questione 163 164

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non è posta nel segno del nulla, della mancanza di senso, della fine inesorabile e definitiva di ogni cosa, ma è sensata ed ha un fine più grande. Ciò che distingue la fede ebraica e soprattutto quella cristiana dalla dottrina dell’immortalità dell’anima è primariamente la convinzione che la ragione del superamento della potenza della morte non si trova nell’uomo (in particolare nella natura immortale della sua anima), ma nella forza di Dio, nella sua volontà di far vivere l’uomo e di mantenere fedelmente le sue promesse anche al di là dei confini della morte: è Dio che ha risuscitato Gesù dai morti e che per la risurrezione del Figlio continua ad esercitare la sua potenza “ridestatrice”167. È l’uomo intero che viene ridestato, così come è l’uomo intero che muore, la persona, la sua storia, le sue relazioni. «L’uomo porta nella sua morte la “messe del tempo”. Poiché nella morte corpo, mondo e storia non sono cancellati, ma restano per sempre iscritti interiormente nell’uomo, la speranza del superamento del limite della morte può e deve essere caratterizzata come risurrezione di tutto l’uomo e non come indistruttibilità dell’anima»168. In questo modo Greshake può aprire la strada alla sua ipotesi di risurrezione nella morte (Auferstehung im Tod). risurrezione non nel senso che il corpo visibile e fisico venga trasformato, ma nel senso che «nella morte l’uomo intero, con il suo mondo concreto e la sua storia, riceve da Dio un nuovo futuro»169 certamente non rappresentabile nello stato attuale. Forte anche della posizione che indirettamente perfino il Catechismo Olandese espresse riguardo al compiersi della risurrezione nella morte, Greshake respinge le critiche che vengono mosse alla sua tesi, accusata di ridurre la risurrezione ad un avvenimento meramente individuale che si compie sempre e soltanto nell’uomo singolo, a scapito della dimensione universale, collettiva ed escatologica della stessa. In particolare egli afferma che l’agire dell’uomo ha un effetto permanente e irrevocabile anche nella storia, e l’esercizio della sua libertà ha un significato irrinunciabile anche per lo sviluppo della libertà degli altri e dell’intera umanità. Inoltre, ciò che del singolo viene conservato in Dio, con la sua morte, è il suo soprattutto nella sua opera La nostra risurrezione nella morte?, assisi 1975 a cui si rimanda per ulteriori approfondimenti). 167 Cfr G. GrESHaKE, Breve trattato sui novissimi, cit., 56-57. a questo proposito si veda anche ID., Ricerche per una teologia del morire, cit., 114. 168 ID., Breve trattato sui novissimi, cit., 63. 169 L. c.

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rapporto con il mondo, la rete delle sue molteplici relazioni, ciò che egli ha costruito e ciò che ha contribuito, assieme agli altri, a costruire. La risurrezione nella morte non è perciò un evento individuale, quasi privato e riservato, perché il defunto mantiene sempre un rapporto stretto con il mondo e con gli altri uomini. Nella morte del singolo — afferma il teologo, richiamandosi qui, anche se sommariamente, al pensiero di rahner — un “pezzo” di mondo e di realtà mondana, compresa l’umanità e i rapporti che la caratterizzano, sono introdotti nella pienezza finale, in Dio, lentamente e progressivamente. Colui che risorge nella morte è l’uomo nel suo imprescindibile rapporto con gli altri e con il mondo. Il singolo raggiunge il proprio personale compimento nella risurrezione, in quanto fa parte di quel corpo più grande che è l’umanità intera e il cosmo: «La risurrezione non è dunque nulla di individuale, ma si pone in un processo universale in cui singolo e comunità, storia e compimento, sono e restano intrecciati l’uno all’altro, un processo nel quale l’intera realtà creata trova il suo adempimento»170. Le critiche mosse da molti teologi contemporanei a questa tesi sono tanto aspre quanto note171. Non posso in questa sede presentare tutte le difficoltà che genera questa posizione teologica sostenuta soprattutto da G. Greshake e G. Lohfink, per i quali la risurrezione inizia nella morte e continua sino alla fine della storia. La risurrezione escatologica sarebbe dunque il risultato di tutte le risurrezioni parziali e personali che si sono compiute nel corso della storia e nell’esistenza dei singoli individui. Basta solamente ricordare quello che già era stato in parte detto a proposito del pensiero di Greshake su questo punto controverso della riflessione teologica, e cioè che innanzitutto le argomentazioni addotte a sostegno di questa ipotesi teologica non sono per nulla suffragate dalla testimonianza della Scrittura, né tanto meno rendono giustizia all’importanza primaria che il NT assegna e riconosce alla dimensione comunitaria dell’escatologia, nonché alla dimensione escatologica della risurrezione e agli aspetti

Ibid., 65. Per una presentazione del dibattito suscitato dalla tesi proposta da Greshake, si veda tra l’altro: C. MarUCCI, Risurrezione nella morte? Esposizione critica di una recente proposta, in Morte e sopravvivenza, cit., 289-316; O.F. PIazza, Escatologia individuale e comunitaria: prospettive nella teologia recente, in aSSOCIazIONE TEOLOGICa ITaLIaNa L’escatologia contemporanea. Problemi e prospettive, edd. G. Canobbio – M. Fini, Padova 1995, 279-311; M.E. BOISMarD, La nostra vittoria sulla morte: ‘risurrezione’?, assisi 2000. 170 171

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esclusivi e particolari della risurrezione di Cristo rispetto alla risurrezione di tutti gli altri uomini. Inoltre, questa posizione, oltre a stabilire un legame estrinseco tra la morte/risurrezione personale e la risurrezione finale ed escatologica, lascia che la morte sia assolutamente assimilata dall’evento della risurrezione, nascondendone così il lato oscuro e drammatico, la negatività e la serietà in essa implicate e ineludibili. La posizione sostenuta da Greshake e da tutti coloro che ne hanno seguito le orme (in un primo momento questa tesi teologica che ha le sue radici prossime nel pensiero di alcuni teologi protestanti ha raccolto molti consensi anche presso altri teologi cattolici), rischia infatti di svalutare il significato escatologico della risurrezione, l’importanza dell’evento parusiaco per il compimento della salvezza e il suo significato universale, ecclesiale e cosmico. In particolare, almeno per quanto riguarda l’immagine della morte che ne deriva, si può soltanto aggiungere che questa tesi corre il pericolo di mascherarne la drammaticità poiché lascia che questo evento fatale della vita dell’uomo venga assolutamente assorbito dalla risurrezione. Questa ne attenua quasi del tutto, anzi ne azzera, i tratti inquietanti e tragici, il carattere oscuro e angoscioso che purtroppo la pervade e la segna. Una morte che coincide con la risurrezione-compimento perde infatti definitivamente e immediatamente quanto di negativo essa contiene e per ciò stesso viene falsata. Una corretta ed equilibrata comprensione dell’evento della morte deve invece tenere costantemente in tensione la duplice dimensione insita nella morte: compimento e pienezza da una parte, transito ed attesa dall’altra; adempimento del singolo e attesa della pienezza universale; retribuzione immediata e attesa della risurrezione della carne. Né una morte assorbita totalmente dalla risurrezione, né una morte “sopravvalutata” che rischia di sminuire l’importanza dell’intera esistenza dell’uomo, le sue scelte e opzioni storiche, può essere una morte veramente umana e dell’uomo, tanto meno una morte davvero cristiana. In sintesi è possibile concludere rivolgendo a Greshake su questa questione la stessa critica che egli aveva fatto ai sostenitori dell’ipotesi dell’opzione finale. Contro quella teoria teologica egli sosteneva infatti che «se la teologia non vuole smarrirsi in speculazioni inverificabili deve attenersi alla Scrittura»172 in quanto la sua testimonianza è il punto di 172

G. GrESHaKE, Ricerche per una teologia del morire, cit., 108.

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partenza per ogni discorso teologico e la verifica continua e critica dei suoi enunciati, compresi quelli sulla morte e sul morire dell’uomo. È ciò che è chiamato a fare anche quel teologo che fa pericolosamente coincidere morte e risurrezione sostenendo poi quindi l’ipotesi della risurrezione nella morte173. risulta di grande interesse anche la riflessione proposta da j. ratzinger, il quale è convinto che «la preoccupazione per la vita racchiude necessariamente un incontro anche con il fenomeno della morte. Prodigarsi per la vita umana significa anche venire in conflitto con la realtà della morte»174. La morte, in questo senso non è estranea alla vita, non è un punto fisso posto alla sua conclusione, un fatto che viene a contatto con la vita soltanto dall’esterno, lasciando che la vita continui ad essere soltanto vita, assolutamente vita. Invece lo stesso vivere è morire, «la morte è immanente alla vita, il processus del vivere come tale è anche il processus della morte dentro questa vita; di conseguenza tutta questa vita è un contemporaneo imbeversi della morte, nel suo movimento è sia un movimento di vita che di morte»175. Il cristianesimo ha perciò compreso che il fatto della morte non è qualcosa di solamente biologico, ma deve essere tradotto dall’uomo nella sua concreta esistenza: egli pone il fatto della morte come “demolizione” della propria autoaffermazione e come divenire di una libertà nuova dello spirito e del corpo, cambiandone così il suo senso e rendendo fruttuoso nella sua vita tale cambiamento. La morte, cioè, non ha luogo in un attimo, solo alla conclusione dell’esistenza dell’individuo, ma si realizza in tutti i “fallimenti” della vita: tutti questi insieme formano l’unica morte dell’uomo e la loro assimilazione permette a questi di passare all’esercizio della libertà per divenire l’uomo nuovo.

173 La Commissione Teologica Internazionale, seguendo in questo la stessa Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr Alcune questioni concernenti l’escatologia, cit., n. 1528 ss), sente il dovere di manifestare il suo deciso disappunto nei confronti di quelle teorie che «affermano la risurrezione nella morte, affinché non vi sia uno spazio vuoto tra la morte e la parusia. Bisogna confessare — continua il testo della Commissione — che in tal modo viene introdotto un tema sconosciuto al NT, poiché nel NT si parla sempre di risurrezione nella parusia e mai nella morte dell’uomo» (Alcune questioni attuali riguardanti l’escatologia, cit., 473). 174 j. raTzINGEr, Dogma e predicazione, cit., 232. 175 Ibid., 233.

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Questa accettazione e l’elaborazione spirituale del movimento della morte sono accettazione ed incontro spirituale con il battesimo che per l’apostolo Paolo vuol dire essere battezzati «nella morte di Cristo» (rm 6,3), per cui significa «unione della nostra morte con la morte di Cristo. Significa che noi entriamo nel mutamento di valore che la morte umana ha ricevuto dalla morte di Cristo. La nostra morte rivela dunque il valore di un parto, valore che noi non possiamo certo darle»176. La morte umana per il battesimo è la nascita del nuovo adamo, la metamorfosi dell’esistenza dell’uomo nel nuovo adamo. In tal modo, «l’intero processo del morire, se noi lo accettiamo nella fede, è il nostro reale venire battezzati, che giunge a compimento solo sul letto di morte»177. Dire che la morte è la conseguenza e la realizzazione massima del battesimo significa dire che essa è un avvenimento di grazia perché proprio in essa, quale atto giudiziario, Dio strappa l’uomo alla sua vita ribelle e lo conduce alla vita di santità e di amore. Il processo dell’amore è perciò strettamente congiunto a quello della morte proprio perché anche questa, come l’amore autentico, significa completa detronizzazione e radicale espropriazione del sé, liberazione dell’io dal proprio ego-ismo178. In questa riflessione ratzinger si mostra particolarmente attento alla tradizione della Chiesa che ha sempre messo in stretta relazione la morte cristiana con la dinamica sacramentale (soprattutto con il battesimo, l’Eucaristia e l’unzione degli infermi), e nella sua ultima importante opera dedicata alla tematica escatologica, Escatologia. Morte e vita eterna, afferma ancora una volta che in verità «la nostra definitiva morte corporale […] non è nient’altro che il giungere a termine del nostro battesimo. Teologia della morte è teologia battesimale, e teologia battesimale è teologia della morte»179. Egli si ricollega così immediatamente a quanto la teologia, in particolare quella ortodossa, ha da sempre messo in evidenza quando ha ammesso che nella morte avviene sostanzialmente e realmente quanto misticamente, e in maniera altrettanto reale, accade all’uomo e alla sua esistenza nella celebrazione dei sacramenti: il battesimo è l’inizio sacraIbid., 240. L. c. riprendendo a questo proposito un’espressione di P. althaus afferma che «nel battesimo c’è la stessa serietà che nella morte e nella morte c’è la stessa letizia del battesimo» (l. c.). 178 Cfr ibid., 242-243. 179 ID., Teologia della morte, cit., 240. 176

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mentale di quella morte che segnerà il passaggio definitivo dell’uomo alla vita eterna, e la morte è l’ultima opera di quella grazia battesimale alimentata dai sacramenti e soprattutto dall’Eucaristia180. In questo quadro la stessa morte è in un certo senso come il sacramento dell’abbandono di Dio e dell’abbandono a lui, della distruzione dell’uomo vecchio e della nascita di quello nuovo, della fine dell’uomo fatto di terra e del sorgere di quello celeste (cfr 1Cor 15). a queste importanti considerazioni che l’autore propone sull’imprescindibile rapporto che c’è tra la morte e la vita sacramentale della Chiesa si possono inoltre aggiungere altri apprezzabili contributi del teologo tedesco per la comprensione della morte dell’uomo. In particolare, ratzinger individua diverse fasi del recente sviluppo della teologia della morte, la prima delle quali, rappresentata dai lavori di P. althaus e di E. jüngel, si basa sulla contrapposizione tra il pensiero biblico e quello greco. Secondo questi autori, infatti, così come in parte è stato anticipato, mentre il pensiero biblico e di stampo semitico è attento a proporre una visione unitaria e quasi monistica dell’uomo, quello ellenistico, invece, ne suggerisce chiaramente una concezione quasi dualistica e dicotomica. Come conseguenza di ciò — fa notare ancora ratzinger — secondo questi autori la dottrina dell’immortalità dell’anima appare come un retaggio della filosofia platonica (un meteorite di matrice ellenistica caduto in terra semita) per cui andrebbe estirpato dalla genuina fede biblica a vantaggio della fede nella risurrezione dei morti, perché in definitiva tenterebbe di attenuare la drammaticità della morte che riguarda l’uomo intero e favorirebbe l’oblio dell’indole giudiziale della morte stessa181. ratzinger respinge la tesi di questi teologi, che secondo il suo 180 Cfr L. BOrOS, I nuovi cieli e la terra nuova, in aa. VV., Il cristiano e la fine del mondo, roma 1969, 36. 181 Cfr j. raTzINGEr, Escatologia, cit., 89-90. Il teologo critica aspramente le argomentazioni di quei colleghi che propongono una lettura semplicistica dell’antropologia grecoplatonica ingiustamente ritenuta assolutamente dualista e dicotomica (ibid., 157), e tenta di superare lo scoglio indicato da O. Cullmann (immortalità dell’anima o risurrezione dei morti?) mettendo in evidenza l’importanza imprescindibile della dottrina dell’immortalità dell’anima come necessario presupposto perché si possa parlare correttamente di risurrezione dei morti (identità tra l’uomo che è vissuto storicamente e colui che sarà risuscitato alla fine dei tempi). In questo senso, ratzinger è convinto che il concetto di anima, quale è stato usato nella tradizione ecclesiale e teologica, è un concetto specificamente cristiano ed è il “veicolo” dell’essere con Cristo da parte della persona umana dopo la morte (ibid., 159; 162). Già in precedenza j. ratzinger aveva preso in considerazione questa questione ed aveva sostenuto

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parere si avvicina tra l’altro molto a quella propugnata dalla moderna antropologia naturalistica, perché è convinto che da nessuna parte (sia nella Scrittura come anche nella tradizione ecclesiale) la morte venga di fatto concepita come morte integrale, come annichilimento dell’uomo intero e dissoluzione della persona in un nulla da cui solo alla risurrezione escatologica verrà richiamata per un nuovo e gratuito atto creatore di Dio, né tanto meno è possibile dedurre dalla Scrittura una concezione rigidamente unitaria dell’uomo, quasi monolitica, che non lascia trapelare l’idea di una possibile distinzione al suo interno182. In un suo lavoro precedente il teologo tedesco si era già soffermato su questa questione ed aveva già messo in evidenza che per l’antropologia cristiana la dualità di corpo ed anima risulta necessaria per la corretta comprensione dell’uomo, ma aveva anche fatto notare che è altrettanto necessario che la teologia non perda di vista che in realtà l’uomo esiste, è se stesso proprio nel corpo; essere uomo vuol dire perciò essere nel corpo, «la corporeità è il vero e proprio essere dell’uomo»183. La morte non può significare un evento che interessa esclusivamente la corporeità dell’essere umano, senza intervenire in qualche maniera anche sulla sua anima. L’immortalità pensata dalla Bibbia è immortalità dialogica, in quanto è riferita alla persona, è immortalità dell’unico impasto umano, e non vuole affermare direttamente la facoltà di non poter morire da cui sarebbe caratterizzato l’essere umano indivisibile. Essa invece «scaturisce dall’azione salvifica di colui che ci ama ed ha il potere di compiere anche questo: l’uomo [con la morte] non può sparire totalmente, perché è conosciuto e amato da che la teologia contemporanea ha il compito di ripensare in maniera nuova il rapporto che intercorre tra l’asserto biblico (risurrezione dei morti) e quello del pensiero greco (immortalità dell’anima), per comprendere come le due soluzioni in definitiva non solo assolutamente assimilabili l’una all’altra, sebbene rappresentino due diversi, ma convergenti, tentativi di dare delle risposte al problema del destino dell’uomo dopo la morte (cfr Introduzione al cristianesimo, Brescia 1971, 298-299). 182 Che la morte, pur rappresentando un reale dramma che interessa l’intera persona umana, tuttavia non significhi affatto la distruzione dell’uomo e la sua totale rovina, per ratzinger è affermato anche dalla definizione che Dio ha dato di se stesso a Mosè nel roveto ardente: «”Io sono il Dio di abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe” (Es 3,6). Il che significa insieme: gli uomini che Dio ha chiamato sono inclusi nello stesso concetto di Dio. Sarebbe fare di Dio un Dio dei morti e rovesciare quindi il concetto di Dio dell’antico Testamento se si volesse dichiarare morti coloro che appartengono a colui che è vita» (j. raTzINGEr, Escatologia, cit., 128). 183 j. raTzINGEr, Dogma e predicazione, cit., 234-235.

