Doc&Studi16_Coperta
6-09-2007
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Francesco CONIGLIARO insegna Filosofia Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Palermo. Pubblicazioni principali: Immanenza e trascendenza del soprannaturale in Rosmini, Palermo 1973; La struttura apriorica della mens, Palermo 1977; (In collaborazione con G. Barbaccia) La comunità politica, Palermo 1979; Il "caso" Salvatore Di Bartolo teologo palermitano, Palermo 1982; La situazione del discorso. Critica, conoscenza, emancipazione, Palermo 1983; La politica tra logica e storia. Il pensiero filosofico-politico di Antonio Rosmini, Palermo 1985; Ermeneutica e teologia, Roma 1986; Sulla nave di Odisseo. Saggio su Ernst Bloch, Palermo 1990; Un gioco senza regole. Chiesaéschaton, potere-persona, Palermo 1992; Chiesa e società in Giuseppe Lo Cascio, Palermo 1994; Dominium terrae. L’uomo nel mondo della natura, Torino 1998; Un secolo di teologia in Sicilia, San Cataldo (Caltanissetta) 1998; La libertà. Estasi e tormento, Torino 2001; Libertà male Dio, Monreale (Palermo) 2002; Giuseppe Lo Cascio. Azione pastorale ed impegno sociale, Palermo 2002; Chi ci salva? Articulus stantis et cadentis ecclesiae, Monreale (Palermo) 2003.
L’intento di J. Habermas è di trovare una forma soddisfacente di integrazione per la società moderna complessa e pluralista. La prospettiva assunta è post-metafisica e procedurale e, in quanto tale, contraria a qualsiasi prospettiva filosofica, sociologica e politica che pretenda di spiegare e di progettare il mondo all’interno di un unico quadro teorico. La situazione di “dis-accordo razionale” che ne consegue non trova Habermas rassegnato di fronte a concezioni riduttive della ragione. La sua proceduralità non è un pragmatismo scettico. La via da lui scelta è quella della razionalità comunicativa, che è tutt’altro che strumentale, si attiva con il medium del linguaggio e prospetta un’intesa nel futuro. Per Habermas l’eredità del lógos è irrinunciabile. Ne sono figure portanti il soggetto, l’intersoggettività, la trascendentalità, l’universalità, l’eticità ed anche il fattore religioso, considerate un poderoso potenziale razionale racchiuso nella vita quotidiana, un autentico livello teorico della prassi ed una preziosa riserva per la comunicazione: preservano i vari tipi di Diskurs della comunità intersoggettiva dalla banalità della chiacchiera e dal dramma dello scacco. Tutte queste figure, riproposte dal nostro francofortese secondo il modulo procedurale-comunicativo e, pertanto, al di fuori della prospettiva metafisica, dell’impostazione mentalistica, dell’orientamento deontologico e della concezione teistico-teologica, vengono messe a tema non solo in forza di istanze filosofiche ma anche per la duplice esigenza di sottoporre ad un supplemento di riflessione l’ordine fattuale e di attivare una adeguata e feconda spinta controfattuale. La controfattualità è, a motivo delle implicazioni che contiene e dei problemi che solleva, gravida di dati non empirici ed emergenti nell’empirico e vi gioca un ruolo mediante moduli pragmatici, ma attivando tensioni non-contemporanee ineliminabili. La controfattualità assolve un compito molteplice: quello teoretico di resistere alle aggressioni livellatrici dell’empirico, del funzionale e del sistemico e quello dialettico di mettere in luce nodi problematici e nostalgie. Assolve altri due compiti: quello diagnostico di recare all’evidenza insufficienze teoretiche del pensiero habermasiano e quello esplorativo di dare indicazioni circa le numerose tracce di ulteriorità che vi si trovano.
Pubblicazione realizzata con il contributo della Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali, Ambientali e Pubblica Istruzione
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€ 12,50
PROCEDURALITÀ E TRASCENDENTALITÀ IN J. HABERMAS
FRANCESCO CONIGLIARO
PROCEDURALITÀ E TRASCENDENTALITÀ IN J. HABERMAS UNA TENSIONE NON-CONTEMPORANEA E IL SUO SIGNIFICATO ANTROPOLOGICO, ETICO E POLITICO
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS 16
DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS Pubblicazioni dello Studio Teologico S. Paolo - Catania
FRANCESCO CONIGLIARO
PROCEDURALITÀ E TRASCENDENTALITÀ IN J. HABERMAS Una tensione non-contemporanea e il suo significato antropologico, etico e politico
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
A Virginia e Stefano primavera di promesse nell’autunno dei miei anni.
SIGLE DEGLI SCRITTI DI J. HABERMAS PIÙ FREQUENTEMENTE CITATI
ACLSS CC CI CPN CRCM DFM DR DU ED FN FNU IA KHDV MDP NO OD PPF PPM RC RMS SCOP SE TAC TFCS TM TP TPST TSTS TSF VG
Agire comunicativo e logica delle scienze sociali Cultura e critica Conoscenza e interesse La costellazione post-nazionale La crisi della razionalità nel capitalismo maturo Il discorso filosofico della modernità Dialettica della razionalizzazione Dopo l’utopia Etica del discorso Fatti e norme Il futuro della natura umana L’inclusione dell’altro Kommunikatives Handeln und detranszendentalisierte Vernunf Morale, Diritto, Politica La nuova oscurità L’occidente diviso Profili politico-filosofici Il pensiero post-metafisico La rivoluzione in corso Per la ricostruzione del materialismo storico Storia e critica dell’opinione pubblica Solidarietà tra estranei Teoria dell’agire comunicativo Testi filosofici e contesti storici Teoria della morale Tempo di passaggi Teoria e prassi nella società tecnologica Teoria della società o tecnologia sociale Tra scienza e fede Verità e giustificazione
CRITERI DI CITAZIONE DELLE OPERE DI J. HABERMAS
a) gli scritti consistenti in volumi e pi첫 frequentemente citati: vengono citati in nota mediante sigla; b) gli scritti inseriti in volumi e pi첫 frequentemente citati: vengono citati in nota mediante la sigla del volume in cui sono contenuti; c) gli scritti citati nel testo ed inseriti in volumi: vengono citati per intero in nota ed in bibliografia; d) gli scritti non indicati mediante sigla: vengono citati per intero in nota ed in bibliografia.
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PREMESSA
La società, che è animata da una qualsiasi forma di sapere amministrato, non sarà mai in condizione di fare l’esperienza dell’oggettività. Naturalmente, ciò non esclude che una parte grande o piccola dei membri di essa possa anche coltivare a livello soggettivo il convincimento di essere in contatto effettivo con la realtà delle cose, pur rimanendovi oggettivamente molto lontana. Per chi si trova in una tale situazione, non si dà alcuna chance per la conoscenza e, di conseguenza, l’unica possibilità che fatalmente si apre è quella della non-conoscenza. Eppure la conoscenza è necessaria all’uomo. Senza di essa, egli è estraneo al mondo ed il mondo è estraneo a lui, la sua prassi si riduce ad un insensato girovagare in un tempo ed in uno spazio apparenti, i suoi discorsi si dissolvono in chiacchiere, e cioè in meri fenomeni di verbalizzazione, inidonei ad offrire senso. Il soggetto umano che si rivela incapace di attivare la sua potenza conoscitiva, dal punto di vista della teoria della conoscenza è prigioniero del soggettivismo e del sistema di costrizione che ne deriva; dal punto di vista della teoria psicoanalitica, vive come un “io”, non solo preceduto, ma anche condizionato e, addirittura, determinato dall’es; dal punto di vista della teoria politica, si trova preso nelle trame delle ideologie in senso stretto, e cioè si trova intrappolato in fenomeni di falsa coscienza e, in ultima analisi, nei labirinti dei dispositivi della dominazione. In una tale situazione, alla vera conoscenza resta un’unica via, la critica, che in concreto è l’espressione di quegli spiriti liberi, che, nonostante tutto, conservano la duplice capacità di autodeterminarsi e di atteggiarsi autonomamente nei confronti delle cose, degli eventi e degli altri soggetti che si affacciano sullo spazio collettivo. Lo spirito libero, nell’atto di scrollarsi di dosso gli “enti”, che tendono a dominare la sua vita e la sua prassi, attiva dei processi capaci di scatenare una vera e propria valanga. La facoltà soggettiva idonea a tale scopo è la ragione. Questa, da parte sua, deve superare non poche difficoltà per potersi volgere al suo oggetto: l’oggetto della conoscenza si presenta al soggetto conoscente già situato in una griglia interpretativa ed in una rete di interessi. La critica, però, non basta. Infatti, la sua assolutizzazione, intellettualmente molto facile e, diciamo pure, comoda, sul terreno della concretezza rischia di lasciare solo rovine di idee, di progetti, di prassi, ecc. Non manca chi parla di esiti caratterizzati da un agnosticismo generalizzato, dal relativismo e perfino dal nichi-
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lismo. Sicché, insieme alla critica occorre avviare anche un’azione costruttiva, consapevoli che si tratta di un’opera razionale di grande impegno e di grande significato. Come è facile comprendere, sorgono problemi di non piccolo momento sia sul fronte della gnoseologia, sia su quello della sociologia della conoscenza, sia, infine, su quello della politica. Per quel che concerne quest’ultimo fronte tematico e problematico, che in ogni caso è sempre connesso con gli altri due, occorre vedere la tipicità della consistenza e dell’impegno della ragione critica; occorre, cioè, vedere la struttura, il dinamismo e la modalità della ragione nell’atto in cui si attiva come organo dei soggetti umani che sinergicamente vivono ed operano nello spazio socio-politico. Il senso pieno dell’umano si svela e si coglie all’interno di una comunità intersoggettiva pienamente emancipata, e cioè all’interno di una comunità che opera a pieno regime di comunicazione, libera dalle conseguenze limitative dei perversi fenomeni di dominazione. La storia, magistra vitae, insegna sia che i fenomeni di dominazione sono in ogni senso fatali, sia che la comunità intersoggettiva emancipata, anche nel caso migliore, è un evento in fieri. Da qui il dolore ed il sangue degli scontri, ma anche i conflitti delle interpretazioni, le battaglie sul metodo e le energie impiegate per legittimare o, a seconda dei casi, delegittimare teorie, procedure e forme e figure istituzionali e non. Mentre tutto questo accade, ci si rende conto che le tensioni della razionalità, della critica e del trascendimento sono ben altro che fatti casuali e contingenti nell’ampio ambito del fenomeno umano. E se non sono contingenti, qual è la loro consistenza? Qual è la loro giustificazione? Nell’affrontare questi problemi ci sembra particolarmente stimolante procedere seguendo da vicino J. Habermas, un grande pensatore vivente continuatore-rinnovatore delle istanze tipiche della Scuola di Francoforte, che si occupa dell’agire comunicativo e di ciò che lo rende possibile, come la competenza comunicativa, ed anche di ciò che lo configura eticamente, teleologicamente ed assiologicamente, come l’attenzione alla componente della trascendentalità o, almeno, a ciò che resta di essa, e che, come lo stesso Habermas dice, consiste in un “potenziale razionale” immanente nella prassi comunicativa della vita quotidiana1. Con lui una siffatta terminologia, benché gli sia dovuta solo in parte e fino ad un certo punto, acquista un significato particolare tutto volto alla razionalizzazione sociale.
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Cfr SCOP XXVIII.
Si tratta di un modo particolare di razionalizzare lo spazio socio-politico, che, a motivo delle sue caratteristiche peculiari e della sua capacità di provocare e di stimolare, occupa un posto non piccolo nell’attuale dibattito che impegna le scienze politiche e sociali ed anche la filosofia. L’intento di J. Habermas è di pervenire alla razionalizzazione, ma un tale lodevole intendimento deve fare i conti, ed il Nostro lo sa benissimo, con eventi sociali, che attestano la disgregazione dei sistemi sociali tradizionali e, a causa della loro crisi profonda, mettono a rischio la formazione di quelli moderni, e con una prassi politica che, mentre dice di volgersi costantemente alla razionalità, è oscurata da continue ricadute irrazionalistiche, spesso subite ma non raramente anche programmate. In tale contesto altamente problematico e critico si rende necessario un approccio teoreticopolitico che consenta di ripristinare in maniera inequivocabile ed irreversibile la razionalità e di riattivare i dispositivi della razionalizzazione. Questo è appunto ciò che Habermas si ripromette di fare cercando di avviare a soluzione la tensione che, a livello di pratica, si pone tra ciò che è praticamente necessario e ciò che è oggettivamente possibile2. J. Habermas persegue il suo scopo adottando in un certo senso un nuovo paradigma. Ma questo è un punto di arrivo di un percorso laborioso. Egli stesso ce ne indica le tappe: all’interno di un grande mutamento, dovuto al transito sia dalla filosofia della coscienza alla filosofia dell’agire comunicativo, che ha una dinamica intensamente linguistica, sia dalla prospettiva gnoseologica a quella critica delle condizioni dell’intesa possibile3, si situano motivi fondamentali, quali la “teoria della razionalità”, la “teoria dell’agire comunicativo”, la “dialettica della razionalizzazione sociale” ed il “concetto della società che riunifica la teoria dei sistemi e la teoria dell’azione”4. L’intendimento del Nostro è di trovare la strada per pervenire all’integrazione della società moderna complessa e pluralista. L’idea conduttrice è quella della razionalità comunicativa, e lo è fino al punto da assurgere al livello del paradigma.
2 Cfr J. COHEN, Why More Political Theory, trad. it., Perché ancora una teoria politica?, in DR 325. 3 Cfr SE 64. 4 Cfr J. HABERMAS, Dialektik der Rationalisierung, trad. it., Dialettica della razionalizzazione. Jürgen Habermas a colloquio con Axel Honneth, Eberhard Knödler-Bunte e Arno Widmann, in DR 232 ss.
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Facendo questo percorso, J. Habermas si confronta frequentemente con tanti maestri del pensiero, ed in particolare con K. Popper ed il razionalismo critico, con H.G. Gadamer e l’ermeneutica, con N. Luhmann e la teoria sistemica, con J.L. Austin e la teoria degli atti linguistici, con G.H. Mead e la sua dottrina circa il rapporto tra coscienza e relazioni sociali, con J. Rawls e la sua teoria della giustizia e con K.O. Apel e le sue intense riflessioni circa i rapporti tra comunità e comunicazione ed il dinamismo etico che li attraversa. Come si può vedere anche da questi fugaci accenni, l’attenzione di Habermas risulta volta al soggetto, concepito non più in modo solitario ma intersoggettivamente ed impegnato a mostrarsi ed a lasciarsi osservare e studiare sui fronti comunicativo e linguistico, in quanto soltanto su tali fronti può essere diagnosticato e riprogettato. La struttura dell’intersoggettività è pensata quale fulcro normativo e gnoseologico della teoria critica ma anche come spazio vitale e dialogale dove può realizzarsi il progetto habermasiano, che è quello di attuare l’intesa e di fondarla razionalmente. Questa, secondo Habermas, è certamente un’interpretazione dell’uomo e del mondo in termini post-metafisici, e cioè un’interpretazione che sa sia di non poggiare più su una visione della verità come adeguazione tra pensiero ed essere, perché priva di interesse, e dotata di pretese assolute, perché basata sul consenso intersoggettivo, sia di essere in concorrenza con altre interpretazioni con le quali condivide solo la pretesa di verità. E non si tratta di una visione che s’impone ad Habermas dall’esterno, in quanto egli, da parte sua, è nettamente contrario a qualsiasi prospettiva filosofica, sociologica e politica che pretenda di spiegare il mondo a partire da un unico quadro teorico5. Ci si viene a trovare in una situazione caratterizzata dal “disaccordo razionale”6. Stando così le cose, non pare che ci sia più spazio per un concetto di razionalità di tipo classico o di tipo hegeliano. Anzi, J. Habermas sembra accedere a posizioni contestualiste, come accade ad esempio a J. Derrida e R. Rorty, autori che egli conosce molto bene e secondo i quali i paradigmi non sono omologabili. Per il nostro francofortese, però, la situazione di “dis-accordo razionale” non comporta automaticamente l’adozione di concezioni riduttive della ragione, come quella neopositivista, o quella strutturalista o, ancora, quella nichilista. Si tratta, dunque, di una situazione 5 6
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Cfr DU 115 s. Cfr TM 214 s.
che, pur escludendo l’accordo razionale, non si rassegna ad un modus vivendi di disaccordo tra pretese di verità in concorrenza, ma prospetta un consenso nel futuro, a cui è e resta aperta7. A questo punto, la via per superare i rischi del contestualismo sembra indicata. Solo che occorre anche percorrerla. Ed il nostro francofortese non si tira indietro. A nostro modesto avviso, e non mancheremo di volgere la nostra attenzione a ciò, Habermas, mentre fa i suoi discorsi, sviluppa le varie tematiche della sua riflessione e tenta di scoprire le soluzioni per gli innumerevoli problemi speculativi nei quali si imbatte, si trova preso tra la componente post-metafisica della modernità ed il senso dell’aspettativa che le conseguenze negative che discendono dall’abbandono della metafisica possano essere superate in ciò che dava consistenza e senso alla metafisica, ma colto in un altro ambito espressivo ed interpretativo, e cioè nell’approccio linguistico-comunicativo. Per Habermas la via verso il moderno è quella stessa del superamento della ragione oggettiva, legata alla scolastica adeguativa ed al modello teoretico metafisico8. Benché radicalmente ispirato dall’illuminismo, egli si oppone alla concezione di verità che discende dalla modernità oggettivante (es.: Bacone) e rappresentativa (es: Locke, Hume, Kant) e, carico dei frutti della svolta comunicativa della filosofia e della categoria dell’intersoggettività, perviene ad una teoria consensuale della verità (es: Peirce, Apel)9. Si tratta di una concezione della verità che si pone nella modernità e che fornisce ad Habermas non pochi elementi per farsi un’idea positiva della modernità. Ciò, a nostro sommesso parere, spiega, da un lato, il convincimento di Habermas che la modernità, vista in prospettiva illuministica, sia un progetto incompiuto10 e, tuttavia, sempre in grado di offrire elementi positivi, e primo fra tutti la grande attenzione ad una razionalità forte, e, dall’altro, la continua polemica contro la post7
Cfr TM 214 s. Cfr W. PAULY, Wahrheit und Konsens. Die Erkenntnis Theorie von Jürgen Habermas und ihre theologische Relevanz, Frankfurt a.M. – Bern – New York – Paris 1989, 10, 64. 9 Cfr R. MANCINI, Editoriale all’edizione italiana di E. Arens (ed.), Habermas und die Theologie: Beiträge zur theologischen Rezeption, Diskussion und Kritik der Theorie kommunikativen Handelns, trad. it., Habermas e la teologia. Contributi per la ricezione, discussione e critica teologica della teoria dell’agire comunicativo, Brescia 1992, 9 s. 10 Cfr J. HABERMAS, Die Moderne – ein unvollendetes Projekt ist, (1980), in ID., Die Moderne – ein unvollendetes Projekt ist. Philosophisch-politische Aufsätze, Berlin 19943, 32-54. 8
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modernità a motivo dell’irrazionalismo che la caratterizza. Per J. Habermas la razionalità veramente forte, idonea a porre argini efficaci davanti alle concezioni relativistiche della razionalità, che segnano una parte non piccola della produzione filosofica recente, è la razionalità comunicativa, e cioè quella razionalità che non si lascia concepire in modo strumentale e si fa comprendere mediante le sue dimensioni comunicative11. Sorgono dei problemi: questo tipo di razionalità esprime tutto il “potenziale di razionalità” che anima la riflessione habermasiana? Resta un potenziale di razionalità non espresso e non attivato, un vero eccedente di razionalità, che legittimi la presenza nel pensiero habermasiano di una componente trascendentale? La presenza di tale componente è evidente, oppure è evocata, più che tematizzata, e rimpianta, più che teorizzata? Questi problemi vengono all’evidenza, secondo la nostra modesta opinione, mentre il Nostro tratta le tematiche che gli sono congeniali, e cioè la teoria dell’agire comunicativo con le tesi collegate sulla pragmatica universale e sull’intesa, la teoria del soggetto con le tesi sulla dinamica intersoggettiva e sulle competenze cognitiva e linguistica, la teoria dell’intersoggettività, la teoria della società, la teoria della modernità e le tesi articolate sul post-moderno, la teoria della filosofia e del suo carattere post-metafisico, la teoria della razionalità ed il suo percorso comunicativo. Non manca chi vede in Habermas una tematica ampia ma non per questo debole sul fronte dell’unitarietà, come accade con D. Horster, il quale è dell’opinione che l’opera habermasiana sia una complessa ed appassionata etica del moderno12, o anche con W. Privitera, che vede tutti gli interessi teorici di Habermas unificarsi all’interno dell’ambito tematico concernente la sfera pubblica13. Ciò che è certo è che in Habermas si assiste ad un percorso evolutivo di riflessione, in cui sono presenti sia una molteplicità di interessi, sia alcuni snodi decisivi del pensiero del secolo XX, con i quali è sempre possibile intrecciare le proprie riflessioni. La riflessione habermasiana è, per un verso, così pluridimensionale che non si lascia facilmente cogliere e ridurre in formule, e, per un altro verso, così acuta e stimolante che l’intera riflessione contemporanea delle 11 Cfr E. ARENS, La teologia secondo Habermas. Una introduzione, in ID. (ed.), Habermas und die Theologie: Beiträge zur theologischen Rezeption, Diskussion und Kritik der Theorie kommunikativen Handelns, cit., 16. 12 Cfr D. HORSTER, Jürgen Habermas, Stuttgart 1991, 1. 13 Cfr W. PRIVITERA, Sfera pubblica e democratizzazione, Roma-Bari 2001, 70.
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scienze umane e sociali non può sottrarsi al confronto con essa. Inoltre, la prospettiva assunta da Habermas mette in luce una mentalità epistemologica esplicitamente anti-empiristica e programmaticamente prassica ed emancipatoria. E con ciò intendiamo anche dichiarare che ci rendiamo conto del grande impegno filosofico habermasiano, che, proprio perché si attua secondo la sensibilità epistemologica appena indicata, è una “filosofia non scientista della scienza” e, per di più, gravata dell’importante duplice compito politico di criticare ogni velleità empiristica e tecnocratica e di favorire le situazioni discorsive e comunicative14. Se vuole seguire questa linea, la filosofia deve liberarsi dalla consapevolezza boriosa di essere titolare di potenza nei confronti del mondo e di avere in pugno le chiavi di ogni cosa e deve acquisire il convincimento di essere, pur facendone parte, un interprete ed un fattore di orientamento della Lebenswelt. La filosofia, ovviamente, non può spogliarsi della propensione ad assumere la prospettiva della totalità e, di conseguenza, non si lascia ghettizzare in ruoli funzionali. Ecco perché essa, mentre assolve un ruolo, lo trascende15. Nel corso degli sviluppi di tali tematiche, J. Habermas mostra di essere pressato da esigenze fondative, che non disattende e che soddisfa a suo modo. Egli sa, però, che la nostra epoca culturale ha una chiara consapevolezza della fragilità dei discorsi fondativi, e, non volendo rinunziare alla loro fecondità, ricorre a strumenti che gli sembrano idonei a garantirla, e cioè alla democrazia ed al diritto, nei confronti dei quali pratica un approccio discorsivo, al fine di salvare una prospettiva universalistica, che per lui è irrinunciabile16. Facendo questo lavoro, egli raccoglie anche i frutti del confronto costante con vari maestri di pensiero. Si sente impegnato con tutte le sue energie ad affrontare e risolvere i problemi della politica, che ai nostri giorni sono, sotto molti aspetti, difficili da risolvere. Il Nostro non sempre ci riesce, anzi talora incorre in aporie, dalle quali si può, però, imparare17. Si sia o no d’accordo con J. Habermas circa l’impostazione postmetafisica del discorso filosofico, non si può non prendere atto del fatto che 14
Cfr PPF 35 ss. Cfr VG 319 s. 16 Cfr A. FERRARA, Justice and Judgment. The Rise and the Prospect of the Judgment Model in the Contemporary Political Philosophy, trad. it., Giustizia e giudizio. Ascesa e prospettive del modello giudizialista nella filosofia politica contemporanea, Roma-Bari 2000, 60. 17 Cfr B. WILLMS, Kritik und Politik. Jürgen Habermas oder das politische Defizit der “Kritischen Theorie“, Frankfurt a.M. 1973. 15
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le aperture, ma anche i rischi, della sua ricerca e della sua riflessione sono collegati con questa prospettiva. Respirando una tale atmosfera, si ritiene che la verità come adeguazione tra pensiero ed essere abbia perduto ogni attrattiva ed ogni interesse. Tuttavia, non sembrano prive di senso le domande seguenti: non è possibile che la razionalità moderna sia frutto di una troppo prolungata gestazione nel grembo dell’illuminismo e che, quindi, sia affetta da forme tali di formalismo astratto da porre davanti alla mente non l’essere in atto, che attua, sostiene, mantiene e vivifica l’esistente, ma l’ente concluso, pienamente oggettivizzato e totalmente manipolabile? La rottura del rapporto intenzionale tra pensiero ed essere, che costringe a risolvere i problemi fondativi all’interno del processo democratico e della logica del consenso, non pone di fronte ad un fenomeno generalizzato di autopoiesi, che finisce sia coll’identificare verità ed opinione, forza dell’argomento migliore e forza numerica dei partecipanti, sia con il porre di fronte, più che a fatti, a giochi linguistici ed a fenomeni fondamentalmente tautologici? Il Nostro intraprende un percorso procedurale, che ha tappe determinanti nell’universalità e nella trascendentalità. Si tratta certamente di dati bisognosi di interpretazione, ma tutt’altro che trascurabili. J. Habermas si è frequentemente trovato al centro di controversie, in parte scatenate da lui, come quelle concernenti ordinatamente le forti critiche da lui formulate nel giugno del 1968, nel corso del “Kongreß des Verbandes Deutscher Studentenschaften”, contro il carattere non autentico delle manifestazioni del movimento studentesco tedesco18, e quelle sulla responsabilità degli storici circa l’interpretazione del recente passato tedesco19, ed in parte suscitate dalle sue teorie filosofiche, sociali e politiche, le quali, adottando moduli nuovi e, spesso, in alternativa a moduli precedenti o generalmente condivisi o con una lunga tradizione alle spalle, hanno dato e continuano a dare vita a reazioni contrastanti. Motivo, certamente non ultimo, per tener desta la Habermas-Kontroverse è la discussione sul vero volto di Habermas, soprattutto in seguito al fatto che non si esita a definire interpolazione, dovuta a lui stesso, la sua crescente apertura a forme e figure di ulteriorità.
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Cfr J. HABERMAS, Die Scheinrevolution und ihre Kinder. Sechs Thesen über Taktik, Ziele und Situationsanalysen der oppositionellen Jugend, in AA. VV., Die Linke antwortet Jürgen Habermas, Frankfurt a.M. 1968, 5-15. 19 Cfr I. GEISS, Die Habermas-Kontroverse. Ein deutscher Streit, Berlin 1988.
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CAPITOLO I FONTI DEL PENSIERO DI J. HABERMAS
Studiando il pensiero di un autore, specialmente se è complesso, non si può non interrogarsi sulle sue fonti. A questa esigenza non può sottrarsi neppure il nostro presente lavoro. Date le dimensioni e le caratteristiche di esso, faremo soltanto qualche accenno agli autori ai quali J. Habermas, nel portare avanti le sue ricerche e le sue riflessioni, fa maggiormente riferimento1. Nel rapportarsi con la tradizione, soprattutto quando il rapporto è con i classici, anche Habermas usa quella che viene chiamata la tecnica del “saccheggio”2, che, lungi dall’essere un fatto negativo, consente di attingere a chi ha riflettuto a lungo e con profondità nei vari campi della filosofia e di fondare le proprie riflessioni su basi già verificate e, pertanto, più sicure. Precisiamo che nella presente circostanza non c’interessa né andare oltre i brevi accenni, né verificare l’esattezza delle annotazioni che Habermas fa intorno alle questioni sulle quali è polarizzata la nostra attenzione in questa nostra ricerca. Il nostro intendimento è solo di cogliere il punto essenziale dell’influenza che, dal punto di vista di Habermas, altri autori possano aver esercitato sul suo pensiero. Ovviamente, l’influenza varia a seconda degli autori. Pertanto, in alcuni casi, si può parlare di assimilazione ed utilizzazione del pensiero altrui; in altri casi, si può parlare di differenziazione da tale pensiero; in altri casi ancora, si può parlare di raccolta di spunti per orientare e per alimentare la propria riflessione. In ogni caso, l’influenza deve essere interpretata dialetticamente. Sicché, come nei casi di accoglienza anche ampia, da parte di Habermas, delle ragioni generali e di tematiche particolari di altri autori, le differenze non possono essere lasciate passare sotto silenzio, così, nei casi di differenziazione e di tensione dialettica, si deve parlare di un certo ruolo esercitato dagli interlocutori nel 1
Il rapporto tra Habermas e la tradizione è stato studiato da vari aspetti. Ad esempio, cfr R. RODERICK, Habermas and the Foundations of Critical Theory, trad. ted., Habermas und das Problem der Rationalität. Eine Werkmonographie, Hamburg 1989. 2 Cfr S. VECA, Kant e il paradigma della teoria della giustizia, in G.M. CHIODI – G. MARINI – R. GATTI (edd.), La filosofia politica di Kant, Torino 2001, 143-152; G. FIASCHI, Da Rawls a Kant: saccheggiare a ritroso, in G.M. CHIODI – G. MARINI – R. GATTI (edd.), La filosofia politica di Kant, cit., 173-182.
pensiero di J. Habermas. Ad esempio, non possiamo non rilevare che il nostro francofortese, mentre, da un lato, è per vari motivi critico di Kant, di Fichte e di Hegel, dall’altro, si trova vicino agli stessi pensatori rispettivamente per la critica della conoscenza e per la trascendentalità, per la ragione vista in osmosi con la soggettività pratica e con la decisione, e per l’eticità ritenuta momento razionale dell’intersoggettività. Si può, dunque, sostenere che la presenza della tradizione filosofica in Habermas sia molto forte e che il rapporto che egli tiene con essa sia segnato dall’identità e dalla differenza. Ciò significa che il Nostro mette a tema motivi di identità e di differenza con prospettive e con autori, di cui condivide le istanze, ma alla fine è una dimostrazione del fatto che tale condivisione è solo parziale e fino ad un certo punto. Tutto questo si rende evidente nel deciso impegno di Habermas di differenziarsi dalle prospettive e dagli autori in questione in ambiti tematici di notevole importanza sia per esigenze interne alla sua stessa riflessione sia per istanze meramente teoretiche. D. Horster sostiene che Habermas ha sviluppato le sue teorie in condizione di disputa e di confronto continuo con altri autori3. Lo stesso Habermas accenna al suo debito verso numerosi pensatori. Ciò accade, ad esempio, nella Prefazione all’edizione del 1981 dell’opera Philosophisch-politische Profile, quando egli parla di autori come M. Heidegger, A. Gehlen, K. Jaspers, E. Bloch, Th.W. Adorno, K. Löwith, H. Arendt, W. Benjamin, G. Scholem, M. Horkheimer, H. Marcuse, H.G. Gadamer, A. Schütz, L. Wittgenstein, H. Plessner, W. Abendroth, A. Mitscherlich, L. Löwenthal. Ma gli autori che hanno avuto influenze sul suo pensiero non sono soltanto questi4. E ciò che ci autorizza a parlare in questo modo è, tra l’altro, anche il fatto che in questo elenco presentato da Habermas, mancano G.F.W. Hegel e K. Marx, che lo stesso Habermas definisce importanti punti di riferimento del suo pensiero5, e K.O. Apel, che è il pensatore verso cui Habermas si sente maggiormente debitore6. Non mancheremo di rilevare che il debito di 3
Cfr D. HORSTER, Jürgen Habermas, cit., 33. «Su nessun autore ho qui scritto senza averne prima ricevuto un impulso intellettuale. Di ciascuno di loro potrei immediatamente citare l’idea che ha influenzato il corso del mio pensiero» (J. HABERMAS, Prefazione all’edizione del 1981 a PPF 9). 5 «Marx, e la tradizione che risale a Marx e ad Hegel, sono stati — e restano fino ad oggi — il punto di riferimento più importante, perché più ricco di insegnamenti, del mio pensiero» (J. HABERMAS, Prefazione a DR III). 6 Cfr ED 1, 3. 4
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Habermas si estende anche ad altri autori. In ogni caso, ci sembra ovvio annotare che, nel corso dello sviluppo delle proprie riflessioni, non si può prescindere, volendo parlare dei vari movimenti di pensiero con parole hegeliane che Habermas conosce, dalle varie “figure dello spirito”7, tanto più se si è ad esse debitori. In ogni modo, è convincimento di Habermas che il debito nei confronti di grandi autori, specie se si tratta di classici, è più per le domande che essi hanno posto che per le risposte che hanno dato8. Nel confronto con Kant9, Habermas supera il livello meramente teoretico e formale della teoria della conoscenza e si forma un’idea di conoscenza emancipativa. Ponendosi in tale prospettiva, egli toglie il soggetto dalla condizione di assolutezza e dalla dinamica mentalistica e lo trasferisce nella prassi, nella storia, nell’intersoggettività e nella comunicazione, libera la razionalità dalle griglie kantiane della sostanzialità e della formalità e la colloca nella concretezza delle dimensioni pratiche e pubbliche, toglie il trascendentale dal piano della purezza teoretica e formale e gli assegna il compito di realizzare la ragione mediante la razionalizzazione dell’azione, si premura di sganciare il diritto da presupposti metafisici, ponendolo su percorsi dialogici e legandolo alla sovranità popolare, supera le etiche formalistiche, adottando quella che egli chiama “la procedura del discorso pratico”, e dichiara cooriginarie diritto e morale, non accettando l’idea kantiana della superiorità della morale rispetto al diritto. Nello studio di Kant Habermas trova motivi ispiratori della sua impostazione antimetafisica: la filosofia morale kantiana può essere ritenuta una ricostruzione intramondana e discorsiva del carattere categorico dei comandandamenti di Dio. Studiando Fichte10, Habermas ha modo, nonostante le tante ambiguità del filosofo idealista, di capacitarsi della formazione di convincimenti 7
Cfr PPM 8. Possiamo allargare l’estensione della riflessione che Habermas fa circa il marxismo: «Per quanto riguarda il marxismo, dovremmo riferirci ad esso come faremmo con una normale tradizione di ricerca: vale a dire come a una teoria che può essere tenuta in vita solo attraverso una presa di coscienza critica e una revisione costante. Nella maggior parte dei casi, è il tipo di domande e non le risposte che trasforma un autore del passato in un classico, cioè in uno che ha ancora qualcosa da dirci. Adesso, come un tempo, i sociologi possono imparare qualcosa da Marx se essi vedono come egli sapeva trovare una relazione tra eventi storici e processi sistematici» (J. HABERMAS – R. WOLIN, L’eredità di Sartre. Jürgen Habermas intervista di Richard Wolin, in Micromega 19 [2005] 32). 9 Cfr CI 7-26; ED 5-8; FN 106-143; MDP 67-76; PPM 193; TM 8 ss.; TSF 129. 10 Cfr CI 32-45, 188-209; PPM 194-206; TPST 103-106. 8
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antimentalistici come i seguenti: l’autocoscienza è un atto mediato dalla propria esistenza e dal proprio agire e, soprattutto, ponendosi lungo un percorso materialistico, è frutto del lavoro; la ragione teoretica deriva dalla ragione pratica dell’io che pone se stesso, realizzando l’unità tra ragione ed interesse, e segnatamente tra ragione ed interesse emancipativo, che è l’interesse etico per eccellenza; gli io individuali, nei quali secondo il Fichte l’Io generale si singolarizza, formano la comunità intersoggettiva, che concretamente si costituisce con il medium del linguaggio. Il confronto con Hegel11 convince J. Habermas, che pure manifesta insofferenza nei confronti del poderoso sistema di griglie idealistiche da lui prodotto, si rammarica della sua graduale rinunzia alla detrascendentalizzazione, felicemente iniziata nel periodo di Jena, e dichiara apertamente che la post-modernità è anti-idealista ed anti-hegeliana, a sostenere che nella riflessione del filosofo di Stuttgart si trova il passo iniziale più decisivo sia dell’abbandono del paradigma coscienzialistico e del paradigma formalistico ed astratto in campo morale, sia del transito dell’affermazione della razionalità dal livello della coscienza al livello pratico. Lungo questo percorso, egli apprezza moltissimo la detrascendentalizzazione del soggetto conoscente operata da Hegel: tale opera consiste nel fatto che l’autocoscienza del soggetto si realizza nel mondo per mezzo di media quali il linguaggio, il lavoro e l’interazione. Tutto questo esige programmaticamente la comunità intersoggettiva, la cui pluralità è conseguita mediante la “lotta per il riconoscimento”, una lotta di grande portata epistemica tesa all’imparzialità. Di Hegel Habermas apprezza l’idea che le religioni hanno un posto non trascurabile nella storia della ragione; e, dato il suo orientamento ideologico, colloca nella genealogia della post-metafisica non solo la metafisica ma anche la religione12. Nelle opere della piena maturità Hegel ripropone, senza esitazione alcuna, la sua poderosa impostazione metafisica, all’interno della quale la pluralità viene rigorosamente ridotta ad unità. All’ultimo Hegel Habermas preferisce quello dell’epoca di Jena e, difendendone una delle acquisizioni fondamentali, afferma che l’intersoggettività non può essere rimossa. Di Marx13 Habermas apprezza fortemente la centralità del lavoro, in quanto questo, da strumento di alienazione, qual è se viene amministrato 11 12 13
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Cfr CI 9-26; ED 5-24; PPM 151-192; TM 5-27; VG 181-222, 315. Cfr TSF XI. Cfr CRMC; DFM 53, 346-370; ED 15; TPST 52-57, 103, 224 ss.; VG 316 ss.
dalla borghesia, può trasformarsi in strumento di emancipazione, se ha come protagonista il proletariato. Il capitalismo, affetto da una insufficienza di razionalità, concepisce il lavoro in senso meramente tecnico e, pertanto, fa del dato razionale del lavoro, concepito irrazionalmente come fattore della tecnocrazia, un fenomeno di “razionalità irrazionale”. Habermas, seguendo Marx, privilegia la prassi, che, a differenza della tecnica, custodisce ed esprime la teoria ed avvia l’evoluzione sociale. Evidentemente, il Nostro tende a reimpostare tutti questi dati all’interno della sua teoria dell’agire comunicativo. Di conseguenza, dopo avere tentato una ricostruzione del materialismo storico, si occupa dell’evoluzione sociale e ne individua le dinamiche portanti nella razionalità e nel linguaggio. A Marx Habermas è anche debitore di un dato per lui molto importante, e cioè della concezione dell’opinione pubblica; solo che, a differenza del filosofo di Trier, che ne fa un dispositivo in mano alla borghesia per produrre la falsa coscienza, Habermas ne fa uno strumento di razionalità critica e di realizzazione della filosofia. Riflettendo sul pensiero del Mead14, Habermas prende atto di un modo pragmatico molto particolare di dare fecondità al capovolgimento marxista del tradizionale rapporto che intercorre tra teoria e prassi: l’attività del soggetto, a partire dalla componente conoscitiva di essa, è radicata nella prassi relazionale con persone e cose. L’io opera secondo modalità intersoggettivamente condivise all’interno di interazioni strutturate linguisticamente. Non si tratta soltanto di operare, ma anche di essere; e, in questa prospettiva, l’io ha il suo luogo ontogenetico lungo un processo di individuazione che si verifica all’interno di un tessuto di relazioni mediate linguisticamente. L’io ha, dunque, un carattere originariamente intersoggettivo, come intersoggettivo è il suo nucleo più intimo. Conseguentemente, mentre si dice che l’io è prodotto socialmente, bisogna precisare che l’evento della sua produzione si verifica secondo un modello intersoggettivo. Questo fatto comporta che l’io mutui i suoi atteggiamenti dal gruppo di appartenenza, senza, però, incorrere nel rischio dello smarrimento dell’identità individuale. In tale prospettiva, lo scoglio più grave evitato è quello dell’autoreificazione. L’io coglie e spiega se stesso mediante il rapporto vitale e linguistico con il tu e con l’intera comunità di soggetti che si trovano nello spazio intersoggettivo-comunitario. Il linguaggio è il medium naturale della socializzazione dell’intersoggettività e dei bisogni. 14
Cfr ED 73-76; PPM 186-193, 215-227; TAC II, 547-696.
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Per queste ragioni, la teoria meadiana della società è una vera e propria pragmatica linguistica. Tutto questo riceve, secondo Mead, i qualificatori della trascendentalità e dell’universalità: l’agire umano è mediato trascendentalmente dalla dimensione sociale; ed è anche normato universalmente da ciò che viene riconosciuto come norma universale nel corso della conduzione solidale dell’argomentazione. Habermas, per quanto non condivida alcune pieghe formalistiche ed idealistiche dei discorsi del Mead, si è ispirato non poco alla sua ricerca ed alla sua riflessione. Nel confronto con Durkheim15, J. Habermas vede la teoria dell’agire comunicativo formarsi a livello pre-linguistico, ne nota i difetti e ne postula i miglioramenti mediante la sua riformulazione all’interno di una teoria linguistica compiuta, di una prospettiva rigorosamente intersoggettiva e di un contesto adeguatamente normativo. Ovviamente, non bisogna dimenticare il fatto che l’agire comunicativo, proprio perché nella modernità verosimilmente è l’erede del sacro e delle sue funzioni integrative, è caratterizzato da una efficacia normativa dovuta alla potenza di una grande idealizzazione in esso implicata. Esaminando il pensiero dei vecchi maestri della Scuola di Franco16 forte , Habermas ha l’opportunità di operare una sintesi tra l’esigenza critica e la libertà dai condizionamenti ideologici. Fermamente convinto che i veri strumenti del dominio siano l’ispirazione ideologica e la divisione del lavoro, concentra le sue energie nello sforzo per il loro superamento. La via da lui preferita implica la prassi, come per Marx, e la critica e la denuncia, come per i francofortesi, ma non certi strumenti teorici di quest’ultimi, a partire dall’utopia elitaria della negazione. In questo campo Habermas, prende le distanze da Adorno17, che egli per altro considera un vero maestro, ed al suo negativismo sostituisce la ricerca della positività. Con atteggiamento razional-pragmatico non procede mai all’esclusione per precomprensioni ideologiche; non lo fa neppure nei confronti dei valori borghesi, ma distingue tra “cose utilizzabili” e “cose meno utilizzabili”. È per questo che non approva la vecchia convinzione del marxismo ortodosso, condivisa nelle linee generali dai francofortesi, che la scienza e la tecnica siano in mano alla borghesia e vengano da questa usati quali strumenti di dominio dello spazio socio-politico. Piuttosto, si ritrova d’accordo 15 16 17
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Cfr ED 178-182; TAC II, 613-660. Cfr DR 222-225; TAC II, 1046-1088. Cfr DR 225-238; PPF 129-140.
con H. Marcuse18 quando questi nega che l’arte borghese sia asservita all’ideologia della borghesia e ne apprezza la capacità di custodire “bisogni residui”, che sono dell’uomo in quanto tale e che hanno fatto della borghesia un momento in parte degno di apprezzamento nella successione delle varie epoche culturali. È ancora d’accordo con Marcuse quando questi, criticando la tecnocrazia, mette a tema il rapporto tra produttività e rischi di distruzione dello spazio sociale, politico ed ecologico della vita. Di M. Horkheimer19 apprezza la valutazione positiva della via linguistica, anche se si sente costretto a dire che si tratta di intuizioni occasionali e non approfondite. Quanto alla filosofia della storia dei vecchi francofortesi, Habermas si è formata l’idea che si tratti di una concezione limitata ed ancora fortemente impregnata di marxismo ortodosso, in quanto racchiude il convincimento che le forze produttive possano amministrare pienamente lo spazio sociale. A nostro modesto avviso, la sinistra italiana dei nostri giorni incontra difficoltà nel suo confronto con il pensiero di Habermas proprio perché non riesce ad accettare il fatto che il francofortese si sia liberato dal peso di alcune tesi tipiche del marxismo ortodosso e dogmatico20. J. Habermas supera la concezione marxista della filosofia della storia mediante la teoria dell’agire comunicativo, che, sviluppando le tematiche e le esigenze della comunicazione e della partecipazione, perviene all’intersoggettività. Questa, poi, costituisce la prospettiva e la situazione nelle quali ha luogo il superamento della razionalità strumentale e dei vari fenomeni di dominazione. Il confronto con la filosofia analitica ed in particolare con la filosofia del linguaggio ordinario, così come si rendono presenti nella ricerca e nella riflessione di J.L. Austin21, dà ad Habermas la possibilità di completare ed arricchire la propria teoria dell’agire comunicativo con gli apporti della teoria degli atti linguistici. Gli atti linguistici illocutivi, a differenza di quelli perlocutivi orientati al successo, tendono all’intesa ed alla creazione della socializzazione comunicativa.
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Cfr PPF 280-283. Cfr TFCS 121-130. 20 Parte dei termini del discorso possono essere rinvenuti in G. BRUSA ZAPPELLINI, Sulla ricostruzione habermasiana del materialismo storico, in F. CARMAGNOLA – G. BRUSA ZAPPELLINI – A. FERRARO – W. PRIVITERA, Ragione emancipativi. Studi sul pensiero di Jürgen Habermas, Palermo – São Paulo 1983, 91-142. 21 Cfr TAC I, 379-456. 19
21
Studiando il pensiero del Gadamer22, Habermas si sente stimolato soprattutto dalla comunicazione intersoggettiva e dagli aspetti linguistici, pragmatici e vitali di essa. Nella prospettiva dell’ermeneutica, la dimensione comunicativa non ha un potenziale universalistico, ma, orientata com’è all’accordo, è impegnata a superare ogni distanza. Lo scopo che l’ermeneutica intende realizzare innanzitutto è la fusione degli orizzonti, e cioè la comunicazione intersoggettiva quale evento pragmatico caratterizzato dall’intesa. Considerata nel suo perpetuarsi, la comunicazione intersoggettiva costituisce la tradizione. Quest’ultima, in quanto presiede alla storia effettuale, è l’autorità massima nell’evento della comunicazione. Habermas lascia fecondare la sua riflessione da alcuni aspetti dell’ermeneutica, ovviamente tutti legati alla comunicazione. Uno dei punti più importanti è la comunità di comunicazione, considerata sincronicamente e, dunque, proiettata verso l’intesa tra i soggetti che la compongono, e non più diacronicamente, come accade nell’ermeneutica, che mette a tema la fusione degli orizzonti quando si occupa del rapporto tra presente, passato e futuro e del rapporto tra testo e lettore. L’intesa in senso habermasiano si realizza all’interno dell’autentica comunità universale di comunicazione, in cui la ragione è la massima autorità e la garanzia più sicura per una comunicazione illimitata e libera da fenomeni di dominazione. La ragione può tanto perché Habermas, a differenza di Gadamer, le riconosce la fondamentale caratteristica della trascendentalità. Lo studio di Apel23 dà a J. Habermas la possibilità di dimostrare ancora il proprio apprezzamento per le ragioni di quel radicale mutamento di paradigma, che è la svolta linguistica. Nel contempo, si possono notare fattori nuovi, che recano all’evidenza, da un lato, il timore di J. Habermas di non avere a disposizione uno strumento concettuale adeguato per mettersi veramente sulla strada della verità, che per lui è di capitale importanza, e, dall’altro, l’interesse e l’impegno da lui profusi nello sforzo di precisare uno strumento concettuale adeguato allo scopo. Un tale strumento è il fattore-trascendentalità. Il nuovo paradigma comporta la fondazione trascendental-pragmatica dell’etica, le cui norme portanti non vengono fondate con modalità deduttive, bensì con modalità trascendentali e con mezzi linguistico-pragmatici. J. Habermas riconosce il grande valore dei principi della trascendental-pragmatica di Apel, ma non è totalmente d’ac22 23
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Cfr ACLSS 311-317; DFM 201, 358 s; ED 25-38;PPM 12, 264, 270 s. Cfr ED 85-121; VG 81 ss.
cordo sulla loro fecondità, in quanto è convinto che si tratti di principi privi di storia. Di conseguenza, è sua opinione che, nell’atto di procedere alla fondazione dei principi morali, sia necessario poggiare non su un remoto fondamento ultimo ma su principi che siano pragmatici non pure formalmente ma soprattutto concretamente e, nel contempo, idonei a dar vita al principio di universalizzazione. Infatti, è proprio di un tale principio far sì che i presupposti pragmatici abbiano, in contesti argomentativi, una forza universalmente normativa. Ciò significa, innanzitutto, che le norme etiche fondamentali non possono essere dedotte direttamente dai presupposti dell’argomentazione e, inoltre, che lo stesso argomento trascendental-pragmatico funge da principio di universalizzazione, che è la fonte della regola argomentativa implicata dai presupposti dell’argomentazione in genere. Secondo tale impostazione, il principio di universalizzazione viene riconosciuto valido da chi vuole avvalersi di presupposti comunicativi universali e necessari e vuole giustificare le norme dell’agire. La habermasiana etica del discorso trova in ciò una serie significativa di spunti. Nel confronto con Luhmann24, Habermas trova una felice opportunità per insistere sulla sua idea di proceduralità e per precisarne i caratteri costanti di processualità, gradualità, perfettibilità, novità e sorpresa. Il fulcro dinamico ne è la razionalità, che è certamente discorsiva, ma soprattutto è intuitiva, e cioè immediata, spontanea, libera e creativa, specialmente in ordine al suo oggetto. Si esprime nel contesto del dinamismo spontaneo della Lebenswelt e del dinamismo volto all’intesa della prassi comunicativa. I fenomeni della libertà, della creatività e della razionalità sono fenomeni riferibili ad una soggettività, sia pure habermasianamente intesa come intersoggettività impegnata nella prassi comunicativa, e non sono riconducibili ad un sistema autonomizzato, che si regge sulla sua capacità autopoietica e che va a sfociare in una impostazione oggettivistica. Se così fosse, l’esistenza equivarrebbe alla cibernetica, l’organizzazione sociale si dissolverebbe in funzionalità e la ragione, non essendo che razionalità meramente sistemica, finirebbe con l’essere funzionale al sistema. Il Luhmann concepisce e tratta i sistemi sociali come sistemi organici. La sentenza di Habermas è inequivocabile: la teoria sistemica è inadeguata a trattare i fenomeni sociali ed i fenomeni umani, che sono caratterizzati da spontaneità e da creatività e che, pertanto, sono irriducibili.
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Cfr DFM 352-380; MDP 45-54; PPM 80 s.
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Il confronto di Habermas con la tradizione filosofica ci dà la possibilità di prendere atto di una serie di dati importanti maturati dal Nostro nel corso di una riflessione caratterizzata dalle tensioni e dalle scelte. Il soggetto viene strappato alla condizione di assolutezza, viene concepito come prodotto socialmente, ma secondo un modello intersoggettivo, e viene osservato mentre agisce nella prassi relazionale all’interno di interazioni strutturate linguisticamente. L’intersoggettività, che è una dimensione nativa della soggettività umana, si determina proceduralmente, viene fruita storicamente e si pone sulla via del conseguimento della sua forma compiuta ed universale mediante la comunicazione e la lotta per il riconoscimento. L’interazione sociale si realizza lungo il processo dell’evoluzione sociale, che usufruisce dei mezzi della razionalità e del linguaggio. La conoscenza e la razionalità escono dagli ambiti chiusi del mentalismo e della coscienza e prendono la via dell’esperienza pratica. L’eticità abbandona il livello formalistico per riproporsi la dove l’uomo agisce, comunica e, superando ogni tattica legata agli interessi ed al potere, si impegna in discorsi liberi e liberanti e si volge all’intesa. Quest’ultima, poi, si realizza all’interno della comunità universale di comunicazione. Nell’intreccio di tutti questi dati, che il Nostro raccoglie dal confronto con i suoi interlocutori e che riconfigura secondo le esigenze della sua impostazione teoretica, si pongono le basi per la teorizzazione dell’agire comunicativo, che è caratterizzato da una efficacia normativa dovuta all’idealità ed all’universalità da esso implicate. Il protagonista dell’agire comunicativo è il soggetto umano, che non è riconducibile all’automatismo oggettivizzato dell’approccio sistemico, ma conserva sia le acquisizioni antropologiche fatte da Cartesio, che si manifestano nell’autocoscienza e nella libertà, sia le caratteristiche tipicamente francofortesi, che vengono all’evidenza nei bisogni dell’uomo in quanto tale, bisogni certamente residui, ma resistenti a tutti i tentativi di fagocitazione da parte delle ideologie e delle filosofie della storia e sempre capaci di alimentare la potenza demolitrice e creatrice della critica. Un tale soggetto è il luogo cosciente e libero in cui si attivano con modalità trascendentali e con mezzi linguistico-pragmatici le norme portanti dell’itinerario di verità e dell’eticità discorsiva. L’antica spontaneità trascendentale, legata al soggetto conoscente ed alla funzione costitutiva da esso esercitata nei confronti del mondo, non viene cancellata, ma viene riproposta da J. Habermas in ambito linguistico-pragmatico come funzione linguistica del prodursi del senso, come livello teoretico della prassi e come medium della presenza operativa
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nella prassi delle idealità, che ne sono condizioni imprescindibili della consistenza e del dinamismo. Abbiamo potuto notare che le “figure dello spirito”, con le quali J. Habermas si confronta mentre porta avanti la sua ricerca e la sua riflessione, sono numerose. Ovviamente, basta controllare l’indice dei nomi delle opere del francofortese per rendersi conto del fatto che le figure in questione sono senza confronto più numerose di quelle da noi ricordate. Da parte nostra, abbiamo voluto soltanto prendere in considerazione i pensatori ai quali, soprattutto nell’ambito dell’argomento che stiamo trattando, il Nostro si sente debitore. Che lo sia per identità o per differenza, poco importa! Ciò che merita di essere considerato è che Habermas, entrando in tensione dialettica con tanti autori che spesso sono grandi pensatori, ha colto suggestioni, spunti, tematiche e teorie per formare, consolidare, chiarire e riformulare il proprio pensiero25. Raccogliendo alcuni dei dati che emergono dal confronto di Habermas con qualcuno di essi, non abbiamo voluto occuparci, come abbiamo già detto, dell’autenticità della sua lettura e della sua interpretazione. Ci è sembrato un lavoro superfluo sia perché l’ambito generale del nostro presente studio non è costituito dalle fonti di Habermas, sia perché, per quel che concerne il confronto con la tradizione filosofica, ciò che conta per noi nella presente circostanza è prendere nota di quanto Habermas di volta in volta dice di accogliere, di rifiutare, di correggere e di sviluppare del pensiero degli autori con i quali si confronta, sia infine perché degli autori con i quali ci si confronta, soprattutto dei classici, contano più le domande che le risposte. Anche se ci siamo fermati appena sull’attenzione che J. Habermas dedica a tanti autori ed a vari sistemi di pensiero, riteniamo di essere in qualche modo riusciti sia a mettere in luce l’attitudine del Nostro al 25 Avremmo voluto anche ricordare K.R. Popper, ma, a parte il fatto che abbiamo ridotto al minimo indispensabile i dati riportati nel capitolo concernente le fonti del pensiero habermasiano, J. Habermas non ci sembra particolarmente debitore nei confronti del Popper. Desideriamo, tuttavia, annotare che J. Habermas, insieme a questo grande pensatore, dal quale per altro lo separano molte e profonde differenze, ha chiara la consapevolezza del pericolo che comportano per l’uomo e per la convivenza umana la completa sociotecnocratica manipolazione degli individui e la trasformazione della società in una istituzione chiusa, e conta sulla forza liberatrice della ragione illuminata e dell’argomento migliore (cfr B. TUSCHLING, Die “offene” und die “abstrakte” Gesellschaft. Habermas und die Konzeption von Vergesellschaftung der klassisch-bürgerlichen Rechts- und Staatsphilosophie, Berlin 1978, 182-201).
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confronto con ogni orientamento di pensiero e la sua capacità di muoversi con disinvoltura e padronanza nei circuiti più vari del sapere, sia a prendere atto del fatto che un pensiero, nel quale confluiscono tensioni disparate, quali quelle della filosofia del linguaggio, dell’epistemologia, dell’ermeneutica, della trascendentalità, della pragmatica della comunicazione, delle teorie dell’evoluzione sociale e del materialismo storico, è gravido di una notevole molteplicità di interessi e, cosa ancora più significativa, è causa di difficoltà teoretiche di ogni genere26.
26 Cfr S. MAFFETTONE, Critica e Analisi. Saggio sulla filosofia di Jürgen Habermas, Napoli 1980, 3.
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CAPITOLO II PRASSI COMUNICATIVA: FENOMENOLOGIE E FINALITÀ
La prassi comunicativa è l’alveo in cui sorgono e si situano fondamentali punti dottrinali della ricerca e della riflessione di J. Habermas. Analizzando questo alveo, abbiamo in un certo senso l’opportunità di osservare il nostro francofortese, di capire cosa pensa e come argomenta, di conoscere le metodologie da lui seguite, di orientarci tra le idee e le cose alle quali tiene di più e tra quelle alle quali è disposto a rinunciare. J. Habermas ha proposto in maniera compiuta la sua teoria dell’agire comunicativo nella grande opera Theorie des kommunikativen Handelns nel 19811, ma vi ritorna ripetutamente perché la ritiene un’acquisizione capitale della sua ricerca e della sua riflessione. Nella presente circostanza ci piace attingere ad un’opera habermasiana molto breve e più recente, a Vergangenheit als Zukunft del 1991, in cui, nel corso di una intervista rilasciata dal Nostro a M. Haller, la teoria dell’agire comunicativo viene, tra l’altro, presentata nella forma che in questo momento c’interessa di più: «Anzitutto io non dico che gli uomini desiderano agire comunicativamente, ma che essi sono obbligati a farlo. […] Ci sono funzioni elementari della società che possono essere assicurate solo mediante l’agire comunicativo. Nei nostri mondi della vita condivisi intersoggettivamente e comunicanti tra di loro è insito un ampio consenso di fondo senza il quale la prassi quotidiana non potrebbe funzionare. È invece lo stato di natura di Hobbes, col cittadino pensato come isolato ed estraneo rispetto agli altri; è l’“homo homini lupus” (anche se i lupi in realtà vivono in branchi) la vera costruzione artificiale. Inoltre l’agire comunicativo normalmente ha luogo nell’ambito del linguaggio comune e di un mondo linguisticamente già strutturato [erschlossen] e interpretato, in forme di vita culturale condivise, in contesti normativi, tradizioni, routine ecc., in breve: in mondi della vita permeabili l’uno nei confronti dell’altro che si compenetrano come in una rete»2.
Questo passo, concernente la teoria dell’agire comunicativo, è ricco di dati meritevoli di essere messi in evidenza. Innanzitutto, la teoria in 1 2
Cfr TAC; ED 142. DU 112 s.
questione viene presentata nel suo attivarsi come agire di esseri che comunicano tra di loro, e cioè come modalità imprescindibile della vita associata degli uomini. Il carattere imprescindibile di tale modalità si rende constatabile sia sul fronte dell’ontogenesi umana, che ha luogo mediante il transito degli ominidi dal comportamento istintuale regolato da repertori di comportamento all’agire comunicativo mediato simbolicamente3, sia sul fronte della concretezza, in quanto lo stato naturale e concreto dell’uomo, a differenza dello stato di natura hobbesiano, che è giudicato artificiale, è solo quello intersoggettivo e comunicativo. Inoltre, questo passo racchiude in sé altri elementi di grande importanza. E tali sono: la considerazione della teoria dell’agire comunicativo in actu exercito, e cioè come un evento complesso nell’atto di svolgersi, l’evento appunto dell’agire comunicativo, ed il carattere simbolico sia dell’interazione4, e cioè della struttura linguistica del mondo, in cui gli uomini vivono in società, sia del consenso, che è necessario per vivere in società, ma che non finisce mai di essere problematico. J. Habermas concepisce la comunicazione come la sorgente e la culla di ogni evento e di ogni processo che riguarda gli uomini, ed in particolar modo della vita associata e del suo dinamismo. La concepisce anche come sorgente dei contenuti delle conoscenze e della visione della realtà. Questo dato offre sufficienti indicazioni, da una parte, sul fatto che agire comunicativo, linguaggio ed agire sociale sono così strettamente congiunti che, senza il loro intreccio, non si potrebbe comprendere neppure la società e l’ordine sociale e, dall’altra, sull’obbligo della teoria dell’agire comunicativo ad assumere tra i suoi concetti portanti la tensione di fattualità e validità5, fino a collegare il significato al contesto in cui se ne può accettare la validità6. Se a tali annotazioni si aggiungono quella concernente la sensibilità che Habermas ha nei confronti del pluralismo sia di approccio che di atteggiamento7 e quella della sostituzione da lui operata del termine “emancipazione”, troppo legato al soggetto ed alle sue esperienze biografiche, con i concetti di “intesa” e di “agire comunicativo”, legati al tessuto della vita quotidiana e liberi dalle velleità dell’esperienza straordinaria8, si comprende 3 4 5 6 7 8
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Cfr TAC II, 575 ss; CI 273 s. Cfr TAC II, 560-582; cfr anche TPST 205. Cfr FN 16. Cfr PPM 72 s. Cfr FN 3. Cfr DU 105 s.
che le pretese di validità dell’agire comunicativo non possono essere assolutizzate. Da ciò non consegue che non se ne debbano seguire le suggestioni, e proprio a motivo sia del fatto che, essendo conoscenza ed interesse sempre connessi, una vera teoria della conoscenza si identifica con la teoria della società9, sia del fatto che non possono essere messe in discussione le forme di vita in seno alle quali si è acquisita la propria identità personale, senza che la propria stessa esistenza corra il rischio dello scacco10. Questa è un’esigenza di razionalità incarnata nell’agire comunicativo, che solo con gli strumenti concettuali legati alla svolta linguistica della filosofia è possibile cogliere11. Mette conto precisare che la ragione insita nell’agire comunicativo viene limitata non estrinsecamente bensì intrinsecamente, e cioè in forza delle sue stesse “condizioni di possibilizzazione” legate allo spazio, al tempo, al sociale ed al corpo12. Attraverso tali condizioni passano i processi dell’integrazione sociale e dell’intesa13. La comunicazione deve fare i conti con gli interessi, che tentano sempre di determinarne la dinamica, ora pilotandola, ora fornendole i contenuti, ora fissando le sue finalità. Si comprende bene che si tratta di un problema serio, in quanto ad entrare in gioco sono la possibilità dell’oggettività e le sue condizioni. Buona parte delle riflessioni che Habermas fa a questo proposito, anche se appartengono alla prima fase della sua riflessione14, possono benissimo essere raccolte e collocate nel contesto delle riflessioni organizzate attorno al punto focale costituito dalla teoria dell’agire comunicativo, che in questo contesto particolare mette in fortissima tensione dialettica la comunicazione sotto coercizione e la comunicazione libera da coercizione. Il soggetto umano è sempre sulla via dell’emancipazione, ma per percorrerla non può non partire da presupposti, in mezzo ai quali è sempre costretto ad orientarsi criticamente. Questo fatto viene visto da J. Habermas come dotato di carattere trascendentale. Sicché, l’affermazione che i condizionamenti provenienti dagli interessi possono essere superati è possibile solo sulla base della consapevolezza che se ne ha. Habermas scrive: 9 10 11 12 13 14
Cfr CI. Cfr ED 190. Cfr PPM 47. Cfr DFM 326. Cfr FN 17. Cfr CI.
29
«In quanto diventiamo consapevoli dell’insuperabilità di questi limiti trascendentali di una possibile concezione del mondo, un frammento di natura acquista, grazie a noi, autonomia nella natura. Se la conoscenza potesse mai raggiungere il suo interesse innato, lo farebbe solo avendo compreso che la mediazione tra soggetto e oggetto, che la coscienza filosofica attribuisce esclusivamente alla propria sintesi, si costituisce inizialmente ad opera di interessi. Nella riflessione lo spirito può prendere coscienza di questa base naturale, ma il suo potere penetra fin nella logica della ricerca»15.
Stando così le cose, è necessario intendersi circa il significato da dare alla tematizzazione di una eventuale possibilità di conoscere valicando il fronte degli interessi. La tradizionale filosofia del soggetto era solita attribuire l’attuarsi di tale possibilità alla sintesi operata dal soggetto, ma per il post-metafisico Habermas ciò non è più possibile per la ragione che il soggetto conoscente, dovendo operare in riferimento ad un assetto di interessi che si impone da sé, deve tener conto di fattori metalogici ineliminabili. J. Habermas continua così il proprio discorso: «Riproduzioni o descrizioni non sono mai indipendenti da criteri. E la loro scelta si basa su atteggiamenti che esigono il soppesamento critico per mezzo di argomenti, dato che non possono essere né dedotti logicamente né dimostrati empiricamente. Decisioni metodiche di principio come distinzioni fondamentali qual è quella tra essere categoriale e non categoriale, tra proposizioni analitiche e sintetiche, tra contenuto descrittivo ed emotivo, hanno la peculiarità di non essere né arbitrarie né cogenti. Esse si dimostrano adeguate o no»16.
Dunque, la scelta del soggetto, che non può mancare, non è in forza di un giudizio di valore, bensì in forza dell’adeguatezza dei principi assunti nel fornire spiegazioni e nel rispondere alle domande emergenti dal mondo dell’esperienza. Naturalmente, ci sono interessi di vario genere: insieme a quelli dotati di “necessità metalogica” si trovano quelli che sorgono sulle strutture dei rapporti di lavoro e di potere e della dinamica del linguaggio. Su questa 15 16
30
TPST 53. TPST 53.
base, J. Habermas formula una serie di tesi sugli interessi, che da parte nostra riportiamo nei punti essenziali e con le stesse parole dell’autore17: 1ª tesi: «Le prestazioni del soggetto trascendentale sono fondate nella storia naturale del genere umano»:
questi sono gli interessi dotati di necessità metalogica, di cui si diceva; 2ª tesi: «La conoscenza è strumento dell’autoconservazione però trascende la mera autoconservazione»:
si tratta degli interessi che provengono dalla natura ed anche dalla rottura culturale che si è verificata con essa; anche l’interesse che sembra più “nudo”, come quello dell’autoconservazione, si pone nella storia come una grandezza storica e si trova gravato dai segni della produzione sociale; 3ª tesi: «Gli interessi che guidano la conoscenza si formano nel mezzo del lavoro, del linguaggio e del dominio»:
con questa tesi Habermas vuole dire che vi sono interessi collegati con mezzi della socializzazione, quali il lavoro, che congiunge forze produttive e tecnologie, il linguaggio, che organizza ed esprime la tradizione culturale che consente ad una società di esistere e di interpretare se stessa sia diacronicamente che sincronicamente, e il dominio, che presenta l’individuo mentre si rapporta alla coscienza della società di appartenenza cogliendone o rifiutandone le legittimazioni; 4ª tesi: «Conoscenza e interesse coincidono nella forza della riflessione»:
il linguaggio, che è la caratteristica peculiare che distingue l’uomo dalla natura, implica già nella sua struttura il concetto di emancipazione, in quanto è conosciuto dall’uomo per sua natura, e congiunge nella riflessione conoscenza ed interesse, in quanto in essa interesse emancipativo ed interesse cognitivo coincidono;
17
Cfr TPST 53-56.
31
5ª tesi: «L’unità di conoscenza e interesse si verifica in una dialettica, che ricostruisca l’elemento represso a partire dalle tracce storiche del dialogo represso»:
conoscenza ed interesse possono coincidere soltanto in una società emancipata, cioè in una società, che non si lascia condurre dalla logica della teoria pura, che è ideologica, ma che, coltivando una filosofia dialettica, ricerca e scopre nella storia le tracce della comunicazione coatta, ne ricostruisce i circuiti ed i dispositivi ed apre piste di comunicazione libera ed autentica. La teoria habermasiana della comunicazione può essere considerata una ricostruzione della teoria critica e nello stesso tempo una nuova impostazione di una teoria sulla ragione18. Si può aggiungere che la teoria dell’agire comunicativo è una delle teoria più discusse del dibattito filosofico dei nostri giorni. Ciò accade sia perché attira su di sé molti interessi sia perché provoca e stimola come poche altre. Questa è la cornice nella quale sorgono la categoria della razionalità comunicativa e le teorie della verità consensuale, dell’etica del discorso, del diritto e della democrazia.
1. FILOSOFIA LINGUISTICA La competenza comunicativa, che J. Habermas propone come una teoria vera e propria, la teoria della competenza comunicativa appunto, muta la situazione vitale dello scambio collettivo, che inizialmente è tale solo naturalisticamente, in situazione discorsiva, e cioè in una situazione in cui si pongono gli eventi della comunicazione intersoggettiva e dell’interazione sociale. L’agire comunicativo, che è l’evento continuato della comunicazione, si verifica per mezzo del linguaggio, che custodisce in sé il télos dell’intesa. Con esso si trovano congiunte funzioni importanti, quali la socializzazione e la trasmissione di cultura. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno complesso ed altamente razionale. Secondo Habermas, la possibilità di esaminare la ragione immanente nell’agire comunicativo è dovuta alla svolta linguistica della filosofia19. Non si tratta si un fatto nuovo, in quanto il nesso tra pensiero e linguaggio è stato sempre ritenuto un canale naturale ed ovvio per la 18 19
32
Cfr R. Roderick, Habermas und das Problem der Rationalität, cit., 95-129. Cfr PPM 47.
comprensione delle questioni di pertinenza della filosofia. Mentre si sostiene questo ed a ragione, è ugualmente corretto sostenere che il secolo XX ha riservato una particolare attenzione al problema, sviluppandolo con sensibilità straordinaria ed in ambiti inesplorati. Basti l’esempio di E. Sapir, il quale, mentre concede che il pensiero è un’“area naturale” ben distinta e separata dall’“area artificiale” del linguaggio, sostiene l’inconcepibilità della separazione di pensiero e linguaggio, fino al punto da vedere nel linguaggio l’unica via conosciuta per una qualsiasi affermazione del pensiero20. Il fenomeno è tutt’altro che monocorde ed è, quindi, necessario parlare di svolta linguistica pluridirezionale. J. Habermas, da parte sua, vede la svolta linguistica nel rapporto intrinseco che si viene a stabilire tra pensiero e linguaggio e nella portata paradigmatica che tale fatto assume: «Quest’ultima [la svolta linguistica] è dovuta al distacco, già delineato da Humboldt, da quella tradizionale concezione che rappresenta il linguaggio in base al modello dell’attribuzione dei nomi al soggetto e lo comprende come uno strumento di comunicazione (Mitteilung) che rimane però esterno al contenuto del pensiero. La nuova concezione linguistica elaborata trascendentalmente, acquista invece una rilevanza paradigmatica, soprattutto attraverso la superiorità metodica nei confronti di una filosofia del soggetto che si deve richiamare all’accesso introspettivo ai fatti della coscienza»21.
Siamo, dunque, di fronte ad una svolta epocale della filosofia. Dal punto di vista di Habermas, si può addirittura dire che siamo di fronte alla sua liberazione. Solo con una tale svolta il destino dell’essere, il più grande tema della tradizione filosofica, viene a trovarsi veramente in buone mani. A tale proposito, Habermas si esprime con chiarezza inequivocabile: «Il livellamento della differenza di genere fra la filosofia e la scienza da una parte, e la letteratura dall’altra esprime una concezione della letteratura dovuta a discussioni filosofiche. Queste ultime sono inoltre contestuali alla svolta dalla filosofia della coscienza verso quella del linguaggio; in particolare a quel tipo di svolta linguistica che vuol farla finita in modo piuttosto
20 Cfr E. SAPIR, Language: an Introduction to the Study of Speech, trad. it. Il linguaggio, Torino 1969, 14 s. 21 PPM 49.
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rabbioso, con l’eredità della filosofia del soggetto. Solo quando tutte le connotazioni di autocoscienza, autodeterminazione e autorealizzazione saranno espunte dai concetti filosofici fondamentali, il linguaggio (in luogo della soggettività) potrà rendersi autonomo quale destino epocale dell’essere, quale vertigine dei significanti, quale gara per la dislocazione dei discorsi, in modo tale che i confini fra significato letterale e metaforico, fra logica e retorica, fra discorso serio e discorso fittizio si confondano nel flusso di un generale evento testuale (amministrato senza distinzioni da pensatori e poeti)»22.
J. Habermas ritiene, dunque, che le radici della ragione si trovino nel linguaggio, che è principio dell’intersoggettività volta all’intesa; ritiene, cioè, che si trovino molto oltre l’immediatezza delle pulsioni vitali. Questo fatto, mentre, da una parte, autorizza a parlare di simbiosi tra pensiero filosofico e pensiero scientifico, dall’altra, impedisce che tale simbiosi si dissolva in un dato positivisticamente inteso23. Nel 1974 Habermas riassume in tre tesi la sua concezione del ruolo della filosofia: a) allo stato attuale delle scienze fisiche e sociali, la filosofia ha il compito di condurre le scienze ad un alto livello di rigore e, quindi, ben oltre l’elementarismo empirico e l’induzionismo; il Nostro precisa: «La filosofia è il vicario, finora insostituibile, un’istanza di unità e di generalizzazione che, o viene soddisfatta scientificamente, o non viene punto soddisfatta»; b) «La filosofia ha poi […] il compito di dispiegare l’universalità del pensiero oggettivante, costituitosi nelle scienze, come pure l’universalità dei principi di una prassi di vita razionale, che sia in grado di giustificarsi»; c) «Il più alto compito della filosofia lo vedo nell’impiegare la forza dell’autoriflessione radicale contro ogni forma di oggettivismo, contro l’autonomizzazione ideologica, cioè apparente, di idee e istituzioni rispetto ai loro contesti pratico-vitali d’origine e di applicazione»24.
22
PPM 239. Cfr E. AGAZZI, Presentazione a DR 17. 24 J. HABERMAS, Die Rolle der Philosophie und Marxismus, (1974), trad. it., Il ruolo della filosofia nel marxismo, in DR 148 s. 23
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La filosofia ha, dunque, una varietà di compiti, quali la difesa della ragione, l’affermazione dell’unità tra ragione teoretica e ragione pratica e la lotta contro ogni processo di feticizzazione e di ideologizzazione. Il tutto si verifica in un contesto di universalità della razionalità, che, impedendo alle particolari forme di vita di occupare lo spazio destinato a tutte, si rivela come opera prettamente filosofica. J. Habermas non si sottrarrà mai al fascino della pretesa di universalità della filosofia, anzi se ne lascia condurre. Un altro momento importante della precisazione del ruolo della filosofia è il 1983, quando il Nostro sostiene, insieme a R. Spaemann, che una filosofia che non avanza la pretesa teoretica e pratica di totalità non è una vera e propria filosofia25. Con la Theorie des kommunikativen Handelns del 1981 J. Habermas è già abbastanza inoltrato nella svolta linguistica della filosofia. Come ben sappiamo, con il mutamento di paradigma mediante il transito dalla filosofia della coscienza a quella del linguaggio, la filosofia, ormai linguistica, non muove più dalla filosofia del soggetto e della coscienza, che per lunghi secoli ha regolato la formazione e lo studio di tutti i problemi, ma segue percorsi nuovi, quelli linguistici appunto. Delle tante motivazioni di un siffatto mutamento epocale Habermas ricorda la seguente: il linguaggio è «il medium delle incarnazioni storico-culturali dello spirito umano»26. Il mutamento, che ne consegue e che si nota immediatamente, è la sostituzione dei rapporti soggetto-oggetto con le relazioni linguaggio-mondo e proposizione-stato di cose27. La novità della filosofia linguistica, lungi dal semplificare i percorsi della riflessione, li rende più complessi. Li rende anche più efficaci in particolare nel compito di cogliere l’oggetto per cui vengono attivati. Dunque, si aprono percorsi fecondi, ma si pone anche la possibilità di una odissea dello spirito umano: la pragmatica linguistica, che riconosce la priorità del linguaggio nei confronti dello stesso soggetto, è all’origine del radicale mutamento intervenuto nel campo della filosofia del soggetto. Il linguaggio è il medium che dischiude il senso del mondo e crea le relazioni sociali, ponendo, così, le condizioni per l’intesa. La struttura del linguaggio fornisce la chiave interpretativa del fatto che lo spirito umano, se vuole 25
Cfr R. SPAEMANN, Der Streit der Philosophen, in H. LÜBBE (ed.), Wozu Philosophie? Stellungnahmen eines Arbeitskreis, Berlin 1978, 96; ED 20. 26 PPM 170. 27 Cfr PPM 11.
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ritrovare se stesso e scoprire la propria vera identità, deve percorrere la via dell’alienazione nell’altro da sé, fino a raggiungere la distanza massima da se stesso. Ma questa per lo spirito umano è un’odissea28. Riflettendo su ciò, ci si rende conto che tante ed importanti sono le ragioni per le quali riteniamo necessario far precedere ogni qualsiasi approfondimento della prassi comunicativa da alcune brevi riflessioni sulla concezione habermasiana della filosofica linguistica. Una volta assunta la prospettiva critica, J. Habermas si è sentito a disagio nei confronti della filosofia tradizionale. Il suo impegno di filosofo assume un nuovo scopo, e cioè la configurazione della razionalità in senso performativo, cosa che si rende evidente nella razionalità comunicativa, la cui fecondità può essere fruita intersoggettivamente. Concretamente ciò accade quando il sapere comunicato linguisticamente si dimostra attendibile e la sua pretesa di validità è veramente trans-soggettiva. La razionalità, così, si rivela in e mediante affermazioni ed azioni la cui pretesa si fonda sull’efficienza, che nel suo livello alto è comunicativa29. La funzione comunicativa è animata da una forza illocutoria. In questa si ritiene che si trovi un punto cruciale della vicenda filosofica di Habermas, in cui si sono verificati l’abbandono del paradigma coscienzialistico e l’accoglimento del paradigma linguistico. J. Habermas, a differenza di J.L. Austin, il quale conta sui riferimenti istituzionali, è dell’opinione che gli atti linguistici attingano la capacità generativa della loro forza illocutoria in fondamenti razionali di origine prettamente linguistica. Questi consistono nell’attuazione delle condizioni contestuali tipiche necessarie all’agire linguistico e nelle attitudini del soggetto parlante a creare, mediante il discorso, un rapporto particolare con l’interlocutore ed 28
«La decisiva innovazione nei confronti della filosofia del soggetto è stata resa possibile anche sotto questo aspetto, grazie ad una svolta verso la pragmatica linguistica che riconosce la priorità non già alla soggettività produttrice del mondo (welterzeugend), bensì al linguaggio che dischiude il mondo (welterschliessend) — come medium della possibile intesa, della cooperazione sociale e dei processi di apprendimento autocontrollati. Solo così sono resi disponibili i mezzi concettuali fondamentali con i quali possiamo recuperare un’intuizione già da lungo tempo espressa nel discorso religioso. Partendo dalla struttura del linguaggio si chiarisce perché lo spirito umano sia condannato all’odissea, perché esso ritrovi se stesso, solo attraverso le vie tortuose della sua completa alienazione in altre cose e negli altri. Solo nella distanza massima da se stesso egli può diventare consapevole di sé nell’insostituibile unicità di un’essenza individuata» (PPM 188). 29 Cfr TAC I, 62 ss.
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a stabilire un legame con lui. Su questo legame si fonda la garanzia che il soggetto parlante, coerentemente con i suoi discorsi, sarà fedele ad impegni assunti, come, ad esempio, accettare le proposte risolutive dell’interlocutore se sono soddisfacenti, riconoscere la falsità di una asserzione dimostrata mediante argomentazioni corrette, appoggiare con forza una richiesta giusta anche se all’inizio non suscita entusiasmo e non riscuote consenso. Si tratta solo di esemplificazioni delle possibili manifestazioni di fedeltà del soggetto parlante agli impegni assunti, ma sono più che sufficienti per comprendere che un discorso è dotato di forza illocutoria se è in grado di convincere l’interlocutore ad agire sulla base della presunzione della serietà della proposta del soggetto che, con il suo discorso, stabilisce un rapporto con lui30. Quale funzione obbedisce alla forza illocutoria come quella emancipativa? È questa funzione che, secondo Habermas, fa la differenza tra la sua concezione della filosofia e la filosofia tradizionale. Se il télos di quest’ultima era la conoscenza, il télos che il Nostro ha in comune con le scienze critiche e con la nuova filosofia è l’interesse emancipativo della conoscenza. Questo dato, da lui messo a tema nel corso degli anni ’60 del secolo passato, appartiene alla prima fase della sua riflessione, ma è già molto distante dalla filosofia tradizionale. Certamente è lontana da quanto viene chiamato “oggettivismo deformante” della filosofia ancora saldamente legata all’ontologia e dalla sua pretesa di essere teoria pura. Ciò significa che non c’è una filosofia priva di presupposti; ma significa, altresì, che questo fatto è ben lontano dal rendere debole la filosofia31. Anzi, essa si trova collocata in un infrangibile ed irresistibile intreccio di fattori: interesse, linguaggio, emancipazione, universalità e filosofia: «L’interesse all’emancipazione non è una vaga intuizione, anzi può essere riconosciuto a priori. Infatti ciò che ci distingue dalla natura è l’unico dato di fatto che possiamo conoscere per sua natura: il linguaggio. L’emancipazione è posta per noi già con la sua struttura. Con la prima proposizione viene espressa inequivocabilmente l’intenzione di un
30
Cfr J. HABERMAS, Universalpragmatische Hinweis auf das System der IchAbgrenzungen, in M. AUWÄRTER – E. KIRSCH – K. SCHRÖTER (edd.), Seminar: Kommunikation, Interaktion, Identität, Frankfurt a.M. 1977, 333 s. 31 Cfr TPST 52.
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consenso universale e non imposto. L’idea di emancipazione è l’unica di cui siamo capaci, nel senso della tradizione filosofica»32.
Così, la razionalità linguistica risulta essere la scaturigine profonda dell’interesse razionale per l’emancipazione e, in definitiva, della base normativa della critica. La filosofia linguistica ha anche il problema di essere autentica; e, se vuole esserlo, deve sottoporsi a verifica, ed in particolare deve controllare se riesce a raggiungere il livello di problematizzazione del precedente paradigma filosofico33. Solo dopo avere dimostrato di essere adeguata ai nuovi problemi del sapere e della vita, essa può espletare il ruolo di metateoria nei confronti delle scienze, che in tempi recenti si sono affermate potentemente, e cioè le scienze naturali e sociali34. Le scienze forniscono i contenuti, la filosofia ne coglie il senso. D’altronde, è convincimento di Habermas che una filosofia del soggetto e della coscienza sia priva di quella dimensione collettiva che pone la filosofia all’interno dell’agire comunicativo, che è intersoggettivo, è alimentato e normato dal linguaggio ed è suscettibile di verifica e di critica. La svolta linguistica della filosofia si spiega, secondo la sensibilità habermasiana, anche con tre esigenze: quella, tutta marxista, di realizzare la filosofia; quella, tutta francofortese, di sottoporre la medesima filosofia a critica; e, infine, quella, pienamente condivisa da Habermas, di fare della critica un evento intersoggettivo. Tutte e tre queste esigenze hanno come scopo la liberazione della filosofia dal rischio di cadere nelle grinfie della mistificazione ideologica. A questo punto, molte cose si rendono chiare. Innanzitutto, si comprende perché il “discorso” moderno, secondo Habermas, non ha bisogno di fondazioni filosofiche diverse dalla razionalità; si tratta di ben altro che di rifiuto del ruolo della filosofia, in quanto la razionalità ne custodisce e ne attiva le esigenze perenni ed universali. Inoltre, ci si capacita del fatto che la filosofia non può non trovarsi in costante dialogo con la sociologia, alla quale offre continuo supporto, mentre lo riceve da essa senza interruzione. Infine, appare evidente la ragione per la quale il Nostro sostiene che il vero 32
Cfr TPST 55. Cfr DU 117. 34 Cfr F. FISTETTI, La ragione discorsiva di J. Habermas, in Fenomenologia e società 7 (1984) 4, 14. 33
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filosofo è il giurista, e cioè il pensatore che scopre, studia ed espone le regole che normano l’agire comunicativo. Non si tratta del vecchio filosofo, bensì di quello che ha adottato il nuovo paradigma filosofico. Solo così si può capire perché J. Habermas sostiene quanto segue: «Il diritto “giusto” deve liberare la società antagonista trasformandola in civiltà della discussione»35.
Sulla base di quanto precede, possiamo affermare che la filosofia di Habermas non è la filosofia pura, ma è una filosofia che riflette criticamente sulla realtà che tutte le scienze, iniziando da quelle della natura e finendo con quelle sociali, le pongono davanti. In tal modo, viene garantito il mantenimento dell’istanza di emancipazione, che è un’istanza tipica della filosofia. Dunque, J. Habermas intende la filosofia come filosofia linguistica e ad essa affida il compito della comunicazione. Questo, però, non può essere perseguito senza competenza comunicativa, che, come si sa, nella mentalità habermasiana si configura come pragmatica. La pragmaticità ha certamente un livello strumentale e contingente, ma non si esaurisce in esso, in quanto la razionalità è implicata in modo strutturale nel livello trascendentale che lo sostiene. È come radicare antropologicamente le strutture dell’azione e definire le condizioni dell’oggettività delle asserzioni sul reale36. Ma la pragmatica ha, secondo Habermas, altri compiti, e soprattutto quello di creare le condizioni per un’interazione discorsiva e per un’intesa. Ricorrendo ad essa, Habermas ritiene di potere superare i rischi insiti nelle illusioni della metafisica e nelle secche dello scetticismo e di potere acquisire la giustificazione mediante pratiche sociali, avvalorate dal fatto che vengono compiute all’interno della comunicazione linguistica. È in tale prospettiva che la pragmatica viene chiamata dal Nostro “pragmatica universale” o, come è accaduto in seguito, anche “pragmatica formale”. Ovviamente, la sua competenza va oltre le espressioni che rendono possibile una situazione linguistica, e tali sono i pronomi personali, i verbi, i livelli semantici e, in genere, i fatti linguistici che sostengono espressioni linguistiche corrette dal punto di vista gram35
RC 56. «Proiezione dello schema di azione umana sulla natura significa che la sfera funzionale dell’agire strumentale è il quadro trascendentale che definisce le condizioni dell’oggettività di possibili asserzioni sul reale. Sul piano dei processi della ricerca, quella sfera d’azione ha assunto la forma dell’esperimento» (CI 38). 36
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maticale e sintattico. Inoltre, tale competenza si attiva nel rendere possibili gli atti linguistici, che sono, sì, eventi linguistici normati da regole, ma ricercano l’interazione discorsiva tra soggetti mediante la creazione delle “condizioni universali dell’intesa possibile”. In tal modo, la “pragmatica universale” supera definitivamente la soglia della “pragmatica empirica”, che non riesce ad andare oltre i ritmi contingenti della comunicazione, e coglie lo spessore trascendentale della comunicazione linguistica, che ha come scopo l’intesa. Nel compiere un atto linguistico nel senso più compiuto e più vero del termine, il soggetto parlante deve formulare una triplice pretesa: pretesa di verità, pretesa di veridicità e pretesa di giustezza o adeguatezza. Solo se queste pretese vengono soddisfatte, gli interlocutori possono trovare un accordo e conseguire un’intesa37. L’approccio habermasiano della proceduralità evita decisamente, con la sua gradualità, l’itinerario classico dell’“adeguazione” e l’itinerario cartesiano delle “idee chiare e distinte”. Ne consegue che il soggetto singolo deve prendere coscienza del fatto che non è autosufficiente e, quindi, deve lasciarsi guidare sia dal principio che ogni atto discorsivo di comunicazione è all’interno di una comunità di soggetti parlanti interdipendenti e legati tra di loro da regole e dinamiche democratiche38, sia dal principio che la ricerca dell’argomento migliore implica la cooperazione dei membri della convivenza organizzata ed il loro incondizionato impegno linguistico.
2. COMUNITÀ DI COMUNICAZIONE Secondo J. Habermas, la comunicazione ha luogo in due forme: l’agire comunicativo, teso all’interazione, ed il discorso, volto all’intesa, che conseguentemente viene chiamata intesa discorsiva39. Le due forme di
37 Cfr J. HABERMAS, Was heißt Universalpragmatik?, in K.O. APEL (ed.), Sprachpragmatik und Philosophie, Frankfurt a.M. 1976; cfr anche W. PRIVITERA, Il luogo della critica. Per leggere Habermas, Soveria Mannelli (CZ) 1966, 45-55. 38 Cfr G. BORRADORI, Habermas. Ricostruire il terrorismo, in ID., Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Roma-Bari 2003, 67. 39 Cfr J. HABERMAS, Teoria della società o tecnologia sociale, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Theorie der Gesellschaft oder Sozialtechnologie, (1971), trad. it., Teoria della società o tecnologia sociale. Che cosa offre la ricerca del sistema sociale?, Milano 1973, 76.
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comunicazione, ancorché distinte, non sono separabili. Sicché, insieme allo stesso Habermas, possiamo dire: «Abbiamo distinto due forme della comunicazione: l’agire comunicativo e il discorso. L’interazione, mediata linguisticamente, unisce discorso e agire in modo che anche il discorso assume il carattere di azioni (atti discorsivi) e di guida di azioni (informazioni)»40.
Si tratta di una delle tante anticipazioni della teoria dell’agire comunicativo, che avrebbe avuto la sua compiuta formulazione nella grande opera del 1981, intitolata appunto Theorie des kommunikativen Handelns. Leggendo quest’opera si assiste ad un confronto tra Habermas e le grandi prospettive sistematiche teorico-sociali dei secoli XIX e XX ed alla delineazione delle condizioni di possibilità di un’intesa, che si configurano come prammatica universale. L’impressione globale è che una delle finalità che Habermas si propone di raggiungere sia la presentazione della visione armonica e completa della teoria dell’evoluzione sociale. Come si può agevolmente notare, le coordinate di una tale operazione non possono non essere che quelle della modernità, che, come si sa, si alimenta di razionalità e si impegna in una universale opera di razionalizzazione. Se il tema filosofico fondamentale è la ragione, la teoria dell’agire comunicativo è una teoria della società che tenta di giustificare i propri principi critici. Facendo ciò, però, non procede alla maniera delle metateorie, che fondano la propria razionalità al di fuori della dinamica concreta dell’azione, bensì sostanziandosi dell’attivarsi della ragione immanente nel discorso, nella conoscenza e nell’agire41. Con tale teoria J. Habermas intende garantire nel miglior modo possibile la permanenza dell’evoluzione sociale nel processo della razionalità. Ciò, secondo la sua visione delle cose, si verifica mediante la comunicazione volta all’intesa quale dimensione controfattuale ed immanente della convivenza umana nel mondo e lungo la storia. Si tratta di un’operazione di portata epocale, di un’operazione di etica comunicativa. Non c’è altro modo per garantire la stabilità dell’armonia all’evoluzione sociale. È stato osservato che Habermas, con una siffatta operazione, intende sostituire la religione nel suo ruolo storico di fattore di coesione sociale: al posto della 40 41
Ibid., 143. Cfr TAC I, 45, 53.
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religione, ormai priva del suo potenziale di razionalità, egli pone il libero pensiero dell’illuminismo e l’efficienza della sua razionalità. Secondo il Nostro, nella modernità è la ragione ad integrare e sostenere, con la sua universalistica etica della responsabilità, la contingenza tipica della società in evoluzione42. Ma, ancora una volta, affinché si eviti in tutti i modi il rischio di pensare che la razionalità in questione sia astratta e non riconducibile alla concretezza dell’azione, è opportuno ribadire che la teoria dell’agire comunicativo reca all’evidenza ed impegna al massimo il potenziale razionale insito nella prassi comunicativa quotidiana43. L’agire comunicativo, ponendosi contro il dominio e contro l’ideologia che lo sostiene e garantisce con i suoi innumerevoli dispositivi di comunicazione distorta, orienta l’evoluzione sociale verso la convivenza comunicativa libera, seguendo già la pista concreta della comunicazione libera. L’agire comunicativo mette a nudo il carattere unilaterale della razionalità di tipo positivistico, strutturale e tecnocratico e dimostra di essere il dispositivo fondamentale di riproduzione della società ed il fulcro di una teoria comunicativa della società44. Verificandosi nello spazio sociale, l’agire comunicativo è un processo graduale ed a cespuglio, in cui hanno luogo simultaneamente razionalità, azione, linguaggio, pluralismo, dialogo, comunicazione, intersoggettività, intesa. Ma non basta, in quanto in tale processo è necessario inserire la finalità dell’ordine sociale45 e, in definitiva, anche le istituzioni, purché libere da fenomeni di dominazione e guidate da norme intersoggettivamente riconosciute46. Si comprende, così, una dichiarazione habermasiana di apertura, secondo cui la teoria dell’agire comunicativo non è una metateoria, bensì una teoria della società, sia pure a livello iniziale, che è impegnata a dimostrare i suoi “criteri critici”47. 42 Cfr TAC II, 1076; J. HABERMAS, Die neue Intimität zwischen Politik und Kultur, in J. RÜSEN – E. LÄMMERT – P. GLOTZ (edd.), Die Zukunft der Aufklärung, Frankfurt a.M. 1988, 64 s.; E. ARENS, La teologia secondo Habermas. Una introduzione, in E. ARENS (ed.), Habermas e la teologia, cit., 25 s. 43 Cfr SCOP XXVIII 44 Cfr A. HONNETH, Kritik der Macht. Reflexionsstufen einer kritischen Gesellschaftstheorie, trad. it., Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, Bari 2002, 386 s. 45 Cfr PPM 72. 46 Cfr ED 189 s. 47 Cfr TAC I, 45.
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Si tratta innanzitutto di vedere come Habermas delinea la discriminante tra agire comunicativo ed agire non-comunicativo. In sintesi, mentre l’agire comunicativo si caratterizza per l’intenzione di pervenire all’intesa e per il linguaggio quale medium del raggiungimento di tale scopo, l’agire non-comunicativo si caratterizza per la tendenza al successo, che implica l’autoaffermazione e l’influenza, e per la degradazione del linguaggio a strumento del successo. L’intesa e l’interazione, cui si volge naturalmente l’agire comunicativo, possono essere realizzate o disattese48. L’agire noncomunicativo è tutt’altro che irrazionale, in quanto mira al suo scopo, che è il successo. L’agire volto al successo implica “azioni strumentali”, e cioè azioni tecnicamente ineccepibili e dotate di grande efficacia in contesti oggettivi, ed “azioni strategiche”, e cioè azioni anch’esse tecnicamente ineccepibili e dotate della capacità di influenzare le decisioni di un “antagonista razionale”. Diversamente, la razionalità tipica dell’agire comunicativo si mostra nell’intesa, che si realizza, in virtù della potenza della tensione della razionalità e della forza cogente del parlare argomentativo, quando gl’interlocutori superano i loro punti di vista individuali e si convincono di condividere intersoggettivamente mondo oggettivo e mondo vitale49. La razionalità comunicativa, riversandosi nelle azioni, partecipa ad esse i suoi propri caratteri e, pertanto, le rende azioni comunicative, e cioè azioni non alimentate da calcoli egoistici e non orientate primariamente al successo, ma impegnate a perseguire anche fini individuali, purché in condizioni di sintonia di reciprocità e di coordinamento progettuale tra tutti i partecipanti50. J. Habermas è talmente convinto del legame stretto che intercorre tra agire comunicativo e razionalità, che, criticando un autore 48
Cfr TAC I, special. 169 ss. «Questo concetto di razionalità comunicativa presenta connotati che in ultima analisi risalgono all’esperienza centrale della forza unificante e fondante il consenso senza coazioni, propria del parlare argomentativo. In esso diversi partecipanti superano le proprie concezioni dapprima soltanto soggettive e, grazie alla comunanza di convinzioni motivate in modo razionale, si accertano insieme dell’unità del mondo oggettivo e dell’intersoggettività del loro contesto vitale» (TAC I, 64 s.). 50 «Parlo invece di azioni comunicative se i progetti di azione degli attori partecipi non vengono coordinati attraverso egocentrici calcoli di successo, bensì attraverso atti dell’intendersi. Nell’agire comunicativo i partecipanti non sono orientati primariamente al proprio successo; essi perseguono i propri fini individuali a condizione di potere sintonizzare reciprocamente i propri progetti di azione sulla base di comuni definizioni della situazione» (TAC I, 394); «Rispetto alla interazioni strategiche l’agire comunicativo si contraddistingue per il fatto che tutti i partecipanti perseguono senza riserve i loro fini illo49
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come A. Gehlen, che per altro tiene in grande considerazione, ne mette in evidenza proprio l’incapacità di cogliere la razionalizzazione culturale che l’agire comunicativo è in grado di realizzare51. L’agire comunicativo, in quanto evento discorsivo razionale teso ad un accordo, appartiene al processo vitale della società. Esso raccoglie nella modernità l’eredità del sacro, la sottopone ad un’azione radicale di disincantamento, anche quotidianizzandola e rendendola suscettibile di critica, e ne assolve le funzioni di integrazione nella società52. Addirittura, Habermas non ha alcun timore di fare dell’agire comunicativo un punto preciso dello sviluppo secolarizzato del cristianesimo: «Io non avrei nulla da obiettare, se qualcuno mi dicesse che la mia concezione del linguaggio (e dell’agire comunicativo orientato all’intesa) sviluppa una eredità cristiana »53.
La società, vivificata e riplasmata in virtù dell’agire comunicativo, viene chiamata comunità di comunicazione. Ogni soggetto che prende parte all’evento discorsivo è se stesso in quanto è inserito nella comunità di comunicazione. Questa acquisizione, dovuta soprattutto al costante confronto con G.H. Mead e con K.O. Apel54, consente a J. Habermas di recuperare, ma su rinnovate basi linguistiche, l’idea marxista di apporto determinante della società nel processo ontogenetico del soggetto. La realizzazione della comunità di comunicazione non è un fatto automatico, ma deve superare una serie di difficoltà su vari fronti, a partire da quelli concernenti la competenza, la razionalità ed il potere. E ciò accade cutivi per raggiungere un’intesa che costituisce la base per un coordinamento unanime dei progetti di azione perseguiti di volta in volta in modo individuale» (TAC I, 406). 51 Cfr TP 54. 52 «Mi lascio guidare dall’ipotesi che le funzioni social-integrative ed espressive, dapprima assolte dalla prassi rituale, passano all’agire comunicativo. L’autorità del sacro viene sostituita dall’autorità di un consenso di volta in volta ritenuto fondato. Ciò significa una liberazione dell’agire comunicativo da contesti normativi tutelati dal sacro. Il disincantamento e l’esautoramento dell’ambito sacro si compie attraverso una elaborazione linguistica della intesa normativa di fondo garantita ritualmente. Con ciò va di pari passo la liberazione del potenziale di razionalità racchiuso nell’agire comunicativo. L’aura dell’incanto e della paura, che emana dal sacro, la forza soggiogante del sacro viene sublimata e al tempo stesso quotidianizzata nella forza vincolante di pretese criticabili di validità» (TAC II, 648). 53 TP 139 s. Cfr M. ROSATI, Solidarietà e sacro, Roma-Bari 2002, 101 ss. 54 Cfr PPM 184-236; ED.
