Luca Saraceno è nato ad Augusta (SR) il 24 aprile 1975. Presbitero della Chiesa di Siracusa dal 7 dicembre 1999. Dopo il baccalaureato in Teologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, ha conseguito la laurea in Filosofia Teoretica presso l’Università Cattolica del “Sacro Cuore” di Milano. Dal settembre 2003 è docente di Storia della Filosofia Moderna e Contemporanea e di Critica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania e di Antropologia Filosofica e Filosofia sistematica presso l’Istituto di Scienze Religiose “San Metodio” di Siracusa. In diocesi dall’ottobre 2005 ricopre il ruolo di Rettore del Seminario Arcivescovile.
LUCA SARACENO
LUCA SARACENO
LA VERTIGINE DELLA LIBERTÀ LA VERTIGINE DELLA LIBERTÀ
«L’angoscia si può paragonare alla vertigine che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi e la libertà». Il divenire filosofico del danese Sören Kierkegaard, vissuto nella cristiano-borghese Copenhagen della prima metà dell’800, perviene a noi attraverso una categoria esistenziale che pare oggi essere il respiro di un tempo instabilmente ancorato all’insicurezza del presente: l’angoscia. Originariamente vissuta come proprio dramma esistenziale, Kierkegaard trova un fondamento ontologico alla vertiginosa categoria dell’angoscia nel rapporto dell’uomo con l’Infinito che attrae e al contempo respinge, nel vincolo con l’Eterno che pungola la carne della temporalità. La dicibilità poetica dell’autore del presente volume mostra la positiva validità del fenomeno dell’angoscia, reso possibile solo da un’eterna libertà a cui l’uomo è infinitamente “destinato”. «Se non ci fosse niente di eterno nell’uomo, egli non potrebbe affatto disperarsi». Le pagine dell’autore, che rileggono in profondità il pensiero di Kierkegaard, consegnano al lettore la verità – anch’essa inevitabilmente esistenziale – della sofferenza resa nell’abbandono fiducioso a Dio: la fede rappresenta così la sola inquietudine che sia in grado di sostenere la vertigine della libertà come angoscia dell’eterno, presente nel cuore dell’uomo.
L’ANGOSCIA IN SÖREN KIERKEGAARD
PRESENTAZIONE DI
Pubblicazione realizzata con il contributo della Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali, Ambientali e Pubblica Istruzione
VIRGILIO MELCHIORRE
9 788809 053977
81047Z
€ 12,50
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS 15
DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS Pubblicazioni dello Studio Teologico S. Paolo - Catania In copertina, particolare di: G. SEURAT, Contadina seduta sull’erba (1883), olio su tela, Solomon R. Guggenheim Museum, New York. www.studiosanpaolo.it www.giunti.it © 2007 Giunti Progetti Educativi, Firenze Prima edizione: febbraio 2007 Ristampa 6 5 4 3 2 1 0
Anno 2011 2010 2009 2008 2007
Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. – Stabilimento di Prato
LUCA SARACENO
LA VERTIGINE DELLA LIBERTÀ L’angoscia in Sören Kierkegaard
Presentazione di Virgilio Melchiorre
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
ai penitenti che ho avuto la Grazia di ascoltare, per me inquieti maestri di Fede attraverso il “bruciore gelido� della loro silenziosa Disperazione
«Il vuoto affascina coloro che non osano guardarlo in faccia, vi si buttano per paura di cadervi». (GEORGES BERNANOS, Diario di un curato di campagna)
PRESENTAZIONE
Il percorso di questo libro può sembrare, a prima vista, strano. È certamente inconsueto, ma proprio per questo stimolante e, via via, sempre più convincente. Luca Saraceno vuol, infatti, mirare al cuore del pensiero kierkegaardiano e tuttavia lo fa partendo, come di sbieco, da un aspetto che sembrerebbe marginale, teoreticamente “inutilizzabile”. Tale sarebbe appunto il sentimento dell’angoscia, che nella lettura di Saraceno risulta invece “indispensabile” per intendere la struttura stessa del pensare di Kierkegaard. Perché indispensabile? Non si dovrebbe dire che la considerazione del fenomeno “angoscia” pertiene più alla psicologia e meno alla filosofia? E, del resto, lo stesso Kierkegaard, introducendo Il concetto dell’angoscia, non aveva detto di disporsi «dal punto di vista dell’analisi psicologica»? Nell’opera di Kierkegaard non mancano, d’altra parte, percorsi propriamente teoretici quanto alle costituzioni essenziali dell’esistente. Saraceno li ricorda e li segue puntualmente, specialmente quando si tratta di spiegare la definizione dello spirito che Kierkegaard dà all’inizio de La malattia per la morte: «L’uomo è una sintesi dell’infinito e del finito, del temporale e dell’eterno, di possibilità e necessità». Perché dunque partire dal fenomeno dell’angoscia? La risposta è duplice, in consonanza col metodo speculativo ma insieme concretamente esistenziale del filosofo danese, ed anche con l’attitudine speculativa ma insieme poeticamente tesa di Saraceno, che il lettore può ben cogliere nella fluidità del discorso, nell’eleganza appassionata del dettato. Il che non significa, sia in Kierkegaard, sia nel caso del suo interprete, una caduta di tipo estetizzante. Dai due lati vale piuttosto la preoccupazione di fondare il proprio discorso muovendo dal vivo dell’esperienza, passando per una domanda essenziale qual è quella che nasce nell’intimo del dato esistenziale, nella quotidianità per lo più accompagnata da una sottile angoscia, sia questa sottesa soltanto o sia più o meno consapevole. La figura psicologica dell’angoscia, differente dal sentimento della paura, viene — com’è noto — descritta da Kierkegaard nei modi della vertigine sull’abissale versante della possibilità: quando l’esistere sia in vista del possibile che, nel plesso dei propri rinvii, non è mai definitivamente determinabile, sempre oscillante su uno sfondo rarefatto, «possibilità della possibilità», orizzonte indefinito e indefinibile, quasi vuoto nulla. Così
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— leggiamo ne La malattia per la morte —, non appena l’esistente si volga alla propria possibilità e «cerca di afferrarla, essa dilegua; essa è un nulla che può soltanto angosciare». L’angoscia dunque come sentimento del nulla, come vertigine per un destino che ci è proprio e che insieme infinitamente ci trascende, per un abisso che dunque ci attrae e insieme ci sgomenta: «simpatia antipatica, antipatia simpatica». Il senso di questo drammatico ossimoro può essere colto quando dal piano meramente fenomenologico si passi alla domanda sulla sua condizione ontologica. Se, come si ricordava prima, l’uomo va inteso quale sintesi di finito e infinito, e se si può dar conto — Kierkegaard lo fa in pagine memorabili — della originaria inabitazione dell’infinito nell’uomo, allora il nulla dell’angoscia non è a ben vedere un nulla assoluto: è in rapporto con la presenza stessa dell’Assoluto, che nella sua relazione al finito si dà appunto come infinito, come un’incontenibile presenza, come un’assenza se pur sempre imminente. Saraceno ci ricorda al riguardo una precisa annotazione dai Papirer: «L’infinito nella figura di essere un nulla […] è, nel mondo il “punto fuori del mondo” che può muovere tutta l’esistenza». È poi proprio questa presente assenza, questo ritrarsi dell’infinito che, mentre incide nella coscienza come un apriori originario, si nasconde nella maschera del nulla, è proprio questo nascondimento che costituisce l’oscillazione di fronte al possibile: un’oscillazione che apre il movimento stesso della libertà. «Soltanto l’onnipotenza — leggiamo ancora nei Papirer — può riprendere se stessa mentre si dona, e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di colui che riceve. Ogni potenza finita rende dipendenti; soltanto l’onnipotenza può rendere indipendenti, può produrre dal nulla ciò che ha in sé consistenza, per il fatto che l’onnipotenza sempre riprende se stessa. […] L’onnipotenza può rendersi così leggera che ciò che è creato goda dell’indipendenza». Per venire a noi, vien da pensare a quanto diceva Hans Jonas al termine di una sua celebre conferenza, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Come intendere il senso della libertà con i suoi esiti tragicamente inumani, con la sua risoluzione nel male? Possiamo notare che la risposta era molto simile a quella di Kierkegaard: «La creazione fu l’atto di assoluta sovranità, con cui la Divinità ha consentito a non essere più, per lungo tempo, assoluta — una opzione radicale a tutto vantaggio dell’esistenza di un essere finito capace di autodeterminare se stesso — un atto infine dell’autoalienazione divina. […] Rinunciando alla sua inviolabilità il fondamento eterno acconsentì al mondo di essere. Ogni creatura è debitrice dell’esistenza a questo atto di autonegazione e ha ricevuto con
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essa tutto ciò che può ricevere dall’aldilà. Dopo essersi affidato al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all’uomo dare. E l’uomo può dare, se nei sentieri della sua vita si cura che non accada o non accada troppo sovente, e non per colpa sua, che Dio abbia a pentirsi di aver concesso il divenire del mondo». Lo spirito dunque come sintesi di finito e infinito, ma anche come compito incessante per questa sintesi. La dimissione di questo compito, la lacerazione della sintesi, appartiene poi al tragico decadimento della vita libera: è la malattia mortale, la malattia che conduce alla morte dell’uomo e che, di fatto, nasce nella contraddizione di voler essere diversamente da ciò che si è. La contraddizione sta appunto nell’impossibilità di poter dirimere, in un senso o nell’altro, la relazione che ci costituisce. Ed è appunto il tentativo di forzare quest’impossibilità che genera la malattia mortale ovvero la disperazione dello spirito: disperazione di voler essere ostinatamente se stessi o di non voler essere se stessi, di voler essere soltanto finiti o soltanto infiniti, soltanto necessità o soltanto possibilità. Com’è noto, Kierkegaard percorre le diverse figure della disperazione con ricchezza di analisi e con profonda consapevolezza ontologica. Luca Saraceno ce ne dà ampiamente conto e con finezza ripercorre ad un tempo i volti metaforici che, via via, le figure della disperazione assumono nell’opera di Kierkegaard: l’uomo dei proverbi, l’uomo miraggio, l’uomo delle consonanti, l’uomo della cantina, l’uomo della «porta finta», l’uomo della «porta reale». Non si tratta di un sofisticato esercizio letterario, bensì ancora una volta d’una partecipazione attiva che sa scavare nella carne viva dell’esistente: la via poetica dei simboli e delle metafore resta pur sempre, se ben usata, un modo per cogliere nel concreto e nella sua dicibilità un’apertura sull’indicibile e sul mistero stesso dell’essere. Potremmo dire altrettanto per le belle pagine che concludono questo libro: le pagine che alludono al «coraggio della fede» ovvero alla capacità di far fronte alla disperazione disponendosi alla scuola dell’angoscia, imparando cioè che dalla vertigine delle possibilità si esce non regredendo nelle false sicurezze del finito, bensì consegnando ogni scelta al difficile compito della sintesi. «Farsi concreto — ci ricorda Kierkegaard — non è né diventare finito né diventare infinito, perché ciò che deve farsi concreto è una sintesi. Lo sviluppo dunque deve consistere nello staccarsi infinitamente da se stesso, rendendo infinito l’io e nel ritornare infinitamente a se stesso, rendendolo finito». In tal senso, l’avventura di questa difficile sintesi può anche diventare — come leggiamo alla fine de Il concetto dell’angoscia — una
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danza rischiosa ma anche felice per le vie del mondo. Dice bene Saraceno, alla fine del suo lavoro: «La danza dall’eterno al tempo, l’instabile equilibrio tra l’elevazione e la caduta, tra il sublime e il pedestre, è immagine della fede dell’uomo posta davanti a una situazione di costante rischio, di incertezza, di inquietudine, di passione per il riferimento costitutivo all’Assoluto Ignoto, ubique et nusquam. […] La danza è la gestualità ultima dell’uomo che fino in fondo ha imparato ad ascoltare la sua angoscia per la vertiginosa distanza dall’infinito: è la danza dell’uomo, il quale con affidamento libero all’Infinito Dio, estingue ogni dubbio dell’angoscia, nella gioia di trovare la Verità che gli appartiene». Di nuovo, un dire nei modi più propri della sapienza poetica, non però disgiunto da una seria congiunzione speculativa: un dire che potrà riprendere per nuovi e più approfonditi sentieri, ma che intanto affascina e stimola il lettore di queste pagine. Virgilio Melchiorre
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INTRODUZIONE L’ANGOLO DEGLI OTTO SENTIERI
«Nel bosco di Grib c’è un posto che si chiama Angolo degli Otto Sentieri; lo trova solo chi lo cerca attentamente, poiché nessuna carta lo riporta. Perfino il nome sembra contraddittorio, giacché come può l’incrocio di otto sentieri formare un angolo, come può ciò che è pubblico e frequentato conciliarsi con ciò che è appartato e nascosto? E se la trivialità, da cui il solitario rifugge, prende il nome dall’incrocio di appena tre vie, cosa sarà mai quella provocata dall’incrocio di ben otto vie? Eppure è così: vi sono veramente otto sentieri, ma molto solitari; lontani dal mondo, nascosti, dissimulati, si arriva nei pressi di un recinto che si chiama Recinto della Sfortuna. La contraddizione del nome rende il luogo ancora più solitario, proprio come la contraddizione rende sempre solitari. Gli otto sentieri, il continuo via vai sono solo una possibilità, una possibilità per il pensiero, poiché nessuno passa per questo sentiero al di fuori di un insetto, che si affretta ad attraversarlo lente festinans; nessuno lo frequenta, tranne il viaggiatore frettoloso che si guarda intorno, non per cercare un essere umano, bensì per sfuggirli tutti […]. Perfino chi si è lasciato ingannare dal richiamo seduttore dei luoghi impenetrabili che catturano il viandante, perfino chi ha percorso l’angusto sentiero che invita nelle segrete del bosco non è così solo come chi si trovi agli Otto Sentieri, dove non passa nessuno. Otto sentieri e nessuno a percorrerli! È come se il mondo si fosse estinto e l’unico sopravvissuto si trovasse nell’imbarazzo di non avere nessuno che possa dargli sepoltura; ovvero come se l’umanità intera avesse trasmigrato per quegli otto sentieri dimenticando uno dei suoi membri! Se sono vere le parole del poeta: bene vixit qui bene latuit, ho vissuto bene, poiché bene ho scelto il mio nascondiglio. Una cosa è certa, che il mondo e tutto ciò che vi dimora non appare mai così chiaro come quando lo si osserva da un luogo appartato, e per di più di soppiatto; è certo anche che tutto quanto si sente e si deve sentire nel mondo produce un suono più soave e incantevole se ascoltato da un luogo appartato, e per di più nascosto»1. 1 SLV, 99s. Le opere di Kierkegaard saranno citate con le iniziali delle opere originali secondo l’edizione originale danese ma nella loro traduzione italiana. Per la suddivisione delle opere rimando alla nota bibliografica presente nelle ultime pagine di questo volume.
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La scena di apertura di In vino veritas disegna un’atmosfera spirituale attraverso una pagina che poteva nascere solamente dalla nostalgia patita da un uomo che della malinconia faceva l’intima ispiratrice del suo scrivere. Un racconto per iniziare, perché è sempre arduo presentare direttamente un filosofo che ama costantemente fuggire dagli sguardi di coloro che vorrebbero ridurre la sua opera ad un articolo di lucro e ad oggetto del loro sapere2, mentre questi, volentieri, si nasconde dentro alle silenziose fenditure lasciate dalle parole dei suoi numerosi pseudonimi; una metafora per intuire l’essenziale che difficilmente la freddezza di un concetto è in grado di rivelare ma che solo l’inessenzialità di un’immagine può custodire; una figura per ciò che non ha un’espressione visiva né un nome da pronunciare, dal momento che la tematica da affrontare vive di silenzi urlati e di sguardi gettati nel vuoto; una pagina poetica per evitare il rischio di aggrapparsi alla garanzia oggettiva fornita dalle spiegazioni astratte e per raccontare i movimenti interiori di un fenomeno che richiede l’abbandono delle dimostrazioni formali figlie di una moderna cultura filosofica. Il filosofo in questione è il danese Sören Kierkegaard, la cui produzione letteraria appare più chiara se la si guarda da un luogo nascosto; la cui complessità dell’opera splende come un tutto sulla superficie di frammenti apparentemente insignificanti; il cui pensiero oscuro viene rischiarato da quegli inutilizzabili che diventano indispensabili ai lettori per districarsi entro la sua labirintica scrittura, come osserva Garff: «una lettura che testimoni che quanto c’è di immediatamente inutilizzabile nei testi kierkegaardiani, quanto c’è di marginale e frammentato, è in realtà quanto di più indispensabile, perché si oppone a ogni tentativo di strumentalizzare e concludere i testi. […]: l’indispensabilità dell’inutilizzabile corrisponde a quei fenomeni primitivi e basali che l’attività letteraria positivamente e negativamente cattura e guarda in controluce, fenomeni quali passione, fiducia, dedizione, angoscia, disperazione, fede, gioia, che pure sono sempre tanto inutilizzabili quanto indispensabili»3. E il luogo nascosto, il frammento, l’inutilizzabile che diviene indispensabile per scrutare “in controluce” la struttura del filosofare di Kierkegaard, può forse essere il tema dell’angoscia. Cfr Pap., 1853-1854, XI1 A 136. J. GARFF, L’indispensabilità dell’inutilizzabile, in Leggere oggi Kierkegaard. NotaBene: quaderni di studi kierkegaardiani, a cura di I. Adinolfi, Roma 2000, 25. 2 3
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Un angolo contraddittorio quello in cui ci si imbatte inoltrandosi per il bosco di Grib perché pubblico e appartato, frequentato e nascosto a un tempo: immagine simbolica che rinvia anzitutto all’intera opera filosofica di Kierkegaard, la cui caratteristica dal punto di vista speculativo è quella di presentarsi sempre ambiguamente dialettica: «tutto in Kierkegaard è concepito nel segno della doppiezza: l’esistenza come punto di intersezione tra il finito e l’infinito; l’istante come contemporaneità concreta tra il temporale e l’eterno; il sé come possesso e acquisizione; la comunicazione come l’arte di unificare gli opposti qualitativi; la rinuncia alla potenza come potenza; la debolezza come forza; l’obbedienza come libertà; il dono come compito; la massima perfezione dell’uomo come il non poter nulla, e tuttavia poter tutto in forza dell’assurdo; il rapporto a Dio come distanza e prossimità, come sofferenza e beatitudine, come abbassamento e innalzamento; la fede come timore e amore, come obbligo e gratitudine; il credente come peccatore e giustificato; Dio come raddoppiamento infinito; il cristianesimo come il bene che fa male, come mitezza e rigore; Cristo come Dio e uomo; un segno di contraddizione che disvela e dimentica, condanna e perdona, esige totalmente e redime incondizionatamente, pretende la vita dell’uomo e dona la possibilità di vivere: tutto in una sola parola»4. Soprattutto nella scena contraddittoria dell’angolo degli otto sentieri ravvisiamo una metafora che evoca l’ambiguità del fenomeno dell’angoscia descritta dal danese come antipatia simpatica e simpatia antipatica, forza da cui fuggire ma verso la quale si è ineluttabilmente attratti, desiderio di cui si ha paura, potenza virile e svenimento femminile, attualità demoniaca e modalità che educa alla fede, vertigine che dona pace e quiete per l’ignoranza originaria ma che rende instabili al contempo perché frutto della conoscenza di una possibilità ancora da realizzare, trascritta sui registri di un tempo futuro ma solo come ripresa di un evento passato, linfa vitale della disperazione estetica e insieme della sofferenza religiosa. L’angoscia è un angolo da attraversare affrettandosi lentamente; il tempo, l’eternità, lo spirito, la libertà, la fede, la disperazione, il nulla e l’infinito sono gli otto sentieri che introducono a quel crocevia quali possibilità da percorrere. Così l’angoscia diventa attualità ultima da raggiungere dopo il cammino su uno dei possibili sentieri, ma anche abissale spazio iniziale da cui poter partire per incontrare tutti gli altri. La
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K. NORDENTOFT, Kierkegaards psykologi, København 19952, 417.
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tematica dell’angoscia in Kierkegaard testimonia come ogni singola parte sia legata al tutto: è questa per noi il frammento, il punto di vista dal quale scrutare il pensiero composito del danese. L’“inutilizzabile”, in questo nostro lavoro, sarà studiato seguendo una scansione di tipo heideggeriano che vede una fenomenologia esistenziale dell’angoscia a cui seguirà una ricognizione esistentiva. Nella prima parte tenterò di fondare ontologicamente il fenomeno dell’angoscia lasciandomi condurre dalle pagine di Begrebet Angest, secondo cui l’angoscia è il senso di svenimento che la vertigine della libertà (Frihedens Svimlen) provoca nell’uomo che contempla il nulla, ovvero l’infinità delle possibilità da realizzare; successivamente, con le intense pagine dialettiche di Sygdommen til Døden, presenterò il fenomeno della disperazione in cui l’io, davanti al Nulla avvertito come distanza tra la sua libertà e il fondamento che lo pone, cade per la mancata sintesi tra le due polarità eterogenee di finito-infinito. Nella seconda parte, riprendendo i due scritti del 1844 e del 1849, insieme ad altri scelti dall’ampia produzione kierkegaardiana, delineerò le forme emblematiche che l’angoscia assume: dapprima la comicità demoniaca, nella quale l’angoscia muta in estetica disperazione per la paura che la presenza dell’eterno suscita nell’io; secondariamente la tragicità dell’innocente, la cui angoscia si sublima in religiosa sofferenza per la coscienza dell’insuperabile sproporzione dall’Infinito. Giungerò infine ad una “postilla conclusiva” sulla Fede, la soglia sulla quale l’angolo da percorrere fino in fondo svela la presenza di Dio. Il movimento inquieto dell’angoscia costituirà pertanto “dimostrazione” esistenziale dell’essere originario di Dio: «La disperazione del tempo mostra che esso non può fare a meno di Dio, poiché lo stimolo della disperazione è appunto il pensiero che Dio esiste»5.
Con timore e tremore seguirò pertanto le pagine di Kierkegaard, leggendole nella consapevolezza di non poter ridurre lui a me, ma di essere io stesso da lui letto, scrutato, messo personalmente in discussione e persino sfidato. La sua scrittura abissale obbliga a fermarmi, magari a dover scorrere ripetutamente la stessa pagina, salvo poi scoprire che l’intenziona-
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Pap., dal 30 novembre 1842 al marzo 1844, IV A 165.
lità dell’autore resta comunque latente. Se si parte dal principio che la filosofia sia un colloquio con i filosofi del passato, sarà Kierkegaard a chiedermi di instaurare con lui un dialogo intenso e serrato e ad accettare anche le conseguenze spesso amare che derivano dalla lettura dei suoi testi. In un certo senso diventerà lui la sanguisuga della mia angoscia, quando mi illuderò di succhiare la sua: sarò così io la sua preda designata, così come anche lui rimase vittima affascinata di colui che in verità desiderava raccontare: «se dovessi parlare di lui, vorrei anzitutto narrare il dolore della sua prova. A questo scopo vorrei come una sanguisuga succhiare tutta l’angoscia, la sofferenza e la pena della passione eterna per poter descrivere ciò che Abramo soffrì mentr’egli, oppresso da tutto questo, tuttavia credette»6.
Ed è proprio dall’angoscia dell’uomo-Kierkegaard che vorrei esordire, da quel rifugio verso cui egli spesso scappava per trovar quiete: un luogo dalle forti tinte malinconiche da lui vissuto nell’inquietudine per la vicinanza di quel mare infinito del silenzio a cui si dissetò per l’intera sua nostalgica esistenza, come conclude la pagina con cui abbiamo aperto questa breve introduzione. «Così anch’io sono scappato molto spesso nel mio rifugio. La conoscevo prima, molto tempo fa, ora ho imparato a fare a meno della notte per trovare il silenzio, poiché qui il silenzio e la bellezza regnano sempre […]. O spirito gentile, che abiti questi luoghi, grazie per aver sempre protetto la mia quiete, per le ore trascorse inseguendo le rimembranze, per il tuo nascondiglio, che io chiamo mio! La quiete si estende come un’ombra man mano che cresce il silenzio: che magico incantesimo! E com’è inebriante quella pace! Quale che sia la rapidità con cui l’ubriaco porta alle labbra il bicchiere, la sua ebbrezza non cresce rapidamente come quella che viene dalla quiete, che aumenta a ogni secondo. Ma il contenuto di quel bicchiere inebriante non è che una goccia a confronto con il mare infinito del silenzio, a cui bevo io. E come l’ebollizione di tutti i vini del mondo è una pallida illusione al confronto della fermentazione sempre più effervescente del silenzio!»7.
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FB, 229. SLV, 100s.
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ESORDIO IL VEGLIARDO E LA BAMBINA
«Perché mai sono uscito dal seno materno per vedere tormenti e dolore e per finire i miei giorni nella vergogna?» (Ger 20, 18) «È un martirio tremendo, la totale impotenza spirituale di cui attualmente soffro, proprio perché congiunta a una nostalgia divorante, a un bruciante ardore di spirito, e tuttavia così vaga e informe che non so io stesso che cosa mi manchi»8.
Esile, gracile, debole, malinconico, sofferente di pene interiori e ferito nell’intimo dell’anima per il tempo di un’attualità che lente festinans pulsava nella continuità di una breve vita: parole sorde custodite segretamente da Kierkegaard nelle pagine mute dei suoi Diari e che tratteggiano i lineamenti di un’autobiografia di malinconica tristezza per essere diventato vecchio già alla tenera età di otto anni. Una personalità complessa, una solitudine di divorante nostalgia per una giovinezza vissuta come in un carcere tenebroso entro il quale un bambino si voltava e si rivoltava in preda al tormento e al dolore della malinconia più cupa, dove nessuno spiraglio di luce filtrava che non fosse quella di un’opaca e sbiadita felicità: quella cioè che nessuno potesse scoprire quanto si sentisse infelice. Un bambino che andava vestito come un vegliardo malinconico. Un bambino che giocava con la compagna solitudine. Un bambino educato alla severa scuola dell’angoscia. «Tutta l’esistenza mi angustia, dal più piccolo moscerino ai misteri dell’Incarnazione: tutto mi riesce inspiegabile, me stesso soprattutto […]. Vasto è il mio dolore, non conosce confini; nessuno lo conosce se non Dio nel cielo, ed egli non vuole consolarmi […]. Una ritirata lenta come un’armata di sventura, lunga come un’eternità, interrotta da questo uniforme ripetuto sospiro: “Il tedio di queste giornate”»9. 8 9
Pap., 4 luglio – 10 agosto 1840, III A 56. Pap., 12 maggio 1839, II A 420.
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Un’eternità spezzata dal sospiro di una solitudine che animava l’intera sua inspiegabile esistenza, nella cui vuotaggine volteggiava l’inquietante pensiero d’essere stato abbandonato anche da Dio. «Nell’intimo di ogni uomo c’è sempre l’angoscia di essere solo al mondo, dimenticato e trascurato da Dio, in questo enorme governo di milioni di milioni. Si comprime questa angoscia col vedere tanti uomini attorno a sé a cui si è legati per via di natura e di amicizia; ma l’angoscia persiste, e non si osa pensare quello che si proverebbe se tutto questo ci fosse tolto»10. «Ovunque sia stato, davanti agli occhi di tutti ho sempre indossato per manto l’inganno; solo, più solo che nella solitudine della notte; solo […] in ciò che trasforma la realtà più spaventosa in un refrigerio e sollievo, solo in compagnia delle possibilità più orrende; […] solo, nei tormenti che mi hanno insegnato più di una nuova annotazione al testo della spina nella carne; solo, nelle decisioni dove si avrebbe bisogno di amici e possibilmente del sostegno di tutto il genere umano; […] solo, nelle angosce mortali; solo, nella vuotaggine dell’esistenza senza potere farmi capire, anche se l’avessi voluto, da uno solo»11.
Travolto da una inconsolabile tristezza, Kierkegaard urla la sua disperazione con la voce di un’angoscia esprimibile soltanto attraverso gli acuti del silenzio. «La mia tristezza è una disperazione urlante, la mia gioia un saltare esuberante di lirismo»12.
Con sguardo impotente e quasi distaccato, Kierkegaard scruta la sua anima, malata di solitudine a cui non la medicina del desiderio ma l’ardente vista di spumeggiante ebbrezza e di inebriante fragranza della passione della possibilità sembrava potesse restituire la regale vitalità perduta. «La mia anima è debole e inferma, invano colpisco il suo fianco con gli sproni del desiderio: essa non può più, non s’erge più nel suo salto regale. Ho perduto ogni mia illusione. Invano cerco d’abbandonarmi all’infinitezza 10 11 12
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Pap., dal 24 gennaio 1847 al 15 maggio 1848, VIII A 363. SFV, 67s. Pap., 13 marzo 1839, II A 382.
della gioia: essa non può sollevarmi, o meglio, son io che non posso sollevare me stesso. In altri tempi bastava solo che ammiccasse, e m’alzavo leggero, sano, e disinvolto. […] Sono solo come sono stato sempre, abbandonato, non dagli uomini, infatti ciò non mi dorrebbe, ma dai geni fausti della gioia che m’attorniavano in numerosa schiera facendomi incontrare dappertutto degli amici, additandomene dappertutto l’occasione. Come un ubriaco attira attorno a sé una torma di giovani sfrontati, così s’affollavano attorno a me gli elfi della gioia, e a loro andò il mio sorriso. La mia anima ha perso la possibilità. Se dovessi augurare per me qualcosa, non augurerei ricchezza o forza, ma la passione della possibilità, quell’occhio che eternamente giovane, eternamente ardente, vede dappertutto la possibilità. Il godimento disillude, la possibilità no. E quale vino è così spumeggiante, quale così profumato, quale così inebriante?»13.
L’abbandono degli infiniti geni della gioia nel nebuloso nascondiglio della malinconia fu accettato in seguito come evento provvidenziale perché egli imparasse a non impazzire per via delle sue pagine di scrittore. «È stata per me una fortuna, un bene indescrivibile, l’aver avuto una natura così malinconica! Se fossi stato una natura felice, e poi mi fosse toccato provare quel che ho provato come scrittore, credo che qualsiasi uomo avrebbe dovuto impazzire. Ma io ho conosciuto pene ben più tremende, qui nel mio intimo dove veramente abita la sofferenza. E poi cos’è successo? Oh, la cosa mirabile che, anche se ancora non si è compiuta del tutto, fino ad un certo grado però si è realizzata e si realizzerà, credo ancor di più: è successo che tutto quel chiasso esteriore ha snidato la mia malinconia dal suo nascondiglio e ormai, almeno fino ad un certo punto, mi ha liberato da essa»14.
La malinconia, scomoda eredità lasciata da un’educazione pietistica del padre; l’amore, gravoso debito verso Regina Olsen; l’idea al servizio della quale Kierkegaard dedicò tutta la sua esistenza di scrittore essenziale; il pungolo nella carne, assunto come limite che tormenta ma che al contempo incita: verità tutte che dettano i ritmi al tempo della sua angoscia, loro principio originario.
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DIAYALMATA,
in EE, I, 102. Pap., 1849-1850, X2 A 411.
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«Io sono nel senso più profondo una individualità infelice. Fin dai primissimi anni io sono stato inchiodato a una forma di sofferenza confinante con la pazzia […]. Un vecchio, lui stesso straordinariamente malinconico ha un figlio al quale tocca in eredità tutta la malinconia, ma che nello stesso tempo ha un’elasticità di spirito tale da poterla nascondere. Appunto perché il suo spirito, in un senso eminente ed essenziale, è sano, la sua malinconia non può avere alcun potere su di lui; d’altra parte lo spirito non è capace di eliminare la malinconia. Al massimo gli riesce di farla sopportare. Una ragazza nel momento più solenne mi addossa sulla coscienza un omicidio […]. Da quel momento io dedico la mia vita, con tutte le mie sia pur povere energie, al servizio di un’idea. […] Quella dolorosa sproporzione con le sue sofferenze io l’ho considerata come il mio “pungolo nella carne”, il mio limite, la mia croce»15.
Un’individualità infelice vissuta nel clima della singolare severità di un’austera educazione familiare, nel quale la malinconia diventa la sua più intima amante, l’unica, a cui poter confidare il suo dolore. «Oltre i numerosi amici, coi quali del resto sono in rapporti piuttosto molto esteriori, io ho ancora un confidente intimo, uno solo: la mia malinconia. E nel mezzo del mio piacere, o del mio lavoro, essa mi fa cenno, mi richiama in disparte, anche se pertanto io non mi allontani col corpo; essa è l’amante più fedele ch’io abbia mai conosciuta; e qual meraviglia allora se devo essere pronto a seguirla sull’istante?»16.
Parole, queste, scolpite da Kierkegaard nel suo Diario e che pochi mesi più tardi sarebbero state a lui rubate dall’esteta Victor Eremita per essere sigillate nel suo scrigno di scintillanti aforismi e geniali riflessioni che risponde al nome di Enten-Eller: «confidente: la mia melanconia. Nel mezzo della mia gioia, nel mezzo del mio lavoro, essa mi fa cenno, mi prende con sé, benché fisicamente io rimanga inerte. La mia melanconia è l’amante più fedele ch’io abbia mai conosciuto. E che c’è da meravigliarsi se a mia volta l’amo?»17.
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Pap., 1846, VII A 126. Pap., da 1841 al 20 novembre 1842, III A 114. EE, I, 75.
Amante a lui fedele, la malinconia diventa anche gelosa tanto da tenerlo lontano dalla sua casa con le malie della fantasia facendo sì che egli non potesse dare del “tu” neanche a se stesso. «Fra la malinconia e il mio “tu” c’era tutto un mondo di fantasia. È questo mondo fantastico che ora in parte io ho cavato da me con i miei pseudonimi. Come colui che non ha una casa felice, gironzola fuori quanto più è possibile e volentieri farebbe a meno della casa, così la mia malinconia mi ha tenuto lontano da me stesso, mentre io, scoprendo e vivendo poeticamente, ho percorso tutto un mondo di fantasia. Come colui che ha avuto una grossa eredità terriera, non finisce mai di prenderne conoscenza… a questo modo sotto la pressione della malinconia io mi sono rapportato al possibile»18.
La malinconia è il segno di una relazione mai conclusa con l’eredità del possibile, forza di inaudita potenza che tiene sempre inquieta la vita di un uomo che non amava adagiarsi sui binari di una banale tranquillità. Una malinconia che attanaglia lo spirito, che strozza ogni possibile grido di vittoria per un’impossibile sua sconfitta, che gli incatena l’esistenza ad una quotidiana sofferenza e la cui infinitezza dipende dalla impossibilità di spiegarne l’origine. «Si può dire ciò che si vuole, eccetto di riuscire a togliere la malinconia che mi dominava. […] Non mi è mai venuto in mente, anche se cercassi di impegnarmi nell’impresa più audace, di non vincere, solo in una cosa, cioè nel togliere quella malinconia la cui sofferenza non mi ha lasciato libero completamente neppure un giorno»19. «Ci giace un qualcosa d’inspiegabile nella melanconia. Colui che ha della pena o della preoccupazione, egli sa perché si duole, perché è in pena ovvero è preoccupato. Se si domanda invece a un melanconico qual ragione ne abbia, che cos’è che gli grava, allora egli risponderà con un “io non lo so, io non posso spiegarlo…”. Quivi giace l’infinitezza della melanconia»20.
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Pap., dal 24 gennaio 1847 al 15 maggio 1848, VIII1 A 27. SFV, 72s. EE, V, 61.
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L’incomunicabile parola della sofferenza trovava la sua eco in Dio suo unico rifugio e sua tremenda causa. «La mia sofferenza in un certo senso dipende dal fatto che io veramente non sono un uomo: io sono troppo spirito. Io non trovo nessun rifugio presso gli altri. Non ho mai detto ad un solo uomo nemmeno una parola di quel ch’io veramente soffro: non posso. Il mio unico rifugio è Dio. Ecco perché Egli mi tiene in suo potere in un modo così tremendo. E allora però è come una durezza mostrare ch’io sono del tutto come gli altri e cacciarmi tra di loro: mentre nello stesso tempo per via di questa comunicazione segreta Egli mi tiene in suo potere in tutt’altra misura degli altri»21.
Che la malinconia sia stata lo spinoso lascito consegnato dal padre al figlio, lo si evince da un brano tratto dal suo Diario datato 1844, dall’emblematico titolo «La disperazione silenziosa. Un racconto». La scena è indubbiamente autobiografica. «C’erano una volta un padre e un figlio, ambedue forniti di grandi doti di spirito, ambedue arguti, specialmente il padre. Tutti coloro che frequentavano la casa, vi trovavano grande svago. In genere non facevano altro che discutere fra loro: si sarebbe detto un intrattenimento fra due intelligenze, non tra padre e figlio. Qualche rara volta, osservando il figlio e vedendolo così preoccupato, il padre si sofferma a guardarlo e gli diceva: “Povero ragazzo, tu stai covando una disperazione silenziosa!” Ma non gli domandava altro. Come avrebbe potuto farlo, se anche lui era caduto in una simile disperazione!? Fuori di ciò non si scambiarono mai una parola sull’argomento. Ma il padre e il figlio furono forse gli esseri più malinconici che abbian vissuto si questa terra a memoria d’uomo. Questa l’origine dell’espressione “la disperazione silenziosa” che finora nessuno aveva mai usato e che di solito era raffigurata in tutt’altro modo. Appena il figlio profferiva da solo quella parola, scoppiava in lagrime, sia per l’inesplicabile emozione che ne provava, sia per il ricordo della voce commossa del padre, laconica come ogni malinconia, ma che della malinconia aveva anche il nerbo. Il padre si credeva colpevole della malinconia del figlio, il figlio di quella del padre: un’angoscia impedì sempre che si confidassero l’un l’altro. E quell’esclamazione del padre non era che lo sfogo della propria malinconia, così che quando egli la profferiva, parlava più a se stesso che al figlio»22. 21 22
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Pap., 1850, X3 A 488. Pap., marzo-dicembre 1844, V A 33.
Come non cogliere in questo passo i tratti caratteristici dell’angoscia? La sua incomunicabile disperazione, il suo tormento silenzioso, l’apparente esteriorità di svago, le lacrime rotte per l’inesplicabile emozione malinconica, il ricordo di una laconica voce di un dolce passato? La coscienza di un’interiorità malinconica trova così la sua più corretta collocazione nello spazio di una dimensione ontologica: l’angoscia diventa il luogo dove, più che altrove, si rivela la criticità della condizione umana. Nell’ironia esuberante di una malinconica tristezza Kierkegaard comprese se stesso per via della sofferenza, nell’infelicità di dover essere scambiato per un vecchio dai pantaloni corti; il padre, quale vegliardo con volto triste, continuava ad osservare il figlio e a lui rivolgersi con le parole: «Povero ragazzo, vivi in una tranquilla disperazione»23. «Suo padre era un uomo molto rigido, d’aspetto asciutto e prosaico; ma sotto questo abito di fustagno si nascondeva una fantasia ardente che neppure l’età avanzata era riuscita a frenare. Quando Giovanni qualche volta gli chiedeva il permesso di uscire, ne otteneva quasi sempre un rifiuto; in compenso, però, il padre qualche volta gli proponeva di passeggiare su e giù per la stanza tenendolo per mano. […] Per Giovanni sembrava che il mondo sorgesse dalle loro conversazioni; come se il babbo fosse Nostro Signore, ed egli il suo beniamino che avesse il permesso di mescolare le sue pazze idee a piacimento. […] Aveva appreso dal padre che volere è potere e la vita del padre non aveva smentita questa teoria. Questa esperienza aveva messo nell’animo di Giovanni un orgoglio indescrivibile. L’idea che una cosa possa essere impossibile, quando la si voglia, gli era intollerabile. […] Giovanni, la cui intera concezione della vita era come nascosta nel padre cadeva in contraddizioni; perché da lungo tempo gli sfuggiva che il padre contraddiceva se stesso […]: perché non era stato educato da un uomo che sapesse far valere il suo sapere, ma da chi faceva di tutto per renderlo il più possibile insignificante e senza valore»24.
Il padre per Kierkegaard assumeva la dura fisionomia dell’uomo «condannato a sopravvivere a tutti noi, come una croce funerea piantata 23 «La tranquilla disperazione», SLV, 331. Questo racconto, presente all’interno di Colpevole? Non colpevole?, anch’esso di forte tinta autobiografica, ricalca quasi interamente la pagina di Diario (Pap., marzo-dicembre 1844, V A 33) citata nel passo precedente. 24 «Joannes Climacus o De omnibus dubitandum est. Un racconto», Pap., 1842-43, IV B 1.
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sulla tomba di tutte le sue proprie speranze»25, e causa del gran terremoto che per una sua segreta colpa si sarebbe abbattuto come divina maledizione sull’intera famiglia. Quel vecchio, lui stesso straordinariamente melanconico morì nell’agosto del 1838, lasciando Kierkegaard, definitivamente, di fronte allo specchio della sua malinconia, come segno ormai maturo della coscienza della sua angoscia esistenziale. «Avevo desiderato tanto che potesse vivere qualche anno ancora. Io considero la sua morte come l’ultimo sacrificio che nel suo amore egli ha fatto per me; poiché con la morte non mi ha lasciato, anzi egli è morto per me, affinché si possa fare di me, se è possibile, ancora qualcosa. Di tutto quel ch’io ho ereditato da lui, il suo ricordo, la sua immagine trasfigurata, non dalle finzioni della fantasia ma dai molti tratti che ora comincio a rilevare, è per me ciò che ho di più prezioso e che terrò nascosto più di qualsiasi altra cosa al mondo. […] Egli è stato un amico del cuore»26.
La morte del padre fu per lui un colpo così tremendo che non ne parlò mai con nessuno27, fu uno squarcio aperto nel suo animo assopito ma il cui rumore lo avrebbe risvegliato da un torpore sceso proprio a motivo dell’incombente presenza paterna. Come scrisse il padre pochi giorni prima, sarebbe stata una fortuna per suo figlio la sua morte perché finalmente egli «diventasse qualcosa»! E “qualcosa” Kierkegaard diventò. «Sono diventato infelice in amore, ma m’è impossibile pensare di poter divenire felice, perché dovrei diventare un altro uomo. Ma la mia disgrazia è stata la mia infelicità. Umanamente parlando, io sono stato salvato da un defunto, da lui, il padre mio! Mi è impossibile immaginare che un vivo avesse potuto salvarmi. Allora divenni scrittore, proprio com’era nella possibilità della mia natura; ma se non fossi stato perseguitato non avrei dato l’esatta misura di me stesso. V’è sempre nella vita una malinconia, ma al tempo stesso una felicità indescrivibile. A questo, oltre alla grazia e all’assistenza indescrivibile di Dio, debbo l’esser diventato me stesso […] La mia vita con Dio è stata proprio quella di un figlio col padre»28.
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Pap., 1837-1839, carte sparse, II A 805. Pap., 11 agosto 1838, II A 243. Cfr Pap., dal 15 maggio al 16 luglio 1848, IX A 70. Pap., dal 15 maggio al 16 luglio 1848, IX A 65.
Ma non mancano nel Diario vive pagine di teneri ricordi che raccontano il forte amore di colui che rimane il migliore dei padri a cui il figlio deve tutto. «Ora sto per rivedere quei luoghi dove egli povero pastore guidava il gregge, i luoghi che quando me li descriveva mi svegliavano sempre tanta nostalgia… L’obbligo da parte mia di accontentarlo sarebbe in verità poca cosa in confronto di quanto gli debbo. Poiché è da lui che ho imparato cos’è l’amore di un padre, da cui poi mi son fatto l’idea dell’amore paterno di Dio, la sola cosa incrollabile nella vita, il vero punto d’Archimede»29. «A mio padre io debbo tutto fin da principio. Fu lui che, malinconico com’era, vedendomi tutto triste mi prego un giorno: “Cerca di amare davvero Gesù Cristo!”»30.
A distanza di un decennio dalla sua morte, rileggendo il rapporto col padre Michael, Sören confesserà che quel vegliardo malinconico era stato l’uomo che più avesse amato, e che l’infelicità da lui ricevuta era solo il frutto del suo amore. «Il suo amore non è stato la mancanza d’amore ma quello d’aver scambiato un bambino per un vecchio. Amare colui che rende felici è una determinazione difettosa dell’amore; amare uno che con cattiveria rende infelici, è virtù; ma amare colui che per amore, quindi con un malinteso, ma per amore rende infelici, questa è la formula della riflessione normale per amare»31.
La coscienza però di dover vivere un’esistenza sotto la nostalgica ombra del ricordo del padre non poteva coniugarsi con la scelta di voler volgere il proprio amore verso la solare spensieratezza di Regina: la sintesi risultava esistenzialmente impossibile. Regina Olsen32 era la giovane donna con cui il filosofo danese condivise un tormentato periodo, dal settembre del 1841 all’autunno 29
Pap., dal 4 luglio al 10 agosto 1840, III A 73. Pap., dal 15 maggio al 16 luglio 1848, IX A 86. 31 SFV, 72. 32 Il rapporto tra Sören e Regina, oltre che dietro alle numerose pagine dei Diari, è adombrato anche in molti altri scritti del filosofo danese: nella storia di Quidam, protagonista di Colpevole? Non colpevole?; ne La ripresa dove Kierkegaard celebra la possibilità di “riprendere” Regina su un altro piano; nel trionfo dell’innocente amore della coppia 30
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dell’anno successivo, vissuto nella più sofferta dolcezza, al termine del quale il fidanzamento fu spezzato e il ricordo di lei riposto nell’armadio di palissandro volutamente fatto costruire da Kierkegaard per conservarne immutato il genuino sentimento. Il dramma per l’amore interrotto emerge dalle pagine inquiete dei Diari degli anni 1841-1842, pagine di una struggente liricità che rivelano solo in parte la lacerazione per un amore vissuto sotto una maledizione: la falla aperta da Regina nell’animo di Kierkegaard difficilmente sarebbe stata richiusa. «La maledizione che incombe su di me, è di non osar mai permettere che qualche essere mi si attacchi intimamente. Dio nei cieli sa quanto soffrivo tutte le volte che con una gioia infantile escogitavo qualche mezzo per farla contenta; come dovevo badare a non tradirmi nella mia gioia, ma aspettare fino a quando la ragione e la prudenza me l’avessero proibito, per timore di attirarla troppo a me. Il mio rapporto a lei, lo si può chiamare davvero un amore infelice: io l’amo — essa è mia — il suo unico desiderio è che io resti con lei — la famiglia me ne supplica — è il mio voto supremo… ed io devo dire: no! Per agevolare la cosa cercherò di farle credere ch’ero un volgare impostore, un leggerone, affinché le riesca possibilmente di odiarmi. Poiché le riuscirebbe, credo, ancor più duro il sospettare che ciò fosse dovuto alla malinconia. Quale somiglianza, ad ogni modo, non hanno la malinconia e la leggerezza!»33.
Kierkegaard si vede costretto a sciogliere il voto supremo a causa della sua fedele compagna che mai lo abbandonava, la malinconia; a nascondere i misfatti della sua possessiva confidente con la terribile decisione di indossare la maschera dell’impostore; a sospendere il suo fidanzamento per l’infelicità di un amore che se pur intenso non riusciva a rendere compatibili la malinconia di un uomo e la leggerezza della sua amata: tra la tristezza e la gioia, nel vuoto di tale distanza, rimaneva sospesa
mitologica Agnese e Tritone raccontata in Timore e Tremore, come anche nella stessa drammatica narrazione biblica di Abramo, costretto a sacrificare l’amato figlio Isacco così come il danese fu costretto a rinunziare all’amata; nella quasi totale produzione dei Discorsi edificanti dedicati a “Quel lettore” che la critica ha sempre voluto vedere in Regina. Tra i tanti, segnaliamo gli studi di G.M. PIZZUTI, Perché Kierkegaard lasciò Regina. Note sul rapporto tra esemplarità e dialettica nell’esistenza kierkegaardiana, in Filosofia 33 (1982) 463-471 e V. SECHI, Le lettere di Kierkegaard a Regina Olsen, in Comunità 179 (1978) 353-378. 33 Pap., dal 1841 al 20 novembre 1842, III A 161.
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la sua angoscia! Una presenza ineliminabile quella della malinconia, che se da un lato gli faceva sentire di vivere un’esistenza da vegliardo a immagine del padre, dall’altro gli impediva di gioire fino in fondo per l’amore a Regina, la cui figura splendeva nella spensieratezza di una bambina. Kierkegaard preferì passare per un impostore, piuttosto che dover condividere con lei la sua malinconia, accettò di indossare le vesti del leggerone, per l’impossibilità di mutare la sua natura, «sintesi di malinconia, di riflessione e di timor di Dio»34: il frutto amaro della rottura del fidanzamento con Regina sorgeva dall’ineffabile e insondabile esistere quotidiano dalle robuste radici malinconiche. «E questa orrenda inquietudine, ad ogni istante voler come convincermi della possibilità, malgrado tutto, di far ritorno a lei: o Dio, se osassi! Quanto è duro! La mia ultima speranza nella vita l’avevo messa in lei e devo rinunziarvi. Quant’è strano: in fondo io non avevo pensato mai di sposarmi, ma che la faccenda dovesse volgersi a questo modo e lasciare in me una ferita così profonda, ecco una cosa che non avrei mai creduto. Mi ero sempre fatto beffe di coloro che parlavano del potere della donna, e lo faccio ancora; ma una ragazza bella e di squisito sentire, che vi ama con tutto il cuore, con tutto il pensiero, in un abbandono assoluto, che vi supplica!… Quante volte è mancato poco che attizzassi il suo amore fino all’incendio, senza tuttavia cadere in un amore peccaminoso; bastava soltanto che le dicessi che l’amavo, per mettere tutto in subbuglio e poi farla finita con la mia giovane vita. Ma mi resi subito conto che con questo le avrei nociuto, che forse avrei addensato un uragano sulla sua testa, poiché essa avrebbe attribuito a se stessa la colpa della mia morte. Preferii fare ciò che ho fatto! […] La mia colpa fu di non aver avuto la fede, la fede di credere che a Dio tutto è possibile. […] Non posso però rimproverarmi la colpa di non averla amata. Certo, se essa non si fosse abbandonata tanto, se non avesse posta tutta la sua confidenza in me fino a cessar di vivere la sua vita per vivere per me: tutto alla fine mi sarebbe stato facile; ridermi del mondo intero non mi sarebbe costato niente: ma ingannare una giovane ragazza! Ah! Se osassi tornare da lei»35.
Davanti al bivio della scelta tra il dover rendere partecipe della sua triste malinconia l’esuberante gioia loquace di Regina e il vivere in
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Pap., 1850, X3 A 115. Pap., dal 1841 al 20 novembre 1842, III A 166.
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compagnia dell’assordante silenzio della sua solitudine, Kierkegaard volge i suoi passi verso questa seconda via. «C’era fra me e lei una differenza infinita. Essa desiderava od aveva desiderato di brillare nel mondo: io invece con la mia malinconia e con quella mia concezione malinconica del patire e di dover patire»36.
L’impossibilità di prender parte alla gioia di lei con la sua malinconia rappresentava al contempo la salvezza e la custodia del suo amore a Regina, un amore da cui non potrà liberarsi perché mai sarebbe stato in grado di fuggire da se stesso, dalla sua tristezza che lo rapportava al finito come a qualcosa di nostalgicamente vissuto. «Non riesco a liberarmi di questo amore; io non posso infatti sognarmelo da poeta, perché quando sto per abbandonarmi alla poesia, subito mi prende un’angoscia, un’impazienza di agire»37.
Kierkegaard “uccide” Regina salvandola dalla propria malinconia e liberandola alla sua gioia spensierata di piccola donna; la sacrifica sull’altare di un amore per il finito ritrovandola nella vita nuova dello spirito infinito dove l’amore a lei può esistere assorbita dalla sua malinconia; annienta nel senso immediato il suo amore, conservandolo. Ma nascosto in esso, come nel rapporto al padre, Kierkegaard avverte l’invisibile presenza di Dio. «Non c’era che un’unica cosa, assolutamente una sola cosa da fare: appoggiarla con un inganno. L’ho fatto, non mi sono risparmiato. Ma con questo la faccenda divenne per me una lotta da solo con Dio»38. «La ferita ch’ebbi dalla sua mano, guidata però dalla mia, era e doveva diventare una ferita religiosa: il vincolo che lega è il rapporto a Dio»39. «Se non fossi stato un penitente, se non avessi avuto la mia vita “ante acta”, se non fossi stato un malinconico, l’unione con lei mi avrebbe dato una felicità quale mai avevo sognato… Ma c’era un divieto divino: così 36 37 38 39
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Pap., dalla metà del 1849 al 7 settembre 1849, X1 A 485. Pap., dal 1841 al 20 novembre 1842, III A 164. Pap., dalla metà del 1849 al 7 settembre 1849, X1 A 664. Pap., dalla metà del 1849 al 7 settembre 1849, X1 A 661.
compresi io la cosa. […] Una volta rotto il legame, il mio stato d’animo era: o ti dai alle distrazioni pazze, o alla religiosità assoluta»40.