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Dio»184. Questa verità è offerta dalla rivelazione, e perciò la stessa morte è un fatto che può essere illuminato soltanto dalla sua luce. Sempre secondo l’insegnamento della Scrittura, ma anche per la comune esperienza, essa è l’evento della non-comunicazione, del silenzio muto, della rottura di ogni possibile relazione. La concezione cristiana della morte, a differenza ad esempio di quella propria del platonismo — in questo caso il teologo parla di “approccio idealistico” alla questione della morte — non vuole presentarsi come la pura e semplice negazione dello sgomento e della temibilità che naturalmente produce nell’uomo, in quanto essa «in sé rimane la negazione, per noi terrificante, di tutto l’uomo»185. La fede tuttavia sa anche che «in un meraviglioso rovesciamento, questa negazione diventa ora premessa di una nuova positività: dalla distruzione nasce la nuova vita»186. Il concetto di immortalità in questo quadro è utile non tanto per attenuare la serietà della morte, quanto piuttosto per garantire la reale continuità e identità tra colui che è storicamente vissuto (che ha meritato o demeritato), colui che muore e colui che verrà richiamato alla vita piena e trasfigurata mediante la risurrezione escatologica. Il NT anche su questo punto ha accolto tutta la riflessione precedentemente elaborata dall’aT, e le ha conferito un significato nuovo a partire dal mistero pasquale di Cristo: «Il Cristo stesso, il vero Giusto, è disceso nello sheol, nel luogo impuro dove non si glorifica Dio. Con questa discesa di Gesù, è Dio stesso che si è recato nello sheol: la morte è vinta ed ha finito di essere il regno della crudele lontananza da Dio. Nel Cristo, Dio stesso è entrato nella terra della morte ed ha trasformato il luogo della non-comunicazione nel luogo della sua presenza»187. È il mistero che il linguaggio della fede ha tradotto nell’articolo del descensus, ovvero della discesa di Cristo negli inferi, poiché discendere agli inferi per Gesù significa abbracciare senza restrizioni il tragico destino dell’uomo, accompagnandolo proprio là dove è più abbandonato e solo. È questa la verità della morte. È qui il luogo e il momento in cui la kenosi di Cristo raggiunge realmente l’estremo, perché egli muore della morte umana e fa l’esperienza di ciò che non si addice a Dio, di quella morte che è anche rottura e angoscia, oscurità, minaccia e silenzio. Per la sua solidarietà con l’uomo 184 185 186 187

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ID., Introduzione al cristianesimo, cit., 290. ID., Dogma e predicazione, cit., 241. L. c. ID., Escatologia, cit., 108-109.


che muore, Gesù dà un significato nuovo alla morte, punto massimo del suo atto di piena obbedienza al Padre, e così garantisce all’uomo, creato come partner dialogico di Dio, di potersi incontrare con lui e di rispondere pienamente al suo invito con un atto di filiale e totale confidenza; la morte di Cristo infrange così il silenzio opprimente della morte e riapre il dialogo d’amore tra Dio e la sua creatura. Per ratzinger la morte è sì presente quale nulla di un’esistenza vuota che finisce per essere vita soltanto in apparenza. Essa è presente anche quale processo biologico del dissolvimento che si protrae per tutta l’esistenza e che attraverso la malattia giunge a conclusione proprio nella morte fisica. Ma soprattutto essa si incontra nell’esperienza dell’amore che rinuncia a se stesso per donarsi all’altro. L’uomo, infatti, incontra l’impossibilità di disporre della propria esistenza non solo al limite fisico della vita, ma anche nell’amore (esigenza di amare e di essere amato) di cui egli ha vitale bisogno e che lo rende partecipe dello stesso martirio di Cristo; è proprio l’amore, più forte della morte, che consente al dialogo vitale che lega l’uomo a Dio di proseguire, e che garantisce e fonda la sopravvivenza dell’uomo oltre il confine della morte188. Questa veloce presentazione dei principali apporti dei teologi di lingua tedesca per l’approfondimento della questione della morte vuole concludersi con il riferimento all’interessante riflessione proposta da j. Moltmann, autore riformato che ripetutamente nella sua produzione teologica si è soffermato su questa problematica, perché risulterà sicuramente interessante ed utile per comprendere maggiormente l’attuale dibattito teologico. Per il teologo tedesco la morte non può essere considerata unicamente come l’exitus che la medicina constata, ma coinvolge la persona umana, interessa la sua intera esistenza e perciò la costringe ad assumere un determinato atteggiamento nei confronti della vita189. La natura della morte è più devastante di quanto comunemente si possa credere perché annienta realmente l’uomo, tutto l’uomo, e non ne risparmia nulla, in quanto «[essa] non condanna solo la nostra esistenza ad un ‘non-esserepiù’, ma ci toglie pure il ‘non-essere-ancora’»190. Ciò che essa non riesce a raggiungere con i suoi artigli è solamente Dio, davanti al cui sguardo ogni 188 189 190

Cfr ibid., 112-113. Cfr j. MOLTMaNN, L’avvento di Dio. Escatologia cristiana, Brescia 1998, 67. Ibid., 79.

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uomo, anche se morto, continua ad essere e a trovarsi nell’atteggiamento concreto che ha caratterizzato la sua esistenza storica, poiché la fedeltà di Dio alla sua opera e all’uomo supera anche il limite invalicabile della morte. La potenza straordinaria e graziosa di Dio fa sì che proprio colui che a causa della morte è scomparso dalla faccia della terra, non scompaia dalla faccia del suo creatore che può in ogni momento risuscitarlo dalla morte e ‘crearlo’ in una vita nuova per una creazione nuova191. Moltmann nella sua indagine si prefigge alcuni punti e obiettivi che lentamente vuole perseguire attraverso un confronto pacato ma altrettanto pungente sia con il pensiero contemporaneo che con gli altri teologi, evangelici e cattolici. Egli intende superare la difficoltà legata alla questione: immortalità dell’anima o risurrezione dei morti, e lo fa cercando di sviluppare un’idea di immortalità nel quadro della speranza cristiana di risurrezione. Per lui la dottrina dell’immortalità dell’anima non è una dottrina della “vita dopo la morte”, ma esprime l’identità divina dell’uomo oltre la nascita e la morte: l’uomo è stato creato da Dio ed è stato da lui pensato e voluto da sempre e per sempre. L’essere umano è chiamato a vivere integralmente la propria esistenza. La totalità umana vive al cospetto di Dio e neppure nella morte essa si disintegra, ma permane alla presenza di Dio mutata in un’altra forma di vita. «Con la morte la nostra vita umana viene trasformata da vita vissuta a scadenza ad una vita che non conosce fine, da esistenza circoscritta ad esistenza onnipresente. La morte libera lo spirito dalle limitazioni del tempo e dello spazio»192. Nella morte di Cristo è avvenuta la metamorfosi della creazione caduca nel regno eterno di Dio e della vita mortale nella vita eterna di Dio. L’uomo che muore nel Signore partecipa a questo dinamismo che invade e interessa l’intera creazione che così viene trasfigurata e rigenerata per il regno della gloria193. «La morte è da intendersi come qualità propria della creatura fragile, temporale, che ora vive in una condizione destinata a superarsi nel momento in cui tutte le cose verranno ricreate alla vita eterna»194. Parlare di “naturalità” della morte e del morire non equivale ad affermare che la morte è una cosa ovvia e per ciò stesso da accettare tranquillamente e senza alcuna riserva, poiché nello stato attuale delle cose — 191 192 193 194

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Cfr ibid., 89. Ibid., 91. Cfr ibid., 92. Ibid., 93.


precisa Moltmann — per “natura” si intende quella realtà che ha bisogno di redenzione. In questo senso, anche a prescindere dal peccato e dalla violenza, la natura, e in essa la vita e la morte, sono avvolte in un velo di mestizia perché testimoniano costantemente che siamo ancora in un mondo che attende la piena e perfetta redenzione, che aspira a quel futuro e a quella vita eterna in cui l’universo intero sarà trasformato per la gloria di Dio195. La morte verrà annientata perché sarà essa stessa trasformata. Già tutto questo, comunque, ha avuto inizio con e nella morte di Cristo e con la sua risurrezione dai morti. Dalla trasformazione della morte uscirà una vita eterna che porterà le “cicatrici della mortalità”, così come il risorto porta su di sé i segni della passione e della croce e ora vive nella gloria. Quella che viene tramutata in vita, infatti, è proprio questa vita fragile, compromessa e mortale, poiché tutto ciò che ha connotato questa vita rimarrà in eterno e non verrà assolutamente rinnegato da Dio196. La concezione della morte come separazione dell’anima dal corpo è insostenibile tanto quanto lo è per alcuni versi la dottrina dell’immortalità dell’anima, poiché un’anima separata dal corpo non è più persona e per ciò stesso smentisce la fedeltà di Dio alla sua opera e la sua ferma volontà di continuare anche oltre la morte la sua storia con gli uomini e al sua relazione vitale con essi197. Non c’è perciò salvezza per la sola anima e corruzione per il corpo, e questo dato è inappellabile. Neppure la tesi della risurrezione nella morte, che per altri versi vorrebbe scartare la dottrina dell’immortalità dell’anima, è perciò sostenibile, perché quell’uomo che risorgesse nell’istante stesso della propria morte verrebbe redento da un mondo irredento e verrebbe così liberato dalla sua solidarietà fisica con questa terra: se non ci sarà una terra nuova — conclude Moltmann — non ci sarà neppure una risurrezione della carne, poiché è la terra nuova che rende possibile una nuova corporeità non soggetta al potere che ancora la morte continua ad esercitare198. La questione della morte non deve quindi essere affrontata quasi si trattasse di una questione privata, riguardante l’individuo preso nella sua singolarità e nel suo isolamento rispetto agli altri e al mondo. Per il teologo Cfr ibid., 108-109. Cfr ibid., 99. 197 Cfr ibid., 117. 198 Cfr ibid., 121-122. Dello stesso teologo si veda Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, Brescia 19862; Futuro della creazione, Brescia 1980. 195 196

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riformista, infatti, la morte è un evento che riguarda il singolo come parte di un tutto, come membro dell’umanità addolorata e dolorante per la presenza e l’opera della morte, come membro e parte di quell’universo che mostra ancora evidenti i segni della morte e che attende di essere reso perfettamente partecipe della risurrezione di Cristo e della sua vittoria escatologica. La giusta comprensione della morte umana si ha nella morte di Cristo che ha stabilito con gli uomini una comunione che travalica i limiti stessi della morte e abbraccia l’intero universo199. La speranza cristiana — afferma il teologo nel confronto che stabilisce tra il “principio speranza” di E. Bloch e la sua “teologia della speranza” — non annulla il dramma della morte, né lo mistifica, ma lo comprende nella sua realtà più devastante. Questa speranza è quella che, posta «nel Dio che risuscita i morti e crea l’essere dal nulla, prende radicalmente sul serio la morte nel suo carattere letale, la prende cioè alla radice, che si spinge nel nulla»200. Solamente guardando in faccia la realtà della morte, come mistero dell’uomo, ma anche dell’universo intero, il cristiano potrà perciò comprendere la propria vita e il significato della propria esistenza rischiarata dal mistero di Cristo, morto e risorto. 1.1. alcune riflessioni conclusive riguardo all’originalità dell’apporto della teologia di lingua tedesca all’approfondimento della questione della morte si può dire sinteticamente che essa ha avuto il coraggio di affrontare questioni spinose e particolarmente controverse (rapporto tra tempo ed eternità; ipotesi della risurrezione nella morte; necessità di demitizzare il linguaggio e le immagini della Scrittura riguardo all’escatologia e alla morte; ipotesi dell’opzione finale; immortalità dell’anima/risurrezione dei morti; ecc.). Uno dei principali meriti della teologia di lingua tedesca è stato certamente quello di aver intavolato un rapporto-confronto costruttivo con la filosofia (soprattutto esistenzialista) che ha contribuito a riportare in superficie importanti elementi della riflessione sulla morte: presenza costante della morte nella vita; presenza della vita nella morte; dimensione umana e personale della Cfr ID., L’avvento di Dio, cit., 124. ID., Teologia della speranza. Ricerca sui fondamenti e sulle implicazioni di un’escatologia cristiana, Brescia 19765, 367. 199 200

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morte e drammaticità della stessa; la morte come momento di libertà e di personalizzazione. Non meno interessante e fruttuoso è stato per alcuni versi il rapporto che essa ha mantenuto con esponenti della teologia evangelica, con un’attenzione speciale a questioni che hanno anche una certa rilevanza nel dialogo ecumenico tra la Chiesa cattolica e le chiese della riforma. La preoccupazione di muoversi per quanto è possibile su un terreno per molti versi comune sia alla Chiesa cattolica sia a quello delle chiese evangeliche e riformate, si palesa infatti soprattutto nella trattazione di questioni straordinariamente delicate legate al nostro tema e che sono state da sempre il tallone d’achille nel dialogo ecumenico. Basti pensare alla concezione della morte come separazione dell’anima e del corpo e alla conseguente dottrina dell’anima separata, oppure alla dottrina dello stadio intermedio con l’annessa dottrina dell’immortalità dell’anima, e del rapporto di quest’ultima con la dottrina della risurrezione dei morti. Soprattutto su questi punti la riflessione di molti autori di lingua tedesca sembra mostrare una certa difficoltà a mettersi in linea con la lettera dei diversi interventi autorevoli della Chiesa e sembra a volte preferire a questi degli argomenti di natura più specificamente filosofica. Si nota perciò a questo proposito la carenza di un certo equilibrio che, come si vedrà più avanti, è invece proprio sia della teologia di lingua italiana come di quella di lingua spagnola, e soprattutto la difficoltà a prendere in considerazione i contributi che derivano dagli interventi del recente magistero ecclesiastico. Va comunque ribadito che la riflessione sulla morte prodotta da questi autori è vigile, attenta al confronto con il mondo contemporaneo; non è sorda o distratta nei confronti delle reali domande e questioni che intererssano l’uomo di oggi, e nei confronti delle sollecitazioni (provocazioni!) derivanti dalla cosiddetta riflessione laica su questo tema. L’acceso confronto con la cultura contemporanea ha perciò dato vita il più delle volte ad una riflessione teologica dinamica, viva, anche nei toni e nelle espressioni, che ha saputo far proprie le maggiori intuizioni della speculazione filosofica nel tentativo, non sempre riuscito a perfezione, di rileggerle a partire dalla prospettiva offerta dal messaggio evangelico e quindi dal mistero di Cristo.

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2. Il contributo dei teologi di lingua spagnola Tra gli autori di lingua spagnola che hanno approfondito lo studio dell’escatologia cristiana, occupa un posto di prim’ordine j.L. ruiz de la Peña, che soprattutto nel suo El ombre y su muerte, ha indagato a fondo la questione della morte e del morire dell’uomo201. Il teologo spagnolo, venuto a mancare prematuramente ormai qualche anno fa, denuncia la mancata caratterizzazione personale della morte nella teologia del recente passato, e ne indica i segni sia nella presentazione estrinseca e passiva del morire, sia in ciò che egli definisce una sorta di “docetismo della morte”, cioè l’uso di termini personali per la sola anima separata a scapito della corporeità della persona umana. Egli individua tre indirizzi contemporanei che offrono una risposta più soddisfacente alla domanda radicale che la morte pone all’uomo: la riflessione esistenzialista, quella protestante e quella cattolica. Per il teologo catalano, la dottrina cattolica tradizionale è quella più completa. Tuttavia la concezione cattolica secondo cui la morte non sarebbe altro se non la separazione dell’anima dal corpo e quindi la dissociazione del composto umano (anima/corpo) ha bisogno di essere riletta in modo che consenta di mantenere contemporaneamente l’unità degli elementi costitutivi dell’uomo e la loro distinzione, perché se da un lato l’anima non si confonde con il corpo e non può essere ridotta unicamente alla corporeità, dall’altro lato essa non può prescindere da esso e gli è essenzialmente e irresistibilmente riferita. L’anima — continua il teologo — informando la materia crea il corpo che le è necessario per realizzarsi come spirito umano, mentre il corpo, quale materia informata dall’anima, rappresenta la sua autorealizzazione, la sua espressione visibile. L’uomo è cioè una creatura

201 Oltre alle sue opere fondamentali: El hombre y su muerte e L’altra dimensione, il teologo spagnolo ha dedicato altri studi al tema della morte. In particolare si vedano: Sobre el misterio de la muerte, in Misión Abierta (1972) 528-534; Perspectiva cristiana de la muerte, in Iglesia Viva (1976) 137-151; Sobre la muerte y la esperanza. Aproximación teológica a E. Bloch, in Burgense (1977) 183-222; Muerte y increencia. Inventario de actitudes y ensayo de comprensión teológica, in Sal Terrae (1977) 675-686; Muerte y liberación en el diálogo marxismo-cristianismo, in Jesucristo en la historia y en la fe (1978) 212-219; Muerte y marxismo humanista. Aproximación teológica (del 1978); La muerte: destino humano y esperanza cristiana (1984); Muerte, ¿dónde está tu victoria?, in Misión Abierta (1990) 78-83.

