Quaderni synaxis numero speciale 5

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MEMORIA CONCILIARE: LE SCELTE DEL VATICANO II MEMORIA CONCILIARE: LE SCELTE DEL VATICANO II

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QUADERNI DI SYNAXIS

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QUADERNI DI SYNAXIS NUMERO SPECIALE 5

NS 5 Pubblicazione realizzata con il contributo Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali, Ambientali, Pubblica Istruzione.

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EDIZIONI GRAFISER TROINA

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA

Direttore: Maurizio Aliotta Direttore responsabile: Salvatore Consoli Coordinatore di redazione: Francesco Aleo Segretario di redazione: Giuseppe Spedalieri


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QUADERNI DI SYNAXIS NUMERO SPECIALE 5


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In copertina: Giovanni XXIII, particolare del portone in bronzo della Basilica di San Pietro in Vaticano.


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MEMORIA CONCILIARE: LE SCELTE DEL VATICANO II Atti dei Seminari interdisciplinari svolti presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania il 12 dicembre 2012 e l’8 aprile 2014

a cura di Maurizio Aliotta

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO – CATANIA EDIZIONI GRAFISER – TROINA 2016


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SOMMARIO

INTRODUZIONE .

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CONCILIO E LITURGIA: RECEZIONE E PROSPETTIVE DELLA SACROSANCTUM CONCILIUM (Matias Augé cmf) . . . . . . . . 17 La distinzione tra la Costituzione Sacrosanctum concilium e la riforma liturgica è in sé legittima e anche necessaria. Tuttavia, la loro distinzione non deve portare alla dissociazione. Tra la SC e la riforma liturgica vi è distinzione ma anche continuità. Ecco perché si può affermare che l’idea di ressourcement è la forza centrale della riforma liturgica e costituisce ciò che differenzia la riforma liturgica del Vaticano II dalle riforme della liturgia promosse nel periodo anteriore al Vaticano II. The distinction between the Constitution Sacrosanctum Concilium and the liturgical reform it is in itself legitimate and even necessary. However, this distinction must not lead to dissociation. SC and liturgical reform they are distinct, but there is also continuity. It can be said the ressourcement’s idea is the strength of the liturgical reform. That’s the difference between the liturgical reform of Vatican II and the liturgical reforms before Vatican II.

Seminario interdisciplinare del 12 dicembre 2012 “Nodi emergenti dei grandi temi della costituzione conciliare Dei Verbum” LA COSTITUZIONE DOGMATICA “DEI VERBUM”. ASPETTI BIBLICI (Attilio Gangemi) . . . . . . . . 33 Questo intervento desidera proporre qualche riflessione sulla costituzione conciliare Dei Verbum, soprattutto in relazione alla Parola di Dio che costituisce il diretto oggetto del documento conciliare. La frase iniziale, con cui esso si apre, descrive la duplice attività fondamentale della chiesa: ascoltare (audiens) religiosamente la Parola di Dio e proclamarla (proclamans) fedelmente al mondo. La Scrittura descrive


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il disegno di Dio, preannunziato per mezzo dei profeti nell’AT, realizzato in Cristo nel NT. Gesù stesso è la Parola di Dio, non solo incarnata, ma anche, glorificata sulla croce, divenuta Pane (Gv 6). Attraverso la Scrittura, proclamata soprattutto in assemblea liturgica, Dio stesso, in Cristo, parla; sono necessarie allora l’ascolto e l’accoglienza nella fede. Se così accolta, la Parola di Dio promuove una intensità di vita cristiana e determina la crescita della chiesa, fino alla piena statura di Cristo. This intervention would like to propose some reflections on the conciliar Constitution Dei Verbum, especially related to the Word of God which is the direct subject of the conciliar document. The document’s first phrase describes the dual vital church activities: listening (audiens) religiously to the Word of God and proclaim it (proclamans) faithfully to the world. Scripture describes God's project, foretold by the prophets in the Old Testament accomplished by Christ in the NT. Jesus himself is the Word of God, not only embodied, but became Bread (Jn 6). Through Scripture God Himself speaks in Christ; then they need to listen and welcome in faith the Scriptures. The Word of God promotes an intensity of Christian life and determines the growth of the church to the full stature of Christ. IL RIFERIMENTO AI PADRI DELLA CHIESA IN DEI VERBUM (Francesco Aleo) . . . . . . . .

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Il presente contributo intende porre il problema del rapporto che lega la Scrittura alla Tradizione, testimoniata dai Padri, nella Dei verbum. Non si fa fatica a scorgervi il passaggio che era già avvenuto negli ambienti teologici degli anni precedenti al Concilio Vaticano II, da una “Teologia delle conclusioni” ad una “Teologia delle fonti”. I Padri così non sono più astratti dicta probantia ma guide e testimoni del cammino della Chiesa nella storia. The present contribution intend to put the question of a relation between Holy Scriptures and Tradition into Father’s works and into Dei verbum. There is a passage from a “Theology of conclusions to a “Theology of sources”. The Church’s Fathers aren’t dicta probantia, but guides and witnesses of the Church’s way in the history. PENSARE OGGI LA TRADIZIONE (Nunzio Capizzi) . . . . . . . . 85 Il contributo, nel dialogo con l'esegeta Thomas Söding, propone una lettura teologico-fondamentale della relazione tra Gesù e la Chiesa, sulla base della predicazione del Regno di Dio, fatta da Gesù di Nazaret. Prendendo le mosse dai numeri 3 e 5 della costituzione Lumen gentium, le riflessioni si concentrano su un esame di coscienza che, ultimamente, verte sulla fede, la speranza e la carità. Le tre virtù, infatti, costituiscono il nucleo per una verifica che il popolo del Regno di Dio è continuamente chiamato a fare, per non correre il rischio di anteporre altro al Fondamento posto da Dio (cfr. 1Cor 3,11-15).


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The present contribution, in dialogue with the exegete Thomas Söding, suggests a fundamental theological reading of the connection between Jesus and Church on the basis of the Kingdom’s preaching made by Jesus of Nazareth. Beginning from LG 3 and 5, the considerations look at the examination of one’ conscience that recently concern Faith, Hope and Charity. The three virtues, in fact, are the core for an exam made necessarily by the God’s people, because exists alone a Foundation laid by God (cfr. 1Cor 3,11-15). SULL’ISPIRAZIONE E SULLA VERITÀ DELLA SACRA SCRITTURA IN DEI VERBUM 11. ELEMENTI DI ANALISI STORICA E TEOLOGICA (Adriano Minardo) . . . . . . . . 95 L’articolo espone sinteticamente la dottrina dell’ispirazione e della verità della Bibbia secondo la Costituzione dogmatica sulla Rivelazione Dei Verbum (n. 11). In particolare, nella prima parte, si offre un resoconto storico e teologico della dottrina dell’ispirazione e dell’inerranza; nella seconda parte, alla luce della complessa vicenda conciliare che ha condotto alla redazione della Dei Verbum, ci si sofferma sul rimando cristologico del principio di ispirazione e verità, quale sigillo di un più alto significato storico-salvifico. This article summarises the doctrine of inspiration and truth of the Bible according to the Dogmatic Constitution on divine Revelation Dei Verbum (n. 11). In the first part, it offers a historical and theological report of the doctrine of inspiration and inerrancy; in the second part, based on the complex questions that led to the drafting of Dei Verbum, we focus on the christological reference to the principle of inspiration and truth in its soteriological meaning. LA RICEZIONE DELLA DEI VERBUM (Carmelo Raspa) . . . . . . . . 127 L’articolo presenta modi e luoghi di ricezione delle istanze avanzate dalla DV: l’esegesi, che, sottolineando la validità del metodo storico-critico, ne colma i vuoti, aprendosi a nuove prospettive di studio sul testo sacro; la catechesi, rinnovata seguendo percorsi di narrazione biblica; l’omiletica, parte del ministero della Parola; le traduzioni del testo della Bibbia, al fine di renderne fruibile il messaggio ai più. The article presents ways and places for receipt of requests made by DV: exegesis, which, emphasizing the validity of the historical-critical method, it fills in the gaps, opening up new perspectives on the study of the sacred text; catechesis renewed following paths of biblical narrative; homiletics, part of the ministry of the Word and the translations of the text of the Bible, in order to make the message accessible to most people.


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Seminario interdisciplinare del’8 aprile 2014 “La costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium” SACRAMENTO E SACRAMENTI IN SACROSANCTUM CONCILIUM: L’APPORTO DEI PADRI DELLA CHIESA (Francesco Aleo) . . . . . . . .

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La relazione tra sacramento e sacramenti viene esaminata a partire dalla nozione e dal concetto di sacramento e di sacramentalità, prima in Lumen gentium, quindi nei Padri, infine in Sacrosanctum concilium, al fine di valutare l’incidenza dei testi patristici e l’apporto della riflessione teologica e liturgica dei Padri, in ordine ad una visione ecclesiologica che parte, superandole, da quelle di Cipriano di Cartagine e di Agostino d’Ippona. The relation between sacrament and sacraments, is considered from the knowledge and the idea of sacrament and sacramental, before in Lumen gentium, then into the Fathers of Church, last in Sacrosanctum concilium. So, is valued the patristic texte’s effect and the bringing of theological and liturgical reflexion of the Fathers, for an ecclesiological vision, depending on but going over those of Cyprian of Carthage and Augustine of Hyppo. L’ECCLESIOLOGIA DELLA SC NEL QUADRO DEL MAGISTERO CONCILIARE (Pietro Scardilli) . . . . . . . 173 SC forma, con le altre tre costituzioni, quello che è stato chiamato il «quadrilatero dell’architettura conciliare». È però legittimo il tentativo di scorgere una correlazione e una certa interdipendenza tra il primo documento e i successivi che vennero promulgati dal Vaticano II, almeno per quanto riguarda la connessione tra riforma della liturgia e riforma ecclesiale. Tutta la teologia della liturgia è in SC, modulata da un sottofondo ecclesiologico, e le due realtà — liturgia ed ecclesiologia — sono profondamente congiunte. Tale corrispondenza consente alla costituzione liturgica di sintetizzare e anticipare tutti i grandi temi successivi che hanno contribuito, ciascuno a suo modo, alla riforma generale della chiesa: la natura e la missione della chiesa (LG), la parola di Dio nella vita della chiesa e del cristiano (DV), il dialogo col mondo contemporaneo (GS). SC forms, with the other three constitutions, what has been called the «quadrangle of the Council architecture to». However, it is legitimate to attempt to find a correlation and a degree of interdependence between the first and subsequent documents that were promulgated by the Vatican, at least regarding the connection between the reform of the liturgy and ecclesial reform. All theology of the liturgy is in SC, modulated by an ecclesiological background, and the two realities — liturgy and ecclesiology — are deeply connected. This correspondence allows the liturgical constitution to synthesize and anticipate all the great themes that later contributed, each in its


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own way, the general reform of the church: the nature and mission of the church (LG), the Word of God in the life of the church and of the Christian (DV), the dialogue with the contemporary world (GS). LA RICEZIONE DELLA SACROSANCTUM CONCILIUM NEL CODEX JURIS CANONICI DEL 1983 (Giuseppe Gurciullo). . . . . . . . 191 La Canonistica si qualifica come scienza ricettiva verso l’operato dei teologi e, al tempo stesso, di mediazione a favore della vita pastorale, poiché è uno strumento tecnico teso a fornire una chiara normativa funzionale in vista dell’efficacia missionaria della Chiesa. Anche se sono passati diversi anni dalla Nota pastorale della CEI sul rinnovamento liturgico in Italia, probabilmente, alcuni nodi irrisolti possono ancora promuovere una nuova e fruttuosa riflessione da parte dei teologi, liturgisti e pastoralisti. The Canonistic as receptive science toward the theologician’s action and as mediation’s science for pastoral life, because is a technical instrument for a functional normative toward the Church’s missionary efficacy. After the CEI’s Pastoral note about the liturgical renewal in Italy, probably, some knots can promote a new and profitable reflection of theologocians, liturgists and pastoralists. LA LITURGIA: SORGENTE E NORMA DELL’AGIRE MORALE SECONDO LA SACROSANCTUM CONCILIUM (Salvatore Consoli) . . . . . . . . 207 Mentre la manualistica ha presentato i sacramenti come mezzo per adempiere i comandamenti e “doveri” essi stessi precisati dal diritto, il ConcilioVaticano II, ritornando alla concezione biblico-patristica, presenta la liturgia e, in modo particolare, i sacramenti come «fonte» dell’etica cristiana, i fedeli cioè debbono esprimere nel comportamento ciò che sono divenuti grazie ai sacramenti ricevuti: viene recuperato il cristocentrismo sia sacramentale che etico proprio della Tradizione. L’evento celebrato impegna e dà la capacità a chi riceve i sacramenti di compiere quanto essi significano: la celebrazione è fonte e culmine della vita cristiana; la Chiesa, comunità cultuale perché edificata dai sacramenti, deve cercare in essi le norme del proprio agire e scoprire le esigenze esistenziali presenti in tali doni e da essi scaturenti. Caratteristica della morale cristiana è il fatto che trova origine, norma e forma nella liturgia e, specialmente, nei sacramenti. While manuals have presented the sacraments as a means to accomplish the commandments and the “duties” as specified in the law, The Second Vatican Council, according to the biblical-patristic conception, presents liturgy and in particular the sacraments as a “source” of Christian ethics. This means that believers have to express through their behaviour, what they have become thanks to the sacraments received: sacramental and ethic Christocentrism, typical of the Tradition, is then retraced.


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The act celebrated entrusts and enables people receiving sacraments to do what these actually mean. That is to say: the celebration is source and culmination of Christian life; the Church, cultic community as instituted by the sacraments, has to look at them to search out the rules of their behaviour and find out the existential needs which are in and come from these gifts. Peculiarity of Christian ethics is just that it finds out in the liturgy and especially in the sacraments, its origin, rules and form of expression. LA RELAZIONE TRA LA SCRITTURA E LA LITURGIA ALLA LUCE DELLA SACROSANCTUM CONCILIUM (Attilio Gangemi) . . . . . . . .

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Questo contributo mira a cogliere la relazione, nella celebrazione liturgica, tra la proclamazione della Parola di Dio e la celebrazione del Sacramento, alla luce della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium. Esso si articola in tre parti fondamentali. Nella prima parte indica quello che il documento conciliare esplicitamente propone a riguardo di tale relazione. Si indicano sostanzialmente due cose, che la proclamazione della parola e la celebrazione del sacramento siano ritenute parte integrante di un’unica celebrazione e che le letture bibliche siano scelte in maniera più ampia e più pertinente. Il testo conciliare però non entra in merito all’intima relazione tra la Parola di Dio e il Sacramento; in questo senso, esso rimane aperto ad ulteriori approfondimenti. Nella seconda parte, soprattutto alla luce del proemio e del primo capitolo della Sacrosanctum Concilium, si cerca di cogliere quanto è proposto sull’intima natura della liturgia e si constata che essa è caratterizzata alla luce delle Scritture specialmente del NT. Alla luce di questa seconda parte, si propone, nella terza parte, qualche riflessione sull’intima natura della relazione tra Parola e Sacramento. Emerge una interazione: l’evento è “raccontato” e codificato nelle Scritture; il racconto determina la sua celebrazione liturgica; il racconto poi illumina e mostra il senso dell’evento celebrato. A riguardo sono proposti degli esempi, dall’AT ma soprattutto dal NT. This paper is divided into three basic parts. In the first part indicates what the document explicitly proposes about the relation between the liturgical celebration and the proclamation of God's Word. it shows that the proclamation of the Word and the celebration of the sacrament are considered part of a unique celebration. In the second part It is trying to understand what is offered on the inner nature of the liturgy. it is verify that it is characterized in the light of the scriptures, especially the nt. The third part proposes some reflections about the intimate nature of the relation between Word and Sacrament. The event is "narrate" and marked in the Scriptures, the story determines its liturgical celebration. The story then lights up and displays the event's celebrated sense. INDICE

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INTRODUZIONE

Offriamo al lettore di questo numero speciale dei Quaderni di Synaxis i contributi raccolti in occasione del Seminario interdisciplinare su i “Nodi emergenti dei grandi temi della costituzione conciliare Dei Verbum”, tenuto il 12 dicembre 2012 e del Seminario interdisciplinare su “La costituzione conciliare Sacrosanctum concilium”, tenuto l’8 aprile 2014. Nella tradizione accademica dello Studio teologico S. Paolo i seminari interdisciplinari cercano di cogliere aspetti particolari delle questioni in esame. Per questo i contributi qui raccolti non hanno la pretesa di presentare una esposizione analitica dei testi conciliari, di cui si possiede peraltro una bibliografia amplissima, ma si propongono di collocare il lettore in un punto di vista particolare, per consentirgli una visione più chiara dei singoli aspetti delle due Costituzioni conciliari prese in esame. Nella prima sezione del volume sono raccolti i contributi sulla Dei verbum, secondo un ordine genetico, infatti nel primo di essi Attilio Gangemi esamina gli aspetti biblici della Costituzione. Vengono commentati sia i testi esplicitamente citati, sia anche quelli semplicemente allusi. L’autore mostra come la Dei verbun ha ribadito e illustrato che il vero tesoro che la Chiesa possiede e deve custordire è la stessa Parola di Dio. Ne consegue che la missione propria della Chiesa, che impegna tutti i suoi membri è precisamente quella di “illustrare e diffondere la Parola di Dio, perché tutti possano ripetere con il Salmista: «lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino (sal 118 [119],105)»”. Francesco Aleo, con “il riferimento ai Padri della Chiesa in Dei verbum”. Partendo dall’assunto che, riferendosi ai Padri della Chiesa, il teologo ha il compito “di conoscere,


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Introduzione

studiare, esaminare ed interpretare correttamente il loro pensiero teologico”, sostiene che “Il riferimento ai Padri della Chiesa nella Dei verbum si attua in vari modi. Si avverte subito, ad una prima lettura e ad una prima impressione, effettivamente, il “carattere” patristico specie nei parr. 8-9, ove si parla del rapporto tra Scrittura e Tradizione”. L’impressione che si ricava dalla lettura della Costituzione sulla divina Rivelazione è che abbia un vero e proprio andamento discorsivo, “dal quale emergono le citazioni dei Padri non per dimostrare la giustezza delle affermazioni dogmatiche ivi contenute, ma piuttosto, per inverare quanto detto in DV”. In definitiva l’autore riconosce che “il riferimento ai Padri della Chiesa d’oriente e d’occidente non sono più astratti dicta probantia ma guide e testimoni del cammino della Chiesa nella storia”. Anche Nunzio Capizzi propone una attualizzazione del testo conciliare con l’articolo su il “Pensare oggi la tradizione”. Citando un testo di W. Kasper ricorda che “un punto fermo sta nell’identificare globalmente la Tradizione con l’essere e con la vita della Chiesa.”. L’autore concentra la sua attenzione, come è facilmente comprensibile, sul capito II della Dei verbum ripercorrendo sostanzialmente il pensiero di Kasper mettendo in evidenza che contrappore Tradizione e contemporaneità è un falso problema: “Prendere sul serio la Tradizione, pertanto, non ha nulla a che vedere con un rifiuto della critica delle situazioni contemporanee e neppure con un rifiuto del profondo rinnovamento della Chiesa. Ma solo se la critica deriva da un’eccedenza della verità e da una fedeltà profonda al Signore Gesù”. Su DV 11 si sofferma Adriano Minardo con il suo contributo “Sull’ispirazione e sulla verità della Sacra Scrittura in Dei verbum 11. Elementi di analisi storica e teologica”. L’autore di propone di “presentare qualche ragguaglio sulla laboriosa ricostruzione dottrinale e semantica di una categoria che risulta essere centrale nel riconoscimento e nella definizione della sacralità dei testi che normano la fede dei cristiani”. Attraverso la ricostruzione della redazione del testo giunge alla conclusione che nella relazione tra Dio e uomo si possa rinvenire “il momento ermeneutico decisivo per comprendere la dottrina dell’ispirazione che si pone, pertanto, come punto medio tra una istanza trascendentale che richiede Dio all’origine della Scrittura ed una istanza storico-catego-