Nella cabina isolata della sua malinconia, Kierkegaard ritrova l’amore per Regina nella sua dedizione dell’amante, la libera dalla schiavitù di una nostalgica relazione mantenendola nel suo intimo con l’unico amore: così è dalla convivenza conflittuale di malinconia e amore che scaturisce la dirompente passione della scrittura, la tensione esistenziale disegnata nelle sue pagine di scrittore essenziale. L’amore realizzato nel finito avrebbe inaridito la sua penna impedendole di disegnare le trame di un amore pienamente realizzabile solo nell’infinito: quanto Kierkegaard vuole evitare è l’angoscia del finito come oggetto d’amore mancante dell’infinito. Kierkegaard recupera il finito nell’infinito attraverso il filtro malinconico del suo animo, abbandona Regina nella dimensione temporale per riaverla trasformata in quella dell’eterno, unico punto di vista dal quale è possibile capire la loro storia d’amore. La malinconia del padre da una parte e il distacco da Regina dall’altra, vengono dal filosofo traslati nel fenomeno letterario, attraverso un’intelligenza eminente, concessagli da Dio probabilmente perché non fosse completamente disarmato, aprendo l’orizzonte ad una trascendenza esistenziale. «Com’è terribile per me pensare anche un solo momento al tenebroso retroscena della mia vita fin dai miei primi anni. L’angoscia di cui mio padre mi riempì l’anima, la sua tremenda malinconia, le tante cose che a questo riguardo non posso neppure annotare…! È stata un’angoscia simile che mi prese per il Cristianesimo e tuttavia mi sentivo attirare con tanta forza ad esso […]. Come ho detto in certi momenti mi riesce tremendo pensare alla vita che ho condotta fin qui nella segretezza più intima, senza poter farne un cenno ad alcuno, neppure una parola […] e che poi io abbia potuto travestire tale vita con un’esistenza esteriore tutta esuberante di vita e allegria! Perciò quanto son vere le parole che spesso ho applicato a me stesso: che come Sheherazade si salvò la vita col raccontare fiabe, anch’io mi salvo la vita, ovvero mi mantengo in vita a forza di scrivere»41.
Il compito di scrittore nasce dalla sua determinazione esistenziale: l’incompiutezza di un amore nel finito e il temperamento malinconico 40 41
«Il mio rapporto con “Lei”», Pap., 24 agosto 1849, X5 A 149. Pap., 16 luglio 1848 – 2 gennaio 1849, IX A 411.
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saranno all’origine del dinamismo della sua scrittura. La vocazione di Kierkegaard matura nelle stanze buie della sua malinconia, nell’amore per Regina, nel suo isolamento forzato42. «A lei e al mio povero padre sarà dedicato il complesso dei miei scritti: ai miei due maestri, la nobile saggezza di un vegliardo e l’amabile impudenza di una donna»43.
Gli occhi malinconici del vegliardo e quelli spensierati della bambina vengono impressi per sempre nelle pagine della sua produzione letteraria, dietro le quali si celava in verità lo sguardo dell’unico Soggetto della sua attività di scrittore. «La mia disgrazia è che io ho avuto un’educazione cristiana troppo severa. Fin da fanciullo sono stato in potere di una malinconia originaria. Se io fossi stato educato in modo più ordinario, è chiaro che non sarei certamente divenuto tanto malinconico: avrei dovuto per tempo fare di tutto per liberarmi da questa malinconia la quale voleva quasi impedirmi di essere uomo, avrei dovuto fare il possibile perché o mi spezzassi io o si spezzasse essa. Abituato fin dalla prima giovinezza in questa realtà cristiana del “pungolo nella carne”, persuaso che ciò faccia parte veramente della vita cristiana, trovai che con questo non c’era nulla da fare, e in ogni caso la mia malinconia trovava un appoggio in tutta quella concezione di vita. Poi mi vi ci sono abituato per motivi religiosi e ciò mi ha reso infelice quanto si può pensare: ma sulla base di questo dolore potei esplicare poi un’eminente esistenza di scrittore. Io mi sono compromesso in questa vita. Le mie pene furono orrende — ma anche la soddisfazione è stata tanto più grande: io non potrò mai ringraziare Iddio abbastanza per tutto quello che mi ha concesso»44. «In tutta la mia vita attività letteraria io ho avuto sempre bisogno, giorno per giorno nel corso degli anni, dell’aiuto di Dio; egli è stato il mio unico confidente e solo con la fiducia nella sua confidenza ho potuto osare ciò che ho osato, sopportare ciò che ho sopportato e trovare in questo la mia beatitudine»45. 42 43 44 45
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Cfr Pap., 1850-1851, X3 A 499. «Il mio rapporto con “Lei”», Pap., 24 agosto 1849, X5 A 149. Pap., 1849-1850, X2 A 619. SFV, 67.
Un Dio provvidente nel e dal quale poter rileggere l’intera sua situazione esistenziale la quale assume ormai i caratteri di un’eccezione e a cui attribuire l’intero impianto dialettico. «Quando non si ha un immediato rapporto a Dio, non si ha neppure il diritto di essere un’eccezione […]. Solo il rapporto primitivo a Dio giustifica la mia vita d’eccezione»46. «L’edificio dialettico ch’egli aveva portato a termine, di cui le opere sono già le singole parti, egli non poteva attribuirlo a nessuno, tanto meno a se stesso: se avesse dovuto attribuirlo a qualcuno, questo sarebbe stato la Provvidenza alla quale comunque giorno dopo giorno e anno dopo anno era stato dedicato dall’autore il quale, per lo storico, morì di una malattia mortale, ma per il poeta morì di nostalgia d’eternità per non far altro che lodare senza posa Iddio»47.
Kierkegaard, lo scrittore essenziale, sofferente e polemico, così estraneo, così troppo diverso da ciò che occupa gli uomini in generale, l’isolato genio di una cittaduzza, poeta dell’ideale passione del pensiero, moribondo per via di una malattia mortale, il martire che soffrì per la verità, l’uomo che morì di nostalgia d’eternità, riconosce nella sua eccezionale situazione la matrice dello schiudersi dell’angoscia esistenziale, nella quale la malinconia trasmessa dal padre e l’amore temporalmente impossibile per Regina costituiscono la spinta che lo liberano al suo compito di scrittore religioso sofferente. «Che cos’è un poeta? Un uomo infelice che nasconde profonde sofferenze nel cuore, ma le cui labbra sono fatte in modo che se il sospiro, se il grido sopra vi scorre, suonano come una bella musica. […] E gli uomini s’affollano attorno al poeta e gli dicono: “Presto, canta ancora!”, il che vuol dire: “Che nuove sofferenze scuotano il tuo spirito, e che le tue labbra conservino la forma che hanno, perché il grido non farebbe che angosciarci, ma la musica, quella è soave!”. E intervengono i recensori dicendo: “È giusto, così dev’essere per le regole dell’estetica!”. Ora, s’intende, critico e poeta si somigliano come due gocce d’acqua, solo che il primo non ha le sofferenze nel cuore, non ha la musica sulle labbra. Ed ecco perché
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Pap., dalla metà del 1849 al 7 settembre 1849, X1 A 485. SFV, 90.
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preferirei fare il porcaro ad Amagerbro e venir inteso dai porci, piuttosto che essere poeta e venir frainteso dagli uomini»48.
Kierkegaard, il poeta che canta la sua angoscia con la musica che soave scorre sulle labbra e con il tormento che brucia nel cuore: in fondo, alcuno dei suoi scritti poté esaustivamente esplicare il suo animo taciturno, la cui umbratile fonte rimane avvolta dalla luce misteriosa dell’io in quell’ineffabile rapporto assoluto con l’Assoluto. «Dopo la mia morte non si troverà nelle mie carte (e questa è la mia consolazione) una sola spiegazione di ciò che in verità ha riempito la mia vita. Non si troverà nei recessi della mia anima quel testo che spiega tutto e spesso, di ciò che il mondo tiene per bagattelle, fa degli avvenimenti di enorme importanza per me e che anch’io considero futili appena tolgo quella nota segreta che ne è la chiave»49.
Categoria del pensiero è l’angoscia perché dramma esistenziale che attraversa l’unica scena, l’unica vita-scrittura del filosofo danese, indossando ora l’abito stretto della solitudine, ora quello sgualcito della malinconia, ora l’altro incolore della sofferenza. Kierkegaard è consapevole di fornire al pensiero la partitura di una categoria esistenziale. Ma occorre passare da uno stadio puramente emotivo alla valenza teoretica, da un piano psicologico alla dimensione ontologica per trovare una più corretta spiegazione della traboccante potenza dell’angoscia, coscienti di non essere in grado di dipanare attraverso le pagine del filosofo l’incalcolabile sua portata.
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EE, I, 73. Pap., dal 30 novembre 1842 al marzo 1844, IV A 85.
Parte prima Per una fenomenologia esistenziale dell’angoscia
CAPITOLO I L’ANGOSCIA DELL’UOMO DAVANTI AL NULLA: «LA POSSIBILITÀ PER LA POSSIBILITÀ»
«Ciò che temo mi accade e quel che mi spaventa mi raggiunge. Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo e viene il tormento» (Gb 3,25-26) «Nessun grande inquisitore tien pronte torture così terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, né sa preparare così bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare così a fondo l’accusato come l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno, né di notte»50.
Quasi impossibile da definire, labile, labirintica, ambigua, mai pienamente afferrabile, fuggente, ricca di determinazioni fenomenologiche51, l’angoscia, pur fatta rientrare da Kierkegaard attraverso la porta del concetto nella sala delle categorie, non trova posto sulla tavola delle granitiche nozioni obiettive, delle immobili categorie logiche, di statuarie formule chiaramente registrabili o dominabili in sistemi di pensiero, delle più indifferenti forme concettuali. L’angoscia non viene accolta nelle pagine di un vocabolario filosofico se non per definire un movimento indefinibile, tortuoso, che muove i suoi passi esistenziali sulla via della fondante ontologia. «Kierkegaard è socratico»52, esplica la sua verità maieuticamente, senza ridurla ad una fredda esposizione precostituita né ad un oggetto di cui l’uomo possa disporre esercitando su di esso il suo potere. Ugualmente la verità dell’angoscia fugge, attira, incita, affascina, inorridisce, seduce, come un soggetto irriducibile all’uomo e a cui l’uomo deve tributare una identità propria. Per l’uomo una verità da cercare, 50 51 52
BA, 467. Cfr R. CANTONI, La coscienza inquieta. Søren Kierkegaard, Milano 1976, 149ss. Cfr E. PACI, Relazioni e significati, Milano 1965, 234.
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l’angoscia, memore di non avere alcun punto di riferimento che non sia il senso stesso di vuoto che essa suscita. «Devi uscire in alto mare, là dove c’è la profondità di 70.000 braccia: questa è la situazione. Ora si tratta o di aver fede o disperare»53.
L’uomo che imbocca la via dell’angoscia deve abbandonare qualsiasi appiglio concettuale. Il movimento esistenziale dell’angoscia è condizione originante, principio sorgivo che precede ogni scelta, anche quella che si staglia davanti a un drammatico bivio: la fede da una parte e la disperazione dall’altra. «È una cosa eccellente, l’unica necessaria e chiarificante, questa che dice Lutero: “Tutta la dottrina (della Redenzione, e in fondo tutto il Cristianesimo) deve essere messa in rapporto alla lotta della coscienza angustiata. Elimina la coscienza angustiata, e tu puoi anche chiudere le chiese e farne delle sale da ballo”. La coscienza angustiata capisce il Cristianesimo, come un animale affamato; se gli metti davanti una pietra o un pezzo di pane, capisce che l’uno è da mangiare e l’altro no; a questo modo la coscienza angustiata capisce il Cristianesimo. […] Ma dirai: “La Redenzione io non la posso capire”. Qui dovrei domandarti: In quale senso tu la vuoi capire? Nel senso della coscienza angustiata o in quello di una speculazione indifferente e oggettiva? Se uno vuol starsene tranquillo e oggettivo al tavolino a speculare, come potrà capire la necessità della Redenzione? Una Redenzione è necessaria solo per una coscienza angustiata. Se fosse in potere dell’uomo il vivere senza la necessità di mangiare, come potrebbe comprendere quel bisogno di mangiare che l’affamato capisce così facilmente? Altrettanto dicasi nel campo dello spirito»54.
È la coscienza che va alla ricerca dell’angoscia percepita come preda da divorare per il suo famelico bisogno di spirito, è la coscienza che tiene in mano la chiave dell’angoscia per lasciare ancora spalancate le porte delle chiese dove poter capire e vivere il cristianesimo: è l’angoscia che permette a Kierkegaard, nel celebre Begrebet Angest, l’avvio di una semplice
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Pap., 1851-52, X4 A 114. Pap., dal 7 settembre 1846 al 24 gennaio 1847, VII1 A 192.
riflessione psicologicamente dimostrata, perché è la coscienza ad essere angustiata, è la coscienza che rileva l’angoscia.
1. «L’IMPOTENZA DELLA PSICOLOGIA» «Mi propongo di trattare in questo studio del concetto dell’angoscia, dal punto di vista dell’analisi psicologica, avendo in mente e innanzi agli occhi il dogma del peccato originale»55.
Vigilius, la sentinella del 1844 dell’antica città di Hafnia addormentata dalla cultura romantico-borghese, spia il fenomeno esistenziale dell’angoscia indagando sulla problematicità del peccato, perché l’angoscia è lo stato psicologico che presuppone il peccato, è il presupposto del presupposto, anche se non riesce a spiegarlo se non attraverso l’inspiegabilità di un salto qualitativo nel quale il peccato prorompe. Il distacco della maschera kierkegaardiana dall’hegelismo filosofico per un ritorno al pensiero greco è manifesto già a partire dal tributo al defunto Professore Poul Martin Moeller a cui il danese dedica le sue pagine nonché da un testo di Hamann scelto come motto dell’opera. Anzi, il ritmo dello scritto dalla «forma diretta e un poco cattedratica»56 è scandito proprio dalle parole del filosofo di Königsberg, di cui Kierkegaard vuole raccogliere l’eredità da portare ad una più attenta riflessione rispetto a quanto lo stesso Hamann fu in grado di fare57: «Hamann fa un’osservazione che può riuscire utile, anche se egli la intese in un senso diverso da quello in cui io desidero prenderla, e neppure vi ha troppo riflettuto: “Quest’angoscia nel mondo è l’unica prova della nostra eterogeneità. Perché se niente ci mancasse, non faremmo meglio dei pagani e dei filosofi trascendentali che nulla sanno di Dio e s’innamorano come pazzi della cara natura. Non ci prenderebbe alcuna nostalgia: questa irrequietezza impertinente, questa santa ipocondria è forse il fuoco nel quale 55
BA, 315s. AE, 401. 57 Per il rapporto filosofico tra i due autori, cfr N. THULSTRUP, Incontro di Kierkegaard e Hamann, in AA.VV., Studi kierkegaardiani, a cura di C. Fabro, Brescia 1957; R.G. SMITH, Hamann and Kierkegaard, in Kierkegaardiana, V, a cura di N. Thulstrup, Kopenhagen 1964, 52ss. 56
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noi, vittime, dobbiamo essere salvati dalla putrefazione del secolo corrente”»58.
La sentinella di Copenaghen presenta la sua indagine come «semplice riflessione per una dimostrazione psicologica orientata in direzione del problema dogmatico del peccato originale»59: in realtà dietro la sobrietà della riflessione si nasconde una complessa e dettagliata ricerca sull’inquieta nostalgia e sull’esistenziale irrequietezza che rinvia alla condizione originale del peccato. Lo spunto filosofico che domina imperioso attraverso le pagine di andamento quasi dottrinale del libro è l’attacco all’ottimismo hegeliano, reo di aver relegato il peccato nelle sterili astrazioni dell’essere sopra i sistematici scaffali della logica, riducendolo a negatività da dissolvere nella sintesi del movimento dialettico. In quanto non è oggetto della filosofia il peccato si rivela come non essere, una non realtà. Ma affacciandosi all’orizzonte del pensiero come negativo che va negato, come presupposto che nega la trascendenza, il peccato afferma paradossalmente proprio una realtà: il suo essere irriducibile, la sua assoluta mancanza di posizione entro i confini di alcuna scienza. La realtà del peccato infatti è di non avere un posto determinato: indeterminata determinazione perché contraddittoria categoria, fluttuante tra comicità e tragicità. «Sia che diventi comico sia che diventi tragico, risulta sempre qualche cosa di permanente o di non essenzialmente annullato, mentre invece il concetto di peccato è di essere superato»60.
Impossibile da raggiungere in quanto presupposto di ogni pensiero, categoria fin troppo instabile per diventare oggetto della prima filosofia, il concetto di peccato non trova collocazione in alcuna delle scienze: né nell’imperturbabile metafisica di impassibile indifferenza dialettica, né nell’intrepidezza femminile della psicologia, spia che osserva il permanere del peccato, né nelle aule di giustizia dell’etica che, ancora troppo ideale, accusa, giudica e condanna ma non dà vita, quale isola deserta verso cui si fa naufragio mediante il pentimento. La serietà del peccato può essere 58
Pap., 1840-1842, III A 235. Kierkegaard fa qui riferimento all’edizione J.G. Hamanns Schriften, a cura di F. Roth e G.A. Wiener, 8 voll., Berlin 1821-1843. 59 È il sottotitolo dell’opera. 60 BA, 316.
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trattata solamente dalla dogmatica che, partendo dal reale, lo supera nell’idealità, spiegando il peccato, semplicemente presupponendolo, come il turbine dei greci che nessuna scienza può afferrare: questa è la dottrina del peccato originale che ogni scienza ha bisogno di presupporre ma che alcuna è in grado di spiegare. Il negativo non vuole essere conosciuto né spiegato: desidera solo essere superato; in quanto però presupposto, il negativo, cioè il peccato, se fosse tolto eliminerebbe ogni sapere. Ogni scienza infatti è tale perché fondata sul presupposto del peccato originale. Compito così di ogni sapere è di riconoscere il presupposto come qualcosa di non esauribile entro gli angusti steccati delle proprie conoscenze e, contemporaneamente, studiare delle possibilità che, se attuate, possano realizzare il desiderio del peccato, in quanto negativo, d’essere tolto. Tale è il compito della psicologia che, indagando sul peccato reale, studia la possibilità di toglierlo. Ci troviamo in tal modo nella situazione paradossale in cui la psicologia, che sciupa il suo tempo disegnando i contorni e calcolando gli angoli della possibilità del peccato, sia a servizio, senza saperlo, della dogmatica più di quanto faccia l’etica: «mentre la psicologia indaga la possibilità reale del peccato, la dogmatica spiega il peccato originale, vale a dire la possibilità ideale del peccato»61.
Ma è sempre nelle pagine della sua Introduzione all’opera che il filosofo danese chiarisce il senso di una trattazione psicologica del concetto dell’angoscia, evidenziandone i limiti illusori e l’esaurimento del compito della medesima scienza. «Il concetto di peccato in fondo non appartiene ad alcuna scienza […]. Se qualche altra scienza vuole trattarlo, il concetto viene confuso. Così avviene se lo vuol fare la psicologia. L’oggetto della psicologia dev’essere qualcosa di quiescente che permane mediante una quiete di movimento, non qualcosa di instabile che continuamente o produce se stesso o viene soppresso. Ma è quell’elemento permanente, dal quale nasce continuamente il peccato, non con necessità ma con libertà; è questo elemento costante, il presupposto disponente, la possibilità reale di peccato: è esso l’oggetto che interessa la psicologia. Il problema che può interessare la psicologia e di cui essa può occuparsi è il modo come il peccato possa nascere, non il fatto
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BA, 325.
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ch’esso nasce. […] Mostrare come questo presupposto, sotto l’accurata contemplazione e osservazione dello psicologo viene ad allargare sempre di più la sua sfera, è questo che interessa la psicologia; anzi, essa si abbandonerà quasi all’illusione che in questo movimento il peccato esista. Ma quest’ultima illusione manifesta l’impotenza della psicologia e indica che il suo compito è esaurito»62.
«La possibilità non va confusa con l’attuazione della possibilità»63. La psicologia rivela la situazione del peccato, studia le possibilità reali per superarla, rileva il fenomeno dell’angoscia in quanto «l’angoscia è una determinazione dello spirito sognante e come tale appartiene alla psicologia»64; ma non appena finisce di esaminarla deve cedere il posto alla dogmatica: è sotto la dottrina della psicologia che l’angoscia viene rilevata perché percepita dalla coscienza, ma non è psicologicamente che essa possa essere compresa. È la coscienza, lo spirito sognante, a rilevare l’angoscia, ma non a costituirla. «L’universalità del peccato non può essere oggetto di scienze, ma di Fede soltanto: è una comunicazione di Rivelazione, avuta la quale io ho soltanto il compito di concentrare tutta la serietà nel pensiero ch’io sono un peccatore»65.
Il riposo rasserenante dell’angoscia nella Provvidenza segna la terra di confine della psicologia, lapidaria conclusione a cui il danese giunge anche al termine del suo percorso teoretico: «chi nel rapporto con la colpa viene educato dall’angoscia, troverà quiete soltanto nella redenzione»66.
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BA, 323s. E. PACI, Relazioni e significati, cit., 183. BA, 345. Pap., 1849-1850, X2 A 483. BA, 474.
2. «L’INNOCENZA È IGNORANZA» Se la specie partecipa dell’individuo e l’individuo di tutta la specie, ne consegue che ciò che avviene in un individuo interessa tutti gli altri: si comprende in tal modo che la tesi fondamentale in rapporto al peccato «è per Kierkegaard una tesi relazionistica»67. Ma la situazione originaria naturale dell’uomo non è determinata dal peccato bensì dall’innocenza, condizione che precede la coscienza della colpa: infatti «l’innocenza si perde soltanto mediante la colpa»68. Se il peccato è il presupposto, l’innocenza è il presupposto del presupposto. In questo si nota tutta la distanza tra Kierkegaard e Hegel dal momento che il primo indica nell’innocenza il dato iniziale, mentre il secondo pone all’inizio l’immediatezza. Questa, come lo stesso danese sottolinea con veemenza, non esiste dato che appartiene alla sfera della logica mentre il concetto di innocenza rientra nella dimensione etica: Kierkegaard oppone la primarietà dell’innocenza alla speculazione dell’immediatezza, la rilevazione etica alla riflessione logica. Va d’altra parte notato che, in Kierkegaard, la posizione dell’innocenza come primum rivela come le pagine in questione risentano di un’inevitabile eredità hegeliana: come infatti l’immediatezza è per Hegel l’indeterminata identità di essere e non essere, il presupposto indeterminato che presuppone la determinata qualità, così l’innocenza è per Kierkegaard il presupposto indistinto di bene e male che presuppone la determinazione del peccato, con la differenza che per il primo l’immediatezza può e dev’essere logicamente tolta, per il “nostro” eticamente e inspiegabilmente abbandonata con un salto69. Infatti, come ricordava nel passo del Diario del 1846-1847, la coscienza angustiata non dipende dalla natura, perché «l’angoscia è posta nell’innocenza»70. Porre l’angoscia nello stato dell’innocenza e riconoscerne la presenza è pretesto per esaltare il compito dell’etica, muro di divisione tra l’essere umano e l’animale. L’innocenza non può essere infatti
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E. PACI, Relazioni e significati, cit., 184. BA, 340. 69 Per il rapporto tra immediatezza hegeliana e innocenza kierkegaardiana resta ancora particolarmente ricco di interesse l’articolo di E. PACI, Angoscia e relazione in Kierkegaard, in Aut Aut 23 (1954) 363-376. 70 BA, 346. 68
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uno stato di perfezione altrimenti il perderla costituirebbe per l’uomo una diminuzione della sua natura. «L’innocenza non è uno stato di perfezione al quale si debba desiderare di tornare; perché appena desiderata, essa è perduta, e sciupare il tempo in desideri è una nuova colpa. L’innocenza non è neanche uno stato di imperfezione nel quale non si possa rimanere; infatti, essa basta sempre a se stessa, e a chi l’ha perduta, in quel modo in cui essa solitamente può essere perduta, cioè per colpa, non verrà in mente di certo di esaltare la sua perfezione a scapito dell’innocenza»71.
L’innocenza invece è ignoranza: «essa non è per niente il puro essere dell’immediato, ma è ignoranza»72. Identificare innocenza e ignoranza significa negare all’uomo che vive in quello stato la conoscenza della differenza tra il bene e il male, compresa solo dopo aver mangiato del frutto dell’albero del giardino: il peccato nasce a fronte dell’angoscia che è posta nell’innocenza equivalente all’ignoranza. Innocenza dunque come socratica ignoranza e non come edenica purezza: l’innocenza non va sognata come paradiso lontano a cui il dovere dell’etica chiede di far ritorno, ma «come condizione che deve venir perduta per poter permettere allo spirito di rivelarsi ed alla libertà di realizzarsi»73. La firma di Vigilius Haufniensis potrebbe anche giustificare una lettura pagana che vede nella beatitudine dell’innocenza il peso dell’ignoranza, ma i dubbi sull’autenticità del pensiero di Kierkegaard vengono fugati quando si legge uno dei più celebri passi tratto dai suoi Diari: «Quante volte non è stata esposta la natura del peccato originale! E nondimeno si è sempre trascurata una categoria principale, l’“Angoscia” (Angest), ché questo è il vero suo termine. L’angoscia infatti è il desiderio di ciò di cui si ha paura, un’antipatia simpatica; è una forza estranea che ghermisce l’individuo senza ch’egli possa o voglia liberarsene, perché si ha paura e nondimeno si desidera ciò di cui si ha paura. L’angoscia rende l’individuo impotente, ed il primo peccato avviene sempre in questa
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BA, 341. L.c. 73 G. MOLLO, Al di là dell’angoscia. L’educazione etico-religiosa in Søren Kierkegaard, Assisi 1988, 66. 72
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impotenza; sembra che manchi la responsabilità, e proprio in questa mancanza di responsabilità consiste la seduzione»74.
L’angoscia è qui disegnata come il desiderio di ciò di cui l’uomo ha paura; essa è un’antipatia simpatica che attanaglia l’individuo senza che egli possa o voglia liberarsene, perché si ha paura ma nonostante questo si desidera ciò di cui si ha paura. Comprensibile allora sembra l’impotenza dell’uomo di fronte allo strapotere dell’angoscia. Il peccato nasce e si alimenta proprio in e di questa angoscia che rende impotente l’uomo, colpevole solo d’essere caduto vittima di una forza che affascina, a lui estranea, un uomo a cui è negata una responsabilità diretta se non quella d’essersi lasciato sedurre da un timore che amava. «Colui che mediante l’angoscia diventa colpevole è di certo innocente; infatti non era lui, ma l’angoscia, una potenza estranea, che lo prese; una potenza che egli non amava, ma di cui si angosciava…: eppure egli è colpevole, perché si lasciò cadere nell’angoscia ch’egli, pur temendola, amava»75.
Nella situazione dell’innocenza lo spirito è percepito come ostile ma allo stesso tempo come potenza amica a cui l’uomo si rapporta con l’angoscia. L’uomo è irresistibilmente attratto dalla potenza ambigua dello spirito che nello stato di innocenza attenta alla quiete e alla pace e dalla quale sottrarsi non può; a rompere dall’esterno questo stato di ignorante innocenza è l’angoscia che rende lo spirito cosciente trasformandolo in potenza amica. L’angoscia ghermisce l’uomo come un’ineliminabile forza da cui risulta difficile liberarsi anche perché è l’angoscia a rivelare la possibilità d’essere spirito che si rapporta a se stesso diventando sintesi che colma lo iato tra l’anima e il corpo. «Se l’uomo fosse un animale o un angelo, non potrebbe angosciarsi. Poiché è una sintesi, egli può angosciarsi, e più profonda è l’angoscia più grande è l’uomo; non l’angoscia, come gli uomini intendono di solito, cioè l’angoscia che riguarda l’esteriore, ciò che sta fuori dell’uomo, ma l’angoscia ch’egli stesso produce»76. 74 75 76
Pap., 1840-1842, III A 233. BA, 347. BA, 466.
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3. «LO SPIRITO SOGNANTE» «Mostrare come l’angoscia si manifesta, è questo il punto attorno al quale tutto s’aggira. L’uomo è una sintesi di anima e corpo. Ma la sintesi non è pensabile se i due elementi non si uniscono in un terzo. Questo terzo è lo spirito. Nell’innocenza l’uomo non è puramente un animale; infatti, se in alcun momento della sua vita egli non fosse altro che animale non diventerebbe mai uomo. Lo spirito, dunque, è presente, ma come immediato, come sognante: in quanto è presente esso è, in un certo senso, una forza ostile, perché disturba continuamente il rapporto tra l’anima e il corpo; rapporto il quale esiste, eppure non esiste, in quanto ottiene l’esistenza soltanto mediante lo spirito. D’altra parte esso è una potenza amica, appunto perché vuole costruire il rapporto. Qual è, dunque, il rapporto dell’uomo con questa potenza ambigua, il rapporto dello spirito con se stesso e colla sua condizione? Esso si rapporta come angoscia»77.
Nello stato di innocenza domina un’unità immediata di anima e corpo, nella quale, data la non opposizione per via dell’ignoranza, lo spirito è presente, ma solo come sognante, inconsapevole della differenza tra il bene e il male. Però la situazione in cui si trova lo spirito è l’angoscia, percepita come potenza ambigua perché antipatia simpatica e simpatia antipatica, tendente a svelare la difficile armonia tra le dimensioni del corpo e dell’anima, di tempo e di eternità; il dolce affanno dell’uomo è dettato da una mancanza di sintesi, da un rapportarsi ad una sospensione dicotomica tra anima e corpo, finito e infinito. Si stabilisce un circolo virtuoso: l’angoscia da una parte rivela la presenza dello spirito e dall’altra è proprio la coscienza dello spirito che permette la percezione dell’angoscia; allo spirito è necessaria l’estraneità dell’angoscia per attuare nel salto qualitativo il movimento della sua liberazione e per l’angoscia è vitale l’ostilità dello spirito, tanto che Kierkegaard può candidamente affermare che «nella mancanza di spiritualità non c’è alcuna angoscia; essa è troppo felice e contenta e troppo priva di spirito»78 e «quanto meno spirito, tanto meno angoscia»79. Lo spirito è angoscia in quanto relazione aperta al possibile, come acutamente osserva Paci: «lo spirito è relazione come angoscia in quanto 77 78 79
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BA, 348. BA, 403. BA, 346.
relazione aperta al possibile […]. Se venisse posto lo spirito non come relazione fra l’attuale e il possibile, ma come relazione necessaria, l’angoscia non ci sarebbe. Ma se lo spirito è relazione lo spirito è angoscia»80. «Ma la sua angoscia non è angoscia del peccato perché non c’è la differenza tra il bene e il male che esiste soltanto mediante la realtà della libertà. Se questa differenza esiste è soltanto come il presentimento di un’idea»81.
Angustiato nella sua pace sognante, l’uomo ha come il presentimento di possibilità a lui ignote e non ancora realizzate. Si avverte una distanza colmabile solo con un salto che, successivamente qualitativo tra l’eternità dell’innocenza e la temporalità della colpa, è primariamente tra l’innocenza e la possibilità: è vero infatti che l’innocenza è ignoranza, ma in qualche modo sa anche senza sapere, sa incoscientemente, sa presentendo. Questa è l’attualità di una possibilità ignota: il sogno! Nell’innocenza è attuale la possibilità non ancora compiuta del bene e del male, il possibile come vuoto, abisso, come nulla, la possibilità pura di potere: l’innocenza è la possibilità di un salto non ancora compiuto. «Nel sogno la realtà dello spirito si mostra continuamente come una figura che tenta la sua possibilità, ma appena egli cerca di afferrarla, essa si dilegua; essa è un nulla che può soltanto angosciare»82.
C’è dunque una possibilità positiva già vivente nell’innocenza; tuttavia essendo l’innocenza indistinta sintesi di essere e non essere, essa ignora appunto cosa sia la possibilità positiva. Ecco dunque l’angoscia: essa nasce dall’inconsapevole consapevolezza di un’ulteriorità del sogno rispetto all’innocenza da cui vuole liberarsi per l’attualità di una possibilità che avverte come positiva. «L’angoscia è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità»83. 80 81 82 83
E. PACI, Relazioni e significati, cit., 202. BA, 358. BA, 345. BA, 346.
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L’innocenza è ignoranza di una distinzione tra il bene e il male, ma l’angoscia si insinua nel vuoto di una possibilità più positiva: da qui il salto infinito dall’innocenza ad una possibilità da attuare perché presentita come positiva. «L’angoscia è la possibilità […]. Colui ch’è formato dall’angoscia, è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato dalla possibilità, è formato secondo la sua infinità. Perciò la possibilità è la più pesante di tutte le categorie […]. Di solito la possibilità di cui si dice ch’è così lieve, s’intende come possibilità di felicità, di fortuna, ecc. Ma questa non è affatto la possibilità; questa è un’invenzione fallace che gli uomini, nella loro corruzione, imbellettavano per avere almeno un pretesto di lamentarsi della vita e della Provvidenza e per avere un’occasione di farsi importanti ai propri occhi. No, nella possibilità tutto è ugualmente possibile e chi fu realmente educato mediante la possibilità, ha compreso tanto il lato terribile quanto quello piacevole»84.
In una possibilità in cui tutto è possibile, lo spirito ancora sognante che avverte il vuoto con angoscia è come risvegliato da un divieto divino: «soltanto dell’albero della conoscenza del bene e del male tu non devi mangiare»85. «Se si ammette che il divieto sveglia il desiderio, si ottiene una conoscenza invece dell’ignoranza, perché Adamo doveva avere conoscenza della libertà se aveva il desiderio di farne uso. Perciò questa spiegazione si trova in ritardo»86.
La tesi da Kierlegaard riportata è di Usteri, il quale, in Entwicklung des paulinischen Lehrbegriffes87, fornisce una spiegazione psicologica del peccato sostenendo che fu il divieto di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male a generare in Adamo il peccato. Kierkegaard, pur avendo nulla da rimproverare alla tesi dell’autore in quanto spiegazione psicologica situata sulla scia dell’antica dottrina protestante del peccato originale, che vede nel divieto divino la causa del 84 85 86 87
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BA, 467. Gen 2,17. BA, 347. IV ed., Zurigo 1832.
risveglio della “concupiscentia” nell’uomo adamitico, e confermando che «la “concupiscentia” è una determinazione della colpa e del peccato prima della colpa e del peccato, la quale però non è né colpa né peccato, ma è posta mediante essi»88, ribatte che «così si infiacchisce il salto qualitativo»89. «La spiegazione psicologica non deve offuscare colle chiacchiere il punto essenziale, ma deve restare nella sua elastica ambiguità, dalla quale prorompe la colpa nel salto qualitativo»90.
Il divieto di Dio risveglia in Adamo la possibilità pura di potere ed è proprio questa infinità del possibile ad angustiare l’uomo: è l’angoscia delle possibilità infinite, delle possibilità indeterminate. L’angoscia è inscritta nel «tutto è possibile», secondo un duplice significato dell’infinità del possibile: «il possibile è infinito nel senso dell’infinito numero delle possibilità; e in secondo luogo è infinito per l’indeterminatezza radicale di tali possibilità»91. Sono i caratteri di infinità e di indeterminatezza delle possibilità a rendere insuperabile l’angoscia e a fare di essa la categoria dell’esistenza. Prima che l’uomo possa scegliere, l’angoscia si rivela come la realtà della libertà come possibilità per la possibilità perché l’oggetto dell’angoscia è l’indeterminato nulla. In questo l’uomo avverte l’abisso, la vertigine della sua libertà colta come un potere reale: così, solo un essere “destinato” alla libertà può provare angoscia. «Il divieto angoscia Adamo, poiché il divieto sveglia in lui la possibilità della libertà […]. La possibilità infinita di potere che svegliò il divieto ora si avvicina di più per il fatto che questa possibilità manifesta come conseguenza un’altra possibilità. Così l’innocenza è in angoscia rispetto a ciò che è vietato e alla pena. Non è colpevole, eppure vi è un’angoscia come se fosse perduta»92.
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BA, 344. L.c. 90 BA, 345. 91 N. ABBAGNANO, Kierkegaard e il sentiero della possibilità, in Studi Kierkegaardiani, a cura di C. Fabro, Brescia 1957, 17. 92 BA, 347s. 89
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È qui descritta l’angoscia dell’innocenza, di un’innocenza perduta non per il peso della colpa ma per l’angoscia di una possibilità non attuata, dell’infinità del compito non ancora realizzato. L’angoscia è il lancio nel vuoto verso un “plus” di possibilità conosciuta nella dimensione del sogno per liberarsi da un quieto stato d’innocenza ma anche perché, secondo la pregnante espressione contenuta ne La malattia mortale, si viene irrimediabilmente fagocitati dal peso di una possibilità divenuta sempre più grande: «finalmente è come se tutto fosse possibile, ma questo è proprio il momento in cui l’abisso ha ingoiato l’io»93.
4. «IL NULLA CHE ANGOSCIA» «Nell’angoscia è l’infinità egoistica della possibilità, che non tenta come una scelta, ma angoscia col laccio del suo dolce affanno»94.
Il possibile è ciò che l’esistenza potrebbe essere ma non è ancora: rispetto all’esistenza, che è attualità, il possibile si staglia come qualcosa di non ancora attuato; è l’indeterminato abisso precedente il bene e il male: non lo è ancora, ma potrebbe diventarlo tendendo la mano verso uno dei due frutti dell’albero. Nella pura possibilità, l’esistenza non conosce ancora la differenza tra il bene e il male. L’esistenza così concepita è l’innocenza, che è ignoranza del bene e del male. Non ci sarebbe il peccato se prima non ci fosse l’innocenza: «se (Adamo) non fosse stato innocente prima di diventare colpevole, allora non sarebbe mai diventato colpevole»95;
d’altra parte nell’innocenza deve pur esserci la possibilità di un movimento, di un passaggio al peccato. Invece l’innocenza è uno stato dove c’è pace e quiete, è stasi, immobilità, impossibilità di divenire. Non si comprende così il passaggio dall’indeterminata innocenza alla determinata colpa se non per la presenza tra i due livelli di un inspiegabile salto.
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SD, 39. BA, 367. BA, 339.
«Il peccato entra come qualcosa di subitaneo, cioè col salto; ma questo salto pone nello stesso tempo la qualità; e al momento stesso in cui la qualità è posta, il salto è compreso nella qualità e presupposto dalla qualità, così come la qualità del salto. Questo è uno scandalo per l’intelletto, ergo, è considerato un mito»96. «La conseguenza del peccato originale o la sua presenza nel singolo è l’angoscia, che si distingue da quella di Adamo solo quantitativamente. Nello stato d’innocenza il peccato originale deve avere l’ambiguità dialettica, dalla quale prorompe la colpa nel salto qualitativo»97.
Il primo peccato non è una somma di finite quantità ma una determinazione di qualità nata con la subitaneità di un enigmatico salto. La sottolineatura sullo scandalo intellettuale del salto qualitativo è evidenziata da Kierkegaard per rimarcare l’impossibilità della logica di spiegare il peccato originale. Una concezione razionalistica invece, presente anche all’interno di una certa cultura cristiana, di fronte ai vani tentativi di tradurre il peccato secondo schemi logici preferisce presentarlo nella veste di un mito biblico. Kierkegaard ritiene che l’intelletto inventi un mito per spiegare la drammatica perdita dell’innocenza e la seguente caduta per il peccato, intuibili invece solo attraverso categorie esistenziali. Il peccato, della stessa natura della fede, è uno scandalo che deve vivere nella paradossalità: proprio il paradosso, che rivela la realtà profonda del peccato, rischia d’essere perso per via di una spiegazione mitologica. Il peccato ridotto a mito cade sotto gli artifici della scienza teologica prima ed etica poi, perdendo la sua natura esistenziale, la quale può essere mantenuta solo in forza dell’enigmatica azione del salto98. Categoria ereditata proprio dal lascito del pensiero hegeliano, il salto viene da Kierkegaard sciolto dalle catene della logica in cui era stato confinato per essere restituito alla libertà di un vissuto esistenziale. «Voler spiegare con la logica come il peccato è entrato nel mondo, è una stupidaggine che può venire in mente soltanto a gente ch’è preoccupata in maniera ridicola di ottenere una qualsiasi spiegazione»99. 96 97 98
BA, 335. BA, 357. Cfr G. PENZO, Kierkegaard. La verità eterna che nasce nel tempo, Padova 2000,
105ss. 99
BA, 353.
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Gli uomini di scienza si illudono di voler descrivere, da spettatori imparziali, una trascendenza — il peccato — che entra nell’immanenza — il singolo — come se non fossero coinvolti in prima persona e la cui drammaticità dell’evento non riguardasse anche loro: paradosso esistenziale di cercatori che trovano una giusta collocazione al peccato ironicamente descritto da Kierkegaard nella metafora di quell’uomo che cerca una miccia senza accorgersi che in realtà da tempo gli brucia tra le mani100! Il salto diventa inspiegabile perché la relazione tra innocenza e peccato appartiene alla sfera dell’esistenza. Risulta essere così più oggettivo asserire che il peccato entra nel mondo con un peccato, cioè che mentre esso è, è già presupposto: di qui la tesi kierkegaardiana di fondo che il peccato faccia il suo ingresso nel mondo con un salto. «Il peccato, come la libertà, presuppone se stesso e, come questa, non si può spiegare da qualcosa che lo precede. Se si dice che la libertà comincia come liberum arbitrium, il quale può scegliere ugualmente il bene e il male, si rende fin da principio impossibile ogni spiegazione. Parlare del bene e del male come se fossero l’oggetto della libertà, vuol dire rendere finiti tanto la libertà quanto i concetti di bene e di male. La libertà è infinita e sorge dal nulla»101.
Resta così da precisare l’equivalenza di possibilità e nulla, sottolineando come è dall’indeterminato nulla che sgorga l’infinita libertà e dal quale lo spirito progetta la possibilità della libertà attraverso il salto qualitativo mediante il quale lo spirito pone se stesso. Questo nulla è ciò davanti a cui si trova l’angoscia, ossia la realtà della libertà in quanto possibilità per la possibilità. «L’innocenza è ignoranza. Nell’ignoranza l’uomo non è determinato come spirito […]. Lo spirito nell’uomo è come sognante […]. In questo stato c’è pace e quiete; ma c’è, nello stesso tempo, qualcos’altro che non è né inquietudine né lotta, perché non c’è niente contro cui lottare. Allora che cos’è? Il nulla. Ma quale effetto ha il nulla? Esso genera l’angoscia. Questo è il profondo mistero dell’innocenza: essa nello stesso tempo è angoscia. Sognando lo spirito, proietta la sua propria realtà; ma questa realtà è il nulla,
100 101
50
Cfr BA, 356. BA, 421.
questo nulla l’innocenza lo vede fuori di sé […]; essa è un nulla che può soltanto angosciare»102.
Niente v’è di più incerto e fluttuante quanto la situazione dell’angoscia che vive nella dimensione dell’innocenza che a un tempo è stato di pace e quiete e contemporaneamente qualcosa di non rapportabile ad alcun’altra situazione a motivo della presenza in essa del nulla, padre dell’angoscia. Alcun oggetto sensibile del mondo finito può essere il contenuto o rappresentare la causa scatenante l’angoscia: può assumere semmai soltanto un ruolo marginale di stimolo o di occasione, perché l’angoscia è generata dal nulla. Nulla è più ambiguo dell’angoscia per il fatto che ci si angoscia di nulla! Il nulla non è un “quid” verso cui la libertà diriga la sua scelta o un oggetto determinato davanti al quale l’uomo possa pur sempre combattere sperando di eliminare. Per tal motivo il nulla genera l’angoscia: il nulla è l’incancellabile possibilità angosciante di potere. La possibilità di potere è la libertà pura che precede ogni scelta, anche quella tra il bene e il male; è la possibilità della possibilità, qualcosa di abissale, inesauribile, vertiginoso; è l’impossibilità di conoscere cosa si può, altrimenti si vivrebbe già dentro la differenza tra bene e male; è la forma più alta di ignoranza, una possibilità che contemporaneamente è e non è, perché l’uomo l’ama e la fugge. Ma «fuggire l’angoscia non può, perché l’ama; amarla propriamente non può, perché la fugge. Ora l’innocenza è giunta al suo vertice. Essa è ignoranza, ma non una brutalità animalesca; è anzi un’ignoranza determinata dallo spirito e proprio per questo è angoscia, perché la sua ignoranza dello spirito ha per oggetto il nulla. Qui non è nessuna conoscenza del bene e del male o qualcosa come il nulla immenso dell’ignoranza»103.
Vertice di inquietudine incommensurabile, abisso di ambiguità emotiva per la sua antipatia simpatica e simpatia antipatica, il nulla affascina l’uomo con la seduzione della sua angoscia, qualcosa di irresistibilmente indeterminato come il canto meraviglioso e tremendo delle omeriche sirene che ammaliava i navigatori ignari del loro tragico destino.
102 103
BA, 345. BA, 348.
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«Giustamente Vigilius Haufniensis ha attirato l’attenzione sopra il concetto dell’angoscia, come categoria intermedia nei riguardi della tentazione. È questa in fondo la vera dialettica della tentazione. Se un uomo potesse essere sempre senza angoscia, la tentazione non lo afferrerebbe mai. Così intendo di nuovo che è stato il serpente a tentare Adamo ed Eva; poiché appunto la forza del serpente è l’angoscia; non tanto l’astuzia e la furberia, quanto quell’astuzia che sa rendere angosciati. E l’angoscia (come l’Anticlimacus osserva giustamente in rapporto all’immediatezza, dove si parla della generalità della disperazione) è al suo massimo per via del nulla, è a questo modo che il tentatore e la tentazione insinuano in chi soccombe, di essere stato lui stesso a inventare la tentazione. Perché la tentazione e il tentatore dicono: “Io in fondo non ho detto niente, è per un nulla che ti sei angosciato…!”. L’angoscia è il primo riflesso della possibilità, un baleno, e tuttavia ha un incanto tremendo»104.
All’apice di un tremendo incanto per via del nulla, l’angoscia è «il sentimento di una nostalgia impotente e di una eterogeneità minacciante che ci mette in contatto con lo sconosciuto»105. Questo “contatto” è una sintesi alterna di desiderio e paura, di fascinoso e tremendo: l’angoscia è provocata dall’abisso della sua libertà. «Il niente dell’angoscia è un complesso di presentimenti, che si riflettono in se stessi, avvicinandosi sempre più all’individuo; benché essi, visti nella loro essenza, nell’angoscia, non significhino alla loro volta altro che il niente; però non un niente col quale l’individuo non ha niente a che fare, ma un niente che sta in un vivo rapporto coll’ignoranza dell’innocenza. Questa angoscia riflessa è una predisposizione la quale, prima che l’individuo diventi colpevole, essenzialmente significa niente»106.
Davanti alle infinite possibilità della libertà, lo spirito sognante, angustiato di niente, viene come preso dalla vertigine, pone se stesso col salto qualitativo e si risveglia nella condizione di colpa. «L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarvi. Così l’angoscia è la vertigine della 104 105 106
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Pap., dal 7 settembre 1849 ai primi mesi del 1850, X A 22. J. WAHL, Etudes kierkegaardiennes, Paris 1938, 255. BA, 367.
libertà, che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi e la libertà, guardando giù nella sua propria possibilità, afferra il finito per fermarsi in esso. In questa vertigine la libertà cade»107.
Nell’abissale nulla avviene il salto perché la vertigine non è luogo dove l’uomo possa abitare: la caduta della libertà è l’effetto del salto che alcuna scienza o filosofia può tentare di spiegare né di comprendere. Sfuma la libertà intesa come pura possibilità di potere in questo svenimento femminile che è l’angoscia, per trasformarsi in libertà per un “quid”, cioè in manifestazione concreta di libertà. In condizione di precaria e ingenua ignoranza l’uomo effettua il salto: «l’uomo non sa se ciò verso cui salta è il bene o il male. Il possibile non è ancora né negativo né positivo: siamo nella terra di nessuno, nella sospensione, nel timore e tremore»108. «La possibilità è il potere. In un sistema logico è abbastanza facile dire che la possibilità trapassa nella realtà. Nella realtà questo non è così facile è occorre una determinazione intermedia. Questa determinazione è l’angoscia, la quale né spiega il salto qualitativo, né lo giustifica eticamente. L’angoscia non è una determinazione della necessità, ma neanche della libertà; essa è una libertà vincolata, non nella necessità ma in essa»109.
La libertà svela qui il proprio statuto di dipendenza ontologica poiché risulta capace di muovere da sé solo a partire da un atto d’essere che la condiziona senza tuttavia determinarla: è una libertà radicale vincolata dal nulla. Il nulla così esistenzialmente percepito non è «un mero niente ma sottrae e nasconde qualcosa»110. Il nulla è avvertito come forza ostile che si insinua nell’innocente stato di pace e di quiete: questa ostilità è dello spirito. «Il nulla rappresenta l’incommensurabile di fronte al quale l’esistente si trova, senza poterne avere coscienza perché giacente nello stato di innocenza, ma avendone avvertenza come antipatia simpatica e simpatia antipatica perché c’è la forza ostile dello spirito»111. 107
BA, 366s. E. PACI, Relazioni e significati, cit., 221. 109 BA, 353. 110 B. WELTE, Dal nulla al mistero assoluto, Casale Monferrato 1985, 78. 111 T. DI STEFANO, Søren Kierkegaard. Dalla “situazione” dell’angoscia al “rischio” della fede, Assisi 1986, 63. 108
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L’angoscia non è la libertà, ma la condizione della libertà come possibilità per la possibilità. L’angoscia è libertà vincolata, in quanto possibilità che ancora non decide per il reale: non è infatti l’angoscia a spiegare o a determinare il salto qualitativo, ma solo la scelta. «L’angoscia e il nulla si corrispondono continuamente»112: l’angoscia corrisponde all’indeterminato nulla, regno delle infinite possibilità, ma è tolta col porsi della realtà dello spirito e della libertà. Si potrebbe forse a questo punto intavolare sulla categoria del nulla un possibile confronto tra Kierkegaard e Heidegger perché per entrambi pare che questa sia questa l’origine della riflessione sull’angoscia, cioè «l’emergere del nulla nell’esistenza come ambito della libertà, il rinnovantesi svuotarsi della realtà del mondo ad ogni decisione e progetto dell’esistenza»113. Anche se a lato di entrambi si può parlare di una comune matrice luterana che fa capo alla Gewissens-Angst, il nulla come origine dell’angoscia proviene da due tradizioni speculativamente opposte: in Kierkegaard, come abbiamo potuto leggere dalle pagine de Il concetto dell’angoscia, il nulla sorge da una riflessione biblico-teologica sulla creazione e la conseguente caduta dopo il peccato, e dunque dalla pienezza dell’essere; in Heidegger, ripercorrendo il cammino che egli traccia in Was ist Metaphysik?, il nulla nasce dall’indissolubilità e convertibilità di essere e nulla secondo una dialettica di tipo hegeliano che vuole affermare la realtà del divenire, partendo appunto dal nulla114. In verità, una più completa lettura dei testi heideggeriani, che tenga presente anche del Nachwort del 1943, porta alla corretta conclusione di una maggiore sintonia tra i due, rispetto a quanto una lettura disattenta e superficiale potrebbe contrariamente suggerire: «invece […] di abbandonare l’enigmatica plurivocità del niente, dobbiamo unicamente prepararci ed essere pronti a esperire nel niente la vastità di ciò che dà a ogni ente la garanzia di essere. Ciò è l’essere stesso. Senza l’essere, la cui essenza abissale, ma non ancora dispiegata, ci viene destinata dal niente nell’angoscia essenziale, ogni ente resterebbe privo 112
BA, 405. C. FABRO, L’angoscia esistenziale come tensione di essere-nulla, uomo-mondo nella prospettiva di Heidegger e Kierkegaard, in Le Panarie. Rivista Friuliana 55 (1982) 79s. Sui rapporti tra Kierkegaard e Heidegger per la specifica tematica dell’angoscia, tra i tanti si può leggere lo scritto di F. DE NATALE, Esistenza, filosofia, angoscia, Bari 1995. 114 Cfr M. HEIDEGGER, Che cos’è la metafisica?, in Segnavia, Milano 1987, 72s. 113
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d’essere. Ma, daccapo, anche quest’assenza d’essere, in quanto abbandono dell’essere, non è un niente nullo, se è vero che appartiene alla verità dell’essere che mai l’essere dispiega la sua essenza senza l’ente, e che mai un ente è senza l’essere»115.
Il nulla di Heidegger si riconosce così solo sullo sfondo dell’essere: il nulla non è un «niente nullo», ma la pienezza d’essere che è ni-ente, ovvero nulla di ciò che l’ente è; il nulla è la negazione assoluta della totalità dell’esistente, in altre parole l’essere come fondamento assoluto degli enti. Sia da Kierkegaard sia da Heidegger dunque, nonostante i differenti punti di partenza, il nulla è inteso come l’essere assoluto che costituisce il fondamento dell’essere e in particolare dell’essere dell’uomo, la cui instabilità è vissuta in uno stato di angoscia. L’angoscia pertanto rappresenta per entrambi il tratto costitutivo dell’uomo a partire dal nulla, heideggerianamente inteso come la «notte chiara nella quale sorge l’originaria apertura dell’ente»116, e kierkegaardianamente percepito come la pura possibilità di potere. «L’angoscia è il primo riflesso della possibilità, un baleno, e tuttavia ha un incanto tremendo»117: risiede forse tutto qui il profondo significato dell’angoscia kierkegaardiana: un lampo, il primo raggio del giorno delle possibilità non ben delineato nel quale lo spirito ancora sognante non è apparso sull’orizzonte della propria consapevolezza. Nel momento in cui lo spirito pone la sintesi avverte lo svanire delle possibilità; la libertà, da una condizione di vertigine per l’abisso delle infinite possibilità, cade nella necessità di una scelta tra le finite realtà. Lo spirito è in angoscia perché avverte un che di indefinito a cui relazionarsi come nulla, inteso non come fondamento necessario ma come possibilità armonica118: l’angoscia vive nella vertiginosa libertà di un’apertura al possibile e non nella determinatezza di una relazione necessaria che, invece, ne costituirebbe l’annientamento. Hans Urs von Balthasar nel suo Der Christ und die Angst, riferendosi proprio all’opera di Kierkegaard, fornisce un’efficace descrizione del rapporto tra angoscia e nulla che ci pare possa sintetizzare il percorso 115 116 117 118
ID., Poscritto a «Che cos’è la metafisica?», in Segnavia, cit., 260. ID., Che cos’è la metafisica?, in Segnavia, cit., 70. Pap., dal 7 settembre 1849 ai primi mesi del 1850, X A 22. Cfr E. PACI, Relazioni e significati, cit., 187.