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nella quale lo spirito si materializza esteriorizzandosi, e la materia si spiritualizza interiorizzandosi202. Se la teologia avrà chiara e soprattutto adotterà questa antropologia, che è poi quella che si evince dalla testimonianza della Scrittura, allora di conseguenza avrà chiaro anche che la morte non può in alcun modo essere ristretta totalmente ad un evento in cui si consuma la separatio anima et corporis, un fatto in cui il corpo comincia l’ultima fase del suo inesorabile declino e va incontro alla distruzione, mentre l’anima continua quasi indisturbata e impassibile la sua esistenza di sempre. La morte è invece un evento che interessa l’uomo intero, la persona, poiché quest’ultima non si identifica con l’anima ma piuttosto con l’uomo integralmente considerato, inclusa la sua corporeità che ne rappresenta la mondanità e la possibilità stessa di espressione verso il mondo esterno e verso gli altri uomini. La persona, infatti, se da una parte è trascendenza, perché è relazione a Dio, dall’altra è immanenza, perché è relazione al mondo e agli altri, e soddisfa a questa seconda istanza attraverso il corpo: solamente nella duplice, non alternativa, e reciproca relazionalità di questi due poli, essa realizza veramente se stessa. La morte è perciò l’interruzione della relazione con il mondo e con gli altri uomini, perché toccando radicalmente il corpo tocca anche la persona e la sua possibilità di relazionarsi attraverso la sua essenziale mediazione. Essa non è perciò solamente la negazione della vita, ma è anche l’eclissi del soggetto della vita, della relazione appunto. È la fine dell’uomo intero, della persona, perché la separazione che si consuma nel suo essere significa anche la consequenziale fine di tutte le sue restanti note costitutive: mondanità, comunicabilità, storicità203. Queste argomentazioni, riconosce lo stesso autore, non risolvono comunque l’altro ambito della relazionalità propria della persona umana: il rapporto trascendentale con Dio. Essendo la morte la fine dell’uomo come persona, come essere relazionale, questa non comporta anche la fine di quel soggetto che da Dio è posto come suo interlocutore e perciò stesso la fine dello stesso dialogo? Per rispondere a questa questione — precisa ruiz de la Peña — è necessario anche riconsiderare la concezione dell’anima separata e quindi la dottrina dell’immortalità dell’anima e la sua permanenza come separata tra la morte dell’individuo e la sua risurrezione escatologica.

202 203

Cfr j.L. rUIz DE La PEña, El hombre y su muerte, cit., 366. Cfr ibid., 368.

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Tralasciando in questa sede l’acceso dibattito suscitato dalle affermazioni del teologo espresse nell’ultimo capitolo del suo manuale L’altra dimensione. Escatologia cristiana (nella sua versione originale spagnola), in cui l’autore affronta la questione del rapporto tra escatologia collettiva ed escatologia individuale, e quindi dello stadio intermedio, si può aggiungere che secondo il teologo catalano la morte non rappresenta la distruzione del soggetto con il quale Dio aveva instaurato una relazione personale e un dialogo vitale. L’immortalità dell’uomo totale, e non solamente della sua anima, poggia però direttamente su un’azione gratuita e graziosa di Dio e non tanto su una qualche qualità o proprietà naturale dell’essere umano: Dio mantiene nell’esistenza la persona umana perché intrattiene con essa un dialogo che neppure la morte può infrangere o interrompere. Venendo a mancare la relazionalità dell’uomo con il mondo non cessa la sua relazionalità trascendentale con Dio, anzi proprio quest’ultima fa sì che neppure quella cessi del tutto e che quindi anche dopo il trapasso della morte l’uomo intrattenga un certo rapporto con il mondo e con gli altri uomini204. Per questa ragione ruiz de la Peña è convinto che non sia assurdo, e tanto meno contrario alla dottrina della Chiesa, affermare che la morte è la fine dell’uomo intero, e non solamente del suo corpo o della sua componente materiale e fisica. Egli arriva a questa affermazione dopo una lunga analisi della testimonianza biblica su questo argomento. È proprio dall’insegnamento scritturistico e grazie al confronto con l’antropologia filosofica contemporanea che è possibile dedurre una visione dell’uomo secondo cui egli è un essere spirituale e corporeo insieme. Come si diceva prima, «tutto l’uomo è corpo e anima, corporeità attraversata da un principio che la anima e spiritualità che prende forma nel corporeo»205. La morte è perciò la dissoluzione dell’unità spirito-materia dell’essere (non propriamente del “composto” umano) e quindi sottrazione dalla sfera del mondano e rottura delle relazioni con l’altro. Essa perciò intacca diretta-

Cfr ID., L’altra dimensione, cit., 355-384, soprattutto le pp. 348 e 377-381. Per ulteriori approfondimenti riguardanti il dibattito sorto intorno alle argomentazioni del teologo espresse soprattutto nella sua dissertazione di Dottorato difesa alla Gregoriana di roma (El hombre y su muerte. Antropología teológica actual) si rimanda al volume dedicato alla memoria di ruiz de la Peña: O. GONzaLEz DE CarDEDOL, ed. Coram Deo, Università Pontificia di Salamanca 1997, 9-41, soprattutto le pp. 36-37. 205 j.L. rUIz DE La PEña, L’altra dimensione, cit., 300. 204

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mente la persona e non soltanto il suo corpo, perché interessa essenzialmente la sua relazione con il mondo e con gli altri. Sebbene distruggendo il corpo distrugga anche il mezzo (il luogo) in cui avviene ogni incontro con l’altro, in cui la persona si esprime compiutamente, essa è tuttavia anche la possibilità per eccellenza offerta all’uomo, perché rappresenta la realizzazione ultima di quel progetto che l’uomo è e cui tende nell’attuazione di tutte le sue possibilità parziali e storiche. Il compimento progressivo di queste possibilità, poi, avviene all’ombra della costante presenza della morte nella vita dell’uomo il quale viene spinto a prendere posizione di fronte ad essa vivendola attivamente: in quanto natura, egli patisce la morte come necessità imposta, come destino ineluttabile che lo accomuna a tutti gli altri esseri, ma in quanto egli è persona essa deve essere per lui l’atto supremo della libertà, l’evento che totalizza e consuma, compiendola, la sua vita206. «Essendo la morte l’annullamento di ogni possibilità di divenire, essa è la stessa effettualità consumata, o, il che è lo stesso, il termine dello stato di prova per sua natura»207. ruiz de la Peña sottolinea poi come secondo il NT «Cristo morì la morte con l’angustia che le è propria in quanto è imposta necessariamente, ma nello stesso tempo nella fede del Dio vivo, nella speranza della risurrezione e nella carità verso i fratelli. In tal modo, la morte ha cambiato senso. Non è più necessariamente visibilità della colpa, pena del peccato; può essere atto libero di fede, speranza e carità»208.

Nella misura in cui essa avviene “nel Signore”, allora è espressione della fede, è sostenuta dalla speranza e compie in pienezza il dono d’amore che l’uomo fa di sé, cioè la consegna della vita a Dio e ai fratelli; altrimenti permane nella sua assoluta e irredenta negatività, quale segno e frutto amaro del peccato. a partire da Cristo cessa perciò la qualificazione unilaterale della morte come conseguenza del peccato per divenire transito verso la vita: così come è avvenuto per Cristo, il quale è morto per risuscitare, anche

206 207 208

Cfr ibid., 302-303. Ibid., 307. Ibid., 303.

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l’uomo passa attraverso l’esperienza della morte per raggiungere la pienezza della vita209. La morte del credente è quella cristologicamente connotata; quella, cioè, che partecipa alla stessa morte di Cristo il quale l’ha vissuta non tanto come passione imposta, ma come azione libera e liberante (egli ha «il potere di dare la vita e il potere di riprenderla di nuovo» Gv 10,17-18) e per questa ragione implica il superamento della sua negatività; superamento realizzato appunto nella risurrezione. L’uomo oramai può morire “in adamo” (morte antica) e “nel Signore” (la nuova morte)210. risulta dunque chiara la distinzione tra la morte del cristiano (con-morire con Cristo) e quella del peccatore (espressione e visibilità della colpa e suo castigo): mentre la prima conduce l’uomo alla comunione con Dio in Cristo, la seconda lo conduce invece alla morte escatologica, eterna, della quale la morte temporale non è che un pallido simbolo. j.j. Tamayo-acosta, altro teologo di lingua spagnola, è convinto che la teologia abbia l’urgente e inderogabile compito di pronunziare una parola sensata sulla questione della morte, e per fare questo egli è convinto che essa debba «guardare la morte in faccia in tutta la sua crudezza e prenderla sul serio se non vuole essere accusata di essere ininfluente dal punto di vista esistenziale e intellettuale»211, smascherandone il carattere “antiutopico” e tragico, la capacità distruttiva assoluta.

209 Di segno diverso a quello di ruiz de la Peña è il discorso che C. Pozo fa sulla morte nel suo noto manuale Teologia dell’aldilà, in cui dedica alla trattazione di questo tema soltanto poche pagine e affronta la questione all’inizio dell’escatologia individuale e in riferimento all’escatologia intermedia. Egli, seguendo in questo la classica trattazione manualistica si limita a dire che la morte è il “passaggio” dalla temporalità alla definitività, dallo stato in cui è dato all’uomo di meritare o demeritare allo stato finale e definitivo della sua esistenza. Il teologo spagnolo segue la manualistica classica anche per quanto concerne lo svolgimento del tema, in quanto presenta succintamente la questione della morte nell’insegnamento della Scrittura — con particolare attenzione alla morte come fine dello stato di pellegrinaggio — per poi soffermarsi sulla presentazione critica della teoria secondo cui dopo la morte viene offerta all’uomo la possibilità di una nuova decisione per Dio (riferimento al pensiero di j.B. Hirscher ed H. Schell) e sulla tesi della decisione finale nel momento della morte, soprattutto nella forma proposta da L. Boros, anche questa criticata perché ritenuta non adeguatamente attenta al valore delle decisioni temporali e storiche dell’uomo e quindi bisognosa di riconoscere «un peso preponderante alla vita precedente nella preparazione del senso e della direzione della decisione finale» (C. POzO, Teologia dell’aldilà, cit., 457). 210 Cfr j.L. rUIz DE La PEña, El hombre y su muerte, cit., 371-372. 211 j.j. TaMayO-aCOSTa, L’escatologia cristiana, cit., 331.

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Questo aspetto centrale della morte — secondo il teologo spagnolo che intesse la sua riflessione contestualmente alla situazione socio-economica vissuta in particolare da molti paesi dell’america Latina e attraverso il continuo riferimento ai discorsi o agli scritti di Mons. Oscar a. romero — si mostra in tutta la sua evidenza soprattutto nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, in cui la morte ha molti volti e tutti sfigurati, perché è morte per fame, denutrizione, per malattia, e soprattutto per violenza e repressione. È morte culturale e discriminante, perché la morte dei poveri appare sempre più diversa da quella dei ricchi; si presenta ancora di più come una morte ancora irredenta212. La morte, quindi, non è un fatto neutro, impersonale, ma è sempre un evento che riguarda la persona, una persona particolare; è una morte “contestualizzata”, perché vissuta da uomini e donne che vivono ciascuno e insieme in situazioni e condizioni sociali, politiche, economiche, culturali e religiose sempre particolari, e proprio perché tale essa ha un eccezionale bisogno di essere spiegata. 2.1. alcune riflessioni conclusive La teologia di lingua spagnola si è sforzata di dare il giusto valore alla riflessione della Scrittura sull’escatologia e in particolare sulla morte, dedicando ampio spazio allo studio dei testi più importanti. Un pregio innegabile di questa teologia è stato anche quello di aver posto un’equilibrata attenzione al contesto sociale soprattutto dei paesi dell’america Latina e attraverso di essi a tutti i paesi che ancora attendono un pieno sviluppo economico e sociale che possa garantire la crescita integrale della persona umana e tutelarne i diritti inalienabili. In un contesto in cui la prassi di liberazione è percepita come un principio guida della società e della crescita non solo umana, ma anche cristiana della persona, la morte non può essere ritenuta come l’estremo limite, l’ultimo di una lunga serie, con cui l’uomo, inerme, fa i conti e contro cui ineluttabilmente s’infrange. La lotta contro la morte, in tutte le sue manifestazioni e anticipazioni (malattia, povertà, fame, disperazione, solitudine e abbandono, mancanza 212

Cfr ibid., 332-333.

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di solidarietà e rassegnazione fatalistica al destino e allo scorrere degli eventi e del tempo), diventa il programma di ogni esistenza vissuta in maniera autenticamente umana, e della vita cristiana concepita come quotidiana lotta contro il male del mondo e che c’è nel mondo, contro il peccato dell’uomo e i peccati che gli uomini commettono contro gli altri uomini e contro il mondo. accettare veramente la morte di Cristo ed essere assunti nel suo campo d’azione significa per i cristiani viverla quotidianamente attraverso il passaggio continuo dalla morte alla vita, dal male al bene, dal mondo a Dio, non cedendo alla tentazione di ridurre tutto questo alla sola dimensione spirituale e mistica della vita cristiana, ma con un’attenzione vigile alle concrete situazioni in cui l’uomo concreto vive e muore. Questa è la lezione principale che la teologia di lingua spagnola ha consegnato all’odierna teologia della morte e che racchiude non pochi spunti di riflessione che sono di grado di arricchire ulteriormente il dibattito ancora in corso. 3. Il contributo dei teologi di lingua italiana Negli ultimi decenni la teologia italiana ha fatto uno sforzo non indifferente per apportare il suo peculiare contributo al dibattito teologico. La parte preponderante delle energie impiegate dai teologi italiani è stata comunque spesa esclusivamente, o perlomeno prevalentemente, per la produzione di manuali di escatologia per la scuola in cui è facile riscontrare la preoccupazione di conservare un sano equilibrio tra tradizione (sarebbe forse più corretto parlare di acquisizioni tradizionali da parte della teologia) e nuove istanze e questioni aperte (domande avanzate dall’uomo di oggi e problemi sollevati dalla cultura secolare contemporanea). In questo contesto, comunque, poiché non mi è concesso di entrare nel merito della questione riguardante il dialogo/confronto tra la teologia — in specie quella italiana — e la cultura laica, mi limito a presentare criticamente alcune delle principali intuizioni dei teologi italiani, rimandando alla fine la presentazione di qualche altra nota critica generale213. Per l’approfondimento di questa questione cfr V. MELCHIOrrE, Al di là dell’ultimo. Filosofie della morte e filosofie della vita, Milano 1998, ed inoltre G. SCHErEr, Il problema della morte nella filosofia, cit., in cui l’autore presenta il significativo apporto della riflessione di importanti filosofi, non italiani, per una comprensione più profonda della morte dell’uomo. 213

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B. Forte parla della morte come del verbum abbreviatum della finitudine umana, in quanto compendia l’intero enigma della condizione umana e ripropone la questione del senso nella maniera più densa e violenta214. richiamando alla memoria la riflessione balthasariana, Forte parla della morte come di quel supremo abbandono che il credente opera nelle mani del Padre e dell’Origine, unitamente all’abbandono di Cristo sulla croce in piena solidarietà con l’uomo peccatore e la sua morte. «Nessuna mistica della morte — continua Forte — potrà allora cancellare il tratto oscuro di essa, l’aspetto misterioso e drammatico di questo abbandono senza apparente ritorno»215. Tuttavia, la croce rivela la possibilità di vivere l’estrema lontananza come la più profonda vicinanza, perché lo Spirito Santo è il vincolo di comunione tra il Padre e il Figlio anche nell’ora della morte e dell’abbandono, facendo così di quest’ultimo l’atto di assoluta e incondizionata consegna nelle mani del Padre. Per ciò stesso, «mentre illumina dal di dentro la morte, il Paraclito agisce in essa, aiutando il morente: egli non si sostituisce al morente, ma lo unisce a Cristo e lo rende così capace dell’ultimo dono, “spirando” in lui la carità suprema»216. Il morire prende parte al dinamismo stesso delle relazioni divine, ed è per questo un evento trinitario pasquale. Esso partecipa dell’intreccio dei rapporti interpersonali della Trinità e quindi rende massimamente personale l’evento della morte perché introduce definitivamente e perfettamente l’uomo nel dialogo eterno tra le persone divine. Nel quadro di queste considerazioni la teoria dell’opzione finale viene riletta a partire dalla prospettiva trinitaria che la completa, in quanto fa della morte non solo l’evento che esaurisce il cammino di personalizzazione dell’uomo, ma soprattutto un evento inter-personale perché aperto al dialogo e alla comunione con le divine persone: la morte non è soltanto un momento di estrema solitudine vissuto dal morente, ma è primariamente la consumazione di quell’offerta fiduciosa di sé al Dio trino, avvenuta già nel corso dell’intera esistenza del credente217. Un altro teologo, V. Croce, mette in chiaro che anche per il cristiano la morte rimane un evento ambiguo, in se stesso assolutamente privo di senso, perché può essere vissuto nella serenità del compimento, 214 215 216 217

Cfr B. FOrTE, Teologia della storia, Cinisello Balsamo 1991, 324. L. c., 324. Ibid., 326. Cfr ibid., 325.