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Introduzione

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riale che impegna (ovvero mette nel segno dello Spirito) l’agiografo nel concorso attivo delle sue facoltà”. Chiude la sezione il contributo su “La ricezione della Dei verbum” di Carmelo Raspa, che recensisce i documenti del post-concilio che orientano all’approccio dei fedeli alle Scritture e cercano di chiarire il ruolo ecclesiale degli esegeti. Lo sforzo che è stato compiuto negli anni del dopo Concilio è stato quello di “rendere intellegibile al popolo cristiano una Parola, scritta con linguaggio umano e confessata Parola di Dio, la quale, per ciò stesso, non può sottrarsi al vaglio della razionalità scientifica e, allo stesso tempo, chiede di essere inserita in un quadro ermeneutico ampio, non limitato dai principi della critica filologica e letteraria, che ne esprima per intero la pienezza di significato che essa stessa pretende, nella sua trama, essere universale. Il lavoro esegetico e teologico consiste nella dimostrazione della validità di questa pretesa attraverso l’individuazione della natura e degli aspetti di questo medesimo significato celato tra le righe della Scrittura”. La seconda sezione si apre con il contributo di Francesco Aleo su il “Sacramento e sacramenti in Sacrosanctum concilium: l’apporto dei Padri della Chiesa”. L’autore mette in guardia sul pericolo dell’archeologismo anacronistico, perché non si può cercare “nei Padri una teologia dei sacramenti costruita secondo i criteri della teologia moderna”. Per questo occorrer “individuare l’approccio peculiare della riflessione teologica dei Padri al sacramento ed ai sacramenti, quindi nel comprendere come questa confluisse nella liturgia, intesa dai primi cristiani non come riflessione astratta, ma quale vita liturgica della comunità cristiana”. Dopo aver esposto il pensieri dei Padri latini Aleo, sulle orme di Achille M. Triacca, che ha dedicato un saggio proprio ai loci patristici della Costituzione dogmatica sulla sacra Liturgia, volge la sua attenzione su alcune delle dieci citazioni patristiche ivi presenti. Sulla base di questa analisi si può affermare che i padri conciliari abbiano trovato una fonte di ispirazione soprattutto in Cipriano e in Agostino. Pietro Scardilli presenta “L’ecclesiologia della SC nel quadro del magistero conciliare”. Il contributo fa notare che sebbene la SC, per l’ovvio motivo che fu il primo documento ad essere approvato, non possa contenere alcuni sviluppi dei princìpi che furono semplicemente enunciati o intuiti,


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Introduzione

tuttavia si può affermare che la costituzione liturgica presenta “una propria peculiarità con aspetti che sono assenti in altri documenti”. È anche “legittimo il tentativo di scorgere una correlazione e una certa interdipendenza tra il primo documento e i successivi che vennero promulgati dal Vaticano II, almeno per quanto riguarda la connessione tra riforma della liturgia e riforma ecclesiale”. Vengono esaminati in particolare i rapporti con le altre tre Costituzioni. Considerando in conclusione che “come altri documenti conciliari, la SC può essere ormai superata in alcune sue posizioni, tuttavia il processo di recezione ecclesiale che ha innescato, di certo non ancora concluso, rimane un cantiere aperto in cui vale la pena di ritornare ad impegnare le proprie energie”. Nell’orizzonte della recezione dei testi conciliari si muove Giuseppe Gurciullo, che studia “la ricezione della Sacrosanctum concilium nel CJC del ’83”. L’autore fa notare che, se si considera che il Codice non è un codex liturgicus, nei lavori di revisione del vecchio Codice la SC ha avuto un influsso considerevole, visto che “è stata tenuta in considerazione per la redazione di circa un centinaio di canoni”. La ricezione riguarda alcuni punti fermi, quali la chiarificazione della natura teologica della liturgia; l’importanza della Parola di Dio; la connessione tra liturgia e Chiesa; la dimensione culturale della liturgia. L’analisi di questa particolare ricezione che produce delle innovazioni codiciali fa prendere coscienza della storicità delle norme canoniche. Si ha la conferma del dato teoretico “che la capacità ecclesiale di intendere il volere divino e di esprimerlo conseguentemente in norme, giuridiche e positive, è una capacità sottoposta all’evoluzione storica, cioè un’operazione assolutamente categoriale, in grado di produrre canones intrinsecamente relativi, provvisori, imperfetti e modificabili, dato lo scarto ineliminabile tra qualunque ideale, compreso quello evangelico, e il reale proprio della storia”. Salvatore Consoli si sofferma su “La liturgia: sorgente e norma dell’agire morale secondo la Sacrosanctum Concilium”. Il Concilio ci restituisce una liturgia che consente alla comunità ecclesiale a diventare sempre più “ciò che deve essere: sacramento ovvero segno vivo di Cristo, sacramento di salvezza”. Il Concilio afferma che il cristiano deve essere un testimone della risurrezione e un segno del Dio Vivo; entro questa prospettiva ruolo


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Introduzione

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del culto, celebrando la pasqua di Cristo, è di impegnare quanti vi partecipano a realizzarla a livello sia personale sia sociale. La sezione si chiude con l’articolo su “La relazione tra la scrittura e la liturgia alla luce della Sacrosanctum Concilium” di Attilio Gangemi, che non può non ribadire la necessaria relazione tra liturgia e Scrittura, così come emerge dalla SC, che fa percepire che le due parti non sono giustapposte, ma intimamente connesse. L’autore ritiene che sia evidente che il documento conciliare sulla liturgia poggia il suo insegnamento sulla S. Scrittura. Insieme ai contributi dei due seminari interdisciplinari il volume contiene il testo della lezione tenuta da Matias Augé in occasione della disputatio tenuta il 19 febbraio 2014 sulla Sacrosanctum concilium. Non abbiamo potuto pubblicare i contributi del prof. Rosario Gisana e del prof. Corrado Lorefice chiamati a servire le chiese di Sicilia rispettivamente come vescovo di Piazza Armerina e arcivescovo di Palermo. Se ci rammarichiamo di non poter usufruire del loro prezioso contributo nella ricerca dell’accademia siamo però lieti del ministero che svolgono in modo qualificato e evangelicamente motivato al popolo di Dio loro affidato. Maurizio Aliotta*

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Preside dello Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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CONCILIO E LITURGIA: RECEZIONE E PROSPETTIVE DELLA SACROSANCTUM CONCILIUM*

MATIAS AUGÉ CMF**

Gilles Routhier, uno dei principali studiosi del Concilio Vaticano II, afferma che di lavoro specifico sull’interpretazione della costituzione Sacrosanctum concilium [ = SC] ne troviamo poco, se non fram-

menti nei quali si cerca di interpretare l’uno o l’altro elemento del suo insegnamento. Si può valutare in modi diversi questo fatto. Esso potrebbe significare, ad esempio, che si ritiene realizzato il programma della SC nella riforma liturgica, in altre parole che si legge in perfetta continuità la Costituzione sulla liturgia e la sua recezione. Ma accanto a questa interpretazione è subentrata in seguito un’altra interpretazione, di cui il card. Joseph Ratzinger è considerato grande promotore. Questa interpretazione recide i frutti della riforma liturgica dallo stesso insegnamento conciliare. Da un lato ci sarebbe l’insegnamento del Concilio e, dall’altro, quello che ne è stato fatto e che non sarebbe sempre fedele all’insegnamento conciliare. Così, progressivamente, tutta l’attenzione è finito per concentrarsi sulla riforma liturgica, in particolare sull’Ordo Missae del Messale di Paolo VI. La distinzione tra la Costituzione e la riforma è in sé legittima e anche necessaria. Tuttavia, la loro distinzione non deve portare alla dissociazione. Tra la SC e la riforma liturgica c’è distinzione ma anche continuità. Non è possibile quindi parlare della recezione della Costituzione sulla * Testo della Disputatio tenuta il 19 febbraio 2014 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Docente onorario di Liturgia presso il Pontificio Istituto Liturgico dell’Anselmianum di Roma.


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liturgia senza parlare della recezione della riforma liturgica contenuta nei libri liturgici pubblicati dopo il Vaticano II1. La recezione della costituzione SC e, soprattutto, le prospettive di questo documento, intese come insieme di circostanze future che si possono prevedere, sono in intimo rapporto con la recezione e le prospettive della riforma liturgica attuata dopo il Concilio. Si tratta di un argomento che nei diversi anniversari della promulgazione della SC ha attirato l’attenzione dei liturgisti, ma non solo di essi. In realtà, in questi casi si parla più del presente che del futuro o, al più, di un futuro ipotetico, sognato, desiderato o forse addirittura temuto. Ed è comprensibile perché il futuro non è nelle nostre mani. In ogni modo, cercheremo di dare uno sguardo anche al futuro della riforma liturgica alla luce della recezione della costituzione SC. Credo che questo sia il modo migliore di affrontare l’argomento che mi è stato proposto di illustrare. Se vogliamo dare uno sguardo alla recezione e, in prospettiva, al futuro della riforma liturgica alla luce della costituzione SC, cinquant’anni dopo la promulgazione del documento, dobbiamo partire, a mio avviso, da due punti di vista o prospettive diverse e al tempo stesso complementari. In primo luogo, bisogna individuare ciò che è fondamentale nel documento conciliare e che al tempo stesso consideriamo un successo raggiunto, almeno in parte, nella riforma liturgica, qualcosa che in un certo modo possiamo chiamare non negoziabile. In secondo luogo, dobbiamo individuare gli aspetti della costituzione SC e della riforma che hanno meritato un supplemento di riflessione da parte del Magistero della Chiesa lungo questi decenni o sono stati anche, e forse sono ancora, oggetto di dibattito ecclesiale.

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Cfr. G. ROUTHIER “Sacrosanctum Concilium”: la sua singolarità nella storia dei concili e la sua ermeneutica attuale, in P. CHIARAMELLO (ed.), Il Concilio Vaticano II e la liturgia: memoria e futuro. Atti della XL Settimana di Studio dell’Associazione Professori di Liturgia, Roma 2013, 17-35.


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1. IL PROBLEMA ERMENEUTICO DEL VATICANO II Si è parlato molto dell’ermeneutica dei testi del Concilio Vaticano II. Uno dei primi documenti che si è occupato autorevolmente di questo argomento è la Relazione finale del Sinodo straordinario dei vescovi del 1985, dove si stabiliscono una serie di criteri ermeneutici dei documenti del Vaticano II: «L’interpretazione teologica della dottrina conciliare deve tener presenti tutti i documenti in se stessi e nel loro rapporto stretto con gli altri, in modo che sia possibile comprendere ed esporre il significato integrale delle sentenze del concilio, spesso molto complesse. Si deve dedicare un’attenzione speciale alle quattro Costituzioni maggiori del Concilio, le quali sono la chiave interpretativa degli altri Decreti e Dichiarazioni. Non è lecito separare l’indole pastorale dal vigore dottrinale dei documenti. Così anche non è legittimo scindere spirito e lettera del Concilio. Inoltre il Concilio deve essere compreso in continuità con la grande tradizione della Chiesa»2.

Quest’ultimo criterio ermeneutico è stato ripreso e sviluppato da papa Benedetto XVI nel noto discorso alla Curia Romana il 22 dicembre del 2005, in cui il pontefice oppone all’ “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, l’ “ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato. Come abbiamo detto, qui intendiamo soffermare la nostra attenzione sul primo documento promulgato dal Concilio, la Costituzione sulla sacra liturgia. A cinquant’anni di distanza dalla promulgazione della costituzione SC, rivisitare e valutare questo documento è un esercizio non facile di ermeneutica. Intendo farlo alla luce dei criteri ermeneutici sopra elencati, leggendo il documento, non solo nella sua autonomia, ma anche alla luce di ciò che ha preceduto e preparato il Vaticano II, nonché alla luce dell’insieme dei documenti conciliari e della situazione attuale in cui si trova la recezione della liturgia riformata.

2

Relatio finalis, 5 (08.12.1985).


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I documenti del Concilio Vaticano II, in particolare la costituzione Sacrosanctum Concilium e la conseguente riforma liturgica, sono più comprensibili se letti alla luce di alcuni movimenti e correnti di pensiero che hanno preceduto l’assise ecumenica nel corso della prima metà del secolo XX. Sono fatti conosciuti. Eccone uno scarno elenco: il ritorno alla Scrittura e quindi la preferenza per un metodo teologico che non sposa più il metodo scolastico ma parte dalla Bibbia; lo sguardo all’intera tradizione della Chiesa con lo spostamento dell’attenzione dal Medioevo all’Antichità; lo studio scientifico della liturgia; il passaggio da una Chiesa europea a una Chiesa mondiale con la conseguente rivalutazione delle Chiese locali; la sensibilità ecumenica; l’emergere della dimensione pastorale; l’attenzione alle correnti culturali dell’epoca. Questi temi sono alla base della costituzione sulla liturgia e trovano, poi, applicazione concreta nella riforma liturgica. A coloro che accusano il Vaticano II e Paolo VI di aver improvvisato una riforma liturgica, va ricordato che la questione liturgica era nata in Europa all’inizio del XIX secolo, dopo la Rivoluzione francese. Il Vaticano II non è altro che l’approdo di una serie di percorsi che la Chiesa ha compiuto nella prima parte del secolo XX. Un approdo che al tempo stesso è l’indicazione di un cammino da percorrere nel futuro. 2. DAL CUORE DELLA COSTITUZIONE SC AL CUORE DELLA RIFORMA LITURGICA

Il Vaticano II, volendo restituire alla liturgia tutta la ricchezza che la tradizione aveva accumulato e sperimentato, ha dovuto pensare in grande, non solo con la logica del secondo millennio, ma anche secondo quella del primo millennio. È ingiusto vedere in questo criterio una tendenza “archeologizzante”. Si tratta piuttosto del ressourcement o ritorno alle fonti che caratterizza tutti i documenti del Vaticano II, dalla SC in poi3. È una iniziativa di metodo teologico 3 Sul ressourcement nel Vaticano II e, in particolare, nella Costituzione sulla liturgia, cfr. M. FAGGIOLI, Vera riforma. Liturgia ed ecclesiologia nel Vaticano II (Nuovi Saggi Teologici 96), Bologna 2013.


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che aveva recato un grande contributo all’esperienza di rinnovamento, iniziata nella prima parte del secolo XX coi movimenti biblico, patristico, ecumenico e liturgico4. Va ricordato che il ritorno alle fonti non può farsi da una prospettiva semplicemente archeologica, ma si tratta di un esercizio della fede pensata, che va oltre la ripetizione meccanica del passato. Come diceva Karl Rahner, «il nuovo è autentico solo quando conserva l’antico, e l’antico continua ad aver vita solo se è vissuto in forma nuova»5. La liturgia è considerata dalla SC in stretto rapporto col mistero di Cristo (mistero pasquale) e col mistero della Chiesa (popolo di Dio), concetti che sono stati ripresi e sviluppati nei documenti conciliari posteriori, in particolare nella costituzione sulla Chiesa Lumen Gentium. La particolare attenzione al mistero pasquale, pone in evidenza che la liturgia non è una semplice celebrazione/esecuzione di cerimonie ma piuttosto la celebrazione sacramentale dell’evento salvifico. Sul principio del ressourcement e su queste due colonne, la cristologica e l’ecclesiologica, poggia la riforma liturgica promossa dal Vaticano II. Si tratta di tre prospettive irrinunciabili che devono dettare l’evoluzione della liturgia anche in futuro. Superata la strettoia puramente giurisdizionale-clericale, il Vaticano II vede la Chiesa soprattutto come communio, nella sua dimensione sacramentale e spirituale, e, infine, come realtà storica, popolo di Dio che si trova in stato di pellegrinaggio e ha sempre bisogno di riforma. La riflessione conciliare sulla natura ecclesiale della liturgia ha portato ad approfondire il mistero dell’assemblea, quale “segno” in cui si realizza la presenza di Cristo e della Chiesa; “luogo” nel quale si compie l’avvenimento di salvezza di Cristo. Bisogna leggere in questo contesto di rinnovamento ecclesiologico, l’enfasi particolare posta dal Vaticano II nella partecipazione alla liturgia È stato notato che la Costituzione sulla liturgia ha esercitato in

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Cfr. M. FAGGIOLI, Vera riforma. Liturgia ed ecclesiologia nel Vaticano II, cit., 29. K. RAHNER, Espiritualidad antigua y actual, en Escritos de teología VII, Madrid 1069, 35. 5


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diversi settori il ruolo di apristrada. «L’idea di partecipazione attiva entra nel Vaticano II attraverso la Costituzione sulla liturgia, prima di invadere, per così dire, la totalità dei documenti conciliari, poiché trova applicazione in tutti gli ambiti dell’attività della Chiesa»6. La partecipazione alla liturgia è un tema che interessa sia il versante cristologico sia il versante ecclesiologico. Si tratta, poi, di un argomento di cui si è occupato il Magistero ecclesiale postconciliare e che è stato oggetto di dibattito tra gli Autori. Senza dubbio, un argomento chiave per il futuro della riforma liturgica, perché in qualche modo è complessivo della riforma stessa. Affrontando il grande tema della partecipazione, bisognerebbe ricordare che la liturgia è anzitutto opus Dei (azione di Dio). Come afferma SC, l’opera della salvezza, si realizza in modo particolare nella liturgia: «Per realizzare un’opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, specialmente nelle azioni liturgiche» (SC, n. 7). Questa affermazione al tempo stesso che mette in evidenza il primato di Cristo e la sua azione nella liturgia della Chiesa, sottolinea la natura dell’azione liturgica. In modo che possiamo e dobbiamo dire che il primo attore d’ogni azione liturgica è sempre Cristo vivente che si manifesta hic et nunc nella celebrazione della Chiesa. D’altra parte, come si dice più avanti nello stesso n. 7 della SC, «Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua sposa amatissima». E il n. 26 della SC aggiunge: «Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è ‘sacramento di unità’, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi». Pertanto la prima missione della Chiesa è accogliere il suo Signore, ascoltare e annunciare la sua parola, lodarlo, supplicarlo e manifestare la sua presenza nel mondo. Conseguentemente, la liturgia non può essere mai una semplice creazione umana, in quanto è accoglienza del mistero di Dio rivelato per Cristo nello Spirito e ingresso da parte nostra in questa presenza di mistero e di dono. Dimenticare questi

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101.

G. ROUTHIER, Il Concilio Vaticano II. Recezione ed ermeneutica, Milano 2007,


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principi è immergersi pericolosamente in una «prassi partecipativa senza trascendenza»7. La liturgia non è un “evento ‘a disposizione’ dei partecipanti”, un semplice “ambiente di socializzazione” o “occasione di gratificazione relazionale”8. Sono concetti che il Magistero di Benedetto XVI ha denunciato ripetute volte dall’inizio del suo pontificato; così già nell’esortazione apostolica Sacramentum caritatis (cfr. nn. 52-53). Il tema della partecipazione, centrale nella costituzione SC e centrale nella riforma liturgica, si trova oggi, e probabilmente si troverà anche nell’immediato futuro, in un contesto culturale in cui si debbono fare i conti con una forte e crescente disaffezione verso il rito, il mito, la tradizione e verso il linguaggio simbolico in genere9. In una recente inchiesta sui giovani e la fede, fatta dall’Osservatorio socio-religioso del Triveneto, e commentata da La Civiltà Cattolica nel fascicolo del 18 maggio 2013, si afferma che negli ultimi decenni l’interesse per i riti è sceso 6 punti percentuali per gli adulti, ma addirittura 43 punti per i giovani10. Rispetto al passato che captava spontaneamente la dimensione simbolica del mondo, caratteristica della modernità sembra sia l’appannarsi della dimensione simbolica. Se la spina dorsale della costituzione SC è la partecipazione alla liturgia e tutto è in funzione di questa partecipazione, l’obbiettivo di fondo della riforma liturgica è proprio la partecipazione attiva al mistero, e questa partecipazione si fa “per ritus et preces” (SC, n. 48). Però il modo arbitrario con cui si gestisce talvolta la forma rituale della celebrazione, i frequenti abusi, o addirittura il disprezzo della forma rituale, pone in crisi la ragione stessa della riforma liturgica e fa emergere di nuovo in alcuni settori il desiderio di una partecipazione maggiormente interiore per entrare in contatto col mistero, partecipazione che presuppone il rito senza assumerlo pienamente 7 P. DE MARCO, in A. GRILLO – P. DE MARCO, Ecclesia universa o introversa? Dibattito sul Motu proprio Summorum Pontificium, Cinisello Balsamo 2013, 94. 8 Ibid., 98. 9 Cfr. L. DELLA PIETRA, Rituum forma. La teologia dei sacramenti alla prova della forma rituale (“Caro Salutis Cardo”. Studi, 21), Padova 2012, 352. 10 Cfr. G. SALVINI, I giovani e la fede, in La Civiltà Cattolica, 2013, II, 359.


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come mediazione. Ritorna quindi ad affacciarsi la distinzione e la contrapposizione tra partecipazione interna e partecipazione esterna. Con questa distinzione si identifica talvolta la partecipazione attiva con la dimensione esterna e conseguentemente si rivendica l’importanza o primato della partecipazione interna. Noto che il solo passaggio della SC in cui appare il binomio interno-esterno riferito alla partecipazione liturgica (il n. 19 del documento), tale binomio risulta essere spiegazione della partecipazione attiva: «I pastori d’anime curino con zelo e pazienza la formazione liturgica, come pure la partecipazione attiva dei fedeli, interna ed esterna…». In altri termini, è l’azione rituale, nella sua realtà concreta, il luogo della partecipazione integrale al mistero, e questa azione precede (e contiene) la distinzione tra interno ed esterno. Così scopriamo che gli accidenti non sono accidentali. La netta distinzione tra partecipazione esterna e partecipazione interna, con l’esaltazione di quest’ultima, è una dicotomia che ha caratterizzato l’epoca postridentina, presente ancora, come opzione, nell’enciclica Mediator Dei di Pio XII (1947), e che oggi emerge nella ricerca da parte di alcuni della cosiddetta forma straordinaria del rito romano, la quale, si afferma, offre maggiori garanzie di raccoglimento e di compenetrazione spirituale col mistero. A parte l’ambiguità di tale affermazione, c’è qui un pericolo per il futuro della riforma liturgica, ma al tempo stesso l’indicazione del rimedio per evitare il fallimento della stessa. Possiamo quindi affermare che la problematica del futuro della riforma è in rapporto stretto col concetto e le modalità della partecipazione. Il concetto di “partecipazione attiva” sviluppato dal Vaticano II non è semplicemente la ripresa e la ripetizione di quanto si trova negli insegnamenti magisteriali precedenti al Vaticano II, al punto che, come avverte G. Routhier, «un’ermeneutica della Costituzione che la interpretasse solo a partire da ciò che la precede sarebbe certamente fuori strada»11. Alcuni sociologi della religione parlano di un doppio processo di 11 G. ROUTHIER, “Sacrosanctum Concilium”: la sua singolarità nella storia dei concili e la sua ermeneutica attuale, in P. CHIARAMELLO (ed.), Il Concilio Vaticano II e la liturgia, cit., 33.