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tracciato in questo paragrafo e annunciare i temi che tratteremo nel secondo capitolo di questa prima parte: «Non si può dire di questo vuoto che esso sia semplicemente il “nulla”, giacché esso è la negazione dell’esistente solo in quanto è l’essere da cui deriva ogni esistere […] Questo varco, questo vuoto che c’è nella trascendenza, e anche nella contingenza in quanto riflessa di essa, è appunto il motivo dell’angoscia, che prende lo spirito che conosce l’esistente. In ogni atto di conoscenza lo spirito deve abbandonare il terreno dell’esistente; ma poi deve ripiegare su di esso, perché nell’essere, inafferrabile come esso è, non trova l’ubi consistam. […] La cosa più angosciosa nella struttura intima della conoscenza è che essa si muove tra due poli, che sfuggono come tali necessariamente alla conoscenza: l’essere le sfugge, perché mai potrà divenire oggetto di conoscenza ma rimane premessa di ogni conoscere oggettivo […]; l’esistente poi sfugge perché sarebbe veramente conosciuto solo se se ne potessero dimostrare il rapporto intelligibile con l’essere. La conoscenza viene a trovarsi sospesa in un vuoto che è la differenza ontologica: indifferente all’essere, essa deve lasciarsi da essa differenziare sull’esistente, senza tuttavia riuscire ad attingere, con la sua indifferenza, l’essere stesso e con la differenziazione l’esistente nella sua necessarietà»119.
L’angoscia si delinea a partire dal nulla: essa si angoscia per nulla. Ma la fenomenologia “psicologica” che dell’angoscia disegna l’opera del 1844, approda ad un’ambiguità della figura del nulla: per un verso le sue pagine fanno infatti percepire come il nulla che angoscia non sia un puro niente, il nulla inteso come assenza o come una hegeliana negazione; per altro, velatamente e in maniera non esaustiva, lasciano intuire come esso sia in realtà la figura negativa dell’infinito ed eterno Essere, il nulla come una presenza, una realtà: così l’angoscia è determinata dal rapporto ontologico con l’Ignoto che attrae e respinge, con l’Assoluto che muove perché è un nulla di tutto ciò che esiste. «L’Infinito nella figura di essere un nulla, di essere semplicemente uomo (press’a poco come il giglio e l’uccello, che sono un nulla) è, nel mondo, il “punto fuori del mondo” che può muovere tutta l’esistenza. Se l’infinità è un qualche cosa, essa non potrà muovere che relativamente»120. 119 H.U. VON BALTHASAR, Der Christ und die Angst, Johannes Verlag – Einsiedein. Trad. it.: Il cristiano e l’angoscia, a cura di V. Simon, Alba 1957, 119ss. 120 Pap., 1850, X3 A 430.
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Vigilius Haufniensis avverte il limite di un nulla relegato dal vocabolario hegeliano all’indeterminato essere della logica ma non è in grado ancora di spiegare come l’angoscia emerga nell’ambito dello spirito il quale dal sonno di un’innocente ignoranza non solo si ridesta alla consapevolezza di sé come «sintesi di tempo e di eternità»121, ma perviene a tale coscienza di sé come rapporto relazionandosi a ciò che ha posto il rapporto. «L’uomo è una sintesi dell’infinito e del finito, del temporale e dell’eterno, di possibilità e necessità […]. Se il rapporto che si mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro, il rapporto è certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo, è poi a sua volta un rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero»122.
La fondazione di un’angoscia tragicamente vissuta dall’uomo all’interno del suo assoluto rapporto all’Assoluto avvertito come Nulla sarà dunque chiarita soltanto da Anti-Climacus nella prima pagina di Sygdommen til Døden, là dove si delinea la realtà dell’uomo come una sintesi di elementi i quali, mettendosi in rapporto tra di loro, insieme si relazionano a un tertium inteso come il fondamento che dà vita all’intero rapporto. Il “nulla” di Begrebet Angest è l’incommensurabile di fronte al quale lo spirito sognante si angustia, un vuoto innocentemente percepito come antipatia simpatica e simpatia antipatica: Kierkegaard descrive drammaticamente la forza di questa angoscia come un movimento non fulmineo ma costantemente in divenire, che brama e teme quella pena divenuta ormai predatrice del cuore, nella tragedia dell’eroina sofoclea Antigone da lui pennellata nello splendido saggio Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, che precedette di un anno la stesura de Il concetto dell’angoscia: «L’angoscia ha una doppia funzione, da un lato è il movimento che scopre, che costantemente palpa e con questo tocco scopre la pena mentre vi gira attorno; dall’altro lato è improvvisa, ma pur così che quest’attimo istantaneamente si scompone in una successione»123.
121 122 123
BA, 393. SD, 11ss. Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, in EE, II, 38.
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Il “nulla” di Sygdommen til Døden si qualificherà successivamente come lo spazio che si spalanca tra l’Assoluto che fonda la sintesi dello spirito pervenuto a coscienza, e l’io la cui angoscia si delinea a motivo della drammatica sproporzione che avverte tra sé come un finito nulla e l’infinito Nulla di Dio. Tutto questo sarà possibile col porsi della libertà che, inizialmente percepita come vertigine di possibilità, al ridestarsi dello spirito è sentita come realtà da attuare, come necessità di una possibilità da scegliere. L’a-priori dell’Assoluto che permetterà all’uomo de La malattia mortale di pervenire a sintesi, è abbozzato ora dall’eternità che consente allo spirito de Il concetto dell’angoscia la consapevolezza d’essere inserito in un flusso temporale che ad esso con angoscia si relaziona come a un’infinita possibilità da attuare, come la stessa pagina di Enten-Eller sopra citata ci rammenta: «L’angoscia contiene sempre in sé una riflessione di tempo, perché non posso angosciarmi sul presente, ma solo per il passato o per il futuro, e il passato e il futuro, così opposti tra loro che ciò che è del presente scompare, sono determinazioni di riflessione»124.
5. «LA POSSIBILITÀ DELL’ETERNITÀ» «Quando la possibilità della libertà si presenta alla libertà, essa cade e la temporalità si presenta nel senso di peccaminosità»125.
Nella vertigine dell’angoscia, quando lo spirito sta per porre la sintesi guardando al nulla dell’infinita possibilità, la libertà cade proprio per lo svanire della possibilità stessa e il presentarsi dell’attualità della scelta indirizzata verso uno dei due poli: l’imperfezione visibile del finito da una parte e la perfezione invisibile dell’infinito dall’altra. La coscienza è ancora angustiata, ma qui l’angoscia non ha più per oggetto l’indefinito nulla di una possibilità per la possibilità, ma il peccato come attuazione per via della possibilità della libertà126 che si annunzia 124 125 126
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EE, II, 39. BA, 399. Cfr BA, 381.
nell’angoscia. L’angoscia ora diventa angoscia per il peccato attuato: l’uomo passa dalla vertiginosa situazione positiva di innocente ignoranza al rovinoso stato negativo di consapevole colpa. La peccaminosità così fa il suo ingresso nello spirito dell’uomo col e nel tempo. L’uomo nella quiete dell’innocenza non viveva di tempo, ma è solo nello stato di angoscia soggettiva che egli avverte l’infinita distanza mai pienamente colmabile di tempo ed eternità: l’angoscia nasce per la presenza dello spirito in continua tensione verso una sintesi tra le due dimensioni. Tuttavia «l’uomo è composto di tempo e di eternità»127, è «sintesi di tempo e di eternità»128 e questo significa che proprio nella sintesi egli può sostenere l’unione, seppur incommensurabile, di entrambe: «il significato fondamentale del soppesare umano è di pesare (deliberare) fra il temporale e l’eterno; in ogni altro soppesare umano deve essere presente questo significato fondamentale, altrimenti il soppesare — malgrado ogni affaccendarsi e l’ostentata importanza — manca di fondamento e non dice nulla»129.
Se l’uomo fosse fatto solo di tempo, non potrebbe soppesare alcunché, dal momento che il tempo si svolge in un presente «infinitamente privo di contenuto»130, tra un passato che non è più e un futuro che non è ancora. Ma anche se fosse fatto solo di eternità, l’uomo mancherebbe di passato e di futuro, vivendo in un eterno presente privo di temporalità. L’uomo invece è una sintesi di tempo ed eternità, posta dallo spirito come la prima sintesi di anima e corpo, e «appena è posto lo spirito, il “momento” c’è»131. La sintesi di tempo e di eternità è data dunque dal “momento”, punto di incontro tra le due sfere, ma la percezione del quale è a sua volta possibile per la presenza dello spirito. «La sintesi dell’anima e del corpo dev’essere posta dallo spirito; ma lo spirito è l’eternità, e perciò lo spirito non è prima che non ponga insieme la prima sintesi con la seconda, quella del tempo e dell’eternità. Finché non sia posta l’eternità, o il “momento” non è, o è soltanto come discrimen»132. 127 128 129 130 131 132
LE, 511. BA, 393; SD, 11. LE, 513. BA, 394. BA, 396. BA, 399.
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Ecco che il cerchio si chiude: lo spirito riconosce il “momento” in quanto l’eternità è originariamente posta; è l’eternità che pone il “momento” riconosciuto dallo spirito come sintesi di tempo ed eternità. «Che cosa è il tempo? Quando si definisce esattamente il tempo come la successione infinita, vien da sé, sembra, ch’esso comprenda le determinazioni di presente, passato e futuro. Tuttavia questa distinzione è inesatta se si pensa che il tempo per suo conto la contenga, perché essa si presenta soltanto nel tempo. Infatti, se si potesse trovare nella successione infinita del tempo un punto fisso dove posare il piede, di avere cioè un presente che fosse capace di dividere, allora la divisione sarebbe perfettamente giusta. Ma precisamente perché ogni momento, così come la somma dei momenti, è un processo (un “passare”), ecco che nessun momento è presente; e perciò nel tempo non c’è né un presente, né un passato né un futuro. Se si crede di poter mantenere questa divisione, allora è perché si spazializza l’istante, ma con questo la successione infinita è arrestata»133.
La distinzione temporale di passato, presente e futuro è possibile solo a partire da un punto fermo nella successione infinita del tempo, da un presente stabile che non muta e che permette la percezione del tempo come successione che passa, da un luogo in cui l’eterno, senza succedere, sia sempre presente. È lo “aétopon” del Parmenide di Platone menzionato da Kierkegaard in una nota al testo134, quello strano essere che sta tra il movimento e la quiete senza trovarsi in alcun tempo, l’essere in cui nulla si distingue e nulla si riunisce, entrando nel quale ciò che si muove passa in quiete e uscendo dal quale ciò ch’è in quiete passa in movimento. Kierkegaard riprende l’antica definizione platonica riconoscendo al filosofo greco il merito di aver accostato al “momento” la categoria di “passaggio”, ma tributandogli l’errore d’averlo inteso solo come muta astrazione atomistica. «Il “momento” è quell’ambiguità nella quale il tempo e l’eternità si toccano; con ciò è posto il concetto della temporalità, nella quale il tempo taglia continuamente l’eternità e l’eternità continuamente penetra nel tempo. Soltanto ora acquista il suo significato quella divisione: il tempo presente, il tempo passato, il tempo futuro»135. 133 134 135
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BA, 393. Cfr BA, 390-392. BA, 397.
Proprio perché l’eterno è sempre presente in ogni singolo “momento”, è possibile una distinzione temporale. Il “momento”, visto dal tempo, è un’infinita successione e con essa uno svanire di passato e di futuro; anche visto in rapporto all’eterno, il “momento” è mancante di passato e di futuro, ma solo in quanto è eterna presenza. Il “momento” è l’arresto del tempo che permette l’irruzione dell’eterno, è «l’atomo dell’eternità», «il primo riflesso dell’eternità nel tempo»136. «Il presente non è il concetto del tempo, se non come infinitamente privo di contenuto, il che significa proprio lo svanire infinito […]. L’eternità, invece, è il presente. Se si pensa l’eternità, essa è il presente come la successione tolta (mentre il tempo era la successione che passa). Per la rappresentazione ciò è un andare avanti che pure non si muove dal posto; perché l’eternità, per la rappresentazione, è il presente infinitamente pieno di contenuto. Nell’eternità dunque, non si ritrova allora distinzione del passato e del futuro, perché il presente è posto come la successione tolta»137.
L’eternità è presente come successione tolta, mentre il tempo è presente come successione che passa. Tra le due si legge la definizione del “momento”, come presente legato a un processo, a un “passare”, ad un movimento, che nello stesso tempo lo supera. D’altra parte Kierkegaard ricorda come il termine “momento” nella lingua danese (Oejeblik) esprima la rapidità del batter d’occhio: «niente è così rapido come lo sguardo dell’occhio, eppure esso è commensurabile con il contenuto dell’eternità»138.
Il “momento” può definirsi come un rapido sguardo che, in quanto tale, è il riflesso dell’invisibile eternità. «Il “momento” indica il presente in quanto esso non ha né passato né futuro, perché qui sta l’imperfezione della vita sensuale. Anche l’eternità indica il presente che non ha né passato né futuro; e questa è la perfezione dell’eternità»139.
136 137 138 139
BA, 396. BA, 394. BA, 396. BA, 394.
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Sia la sfera estetica legata alla temporalità, come quella religiosa in rapporto all’eternità, orfane entrambe di passato e di futuro, concentrano i loro sguardi sul “momento”, pur con una sostanziale differenza: la dimensione estetica si ferma al “momento” dell’esperienza edonistica inteso come attimo fuggente del piacere sensibile astratto dall’eternità, cadendo così nell’imperfezione del peccato; la dimensione religiosa si concentra nella perfezione del “momento” contemplandolo come il punto in cui tempo ed eternità si toccano e luogo nel quale si compie la scelta. «L’eternità e il tempo sono, in senso spirituale, grandezze che devono essere pesate. Ma per poter soppesare, l’uomo deve a sua volta essere o avere un terzo rispetto alle due grandezze. Questa è la scelta: egli pesa, sovrappesa, sceglie. Soltanto che qui mai si può dare il caso di avere la bilancia in perfetto equilibrio delle due grandezze […] poiché se è ben compresa l’eternità ha già un certo sopravvento e colui che non vuol capire questo, in fondo non può mai giungere a soppesare»140.
Il “momento” viene messo a fuoco nel presente, ma non ne resta prigioniero; è l’infinita possibilità, e in questa risiede la spiegazione della sua ambiguità: nel “momento” si può scegliere l’eterno come posizione dell’infinita possibilità positiva o il tempo come sua negazione. Nella scelta, il “momento” implica l’apertura all’orizzonte del possibile non ancora attuato, al non essere già presente. Ora è chiaro che se la dimensione del presente, nella sua categoria di “momento”, è la continua possibilità, la caratteristica del presente è la sua apertura al futuro. Il futuro, però, non è concepito soltanto come la dimensione temporale legata al succedersi degli eventi ma anche e soprattutto come la dimensione esistenziale dell’atto di decisione del singolo. «In questa divisione (sott.: di passato, presente e futuro) si avverte subito che il futuro, in un certo senso, ha un significato maggiore del presente e del passato; infatti il futuro è il tutto di cui il passato è una parte; e il futuro può significare il tutto. Questo si spiega col fatto che l’eternità significa innanzi tutto il futuro, o che il futuro è quell’“incognito” in cui l’eternità, pur essendo incommensurabile con il tempo, vuole tuttavia mantenere il suo rapporto con esso»141. 140 141
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LE, 511. BA, 397.
L’oggetto del futuro non può mai essere oggettivato: esso implica l’apertura al nulla! Il futuro come l’incognito, il vuoto, il non ancora attuato, il nulla che nasconde il tutto in cui l’eterno ostinatamente desidera rapportarsi al tempo: è per tale incommensurabilità che al futuro, che nel tempo si determina come eterno, viene associato il sentimento dell’angoscia. «Come lo spirito quando doveva essere posto nella sintesi o per dir meglio, quando doveva porre lui la sintesi, si esprimeva, come la possibilità dello spirito (della libertà) nell’individualità, come angoscia, così qui il futuro è la possibilità dell’eternità (della libertà) nell’individualità, come angoscia»142.
Il futuro è la possibilità dell’eternità e come tale si presenta nell’individuo come ciò che angoscia in quanto possibilità non ancora attuata. Come lo spirito nell’individuo è angoscia per la possibilità della libertà così il futuro è angoscia per la possibilità dell’eternità. «Il possibile corrisponde perfettamente al futuro. Il possibile è, per la libertà, il futuro, e il futuro, per il tempo, è il possibile. Ad ambedue corrisponde, nella vita individuale, l’angoscia. Perciò un linguaggio preciso e corretto congiunge l’angoscia e il futuro»143.
Il possibile è il futuro della libertà e il futuro è il possibile del tempo. Con una formula matematica potremmo scrivere che il possibile sta alla libertà come il futuro sta al tempo, là dove possibile e futuro rappresentano l’ignoto, il nulla, la vertigine della libertà e del tempo. Il possibile e la libertà si incontravano nello spirito, il futuro e il tempo rinviano ora alla sintesi del “momento”. Il momento è presente come sintesi che si apre a una possibilità d’essere: da una parte la possibilità genera angoscia, dall’altra il viverla nella sintesi del “momento” aiuta l’uomo a superarla. Nel “momento”, il presente supera l’imperfezione del negativo di ciò che è stato nel passato con la perfezione del positivo di ciò che ancora non è del futuro; in questo senso l’uomo può angosciarsi di un evento passato proprio perché si trova con lui in un rapporto di possibilità: il passato genera 142 143
BA, 399. L.c.
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angoscia non in quanto passato, ma in quanto possa ripetersi, divenire cioè futuro. Di una colpa passata l’uomo non può provare angoscia, ma soltanto pentimento; se ne prova angoscia è perché la colpa è divenuta una possibilità: l’uomo infatti si angoscia per il possibile e per il futuro. Così, alla possibile ripetizione del peccato si accompagna una possibilità autentica di ripresa (Gjentagelsen)144. La tensione che dal passato nella ripetizione si apre verso il futuro si determina nella vertigine della libertà attraverso l’istantaneo batter di ciglia del “momento”. «Il “momento” e il futuro pongono alla loro volta il passato. Se la vita greca potesse rappresentare qualche determinazione del tempo, sarebbe quella del passato, non però del passato determinato in rapporto al presente e al futuro, ma del passato ch’è determinato come il tempo stesso, cioè come un passare. Qui si dimostra il significato della reminiscenza platonica. L’eternità greca resta all’indietro come il passato, nel quale si può entrare soltanto tornando indietro»145.
All’immanenza assoluta dell’aufheben hegeliano, Kierkegaard predilige la trascendenza dei filosofi greci, anche se tale trascendenza resta per lui ancor troppo riduttiva perché vincolata alla dimensione del ricordo. La reminiscenza platonica infatti entra nel passato tornando indietro, la ripresa kierkegaardiana entra nell’eternità andando avanti. Il “momento” è il movimento in avanti. La dimensione fondamentale del tempo per Kierkegaard non può aver luogo in un passato che vive secondo i ritmi di un ricordo che retrocede, ma nel futuro segnato dalla ripetizione il cui compito è di ricordare procedendo. «Ripresa e reminiscenza rappresentano lo stesso movimento ma in direzione opposta, perché ciò che si ricorda è stato, ossia si ripete retrocedendo, mentre la vera ripetizione è un ricordare procedendo»146.
144 Sul tema della ripetizione, cfr lo studio di S. DAVINI, Il circolo del salto. Kierkegaard e la ripetizione, Pisa 1996; l’articolo di R. THURNHER, Sul concetto di ripetizione in Kierkegaard, in Kierkegaard. Filosofia e teologia del paradosso, Atti del convegno tenuto a Trento il 4-6 dicembre 1996, a cura di Nicoletti – Penzo, Brescia 1999, 203-220. 145 BA, 398. 146 G, 157.
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Secondo il ritmo imposto dalla scrittura di Vigilius Hufniensis, Kierkegaard presenta la categoria di ripresa certamente come un recupero del non-essere del passato verso l’essere del presente, ma non secondo la modalità di una semplice ripetizione che erroneamente si arresta all’immutabilità del passato e che non prosegue verso l’ancòra della sua infinita possibilità. Kierkegaard consente invece un’autentica ripetizione perché riesce a sradicare il passato dalla sua immutabile necessità fondandolo sulla libera possibilità: egli chiarisce come sia possibile la ripresa del passato proprio in virtù della sua non necessità. La ripresa così non è una reiterazione sterile che volge nostalgicamente lo sguardo a un passato soffocato nella sua irripetibile ieraticità, ma un movimento, una dinamica essenziale tesa verso il possibile futuro: correttamente così Kierkegaard ne Il concetto d’angoscia colloca la ripresa nello spazio che le è proprio e cioè quello dello spirito — assente giustificato nella cultura greca — dov’è libertà e possibilità, come ci ricordano queste parole tratte da una pagina del Diario scritte qualche anno prima: «il movimento sta di casa proprio nel mondo dello spirito, dove la ripetizione […], ha sempre una trascendenza dietro di sé, cosa che è stata indicata con precisione e chiarezza nei predicati usati a riguardo ad essa nello svolgimento autentico della ripetizione contenuto nel mio libro, e cioè che è trascendente, religiosa, un movimento in virtù dell’assurdo»147.
La ripresa è tale solo nell’eterno che è infinita possibilità. Il tempo è una successione indefinita che abbraccia i momenti del presente, del passato e del futuro, l’eternità è la realtà in continua possibilità e i cui momenti del passato e del presente vengono ripresi e inverati nella dimensione del futuro. «È dalla determinazione dei concetti di passato, di futuro, di eternità che si può vedere com’è stato determinato il “momento”. Se il “momento” non è, l’eterno si presenta come il passato […]. Se il momento è posto ma soltanto come discrimen, il futuro è l’eterno. Se il momento è posto, l’eterno è, ma nello stesso tempo è anche il futuro che ritorna come passato»148.
147 148
Pap., 1842-1843, IV B 118. BA, 398.
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La cultura greca rimane avvolta nel velo della malinconia di un legame che la tiene nostalgica prigioniera del passato, inteso come una realtà che passa senza alcun rapporto al presente o al futuro. Così comprendiamo bene che se il senso ultimo dell’eternità è custodito dal passato, l’uomo greco impieghi tutte le sue energie perché esso non venga dimenticato. L’ebreo vive il presente attendendo nella speranza il futuro che rivela la pienezza del tempo e dell’eternità. Solo il cristiano trova il senso ultimo nel “momento” presente: la pienezza del tempo149 è la ripresa del passato come apertura al divenire nel rapido sguardo del “momento”. Nel “momento” riposa il prius dell’eterno; il futuro, che si costituisce come l’eterno nel tempo, ritorna come passato, per cui «il passato non si vede chiuso in se stesso ma resta in una semplice continuità col futuro» e «il futuro non si vede chiuso in se stesso ma resta in una semplice continuità col presente»150. La categoria cristiana, dunque, è quella di ripresa che non dissolve il presente nel futuro come in una bella speranza, non lo annulla nel passato come un vuoto ricordo, ma vive il presente «conservando e innovando»151. «La speranza è una bella fanciulla che ci guizza via dalle mani. La ricordanza è una bella vecchia che non ci offre mai quel che ci serve nel momento. La ripresa è una sposa amata di cui non accade mai di stancarsi, perché ci si stanca soltanto del nuovo, mai del vecchio, e la presenza delle cose a cui si è abituati rende felici […]. La speranza è un frutto che tenta e non sazia, il ricordo una stentata moneta che non basta al bisogno, ma la ripresa è il pane quotidiano che generosamente soddisfa»152.
Nel “momento” presente l’uomo decide per l’eternità, nella originalità con cui egli si mantiene nella ripetizione: tale scelta manifesta la sua serietà che «non può mai diventare un’abitudine» perché l’abitudine «nasce quando l’eterno scompare dalla ripetizione»153. La serietà è l’originalità nella ripetizione, come avviene nell’esempio del pastore che «è capace di ritornare regolarmente, ogni domenica, con la stessa originalità, 149 150 151 152 153
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Cfr Gal 4,4. BA, 398. L. PAREYSON, Kierkegaard e Pascal, Milano 1998, 73. G, 158. BA, 460.
alla stessa cosa»154. Nella seria ripetizione dell’ogni domenica si determina l’eterno nell’uomo perché, come scrive Constantin Constantius nella Ripresa, «l’eternità è la vera ripetizione».
154
L.c.
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CAPITOLO II LA DISPERAZIONE DELL’IO DAVANTI AL FONDAMENTO: IL «FRAINTENDIMENTO» DELLA LIBERTÀ155
«Non mi sommergano i flutti delle acque e il vortice non mi travolga, l’abisso non chiuda su di me la sua bocca» (Sal 69,16)
La malattia mortale, scritta nel 1849, rappresenta una ripresa — per dirla con un termine caro a Kierkegaard — dello «scavo originale lasciato allo stato grezzo»156 che fu Il concetto dell’angoscia. Nell’opera del 1844 i problemi restano ancora non ben delineati, sfocati, languidi a motivo dell’irruenza con cui il genio di Vigilius Haufniensis portò a termine la sua opera, trascurando di chiarire diversi concetti solo brillantemente scheggiati nelle sue pagine. Malgrado infatti la sua espressa volontà di allontanarsi dall’angusto sistema tedesco, temi centrali come il peccato, la fede, il nulla, il salto, restano ancor troppo intrisi di idealismo e non sufficientemente risolti dalla sua, seppur pungente, critica157. Anticlimacus così prende in mano il testimone pieno di crepe lasciato dalla corsa di Vigilius e delinea una trattazione più completa e lineare del problema dell’angoscia, della libertà, del peccato, della fede,
155 Per giustificare la scelta del titolo, riportiamo la nota 5 della traduzione di Cornelio Fabro a La malattia mortale in Opere, III, cit., 24: «il termine Misforholdet è nel linguaggio corrente “fraintendimento” ed etimologicamente è “rapporto falso, sbagliato” ecc. Qui l’un senso chiarifica l’altro: dato che la sintesi è opera dello spirito, il rapporto falso è di per sé l’effetto di un “fraintendimento” della libertà». 156 C. FABRO, Avvertenza del traduttore, in Il concetto dell’angoscia e La malattia mortale, Firenze 1953, XII. 157 In un testo del Diario, riferendosi agli anni de Il concetto dell’angoscia, Kierkegaard scrive: «Oh, lo stolto hegeliano che ero» (Pap., 1850, X3 A 477). Sull’“hegelismo” del giovane Kierkegaard cfr N. THULSTRUP, Kierkegaard Forhold til Hegel og til den spekulative Idealisme indtil 1846, Copenhagen 1967; M. WESTPHAL, Kierkegaard and Hegel, in The Cambridge Companion to Kierkegaard, a cura di A. Hannay e G.D. Marino, Cambridge University Press 1998.
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giungendo al traguardo finale del «trattato più teoreticamente teso e organicamente costruito della teologia kierkegaardiana»158. Anti-Climacus, un «diavolo di spiritello»159 è da Kierkegaard disegnato come l’antagonista di colui che scrisse le Briciole e la Postilla: Joannes Climacus, il pensatore che punta il dito contro la finzione della speculazione hegeliana e che, senza troppo impegnarsi e stando alla finestra del suo humor, guarda alla fede in Cristo come all’unica verità che salva. Joannes Climacus è un discepolo di Socrate, non un cristiano, tanto che la sua ambigua protezione al cristianesimo pericolosamente oscilla tra l’attacco e la difesa rischiando di diventare la medesima cosa160. AntiClimacus invece, pur avendo una certa somiglianza con Joannes Climacus, è il cristiano eminente e straordinario che anima le pagine de La malattia mortale e dell’Esercizio del Cristianesimo. «Anti-Climacus ha parecchio in comune con Joannes Climacus; ma la differenza è che come Joannes Climacus si pone così in basso che dice di se stesso perfino di non essere cristiano, così sembra di poter osservare per Anti-Climacus ch’egli pensa di se stesso di essere un cristiano in un grado straordinario […]. Questa è la sua colpa personale, di scambiare se stesso con l’idealità (è questo il lato demoniaco in lui), ma la sua esposizione dell’idealità può essere del tutto vera ed io m’inchino davanti a lui. Io mi pongo un po’ più in alto di Joannes Climacus, un po’ più in basso di AntiClimacus»161.
Kierkegaard, il poeta dell’edificante, guarda con ammirazione AntiClimacus, il cristiano per l’edificazione, categoria che all’interno della «Premessa» a La malattia mortale costituisce il “magis” rispetto al cristianesimo ordinario di Kierkegaard, tanto ch’egli si trova costretto all’utilizzo di uno pseudonimo162. In verità l’andatura dello scritto in questione è filosofica e religiosa al tempo stesso: anzi il filosofo Kierkegaard e il cristiano Anti-Climacus si
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C. FABRO, Avvertenza del traduttore, cit., XIII. Pap., 15 maggio 1848, IX A 9. Cfr Pap., 1849, X2 A 193. Pap., dalla metà del 1849 al 7 settembre 1849, X1 A 517. Cfr Pap., dalla metà del 1849 al 7 settembre 1849, X1 A 510, X1 A 529.
ritrovano nella dialettica esistenziale della disperazione, che è autenticamente filosofica perché autenticamente cristiana. «A molti forse questa forma di “svolgimento” apparirà strana e troppo rigorosa per essere edificante, e troppo edificante per essere rigorosamente scientifica […]. Perché dal punto di vista cristiano tutto, proprio tutto dev’essere edificante: quel genere di rappresentazione scientifica che non finisce per edificare è, proprio per questo, non cristiano»163.
La categoria dell’«edificante» traccia il confine tra l’inautenticità di un discorso scientifico e l’autenticità di uno filosofico e religioso. A sua volta mentre il discorso filosofico, e una parte di quello cristiano che si limita a un sapere dottrinale e dunque scientifico, si arrestano all’indifferenza della conoscenza e della rappresentazione dell’oggetto, una riflessione autenticamente cristiana è tale solo se aperta al fenomeno esistenziale dell’ansia (bekymret). «Ogni conoscenza cristiana, per quanto rigorosa ne sia la forma, dev’essere ansiosa; e quest’ansia è per l’appunto ciò che edifica, essa è il rapporto con la vita, con la personalità reale»164.
L’apertura al fenomeno dell’ansia non rende autentica solo una riflessione cristiana ma anche quella filosofica e questo vuol dire che una conoscenza autenticamente cristiana non può che essere anche autenticamente filosofica contro l’inautenticità della conoscenza scientifica rimasta indifferente. Se poi si apprende dall’«Esordio» che «il terribile che il cristiano ha imparato a conoscere è la “malattia mortale”»165, comprendiamo allora come l’ansia e la disperazione, che è l’essenza della malattia mortale, siano i contrappunti di fondo e dell’essere cristiani e dell’essere filosofi166. Tutto questo per spiegare come le due parti in cui è suddivisa l’opera, «La malattia mortale è la disperazione» e «La disperazione è il peccato», scritte dalle due mani, filosofica una e teologica l’altra, di Kierkegaard,
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SD, 3. SD, 4. SD, 7. G. PENZO, Kierkegaard, cit., 40s.
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siano inestricabilmente unite dalla serietà dell’esperienza esistenziale della disperazione. Il tema della disperazione come “malattia per la morte” (Sygdoemmen til Døden) che si snoda lungo il percorso dell’indagine di Anti-Climacus, era stato già preannunciato da Kierkegaard in una delle pagine del Diario del maggio del 1847: «prima un uomo pecca forse “per debolezza” e soccombe alla debolezza (perché è proprio la sua debolezza la forza dell’inclinazione, della passione e della brama del peccato); ma poi egli ne rimane così disperato che forse pecca di nuovo “per disperazione”»167;
e alla fine del medesimo anno, dove con maggior chiarezza il filosofo danese descrive le due forme del peccato precedentemente abbozzate: «1) un uomo pecca prima per debolezza, 2) poi per disperazione. È questo in fondo il peccato. Qui sta perciò anche la Redenzione. Un uomo dubita se quel peccato commesso per debolezza, possa essere perdonato; egli pensa che tutto sia perduto, e così pecca. Perciò è necessaria la Redenzione per fermarlo»168.
Il problema del peccato e della sua remissione per via della Redenzione fu una delle forme che il paolino “pungolo nella carne” assunse nella vita di Kierkegaard: per tale ragione non possiamo non cogliere uno sfondo autobiografico dietro alla scena de La malattia Mortale, così come si evidenzia da una pagina di intensa drammaticità tratta dal Diario: «No, no: il mio mutismo non si può rompere almeno per ora. Il pensiero di volerlo rompere finirà per occuparmi tanto, che ogni momento l’accrescerà sempre più […]. La mia missione è di annunziare agli altri consolazione e gioia, mentre io mi sento legato a un dolore per il quale non vedo alcun sollievo, ad eccezione del lavoro dello spirito […]. Io credo certamente nella remissione dei peccati; ma la comprendo così che insieme mi toccherà portare la mia punizione per tutta la vita, chiuso in questo doloroso carcere del mio mutismo, lontano da ogni più intimo commercio con gli uomini:
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Pap., maggio 1847, VIII1 A 64. Pap., 28 dicembre 1847, VIII1 A 497.
però raddolcito dal pensiero che Dio mi ha perdonato. A quest’altezza della Fede io non posso ancora arrivare, una franchezza simile di adesione non posso ancora averla, fino a poter cancellare questo doloroso ricordo. Ma col credere io mi difendo dalla disperazione; porto la pena e il dolore del mio silenzio, ma sono indescrivibilmente felice nell’attività dello spirito che Dio mi ha concessa con tanta abbondanza e grazia»169.
Kierkegaard incantato ammira da terra il vertiginoso volo della fede di Anti-Climacus alla cui altezza di un perdono ricevuto da Dio egli non può ancora arrivare. Ma nel continuo gioco di rinvii allo pseudonimo, che come gli altri resta una maschera mai pienamente conformabile al volto di Kierkegaard, l’autenticità del Diario fornisce proprio l’umile materiale informe alla superba realizzazione futura di Anti-Climacus: quest’ultimo infatti attingerà proprio dall’esperienza esistenziale dell’autore del Diario, che nella pagina sopra riportata annotava tra l’altro la consolante difesa della fede contro gli attacchi della disperazione, per scrivere che «il contrario dell’essere disperato è il credere»170.
1. «L’IO È UN RAPPORTO» L’angoscia è il rapporto dell’uomo con la forza ambigua di uno spirito amico e ostile che ancora sognante progetta l’infinita possibilità di potere; la disperazione è figlia dell’angoscia tradita per una possibilità che si è attuata nel senso del finito o in quello dell’infinito, verso la possibilità o per la necessità: per dirla con un’efficace scansione filosofica del francese Ricoeur, l’angoscia tende verso, ex-siste, la disperazione risiede, insiste171. L’angoscia nella vertigine della libertà di uno spirito non pervenuto a coscienza di sé, «guardando giù nella sua propria possibilità, afferra il finito per fermarsi in esso»172 e cade così nella disperazione: il finito e l’infinito, la possibilità e la necessità si presentano come oggetti che soddisfano una libertà dell’io ormai caduta perché arrestatasi entro uno dei due poli. La disperazione nasce dal risveglio dello spirito che volge lo 169 170 171 172
Pap., Lunedì di Pasqua, 24 aprile 1848, VIII1 A 645. SD, 55. Cfr P. RICOEUR, Kierkegaard. La filosofia e l’«eccezione», Brescia 19962, 19. BA, 367.
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sguardo verso il fascino degli elementi senza pervenire a sintesi. Ecco la ragione per cui Anti-Climacus offre nella prima pagina della sua dialettica sulla disperazione la più suggestiva definizione dello spirito. «L’uomo è spirito: ma che cos’è lo spirito? Lo spirito è l’io. Ma che cos’è l’io? È un rapporto che si mette in rapporto con se stesso oppure è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l’io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se stesso. L’uomo è una sintesi dell’infinito e del finito, del temporale e dell’eterno, di possibilità e necessità, insomma, una sintesi. Una sintesi è un rapporto fra due elementi. Visto così l’uomo non è ancora un io. Nel rapporto tra due elementi, il rapporto è il terzo come unità negativa; cioè i due si mettono in rapporto col rapporto; e nel rapporto sono loro che si mettono in rapporto col rapporto; un rapporto, in questo senso, è, sotto la determinazione dell’anima, il rapporto tra anima e corpo. Se invece il rapporto si mette in rapporto con se stesso, allora questo rapporto è il terzo positivo, e questo è l’io»173.
L’uomo è spirito e lo spirito è l’io. L’uomo in sé stesso è un rapporto, una sintesi, i cui elementi sono il finito, il temporale e la possibilità da una parte e l’infinito, l’eterno, la necessità dall’altra. L’io kierkegaardiano non è l’“unità” hegeliana della realtà particolare assorbita nell’Assoluto universale, ma una sintesi che si costituisce come un doppio rapporto dentro a un rapporto. Perché l’uomo possa determinarsi come spirito occorre che la sintesi venga a coscienza, che il rapporto cioè nel duplice rapportarsi (al finito e all’infinito, al temporale e all’eterno, alla possibilità e alla necessità) non sfumi nell’uno o nell’altro dei termini eterogenei, ma si rapporti a se stesso come il terzo positivo: questo movimento dello spirito è possibile in virtù del medesimo io che, originario, sottende alla riflessione dello spirito. A scrivere il vero, Kierkegaard fino alla fine della sua vita si scontrerà con una contraddizione esistenziale che manifesta una certa ipocrisia dell’essere sintesi perché irrisolvibile adeguazione tra elementi eterogenei. «L’uomo è una sintesi; e così, per natura egli è un’ipocrita nato o con una possibilità congenita di esserlo. E ciò che Iddio vuol vedere in ogni singolo è questo: preferisci essere un ipocrita, o vuoi rapportarti alla verità? L’ipocrisia, appunto perché l’uomo è una sintesi, sta sempre in agguato. 173
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SD, 11.
Essa nasce da questo, che di ciò che la parte spirituale in noi comprende ed esprime, se ne impossessa poi la nostra sensualità e vi sostituisce una tutt’altra interpretazione, mentre si dà l’apparenza come se fosse la stessa cosa»174.
Così, mentre da alcune pagine del Diario l’uomo sembra non trovare rimedio alla sua ipocrisia sempre in agguato e alla fallibilità della sintesi, ne La malattia mortale l’io si costituisce come sintesi in un tertium. L’io è il terzo positivo che rende possibile gli elementi eterogenei della sintesi; l’io è il terzo positivo che non si aggiunge alla triplice coppia di elementi ma che si dà nell’atto stesso in cui il rapporto consapevolmente si mette in rapporto a se stesso; l’io è il terzo positivo inteso come il soggetto della riflessione operata dallo spirito, presente già prima del rapporto ma che si determina soltanto attraverso di esso. «Un tale rapporto che si mette in rapporto con se stesso, un io, o deve essere posto da sé o dev’esser stato posto da un altro. Se il rapporto che si mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro, il rapporto è certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo, è poi a sua volta un rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero»175.
Lo spirito non potrebbe rapportarsi a se stesso se non fosse originariamente costituito dal e nel rapporto dell’io; d’altra parte la coscienza di avere un io è rilevata dalla tensione tra gli elementi della sintesi. Il rapporto che si mette in rapporto a se stesso (l’io) fonda il rapporto tra gli elementi della sintesi (lo spirito) ma è il secondo (lo spirito) a rilevare il primo (l’io). Però a fondare l’io non è lo spirito, né può essere l’io stesso: l’io non si attua in sé stesso; ma può raggiungere lo stato di equilibrio e di quiete solo se mettendosi in rapporto con sé, si mette in rapporto con un altro che ha posto il rapporto, ossia riflettendosi infinitamente nel rapporto con la potenza che l’ha posto176.
Pap., dal gennaio al 30 agosto 1852, X4 A 638. SD, 11ss. 176 Su questo tema cfr i saggi di R. PERINI, Soggetto e storicità. Il problema della soggettività finita tra Hegel e Kierkegaard, Pubbl. dell’Università degli Studi di Perugia, 1995 e di M. INNAMORATI, Il concetto di Io in Kierkegaard, Roma 1991. 174 175
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«Quando l’individuo, dopo aver rinunziato a trovare il suo Io fuori di se stesso, nell’esistenza, nelle contingenze, si volge dopo questo naufragio alle idealità più alte: allora, dopo questo vuoto, l’Assoluto si mostra a lui non solamente nella sua pienezza, ma ancora nella responsabilità che egli sente di avere»177. «Avere un io, essere un io, è la più grande concessione fatta all’uomo, ma nello stesso tempo, è ciò che l’eternità pretende da lui»178.
Questo è il doppio movimento, la “reduplicazione” dell’io: da una parte il movimento dello spirito che nel rapporto, mettendosi in rapporto a se stesso si qualifica come io; dall’altra il movimento dell’io che, presentandosi come il rapportarsi del rapporto, pone se stesso a partire da ciò che ha posto il rapporto intero. L’io kierkegaardiano è il risultato di una relazione: siamo ben lontani dal delirio fichtiano di un’attività autocreatrice libera, assoluta, infinita dell’io, di un principio primo e incondizionato che nello stesso tempo sia attività agente e prodotto dell’azione stessa. Lo Ieget di Kierkegaard non è il Tathandlung di Fichte, cioè l’Io come ciò che l’Io stesso si crea, l’Io che si pone in forza del puro porsi per se stesso179. L’io per Kierkegaard è un rapporto non autofondativo ma derivato, posto in essere da un altro; e l’io può far ritorno a se stesso solo operando la decisione di affermare o di negare il fondamento che l’ha posto in essere e nell’esercizio concreto di tale scelta si attua la sua libertà.
2. «L’IO È LIBERTÀ» «Un tale rapporto derivato, posto, è l’io dell’uomo, rapporto che si mette in rapporto con se stesso e mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con un altro»180.
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Pap., 4 luglio – 10 agosto 1840, III A 26. SD, 21. 179 Cfr J.B. FICHTE, Fondamenti della dottrina della scienza, a cura di A. Tilgher, Bari 1925, I, 6. 180 SD, 12. 178
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Il movimento dello spirito, cioè del rapporto che si mette in rapporto con se stesso, è libertà: questo significa che l’essere spirito non appartiene alla natura dell’uomo perché il movimento del rapporto è libero, non necessitato. Ricordiamo come dalle pagine de Il concetto dell’angoscia si evinceva che la naturalità dell’uomo fosse costituita dal suo stato di innocente ignoranza, stato di quiete in cui lo spirito è ancora sognante. Nell’originaria innocenza si nascondeva il presupposto della libertà, che sorge dal nulla e che si manifestava nell’angoscia come sentimento davanti al nulla dell’infinita possibilità. Se l’essere come spirito fosse stato per l’uomo originario, cioè a lui necessario, non ci sarebbe stato posto alcuno per la libertà: la libertà cadeva, infatti, proprio nel momento in cui lo spirito stava per porre la sintesi. La libertà per Kierkegaard è reale quando ancora non lo è, cioè quando ancora deve determinarsi, nell’istante in cui è sospesa nella vertiginosa distanza tra possibilità e necessità. La libertà vive anzitutto nello spazio della possibilità, di un vuoto determinato da una perdita di Dio181 che insinua a una drammatica contraddizione all’interno della stessa onnipotenza divina, «nel rapporto in cui la sintesi si mette in rapporto con se stessa, nel momento in cui Dio, il quale creò l’uomo come rapporto, se lo lascia quasi scivolare di mano, cioè nel momento in cui il rapporto si mette in rapporto con se stesso»182;
una libertà creata da un suo leggero svincolarsi dall’uomo per riprendere se stesso donandosi, come ricorda una delle celebri pagine del Diario di più alto valore speculativo che traccia il legame inscindibile tra onnipotenza di Dio e libertà dell’uomo e che potrebbe trovare un riscontro altrettanto forte nel solco dischiuso dalla metafisica tomista: «La cosa più alta che si può fare per un essere è renderlo libero. Per poterlo fare, è necessaria precisamente l’onnipotenza. Questo sembra strano, perché l’onnipotenza dovrebbe rendere dipendenti. Ma se si vuol veramente concepire l’onnipotenza, si vedrà che essa comporta precisamente la determinazione di poter riprendere se stessi nella manifestazione dell’onnipotenza, in modo che appunto per questo la cosa creata possa, per via dell’onnipotenza, essere indipendente. Per questo un uomo non può rendere 181 182
Qui il genitivo è soggettivo: la perdita è di Dio. SD, 15.
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mai completamente libero un altro; colui che ha la potenza, n’è perciò stesso legato e sempre avrà quindi un falso rapporto a colui che vuol rendere libero […]. Soltanto l’onnipotenza può riprendere se stessa mentre si dona, e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di colui che riceve. Ogni potenza finita rende dipendenti; soltanto l’onnipotenza può rendere indipendenti, può produrre dal nulla ciò che ha in sé consistenza, per il fatto che l’onnipotenza sempre riprende se stessa. L’onnipotenza non rimane legata dal rapporto ad altra cosa, perché non vi è niente di altro a cui si rapporta; no, essa può dare, senza perdere il minimo della sua potenza, cioè può rendere indipendenti […]. L’onnipotenza può rendersi così leggera che ciò che è creato goda dell’indipendenza […]. Colui al quale io assolutamente devo ogni cosa, mentre però assolutamente conserva tutto nell’essere, mi ha appunto reso indipendente»183.
L’onnipotenza e la trascendenza di Dio da una parte e l’indipendenza e la finitezza dell’uomo dall’altra. La distanza tra questi due piani veniva annullata dal sistema hegeliano che concepiva l’Assoluto come immanente al mondo, alla storia, assorbito nel finito. Kierkegaard ristabilisce invece la radicale distinzione e trascendenza dell’infinito da ogni spirito finito. L’Assoluto fonda e distingue da sé la relazione con l’uomo e proprio tale distanza consente la sua libertà: il Creatore è Assoluto in quanto sciolto (absolutus) dal rapporto con la creatura e questo dà origine ad ogni libera relazione dell’uomo. La possibilità della libertà è data da un ritirarsi nel dono: nel e non dal dono, perché se così fosse, se cioè Dio si ritirasse dal creato, l’uomo e tutte le creature cesserebbero d’esistere. Dio resta assolutamente presente nel peso leggero della sua assenza creatrice di indipendenza, come risulta chiaro anche dal pedagogico abbandono dell’educatore che consente lo sviluppo della libertà del fanciullo. «L’arte dell’educazione consiste nell’esser continuamente presenti, in modo che il fanciullo abbia la libertà di svilupparsi da sé, mentre l’educatore se ne rende sempre chiaramente conto. L’arte consiste nell’abbandonare nei limiti massimi del possibile il fanciullo a se stesso, ma di abbandonarlo solo in apparenza sorvegliandolo di fatto continuamente senza ch’egli se ne accorga»184.
Chi donando si ritrae, questi solo rende libero: è, scrive Kierkegaard, 183 184
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Pap., 7 settembre 1846 – 24 gennaio 1847, VII1 A 181. BA, 436.
la caratteristica esclusiva dell’onnipotenza che dona libertà sottraendosi al legame e riprendendo se stessa. Solo una potenza infinita può rendere liberi, mentre ogni finita potenza, come l’educatore di cui sopra, producendo libertà, crea in realtà una dipendenza perché esige un continuo riconoscimento e un egoistico legame a sé. La potenza infinita di Dio è tale da creare una natura indipendente anche nei confronti della sua onnipotenza; la potenza dell’uomo al contrario è in grado di generare dipendenza verso la sua finitezza. L’essere della libertà “obbliga” così l’io alla non necessità, lasciando aperta la duplice possibilità di scelta: rapportarsi al proprio fondamento, alla verità o disperare svincolandosi dalla potenza che l’ha posto rimanendo nell’ipocrisia. «L’io è libertà»185 di autofondarsi senza far alcun riferimento ad altro e dunque assolutizzando il relativo e relativizzando l’assoluto; oppure di riconoscersi come un rapporto posto da un altro e dunque rapportandosi relativamente al relativo e assolutamente all’assoluto186. Da quest’ultimo passo si deduce come il paradosso della libertà consista nel suo legame con la necessità. La libertà è nella sua essenza una specie di infinito che solo rapportandosi all’infinita onnipotenza mantiene se stessa come tale, indipendente, se dipendente da chi l’ha posta in essere: unicamente in un rapporto a Colui al quale deve la sua libertà, l’uomo può ritrovare la sua più autentica indipendenza. «Dipendere dai propri tesori è un giogo e una schiavitù. Invece, dipendere da Dio con una dipendenza completa è l’indipendenza autentica»187.
Nel rapporto che rapportandosi a se stesso si rapporta a un altro, si dà una libertà già ontologicamente vincolata al fondamento che ha posto il rapporto dell’io: l’io può realizzare la propria vincolata libertà scegliendo l’unico legame capace di renderlo libero. La libertà rimane tale rapportandosi con necessità all’Infinito. Giungiamo così ad un punto chiave per comprendere il libero movimento dello spirito: «in quanto libertà è evidentemente assoluta, e come tale ha una reale infinitudine, ma è limitata come libertà umana»188. 185
SD, 31. Cfr AE, 572. 187 HL, 54. 188 R. JOLIVET, La libertà e l’onnipotenza secondo Kierkegaard, in Studi Kierkegaardiani, cit., 174. 186
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«Per le decisioni della finitezza bisogna essere costretti; per quelle della infinitezza, è proprio il desiderio della libertà l’arrischiarvisi e soltanto con la libertà si entra nella decisione della infinitezza»189.
È la dipendenza nella scelta non libera dell’infinitezza che permette l’indipendenza nell’essere della libertà: solo in un pascaliano rischio per l’Infinito l’uomo sfugge alla costrizione delle cose finite. La necessaria decisione per l’Assoluto è ciò che rende assolutamente liberi. È quanto Kierkegaard intende esponendo il concetto di «libertà di scelta». «C’è qualcosa rispetto alla quale non si deve scegliere, e secondo il cui concetto non vi può essere questione di scelta e che pure è una scelta. Quindi: proprio questo, che non c’è alcuna scelta, esprime con quale intensità e passione immensa uno sceglie. Si potrebbe esprimere con precisione maggiore che la libertà di scelta è solo una determinazione formale nella libertà? e che proprio l’accentuazione della libertà di scelta come tale è la perdita della libertà? Il contenuto della libertà è decisivo a tal punto per la libertà, che la verità della libertà di scelta è appunto di ammettere che qui non ci deve essere scelta, benché sia una scelta»190.
Per Kierkegaard si può scegliere proprio perché non si deve scegliere: si sceglie liberamente perché non c’è libertà di scelta. La scelta ammette di scegliere solo se si rapporta alla libertà e alla verità perché di fronte alla libertà non ci deve essere scelta, benché essa sia in realtà una scelta! La libertà di scelta è costretta a scegliere liberamente il fondamento della stessa libertà. L’Infinito non si può scegliere come un oggetto che rientra tra le possibilità del soggetto, ma come ciò che dà al medesimo soggetto la possibilità di essere scelto: dunque, se l’Infinito è la causa della possibilità che l’uomo ha di scegliere, l’Infinito dev’essere scelto. L’Infinito è la «possibilità trascendentale della stessa scelta»191. Non si è liberi di scegliere il principio della libertà di scelta: lo si deve scegliere, pena la perdita per l’uomo e (della) libertà e (della) libertà di scelta. Kierkegaard dunque pare distinguere tra l’essere della libertà e l’agire della libertà: 189 190 191
116.
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Pap., dal 24 gennaio al 15 maggio 1848, VIII1 A 185. Pap., 1849-1850, X2 428. C. FABRO, Tra Kierkegaard e Marx. Per una definizione dell’esistenza, Roma 1978,
quest’ultimo con la sua scelta decide per l’essere della libertà. L’uomo deve rendere a Dio la sua libertà se non vuol perderla. La possibilità che l’uomo ha di essere libero gli è data dalla necessità che l’io ha di scegliere ciò che gli ha donato la possibilità di farlo, di scegliere ciò che con la scelta lo ponga in una condizione di indipendenza rispetto al finito. La dialettica è tutta interna all’io, ma non ha per fondamento l’io ma l’Assoluto, che deve essere scelto. «La libertà è in fondo solo a questa condizione: cioè nello stesso momento, nello stesso secondo ch’essa è (libertà di scelta), s’affretta incondizionatamente, in quanto che incondizionatamente lega se stessa per via della scelta della decisione, di quella scelta che ha per principio: qui non vi può essere questione di scelta»192.
Si avverte così un passaggio nel movimento della libertà da un conservarsi in una vuota e sterile possibilità, ad un costituirsi in una piena e feconda necessità dell’Assoluto: la possibilità è reale nella misura in cui si rapporta alla necessità. «La libertà è il movimento dialettico nelle determinazioni di possibilità e necessità»193.
Il passaggio dalla possibilità alla realtà della scelta costituisce l’attuarsi stesso della libertà. Kierkegaard affida alla penna di Joannes Climacus un’efficace formula per esprimere questa dialettica della libertà: «la possibilità più alta della realtà; la realtà più alta della possibilità»194: «la prima caratterizza l’apertura illimitata della libertà ossia la sua capacità di avere a disposizione sempre la possibilità di scelta, la seconda afferma l’essere in atto, cioè l’attuarsi della libertà la quale pertanto può vincere la dispersione nel finito ch’è la disperazione»195.
Pap., 1850, X3 618. SD, 31. 194 AE, 451. 195 C. FABRO, La fondazione metafisica della libertà di scelta in S. Kierkegaard, in Studi di Filosofia in onore di Gustavo Bontadini, Milano 1975, 95. 192 193
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È la scelta ad essere libera, non la libertà di scelta: l’uomo sceglie liberamente ma non è libero di scegliere se vuole mantenersi nella libertà. La libertà di scelta è necessitata, se l’uomo vuole autenticamente essere libero: la necessaria dipendenza da Dio non è un ostacolo, ma la condizione della libera indipendenza nella scelta. È il movimento magistralmente descritto da Cornelio Fabro che consiste nella «fondazione trascendentale della libertà mediante il riferimento dell’io alla trascendenza»196. Se l’uomo può liberamente scegliere è solo perché la sua libertà è necessariamente vincolata all’onnipotenza di Dio. Per questo è disperato chi non sceglie Dio: perché sceglie di non essere libero. Una libertà senza Dio: ecco l’inguaribile malattia mortale, l’autentica disperazione.