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ma anche nella drammaticità della rottura e nell’angoscia causata dalla totale impotenza dell’uomo. a causa del peccato, infatti, questi non muore “mai abbastanza” con Dio, e quindi sente ancora come lancinante il dolore causato dallo stimulus mortis (cfr 1Cor 15,56)218. Sebbene il cristiano, così come tutti gli altri uomini, non ami la morte, egli comunque non la teme più, perché grazie a Cristo è stato liberato da quella paura della morte attraverso cui il demonio teneva gli uomini in suo potere (cfr Eb 2,14-15). Egli — aggiunge Croce — ha ormai sperimentato che “l’amore è più forte della morte” e che quindi «la morte fisica può essere ricuperata nell’orientamento dell’amore, “asservita” alla carità, atto di amore al servizio della vita vera»219. Il teologo, ribadendo una convinzione di tutta la teologia contemporanea, precisa come nella tradizione cristiana quello del morire è atto di tutta la vita, che si conclude ma non si identifica con il decesso biologico. Cotidie morior dovrebbe essere il motto e la meditazione del cristiano soprattutto nella sua quotidiana consegna a Dio e agli altri nell’amore220. La morte fisica, in questo quadro, per quanto sia l’espressione della finitezza dell’uomo, è vissuta come rottura quando viene sperimentata non solo come segno di creaturalità, ma di creaturalità rifiutata, mentre è la massima realizzazione dell’uomo quando questi la vive in Cristo come dono a Dio nell’amore. G. Gozzelino ha invece il merito di leggere l’evento della morte umana interamente alla luce dell’evento Cristo e della sua morte. La morte di Gesù è infatti il paradigma di ogni morte umana e nello stesso tempo il suo principio ermeneutico insostituibile. Così come la risurrezione di Gesù è stata resa possibile dalla sua obbedienza al Padre sino alla morte di croce, allo stesso modo, e proprio in forza di Cristo, il compimento della risurrezione dei morti, centro della fede cristiana e del suo annuncio di speranza, è reso possibile dall’obbedienza piena a Dio, ed è introdotto dalla morte fisica221. Gozzelino fa notare che la teologia ha praticamente fatto proprie, e non avrebbe potuto fare altrimenti, le prospettive da cui la Scrittura ha guardato alla morte: essa ha infatti registrato una visione potremmo dire 218 219 220 221

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Cfr V. CrOCE, Allora Dio sarà tutto in tutti, Torino 1998, 141-143. Ibid., 145. Cfr ibid., 148. Cfr G. GOzzELINO, Nell’attesa della beata speranza, cit., 151.


giuridico-penale (morte come pena del peccato), una visione più propriamente salvifica (morte come strumento di salvezza) e infine una concezione, più specifica del NT e che si potrebbe definire tipologico-cristologica, secondo cui la morte di Gesù costituisce l’universale chiave di lettura dei diversi significati della morte fisica222. È attraverso la considerazione della morte di Gesù che in sostanza è resa possibile una certa comprensione di questo evento e del suo significato per l’uomo e per il suo destino. Le prime due visioni, infatti, sebbene siano più direttamente presenti nella riflessione teologica veterotestamentaria e siano quindi confluite nel corpo neotestamentario, trovano la loro convergenza proprio nella concezione tipologico-cristologica secondo cui quanto si è compiuto in Cristo, nel suo mistero pasquale, si realizza per partecipazione anche in coloro che muoiono in lui e di una morte simile alla sua. La morte cristiana risulta perciò assolutamente incomprensibile se estraniata dal suo naturale orizzonte cristologico. Proprio l’evento Cristo, infatti, ha infranto il nesso strettissimo che c’è tra il peccato e la morte, e ha dato a quest’ultima un significato diverso, quello di “guadagno” (cfr Fil 1,21.23) e soprattutto di passaggio alla pienezza di vita in Dio (passaggio dalla morte “perdita/maledetta” alla morte “guadagno/benedetta”). Gozzelino fa notare come a motivo di questa forte caratterizzazione cristologica della morte operata dal NT, si registra da un lato una significativa valorizzazione della sua importanza (legame della morte col peccato; serietà e drammaticità di questo evento; Cristo subisce la morte perché lotta contro il grande potere del male e del peccato), e dall’altro una parallela e decisa relativizzazione della sua portata (la morte privata di qualsiasi potere salvifico se non vissuta come legame con il Signore; vittoria di Cristo risorto sulla morte; vittoria della fede e del credente sulla morte e il suo dominio)223. Fedele alla sua lettura cristologica della morte umana, il teologo italiano vede perciò nella morte di Cristo «la totalizzazione della traduzione in termini integralmente umani, perfettamente accessibili agli uomini, della sua identità di Figlio unigenito del Padre»224. Il Figlio, obbediente al Padre, Cfr ibid., 152. Cfr ibid., 156-157. a questo proposito si veda pure U. VaNNI, Dalla morte ‘nemico’ alla morte ‘guadagno’, in Studia Missionalia 31 (1982) 37-51. 224 G. GOzzELINO, Nell’attesa della beata speranza, cit., 422. 222 223

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compie nella morte l’estremo atto di assoluta consegna nelle mani e nella volontà di colui che lo ha mandato. alla luce e in forza di questo atto ogni uomo trova nella morte (con Cristo e in forza sua) l’introduzione alla vita definitiva, a quella situazione finale in Cristo che è stata anticipata nel credente mediante i sacramenti e la vita di fede grazie alla quotidiana assunzione della morte di Cristo. Come infatti da sempre è esistita una situazione creaturale di intrinseco riferimento a Cristo, così la morte umana è sempre stata legata a Gesù e alla sua morte, per cui il suo significato va colto unicamente in rapporto a lui e al suo mistero di morte e risurrezione225. Ciò significa che la morte umana, quella di cui attualmente facciamo esperienza e quindi quella che è il prodotto della colpa, proprio questa ha uno stretto legame con Cristo e la sua morte. Essa da sempre ha avuto in sé non solo un forte carattere di negatività, ma anche una forte connotazione positiva e salvifica: essendo la “morte maledetta” anche la morte che Cristo ha vissuto nella sua carne, essa è anche in se stessa la “morte benedetta” che permette il passaggio dell’uomo verso Dio. Poiché la morte di cui effettivamente facciamo esperienza reca l’impronta del peccato, essa è una morte maledetta, sebbene anche in un’ipotetica assenza del peccato d’origine l’uomo sarebbe ugualmente morto (anche un adâm innocente avrebbe infatti concluso la vita eterna per passare alla definitività, in quanto questo transito è richiesto dalla logica della libertà e non direttamente dal peccato)226. G. Biffi affronta il tema della morte nell’ultima parte della sua escatologia in riferimento alla sorte individuale, benché tenga a precisare che quest’ultima è correttamente comprensibile soltanto nel contesto di quella cosmica a cui è particolarmente sensibile il messaggio neotestamentario. La morte ha non solo una spiegazione razionale e naturale, ma anche una spiegazione teologica. Essa è causata dello sconfinamento dell’uomo oltre i limiti impostigli da Dio (peccato). Ma con la morte di Cristo essa ha acquisito un senso del tutto nuovo, per cui «il significato teologico “iniziale” della morte è quello di essere punizione del peccato, e Cfr ibid., 430. Dietro queste affermazioni di Gozzelino si celano delle considerazioni fatte da rahner, secondo il quale la ragione principale per cui l’uomo è mortale è legata alla libertà dello spirito. È questa che rende l’uomo mortale, perché «la storia creaturale della libertà esige per sua stessa natura un compimento definitivo che si realizza nell’unità tra agire libero e agire sovrano» (K. raHNEr, Il morire alla luce della morte, cit., 569). 225 226

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il significato teologico “terminale” è quello di essere partecipazione alla vicenda salvifica di Gesù»227. Il teologo milanese, parlando della morte come del termine della prova, muove delle critiche alla tesi dell’illuminazione finale perché ritiene che questa di fatto dimostra di misconoscere la natura propria della libertà umana che non è quella di uno spirito puro, ma di un essere che si realizza e si attua lungo il tempo e attraverso tutta una serie di decisioni libere verso il bene o verso il male (raggiungendo in questo caso la sua assoluta frustrazione), atti nei quali si trova quasi “disciolta” la sua piena deliberazione228. Biffi invece abbraccia la tesi della risurrezione nella morte perché è convinto che la soluzione tradizionale sia in dissonanza su diversi punti con l’insegnamento del NT e la sua antropologia. a seguito di una lettura attenta dei testi scritturistici, infatti, secondo lui ci si accorge chiaramente come per il NT riguardo all’uomo non è data alcuna forma di dualismo corpo e anima, per cui non è giustificata la proposizione, almeno nella sua forma radicale, secondo cui la morte è la scissione del composto umano in due elementi, corpo ed anima, di cui soltanto il primo risentirebbe drammaticamente i suoi effetti, lasciando il secondo assolutamente immune e anzi ormai veramente libero. al fine di ridare il giusto spessore al giudizio universale, così importante non solo per l’apocalittica giudaica, ma anche per lo stesso NT, per il teologo italiano è altresì necessario affermare che «ogni uomo alla sua morte si trova già in atto di essere giudicato, con un giudizio che è insieme particolare e universale: particolare perché riguarda il valore delle singole persone; universale perché nessuno vi si può sottrarre e perché tutta l’umanità vi apparirà simultaneamente giudicata»229 in quanto coincide sia con il momento della morte del singolo, come anche con il momento della fine della storia, a motivo del passaggio dalla dimensione temporale a quella eterna che avviene nell’istante stesso della morte. Potrebbero essere mosse a Biffi le stesse critiche che sommariamente sono state fatte anche a G. Greshake e agli altri esponenti della teoria della risurrezione nella morte. In particolare si potrebbe obiettare che forse questa ipotesi teologica risente troppo di influenze di natura filosofica, e in questo

227 228 229

G. BIFFI, Linee di escatologia cristiana, Milano 19983, 78. Cfr ibid., 82. Ibid., 87.

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caso appare poco aderente alla testimonianza biblica in cui è espressa in più occasioni la distinzione tra la sorte del singolo dopo la propria morte e la sorte dell’umanità intera e dell’universo alla fine dei tempi. Tuttavia in riferimento alla questione affrontata in questo studio, mi limito a denunciare — riprendendo la sostanza delle critiche mosse sia dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, come dalla stessa Commissione Teologica Internazionale — la scarsità di argomentazioni di natura teologica che supportano la tesi della risurrezione nella morte, la sua discordanza con quanto la Chiesa ha da sempre insegnato, soprattutto riguardo al significato e al valore del suffragio per i fratelli defunti, e la mancanza di attenzione alla prospettiva ecclesiologica della morte cristiana. Questa, infatti, non può essere intesa primariamente come evento riguardante il singolo individuo alle prese con il proprio destino personale e finale, indipendentemente da quello dell’intera comunità ecclesiale o parallelamente ad esso, e in definitiva dell’universo intero, ma come mysterion di salvezza in cui il singolo, come membro della comunità ecclesiale, si incontra definitivamente con Cristo, si ricongiunge cioè con il proprio Capo, nell’attesa che tutte le altre membra formino con Cristo Capo un solo corpo (solo nella dialettica singolo-comunità si dà la corretta comprensione della speranza cristiana e dell’attesa della consumazione finale)230. Di particolare spessore e importanza risulta poi il contributo offerto alla discussione e all’approfondimento critico e di fede della questione della morte da M. Bordoni, il quale ha ripetutamente affrontato questo argomento nei suoi numerosi scritti231. Per il teologo della Lateranense — il quale ha G. Moioli — e assieme a lui tanti altri teologi — non si trova in linea con la posizione di Biffi e degli altri sostenitori della risurrezione nella morte (nelle sue più diverse varianti) ed afferma che anche per il NT le asserzioni riguardanti un’unione con Cristo dopo la morte non eliminano l’aspettativa della parusia, della risurrezione dei morti e del compimento della salvezza, anzi, conservano il loro posto proprio in questa aspettativa escatologica, perché in definitiva l’unione con Cristo è promessa al cristiano come unione personale, ma questa rimane sempre ordinata alla comunità dei redenti (cfr G. MOIOLI, L’escatologico cristiano, cit., 166-167). Per ulteriori approfondimenti su questo argomento rimando ad un mio contributo sulla questione dello stadio intermedio nella teologia contemporanea: F. BraNCaTO, Lo stadio intermedio. Status quaestionis, in Sacra Doctrina 5 (2002) 5-80. 231 I principali studi di M. Bordoni su questo argomento sono: La morte nella teologia contemporanea, in Rivista di Vita Spirituale 26 (1972) 426-441; Problemi e orientamenti pastorali sul tema umano e cristiano della morte, in Rivista del Clero Italiano 61 (1980) 835-841. 230

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scritto il collaborazione con N. Ciola un prezioso volume dedicato all’escatologia cristiana, Gesù nostra speranza, che vuole presentarsi come una nuova proposta sistematica232 — il tema della morte nella teologia attuale tende a «divenire sempre più non solo uno dei temi dell’escatologia, ma anzitutto un aspetto strutturale dell’escatologico cristiano»233. Nei manuali di escatologia la morte viene presentata come il momento nodale del passaggio tra la condizione escatologica presente dell’esistenza cristiana e quella conclusiva. Ciò è stato reso possibile anche grazie alla confluenza di dati che provengono dall’antropologia biblica secondo la quale la morte è un elemento del dramma storico della salvezza, e specialmente grazie alla rilettura del dramma della morte che la Chiesa primitiva ha fatto alla luce del mistero pasquale di Cristo. «Cristo, morendo, ha cambiato lo statuto della morte umana facendone un momento del passaggio alla vita nuova. Così la morte mentre viene assunta nel processo vitale di riscatto dell’uomo, costituisce un momento definitivo della struttura viale della sua esistenza di fede in cui si consuma l’incontro definitivo con il Padre, in Cristo»234. La morte, dramma umano, riceve dunque un senso inedito dal mistero di Cristo, il quale morendo l’ha liberata «dal destino di corruzione fisica e morale a cui essa era prevalentemente congiunta nell’antica visione antropologica veterotestamentaria»235. L’aT riconosce uno stretto legame tra la morte e il peccato, e più in particolare tra la morte e la separazione da Dio a causa della rottura dell’alleanza, e non riesce a diradare del tutto le ombre che avvolgono questo oscuro mistero. La sua concezione della morte non supera di molto le vecchie concezioni dello sheol come luogo di passività estrema e destino indiscriminato di tutti i trapassati. Nell’aT, in pratica, la morte dell’uomo non è redenta, si presenta come una parentesi e un intervallo che rimanda alla fine della storia, al giudizio finale e alla risurrezione escatologica. Il NT, poggiando sull’evento inedito e nuovo della risurrezione di Cristo nel cui dinamismo è stata assunta la stessa morte dell’uomo, ha riletto quest’ultima in una chiave nuova, poiché da corruzione e simbolo tangibile del peccato, essa diviene segno doloroso di salvezza attraverso 232 Cfr M. BOrDONI – N. CIOLa, Gesù nostra speranza. Saggio di escatologia, Bologna 1991. 233 Ibid., 191. 234 Ibid., 193. 235 Ibid., 195.

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il quale si realizza la trasformazione dell’uomo intero e si consuma il suo passaggio alla vita, poiché «Cristo ha dato “senso” al “non-senso” della morte umana»236. Bordoni, si spinge anche più in là, ed afferma che il trionfo della vita non è una realtà posta semplicemente oltre la morte, ma proprio quest’ultima «è divenuta in se stessa segno e passaggio ad una vita del tutto nuova in Cristo»237. Queste affermazioni sembrano tradire una certa “sopravvalutazione” dell’evento della morte considerato in se stesso; fatto, questo, non giustificato neppure dal NT (anche per Paolo la morte è l’«ultimo nemico» 1Cor 15, 26). La morte è e rimane di per sé un fatto per molti versi neutro che rivela tragicamente la finitezza dell’uomo e il limite imposto alla sua esistenza; essa ha ancora vivi i segni del peccato di cui è manifestazione e tragico risultato, e per quanto sia il transitus verso la pienezza di vita e la situazione definitiva dell’uomo, conserva quella paradossalità e negatività a cui quegli non potrà mai abituarsi e che mai potrà accettare pienamente238. Lo stesso teologo in un secondo momento mitiga le sue affermazioni ed ammette che in verità «la morte resta sempre un passaggio ambiguo: essa può continuare ad essere il momento decisivo della perdizione dell’uomo […] mentre, per chi muore “in Cristo” essa diviene un passaggio alla vita»239. Solo con queste premesse indispensabili, è possibile, anzi necessario, ribadire che essa acquista un significato nuovo a partire dalla morte sofferta e vissuta da Cristo, sebbene quest’ultima non mascheri e tanto meno sopprima la sua drammatica tristezza, ma le conferisca un valore diverso. Proprio entrando nel cuore stesso della morte, infatti, Cristo ha conosciuto la morte in tutta la sua profondità, ne ha assaggiato la derelizione e così ne ha anche rovesciato l’oscurità, facendone un passaggio verso il Padre e un segno della sua obbedienza filiale e della sua totale dedizione a lui.