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secolarizzazione: “interna” ed “esterna”, fenomeno tipico della modernità12. La secolarizzazione esterna consiste nella perdita di rilievo sociale e culturale della religione, ridotta ad un settore privato della vita sociale. Paradossalmente, la religione nella misura in cui si vede privata delle sue attività secolari, tende a ricentrarsi nel culto e nell’ambito spirituale. Invece, con la secolarizzazione interna, le credenze tendono a dichiararsi autonome in rapporto alle istituzioni responsabili della loro gestione. Questo fenomeno potrebbe spiegare, ma non giustificare, sia la libertà con cui alcuni adoperano i libri liturgici pubblicati dopo il Vaticano II, sia la ricerca di celebrare coi libri anteriori all’assise conciliare. Siamo dinanzi ad un crollo delle mediazioni religiose o anche di una deistituzionalizzazione della vita religiosa che comporta la progressiva individualizzazione e soggettivazione del credere, in modo che la vita religiosa dell’individuo è retta non dalle norme dell’istituzione, ma dai criteri personali13. 3. ALCUNE QUESTIONI PARTICOLARI Abbiamo fatto cenno sopra al problema della corrispondenza o meno tra il dettato della Costituzione SC e la riforma liturgica del dopo Concilio. Non è sempre facile stabilire un simile confronto. Giovanni XXIII, nel motu proprio Rubricarum instructum (25.07.1960) con cui presenta il nuovo Codex rubricarum pubblicato nell’edizione del Missale Romanum del 1962, afferma che questa edizione del Messale viene promulgata in attesa che «i Padri del prossimo Concilio ecumenico propongano gli altiora principia riguardanti la riforma generale della liturgia». Ebbene, la costituzione SC non propone solo gli “altiora principia”, ma stabilisce anche non di rado delle norme

12 Véase el estudio de A. CARDITA, “Una sintesi vitale a gloria di Dio” (GS 43). Vie moderne di instaurazione liturgica. Vie liturgiche di dialogo con il mondo, in P. CHIARAMELLO (ed.), Il Concilio Vaticano II e la liturgia: memoria e futuro, cit., 83126. 13 Cfr. J. MARTÍN VELASCO, Perspectivas de futuro del Vaticano II, in UNIVERSIDAD PONTIFICIA DE SALAMANCA, Recibir el Concilio 50 años después (XXIII Semana de Estudios de Teología Pastoral), Estella 2012, 218-219.


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concrete sulla riforma da attuare. L’interprete si trova nella necessità di coniugare i principi generali con le norme puntuali. C’è sempre il pericolo di far dire al Concilio troppo o troppo poco. È necessario fare una lettura intelligente del testo della Costituzione liturgica, perché la “parte” sia compresa a partire dal “tutto”, e le determinazioni pratiche siano inquadrate nel contesto di una riforma che non poteva ancora essere realizzata nelle sue norme, ma solo ispirata nei sui principi14. Al riguardo, vengono presi come prova di infedeltà al Concilio soprattutto l’apertura totale alle lingue vive e la celebrazione versus populum. Quando la SC affronta le norme per attuare la “Riforma della sacra liturgia”, afferma anzitutto il carattere dialogante della liturgia: «Dio parla al suo popolo» e il «popolo a sua volta risponde a Dio» (n. 33). Se la liturgia ha un carattere dialogante, di ascolto e risposta, il rito (segni e parole) deve avere una certa comprensione. Ecco quindi che al n. 34 si stabilisce che «i riti rifulgano per nobile semplicità; siano chiari nella loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, in genere, di molte spiegazioni». Ma più avanti, la SC, al n. 36, § 1, stabilisce: «L’uso della lingua latina, salvo il diritto particolare, sia conservato nei riti latini». In seguito, nel § 2 dello stesso numero, si afferma che «non di rado l’uso della lingua viva può riuscire assai utile per il popolo» e quindi si determina che «vi sia la possibilità di concedere ad essa una parte più ampia…». Questo comma 2, che fu oggetto di lunghi dibattiti nell’aula conciliare, si presenta nella sua espressione letterale in qualche modo come correttivo del comma 1. Qui troviamo traccia di uno di quei “compromessi” che hanno caratterizzato l’opera del Vaticano II, e che darà adito ad un dibattito permanente sull’interpretazione dei testi15. 14 Cfr. P. TOMATIS, Una liturgia per il popolo di Dio, in L. ROLANDI (ed.), Il futuro del Concilio. I documenti del Vaticano II: un tesoro da riscoprire (La fede in dialogo), Cantalupa (Torino) 2012, 48. 15 Cfr. P. PRÉTOT, A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II. Per una rilettura della Sacrosanctum Concilium, in PH. C HENAUX – N. BAUQUET (edd.), Rileggere il Concilio. Storici e teologi a confronto, Città del Vaticano 2012, 54.


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Non possiamo entrare in tutta la problematica della lingua liturgica. Notiamo però che la liturgia celebrata in lingua parlata favorisce sempre l’esistenza di una “lingua liturgica” che, situandosi nell’alveo della lingua parlata — nel nostro caso, l’italiano — ha delle caratteristiche sue proprie. Si tratta di una lingua nella lingua, che la si può chiamare “inter-lingua”. Ogni giorno facciamo l’esperienza dell’esistenza di “interlingue”: quando andiamo dal medico, quando ascoltiamo una partita di calcio, ecc. Sarà quindi sempre necessario essere iniziati alla comprensione della lingua liturgica come interlingua16. Per quanto riguarda la celebrazione versus populum, certamente la SC non ne parla esplicitamente. Si direbbe quindi che non si tratta di un problema d’interpretazione della Costituzione conciliare, ma di una novità postconciliare e che quindi deve essere valutata come tale. In ogni modo, noto che il n. 128 della SC prescrive che si riveda, tra l’altro, quanto riguarda “la forma e l’erezione degli altari” (“altarium formam ed aedificationem”). Ebbene, quando i Padri conciliari hanno esaminato questo numero della Costituzione, hanno avuto dinanzi agli occhi una Dichiarazione della Commissione conciliare, in cui si afferma esplicitamente la possibilità di celebrare versus populum17. D’altra parte, però, non era necessario parlare di un uso che era già conosciuto e ammesso. Infatti, il Messale del 1962, nel Ritus servandus in celebratione Missae (V, 3) stabilisce che quando si celebra in un altare “ad orientem, versus populum” il sacerdote, pur non cambiando di posizione, bacia l’altare prima di dire “Dominus vobiscum”, ecc.

16

Cfr. G. VENTURI, La lingua liturgica, in Rivista di Pastorale Liturgica 5 (2013) 28-36. 17 Cfr. F. GIL HELLÍN (ed.), Concilii Vaticani II Synopsis. Constitutio de sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium”, Libreria Editrice Vaticana 2003, 389. Sull’argomento si potrebbe citare anche quanto san Carlo Borromeo afferma nell’opera Instructionum fabricae et suppellectilis ecclesiasticae libri duo, opera dell’anno 1577: «… dovrà essere volta ad occidente quella cappella in cui, secondo il rito della chiesa, il sacerdote celebri la messa all’altar maggiore col viso rivolto verso il popolo» (Lib. I, cap. X). Il testo è citato da P. PRATOLONGO, Liturgia: esperienza e iniziazione al Mistero Santo, Siena 2013, 105.


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4. LA RITUALITÀ E IL SENSO DEL SACRO Come abbiamo accennato sopra, un elemento che caratterizza, tuttora oggi, la recezione della riforma, è quello che possiamo chiamare la interpretazione personale del rito. È un fenomeno che può avere un aspetto positivo ma anche negativo e abusivo. È positivo, anzi necessario, adoperare le diverse possibilità offerte dal libro liturgico in modo che la celebrazione sia adattata alle circostanze e ai partecipanti: la celebrazione non può coincidere tout court con il “copione” fornito dal libro liturgico, ma necessita di tradursi in performance concreta18. È invece negativo, quando l’interpretazione personale del rito la si fa senza riferimento alla normativa stabilita nei libri liturgici. È il caso di una creatività sregolata, svincolata non di rado dalle leggi della comunicazione oltre che dal fondamento biblico e teologico. In questo modo si abbassa il livello del linguaggio simbolico. La Costituzione liturgica vuole che la celebrazione sia condotta con dignità e con ordine: “Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza” (SC, n. 28). E nel n. 29, aggiunge: “Anche i ministranti, i lettori, i commentatori e i membri della ‘schola cantorum’ svolgono un vero ministero liturgico. Essi perciò esercitino il proprio ufficio con quella sincera pietà e con quel buon ordine che conviene a un così grande ministero e che il popolo di Dio esige giustamente da essi…” Sincera pietà e buon ordine dovrebbero dare alla celebrazione quell’ambiente di sacralità che tante volte manca nelle nostre celebrazioni liturgiche. Tommaso d’Aquino dice che «l’insieme del culto esteriore ha come principale ragione di essere quella di inculcare negli uomini la riverenza verso Dio…» (“totus exterior cultus Dei ad hoc praecipue ordinatur ut homines Deum in reverentia habeant…”)19. Noto che l’Institutio 18 Cfr. S. MAGGIANI, Come leggere gli elementi costitutivi del libro liturgico, in Celebrare il Mistero di Cristo, Manuale di Liturgia a cura dell’Associazione Professori di Liturgia, I, Roma 1993, 131-141. 19 S. Th. I-II, q. 102, a. 4 co.


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Generalis Missalis Romani fa sovente riferimento alla “riverenza” con cui si devono gestire i diversi momenti della celebrazione20. Come abbiamo detto sopra, SC vuole che la partecipazione sia fatta “per ritus et preces”. La mediazione rituale è garanzia dell’ineffabilità del mistero, e al contempo, della sua disponibilità a lasciarsi incontrare dai partecipanti. Ben lontani dall’avvallare il ritorno ad un certo “formalismo cerimoniale”, addebitato spesso al nostro recente passato (ma sul quale ci vorrebbe forse un giudizio meno frettoloso) o riscontrabile anche nel nostro presente (sul quale invece bisognerebbe vigilare più attentamente), occorre una maggior attenzione ai linguaggi della celebrazione, prospettiva che si colloca nel quadro di una rinnovata attenzione alla “forma rituale”21. Louis Bouyer affermava più di cinquant’anni fa che la nostra comprensione del cristianesimo, della religione cristiana in tutta la realtà dei suoi riti e delle sue formule, è perennemente insidiata dai medesimi errori che in passato hanno dato luogo alle grandi eresie cristologiche. L’antichità ha conosciuto due grandi tipi di eresie riguardanti l’incarnazione: il monofisismo e il nestorianesimo. Nel monofisismo si è talmente messo l’accento sulla divinità da arrivare ad assorbire, a negare l’umanità del Salvatore. Nel nestorianesimo, al contrario, è stato così fortemente rivendicata l’autenticità di questa umanità da arrivare a misconoscere, a negare praticamente che essa è l’umanità di una persona divina. Ai monofisiti si potrebbero riavvicinare certi cattolici conservatori, “integristi”, per i quali nelle istituzioni ecclesiastiche, e specialmente nella liturgia, tutto sembra ugualmente sacro, e quindi immutabile. Così, ad esempio, con l’attaccamento rigido al latino va di pari passo una volontà di conservare nello svolgimento dei riti un che di ieratico, di misterioso, sino a renderli inaccessibili ai fedeli. Ai nestoriani si potrebbero riavvicinare certi cattolici e liturgisti riformatori e inno20

Cfr. M. BRULIN, Requête se sacralité ou entrée dans le Mystère? L’aport de la PGMR 2002, in La Maison-Dieu, 257 (2009) 1, 99-129. 21 Cfr. L. GIRARDI, Presentazione, in Celebrare il mistero di Cristo, Manuale di Liturgia a cura dell’Associazione Professori di Liturgia, III: La celebrazione e i suoi linguaggi, Roma 2012, 5.


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vatori che vogliono salvare l’umanità della liturgia e di tutta la religione cristiana, in nome del Vangelo: e hanno ragione in questo disegno. Tuttavia a loro volta s’ingannano anch’essi, al pari di quelli, nella misura in cui ritengono che salvare l’umanità della liturgia significhi cancellare persino qualsiasi distinzione fra sacro e profano. E così, ad esempio, vogliono un’assemblea liturgica amichevole attorno ad una mensa familiare22. Si tratta di trovare un equilibrio tra il valore del rito e il pericolo del rubricismo, tra la giusta comprensione dei testi e dei segni e la riduzione del rito ad un semplice discorso concettuale, tra il giusto senso del mistero celebrato e l’esaltazione dell’esoterismo, tra il giusto pluralismo di forme rituali e la frammentazione della comunità celebrante in gruppi autoreferenziali. La fedeltà alla Scrittura e alla tradizione patristica come “ritorno alle fonti” ci impedirà di tornare a vecchi formalismi. Forse sono stati rinnovati i riti, ma il modo di vivere e di comprendere la liturgia è rimasto talvolta quello preconciliare. Sotto questo profilo si potrebbe applicare alla liturgia un detto della tradizione rabbinica: «Per Dio è stato più facile far uscire gli Ebrei dall’Egitto che l’Egitto dagli Ebrei». Ci troviamo in un tempo in cui coabitano più o meno pacificamente un ambiguo ritorno del sacro e il trionfo dell’età secolare. Aldo Natale Terrin, specializzato in fenomenologia religiosa, conclude un suo studio sul sacro e la liturgia con una domanda, che resta come interrogativo: «questo riaggancio al sacro corrisponde a una forma più o meno velata di un fondamentalismo più o meno implicito che ormai si fa strada anche nella nostra cultura e che si andrà sempre più approfondendo e nello stesso tempo andrà di nuovo problematizzando la fede, o è semplicemente il bisogno momentaneo di scoprire e restare in ascolto del proprio passato?»23.

22

Cfr. L. BOUYER, Il rito e l’uomo. Sacralità naturale e liturgia, Brescia 1964, 13-

19. 23 A. N. TERRIN, Dinamiche del sacro. Il sacro e la liturgia, in P. TOMATIS (ed.), La liturgia alla prova del sacro. Atti della XXXIX Settimana di Studio dell’Associazione


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5. CONCLUSIONI Massimo Faggioli nel recentissimo studio, citato sopra, su liturgia ed ecclesiologia nel Vaticano II, afferma che l’idea di ressourcement, o ritorno alle fonti, è al centro dei documenti del Vaticano II, in particolare della costituzione SC che in questo caso avrebbe fatto da apristrada. Già nei primi numeri, la Costituzione sulla liturgia, come osservava Yves Congar, sviluppa un’ecclesiologia dei sacramenti tipica della ecclesia congregata, diversa dalla visione prevalentemente gerarchica presente ancora nell’enciclica Mediator Dei di Pio XII, pubblicata nel 194724. Si tratta di una Chiesa che ricorda quella dei primi secoli come comunità particolare o locale riunita per l’eucaristia presieduta da un vescovo. Più si è vicino alle sorgenti, più l’acqua è pura. Ma, come dicevamo al principio del nostro discorso, il ritorno alle fonti non può farsi però da una prospettiva semplicemente archeologica. Già nel 1952 Karl Rahner affermava che «la ricerca sui tempi primitivi della Chiesa non solo è necessaria per la giustificazione dell’attuale teologia dogmatica ma anche per il suo sviluppo»25. Solo una visione miope può davvero ignorare la “radicalità” di questa impostazione da un punto di vista teologico. Ecco perché si può affermare che l’idea di ressourcement è la forza centrale della riforma liturgica e costituisce ciò che differenzia la riforma liturgica del Vaticano II dalle riforme della liturgia promosse nel periodo anteriore al Vaticano II. La liturgia riformata attinge più abbondantemente alla sorgente della Bibbia, ai testi degli antichi Padri, è sensibile alla dimensione ecumenica, evita testi che possano offendere ebrei e musulmani, ecc. Come dice il citato prof. Faggioli, mettere in discussione la riforma liturgica del dopo Vaticano Professori di Liturgia (Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae”, Subsidia 166), Roma 2013, 77. 24 Cfr. Y. CONGAR, L’ecclessia ou communauté chrétienne, sujet intégral de l’action liturgique, in J.-P. JOSSUA – Y. CONGAR (edd.), La liturgie après Vatican II. Bilans, études, prospective, Paris 1967, 241-282. 25 Cfr. K. RAHNER, Zur Theologie der Busse bei Tertullian, in M. REDING (ed.), Abhandlungen über Theologie und Kirche, Düsseldorf 1952, 139-167.


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II, «è come prosciugare una delle fonti teologiche del concilio»; «rifiutare il nucleo teologico della riforma liturgica non è che un modo per rifiutare la teologia del Vaticano II e l’opportunità di comunicare il vangelo in una maniera comprensibile nel nostro tempo»26.

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M. FAGGIOLI, Vera riforma, cit., 158.


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Seminario interdisciplinare 12 dicembre 2012 “Nodi emergenti dei grandi temi della costituzione conciliare Dei Verbum”

LA COSTITUZIONE DOGMATICA “DEI VERBUM”. ASPETTI BIBLICI

ATTILIO GANGEMI*

Questo nostro intervento non vuol essere un commento globale alla costituzione dogmatica “Dei Verbum” del Concilio Ecumenico Vaticano II. Ma soltanto si prefigge di offrire un breve commento alla luce delle Scritture, evidenziando così i fondamenti biblici, sia i testi esplicitamente citati, sia anche quelli semplicemente allusi. In questa prospettiva limitiamo la nostra riflessione sia al proemio, sia anche al cap. I che tratta il tema della Rivelazione. Ci permettiamo anche, alla luce delle stesse Scritture, di completare qualche aspetto, meno evidente, nella stessa costituzione. 1. IL PROEMIO (N. 1) “Dei verbum Ecclesia religiose audiens et fidenter proclamans”. Con questo, inizio molto solenne, si apre la costituzione dogmatica conciliare sulla parola di Dio; essa stabilisce già una relazione tra Dio, la sua Parola e la sua chiesa. Dio ha parlato, la sua Parola è nella chiesa e questa religiosamente la ascolta e fedelmente la proclama agli uomini.

* Docente emerito di Esegesi biblica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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In questa espressione iniziale troviamo infatti un solo oggetto: la Parola di Dio, e un solo soggetto: la chiesa. Ciò indica che c’è un grande tesoro che la chiesa possiede e da cui e attorno a cui essa è radunata, la stessa Parola di Dio. Emerge anche l’attività principale e fondamentale della chiesa, nel suo duplice servizio a Dio e agli uomini. In rapporto a Dio, essa accoglie ed ascolta la sua Parola, in rapporto agli uomini essa, dopo averla ascoltata, la penetra con lo studio, la annunzia, la proclama e la spiega e con essa anche istruisce il popolo santo di Dio. In relazione alla Parola di Dio, l’attività principale e fondamentale della chiesa è indicata, nella frase su citata, mediante due forme di participio presente: audiens e proclamans. Il participio presente indica che l’ascolto e la proclamazione sono attività abituali e continue, indicando anche, in questo modo, che la Parola di Dio è inesauribile e, in tale attività di ascolto e proclamazione, la chiesa ne sarà impegnata fino alla fine della sua storia, quando essa stessa sarà tutta coinvolta in questa parola: direi anche quando sarà tutta lievitata e trasformata da essa. L’ascolto e la proclamazione della Parola di Dio hanno poi uno scopo preciso, che il concilio stesso indica citando il solenne prologo della prima lettera di Giovanni (1Gv 1,2-3): «perché anche voi abbiate comunione con noi e la nostra comunione è con il Padre e il figlio suo Gesù Cristo». Da questa citazione dell’apostolo Giovanni deduciamo così sei aspetti per la vita della chiesa: 1. La presenta in essa della Parola di Dio, 2. il raduno della chiesa attorno ad essa, come suo punto di convergenza: non è casuale quanto Luca indica negli Atti degli Apostoli che la Parola di Dio si diffondeva e la chiesa cresceva1. La crescita della chiesa appare così direttamente proporzionale alla diffusione della Parola di Dio2.