3. «IL RAPPORTO FALSO» «È incomprensibile, è il miracolo dell’amore infinito, che Iddio effettivamente possa accordare tanto a un uomo, così che egli, per ciò che lo riguarda, possa dire come un pretendente: “Mi vuoi tu, sì o no?” — poi aspettare un secondo solo, per la risposta. Ahimè, ma l’uomo non è poi completamente spirito. Egli ragione così: se la scelta è lasciata a me stesso, allora voglio prendermi un po’ di tempo, voglio riflettere prima per davvero seriamente sulla cosa. Triste anticlimax! La “serietà” è appunto di scegliere Dio subito e “anzitutto”»197.
Il nemico della libertà è la riflessione la quale comporta che la scelta, se non è stata ancora compiuta, diventi possibile contro l’Assoluto, per cui la conclusione drammatica è la perdita della stessa libertà. L’uomo si illude di possedere la libertà di scelta senza aver ancor optato per Dio: è la confusione e il pavoneggiamento dell’uomo che perde tempo in pensieri vuoti. L’uomo continuamente oscilla tra riflessione e azione, perché è sintesi di tempo ed eternità, le cui caratteristiche sono rispettivamente di rallentare diffondendo chiacchiere e di affrettarsi di continuo esigendo l’azione e la trasformazione del carattere198.
196 197 198
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Ibid., 109. Pap., 1849-1850, X2 428. Cfr Pap., ottobre 1854 – settembre 1855, XI2 A 76.
«Invece di innamoramento incondizionato, matrimonio di ragione. Invece di obbedienza incondizionata, obbedienza per forza di ragionamento. Invece di Fede, sapere per ragioni. Invece di fiducia, garanzie. Invece di rischio, probabilità, calcolo prudente. Invece di azione, semplici accadimenti. Invece del singolo, una combriccola. Invece di personalità, una oggettività impersonale, ecc. ecc.»199.
Insinuandosi tra l’uomo e la scelta per l’eterno, la riflessione nel tempo è la tentazione che gli porge il frutto di un’illusoria libertà priva di rapporto alcuno con la potenza che l’ha posto. Da questa demoniaca oscillazione alla cacciata dal giardino della nuda libertà e alla conseguente caduta nella disperazione il passo è breve quanto un batter d’occhio, perché è nell’attimo, nel “momento” che si decide di mangiare per la disperazione o di astenersi per la Fede. Ritorniamo alle pagine illuminanti de La malattia mortale. «Il disperarsi è una determinazione dello spirito, e sta in rapporto con l’eterno che è nell’uomo. E dall’eterno egli non può liberarsi, per tutta l’eternità […]. La disperazione non deriva dal rapporto falso ma dal rapporto che si mette in rapporto con se stesso. E dal rapporto con se stesso l’uomo non può liberarsi così poco come dal suo io»200.
L’angoscia e la disperazione nascono entrambe in seno alla libertà, ma con una significativa differenza. Da Il concetto dell’angoscia si apprende che l’angoscia nasce dalla vertigine della libertà intesa come realtà della possibilità per la possibilità. Da La malattia mortale conosciamo invece come la disperazione nasca dalla libertà intesa illusoriamente dall’uomo come libertà di decidersi o meno per il fondamento che l’ha posto in essere. Nella prima opera l’angoscia era paragonata a uno svenimento femminile per via dell’oscillazione dello spirito di fronte al nulla dell’infinita possibilità da attuare; nella seconda la disperazione fluttua all’interno del movimento della libertà coincidente alla costituzione dell’io: per il fatto stesso che si possa scegliere si è liberi, ma nella libera scelta del rifiuto l’io annulla non il fondamento ma se stesso come libertà201. Pap., dal gennaio al 30 agosto 1852, X4 A 581. SD, 16. 201 Sul movimento dialettico della libertà tra angoscia e disperazione, cfr G.R. BEABOUT, Freedom and its misuses. Kierkegaard on Anxiety and Despair, Fordham University Press 1996. 199 200
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L’io è libertà e la libertà è tremenda possibilità di non riconoscere il vincolo eterno, di pensare che il suo essere libero possa consentirgli di svincolarsi dalla potenza che l’ha posto e dunque di cadere nella disperazione. La libertà, segno dell’eterno nell’io, vincola eternamente l’io a se stesso in modo che dall’eterno egli non può liberarsi come avviene dal rapporto con sé. È una contraddizione voler solo pensare di liberarsi dall’eterno perché l’essere liberi è dato proprio da quell’eterno dal quale «egli non può liberarsi per tutta l’eternità»202. Il ritorno eterno dell’eterno lega indissolubilmente l’io alla sua libertà, di modo che la libertà diventi anche l’assoluta necessità dell’io di scegliere la potenza che lo costituisce, e dunque di abbandonarsi alla fede. La disperazione e la fede sono così le due maschere della libertà che l’io può indossare per il differente modo di interpretare il copione del nulla letto come l’assenza di un Dio che si lascia scivolare l’uomo di mano. L’uomo può agire liberamente in quanto è sostenuto da un’onnipotenza talmente intrinseca alla libertà tale da avvertirla come nulla. Il nulla è il grembo della libertà che può essere ambiguamente avvertito come lo sterile vuoto dell’abbandono di Dio o come il fertile spazio da Lui concesso perché la libertà, cioè l’io, possa realizzarsi: nel primo caso l’io sceglie di sottrarsi al fondamento, nel secondo pone se stesso in quel rapporto. Il nulla, quale cifra della libertà, «non è mai l’indifferenza del vuoto, ma lo stesso già e non ancora di un rapporto che solo la fede è capace di custodire come tale. Il mancare originario di Dio come il ritirarsi senza traccia del Creatore, viene rideterminato ad ogni istante come assenza di fronte ad una libertà che può tutto e nulla. Avvolta proprio dal nulla, la libertà non è dunque in se stessa, sebbene sia consegnata a se stessa, ma in virtù della propria origine e del proprio fine che si annunciano in trasparenza oltre il negativo»203. L’Assoluto mette la libertà in condizione d’essere tale ma non la determina: ecco l’idea della libertà vincolata, che custodisce l’estrema possibilità di rifiutare l’Assoluto. Per Kierkegaard è solo perché l’io è ancorato all’infinito che questo può essere o scelto o rifiutato; ma anche la sua negazione è la conferma 202
SD, 16. L. SESTA, Onnipotenza divina, creazione dal nulla e libertà umana in Søren Kierkegaard, in Il religioso in Kierkegaard. Atti del convegno di studi organizzato dalla Società Italiana per gli Studi Kierkegaardiani tenutosi dal 14 al 16 dicembre 2000 a Venezia, Brescia 2002, 392. 203
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dell’inscindibile vincolo all’eterno e nel rifiutarlo la libertà si dissolve perché decide di non essere più se stessa: l’io «disperatamente non vuole essere se stesso»204. «La disperazione consiste proprio in questo, che l’uomo non è consapevole di essere determinato come spirito»205.
Tutti gli uomini sono disperati, si tratta solo di averne consapevolezza o meno, così che chi dice di essere disperato è un po’ più vicino alla guarigione rispetto a chi crede di non esserlo206, anche se tale malattia dello spirito aumenta d’intensità quanto più l’uomo ne diventa consapevole. «La disperazione è la malattia di cui si può dire che è la peggior disgrazia non averla mai avuta, che è una vera fortuna di Dio prenderla, sebbene sia la malattia più pericolosa se non se ne guarisce»207.
Il pregio maggiore della disperazione è la sua possibilità. Per la categoria della disperazione viene radicalmente capovolto l’aristotelico primato dell’atto: mentre comunemente l’essere siede su un gradino superiore rispetto al poter essere, nel caso della disperazione l’attualità, l’essere disperati nella realtà, rappresenta la caduta del fenomeno esistenziale della disperazione, la sua più cocente sconfitta, la sua miseria, mentre la possibilità la sua più grande vittoria. Solitamente, la realtà è la posizione di una possibilità attuata, nel caso della disperazione essa è invece una negazione, cioè la possibilità impotente annientata: con l’espressione «non essere disperato» si deve così intendere la possibilità annientata di essere disperato. Sia essere disperati, come non esserlo, preclude la possibilità di aprirsi alla disperazione autentica, che è una malattia dello spirito che si trova in rapporto con l’eterno che è nell’uomo. L’io infatti è sintesi e «la sintesi implica la possibilità del rapporto falso»208: la disperazione è la realtà di un rapporto falso realizzata da un libero atto dell’io. Se l’uomo non fosse sintesi non ci sarebbe spazio per la 204 205 206 207 208
SD, 19. SD, 27. Cfr SD, 28. SD, 28. SD, 14.
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disperazione, così come l’angoscia sparirebbe immediatamente se l’uomo cessasse d’essere spirito. L’origine della disperazione è il movimento della libertà dell’uomo in quel vuoto lasciato dal ritirarsi della mano di Dio. A seconda che il movimento si arresti al primo rapporto, dell’io che si rapporta a se stesso o che da questo rapporto prosegua in un rinvio al rapporto ad un altro, si avrà una duplice forma di disperazione: se l’io si pone in forza di se stesso siamo nella figura della disperazione che nasce dal volersi liberare da se stessi e la disperazione è qui il rapporto falso col quale l’io rifiuta di rapportarsi all’Assoluto; se invece l’io è posto da un altro ci troviamo di fronte alla forma della disperazione che consiste nel voler essere se stessi. Questa seconda forma di disperazione, in cui «ogni altra forma di disperazione può risolversi o esserne derivata»209, è un pregio immenso la cui possibilità rappresenta il “proprium” dell’uomo di fronte all’animale, definendo il suo essere spirito e la cui conoscenza pone il “discrimen” tra il cristiano e il pagano: in ciò, l’essere disperati mostra che lo spirito si trova in rapporto all’eterno che è nell’uomo. È questa la forma della disperazione tipica dell’esperienza cristiana, che l’uomo di fede può superare solo nella consapevolezza di fondarsi «trasparente nella potenza che l’ha posto»210. «Si può dimostrare l’esistenza dell’eterno nell’uomo dal fatto che la disperazione non può distruggere il suo io e che questa è proprio la contraddizione tormentosa inerente alla disperazione. Se non ci fosse niente di eterno nell’uomo, egli non potrebbe affatto disperarsi; ma se la disperazione potesse distruggere il suo io, nemmeno esisterebbe disperazione»211.
Non siamo davanti a un’eternità trascendente ma ad un’eternità esistenziale, immanente, cioè ad una dimensione dell’eterno che si fonda sull’elemento temporale dello spirito. «Io prendo coscienza di me stesso ad un tempo nel mio valore eterno o per così dire nella mia necessità divina, e nella mia finitezza casuale (che cioè io sono quell’essere determinato, in questo paese, in tal tempo…). E quest’ultimo lato non deve essere trascurato, perché la vera vita dell’indi209 210 211
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SD, 12. SD, 13. SD, 20.
viduo è nella sua apoteosi, la quale non comporta che l’io vuoto e senza contenuto abbandoni di nascosto questa sua finitezza per rendersi evanescente e perdersi migrando verso i cieli, ma che la Divinità abiti in questa finitezza e non ricusi di adattarvisi»212.
L’uomo può e deve diventare un io proprio perché è disperato: nella disperazione l’uomo acquista la certezza d’essere un io e sa che «esiste un Dio, e che egli, proprio lui, il suo io, sta davanti a questo Dio»213. Ma proprio questo può diventare il tormento più grande dell’io, il non potersi cioè liberare dall’essere io: è l’impossibilità ontologica per la carne dell’io di liberarsi dal pungolo dell’eterno. La disperazione è clinicamente descritta come la malattia per la morte: è la malattia la cui morte è non poter morire. Il tormento per il disperato è di non poter guardare alla disperazione come a un evento ormai passato ma come a una malattia sempre possibile, è il tremendo pensiero d’essere un moribondo condannato a non poter morire in un dato momento, ma costretto a morire eternamente la morte. «Cadere nella malattia mortale è non poter morire, ma non come se ci fosse la speranza della vita, anzi, l’assenza di ogni speranza significa qui che non c’è nemmeno l’ultima speranza, quella della morte. […] La disperazione è l’assenza della speranza di poter morire»214.
La diagnosi della malattia mortale non conosce possibili guarigioni: la disperazione è morire la morte, cioè dover vivere nell’impossibilità di morire e dunque vivere in eterno. La disperazione è vivere eternamente la possibilità di disperarsi. «Il disperato non può morire; “come il pugnale non può uccidere i pensieri”, così la disperazione non può distruggere l’eterno, l’io che sta alla base della disperazione»215.
212 213 214 215
Pap., 4 luglio 1840, III A 1. SD, 29. SD, 17. L.c.
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L’autodistruzione impotente del disperato è l’idea che la disperazione non possa annientarlo, il suo dolore ardente (det Hidsende) è non potersi distruggere, il suo bruciore gelido (den kolde Brand) è non potersi liberare di se stesso: questa è la sua inguaribile febbre. L’uomo non si dispera per qualche cosa, si dispera per se stesso: l’uomo è disperato perché è l’io dal quale gli è impossibile sottrarsi. Disperarsi di se stesso è la prima forma della disperazione: Kierkegaard come aveva inglobato precedentemente questa prima forma nella seconda («disperatamente volere essere se stesso»), chiude ora il cerchio riducendo la disperazione per la volontà di essere se stesso in quella a non volere essere se stesso. «Uno che si dispera vuol essere disperatamente se stesso. Ma se vuol essere disperatamente se stesso, certamente non vuole liberarsi da se stesso»216.
Volere essere l’io che uno è, è l’esatto contrario della disperazione, ma quell’uomo che disperatamente vuole essere se stesso vuole proprio l’io che non è: «cioè egli vuole staccare il suo io dalla potenza che l’ha posto»217. L’io che vuole assolutizzare se stesso nega il rapporto assoluto all’Assoluto, non realizzando così se stesso e cadendo nello stato di disperazione. È un’illusione il solo pensare di svincolarsi dall’Assoluto perché il disperato può scegliere di farlo solo in quanto è fondato in quel rapporto da cui la sua libertà esiste. L’uomo che disperatamente non vuole essere quell’io che si rapporta all’Assoluto liberamente decide di negarlo solo perché è fondato nella potenza che gli dona la possibilità di scegliere, paradossalmente anche contro la stessa potenza. «Per quanto questo sfugga al disperato, per quanto gli riesca di perdere completamente il suo io e in maniera che questo non si faccia più sentire per niente, l’eternità rivelerà pure che il suo stato era disperazione e lo inchioderà al suo io in modo che diventi pure il suo tormento non potersi liberare da se stesso; e allora si manifesta che era un’illusione esserci riuscito. E così deve fare l’eternità; perché avere un io, è la più grande concessione fatta all’uomo, ma, nello stesso tempo, è ciò che l’eternità pretende da lui»218. 216 217 218
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SD, 20. L.c. SD, 21.
4. «LA DIFFERENZA QUALITATIVA» La disperazione non è una determinazione psicologica ma una categoria teologica: l’io umano, magistralmente descritto nella prima pagina dell’opera, nella seconda parte si evolve in un io teologico a motivo del prepotente ingresso di quel Dio che si celava sotto le non troppo mentite spoglie di «un altro», di «ciò che ha posto il rapporto intero», di una «potenza», e che si manifesta ora in tutta la sua evidente quanto mai incomprensibile paradossalità. L’io si trova ora davanti a Dio, e la disperazione radicata nel rapporto si qualifica come peccato. «Il peccato è: davanti a Dio o avendo l’idea di Dio, disperatamente non voler essere se stesso, o disperatamente voler essere se stesso […] Il peccato è il potenziamento della disperazione. Ciò che è di importanza essenziale sta nelle parole: davanti a Dio, o nel fatto che è presente l’idea di Dio; ciò che dialetticamente, eticamente, religiosamente fa del peccato la disperazione “qualificata” è l’idea di Dio»219.
A qualificarlo qualitativamente è la misura con cui l’io si mette in rapporto, che non è qualcosa di estrinseco a lui ma che dall’interno incide profondamente in lui, diventando meta che lo eleva al grado di infinito. «Per trovare la misura per l’io, bisogna domandare che cosa sia ciò di fronte a cui esso è io; e questa è la definizione della “misura”. Come si possono addizionare soltanto qualità omogenee, così ogni cosa è qualitativamente ciò con cui viene misurata; e ciò che qualitativamente è la sua misura, eticamente è la sua meta; viceversa la misura e la meta sono qualitativamente ciò che una cosa è»220.
L’io è la misura e la meta che decide liberamente di assumere. L’io non è necessariamente se stesso, ma diviene se stesso scegliendo la sua misura e la sua meta nella libera reduplicazione di un rapporto. L’io costruisce qualitativamente e eticamente se stesso in proporzione alla misura e alla meta scelte.
219 220
SD, 89. SD, 94.
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«La disperazione si eleva a potenza secondo la consapevolezza del proprio io, ma l’io si eleva a potenza in proporzione alla misura adeguata all’io, e a una potenza infinita se la misura è Dio. Più completa l’idea di Dio, più completo l’io; più completo l’io, più completa l’idea di Dio»221.
Abbandonato il protagoreo homo mensura, Kierkegaard vede nell’essere davanti a Dio il potenziamento assoluto dell’io, perché «soltanto quando l’io, questo singolo io determinato, si rende conto di esistere davanti a Dio, soltanto allora l’io è infinito»222; ma comporta anche la completa elevazione della disperazione che davanti a Dio si qualifica come peccato: «e quest’io pecca davanti a Dio»223. Di fronte alla misura di Dio, l’io si determina come infinito, diventando più io, e la disperazione si eleva a potenza diventando la posizione del peccato. Il peccato dunque è il frutto di una duplice consapevolezza: d’essere un io (e questa era già della disperazione) e d’esserlo davanti a Dio. Il peccato ricalca così la medesima formula della disperazione con l’aggiunta della qualificazione «davanti a Dio» (for Gud): «il peccato è: davanti a Dio disperatamente non voler essere se stesso, o davanti a Dio disperatamente voler essere se stesso»224.
Il peccato è avvertito come tale perché è in rapporto con una misura che ne traccia i contorni. Il peccato è la disperazione dell’io davanti a Dio; la malattia si trasforma in condizione permanente, in una «determinazione dello spirito», in una posizione dell’io che liberamente decide di porsi contro Dio, determinandosi in un falso rapporto a se stesso. «Il peccato non significa che l’uomo non abbia compreso il bene, ma che egli non vuole comprenderlo e che non lo vuole affatto»225.
L’io non comprende il peccato perché non vuole comprenderlo e non vuole comprenderlo perché non vuole il bene. Kierkegaard si inserisce nel 221 222 223 224 225
90
SD, 95. L.c. L.c. SD, 96. SD, 114.
solco della tradizione cristiana che vede la radice del peccato nella “voluntas”, assente giustificata nell’ancor troppo felice, ingenua, ridente, estetica, ironica, spiritosa filosofia socratica. Il peccato è il rifiuto consapevole del bene, è positività, posizione, azione conseguente di una libera decisione dell’io contro Dio; infatti non basta una comprensione chiara e distinta del peccato per rendere immune l’uomo dal commetterlo, perché tra la comprensione e la scelta si erge lo spazio indeterminato della libertà entro cui la volontà si muove. Sottolineiamo ancora una volta il progresso, anche per la categoria di peccato, tra Il concetto dell’angoscia e La malattia mortale. Per Vigilius Haufniensis l’angoscia poneva il peccato con un «salto qualitativo», perché l’angoscia è una tensione, un movimento nella vertigine della libertà; per Anti-Climacus il peccato è uno stato, una posizione, perché la disperazione risiede nel rapporto falso, nel movimento sul posto di un io che vuole diventare se stesso senza rapportarsi a un altro. Il peccato in tal modo non è il contrario della virtù ma della fede, la cui definizione, «mettendosi in rapporto con se stesso e volendo essere se stesso, l’io si fonda trasparente nella potenza che l’ha posto»226, è l’esatto contrario della definizione del peccato che, sempre davanti a Dio, disperatamente non vuole o vuole essere se stesso: fede e peccato sono così i due modi antitetici d’essere davanti a Dio. Il peccato è una possibilità costitutiva dell’uomo e non solo un socratico errore intellettuale frutto di ignoranza: come la fede, il peccato appartiene al modo di essere dell’uomo davanti a Dio. Manca da illustrare un ulteriore modo di fraintendere la dottrina del peccato, quello più pericoloso e che più preme a Kierkegaard smascherare: «il peccato non è una negazione ma una posizione»227, ritenuta da Kierkegaard l’interpretazione ortodossa del peccato nel cristianesimo contro ogni dogmatica speculativa. La polemica è ancora rivolta all’immaginario interlocutore hegeliano, il quale tenta di comprendere il peccato al pari di una qualsiasi categoria logica riducendolo a mera negazione da negare per il divenire del processo dialettico. Comprendere è superare, togliere, andare oltre la negazione: il peccato viene così erroneamente inteso come negazione e il pentimento come la negazione della negazione. Ma la verità per Kierkegaard è un’altra:
226 227
SD, 158. SD, 117.
91
«io insisto soltanto sul principio cristiano che il peccato è qualcosa di positivo — però non in modo da poter essere capito, ma come paradosso che dev’essere creduto»228.
Capire una cosa è negarla (così come precedentemente contro l’apologia aveva scritto che difendere una cosa è screditarla229): per questo il filosofo danese invita ad andare come lui alla scuola dei greci per apprendere la divina ignoranza, che poi è l’initium sapientiae. «Il cristianesimo insegna che tutti i principi cristiani esistono per la fede; perciò sarà proprio un’ignoranza socratica, nata dal timore di Dio, la quale difende, per mezzo dell’ignoranza, la fede contro la speculazione, badando che la profonda differenza qualitativa tra Dio e l’uomo sia stabilita, nel paradosso e nella fede, come quella che è, che Dio e l’uomo non si fondano più terribilmente che mai nel paganesimo, nel sistema»230.
Un paradosso da credere e non da comprendere, dunque, che mantenga aperta l’infinita differenza qualitativa (Qualitativ Forskjel) tra Dio e l’uomo, panteisticamente annientata dalla speculazione hegeliana; un paradosso da credere perché per Kierkegaard non c’è nulla da capire nel linguaggio paradossale che si contraddice da sé, che distrugge quel che dice, che toglie ciò che ha precedentemente posto: il paradosso del cristianesimo è la dottrina della riconciliazione. «Il cristianesimo, il quale per primo scoprì i paradossi, è anche qui estremamente paradossale; esso lavora quasi contro se stesso quando stabilisce il peccato come posizione in modo che ora sembra un’impossibilità assoluta toglierlo di mezzo e poi è proprio il cristianesimo che, in virtù della riconciliazione, vuole togliere il peccato così assolutamente, che sarà come se fosse affondato nel mare»231.
Il peccato è ciò che nella profondità più abissale della qualità distingue l’uomo da Dio, mentre la remissione dei peccati è quanto di più 228 229 230 231
92
SD, 119. Cfr SD, 103. SD, 120. SD, 121.
infinitamente eterno e, come tale, implica l’assoluta alterità, la separazione di Dio rispetto all’uomo. «La dottrina del peccato, secondo la quale tu e io siamo peccatori, dottrina la quale assolutamente disgrega “la massa”, stabilisce una differenza qualitativa tra Dio e l’uomo così profonda come non è mai stata stabilita […]. Sotto nessun rispetto l’uomo è così diverso da Dio come sotto quello che egli è peccatore, e lo è “davanti a Dio”, in modo che i contrasti sono messi insieme in un doppio senso: sono uniti, non possono separarsi l’uno dall’altro, ma essendo così messi l’uno accanto all’altro, la differenza spicca tanto di più, come quando si mettono insieme due colori: opposita iuxta se posita magis illucescunt. Il peccato è l’unico fra tutti i predicati che si danno all’uomo che in nessun modo, né via negationis né via eminentiae si può dare a Dio. Voler dire di Dio (nello stesso senso in cui si dice che egli non è finito, cioè via negationis, che è infinito) che egli non è peccatore, sarebbe una bestemmia. Come peccatore l’uomo è separato da Dio dall’abisso più profondo della qualità. E, naturalmente, Dio è separato dall’uomo dall’abisso della stessa qualità, quando rimette i peccati. Perché, se in altri casi fosse possibile, con una specie di accomodamento inverso, di trasferire il divino nella sfera umana, in una cosa l’uomo non arriva mai per tutta l’eternità a essere simile a Dio: nel rimettere i peccati»232.
Dio e l’uomo sono talmente uniti da non potersi più separare, sebbene nel rapporto dialettico spicchi maggiormente la loro differenza: come due punti, manifestano la loro separazione convogliando in un medesimo punto. «Il divino e l’umano sono i due punti (:) che finiscono in un punto (.); anche in questo senso è strano che i due punti (:) non sono un segno di separazione maggiore di un punto (.), ma minore»233.
Lo stato del peccato manifesta l’assoluta differenza qualitativa tra Dio e l’uomo, tanto che «ciascuno individuo deve vivere questa differenza come la massima vicinanza esistenziale e la massima lontananza gnoseologica»234. Il rapporto a Dio è il fondamento dell’esistenza dell’io, eppure 232 233 234
SD, 146ss. Pap., 10 luglio 1839, II A 474. F. GENTILI, Introduzione a La malattia mortale, cit., XVI.
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Dio resta sempre l’Ignoto che da una parte incita la ricerca della ragione dell’uomo e dall’altra ne costituisce il limite invalicabile a motivo del paradosso inspiegabile per la finitezza dell’io. «La passione dell’intelligenza per il paradosso si scontra sempre con questo Ignoto, che certamente esiste, ma è anche sconosciuto, e sotto questo punto di vista non esiste. Più in là l’intelletto non arriva. […] volere esprimere il proprio rapporto a quell’Ignoto, col dire che l’Ignoto non esiste, non serve a nulla, poiché questa formula involve precisamente un rapporto. Ma cos’è allora quest’Ignoto? Infatti dire ch’esso è Dio, per noi non significa altro se non ch’è Ignoto. Dire a suo riguardo ch’è Ignoto, perché non lo si conosce, e anche se si potesse conoscerlo non poterlo esprimere, questo non soddisfa la passione, benché essa abbia concepito l’Ignoto come limite; ma il limite è appunto il tormento della passione, anche se nello stesso tempo è il suo incitamento. Comunque, più in là essa non può andare. Cos’è allora l’Ignoto? È il limite al quale si arriva sempre, e in questo senso, quando alla determinazione del movimento si sostituisce quella della quiete, esso è il diverso, l’assolutamente diverso per il quale non c’è nessun criterio distintivo. Determinato come l’Assoluto-Diverso sembra che l’Ignoto sia pronto per diventare manifesto: ma così non è, perché la diversità assoluta l’intelletto non la può pensare; infatti esso non può assolutamente negare se stesso, ma usa di se stesso a questo fine, e pensa quindi in se stesso la diversità ch’esso pensa da se stesso, e non può assolutamente trascendere se stesso, e pensa perciò al di là di se stesso quella sublimità ch’esso pensa da se stesso. Qualora l’Ignoto (Dio) resti soltanto un limite, quell’unica idea della differenza si confonde in molti pensieri sulla differenza. L’ignoto è allora in una diaéspora, e l’intelletto può scegliere a suo agio fra ciò ch’è a portata di mano e ciò che può inventare l’immaginazione»235.
Kierkegaard schiva i pericoli estremi di una spinoziana immanenza assoluta che idealisticamente nega ogni realtà al di fuori dell’Io e una trascendenza altrettanto assoluta appartenente a una certa tradizione della mistica criticata dal danese, per cui la misura che è Dio diventa talmente distante da rendere impossibile all’uomo ogni tipo di relazione. «Ecco la legge del rapporto fra Dio e l’uomo nel rapporto a Dio. Maggiore (divisio). C’è un’infinita abissale differenza qualitativa fra Dio e l’uomo. Ciò significa o si esprime dicendo che l’uomo non può assolutamente nulla, 235
94
PS, 52s.
che è Dio a dare tutto, che è Lui che dà all’uomo di credere, ecc. Questa è la grazia, e qui si ha il primo principio del Cristianesimo. Minore (subdivisio). Benché naturalmente non si possa pretendere alcun merito per qualsiasi opera, non meno di quel che possa dirsi meritoria la Fede, ciò che importa è tuttavia osar di mettersi in rapporto con Dio come bambini. Se tutto si esaurisce nella maggiore, Dio diventa allora così infinitamente elevato che non c’è nessun vero e proprio rapporto fra Dio e l’uomo singolo. Si deve perciò badare molto alla minore, senza di che la vita del singolo non riuscirebbe in fondo ad avere slancio alcuno»236.
Con Kierkegaard ci troviamo nel conciliante ma quanto mai paradossale spazio di una «immanenza trascendente che tien ferma una trascendenza sempre immanente»237: l’Ignoto nella sua infinita trascendenza è il presupposto immanente che in trasparenza fonda la realtà dimorando nella sua finitezza; d’altra parte, l’impenetrabile trascendenza si sottrae all’immanenza del finito costituendosi come il limite del pensiero, il suo tormento e la sua passione, ma divenendone anche il suo incitamento. L’Ignoto-Dio è avvertito come l’orizzonte, il teélov, l’ultimità che costituisce ogni realtà, senza la cui immanenza la coscienza non potrebbe sentirlo come tale ma che, in quanto orizzonte, è percepito come trascendente ogni finitezza, come un niente di tutto ciò che è determinato e che, in quanto nulla, angoscia. L’Ignoto come orizzonte è una lontananza che allarga lo sguardo, ci attrae e nel contempo ci limita, si nasconde sconcertandoci. «L’immanenza trascendente nella trascendenza immanente» si trova raccolta nella trasparenza dell’orizzonte, nella “paradossale metafora dell’irrealizzabile” così genialmente delineata: «ogni presenza è assegnata al filo conduttore delle “sfumature” che reclama come “compresente” ciò che nel dato è sottratto: salvaguardare la disponibilità dell’assente, perché e nella misura in cui esso non è mai interamente assente»238. È l’antipatia simpatica e la simpatia antipatica de Il concetto dell’angoscia, l’impossibile adeguazione che informa l’angoscia davanti a una vertiginosa sproporzione nella sintesi: «un essere respinti, proprio nell’attrazione più alta, dalla differenza assoluta, dalla inevitabile maschera del nulla»239. L’Infinito come l’indecifrabile nulla che simpaticamente attrae 236 237 238 239
Pap., dal 2 gennaio 1849 alla metà del 1849, X1 A 59. V. MELCHIORRE, Saggi su Kierkegaard, Genova 1998, 157s. H. BLUMENBERG, Passione secondo Matteo, Bologna 1992, 44. V. MELCHIORRE, Saggi su Kierkegaard, cit., 166.
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e incita il desiderio del pensiero, ma che antipaticamente lo respinge nell’imperscrutabilità del suo essere Ignoto; un Infinito nulla che, come pienezza, abita l’esistente, pur nella sua indeterminabile collocazione di ubique et nusquam240. La disperazione è la sproporzione nel rapporto di una sintesi posta da Dio. La disperazione è a motivo della trascendenza esistenziale di Dio nell’io, ma che dall’io è avvertita come gnoseologicamente irraggiungibile: un enigmatico rapporto che non va spiegato ma vissuto nel paradosso della fede. A conclusione del suo itinerario Kierkegaard “dimostra” come la dottrina del peccato, la qualificazione della disperazione e dell’angoscia, sia il segno tangibile dell’immanente distanza e della trascendente vicinanza tra Dio e l’uomo nella loro abissale differenza qualitativa e come la sofferenza generata nell’io sia la coscienza dell’eterno in lui. «“La sofferenza” è l’espressione di qualità per l’eterogeneità da questo mondo. In questa eterogeneità (la sofferenza è l’espressione) consiste il rapporto all’eterno, la coscienza dell’eternità. Dove non c’è sofferenza, non c’è neppure coscienza dell’eternità e dove c’è coscienza di eternità c’è anche sofferenza. È nella sofferenza che Dio tiene sveglio un uomo (eterogeneo rispetto a questo mondo) per l’eternità»241.
Dio e l’uomo si rapportano nella reciproca tensione, nel contrasto di una sintesi mai pienamente attuabile: il peccato è una radice nell’uomo mai del tutto estirpabile, perché manifestazione della sua condizione di finitezza davanti alla perfezione di Dio. Coerentemente, Kierkegaard scrive che essere malati di disperazione è una pericolosa fortuna e che riconoscersi tali costituisce la prima tappa verso la guarigione paradossale della fede. Per descrivere tale tensione Kierkegaard utilizza il termine danese Anfaegtelse, di difficile traduzione, che Fabro rende con «misto di scrupolo e tentazione»242: è l’incertezza, l’inquietudine sofferente che non proviene luteranamente dal diavolo, ma proprio dalla presenza dell’infinito di Dio nell’uomo: l’uomo vuole amare Dio ma proprio da Dio è limitato nella sua finitezza. Lo Anfaegtelse è «la concentrazione dello spirito sul peccato, 240 241 242
96
Cfr PS, 17. Pap., dal 30 gennaio al 30 agosto 1852, X4 A 600. AE, nota 45, 599.
come angoscia del peccato»243 che non permette all’uomo di credere che la sofferenza che prova sia il segno della maestosità di Dio che si relaziona a lui scontrandosi con la sua imperfezione; è «la reazione contro l’espressione assoluta del rapporto assoluto»244 che colpisce l’individuo nel suo momento di forza davanti alla resistenza dell’assoluto; è la sofferenza dell’uomo che, come un nulla davanti a Dio, avverte Dio come il Nulla di tutto ciò che è finito, dunque anche di sé. E «l’angoscia è la specie più tremenda di scrupolo»245. «La sofferenza viene da Dio. Neppure essa sta in un rapporto casuale all’essere cristiani. No, essa ne è inseparabile. La sofferenza, che ci dev’essere la sofferenza, questo dipende dalla maestosità di Dio. La Sua Maestà è tanto infinita che solo il paradosso la può caratterizzare o esserne l’espressione, e il paradosso è questo: essere tanto maestoso da dover rendere infelice l’amato […]. La sofferenza dipende dal fatto che Dio e l’uomo sono qualitativamente diversi e lo scontro della finitezza e dell’eternità nel tempo deve causare sofferenza»246.
243 244 245 246
Pap., 8 maggio 1847, VIII A 93. AE, 601. Pap., 1849-1850, X2 A 493. Pap., ottobre 1854 – settembre 1855, XI2 A 130.
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Parte seconda Per una fenomenologia esistentiva dell’angoscia
CAPITOLO III L’ANGOSCIA DEL DEMONIACO: «LA PAURA DELL’ETERNITÀ»
«Ma essi durante tale notte davvero impotente uscita dai recessi impenetrabili degli inferi senza potere, intorpiditi da un medesimo sonno, ora erano agitati dai fantasmi mostruosi, ora paralizzati per l’abbattimento dell’anima: poiché un terrore improvviso e inaspettato si era riversato su di loro» (Sap 17, 13-14) «Non vive un solo uomo il quale non sia alquanto disperato, non porti in sé un’inquietudine, un turbamento, una disarmonia, un’angoscia di qualche cosa che egli non conosce o che non osa ancora conoscere, un’angoscia di una possibilità dell’esistenza o un’angoscia di se stesso, in modo che, come il medico parla di una malattia che cova nel corpo, cova anche lui una malattia, cova e porta con sé una malattia dello spirito, la quale ogni tanto, a guisa di un lampo, mediante e insieme a un’angoscia incomprensibile per lui stesso, fa sentire che c’è dentro»247.
Universalità del fenomeno che abita la contraddizione di un io lacerato in se stesso a motivo di un’insanabile sintesi di eterogenei, l’angoscia vive lo iato tra l’infinito e il finito, il temporale e l’eterno, la possibilità e la necessità. Tormento e fortuna, passione e redenzione, seduzione e abbandono, l’angoscia rimane ambigua perché dialettica, paradossale come il bruciore gelido di una malattia, vibrante come il tremendo incanto di un lampo, assurda come la morte che non porta alla morte, scandalosa come la sofferenza che dimora nella felicità. L’angoscia è l’insopprimibile grido dell’uomo verso l’eterno conficcato nella sua finitezza, è lo sguardo dovuto verso il Nulla che lo annulla con la sua trascen-
247
SD, 23.
101
dente presenza e immanente assenza, è lo svenimento per una libertà che può tutto, meno che liberarsi da Colui che la rende libera vincolandola a sé. L’angoscia è la cifra ineludibile dell’io, del greco come dell’ebreo, dell’uomo come della donna, del disperato come del credente, dell’esteta come del religioso, del demonio come dell’innocente. L’angoscia colora l’inchiostro dell’instancabile penna di Kierkegaard dando vita a variegate figure che si dispiegano lungo i suoi scritti, la cui eco risuona ora nella melodia musicale di Mozart, ora nel fedele silenzio di Abramo, ora nella sensualità dominante del Don Giovanni, ora nella tragica malinconia di Nerone, ora nella disperata taciturnità del demone, ora nell’obbediente abbandono dell’innocente in Dio.
1. «L’ANGOSCIA DEL BENE» Nelle pagine di Begrebet Angest troviamo un’importante differenza, successivamente ripresa e approfondita in Sygdommen til Døden, tra l’angoscia come Aandsloeshed, come assenza, mancanza di spiritualità — esplicitata nello scritto del 1844 nell’inconsapevolezza del destino per il greco e nella coscienza della colpa per l’ebreo — e l’angoscia come consapevolezza vissuta alla presenza dello spirito dalla figura del demoniaco che si angoscia davanti al bene che lo sovrasta e che non può annullare, con il risultato di un’angoscia elevata potenzialmente in quanto consapevole d’essere tale.
1.1. L’«oracolo» del pagano Il peccato del paganesimo è la sua ignoranza, cioè il non essere mai arrivato ad avere una coscienza profonda del peccato. Il paganesimo è assenza di spiritualità, quindi ricerca; non è mancanza di spiritualità, propria del paganesimo che vive dentro al cristianesimo, anche se Kierkegaard non ha dubbio alcuno nel preferire il paganesimo al «ristagno dello spirito» e alla «caricatura dell’idealità»248, che è il cristianesimo privo di spiritualità.
248
102
BA, 404.
Il paganesimo, per il quale ogni cosa ristagna nella necessità dell’essere, ignora del tutto il disegno cristiano della Provvidenza, fondato non sul determinismo ma sulla possibilità, non sulla necessità ma sulla libertà. Il paganesimo non è assorbito nel peccato perché richiederebbe il riconoscimento della possibilità di peccare e dunque della fede nella Provvidenza; esso risiede nell’angoscia, frutto del rapporto della sensualità con lo spirito, del tutto inconsapevole d’essere tale. Il niente, oggetto dell’angoscia, per il paganesimo si configura come l’ineluttabile destino, che è il contraltare della possibilità; il destino si rapporta allo spirito pur non essendo spirito: è infatti «l’unione della necessità e della casualità»249, qualcosa di non necessario e di estraneo allo spirito. Il destino si muove in assenza dello spirito perché non appena lo spirito è posto, il destino, come l’angoscia, cade. Il niente del destino, come l’angoscia, attrae e respinge: seduce il pagano con la necessità, ma lo allontana con la casualità. Il rapporto tra lo spirito e il destino è dunque angoscia. L’oracolo rivela perfettamente l’ambiguità del destino: l’uomo pagano non può fare a meno di consultarlo per tentare di avvicinarsi alla conoscenza del destino ma la cui risposta resta ambigua nella sua interpretazione. Il rapporto con l’oracolo resta di simpatia e di antipatia come il niente dell’angoscia. Ma è di fronte al concetto di peccato che il paganesimo cade in un’insolubile contraddizione: «Il concetto della colpa e del peccato, nel senso più profondo, non si presenta nel paganesimo. Se esso si presentasse, il paganesimo sarebbe distrutto dalla contraddizione che un uomo diventa colpevole per destino. Questa infatti è la contraddizione suprema e in questa contraddizione si presenta il cristianesimo. Il paganesimo non la comprende, perché è troppo leggero nel determinare il concetto della colpa»250.
Per l’assenza di spiritualità il pagano non si comprende colpevole come singolo; solo quando al cieco destino subentra lo sguardo della Provvidenza si capisce d’essere, come singoli, peccatori davanti a Dio. Eppure Kierkegaard scorge anche all’interno del cristianesimo l’angoscia del paganesimo nel momento in cui «lo spirito è certamente presente, ma
249 250
BA, 405. BA, 406.
103
non posto essenzialmente come spirito»251. La figura che si staglia è quella della soggettività soverchiante del genio, le cui coordinate sono l’immediatezza e la temporalità. «Se il genio si limita al suo immediato essere e si accontenta soltanto di volgersi verso l’esterno, certamente diventa grande e le sue gesta desteranno meraviglia, ma non arriverà mai a se stesso e non diventerà grande per se stesso»252.
Il genio è un An-sich, uno spirito improprio chiuso e assoluto, la cui esistenza è tutta splendore, coronata di gloriose vittorie, di eventi strepitosi, capace di tutto, meno che volgersi a se stesso, alla propria interiorità. «Tutta la sua attività è rivolta al di fuori; ma il nucleo da cui tutto si irradia non giunge all’esistenza»253. «Ma egli appartiene alla temporalità. Se un tale genio avesse ripudiato la temporalità immediata, se si fosse rivolto verso se stesso e verso il divino: quale genio religioso non sarebbe sorto! Ma quali tormenti avrebbe dovuto soffrire»254.
A far tremare geni come colui che rimase nella vana attesa dello spuntar del sole su Austerlitz per la vittoria255 e come Talleyrand256, è il destino, un nulla, perché una loro invenzione. La scoperta del destino manifesta la forza di tali geni e al contempo ne definisce l’impotenza, perché il destino è il loro limite, così che il rapporto col destino è l’angoscia che li sorprende non nel momento del pericolo — anzi qui si manifesta tutto il loro coraggio — ma nel prima e nel dopo, «in quel momento di tremore in cui egli deve parlare con quel grande sconosciuto che è il destino»257. Forse addirittura
251 252 253 254 255 256 257
104
BA, 407. BA, 410. L.c. BA, 411. Il riferimento di Kiekegaard è indirizzato a Napoleone (cfr BA, 408s). Cfr BA, 411. BA, 410.
«la sua angoscia è massima nel momento dopo, perché l’impazienza della certezza cresce sempre in proporzione indiretta colla distanza; infatti, c’è sempre più da perdere quanto più si è vicini alla vittoria, e più che mai nel momento stesso della vittoria; e finalmente, la coerenza del destino è proprio la sua incoerenza»258.
Certo, ci vuol coraggio nel dire che una simile esistenza geniale sia peccato, ma è proprio così, perché il talento e la felicità del genio si giustificano solo se rapportati all’io attraverso la riflessione dello spirito e scoprendo così il rapporto a un altro. Al genio manca la consapevolezza d’essere spirito, che si attua con un libero movimento verso se stessi, e la gioia che viene dall’immortalità, da lui erroneamente intesa come la gloria che si distende nel tempo lungo le generazioni, ma che esclusivamente gli viene proprio dall’eterno che lo abita ma che lui ignora attratto com’è dall’immediatezza e dalla temporalità della realtà esteriore.
1.2. Il «sacrificio» dell’ebreo Anche l’ebraismo giace nell’angoscia che si rivela in un modo ancora più paradossale del paganesimo, perché il nulla del primo era il destino, mentre l’ebraismo si angoscia per un niente che in verità è qualcosa: è «l’angoscia della colpa»259. L’ambiguità dell’angoscia raggiunge qui le più vertiginose vette della dialettica dove la genialità della scrittura di Kierkegaard trova la sua saturazione. «La colpa è certamente qualcosa. Eppure è vero che essa, finché è oggetto dell’angoscia, è niente. L’ambiguità sta nel rapporto colla colpa: appena è posta la colpa, l’angoscia è passata e il pentimento è presente. Il rapporto, come sempre quando si tratta dell’angoscia, è di simpatia e antipatia»260.
Ancora una volta l’angoscia attrae e respinge col suo tremendo incanto: in questo caso l’io fissa con bramoso sguardo la colpa che affascina ma inquieta, che desidera ed eppure teme. L’ebraismo non vuole 258 259 260
L.c. BA, 413. BA, 412.
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abbandonare la colpa sostituendola col destino o la fortuna del paganesimo ma al contempo non la vuole veramente perché se così fosse sarebbe immediatamente travolto dal pentimento. L’ebraismo, come il paganesimo, cerca di comprendere l’angoscia, non con l’oracolo bensì con il sacrificio che proprio come il primo, resta ambiguamente incomprensibile. L’ambiguità del sacrificio è nella sua reiterazione, perché a nulla giova ripeterlo, dal momento che a togliere l’angoscia non è il sacrificio ma la coscienza della colpa e, «poiché questo non avviene, il sacrificio deve essere ripetuto»261. La via d’uscita per il sacrificio come per l’oracolo è la medesima: la coscienza del peccato. «Soltanto col peccato è posta la redenzione e il suo sacrificio non si ripete […]; la perfezione del sacrificio corrisponde al fatto ch’è posto il vero rapporto del peccato. Finché non sia posto il rapporto reale del peccato, il sacrificio deve essere ripetuto»262.
L’oracolo per il pagano e il sacrificio per l’ebreo rappresentano dunque l’ingenuo tentativo di dominare il nulla dell’angoscia, reso presente per l’uno dal destino, per l’altro dalla colpa. La necessità dell’essere per il pagano e della legge per l’ebreo sono messe in scacco dalla possibilità del destino per l’uno e della colpa per l’altro. Ma per l’ebreo l’ambiguità si intensifica perché la colpa è posta per indicare l’allontanamento dell’uomo dall’assoluta necessità della legge di Dio; la colpa però è scelta dall’uomo come una possibilità che in quanto tale può essere evitata. Ecco il paradosso: da una parte l’uomo è costretto ad affermare la colpa per la necessità della legge, dall’altra la colpa lo spinge a riconoscere la possibilità. Ad entrambe manca l’infinita possibilità della Provvidenza: «per superare il timore e il tremore, o il terrore della libertà, non è possibile richiamarsi alla necessità dell’essere: proprio tale richiamo, infatti, nel paganesimo e nell’ebraismo, è il fondamento della non libertà dimostrata dalle controfigure del destino e della colpa. In una parola: la libertà è la fede e non la necessità dell’essere»263. Anche per l’ebraismo viene delineata una figura di genio, religioso, cioè colui che non vuol fermarsi all’immediatezza della genialità pagana 261 262 263
106
BA, 413. L.c. E. PACI, Angoscia e relazione in Kierkegaard, in Aut Aut 23 (1954) 368.
rimasta prigioniera nella temporalità dell’esteriorità. Avendo per confidente la colpa, come il destino era l’amico del genio immediato, il genio religioso si volge verso se stesso e, volgendosi verso sé si rapporta a Dio perché, «se vuol vedere Dio, deve cominciare col riconoscersi colpevole. Ora volgendosi verso se stesso egli scopre la sua colpa»264. La colpa è «l’opposto della libertà» eppure è la libertà a porre la colpa mediante se stessa. Infatti nel momento in cui il genio sa di essere libertà, «grava sopra di lui l’angoscia del peccato nello stato della possibilità»265. Il rapporto della libertà con la colpa è una possibilità, dunque è angoscia, perché la libertà teme di diventare colpevole e dunque di non essere più libertà ma è proprio nel riconoscimento della colpa, che costituisce la differenza qualitativa tra l’uomo e Dio, che si rivela la grandezza del genio che si rapporta a Dio. «La libertà mentre col suo desiderio appassionato fissa lo sguardo su se stessa e cerca di tenere lontana la colpa […], non può fare a meno di fissare lo sguardo sulla colpa e questo è il fissare ambiguo dello sguardo dell’angoscia; perché, entro la possibilità, la stessa rinunzia è una brama»266.
Come il destino per il genio dell’immediatezza, così la colpa è il dolce affanno del genio religioso: egli la fugge mentre ne resta attanagliato e alla fine giunge per rimanerne prigioniero. Ma è proprio in rapporto ad essa che si manifesta la sua genialità. «Questo è il momento culminante, il momento in cui egli è più grande, non quel momento in cui l’aspetto della sua devozione è come la solennità di una festa straordinaria, ma quello in cui egli per se stesso davanti a se stesso affonda nella profondità della coscienza del peccato»267.
Nel clima dell’ambigua dialettica di simpatia antipatica e antipatia simpatica dell’angoscia, l’uomo si riconosce colpevole mediante la possibilità della libertà. Per tal motivo la libertà è la vera inquietudine dello spirito, perché è attraverso di essa che l’io riconosce d’essere colpevole
264 265 266 267
BA, 416s. BA, 417s. BA, 418. BA, 419.
107
davanti a Dio. Il peso della libertà che i più evitano è la libertà dal peso del peccato che solo i pochi, i geni religiosi, attuano.
1.3. Il demoniaco «Quando il ricco va in carrozza, circondato dalle fiaccole nella notte scura, vede un tratto più avanti del povero che cammina al buio pesto: ma non vede le stelle, poiché glielo impediscono appunto le sue fiaccole. Così la prudenza mondana: vede bene da vicino, ma toglie la visuale dell’infinito»268.
La disperazione, come ricorda La malattia mortale, è il primo grado della fede; la prudenza mondana di questa pagina di Diario invece, nel suo indifferente appagamento per le sue finite fiaccole che consentono di vedere l’immediato vicino ma non di scrutare le più alte e luminose stelle, non vuole disperare, perdendo in tal modo la visuale dell’infinito. In realtà la disperazione raggiunge qui un grado più elevato di intensità proprio perché inconsapevole d’essere tale: questo è per Kierkegaard il demoniaco (Det Daemoniske) che vive la categoria esistenziale della non-libertà, figlia di una ostinata volontà che desidera distogliere l’uomo dal suo essenziale e inquieto bisogno di Infinito, chiudendolo nella soffocante e ipocrita prudenza del finito. Ma le stelle continuano comunque a brillare nella notte e l’impossibilità di oscurarle con la tenue luce delle fiaccole rappresenta l’angoscia del demoniaco. Il demoniaco in Kierkegaard non è un semplice incidente di percorso che immediatamente lascia il posto al divenire della fede; non è l’anti-tesi hegeliana che deve esser superata da una tesi assoluta che la inveri, né il pedagogico negativo che rivela il suo contrario. La categoria del demoniaco nella trattazione filosofica del danese ha una sua consistenza, un suo spessore specifico, è una realtà esistenziale che rende comprensibile l’incomprensibile paradossalità della fede. La disperazione demoniaca e la fede dell’innocente non sono riconducibili ad una fredda alternativa ma sono le due confinanti caselle bianca e nera entro le quali si gioca la partita dell’io pronto a dare scacco all’insipida e addormentata vita priva di eterno; anzi è nell’io stesso che si svolge la drammatica tragedia di un’esistenza lacerata tra disperazione e fede divise dal sottilissimo muro
268
108
Pap., 1845-1847 (carte sparse), VII1 A 234.
della libertà. In questo e nel successivo paragrafo ci apprestiamo a considerare l’esistenza negativa (non dialetticamente intesa) del demoniaco che dimora nell’io per vedervi già scorgere in esso e da esso l’orizzonte della fede. Parodiando una celebre affermazione di Dostoevskij contenuta ne I demoni, potremmo dire che la disperazione assoluta del demoniaco sta nel penultimo gradino della fede perfetta, perché «solo chi ha provato la disperazione capisce in fondo la Redenzione, perché ne sente bisogno»269. «Il demoniaco ha un’estensione molto più vasta di quel che comunemente si crede; il che si spiega dal fatto che l’uomo è una sintesi di anima e di corpo portata dallo spirito, in modo che una disorganizzazione di una delle sfere si fa sentire nelle altre. Ma quando si badasse all’estensione del fenomeno, allora forse si vedrebbe che parecchi, anche fra coloro che ne vogliono trattare, anch’essi si trovano nella sua categoria e che se ne trovano tracce in ogni uomo, così certamente com’è certo che ogni uomo è un peccatore»270.
La figura del demoniaco per Kierkegaard attraversa l’intera esistenza umana allorché questa non sia riflessione su se stessa e da qui non rinvii al fondamento dell’eterno in cui trova senso il suo esistere: il demoniaco è «la paura dell’eternità»271, per cui l’io che disperatamente vuole essere se stesso vive un’esistenza discontinua, vuota, non libera, sfumata, fantastica, taciturna, debole, ostinata. Rispetto al destino del greco e alla legge dell’ebreo, il demoniaco è una forma potenziata di angoscia perché, essa stessa oscillante tra simpatica attrazione e antipatica repulsione, si alimenta della relazione col bene, con l’Assoluto, con quel Dio che nulla sa del male perché la sua libertà vive nel bene. «Dio non ne sa nulla, non ne può e non ne vuole sapere nulla»272. Questa voluta ignoranza che Dio ha del male costituisce l’angoscia, la disperazione del male, la sua pena assoluta. Se Dio fosse finito, la sua ignoranza costituirebbe la libertà del male, ma «poiché Dio è l’infinito, il suo ignorare è l’annientamento vivente»273. Il male infatti non esiste senza 269 270 271 272 273
Pap., dal 16 luglio 1848 al 2 gennaio 1849, IX A 341. BA, 432. SD, 83. BA, 421. L.c.
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la relazione a Dio, non può fare a meno della conoscenza di Dio su di lui: per essere male, il male necessita del bene, di Dio. Kierkegaard riporta la frase con cui san Paolo, riferendosi a coloro che non conoscono Dio, si rivolge agli abitanti di Tessalonica: «costoro saranno castigati con una rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza»274. La rovina del male è proprio un’esistenza lontana da Dio, il suo castigo è il mancato sguardo di Dio che è segno di riconoscimento di un altro da Lui nella sua identità di male, perché Dio, rapportandosi al male, implicitamente dichiarerebbe l’esistenza come male. D’altra parte, il demoniaco è la chiusura di fronte al bene: il demoniaco vuole non volere il bene. Dio attrae angosciosamente il demoniaco che ad un tempo vuole allontanarsene; in questo consiste la contraddizione di un demoniaco che non può chiudersi perfettamente in se stesso ma che, pur avendo perduto la volontà in quanto non-libertà, continua a volere qualcosa che lo riconosca nell’esistenza. Il demoniaco non può consistere chiuso in se stesso ma al contempo vuole non volere un rapporto al bene: ecco dimostrata la drammaticità della condizione del demoniaco che vive grazie a colui che in realtà intende negare. «Il demoniaco è la non-libertà che vuole chiudersi in se stessa. Ciò però non è mai possibile, perché essa resta sempre in un certo rapporto col bene; anche se pare che sia completamente sparito, questo rapporto esiste sempre e l’angoscia si mostra subito nel momento del contatto»275.