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non casualmente, ma in forza di una teoria, la teoria comunicativa appunto, la quale, come Habermas sosteneva al tempo del Positivismusstreit, è un “sistema ordinatore” che implica un dato progettuale e, pertanto, la libertà, ma all’interno di una “cornice sintatticamente vincolante” non solo per l’esigenza analitica della coerenza ma anche per l’esigenza dialettica della corrispondenza all’oggetto55. La comunità di comunicazione si pone simultaneamente ad una situazione discorsiva, che è possibile in virtù di una “prammatica universale”, che Habermas preferisce chiamare “teoria della competenza comunicativa”. Tale teoria precisa il sistema di regole che genera le situazioni discorsive e presiede ad esse. Ridotte all’essenziale, tali regole collegano l’atto discorsivo e l’espressione, e cioè il proferimento di una proposizione da parte di un soggetto parlante, intenzionato a comunicare, e la proposizione, dotata di contenuto intenzionale. Mentre ha luogo tale collegamento, si realizza l’incontro di almeno due soggetti sia al livello dell’intersoggettività, in cui le persone, capaci di parola e di azione, entrano in rapporto di dialogo, sia al livello degli oggetti, in cui il reale diventa oggetto di enunciati e su cui i soggetti in questione s’intendono. La situazione discorsiva, dunque, è quella in cui si attivano le condizioni della possibile comunicazione56. Solo che una situazione discorsiva che consenta effettivamente la comunicazione, e cioè che si lasci ispirare da tensioni veramente razionali, non è comunemente esperibile. I riscontri di un fatto come questo si possono trovare nella stessa produzione di J. Habermas. Lo scritto habermasiano Strukturwandel der Öffentlichkeit è introdotto da due prefazioni, quella alla prima edizione del 1962 e quella alla seconda edizione del 1990. Nella prima prefazione la condivisione della prospettiva critica adorniana, ancorata fortemente all’impostazione marxista della critica dell’ideologia, induce il Nostro a confidare nell’illuminismo e nella critica razionale ad esso ispirata per trovarsi in una prassi comunicativa nel senso vero del termine. 55
Cfr J. HABERMAS, Analitische Wissenschaftstheorie und Dialektik. Ein Nachtrag zur Kontroverse zwischen Popper und Adorno, (1963), trad. it., Epistemologia analitica e dialettica. A proposito della controversia fra Popper e Adorno, in H. MAUS – FR. FÜRSTENBERG (edd.), Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, trad. it., Dialettica e positivismo in sociologia. Dieci interventi nella discussione, Torino 19723, 155 s. 56 Cfr J. HABERMAS, Vorbereitende Bemerkungen zu einer Theorie der kommunikativen Kompetenz, trad. it., Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 67-73.
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A partire dal 1962, Habermas riflette sempre più sullo scacco subito dalla storia a motivo di quelle che lui stesso chiama le “barbarie civilizzate del XX secolo”, uno scacco che travolge insieme al mondo i modelli politici imperanti, gli ideali culturali condivisi e le prospettive razionali universalmente adottate. Egli acquisisce un convincimento, che implica l’urgenza della critica delle ideologie, il pronunciamento di una sentenza d’inefficacia circa la teoria critica della Scuola di Francoforte nella sua forma originaria e la necessità di impegnare ancora la ragione nella teoria critica, ma modificandone i livelli ed i ritmi. Habermas si esprime nel modo seguente: «Ho quindi proposto una collocazione più profonda delle basi normative della teoria critica della società. La teoria dell’agire comunicativo è intesa a mettere in luce un potenziale razionale insito nella stessa prassi comunicativa quotidiana. Con ciò essa spiana contemporaneamente la strada a una scienza sociale dal procedere ricostruttivo, che identifica in tutta la loro estensione i processi di razionalizzazione culturale e sociale, ripercorrendoli oltre la soglia delle società moderne; allora non si avrà più bisogno di ricercare potenziali normativi solo in una formazione specifica di un’epoca. L’obbligo di stilizzare le singole espressioni prototipiche di una razionalità comunicativa incarnata nelle istituzioni viene a cadere in favore di un intervento empirico, che allenta la tensione del contrasto astratto tra norma e realtà. Inoltre, diversamente dalle classiche assunzioni del materialismo storico, vengono in primo piano la caparbietà strutturale e la storia interna dei sistemi e delle tradizioni di interpretazione»57.
Come si può notare, mutano l’approccio, che non viene più alimentato dal materialismo storico nella sua forma classica, ed i ritmi, che non rischiano più di essere astratti, ma rimane integra la tensione razionale, che, però, non si lascia standardizzare e stilizzare ma si riveste dello spessore empirico delle nuove filosofie linguistiche e si dimostra in senso vero e proprio razionalità comunicativa58. Una situazione discorsiva, che sia luogo di effettiva comunicazione, è veramente segnata dalla razionalità, e precisamente da una razionalità comunicativa tesa all’accordo. Nel 1981, nel corso di un colloquio con 57
SCOP XXVIII. Ovviamente, resta ancora aperto il problema da noi posto nella premessa circa il rapporto tra “potenziale razionale” incorporato nella prassi comunicativa della vita quotidiana e trascendentalità. 58
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A. Honneth, E. Knödler-Bunte e A. Widmann, Habermas in concreto sostiene che la comunicazione, evento complesso, dà testimonianza alla razionalità e, viceversa, la razionalità è garanzia della comunicazione. La razionalità presiede all’evento della comunicazione, operandovi dal punto di vista dei partecipanti e, quindi, regolando i rapporti tra soggetto conoscente ed eventi, tra soggetto agente e mondo sociale e tra soggetto e comunità intersoggettiva, ed anche dal punto di vista della Lebenswelt, e cioè tenendo presenti pure le situazioni concrete nelle quali gli stessi partecipanti realizzano l’intesa59. Dunque, si tratta di razionalità in actu exercito, e cioè di razionalità che, mentre si verifica l’agire comunicativo, si rivela quale razionalità comunicativa. Nella comunità di comunicazione si pone anche il problema del potere. J. Habermas si cimenta frequentemente con esso, ma ci sembra che il suo atteggiamento si configuri variamente, a seconda del momento storico in cui è stato assunto. Un primo momento è da collocare alla fine degli anni ’60 ed all’inizio degli anni ’70 del secolo XX, ed un secondo momento all’inizio degli anni ’90 del medesimo secolo. Nel primo momento, che rimonta all’epoca del Positivismusstreit, il Nostro pensava ancora alla maniera dei vecchi maestri di Francoforte e, pertanto, tendeva a radicalizzare la critica contro il potere ritenuto alienante in ogni sua forma, soprattutto nella forma che corrompe lo spazio della comunicazione linguistica. Habermas dice:
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«Io sto cercando, come ho già detto, di enucleare il contenuto normativo di quell’idea di intesa che è insita nei linguaggi, nelle comunicazioni. Il che conduce ad un concetto complesso, per cui non solo si suppone che noi comprendiamo il significato di azioni linguistiche, ma si ritiene altresì che fra i partecipanti alla comunicazione si producono intese su fatti, norme ed anche esperienze vissute […]. Con ciò vengono indicate le tre dimensioni che si trovano nel concetto di razionalità comunicativa: il rapporto tra il soggetto conoscente e un mondo di avvenimenti e di fatti; il rapporto tra il soggetto praticamente agente e implicato in interazioni con altri e un mondo della socialità; infine, il rapporto fra il soggetto passivo e appassionato (nel senso di Feuerbach) e la sua propria natura interna, la sua soggettività, e la soggettività di altri. Queste sono le tre dimensioni che si possono scorgere quando si analizzano i processi comunicativi dal punto di vista di coloro che vi partecipano. Ma vi appartiene poi anche il mondo della vita, ossia ciò che i partecipanti alla comunicazione hanno di volta in volta dietro le spalle, a partire dal quale essi affrontano i loro problemi di intesa» (J. HABERMAS, Dialettica della razionalizzazione. Jürgen Habermas a colloquio con Axel Honneth, Eberhard Knödler-Bunte e Arno Widmann, cit., in DR 239).
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«Certamente la comunicazione potrebbe dispiegarsi soltanto in una società emancipata, che avesse realizzato la maturità dei suoi membri, fino a diventare il dialogo sottratto al dominio di tutti con tutti, dal quale deriviamo pur sempre tanto il modello di un’identità dell’Io formata nella reciprocità, quanto l’idea del vero accordo»60.
H. Pilot, commentando queste idee habermasiane, esprime l’idea che la possibilità della comunicazione linguistica si attui solo nel caso che il dominio sia messo nell’impossibilità di affermarsi. Questo è il suo convincimento, ma è anche l’interpretazione del citato passo di Habermas che egli preferisce. Di esso il Pilot prima presenta due possibili interpretazioni e poi fa la sua scelta: «Questo passo consente due interpretazioni diverse, che corrispondono a due posizioni della critica dell’ideologia che minacciano di far saltare l’impostazione di Habermas. Esso può significare, da un lato, che il “dialogo libero da dominio” in una società minorenne non può essere di “tutti con tutti”, ma è nondimeno possibile all’interno di certe condizioni strettamente limitate, senza rivelare nessuna distorsione ideologica; oppure può significare che in una società minorenne la distorsione ideologica è universale, e comprende anche la stessa idea di emancipazione. Nel primo caso l’idea di emancipazione può essere principio della filosofia della storia praticamente orientata, mentre nel secondo caso sono inevitabili conseguenze scettiche»61.
La comunicazione non può avere luogo solo nel caso che lo spazio sociale sia occupato da una forma di dominio in grado di imporre in modo invincibile la propria linea ed i propri codici di trasmissione. Stando così le cose, ci sembra che la corretta interpretazione del passo habermasiano citato coincida con la prima interpretazione proposta dal Pilot. E ciò, tenendo conto dell’intero pensiero di J. Habermas, deve essere detto sia perché una società, in cui non sia possibile la comunicazione neanche con l’ausilio della critica delle strutture sociali, è praticamente inesistente, sia perché la teoria della competenza comunicativa riconosce almeno al 60
TPST 55. H. PILOT, Jürgen Habermas’ empirisch falschierbare Geschichtsphilosophie, trad. it., La filosofia della storia di Jürgen Habermas e la sua falsificabilità empirica, in H. MAUS – FR. FÜRSTENBERG (edd.), Dialettica e positivismo in sociologia. Dieci interventi nella discussione, cit., 318. 61
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soggetto parlante ideale la capacità di comunicare. Il parlante ideale è quello che, essendo dotato di competenza comunicativa ed operando all’interno di una situazione discorsiva ideale, fa il suo discorso in modo ineccepibile non solo esternamente ma anche sostanzialmente, nel senso che, mantenendosi immune da ogni genere di cogenze esterne e segnatamente da complicazioni ideologiche, è e rimane protagonista di una comunicazione libera da distorsioni sistematiche62. Nel secondo momento Habermas ha già superato la sua simpatia per la razionalità di stampo illuministico, l’ha già reimpostata in termini di razionalità comunicativa in prospettiva linguistica ed ha già stabilito il procedimento democratico nella formazione della volontà come condizione dell’accettabilità razionale. Sicché, legittimo è solo il potere comunicativo delle motivazioni condivise; il potere come dominio non lo è in nessun modo. J. Habermas così si esprime: «Il carattere discorsivo della formazione dell’opinione e della volontà — sia nella sfera pubblica politica sia nei corpi parlamentari — ha anche il senso pratico di creare rapporti d’intesa che siano “non violenti” nel senso di Hannah Arendt e dunque svincolino la forza produttiva della libertà comunicativa. Solo dalle strutture di un’intersoggettività intatta può svilupparsi il potere comunicativo di convinzioni condivise»63.
Il potere comunicativo è la forma che assume la condivisione di convinzioni conseguita discorsivamente dal legislatore64. Se viene garantita la libertà comunicativa, non fanno difficoltà né un tale potere, né le eventuali trattative, né le possibili regolamentazioni65. In ogni caso, non deve essere trascurato il fatto che Habermas intende il potere in senso relazionale, ma sotto il profilo particolare che viene all’evidenza in T. Parsons e che elabora concettualmente le differenze e le analogie intercorrenti tra potere e denaro. Sicché, egli parla del potere come di un valore di scambio ed un valore d’uso, come di un valore in deposito ed un valore in circola62 Cfr J. HABERMAS, Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 91. Cfr anche S. MAFFETTONE, Critica e Analisi, cit., 47-53. 63 Cfr FN 181. 64 Cfr FN 188. 65 Cfr FN 198 s.
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zione, come di un valore che viene fruito nel migliore dei modi in un clima di fiducia. Solo che la fiducia, che si attiva nel contesto del potere, è di natura particolare, in quanto l’obbligo giuridico, con cui esso lega a sé e tra di loro i membri di una convivenza organizzata, ha il carisma della legittimazione e la forza della pretesa della validità normativa66. Superate le difficoltà in questione, J. Habermas può trarre dalla sua teoria comunicativa delle conclusioni applicative importanti. L’ambito in cui le conclusioni più rilevanti vengono tratte è la democrazia, universalmente ritenuta il modello socio-politico più idoneo alla comunicazione politica. Il Nostro vuole, innanzitutto, evitare le conseguenze estreme dell’applicazione di quel modulo estremista della teoria critica che potremmo chiamare “la critica per la critica”, e cioè lo scetticismo ed il cinismo speculativi. Le pratiche costituzionali e democratiche, da tempo attive nel mondo occidentale, garantiscono i nostri sistemi politici dai rischi sia della privazione del diritto della sua sostanza normativa sia del suo decadere a sistema di controllo sociale, ed impediscono che la democrazia si dissolva in un fenomeno illusorio. Inoltre, Habermas, convinto, com’è, che la democrazia corra i suoi più grandi rischi nelle società complesse, sostiene che tale sistema politico può essere conservato soltanto se viene pensato nei termini della teoria comunicativa, fino al punto da capovolgere il rapporto centro-periferia e porre la sorgente delle aspettative normative della sfera pubblica in una cultura politica liberale. La sfera pubblica ha bisogno della forza innovativa e delle energie utopiche dei movimenti sociali67. La società civile è composta da organizzazioni e movimenti che fungono da casse di risonanza di tutto ciò che accade nelle sfere private della vita in direzione della sfera pubblica e politica68. La memoria storica del francofortese riemerge subito, ed esattamente quando parla della necessità di distinguere tra questi “movimenti democratici”, sempre più caratterizzanti la società civile, e la “mobilitazione populistica di massa”, tipica dei sistemi totalitari69.
66 Cfr TAC II, 908-914; a tale proposito, fa interessanti annotazioni U. Gulli (cfr Struttura e soggettività. Per un confronto tra Marx ed Habermas, Palermo 1997, 70-74). 67 Cfr SE 116 s. 68 Cfr FN 434 s. 69 Cfr SE 125 s.
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Da queste riflessioni generali il Nostro passa a considerazioni non prive di ironia su piccoli fenomeni socio-politici del mondo occidentale odierno: «Nell’epoca post-totalitaria di Berlusconi, l’immagine delle masse in movimento cede il posto a quella di telespettatori elettronicamente “irretiti”. […] Così, anche se le immagini dello Stato totalitario sono scomparse, si è conservato il potenziale distruttivo di una forma nuova di massificazione»70.
3. INTERSOGGETTIVITÀ L’agire comunicativo, che, in quanto evento discorsivo razionale teso ad un accordo, appartiene al processo vitale della comunità di comunicazione, pone sulla pista dell’intersoggettività. La prassi comunicativa non è adottata per motivi di gusto o di preferenza, ma in forza di un imperativo71. J. Habermas ha sempre ritenuto l’evoluzione dell’uomo in senso individualistico una espropriazione dell’uomo stesso. Egli ha seguito con preoccupa70 SE 126. Il fenomeno Berlusconi, discutibile da non pochi punti di vista, è molto più articolato e complesso di quanto l’ironia di J. Habermas espressa in questo testo non voglia lasciare intendere. In ogni caso, i telespettatori italiani, forse diversamente da quelli tedeschi, sono tutt’altro che riducibili a massa. Ne sono prova, tra l’altro, gli esiti delle elezioni politiche del 2006 e del referendum confermativo del medesimo anno. Inoltre, la razionalità procedurale habermasiana, che non è soltanto prassica, come la razionalità vetero-marxista, ma è legata alle situazioni concrete, attribuisce al soggetto singolo, sia pure pensato all’interno di contesti sociali ed intersoggettivi, la capacità critica della scelta argomentativa. Ciò è certamente dovuto alla condivisione da parte di Habermas di non pochi valori liberali. Ma è proprio la considerazione di ciò che rende poco credibili le ragioni originanti dell’ironia habermasiana: egli ricade, almeno in questo caso, nella logica vetero-marxista, la quale valuta i fenomeni sociali non condivisi in termini di massificazione, mentre attribuisce alla propria prospettiva l’autocoscienza critica, che è insieme carisma illuminante, libertà irriducibile, creatività pura e messianismo intellettuale. Il principio della razionalità procedurale, che implica organicamente democrazia, intersoggettività e dialogo, fa divieto ad Habermas di ritornare sia alla prospettiva marxista classica, sia alla prospettiva critico-illuministica adorniana, sia, infine, alla prospettiva marcusiana della necessità di un liberatore carismatico delle masse, prospettive che egli, nella fase matura della sua riflessione, rifiuta decisamente. Pur non militando politicamente con S. Berlusconi, talora ci vediamo costretti a difenderlo da critiche rituali e di maniera, che offendono innanzitutto l’intelligenza di chi è costretto ad ascoltarle. Questa volta è il turno di J. Habermas. 71 Cfr DU 112.
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zione questa linea di sviluppo antropologico, fino a quando non l’ha superata72. Lo stesso processo ontogenetico dell’uomo, che implica il trascendimento delle mere capacità cognitive ed interattive dei primati, consegue, per mezzo del linguaggio, il livello più alto di rapporto sociale nell’intersoggettività73. La fondazione dell’identità dell’io passa, più che dall’attività della coscienza, dall’intesa intersoggettiva, che ha il fulcro nel fattore linguistico. Si può sostenere che il processo ontogenetico dell’identità del soggetto umano è in forza dell’attitudine linguistica e dell’agire comunicativo, e si può insistere fino a dire che i percorsi ontogenetici individuale e sociale del soggetto in questione sono contestuali74. Le peculiarità del soggetto non vengono colte nella riflessione in quanto tale, bensì nel medium che è la comunicazione linguistica75. Nessuna meraviglia, dunque, che si affermi che per la teoria di Habermas è fondamentale la tesi secondo cui struttura soggettiva e struttura intersoggettiva tendono a coincidere nel significato76. Un tale percorso è più che ovvio in Habermas, una volta che egli si è orientato secondo il modello linguistico-comunicativo. L’attenzione dell’approccio linguistico non è volta semanticamente alle proposizioni bensì pragmaticamente agli enunciati, in forza dei quali i soggetti parlanti si intendono su qualcosa. Per conseguire tale scopo, i parlanti debbono non solo comprendere gli enunciati che si scambiano tra di loro, ma debbono anche potersi rapportare tra di loro quali interlocutori che parlano, che ascoltano e che comprendono all’interno di una attiva comunità linguistica77. Habermas si occupa di intersoggettività secondo la sua impostazione linguistica, ma non senza confrontarsi con altri pensatori, che hanno avuto una sensibilità per certi aspetti analoga. Il più antico è J.J. Rousseau78, il quale, stando a quanto rileva lo stesso Habermas, rende profana la confessione del peccato, facendo transitare la tradizionale confessione segreta al 72 Cfr A. LINKENBACH, Opake Gestalten des Denkens. Jürgen Habermas und die Rationalität fremder Lebensformen, München 1986, 227. 73 Cfr CC 146. 74 Cfr E. BECK, Identitàt der Person. Sozialphilosophische Studien zu Kierkegaard, Adorno und Habermas, München 1991, 101-134. 75 Cfr FR. KOCH, Jürgen Habermas’Theorie des kommunikativen Handelns als Kritik von Geschichtsphilosophie, Frankfurt a.M. – Bern – New York 1985, 144 s. 76 Cfr A. CRÉAU, Kommunikative Vernunft als “entmystifiziertes Schicksal”. Denkmotive des früheren Hegel in der Theorie von Jürgen Habermas, Frankfurt a.M. 1991, 171. 77 Cfr PPM 28. 78 Cfr J.J. ROUSSEAU, Lettere morali, trad. it., Roma 1978, 198.
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Dio-giudice nella forma di dialogo pubblico ed anche nella forma di autoconfessione dell’uomo privato ad un pubblico di lettori, e cioè in una forma ed in eventi nei quali si rende attiva ed operativa l’opinione pubblica. Il Rousseau svela la propria biografia individuale soprattutto nelle lettere al signor di Malehrbes, il quale è certamente un interlocutore letterario individuale, ma, ancora di più, è il vicario di un vasto pubblico di lettori. Sicché, il vero destinatario delle lettere testé ricordate del Rousseau è l’opinione pubblica, e non solo quella appartenente alla sua epoca, ma anche quella che in ogni tempo si sarebbe accostata alle sue opere. Il transito dall’interlocutore-Dio all’interlocutore-opinione pubblica decostruisce l’individuo deprivatizzandolo e lo ricostruisce nella dimensione in cui la sua identità dipende dalla presa di posizione altrui. In tal modo, la confessione diventa un’autopresentazione, che è volta a giustificare la pretesa dell’io nei confronti delle altre persone79. J. Habermas, per quel che concerne la questione dell’intersoggettività, ferma la sua attenzione anche sul filosofo idealista tedesco J.G. Fichte e ne raccoglie i dati portanti della riflessione80. Il Fichte riconduce le prestazioni trascendentali dell’io, precedentemente precisate da I. Kant, all’atto originario dell’autoposizione dell’io individuale. Ciò accade perché la coscienza individuale appartiene aprioricamente all’autocomprensione dell’io. L’intersoggettività viene tematizzata simultaneamente alla individuazione dell’io in generale, il quale, nel singolarizzarsi in più individui, rende possibile una relazione intersoggettiva, esige l’autolimitazione dei singoli individui ed impedisce l’autorealizzazione assoluta della libertà individuale. Il Fichte si orienta a partire dal circolo della filosofia della coscienza. In essa gli io individuali, benché siano tali in quanto autolimitantesi, si determinano gli uni di fronte agli altri in modo oggettivistico, cioè gli uni per gli altri non possono che essere oggetti. Secondo Habermas, il Fichte, a motivo dell’oggettivazione che lega gli individui tra di loro, non riesce a raggiungere il livello di una comprensione linguistica veramente intersoggettiva. L’intreccio di filosofia della coscienza e di filosofia della scienza spinge l’io a rapportarsi, più che in una relazione comunicativa tra 79
Cfr PPM 201 ss. Habermas tiene presenti soprattutto le seguenti opere di J.G. Fichte: Das System der Sittenlehre nach den Prinzipien der Wissenschaftslehre, trad. it., Il sistema della dottrina morale secondo i principi della dottrina della scienza, Firenze 1957, 257, 267 ss.; Grundlage des Naturrechts nach den Prinzipien der Wissenschftstehre, Hamburg 1979, 16-55, 61-91. 80
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prima e seconda persona, con un oggetto, finendo con il provocare un universale processo di oggettivazione. Ciò comporta un affacciarsi ed un impegnarsi in ambito fenomenologico e, conseguentemente, una sortita dall’ambito meramente teoretico ed un volgersi alla concretezza dell’agire81. Ma dà anche sufficienti indicazioni circa quell’orientamento al sociale, che in seguito sarebbe stato sviluppato dal Marx e che in Habermas avrebbe conseguito un grande livello di fecondità a motivo di un forte convincimento circa l’impossibilità di attuare l’atto della ragione senza l’ausilio delle scienze sociali82. Il massimo di intersoggettività che Habermas vede nel pensiero del Fichte è nel fatto che il soggetto singolarizzato, ponendosi di fronte all’altro, lo fa con modalità intersoggettive. Nel contempo, il francofortese non esita a riconoscere che il filosofo idealista ha tracciato nuove coordinate per cogliere il concetto di individuo, che, al momento opportuno, non avrebbe mancato di produrre i suoi frutti83. Un altro filosofo con cui Habermas si confronta sull’intersoggettività è W. von Humboldt, che contribuisce, con le sue feconde riflessioni di filosofia linguistica, al successo delle tesi fichtiane sull’intersoggettività ed approfondisce il nesso che intercorre tra individualità ed intersoggettività, fondandosi sulla libertà dal dominio che non può non caratterizzare l’intesa linguistica84. Nel processo linguistico della comunicazione, l’unità nella molteplicità non è dovuta alla sussunzione di quest’ultima sotto la forza unificante di una regola generale, ma alla conciliazione per mezzo del dialogo in assenza di dominio. I partners della comunicazione pervengono all’intesa non raccogliendosi attorno al punto focale essenzialistico della soggettività, bensì attorno al punto focale dinamico del linguaggio. Il vero fulcro di questa sezione della riflessione di von Humboldt è il dialogo, con annesso lo strumento ovvio di esso, il linguaggio, che con i pronomi personali differenzia, individualizzandoli e socializzandoli, i partners della comunicazione e qualifica, specialmente mediante le relazioni io-tu e tu-me e quelle ben diverse io-lui ed io-esso, i loro rapporti85. 81
Cfr TPST 80-86; CI 40-43. Cfr F. CARMAGNOLA, Ragione pratica. Nodi della tradizione filosofica in Habermas, in F. CARMAGNOLA – G. BRUSA ZAPPELLINI – A. FERRARO – W. PRIVITERA, Ragione emancipativa, cit., 67 s. 83 Cfr PPM 193-197. 84 Cfr W. VON HUMBOLDT, Über die Verschiedenheiten des menschlichen Sprachbaus (1927-1929), in ID., Schriften zur Sprachphilosophie, III, Stuttgart 1969, 160 ss. 85 Cfr PPM 194-199. 82
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S.A. Kierkegaard86, un altro pensatore con cui J. Habermas si confronta sul terreno dell’intersoggettività, aiuta a comprendere la realtà della propria individualità, confessando spontaneamente tutto ciò che accade nella propria biografia individuale. L’individualità e l’intersoggettività vengono evocati come interattivi in quanto la controparte è necessaria affinché nell’io di partenza si generino la consapevolezza e la spontaneità. Il Kierkegaard articola questo discorso in ambito antropologico e sociale, ma soprattutto come colloquio dell’anima con Dio e, quindi, dandogli la struttura della preghiera87. G.H. Mead88, avendo rinunziato ad occuparsi dell’io all’interno del modello riflessivo dell’autocoscienza, lo approfondisce con grande consapevolezza sia teoretica che critica alla luce del modello intersoggettivo e, ovviamente, non può non considerarlo come socialmente prodotto. A tale scopo, egli assume punti importanti della psicologia funzionale di J. Dewey e, facendo un approccio della soggettività e dell’autocoscienza in termini epistemologici, riprende la distinzione jamesiana tra Io e Sé e la ripropone per spiegare l’autocoscienza. L’Io, che il soggetto coglie mediante l’autoriflessione, è oggettivato nel Me, che non è se non oggetto di riflessione. Quest’ultima non è né un fatto previo né un fatto spontaneo, ma emerge nel processo delle relazioni sociali che il soggetto intrattiene. È così che l’Io, osservandosi con gli occhi degli altri, s’immedesima con essi. Ne risulta un’immagine, quella che gli altri si formano dell’Io, che costituisce il Sé, una vera e propria oggettivazione, anzi un’auto-oggettivazione depositata nella coscienza del soggetto. Le diverse immagini che provengono dagli altri sono la continuità del gruppo sociale, che legittima la continuità del Sé. Questo, come diceva W. James, è un social self89. La via per raggiungere tale meta è quella dell’interazione simbolicamente mediata, che è tipica del soggetto parlante che comprende se stesso in prospettiva sociale, nella quale l’Alter Ego ha nei confronti dell’Ego una funzione performativa. J. Habermas prende nota del fatto che nella teoria della soggettività del Mead il soggetto individuo viene posto in essere mediante la socializzazione90. 86
Cfr S.A. KIERKEGAARD, Sygdommen til Døden, trad. it., La malattia mortale, in ID., Opere, Firenze 1972, 625 ss.; ID., Enten-Eller, trad. it., Aut-Aut, Milano 1986, 93, 130, 139. 87 Cfr PPM 199 ss. 88 Cfr G.H. MEAD, Mind, Self and Society, trad. it., Mente, sé e società, Firenze 1966. 89 Cfr W. JAMES, The Principles of Psychology, trad. it., Principi di psicologia, Milano 1950. 90 Cfr PPM 205-236.
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N. Luhmann91 è per Habermas un tipico pensatore del funzionalismo sistemico. Il Luhmann traccia una teoria generale della società e, nel fare ciò, si confronta con i filosofi della coscienza da Kant a Husserl. Il suo scopo non è di continuare la loro riflessione, ma piuttosto di superarla completamente e di far subentrare ad essa la propria. Egli è convinto che l’analisi funzionalistica sia l’unica via percorribile della razionalizzazione. Dal suo punto di vista, ha contribuito a sancire la fine del fulcro tematico portante della filosofia della coscienza, e cioè del soggetto: l’eredità del soggetto e della stessa filosofia del soggetto è pienamente raccolta dal funzionalismo sistemico, che è sorretto da una logica autoreferenziale. Le singole prestazioni sistemiche non si reggono su un centro che sostiene l’intero sistema, ma sull’autoreferenzialità del sistema. Nella sua analisi il Luhmann unisce alla teoria critica della società, che mutua da K. Marx, l’analisi globale della società, tipica della teoria dei sistemi. In tal modo, le prospettive dello sviluppo sociale e del materialismo storico si trovano intrecciate con altre prospettive: quella della struttura della società e quella dell’economia politica. La teoria sistemica della società è concepita dal Luhmann come cibernetica sociale. La ragione di ciò non è nel fatto che la società è riconducibile ad un organismo biologico autoregolantesi integrato sulla base della vita, bensì nel fatto che l’organismo biologico autoregolantesi, a cui essa è riconducibile, è integrato sulla base del senso. Il concetto di senso nelle mani del Luhmann assolve tutti i compiti della coscienza. Solo che esso non ci pone di fronte a soggetti, bensì a sistemi elaboratori del senso. Dal passaggio dal soggetto al sistema discende una serie di conseguenze. La prima è una sorta di deviazione empirica dell’antica prospettiva filosofico-trascendentale. Nella relazione sistema-ambiente il sistema ha un ruolo costitutivo, mentre l’ambiente ha il ruolo di fornire l’orizzonte universale del senso. La seconda spiega che la teoria del sistema oltrepassa i confini del soggettivo, collegando i vari sistemi in un più ampio sistema di totalità. La terza conseguenza consente di cogliere delle analogie tra teoria 91 Cfr N. Luhmann, Politische Theorie im Wohlfahrtstaat, trad. it., Teoria politica nello Stato del benessere, Milano 1987, 59 ss; ID., Soziale Systeme. Grundriß einer allgemeinen Theorie, Frankfurt a.M. 1984; ID., Le teorie moderne del sistema come forma di analisi sociale complessiva, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 1-13; ID., Il senso come concetto fondamentale della sociologia, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 14-66; ID., Argomentazioni teoretico-sistematiche. Una replica a Jürgen Habermas, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 196-274.
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sistemica e marxismo, a motivo della sostituzione, operata da quest’ultimo, del concetto di autocoscienza con il concetto di prassi. La teoria sistemica toglie alla conoscenza l’antica caratteristica dell’incondizionatezza, in quanto riduce gli atti conoscitivi ad una prestazione sistemica e vede se stessa in stretto rapporto con i processi sociali e si concepisce come analisi funzionale. La quarta conseguenza provoca una revisione della concettualità tipica della tradizione occidentale, basata su essere, pensiero e verità. L’ottica non ontologica conduce ad una razionalità sistemica che presenta la ragione come immedesimata in questa funzione. La quinta conseguenza consiste nel prendere atto dell’esito della scomparsa del soggetto. Se al soggetto viene assegnato un Sé, che consiste nel sapersi dalla parte del soggetto, una volta venuto meno il soggetto, viene meno anche il Sé o, più precisamente, il cespuglio di Sé, attorno al quale la società si raccoglie come attorno al proprio fulcro. Senza di esso, la società ha un carattere acentrico. Come al soggetto così alla società viene a mancare il Sé dell’autoriferimento. Nonostante ciò, nel pensiero del Luhmann vengono affermati sia l’individuazione e la socializzazione sia lo stretto rapporto che intercorre tra di loro a causa dei processi di formazione dell’opinione e della volontà. Questi processi, accadendo nello spazio pubblico, non difettano di tensioni e di fenomeni tesi all’aggregazione. Si può, dunque, affermare che in N. Luhmann viene affermata un’intersoggettività pubblica, che è tale non in forza del modello dell’intersoggettività linguistica, del tutto assente nella sua riflessione, ma secondo il modello dell’inclusione delle parti in una totalità. Il modello sistemico esclude il modello dell’agire comunicativo, che implica il mondo vitale in prospettiva intersoggettiva. Questa è la ragione per la quale il concetto di senso, proposto dal Luhmann, esclude la comunicazione e la coscienza. La teoria dell’agire comunicativo, invece, mette in primo piano la lingua, il cui status sovrasoggettivo gode di priorità rispetto ai soggetti ed anche rispetto ai sistemi. Non è che il Luhmann non apprezzi la lingua e ne neghi il valore, solo che non le conferisce né primato né priorità sui sistemi. La conseguenza è che essa non è un mezzo adeguato per la comunicazione sociale e non costituisce la base perché l’Ego e l’Alter Ego s’incontrino in vista del consenso. Se non è mezzo adeguato per la comunicazione, la lingua non è neppure mezzo adeguato per interpretare la partecipazione comunicativa al mondo, e segnatamente al mondo della vita. Tutto ciò, non impedisce ma anzi accresce nel Luhmann la voglia di utilizzare l’analitica cibernetica proprio per ampliare i campi di applicazione della teoria sistemica impe-
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gnata nell’elaborazione del senso. Resta, però, chiaro che un sistema sociale non è fissato come un organismo biologico, in quanto, a differenza di esso, può mutare anche strutturalmente senza perdere l’identità e la continuità. A scanso di equivoci, il concetto di senso è primario e, quindi, viene definito a partire da se stesso, senza alcun riferimento al soggetto. Dei dati dell’impostazione di N. Luhmann che abbiamo riferito, J. Habermas ne critica soprattutto alcuni, che in ordine crescente di serietà possiamo indicare nel modo seguente: il primo dato criticato è l’idoneità della teoria sistemica luhmanniana a legittimare il potere; e ciò per un francofortese è di una gravità eccezionale; il secondo dato è il fatto che l’importante concetto di senso non viene visto all’interno di una teoria della comunicazione linguistica, bensì all’interno di una teoria sistemica; tutto questo, come è ovvio, porta velocemente dalla fenomenologia allo strutturalismo, che, ancorché non identificato in maniera diretta ed immediata con la dinamica cibernetica, è retto dalla logica sistemica dell’autoregolazione; il terzo dato è la concezione funzionalistica di verità, che certamente non è riconducibile al modello ontologico, che ha origine nella consistenza extralinguistica della realtà e dei suoi fenomeni, e neppure al modello consensuale, che fonda la sua pretesa sulle motivazioni discorsive, ma è un dispositivo interno all’intenzionalità di chi la propone; il quarto dato, che in questo contesto tematico è certamente il più grave, è quello della disgregazione dell’autentica intersoggettività92. Conclusivamente la teoria sistemica del Luhmann, secondo Habermas, non soltanto risolve la ragione soggettocentrica in una razionalità sistemica, ma anche fa una serie di sostituzioni, quali quella dell’intersoggettività linguistica con un sistema autoreferenziale chiuso e quella delle convinzioni filosofiche di sfondo con convinzioni di tipo metabiologico93. A J. Habermas la teoria luhmanniana sembra, più che una teoria sociologica, una teoria confrontabile con le teorie metateoretiche, che sono più che altro visioni del mondo. Questa è la ragione per la quale il francofortese insiste sulla razionalizzazione del mondo vitale che riorienta i modelli strutturali fino a relativizzare la prospettiva sistemica94. 92 Cfr DFM 352-383; J. HABERMAS, Teoria della società o tecnologia sociale? Una discussione con Niklas Luhmann, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 95-191. 93 Cfr DFM 382 s. 94 Cfr TAC II, 743.
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Anche al di fuori del confronto con N. Luhmann Habermas si esprime decisamente contro ogni forma di naturalismo sistemico, che, per sua natura, pone in grave pericolo la valenza teoretica e pratica dell’intersoggettività linguistico-comunicativa. Citando gli studiosi G. Keil e H. Schnädelbach, il nostro francofortese così si esprime: «A questo primato ontologico-sociale del linguaggio corrisponde quello di cui, nella serie della spiegazione, godono, rispetto alle condizioni interiori degli individui interessati, i significati incarnati nelle pratiche comuni e condivisi intersoggettivamente. Finora tutti i tentativi di sostituire l’immagine pragmatico-sociale dell’incarnazione della mente in pratiche condivise intersoggettivamente con quella naturalistica di processi neuronali nel cervello umano o di operazioni nel calcolatore, sono naufragati di fronte alla non-eludibilità di un dualismo di giochi linguistici»95.
J. Habermas s’impegna al massimo per difendere le strutture dell’intersoggettività, e segnatamente dell’intersoggettività linguistico-comunicativa96. Egli è convinto della correttezza teoretica e della fecondità pratica del transito della filosofia dall’analisi introspettiva dei fatti coscienziali all’analisi ricostruttiva degli eventi linguistici, che si pongono pubblicamente e che sono accessibili in modo intersoggettivo. Non è l’autoriferimento soggettivo a sostenere l’interazione intersoggettiva e comunicativa, ma, al contrario, è l’interazione intersoggettiva ad alimentare l’autoriferimento soggettivo97. Da qui l’opportunità del rilievo fatto da F. Carmagnola e da noi ripreso un po’ supra, circa la necessità dell’apporto delle scienze sociali affinché l’atto della ragione possa effettivamente realizzarsi. In tale discorso si verifica l’intreccio tra la necessità della fondazione razionale e l’intersoggettività. Il già citato F. Carmagnola, facendo in qualche modo eco a J. Habermas, afferma che il luogo della fondazione in questione è nel fattore antropologico dell’intersoggettività e, convinto di poterlo trovare al di fuori delle categorie filosofiche tradizionali, specie hegeliane, lo cerca sulla strada della critica marxista, che è prettamente materialistica. Per di più, egli dice che l’intersoggettività è il supporto materialistico dell’univer95
TSF 108. Cfr G. KEIL – H. SCHNÄDELBACH (edd.), Naturalismus, Frankfurt a.M. 2000, Introduzione. 96 Cfr TSF 106 ss. 97 Cfr PPM 27 s.
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salità. In tal modo, l’intersoggettività verrebbe ad avere una configurazione inequivocabilmente materialistica. Dal nostro punto di vista, la riduzione materialistica non rende giustizia all’intersoggettività: preferiamo dire che essa emerge nell’empirico. Al di là delle complicazioni derivanti dall’incontro con il materialismo, il dato maggiormente degno di attenzione in questo momento è che il soggetto sperimenta la sua consistenza in situazione intersoggettiva e, quindi, in condizione di co-soggetto. Non si tratta di un fatto casuale, ma di un dato esistenzialmente normativo: la società ha una valenza normativa che si manifesta nella reciproca aspettativa di relazione che interessa i soggetti e li volge all’intersoggettività98. L’evento intersoggettivo ha sempre luogo in una situazione di tensione: la soggettività, che la filosofia della coscienza da Cartesio a Kant e a Husserl, lungo il corso di una tradizione alla quale si continua ad essere collegati, aveva spiegato in coordinate mentalistiche e monologiche, viene posta dalla filosofia linguistica in coordinate intersoggettive; da qui il discorso pieno di tensioni che caratterizza la comunità intersoggettiva99. J. Habermas procede con decisione lungo la strada della sostituzione del paradigma della conoscenza degli oggetti con il paradigma dell’intesa tra soggetti idonei a parlare e ad agire100. Affinché tale idoneità si attivi effettivamente e conduca all’intesa, è necessario che l’intersoggettività sia sostenuta e normata da regole intersoggettivamente valide. Ciò comporta il riconoscimento reciproco dei soggetti nella loro simmetrica dignità ed anche la presa d’atto della loro diversità. I pronomi personali danno indicazioni sufficienti su una tale paradossale situazione dell’intersoggettività: essi indicano sia la simmetria soggettiva dei partners dell’evento intersoggettivo (l’“io” ed il “tu”, il “noi” ed il “voi” attestano la simmetria), sia la non-identità dei membri della comunità intersoggettiva (ciascun soggetto è accanto agli altri; è, come si diceva, un co-soggetto). Con l’intersoggettività Habermas ci mette di fronte ad un rinnovamento radicale della teoria critica: essa trova il suo oggetto nella storia, che risulta di relazioni sociali strutturate intersoggettivamente e linguistica-
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Cfr H.R. KAISER, Staat und gesellschaftliche Integration. Zur Analyse und Kritik des Staatsbegriff bei Jürgen Habermas und Claus Offe, Marburg 1979, 29 s. 99 Cfr DU 117 ss. 100 Cfr DFM 298.
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mente, e si trasforma in teoria razionale della comunicazione sociale101. La razionalità, che viene tematizzata in tale contesto, è la razionalità dialogica, che si rapporta, sia secondo la prospettiva dell’origine che secondo la prospettiva del compimento, alla libertà dal dominio. Secondo il Nostro, l’intersoggettività linguistica esclude qualsiasi fenomeno di dominazione: «L’intersoggettività linguistica travalica i soggetti, senza renderli succubi»102.
Quanto più forte è l’intersoggettività tanto più garantite sono l’identità, l’inconfondibilità e l’insostituibilità del soggetto personale e tanto più sicuro è lo smascheramento di eventuali tentativi di espropriazione della persona del suo rango e del suo ruolo di soggetto: «Solo un’intatta intersoggettività può preservare il dissimile dall’assimilazione al simile. […] Ogni tentativo di strumentalizzazione nega all’Altro la posizione di una persona insostituibile, che prende posizione criticamente, in base al proprio giudizio, con un “si” e con un “no”, e conseguentemente agisce di propria volontà. Le scelte autonome dell’Altro non si fanno dirigere»103; «Solo mediante la socializzazione e il graduale ingresso in un universo di pratiche e significati intersoggettivamente condiviso, le persone possono altresì svilupparsi in individui inconfondibili. Questa costituzione culturale della mente umana motiva il perpetuo rinvio del singolo a rapporti e comunicazioni interpersonali, a reti di reciproco riconoscimento e a tradizioni»104.
L’esclusione della dominazione è operativa anche nei confronti delle cosiddette avanguardie, alle quali il pensiero filosofico-storico attribuisce funzioni carismatiche e vicarie volte a superare la paralisi prassica di un macrosoggetto sociale. L’unica intersoggettività di grado superiore riconosciuta dall’intersoggettività linguistica è quella delle “sfere pubbliche”105. 101
Cfr A. HONNETH, Da Adorno ad Habermas. Il mutamento di forma della teoria critica della società, in DR 386. 102 TFCS 129. 103 TSF 107. 104 TSF 196. 105 «Un ruolo problematico lo interpretano, a dire il vero, le costruzioni che hanno una origine filosofico-storica le quali all’agire rivoluzionario di un’avanguardia concedono
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A tutti questi dati occorre aggiungerne un altro che J. Habermas mutua da I. Kant, e cioè il postulato della pubblicità come principio, secondo il quale l’uso pubblico della ragione, a differenza di quello privato, è una garanzia per la realizzazione del progetto e degli ideali dell’illuminismo. L’uso della ragione, mentre, all’interno di coordinate private, si riduce all’acquisizione del convincimento dell’utilità di obbedire, in coordinate pubbliche porta alla consapevolezza ed all’esercizio della sovranità popolare, che si esprime con modalità autenticamente razionali106. L’intersoggettività nella riflessione di Habermas è anche un criterio per sottoporre a controllo la coerenza e la fecondità di tutti i discorsi da lui fatti e, nel contempo, è un principio di organizzazione dei medesimi discorsi107. L’unica condizione che il francofortese pone è che l’intersoggettività non sia limitata in nessun modo. Se lo fosse, non potrebbe aver luogo l’autentico agire comunicativo108. A ben vedere, ci si rende conto che tale condizione sintetizza tutte le condizioni stabilite dal Nostro circa l’intersoggettività e l’agire comunicativo. Che l’intersoggettività abbia il primato è un dato chiaro per J. Habermas. Egli si pone anche il problema della priorità tra individuo e intersoggettività e, considerando che il processo di socializzazione è mediato linguisticamente, lo risolve attribuendo all’intersoggettività anche la priorità: «L’identità di individui socializzati viene a costituirsi contemporaneamente nel medium dell’intesa linguistica con altri individui e nel medium dell’intesa biografico-intrasoggettiva con se stessa. L’indivividualità si costruisce nei rapporti di riconoscimento intersoggettivo e nell’autocomprensione mediata intersoggettivamente»109. funzioni vicarie per la prassi incespicante o paralizzata di un macrosoggetto sociale. L’errore del pensiero filosofico-storico sta nel presentare la società come un soggetto in grande, per poi identificare l’agire moralmente responsabile di un’avanguardia con la prassi — divenuta indipendente dai criteri morali — di questo soggetto di grado superiore della società. L’impostazione teoretico-intersoggettivistica dell’etica del discorso rompe con le premesse della filosofia della coscienza; in ogni caso, tiene conto della intersoggetttività di grado superiore di sfere pubbliche in cui le comunicazioni s’infittiscono in processi di autointesa della società nel suo complesso» (TM 23). 106 Cfr I. KANT, Scritti politici, trad. it., Torino 19782, 143; SCOP 123. 107 TFCS 159. 108 Cfr TFCS 149. 109 PPM 188.
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In questo testo si trova una ovvia novità rispetto alla filosofia della coscienza. Ma J. Habermas non si ferma a questa novità, perché alla domanda se non ci sia un elemento che abbia la priorità anche rispetto all’intersoggettività, dà una risposta positiva: la priorità spetta al linguaggio. Il Nostro propone la seguente spiegazione: «La decisiva innovazione nei confronti della filosofia del soggetto è stata resa possibile anche sotto questo aspetto, grazie ad una svolta verso la pragmatica linguistica che riconosce la priorità non già alla soggettività produttrice del mondo (welterzeugend), bensì al linguaggio che dischiude il mondo (welterschliessend) – come medium della possibile intesa, della cooperazione sociale e dei processi di apprendimento autocontrollati»110.
Nessuno può meravigliarsi di ciò, anche perché Habermas a tali convincimenti associa il seguente: il carattere linguistico dell’itinerario volto all’intesa è rivelatore di una tensione di “trascendenza dall’interno” che attraversa l’intero itinerario111. Alla concezione habermasiana dell’intersoggettività non mancano critiche. Ci sembrano particolarmente provocatorie quelle che nella dimensione dell’intersoggettività vedono una sorta di dispositivo per offrire un plausibile supporto concettuale ad altri dati teoretici, cui Habermas tiene moltissimo e che altrimenti non potrebbe garantire. A titolo esemplificativo, facciamo riferimento a V. Possenti, il quale mette in evidenza, tra l’altro, l’incongruenza sia della sostituzione dell’universalità con l’intersoggettività, che, in ultima analisi, finisce con il costituirne la forma debole, sia dell’assurgere dell’accordo intersoggettivo a suprema ragione etica112. Facciamo riferimento anche a F. Dallmayr, il quale muove a Habermas la critica di barattare il soggetto trascendentale con una intersoggettività trascendentale113. Mentre diciamo che questi rilievi critici non ci sembrano privi di fondamento, in quanto, nell’impostazione habermasiana, l’intersoggettività, oltre a beneficiare delle prerogative dell’antico soggetto trascen110
PPM 188. «Chi si serve della lingua orientandosi all’intesa, è esposto a una trascendenza dall’interno» (TFCS 129). 112 Cfr V. POSSENTI, Etiche del discorso/comunicazione (Apel/Habermas), in C. VIGNA (ed.), Etica trascendentale e intersoggettività, Milano 2002, 436 ss. 113 Cfr F. DALLMAYR, Polis and Praxis, Cambridge (Mass.) 1984, 158; TFCS 156 e 162. 111
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dentale, assolve anche i compiti di fornire un volto all’universalità e di rendere ragione dell’etica, osserviamo che è vero che Habermas pensa ad una intersoggettività che si attiva e si esprime come intersoggettività linguistica nell’agire comunicativo e, in quanto tale, fruisce di una “trascendenza dall’interno” e si volge a verità che trascendono gli spazi della fenomenologia empirica, ma è pur vero che egli si fa un tale convincimento per esigenze interne al suo sistema, che, nella fase della maturità, si sviluppa lungo il percorso aperto dalla teoria dell’agire comunicativo114.
4. INTESA L’agire comunicativo, evento discorsivo razionale che appartiene al processo vitale della comunità di comunicazione e pone sulla pista dell’intersoggettività, è volto all’intesa. Guidato da questo convincimento, J. Habermas non può non andare oltre il modello intenzionalistico della comunicazione, secondo cui un’azione linguistica ha successo quando i segni linguistici utilizzati per comunicare consentono al destinatario di riconoscere l’intenzione del soggetto parlante, e non accedere al modello intersoggettivistico, secondo cui il soggetto parlante, che dà origine all’azione linguistica, s’intende con il destinatario intorno a qualcosa. Le pretese di validità si pongono razionalmente e legittimamente nelle condizioni che consentono il riconoscimento intersoggettivo115. C’è di più: si può parlare di agire comunicativo solo se la concezione del linguaggio e soprattutto quella dell’intesa si trovano trattati all’interno di una teoria del significato di orientamento rigorosamente pragmatico e, pertanto, idonea ad attivare il potenziale integrativo del medium linguistico. In tal modo, il concetto di agire comunicativo si confermerà sul fronte della teoria sociologica dell’azione e darà spiegazioni plausibili sulla struttura e sull’ordine sociale116. Ed è così che l’analisi dell’agire comunicativo rende veramente evidente il fatto che l’intesa è un télos intrinseco al linguaggio. L’intesa, da parte sua, conduce all’accordo lungo un percorso discorsivo. Ma, alla domanda sulle ragioni che fanno sorgere l’esigenza dell’intesa, che non può non essere qualificata che come discorsiva, J. Habermas risponde che si 114 115 116
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Cfr TFCS 156-159. Cfr PPM 134-147. Cfr PPM 72-79.
tratta di un obiettivo volto al superamento di una situazione problematica determinata dalle pretese di validità presupposte nell’agire comunicativo. Il Nostro sostiene che ci si viene a trovare di fronte a presupposizioni fatte ingenuamente. Ed è chiaro che si tratta di dati inevitabili, in quanto chi si trova o si inserisce in una situazione discorsiva propone discorsi accompagnati da pretese di validità. Il problema si complica quando la pretesa di validità del proprio discorso è assolutizzata e, dunque, viene proposta come infallibilmente vincente. In tal caso, non c’è più comunicazione e, in ultima analisi, non c’è più discorso. L’intesa, invece, che non può non essere discorsiva, è l’esito di un evento autenticamente discorsivo117. Il primo passo di un discorso autentico è la razionalità, che consente di distinguere il consenso vero dal consenso falso. Il processo in cui ciò si verifica non è immediato ma graduale; ed il Nostro ne elenca ed esamina, con precisione e pazienza, i vari passaggi, che vengono animati dal cangiante intreccio di consenso, discorso, competenza e verità: «La distinzione del consenso vero dal consenso falso, nei casi dubbi, deve essere decisa con il discorso. Però, l’esito del discorso dipende, a sua volta, dal conseguimento di un consenso in grado di reggere. La teoria consensuale della verità porta ad avere coscienza del fatto che non si può decidere sulla verità degli enunciati, senza fare riferimento alla competenza dei possibili giudici e che, a sua volta, non si può decidere su questa competenza senza la valutazione della veridicità delle loro espressioni e della giustezza delle loro azioni. L’idea del consenso vero richiede, a coloro che partecipano ad un discorso, la capacità di distinguere sicuramente tra essere ed apparire, tra essenza ed apparenza, tra essere e dover essere, al fine di poter giudicare, competentemente, la verità degli enunciati, la veridicità delle espressioni e la giustezza delle azioni. Tuttavia, in nessuna delle tre dimensioni possiamo rendere noto un criterio che possa consentire un giudizio indipendente sulla competenza dei possibili giudici (cioè, indipendentemente da un consenso che venga conseguito in un discorso). Piuttosto, il giudizio sulla competenza del giudizio, per parte sua, dovrebbe legittimarsi in un consenso di quella specie, per la valutazione della quale, i criteri sono proprio da trovare»118.
117
Cfr J. HABERMAS, Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società e tecnologia sociale, cit., 76 s. 118 Cfr ibid., 89 s.
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Ci sono, dunque, dei criteri per distinguere il consenso vero dal consenso falso, ma il fatto che essi vengano collegati con la competenza dei giudici, che, a sua volta, viene accertata all’interno del discorso, rende i criteri pressoché inattingibili e la distinzione in questione impraticabile. Le difficoltà non scoraggiano Habermas, il quale tenta di superarle con alcune considerazioni: i soggetti impegnanti in una discussione sono guidati dal convincimento di potere pervenire ad una intesa, distinguendo il consenso vero dal consenso falso; i medesimi soggetti comunicano tra di loro sulla base del presupposto implicito ed assunto “metacomunicativamente” della condivisione del senso delle parole usate nel linguaggio comune; la possibilità di comunicazione tra i soggetti in questione si basa su una “situazione discorsiva ideale” da loro reciprocamente presupposta. Ogni evento discorsivo ha una “struttura prolettica”, che ha il suo fulcro nella situazione discorsiva ideale anticipata, che offre agli interlocutori ed ai loro discorsi ogni garanzia: «L’anticipazione della situazione discorsiva ideale è garanzia del fatto che noi possiamo collegare la pretesa del consenso vero ad un consenso conseguito fattualmente; nello stesso tempo, questa anticipazione è un metro critico, sul quale può anche essere messo in discussione ogni consenso conseguito di fatto e, di conseguenza, può essere verificato se esso è un indicatore soddisfacente dell’intesa reale»119.
Il ricorso alla situazione discorsiva ideale in un certo senso equivale a sottoporre la discussione alla tensione controfattuale di una concordanza tra interlocutori, che è raggiunta in condizioni ideali di discorso. In tal modo, il discorso conduce gradualmente, in forza della spinta controfattuale della situazione linguistica ideale, al vero consenso120. Secondo Habermas, discorso e consenso sono i modelli maggiormente trainanti e fecondi del progresso storico. Le conversazioni empiriche, che si verificano sotto l’influsso di tale tensione, sono libere dai rischi provenienti da distorsioni sistematiche della comunicazione e da cogenze sia esterne che interne e sono idonee a distinguere il consenso vero dal consenso falso, ad attuare con criteri di simme119
Ibid., 90 s. Cfr N. BALKENHOL, “Kommunikative Rationalität” und politische Institutionen in der kritischen Gesellschaftstheorie von Jürgen Habermas, Hamburg 1991, 96. 120
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tria la distribuzione della possibilità di compiere atti discorsivi e ad adottare in modo inequivocabile il criterio della scambiabilità dei ruoli nel dialogo. Stando così le cose, l’anticipazione della situazione discorsiva ideale è un presupposto di tipo trascendentale sempre operativo in ogni processo di consenso ed in ogni soggetto parlante dotato di “competenza comunicativa”121. Non si dà conversazione empirica che sia priva dell’anticipazione dell’idealizzazione della situazione discorsiva: si tratta di una “anticipazione inevitabile”. Habermas ci tiene a precisare che le idealizzazioni in questione sono intrecciate inevitabilmente con la prassi quotidiana e, quindi, non sono frutto né del lavoro del pensatore solitario che eleva una idealità di fronte alla realtà, né dei contenuti normativi che sono necessari alla realizzazione di qualsiasi progetto122. La situazione linguistica ideale è un a priori della comunità di comunicazione123. Sorge una difficoltà: non dandosi alcuna possibilità di coincidenza tra le condizioni del discorso empirico e quelle della situazione discorsiva ideale e tra la società storica e la sua anticipazione idealizzata nel concetto, non si riesce a stabilire in modo conclusivo se l’anticipazione della situazione discorsiva ideale è un discorso meramente possibile oppure una fonte di realizzazioni concrete di anticipazioni concettuali. Lo stesso Habermas si vede costretto a confessare di non essere riuscito a chiarire in modo adeguato lo status dell’anticipazione in questione. Tuttavia, questa consapevolezza non gli impedisce di fare delle affermazioni gravide di conseguenze: «Fa parte della struttura del discorso possibile, il fatto che noi, nello svolgimento degli atti discorsivi (e delle azioni), agiamo contraffattualemnte come se la situazione discorsiva ideale (oppure il modello del puro agire comunicativo) non fosse meramente fittizia, ma reale; questo appunto noi chiamiamo supposizione. Il fondamento normativo dell’intesa linguistica è, pertanto, duplice: anticipato, ma anche operante quale situazione di base anticipata»124.
121 Cfr J. HABERMAS, Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società e tecnologia sociale, cit., 91. 122 Cfr DU 102 ss. 123 Cfr L.A. WILKIEWCZ, Das Diskursmodell von Jürgen Habermas. Ein Beitrag zur Rezeptionsproblematik in der gegenwärtigen pädagogischen Diskussion, Frankfurt a.M. – Bern 1983, 45. 124 J. HABERMAS, Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società e tecnologia sociale, cit., 93 s.
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Insomma, gli atti discorsivi vengono posti sulla base della supposizione che la situazione discorsiva ideale sia un fatto reale. Si tratta, dunque, di una “ipotesi pratica” o, più precisamente, di una “apparenza costitutiva”. Ma, se le cose stanno così, non è possibile, dal punto di vista di Habermas, superare il dubbio se le “supposizioni inevitabili” delle anticipazioni concettuali siano fonti di realizzazione di concrete forme di esistenza e di vita o, piuttosto, un puro miraggio125. J. Habermas rivolge la sua attenzione alla prospettiva che fa dell’intesa un evento discorsivo, dopo aver superato l’interesse per le problematiche prettamente gnoseologiche, ancora vistosamente presenti, ad esempio, in Erkenntnis und Interesse del 1970. Egli non fonda più il suo discorso sulle antiche condizioni trascendentali della conoscenza, bensì sulle premesse pragmatiche dell’agire volto all’intesa126. Ciò nella sua mente è un capovolgimento di prospettiva: contrariamente a quanto accadeva prima, la comunicazione viene privilegiata rispetto alla rappresentazione127. In una tale situazione, sembra evidente la percezione del transito della sensibilità e dell’attenzione di J. Habermas dal piano teoretico al piano morale-pratico. Egli sviluppa in modo organico queste questioni nell’opera Theorie des kommukativen Handelns del 1981: comunicativa è l’interazione in cui i piani d’azione vengono coordinati consensualmente e la qualità dell’accordo viene misurata mediante il riconoscimento intersoggettivo delle pretese di verità. Il coordinamento delle azioni e la stabilizzazione dell’identità dei gruppi sono di così alto livello che la solidarietà dei partecipanti alle relazioni interpersonali legittima ogni discorso sull’integrazione sociale del mondo vitale. La socializzazione degli appartenenti a tale mondo fa sì che, nonostante l’ovvia apparizione di situazioni nuove, tra biografie individuali e forme vitali collettive si produca una grande armonia. L’integrazione sociale e la socializzazione sono dovute al medium del linguaggio, il quale, riproducendo le strutture del mondo vitale, pone in essere le funzioni di riproduzione dell’agire orientato all’intesa, in cui soprattutto l’integrazione sociale e le pretese di validità riconosciute intersoggettivamente scorrono lungo la logica dell’agire comunicativo, che con la sua dinamica evolutiva è idoneo a superare ogni limitazione strutturale128. 125 126 127 128
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Cfr ibid. Cfr VG 9. Cfr VG 4 s. Cfr TAC II, 734-743.
Il problema più delicato è costituito dai punti di riferimento che si pongono all’interno della situazione discorsiva. Habermas ritiene che in una tale situazione non ci sia posto per punti di riferimento che s’impongono o dall’alto o a distanza, come accade rispettivamente nei casi del sacro e del potere, ma che, invece, ci sia posto solo per un punto di riferimento che si afferma mediante il consenso raggiunto in forza della potenza razionale dell’argomentare129. Il nesso tra intersoggettività ed intesa dà vita alla società emancipata. Ma una siffatta società può essere travolta dall’utopia dell’idealità. Di conseguenza, J. Habermas preferisce parlare di “intersoggettività non lesa” e di “intersoggettività non coatta”, quali condizioni dell’intesa e di un rapporto sociale razionale. In un contesto di questo genere si pongono rapporti simmetrici affinché abbia luogo il riconoscimento reciproco e libero tra soggetti impegnati nella comunicazione130. In Faktizität und Geltung del 1992 J. Habermas si occupa, tra l’altro, delle difficoltà che occorre affrontare per pervenire all’intesa. La situazione di partenza è, almeno di fatto, conflittuale, ed egli propone dei modelli per superare i conflitti e per pervenire alla formazione collettiva della volontà. I modelli sono due: uno non fa riferimento al diritto sancito dallo stato ed al potere politico da esso esercitato e l’altro, invece, sì. All’interno del primo modello, la linea discorsiva seguita da J. Habermas è quella parsonsiana delle interazioni sociali. Le interazioni nella loro configurazione semplice seguono due logiche diverse: la prima, che tende all’intesa ed è guidata dall’“agire orientato al valore”, ricerca il consenso sui valori, che si è convinti di dover rispettare in ogni caso; la seconda, che è guidata dall’“agire guidato da interessi”, ricerca il compromesso del bilanciamento degli interessi mediante la trattativa ed il negoziato. All’interno del secondo modello, il cooriginario formarsi del diritto statale e del potere politico dà vita all’autorità normativa dello stato che, mediante decisioni vincolanti, persegue con efficacia finalità collettive. All’interno di tutto questo, si pone la distinzione tra “consenso” ed “arbitrato”, che sono due vie e due modalità di soluzione del conflitto. Nel caso del consenso, ci si trova impegnati in un agire guidato da norme; e le parti in conflitto raggiungono l’accordo 129
Cfr TAC II, 648 s. Cfr DU 106, 114; J. HABERMAS, Theorie und Politik, (1978), trad. it., Teoria e politica. Colloquio fra Herbet Marcuse, Jürgen Habermas, Heinz Lubasz e Tilman Spengler, in DR 188. 130
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in forza di un sollen che presuppone un consenso sui valori. Nel caso dell’arbitrato, ci si trova impegnati in un agire guidato da interessi in cui i soggetti in conflitto, aiutati dall’opera di un mediatore al di sopra delle parti, trovano una soluzione producendo un compromesso ed un bilanciamento degli interessi131. Secondo Habermas, per conseguire il bene della società considerata nel suo insieme non è sufficiente l’affermazione della compresenza di potere politico e di diritto, ma è necessaria la sinergia di potere politico e di diritto. La via maestra consiste nella tematizzazione del nesso interno che intercorre tra potere politico e diritto. Ma, si tratta anche di una via nuova, che nel saggio del 1966 Replik auf Beiträge zu einem Symposion der Cardozo Law School, raccolto in traduzione italiana in Solidarietà tra estranei, viene presentata nel modo seguente: «Il potere derivante dall’esercizio pubblico della libertà comunicativa dei cittadini è dall’inizio apparentato alla produzione giuridica legittima. […] Per potersi considerare legittimo […] il diritto che una concreta comunità giuridica statuisce non deve mai contraddire i principi morali. […] Per produrre potere comunicativo e diritto legittimo, è necessario che i cittadini rivendichino i loro diritti democratici non soltanto in quanto diritti di libertà individuale (cioè collocandosi nella prospettiva dell’autointeresse), bensì anche come autorizzazioni all’uso pubblico della libertà comunicativa (dunque orientandosi al bene comune)»132.
Sembra radicarsi su queste considerazioni la ragione per la quale il Nostro ritiene non proponibile sul piano normativo il tentativo di risolvere in termini di compromesso, e cioè secondo la logica del conflitto d’interessi, i contrasti circa i valori non suscettibili di soluzione sul piano etico. In ogni caso, occorre tenere presente quanto segue: un qualsiasi mutamento delle relazioni di valore passa per l’autochiarimento e non per il compromesso. Nell’eventualità che si voglia seguire la pista del compromesso, non si può trascurare il fatto che ci sono dei valori non trattabili:
131
Cfr FN 166-172. J. HABERMAS, Replik auf Beiträge zu einem Symposion der Cardozo Law School, (1966), trad. it., Replica al Convegno della Cardozo Law School, in SE 92. 132
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«Confondere valori fondamentali con interessi sarebbe un errore categoriale dalle implicazioni pesanti. Sul piano politico, amore o rispetto non sono mai scambiabili con denaro, né lingua materna o libertà religiosa con posti di lavoro. Gli elementi costitutivi dell’identità non sono suscettibili di compromesso. Del resto interferenze di questo tipo rappresenterebbero una violazione della dignità umana e sarebbero già illecite sul piano giuridico»133.
I dati precedentemente esposti ci autorizzano a ritornare alle figure di “intersoggettività non lesa” e di “intersoggettività non coatta”, che sono dotate di fondamento e di dinamica linguistici, e ad affermare che per Habermas si tratta delle nuove figure assunte dalla teoria critica. La componente linguistica mette in luce la comunicazione, la componente dell’intersoggettività l’agire sociale e la componente, posta in virtù dell’assenza di coazione e di lesione, l’approccio critico. J. Habermas, nonostante la sensibilità rinnovata, l’approdo all’approccio linguistico e la rinuncia all’assolutizzazione della critica, è e rimane francofortese; e ciò equivale a dire che, a parer suo, la critica è una componente essenziale della razionalità e del suo esercizio. Nessun processo di intesa può prescinderne.
5. VERITÀ J. Habermas si pone costantemente il problema della verità. Come è facilmente comprensibile, le variazioni di approccio a tale problema si notano in modo particolare se si mette a confronto il momento, attestato soprattutto dall’opera Erkenntnis und Interesse, in cui la riflessione habermasiana acquisiva la certezza della sua superiorità rispetto alla filosofia del soggetto e della coscienza ed al realismo della conoscenza, con il momento, attestato specialmente dai saggi raccolti nel volume Wahrheit und Rechtfertigung, in cui la tematizzazione dei presupposti pragmatici dell’agire comunicativo volto all’intesa fa tesoro della svolta linguistica della filosofia e della teoria della comunicazione. La prospettiva habermasiana autorizza il discorso sull’“oggettivismo deformante” della filosofia legata all’ontologia e sulla sua pretesa di proporsi quale filosofia veramente pura, ma si trova a doversi misurare con
133
SE 93 s.; cfr FN 166-172.
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la mediazione linguistica della realtà. Habermas è molto logico e consequenziale. Il suo convincimento che non c’è filosofia priva di condizionamenti e che questo fatto non pregiudica in alcun modo la potenza cogente della filosofia è antico perché rimonta alle sue riflessioni degli anni ’60 del secolo XX134. Il Nostro non se ne dimentica mai. Le conseguenze che egli ne trae per la verità possono essere espresse con le parole di L. Cortella: «Anche per lui infatti è impossibile sia un “darsi” oggettivo del vero sia una fondazione teoretica assoluta, cioè che astragga dalle sue condizioni pratiche di produzione»135.
Le condizioni pratiche sono le condizioni della realtà concreta, della realtà in divenire, della realtà che tende alla compiutezza ma che sa di avere oltre di sé un realtà più reale e, in prospettiva definitiva, una realtà realissima. Questo fatto attesta la presenza della nozione di verità ideale nella mente dell’uomo, una nozione che serve per misurare il contingente di verità che si trova nelle situazioni concrete; ovviamente, serve anche per denunziare l’eventuale assenza di verità. La nozione di verità ideale richiama la situazione linguistica ideale, all’interno della quale soltanto una asserzione può essere vera136. Ma, appena si parla della situazione linguistica ideale, si pensa subito alla società che vive il suo dinamismo mediante l’intersoggettività ed il linguaggio e consegue l’intesa per mezzo del discorso137. J. Habermas si è imposto nell’ambito del dibattito filosofico-politico dei nostri giorni proponendo quale criterio di verità la sua teoria del consenso, che implica intersoggettività, discorso e situazione linguistica ideale138. La verità habermasiana è una verità discorsiva e consensuale. Ciò significa, in prima istanza, che la verità si costituisce nel corso del dialogo. J. Habermas perviene alla teoria consensuale della verità lungo un percorso che inizia con la domanda seguente:
134
Cfr TPST 52. L. CORTELLA, Crisi e razionalità. Da Nietzsche ad Habermas, Napoli 1981, 104. 136 Cfr ACLSS 334-343. 137 Cfr VG 249 s. 138 Cfr E. ARENS, Zur Struktur theologischer Wahrheit. Überlegungen aus wahrheitstheoretischer, biblischer und fundamentaltheologischer Sicht, in Zeitschrift für katholische Theologie 112 (1990) 3. 135
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«Quali condizioni devono essere soddisfatte, affinché si possa essere autorizzati ad attribuire un predicato ad un oggetto?»139.
Vengono escluse risposte che propongono concezioni di verità dei tipi seguenti: ontologico, secondo cui gli enunciati riproducono la realtà; monologico, che esclude l’evento intersoggettivo del dialogo; adeguativo, che si pone come corrispondenza tra l’intelletto individuale e la cosa nella sua realtà oggettiva; infine, viene esclusa anche la risposta che ritiene che la verità sia riconducibile alla teoria del rispecchiamento. L’unica risposta possibile secondo Habermas è quella che si fonda sulla teoria consensuale della verità. Insomma, la condizione determinante della verità habermasiana è la comunità intersoggettiva, all’interno della quale si produce il consenso. Questo, poi, non è ottenuto per caso ma mediante l’argomentazione. Infatti, affinché un enunciato sia vero occorre che il soggetto parlante lo formuli in modo che abbia potenzialmente l’adesione degli altri interlocutori. In definitiva, la logica della verità è la stessa logica del discorso, che è poi una logica pragmatica sostenuta dalla forza dell’argomentazione. Chi conviene con il soggetto parlante deve essere un “giudice competente”. Alla domanda circa il significato da dare al termine competenza, Habermas, dopo avere escluso che si possa trattare di verifiche da esprimere in proposizioni che richiederebbero una comunità di comunicazione ed una serie indefinita di giudici competenti, risponde parlando della razionalità: il giudice competente è, dunque, una persona razionale140. Ciò significa, tra l’altro, che l’organo della competenza è la razionalità. Ma, a questo punto, il quadro delle condizioni del consenso si allarga e si complessifica. A tale proposito, nel 1971 in Vorbereitende Bemerkungen zu einer Theorie der kommunikativen Kompetenz, J. Habermas annota quanto segue: «La teoria consensuale della verità porta ad avere coscienza del fatto che non si può decidere sulla verità degli enunciati, senza fare riferimento alla competenza dei possibili giudici e che, a sua volta, non si può decidere su questa competenza senza la valutazione della veridicità delle loro espressioni e della giustezza delle loro azioni. L’idea del consenso vero richiede,
139 J. HABERMAS, Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 82. 140 Cfr ibid., 82 s.
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a coloro che partecipano ad un discorso, la capacità di distinguere sicuramente tra essere ed apparire, tra essenza ed apparenza, tra essere e dover essere, al fine di poter giudicare, competentemente, la verità degli enunciati, la veridicità delle espressioni e la giustezza delle azioni. Tuttavia, in nessuna delle tre dimensioni possiamo rendere noto un criterio che possa consentire un giudizio indipendente sulla competenza dei possibili giudici (cioè indipendentemente da un consenso che venga conseguito in un discorso). Piuttosto, il giudizio sulla competenza del giudizio, per parte sua, dovrebbe legittimarsi in un consenso di quella specie, per la valutazione della quale, i criteri sono proprio da trovare»141.
Un momento significativo della identificazione di un consenso di questo genere è costituito dallo studio Auszug aus «Wahrheitstheorien» del 1973, in cui, riprendendo le riflessioni sulla teoria consensuale della verità, J. Habermas si occupa della fondazione del consenso. Esso deve essere fondato sulla libertà o, come lo stesso francofortese ama dire, sulla “coazione non coatta” dell’argomento migliore: «La teoria consensuale della verità intende spiegare la peculiare coazione non coatta dell’argomento migliore tramite proprietà formali del discorso, e non tramite ciò che, come la consistenza logica di proposizioni, è alla base della connessione argomentativa, o che penetra nell’argomentazione per così dire dall’esterno, come l’evidenza di esperienze. L’esito di un discorso non può essere deciso né da una costrizione logica né da una empirica, ma mediante la “forza dell’argomento migliore”. Noi definiamo questa forza motivazione razionale»142.
L’importante è, dunque, mettere a punto la “motivazione discorsiva” che consente di qualificare come razionale un’intesa. Sicché, si può sostenere che la verità è un’intesa razionale conseguita all’interno di una comunicazione libera e pura da limiti e cogenze. J. Habermas afferma con convinzione la sua posizione criticando quella di N. Luhmann: mentre per quest’ultimo la liberazione della comunicazione è irrilevante, per il Nostro tale liberazione è di capitale importanza: 141
Ibid., 90. Cfr J. HABERMAS, Auszug aus “Wahrheitstheorien“, (1973), trad. it., Discorso e verità, in ACLSS 321. 142
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«La verità la si può raggiungere benissimo con la “liberazione” della comunicazione e, invero, proprio solo in questo modo»143.
J. Habermas non ha motivo di stupirsi dei convincimenti del Luhmann, se è vero che questi prende in considerazione, per contrapporli, i concetti ontologico e funzionalistico di verità e trascura completamente un terzo concetto, che è quello consensuale-teoretico, che per essere pensato abbisogna dei concetti di comunicazione e di libertà144. Se non fosse stato convinto di ciò, Habermas non avrebbe mostrato di apprezzare la concezione che K. Jaspers ha della verità: la molteplicità delle figure storiche della verità si illumina del suo rapporto diretto con Dio, apre alla tolleranza, legittima la comunicazione ed esclude la non-verità della noncomunicazione e l’isolamento coatto145; e neppure si sarebbe lasciato cogliere in un momento in cui subisce il fascino di una vecchia espressione degli scritti postumi di H. Marcuse, nella quale si afferma il nesso insolubile tra verità e libertà: «Esiste un nesso essenziale tra libertà e verità, e ogni fraintendimento della verità è al contempo un fraintendimento della libertà»146.
J. Habermas sa bene che nella modernità l’impostazione post-metafisica dei problemi pone di fronte ad interpretazioni del mondo, dotate della 143
Cfr J. HABERMAS, Teoria della società o tecnologia sociale, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 162. 144 Cfr ibid., 161. 145 «Secondo Jaspers, la verità può soltanto essere afferrata a partire dalla profondità, autenticità e importanza della sua rappresentazione esistenziale. Sul piano filosofico non esiste verità razionalmente univoca e onnivincolante. La molteplicità storica delle sue figure è ineliminabile: ognuna di esse ha diretto rapporto con Dio. Nessuna può pensare di entrare in tutte loro (o anche solo in molte di loro) in qualità di rappresentante innato della verità. Tutte le si deve tollerare e rispettare come “possibilità” in cui la verità si manifesta agli altri. In tal modo Jaspers crede di poter conciliare facilmente l’intenzione della completa tolleranza con l’atteggiamento della risolutezza incondizionata. E chi non fosse pronto a comunicare in questo modo con le verità “altre”, darebbe soltanto prova della propria non-verità. Così tutte le idee filosofiche devono assoggettarsi — come a una sorta di criterio supremo — al principio di promuovere (e non impedire) la comunicazione. Come conseguenza dell’isolamento coatto sotto il terrorismo statale nazista, e delle sue precoci esperienze biografiche, ogni interruzione della comunicazione deve apparire agli occhi di Jaspers come il male assoluto» (PPF 98). 146 Cfr VG 265.
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stessa pretesa di verità, in contrasto tra di loro. La prospettiva post-metafisica non consente più neppure alla filosofia di racchiudere la natura e la storia in un sistema totalizzante di sapere. Il contrasto tra le varie pretese di verità è spesso così forte che non si ha alcuna ragione per pensare che una tale situazione possa essere superata e si possa pervenire ad un accordo razionale motivato. Contemporaneamente, però, si acquisisce l’idea del fallibilismo, ci si convince dell’urgenza della necessità di non pronunciarsi davanti a qualsiasi pretesa di verità assoluta e si prende atto di una situazione di “dis-accordo-razionale”. Da tutto questo non consegue l’adattamento ad un modus vivendi tra prospettive inconciliabili, ma piuttosto il disporsi all’attesa che in un futuro indeterminato si possano verificare le condizioni perché sia dato il consenso alla propria posizione, la cui pretesa di validità assoluta non è messa minimamente in discussione147. Quest’ultimo atteggiamento di Habermas smentisce solo apparentemente quello che siamo venuti dicendo circa il suo pensiero. Infatti, la tensione tra le interpretazioni non porta al conflitto ed allo scontro, ma, includendo l’assunzione del fallibilismo metodologico e l’adozione del principio della tolleranza, apre un ampio spazio di comunicazione. C’è di più, perché, a motivo del linguaggio che assume la funzione di legame generale tra le varie sfere della decentrata comprensione del mondo, Habermas non cade nelle forme radicali di relativismo e di contestualismo che l’aporia della metafisica farebbe sospettare148. Una tale impostazione prova due dati: il primo consiste nel dichiarare vero ciò che è giustificato e come tale accettato in una situazione linguistica ideale149; il secondo consiste nell’affermazione della verità in modo procedurale all’interno della prassi argomentativa. J. Habermas indica le premesse idealizzanti di questa prassi: «(a) della sua natura pubblica e della completa inclusione di tutti gli interessati; (b) dell’eguale distribuzione dei diritti di comunicazione; (c) della non-violenza di una situazione che fa agire soltanto la coazione non coatta
147
Cfr TM 214 s. Cfr M. Knapp, Gottes Herrschaft als Zukunft der Welt. Biblische, theologiegeschichtliche und systematische Studien zur Grundlegung einer Reich-Gottes-Theologie in Auseinandersetzung mit Jürgen Habermas’ “Theorie des kommunikativen Handelns”, Würzburg 1993, 554 ss. 149 Cfr VG 282. 148
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dell’argomento migliore, e (d) della sincerità delle enunciazioni di tutti gli interessati»150.
È questa la verità discorsiva habermasiana, secondo la quale la verità di un’asserzione non si misura su “evidenze lampanti”, bensì su “ragioni giustificative” e, comunque, non conclusivamente cogenti. Che cosa rende accettabile come vera un’asserzione all’interno di una concreta ed attualmente individuabile comunità di comunicazione? Habermas sente il bisogno di distinguere tra “verità” (o “validità”) ed “accettabilità razionale”. Mentre razionalmente accettabile e, in quanto tale, accolto, è un enunciato che in seguito può anche risultare falso, vero è quell’enunciato che si ritiene che anche in futuro supererà tutte le prove e tutte le verifiche. Chi pensa alla verità in questi termini può anche ingannarsi, ma ciò che conta è che i suoi convincimenti di verità siano incondizionati151. Non può sfuggire la dislocazione che Habermas fa subire alla problematica della verità: la situa nelle griglie concettuali e pratiche dell’argomentazione e le conferisce la forma di “logica della verità”152. Questa idea di verità, concepita all’interno dell’orizzonte della comunicazione linguistica, risponde certamente ad una esigenza di razionalità. La teoria della verità di Habermas nel corso degli anni si è imbattuta in non poche critiche. A titolo di esempio, ricordiamo i rilievi fatti da O. Höffe, secondo il quale il francofortese non avrebbe potuto iniziare in maniera così ovvia la sua teoria della verità a partire dalla verità come verità esplicita e, con ciò, fondarla fin dal principio sulla ragione discorsiva. La sua teoria della verità si dimostra insufficiente perché egli si limita alla problematica della validità della verità ed esclude la problematica della sua costituzione153. Ricordiamo anche un’annotazione critica di S. Maffettone: una teoria della verità fondata su basi intersoggettive deve affrontare difficoltà tutt’altro che semplici154. 150
VG 43. Cfr SE 65 s., 130. 152 Cfr TH. MCCARTHY, The Critical Theory of Jürgen Habermas, trad. ted., Kritik der Verständigungsverhältnisse-Zur Theorie von Jürgen Habermas, Frankfurt a.M. 1980, 344; W. PRIVITERA, Comunicazione ed emancipazione, in F. CARMAGNOLA – G. BRUSA ZAPPELLINI – A. FERRARO – W. PRIVITERA, Ragione emancipativa, cit., 205. 153 Cfr O. HÖFFE, Kritische Überlegungen zur Konsensustheorie der Wahrheit, in PHJ 83 (1976) 313-332; E. ARENS, Zur Struktur theologischer Wahrheit, cit., 4. 154 Cfr S. MAFFETTONE, Critica e Analisi, cit., I e 100. 151
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J. Habermas è certamente soddisfatto della sua teoria della verità. Ma lo è del tutto? Nel lungo itinerario verso la teoria consensuale della verità egli scarta le teorie empiristica, strutturalistica ed ontologica155, ma solo della teoria ontologica dice che potrebbe essere risolutiva per cogliere la verità. Egli chiarisce la sua posizione: la teoria consensuale della verità consente di decidere sulla verità degli enunciati in forza della competenza dei possibili giudici, solo che per dirimere la questione della competenza dei giudici occorrono dei criteri diversi dalla stessa competenza dei giudici. Da tali criteri non si può prescindere e, di conseguenza, non si può non impegnarsi a trovarli. Ma, non si tratta di un’operazione facile. Una situazione discorsiva di questo genere sembra assumere tutte le caratteristiche di un circolo vizioso. È a questo punto che il nostro francofortese fa una sorta di opzione per la teoria ontologica: «Solo una teoria ontologica della verità potrebbe spezzare questo circolo vizioso»;
ma ci rinunzia subito: «Però, sinora, nessuna di queste teorie ha resistito alla discussione»156.
In poche righe J. Habermas indica una via tradizionalmente percorsa per superare le difficoltà delle varie teorie della verità, inclusa la propria, ma non la percorre. A suo tempo, accennando a questo fatto, parlavamo di nostalgia dell’ontologico in J. Habermas e di fascino da esso esercitato su di lui157. La ragione della rinunzia in questione è nel convincimento, faticosamente conseguito e comunque molto radicato, che non si dà evento al di fuori della comunicazione e che non c’è tensione se non linguistica. Nonostante le difficoltà del suo pensiero e la problematizzazione che egli stesso ne fa, J. Habermas ha modo di tenere in mano le fila del discorso sulla verità e, dal suo punto di vista, ci riesce. Ci riesce già nel 155 Cfr J. HABERMAS, Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 82-91. 156 Ibid., 90. 157 Cfr F. Conigliaro, La situazione del discorso. Critica, conoscenza, emancipazione, Palermo 1983, 176, 205.
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1965 al tempo del saggio Erkenntnis und Interesse, facendo appello alla condizione trascendentale della verità158. Nella mente di Habermas, come egli stesso avrebbe confermato nel saggio Der Universalitätsanspruch der Hermeneutik (1970), la comunicazione non distorta da forme di dominio ha un ruolo nella fondazione trascendentale della verità, dandole anche la capacità di offrire un’anticipazione normativa della vera vita159. La liberazione della comunicazione è la strada maestra per il raggiungimento della verità160. Nonostante le intrinseche difficoltà della sua teorizzazione, J. Habermas imposta anche la questione dell’universalità della verità all’interno della teoria consensuale della verità, verso cui la comunità ideale dell’argomentazione e dell’interpretazione, virtualmente costituita dall’intera comunità umana e concretamente da chiunque si metta in cerca della verità, si volge come ad una meta ideale161. A conclusione della raccolta dei dati habermasiani sulla verità, desideriamo prendere esplicitamente nota di una problematica, che ci sembra di portata enorme e complessa e di cui abbiamo avvertito sempre più distintamente la presenza nel corso del nostro discorso: una verità, conseguita all’interno dell’agire comunicativo e che si afferma in virtù del consenso raggiunto non mediante il riferimento alla realtà effettuale delle cose bensì mediante la proceduralità dell’argomento migliore, è una verità garantita adeguatamente? A tale scopo, è sufficiente la “verbalizzazione”, di cui si 158 «Certamente la comunicazione potrebbe dispiegarsi soltanto in una società emancipata, che avesse realizzato la maturità dei suoi membri, fino a diventare il dialogo sottratto al dominio di tutti con tutti, dal quale deriviamo pur sempre tanto il modello di un’identità dell’Io formata nella reciprocità, quanto l’idea del vero accordo. In questo senso la verità di proposizioni si fonda sull’anticipazione della vita riuscita. L’apparenza ontologica di una teoria pura, dietro cui scompaiono gli interessi guida della conoscenza, rafforza la finzione che il dialogo socratico sia possibile universalmente e in ogni momento. La filosofia ha supposto che l’emancipazione posta con la struttura del linguaggio sia non solo anticipata, ma già reale» (J. HABERMAS, Erkenntnis und Interesse, trad. it., Conoscenza e interesse, in TPST 55: corsivo nostro). 159 Cfr J. HABERMAS, Der Universalitätsanspruch der Hermeneutik, (1970), trad. it., La pretesa di universalità dell’ermeneutica, in AA. VV., Ermeneutica e critica dell’ideologia, Brescia 1979, 163 ss, ed in CC 229 ss. 160 Cfr J. HABERMAS, Teoria della società o tecnologia sociale? Una discussione con Niklas Luhmann, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 162. 161 Cfr R. MANCINI, Editoriale all’edizione italiana, in E. ARENS (ed.), Habermas e la teologia, cit., 6 s.
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occupa lo stesso Habermas quando parla della ricerca di una forza argomentativa che sostituisca la potenza del sacro e dell’ontologia? Il linguaggio è in grado di assumersi da solo le responsabilità dell’ontologia? Non ci si viene a trovare impelagati nelle pastoie delle pratiche discorsive? La razionalità argomentativa non fa naufragio in mezzo all’oceano della “verbalizzazione” e della “chiacchiera”? Se tutto è messo in discussione, gli interlocutori dove attingono i valori ed il senso? Qual è il fondamento del preteso postulato del primato dell’agire?162. J. Habermas ha sempre portato in cuor suo ragioni di ansietà circa la teoria consensuale della verità e, ipotizzando delle domande poste dalla teoria consensuale alle capacità stesse della verità, non ha trovato altra soluzione che quella del fallibilismo: mai, così egli pensa, un discorso empirico può eguagliare effettivamente la situazione linguistica ideale, l’unica idonea a custodire e ad esprimere la verità163. In ogni caso, a noi resta il problema dell’impossibilità dell’inveramento, da parte di un sano realismo conoscitivo, di una teoria consensuale della verità, che venga applicata in maniera rigorosa164.
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Cfr A.W.J. HOUTEPEN, God, een open vraag. Theologische perspectieven in een cultuur van agnosme, trad. it., Dio, una domanda aperta. Pensare Dio nell’era della dimenticanza di Dio, Brescia 2001, 160 s. 163 Cfr J. HABERMAS, Die Utopie des guten Herrschers, in ID., Kleine Politische Schriften, I-IV, Frankfurt a.M. 1981, 321. 164 Cfr G.L. BRENA, Metafisica o post-metafisica? La questione del realismo a partire da Habermas, in Hermeneutica (2005) 269 s.
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CAPITOLO III PRASSI COMUNICATIVA: IDEALITÀ
La comunicazione è, secondo J. Habermas, l’attività umana più importante, in quanto costituisce l’alveo nel quale vengono all’evidenza la razionalità, le capacità, gli interessi, gli scopi, le passioni, le tensioni, le nostalgie, le utopie, tutte le forme di agire ed ogni genere di grandezza e di limite dell’essere umano. Le dimensioni che compongono la struttura portante della comunicazione sono la prassi e l’intersoggettività: i partecipanti, infatti, comunicano tra di loro per trasformare la prassi e per pervenire all’intesa. La dinamica della comunicazione è alimentata variamente dalla razionalità, dall’universalità e dalle idealizzazioni. La razionalità habermasiana non è né formale né funzionale, bensì comunicativa. In quanto tale, essa segue la pista della riflessione e ricerca la verità, ricorrendo al dialogo, servendosi della plausibilità argomentativa ed avanzando le sue pretese di validità in forza dell’argomento migliore. Segue pure la pista dell’azione, creando nessi concreti e visibili tra teoria e prassi e tra soggetti. Si tratta di una razionalità decisa, perché determinata a respingere tutto ciò che rifiuta la critica, lineare, perché non disponibile a trasformarsi in razionalità funzionale e strumentale, ed umile, perché pronta a riconoscere la maggiore validità dell’argomento altrui ed a cambiare l’itinerario che conduce all’intesa. L’universalità attesta che Habermas è erede delle tensioni propriamente filosofiche ed è filosofo egli stesso. La peculiarità dell’universalità habermasiana consiste nel fatto che, mentre vengono evitate le astrattezze mentalistiche, viene privilegiata la pista graduale e progressiva della proceduralità, che ha come tappe miliari del proprio percorso le convinzioni intersoggettive condivise, lo sviluppo democratico del sistema dei diritti, il riconoscimento delle alterità, l’acquisizione consensuale della verità e l’interazione sociale. L’unica condizione, posta dal francofortese e da lui costantemente controllata, è la razionalità, che lega tutti questi dati alla filosofia e, liberandoli dai rischi del relativismo, conferisce loro la sicurezza dell’universalità. Ma, i doni dell’universalità sono caratterizzati dalla controfattualità L’idealizzazione è quella della situazione discorsiva ideale. L’elemento controllabile di una tale situazione è il fatto che i partecipanti avan-
zano una forte e convinta pretesa di verità per i loro discorsi. L’interpretazione di questo fatto ci spinge a fare una duplice considerazione: nella concretezza della vita è presente ed operativa una dimensione ideale, che ha una funzione controfattuale; la controfattualità rivela che l’idealità innesta nell’esistente una tensione, che produce l’opera demolitrice della critica e l’orientamento di trascendimento verso forme inusitate di ulteriorità. La prassi comunicativa, dunque, è veramente un alveo in cui le fenomenologie tipiche della comunicazione, che sono la filosofia linguistica, la comunità di comunicazione, l’intersoggettività, l’intesa e la verità, custodiscono e rivelano, per usare le parole dello stesso Habermas, quei segni di “trascendenza intramondana”, come la razionalità, l’universalità e le idealizzazioni, che rendono inquiete, da ogni punto di vista e specialmente dai punti di vista etico, giuridico e politico, le convivenze organizzate degli uomini e le spingono a superamenti concettuali, etici, normativi e prassici.
1. RAZIONALITÀ J. Habermas lega la razionalità, di cui egli è fortemente consapevole insieme ai francofortesi, all’azione, e precisamente all’agire comunicativo. Un tale legame è dovuto alla svolta linguistica della filosofia, di cui il Nostro ha una grande consapevolezza insieme a L. Wittgenstein. Dialogando con quest’ultimo, che vede il linguaggio naturale nelle regole immanenti in strutture di azione, approfondisce il concetto di razionalità all’interno dei processi sociali di azione. Avanzando lungo un percorso che si lascia ispirare e guidare da un modello pragmatico di agire razionale, egli porta la razionalità all’interno della comunicazione. Di conseguenza, la razionalità, che è inseparabile dalla riflessione, si dispiega come comunicazione e si lascia definire come razionalità comunicativa. Habermas può essere ricondotto, in quanto è attento a tutte le esigenze della razionalità, ad un indirizzo filosofico neoilluminista, ma, in quanto pone puntigliosamente il luogo proprio della razionalità e della verità nella prassi comunicativa, che implica la proceduralità, appartiene ad un indirizzo filosofico postmetafisico1. Egli dice che alcuni suoi studi sulla razionalità sono reazioni contro i tentativi di impostare i discorsi filosofici con le vecchie categorie
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Cfr G.L. BRENA, Metafisica o post-metafisica?, cit., 267-275.
metafisiche, ma ci tiene a precisare che in queste sue idee, anche se emerge un concetto scettico di ragione, non c’è spazio per un concetto disfattistico di essa2. La ragione non viene fondata sul soggetto singolo ma sull’intersoggettività comunicativa e sull’intesa. Sicché, si può sostenere che la razionalità habermasiana è una asintotica integrazione tra capacità di raziocinio e razionalità della vita. Con ciò appare chiara anche la differenza tra la ragione concepita classicamente, che è la facoltà di conoscere, e la ragione concepita proceduralmente, che è l’organo del raziocinio. J. Habermas si occupa della grande questione della razionalità comunicativa in vari scritti, ma in due di essi sembra impegnarsi con passione ed attenzione particolari: in Theorie des kommunikativen Handelns del 1981 ed in Faktizität und Geltung del 1992. Il modello dell’agire razionale, che nello scritto più antico è decisamente quello dell’agire comunicativo volto all’intesa, nello scritto più recente resta immutato, ma viene reso più problematico e più prudente mediante una più forte tematizzazione del “rischio di dissenso”. Una tale variazione, che da Bert van Den Brink viene attribuita ad una variazione di pensiero nell’autore, da quest’ultimo viene più semplicemente ricondotta ad un cambiamento di tematiche3. La razionalità habermasiana è strettamente legata alla prassi comunicativa, è Vernünftigkeit, cioè razionalità esercitata, e non Rationalität, e cioè non è mera razionalità formale, come in M. Weber, né razionalità dogmaticamente strumentale, come nel neopositivismo4, né razionalità funzionalistica, come in N. Luhmann, e neppure razionalità tecnocratica, come nel capitalismo, perennemente affetto da una “razionalità irrazionale”5. Per capacitarsi di ciò basta pensare al posto che il francofortese dà ai valori ed alle
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Cfr PPM 3. Cfr SE 141 ss. 4 Cfr J. HABERMAS, Gegen einen positivistisch halbierten Rationalismus. Erwiderung eines Pamphlets, trad. it., Contro il razionalismo dimezzato dei positivisti. Risposta a un pamphlet, in H. MAUS – FR. FÜRSTENBERG (edd.), Dialettica e positivismo in sociologia, cit., 229-259. 5 Cfr TPST 103. Per il carattere antiumanistico della razionalità tecnocratica cfr J. HABERMAS, Quel che il filosofo laico concede a Dio (più di Rawls), in J. HABERMAS – J. RATZINGER, Was die Welt zusammenhält. Vorpolitische moralische Grundlagen eines freiheitlichen Staates, trad. it., Ragione e fede in dialogo, Venezia 2005, 41-63. La relazione di J. Habermas si trova anche in Reset 85 (2004) 24-30 con il titolo Quel che Habermas concede a Dio (più di Rawls); TSF 5-18. Cfr anche M. JUNKER-KENNY, Le basi prepolitiche dello stato. Il dibattito fra Ratzinger e Habermas, in Concilium 42 (2006) 140. 3
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emozioni nella sua ricerca e nella sua riflessione6. Dunque, la razionalità habermasiana innanzitutto è una razionalità argomentativa, che si condensa nella concretezza di discorsi fattuali situati all’interno di quello sfondo di ogni fattualità che è la Lebenswelt e che procede in forza della plausibilità delle argomentazioni. E questa è la ragione originante per la quale J. Habermas sostiene che Lebenswelt e kommunikatives Handeln si comportano come fattori complementari7. La complementarità, però, non implica la simmetria, in quanto, mentre l’agire comunicativo appartiene alla sfera della consapevolezza dei soggetti che prendono parte alla comunicazione, la Lebenswelt è e rimane sullo sfondo dell’evento della comunicazione come “sapere implicito” e sistema di precomprensioni in “forma pre-riflessiva” dei medesimi soggetti8. La Lebenswelt è come una sfera comunicativa più ampia, che precede ogni discorso ed ogni agire e, per quanto non sia oltre il linguaggio, non si lascia tradurre totalmente in discorso9. La condizione di sapere implico e pre-riflessivo che caratterizza la Lebenswelt e la differenzia dall’agire comunicativo non è indice di povertà concettuale oppure di offerte negative di senso. Ne è prova il fatto che J. Habermas, nell’ambito dell’agire comunicativo, attribuisce al concetto di Lebenswelt un ruolo trascendentale: «Il mondo vitale è per così dire il luogo trascendentale nel quale parlante ed ascoltatore si incontrano, nel quale possono avanzare reciprocamente la pretesa che le loro espressioni si armonizzino con il mondo (quello oggettivo, sociale o soggettivo) e nel quale essi possono criticare e confermare queste pretese di validità, esternare il proprio dissenso e raggiungere l’intesa. Per dirla con un’unica proposizione: verso il linguaggio e la cultura i partecipanti non possono assumere in actu la medesima distanza che hanno verso la totalità dei fatti, delle norme oppure delle esperienze vissute sulle quali è possibile intendersi»10. 6 Cfr J. HABERMAS, Teoria della società o tecnologia sociale? Una discussione con Niklas Luhmann, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 166 ss. 7 Cfr J. HABERMAS, Entgegnung, in A. HONNETH – H. JOAS (edd.), Kommunikatives Handeln. Beiträge zu J. Habermas’“Theorie des kommunikatives Handelns”, Frankfurt a.M. 1986, 328-352. 8 Cfr TAC I, 452 s. 9 Cfr L. CORTELLA, Etica del discorso ed etica del riconoscimento, in C. VIGNA (ed.), Libertà, giustizia e bene in una società plurale, Milano 2003, 247 s. 10 TAC II, 712 ss. G.E. Rusconi scrive, non del tutto a torto, che Habermas ricorre alla categoria trascendentale «non senza qualche titubanza» (G.E. RUSCONI, Introduzione all’edi-
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Da questo testo risulta che la Lebenswelt, una categoria proveniente dalla fenomenologia, ha bisogno di un medium per entrare nello spazio effettivo della comunicazione e di un medium per entrare nello spazio delle istituzioni, e li trova rispettivamente nel linguaggio e nel diritto11. Ma, in quanto è portatrice di una tensione trascendentale, essa è una garanzia di autenticità per gli eventi pubblici della comunicazione12. Nei dati esposti si mostra un’acquisizione importante della riflessione habermasiana, e cioè il fatto che la razionalizzazione riguarda, prima che le azioni, lo sfondo in cui esse si situano, e questo è la Lebenswelt13. Il compito precipuo della Lebenswelt è offrire all’interazione il contesto e l’orizzonte in cui realizzarsi14. In ciò si rende evidente la fecondità della pregnanza fenomenologia del concetto di Lebenswelt, volto a conciliare il polo a priori della ragione e del trascendentale con il polo a posteriori dell’esperienza e dell’empirico15. La razionalità comunicativa è volta naturalmente a creare nessi concreti, quali quello tra teoria e prassi nella concreta situazione dell’agire e quello tra soggetti nelle dinamiche intersoggettive. Si tratta di una razionalità dialogica, che si alimenta della reciprocità interlocutoria del dialogo zione italiana di TAC I, 23). Tuttavia, a nostro modesto avviso, il lemma “trascendentale”, anche se appartiene ad una tradizione di pensiero non condivisa universalmente, in quanto ritenuta inficiata di rigurgiti della filosofia del soggetto, riesce ad evitare il rischio della perdita della validità. Il fatto che Habermas non trovi una categoria migliore per esprimere l’idea che la Lebenswelt precede e determina, con i suoi elementi costitutivi del linguaggio e della cultura, l’agire comunicativo, non è una fatalità davanti alla quale ci si deve necessariamente rassegnare; semmai, provoca una situazione caratterizzata dall’inevitabilità, che non va solo registrata bensì va anche e soprattutto interpretata. 11 Cfr A. NUGNES, Diritto, morale, politica: tra autonomia e interferenza. Il proceduralismo di Jürgen Habermas, in RDT 45 (2004) 923. 12 «Nonostante la sterminata quantità delle ricerche empiriche, per questa domanda cruciale non disponiamo ancora di nessuna risposta definitiva. Tuttavia possiamo almeno precisare meglio i termini della domanda, se partiamo dall’assunto che i processi comunicativi pubblici restino tanto più indeformati quanto più si affidino alla dinamica interna d’una società civile emergente dal mondo della vita» (FN 444. Cfr W. PRIVITERA, Sfera pubblica e democratizzazione, cit., 89). 13 Cfr M. ROSATI, Consenso e razionalità. Riflessioni sulla teoria dell’agire comunicativo, Roma 1994, 41. 14 Cfr M. KNAPP, Gottes Herrschaft als Zukunft der Welt, cit., 518. 15 Cfr J. GREISCH, Etica e mondi della vita, (1997), in R. KERNEY – M. DOOLEY (edd.), Questioning Ethics. Contemporary Debates in Philosophy, trad. it., Questioni di etica. Dibattiti contemporanei in filosofia, Roma 2005, 61.