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Cfr. At 6,7; 12,24. Alla crescita della chiesa può anche riferirsi il frutto abbondante che viene dal seme della Parola di Dio, che cade sul buon terreno (Mt 13,3-9. 18-23). 2


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3. l’ascolto della Parola, caratterizzato mediante l’avverbio “religiose”, implica la piena coscienza che è Dio che parla, al quale perciò, non senza l’aiuto dello Spirito Santo, bisogna prestare tutto l’ascolto che umanamente è possibile; 4. la proclamazione da parte della Chiesa, è caratterizzata, anch’essa, con un suo specifico avverbio: “fidenter”, cioè con totale e assoluta fiducia e fedeltà. La chiesa infatti non può annunziare altro se non la Parola di Dio, così come è stata codificata nelle Scritture e come è stata consegnata dai primi testimoni alla fede della Chiesa di sempre. Questo è il suo grande servizio che bisogna rendere agli uomini, perché questi sappiano che cosa c’è nel cuore e nella mente di quel Dio che spesso, magari a tentoni, hanno cercato3, non sempre riuscendo a trovarlo, o talora anche immaginandolo a modo proprio e che incute paura, magari spinti da un innato senso di colpa che genera appunto paura, che l’uomo si porta dietro fin dal giardino genesiaco. È possibile tuttavia che nell’annunzio della Parola di Dio possano infiltrarsi anche delle prospettive umane; qui vediamo necessario il grande servizio che il continuo ritorno esegetico sui testi rende alla Parola di Dio. 5. L’ascolto della Parola, dice ancora l’Apostolo Giovanni, è finalizzato alla realizzazione di una sintonia di comunione tra coloro che proclamano e quelli ai quali la Parola è proclamata. Emerge così la forza unificante della Parola di Dio, che però esige che sia accolta da tutti con fede e si faccia propria la speranza in essa contenuta. Senza essere esplicitamente citate, si avvertono qui alluse le parole del profeta Isaia: «popoli numerosi diranno: venite, saliamo al monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare nei suoi sentieri (Is 2,2-4)». Il profeta Isaia così ha previsto il raduno degli uomini attorno alla Parola di Dio e alla sua legge, ciò che Luca vedrà realizzato, attorno allo Spirito, nuova legge, il giorno della Pentecoste (At 2,1-11). 6. Lo scopo dell’annunzio della Parola di Dio, infine, non si esaurisce nel raduno comunionale degli uomini; continua infatti ancora

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Cfr. At 17,27.


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l’apostolo: «e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo»: Attraverso la comunione con gli apostoli annunziatori, gli uomini pervengono alla comunione trinitaria. Emerge così un triplice raduno comunionale, progressivamente allargato, attorno alla Parola: gli apostoli annunziatori tra di loro, questi con tutti gli uomini ai quali la Parola è annunziata, gli uomini tutti con il Padre e il Figlio suo Gesù Cristo: tutta quanta la Trinità. Emerge così un grande disegno di Dio, che si percepisce bene nella preghiera di Gesù, cosiddetta “dell’ora”4, che le due comunità, quella umana e quella divina, formino una sola comunità, riuniti appunto mediante la Parola di Dio che si è pienamente manifestata nella persona e nel mistero di Gesù di Nazaret. 2. IL DISEGNO DI DIO RIVELATO (N. 2) Nel seguente numero due, riecheggiando diversi passaggi paolini, soprattutto il cap. 1 della lettera di Paolo agli Efesini, il concilio ci ricorda che piacque a Dio, nella sua bontà, di rivelare se stesso e manifestare il disegno della sua volontà di ricapitolare, ricondurre cioè ad un solo capo (a\nakefalaiwésasqai) tutte le cose, uomini in primo luogo, a Cristo, per introdurli nella sua intimità (Ef 1,10). Questa manifestazione di Dio, continua il concilio, è avvenuta progressivamente nella storia della salvezza, mediante eventi e parole intimamente connessi; in questo modo Dio ha manifestato se stesso, in un progresso di rivelazione che trova il suo culmine in Cristo. Implicitamente si richiama anche il solenne esordio della lettera agli Ebrei (Eb 1,1-4): Dio dopo avere parlato anticamente in molti modi e a più riprese ai padri per mezzo dei profeti, in questi giorni, che sono gli ultimi, ha parlato a noi nel Figlio. L’unica azione di Dio di parlare avviene in due epoche: quella antica, che coincide con l’AT, i cui mediatori erano i profeti, caratterizzata da un progresso di modi e di tempi, e, quindi, segnata anche da una certa frammentarietà, e quella “degli ultimi giorni”, che coincide con il NT, caratterizzata

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Cfr. anche Gv 17.


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dalla mediazione del Figlio, e, pertanto, completa e definitiva. Nel Figlio la Parola di Dio si è manifestata in tutto un cammino che parte dalla preesistenza, passa attraverso la storia e culmina nella sua sessione alla destra di Dio. 3. LA PREPARAZIONE DELLA RIVELAZIONE EVANGELICA (N. 3) Il n. 3 dello stesso cap. I poi nella costituzione conciliare ci offre, delineata, una breve storia di questa rivelazione. La prima manifestazione di Dio è nella stessa creazione. Implicitamente il concilio richiama il prologo del quarto vangelo5, dove l’evangelista, dopo avere descritto l’indole eterna e divina della Parola (“la Parola era Dio”), sottolinea la sua incidenza nella creazione: «tutto fu fatto per mezzo di essa e, senza di essa, nulla fu fatto di quanto esiste». Giovanni riecheggia il Sal 32 che scrive: «Con la parola del Signore furono fatti i cieli e con il soffio della sua bocca ogni loro schiera»6. Nella creazione è intervenuta, come causa efficiente, la Parola del Signore; attraverso di essa, nei limiti delle stesse capacità di essa, la Parola di Dio ha manifestato se stessa; possiamo dire che la creazione è diventata concretizzazione e visibilizzazione della Parola di Dio e, in certo senso, essa stessa è diventata Parola. Scrive il Concilio, nello stesso n. 3, che Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del suo Verbo, offre agli uomini, nelle cose create, una perenne testimonianza di Sé7. Ancora è richiamato Giovanni: «tutto fu fatto per mezzo di essa (Gv 1,3)»; è richiamata pure la lettera agli ebrei, nella quale, dopo avere evocato la Parola detta anticamente ai Padri per mezzo dei profeti, e dopo avere dichiarato che, in questi giorni ha parlato a noi nel Figlio, l’autore continua affermando che «per mezzo di lui (cioè del Figlio) ha fatto i secoli (Eb 1,2c)». Senza arrivare magari ad 5

Cfr. Gv 1,1-14. Cfr. Sal 32 (33),6. 7 Citiamo le dirette parole del Concilio: «Deus, per Verbum omnia creans et conservans, in rebus creatis perenne sui testimonium hominibus praebet et viam salutis supernae aperire intendens, insuper protoparentibus inde ab initio Semetipsum manifestavit (DV I,3)». 6


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una identificazione esplicita tra il Figlio e la Parola di Dio, come poi farà Giovanni, l’autore della lettera agli ebrei dichiara che quel Figlio, nel quale Dio, negli ultimi tempi ha parlato, è quello mediante il quale Egli ha creato i secoli. Poco dopo, nel seguente v. 3, descrivendo il Figlio e presentandolo come irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, l’autore continua dichiarando che Egli, il figlio, sostiene tutte le cose con la potenza della sua parola. La creazione perciò, pur nel suo intrinseco limite, come sottolinea anche Paolo in Rm 1,19-20, è manifestazione della Parola di Dio e attraverso di essa è possibile risalire alla sua potenza e alla sua divinità. Inoltre, riecheggiando Sap. 13, che definisce stolti quegli uomini che si sono fermati alle creature, senza risalire attraverso di esse, al Creatore, l’apostolo colpevolizza gli uomini, definendoli “inescusabili”, perché, pur potendo conoscere Dio, attraverso le opere della creazione, non gli hanno reso gloria, ma si sono smarriti nei meandri dell’idolatria, scivolando conseguentemente poi in ogni sorta di vizi, anche contro natura. Inoltre nello stesso n. 3, il Concilio riprende, in sintesi, quanto ci propone la Scrittura nei primi 11 capitoli del libro della Genesi: leggiamo infatti nel testo conciliare che volendo aprire la via della soprannaturale salvezza, Dio si manifestò ai progenitori (protoparentibus inde ab initio Semetipsum manifestavit); dopo la loro caduta, confortandoli anche con la promessa e la speranza della redenzione (Gen 3,15: «porrò inimicizia tra te e la donna, la sua stirpe e la sua stirpe»). Scrivendo poi che Dio ebbe cura del genere umano (sine intermissione generis humani curam egit), il Concilio sembra alludere ai capitoli 4-11 della Genesi, che riguardano soprattutto la storia dei popoli, una storia in cui la Parola ha manifestato la drammatica condizione dell’uomo sotto il peccato dilagante, dall’omicidio di Caino, alla vendetta di Lamech, al dilagare dell’iniquità che portò Dio a decretare il diluvio. Quello fu un tempo di peccato, un tempo in cui Dio punì anche, ma un tempo in cui non dimenticò la sua salvezza. È tacitamente presente la logica del piccolo resto; nello sfondo del diluvio infatti emerge l’arca da cui parte una nuova creazione; nello sfondo della


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torre di Babele, in cui gli uomini si disperdono e si confondono nelle loro stesse lingue, emerge la figura di Terach, padre di Abramo, che Dio chiamò nella fede, caricandolo però della duplice promessa della terra e della discendenza come le stelle del cielo. Dirà la lettera agli Ebrei che Abramo, nella fede, uscì senza sapere dove andava (Eb 11,8). Nello stesso n. 3, il concilio riassume pure, in poche parole tutta la storia seguente, riguardante, più specificamente quella di Israele, a partire da Abramo, attraverso tutti i patriarchi; magari forse dimenticando l’epoca, non meno importante, dei giudici, ma passando poi attraverso i profeti, il cui compito era quello di presentare Dio «Padre provvido e giusto giudice», far sì che tutti lo riconoscessero come il solo Dio vivo e vero8 e si aprissero all’attesa del Salvatore promesso9. Si tratta, in altri termini, di quello che la lettera agli Ebrei, già ripetutamente citata, descrive come il fatto che Dio ha parlato in molti modi e a più riprese, anticamente ai Padri per mezzo dei profeti, intendendo però, con il termine “profeti”, tutto l’Antico Testamento, legge e profeti. In questo modo, osserva il concilio, Dio, ha preparato, lungo i secoli, la via al vangelo10. Riassumendo, possiamo dire che tre sono state, nell’AT, le tappe progressive che hanno condotto e orientato verso la rivelazione e l’attuazione della salvezza in Cristo, attraverso il vangelo di Dio, da Gesù stesso annunziato e diffuso poi dagli Apostoli: la creazione (Gen 1-3), la storia dei popoli (Gen 4-11), la storia di Israele. 4. LA RIVELAZIONE IN CRISTO (N. 4) Nel n. 4 il concilio si apre alla definitiva e completa rivelazione in Cristo. Cita esplicitamente infatti i primi due versi dell’esordio della lettera agli Ebrei, dove l’autore, pur manifestando la continuità, tuttavia sottolinea, come abbiamo già osservato, una certa contrap-

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«ad se solum Deum vivum et verum […] agnoscendum». «ad promissum Salvatorem expectandum». 10 «per saecula viam Evangelio praeparavit». 9


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posizione tra le due economie, quella antica e quella attuale, in cui Dio ha parlato. Nell’antica economia Dio parlò ai padri per mezzo dei profeti; nel testo greco abbiamo un termine plurale con l’articolo (e\n to_v profhétaiv): si tratta di una pluralità di persone alle quali è stato affidato soltanto un frammento della rivelazione; l’articolo poi indica che non si tratta di persone, per loro natura, profeti, ma di persone concrete insignite da Dio di questa particolare missione tra il popolo. Di conseguenza la loro rivelazione sarà necessariamente limitata e parziale. La conseguenza è ovvia: per quanto l’AT prepari al vangelo, tuttavia non bisogna cercare in esso la completezza e la perfezione che sarà propria del NT. Non mancano infatti indicazioni di grande altezza spirituale, ma non mancano nemmeno elementi negativi11, superati poi da Gesù12. Nell’epoca nuova invece Dio ha parlato nel figlio; il figlio è uno solo e l’espressione greca è senza articolo (e\n ui|§%). L’essere figlio non è una semplice qualità accidentale, come tra gli uomini, in cui un figlio può essere contemporaneamente padre; ma riguarda la sua stessa natura: per sua natura il figlio è figlio e, perciò, non può essere padre. Per la sua stessa indole di Figlio, egli è in grado di dirci, in maniera completa e definitiva, tutto ciò che riguarda il Padre. Gesù stesso poi ha diverse volte sottolineato di non parlare da se stesso, ma di parlare così come il Padre gli ha insegnato (Gv 8,28) e comandato (Gv 12,49) e ha chiamato amici i discepoli, perché ha fatto conoscere a loro tutto ciò che ha udito dal Padre (Gv. 15,15). Dio perciò, nel Figlio, ci ha detto tutto quello che aveva da dirci; ormai non ha più niente da dirci: in Lui ha manifestato pienamente se stesso;

11 Vedi per esempio la richiesta della vendetta soprattutto nel Sal 57 (58); nel Sal 136 (137),7-9. Questi e altri testi analoghi, sono stati depennati, a nostro parere opportunamente, dall’attuale liturgia delle Ore. Suscita inoltre perplessità il fatto che il Sal 105 colpevolizzi il popolo perché «non sterminarono i popoli come aveva comandato il Signore (Sal 106 [105], 34)». Siamo però ancora nell’ambito della rivelazione frammentaria, limitata e progressiva. 12 Cfr. soprattutto il discordo di Gesù detto “della montagna” (Mt 5-7).


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eventuali ed assai ipotetiche ulteriori manifestazioni di Dio esigerebbero un mediatore più grande del Figlio, cosa che è impossibile. In Gesù Dio si è manifestato pienamente, al punto che Gesù può dire a Filippo «chi ha visto lui ha visto il Padre (Gv 14,9)» e può dichiarare che Lui e il Padre sono una cosa sola (10,30). Gesù, come abbiamo già osservato, ha manifestato il Padre in tutto l’arco della sua vita, dalla sua incarnazione, come dice appunto la lettera agli Ebrei già citata, alla sua glorificazione pasquale, possiamo anche dire dalla sua stessa preesistenza (a\pauégsma th%v doéxhv) fino alla sua glorificazione (e\kaéqisen e\n dexiç%). Ha inviato poi lo Spirito santo che ci guidi e ci aiuti poi nella comprensione di tutta la verità, di tutto quello cioè che Gesù ha detto. Nella vita terrena poi Gesù ha parlato in diversi modi: tenendo dei discorsi, narrando parabole, operando miracoli; è chiaro però che la sua massima manifestazione è avvenuta nel mistero della croce, un libro che come avverte Paolo nella prima lettera ai Corinti (1Cor 2,10-12), non può essere letto senza la luce dello Spirito Santo; nella croce infatti noi abbiamo potuto contemplare la sua gloria, gloria come dell’Unigenito dal Padre (Gv 1,14) pieno di grazia e di verità. Nella prima lettera poi, Giovanni, mentre dichiara che Dio è a\gaéph, indica poi anche la maniera come noi abbiamo conosciuto l’agape, nel fatto cioè che Dio ha mandato il suo figlio nel mondo perché vivessimo per mezzo di Lui (1Gv 4,9); nel seguente v. 10, poi l’apostolo continua osservando che l’amore non consiste nel fatto che noi abbiamo amato Dio, ma che Lui ha amato noi ed ha mandato il suo figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. L’amore dell’uomo verso Dio pertanto è una semplice risposta all’evento primordiale dell’amore di Dio verso l’uomo. Mettendo insieme, in 1Gv 4, il v. 9 e il v. 10, possiamo dire che la massima manifestazione di Dio è quella di essere a\gaéph e ciò è avvenuto in Cristo ed è stato operato da Cristo, nell’offerta che egli ha fatto di se stesso, come vittima di espiazione, per liberarci dai peccati e farci rivivere. Gesù quindi così è il grande e il massimo rivelatore dell’amore di Dio e lo ha manifestato, come il Dio che ama, nell’offerta di se stesso, dalla quale è scaturita la remissione dei nostri peccati e la vita nuova. Forse qui abbiamo la risposta ad una domanda


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che tante volte e da più parti si sente dire: perché Dio ha voluto la croce del suo figlio? Forse la risposta sta qui: la croce era l’unico linguaggio umanamente possibile per potere esprimere l’amore di Dio. L’amore infatti è dono e sulla croce avviene il massimo dono di Dio in Cristo. L’amore manifestato nella croce però non è un amore sterile, bensì un amore che purifica e vivifica. Il vangelo di Giovanni poi ci informa che dalla croce è scaturito il dono dello Spirito Santo, mediante il quale, come aveva preannunziato il profeta Ezechiele, siamo vivificati. 5. QUALCHE COMPLETAMENTO A questo punto ci permettiamo di completare quanto leggiamo nella Dei Verbum proponendo delle prospettive che emergono dalla lettura diretta delle Scritture. Come il Concilio stesso, sulla scia delle Scritture neotestamentarie ha sottolineato, la Parola di Dio è una persona, la stessa persona del Figlio, la cui preesistenza eterna è ben delineata nell’espressione giovannea: «In principio era la Parola (Gv 1,1)». La forma verbale dell’imperfetto indica, per sua stessa indole, una continuità nel passato, senza dir nulla dell’inizio e della fine dell’azione; all’imperfetto del verbo ei\mò, h/n, usato ripetutamente da Giovanni nel prologo al suo vangelo, indica perciò una permanenza abituale nell’essere, senza dir nulla né dell’inizio né della fine nell’essere; subito dopo Giovanni dirà che la Parola era Dio (qeoèv h/n o| loégov); di conseguenza la Parola non può avere né inizio né fine. Di questa Parola l’evangelista dirà, subito dopo, che era “verso Dio (proèv toèn qeoén)”, indicando così l’inizio di una particolare vicenda storica della Parola che parte dalla preesistenza, entra nella storia umana attraverso la creazione, passa attraverso la storia degli uomini, specificamente quella di Israele, fino al suo culmine nel suo divenire carne in Gesù di Nazaret (1,14). Divenuta carne, la Parola di Dio compie nel mondo una missione il cui culmine è da ricercare nella croce (teteélestai: 19,28.30). Dopo di ciò la Parola può tornare a Dio (cfr. Is 55,10-11), non però da sola, ma insieme agli uomini che ha


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radunato attorno a sé (Gv 12,32), con i quali compie il grande passaggio pasquale da questo mondo al Padre (Gv 13,1). Nella sua concezione sulla Parola di Dio, divenuta uomo, il quarto evangelista si riferisce al testo di Is 55,10-11, che, come abbiamo altre volte sottolineato, sembra costituire il telaio e lo schema del suo vangelo. Il testo di Isaia citato infatti, benché parzialmente, aveva già delineato la vicenda della Parola. Paragonando la Parola che esce dalla sua bocca alla pioggia e alla neve che scendono dal cielo, Dio stesso aveva detto che essa non torna a lui se non dopo avere fatto ciò che egli ha voluto e senza avere prima portato a compimento ciò per cui l’ha mandata. Il profeta autore di Is 55 però, mentre spiega l’azione della pioggia e della neve non indica qual è l’opera che la Parola deve compiere. Questo invece lo dirà Giovanni che, in questo modo, completa il messaggio di Isaia. Gesù è cosciente di essere quella Parola che Dio ha mandato. Ai discepoli che lo esortavano a mangiare: «rabbì, mangia (Gv 4,31», Gesù risponde che il suo cibo è fare la volontà di colui che lo ha mandato. In Gv 17,4, nella grande prospettiva del suo ritorno al Padre, Gesù dichiara di avere compiuto l’opera che Egli, il Padre, gli ha dato da compiere. Gesù sulla croce poi dichiara che “tutto è stato portato a compimento (19,28)”. La Parola di Dio, nella persona di Gesù di Nazaret, è venuta perciò soprattutto a compiere un’opera. In Gv 1,18, stabilendo una relazione, ma anche una contrapposizione, tra Mosè e l’Unigenito Figlio, l’evangelista dichiara che nessuno ha mai visto Dio, ma il figlio Unigenito che è verso Dio, lui lo ha rivelato. L’allusione è al mediatore dell’antica alleanza. In Es 32, si legge che Mosè chiese a Dio di mostragli il suo volto; Dio gli rispose che nessuno può vedere il suo volto. Il mediatore dell’antica alleanza perciò non vide Dio. Il Figlio Unigenito invece è di gran lunga superiore all’antico mediatore. Egli non solo ha visto Dio, ma lo ha anche manifestato agli uomini. Non solo però lo ha manifestato agli uomini, ma ci ha anche condotti a lui introducendoci nella sua intimità13.