Il demoniaco, che è nel male, prova l’angoscia del bene. Il demoniaco si distingue solo a contatto col bene, «che dall’esterno viene a raggiungerlo nel suo stesso limite»276 e questo è il motivo della sua angoscia. «Il ribelle è colui che vuole che la possibilità positiva sia impossibile ma che, però, non potrebbe esistere come ribellione se non avesse in sé, negata, proprio la possibilità alla quale si ribella»277. Il demoniaco per ribellarsi, per non volere, deve riconoscersi all’interno della relazione proprio con colui che vuole rendere impossibile. Per esistere come demoniaco deve ammettere il suo essere costituito in una relazione, 274 275 276 277
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2Tess 1,9. BA, 433. BA, 429. E. PACI, Angoscia e relazione, cit., 365.
ma è proprio questa relazione che non può annullare, pena la fine della sua esistenza. Il demoniaco si angoscia perché il bene che vuole negare esiste nonostante la sua negazione, anzi il suo tentativo di negarlo è la dimostrazione dell’esistenza del bene: la volontà di non volere il bene ne dimostra l’incrollabile esistenza. Decidendo di ribellarsi sceglie di non morire perché la volontà di annullare Dio lo condanna all’esistenza. Questa è la malattia mortale, una malattia che non giunge alla morte ma che determina inesorabilmente l’esistenza disperata del demoniaco per cui «la disperazione è l’assenza della speranza di poter morire»278. «Il demoniaco è l’angoscia del bene. Nell’innocenza la libertà non era posta come libertà; la sua possibilità era nell’individuo angoscia. Nel demoniaco il rapporto è inverso. La libertà è posta come non-libertà, perché la libertà è perduta. La possibilità della libertà è qui ancora angoscia. La differenza è assoluta; infatti qui la possibilità della libertà si mostra di fronte alla nonlibertà, che è direttamente opposta all’innocenza, essendo questa una determinazione in direzione della libertà»279.
L’innocenza e il demoniaco provano entrambi angoscia della libertà, ma con l’assoluta differenza che la prima non l’ha mai avuta se non come possibilità, il demoniaco l’ha perduta nella realtà. L’angoscia dell’innocenza è rappresentata dalla possibilità di libertà intesa come liberum arbitrium, l’angoscia del demoniaco è la non-libertà, è la paura del bene che non si vuole né si può fare a causa della schiavitù del peccato. Dal punto di vista estetico-metafisico, il demoniaco si presenta come l’atteggiamento della compassione davanti a chi soffre schiacciato sotto le categorie della sventura, del destino, del brutto. La compassione assunta davanti a tale dolore è solitamente «la più meschina di tutte le virtuosità e abilità sociali […] tanto lontana dal far bene a chi soffre che serve piuttosto di riparo al proprio egoismo»280. In profondità invece compatisce chi si identifica con il sofferente nella consapevolezza che «se il demoniaco è destino, esso può capitare a ognuno»281.
278 279 280 281
SD, 17. BA, 432s. BA, 429. BA, 430.
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Dal punto di vista etico, il demoniaco è il masochistico atteggiamento di colui che desidera che «si usasse contro di lui tutta la crudeltà e severità possibili»282: è l’orrido amore per la crudeltà, la punizione verso se stessi prima e verso gli altri poi. C’è chi addirittura pensa di curare il fenomeno del demoniaco con una cura ospedaliera di «polverine, pillole, clisteri»283, intendendolo come un caso grave per la medicina. Il demoniaco è sì una malattia, ma dello spirito che liberamente rifiuta di essere se stesso, una malattia i cui sintomi sono la taciturnità (Indesluttehed), l’improvviso, e il vuoto.
1.3.1. La taciturnità Il demoniaco, chiudendosi in se stesso, diventa prigioniero della nonlibertà; mentre il bene è libertà, salvezza, comunicazione, il demoniaco è non-libertà, chiusura, taciturnità. «L’essenza del demoniaco è di essere taciturno e di rendersi manifesto contro volontà. Queste due determinazioni significano, come anche devono, la stessa cosa; infatti ciò che è chiuso è muto e se si deve esprimere, bisogna che lo faccia contro volontà. La libertà che sta a base della non-libertà, venendo in comunicazione colla libertà dal di fuori, si ribella e tradisce la non-libertà in modo ch’è l’individuo a tradire se stesso, contro la sua volontà, nell’angoscia»284.
Il male si angoscia per la libertà che rifiuta, per l’alterità che nega, per la relazione che lo determina contro la sua volontà. Perciò il demoniaco non può parlare: se lo facesse affermerebbe ciò che vuole negare, come l’aristotelico confutatore del principio di non contraddizione costretto a tramutarsi in pianta per non testimoniare con la sua parola a favore del principio che vuole negare285. Il demoniaco deve tacere: se parlasse entrerebbe in contraddizione con se stesso riconoscendo che esiste qualcuno a cui la sua parola è rivolta, quel “qualcuno” che è proprio colui che vuole annullare: l’unico rimedio possibile resta allora il silenzio. 282 283 284 285
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BA, 430s. BA, 431. BA, 433. Cfr ARISTOTELE, Metaphisica, G 4, 1006 a 9 – a 14.
«La parola conserva sempre la sua forza redentrice; infatti, tutta la disperazione, tutti gli orrori del male compresi in una sola parola, non destano lo spavento che può suscitare il silenzio»286.
Il demoniaco tace perché parlando testimonierebbe il contrario di ciò che vuole, «perché se corrispondesse, rivelerebbe»287: proferendo una sola parola affermerebbe la relazione che desidera negare. Il demoniaco è in un eterno monologo con sé stesso, braccato nella prigione del suo io «si chiude sempre di più, non vuole comunicazione»288, anzi nasconde persino a sé il segreto tormento che rinchiude nel suo intimo, «perché sarebbe come se coll’esprimerlo commettesse un nuovo peccato, o come se fosse tentato un’altra volta»289. La figura che meglio incarna il carattere di taciturnità propria del demoniaco è quella di Nerone290, un uomo profondamente infelice, la cui essenza fu «triste melanconia»291. Pur riconoscendo nella malinconia il segno delle anime più dotate, Kierkegaard la addita come «l’isterismo dello spirito»292, come l’atteggiamento di chi, nel momento di scegliere di rapportarsi a se stesso come spirito, si blocca rimanendo nell’immediatezza della vita estetica. «La malinconia è l’interruzione del passaggio dall’immediatezza della vita naturale alla riflessione della vita spirituale»293. La malinconia è una sorta di schizofrenia spirituale per cui l’individuo tenta di respingere gli assalti del suo spirito di riflettersi su se stesso: è l’effetto della volontà dell’io di non volersi cogliere come spirito, della scelta di non raccogliersi in se stesso ma di rimanere fuori di sé, eccentrico, nella dispersione dell’immediatezza. La malinconia è il movimento arrestato, represso dello spirito che non fa ritorno a sé. Tale è il caso di Nerone, «abituato ad ogni pensabile desiderio»294, cresciuto cibandosi di piaceri, sempre insaziabile come un bambino che 286 287 288 289 290
V,
BA, 441s. SD, 83. BA, 433. BA, 438. Cfr L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, in EE,
55ss. 291 292 293 294
EE, V, 56. EE, V, 60. L. PAREYSON, Kierkegaard, cit., 63. EE, V, 57.
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desidera escogitarne di nuovi per evitare di pensare ad una forma di esistenza più alta. «L’immediatezza dello spirito non può sfogarsi, e tuttavia esige uno sfogo, esige una forma superiore di esistenza. Ma se questo finirà con il succedere, allora verrà un istante in cui lo splendore del trono, il di lui potere e autorità impallidiranno, e d’arrivare insino a un tal punto egli non ha il coraggio»295.
Lo spirito di Nerone sente l’esigenza della vita etica, ma Nerone, che non vuol riflettersi come spirito, ha paura di perdere lo splendore che la vita estetica gli ha donato: si rifugia allora nuovamente «nell’istante del desiderio»296. Ormai lacerato in sé cerca di ingannare il suo spirito con l’appagamento dei piaceri, ma non vi riesce perché lo spirito, ormai provato dagli anni trascorsi, «ansima di spossatezza»297 e non appena l’istante è passato cade nel baratro senza uscita della malinconia. «Allora lo spirito si concentra in lui come una nube nera, l’ira che pervade lo spirito ricopre e cela la sua anima, e diventa un’angoscia che non cessa nemmeno all’istante del godimento… Ecco, perciò i suoi occhi sono così neri che nessuno può sopportare di rivolgervi i propri, il suo sguardo così balenante da angosciare, …perché dietro agli occhi giace l’anima come una tenebra… Si definisce questo sguardo uno sguardo imperiale, e il mondo intero trema dinanzi ad esso, e nondimeno il più intimo essere di lui è angoscia»298.
Nerone è oscuro persino a se stesso e tenta di distrarsi dalla sua angoscia vivendo nell’immediatezza, coprendo gli uomini con la sua umbratile figura enigmatica, deliziandosi della loro angoscia. «Egli non si ha, e solo quando il mondo trema dinanzi a lui si sente chetato, perché allora non ci sarà proprio nessuno che oserà arrestarlo»299.
295 296 297 298 299
114
L.c. L.c. L.c. L.c. EE, V, 58.
Lo diverte l’angoscia che provoca in chi osa guardarlo negli occhi: brucia la città di Roma, ma l’unico desiderio che lo distoglie dal tormento della mancata riflessione dello spirito è vedere gli uomini angosciati a causa sua. Eppure anche lui può angosciarsi per via di uno sguardo. «Un bambino che rivolga i suoi occhi su di lui in tutt’altro modo da come egli è abituato, un’occhiata casuale possono spaventarlo, …è come se questa persona lo possedesse; perché lo spirito vuol farsi avanti in lui, vuole che egli si abbia nella sua coscienza; ma è cosa questa che egli non può, e così lo spirito viene schiacciato indietro accumulando nuova ira… […]. Egli è come oppresso, non libero dentro di sé, e perciò ciascuno sguardo sembra volerlo vincolare! Egli, l’imperatore di Roma, può temere uno sguardo da parte del più miserabile degli schiavi!»300.
Lo sguardo del bambino è per Nerone l’orrendo sguardo comunicante del bene, della libera innocenza che lo vuole vincolare a sé. Lo sguardo del bene disarma il demoniaco, attira a sé il suo spirito chiedendogli di venire a coscienza di sé come spirito con un movimento di libertà. È il contatto col bene che risveglia in lui il tormento di uno spirito che lo accusa di una non voluta interiorizzazione. Barricato nella propria buia menzogna, il demoniaco indietreggia davanti ad ogni spiraglio di luce nel timore che questo possa squarciare il velo della sua cupa disperazione: essendo lui non-libertà rigetta lo spirito dentro di sé, rimane ancorato in sé in uno stato di disperata ribellione, accumulando con essa tanta ira che riesce a placare solo nel diabolico diletto di vedere negli uomini, all’esterno di sé, l’angoscia che inquieta il suo sé. È certo spaventoso il silenzio del demoniaco che si alimenta proprio dell’angoscia provocata negli altri dalla sua taciturnità, giustamente definita come «un’interiorità impazzita»301: «Di fronte al demone inferiore e alle nature umane inferiori che non hanno una coscienza di Dio molto sviluppata, l’individuo taciturno vincerà assolutamente, perché il primo non è capace di resistere e gli altri sono abituati a vivere alla giornata con perfetta ingenuità e ad avere il cuore sulle labbra. È incredibile quale potenza un individuo taciturno può acquistare sopra tali
300 301
EE, V, 57s. SD, 83.
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uomini, che finalmente implorano e mendicano una sola parola che possa rompere il silenzio; ma è un metodo rivoltante mettersi a calpestare in questo modo i deboli»302.
1.3.2. L’improvviso Mentre la taciturnità è il contenuto del demoniaco, l’improvviso è il suo tempo303. Il demoniaco ha solo un’apparenza di continuità paragonabile «alla vertigine, come una trottola che gira continuamente sulla sua punta»304. Ma tale continuità si presenta all’esterno come tempo spezzato. «In un momento è qui, nel momento seguente è via, eccola ancora qua tutta intera. Esso non si lascia elaborare in una continuità, né allestire con qualche continuità, che ciò che si manifesta così è proprio l’improvviso»305.
La continuità è il tempo dell’eternità, ma il demonico è proprio la negazione dell’eternità e dunque si determina come somma scomposta di istanti: l’improvviso è l’astrazione dalla continuità come il peccato era l’astrazione del “momento” dall’eterno306. «Se si pone l’eterno, il presente è diverso da ciò che si desidera. Di questo si ha paura, e così si è nell’angoscia del bene […]. Per quanto si neghi l’eterno, non si riesce mai a sbarazzarsene completamente»307.
L’illusione di negare l’eternità determina la chiusura nell’immediatezza, nella discontinuità dei singoli istanti, giacché «l’angoscia dell’eterno riduce il momento a un’astrazione»308. La paura dell’eternità porta alla celebrazione del culto dell’istante. L’improvviso è la dimensione estetica del
302 303 304 305 306 307 308 309
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BA, 435. Cfr BA, 439s. BA, 440. L.c. Cfr BA, 401. BA, 463. L.c. Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico, in EE, I, 132.
demoniaco che drammaticamente è stato rappresentato nel Faust come il salto di Mefistofele dalla finestra che si arresta proprio nella posizione del salto! È l’arresto della pellicola del tempo nel singolo fotogramma dell’istante, senza nulla che lo preceda né alcunché che lo segua. Nulla della continuità del bello ma solo l’«abbruttimento», la «perdizione bestiale» della discontinuità del tempo vissuto in frazioni di istanti slegati l’uno dall’altro: è l’improvviso, che non ammette repliche perché può solo mettere in scena la “prima” del dramma del demoniaco; è l’improvviso, che costituisce il fallimento dell’immediatezza per l’impossibilità di una ripresa; è l’improvviso, che cavalca sulla scia ininterrotta di istanti, confuso tra gli altri nella somma di un nulla di senso. Kierkegaard ravvisa nel precipuo linguaggio musicale il suono che dona la parola all’improvviso, perché la musica vive negli istanti della sua immediatezza, è la sensualità che si manifesta nel breve momento della sua esecuzione. «La musica non esiste concretamente che nell’istante in cui viene eseguita, perché anche se si sapessero leggere perfettamente le note e s’avesse una vivissima forza d’immaginazione, non si potrà negare che è solo in un senso figurato che essa esiste durante la lettura. Insomma esiste solo durante l’esecuzione»309.
Il filosofo danese, pur riconoscendo di averne capito ben poco, è attratto dalla musicalità di Mozart, la cui sensualità con un linguaggio che non è riflessione, esprime l’infinita passione di Don Giovanni, il suo infinito desiderio di desiderare, l’assoluta e spontanea immediatezza della sua vita di esteta. «La vita di Don Giovanni è così immediata o, piuttosto, egli si presenta in modo così totale come incarnazione della vita immediata, che la sua figura è al di là di ogni parola. Per questo solo la musica può esprimerlo, solo quel mezzo di espressione, cioè, che più si allontana dal linguaggio»310. La musica fugge dallo spazio della pittura o della scultura che divide e separa, dando forma nel continuum del tempo all’astrazione erotica. Solo la musica è in grado di esprimere questa immediatezza estetica e il protagonista Don Giovanni può solo vivere nello spazio di quegli istanti improvvisi che la musica di Mozart gli regala: «la musica scopre il mondo
310
E. PACI, Ironia, demoniaco ed eros, in Relazioni e significati, cit., 28.
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della passione e ci fa assistere alla manifestazione del genio erotico»311. Don Giovanni è musica, è solo energia sensuale destinata a dissolversi, è «la sua bruciante inquietudine nella sua breve gioia di vivere, il polso che batte rapido nella sua foga appassionata»312.
Don Giovanni non ha la corporeità di una persona: «idealmente non ha sussistenza, né ha un carattere, ma è una modalità della musica che lo regge per tutto il tempo che non smette di suonare»313: la sua essenza è nel fluire, nel succedere, è insofferenza ad ogni possibile definizione che non sia quella astratta di note musicali che si perdono nel nulla di istanti.
1.3.3. Il vuoto Anche l’improvviso ha una sua continuità, la monotonia, che in verità è «una continuità nel nulla»314, destinata dunque ad estinguersi nel vuoto della non-libertà. «Ora si può interpretare un po’ diversamente il numero di quella leggenda popolare sul diavolo. I 3000 anni non si accentuano più come simbolo dell’improvviso, ma quello spazio immenso evoca l’immagine del vuoto spaventoso del maligno»315.
L’eternità del demonio è il “per sempre” del nulla, inteso come il perpetuarsi del vuoto, della non-libertà, per aver vissuto una vita nell’insignificante istante astratto dalla pienezza dell’Eterno.
311
L. PAREYSON, Kierkegaard, cit., 17. EE, I, 203. 313 G. GARRERA, Musicalità dell’intelligenza demoniaca: Kierkegaard interprete di Mozart, in Leggere oggi Kierkegaard, cit., 97. Sul tema del linguaggio musicale come espressione del sensuale, cfr P. CASUSCELLI, Musica è linguaggio? Kierkegaard e Don Giovanni, in Rivista di Estetica 26 (1986) 51-62. 314 BA, 443. 315 L.c. 312
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«La ben nota situazione doventesi al Medioevo, il quale racconta di un infelice a cui, risvegliato che si fu all’inferno e messosi a domandare con un grido che ora fosse, il diavolo rispose: “Un’eternità!”»316.
Il vuoto è così lo spazio nell’eterno del demoniaco, mentre la taciturnità è la forma che esteriormente prende il vuoto nel tempo discontinuo dell’improvviso. Kierkegaard a questo punto si trova costretto suo malgrado ad ammettere come il vuoto nel particolare e il demoniaco in generale, sia paragonabile al “negativo”, categoria sacra al sistema hegeliano, a patto che «il negativo sia capace di levarsi dalla testa tutti i grilli che gli aveva messo la filosofia recentissima»317. Il demoniaco cioè, come il negativo, è il niente, la forma del nulla, con la sola differenza che il negativo è rivolto verso l’esterno in rapporto a quel qualcosa che viene negato, mentre il vuoto determina il demoniaco nel suo stato interiore. Il demoniaco è ironico come il negativo anche se per il danese non Hegel ma Socrate si intendeva di ironia: è ironico perché si espone al trasformismo, allo sfoggio di abiti diversi, camuffandosi dietro le variegate sembianze del «trombettiere, impiegato doganale, albergatore, postino e via dicendo»318. Ironico dunque il demoniaco perché porta in sé una serie sterminata di sfumature che l’ambiguità dialettica della categoria sprigiona. Ne Il concetto dell’angoscia il demoniaco come assenza di interiorità e discrepanza tra verità e certezza, oscilla tra la passività e l’attività delle forme della non-libertà che sono l’incredulità e la superstizione, l’ipocrisia e lo scandalo, l’orgoglio e la viltà319. Ma è solo ne La malattia mortale che Kierkegaard fornisce una fenomenologia minuziosa del demoniaco nella più ampia descrizione di ogni singola forma della disperazione, in un «travolgente crescendo»320 che non ha eguali come intensità dialettica nella scrittura del filosofo danese.
316 317 318 319 320
Validità estetica del matrimonio, in EE, IV, 190. BA, 444. L.c. Cfr BA, 455-465. F. GENTILI, Introduzione, in La malattia mortale, cit., XIII.
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2. «LE FIGURE DELLA DISPERAZIONE» «Siamo di fronte ad una sorta di stridente simulacro del discorso hegeliano; ma questo simulacro è anche il mezzo per salvare il discorso dall’assurdità: è didattico perché non può più essere dialettico. In altri termini, sostituisce una dialettica a tre termini con una dialettica spezzata, con una dialettica non conciliata a due termini. Una dialettica senza mediazioni, tale è il paradosso kierkegaardiano. O (aut) troppa possibilità, o (aut) troppa attualità; o troppa finitezza, o troppo infinito; o si vuole essere se stessi, o non si vuole essere se stessi. Meglio ancora, poiché ciascuna coppia di contrari non offre una conciliazione, non è possibile edificare il paradosso successivo su quello che lo precede. La catena dei paradossi è essa stessa una catena spezzata; di qui la cornice didattica, sostituita alla struttura immanente di un’autentica dialettica»321.
Abbiamo voluto riportare per intero questa lunga disamina di Paul Ricoeur, che vede nel paradosso kierkegaardiano la controfigura del sistema dell’idealismo tedesco, perché sembra a noi evidente come la “dialettica spezzata” di Kierkegaard, pur trovando in quello i suoi natali, sia anche la risposta più pungente ed energica che la logica hegeliana abbia mai ricevuto, una “dialettica spezzata” che apre lo spazio verso la trascendenza: «Kierkegaard contrappone alla dialettica triadica di Hegel una dialettica diadica, dove, caso mai, se c’è un terzo termine, esso è la trascendenza»322. Nel pensiero dialettico di Kierkegaard l’io non rappresenta il pacifico approdo sintetico dopo il superamento conflittuale di tesi e antitesi degli elementi eterogenei: l’io resta sempre una sintesi mai pienamente sintetica, un paradosso appunto, un aut-aut in cui convivono non due elementi contrari in una medesima dimensione ma due elementi eterogenei di due piani qualitativamente distinti quali l’umano e il divino. L’io è libertà e bastano queste parole per comprendere come l’io sia, proprio come la libertà, tensione tra eterogenei, tra finito e infinito, possibilità e necessità, tra temporale ed eterno. La dialettica della disperazione323, che nasce dal cedimento di uno dei due pilastri strutturali determinanti la 321
P. RICOEUR, Kierkegaard, cit., 23. E. PACI, Kierkegaard e Thomas Mann, in Relazioni e significati, cit., 64. 323 Per un’analisi critica della fenomenologia della disperazione, cfr A. HANNAY, Kierkegaard and variety of despair, in The Cambridge Companion to Kierkegaard, cit., 329348. 322
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tensione, rappresenta pertanto la ferma e critica posizione kierkegaardiana contro un sistema che pretendeva di annullare la distanza nel risvolto di una felice sintesi. L’io resta sempre lacerato, diviso in se stesso per la contraddittorietà ineliminabile di finito e infinito in cui si trova ad esistere e il demoniaco, che «ha un’estensione molto più vasta di quel che comunemente si crede»324, ne è la prova: esso è la rottura dell’equilibrio che costituisce la libertà, è il dramma dell’io che non diventa se stesso, è la «possibilità sempre annullata»325 contro cui l’io infinitamente lotta.
2.1. La disperazione a partire dagli elementi della sintesi «L’io è la sintesi cosciente dell’infinito e del finito, che si mette in rapporto con se stessa, il cui compito è divenire se stessa, compito che non si può risolvere se non mediante un rapporto con Dio. Ma diventare se stesso vuol dire farsi concreto. Farsi concreto, poi, non è né diventare finito né diventare infinito, perché ciò che deve farsi concreto è una sintesi. Lo sviluppo, dunque, deve consistere nello staccarsi infinitamente da se stesso, rendendo infinito l’io e nel ritornare infinitamente a se stesso, rendendolo finito. Se invece l’io non diventa se stesso è disperato, sia che lo sappia o no»326.
Come l’uomo de Il concetto dell’angoscia preso dalla vertigine deve guardare dentro all’abisso sul quale è sospeso, così l’uomo de La malattia mortale deve guardare al doppio abisso del finito e dell’infinito per diventare se stesso: «si tratta di un “dover guardare” nel senso di un destino essenziale, costitutivo, ma si tratta anche di una destinazione per l’autentico esistere dell’uomo e in questo senso di un imperativo morale»327. L’io ha il compito morale di farsi concreto non rimanendo prigioniero del fascino che i singoli elementi eterogenei esercitano su di lui, ma ritornando alla concretezza della loro sintesi.
324 325 326 327
BA, 432. SD, 14. SD, 32. V. MELCHIORRE, Saggi, cit., 166.
121
2.1.1. L’uomo dell’ebbrezza Ogni forma di disperazione può essere determinata non direttamente ma solo a partire dal suo opposto dialettico. Per questo la prima delle sue forme è la disperazione dell’infinito come mancanza del finito. Questa prima forma di disperazione è la fuga verso l’infinito senza la capacità di far ritorno all’io. Il carro alato utilizzato dall’io per perdersi nell’infinito, incapace poi di ricordare la via del ritorno verso la finitezza del sé, prende il nome di fantasia e tale volo disperato è detto del fantastico: «il fantastico è ciò che porta l’uomo verso l’infinito in modo che, non facendo altro che allontanarlo da se stesso, lo trattiene dal ritornare a sé»328.
La fantasia è la facoltà dell’infinito ma utilizzata nella prospettiva di perdere se stesso allontanandosi infinitamente da sé. Ecco così la prima figura di uomo disperato: è l’uomo fantastico, l’uomo che si aliena, il poeta romantico. La polemica non troppo velata di Kierkegaard è nei confronti di Fichte che vedeva nella immaginazione produttiva il principio del non-Io e la fonte delle categorie dell’Io. Il rischio della fantasia è la temibile possibilità che questa si rifletta sulle facoltà dell’uomo tale da avere il modo fantastico del sentimento, il modo fantastico della conoscenza e il modo fantastico della volontà. Il sentimento fantastico è di chi coltiva una sentimentalità astratta che non sia rivolta concretamente ad alcuno: è l’uomo che corre dietro ai sentimenti perdendosi nell’infinito. È l’io che sfuma nell’amore dell’amore, nella passione della passione, nel desiderio del desiderio: si illude di diventare sempre più se stesso ma in realtà si perde nel niente del fumo che inconsistente sale verso l’astrattezza dell’umanità allontanandosi dalla concretezza dell’io. Lo stesso discorso vale per la conoscenza contaminata dalla fantasia: è la forma di un aumento delle conoscenze, di un potenziamento della consapevolezza ma senza una crescita dell’autocoscienza. La conoscenza per Kierkegaard cresce di pari grado all’autoconsapevolezza, ma se questo processo non avviene, se cioè la conoscenza aumenta a dismisura senza un reale ritorno all’io, essa si tramuta in dispersione mentale, «come si
328
122
SD, 33.
sprecavano uomini per costruire piramidi, e come, in quella musica russa di corni, si sprecavano gli uomini per una sola battuta»329. Riprendendo le pagine de Il concetto dell’angoscia potremmo definire questo fenomeno come la discrepanza tra una conoscenza sempre più approfondita della verità e una certezza interiore che s’impoverisce per il mancato ritorno del vero nell’io: «per chi ha osservato la generazione contemporanea, vorrebbe forse negare che la sproporzione nella sua vita e la ragione della sua angoscia e inquietudine non sta nel fatto che da una parte la verità aumenta di estensione, di mole e in parte cresce anche in chiarezza astratta, mentre d’altra parte la certezza diminuisce continuamente?»330.
Per ultimo viene esaminata la volontà fantastica nella quale «l’io egualmente sfuma sempre di più»331. È una volontà che non svolge la sua missione d’essere concreta e astratta contemporaneamente, d’essere più lontana da se stessa facendosi infinita nel momento della decisione e ugualmente più vicina a se stessa nell’esecuzione del proposito nel finito del tempo. L’alienazione della fantasia non permette al sentimento, all’intelligenza e alla volontà dell’io di penetrare sempre più a fondo in se stesso, nella certezza e serietà della propria interiorità, come unica apertura possibile verso il fondamento che l’ha posto. Un andare a Dio senza avere un io è sfumare in ebbrezza, è la disperazione del fantastico che significa smarrire se stessi, anche se è una perdita, quella dell’io, che ai più passa inosservata. «Se però un uomo è diventato fantastico in questo modo, e perciò disperato, egli, sebbene molto spesso il suo stato diventi manifesto, può pure passare la sua vita molto bene, essere in apparenza, un uomo occupato dalle cose temporale, può sposarsi, mettere al mondo bambini, essere onorato e stimato; e forse non si accorge nemmeno che, in un senso più profondo, non ha un io»332.
329 330 331 332
SD, 34. BA, 449s. SD, 34. SD, 35.
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2.1.2. L’uomo dei proverbi La prospettiva ora è dialetticamente rovesciata rispetto alla situazione precedente giacché «l’uno è insieme il suo contrario»333. Il contrario della fantasia dell’infinito è il recinto chiuso, la prigione, l’egoismo del finito. Il disperato del finito rimane assolutamente chiuso in se stesso senza immaginare la possibilità del trascendimento verso l’infinito. A questa forma di disperazione l’io giunge «rendendosi completamente finito, ed essendo diventato, invece di essere un io, un numero, un uomo di più, una ripetizione di più in quella monotonia eterna»334.
È un uomo evirato, una sottrazione di umanità, una copia sbiadita dell’originale, un uomo che ha paura degli altri, che ha smesso di credere in se stesso, un codardo che non osa essere se stesso preferendo mimetizzarsi nell’indistinta massa anonima, di scimmiottare tra la folla come un numero fra gli altri, dimentico «di cosa egli è in senso divino»335, confuso come un ciottolo, una moneta in corso nell’impersonale indifferenza, un uomo che parla il linguaggio spersonalizzato dei proverbi «i quali non sono che regole di accortezza»336. Il proverbio è la veste consunta di una cultura massificata, è la parola di una lingua prudente di luoghi comuni, è la notizia che non ha nulla da comunicare al singolo ma che vale per ogni tempo, per ogni luogo, per ogni uomo. Il proverbio esprime la volontà di rinunziare ad essere se stessi: è per sempre, per ovunque, per chiunque, praticamente per nessuno. Anche se di questa disperazione «il mondo non si accorge quasi per niente»337, per quest’uomo, malato di finito che codardamente ha rinunziato all’infinito, il giudizio di Kierkegaard giunge ancora inesorabilmente graffiante: «un uomo, se è disperato in questo modo, può per questo benissimo, in fondo, anzi tanto meglio, passare la sua vita nella temporalità, essere secondo l’apparenza un uomo, essere elogiato dagli altri, onorato e stimato, 333 334 335 336
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SD, 36. L.c. SD, 37. L.c.
occuparsi di tutti gli scopi temporali. Ciò che si chiama il mondo consiste tutto di tali uomini, i quali per così dire vendono la loro anima al mondo. Essi adoperano le loro facoltà, raccolgono denari, esercitano attività mondane, fanno calcoli prudenti e via dicendo, sono forse nominati nella storia, ma se stessi non sono, non hanno, in senso spirituale, nessun io per amore del quale possano arrischiare tutto, nessun io davanti a Dio, per quanto essi per il resto siano egoisti»338.
E nel già citato saggio L’equilibrio fra l’aspetto estetico ed etico nell’elaborazione della personalità che conclude il percorso di Enten-Eller, Kierkegaard mette in bocca proprio al giudice Wilhelm una delle critiche più aspre rivolta alla condizione esistenziale di quieta perdizione dell’Io nella molteplicità, di una finitezza colpevole senza appello di imbavagliare la coscienza in una generalità etica che si consuma nel silenzio dell’indifferenza dell’infinito e dell’eterno: «Ed è questo il triste osservando la vita degli esseri umani, che moltissimi trascorrano la loro vita in quieta perdizione; essi si vivon via, lungo l’arco che porta alla vecchiaia, non nel senso che il contenuto della loro vita non si dispieghi a poco a poco, e quindi sia posseduto in tale dispiegarsi, ma si vivono per così dire fuori da se stessi, spariscono come ombre, la loro anima immortale è trascinata lontano dal vento, ed essi non s’angosciano al problema della sua immortalità, perché sì, essi son già dissolti prima che muoiano»339.
2.1.3. L’uomo miraggio «L’io cataé duénamin è tanto possibile quanto necessario: è vero che è se stesso, ma deve pure diventare se stesso. In quanto è se stesso è necessario, in quanto deve diventare se stesso è una possibilità»340.
L’io è in equilibrio tra ciò che è e quanto è chiamato a diventare, cioè se stesso: necessitato ad essere se stesso nella possibilità di diventarlo. 337
L.c. SD, 38. 339 L’equilibrio fra l’aspetto estetico ed etico nell’elaborazione della personalità, in EE, V, 34. 340 SD, 39. 338
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Quando però l’io rimane incantato dalle fantasmagorie della possibilità, dall’aumento iperbolico di possibilità, ecco che si astrae restando prigioniero della fantasia e, mutandosi in miraggio, sceglie di vivere nell’oblio della terra della necessità verso cui far ritorno è il compito morale per diventare se stesso. Questa è la disperazione della possibilità come mancanza della necessità, di una necessità che non è da intendersi come della necessità ontologica, ma nel senso della perdita di un ancoraggio ad una datità esistenziale, per cui l’io «diventa una possibilità astratta, si dimena fino alla stanchezza nella possibilità, ma non si muove dal posto e non arriva in alcun posto, perché il posto è proprio il necessario, e diventare se stesso è, per l’appunto, un movimento sul posto»341.
La possibilità diventa per quest’uomo sempre più possibile perché in verità nulla diventa reale: «finalmente è come se tutto fosse possibile, ma questo è proprio il momento in cui l’abisso ha ingoiato l’io»342.
Difficile non ravvisare dietro a questa immagine di una voragine che fagocita l’uomo-miraggio, la figura del Don Giovanni che danza sull’abisso dell’istante nell’occasionalità di incontri finiti che mai gli consentiranno di raggiungere l’infinità possibile. «La vita di Don Giovanni non è disperazione, no, ma è tutta la potenza della sensualità che nasce in angoscia, e Don Giovanni stesso è quest’angoscia, ma quest’angoscia è proprio il demoniaco desiderio di vivere. Dopo che Mozart ha fatto così venire ad essere Don Giovanni, la vita di lui ci si svolge dinanzi nelle note danzanti dei violini, nelle quali, leggero e fugace, corre sull’abisso. Come quando si lancia una pietra in modo che tagli la superficie dell’acqua, ed essa per un certo tempo può saltarvi sopra leggermente, mentre, appena smette di saltare va a fondo all’istante, così egli danza sull’abisso, giubilante nel suo breve attimo»343.
341 342 343
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L.c. L.c. Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico, in EE, I, 206.
Don Giovanni resta impigliato in una pura possibilità che non esiste, come le note musicali, uniche in grado di rappresentare il vuoto su cui è sospeso, e che come la sua vita da esteta vivono solo il momento dell’esecuzione. «Braccato dal mondo intero, quel vittorioso Don Giovanni ora non ha altra dimora che una piccola stanza isolata. È su questo estremo vertice dell’altalena della vita che ancora una volta, in mancanza di allegra compagnia, egli eccita nel suo proprio petto tutto il desiderio di vivere. Se il Don Giovanni fosse un dramma, l’intima inquietudine della situazione esigerebbe che questa fosse il più breve possibile. Nell’opera è invece giusto che la situazione sia sostenuta, sia esaltata d’ogni possibile magnificenza, che solo suonerà ancor più selvaggia perché per gli ascoltatori echeggia nell’abisso su cui è sospeso Don Giovanni»344.
La vita di Don Giovanni è l’inconsistente suono che si disperde, è lo spumeggiare di bollicine, l’effluvio dello champagne, il niente del godimento, è l’eco di ricordi lontani. «L’essenza di Don Giovanni è musica. Innanzi a noi egli si dissolve, per così dire, in musica, sboccia a un mondo di note. Si è chiamato quest’aria l’“aria dello champagne”, e ciò è innegabilmente molto significativo, ma quel che importa in modo particolare vedere è che la cosa non è accidentale nei riguardi di Don Giovanni. Tale è la sua vita, spumeggiante come lo champagne. E come in quel vino, mentre frigge nell’intimo calore con la sonorità della melodia che gli è propria, le bollicine salgono e continuano a salire, così echeggia il desiderio del godimento nell’ebollizione d’elementi che è la sua vita»345.
Non è la realtà che manca a un disperato della possibilità come Don Giovanni, ma la necessità, perché «non è, come dichiarano i filosofi, che la necessità sia l’unità di possibilità e realtà; anzi, la realtà è l’unità di possibilità e necessità»346. 344 345 346
EE, I, 211. EE, I, 212. SD, 40.
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Intuizione pungente questa di Kierkegaard con la quale, criticando la posizione della filosofia hegeliana, afferma che la possibilità non necessita di realtà per divenire necessità, ma di necessità per convenire nella realtà sintetica dell’io. Secondo la pregnante metafora del danese, il disperato monco di necessità è l’io che fantasticamente s’è perduto nella sua immagine riflessa sullo specchio della possibilità, un io che «non vede se stesso, ma soltanto un altro uomo»347 perché non si accorge o rifiuta d’essere determinato, necessario: è un io che, sperduto nel niente di un miraggio, non diventa reale perché pensa di poter illusoriamente varcare i confini della sua necessità, ignaro che diventare se stessi sia «un movimento sul posto»348. Don Giovanni comprende il bene ma non lo vuole perché ha voglia di una diabolica felicità fatta di infiniti istanti che lo allontanino da sé; non vuole portare a termine il compito di diventare io perché ciò annichilirebbe la sua genialità sensuale. L’angoscia di Don Giovanni è il demoniaco desiderio di vita che vuol esistere senza sapere cosa in verità desidera e tale desiderio è angoscia perché insaziabilmente privo di oggettivazione alcuna. Don Giovanni così si perde, evapora e la modalità di tale smarrimento nel vuoto abisso della possibilità è descritto da Kierkegaard sostanzialmente, oltre alla modalità del desiderio, nella forma malinconico-fantastica349. «Così si presenta la possibilità del desiderio. Invece di far ritornare la possibilità nella necessità, l’uomo corre dietro la possibilità; e finalmente non trova più la strada per tornare a se stesso. Nella forma malinconica avviene il contrario, nello stesso modo. L’individuo insegue con amore malinconico la possibilità di un’angoscia che finalmente lo porta via da se stesso, cosicché egli perisce nell’angoscia o in ciò in cui si angosciava di perire»350.
2.1.4. L’uomo delle consonanti Smarrirsi nella possibilità è vivere nel suono continuo e ridente delle vocali vuote di senso perché prive del limite imposto loro dalle consonanti, 347
L.c. SD, 39. 349 Per un approfondimento sulla figura di Don Giovanni, cfr E. PACI, Relazioni e significati, cit., 27-45; A.G. QUINZIO, L’estetico in Kierkegaard, Napoli 1992, 129ss; U. CURI, Filosofia del don Giovanni. Alle origini di un mito moderno, Milano 2002, 214-217. 350 SD, 41. 348
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necessarie per divenire parole che abbiano significato compiuto; l’essere incatenati alla grettezza muta delle consonanti amputate della fantasia delle vocali è invece la disperazione della necessità che è l’esatto contrario della prima forma ma che conduce al medesimo risultato: l’io non diventa realtà, non diviene se stesso. Anche in questo caso sono due le figure che esemplificano la disperazione della necessità: «mancare di possibilità significa o che per un uomo tutto è diventato necessario, o che tutto è diventato trivialità»351.
Il determinista è colui che pensa che tutto sia necessario: è l’uomo fatalista, l’uomo che accetta passivamente il corso degli eventi come un’assoluta necessità. Il fatalista è disperato perché è proprio la sua necessità a soffocarlo implacabilmente facendogli perdere il respiro Dio, a cui tutto è possibile, e di conseguenza il suo io. Il fatalista è impossibilitato a pregare perché «il suo Dio è necessità»352 e il respiro della preghiera non è solo l’azoto della necessità ma anche l’ossigeno della possibilità; è l’uomo muto disarmato davanti all’inevitabile volontà di Dio che in lui coincide con la necessità. Il fatalismo è così la disperazione spirituale di chi ha abbastanza fantasia per negare persino la possibilità che esista una possibilità di salvezza. Il filisteismo di contro è mancanza di spiritualità: è un atteggiamento debole, di indifferenza di fronte alla possibilità. Il filisteo è l’uomo che ha ridotto la possibilità a un semplice calcolo delle probabilità. «Il filisteismo crede di disporre della possibilità, di averla allettata, immensamente elastica com’è, nella trappola o nel manicomio del probabile, crede di tenerla prigioniera; porta in giro la possibilità rinchiusa nella gabbia della probabilità, la mette in mostra, illude se stesso di esserne padrone e non si accorge che proprio con ciò è caduto nella propria trappola, per essere il servo della mancanza di spiritualità»353.
L’uomo triviale manca di spiritualità: è l’uomo che si nasconde dietro un bieco determinismo pur di non aprirsi alla possibilità che esista 351 352 353
SD, 44. SD, 45. SD, 46.
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ancora una possibilità: è il sartriano «uomo in malafede» che inventa un determinismo per dissimulare «la totale libertà dell’impegno», per evitare l’assunzione del proprio vero io354. Al fatalista e al triviale si contrappone l’uomo di fede, il quale crede nella possibilità, si abbandona nelle braccia di un Dio al quale «nulla è impossibile»355 e se a Lui tutto è possibile, è possibile anche che salvi l’uomo dalla disperazione. Al disperato di necessità manca la fede che lotta «follemente per la possibilità»356, unica medicina che sia in grado di salvarlo dalla sua malattia.
2.2. La disperazione sotto la determinazione della consapevolezza Avevamo già visto nella prima parte come la consapevolezza di se stesso fosse il criterio decisivo per l’io: l’elevazione a potenza dell’io si ha nella coscienza che l’io ha di se stesso e tale consapevolezza accresce la volontà, il potere di scelta dell’io. Ma il grado di consapevolezza corrisponde anche al grado di disperazione: «più consapevolezza, più disperazione»357: quanto più l’io è consapevole d’essere un io e di esserlo davanti al fondamento che l’ha posto, tanto più intensa sarà la sua disperazione, per cui si passerà dal grado più basso dell’innocenza a quello più alto del demoniaco. La tonalità cresce da un minimo di chiarezza a un massimo di trasparenza, per cui nello stato di innocenza si vive ancora avvolti nell’oscurità di un’opaca ignoranza della disperazione, nella condizione del demoniaco invece «non c’è nessuna oscurità che potrebbe servire come attenuante»358. Nel primo la disperazione è inconsapevolmente ridotta al minimo, nella seconda la disperazione è ostinatamente assoluta. La disperazione che ignora si presenta nella forma dell’inconsapevolezza dell’io come custodia dell’eterno; la disperazione consapevole invece è caratterizzata dall’ottusa volontà di rimanere nella disperazione attraverso una libera scelta di rifiuto. 354 Cfr J.-P. SARTRE, L’existentialisme est un humanisme, Parigi 1946. Trad. it.: L’esistenzialismo è un umanesimo, a cura di G. Mursia Re, Milano, sine anno, 75s. 355 Lc 1,37. 356 SD, 43. 357 SD, 47. 358 L.c.
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2.2.1. L’uomo della cantina Il disperato che ignora d’essere disperato e di essere abitato dall’eterno, è l’uomo che vive nello spazio dell’immediatezza estetica, che giudica secondo le categorie di piacevole e spiacevole, che non ha il coraggio di osare e di sopportare il peso eterno dell’essere spirito. È l’uomo che vive in cantina: «ogni uomo è una sintesi di corpo e anima destinata ad essere spirito, cioè ad abitare nella casa; ma l’uomo preferisce stare in cantina, cioè nella determinazione della sensualità. E non solo preferisce stare in cantina, ma l’ama a tal punto da arrabbiarsi se qualcuno gli propone di occupare il piano di sopra che è vuoto e a sua disposizione perché la casa in cui abita è sua»359.
In una situazione triste e ridicola ma anche spaventosamente vera e inaccettabilmente reale, l’uomo chiuso nella buia cantina della sensualità non considera neanche l’eventualità d’aver torto, non teme, «in un atteggiamento per niente socratico»360, d’essere caduto in errore dimenticando l’intera casa rimasta deserta, come quel pensatore che non si preoccupa di vivere all’interno del sistema che sta costruendo ma che, con fare asettico, abita «in un granaio accanto, o in un canile, o tutt’al più in portineria»361. Smarrito in quanto disperato, il fatto d’ignorarlo nulla toglie alla sua disperazione, semmai costituisce un ulteriore errore, come l’ignoranza di fronte all’angoscia che Kierkegaard esplicitamente ricorda menzionando l’opera di Vigilius Haufniensis: «l’ignoranza di fronte alla disperazione è come l’ignoranza di fronte all’angoscia; l’angoscia della mancanza di spirito si riconosce proprio dalla sicurezza priva di spirito. Ma nondimeno l’angoscia c’è nella profondità, e così c’è la disperazione; e quando cessa l’incanto ingannevole dei sensi, quando l’esistenza comincia a vacillare, si affaccia subito anche la disperazione come quella che era nella profondità»362.
359 360 361 362
SD, 48. L.c. SD, 49. L.c.
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È questo il preciso punto de La malattia mortale dove avviene il confronto tra la “disperazione” di Anti-Climacus e l’“angoscia” di Vigilius Haufniensis363: l’angoscia per la mancanza di spiritualità si ripresenta ora come la disperazione inconsapevole giacente nella profondità dell’io. Ne Il concetto dell’angoscia malgrado la mancanza di spirito avvolga tutto nel suo abbraccio impotente364, essa tuttavia resta una mancanza incapace di escludere l’angoscia che, affatto assente, nascosta e camuffata attende come un creditore fa col suo debitore. L’angoscia è sempre il sentimento che sgorga di fronte all’infinito abissale e ignoto come davanti alla possibilità pura e indeterminata di potere che a priori delinea l’io il quale, invece, volendo essere se stesso, si pretende di costituire e possedere. Ecco la relazione tra l’angoscia e la disperazione: la disperazione è l’angoscia qualificata e tradita posta in uno stato di indeterminatezza in quanto l’io sceglie di essere se stesso non trasparentemente nel fondamento che l’ha posto, ma in sé stesso, scegliendo inevitabilmente di non esser più l’io che voleva. Così l’infinito desiderio di possibilità che spinge l’io verso la consapevolezza della propria malattia mortale e dunque verso una prossima e certa guarigione, al contempo lo blocca perché emerge dal profondo di una ritrovata frontiera dell’angoscia che gli fa credere di trovarsi nel principio. La consapevolezza del proprio essere disperato, come leggeremo in seguito, pone l’io a un passo dalla salvezza ma se non è in grado di compiere quella distanza di abissale vicinanza è perché la consapevolezza accresce anche il potere decisionale dell’io che disperatamente ora pretende di possedersi e fondarsi. L’essere disperato è una negazione, è la mancanza di spirito e la non consapevolezza della disperazione è una negazione della negazione, non aver altrimenti coscienza di sé come spirito, del proprio io come sintesi posta dall’eterno. Qui Kierkegaard opera una distinzione perché dal punto di vista dialettico il più disperato è colui che ignora di esserlo ma eticamente lo è chi, pur essendone consapevole, decide di rimanere nella disperazione. 363 Per il rapporto tra la “disperazione” de La malattia mortale e l’“angoscia” de Il concetto dell’angoscia, cfr T.W. ADORNO, Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, trad. it. a cura di A. Burger Cori, Milano 1962, 75-125; P. RICOEUR, Kierkegaard, cit., 9-34; T. DI STEFANO, Soren Kierkegaard, cit., 58-81; M. IIRITANO, Disperazione e fede in Søren Kierkegaard. Una “lotta di confine“, Soveria Mannelli 1999, 74-94. 364 Cfr BA, 404.
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Ignorare la disperazione è la forma più diffusa e il viverla è prerogativa del paganesimo, di quello storico e di quello ancora esistente all’interno del cristianesimo: il paganesimo, con una lapidaria definizione, «è disperazione, ma non ne sa niente»365. Il metro di giudizio per stabilire cosa sia disperazione o meno non può essere un criterio estetico di assenza dello spirito ma una determinazione etico-religiosa, tale per cui disperato diventa colui che ignora d’essere spirito davanti a Dio. La differenza nasce però all’interno della relazione con lo spirito perché il paganesimo puro pur essendo rivolto verso lo spirito è inconsapevolezza d’essere spirito, mentre il paganesimo vissuto all’interno del cristianesimo è antispiritualità, è rifiuto dello spirito. Questa è già un’intensificazione della disperazione che introduce le figure inerenti alla consapevolezza d’essere disperati.
2.2.2. La debolezza del femminile e l’ostinazione del virile Le figure appartenenti alla seconda modalità di una consapevole disperazione oscillano tra la volontà e la non volontà d’essere se stessi. Kierkegaard distingue anzitutto tra lo stato di colui che dice di essere disperato e la consapevolezza interiore di cosa sia realmente per lui disperazione perché non sempre le due cose scivolano sullo stesso binario: uno può certamente aver consapevolezza d’essere disperato ma contemporaneamente ignorare quale sia il chiaro significato della parola disperazione. «Di solito lo stato del disperato è una specie di penombra, però con varie sfumature intorno al proprio stato. Fino a un certo punto, egli sa bene, davanti a se stesso, di essere disperato; se ne accorge in se stesso, come uno si accorge in se stesso che gli cova nel corpo una malattia; ma non vuole proprio ammettere qual è la malattia»366.
Al disperato si richiede una chiarezza per capire di trovarsi in una zona di penombra: è questo lo stato del disperato, un clima che si manifesta in giudizi inesatti da parte di colui che si illude di conoscere il proprio stato
365 366
SD, 50. SD, 54.
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di disperato, uno stato che in verità non può essere da lui visto dal momento che la sua vita è condotta nella semioscurità. Il punto di partenza è che alla disperazione occorre, per essere consapevole, l’idea della disperazione: deve essere chiaro al disperato che il suo vivere in penombra è motivato dalla sua disperazione e non da altre cause a lui esterne. Dal momento che la disperazione diventa consapevole d’essere tale, allora questo spinge la disperazione ad elevarsi sempre più in quanto a potenza, come l’uomo che commettendo un suicidio sapendo che l’atto è disperazione raggiunge un’intensità di gran lunga maggiore rispetto a chi, come il pagano, si toglie la vita ignorando che l’uccidersi sia disperazione. Da qui si scatena ancora una volta l’abilità dialettica del danese, perché nuovamente due sono le figure di disperazione che nascono dalla consapevolezza: la disperazione di non volere essere se stessi, che è la debolezza della femminilità e la disperazione di voler essere se stessi, cioè l’ostinazione della virilità. È interessante subito notare la sottolineatura di Kierkegaard sul fatto che i contrasti tra le due forme siano soltanto relativi perché ogni disperazione, anche quella della debolezza, ha un principio di ostinazione come d’altra parte voler ostinatamente resistere nella volontà d’essere se stessi è indice di debolezza. Debolezza e ostinazione si implicano a vicenda, sono i sintomi femminili e maschili della medesima malattia della disperazione, tanto che si potrebbe parlare di un’ostinata debolezza e di una debole ostinazione della disperazione. La disperazione della debolezza si presenta secondo due modalità: la disperazione per il terrestre e la disperazione dell’eterno.
2.2.2.1. L’uomo della «porta finta» La parola d’ordine per questa forma di disperazione è immediatezza, l’estemporaneità per una disperazione subita. «Qui non c’è alcuna consapevolezza infinita del proprio io, di ciò che è disperazione o del proprio stato di disperazione; la disperazione non è altro che patire, soccombere sotto la pressione esteriore, e non proviene in nessun modo dall’interno, in forma di azione»367. 367
134
SD, 56.
«A quest’io immediato, capita, accade (cade su di lui) qualche cosa che lo porta alla disperazione; in un altro modo non ci può arrivare perché non ha in sé alcuna riflessione; quindi, ciò che lo porta alla disperazione deve venire da fuori, e la disperazione è meramente un patire»368.
L’uomo immediato, che vive all’interno del cerchio del tempo illudendo che in esso ci sia qualcosa d’eterno, si caratterizza per la passività, in riferimento a sé e al mondo: è una disperazione subìta la sua, capitata, accaduta nel “si” impersonale. Disperarsi è perdere l’eterno ma ciò che lui chiama disperazione è solo la mancanza di ripetizione dell’immediatezza. È vero che è un uomo disperato ma non per la motivazione che lui ne dà: ha indovinato il suo stato ma non il significato che vi sta dietro la parola disperazione. Le espressioni utilizzate da Kierkegaard per descrivere lo stato di quest’uomo sono di una splendida drammaticità: «Ciò che egli dice è, in un certo senso, vero; solo che non è vero in quel modo in cui l’intende lui. La sua posizione è inversa, e ciò che egli dice va inteso all’inverso: lo si vede stare lì e indicare ciò che non è disperazione, dichiarando di essere disperato, e intanto effettivamente la disperazione gli si avvicina da dietro, a sua insaputa. È come se uno, volgendo le spalle al municipio, stendesse la mano in avanti dicendo: ecco il municipio. L’uomo ha ragione: eccolo qua, quando si volta indietro. Egli non è disperato, non è vero che lo sia; eppure ha ragione quando lo dice»369.
Un uomo consapevole dunque di essere disperato ma per la motivazione sbagliata, tanto che non appena gli eventi al di fuori di lui cambiano realizzando in tal modo i suoi desideri e rianimando la sua immediatezza, egli comicamente crede d’esser guarito del tutto dalla disperazione, inconsapevole stavolta che il suo nuovo stato sia proprio la disperazione, inconcludente per non aver portato a termine il compito assegnatogli di diventare un io. «Questa forma di disperazione è: disperatamente non voler essere se stesso, o, in una forma più bassa, disperatamente non voler essere un io, o nella forma più bassa di tutte: disperatamente voler essere un altro, diverso da se stesso, augurarsi un nuovo io»370. 368 369 370
SD, 57. SD, 59. SD, 60.