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e tende ad allontanare dallo spazio comunitario, proprio in forza della plausibilità argomentativa, ogni motivo di inconciliabilità e di contesa. La parola di Habermas è più pregnante e più efficace delle nostre parole: «Riassumendo si può dire che azioni regolate da norme, autorappresentazioni espressive ed espressioni valutative integrano le azioni linguistiche constatative in una prassi comunicativa che, sullo sfondo di un mondo vitale, è volta al conseguimento, al mantenimento e al rinnovamento del consenso e precisamente di un consenso basato sul riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità criticabili. La razionalità intrinseca a questa prassi si manifesta nel fatto che un consenso raggiunto in modo comunicativo deve poggiare in ultima istanza su ragioni. E la razionalità di coloro che partecipano a questa prassi comunicativa si commisura al fatto se sono in grado di fondare le proprie espressioni in circostanze adatte. La razionalità intrinseca alla prassi comunicativa quotidiana rimanda dunque alla prassi argomentativa […]»16.
E J. Habermas spiega ciò che egli intende per argomentazione: «Definiamo argomentazione il tipo di discorrere, nel quale i partecipanti tematizzano pretese di validità controverse e cercano di soddisfarle o di criticarle con argomenti. Un argomento contiene ragioni (Gründe) che sono legate in modo sistematico alla pretesa di validità di un’espressione problematica. La “forza” di un argomento, in un dato contesto, si commisura alla plausibilità delle ragioni; questa si manifesta, fra l’altro, se un argomento può convincere i partecipanti ad un discorso (Diskurs), vale a dire se li può motivare ad accettare la relativa pretesa di validità. Su tale sfondo possiamo valutare la razionalità di un soggetto capace di linguaggio e di azione anche sulla base del modo in cui egli si comporta in un dato caso come partecipe dell’argomentazione»17.
L’argomentazione è, dunque, un discorso che critica le pretese di validità altrui e difende le proprie in forza della plausibilità argomentativa di cui dispone. La plausibilità argomentativa richiama l’intesa razionalmente motivata e, insieme ad essa, ci conduce sulle soglie del concetto di razionalità
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TAC I, 73. TAC I, 73 s.
argomentativa, che con le parole di J. Habermas possiamo definire nel modo seguente: «Concetto di razionalità comunicativa. Esso riferisce la comprensione decentrata del mondo alla possibilità di soddisfare in modo discorsivo pretese di validità criticabili»18.
La criticabilità delle pretese di validità è legata sia al modo ed ai contenuti del riferimento degli agenti comunicativi al mondo, sia alle variazioni di efficacia discorsiva dei discorsi mediante i quali le pretese in questione vengono sostenute. Per queste ragioni, Habermas si associa ad A. Wellmer nel definire la razionalità comunicativa una forma di razionalità discorsiva e procedurale, e cioè una razionalità che deve essere pronta ad affrontare tutti i rischi del confronto discorsivo19. La razionalità discorsiva genera immediatamente la relazionalità dialogica, che polarizza tra di loro i soggetti che prendono parte alla molteplicità dei giochi linguistici che compongono il complesso ordito della realtà sociale20. Questa è una via positiva e costruttiva e, quindi, abbastanza lontana dalla prospettiva tradizionale della Scuola di Francoforte, quale si rende presente ad esempio in Adorno, che segue la logica delle “continue e conseguenti negazioni”. J. Habermas intende recuperare l’istanza della prima forma della teoria critica, collegandosi, però, a proposte scientifiche e produttive. La variazione di impegno dell’istanza critica mediante il passaggio dalla negazione pura e per principio, tipico dell’antica teoria critica, all’analisi critica delle impostazioni produttive, congeniale alla nuova sensibilità, non pure fa la differenza tra la posizione della teoria critica tradizionale e l’approccio teorico-critico habermasiano ma anche chiarisce la ragione della nuova formulazione habermasiana della teoria critica: “teoria critica della società come teoria della razionalità”21. Lungo il percorso della razionalità comunicativa si pone la razionalizzazione sociale. J. Habermas la concepisce diversamente rispetto al 18 19
TAC I, 141. Cfr A. WELLMER, On Rationality, dattiloscritto, Constanz 1977, 12 ss; TAC 1, 141-
144. 20
Cfr ACLSS 220. Cfr J. HABERMAS, Dialettica della razionalizzazione. Jürgen Habermas a colloquio con Axel Honneth, Eberhard Knödler-Bunte e Arno Widmann, in DR 238. 21
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modulo ricorrente nella modernità, e cioè rispetto al modulo weberiano della razionalità cognitivo-strumentale, che è un tipico modello di razionalizzazione unilaterale. La diversità è tutta nella prospettiva aperta dall’agire comunicativo, che cerca di fissare con ogni mezzo criteri razionali che presiedano al dialogo ed alla sua reciprocità interlocutoria. Nella razionalità comunicativa volta all’intesa si rende evidente il rapporto tra teoria e pratica e tra filosofia e politica. Ma è la comunicazione linguistica, che ha in sé il telos dell’intesa, ad aprire al concetto di razionalità comunicativa22. Questo è il motivo per il quale la ragione comunicativa ha la sua sede nell’argomentazione e si estende ai processi della formazione del consenso, e non solo ad essi, in quanto si estende anche alle strutture di una intersoggettiva Lebenswelt23. Il discorso volto all’intesa ha una tensione unificante in quanto fa incontrare i soggetti parlanti intorno ad un mondo della vita condiviso intersoggettivamente ed all’interno di un orizzonte in cui tutti trovano un unico ed identico mondo oggettivo. La comunicazione linguistica, che vuole essere razionale nel senso detto, rivela le intenzioni del soggetto parlante, rappresenta stati di cose ed istituisce rapporti interpersonali. Così, ha luogo, dal punto di vista della comunicazione linguistica, il fatto articolato del soggetto parlante che si accorda circa qualcosa con qualcuno e, dal punto di vista del significato dell’espressione linguistica, la triplice relazione significativa di quest’ultima con ciò che con “essa s’intende”, con ciò che “in essa si dice” e con “il tipo del suo impiego nell’atto verbale”. Come si vede, è chiamata in causa la forza illocutoria degli atti linguistici. Se la comunicazione ha successo dal punto di vista illocutorio, e cioè se il soggetto parlante riesce ad intendersi circa qualcosa con un interlocutore, la comunicazione linguistica è caratterizzata dalla razionalità e, dunque, ci si viene a trovare di fronte ad un evento di razionalità comunicativa24. J. Habermas ci offre un concetto di razionalità immediatamente idoneo alla comunicazione, in quanto implica un soggetto razionale vitalmente inserito nella propria comunità linguistica25. 22
Cfr ibid., in DR 227. Cfr J. HABERMAS, Entgegnung, in A. HONNETH – H. JOAS (edd.), Kommunikatives Handeln, cit., 328-352. 24 Cfr VG 105. 25 Cfr J. HABERMAS, Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società e tecnologia sociale, cit., 86. 23
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Nella prassi comunicativa opera la razionalità comunicativa, che è immancabilmente orientata all’intesa. Una tale razionalità viene opportunamente chiamata da J. Habermas “razionalità procedurale”, che ai nostri tempi deriva dalle scienze sperimentali e dalla concezione autonoma della morale. A differenza della razionalità che discende dalla prospettiva metafisica e che, di conseguenza, è animata da una ragione di totalità che, a seconda delle impostazioni teoretiche, è del mondo o del soggetto conoscente, la razionalità procedurale consiste nella razionalità della propria procedura e propone di pervenire ad una soluzione dei problemi mediante l’adozione di opportune procedure nei confronti della realtà. In tal modo, niente è chiuso ma tutto è aperto, processuale e progressivo. Le conseguenze di una tale visione della razionalità sono notevoli: la multiformità delle apparenze non è riconducibile ad una unità precedente la razionalità procedurale; il sapere filosofico non si appella più alla sua specificità tradizionale, e cioè alla sua vocazione alla conoscenza dell’intero; la filosofia non è più in grado di avanzare pretese sul proprio status scientifico, sulla sua attitudine ad essere scienza prima o enciclopedia e sulla sua particolare competenza circa la verità, ma si trova compromessa tra le scienze sperimentali e tra le caratteristiche di esse, e cioè il fallibilismo e la razionalità procedurale26. La razionalità comunicativa conduce speditamente il discorso sulla razionalità nello spazio semantico e concreto della libertà e, pertanto, si lascia riproporre in termini di comunicazione libera. La comunicazione, così opportunamente qualificata, tra l’altro implica ancora sia il convincimento che non c’è convivenza veramente umana senza impegno universale verso la verità27, sia l’esigenza dello scambio intersoggettivo quale garanzia contro l’alienazione, sia, infine, la solidarietà come forma di costellazione storica, che, facendo spazio all’altro, consente di superare la logica della giustizia di scambio, tipica del liberalismo28. L’incontro di razionalità comunicativa e libertà ci fa comprendere meglio il paradigma procedurale applicato alla razionalità: i soggetti che comunicano razionalmente vogliono essere destinatari e, nel contempo, creatori dei criteri della convivenza, e soprattutto vogliono essere liberi allo scopo di potere realizzare e godere insieme la razionalità. Già nel lontano 26
Cfr PPM 38-42. Cfr R. MANCINI, Editoriale all’edizione italiana, in E. ARENS (ed.), Habermas e la teologia, cit., 10. 28 Cfr CPN 5-28. 27
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1965, nel saggio Erkenntnis und Interesse, pubblicato sulla rivista «Merkur», Habermas formulava la seguente idea: «La ragione significa anche il volere la ragione»29. Questa espressione sembra una tautologia, ma in realtà rivela tutta la passione per la razionalità che Habermas, da quel francofortese che è, non può dimenticare. Ecco perché, secondo la sua sensibilità, non si può perdere mai la capacità critica nei confronti di ogni espressione del sapere e nei confronti della storia. A mo’ di esempio, ricordiamo che il Nostro non ha mai accettato la normalizzazione nei confronti del passato tedesco30. Non possiamo ritenere conclusa la serie delle nostre annotazioni sulla razionalità procedurale di J. Habermas senza avere prima fermato la nostra attenzione su uno dei punti più qualificanti della razionalità habermasiana, e cioè sulla democrazia, che è un caso emblematico e paradigmatico della razionalità procedurale. Un po’ supra avevamo accennato al fatto che la razionalità comunicativa volta all’intesa si rende evidente, tra l’altro, nel rapporto tra filosofia e politica. La filosofia ha il compito di produrre le condizioni teoretiche e, in genere, culturali perché il mondo della vita sia effettivamente razionalizzato; ed il mezzo più adeguato allo scopo è l’adozione dell’éthos democratico31. Il concetto di éthos democratico, secondo la mente di J. Habermas, deve essere pensato in senso forte. In Faktizität und Geltung esso viene tematizzato in rapporto con l’intersoggettività: «La teoria del discorso punta sull’intersoggettività di grado superiore caratterizzante i processi d’intesa che si compiono nelle procedure democratiche oppure nella rete comunicativa delle sfere pubbliche politiche»32.
Così, anche la democrazia diventa un fatto procedurale33. Solo che la razionalità procedurale della democrazia è, per forza di cose, imperfetta. L’errore deve, dunque, essere messo in conto. Solamente la spinta dell’éthos può impedire che si opti per un ordine ingiusto. Optare per un ordine giusto per ragioni etiche è, secondo Habermas, come firmare una cambiale in bianco, e cioè come rimandare l’effettivo e pieno compimento 29 30 31 32 33
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Cfr TPST 55. Cfr G. BORRADORI, Filosofia del terrore, cit., 10 ss. Cfr SE 19. FN 353. Cfr FN 358.
dell’ordine giusto al futuro, ma non c’è altra via per conservare insieme al processo democratico sia la razionalità procedurale, che ne costituisce una caratteristica tipica, sia tutta la legittimità che gli è necessaria34. La democrazia apre sempre uno spazio di razionalità, in quanto, affrontando le questioni pratiche con imparzialità, è in grado di offrire garanzie per un ordine giusto e per conseguire risultati imparziali35. Evidentemente, si tratta sempre di razionalità procedurale e non assoluta. Infatti, tra le procedure della democrazia ha una particolare importanza la regola di maggioranza, la quale, con il “carattere discorsivo delle consultazioni” che implica, risponde in modo notevole al concetto di razionalità procedurale. Nei confronti della proceduralità habermasiana vengono sollevate alcune difficoltà. J. Rawls valuta negativamente il proceduralismo a motivo del fatto che non si dispone di ragioni per preferire una procedura senza essere contestualmente in grado di apprezzarne la portata normativa36. A. Ferrara aggiunge che il proceduralismo, senza avere alla base un progetto filosofico consistente, non è in grado di fornire una giustificazione in una situazione politica caratterizzata dal pluralismo culturale. E precisa che Habermas si è inoltrato in un vicolo cieco, perché fare assurgere a livello formale ciò che è semplicemente processuale porta sia alla generalizzazione discorsiva, sia all’incapacità di poter cogliere la peculiarità di ciascun progetto democratico37. Un’altra obiezione viene sollevata da F.I. Michelman: la procedura democratica, benché sia volta a trovare la migliore risposta alla domanda circa i diritti che debbono essere realizzati in una convivenza organizzata con criteri di uguaglianza e di libertà, non è in grado di fornire una giustificazione politica adeguata e coerente. La 34
Cfr SE 44 ss. Cfr SE 21. 36 Cfr J. RAWLS, Risposta a J. Habermas, trad. it. di A. Ferrara, in Micromega 10 (1996) 51-106. 37 «Se riduciamo il nucleo normativo sotteso a questa prassi di formazione democratico-discorsiva della volontà ad un nucleo formale, ristretto a poco più che il principio ‘D’ della generalizzazione discorsiva, veniamo a perdere la capacità poi di individuare la unicità storica dei progetti costituzional-democratici posti in essere da varie comunità politiche» (A. FERRARA, Neutralità e giustificazione politica nel liberalismo degli anni Novanta tra perfezionismo, proceduralismo e ragione pubblica, in C. VIGNA [ed.], Libertà, giustizia e bene in una società plurale, cit., 344; inoltre, cfr ibid., 343 s.; ID., Of Boats and Principles. Reflexions on Habermas’s Constitutional Democracy, in Political Theory 29 [2001] 782-791). 35
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ragione di ciò è nel fatto che la convivenza manca ancora di una carta dei diritti, e cioè di uno strumento adeguato, per poter procedere coerentemente, razionalmente e giuridicamente. In una tale situazione, la cooriginarietà di diritti e sovranità popolare, alla quale Habermas tiene in modo particolare, si dissolve in un circolo vizioso38. Il fatto è che a J. Habermas non sembra paradossale dire che gli attuatori della dimensione normativa di una prassi democratica sono, mediante il loro impegno nell’apprendimento, protagonisti del suo processo di sviluppo e di compimento, come i predecessori che l’hanno avviata lo sono della sua fondazione. Il fatto stesso che il nostro francofortese fa transitare i concetti di universalità e di trascendentalità, che con la loro tensione controfattuale hanno la funzione di arginare i rischi della proceduralità, per lo spazio semantico del concetto di intersoggettività, che è il momento procedurale multipolare dell’evento intersoggettivo, ci mette a disposizione dati sufficienti per farci capacitare dell’orientamento del suo pensiero, che reca in sé sia i segni della debolezza della proceduralità che i segni della ricerca di dispositivi idonei al suo superamento. In seguito, J. Habermas ritorna sull’argomento39 e si ferma a precisare il suo pensiero intorno alla “legittimazione tramite procedura”, e cioè intorno alla istituzionalizzazione giuridica della legittimazione, in modo che possa aver luogo la legittimità del “costringere” senza arrecare pregiudizio alla “forza generativa di legittimità”, che è propria dei discorsi. Lo scopo di tutto questo è di rendere percepibile la razionalità dei risultati di eventi di comunicazione “proceduralmente conforme” e delle “procedure decisionali giuridicamente vincolanti”. Tra le procedure decisionali in questione si distingue la regola democratica della maggioranza, nei confronti della quale formula le sue riserve J. Rawls, il quale qualifica la razionalità procedurale legata alla regola della maggioranza con gli aggettivi “incompleta” e “pura”. L’incompiutezza discende dal fatto che la democrazia, che autorizza la presunzione di risultati razionali, non è in grado di garantire risultati giusti. La purezza è dovuta al fatto che il criterio di giustezza e la correttezza delle decisioni dipendono soltanto dalla procedura40. Neppure J. Habermas in persona potrebbe dare 38
Cfr F.I. MICHELMAN, Brennan and Democracy, Princeton 1999. Cfr SE 35-46. 40 Cfr J. RAWLS, The Theory of Justice, trad. it., Una teoria della giustizia, Milano 19862, 84-89; SE 36. 39
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torto al Rawls, in quanto, di fronte ad una premessa di principio, secondo cui i partecipanti ritengono possibile in materia di giustizia una sola risposta giusta, il dato di fatto ci pone davanti a possibilità di errore ed a difficoltà sul piano del consenso. Del resto, ed Habermas ne è convinto, non si può non tener conto delle differenze che intercorrono tra validità assertiva e validità performativa.
2. UNIVERSALITÀ Il recupero della validità delle domande universalistiche, alle quali la filosofia non intende rinunciare, deve essere fatto all’interno della mutata prospettiva concernente la razionalità41. La filosofia non può rinunciare all’universalità perché, se lo facesse, oltre a condannare se stessa all’inefficienza, abbandonerebbe la scienza sociale ai rischi del relativismo e del localismo. Da parte sua, la nuova prospettiva ci pone di fronte alla proceduralità, che è intrinsecamente pragmatica e comporta provvisorietà, gradualità, perfettibilità, critica, dialogo. È vero che il paradigma procedurale attiva un criterio unitario tra le dinamiche intersoggettive della Lebenswelt, ma ciò non implica automaticamente il superamento dei rischi tipici di ciò che, essendo procedurale, si pone e si esprime in actu exercito. L’universalizzazione, cui non si può rinunciare, pena l’aporia del relativismo, può essere ancora conseguita, ma solo mediante una teoria della verità che faccia spazio alla proceduralità. Non è difficile comprendere che una siffatta teoria è quella della verità consensuale. Ciò viene esplicitato e precisato con alcune annotazioni: non si dispone di una verità sicura e data una volta per tutte; la verità ha un carattere processuale; la razionalizzazione completa è impossibile; il processo di formazione della volontà ha necessariamente un carattere democratico42. Ma, il senso di queste annotazioni non è tutto nella direzione del relativismo? Questo rischio viene evitato, se ad esse viene aggiunta un’altra annotazione, e precisamente quella sulla tensione controfattuale che l’universalità racchiude in sé. Di conseguenza, il consenso dato, dai partecipanti al discorso, alle affermazioni ritenute vere è del tipo di quello espresso nelle situazioni discorsive ideali. 41 42
Cfr PPM 38-42. Cfr L. CORTELLA, Crisi e razionalità, cit., 119.
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La razionalità comunicativa non è un fatto compiuto una volta per tutte, bensì è un fatto processuale, ma non per questo è parziale; anzi, per sua propria natura è aperto alla totalità. Si tratta di una razionalità che si propone come criterio universale dell’intesa, in quanto preme per il superamento sia delle situazioni nelle quali la comunicazione è impossibile o incontra difficoltà di varia intensità, sia di qualsiasi orizzonte individuale di comprensione e di comunicazione. Le locuzioni, nelle quali e per mezzo delle quali la razionalità comunicativa si esprime, hanno delle pretese di verità e di validità che oltrepassano il contesto particolare. La prassi comunicativa quotidiana, da parte sua, si trova gravata di “presupposti idealizzanti”, che sono interpretabili come segni di eccedenza di una sorta di “trascendenza intramondana”. Insomma, all’interno delle pretese di verità e di validità in questione si trovano delle pretese di universalità. Per tutte queste ragioni, strettamente legate alla sua idea di razionalità comunicativa, J. Habermas è in grado di prendere posizione nei confronti delle varie tendenze relativistiche della filosofia contemporanea. In ciò viene all’evidenza una tensione controfattuale che intreccia la razionalità comunicativa con interrogativi che sorgono su un duplice fronte: quello dell’universalità e quello della trascendentalità. Per essere più precisi, facciamo ricorso alle stesse parole di Habermas: «A differenza della figura classica della ragion pratica, la ragione comunicativa non è direttamente produttrice di norme d’azione. Essa possiede contenuti normativi solo nella misura in cui, per agire comunicativamente, uno deve sempre affidarsi a presupposti pragmatici di natura controfattuale. Deve cioè intraprendere delle idealizzazioni: per esempio, attribuire alle locuzioni significati identici e alle dichiarazioni una pretesa di validità oltrepassante il contesto, oppure ascrivere implicitamente ai destinatari una responsabilità morale (cioè autonomia e veridicità sia verso sé che verso gli altri). Nel fare ciò l’agente comunicativo si trova certamente sottomesso alla costrizione di una debole necessità trascendentale, ma non per questo egli si trova già invischiato nella costrizione prescrittiva di una regola d’azione determinata […]. Una corona d’idealizzazioni inevitabili forma il fondamento controfattuale d’ogni prassi d’intesa effettiva che sia capace di volgersi criticamente contro i propri risultati e di trascendere se stessa. Con ciò la tensione idea/realtà irrompe nella stessa attualità delle forme di vita linguisticamente strutturate. La prassi comunicativa quotidiana si sovraccarica di presupposti idealizzanti»43. 43
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FN 12 s.
Le idealizzazioni di cui si parla in questo testo normano la prassi d’intesa, sostenendo i soggetti singoli impegnati a trascendere se stessi mentre cercano di rendere effettivo il télos dell’intesa. Ragione comunicativa, da una parte, ed universalità e trascendentalità, ancorché nelle forme deboli indicate in questo testo, dall’altra, unendosi, danno vita a quel fenomeno che Habermas chiama “trascendenza intramondana”44. In ciò trova conferma la tensione controfattuale, che, come dicevamo, sgorga dall’intreccio di ricerca, critica, razionalità e comunicazione. Il fatto che l’argomento migliore, avendo superato il confronto con gli altri argomenti, tende a permanere, attesta una tensione verso l’universale. Ciò non toglie consistenza al particolare, ma, semmai, lo consolida sempre più. Il particolare viene garantito nella sua concretezza in forza della ragione argomentativa e viene posto lungo il cammino dell’emancipazione, che è uno dei fattori dell’universalizzazione. Emancipazione ed universalizzazione sono lanciati, e proprio dalla caratteristica della proceduralità, verso la coincidenza nel futuro45. Tale evento avrà luogo nella storia oppure oltre i confini di essa? Non si tratta di ipotizzare eventi al di fuori della storia, come se pensiero storico e pensiero utopico fossero inconciliabili, ma piuttosto di dare loro la possibilità di pervenire ad una sintesi armonica. Oltretutto, J. Habermas esclude che la razionalità procedurale possa inscriversi nella prospettiva utopica46. Secondo lui, lo spirito del tempo ha posto energie utopiche dentro la coscienza storica già a partire dalla Rivoluzione francese. Il pensiero moderno ha assistito ad una forma di fusione e di convivenza di pensiero storico e pensiero utopico. È vero che la potenza della carica utopica e l’eccesso di aspettative hanno aperto, talora, alternative e possibilità al di fuori del continuum della storia, ma è pur vero che ai nostri giorni si è costretti a prendere atto dell’esaurimento della tensione utopica almeno nella società del lavoro47. La piena coinci44
Cfr FN 13. Cfr A. FERRARO, J. Habermas: tra teoria della conoscenza, ideologia e formazione d’identità, in F. CARMAGNOLA – G. BRUSA ZAPPELLINI – A. FERRARO – W. PRIVITERA, Ragione emancipativa, cit., 1983, 145 ss. 46 «Il concetto procedurale di razionalità che propongo non può assolutamente comportare progetti utopici per forme di vita nella loro totalità. Nel migliore dei casi, la teoria della società nel cui ambito mi muovo può condurre a descrizioni diagnostiche che facciano apparire più chiaramente l’ambivalenza di tendenze evolutive contrastanti. Non si può parlare di una idealizzazione del futuro» (TFCS 154 s.). 47 Cfr J. HABERMAS, Die Neue Unübersichtlichkeit. Die Krise des Wohlfahrtsstaates 45
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denza di pensiero utopico e pensiero storico muterà e segnerà il destino ed il senso della proceduralità. Ma non basta, perché occorre sempre tener conto di un fattore di tipo trascendentale che, in caso di discorso razionale, deve essere sempre presupposto48. Si tratta di un fattore fattualmente inevitabile e, in quanto tale, procedurale e trascendentalmente debole, ma sufficiente per garantire l’universalità. Habermas così si esprime: «A dire il vero, basta una debole prova trascendentale, ove la si possa eseguire, cosa che io d’accordo con Apel ammetto, per fondare una pretesa di validità universalistica, vincolante per tutti i soggetti capaci di parlare ed agire e propria di un principio morale concepito in termini procedurali»49.
2.1. Gli ambiti dell’universalità I grandi ambiti nei quali emerge con maggiore forza e con più luminosa chiarezza la tensione universale della riflessione di J. Habermas sono quelli della razionalità comunicativa, dell’etica e del diritto. Quanto alla razionalità comunicativa, volendo aggiungere qualche precisazione a quanto è stato detto precedentemente, la sua universalità si fonda sulla sua superiorità rispetto ad ogni altro tipo di razionalità, verificata sia diacronicamente che sincronicamente. In un modo o in un altro, questi tipi di razionalità sono di orientamento particolaristico. Così, ad esempio, si deve dire della tipica razionalità coltivata dalle moderne società dell’Occidente, una razionalità animata da tensioni semplicemente cognitivo-strumentali. Il tipo di razionalità, che, secondo Habermas, ha la caratteristica dell’universalità, è quella che si caratterizza come tale esclusivamente per la propria struttura formale. Essa, in forza di condizioni interne di validità, si dà un assetto di sapere formato per virtù intrinseche e dotato di una portata universale50. und die Erschöpfung utopischer Energien, (1985), trad. it., La nuova oscurità. Crisi dello Stato sociale ed esaurimento delle utopie, a cura di A. Mastropaolo, Roma 1998; DU. 48 Cfr CRCM 122. 49 Cfr TM 202. 50 «Se si può spiegare la razionalità delle immagini del mondo in quella dimensione di chiusura/apertura fissata dalla pragmatica formale, si hanno trasformazioni sistematiche delle strutture delle immagini del mondo che non possono essere spiegate soltanto psicologicamente, economicamente, o sociologicamente — quindi con l’ausilio di fattori esterni —
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Nel contesto della razionalità comunicativa è necessario recare all’evidenza le pretese di verità e di validità che i soggetti parlanti formulano per ogni loro atto linguistico e che, secondo Habermas, sono pretese universali. Si tratta delle pretese di comprensibilità, verità, giustezza normativa e veridicità51. E non si può, certo, tacere sull’universalità del carattere controfattuale della situazione discorsiva ideale che viene anticipata in ogni discorso che voglia essere razionale; è in virtù di tale situazione che si viene a determinare un rapporto simmetrico tra i soggetti parlanti e vengono poste in essere le condizioni per impedire il verificarsi di comunicazioni in qualunque modo distorte52. Ma si tratta solo di un livello ideale del discorso razionale. Al livello pratico del discorso si notano vari fattori, in forza dei quali ci si rende conto che la tensione tra discorso ideale e discorso pratico, lungi dall’essere scomparsa a motivo della pressione esercitata dal livello ideale del discorso razionale, rimane ed è sempre alta per varie ragioni: l’argomentazione del discorso pratico non è dotata dello stesso rigore del discorso ideale; il discorso pratico non può essere mai fatto compiutamente al di fuori della pressione dei conflitti sociali; il discorso pratico spesso è tutt’altro che ispirato dal modello della composizione consensuale dei conflitti, per non dire che è dominato dalla logica delle coazioni strategiche, se non addirittura dalla logica della violenza. Dopo aver preso atto di una tale situazione, J. Habermas annota: «In questo tipo di limitazioni, alle quali sempre soggiacciono i discorsi pratici, la forza della storia si fa valere contro le pretese e gli interessi trascendenti della ragione»53.
Il giudizio di Habermas circa la violenza, che egli osserva sotto il profilo della comunicazione, è molto severo: ma possono essere ricondotte ad un accrescimento di sapere ricostruibile internamente. Senza dubbio i processi di apprendimento debbono essere spiegati dal canto loro con l’aiuto di meccanismi empirici, ma essi sono concepiti nel contempo come soluzione di problemi in modo da essere accessibili ad una valutazione sistematica sulla base di condizioni interne di validità. La posizione universalistica costringe alla supposizione di teoria evolutiva (quantomeno nell’approccio), che la razionalizzazione delle immagini del mondo si compie attraverso processi di apprendimento» (TAC I, 134). 51 Cfr TAC I, 417-433. 52 Cfr ACLSS 337. 53 ED 118; ma, cfr ED 117 s.
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«La spirale della violenza inizia con una spirale di disturbi comunicativi che creano una spirale di reciproca diffidenza; quest’ultima, se diviene incontrollabile, sfocia nell’interruzione della comunicazione. Dato che la violenza incomincia con disturbi della comunicazione, una volta esplosa, si può analizzare retrospettivamente che cosa sia andato storto»54.
La violenza è, dunque, una vera e propria patologia della comunicazione. Il discorso, che se ne lascia dominare o anche solo condizionare, si trova chiaramente in una posizione lontana rispetto alla situazione discorsiva ideale. Circa l’ambito etico, orientandosi sempre più lucidamente verso la Diskursethik, Habermas assume gradualmente ma decisamente una prospettiva universalistica. Egli sostiene che la pretesa di validità di una norma dipende dalla sua giustificazione discorsiva. La regola discorsiva portante è il principio di universalizzazione55. In ciò si attua un doppio processo di formazione discorsiva: quello del consenso libero e quello della volontà razionale. Habermas sente il bisogno di confrontarsi con autori significativi, quali H. Albert, che non menziona neppure il principio fondamentale della ragion pratica che è quello di universalizzazione, i filosofi analitici R. Grice e K. Baier e M.G. Singer, i quali pervengono all’universalità dicendo che una morale contrattuale strategico-utilitarista qualifica i doveri fondamentali come strategici (Grice) e riformulano l’antico imperativo categorico nei termini analitici di “principle of universality” o di “generalization argument” (Baier, Singer), i filosofi metodici di Erlangen, P. Lorenzen ed O. Schwemmer, i quali rispettivamente parlano dello sviluppo di aspirazioni soggettive in aspirazioni generalizzabili mediante il principio di transsoggettività e della trasformazione delle proprie aspirazioni in aspirazioni comuni mediante la partecipazione ad una pratica comune, che è l’unica a consentire un agire razionale ed una tensione intersoggettiva56. Non soddisfatto delle opinioni dei suoi interlocutori, il Nostro propone il suo personale convincimento, facendo delle considerazioni sull’universalizzazione: un principio morale viene introdotto senza difficoltà se le aspettative delle pretese normative di validità presenti nella strut54
J. HABERMAS, in G. BORRADORI, Filosofia del terrore, cit., 41. Cfr V. MARZOCCHI, Il discorso pratico e le sue molteplici dimensioni, in Fenomenologia e società 19 (1996) 1-2, 159. 56 Cfr CRCM 119-122. 55
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tura dell’intersoggettività sono in grado di evocare l’universalità; un discorso pratico è sempre sostenuto da una situazione discorsiva ideale, che pone in essere la possibilità del consenso mediante la generalizzazione degli interessi; il linguaggio quotidiano implica anche un carattere trascendentale, che consiste nel fatto che un discorso razionale fa sempre riferimento a norme fondamentali e, proprio per questo, è già inserito in una prospettiva universale57. Tenendo conto di queste considerazioni, che provengono da uno scritto della prima grande fase della riflessione habermasiana, l’universalizzazione in campo etico è un principio procedurale. Non per nulla, la situazione discorsiva ideale conduce alla prammatica universale. Un passo decisivo lungo questo percorso è costituito dal destino riservato dal francofortese all’imperativo categorico kantiano. L’imperativo categorico, che nella forma imperativa kantiana58 assolve il compito di fornire la giustificazione alle norme universalmente valide, senza per altro riuscire a superare il fronte dell’etica formalistica, viene sostituito da Habermas con il principio della Diskursethik e viene riconfigurato come principio di universalizzazione che regola i discorsi pratici59. Un’etica 57 «La problematica che sorge con l’introduzione di un principio morale, si risolve non appena si vede che l’aspettativa del soddisfacimento discorsivo delle pretese normative di validità già contenuta nella struttura dell’intersoggettività, rende superflue le massime di universalizzazione introdotte specificamente. Quando affrontiamo un discorso pratico, noi presupponiamo inevitabilmente una situazione ideale del parlare, che in forza delle sue qualità formali ammette comunque un consenso solo su interessi generalizzabili. A un’etica cognitivistica del parlare non occorre alcun principio; essa si fonda unicamente su norme fondamentali del discorso razionale, che, ammesso che si facciano dei discorsi, noi dobbiamo sempre già presupporre. Questo carattere che potremmo definire trascendentale del linguaggio quotidiano, assunto implicitamente come base per la costruzione del linguaggio normato, anche dal gruppo di Erlangen, può, come io spero di dimostrare, essere riconosciuto nel quadro di una programmatica universale» (CRCM 122). 58 «Agisci soltanto secondo quella massima, in base alla quale tu puoi allo stesso tempo volere che essa diventi una legge universale» (l’imperativo categorico di Kant si trova ripreso in J. HABERMAS, Moralität und Sittlichkeit. Treffen Hegels Einwände gegen Kant auch auf die Diskursethik zu?, [1986], trad. it., Moralità ed eticità. Le obiezioni di Hegel a Kant sono pertinenti anche contro l’etica del discorso?, in K.O. APEL – R. BUBNER – J. HABERMAS – E. TUGENDHAT – A. WELLMER – U. WOLF, Etiche in dialogo. Tesi sulla razionalità pratica, a cura di T. Bartolomei Vasconcelos – M. Calloni, Genova 1990, 60). 59 «Possono pretendere validità solo quelle norme che potrebbero trovare il consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti ad un discorso pratico. […] nelle norme valide debbono poter essere accettati senza costrizione, da parte di tutti, i risultati e le conseguenze secondarie che derivano da una loro universale osservanza per il soddisfacimento degli interessi di ciascuno» (ibid., 61).
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universalistica propone il principio della Diskursethik affinché abbia una applicazione universale e, quindi, consenta a chiunque voglia prendere seriamente parte all’argomentazione di potere fare implicitamente riferimento a “presupposti pragmatici universali” dotati di “contenuto normativo”. A detta di Habermas, basta anche solo conoscere il significato della locuzione “giustificare una norma d’azione” perché il principio morale venga dedotto dai “presupposti pragmatici” dell’argomentazione60. K.O. Apel, commentando l’orientamento habermasiano, prende atto della sostituzione da lui fatta dell’imperativo categorico con il principio procedurale dell’universalizzazione delle norme e, al fine di rafforzare il suo approccio, cita lo stesso Habermas: «Ogni forma valida deve adempiere la condizione che le conseguenze e gli effetti secondari che derivano presumibilmente dalla sua “universale” osservanza per il soddisfacimento degli interessi di “ogni” singolo, possono venire accettati senza coercizione da “tutti” i soggetti coinvolti”»61.
Però, non bisogna dimenticare le differenze che circa la concezione dell’universalità, pur in un contesto di ampia condivisione, sussistono tra Apel ed Habermas. Facciamo appena un accenno, assumendo il punto di vista di Apel: questi non condivide la giustificazione del consenso fornita da Habermas, e cioè che il consenso tra i partecipanti al discorso possa fondarsi sulle loro naturali intuizioni; invece, il suo convincimento è che il consenso in questione sgorghi da una norma generale razionalmente ed intersoggettivamente stabilita62. J. Habermas, da parte sua, potrebbe osservare che una concezione, qual è quella apeliana, che pone l’origine della validità delle norme d’azione esclusivamente nell’accordo razionalmente giustificato di tutti i soggetti interessati, viene contraddetta dal carattere
60
Cfr ibid. Cfr K.O. APEL, Limiti dell’etica del discorso? Tentativo di un bilancio intermedio, in K.O. APEL – R. BUBNER – J. HABERMAS – E. TUGENDHAT – A. WELLMER – U. WOLF, Etiche in dialogo, cit., 43 s. 62 Cfr K.O. APEL, Diskurs und Verantwortung. Das Problem des Übergangs zur postkonventionellen Moral, Frankfurt a. M. 19923, 122; V. MARZOCCHI, Introduzione, in K.O. APEL, Discorso, verità, responsabilità. Le ragioni della fondazione: con Habermas contro Habermas, trad. it., a cura di V. Marzocchi, Milano 1997, 50 s. 61
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repressivo del controllo sociale, in virtù del quale soltanto tali norme possono essere efficaci63. L’esito del confronto di J. Habermas con i suoi vari interlocutori circa la questione dell’universalità in ambito etico è che il principio di universalizzazione, secondo l’impostazione del francofortese, per quanto sia rapportabile con l’imperativo categorico kantiano, ne supera la dinamica mentalistica e monologica, s’impone all’interno della discussione di tutti i soggetti comunicanti intersoggettivamente e la investe con le sue possibilità normative64. Del resto, dal punto di vista di Habermas, l’approccio mentalistico e monologico, che è tipico di I. Kant, non può avere fecondità per diverse ragioni: l’imperativo categorico risulta legato ad una concezione etico-filosofica, che vede il compimento dell’essere e del valore innanzitutto a livello individuale; la soggettività, legata alla medesima concezione filosofica, consegue la sua autonomia all’interno di rigide coordinate individuali65. Procedendo in tal modo, il contesto normativo risulta pensato come una sorta di fatto naturale e, quindi, tale da risultare decontestualizzato. Di contro, il principio habermasiano di universalizzazione ha dei vantaggi notevoli, come i seguenti: gli interessi dei singoli attori della discussione non sono disconosciuti, ma vengono ripresi e messi a tema in un contesto di intersoggettività e di reciprocità; l’universalizzazione non interessa un dato naturalisticamente inteso, bensì una prospettiva assunta reciprocamente, che, in quanto tale, non è intangibile, ma è suscettibile di ulteriore discussione ed è, quindi, mutabile. Con ciò, il rischio della monologia è certamente superato, ma non si può negare che resti la preoccupazione che la validità morale, legata all’universalità, sia in realtà frutto di una generalizzazione66. Circa l’ambito giuridico J. Habermas, lasciandosi guidare dalla logica della fecondità e dell’efficacia dei principi etici della Diskursethik, dà degli sviluppi interessanti al suo discorso. Da parte nostra, fermeremo l’attenzione soltanto su alcuni dati. Troviamo il primo dato nello scritto Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus (1973): si tratta della legittimazione che caratterizza il sistema socio-politico del capitalismo maturo. Nonostante i vari segni di 63
Cfr ED 167. Cfr ED 76. 65 Cfr J. HABERMAS, Vorstudien und Ergänzungen zur Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a.M. 1984, 90. 66 Cfr A. FERRARA, Giustizia e giudizio, cit., 251. 64
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crisi, non è prevedibile una crisi generale del sistema, in quanto le ragioni della crisi vengono costantemente sottoposte ad un processo di rimozione. Evidentemente, tali ragioni nascondono un deficit di razionalità, a cui lo stato, titolare della forza, pone rimedio, inizialmente, mediante il trasferimento dei fattori di crisi nel sistema politico e, successivamente, mediante un potenziamento di legittimazione. L’esito di questa duplice operazione provoca la colmata del deficit di razionalità mediante la rinnovata legittimazione ed il superamento del deficit di legittimazione mediante l’accresciuta razionalità del sistema. Ma, a questo punto, è possibile vincere l’impressione che ci si trovi di fronte ad un fenomeno di costrizione alla legittimazione? Una tale possibilità potrebbe essere attivata solo sganciando il sistema da norme che hanno bisogno di giustificazione. La via per conseguire tale scopo è, però, molto ardua. La formazione dell’identità sociale, infatti, è persistentemente legata ad una modalità di socializzazione che appartiene organicamente alla struttura della società. Di conseguenza, la conservazione di elementi costitutivi di una forma razionale di vita non può dipendere da una volontà razionale strettamente congiunta con gli stessi elementi. L’unica effettiva possibilità residua è il “prender partito per la ragione”, che, a questo punto, verrebbe ad assumere un ruolo normativo e si proporrebbe come punto archimedeo per riavviare il processo di universalizzazione67. Il secondo dato ci viene proposto dall’opera Moralbewußtsein und kommunikatives Handeln (1983): il fulcro tematico è costituito dalla simmetria di reciprocità immanente nel ruolo sociale. I soggetti, che vivono le loro relazioni sociali all’interno del gruppo sociale di appartenenza e vi esercitano i loro ruoli sociali ben consapevoli della tensione diritto-dovere che li tiene uniti, coesistono in condizione di simmetria di reciprocità e di complementarità dei contenuti dei ruoli. Il ruolo sociale ha alle sue spalle sia l’autorità di un imperativo generalizzato e, in quanto tale, finalizzato al gruppo, sia il potere di regolare la detta tensione diritto-dovere e di sanzionarne l’osservanza. Questo fatto la dice lunga sull’ipotesi che la validità di norme d’azione possa essere fondata sempre e dovunque su un accordo conseguito da tutti i partecipanti e motivato razionalmente; in realtà, una tale ipotesi viene contraddetta dall’istanza repressiva implicata nell’idea che l’efficacia delle norme consista in quella particolare forma di controllo sociale che è la sanzione. Stando così le cose, J. Habermas annota quanto segue:
67
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Cfr CRCM 68-158.
«Questa […]concezione tradizionalistica si fonda già sull’idea della legittimità delle norme d’azione. In quest’orizzonte ideale i ruoli sociali, che ineriscono dapprima a gruppi primari, possono venir generalizzati a elementi costitutivi di un sistema di norme. Si costituisce con ciò un mondo di relazioni interpersonali legittimamente ordinate, e la concezione dell’agire di ruolo viene rielaborata in quella dell’interazione guidata da norme»68.
In tal modo, il percorso dell’universalizzazione è avviato. Ricaviamo il terzo dato dall’opera Faktizität und Geltung (1992), che è un’opera in cui la teoria del diritto è formulata a partire dalla teoria del discorso: si tratta della grande questione delle dimensioni della validità giuridica. Tale questione vede sempre intrecciate fattualità e validità. I due fattori vengono all’evidenza immediatamente: mentre il primo sta a significare l’imposizione del diritto da parte dello stato, il secondo colloca nella garanzia di libertà la ragione della razionalità della produzione giuridica69. La coercizione e la libertà, che sono aspetti diversi della validità giuridica, mettono sempre i destinatari nella condizione di autodeterminarsi. Ciò è possibile in quanto i cittadini assumono nei confronti dello stato lo stesso atteggiamento dei membri di una comunità giuridica alla quale si aderisce liberamente. La convivenza è regolata da principi consensualmente accolti o in forza della tradizione o in forza di un’intesa intorno a regole normative. È così che i diritti individuali vengono fruiti nell’intesa intersoggettiva e secondo l’idea democratica che ne sostiene la logica. Sicché, è l’integrazione sociale, garantita dalla sinergia di volontà dei cittadini liberi ed uguali, ad offrire una possibilità di riscatto alla pretesa di legittimità degli ordinamenti giuridici fondati sui diritti individuali. In tale contesto, l’idea democratica consente di colmare un doppio deficit: quello tipico delle leggi coercitive, consentendo loro di conseguire la legittimità mediante la dimostrazione di essere leggi di libertà, e quello della solidarietà, tipico degli ordinamenti regolati dai diritti individuali animati da tensioni meramente legali e strategiche, mediante un salto di qualità degli stessi diritti individuali. Tale salto è reso possibile dalla prospettiva dei diritti di cittadinanza politica, che sono individuali e sono sostenuti non soltanto dal libero arbitrio ma anche dall’autonomia in senso 68 69
ED 167 s. Cfr FN 38-53.
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kantiano. In virtù dell’efficacia di questa autonomia, i destinatari delle norme giuridiche ne sono anche gli autori, e lo spazio operativo implica l’agire comunicativo ed ogni forma di intersoggettività e di dialogo. Così, ha luogo l’integrazione sociale. Questa, però, in quanto riconduce sempre a convinzioni intersoggettivamente condivise, che, come si sa, si pongono sempre in un contesto di tensioni e di discussioni, si trova in una situazione di costante rischio di destabilizzazione. Tuttavia, nonostante la precarietà, la stabilità viene garantita da “prestazioni dell’integrazione sociale”. J. Habermas precisa il suo pensiero: «Abbiamo già fatto conoscenza con due strategie di segno opposto capaci di fronteggiare questo rischio di dissenso e quindi d’intrinseca instabilità del modello comunicativo di socializzazione. Queste strategie consistono nel circoscrivere oppure nel mettere totalmente in libertà [entschränken] il meccanismo della comunicazione. Il rischio implicito all’agire comunicativo viene circoscritto attraverso quelle certezze intuitive che si capiscono da sole senza problemi, in quanto sganciate da tutte le ragioni comunicativamente disponibili e intenzionalmente mobilitabili. Queste certezze, costituenti lo sfondo del mondo di vita, stabilizzano il comportamento senza varcare la soglia d’una loro possibile tematizzazione, dunque senza collegarsi a quella dimensione (dischiusaci soltanto dall’agire comunicativo) in cui diventa possibile per noi distinguere tra accettabilità giustificata e mera accettazione fattuale delle convinzioni e delle ragioni»70.
Tuttavia, l’agire comunicativo non è in grado di assolvere al suo compito di integrazione sociale. Può soltanto stabilizzare ed ampliare la situazione e la dinamica discorsiva e, dunque, può, per un verso, attenuare il rischio del dissenso e, per un altro verso, incrementarlo, e proprio a motivo dell’ampliamento della situazione discorsiva. A questo punto, Habermas s’interroga circa la possibilità di porre in essere un meccanismo che consenta alla comunicazione “messa in libertà” di non smentire se stessa e di liberarsi dall’onere dell’integrazione sociale. La soluzione potrebbe essere trovata mediante la creazione di un “sistema di regole” idoneo a mantenere in costante tensione, senza eliminarle mai, due strategie concernenti il rischio di dissenso interno all’agire comunicativo: la circoscrizione e la messa in libertà. Quanto al primo aspetto,
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FN 47 s.
J. Habermas fa, tra le altre, le annotazioni seguenti: il diritto moderno rende più vincolanti i motivi dell’osservanza, che per altro aveva messo in libertà, mediante la sanzione. Con ciò, fattualità e validità, che in una impostazione giuridica fondata sulla sacralità sono sempre congiunte fino a fondersi insieme, si trovano distanziate: una cosa è parlare di “accettazione fattualmente imposta dell’ordinamento giuridico” e cosa ben diversa è parlare dell’“accettabilità delle ragioni” su cui si fonda la pretesa di validità dello stesso ordinamento giuridico. Quanto al secondo aspetto, la distanza tra fattualità e validità implica una sinergia di positività e legittimità che dà valore anche alla “messa in libertà” della comunicazione, e cioè a quella sorta di “svincolamento comunicativo”, che nella modernità è aperto a tutte le forme possibili di critica e che attribuisce ai consociati giuridici, ai quali dà l’opportunità di formarsi liberamente le opinioni e le volontà, la titolarità del consenso per l’attivazione delle norme, cui come destinatari si trovano sottoposti. In tal modo, il rischio di dissenso, posto all’interno del sistema giuridico, viene sottoposto ad un processo di stabilizzazione e riproposto come fattore produttivo della formazione razionale e politica dell’opinione e della volontà. Il diritto non perderà mai la sua capacità di vincolare a motivo della sinergia tra positività giuridica e pretesa di legittimità. La positività, che è un tutt’uno con la fattualità, implica la coercizione giuridica; la pretesa di validità diventa razionalmente accettabile in virtù dell’idea di autolegislazione, e cioè dell’idea di autonomia politica dei consociati giuridici. La questione della validità giuridica si avvia verso il momento conclusivo della soluzione delle sue difficoltà mediante l’acquisizione dell’idea dello stato di diritto, in cui il potere politico si riconfigura in senso giuridico. Lo stato di diritto produce una serie di dispositivi che proteggono il sistema giuridico dalla fattualità di forme illegittime di potere. Anche questo è un passo importante del processo di universalizzazione. Ricaviamo un ulteriore dato dagli scritti Die Einbeziehung des Anderen (1996) e Kampf um Anerkennung im demokratischen Rechtsstaat (1996): l’argomento è quello dell’universalizzazione dei diritti dei cittadini. L’ordinamento giuridico è sempre stato attraversato dalla domanda sulla fondazione della legittimità del diritto positivo, e cioè di norme che possono venire cambiate per qualsiasi ragione in qualunque momento. Fino a quando era la morale, sgorgante o dal diritto naturale o dalla dimensione religiosa, a garantire la stabilità con la sua validità eterna ed universalmente vincolante, il diritto positivo non correva il rischio di essere fagocitato dalla temporalità. Con l’avvento delle società pluralistiche, alle etiche universal-
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mente vincolanti, private a torto o a ragione della loro efficacia, è subentrata la teoria politica che ha affrontato la questione della legittimità con le sue proposte sulla “sovranità popolare” e sui “diritti umani”. Naturalmente, si pone la domanda circa i diritti che cittadini liberi ed uguali debbono reciprocamente riconoscersi, se intendono normare in modo legittimo la loro convivenza organizzata con leggi di diritto positivo. È a questo punto che sovranità popolare e diritti si trovano indissolubilmente congiunti secondo il modello di rapporto causa-effetto. Ovviamente, fruiscono del carisma della legittimità solo quei diritti approvati da tutti gli interessati mediante discorsi razionali. Questo è un fenomeno di autodeterminazione che viene istituzionalizzato giuridicamente sulla base del diritto fondamentale ad uguali libertà soggettive. Il nesso tra democrazia e stato di diritto è intrinseco, come è intrinseco, nella maniera occidentale di intendere la legittimazione, il nesso tra diritti di libertà e diritti dei cittadini. Habermas è profondamente convinto del fatto che diritti liberali e diritti politici siano inseparabili71. Senza la realizzazione di un sistema di diritti non c’è problema individuale e collettivo che possa essere razionalmente affrontato ed adeguatamente risolto. Nelle costituzioni moderne i diritti tutelano i soggetti giuridici individuali, anche se nessuno dubita che anche in sede giuridica, oltre che in sede morale, si possa e si debba parlare dell’integrità del soggetto singolo all’interno di una integra struttura intersoggettiva. Ma, si chiede Habermas, una teoria dei diritti di orientamento chiaramente individualista ha titoli e strumenti adeguati per comprendere le “lotte di riconoscimento” che riguardano identità collettive? I diritti di tali identità, rimasti storicamente inattuati, possono essere conciliati con la tradizionale impostazione individualistica della teoria dei diritti? Le acquisizioni, dovute al liberalismo, alla socialdemocrazia, al movimento d’emancipazione borghese ed al movimento operaio, conducono certamente ad una risposta affermativa. Tutte le prospettive appena ricordate hanno operato per l’abolizione della divisione classista della società, ma l’emancipazione delle identità collettive in questione è dovuta al riformismo social-liberale ed alle lotte dello stato sociale per l’universalizzazione dei diritti dei cittadini. È vero che la gran parte della popolazione vive in condizione di lavoro dipendente salariato, ma è pur vero che tale condizione viene integrata mediante “diritti sociali di ripartizione” e mediante “diritti politici di parte-
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Cfr IA 216-221.
cipazione”. Dopo la perdita di credibilità del modello proposto dal socialismo reale, la prospettiva dell’universalizzazione dei diritti dei cittadini è l’unico percorso praticabile. Il discorso diventa più difficile quando è fatto in riferimento a identità collettive ed alla loro pretesa di essere riconosciute quali “forme di vita culturale diverse”; e tali sono, ad esempio, i movimenti femministi e le varie forme di minoranze. Ma, vediamo le domande cruciali poste da J. Habermas a tale proposito: «E se davvero il riconoscimento di tradizioni e forme di vita marginalizzate — sia nel contesto di una cultura maggioritaria sia nella società mondiale dominata dall’Occidente — dipendesse da garanzie di status e di sopravvivenza? Dipendesse cioè da quel genere di diritti collettivi che fanno saltare l’idea tradizionale dello stato democratico di diritto, “liberale” in quanto ritagliato su diritti individuali?»72.
Habermas, che pure riconosce al suo interlocutore C. Taylor il merito di aver fatto progredire la discussione con le risposte date a queste domande, ne lamenta l’ambiguità di pensiero nel punto decisivo che concerne lo stato democratico di diritto73. In ogni modo, continuando il suo dialogo col Taylor e con qualche altro studioso sul tema del riconoscimento, J. Habermas acquisisce dati molto significativi. Dal punto di vista teorico, ci sembra opportuno ricordare i seguenti: il riconoscimento pubblico dell’uguaglianza dei cittadini; il rispetto per l’individuo, la cui identità è, quali che siano la sua razza, la sua cultura e la sua condizione, irripetibile; il rispetto per il modo di vivere e di pensare dei gruppi svantaggiati; il sistema dei diritti non può ignorare le condizioni di disuguaglianza sociale e culturale, se è vero che tra stato di diritto e democrazia c’è un legame interno; una teoria dei diritti correttamente intesa richiede l’attivazione di una politica di riconoscimento delle peculiari identità individuali, etniche e culturali dei soggetti umani; deve essere attivata una concezione giuridica proceduralistica, in maniera che il processo democratico assicuri simultaneamente l’autonomia privata e 72
J. HABERMAS, Kampf um Anerkennung im demokratischen Rechtsstaat, (1996), trad. it, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J. HABERMAS – C. TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano 20035, 65. 73 Cfr l. c.
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l’autonomia pubblica. Dal punto di vista concreto dei fenomeni di lotta per il riconoscimento, possiamo fare menzione dei casi seguenti: disabili, omosessuali, femminismo, minoranze etniche e culturali, riscatto dal colonialismo eurocentrico, politica di asilo degli stati europei e in particolare della Germania74. Tenendo conto di questi dati, si ha la sensazione che J. Habermas si occupi di diritto per mettere in relazione il diritto con la morale e la politica e, quindi, per recare all’evidenza l’obbligazione giuridica che si pone nello stato di diritto e nella democrazia. Data la sistematica e vistosa implicazione di motivi filosofici, giuridici, etici, sociologici e politici, qualche studioso ha potuto parlare della teoria del diritto di Habermas come di una teoria “impura” del diritto75. Ed una teoria impura del diritto, idonea a raccogliere l’eredità dell’illuminismo, che nella modernità ha aperto il discorso dell’universalità dei diritti umani, non può non essere disposta ad accogliere l’alterità culturale in ogni senso76. Se vogliamo rendere palese il filo rosso che rivela il percorso di universalizzazione presente nelle ultime questioni da noi considerate, possiamo proporre, attingendo a piene mani al pensiero di J. Habermas, alcuni spunti tematici. Lo sviluppo democratico del sistema dei diritti impone il perseguimento sia di obiettivi politici generali, sia di obiettivi collettivi implicati nelle lotte di riconoscimento e scanditi da esse77. Lo stato di diritto esclude ogni tipo di intolleranza, in quanto fa divieto di privilegiare una forma di organizzazione della vita umana rispetto alle altre e di attribuire l’esclusività ad una a danno delle altre78. Il patriottismo costituzionale, che consiste nel lealismo dei cittadini integrati nei confronti della comune cultura politica e che ha una pregnanza etica, non può recare pregiudizio alla neutralità del diritto rispetto alle varie comunità etiche integrate nel sistema politico e deve, invece, salvaguardare tutti i livelli e tutte le forme di pluralità di una società multiculturale. La neutralità del diritto, contando non più sul consenso circa i valori ma sul consenso circa le procedure di legittimità della produzione giuridica e dell’esercizio del potere, utilizza il consenso procedurale e soprattutto punta sull’universalismo dei 74
Cfr ibid., 66-110. Cfr D. ZOLO, Il cosmopolitismo kantiano di Jürgen Habermas, in Ragion pratica 6 (1998) 161 s. 76 Cfr TP 157. 77 Cfr J. HABERMAS, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J. HABERMAS – C. TAYLOR, Multiculturalismo, cit., 82. 78 Cfr ibid., 92 s. 75
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principi giuridici79. Il sistema dei diritti e lo stato di diritto si pongono anche a livello morale a motivo del loro contenuto universalistico. Questi dati autorizzano un discorso intorno alla “pregnanza etica” degli ordinamenti giuridici, legati come sono alla vita di una concreta comunità politica, intorno all’“eticità giuridificata” della nazione, i cui legislatori si lasciano guidare dall’esigenza di realizzare i diritti fondamentali, ed intorno alla “neutralità” del contenuto etico di una integrazione politica nei confronti delle differenti comunità etico-culturali che si sono variamente integrate all’interno di una comunità politica80. Come si vede, la tematizzazione del rapporto intrinseco-strutturale tra democrazia e stato di diritto e la tematizzazione meno aulica, ma non per questo meno importante, dei diritti collettivi conducono speditamente i nostri discorsi all’interno del percorso dell’universalità e del processo di universalizzazione.
2.2. Difficoltà dell’universalità habermasiana La concezione habermasiana dell’universalità non ha convinto parecchi studiosi. Le varie difficoltà sollevate nei confronti di tale concezione possono essere raccolte in due raggruppamenti: il primo contesta l’insufficiente proceduralità e la conservazione di posizioni tipicamente filosofiche, talché l’universalità risulta mentalistica ed astratta; il secondo ritiene la proceduralità, a motivo della sua valenza empirica, inadeguata a sostenere una dottrina di notevole impegno teoretico, qual è appunto quella dell’universalità. Alcuni autori hanno già fatto la fatica di raccogliere le critiche sollevate dai vari studiosi all’universalismo habermasiano. Pertanto, ci sembra sufficiente fare qualche accenno a quanto è già stato detto al riguardo. K.O. Apel, che pure ha molte idee in comune con J. Habermas, ritiene che quest’ultimo, benché sia spinto dall’esigenza legittima di dare fondazione filosofica e validità universale alle condizioni del discorso razionale, non riesce a valicare il fronte della contestualità e della contingenza81. Di senso totalmente diverso sono le annotazioni critiche fatte 79
Cfr ibid., 93 ss. Cfr ibid., 97. 81 Cfr K.O. APEL, Discorso, verità, responsabilità. Le ragioni della fondazione con Habermas contro Habermas, trad. it., a cura di V. Marzocchi, Milano 1997, 189-235; S. PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, Roma-Bari, 178 ss. 80
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da Th. McCarthy: secondo questo studioso, Habermas si lascia condurre da una grande pretesa di universalità e non s’impegna affatto, contrariamente a quanto dichiara, nella scienza ricostruttiva82. A R. Rorty l’universalismo habermasiano sembra troppo ambizioso e del tutto inconsapevole della sua inutilità nel contesto socio-politico-culturale occidentale, le cui radicate tradizioni liberali e democratiche si giustificano a prescindere da ogni principio di tipo universalistico83. A. Wellmer solleva dure critiche contro la giustificazione habermasiana dell’universalità. Egli parla di circolo vizioso, nel senso che nella fondazione dei principi universalistici gioca una parte notevole la storia della loro formulazione84. D. Rasmussen valuta la concezione universalistica di J. Habermas antiquata fino al punto di potere essere in qualche modo ricondotta a quelle ottocentesche di Frazer, di orientamento etnocentrico, ed a quella di Marx, che intreccia filosofia della storia e teoria evolutiva85. S. Benhabib, occupandosi della validità universale del principio etico, critica la soluzione proposta da Habermas a motivo del fatto che questi, assumendo una prospettiva kantiana, ha fondato la sua teoria sui presupposti universali dell’argomentazione anziché sulla dinamica della stessa argomentazione86. S.K. White non è tanto convinto né della validità né dell’importanza dell’universalismo habermasiano e, pertanto, suggerisce di dare anche un qualche credito alle tesi contestualiste87. K. Baynes fa una sorta di opera di demitizzazione, togliendo al principio habermasiano di universalizzazione quella che egli ritiene la sua pretesa specificità, e cioè 82 Cfr TH. MCCARTHY, Rationality and Relativism: Habermas’s ‘Overcoming’ of Hermeneutics, in J.B. THOMPSON – D. HELD (edd.), Habermas. Critical Debates, London e Basingstoke 1982, 57-78; S. PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., 180 s. 83 Cfr R. RORTHY, Habermas and Lyotard on Postmodernity, in R.J. BERNSTEIN (ed.), Habermas and Modernity, Cambridge 1985, 161-175; S. PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., 181. 84 Cfr A. WELLMER, Praktische Philosophie und Theorie der Gesellschaft. Zum Problem der normativen Grundlagen einer kritischen Sozialwissenschaft, trad. it., Filosofia pratica e teoria della società. Sul problema dei fondamenti normativi di una scienza critica della società, in K.O. APEL – R. BUBNER – J. HABERMAS – E. TUGENDHAT – A. WELLMER – U. WOLF, Etiche in dialogo, cit.; S. PETRUCCIANI, Introduzione a Habermas, cit., 182 s. 85 Cfr D. RASMUSSEN, Comunicative Action and Philosophy: Reflexions on Haberms’s Theorie des kommunikativen Handelns, in Philosophy and Social Criticism 9 (1982) 18; ROSATI M., Consenso e razionalità, cit., 112-115. 86 S. BENHABIB, Critique, Norm and Utopia. A Study of the Foundations of Critical Theory, New York 1986, 303. 87 Cfr S.K. WHITE, The Recent Work of Jürgen Habermas. Reason, Justice and Modernity, Cambridge 1988.
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la pretesa di essere un principio morale affermato in virtù dei presupposti ineliminabili dell’argomentazione. Più semplicemente, afferma il White, si tratta di una ricostruzione di intuizioni morali determinanti già operanti nelle comuni pratiche comunicative88. Da parte nostra, riteniamo di potere sostenere che l’universalità habermasiana è garantita da un unico fattore, che è quello della trascendentalità e che viene colto con un atto intuitivo e globale della riflessione. Ma, come si può immediatamente osservare, questo è proprio il fattore che da più parti viene fatto oggetto di forti critiche, in quanto viene giudicato un rigurgito antiquato di vecchie e superate impostazioni filosofiche. Infatti, l’universalità, insieme all’oggettività ed alla necessità, è una caratteristica tipica della trascendentalità, così come la tradizione ce la consegna. Qui, però, ci imbattiamo in un punto cruciale della riflessione habermasiana. Il Nostro sa benissimo di esporsi a delle critiche dure, tuttavia, non ha timore di insistere sulle sue convinzioni concernenti l’universalità: mette a tema l’universalità e, nel tentativo di darle una configurazione sicura, percorre piste antiche e conosciute, piste classiche. Per il resto, tutto il discorso sulla proceduralità, quale caratteristica riconosciuta da Habermas all’universalità, ci sembra che porti più alla generalizzazione che all’universalità. Questa nostra impressione coincide con il convincimento di A. Ferrara, il quale, come dicevamo supra, sostiene che il passaggio fatto da Habermas dal livello processuale al livello formale autorizza il discorso sulla generalizzazione ma non quello sull’universalità89. La linea seguita da Habermas è una pista percorsa in virtù della tensione di eticità, che attraversa in profondità la Lebenswelt, e del fulcro etico della Diskursethik, che non può lasciar languire dentro anguste dimensioni individuali quanto della vita, dell’esperienza e dei valori umani tende ad ampliarsi in senso collettivo e, ancora di più, in senso intersoggettivo. A parte questi ed altri possibili rilievi, non escluso quello concernente il dubbio circa l’effettivo successo di questo punto della teoria di Habermas, riteniamo che non possa essere messo in discussione il merito di questo grande studioso di mantenere costante l’impegno nell’affrontare 88 Cfr K. BAYNES, The Normative Grounds of Social Criticism. Kant, Rawls and Habermas, New York 1990. 89 Cfr A. FERRARA, Neutralità e giustificazione politica nel liberalismo degli anni Novanta tra perfezionismo, proceduralismo e ragione pubblica, in C. VIGNA (ed.), Libertà, giustizia e bene in una società plurale, cit., 344.
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il fondamentale problema della validità del discorso e della prassi comunicativa: le sue riflessioni sull’universalità hanno questo scopo.
2.3. Situazione linguistica ideale Nelle riflessioni di J. Habermas è presente il concetto di “società ideale” e, in stretto rapporto con esso, è presente anche la tematizzazione della tensione che si viene a determinare tra società ideale e società concreta. Il Nostro ci tiene a precisare previamente che egli non ha mai inteso imitare suoi colleghi americani, quali Rawls e Nozick, delineando, come loro, una teoria politica normativa. Il suo intendimento dichiarato è sempre stato quello di esaminare la prassi comunicativa quotidiana, per cogliervi i reali rapporti degli individui socializzati e l’uso inevitabile da parte loro della lingua corrente in vista dell’intesa. In tale ambito si verifica un fatto degno di attenzione: i soggetti parlanti prendono seriamente le loro affermazioni e, contestualmente, avanzano la pretesa che quanto dicono sia giusto e/o vero. Tale pretesa attesta la presenza attiva, nella concretezza della vita quotidiana, di una dimensione ideale. In maniera lapidaria J. Habermas propone una visione sintetica di questo fatto: «La prassi quotidiana orientata all’intesa è intessuta di idealizzazioni inevitabili»90.
Una simile inevitabilità consente di fare ulteriori precisazioni e di porre problemi nuovi: le idealizzazioni in questione trascendono il soggetto singolo, nel senso che non sono prodotte da esso e non vengono messe da esso in tensione con la realtà concreta; si tratta, piuttosto, dei contenuti normativi incontrati nelle pratiche discorsive; non se ne può fare a meno, se si vuole continuare ad esistere come soggetti parlanti; la ragione di ciò è nel fatto che il linguaggio con il suo apporto di idealizzazioni è un dato imprescindibile di ogni forma di vita socio-culturale; si apre la tematica, complessa e gravida di conseguenze, del carattere controfattuale delle idealizzazioni in questione91.
90 91
112
DU 103. Cfr DU 103 s.
Ci veniamo a trovare di fronte ad una situazione discorsiva nella quale si afferma il principio di universalizzazione come principio che volge al consenso sulla base di norme che affermano la loro validità in ambiti non limitati. Il consenso, al quale Habermas pensa, è frutto di discorsi e non di compromessi. Soltanto il consenso legato ai discorsi razionali ed alle argomentazioni è in grado di lasciare gli ambiti particolari e di assumere dimensioni generali ed universali92. L’intento del francofortese non è di teorizzare un universalismo astratto, ma di proporre un criterio metacritico di confutazione93. Egli non intende neppure proporre l’“idealismo ermeneutico” di una situazione comunicativa pura, ma solo, come egli stesso dice, «fare uso metodologico della “comunità ideale della comunicazione”»94.
L’esito di questo approccio critico è effettivamente metodologico. È come dire che la tensione della concretezza del presente verso la sua realizzazione ed il suo superamento è originata e sostenuta dalle idealità corrispondenti. Il Nostro ne parla con forte convinzione con i termini seguenti: «Io non rinuncio alla sostanza idealizzante di questi presupposti pragmatici che inevitabilmente devono contrassegnare una prassi capace di far valere solo l’argomento migliore. Una volta che non s’intenda più il concetto di verità in termini di corrispondenza, il senso incondizionato delle pretese di verità diventa spiegabile soltanto riferendoci a una “giustificazione muovente da condizioni ideali” (Putnam)»95.
Ne deriva un concetto discorsivo di verità, che implica la ricerca della verità e segue il metodo della discussione critica, tenendo presenti le idealizzazioni portanti della situazione discorsiva come modelli con cui confrontarsi, al fine di produrre l’argomento migliore. Questo argomento ha il duplice ruolo di meta da perseguire e di giustificazione delle pretese di verità, che non saranno mai assenti nelle situazioni discorsive nelle quali i soggetti dialoganti vorranno proporre sensi incondizionati. La concezione 92 93 94 95
Cfr ACLSS 332 s. Cfr SE 64 ss. SE 129. SE 130.
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discorsiva della verità implica un particolare tipo di razionalità comunicativa. Habermas passa dal convincimento che il criterio della verità sia il consenso ad una idea più sottile, che qualifica il protagonista del consenso come soggetto parlante competente e, per di più, come un soggetto parlante in una situazione discorsiva ideale. Riteniamo opportuno insistere, tenendo anche conto delle annotazioni fatte dallo stesso Habermas circa le differenze tra l’approccio di Rawls e Nozick ed il proprio, e precisamente in ambito normativo96, sul fatto che con la sua teoria della situazione linguistica ideale il Nostro vuole precisare le condizioni ideali della comunicazione, ma solo allo scopo di dare indicazioni sulle riserve ideali alle quali fare riferimento per la vita pratica e non per proporre dati normativi97. Stando così le cose, si può parlare delle condizioni ideali della comunicazione come di ideali regolativi. E la ragione è nel fatto che, come lo stesso Habermas dice a sostegno della sua tesi, la situazione discorsiva ideale è di tipo controfattuale: «Le condizioni contraffattuali della situazione discorsiva ideale si palesano come condizioni di una forma ideale della vita»98.
La ideale Sprachsituation ha, secondo Habermas, uno spiccato carattere di Lebensform99. Oltre a questo, la teoria habermasiana della verità, essendo discorsiva, non può concepire la verità al di fuori dell’esperienza della critica, che ha valenza empirica e che si svolge nello stesso alveo della Lebenswelt. Ma occorre subito precisare che la verità non può neppure essere concepita lontano da un percorso orientato alla situazione discorsiva ideale100. È come se ci si trovasse di fronte all’adattamento del concreto all’ideale. E si tratta di un adattamento graduale: ci si avvicina sempre più, passando per una serie infinita di gradi, ad un ideale che, costituendo, alimentando e rego-
96
Cfr DU 103. Del valore normativo della situazione linguistica ideale si parla in L. CORTELLA, Crisi e razionalità, cit., 130. 98 J. HABERMAS, Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 93. 99 Cfr ibid., 93. 100 Cfr ACLSS 334-343. 97
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lando la situazione ed i procedimenti della comunicazione, è un vero e proprio ideale regolativo101. Le proprietà formali del discorso vengono soddisfatte quando i vari livelli di esso possono attivarsi liberamente ed il consenso è frutto di argomentazioni. In questo caso si ha la ideale Sprachsituation. Habermas ne dà la seguente definizione: «Definisco ideale una situazione linguistica in cui le comunicazioni non sono state impedite non soltanto da interventi contingenti esterni, ma neppure da costrizioni che si originano dalla struttura della stessa comunicazione. La situazione linguistica ideale esclude la sistematica distorsione della comunicazione. E la struttura della comunicazione non produce alcuna costrizione soltanto quando per tutti i partecipanti al discorso è data una ripartizione simmetrica delle possibilità di scegliere e compiere atti linguistici»102.
In questa definizione di ideale Sprachsituation si trova indicata, tra l’altro, un’idea generale di simmetria, che può essere ulteriormente chiarita. Habermas, da parte sua, fa una serie di precisazioni, che egli chiama condizioni della situazione linguistica ideale. Le prime due, che egli stesso qualifica come banali, possono essere così sintetizzate: 1) tutti i potenziali soggetti di un discorso debbono godere della stessa possibilità di prendere parte ad atti linguistici comunicativi; 2) tutti i soggetti di un discorso debbono disporre della stessa possibilità di intervenire sul discorso, in modo che nessuna opinione venga sottratta alla tematizzazione ed alla critica. A queste J. Habermas aggiunge altre due condizioni, che, stando a quanto egli stesso dice, non sono banali: 3) possibili protagonisti del discorso sono quei soggetti parlanti che hanno la medesima chance di utilizzare atti linguistici rappresentativi; 4) possibili protagonisti del discorso sono quei soggetti parlanti che hanno la medesima possibilità di utilizzare 101
«Questo adattamento alle assunzioni idealizzanti di una comunità comunicativa spazialmente, socialmente e temporalmente illimitata resta un’anticipazione e approssimazione ad un’idea regolativa anche in ogni discorso realmente effettuato» (TM 161); «Col concetto dell’idea regolativa […], questo modello matematico dell’approssimazione infinita viene trasposto nell’ambito dell’agire strumentale alle interazioni. Queste poche indicazioni comparative bastano qui per rendere plausibile che non è assurdo ab initio idealizzare le forme di comunicazione, cioè, pensare i procedimenti di comunicazione come se si svolgessero in condizioni ideali» (TM 166). 102 ACLSS 337.
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atti linguistici regolativi (comandare, opporsi, permettere, vietare, promettere, rendere conto, ecc.). Il consenso, che sgorga da una situazione discorsiva caratterizzata così fortemente dalla simmetria, viene prodotto in modo argomentativo ed è razionale; sicché, si può affermare che esso è conseguito in un clima di libertà ed esclude le distorsioni sistematiche103. Habermas si occupa della ideale Sprachsituation anche esponendone le norme. Egli avvia gradualmente il discorso, raccogliendo in sintesi dati già acquisiti: ogni soggetto parlante intraprende un discorso che porta ad un consenso vero in forza dell’anticipazione della situazione discorsiva ideale; tale situazione esclude decisamente la distorsione sistematica della comunicazione; i soggetti parlanti debbono poter fruire in modo simmetrico dell’opportunità di scegliere liberamente tra le possibilità degli atti discorsivi; non sono consentiti privilegi, in quanto la reciprocità di attese di comportamento li esclude completamente; i parlanti debbono trovarsi di fronte ad una uguale opportunità d’impiego degli atti discorsivi comunicativi104. Dopo questa sintesi, Habermas aggiunge: «Le condizioni contraffattuali della situazione discorsiva ideale si palesano come condizioni di una forma ideale della vita. Appare, ora, che il modello del puro agire comunicativo, come dimostrato, non soltanto richiede la possibilità di discorsi, ma, piuttosto, al contrario, richiede anche che le condizioni del discorso non possano essere pensate come indipendenti dalle condizioni del puro agire comunicativo. La ripartizione simmetrica delle opportunità nella scelta e nell’uso degli atti discorsivi, i quali si riferiscono a) ad enunciati in quanto enunciati, b) al rapporto del parlante nei riguardi delle sue espressioni, e c) all’osservanza di regole, è la norma linguisticoteoretica di ciò che noi, secondo il modo tradizionale, cerchiamo di capire con le idee di verità, di libertà e di giustizia. Queste norme si interpretano a vicenda e prese assieme definiscono una forma della vita, che conferisce validità alla massima, secondo la quale, ogni volta che noi avessimo l’intenzione di condurre un discorso, di ricevere una comunicazione e potessimo, soltanto, proseguirlo sufficientemente a lungo, dovrebbe darsi un consenso che sarebbe un consenso vero di per sé»105.
103
Cfr ibid., 337 ss. Cfr J. HABERMAS, Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 92. 105 Ibid., 93. 104
116
La situazione discorsiva ideale, dunque, si ha quando si pone in essere una simmetria piena nell’attribuzione dei ruoli del dialogo e nel compimento degli atti discorsivi. Habermas presenta quattro classi di atti discorsivi: la prima classe è quella degli atti comunicativi ed indica il senso pragmatico del discorso; la seconda è quella degli atti constatativi ed indica l’uso cognitivo della frasi; la terza è quella degli atti rappresentativi ed esprime il senso pragmatico della rappresentazione che il soggetto parlante fa di se stesso all’interlocutore; la quarta classe è quella degli atti regolativi ed indica il senso dell’uso pratico di frasi106. Gli atti discorsivi consentono di formulare la situazione discorsiva ideale107. J. Habermas approfondisce il discorso con alcune riflessioni: che una situazione linguistica ideale possa essere effettivamente realizzata non è pienamente sicuro; d’altra parte, è possibile distinguere tra un consenso argomentativo e razionale ed un consenso non libero ed ingannevole; non si può dire che in ogni caso empirico si attui la situazione linguistica ideale; ciò significa che tale situazione linguistica non è né un dato empirico né una mera costruzione astratta; essa è un’anticipazione nella comunicazione. Habermas aggiunge: «Preferisco dunque parlare di una anticipazione di una situazione linguistica ideale. Soltanto questa anticipazione è garanzia che possiamo collegare la pretesa di un consenso razionale con un consenso effettivamente conseguito; contemporaneamente essa è una misura critica con la quale si può mettere in discussione qualsiasi consenso effettivamente conseguito, e quindi verificare se è un indicatore sufficiente per un consenso fondato»108.
All’anticipazione in questione Habermas sembra attribuire un carattere normativo109. Ma lo è come può esserlo una supposizione: in questo contesto tematico è supposizione pensare che la situazione linguistica ideale non sia fittizia ma reale. È verosimile che qui sia la ragione per la quale la situazione linguistica ideale potrebbe essere paragonata ad una 106
Cfr ibid., 74. Cfr ibid., 81. 108 ACLSS 340. 109 «Il fondamento normativo della comprensione linguistica è: anticipato, ma anche attivo in quanto fondamento anticipato» (ACLSS 341). 107
117
“apparenza trascendentale”. Stando così le cose, la sua anticipazione è una apparenza costitutiva. Non c’è chi non veda che tutto questo non può condurre oltre la formulazione di una ipotesi. Conseguentemente, la certezza non sarà mai completa. Tuttavia, l’anticipazione di cui si parla è, secondo Habermas, il “filo conduttore” per superare i rischi di una comunicazione sistematicamente distorta. In tal modo, anche nella comunicazione linguistica si attua quella funzione terapeutica del linguaggio, tipica del colloquio analitico che si instaura nel rapporto medico-paziente, in cui la pretesa di verità e la pretesa di veridicità vengono soddisfatte insieme lungo lo svolgimento del discorso110. Sennonché, le idealizzazioni e l’universalizzazione, che pure portano il discorso ben oltre gli ambiti particolari ed individuali e che giustificano anche pretese di verità, non garantiscono la verità in modo assoluto. Ciò accade fondamentalmente a motivo dello iato che separa la situazione linguistica ideale e la situazione concreta di discorso e di comunicazione. Andando al particolare, non si può a meno di prendere atto di diversi dati problematici. Il primo è quello della tensione inestinguibile che si viene a determinare tra discorso ideale e discorso reale: nella realtà possono trovare possibilità e spazio di affermarsi discorsi volti tutt’altro che al consenso ed all’intesa e fortemente animati dalla logica strumentale del dominio e degli interessi111. Il secondo è quello della relatività e fallibilità delle varie pratiche discorsive concrete: i vari discorsi, alimentandosi di argomenti che oggi sono convincenti e che in seguito possono risultare infondati, rivelano l’indeterminatezza della procedura discorsiva e si dimostrano fallibili112. In forza dei convincimenti alimentati da questi e da altri dati problematici, J. Habermas assume un atteggiamento critico sia nei confronti dell’idea di “comunità ideale della comunicazione” di Peirce e di Apel, sia nei confronti della propria idea di “situazione linguistica ideale”, e le accusa entrambe di fallacy of misplaced concreteness. La ragione di ciò è nel fatto che entrambe le idee fanno pensare come raggiungibile nel tempo una situazione finale, che in effetti è irrangiungibile e, addirittura, inimmaginabile113. Quale che sia il livello di problematicità dell’intera questione, J. Habermas è convinto, a motivo dell’urgenza della domanda fondativa, 110 111 112 113
118
Cfr ACLSS 341 ss. Cfr ED 117 s. Cfr TM 215; DU 103. Cfr SE 129 s.
della necessità di andare avanti lungo il percorso dell’anticipazione della situazione linguistica ideale. La forza che sostiene il convincimento e la perseveranza di Habermas è quella stessa dei “presupposti controfattuali”, che libera i “partecipanti argomentativi” dai limiti di ogni provincialismo e li collega a “pretese di validità trascendenti”, le quali, però, non appartengono ad un “regno ideale di essenze intelligibili” ma, più modestamente, sono “sostanza idealizzante di presupposti pragmatici”114. In ogni modo, una tale situazione è sempre talmente idealizzata che, in forma piena, si pone solo nel futuro, mentre al presente si pone come semplice anticipazione. Habermas sa che lo status di questa inevitabile anticipazione non è ancora del tutto chiaro e si regge su una supposizione, ma sa pure che la prassi si fonda su questa ipotesi pratica, che così non è più soltanto nominalismo o astrazione, ma in un certo senso ed in una qualche misura è anche realtà, in quanto nella comunicazione è apparenza costitutiva e pre-apparenza di una forma di vita. Ciò significa che la situazione linguistica ideale ha in qualche modo le caratteristiche della trascendentalità. Queste possono essere riscontrate agevolmente nel fatto che ogni atto di comunicazione presuppone ed anticipa la situazione in questione115. Forse, per essere più precisi, dovremmo fare ancora ricorso al ricordato concetto habermasiano di “apparenza trascendentale”, ma non si può negare che il discorso razionale abbia nella situazione linguistica ideale una “condizione costitutiva”116. Tutto questo non risolve, secondo J. Habermas, la grande mole dei problemi concernenti la comunicazione, in quanto non si danno ancora garanzie inequivocabili che i discorsi e le comunicazioni siano veramente 114 «Io non rinuncio alla sostanza idealizzante di quei presupposti pragmatici che inevitabilmente devono contrassegnare una prassi capace di far valere solo l’argomento migliore. Una volta che non s’intenda più il concetto di verità in termini di corrispondenza, il senso incondizionato delle pretese di verità diventa spiegabile soltanto riferendoci a una “giustificazione muovente da condizioni ideali” (Putnam)» (SE 130); «Certo, i presupposti controfattuali da cui devono muovere tutti i partecipanti argomentativi dischiudono loro una prospettiva che oltrepassa il provincialismo dei loro contesti spazio-temporali e delle pratiche giustificative localmente ereditate (provincialismo cui, per altro, essi non possono sfuggire nelle azioni e nei sentimenti di tutti i giorni). In tal modo essi rendono certamente giustizia al senso di pretese di validità che sono trascendenti. Tuttavia, con queste pretese di validità trascendenti essi non si trasferiscono nell’al-di-là trascendente di un regno ideale di essenze intelligibili» (FN 383). 115 Cfr L. CORTELLA, Crisi e razionalità, cit., 109. 116 Cfr ACLSS 341.
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scevre di fenomeni di dominazione. Affinché si attui effettivamente la libertà dalle varie forme di cogenze che possono interessare l’agire, così come prevede la situazione linguistica ideale anticipata, si debbono verificare le condizioni per il “puro agire comunicativo”. Il volgersi di tutta questa materia alla prassi ed il suo proporsi secondo la dinamica della razionalità procedurale danno origine alla teoria critica della società nella particolare forma pensata da J. Habermas117. Dicendo questo, non va trascurato il fatto che il carattere procedurale della razionalità habermasiana, impegnata anche a limitare fortemente quanto del pensiero habermasiano obbedisce alla spinta delle varie tensioni di ulteriorità, non riesce ad eliminare la dimensione utopica racchiusa nell’anticipazione della situazione discorsiva ideale118.
117
Cfr J. HABERMAS, Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa, in J. HABERMAS – N. LUHMANN, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., 94. 118 Per la presenza dell’utopia nel pensiero di J. Habermas cfr G. CUNICO, Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch, Genova 1988, 23-37.
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CAPITOLO IV PRASSI COMUNICATIVA: ETICA DEL DISCORSO
L’esigenza di capire gli spessori etico e giuridico dell’esistenza può essere pienamente soddisfatta, secondo Habermas, solo all’interno dei processi della vita sociale. Il soggetto, che può a pieno titolo prendersi cura delle tensioni etiche e giuridiche della società, è il cittadino radicato nella Lebenswelt, integrato nella comunicazione pubblica ed impegnato nella politica. Come è facile notare, un tale discorso è molto vicino ad un tentativo di fondazione dei costumi, ma questa volta si tratta di fondazione postmetafisica e non più metafisica, come invece accadeva al tempo di I. Kant, ed attuata in modo procedurale e non più secondo una dinamica interiore e monologica volta a mettere d’accordo gli io empirici all’interno della coscienza trascendentale, come pure accadeva al tempo di Kant. Questo risulta essere un transito più che ovvio, se si tiene conto del fatto che Habermas supera il tradizionale paradigma della coscienza individuale e di orientamento monologico per adottare quello della coscienza collettiva e di orientamento linguistico-dialogale, che osserva ogni evento ed ogni processo dal punto di vista della comunità di discorso dei soggetti morali. A motivo di ciò, si è indotti a concentrare l’attenzione sugli aspetti concreti e prassici dell’esistenza. Di primo acchito, si sarebbe portati a valutarli come fatalmente relegati dentro i confini della particolarità; ma, Habermas, lasciandosi guidare dalla forte pretesa di universalità dell’etica, va oltre i confini ovvi del discorso1. Questo fatto consente immediatamente di fare un grande recupero circa il rapporto tra l’impostazione habermasiana e l’impostazione kantiana dell’etica: entrambe sono caratterizzate dalla razionalità. La vera differenza tra le due impostazioni etiche consiste nell’elemento discorsivo, che è proprio dell’etica habermasiana2. Se, tanto per fare un esempio, vogliamo considerare un punto preciso delle variazioni operate dalla habermasiana etica del discorso nell’etica kantiana, possiamo fermarci sulla sorte dell’imperativo categorico. Innanzitutto, Habermas sostituisce l’imperativo categorico con il 1
Cfr E. AGAZZI, Introduzione all’edizione italiana, in ED XXIX. Cfr A. PINZANI, Problemi di applicazione nella teoria discorsiva della morale e del diritto, in Ars Interpretandi 1 (1996) 56. 2
procedimento dell’argomentazione morale, che viene formulato a mo’ di principio nel modo seguente: «possono pretendere validità solo quelle norme che potrebbero trovare il consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti ad un discorso pratico»3.
In seguito, l’imperativo categorico viene configurato come un principio di universalizzazione con la funzione di regolare l’argomentazione dei discorsi pratici: «nelle norme valide devono poter essere accettati senza costrizione, da parte di tutti, i risultati e le conseguenze secondarie che derivano da una loro universale osservanza per il soddisfacimento degli interessi di ciascuno»4.
La strada maestra tracciata da J. Habermas è, dunque, la riconfigurazione della ragion pratica kantiana in ragione comunicativa e dell’imperativo categorico nell’orientamento procedurale della prassi argomentativa: chi s’impegna in essa opta per presupposti pragmatici universali e, implicitamente, anche per il principio morale, a condizione, però, che sia informato circa il senso della giustificazione di una norma d’azione5. L’etica del discorso, al fine di leggere intersoggettivamente l’imperativo categorico di Kant, fa ricorso alla teoria hegeliana del riconoscimento ma la sostanzia e la supporta con i frutti della svolta linguistica. Di conseguenza, il principio morale svela il suo senso interpretando la prassi argomentativa esercitata nella comunità dei soggetti e cogliendone le necessarie presupposizioni. Il punto di vista morale non è sottoposto all’arbitrio dell’uomo; piuttosto, deriva dalla forma comunicativa del discorso razio3 J. HABERMAS, Moralità ed eticità. Le obiezioni di Hegel a Kant sono pertinenti anche contro l’etica del discorso?, in K.O. APEL – R. BUBNER – J. HABERMAS – E. TUGENDHAT – A. WELLMER – U. WOLF, Etiche in dialogo, cit., 61. Cfr TM 8. 4 Cfr TM 8. 5 «Chiunque intraprenda sul serio il tentativo di partecipare ad una argomentazione, implicitamente aderisce a presupposti pragmatici universali che hanno un contenuto normativo; allora il principio morale si può dedurre dal contenuto di questi presupposti argomentativi, purché si sappia che cosa significa giustificare una norma d’azione» (TM 9. Cfr TH. MCCARTHY, L’illuminismo e l’idea di ragione pubblica, [1995], in R. KERNEY – M. DOOLEY (edd.), Questioni di etica, cit., 200 s.).
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nale; e, quindi, si rende presente ed operante intuitivamente in chi agisce sinceramente volto all’intesa6. Il soggetto umano, che s’impegna seriamente nelle argomentazioni, non può sottrarsi all’imperativo di programmare “in modo fattuale” le “assunzioni idealizzanti”, che sono espressioni procedurali del discorso razionale, nel quale e per mezzo del quale si esplica la prospettiva morale. Nella mente di Habermas, l’etica filosofica non ha il ruolo di fornire una fondazione ultima del mondo della vita, come se le intuizioni morali quotidiane avessero bisogno delle riflessioni del filosofo, ma risponde ad una esigenza terapeutica, già messa in evidenza da L. Wittgenstein, nei confronti delle confusioni che si sono venute a produrre in non poche persone in seguito allo scetticismo dei valori ed al positivismo giuridico, che si sono fissati come ideologie professionali e, mediante il sistema educativo pervaso di scetticismo, si sono depositati nella coscienza quotidiana7. L’etica del discorso riesce a confutare lo scetticismo etico ed il relativismo etico mediante il principio di universalizzazione, che, così, s’impone come unico principio morale dell’etica del discorso e come fattore determinante del consenso tra i partecipanti al discorso8. Tra le esigenze primarie dell’etica del discorso occorre inserire quanto segue: «(1) l’indicazione di un principio di universalizzazione che funge quale regola dell’argomentazione; (2) l’indicazione di presupposti pragmatici indispensabili e dotati di contenuto normativo dell’argomentazione in genere; (3) l’esposizione esplicita di questo contenuto normativo, per esempio nella forma di regole del discorso; e (4) la dimostrazione che fra (3) e (1) esiste un rapporto di implicazione materiale in connessione con l’idea della giustificazione di norme»9.
Ma, ovviamente, il principio di universalizzazione deve essere valido. E J. Habermas indica le condizioni di tale validità: il principio di universalizzazione viene fondato validamente mediante la “deduzione trascendentalpragmatica dei presupposti dell’argomentazione”, e cioè mediante il consenso universale dato, da parte di tutti i protagonisti di un discorso pratico, ad una norma, alla quale, per quanto ancora in discussione, viene 6 7 8 9
Cfr ED 103. Cfr ED 108 s. Cfr ED 128. Cfr ED 107.
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riconosciuta un’efficacia operativa generalizzata10. La validità in questione, dunque, esige l’idealità e l’universalità, ma anche la concretezza di ciò che si situa nell’orizzonte della Lebenswelt. Ciò equivale a dire che le condizioni dell’universalità dell’argomentazione si pongono in virtù dell’incontro tra il principio “U” (universalizzazione) ed il principio “D” (Diskursethik): il consenso di tutti i partecipanti ad un discorso pratico è il fattore trascendental-pragmatico che si pone a fondamento della validità delle norme. L’etica del discorso è, dunque, il completamento e, ancora di più, il coronamento della teoria dell’agire comunicativo. Anche se ha già rinunciato a rivendicare pretese forti, la filosofia non può sottrarsi al suo compito precipuo di essere custode della razionalità. Nell’espletare il suo articolato compito di interprete delle scienze e di garante della razionalità contro le critiche sollevate nei confronti del cognitivismo e dell’universalismo etico, di cui si ritiene custode, la filosofia segue la sua logica. La pista percorsa da J. Habermas è, come abbiamo già visto, l’introduzione del principio di universalizzazione, ricostruito ex post a partire dalle intuizioni quotidiane che si fondano sui presupposti pragmatici dell’argomentazione e che consentono di valutare in maniera imparziale i conflitti d’azione11. Le conseguenze sono notevoli: chi prende parte ai discorsi pratici fa le sue scelte, senza che con questo si spezzi il contesto oggettivo universale di riferimento; l’interesse del singolo non infrange il vincolo sociale; l’etica procedurale gradualmente lascia il punto di vista individuale ed unilaterale e si inserisce in un mondo vitale socializzato ed intersoggettivamente condiviso12. I presupposti dell’argomentazione sono universali e, dunque, chi vuole impegnarsi in essa deve fare i conti con la loro inevitabilità. I partecipanti all’argomentazione debbono trovarsi tutti in una situazione di libertà e di simmetria, in quanto nella comune ricerca della verità l’unica possibile 10 «Una norma discussa può trovare consenso fra i partecipanti a un discorso pratico soltanto se “U” è valido, cioè — se tutti possono accettare liberamente quelle conseguenze e quegli effetti secondari che si prevedono derivare, per la soddisfazione degli interessi di ciascun singolo individuo, da un’osservanza universale della norma discussa. Ma se con ciò si è dimostrato come si può fondare il principio di universalizzazione tramite la deduzione trascendental-pragmatica dei presupposti dell’argomentazione, allora la stessa etica del discorso può venir ricondotta al principio economico “D”, secondo il quale: — possono pretendere validità soltanto quelle norme che trovano (o possono trovare) il consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti a un discorso pratico» (ED 103). 11 Cfr ED 64-85. 12 Cfr ED 72 ss.
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preferenza deve essere quella riservata all’argomento migliore. In tal modo, risulta agevolmente comprensibile il fatto che il principio etico-discorsivo sia sorretto da una struttura pragmatico-universale. L’aspetto pragmatico è legato all’argomentazione libera, simmetrica e competitiva e l’universalità è legata ai presupposti universali dell’argomentazione13. Nella concezione habermasiana libertà ed uguaglianza sono le strutture portanti del piano dell’eticità; e lo sono fino al punto che, senza di esse, il discorso, nella compiutezza del suo significato, non potrebbe aver luogo14. Ne risulta la fondazione trascendental-pragmatica di una regola argomentativa, che è certamente selettiva, ma solo a livello formale. La forte attenzione al livello formale della ragione argomentativa è all’origine di qualche critica formulata nei confronti della Diskursethik di Habermas15, ma ci sembra che l’intendimento del nostro francofortese sia quello di non arrecarle alcun pregiudizio a motivo di una qualsiasi regolamentazione contenutistica. I contenuti, da parte loro, sono sempre collegati con discorsi reali o sono in qualche modo riconducibili ad essi. Il teorico della morale non può mai condurre in proprio i discorsi reali; difatti, la sua partecipazione ad essi è di mero coinvolgimento16. Ciò significa che l’etica del discorso non ha immediatamente il compito di orientare circa i contenuti, ma di stabilire le norme dell’argomentare, affinché gli interlocutori possano advenire ad un confronto tra di loro mediante il confronto delle argomentazioni. Un tale confronto presuppone un codice di comportamento, che Habermas introduce mediante l’“argomento pragmatico-trascendentale” e che costituisce il percorso obbligatorio dell’etica. La nozione di trascendentale, che viene usata in tale contesto, attesta il carattere imprescindibile del codice del comportamento discorsivo. Se ci si sottraesse ad esso, disconoscendone la necessità e l’obbligatorietà, si verrebbe travolti da una “contraddizione performativa”17. L’etica che Habermas ci propone è, dunque, un’etica del discorso, che, come tutti gli altri settori portanti della riflessione habermasiana, è
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Cfr TM 160. Cfr S. BELARDINELLI, Discorso e prassi, in Fenomenologia e Società 7 (1984) 4, 42. 15 Cfr J. GREISCH, Etica e mondi della vita, (1997), in R. KERNEY – M. DOOLEY (edd.), Questioni di etica, cit., 64. 16 Cfr ED 104. 17 Cfr ED 89 s.; L. CORTELLA, Etica del discorso ed etica del riconoscimento, in C. VIGNA (ed.), Libertà, giustizia e bene in una società plurale, cit., 231 s. 14
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procedurale e, pertanto, post-metafisica, secolarizzata e terrena18. Habermas acquisisce la prospettiva etica generale già in partenza, ma le precisazioni e gli aggiustamenti sono graduali. I passi fondamentali di un tale percorso vengono attestati dalle opere seguenti: Moralbewußtsein und kommunikatives Handeln (1983), Erläuterungen zur Diskursethik (1991), Faktizität und Geltung (1992) e Die Einbeziehung des Anderen (1996). Il francofortese ha il merito di avere coniato la figura linguistica di Diskursethik e di averla messa in circolo, ma il tema era stato avviato prima ancora da K.O. Apel nel suo scritto Transformation der Philosophie (1973)19. Ciò basta anche per comprendere che la Diskursethik affonda le sue radici anche nel grande alveo della teoria critica della Scuola di Francoforte20.