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Il verbo e\xhghésato, tradotto abitualmente “lo ha rivelato”, che si legge cinque


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Il testo di Gv 6,38-40 è pure importante ed indica bene l’opera della Parola di Dio divenuta uomo. Gesù dichiara: «sono sceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato». Poi ancora continua: «questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che chiunque vede il Figlio e crede in Lui, abbia la vita eterna». Perché poi il Figlio possa essere oggetto di contemplazione e di fede, deve essere “innalzato” come il serpente di Mosè nel deserto (Gv 3,14): si intende sulla croce (Gv 12,32) In questo breve testo è compendiata così, a grandi linee, una storia della Parola: 1. La preesistenza e la sua incarnazione (sono sceso dal cielo). 2. L’evento del Getsemani con la preghiera di Gesù, che il quarto evangelista al suo luogo non narra, ma che certo non ignora. Al Getsemani Gesù, quasi in contrapposizione, alla sua antepose la volontà del Padre. Nel testo di v 6,38ss Gesù dichiara appunto di essere sceso dal cielo non per fare la sua volontà ma quella del Padre. L’allusione alla preghiera del Getsemani sembra chiara. 3. La volontà di Dio è che chiunque vede il Figlio e crede in Lui abbia la vita eterna. Per ottenere la vita eterna, la condizione, da parte dell’uomo, è che veda e creda; implicitamente però Gesù stesso indica che la condizione, da parte sua, è che diventi oggetto di contemplazione e di fede. Ciò però sarà possibile quando egli sarà innalzato come il serpente nel deserto (Gv 3,14). Implicitamente perciò si richiama la croce, in cui Gesù sarà oggetto di contemplazione e di fede (cfr. 19,37) e fonte di vita eterna per quelli che lo vedono e credono in Lui. Nella croce di Gesù si incontrano, si compendiano e si manifestano due amori: quello del Padre che ha donato l’Unigènito (Gv 3,16) e quello di Gesù che ha donato se stesso e la sua vita per i suoi amici (Gv 15,13). Gesù ha amato gli uomini perché il Padre ha amato lui

volte, con tale senso, nell’opera lucana, in Giovanni, usato solo qui, forse ha una diversa sfumatura, probabilmente più consona alla sua stessa etimologia: il figlio ci ha condotto a lui (hghésato), dopo averci fatto fare un esodo (e\x). Il cap. 10 descrive molto bene tale azione: il pastore autentico entra nel recinto delle pecore, le fa uscire e quelle che lo seguono le conduce alla vita eterna, che coincide con l’essere nelle mani del padre (vv-28-30.


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(Gv 15,9). Il fatto di essere stato amato dal Padre è divenuto per lui il comando di amare lui a sua volta ed un insegnamento di come amare: nel dono totale di sé. A sua volta il fatto di avere amato sarà per i discepoli un comando (Signore) e un insegnamento (maestro) in relazione al loro amore vicendevole. Così sulla croce Gesù ha manifestato il duplice amore, suo e quello del Padre; nello stesso tempo dalla croce ha anche promulgato per i discepoli il comandamento dell’amore vicendevole, mediante il quale gli uomini possono giungere a Lui e radicarsi nel suo amore (Gv 15,9-10). Dal momento però che Gesù “rimane”, ben radicato, nell’amore del Padre, i discepoli, “rimanendo” e radicandosi in Lui mediante l’amore vicendevole, attraverso di Lui, perverranno e si radicheranno nell’amore del Padre, appunto perché Gesù “rimane” nell’amore del Padre. La croce di Cristo così è l’ambito dove si manifesta l’amore di Dio e di Cristo, il centro di gravità attorno al quale gli uomini, raggiunti dall’amore e attraverso l’amore, si radunano, è il luogo dove le due comunità, quella divina e quella umana, sempre sulla piattaforma dell’amore, si incontrano e formano una sola comunità (Gv 17,2123). In altre parole, Gesù è stato innalzato sulla croce per essere quel vessillo di cui parlava Isaia (Is 11,10), quel vessillo che Dio ha innalzato per radunare i popoli, così come Gesù stesso ha dichiarato: «quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Questa è la vita eterna che Gesù ha donato agli uomini (Gv 17,3): «conoscere te e colui che tu hai mandato Gesù Cristo (17,3)». Si verifica, all’inverso, ciò che accadde, all’origine (Gen 11). Gli uomini si costruirono una torre appunto per non disperdersi; quella torre, purtroppo, fu la causa di una dispersione ancora più grave; le lingue degli uomini si confusero ed essi sperimentarono una divisione ancora maggiore, quasi irreversibile. Dio ha innalzato invece la sua “torre”, il suo “vessillo”: il suo figlio crocifisso, che raduna veramente gli uomini, attirandoli a sé con la forza del suo amore. Possiamo dire anche che, dal Calvario, la croce di Cristo inizia un cammino, attraverso la loro storia, di progressivo raduno degli uomini (Gv 20,17). Quando tutti saranno radunati, allora avverrà il grande


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passaggio pasquale, di tutti gli uomini con Gesù, da questo mondo al Padre (Gv 13,1). Qualcosa di analogo, benché in diversa prospettiva, si legge anche nella lettera agli Ebrei: Cristo è il sacerdote della nuova alleanza, che, con le mani piene del suo stesso sacrificio, è entrato nel santuario celeste e si è assiso alla destra di Dio. In questo modo Egli ha aperto ed inaugurato la via al vero santuario; dietro di Lui gli uomini possono accedervi; anzi essi stessi sono invitati ad entrare, avendo essi, in Cristo, la libera facoltà di accedervi, avendo essi anche la strada nuova e vivente che passa attraverso il velo, cioè la carne di Gesù, e avendo essi anche il sacerdote, che davanti a Dio, li riconosce e li presenta come suoi (Eb 10,19ss). Questa è l’opera che la Parola di Dio, divenuta uomo, è chiamata a compiere e questo è lo scopo per cui essa è stata mandata nel mondo, liberare gli uomini dalle loro opere morte e orientarli al servizio del Dio vivente (Eb 9,14), condurli cioè alla vita eterna. In questo senso l’eterna parola di Dio è divenuta pastore (Gv 10). Essa è entrata nel recinto delle situazioni umane dove le pecore erano rinchiuse e le ha condotte, attraverso le sue mani, alle mani del Padre, dalle quali nessuno mai potrà strapparle (10,29). Tale raduno, benché non lo si possa fenomenologicamente percepire, è da credere che stia progressivamente avvenendo nella storia. Tutto ciò induce a parlare nell’esistenza umana di due storie: quella fenomenologica, constatabile concretamente, che dà l’idea, tante volte, di un regresso e quella nel mistero, percepibile solo con la fede, che, in maniera lineare, dietro a Cristo, è orientata verso il Padre. Per questo oggi, più che mai, è indispensabile stringersi attorno a Cristo e seguirlo, restando dietro a Lui. 6. LA NECESSITÀ DELLA FEDE (N. 5) Una condizione perciò è assolutamente indispensabile: la fede, e il Concilio lo sottolinea con molta chiarezza nel n. 5. Scrive infatti il concilio, richiamandosi a Paolo14, che a Dio è dovuta “l’obbedienza 14

Cfr. Rm 16,26; Rm 1,5; 2Cor 10,5-6.


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della fede” (oboeditio fidei), quella fede, «mediante la quale l’uomo si abbandona a Lui liberamente15, prestandogli “il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà»». Qui il concilio si ricollega a quanto aveva già insegnato il Concilio Vaticano I16, nella costituzione dogmatica “de Fide”. Continua però ancora la costituzione “Dei Verbum” che, perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio, che previene e soccorre, e sono necessari anche gli aiuti interiori dello Spirito Santo, che muova il cuore e lo rivolga a Dio, e apra gli occhi della mente e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità. Lo stesso Spirito poi perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni. All’insegnamento del Concilio fanno eco tutti o quasi gli scritti vetero e neotestamentari. Nel cap. 7 il profeta Isaia sottolinea la necessità della fede: «se non credete non potete sussistere»17: senza la fede infatti, le promesse di Dio, descritte appena prima, non potranno realizzarsi. Restando ancora in Giovanni, la fede è essenzialmente richiesta per ottenere la vita eterna. In 6,38-40 l’evangelista dichiara: «perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna»; così anche in Gv 3,14-16. Sono poi importanti i tre testi del cap. 8, letti all’inverso: 8,51 prima che Abramo fosse, io sono 8,28: quando innalzerete il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che io sono; 8,24: se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati. Se nella fede non si professa l’identità di Gesù, si muore nei propri peccati. La necessità della fede è espressa anche dalla lettera agli Ebrei, che introduce il lungo capitolo della fede18, poi conclude esortando, avendo noi una nuvola (neéfov) di testimoni, a perseverare nella corsa che ci sta davanti, guardando a Cristo, autore e perfezionatore della fede.

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Cfr l’espressione conciliare: «se totum libere Deo Committit». Cfr. Concilio Vaticano I, Const. Dogm. De fide cath, cap. 3. 17 Cfr. Is 7,9b. 18 Cfr. Eb 11. 16


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La prima lettera di Giovanni poi ripetutamente sottolinea la necessità della fede in Gesù19, venuto nella carne: senza la fede infatti né ci arriva il perdono dei peccati, né siamo raggiunti dall’amore di Dio, entrambe le cose manifestate in Cristo. Ciò è quanto Dio stesso, concludendo, ci chiede; nell’evento del battesimo20 di Gesù e nella sua Trasfigurazione21. Egli ci ha presentato il suo Figlio, come colui nel quale si è compiaciuto e ci ha detto di ascoltarlo. Anticamente Dio si presentava con le parole: «Io sono il Signore tuo Dio», oggi dice invece: «questi è il mio figlio»; anticamente Dio diceva: “ascoltate i miei comandamenti”, oggi dice a riguardo del Figlio “Ascoltatelo”. Cristo è la nuova legge e la definitiva Parola di Dio rivolta agli uomini. 7. CONCLUSIONE In questa breve riflessione sulla costituzione conciliare “Dei Verbum”, in nessun modo esaustiva, abbiamo tentato di mostrare come l’insegnamento del Concilio, benché in maniera sintetica, è in piena sintonia con le Scritture: su di esse esso si fonda, da esse scaturisce ed esse continuamente riecheggia. Né poteva essere diversamente: sarebbe venuto meno infatti, altrimenti, il principio del Concilio stesso, solennemente formulato all’inizio di questa costituzione e, in certo senso, anche definito che «Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans, Sacrosancta Synodus […]». In questo modo il Concilio dichiara che l’ascolto religioso e la proclamazione fedele della Parola di Dio è stato il suo fondamentale obiettivo e la sua principale preoccupazione. Nello stesso tempo ha dichiarato che tale ascolto e tale proclamazione non riguardano soltanto l’assemblea sinodale, ma costituiscono anche, in assoluto, la prima e fondamentale attività della chiesa. Posta in mezzo agli uomini e condividendo anche la loro storia e la

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Cfr. tra altri testi 1Gv 3,23; 4,2. Cfr. Mt 4,17; Mc 1,11; Lc 3,22. 21 Cfr. Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35. 20


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loro vita, la chiesa infatti è chiamata ad esercitare una mediazione tra essi e la Parola di Dio, possiede e gelosamente custodisce, sia quella codificata nelle Scritture sia anche quella presente nella sua tradizione di fede viva. L’attività primaria della chiesa in mezzo agli uomini, guidata e illuminata dallo Spirito Santo, perciò è quella di “ascoltare” in tutti i modi la Parola di Dio e di “proporla” fedelmente agli uomini, perché sia luce nel loro cammino e non si smarriscano nei meandri delle loro considerazioni umane, che talora allontanano da Dio. In piena conformità con le Scritture, il Concilio, con Paolo, ci insegna che c’è un disegno di Dio che affonda le sue radici nella sua stessa eternità, cioè l’eternità di Dio. Il peccato non è riuscito ad infrangere questo disegno: Dio lo ha manifestato “parlando”, in maniera frammentaria e progressiva, nell’AT; lo ha poi pienamente manifestato ed attuato in Cristo, sua Parola eterna divenuta uomo. Cristo ha manifestato ed attuato questo disegno sulla croce, attorno alla quale gli uomini sono chiamati a radunarsi e radicarsi per giungere con Lui a Dio. I capitoli seguenti della costituzione dogmatica “Dei Verbum” si muoveranno nella prospettiva del primo capitolo. Il cap. 2 parlerà della trasmissione della Parola di Dio, sia codificata nelle Scritture, sia contenuta nella fede viva della chiesa; il cap. 3 parlerà dell’ispirazione e dell’interpretazione della Scrittura; il cap. 4 orienterà poi l’attenzione sulla Parola di Dio manifestata nell’AT attraverso i profeti; il cap. 5 parlerà dei vangeli e degli altri scritti del NT; il cap. 6 rifletterà infine sulla presenza della Parola di Dio nella vita della chiesa. La costituzione conciliare “Dei Verbum” ha ribadito e illustrato con maggiore chiarezza, il tesoro, talora nascosto22, che la chiesa possiede: la stessa Parola di Dio. Tutti i membri della chiesa, ognuno nella propria condizione e nel proprio modo, siamo chiamati a rendere questo primordiale servizio agli uomini: illustrare e diffondere la Parola di Dio, perché tutti possano ripetere con il Salmista: «lampada ai miei passi è la tua Parola, luce sul mio cammino (Sal 118 [119],105)».

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Cfr. Mt 13,44-46.


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IL RIFERIMENTO AI PADRI DELLA CHIESA IN DEI VERBUM

FRANCESCO ALEO*

INTRODUZIONE La Teologia, nel suo significato etimologico, che è quello di theologhìa, rinvia necessariamente al theologhéin ovvero al «parlare di Dio» o al «teologizzare». Essa, oggi, deve rispondere ad una domanda apparentemente semplice ma fondamentale: la Teologia può ancora essere uno strumento valido per sondare ed investigare il mistero divino rivelatosi in Gesù Cristo? Oltre ad essere strumento, ci si deve chiedere, soprattutto, se, come disciplina scientifica, la Teologia abbia oggi uno statuto epistemologico capace di pervenire ad un incremento delle conoscenze ad essa proprie e ad una sintesi organica e soprattutto comunicabile del sapere teologico1. Nel contesto attuale di postmodernità e di liquidità, è innegabile una tendenza a volgere lo sguardo alle esperienze del passato, in tutti i campi dello scibile umano. D’altra parte, lo sviluppo della scienza storica, con l’affinarsi del metodo storico-critico, fatto proprio dalla modernità, esprime ed interpreta indubbiamente un desiderio di esaminare, in maniera nuova, le testimonianze del passato. In particolare, l’attenzione e l’indagine approfondita sulla cultura materiale e su qualsiasi espressione dell’attività umana, è giustificata forse proprio dalla ricerca in esse di aspetti nuovi ed inediti. Nel rinnovamento metodologico della cono*

Docente di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Si rinvia a M. FIEDROWICZ, Teologia dei Padri della Chiesa. Fondamenti dell’antica riflessione cristiana sulla fede, Brescia 2010, Introduzione, 6. 1


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scenza storica che ha attraversato tutto il Novecento, si perseguiva, forse carsicamente, il tentativo od anche l’illusione di intravedere punti fermi, difficilmente individuabili nella “liquidità” del presente in cui viviamo2. Storicizzando il sapere umano in tutti i suoi aspetti e campi d’indagine ovvero, insistendo sul contingente storico e sulla sua ricerca del farsi evento nella storia, l’uomo moderno e postmoderno rischia, però, di smarrirsi nel factum o nell’eventus. Da questo smarrimento, deriva quella ricerca delle “origini” e del “fondamento” che mostra la fine della modernità e l’inizio della post-modernità. Queste due direttrici di ricerca si traducono, nel nostro tempo, in un “eterno ritorno” ed in una continua ricerca del novum o della novità3. La ben nota espressione del medievale Bernardo di Chartres (XII sec.), che descrive la condizione degli uomini del suo tempo come quella di «nani aggrappati sulle spalle dei giganti», congiunta all’adagio ciceroniano historia magistra vitae, non può più essere così pacificamente accolta ed inserita nello statuto epistemologico della conoscenza storica attuale4. Le recenti vicende ed esperienze storiche del nostro tempo insegnano che la Storia difficilmente si ripete e che del tutto mutate e peculiari sono le circostanze e le condizioni nelle epoche storiche in cui gli uomini vivono. Non vuol essere la nostra una considerazione desolante e pessimistica sulla validità e sull’utilità della conoscenza storica, tanto da indurci allo scetticismo o peggio ad 2

Si rinvia ad alcuni fondamentali lavori per approfondire ulteriormente questioni qui appena accennate: H.I. MARROU, La conoscenza storica, Bologna 1962; P. BURKE, Una rivoluzione storiografica, Roma-Bari 1992; F. BRAUDEL, Scritti sulla storia, Milano 2003; P. BURKE, La storia culturale, Bologna 2006; S. LUZZATTO (a cura di), Prima lezione di metodo storico, Roma-Bari 2011. 3 Cfr. G. VATTIMO, La fine della modernità, Milano 1999, 10-12. 186-190. 4 La nota citazione di Bernardo di Chartres si trova in GIOVANNI DI SALISBURY, Metalogicon, III, 4, in PL 199,900C: Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos, gigantium humeris incidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea. «Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani aggrappati sulle spalle dei giganti, cosicché possiamo vedere più cose e più lontano, non grazie all’acutezza della nostra vista o all’altezza del nostro corpo ma perché siamo portati in alto e sollevati dalla loro grandezza.».


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una deriva storicistica. Piuttosto, può aiutarci a riconoscere e ad individuare una certa ingenuità, da parte nostra, nel considerare spesso la Storia come un “serbatoio” di exempla, da cui trarre insegnamenti per affrontare il presente. Certamente, dopo il crollo delle ideologie e l’avvento dell’uomo senza legami di Baumann, si deve impostare un nuovo rapporto con il passato, all’insegna di un dialogo rinnovato ed adeguato con il presente5. Vorremmo così iniziare il nostro contributo sul riferimento ai Padri della Chiesa nella Costituzione dogmatica Dei verbum, sulla divina Rivelazione, ponendo prima il problema del rapporto tra Teologia e Storia, per porre quindi il problema del rapporto che lega la Scrittura alla Tradizione, testimoniata dai Padri. Lo studioso H. Crouzel così definisce l’apporto dello storico alla conoscenza teologica: «Questi (lo storico) ha in effetti per suo scopo di penetrare, nella misura del possibile, nella mentalità dell’autore che egli studia, malgrado tutto quello che lo distingue da lui, tempo, luogo, personalità, fino a coincidere in qualche modo con lui: ambizione certo irrealizzabile nella sua perfezione, realizzabile solamente nell’intenzione, senza la quale non si può parlare di Storia.»6.

Nel caso dei Padri della Chiesa, il teologo si sostituisce allo storico, poiché suo compito è quello di conoscere, studiare, esaminare ed interpretare correttamente il loro pensiero teologico. Lo studio dei Padri mette allora in grado la Teologia di servire quel sensus fidelium che è operante nella Chiesa tutta come Popolo di Dio, in cammino nella Storia7. Specialmente dopo il Concilio Vaticano II, il ritorno, 5 G. BELLIA, Il contesto umano della parola, Cinisello Balsamo (Mi) 2012, 33: «Che lo si voglia o no, si studia il passato per conoscere meglio il presente e, in definitiva, per conoscere se stessi, perché tra passato e presente c’è un dialogo continuo dal momento che la stessa cultura si può definire come un’organizzazione della situazione attuale “dans les terms d’un passé”.». 6 H. CROUZEL, Les études historiques dans le contexte actuel de l’enseignement théologique, in Seminarium XVII n.s. (1977) 1, 90, in francese nel testo. La versione italiana è dell’autore del presente contributo. 7 Cfr. M. FIEDROWICZ, Teologia dei Padri della Chiesa. Fondamenti dell’antica riflessione cristiana sulla fede, 317-320.


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innanzitutto, alle Sacre Scritture che ci trasmettono la Parola di Dio, esige anche il ritorno a quella consegna o traditio, operata proprio dai Padri, i quali rendono viva la Scrittura, custodendone il senso ed attuando l’interpretazione della Parola di Dio, per offrirla a tutta la Chiesa ed al popolo di Dio, ispecie, attraverso la Liturgia8. 1. LO STUDIO DEI PADRI: NECESSITÀ DI UN APPROCCIO NUOVO È oggi parere unanime degli studiosi di Patristica, Patrologia e Letteratura cristiana antica che i propri interessi di ricerca e di studio, rivolti verso i Padri, anche se sono esclusivamente teologici, devono superare il concetto teologico di Padre per abbracciare altri scrittori e l’ambiente culturale e sociale, al fine di recuperare il loro genuino pensiero. Quest’opera di superamento negli studi patristici, è utile non solo per i bisogni della Chiesa attuale, ma anche perché, questa, essendo una comunità storica, possa comprendere meglio sé stessa e la sua fede9. È dunque vigente ai nostri giorni la tendenza a produrre edizioni critiche più attendibili delle opere dei Padri o strumenti utili agli studiosi ed agli studenti, nonché a fornire lessici per alcuni autori o versioni in lingua corrente delle loro opere, anche di quelle meno importanti o fino ad ora trascurate dalla moderna ricerca10. Si vuole oggi meglio inquadrare i Padri nel loro contesto storico, culturale, 8 Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. sulla divina rivelazione Dei verbum, II,8-9 (18/11/1965), in Enchiridion Vaticanum, Bologna 1993, 1/881: Haec igitur Sacra Traditio et Sacra utriusque Testamenti Scriptura veluti speculum sunt in quo Ecclesia in terris peregrinans contemplatur Deum, a quo omnia accipit, usquedum ad Eum videndum facie ad faciem sicuti est perducatur. 9 Vedi A. DI BERARDINO, Lo stato presente degli studi sulla teologia dei Padri, in Seminarium XVII n.s (1977) 1, 127-154. 10 Per parlare del panorama italiano, basti pensare al Nuovo Dizionario Patristico e dell’Antichità Cristiana, Genova-Milano 2006 in due volumi; per quello tedesco, a S. DÖPP – W. GEERLINGS (a cura di), Dizionario di Letteratura cristiana antica, Roma 2006, in versione italiana; restando in Italia, alle collane di versioni italiane di testi patristici, quali quelle di A. QUACQUARELLI (ed.), Collana di Testi Patristici, Roma 1976-; M. NALDINI – M. SIMONETTI (edd.), Biblioteca Patristica, Firenze 1984; Letture Cristiane delle Origini, Milano 1972-; G. BARBAGLIO – R. PENNA (edd.), Scritti delle origini cristiane, Bologna 1997.