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Suscita ilarità un siffatto uomo che quando si dispera non è sufficientemente io per essere in grado di desiderare di diventare l’io che non è ancora diventato e allora pensa bene di desiderare di essere un altro, con la stessa ridicola facilità con la quale pensa di poter cambiare un vestito. Egli conosce le esigenze del suo io dall’esterno come conosce un vestito: il suo io intercambiabile e non indispensabile all’esistenza proprio come un vestito, soggetto a possibili sostituzioni secondo le precarie leggi della moda. Questa è la situazione dell’io che raggiunge un grado di consapevolezza tale per cui si rende conto d’essere un io che vive nell’immediatezza, ma che dall’altro è mancante di una riflessione interiore sull’io che gli consentirebbe di intuire che la disperazione non accade ma è azione, attività dell’io. Con una salutare riflessione interiore l’io si accorgerebbe di essere se stesso, diverso dal mondo esteriore, comprenderebbe, anche se in modo oscuro, che nel suo io dimora qualcosa di eterno, ma non avrebbe ancora acquisito una riflessione etica tale per cui spiegare le vele della scelta verso una rottura totale con l’immediatezza esteriore. «Non ha consapevolezza alcuna di un io che si conquista mediante l’infinita astrazione da tutte le cose esteriori, di quell’io che, in contrasto all’io vestito dell’immediatezza, è nudo e astratto, la prima forma dell’io infinito è la forza motrice in tutto quel processo in cui un io si identifica illimitatamente col suo io reale, accettandone tutte le difficoltà e tutti i vantaggi»371.
L’io non intende piegarsi sotto i colpi della necessità della realtà, cadendo così nella disperazione e temendo di diventare quell’io che ha imparato a conoscere ma, tralasciando la ridicola idea di voler essere un altro, vuole ugualmente mantenere il rapporto con l’io iniziato con la riflessione, aspettando semplicemente che la disperazione passi. Sarà però un’attesa vana priva di compimento. «Gli succede ciò che può accadere a un uomo riguardo alla sua casa: gli diventa schifosa perché è piena di fumo, o perde la forza di attrattiva per una ragione qualunque; allora egli esce, ma non lascia la casa definitivamente, non va a prenderne in affitto una nuova, ma considera sempre come casa sua la vecchia, sperando che quell’inconveniente passi»372. 371 372
136
SD, 62. SD, 63.
Il giudizio finale di Kierkegaard giunge ancora una volta lapidario: il disperato dell’immediatezza segregato nell’illusione di una spensierata speranza o di un nostalgico ricordo, sarà sempre un ospite di se stesso, il suo io resterà quella porta finta dietro alla quale non riesce a vedere la presenza del Nulla373.
2.2.2.2. L’uomo della «porta reale» Mentre la disperazione precedente è per ciò che determina la disperazione, per il terrestre appunto, qui la disperazione è di ciò che potrebbe liberare dalla disperazione, dell’eterno, della salvezza, della forza. Ad accomunare le due forme è l’io, che rimane dialettico, riguardo al quale si dice infatti che ci si dispera per e di se stessi. La disperazione del terrestre è mancanza dell’eterno, la disperazione dell’eterno è mancanza del terrestre; lì la disperazione era della propria debolezza, qui la disperazione è per la propria debolezza, intendendo con questo una nuova consapevolezza che ha per oggetto la propria debolezza, per cui il disperato che comprende che disperarsi per il terrestre è debolezza «invece di volgere decisamente le spalle alla disperazione per andare verso la fede, umiliandosi davanti a Dio sotto la propria debolezza, egli si sprofonda nella disperazione e si dispera per la propria debolezza»374.
Quest’uomo non è attratto dalle banalità comuni e tuttavia si dispera per essere stato così debole da attribuire alle cose del mondo tanta importanza: così la disperazione si eleva a potenza, perché egli si dispera ora di aver «perduto l’eterno e se stesso»375. Da un lato si rivela in questa la positività di tale figura giacché ci si può disperare dell’eterno solo nella consapevolezza di avere un io e che questo io sia abitato da qualcosa di 373 Ci sembra più letterale la traduzione che Massimo Iiritano da al passo blind Dør indenfor den er der Ingenting reso con: «la porta cieca dietro alla quale c’è il Nulla». Per Iiritano il niente e il nulla erroneamente intesi come assenza e negazione nelle traduzioni italiane di Corssen e Fabro, sono nella versione originale di Kierkegaard drammaticamente incisi nel Nulla affermato come presenza e realtà. (Cfr M. IIRITANO, Disperazione e fede in Søren Kierkegaard, cit., nota 67, 100s). 374 SD, 70. 375 L.c.
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eterno. Tuttavia egli non volge i propri passi verso l’eterno ma sceglie di chiudersi in sé disperandosi proprio per se stesso: anche se resta sempre confinata nella passività a motivo della debolezza, qui la disperazione è un’attività contro il proprio io e non un patire per l’azione di qualcosa proveniente dall’esterno come per la prima forma di quest’unica disperazione della femminilità. «Disperatamente non voler essere se stesso. Come un padre che disereda un figlio, l’io non vuole riconoscere se stesso dopo essere stato così debole. Disperato, non può dimenticare quella debolezza; odia in un certo modo se stesso, non vuole, credendo, umiliarsi sotto la sua debolezza per riconquistare così se stesso, non vuole saper dire niente di se stesso»376.
Ma l’io non può liberarsi di se stesso, non può liberarsi dell’eterno verso cui è disperato, così come il padre non può pensare di liberarsi del figlio solo con un gesto esteriore di ripudio, né l’amante scacciare l’odiata amata con un doloroso diniego: il legame crescerebbe ancor di più. Il disperato allora non può far altro che tacere: mentre precedentemente il disperato giungeva alla porta finta dell’immediatezza, ora l’io, accovacciato dietro a una porta reale accuratamente sigillata, trascorre il suo silenzioso tempo nel tentativo schizofrenico di non volere essere se stesso da un lato ma sufficientemente consapevole d’essere io da amare se stesso. Il cammino della disperazione si è approfondito nella consapevolezza di sé giungendo ora al confine con l’ultima figura di disperato, che ostinatamente vuole essere se stesso: qui però l’io è ancora troppo debole per voler fino in fondo essere se stesso e preferisce rimanere braccato nel suo silenzio. La scissione tra l’esterno e l’interno è tra le più nette: nel suo aspetto esteriore «è perfettamente un uomo vero e proprio»377, cordiale, affabile, gentile nei modi, uomo del dovere, preoccupato per le sorti della sua famiglia, cristiano ma badando di non parlarne troppo, eppure dentro di sé è schiacciato sotto il peso del «segreto del suo io»378. Un uomo nostalgicamente solitario, moralmente ineccepibile, “colpevolmente” silenzioso, che evita volentieri le chiacchiere vuote che riempiono il tempo degli uomini mentre per lui il desiderio di solitudine diventa una vitale necessità che 376 377 378
138
SD, 71. SD, 73. SD, 72.
svela la profondità del suo essere eterno. Ma quest’uomo disperato rimane comunque sotto scacco dal suo io e per tal motivo rimane disperato: per ore si relaziona al suo io nel gioco serio di un rapporto che rivela qualcosa di eterno, ma «in fondo non va mai avanti»379. La strada da lui intrapresa è quella giusta perché «si deve passare attraverso la disperazione dell’io per giungere all’io»380, ma sosta troppo a lungo nel tratto della sua debolezza rimanendone immancabilmente schiacciato e di questo si dispera. Il pericolo più grande per quest’uomo è il suicidio: è il guadagno di sé come incapacità di guadagnare il fondamento del proprio sé. Il suicidio è una soluzione per smorzare la forza della sua debolezza, del resto parzialmente evitabile qualora spalancasse le porte della sua taciturnità ad un confidente; parzialmente, perché proprio dopo aver rivelato il suo intimo segreto potrebbe decidere di uccidersi o di uccidere, come nel caso di un tiranno demoniaco, il suo confidente. «Sarebbe un bel compito per un poeta far vedere come la contraddizione tormentosa nell’io di un demoniaco di non poter fare a meno di un confidente, e di non poter neanche avere un confidente, si risolve in questo modo»381.
Le vie possibili per uscire da questo stato di debolezza sono due: il proiettarsi verso l’esterno ritornando all’immediatezza della sensualità o l’elevarsi nella disperazione verso il più alto grado dell’ostinazione.
2.2.2.3. L’uomo prometeico La disperazione della virilità non accade dall’esterno, non è un patire sotto la pressione dell’esteriorità, ma è un’azione che viene direttamente dall’io, è una nuova qualificazione della disperazione sotto la determinazione dello spirito: è l’ostinazione di fronte alla disperazione della propria debolezza.
379 380 381
SD, 74. L.c. SD, 76.
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«È disperazione in virtù dell’eterno, l’abuso disperato dell’eterno che è nell’io per voler essere disperatamente se stesso»382.
Per la ragione che è tale in virtù dell’eterno, questa forma di disperazione è più vicina alla verità perché sembra aver raggiunto l’oggetto della ricerca, l’eterno appunto; d’altro canto ne è più lontana perché l’io si pone come creatore di se stesso, sradicandosi da ciò che lo costituisce: per essere se stesso non vuol perdere se stesso in ragione dell’eterno, ma vuole disperatamente essere se stesso negando il fondamento che l’ha posto. Voler essere se stessi implica la coscienza di un io infinito, ma questo io infinito è solo «la possibilità più astratta dell’io»383, dal momento che l’io è sintesi di finito e infinito e il finito rivela la concretezza della sua necessità creaturale. L’uomo è condannato alla disperazione perché desidera essere un io astratto, infinito, strappando via da sé i limiti della propria realtà finita e svestendosi di ogni carattere di concretezza. In un proibitivo sforzo prometeico di autofondazione e di assolutizzazione di se stesso finisce col negare il rapporto con il fondamento, con l’Assoluto e non realizzando in tal modo se stesso cade rovinosamente in uno stato di disperazione. Quest’io che attivamente nega Dio è il medesimo io che ostinatamente rifiuta se stesso come corporeità, finitezza, necessità, temporalità. Per mezzo dell’io infinito che nega un io finito, l’uomo pretende di svincolarsi dal rapporto con la potenza che l’ha posto. «Per mezzo di questa forma infinita l’io vuole disperatamente disporre di se stesso, o creare se stesso, fare del suo io quell’io che l’uomo vuol essere, decidere che cosa vuol essere nel suo io concreto e che cosa no»384.
È l’uomo che nel principio nega il suo principio, un io che non è col principio ma nel principio, un io che vuole se stesso, che vuole porre se stesso, un io autocreantesi che «vuole disperatamente godersi la soddisfazione di farsi se stesso»385, un io prometeico che manca di serietà, un io ipotetico che è immagine di se stesso, un io che negando la relazione col fondamento perde se stesso perché non riconosce d’essere sintesi posta da 382 383 384 385
140
SD, 77. SD, 78. L.c. SD, 80.
un altro, che volendo disperatamente essere se stesso finisce in realtà per diventare nessun io, un io la cui volontà è un arbitrio, una cattiva volontà. Quest’io è «un re senza regno»386, un sovrano che effettua il passaggio dall’essere al nulla, riuscendo così a fare qualcosa di esattamente inverso a Dio il quale crea l’essere “ex-nihilo”: è l’io che regna sul nulla! È un re che in verità governa da un castello costruito per aria su un regno di favole, che decide di combattere contro gli ostili mulini a vento: un io imperturbabile di una tale atarassia il cui risultato finale è un enigma su che cosa egli intenda per se stesso. Siamo giunti alla forma più potenziata di disperazione, alla sua massima intensità: il demoniaco, ovvero la consapevolezza maggiore di sé, la volontà consapevole di affermare sé stesso, l’opposizione voluta al fondamento, la negazione assoluta dell’Assoluto. «Quando (il disperato) si è accertato che quello stecco nella carne è penetrato così profondamente che egli non può più farne astrazione, lo vuole quasi accettare per l’eternità. Se ne scandalizza oppure, a dirla più esattamente, ne prende occasione per scandalizzarsi di tutta l’esistenza; così egli vuol essere se stesso per dispetto, non vuole essere se stesso a dispetto di quel male senza quello stecco; no, egli vuole, a dispetto di tutta l’esistenza, essere se stesso con quel male, portarlo con sé, andando quasi fiero del suo tormento. Perché sperare nella possibilità di un aiuto, specialmente in virtù del pensiero assurdo che per Dio tutto è possibile: no, questo non lo vuole. E cercare aiuto presso un altro: no, non lo vuole per tutto l’oro del mondo; egli, piuttosto che chiedere aiuto, preferirebbe, se dovesse essere così, essere se stesso con tutti i tormenti dell’inferno»387.
Superbo non vuole umiliarsi nel domandare aiuto rinunziando in tal modo ad essere se stesso, per ostinazione non vuole essere consolato perché questo significherebbe credere nella possibilità di una salvezza, implicherebbe una relazione con Colui al quale nulla è impossibile, stabilirebbe la sua condizione di nulla di Assoluto davanti al Nulla di relativo. Il demoniaco disperatamente chiuso nel tugurio del proprio io taciturno, vuole essere se stesso in quel tormento che è diventata la sua frenesiaca passione a testimonianza contro l’esistenza:
386 387
SD, 79. SD, 81s.
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«l’essenziale per lui è badare di aver sempre a portata da mano il suo tormento, l’essenziale è che nessuno glielo tolga: perché altrimenti non può dimostrare né convincere se stesso di aver ragione»388.
La stabilità del tormento è l’inconfutabile prova che il demoniaco cerca contro l’idea che a Dio tutto sia possibile, per cui non vuole essere liberato da quel pungolo che esiste per lui come segno contro l’eterna possibilità di Dio, non vuole essere confortato in quella miseria perché la consolazione sarebbe la distruzione di se come demoniaco, come un errore verrebbe annientato se fosse corretto dal suo scrittore. «È come se a uno scrittore fosse sfuggito un errore e poi egli se ne accorgesse […]; è come se ora questo errore si ribellasse contro l’autore e per odio contro di lui gli impedisse di rettificarlo, dicendogli con ostinazione pazza: no, non voglio essere cancellato, voglio restare, come testimonio contro di te, come testimonio che tu sei uno scrittore mediocre»389.
Più la disperazione accresce e più l’interiorità si fa profonda diventando impazzita in un mondo chiuso in sé, contro l’assenza di questa nelle prime forme e inversamente l’esteriorità diventa sempre più insignificante, priva di interesse, silenziosa, indifferente contro il suono, le chiacchiere, l’eccentricità dei gesti delle prime figure della disperazione.
388 389
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SD, 83. SD, 85.
CAPITOLO IV L’ANGOSCIA DELL’INNOCENTE: «LA COSCIENZA DELL’ETERNITÀ»
«Ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine» (Qo 3,11) «C’è da aspettare molto per arrivare a vedere degli individui i quali, malgrado il loro talento, scelgono non la via larga, ma il dolore e la miseria e l’angoscia per concentrarsi nella riflessione religiosa fino a estenuarsi, rinunciando per questo tempo a ciò che invita fin troppo a impossessarsene. Una tale lotta presenta senza dubbio molto sforzo e fatica, poiché verranno dei momenti in cui l’individuo per poco si pentirà di averla incominciata e penserà con malinconia, anzi talvolta quasi con disperazione, alla vita sorridente che si sarebbe aperta davanti a lui se avesse seguito l’impulso immediato del talento. Eppure, nell’estremo orrore della miseria quando tutto sembra perduto — perché la via nella quale egli voleva andare avanti è impraticabile e la via ridente del talento è invece aperta da lui stesso — ecco ch’egli sente una voce che gli dirà: “Coraggio, figlio mio! va’ pure avanti, perché chi perde tutto vince tutto”»390.
Kierkegaard pennella con l’audacia e l’entusiasmo della sua scrittura la genialità dell’uomo religioso il cui sguardo non è rivolto al mondo esterno dell’istantaneità ma indirizzato all’interno di un io avvolto da un vortice riflessivo. Per questa scelta l’uomo si trova costretto ad affrontare una dura lotta a causa del restringersi della via larga dell’estetica verso la cruna dell’ago della fede per la quale varcare comporta una sofferenza al limite del pentimento, della malinconia, della disperazione per non aver optato per la ridente via lastricata da impulsi immediati di talento: ma la muta sofferenza per la perdita dell’immediatezza estetica nasconde in sé il grido consolante per la vittoria della fede.
390
BA, 416.
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Nel capitolo precedente abbiamo raccontato di come l’io, consapevole di essere una sintesi, cada nella disperazione quando, rimasto prigioniero dei recinti del finito e della necessità, non trovi una via per rapportarsi all’infinito e alla possibilità o nel momento in cui infinitizzandosi e perdendosi nel miraggio della possibilità non sia più in grado di far ritorno alla concreta finitezza e alla determinata necessità della sua realtà creaturale. Compito dell’io è diventare se stesso: l’Io può portare a termine tale dovere solamente con lo «staccarsi infinitamente da se stesso, rendendo infinito l’io e nel ritornare infinitamente a se stesso, rendendolo finito»391. Questa è la missione riuscita all’uomo religioso che sceglie di diventare se stesso non dissolvendosi nelle bagattelle della temporalità ma radicandosi nell’eternità dell’Assoluto: solo scegliendo l’Assoluto l’Io riesce a svincolarsi dai legacci della finitezza diventando se stesso in senso assoluto. L’Io realizza trasparentemente sé stesso fondandosi in Dio392. A questa vertiginosa altezza, però, gli si fa incontro una beata sofferenza: sofferenza perché l’uomo religioso volgendo lo sguardo verso sé prova l’angoscia di chi sa riconoscersi colpevole, beata perché è affondando nella profondità del peccato393 che l’io scopre la presenza di Dio. L’uomo religioso che vuole essere sé stesso, consapevole d’aver torto, si ritrova davanti a Dio ma non può relazionarsi a Lui se non sotto la condizione di colpa. È l’uomo che comprende di non poter riconoscersi tale restando chiuso nella cella d’isolamento in cui una sentenza di condanna emessa dal giudizio implacabile dell’etica lo aveva relegato, ma soltanto intraprendendo il volo verso un’esistenza religiosa che vede proprio nel peccato la sua rampa di lancio e la sua espressione decisiva. Ed è proprio tale consapevolezza di sé come peccatore a disegnare uno scenario di angoscia all’interno dell’io. «L’angoscia è la condizione dell’anima che è sospesa teleologicamente in quella disperata liberazione dal dover realizzare l’etica. L’interiorità del peccato come angoscia nell’individualità esistente, è la distanza più grande possibile e più dolorosa dalla verità, quando la verità è l’interiorità»394.
391 392 393 394
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SD, 32. Cfr SD, 33. Cfr BA, 419. AE, 400.
La verità che è nell’interiorità è quell’Ignoto, Infinito, Eterno, Fondamento, Assoluto, quel Nulla che ha nella terra dell’io la propria casa e al suo interno costituisce la sintesi che costringe l’io nella libertà a vivere in uno stato di angoscia che è la manifestazione esterna e visibile per l’essere invisibile e interiore del peccato, ovvero per la differenza qualitativa che si determina come iato tra l’uomo finito e l’Infinito Dio. L’uomo è in angoscia perché sente una scissione in sé dovuta alla vicinanza assoluta dell’Assoluto che lo rende consapevole di sé come vivente in uno stato di peccato. Posto dall’Assoluto l’io così sceglie assolutamente se stesso, ma volendo essere sé si scopre colpevole perché si trova davanti a Dio sempre nella situazione di colpa: da qui nasce il suo pentimento. Così dopo l’angoscia del demoniaco come disperazione nella sfera estetica, si presenta ora l’angoscia dell’innocente come sofferenza nella sfera religiosa, ma tra le due non c’è alcuna mediazione: la seconda sfera, lo stadio etico, viene considerata come sfera di transizione che esige una sospensione prima e una successiva ripresa poi, alla luce della Fede. Prima di delineare i movimenti dell’angoscia dell’uomo religioso, ci apprestiamo dunque a compiere un passo indietro, necessario per la rincorsa verso il salto della fede, e che prende il nome di pentimento (Anger): esso rappresenta uno snodo decisivo del pensiero kierkegaardiano perché al confine tra sfera etica e religiosa, tra colpa e perdono, tra disperazione e fede.
1. «IL NAUFRAGIO DELL’ETICA» «La sfera etica è solo una sfera di transizione, e perciò la sua espressione più elevata, il pentimento, è una sorta di azione negativa. La sfera estetica è quella dell’immediatezza, l’etica quella del credito (e questo credito è così infinito che l’individuo fa sempre bancarotta), la sfera religiosa quella dell’appagamento, ma, si noti, non quel tipo di appagamento che si trova riempiendo d’oro una cassetta delle elemosine o un sacchetto, giacché il pentimento, appunto, ha creato uno spazio infinito, e da qui deriva la contraddizione religiosa; stare sospesi su 70.000 braccia d’acqua, e ciò nonostante allegri»395.
395
SLV, 693.
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«Il “crollo” del mondo etico non viene messo in scena da Kierkegaard in maniera clamorosa o con un’entrata da deus ex machina della fede religiosa sulla scena dell’esistenza umana; il dubbio sulla perfezione della “sfera”, in cui l’etico sembrava potersi chiudere in un armonioso cerchio, filtra piuttosto, in maniera “silenziosa” e dall’interno della sfera etica stessa»396: e tale ci sembra poter essere il movimento del pentimento interno alla sfera etica. Il pentimento è la lotta che avviene nello spazio essenziale della libertà dell’io ed è l’esatto capovolgimento della situazione negativa ad esso corrispondente come a una seconda faccia della medesima moneta della libertà e cioè l’effigie della disperazione (Fortvivlelse). Il pentimento sorge quando l’uomo con profondità prende consapevolezza della sua condizione di peccato e in questa di trovarsi davanti a Dio: è la categoria costitutiva dell’uomo «non tanto per questo o quell’evento di colpa, bensì per la condizione inesorabilmente cieca della finitezza e della sua costitutiva dimensione “atea”»397. Con la categoria del pentimento ci lasciamo alle spalle la notte generale del dovere per trovarci davanti all’aurora della fede del Singolo, sulla soglia dell’assoluto abbandono nelle braccia dell’Assoluto: il pentimento è l’ultima parola sulle labbra del moribondo uomo dell’etica e il primo vagito del nascente io religioso. Il pentimento, dunque, come un “Giano bifronte” per un verso si riconosce come categoria essenziale dell’etica, ma al contempo la tradisce volgendo lo sguardo verso la dimensione religiosa che trascende la prima. Il pentimento così se da una parte rappresenta la suprema espressione della sfera etica, dall’altra si rivela come la sua suprema contraddizione: rappresenta l’atto decisivo della sfera morale dell’io che vuole essere se stesso, ritrovandosi per questo “davanti a Dio”, che è la situazione determinante della dimensione religiosa. Tale “ipocrita” dialettica del pentimento è dal danese splendidamente descritta nel saggio L’equilibrio fra estetica ed etica nella formazione della personalità. «Ci vuole coraggio per scegliere se stessi, perché al medesimo tempo in cui l’individuo in questione sembrerà isolarsi più che mai, al medesimo tempo
396
B. FABER, La contraddizione sofferente, La contraddizione sofferente. La teoria del tragico in Søren Kierkegaard, Padova 1998, 161. 397 V. MELCHIORRE, Il cristianesimo in Kierkegaard, in Leggere oggi Kierkegaard, cit., 43.
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egli si sprofonderà più che mai in quella radice per la quale egli è legato al tutto, all’intiero. La cosa lo angoscia, e però deve, in senso forte, esser così, perché quando la passione della libertà s’è destata in lui — ed essa s’è destata nella scelta, cosiccome presuppone se stessa nella scelta — allora egli sceglie se stesso e combatte per questo possesso come per il suo bene supremo. Egli non può rinunciare a nulla di questo insieme, non a ciò che è il più doloroso, non a ciò che è il più duro, e però l’espressione di questo combattimento, di questo acquisire, sì, come preferirai tu, di questo conquistare, è “pentimento”. Egli si pente di sé andando all’indietro in se stesso, all’indietro nella sua famiglia, all’indietro nella stirpe degli uomini, finché trova se stesso in Dio. Solo a questa condizione egli può scegliere se stesso, e questa è l’unica e la sola condizione che egli vuole, perché solo in tal modo egli può scegliere se stesso assolutamente»398.
L’io può scegliere d’essere assolutamente se stesso solo attraverso la via del pentimento che è la manifestazione dell’amore non interessato, ma assolutamente libero verso l’Assoluto: il pentimento nasce dalla libertà che l’uomo ha di amare Dio e in tal modo di amare se stesso nella libera scelta d’essere se stesso che non è un atto autogenerativo ma il risvolto di un amore assoluto all’Assoluto. «Si dà un amore con cui io amo Dio e quest’amore ha nel linguaggio solo un’espressione, una di numero, si tratta di “pentimento”. Quando io non amo Dio in tal modo, allora non Lo amo assolutamente, non dal più intimo del mio essere, e ogni altro amore per l’assoluto è un fraintendimento, perché, per prendere ciò che di solito tanto altamente si vanta, e ciò a cui io stesso rendo onore, quando il pensiero con tutto il suo amore tenacemente s’aggrappa all’assoluto, allora non è l’assoluto che io amo, io non amo assolutamente perché amo necessariamente. Appena che io amo liberamente e ami Dio, sì, mi pento»399.
Ma l’io davanti a Dio ha sempre torto, non può che essere colpevole e quindi la scelta di essere assolutamente se stesso richiede il compito morale di riconoscersi colpevole, l’assunzione della propria colpevolezza e l’ostinata volontà di ripudiarla, di liberarsi del torto accogliendo la grazia della remissione dei peccati.
398 399
L’equilibrio fra estetica ed etica nella formazione della personalità, in EE, V, 96. EE, V, 97.
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«Il pentimento è l’espressione del fatto che il male m’appartiene essenzialmente, e parimenti l’espressione del fatto che esso non essenzialmente m’appartiene. Qualora il male che è in me non m’appartenesse essenzialmente, non potrei sceglierlo, ma se ci fosse qualcosa in me che non potessi scegliere assolutamente, allora, insomma, io non sceglierei me stesso assolutamente, allora io non sarei proprio l’assoluto, ma solo un prodotto»400.
Espressione dialetticamente oscura che possiamo tentare di rendere nel seguente modo: il male insieme al bene è uno dei due possibili oggetti della scelta dell’uomo perché appartiene alla sua essenza ma non essenzialmente perché altrimenti l’uomo dovrebbe sceglierlo assolutamente e invece il potersene liberare per via del pentimento rivela la sua non-necessità. Questo mostra pertanto che l’io può scegliere assolutamente soltanto di diventare se stesso pentendosi d’aver optato per il male; può far questo perché è assoluto per via dell’Assoluto che lo pone e che gli garantisce l’assoluta e libera scelta di sé: l’io che assolutamente sceglie di essere se stesso, a un tempo sceglie l’infinito che è inestricabilmente immanente alla costituzione sintetica dell’io. Il termine assoluto dunque assume qui una duplice valenza semantica: l’assoluto come l’io che sceglie e l’assoluto come ciò che l’io può scegliere solo perché in verità è da esso posto: «Scegliendo assolutamente, io scelgo la disperazione, e nella disperazione io scelgo l’assoluto, perché io sono proprio l’assoluto, io pongo l’assoluto e io stesso sono l’assoluto; ma come totalmente identico a ciò debbo dire che io scelgo l’assoluto che mi pone; perché se non ricorderò che quest’altra espressione è del pari assoluta, allora la mia categoria scegliere sarà non vera, perché essa è appunto l’identità di ambedue le espressioni»401.
Il pentimento è un movimento dell’etica che giunge alla consapevolezza di trovarsi davanti a Dio nella situazione di colpevolezza. Questo mette in scacco l’etica perché il pentimento incontra il peccato e «il peccato non appartiene all’etica se non in quanto è sul concetto del peccato ch’essa naufraga mediante il pentimento. Se l’etica deve accogliere in sé il peccato, la sua idealità è eliminata»402. 400 401 402
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EE, V, 107. EE, V, 92s. BA, 319s.
Compito dell’etica è di conformare l’idealità alla realtà presumendo che l’uomo sia in grado di adempiere tale compito. Allorquando l’uomo non raggiungesse lo scopo, egli rovinosamente cadrebbe nella colpa e l’etica, per riportare l’uomo al suo originario dovere e per liberarlo dalla condizione di colpevolezza, è pronta ad indicargli la via del pentimento. Il pentimento però se da una parte smaschera la sua colpa, dall’altra ne rivela il suo statuto: la colpevolezza infatti non consiste in una somma di singole colpe individuali, ma nella condizione di insufficienza a motivo della finitezza dell’intero genere umano, tale per cui la colpa diventa inevitabile. Attraverso l’etica così l’uomo scopre il suo peccato che mette in crisi proprio l’etica con lo strumento del pentimento da essa stessa fornitogli. «Appena spunta il peccato ecco che la morale va a fondo appunto col pentimento: il pentimento è infatti l’espressione etica più alta, ma proprio come tale è l’autocontraddizione etica più profonda»403.
Il peccato stanato dal pentimento denuncia l’impossibilità di una piena realizzazione dell’idealità nella realtà, segnando in tal modo l’avvio verso un’esistenza più alta: il peccato mina alle fondamenta l’etica, chiede la sua sospensione, il superamento della rigida legge per approdare alla sfera religiosa. «Un’etica che ignora il peccato è una scienza perfettamente inutile; ma se essa fa valere il peccato, esce eo ipso dal suo campo»404.
In questa si ripresenta l’etica ma trasformata dalla consapevolezza della radicale peccaminosità dell’uomo: è la seconda etica di cui Kierkegaard parla ne Il concetto dell’angoscia, un’etica ormai indisgiungibile dalla dimensione di fede. «La prima etica è naufragata contro lo scoglio della peccaminosità dell’individuo. Lungi dal poter spiegare questa, l’etica doveva trovarsi di fronte a delle difficoltà sempre maggiori e sempre più enigmatiche, poiché il peccato dell’individuo si allarga al peccato dell’intera specie. Ed ecco venire la dogmatica col rimedio del peccato originale. L’etica nuova presuppone la dogmatica e con essa il peccato originale col quale ora può spiegare il 403 404
FB, 273 in nota. L.c.
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peccato dell’individuo, ponendo nello stesso tempo la idealità come compito, non in un movimento dall’alto al basso ma dal basso all’alto»405.
La prima etica fa naufragio perché s’imbatte sull’irrisolvibile contraddizione che tra il suo impegno ideale e la realtà finita dell’io non ci sia riscontro alcuno: l’etica deve essere sospesa perché non è in grado di colmare entro ai suoi territori lo iato tra la scelta assoluta dell’io per l’Assoluto e la sua sofferenza nella sua finitudine temporale e necessaria. Il rimedio a tale patetico problema è la tesi che alla base di tale discrepanza ci sia una innocente colpevolezza dell’uomo, una colpa che rivela non l’essenzialità del peccato ma la sproporzione nella relazione di finito e infinito, come chiarisce Kierkegaard nella Postilla, facendo riferimento alle ultime pagine di Enten-Eller, che richiameremo successivamente: «la considerazione edificante con cui termina Aut-Aut, “che noi abbiamo sempre torto davanti a Dio”, non è una determinazione del peccato come fondamento, ma indica la sproporzione fra finito e infinito, che si acquieta entusiastica nella riconciliazione con l’infinito. È l’ultima invocazione entusiastica a Dio di uno spirito finito (nella sfera della libertà): “Io non ti posso comprendere, ma ti voglio amare; tu hai sempre ragione: sì, anche se tu non mia amassi, io ti amerò ancora!”. Perciò il tema è indicato così: “L’edificazione che c’è nel pensare ecc.”; non si cerca l’edificante nel togliere la sproporzione, ma nel mantenerla con l’entusiasmo così da toglierla quasi con questo coraggio estremo»406.
La seconda etica cerca pertanto di innalzare la realtà alle vette dell’idealità partendo dalla condizione essenziale di colpa, scoglio dove il movimento esattamente inverso della prima etica drammaticamente aveva fatto naufragio e mantenendo la sproporzione tra il finito e l’infinito che la prima tentava hegelianamente di annullare. L’idealità resta sempre il compito di questa nuova etica-religiosa ma da adempiere poggiando i piedi su una realtà che si è scoperta essere intrisa di quel peccato che rendeva impossibile la realizzazione dell’idealità di quella prima etica senza religione. Quando si parla di peccato come di uno stato (peccato originale), appare evidente che la dimensione etica debba lasciar spazio a una più attenta riflessione dogmatica: l’etica rappresenta infatti la scienza ideale del 405 406
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BA, 322. AE, 399.
dovere e pertanto non è in grado di spiegare il peccato407. Il peccato è l’incomprensibile porta d’uscita dalla stanza etica del generale e l’ingresso nella singolarità dell’esistenza religiosa. «Il peccato è veramente la cosa incomprensibile, l’impenetrabile, il segreto del mondo, proprio perché è ciò che è senza ragione, la interruzione arbitraria […]. L’incomprensibilità del peccato non deriva da una conoscenza limitata, di modo che noi a furia di speculare arriveremmo a comprenderlo. No, l’incomprensibilità costituisce proprio l’essenza del male»408.
Rifacendosi alle pagine, definite eccellenti, del piccolo Trattato di Julius Müller, Die christliche Lehre von der Sünde, Kierkegaard vede nell’incomprensibilità l’essenza del male, dimostrandola — come già ebbe modo di fare con l’Anticlimacus de La malattia mortale e con Joannes Climacus della Postilla — attraverso l’inversione tra possibilità e realtà rispetto al male, là dove la realtà diventa inferiore alla possibilità: la possibilità che per il bene rappresenta l’imperfezione, è per il male da preferire alla realtà. Ma è proprio per questa tesi, che tra l’altro disarma la logica aristotelica, della realtà inferiore alla possibilità, che il comprendere il peccato diventa impossibile perché «comprendere è risolvere la realtà in possibilità»409: comprendere il peccato implicherebbe ridurre il male a possibilità e dunque renderlo nullo dato che il peccato esiste nella misura in cui esso è realtà. Kierkegaard si trova sulla stessa linea d’onda di Müller anche nel ritenere che «il peccato e la colpa sono correlativi — ergo, dove c’è peccato c’è anche la colpa»410, salvo poi a criticare aspramente Müller per il fatto che egli tratta della dottrina del peccato come se questo appartenesse al genere e non alla singolarità dell’individuo e d’averlo ricondotto ad una caduta fuori del tempo che inevitabilmente implica una decisione della salvezza anch’essa fuori del tempo, annullando di conseguenza il «problema di Lessing» di una beatitudine e un’infelicità eterna decise nel tempo per via di un rapporto a qualcosa di storico411. 407 Per il rapporto etica-peccato Cfr G. MASI, La determinazione della possibilità dell’esistenza in Kierkegaard, Bologna 1949. 408 Pap., 1849-1850, X2 A 436. 409 L.c. 410 Pap., 1849-1850, X2 A 472. 411 Cfr Pap., 1849-1850, X2 A 480; X2 A 501.
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«Ora egli (sott. Julius Müller) dovrebbe cambiar rotta nella direzione giusta della sfera etico-religiosa, verso l’esistenziale, verso il Tu e l’Io. La serietà consiste nel riuscire a prendere coscienza ch’io sono un peccatore e che a questo riguardo io applico tutto a me stesso»412.
Il corretto angolo visivo dal quale scrutare l’orizzonte del peccato resta dunque per Kierkegaard la singolarità dell’esistenza di fede e non l’impersonalità generale del codice morale: la trasformazione della massa in singoli può essere data solo dal rapporto di scelta di fronte a Cristo413. Sotto l’aspetto esistenziale il peccato rivela così, oltre all’evidente risvolto negativo per una diabolica pretesa di assolutizzare la temporale finitezza sradicandola da un rapporto eterno all’infinito Assoluto, un aspetto positivo414: il riconoscimento del peccato esprime positivamente la consapevolezza della propria finitezza, significa la stessa finitezza dell’esistente riconosciuta tale a partire dall’infinito Essere di Dio. Nella seconda parte de La malattia mortale, Kierkegaard descrive la problematica del peccato come una qualificazione della disperazione, categoria ampiamente trattata nella prima parte di questo nostro lavoro: quanto cioè Kierkegaard si preoccupa di fare è tracciare una stretta relazione tra il peccato e il fondamento dell’io e quindi elevare il peccato alla dignità di essere e non abbassarlo a nonessere da negare. Il peccato, dunque, trova la sua consistenza ontologica non a partire dalla virtù etica bensì dall’humus dell’Io e dalla consapevolezza d’esser tale davanti a Dio: il peccato è il nesso profondo che lega disperazione e fede diventando per questo bisogno di salvezza. «Si pecca per la disperazione di essere stati deboli o per essere tanto deboli da peccare. L’essenza del peccato è data da quest’ultima forma ed è questa che il Cristianesimo prende di mira. Perché la dottrina della Redenzione si rapporta in fondo a questa disperazione e la Redenzione fermerà il passo a questa disperazione. Solo chi ha provato la disperazione capisce in fondo la Redenzione, perché ne sente il bisogno»415.
Pap., 1849-1850, X2 A 482. Cfr Pap., 1849-1850, X2 A 500. 414 Sulla dimensione positiva del peccato, cfr G. MODICA, Fede, libertà, peccato. Figure ed esiti della “prova” in Kierkegaard, Palermo 1992. 415 Pap., dal 16 luglio 1848 al 2 gennaio 1849, IX A 341. 412 413
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Il pentimento è l’orizzonte della coscienza cristiana che affamata di Redenzione vuol far ritorno al perdono e all’amore di Dio. «Un peccatore essenziale, uno che capisce essenzialmente di essere un peccatore: la sua unica passione è il pentimento. Umanamente egli è disperato, ma cristianamente è salvo, perché è credente. Umanamente il pentimento è la sua unica passione, ma la Redenzione lo consola, come l’affamato si butta avidamente sul pane per sfamarsi così la fame del pentimento in lui si butta sulla Redenzione. Come l’affamato, se non trova cibo, per lui è in gioco la sua vita, così qui se non si accetta la Redenzione»416.
L’essenzialità del peccatore ha un significato esistenziale, come correttamente osserva Cornelio Fabro, nel senso che «essa indica la coscienza del peccato come costitutiva della coscienza della colpa che sorge nel cristiano col mettersi “davanti a Dio” ch’è la somma santità e “davanti a Cristo” che lo ha redento dal peccato con la sua passione e morte»417. Ma esiste anche una seconda ragione — evidenziata nelle pregnanti immagini de Il concetto dell’angoscia — per la quale il pentimento rappresenta la suprema contraddizione etica: non solo per la scoperta di uno stato di peccato nel quale l’uomo esiste davanti a Dio, ma anche per la sua incapacità di liberare totalmente l’uomo dalla sua colpa. Il pentimento che doveva così essere un semplice mezzo per consentire all’uomo di agire, diventa in realtà l’oggetto dentro al quale egli rimane prigioniero, l’unica azione che invece di liberarlo lo blocca. «Il peccato posto è una realtà ingiustificata, esso è realtà e come realtà è posto dall’individuo nel pentimento; ma il pentimento non diventa la libertà dell’individuo. Il pentimento si abbassa a una possibilità in confronto del peccato; per dirlo con altre parole il pentimento non può togliere il peccato, ma può solo rattristarsene. Il peccato sta avanzando nella sua conseguenza; il pentimento lo segue passo per passo, ma è sempre in ritardo di un istante. Costringe a tener fisso lo sguardo sul suo aspetto terribile, ma è come re Lear folle che ha perduto le redini del governo e serba soltanto la forza di addolorarsi»418. Pap., 1849-1851, X5 A 158. C. FABRO, Pentimento cristiano nella dialettica esistenziale di Kierkegaard, in Leggere oggi Kierkegaard, cit., 177. 418 BA, 424. 416 417
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Il rattristarsi o l’addolorarsi per il peccato è il magro bottino di un’arma dell’etica come il pentimento che avrebbe dovuto con forza eliminare la colpa e che invece s’è rivelata assai debole. Il pentimento è sempre alle spalle del peccato, non riesce a raggiungerlo e così ritardando l’azione viene meno proprio al compito dell’etica che precisamente consiste nell’agire. L’ingresso in scena dell’angoscia non fa altro che confermare l’impossibilità per il pentimento di vincere sul peccato. «Qui l’angoscia è al suo culmine. Il pentimento è uscito di senno e l’angoscia è elevata alla potenza del pentimento. La conseguenza del peccato avanza, trascinandosi dietro l’individuo come una donna che il boia tiene per i capelli, mentre ella strilla di disperazione. L’angoscia è già passata avanti; essa scopre la conseguenza prima che venga, come quando noi sentiamo già in noi stessi se c’è un temporale nell’aria; la conseguenza si avvicina, l’individuo trema come un cavallo che si impenna ansimante in quel medesimo luogo dove una volta si adombrò. Il peccato vince. L’angoscia si getta disperatamente nelle braccia del pentimento. Il pentimento si mette all’ultimo rischio, intendendo la conseguenza del peccato come patimento della pena, la perdizione come conseguenza del peccato. Esso è perduto, la sua sentenza pronunziata, la sua condanna è certa; e, per inasprire la sentenza, l’individuo sarà trascinato tutta la vita fino al luogo di esecuzione. In altre parole: il pentimento è impazzito. […] Un tale stato si trova di rado nelle nature interamente traviate, ma generalmente soltanto in quelle più profonde»419.
Non l’angoscia, che davanti alla caduta del peccato è ormai mutata in disperazione, ma solo la fede è in grado di disarmare il pentimento e di vincere il peccato: «L’unica cosa che veramente può disarmare il sofisma del pentimento è la fede, il coraggio di credere che lo stato stesso è un nuovo peccato, il coraggio di respingere l’angoscia senza angoscia; ciò si può soltanto con la fede la quale, senza perciò annientare l’angoscia, ma restando eternamente giovane, si sbarazza del momento mortale dell’angoscia. Questo lo può soltanto la fede perché soltanto nella fede la sintesi è possibile eternamente e in ogni momento»420.
419 420
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BA, 425. BA, 426s.
Quanto mai indicate mi sembrano a tal proposito le pagine di Bruno Forte contenute in un’immaginaria comunicazione di Kierkegaard ai teologi: «solo la fede è in grado di superare l’angoscia, senza togliere il senso dell’abisso: qui si vede la vera differenza che c’è per Kierkegaard fra il pensiero dell’idealismo, che elimina l’abisso risolvendo tutto in immediatezza indiscreta, e la fede, che mantiene la distanza infinita nell’atto stesso in cui l’attraversa in un affidamento senza condizioni»421. La fede dunque prosegue il cammino bruscamente interrotto dalla caduta dell’etica che a causa del pentimento fallisce miseramente proprio nell’atto supremo richiesto all’io per essere se stesso. «L’espressione più alta della concezione etica della vita è il pentimento, ed io devo sempre pentirmi — ma è precisamente questa la contraddizione dell’etica, per cui spunta il paradosso della religione cioè la Redenzione, a cui corrisponde la Fede. Dal punto di vista dell’etica pura, io devo dire che, anche nelle migliori azioni, inciampo sempre nel peccato; dunque me ne pentirò, ma così io non arrivo in fondo mai ad agire, perché dovrò pentirmi»422.
Il pentimento è l’espressione più alta della dimensione etica perché l’io sceglie di portare a termine il dovere morale di essere se stesso, ma è proprio su questa sommità che l’etica si arena, rivelando la sua totale insufficienza e dunque la necessità del paradosso annunziato dallo stadio religioso. «Il pentimento non è niente di paradossale ma, appena cessa, comincia il paradosso; perciò colui che crede alla Redenzione è più grande di colui che spinge il pentimento alla massima profondità»423.
Il pentimento al limite tra l’etica e la fede resta al di qua del paradosso il quale se da un lato elimina l’incertezza in cui si è inabissato il pentimento, dall’altro costituisce il clima patetico in cui è immersa la figura del credente.
421 422 423
B. FORTE, Fare teologia dopo Kierkegaard, Brescia 1997, 13. Pap., dal 30 novembre 1842 al marzo 1844, IV A 112. Pap., dal 30 novembre 1842 al marzo 1844, IV A 116.
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2. «LA SOSPENSIONE TELEOLOGICA DELL’ETICA» «È infinitamente comico che alla base di quella accortezza di vita tanto esaltata nel mondo, alla base di tutta quell’abbondanza satanica di buoni consigli e raggiri astuti, di quei modi di lasciar passare il tempo, di rassegnarsi al proprio destino, di far cadere in oblio, alla base di tutto ciò, inteso idealmente, stia una completa stupidità che ignora dov’è veramente il pericolo, qual è il vero pericolo. Ma questa stupidità etica è, di nuovo, il terribile»424.
Kierkegaard dopo aver dismesso gli abiti dell’eccezionalità, della taciturnità, dell’istantaneità dettati dal copione estetico, non poteva indossare quelli ben più astuti del generale, della comunicazione, della perseveranza, consoni ad una scenografia etica. Dalla precedente esposizione della categoria del pentimento si evince come il discorso etico rappresenti solo un abbozzo anche se ben compiuto, prima dell’ultima stesura dell’unico suo copione pensiero-vita: abbandonate l’individualità, l’esteriorità, lo straordinario, l’eccezionalità dell’esteta, la soluzione di un compito universale che fosse al di sopra dell’individualità suggeritagli dall’etica, rischiava di compromettere il concetto di singolarità, immolato per la causa del generale. L’eccentricità dell’estetica doveva essere superata dalla scelta morale di un ritorno a sé, di un possesso di sé come compito a sé stesso, ma pagando il prezzo di un imbrigliamento della personalità nelle maglie del generale. Ovviamente tale soluzione si rivelava per Kierkegaard improponibile. In questa insufficienza di visuale dell’etica il danese individua infatti il terribile che si nasconde sotto le vesti di una ragionevole moralità del generale, una stupidità nell’apparente sicurezza e tranquillità mondana dal momento che «sicurezza e tranquillità possono significare essere disperato»425; rintraccia nell’universalità dell’etica una quieta perdizione che suscita comicità. Sotto questa luce possono essere correttamente lette le parole di Sergio Quinzio che dopo aver individuato la tensione fra i due estremi degli stadi estetico e religioso, legge in quello etico una terza possibilità sprecata: «lo stadio etico costituisce fra questi due estremi, la condizione in cui il soggetto realizza scelte valide al di là del fluire delle sue evanescenti esperienze momentanee; senza tuttavia giungere a costituirsi nella sua 424 425
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SD, 64. SD, 26.
autentica singolarità, in quanto obbedendo a un’etica egli obbedisce soltanto a un principio “generale”. Rischia così di arenarsi nella logica mondana dell’“essere come gli altri”, e di diventare quindi un’etica “sprecata”. L’ambito di ciò che appartiene all’etica può apparire perciò — come del resto appare già in Lutero — l’ambito stesso del demoniaco»426.
C’è una compiutezza armonica dell’esistenza etica sostenuta da Kierkegaard soprattutto nelle due lettere del giudice Wilhelm che sembra poter essere una riproduzione fedele e dunque una sorta di “scimmiottatura” della filosofia morale hegeliana, così come sembra evidenziare Enzo Paci: «L’armonia etica presentata dal secondo volume di Enten-Eller è in un certo senso da intendersi proprio come l’eticità hegeliana e cioè come grado superiore rispetto alla moralità e al regno individuale e soggettivo della moralità stessa. Ponendosi contro la generalità dell’etica Kierkegaard si pone contro il matrimonio che lo simboleggiava ed è naturale che la rivendicazione del Singolo appaia a Kierkegaard come qualcosa di superiore al piano del generale e dell’etica sostenuta dall’Assessore Guglielmo. […] Se alla fine di Enten-Eller l’Assessore Guglielmo presenta una società armonicamente realizzabile come sintesi tra il finito e l’infinito e tra l’estetico e il religioso, nel generale della comunità storica, una sintesi assai simile Hegel aveva sognata fin dalle prime premesse del suo pensiero filosofico continuando a riproporla fino all’inizio dell’Enciclopedia»427. 426
S. QUINZIO, Kierkegaard, il cristiano moderno, in SØREN KIERKEGAARD, Opere, I,
cit., XIV. 427
E. PACI, La dialettica della fede, in Relazioni e significati, cit., 84.93. Se per un verso dell’autore condividiamo la sottolineatura sul superamento da parte di Kierkegaard della generalità dell’etica in nome della più alta singolarità religiosa, per altro questi non mi trova d’accordo sul giudizio fortemente negativo che il danese parrebbe dare al valore del matrimonio. Paci nel suo saggio sembra non tener conto di alcune delle più intense espressioni sulla bellezza della vita matrimoniale contenute nei due discorsi che il giudice Wilhelm tiene al giovane amico seduttore, scritte sulle pagine dei saggi Validità estetica del matrimonio e L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità (EE, IV e V). Tra le tante riportiamo questa splendida locuzione racchiusa all’interno del primo saggio: «il matrimonio è proprio quell’immediatezza che ha in sé la mediatezza, quell’infinitezza che ha in sé la finitezza, l’eternità che ha in sé la temporalità» (EE, IV, 134), dove all’amore sensuale e romantico che vive nell’astrazione di sé, Kierkegaard oppone l’amore disteso nel tempo del matrimonio, senza che per questo debba mai cadere in una moribonda “ripetizione”, ma semmai vivere nella “ripresa” che lo rinnova. Si deve comunque ricordare come il giudizio di Paci presente nell’articolo del 1953 verrà mitigato e rivisitato da un successivo saggio, Estetica ed etica, scritto nel corso dell’anno successivo e che in Relazioni e significati precede in ordine il primo.
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L’etica come una barca, un brandello di legno sicuro e tranquillo celante in verità la disperazione per la normalità generale, è la dimensione sulla quale si infrangono da un lato le onde diaboliche dell’estetica e dall’altro prendono il largo quelle sofferenti del religioso, entrambe instabili perché tragiche possibilità esistenziali di contraddizione sofferente, di lacerazione interiore, di angoscia. Sulla quieta perdizione dell’etica la filosofia del danese si lascia alle spalle le acque dell’estetica per impraticabilità esistenziale, ma non è su questa imbarcazione che è chiamata a vivere il resto dei suoi giorni. Si necessita dunque di un naufragio dell’etica e di un successivo salto verso una più autentica esistenza religiosa, di una sospensione di quella visione etica convinta di poter realizzare una completa e felice sintesi tra finito e infinito, possibilità e necessità, tempo ed eternità, e di una sua successiva ripresa come etica all’interno di una visione religiosa428. Naufragio dell’etica non significa distruzione, ma una sua sospensione perché questa acquisti la paradossalità della fede che esige un’inevitabile relatività per tutto ciò che non rientra all’interno del dovere assoluto verso Dio. «Se il dovere verso Dio è assoluto, il momento etico è ridotto a qualcosa di relativo. Da questo non segue che l’etica debba essere distrutta ma che essa ottiene una tutt’altra espressione, l’espressione del paradosso. Per esempio l’amore verso Dio può portare il cavaliere della fede all’espressione opposta di ciò che può suggerire il dovere dal punto di vista dell’etica»429.
E sarà proprio nelle acque paradossali della fede, che Kierkegaard ritroverà una nuova solitudine, una nuova eccezionalità, una nuova singolarità non più come categorie estetiche al di qua della morale ma come principi religiosi al di là dell’etica. «Il Singolo come Singolo sta in un rapporto assoluto all’Assoluto […]. O la fede è questo paradosso oppure anche la fede non è mai esistita, proprio perché essa è esistita da sempre. Cioè, in altre parole, Abramo è perduto»430. 428 Su questo tema, oltre agli studi già indicati, particolarmente appropriate ci sembrano le pagine di I. ADINOLFI, Oltre l’etica. Il rapporto tra morale e sovra-morale in Søren Kierkegaard, in L’etica e il suo altro, a cura di C. Vigna, Milano 1994, 150-188; B. FABER, La contraddizione sofferente, cit., 107-160; M. IIRITANO, Disperazione e fede, cit., 116ss; S. GIVONE, Eros/Ethos, Torino 2000, 55ss. 429 FB, 246. 430 FB, 232.
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Che alla dimensione religiosa si giunga attraverso una sospensione dell’etica e un vertiginoso e quanto mai paradossale salto nell’abisso della fede appare evidente dall’interpretazione che Kierkegaard fornisce del nonsacrificio di Isacco nella “lirica dialettica” Frygt og Bæven pubblicato nel 1843 dietro la penna di Joannes de Silentio. Sulla via che «dal tempo all’eterno e dall’eterno al tempo»431 tragicamente conduce al monte Moria, Kierkegaard non con «gli artificiosi tremori della filosofia» ma col «brivido del pensiero»432 di un’ammirazione assoluta scruta il sofferente cammino di Abramo, diventato uno dei più grandi testimoni dell’Assoluto per via del suo amore, della sua attesa e della sua lotta. «Nessuno che sia stato grande nel mondo sarà dimenticato; ma ognuno è stato grande a suo modo ed egli amò ciascuno secondo la sua grandezza. Poiché colui che ha amato se stesso è diventato grande con se stesso. E colui che ha amato gli altri uomini è diventato grande con la sua dedizione. Ma colui che ha amato Dio è diventato più grande di tutti. Ognuno deve essere ricordato, ma ciascuno è diventato grande in rapporto alla sua attesa. Uno è diventato grande coll’attendere il possibile; un altro coll’attendere l’eterno; ma colui che attese l’impossibile divenne più grande di tutti. Ognuno deve essere ricordato. Ma ognuno è stato grande in rapporto alla grandezza contro cui combatté. Poiché colui che combatté contro se stesso divenne più grande vincendo se stesso, ma colui che combatté con Dio divenne più grande di tutti»433.
L’amore verso Dio, davanti al quale l’amante può credere anche a motivo dell’assurdità di una scelta da farsi per l’Amato; l’attesa di chi ha rimesso in Dio la sua causa e che per questo può trasformare la sua vita in speranza di ottenere l’impossibile; il combattimento con Dio che, lungi dall’essere separazione o causa di divisione, diventa motivo di unità con l’alterità, fanno di Abramo il più grande di tutti. Abramo ha amato Dio, ha atteso l’impossibile e ha combattuto con Dio. Il motivo della sua grandezza è espresso da Kierkegaard con una sintesi paolina di rara intensità:
431 432 433
G. PENZO, Kierkegaard, cit., 57. FB, 189. FB, 194.
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«Abramo era il più grande di tutti, grande con la sua forza, la cui potenza è impotenza (Cfr 1Cor 3,19), grande per la sua saggezza il cui segreto è stoltezza, grande per la sua speranza la cui forma è pazzia, grande per il suo amore ch’è odio di se stesso»434.