1. IL “GIUSTO” ED IL “BENE” Il percorso seguito da J. Habermas conduce nel bel mezzo della questione del rapporto che intercorre tra il “giusto” ed il “bene”, una questione molto dibattuta ai nostri tempi, in particolar modo tra comunitari e liberali, e molto importante anche per la riflessione habermasiana. Il punto maggiormente discusso, come si sa, concerne la priorità del giusto rispetto al bene. Guidato dai principi e dalla dinamica procedurale della sua prospettiva di etica del discorso, J. Habermas è ovviamente per la priorità del giusto rispetto bene, anche se, come egli stesso afferma, l’etica del discorso, sotto il profilo socio-ontologico, segue una via intermedia21. Evidentemente, il riferimento all’occupazione della posizione di mezzo non sta a significare che Habermas intenda mettere in discussione il suo convincimento circa la priorità del giusto sul bene, ma è volto solo a recare all’evidenza la sua immutata attenzione nei confronti delle ragioni della sua concezione dell’universalità fondata su fattori trascendentali, di innegabile derivazione kantiana. Tutto questo, però, lo induce a parlare dell’attivazione 18
Cfr ED 74. Cfr K.O. APEL, Transformation der Philosophie, Frankfurt a.M. 1973. 20 Cfr S. PETRUCCIANI, Etica, politica e diritto: note in margine al confronto ApelHabermas, in Fenomenologia e società 19 (1996) 1-2, 169. 21 «Intanto l’etica del discorso assume una posizione intermedia in quanto divide con i “liberali” la comprensione deontologica di libertà, moralità e diritto proveniente dalla tradizione kantiana, e con i “comunitari” la comprensione intersoggettivistica di individualizzazione come socializzazione proveniente dalla tradizione hegeliana» (TM 211). 19
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sia del giusto che del bene in una certa condizione di simultaneità. Riportiamo soltanto un breve ma eloquente testo habermasiano: «Giustizia si riferisce alle uguali libertà di individui insostituibili ed autodeterminantisi, mentre solidarietà si rapporta al benessere dei compagni affratellati in una forma di vita intersoggettivamente divisa — e quindi anche alla conservazione dell’integrità di questa stessa forma di vita. Le norme morali non possono proteggere una cosa senza proteggere l’altra: non possono tutelare gli stessi diritti e libertà dell’individuo senza tutelare il benessere del prossimo e della comunità cui l’individuo appartiene»22.
La simultaneità, che sembra essere una caratteristica tipica dell’etica habermasiana, non cancella talune caratteristiche (deontologica, cognitivistica, formalistica, universalistica), che sono comuni a tutte le impostazioni etiche che si ispirano a Kant23. La questione del rapporto tra il giusto ed il bene ha in Habermas motivazioni e finalità varie. Ne prendiamo in esame alcune. Uno scopo importante è di pervenire ad una equiparazione giuridica delle visioni del mondo, che all’interno di una società pluralistica possono essere le più varie. Il conseguimento di tale equiparazione implica, secondo Habermas, l’assunzione di una prospettiva universalistica. Per approdare a 22
TM 71. La prima caratteristica dell’etica di orientamento kantiano è quella deontologica: «Le etiche classiche si erano riferite a tutte le questioni della “vita buona”; l’etica di Kant si riferisce ancora soltanto ai problemi dell’agire retto o giusto. I giudizi morali chiariscono come i conflitti d’azione si possono risolvere sulla base di un accordo razionalmente motivato. In senso lato, essi servono a giustificare le azioni alla luce di norme valide o la validità delle norme alla luce di principi degni di essere riconosciuti. Il fenomeno fondamentale, da spiegare in termini teoretico-morali, è, cioè, il valore prescrittivo di comandi o di norme d’azione. A questo riguardo parliamo di un’etica deontologica» (TM 7). A questa caratteristica va aggiunta la dimensione cognitivistica dell’etica: «La giustezza normativa io la intendo come pretesa di validità analoga alla verità. In questo senso noi parliamo anche di un’etica cognitivistica» (TM 8). Le due precedenti dimensioni dell’etica non possono non essere accompagnate da una terza dimensione, che è quella formalistica: «L’imperativo categorico assume il ruolo di un principio di giustificazione che designa come valide le norme d’azione suscettibili di essere universalizzate: ciò che è giustificato in senso morale devono poterlo volere tutti gli esseri razionali. Sotto questo aspetto, noi parliamo di un’etica formalistica» (TM 8). L’ultima dimensione dell’etica è quella universalistica: «Universalistica noi chiamiamo, infine, un’etica la quale sostiene che questo principio morale (o uno simile) non solo esprime le intuizioni di una determinata cultura o di un’epoca determinata, ma vale universalmente» (TM 8 s.). 23
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tale prospettiva bisogna passare per l’acquisizione di una visione eticamente neutrale della giustizia. La priorità del giusto sul bene è parte integrante di tale percorso: «Senza la priorità del giusto sul bene non può neppure esistere una concezione eticamente neutrale della giustizia»24.
La logica dell’argomentazione detta legge anche in questo: «Neutralità significa anzitutto che il giusto ha preminenza sul bene — una preminenza fondata sulla logica dell’argomentazione — e dunque che le questioni di vita buona devono retrocedere dietro le questioni di giustizia»25.
Habermas ci tiene a precisare che il suo concetto di neutralità non implica l’eliminazione dell’etica dal discorso politico e, dunque, esclude che nell’offerta di senso della neutralità ci sia l’indifferenza. Se così fosse, il discorso politico non sarebbe più in grado di conferire un assetto razionale a tutto ciò che, affacciandosi sulla soglia del pre-politico per valicarla, non sia capace di riuscire nel suo intento, finendo con il ridurre le questioni del bene a questioni meramente private26. C’è un settore particolare dell’etica, che è quello dell’autocomprensione etica del genere umano nel contesto dell’ampio dibattito sulla genetica, circa il quale Habermas non è d’accordo sulla neutralità politica: le grandi civiltà e tutte le “persone morali” che vivono alla luce dei loro principi si muovono sul medesimo piano dell’universalità antropologica e, convenendo sull’idea condivisa di uomo, per la quale non ammettono alternative, non accettano la logica della moderna ingegneria genetica, che vorrebbe manipolare l’uomo al fine di dare vita ad una nuova autocomprensione etica del genere. In situazioni di grave rischio per l’uomo, come quella indicata, sono necessarie regole normative per l’intera convivenza umana. Neppure in epoca post-metafisica è possibile relativizzare e privare di efficacia le pretese di una morale universale27. Con queste ultime idee il 24 25 26 27
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IA 41. FN 366. Cfr FN 366 ss. Cfr FNU 40 ss.
nostro francofortese non rinunzia all’universalità ed alle sue esigenze sia teoretiche che pratiche: le esigenze dell’universalità vengono salvaguardate dall’universalità antropologica del genere e dal consenso tra le persone morali. Che questo fatto legittimi la messa a tema della possibilità che il fondamento della morale, anche secondo Habermas, abbia contenuti sostantivi, sia pure minimi, è, a nostro sommesso parere, un dato tutt’altro che negativo. Mentre si fanno queste affermazioni, occorre mettere in conto anche una conseguenza che inevitabilmente ne discende, e cioè proceduralità e neutralità in Habermas non hanno valore assoluto28. Non sono riuscite a porsi nella prospettiva universalistica foriera di pluralismo, di cui parla il Nostro, le concezioni neoaristoteliche, le quali, pur avendo tentato di progettare l’organizzazione della convivenza all’insegna di una morale che propone il rispetto e la solidarietà come tensioni universalistiche da attuare con equità, si sono venute a trovare davanti ad un dilemma: od offrire contenuti sostanziali e rischiare di presentarsi con il volto del paternalismo, da Habermas giudicato insopportabile, oppure rinunciarvi e finire con l’approdare all’autodistruzione mediante l’accantonamento dell’idea di bene e l’adozione dell’idea di giustizia. L’itinerario percorribile si apre, dunque, solo a livello orizzontale, che è il livello dei rapporti interpersonali e dell’imparzialità ed anche il livello in cui risulta chiaramente che «La domanda astratta del “che cosa è nell’uguale interesse di tutti” sopravanza (übersteigt) la domanda etica — contestualmente concreta — del “che cosa è meglio per noi”»29.
Questa acquisizione non impedisce di vedere la giustizia là dove il concetto di eticità viene sottoposto ad una procedura idealistica di allargamento. L’idea che la giustizia sia “ciò che è ugualmente bene per tutti”, lungi dal restringere la comprensione e l’estensione dell’idea di bene, le ingrandisce enormemente, in quanto le proietta nella direzione della solidarietà universale, e cioè oltre ogni confine e criterio di appartenenza.
28
Questa è una delle poche annotazioni che condividiamo tra le tante fatte da R. Prodromo nell’ambito tematico in questione (cfr R. PRODROMO, Habermas e la natura umana, in FQP 9 [2004] 95-101). 29 IA 42.
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Per procedere effettivamente lungo questo percorso è necessario evitare il grosso ostacolo dell’equivoco di concepire il rapporto tra giusto e bene come un rapporto tra forma e contenuto: la conseguenza, come annota Habermas citando M. Seel, sarebbe che solo il bene sarebbe meritevole di rispetto morale30. Ma, chi può sapere a priori che cosa sia il bene per ogni soggetto singolo? Bisogna, dunque, tendere al bene sussunto nel giusto. Habermas chiarisce così il suo pensiero: «Il bene che troviamo alla fine sussunto nel giusto è la stessa forma generale di una eticità intersoggettivamente condivisa, la struttura esclusivamente formale di un’appartenenza comunitaria che si è spogliata delle restrizioni di ogni comunità esclusiva»31.
In tal modo, il bene sussunto nel giusto si pone all’interno di una comunità dai tratti caratteristici non più empirici ed il soggetto razionale agisce come protagonista dell’autolegislazione propria dell’universale regno dei fini. Alla fine, però, non si può glissare sul fatto che la definizione della giustizia come “ciò che è ugualmente bene per tutti” comporta la presa d’atto del carattere improbo della fatica sia della separazione del giusto dal bene32, sia della comprensione di “ciò che è ugualmente bene per tutti” a prescindere da una concezione etica del bene33. Un altro scopo della distinzione habermasiana tra giusto e bene è quello della distinzione tra etica e morale, che è certamente un’esigenza del nostro francofortese, ma che è anche un’esigenza che scaturisce dalla tensione che si viene a determinare tra livello universale e livello pragmatico della Diskursethik. La distinzione tra etica e morale non è ovvia, ma, come dice Habermas, è una differenza che “fa la differenza” circa i modelli che si adottano per orientarsi nei meandri del dibattito contemporaneo sul multiculturalismo e sul superamento dei conflitti etnici34. Oltre a quanto viene detto più ampiamente nell’opera Moralbewußtsein und kommunika30
Cfr M. SEEL, Versuch über die Form des Glücks, Frankfurt a.M. 1995, 223; IA 43. IA 44. 32 Cfr A. FERRARA, Giustizia e giudizio, cit., 108. 33 Cfr TH. MCCARTHY, Legitimacy and Diversity: Dialectical Reflections on Analytical Distinctions, in Cardozo Law Review 17 (1996) 1083-1125; R. BERNSTEIN, The Retrieval of the Democratic Ethos, in Cardozo Law Review 17 (1996) 1127-1146; A. FERRARA, Giustizia e giudizio, cit., 108. 34 Cfr SE 24 s. 31
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tives Handeln del 198335, a cui si può attingere, riteniamo che vi siano altri luoghi habermasiani più recenti, più brevi e, forse, più efficaci. Uno di tali luoghi si trova nell’opera Die Einbeziehung des Anderen del 1996, dove così si legge: «L’etica del discorso considera il punto di vista morale come incorporato in un’argomentazione che — condotta intersoggettivamente — vincola gli interessati a un allargamento (Entschränkung) idealizzante delle loro prospettive interpretative. L’etica del discorso si appoggia alla intuizione che l’applicazione (correttamente intesa) del principio di universalizzazione richieda una “ideale assunzione di ruolo” che dev’essere condotta in comune»36.
Attenendosi a questo testo, la morale sembra essere un momento prevalentemente pratico della più ampia etica. Ci sembra che S. Belardinelli abbia colto in maniera felice questo dato quando, considerando il discorso pratico dal punto di vista della comune volontà, così si esprime: «Da questo punto di vista, nel momento in cui “si fanno dare” i contenuti dal mondo della vita, i discorsi pratici producono un allontanamento da esso, pagando in concretezza quello che guadagnano in universalità-razionalità, e sollevando così il problema del nesso tra moralità — la dimensione tipica del discorso pratico — e la più vasta dimensione dell’eticità»37.
E ci sembra che lo abbia colto ancora quando, spiegando la portata di questa astrazione, dice: «Quest’ultima [l’eticità] costituisce l’orizzonte entro il quale la prima [la moralità] attinge sia la propria concretezza […] sia la forza motivante l’azione»38.
Ancora nell’anno 1996, rispondendo, con la Replik auf Beiträge zu einem Symposion der Cardozo Law School, anche alle critiche dell’amico D. Bernstein, J. Habermas chiarisce con grande precisione la sua posizione 35 36 37 38
Cfr ED specialm. 189 ss. Cfr IA 72. S. BELARDINELLI, Discorso e prassi, cit., 39. Ibid., 40.
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circa la vicinanza e la distanza che intercorrono tra etica e morale. Egli così scrive: «Quando affrontiamo un problema morale, noi ci chiediamo quale regola corrisponda all’eguale interesse di tutti i coinvolti (dunque c’interroghiamo su che cosa sia “in egual misura buono per tutti”). Quando affrontiamo una questione etica, noi soppesiamo invece alternative d’azione assumendo il punto di vista di soggetti (singolari o collettivi) che vogliono accertarsi della propria identità, nonché sapere quale vita essi debbano condurre alla luce di ciò che sono e vorrebbero essere (dunque c’interroghiamo su “che cosa sia meglio per me, ovvero per noi, in una prospettiva globale e di lungo periodo”). Le due problematiche hanno dunque prospettive diverse. Mentre le questioni di “vita buona” muovono dalla prospettiva d’una visione di sé e del mondo caratterizzante la prima persona singolare o plurale, le questioni di giustizia sono unicamente giudicabili (in maniera imparziale) a partire da un’eguale considerazione di tutte le prospettive con cui gl’interessati interpretano sé e il mondo»39.
Insomma, alla domanda se il punto di vista morale possa essere assunto solo all’interno di una particolare visione di sé e del mondo oppure occorra estendere l’orizzonte ermeneutico fino a conseguire, mediante la gadameriana “fusione degli orizzonti”, il coinvolgimento di tutte le persone, la risposta di J. Habermas non può che essere a favore di quest’ultima alternativa. Quindi, la riflessione non concerne la questione su ciò che è “buono” per i componenti di un gruppo caratterizzato da un determinato éthos, bensì la questione su ciò che è “giusto” per tutti i soggetti idonei a parlare e ad agire o appartenenti ad una comunità giuridica di qualsiasi dimensione ed estensione. L’attenzione si concentra su prospettive il più possibile imparziali, libere, dialogali e simmetriche40. La distinzione tra etica e morale comporta una distinzione tra “orientamenti di valore”, di pertinenza dell’etica, ed “obblighi”, di pertinenza della morale. Habermas aggiunge e precisa: «E certo persino il punto di vista etico, nel concedere una relativa priorità alla questioni di giustizia rispetto alle questioni di vita buona, sembra
39 40
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Cfr SE 21 s. Cfr SE 23 s.
rendersi conto della differenza semantica esistente tra il carattere attraente dei valori e il carattere obbligante delle norme morali»41.
In ogni caso, si è davanti ad una tensione che è bene che sia sempre in atto nella concretezza dell’agire, perché, se è vero, da una parte, che la “verità analitica”, sempre che ci sia, non riesce a condurre alla comprensione della “giustezza morale” e, dall’altra, che diritto e morale presiedono alla corretta regolamentazione dei rapporti interpersonali di soggetti che vivono in un mondo oggettivo, è pur vero che nel mondo moderno, regolato dal diritto positivo, i cui ordinamenti possono anche essere artificiosi, ci si può venire a trovare in situazioni nelle quali non si dà una risposta giusta prima che i partecipanti siano pervenuti ad un accordo. Ma, venendo a mancare le risposte giuste a causa del difetto di creatività e della conseguente debolezza normativa che caratterizzano le situazioni in questione, nel caso che sia urgente prendere delle decisioni, l’agire improcrastinabile ed ineludibile sarà determinato e guidato da una premessa irrinunciabile, la «premessa della “sola risposta giusta” come una sorta di “cambiale in bianco” da onorarsi in futuro»42.
La teoria discorsiva, che propone la distinzione tra etica e morale, parla di priorità del giusto sul bene, ma mantenendo le questioni di giustizia legate ad una prospettiva dinamica43, in maniera che le differenze non annullino le somiglianze, e viceversa.
2. MORALE E DIRITTO Secondo Habermas, la sociologia comparata del diritto reca all’evidenza il fatto che, nonostante l’autodifferenziazione del diritto, e cioè nonostante il fatto che il diritto abbia perduto la sua dignità metafisica e la sua conseguente invulnerabilità rispetto all’approccio critico, non si arriva mai a separare politica e morale. La storia dell’Europa dal Medioevo al
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IA 41. SE 46. Cfr SE 24.
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Settecento è segnata da questo fatto e dalle sue conseguenze44. La storia attesta anche la separazione tra diritto e morale, che ha luogo nell’età moderna, quando, in seguito all’introduzione delle libertà soggettive, si è affermata, come dice Habermas tenendo presente il pensiero di I. Maus, il principio di Hobbes: “è permesso ciò che non è esplicitamente vietato”. Di conseguenza, la limitazione legale delle libertà soggettive non avviene più in forza delle norme morali, tradizionalmente dotate di validità illimitata nel tempo e nello spazio, ma solo in forza di diritti soggettivi45. La trattazione della questione del rapporto tra morale e diritto è, sotto ogni aspetto, rilevante ed interessante anche per ed in Habermas. Esaminando il pensiero di M. Weber, un autore a cui fa spesso riferimento, il nostro francofortese prende nota di un dato che ha, anche per lui, la massima importanza, e cioè la razionalità. Il Weber qualifica come infausta la moralizzazione del diritto, che si verifica, oltre che nelle epoche ricordate un po’ supra, anche nell’età contemporanea, e si pronunzia a favore della separazione tra diritto e morale. Dal punto di vista weberiano, il diritto, se perde la sua formalità, cosa che accade quando entra in una relazione immanente ed intrinseca con la morale, perde anche la sua razionalità46. J. Habermas, da parte sua, non è così radicale, ma, seguendo la linea procedurale, evita di subordinare unilateralmente il diritto alla morale. J. Habermas affronta il problema del rapporto tra morale e diritto in vari contesti. Ricordiamo in modo particolare il contesto della legittimità della legalità, quello della giustificazione dell’autonomia del sistema giuridico e quello dell’applicazione delle regole rispettive da parte del diritto e della morale. a) Contesto della legittimità della legalità. In tale contesto, che concretamente si configura in termini di giustificazione procedurale, la legittimità non si spiega sulla base della razionalità, concepita come autonoma, moralmente indifferente ed intrinseca alla dimensione formale del diritto, ma sulla base della relazione interna che sussiste tra morale e diritto. In ogni caso, però, deve essere chiaro che non si tratta di subordinazione del diritto alla morale, ma neppure di interpretazione pre-politica della socializzazione.
44 45 46
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Cfr MDP 54 s. Cfr IA 217. Cfr MDP 5 ss.
Il francofortese costruisce questo suo convincimento mediante una riflessione ponderata. Nella modernità gli ordinamenti giuridici, a differenza che nel passato, seguendo il già ricordato principio hobbesiano, secondo cui “è permesso tutto ciò che non è esplicitamente vietato”, sanciscono il diritto delle libertà soggettive di esprimersi con piena autonomia. La conseguenza è la separazione tra diritto e morale: entrambi concernono il nostro agire, ma, mentre il primo ci pone di fronte a ciò a cui siamo autorizzati, la seconda ci pone di fronte ai nostri obblighi, ed ancora, mentre i doveri giuridici si pongono in contesto di limitazione delle libertà soggettive, i diritti morali si pongono in contesto di doveri reciproci47. In altri termini, negli stati costituzionali moderni la morale ha lo scopo di obbligare, il diritto, invece, ha lo scopo di autorizzare48. Nella mente di Habermas, diritto e morale sono complementari. Hanno certamente estensione e comprensione diverse, ma da questo fatto non discende la superiorità dell’una sull’altro o viceversa, come, ad esempio, una possibile fondazione morale del diritto, in quanto, nel processo decisionale del soggetto, morale e diritto si integrano e, quindi, il loro rapporto è quello della co-originarietà49. In forza di ciò, il diritto non ha bisogno di essere supportato dalla morale: esso fruisce di una validità adeguatamente garantita dalla razionalità procedurale del legislatore e, quindi, può operare nella storia libero dallo schermo del decisionismo e dalla protezione determinante della morale50. Con ciò Habermas, da una parte, supera i confini del giusnaturalismo ed evita il caos di una convivenza caratterizzata dall’irrazionalità e, 47
«Si produce così una separazione tra diritto e morale. Mentre la morale ci dice innanzitutto ciò a cui siamo obbligati, la struttura del diritto dà un primato a ciò che siamo autorizzati a fare. Mentre i diritti morali discendono da doveri reciproci, i doveri giuridici sono derivati dalla limitazione giuridica delle libertà soggettive. Questo privilegiamento categoriale dei diritti rispetto ai doveri si spiega con le moderne concezioni della persona e della comunità giuridica» (J. HABERMAS, Legittimazione in forza dei diritti umani, in Fenomenologia e Società 20 [1997] 2, 4). 48 Cfr IA 217; V. MARZOCCHI, Legittimazione o difesa funzionale dei diritti umani?, in Fenomenologia e società 20 (1997) 2, 14. 49 Cfr A. FERRARA, Giustizia e giudizio, cit., 80; A. NUGNES, Diritto, morale, politica: tra autonomia e interferenza. Il proceduralismo di Jürgen Habermas, cit., 924. 50 «Se la legittimità d’un diritto coercitivo fondamentalmente rivedibile viene concepita in termini di razionalità procedurale — e da ultimo ricondotta a un arrangiamento comunicativo adatto alla ragionevole formazione politica della volontà legislativa (e all’applicazione del diritto) — non avremo più bisogno né di far sparire in cieco decisionismo l’indisponibile momento della validità giuridica né di sottrarlo al vortice della temporalità attraverso argini morali» (FN 536).
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dall’altra, dimostra di puntare decisamente all’organizzazione della società alla luce del pluralismo etico, del criterio giuridico-morale della giustizia e della cultura di maggioranza51. Dal punto di vista di Habermas, questo fatto non comporta l’abbandono, da parte degli stati costituzionali moderni, della tensione della moralità e del riferimento a grandi riserve morali. Ne è prova l’esigenza di lasciare aperta alla moralità, anche dopo il transito dalla prospettiva metafisica alla prospettiva linguistico-argomentativa, la giustificazione delle procedure giuridiche. E ciò si nota non pure nel fatto che i principi del diritto naturale hanno assunto, negli stati costituzionali testé ricordati, la figura del diritto positivo, ma anche nel fatto che la legittimità della legalità viene fondata, più che su una razionalità moralmente neutra, intrinseca al diritto, sulla relazione interna che congiunge diritto e morale. Ma, un fatto così particolare non è senza conseguenze, in quanto attesta che le procedure giuridiche hanno, anche se in coordinate storicoculturali-concettuali nuove, modalità giustificative istituzionalizzate sensibili ai livelli morali dei discorsi52. È così che, per Habermas, nel diritto entra una razionalità procedurale di tipo morale53 ed i principi della legittimazione debbono essere colmi di contenuto morale54. L’ordinamento statale in ogni tempo ed in ogni luogo ha sempre avuto bisogno di legittimazione. E ciò va detto sia per la sua conservazione che per il suo funzionamento. Ad Habermas sembra ovvio sostenere che la legittimazione politica segua i ritmi dell’evoluzione giuridica. Gli stati moderni, considerati anche come figure razionali di organizzazione dello spazio socio-politico, hanno fatto ricorso al medium del diritto, il quale non ha trascurato alcuna occasione per esprimere fortemente la sua pretesa di legittimità. In tali stati il potere politico ha assunto la forma di diritto positivo, il quale implica sia la componente della statuizione che la componente della costrizione. Se ci fermiamo a considerare con maggiore attenzione gli ordinamenti giuridici moderni, ci rendiamo subito conto del fatto che essi si fondano in misura consistente su diritti soggettivi55. Il concetto di diritto soggettivo fa riferimento alla libertà d’azione individuale ed ai diritti individuali ad essa connessi, in forza dei quali ed all’interno dei quali un 51 52 53 54 55
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Cfr L. CEPPA, Postfazione a CPN 129. Cfr MDP 17 s. Cfr MDP 76. Cfr MDP 16 s. Cfr FN 9-53.
soggetto ha libertà d’azione56. Da questo fatto consegue, per la persona singola, la liberazione da ogni genere di vincoli, inclusi i vincoli morali. Non si tratta di una liberazione assoluta, ma, come abbiamo già osservato, dell’affermazione della libertà soggettiva. Una delle conseguenze più appariscenti del fatto che i principi di legittimazione debbono avere, secondo Habermas, un solido contenuto morale, è sul fronte dell’universalità. L’universo morale, essendo in ogni senso illimitato, riguarda tutte le “persone naturali”; il diritto, invece, riferendosi ad una comunità, quella giuridica appunto, ben circoscritta nel tempo e nello spazio, tutela i suoi membri, ma esclusivamente nella loro qualità di titolari di diritti soggettivi57. E non può essere diversamente, se è vero che, mentre la morale, che rispecchia una volontà universale e riguarda gli interessi di tutti, si occupa dell’interazione in generale, il diritto, che ha come origine la volontà particolare dei membri di una comunità giuridica storicamente situata, funge da medium dell’organizzazione di comunità giuridiche situate socialmente e storicamente58. Una della ragioni di tale differenza consiste nel fatto che, mentre la morale riguarda ogni soggetto capace di linguaggio e di azione, il diritto si estende ad un gruppo di persone storicamente situato. A questa ragione se ne collega un’altra, cui abbiamo accennato un po’ supra: mentre per la morale, dato il suo carattere universale, non è a tema l’atto del “decidersi”, per il diritto, che è legato a decisioni subordinate al tempo ed allo spazio e dal punto di vista normativo è casuale, ci si deve decidere59. L’idea habermasiana della co-originarietà di diritto e morale viene fatta oggetto di critiche da parte di K.O. Apel, il quale, argomentando sulla base del carattere moralmente normativo del principio di discorso, che egli ha in comune con Habermas, collega il diritto alla morale mediante il principio di responsabilità. Secondo Apel, il principio di diritto, a differenza del principio morale che è il solo a derivare direttamente dal principio di discorso, ha la funzione di regolare il carattere normativo degli altri due principi60. Dal punto di vista dell’ortodossia habermasiana, le idee di cooriginarietà e di complementarità in questione ricevono costante conferma. 56 57 58 59 60
Cfr FN 103 s. IA 217. Cfr FN 181. Cfr SE 63. Cfr K.O. APEL, Discorso, verità, responsabilità, cit., 265 ss.
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S. Petrucciani osserva che ciò accade perché in Habermas prospettiva “descrittiva” e prospettiva “normativa” si integrano fino al punto che è difficile separarle nettamente. Ma, aggiunge che co-originarietà e complementarità, approfondite nel rapporto che intercorre tra diritto e morale, potrebbero risultare problematiche fino ad arrivare alla subordinazione del diritto alla morale, cosa che Habermas ipotizza ed esclude immediatamente, o anche fino alla possibilità dell’insorgere di contrasti, come egli stesso sostiene. J. Habermas si esprime con le parole seguenti: «Quest’intuizione non è del tutto sbagliata, dal momento che un ordinamento giuridico può essere legittimo solo se non contraddice principi morali. Tramite la componente di legittimità della validità giuridica, il diritto positivo porta sempre dentro di sé un incancellabile riferimento alla morale. Ma questo riferimento alla morale non deve indurci a subordinare il diritto alla morale nel senso di una gerarchia tra norme. L’idea di una “gerarchia delle fonti” appartiene al mondo del diritto premoderno. Piuttosto, la morale autonoma da un lato e il diritto positivo (sempre bisognoso di fondazione) dall’altro si collocano in un rapporto di complementarità»61.
È riflettendo su questo testo che il Petrucciani esprime le perplessità testé ricordate nei confronti della posizione di Habermas62. Se si esclude la subordinazione, come sembra habermasianamente corretto, e si accetta la tesi della complementarità, ci si potrebbe venire a trovare di fronte a rette parallele, ovviamente in rapporto di reciproco supporto, ma non per questo senza rischi di tensioni e di contrasti. b) Contesto dell’autonomia del sistema giuridico. In questo secondo contesto J. Habermas ritiene che la giustificazione dell’autonomia giuridica debba essere aperta all’argomentazione morale, altrimenti si rischia di trovarsi di fronte ad una autonomia meramente sistemica. L’autonomia in questione correttamente intesa esige l’imparzialità del giudizio e della volontà, che è una condizione conseguita mediante una razionalità procedurale di tipo morale. Ma, a questo punto, l’autonomia del diritto si pone contestualmente alla realizzazione della democrazia63. 61
FN 130. Cfr S. PETRUCCIANI, Sul rapporto tra morale e diritto in Fatti e norme di Habermas, in Fenomenologia e società 20 (1997) 2, 55 s. 63 «Se ci precludessimo quella dimensione per la quale i percorsi giuridicamente istituzionalizzati della giustificazione si dischiudono all’argomentazione morale, noi non 62
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Un aspetto importante del rapporto che intercorre tra diritto e morale si nota nel settore internazionale dei diritti umani, in cui si avverte la tensione fra tre fattori: l’esigenza morale di rispettare i diritti umani, la debolezza della fondazione della legittimità normativa dell’obbligo giuridico degli stati di curare il rispetto dei diritti umani, il monopolio della forza nell’imporre l’obbligo di rispettare i diritti umani e di sanzionare penalmente le violazioni di essi. L’inadeguatezza dell’istituzionalizzazione si nota nel continuo variare delle dimensioni della divaricazione tra “legittimità” ed “efficacia” del diritto cosmopolitico. Da una tale situazione, discende il fatto che la questione dei diritti umani venga portata avanti secondo una logica di potere, tipica della Machtpolitk, o secondo una logica legata al parametro morale della propria politica, come accade nell’atteggiamento “paternalistico” della grande potenza. Ma ciò rivela aspetti molto discutibili dell’intera questione, come i seguenti: i diritti umani non vengono né proposti né difesi in forza della loro portata giuridica; tra destinatari ed autori dei diritti umani non c’è coincidenza. Del resto, se non c’è armonia tra legiferazione democratica ed applicazione coercitiva, il livello normativo, che porta all’imposizione dell’osservanza dei diritti umani ed alla sanzione penale delle loro violazioni, sarebbe sempre un’imposizione forzata. Nelle questioni di diritto, e non solo, l’alto valore morale dei contenuti non basta a dare ai principi ampiamente proclamati portata normativa universale. Affinché ciò accada, occorre che i principi in questione vengano affermati in senso giuridico preciso e con modalità democratiche64. c) Contesto della concretezza dell’applicazione delle regole rispettive da parte del diritto e della morale. In quest’altro contesto la differenza tra diritto e morale è più accentuata nelle regole generali. La comunicazione morale si limita al mondo della vita; il linguaggio del diritto, invece, può assumere la funzione di fattore di trasformazione all’interno della circolazione comunicativa che si viene a creare tra sistema e mondo della vita65.
saremmo più in grado di distinguere l’autonomia del diritto dalla sua mera ‘autonomia sistemica’. Il sistema giuridico non conquista la sua autonomia soltanto per sé. Autonomo esso lo è soltanto nella misura in cui le procedure istituzionalizzate della legislazione e della giurisdizione garantiscono un’imparziale formazione del giudizio e della volontà, facendo così penetrare nella politica non meno che nel diritto una razionalità procedurale di tipo morale. L’autonomia del diritto non può esistere senza la realizzazione della democrazia» (MDP 76). 64 Cfr TP 17-21. 65 Cfr FN 101.
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Ciò si nota in diversi ambiti. Il primo è il piano del contenuto. Le norme morali si riferiscono ad interessi e valori suscettibili di universalizzazione. Questo fatto, secondo Habermas, esige che tali norme vengano interpretate deontologicamente ed esclude la loro interpretazione teleologica. Le norme giuridiche, a differenza di quelle morali, hanno una impostazione teleologica e, quindi, si riferiscono a determinati interessi e valori della comunità. Non ne consegue alcun impedimento per l’attribuzione a tali norme del qualificatore “generali”, come è per quelle morali. Ciò deve essere sostenuto sia perché le norme giuridiche sono indirizzate ad un numero indeterminato di destinatari ed escludono ogni eccezione, sia perché sul piano della parità dell’applicazione giuridica, pur essendo destinate, a differenza di quelle morali che hanno come destinatari tutti gli uomini, alla sola comunità giuridica, esse operano a favore dell’uguale interesse dei membri di tale comunità. Tuttavia, l’affermazione della estensibilità del concetto di generalità così al diritto come alla morale non impedisce di annotare che nelle due applicazioni in questione il concetto di generalità ha comprensione diversa. Il secondo è il piano della validità. Se le norme morali sono valide a motivo della loro conformità alla giustizia, le norme giuridiche lo sono quando si trovano in sintonia con le norme morali e quando, prendendo in seria considerazione la comprensione autentica che la comunità giuridica ha di se stessa, l’equità dei valori e degli interessi in essa presenti e la scelta razionale rispetto allo scopo degli strumenti idonei, risultano legittime. Il terzo piano è quello della modalità della legislazione. Il processo di legislazione è caratterizzato dalla teleologia. Se questo deve essere detto delle norme morali della convivenza razionale di soggetti che parlano e che agiscono, in quanto, oltre ad essere scoperte, vengono anche costruite, a maggior ragione deve essere detto di tutte le altre norme che regolano la progettazione dell’agire dei medesimi soggetti66.
3. UN “CONCETTO RISTRETTO DI MORALE” V. Possenti fa, nei confronti della concezione habermasiana dell’etica, una annotazione, che, benché di livello iniziale, è di non piccolo momento: a suo dire, si tratta di una concezione etica fragile. E, dicendo ciò, la colloca all’interno della sua generale valutazione delle più recenti 66
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Cfr FN 180-188.
prospettive etiche, circa le quali formula delle osservazioni fortemente critiche: la complessa esperienza morale umana non viene pienamente accolta67; l’analisi linguistica e l’articolazione dell’argomentazione non riescono a nascondere i limiti della capacità di cogliere l’essenziale, come si può notare nella separazione dell’etica dalla metafisica e dalla religione, nell’incremento dell’elemento procedurale, nel concentrarsi dell’attenzione sull’etica pubblica, nella conferma della valutazione di origine nietzscheana dell’irrazionalità dei fini e dei valori68. Le perplessità intorno alla visione etica di Habermas, sulla quale queste annotazioni critiche danno sufficienti indicazioni, vengono riassunte in una domanda: l’etica filosofica, se prescinde dalle tradizioni morale, metafisica e religiosa, può dare un solido fondamento alla vita pratica? La risposta del Possenti equivale ad una sentenza di condanna: l’etica separata dalla metafisica non è in grado di rendere conto dell’intera verità del bene e dell’azione69. In particolare, non è in grado di renderne conto nelle procedure pubbliche, confinata com’è nel mondo della vita, che è al di fuori della competenza della ragione procedurale. Oltretutto, un’etica che viene metodologicamente sostenuta dalla discussione non sembra adeguata a risolvere i problemi etici sia dell’individuo che della società70. Un’etica così fragile ha bisogno del diritto e della sua capacità normativa e costrittiva71. Pur riconoscendo la validità teoretica di alcune difficoltà formulate dal Possenti circa l’impostazione habermasiana dell’etica del discorso, ed in particolare di quelle concernenti la sua fragilità, non possiamo seguirne fino in fondo la logica. Infatti, Habermas stesso dice che il suo intendimento è quello di proporre un “concetto ristretto di morale”. Egli sa che la pista da lui percorsa è una pista non metafisica e, di conseguenza, è consapevole di sottoporre ad autolimitazione la sua riflessione. Insomma, Habermas è convinto che l’etica del discorso non riesce a risolvere tutta una serie di problemi. Per spiegarsi, dice che, se si assumesse la prospettiva dell’etica 67
Cfr V. POSSENTI, Etiche del discorso/comunicazione (Apel/Habermas), in C. VIGNA (ed.), Etica trascendentale e intersoggettività, cit., 420. Per ulteriori annotazioni sull’impostazione etica di Habermas cfr V. POSSENTI, Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, Roma 2004, 217-238. 68 Cfr V. POSSENTI, Etiche del discorso/comunicazione (Apel/Habermas), in C. VIGNA (ed.), Etica trascendentale e intersoggettività, cit., 421. 69 Cfr ibid., 435 s. 70 Cfr ibid., 453. 71 Cfr ibid., 439 s.
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deontologica, si scoprirebbe che il fulcro di questa impostazione è piuttosto ristretto a motivo delle decise astrazioni cui è sottoposto. Tra le conseguenze di questo fatto troviamo quanto segue: la necessità di sostituire la ragion pratica con una facoltà idonea a formulare un giudizio prudenziale; la problematicità della possibilità in generale di calare nella prassi la morale universalistica; la fragilità argomentativa della giustificazione morale dell’agire politico interessato a creare rapporti sociali in cui sia possibile acquisire discorsivamente le cognizioni morali e dare ad esse efficacia pratica. Habermas continua il suo discorso dicendo che, se si assume la prospettiva teleologico-oggettiva, l’etica del discorso, che procede guidata dalla logica del consenso che tutti i partecipanti di volta in volta esprimono, non ha altro destino che quello di finire dentro le secche dell’oscenità tipica di ogni forma di consenso controfattuale post mortem. Ai punti precedenti del suo discorso Habermas ne aggiunge un altro concernente la domanda fondamentale dell’etica ecologica: come può una teoria, destinata ai soli soggetti parlanti, mettersi dalla parte della creatura “muta”? La risposta a tale domanda in termini di mera compassione a J. Habermas sembra, per un verso, caratterizzata da autentiche intuizioni morali e, per un altro verso, segnata da una forma di narcisismo collettivo, dovuto sia all’origine antropologica delle intuizioni morali in questione, sia all’impossibilità di soddisfarle veramente72. A ragioni come queste non può non essere associato, secondo Habermas, il ricordato “concetto ristretto” di morale. Il francofortese scrive: «Al concetto ristretto della morale deve corrispondere un’autocomprensione modesta della teoria morale. Ad essa pertiene il compito di chiarire e fondare il moral point of wiew. Dalla teoria morale si può pretendere e aspettarsi che essa chiarisca il nucleo universale delle nostre intuizioni morali e con ciò confuti lo scetticismo dei valori. Oltre a ciò essa deve però rinunciare a propri contributi sostanziali»73.
Ovviamente, la teoria morale non è inutile per la ragione che assolve il compito di vincere la grave tentazione dello scetticismo circa i valori, però 72
Cfr J. HABERMAS, Moralità ed eticità. Le obiezioni di Hegel a Kant sono pertinenti anche contro l’etica del discorso?, in K.O. APEL – R. BUBNER – J. HABERMAS – E. TUGENDHAT – A. WELLMER – U. WOLF, Etiche in dialogo, cit., 72 s. 73 Ibid., 73 s.
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non deve avanzare pretese determinanti nei confronti della vita e della prassi. E, se rimanessero dei dubbi, il Nostro aggiunge altre considerazioni ed altre precisazioni: il filosofo morale non ha a disposizione itinerari privilegiati per pervenire alle verità morali; la sua concezione restrittiva dell’etica filosofica può risultare deludente, ma, se è vero che la filosofia non esenta nessuno dalle proprie responsabilità, una concezione filosofica, ancorché restrittiva, è sempre uno stimolo; d’altronde, anche i filosofi morali, se intendono conoscere adeguatamente questioni pratico-morali complesse, è bene che facciano tesoro dei contributi delle scienze storiche e sociali, che in tali ambiti possono rivelarsi più utili della stessa filosofia74.
4. IL “PUNTO DI VISTA MORALE” Tra le varie critiche, di cui è fatta oggetto l’etica del discorso di J. Habermas, ha un grande peso quella di formalismo, che è legata alla proceduralità. K.O. Apel ha approfondito questo punto, formulando una serie di rilievi nei confronti di Habermas e mettendo in evidenza soprattutto il limite seguente: l’incapacità di andare oltre la pragmatica e di pervenire ad un principio etico normativo, colto cognitivisticamente e dotato del carisma dell’universalità, e cioè dotato di una validità a priori. Per poter procedere in questa direzione, l’Apel ritiene necessaria la “pretesa pragmatico-trascendentale di fondazione ultima”. Ciò non significa accedere ad un’etica di tipo “deontologico”, che lo stesso Apel rifiuta perché la ritiene in continuità con l’“etica formale della volontà buona” di tipo kantiano, ma significa transitare ad un’etica della responsabilità, la quale implica non solo il superamento dell’etica dell’intenzione ma anche l’accesso ad un’etica che gode del beneficio di una “fondazione ultima” e che ha insita in sé la capacità della confutazione dello scetticismo e del relativismo in campo morale75. Qualche altro studioso vede la soluzione del problema nel superamento delle strutture meramente formali dell’intesa. La via sarebbe quella dell’integrazione delle procedure di giustizia, che sono di tipo fenomenologico, con una visione sostantiva del bene, che però non sia l’asso74
Cfr ibid., 74. Cfr K.O. APEL, Limiti dell’etica del discorso? Tentativo di un bilancio intermedio, in K.O. APEL – R. BUBNER – J. HABERMAS – E. TUGENDHAT – A. WELLMER – U. WOLF, Etiche in dialogo, cit., 31 ss. 75
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lutizzazione di una sola concezione del bene e non si sottragga alla dimensione ed alla verifica comunitaria76. J. Habermas, da parte sua, trova la soluzione in ciò che egli stesso chiama il “punto di vista morale”77, che, in quanto è indisponibile, non è frutto di conquista, ma s’impone da sé. Tutto questo, però non significa che ci sia un sistema morale precostituito indipendentemente da noi. Indisponibile al nostro intervento è soltanto l’insieme delle “strutture” e delle “procedure argomentative” che presiedono alla formazione delle norme che regolano la convivenza segnata dalla giustizia. Preferiamo dare la parola ad Habermas: «Perciò il riscatto discorsivo delle pretese di verità oggettiva ha un significato diverso dal riscatto delle pretese-di-validità-morale. Nel primo caso, il consenso discorsivo conferma che sono soddisfatti i requisiti di verità interpretati come requisiti di affermabilità; nel secondo caso, il consenso discorsivo giustifica la meritevole accettabilità di una norma contribuendo esso stesso al soddisfacimento dei requisiti di validità di questa norma. Mentre l’accettabilità razionale indica soltanto la verità delle proposizioni assertorie, essa porta invece un contributo costitutivo alla validità delle norme morali. Nell’intuitiva conoscenza morale, “costruzione” e “scoperta” risultano intrecciate in modo diverso che non nell’oggettiva conoscenza teoretica. Ciò su cui non abbiamo disponibilità è il punto di vista morale: esso si impone al nostro modo di vedere le cose. Ma non per questo dobbiamo credere che esista, indipendentemente dalle nostre descrizioni, un ordinamento morale precostituito. Non il mondo sociale in quanto tale è sottratto al nostro potere di disposizione, bensì le strutture e le procedure argomentative che servono a produrre (non meno che a scoprire) le norme di convivenza giusta. Il senso costruttivistico di questa formazione del giudizio morale — pensata secondo il modello dell’autolegislazione — non deve mai andare perduto. D’altro canto esso non deve nemmeno distruggere il senso epistemico delle fondazioni morali»78.
Ciò che Habermas vuole dire ci sembra evidente, ma evidente ci sembra pure quella certa ambiguità che, fino a questo punto della riflessione
76
Cfr F. TOTARO, Linee di ricerca sulla solidarietà, in C. VIGNA (ed.), Libertà, giustizia e bene in una società plurale, cit., 84 s. 77 Cfr IA 51-60. 78 IA 52 s.
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habermasiana, fa pensare alle leggi morali ora come a qualcosa da scoprire, ora come a qualcosa da produrre. J. Habermas procede nella sua riflessione per la ragione che ciò che gli preme in modo particolare è la debolezza della teoria morale sul fronte della fondazione del “punto di vista morale”. Innanzitutto, ci pare opportuno prendere atto di ciò che egli intende per punto di vista morale: «Il punto di vista da cui si possono valutare imparzialmente le questioni morali noi lo chiamiamo “punto di vista morale” (moral point of view)»79.
Habermas sente il bisogno di confrontarsi con alcuni grandi autori che hanno riflettuto sullo stesso tema: con J. Rawls, il quale, proponendo la sua “posizione originaria”, pone le parti contraenti in condizioni paritetiche, al fine di consentire loro di prendere razionalmente le decisioni, ma non considera lo status sociale in cui si trovano80; con G.H. Mead, il quale propone un’assunzione ideale di ruoli, tesa a collocare il soggetto, che formula il giudizio morale, nella situazione di tutti quelli che sarebbero interessati dalle conseguenze di azioni problematiche o di norme discutibili81. In alternativa a queste costruzioni etiche, che non esita a caratterizzare con il qualificatore formalistiche, Habermas preferisce quella che egli chiama “procedura del discorso pratico”, che implica fattori importanti. Il primo gruppo di fattori può essere espresso nel modo seguente: nella ricerca cooperativa della verità, i partecipanti alle argomentazioni debbono lasciarsi guidare dall’idea programmatica che, in un convivenza di soggetti liberi ed uguali, l’unica forza efficace è quella dell’argomento migliore. Quanto al secondo gruppo di fattori, è importante notare che, secondo Habermas, il discorso pratico viene riconosciuto come una forma efficace della capacità argomentativa della volontà se gli interlocutori si lasciano condurre da “supposizioni idealizzanti” e se esso fruisce di “presupposti comunicativi universali” idonei a garantire la correttezza della prassi argomentativa82. In termini più sintetici, Habermas ritiene che il discorso pratico sia in grado di produrre l’argomento migliore in quanto è sostenuto ed 79
TM 9. Cfr J. RAWLS, Una teoria della giustizia, cit. 81 Cfr G.H. MEAD, Mente, sé e società, cit. 82 «Il discorso pratico viene considerato una forma esigente di formazione argomentativa della volontà che (come la posizione originaria di Rawls) solamente sulla base di 80
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alimentato dalle “supposizioni idealizzanti” dei protagonisti della prassi argomentativa e, in definitiva, in quanto si fonda su “presupposti comunicativi universali”. Per pervenire alla fondazione in questione, il Nostro osserva lo spazio della convivenza dove s’impone l’esigenza fondamentale di risolvere i conflitti. Posta l’esigenza di pervenire ad una intesa reciproca, verificata l’impossibilità di conseguire un consenso sostanziale sui contenuti e scartate le linee operative della violenza e del compromesso, Habermas cerca di mettere in evidenza un dato sul quale gli interessati possono trovarsi d’accordo. Si tratta di uno spazio di neutralità, che è ben altro che un limbo, in quanto costituisce uno spazio fecondo: dato che tutti gli interessati prendono parte a forme di vita comunicativa linguisticamente strutturate e volte all’intesa, è ovvio chiedersi se nella struttura di tali forme non siano implicati livelli normativi idonei a dare vita ad orientamenti comuni83. J. Habermas coglie contenuti normativi di questo genere nelle impostazioni di Hegel, Humboldt e Mead, ma si vede costretto ad annotare immediatamente che ciò che emerge da queste e da altre simili impostazioni non riesce a giustificare il transito da orientamenti particolaristici a rapporti di riconoscimento dotati di tanta simmetria quanta ne sarebbe richiesta da un universalismo egualitario vero e proprio. Aggiunge che l’universalismo morale non può non fare tesoro di quanto emerge dalle teorie della comunicazione: deve riconoscere sia il valore dell’uguaglianza delle persone che il valore dell’individualità originaria ed irriducibile di ciascuna di esse; tale valore deve essere attuato escludendo ogni possibile figura totalitaria ed adottando la figura dell’“inclusione dell’altro”. Nel contempo, J. Habermas parla del fatto che il fallimento dei vari tentativi di ricerca del bene comune fa pensare al carattere generale, avulso ed astratto del contenuto normativo dei presupposti all’agire comunicativo. Infine, non può non constatare che gli presupposti comunicativi universali deve garantire la giustezza (o lealtà) di ogni accordo normativo possibile a queste condizioni. Questo ruolo il discorso può svolgerlo in virtù delle supposizioni idealizzanti che i partecipanti devono effettivamente fare nella loro prassi argomentativa» (TM 10). 83 «Gli interessati si vedono ora relegati nella situazione — in certo qual modo “neutrale” — per cui ciascuno di loro condivide una qualche forma di vita comunicativa, strutturata dall’intesa linguistica. Siccome queste forme di vita e questi processi d’intesa hanno in comune determinati aspetti strutturali, gli interessati potrebbero anche chiedersi se in questi aspetti non si celino contenuti normativi capaci di prestare fondamento a orientamenti comuni» (IA 54).
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elementi comuni della prassi sono ridotti alle qualità formali della situazione dibattimentale. A questo punto, Habermas vede aprirsi davanti a sé, come possibilità per procedere nella fondazione teorica del punto di vista morale, la via dell’analisi della “struttura interna della prassi dibattimentale”. I passi da compiere lungo questa via sembrano essere tre. Il primo viene sinteticamente ricondotto al principio di discorso “D”, che abbiamo visto un po’ supra: «possono pretendere validità solo quelle norme che nei discorsi pratici potrebbero trovare l’approvazione di tutti gli interessati. In questa prospettiva, l’“approvazione” [Zustimmung] prodotta in condizioni discorsive equivale a un consenso [Einverständnis] motivato da ragioni epistemiche»84;
il secondo implica aspetti fondamentali del principio di universalizzazione “U”, che abbiamo incontrato pure un po’ supra: «una norma è valida soltanto quando le prevedibili conseguenze, ed effetti collaterali, che la sua generale osservanza verosimilmente produrrebbe sulle situazioni d’interesse e sugli orientamenti di valore di ciascun singolo individuo, potrebbero essere liberamente e collettivamente accettate da tutti gli interessati»85;
il terzo può essere espresso nel modo seguente: in una prassi argomentativa universalmente diffusa ed insostituibile, la presenza di un fattore di parzialità, e cioè di un fattore che può compromettere l’attivazione del principio “U”, può essere neutralizzata rendendo «plausibile la spiegazione del “punto di vista morale” in una maniera “immanente”, ossia partendo dalla conoscenza di ciò che uno fa quando si affida (in generale) a una prassi argomentativa. Pertanto, l’idea di fondazione proposta dall’etica discorsiva ritiene che il principio “U” possa essere ricavato, in collegamento [in Verbindung mit] all’idea generale di fondazione normativa espressa da “D”, a partire dal contenuto implicito dei requisiti generali dell’argomentazione»86.
84 85 86
IA 56. IA 57. IA 57 s.
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L’affidamento ad una prassi argomentativa implica una pregiudiziale, e cioè l’orientamento all’intesa quale legame tra i partners della stessa prassi argomentativa, ed anche l’attivazione di una concorrenza orientata sinergisticamente all’argomento migliore. L’etica del discorso pone le condizioni per superare ogni relativismo etico e per pervenire al riconoscimento di un’etica universale. L’anima di tutto questo è la costruzione di un orizzonte, che sia condiviso intersoggettivamente e che, in quanto tale, abbia il carattere, sia pure in modo ideale e tendenziale, dell’universalità. È così che prospettive, assunte reciprocamente, anche se non definitive ed ancora riformabili, acquisiscono il carisma dell’universalità, che, ponendosi intersoggettivamente, consente di prendere in considerazione, da un angolo visuale molto più ampio, i punti di vista e gli interessi dei singoli protagonisti dell’evento comunicativo. Il punto di partenza di questo processo di universalizzazione è il principio di generalizzazione dialogica che, oltre ad esprimere le intuizioni di epoche e culture determinate, si pone come principio universalmente inteso87. La bontà dell’argomento, che è alla base dell’accettabilità razionale dell’argomentazione, dipende da alcune qualità pragmatiche, come le seguenti: a) nessuno può essere escluso dalla partecipazione all’argomentazione; b) tutti debbono avere uguali opportunità di dare i propri apporti; c) i discorsi dei partecipanti debbono corrispondere alle loro stesse idee; d) la comunicazione deve risultare libera da costrizioni interne ed esterne ed animata dalla forza cogente dell’argomento migliore. Insomma, il processo argomentativo deve essere caratterizzato dalla libertà, dalla sincerità e dall’assenza di costrizioni. J. Habermas ci tiene a precisare che tutto ciò è volto alla giustificazione epistemica degli enunciati e non alla loro giustificazione morale. Sulla base di ciò, egli annota che l’accusa di trovarsi irretito in un circolo vizioso, rivoltagli più volte88, è destituita di fondamento. Infatti, tra le sue intenzioni non è presente quella di fondare discorsivamente il punto di vista morale mediante requisiti dell’argomentazione universali e normativi in senso morale. Il suo intendimento è di parlare dell’illimitato accesso al discorso e non dell’universalità delle norme. La necessità dei requisiti 87
Cfr TM 8 s. J. Habermas fa riferimento alle critiche sollevate nei suoi confronti dal Tugendhat (cfr E. TUGENDHAT, Vorlesungen über Ethik, Frankfurt a.M. 1993, 161 ss.), e precisa che si tratta di una sua posizione superata nella seconda edizione di ED (1985) (cfr TM 139; IA 59). 88
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dell’argomentazione può essere qualificata come trascendentale, ma non può essere inscritta nello spazio semantico dell’obbligatorietà morale. Alla conclusione della nostra breve analisi della habermasiana etica del discorso, non possiamo non confermare la nostra valutazione di debolezza teoretica legata alla proceduralità, il cui esito, nonostante le buone intenzioni del suo autore alimentate dalle tensioni della trascendentalità e dell’universalità, non riesce a superare i confini della generalizzazione.
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CAPITOLO V CRITICA DELL’IDEOLOGIA
Il rapporto tra conoscenza ed interesse viene creato e mantenuto mediante idee opportune ed idonee a tale scopo. Le idee, che di per sé sono chiamate a chiarire i motivi reali delle nostre azioni, molto spesso servono a formulare pretesti giustificativi di ragioni di altra natura. In casi siffatti, il rapporto tra conoscenza ed interesse è falsato e la coscienza umana perde i tratti dell’autonomia. Queste e simili coordinate esistenziali e teoriche producono, anche per J. Habermas, il luogo proprio dell’ideologia1. Le idee hanno una funzione di razionalizzazione. Il loro legame con l’interesse ha lo scopo di illuminare con la razionalità il rapporto che si viene a determinare tra il soggetto umano e gli interessi sui quali si polarizzano le sue attenzioni ed ai quali si volge il suo agire. Solo che lo scopo effettivamente conseguito è quello di dare credito ad un fattore, l’interesse appunto, cui una razionalità vigile e critica non potrebbe fornire riconoscimenti. Dove l’interesse s’identifica con il potere, l’ideologia assolve il compito di fornire la legittimazione concettuale e discorsiva, ma finisce con il sottrarre l’intero processo, che si rivela mistificatorio, al controllo razionale ed al controllo sociale e pubblico. In questo caso l’ideologia è da intendere senza alcun dubbio in senso stretto, e cioè come falsa coscienza2. Per analizzare il concetto di ideologia Habermas fa riferimento a K. Marx, che se ne è occupato con forte impiego di strumenti teoretici e con grande competenza. E, attingendo ad una tale fonte, può tentare di darne una definizione: «Ideologia è non-verità esistente, praticamente fondata, dotata di conseguenze pratiche, ed infine interamente sopprimibile soltanto mediante la prassi»3.
1
Cfr TPST 52. Cfr ibid., 212. 3 Cfr J. HABERMAS, Literaturbericht zur philosophischen Diskussion um Marx und den Marxismus, trad. it., Sulla discussione filosofica intorno a Marx e al marxismo, (1957), in DR 84. 2
L’ideologia è, dunque, un sistema di idee che non ha come referente la realtà bensì la prassi. Ma si tratta di una forma di prassi che, essendo legata agli interessi anziché alla realtà, è falsata e falsante. I suoi dispositivi metodologici ed operativi vengono alimentati da un sistema falso di idee, e cioè da un sistema di non-verità, che è determinato da un automatismo ed occupa gli spazi delle idee, dei discorsi e della prassi. E ciò che è falso, essendo privo di autenticità, sul fronte dell’effettività è non-pratico e non-autonomo. Questo, così dice Habermas, accade con il capitalismo, con le filosofie astratte e con le religioni, in cui i fenomeni della reificazione, separati dalla effettiva base economica, si trasformano rispettivamente in capitale, il fattore determinante della divisione della società in classi, ed in principi supremi, totalmente falsi. Per eliminare la falsa prassi occorre un altro fenomeno di prassi, e cioè la prassi rivoluzionaria4. Habermas si ferma a precisare il suo pensiero, e ci riesce con grande efficacia: «La prassi rivoluzionaria procede in senso inverso alla prassi estraniata: la libera dalla sua falsa figura ed al contempo elimina quell’astrazione reale da cui essa deriva. Soltanto la prodotta unità di teoria e prassi avrà completamente lacerato il velo ideologico»5.
Entrambi i tipi di prassi, la prassi falsa e la prassi rivoluzionaria, sono volti alla realtà, ma con la differenza che la prima è condotta da una teoria, che si risolve in un fenomeno ideologico fautore di dispositivi mistificatori, la seconda, invece, si rapporta con una teoria libera da esigenze mistificatorie. A questo punto, Habermas dà indicazioni molto interessanti sul suo pensiero, mostrando anche quanto egli deve a Marx. L’unità di teoria e prassi è un dato di capitale importanza sia dal punto di vista contenutistico che dal punto di vista metodologico. Tale unità, per un verso, è la “verità da produrre”, in quanto la separazione di teoria e prassi pone in essere soltanto forme e figure astratte e false; per un altro verso, è il “supremo criterio della ragione”, in quanto razionale è ciò che tende a produrre verità.
4 5
152
Cfr ibid., in DR 84 s. Cfr ibid., in DR 85 s.
La ragione è, dunque, garanzia di successo sul fronte della verità: «La ragione è l’accesso alla verità futura»6.
Secondo Max, ma anche secondo Habermas, che si ispira al suo pensiero, l’intreccio di teoria, prassi, ragione e verità o, in altre parole, la filosofia autosuperatasi e realizzatasi si propone come critica e può avere successo nella critica delle ideologie7. Tenendo conto di quanto siamo venuti dicendo, l’ideologia è nonverità pratica e prassi falsa. La via per attraversarla e superarla è l’unità di teoria e prassi o, in altri termini, la filosofia posta, secondo l’idea di K. Marx, sulla strada della sua realizzazione. Una tale filosofia, dal punto di vista di Habermas, avanza velocemente sulla strada del superamento della sua fase arcaica, e cioè della fase della filosofia della coscienza, e si volge verso la vera conoscenza. Dal 1968, anno della pubblicazione dell’opera Erkenntnis und Interesse, al 1999, anno della pubblicazione di Wahrheit und Rechtfertigung in cui sono raccolti saggi scritti tra il 1996 ed il 1998, sono trascorsi circa tre decenni, e, di conseguenza, è agevole notare i segni di una evoluzione nel pensiero di J. Habermas. Non è soltanto il lettore a rendersene conto ed a prenderne atto, ma è lo stesso autore a dare tutte le spiegazioni necessarie alla comprensione dei fatti. Prima di parlare dell’evoluzione del proprio pensiero, egli accenna al grande mutamento di prospettiva che ha avuto luogo in seguito al transito dalla filosofia della coscienza alla filosofia del linguaggio. Quando la filosofia della coscienza, gravida di valori tipici del platonismo, costituiva ancora la filosofia maggiormente affermata, l’interiorità aveva maggiore significato dell’esteriorità, il privato del pubblico e l’immediatezza dell’attività soggettiva della mediazione del discorso. Allora la filosofia della conoscenza era considerata la “filosofia prima”, mentre quella della prassi e quella della comunicazione si pensava che fossero solo delle fenomenologie derivate. Con l’avvento della filosofia del linguaggio ha avuto luogo un cambiamento notevole, almeno perché il rapporto gerarchico tra ciò che ha il primato e la priorità e ciò che è derivato è venuto meno. È così che, nell’intento di fare un passo avanti, J. Habermas, che in questa fase del suo lavoro opera insieme a K.O. Apel, scrive il saggio 6 7
Cfr ibid., in DR 86. Cfr ibid., in DR 86 s.
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Erkenntnis und Interesse (1965)8, in cui, però, vengono privilegiati gli interessi conoscitivi e, quindi, le problematiche gnoseologiche mantengono, almeno da questo punto di vista, il primato e vengono risolte in termini di “naturalismo debole” e di “realismo conoscitivo pragmatico-trascendentale”. Con la Theorie des kommunikativen Handelns (1981) tutto è mutato, in quanto che la fondazione pragmatico-linguistica della teoria critica ne ha superato e reso superflua la giustificazione gnoseologica e lo studio delle premesse pragmatiche dell’agire volto all’intesa viene fatto prescindendo dalle “condizioni trascendentali della conoscenza”9. A parte questo limite, dai cui contenuti in questo momento vogliamo prescindere anche noi, non pochi dati concettuali acquisiti prima del transito linguistico conservano nell’economia del pensiero habermasiano il loro valore teoretico. Tra i dati definitivamente acquisiti per Habermas si trova quanto segue: l’oggettivismo viene spezzato dal nesso che c’è tra conoscenza ed interesse; se è vero che la filosofia resta fedele alla sue grandi tradizioni rinunciando all’oggettivismo, la verità si separa dall’ontologia e si pone nel mondo dell’intenzione e della vita10. L’oggettivismo viene messo in crisi dalla presenza dell’interesse, e cioè dalla presenza di un fattore soggettivo, nel processo conoscitivo. L’interesse puro, che basterebbe a restituire il valore all’oggettivismo, è un concetto limite e fa riferimento ad un tipo di esperienza non concepibile. C’è, però, un tipo d’interesse molto particolare, che è quello della ragione e della libertà per la conoscenza, che Habermas in sintonia con Marx pone sullo stesso piano dell’incontro tra teoria e prassi. Ciò apre la possibilità della critica discorsiva. L’esigenza della critica è certamente organica al pensiero di J. Habermas. Il suo pensiero si forma e si sviluppa come una spirale vivente che, pur vivendo di vita propria, acquisisce gradualmente una configurazione particolare mediante il confronto serrato con tanti altri pensatori. Ma la dimensione critica del suo pensiero non ha solo origine estrinseca; ha anche un’origine intrinseca nella tipicità della filosofia habermasiana. Per rendercene conto, possiamo fare riferimento allo studio di Habermas del 1971 Wozu die Philosophie? Svolgendo l’argomento, il Nostro prende le 8
Cfr J. HABERMAS, Erkenntnis und Interesse, (1965), in TPST 43-58. Cfr VG 4 s., 9; cfr anche il J. HABERMAS, Vorwort zur Neueausgabe del 1982 a ID., Zur Logik der Sozialwissenschaften, Frankfurt a.M. 1982, 9 ss. 10 Cfr TPST 52-58. 9
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mosse da Adorno, il quale nove anni prima si era posta la stessa domanda e aveva dato una risposta che metteva in evidenza una contraddizione interna alla filosofia. Così scrive Adorno nel 1961 in Eingriffe: «Dopo tutto quanto è successo, la filosofia non deve più credersi padrona dell’assoluto. Deve anzi, per non tradirlo, proibirsi persino di pensarlo. Nello stesso tempo, tuttavia, non deve tollerare di fare nessuno sconto sul concetto enfatico di verità. Questa contraddizione è il suo elemento»11.
La contraddizione consiste nel fatto che la filosofia, per un verso, non deve occuparsi dell’assoluto e, per un altro verso, non può accettare alcun compromesso sul concetto enfatico di verità, che ha innegabilmente implicanze riconducibili all’assoluto. L’assoluto non è in nessun modo qualificabile come procedurale; la verità, invece, lo è. Quest’ultima, di conseguenza, è disponibile; tuttavia, non fino al punto di perdere il suo ruolo di guida della conoscenza e, quindi, la sua funzione critica. Nell’intento di rispondere alla domanda Wozu die Philosophie?, Habermas si ferma ad esaminare le condizioni e le caratteristiche della filosofia tedesca degli ultimi cinquant’anni (Habermas scrive nel 1971). Facendo le sue considerazioni, egli astrae dai filosofi di indirizzo neoscolastico e da quelli che sono diventati direttamente o indirettamente sostenitori del nazionalsocialismo e dedica la sua attenzione ad altri filosofi che hanno assunto un atteggiamento fortemente critico sia nei confronti del fascismo sia nei confronti della loro stessa epoca. Secondo Habermas, l’atteggiamento critico, specie quello che fa seguito alla seconda guerra mondiale, spesso si lascia trascinare da un potenziale esplosivo di critica non sempre alieno da eccessi ideologici; ciò, però, non può provocare il rinchiudersi dell’attività filosofica in una “neutralità innocente”, ma anzi deve spingerla ad aprirsi alla prassi ed essere feconda, almeno indirettamente, di conseguenze pratiche. Dopo Hegel, essendo divenute problematiche ed avendo subito trasformazioni strutturali molte delle certezze tradizionali di tipo filosofico — e ciò si deve dire dell’unità tra filosofia e scienza, dell’unità tra filosofia e tradizione, del rapporto tra filosofia e religione, della contraddizione tra pretesa universalità della conoscenza filosofica e sua effettiva riduzione 11 T.W. ADORNO, Neue kritische Modelle, 1. Bd., Eingriffe, Frankfurt a.M. 1963, 14: trad. it. di L. Ceppa in PPF 17.
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a fenomeno di élite culturale — la filosofia diventa consapevole del suo stesso mutamento d’identità: da “filosofia”, qual era, essa si percepisce come “critica”. Si è trattato di un processo di “autorischiaramento” della filosofia, pensato dalla coppia Horkheimer-Adorno in termini di “dialettica dell’illuminismo” ed in seguito dal solo Adorno in termini di “dialettica negativa”. Una tale dialettica, enfatizzando la critica e l’autocritica, sembra essersi ridotta ad un “vuoto esercizio autoriflessivo” privo di contenuti, sembra essere divenuta incapace di procedere con autonomia e sistematicità e sembra essere entrata in contraddizione con la sua stessa vocazione di teoria critica della società. Negli ultimi decenni, ed in particolar modo nel suo stadio critico, la filosofia ha sfruttato parassitariamente la sua eredità, ma nonostante ciò, soprattutto a motivo della consapevolezza di avere assunto la nuova identità di critica, ha avuto un ruolo politico notevole, influendo sulla coscienza pubblica, e si è assegnata il compito nuovo di “critica materiale della scienza”. Da quando gli scienziati hanno assunto funzioni sociali sempre più numerose, la scienza avanza velocemente per occupare il primo posto tra le forze produttive e la ricerca diventa il fattore principale dell’evoluzione sociale e del suo controllo, lo scientismo non è più questione meramente accademica ma acquisisce una valenza sempre più politica, ancorché indiretta. Ci troviamo di fronte ad una scienza che produce un sapere non solo “tecnicamente valorizzabile” ma anche “orientante l’azione”. La scienza non può condurre soltanto ad acquisizioni utili all’agire strumentale e tecnicamente valorizzabili, provocando l’antica perversa “divisione del lavoro”, ma deve anche sottoporre a critica rigorosa lo scientismo oggettivista, denunziando l’irrazionalità della concezione positivistica delle scienze, deve volgere le scienze sociali verso l’impegno nei sistemi comunicativi d’azione, superando la loro costante tentazione ad operare secondo la logica della razionalità valoriale, e deve illustrare il nesso che intercorre tra “logica della ricerca scientifica” e “logica delle comunicazioni formative della volontà”, denunciando ancora una volta come irrazionale la tecnocrazia avulsa dalla formazione pubblica e discorsiva della volontà. In tal modo, una critica siffatta risulta essere “teoria delle scienze” e, nel contempo, “filosofia pratica”. La “filosofia non scientista della scienza”, prospettata da J. Habermas quale risposta alla domanda “Wozu die Philosophie?”, avrebbe come suoi precipui compiti filosofici anche compiti politici12. 12
156
Cfr J. HABERMAS, A che cosa serve ancora la filosofia?, (1971), in PPF 17-37.
Si può, dunque, affermare che Habermas è dell’opinione che il lógos della filosofia sia procedurale e si ponga in situazione dialogico-comunicativa. All’interno di una tale situazione sono operative la critica e la verità, la razionalità e la prassi, la conoscenza e l’emancipazione. Il frutto più significativo delle componenti che operano all’interno della filosofia è la critica, che, tra l’altro, è una vera e propria difesa della filosofia, della comunicazione e della società. Più concretamente, si tratta di una difesa di tensioni, di attività e di spazi di apertura. Il fatto che Habermas non costringa la sua lettura dei vari fenomeni filosofici, culturali politici e sociali all’interno dell’unico quadro teorico di una teoria olistica13 ci rende più sicuri della sincerità della sua insistenza sui ruoli della prassi e dell’apertura al futuro e sulla grande fecondità sistematica di esse nella emancipazione, che egli ad un certo punto del percorso della sua riflessione, come abbiamo già visto, preferisce chiamare intesa ed agire comunicativo. È merito peculiare, anche se non esclusivo, di J. Habermas che la struttura dell’intersoggettività, dotata di dinamica linguistica, sia diventata un punto qualificante della teoria critica.
13
Cfr DU 115 s.
157
CAPITOLO VI TEMI POLITICI: LO SPAZIO DEL DISCORSO E DELLA COMUNICAZIONE
L’ambito in cui Habermas rende feconde e verifica le sue teorie è costituito dalla società e dall’approccio fondamentale ai fenomeni sociopolitici, che è la politica. La tipologia dell’approccio è molto variegata, perché implica sociologia, politologia, diritto, antropologia e filosofia. I campi di osservazione che si aprono sono la società, il diritto, il potere, la democrazia, la libertà, la tolleranza, la sfera pubblica e la società cosmopolita. L’esigenza è quella di capire e di interpretare la vita sociale che, specialmente nella nostra epoca culturale, è al centro della filosofia. Lo strumento fondamentale è la razionalità, che è fonte inesauribile e principio prezioso di analisi, di comprensione, di critica e di proposta. Tutti questi dati ci conducono all’affermazione della ragione, non però quale fase culminante di una filosofia della storia, bensì come evento di dialogo tra gli attori della comunicazione e come evento di agire comunicativo. La metodologia è data dalla proceduralità, che conferisce ai consueti temi politici un assetto dinamico sempre in fieri, volto al raggiungimento della meta della comunità di comunicazione, che deve essere caratterizzata da una pratica discorsiva libera dai vari condizionamenti intrinseci ed estrinseci e ispirata da forti motivazioni etiche. Ovviamente, si tratta solo di alcuni importanti aspetti del settore socio-politico cari ad Habermas. Il Nostro procede muovendosi con molta disinvoltura nell’attualità politica, senza per questo disdegnare la tradizione; punta il dito contro i condizionamenti empirici, sociologici ed ideologici della democrazia, senza, però, tacerne i limiti e le ambiguità; critica duramente la ragione, quando tradisce il suo compito discorsivo ed espleta quelli funzionali e strumentali legati agli interessi, ma la esalta quando incrementa la critica e ricerca il consenso e l’intesa; subordina ogni teoria ed ogni prassi alla giustizia ed ai diritti umani, perché il suo interesse antropologico è grandissimo. Lungo i fronti della giustizia e dei diritti, Habermas si unisce a coloro che sostengono il peso dell’immane “lotta per il riconoscimento”. Il nostro francofortese non può, dunque, non essere attento al “multiculturalismo”, anche se, nel transito dalle identità, che vanno riconosciute a livello di “identità collettive”, ai diritti, egli non riconosce “diritti collettivi” ma si
volge sempre a prospettive transculturali ed universalistiche. In tutto questo, compiti determinanti ha l’opinione pubblica, soprattutto nei campi del controllo e della critica della società e delle oligarchie dominanti e dirigenti. In questo ambito tematico, Habermas esige impegni forti e consapevoli e discorsi profondi ed impegnati, ma si rifiuta di fare concessioni alla “chiacchiera”. L’idea di politica, che ne emerge, è caratterizzata dalla forte concentrazione di razionalità, che collega a sé e tra di loro discorsi pragmatici, etici e giuridici, e dalle componenti strategiche della forza del diritto, degli interessi e del potere. Secondo Habermas, il mondo è attraversato da una “rivoluzione in corso”, caratterizzata da costanti che sono ora positive ora negative. Egli è convinto della prevalenza delle costanti negative, ma non perde mai la fiducia nella ragione e nella forza delle sue funzioni critica e creativa. Tra le trasformazioni più incisive ed appariscenti ci sono quelle che riguardano gli stati nazionali, che hanno fatto fare una virata decisiva allo stato di diritto, legandolo indissolubilmente alla democrazia, che, per quanto carica di problematicità, è, tra i valori conseguiti e controllati mediante sperimentazione e verifica, l’unico valore maturo, custode affidabile di sicure tensioni di eticità e di moralità non soltanto per gli individui ma anche per i popoli e per l’intera comunità cosmopolitica. L’approccio a tutti questi livelli di sapere, di esperienza e di realtà potrebbe fare pensare ad un mondo oggettivo, identico per tutti ed indipendente dalle nostre interpretazioni, ma il medium del linguaggio, cui il Nostro si è accostato gradualmente ma con sempre maggiore convinzione, fa divieto di concepire un rapporto immediato e diretto con la realtà, prescindendo dalla mediazione linguistica. Una tale situazione, implicando ampiamente la soggettività individuale e le fenomenologie che la riguardano, rende la vitale esperienza socio-politica una storia tremendamente problematica ma anche un’avventura esaltante, degna non pure di essere vissuta ma anche di essere fatta oggetto di studio e di riflessione. Entrando nel merito del pensiero politico di J. Habermas, la nostra intenzione è solo di prendere nota di alcune tematiche che hanno un qualche significato per il nostro presente studio.
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1. LA SOCIETÀ J. Habermas ritiene che la filosofia si realizzi nella società. Nel fermarsi a riflettere su tale ambito, il francofortese non disdegna gli approcci sociologico e psicologico, ma l’approccio che gli è più congeniale, così almeno sembra a noi, è quello politico. A motivo della sua versatilità e del fattore multiversum che caratterizza la sua filosofia, egli sviluppa le tematiche filosofico-politiche tenendo presenti tutte le altre branche del sapere filosofico e non pochi pensatori ora per condividerne alcune tesi ora per criticarne alcune altre e, in ogni caso, per sviluppare la propria riflessione, mantenendo sempre desta la tensione dialettica con il loro pensiero. Dal suo confronto con G.H. Mead, J. Habermas si è formata, circa la costituzione della società, un’idea apparentemente paradossale, e cioè l’idea che la socializzazione dei soggetti singoli sia un evento che si verifica simultaneamente alla loro individuazione. Il tema della individuazione sociale, trattato dalla psicologia sociale meadiana, serve al francofortese come base sulla quale edificare la propria teorizzazione circa la società. L’individuo si situa sempre più nella sua individualità mediante una crescente interiorizzazione, che consiste in una autonomizzazione del Sé quale frutto di una differenziazione sociale. L’individuazione non è pensata come autorealizzazione spontanea, solitaria e libera di un soggetto, ma piuttosto come “un processo di socializzazione mediato linguisticamente”, all’interno del quale si verifica un altro processo, e cioè il processo di una biografia autocosciente. J. Habermas precisa: «L’identità degli individui socializzati viene a costituirsi contemporaneamente nel medium dell’intesa linguistica con altri individui e nel medium dell’intesa biografico-intrasoggettiva con se stessa. L’individualità si costituisce nei rapporti di riconoscimento intersoggettivo e nell’autocomprensione mediata intersoggettivamente»1.
Così, i processi ontogenetici dell’individuo e del gruppo e quelli delle loro rispettive identità sono co-originari e si verificano in un mondo della vita linguisticamente, comunicativamente ed intersoggettivamente condiviso.
1
Cfr PPM 188.
161
Trattandosi di un fatto processuale, la società non può non appartenere alla Lebenswelt, anzi è Lebenswelt2, e non può non essere aperta e, quindi, non può non essere un modello in corso di sviluppo3. Un mondo vitale è una prospettiva unificatrice, una garanzia di ordine ed una realtà dotata di grande senso cognitivo e pratico-morale e, in quanto tale, è il luogo della persona pienamente unificato nella sua identità. Habermas precisa ed approfondisce questo concetto con una citazione dallo scritto The Sacred Canopy di P. Berger, citazione che noi presentiamo in forma ancora più breve: «[…] la funzione più importante della società è la “nomizzazione”. […] Gli uomini portano dentro di loro fin dalla nascita la spinta ad imporre sulla realtà un ordine significante. Quest’ordine, tuttavia, presuppone l’impresa sociale di ordinamento della costruzione del mondo. Allorché l’individuo è separato dalla società, si trova di fronte a tutta una serie di pericoli […]. Il pericolo ultimo di una simile separazione è, tuttavia, il pericolo della mancanza di significato. […] L’essere in società è essere “sano” proprio nel senso che si è protetti da quella “insania” suprema di un simile terrore anomico. L’anomia è intollerabile […]»4.
Senza la funzione sociale della “nomizzazione”, la società si troverebbe nel caos. In passato, tale importante funzione è stata espletata dalle grandi religioni e dalle prospettive metafisiche con le loro interpretazioni cognitive del mondo; in tempi più recenti, è stata espletata dalle scienze, le quali hanno fornito una interpretazione del mondo non più globale ma sempre oggettivizzata. Con l’avvento delle scienze sociali, viene meno l’illusione metafisica di ordine, coltivata dalle prospettive variamente oggettivistiche, e si afferma l’istanza di convivere con ogni sorta di contingenza. Il fattore maggiormente caratterizzato dalla contingenza e, nel contempo, più significativo è il dialogo, che, come nell’agorà greca, consente la comunicazione ed il confronto nella libertà e la liberazione dai pregiudizi manicheistici e dalla falsa coscienza. Un mondo vitale strutturato in modo comunicativo non può non allargarsi e differenziarsi sempre più. A questo punto, Habermas si pone una domanda: se i sistemi interpretativi idonei a fornire immagini stabilizzate del mondo non esistono più, 2 3 4
162
Cfr A. LINKENBACH, Opake Gestalten des Denkens, cit., 250. Cfr B. TUSCHLING, Die “offene” und die “abstrakte” Gesellschaft, cit. CRCM 131.
come è possibile portare a compimento il compito pratico-morale di garantire l’identità dell’io e del gruppo? La via proposta da lui è quella della razionalità. Occorre subito precisare che, nella mente del Nostro, razionalizzare non è produrre una unità-identità apparente, bensì razionalizzare nella concretezza della situazione della Lebenswelt, e cioè razionalizzare tenendo conto della molteplicità dei soggetti, della diversità delle loro esperienze e, in genere, del costante imporsi delle contingenze5. Ciò implica non pure l’attenzione al carattere processuale degli eventi, ma anche l’adozione della logica processuale, che, come abbiamo già visto, si dispiega linguisticamente, comunicativamente ed intersoggettivamente con l’intento di pervenire ad un’intesa. L’adozione del paradigma discorsivo-procedurale fa sì che gli eventi intersoggettivi, appartenenti alla Lebenswelt, abbiano una dinamica progressiva ed anche unitaria. Così, la società è per Habermas, che mutua da J. Piaget e da M. Weber il concetto di Weltbildrationalisierung, un Weltbild, e cioè un sistema culturale di significato6. Nel 1985, nell’opera Der philosophische Diskurs der Moderne, Habermas dava una definizione della società: «Chiamo società (nel senso stretto di una componente del mondo della vita) quegli ordinamenti legittimi, dai quali coloro che agiscono comunicativamente, entrando in relazioni interpersonali, attingono una solidarietà fondata su appartenenze di gruppo»7.
Gli elementi di questa definizione che al momento ci sembrano più importanti sono “mondo della vita”, “agiscono comunicativamente”, “relazioni interpersonali”, “solidarietà”. La “solidarietà”, che viene inizialmente tematizzata come fattore del gruppo di appartenenza, in seguito (19921996) viene sviluppata alla luce dell’idea socio-integrativa del diritto e, di conseguenza, viene portata oltre i confini della solidarietà della società tradizionale e, dunque, viene sviluppata come “solidarietà tra estranei”. A questo punto, la solidarietà implica la diversità, il pluralismo, il dialogo, il diritto e la giustizia. Gli esiti che ne conseguono sono il convivere sinergi-
5
Cfr ibid., 131-159. Cfr A. LINKENBACH, Opake Gestalten des Denkens, cit., 35, 55-71. 7 J. HABERMAS, Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, trad. it., Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni, Roma-Bari 1987, 342. 6
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camente con le differenze e l’adozione della forma democratica di organizzazione sociale8. Se si tratta di sfere pubbliche articolate e complesse, la solidarietà esige la comunicazione, la “comunicazione tra estranei” appunto9. Si potrebbe anche dire che la solidarietà si riduce alla comunicazione pacifica. Infatti, nulla vieta che si possa parlare di “solidarietà tra estranei” anche in caso di “pluralismo culturale dispiegato”, il cui potenziale è anche gravido di conflitti, che la solidarietà spinge a tenere sotto controllo. A questo proposito, Habermas fa ricorso a termini in qualche misura ossimorici: «Ma in una società secolarizzata, che abbia imparato a governare in modo consapevole la sua complessità, il padroneggiamento comunicativo di questo tipo di conflitti rappresenta l’unica fonte di solidarietà tra estranei. Intendo dire tra estranei che — nella rinuncia alla violenza e nella regolazione cooperativa della convivenza — si riconoscano anche il diritto di rimanere reciprocamente estranei»10.
Gli ossimori consistono soprattutto nell’accostamento dei termini “reciprocità”, che implica la polarizzazione reciproca dei partners di un tale tipo di rapporto, ed “estraneità”, che di per sé la esclude; ma trovano la loro logica contestualizzazione mediante le idee di regolazione cooperativa e di convivenza. Sicché, si può dire che il convincimento espresso con costanza da J. Habermas è quello che concerne la comunicazione quale condizione di possibilità della stessa società11.
2. IL POTERE La società è di per sé la via privilegiata per il superamento del caos della convivenza non organizzata ed il luogo sorgivo della persona umana. Di conseguenza, è anche lo spazio privilegiato della razionalità. Quando 8
Cfr SE: tutti e tre i testi raccolti in questo volume mettono a tema il concetto di “solidarietà tra estranei” e lo sviluppano. 9 Cfr FN 434. 10 Ibid., 364. 11 Cfr TPST 55; H. PILOT, La filosofia della storia in Jürgen Habermas e la sua falsificabilità empirica, in AA.VV., Dialettica e positivismo in sociologia, cit., 319; F. Conigliaro, La situazione del discorso. Critica, conoscenza, emancipazione, cit., 156 s.
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questi fattori si attivano veramente e simultaneamente, la legittimità dell’ordinamento sociale è un dato sicuro. Sennonché, come la società è un evento in fieri, così è in fieri la legittimità dell’ordinamento sociale. Ciò significa, tra l’altro, che nella società l’illegittimità è sempre in agguato e la prassi politica si trova costantemente nel bel mezzo della tensione tra spinte razionalistiche e spinte irrazionalistiche. Quando le spinte irrazionalistiche sono vincenti, si vengono a produrre fenomeni di dominazione, che soffocano il discorso, spengono la comunicazione, bloccano l’emancipazione ed oscurano la razionalizzazione. J. Habermas, da buon francofortese, è molto critico del potere, ma in merito ha una sua precisa posizione, arrivando persino a proporne un’idea positiva. Egli osserva il potere sotto profili diversi. Il primo è quello tipico sia del marxismo che della tradizione francofortese. Nella prima edizione di Strukturwandel der Öffentlichkeit (1962), Habermas indaga nelle alterne vicende della sfera pubblica e scopre che le istanze razionali della società borghese, che si erano affermate nel superamento della società feudale e della società assolutistica, sono state cancellate dall’affermazione del capitalismo e dal suo sistema di potere, rispetto al quale conoscenza e razionalità vengono relegate nel ghetto del ruolo funzionale. Ma, una razionalità asservita è irrazionale12. Il secondo profilo, che il Nostro mette a tema confrontandosi con H. Marcuse, descrive il potere come un fenomeno irrazionale che, sfruttando le sue doti camaleontiche, si dà identità e dignità razionali, presentandosi sotto la forma del potere tecnico. Nel saggio Technik und Wissenschaft als Ideologie del 1968, J. Habermas riprende alcune idee di H. Marcuse sul potere e dimostra di avere qualche difficoltà ad accoglierle. Il Marcuse ritiene che il potere nella società capitalistica industrialmente avanzata sia un fenomeno così pervasivo e proteiforme da assumere una figura razionale, spogliandosi del suo appariscente carattere di sfruttamento ma senza perdere la sua identità di fenomeno di dominazione. Il dominio, che vuole farsi percepire ed identificare come dotato del carisma della razionalizzazione, implica l’esclusione del ricorso alla repressione, in quanto, da un lato, la legittimazione, che gli deriva dalla sinergia della crescita delle forze produttive e del progresso tecnico-scientifico, gli dà sufficiente stabilità e, dall’altro, l’abnorme apparato della produzione e della distribuzione e tutti i dispositivi del controllo socio-politico gli 12
Cfr SCOP.
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consentono un controllo ancora più forte della vita degli individui. L’esito di una tale situazione può essere addirittura paradossale, e cioè la sottile forma di repressione, in cui la società si viene a trovare, può sfuggire alla coscienza dei cittadini: la consapevolezza di questi ultimi sarebbe inversamente proporzionale alla crescita sia della libertà dal dominio della natura che della produttività ed all’incremento della qualità della vita. In tal modo, la razionalità non sarebbe più strumento eroico di critica del sistema, ma si ridurrebbe ad essere mero strumento correttivo interno al sistema. In tutto questo, il fatto storicamente nuovo, secondo Marcuse, è che le forze produttive, anello significativo della poderosa catena tecnico-produttiva, assumono la forma di base di legittimazione. Alcune annotazioni, fatta da Marcuse nell’opera One-Dimensional Man e citate da Habermas, ci danno il senso del groviglio e dell’ambivalenza in cui si viene a trovare la razionalità, ed in particolare la forma tecnologica di essa: «In tal modo la razionalità tecnologica protegge piuttosto che abolire la legittimità del dominio, e l’orizzonte strumentale della ragione si apre su una società razionalmente totalitaria»; «Tuttavia, quando la tecnica diventa la forma universale della produzione materiale, ciò delimita un’intera cultura, configura una totalità storica — un “mondo”»13.
La razionalità della scienza e della tecnica, dunque, porta immanente in sé il segno della deformazione capitalistica; e, insieme ad esso, alimenta il tarlo del dominio. Habermas osserva che in Marcuse sono presenti decise dichiarazioni circa il “contenuto politico della ragione tecnica” e l’orientamento della razionalità della scienza e della tecnica verso la “totalità storica di un universo di vita sociale”, ma, nel contempo, non può non prendere atto dell’insuccesso di questo processo marcusiano di razionalizzazione della società. Partendo dall’insuccesso di H. Marcuse ed anche di M. Weber, J. Habermas tenta di proporre un quadro categoriale più efficace. Un passo previo è la precisazione che la validità delle regole sociali, a differenza della validità delle regole tecniche, che è legata alla validità del linguaggio empirico ed analitico, dipende dall’intersoggettività. L’interazione intersogget13 H. MARCUSE, One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Saciety, trad. it., L’uomo a una dimensione. Ideologia della società industriale avanzata, Torino 1967, 172, 170.
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tiva viene conseguita mediante il linguaggio, a condizione, però, che la comunicazione sia libera da ogni tipo di limite. Il dialogo pubblico, illimitato e libero dai condizionamenti, specie da quelli dipendenti dal dominio, produce uno spazio socio-politico caratterizzato dalla razionalizzazione. Su questa base, i membri della società possono avere l’opportunità di conseguire i frutti di una individuazione sempre più profonda, di una emancipazione sempre più estesa e di una comunicazione sempre più intensa e creativa. Si può venire a creare lo spazio per una comunicazione illimitata sugli scopi della prassi sociale, ma all’interno di un contesto di affermazione della necessità di un confronto-verifica con l’opposizione del tardo capitalismo, che non vede di buon occhio una società politicizzata14. L’intersoggettività e la comunicazione garantiscono la formazione pubblica dell’opinione e della volontà. La vita socio-politica è organizzata in forme comunicative regolate dal principio di discorso. Tale principio viene attivato nel senso cognitivo di raccolta delle informazioni e delle ragioni, allo scopo di acquisire il carattere dell’accettabilità razionale, e nel senso pratico di porre in essere rapporti d’intesa non violenti, allo scopo di dare ogni spazio alla libertà comunicativa. Lungo questa via di effettiva intersoggettività, si producono le convinzioni condivise, dotate di un grande potere comunicativo, a cui si associa la produzione giuridica, anch’essa discorsiva, perché là dove ci sono intersoggettività, comunicazione, convinzioni condivise e programmi collettivi c’è anche normazione. In tale situazione, diventa criterio normativo l’uguaglianza giuridica sostanziale, volta ad attuare le decisioni politiche della volontà dotate della caratteristica della democrazia ed a tutelare la sfera individuale della libertà15. Così abbiamo visto presentarsi sulla ribalta del nostro discorso il terzo profilo sotto cui osservare il fenomeno del potere, e cioè la comunicazione. La figura di potere che viene all’evidenza è quella del potere comunicativo. Secondo Habermas, la democrazia viene rafforzata dando uno spazio sempre maggiore al potere comunicativo. Non è fuori luogo annotare che tale tipo di potere sorge in contesto di libertà comunicative, e cioè in sfere pubbliche che favoriscono relazioni intersoggettive e riconoscimenti reciproci. Facendo eco ad H. Arendt ed alle idee da lei proposte 14
Cfr J. HABERMAS, Technik und Wissenschaft als “Ideologie”, in ID., Technik und Wissenschaft als “Ideologie”, (1968), trad. it., Tecnica e scienza come «ideologia», in TPST 195-204. 15 Cfr FN 180-200.
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nello scritto Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft, il Nostro ritiene tali contesti comunicativi totalmente diversi dai casi di mobilitazione populistica di massa, tipica del totalitarismo16. La popolazione abituata ai processi conoscitivi dello stato totalitario non è in grado, perché non è preparata a farlo, di reagire in maniera cognitivamente adeguata ai vari imputs17. In democrazia tutto muta. La democrazia deve avere un senso performativo accessibile a tutti i cittadini. Ciò esige, innanzitutto, la creazione di una associazione autonoma in cui i cittadini possano riconoscersi come liberi ed uguali. Su questa base comune ed in prospettiva sia sincronica che diacronica, i cittadini operano come autolegiferanti e, quindi, come produttori di un sistema di diritti in continua evoluzione. Contestualmente, immedesimandosi nel punto di vista della generazione presente, operano come critici della produzione socio-politica delle generazioni passate e, assumendo l’angolo visuale delle generazioni passate, operano come critici della produzione socio-politica della generazione presente.
3. IL DIRITTO La teoria dell’agire comunicativo si occupa anche della società che si sostiene nell’intersoggettività e nella dinamica dell’agire e del linguaggio volti all’intesa mediante il diritto, e mediante il diritto nella sua forma moderna, e cioè mediante il diritto positivo. La società, che risulta normata da una siffatta forma di diritto, è, però, artificiale ed i suoi membri sono tenuti insieme dalle sanzioni e da un consenso motivato razionalmente. Questo cespuglio di fattori, in cui consiste la società (linguaggio, comunicazione, razionalità, intesa, consenso, diritto), secondo J. Habermas è tenuto insieme dal medium che è più propriamente universale, e cioè dal linguaggio18. Il principio di discorso, dunque, detta legge anche nel campo del diritto. E ciò consente di tenere sempre in tensione costruttiva diritto e politica, impedendo che quest’ultima fagociti il primo e legando la validità delle norme all’approvazione di quelli che partecipano alla produzione di discorsi razionali19. 16 17 18 19
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Cfr SE 125 s. Cfr DU 56. Cfr FN 16 s. Cfr ibid., 188 s.
Tra le questioni appena emerse, è particolarmente delicata quella della conservazione della differenza e della tensione tra diritto e politica: se l’opportunità e la necessità di conseguire finalità collettive, dato evidentemente politico, compromettesse la forma giuridica e la funzione tipica del diritto, il diritto si risolverebbe in politica e la validità in mera fattualità. Ed un esito di tal fatta sarebbe catastrofico per il diritto, e non solo20. Che il diritto conservi in ogni senso la sua identità è un dato di capitale importanza, anche perché esso, oltre la funzione di norma, ha anche quella di cerniera tra il mondo della vita, in cui l’agire è comunicativo, e gli apparati economici e burocratici, in cui l’agire è sistemico21. La socializzazione concreta ha luogo in un contesto in cui le pretese di validità vengono ora affermate, ora contestate, ora anche negate. Ciò significa che, mentre la validità tenta d’imporsi, la fattualità ne demolisce la forza e le ragioni della pretesa. Una tale situazione è evidentemente caratterizzata dalla instabilità. Tra i fattori destinati alla neutralizzazione di quest’ultima si trova il diritto, che ha anche lo scopo di produrre la fusione tra validità e fattualità. Sennonché, le società moderne sono caratterizzate soprattutto dalla separazione crescente tra la validità, e cioè la “forza vincolante di convinzioni razionalmente motivate”, e la fattualità, e cioè la “costrizione imposta da sanzioni esterne”. In questo scenario stanno l’una di fronte all’altra la situazione di mondi di vita differenziati, pluralizzati e, spesso, in conflitto e l’esigenza dell’integrazione degli stessi mondi di vita. Gli agenti comunicativi si trovano davanti a due vie d’uscita: si può optare o per l’interruzione della comunicazione o per un agire strategico. Se gli agenti sono effettivamente orientati, più che al successo particolare, all’intesa, le pretese di validità da loro formulate saranno riconoscibili intersoggettivamente. In caso contrario, ci si verrebbe a trovare di fronte a prospettive contraddittorie non adottabili simultaneamente. La soluzione del problema, che non può essere più ricercata nelle garanzie metasociali del sacro, tipiche delle istituzioni arcaiche, può essere trovata mediante l’adozione di un “sistema di diritti” che conferisca carattere normativo alle libertà individuali22. Solo che il diritto, cui le società moderne hanno demandato il compito dell’integrazione sociale, è pressato da una doppia urgenza, una “secolarizzata”, che lo 20 21 22
Cfr ibid., 182. Cfr MDP 150. Cfr FN 17-38.
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spinge ad attenersi ad “imperativi funzionali” alla conservazione della società, ed un’altra “idealistica”, che lo spinge a legittimarli. a) Diritto: origine e funzione. Il sistema dei diritti al quale Habermas volge il proprio pensiero ha un taglio individualistico e secolarizzato. Nella mente del Nostro, i diritti sono una via molto precisa di emancipazione. E si tratta dei diritti individuali, perché i diritti collettivi, a differenza di quelli individuali, sono derivati e transitori. Ovviamente, siamo di fronte ad una concezione liberale, che però è ben lontana da quella liberista, che, sulla base di una concezione egoistica dell’individualismo, trasforma i protagonisti della concorrenza economica in fattori della borghesia arrogante e del capitalismo sfruttatore. La differenza consiste nel fatto che il Nostro introduce, al posto dei soggetti della concorrenza economica, i soggetti dell’argomentazione, che tendono all’intesa e che, per prevalere, non fanno ricorso alla forza del potere e dei suoi dispositivi economici, bensì a quella dell’argomento migliore23. Ma, se è così, l’“altro” viene riconosciuto e rispettato in quanto tale. Secondo Habermas, nelle società complesse non si trovano altri strumenti, oltre il medium del diritto, per attuare una “solidarietà tra estranei”24. Del resto, sembra abbastanza chiaro che il diritto ha per certi aspetti la stessa lunghezza d’onda dell’agire comunicativo e, di conseguenza, funge da medium tra la vivacità concreta della Lebenswelt e le istituzioni che si vanno presentando sulla ribalta della convivenza organizzata. Habermas si distingue dai liberali anche per quel che concerne l’origine dei diritti. Egli è dell’idea che le istituzioni di libertà non si creino mediante l’imposizione dei mezzi giuridici, il che sarebbe una vera e propria coercizione, ma si attivino all’interno di una popolazione di cultura e di tradizioni liberali, e cioè in mezzo ad una popolazione già abituata alla libertà e, quindi, ricca di esperienza democratica. Di conseguenza, non può essere d’accordo con i liberali, i quali mortificano l’autodeterminazione democratica sovrapponendo ad essa il sistema dei diritti. Diversamente da essi, Habermas sostiene che diritti dell’uomo e sovranità popolare sono “cooriginari”, e cioè si presuppongono e si sostengono reciprocamente. A suo parere, quella peculiarità tutta tedesca di fondare lo stato di diritto a prescindere dalla democrazia e dai processi che portano ad essa, è un errore sia storico che teorico25. Occorre trovare una figura metodologica ed una figura 23 24 25
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Cfr L. Ceppa, Postfazione a IA 265 ss. Cfr SE 96. Cfr ibid., 146 s.
teorica che siano di aiuto alla comprensione della co-originarietà in questione. Secondo Habermas, la figura metodologica è il paradigma discorsivo-procedurale e la figura teorica è l’autolegislazione: «Per dimostrare la cooriginarietà di autonomia privata e autonomia pubblica, basterà decifrare in termini di teoria discorsiva la figura concettuale dell’autolegislazione. In questa figura, infatti, i destinatari dei diritti fanno tutt’uno con i loro autori. A questo punto la sostanza dei diritti umani si concentra nelle condizioni formali necessarie a istituzionalizzare giuridicamente quel tipo di formazione discorsiva dell’opinione e della volontà in cui è la sovranità del popolo ad assumere veste giuridica»26.