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sociale e religioso; di conseguenza, non solo teologi, biblisti, agiografi, liturgisti, canonisti, filologi, filosofi, storici dell’Impero romano, delle religioni ecc. si rivolgono ai loro testi ma anche archeologi, papirologi, psicoterapeuti, ecc. Alla luce di queste considerazioni, valga per tutte l’opinione ancora una volta di H. Crouzel, il quale afferma che: «La patristica non può dunque essere che una scienza storica, la quale, sulla base di un lavoro positivo … si sforza di ricostruire il più esattamente possibile il pensiero di un autore o di una data epoca. Suo compito non è quello di distribuire brevetti di ortodossia o di condanna, ma semplicemente quello di descrivere quanto è accaduto: è di conseguenza possibile la collaborazione fra specialisti appartenenti a gruppi cristiani diversi.»11.

È legittimo chiedersi se, in mezzo a tante “Teologie”, per tutti i gusti e per tutti gli ambiti di ricerca, oggi i Padri - protagonisti ed autori della prima e più antica riflessione cristiana sulla fede - possono esserci d’aiuto e di guida per individuare le linee di una riflessione, vera ed autentica, sui misteri o sui dogmi della fede cristiana. Certamente, tornare ai Padri, ai testimoni della fede dei primi secoli della Storia della Chiesa e del Cristianesimo antico significa favorire un mutamento di prospettiva che in un primo momento può lasciare disorientati, giacché si tratta di passare dalla logica del “possesso”, propria del Depositum, a cui siamo abituati, a quella della “consegna”, propria della Traditio per tornare al Kerygma e quindi all’annunzio della fede12. Per troppo tempo, la theologhìa ha saputo e voluto soltanto “spiegare” il Mistero, spesso allo scopo di difenderne la 11 H. CROUZEL, La patrologia e il rinnovamento degli studi patristici, in Bilancio della teologia del XX secolo, Roma 1972, III, 545. 12 Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. sulla divina rivelazione Dei verbum, II,10, in EV, 1,886: Sacra Traditio et Sacra Scritptura unum verbi Dei sacrum depositum constituunt Ecclesiae commissum, cui inhaerens tota plebs sancta Pastoribus suis adunata in doctrina Apostolorum et communione, fractione panis et orationibus iugiter perseverat (cfr. Act 2,42 gr.), ita ut tradita fide tenenda, exercenda profitendaque singularis fiat Antistitum et fidelium conspiratio. Su questo brano dove si evidenzia un importante locus patristico ed ecclesiologico di Cipriano di Cartagine torneremo più avanti. D’ora in poi, per citare la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione useremo la sigla DV.


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“verità”, di dimostrare la “coerenza” logica dei suoi assunti, dimenticando il «credo quia absurdum» di Tertulliano ed esaltando eccessivamente il livello della comunicazione verbale, inevitabilmente moralistico, del dato della fede. Si è trascurato, invece, l’aspetto creativo o poiético del theologhéin o del «far teologia» dei Padri che si è esercitato di volta in volta, nella storia, dinanzi alle varie sfide rappresentate dalle eresie e dall’inculturazione del Cristianesimo antico nelle varie civiltà e nelle varie culture con le quali è entrato in contatto, quale quella greco-romana di età imperiale, d’impronta ellenistica, ma anche quella irlandese, celtica, germanica, armena, siriaca, copta, etiopica13. Il Kerygma, tramandato ed annunziato creativamente ai popoli, ha mostrato e sviluppato la sua inesauribile ricchezza a contatto con matrici culturali estranee al Giudaismo, quali, ad esempio, lo Stoicismo ed il Neoplatonismo. Si è sottaciuto per troppo tempo sia il livello mistico, sapienziale sia quello liturgico, mistagogico, dell’antica riflessione cristiana sulla fede, essenza del theologhéin. Troppo a lungo è durato il ristagno nell’angusta prospettiva apologetica dei secoli passati, quando le citazioni dei Padri, estrapolate dalle loro opere e dal loro contesto storico, teologico, liturgico ed ecclesiale, venivano ridotte a dicta probantia — «detti comprovanti» le affermazioni della Scolastica e della tarda Scolastica — diventando strumentalmente delle “pezze d’appoggio”14. Ridotti, così, a “toppe” che nulla hanno a che vedere, purtroppo, con gli stròmata o «tappeti colorati» di Clemente Alessandrino, la loro finalità controversistica ed apologetica immiseriva la vitalità, la freschezza e la poliedricità dell’antica riflessione cristiana dei Padri sul mistero redentivo di Cristo. I dicta probantia “rappezzavano” poi — è il caso di dirlo — una teologia ecclesiastica ed accademica, sempre più lontana dalla

13 Si rinvia a CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Istruzione sullo studio dei Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale, (10/11/1989), Bologna 1990 ed a E. DAL COVOLO – A.M. TRIACCA (curr.), Lo studio dei Padri della Chiesa oggi, Roma 1991, in particolare a A.M. TRIACCA, L’uso dei «loci» patristici nei Documenti del Concilio Vaticano II: un caso emblematico e problematico, 149-183. 14 Cfr. A. DI BERARDINO, Lo stato presente degli studi sulla teologia dei Padri, 130.


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Scrittura, non parlando più alla vita concreta del popolo di Dio con le sue ansie, i suoi travagli ed i suoi drammi. Tuttavia, un approccio meramente storico allo studio dei Padri della Chiesa che si risolva alla fine in un semplice ritorno alle “origini” o nella ricerca pura e semplice di un nuovo “fondamento” non permetterebbe di superare l’empasse dello storicismo, nel quale rischia di impantanarsi l’attuale riflessione teologica cristiana15. Infatti, si può sempre riuscire a compiere un’interessante e laboriosa ricostruzione del pensiero teologico dei Padri sui dogmi, sui problemi ecclesiali del loro tempo o sulle forme e sui generi letterari di cui si sono serviti nelle loro opere, senza, tuttavia, giungere al cuore del problema: quello cioè di una rimotivazione delle istanze della Teologia cristiana e di una rifondazione epistemologica della sua ricerca16. 2. TEOLOGIA E STORIA NEL CONCILIO VATICANO II: IL RUOLO DEI PADRI Dando uno sguardo agli schemi preparatori delle Costituzioni dogmatiche e dei Decreti conciliari, non si fa fatica a scorgervi il passaggio che era già avvenuto negli ambienti teologici degli anni 15 Vedi CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Istruzione sullo studio dei Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale, 3: «Dai padri ci si attendono oggi orientamenti e luce per superare certe difficoltà in cui si trova la teologia; sani criteri di discernimento dottrinale e morale per camminare più sicuri in mezzo alle attuali trasformazioni culturali e sociali; un nutrimento sostanzioso per i vari movimenti di spiritualità che stanno sorgendo nel laicato ed animano la vita pastorale.». Ed ancora a p. 4: «Per quanto riguarda il campo teologico, il patrimonio dottrinale e spirituale dei padri viene trascurato specialmente nei casi, in cui i teologi, troppo presi dagli urgenti problemi del momento presente, credono di poter risolverli meglio alla luce dei soli dati biblici illustrati con l’aiuto delle scienze dell’uomo e di alcune filosofie o ideologie moderne. Spesso si dimostra indifferente o anche ostile verso i padri una certa esegesi, la quale, confidando esclusivamente nei metodi della critica storica e letteraria, si lascia facilmente suggestionare dalle nuove ermeneutiche storicistiche, e ciò fino al punto da diventare poco sensibile verso gli autentici valori dottrinali e spirituali contenuti negli scritti patristici.». 16 Si rinvia a M. FIEDROWICZ, Teologia dei Padri della Chiesa. Fondamenti dell’antica riflessione cristiana sulla fede, Introduzione, 5-9.


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precedenti al Concilio Vaticano II. Passaggio da una “Teologia delle conclusioni” ad una “Teologia delle fonti”17. Esaminando i testi conciliari non si può fare a meno di osservare che il loro vocabolario ed il loro modo di pensare rivelano il carattere patristico. Le citazioni patristiche non sono aggiunte semplicemente in fondo alle pagine dei documenti conciliari, per provare o dimostrare la verità o la coerenza di quanto discusso e proclamato, ma attestano l’introduzione e la presenza di idee guida e di concetti portanti. Per esempio, il fatto che nella Chiesa antica il soggetto delle azioni liturgiche è l’Ekklesìa tutta intera e non soltanto il ministro ordinato, portò a rivedere interamente la struttura della Costituzione Dogmatica Sacrosanctum Concilium sulla divina Liturgia. Nella Costituzione Dogmatica Dei Verbum, sulla divina Rivelazione, oggetto del presente contributo, vi si afferma sulla scorta di Gregorio Magno e di Giovanni Cassiano il ruolo indispensabile della Storia nella Teologia18. Secondo J. Leclercq il proprium della Patristica è quello di aver congiunto, da una parte, lo sforzo dell’intelligenza e quello del cuore, la sapienza e l’amore, la conoscenza e la preghiera e dall’altra, in questa esperienza di luce e di fervore, la frequentazione delle tre fonti cristiane fondamentali: Scrittura, Padri, Liturgia19. Allo scopo di fare della Storia una magistra vitae e non una magistra mortis, lo studio dei Padri consente alla Teologia di accogliere la Storia, facendo pervenire la conoscenza teologica a quella sintesi sapienziale ed a quel “metodo” che, lungi dalle semplificazioni manualistiche, risulti efficace e costruttivo. L’apporto dell’antica teologia dei Padri alla ricerca teologica attuale è in costante sviluppo e divenire, realizzando e rendendo

17 Cfr. J. LECLERCQ, Un demi-siècle de synthèse entre histoire et théologie, in Seminarium XVII n.s. (1977) 1, 21-35. 18 Cfr. DV, II,8-9 (18/11/1965), 882-885, in particolare, 884: sicque Deus, qui olim locutus est, sine intermissione cum dilecti filii sui Sponsa colloquitur, et Spiritus Sanctus, per quem viva vox Evangelii in Ecclesia, et per ipsam in mundo resonat, credentes in omnem veritatem inducit, verbumque Christi in eis abundanter inhabitare facit (cfr. Col 3,16). 19 J. LECLERCQ, Un demi-siècle de synthèse entre histoire et théologie, 31.


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operativo il “ritorno alle fonti” che il Concilio Vaticano II esigeva ed esige ancora oggi. 3. IL RIFERIMENTO AI PADRI DELLA CHIESA NELLA DEI VERBUM Il riferimento ai Padri della Chiesa nella Dei verbum si attua in vari modi. Si avverte subito, ad una prima lettura e ad una prima impressione, effettivamente, il “carattere” patristico specie nei parr. 8-9, ove si parla del rapporto tra Scrittura e Tradizione. Due sono i richiami veri e propri ai Padri, il primo, alla fine di DV 8, dove si dice che: «Le asserzioni dei santi padri attestano la vivificante presenza di questa tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella prassi e nella vita della chiesa che crede e che prega. È per mezzo di questa tradizione che la chiesa conosce l’intero canone dei libri sacri e che le stesse sacre scritture sono comprese più compiutamente e rese continuamente operanti.»20.

È interessante notare come si insista ancora sull’importanza dei dicta Patrum, quasi a voler difendere il loro impiego come dicta probantia; in realtà, la proposizione di DV 8, qui riportata, è profondamente innovativa, in quanto vi si rileva il contributo alla conoscenza della traditio, intesa non più come presenza astratta di un semplice ed obbligato riferimento, ma piuttosto, come vivifica praesentia, o «vivificante presenza». Questa praesentia non è intesa soltanto in quanto dicta Patrum — quindi implicitamente anche scripta Patrum — ma come presenza che sovrabbonda e si riversa quale divitiae o «ricchezze», 20 DV, II,8-9 (18/11/1965), 882-885, in particolare, 884: Sanctorum Patrum dicta huius Traditionis vivificam testificantur praesentiam, cuius divitiae in praxim vitamque credentis et orantis Ecclesiae trasfunduntur. Per eandem Traditionem integer Sacrorum Librorum canon Ecclesiae innotescit, ipsaeque Sacrae Litterae in ea penitius intelliguntur et indesinenter actuosae redduntur. Cfr. GREGORIO MAGNO, Regola pastorale. A cura di Giuseppe Cremascoli, Roma 2008 (Opere di Gregorio Magno, VII), II,2,13,39: Nam tunc sacerdos irreprehensibiliter graditur, cum exempla patrum precedentium indesinenter intuetur, cum sanctorum vestigia sine cessatione considerat, et cogitationes illicitas deprimit, ne extra ordinis limitem operis pedem tendat. Attraverso Gregorio Magno, quindi, la Storia si pone in rapporto con la Teologia in Dei verbum.


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«nella prassi e nella vita della chiesa che crede e che prega» ovvero in praxis ed in vita. La Traditio viene quindi intesa come prassi e vita poste in atto da testimoni quali i Padri che sono, con i loro dicta, vivifica praesentia nella Chiesa. È un concetto nuovo e stimolante di Tradizione che punta sull’apporto testimoniale dei Padri e non soltanto sul loro apporto logico-dialettico, alla definizione delle verità di fede. È per mezzo di questa tradizione, fatta di prassi e di vita, che si conosce l’intero canone delle Sacre Scritture ed esse, in questo modo, sono compiutamente operanti nella Chiesa. È implicito qui il riferimento all’uso della Scrittura nella predicazione dei Padri, squisitamente liturgica ed ecclesiale ovvero fatta di praxis e di vita. Il secondo richiamo vero e proprio si trova verso la fine, in DV 23 e recita così: «La sposa del Verbo incarnato, cioè la Chiesa, istruita dallo Spirito Santo, si preoccupa di avvicinarsi a conseguire una comprensione sempre più profonda delle sacre Scritture, per nutrire di continuo (in dies) i suoi figli con le divine parole; perciò a ragione promuove anche lo studio dei santi padri, d’oriente e d’occidente, e delle sacre liturgie.»21.

La lettura del testo latino della Dei verbum è da suggerire come costante ed obbligatoria, non soltanto perché ci si può, in qualche modo, accostare alla viva voce ed alla lingua dei Padri conciliari presenti al Concilio Vaticano II, ma anche perché, soltanto così si può attingere al senso vivo ed oseremmo dire sorgivo, del dettato conciliare. Il passo qui riproposto non esorta a leggere ed a studiare i commentari esegetici e gli studi ermeneutici redatti sulle sacre Scritture sia dai Padri d’oriente che da quelli d’occidente, quanto piuttosto, le fonti liturgiche, in primo luogo, i testi dei Padri della Chiesa nella Liturgia horarum, come ci suggerisce chiaramente l’espressione latina in dies o «di giorno in giorno» e com’è ribadito alla fine. I Padri conciliari esortano quindi chiaramente a meditare i 21

DV 23: Verbi incarnati Sponsa, Ecclesia nempe, a Sancto Spiritu edocta, ad profundiorem in dies Scripturarum Sacrarum intelligentiam assequendam accedere satagit, ut filios suos divinis eloquiis indesinenter pascat; quapropter etiam studium sanctorum Patrum tum Orientis tum Occidentis et sacrarum Liturgiarum rite fovet.


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testi patristici della Liturgia delle Ore, sottolineando, in tal modo, il legame stretto e vitale dei Padri della Chiesa con la Liturgia. Si può osservare, allora, come i due richiami veri e propri ai Padri in DV si riferiscano, il primo, al loro legame con la Tradizione; il secondo, a quello con la Liturgia. Tradizione e Liturgia sono i due poli del riferimento ai Padri in DV, senza parlare poi dell’accezione di Traditio, che in tutti i luoghi della Costituzione Dogmatica contiene in sé, implicitamente o manifestamente, sempre il riferimento ai Padri22. Le citazioni patristiche rappresentano un’altra forma del riferimento ai Padri in DV; esse sono dirette ed indirette. Complessivamente, le citazioni patristiche sono 19, di cui 6 dirette e 13, invece, indirette23. Tuttavia, non è sempre così facile distinguere le citazioni dirette da quelle indirette. Le prime sono virgolettate, nel testo di DV, le seconde non lo sono, ma non per questo non sono citate fedelmente. Si ha, in effetti, l’impressione che tutta la Costituzione Dogmatica Dei verbum sulla divina Rivelazione abbia un vero e proprio andamento discorsivo, dal quale emergono le citazioni dei Padri non per dimostrare la giustezza delle affermazioni dogmatiche ivi contenute, ma piuttosto, per inverare quanto detto in DV. Cercheremo di spiegare meglio nel prosieguo del nostro contributo quanto stiamo tentando di dire. Vogliamo così seguire il testo di DV, dall’inizio alla fine, in maniera da notare il carattere particolare del riferimento ai Padri, nella Costituzione Dogmatica sulla divina Rivelazione. Il presente modesto contributo non intende proporre né presentare un’analisi minuziosa ed approfondita, ci siamo serviti dei testi della Patrologia Graeca e Latina del Migne, per cogliere l’occasione di fare alcune semplici osservazioni sull’uso di alcune citazioni patristiche in DV. All’inizio della Costituzione Dogmatica, in DV 1, precisamente nel Proemio, si

22

Cfr. DV 8,884 già citato, ma anche 9,885: Sacra Traditio … successoribus eorum integre transmittit; DV 10,886: Sacra Traditio … Ecclesiae commissum; DV 12,893: vivae totius Ecclesiae Traditionis; 23 Si rinvia all’utile prospetto grafico di A.M. TRIACCA, L’uso dei «loci» patristici nei Documenti del Concilio Vaticano II: un caso emblematico e problematico, 152.


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cita, alla fine, una citazione indiretta ma fedele di Agostino d’Ippona, tratta dal suo De catechizandis rudibus. Il testo di DV 1 recita così: «Perciò, seguendo le orme dei concili Tridentino e Vaticano I, esso (Concilio Vaticano II) intende proporre la genuina dottrina sulla divina rivelazione e sulla sua trasmissione, affinché per l’annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami.»24.

La citazione completa di Agostino da cui è stata tratta la citazione indiretta di DV 1 è la seguente: «Grande è infatti la miseria, essendo l’uomo superbo; ma più grande è la misericordia, essendo Dio umile. Allora, abbi questo amore come alto proposito e riferisci ad esso tutto quello che dici; qualsiasi cosa tu racconti, raccontala in modo che quello a cui tu parli, ascoltando creda, credendo speri, sperando ami.»25.

Il singolo destinatario, il catecumeno o il rudis, cui è rivolta la narratio del De catechizandis rudibus, nel testo del Proemio di DV 1, viene assimilato al mundus, al «mondo», affinché questo accolga in chiave trinitaria e teologale, secondo la felice espressione di Agostino, l’annunzio del Vangelo. Certamente, la citazione agostiniana colpiva i Padri conciliari per la presenza in essa di una struttura trinitaria ma anche per il saldo e semplice impianto sulle virtù teologali, in essa espresse. Il dato più importante, però, è l’attenzione al mondo, destinatario dell’annunzio del Vangelo, che rivela la svolta antropologica posta in atto dal Concilio Vaticano II ed il passaggio decisivo dall’accento posto sul depositum fidei — da difendere innanzitutto e ad ogni

24 DV, 1,872: Propterea, Conciliorum Tridentini et Vaticani I inhaerens vestigiis, genuinam de divina revelatione ac de eius transmissione doctrinam proponere intendit, ut salutis praeconio mundus universus audiendo credat, credendo speret. Sperando amet. 25 AGOSTINO D’IPPONA, De catechizandis rudibus, IV,8, in J.P. MIGNE, Patrologia Latina, 40, col. 316: Magna est enim miseria, superbus homo; sed major misericordia, humilis Deus. Hac ergo dilectione tibi tanquam fine proposito, quo referas omnia quae dicis, quidquid narras ita narra, ut ille cui loqueris audiendo credat, credendo speret, sperando amet.


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costo — a quello posto sulla traditio — da ravvivare continuamente — con la quale accogliere e quindi trasmettere l’annunzio del Vangelo. In DV 4 troviamo la prima citazione patristica greca diretta, tratta da un testo che può essere considerato un piccolo ma mirabile gioiello della Patristica greca: l’Ad Diognetum26. La brevissima ma densissima citazione diretta insiste sull’Incarnazione. Leggiamo: «Mandò infatti il Figlio suo, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “proferisce le parole di Dio (Gv 3,34)” e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4).»27.

La citazione da cui deriva è la seguente: «Ma lo ha inviato nella bontà e nella mitezza, come un re invia un figlio re, lo ha inviato come un Dio, come uomo agli uomini lo ha inviato, per salvare lo ha inviato, per persuadere non per forzare: la forza infatti non si addice a Dio.»28.