L’intera vicenda di Abramo si svolge all’ombra della prova sempre affrontata e vinta alla luce della fede. Anzitutto la prova di abbandonare la terra dei padri, per diventare straniero nella Terra Promessa, dove «non c’era nulla che gli ricordasse ciò che aveva caro, ma tutto con la sua novità non faceva che tentare la sua anima di una nostalgia malinconica»435. La prova poi della promessa che «nel suo seme tutte le generazioni della terra sarebbero benedette»436, nonostante il tempo passasse e la sera della vita incombesse. Abramo tuttavia credette e il vero miracolo consistette non tanto nella realtà che l’evento accadde secondo le sue speranze, ma per il fatto che si realizzò nella fede, che cioè «Abramo e Sara fossero così giovani da poter desiderare, che la fede avesse conservato il loro desiderio e con esso la loro giovinezza»437. Ma l’ultima prova, la più ardua, subìta per volere di un Dio che sembrava «prendersi gioco di Abramo»438, chiedeva di annientare l’impossibile che un suo miracolo aveva realizzato: il sacrificio del figlio della promessa, il suo unico e amato figlio, la sua unica speranza. Eppure Abramo, consapevole che «nessun sacrificio è troppo duro quando è Dio che lo vuole»439, non andò hegelianamente al di là della fede ma si fermò in essa amando Dio credendo e quindi riflettendosi in Dio al contrario di colui che amando Dio senza fede si riflette su se stesso440. In questa situazione dove «il tragico e il comico si toccano a vicenda in un’infinità assoluta»441 nessuno scrupolo poté scalfire l’indistruttibile fede di Abramo forgiata nell’assurdo: 434
L.c. FB, 195. 436 L.c. 437 FB, 196. 438 FB, 197. 439 FB, 200. 440 Cfr FB, 212. Da notare la ricchezza teologica di questo passo: l’amore a Dio non è sufficiente per qualificare il credente perché nell’amore a Dio non è incluso l’atto di fede. Solo chi ama Dio con la fede si rispecchia in Lui «trasparente nella potenza che l’ha posto», potremmo dire anticipando la celebre affermazione de La malattia mortale. 441 FB, 204. 435
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«credette che Dio non esigeva da lui Isacco, anche se egli era disposto a sacrificarlo quando ciò fosse richiesto. Egli credeva in virtù dell’assurdo, poiché qui non ci potrebbe esser questione di calcolo umano e l’assurdo era che Dio, il quale esigeva questo da lui, un istante dopo avrebbe revocato la richiesta. Abramo salì il monte, persino nel momento in cui il coltello luccicava egli credeva che Dio non avrebbe voluto Isacco. Egli fu sorpreso dall’esito della faccenda, mediante un movimento doppio aveva raggiunto la prima posizione e così egli ricevette Isacco con gioia maggiore della prima volta»442.
Abramo crede che Dio non abbia la volontà di chiedergli proprio quanto gli comanda di fare; crede, nonostante il gesto contraddittorio di alzare il coltello, che Isacco non possa e non debba morire; crede proprio quando viene tolta ogni possibilità di rifugio nel generale. È il momento in cui la fede si riveste di angoscia e, come questa, si ritrova di fronte al vertiginoso abisso del nulla. Il Singolo crede nel momento in cui perde ogni appiglio concettuale, proprio quando supera la tentazione di abbracciare ogni etica certezza, quando decide di salpare dalla spiaggia delle mondane sicurezze, nel momento in cui non vede alcuna speranza consapevole che l’Assoluto dimora al di là di ogni speranza. Non si dimentichi però che colui il quale Abramo è chiamato a sacrificare non è solo quanto di meglio egli avesse, ma è un figlio, l’amato figlio che lui come padre deve amare più di se stesso: non si trascuri nella storia di Abramo l’angoscia per la contraddizione di un’azione eticamente giudicata come un assassinio, ma come un sacrificio dall’espressione religiosa. Per tal motivo «la storia di Abramo contiene una sospensione teleologica dell’etica»443: perché quell’atto non si risolva nel più crudele degli omicidi occorre che la fede trascenda l’etica come il generale, vedendo in esso il gesto di amore fedele e obbediente adempiuto all’ascolto di una parola assurda dell’Assoluto. «L’etica (der Ethiske) è come tale il generale (det Almene) e, come tale, è valido per ognuno: ciò che in un altro modo si può esprimere dicendo che vale a ogni momento. Esso riposa immanente in sé stesso, non ha nulla fuori
442 443
FB, 211. FB, 232.
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di sé che sia il suo teélov, ma esso stesso è il teélov di tutto ciò ch’è fuori di sé e quando l’etica ha assunto questo in sé, non si va più oltre»444.
Il Singolo ha nell’universale il suo teélov e peccherebbe qualora sfacciatamente rivendicasse la propria individualità perché suo compito etico consiste nel subordinarsi all’universale, mentre «la fede è questo paradosso che il Singolo è più alto del generale però, si badi bene, in modo che il movimento si riprende; il Singolo quindi, dopo essere stato nel generale, ora come il Singolo esso si isola come più alto del generale. Se la fede non consiste in questo, Abramo è perduto»445.
Nella fede il Singolo si trova in una posizione di superiorità rispetto al generale, in nome di un rapporto più elevato rispetto al generale, il «rapporto assoluto all’Assoluto»446. Nella fede che dice di un abbandono assoluto, il Singolo si relaziona al generale non più come subordinato ma come superiore ad esso: la fede non ignora l’etica ma la trascende proprio in virtù di quell’Assoluto superiore all’universale. Il rapporto assoluto all’Assoluto, in cui il Singolo si determina come il Solo con Dio, rende relativo ogni altro tipo di rapporto, fosse anche il dovere che nasce dall’universale, fosse pure la sacralità custodita nella relazione tra un padre e un figlio: se l’etica non cedesse il passo alla fede, se volesse bastare a se stessa proclamando la sua divinità in verità rischierebbe di diventare «non soltanto pagana, ma addirittura atea»447. La sospensione dell’etica non significa una sua violazione ma un suo trascendimento, non una sua distruzione ma un’elevazione ad una dimensione più alta che sprofonda nel paradossale abisso della fede. «Il paradosso della fede è quindi questo, che il Singolo è più alto del generale, in modo che il Singolo determina il suo rapporto al generale mediante il suo rapporto all’Assoluto e non il suo rapporto all’Assoluto mediante il suo rapporto al generale. Il paradosso si può anche esprimere dicendo che c’è un dovere assoluto verso Dio, perché in questo rapporto di dovere il Singolo si rapporta come Singolo assolutamente all’Assoluto»448. 444 445 446 447 448
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FB, 229s. FB, 230s. FB, 232. L. PAREYSON, Kierkegaard e Pascal, cit., 98. FB, 245.
Coerentemente alla sua argomentazione Kierkegaard non manca di far notare che se l’etica fosse «la cosa più alta»449, l’ultimo stadio, non occorrerebbero altre categorie oltre a quelle già delineate dalla filosofia greca: ammettere la fede significa invece negare l’autosufficienza della virtù e affermare che il Singolo credente sia per questo «non subordinato ma sopraordinato»450 al generale. L’etica alla luce del rapporto con l’Assoluto rischia di essere così «una tentazione che vuol distogliere l’uomo dal fare la volontà di Dio»451. L’etica diventa tentazione poiché rappresenta a questo livello immediatezza, riposo nel generale, scipita partecipazione per i guai di altri uomini che ben nasconde la “vanità” dietro a un simulacro di “simpatia”452. Quanto invece Dio desidera è il Singolo nel suo rapporto assoluto con l’Assoluto, ciò che Kierkegaard definisce come il dovere assoluto verso Dio. La fede, intrinsecamente fondata sul paradosso, presuppone la realtà del Singolo che naturalmente, proprio per l’instabilità del paradosso, non può disporre di alcun punto fermo su cui radicare il suo credo: ecco motivato l’utilizzo dell’espressione biblica di cavaliere della fede che delinea la condizione di apertura del credente verso l’orizzonte della fede, contrapposta in una fondamentale opposizione al cavaliere della rassegnazione infinita, altrimenti menzionato come l’eroe tragico, che consuma il proprio dramma sulla scena dell’etica. La differenza tra il cavaliere della rassegnazione infinita e Abramo, il cavaliere della fede, è tutta interna alla dinamica del «movimento doppio»453 della fede che si attua nella libertà: là dove il primo, come anche lo stesso Joannes, si ferma alla posizione dell’infinità, incapace, dopo averla raggiunta, di ritornare alla finitezza, Abramo prosegue il cammino riguadagnando la finitezza. «Il movimento della fede si deve far sempre in forza dell’assurdo però in modo di non perdere la finitezza ma di guadagnarla tutt’intera. Per parte mia potrei benissimo descrivere i movimenti della fede, ma non sono capace di eseguirli […]; ma faccio altri movimenti dell’infinità — mentre la fede fa l’opposto. Essa, dopo aver compiuto i movimenti dell’infinità, compie
449 450 451 452 453
FB, 231. L.c. FB, 236. Cfr FB, 256. FB, 211.
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quelli della finitezza. Beato colui ch’è capace di fare questi movimenti, egli fa la cosa meravigliosa454 e io non mi stancherei di ammirarlo»455.
Con il sacrificio l’eroe tragico adempie al dovere etico trasformandolo nel suo desiderio ma contemporaneamente perde la gioia rassegnandosi a lasciare la temporalità, la finitezza: è il movimento ideale, poetico, romantico che lo stesso Kierkegaard percorse rinunciando all’amore di Regina nel mondo reale per ritrovarlo nell’infinita idealità. La grandezza di Abramo consiste invece in questo doppio movimento con cui ritorna alla finitezza credendo che rinunciando a tutto, tutto otterrà di nuovo. La finitezza di Isacco sarà così riconquistata in virtù della fede meravigliosa di Abramo che crede quia absurdum, in quel continuo meravigliarsi che è, come ci ricorda una splendida affermazione racchiusa nel Vangelo delle sofferenze, «la fedeltà verso la potenza che ha reso possibile l’impossibile»456. Sul piano esistenziale del paradosso, il mondo finito non va perduto: il cavaliere della fede fa il doppio movimento dell’infinita rassegnazione al finito da una parte, terra dove si arresta il cammino dell’eroe tragico e il recupero del finito in forza dell’assurdo dall’altra: Abramo rinuncia al finito deciso anche a perderlo per sempre ma per virtù dell’assurdo riottiene quello stesso finito credendo che mai Dio l’avrebbe a lui strappato. Abramo «compie di continuo il movimento dell’infinità, ma con una tale correttezza e sicurezza da ottenere sempre il finito e non c’è secondo che desideri qualcos’altro»457.
La fede di Abramo non è un impulso di carattere estetico, né un istinto immediato del cuore, ma è paradosso di vita, che con umile coraggio afferra tutta la temporalità in virtù dell’Assurdo. «La fede non è una commozione estetica ma qualcosa di molto più alto […], non è l’impulso immediato del cuore ma il paradosso dell’esistenza»458. 454 Seguo la traduzione di SØRENSEN che nel prezioso articolo Il doppio movimento della fede in “Timore e tremore” in Il religioso in Kierkegaard, cit., 185-197, correttamente precisa la differenza tra «il meraviglioso» che è il movimento della fede dell’uomo e «il miracoloso» che invece è strettamente ed esclusivamente legato a Dio. 455 FB, 213. 456 LE, 439. 457 FB, 216. 458 FB, 223.
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Fede è rottura della continuità, paradosso che mantiene l’alterità abissale nell’atto stesso in cui la supera e «proprio così è irriducibile alla cattura dell’identità voluta dalla filosofia hegeliana tra fede e immediatezza»459. Proprio perché la fede non elimina l’abisso, essa è salto, «decisione radicale del singolo che crede senza deleghe possibili o sconti o rinvii ad altri»460. In un religioso salto verso l’“ineliminabile abisso” dell’Assoluto che non ammette “rinvii” persino etici, la differenza tra il cavaliere della fede e l’eroe tragico si disegna nella sospensione del giudizio morale tale per cui «l’eroe tragico rinunzia a se stesso per esprimere il generale»461 mentre «il cavaliere della fede rinunzia al generale per diventare il Singolo»462. La sospensione del dovere di non uccidere Isacco non può avere una spiegazione etica, come nell’ipotesi di un sacrificio determinato da un conflitto di doveri dove quello minore viene immolato per la vita di uno maggiore. Tale è il caso degli eroi tragici, ma non del cavaliere della fede. Tale fu il caso di Agamennone che sacrificò la figlia Ifigenia per il bene del popolo; tale fu il caso di Jefte che salvò Israele sacrificando la vergine figlia; tale fu il caso di Bruto che dovette alzare sul figlio reo di congiura la spada giustiziera per rispetto di un’atroce sentenza prevista dalla legge463. Sull’eroe tragico si impone l’ammirazione di tutti per un dolore che nasce dal dovere che precede l’amore, da un dovere minore (rapporto ai figli) sacrificato sull’altare di uno più grande (il rispetto della legge). L’eroe tragico rimane confinato negli ordinari nessi etici, il cavaliere della fede varca nell’eccezione gli schemi della legge in virtù di un dovere assoluto all’Assoluto che rende relativo ogni altro dovere etico. La morale richiede che la singolarità si risolva nel generale, ma proprio in questo avviene il punto di sospensione: il tentativo da parte di Abramo di rivendicare la propria eccezionalità di fronte al generale fa scattare l’abbandono della morale. Il cavaliere della fede certo non ignora la bellezza e il beneficio provenienti da una sottomissione all’universale, il conforto che viene da una comprensione nella sfera dell’etica, la garanzia che una nascita nella 459 460 461 462 463
B. FORTE, Fare teologia dopo Kierkegaard, cit., 14. Ibid., 26. FB, 251. L.c. Cfr FB, 233ss.
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patria del generale può dare, tuttavia tutto egli trascende rinunciando alla comodità e sicurezza della morale preferendo ad essa la solitaria, stretta e dirupata via della fede sulla quale il Singolo non incontra alcun compagno nel viaggio verso l’Assoluto. «Sapeva bene ch’è una cosa magnifica esprimere il generale, ch’è splendido vivere con Isacco. Ma non è questo il suo compito. Egli sapeva ch’è un gesto regale sacrificare il proprio figlio per il generale, ch’egli avrebbe dovuto trovar riposo in questo e come la vocale trova riposo nella consonante così tutti avrebbero riposato celebrando il suo gesto — ma non è questo il suo compito: egli è provato»464.
Abramo non può compiere il movimento dell’infinità e riposare tranquillo nel generale come un eroe tragico dopo il rapido combattimento: rimane invece l’insonne della fede per non cedere alla tentazione dell’etica, vigila nella notte come una sentinella sempre in tensione davanti a una prova che per lui non termina con le prime luci dell’alba: «a ogni momento c’è la possibilità di pentirsi e di far ritorno al generale e questa possibilità può essere tanto uno scrupolo come la verità»465.
Il superamento dello stadio etico costituisce in Kierkegaard la condizione per la definitiva acquisizione del carattere singolare dell’esistenza, l’unica garanzia di salvaguardia del Singolo: tale superamento è stato reso possibile da un salto dal finito all’infinito, dal tempo all’eterno, senza per questo dover perdere la realtà del finito e della temporalità. La vicenda di Abramo costituisce il paradigma del salto della fede nel quale ritrovare trasformato il finito e il tempo, un salto che è inteso «come superamento-abbandono del dovere etico»466. Il dramma di Abramo comporta la sospensione teleologica dell’etica in quanto egli agisce in virtù dell’Assurdo, ponendosi al di sopra del generale e ritrova Isacco proprio in virtù dell’Assurdo. Nella fede c’è un inquieto salto qualitativo che l’eroe tragico non opera, cullato com’è da una 464
FB, 252. FB, 253. 466 P. NEPI, Dallo stadio etico al paradosso, in Kierkegaard. Esistenzialismo e dramma della persona, Quaderni di Humanitas, Brescia 1985, 166. 465
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serena rassegnazione entro i confini della morale. In Abramo non si può invece parlare di una pagana rassegnazione perché la finitezza e la temporalità esistenziali non vanno smarrite ma ritrovate in un teélov più alto rispetto ad una tranquilla meta etica. «La differenza fra l’eroe tragico e Abramo balza agli occhi facilmente. L’eroe tragico rimane ancora dentro la sfera etica. Per lui ogni espressione dell’etica ha il suo teélov in un’espressione etica superiore […]. Diversa è la situazione di Abramo. Egli ha cancellato con la sua azione tutta l’etica ottenendo il suo teélov superiore fuori di essa, rispetto al quale ha sospeso questa […]. Perciò mentre l’eroe tragico è grande per la sua virtù morale, Abramo è grande per una virtù puramente personale»467.
Il dovere morale è stato trasceso da un comando divino, che «ha spezzato le catene della soggettività per raggiungere l’uomo nella sua inalienabile singolarità»468. All’etica si richiede l’espressione del paradosso tale per cui il dovere di un amore assoluto verso Dio riuscirà a condurre il cavaliere della fede verso una scelta diamentralmente opposta a quanto il relativo dovere morale suggerisce: il sacrificio di un figlio! Di fronte all’imperativo etico di non uccidere il figlio, Abramo rischiava di smarrirsi nei raggiri astuti del generale, ma davanti al comando divino di sacrificare Isacco, il cavaliere della fede viene salvaguardato nella sua più radicale e autentica individualità. Il cavaliere della fede è sempre col fiato sospeso, sa che alcuno mai potrà comprenderlo. Alla manifestazione dell’etica che rende possibile la comunicazione del dolore, la comprensione e le lacrime degli altri, Abramo preferisce il terribile silenzio sul quale non si può piangere ma verso il quale ci si avvicina con un horror religiosus469 e che renderà gli uomini incapaci di decifrare se dietro a quella solitudine muta ci sia la colpevolezza dell’assassino o l’innocenza del credente. «L’etica è come tale il generale, come il generale è a sua volta ciò ch’è manifesto. Determinato come immediatamente sensibile e psichico, il Singolo è il nascosto. Il suo compito etico è allora quello di voler uscire dal suo nascondimento e diventare manifesto nel generale. Ogni volta allora che 467 468 469
FB, 235. P. NEPI, Dallo stadio etico al paradosso, cit., 166. Cfr FB, 237.
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rimane nel nascondimento, egli pena e si trova nello scrupolo da cui può uscire soltanto col manifestarsi»470.
Secondo una concezione etica della vita egli ha il dovere di uscire dal nascondimento, spogliarsi della sua interiorità per manifestarsi in qualcosa d’esterno: nell’etica l’esterno è hegelianamente superiore all’interno, mentre «il paradosso della fede consiste in questo: che l’interiorità è incommensurabile con l’esteriorità»471. Se egli preferisse l’interiorità del sentimento all’esteriorità della legge cadrebbe nella colpa, perché tale atteggiamento potrebbe essere tacciato di rientrare all’interno di una concezione estetica della vita, dal momento che «l’estetica esige occultamento e lo premia, l’etica esige manifestazione e punisce la segretezza»472. L’etica non è in grado di interpretare il silenzio della fede, non ha alcun criterio per distinguere la vuota interiorità estetica dall’interiorità colma di fede, perché sia il demoniaco come il credente esigono segretezza. «Il silenzio è la seduzione del diavolo e più si tace e più il demone diventa terribile, ma il silenzio è anche la mutua intesa fra la divinità e il Singolo»473.
Non c’è un criterio etico oggettivo che riesca a discernere la segretezza intesa come taciturnità demoniaca dal silenzio del credente che non può essere inteso da nessuno: infatti «il silenzio è duplicemente connotato sia come divino che come demoniaco; in esso la personalità può scoprirsi nel suo rapporto fondante, ovvero nell’unione col divino, ma può anche cadere nella trappola del demoniaco. Di per sé, quindi, il silenzio non è salvifico, anzi in esso si può celare l’oscura potenza del male»474.
Solo la fede può essere garanzia di autenticità del silenzio se, da un’esteriorità che manifesta l’universale, si dirige verso un’interiorità che rivela la singolarità della sofferenza e dell’amore.
470
FB, 257. FB, 245. 472 FB, 262. 473 FB, 263. 474 L. CRISTELLON, Silenzio ed esperienza religiosa nel pensiero di S. Kierkegaard, in Rivista di ascetica e mistica 2-3 (1993) 144. 471
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«Ogni sofferenza che prima di tutto non cominci a rendere muto l’afflitto non è una gran cosa, come l’amore che non rende l’uomo silenzioso: gli infelici, che corrono subito a raccontare la storia dei loro mali, non sono né affaticati né oppressi»475.
Così Abramo, dopo aver rinunciato al dovere come espressione del generale per il suo rapporto assoluto all’Assoluto, sospende anche il prestigioso strumento dell’universale che è la parola. Abramo non può parlare perché la sofferenza l’ha reso muto; ma anche se poi fosse in grado di venire a parola verrebbe spietatamente condannato dal giudizio dell’etica secondo la quale egli rimane un assassino: questo silenzio è angoscia. Abramo è giustificato così solo da un dovere più alto che vale non per tutti e per sempre ma per il Singolo nella solitudine di ogni suo istante. «Il paradosso permette di costruire alcuni criteri che può capire anche chi non è implicato nel paradosso. Il vero cavaliere della fede è sempre l’isolamento assoluto […]. Il cavaliere della fede è il paradosso, è il Singolo assolutamente soltanto il Singolo […]. Il cavaliere della fede nella solitudine dell’universo non ascolta mai nessuna voce umana, ma se ne va solo con la sua spaventosa responsabilità»476.
È il silenzio del Singolo davanti a Dio, il silenzio del credente, il silenzio di chi sa di non poter pronunziare parola alcuna perché contrariamente cadrebbe nella tentazione dell’essere-nel-generale. «Abramo tace: ma egli non può parlare, è in questo che consiste la sofferenza e l’angoscia […]. Egli può dire tutto, ma una cosa non può dire e quando non può dirla egli non parla. La parola porta sollievo poiché essa mi trasferisce nel generale»477.
Il silenzio di Abramo non è “estetico” né “etico”, ma è un silenzio “religioso”: il suo silenzio è il prezzo della sua rinunzia al generale, il silenzio di chi mai ha smesso di credere l’Assurdo, ovvero di credere che l’Assurdo non è tale che all’occhio dell’etica. La silenziosa solitudine della 475 476 477
IC,
166. FB, 255s. FB, 287.
169
fede compiuta in forza dell’assurdo dà ad Abramo la certezza che Dio avrebbe fatto qualcosa di sorprendentemente diverso da ciò che in realtà comandava. «Abramo non può parlare; poiché egli non può dire ciò ch’è la chiave di tutto, ossia che si tratta di una prova dove il momento etico costituisce la tentazione. Chi si trova in questa situazione, costui è un emigrante della sfera etica […]. Abramo fa due movimenti. Egli fa il movimento infinito della rassegnazione e rinuncia a Isacco: questo nessuno lo può capire, perché è un affare privato; ma poi fa in ogni momento il movimento della fede»478.
La realizzazione del Singolo, la sua fede, il suo silenzio, avvengono unicamente davanti a Dio, «che è l’alterità per essenza e in quanto tale è rapporto essenziale che garantisce il soggetto nella decisione di non flettersi in se stesso, ma di saltare oltre le sua ombra verso l’alterità essenziale e in quanto tale fondante»479.
La lingua dell’eroe tragico è il linguaggio universalmente condiviso, compreso da tutti coloro che ammirano e approvano il suo sacrificio. Il cavaliere della fede nella sua terribile solitudine non conosce altra espressione linguistica per raccontare il suo assurdo gesto che non sia quella di un incomprensibile silenzio nel quale dall’esterno è impossibile distinguere la pazzia dalla fede, il demoniaco dal credente, un assassinio da un atto d’amore obbediente. «Coloro che portano la perla della fede, ingannano facilmente perché il loro esterno ha un’impressionante somiglianza con ciò che tanto l’infinita rassegnazione come la fede disprezzano profondamente: con la filisteria borghese»480.
Abramo parla una lingua divina secondo le modulazioni dello Spirito perché non può dare spiegazione alcuna del suo atto di obbedienza che sia traducibile secondo un vocabolario di regole concettuali. Anzi la parola di Abramo sarebbe contraddittoria perché lo condurrebbe fuori dell’assurdo, al di là del paradosso della sua fede: come il demoniaco si 478 479 480
170
FB, 289.293. G.M. PIZZUTI, Sulle tracce del soggetto, in Filosofia e teologia 3 (1989) 538. FB, 213.
trovava costretto al silenzio per non dover affermare con una parola quanto ostinatamente desiderava negare, così il Singolo credente, il cavaliere della fede deve tacere — con un dovere assoluto che scaturisce dalla sua relazione all’Assoluto — per custodire il paradosso meraviglioso della sua fede e non cadere nel generale. Abramo non poteva che trovarsi davanti a un kierkegaardiano autaut: o diventare Singolo parlando la lingua di un silenzio esteriormente incomprensibile o decidersi per un linguaggio concettuale generalmente stabilito nell’impossibilità però di rimanere Singolo. Nell’interruzione di qualsiasi forma di comunicazione, la solitudine diventa la condizione indispensabile per la salvaguardia della paradossalità della fede esistenziale. Il Singolo, in quanto si realizza davanti a Dio, «raggiunge una solitudine la cui radicalità è direttamente proporzionale all’infinità di Dio»481. Quanto più il singolo si realizza davanti a Dio, tanto più è solo. Abramo si rapporta all’Assoluto nella forma del paradosso e proprio «tale paradosso realizza la solitudine radicalizzandola nella modalità di trascendentale dell’instaurazione del Singolo»482. «La sua vita è come un libro sotto sigillo divino e non diventa publici iuris. È questa la cosa spaventosa. Chi non lo vede, può essere sicuro di non essere un cavaliere della fede; ma chi lo vede, non potrà negare che perfino l’eroe tragico più tentato si trova come a una festa da ballo in confronto dell’eroe della fede che avanza lentamente e arrancando»483.
La fede è un libro sotto sequestro divino, un libro che non potrà mai diventare di dominio pubblico: se cioè si accetta il punto di vista del filosofare concettuale moderno o qualora si parta da un’egemonia del generale, il gesto di Abramo resterà sempre incomprensibile. Nelle pagine di questo libro non si trovano parole che diano una spiegazione riguardanti la fede del Singolo ma solo interminabili spazi bianchi di solitudine e silenzio. «Per Abramo non ci fu nessuno che lo potesse comprendere […]. L’uomo che ama Dio non ha bisogno di lagrime né di ammirazione; egli dimentica la sofferenza nell’amore: anzi l’ha così totalmente dimenticata che non ci 481 482 483
G.M. PIZZUTI, Sulle tracce del soggetto, cit., 538. L.c. FB, 253.
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sarebbe la minima traccia di quel dolore se non fosse Dio stesso a ricordarglielo, poiché Dio vede nel segreto (Mt 6,6), conosce la sua sofferenza, conta le lagrime e non dimentica nulla»484.
Acutamente osserva Melchiorre come a partire da questa espressione ci si trovi di fronte a un «chiaro superamento della coscienza tragica»485, dato che il dolore è da Abramo dimenticato perché mutato in una più alta consolazione per la ripresa del finito. Lo stesso Kierkegaard attraverso il Joannes Climacus della Postilla supererà la soluzione rappacificante della fede adottata da Joannes de Silentio: «In Timore e tremore è stato esposto un simile “cavaliere della fede”. Ma quest’esposizione era soltanto un’anticipazione audace, e l’illusione era ottenuta col presentare questo cavaliere nel suo compimento (quindi in un medio falso) invece che nel medio dell’esistenza»486.
La consolazione del cavaliere della fede non è dunque che un medio falso che lascia l’ignoto abisso alle spalle. Non dimentichiamo però che contemporanea alla dimenticanza di Abramo si pone anche la riapertura della ferita con il ricordo del dolore a motivo della presenza di Dio, che è la coscienza dell’infinito. È proprio in questo riacutizzarsi del dolore che in conclusione possiamo intravedere la risposta positiva del movimento della fede come di un abbandono assoluto del credente in quella trascendenza che dietro di lui prendeva le sembianze dell’Ignoto, del Nulla, e una fede che ora trova negativamente il proprio fondamento nell’angoscia per l’Infinito che immanente dimora nell’io. È al medio dell’esistenza dunque che dobbiamo ora volgere lo sguardo, alla sofferenza dell’innocente che percorre fino in fondo al proprio io la via di un’angoscia spaventosa e quanto mai paradossale.
484
FB, 294. Cfr V. MELCHIORRE, La coscienza tragica, in Saggi, cit., 80; allo studio di Melchiorre si rifanno anche le pagine di B. FABER, Il ritorno del tragico, in La contraddizione sofferente, cit., 175-182. 486 AE, 644 in nota. 485
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3. «IL RAPPORTO PATETICO A UNA BEATITUDINE ETERNA» «Non bisogna pensare male del paradosso; perché il paradosso è la passione del pensiero, e i pensatori privi del paradosso sono come amanti senza passione: mediocri compagni di gioco. Ma la potenziazione estrema di ogni passione è sempre di volere la propria fine: così la passione più alta della ragione è di volere l’urto benché l’urto possa in qualche modo segnare la sua fine. È questo allora il supremo paradosso del pensiero, di voler scoprire qualcosa ch’esso non può pensare»487.
La passione del pensiero risiede in un pensare a ciò che non può essere pensato a motivo dell’immanente distanza e della trascendente vicinanza di cui si alimenta la relazione tra l’io e l’Assoluto: è l’urto, la passione più alta della ragione, il limite che tormenta per la paradossalità del rapporto tra i due amanti la cui passione per il gioco dell’amore non conosce mediocrità. La passione nel linguaggio kierkegaardiano è da intendersi «nel duplice senso della parola, per l’intensità dell’attività del soggetto, per la sofferenza della sua passività davanti all’oggetto»488. Passione intesa dunque sia nell’ordine di un attivo agire dell’uomo, sia come sofferenza (Lidelse) per la passività dell’io davanti all’Assoluto sempre fungente, per una conoscenza umana che può tentare di vedere stando dietro al velo del paradosso. «Il paradosso non è una concessione, ma una “categoria”: una determinazione ontologica che esprime il rapporto tra uno spirito esistente, conoscente, e la verità eterna»489.
La passione è un enigma irriducibile, che può essere compreso nell’incomprensibilità del paradosso determinato dal fatto che «la passione della ragione ha il suo fondamento nell’unità di finito e infinito, ma ad un tempo il paradosso di questa passione sta nella differenza ontologica che pure corre fra finito e infinito»490. Una fondamentale ambiguità tale per cui 487 488 489 490
PS, 44s. J. WAHL, Etudes Kierkegaardiennes, cit., 335. Pap., dal 24 gennaio al 15 maggio 1848, VIII1 A 11. V. MELCHIORRE, Il cristianesimo in Kierkegaard, in Leggere oggi Kierkegaard,
cit., 32.
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si può parlare di una passione sofferente e in questo senso di un desiderio incessante, di una ricerca continua, di una tensione mai sinteticamente conclusa a motivo della differenza qualitativa di finito e infinito, tempo ed eternità, necessità e possibilità. La sofferenza dunque come categoria costitutiva dell’esperienza religiosa, come permanenza essenziale che passionalmente si rapporta a qualcosa di più alto, come l’esigente elemento della formula cristiana, avvertita dall’uomo alle altitudini dello spirito. «La formula cristiana è questa: rapportarsi a una cosa più alta così che il rapporto diventi sofferenza. […] Il rapporto a qualcosa di più alto si conosce dal soffrire, ma non da quello casuale e contro la propria volontà, ma unicamente dal soffrire volontario e senza del quale non è possibile rapportarsi alla cosa più alta»491.
Per Kierkegaard l’uomo religioso si rapporta all’Assoluto nella forma di una sofferenza volontaria, attiva, scelta, e non subita, passiva, coatta come poteva essere per l’uomo dell’estetica per il quale la sofferenza stava in un rapporto del tutto casuale con la sua esistenza improvvisa. «La realtà della sofferenza significa il suo permanere essenziale come essenziale per la vita religiosa, mentre dal punto di vista estetico la sofferenza sta in un rapporto casuale all’esistenza: essa, come può esserci, così può anche cessare, mentre dal punto di vista religioso se cessa la sofferenza cessa anche la vita religiosa»492.
La sofferenza costituisce l’assoluta essenzialità della dimensione religiosa, come il respiro segreto di ogni più alta forma di felicità la cui assenza sanzionerebbe l’inevitabile cessazione della vita del credente; per l’immediatezza dell’estetica la sofferenza è altrimenti accidentalità fortuita, indesiderato incidente di percorso che ratifica «l’ultimo respiro nell’infelicità»493. «La sofferenza, come espressione essenziale del pathos esistenziale, significa che si soffre realmente, ovvero che la realtà della sofferenza è il pathos esistenziale e per realtà della sofferenza s’intende la sua permanenza
491 492 493
174
Pap., dal 30 agosto al 2 novembre 1852, X5 A 11. AE, 588. AE, 576.
come essenziale per il rapporto patetico a una beatitudine eterna, così che la sofferenza non sia illusoriamente revocata o che l’individuo non la scavalchi»494.
La sofferenza non può essere né revocata né raggirata perché è il distintivo che rivela lo statuto originario di un io che, essendo libertà all’interno di una sintesi insanabile tra elementi eterogenei, liberamente si rapporta a Dio: la sofferenza cresce a motivo di una tensione per l’incommensurabile distanza tra lo stato di peccatore dell’uomo e la perfezione dell’ideale verso il quale relazionarsi comporta la scoperta di un torto essenziale e ineliminabile, costitutivo ed edificante. «Il desiderare d’aver torto è espressione di un rapporto infinito, il volere aver ragione ovvero trovare doloroso l’aver torto è espressione di un rapporto finito! Così dunque è edificante aver sempre torto, perché solo ciò che è infinito edifica, il finito no!»495.
Quella appena riportata è la profonda conclusione a cui Kierkegaard perviene nella sua ardita esegesi della pericope del Dominus flevit496 attraverso la quale egli riesce a trovare una via di fuga di fronte a un’incomprensibilità etica del comportamento di Dio che condanna Gerusalemme all’annientamento indiscriminato di ingiusti e giusti. «È dunque necessario che il giusto patisca con l’ingiusto?»497: l’unica risposta che possa placare l’uomo davanti a questa terribile domanda sulla giustificazione dell’agire di Dio è la totale rinunzia ad aver ragione davanti a Lui e nel riconoscimento del suo torto che è il manifestarsi non dell’umiliazione dell’uomo ma del suo più prezioso privilegio. «Il passerotto cade a terra, esso ha in certo qual modo ragione di fronte a Dio, il giglio secca, esso ha in certo qual modo ragione di fronte a Dio, … solo l’uomo ha torto, a lui unicamente è riservato ciò che venne negato a tutto, d’aver torto di fronte a Dio»498. 494 495
V,
AE, 583. L’edificante che giace nel pensiero che di fronte a Dio abbiamo sempre torto, in EE,
266. 496 497 498
Lc 19,41ss. EE, V, 259. EE, V, 261.
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Nonostante l’incomprensibilità della sua sofferenza per l’impenetrabilità della sua stessa coscienza, l’uomo non smette di amare Dio e di credere che l’unica sua ragione è la salvifica convinzione d’aver sempre torto perché chi ama non può voler ragione, non vuole che l’amato sia nel torto: e allora, solo allora, egli è rimane celato in Dio499. Amare Dio significa per l’uomo riconoscere la sua nullità, la sua impossibilità di poter corrispondere al dono di Dio: un non-potere che deve essere anti-hegelianamente mantenuto in vita. «Dal punto di vista religioso il compito è di capire che siamo un nulla davanti a Dio, ovvero che si è veramente un nulla, e che proprio perciò si è davanti a Dio: e questo non-potere l’uomo religioso esige di averlo sempre davanti a sé, e la sua scomparsa porta con sé la scomparsa della religiosità»500.
Il dubbio che nasce da una situazione normale di esistenza etica che avverte l’aver torto come una profonda sensazione di dolore per la mancata realizzazione del compito morale, può ancora una volta essere superato andando con timore e tremore al di là del finito nell’infinito Dio501. «Ogni volta che il dubbio lo angoscerà con il particolare, gli insegnerà che soffre troppo o che è messo alla prova al di là delle sue forze, ebbene, allora egli dimenticherà il finito nell’infinito d’aver sempre torto. Ogni volta che la preoccupazione del dubbio lo renderà penosamente afflitto, allora egli si getterà al di là del finito nell’infinito; perché il fatto d’aver sempre torto è quell’ala sulla quale egli si solleverà al di sopra della finitezza, e quello struggente desiderio con il quale egli cerca Dio, è quell’amore nel quale egli trova Dio»502.
La sofferenza è l’ala sopra la quale l’uomo si solleva dalla felice finitezza verso la beatitudine eterna, è lo struggente desiderio che dice della tensione con la quale egli cerca, trova e si relaziona a Dio, non perché la 499
Cfr EE, V, 269. AE, 603. 501 «Al punto di svolta tra esistenza etica e esistenza religiosa, al punto di confine decisivo nella dialettica esistenziale, l’uomo, che vuole, per il suo infinito amore per Dio, continuare a credere in Lui, si trova costretto a ritirare l’accusa nei Suoi confronti, preferendo l’autocondanna dell’aver sempre torto nelle cause promosse contro Dio, anche se tali cause sembrano eticamente giustificate» (B. FABER, La contraddizione sofferente, cit., 170). 500
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sproporzione sia tolta ma perché la sofferenza a motivo della scissione interiore sia mantenuta e trovi in essa la sua ragione. Ma una volta stabilito che la sofferenza è il segno tangibile di tale discrepante rapporto, lungi dall’individuo la stoica sfacciataggine nel domandarla come mezzo per dimostrare la sua orgogliosa e quanto mai empia capacità di amare e di misurarsi con Dio, perché «non è mai sorto nel cuore di nessun uomo il desiderio di voler soffrire e di scegliere le sofferenze»503. «Si tenga presente quanto segue: 1) Non si deve mai domandare la sofferenza […]. Se uno domanda la sofferenza, darebbe quasi l’impressione di essere in grado di risolvere da sé il tremendo problema che proprio la sofferenza è il distintivo dell’amore di Dio. Ed è proprio questo che egli non può […]. 2) Certamente tu devi arrischiare, perché il Cristianesimo consiste precisamente nell’arrischiare […]. Ma se umanamente parlando la sofferenza non è da sfuggire e tu però davanti a Dio comprendi te stesso nel voler e dover arrischiare: non deve mai però la sofferenza stessa essere il teélov. Tu non devi arrischiare per avere sofferenza, perché questo sarebbe empietà, un tentare Dio. Così il voler esporsi alla sofferenza per motivo della sofferenza è empietà, è un’impertinenza e una indiscrezione personale verso Dio, come se tu volessi provocare Dio a una gara. No, ma quando è in gioco una causa — benché tu veda che la sofferenza, umanamente parlando, è inevitabile — arrischia pure. Allora arrischi non per avere la sofferenza, ma per non tradire la causa»504.
La sofferenza non è dono impertinentemente da invocare, ma è il rischio amorevolmente da affrontare quando è in gioco una causa: è il biglietto da pagare per chi decide di mettersi in viaggio verso l’assoluto teélov dell’Assoluto. «La sofferenza è precisamente l’espressione del rapporto a Dio; la sofferenza religiosa qui è il segno del rapporto a Dio e del non aver trovato felicità coll’essersi sbarazzati del rapporto a un teélov assoluto»505.
502 503 504 505
EE, V, 271. LE, 452. Pap., dal gennaio al 30 agosto 1852, X4 A 630. AE, 594.
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L’io si trova orientato verso un teélov assoluto dal quale sfuggire lo farebbe sprofondare nella disperazione del finito che manca di infinito ma al contempo è la meta che mai riuscirà pienamente a raggiungere: tale sproporzione determina propriamente la sofferenza dell’angoscia. La sofferenza più profonda che mai si possa pensare della dimensione religiosa consiste nella consapevolezza dell’irraggiungibilità dell’assoluto: pertanto «l’uomo sub specie existentiae non può oltrepassare mai l’espressione negativa della sua passione assoluta per Dio come sua beatitudine eterna»506. L’uomo, nonostante il suo intimo e profondo rapporto d’amore all’infinito che dimora in lui, è condannato a vivere un’esistenza da amante infelice, dato che non riesce a dare piena espressione concreta per Dio all’interno della sua realtà creaturale di finitezza, necessarietà e temporalità. «Se l’idea di Dio è l’aiuto assoluto, essa è anche l’unica che può mostrare in modo assoluto all’uomo la sua assoluta impotenza. L’uomo religioso si trova nella finitezza come un bambino impotente: egli vuole assolutamente mantenere l’idea e questa per l’appunto l’annienta; egli vuol far tutto e mentre vuole ciò — giacché per un essere finito c’è un “mentre” — comincia l’impotenza; egli vuol fare tutto, vuole esprimere questo rapporto in modo assoluto, ma non riesce a far sì che la finitezza sia commensurabile con esso»507.
L’idea assoluta di Dio consuma l’uomo religioso come il sole, lo annienta rendendolo impotente. Si delinea un rapporto di quasi reciproca esclusione tra finito e infinito: «da un lato, la finitezza è l’impedimento, il blocco, la tara, la vera e propria malattia contro cui l’uomo si dibatte vanamente perché è vincolatocondannato ad essa finché vive; dall’altro lato, il religioso è per l’uomo l’enormemente esigente e impegnativo, l’infinitamente disorientante, il rovesciamento pressoché totale dell’habitat in cui si sente a casa propria, l’elemento estraneo in cui si dibatte, preso in trappola più ancora di un pesce fuori dall’acqua, il luogo innaturale fin quasi al limite dell’insostenibilità, dell’invivibilità»508.
506
B. FABER, La contraddizione sofferente, cit., 197. AE, 627. 508 M. FORTUNATO, Irragione, dolore e protesta in Kierkegaard, in Il religioso in Kierkegaard, cit., 267s. 507
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L’unica possibilità adeguata che l’uomo ha di esprimere la verità del suo amore a Dio è di tener ferma la consapevolezza della propria inadeguatezza509 tale per cui «la coscienza della colpa è l’espressione decisiva del pathos esistenziale rispetto a una beatitudine eterna»510. Saldamente aggrappati alle pagine della Postilla, potremmo dunque con verità e senza timore alcuno di distorcere il pensiero kierkegaardiano, affermare che la sofferenza sia la forma più adatta di relazione passionale dell’uomo nella sua condizione di viator verso la meta infinita e ideale che è Dio, una relazione vissuta esistenzialmente sempre all’ombra dell’infelicità perché rivelatrice di una contraddizione: dimora nell’io l’idea assoluta di Dio la quale, rendendolo suo prigioniero, lega l’uomo inscindibilmente a sé, ma verso cui l’uomo stesso non ha alcuna possibilità di reciprocità. «L’uccello in gabbia, il pesce sulla sabbia della spiaggia, l’ammalato sul suo letto e il carcerato nella cella più angusta non sono prigionieri come lo è colui ch’è legato dall’idea di Dio, perché come Dio, l’idea che lo tien legato è dappertutto e in ogni momento. Sì, come dev’essere terribile per colui, ch’è colpito da morte apparente, sentire i presenti parlare di lui senza poter esprimere in nessun modo di essere ancora in vita: così è la sofferenza dell’annientamento per il religioso, quando egli ha nella sua interiorità l’idea assoluta senza però avere nessuna reciprocità»511.
La sofferenza è pertanto il segno di una mancata reciprocità nell’ineffabile rapporto tra finito e infinito, rimasti termini incommensurabili per la loro differenza qualitativa; è la negatività per un’attrazione repulsiva da parte dell’assoluto teélov verso il quale l’esistente si relaziona; è l’interiorità segreta dell’uomo alimentata da una impossibile visio di Dio che a lui si rivela solamente nella perfezione della sua invisibilità. «Come l’onnipresenza di Dio si riconosce dall’invisibilità, così la vera religiosità è riconoscibile dall’invisibilità cioè non la si può vedere: il dio
509
Nelle ultime righe dello stesso articolo, Fortunato sostiene che la protesta dell’uomo contro l’esistenza, contro il finito e contro Dio in quanto responsabile di averlo posto nell’esistenza, abbiano spinto Kierkegaard a ritenere necessario precisare e ricordare la colpevolezza dell’uomo (Cfr M. FORTUNATO, Irragione, dolore e protesta in Kierkegaard, in Il religioso in Kierkegaard, cit., 270). 510 AE, 676. 511 AE, 627.
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che si può indicare col dito è un idolo e la religiosità che si può indicare col dito è una forma imperfetta di religiosità»512.
Dunque, se la disperazione è la maschera dell’angoscia tradita, l’acerbo frutto di un fraintendimento per la libertà diabolicamente sganciata dal rapporto al fondamento, la sofferenza rivela invece il volto autentico e fedele dell’angoscia, il frutto maturo che si alimenta nella libertà del credente dipendente da quell’Assoluto che con la sofferenza lo tiene desto per l’eternità. «“La sofferenza” è l’espressione di qualità per l’eterogeneità da questo mondo. In questa eterogeneità (la sofferenza è l’espressione) consiste il rapporto all’eterno, la coscienza dell’eternità. Dove non c’è sofferenza, non c’è neppure coscienza di eternità e dove c’è coscienza di eternità c’è anche sofferenza. È nella “sofferenza” che Dio tiene sveglio un uomo (eterogeneo rispetto a questo mondo) per la eternità»513.
Ma proprio all’interno della categoria di “sofferenza” si delinea la significativa linea di demarcazione tra la momentanea prova antico-testamentaria e la qualifica temporalmente eterna del fino in fondo (indtil det Sidste) ch’essa assume col Nuovo Testamento. «Nel Vecchio Testamento la situazione era questa: la sofferenza (la prova) durava qualche anno e poi ancora in questa vita si otteneva la soddisfazione ch’è l’eterogeneità con i beni di questa terra. Dio mette Abramo alla prova, lo spinge come se debba sacrificare Isacco, ma poi la prova passa, Abramo ottiene Isacco e la sua gioia è in questa vita — perciò Abramo non mostra neppure la coscienza dell’eternità, poiché la sofferenza non va fino in fondo. Il cristianesimo è sofferenza fino alla fine — è la coscienza dell’eternità»514.
E nello spazio della figura di Colui che va fino in fondo per la coscienza dell’eternità si realizza quanto nell’esperienza contraddittoria dell’umano era possibile solo nella forma negativa della sofferenza: l’unione tra il divino e l’umano, la sintesi pienamente compiuta una sola 512 513 514
180
AE, 617. Pap., dal gennaio al 30 agosto 1852, X4 A 600. L.c.
volta nella storia, nel punto in cui la tangente dell’eterno tocca il cerchio del tempo, la necessità la possibilità, l’infinito il finito. Nell’esempio di umana divinità e di divina umanità di Gesù Cristo la sofferenza raggiunge così la tragedia più profonda, si accentua in quel fino alla fine per l’incontro nell’eccezionalità del Singolo tra l’infinito Nulla e il finito esistente515. Gesù Cristo nel modo qualitativamente più intenso e profondo ha vissuto la tragica contraddizione dell’uomo fino alla passione sofferente dell’angoscia per l’abbandono da parte di Dio proprio nel momento culminante della sua morte516. Ma l’apice della sua angoscia paradossale in quanto Uomo-Dio, è raggiunta per via della possibilità di un fare non ancora attuato, di uno stato di non-essere inteso come frutto di una consegna (tradire), piuttosto che il seguente abissale vuoto di silenziosa solitudine per l’incomprensione dell’uomo e allo stesso tempo per l’assenza di Dio. «Più profonda è l’angoscia più grande è l’uomo; non l’angoscia, come gli uomini intendono di solito, cioè l’angoscia che riguarda l’esteriore, ciò che sta fuori dell’uomo, ma l’angoscia ch’egli stesso produce. Soltanto in questo senso bisogna intendere il racconto del Vangelo quando si dice che Cristo fu angosciato fino alla morte (Mt 26,38), come pure quando Egli dice a Giuda: “Quello che fai, fallo presto” (Gv 13,27). Nemmeno la terribile espressione di Cristo che mise in angoscia lo stesso Lutero quando predicava su di essa: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46), nemmeno queste parole esprimono così fortemente il patimento: infatti, coll’ultima si indica uno stato in cui Cristo si trova, la prima invece indica il rapporto con uno stato che non è»517.
L’angoscia anche nella figura del Cristo vive nella relazione con una possibilità non ancora attuata, è sospesa nello spazio di un vuoto, in rapporto al nulla di ciò che è: tale disperazione nella massima contraddizione sofferente in quanto sintesi di umano e divino è Haablöshed, che 515 «Cristo rappresenta, se ci si può azzardare a dire così, l’incarnazione assoluta della contraddizione tragica sofferente, in forma risolta; in lui si realizza la speranza della passione assoluta dell’uomo di fede di un incontro felice tra uomo e Dio» (B. FABER, La contraddizione sofferente, cit. 205). 516 Secondo Klein la centralità del Cristo sofferente sulla croce è uno dei punti cardini con cui la spiritualità pietistica informò la religiosità di Kierkegaard: A. KLEIN, Antirazionalismo di Kierkegaard, Milano 1979, 147-175. Cfr anche G. BOCHI, Peccato e fede. Motivi pietistici nel pensiero di Kierkegaard, Faenza. 517 BA, 466s.
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correttamente Fabro non manca di notare «è di tipo puramente ipotetico e, a differenza della disperazione come rifiuto della fede, si fonda sulla fede e sulla necessità dell’assistenza divina»518. La disperazione di Gesù Cristo non è pertanto il Fortvivlelse della Malattia mortale, il rifiuto consapevole dell’io a fondarsi trasparente nell’Assoluto che l’ha posto, ma l’assenza di un compito dal momento che si pone davanti a Dio senza colpa. «Quando non c’è niente da fare, quando neppure la sofferenza è il compito, allora c’è la disperazione e il tremendo tempo libero per morire di disperazione. Fin quando c’è il compito, fin quando c’è qualche proposta, l’uomo non è abbandonato senza speranza; […] ma quando non c’è nulla da fare, quando non c’è alcun compito, ma solo il profondo scherno dell’astuzia di negare il compito, subentra la disperazione e il tempo è mortalmente lungo. Quindi solo quando non c’è nulla da fare e chi lo dice è davanti a Dio senza colpa — poiché se è in colpa, c’è sempre qualcosa da fare; solo quando non c’è niente da fare e questo nel senso che non c’è nessun compito, allora c’è la disperazione»519.
L’angoscia nella persona di Gesù Cristo raggiunge il limite estremo del “fino alla morte”: dalla presenza poi di questa disperazione, secondo il significato sopra illustrato, risulta quanto mai drammaticamente evidente come la vita dei seguaci del Cristo non possa esimersi da una radicale dimensione di patimento. Il tema della fedele sequela di Cristo, il paradosso nella cui sintesi è colmata la tragica distanza tra l’umano e il divino provocando una gioiosa sofferenza del discepolo, viene, con profonda intensità e delicata ampiezza, approfondita nella scrittura edificante del Vangelo delle sofferenze dove Kierkegaard getta l’inespressiva maschera di uno pseudonimo qualunque, rivelando autenticamente la sua vocazione di predicatore cristiano520.
518
LE, 480, nota 6. LE, 480s. 520 Sulla cristologia di Kierkegaard, cfr H. FISCHER, Die Christologie des Paradoxes, Göttingen 1970. 519
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4. «LA SCUOLA DELLE SOFFERENZE» «Non è possibile amare Dio ed essere felici in questo mondo. No, il Dio del Cristianesimo è in contrasto con questo mondo; quindi colui che ama cristianamente Dio, non può essere felice in questo mondo»521.
Il gaudio del cristiano, in netto contrasto con la felicità del mondo, è segnato ugualmente da una sofferenza per una contraddizione interna alla sua esistenza che si delinea come risultato della sequela di Cristo. «Su questa via la massima sofferenza è la massima vicinanza della perfezione […]. La via dell’abnegazione, la sequela di Cristo, offre una sicurezza eterna; su questa via la “segnaletica” della sofferenza è il segno gioioso che si cammina sulla via giusta. Ma quale gioia più grande di quella di scegliere la via migliore, la via che porta allo scopo supremo e quale gioia è a sua volta tanto grande come questa: che la via è sicura per tutta l’eternità? C’è ancora però un’altra beatitudine in questo pensiero di seguire Cristo. Poiché Cristo non cammina accanto all’imitatore né lo precede in modo visibile, ma Egli lo ha preceduto e questa è la gioiosa speranza dell’imitatore: di doverlo seguire»522.
Alcun compimento felice per la fede in questo mondo, alcuna speranza che un giorno la sofferenza possa sparire: anzi l’ineliminabiltà della sofferenza è il presupposto essenziale per il permanere della religiosità del singolo che si relaziona all’Assoluto. «La religiosità è interiorità, che l’interiorità è il rapporto dell’individuo a se stesso davanti a Dio, la sua riflessione in se stesso, e ch’è di qui precisamente che proviene la sofferenza; ma qui anche è fondata l’essenziale inseparabilità di quest’ultima, sì che il suo scomparire significa lo scomparire della religiosità»523.
La scelta della via di Cristo fra il tempo e l’eternità determina una sconfitta annunciata per la vita del discepolo che volge i passi sulle orme
521 522 523
Pap., 1853-1854, XI1 A 279. LE, 428. AE, 577.