Posto questo, i “diritti dell’uomo”, che sono universali ed hanno valenza assoluta, premono per diventare anche “diritti del cittadino”, e cioè premono perché la comunità internazionale dia ad essi su scala mondiale anche lo status e la validità del diritto positivo. La loro assolutezza e la loro universalità si configurano come moniti nei confronti del legislatore politico, che non solo non può sopprimerli ma neppure limitarli27. J. Habermas fa alcune precisazioni, a parer nostro importanti, soprattutto sul piano teorico, a proposito di diritti dell’uomo, diritti positivi, legislatore e democrazia: i diritti dell’uomo non possono essere concepiti né come un fatto casuale né come un dispositivo strumentalizzabile, ma debbono essere visti in un rapporto di co-originarietà con la democrazia; la teoria che parla di tale co-originarietà è pienamente giustificata, se la prassi dell’autolegislazione è istituzionalizzata nella “forma dei diritti politici di partecipazione attiva” e se, ad imprescindibile supporto di ciò, si pone la persona giuridica con tutti i suoi diritti individuali e con tutti i diritti legati al concetto di libertà28. 26
Cfr FN 128. Cfr SE 133 s. 28 «Nel mio libro [Fatti e norme] ho cercato di suffragare argomentativamente una certa intuizione: i diritti dell’uomo non debbono né essere fatti cadere dall’alto sul legislatore sovrano né semplicemente strumentalizzati ai suoi scopi politici. Autonomia privata e autonomia civica si presuppongono a vicenda. Più precisamente, la cooriginarietà di sovranità popolare e diritti dell’uomo si spiega col fatto che la prassi civica dell’autolegislazione dev’essere sempre istituzionalizzata sotto forma di diritti politici di partecipazione attiva. Il che presuppone però lo status di persona giuridica quale titolare di diritti individuali: e qualunque ordinamento fondato su tale status non può esistere senza i classici diritti di libertà. Non esiste 27
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La struttura discorsiva della normatività e della razionalità, così come è presentata da J. Habermas, è volta a garantire il diritto e la razionalità dal soggettivismo e dall’arbitrarietà. b) Diritto e potere politico. Il sistema dei diritti individuali viene amministrato da chi ha titoli e capacità di imporre decisioni in modo vincolante per tutti i partecipanti alla convivenza organizzata. Il carattere universalmente vincolante di queste decisioni dipende dalla forma giuridica con cui vengono proposte. Il nesso tra diritti individuali, obbligatorietà universale e forma giuridica collega il diritto alla politica, e ancora più precisamente al potere politico, e ci fornisce alcuni strumenti per orientarci all’interno della discussione che concerne diritti oggettivi e diritti soggettivi. Lo spazio in cui il vincolo viene imposto ed anche sanzionato è quello di una convivenza ben identificata e ben strutturata sia al suo interno che nei suoi rapporti con l’esterno. Come è facile comprendere, si tratta dello stato. Non è il caso di fermarsi, nella presente circostanza, sulle considerazioni che Habermas fa sulla complessa articolazione giuridica dello stato. Basti ricordare che la struttura ed il dinamismo dell’intera compagine dello stato deve concretizzarsi nel riconoscimento a tutti i cittadini, in piena logica di uguaglianza e di libertà, della titolarità della fruizione dei diritti individuali e dei diritti politici di partecipazione. Le funzioni ed i poteri dello stato non sono soltanto meri dati funzionali al sistema dei diritti ma anche fattori del diritto oggettivo implicati nei diritti soggettivi. Ne segue che il potere politico non è un fattore che viene dall’esterno e si giustappone al diritto, ma ne è un presupposto e si esprime nelle figure proprie di esso. Questi dati si ritrovano immediatamente nel concetto complesso di “Stato di diritto”. Prendere atto di ciò è come vedere la sovranità popolare, di cui abbiamo parlato, passare dall’intreccio con la libertà individuale, senza per altro spezzarlo, all’intreccio con il potere statale. In tal modo lo stato, che per un verso limita la sovranità popolare, in quanto la norma e la organizza, e per un altro verso la custodisce, perché la garantisce con la sua autorità, toglie alla sovranità popolare la forma di assemblea dei cittadini autonomi e le conferisce quella dei corpi legislativi e degli organismi rappresentativi.
dunque nessun “diritto” positivo senza questi “diritti”. E il diritto positivo diventa l’unico linguaggio che consenta ai cittadini di garantirsi reciprocamente la partecipazione attiva alla prassi autolegislativa dando fondamento reale alla sovranità popolare» (ibid., 134 s.).
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Quando la stato di diritto è pensato nei termini della teoria discorsiva, il potere politico assume una doppia figura: quella del potere comunicativo e quella del potere amministrativo. Trattandosi di stato di diritto, la giustizia deve essere sempre tenuta presente ed attuata come fonte di legittimità dello stesso diritto. Per quel che concerne il punto preciso del nesso interno che intercorre tra diritto e potere politico, Habermas si occupa della tensione che viene a determinarsi tra fattualità e validità nel potere politico così come si attiva nello stato di diritto. L’idea illuminante fondamentale è che il potere politico è intrinsecamente legato al diritto e si legittima in forza di questo legame. Per questa ragione, il diritto non può essere considerato da un punto di vista meramente empirico e, quindi, soltanto come uno strumento nelle mani del potere politico. Il potere politico acquisisce la sua validità normativa se si trova unito con il diritto e se quest’ultimo funziona come risorsa di giustizia. Fino a quando è così, il potere politico conserva la sua legittimità; quando invece tale forma di potere compie l’operazione arbitraria di trasformare il diritto in uno strumento della ragion di stato, tutto precipita. La necessità di evitare fatti di questo genere esige, secondo il nostro francofortese, che il potere comunicativo, che come si sa è generatore di diritto, sia sempre alla base del potere amministrativo. J. Habermas precisa la sua posizione dialogando con H. Arendt e prendendo nota di quanto ella scrive nell’opera Über die Revolution: non c’è legittimità, senza che il potere amministrativo sia sostenuto dal potere comunicativo29; il potere comunica-
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«A una prospettiva molto diversa ci conduce il concetto di “autonomia politica” elaborato dalla teoria discorsiva. Questo concetto ci spiega perché non si può produrre diritto legittimo senza mobilitare la libertà comunicativa dei cittadini. Secondo questa spiegazione, la legislazione presuppone la generazione d’un tipo diverso di potere, cioè di quel potere comunicativo che secondo Hannah Arendt nessuno può, a rigore, semplicemente “possedere”. “Il potere scaturisce tra gli uomini quand’essi agiscono assieme, e svanisce appena si disperdono”. Secondo questo modello, diritto e potere comunicativo nascono cooriginariamente da quella “opinione in cui molti si siano pubblicamente trovati concordi”. Questa lettura dell’autonomia politica nei termini della teoria discorsiva ci costringe a differenziare internamente il concetto di potere politico. Se non vogliamo che inaridisca la risorsa di giustizia da cui il diritto trae legittimità, allora bisogna che al fondo del potere amministrativo dello Stato ci sia sempre un potere comunicativo generatore di diritto» (FN 175 s.).
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tivo non è sopraffazione, ma “volontà comune” prodotta dalla comunicazione libera30; la legittimità implica la sinergia di diritto e potere31. La conclusione personale tratta dal Nostro dal confronto con H. Arendt è inequivocabile. Quanto è stato detto circa il rapporto tra potere comunicativo e diritto non è da intendere soltanto nel senso che il potere amministrativo deve la sua legittimità al suo rapporto con il potere comunicativo, ma soprattutto nel senso che quest’ultimo, senza perdere in alcun modo la propria identità, per mezzo del medium del diritto si trasforma in potere amministrativo: «Propongo perciò di considerare il diritto come il medium attraverso cui il potere comunicativo si converte in potere amministrativo. Infatti la trasformazione del potere comunicativo in potere amministrativo ha il senso di un’autorizzazione entro il quadro stabilito delle competenze»32.
In tal modo, lo stato di diritto può essere considerato, per un verso, l’esigenza di stabilire un legame forte tra il sistema amministrativo ed il potere comunicativo e, per un altro verso, l’esigenza di garantire il sistema amministrativo di fronte alla dinamica fattuale ed alla forza degli interessi che sono tipici del potere sociale. Il potere amministrativo deve essere sottratto alla logica degli automatismi e deve essere irrorato dal diritto che ha nel potere comunicativo una sua fonte33. Insomma, un sistema di diritti 30 «Diversamente che in Max Weber, il potere come fenomeno fondamentale non consiste per Hannah Arendt nella possibilità d’imporre — in una relazione sociale — la propria volontà a chi è riluttante, bensì nel potenziale d’una volontà comune che nasce dalla libera comunicazione. Essa contrappone il “potere” (Macht) alla “violenza” (Gewalt), vale a dire la forza generante consenso di una comunicazione rivolta all’intesa, da un lato, alla capacità di strumentalizzare per i propri scopi una volontà estranea, dall’altro. “Il potere corrisponde alla capacità umana non solo di agire ma di agire di concerto”. Questo potere comunicativo può nascere soltanto da una sfera pubblica non manipolata e derivare soltanto da quelle strutture d’intatta intersoggettività caratterizzanti una comunicazione non-distorta» (ibid., 176 s.). 31 «Il potere è concepito da Hannah Arendt […] come quella forza autorizzante che nasce quando si crea diritto legittimo e quando si fondano delle istituzioni. […] Ciò che Hannah Arendt cerca di rintracciare nei diversi contesti storici […] è sempre lo stesso fenomeno: l’intrinseco coniugarsi di potere comunicativo alla produzione di diritto legittimo. […] Ora il diritto si collega fin dall’inizio con un potere comunicativo generante legittimità» (ibid., 177 s.). 32 Ibid., 180. 33 Cfr ibid., 180.
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razionalmente e solidamente fondato dà lo stesso significato e lo stesso valore all’autonomia privata ed all’autonomia pubblica34. Ciò però non è da intendere nel senso di un livellamento qualunquistico delle due autonomie, ma nel senso che esse sono reciprocamente di supporto. Di conseguenza, lungi dall’intralciarsi, si presuppongono a vicenda, e cioè non solo non sono in concorrenza, ma anche si tutelano reciprocamente e sono l’una condizione della possibilità e del mantenimento dell’altra35.
4. LA DEMOCRAZIA Il nesso che lega sovranità popolare, potere comunicativo, diritto e politica porta le riflessioni di Habermas nello spazio concettuale, semantico e prassico della democrazia. Del resto, per il Nostro è chiaro che il principio di discorso, su cui egli insiste tanto, diventa principio democratico solo mediante l’istituzionalizzazione giuridica. L’intreccio che si viene a produrre tra principio di discorso, forma giuridica e principio democratico è per lui il luogo di una vera e propria “genesi logica dei diritti”. Egli ne parla nei termini seguenti: «Quest’intreccio viene da me inteso nei termini di una genesi logica dei diritti che si tratta di ricostruire nei suoi passaggi successivi. Si parte dall’applicazione del principio di discorso al diritto tutelante in generale le libertà individuali (cioè al diritto costitutivo della forma giuridica come tale) e si finisce nell’istituzionalizzazione giuridica delle condizioni per l’esercizio discorsivo dell’autonomia politica, cioè dell’autonomia con cui possiamo sviluppare giuridicamente a posteriori un’autonomia privata dapprima posta solo in termini astratti. Per questo il principio democratico può presentarsi solo come nucleo di un sistema di diritti. La genesi logica di questi diritti forma un processo circolare, all’interno del quale il codice giuridico e il meccanismo generativo di diritto legittimo (cioè il principio democratico) si costituiscono fin dall’inizio cooriginariamente»36.
34
Cfr ibid., 143 s. Cfr J. HABERMAS, La fondazione discorsiva del diritto, in Ragion pratica 6 (1998) 153-159; ID., Legittimazione in forza dei diritti umani, cit., 3-13; W. PRIVITERA, Il confronto fra culture: tra fatti e norme, in Fenomenologia e società 20 (1997) 2, 21-26. 36 Cfr FN 147. 35
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Il diritto legittimo si lascia condurre dalla logica dell’inclusione di chi ha titolo per esprimere la pretesa ad essere incluso. In tal senso, J. Habermas sostiene che la tolleranza, e precisamente la tolleranza religiosa, è all’origine della democrazia. La tolleranza religiosa non solo ha consentito l’accesso di alcune diversità nella compagine dello stato rigidamente unitario ed uniforme, ma soprattutto ha aperto la porta alla possibilità dell’inclusione degli estranei, assumendo in tale campo un ruolo esemplare, che viene effettivamente attuato nelle democrazie37. L’intera storia della socializzazione e delle istituzioni attesta il protendersi dell’umanità verso questa meta. L’energia che ha costantemente sostenuto questo particolare protendimento dell’umanità è di natura intensamente etica. La socializzazione viene creata mediante il patto sociale, il cui dispositivo determinante è il principio giuridico. Il patto sociale, a sua volta, avendo una certa quale struttura formale di intersoggettività ed essendo privo di contenuti, costituisce come il modello ideale di ogni socializzazione. Sorgendo in una tale cornice, il principio giuridico si trova al vertice delle istituzioni in virtù del procedimento democratico. Siffatto procedimento è, secondo la logica discorsiva dell’agire comunicativo, profondamente ispirato dalla moralità e, di conseguenza, conduce ad un diritto moralmente fondato, fino alla massima espressione della moralità intersoggettiva, che è la stessa sovranità popolare. J. Habermas denunzia la pericolosità generale, ma in particolare per la democrazia, del rifiuto della prospettiva intersoggettiva, rifiuto che si manifesta in coloro i quali si trincerano da se stessi dietro il fronte del dogmatismo ed all’interno di un ghetto autocostituito38. Già nel 1970, scrivendo ad E. Topitsch, preoccupato che il movimento studentesco di protesta potesse essere l’inizio “della distruzione della libertà e della democrazia nel nome della libertà e della democrazia”, dice che è necessario, prima di esprimere giudizi e condanne, incontrare nella dialettica del dialogo coloro che offrono motivi di preoccupazione e di diffidenza39. Dunque, la moralità, strutturalmente congiunta con l’intersoggettività e con il dialogo, che ne è l’anima, è una delle sorgenti dell’evento della democrazia. Di fatto, diritti 37
Cfr J. HABERMAS, Dalla tolleranza alla democrazia, in Micromega 17 (2003) 325. Cfr ID., Einleitung, in ID. (ed.), “Geistigen Situation der Zeit”, Frankfurt a.M. 1979, I, 13. 39 Cfr ID., Machtkampf um Umanität (1970), in ID., Kleine Politische Schriften, I-IV, cit., 311-317. 38
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umani e principio di sovranità popolare sono il sostegno del diritto moderno. Il loro nesso, secondo Habermas, dà alla comunicazione, che è richiesta affinché vi sia una produzione giuridica legittima, la forma di istituzione giuridica. I diritti umani, così, vengono a costituire la condizione necessaria perché la formazione discorsiva dell’opinione e della volontà acquisisca una consistenza giuridico-istituzionale e diventi sostegno della configurazione giuridica della sovranità popolare40.
4.1. Democrazia deliberativa Nella concezione di Habermas la democrazia ha, tra l’altro, una funzione epistemica. Ciò significa che il processo democratico è sorgente di legittimità giuridica, e lo è in quanto ne fornisce la necessaria giustificazione sul fronte della razionalità. In questo caso, la legittimità delle norme si basa su un consenso motivato razionalmente. Ovviamente, la motivazione deve essere proposta discorsivamente in termini pragmatici e deliberativo-dibattimentali e deve essere acquisita in forza dell’argomento migliore. A tale proposito, Habermas precisa: «La legittimazione dipende da una adeguata istituzionalizzazione giuridica di quelle forme di discorso razionale, e di equa trattativa, che fondano la presunzione di una accettabilità razionale dei risultati»41.
Veniamo a trovarci di fronte alla ricerca della legittimità procedurale lungo il percorso della politica deliberativa indicato ed aperto dal processo democratico, in cui operano procedure cognitive, decisionali e giuridiche42. J. Habermas precisa il suo approccio alla democrazia tenendo conto della complessità della società industriale avanzata e, quindi, configurandolo come approccio radicale. Questo approccio radical-democratico viene da lui chiamato “democrazia deliberativa” ed è il modello che egli ritiene idoneo all’organizzazione delle moderna società complessa. Una società di questo genere ha un processo di sviluppo politico chiamato a misurarsi con una sua dimensione costitutiva, che è la burocratizzazione generalizzata, e 40 41 42
Cfr FN 116-128. J. HABERMAS, La fondazione discorsiva del diritto, cit., 157. Cfr ibid., 156 s.
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con una componente che la segna in modo trasversale, e cioè con il disinteresse crescente dei cittadini nei confronti della classe politica e, in genere, della politica. La politica deliberativa è strutturalmente procedurale e discorsiva e, quindi, per intenderla adeguatamente, occorre tener conto delle varie forme comunicative che concorrono alla formazione di una volontà comune. Habermas indica le seguenti: “autochiarimento etico”, “bilanciamento degli interessi e compromesso”, scelta degli strumenti con ottica “razionale rispetto allo scopo”, “fondazione morale” e “verifica della coerenza giuridica”. La possibilità che il sistema politico ha di pervenire a risultati razionali dipende dal ruolo esercitato dalle condizioni comunicative. Certamente, la democrazia deliberativa attinge alla teoria della formazione della politica e della democrazia sia secondo la concezione liberale, che propone quale strumento della formazione dell’opinione e della volontà il compromesso tra gli interessi, sia secondo la concezione repubblicana, che privilegia lo strumento dell’autochiarimento etico, ma integra le due prospettive con la proposta di un’unica ideale procedura consultiva e deliberativa. L’integrazione in questione è talmente significativa che può essere considerata l’esito di una critica nei confronti dei due tipi di democrazia ed un loro superamento. Di entrambi Habermas critica la visione della società incentrata sullo stato e l’approccio legalistico della dimensione normativa. Quanto, poi, al liberalismo, osserva con occhio critico varie concezioni, come quella del paradigma, che è strutturato alla maniera di un dialogo di mercato, quella del governo, che consiste in un apparato attento soprattutto all’amministrazione pubblica, quella della società, che consta di privati che si integrano sulla base della dinamica del mercato, quella della libertà, che è negativa e che s’identifica con la rimozione da parte dello stato degli ostacoli alla libera espressione dell’individuo, quella della convivenza, che si svolge con logica competitiva, quella della democrazia, che si costruisce mediante compromessi tra interessi contrastanti. Della visione repubblicana apprezza il paradigma, che implica la comunicazione pubblica e la reciproca comprensione tra i cittadini, la democrazia, che è pensata nei termini originali di istituzionalizzazione della dimensione comunitaria dell’uso pubblico della ragione da parte di cittadini liberi, i cittadini, che sono in rapporto di reciproca dipendenza, i diritti dei cittadini, che sono concepiti nella prospettiva della libertà positiva, ma disapprova il “sovraccarico etico”, che si riversa sulla vita pubblica, concepita come vita di una comunità etica, sulla comunicazione, impostata in modo comunitaristico ed animato da un
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discorso politico ispirato eticamente, sulla democrazia, alimentata da un discorso etico-politico. Insomma, Habermas ritiene non condivisibile né la liberale accezione negativa dei diritti dell’uomo, che implica il rischio dell’adozione di un paradigma tutto incentrato sul mercato e sulla competizione, né la repubblicana accezione della società, che ritiene che il discorso etico possa garantire la convivenza organizzata sul fronte della produzione democratica delle regole del gioco, sul fronte dell’autonomia civica e sul fronte del consenso. Le connotazioni normative del modello a lui gradito debbono essere più forti rispetto al modello liberale e più deboli rispetto al modello repubblicano e, comunque, determinate proceduralmente fino al punto da resistere alla forza normativa del legalismo. Parlando dell’immagine dello stato e della società proposta dalla “teoria del discorso”, J. Habermas, si ferma a considerare una serie di dati: il sistema politico, che, intrecciando sovranità popolare e linee periferiche della sfera politica pubblica, è volto a contrapporre all’apparato statale una società decentrata; il carattere deliberativo della politica, che, più che su una cittadinanza impegnata ad operare come collettività integrata eticamente, dipende dalla istituzionalizzazione delle procedure e delle condizioni di comunicazione; la volontà politica, che viene legittimata mediante presupposti comunicativi che fanno spazio all’argomento migliore e mediante procedure che consentono negoziazioni giuste; i presupposti e le procedure comunicative, che fanno da supporto a negoziati e ad argomentazioni e da valvole di razionalizzazione discorsiva degli eccessi istituzionalizzati dell’amministrazione della convivenza organizzata; l’intersoggettività, che si attua mediante i processi comunicativi dei percorsi informali della sfera pubblica e dei percorsi istituzionalizzati delle assemblee parlamentari43. Occorre fare oggetto di costante attenzione il fatto che il dinamismo della democrazia deliberativa è fornito dalla teoria del discorso, che mira all’intersoggettività di livello superiore, tipica dell’intesa. La democrazia che ne risulta è strutturalmente discorsiva ed ha il luogo tipico e proprio in una società decentrata, senza che questo impedisca che la sfera pubblicopolitica si configuri come uno spazio unitario, come un’arena, in cui discutere problemi sociali complessivi. La formazione discorsiva dell’opinione e della volontà conferma l’idea di sovranità popolare, solo che la configura con modalità rigorosamente intersoggettive e, dunque, democratiche, volte 43 Cfr ID., Tre modelli normativi di democrazia: liberale, repubblicano, procedurale, (1994), in R. KERNEY – M. DOOLEY (edd.), Questioni di etica, cit., 157-167.
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a farne una forma di potere posto in essere in modo comunicativo. Il successo della politica deliberativa è strettamente legato, fino a dipenderne, all’istituzionalizzazione di presupposti comunicativi ed all’interazione tra eventi comunicativi istituzionalizzati ed opinioni pubbliche informali. Ovviamente, non bisogna trascurare il fatto che la politica deliberativa è solo un fattore della complessità sociale44. In conclusione, per capacitarci della concezione habermasiana della democrazia deliberativa, possiamo fare ricorso alle parole dello stesso Habermas: «Rispetto alle concezioni classiche, il modello della teoria discorsiva si colloca in senso trasversale. Se la sovranità comunicativamente fluidificata dei cittadini s’insedia nel potere di discorsi pubblici che per un verso scaturiscono dalle sfere pubbliche autonome, ma per l’altro verso prendono forma concreta nelle deliberazioni di corpi legislativi che procedono democraticamente e hanno responsabilità politica, allora il pluralismo delle convinzioni e degli interessi, lungi dall’essere represso, verrà svincolato e apertamente riconosciuto sia attraverso decisioni di maggioranza suscettibili di revisione sia attraverso compromessi. L’unità di una ragione interamente proceduralizzata si ritira così nella struttura discorsiva delle comunicazioni pubbliche. A nessun tipo di consenso essa concede spontaneità [Zwanglosigkeit] e dunque vera forma legittimante, se non a quello che prende piede sotto una riserva fallibilistica e in base a libertà comunicative anarchicamente svincolate. Nella vertigine di questa libertà non abbiamo altro punto di riferimento se non lo stesso procedimento democratico: il cui senso risulta per altro già interamente deciso nel sistema dei diritti»45.
Come si vede, nulla è lasciato al caso, ma tutto è messo nelle mani vertiginosamente creative della libertà. I punti fermi sono costituiti dal procedimento democratico e dal sistema dei diritti, che lo legittima, lo sostiene e gli consente concretamente di essere fecondo.
44 45
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Cfr IA 241-248. FN 220 s.
4.2. Democrazia e diritto J. Habermas, dopo aver preso atto del fatto che E. Durkheim dice che la società consegue, per mezzo della democrazia, il livello più puro di consapevolezza, afferma, alimentando il suo pensiero con quello durkheimiano, che «Durkheim ravvisa la superiorità morale del principio democratico nell’istituzione di una formazione discorsiva della volontà politica»46.
Così, la sovranità popolare, che è la sostanza della democrazia, si illumina dell’eticità del processo discorsivo democratico, che si inscrive nello stesso spazio semantico della razionalità. È proprio questo dato che consente di avviare la riflessione e le procedure per fare evitare alla democrazia il rischio della privatizzazione. L’enfatizzazione del momento etico potrebbe favorire l’interpretazione della sfera pubblica nei termini riduttivi dell’ambito privato. Invece, la razionalità applicata alla democrazia porta immediatamente al diritto, il quale, con la sua capacità di vincolare i partecipanti mediante l’obbligo giuridico, fa sì che quanto proviene dalle sfera privata si collochi pienamente nella sfera pubblica e che la sfera pubblica si configuri come uno strumento efficace della solidarietà democratica. Il modello democratico nella sua maturità non può non situarsi a questo livello47. La democrazia fornisce, con il superamento del rischio della privatizzazione, la garanzia iniziale del superamento del rischio di una concezione decisionistica della validità del diritto. Infatti, lasciandosi condurre dalla logica democratica, si trovano risposte soddisfacenti per domande importanti concernenti non solo la validità ma anche la solidità giuridica e la legittimità della democrazia. Ad una prima domanda: «perché il processo democratico è considerato una procedura di giurisdizione legittima»48
viene data la seguente risposta:
46 47 48
TAC II, 654 s. Cfr W. PRIVITERA, Sfera pubblica e democratizzazione, cit., 111. TSF 7.
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«il processo democratico, nella misura in cui soddisfa le condizioni di una formazione inclusiva e discorsiva dell’opinione e della volontà, giustifica la presunzione di accettabilità razionale dei risultati»49.
Ad una seconda domanda: «perché la democrazia e i diritti dell’uomo si intrecciano in una comune origine nel processo costituente»50
si risponde nel seguente modo: «l’istituzionalizzazione giuridica di una tale procedimento di giurisdizione democratica esige la contemporanea concessione dei fondamentali diritti vuoi liberali, vuoi politici»51.
4.2.1. Democrazia e Stato di diritto Nelle società moderne, in senso non solo cronologico ma soprattutto sociale e culturale, la democrazia, che è la forma di organizzazione sociopolitica variamente affermata, è un sistema politico in continuo sviluppo. Ne è fulcro determinante la formazione della volontà politica. Certo, la democrazia è pensata da Habermas come uno strumento per pervenire alla composizione degli interessi, ma soprattutto è pensata come dispositivo per produrre discorsivamente la volontà politica. Il processo democratico di formazione della volontà politica provoca, secondo J. Habermas, uno spostamento del potere. Prima dell’avvento della democrazia, il potere veniva attribuito a titolari che ne erano naturalmente legittimati. Con l’avvento della democrazia, accadono soprattutto due cose: il potere non è più riconosciuto quale dato naturalmente legittimato e viene gradualmente attribuito ai ceti che hanno ruoli dominanti all’interno dello spazio socio-politico, e segnatamente ai ceti che creano e sostengono il “sistema economico capitalistico”; le forme di “affermazione discorsiva della volontà”, anche
49 50 51
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L. c. L. c. L. c.
se debbono superare molti ostacoli, si affermano sempre più52. La volontà, così, viene come condotta alla sua propria effettività dalla ragione comunicativa, che trova la via per soddisfare il proprio bisogno di istituzionalizzazione giuridica mediante la democrazia, la quale, a sua volta, riesce a reggersi in un mondo problematico, contraddittorio e quanto mai inidoneo ad accoglierla per mezzo del diritto. L’organizzazione politica che ne consegue è lo stato di diritto. Realtà di stato di diritto e sua modalità democratica si richiamano e si implicano reciprocamente. Il che significa sia che i cittadini, destinatari delle norme giuridiche, ne sono anche i coautori, sia che la sovranità popolare si attiva nella sinergia di processi comunicativi informali e di processi comunicativi istituzionalizzati. A partire da questi convincimenti, il Nostro valuta la dottrina dello stato sviluppatasi in Germania in vari momenti storici, a partire dal 1848: questa dottrina, che presumeva di dare vita allo stato di diritto senza realizzare nel contempo la democrazia, in verità era un errore colmo di gravi conseguenze, perché i loro autori ritenevano di potere stabilire il diritto separatamente dalla democrazia e pensavano che il diritto fosse più una forma di esercizio del potere politico che un medium di integrazione sociale53. Invece, gli ideali del diritto e della democrazia non possono esistere separatamente. A tale proposito, J. Habermas non esita a formulare una affermazione inequivocabile: «Solo se coniugato all’idea di stato di diritto, il principio democratico può trovare la sua realizzazione»54.
Per altro verso, in modo altrettanto fermo egli esprime la convinzione che il diritto non possa avere consistenza ed autonomia senza la realizzazione della democrazia. Sulla base di tutti questi dati, J. Habermas afferma che la democrazia da lui proposta è una democrazia comunicativa55. Nelle società complesse la democrazia ha possibilità effettive solo se viene concepita come teoria comunicativa. Del resto, soltanto in questo caso viene mutata la dinamica del rapporto centro-periferia propria delle società non democratiche: in 52 53 54 55
Cfr TAC II, 741. Cfr SE 146 s. TP 98. Cfr SE 143 s.
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queste ultime società il flusso comunicativo è unidirezionale, e cioè va dal centro alla periferia; nelle società democratiche, invece, il flusso comunicativo, consentendo alle sfere private di esprimersi liberamente, è multidirezionale ed ha inizio sia al centro che alla periferia; nel caso della comunicazione unidirezionale, si ha la trasmissione, mentre, nel caso della comunicazione multidirezionale, si ha la comunicazione vera e propria56. Nella democrazia comunicativa, infatti, si dispongono in equilibrio simmetrico ed armonico diritti, partecipazione politica e libertà comunicativa. Sicché, l’autonomia politica viene vissuta secondo la modalità dei diritti politici in un contesto di opinione e di volontà formato discorsivamente. La “giuridificazione” presuppone la democratizzazione, e questa a sua volta presuppone la libertà comunicativa57. Habermas si chiede se in democrazia il seggio dell’antico sovrano debba essere occupato, e risponde negativamente, facendo riferimento al carattere paradossale del diritto: «Nella democrazia infatti questo seggio deve sempre rimanere vuoto, e non soltanto nel senso letterale del termine. La prestazione (solo apparentemente) paradossale del diritto consiste in ciò: esso imbriglia il potenziale conflitto di svincolate libertà individuali attraverso norme che tutelano l’eguaglianza e che sono coattive soltanto in quanto riconosciute come legittime sul vacillante terreno di svincolate libertà comunicative»58.
Ciò significa che una convivenza può mantenere la sua organizzazione solo a condizione che vengano prese delle decisioni vincolanti, e cioè decisioni rivestite della forma giuridica idonea. Significa, altresì, che tra diritto e potere politico esiste un nesso interno. J. Habermas ha una concezione radicalmente democratica dello stato di diritto. Il che comporta che l’esigenza della legittimazione venga sempre tenuta presente e venga sempre soddisfatta. Non bisogna mai dimenticare, però, che si tratta di legittimità procedurale, per sua natura complessa. Ed Habermas si ferma ad esaminarla:
56 57 58
184
Cfr ibid., 117. Cfr FN 153. SE 111.
«Ci sono tre diversi generi di procedure che s’intrecciano nel processo democratico: a) le procedure puramente cognitive delle varie forme di discussione; b) le procedure decisionali che collegano le decisioni alle discussioni precedenti (di solito la “regola di maggioranza”); c) le procedure giuridiche che specificano e regolano in maniera vincolante gli aspetti materiali, sociali, e temporali dei processi formativi dell’opinione e della volontà»59.
In questa materia l’importante è, secondo Habermas, tenere sempre in rapporto ed in tensione principio di discorso e norma giuridica: «L’idea decisiva sta nel ricondurre il principio democratico all’intreccio che si crea tra principio di discorso e forma giuridica»60.
Il principio democratico, dunque, è lo stesso principio del discorso che si pone e si corrobora come sistema di diritti che garantisce l’uguaglianza dei partecipanti ai processi discorsivi di ogni genere61. È vero che J. Habermas afferma che negli scritti precedenti Faktzität und Geltung non ha distinto adeguatamente tra principio di discorso e principio morale e che in questa opera cercherà di ovviare a tale insufficienza, ma non si può non dire che, nonostante queste precisazioni, la distinzione non può essere reale fino al punto da comportare una separazione62. S. Petrucciani osserva opportunamente che il dubbio che la distinzione tra i due principi sia reale è più che legittimo, ed argomenta nel modo seguente: non è agevole distinguere tra principio di discorso e principio morale, se è vero che il primo è un principio che presiede all’assunzione dell’imparzialità e della razionalità nelle circostanze nelle quali bisogna prendere decisioni pratiche, ed il secondo è un principio, che è teso anch’esso alla realizzazione della simmetria nella valutazione e nella trattazione degli interessi di tutti ed obbedisce alla stessa logica; molto più agevole è, invece, distinguere tra il principio morale, che, come è stato testé detto, assume l’imparzialità come criterio di giustificazione delle norme, ed il principio democratico, che vuole che siano tutti i cittadini ad approvare le leggi
59 60 61 62
Cfr J. HABERMAS, La fondazione discorsiva del diritto, cit., 157. FN 147. Cfr ibid., 135. Cfr ibid., 133 ss.
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seguendo una prassi legislativa normata dal diritto63. Quanto alla differenza tra principio morale e principio democratico ed al confronto che su questa questione si viene a determinare tra K.O. Apel e J. Habermas, il Petrucciani accede alla posizione del primo, che critica la posizione del francofortese, e non semplicemente per il fatto della spiegazione funzionale della differenziazione che sussiste tra morale e diritto, ma per i caratteri avalutativo e sociologico di tale spiegazione, cui l’Apel in alternativa preferisce attribuire i caratteri normativo e morale. In fondo, K.O. Apel insiste nel criticare J. Habermas a motivo della sua preferenza per l’argomentazione pragmatico-trascendentale rispetto a quella sociologica64. Si può, però, sostenere che tra Apel ed Habermas c’è un sostanziale accordo circa il convincimento che la tenuta dello stato di diritto sia strettamente legata all’eticità democratica, salvo il sorgere di un disaccordo a motivo della consistenza dell’eticità democratica. In Habermas questo tipo di eticità sembra legato alle decisioni dei partecipanti, anche se tra gli studiosi del suo pensiero non manca chi ne sottrae la formazione alla procedura e la attribuisce ad idealizzazioni forti che si reggono sulle radici, di origine simbolico-sacrale, dell’agire comunicativo65. Socializzazione, democrazia, libertà, diritti e soggetto giuridico entrano in relazione tra di loro a motivo del rapporto organico che, esprimendosi in linguaggio habermasiano, ciascuno di essi tiene con il principio del discorso. I cittadini sanno di doversi sottomettere a quelle norme delle quali sono destinatari, ma sanno pure di essere soggetti giuridici e, pertanto, sanno di essere anche autori dei medesimi principi normativi. Sicché, bisogna dire che, nonostante i problemi che possono sorgere, i diritti umani sono un fattore ineludibile ed insostituibile del processo di istituzionalizzazione giuridica della democrazia66. La condizione di soggetti giuridici obbliga i cittadini a manifestare la propria autonomia e ad attuare il progetto dell’autolegislazione mediante un unico medium, che è quello del codice giuridico. I processi formativi dell’opinione e della volontà legi63 Cfr S. PETRUCCIANI, Sul rapporto tra morale e diritto in Fatti e norme di Habermas, cit., 52 s. 64 Cfr K.O. APEL, Dissoluzione dell’etica del discorso? Sull’architettonica della differenziazione dei discorsi in Fatti e norme di Habermas. Terzo tentativo di pensare con Habermas contro Habermas, in Fenomenologia e società 19 (1996) 1-2, 128-150; S. PETRUCCIANI, Etica, politica e diritto, cit., 173 ss. 65 Cfr M. ROSATI, Solidarietà e sacro, cit., 88 s. 66 Cfr J. HABERMAS, La fondazione discorsiva del diritto, cit., 156.
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slativa non hanno altri percorsi legittimi67. Ciò significa che la fondazione normativa dello stato democratico implica una teoria discorsiva del diritto. Stando così le cose, il diritto ha titolo per esprimere la pretensione di meritare il riconoscimento da parte dei suoi destinatari68. Potrebbe sembrare che il diritto si affermi con una autonomia tale da sfociare nell’autoreferenzialità; ed invece non è così, perché l’autentica autonomia del diritto incrocia necessariamente la prassi democratica69. Dunque, secondo J. Habermas, risultano confermate l’idea che il diritto, in quanto assolve alla funzione sociale delicata ed ineliminabile dell’integrazione sociale mediante l’applicazione della logica normativa dell’inclusione degli estranei e della solidarietà nei loro confronti, si pone all’interno di uno stato democratico di diritto ed anche la conseguente idea che lo stato di diritto è concepibile solo in prospettiva prettamente democratica. In Faktzität und Geltung Habermas parla ampiamente del rapporto che intercorre tra democrazia e stato di diritto, un rapporto che, soprattutto in una società secolarizzata in modo profondo ed in ogni senso, non può non essere preso costantemente e seriamente in considerazione e non può non costituire il tessuto unitario e unificante degli eventi sociali e politici. Ciò, però, non è un fatto naturale ed ovvio e, dunque, non è dato per scontato, ma esige una custodia permanente e vigile delle istituzioni liberali. Per questa ragione, la nostra epoca vede camminare insieme una crescente richiesta di democrazia ed un diffuso senso di inquietudine: «Nemmeno nelle democrazie più consolidate le tradizioni liberali sono al sicuro, sebbene qui le popolazioni sembrino spingere verso un di più, e non un di meno, di democrazia. Io credo però che l’inquietudine abbia una causa più profonda. Vale a dire la sensazione che lo Stato di diritto — dopo che la politica si è interamente secolarizzata — non sia più né ottenibile né conservabile a prescindere dalla democrazia radicale»70.
67 68 69 70
Cfr FN 152 s. Cfr J. HABERMAS, Legittimazione in forza dei diritti umani, cit., 3. Cfr MDP 75 s. FN 7.
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4.2.2. Democrazia e diritti Il processo di legittimazione della democrazia è certamente esaltante, ma è altrettanto certo che è lungo e faticoso71. Per potere avanzare lungo questo percorso occorre capacitarsi sia del fatto che principi dello stato di diritto e democrazia non sono in rapporto in modo paradossale, quasi che si tratti di due formule assolute giustapposte e non riconducibili ad unità sinfonica, sia del fatto che tutti i diritti fondamentali contribuiscono al processo di autolegislazione. In questo preciso ambito tematico, la teoria discorsiva è vicina alla teoria contrattualistica, perché, dopo aver parlato della posizione originaria, in cui un certo numero di soggetti umani decide di qualificare la propria convivenza mediante una prassi costituzionale che attivi il principio dell’uguaglianza originaria di tutti i partecipanti e determini il loro impegno a procedere secondo le esigenze di una razionalità comunicativa e di una prassi argomentativa, mette a tema le questioni dei diritti e della loro regolamentazione e perviene alla conclusione che il principio democratico può conseguire la sua realizzazione solo se si lascia fecondare dall’idea di stato di diritto72. Per di più, la decisione e la modalità di fruire dei diritti dipendono dalla volontà dei cittadini. Ciò è ovvio, se è vero che è la loro intesa discorsiva circa le norme di convivenza a conferire legittimità alla legislazione ed è il loro senso di solidarietà e di responsabilità ad alimentare il processo democratico. D’altra parte, la situazione paradossale, che si viene a creare, di fare sgorgare la legittimità dalla legalità può essere superata a condizione che i cittadini non si lascino guidare dalla logica degli interessi ma dalla logica dell’intesa delle loro libertà politiche. La solidarietà, così, diventa il dispositivo per colmare, nel contesto di un progetto dell’uso pubblico della ragione, ogni deficit democratico73. E la solidarietà, che è certamente una canalizzazione della libertà democratica, non è mai una sua limitazione, semmai ne è un potenziamento. Vivere in uno stato democratico di diritto, e cioè in uno stato formalmente animato dall’intreccio di diritto, democrazia e libertà comunicativa, implica, oltre i tanti dati positivi, anche il fattore rischio dell’impossibilità di disporre di un numero adeguato di strumenti normativi per tenere sotto controllo i conflitti di valore derivanti dalle varie forme di vita, che, pur 71 72 73
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Cfr TP 95. Cfr ibid., 95-98. Cfr ibid., 109.
rimando estranee, si trovano a coesistere. Dialogando con Th. McCarthy, J. Habermas tenta di far convivere le differenze neutralizzando i conflitti di valore. A mo’ di esempio, il Nostro menziona l’eutanasia e l’aborto, ma nelle società complesse i casi di conflitto di valori sono innumerevoli. Per disciplinare conflitti di questo genere Habermas mette a punto i due seguenti strumenti funzionali: «a) la garanzia d’una coesistenza giuridicamente equiparata, b) l’assicurazione di legittimità tramite procedura».
Non intendendoci dilungare nell’esposizione delle riflessioni di Habermas e del suo confronto con il McCarthy, riferiamo solo alcuni dati: quanto ad a), in caso di conflitto di valori, irrisolvibile sia mediante il discorso sia mediante il compromesso, l’unica possibile soluzione legale è la tolleranza per un agire che, dal proprio punto di vista, è e resta eticamente deviante; quanto a b), se è in questione un problema etico che non consente una soluzione morale consensuale, una chance effettiva per venirne a capo è nell’applicazione della regola della maggioranza, le cui decisioni trovano legittimità nella razionalità procedurale che la anima74. In tal modo, si evita ogni rischio del deficit di validità e la necessità di ricorrere ad una sanazione di tipo etico75. In breve, il concetto di democrazia ha il primato su ogni altro dato, sia di tipo teoretico che di tipo prassico. Tuttavia, una democrazia, che si afferma nella prassi comunicativa di una comunità intersoggettiva seriamente impegnata a realizzare l’integrazione sociale, mediante l’autodeterminazione, ricerca le condizioni per una intesa il più possibile simmetrica. La ragione per la quale il Nostro si sente in dissenso con i liberali nasce dal loro progetto di dare soluzione ai problemi socio-politici sovrapponendo il sistema dei diritti all’autodeterminazione democratica. Semmai, si deve pensare che diritti dell’uomo e sovranità popolare sono co-originari. Habermas parla di ciò come dell’“unico dissenso” con i liberali76; pertanto, si comprende perché, parlando dei vecchi francofortesi con toni critici, egli dice che non hanno mai tenuto nel debito conto la democrazia borghese77. 74
Cfr SE 27-37. Cfr TSF 8. 76 Cfr SE 146. 77 Cfr J. HABERMAS, in Dialettica della razionalizzazione. Jürgen Habermas a colloquio con Axel Honneth, Eberhard Knödler-Bunte e Arno Widmann, cit., in DR 227. 75
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Lo stato democratico di diritto, secondo il paradigma proceduralista habermasiano, si pone nella storia concreta di un popolo qualificata da una lunga esperienza di libertà ed esige il verificarsi di certe condizioni78. Il paradigma proceduralista si configura e si regge essenzialmente attorno a fattori, che hanno il ruolo di fulcro tematico e di genesi democratica del diritto, e cioè la combinazione continua e la mediazione reciproca tra sovranità popolare giuridicamente istituzionalizzata e sovranità popolare non istituzionalizzata. Ovviamente, un dato previo è il fatto seguente: i protagonisti del processo di formazione dell’opinione pubblica non coincidono con i protagonisti dei processi decisionali, in quanto il loro compito non è quello di governare, bensì quello di controllare ed orientare l’esercizio del potere79. A. Ferrara ci presenta una selezione interessante delle condizioni in questione indicate da Habermas: strutture e norme valide e realizzabili, società civile vivace e sfera pubblica non manipolata, continui ed efficaci processi di formazione di opinione pubblica, carattere anonimo del processo comunicativo che è all’origine della formazione dell’opinione pubblica e della maturazione delle decisioni80. Ci si rende conto immediatamente di una serie di fatti: la sfera pubblica è come una “rete aperta”, si sviluppa lungo flussi comunicativi praticamente illimitati e senza confini, ha la sua sorgente nella Lebenswelt, il suo scopo nel dare vita allo spazio sociale e la sua modalità concreta nel pluralismo, include numerose subsfere, non è riconducibile ai progetti di chi sta in alto e detiene il potere e non può essere pensata né come istituzione, né come organizzazione, né come sistema81.
4.2.3. Democrazia e diritti umani Secondo J. Habermas, la difesa dei diritti umani diventa sempre più pressante ed impellente sia in politica interna che in politica internazionale. Se, al livello della politica interna, si può fare l’esempio delle molteplici diversità, al livello della politica internazionale, si possono fare gli esempi della pulizia etnica e della conculcazione dei diritti delle minoranze 78 79 80 81
190
Cfr FN 545 s. Cfr ibid., 354. Cfr A. FERRARA, Giustizia e giudizio, cit., 94. Cfr FN 220 s., 365, 427 s.
etniche e linguistiche. Quanto al primo livello, si tratta di includere i soggetti, senza recare pregiudizio alla loro alterità. Solo così la convivenza organizzata politicamente dimostra di avere titoli sufficienti per potere ricevere il qualificatore “Stato democratico di diritto”82. In ogni modo, la filosofia politica ha sempre incontrato grosse difficoltà quando si è impegnata a fare una presentazione equilibrata del rapporto tra diritti umani e sovranità popolare, finendo con il compromettere la loro co-originarietà, che di primo acchito ed intuitivamente sembra di evidenza immediata. L’idea di “diritti dell’uomo” è dotata di assolutezza e, pertanto, non può venire proposta con modalità estrinseche o con dinamica funzionale. J. Habermas coltiva il convincimento che la possibilità dell’autodeterminazione civica e la legittimità di tale autodeterminazione si reggano sui diritti dell’uomo. Ciò, però, esige la chiarificazione di un problema che emerge in tale contesto tematico, e cioè il problema del rapporto tra “principio democratico” e “stato di diritto”. In fondo, si tratta della chiarificazione tra due fonti di legittimazione: l’idea di “sovranità popolare”, che anima la democrazia, e l’idea di “governo delle leggi”, da cui è storicamente sgorgata l’idea di “diritti dell’uomo”. Mentre, nella concezione classica, le leggi della repubblica, in quanto espressione della volontà dei cittadini, che è assoluta, sono per ciò stesso dotate di eticità, nella stato di diritto vengono posti dei limiti ad una siffatta assolutezza. E J. Habermas ne espone anche la ragione: «Il “governo delle leggi” pretende che la formazione democratica della volontà non cozzi contro i diritti dell’uomo positivizzati come diritti fondamentali»83.
Queste considerazioni non intaccano la forza dell’idea della co-originarietà di diritti dell’uomo e sovranità popolare, semmai la potenziano: «Non esiste nessun diritto senza l’autonomia privata dei consociati giuridici. Di conseguenza, non esisterebbe nemmeno il medium per istituzionalizzare giuridicamente le condizioni abilitanti i cittadini all’esercizio della loro autonomia politica, se non esistessero i diritti fondamentali tutelanti l’autonomia privata. In tal modo l’autonomia privata e pubblica si presuppongono a 82
Cfr IA 249-259. Cfr D. ZOLO, Il cosmopolitismo kantiano di Jürgen Habermas, cit.,
161-174 83
TP 83.
191
vicenda, senza che né i diritti dell’uomo possano mai pretendere un primato sulla sovranità popolare, né questa possa mai pretenderlo su quelli»84.
Il fattore dinamico che colloca tutto questo in un percorso procedurale effettivo e fecondo è l’uso pubblico della ragione, che fornisce l’alveo per accogliere e sostenere l’affermazione sia dei diritti politici, volti alla partecipazione, sia dei diritti liberali, tesi all’autonomia privata85. Per quel che concerne il livello della politica internazionale, la difesa dei diritti umani consente l’ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano, che il diritto internazionale classico non potrebbe accettare. Ciò significa, tra l’altro, che la politica dei diritti umani potrebbe venirsi a trovare di fronte ad una insufficiente istituzionalizzazione del diritto cosmopolitico. In tal caso, la politica in questione non dovrebbe arrendersi, ma potrebbe anticipare la situazione cosmopolitica implicata nel suo progetto. Lungo questo percorso problematico Habermas vede sorgere un solo limite, quello della Machtpolitik, la realizzazione della quale trasformerebbe i diritti umani in prospettiva morale di valori assunta per valutare gli obiettivi politici. L’attenzione non può non fermarsi sugli USA, i quali hanno sempre miscelato “generosità umanitaria” e “politica imperiale di potenza”, ed il mondo, sia pure tra reazioni e proteste, ci ha quasi fatto l’abitudine. Ma s’impone inevitabilmente una domanda: che cosa si penserebbe, se a farsi carico di una “politica militare dei diritti umani”, e per di più basandosi sulla propria particolare visione del diritto internazionale, fosse un’altra potenza alleata, ad esempio una potenza dell’Asia? Per questo motivo, è necessario proporre, come i paesi europei si sono convinti a fare, un “progetto di giuridificazione complessiva dei rapporti internazionali”. In tale prospettiva, i diritti umani non saranno più giustificazione morale di una condotta politica, ma diritti giuridicamente proposti ed affermati e giuridicamente difendibili. La situazione ideale della proclamazione e della realizzazione dei diritti umani è quella in cui ordine democratico ed ordine giuridico globale s’incontrano, in quanto solo in tale situazione i destinatari dell’ordine giuridico si identificheranno con gli autori. Ma, osserva Habermas,
84 85
192
IA 256. Cfr TP 90.
«dove ciò non accade, le norme restano sempre limitazioni imposte con la forza, per morali che possano essere nel contenuto»86.
La politica dei diritti umani, secondo Habermas, deve essere sottratta alla competenza degli stati nazionali, che la perseguono tra tante riserve ed operando selezioni, e deve essere affidata ad organismi internazionali, che non si imbattono in tali limiti87. La strada obbligata è la trasformazione di qualcosa che ancora ai nostri giorni non è universalmente acquisito e rispettato, e cioè la trasformazione del diritto internazionale in diritto di cittadinanza universale88. Ma ciò implica una serie di passi: il transito dalla classica concezione del diritto internazionale alla condizione cosmopolitica, già ideata da I. Kant, e la costituzionalizzazione del diritto internazionale89. Certo, Habermas non ha di mira il trascendimento del diritto internazionale in “repubblica mondiale”, anch’essa vagheggiata dal Kant, anche perché lo stesso filosofo di Königsberg non poté non rinunziarvi a motivo della considerazione dell’egoismo degli stati nazionali e dovette contentarsi del surrogato della semplice lega tra i popoli90, ma è fermamente convinto del fatto che «L’organizzazione mondiale è giustamente orientata all’inclusione totale»91.
Nella mente del francofortese, l’idea di inclusione totale riguarda non soltanto tutti i popoli e tutti i singoli individui ma anche tutti gli aspetti giuridici implicati. Il mutamento è di grande portata antropologica e politica: «L’idea della condizione cosmopolitica è più ambiziosa, perché traspone dal piano nazionale a quello internazionale la positivizzazione dei diritti civili e di quelli umani. Il nucleo innovativo di quest’idea sta nella conseguenza rappresentata dalla conversione del diritto internazionale, in quanto diritto degli Stati, in un diritto cosmopolitico in quanto diritto di individui»92. 86 87 88 89 90
Ibid., 20; ma, cfr ibid., 11-21. Cfr OD 7. Cfr TP 12. Cfr OD VI, 75, 118. Cfr I. KANT, Zum ewigen Frieden, trad. it., Per la pace perpetua, Milano 1997;
OD 118. 91 92
OD 99. Ibid., 117.
193
4.3. Democrazia e libertà La democrazia, che associa ai concetti di diritto anche quelli di intersoggettività e di autodeterminazione, ci conduce velocemente negli spazi semantico ed operativo del concetto di libertà. Oltre alla ragione ovvia della mutua appartenenza dei concetti appena ricordati, Habermas mette in evidenza un’altra ragione, anch’essa ovvia, ma non altrettanto immediatamente percepibile: le istituzioni giuridiche della libertà sono stabili e durature solo presso popolazioni di tradizione democratica93. Habermas porta l’esempio della ex DDR, la quale, dopo la recente riunificazione tedesca, che ha fatto seguito alla caduta del muro di Berlino del 1989, e le grandi nostalgie ed attese legate ad un evento così straordinario, ha fatto l’esperienza amara della delusione. Come è risaputo, la delusione affligge l’intera popolazione tedesca. Tra le ragioni che sono all’origine di una tale situazione Habermas non nomina la perdita dell’abitudine alla libertà, ma consente al lettore di evocarla; e lo fa quando dice che una parte della popolazione dei nuovi Länder della Repubblica Federale Tedesca non era preparata a reagire in maniera adeguata, né sotto il profilo cognitivo né sotto il profilo emotivo, alle numerose e pressanti novità sgorganti dallo sconvolgimento della situazione socio-politica, cui si era abituata a partire dalla fine della seconda guerra mondiale94. Nessuna meraviglia che si vengano a verificare situazioni di tal fatta, se è vero che la tradizione democratica ed il sentire democratico non vengono posti in essere per decreto, ma sono il tessuto stesso del continuum della vita e dell’esperienza di un popolo95. In fondo, si tratta dell’eticità democratica dei cittadini, che consiste proprio nella libertà democratica assunta come prospettiva della convivenza organizzata. L’eticità democratica non potrà mai essere presa come una forma di limitazione, in quanto si attiva nel processo di formazione democratica 93
Cfr FN 157. Cfr DU 56. 95 «Il diritto può conservarsi legittimo solo se i cittadini dello Stato, uscendo fuori dal ruolo di privati soggetti giuridici, assumono la prospettiva di partecipanti che s’impegnano in processi d’intesa sulle regole della loro convivenza. Perciò lo Stato democratico di diritto dipende dalle motivazioni d’una popolazione già abituata alla libertà — motivazioni che non sono producibili per via giuridico-amministrativa. Ciò spiega perché, nel paradigma proceduralista, siano le strutture non-coercibili d’una vivace società civile e d’una sfera pubblica non manipolata ad accollarsi buona parte delle aspettative normative, a cominciare dall’onere d’una genesi democratica del diritto che si vuole normativa» (FN 545 s.). 94
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della volontà dei cittadini. Habermas precisa, e da parte nostra lo abbiamo accennato un po’ supra, che la storia della filosofia politica attesta che ci sono sempre state tensione e concorrenza tra la formazione democratica della volontà dei cittadini e i diritti fondamentali dell’uomo. Si tratta di due importanti fonti di legittimazione. La questione della priorità della libertà dei moderni oppure della libertà degli antichi è sempre stata oggetto di dibattito. In altri termini, ci si è interrogati se la priorità spetti ai diritti soggettivi di libertà, e cioè ai diritti dell’uomo ed all’autonomia privata dei cittadini, oppure ai diritti della partecipazione politica, e cioè alla sovranità popolare ed all’autonomia politica dei cittadini. J. Habermas non è d’accordo con chi ritiene che i due tipi di libertà siano alternativi e, dunque, che siano in concorrenza. Non esclude la tensione, ma solo fino a quando non è di pregiudizio per la loro co-originarietà: «In certo qual modo noi consideriamo i due principi come egualmente originari. Uno non è possibile senza l’altro, senza che l’uno ponga all’altro dei limiti. Questa idea della cooriginarietà può anche formularsi nel senso che autonomia privata e autonomia pubblica hanno ognuna bisogno dell’altra. Sono due concetti interdipendenti, che stanno in un rapporto di implicazione materiale. Per fare uso adeguato della loro autonomia pubblica, garantita da diritti politici, i cittadini dello stato dovranno essere sufficientemente indipendenti in virtù di una autonoma (ed egualmente tutelata) organizzazione della loro vita privata. I cittadini della società, per contro, sono messi in grado di godere paritariamente dello loro eguale autonomia privata — nel senso che le libertà soggettive paritariamente distribuite possono effettivamente avere per loro un “valore eguale” — solo in quanto, come cittadini dello stato, abbiano già saputo fare uso adeguato della loro autonomia politica»96.
Il tipo di libertà alla quale in questo contesto tematico J. Habermas dedica la sua attenzione è soprattutto la libertà comunicativa, che consiste nella possibilità che colui il quale agisce volto all’intesa ha di assumere un atteggiamento autonomo nei confronti sia delle dichiarazioni dell’interlocutore sia della loro pretesa di validità. Sulla base di ciò, insieme ad Habermas possiamo dire che la libertà comunicativa implica l’acquisizione del carattere intersoggettivo della libertà, in quanto quest’ultima esige la
96
TP 84 s.
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ricerca seria dell’intesa e conferisce il carattere illocutorio al fattore linguistico, e cioè provoca la trasformazione dei rapporti tra gli interlocutori come conseguenza del fatto linguistico97. La conseguenza più significativa di questo dato è che le libertà soggettive sono individualmente ed intersoggettivamente distribuite e tendono effettivamente all’intesa, anche se ciò comporta l’urgenza di passare per la critica di discutibili pretese di validità98. Nella libertà comunicativa il fattore intersoggettività gioca un ruolo determinante. Nel 1997, confrontandosi con M. Theunissen, J. Habermas mostra di condividere considerazioni come le seguenti: l’evento della libertà comunicativa ha luogo quando un soggetto è in se stesso mentre è nell’altro ed è nell’altro mentre è in se stesso; sicché, la filosofia del dialogo attinge la sua consistenza ed il suo significato alla struttura dell’intesa e della partecipazione99. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, la libertà comunicativa consente di mettere a tema le libertà individuali. Ciò accade, innanzitutto, mediante la collocazione del concetto di simmetria nello spazio semantico della libertà comunicativa. Habermas scrive: «I diritti a una eguale partecipazione politica derivano dunque da una simmetrica giuridificazione della libertà comunicativa di tutti i consociati»100.
97 «Insieme a Klaus Günther, io intendo per “libertà comunicativa” la possibilità — mutuamente presupposta nell’agire orientato all’intesa — di prendere posizione sia sulle dichiarazioni della controparte sia sulle implicite pretese di validità con cui tali dichiarazioni postulano un riconoscimento intersoggettivo. A tutto ciò si collegano obbligazioni da cui le libertà individuali giuridicamente tutelate ci dispensano. La libertà comunicativa esiste solo tra attori che, in atteggiamento performativo, vogliono reciprocamente mettersi d’accordo circa qualcosa, ognuno di essi aspettando che l’altro prenda posizione sulle pretese di validità da lui avanzate. Questa dipendenza della libertà comunicativa da un rapporto intersoggettivo spiega perché tale libertà sia sempre collegata a obbligazioni allocutive. […] I soggetti agenti comunicativamente s’impegnano a far dipendere la coordinazione dei loro piani d’azione da un consenso che si basa sia sulle prese di posizione reciproche in ordine a pretese di validità sia sul riconoscimento intersoggettivo di tali pretese di validità. Perciò alla fine contano soltanto le ragioni che le parti interessate trovino egualmente accettabili» (FN 144 s.). 98 Cfr ibid., 153. 99 Cf J. HABERMAS, Kommunikative Freiheit und negative Theologie. Fragen an Michael Theunissen, in ID., Vom sinnlichen Eindruck zum symbolischen Ausdruck, Frankfurt a.M. 1997, 133. 100 Ibid., 153.
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La simmetria, tanto più se è collegata ad un processo di giuridificazione, fa pensare al riconoscimento della libertà di ciascuno dei membri della società in forza di una pretensione giuridica da essa esercitata. Inoltre, J. Habermas parla di dispensa, in forza delle libertà individuali riconosciute e tutelate giuridicamente, dagli obblighi discendenti dalla libertà comunicativa: «Le libertà d’azione individuali […] fondano così una sfera privata in cui ci liberiamo del peso di libertà comunicative vicendevolmente concesse e pretese. Il principio giuridico kantiano che stabilisce un diritto alle libertà individuali può allora essere inteso come l’esigenza di costituire un “codice giuridico” nella forma di diritti soggettivi che esonerano il titolare dalle pretese della libertà comunicativa»101.
Le libertà individuali, una volta aperti, in contesto di libertà comunicativa, gli spazi concettuale e concreto rispettivamente per la loro tematizzazione e per la loro attivazione, vengono considerate senza alcuna difficoltà. L’attivazione concreta delle libertà individuali, anche se non provoca alcuna variazione a livello concettuale, ne provoca un certo numero a livello pratico, soprattutto in termini di limitazione e di eliminazione di privilegi, che arrecano pregiudizio all’uguaglianza di espressione e di fruizione delle libertà soggettive: «L’autonomia privata — nel senso di questo universale diritto di libertà — implica un universale diritto d’eguaglianza, ossia un diritto alla parità di trattamento secondo norme che garantiscano un’eguaglianza giuridica sostanziale. Ciò può certo produrre, per l’una o per l’altra delle parti in causa, delle restrizioni di fatto rispetto allo “status quo ante”. Ma in tal caso siamo di fronte non a restrizioni normative del principio di libertà giuridica, ma all’eliminazione di privilegi che sono incompatibili con l’eguale ripartizione di libertà soggettive richiesta da questo principio»102.
La libertà comunicativa implica anche l’acquisizione del carattere politico della libertà, e cioè implica il fatto che la libertà sia strettamente
101 102
Ibid.,145 s. Ibid.,474.
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legata all’istituzionalizzazione delle forme della comunicazione e della formazione politica dell’opinione e della volontà103. Dal punto di vista politico la libertà è un evento sinergico di tutti i componenti della convivenza organizzata. Habermas afferma che nessuno ha la possibilità di essere libero se non lo sono tutti, e tutti non possono essere liberi se non lo sono insieme104. R. Bubner ritiene che la teoria dell’agire comunicativo possa avere esiti anarchici. J. Habermas, che si lascia provocare da tale annotazione critica, non ha alcuna difficoltà non solo ad ammettere che la libertà comunicativa ha “per forza” una componente anarchica ma anche ad aggiungere che lo stato democratico di diritto, se si impegna veramente nella tutela della simmetria delle libertà individuali, non può non trarre ispirazione da una siffatta componente105. J. Habermas è convinto che le restrizioni della libertà offrano ben altro che garanzie alla democrazia. Ed è questa la ragione per la quale la democrazia deve porsi, e proprio nel bel mezzo della prospettiva giuridica, il problema della tolleranza costituzionale.
4.4. Democrazia e tolleranza In tale contesto ed a tali condizioni, le volontà si formano con procedure deliberative. Al perseguimento di questo scopo giovano la democrazia e la tolleranza: «Se vogliono specificare di comune accordo i limiti della tolleranza reciproca, i cittadini devono far dipendere le loro decisioni da una modalità deliberativa che solleciti le parti, coinvolte e partecipi nello stesso tempo, a una mutua assunzione di prospettiva e a una uguale messa in conto degli interessi. Proprio a questa formazione deliberativa della volontà servono le procedure democratiche dello Stato costituzionale»106. 103
Cfr ibid.,153. Cfr J. HABERMAS, Konservative Politik, Arbeit, Sozialismus und Utopie heute, (1983), in ID., Die neue Unübersichtlichkeit. Kleine Politische Schriften, V, Frankfurt a.M. 1985, 76. 105 Cfr FN 5. 106 J. HABERMAS, Dalla tolleranza alla democrazia, cit., 314. Per la questione della tolleranza cfr ibid., 311-328; ID., in G. BORRADORI, Filosofia del terrore, cit., 46-49. 104
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A questo punto, J. Habermas si trova di fronte ad una grossa difficoltà: lo stato democratico, se e quando si imbatte in nemici della democrazia e della libertà, deve essere tollerante? E, se sì, fino a che punto? Il francofortese si mostra perplesso nel descrivere un criterio di comportamento: lo stato democratico, nei confronti dei nemici della costituzione, non deve avere alcuna tolleranza e, ove necessario, deve essere pronto a ricorrere al diritto penale, a vietare qualche partito politico e, perfino, a privare alcuni cittadini dei diritti fondamentali. Se non si comportasse così, lo stato democratico di diritto non avrebbe altra possibilità che arrendersi ai nemici della democrazia. Come si vede agevolmente, gli antichi nemici dello stato vengono ripresentati come nemici della costituzione. J. Habermas individua, dal suo punto di vista, due nemici dello stato democratico di diritto: l’ideologo politico, che combatte per principio lo stato liberale, ed il fondamentalista, che non accetta la modernità e le forme di vita che ne conseguono. Sennonché, mentre fa questi discorsi, J. Habermas intravede un pericolo interno allo stato liberale e proprio nella logica e nella dinamica del suo impegno a combattere i nemici della democrazia: se a delineare i tratti caratteristici del nemico della costituzione sono gli stessi organi dello stato costituzionale, non può accadere che questi, combattendo i nemici della democrazia e della libertà, tradiscano i propri principi, tracciando essi stessi in modo autoritario ed unilaterale i confini della tolleranza? In questo caso, la situazione si farebbe, secondo Habermas, pericolosa, perché la democrazia enfatizzerebbe se stessa, dandosi l’identità di “democrazia militante” e finendo con il dichiarare guerra ai nemici della democrazia. La democrazia ha, dunque, un problema delicato e, al limite, paradossale da affrontare, ed esattamente quello del «paradosso della tolleranza costituzionale all’interno del suo stesso medium giuridico»107.
La soluzione non è nel paternalismo, che anzi deve essere evitato con il massimo impegno, perché è retto da una logica unilaterale. All’epoca dell’ancien régime il sovrano, facendosi guidare da un ambiguo atteggiamento paternalistico, faceva la grazia di tollerare talune deviazioni dalla normalità, purché rimanessero dentro i limiti del sopportabile da parte del 107
J. HABERMAS, Dalla tolleranza alla democrazia, cit., 315.
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sistema politico. Ciò potrebbe accadere anche in tempi come i nostri, caratterizzati dalla democrazia rappresentativa, se la cultura maggioritaria assume un atteggiamento di sopportazione nei confronti della cultura della minoranza, interpretata come prassi deviante. In casi come questo, l’unilateralità si renderebbe evidente nel fatto che i criteri ed i confini della tolleranza verrebbero fissati da chi si trovasse a disporre di maggiore forza. La vigilanza nei confronti del paternalismo non può mai essere ridotta, in quanto si tratta di un fenomeno incombente nella stessa procedura democratica, che, essendo originata da un evento di autoistituzione, è caratterizzata dall’autoreferenzialità. La via habermasiana per risolvere il problema del paradosso della tolleranza costituzionale è l’enfatizzazione del carattere autopoietico della democrazia. In una convivenza organizzata, in cui i cittadini godono formalmente e concretamente degli stessi diritti, nessuno, neppure l’autorità, può fissare i limiti della tolleranza facendo esclusivamente riferimento alla propria scala dei valori. E la via per evitare il paternalismo è segnata da pietre miliari, quali il riconoscimento della legittimità del conflitto delle interpretazioni della costituzione, la giustificazione, anche in sede giudiziaria, della disobbedienza civile, l’accettazione anche della contestazione da parte di dissidenti di decisioni proceduralmente legittime, a condizione che essi giustifichino il loro atteggiamento in forza di principi costituzionali e lo esprimano con modi e con mezzi pacifici. Le parole di Habermas sono inequivocabili: «Di fronte all’autoreferenzialità di una procedura democratica che si autoistituisce, la democrazia militante potrà sfuggire al pericolo del paternalismo solo dando libero corso al conflitto con cui le parti interpretano come giusta una certa decisione costituzionale. In questa prospettiva, il modo di trattare la disobbedienza civile diventa una sorta di cartina di tornasole. Naturalmente è la stessa Costituzione a dire come si deve procedere nelle controversie dell’interpretazione costituzionale. Tuttavia lo spirito tollerante di una Costituzione liberale, nel giustificare in sede giudiziaria una “disubbidienza civile” per altri versi sanzionata, oltrepassa persino l’insieme delle istituzioni e delle pratiche in cui la sua sostanza normativa si è già positivamente coagulata. Se intesa come progetto per realizzare diritti eguali, una Costituzione democratica saprà tollerare anche la riluttanza di dissidenti che, dopo aver esperito tutte le altre vie legali, contestano decisioni proceduralmente legittime, beninteso con la duplice riserva che questi cittadini “disobbedienti” giustifichino plausibilmente la loro riluttanza sulla base di principî costituzionali ed esercitino questa loro resistenza in maniera paci-
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fica, dunque attraverso mezzi simbolici. Queste due condizioni specificano il limite, accettabile anche da parte di avversari che siano democraticamente ispirati, di quella tolleranza politica che caratterizza una democrazia che — costituita in Stato di diritto — si difende dai suoi nemici in maniera non paternalistica»108.
La tolleranza, che, secondo Habermas, è un dato paradossale, consente alla democrazia di caratterizzarsi mediante qualificatori opportuni e di difendersi efficacemente109, anche perché nessuno può imporre i propri valori come limite della tolleranza. Del resto, l’integrazione sociale, a cui è volta l’intesa, ha come scopo il reciproco riconoscimento e l’inclusione dell’altro, ma esclude con decisione ogni rischio di assimilazione110. Habermas si sente in qualche modo pressato a sviluppare queste sue riflessioni, confermando la permanenza del paradosso della tolleranza nello stato costituzionale e nella teoria giuridica che lo riguarda. La tolleranza, considerata in prospettiva costituzionale, consente di tematizzare il “principio di eguale inclusione di tutti i cittadini”. Tale principio costituisce il contenuto ed il programma della tolleranza che è definita da Habermas “virtù politica” dei cittadini. La virtù, che per definizione è al di fuori della competenza e della capacità normativa del diritto, nel nostro caso qualifica positivamente la convivenza tra cittadini che hanno differenti visioni del mondo, facendo sì che la società pluralistica non precipiti nel caos a causa della discordia e trovi, invece, la strada dell’intesa. Le regole della tolleranza che Habermas stabilisce a questo punto della sua riflessione sono di immediata comprensione111. a) La tolleranza, considerata sul piano cognitivo, non significa indifferenza e, quindi, non comporta la soluzione del dissenso, ma si contenta del mantenimento del rispetto reciproco e della esclusione delle lotte e delle discriminazioni. b) La tolleranza esige che il dissenso verificatosi a livello cognitivo non venga trasferito sul piano sociale. Non si tratta di relativizzare le proprie convinzioni a favore di quelle che non si condividono oppure di piegarsi alle pretese di verità che non si accettano e che sono concorrenti rispetto alle proprie, ma di limitare l’efficacia pratica delle proprie convinzioni. Ciò 108 109 110 111
L. c. Cfr ibid., 315 s. Cfr IA. Cfr J. HABERMAS, Dalla tolleranza alla democrazia, cit., 314- 328.
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significa che la tolleranza comporta dei disagi, che però risultano tollerabili se sono equamente ripartiti tra i cittadini. Diverso è il caso della tolleranza religiosa, in cui i disagi non sono simmetricamente distribuiti tra credenti e non credenti: questi ultimi, avendo una coscienza secolarizzata, in non poche questioni di bioetica, e si tratta solo di un esempio, non fanno, come invece i primi, esperienza di “dissonanza cognitiva” con i propri convincimenti etici; il credente, convinto della priorità epistemica del buono sul giusto, soffre vedendo che il proprio éthos, che per lui è l’elemento discriminante tra verità e non verità, viene posto sullo stesso piano di un éthos estraneo al proprio orientamento veritativo ed etico112. c) La tolleranza deve essere istituzionalizzata nei modi più opportuni, al fine di poter tracciare un confine tra ciò che deve essere tollerato e ciò che non può esserlo senza violare il principio d’imparzialità, il quale, ancorché non possa pretendere alcuna riduzione sul fronte delle ragioni del rigetto di ciò che non può essere tollerato, deve poter prevalere su di esse. A tale scopo, occorre sia che venga posta in essere una legislazione che riprovi e rigetti l’intolleranza, sia che lo stato si senta vincolato dalla forza normativa di un “imperativo di neutralità”. Tale neutralità è tanto più importante quando una cultura maggioritaria non riesce a sottrarsi alla tentazione di far valere, in una società pluralistica, la propria pretesa di verità come cultura politica universalmente vincolante. Lo stato si mantiene neutrale se riesce ad impedire che una costituzione prettamente procedurale si sostanzializzi e si alloghi nello spazio socio-politico come struttura normativa immutabile. Habermas si ferma a considerare prevalentemente il rischio di interferenza della pretesa veritativa religiosa, ma non ha alcuna esitazione a prendere atto della presenza dello stesso rischio su tutti i fronti: «La sostanza morale dei principi costituzionali è infatti garantita da procedure che traggono la loro forza legittimante dalla imparzialità e dalla considerazione eguale degli interessi. Questa forza legittimante viene meno quando concezioni ispirate a una etica sostanziale si insinuano nell’esegesi e nella pratica delle prescrizioni formali. In tal caso, l’imperativo della neutralità può essere compromesso sia dal partito laico sia dal partito religioso»113.
112 113
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Cfr TSF 38-43. J. HABERMAS, Dalla tolleranza alla democrazia, cit., 324; cfr TSF 165.
Il Nostro non lo dice, ma è lecito ritenere che egli intenda riferirsi al fatto che la neutralità allo stato puro è una utopia. Le minoranze hanno il diritto di essere incluse e le maggioranze, da parte loro, hanno il dovere non pure di non escluderle ma soprattutto di includerle. Lo stato neutrale ha il dovere di normare e di sanzionare l’uguale trattamento dei cittadini di una stessa comunità politica. Al limite, il problema è di giustizia distributiva: «Dal punto di vista della giustizia distributiva, il principio di pari trattamento pretende che tutti i cittadini abbiano le stesse opportunità di fare effettivamente uso di diritti e libertà egualmente distribuiti, al fine di realizzare i loro piani di vita individuali»114.
Si richiede, dunque, che eventuali confini della tolleranza vengano fissati sulla base di orientamenti di valore condivisi. Si tratta di orientamenti che, nel caso della democrazia, vengono sanciti dalla costituzione e che, quindi, implicando il principio dell’uguale e vicendevole rispetto per tutti i cittadini, acquisiscono la portata di principi di giustizia e la tensione dell’universalità. La tolleranza religiosa, lontano germe delle democrazie, ha dato vita a quel lungo processo di giustizia che oggi preclude inequivocabilmente la strada alle discriminazioni, alle marginalizzazioni ed alle esclusioni. La sua storia ci dà informazioni chiare su ciò che accade ai discriminati: essi vengono espropriati del diritto di un’appartenenza sociale senza riserve e senza limiti. Ciò comporta che il processo di riconoscimento abbatta tutte le limitazioni sia in chi deve riconoscere sia in chi deve essere riconosciuto. A questo punto, J. Habermas propone la revisione del concetto di “persona giuridica”, tradizionalmente gravato dall’“individualismo possessivo” ed avulso da ogni coordinata intersoggettiva. Nella sua accezione tradizionale, tale concetto non prevede l’attenzione alle tradizioni linguistiche e culturali. Queste, invece, sono fattori necessari al processo dell’identità personale, che, così, si trova legata, sia nella sua ontogenesi che nel suo mantenimento, a coordinate e a identità collettive. È preferibile seguire la pista aperta dal processo di individuazione e di identificazione delle persone naturali, che ha sempre luogo all’interno dei processi della comunicazione, della socializzazione, del reciproco riconoscimento e dell’intersoggettività. Habermas insiste con forza di convincimenti e di costanza sulla dimensione 114
Ibid., 325.
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intersoggettiva dell’uomo e non riduce e non dissolve mai tale dimensione nello spazio e nelle dimensioni del collettivo, anche se non può e non intende prescinderne. Sicché, i diritti che consentono di cogliere lo statuto della persona giuridica sono quelli stessi che garantiscono all’individuo sia il mantenimento della propria integrità, sia la possibilità di sviluppare la propria identità mediante l’inserimento nei processi degli eventi personali di esperienza, comunicazione e riconoscimento. Da ciò sgorga la necessità di mettere a tema con prospettiva sinergistica i diritti culturali, che legittimano le differenze tra i soggetti ed i gruppi mentre le identificano, i diritti collettivi, che contemperano il diritto di accesso di tutti i partecipanti agli spazi comunicativi ed alle opportunità conseguenti, e i diritti soggettivi, che consentono di cogliere l’identità dei partecipanti e della legittimità dei loro titoli di partecipazione e ne garantiscono l’inclusione completa. Quanto siamo venuti dicendo insieme a J. Habermas sulla tolleranza ci consente di percepire la fine distinzione che c’è tra consenso e riconoscimento: mentre il consenso presuppone un accordo sulla validità di principi, di norme e di progetti ed una intesa comunicativa, il riconoscimento non esige alcuna convergenza di principi e di opinioni ma solo l’accettazione ed il rispetto dell’identità e della dignità della persona altrui115. Una siffatta precisione concettuale ci fa capire che l’evento del riconoscimento è per Habermas un fatto di valore inestimabile: se esso non si verifica, si deve pensare che le varie comunità religiose e la varie comunità ideologiche non hanno trovato un modus vivendi equilibrato e che le “dissonanze cognitive” intaccano le fondamenta della convivenza organizzata, ne provocano la frantumazione ideologica e ne turbano la stabilità e l’esistenza. A questo punto, l’unica chance è quella dell’atteggiamento epistemico assunto da tutti i gruppi allo scopo di conseguire convincimenti ed atteggiamenti condivisi: la situazione in cui ci si trova è caratterizzata da un “dissenso ragionevolmente prevedibile”, che aiuta i credenti a prendere atto della laicizzazione crescente dell’ambiente in cui vivono ed i laici a capacitarsi dei limiti della ragione laica; la meta da raggiungere è quella del riconoscimento reciproco; la via da percorrere è quella della disponibilità ad apprendere gli uni dagli altri:
115 Cfr L. CORTELLA, Etica del discorso ed etica del riconoscimento, in C. VIGNA (ed.), Libertà, giustizia e bene in una società plurale, cit., 240.
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«Questo presupposto significa che è possibile attendersi l’ethos di cittadini dello Stato democratico (nell’interpretazione da me proposta) indistintamente da tutti, solo se i cittadini religiosi e quelli laici assolvono processi complementari di apprendimento»116.
Habermas, da quell’ottimo cultore della teoria critica qual è, conserva immutato il proprio atteggiamento vigile e si chiede se il persistere di contrasti insanabili e disgreganti tra mentalità laicistiche e mentalità fondamentalistiche sia dovuto ad un “deficit di apprendimento”. Le sue riflessioni sono quanto mai eloquenti: «Ricordiamoci del mutamento di prospettiva che abbiamo compiuto quando siamo passati dall’interpretazione normativa del comportamento politicomorale prescritto ai cittadini di uno Stato democratico all’indagine epistemologica di quei presupposti cognitivi, in forza dei quali soltanto si può esigere un simile ethos civico. L’autoriflessione della coscienza religiosa si deve, al pari del superamento autoriflessivo della coscienza laicista, a un mutamento di atteggiamenti epistemici. Questi cambiamenti di mentalità si qualificano come “processi di apprendimento” solo dalla visuale di una determinata idea di sé della modernità»117.
La democrazia è, dunque, il luogo concettuale e vitale di una convivenza razionalmente valida ed eticamente significativa e si costituisce mediante un intreccio di tolleranza, di riconoscimento e di tensione di trascendimento. La razionalità che la illumina e la guida è alla base di quell’atteggiamento epistemico che rende possibile il superamento delle logiche disgreganti e l’apertura della via del trascendimento. La razionalità che sta alla base della democrazia sgorga da una visione “naturale” della ragione, tematizzata da una tradizione filosofica e resa operativa nella convivenza organizzata mediante argomentazioni pubbliche e condivise. Lo stato costituzionale democratico ha in una tale ragione il fondamento epistemico del carattere laico della propria autorità118.
116 117 118
TSF 43. Ibid., 47 s. Cfr ibid., 24.
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5. LA SFERA PUBBLICA Le convinzioni di Habermas, di cui andiamo prendendo atto, sembrano troppo idealizzate ed astratte per potere essere applicate, alla nostra epoca, nelle situazioni correnti, nelle quali è sempre difficile sapere qual è il ruolo esercitato dal cittadino nell’ordine del discorso e, molto spesso, non si può non constatare che il cittadino ed i suoi diritti sono terribilmente marginali nella formazione di tale ordine. A ben vedere, ci troviamo subito nel bel mezzo della questione della formazione dell’opinione, ed in particolare dell’opinione pubblica. Garantire l’autonomia del processo di formazione dell’opinione e della volontà non è cosa di poco conto. D’altronde, non si può trascurare il fatto che la volontà attiva il potere comunicativo solo a condizione che venga prodotto con logica discorsiva119. Tra le due edizioni di Strukturwandel der Öffentlichkeit (1962 e 1990) è cambiata la situazione del mondo ma si è evoluto anche il pensiero di Habermas, il quale dalla posizione tipica dei francofortesi, che ritiene l’opinione pubblica amministrata, se non manipolata e dominata dai mass media, che a loro volta sono asserviti al potere, passa ad una concezione piuttosto positiva della sfera pubblica. Nella ricerche e nelle riflessioni di J. Habermas è ricorrente la domanda circa la possibilità che una società, nel caso che sia preda dell’industria culturale amministrata, ha di attivare processi di comunicazione pubblica caratterizzati da un pensiero libero, aperto, critico e creativo. Nel 1962, al tempo della prima edizione di Strukturwandel der Öffentlichkeit, gli ideali illuministici, mutuati da T.W. Adorno, inducono il Nostro a trarre dall’analisi sulla sfera pubblica borghese le medesime conclusioni pessimistiche dello stesso grande vecchio maestro della Scuola di Francoforte. Il mutamento della situazione lo spinge ad approfondire la teoria critica. Egli s’impegna in tale approfondimento mediante la teoria dell’agire comunicativo, presentata in modo compiuto nello scritto omonimo Theorie des kommunikativen Handelns, con cui mette in luce il “potenziale razionale” della prassi comunicativa quotidiana, lasciandosi guidare dall’esigenza metodologica di prestare attenzione a tutti i processi di razionalizzazione120. Pensa anche che, seguendo questa linea, gli esiti di uno studio concernenti i rapporti tra sfera pubblica e democrazia potrebbero essere meno pessimi119 120
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Cfr MDP 95. Cfr J. HABERMAS, Prefazione alla nuova edizione, (19902), in SCOP XXXVIII s.
stici121. Intensificando la ricerca, in particolare con Faktizität und Geltung, perviene al convincimento che la sfera pubblica può essere luogo di dialogo e di solidarietà e, perfino, sorgente di legittimazione della democrazia. Il percorso è graduale122. Lo scopo è rendere la “democrazia radicale”, che è oggetto della “teoria del discorso”, empiricamente falsificabile. Secondo Habermas, esso viene perseguito, se viene provata la tesi seguente: «La tesi che vorrei rendere plausibile è questa: in determinate circostanze la società civile diventa capace non solo di far sentire la propria influenza sulla sfera pubblica e di produrre effetti sul complesso parlamentare (e sui tribunali) tramite le proprie opinioni pubbliche, ma anche di costringere il sistema politico a convertirsi alla circolazione ufficiale del potere»123.
La situazione ideale viene descritta da Habermas in termini di situazione delle uguali opportunità per le libertà comunicative124 ed anche in termini di potere comunicativo, libero da ogni manipolazione e situato in integre strutture d’intersoggettività125. Un programma di questo genere s’imbatte nella difficoltà, tipica delle democrazie occidentali ed annotata da Habermas subito dopo l’enunciazione della sua tesi: le opinioni pubbliche sono in mano al potere ed ai mass media. Un siffatto fenomeno di dominazione non è da intendere in senso assoluto, ma certamente nel senso che le difficoltà, che ne scaturiscono e che s’incontrano nell’avviare processi conoscitivi e decisionali diversi, non sono poche. La sfera pubblica ha il compito di mediare tra sistema politico e sfere private. Tra le sfere pubbliche J. Habermas fa oggetto di attenzione soprattutto le sfere pubbliche liberali, che implicano illimitatamente i diritti 121
Cfr ibid., in SCOP XLIII. Cfr FN 442-449; E. MORRESI, La riserva di ragione di Jürgen Habermas e l’informazione durante la guerra del golfo, in RDT 44 (2003) 417-427. 123 FN 442. 124 «Godere d’eguali opportunità nell’uso politico delle libertà comunicative significa istituire una formazione politica dell’opinione e della volontà in cui trovi applicazione il principio discorsivo» (ibid., 153). 125 «Questo potere comunicativo può nascere soltanto da una sfera pubblica non manipolata e derivare soltanto da quelle strutture d’intatta intersoggettività caratterizzanti una comunicazione non-distorta. Esso coincide con quella formazione dell’opinione e della volontà che, insieme alla svincolata libertà comunicativa di “fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi”, fa valere anche la forza produttiva d’un modo di pensare “aperto”» (ibid., 176 s.). 122
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di uguaglianza e di inclusione, fino al punto di bloccare ogni tipo di meccanismo selettivo e di avviare un “potenziale di autotrasformazione”. I secoli XIX e XX attestano in maniera molto ampia il sorgere e l’incrementarsi della critica intrinseca alla sfera pubblica borghese. Alla domanda articolata circa la dinamica libera o manipolata della formazione delle convinzioni nella sfera pubblica, Habermas risponde che non esistono dati per dare risposte tassative, tuttavia precisa che, nonostante tutte le pressioni e le influenze, non si può sostenere che l’autenticità della reazione del pubblico risulti compromessa. Ovviamente, il pubblico deve fare i conti con una pluralità di attori, ma non è impossibile impedire l’automatismo della trasformazione del potere amministrativo e del potere sociale in potere politico-pubblicista. L’orientamento di J. Habermas in questa materia è caratterizzato dal realismo e dalla prudenza, ma non è privo della fondamentale caratteristica della positività: «Se […] non vogliamo lasciar del tutto cadere l’immagine d’una sfera pubblica manipolata e dominata dai mass media quale ci è stata offerta (benché in maniera non definitiva) dalla sociologia delle comunicazioni di massa, allora dovremo essere molto prudenti nel valutare le possibilità della società civile d’influenzare il sistema politico. Tuttavia questa valutazione si riferisce soltanto a una sfera pubblica in condizione di riposo. Quando si mobilitano, le strutture sulle quali effettivamente poggia l’autorità d’un pubblico capace di prender posizione cominciano a entrare in vibrazione. Allora si modificano anche i rapporti di forza esistenti tra società civile e sistema politico»126.
Addirittura, il Nostro è dell’idea che nei momenti difficili gli attori della società civile possano assumere ruoli conoscitivi e critici talmente originali e creativi da trasformarsi in protagonisti. Essi possono arrivare a sconvolgere il sistema politico e la sfera pubblica, capovolgendo la logica delle circolazioni comunicative ed i criteri della soluzione dei problemi127. 126
Ibid., 449. «Certo non si tratta in questa sede di fornire definitive valutazioni statistiche su come politica e pubblico s’influenzano a vicenda. A noi basta rendere plausibile il fatto che, dal momento in cui viene percepita una certa situazione di crisi, gli attori della società civile finora trascurati nel nostro scenario possono essere investiti da un ruolo sorprendentemente attivo e ricco di sviluppi. Nei momenti critici d’una storia per così dire “accelerata” questi attori diventano capaci — pur con tutte le carenze prima ricordate di complessità organizzativa, capacità d’azione e adeguatezza strutturale — di capovolgere nella sfera pubblica e 127
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La sfera pubblica, non essendo né una istituzione, né una organizzazione, né un sistema, ma essendo una “rete” aperta sia per includere sia per favorire la circolazione delle opinioni all’interno dei flussi di comunicazione che per principio sono illimitati128, non può essere artificialmente creata, organizzata ed amministrata. Essendo legata alla Lebenswelt ed alla società civile, essa è caratterizzata da un pluralismo irriducibile, fino al punto che non si esprime in contesti istituzionalizzati o sistemici, non è ricattabile dalle forme di agire strategico tipiche delle pretese di potere e la si può definire un “pubblico di pubblici”129. J. Habermas acquisisce, dunque, il convincimento che il mondo di vita dei cittadini può influenzare il sistema politico. Ciò evidentemente accade con i processi di formazione dell’opinione pubblica e della volontà. Nell’ultima citazione di Faktizität und Geltung si parla addirittura della capacità di “capovolgere” la direzione delle circolazioni comunicative interne al sistema, ma l’aspetto più serio del problema è costituito dalla possibilità che i cittadini influenzino effettivamente il sistema politico, senza comprometterne il dinamismo intrinseco. Lungo lo sviluppo delle sue ricerche e delle sue riflessioni, J. Habermas tenta ripetutamente di affrontare la questione. Nel 1981 in Theorie des kommunikativen Handelns, egli parla della società a due livelli, quello del sistema e quello del mondo vitale, ed attribuisce al livello del mondo vitale la capacità di determinarsi con tale autonomia da opporre resistenza all’integrazione sistemica e da contrastarla decisamente130. In seguito, egli perfeziona il “modello della società a due livelli” facendone il “modello dell’assedio”. Secondo quest’ultimo modello, i cittadini, sottoponendo ad “assedio” mediante discorsi pubblici e pacifici la cittadella in cui si produce il sapere politico e si prendono le decisioni per la vita pubblica, tentano di inserirsi nei processi di formazione del sapere e delle decisioni131. Le parole di Habermas sono dotate di grande efficacia e di grande forza suggestiva:
nel sistema politico la direzione convenzionale delle circolazioni comunicative e di modificare così la modalità con cui l’intero sistema dà soluzione ai problemi» (ibid., 451). 128 Cfr ibid., 364 s., 427 s. 129 Cfr A. FERRARA, Giustizia e giudizio, cit., 96 ss.; W. PRIVITERA, Sfera pubblica e democratizzazione, cit., 69-116. 130 Cfr TAC II, 956-965. 131 Cfr MDP 81-103.
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«La sovranità comunicativamente fluidificata si fa valere in quel potere dei discorsi pubblici che sgorga sì da sfere pubbliche autonome, ma che deve poi concretarsi nei deliberati delle istituzioni democraticamente preposte alla formazione dell’opinione e della volontà, dal momento che la responsabilità delle decisioni esige sempre una chiara imputabilità istituzionale. Il potere comunicativo viene esercitato secondo le modalità di un assedio. Esso fa sentire i suoi effetti — senza intenti di conquista violenta — sulle premesse dei processi decisionali del sistema amministrativo, allo scopo di introdurre i suoi imperativi dentro l’unico linguaggio che l’assediata fortezza conosce; esso regola e contingenta il pool di ragioni che il potere amministrativo può sì trattare strumentalmente, ma mai — strutturato com’è in forma giuridica — permettersi il lusso di ignorare»132.
Successivamente, lo stesso Habermas chiarisce ulteriormente il senso del concetto di assedio posto in atto dal potere comunicativo dei cittadini nei confronti del potere statale: si tratta dell’affermazione della libertà comunicativa dei cittadini mediante l’uso pubblico della ragione. La tematizzazione dell’intervento della ragione esclude il ricorso alla violenza ed implica l’uso del metodo democratico del controllo e del condizionamento del potere amministrativo dello stato. Sennonché, ad un certo punto, quanto abbiamo riferito sul “modello dell’assedio” non piace più ad Habermas per la ragione che gli sembra troppo disfattista. Questo fatto è legato a quella concezione della divisione dei poteri che ritiene che gli organi applicativi, sia amministrativi che giudiziari, possano fare soltanto un uso limitato delle ragioni giustificative, che gli organi legislativi, invece, usano in modo pieno. Spesso accade che gli organi applicativi, a motivo sia dell’incapacità del legislatore politico di disciplinare con precisione materie da regolamentare sia del proprio bisogno di disporre di discorsi fondativi, s’impegnano direttamente nella produzione del diritto. L’esito è che ci si viene a trovare di fronte ad una “legislazione parallela”, anch’essa bisognosa di essere legittimata mediante ulteriori forme di partecipazione. Nel contempo, però, nello sconfinamento degli organi applicativi nella competenza degli organi legislativi, e viceversa, si rende evidente un deficit di democrazia. Infatti, perché si abbia la democrazia in forma piena, non basta che il modello politico attuato argini le pressioni antidemocratiche. È così che il Nostro propone il “modello delle chiuse idrauliche”, che 132
210
Ibid., 98.
risponde a criteri più radicali di democrazia133. Insomma, affinché ci sia democrazia vera, occorre che il potere amministrativo sia «operante sotto riserva di legge»134. Il diritto è il “trasformatore” che regola la “circolazione comunicativa” tra “sistema” e “mondo della vita”135 e potenzia gl’impulsi di corrente che alimentano l’“integrazione sociale”136. I frutti, che a livello sia teoretico che pratico ne derivano, sono quelli tipici della democrazia, la quale ha nella sovranità popolare il prezioso e fecondo dispositivo delle “chiuse idrauliche” della formazione del potere in termini discorsivi e comunicativi. Ci piace dare la parola a J. Habermas: «Nel principio della sovranità popolare — secondo cui ogni potere dello Stato deriva dal popolo — il diritto soggettivo a partecipare con pari opportunità alla formazione democratica della volontà s’incontra con l’istituzionalizzazione giuridico-oggettiva della prassi di autodeterminazione civica. Così il principio della sovranità popolare rappresenta la “cerniera” tra il sistema dei diritti, da un lato, e la costruzione dello Stato di diritto democratico, dall’altro. Muovendo da un’interpretazione del principio di sovranità popolare sviluppata in termini discorsivi (a), è possibile derivare in primo luogo il principio d’una completa tutela giurisdizionale dell’individuo fornita da un potere giudiziario indipendente (b), in secondo luogo i principi della legalità amministrativa e del controllo giudiziario e parlamentare sull’amministrazione (c), in terzo luogo, infine, quel principio di separazione tra Stato e società che dovrebbe impedire al potere sociale di convertirsi in potere amministrativo senz’essere preventivamente “filtrato”, ossia fatto passare attraverso le “chiuse idrauliche” della formazione comunicativa del potere (d)»137.
Come si vede, il modello delle “chiuse idrauliche” conduce direttamente al principio della separazione tra stato e società. Tale principio tutela l’autonomia sociale che garantisce a ciascun cittadino la possibilità di fruire dei propri diritti politici di partecipazione e di comunicazione, richiede la formazione di una società civile dotata di rapporti associativi e di cultura politica sganciati dalla struttura di classe, esige il principio della 133 134 135 136 137
Cfr SE 118 s.; FN 201-230. Ibid., 468. Cfr ibid., 101. Cfr ibid., 210. Ibid., 202.
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responsabilità democratica dei titolari di cariche politiche, fa divieto allo stato di farsi coinvolgere in accomodamenti corporativistici e, infine, fa obbligo allo stato di diritto di garantire l’autonomia politica a cittadini socialmente autonomi138. A questo punto, sembra inutile chiedersi se Habermas, insieme alle domande che sono all’origine dei discorsi da lui fatti sulla sfera pubblica, si ponga il problema circa la possibilità che l’opinione pubblica assuma direttamente ruoli e funzioni di governo. La risposta del Nostro non può non essere negativa, convinto com’è che l’opinione pubblica possa solo influenzare efficacemente le varie forme di potere amministrativo. Nello studio Tre modelli normativi di democrazia: liberale, repubblicano, procedurale del 1999, riprendendo idee già espresse nel 1994, egli si pronuncia in modo esplicito circa questa materia: «L’opinione pubblica che attraverso le procedure democratiche è trasformata in potere comunicativo non può “governare” su se stessa, ma può soltanto indirizzare l’uso del potere amministrativo in direzioni specifiche»139.
In concreto, l’efficacia dell’influenza dell’opinione pubblica è molto forte e si spinge fino a contribuire sostanzialmente alla formazione dei poteri dello stato: «La formazione dell’opinione pubblica informale genera “influenza”; l’influenza è trasformata in “potere comunicativo” attraverso i canali delle elezioni politiche; e il potere comunicativo, a sua volta, è trasformato in “potere legislativo” attraverso la legislazione. Come nel modello liberale, i confini tra “Stato” e “società” sono rispettati; ma in questo caso, la società civile fornisce la base sociale di sfere pubbliche autonome che restano distinte tanto dal sistema economico quanto dall’amministrazione»140.
138
Cfr ibid., 207 ss. J. HABERMAS, Tre modelli normativi di democrazia: liberale, repubblicano, procedurale, (1999), in R. KERNEY – M. DOOLEY (edd.), Questioni di etica, cit., 166. 140 Ibid., 165. 139
212
6. VERSO UNA SOCIETÀ COSMOPOLITICA La convivenza organizzata, nonostante le difficoltà e tutti gli argomenti in contrario, è velocemente avviata in ogni campo lungo un itinerario di denazionalizzazione e di transnazionalizzazione. La logica dello statonazione è, secondo J. Habermas, superata da lungo tempo, almeno da quando il principio dell’“equilibrio delle potenze” si è rivelato del tutto inadeguato ad affrontare i problemi internazionali, ed in particolare a garantire la convivenza pacifica tra le nazioni141. L’umanità, dopo la svalutazione dello stato-nazione quale fondamento dell’identità collettiva, trova troppo fragile e, addirittura, del tutto privo di significato, fare piani d’integrazione attorno allo stato-nazione quale fulcro portante e, quindi, ricerca altri fondamenti ed altri fulcri, che non possono non essere che post-nazionali. In particolare, l’Europa, a causa della decadenza dello stato-nazione come valore, che ha fatto seguito alla seconda guerra mondiale, ha acquisito la consapevolezza della serietà di tutti questi problemi e si è già messa, sia pure con grande fatica, sulla strada della ricerca. Solo che, mentre l’identità post-nazionale sembra delineare l’unica prospettiva possibile per l’umanità del futuro, si apre un fronte di grave crisi, in quanto il sapere che si possiede sui processi della democrazia liberale si rivela sempre meno adeguato e diventa sempre più fonte di problemi142. Tuttavia, non sembra che la democrazia possa avere un futuro se non mediante il suo allargamento, sia in termini concettuali che in termini operativi, oltre i confini dello stato-nazione e verso le esigenze e le indicazioni della prospettiva cosmopolitica. J. Habermas è ottimista circa la possibilità che l’umanità impari a coltivare concretamente l’utopia cosmopolitica143. Il percorso che conduce alla “situazione cosmopolitica” è lungo e, secondo la tipica terminologia habermasina, è procedurale. Si tratta di un procedimento discorsivo, che si propone il conseguimento di diversi scopi, ma rapportati tra loro in modo graduale. Uno scopo iniziale è certamente quello della “legalizzazione del dominio politico”, che può essere conseguito per vie diverse, purché illuminate da una istanza di razionalità:
141
Cfr IA 133-140. Cfr CPN 32 s. 143 Cfr E. MORONI, La riformulazione dell’idea kantiana dello stato cosmopolitico in Jürgen Habermas, in Humanitas 61 (2006) 709-720. 142
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«Questi tipi di costituzione liberale mirano, al pari di quelle costituzioni repubblicane che Kant aveva davanti agli occhi, a una legalizzazione del dominio politico. Ma qui la “legalizzazione” ha il senso di un addomesticamento dell’autorità tramite la divisione istituzionale e la regolazione in forma procedurale dei rapporti di forza esistenti, laddove le costituzioni di stampo repubblicano e di origine rivoluzionaria rovesciano i rapporti di forza esistenti in favore di un dominio di nuova costituzione, derivante soltanto dalla volontà ragionevolmente formata dei cittadini riuniti, e pertanto razionale. Da questo lato la legalizzazione del potere politico acquista contemporaneamente il significato, contrario a una tradizione conservatrice di diritto pubblico, della razionalizzazione di un’autorità statale naturale, che si presume persista sostanzialmente “sotto il diritto”»144.