In realtà, il Funk, nella sua edizione critica, adottata dai Padri conciliari ed introdotta in DV 4, accetta l’integrazione del grande filologo Lachman, il quale intende: «come uomo agli uomini lo ha

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Sulle fortunose vicende che portarono alla scoperta ed al rinvenimento di questo testo, nonché sugli studi e sulle ipotesi relative al suo autore, alla sua datazione ed all’ambiente nel quale vide la luce, si rinvia a A Diogneto. Introduzione, traduzione e note a cura di E. NORELLI, Milano 1991, Introduzione, 11-71, con ampia bibliografia. 27 DV 4,875: Misit enim Filium suum, aeternum scilicet Verbum, qui omnes homines illuminat, ut inter homines habitaret iisque intima Dei enarraret (cfr. Io 1,1-18). Iesus Christus ergo, Verbum caro factum, «homo ad homines» missus, “verba Dei loquitur” (Io 3,34), et opus salutare consummat quod dedit ei Pater faciendum (cfr. Io 5,36; 17,4). 28 Ad Diognetum, 7,4, in F.X. FUNK, Patres apostolici, I,403: a)ll' e)n e)pieikei¿# <kaiì> prau/+thti w¨j basileu\j pe/mpwn ui¸o\n basile/a eÃpemyen, w¨j qeo\n eÃpemyen, w¨j <aÃnqropon> pro\j a)nqrw¯pouj eÃpemyen, w¨j s%¯zwn eÃpemyen, w¨j pei¿qwn, ou) biazo/menoj: bi¿a ga\r ou) pro/sesti t%½ Qe%½.


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inviato». L’integrazione di uomo da parte del Lachman è respinta dal Norelli, il quale, sulla scorta di Lienhard, rileva che in nessun altro luogo dell’Ad Diognetum esiste una menzione dell’Incarnazione29. Il Norelli nella sua versione italiana dell’Ad Diognetum, legge invece: «l’ha inviato come a uomini» intendendo la particella w(j come correlativa; secondo la figura retorica del chiasmo; «l’inviare come un dio» farebbe allora da pendant all’«inviare come a uomini». La questione non è risolta, tuttavia l’integrazione del Lachman è accolta da molti e dai Padri conciliari, testimoniando come questa citazione diretta dell’Ad Diognetum venga loro in aiuto per supportare i tre forti richiami al Vangelo secondo Giovanni che, naturalmente, insistono sul Verbo fatto carne. Non è, un ricorrere, come in passato, ai dicta probantia; qui la citazione diretta dell’Ad Diognetum esprime la netta e decisiva svolta antropologica verso l’Incarnazione del Concilio Vaticano II, il cui valore non potrebbe essere inficiato, nemmeno se l’integrazione del Lachman si mostrasse errata e l’interpretazione di Norelli si mostrasse invece giusta. Riguardo alla successione apostolica e quindi al ruolo dei vescovi nella Tradizione, vogliamo riferire questa breve ma densissima proposizione di DV 7: «Affinché poi il Vangelo si conservasse sempre integro e vivo nella chiesa gli apostoli lasciarono come successori i vescovi, “affidando loro il proprio compito di magistero”.»30.

Vi troviamo alla fine, una citazione, tratta direttamente dall’Adversus Haereses di Ireneo di Lione, ove leggiamo:

29

Cfr. A Diogneto. Introduzione, traduzione e note a cura di E. NORELLI, 102: «L’ha inviato, invece, nella bontà e nella mitezza, come un re che invia il figlio re, l’ha inviato come un dio, l’ha inviato come a uomini, l’ha inviato per salvare, per persuadere, non per fare violenza: perché non c’è violenza presso Dio.». Cfr. Appendice I, 141-142 30 DV 7,881: Ut autem Evangelium integrum et vivum iugiter in Ecclesia servaretur, Apostoli successores reliquerunt Episcopos, ipsis «suum ipsorum locum magisteriis tradentes».


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«Davvero, infatti (gli Apostoli), volevano che quelli (i vescovi) fossero perfetti ed irreprensibili in ogni cosa e li lasciavano quali (loro) successori, consegnando il loro proprio compito di magistero: essendovi grande utilità per coloro i quali agivano correttamente, invero, grande calamità per chi era caduto.»31.

I Padri conciliari colgono in questa citazione di Ireneo di Lione l’occasione per ribadire il ruolo della figura e del ministero dei vescovi, nella Tradizione apostolica. La presenza ed il ministero dei vescovi si giustificano, quindi, in virtù del mandato degli Apostoli che hanno consegnato loro (tradentes) il Vangelo, per mantenerlo integrum et vivum. La traditio è allora un passaggio vivente, nel quale consiste sia l’integrità del Vangelo sia la validità e la legittimità della successione apostolica nei vescovi, i quali hanno il magisterium ovvero il compito ed il dovere di insegnare, proprio degli Apostoli. L’impiego della citazione diretta di Ireneo viene in soccorso ai Padri conciliari per definire, quindi, il ruolo e la funzione del ministero episcopale, in collegamento con la Tradizione apostolica e l’annunzio del Vangelo. Ireneo di Lione, con la sua lapidaria affermazione, pone i vescovi come insostituibili anelli della Tradizione apostolica, ma da questa e solo da questa, essi traggono la loro legittimità e la loro funzione. Sempre in relazione al ruolo dei vescovi nella Chiesa ed al ministero episcopale, troviamo in DV 10 un’importante citazione indiretta di Cipriano di Cartagine. Il testo di DV 10 recita così: «La sacra tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi pastori, persevera costantemente nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nella frazione del pane e nelle orazioni (cfr. At 2,42 gr.), in modo che, nel ritenere, praticare e

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IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses, III,3,1, in J.P. MIGNE, Patrologia Graeca, 7,848: Valde enim perfectos et irreprehensibiles in omnibus eos volebant esse quos et successores relinquebant, suum ipsorum locum magisterii tradentes: quibus emendate agentibus fieret magna utilitas, lapsis autem summa calamitas. Giunto a noi in latino.


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Francesco Aleo professare la fede trasmessa, si stabilisca una singolare unità di spirito tra vescovi e fedeli.»32.

In realtà, la citazione di Cipriano più che indiretta appare “mediata” dal riferimento alla Costituzione apostolica Munificentissimus Deus di Pio XII33. Esaminiamo, allora, il testo ciprianeo cui fa riferimento DV 10: «Tuttavia, la Chiesa non può separarsi da Cristo e quelli sono Chiesa (in quanto) popolo unito al sacerdote e gregge che aderisce al suo pastore. Da questo devi sapere che il vescovo è nella Chiesa e che la Chiesa è nel vescovo e che, se qualcuno non sta con il vescovo, costui non sta nella Chiesa.»34.

Interessa notare come i Padri conciliari abbiano riportato soltanto la prima parte della citazione ciprianea, riformulandola in maniera significativa e quasi rimaneggiandola. La seconda parte, infatti, nella sua concisione e perentorietà, poteva indurre l’adozione di un tono nonché di uno stile, da cui la Dei verbum e tutti i documenti del Concilio Vaticano II rifuggono. La citazione ciprianea, indiretta e “mediata”, in certo qual modo, da un’altra Costituzione apostolica, esprime efficacemente la condizione di esistenza della Chiesa e quindi del vescovo: quella cioè della comunione con il popolo di Dio. I Padri conciliari mostrano di osservare il mantenimento di un delicato equilibrio, tra «tutto il popolo santo, unito ai suoi pastori» e la «singolare unità di spirito tra vescovi e fedeli». Si evince così un dato interessante: 32

DV 10,886: Sacra Traditio et Sacra Scritptura unum verbi Dei sacrum depositum constituunt Ecclesiae commissum, cui inhaerens tota plebs sancta Pastoribus suis adunata in doctrina Apostolorum et communione, fractione panis et orationibus iugiter perseverat (cfr. Act 2,42 gr.), ita ut tradita fide tenenda, exercenda profitendaque singularis fiat Antistitum et fidelium conspiratio. 33 PIUS XII, Costituzione apostolica Munificentissimus Deus, (1/11/1950), in AAS 42 (1950), 756. 34 CIPRIANO DI CARTAGINE, Epistola LXIX, 8, in J.P. MIGNE, PL 4,405C: Ecclesia tamen a Christo non recedit, et illi sunt Ecclesia plebs sacerdoti adunata et pastori suo grex adhaerens. Unde scire debes episcopum in Ecclesia esse et Ecclesiam in episcopo, et si quis cum episcopo non sit, in Ecclesia non esse.


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le citazioni patristiche nella Dei verbum — come quest’ultima, tratta dall’Epistola LXIX di Cipriano di Cartagine — non sono state soltanto accuratamente scelte dai Padri conciliari ma sono state anche accuratamente da loro soppesate, quindi riformulate e quasi rimaneggiate, quasi nel timore che potessero alterare un delicato equilibrio, nell’andamento discorsivo della Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione35. Equilibrio che, nel caso di DV 10 e della citazione di Cipriano, non vede il vescovo da una parte ed il popolo dall’altra, ma vede, piuttosto, vescovo e popolo aderire insieme l’uno all’altro, nella Chiesa. La citazione di Cipriano, in cui ricorre pastori suo grex adhaerens, pone, nel prosieguo, l’unità del popolo di Dio con il vescovo come inderogabile, lasciando trasparire una certa intransigenza. L’intransigenza che vi si coglie è in realtà un’impressione e va vista nel contesto dell’Epistola LXIX di Cipriano di Cartagine, della sua contesa con Novato e della questione dei lapsi; ciò non toglie nulla alla cautela ed alla cura con le quali i Padri conciliari maneggiano questa come altre citazioni patristiche. Infatti, l’adhaerens ciprianeo si sposa con l’inhaerens di DV 10. Però, inhaerens vuol unire il sacrum depositum della Parola di Dio al popolo e questi è unito o adunatus al suo pastore. Invece, l’adhaerens di Cipriano unisce direttamente il popolo di Dio al suo pastore. Dalla fine di DV 11 fin quasi a tutta DV 12, si susseguono citazioni indirette di Agostino d’Ippona. È un dato che non può essere casuale, dal momento che DV 11 è dedicata all’Ispirazione e verità nella sacra Scrittura e DV 12 a Come dev’essere interpretata la sacra Scrittura. In DV 11 leggiamo: «Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati, cioè gli agiografi, asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve professare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente

35

In realtà, nell’edizione dell’Enchiridion Vaticanum, 1,886, Bologna 1993, in nota leggiamo il riferimento all’Epistola 66,8 e non LXIX, probabilmente, la numerazione in CSEL è diversa da quella di PL, a motivo dell’espunzione di alcune Epistolae, attribuite erroneamente ad Agostino d’Ippona.


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Francesco Aleo e senza errore la verità che Dio in vista della nostra salvezza volle fosse messa per iscritto nelle sacre lettere.»36.

La proposizione citata, in DV 11, in realtà, è un compendio di un lungo brano di Agostino d’Ippona, nel suo De Genesi ad Litteram. Impegnato nell’esegesi e nell’interpretazione letterale di Gen 1,7b, a proposito delle «acque che sono sopra il firmamento», l’Ipponate, alla fine conclude, affermando che: «Ma, in qualunque modo e quali siano qui le acque, non dubitiamo minimamente che quelle siano lì: l’autorità di questa Scrittura è davvero più grande di tutta la capacità dell’ingegno umano.».

Agostino, così, conclude che esistono le cateratte d’acqua, poste sopra il firmamento e ribadisce l’auctoritas della Scrittura. È interessante notare come la citazione non venga ripresa dai Padri conciliari direttamente, ma piuttosto, il testo di DV 11 appare il frutto dell’assimilazione del pensiero esegetico di Agostino, nel suo contenuto più profondo e — quello che è ancor più importante — nel suo spirito più autentico. Leggiamo ancora: «Occorre brevemente dire che i nostri autori (sacri) erano a conoscenza di questa nozione, riguardo alla configurazione del cielo, quella che possiede la verità; ma lo Spirito di Dio, che parlava per mezzo loro non voleva insegnare agli uomini cose che non avrebbero giovato per nulla alla loro salvezza.»37.

Agostino afferma chiaramente come attraverso gli agiografi parla 36

DV 11,890: Cum ergo omne id, quod auctores inspirati seu hagiographi asserunt, retineri debeat assertum a Spiritu Sancto, indi Scripturae libri veritatem, quam Deus nostrae salutis causa Litteris Sacris consignari voluit, firmiter, fideliter et sine errore docere profitendi sunt. 37 AGOSTINO D’IPPONA, De Genesi ad litteram, II,9.20, in PL 34,267: Quoquo modo autem et qualeslibet aquae ibi sint, esse eas ibi minime dubitemus: major est quippe Scripturae hujus auctoritas, quam omnis humani ingenii capacitas. Ed ancora, alla col. 270: breviter dicendum est de figura coeli hoc scisse auctores nostros quod veritas habet; sed Spiritum Dei, qui per ipsos loquebatur, noluisse ista docere homines nulli saluti profutura.


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lo Spirito Santo. Essi non si preoccupavano di conoscere la natura e la configurazione dei cieli ma, invece, erano molto più preoccupati e con loro lo Spirito Santo, della salvezza degli uomini. I Padri conciliari mostrano di aver profondamente assimilato ed a lungo meditato i passaggi agostiniani del De Genesi ad litteram, noto anche come opus imperfectum, poiché non fu portato a termine da Agostino. Così l’affermazione di DV 11, secondo la quale «la verità che Dio in vista della nostra salvezza volle fosse messa per iscritto nelle sacre lettere» o quam Deus nostrae salutis causa Litteris Sacris consignari voluit, compendia, mirabilmente, l’affermazione agostiniana noluisse ista docere homines nulli saluti profutura, secondo la quale, lo Spirito di Dio insegna agli uomini soltanto quello che giova alla loro salvezza. In tal modo, l’aggettivo di «ispirati» o inspirati, riferito agli agiografi, compendia mirabilmente l’agostiniano sed Spiritum Dei, qui per ipsos loquebatur. Quindi l’affermazione di DV 11: «tutto ciò che gli autori ispirati, cioè gli agiografi, asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo» proviene dalla profonda assimilazione e dalla meditazione dei passi agostiniani evidenziati e forse anche da altri non immediatamente percepiti o percepibili nel testo conciliare. Questa particolare forma di riferimento ai Padri, può indurci in questi casi particolari, a parlare di citazioni compendiate, piuttosto che di citazioni indirette. Quest’operazione sui testi agostiniani, impiegati in DV 11-12, ci fa comprendere quanto sia stata importante e soprattutto impegnativa la lettura e la comprensione dei Padri, nella redazione della Dei verbum. Emerge poi lo sforzo, già notato nella citazione di Cipriano di Cartagine, di non introdurre affermazioni passibili d’intransigenza. Nel caso di DV 11, si tratta di un argomento assai delicato quale quello dell’ispirazione scritturistica e dell’interpretazione di passi dall’interpretazione problematica della Sacra Scrittura, quali quelli presenti in Gen 1, dove si poneva, già al tempo di Agostino, l’incontro o lo scontro con le ipotesi cosmologiche dell’origine dell’Universo ed oggi, il dialogo tra scienza e fede. I Padri conciliari non rinunciano ad Agostino ma lo ruminano, traendone fuori l’essenza che soccorre sia la loro esposizione sia l’andamento discorsivo della Costituzione Dogmatica Dei verbum sulla divina Rivelazione. In tal caso si può parlare di “evocazioni” agostiniane. Abbiamo, però, un’altra citazione di Agostino d’Ippona, sempre


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indiretta, sussunta al testo conciliare di DV 11, a differenza delle altre due, delle quali la prima è compendiata e la seconda evocata. Si tratta dell’Epistola LXXXII, indirizzata a Gerolamo di Stridone a motivo dell’interpretazione di alcuni loci dell’Epistola ai Galati38. Vi leggiamo: «Allora non vi sia alcun timore di offenderti, perché si gioca sul tuo campo; ma sarebbe strano se noi non giocassimo. Io infatti confesso alla Carità tua che ho appreso a portare questo onore e timore a quei soli libri delle Scritture che ormai si chiamano canonici, perché io creda in maniera fermissima che nessun autore di quei (libri), scrivendoli, abbia commesso errori. E se avrò commesso qualche offesa verso quelle Lettere, ciò mi sembrerebbe contrario alla verità; a null’altro ambirei, se non (a dire) che il codice è scorretto oppure che il traduttore non ha seguito quello che era stato detto oppure che io non abbia minimamente capito. Al punto che leggo che altri per quanto siano superiori per santità e dottrina, sentirono in tal modo, perciò non lo riterrei vero; ma perché poterono persuadermi o per mezzo di altri autori canonici o con probabili motivazioni, la qual cosa non mi allontana dal vero. Non stimo di sentire altro da te fratello mio: ancora, dico, non ti reputo tale da volere che i tuoi libri siano letti come quelli dei Profeti o degli Apostoli; dei quali scritti, poiché mancano di ogni errore è nefando dubitare. Sia ciò assente dalla pia umiltà e dal verace pensiero di te stesso; se non ne fossi abbondantemente provvisto, non potrei dire: voglia il cielo che meritassimo i tuoi abbracci e con mutua collaborazione, insegnassimo o imparassimo altre cose.»39. 38 Questa ed altre Epistolae di Agostino, allarmato dalla versione latina di alcuni passaggi dell’Epistola ai Galati di Paolo da parte di Gerolamo, spinsero l’Ipponate a scrivere il De Mendacio, cfr. AGOSTINO D’IPPONA, De mendacio. Introduzione e note di Nello Cipriani, Traduzione di Vincenzo Tarulli, Roma 2001 (Opere di Sant’Agostino VII/2), Introduzione, 297-300. 39 AGOSTINO D’IPPONA, Epistola LXXXII,3, in PL 33,277: Tum vero sine ullo timore offensionis tanquam in campo luditur; sed mirum si nobis non illuditur. Ego enim fateor Charitati tuae, solis eis Scripturarum libris qui jam canonici appellantur, didici hunc timorem honoremque deferre, ut nullum eorum auctorem scribendo aliquid errasse firmissime credam. Ac si aliquid in eis offendero Litteris, quod videatur contrarium veritati; nihil aliud, quam vel mendosum esse codicem, vel interpretem non assecutum esse quod dictum est, vel me minime intellexisse, non ambigam. Alios autem ita lego, ut quantalibet sanctitate doctrinaque praepolleant, non ideo verum putem, quia ipsi ita senserunt; sed quia mihi vel per illos auctores canonicos, vel probabili ratione,


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Nella risposta a Gerolamo, Agostino ribadisce che le Sacre Scritture contenute nei libri riconosciuti canonici, non contengono errori; che se errori vi sono, questi sono dovuti a cause meccaniche, come la cattiva qualità dei codici manoscritti o gli errori dei traduttori nel caso delle versioni in altre lingue, dall’originale ebraico o greco. L’Epistola di Agostino si giustifica con il fatto che Gerolamo ha attribuito a Pietro una responsabilità meno grave nel dissidio con Paolo di cui questi parla nella sua Epistola ai Galati. Per cui, veramente e giustamente Pietro fu ripreso da Paolo per la sua «ipocrisia» (cfr. Gal 2,12-13). Agostino allora vuol dire che le Scritture canoniche sono intoccabili e non possono essere alterate a causa delle nostre interpretazioni, anche se mossi da nobili ragioni, quali la difesa di Pietro, da parte di Gerolamo, nella versione latina della Vulgata dell’Epistola ai Galati. Il lungo brano di Agostino non può essere chiaramente definito quale citazione diretta, indiretta, compendiata o “evocazione”, è piuttosto un documento o una testimonianza, a supporto dell’inerranza delle Scritture canoniche. Certamente, nell’opera dei Padri conciliari, i Padri della Chiesa assumono un ruolo nuovo: essi sono testimoni autorevoli, con la loro esperienza e sapienza, della Tradizione, in particolare, come in questo caso, nell’interpretazione e nello studio delle Scritture. Ancora Agostino viene citato in DV 12, in un testo importante sull’ispirazione scritturistica. Leggiamo: «Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della sacra Scrittura, per venire a conoscere ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi realmente hanno inteso indicare e che cosa a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole.»40. quod a vero non abhorreat, persuadere potuerunt. Nec te, mi frater, sentire aliud existimo: prorsus, inquam, non te arbitror sic legi tuos libros velle, tanquam Prophetarum, vel Apostolorum; de quorum scriptis, quod omni errore careant, dubitare nefarium est. Absit hoc a pia humilitate et veraci de temetipso cogitatione; qua nisi esses praeditus, non utique diceres: Utinam mereremur complexus tuos, et collatione mutua vel doceremus aliqua, vel disceremus. 40 DV 12,891: Cum autem Deus in Sacra Scriptura per homines more hominum locutus sit, interpres Sacrae Scripturae, ut perspiciat, quid Ipse nobiscum communicare


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Esaminiamo ora la citazione agostiniana ed il modo in cui è stata incastonata — è il caso di dirlo — nel testo di DV 12: «Non invero, come se non sapesse dove fosse, tanto che Dio ricerca l’uomo: ma (Dio) parla attraverso l’uomo, alla maniera degli uomini; poiché è parlando così che egli ci cerca.»41.