Ibid., 196. Ibid., 197. 238 x. Lèon-Dufour sottolinea come di fronte alla propria morte «Gesù confessa disperatamente il desiderio più profondo della natura umana: quello di non morire e, ancor più, quello di non morire di morte crudele, prima dell’ora» (Di fronte alla morte, cit., 109), e per questa ragione la morte «non assume mai un valore in se stessa» (ibid., 132) sebbene egli l’abbia vissuta con una consapevolezza salvifica e non come un semplice incidente di percorso nel suo ministero. 239 M. BOrDONI – N. CIOLa, Gesù nostra speranza, cit., 199. 236 237

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Un merito indubitabile della riflessione di Bordoni sulla morte è certamente quello di aver messo in evidenza il significato dell’esistenza cristiana nella morte come essere nella Chiesa in cammino. avere, cioè, sottolineato che il carattere assolutamente personale della morte non si pone affatto in contrasto con il rapporto di comunione con Cristo nella Chiesa e nella comunità dei “morti in Cristo”, anzi può essere adeguatamente compreso soltanto in questo ambito. La morte è ritenuta il momento culminante del processo di personalizzazione dell’uomo e unitamente un fatto che riguarda non solamente il singolo essere umano, preso nella sua individualità, ma la persona umana colta nella sua imprescindibile relazione con gli altri, e in particolare, specialmente per il cristiano, con l’intera comunità ecclesiale240. La cristologia e l’ecclesiologia sono in pratica lo spazio entro cui solamente è possibile condurre un giusto e corretto discorso sulla morte dell’uomo (antropologia). Nel suo riferimento cristologico, la morte verrà compresa come “l’approfondimento” di quell’amicizia e l’espansione di quella comunione che il credente ha instaurato nel presente con Signore. Nel suo riferimento ecclesiologico, invece, «l’essere nella morte del credente che già è misticamente immerso nella comunione ecclesiale […] appare qui ancora avvolto nella comunione ecclesiale operante nella preghiera e nei sacrifici offerti dai fratelli nella fede»241. Questo dato ne chiarisce un altro, quello della purificazione esigita dall’incontro definitivo dell’uomo con Dio. Dopo aver analizzato le posizioni della teologia evangelica e quelle di una buona parte della teologia ortodossa, Bordoni arriva alla conclusione secondo cui proprio nella morte nell’uomo si porta a consumazione il processo di liberazione dalle ultime radici del peccato che ha segnato la sua esistenza presente e che non gli ha permesso di maturare in pienezza la sua crescita spirituale e la sua perfetta comunione con Cristo e con gli altri fratelli nella fede. Nella morte avverrebbe così quella purificazione che consuma il cammino della vita mistica del credente verso Dio e lo fissa definitivamente in lui242. La considerazione della dimensione cristologica ed ecclesiologica della morte non mette dunque in ombra il grande significato antropologico della stessa, anzi evidenzia ancora di più che essa è il momento personale del definitivo incontro del credente, inserito nella 240 241 242

Cfr ibid., 193. Ibid., 202. Cfr ibid., 204.

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comunità ecclesiale, con l’offerta della grazia di Dio in Cristo. È così che l’opera di salvezza realizzata da Cristo viene ad incontrarsi con il compimento personale dell’uomo che accoglie o rifiuta in modo decisivo e radicale, il dono della grazia, anch’esso decisivo e assoluto. «La morte — continua il teologo del Laterano — come incontro personale con Cristo, diviene il momento culminante del dialogo tra la libertà e la grazia»243, mostrandosi, così, non solo come un evento personale e personalizzante, ma anche inter-personale e dialogico che apre definitivamente, o chiude inesorabilmente e dis-graziatamente, l’uomo a Dio. Perché nella morte avvenga la risolutiva e incondizionata apertura dell’uomo a Dio, è comunque necessario pensare alla possibilità di un dono, di una grazia speciale di perseveranza per il credente, in modo tale che il disporsi perfetto e senza riserve per Dio, compiuto nella propria morte, sia sostenuto e guidato prima di ogni altra cosa dalla grazia che manifesta la presenza amorevole e misericordiosa di Dio anche e soprattutto nella stessa morte. La presenza e l’azione della grazia nella morte dell’uomo fa sì che questa venga compresa anche come giudizio, inteso, quest’ultimo, come la consumazione di tutta l’opera positiva con cui Dio conduce l’uomo alla salvezza e l’interpella personalmente per un’adesione totale a lui e alla sua comunione di vita244. La morte, cioè, così come aveva già sostenuto ruiz de la Peña, è il momento terminale per eccellenza dell’esistenza personale dell’uomo e — aggiunge Bordoni — «il momento di sintesi di tutto l’orientamento fondamentale del suo passato di libertà»245. Nella morte ci sarebbe un “momento” che non appartiene né alla temporalità e neppure all’a-temporalità, e costituirebbe il “luogo” di una sintesi finale della vita cosciente e libera dell’uomo; l’occasione, l’ultima e la più totalizzante, di una risposta piena ed assoluta all’appello della grazia. In questo senso, secondo il teologo romano è possibile recuperare quanto di valore è contenuto nella tesi dell’opzione finale, scartando quanto invece conduce ad una svalutazione delle decisioni libere operate nel corso dell’intera esistenza e ritenute, a torto, quasi propedeutiche alla scelta finale e definitiva che l’uomo sarebbe chiamato a fare nella sua morte. Secondo Bordoni, «è possibile concepire la morte-azione come un momento di libertà terminale la cui caratteristica, dovuta alle particolari 243 244 245

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Ibid., 207. Cfr ibid., 208-209. Ibid., 210.


nuove condizioni di esistenza, è quella di costituire un momento di pienezza in cui l’orientamento fondamentale dell’esistenza terrestre viene riassunto e conglobato»246. È perciò la vita intera a decidere della sorte eterna dell’uomo e non unicamente la sua ultima opzione, poiché quest’ultima non sarà altro che la ricapitolazione dell’intera storia personale dell’uomo e della sua libertà, in quanto resta pur sempre possibile pensare ad un singolare ed eccezionale intervento della grazia capace di sostenere una determinazione nuova e diversa da parte del soggetto rispetto al passato della propria vita. La morte rimane in ogni modo l’evento che cristallizza e sigilla l’orientamento fondamentale dell’uomo, l’irrevocabilità e la definitività della sua decisione libera, per cui egli «permane eternamente nella risposta conclusiva, della sua vita terrena, all’offerta dell’amore redentore di Dio in Cristo»247. Per quanto la morte sia un kairos salvifico e di grazia definitivo per il credente, resta tuttavia la possibilità reale che questo momento sia vanificato dal rifiuto della libertà umana, ed è questa la “morte seconda” di cui ci parla l’apocalisse e che sanziona una vita vissuta nel rifiuto all’offerta di grazia che Dio rivolge all’uomo nel suo Figlio. Bordoni, anche attraverso una critica serrata alla teoria della risurrezione nella morte, vuole inoltre affermare che per il credente nella morte non avviene una sorta di separazione cosmica o di isolamento esistenziale, perché Cristo stesso diviene la “dimora” del credente, e il corpo di Cristo, che è la Chiesa, il suo luogo permanente. È infatti possibile ravvisare nella stessa assunzione di Maria al cielo l’anticipo di quella gloria corporea a cui il credente è destinato, poiché questi, «pur non avendo ancora recuperato la sua corporeità personale, è però già profondamente inserito in un contesto di corporeità nuova nel quale egli vive già in una sorta di anticipazione della sua stessa personale glorificazione corporea parusiaca»248. Sebbene non si comprenda perfettamente cosa l’autore intenda sostenere quando parla di “contesto di corporeità nuova”, è veramente apprezzabile lo sforzo di riguadagnare l’evento della morte alla prospettiva ecclesiale entro cui solamente è possibile coglierne il significato profondo. Inoltre risulta di grande interesse lo stretto legame che da Bordoni viene stabilito tra il mistero dell’assunzione di Maria e la sorte finale dei credenti che 246 247 248

Ibid., 213. Ibid., 214. Ibid., 222.

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nella morte vengono inseriti più profondamente nel corpo di Cristo che è la Chiesa — di cui Maria è un membro eletto — e che per ciò stesso già sperimentano anticipatamente quella glorificazione corporea che si realizzerà perfettamente in essi solo alla fine dei tempi, quando il loro corpo corruttibile si rivestirà di incorruttibilità e il loro corpo mortale di immortalità e la morte sarà ingoiata per la vittoria (cfr 1Cor 15,54). Dopo aver presentato più diffusamente, ma non per questo del tutto esaurientemente, il pensiero teologico di Bordoni sulla morte, questa rassegna della teologia italiana, anch’essa non del tutto esauriente, si vuole conclude con l’esposizione per grandi linee dell’apporto di altri tre teologi che a diverso titolo si sono occupati di escatologia anche nel loro insegnamento accademico, e che hanno tentato di mettere a fuoco alcuni interessanti elementi dell’odierna comprensione cristiana e teologica della questione della morte e del morire umani, poiché sono convinto che di certo completeranno la panoramica generale della riflessione teologica italiana su questo argomento. G. Colzani fa vedere come l’escatologia rimanda ad un compimento che in primo luogo deve corrispondere all’attuarsi della libertà umana, e in secondo luogo deve portare quest’ultima alla pienezza nella sua dimensione individuale e comunitaria. La libertà umana giunge alla pienezza attraverso una dinamica in cui viene ad incontrarsi e ad inserirsi nell’agire escatologico con cui Dio conduce la storia alla sua verità e quindi alla sua definitività. L’escatologia è allora chiamata a riflettere sulle condizioni di accesso della persona a questa definitività escatologica249. La morte è proprio il luogo in cui si rende palese l’incontro tra la libertà umana e l’agire escatologico di Dio. Perciò «nella morte la persona esaurisce le proprie possibilità ed incontra il senso ultimo e definitivo, Gesù il Kyrios, come colui che gli viene incontro e lo salva»250. Il teologo ritiene tuttavia che la morte sia innanzitutto un chiaro indizio che palesa lo stato di decadenza di cui soffre la creazione che, pur essendo opera di Dio, tuttavia «non è più compenetrata dalla grazia, ma attraversata da quel peccato che si contrappone al suo strutturale riferimento a Dio»251 divenendo così segno e amara testimonianza della separazione da Dio causata dal reato commesso dall’uomo. Solo su questo sfondo 249 250 251

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Cfr G. COLzaNI, L’escatologia nella teologia cattolica degli ultimi 30 anni, cit., 110. L. c. ID., La vita eterna, cit., 201.


drammatico è possibile comprendere l’opera salvifica di Cristo: nella sua morte, infatti, la creazione è ritornata alla sua autentica vocazione. L’essereper-la-morte, cioè l’uomo, diviene oramai un essere-per-la-vita, secondo l’originario disegno di Dio mai abrogato né sostituito a causa del peccato. Il cristiano è così chiamato a morire la morte del giusto; quella morte, cioè, che viene collocata in Cristo e che per ciò stesso perde il suo tratto negativo e diviene assoluta e incondizionata dedizione a Dio e ai fratelli252. a. rudoni, invece, nella sua riflessione segue sostanzialmente la teologia classica anche per quanto concerne l’ordine della trattazione delle varie questioni: la morte come evento naturale; universalità della morte e suo legame col peccato; la morte come finis viae (particolare attenzione alle tradizionali tematiche annesse, in particolare l’immortalità dell’anima e la reincarnazione). Tutto questo nel rispetto della metodologia propria della manualistica: enunciazione della tesi, testimonianza della Scrittura (aT e quindi NT), testimonianza patristica e della tradizione teologica, questioni aperte ed eventuali errori da correggere. rudoni sembra provare qualche simpatia per l’ipotesi dell’opzione finale non solo perché ritiene che questa posizione teologica risolva diverse questioni di natura pastorale, ma soprattutto perché secondo lui consente di unificare l’intera escatologia individuale (la stessa morteopzione costituirebbe il giudizio particolare, il purgatorio e l’inaugurazione della salvezza o della condanna eterne) e di manifestare il cristocentrismo dell’escatologia individuale, in quanto ogni novissimo si definirebbe dall’incontro dell’uomo con Cristo e dall’esito di questo incontro253. Colui che muore in Cristo, non fa più l’esperienza della morte come corpo e incarnazione del peccato, ma della grazia e di quell’amore con cui Cristo stesso si è offerto al Padre254. Il giusto, contrariamente al peccatore, vive la partecipazione “effettiva” alla stessa morte di Cristo, realizzando nella morte quelle possibilità di vita (offerta d’amore a Dio) che ormai per la morte di Cristo sono penetrate nel cuore del mondo e sono rese disponibili a tutti gli uomini che ne colgono i frutti soprattutto nella vita sacramentale della Chiesa. È attraverso i sacramenti, infatti, che il cristiano anticipa attivamente la propria morte e vince quella angoscia naturale che il suo ricordo suscita: la 252 253 254

Cfr ibid., 204. Cfr a. rUDONI, Escatologia, cit., 81-105, in particolare p. 105. Cfr ibid., 118.

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morte cristiana è e rimane sempre una porta angusta, ma è un porta che introduce nella comunione piena con il risorto e conduce alla Vita. Per questa ragione è necessario mantenere la giusta tensione tra l’aspetto negativo e tragico della morte e la dimensione pasquale e positiva in cui oramai essa è inscritta mediante la morte e risurrezione di Gesù255. alquanto originale risulta infine la riflessione sulla morte che recentemente E. Scognamiglio ha proposto nel suo voluminoso testo dedicato allo studio dell’escatologia cattolica, non tanto per i contenuti, quanto piuttosto per la particolare prospettiva assunta. Questo giovane teologo italiano, frate minore conventuale, tratta direttamente della morte proprio nell’ultima parte del suo testo e tenta di inquadrare questa questione entro un orizzonte che potremmo quasi definire squisitamente “francescano”. La sua indagine, infatti, parte dall’analisi sintetica del “cantico delle creature” di San Francesco, in cui il santo di assisi non a caso chiama la morte “sorella”. L’autore fa notare come la morte, definita “sorella” da San Francesco è propriamente la morte fisica, la realtà-morte, la fine della vita dell’uomo, e non la morte frutto del peccato, la morte spirituale che invece bisogna davvero temere. Per San Francesco la morte appartiene al creato e l’intero universo non è al di fuori del suo raggio d’azione: tutte le cose, uomo compreso, sono affratellate dalla morte, dal comune esito della vita, dalla comune esperienza del finire. La morte è sorella soltanto perché permette all’uomo di continuare per sempre, in modo stabile e definitivo, la sua unione con Cristo, il suo rapporto di comunione con il Creatore al quale la persona umana si dona nell’amore256. Il significato proprio della morte, quindi, ci è suggerito esclusivamente da Cristo e dal suo mistero di morte e di gloria. La concezione della morte propria di San Francesco è fortemente cristologica e svela solamente nel Crocifisso risorto il suo vero volto (l’”orizzonte francescano” della morte è tale solamente se prima di tutto si configura come un “orizzonte cristologico”)257. Quest’ultimo è il dato che caratterizza e specifica la concezione della morte propria del cristiano.

255 256 257

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Cfr ibid., 125. Cfr E. SCOGNaMIGLIO, Ecco, io faccio nuove tutte le cose, Padova 2002, 681-683. Cfr ibid., 688.


3.1. alcune riflessioni conclusive Concludendo si può dire sinteticamente che la teologia italiana si è sforzata di mantenere tutto ciò che di prezioso è derivato alla teologia della morte non solo dalla filosofia, ma anche dalla riflessione teologica d’oltralpe. Un limite riscontrabile nella sua indagine è l’insufficiente tentativo di un confronto critico con autori italiani laici che per diverse ragioni e da diverse prospettive, hanno parlato diffusamente anche della morte (penso ad esempio soprattutto a S. Quinzio, S. Natoli, M. Cacciari, S. Givone, G. Vattimo, V. Vitiello, ed altri), e i cui contributi a mio avviso avrebbero certamente arricchito anche l’indagine teologica su questa problematica258. La teologia di lingua italiana, soprattutto se messa a confronto con quella di lingua tedesca, presenta anche il limite di non essere stata sufficientemente attenta allo studio dell’escatologia di autori di area protestante e ortodossa259, e di essere stata a volte forse un po’ evasiva riguardo alle questioni che hanno una particolare importanza nel dibattito teologico interconfessionale; mentre se viene messa a confronto con la teologia di lingua spagnola mostra il suo debole, o perlomeno ancora non sufficiente radicamento nel territorio (cultura, tradizioni, usanze, linguaggi, immaginario) in cui si muove e che è chiamata a servire. Un altro deficit della teologia italiana, condiviso questa volta anche con gli altri teologi di lingua tedesca e spagnola, è la scarsa considerazione dell’escatologia delle altre religioni, e più specificamente la domanda circa il significato che la morte assume presso le fedi delle altre confessioni religiose. Problematica, questa, che la teologia contemporanea non ha ancora trattato in maniera diretta, sistematica e critica, ma che attende una risposta soprattutto in un tempo in cui il cristianesimo si trova sempre più inserito in un contesto di pluralismo religioso che gli rivolge, più o meno Un tentativo in questo senso è stato fatto da B. Forte il quale ha intavolato un confronto sereno e critico con alcuni intellettuali italiani anche sulla questione della morte e dell’aldilà. Cfr ad esempio B. FOrTE – S. NaTOLI, Delle cose ultime e penultime. Un dialogo, Milano 1997; B. FOrTE – V. VITIELLO, La vita e il suo oltre. Dialogo sulla morte, roma 2001. 259 Fa in parte eccezione il saggio di escatologia di M. BOrDONI – N. CIOLa, Gesù nostra speranza, cit., in cui gli autori dedicano direttamente un paio di paragrafi allo studio dell’escatologia come problema ecumenico nel protestantesimo contemporaneo e nella teologia ortodossa (pp. 108-129). 258

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direttamente, delle domande fondamentali soprattutto circa la sorte futura dell’uomo e del mondo260. Una presentazione più puntuale della concezione della morte propria delle altre religioni metterebbe in evidenza, infatti, non solo quanto di prezioso esse hanno da consegnare al cristianesimo, ma soprattutto farebbe emergere lo specifico della fede cristiana e del suo messaggio di speranza per l’uomo e il mondo261. resta comunque lodevole una delle sue caratteristiche principali che, come è stato già anticipato, è quella dell’equilibrio e dell’assoluto rispetto per le dichiarazioni magisteriali e per le acquisizioni della teologia contemporanea: la teologia italiana, infatti, ha saputo mantenersi fondamentalmente attenta a quanto costituisce parte del depositum fidei della Chiesa senza per questo trascurare in qualche modo le reali istanze e domande dell’uomo contemporaneo e le questioni che il mondo di oggi pone alla teologia circa la fine dell’uomo e il suo destino ultraterreno.