Uno scopo di ben più alto livello può essere quello dell’imparzialità, che può essere conseguito con l’aiuto dei “procedimenti discorsivi”, i quali, mediante la forza delle loro argomentazioni e l’imposizione di “prospettive reciproche”, istituiscono un clima ed una prassi di equità145. Lungo il percorso, che conduce alla convivenza cosmopolitica, straordinariamente preziosa è l’esperienza democratica fatta all’interno di uno stato democratico di diritto. Uno stato siffatto, non riconoscendo a nessuna forma culturale il diritto di prevalere sulle altre, le accoglie tutte senza eccezione e fa ricorso ad ogni mezzo lecito e condiviso perché, seguendo la via della sovrapposizione parziale, si pervenga ad una convivenza dei cittadini il più possibile integrata. Nella mente di Habermas, una tale esperienza è preparazione e premessa alla realizzazione del destino di convivenza planetaria, cui gli uomini sono in modo sempre più evidente chiamati: «nel quadro della costituzione di un democratico ‘stato di diritto’ possono coesistere, egualmente legittimate, numerose ‘forme di vita’. Queste ultime devono in realtà parzialmente sovrapporsi in una comune cultura politica, la quale non si chiuda da parte sua agli stimoli offerti da ‘forme di vita’ ulteriori. Del resto, soltanto se una cittadinanza di tipo democratico non si 144
OD 133 s. «I procedimenti “discorsivi” fanno dipendere le decisioni egualitarie da precedenti argomentazioni (sicché vengono accettate soltanto decisioni giustificate); inoltre essi sono inclusivi (sicché possono partecipare tutte le parti interessate) e obbligano i partecipanti all’assunzione delle prospettive reciproche (sicché è possibile un’equa valutazione di tutti gli interessi di volta in volta in questione). È questo il significato cognitivo dei procedimenti che puntano a decisioni imparziali» (ibid., 187). 145
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rinchiude in senso particolaristico, essa può preparare la strada a quello status di cittadinanza cosmopolitica già oggi profilantesi nelle comunicazioni politiche su scala planetaria. […] Cittadinanza politica e cittadinanza cosmopolitica costituiscono così un continuum che, nonostante tutto, sta già prendendo forma»146.
Habermas ritorna sul valore dell’esperienza compiuta all’interno di una stato democratico di diritto: «la costituzionalizzazione del diritto internazionale conserva uno status derivato, dipendente dalle conquiste di legittimazione per così dire anticipate degli Stati costituzionali democratici»147.
La ragione più forte della valorizzazione dell’esperienza democratica dello stato democratico di diritto in vista della creazione di una società cosmopolitica è la conoscenza che il tipo di stato in questione ha sia delle difficoltà che si incontrano nel creare una vera convivenza organizzata, sia delle procedure per superarle. Lo sforzo del riconoscimento reciproco, fatto in termini di apprendimento da ogni stato nazionale democratico al suo interno, è una premessa preziosa per compiere lo stesso sforzo a livello internazionale: «Nel quadro di una società mondiale politicamente costituita, il clash of civilitations così percepito non può non gravare soprattutto sui sistemi di negoziato transnazionali. Ma affrontare questi conflitti nell’ambito di un sistema a più livelli istituito nel senso sopra delineato sarebbe facilitato dal fatto che in tal caso gli Stati nazionali avrebbero portato a termine dei processi di apprendimento e modificato il loro comportamento, così come la loro idea di sé»148.
Tra lo stato nazionale e la situazione cosmopolitica si trovano le entità politiche trans-nazionali, come l’Unione Europea, che costituisce, oltre che un precedente, anche un esempio:
146 147 148
MDP 136 s. OD 136. TSF 228.
215
«Già oggi l’unione Europea si propone come una forma di “governo transnazionale”, che potrebbe fare scuola nella costellazione post-nazionale»149.
Anche quando si pervenisse alla fase conclusiva della condizione cosmopolitica, e cioè alla costituzione di un “parlamento cosmopolitico”, si dovrebbe pensare all’ingresso in una nuova fase iniziale, in cui la misura, la prudenza e, ancora una volta, la gradualità dovrebbero essere fattori rivelatori della presenza della razionalità. Non si dovrebbe mirare a realizzare la nota solidarietà civica, regolata da principi e norme a non finire mai, ma ad un accordo di tipo negativo, che preveda forme comuni di manifestazione di indignazione e, nei casi più gravi, di orrore per i crimini contro l’umanità, operati da criminali, siano essi costituiti da bande o anche da stati sovrani150. Certo, si tratta di una meta difficile da raggiungere ed ancora lontana, ma la logica dello “stato di natura”, che ha segnato i rapporti tra gli stati, si va sgretolando. Con parole lapidarie J. Habermas dichiara: «In ogni caso è cominciata l’obsolescenza dello ‘stato di natura’ ancora perdurante tra gli stati: essi sono sì in grado di dichiararsi guerra, ma hanno già perso la propria sovranità»151.
Tuttavia, si possono dare dei pericolosi momenti di regresso e, dunque, di rigurgito del sentire bruto dell’ancestrale umanità pre-sociale. A tale proposito, Habermas ricorda le preoccupazioni della comunità internazionale causate, nel momento storico attuale, dall’atteggiamento assunto dall’unica super-potenza. Si tratta di momenti nei quali «In gioco è il progetto kantiano della abolizione dello stato di natura fra gli Stati»152.
149
OD 24. «Certo, pensare all’astrattezza di un parlamento cosmopolitico dà un lieve capogiro. Ma in considerazione delle limitate funzioni delle Nazioni Unite, occorre riflettere che i deputati di questo parlamento rappresenterebbero popoli che non dovrebbero essere legati tra di loro da grandi tradizioni come i cittadini di una comunità politica. In luogo della solidarietà civica è sufficiente un accordo negativo, ossia la comune indignazione per guerre aggressive e violazioni dei diritti umani causate da bande e governi criminali, o il comune orrore per le pulizie etniche e i genocidi» (ibid., 101 s.). 151 MDP 136. 152 OD V. 150
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Mentre mostra di condividere il progetto kantiano, fino a manifestare segni evidenti di disagio e di preoccupazione a causa del suo inceppamento, J. Habermas parla de “La fuorviante analogia dello stato di natura”. Egli inizia facendo lo stesso percorso di riflessione degli autori che teorizzano l’origine contrattualistica della società e del diritto razionale e paragona il caos dell’anarchia, che ai nostri giorni caratterizza i rapporti tra gli stati sovrani, alla situazione dello stato di natura, in cui si trovavano gli esseri umani prima di qualsiasi forma di socializzazione. Come, a suo tempo, gli uomini uscirono dallo stato di natura impegnandosi, mediante il patto sociale ed il conseguente sacrifico della loro libertà naturale, a sottomettersi allo stato ed alla forza da esso esercitata, così oggi gli stati sovrani non hanno altra via, per uscire dallo stato di natura del caos dell’anarchia dei loro rapporti, che il sacrifico della loro sovranità a favore della comunità cosmopolitica di uno stato di stati e, più precisamente, di uno stato di popoli. Dopo aver precisato i termini dell’analogia tra i due stati di natura, J. Habermas ne mette a tema il carattere fuorviante: a differenza degli individui dell’originario stato di natura, che erano privi di tutto e pieni di paura di fronte al rischio di scontro tra libertà naturali non regolate e neppure garantite, i cittadini degli stati attuali, accettando delle limitazioni della sovranità dello stato nazionale di appartenenza, correrebbero il rischio di perdere lo status giuridico che garantisce le libertà ed i diritti, certamente limitati e regolati ma anche salvaguardati dall’organizzazione della convivenza e dalla creazione dello stato sovrano nazionale. Per queste ragioni, Habermas non vuole parlare di “analogia” ma di “complementarità” tra il percorso fatto dagli uomini per trasformare lo stato di natura in stato assoluto e quest’ultimo in stato di diritto democratico ed il percorso che gli stati dovrebbero fare per transitare dalla concezione del diritto internazionale classico alla nuova visione della convivenza cosmopolitica153. Una tale convivenza dovrebbe essere fondata su una rete di mutui riconoscimenti, sostenuta non da una base transeunte bensì stabile, e stabile fino al punto che si dovrebbe poter parlare di “politica interna mondiale”. Per perseguire un tale scopo, innanzitutto occorre superare due logiche: quella della Machtpolitik, che sul piano internazionale rivela la mancanza di solidarietà comunicativa e, in caso di assenza di conflitti, favorisce la dinamica del compromesso154, e quella del “livellamento”, che comporta 153 154
Cfr ibid., 122-126. Cfr CPN 97.
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la stratificazione della società mondiale; inoltre, occorre assumere la prospettiva dell’armonizzazione, che può garantire le specificità culturali dei vari popoli e le può integrare sinergisticamente nel contesto della società cosmopolitica155. L’esperienza democratica dei singoli stati è una tappa indispensabile verso la società cosmopolitica. Ed in questo J. Habermas è d’accordo con K.O. Apel, uno dei suoi più stimolanti interlocutori: l’ideale democraticodiscorsivo non ne può prescindere. Tuttavia, in questo stesso settore Apel sembra esprimere una maggiore sensibilità di Habermas, in quanto, dal suo punto di vista, l’incremento della democrazia in una moltitudine di singoli stati non è sufficiente per la realizzazione di tutte le potenzialità implicite nella Diskursethik. Il diritto cosmopolitico, così come è chiamato a scaturire dalla Diskursethik, non può tollerare il rischio costante della frattura del continuum della fondazione democratica del diritto che è insito nell’autoaffermazione dei singoli stati nazionali. Un passo ulteriore è la positivizzazione del diritto cosmopolitico. Ma, si tratta di un fondamentale passo ulteriore e non della conclusione della tensione discorsiva, che preme verso la società cosmopolitica. Del resto, Apel è convinto del fatto che l’universalità dei diritti umani non è mai definitivamente positivizzabile156. Questo dato assume da vari aspetti valenze problematiche a motivo della globalizzazione, che certo si lascia ispirare da tensioni cosmopolitiche in parte inevitabili, ma che si pone come un fenomeno non del tutto libero da oscurità ed ambiguità. Questi elementi di oscurità e di ambiguità dipendono in gran parte dal fatto che la globalizzazione si inscrive nella prospettiva della visione neoliberista del mondo. Lo stato nazionale, organizzato secondo il paradigma liberale, incoraggia i diritti di proprietà e di libertà contrattuale alla stregua del diritto privato, ma non riesce a ridurre le ineguaglianze ed a difendere lo spazio socio-politico dal loro incremento. La ragione di una tale inefficienza è nel fatto che lo stato liberale non è in grado di introdurre un sistema equo di diritti sociali e di garantire pari opportunità in ordine alla distribuzione ed all’esercizio dei poteri giuridici157. Se poniamo lo stato nazionale, soprattutto se di grandezza media o 155
Cfr ibid., 122 s. Cfr K.O. APEL, Discorso, verità, responsabilità, cit., 350, 364; cfr anche V. MARZOCCHI, Ragione come discorso pubblico. La trasformazione della filosofia di K.-O. Apel, Napoli 20012, 338-344. 157 Cfr J. HABERMAS, La fondazione discorsiva del diritto, cit., 158. 156
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piccola, nel contesto dell’attuale globalizzazione, lo vediamo sempre più irretito in linee operative trans-nazionali e sempre più costretto a trattare in condizioni asimmetriche di potere ed a subire limitazioni imperative della propria autonomia e della propria sovranità e, dunque, sempre più spinto dall’esterno a configurarsi in ogni senso secondo il modello sociale imposto dal regime economico dominante. J. Habermas, lasciandosi guidare dalla logica della semplificazione polemica, scorge il modello detto segnato da quattro caratteristiche: «– da un’immagine antropologica dell’uomo quale imprenditore che sfrutta la propria forza lavoro facendo scelte strumentali e razionali; – dall’immagine socio-morale di una società postegalitaria, che non si scandalizza più dei fenomeni di marginalizzazione, abbandono ed esclusione; – dall’immagine economica di una democrazia che riduce i cittadini a semplici membri della società di mercato e riduce lo stato a semplice impresa di servizi per clienti e fornitori; – infine dalla convinzione strategica che non esista politica migliore di quella che si sviluppa automaticamente da sola»158.
Ad una siffatta visione neoliberista del mondo, secondo Habermas è necessario opporre un paradigma procedurale, secondo cui, prima in gruppi di stati, come nel caso dell’Unione Europea, e poi nei singoli cittadini, finalmente cittadini del mondo, l’autonomia privata prenda la strada dell’autonomia civica e trovi strumenti politici adeguati per garantirsi. Per quel che concerne l’Unione Europea, Habermas prospetta inizialmente il conseguimento del livello di “potenza politica”, al fine di consentirle di raggiungere la condizione per potersi inserire, con tutti gli strumenti politici necessari, nell’ambito dei global players. Sennonché, alla stessa Unione Europea, per la quale prospetta la linea appena esposta, Habermas contesta un grave difetto: il deficit democratico. Esso è legato ad un fatto, gravemente limitativo sia della sovranità dei cittadini europei, i quali non possono prendere parte ai processi decisionali, sia dell’attuazione di una solidarietà complessiva tra gli stessi cittadini, che fruiscono solo limitatamente di interventi ridistributivi, un fatto che Habermas espone nel modo seguente: «Finora le decisioni della Commissione e del Consiglio dei Ministri vengono legittimate essenzialmente tramite i canali dei tradizionali stati nazionali. 158
Cfr TP 65.
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Questo livello della legittimazione corrisponde a un potere politico intergovernativo basato su trattati internazionali ed è stato sufficiente fintanto che sono state all’ordine del giorno le politiche atte alla creazione di un mercato unico. Tuttavia, nella misura in cui il Consiglio dei Ministri e la Commissione non possono più limitarsi al coordinamento negativo di ciò che non dev’essere fatto, bensì oltrepassano la soglia che conduce a interventi dalle conseguenze redistributive, diventa evidente la mancanza di una solidarietà complessiva tra i cittadini d’Europa. Già oggi l’implementazione delle decisioni di Bruxelles coinvolge, secondo talune valutazioni, il 70% dei processi legislativi nazionali, senza però che queste materie vengano mai esposte alla pubblica discussione in quelle arene nazionali in cui i destinatari di passaporto europeo potrebbero effettivamente discuterle»159.
J. Habermas ci tiene moltissimo al riconoscimento ai cittadini europei della possibilità di esercitare direttamente la sovranità, anche per la salvaguardia del “principio di coesistenza tra eguali”, che è il principio sommo della convivenza tra i vari stati dell’Unione Europea. Questo principio, che potrebbe essere messo a rischio dalla regola della maggioranza, può trovare nel ricorso al principio funzionale di “sussidiarietà” un grande ausilio: laddove la legge di maggioranza dovesse implicare rischi o inadeguatezze, si potrebbe fare ricorso a referendum di dimensioni europee, al fine di riconoscere ai cittadini dell’Unione la responsabilità di determinare i programmi politici comunitari160. L’impostazione habermasiana è certamente globale ed ottimistica e, quindi, in parte è anche utopistica. Tuttavia, è mossa dalla grande tensione morale di organizzare la convivenza degli uomini in un contesto di abbattimento generale di ogni genere di confine e di preclusione, tensione destinata, secondo il sentire del suo autore, ad avere graduale ma piena attuazione. Non si tratta di utopia illusoria, ma di utopia concreta, in quanto Habermas, che ne è l’ideatore, non si fa alcuno sconto sulle difficoltà: «La situazione cosmopolitica non è più certamente una chimera, anche se siamo ancora ben lontani dall’averla raggiunta»161.
159 160 161
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Ibid., 68. Cfr ibid., 79 s. MDP 136.
E non si tratta di semplice distanza dal traguardo, bensì delle difficoltà che si frappongono tra il desiderio ed il progetto, da una parte, e la realtà e la meta, dall’altra. In tale contesto tematico vale la pena di tener conto di alcune riserve, sgorganti dal realismo, che vengono sollevate di fronte alla riflessione di Habermas. Facciamo riferimento ad un breve studio di D. Zolo, che ce ne presenta una buona selezione162, che noi, a nostra volta, sottoponiamo ancora a selezione. 1) Se i soggetti del diritto internazionale sono da considerare, come sembra pensare J. Habermas, gli individui e non gli stati, ci si viene a trovare di fronte ad un diritto cosmopolitico fondato in forza di un individualismo democratico radicale e ad individui titolari di una soggettività internazionale diretta ed esprimibile con il principio “una testa un voto”. Una tale impostazione incorrerebbe in alcune difficoltà. La prima è di tipo fattuale: al concetto di “potenza economico-politico-militare” subentrerebbe quella di “potenza demografica”, che il diritto internazionale vigente non ammette. La seconda si pone, almeno in parte, sul piano dei principi: ogni singolo soggetto, chiamato ad esercitare individualmente la propria soggettività internazionale, sarebbe del tutto privo del supporto giuridico-politico della mediazione di figure intermedie e, quindi, sarebbe troppo fragile. 2) La possibilità della implementazione della democrazia al di fuori del territorio dello stato nazionale è remota, perché dipende da molti fattori, incluse la coesione e la lealtà politica, che però poggiano su rapporti pre-politici costitutivi dell’identità collettiva, che nelle società multietniche e multiculturali non possono essere garantite neppure dalla mediazione formale del diritto. 3) L’ottimismo con cui J. Habermas guarda alla globalizzazione comunicativa ed economica in corso, che dà vita ad un sfera pubblica planetaria, fino alla possibilità di una democrazia cosmopolitica, e che estende a livello di teoria e di prassi l’assetto giuridico di origine occidentale dell’integrazione sociale, deve fare i conti con i rischi incombenti dell’occidentalizzazione del mondo e della creolizzazione delle culture indigene, dovuti alla capacità ed all’abitudine dell’Occidente di avere ruoli dominanti. 4) Il legame tra modernizzazione economica e rispetto dei diritti umani non è, come dimostra abbondantemente l’esperienza di non pochi paesi non occidentali, necessario ed indissolubile, anche perché l’universalità della teoria occidentale dei diritti umani è ben lungi dall’essere riconosciuta ed attuata. 5) Il cosmopolitismo democratico 162
Cfr D. ZOLO, Il cosmopolitismo kantiano di Jürgen Habermas, cit., 161-174.
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habermasiano si inscrive nel progetto massimalista di un “ordine politico ottimo”, che prevede la possibilità di intervento tempestivo ed efficace di un potere centrale forte, ma, per esigenze di realismo, è bene avere di mira un progetto minimalista di un “ordine politico minimo”, limitato nei poteri e nella possibilità di intervento. La tesi minimalista consente la costituzione di una sorta di “società giuridica” tra soggetti collettivi regolata dal principio di sussidiarietà normativa, che, mentre riduce al minimo indispensabile la limitazione della sovranità degli stati membri, ammette la “regionalizzazione policentrica” e tollera l’“anarchia cooperativa” o l’“ordine anarchico”, e si trova in sintonia con un teorema della teoria generale dei sistemi, che proponiamo con le stesse parole dello Zolo: «in una situazione di elevata complessità e di turbolenza delle variabili ambientali è meno rischioso convivere con un certo grado di disordine, piuttosto che tentare di imporre un ordine perfetto»163.
163
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Ibid., 174.
CAPITOLO VII FASCINO E TENTAZIONE DELL’ULTERIORITÀ
L’analisi del confronto di J. Habermas con la tradizione e la presentazione di punti fondamentali del suo pensiero ci hanno consentito di prendere atto della presenza nel nostro francofortese sia di segni della percezione dell’insufficienza di impostazioni teoriche concernenti la soggettività, l’etica, il diritto, la politica, ecc., sia di segni dell’attenzione verso certe forme di ulteriorità. Effettivamente la logica della riflessione esercita una forte pressione su J. Habermas e sul suo impegno nei vari settori del pensiero e della prassi e li induce a valicare i confini delle dimensioni materiale, positiva, storica e sociale, all’interno dei quali sono sempre stati attivi, ed a tentare una sortita al di là di essi. Per capacitarci di ciò, basta richiamare un dato presente nella riflessione di Habermas: l’avvento dell’epoca post-metafisica, in cui la filosofia ha smarrito il suo “status extraquotidiano”, non è riuscito a bloccare l’irruzione sconvolgente e sovversiva di “eventi extraquotidiani” nel quotidiano1. Non si tratta di un rigurgito di irrazionalità, quale sarebbe secondo Habermas un ritorno alla metafisica, perché è la stessa razionalità, e precisamente la razionalità procedurale, ad incoraggiare il Nostro a cimentarsi nella sortita in questione. Ci sembra che Habermas percepisca nella stessa metodologia procedurale, da lui teorizzata e costantemente applicata, una inadeguatezza strutturale ed intrinseca a sostenere sino alla fine le esigenze di legittimità, di eticità e di universalità della sua logica discorsiva. In altre parole, Habermas non ci sembra teoreticamente tranquillo di fronte alla pretesa fondativa della sua linea procedurale. Per queste ragioni, egli sente il bisogno di legare saldamente il suo discorso fondativo a riserve ideali, che siano in grado di orientarlo e di sostenerlo, anche se solo in termini formali e non contenutistici. Il dato in certo senso paradossale, che ne emerge, è il seguente: Habermas, il quale, a seconda dei casi, non sa, non può e non vuole sottrarsi alla tentazione della sortita verso l’ulteriorità, cerca sempre di ricondurre i termini del discorso nell’ambito dello spazio della proceduralità. E, se i legami tra i concetti formulati nei vari settori della riflessione ed i livelli metafisici, 1
Cfr PPM 55. Per questo testo vedi Infra nota 173.
metaetici e, addirittura, teologici del discorso, sono, almeno in termini genetici, evidenti ed innegabili, il nostro francofortese fa ogni sforzo per convincersi e convincere che si tratta di concetti secolarizzati, transignificati e transfinalizzati, che offrono senso secondo esigenze contenutistiche ed in ambiti concettuali ed esistenziali, molto lontani da quelli originari. Solo che è da dimostrare che, a prescindere da talune dichiarazioni di principio, le riflessioni fatte al riguardo da Habermas siano in grado di mantenersi integre ed efficaci senza rischiare di essere compromesse dalla giustificazione da lui stesso proposta al medesimo riguardo. Gli ambiti originari in questione sono quelli della trascendentalità, della metafisica e della religione. Habermas ne sente il fascino e forse anche la nostalgia, ma li presenta sotto forme fortemente ridotte. Di fronte a tutto questo, riteniamo che nessuno, neppure Habermas, possa sottrarsi ad una domanda come la seguente: si tratta di trionfo della razionalità o di insufficienza teoretica e di inadeguatezza della giustificazione?
1. TRASCENDENTALITÀ J. Habermas, con il suo poderoso approccio teoretico alla razionalità, sembra avere fatto proprie le istanze più oneste dell’illuminismo. Ad esse, però, egli ha dato la possibilità di radicarsi nell’intersoggettività e nella comunicazione e di riprendere, così, vigore sotto altra forma ed in coordinate nuove. Basta questa diversa ambientazione teoretica per superare le secche del soggettivismo? R. Mancini, assumendo una prospettiva teologica, annota che il neoilluminismo habermasiano, se riconoscesse la pretesa del soggetto di essere in modo esclusivo misura della verità, non avrebbe alcuna possibilità di superare il rischio del soggettivismo. Ed aggiunge che la comunicazione e l’intersoggettività sono solo un passo verso l’oggettività e la verità, e cioè il superamento del fronte del mentalismo, ma non il raggiungimento di esse2. E. Arens riferisce di avere sentito dire ad Habermas nel corso di una conferenza, Die neue Intimität zwischen Politik und Kultur (1988), che l’illuminismo ed il monoteismo hanno un dato in comune, e cioè la tensione di autosuperamento e di trascendenza,
2 Cfr R. MANCINI, Editoriale all’edizione italiana, in E. ARENS, La teologia secondo Habermas. Una introduzione, cit., 11.
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che dischiude la prospettiva necessaria affinché il soggetto individuo sia e sia effettivamente autonomo3. A parte la contiguità tra trascendentalità e teologia, messa a tema dai due studiosi testé citati, il discorso habermasiano sulla trascendentalità si spiega a partire dalla tensione di ulteriorità che si protende oltre l’empirico e si volge verso la verità e l’oggettività ed anche verso l’autonomia del soggetto umano.
1.1. Il discorso habermasiano sulla trascendentalità Il dato della trascendentalità emerge in vari momenti della riflessione habermasiana. Anche i contesti sono vari; e lo sono fino al punto che, quando il discorso si volge alla detrascendentalizzazione, danno l’impressione dell’insorgere di contraddizioni o almeno di aporie. Chi si occupa di trascendentalità, per lasciarsi condurre dalla sua tensione o anche per prenderne le distanze, non può non fare riferimento a Kant ed all’idealismo. J. Habermas non pensa neppure di sottrarsi ad un tale compito, anche perché si tratta di maestri del pensiero ai quali egli sa di dovere moltissimo. Quanto al suo rapporto con Kant, Habermas si muove sulla scia chiamata da K.O. Apel “la trasformazione semiotica del kantismo”4, che fondamentalmente consiste nel trasferimento della prospettiva trascendentale dall’ambito della filosofia della coscienza a quello del linguaggio. Prima di parlare del terminus ad quem di tale transito, occorre parlare del terminus a quo, ed il Nostro lo fa in maniera chiara nel volume Wahrheit und Rechtifertigung5. Egli parte dal concetto di “mentalismo”, che segna lo spartiacque tra Kant ed Hegel. Il mentalismo, che con Kant si completa come “svolta trascendentale”, ha inizio, secondo Habermas, con la “svolta epistemologica” di Cartesio, ed ha il suo fulcro teoretico in un nuovo concetto di “autocoscienza”, dotato di una interiorità, che è la soggettività, e della capacità di 3 Cfr J. HABERMAS, Die neue Intimität zwischen Politik und Kultur, in J. RÜSEN – E. LÄMMERT – P. GLOTZ (edd.), Die Zukunft der Aufklärung, cit.; E. ARENS, Prefazione, in ID., La teologia secondo Habermas. Una introduzione, cit., 14. 4 Cfr F. FISTETTI, La ragione discorsiva di J. Habermas, cit., 18. 5 Cfr VG 181-188.
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rappresentarsi gli oggetti, che si chiama rappresentazione. È in tale contesto che il mentale si distingue dal fisico ed il soggetto umano, nel quale mediante la rappresentazione essi si incontrano, risulta dotato di spontaneità e di creatività. Per presentare la svolta trascendentale non potremmo essere più sintetici di J. Habermas; pertanto, assegniamo il compito della sinteticità alle sue stesse parole: «In sostanza si tratta di ciò: il soggetto conoscente stesso fissa le condizioni nelle quali si fa impressionare sensorialmente dal “mondo” o dalle cose in sé. Il mondo di oggetti di possibile esperienza è dovuto alla spontaneità, che progetta il mondo, di un soggetto che non è consegnato alla stimolazione causale da parte dell’ambiente contingente, ma che nemmeno è capace di produrre idealisticamente un mondo per sottrarsi, così, del tutto alle limitazioni imposte dalla realtà. Il soggetto conoscente si crea “con totale spontaneità un ordinamento secondo idee, nel quale inserisce le condizioni empiriche”6. L’attività della progettazione o della costituzione di un mondo di oggetti che appaiono rivela aspetti sia di dipendenza sia di libertà — la libertà della legislazione cognitiva di uno spirito finito che deve rispondere a limitazioni contingenti della realtà. La corretta rappresentazione degli oggetti di esperienza risulta, sotto la guida della idee formatrici del mondo, dall’accordo di sensorialità e intelletto. Kant fornisce una spiegazione genetica di come il soggetto trascendentale determini le condizioni nelle quali può incontrare qualcosa come un che di oggettivo nel mondo. L’intelletto spontaneo rielabora il contenuto ricevuto tramite gli organi di senso, sottoponendo il materiale della sensazione a un processo di formazione concettuale, portando unità e universalità nella molteplicità del particolare disordinato. L’interazione tra spirito e mondo viene dunque, a sua volta, descritta con l’aiuto di concetti di opposizione — come spontaneità contro ricettività, forma contro materia, universalità e unità sintetica contro particolarità e molteplicità. Questi dualismi mostrano come Kant vorrebbe risolvere i problemi che ha ereditato insieme al paradigma mentalistico, e precisamente con l’aiuto di una concettualità che si nutre del contrasto fra pensiero che rappresenta e oggetti rappresentabili. Contemporaneamente, Kant ha adottato il concetto non analizzato di soggettività o autocoscienza, che è costitutivo per il quadro mentalistico. Il concetto di “appercezione trascendentale” — dell’“io penso” che deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni perché io possa sapermi il soggetto delle mie rappresentazioni — vive della stessa intuizione che Leibniz aveva collegato al termine»7. 6 7
226
Cfr I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, trad. it., Critica della ragion pura, A, 548 s. Cfr VG 186 s.
Habermas non condivide questa impostazione. Già in Erkenntinis und Interesse (1968), uno scritto nel quale in precedenza aveva trattato tra gli altri gli stessi temi, egli, che pure si muove ancora in una prospettiva kantiana in particolare per quanto concerne il rapporto soggetto-oggetto, apporta una modifica determinante nella concezione kantiana della trascendentalità, in quanto ne intacca la purezza formale: la trascendentalità non è più al di fuori della storia, ma vi si trova coinvolta per la ragione che in essa si attuano il processo e la critica della conoscenza; se i presupposti della conoscenza, che sono innegabili, debbono poter esser messi in discussione, è indubbio che il loro carattere apriorico si definisca direttamente in rapporto con il processo conoscitivo e non a prescindere da esso8. Nella critica a Kant, almeno per quel che concerne la questione della trascendentalità, J. Habermas si discosta dalle posizioni del filosofo di Königsberg per seguire la pista indicata da Hegel9, il quale critica il paradigma mentalistico assunto da Kant e ciò che ne costituisce il nucleo, e cioè il dualismo soggetto-oggetto. Nelle Jenaer Systementwürfe Hegel sostiene che l’idea mentalistica di un soggetto autosufficiente è artefatta, narcisistica ed astratta. Di fatto, il soggetto storico-concreto si trova sempre situato negli ambiti concreti e vitali dello scambio e della relazionalità. La stessa autocoscienza si pone in contesto relazionale-dialogico: «Un tale soggetto non può essere presso se stesso senza essere presso l’Altro; e soltanto nella frequentazione di altri soggetti egli sviluppa una coscienza di se stesso»10.
Le relazioni tra soggetto ed oggetto si pongono ad opera di mezzi, che hanno il compito di risanare la frattura che il mentalismo aveva provocato. Si tratta del linguaggio e del lavoro, mediante i quali interno ed esterno si congiungono e le operazioni sintetiche del soggetto trascendentale, che fino a Kant venivano espletate nel privato della coscienza, si affacciano sulla soglia pubblica dello spazio sociale e dei rapporti intersoggettivi. Tutto questo, lungi dal vanificare la persona singola, ne mette in luce l’inconfondibile storia personale e la apre alla comunicazione ed alla condivisione. In tal modo, la socializzazione è la via infallibile dell’individuazione della 8 9 10
Cfr CI 7-11. Cfr VG 188-222. VG 189.
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persona singola. A questo punto, osserva J. Habermas, Hegel coglie nel mentalismo un dato straordinariamente positivo: «Poiché nell’intersoggettività ha scoperto il nucleo della soggettività, Hegel penetra anche le conseguenze sovversive che porta con sé la decisione mentalistica, inizialmente inosservata, di identificare il soggetto conoscente con l’“io”»11.
L’io è “persona in assoluto” e, in quanto tale, è “individuo inconfondibile”, ma è anche “persona in generale”, e cioè persona che condivide con tutte le altre persone le qualità essenziali che accomunano i soggetti che parlano, conoscono ed agiscono. Il luogo ontogenetico dell’autoconsapevolezza tematizzata come persona in generale e come individuo è la concreta comunità di appartenenza. Le relazioni tra soggetto ed oggetto sono mediate da linguaggio e lavoro, che consentono lo sviluppo della coscienza teoretica e della coscienza pratica. La lingua è la prima facoltà creatrice dello spirito impegnato nell’attività conoscitiva: a motivo della funzione “nominante” della lingua, il soggetto, che nomina, e l’oggetto, che viene nominato, s’incontrano nell’orizzonte aperto dalla mediazione simbolica della lingua. Il sapere linguistico, che ne deriva, si costituisce in quanto tale all’interno di una sorta di rete concettuale, che è la memoria, il cui esercizio Hegel chiama “il primo lavoro dello spirito ridesto”. Il lavoro ha, per il soggetto impegnato nell’agire, la stessa funzione della lingua nei confronti del soggetto parlante. Conseguentemente, non si tratta di giustapposizione ma dell’atteggiamento performativo che il soggetto assume nell’eseguire un lavoro. Il lavoro fa sì che la realtà si presenti all’agente come determinata da un dinamismo convergente. Linguaggio e lavoro sono veramente fattori dell’hegeliano “spirito del popolo”, che è oggettivo se è intersoggettivamente condiviso dai membri di una comunità. In questo caso, ha luogo quello che Hegel chiama il “riconoscimento reciproco”. Un tale riconoscimento, che è costitutivo e tipico dell’intersoggettività, si attiva in una stessa comunità tra i membri, che si riconoscono come persone distinte e, nel contempo, simili. Le differenze, che permangono, non intaccano l’essenziale simmetria tra i membri, anzi motivano e qualificano la solidarietà, da cui sgorga, a livello politico, quello che Hegel chiama “spirito di un popolo”.
11
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VG 194.
Anche se da quanto detto non risulta ancora del tutto chiaro che cosa comporti per la revisione del mentalismo il riconoscimento reciproco, sembra indiscutibile l’acquisizione seguente, che ha certamente una significativa portata epistemica: il dualismo mentalistico è superato mediante l’equiparazione delle relazioni soggetto-oggetto alle relazioni intersoggettive. A differenza della tradizione mentalistica, Hegel pone al punto di partenza di questo settore della sua riflessione l’intersoggettività del rapporto di riconoscimento e non la soggettività trascendentale. Con la Phänomenologie des Geistes ha luogo il transito dalla prospettiva della coscienza a quella del carattere intersoggettivo dell’autocoscienza. Insomma, l’autocoscienza di fatto e per principio si ha come riconoscimento reciproco. In tale contesto, quella che Hegel chiama “lotta per il riconoscimento” ha una effettiva rilevanza epistemica, che norma l’attuazione della costruzione sociale con imprescindibili istanze di simmetria e di imparzialità. Sennonché, J. Habermas rileva che nella Phänomenologie des Geistes, se, da una parte, è presente un ripudio della trascendentalità, dall’altra, si trova un processo di autoriflessione della coscienza singola e, quando si tratta di concepire il soggetto che ne è al centro, si ritorna a figure di mentalismo che erano state abbandonate. La figura più impegnativa è quella di “spirito assoluto”, che non si riesce a ricondurre oltre i confini del mentalismo neppure mediante un’interpretazione intersoggettiva. Infatti, si ripresentano sia le differenze tra mondo sociale, cui apparteniamo con modalità intersoggettive, e mondo oggettivo, con cui siamo chiamati a confrontarci, sia il contrasto tra ciò che è valido “per noi” e ciò che è valido “in sé e per sé”. La distinzione tra intersoggettività ed oggettività sembra riprodurre l’antica distinzione pre-hegeliana tra il razionale ed il reale. In ogni modo, secondo Hegel, lo spirito assoluto non può essere identificato con l’intersoggettività: sarebbe una concezione deflazionistica dello spirito assoluto. Alla fine della Phänomenologie des Geistes, lo spirito assoluto, in quanto interiorizza in sé ogni processo come storia propria, viene concepito come totalità e consente di restaurare il primato della soggettività. I media del linguaggio, del lavoro e del riconoscimento reciproco vengono privati della loro situazione nativa, che è l’intersoggettività, e vengono declassati a fenomeni soggettivi. Nella Logik, quando si parla dell’io, dell’autocoscienza pura e dell’idea assoluta e, pertanto, il discorso viene più che mai concentrato sulla soggettività, non si scorgono più tracce dell’intersoggettività, che è una categoria portante della detrascendentalizzazione hegeliana.
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J. Habermas s’interroga sulle motivazioni di una siffatta inversione di tendenza e ne individua qualcuna: «C’era forse una ragione interna che lo indusse, alla fine, ad abbandonare la pista intersoggettivistica da lui imboccata a Jena? Lo sguardo critico retrospettivo sulla Rivoluzione francese forniva, in ogni caso, una ragione spettacolare per desiderare di evitare una determinata conseguenza della detrascendentalizzazione»12.
Hegel trova la sua soluzione ponendo in essere una possibilità per passare dallo spirito oggettivo, — costituito dagli individui socializzati concepiti, inizialmente, come forme dinamiche di coscienza intersoggettiva e, in seguito, come forme fisse dello spirito oggettivo, — allo spirito assoluto e per subordinare il primo al secondo. Del resto, soltanto in questo il grande filosofo idealista vede la possibilità della realizzazione della morale concreta e della vera libertà. J. Habermas è deluso dagli esiti della detrascendentalizzazione hegeliana. Egli li condensa in alcune proposizioni, che, dal suo punto di vista, non possono essere condivise: la razionalità si pone anche a prescindere dagli uomini; la teoria si trova separata dalla prassi; il giudizio circa la razionalità delle istituzioni esistenti viene riservato alla speculazione della filosofia, che arriva sempre troppo tardi. Intendendo andare oltre la delusione e le sue conseguenze, il Nostro decide di intraprendere egli stesso un itinerario di detrascendentalizzazione, in modo da sfuggire effettivamente alla tanto criticata impostazione mentalistica. Ciò che egli personalmente contesta a questa impostazione è la completa assenza, nei discorsi circa lo spirito e circa il mondo, della componente linguistica e delle sue strutture13. Ed insiste sull’argomento per recare all’evidenza i rischi implicati nell’antica filosofia trascendentale: «Se si parte dalle premesse della filosofia trascendentale, non si può capire la comprensione reciproca, il patrimonio comune di una lingua, di una tradizione o di un mondo-della-vita intersoggettivamente condivisi»14.
12
VG 216. Cfr KHDV 49. 14 J. HABERMAS – R. WOLIN, L’eredità di Sartre. Jürgen Habermas intervista di Richard Wolin, cit., 28. 13
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Il cammino di detrascendentalizzazione da lui intrapreso attraversa, come storicità delle forme di vita e come forme e figure concrete, il linguaggio e la ben determinata prassi. L’antica spontaneità trascendentale, mediante la quale il soggetto conoscente esercitava una funzione costitutiva nei confronti del mondo, non svanisce nel nulla, ma viene riconfigurata come funzione linguistica, che consente al mondo di dischiudersi al senso15. La trascendentalità si condensa nelle strutture elementari del linguaggio16. In tale contesto, l’opera della detrascendentalizzazione si assume il compito di porre la ragione in situazione e di farla risplendere mentre i soggetti sono effettivamente impegnanti in pratiche discorsive. Ciò comporta, da una parte, la collocazione del soggetto socializzato nei veri contesti del mondo della vita e, dall’altra, l’intreccio della conoscenza con il linguaggio e l’agire17. In tal modo, la detrascendentalizzazione, senza smarrire nessuna delle tensioni razionali, talché si deve dire che si tratta di “ragione detrascendentalizzata18, viene compiuta con intendimenti autenticamente pragmatici e, in quanto tali, liberi dal rischio di incorrere nelle aporie del modello rappresentazionistico della conoscenza, che spiega la verità come corrispondenza tra rappresentazione ed oggetto o tra proposizione e fatto19. A questo punto, ci sembra legittima la domanda circa quanto resta del trascendentale, dopo un’opera di detrascendentalizzazione come quella appena presentata. Per iniziare, riportiamo i tre aspetti del trascendentale proposti da F. Carmagnola quando tenta di rispondere a questa domanda: «L’atteggiamento riflessivo che il pensiero ha verso i propri fondamenti, e che implica la comprensione della estraneità dell’oggetto al pensiero e alle sue pretese; il ruolo costitutivo di oggettività da parte delle categorie, che in Habermas trapassa nella teoria di una pratica normata universalmente; il rapporto di unità e distinzione che la filosofia mantiene rispetto alla scienza»20. 15
Cfr SE 75. Cfr T. MEYER, Zwiscen Spekulation und Erfahrung. Einige Bemerkungen zur Wissenschaftstheorie von Jürgen Habermas, Frankfurt a.M. 1972, 46 s. 17 Cfr KHDV 16. 18 Cfr TSF XI. 19 Cfr VG 29-32. 20 F. CARMAGNOLA, Ragione pratica. Nodi della tradizione filosofica in Habermas, in F. CARMAGNOLA – G. BRUSA ZAPPELLINI – A. FERRARO – W. PRIVITERA, Ragione emancipativa, cit., 55. 16
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Naturalmente, questi residui di trascendentalità debbono essere ben armonizzati con quanto lo stesso Carmagnola dice del carattere materialistico del trascendentale in Habermas: un tale carattere discende direttamente dal fatto che il pensatore francofortese non ritiene possibile dare una fondazione definitiva, compiuta ed immutabile alla filosofia21. Se le cose stanno così, non ci si può sottrarre all’impressione che si tratti di una trascendentalità “dimidiata”. Infatti, non manca chi parla del “quasi-trascendentale” habermasiano, come accade con R. Bubner, G. Cunico e con M. Rosati22. Motivi di ciò si colgono nella riconducibilità della posizione di Habermas a quelle di Marx, di Hegel e di Kant, pur permanendo l’impossibilità sia di identificarla anche con una sola di esse, sia di dichiarare la totale differenza rispetto a ciascuna di esse. Una tale trascendentalità consiste nella razionalità immanente nel linguaggio e si manifesta nelle “pretese di validità” degli atti linguistici23, ma la sua genesi è empirica24. Non manca neppure chi, e facciamo riferimento a G.E. Rusconi, considerando lo scopo della trascendentalità, che è quello di fondare razionalmente l’intendersi, il comprendersi ed il consenso sociale, sentenzia che quelli che procedono per questa strada fanno operazioni “improponibili” ed “impercorribili” perché inficiate di rigurgiti di filosofia della coscienza25. Talora, ed il nostro riferimento al Rusconi continua, Habermas non riesce a non ricorrere alla categoria di trascendentale, come quando si occupa della Lebenswelt: spiega che la Lebenswelt è una riserva di “sapere tramandato” ricorrendo a tale categoria, ma lo fa «non senza qualche titubanza»26; le incertezze di Habermas nel parlare della trascendentalità della Lebenswelt sono ben altro che mere difficoltà terminologiche. Il Rusconi precisa: 21
Cfr ibid., 54. Cfr CI 191; R. BUBNER, Habermas’s Concept of Critical Theory, in J.B. THOMPSON – D. HELD (edd.), Habermas: Critical Debates, London 1983; G. CUNICO, Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch, cit., 72; M. ROSATI, Consenso e razionalità, cit.,153 s. 23 Cfr M. ROSATI, Consenso e razionalità, cit., 154. 24 Cfr G. CUNICO, Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch, cit., 72. 25 Cfr G.E. RUSCONI, Introduzione all’edizione italiana, in TAC I, 10. 26 Ibid., I, 23. J. Habermas, da parte sua, così si esprime: «Se, com’è consuetudine nella tradizione che risale a Humboldt, supponiamo un nesso interno fra strutture del mondo vitale e strutture dell’immagine linguistica del mondo, al linguaggio e alla tradizione culturale spetterà una posizione in un certo senso trascendentale rispetto a tutto ciò che può diventare la componente di una situazione»; e poco oltre aggiunge: «Il mondo vitale è per così dire 22
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«Il mutamento di paradigma dalla coscienza alla comunicazione linguistica non sa o non può disfarsi di concetti forti della tradizionale teoria filosofica, quali “costituzione” o “trascendentale”. Questi concetti, per quanto sottratti alla matrice gnoseologica di soggetto-oggetto, non si lasciano codificare in nuovi schemi senza creare le difficoltà che stiamo segnalando»27.
Lo stesso Habermas sembra indebolire fortemente il suo discorso sulla trascendentalità quando, parlando della comunicazione e della sua autonomia in epoca da lui chiamata post-tradizionale, prende atto della separazione tra cultura, società e personalità e, volendo dare una spiegazione di tutto questo ed in particolare della sostituzione dei fondamenti dell’integrazione sociale con i fondamenti della validità dell’agire, ricorre al termine “apparenza”28, lasciando intendere che quanto si dice della trascendentalità, collegato com’è all’antico soggetto razionale, individualisticamente e privatisticamente inteso, è un’“utopia razionale dell’epoca dell’illuminismo”, un’utopia, per altro, smentita dalla stessa ideologia borghese, cui ha giovato e da cui è stata sostenuta29. Il sostantivo “apparenza”, che funge da vero e proprio qualificatore, attira l’attenzione dei lettori di Habermas. G. Vattimo, accennando alla trascendentalità habermasiana, parla di “apparenza kantiana e trascendentale”30. Il già ricordato Rusconi non si lascia sfuggire l’occasione per osservare che il ricorso di Habermas alla categoria “apparenza trascendentale” nel contesto dell’argomentazione a favore dell’“autonomia dei processi comunicativi dell’intendersi” è una “interpoil luogo trascendentale nel quale parlante ed ascoltatore si incontrano, nel quale possono avanzare reciprocamente la pretesa che le loro espressioni si armonizzino con il mondo (quello oggettivo, sociale o soggettivo) e nel quale essi possono criticare e confermare quelle pretese di validità, esternare il proprio dissenso e raggiungere l’intesa» (TAC II, 712, 714). 27 G.E. RUSCONI, Introduzione all’edizione italiana, in TAC I, 26. 28 «Nella misura in cui, secondo le analisi concordanti di Mead e di Durkheim, cultura, società e personalità si scindono; nella misura in cui la base di validità dell’agire orientato all’intendersi sostituisce i fondamenti sacri dell’integrazione sociale, si ha un’apparenza (Vorschein), per così dire, di una comunicazione quotidiana post-tradizionale. Suggerita dalle strutture del mondo vitale, determinante e travalicante l’ideologia borghese essa pone limiti alla dinamica autonoma di sottosistemi autonomizzatisi, forza le culture specialistiche isolate e sfugge così ai pericoli combinati della reificazione e dell’impoverimento» (TAC II, 988). 29 Cfr TAC II, 988. 30 Cfr G. VATTIMO, Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Milano 2003, 16.
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lazione”, che non solo non giova all’argomentazione, in quanto non la rende più solida, ma neppure le offre garanzie adeguate nei confronti delle teorie economicistico-materialistica e sistemica che la avversano31. G.E. Rusconi vuole proprio farla finita con quelle che, secondo lui, sono le aporie habermasiane di origine filosofica, e, a tale scopo, fa una serie di annotazioni. Innanzitutto, parla dell’atteggiamento della teoria comunicativa, una teoria non filosofica, nei confronti della filosofia, un atteggiamento che è di presa di distanza ed insieme di latente competizione e che si manifesta nell’utilizzazione da parte di Habermas, sia pure con frequente senso di “incertezza” e di “riluttanza”, di categorie prettamente filosofiche, come quella di “trascendentale”, in settori decisivi delle sue argomentazioni. Inoltre, precisa il Rusconi, cultura moderna e scienza moderna non hanno bisogno di reggersi sulla filosofia. Le strutture di razionalità, dalle quali non si può prescindere, sono sostenute da una teoria della razionalità comunicativa idonea a garantire il carattere unitario della ragione mediante il costante orientamento della prassi comunicativa all’intesa e la collocazione della cultura degli esperti al suo interno quale momento costitutivo di natura riflessiva. Infine, Rusconi riconosce nella Lebenswelt quel “sapere di sfondo” che sta alle spalle dei soggetti parlanti ed agenti e del quale non si può disporre in modo arbitrario. La scoperta di tutto questo e la individuazione al suo interno di quello spessore di “incondizionatezza”, che è condizione di possibilità del processo comunicativo volto all’intesa ed al consenso, sono opera della teoria comunicativa. In ultima analisi, una tale teoria tiene insieme una serie di “frammenti”, dalla cui coerenza dipende il destino della razionalità. A questo proposito, è lo stesso Rusconi ad invitarci alla lettura di un breve testo habermasiano: «Dalla prospettiva della storia delle teorie ho cercato di mostrare, sulla scorta dei lavori di G.H. Mead, Max Weber e E. Durkheim, come in questo tipo di teoria, impostata in modo empirico e al tempo stesso ricostruttivo, gli elementi di scienza sperimentale e quelli analitico-concettuali filosofici si compenetrano. La teoria genetica della conoscenza di J. Piaget è l’esempio migliore di questa divisione cooperativa del lavoro. Una filosofia, che sottopone i suoi risultati a queste verifiche indirette, è guidata dalla coscienza fallibilistica che ci si può oramai attendere la teoria della razio31
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Cfr G.E. RUSCONI, Introduzione all’edizione italiana, in TAC I, 32.
nalità (che un tempo la filosofia voleva elaborare da sola) dalla riuscita coerenza di diversi frammenti teorici»32.
Ma vogliamo dare ancora la parola al Rusconi, al fine di comprendere l’idea di razionalità che egli si è formata in seguito al suo confronto con Habermas: «Ci sembra una citazione appropriata per il lettore che si appresta ad entrare nel lavoro habermasiano. Concetti apparentemente tanto lontani come “pretese di validità criticabili”, “strutture di mondo vitale” o “paradossi della razionalità” sono frammenti tenuti insieme, in coerenza, solo da una consapevole strategia discorsiva. Verosimilmente è l’unico modo oggi di parlare in positivo di razionalità»33.
Che le pagine habermasiane esprimano incertezza e riluttanza quando fanno ricorso a concetti-chiave della filosofia della coscienza è un fatto innegabile, e ne abbiamo preso atto anche dialogando con il Rusconi, ma, stando così le cose, la domanda sul perché ciò accade in non pochi snodi decisivi della riflessione e dell’argomentazione habermasiane è inevitabile. Di primo acchito, sembra ovvio dire che non si è in assenza di ragioni teoretiche forti. Queste, poi, ci sembrano tutte collegate con la questione della razionalità. Sennonché, ridurre la razionalità ad una “consapevole strategia discorsiva” equivale quasi a dissolverla. Il pregiudizio empiristico, quando blocca il discorso, e questo accade in Rusconi in maniera decisa ed in Habermas in maniera non meno decisa ma inequivocabilmente problematica, si trasforma in dogma, che in campo filosofico è un vero e proprio non-senso. Per quel che concerne J. Habermas, l’intendimento di fondare razionalmente il consenso sociale sembra un dato sicuro, anche se si tratta di una impresa non facile. G.E. Rusconi si propone di riferire sulle difficoltà incontrate da Habermas nel portare avanti una tale impresa, ma si ha l’impressione che metta sulle labbra del francofortese il proprio pregiudizio: «Sembra un’impresa disperata nel panorama delle teorie sociali del nostro tempo. Infatti non solo sono improponibili fondazioni ontologiche o 32 33
TAC II, 1082 s. G.E. RUSCONI, Introduzione all’edizione italiana, 41.
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trascendentali di tipo filosofico tradizionale, ma sono impercorribili anche le strade della vecchia “teoria critica” e quella del marxismo, più o meno modernizzato. Tutte sono viziate da residui di filosofia della coscienza»34.
Il passo dal pregiudizio all’atteggiamento dogmatico non è lungo! Habermas non è così perentorio; e ne è prova il fatto che la sua argomentazione non tenta di evitare le ambivalenze e non si sottrae al rischio di incorrere in aporie. Le cosiddette aporie del pensiero habermasiano nell’ambito della trascendentalità ci sembrano illuminanti, soprattutto perché, per paradosso, sembrano il tentativo estremo di impedire che l’intero discorso diventi aporetico. Ciò, ad esempio, accade quando, da un lato, si ricorre alla trascendentalità per rendere giustizia a concetti non altrimenti garantibili e, dall’altro, non ci si sente di mettere in discussione la detrascendentalizzazione35. Insomma, Habermas sembra muoversi all’interno della consapevolezza dell’ineluttabilità del trascendentale. Infatti, ancorché separi con determinazione la trascendentalità dalla soggettività e non metta più a tema né la sua funzione costitutiva della realtà né la sua funzione determinante nel processo conoscitivo, non può non parlare del carattere pratico del trascendentale, che non preclude, anzi rende possibili, recuperi in ambito teoretico. L. Cortella fa al riguardo una annotazione che non abbiamo difficoltà a condividere: «Ma l’essere pratico del trascendentale non comporta la sua cecità, la dissoluzione del suo carattere costitutivo-manifestativo, del suo essere condizione della possibilità della conoscenza. Tematizzando il carattere pratico del trascendentale Habermas tematizza al tempo stesso il carattere teorico della prassi, il suo essere condizione imprescindibile per la manifestazione del reale. L’oggettività dell’esperienza si realizza solo in questa mediazione con la prassi»36.
In ogni caso, e non bisogna dimenticarsene, si tratta di una figura “debole” di trascendentale, in quanto la habermasiana ricostruzione razionale dei presupposti imprescindibili dell’intesa reciproca tra i soggetti non 34 35 36
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Ibid., 11. Cfr VG 29-32. L. CORTELLA, Crisi e razionalità, cit., 93.
si lascia ricondurre ad una prospettiva aprioristica ma è frutto di processi cognitivamente rilevanti di adattamento all’orizzonte conoscitivo, il quale, benché di origine contingente, è necessario ed invalicabile e costituisce un presupposto senza alternative37.
1.2. Settori della trascendentalità habermasiana Negli scritti di J. Habermas la trascendentalità si rende evidente ed operativa in vari settori, ed in particolare, come abbiamo già osservato, in snodi fondamentali della riflessione e dell’argomentazione. Naturalmente, si rende evidente secondo la tipicità habermasiana. a) Uno di questi settori è quello della comunicazione. Habermas è convinto sia del fatto che l’agire comunicativo designi un quadro di riferimento non solo empirico ma anche trascendentale, sia del fatto che i presupposti, sui quali i soggetti parlanti, che vogliono pervenire ad una intesa effettiva, debbono convenire fino a condividerli universalmente, siano di natura trascendentale. Habermas sa di non potere più percorrere la via mentalistica kantiana e, di conseguenza, ci tiene a dire di non essere diventato kantiano, ma sa pure di non potere rinunciare alla trascendentalità, che egli, secondo i dettami della teoria dell’agire comunicativo, recupera nella prassi comunicativa quotidiana, costantemente segnata dalla tensione trascendentale tra l’intelligibile ed il fenomenico38. Nonostante tutte le possibili ambivalenze ed ambiguità, non sembra esserci alternativa: quanti partecipano al discorso e sono impegnati nella prassi comunicativa non operano al di fuori di influenze condizionanti39. Ad Habermas è chiara l’idea che la trascendentalità dell’agire comunicativo si distingue dalla trascendentalità tipica della filosofia. Mettendosi alla ricerca di una tale attendibile base, dopo avere, però, intrapreso la 37
Cfr VG 34. Cfr TFCS 158 s. 39 «I soggetti capaci di linguaggio e di azione implicati in pratiche comunicative non possono fare a meno, nel loro pensare e agire, di regolarsi secondo norme e di farsi influenzare da ragioni. Non si riconoscono nella descrizione oggettivante di Quine. Il naturalismo rigoroso fallisce per la dissonanza cognitiva tra la nozione di sé, ben verificabile, di parlanti competenti e un’autodescrizione controintuitiva, radicalmente revisionistica. Questa, infatti, privando l’analisi linguistica delle intuizioni dei parlanti, la priva della unica attendibile base di dati» (VG 29). 38
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strada della detrascendentalizzazione, il francofortese va oltre la trascendentalità della coscienza individuale ed assume la prospettiva della trascendentalità linguistico-comunicativa: «Ora la coscienza del soggetto conoscitivo si è detrascendentalizzata: inserendosi nella storicità delle forme-di-vita, essa deve incarnarsi in un linguaggio e in una prassi determinata. La spontaneità trascendentale, con cui il soggetto conoscitivo modellava il mondo trapassa ora nella funzione linguistica di “Welt-erschliessung” (schiudimento-di-mondo)»40.
La spontaneità in questione si attiva “metacomunicaticavamente” mediante l’anticipazione della situazione discorsiva ideale, che consente sia di mettere in tensione il consenso vero con il consenso raggiunto di fatto, sia di vagliare criticamente quest’ultimo tipo di consenso e di controllarne l’effettivo ruolo esercitato nei confronti dell’intesa reale. Accade qualcosa di controfattuale, nel senso che il consenso vero può essere distinto da quello raggiunto di fatto, presupponendo una situazione discorsiva ideale, in virtù della quale soltanto la vera intesa può essere conseguita. In tal modo, il processo del consenso è alimentato e guidato dal consenso vero, che, quale momento di perfezione ideale, è proletticamente ed operativamente presente in esso. Habermas precisa il suo pensiero a più riprese. Da parte nostra, ci limitiamo a richiamarne, a mo’ di esempio, qualche breve tratto: l’idealizzazione della situazione discorsiva è una anticipazione, che ogni discorso effettivo presuppone e che si manifesta nella competenza comunicativa41; la ragione comunicativa, per la quale si può parlare di trascendentalità (parvenza) ma anche di scetticismo, rischia sempre di essere travolta dal carattere aleatorio delle contingenze, ma ciò non accade, in quanto essa alla fine, a motivo di un fattore di incondizionatezza, che non è qualificabile come assoluto ma che ha i tratti della forza critica della ragione, riesce a dominarle42; la prassi d’intesa è capace di trascendere se stessa e gli esiti 40
SE 75. «In questa idealizzazione della situazione discorsiva, si deve trattare di una anticipazione che dobbiamo presupporre in ogni conversazione empirica, con la quale vogliamo intraprendere un discorso e che possiamo anche intraprendere con l’aiuto dei mezzi costruttivi, dei quali ogni parlante dispone in virtù della competenza comunicativa» (TSTS 91). 42 «Il concetto di ragione comunicativa viene ancora accompagnato dall’ombra di una parvenza trascendentale. Dato che le presupposizioni idealizzanti dell’agire comunicativo 41
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della propria attività perché è sostenuta dalla forza controfattuale di idealizzazioni inevitabili; non si tratta di un fatto straordinario, in quanto tutte le forme di vita strutturate linguisticamente sono interessate dalla tensione idea-realtà43; la filosofia, occupandosi della modernità, ne fornisce un “autoaccertamento normativo”, che, per quanto sia soltanto un “dato di fatto” proveniente dalla tradizione, è indisponibile44. La trascendentalità innesta una dinamica discorsiva di tipo controfattuale: «Fa parte della struttura del discorso possibile, il fatto che noi, nello svolgimento degli atti discorsivi (e delle azioni), agiamo contraffattualmente come se la situazione discorsiva ideale (oppure il modello del puro agire comunicativo) non fosse meramente fittizia, ma reale; questo, appunto, noi chiamiamo supposizione. Il fondamento normativo dell’intesa linguistica è, pertanto, duplice: anticipato, ma anche operante quale situazione di base anticipata»45.
L. Cortella annota acutamente: «Trascendentalità della ideale Sprechsituation significa che ogni atto del comunicare è costretto necessariamente a presupporla, ad anticiparne l’idea. Ogni atto del parlare deve presupporre infatti di sapere, almeno implicitamente, che cosa sia consenso e intesa, altrimenti non sarebbe possibile nessuna comunicazione. La intrascendibilità di quella anticipanon possono (dürfen) essere ipostatizzate ad ideale di un futuro stato del definitivo essersi intesi, allora il concetto deve essere applicato in modo sufficientemente scettico. […] Il momento dell’incondizionatezza che viene conservato nei concetti relativi al discorso della verità fallibile e della moralità, non è un assoluto, è semmai un assoluto fluidificato in procedimento critico. […] La ragione comunicativa è certo come una buccia galleggiante — tuttavia essa non annega nel mare delle contingenze, anche quando il tremito per il mare grosso diventa l’unico modo di “dominare” le contingenze » (PPM 180 s.). 43 «Una corona d’idealizzazioni inevitabili forma il fondamento controfattuale d’ogni prassi d’intesa effettiva che sia capace di volgersi criticamente contro i propri risultati e di trascendere se stessa. Con ciò la tensione idea/realtà irrompe nella stessa attualità delle forme di vita linguisticamente strutturate. La prassi comunicativa quotidiana si sovraccarica di presupposti idealizzanti» (FN 12 s.). 44 «La modernità è l’orizzonte in cui siamo nati e la sfida che dobbiamo affrontare: di essa la filosofia può offrire non una “autofondazione trascendentale” ma soltanto un “autoaccertamento normativo”. Si tratta di un “dato di fatto” che ci raggiunge dal passato, di una situazione storica di cui non possiamo disporre» (IA 265). 45 TSTS 67 s.
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zione si radica nel piano metacomunicativo del linguaggio per cui negando la intrascendibilità della ideale Sprechsituation si viene a negare proprio questo secondo piano, senza del quale non è possibile né comunicazione né intesa»46.
La trascendentalità significa, dunque, l’impossibilità del raggiro delle norme all’interno della situazione argomentativa, ma significa, altresì, il volgersi del discorso verso la portata normativa della persona, a prescindere dalla quale parlare di agire comunicativo è inutile e presuntuoso47. b) Un altro settore della trascendentalità habermasiana è quello della verità. Secondo Habermas, vero è ciò che è condiviso. Solo che la giustificazione della condivisione non può consistere nella mera convenzionalità ma deve essere collegata alla trascendentalità, cioè alla portata prolettica della verità. Questa si volge direttamente alla concretezza della prassi, dove, attuandosi come evento di reciprocità nella libera comunicazione e nel vero accordo, si presenta come anticipazione della vita riuscita48. Procedendo in tal modo, Habermas pone nell’impostazione della comunicazione il fattore trascendentalità come ineludibile e ne garantisce, mediante l’anticipazione del consenso vero, la permanenza nella verità. c) Un altro settore ancora sul quale vogliamo fermare la nostra attenzione è quello del rapporto tra trascendentalità e soggettività. Il soggetto nella concezione habermasiana si misura mediante la rottura epistemologica con la vecchia metafisica e con la vecchia antropologia, in quanto si esprime e si impegna nella particolarità della fattualità empirica. Volendo essere più precisi, dobbiamo dire che è la soggettività trascendentale ad essere interessata da una tremenda crisi: ha dovuto abbandonare il regno dell’intelligibile, è stata costretta a spogliarsi dei qualificatori derivanti dal 46
L. CORTELLA, Crisi e razionalità, cit., 109. Cfr P. PAGANI, L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura, in C. VIGNA (ed.), Libertà, giustizia e bene in una società plurale, cit., 326 s. 48 «Certamente la comunicazione potrebbe dispiegarsi soltanto in una società emancipata, che avesse realizzato la maturità dei suoi membri, fino a diventare il dialogo sottratto al dominio di tutti con tutti, dal quale deriviamo pur sempre tanto il modello di un’identità dell’Io formata nella reciprocità, quanto l’idea del vero accordo. In questo senso la verità di proposizioni si fonda sull’anticipazione della vita riuscita» (TPST 55. Per un approfondimento di questo settore del pensiero di Habermas cfr F. CARMAGNOLA, Ragione pratica. Nodi della tradizione filosofica in Habermas, in F. CARMAGNOLA – G. BRUSA ZAPPELLINI – A. FERRARO – W. PRIVITERA, Ragione emancipativa, cit., 37-41). 47
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suo carattere ultramondano e non ha potuto a meno di adattarsi alla nuova condizione di “prassi comunicativa quotidiana”49. Solo che neppure il soggetto habermasiano può essere identificato come tale, se si prescinde dalla controfattualità dell’universalità. Ciò che si pone o si manifesta nell’empirico e, di conseguenza, perde l’antico e puro senso forte, non può mai prescindere dall’universalità e dalla totalità, che sono residui ineludibili della trascendentalità. Del resto, quanto rimane dell’“analisi trascendentale” è all’origine della scoperta di condizioni ritenute universali, ma soltanto di fatto inevitabili, dalle quali deriva un “sapere di natura pratica”, a cui i soggetti, dotati dell’attitudine a parlare e ad agire, debbono la capacità di espletare “pratiche fondanti”, che sono superiori a tutte le altre che possono essere compiute50. Una volta abbandonata la nozione originaria di trascendentale, il percorso habermasiano che conduce alla trascendentalità è, come è facile comprendere, molto diverso. Tra le pietre miliari di esso si trovano la rottura epistemologica e la detrascendentalizzazione, che possono manifestare tutta la loro fecondità se vengono interpretate alla luce della prospettiva trascendentale, ancorché mutata. Questo fatto comporta una serie di conseguenze: le condizioni trascendentali, non fruendo più dell’universalità, della necessità e dell’oggettività di un tempo, in quanto sono stabilite empiricamente, hanno la loro origine nel mondo51; l’empirico può essere 49 «La coscienza trascendentale perde la connotazione di coscienza “oltremondana”, domiciliata nell’ambito dell’intelligibile; è scesa in terra nella figura de-sublimata della prassi comunicativa quotidiana. Il mondo profano della vita ha occupato il luogo oltremondano del noumeno» (VG 21). 50 «La filosofia trascendentale […] si concepisce come ricostruzione delle condizioni generali e necessarie nelle quali qualcosa può divenire oggetto di esperienza e di conoscenza. Il senso di questa problematica trascendentale si può generalizzare se la si sgancia dal fondamentale concetto mentalistico dell’autoriflessione, come pure da una concezione fondamentalistica della coppia di concetti “a priori” e “a posteriori”. Dopo la deflazione pragmatistica della concettualità kantiana, l’“analisi trascendentale” significa la ricerca delle condizioni presumibilmente universali, ma solo de facto inevitabili, che debbono essere soddisfatte perché possano realizzarsi determinate pratiche o prestazioni fondanti. “Fondanti”, in questo senso, sono tutte le pratiche delle quali non esistono equivalenti funzionali, perché possono essere sostituite soltanto da una prassi dello stesso genere. All’accertamento autoriflessivo di una soggettività attiva in foro interno, al di là dello spazio e del tempo, subentra, allora, l’esplicarsi di un sapere che è di natura pratica e mette soggetti capaci di linguaggio e di azione in grado di partecipare a siffatte pratiche superiori e di fornire prestazioni corrispondenti» (VG 14 s.). 51 Cfr VG 21-27.
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colto ed interpretato solo all’interno dal più ampio orizzonte della trascendentalità; la trascendentalità è sempre in tensione con l’empirico e, a lungo andare, finisce con il trovarsi privata del suo carattere teoretico; la medesima tensione impedisce che il trascendentale trasferisca nell’empirico le sue caratteristiche precipue; la trascendentalità si separa dal livello teoretico della soggettività e si ristruttura al livello pratico di essa; i presupposti dell’argomentazione, che non possono non essere universali e necessari, lo sono per dimostrazione trascendental-pragmatica, e non più per la portata a priori della deduzione trascendentale secondo l’antico senso kantiano52. La praticizzazione del trascendentale provoca delle variazioni: toglie ogni forza al fondamentalismo tipico della filosofia trascendentale e dà alla filosofia, ormai libera dal peso di compiti eccessivi, l’opportunità di stabilire rapporti con le scienze ricostruttive53; trasferisce, ovviamente modificandole profondamente, la realtà e le prerogative della soggettività trascendentale nella dimensione concreta e collettiva di essa, e cioè nei molti soggetti parlanti ed agenti e segnatamente nell’intersoggettività, il luogo nuovo e vero della trascendentalità54; collega irreversibilmente teoria e prassi, nel senso che se, per un verso, autorizza la tematizzazione del carattere pratico della teoria, per un altro verso, consente di parlare del carattere teorico della prassi55. d) L’ultimo settore della trascendentalità habermasiana è quello dell’eticità. Prima di addentrarsi in esso, Habermas sente il bisogno di precisare che egli, parlando di trascendentale, non intende né ripercorrere l’itinerario kantiano della deduzione trascendentale, né ignorare che, in assenza dell’equivalente al dato kantiano, l’innegabile esigenza della trascendentalità non riesce ad offrire una sicurezza più forte di quella che deriva dalle deboli argomentazioni trascendentali dello Strawson56. Tali argomentazioni sono in grado di dare garanzie soltanto per le presupposizioni normative generali legate a determinate forme di vita, che, essendo per principio e di fatto transeunti, fruiscono in modo debole dei carismi
52
Cfr ED 123. Cfr ED 125 s. 54 Cfr KHDV 16. 55 Cfr L. CORTELLA, Crisi e razionalità, cit., 89-93. 56 Cfr M. NIQUET, Transzendentale Argumente: Kant, Strawson und die Sinnkritische Aporetik der Detranszendentalisierung, Frankfurt a.M. 1991; TM 201s. 53
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della necessità e dell’universalità. Ciononpertanto, J. Habermas insiste sulla trascendentalità: «A dire il vero, basta una debole prova trascendentale, ove la si possa eseguire, cosa che io d’accordo con Apel ammetto, per fondare una pretesa di validità universalistica, vincolante per tutti i soggetti capaci di parlare ed agire e propria di un principio morale concepito in termini procedurali. Se questo principio può essere fondato in base al contenuto fondativo di presupposti irrecusabili, allora è evidente che non può essere ragionevolmente messo in dubbio in quanto principio, ma soltanto in queste o in quelle interpretazioni. Se si tiene conto di ciò, non abbiamo bisogno di nessuna fondazione ultima. Una spiegazione del punto di vista morale basata su fallibili ricostruzioni del contenuto normativo delle presupposizioni argomentative fattualmente inevitabili non costituisce affatto una rinuncia all’universalismo morale e un collegamento del principio morale con contenuti del sapere di sfondo di un particolare mondo vitale. Una fondazione ultima dell’etica non è né possibile né necessaria»57.
La tematizzazione attenuata della trascendentalità esclude la possibilità di inoltrarsi lungo un percorso orientato alla scoperta della fondazione ultima, ma implica il riferimento ad una fondazione della pretesa di validità universalistica capace di normare la proceduralità sia del parlare e dell’agire dei soggetti che dei principi morali. Certo, una filosofia, specie quella politica, che fosse in grado di fare un riferimento fondativo ad un “punto supremo”, avrebbe, al dire di Habermas, garanzie migliori58, ma, sempre secondo Habermas, sarebbe pericolosa per la democrazia, in quanto favorirebbe l’avvento di un re-filosofo guidato dall’intento di dare ordine al mondo. Habermas è, dunque, convinto della necessità di precisare relazioni normative tra morale, diritto e politica, ma la via da lui indicata per raggiungere tale scopo è quella graduale del discorso e non quella gerarchica, che non ne sente il bisogno e può farne a meno59.
57
Cfr TM 202. «Una filosofia strutturata secondo criteri gerarchici, che fosse in grado di distinguere un punto supremo di riflessione, offrirebbe presupposti possibilmente migliori perché la teoria morale potesse ancora una volta recuperarsi in toto trascendendo se stessa grazie alla riflessione» (TM 203). 59 Cfr TM 203-207. 58
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1.3. Caratteristiche della trascendentalità habermasiana J. Habermas riconosce di non avere chiarito adeguatamente lo status dell’anticipazione di una situazione discorsiva ideale60. Questo fatto può essere ricondotto, se si vuole, anche ai limiti della trascendentalità habermasiana, ma in realtà deve essere messo in rapporto con la tipicità di essa, che, essendo linguistico-comunicativa, si pone in condizione di interdipendenza con i processi storici e si lascia definire in termini di prodotto storico. Tutto ciò che accade e si situa nella storia provoca una curvatura storica del trascendentale: la ricerca, il lavoro, l’emancipazione, gli interessi, i bisogni ed ogni fattore appartenente all’universo della prassi. Interrogandosi sulle condizioni a priori della possibilità della conoscenza, Habermas risponde che si deve continuare a parlare di condizioni a priori, badando bene, però, a distinguere tra condizioni a priori “in sé”, non più ammissibili, e condizioni a priori “per il processo della ricerca”, che sono le sole accettabili. Ed aggiunge che la loro trascendentalità non è più quella della coscienza, bensì quella che accompagna i processi di ricerca e li rende possibili61. Del resto, la ristrutturazione, che discende dalla rinuncia alla filosofia della coscienza e dall’assunzione delle esigenze della comunicazione, costituisce effettivamente un impedimento alla possibilità che la comunicazione erediti tutte le tensioni della trascendentalità tradizionale, strettamente legata alla coscienza. Ne consegue che la trascendentalità habermasiana non può possedere la stessa purezza della trascendentalità legata alla filosofia della coscienza. Infatti, restringendosi la sua comprensione e la sua estensione, si rivela incapace di totalità; ponendosi all’interno dell’orizzonte dell’empiricità, risulta priva di assolutezza; non potendo astrarre dai processi storici e 60
Cfr TSTS 93. «Queste condizioni sono a priori certo non più in sé, ma solo per il processo della ricerca. […] Questi sistemi di riferimento hanno un valore di posizione trascendentale, ma determinano l’architettonica di processi di ricerca, non quella della coscienza trascendentale in generale. […] Queste regole non hanno più lo status di pure regole trascendentali; esse hanno un valore di posizione trascendentale, ma derivano da connessioni di fatto della vita: da strutture di un genere umano che riproduce la propria vita sia mediante processi di apprendimento del lavoro organizzato socialmente, che attraverso processi di comprensione in interazioni mediate dal linguaggio corrente. Alla connessione di interessi di questi rapporti vitali fondamentali si commisura quindi il senso del valore di asserzioni che possono essere acquisite all’interno del sistema di riferimento quasi-trascendentale dei processi di ricerca delle scienze della natura e dello spirito» (CI 191). 61
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sociali, anzi essendone dipendente, non può più fruire dell’immutabilità astorica originaria62. A nostro modesto avviso, le ragioni degli ostacoli, che lo stesso Habermas incontra nel dare indicazioni risolutive circa la sua concezione della trascendentalità, si trovano nell’impossibilità di far coincidere la situazione discorsiva reale con la sua anticipazione nozionale e nella conseguente difficoltà di rispondere in modo inequivocabile alla domanda se l’anticipazione della situazione discorsiva ideale sia solo un’apparenza di un discorso possibile oppure un dispositivo idoneo a garantire la realizzazione delle anticipazioni concettuali. J. Habermas fa il proprio discorso sulla trascendentalità e, nel contempo, svela lo stato d’animo che viene a determinarsi in lui nel momento in cui lo fa. Infatti, confrontandosi con F. Dallmayr, così si esprime: «Dallmayr mi rimprovera infine la restaurazione del razionalismo illuminista — che in Germania fino al 1945 era detto “piatto”. Il piatto e il profondo hanno le loro proprie insidie. Io ho sempre cercato di navigare tra la Scilla di un empirismo livellante e senza trascendenza e la Cariddi di un idealismo esaltato, che glorifica la trascendenza. Spero di avere imparato molto da Kant, ma non sono diventato un kantiano dallmayriano se non altro perché la teoria dell’agire comunicativo recupera nella stessa prassi comunicativa quotidiana la tensione trascendentale tra l’intelligibile e il mondo dei fenomeni, senza per questo sopprimerla. Il logos del linguaggio istituisce l’intersoggettività del mondo della vita, in cui non ci troviamo già in un’intesa preliminare, affinché possiamo incontrarci faccia a faccia come soggetti, e cioè come soggetti che si attribuiscono la responsabilità, quindi la capacità di orientare il loro agire a pretese di validità trascendenti. Al tempo stesso il mondo della vita si riproduce attraverso il medium delle nostre rispettive azioni comunicative, di cui dobbiamo assumerci la responsabilità, senza che quello possa stare perciò a nostra disposizione. Come persone che agiscono in modo comunicativo siamo esposti ad una trascendenza insita nelle condizioni linguistiche di riproduzione, senza essere consegnati ad essa. L’intersoggettività linguistica travalica i soggetti senza renderli succubi. Essa non è una soggettività di livello superiore e può perciò fare a meno del concetto di assoluto senza abbandonare una trascendenza dall’interno. Possiamo rinunciare a questa eredità del cristianesimo ellenizzato tanto quanto a quelle costruzioni imitative di stampo hegeliano di destra, sulle quali Dallmayr sembra come sempre fare affidamento»63. 62
Cfr L. CORTELLA, Crisi e razionalità, cit., 98-101. TFCS 158 s.; cfr F. DALLMAYR, Reason and Emancipation: Notes on Habermas, in Man and World 5 (1972) 79-109; ID., Polis and Praxis, Cambridge (Mass.) 1984; ID., 63
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Con le idee espresse in questo testo J. Habermas vuole, innanzitutto, fare comprendere ai suoi interlocutori e lettori il proprio intendimento, che è duplice: evitare sia impostazioni estremiste, come quella dell’empirismo, che cancella ogni trascendenza, e quella dell’idealismo, che la enfatizza, sia l’impostazione kantiana, che egli giudica affetta del limite del mentalismo; tentare di recuperare la kantiana tensione trascendentale tra il mondo intelligibile ed il mondo fenomenico mediante la teoria dell’agire comunicativo e di mantenerla nella prassi comunicativa quotidiana della Lebenswelt. Tale prassi, che si dispiega con modalità intersoggettive, si attiva mediante il linguaggio, dal cui lógos i soggetti sono volti alla trascendenza. Quest’ultima è intrinseca all’intersoggettività linguistica e, in quanto tale, trascende i soggetti singoli, senza però dominarli. Di conseguenza, l’intersoggettività non è una soggettività superiore e la trascendenza è trascendenza dall’interno. Inoltre, J. Habermas vuole svelare il proprio stato d’animo, che è segnato dalla consapevolezza che il soggetto, singolo o collettivo che sia, non è in grado di assumersi alcuna responsabilità circa il proprio discorso senza fare riferimento alla trascendentalità. Egli è pure consapevole del rischio di cadere nella trappola di un assoluto, inteso cristianamente o hegelianamente, e cerca di evitarlo parlando di trascendenza dall’interno. Tuttavia, non vengono meno le ragioni per formulare la seguente domanda: fino a che punto una trascendenza di questo genere offre ai soggetti del discorso garanzie sul fronte della pretesa di verità? Nonostante queste ed altre possibili difficoltà, Habermas pone la questione della trascendentalità con una dinamica logica molto precisa. Egli, infatti, pensa che la possibilità di ogni enunciato concernente qualcosa di particolare si fondi su una sua determinazione generale: «Quando noi pronunciamo un enunciato sopra alcunché di particolare — sia esso un oggetto, un avvenimento o una persona — noi lo afferriamo di volta in volta in riferimento a una sua determinazione generale»64.
Ma ciò accade perché ogni singolo atto di discorso categoriale viene posto all’interno di una determinazione generale presente alla mente Habermas and Rationality, in Political Theory 16 (1988) 553-579; ID., The Discourse of Modernity: Hegel, Nietzsche, Heidegger (and Habermas), in Praxis International 8 (1989) 377-406. 64 Cfr PPF 143.
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umana in modo tematico oppure in modo atematico? A questa domanda Habermas sembra rispondere che si tratta di una presenza tematica. Tuttavia, non ci pare superfluo ricordare che, in Habermas, la consistenza contenutistica della situazione linguistica ideale, con il suo doppio ruolo prolettico e controfattuale, non è tematizzata totalmente. E, stando così le cose, ci sembra lecito formulare l’ipotesi che, nella mente del nostro francofortese, essa non sia, almeno di fatto, compiutamente tematizzabile.
2. METAFISICA E POST-METAFISICA J. Habermas vive nell’epoca culturale inaugurata dalla modernità e ne assume consapevolmente l’orizzonte culturale ed i moduli interpretativi conseguenti. Essendo l’orizzonte culturale generale post-metafisico, i moduli interpretativi presentano del mondo una visione ad esso consentanea. La temperie post-metafisica di tale orizzonte si pone come un a priori precedente e condizionante l’interpretazione della realtà, che, di conseguenza, viene giudicata non riconducibile alle pretese veritative della metafisica. Questa è ritenuta inadeguata alle esigenze peculiari dell’epoca culturale contemporanea. Tuttavia, il congedo dalla metafisica e l’inevitabile intrapresa del percorso post-metafisico — si tratta di un convincimento che Habermas si forma dialogando con R. Rorty — non può essere all’origine della produzione di un pensiero post-metafisico mediocre e sterile65. Chi percorre un tale itinerario non procede né automaticamente né pacificamente, ma viene accompagnato dalla consapevolezza di trovarsi in un clima di concorrenza tra varie pretese di validità: alle proprie pretese, che vengono difese con convinzione, ne vengono contrapposte altre di segno contrario, che hanno difensori non meno interessati e non meno decisi66. Il Nostro si lascia guidare dall’intendimento di rompere con l’ingenuità del dogmatismo, che presume di essere fondato su pretese di verità assoluta, e lo fa con il convincimento di riconoscere e di dare effettività agli “oneri della ragione”. Ma sa pure che una tale importante idea, che egli per altro mutua dalla teoria della giustizia di J. Rawls, deve essere applicata rigoro65
Cfr VG 228 s. Queste non sono le sole ragioni delle critiche alla prospettiva post-metafisica di J. Habermas: cfr R. LANGTHALER, Nachmetaphysische Denken? Kritische Anfrage an Jürgen Habermas, Berlin 1997. 66
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samente fino in fondo. Pertanto, è necessario tener conto del fatto che le varie proposte sono guidate, sia pure provvisoriamente, da simmetriche pretese di validità. Questo fatto apre le porte al fallibilismo, il quale, se, per un verso, mette in luce il carattere fondamentalistico del dogmatismo, per un altro verso, autorizza a parlare della indeterminatezza della procedura discorsiva e di ciò che ne consegue67. Un fallibilismo argomentato sulla base del pluralismo delle visioni del mondo è, ad un tempo, conseguenza e causa della dislocazione dell’“autorità epistemica”, che si trasferisce dalle dottrine religioso-teologiche alle scienze sperimentali, fortemente privilegiate nella modernità. Insieme a ciò, si ha la dissoluzione dei concetti metafisici e di tutti gli enunciati esplicativi, valutativi, normativi ed etici che ne discendono e che tradizionalmente sono stati proposti come fondamento e giustificazione del pensare e dell’agire degli uomini. Impostosi il livello post-metafisico della fondazione del pensare e dell’agire, si procede con logiche e modalità nuove e radicalmente diverse rispetto a quelle precedenti e certamente, come lo stesso Habermas non manca di annotare, molto meno garantite sul fronte della sicurezza epistemologica68.
2.1. Le ragioni “oggettivamente ragionevoli” della metafisica e le ragioni “soggettivamente ragionevoli” della post-metafisica Benché i dati concettuali appartenenti ad una tale impostazione siano ripetutamente proposti da J. Habermas, si ha l’opportunità di prendere atto del profondo mutamento della situazione anche solo fermando l’attenzione, e sempre insieme ad Habermas, su dati particolarmente significativi. Un primo dato riguarda l’ultimo e più difficile problema ereditato dalla metafisica, e cioè il problema della precisazione dell’identità dell’io individuale: a partire da Kierkegaard, l’individualità, contrariamente a quanto accadeva nella tradizione filosofica, che se ne occupava ricorrendo esclusivamente a concetti di tipo privatistico, viene colta attraverso l’osservazione delle tracce lasciate dalla persona singola mediante l’unitario ed esistentivo condensarsi dell’autenticità della sua vita, che è gravida di significato individuale, ma non esclusivamente. Il percorso per perseguire un tale scopo è la colloca67 68
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Cfr TM 214 s. Cfr IA 23.
zione della pura interiorità individuale, prodotta dalla tradizione filosofica, nel linguaggio, “luogo” del reciproco incontro tra i fenomeni della socializzazione ed i fenomeni dell’individuazione. Nel medesimo “luogo” il soggetto parlante, ponendo in essere l’“io” dell’atto illocutorio, viene identificato come una persona individua, la cui storia individuale è certamente di sua esclusiva pertinenza, solo che le coordinate linguistiche la lanciano oltre i confini dell’individualità. In tal modo, gli interlocutori, comunicando mediante il linguaggio e la sua offerta di senso universale, apprendono di essere parte integrante di una particolare Lebenswelt69. Un secondo dato concerne le possibilità di sopravvivenza della filosofia morale nella mutata situazione: Habermas è parimenti convinto che non si debba deflettere dall’impegno di provare la portata cognitiva delle valutazioni morali e che non si possa più contare sulle già sperimentate vecchie garanzie: «Ciò significa anzitutto che essa [la filosofia morale] a) sul piano metodologico deve rinunciare al punto di vista divino; b) sul piano dei contenuti non può più ricorrere a nessun “ordine della creazione” o “storia della salvezza”; c) sul piano teorico-strategico non può più servirsi di concetti metafisico-sostanziali che precedano il differenziarsi logico degli enunciati illocutivi. Ancorché privata di tutte queste risorse, la filosofia morale deve giustificare il senso cognitivo di validità intrinseco ai giudizi e alle prese di posizione morali»70.
Di conseguenza, la giustificazione ontologica dei riferimenti assiologici e normativi deve essere fatta con mezzi post-metafisici. J. Habermas si trova d’accordo con il Bubner quando afferma che il “regno dei fini”, collocato com’è nell’aldilà, non può riconfigurarsi nelle forme di vita dell’aldiquà. Un soggetto, che non assume le certezze della Lebenswelt, non troverà mai la possibilità e la via della concretezza71. L’antica metafisica riteneva di potere interpretare la realtà e di potere risolvere tutti i problemi concernenti la conoscenza e la realtà, sia naturale che storica, transitando senza difficoltà e con naturalezza dall’aldilà all’aldiquà e viceversa, ma in realtà incorreva, secondo quanto dice Habermas, nell’aporia del dualismo. Tuttavia, la soluzione proposta dal Nostro non è immune dallo stesso rischio, in quanto gli apporti della filosofia o degli altri 69 70 71
Cfr PPM 180. IA 23. Cfr TM 33.
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livelli di discorso, che egli ritiene irrinunciabili e che però debbono essere epistemicamente traslocati, vengono recuperati in forma di “equivalente surrogatorio”72. Ciò, tanto per fare degli esempi, accade nell’ambito della scienza, che della filosofia conserva tutte le apparenze della teoria pura73, e nell’ambito della fondazione imparziale delle norme morali, a proposito del quale il “bene trascendente”, travolto dal generalizzato atteggiamento post-metafisico, viene recuperato in forma immanente mediante la prassi dibattimentale74. Habermas avverte la persistenza del rischio di incorrere nell’aporia del dualismo ed assume una sorta di atteggiamento di sic et non, parlando della irrinunziabilità dell’orientamento post-metafisico e, nel contempo, anche dei rischi che la rinunzia alla metafisica comporta. Rischi molte volte incorsi, ma che in un numero di volte ancora maggiore — il Nostro ci tiene a dirlo — sono stati superati per la ferma determinazione degli autori. Un tale atteggiamento viene fatto oggetto di discorso in varie occasioni. In Faktizität und Geltung (1992) Habermas dimostra di avere chiara l’idea della portata del rischio in questione, ma ritiene che ci siano buone possibilità di evitarlo: «Non è detto infatti che il prezzo da pagarsi per le premesse del pensiero postmetafisico debba essere l’indifferenza nei confronti di questioni che nel mondo di vita non si lasciano comunque mettere a tacere. Anche solo per ragioni di metodo, la teoria non può rimuovere i problemi che oggettivamente affliggono gli interessati»75.
In Die Einbeziehung des Anderen (1996) descrive la perdita da parte della religione e della metafisica del compito di dare una configurazione pubblica comune alle concezioni della realtà, alle teorie della conoscenza ed alle prospettive morali, parla delle conseguenze anche epistemiche di tale perdita e dei nuovi itinerari che si aprono per il pensiero umano in seguito ad essa:
72 73 74 75
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Cfr IA 56. Cfr TPST 56. Cfr IA 56. FN 17 s.
«Le dottrine religiose della creazione e della salvezza avevano fornito ragioni epistemiche comprovanti come i comandamenti divini non derivassero da una autorità cieca ma fossero ragionevoli e “veri”. Ora la ragione, abbandonando il terreno oggettivo della natura e della storia sacra, si ritira nella mente dei soggetti agenti e giudicanti. Perciò le ragioni “oggettivamente ragionevoli” del giudizio e dell’agire morale devono essere rimpiazzate da ragioni “soggettivamente ragionevoli”. Una volta che i fondamenti religiosi della validità sono stati svalutati, il contenuto cognitivo del gioco linguistico della morale diventa ricostruibile solo attraverso il riferimento alla volontà e alla ragione dei partecipanti»76.
Una particolare formulazione si trova nello studio I rischi di una genetica liberale (2001), nel quale Habermas, mentre si dichiara d’accordo con i tentativi di quella genetica che egli stesso qualifica come liberale, esprime le sue perplessità su alcuni dati, che, in assenza di un irresistibile unico argomento morale e di un argomento filosofico che includa coerentemente nella dignità umana anche l’inizio della vita dell’uomo, incoraggiano gli interventi volti a provocare la modifica delle caratteristiche genetiche e producono soggetti umani messi in rapporto tra di loro non più secondo la logica del nesso che lega genitori e figli e medico e paziente, nesso che appartiene in linea di principio alla comunicazione, ma secondo la logica di dipendenza che non prevede la reversibilità delle relazioni interumane e lo scambio delle posizioni sociali77: «La prospettiva inquietante è quella di una prassi d’intervento che, modificando le caratteristiche genetiche, oltrepassi i limiti del rapporto (in linea di principio comunicativo) tra medico e paziente, genitori e figli, e scalzi la struttura normativa delle nostre forme di vita a partire da un’autotrasformazione genetica»78.
In Intervista con Bert Van Den Brink (1993) J. Habermas mette a tema, insieme al dato del transito epistemico già più volte ricordato che potrebbe aprire la falla inarginabile della fattualità, la questione della validità e trova la soluzione nell’origine democratica della normatività del diritto: 76 77 78
IA 25. Cfr J. HABERMAS, I rischi di una genetica liberale, in FNU 64-68. Ibid., 68.
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«Vede, dal momento che non possiamo più contare né su convinzioni religiose condivise né sulla validità d’un diritto naturale classico, l’ordinamento giuridico — che nel suo insieme dipende sempre, a prescindere dalle sanzioni dello Stato, da un riconoscimento più o meno libero da parte dei cittadini — può soltanto fondare la sua legittimità sopra un procedimento e precisamente sopra un procedimento democratico. Tutto sommato, la plausibilità e la forza di convinzione di questo procedimento dipendono dalla scambio pubblico di informazioni e di ragioni. Senza questo fondamento legittimante, il nostro tradizionale concetto di diritto dovrebbe modificarsi radicalmente: in altri termini esso verrebbe a significare un mero controllo sociale. Dunque non bisogna parlare tanto di ideali, quanto di presupposizioni normative che non si lasciano arbitrariamente sostituire»79.
In altri termini, è il discorso con tutte le sue prerogative che dà garanzia ed impedisce all’arbitrio di scatenarsi: «Il “bene trascendente” che ci è venuto a mancare può essere compensato soltanto in “forma immanente”, ossia sulla base della struttura interna della prassi dibattimentale»80; «L’unica fonte post-metafisica di legittimità è costituita evidentemente dalla procedura democratica con cui viene generato il diritto. Ma cos’è che dà forza legittimante a questa procedura? La teoria del discorso dà a questa domanda una risposta semplice e a prima vista inverosimile. La procedura democratica rende possibile il libero “scorrere” di temi e contributi, informazioni e ragioni; essa assicura così alla formazione politica della volontà un carattere discorsivo e fonda la fallibilistica presunzione che risultati prodotti in conformità alle procedure siano più o meno ragionevoli. Due considerazioni appoggiano “prima facie” l’impostazione della teoria del discorso. Dal punto di vista della teoria della società, il diritto assolve funzioni d’integrazione sociale. […] Dal punto di vista della teoria del diritto, i moderni ordinamenti giuridici possono ricavare legittimità solo dall’idea dell’autodeterminazione»81.
Nella ricerca e nella riflessione di J. Habermas, e proprio a motivo del fatto che ci si imbatte in una certa quale preoccupazione per il venir meno di quella che possiamo chiamare la garanzia della copertura ora metafisica 79 80 81
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J. HABERMAS, Intervista con Bert Van Den Brink, (1993), in SE 143. IA 56. Cfr FN 530.
ora religiosa, non potrebbe nascondersi una qualche forma di criptometafisica? K.O. Apel mette in guardia nei confronti del rischio di una tale figura di metafisica, un rischio che si fa molto grosso proprio quando si tenta di evitare il fondamento ultimo di tipo trascendental-riflessivo, che in ultima analisi garantisce soltanto il punto di vista storico dipendente dalla ragione: sarebbe come un rigurgito dell’antica barbarie82. Non si renderebbe giustizia ad Habermas se tentassimo di occultare i rischi che i transiti epistemici detti implicano. Egli stesso parla, e lo abbiamo appena visto, di “fallibilistica presunzione”. L. Ceppa, attento lettore di Habermas e suo acuto studioso, commenta così i transiti epistemici presenti nel pensiero del Nostro: «Habermas non celebra il progresso: piuttosto evidenzia gli effetti tragici del decentramento dell’immagine metafisica di mondo. Il differenziarsi dei criteri di razionalità — l’autonomia delle sfere di valore weberiane — ha liberato l’individuo solo al prezzo di mettere a repentaglio l’integrazione sociale complessiva»83.
Insomma, la validità, tanto cara ad Habemas, è solidamente e veramente fondata? In altri termini, l’insostituibilità delle presupposizioni normative, di cui Habermas ci ha parlato un po’ supra, è legata solo allo hic et nunc dell’intesa democraticamente conseguita, che ora è tale ma che potrebbe cambiare con il mutare del consenso, oppure si regge su una ragione fontale diversa ed a monte della democrazia stessa? Ma questo non equivale ad ipotizzare una trascendentalità non più semplicemente procedurale ed in qualche modo legata alla coscienza o alla dimensione metafisica della realtà? E dire questo equivale ad andare oltre Habermas? Certo è che in Habermas si riscontrano l’esigenza della validità del discorso e l’esigenza della fedeltà alla prospettiva post-metafisica. Ed entrambe le esigenze sono presenti ed operative in modo incontrovertibile, fino al punto da generare, così almeno sembra a noi, un certo disagio nello stesso Habermas. Tale disagio è dovuto alla debolezza dell’affermazione della validità in prospettiva post-metafisica. Innanzitutto, va precisato che 82
Cfr K.O. APEL, Normative Begründung der “Kritischen Theorie” durch Rekurs auf lebensweltliche Sittlichkeit? Ein transzendentalpragmatisch orientierter Versuch, mit Habermas gegen Habermas zu denken, in A. HONNETH – TH. MCCARTHY – CL. OFFE – A. WELLMER (edd.), Zwischenbetrachtungen. Im Prozeß der Aufklärung. Jürgen Habermas zum 60. Geburtstag, Frankfurt a.M. 19892, 64 s. 83 L. CEPPA, Postfazione a IA 264 s.
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il tema fondamentale dell’antica metafisica, quello dell’unità e della molteplicità, resta invariato. La variazione è nel paradigma che si assume e nella trattazione che ne consegue; cosa che puntualmente accade nei paradigmi ontologico, mentalistico e linguistico, che sono ovviamente differenti84. Inoltre, Habermas precisa che la peculiarità del pensiero post-metafisico è nel modo in cui esso salva il senso dell’incondizionato. Tale salvezza, che esclude Dio o una qualsiasi altra forma di assoluto, è compito della filosofia, la quale, sia perché non è in grado di sostituire la religione nel conforto che è in grado di offrire in una situazione di ingiustizia e di sofferenza, sia perché distoglie la ragione comunicativa dagli itinerari dell’immoralità e la orienta verso quelli della moralità, può farsi carico della tensione morale che sostiene il giudizio impegnato a distinguere in modo imparziale ciò che è giusto da ciò che è ingiusto. Si tratta certamente di un’operazione morale di pertinenza della filosofia. Ma, a questo punto, J. Habermas s’interroga sulle ragioni che determinano il dovere di agire moralmente ed osserva: «Altra cosa è però dare una risposta motivante alla domanda, perché dobbiamo seguire le nostre convinzioni morali, addirittura perché dobbiamo essere morali. Da questo punto di vista si può forse dire: salvare un senso incondizionato senza Dio, è vano. Infatti appartiene alla dignità della filosofia il continuare a sostenere con intransigenza che nessuna pretesa di validità possa avere consistenza cognitiva senza essere giustificata davanti al forum del discorrere argomentativo [begründende Rede]»85.
Se ci stessimo occupando di I. Kant, anziché di Habermas, e volessimo arricchire il linguaggio del filosofo di Königsberg con quello del filosofo di Düsseldorf, potremmo dire che Dio è un “postulato della ragione etico-comunicativa”, ma il massimo che possiamo dire di Habermas è che nella sua riflessione, quando si trova impegnata sul fronte della fondazione ultima anche di ciò che è autenticamente procedurale, affiora una sorta di nostalgia della metafisica. È stato opportunamente detto che Habermas è un post-metafisico, ma non un a-metafisico “disfattista”86. Lo stesso nostro 84
Cfr PPM 151-183. TFCS 130. 86 Cfr M. COOKE, Mettere in discussione l’autonomia: la sfida femminista e la sfida per il femminismo, (1998), in R. KERNEY – M. DOOLEY (edd.), Questioning Ethics. Contemporary Debates in Philosophy, trad. it., Questioni di etica. Dibattiti contemporanei in filosofia, Roma 2005, 312. 85
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francofortese, anche se non parla di sé, mostra di approvare il pensiero postmetafisico non disfattista, il quale si mantiene a debita distanza sia dal naturalismo scientista che dalle verità rivelate ed è consapevole della propria tendenza a sconfinare oltre i propri limiti, di cui pure ha consapevolezza87.