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del Maestro, ma è proprio non prescindendo dalla sofferenza ma vivendo in quella che il cristiano troverà la gioia. «Dal punto di vista religioso si tratta, come si è detto, di comprendere la sofferenza e di rimanere in essa in modo da riflettere sulla sofferenza e da non prescindere dalla sofferenza»524. «Ciò che certamente vale la pena d’imparare è tacere e sopportare, oppure perfino di trovare la gioia nell’amarezza delle sofferenze; di non trovarla soltanto nella speranza che la sofferenza un giorno finirà, ma di trovarla nella sofferenza come dice anche il proverbio che il dolore è mescolato alla gioia»525.
La sofferenza del cristiano è gioia perché il suo peso è soave ed è il solo che giova per l’eternità. «Uno porta il giogo di ferro, un altro il giogo di legno, un terzo un giogo d’oro, un quarto un giogo pesante, ma solo il cristiano porta il giogo che giova»526.
Ma è proprio la fragile e debole forza dell’eternità verso la quale la scuola delle sofferenze forma, ad acuire il dolore dell’uomo che da reo si relaziona Dio. «Si dice che il bene dà forza. È vero, ma si tratta di forze molto fragili e delicate, mentre il male dà forze robuste. Altrimenti come si spiega che chi fa il bene ne soffre poi, e soffre molto di più, se non perché il bene, sia pure in senso nobile, lo ha reso fragile e delicato? […] Ecco perché le individualità disperate, che non credono né in Dio né nell’eternità, si mostrano spessissimo in questa vita tanto forti: perché ad esse è del tutto sconosciuta quella fragilità che dà l’eternità. […] Che il bene infonda forze è vero ma si tratta di quel genere di forze che non fanno bella figura nel mondo»527.
524 525 526 527
184
AE, 584. LE, 434. LE, 441. Pap., dal 16 luglio 1848 al 2 gennaio 1849, IX A 419.
La forza che la disperazione riesce ad infondere al demoniaco, oscura nel mondo la fragilità che l’eternità dona all’innocente. «Il bene certamente dà forze ma quelle tenui dell’eternità; e questo spiega anche perché il buono e l’innocente soffrono così intensamente. Il male (proprio per via della disperazione) desta una brama ed una forza disperata di vivere (mentre il buono sospira la morte)»528.
È possibile tuttavia trovare la luce della gioia proprio in quella sofferenza perché Dio è amore ed è davanti a Lui che l’uomo soffrirà intensamente sempre da colpevole trovando la risoluzione alla causa della sua angoscia. «La situazione è che non soltanto l’uomo ha sempre torto nel rapporto a Dio, ma è sempre colpevole: allora nessun dubbio in te e nessun evento fuori di te ti può strappare la tua gioia»529.
Ricalcando le orme dell’omelia L’edificante del pensiero che di fronte a Dio abbiamo sempre torto, Kierkegaard ribadisce il ragionamento che la coscienza della colpa da parte dell’uomo è segno e sigillo, l’ultimo rinforzo necessario per cogliere la presenza di Dio, dal momento che la modalità del Suo amore rimane inevitabilmente avvolta da una penombra di incomprensibilità per la fede, sebbene ne rappresenti la sua più autentica beatitudine. «La beatitudine della fede è che Dio è amore. Da questo non segue che la fede comprende come la disposizione di Dio con un uomo è amore. Qui c’è appunto la lotta della fede: credere senza poter comprendere. Quando questa lotta della fede comincia, quando i dubbi vogliono insorgere, […], ecco che allora viene in soccorso la coscienza della colpa, come ultimo rinforzo. Verrebbe quasi da pensare a una forza ostile, ché viene in aiuto appunto la fede, essa aiuta il credente insegnandogli a dubitare non di Dio ma di se stesso»530.
528 529 530
Pap., 1849-1850, X2 A 404. LE, 472. LE, 477.
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È dunque l’umile coscienza della colpa che tuonando chiude la bocca all’arrogante dubbio sull’amore salvifico di Dio: la fede ammaestra il credente su ciò che non comprende con la ragione rendendo impossibile ogni possibile dubitare. È opportuno qui chiarire come Kierkegaard inserisca la fede «nella contraddizione tra la presenza e l’assenza, come una ferita aperta, nella situazione di un’emorragia che non si può fermare»531, evitando sia la felice posizione illuministico-hegeliana di una fede assorbita nella ragione e nell’evidente certezza del comprendere, sia la posizione irrazionalistica della Glaubensphilosophie che riduceva la fede all’immediatezza del sentimento: la ragione socraticamente per Kierkegaard comprende di non comprendere l’oggetto della fede. Questa è proprio la categoria negativa e dialettica dell’assurdo appartenente alla fede, che resta pur sempre «un segno, un enigma di sintesi, di cui la ragione deve dire: è irriducibile, incomprensibile, ma non per ciò un nonsenso»532. Posto sotto la categoria di peccato, incomprensibile alla ragione ma che per fede fuga ogni dubbio sulla giustizia di Dio, l’uomo da colpevole si rapporta all’Assoluto attraverso l’unica via che può intraprendere verso di Lui, ovvero la tribolazione, diventata, per il suo essere via, ineliminabile. «Poiché la tribolazione è la via, la tribolazione non può essere eliminata senza eliminare la via: non ci possono essere altre vie, ma solo deviazioni»533. «La tribolazione è la via — e questo è motivo di gioia: che non è quindi una proprietà della via di essere stretta, ma è una proprietà della tribolazione di essere la via, così la tribolazione deve pertanto portare a qualcosa, che dev’essere viabile e percorribile, non dev’essere sovrumana»534.
Tale via per il mondo dello spirito non è una realtà esteriore come per la dimensione sensibile nella quale risulta indifferente «che si vada per essa o non, che si segua questo o quel modo»535: la via all’interno dell’esperienza 531 E. LEVINAS, Kierkegaard, in Nomi Propri, trad. it. a cura di F.P. Ciglia, Casale Monferrato 1984, 94. 532 Pap., 1849-1850, X2 A 354. 533 LE, 503. 534 LE, 504. 535 LE, 493.
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dei seguaci del Cristo non è semplicemente la via, ma «la via è il come si va»536. La via dunque non si esaurisce nella categoria dell’immediatezza estetica, ma è determinata dal come (Hvorledes), cioè dall’istante nel quale viene effettuata la scelta esistenziale di rapportarsi all’Assoluto nella situazione di sofferenza. Sulla via che è sofferenza, il viandante cristiano si preoccupa non del dove essa conduca ma di come si debba andare per essa: rapportandosi nella sofferenza alla misura verso la quale l’io si scopre colpevole. È in questa situazione che si avverte il superamento dell’angoscia proprio rimanendo all’interno della sofferenza nella quale l’uomo da colpevole si rapporta assolutamente all’Assoluto: la situazione conclusiva sarà quella d’essere un sofferente gioioso. Riteniamo essere questo il motivo dell’inserimento, nello scritto in questione, della figura del ladrone che muore in croce accanto a Gesù, definito, in una delle pagine del Diario, come «l’unico cristiano contemporaneo di Cristo»537, perché la coscienza del peccato e l’imminente situazione della sua morte lo aiutano «a fare l’offerta assolutamente all’Assoluto»538. La gioia del ladrone che da colpevole soffre in croce è data dall’impossibilità di dubitare dell’amore di Dio che per lui diventa motivo di speranza per la possibilità di un compito ancora da portare a termine, e cioè pentirsi prima della fine del suo tempo. Per contro si staglia sullo sfondo l’immensa, sovrumana sofferenza di Cristo, unico davanti a Dio senza colpa, nel quale si insinua l’angosciante dubbio sull’amore di Dio, espresso in un abissale “perché” al Padre che non trova risposta. «Il ladrone pentito, a confronto di questa sofferenza, trova sollievo e consolazione nel pensiero ch’egli soffre come colpevole, e perché? perché la sofferenza allora non viene completamente a contatto con l’interrogativo preoccupato ch’è contenuto nell’angoscia del dubbio se Dio è l’amore»539.
Con la figura del Dio-Uomo (Gud-Mennesket) siamo giunti ad uno scandaloso livello dialettico che confina con l’inaudito, con l’assurdo, dove la sofferenza dell’innocente arriva pericolosamente a sfiorare la disperazione del demoniaco, dove la fede assoluta del primo giunge a rasentare 536 537 538 539
L.c. Pap., 1849-1850, X3 A 47. L.c. LE, 476.
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l’ateismo diabolico del secondo, per la ragione che Cristo avverte, dall’altezza vertiginosa della croce, l’ostilità e l’abbandono di Dio, come nessuno mai ha potuto provare dal momento che nessun uomo come lui può rapportarsi all’Assoluto sotto la condizione di assoluta innocenza. «Poiché essere abbandonato da Dio è anche essere senza compito, cioè essere privato di quell’ultima cosa che ogni uomo sempre ha — il compito della pazienza, ch’è fondata nella convinzione che Dio non ha abbandonato il sofferente. Perciò la sofferenza di Cristo è sovrumana e la sua pazienza sovrumana e nessuno può comprendere né l’una né l’altra. […] Egli non ha davanti a Dio assolutamente nulla da rimproverarsi, la sua vita è stata obbedienza, eppure Egli è stato abbandonato da Dio! “Ecco, questa è la sofferenza sovrumana”, dice il ladrone pentito; così nessun uomo ha mai sofferto, così nessun uomo potrà mai arrivare a soffrire, perché nessun uomo è davanti a Dio senza colpa — ma non c’è mai stato neppure nessun uomo, né si può dire che ci sarà qualche uomo, abbandonato da Dio»540.
L’abissale vicinanza di demoniaco e innocente è data dall’eternità di Dio, verso cui entrambi si rapportano, ma le cui differenti modalità sono tali da rendere incolmabile la loro sottile distanza: l’angoscia del demoniaco è paura dell’eterno verso cui scegliere di ribellarsi, quella dell’innocente è coscienza del medesimo nei confronti del quale obbedire. Per comprendere l’incomprensibile sofferenza di Cristo si deve in tal modo giungere a cogliere la sofferenza come lo spazio necessario per l’affidamento: Cristo infatti imparò l’obbedienza dalle cose che patì541, accogliendola come la prova richiesta dall’iscrizione alla scuola delle sofferenze. «La scuola delle sofferenze si trova nell’intimo dove la sofferenza tiene cattedra, dove Dio sta in ascolto, dove l’obbedienza è la prova richiesta»542.
Se sul versante esistenziale diventa impresa impossibile per l’uomo poter comprendere il valore dell’inaudita sofferenza di Cristo, su quello di un’interiorità religiosa diventa il simbolo supremo e modello eccellente di totale e fiduciosa obbedienza a Dio da accogliere. Il valore edificante della scuola delle sofferenze, frequentata dai singoli alunni di Cristo che 540 541 542
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LE, 485. Cfr Eb 5,8. LE, 459.
intendono rapportarsi all’Assoluto, è disegnato dal danese in una plastica e suggestiva immagine: «La scuola delle sofferenze è un morire, le ore silenziose (stille Timer) di una scuola del morire — in questa scuola si è sempre tranquilli nell’ora; l’attenzione non va sprecata con molti oggetti d’insegnamento, poiché qui s’impara l’unica cosa necessaria; l’attenzione non è disturbata dai condiscepoli, poiché l’alunno è solo con Dio. Né si può dubitare della capacità didattica del maestro, poiché il maestro è Dio. La materia di insegnamento è una sola: l’obbedienza. Senza sofferenze non si può imparare l’obbedienza, poiché la sofferenza è la garanzia che l’abbandonarsi (a Dio) non è un colpo di testa; ma colui che impara l’obbedienza impara tutto»543.
Imparare l’obbedienza dalla sofferenza se da un lato è formarsi per l’eternità, dov’è quiete, dall’altro implica dare un senso alla presenza dell’angoscia dov’è inquietudine per l’indeterminata e infinita possibilità da attuare: con la scelta di un abbandono obbediente compiuta nel momento del tempo, si dilegua il nulla inteso come pura possibilità di potere per lasciar spazio al Nulla come pienezza dell’attualità dell’eterno. L’abbandono della fede vince assolutamente l’angoscia, tuttavia in quanto la fede non comprende la vince in un’angoscia assoluta che non conosce fine. «Nella vita di Cristo c’è questa identità, perché il suo patire è assoluto, in quanto è agire assolutamente libero, e il suo agire è patire assoluto, in quanto è assoluta obbedienza»544.
L’inquietudine della fede, il tormento dello spirito e le lacrime silenziose della sofferenza sono solamente alcuni dei pesanti e instabili movimenti che l’angoscia kierkegaardiana disegna all’interno della dimensione del religioso, confinati entro una via che nel tempo è tribolazione ma che attraverso l’obbedienza assoluta conduce verso la meta che è la beatitudine e la serietà dell’eternità. Ritroviamo questa sintesi in una lunga pagina del Diario che per intero abbiamo qui voluto riportare: l’angoscia come quell’angolo da cui ha preso avvio il nostro studio, rappresenta il luogo di incontro delle diverse 543 544
LE, 459s. EE, II, 32.
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strade che di opera in opera abbiamo percorso, dalla disperazione alla speranza, dalla tentazione alla pazienza, dalla libertà alla colpa, dal tormento alla sofferenza, dall’ostinazione all’obbedienza, dal peccato alla fede. Ma indubbiamente sono parole che raccontano anche del dramma esistenziale vissuto da un uomo che percepiva l’amore di Dio come violenza per cui piangere e consolazione per cui ringraziare545: l’angoscia è il respiro del clima nostalgico che la malinconia religiosa assunse nella singolare esistenza dell’uomo-Kierkegaard e che in questa pagina trova il suo edificante richiamo. «Lo scrupolo di cui qui si parla è molto penoso e tormentante, è un groviglio dialettico che confina con la pazzia, fatt’apposta per determinare quella tortura dell’educazione che è tutta rivolta a distruggere la volontà propria. Una specie di ossessione. Il sofferente, umanamente parlando, soffre del tutto innocentemente. Non è come nel caso del peccato ch’è lui stesso a evocare di proposito questi pensieri: sono invece questi pensieri che perseguitano lui. Preso dall’angoscia, egli li fugge in tutti i modi: forse anche acuisce fino alla disperazione la sua ingegnosità e attenzione per fuggire, non essi soltanto, ma perfino ogni più lontano contatto con ciò che potrebbe in qualche modo aver rapporto con loro. Inutile! L’angoscia allora aumenta ancor più. Qui non giova neppure il solito consiglio di dimenticare, di fuggire: perché è ben questo ch’egli fa, ma ciò non serve che ad alimentare l’angoscia. Per sopportare questo tormento, occorre una religiosità specifica, quella che umilmente e senza mormorare si rimette a Dio dicendo press’a poco: “Per Te, o Dio, io non sono un nulla; fa’ di me quel che vuoi, ch’io soffra pure tutto ciò che quasi mi porta alla pazzia. Tuttavia Tu sei sempre Colui a cui appartiene la sapienza e l’intelligenza, Tu Padre amoroso!”. È necessaria una tale religiosità per resistere. Se questo tormento s’incontra con una caparbietà passionale che si rifiuta di farsi un nulla davanti a Dio, il sofferente finirà per perdere la ragione. Quindi il sofferente sopporta con l’aiuto della religiosità. Ora interviene la coscienza della libertà e della responsabilità. La sofferenza più martoriante per un essere libero è forse quella di sentirsi come non libero, in balìa di una forza estranea. Ma la responsabilità della libertà si domanda: “Non è forse l’uomo responsabile dei suoi pensieri?”. Questa preoccupazione genera una nuova angoscia, perché sembra che la sofferenza sia nello stesso tempo una colpa. Cosa dev’egli fare? Qui è ancora la ragione presa di mira. Perché quel 545
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Cfr Pap., dal 24 gennaio al 15 maggio 1848, VIII1 A 650.
che altrimenti è di aiuto per un uomo, il fatto per cui quand’egli è preso dal timore e dall’angoscia fugge il male, è precisamente ciò che in questo caso l’abbandona ai pensieri cattivi. Più egli si angoscia, e maggior potere quelli prendono su di lui. È necessaria allora una religiosità specifica per resistere. La sofferenza fra l’altro proviene dal fatto ch’egli dovrebbe sopportare che ogni uomo, in qualità di terzo, lo ritenesse colpevole e gli dicesse senz’altro: “Tu devi schivare simili pensieri…”, ai quali con un’ingegnosità quasi pazza egli ha forse cercato di sottrarsi. La sofferenza inoltre consiste nel fatto ch’egli non può avere un punto solido per giudicare se si tratta di sofferenza o di peccato, perché si trova solo con Dio: chi oserebbe allora essere tanto sicuro? Egli è portato di nuovo quasi alla pazzia. Fa di tutto per fuggire, trema al solo pensiero della minima associazione di idee che potrebbe evocare tali pensieri, e poi dovrebbe essere ancora colpevole? Ogni momento deve sembrargli un tormento peggiore di quello a cui possono arrivare i bambini quando tormentano le farfalle. Se non muore ogni volontà propria, egli perderà la ragione. In un momento d’impazienza, egli forse, potrebbe quasi desiderarlo per farla finita col suo tormento. In questo caso che bisogna fare? Nulla: tacere e attendere in Fede e preghiera. Una cosa non si deve fare: non si deve disperare della possibilità della salvezza, non abbandonare Iddio. Si parla tanto di abbandonare se stessi, ma son chiacchiere: no, il pericolo qui è di abbandonare Dio. Perché, se nel suo tormento vi è qualche colpa, essa dovrebbe consistere nella sua fretta di voler adattarsi alla sofferenza, congiunta però con quest’ostinazione che egli ormai deve abbandonare la speranza di liberarsene. No, è appunto questa caparbietà ch’egli deve abbandonare. Quando poi verrà l’aiuto, se presto o fra quarant’anni, nessuno lo sa. Ma l’aiuto sarà questo: il Salvatore si mostrerà a lui in altro modo. Il sofferente probabilmente ha fatto di tutto perché questi cattivi pensieri non lo molestassero durante la preghiera o mentre stava assorto in Dio, nella persuasione che dovessero essere un peccato enorme. Eppure la salvezza sta proprio in questo ch’egli ha un Salvatore, ovvero che il Salvatore gli si mostrerà in modo ch’egli oserà dirGli: “Questi cattivi pensieri mi perseguitano”, senza lasciarsi spaventare se nominandoli gli possa sembrare che questi cattivi pensieri gli ritornino. Quando tale momento verrà, nessuno lo può dire. Certo è, e chiunque ne abbia un po’ d’esperienza lo sa, che anche la Grazia ha il suo tempo e le sue ore e che viene sempre il momento in cui all’improvviso si ottiene ciò che per anni e anni si è cercato invano. La causa infatti dell’impazienza in cui consiste l’ostinazione, è nel fatto che il tentato in qualche modo vuol vedere una fine, vuole avere spiegazione definitiva della faccenda, anche se questa spiegazione è che non ci si può
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aspettare una spiegazione in questa vita. Questo egli allora umilmente lo sopporterà seguitando a credere in Dio e ad amarLo. Così non sarà di quelli che in atto di sfida abbandonano Dio, ma sentirà bisogno di Lui a ogni momento per sopportare la sofferenza della sua apparente assurdità. Ma il fatto che la sua sofferenza è e rimane senza senso, ecco quel ch’egli vorrebbe chiarito, per poter concentrare tutte le sue forze a sopportarla con pazienza e umiltà. Ma Dio così non vuole. Dio vede facilmente che in questo c’è un po’ di caparbietà, perché Egli vuole che il sofferente nello stesso tempo speri nella possibilità di quella salvezza che sempre gli è offerta, e che la riceva con la stessa gioia del primo momento. Questo, in un certo modo, causa un nuovo aumento di sofferenza, accresce la tensione in cui egli è tenuto sospeso. Certo, per l’uomo più profondo, è una specie di sollievo aver chiarito la situazione ed essersi assicurato che non c’è da aspettarsi aiuto e che bisogna tacere e sopportare. Ma bisogna, nonostante tutto, sperare. È proprio per questo che di giorno in giorno, di anno in anno, la sua sofferenza ritorna, perché deve sempre sperare (contro ragione!), perseverando a sopportare anno per anno. Ecco cosa significa “essere educati alla scuola dell’obbedienza”: quando si è pronti a sottomettersi risolutamente alla cosa più dura, non una volta ma per sempre, sperando insieme ogni giorno che Dio si degnerà di toglierci la sofferenza. Le speranze di un aiuto puramente umano sono svanite da molto tempo: il suo sperare diventa perciò un atto religioso, una nuova obbedienza che si esige da lui, la quale gli fa sentire il vero senso della Maestà di Dio. quando uno trova più facile sopportare la decisione più dura (perché il sollievo vien proprio dal fatto d’aver preso una decisione), allora il dover sperare in queste condizioni per anni e anni, sperare in questo modo è una privazione continua di riposare nella decisione. Ed è questa la vera scuola dell’obbedienza»546.
546
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Pap., dal 16 luglio 1848 al 2 gennaio 1849, IX A 333.
POSTILLA CONCLUSIVA DALLA VERTIGINE ALLA DANZA
«C’è un tempo per gemere e un tempo per ballare» (Qo 3,4) «Con l’aiuto della fede l’angoscia educa l’individuo a riposare nella Provvidenza»547.
La scuola delle sofferenze edificata nel 1846 sulle pagine del Vangelo delle sofferenze risponde come una eco agli insegnamenti di un’altra scuola, a lei precedente, eretta audacemente sulle righe dell’ultimo capitolo de Il concetto dell’angoscia: la scuola dell’angoscia. La voce dell’angoscia risuona all’interno di una scuola che educa alla fede i discepoli dell’infinitezza e della possibilità. Il cammino per il conseguimento della laurea non può essere però affrontato con leggerezza, dal momento che occorre far attenzione a non cadere nelle innumerevoli mistificazioni tese proprio dall’angoscia: per tale ragione diventa necessario imparare ad andare a lezione dell’angoscia nel modo giusto per evitare di scivolare nella perdizione per non averla mai ascoltata o per esser stati resi colpevolmente prigionieri dalle sue ammalianti astuzie. Il modo giusto per imparare a sentire l’angoscia, e per essa esser formati alla cosa più alta, è la possibilità mediante la cui infinità si viene formati alla fede. «Se l’individuo inganna la possibilità dalla quale dev’essere formato, non arriva mai alla fede»548.
La scuola dell’angoscia che laurea i discepoli dell’infinitezza e della possibilità educa alla fede per l’eternità. Al discepolo che infatti fino in fondo avrà frequentato il terribile corso della possibilità, dove l’angoscia entrando in lui perquisisce tutto e scaccia pensieri finiti e gretti, è riservato il riposo nella Provvidenza549. 547 548 549
BA, 473. BA, 469. Cfr BA, 470. 473.
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«Chi cadde nella possibilità ebbe lo sguardo annebbiato, l’occhio turbato in modo che non poté afferrare, mentre affondava, la pertica che Tizio e Caio gli porgevano come un filo di paglia salvatore; il suo orecchio si chiuse, e perciò non sentì quale era il prezzo corrente dell’uomo al suo tempo, non sentì che egli valeva quanto valgono i più. Egli sprofondò assolutamente, ma poi emerse di nuovo dalla profondità dell’abisso molto più lieve di tutto ciò che nella vita aggrava e spaventa»550.
La polemica anti-hegeliana spesso combattuta con l’arguta arma dell’ironia volge ormai alle sue schermaglie conclusive: Kierkegaard al filo di paglia che l’uomo qualunque (Tizio, Caio) cala dalla finestra del mondo per salvare l’individuo sprofondato nelle cavità dell’abisso, predilige il terribile e l’annientamento con i quali la possibilità sostiene vertiginosamente il singolo; all’uomo di ogni tempo e di ogni dove che, formato alla scuola del mondo, esala l’ultimo respiro nella finitezza, il danese contrappone il suo discepolo della possibilità che ottiene l’infinito sapendo che la realtà è molto più ridente e leggera di quanto non sia il peso redentivo della possibilità; all’eroe applaudito dal teatro della storia universale, egli mette in scena l’eccezionalità del genio religioso il quale, nella sua incomprensibile solitudine, camminando per la pianura dello Jutland, «dove non accade nulla, dove l’avvenimento più grande è che un gallo cedrone spicca il volo strepitando»551, fa esperienze più profonde di coloro che a questo mondo tutti comprendono, acclamano e adorano. Insomma, all’uomo hegeliano, all’uomo accorto che vuol trarre profitto dal mondo compiendo i suoi calcoli, Kierkegaard presenta il suo uomo perduto nell’intimità religiosa di una vita interiore educata dall’onnipotenza della possibilità; racconta l’uomo che, rifiutando di immergersi entro gli angusti confini del finito, «è costretto a incamminarsi, nel senso più profondo, verso l’Infinito»552; alla saggia accortezza dell’uomo mondano preferisce la folle angoscia dell’uomo religioso all’interno della quale questi impara a riconoscersi colpevole. «Colui che conosce la sua colpevolezza soltanto attraverso la finitezza, è perduto nel mondo finito, entro il quale la questione se un uomo sia
550 551 552
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BA, 470. BA, 471. BA, 472.
colpevole non si può decidere se non in un modo esteriore e giuridico, sommamente imperfetto. Perciò chi può conoscere la sua colpa soltanto per analogia di sentenza di polizia o del supremo tribunale, non comprende mai fino in fondo, che è colpevole; infatti, se un uomo è colpevole, è colpevole infinitamente»553.
L’alta vetta di un’incommensurabile angoscia è raggiunta dalla gioiosa sofferenza dell’innocente, il cui cammino non si arresta di fronte alla demoniaca immediatezza estetica di un momento, inteso come parodia dell’eternità554, ma giunge a una seconda immediatezza, propria della fede, che vede nell’istante lo spazio in cui l’eterno prende dimora nel tempo e nel quale l’io, rapportandosi assolutamente all’Assoluto, compie il movimento verso se stesso. Qui l’individuo si scopre come libertà, e al contempo trova la sua colpa. «Quando si rivolge a se stesso, il genio scopre la libertà. Il destino egli non lo teme, perché non si pone mai un compito nel mondo esteriore e la libertà è per lui la sua beatitudine: […] la libertà di sapere per suo conto ch’egli è libertà. […]. Nella misura in cui egli scopre la libertà, nella stessa misura grava sopra di lui l’angoscia del peccato nello stato delle possibilità»555.
È ancora angoscia il rapporto tra libertà e colpa, perché entrambe affamate di possibilità: la libertà vorrebbe affrancarsi dalla colpa, ma il fissare lo sguardo su di lei non fa altro che mostrare l’ambiguità dell’angoscia perché «entro la possibilità la stessa rinunzia è una brama»556. Il vertice più alto della vita religiosa consiste così nel penetrare all’interno del proprio peccato e nel riconoscersi colpevoli davanti a Dio. Ma è in quel rivolgersi a se stesso, nella dimensione della riflessività, che si chiarifica coerentemente l’ambiguità tra innocenza e colpevolezza: questa idea che Melchiorre delinea nei suoi Saggi come la dialettica vigente all’interno della dimensione del “tragico”, qui ho cercato di assumere nel senso più generale di una contraddizione sofferente dell’io religioso quale sintesi di finito e infinito: 553 554 555 556
BA, 473. Cfr BA, 346. BA, 417. BA, 418.
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«rispecchiandosi nella determinatezza posta dallo spirito finito, l’ambigua coscienza dell’infinito deve a un tempo riconoscersi come innocente e come colpevole: innocente nella misura in cui non sa, colpevole nella misura in cui la finitezza deve pur sempre confessarsi inadeguata all’infinito»557.
Nell’opera del 1844 l’angoscia così si rivela essere occasione di salvezza mediante la fede: l’affidamento nell’infinito resta l’unica risposta possibile all’angosciante categoria della possibilità. La fede, come la hegeliana «certezza interiore che anticipa l’infinito»558, permette il salto dal mondo del finito, in cui la mancanza è vissuta come colpa nell’angoscia, verso il superamento delle possibilità nell’infinito. La fede vince l’angoscia nella misura in cui rimane sugli instabili banchi della scuola dell’angoscia. Il genio religioso, il cavaliere della fede, l’Uomo-Dio che soffre da innocente, ovvero tutti coloro che si affidano al Dio che solo può ascoltare il loro grido afono, non possono superare né solo pensare di eliminare l’angoscia ma, nell’obbedienza, accettarla come la sospensione in cui affidarsi all’Infinito. Nell’abbandono fiducioso è la custodia e l’inveramento dell’angoscia! Solo la fede è in grado di sostenere la vertigine della libertà come angoscia dell’eterno presente nella sintesi dell’io. La fede non elimina l’angoscia: essa resta ineliminabile e volersene liberare è una contraddizione in termini dal momento che l’angoscia è propriamente la possibilità della libertà. «L’angoscia è la possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni»559.
La fede non può eliminare l’angoscia ma riesce a superarla mantenendo il senso del suo abisso per formare assolutamente: la fede, paradossalmente, può sostenere lo svenimento dell’angoscia per la distanza del finito dall’infinito, lasciandosi attaccare dai suoi terribili assalti560 e per via di essi vincere nell’anticipazione le cose finite idealizzandole nell’infinità561. 557 558 559 560 561
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V. MELCHIORRE, Saggi su Kierkegaard, cit., 67. BA, 468. BA, 467. Cfr BA, 470. Cfr BA, 468.
È solo in quella certezza interiore che l’angoscia diventa per l’individuo uno spirito servizievole562 che lo guida ad anticipare l’infinito; altrimenti un fraintendimento dell’angoscia, intesa come via da percorrere fuori della fede, farà perdere l’individuo nelle profondità della disperazione. L’educazione dell’angoscia forma alla fede: è solo grazie ad essa che l’angoscia non fugge davanti alla prova, ma vi penetra affrontandola fino in fondo nella certezza assoluta dell’amore di Dio. «Il pensiero che sia Dio a provare, anzi a tentare un uomo, non bisogna renderlo troppo spaventoso (perhorrescere). La differenza sta soltanto nel modo con cui lo si considera. L’incredulità, la malinconia, ecc., si spaventano subito e vogliono in fondo attribuirlo a Dio, pensando ch’Egli lo faccia perché l’uomo soccomba. Infatti, per quanto l’angoscia malinconica possa in un uomo essere lungi dal voler pensare cose simili di Dio, in un certo senso più profondo le pensa, ma senza saperlo e senza prenderne coscienza, come un appassionato del quale si dice che non sa quel che fa. Il credente invece prende subito la cosa in modo inverso: egli crede che Dio lo fa perché deve sostenere e vincere la prova. Ahimè, in un certo senso proprio per questo succede che l’incredulità, la malinconia, l’angoscia spesso soccombono nella prova, perché si esauriscono prima e come punizione per aver pensato così male di Dio, mentre la Fede in generale vince. Ma è un’educazione dura quella che da un’angoscia congenita va verso la Fede. L’angoscia è la specie più tremenda di scrupolo — e quanto non ci vuole prima di arrivare a quel punto dove il medesimo uomo è esercitato nella Fede! cioè considerare tutto all’inverso, nel riboccare di speranza e di fiducia quando succede ciò che prima lo portava a esalare l’anima e a svenire d’angoscia; nell’entrare cioè con franchezza in ciò contro cui egli prima sapeva una sola via di salvezza, fuggire. Colui la cui anima cela un’angoscia congenita, può perciò benissimo avere un’idea esaltata dell’amore di Dio. Ma egli non riesce mai a concretare il suo rapporto a Dio. Se quest’idea dell’amore di Dio esercita su di lui una presa più profonda, se piamente egli è preoccupato di nutrire e mantenere quest’idea prima di tutto: allora, in molti modi e per molto tempo, egli può a sua volta restare in questa penosa sofferenza, ma non arriverà mai ad avere l’impressione che Dio è amore (perché l’angoscia continua ad essere soverchiante e gl’impedisce di vedere il pericolo, la prova, la tentazione, ecc, dal loro vero lato, cioè che esistono perché li vinca) mentre invece sempre più saldamente egli si aggrappa al pensiero che Dio è comunque l’amore! Questo è un segno ch’egli è educato per la Fede. Tener fermo così questo 562
L.c.
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pensiero che “Dio comunque è amore!” è questa la prima forma astratta della Fede, è la Fede in abstracto. Verrà il giorno in cui egli riuscirà anche a rendere concreto il suo rapporto a Dio»563.
Questa pagina, tratta dai Diari, efficacemente descrive la dialettica dell’angoscia nella sua triplice relazione allo scrupolo, alla fede e all’amore di Dio. Il testo, scritto a pochi mesi dalla pubblicazione de La malattia mortale, tesse la trama conclusiva tra l’angoscia del componimento del 1844 e la fede dell’opera del 1849. Nel testo de La malattia mortale la fede, se da una parte si specifica negativamente come figura dialetticamente opposta alla disperazione, dall’altra splende positivamente come trasparenza che consente il riconoscimento spontaneo tra la singolarità dell’io e la potenza che l’ha resa tale. Pertanto aver fede significa non solo disperare, ma anche affermare la volontà di esistere fondandosi trasparentemente in Dio. In tal modo l’angoscia, che nasce dal nulla come infinita possibilità di potere, trova trasparentemente accoglienza dall’evidenza dell’origine che la pone e, affidandosi ad essa, il possibile, prima ancora di diventare attuale, «può anticiparsi e rassicurarsi nel proprio valore infinito»564. La situazione dell’angoscia trova la sua risposta pacificante e coerente nella decisione di affidarsi; la fede, lungi dall’esser ridotta a mero oggetto di comunicazione speculativa, diventa movimento esistenziale nella relazione singolare verso l’Assoluto infinito e da questo al relativo finito. La fede come superamento dell’instabilità dell’angoscia è resa possibile solo se passa dal docere all’existere565, ovvero da una fredda dottrina di una comunicazione impersonale ad una comunicazione diretta di esistenza566, dal che cosa e dal ciò al come del rapporto567, dall’oggettiPap., 1849-1850, X2 A 493. V. MELCHIORRE, Saggi su Kierkegaard, cit., 77. 565 Cfr IC, 279. 566 Cfr IC, 286s: «Non si tratta né di comunicazione, né di recezione diretta: è in ballo una scelta. Qui non avviene come nella comunicazione diretta in cui è di regola attirare, minacciare, esortare, affinché a poco a poco si verifichi insensibilmente il passaggio all’ammettere, all’essere convinto, all’essere di avviso ecc… No, qui è richiesto un genere di recezione molto preciso: quello della fede. E la fede è essa stessa una determinazione dialettica. La fede è una scelta, non è affatto recezione diretta». Cfr anche Pap., dal 16 luglio 1848 al 2 gennaio 1849, IX A 207. 567 Cfr Pap., 1849-1850, X2 A 466. 563 564
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vità della sua verità fondativa alla sua appropriazione, dall’essere possesso al rimanere una eterna «ferita aperta» sull’oltre della nostra comprensione568. Si tratta di esistere all’interno della dimensione della fede e non socraticamente di comprendere, giacché il massimo a cui si può arrivare è di comprendere che nulla si può comprendere569: la ragione comprende che per l’Assoluto, oggetto della fede, non ci sono ragioni dal momento che la comprensione della fede è ultimamente incomprensibile. Ma ciò che resta stoltezza per la ragione, ovvero il paradosso della fede, non presume nessun mistico trascendimento della finitezza e non porta ad alcuna caduta nell’irrazionale: questa conclusione contraddirebbe infatti lo stesso statuto ontologico dell’io che, come sintesi di finito e infinito, ha da realizzare il compito di diventare concreto. «Farsi concreto non è né diventare finito né diventare infinito, perché ciò che deve farsi concreto è una sintesi. Lo sviluppo dunque deve consistere nello staccarsi infinitamente da se stesso, rendendo infinito l’io e nel ritornare infinitamente a se stesso, rendendolo finito»570.
Il compito di diventare se stesso nella sintesi tra il finito che limita e l’infinito che espande è raggiunto in forza del movimento della fede, descritto con queste parole nel testo di Timore e tremore: «La fede dopo aver compiuto i movimenti dell’infinità, compie quelli della finitezza […]. Basta il semplice coraggio umano per rinunziare a tutta la realtà temporale per ottenere l’eternità: ma che io l’ottenga e possa insieme per tutta l’eternità rinunciarvi, questo è contraddittorio. Occorre invece un coraggio umile e paradossale per poter ora afferrare tutta la realtà temporale in virtù dell’assurdo e questo è il coraggio della fede»571.
La fede di Timore e tremore è un movimento che conduce l’io alla concretezza nella riconquista del finito in virtù dell’infinito: in tal modo è evitata la contraddittorietà di una fede contro ragione. 568 Cfr Pap., 1849-1850, X2 A 529: «Prendi l’assurdo: il negare ogni comprensione, è una cosa che spinge fuori del mondo, nelle braccia dell’assurdo — e qui c’è la Fede». 569 Cfr Pap., 1851, X4 A 356. 570 SD, 32. 571 FB, 213.224.
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«Ma colui che è giunto alla fede, se egli non si fermasse alla fede, certamente si ribellerebbe se qualcuno glielo rimproverasse: come l’amante s’indignerebbe se qualcuno lo rimproverasse perché si è fermato all’amore — egli infatti risponderebbe: io non mi sono fermato affatto, poiché è in questo che consiste la mia vita»572.
Il fermarsi alla fede, stando alle battute dell’opera del 1843, non è un riposare, ma è sinonimo di una continua ripresa che mai s’arresta, di un perenne cammino che dall’orizzonte dell’infinito riconduce alla sponda della finitezza. L’equilibrio tra il salto dell’infinito e il cammino nel finito non è cosa semplice, ma questo resta indice anche della passione delle coscienze religiose, ballerini dell’Infinito che vacillano nel finito. «Il compito più arduo per un ballerino è di saltare portandosi in un posto preciso così che non c’è secondo che non trovi la sua posizione mantenendo anche nel salto la sua posizione. Forse nessun ballerino può farlo — ci riesce quel cavaliere. La massa degli uomini vive perduta nelle cure e nelle gioie mondane, questi sono gli spettatori che non partecipano mai al ballo. I cavalieri dell’Infinito son ballerini e hanno elevazione. Essi si muovono alzandosi e ricadendo e anche questo non è perdita di tempo né sgradevole a vedersi. Ma ogni volta che cadono, essi non possono prendere subito posizione, vacillano un momento, e questo vacillare mostra che essi sono degli estranei in questo mondo. Quel vacillare è più o meno evidente, secondo la loro abilità, ma anche i più esperti fra questi cavalieri non riescono a nascondere questo oscillare. Non è necessario vederli in aria, basta vederli nel momento quando essi toccano o hanno toccato terra — per conoscerli. Ma poter cadere in modo da sembrare nello stesso secondo dritti e in movimento, trasformare il salto nella vita in un camminare, esprimere assolutamente il sublime col pedestre, questo lo può soltanto quel cavaliere: ecco l’unico miracolo»573.
La danza dall’eterno al tempo, l’instabile equilibrio tra l’elevazione e la caduta, tra il sublime e il pedestre, è immagine della fede dell’uomo posta davanti ad una situazione di costante rischio, di incertezza, di inquietudine, di passione per il riferimento costitutivo all’Assoluto Ignoto, ubique et nusquam. 572 573
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FB, 296. FB, 216s.
«Senza rischio non c’è fede. La fede è precisamente la contraddizione fra la passione infinita dell’interiorità e l’incertezza oggettiva. Se posso cogliere Dio oggettivamente, allora io non credo; ma perché non lo posso, perciò devo credere. E se voglio conservarmi nella fede, io devo sempre badare di mantenere l’incertezza oggettiva “a 70.000 piedi di profondità”, e tuttavia credo»574.
La fede, come ogni espressione della libertà, può essere raggiunta solo nell’essere disposti a correre dei rischi. La certezza che si ottiene non è verificabile con prove oggettive, ma è certezza della passione dell’interiorità in cui essa trasforma, col movimento dell’angoscia, l’incertezza oggettiva in verità soggettiva. La fede intesa come passione infinita575 mostra tutta la dimensione della sofferenza la quale, mantenendo l’incertezza oggettiva, si fa movimento appassionato superando ogni rassegnazione del finito. Accettare dunque la dimensione del rischio come il qualificante della fede, significa escluderne l’accertabilità razionale e la rassicurazione oggettiva, per ammettere solo un’appassionata e inquieta ricerca di senso. Tale sembra essere la conclusione a cui pervengono le pagine di una religiosità non cristiana (religione A), come anche le parole di un predicatore cristiano scolpite nel Vangelo delle sofferenze: «Il chiamarsi credente indica evidentemente che si è in viaggio, poiché la fede significa propriamente che quel ch’io cerco non è qui, proprio per questo io lo credo. Fede significa precisamente l’inquietudine profonda, forte, beata che trascina il credente; poiché un credente non può mettersi a seder tranquillo, come ci si siede con un bastone in mano, il credente cammina in avanti»576.
L’inquietudine sembra essere dunque l’attitudine che la fede ha imparato andando a lezione alla scuola dell’angoscia. «Come il pescatore quando ha teso la rete fa rumore nell’acqua per spingere i pesci in quella direzione e fare una buona pesca; come il cacciatore con la banda dei battitori accerchia tutto il terreno, e ora spaventa la selvaggina così che venga a raccogliersi in quantità al posto 574
AE, 331. Cfr FB, 243: «La fede è un prodigio, eppure nessun uomo ne è escluso: poiché ciò in cui ogni vita umana si unisce è la passione e le fede è una passione». 576 LE, 419. 575
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dove si deve sparare: così Iddio, che vuol essere amato, attira gli uomini per via dell’inquietudine. Il Cristianesimo è l’inquietudine, la massima, la più grande possibile, di cui non si può pensare una maggiore: essa vuole (in questo senso precisamente operava anche la vita di Cristo) inquietare l’esistenza umana fin dal suo intimo fondo, spezzare tutto, mandar tutto all’aria. Quindi Dio si serve dell’inquietudine, mette avanti l’inquietudine per attirare gli uomini che Lo vogliono amare. Ma la Sua differenza dal cacciatore e dal pescatore sta nel fatto che Dio non mette avanti l’inquietudine per accalappiare quanti più ne può, non perché lo interessi il numero, ma per via della intensità. Cioè, quand’Egli mette avanti la più grande inquietudine possibile, l’uomo può raggiungere la tensione e quell’intensità che lo porta veramente ad amare Dio. Ma l’uomo ama la calma, la sicurezza. È tuttavia certo che nella calma e nella sicurezza nessuno può diventare cristiano, e non è meno certo che nessun cristiano può starsene in calma e sicurezza. Quando si debba diventare cristiano, ci dev’essere inquietudine; e quando si sia diventati cristiani, ci sarà inquietudine»577.
La fede come irrequietezza per l’eterno sempre fungente fu anche la tinta con cui la religiosità luterana venne esistenzialmente vissuta da Kierkegaard, come egli pare indicare in una delle ultime pagine del suo Diario, dove traccia una sorta di bilancio riassuntivo sulla sua diretta esperienza di inquieto poeta penitente che si prepara a render conto della sua fedeltà all’ideale: «Essere cristiani è essere come spirito, è l’inquietudine più alta dello spirito, l’impazienza dell’eternità, un continuo timore e tremore: acuito dal trovarsi in questo mondo che crocifigge l’amore, acuito dal brivido per il rendiconto finale quando il Signore e Maestro ritornerà per giudicare se i cristiani sono stati fedeli»578.
La fede vince l’angoscia ma solo facendo tesoro della sua inquietudine, della sua impazienza, del suo timore e tremore per l’eternità. L’angoPap., ottobre 1854 – settembre 1855, XI2 A 29. Pap., 1854, XI1 A 193. Cfr anche Pap., dal 1° marzo all’ottobre 1854, XI1 A 396: «Il cristianesimo è inquietudine, l’inquietudine dell’eternità»; Pap., carte sparse (1853-1855), XI2 A 395: «Il Cristianesimo mette avanti l’eternità precisamente come l’inquietudine più intensiva, per salvare l’uomo da questa stregoneria della quiete». 577 578
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scia è la vertigine della libertà e la libertà, solamente percorrendo fino in fondo l’angolo degli otto sentieri, è in grado di raggiungere l’eterno. Come a più riprese è stato sottolineato dai testi kierkegaardiani, la libertà è il segno dell’eterno nell’uomo ed è proprio restando sospesi nella vertigine da essa provocata che è resa all’uomo la possibilità di danzare per l’eterno. È la vertigine, l’ebbrezza della libertà che dà forma alla danza nel tempo verso l’eternità. The wine of life is drawn579: il vino della vita, che dà vertigine, è esaurito dal momento in cui si nega l’eterno di Dio nel tempo dell’uomo, e dunque il suo essere libero: nulla di serio nel finito può esistere dopo la morte in lui dell’eterno, ma solo i balocchi della finitezza che lo rendono schiavo. Il vino della vita, sorseggiato tra l’eterno e il tempo, tra l’infinito e il finito, tra la necessità e la possibilità, tra il divino e l’umano, è la libertà come effervescente fermentazione dell’angoscia che, dalla vertigine alla danza, educa l’individuo all’intelligenza e al coraggio della fede. «Dalla finitezza si può imparare molto; ma non si impara a sentire l’angoscia se non in un senso molto mediocre e pernicioso. Chi, invece, ha imparato in verità a essere in angoscia, può andare per una sua strada quasi danzando, quando le angosce del mondo finito cominciano il loro gioco e i discepoli della finitezza perdono l’intelletto e il coraggio»580.
La danza è la gestualità ultima dell’uomo che fino in fondo ha imparato ad ascoltare la sua angoscia per la vertiginosa distanza dall’infinito: è la danza dell’uomo, il quale con affidamento libero all’Infinito Dio, estingue ogni dubbio dell’angoscia, nella gioia di trovare la Verità che gli appartiene, la Verità come evento che edifica la sua esistenza, la Verità non da conoscere oggettivamente ma soggettivamente da vivere. «Non arrestare il volo della tua anima, non contristare ciò che v’è di meglio in te, non sfibrare il tuo spirito con desideri a metà e pensieri a metà!
579 È la celeberrima esclamazione di Macbeth nell’omonima opera di Shakespeare, che Kierkegaard riporta sia ne Il concetto dell’angoscia (457) sia nel testo de La malattia mortale (133): «From this instant There’s nothing serious in mortality All is but toys; renouwn and grace is dead; The wine of life is drawn» (Macbeth, Atto II, sc.3). 580 BA, 473.
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Domandati e continua a domandare finché troverai la risposta; perché si può aver riconosciuto una cosa molte volte, si può aver voluto una cosa molte volte, si può averla tentata, e tuttavia unicamente il profondo intimo moto, unicamente l’indescrivibile intenerirsi del cuore, questo unicamente ti convincerà che quanto hai riconosciuto ti appartiene, che nessun potere riuscirà a strapparlo via da te; perché solo la verità che edifica è verità per te»581.
581 EE, V, 274. Ritornano alla mente le parole di un giovanissimo Kierkegaard che nel 1837 scriveva: «Ecco, l’importante nella vita: aver visto una volta qualcosa, aver sentito una cosa tanto grande, tanto magnifica che ogni altra sia un nulla al suo confronto e anche se si dimenticasse tutto il resto, quella non la si dimenticherebbe mai più!» (Pap., 27 gennaio 1837 – 2 giugno 1840, II A 58).
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INDICE DEI NOMI Abbagnano N. 47 Abramo 15, 26, 102, 158, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 169, 170, 171, 172, 180 Adamo 46, 47, 48, 49, 52 AdinolďŹ I. 12, 158 Adorno T.W. 132 Agamennone 165 Agnese 26 Anti-Climacus 52, 57, 69, 70, 72, 73, 74, 91, 132, 151 Archimede 25 Aristotele 112 Balthasar H.U. von 55, 56 Beabout G.R. 83 Blumenberg H. 95 Bochi G. 181 Bruto 165 Burger Cori A. 132 Cantoni R. 35 Casuscelli 118 Ciglia F.P. 186 Climacus J. 23, 70, 81, 151, 172 Constantius C. 67 Cristellon L. 168 Curi U. 128 Davini S. 64 De Natale F. 54 de Silentio J. 159, 172 Di Stefano T. 53, 132 Don Giovanni 102, 117, 118, 126, 127, 128 Eremita V. 20 Eva 52 Faber B. 146, 158, 172, 176, 178, 181 Fabro C. 37, 47, 54, 69, 70, 80, 81, 82, 96, 137, 153, 182
Fichte J.B. 76, 122 Fischer H. 182 Forte B. 155, 165 Fortunato M. 178, 179 Garff J. 12 Garrera G. 118 Gentili F. 93, 119 Giano 146 Giuda (apostolo) 181 Givone S. 158 Hamann 37 Hannay A. 69, 120 Hegel 41, 69, 75, 119, 120, 157 Heidegger M. 54, 55 IďŹ genia 165 Iiritano M. 132, 137, 158 Innamorati M. 75 Isacco 26, 159, 161, 164, 165, 166, 167, 170, 180 Jefte 165 Jolivet R. 79 Jonas H. 8 Kierkegaard M. 25 Kierkegaard S. 3, 7, 8, 9, 11, 12, 13, 14, 15, 17, 18, 19, 20, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 35, 36, 37, 38, 41, 42, 44, 46, 47, 49, 50, 53, 54, 55, 57, 60, 61, 64, 65, 66, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 83, 84, 88, 90, 91, 92, 94, 95, 96, 102, 103, 104, 105, 106, 108, 109, 110, 113, 117, 118, 119, 120, 122, 124, 125, 128, 131, 132, 133, 134, 135, 137, 143, 146, 149, 150, 151, 152, 153, 155, 156, 157, 158, 159, 162, 163, 164, 165, 166, 168, 172, 173, 174,
213
175, 178, 179, 181, 182, 185, 186, 190, 194, 196, 198, 202, 203, 204 Klein A. 181 Levinas E. 186 Lutero 36, 157, 181 Marino G.D. 69 Marx C. 80 Masi G. 151 MeďŹ stofele 117 Melchiorre V. 10, 95, 121, 146, 172, 173, 195, 196, 198 Modica G. 152 Moeller P.M. 37 Mollo G. 42 Mozart W.A. 102, 117, 118, 126 MĂźller J. 151, 152 Mursia Re G. 130 Napoleone 104 Nepi P. 166, 167 Nerone 102, 113, 114, 115 Nicoletti 64 Nordentoft K. 13 Olsen R. 19, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 164 Paci E. 35, 40, 41, 44, 45, 53, 55, 106, 110, 117, 120, 128, 157 Paolo di Tarso 110 Pareyson L. 66, 113, 118, 162 Pascal B. 66, 162 Penzo G. 49, 64, 71, 159 Perini R. 75 Pizzuti G.M. 26, 170, 171 Platone 60 Quinzio A.G. 128 Quinzio S. 156, 157 Ricoeur P. 73, 120, 132 Roth F. 38
214
Sara 160 Saraceno L. 7, 8, 9, 10 Sartre J.-P. 130 Sechi V. 26 Sesta L. 84 Shakespeare W. 203 Simon V. 56 Smith R.G. 37 Socrate 70, 119 Thulstrup N. 37, 69 Thurnher R. 64 Tilgher A. 76 Tritone 26 Usteri 46 Vigilius Haufniensis 37, 42, 52, 57, 65, 69, 91, 131, 132 Vigna C. 158 Wahl J. 52, 173 Welte B. 53 Westphal M. 69 Wiener G.A. 38 Wilhelm (giudice) 125, 157
INDICE PRESENTAZIONE
7
INTRODUZIONE L’ANGOLO DEGLI OTTO SENTIERI
11
ESORDIO IL VEGLIARDO E LA BAMBINA
17
Parte prima Per una fenomenologia esistenziale dell’angoscia
33
CAPITOLO I L’ANGOSCIA DELL’UOMO DAVANTI AL NULLA: «LA POSSIBILITÀ PER LA POSSIBILITÀ» 1. «L’IMPOTENZA DELLA PSICOLOGIA» 2. «L’INNOCENZA È IGNORANZA» 3. «LO SPIRITO SOGNANTE» 4. «IL NULLA CHE ANGOSCIA» 5. «LA POSSIBILITÀ DELL’ETERNITÀ»
35 37 41 44 48 58
CAPITOLO II LA DISPERAZIONE DELL’IO DAVANTI AL FONDAMENTO: IL «FRAINTENDIMENTO» DELLA LIBERTÀ 1. «L’IO È UN RAPPORTO» 2. «L’IO È LIBERTÀ» 3. «IL RAPPORTO FALSO» 4. «LA DIFFERENZA QUALITATIVA»
69 73 76 82 89
Parte seconda Per una fenomenologia esistentiva dell’angoscia
99
CAPITOLO III L’ANGOSCIA DEL DEMONIACO: «LA PAURA DELL’ETERNITÀ» 1. «L’ANGOSCIA DEL BENE» 1.1. L’«oracolo» del pagano 1.2. Il «sacrificio» dell’ebreo 1.3. Il demoniaco 1.3.1. La taciturnità 1.3.2. L’improvviso 1.3.3. Il vuoto 2. «LE FIGURE DELLA DISPERAZIONE»
101 102 102 105 108 112 116 118 120
215
2.1. La disperazione a partire dagli elementi della sintesi 2.1.1. L’uomo dell’ebbrezza 2.1.2. L’uomo dei proverbi 2.1.3. L’uomo miraggio 2.1.4. L’uomo delle consonanti 2.2. La disperazione sotto la determinazione della consapevolezza 2.2.1. L’uomo della cantina 2.2.2. La debolezza del femminile e l’ostinazione del virile 2.2.2.1. L’uomo della «porta finta» 2.2.2.2. L’uomo della «porta reale» 2.2.2.3. L’uomo prometeico
121 122 124 125 128 130 131 133 134 137 139
CAPITOLO IV L’ANGOSCIA DELL’INNOCENTE: «LA COSCIENZA DELL’ETERNITÀ» 1. «IL NAUFRAGIO DELL’ETICA» 2. «LA SOSPENSIONE TELEOLOGICA DELL’ETICA» 3. «IL RAPPORTO PATETICO A UNA BEATITUDINE ETERNA» 4. «LA SCUOLA DELLE SOFFERENZE»
143 145 156 173 183
POSTILLA CONCLUSIVA DALLA VERTIGINE ALLA DANZA
193
BIBLIOGRAFIA
205
INDICE DEI NOMI
213
216