260 In risposta alle provocazioni derivanti dall’incontro del cristianesimo con le religioni orientali, in particolare il buddhismo e l’induismo, sempre più presenti e operanti anche in Occidente, sia il Vaticano II come anche la teologia cattolica degli ultimi anni hanno cercato di rimarcare con forza l’irripetibilità della vita del singolo, la sua unicità, il suo profondo valore e significato, ed hanno sottolineato che la morte rappresenta proprio la fine dell’unico corso della vita dell’uomo e non semplicemente uno stato che si ripete a certi intervalli, un passaggio a cui bisogna abituarsi, perché naturale come lo è la vita. È la questione della reincarnazione o della trasmigrazione delle anime; dottrine, queste, che affascinano sempre più una fascia in crescita anche di cristiani che trovano in esse delle risposte per alcuni versi convincenti al dramma della morte e alla sua ineluttabilità. La teologia ha riaffermato con chiarezza che la morte rappresenta il momento definitivo che chiude l’esistenza terrena dell’uomo e le sua scelte personali, poiché «è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola e siano quindi giudicati da Dio» (Eb 9,27). Questa certezza, come si è visto, ha altresì aiutato la teologia ad acquisire la convinzione secondo cui la morte è un evento antropologicamente e teologicamente significativo e fondamentale. 261 a questo proposito si veda l’opera in collaborazione La vita e la morte nelle grandi religioni, Milano 2000; ed inoltre j. BOWKEr, La morte nelle religioni. Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Induismo, Buddismo, Cinisello Balsamo 1996; H. OBayaSHI ed., Death and afterlife. Perspectives of world religions, New york 1992.

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CaPITOLO VII TENTaTIVO DI UN BILaNCIO SINTETICO CONCLUSIVO La teologia contemporanea ha riconosciuto alla questione della morte il suo giusto valore perché ha afferrato maggiormente la sua importanza per la comprensione dell’uomo e della sua vita. Ha letto la morte come evento umano e dell’uomo, e in ciò si è lasciata aiutare dall’innegabile e valido contributo della filosofia, della sociologia e dell’antropologia che già da diverso tempo si erano impegnate nello studio di questo argomento. La filosofia ha aiutato ancora di più la teologia a comprendere che la morte è l’evento dell’irrazionalità che interrompe totalmente le relazioni vitali che costituiscono la persona, la sua storia, ciò che essa è e ciò che essa esprime di sé. In quanto tale la morte è manifestazione della finitudine della vita umana, poiché — come fa notare jüngel — «quando muore, l’uomo è ancora soltanto ciò che era. Da sé non diventerà più nulla e quindi non sarà nemmeno più»262. L’uomo è perciò mortale perché porta in sé la tendenza all’irrelazionalità non solo nel campo della natura, ma anche e soprattutto in quello sociale e storico-politico. La possibilità che le relazioni che l’uomo ha costruito e alimentato nel corso della sua esistenza, e che in qualche modo sono la sua stessa esistenza, possano essere d’un tratto annullate e nientificate dalla morte, è ciò che genera nel dolore la paura e il terrore provato dall’uomo di fronte al pensiero stesso della morte e del morire. Le ragioni di questo terrore sono prese in seria considerazione dalla rivelazione cristiana che vede nella morte non solo la palese disgregazione del composto umano, ma soprattutto ciò che più di ogni altra cosa minaccia l’uomo nella totalità della sua esistenza, nell’unità del suo essere e del suo agire, nel suo rapporto con gli altri e con Dio. Nella rivelazione, infatti, «la coscienza della nullità dell’uomo — che si manifesta nella morte — raggiunge il suo acme nel capire che questa non-definitività viene ratificata alla morte e nella morte. Vista con occhi umani la morte non contiene in sé la possibilità di una qualunque via d’uscita; irrevocabilmente essa lascia 262

E. jüNGEL, Morte, cit., 163.

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l’uomo — senza Dio — al suo destino di frammento strappato alla vita»263. Il cristianesimo non vuole imporre all’uomo la maschera di un ostentato rilassamento di fronte alla fine, né vuole narcotizzare il credente facendogli credere, illudendolo, che la morte sia in sé un’esperienza altamente estetica e ricca di profonde emozioni, per cui va vissuta con eleganza, serenità e calma, quasi poeticamente, deridendo il suo carattere drammatico e doloroso. Il messaggio cristiano, al contrario, penetra nel cuore stesso del dramma della morte, non lo sfiora, e annuncia al credente quella speranza che è riposta nel risorto, ma che non dimentica lo strazio del Crocifisso e il suo grido di dolore: nel risorto il cristiano avverte il disordine della morte e sente tutto lo strappo da essa prodotto, ma ugualmente le dice sì e l’accoglie come esodo verso il Padre. Del terrore e tremore causati dalla morte si è fatta interprete la riflessione filosofica contemporanea e non ultima la stessa riflessione teologica che ha tuttavia tentato di mostrare l’altra dimensione della comprensione della morte, quella dell’offerta. Dio, cioè, non rimane estraneo alla morte dell’uomo ma ne partecipa nell’offerta della vita e nella consegna alla morte da parte del suo figlio Gesù Cristo. Quando è minacciato dalla morte il credente ha davanti a sé colui che della morte è vincitore, sebbene ancora oggi il mondo sia visibilmente dominato da una morte per nulla pacificata ma insopportabilmente violenta (guerre, stragi, terrorismo, catastrofi naturali, ecc.). La teologia non ha chiuso gi occhi di fronte alla realtà amara della morte, ma ha visto in essa un evento che ha un profondo significato teologico e cristologico, e proprio per questo, anche grazie alla rilettura critica della testimonianza della Scrittura e della tradizione ecclesiale, ha capito che essa acquista il suo contenuto più vero e profondo soltanto alla luce del progetto di Dio sull’uomo e del mistero pasquale di Cristo. Tutto ciò che di negativo il mistero della morte umana evoca (fine, solitudine, distacco, paura, ecc.) è stato perfettamente assunto dallo stesso Gesù, è stato da lui vissuto sino in profondità ed è stato perciò radicalmente trasfigurato. La morte, evento massimamente negativo, è stata debilitata dalla morte compiuta nel nome di Dio da Cristo, e questo è il fatto che ha definitivamente trasformato la stessa valutazione che di questo evento ha la riflessione credente. 263

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W. BrEUNING, Morte e risurrezione nella predicazione, cit., 26.


Il credente comprende allora la propria morte a partire dalla morte vissuta dallo stesso Gesù Cristo, e orientato da questa morte, unica, ma con un significato e un valore universali, viene posto di fronte ad un’alternativa: o aggrapparsi alla vita che irrimediabilmente fugge e che pertanto non può fondare il proprio significato, oppure riconoscere l’esistenza come ciò che viene da Qualcuno, e affidarsi così a questa misteriosa realtà. L’atteggiamento che l’uomo assume di fronte alla morte, alla propria morte, implica perciò la possibilità stessa di un’opzione di fronte alla radice trascendente o metafisica dell’esistenza che porta l’essere umano a riconoscersi o a rifiutarsi come creatura, un’opzione che non può essere elusa o arginata, pena la stessa umanizzazione dell’uomo e la sua definitiva realizzazione264. La morte cristiana possiede un significato escatologico proprio perché è iscritta nello stesso significato escatologico dell’evento Cristo nel quale gli eschata e l’eschaton vengono personalizzati. Il recupero della dimensione cristologica della morte cristiana è stato uno dei meriti più significativi della teologia contemporanea che ha compreso come il senso della morte dell’uomo può essere riconquistato unicamente alla luce della morte dell’uomo Cristo Gesù265. Per ciò stesso, «la cristologia è in grado di offrire, a una storia priva di speranza, a un uomo prigioniero della colpa e a una vita che sfocia nella morte, un nuovo futuro, capace di rompere le barriere della colpa, della morte e della schiavitù»266. Il pregio, forse il maggiore, della teologia contemporanea è stato perciò lo sforzo di rileggere l’evento della morte dell’uomo a partire dal criterio fondamentale offerto dal mistero pasquale di Cristo. Non solo la sottolineatura della dimensione umana e personale della morte e del morire, recuperata dalla filosofia contemporanea, ma anche della sua irrinunciabile, primaria e perlomeno altrettanto fondamentale dimensione cristologico-pasquale. Cfr M. PETrINI, Accanto al morente, cit., 27. Per approfondire la questione del significato salvifico della morte di Cristo e soprattutto del senso che egli diede alla propria morte, nonché dell’atteggiamento da lui assunto di fronte alla propria morte, confronta tra l’altro x. LéON-DUFOUr, Di fronte alla morte. Gesù e Paolo, Torino 1982; aSSOCIazIONE BIBLICa ITaLIaNa, Gesù e la sua morte, Brescia 1984; F.x. DUrrWELL, Cristo, l’uomo e la morte, Milano 1993; r.E. BrOWN, La morte del Messia, Brescia 1999; e per una presentazione sintetica dello status in cui versa la produzione esegetico-teologica su questa questione si veda soprattutto G. SEGaLLa, Gesù e la sua morte: rassegna bibliografica, in Rivista Biblica 30 (1982) 145-156. 266 D. WIEDErKEHr, Prospettive dell’escatologia, Brescia 1978, 35. 264 265

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La morte dell’uomo possiede un significato escatologico perché la solidarietà di Gesù Cristo con l’uomo dentro e oltre la morte ne ha cambiato profondamente il senso: essa è ormai il sacramento della realizzazione piena dell’esistenza umana in Dio. Per questa ragione, «l’uomo che muore in e con Cristo viene a trovarsi, nel momento della sua morte, in una situazione escatologica che esprime la pienezza di un incontro. La morte dell’uomo, cioè, trova una soluzione perché Cristo l’ha assunta in pienezza e con la sua risurrezione dai morti le ha dato un volto nuovo»267. In essa si consuma quel processo di natura mistico-sacramentale che viene espresso nella tensione tra l’essere in Cristo nella vita presente, e l’essere con Cristo nella morte e nell’eschaton. La morte realizza per l’uomo quella comunione con Cristo che non aveva potuto effettuare compiutamente durante la sua esistenza storica, ancora assoggettata al peccato e alla fragilità, e che ora, invece, diventa unione mistica e sponsale tra il credente e Cristo, tra il credente e Dio in Cristo: quanto è avvenuto sacramentalmente soprattutto nel battesimo e nell’Eucaristia, si compie esistenzialmente nella morte che avviene “nel Signore”. Per Küng il cristiano non può temere la morte non tanto perché ne sconosce la serietà o non ne comprende appieno il significato distruttivo, ma perché pone la sua fiducia nell’opera di Colui che ha risuscitato dai morti il Figlio suo Gesù Cristo: la sconfitta della paura della morte — si potrebbe dire — ha perciò una ragione teologica e cristologica, e non diretG. aNCONa, La morte. Teologia e catechesi, Cinisello Balsamo 1993, 65. Il teologo pugliese, parlando della realtà-verità della morte di Cristo il quale si è reso perfettamente solidale con il destino di morte dell’uomo, sottolinea come per la fede cristiana la stessa discesa di Gesù agli inferi non è «un mistero che si pone semplicemente accanto al mistero di morte e risurrezione di Gesù; esso, di fatto, non aggiunge nulla, nella sostanza, al contenuto salvifico della Pasqua, ma ne esprime significativamente la sua realtà-verità. In tal senso, la discesa agli inferi dice, in primo luogo, la realtà-verità della morte di Gesù. Il Figlio di Dio, infatti, condivide in totalità l’esperienza della morte umana, solidarizza con gli uomini dentro la morte; egli, cioè, non solo è morto, ma è rimasto anche nello stato di morte, è entrato nel regno dei morti (lo sheol), nel destino comune degli uomini; egli ha assunto la durezza, la solitudine, la freddezza dell’esperienza della morte e in essa tutte le esperienze di assurdità e di abbandono». Tuttavia non va dimenticato che «la solidarietà del Figlio di Dio con gli uomini non è solo dentro la morte, ma anche oltre la morte […]. Egli ha vinto le potenze dell’inferno, che tenevano prigionieri gli uomini; ha spezzato le catene della morte, l’ha vinta» (Escatologia cristiana, Brescia 2003, 319-320). Dello stesso autore si veda inoltre: Il significato escatologico cristiano della morte, Pontificia Università Lateranense, roma 1990; Disceso agli inferi. Storia di un articolo di fede, roma 1999. 267

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tamente antropologica (l’uomo descritto da tanta filosofia esistenzialista, ormai maturo per raggiungere il proprio destino e per accettare responsabilmente la propria fine). Di fronte alla morte tuttavia «neppure il cristiano ha il dovere di negare la paura e il tremore, ma può essere certo — con l’angoscia mortale di Gesù alle spalle e il suo grido ancora nell’orecchio — che anche questa paura e questo tremore sono abbracciati dal Dio che è amore, vengono trasformati nella libertà dei figli di Dio»268. La morte allora non è direttamente un’azione compiuta dall’uomo, ma la risposta di quest’ultimo alla chiamata di Dio, la sua assoluta disponibilità a lasciarsi guidare e sostenere da lui, senza alcuna resistenza, con quella fiducia filiale che fu di Gesù269. La teologia della morte ha potuto esprimere queste verità anche perché ha beneficiato direttamente di quel processo di rinnovamento che ha interessato l’intera teologia, attraverso il ritorno alle fonti biblico-patristiche e liturgiche, e alla più genuina e feconda tradizione teologica. Un nuovo approccio critico alla testimonianza della Scrittura, infatti, ha fatto sì che il mistero della morte, compreso nell’alveo del mistero pasquale di Cristo, venisse ritenuto non solamente come fatto empirico e naturale, ma soprattutto come “luogo teologico” in cui avviene la manifestazione kenotica di Dio che nel suo Figlio si è fatto solidale con l’uomo e il suo destino, e allo stesso tempo come il momento in cui avviene la rivelazione più compiuta della vera identità e natura dell’uomo, quale essere libero chiamato alla comunione eterna con Dio270. La morte, perciò, è per questa ragione un evento teologicamente, cristologicamente e antropologicamente denso e significativo271. H. KüNG, Vita eterna? Riflessioni sull’aldilà, cit., 222. Cfr ibid., 223. 270 anche G. ancona, dopo aver presentato l’apporto di filosofi come K. jaspers, M. Heidegger, j.P. Sartre, M. Scheler e G. Marcel per la comprensione della morte e dell’uomo, e aver tratteggiato per grandi linee il percorso che ha condotto al “ritorno della morte” nella cultura e nel mondo contemporaneo (filosofia, letteratura, sociologia, psicologia, arte, ecc.), e dopo aver dunque parlato della morte mass-mediale o delle esperienze di pre-morte che molto impressionano la sensibilità dell’uomo moderno, giunge comunque alla conclusione che «il “luogo” decisivo per una comprensione significativa della morte umana è l’evento di Gesù Cristo» (La morte, cit., 39). 271 Non va dimenticato un dato non marginale, e cioè che strettamente congiunta alla dimensione cristologica della morte, c’è da considerare la sua dimensione ecclesiologica e comunitaria. La morte, infatti, è un fatto ecclesiologicamente importante, perché non distrugge la comunione degli uomini con Dio e tra di loro, ma anzi in Cristo risorto la 268 269

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Se è vero come è vero che il dialogo con la cultura contemporanea ha fatto riguadagnare alla teologia la giusta comprensione della morte come evento umano e dell’uomo, è altresì vero che la morte rimarrebbe per l’uomo pur sempre una domanda senza possibilità di risposta se non venisse letta nel contesto di quel mysterion ancora più grande, ovvero il progetto di salvezza che Dio ha preordinato prima dei secoli e che ha manifestato e realizzato in pienezza mediante il suo Figlio morto e risorto. Ecco perché solo l’evento pasquale è in grado di penetrare nelle viscere della morte e diradarne le ombre. La morte tuttavia rimane anche oggi l’ultimo nemico che deve essere definitivamente sconfitto e che ancora l’uomo sperimenta in tutta la sua drammaticità. La teologia ribadisce perciò una convinzione profonda della Chiesa, e cioè che quanto si è realizzato nel Capo attende di essere partecipato a tutte le sue membra, perché la morte venga finalmente gettata in fondo all’abisso e Dio sia tutto in tutte le cose (cfr 1Cor 15,28). La riflessione contemporanea ha perciò tentato di esplicitare come e a quali condizioni il morire dell’uomo è assunto nel processo escatologico di risurrezione del Cristo, poiché l’intera esistenza cristiana (vita e morte) si fonda dinamicamente nella morte-risurrezione di Cristo, e solo grazie a quanto Dio ha operato nel suo Figlio, abbandonandolo alla morte e risuscitandolo dai morti con la potenza dello Spirito, può rischiarare il mistero della morte umana: come nella morte del Capo è già contenuta la morte di tutte le sue membra, così nella sua risurrezione è contenuta la risurrezione escatologica di tutto intero il suo corpo e delle sue singole membra. Nel Capo è anticipata quella redenzione dalla morte che sarà perfettamente partecipata a tutte le altre membra in pienezza alla fine dei tempi. In tal senso — afferma jüngel — «redenzione dalla morte equivale a liberazione per un nuovo rapporto con Dio e con se stessi. E cioè […] allontanamento dalla maledizione delle azioni che perdono la vita»272 nell’attesa di possedere definitivamente quella vita che nulla potrà mai più spegnere. rafforza e la consolida. Lo stesso Greshake parla della morte come di un fatto che non può essere meramente ridotto ad evento privato, perché l’incontro con Dio nella morte è per il cristiano «un evento che si svolge nella Chiesa, nell’ambito del corpo di Cristo, sostenuto dall’intercessione dei credenti e dei santi che si manifesta nella preghiera e nella speranza» (G. GrESHaKE, Breve trattato sui novissimi, Brescia 1978, 85). 272 Cfr E. jüNGEL, Morte, cit., 179-180.