2.2. Ontologia del soggetto? Il discorso habermasiano sull’ontologia si qualifica in modo particolare quando si sviluppa come discorso sull’ontologia del soggetto. Fin dall’inizio della sua ricerca — da parte nostra facciamo riferimento al lontano Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus (1973) — J. Habermas esclude che si possa parlare con senso dell’uomo prescindendo dalla dimensione della socialità; anzi, sembra convinto che il soggetto tanto più si stabilizzi nella sua identità quanto più si lascia condurre dal movimento centrifugo di immersione nella crescente complessità sociale88. Si comprende, così, che il mutamento di paradigma investe pienamente anche il soggetto, il quale viene liberato dal rischio del narcisismo, strettamente collegato con l’univocità dell’io, tipica della filosofia occidentale e con una boriosa autoconsapevolezza di privilegio rispetto all’oggetto89, e viene posto lungo un percorso di rigorosa proceduralità, che, guidandolo attraverso spazi linguistici ed intersoggettivi, lo conduce oltre i confini dello spazio in cui tale rischio è possibile. Per poter fare questo, Habermas opera un profondo cambiamento di rotta nello studio del soggetto. Ciò si rende evidente, innanzitutto, nel confronto con vari autori e nelle considerazioni che fa sul loro pensiero. Nel portare avanti questo lavoro, Habermas attua un suo punto programmatico che consiste nel mostrare come e perché egli metta in opera il suo esodo dalla filosofia della coscienza. Di Cartesio ricorda l’Ego cogito, che, quale evento di autocoscienza, è il polo sostentante ed unificante di tutti i fenomeni coscienziali e, quale io, è la sorgente del conoscere e dell’agire del soggetto individuale90. Di Kant mette in luce il carattere trascendentale 87
Cfr TSF X. Cfr CRCM 130-144. 89 Cfr E. AGAZZI, Prefazione, in F. CARMAGNOLA – G. BRUSA ZAPPELLINI – A. FERRARO – W. PRIVITERA, Ragione emancipativa, cit., 17. 90 Cfr PPM 193. 88
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dell’io, che, in quanto tale, si presenta come soggetto “produttore del mondo” e “autonomamente agente”. L’io trascendentale dovrebbe garantire sia l’universalità che l’individuazione, ma la forza dell’universale astratto, che è tutta interiore, è estranea all’individuo, che si trova nel mondo insieme a tutti gli altri individui, e, di conseguenza, non riesce da sola a conciliare universale e particolare ed a produrre l’individuazione. Nel trascendentale di Kant si nasconde l’assolutizzazione della soggettività borghese e del suo privatismo91. Di Fichte Habermas loda l’impostazione della ricerca volta ad occuparsi dell’io che pone se stesso come io individuale all’interno di una relazione intersoggettiva, ma critica la fragilità della trattazione del linguaggio, che non consente di valicare il fronte della filosofia della coscienza92. Di Hegel critica la ragione soggettocentrica che si alimenta dell’equipollenza di coscienza e sapere assoluto e che, in tal modo, conduce la storia sull’orlo del rischio dell’annullamento93. Apprezza il francofortese Adorno per la sua critica della soggettività borghese in nome e per conto di un soggetto ostinato nell’impegno critico, come l’esule Odisseo, dotato di autonomia, guidato dalla razionalità e libero da ogni presunzione dogmatica94. Ad un altro francofortese, Marcuse, rimprovera il tentativo, per altro non riuscito, di dare al marxismo una impostazione fortemente ontologico-antropologica, corredandolo di concetti tipici dell’ontologia e dell’antropologia, come, ad esempio, “essenza dell’uomo”95. Di N. Luhmann Habermas non accetta la sostituzione del soggetto con un individuo funzionale nel sistema96. Con questo egli non vuole negare la fecondità dell’approccio sistemico alla soggettività, approccio che gli sembra prezioso per togliere ogni chance alla figura di ragione che egli chiama soggettocentrica97, ma intende soltanto legarne l’adozione all’impegno di non lasciare svanire il grado di soggettività conseguito con Cartesio98. L’alto grado della soggettività cartesiana deve essere garantito, purché alla fine risulti inequivocabilmente libero dalle conseguenze nefaste del menta91
Cfr PPM 193; PPF 87 s. Cfr PPM 194 ss. 93 Cfr PPM 164 ss. 94 Cfr PPF 137-149. 95 Cfr J. HABERMAS in Teoria e politica. Colloquio fra Herbert Marcuse, Jürgen Habermas, Heinz Lubasz e Tilman Spengler, cit., in DR 182. 96 Cfr TSTS 116-123, 145-149. 97 Cfr DFM 382. 98 Cfr DFM 366 ss. 92
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lismo. Habermas traduce con insistenza in discorso preoccupazioni antiche, che il rischio dell’enfatizzazione mentalistica dell’uomo e quello della sua riduzione cibernetica destano in lui99. Alla tradizione giudaico-cristiana J. Habermas si sente debitore per la fecondità che alcune dottrine metafisiche e religiose di essa hanno avuto nella comprensione di concetti importanti come moralità ed eticità, persona ed individualità, libertà ed emancipazione. Ma, assume questo atteggiamento senza mettere in discussione i propri convincimenti post-metafisici100. In sintesi, si può dire che per Habermas il grado di soggettività conseguito con Cartesio, che implica autocoscienza, libertà e creatività, non è in discussione. Lo è, invece, il modello interpretativo, che è quello individualistico e mentalistico e che, a suo dire, deve essere sostituito con quello comunicativo-procedurale. Per questa ragione, il Nostro riprende e critica la posizione di D. Heinrich, un autore che per altro apprezza, evidenziando soprattutto il fatto che l’esigenza teoretica, in essa presente, di fornire di un fondamento inattaccabile la vita cosciente autonoma approda all’idealismo e dà all’autocoscienza il supporto della soggettività assoluta. In tal modo, l’autocoscienza, una fondamentale esperienza intuitiva prelinguistica, attesta il suo riferimento fondativo ad una soggettività prelinguistica metafisica, pone la filosofia nell’itinerario metafisico e ne fa una impostazione teoretica autonoma, che è avulsa da ogni contesto e che trascende le scienze, le quali sono fallibiliste per definizione. Secondo Habermas, Heinrich, orientandosi in questo modo, abbandona la prospettiva della filosofia analitica, a cui inizialmente ha aderito con convinzione, ignora il paradigma linguistico habermasiano, che è il paradigma che consente alla filosofia di attuare le sue legittime possibilità, e soprattutto rinnova la pretesa della metafisica, che è una impostazione filosofica ormai obsoleta e non più all’altezza dei tempi101. D. Heinrich, rispondendo ad Habermas, dice di avere forti dubbi sulla portata storica del nuovo paradigma da lui propugnato. Infatti, l’autocoscienza, l’elemento a cui egli tiene di più e che viene criticato da Habermas, non solo non presuppone l’azione linguistica ma è pensabile al di fuori di essa. Un conto è attribuire un ruolo positivo alla comunicazione 99
Cfr TPST 229-234. Cfr PPM 19. 101 Cfr J. HABERMAS, Rückkehr zur Metaphysik. Eine Tendenz in der deutschen Philosophie?, in Merkur 39 (1985) 439 s. 100
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linguistica ed al dialogo anche nell’evento della soggettività, ma un altro conto è far dipendere da essi, quale effetto da causa, l’evento stesso dell’autocoscienza, che della soggettività, dotata di consistenza metafisica, è l’espressione più significativa102. Il confronto con D. Heinrich conferma J. Habermas nell’orientamento a riconoscere il primato al significato che la comunità linguistica produce e condivide intersoggettivamente e non a significati di altra provenienza103. La delimitazione di tipo comunicativo-procedurale all’interno della quale il nostro francofortese formula la sua idea di soggetto genera ed alimenta lo scetticismo nei confronti della tradizionale filosofia del soggetto, che sarebbe rimasta intrappolata in una serie di dicotomie ed avrebbe impedito il progresso del pensiero nei vari ambiti del sapere e dell’esperienza. Habermas chiarisce il proprio pensiero parlando delle tentazioni e dei rischi della filosofia della prassi e dicendo che questa va incontro ad un fallimento completo quando, invece di affermarsi con tutta la sua originalità, si piega alla filosofia del soggetto e si lascia condurre dai suoi concetti fondamentali, che sono dicotomizzanti104. A ben vedere, è lo stesso pensiero in generale a trovarsi intrappolato, quando si occupa di questioni inerenti al soggetto, in dicotomie insuperabili. Ci fermiamo brevemente su alcune di esse. Habermas parla della impossibilità di sostituire arbitrariamente le presupposizioni normative 102 Cfr D. HEINRICH, Was ist Metaphysik, was Moderne? Thesen gegen Jürgen Habermas, in Merkur 40 (1986) 494-508. 103 J. Habermas ripropone nel 1988 la sua considerazione critica di alcune tesi di D. Heinrich (cfr PPM 261-272. Per il confronto tra Habermas ed Heinrich cfr M. BOZZETTI, Habermas critico della teoria metafisica di Dieter Heinrich, in Hermeneutica [2005] 247258). 104 «Essa infatti si sottomette di nuovo ai concetti fondamentali dicotomizzanti della filosofia del soggetto: la storia viene progettata e fatta da soggetti, che per parte loro si trovano nel processo storico come gettati e fatti (Sartre); la società appare come una rete oggettiva di relazioni, che o viene calcata in testa come ordine normativo al soggetto trascendentalmente precompreso (A. Schütz) oppure viene prodotta da questi stessi soggetti come ordinamenti strumentali nella lotta di reciproche oggettivazioni (Kojève); il soggetto si trova o centricamente nel suo corpo vivente (Merleau-Ponty) oppure si rapporta ad esso quale corpo eccentricamente come ad un oggetto (Plessner). Il pensiero legato alla filosofia del soggetto non può superare queste dicotomie, ma oscilla disperatamente, come acutamente ha diagnosticato Foucault, da un polo all’altro. Neppure la svolta linguistica della filosofia della prassi porta ad un cambiamento di paradigmi. I soggetti parlanti sono o signori o pastori del loro sistema linguistico» (DFM 318).
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dello stato di diritto. La loro legittimazione si fonda sull’organizzazione democratica della convivenza e sulle procedure create ed attivate di conseguenza105. Ma, è sufficiente il procedimento democratico per fondare il divieto dell’arbitrarietà e l’obbligo dell’insostituibilità in questione? Quanto, poi, al soggetto, di cui in questo contesto Habermas è solito parlare, non si può non interrogarsi circa le ragioni per le quali esso è mosso da esigenze di intersoggettività, comunicazione ed eticità. La risposta è certamente nella teleologia, ma si può comprendere il fine senza sapere nulla della causa? La postulazione tutta habermasiana della trascendentalità, che rende attenti alle esigenze della causa, sorge proprio nello spazio teoretico aperto da questa tensione e mette in luce l’insufficienza di quella concezione della soggettività moderna, dalle caratteristiche fortemente immanentistiche e materialistiche, che Habermas esprime anche con parole molto precise mutuate da D. Heinrich: «Essa [l’autointerpretazione filosofica della modernità] accetta che la soggettività possa determinare le proprie azioni a partire dalle strutture ad essa proprie e non dalla prospettiva di sistemi finalizzati più generali. Essa crede però anche di riconoscere che la soggettività e la ragione stessa abbiano soltanto lo status di mezzi o di funzioni che servono alla riproduzione di un processo che conserva se stesso, ma è indifferente verso la coscienza. Il materialismo moderno ha espresso per la prima volta in Hobbes questa posizione. Essa spiega l’impressione e l’effetto esercitati nella coscienza moderna da Darwin e Nietzsche, da Marx e da Freud. In Marx sono però entrati attraverso Hegel e Feuerbach tratti della metafisica della conciliazione»106.
Siamo di fronte ad una concezione di soggettività pienamente immanentizzata e procedurale, in quanto il suo agire non nasce estrinsecamente da un sistema più generale che la trascende, bensì intrinsecamente dalla sua stessa struttura, ed è volto ad un fine ancora una volta intrinseco, che è quello dell’autoconservazione. Fatto si è che Habermas, il quale, in quanto francofortese, in nome della filosofia si pone con deciso atteggiamento critico contro tutte le forme di oggettivismo scientifico e positivistico, incluso il meccanicistico 105
Cfr SE 143. D. HEINRICH, Die Grundstruktur der modernen Philosophie, in H. EBELING (ed.), Subjektivität und Selbsterhaltung, Frankfurt a.M. 1976, 117; cfr TAC I, 514 s. 106
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marxismo ortodosso, ed afferma e difende con forte determinazione le prerogative della ragione, prende la via del materialismo e tende, più che ad affermare il soggetto con una filosofia adeguata, a risolverlo in altro. Anzi, la sua filosofia, essendo a-metafisica, tende a dissolvere l’antico soggetto sostanziale, a trasferire i privilegi della sua trascendentalità nella prassi comunicativa107 e, in ultima analisi, a dargli una consistenza totalmente lontana da coordinate metafisiche. L’attenta opera di detrascendentalizzazione da lui compiuta mira proprio a superare le difficoltà implicate in queste concezioni sia mediante la definizione della dimensione sociale dell’evento soggettivo e la sua collocazione nei contesti della Lebenswelt, sia mediante l’intreccio dell’evento conoscitivo con il linguaggio e con l’agire108. Dal punto di vista della teoria critica di J. Habermas, dunque, l’io autonomo viene privato della sua base teoretica tradizionale109, viene collocato all’interno di un rapporto di interdipendenza con la natura e con la società110 e viene identificato nello spazio della comunicazione. Il Nostro ci pone certamente di fronte ad una ripresa della teoria critica, ma soprattutto ci pone di fronte ad una radicale modifica di essa. Non si tratta solo delle “importanti precisazioni” nei confronti della teoria critica della prima fase, di cui parla G.E. Rusconi, ma di vere e proprie modifiche, a partire dalle varianti di filosofia della storia, che il Rusconi nega e che, come ci è sembrato quando abbiamo parlato della verità, Habermas mette a tema, fino al punto da farne una questione di dissenso e di differenziazione dai vecchi maestri della Scuola di Francoforte111. Oltre tutto, il programma della vecchia teoria critica è, secondo Habermas, fallito sia per la rinunzia all’obiettivo della conoscenza teoretica di realizzare un “materialismo interdisciplinare”, sia per il venir meno del paradigma della filosofia della coscienza, con la quale i vecchi maestri di Francoforte, nonostante l’atteggiamento antimetafisico che li induceva a negare con convinzione la consistenza sostanziale della coscienza, potenziavano mediante l’introduzione della critica la condivisa capacità dell’ergersi consapevole e libero della soggettività nei confronti dei tentativi del potere di amministrare sia il sapere che lo spazio socio-politico112. 107 108 109 110 111 112
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Cfr L. CEPPA, Postfazione, in FN 155. Cfr KHDV 16. Cfr RMS 51. Cfr RMS 70 s. Cfr G.E. RUSCONI, Introduzione all’edizione italiana, in TAC I, 40. Cfr TAC I, 514 s.
Per l’intervento di Habermas, l’autonomo io trascendentale viene sottoposto a radicale opera di detrascendentalizzazione e viene trasferito nei vari contesti del mondo della vita ed al livello dei soggetti del discorso e dell’agire113. Dell’antica trascendentalità kantiana resta quel tanto che è necessario al mantenimento della verità e del soggetto della conoscenza114. Ma, mette conto ribadire che, secondo Habermas, l’ambito proprio di tutto questo è costituito da ciò in cui il soggetto ed il pensiero si possono attivare ed esprimere come linguaggio. Habermas si rende perfettamente conto delle difficoltà nelle quali incorre il soggetto singolo all’interno della società industriale avanzata, che ha teoreticamente e concretamente i caratteri del capitalismo maturo115, ma, a differenza dei vecchi francofortesi, non si lascia travolgere dal pessimismo per quel che concerne l’effettiva possibilità di espressione dell’individuo in tale tipo di società e ricerca un principio che possa garantire un sufficiente margine di autonomia agli individui che convivono ed interagiscono all’interno di un medesimo contesto sociale. La linea risolutiva, che si viene a delineare in un siffatto contesto discorsivo, è ovvia: si tratta, infatti, della teoria dell’agire comunicativo, che consente l’interazione dei soggetti, capaci di linguaggio e di azione, che entrano in relazione. Dietro la teoria habermasiana dell’agire comunicativo si trova un progetto complesso che riguarda anche il soggetto, il quale si pone in un contesto intersoggettivo strutturato linguisticamente116. In ultima analisi, esprimendosi habermasianamente, l’identità dell’io si pone in contesto di intersoggettività, e cioè in un contesto ben lontano da un sistema totalizzante, che eliminerebbe le differenze e dissolverebbe il singolo all’interno della struttura della comunità, compromettendone l’identità. Habermas mette felicemente in rapporto due ambiti e due livelli di azione di impegno soggettivo mediato dal linguaggio. Si tratta dell’azione drammaturgica, in cui i protagonisti di una azione scenica, mediante lo strumento del linguaggio, si mettono in scena, e dell’agire comunicativo, in cui i soggetti singoli che compongono la comunità intersoggettiva si integrano tra di loro nella Lebenswelt, ricercando l’intesa e servendosi ancora una 113
Cfr KHDV 16. Cfr F. CARMAGNOLA, Ragione pratica. Nodi della tradizione filosofica in Habermas, in F. CARMAGNOLA – G. BRUSA ZAPPELLINI – A. FERRARO – W. PRIVITERA, Ragione emancipativa, cit., 30. 115 Cfr CRCM. 116 Cfr F. RICCI, I linguaggi del potere, Torino 2003, 223. 114
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volta del medium del linguaggio. Se i soggetti singoli avranno la possibilità di comunicare tra di loro e di prendere parte con un contingente adeguato di libertà e di responsabilità ai dibattiti che si attiveranno all’interno della comunità intersoggettiva, la possibilità di superare ostacoli della comunicazione, quali ideologie, alienazioni, logiche di interessi, pretese incontrollate di validità, pretese di amministrare la razionalità e fenomeni di dominazione, avrà non poche opportunità di diventare realtà117. Con ciò, J. Habermas, contro ogni apparenza e contro ogni argomento in contrario, dimostra, per un verso, di poter superare il suo vecchio maestro Adorno, in quanto quest’ultimo non ha interesse ad inoltrarsi nel cammino dell’intersoggettività e della razionalità discorsiva, e, per un altro verso, di saper portare avanti, al positivo, ciò che per lui è stato causa d’inceppamento, e cioè la soggettività borghese. Habermas annota che un discepolo di Adorno sostiene che il grande maestro, mentre muove critiche radicali all’individualità borghese, vi resta irretito. Egli stesso non ha difficoltà a convenire con questa interpretazione concernente il suo antico maestro, ma sente il bisogno di fare alcune precisazioni. La prima è che si potrebbe assistere con completa indifferenza al crollo della concezione borghese dell’individualità solo nel caso che si disponga di una nuova figura di soggetto; ma questo non è il caso di Adorno. La seconda è che la soggettività borghese, certamente non autentica e non vera, continua a conservare, nei confronti di ogni falsa negazione, il proprio diritto ad essere, anche mentre sta per crollare; ed Adorno se ne era reso conto118. La ragione di tutto ciò è nel fatto che la realtà effettuale delle cose impedisce ad Habermas di trasferire la dialettica dell’illuminismo dal livello della critica dell’economia politica, in cui è sorta, al livello della filosofia della storia, certamente più generale119. Non si può negare che il soggetto, sottoposto a transiti così sconvolgenti, perda la sua base portante tradizionale e ne acquisti un’altra, che, implicando la comunicazione ed il linguaggio, consiste nello spazio sociale. Ciò che non muta in nessun caso è la razionalità, che, lasciandosi condurre dal paradigma linguistico-comunicativo, si chiama “razionalità comunicativa” e si attiva in condizione di intersoggettività volta all’intesa libera da coazione. Su una libertà siffatta poggia il trascendentalismo, che
117 118 119
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Cfr SCOP. Cfr PPF 142 s. Cfr PPF 148 s.
consente di dichiarare la persona e le sue prerogative “presupposti costitutivi dell’agire comunicativo”120. La definizione che Habermas dà di personalità accoglie, sia pure in modo molto sintetico, dati che risultano dal confronto con gli autori ricordati e dalla sua personale riflessione: «Personalità serve quale parola artificiale per competenze acquisite, che rendono un soggetto capace di parlare e di agire, e con ciò lo mettono in grado di partecipare, in un contesto dato di volta in volta, a processi di intesa, e di affermare la propria identità in rapporti mutevoli di interazione»121.
Personalità è, dunque, un simbolo linguistico utilizzato per mettere a tema lo spazio teorico in cui la soggettività democratica si pone e che è delimitato, a livello sia teorico che prassico, da forme comunicative-procedurali. I mutamenti prodotti da una tale nuova situazione sono di capitale importanza e gravidi di conseguenze serie. Una prima conseguenza consiste nel transito dalla razionalità cognitivo-strumentale a quella comunicativa, che ha il suo fulcro nell’intersoggettività ed il suo medium nel linguaggio122. Una seconda conseguenza è la svolta che si viene a produrre nella teoria della comunicazione, che supera i confini ristretti della filosofia del soggetto e si colloca nella società123. Una terza conseguenza è la precisazione delle condizioni della razionalità intrinseca all’agire comunicativo: tale tipo di razionalità non è chiamato a prendere atto di ciò che è dato una volta per tutte, ma a contribuire alla formazione di ciò che è bene mantenere mediante le azioni razionali volte allo scopo e la volontà comune dei membri della società124. Per sfuggire alla logica della reificazione occorre 120 Cfr P. Pagani, L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura, in C. VIGNA (ed.), Libertà, giustizia e bene in una società plurale, cit., 326 s. 121 DFM 342. 122 «Il fuoco dell’indagine si sposta quindi dalla razionalità cognitivo-strumentale a quella comunicativa. Per quest’ultima non è paradigmatica la relazione del soggetto solitario verso qualcosa nel mondo oggettivo, che può essere rappresentato e manipolato, bensì la relazione intersoggettiva stabilita da soggetti capaci di linguaggio e di azione allorché si intendono su qualcosa» (TAC I, 521). 123 «Questo modello ha introdotto una svolta di teoria della comunicazione che va oltre la traduzione linguistica della filosofia del soggetto. Nel nostro contesto non mi interessa il suo significato nella storia della filosofia, bensì la cesura che la fine della filosofia del soggetto rappresenta per la teoria della società» (TAC I, 527 s.). 124 «Tali condizioni diventano tangibili nella modernità — con il decentramento della comprensione del mondo e la differenziazione di differenti pretese di validità universale. […]
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superare il rischio dell’automatismo della ragione finalizzata funzionalisticamente alla conservazione del sistema e, nel contempo, lasciare alla ragione, insita nel processo sociale di comunicazione, la possibilità di esprimersi in piena autonomia125. Seguendo le riflessioni di Habermas, si perviene al convincimento che l’uomo esiste come inserito in un sistema, ma, nel contempo, si acquisisce un altro convincimento, e cioè quello che l’uomo, in quanto tale, non può essere ridotto a sistema. In concreto, l’esistenza dell’uomo si svolge nello spazio che esiste tra la sua irriducibilità a sistema, e cioè la possibilità di trascendere il sistema, ed il suo inserimento nelle funzioni pratiche del sistema126. Nel considerare attentamente la critica della soggettività portata avanti da J. Habermas, ci siamo andati formando il convincimento che il nucleo di tale critica raccoglie attorno a sé una serie di dati che non si lasciano disporre facilmente in una sintesi armonica. Il primo dato è che Habermas ha davanti ai suoi occhi il soggetto borghese, che si autoalimenta di un progetto soggettivo implicante un individualismo autosufficiente, autodeterminantesi e soddisfatto di sé. Il secondo dato è che Habermas, pressato dall’intento di combattere un siffatto soggetto, attacca la soggettività in quanto tale e, spinto dall’istanza fortemente sentita del materialismo che, come si sa, non è mai del tutto immune dalle conseguenze empiristiche del pregiudizio humeano, si lascia trasportare dall’intendiNella misura in cui si allenta l’azione normativa della vita quotidiana, il concetto acquisisce anche una connotazione universalistica e al tempo stesso individualistica. Un processo di autoconservazione, che debba soddisfare le condizioni di validità dell’agire comunicativo, diventa dipendente dalle prestazioni interpretative dei soggetti che coordinano il proprio agire mediante pretese criticabili di validità. Per la posizione della coscienza moderna è perciò caratteristica non tanto l’unità di autoconservazione e di autocoscienza, quanto piuttosto quel rapporto espresso dalla filosofia borghese della società e della storia: che il tessuto sociale di vita si riproduce attraverso le azioni razionali rispetto allo scopo, regolate dai mass media, ma nel contempo anche attraverso la volontà comune dei membri della società, volontà ancorata nella prassi comunicativa di ogni singolo. La soggettività determinata dalla ragione comunicativa si oppone ad uno snaturamento del sé per amore dell’autoconservazione. […] In tal modo la ragione comunicativa non trova semplicemente già data la stabilità di un soggetto o di un sistema, bensì prende parte alla strutturazione di ciò che deve essere conservato» (TAC I, 528 s.). 125 Cfr TAC I, 529. 126 Cfr A. LINKENBACH, Opake Gestalten des Denkens, cit., 300; K. KOSÍC, Die Dialektik des Konkreten: Eine Studie zur Problematik des Menschen und Welt, Frankfurt a.M. 1971, 95.
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mento di travolgerla. Certamente ne dà l’impressione. Ciononpertanto, ed è qui la prova del fatto che la concezione dell’uomo che Habermas ha davanti ai suoi occhi è un prodotto della cultura borghese, la tanto proclamata fine dell’individuo, perfino secondo il nostro francofortese, ha luogo all’interno del malessere e dell’autoconsapevolezza di certi intellettuali e non è suscettibile di controllo empirico127. Il terzo dato è costituito dai vari fattori di portata controfattuale che attraversano in lungo ed il largo la ricerca e la riflessione habermasiane. Il quarto dato consiste nel valore posizionale che la trascendentalità ha in Habermas a motivo della sua imprescindibilità.
2.3. Nostalgia? Il discorso di J. Habermas, a differenza di quelli di altri autori di orientamento post-metafisico, ci sembra caratterizzato da tensioni che consentono di rendersi conto di quanto pesi nella riflessione quella che egli stesso chiama «autolimitazione di ogni concezione non metafisica»128. Non neghiamo che egli sia coerente nel respingere ogni filosofia che, pressata da intendimenti fondametalistici, voglia trovare fondazioni ultime quali basi delle sue impostazioni, ma ciò non toglie che la collocazione, al posto di esse, della teoria consensuale o della teoria della libertà della ricerca finisca con il rivelarsi debole nel garantire con efficacia la razionalità. Quanto alla teoria consensuale, può bastare l’esempio del problema concernente la pensabilità filosofica della natura della verità: la teoria consensuale non è in grado di offrire un contributo pienamente valido e risolutivo alla soluzione di esso. Certamente, la posizione di Habermas costituisce un notevole passo in avanti rispetto a quella di N. Luhmann, in quanto in essa si sostiene che la soggettività, impegnata in un lavoro consensuale di tipo dialogico, è capace di ricercare la verità129. Ma, appena si esce dalla logica del confronto con il Luhmann e si ritorna alla questione 127
«Finora non si è riusciti a fare uscire la tesi della fine dell’individuo dall’ambito del malessere e dell’autoesperienza di intellettuali e a renderla accessibile a una verifica empirica» (CRCM 142; ma cfr ibid. 130-144). 128 J. HABERMAS, Moralità ed eticità. Le obiezioni di Hegel a Kant sono pertinenti anche contro l’etica del discorso?, in K.O. APEL – R. BUBNER – J. HABERMAS – E. TUGENDHAT – A. WELLMER – U. WOLF, Etiche in dialogo, cit., 73. 129 Cfr F. RICCI, I linguaggi del potere, cit., 223.
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della pensabilità filosofica della natura della verità, l’insufficienza razionale detta si ripropone. E, difatti, nulla prova che la natura della verità, di cui si sta parlando, sia un oggetto dominabile da parte di un soggetto umano autosufficiente130. In ogni modo, è lo stesso J. Habermas ad insinuare l’idea che il discorso della verità conservi in ogni caso una forma di incondizionatezza, la cui consistenza non è di origine materialistica e neppure sociopolitica, bensì metafisica. Si tratta solo di un dato residuo, ma non per questo eliminabile: «Il momento dell’incondizionatezza che viene conservato nei concetti relativi al discorso della verità fallibile e della moralità, non è un assoluto, è semmai un assoluto fluidificato in procedimento critico. Soltanto mediante questo residuo di metafisica noi teniamo testa alla trasfigurazione del mondo mediante verità metafisiche — ultima traccia di un “Nihil contra Deum nisi Deus ipse”. La ragione comunicativa è certo come una buccia galleggiante — tuttavia essa non annega nel mare delle contingenze, anche quando il tremito per il mare grosso diventa l’unico modo di “dominare” le contingenze»131.
Per quel che concerne la teoria della libertà della ricerca, ricordiamo che J. Habermas, critico deciso delle posizioni che non rendono giustizia né alla morale razionale né ai diritti umani, è convinto sia del fatto che esse hanno avuto la possibilità di porsi a motivo della caduta dei principi normativi universalmente vincolanti provenienti dalla teologia e dalla metafisica, sia del fatto che concezioni diverse, coltivate con ferma determinazione da autori di ben altro orientamento, hanno potuto fare seguito alla medesima caduta: «Dopo che le immagini metafisiche e religiose del mondo persero il loro aspetto universalmente vincolante, noi (o la maggior parte di noi) non siamo diventati affatto cinici freddi o relativisti indifferenti. Pur convertendoci a un tollerante pluralismo ideologico, ci siamo sempre attenuti al codice binario del giudizio morale: o giusto o falso (abbiamo voluto attenerci). Abbiamo convertito le pratiche del mondo di vita e della comunità politica armonizzandole sui postulati della morale razionale e dei diritti umani, in quanto questi postulati mettono a disposizione dell’esistenza umana una base 130 Cfr R. MANCINI, Editoriale all’edizione italiana, in E. ARENS (ed.), Habermas e la teologia, cit., 11 s. 131 PPM 181.
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comune in grado di andare al di là delle differenze ideologiche. Forse è oggi possibile spiegare (e giustificare) con questo tipo di ragioni anche la resistenza emotiva contro una temuta trasformazione dell’identità del genere»132.
L’“etica del genere”133, a cui il nostro francofortese affida il compito di riparare i torti commessi nei confronti della morale razionale e dei diritti umani, attesta il fatto che i discorsi degli uomini mantengono o recuperano la tensione filosofica autentica se vengono collocati in una prospettiva di totalità, che solo l’universalità e la trascendentalità sono in grado di garantire. Con buona pace del ricordato Apel e di tutti quelli che non vorrebbero mai sentir fare certi discorsi a proposito del pensiero habermasiano, riteniamo di poter sostenere con sufficiente sicurezza che il costante ritorno di J. Habermas su interrogativi di questo genere rivela sia una non definibile, ma non per questo negabile, esigenza latente di metafisica134, sia il bisogno intellettuale di rovesciare la consistenza ontologica del singolare, non più sostenibile in epoca post-metafisica, nella totalità della trascendentalità. La trascendentalità mette in mostra esigenze speculative ed operative dell’intelligenza e della ragionevolezza umane, che hanno tutto il sapore e tutta la pregnanza dell’oggettività normativa.
3. RELIGIONE Habermas si occupa accidentalmente di religione e di teologia. D’altronde, in una prospettiva teoretica profondamente segnata da un progetto post-metafisico e materialista non può essere diversamente. Riteniamo opportuno precisare che l’atteggiamento del nostro Autore in questa materia sgorga interamente dalla prospettiva teoretica assunta e, quindi, è immune da complicazioni originate da un qualche fenomeno di mistificazione. A questa precisazione previa ne va aggiunta un’altra, e cioè: la posizione habermasiana non è affatto compiuta una volta per tutte ma è in costante evoluzione. La dinamica evolutiva si rende evidente nella considerazione crescente in cui Habermas tiene religione e teologia, senza per questo infrangere la coerenza della prospettiva teoretica post-metafisica e 132 133 134
J. HABERMAS, I rischi di una genetica liberale, in FNU, 74. Cfr ibid., 40-46, 67-74. Cfr S. MURATORE, Filosofia dell’essere, Cinisello Balsamo (MI), 2006, 273.
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materialista assunta in partenza. Sicché, mentre, sotto i profili cognitivo, informativo e constatativo, che si concentrano sui contenuti strettamente teologici e trascendenti della religione e della teologia, non si danno variazioni degne di considerazione, in quanto il nostro francofortese non fa alcuna deroga alla valutazione materialista adottata, dai punti di vista performativo ed operativo, che concernono la fecondità e l’incidenza di religione e teologia nella storia e nella vita sia della comunità credente che della comunità politica, le variazioni, nel senso di apprezzamenti variamente positivi, sono significative. Del resto, egli non può a meno di prendere atto della permanenza e, ancor più, della reviviscenza su scala mondiale delle religioni e della sfida da esse provenienti alla mentalità postmetafisica e non-religiosa tipica della modernità occidentale135. Nonostante tutte la variazioni intercorse, Habermas rimane fedele al suo fondamentale convincimento. Come prova di questo fatto, vogliamo citare due testi habermasiani molto lontani nel tempo: nella conferenza Können komplexe Gesellschaften eine vernünftige Identität ausbilden?, tenuta a Stuttgart nel Gennaio 1974, Habermas attribuisce a Dio ed alle religioni universali il compito di sottrarre la comunità intersoggettiva di comunicazione alla casualità ed alla banalità: «Dio connota ormai solamente una struttura di comunicazione che costringe i partecipanti ad elevarsi sopra la casualità di un’esistenza meramente esteriore, sulla base del riconoscimento reciproco della loro identità. Tali tendenze indicano uno sviluppo nel cui corso delle religioni universali, quanto più si profilano in modo puro le loro strutture, non rimane molto più che il nocciolo di una morale universalistica»136;
nello Streitgespräch del 19 Gennaio 2004 con il tedesco J. Ratzinger, a suo tempo cardinale di curia ed ora papa Benedetto XVI, sul tema Braucht der Staat Moral?, J. Habermas, parlando di valori significativi custoditi dalla comunità religiosa e ritenendoli suscettibili di traduzione in lingua secolarizzata e, quindi, comprensibile in ambito socio-politico, sostiene che bisogna procedere decisamente lungo tale linea:
135
Cfr TSF V s. J. HABERMAS, Können komplexe Gesellschaften eine vernünftige Identität ausbilden?, trad. it., Possono le società complesse formarsi un’identità razionale?, in RMS 82. 136
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«Una cultura politica liberale può persino richiedere ai cittadini secolarizzati di partecipare allo sforzo di traduzione di materiali significativi dalla lingua religiosa a una lingua accessibile a tutti»137.
Nel settembre del 1988, nel contributo Exkursus: Transzendens von innen, Transzendens ins Diesseit preparato per un convegno della Divinity School dell’Università di Chicago, J. Habermas riferisce sia circa le motivazioni che lo avevano spinto a conservare il silenzio con i teologi sia circa le ragioni che lo inducevano a cambiare atteggiamento: il silenzio, inizialmente suggerito dalla prudenza, a lungo andare potrebbe rivelarsi una forma reazionaria di comportamento ed una figura erronea di comunicazione; di conseguenza, anche se di norma risulta preferibile, in talune circostanze deve essere sostituito dalla parola138.
3.1. Interpretazioni del fenomeno religioso-teologico In generale, si deve dire che Habermas considera la religione una fase del lungo processo evolutivo dell’umanità, una fase importante e 137 J. HABERMAS, Quel che il filosofo laico concede a Dio (più di Rawls), in J. HABERMAS – J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, cit.; TSF 5-18; Indichiamo anche il titolo della relazione dell’illustre interlocutore di Habermas: J. Ratzinger, Ciò che tiene insieme il mondo. Le religioni e le prepolitiche dello Stato, in ID., Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, trad. it., Cinisello Balsamo (MI) 2004, 61-72. La relazione del cardinale Ratzinger si trova anche in Reset (2004) n. 85, 31-34 con il titolo Ragione e fede. Scambio reciproco per un’etica comune. 138 «Una premessa di carattere personale può facilitare l’accesso a una difficile discussione. Alle obiezioni dei miei colleghi di filosofia e sociologia ho già risposto. […] Finora mi sono invece sottratto alla discussione con i teologi: preferirei continuare a tacere. Come silenzio prodotto dell’imbarazzo esso sarebbe perfino giustificato: infatti non sono molto pratico della discussione teologica e mi muovo malvolentieri su di un terreno non sufficientemente conosciuto. D’altro canto i teologi mi hanno incluso da decenni nella loro discussione, tanto nella Repubblica Federale quanto negli Stati Uniti. Essi hanno fatto riferimento in genere alla tradizione della Teoria critica e hanno reagito anche ai miei scritti. In questa situazione il silenzio sarebbe un modo falso di comunicare. Chi tace se gli viene rivolta la parola, si ricopre di un’aura d’importanza indeterminata e impone silenzio. Heidegger è un esempio tra i tanti. Per questo carattere autoritario, Sartre ha giustamente chiamato “reazionario” il silenzio» (J. HABERMAS, Exkursus: Transzendens von innen, Transzendens ins Diesseit [1988], trad. it., Excursus: trascendenza dall’interno, trascendenza nel mondo, in TFCS 133).
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feconda, ma ormai superata da tempo e soprattutto nell’epoca della modernità, nella quale, in un contesto di forte affermazione dell’ipotesi Etsi Deus non daretur, i mutamenti di orizzonte interpretativo non sono fatti arbitrari bensì maturazioni graduali di posizioni nuove. Questo dato fa percepire ad Habermas l’urgenza dell’impegno di affrontare «la questione socio evolutiva circa la direzione nella quale si sono modificate le costellazioni di partenza determinate dall’agire retto da norme»139.
Le piste risolutive da lui seguite sono varie a causa dei molteplici momenti storici nei quali si sono aperte e nei quali egli ha maturato le sue riflessioni. Una pista, tracciata nella citata conferenza Können komplexe Gesellschaften eine vernünftige Identität ausbilden? (1974), è quella della “opzione per la razionalità” della scienza moderna in sostituzione dell’approccio religioso-teologico, rimasto privo, al dire di Habermas, del suo potenziale razionale. Si tratta di una pista caratterizzata da due istanze: una di origine illuministica, che respinge e relega religione e teologia nello spazio dell’irrazionale, ed un’altra di provenienza empiristico-materialistica, che riconosce soltanto il senso che si pone nell’ambito empirico e che sgorga dai processi della materia140. Un’altra pista, tracciata in Theorie des kommunikativen Handelns (1981), è quella del “disincantamento” del sacro, dell’aprirsi dello spazio dell’agire comunicativo e della liberazione della razionalità. Gli esseri umani hanno bisogno di un’autorità, la quale, non potendo più derivare dal sacro, che tiene l’agire comunicativo sotto tutela, si fonda sul consenso, cui si perviene lungo un percorso linguistico e mediante l’autodeterminazione 139
TAC II, 648. «La scienza moderna si è impadronita del terreno reso libero dal Dio trascendente, ritrattosi da una natura decisamente desocializzata e desacralizzata. Dacché un sistema di fede compiutamente eticizzato sta in concorrenza con la scienza, ha inizio un processo di distruzione dei dogmi che alla fine mette in discussione la stessa interpretazione religiosa della natura, la natura come creazione. Il soggetto conoscitivo si trova allora di fronte ad una natura completamente obiettivata; l’approccio intuitivo alla vita e all’essenza della natura, quando non stia sul terreno di un’arte divenuta autonoma rispetto a fede e sapere, viene ricacciato nell’irrazionale. La separazione da una natura oggettivata scientificamente è carica di conseguenze per la concezione che la società profanizzata ha di se stessa» (J. HABERMAS, Possono le società complesse formarsi un’identità razionale?, in RMS 82 s.). 140
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delle libere volontà. L’esito è l’affermazione della razionalità, che si erge vigorosamente sulle rovine della paura e dell’incanto141. J. Habermas riprende e rielabora la definizione di illuminismo proposta nel 1748 da I. Kant, il quale parla di uscita dell’uomo dallo stato di minorità, e la critica della religione, fatta successivamente in termini di ateismo postulatorio da L. Feuerbach, F. Nietzsche, M. Weber e S. Freud, i quali si sono lasciati condurre dall’esigenza di rivendicare la dignità e l’autonomia dell’uomo contro tutte le forze concorrenti, e nessuna lo è come la religione e Dio, che mortificano e limitano l’uomo asservendolo ad una logica eteronoma142. Un’altra pista ancora, indicata in Faktizität und Geltung (1992), è quella della precisazione di un “sistema di diritti”, quali norme autorevoli e capaci di conferire alla validità legittima l’efficacia del fattuale. Tale sistema subentra al sacro ed al suo ordine arcaico di garanzie metasociali, ormai inidonei alla comprensione ed all’esercizio dei diritti nella società contemporanea143. Tutto ciò ha luogo nella comunità di comunicazione. Ora, l’agire comunicativo, che ha un dinamismo proprio, non dispone, ancorché sia stato “messo in libertà”, di strumenti per essere “fedele a se stesso” e per sottrarsi all’“onere dell’integrazione sociale”. L’autenticità del dinamismo dell’agire in questione esige garanzie consentanee alla temperie culturale della modernità. Una plausibile ipotesi di soluzione può essere la
141 «Nel rispondere a tale questione mi lascio guidare dall’ipotesi che le funzioni social-integrative ed espressive, dapprima assolte dalla prassi rituale, passano all’agire comunicativo. L’autorità del sacro viene sostituita dall’autorità di un consenso di volta in volta ritenuto fondato. Ciò significa una liberazione dell’agire comunicativo da contesti normativi tutelati dal sacro. Il disincantamento e l’esautoramento dell’ambito sacro si compie attraverso una elaborazione linguistica della intesa normativa di fondo garantita ritualmente. Con ciò va di pari passo la liberazione del potenziale di razionalità racchiuso nell’agire comunicativo. L’aura dell’incanto e della paura, che emana dal sacro, la forza soggiogante del sacro viene sublimata e al tempo stesso quotidianizzata nella forza vincolante di pretese criticabili di validità» (TAC II, 648 s.). 142 Cfr A.W.J. HOUTEPEN, Dio, una domanda aperta, cit., 158 s. 143 «Secondo la nostra ipotesi, quelle garanzie metasociali del sacro che avevano prima reso possibile l’ambivalente forza di vincolo delle istituzioni arcaiche — e dunque l’amalgama di validità e fattualità nella stessa dimensione della validità — a questo punto non risultano più disponibili. Tuttavia la soluzione di questo enigma può essere trovata in un “sistema di diritti” che dia forza di legge alle libertà individuali. Anche da un punto di vista storico, il nucleo centrale del diritto moderno è rappresentato da diritti privati che — delimitando il raggio legittimo delle libertà individuali — si attagliano al perseguimento strategico degli interessi soggettivi» (FN 37 s.).
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forza del diritto garantita dalla “positivizzazione” e non più dall’etica tradizionale e dal sacro144. Un’ulteriore pista vede nella religione e nella teologia la funzione esemplare della testimonianza. Il 9 novembre 1974 a Stanberg nel corso di un incontro del gruppo di studio “Teologia e politica”, spiegando le ragioni per le quali “non possiamo rinunciare ai teologi”, Habermas parla dell’insufficienza di certe forme tradizionali, incluse quelle interne ai partiti ed ai sindacati, di dar vita a prassi di trasformazione politica e dell’opportunità di ricorrere a forme alternative, e tra queste si trovano i gruppi religiosi, i quali, spinti da una forte ispirazione morale, sono in grado di porre in essere gesti dotati di “effetto segnaletico” e di “carattere esemplare”145. Una pista, che si aggiunge alle altre e che Habermas presenta in Dialogo su Dio e il mondo (1999), vede nella tradizione religiosa giudaicocristiana una condizione di possibilità perfino della modernizzazione culturale. Le strutture organizzative del cristianesimo, sia greco che latino, le università, i chiostri e le cattedrali hanno dato un grande contributo alla formazione delle moderne forme di coscienza del diritto astratto, delle scienze sperimentali e dell’arte. Se ci si ferma a considerare le strutture mentali, bisogna parlare di un contributo ancora maggiore: l’idea di un Dio unico, creatore e salvatore ha cancellato le antiche concezioni mitiche; lo spirito finito è concepito come trascendente rispetto alla realtà intramondana. L’etica ebraica della giustizia e l’etica cristiana dell’amore sono alla 144 «Nel momento in cui ampi settori delle società moderne hanno bisogno d’un agire guidato dall’interesse e quindi normativamente neutralizzato, noi vediamo nascere una situazione paradossale di tipo nuovo. Pur essendo stato messo in libertà, l’agire comunicativo non appare in grado né di disfarsi né di assolvere seriamente all’onere dell’integrazione sociale che gli compete. Contando sulle sue forze, esso può addomesticare l’intrinseco rischio di dissenso soltanto accrescendo tale rischio, ossia rendendo permanenti i discorsi. A questo punto la domanda potrebbe essere formulata così: quale meccanismo potrebbe consentire alla comunicazione “messa in libertà” per un verso di restare fedele a se stessa e per l’altro verso di liberarsi dall’onere dell’integrazione sociale? Una soluzione plausibile potrebbe consistere nella “positivizzazione” d’un diritto fino a quel momento intrecciato all’eticità della tradizione e poggiante su fondamenti sacrali» (FN 48). 145 «Importante è l’effetto segnaletico che va al di là della cerchia degli interessati, ciò che si chiamava tradizionalmente ‘testimonianza’. Anche in veste di sociologi empirici si potrà constatare che non possono verificarsi movimenti sociali senza azioni esemplari. Di queste, anzi, è stata ricca la resistenza americana contro la guerra del Vietnam, proprio in gruppi teologici» (J. HABERMAS, Problemi di legittimazione della religione, in AA. VV., Religionsgespräche. Zur gesellschaftlichen Rolle der Religion, [1975], trad. it., Il ruolo sociale della religione. Saggi e conversazioni, Brescia 1977, 80).
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base dell’autocomprensione normativa della modernità. Ciò si verifica nel caso dell’universalismo egualitario, con le idee di libertà, solidarietà, autonomia, emancipazione, coscienza morale individuale, diritti dell’uomo e democrazia, ed anche nel caso della costellazione postnazionale. Non riconoscersi eredi di tanta ricchezza significa intraprendere il cammino delle “chiacchiere postmoderne”146. Il dati testé ripresi dallo scritto habermasiano Dialogo su Dio e il mondo danno perspicue indicazioni circa un’ennesima pista che si apre davanti ai nostri occhi nel settore della fecondità dell’apporto della tradizione giudaico-cristiana alla sensibilità moderna concernente l’uguaglianza: se ne può parlare in termini di universalismo egualitario proprio per quanto discende dall’etica della giustizia e dall’etica dell’amore, di cui le due parti della detta tradizione, giudaica e cristiana, sono rispettivamente portatrici. Che le tensioni morali delle grandi religioni universali diano alla civiltà umana, quale peculiare contributo, gli impulsi per la formulazione 146 «I motivi della tradizione giudaico-cristiana servono a spiegarci non la modernizzazione sociale bensì quella culturale. […] Da un punto di vista sociologico, le moderne forme di coscienza del diritto astratto, della scienza sperimentale e dell’arte autonoma non avrebbero mai potuto svilupparsi a prescindere dalle forme organizzative del cristianesimo ellenizzato e della chiesa romana, a prescindere da università, chiostri e cattedrali. Questo è ancor più vero se pensiamo alle strutture mentali. La stessa idea di Dio — l’idea di un creatore e redentore unico e invisibile — aveva rappresentato l’emergere di una prospettiva interamente nuova rispetto ai racconti mitici. Lo spirito finito conquistava una prospettiva trascendente rispetto a ogni cosa intramondana. Ma solo con il passaggio alla modernità il soggetto conoscitivo e morale si appropria del punto di vista divino e pone mano a due idealizzazioni ricche di conseguenze. Per un verso, esso oggettivizza la natura esterna in una totalità di situazioni e di avvenimenti legalmente intrecciati. Per un altro verso, esso allarga il mondo sociale fin lì conosciuto alla comunità — sconfinatamente inclusoria — di tutte le persone responsabili. Su entrambe le dimensioni si spalanca una porta per penetrare ragionevolmente dentro l’opacità del mondo. Da un lato si razionalizza cognitivamente una natura complessivamente oggettivata, dall’altro lato si razionalizza socio-cognitivamente una totalità di relazioni interpersonali regolate in termini morali. […] Per l’autocomprensione normativa della modernità il cristianesimo non rappresenta solo un precedente o un catalizzatore. L’universalismo egualitario — da cui sono derivate le idee di libertà e convivenza solidale, autonoma condotta di vita ed emancipazione, coscienza morale individuale, diritti dell’uomo e democrazia — è una diretta eredità dell’etica ebraica della giustizia e dell’etica cristiana dell’amore. Questa eredità è stata continuamente riassimilata, criticata e reinterpretata senza sostanziali trasformazioni. A tutt’oggi non disponiamo di opzioni alternative. Anche di fronte alle sfide attuali della costellazione postnazionale continuiamo ad alimentarci a questa sorgente. Tutto il resto sono chiacchiere postmoderne» (J. HABERMAS, Dialogo su Dio e il mondo, [1999], in TP 127 ss.).
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di una teoria dei diritti fondamentali è un fatto che attesta la caratteristica di universalità trascendentale delle tensioni in questione e, quindi, la loro proiezione verso confini ben più lontani di quelli della cultura dell’Occidente147. A tale proposito, Habermas, nel corso dell’intervista Vergangenheit und Zukunft rilasciata per corrispondenza a M. Haller tra il 1990 ed il 1991, afferma che la sostanza dei contenuti morali del diritto internazionale corrisponde alla “sostanza normativa” proposta nel corso della storia dalle grandi dottrine profetiche e dalle prospettive metafisiche148. In buona sostanza, J. Habermas, come risulta dal già ricordato contributo di Chicago Exkursus: Transzendens von innen, Transzendens ins Diesseit (1988), è convinto che la modernità, guidata dal bisogno di salvare tutte le esigenze della ragione, ha tratto dai contenuti cognitivi della tradizione giudaico-cristiana dei contenuti pratici, operando quella trasformazione, certamente non immune dalle conseguenze dell’ambiguità di un transito di tal fatta, che Hegel ha chiamato Aufhebung149. Sembra, dunque, che la modernità abbia decodificato i discorsi religioso-teologici, provocando la dissoluzione del loro antico significato cognitivo. Sennonché, insieme ad una tale inequivocabile posizione, Habermas presenta altri dati, che consentono di parlare di ambivalenza. Ma, prima di inoltrarci lungo questo percorso, riteniamo opportuno parlare del riconoscimento da parte di Habermas di una certa sua superficialità nella valutazione del fenomeno religioso. Il francofortese esprime a tale proposito, ancora nello scritto Exkursus: Transzendens von innen, Transzendens ins Diesseit del 1988, il proprio pensiero dialogando con altri autori e riprendendo anche le idee di altri suoi scritti. Dialogando con H. Peukert, Habermas condivide il convincimento del suo interlocutore circa la 147
Cfr D. ZOLO, Il cosmopolitismo kantiano di Jürgen Habermas, cit., 165. «Ma io sono convinto che Rawls abbia ragione e che il contenuto essenziale dei principi morali incarnati nel diritto internazionale sia conforme alla sostanza normativa delle grandi dottrine profetiche e delle interpretazioni metafisiche affermatesi nella storia universale» (DU 20). 149 «Con il concetto di “superamento” [Aufhebung] Hegel ha accolto questa ambiguità nello stesso metodo dialettico. Il superamento del mondo rappresentativo religioso nel concetto filosofico poteva salvare i contenuti essenziali del primo solo togliendo loro la sostanza della devozione. Certo, il nucleo ateistico, nel guscio della comprensione esoterica, restava riservato ai filosofi. Per questo il tardo Hegel ha creduto che la ragione filosofica avesse ormai la capacità solo di una conciliazione parziale» (J. HABERMAS, Excursus: trascendenza dall’interno, trascendenza nel mondo, in TFCS 134). 148
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funzione critica, e non soltanto legittimatrice, della religione nei confronti del potere sociale, e dice quanto segue: «egli critica la unilaterale descrizione funzionalistica che nella Teoria dell’agire comunicativo ho dato della religione. Anche nelle società tradizionali le grandi religioni non fungono esclusivamente da legittimazione del dominio statale: “per la loro origine e nel loro nucleo, esse si presentano spesso come movimenti di protesta contro la tendenza di fondo dello sviluppo sociale e tentano di fondare altre forme di rapporto tra gli esseri umani e con la realtà”150. Non voglio contestare questo»151.
Ritornando ad idee espresse in altri suoi scritti, Habermas parla della sua frettolosità nel trattare la materia religiosa che gli ha impedito di coglierne il senso ed il valore: «Concedo anche di aver sussunto lo sviluppo della religione nella modernità troppo frettolosamente, con Max Weber, sotto lo schema “privatizzazione delle forze di fede” e di aver suggerito troppo velocemente una risposta alla domanda “se dopo che le immagini religiose del mondo sono crollate, si possano salvare delle verità religiose — cioè si possano assumere con buone ragioni, per convinzione, solo ed esclusivamente i principi profani di un’etica universalistica della responsabilità”152. Questa domanda deve restare aperta partendo dalla prospettiva dello scienziato sociale — che procede ricostruttivamente e che si guarda bene dal prolungare in modo lineare gli attuali trend di sviluppo. Ma deve ugualmente restare aperta partendo dalla prospettiva del filosofo che si appropria di una tradizione e che, con un atteggiamento performativo, sperimenta che le intuizioni articolate da lungo tempo nel linguaggio religioso non possono essere né respinte né recuperate senz’altro razionalmente — come ho mostrato nell’esempio del concetto di individualità. Il processo di un’appropriazione critica di contenuti essenziali della tradizione religiosa è ancora in corso, e se ne può difficilmente predire il risultato. Lo ripeto volentieri: “Fintantoché il linguaggio religioso porta con sé contenuti semantici ispiranti e anzi irrinunciabili, che (per il momento) si sottraggono alla forza espressiva di un 150 H. PEUKERT, Agire comunicativo, sistemi di accrescimento del potere, e illuminismo e teologia come progetti incompiuti, in E. ARENS (ed.), Habermas e la teologia, cit., 76. 151 J. HABERMAS, Excursus: trascendenza dall’interno, trascendenza nel mondo, cit., in TFCS 145 s. 152 J. HABERMAS, La nuova oscurità. Crisi dello Stato sociale ed esaurimento delle utopie, cit.
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linguaggio filosofico e attendono ancora la traduzione in discorsi fondativi, anche nella sua forma postmetafisica, la filosofia non potrà né sostituire, né tantomeno rimuovere la religione”153»154.
Il riconoscimento sia della propria frettolosità che dell’incapacità della filosofia di scalzare la religione e la teologia o di subentrare ad esse determina in J. Habermas l’assunzione di un atteggiamento nuovo nei confronti di entrambe, atteggiamento che non coincide con quello tenuto dai teologi e che consiste nell’anticipazione di una comunità illimitata di comunicazione all’interno del discorso: «Questo non significa ancora alcun assenso alla tesi di Peukert, secondo cui la teoria discorsiva della morale e dell’etica si ingarbuglia a tal punto nelle questioni limite da vedersi costretta a una fondazione teologica. Certo, un agire efficace nella socializzazione, o pedagogico, che voglia provocare nell’altro la libertà con l’obiettivo di una più rapida emancipazione, deve contare sull’accondiscendenza di circostanze e di forze spontanee che al tempo stesso non può controllare. E, orientandosi ad attese morali incondizionate, il soggetto accresce il carattere della sua vulnerabilità che lo rende dipendente dall’indulgenza morale degli altri. Ma il rischio di fallimento, perfino di annientamento della libertà proprio in quei processi che dovrebbero favorirla e realizzarla, testimonia solo della costituzione della nostra esistenza finita, voglio dire della necessità — come è stato sempre sottolineato da Peirce — di un’anticipazione autoalienante e trascendente di una comunità illimitata della comunicazione, che ci viene concessa e che al tempo stesso si pretende da noi»155.
3.2. Ambivalenza dell’interpretazione habermasiana Il discorso di Habermas circa il fenomeno religioso-teologico presenta delle ambivalenze. E. Arens se ne è occupato con una certa ampiezza156, ma noi, da parte nostra, desideriamo riprendere il discorso e 153
PPM 55. J. HABERMAS, Excursus: trascendenza dall’interno, trascendenza nel mondo, cit., in TFCS 146. 155 Ibid., 146 s. 156 Cfr E. ARENS, La teologia secondo Habermas. Una introduzione, in ID. (ed.), Habermas e la teologia, cit., 15-52. 154
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svilupparlo in qualche modo. Il dato ambivalente fondamentale, presentato in Theorie des kommunikativen Handelns (1981), è il seguente: la sfera religiosa, ancorché privata della sua trascendenza, innesta sul piano della concretezza una illimitata pretesa di validità: «Le forme di religiosità moderna hanno d’altro canto rinunciato alla pretesa dogmatica di fondo. Esse distruggono i mondi metafisico-religiosi che “stanno dietro” e non contrappongono più in maniera dicotomica l’al di qua profano alla trascendenza, il mondo fenomenico alla realtà di un Ente che ne sta alla base. In tal modo negli ambiti profani di azione possono formarsi delle strutture che sono determinate da una illimitata differenziazione delle pretese di validità sul piano dell’azione e dell’argomentazione»157.
In Nachmetaphysisches Denkens (1988) Habermas afferma che il potenziale semantico di alcuni concetti portanti della nostra autocomprensione di europei non potrà continuare ad essere attivo se non ci approprieremo di sezioni importanti della tradizione giudaico-cristiana e, facendo tali affermazioni, mostra di essere convinto, come prima, della necessità di procedere all’assimilazione del pensiero religioso ma, a differenza di prima, non esprime più il bisogno di procedere alla sua sostituzione158: «Se vogliamo circoscrivere l’ambito di questi problemi ricorrendo alla loro denominazione originale, conviene parlare per amor di chiarezza, di questioni metafisiche e religiose. Io non penso che noi, in quanto europei, possiamo comprendere seriamente concetti quali quelli di moralità e di eticità (Sittlichkeit), persona ed individualità, libertà ed emancipazione (che forse ci stanno tuttora più a cuore di quanto non ci stia il tesoro concettuale della teoria platonica dell’ordine, ruotante attorno alla contemplazione catartica delle idee), senza appropriarci della sostanza del pensiero di origine giudaico-cristiana, che riguarda la storia della salvezza. Altri trovano, partendo da altre tradizioni, la via per la pletora del pieno significato di quei concetti che strutturano la nostra autocomprensione. Ma senza una mediazione socializzatrice e senza una trasformazione filosofica di una fra le grandi religioni mondiali, tale potenziale semantico potrebbe un giorno diventare inaccessibile. Ogni generazione deve quindi aprirsi a 157
TAC II, 807. Cfr E. ARENS, La teologia secondo Habermas. Una introduzione, in ID. (ed.), Habermas e la teologia, cit., 27. 158
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tale potenziale, se si vuole evitare la disgregazione di quel resto di autocomprensione condivisa intersoggettivamente, che rende possibili reciproci rapporti umani»159.
Nella stessa opera Nachmetaphysisches Denkens Habermas intravede in alcune riflessioni di Kierkegaard e di Henrich il riferimento ad una dimensione religiosa, di cui non è possibile non tenere conto: «Il Sé dell’uomo esistente è una relazione così derivata e posta, tanto che, di conseguenza, lo è anche una relazione che, mentre mantiene un rapporto con se stessa, lo mantiene con un altro. Questo “altro” che precede il Sé dell’autocoscienza, è per Kierkegaard il Dio redentore cristiano, mentre per Henrich è l’anonimo preriflessivamente familiare di una vita cosciente, aperto tanto alle interpretazioni buddistiche, quanto a quelle platoniche. Entrambe le interpretazioni rinviano ad una dimensione religiosa e con ciò anche ad un linguaggio che forse è quello dell’antica metafisica, ma che pur tuttavia va oltre il moderno atteggiamento coscienzialista. Non sento il ben che minimo impulso ad abbracciare Henrich in simili concezioni di ampia portata. Henrich parla di “scoraggiamento”. Anche il vigore retorico dei discorsi religiosi mantiene il proprio diritto, fintantoché non riusciamo a trovare un linguaggio più convincente per le esperienze e le innovazioni in esso conservate»160.
La stessa ragione comunicativa non ha motivo, sia pure in linea provvisoria, di combattere la dimensione religiosa: «La ragione comunicativa non si mette in scena da teoria divenuta estetica, come il negativo acromatico delle religioni consolatorie. Essa né proclama la sconsolatezza per il mondo abbandonato da Dio, né si arroga il diritto di essere in qualche modo consolatoria. Essa rinuncia anche all’esclusività. Fintantoché la ragione comunicativa, nel medium dei discorsi motivanti, non riesce a trovare espressioni migliori per ciò che la religione può dire, essa coesisterà addirittura con questa, mantenendosi neutrale (enthaltsam), senza sostenerla o combatterla»161.
159 160 161
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PPM 19. PPM 29 s. PPM 181 s.
Nella relazione Glauben und Wissen, tenuta da J. Habermas a Francoforte in occasione del ritiro del premio per la pace a lui conferito nel corso della Fiera del libro del 2001, insieme al ribadimento del dualismo invincibile tra fede e sapere si trovano affermazioni molto significative di riconoscimento nei confronti dei contributi dati dalla religione alla convivenza organizzata degli uomini: la presenza di “contenuti normativi” della tradizione religiosa nelle istituzioni dello stato costituzionale e democratico ha il ruolo determinante di “nutrimento”; l’atteggiamento di relativa apertura della razionalità nei confronti della religione può portare anche alla riattivazione della tematizzazione di dati di provenienza religiosa, di cui si è smarrita da lungo tempo la memoria e di cui “si sente implicitamente la mancanza”; il riconoscimento a Dio del ruolo di creatore e redentore può conferire efficacia al tentativo di impedire che si operi sulle persone “senza doversi preoccupare del consenso” e che si distruggano “le uguali libertà fra soggetti d’uguale dignità”162. Leggendo i testi habermasiani, che contengono le idee testé riferite, si ha l’impressione che, per quel che concerne la materia religioso-teologica, il loro autore abbia avuto una evoluzione, in cui dal rifiuto, ispirato dall’illuminismo, e dall’intolleranza, alimentata dal materialismo, è passato all’attribuzione ad essa di un ruolo costruttivo ora dal punto di vista storico ora dal punto di vista dottrinale. Tuttavia, anche in pagine habermasiane piuttosto antiche è riscontrabile, sia pure raramente, una valutazione positiva della religione, nel senso che il suo concetto portante, Dio, assolve il ruolo di struttura comunicativa che salva l’umanità dallo scacco storico. Ciò accade nell’opera Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus (1973), in cui a domande su chi possa costruire l’identità dell’io e del gruppo, sulla possibilità che un’etica universalistica del linguaggio, privata della dimensione cognitiva, garantisca l’identità dei singoli e della collettività all’interno di una società mondiale, sull’affermazione di moduli di socializzazione che interessano la vita socio-culturale, sulla possibilità che le avanguardie, come sembra indicare il nuovo linguaggio universale della teoria dei sistemi, si ritirino verso identità particolari e, in tal modo, rinuncino al riferimento alla verità implicato nelle norme, si risponde nella maniera seguente:
162 Cfr J. HABERMAS, Glauben und Wissen, (2001), trad. it., Fede e sapere, in FNU 99112, e in Il Regno 46 (2001) 890, 653-656.
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«Una risposta affermativa a queste domande non è ancora sufficientemente motivabile con il richiamo alla logica di sviluppo delle immagini del mondo. In primo luogo infatti la ripoliticizzazione della tradizione biblica rilevabile nell’attuale discussione teologica (Pannenberg, Moltmann, Sölle, Metz), che va di pari passo con un appianamento della dicotomia aldiqua/aldilà, non significa ateismo nel senso di una liquidazione radicale dell’idea di Dio (sebbene da questa massa di pensieri critici ben difficilmente si possa coerentemente salvare l’idea del Dio personale). L’idea di Dio è preservata nel concetto di un logos che determina la comunità dei credenti e con ciò il reale contesto di vita di una società che si emancipa; Dio diventa il nome di una struttura comunicativa che costringe gli uomini, pena la perdita della loro umanità, a trascendere la loro natura empirica accidentale, incontrandosi gli uni con gli altri mediatamente, ossia tramite qualcosa di oggettivo, che con essi si identifica»163.
Nonostante tutte le negazioni e tutte le espressioni prudenziali, J. Habermas apre una finestra su religione e teologia a partire dalla ragione comunicativa. Sembra un fatto paradossale, ma uno stesso spazio tematico, quello della ragione comunicativa, al cui interno risuona la negazione di Dio, ne legittima una certa quale tematizzazione, quasi come postulato, appunto un “postulato della ragione comunicativa”. La concretezza di una tale annotazione ci sembra supportata anche dal fatto che Habermas reputa pericolosamente disattenta e superficiale l’assimilazione fatta dai teologi tra recenti fenomeni di piccole religioni, che egli stesso chiama subculturali e surrogatorie e che sono depositarie di ambivalenze foriere di conseguenze operative, e le idolatrie e le mitologie di varie forme di neopaganesimo164. Ma, verosimilmente siamo in presenza di motivazioni più profonde, che riteniamo opportuno introdurre con idee e parole di R. Mancini. La teologia, trovandosi nella necessità di dovere prendere costantemente atto della sovrabbondanza della verità, non può né oggettivarla né tanto meno dominarla e, quindi, si rivela un progetto incompiuto. L’attenzione a tale sovrabbondanza potrebbe giovare anche alla riflessione di Habermas, nel senso che la sua teoria consensuale della verità, che esige uno spazio intersoggettivo, si verrebbe a trovare anch’essa di fronte ad una verità irriducibile, scoprirebbe di essere un progetto incompiuto e potrebbe superare l’aporia del soggettivismo: 163 164
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CRCM 134. Cfr PPF 37 s.
«In tale feconda incompiutezza vive la possibilità di riavviare un dialogo che esige come suo orizzonte una verità irriducibile tanto agli integralismi religiosi, quanto al soggettivismo che percorre il pensiero moderno. Il neoilluminismo habermasiano non uscirebbe dai confini di quel soggettivismo se si limitasse a proporre in versione duplicata, in quanto fondata sulla nozione di intersoggettività, la pretesa del soggetto di essere misura esclusiva della verità»»165.
Questa verità irriducibile è confrontabile con la trascendenza che, secondo Adorno, consente perfino all’illuminismo ed alla sua forza di criticare l’esistente e di fare luce sulla realtà e sull’esperienza umana? Habermas sembra portare oltre il limite fissato da Adorno l’offerta di senso del lemma “trascendenza”: «Adorno restò sempre incorreggibilmente ateo e tuttavia esitò ad attenuare l’idea di conciliazione universale [Versöhnung] nell’idea di una emancipazione individuale [Mündigkeit]. Egli temeva, facendolo, di inquinare la luce dell’illuminismo, giacché “nessuna luce può rischiarare uomini e cose se non riflettendo in sé una trascendenza”»166.
J. Habermas è convinto che nella realtà c’è come uno pseudonimo (Deckname) tramandato dal linguaggio religioso, ma, e riferisce ancora una volta il pensiero di Adorno, ogni cosa deve trovare spiegazione con i moduli secolari167. I credenti ed i teologi non possono non apprezzare le annotazioni positive di J. Habermas circa il fenomeno religioso; nel contempo, però, si vedono costretti a fare riserve notevoli su queste stesse annotazioni, in quanto il criterio di accettare delle verità religiose soltanto ciò che può essere tradotto nei discorsi della ragione secolare post-metafisica è molto riduttivo168. In ogni modo, essi non possono restare indifferenti alla 165 Cfr R. MANCINI, Editoriale all’edizione italiana, in E. ARENS (ed.), Habermas e la teologia, cit., 11. 166 PPF 148. 167 Cfr DU 122. 168 Un esempio significativo dell’atteggiamento dei teologi in questa materia può essere considerato quello del cardinale C. Ruini, fino a poco tempo fa presidente della CEI: «Habermas persegue con sincerità personale e intellettuale un’alleanza tra ragione secolarizzata e “illuminata” e ragione teologica, ma in realtà concepisce questa alleanza su basi nettamente diseguali. Infatti, mentre la ragione teologica dovrebbe accettare l’autorità della
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proposta recentemente fatta alle religioni dal nostro francofortese. Questi nel marzo del 2007, facendo memoria della sua ricerca intorno al tema Glauben und Wissen, esprime il desiderio della stipula di una sorta di patto tra fede e ragione, al fine di mettere la “ragione moderna” nelle condizioni di mobilitarsi contro il disfattismo che cova nel suo stesso seno. Egli, da un lato, si dichiara contrario, tra l’altro, alle forme per nulla illuminate di illuminismo volte a privare la religione di contenuti razionali e, dall’altro, dice che il pensiero post-metafisico, la prospettiva culturale che egli condivide, è in grado di superare le difficoltà originate dalle due forme di disfattismo oggetto delle sue lamentele, e cioè l’acutizzarsi post-moderno della dialettica dell’illuminismo ed il positivismo del naturalismo scientista169. Alla religione sembra rimanere la capacità di agire efficacemente a livello di ragione pratica, ma solo dopo che la ragione teoretica, orientata post-metafisicamente, ha dato, da sola e senza l’apporto della religione e della teologia, la soluzione delle difficoltà a livello teoretico. Credenti e teologi avrebbero tanti motivi per rispondere che non poche cause dell’attuale rischio di disfattismo della ragione si trovano proprio nell’ambito teoretico, dominato dalla ragione post-metafisica, che, separando la sua autorità dalla metafisica e subordinandola ai risultati delle scienze, è sempre sul punto di riconfigurarsi come ragione scettica. ragione secolare postmetafisica, quest’ultima, pur non impancandosi a giudice delle verità religiose, “da ultimo” accetta come “ragionevole” soltanto ciò che si mostra traducibile nei suoi discorsi, quindi, alla fine, non le stesse verità religiose nel loro principio trascendente (il Dio che si rivela) e nel loro contenuto sostanziale e decisivo. Nella stessa linea “Gerusalemme” è accolta come facente parte, accanto ad “Atene”, della genesi storica della ragione secolare, ma non come attualmente ragionevole» (C. RUINI, La ragione, le scienze e il futuro della civiltà. Prolusione all’VIII Forum del “progetto culturale” della Chiesa italiana, Roma 2 marzo 2007, 4: www.fattisentire.net). 169 «Indem ich von komplementären Gestalten des Geistes spreche, wende ich mich gegen zwei Positionen — einerseits gegen die bornierte, über sich selbst unaufgeklärte Aufklärung, die der Religion jeden vernünftigen Gehalt abstreitet, aber auch gegen Hegel, für den die Religion sehr wohl eine erinnerungswürdige Gestalt des Geistes darstellt, aber nur in der Art eines der Philosophie untergeordneten “vorstellenden Denkens”. Der Glaube behält für das Wissen etwas Opakes, das weder verleugnet noch bloss hingenommen werden darf. […] Das Motiv meiner Beschäftigung mit dem Thema Glauben und Wissen ist der Wunsch, die moderne Vernunft gegen den Defaitismus, der in ihr selber brütet, zu mobilisieren. Mit dem Vernunftdefaitismus, der uns heute sowohl in der postmodernen Zuspitzung der «Dialektik der Aufklärung» wie im wissenschaftsgläubigen Naturalismus begegnet, kann das nachmetaphysische Denken alleine fertig werden» (J. HABERMAS, Über Glauben und Wissen und den Defaitismus der modernen Vernunft, in Neue Zürcher Zeitung 10 Februar 2007: www.nzz.ch).
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3.3. Il riferimento all’ulteriorità Il lettore attento di Habermas non può non notare che lo spazio concettuale, semantico e vitale della sua ricerca e della sua riflessione è attraversato da forme di “esigenza” di ulteriorità. Per quanto strano possa sembrare, il francofortese mette questo fatto in rapporto con la razionalità, arrivando addirittura a porre la potenza razionale e critica dell’illuminismo sulla stessa strada della trascendenza. Nella prefazione al volume da lui curato su Habermas e la teologia, E. Arens dà la testimonianza seguente: «Il libro […] vuol favorire ulteriormente l’approfondimento teologico di un pensatore che nel corso di una conferenza su La nuova intimità fra politica e cultura recentemente richiamava l’attenzione su ciò che, a suo parere, “lega illuminismo radicale e monoteismo: quel momento di autosuperamento o di trascendenza che solo è in grado di attribuire, ad un io prigioniero del proprio mondo, la distanza dal mondo nel suo insieme e da se stesso, per dischiudere in tal modo anche una prospettiva a prescindere dalla quale l’autonomia — sulla base del reciproco riconoscimento — e l’individualità non possono essere conseguite”»170.
Stando alle parole di E. Arens, sembra che J. Habermas insinui l’idea che gli aspetti ed i livelli della convivenza organizzata, che esigono un riferimento fondativo ad una sorta di ulteriorità, siano numerosi. L’interpretazione meno impegnativa di tale ulteriorità è quella che ne fa una sorta di “quasi-trascendentale”, che fonda la solidarietà sociale vincolando i membri della convivenza mediante l’identificazione. Così, sacro e identità collettiva risultano co-originari171. In Theorie des kommunikativen Handelns (1981) al sacro viene riconosciuto il compito di produrre la coscienza collettiva del gruppo, il quale, ricevendo sotto la sua forma l’unità e la personalità, si identifica in virtù di esso ed attorno ad esso172. 170
E. ARENS, Prefazione, in ID. (ed.), Habermas e la teologia, 14. Cfr M. ROSATI, Solidarietà e sacro, cit., 81. 172 «Mentre Durkheim per coscienza collettiva aveva inteso in un primo tempo la totalità delle concezioni socialmente imposte, che sono condivise da tutti i membri della società, ora, in connessione con l’analisi del rito, questo termine non si riferisce tanto ai contenuti quanto piuttosto alla struttura di un’identità di gruppo istituita e rinnovata mediante l’identificazione comune con il sacro. L’identità collettiva si costituisce sotto forma di consenso normativo. Non può trattarsi però di un consenso conseguito, poiché l’identità degli appartenenti al gruppo si crea originariamente insieme con l’identità del gruppo» (TAC II, 618). 171
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Il riferimento della convivenza organizzata all’ulteriorità è un fatto paradossale, che consente di prendere nota dell’ambivalenza del fenomeno religioso-teologico nella riflessione habermasiana, ma quanto è paradossale tanto è innegabile. In Nachmetaphyisisches Denkens (1988) ad esigere un tale riferimento fondativo è l’irrompere sconvolgente di eventi extraquotidiani nel quotidiano. Il dato maggiormente gravido di conseguenze, che accompagna questo fatto, è la sua attitudine a sottrarsi alla capacità di penetrazione del linguaggio filosofico. Ciò significa che la filosofia non può prendere il posto della religione173. Mentre fa queste considerazioni, J. Habermas pone tra parentesi tonde la frase interrogativa “per il momento?”. Il punto interrogativo gioca un ruolo fortemente evocativo sia della tradizionale posizione di Habermas, che chiude con una sentenza negativa il destino della religione, sia della capacità di questo grande maestro di revocare in dubbio le sue stesse conclusioni. In altre parole, il punto interrogativo in questione rende legittima la formulazione della domanda seguente, che, ovviamente, ha solo il ruolo di una annotazione ai margini della riflessione habermasiana: la definitività è per la fine della religione o per il crollo delle posizioni di pensiero che la negano? Nel ricordato Streitgespräch (2004) con J. Ratzinger, J. Habermas, che ha iniziato il suo intervento con un’importante questione mutuata da E.W. Böckenförde «lo Stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso, da solo, non può garantire»174, 173
«Dopo la metafisica la teoria filosofica ha perduto il proprio status extraquotidiano. I contenuti esplosivi dell’esperienza dell’extraquotidiano si sono trasferiti nell’arte divenuta autonoma. Certamente, anche dopo tale deflazionamento, il quotidiano interamente profanizzato non è per niente diventato immune nei confronti dell’irruzione sconvolgentemente sovversiva di eventi extraquotidiani. La religione, ampiamente privata delle sue funzioni di immagine del mondo, considerata dall’esterno, è come sempre insostituibile per un rapporto normalizzante con l’extraquotidiano nel quotidiano. Per tale motivo, anche il pensiero postmetafisico coesiste ancora con una prassi religiosa. E ciò non è da intendersi nel senso della contemporaneità del non-contemporaneo. La continuativa coesistenza illumina addirittura la strana dipendenza di una filosofia che ha perduto il proprio contatto con l’extraquotidiano. Fintantoché il linguaggio religioso porta con sé contenuti semantici ispiranti e anzi irrinunciabili, che (per il momento?) si sottraggono alla forza espressiva di un linguaggio filosofico e attendono ancora la traduzione in discorsi fondativi, anche nella sua forma postmetafisica, la filosofia non potrà né sostituire, né tantomeno rimuovere la religione» (PPM 55 corsivo nostro). 174 J. HABERMAS, Quel che il filosofo laico concede a Dio (più di Rawls), in J. HABERMAS – J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, cit., 41; TSF 5.
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nel corso dell’argomentazione evoca una ulteriorità fondativa quando dichiara insufficiente l’approccio conoscitivo della ragione e fa intravedere un livello profondo di orientamenti e di valori. Il punto più interessante delle considerazioni di Habermas è costituito dal fatto che si tratta di una scoperta fatta dalla stessa ragione o, più precisamente, di “una conversione della ragione attraverso la ragione”, nell’atto in cui essa riflette sulle proprie origini. In una tale circostanza ciò che conta soprattutto non è che la ragione sia guidata da intendimenti di natura teologica, ma che essa abbia la consapevolezza dei propri limiti e che, avvertendo l’esigenza di superarsi, avanzi verso una ulteriorità175. In un mondo, come quello contemporaneo, caratterizzato dal potere del mercato e dalla riduzione di non pochi aspetti della vita umana a dati finanziari e volto a trasformare i cittadini in monadi egocentriche, la religione continua ad avere il ruolo storico di custodire una grande riserva di ideali e di valori. Le comunità cristiane hanno tenuto vivi per secoli valori fondamentali per lo spazio della convivenza umana. Hanno assolto a questo compito attraverso le loro vicende storico-culturali, come è accaduto, ad esempio, mediante l’antico sodalizio tra cristianesimo e metafisica: «La reciproca compenetrazione di Cristianesimo e metafisica greca ha […] anche incoraggiato l’assorbimento, per tramite della filosofia, di contenuti genuinamente cristiani. Questo processo si è concentrato su reti di concetti normativi fortemente connotate, come responsabilità, autonomia e giustifi-
175 «La ragione che riflette sulle proprie radici più profonde si scopre originata da un’istanza altra, della quale è costretta a riconoscere il fatale potere, se non vuole perdere il proprio orientamento razionale nel vicolo cieco di un’auto-appropriazione ibrida. Il modello consiste nell’esercizio di un mutamento radicale compiuto, o almeno innescato, con le proprie forze, di una conversione della ragione attraverso la ragione — è indifferente se la riflessione, come per Schleiermacher, comincia dall’auto-coscienza del soggetto conoscente e agente o, come per Kierkegaard, dalla storicità di un intimo auto-accertamento esistenziale o ancora, come per Hegel, Feuerbach e Marx, da urtanti lacerazioni nei rapporti etici. Senza avere un iniziale intento teologico, una ragione che diventa consapevole dei propri limiti si supera in direzione di qualcosa d’altro: che ciò avvenga nella fusione mistica con una coscienza cosmica, nell’attesa disperante dell’Evento (Ereignis) storico di un messaggio salvifico o nella forma di solidarietà anticipante nei confronti di umiliati e offesi, tesa ad accelerare la salvazione messianica. Queste divinità anonime della metafisica post-hegeliana — la coscienza cosmica, l’evento insondabile, la società non alienata — sono facili prede della teologia. Si prestano infatti ad essere decifrate come pseudonimi della Trinità del Dio personale che comunica se stesso» (ibid., 54 s.).
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cazione, storia e memoria, rinnovamento, innovazione e ritorno, emancipazione e realizzazione, interiorizzazione, estraneazione e incarnazione, individualità e società. Esso ne ha certamente trasformato il senso religioso originario, ma non li ha deflazionati e consumati in modo da svuotarli di significato»176.
Ma è la religione, quale che sia, che, con quanto di vivo è in grado di offrire all’umanità, costituisce un fattore imprescindibile nelle vicende dell’attuale mondo secolarizzato: «vorrei far entrare nella discussione il fenomeno della persistenza della religione in un ambiente sempre più secolare, assumendolo, però, non in qualità di semplice dato di fatto sociale. La filosofia deve prendere sul serio questo fenomeno, per così dire, dall’interno, assumendolo come una sfida cognitiva»177.
E non c’è ragione di meravigliarsene, in quanto lo stesso Habermas ritiene che i tipici itinerari conoscitivi del secolarismo della nostra epoca scorrono sia sull’illuminismo che sul cristianesimo: «proporrò di intendere la secolarizzazione sociale e culturale come un processo di apprendimento biunivoco, che costringe tanto le tradizioni illuministe quanto le dottrine religiose a riflettere sui rispettivi confini»178.
L’apprezzamento per le varie espressioni positive di J. Habermas nei confronti del fenomeno religioso anche per i suoi effetti positivi sulla società, non deve farci dimenticare le annotazioni da lui fatte sull’ambivalenza della sua efficacia sociale. In Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus (1973) scorge l’ambivalenza nella promessa di senso che la religione fa agli uomini: da un lato, essa ha la pretesa, determinante per la vita socio-culturale, che gli uomini, se vogliono conoscere le ragioni della realtà e dei fatti della vita e la giustificazione dell’agire, debbono fare riferimento alla verità e non alle opinioni o alle finzioni, e, dall’altro, assume un ruolo consolatorio, rendendo tollerabili le inquietanti contin176 177 178
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Ibid., 57 s. Ibid., 53. Ibid., 42.
genze che affliggono l’esistenza179. Solo che, precisa Habermas appena un anno dopo nel già ricordato incontro di Stanberg del 1974, la religione non deve approfittare della fragilità del debole mentre gli offre la consolazione180. In Können komplexe Gesellschaften eine vernünftige Identität ausbilden? (1974), il francofortese sostiene che l’identità collettiva affidata alla religione fa perdere di vista il corretto ruolo della razionalità nel processo di formazione di tale identità. Nella modernità non ci si muove più secondo la lunghezza d’onda della forma di immagini del mondo e, dunque, i soggetti singoli non ricevono passivamente dalla tradizione i contenuti dell’identità collettiva ma partecipano attivamente alla loro formazione, che, così, è un evento in fieri. La razionalità dei contenuti dell’identità collettiva viene verificata in riferimento alle condizioni formali di questo evento processuale generativo181. In Faktizität und Geltung (1992) 179 «Il “senso” promesso dalle religioni è sempre stato ambivalente: da una parte con questa promessa di un senso viene tenuta in vita la pretesa, finora costitutiva per la forma di vita socio-culturale, che gli uomini, se vogliono sapere perché qualcosa accade e come accade, e come si possa giustificare ciò che fanno e debbono fare non devono accontentarsi di finzioni ma unicamente di “verità”; d’altra parte la promessa di senso ha sempre implicato anche una promessa di consolazione, poiché le interpretazioni offerte non si limitano a render coscienti le contingenze inquietanti, ma le rendono sopportabili — anche e proprio quando non sono affatto eliminabili come contingenze» (CRCM 132). 180 «Se da Lei viene qualcheduno bisognoso di consolazione, Lei deve stare bene attenta, davanti a se stessa, di non sfruttare delle angosce primitive che ciascuno di noi ha in certe situazioni. Quello che io intendo dire con il termine “discorso argomentativo” è proprio questo: Lei deve vedere, in qualche modo, di potere stabilire una situazione comunicativa nella quale l’altro non accetti tutte le interpretazioni solo perché sta tremando. Perché altrimenti Lei farebbe un’“irruzione autoritaria”, e questo lo sa far meglio qualsiasi terapista del comportamento. Lei vuole annettere alla Sua interpretazione una pretesa di verità; non vorrebbe dare a colui che Le sta davanti qualcosa che lo faccia semplicemente star tranquillo; sennò gli si potrebbe anche dare un tranquillante, in molti casi oggi questo funziona benissimo» (J. HABERMAS, Problemi di legittimazione della religione, in AA. VV., Il ruolo sociale della religione, cit., 77). 181 «Io suppongo che, se vogliamo discutere delle possibilità di un’identità collettiva, la questione debba venir posta in modo del tutto diverso: finché noi ricerchiamo il surrogato di una dottrina religiosa che integri in sé la coscienza normativa di un’intera popolazione, ci muoviamo sul presupposto che anche le società moderne costituiscano la loro unità ancora nella forma di immagini del mondo, le quali circoscrivono l’identità comune sotto il profilo del contenuto. Ed è questo che non può più essere il punto di partenza. Oggi possiamo al massimo vedere l’identità collettiva ancorarsi alle condizioni formali sotto le quali vengono prodotte e cambiate le proiezioni di identità. L’identità collettiva non si presenta più ai singoli come contenuto di una tradizione, sul quale sviluppare la propria identità come si poteva fare su di un elemento saldamente oggettivo. È vero piuttosto che gli individui stessi prendono
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Habermas prende atto del passaggio dalle garanzie sociali offerte dalla religione a quelle offerte dal sistema dei diritti. Se si fa affidamento sui diritti, non si ha più bisogno di ricorrere al sacro ed alle sue garanzie metasociali, che propongono l’ambiguità dell’intreccio di validità e fattualità182. In Die Einbeziehung des Anderen (1996) Habermas riconosce il fatto che nella modernità le leggi morali ragionevoli non fruiscono più di un credito ontoteologico, in quanto i fondamenti religiosi della validità morale vengono sottoposti ad una svalutazione graduale: «Con il passaggio (tipicamente moderno) al pluralismo delle visioni del mondo, la religione e l’eticità in essa radicata non possono più fungere da fondamento pubblico per una morale comune. In ogni caso, la validità di regole morali generalmente vincolanti non è più spiegabile con ragioni e interpretazioni che facciano appello all’esistenza e al ruolo di un creatore e di un salvatore trascendente»183.
Il riferimento all’ulteriorità come fondamento è, per un verso, esigenza di razionalità e, per un altro verso, residuo di una mentalità arcaica, alimentata da istanze metasociali. In questo momento, ciò che ci interessa mettere in evidenza è la simultanea presenza in Habermas di due esigenze, dal suo punto di vista entrambe legittime ed ineliminabili.
parte al processo formativo e decisionale di un’identità che deve essere ancora progettata collettivamente. Allora la razionalità dei contenuti dell’identità si misura solo sulla struttura di questo processo generativo, cioè sulle condizioni formali nelle quali si genera e si verifica un’identità flessibile, in cui tutti i membri della società possono ritrovarsi e riconoscersi reciprocamente, cioè rispettarsi. Rispetto ai vari contenuti determinati la filosofia e le scienze, ma non solo esse, possono al massimo assumere una funzione di stimolo, ma non di convalida» (J. HABERMAS, Possono le società complesse formarsi un’identità razionale?, in RMS 87). 182 «Secondo la nostra ipotesi, quelle garanzie metasociali del sacro che avevano prima reso possibile l’ambivalente forza di vincolo delle istituzioni arcaiche — e dunque l’amalgama di validità e fattualità nella stessa dimensione della validità — a questo punto non risultano più disponibili. Tuttavia la soluzione di questo enigma può essere trovato in un “sistema di diritti” che dia forza di legge alle libertà individuali» (FN 37). 183 IA 23.
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3.4. Funzione integrativa della religione Nel contesto del discorso su religione e teologia J. Habermas si occupa anche dell’intersoggettività e mostra di averne un concetto ben più ampio e profondo del semplice rispetto per l’altro e per quanto è di sua pertinenza. L’intersoggettività è, per un verso, via e, per un altro verso, conseguenza dell’agire comunicativo volto all’intesa. Prima ancora, però, è assunzione della cultura del riconoscimento, un approccio mutuato da Hegel che Habermas ha molto caro e che approfondisce mettendolo in tensione anche con la categoria biblica di “alleanza”184. Muovendosi in una tale logica, Habermas non ha difficoltà a che l’agire comunicativo volto all’intesa e, unitamente ad esso, la peculiare concezione del linguaggio vengano posti in continuità con l’eredità cristiana: «Non posso parlare a nome della seconda generazione [della Scuola di Francoforte], ma soltanto a nome mio o tutt’al più — relativamente a quanto sto per dire — anche a nome di Karl-Otto Apel. Io non avrei nulla da obiettare, se qualcuno mi dicesse che la mia concezione del linguaggio (e dell’agire comunicativo orientato all’intesa) sviluppa una eredità cristiana. È senz’altro possibile che il “telos della intesa” — vale a dire l’idea di un consenso discorsivamente prodotto che si commisura al riconoscimento intersoggettivo, ossia alla doppia negazione di criticabili pretese di validità — tragga alimento da un “logos” cristianamente inteso che (come non soltanto i Quaccheri avevano capito) si materializza nella prassi comunicativa degli appartenenti. Dopo tutto, già in Conoscenza e interesse io avevo spiegato il concetto di emancipazione nei termini di una “teoria della comunicazione” e già allora diventava possibile “smascherare” questo concetto come una traduzione secolarizzata della promessa salvifica»185.
184 «[…] questa disputa dev’essere condotta avanti dagli interessati con la consapevolezza riflessiva a) di muoversi in uno stesso universo di discorso, b) di rispettarsi l’un l’altro come partecipanti che cooperano alla ricerca di una verità etico-esistenziale. Per questo fine c’è appunto bisogno di quella “cultura del riconoscimento” che trae i suoi principi dal mondo secolarizzato dell’universalismo morale e giusrazionale. In questa questione è dunque lo spirito filosofico quello che fornisce al rischiaramento politico della teologia i concetti utili a spiegarle il senso della sua marcia verso una chiesa policentrica universale. E non lo dico solo perché voglio avere ragione in quanto filosofo. Infatti, la filosofia politica che è capace di questa prestazione tiene in sé impressa l’idea dell’Alleanza non meno dell’idea della Polis. Dunque anche questa filosofia si richiama a una eredità biblica» (TP 158 s.). 185 TP 139 s.
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Per di più, Habermas pone alcuni tratti caratteristici della concezione moderna dell’intersoggettività, quali giustizia, libertà e solidarietà, in rapporto strettissimo con la tradizione giudaico-cristiana. In particolare, tali caratteristiche sono la ripresentazione razionale dell’idea veterotestamentaria di alleanza e costituiscono un momento interno della struttura concettuale dell’intersoggettività. L’incontro delle caratteristiche in questione con la cultura greca ha dato vita a concetti tipici della modernità che compongono la nervatura concettuale, dinamica e contestuale dell’idea moderna di ragione. Habermas si esprime così: «Ciò che produsse all’interno della filosofia una forza esplorativa — ciò che, in altri termini, rese recettiva la ragione argomentativa alle esperienze pratiche delle precarie identità di coloro che vivono nella dimensione storica — fu piuttosto l’idea di una Alleanza che promise, al popolo di Dio e a ciascuno dei suoi membri, una giustizia capace di riscattare la loro storia di sofferenza, insomma l’idea di una comunità di appartenenti coniugante tra loro libertà e solidarietà nell’orizzonte di un’intatta intersoggettività. Se questi pensieri genuinamente giudaici e cristiani non si fossero mai infiltrati nella metafisica greca, noi non avremmo potuto costruire quella rete di concetti specificamente moderni che ora convergono nell’idea di una ragione che è, nello stesso tempo comunicativa e storicamente situata. Penso al concetto di libertà soggettiva e alla richiesta di eguale rispetto per ciascuno […]. Penso al concetto di autonomia, ossia di un “autolegarsi della volontà” a partire da una intuitiva conoscenza morale che dipende da relazioni di riconoscimento reciproco. Penso al concetto di soggetto socializzato, individuatosi attraverso una storia personale di vita […]. Penso al concetto di liberazione […]. Infine, irrompendo nella filosofia, il pensiero storico ha certamente promosso l’intuitiva conoscenza del carattere temporalmente “finito” della nostra storia di vita. […] Rientra in tutto ciò anche la consapevolezza della fallibilità della mente [Geist] umana e della contingenza delle condizioni a partire dalle quali essa avanza tuttavia pretese incondizionate. Dunque anche all’interno della filosofia la tensione tra spirito di Atene e l’eredità di Israele ha avuto effetti altrettanto notevoli che all’interno della teologia»186.
In una convivenza organizzata di credenti, in cui il riferimento ad un Dio personale è un fatto normale, intersoggettività e solidarietà, da un parte, 186
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TP 152 s.
e universalità ed uguale rispetto, dall’altra, vengono tematizzate ed attuate, a differenza di quanto accade in altri tipi di convivenza, con la logica sinergica della convergenza. La tradizione giudaico-cristiana non formula il concetto di giustizia ricavandolo dalle esigenze di un “inesorabile egualitarismo”, che, prestando una eccessiva attenzione alle differenze individuali, finisce con il separare gli individui, ma lo crea all’interno della dialettica di un rapporto stretto con il concetto di solidarietà, fino a farne la seconda faccia della medesima medaglia, che collega i singoli tra di loro in forza di un unico legame sociale e li introduce all’esperienza della solidarietà reciproca187. Questa sinergia, tipica di una struttura di comunicazione guidata dalla logica della tradizione giudaico-cristiana ed ispirata a forti tensioni di universalità, costituisce un fattore ancora comunemente normativo, anche quando, come accade nella modernità in cui la società è secolarizzata e l’uomo è “orfano di Dio”, il riferimento giustificante e pubblico al Dio trascendente non è più possibile. Le popolazioni occidentali, che vivono in società fortemente secolarizzate, sono in qualche modo destinatarie dell’etica veterotestamentaria della giustizia e dell’etica neotestamentaria dell’amore, che, sia pure in modo implicito e sotto altre forme, alimentano ed animano le tante intuizioni morali della vita quotidiana188. Ciò sta a significare che il riferimento della teoria dell’agire comunicativo di Habermas alla tradizione giudaico-cristiana non è volto soltanto a mettere a tema un legame storico-culturale ma anche a mettere in luce la pressione normativa esercitata da questa tradizione sull’intero pensiero occidentale, incluso quello habermasiano, salve restando l’autonomia e l’originalità delle rielaborazioni che ne sono sgorgate, fino alla cancellazione, come accade nel nostro francofortese, del riferimento alla trascen187 «La “solidarietà” fondata sull’appartenenza ci ricorda il legame sociale che unifica tutti: ognuno è responsabile dell’altro. Invece l’inesorabile egualitarismo della “giustizia” pretende sensibilità per le differenze che separano questo individuo dagli altri: ognuno chiede che la sua diversità sia rispettata dall’altro. La tradizione giudaico-cristiana considera “solidarietà” e “giustizia” come le due facce di una stessa medaglia: esse rendono visibile da prospettive diverse una medesima struttura di comunicazione» (IA, 22). 188 «Nelle società secolarizzate dell’Occidente, le intuizioni morali di tutti i giorni risultano ancora segnate dalla sostanza normativa di tradizioni religiose per così dire “decapitate”, in quanto giuridicamente dichiarate faccenda privata. In particolare esse sono segnate dai contenuti relativi alla “morale di giustizia” dell’Antico Testamento ebraico e all’“etica dell’amore” del Nuovo Testamento cristiano. Questi contenuti sono trasmessi alle nuove generazioni (spesso in maniera implicita e sotto altro nome) attraverso i processi di socializzazione» (IA 20).
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denza189. Da tutto questo consegue che l’agire comunicativo, dispiegandosi lungo un cammino di razionalizzazione, da un lato, libera l’agire volto all’intesa, che è l’agire tipicamente razionale, da ogni sorta di vincolo religioso, ritenuto fortemente limitativo sul fronte della razionalità, e, dall’altro, è l’erede del sacro nella modernità, anche perché ne assume le funzioni integrative190.
3.5. Religione e agire comunicativo Al riferimento alla religione ed alla teologia sembra che J. Habermas, talora e oltre una certa soglia, affidi il compito di fornire le ragioni ultime della legittimazione e della giustificazione di procedure dello stesso agire comunicativo. Insomma, se ci chiede perché è necessario agire eticamente, la ragione comunicativa e la filosofia non dispongono di risorse adeguate per dare una risposta soddisfacente. J. Habermas procede gradualmente: fino a quanto si tratta di spiegare il punto di vista morale alla luce del quale distinguiamo il giusto dall’ingiusto, la filosofia è idonea a fornire le chiarificazioni necessarie, ma non può andare oltre: «Il pensiero postmetafisico si differenzia dalla religione perché salva il senso dell’incondizionato senza ricorrere a Dio o a un assoluto. Horkheimer avrebbe avuto ragione con il suo detto solo se avesse inteso con “senso incondizionato” qualcosa d’altro rispetto a quel senso di incondizionatezza che entra come momento anche nel significato di verità. Il senso di incondizionatezza non è la stessa cosa di un senso incondizionato che reca conforto. Nelle condizioni del pensiero postmetafisico la filosofia non può sostituire il conforto con cui la religione pone sotto un’altra luce e insegna a sopportare l’inevitabile sofferenza e l’ingiustizia non riparata, le contingenze del bisogno, della solitudine, della malattia e della morte. Tuttavia la filosofia può spiegare ancor oggi il punto di vista morale, in base al quale giudichiamo imparzialmente qualcosa come giusto o ingiusto. Per questo la ragione comunicativa non è affatto ugualmente distante dalla moralità come dall’immoralità. Altra cosa è però dare una risposta motivante alla domanda, perché dobbiamo seguire le nostre convinzioni morali, addirittura perché dobbiamo essere morali. Da questo punto di vista si può forse dire: salvare 189 190
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Cfr M. ROSATI, Solidarietà e sacro, cit., 101. Cfr ibid., 83 ss.
un senso incondizionato senza Dio, è vano. Infatti appartiene alla dignità della filosofia il continuare a sostenere con intransigenza che nessuna pretesa di validità possa avere consistenza cognitiva senza essere giustificata davanti al forum del discorrere argomentativo [begründende Rede]»191.
Le considerazioni che Habermas fa sull’idea horkheimeriana di “senso incondizionato” sono da intendere nel senso decisamente ateo voluto da Horkheimer192. E questa è la ragione per la quale Habermas, nonostante alcune espressioni che sembrano dire il contrario, riconosce anche alla filosofia la capacità di prendersi cura del “senso incondizionato”: «Nella discussione con Horkheimer io volevo soltanto indicare che il concetto di verità incondizionata non è soltanto difendibile a partire da postulati forti, di tipo teologico, bensì anche sulla base delle premesse più modeste di un pensiero postmetafisico»193.