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La morte dell’essere umano è poi intimamente congiunta al destino dell’intero creato che proprio a causa del peccato dell’uomo è stato sottomesso alla corruzione e geme soffre nell’attesa della piena manifestazione dei figli di Dio (cfr rm 8,19-23). La teologia ha perciò il compito di approfondire lo stretto rapporto di solidarietà che lega l’uomo al cosmo intero in cui vive e di cui è parte (tendenza dell’attuale teologia delle realtà ultime e in particolare della teologia della morte), la sua sofferenza alla sofferenza del mondo, la sua risurrezione al sorgere di nuovi cieli e di una terra nuova, poiché la lenta agonia del cosmo (crisi ecologica, sfruttamento selvaggio delle risorse della terra, inquinamento, minaccia di un cataclisma finale) è anch’essa in un certo qual modo anche un’amara e palese manifestazione del peccato dell’uomo, del suo disordinato rapporto con il creato, che corrode non solo il suo animo ma anche il mondo in cui vive e di cui vive. Ma l’apparizione della creazione nuova sarà anch’essa l’espressione di quella salvezza integrale dell’uomo che Dio ha preparato e partecipato mediante la risurrezione gloriosa del suo Figlio dai morti. Così come non è pensabile che la morte dell’uomo si consumi totalmente nel privato dell’esistenza della singola persona, senza alcun riferimento alla totalità delle cose e delle persone che la circondano, non è concepibile neppure la risurrezione dell’uomo al di fuori di uno “spazio”, cioè l’universo, anch’esso ormai perfettamente redento dalla corruzione e dalla morte e reso stabile dimora della giustizia (cfr 2Pt 3,13). La teologia, perciò, per controbilanciare la tendenza che porta a fissare l’attenzione unicamente sulle dinamiche della libertà e della volontà dell’uomo di fronte al mistero della morte, della propria morte (esito massimamente positivo dell’indagine della filosofia e della teologia contemporanee), e soprattutto per schivare il rischio di leggere nella morte un evento che interessa solamente il singolo individuo, la persona umana nella sua irriducibile singolarità, sebbene nel suo riferimento costante con gli altri uomini, dovrà assumersi l’onere gravoso di penetrare ancora di più nella fitta trama che mantiene indissolubilmente unito l’uomo al creato e che inestricabilmente congiunge i loro destini, nel bene e nel male, nella vita e nella morte. Dovrà, cioè, approfondire il nesso naturale tra l’uomo, le sue scelte e le sue opzioni in ordine al fine ultimo della sua esistenza, e il destino del mondo, la sua sorte finale. Per fare questo, con la consapevolezza che nel passato ha praticamente disatteso questo suo compito, essa dovrà avere attenzione specialmente per la testimonianza biblica e della 133


tradizione viva della Chiesa, ma anche per quanto le viene suggerito dalla riflessione delle scienze umane e naturali273. Un aspetto importante dell’odierna teologia della morte è inoltre la sua attenzione per la catechesi e per la pastorale. Essa è andata maturando nella convinzione che la morte prima ancora di essere una questione di natura filosofico-teologica, è primariamente una questione esistenziale che riguarda direttamente ogni singola persona. La teologia ha dunque sempre più capito che i suoi sforzi di comprensione devono essere finalizzati alla diaconia di un annuncio delicato e austero, solido e allo stesso tempo attento alle reali domande e ansie provate dall’uomo di fronte alla morte, alla propria morte; e in questa direzione ha svolto il suo lavoro di approfondimento della questione della morte umana e di traduzione per l’uomo di oggi del messaggio della Chiesa su questo punto della dottrina. Non va comunque dimenticato a questo proposito che la morte umana — e questo è quanto la teologia contemporanea ha voluto dire attraverso diversi linguaggi e svariate immagini — per la morte di Cristo ha cessato di essere un enigma incomprensibile (“fascinoso e tremendo” come il divino, direbbe la letteratura romantica), ma non per questo ha cessato di essere un mistero dinanzi a cui l’uomo sempre è chiamato a porsi col capo chino. Essa non cesserà mai di essere l’oggetto di quella che Lorizio definisce una “scienza nesciente”, di fronte alla quale «nessuna scienza sarà

Un tentativo importantissimo di leggere il destino dell’uomo come inestricabilmente legato a quello del cosmo è stato intrapreso soprattutto da P. Teilhard de Chardin. Certo, non è possibile in questa sede presentare neppure sommariamente il complesso svolgimento del suo pensiero su questa questione. Ciò che semplicemente si può dire è che per questo teologo-scienziato «la morte del cosmo, come la morte dell’umanità e di ogni singola persona, sono fisicamente necessarie, fanno cioè parte del processo evolutivo.per giungere alla forma ultima l’umanità deve dissolversi, perdersi per unirsi a Dio. In realtà come evento di ogni persona, giunta al compimento della vita, la morte è il residuo del dominio del molteplice e il passaggio ad una forma superiore di unità» (C. MOLarI, Rivisitazione di un modello problematicamente significativo: Teilhard de Chiardin, in aSSOCIazIONE TEOLOGICa ITaLIaNa, Futuro del cosmo. Futuro dell’uomo, a cura di S. Muratore, Padova 1995, 119-164, qui p. 153). La morte nel cosmo per ogni creatura è allora un uscire dal proprio centro interiore per centrarsi in un centro superiore, fino a giungere al centro supremo: essa è perciò il culmine di un processo che conduce ogni cosa ad essere centrata in Dio. Di questo teologo-scienziato si vedano soprattutto L’activation de l’énergie, Paris 1963; L’énergie humaine, Paris 1965; Science et Christ, Paris 1965; Les directions de l’avenir, Paris 1973; Le phénomène humain, Paris 1995. 273

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più sicura in generale e più imprecisa in particolare»274, per cui la teologia non è direttamente chiamata ad affannarsi per ridurre il divario tra l’evento della morte in sé e la povertà del linguaggio di cui si dispone per esprimerlo nella sua irriducibile e imponderabile profondità, ma a conservarlo. a questo proposito Martelet aggiunge: «Nulla è sconcertante quanto la morte poiché abolisce qualsiasi espressione, essa sembra sfidare ogni forma di linguaggio per rimanere un’esperienza limite indecifrabile. Da ciò, il duplice sentimento contraddittorio: la morte è tutto, la morte è niente. Tutto, perché essa segna il termine e il compimento della nostra vita; nulla, perché chiude ogni uomo entro un segreto impenetrabile»275. La rivelazione — fa notare Tilliette — resta un libro in parte sigillato, «ma quanto noi conosciamo è sufficiente a colmare il vuoto, riempiendolo di fede e di speranza»276. Nel parlare della morte, tuttavia, i cristiani spesso danno l’impressione di saperla troppo lunga, di proporsi come persone troppo competenti sull’argomento, e dimenticano che l’atteggiamento che tutti, loro compresi, dovrebbero assumere di fronte al mistero della morte è quello dell’ascolto umile, soprattutto della voce dell’umanità intera che da sempre sta facendo esperienza, l’amara esperienza, della morte e del morire277. Intendere questo significa porre le basi per una prassi pastorale e la proposizione di una catechesi davvero attente all’uomo concreto e alle concrete e reali questioni che lo assillano e lo inquietano. Molte domande aspettano ancora di ricevere una risposta adeguata, e molte questioni attendono di essere ulteriormente approfondite. L’uomo oggi chiede alla teologia, ad esempio, come sia possibile parlare di dualità di elementi (corpo ed anima) in riferimento all’essere umano (senza un’accurata ermeneutica che illumini il significato profondo di questi

274 G. LOrIzIO, Mistero della morte come mistero dell’uomo, cit., 102. Si veda anche S. MaGGIaNI, Elementi del dibattito odierno sulla morte, in Rivista Liturgica 66 (1979) 270-317. 275 G. MarTELET, L’aldilà ritrovato, cit., 115. 276 x. TILLIETTE, Morte e sopravvivenza, 45. Lo Stesso afferma che l’uomo deve prendere coscienza che «siamo degli esseri itineranti, cercatori che brancolano come ciechi. I morti, tanti quanti sono, hanno attraversato l’oscurità; essi sanno, detengono la gnosi perfetta mentre noi balbettiamo; è per questo che sono nostri fratelli maggiori, nostri primogeniti nell’ordine della conoscenza e nei segreti dell’amore» (ibid.). 277 Cfr N. GrEINaCHEr – a. MüLLEr, Il morire come tema di prassi ecclesiale, cit., 17.

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termini) senza rischiare di riproporre una concezione ritenuta da una buona parte della riflessione antropologica contemporanea quasi un retaggio ‘mitologico’ del passato. Ci si chiede anche come sia possibile parlare di serietà e verità della morte e nello stesso tempo difendere strenuamente la dottrina dell’immortalità dell’anima, ovvero solamente di una ‘parte’ della persona. Inoltre, ci si domanda come giustificare la coerenza della dottrina dell’immortalità dell’anima con la consapevolezza che la morte è un evento drammatico che non sfiora, ma avvolge completamente l’uomo; e come tradurre, senza sconfessarlo del tutto, il linguaggio “essenzialistico” e “sostanzialistico” dell’escatologia cattolica in un linguaggio — e in immagini — più vicino all’uomo contemporaneo e alla sua sensibilità, e più attento soprattutto al contributo delle scienze umane sempre più interessate al valore della persona e alle dinamiche che la condizionano ed animano. Infine ci si chiede quale rapporto c’è tra lo stato mortale dell’uomo e la condizione di morte in cui si trova il mondo, anch’esso continuamente esposto al rischio mortale e alla distruzione e ancora lontano dalla realizzazione di una salvezza e redenzione definitive, e quale significato e valore ha la redenzione di Cristo per la sorte del mondo sottomesso alla caducità e che porta anch’esso i segni tragici del destino di morte dell’uomo. Queste sono solo alcune delle sfide a cui la teologia deve far fronte se non vuole interrompere il dialogo con l’uomo e la cultura del mondo di oggi e così rischiare di viaggiare su binari paralleli a quelli su cui si muove il mondo contemporaneo278. Per questi motivi la teologia ha cercato di approfondire la fides della Chiesa e di giustificare la sua spes. Questa fede, prima ancora che nella riflessione sistematica dei trattati di escatologia, si è espressa ed ha trovato la sua dimensione vissuta nella lex orandi della comunità cristiana, nelle sue celebrazioni liturgiche e in particolare nella celebrazione delle esequie cristiane. La presentazione, seppure sommaria, di come i testi liturgici abbiano recepito le indicazioni del magistero o le riflessioni della teologia sul tema della morte e di come le abbiano espresse nell’eucologia o nei vari riti liturgici (sacramenti e sacramentali) non rientra assolutamente nell’ambito 278 Si veda a questo proposito N. GaLaNTINO, Storicità, senso e dimensione comunitaria della morte, cit., 169-175.

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di questo contributo. Ciò che posso semplicemente dire è che il nuovo Ordo Exsequiarum del 1969, ad esempio, recependo l’invito del Vaticano II che chiedeva che si esprimesse «più chiaramente l’indole pasquale della morte cristiana» (SC 81), ha tentato di recuperare quel ricchissimo patrimonio di testi e preghiere derivanti dalla tradizione della Chiesa ed ha soprattutto ripreso la visione biblica e patristica della morte, riducendo così il suo aspetto penitenziale e di intercessione, così presente nel rituale tridentino del 1614, per sottolineare la speranza del credente di partecipare alla vita di comunione con Dio e con i fratelli. Il nuovo rito delle esequie presenta — unitamente ai limiti ancora palesi (non ultima una concezione ancora velatamente dualista dell’uomo, la sua attenzione preponderante per la situazione post mortem piuttosto che per l’evento stesso della morte) — delle caratteristiche veramente apprezzabili: il rientramento cristologico della speranza cristiana, la prospettiva trinitaria dell’escatologia, la dimensione ecclesiologica della morte e quindi della speranza cristiana. L’accostamento ai nuovi testi utilizzati sia dal Rito delle Esequie come anche dai formulari delle Messe per i defunti del Messale Romano, fa risaltare immediatamente lo spessore cristologico, nonché ecclesiologico dell’eucologia, che in ultima analisi guarda alla morte dell’uomo attraverso il “filtro” della morte di Cristo. La sua è stata infatti una morte redentrice il cui profondo significato soteriologico non si ferma ad avvolgere il singolo fedele che partecipa con la sua morte al mistero pasquale del Signore Gesù, ma si apre a tutta la comunità ecclesiale che vive nel proprio fratello defunto il passaggio da questo mondo al Padre, e già gode, pregustandola, la gloria dei beati279. La rinnovata comprensione della morte da parte della teologia contemporanea ha trovato negli stessi testi del magistero una certa risonanza, ha guidato la revisione dei testi e dei riti liturgici, ha orientato la predicazione, l’omiletica e la catechesi, ma non è stata purtroppo perfetPer un approfondimento critico dei testi del Messale romano, si rimanda all’opera in collaborazione Il Messale Romano Vaticano II. Orazioni e Legionario, II, Torino-Leumann 1981; H. aSHWOrTH, Le nuove messe per i defunti nel Messale Romano di Paolo VI, in Rivista Liturgica 58 (1971) 354-381; a. TrIaCCa, Per una lettura liturgica dei prefazi Pro defunctis del nuovo Messale Romano, in Rivista Liturgica 58 (1971) 362-407. Per quanto riguarda invece il rito delle esequie si veda ad esempio P. GIaNNONI, Il morire dei cristiani in Cristo. Alcune proposte mistagogiche per la celebrazione delle Esequie, in Vita Monastica 47 (1993) 128-135; F. BrOVELLI, Lettura teologico-pastorale dei funerali, in L’ultima pasqua del cristiano. Problemi pastorali delle esequie cristiane, Milano 1977, 66-82. 279

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tamente e compiutamente tradotta nella prassi quotidiana e nel modus vivendi dei cristiani e della società contemporanea. Quest’ultima, infatti, anche se timidamente si trova in alcune occasioni a riflettere sulla morte (si parla oggi di “ritorno della morte” nel pensiero contemporaneo), il più delle volte — così come molte indagini di carattere sociologico hanno potuto appurare e come già si è avuto modo di mettere in evidenza — considera ancora la fine dell’uomo come un tabù che bisogna esorcizzare e a cui non bisogna assolutamente pensare. I cristiani non sono immuni di fronte a questo atteggiamento e molto spesso con estrema difficoltà riescono a rendere ragione della speranza che è in loro. anche l’arte e l’architettura cosiddette popolari (soprattutto cimiteri e cappelle funerarie), esprimenti il sentire religioso della gente comune, non sono un segno chiaro della speranza vissuta e testimoniata dai credenti. I cimiteri, ad esempio, piuttosto che luoghi in cui viene celebrata e testimoniata quella speranza di cui il cristiano è portatore, sono spesso semplici luoghi commemorativi, scrigni di quel dolore che i familiari del defunto vivono privatamente e lontano da tutti gli altri, condensati di tristezza e di disarmante rassegnazione. anche le immagini ornamentali più frequentemente utilizzate sono ben lontane dai simboli che possiamo ancora vedere nelle catacombe cristiane dei primi secoli della Chiesa (l’ancora, Giona, il buon Pastore, figure di anime fedeli oranti, ecc.), e spesso esprimono la mancanza di speranza, lo sconforto dei superstiti, la tristezza del distacco, il compianto per il tempo perduto e per l’assenza, oramai definitiva e irreparabile, della persona cara venuta a mancare, piuttosto che la speranza nella vittoria pasquale di Cristo sulla morte e sulla partecipazione del credente, in comunione con i fratelli di fede, al destino di gloria del risorto. a questo riguardo, ratzinger ad esempio è convinto che i cimiteri mostrino come la visione della morte e del post mortem propria dell’uomo moderno non sia poi così dissimile da quella delle cosiddette religioni primitive. In esse si era infatti persuasi che esistesse dopo la morte una sopravvivenza non eterna, ma soltanto “temporale” del defunto, il quale sarebbe appunto sopravvissuto semplicemente nel ricordo e nella memoria che di lui si sarebbero conservate nei posteri, soprattutto nei familiari e nel proprio clan di origine. L’oblio della memoria veniva perciò concepito come una seconda morte, quella definitiva, quella irrimediabile e per questo ancora più dolorosa e vera: “ovviare” a questa seconda morte (morte della memoria che si deve avere del defunto), definitiva e assoluta, era lo scopo 138


principale per cui soprattutto nell’antichità si costruivano edifici funerari e si rinnovavano con fasto i riti funebri in memoria di colui che aveva abbandonato la dimora dei vivi. Per questa ragione ci si affannava perché attraverso i luoghi di sepoltura la memoria di chi era venuto a mancare potesse durare il più a lungo possibile e si rinnovasse così nei posteri. Più che una finestra aperta sull’aldilà, che permettesse in qualche modo all’uomo di affacciarsi su ciò che lo attende oltre la sua vita terrena, questi luoghi erano una finestra che permetteva al defunto di affacciarsi ancora sull’al di qua, di rimanere ancora presente nello scorrere della vita attraverso il ricordo e la memoria dei posteri. anche oggi in effetti i cimiteri esprimono questo sentire comune, e il più delle volte si riducono ad essere dei veri e propri monumenti alla memoria del defunto. Per ratzinger è tuttavia possibile innestare il messaggio cristiano proprio in questa visione della vita e quindi della morte. Il desiderio di vivere negli altri e nel ricordo che essi hanno di noi, testimoniato anche dall’importanza attribuita alla sepoltura del defunto, si può assumere soltanto se i superstiti a loro volta non muoiono e siano perciò in grado di conservarci realmente e non solo come parvenza, rimembranza. «Un simile evento — conclude ratzinger — può però avvenire soltanto se Dio si ricorda dell’uomo: solo lui rimane, solo il suo pensiero è realtà […] l’Eterno si ricorda dell’uomo, l’uomo vive nel pensiero di Dio e con la stessa realtà che egli ora ha, poiché il pensiero di Dio non è un’ombra, ma realtà»280. In questo contesto mi esimo anche da una presentazione critica e quindi da un’approfondita valutazione del significato e del senso del lutto per i familiari del defunto e per l’intera struttura sociale, a cui è stato giustamente riconosciuto un ruolo insostituibile, ma mi limito a constatare che il più delle volte anche in tutto ciò, o perlomeno in diverse sue manifestazioni, non traspare chiaramente la speranza cristiana e l’indole pasquale della fede della Chiesa281. Il lutto, sempre più censurato dalla società dell’efficienza e della tecnica, anche dai cristiani viene visto con sospetto perché sbrigativamente ritenuto uno sterile e forse dannoso retaggio di costumi oramai definitivamente tramontati e superati e perciò j. raTzINGEr, Dogma e predicazione, cit., 247. Per l’approfondimento di questa problematica cfr a. DI NOLa, La nera signora. Antropologia della morte e del lutto, roma 2001; si veda anche M. PETrINI, Il lutto, in ID., Accanto al morente, cit., 193-208. 280 281

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non più consoni con lo stile di vita e la nuova forma mentis dell’uomo contemporaneo, sempre più sottratto a se stesso e alle sue domande fondamentali dalla frenesia dell’avere e soprattutto dell’apparire. Ciò che mi preme sottolineare attraverso questi pochi dati, molto generici ma spero anche abbastanza significativi e rappresentativi, è che specialmente nella storia recente si è lentamente creata una spaccatura profonda tra la lex credendi della Chiesa, e di riflesso tra la teologia cristiana, e la lex vivendi dei cristiani, di coloro che possiamo ritenere i non addetti ai lavori, la gente cosiddetta comune, i cristiani dei sacramenti e forse anche quelli della domenica. Molti passi sono stati fatti per avvicinare la teologia a tutti i fedeli, ma ancora molto deve essere fatto perché la preziosa riflessione che la teologia contemporanea ha prodotto riguardo al tema della morte, in dialogo con la cultura del mondo contemporaneo e attenta alle istanze dell’uomo di oggi, soprattutto in ascolto della testimonianza della Scrittura e della più viva tradizione ecclesiale, arrivi a modificare modelli di pensiero e di vita dei cristiani di oggi, alimenti la loro fede, influenzi positivamente l’immaginario collettivo e il linguaggio della società odierna, nella consapevolezza che, come più volte si è detto, «la risposta cristiana alla domanda che è la morte è anche la risposta alla domanda sul senso dell’esistenza che dalla morte è de-finita»282. Concludo riproponendo un passaggio del testamento spirituale di Paolo VI perché credo che sintetizzi in maniera ineguagliabile il sentimento che il credente è chiamato ad avere di fronte al mistero della morte, della propria morte: «Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara; e perciò con umile e serena fiducia. avverto la verità, che per me si è sempre riflessa sulla vita presente da questo mistero, e benedico il vincitore della morte per averne fugate le tenebre e svelata la luce»283.

282 a. NITrOLa, Morte, in Teologia, a cura di G. Barbaglio – G. Bof – S. Dianich, Cinisello Balsamo 2002, 1046. 283 PaOLO VI, Testamento (testo citato da G. aNCONa, La morte, cit., 108).

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BIBLIOGraFIa La letteratura sul tema della morte è oramai vastissima e quasi ingovernabile. aumentano sempre più studi e ricerche anche su questioni particolari o legate più o meno direttamente alla questione della morte. In questa sede mi limito a segnalare i principali contributi — soprattutto in campo teologico — che sono stati prodotti sul tema della morte, circoscrivendo le indicazioni bibliografiche principalmente, ma non esclusivamente, a quei testi o articoli che sono stati indispensabili per questo studio. aa. VV., Il tempo della morte, Padova 1996; aa. VV., I novissimi. Morte e giudizio, inferno e paradiso, alba 1990; aa.VV., La morte, rimini 1989; aa. VV., La morte oggi, Milano 1985; aa. VV., La vita e la morte nelle grandi religioni, Milano 2000; aa. VV., Le mystére de la mort et sa célébration, Paris 1956; aLFarO j., Riflessioni sull’escatologia del Vaticano II, in Vaticano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987), ed. r. Latourelle, assisi 1987, 1049-1060; aNCONa G., Escatologia, Brescia 2003; ——, La morte. Teologia e catechesi, Cinisello Balsamo 1993; ——, Significato escatologico cristiano della morte, roma 1990; aNDErSON r. S., La fede, la morte e il morire, Torino 1993; aNTONELLI F., Per morire vivendo. Psicologia della morte, roma 1981; arIéS PH., Les images de l’homme devant la mort, Paris 1983; ——, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Milano 1992; ——, Storia della morte in Occidente, Milano 1978; aSSOCIazIONE BIBLICa ITaLIaNa, Gesù e la sua morte, Brescia 1984; aSSOCIazIONE TEOLOGICa ITaLIaNa, L’escatologia contemporanea. Problemi e prospettive, edd. G. Colombo – M. Fini, Padova 1995; BaBINI G., Il rinnovamento dell’escatologia nell’opera di H.U. von Balthasar, in Sacra Doctrina 6 (1996) 33-44; 141


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30 (1982) 145-156; SESBOüé B., Dopo la vita. Il credente e le realtà ultime, Cinisello Balsamo 1992; SIMPSON M., Teologia della morte e della vita eterna, alba 1970; SISTI a., Morte e risurrezione in 1Cor 15, in Parola Spirito e Vita 32 (1995) 203-218; TaMayO aCOSTa j. j., L’escatologia cristiana, roma 1996; TaNQUErEy aD., Synopsis Theologiae Dogmaticae. De Deo remuneratore seu Eschatologia, III, Romae 194725, 751-849; TENENTI a., Il senso della morte e l’amore per la vita nel Rinascimento, Torino 1982. THOMaS L. V., Antropologia della morte, Milano 1976; TILLarD j. M. r., La morte: enigma o mistero?, Magnano 1998; TILLIETTE x., La settimana santa dei filosofi, Brescia 1992; ——, Morte e sopravvivenza, in Morte e sopravvivenza, ed. G. Lorizio, roma 1995, 11-47. ——, Mort et Métaphysique, in Recherches de Science Religieuse 67 (1979) 161-182; TOLSTOj L. N., La morte di Ivàn Il’ìc#, Milano 2002; UGazIO U. M., Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Milano 1976; VaNNI U., Dalla morte ‘nemico’ alla morte ‘guadagno’, in Studia Missionalia 31 (1982) 37-51; WIEDErKEHr, D., Prospettive dell’escatologia, Brescia 1978; zIEGLEr j., I vivi e la morte. Saggio sulla morte nei paesi capitalisti, Milano 1978; zUCaL S., La teologia della morte in Karl Rahner, Bologna 1982; zUCCarO C., Il morire umano. Un invito alla teologia morale, Brescia 2002.

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INDICE DEI NOMI althaus P. 28, 55, 95, 96 ancona G. 130, 131, 140 andré B. 21 ariès Ph. 9, 10, 17, 18, 21 ashworth H. 137 Balthasar H.U. von 9, 21, 30, 53, 61, 80, 85, 87 Barbaglio G. 48, 140 Barth K. 55 Bartmann D. 27 Bellarmino r. 18 Benedetto xII 22 Biffi G. 114, 115 Billot L. 27 Bizzotto M. 56 Bloch E. 102 Bof G. 18, 79, 140 Boff L. 12, 32, 75, 90 Boismard M.E. 92 Bordoni M. 21, 30, 31, 32, 57, 60, 75, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 125 Boros L. 12, 13, 21, 41, 43, 45, 46, 47, 48, 49, 51, 52, 53, 96, 108 Bowker j. 126 Brancato F. 22, 116 Breuning W. 50, 128 Brovelli F. 137 Brown r.E. 129 Brunner E. 53, 55 Cacciari M. 125 Canobbio G. 92 Cavalcoli G. 73 Choron j. 21 Ciola N. 117, 118, 125 Colzani G. 17, 18, 48, 53, 56, 122 Congar y.-M. 30

Croce V. 111, 112 Cullmann O. 28, 96 de’ Liguori alfonso Maria (sant’) 18 De Lubac H. 30 Di Nola a. 139 Dianich S. 48, 140 Durrwell F.x. 129 Eschilo 15 Farrugia M. 21 Feiner j. 53, 73 Feuerbach L. 36 Fini M. 92 Forte B. 51, 52, 111, 125 Francesco d’assisi (san) 124 Fuchs W. 21 Galantino N. 19, 20, 136 Gianfranceschi F. 21 Giannoni P. 56, 137 Giudici a. 48 Givone S. 125 Glorieux P. 46 Gonzalez de Cardedol O. 106 Gozzelino G. 25, 28, 29, 56, 57, 58, 59, 112, 113 Gregoire j. 21 Greinacher N. 13, 135 Grelot P. 21 Greshake G. 21, 41, 42, 46, 47, 48, 51, 58, 75, 89, 90, 91, 92, 93, 115, 132 Guardini r. 68, 69 Hegel G.W.F. 63 Heidegger M. 36, 37, 41, 63, 74, 131 Hengstenberg H.E. 46

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Hirscher j.B. 108 jankélévitch V. 21 jaspers K. 38, 41, 131 jüngel E. 21, 42, 53, 55, 70, 71, 73, 96, 127, 132 Kierkegaard S. 9 Kremer j. 21 Kubler-ross E. 21 Küng H. 36, 38, 39, 40, 41, 130, 131 Lennerz H. 26, 27 Lèon-Dufour x. 118, 129 Lercher L. 27 Lévinas E. 9 Lohfink G. 92 Löhrer M. 53, 73 Lorizio G. 19, 20, 28, 47, 60, 71, 135 Maggiani S. 135 Manigue j.P. 21 Marcel G. 41, 47, 131 Marechal j. 47 Marranzini a. 23, 73 Martelet G. 31, 48, 61, 135 Marucci C. 92 Marx K. 36 Melchiorre V. 21, 110 Moioli G. 48, 116 Molari C. 134 Moltmann j. 99, 101 Morin E. 16 Müller a. 13, 135 Müller G.L. 87, 88 Muratore S. 134

Paolo VI 140 Pascal B. 9 Petrini M. 10, 129, 139 Piazza O.F. 92 Piolanti a. 26, 27 Platone 58 Pozo C. 48, 108 Quinzio S. 125 rahner K. 3, 20, 21, 30, 41, 43, 46, 47, 48, 49, 53, 73, 74, 75, 76, 78, 79, 80, 92, 114 ratzinger j. 25, 28, 94, 95, 96, 97, 99, 138, 139 rilke r.M. 63 romero O.a. 109 rudoni a. 48, 123 ruiz de la Peña j.L. 19, 41, 43, 44, 48, 52, 53, 60, 75, 104, 105, 106, 108, 120 Sartre j.P. 37, 131 Scheler M. 131 Schell H. 108 Scherer G. 37, 38, 110 Schickendantz C.F. 73 Schleiermacher F.D.E. 55 Schmaus M. 41, 43, 63, 64, 65, 66, 67 Schopenhauer a. 36, 63 Sciacca M.F. 11 Scognamiglio E. 124 Segalla G. 129 Socrate 58, 70, 71 Strobel a. 58

Obayashi H. 126

Tamayo-acosta j.j. 45, 51, 56, 108 Tanquerey ad. 27 Tenenti a. 18 Thomas L.V. 21 Tillard j.M.r. 60 Tilliette x. 71, 135 Tolstoj L.N. 10, 12 Triacca a. 137 Troisfontaines r. 46

Pannenberg W. 55, 69

Ugazio U.M. 36

Natoli S. 125 Nietzsche F. 36 Nitrola a. 76, 79, 140 Nocke F.j. 48, 60, 61 Novelle M. 17

152


Vanni U. 113 Vattimo G. 125 Vitiello V. 125 Wiederkehr D. 129 ziegler j. 17 zucal S. 73, 76 zuccaro C. 17, 18, 39, 53

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INDICE

PrEMESSa .

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INTrODUzIONE

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CaPITOLO I: La MOrTE E IL MOrIrE. UNa DOMaNDa aPErTa .

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CaPITOLO II: La NEOSCOLaSTICa E IL TraTTaTO DE NOVISSIMIS 1. Qualche rilievo critico . . . . .

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25 28

CaPITOLO III: ISTaNzE DI rINNOVaMENTO PEr La TEOLOGIa 1. La riflessione teologica e l’indagine filosofica . .

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35 35

CaPITOLO IV: L’IPOTESI DELL’OPzIONE FINaLE .

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45

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63 63 102 104 109 110 125

CaPITOLO VII: TENTaTIVO DI UN BILaNCIO SINTETICO CONCLUSIVO

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BIBLIOGraFIa

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CaPITOLO V: La MOrTE COME “STIPENDIO” DEL PECCaTO

CaPITOLO VI: «aBSOrPTa EST MOrS IN VICTOrIa» (1COr 15,54): La rIFLESSIONE DEI TEOLOGI SULLa QUESTIONE DELLa MOrTE 1. Il contributo dei teologi di lingua tedesca . . . 1.1. alcune riflessioni conclusive . . . . 2. Il contributo dei teologi di lingua spagnola . . . 2.1. alcune riflessioni conclusive . . . . 3. Il contributo dei teologi di lingua italiana . . . 3.1. alcune riflessioni conclusive . . . .

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INDICE DEI NOMI .

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Collane di Synaxis «NUMErI MONOGraFICI DI SyNaxIS»

Synaxis xIII/1 - 1995

«La fuitina» a. LONGHITaNO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. zITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 aa. VV., Sezione miscellanea


Synaxis xIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STaBILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NarO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FaSULLO, Una religione mafiosa a. LONGHITaNO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CarVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgicocelebrative S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCOrDaTO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. rUGGIErI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa aa. VV., Sezione miscellanea


Synaxis xV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STaBILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VaCCa, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento a. LONGHITaNO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. zITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NarO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FErrETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FazIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CrISTaLDI, L’acese Michele Cosentino — G. MaMMINO, Il seminario di Acireale aa. VV., Sezione miscellanea


Synaxis xVI/2 - 1998

«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. raFFaELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale a. LONGHITaNO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VaCCa, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LaTOra, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo a. PLUMarI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia C. SCOrDaTO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CaPIzzI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare aa. VV., Sezione miscellanea


Synaxis xVII/1 - 1999

«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GaLDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica a. MINISSaLE, Lavoro e riposo nella Bibbia P.M. SIPaLa, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. rESTrEPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEzzINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CaSCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. rIzzO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione aa. VV., Sezione miscellanea


Synaxis xVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» a. LONGHITaNO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONaTO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMaNTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. zITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna aa. VV., Sezione teologico-morale aa. VV., Sezione miscellanea


Synaxis xVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MarINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’aGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica a. NEGLIa, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. aSSENza, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SOrCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FazIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PaVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOrEFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. rOCCa, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia


Synaxis xIx/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma a. LONGHITaNO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MarINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CaPIzzI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BaTUrI, Il clero a. LONGHITaNO, I peccati riservati F. FErrETO, La Chiesa e gli infedeli


«QUaDErNI DI SyNaxIS»

aa. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) aa. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 aa. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, acireale 1987, pp. 192 (esaurito) aa. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, acireale 1988, pp. 138 aa. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, acireale 1989, pp. 196 (esaurito) aa. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, acireale 1990, pp. 334 aa. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, acireale 1990, pp. 264 aa. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, acireale 1991, pp. 170 aa. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, acireale 1992, pp. 190


aa. VV., Prospettive etiche nella postmodernità , Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 aa. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 aa. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 aa. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427 aa. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240 aa. VV., Magia, superstizione e cristianesimo, Giunti, Firenze 2004, pp. 240 aa. VV., La Bibbia libro di tutti?, Giunti, Firenze 2004, pp. 312


«DOCUMENTI E STUDI DI SyNaxIS»

G. zITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, acireale 1987, pp. 596 a. GaNGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, acireale 1989, pp. 288 P. SaPIENza, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, acireale 1990, pp. 158 a. G aNGEMI , I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Galatea Editrice, acireale 1990, pp. 294 a. GaNGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, acireale 1993, pp. 524 G. SCHILLaCI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, acireale 1996, pp. 418 a. GaNGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, acireale 1999, pp. 244


a. GaNGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Edizioni arca, Catania 2003, pp. 1032 G. MaMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. analisi del registro delle lettere, Edizioni arca, Catania 2004, pp. 240.


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