Quanto, però, al convincimento che la filosofia non si è ancora appropriata degli irrinunciabili potenziali semantici custoditi dal discorso teologico, Habermas non ha alcuna difficoltà a ribadire inequivocabilmente il suo pensiero sia sul deficit che segna la filosofia, sia sull’attitudine e sulla capacità della teologia di custodire “potenziali semantici” preziosissimi: «Nell’altra citazione194 mi dichiaro invece convinto del fatto che il discorso religioso custodisca in sé potenziali semantici irrinunciabili, potenziali che non sono ancora stati sufficientemente sfruttati dalla filosofia, in quanto non sono ancora stati tradotti nel linguaggio di ragioni pubbliche, presuntivamente capaci di persuadere chiunque. Servendomi del concetto di “persona individuale” — che nel linguaggio religioso delle dottrine monoteistiche noi troviamo fin dall’inizio articolato con precisione — io ho cercato di segnalare questo deficit, questo “arrancare”, diciamo così, dei tentativi di traduzione filosofica dietro l’intuizione teologica. La mia sensazione è che i concetti fondamentali dell’etica filosofica non abbiano ancora “catturato” tutte le intuizioni che nel discorso biblico sono già esposte in maniera assai 191
TFCS 129 s. Cfr F. CONIGLIARO, Suggestioni su Max Horkheimer, in P. VIOLANTE (ed.), Ifigenisti di tutto il mondo, unitevi!, Palermo – São Paulo 1992, 37-53. 193 TP 142. 194 Si tratta di una citazione di PPM 55 e da noi riportata alle pp. 275 s. 192
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differenziata e che noi, da parte nostra, apprendiamo solo attraverso processi semireligiosi di socializzazione. Consapevole di questa mancanza, l’etica del discorso cerca per esempio di tradurre l’imperativo categorico kantiano in un linguaggio più adeguato a certe intuizioni (per es. al senso di “solidarietà” che lega tra di loro gli appartenenti alla comunità)»195.
3.6. Religione, Stato liberale, pluralismo e tolleranza La comunità religiosa, portatrice dei valori di sua pertinenza, si trova all’interno della comunità socio-politica e, pertanto, risente della forma di stato secondo cui la convivenza dei cittadini viene organizzata. La forma di stato alla quale J. Habermas guarda con maggiore simpatia è quella liberale e costituzionale, in cui la convivenza viene strutturata secondo gli ideali laici del liberalismo politico. Nella Weltanschauung laica della neutralità del potere, che ne consegue, prende consistenza un imperativo categorico, e cioè l’impegno per la «garanzia di eguali libertà etiche per ogni cittadino»196.
Su questa base generale ma inequivocabile trovano il loro fondamento divieti ed aspettative. Sul fronte del divieto, Habermas propone delle idee molto impegnative sia per lo stato che per i cittadini. Quanto allo stato, il suo convincimento è che la “neutralità ideologica” escluda il laicismo: «La neutralità del potere statale per ciò che concerne la visione del mondo, garanzia di eguali libertà etiche per ogni cittadino, è inconciliabile con la generalizzazione politica di una visione del mondo secolaristica»197.
Quanto ai cittadini, egli mette in luce la contraddizione tra intolleranza e status di cittadino:
195
TP 142 s. J. HABERMAS, Quel che il filosofo laico concede a Dio (più di Rawls), in J. HABERMAS – J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, cit., 62; TSF 18. 197 Ibid. e TSF 18. 196
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«I cittadini secolarizzati non possono, finché compaiono nel loro ruolo di cittadini dello Stato, disconoscere un potenziale di verità in linea di principio alle concezioni del mondo religiose, né contestare ai propri concittadini credenti il diritto di contribuire alle discussioni pubbliche in lingua religiosa»198.
Sul fronte delle aspettative, afferma quanto segue: «Una cultura politica liberale può persino richiedere ai cittadini secolarizzati di partecipare allo sforzo di traduzione di materiali significativi dalla lingua religiosa ad una lingua accessibile a tutti»199.
Il liberalismo politico non dovrebbe incontrare difficoltà in tutto questo, dato che una simile aspettativa è stata formulata per la filosofia: «la filosofia ha motivo per mostrarsi pronta ad apprendere dalle tradizioni religiose»200.
Se, da un lato, la tolleranza da parte della filosofia e dello stato liberale mette in luce i limiti dell’illuminismo, dall’altro le confessioni religiose debbono lasciarsi guidare anch’esse dalla tolleranza, rinunciando a mandare ad effettività nello spazio socio-politico della convivenza organizzata le loro rispettive pretese assolute di verità. A tale proposito, J. Habermas fa una serie di considerazioni, ispirate al buon senso e soprattutto alle esigenze più pressanti della convivenza, sulle diversità che, trovandosi all’interno di un unico spazio socio-politico, non intendono essere private né delle tensioni estrinseche e contestuali del pluralismo e dell’intersoggettività, né della tensione intrinseca della razionalità. L’attenzione del Nostro si ferma sull’Europa, dove la differenziazione delle fedi religiose e la secolarizzazione hanno prodotto uno spazio sociale aperto a tutti i tipi di discorso, da quello profano a quelli delle varie religioni, ed idoneo ad essere condiviso da parte di tutti gli attori. Di conseguenza, accade che la religione, guardandosi con gli occhi degli altri, relativizza la propria affermazione, rifiuta la logica dell’occupazione dell’intero spazio della convivenza 198 199 200
Ibid. e TSF 18. Ibid., 62 s. Ibid., 56.
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e della comunicazione e favorisce l’atteggiamento neutrale dello stato, senza per questo rinunziare alla pretesa veritativa assoluta della propria fede201. Nel clima di pluralismo e di tolleranza, che si viene a creare in un contesto di secolarizzazione, di neutralità del potere e di libertà religiosa, la religione, libera dalla tentazione del monopolio interpretativo ed organizzativo della convivenza, si apre alla logica del dissenso e non ha difficoltà a prendere atto di una situazione di “disaccordo duraturo”. Un disaccordo siffatto può essere qualificato mediante il predicato “ragionevole”, ma a condizione che tutti i partecipanti alla convivenza organizzata non escludano nessuna prospettiva, neppure quelle delle varie religioni, dall’ambito del razionale202. Le religioni, allo scopo di mantenere nella pace la convivenza organizzata, debbono non pure prendere atto delle conseguenze che dalle 201
«In Europa, lo scisma confessionale e la secolarizzazione della società hanno costretto la fede religiosa a riflettere sulla propria posizione non esclusiva all’interno di un universo di discorso chiuso nei suoi confini dal sapere profano, creato dalle scienze e condiviso con le altre religioni. La sottintesa consapevolezza di una doppia relativizzazione della propria posizione non può ovviamente comportare la relativizzazione delle verità della propria fede. Questo processo riflessivo, grazie al quale la religione ha imparato a vedersi con gli occhi degli altri, ha avuto importanti implicazioni politiche. I credenti sono ora in grado di comprendere perché debbano rinunciare alla forza, e a maggior ragione alla forza istituzionalizzata dello Stato, per imporre ad altri le pretese di verità della propria fede. Solo questo progresso cognitivo ha reso possibile la tolleranza e la separazione della religione da un potere statale che si propone come neutrale nei confronti di concezioni del mondo potenzialmente diverse» (Così dice J. HABERMAS, Fondamentalismo e terrore. Un dialogo con Jürgen Habermas, in G. BORRADORI, Filosofia del terrore, cit., 36). 202 «Da un lato la consapevolezza religiosa è stata obbligata a processi di adeguamento. Ogni religione è originariamente “visione del mondo” o “dottrina comprensiva” anche nel senso che rivendica l’autorità di strutturare in toto una forma di vita. La religione ha dovuto rinunciare a questa pretesa di monopolio dell’interpretazione e di organizzazione complessiva della vita, dati i vincoli della secolarizzazione del sapere, della neutralità del potere statale e della libertà di religione generalizzata. […] L’atteggiamento tollerante di società pluraliste con ordinamento liberale non chiede solo ai credenti la propensione, nel rapporto con i non credenti e i credenti di altre fede, a dover ragionevolmente attendere la sopravvivenza di un dissenso. Reciprocamente, questa stessa propensione è richiesta, nel quadro di una cultura politica liberale, ai non credenti nel rapporto con i credenti. […] L’aspettativa di un disaccordo duraturo tra fede e sapere merita allora il predicato “ragionevole” solo se alle convinzioni religiose è riconosciuto, dal punto di vista del sapere laico, uno status epistemico, che non è semplicemente irrazionale» (J. HABERMAS, Quel che il filosofo laico concede a Dio (più di Rawls), in J. HABERMAS – J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, cit., 60 ss; TSF 16 ss.).
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tensioni del pluralismo e dell’intersoggettività discendono per la posizione ed il ruolo dei propri membri nello spazio della medesima convivenza ma anche giustificare, dal proprio punto di vista strettamente religioso, i mutamenti nelle posizioni e nei ruoli. Ogni religione, essendo una visione del mondo, ha la tendenza ad organizzare la vita dell’intera società in cui si trova ad operare, ma, essendo quest’ultima pluralista ed avendo, per di più, una estensione maggiore, essa non può fare a meno di rinunziare alle proprie pretese totalizzanti e di inserire tra le proprie premesse operative i fondamenti dello stato liberale, che separano comunità religiosa e comunità politica. Ciò deve essere attuato anche quando le premesse, sulle quali si basa la comunità religiosa, sono all’origine dei fondamenti dello stato liberale203. J. Habermas è convinto che una fonte di grosse difficoltà per la neutralità dello stato sia la libertà religiosa. Accanto a questa convinzione egli ne pone un’altra, e cioè quella circa gli attori della violazione del “dovere della neutralità”, che possono essere sia i laicisti che i credenti. Per rimanere fedeli a questo dovere è necessario che la società mantenga sempre uniti pluralismo e proceduralità. Infatti, una cultura, che pretenda di essere universalmente vincolante in una società pluralistica a motivo sia del fatto che è dominante da secoli sia del fatto che è ancora maggioritaria, determina in modo strisciante la trasformazione di una costituzione sostanzialmente procedurale in una costituzione sostanzialmente essenzialistica, con le conseguenze gravissime della violazione del principio di uguaglianza e della caduta della società nell’immobilismo istituzionale, politico e sociale204.
203
«Ogni religione è originariamente una visione del mondo, ovvero, per dirla con J. Rawls, una dottrina comprensiva, anche nel senso ch’essa vuole organizzare la totalità di una forma di vita. Ma non appena, nelle società pluralistiche, la vita della comunità religiosa viene a differenziarsi dalla vita della più ampia comunità politica, ecco che una religione deve rinunciare a questa pretesa totalizzante di organizzare anche la vita dell’intera società. Impadronendosi dei fondamenti dello Stato liberale, le grandi religioni debbono trasferirli entro premesse proprie, persino quando tra queste premesse e quei fondamenti esista una connessione genealogica (come avviene in Europa nel caso della tradizione ebraicocristiana). […] Da un punto di vista funzionale, la tolleranza religiosa serve a intercettare e neutralizzare la distruttività sociale di un dissenso inconciliabilmente perdurante. Sennonché, a tal fine, è necessario che non solo si differenzino tra loro i ruoli di membro della comunità religiosa e di membro della società, ma anche che tale differenziazione venga poi giustificata nella stessa prospettiva della religione (pena il perdurare di latenti conflitti di lealtà)» (J. HABERMAS, Dalla tolleranza alla democrazia, cit., 320). 204 Cfr TSF 165 ss.
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3.7. La “trascendenza dall’interno” Se ci interroghiamo sulle ragioni che hanno spinto e spingono il postmetafisico J. Habermas a fare, dopo le fasi della negazione e dell’interpretazione in termini secolari della tradizione giudaico-cristiana, un recupero di essa all’interno delle stesse tensioni teoretiche della modernità, non troviamo una risposta più plausibile della seguente: il Nostro è stato guidato dall’intendimento di trovare garanzie teoretiche per l’incondizionato e per i suoi attributi fondamentali, universalità e trascendentalità, tradizionalmente sorretti da supporti metafisici. Egli sa bene che la tradizione fonda il senso dell’incondizionato sull’affermazione di Dio, ma si lascia condurre dal proposito di recuperalo interamente anche senza tale affermazione. Le sue dichiarazioni, a tale proposito, sono esplicite ed inequivocabili. Ne riportiamo alcune: «Per Horkheimer la conoscenza umana, che include quella morale, potrebbe elevare una pretesa di verità solo se si orientasse a relazioni tra essa e l’essente quali si mostrerebbero solo all’occhio divino. Di contro a questa concezione singolarmente tradizionale tenterò (nell’ultimo paragrafo) di far valere un’alternativa moderna: un concetto di ragione comunicativa che permetta di salvare il senso dell’incondizionato senza metafisica»205; «Il pensiero postmetafisico si differenzia dalla religione perché salva il senso dell’incondizionato senza ricorrere a Dio o a un assoluto»206; «Il senso di incondizionatezza non è la stessa cosa di un senso incondizionato che reca conforto»207; «Nella discussione con Horkheimer io volevo soltanto indicare che il concetto di verità incondizionata non è soltanto difendibile a partire da postulati forti, di tipo teologico, bensì anche sulla base delle premesse più modeste di un pensiero postmetafisico»208.
205 206 207 208
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TSCS 124. TFCS 129. TFCS 129. J. HABERMAS, Dialogo su Dio e il mondo, in TP 142.
Lungo questa pista Habermas imposta il suo discorso in termini di “trascendenza dall’interno”209. A nostro parere, la formulazione più perspicua e maggiormente esplicita a tale proposito si trova nello scritto Dialogo su Dio e il mondo: «Nell’agire comunicativo facciamo riferimento a pretese di validità che possiamo elevare fattualmente solo nel contesto delle nostre lingue e delle nostre forme di vita, anche se la possibilità di riscattarle, che è insieme implicitamente posta, addita al di là del provincialismo del nostro rispettivo luogo storico. Siamo esposti al movimento di una trascendenza dall’interno di cui disponiamo tanto poco quanto l’attualità della parola parlata ci rende padroni della struttura del linguaggio (o del logos). La ragione costituita anamnesticamente, che Metz e Peuckert continuano giustamente a rivendicare contro una ragione comunicativa limitata platonicamente e indifferente al tempo, ci mette a confronto con la questione coscienziosa di una salvezza delle vittime annientate. Per questo tramite diventiamo consci dei confini di quella trascendenza dall’interno che è rivolta all’al di qua [ins Diesseits]. Tuttavia quest’ultima non è in grado di darci certezza del movimento contrario di una trascendenza proveniente dall’al di là, simmetrica alla prima»210.
Il punto centrale di questo testo habermasiano è costituito dall’agire comunicativo e dall’idealità controfattuale che lo “norma” e che, benché si ponga e si lasci cogliere al livello della fattualità più ovvia, lo volge verso un’ulteriorità. Tutto ha origine e si attiva nella dinamica intrinseca ed immanente all’agire comunicativo, che, così, si trova interessato da quel movimento, che J. Habermas chiama “movimento di trascendenza dall’interno” e che, in quanto tale, sembrerebbe non potersi esaurire ed arrestare dentro i confini del fattuale, mentre, invece, non ha altra chance. Il movimento in questione, proprio perché è da vedere in stretto ed indissolubile rapporto con l’incondizionato, di cui Habermas ci ha parlato, è una vera e propria “trascendenza dall’interno”, che custodisce in sé un inestinguibile potenziale critico. Tuttavia, a parte questo, la tensione verso l’ulteriorità della “trascendenza dall’interno” è limitata, e non solo per la 209
Per questo particolare argomento cfr TFCS 133-162. Meritano speciale attenzione gli studiosi e gli studi seguenti: L. CEPPA, Disincantamento e trascendenza in Jürgen Habermas, in Paradigmi (1998) 48, 515-534; M. ROSATI, Solidarietà e sacro, cit., 99-112. 210 TFCS 147.
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ragione, ovvia dal punto di vista habermasiano, che non è in grado di condurre fino al movimento simmetrico della “trascendenza dall’esterno”, ma anche per la ragione che non riesce ad impedire che ci siano vittime. La struttura semantica della locuzione “trascendenza dall’interno”, dunque, da una parte sembra fare mostra di tutte le infinite possibilità e tensioni contenute nella trascendenza, ma, dall’altra, pone di fronte a griglie concettuali ed operative invalicabili e fortemente limitative. Stando così le cose, si potrebbe anche incontrare una qualche difficoltà a condividere l’entusiasmo di L. Ceppa e di M. Rosati211 su questo punto importante del pensiero habermasiano. Ovviamente, con ciò non intendiamo in alcun modo dare vita al tarlo del dubbio su quanto deve essere detto circa lo sviluppo ascensionale, in Habermas, della considerazione e del rispetto per il fenomeno religioso. Certo, la convinta laicità del francofortese rinchiude tale fenomeno dentro i confini della comunità credente, ma solo per quel che concerne gli aspetti cognitivi di esso, in quanto, mediante la traduzione nella secolarità del linguaggio e della prassi comunicativa, ne mette a tema l’efficacia al suo esterno. Può essere utile, al fine di cogliere la portata teoretica della habermasiana “trascendenza dall’interno”, prendere visione di alcune considerazioni fatte dal Rosati: «Pur essendo risolti in vicenda umana, il sacro e il nome di dio mantengono parte della loro “trascendenza”, con quel che di radicale e di vitale è legato all’idea della trascendenza, e cioè la costante messa in questione dell’ordine di fatto, la sua funzione di segno di contraddizione. Habermas ha colto in questo senso un punto nevralgico della discussione, tramite l’idea di “trascendenza dall’interno”: la capacità di trascendere l’esistente radicata nell’idea di sacro e di religione in generale va affidata a un sacro immanentizzato e fattosi mondano, a una dialettica tra sacro e profano che va riarticolata come immagini diverse della modernità, tra profili identitari di quest’ultima in competizione tra loro, secondo la proposta avanzata in queste pagine. Il sacro, una volta messo in moto, non si può fermare; le contraddizioni contenute nella sua idea saranno sempre di stimolo alle norme sociali che ad esso pure si ispirano, ma la reinterpretazione del sacro avanzata e l’idea di trascendenza dall’interno chiedono di incanalare il potenziale eversivo del sacro sotto forma di critica sociale dell’esistente, di critica di una modernità non ancora in pace con se stessa e con le sue 211 Cfr L. CEPPA, Disincantamento e trascendenza in Jürgen Habermas, cit.; M. ROSATI, Solidarietà e sacro, cit., 99-112.
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speranze di emancipazione legate alla promessa di un eguale e solidale riconoscimento tra individui liberi e autonomi»212.
La questione della trascendenza dall’interno deve essere concepita per certi aspetti anche come una sorta di esodo dalla situazione concreta in cui la storia ci conduce, e cioè deve essere in ogni caso radicata nella contingenza storica, che appunto si sente l’urgenza di trascendere. Se la forza per produrre il trascendimento sgorga non dall’universo semplicemente naturale ma dall’universo simbolico in cui l’uomo vive, e le religioni monoteistiche ne sono una delle culle più accreditate e credibili, occorre vivere una “storia di libertà” come “marcia escatologica”. Queste espressioni, che il nostro francofortese mutua dal teologo tedesco J.B. Metz, sono volte a cogliere nella religione la teoria e la prassi della liberazione individuale e collettiva di chi subisce oppressione e violenza. Habermas condivide il rifiuto del depotenziamento platonizzante e della neutralizzazione idealistica del lamento della vita offesa. A suo parere, nella post-modernità non c’è forma di sapere che possa procedere senza lasciarsi impressionare da Auschwitz, da questo Lager di dolore diventato simbolo linguistico e culturale universale di ogni dolore e di ogni male. Nessuna forma di sapere è, come la teologia cristiana che affonda le sue radici nell’esperienza storica dell’esodo dell’antico Israele, idonea a custodire la memoria del dolore innocente e ad attivare la cultura del lamento. Per questa ragione J. Habermas considera con interesse la “ragione anamnestica”, di cui parla il Metz. E, mentre, per un verso, non è d’accordo che la filosofia ceda la competenza esclusiva sulla “ragione anamnestica” alla teologia, anche perché oggi la filosofia si trova pure impegnata a far fronte ad un mondo livellato dalla svalutazione normativa ed assiologica e dalla dimenticanza, per un altro verso, ritiene la filosofia non totalmente degna di fiducia e preferisce considerarla sotto il segno della trascendenza, che, per quanto secondo la sua impostazione venga chiamata trascendenza dall’interno, tende a valicarne il fronte213.
212 213
M. Rosati, Solidarietà e sacro, cit., 162 s. Cfr TP 149-156.
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CONCLUSIONE
Alla conclusione del nostro lavoro, riteniamo innanzitutto di dover dire che J. Habermas ci è sembrato un pensatore interessante e che lo studio delle sue opere e delle sue teorie è stato per noi un’esperienza valida e feconda. Inoltre, riteniamo di poter sostenere che il pensiero a cui ci siamo accostati ha la tipica struttura del multiversum. Infatti, interminabili sono i segni dei confronti ai quali è stato sottoposto, infinite sono le idee in esso presenti e numerosissime sono le piste nelle quali le sue riflessioni si sviluppano. Quanto più si penetra nella modalità habermasiana di impostare la riflessione, tanto più si ha la sensazione di trovarsi coinvolti in un confronto discorsivo serrato e stimolante. Il Nostro, infatti, non solo non ha mai pensato di sottrarsi ad un confronto, ma ha cercato di aprire tutti quelli che gli sono sembrati opportuni e, dobbiamo aggiungere, mantenendosi sostanzialmente immune da precomprensioni ideologiche. Ovviamente, come insegna l’ermeneutica, ogni posizione di pensiero si trova situata nel solco all’interno del quale nasce e si alimenta e, di conseguenza, ne è condizionata e, al limite, anche determinata. J. Habermas non fa eccezione, ma si può sostenere — e dicendo ciò, riprendiamo una nota metafora popperiana — che la “cornice”, dalla quale egli parte, è sufficientemente aperta. L’unico confronto al quale ha tentato a lungo di sottrarsi, quello con la religione, a motivo della peculiarità di questa branca dell’esperienza e del sapere, il Nostro lo ha intrapreso relativamente tardi, e cioè non appena si è reso conto che non era più possibile evitarlo, e lo ha condotto senza rinunciare ai suoi convincimenti e insieme mantenendo una grande correttezza di approccio. Nella sezione del nostro lavoro, che abbiamo intitolato “Fonti del pensiero di J. Habermas”, abbiamo potuto vedere come il francofortese non si sia mai inoltrato in un percorso senza prima aver preso atto dei frutti prodotti in esso dalla riflessione di altri pensatori. Ovviamente, non si tratta di una presa d’atto di tipo meramente ricognitivo, ma si tratta di molto di più. Introducendo il nostro lavoro, abbiamo parlato dell’atteggiamento assunto da Habermas nei confronti del pensiero altrui, atteggiamento che è ora di assimilazione e di utilizzazione, ora di differenziazione, ma non abbiamo dimenticato di precisare che in tutto questo la tensione dialettica non è mai stata assente. Il che significa che Habermas, mentre era impegnato o a raccoglie spunti dal pensiero altrui o ad utilizzarne concetti e
perfino teorie o a prenderne le distanze, ha coerentemente seguito il suo itinerario speculativo e costruito le sue teorie. Ci si rende conto di trovarsi di fronte ad un pensatore che ha percorso con grande consapevolezza transiti culturali epocali1, come la svolta linguistica, la svolta critica, la svolta pragmatica, la svolta post-metafisica, la svolta della detrascendentalizzazione, ecc., lungo i quali non ha avuto alcuna difficoltà a sostituire moduli interpretativi, critici e teorici, da lui valutati come obsoleti, con altri ritenuti più adeguati, ma che non ha mai rinunciato a punti teoretici ritenuti fondamentali, conseguiti lungo il corso della storia, specie della storia del pensiero. Anche per J. Habermas l’eredità del lógos è irrinunciabile2. Tale è il grado di soggettività cui è pervenuto Cartesio, un grado altissimo, profondamente caratterizzato dall’autocoscienza, dalla libertà e dalla creatività. Tale è la trascendentalità, ritenuta un poderoso potenziale razionale racchiuso nella vita quotidiana ed un autentico livello teorico della prassi. Tale è l’eticità ritenuta momento razionale dell’intersoggettività. Tale è il fattore religioso-teologico, inteso nel senso di struttura comunicativa che preserva la comunità intersoggettiva dalla casualità e dalla banalità, l’umanità dallo scacco storico, il senso incondizionato dal rischio del non senso, la storia dalla perdita della dimensione dell’umanità. Naturalmente, tutti questi punti teoretici irrinunciabili vengono riproposti dal nostro francofortese secondo il nuovo modulo procedurale comunicativo e, pertanto, al di fuori della prospettiva mentalistica, dell’orientamento deontologico e della concezione teistico-teologica. Habermas è marxista critico, ma non è meno materialista dei marxisti ortodossi e meccanicisti; è contro l’impostazione neoempirista, ma ciò non gli impedisce di essere legato alla fattualità; soprattutto è post-metafisico, ma non per questo si sottrae all’esigenza della giustificazione delle sue teorie. Abbiamo già visto che egli non si contenta di un pensiero post-metafisico mediocre. È la sua attitudine all’approccio epistemologico ad indurlo a privilegiare il sapere a prescindere dalle sue implicazioni ontologiche3. Il 1 Per dati orientativi sulle variazioni verificatesi nel pensiero di Habermas cfr G. CUNICO, Dall’ontologia alla critica: la prima svolta nel pensiero di Habermas, Casale Monferrato 1984. 2 Cfr G. CUNICO, Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch, cit., 13. 3 Cfr S. MAFFETTONE, Critica e Analisi, cit., 124.
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fattore caratterizzante della situazione post-metafisica del pensiero è la prospettiva linguistica della filosofia. La prassi linguistico-comunicativa è il fulcro e l’asse portante della ricerca e della riflessione di J. Habermas. Il linguaggio assume il ruolo di categoria centrale della filosofia, sia come luogo del discorso filosofico che come legame tra le varie sfere in cui la post-modernità ha diviso il mondo. È in esso e per mezzo di esso che la razionalità habermasiana ha, nei problematici tempi post-metafisici, la possibilità di attivarsi e di configurarsi come ragione comunicativa, idonea ad assolvere il compito importante di salvare la filosofia da rischi provenienti dalla post-modernità. Confrontandosi con Habermas, non ci si può sottrarre alle esigenze della sua prospettiva teoretica. Ciò vale per ogni settore del suo pensiero. Se egli adotta la prospettiva post-metafisica, bisogna prenderne atto. Lo stesso, però, si deve dire di tutti gli altri punti della sua riflessione che sono o sembrano spinti da una logica di segno diverso, quale la forte ansia fondativa4. Chi accoglie la prospettiva anti-metafisica e, nel contempo, giudica i dati non del tutto integrabili con tale prospettiva come residui di impostazioni superate o come interpolazioni apportate dallo stesso Habermas, compie operazioni ideologiche in senso stretto: pone in essere mistificazioni volte, più o meno consapevolmente, ad espropriare il nostro Autore dell’autenticità del suo pensiero. Mentre sviluppa il suo pensiero nel senso detto, J. Habermas mette a nostra disposizione, in modo fattuale ma forse anche intenzionalmente, diversi dati idonei a farci comprendere che quei punti teoretici, da lui ritenuti capitali ed irrinunciabili, specialmente la trascendentalità ed il fattore religioso-teologico, vengono tematizzati non solo in forza di istanze filosofiche ma anche per la duplice esigenza di sottoporre ad un supplemento di riflessione l’ordine di fatto e di attivare una adeguata e feconda spinta controfattuale. Habermas insiste con convinzione sulla portata controfattuale dei punti dottrinali appena ricordati, ma la loro collocazione all’interno di un sistema caratterizzato dalla proceduralità, che vuole essere fattuale, non solo lega strettamente la possibilità di un discorso a nodi teoretici problematici, di cui il Nostro è consapevole, ma anche pone la domanda su una certa insufficienza teoretica della dottrina habermasiana. 4
Cfr G. CUNICO, Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch,
cit., 13.
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Quello della controfattualità è, a motivo delle implicazioni che contiene e dei problemi che solleva, un punto estremamente interessante e, nel contempo, assai delicato del pensiero habermasiano. È come la punta di un iceberg che, gravido di dati non empirici, emerge nell’empirico e vi gioca un ruolo mediante moduli empirico-fattuali, ma riversa in esso ciò che reca con sé, che non sembra sorgere nell’empirico e che, dunque, è in grado di porre in essere la tensione della controfattualità. L’insufficienza teoretica di Habermas, rilevata da qualche studioso, a nostro sommesso parere, non è tanto nel fatto che le sue teorie, in tutto od in parte, non sono adeguate ed idonee a spiegare quanto dichiarano di volere chiarire, ma nel fatto che non vengono date ragioni sufficienti della spinta controfattuale che interessa profondamente ed universalmente l’esistente. Solo dopo essersi capacitati di questa inadeguatezza, è possibile mettere a tema le altre, che, per così dire, sono ora più a monte ed ora più a valle. Il controfattuale, proprio perché è appena una punta di iceberg che emerge nell’empirico, opera come una sorta di non-principio, che, mentre si sottrae al principio di costituzione storica, s’impone in virtù di un nucleo capace di resistere a tutti gli attacchi dell’empirico, imprime ritmi diversi alla processualità storica ed alla cronologia, sconvolgendone, naturalmente, i ritmi normali. Da qui la sua identità controfattuale. A nostro modesto avviso, la controfattualità assolve un duplice compito: quello teoretico di resistere alle aggressioni livellatrici dell’empirico, del funzionale e del sistemico, e quello di mettere in luce i nodi problematici e le insufficienze teoretiche del pensiero habermasiano. È stato detto che la teoria habermasiana della razionalità non può non procedere all’eliminazione dal proprio ambito delle domande etiche, metafisiche, religiose, e cioè delle domande qualificate come “domande ultime”5. A noi sembra che Habermas, quando si lascia prendere dall’esigenza razionale della coerenza, si comporti veramente in questo modo. Tuttavia, ci sembra altrettanto innegabile che egli, in una parte considerevole delle sue riflessioni sulla controfattualità, dimostra di non volersi sottrarre al rischio che ne consegue per la tenuta del suo pensiero sia in termini di coerenza che in termini di pretesa veritativa globale. Anche in questo si rivela la grandezza della sua statura di pensatore. J. Habermas con le sue “buone spalle” di filosofo si dimostra pronto a portare il peso sia della proceduralità, richiesta dalla prospettiva post-metafisica da lui assunta, sia della contraddittorietà 5
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Cfr ibid., 178.
dell’autoevento e dell’autoincremento della finitudine6, evocata dalla controfattualità. Del resto, è la stessa razionalità che impedisce di sottrarsi alla potenza di un carattere fondamentale della razionalità di ciò che emerge nell’empirico, e cioè alla potenza del simbolismo, che, lungi dal rinchiudere nei limiti dell’empirico, dischiude all’ulteriorità. Ciò, però, non significa che Habermas riesca a superare le aporie che discendono dalla compresenza di entrambe nel suo pensiero. I punti del pensiero habermasiano interessati dalle vicende appena ricordate sono vari e tutti fondamentali. a) Trascendentalità. Ci sembra opportuno ricordare subito che Habermas mette a tema la trascendentalità a partire dal fatto che la proceduralità non ne può prescindere. Egli è convinto che la soggettività trascendentale sia in crisi. Di conseguenza, il discorso sulla trascendentalità non può prendere le mosse da essa. Un punto di inizio alternativo ed anche consentaneo alla mente di Habermas è l’ambito pratico, che non solo non comporta la cancellazione del ruolo del trascendentale nella conoscenza quale sua condizione di possibilità, ma pure si pone come punto di partenza, intersoggettivamente condivisibile, di recuperi della trascendentalità anche in campo teoretico. Habermas sa benissimo che la prassi comunicativa quotidiana, che è costitutivamente segnata dal rapporto tra fenomenico ed intelligibile, è la base per tentare il recupero della trascendentalità, che, essendo il potenziale razionale costitutivo della prassi comunicativa, è per lui irrinunciabile. Insieme a tutto questo, il post-metafisico J. Habermas manifesta spesso segni di timore di non disporre di uno strumento concettuale adeguato per percorrere la strada che porta alla verità ed all’universalità, anche perché, e ci tiene a precisarlo, l’idea di trascendentale, cui egli accede, è un’idea debole. Egli non esita a chiamare la trascendentalità “corona di idealizzazioni inevitabili” ed a farne una sorta di “trascendenza intramondana”. Come le idealizzazioni inevitabili non sono determinanti in senso pieno, così è la trascendentalità, che viene qualificata come “apparenza trascendentale”, “utopia razionale” illuministica e “quasi-trascendentale”. Però, nonostante tutto, la caratteristica determinante della trascendentalità, che è la controfattualità, rimane e, come tale, si erge nel 6 Cfr C. VIGNA, Sostanza e relazione. Una aporetica della persona, in V. MELCHIORRE (ed.), L’idea di persona, Milano 1996, 201 s.
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bel mezzo dell’empirico-fattuale come una ineliminabile ed ineludibile tensione di ulteriorità. Per J. Habermas è chiaro che la trascendentalità dell’agire comunicativo si distingue dalla trascendentalità tradizionale e si pone nella storia, ma non può essere qualificata come un sorta di rigurgito antiquato ed improponibile o, perfino, come una interpolazione, come pretende G.E. Rusconi. Fatto si è che, secondo Habermas, il soggetto non è in grado di assumersi la responsabilità di fronte al proprio discorso, quale che ne sia il livello, senza fare riferimento alla trascendentalità. Si tratta di un dato pragmatico, certamente legato alle vicende storiche, ma non interamente dipendente dalla contingenza che le caratterizza, tanto più che è indicatore e custode della prospettiva della totalità. Quando parlavamo di irrinunciabilità da parte di Habermas alla trascendentalità intendevamo dire proprio questo. È ovvio che, unitamente a ciò, intendiamo ricordare le annotazioni, da noi pure fatte, sui cambiamenti di ambito e di modulo del discorso che riguarda la trascendentalità. b) Idealizzazioni. La prassi quotidiana è inevitabilmente e costantemente interessata da idealizzazioni. Il dato che si impone immediatamente alla nostra considerazione è che non si tratta di fenomeni prodotti dal soggetto. Anzi, esso, sia come singolo che come comunità di comunicazione, ne è addirittura trasceso. Le conseguenze di questo fatto sono di enorme portata teoretica e metodologica: il linguaggio, gravido com’è di idealizzazioni, appartiene alla struttura stessa della vita socio-culturale; le idealizzazioni in questione hanno un carattere evidentemente controfattuale; i dati procedurali della situazione discorsiva concreta sono volti all’armonia ed all’intesa in forza delle idealizzazioni; l’orientamento del presente verso la sua piena realizzazione è alimentato e sostenuto dalle idealizzazioni. Tra le idealizzazioni e la concretezza della situazione discorsiva viene a determinarsi una tensione che si risolve nella produzione dell’argomento migliore, il quale si fa carico delle pretese di verità che accompagnano i discorsi della comunità di comunicazione. Habermas prova un certo disagio di fronte all’idea di “comunità ideale di comunicazione”, proposta dal Peirce e dall’Apel, e all’idea di “situazione linguistica ideale”, che è sua, in quanto corrono entrambe il rischio di risultare viziate dalla fallacia utopica di potere conseguire nel corso del tempo e durante lo svolgimento del discorso la perfezione della situazione finale. Nonostante queste difficoltà, egli, pressato da esigenze fondative, non riesce a rinunciare alla
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“situazione linguistica ideale”, che ha, tra l’altro, la funzione di guida nella fatica del conseguimento del consenso e quella di critica nei confronti di ogni tipo di discorso. La “situazione linguistica ideale” è anticipata. Ovviamente, mette conto precisare che ad essere anticipata è l’idealità e non la realizzazione. Contrariamente a quest’ultima, che si può porre solo alla fine del processo discorsivo della comunità di comunicazione e, comunque, sempre e solo come meta da raggiungere, l’idealità anticipata conferisce al discorso una struttura prolettica, talché ogni fase dell’attività discorsiva della comunità di comunicazione si trova sottoposta, da parte della perfezione finale anticipata, alla forza d’urto della critica ed alla pressione verso il trascendimento. È vero che Habermas parla dell’anticipazione come di una “supposizione” e, ancora una volta, come di “apparenza trascendentale”, ma è pur vero che è egli stesso a dire che l’anticipazione è come il filo conduttore del discorso per potere superare i rischi di una comunicazione sistematicamente distorta e che essa, proprio per questo, è chiamata ad esercitare una funzione terapeutica tramite il linguaggio. In virtù dell’anticipazione e dei ruoli da essa esercitati, il discorso si va gradualmente sanando. Come si vede, alla situazione linguistica ideale anticipata Habermas assegna gli stessi compiti della trascendentalità. Si può insistere quanto si vuole sul carattere debole dell’anticipazione, come nel caso della trascendentalità, ma è innegabile che, nella mente di Habermas, la situazione linguistica ideale anticipata non è creata dal soggetto, individuale o comunitario che sia, esercita nei confronti dell’esistente una funzione critica ed una funzione terapeutica ed ha un carattere controfattuale. Riteniamo che si debba insistere nel dire che la ragione fondamentale di tutto questo è nel fatto che l’anticipazione della situazione linguistica ideale, considerata secondo la ragione di origine e la ragione di fine, trascende sia il soggetto singolo e la comunità di comunicazione, sia la situazione concreta. c) Soggetto. Supra abbiamo già rilevato che comunemente gli studiosi di Habermas non tengono conto né del fatto che l’unità tematica “soggetto”, che il Nostro ha davanti a suoi occhi, è innanzitutto e fondamentalmente il soggetto borghese, affetto da un individualismo esasperato e da una boriosa autosufficienza, né del fatto che, nell’intento di combattere questo modello di soggetto, egli riversa tutto il peso della sua critica sul soggetto in quanto tale. A parte questo, Habermas intende spogliare veramente il soggetto dell’assolutezza che ha conseguito con Kant ed intende tirarlo fuori da quelli che, secondo lui, sono gli angusti confini del menta-
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lismo. La via seguita è quella della detrascendentalizzazione del soggetto e, conseguentemente, della sua collocazione in una condizione immanentizzata e procedurale. In tal modo, l’evento soggettivo principale, che è l’autocoscienza e che anche per il nostro francofortese è di capitale importanza, si realizza nell’attualità e nella gradualità, che caratterizzano il mondo ed i suoi processi, per mezzo di mediazioni quali il linguaggio, il lavoro e l’integrazione, all’interno di un aggregato di soggetti, che tende a configurarsi come comunità intersoggettiva, sia in virtù delle mediazioni appena ricordate, sia mediante la lotta per il riconoscimento. Dunque, il soggetto ha il suo luogo ontogenetico nella società. Si può anche dire che è un prodotto sociale, ma occorre precisare che si realizza nella comunità di comunicazione secondo un modello intersoggettivo strutturato linguisticamente. Tale modello offre al soggetto le migliori garanzie perché si conservi e si sviluppi nella sua inconfondibile identità individuale. Di conseguenza, le prassi relazionali configurate linguisticamente sono non solo itinerari dell’interazione, ma anche coordinate obbligate per lo studio del soggetto. In tutto ciò, il dato che preme più degli altri per esprimere senso è che il soggetto, il quale deve la sua consistenza alla dimensione linguistica, è esso stesso all’origine dell’evento linguistico. Proprio per questo suo protagonismo negli eventi soggettivi, il soggetto merita, secondo Habermas, di avere attribuite le qualità antropologiche acquisite con Cartesio, e segnatamente l’autocoscienza e la libertà, ed i bisogni dell’uomo in quanto tale, strenuamente difesi dalla teoria critica. L’esito più immediato è la sua liberazione dai rischi dell’automatizzazione provenienti dalla teoria sistemica, che lo disgregherebbero completamente sia come singolo che come comunità intersoggettiva. Il soggetto è il luogo cosciente e libero in cui si attivano le norme portanti degli itinerari di verità, della Diskursethik e della comunicazione volta all’intesa. Ciò significa, da una parte, che esso ha la responsabilità dell’atto linguistico e, dall’altra, che quest’ultimo raggiunge la forma compiuta se il soggetto è in grado di esprimere una pretesa di verità. Tutto questo accade con mezzi linguistico-pragmatici ma con modalità trascendentale. J. Habermas precisa questo dato con varie annotazioni. Il soggetto parlante, dotato di competenza comunicativa, conduce il discorso in virtù dell’anticipazione inevitabile dell’idealizzazione della situazione discorsiva. Certo, non si può negare che le idealizzazioni abbiano una attuazione pragmatico-fattuale nella comunità linguistica, ma è altrettanto innegabile che non se ne possa prescindere. Il soggetto habermasiano viene colto nelle
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particolarità dell’attualità empirica, nella concretezza della Lebenswelt e nella normalità della vita quotidiana, ma non può essere identificato se si prescinde dalla tensione controfattuale suscitata dall’inevitabilità e dall’universalità dell’anticipazione delle idealizzazioni. Il soggetto umano è sempre nella via dell’emancipazione, ma per poterla percorrere fino in fondo deve potersi orientare criticamente. Come può accadere ciò, se non per la tensione trascendentale? In quanto cittadino, il soggetto è chiamato a prendersi cura delle tensioni etiche, giuridiche e politiche della società. E per questo non è necessaria la tensione trascendentale? La lotta per il riconoscimento, che in un contesto di effettiva pluralità non può non avviarsi, non significa, forse, che il soggetto in quanto tale s’impone nello spazio socio-politico ed è terminus a quo di pretensione etica e di pretensione giuridica, e cioè è meritevole di riconoscimento e di rispetto? Il soggetto, se è luogo di autocoscienza, di dignità, di libertà, di creatività, è anche luogo di trascendentalità. Ciò non è in contraddizione con la detrascendentalizzazione del soggetto operata da Habermas, in quanto la detrascendentalizzazione tende al superamento del mentalismo, ma con la cancellazione della tensione trascendentale, senza la quale il soggetto sarebbe inerte, anzi non sarebbe affatto. Nella post-modernità, quando, per esprimerci con le idee di un autore che si ferma ad annotarne alcuni guasti gravissimi, si afferma il modello sistemico-funzionale, si attiva anche una sorta di combinazione di biologico e di macchinale, che riduce l’uomo a funzione, a fattore strumentalizzabile, a portatore di fini altrui ed all’esperienza schizoide di un “non-io” all’interno del proprio “io”7. J. Habermas ha certamente trasferito le prerogative della trascendentalità nella prassi comunicativa e, dunque, le ha sottoposte a radicale trasformazione, ma dell’antica trascendentalità rimane quanto occorre per il mantenimento della verità del soggetto. Conclusivamente, ci sembra di poter dire che al mantenimento ed alla rivelazione della verità del soggetto contribuiscono, con funzioni cooriginarie, la Lebenswelt, l’intersoggettività, la comunicazione, la corporeità, il linguaggio, la prassi emancipativa e la lotta per il riconoscimento, quali luoghi della trascendentalità e della sua costitutiva funzione dinamica. d) Etica. Gli studiosi di Habermas sono d’accordo nel dire che, secondo il nostro Autore, l’interesse emancipativo è l’interesse etico per 7 Cfr B. ROMANO, Sulla trasformazione della terzietà giuridica, in Archivio di Filosofia 2006; ID., Teoria e giustizia nel pensiero di Martin Heidegger, Milano 1969, 54.
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eccellenza e l’intesa tra i soggetti è la suprema ragione etica. Sono pure d’accordo nel dire che l’alveo in cui tutto questo si verifica è l’agire comunicativo, che è reso possibile dalla competenza comunicativa. E lo sono ancora quando si tratta di ricondurre l’effettivo agire comunicativo al “potenziale razionale”. Ma, l’accordo si riduce appena si attribuisce la configurazione etica alla trascendentalità. Il fatto è che la comunicazione volta all’intesa, inequivocabile operazione di etica comunicativa, è gravida di tensioni di controfattualità. Si parli pure di segni di “trascendenza intramondana”, ma certamente si tratta di segni manifestativi di inquietudine e di fattori di trascendimento dell’ordine presente. Ad esempio, il Nostro è pienamente convinto del fatto che optare per un ordine giusto per ragioni etiche equivale a firmare una cambiale in bianco, e cioè equivale a rimandare l’effettivo e pieno compimento dell’ordine giusto al futuro. Ciò attesta inequivocabilmente sia il fatto che l’eticità è profondamente caratterizzata da un esigenza di universalità, sia la fatica cui è chiamata quando s’impegna a districarsi nei meandri del soggettivismo. Dal punto di vista di Habermas, un’etica dotata delle caratteristiche appena evocate supera il formalismo e la logica deduttiva e segue il nuovo paradigma, che comporta la sua fondazione trascendental-pragmatica, e cioè l’adozione di modalità trascendentali e di mezzi linguistico-pragmatici. L’etica del discorso rivela, così, una forza universalmente normativa, che non concerne i contenuti bensì le norme dell’argomentare. Essa ha in mano una sorta di codice di comportamento, che Habermas introduce mediante l’“argomento pragmatico-trascendentale” e che costituisce il suo percorso obbligatorio. La nozione di pragmatico, che viene usata in tale contesto, esprime l’esigenza di fondare il codice di comportamento poggiando non su remoti fondamenti ultimi ma su principi effettivamente e concretamente pragmatici. A sua volta, la nozione di trascendentale, adottata nel medesimo contesto, attesta il carattere imprescindibile del codice del comportamento discorsivo. Da tutto ciò consegue che l’etica del discorso sembra avere le carte in regola per superare lo scetticismo ed il relativismo in campo etico, per disporre di un principio, che è appunto il principio di universalizzazione, capace di determinare il consenso tra i partecipanti al discorso, e per innescare nella concretezza dell’esistente spinte controfattuali incontenibili. Tuttavia, sul fronte della giustificazione, il successo, nonostante l’enfasi di J. Habermas nel fare tali discorsi, ci sembra tutt’altro che garantito, in quanto l’etica di cui si parla, essendo solo etica pubblica, presenta tutti gli inequivocabili tratti della debolezza della
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fondazione procedurale. Una controprova di ciò è il fatto che in quel settore particolare dell’etica, che è quello dell’autocomprensione etica del genere umano, Habermas si appella al principio dell’universalità antropologica, dimostrando così di non essere fermamente convinto del valore assoluto della proceduralità e della neutralità. e) Politica. Nel settore della politica, più che negli altri settori, il discorso fondativo habermasiano rivela tutta la sua fragilità. Il nostro francofortese, però, non può rinunciare all’universalità, che, dal suo punto di vista, appartiene strutturalmente alla tenuta del carattere controfattuale dei settori più qualificanti delle sue teorie. La via scelta per conseguirla e per garantirla in ambito politico è quella maggiormente procedurale e problematica, e cioè la democrazia. Per quanto paradossale possa sembrare, la democrazia è pure la via più sicura per pervenire alla meta in questione, perché consente di raccogliere nello spazio socio-politico, che è lo spazio maggiormente esposto alle variazioni anche più radicali, le tessere per comporre il mosaico dell’universalità habermasiana. Momento previo di tutto ciò è che la politica si trovi in tensione con la filosofia, il cui compito è di produrre le condizioni perché il mondo sia razionale. La condizione nota più adeguata a tale scopo è l’éthos democratico, che viene adottato per la pressione esercitata dalla filosofia in quanto tale, e cioè dalla filosofia libera dai condizionamenti dell’ideologia. L’éthos democratico tende a configurare in termini razionali, consensuali ed imparziali sia l’istituzione della democrazia, sia la produzione istituzionale e socio-politica che ne consegue. Ciò significa, tra l’altro, che il processo democratico ha una funzione epistemica: implicando un consenso motivato razionalmente, esso è sorgente di legittimità. La motivazione deve essere proposta con modalità consentanee alla sensibilità habermasiana e, dunque, deve essere posta discorsivamente ed in termini pragmatici e deliberativo-dibattimentali. Così, la sovranità popolare si fa carico dell’eticità del processo discorsivo democratico e, nel contempo, lo rivela. L’eticità non impone alla democrazia alcuna forma di limitazione, anzi si fonde con essa ed in essa rivive sotto altra forma, e cioè sotto la forma di eticità democratica, che si attiva nel processo di formazione democratica della volontà dei cittadini. J. Habermas non trascura la possibilità della concorrenza, costantemente attestata dalla storia della filosofia politica, che si può venire a determinare tra la formazione democratica della volontà dei cittadini ed i diritti fondamentali dell’uomo. Si tratta di due importanti fonti di legittimazione. Se ne è sempre parlato in termini di prio-
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rità della libertà dei moderni rispetto alla libertà degli antichi, e viceversa. Il Nostro non esclude che tra i diritti soggettivi di libertà, e cioè i diritti dell’uomo e l’autonomia privata dei cittadini, ed i diritti della partecipazione politica, e cioè la sovranità popolare e l’autonomia politica dei cittadini, sia presente una tensione, ma nega con decisione che i due tipi di libertà siano alternativi ed in concorrenza e, pertanto, opta per la loro cooriginarietà. In tal modo, la democrazia, che è comunicativa, fruisce dell’equilibrio simmetrico e dell’armonia che si viene ad instaurare tra diritti umani, partecipazione politica, libertà comunicativa, intesa sinfonica, diritti politici di partecipazione e tolleranza. Quando un discorso di questo genere viene fatto per l’interazione delle comunità multietniche e multiculturali, sorgono delle complicazioni, perché le regole della Diskursethik debbono essere riformulate per una società ben più ampia di una entità nazionale, e cioè per una società cosmopolitica. In essa due fatti sono straordinariamente preziosi, e cioè l’esperienza democratica dei singoli popoli, che fornisce informazioni e criteri concreti di interazione, e la tolleranza, che Habermas considera virtù politica. In ogni caso, per chi esercita il potere sovrano — Habermas fa riferimento allo stato, ma noi possiamo allargare l’estensione del concetto — s’impone l’“imperativo di neutralità”, che impedisce ad ogni produzione istituzionale, che è procedurale, di essenzializzarsi e di proporsi con una pretesa di validità atemporale e con una forza vincolante universale. Per il nostro francofortese niente è universalmente vincolante, ad eccezione della formazione democratica della volontà e dei diritti umani, che sono in grado di cogliere l’universale umano nelle fattispecie dell’autonomia e delle pretensioni etica e giuridica e di innestarlo nel concreto dinamismo della proceduralità. f) Religione. Habermas si occupa, dal punto di vista in questione ed in modo solo iniziale, del ruolo del fenomeno religioso nella società. Non è nostra intenzione fare pressioni su Habermas per spingerlo verso conclusioni non consentanee alle premesse da lui poste e, quindi, non intendiamo costringerlo a non tener conto delle sue prospettive post-metafisica e postreligiosa. Ciò significa, tra l’altro, che in materia religioso-teologica il suo discorso deve sempre essere tenuto al di fuori degli influssi di esigenze cognitive, constatative ed informative ed essere rispettato nel suo rifiuto di fare concessioni alla religione ed alla teologia nell’ambito delle medesime esigenze. Esso ha possibilità di sviluppo solo nei settori dell’operativo e del performativo, nei quali nulla vieta che la religione e la teologia abbiano una
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certa fecondità, che talora, così ritiene Habermas, può addirittura essere superiore a quelle della scienza e della filosofia, che sono le candidate naturali ad offrire i contributi risolutivi negli ambiti tematici e problematici che stiamo trattando. Certamente, le ragioni comunicative colte dal discorso religioso non possono essere disconosciute da ogni altro tipo di discorso, a partire da quello etico e da quello pubblico. La ragione fondamentale del riconoscimento di queste possibilità si trova, a nostro sommesso parere, in una tesi di tipo antropologico-linguistico proposta da Habermas in Nachmetaphysisches Denken. In questo suo scritto egli sostiene che la struttura del linguaggio, che pone il soggetto umano in una situazione vitale di comunicazione e, dunque, di proiezione nell’altro e di reciprocità con esso, consente il recupero di un’intuizione originariamente religiosa ma opportunamente riformulata in modo secolarizzato: lo spirito umano ritrova se stesso nell’atto in cui si aliena in un altro. In ambito religioso l’altro è Dio, nel cui essere abissale, secondo il linguaggio teologico-mistico, la creatura che ama perdutamente si immerge fino all’immedesimazione; nella mente del francofortese, invece, è il partner dialogico, che si incontra in occasione dell’agire comunicativo all’interno della comunità di comunicazione impegnata nel conseguimento dell’intesa. Ovviamente, a tale proposito non possiamo non annotare insieme a Habermas che ogni figura, sia essa filosofica che sociologica e politologica, non riuscirà mai a raggiungere l’intensità concettuale e l’efficacia operativa della figura religioso-teologica originaria e non potrà mai sottrarsi al suo fascino. Preso dall’ansia post-metafisica e post-religiosa, il Nostro afferma che la scienza ha operato un radicale disincantamento sul fronte della religione, optando per la razionalità e sostituendo la fecondità normativa di istituzioni religiose arcaiche con il sistema dei diritti e le obsolete funzioni integrative della religione con l’agire comunicativo. Insomma, i ruoli etico e sociale, tradizionalmente espletati dalla religione, vengono assunti dall’illuminismo e dalla potenza creatrice della razionalità, che ne è il principio formale e dinamico. Nonostante ciò, Habermas sostiene sia che le grandi religioni hanno avuto un posto rilevante nella stessa storia della ragione, sia che il pensiero post-metafisico, anch’esso discendente dell’illuminismo, non può capire se stesso se esclude dalla propria genealogia le tradizioni religiose. Oltre questi dati, abbiamo già recato all’evidenza anche la consapevolezza e le ammissioni di Habermas circa una sua certa superficialità
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nell’interpretazione dei fenomeni religioso-teologici. E, siccome ha inteso operare nella qualità di filosofo, egli stesso si vede costretto ad ammettere che neppure la filosofia è stata capace di occupare il posto della religione e di assumerne i ruoli. Egli sa che i livelli della convivenza organizzata, che danno indicazioni su riferimenti fondativi radicati su forme di ulteriorità e su attese morali incondizionate, sono troppi e, dunque, non si può non tenerne conto. Secondo Habermas, i valori significativi custoditi dalle comunità religiose dovrebbero essere tradotti in lingua secolarizzata ed universalmente comprensibile, specialmente in campo socio-politico, al fine di coglierne la fecondità. Forse che le religioni universali non hanno sottratto la vita quotidiana alla banalità? Forse che la tradizione giudaicocristiana non ha contribuito alla formazione della sensibilità moderna circa l’uguaglianza? Forse che gli europei potrebbero avere l’autocomprensione che hanno, se prescindessero dalla tradizione giudaico-cristiana? La civiltà umana potrebbe custodire tensioni universali, come quelle concernenti i diritti fondamentali, se non avesse ricevuto impulsi determinanti dalle religioni universali? La democrazia avrebbe potuto affermarsi senza il nutrimento di contenuti normativi provenienti dalla tradizione religiosoteologica giudaico-cristiana? Si tratta soltanto di una parte degli interrogativi che la riflessione di Habermas ci autorizza a formulare e che discendono dalla tesi di antropologia culturale che Habermas ha fatto sua e che ha sviluppato, e cioè che il sacro e l’identità collettiva sono co-originari. Ma, anche a non tirare tutte le possibili conclusioni da questa tesi antropologica, non si può a meno di dire che Habermas mette a tema sia l’irruzione di eventi extra-quotidiani nel bel mezzo degli eventi quotidiani, sia la necessità di riferire all’ulteriorità l’autenticità dell’agire comunicativo. Costituendo una inesauribile riserva di idealità, la religione è, per Habermas, un fattore imprescindibile nell’attuale mondo secolarizzato. La religione custodisce meglio della filosofia quel senso incondizionato che attraversa universalmente l’esistente. g) Trascendenza dall’interno. Il senso incondizionato tradizionalmente è sostenuto dall’idea di Dio, ma Habermas lo intende esclusivamente in prospettiva secolarizzata ed atea. Ciononpertanto, il Nostro, nell’intento di trovare una giustificazione per esso e per i suoi attributi fondamentali, che sono l’universalità e la trascendentalità, recupera, dopo averla negata ed anche interpretata in termini secolarizzati, la tradizione giudaico-cristiana. Il senso incondizionato tende a valicare il fronte dell’ambito in cui i sensi offerti sono sempre condizionati, ed Habermas,
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che è pienamente consapevole di questo fatto, apre il tema della “trascendenza dall’interno”, che è un vero e proprio movimento controfattuale che interessa l’agire comunicativo e lo spinge verso un’ulteriorità. Ovviamente, non si deve trascurare il fatto che, contro tutte le apparenze di segno contrario e le possibili argomentazioni in tale direzione, il movimento di trascendenza dall’interno, anche se si pensa che sia inesauribile, si realizza esclusivamente dentro l’ordine empirico-fattuale. Però, a noi sembra che non si debba trascurare neppure ciò che, in tutto questo, merita ogni attenzione, e cioè il potenziale inestinguibile che i concetti pregni di senso incondizionato e di trascendenza dall’interno custodiscono in se stessi. Il concetto di trascendenza dall’interno ci mette di fronte ad un esistente che, non riuscendo a raggiungere la quiete in se stesso, si fa prendere, e non per suggestione ma per esigenza razionale, dalla dinamica dell’autotrascendiemnto. La pregnanza di senso, che i concetti di senso incondizionato e di trascendenza dall’interno custodiscono in se stessi, non rimane inerte, ma tende ad articolarsi e ad esprimersi. La via da percorrere per conseguire tale scopo non può essere quella della trascendenza in senso religioso-teologico, a motivo della prospettiva post-metafisica assunta da J. Habermas, bensì quella della trascendentalità, che lo stesso pensatore sviluppa in ambito post-metafisico. L’approccio adottato è quello comunicativo linguistico e la dinamica seguita è quella procedurale. Così, la trascendentalità è operativa là dove ha luogo la proceduralità, e lo è effettivamente mediante e secondo i moduli della controfattualità. La controfattualità è una figura teoretica che, ad un tempo, scioglie molti dei nodi che si trovano nella riflessione di Habermas e provoca delle crepe nella medesima riflessione, crepe che lasciano intravedere dati problematici. È nostra opinione che J. Habermas non riesca a sottrarsi alla nostalgia della potenza probante della metafisica, dell’ontologia e della teologia. In realtà, le pretese di validità di queste branche del sapere sono idealità che stabiliscono rapporti certamente problematici con i risvolti fattuali dell’agire comunicativo, dell’integrazione sociale, delle dinamiche dell’intersoggettività, del sistema dei diritti, della lotta per il riconoscimento, ecc., ma sono talmente cariche di tensioni di ulteriorità e di spinte euristiche da non potere essere arginate. Il francofortese ne è talmente preso da pensare, addirittura, ad un impegno, da assumersi da parte della società secolarizzata, di tradurre
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in linguaggio secolare e, pertanto, in linguaggio universalmente fruibile i concetti fondamentali dei settori del sapere in questione. Non neghiamo, ed il nostro presente lavoro ne reca segni visibilissimi, di avere prestato molta attenzione ad alcune tematiche di grande importanza e gravide di moltissime implicazioni, che di quando in quando e con forza diversa abbiamo visto presentarsi sulla ribalta della nostra indagine sul pensiero di J. Habermas e delle nostre riflessioni su di esso. Si tratta, come è facile comprendere, delle grandi questioni della trascendentalità, dell’ontologia, specie del soggetto, della politica e della teologia, rispetto alle quali Habermas si sente preso da un forte interesse e da un grande senso di responsabilità. Queste tematiche sono molto importanti e ricche sia dal punto di vista teoretico generale che dal punto di vista habermasiano. L’importanza, di cui stiamo parlando, che si rivela, dal punto di vista teoretico generale, nell’attenzione che, ad esempio, la filosofia ha loro riservato e, dal punto di vista di Habermas, per le componenti contenutistiche e metodologiche, dal nostro punto di vista si pone per gli aspetti filosofici generali e per il confronto in corso con Habermas. Non mancano gli studiosi di parte teologica o ad essa sensibili ed interessati che sollevano difficoltà nei confronti della portata della considerazione in cui Habermas tiene le branche del sapere di cui ci stiamo occupando. Un primo esempio può essere G. Angelini, il quale, dopo aver affermato che Habermas, per un verso, assimila la fede alla religione e la interpreta come una figura della tradizione culturale e, per un altro verso, le riconosce il compito di fornire quelle risorse simboliche e quei valori, di cui la vita comune ha bisogno ed a cui la ragione non riesce a provvedere, osserva che si tratta di una impostazione debole, in quanto assegna al senso comune, che è un senso frantumato e disperso nelle esistenze e nelle prospettive dei singoli, il compito di mettere insieme e di offrire le risorse necessarie per articolare il senso di tutte le cose8. Se, dai punti di vista contenutistico e cognitivo, la fede conservasse, anche secondo Habermas, quanto la comunità credente ammette, le due parti del discorso habermasiano sarebbero ben equilibrate e, dunque, potrebbero reggersi in forza di una coerenza logica e di una unità armonica, ma non è così. Habermas non
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Cfr G. ANGELINI, La democrazia in questione, in Teologia 29 (2004) 1, 10.
è credente, e, di conseguenza, il suo discorso, affidando alla debolezza ed alla dispersione del singolare la responsabilità dell’universale, praticamente fa il passaggio de genere ad genus, un passaggio che logici e metafisici guardano con preoccupazione. Infatti, esso è proibito dalla logica formale e dalla metafisica, due settori fondamentali della filosofia dell’essere. Compierlo significa misconoscere la forza dell’evidenza dei primi principi, che sono oggetto di conoscenza intuitiva e per sé noti, e cadere in contraddizione. La razionalità habermasiana, però, non si radica sull’essere, ma attinge la sua consistenza e la sua forza alla proceduralità, all’intersoggettività ed al consenso, che non ricercano la sicurezza e la certezza della verità bensì quella di un gioco linguistico. Certo, anche Habermas parla di verità, ma si affretta a qualificarla come consensuale, finendo, però, con il non dire nulla sulla sua natura9. Un altro esempio può consistere in quanto alcuni autori dicono sull’etica habermasiana: mentre A.W.J. Houtepen sostiene che un’etica esclusivamente discorsiva ed una teoria fondata sul solo consenso mancano di plausibilità10, M. Rosati afferma che la Diskursethik è in Habermas il momento di massima incoerenza a motivo delle componenti deontologica e trascendentale che sembrano caratterizzarla11. Tuttavia, è difficile sottrarsi all’obbligo di dire che il mataetico, che in Habermas è innegabile e che è nascosto in ogni piega della tensione controfattuale che
9 A questo proposito, non ci sembra fuori luogo accennare al fatto che i teologi hanno difficoltà ad accettare una concezione della verità come agire comunicativo tra soli soggetti umani, concezione che dal loro punto di vista è fortemente riduttiva, e propongono di svilupparla, rendendola a loro dire più solida, mediante la dottrina teologica dell’autocomunicazione di Dio, che può essere intesa come l’agire comunicativo di Dio. Senza tale completamento, sostengono i teologi, la posizione habermasiana risulterebbe un neoilliminismo inadeguato e, per di più, intrappolato nel soggettivismo. Infatti, l’intersoggettività non avrebbe titoli e strumenti adeguati per offrire garanzie contro il soggettivismo, ma li avrebbe solo contro il soggettivismo individualistico, in quanto non potrebbe dare alcun valido contributo al superamento dell’idea che misura esclusiva della verità sia il soggetto umano, ancorché in condizione-situazione di intersoggettività. L’insistenza di Habermas sulle idee che non si dà evento al di fuori della comunicazione e che non c’è tensione se non linguistica è, a nostro sommesso parere, un pregiudizio. Ma, al di là della continua insistenza del francofortese su questa questione, ci sembra che la sua teorizzazione sia insufficiente. In ogni modo, il limite più grave della posizione habermasiana, al dire dei teologi, consiste nel fatto che la teoria consensuale della verità non dà alcuna spiegazione circa la natura della verità (cfr R. MANCINI, Editoriale all’edizione italiana, in E. ARENS (ed.), Habermas e la teologia, cit., 7-12). 10 Cfr A.W.J. HOUTEPEN, Dio, una domanda aperta, cit., 164 s. 11 Cfr M. ROSATI, Solidarietà e sacro, cit., 87.
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interessa in lungo ed in largo l’esistente, è l’ineliminabile componente trascendentale del discorso habermasiano. Accanto agli studiosi, che apprezzano l’attenzione rivolta da Habermas all’ontologico ed al teologico e che, nel contempo, si dichiarano insoddisfatti o perplessi a motivo della fragilità contenutistica dei frutti di una tale attenzione, se ne trovano altri, i quali si mostrano quantomeno infastiditi dai discorsi che vengono attribuiti a quello che essi stessi chiamano il secondo Habermas. Secondo costoro, il lungo impegno habermasiano sul fronte della formazione del pensiero contemporaneo e del dibattito sulle teorie che lo compongono, ha prodotto un Habermas dai due volti: il secondo volto è diverso dal primo, anzi, è notevolmente peggiorato, perché si presta a fare spazio all’ontologico, al deontologico, al trascendentale e, perfino, al teologico, che nella fase precedente della ricerca e della riflessione di J. Habermas, la fase della piena lucidità e della fervida creatività, era stato fortemente criticato e completamente eliminato dall’orizzonte del sapere razionale. Certo, niente di ciò che è nel mondo della natura e della storia è metafisicamente impossibile e, quindi, neppure ciò che si pensa del doppio volto di Habermas! A questa annotazione retorica ne aggiungiamo una ovvia: un autore, grande o piccolo che sia, può evolversi, può cambiare opinione, può contraddirsi, può involversi e, perfino, corrompersi. Ma, a parte queste considerazioni, non ci pare fuori luogo interrogarsi sui motivi che possono autorizzare a distinguere tra i diversi volti di un autore ed a pronunciarsi sul valore di ciascuna delle fasi del suo lavoro. Risposte plausibili possono sgorgare dalle variazioni intercorse nei temi trattati e nell’impegno profuso, dal variare della profondità e dell’acutezza, dall’affievolirsi del senso critico e della capacità di entrare in profondità negli argomenti e nelle questioni. E, se all’origine dell’esigenza di attribuire diversi volti ad un pensatore e di valutare negativamente la totalità del suo pensiero o solo di una parte di esso, si trovassero fattori molto lontani dall’argomento migliore e dalla capacità cogente della sua logica, e cioè interessi, precompressioni, pregiudizi e prospettive ideologiche? E per quale ragione, l’attenzione al trascendentale, all’ontologico ed al teologico, da parte di chi predilige percorsi procedurali, deve significare necessariamente involuzione o corruzione del corso del pensiero? E se si trattasse di esiti di un processo di riflessione segnato da domande fondative sempre più pressanti? E se ci trovassimo di fronte alla preoccupazione di ancorare a basi più solide di quelle di origine procedurale la pretesa di validità che
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“trascende il contesto” e che è attestata dal costante proporsi del controfattuale12? Abbiamo dimostrato, anche citando testi habermasiani, che il nostro francofortese mostra segni di “rimpianto” e di “nostalgia” per l’ontologico ed il teologico già dai primi anni ’70 del secolo XX. Ci sembra, dunque, di poter sostenere che gli studiosi che rimproverano a J. Habermas, attento come pochi alle esigenze della ragione, la caduta della tensione della razionalità, incorrono in un’aporia gravissima, e cioè incorrono nella confusione tra esercizio della razionalità ed imperialismo della ragione13, cui il Nostro si è sottratto gradualmente e con consapevolezza sempre maggiore. L’imperialismo in questione finisce, in ultima analisi, con il rinchiudere l’attore di ogni genere di Diskurs nella trappola del pregiudizio humeano, che riduce tutto a fenomonologia empirica ed a generalizzazioni funzionali. J. Habermas, invece, adotta un’epistemologia, che è sempre in tensione con l’ontologia e l’antropologia. La tensione non viene mai risolta. Ma, questo fatto, lungi dall’autorizzare la denunzia dell’intrusione di un dato spurio, impone che si dichiari che la tensione in questione appartiene alla struttura ed alla dinamica della riflessione habermasiana. Penetrando più addentro nella struttura del pensiero habermasiano, ci si viene a trovare di fronte ad altri interrogativi, non meno urgenti dei precedenti. Perché l’evento-discorso, l’evento-etico, l’evento-politico, ecc. in Habermas si lasciano identificare costantemente nell’ambito del trascendentale? Che bisogno c’è di ricorrere a termini equivoci, ambigui e quantomeno inadeguati, come ad esempio trascendentale, che più degli altri è in questione, se poi, a motivo del modello procedurale adottato, li si condanna alla “morte delle mille qualificazioni”? A noi sembra che Habermas abbia chiara l’idea che la carica semantica di concetti programmatici a lui tanto cari, come procedurale e pragmatico, non siano in grado di reggere il peso del discorso che egli vuole fare e, conseguentemente, ricorre a concetti, anch’essi programmatici, che tradizionalmente hanno saputo portarne, e con successo, tutto il peso. Molte cose sono cambiate nella storia in generale e nella storia del pensiero, ma non fino al punto di avere smarrito la memoria di idee forti e cariche di senso e di non poterne più sentire la
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Cfr M. COOKE, Mettere in discussione l’autonomia: la sfida femminista e la sfida per il femminismo, (1998), in R. KERNEY – M. DOOLEY (edd.), Questioni di etica, cit., 311 s. 13 Cfr P. VALADIER, Il problema dell’uomo personale nella filosofia politica contemporanea, in A. PAVAN – A. MILANO, Persona e personalismi, Napoli 1987, 424.
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nostalgia. Oltre questo, Habermas ci sembra molto più vicino a Kant di quanto egli stesso non voglia dare a vedere, soprattutto quando parla di trascendentalità e pone in essere la situazione concettuale adatta per evocare, come abbiamo detto supra, un postulato fondamentale della ragion pratica sotto la nuova forma di “postulato della ragione etico-comunicativa”. Ma, dato che di cognitivo e di constatativo non c’è che la proceduralità, che non va oltre la processualità dell’evento, riteniamo che non si possa sfuggire alla domanda se, al fine di porre in essere la struttura portante dell’impegnativo e multidirezionale discorso habermasiano, sia sufficiente una tesi autopoietica. Precedentemente abbiamo ricordato R. Mancini, il quale, pur tenendo conto del percorso della proceduralità habermasiana e del suo approdo all’intersoggettività, non fa alcuna concessione sul fronte del rischio della ricaduta nel soggettivismo, a motivo del fatto che questo, anche se evita le strettoie dell’individualistismo, non va affatto oltre l’idea che il soggetto umano sia misura esclusiva della verità. Secondo la nostra modesta opinione, J. Habermas non è né un convertito né uno sclerotico. Con ciò vogliamo dire che il nostro francofortese non è andato accostandosi sempre più alle prospettive ontologica e teologica perché ha condiviso i contenuti di livello metafisico in esse implicati, ma perché gli sono sembrate sorgenti di impostazioni metaetiche e di validi spunti di argomentazioni idonee a sostenere le pretese di validità del suo discorso. Non solo, ma il complesso dei dati presupposti dagli attori dell’argomentazione, a partire dalla ideale comunità linguistica anticipata, implica presupposti controfattuali che dischiudono prospettive di ulteriorità: oltre il provincialismo, oltre i confini di ogni genere e soprattutto oltre l’empirico, le sue limitazioni e le sue dispersioni nell’individuale, nel particolare e nell’effimero. Le prospettive di ulteriorità in Habermas hanno il compito di portare avanti il potenziale emancipatorio dell’illuminismo, quel potenziale che il progetto incompiuto del moderno non è riuscito a realizzare. Naturalmente, ciò non significa che l’incompiuto progetto del moderno non abbia ancora un futuro aperto. Se, però, le cose stanno così, si è autorizzati a parlare dell’ambivalenza della concezione habermasiana del moderno. Qualcuno si è chiesto se si possa parlare di un rapporto tra l’ambivalente prospettiva del moderno in Habermas ed il futuro promesso del regno di Dio, in quanto entrambe le visioni del futuro sono aperte. Il rapporto è visto nella coincidenza delle finalità della teoria dell’agire comunicativo di Habermas e nella concezione teologica del regno di Dio di provenienza teologica: entrambe
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le prospettive parlano di giustizia e di pace14. Più sobriamente, A. Wellmer vede la realizzazione del potenziale emancipatorio del moderno nelle nuove sintesi che apporterà in estetica, in etica e nella società15. Questo è il livello immanente in cui J. Habermas situa l’attuarsi di ogni evento e di ogni discorso ed il porsi di tutte le tensioni controfattuali. Ovviamente, egli non dispone, né sotto il profilo teoretico né sotto il profilo pratico, del punto archimedeo per risolvere tutti i problemi della società, tuttavia, le sue teorie non sono senza significato per gli sviluppi della ricerca della verità e della lotta per l’emancipazione16. La razionalità procedurale di J. Habermas è senza dubbio una figura affascinante di razionalità, in quanto mette in evidenza l’attività e l’efficacia della ragione sul piano della concretezza, facendocela quasi vedere mentre si svolge il processo razionale, solo che è costantemente assediata dalle contingenze. Habermas, che ne ha la piena consapevolezza, si affretta a precisare che non ne è travolta17. Qualcuno ha osservato che egli si esprime in questo modo perché è spinto, più che dalla forza delle argomentazioni, da un atto di fede nella ragione18. Quali che siano le considerazioni fatte e possibili, Habermas afferma la realtà e l’efficienza della razionalità. E questo è un fatto incontrovertibile. La razionalità, che egli intende salvare a qualunque costo, è veramente il fulcro teoretico della sua riflessione, ma si tratta di una razionalità formale, procedurale e comunicativa. L’assedio della contingenza, di cui si diceva, è dovuto a questi fattori. Tutto ciò si trasforma in problema quando si vuole fornire la giustificazione di una razionalità di tal fatta. Su questo fronte, la filosofia è chiamata ad esercitare responsabilmente la sua funzione, che deve essere critica, quando le teorie sono insufficienti a fornire le spiegazioni richieste, e deve essere propositiva, quando, in assenza di teorie valide o in presenza di qualche insufficienza in quelle in uso, deve crearne altre. Ora a noi, e non soltanto a noi, sembra che la teoria di Habermas non
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Cfr M. KNAPP, Gottes Herrschaft als Zukunft der Welt, cit., 666 s. Cfr A. WELLMER, Zur Dialektik von Moderne und Postmoderne. Vernunftigkeit nach Adorno, Frankfurt a.M. 1985, 28. 16 Cfr B. TUSCHLING, Die “offene” und die “abstrakte” Gesellschaft, cit., 27 s. 17 Cfr PPM 181. 18 Cfr V. POSSENTI, Nichilismo e metafisica. Terza navigazione, cit., 220. 15
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mantenga tutte le promesse fatte. I deficit più seri sembrano venire all’evidenza nel settore dei discorsi fondativi. Un po’ supra abbiamo parlato della controfattualità habermasiana e del fatto che essa è come una punta di iceberg che emerge nell’empirico, si sottrae al principio di costituzione storica, è capace di resistere a tutti gli attacchi dell’empirico ed imprime ritmi diversi alla storicità. A queste annotazioni aggiungevamo quella sullo status logico del controfattuale, che ci autorizza a dire che la carica racchiusa nella controfattualità habermasiana non è tutta di origine fattuale, nonostante che il suo autore insista nel ricondurla alla fattualità. Il punto preciso dell’insufficienza teoretica di Habermas ci sembra proprio questo. Nei confronti di tale insufficienza, come abbiamo già osservato, lo stesso Habermas si sente a disagio e cerca di ovviare con un atteggiamento retorico, che noi abbiamo interpretato come rimpianto e nostalgia, ma soprattutto con il ricorso alla trascendentalità, all’universalità, alla situazione linguistica ideale anticipata ed alla controfattualità. Solo che questi dati non possono spiegare la fattualità, se essi stessi hanno origine nella fattualità. Altri potrebbero parlare di circolo vizioso; noi diciamo soltanto che l’impossibilità di Habermas di mantenere tutte le sue promesse ha qui la sua origine. Insomma, non c’è via d’uscita, se non viene smascherato quel presuntuoso presupposto della modernità che consiste nel ritenere la trascendentalità storica frutto di autoincremento19. Eppure, basterebbe prendere atto della problematizzazione che viene provocata, nei campi del mondo della vita e del linguaggio ordinario, ad esempio dal fattore della controfattualità e dalle conseguenti riflessioni portate avanti dalle umane “risorse percettive, linguistiche e concettuali”, che si attivano come “mezzi conoscitivi”, per prendere atto di tensioni cognitive che, pur partendo dall’esperienza del mondo della vita e dal linguaggio ordinario, li trascendono, non sono ad essi riconducibili e pongono l’istanza di una “ontologia epistemica”, che, ancorché inizialmente finita, si volge alla realtà intera20. Una tale realtà non è la totalità, che è un sistema chiuso, bensì l’infinito, che è un sistema aperto, un sistema verso cui la razionalità si dischiude. Questi dati, che ci fanno pensare che il post-metafisico Habermas non sia un a-metafisico, risentono delle conseguenze della rottura del rapporto 19 Cfr C. VIGNA, Sostanza e relazione. Una aporetica della persona, in V. MELCHIORRE (ed.), L’idea di persona, cit., 201. 20 Cfr G.L. BRENA, Metafisica o post-metafisica?, cit., 275.
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intenzionale tra pensiero ed essere e dell’abbandono del linguaggio dell’essere, che fornisce l’orizzonte globale entro cui comprendere le cose e farle oggetto di discorso. L’essere viene subordinato al principio rappresentante della coscienza, che così si propone come fundamentum veritatis. La verità si pone all’interno del consenso intersoggettivo. La razionalità, separata com’è dall’essere ed essendo stata resa formale-procedurale e comunicativa, non riesce a liberarsi dal costante assedio della contingenza. La conoscenza è stravolta dal transito dal paradigma “rapporto soggetto-oggetto” al paradigma “intesa tra soggetti”. L’universale si riduce all’universalizzazione, in quanto sgorga dal confronto intersoggettivo e dal dibattito dell’opinione pubblica. L’etica è fortemente indebolita perché, nonostante che tenda a risolvere in sé il teoretico, si riduce a responsabilità argomentativa e ad etica pubblica. L’intersoggettività porta al di fuori dei confini dell’individualità ma non del soggettivismo. Tutti questi fattori di indebolimento attestano l’indebolimento della ragione, ma discendono dall’indebolimento della tematizzazione dell’essere. Eppure, J. Habermas, che, con l’adozione della prospettiva postmetafisica e della detrascendentalizzazione, rivela l’intenzione di lasciarsi condurre da due imperativi: liberarsi da sudditanze scomode e seguire piste lontane da quelle in cui si trovano le garanzie offerte da un qualche fondamento ultimo21, non sembra riuscire a sottrarsi del tutto al fascino delle garanzie provenienti dal fondamento in questione. La ragione di ciò è nel fatto che la proceduralità habermasiana non è un pragmatismo scettico e si lascia interrogare da domande ineliminabili. Conseguentemente, non ci sembra corretta la sentenza stroncante pronunziata circa il pensiero habermasiano sulla base di dati considerati segni della permanenza in esso di un persistente atteggiamento metafisico, di taluni residui dogmatici e di un essenzialismo etico mascherato, e valutati pericolosi depositari di violenza e totamente estranei alla nostra epoca, giudicata indiscriminatamente nichilista ed incapace di pervenire ad un qualsiasi fondamento ultimo22. Semmai, bisognerebbe rimproverare ad Habermas di non andare oltre i rimpianti e le nostalgie e di non tentare di completare la sua ricerca approfondendo pienamente la portata teoretica del fattore “controfattualità” e riconoscendolo come un dato che, emergendo nell’empirico, dà indica21 Cfr P. VALADIER, Il problema dell’uomo personale nella filosofia politica contemporanea, cit., 420. 22 Cfr G. VATTIMO, Nichilismo ed emancipazione, cit, 39, 57 s.
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zioni abbastanza eloquenti circa tracce di ulteriorità che non possono essere ignorate. In particolare, la trascendentalità e l’anticipazione dell’idealità potrebbero far pensare a leggi del pensiero. L’anticipazione escluderebbe la totale riduzione all’empirico ed al procedurale di ciò che ha portata e funzione fondative; la trascendentalità, oltre a non escludere quanto è richiesto dall’anticipazione dell’idealità, includerebbe nella produzione della verità sia la partecipazione della soggettività, sia essa individuale che intersoggettiva, sia il processo del “farsi”. In tal modo, tutte le interessanti riflessioni del nostro francofortese sulla conoscenza, l’antropologia, l’etica, la storia, la politica, ecc. avrebbero l’opportunità di vedere molto meglio garantita la loro capacità di offerta di senso all’interno del discorso. Un tale atteggiamento compoterebbe la traduzione in discorso anche di ciò che nel discorso non è detto esplicitamente ed ha un ruolo di trascendimento. La responsabilità etica del discorso, andando oltre le mediazioni culturali, linguistiche, sociali, politiche, ecc., potrebbe portare fino alla profondità sostanziale dell’uomo23 e potrebbe aprire a prospettive ulteriori. Forse è questa la ragione per la quale si può anche fare un’asserzione sorprendente: «L’essence du discours est prière»24. Ma queste sono parole di E. Lévinas e non di J. Habermas.
23 Cfr C. CALTAGIRONE, La comunità dei parlanti. L’istanza etica del «parlare» secondo Jürgen Habermas, Caltanissetta – Roma 2005, 234 s. 24 E. LÉVINAS, Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Paris 1991, 20.
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NOTA BIBLIOGRAFICA
Per la bibliografia aggiornata degli scritti di e su J. Habermas cfr il sito www.habermasonline.org. Il nostro resoconto bibliografico concerne soltanto l’area tematica del presente lavoro.
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INDICE DEI NOMI Abendroth W. 16 Abignente A. 334 Adorno Th.W. 16, 20, 42, 45, 52, 61, 87, 155, 156, 206, 256, 262, 281, 323, 327, 336, 339 Agazzi E. 34, 121, 255, 327, 328, 329, 330, 334, 335, 337, 339, 345 Albert H. 98 Alexander J. 334 Angelini G. 318, 334 Apel K.O. 10, 11, 16, 22, 40, 44, 63, 96, 99, 100, 109, 110, 118, 122, 126, 137, 141, 142, 143, 153, 186, 218, 225, 243, 253, 265, 267, 289, 308, 329, 331, 334, 335, 336, 341, 342, 345 Arendt H. 16, 49, 167, 173, 174 Arens E. 11, 12, 42, 72, 77, 79, 89, 224, 225, 266, 275, 276, 277, 281, 283, 319, 335, 340, 342, 344 Arnason J.P. 335 Austin J.L. 10, 21, 36 Auwärter M. 37, 329, 335 Bacone F. 11 Baier K. 98 Balkenhol N. 66, 336 Bartolomei Vasconcelos T. 99, 331, 335, 336, 337, 345 Baumann R. 335, 336 Baynes K. 110, 111, 336 Beck E. 52, 336 Belardinelli S. 125, 131, 336 Benedetto XVI 268 Benhabib S. 110, 336 Benjamin W. 16 Berger P. 162 Berlusconi S. 51 Bernstein R.J. 110, 130, 131, 336, 343 Bloch E. 16, 120, 232, 304, 305, 338 Böckenförde E.W. 284 Borradori G. 40, 90, 98, 198, 296, 333, 336 Bozzetti M. 258, 336
Brena G.L. 80, 82, 324, 336 Brusa Zappellini G. 21, 54, 77, 95, 231, 240, 255, 261, 336, 339, 342 Bubner R. 99, 100, 110, 122, 142, 143, 198, 232, 249, 265, 331, 335, 336, 345 Calloni M. 99, 331, 335, 337, 345 Caltagirone C. 326, 337 Carmagnola F. 21, 54, 59, 77, 95, 231, 232, 240, 255, 261, 334, 336, 337, 339, 342 Cartesio vd. Des Cartes R. Ceppa L. 136, 155, 170, 253, 260, 299, 300, 327, 332, 333, 337 Chiodi G.M. 15, 337, 338, 342, 344 Cohen J. 9, 337 Conigliaro F. 78, 164, 293, 337 Cooke M. 254, 321, 337 Cortella L. 72, 84, 93, 114, 119, 125, 204, 236, 239, 240, 242, 245, 338 Créau A. 52, 338 Crespi F. 338 Cunico G. 120, 232, 304, 305, 338 Dallmayr F. 63, 245, 338 Darwin Ch. 259 Den Brink van B. 83, 251, 252, 332 Derrida J. 10, 40, 333, 336 Descartes R. 24, 60, 225, 255, 257, 304, 310 Dewey J. 55 Donolo C. 329 Dooley M. 85, 122, 125, 179, 212, 254, 321, 332, 337, 339, 341 Dubiel H. 338 Durkheim E. 20, 181, 233, 234, 283 Ebeling H. 259, 338, 339 Ferrara A. 13, 91, 101, 111, 130, 135, 190, 209, 338, 343 Ferraro A. 21, 54, 77, 95, 231, 240, 255, 261, 334, 336, 337, 339, 342 Feuerbach L. 47, 259, 271, 285 Fiaschi G. 15
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Fichte J.G. 16, 17, 18, 53, 54, 256 Fistetti F. 38, 225, 339 Foucault M. 42, 258 Frazer 110 Freud S. 259, 271 Fürstenberg Fr. 45, 48, 83, 327, 341, 342 Gadamer H.G. 10, 16, 22, 328, 329, 333, 339, 343 Gatti R. 15, 337, 338, 342, 344 Gehlen A. 16, 44 Geiss I. 14, 339 Glotz P. 42, 225, 331, 344 Greisch J. 85, 125, 339 Grice R. 98 Gripp H. 339 Gulli U. 50, 339 Günther K. 196 Habermas J. 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 170, 171, 172, 173, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 189, 190, 191, 192, 193, 194, 195, 196, 197, 198, 199, 201, 202, 203, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 213, 214, 215, 216, 217, 218, 219, 220, 221, 223, 224, 225, 226, 227, 228, 229, 230, 232, 233, 234, 235, 236, 237, 238, 240, 242, 243, 244, 245, 246, 247, 248, 249, 250, 251, 252,
348
253, 254, 255, 256, 257, 258, 259, 260, 261, 262, 263, 264, 265, 266, 267, 268, 269, 270, 271, 272, 273, 274, 275, 276, 278, 279, 280, 281, 282, 283, 284, 285, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 292, 293, 294, 295, 296, 297, 298, 299, 300, 301, 303, 304, 305, 306, 307, 308, 309, 310, 311, 312, 313, 314, 315, 316, 317, 318, 319, 320, 321, 322, 323, 324, 325, 326, 327, 328, 329, 331, 332, 333, 334, 335, 336, 337, 338, 339, 340, 341, 342, 343, 344, 345 Haller M. 27, 274 Hegel G.F.W. 16, 18, 52, 99, 122, 142, 146, 155, 225, 227, 228, 229, 230, 232, 246, 256, 259, 265, 274, 282, 285, 289, 329, 331, 333, 338, 343 Heidegger M. 16, 246, 269, 311, 338 Heinrich D. 257, 258, 259, 336, 339 Held D. 110, 232, 336, 341, 344 Henrich D. 278 Hobbes Th. 27, 134, 259 Höffe O. 77, 339 Honneth A. 9, 42, 47, 61, 84, 87, 88, 189, 253, 329, 331, 334, 338, 339 Horkheimer M. 16, 21, 156, 292, 293, 298 Horster D. 12, 16, 340 Horstmann R.P. 339 Houtepen A.W.J. 80, 271, 319, 340 Humboldt von W. 33, 54, 146, 232 Hume D. 11 Husserl E. 56, 60 James W. 55 Jaspers K. 16, 75 Joas H. 84, 88, 331, 334, 339 Junker-Kenny M. 83, 340 Kaiser H.R. 60, 340 Kant I. 11, 15, 16, 17, 53, 56, 60, 62, 99, 101, 111, 121, 122, 127, 142, 193, 214, 225, 226, 227, 232, 242, 245, 254, 255, 256, 265, 271, 309, 322, 331, 336, 337, 338, 341, 342, 344 Keil G. 59 Kerney R. 85, 122, 125, 179, 212, 254, 321, 332, 337, 339, 341
Kierkegaard S.A. 52, 55, 248, 278, 285, 336 Kirsch E. 37, 329, 335 Knapp M. 76, 85, 323, 340 Knödler-Bunte E. 9, 47, 87, 189, 329 Koch Fr. 52, 340 Kojève A. 258 Kosíc K. 264, 340 Lämmert E. 42, 225, 331, 344 Langthaler R. 247, 340 Lévinas E. 326 Linkenbach A. 52, 162, 163, 264, 340 Locke J. 11 Lorenzen P. 98 Löwenthal L. 16 Löwith K. 16 Lubasz H. 69, 256, 329 Lübbe H. 35 Luhmann N. 10, 23, 40, 45, 49, 56, 57, 58, 59, 65, 67, 73, 74, 75, 78, 79, 83, 84, 88, 114, 116, 120, 256, 265, 328, 329, 333, 340 Maffettone S. 26, 49, 77, 304, 340 Malusa L. 338, 340 Mancini R. 11, 79, 89, 224, 266, 280, 281, 319, 322, 340 Marcuse H. 16, 21, 69, 75, 165, 166, 256, 329 Marini G. 15, 337, 338, 342, 344 Marx K. 16, 17, 19, 20, 50, 54, 56, 110, 151, 152, 153, 154, 232, 259, 285, 327, 335, 339, 344 Marzocchi V. 98, 100, 109, 135, 218, 335, 341 Mastropaolo A. 96, 330 Mauro L. 338, 340 Maus H. 45, 48, 83, 134, 327, 341, 342 McCarthy Th. 77, 110, 122, 130, 189, 253, 334, 338, 339 341 Mead G.H. 10, 19, 20, 44, 55, 145, 146, 161, 233, 234 Melchiorre V. 307, 324, 344 Meriggi M.G. 341 Merleau- Ponty M. 258 Metz J.B. 280, 299, 301 Meyer T. 231, 341
Michelman F.I. 91, 92, 341 Milano A. 321 Mitscherlich A. 16 Moltmann J. 280 Moroni E. 213, 341 Morresi E. 207, 341 Muratore S. 267 Nietzsche F. 72, 246, 259, 271, 338 Niquet M. 242, 341 Nozick R. 112, 114 Nugnes A. 85, 135, 342 Offe Cl. 60, 253, 334, 338, 339, 340 Pagani P. 240, 263, 342 Pannenberg W. 280 Parsons T. 49 Pauly W. 11, 342 Pavan A. 321 Peirce C.S. 11, 118, 276, 308 Petrucciani S. 109, 110, 126, 138, 185, 186, 342 Peukert H. 274, 275, 276, 299, 342 Piaget J. 163, 234 Pilot H. 48, 164, 342 Pinzani A. 121, 342 Plessner H. 16, 258 Popper K. 10, 25, 45, 327 Possenti V. 63, 140, 141, 323, 342 Privitera W. 12, 21, 40, 54, 77, 85, 95, 175, 181, 209, 231, 240, 255, 261, 334, 336, 337, 338, 339, 342 Prodromo R. 129, 343 Putnam R.T. 113, 119 Racinaro R. 343 Rasmussen D. 110, 343 Ratzinger J. 83, 268, 269, 284, 294, 296, 333, 334, 340, 343, 344 Rawls J. 10, 15, 83, 91, 92, 93, 111, 112, 114, 145, 247, 269, 274, 284, 294, 296, 297, 333, 336, 343 Ricci F. 261, 265 Roderick R. 15, 32, 343 Romano B. 311 Rorty R. 10, 110, 247, 343 Rosati M. 44, 85, 110, 186, 232, 283, 292, 299, 300, 301, 319, 343 Rousseau J.J. 52, 53
349
Ruini C. 281, 282, 343 Rusconi G.E. 84, 232, 233, 234, 235, 236, 260, 308, 343 Rüsen J. 42, 225, 331, 344 Sapir E. 33, 344 Schnädelbach H. 59 Scholem G. 16 Schröter K. 37, 329, 335 Schüssler Fiorenza F. 344 Schütz A. 16, 258 Schwemmer O. 98 Seel M. 130 Simon-Schaefer R. 344 Singer M.G. 98 Sölle D. 280 Spaemann R. 35 Spengler T. 69, 256, 329 Tarquini A. 344 Taylor C. 107, 108, 332, 333, 344 Theunissen M. 196, 332 Thompson J.B. 110, 232, 336, 341, 344 Topitsch E. 176 Totaro F. 144, 344 Trupiano A. 344 Tugendhat E. 99, 100, 110, 122, 142, 143, 148, 265, 331, 335, 336, 344, 345 Tuschling B. 25, 162, 323, 344 Valadier P. 321, 325 Vattimo G. 233, 325, 344 Veca S. 15, 344 Vigna C. 63, 84, 91, 111, 125, 141, 144, 204, 240, 263, 307, 324, 338, 342, 344 Violante P. 293 Weber M. 83, 134, 163, 166, 174, 234, 271, 275 Wellmer A. 87, 99, 100, 110, 122, 142, 143, 253, 265, 323, 331, 334, 335, 336, 338, 339, 345 White S.K. 110, 111, 345 Widmann A. 9, 47, 87, 189, 329 Wilkiewcz L.A. 67, 345 Willms B. 13, 345 Wittgenstein L. 16, 82, 123 Wolf U. 99, 100, 110, 122, 142, 143, 265, 331, 335, 336, 345
350
Wolin R. 17, 230, 334 Zimmerli W.C. 344 Zolo D. 108, 191, 221, 222, 274, 345
INDICE
Sigle degli scritti di J. Habermas più frequentemente citati Criteri di citazione delle opere di J. Habermas . .
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5 6
PREMESSA
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7
CAPITOLO I FONTI DEL PENSIERO DI J. HABERMAS .
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15
CAPITOLO II PRASSI COMUNICATIVA: FENOMENOLOGIE E FINALITÀ 1. Filosofia linguistica . . . . 2. Comunità di comunicazione . . . 3. Intersoggettività . . . . 4. Intesa . . . . . . 5. Verità . . . . . .
. . . . . .
. . . . . .
27 32 40 51 64 71
CAPITOLO III PRASSI COMUNICATIVA: IDEALITÀ . . 1. Razionalità. . . . . 2. Universalità . . . . 2.1. Gli ambiti dell’universalità . . 2.2. Difficoltà dell’universalità habermasiana 2.3. Situazione linguistica ideale . .
. . . . . .
. . . . . .
. 82 . . . .
81
CAPITOLO IV PRASSI COMUNICATIVA: ETICA DEL DISCORSO 1. Il “giusto” ed il “bene” . . . 2. Morale e diritto . . . 3. Un “concetto ristretto di morale” . . 4. Il “punto di vista morale” . . .
. . . . .
. . . . .
. . . 140 143
121 126 133
CAPITOLO V CRITICA DELL’IDEOLOGIA
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151
. . . . . .
. . . . . .
. . . . . .
. . . . . .
159 161 164 168 175 177
.
.
CAPITOLO VI TEMI POLITICI: LO SPAZIO DEL DISCORSO E DELLA COMUNICAZIONE . . 1. La società . . . 2. Il potere . . . . 3. Il diritto . . . . 4. La democrazia . . . 4.1. Democrazia deliberativa .
93 96 109 112
351
4.2. Democrazia e diritto . 4.2.1. Democrazia e Stato di diritto 4.2.2. Democrazia e diritti . 4.2.3. Democrazia e diritti umani . 4.3. Democrazia e libertà . 4.4. Democrazia e tolleranza 5. La sfera pubblica . . 6. Verso una società cosmopolitica .
. . . . . . .
. . . . . . . .
. . . . . . . .
. . . . . . . 212
181 182 187 190 193 198 205
CAPITOLO VII FASCINO E TENTAZIONE DELL’ULTERIORITÀ . . . . 1. Trascendentalità . . . . . . . . 1.1. Il discorso habermasiano sulla trascendentalità . . 1.2. Settori della trascendentalità habermasiana . . 1.3. Caratteristiche della trascendentalità habermasiana 2. Metafisica e post-metafisica . . . . . 2.1. Le ragioni “oggettivamente ragionevoli” della metafisica e le ragioni “soggettivamente ragionevoli” della post-metafisica 248 . . . . . 2.2. Ontologia del soggetto? . . . . . . 2.3. Nostalgia? . 3. Religione . . . . . . . . . 3.1. Interpretazioni del fenomeno religioso-teologico . . 3.2. Ambivalenza dell’interpretazione habermasiana . . . . 3.3. Il riferimento all’ulteriorità . . . . 3.4. Funzione integrativa della religione . . . . . 3.5. Religione e agire comunicativo . . 3.6. Religione, Stato liberale, pluralismo e tolleranza . . . . 3.7. La “trascendenza dall’interno”
255 265 267 269 276 283 289 292 294 298
CONCLUSIONE
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303
NOTA BIBLIOGRAFICA
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327
INDICE DEI NOMI
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347
352
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223 224 225 237 244 247
.
Synaxis «NUMERI MONOGRAFICI» Synaxis XIII/1 - 1995
«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 Synaxis XIV/1 - 1996
«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgico-celebrative S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa Synaxis XV/2 - 1997
«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero
S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale Synaxis XVI/2 - 1998
«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in SiciliaC. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare
Synaxis XVII/1 - 1999
«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione Synaxis XVII/2 - 1999
«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna Synaxis XVIII/2 - 2000
«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo)
N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia Synaxis XIX/2 - 2001
«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli
Synaxis XX/2 - 2002
«Chiesa locale e istituti di vita consacrata» F. CONIGLIARO, Il presbiterio: un ministero per la Chiesa locale R. FRATTALLONE, I presbiteri “religiosi” e la pastorale diocesana A. NEGLIA, Il carisma degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica nella Chiesa locale C. TORCIVIA, Partecipazione dei membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica al progetto pastorale diocesano Synaxis XX/3 - 2002
«Per una spiritualità del Vaticano II» P. HÜNERMANN, Esiste una spiritualità del Vaticano II? G. ALBERIGO, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II G. ALBERIGO, Lo spirito e la spiritualità del Vaticano II Synaxis XXIII/1 - 2005
«Dimensioni della ritualità» G. RUGGIERI, Introduzione A. COCO, Riflessioni su storia, struttura e rito nella cultura del secondo Novecento R. OSCULATI, Rito ed etica. Per una lettura dell’evangelo di Marco B. FRONTERRÉ, Il tema del sacrificio nella prima agiografia martiriale (II-III sec.). Appunti per una storia della morte nel cristianesimo antico A. LONGHITANO, Ritualità e dinamica del potere nella festa di S. Agata a Catania G. ZITO, Ritualità e conflitti sociali nella festa di S. Agata a Catania dopo l’Unità A. GRILLO, La ritualità della penitenza ecclesiale. intrecci e interferenze tra dimensione rituale, giuridica e teologica della esperienza del perdono R.M. MONASTRA, Fede e Bellezza e la confessione romantica A. ROTONDO, Un cuore pensante… balsamo per molte ferite
Collane di Synaxis «QUADERNI DI SYNAXIS» AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito) AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190 AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280
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