Una citazione, questa, in direzione della svolta antropologica del Concilio e della centralità dell’Incarnazione, per cui, i Padri conciliari preferiscono questa ad altre due citazioni nel De Civitate Dei (PL 41,603.722), forse più puntuali ma meno pregnanti. Il parlare di Dio è dunque un parlare alla maniera umana; è interessante vedere come i Padri non si sostituiscano al dettato conciliare ed al pensiero dei Padri conciliari, ma piuttosto esprimano il pensiero della Chiesa, lo aiutino a sgorgare ed a diffondersi nei testi conciliari, rischiarando la dottrina cattolica e schiarendosi nel confronto con nuove formulazioni teologiche ed esegetiche. Si possono così riscontrare, nel riferimento ai Padri della Chiesa e nell’impiego delle citazioni patristiche nella Dei verbum — testimonianza di un lavoro serio di consultazione e di escussione delle fonti patristiche — i due occhi della Teologia. Il primo occhio è quello retrospettivo che guarda alla Rivelazione, quindi alla Scrittura ed alla fede come dono di Dio; il secondo è l’occhio prospettico che guarda al presente ed al futuro per illuminarli alla luce della fede. Il riferimento ai Padri della Chiesa permette costantemente di guardare avanti ed indietro per scorgere nel presente le strade e le vie da seguire per il futuro. DV 12 precisa più avanti quanto detto sopra, affermando che: «È necessario dunque che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo ha inteso e ha espresso in determinate circostanze, secondo la condizione

voluerit, attente investigare debet, quid hagiographi reapse significare intenderint et eorum verbis manifestare Deo placuerit. 41 AGOSTINO D’IPPONA, De Civitate Dei, XVII,6,2, in PL 41,537: Non autem quasi nesciat ubi sit, ita Deus sibi hominem quaerit: sed per hominem more hominum loquitur; quia et sic loquendo nos quaerit.


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del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso.»42.

A questo testo è sottesa un’altra citazione di Agostino. Vediamo subito quale: «Vi sarà pertanto anche questo nelle norme da osservare per l’intelligenza delle Scritture, per conoscere quali cose raccomandare comunemente ad alcuni, quali ad altri ed a quali generi di persone; perché la medicina, non serva soltanto allo stato di salute generale, ma anche all’infermità propria di ciascun membro (del corpo). Nel proprio genere, occorre occuparsi di quello che non può essere eretto a genere migliore.»43.

Nel De Doctrina christiana, Agostino vuol dire che i generi letterari della Scrittura offrono una cura mirata per le varie categorie di persone e per i vari generi di infermità, di carattere spirituale. I Padri conciliari vi vedono qui la distinzione e l’individuazione, nella Scrittura, dei generi letterari con i quali l’agiografo si esprime. In tal modo, i Padri conciliari, confrontando Agostino con Agostino, studiano e meditano i testi dell’Ipponate per illuminare la dottrina dell’ispirazione scritturistica ed il problema dei generi letterari nella Scrittura. Siamo di fronte ad un esempio di studio patristico, innovativo al tempo della redazione della Dei verbum, applicato a problemi teologici, il cui risultato sono i testi conciliari che stiamo passando pazientemente in rassegna. Sempre in DV 12 troviamo: «Però, dovendo la sacra Scrittura essere letta e interpretata con lo stesso

42 DV 12,892: Oportet porro ut interpres sensum inquirat, quem in determinatis adiunctis hagiographus, pro sui temporis et suae culturae condicione, ope generum litterariorum illo tempore adhibitorum exprimere intenderit et expresserit. 43 AGOSTINO D’IPPONA, De Doctrina christiana, III,18,26, in PL 34,75-76: Erit igitur etiam hoc in observationibus intelligendarum Scripturarum, ut sciamus alia omnibus communiter praecipi, alia singulis quibusque generibus personarum; ut non solum ad universum statum valetudinis, sed etiam ad suam cujusque membri propriam infirmitatem medicina pertineat. In suo quippe genere curandum est, quod ad melius genus non potest erigi.


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Francesco Aleo Spirito con cui fu scritta, per scoprire con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenendo debito conto della viva tradizione di tutta la chiesa e dell’analogia della fede.»44.

Vi è sussunta una citazione di Gerolamo di Stridone e precisamente: «Chiunque, pertanto, comprende diversamente la Scrittura sulla quale si effonde il senso dello Spirito Santo con cui è stata scritta: gli è concesso non separarsi dalla Chiesa, tuttavia può essere chiamato eretico ed appartiene alle opere della carne, scegliendo quelle peggiori.»45.

I Padri conciliari colgono nell’irruenza della prosa e della vis polemica geronimiana soltanto quello che può aiutare non a dimostrare né a spiegare, ma piuttosto a rischiarare i problemi di cui si occupano nella Dei verbum. Si evince anche dall’uso di questa citazione geronimiana un’altra scelta precisa: rinunziare ad indurre ad assumere posizioni intransigenti. Con questa citazione indiretta che parrebbe monca, Gerolamo, in realtà, viene valorizzato non emendato, lo si nobilita, cogliendo il dato che il cultore dell’hebraica veritas ha saputo riconoscere: nella Scrittura dimora lo Spirito Santo ed il suo sensus. In DV 13 si parla della condescensio o «condiscendenza», katàbasis in greco, dell’eterna Sapienza nella Scrittura. Leggiamo: «Nella sacra Scrittura dunque, pur restando sempre intatta la verità e la santità di Dio, si manifesta l’ammirabile condiscendenza (condescensio) dell’eterna Sapienza, “affinchè comprendessimo l’ineffabile benignità di

44

DV 12,893: Sed cum Sacra Scriptura eodem Spiritu quo scripta est etiam legenda et interpretanda sit, ad recte sacrorum textuum sensum eruendum, non minus diligenter respiciendum est ad contentum et unitatem totius Scripturae, ratione habita vivae totius Ecclesiae Traditionis et analogiae fidei. 45 GEROLAMO DI STRIDONE, Commentaria in Epistolam ad Galatas, 5,19-21, in PL 26,417: Quicumque igitur aliter Scripturam intelligit, quam sensus Spiritus sancti flagitat, quo conscripta est: licet de Ecclesia non recesserit, tamen haereticus appellari potest, et de carnis operibus est, eligens quae pejora.


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Dio e quanto egli, sollecito e provvido nei riguardi della nostra natura, abbia adattato il suo parlare.”»46.

Vi ricorre una citazione diretta di Giovanni Crisostomo, la seconda citazione diretta della Patristica greca nel testo di Dei verbum. Leggiamola: «Affinché impariate l’ineffabile benignità (philanthropìa) di Dio e di quanta condiscendenza (synkatàbasis) egli si sia servito, a motivo della sollecitudine verso il nostro genere (umano).»47.

La svolta antropologica in direzione dell’Incarnazione, riscontrabile in tutti i documenti del Concilio Vaticano II, si evince, particolarmente in DV 13, da questa citazione crisostomica diretta, ma tradotta liberamente. I termini peculiari alla patristica greca, quali philanthropìa e synkatàbasis, si ritrovano in questa citazione di Giovanni Crisostomo, che non può essere stata scelta a caso dai Padri conciliari. La Scrittura è allora un luogo dell’Incarnazione e della condescensio di Dio verso l’uomo. Si noti come condescensio di DV 13 traduca letteralmente il greco synkatàbasis di Crisostomo e come poi, nel riportare virgolettata la citazione crisostomica nel testo conciliare, il latino traduca synkatàbasis con attemperatione, per precisare poi, in nota, come quest’ultimo termine latino traduca proprio synkatàbasis48. Sarebbe interessante ricostruire, dagli schemi provvisori della Dei verbum, la discussione tra i Padri conciliari che portò, probabilmente, alla necessità di scegliere tra i due termini latini condescensio ed attemperatio, per tradurre il crisostomico synkatàbasis. Si addivenne

46 DV 13,894: In Sacra Scriptura ergo manifestatur, salva semper Dei veritate et sanctitate, aeternae sapientiae admirabilis condescensio, «ut discamus ineffabilem Dei benignitatem, et quanta sermonis attemperatione usus sit, nostrae naturae providentiam et curam habens.». 47 GIOVANNI CRISOSTOMO, Homiliae in Genesim, 17,1, in J.P. MIGNE, Patrologia Graeca, 53,134: iàna ma/qhte tou= Qeou= th\n aÃfaton filanqrwpi¿an, kaiì oÀsv ke/xrhtai sugkataba/sei dia\ th\n periì to\ ge/noj to\ h(me/teron khdemoni¿an. 48 Cfr. EV, 1,895, n. 27.


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allora, ad una soluzione di compromesso: si adottarono entrambi i termini, indicando in nota che attemperatio traduceva synkatàbasis. Questo piccolo “episodio”, in quello che abbiamo denominato come l’andamento discorsivo della Dei verbum, ci può far render conto dell’impegno e delle discussioni in atto nel riferimento ai Padri della Chiesa, nel testo della Costituzione dogmatica Dei verbum sulla divina Rivelazione. Sull’unità dei due Testamenti ecco comparire in DV 16, un’altra citazione di Agostino, leggiamo: «Dio, dunque, è ispiratore e autore dei libri dell’uno e dell’altro Testamento. Egli ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nell’Antico e l’Antico diventasse chiaro nel Nuovo.»49.

È una citazione agostiniana, indiretta ma riferita fedelmente nel testo conciliare per la sua importanza, ma soprattutto, per la sua portata chiarificatrice. Leggiamola per esteso: «(Cfr. Es 20,19). Il significato riguarda molti e solidi contenuti: il timor (di Dio) riguarda piuttosto l’Antico Testamento, come l’amor (di Dio) il Nuovo (Testamento): sebbene il Nuovo si nasconda nell’Antico e l’antico si mostri nel Nuovo. In qual modo, invero, a tal popolo si attribuisca di “vedere” la voce di Dio, se ciò debba essere accettato come “comprendere”, poiché temendo di morire se Dio parla loro, non riluce in maniera sufficiente.»50.

Nel contesto dell’esegesi di Es 20,19, Agostino pone questo importante principio della continuità e dell’unità dell’Antico nel Nuovo Testamento, ponendo nello stesso tempo un’importante distinzione tra Antico e Nuovo Testamento, in base al timore, attribuito al primo

49 DV 16,897: Deus igitur librorum utriusque Testamenti ispirator et auctor, ita sapienter disposuit, ut Novum in Vetere lateret et in Novo Vetus pateret. 50 AGOSTINO D’IPPONA, Quaestiones in Heptateuchum, 2,73, in PL 34,623: Multum et solide significatur, ad Vetus Testamentum timorem potius pertinere, sicut ad Novum dilectionem: quanquam et in Vetere Novum lateat, et in Novo Vetus pateat. Quomodo autem tali populo tribuatur videre vocem Dei, si hoc accipiendum est intelligere, cum sibi loqui Deum timeant ne moriantur, non satis elucet.


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ed all’amore, attribuito al secondo. I Padri conciliari si “nutrono” di Agostino, questo è un dato che emerge chiaramente dall’esame del riferimento ai Padri in Dei verbum; il Dottore d’Ippona sostiene e viene in aiuto alla comprensione della dottrina dell’ispirazione scritturistica. I Padri conciliari, così, attingono alla sua dottrina ed alle sue opere esegetiche, allo scopo di scorgere i suoi orientamenti. Quella che si accoglie è allora la lezione sapienziale o sapienter di Agostino, quale interprete delle Scritture. DV 16 prosegue, presentando un’altra importante citazione. Leggiamo: «Infatti, anche se Cristo ha fondato la nuova alleanza nel sangue suo (cfr. Lc 22,20;1Cor 11,25), tuttavia i libri dell’Antico Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5,17;Lc 24,27;Rm 16,2526;2Cor 3,14-16), e a loro volta lo illuminano e lo spiegano.»51.

La citazione indiretta proviene dall’Adversus Haereses di Ireneo di Lione: «Pertanto, poiché sono state interpretate con tanta verità e grazia le Scritture dalle quali Dio preparò e riformò la nostra fede, che è nel suo Figlio e conservò per noi le semplici Scritture in Egitto; (fede) nella quale crebbe la casa di Giacobbe, sfuggendo la fame che fu in Canaan, nella quale anche nostro Signore fu preservato, sfuggendo quella persecuzione che era (perpetrata) da Erode.»52.

Anche questa citazione di Ireneo di Lione, al pari di quelle agostiniane, è particolare; in effetti, non compare chiaramente nel testo di DV 16. Non è una citazione diretta, né una indiretta, né tanto meno

51 DV 16,897: Nam, etsi Christus in sanguine suo Novum Foedus condidit (cfr. Lc 22,20;1Cor 11,25), libri tamen Veteris Testamenti integri in praeconio evangelico assumpti, in Novo Testamento significationem suam completam acquirunt et ostendunt (cfr. Mt 5,17;Lc 24,27;Rm 16,25-26;2Cor 3,14-16), illudque vicissim illuminant et explicant. 52 IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses, III,21,3, in PG 7,950: Cum tanta igitur veritate et gratia Dei interpraetatae sint Scripturae, ex quibus praeparavit et reformavit


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compendiata o evocata, si tratta invero, come dell’Epistola LXXXII di Agostino, di una testimonianza addotta dai Padri conciliari, per dirimere importanti questioni. In questo caso particolare, probabilmente, tutto Adversus Haereses, III,21,3 è stato esaminato e vagliato. Il passo succitato è il cuore della testimonianza di Ireneo, vagliata dai Padri conciliari e addotta per confermare l’unità dei due Testamenti e la verità della Storia della salvezza. Questa, nella prospettiva di Ireneo, consiste nella concordantia tra le vicende narrate nell’Antico Testamento e quella di Gesù di Nazareth nel Nuovo Testamento. Altre citazioni patristiche presiedono o soggiacciono alla stesura di DV 16. Vi è, infatti, presente Cirillo di Gerusalemme: «Apprendi che queste (le Scritture) sono ventidue libri: gli (scritti) apocrifi non hanno nulla in comune con esse. Solo queste devono essere studiate con diligenza, quelle che noi leggiamo con franchezza nella Chiesa. Molto più assennati e prudenti erano gli Apostoli, gli antichi vescovi, i capi della Chiesa che ce le hanno trasmesse.»53.

Segue quindi l’elenco di tutti gli scritti canonici dell’Antico e del Nuovo Testamento. Anche questa può essere considerata una testimonianza addotta a dimostrazione della coerenza e della fedeltà della Chiesa che ha sempre letto le Scritture consegnate ad essa nel Canone. Non si tratta allora semplicemente della procedura dei Dicta probantia; i Padri conciliari inaugurano un nuovo modo di studiare i Padri, soprattutto confrontano tra loro — citandoli e quindi studiandoli, vagliando e soppesando le loro considerazioni — i Padri della Chiesa d’occidente e quelli della Chiesa d’oriente. Ancora un altro Deus fidem nostram, quae in Filius eius est, et servavit nobis simplices Scripturas in Aegypto, in qua adolevit et domus Jacob, effugiens famem, quae fuit in Chanaan, in qua et Dominus noster servatus est effugiens eam persecutionem quae erat ab Herode. Giunto a noi in latino. 53 CIRILLO DI GERUSALEMME, Catechesis, IV,35, in PG, 33,497: Tou/twn ta\j eiãkosi du/o bi¿blouj a)nagi¿nwske: pro\j de\ ta\ a)po/krufa mhde\n eÃxe koino/n. Tau/taj mo/naj mele/ta spoudai¿wj, aÁj kaiì e)n ¹Ekklhsi¿# meta\ par)r(hsi¿aj a)naginw¯skomen. Polu/ sou fronimw¯teroi kaiì eu)labe/steroi hÅsan oi¸ a)po/stoloi kaiì oi¸ a)rxaiÍoi e)pi¿skopoi, oi¸ th=j ¹Ekklhsi¿aj prosta/tai, oi¸ tau/taj parado/ntej.


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Padre della Chiesa d’oriente viene citato in DV 16; si tratta di Teodoro di Mopsuestia: «Avendole (le Scritture) ricevute da quelli (gli Apostoli), ora le abbiamo noi che proveniamo dalle genti, coloro i quali hanno creduto in Cristo Signore, leggendole nelle chiese e tenendole presso di sé in casa.»54.

Lo studio patristico dei Padri conciliari si spinge allora a cercare il consensus Patrum d’oriente e d’occidente; non possiamo non pensare all’incidenza ed al valore ecumenico di questa scelta dei Padri conciliari, nell’estendere le loro letture patristiche ed i loro studi anche alla conoscenza dei Padri orientali. Ancora Ireneo di Lione che appare sin d’ora, come il più citato dai Padri conciliari, nella Dei verbum, dopo Agostino d’Ippona, compare in DV 18. Leggiamo: «Infatti, ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, in seguito, per ispirazione dello Spirito divino, essi stessi e persone della cerchia apostolica tramandarono a noi in scritti, che sono fondamento della fede, cioè il Vangelo quadriforme, secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni.»55.

Ireneo di Lione, al riguardo, afferma: «(Cristo) manifestatosi agli uomini, consegnò a noi il Vangelo tetramorfo che è tenuto insieme in un solo spirito.»56.

I Padri conciliari, come abbiamo già notato altrove, hanno compiuto 54 TEODORO DI MOPSUESTIA, Commentarius in Sophoniae, 1,4-6, in PG 66,452D453A: par'wÒn deÜ kaiÜ paralabo/ntej au)taÜj nu½n eÓxomen aÓpantej oi) e)c e)qnw½n t%½ Despo/t$ pepisteuko/tej Xrist%½, eÓn te tai½j e)kklhsi/aij a)naginw/skontej kaiÜ kat'oiÕkon eÓxontej. 55 DV 18,900: Quae enim Apostoli ex mandato Christi praedicaverunt, postea divino afflante Spiritu, in scriptis, ipsi et apostolici viri nobis tradiderunt, fidei fundamentum, quadriforme nempe Evangelium, secundum Matthaeum, Marcum, Lucam et Ioannem. 56 IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses, III,11,8, in PG 7,885: (Xriso/j) fanerwqeiÜj

toi=j a)nqrw/poij, eÓdwken h)mi=n tetra/morfon toÜ Eu)agge/lion, e(niÜ deÜ pneu/mati sunexo/menon.


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una scelta in favore decisamente dell’Incarnazione ma questa è unita allo Spirito Santo, il quale non è presente soltanto nell’atto dell’Ispirazione delle Scritture ma anche nell’atto della Traditio, compiuta, nel caso dell’unico Vangelo tetramorfo, da Cristo che consegna il suo Spirito, passato nei Vangeli e quindi, attraverso la predicazione degli Apostoli, a tutto il popolo santo di Dio. Sembra dunque che la Traditio sia opera compiuta dallo Spirito manifestatosi in Cristo. Certamente, Agostino d’Ippona è il protagonista del riferimento ai Padri nella Dei verbum. Abbiamo, però, evidenziato quanto ed in qual modo il riferimento ad Agostino è svolto e compiuto nel testo conciliare. Leggiamo DV 25: «Perciò è necessario che tutti i chierici, in primo luogo i sacerdoti di Cristo e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della parola, devono essere in contatto continuo con le Scritture, mediante una lettura spirituale assidua e uno studio accurato, affinché non diventi “vano predicatore della parola di Dio all’esterno, colui che non l’ascolta dentro di sé», mentre invece deve comunicare ai fedeli a lui affidati le sovrabbondanti ricchezze della parola divina, specialmente nella sacra liturgia.»57.

È una citazione diretta che val la pena di riferire nel contesto nel quale si trova: «(cfr. Gc 1,22) vano predicatore della parola di all’esterno, è colui che non l’ascolta dentro di sé. Non siamo così alieni dall’umanità e dalla considerazione dei fedeli da non comprendere i nostri pericoli, noi che predichiamo la parola di Dio al popolo. Ci consola il fatto quando siamo in pericolo nel nostro ministero, siamo aiutati dalle vostre preghiere.»58.

57 DV 25,908: Quapropter clericos omnes, imprimis Christi sacerdotes ceterosque qui ut diaconi vel catechistae ministerio verbi legitime instant, assidua lectione sacra atque exquisito studio in Scripturis haerere necesse est, ne quis eorum fiat «verbi dei inanis forinsecus praedicator, qui non est intus auditor», dum verbi divini amplissimas divitias, speciatim in sacra Liturgia, cum fidelibus sibi commissis communicare debet. 58 AGOSTINO D’IPPONA, Sermo CLXXIX,1, in PL 38,966: Verbi Dei enim inanis est forinsecus praedicator, qui non est intus auditor. Nec ita aversi ab humanitate et fideli


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Possiamo chiederci perché i Padri conciliari abbiano omesso il riferimento al prosieguo della breve ma pregnante citazione agostiniana, probabilmente, non pareva loro opportuno introdurre l’argomento della tentazione nel ministero dei predicatori della Parola di Dio, non giudicandolo pertinente all’oggetto della Dei verbum. In realtà, si avverte in tutta la Costituzione Dogmatica Dei verbum sulla divina Rivelazione, una cert’aria rarefatta, che nonostante la svolta antropologica, rimane piuttosto distaccata dall’umanità dei ministri della Parola di Dio e della Chiesa. Ancora DV 25 è letteralmente attraversata da una citazione diretta di Gerolamo di Stridone: «L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo.»59.

Nella quale si evince la tendenza, nei Padri conciliari a preferire il carattere gnomico, didascalico, sapienziale dell’insegnamento patristico, in luogo del suo carattere speculativo ed intellettuale. DV 25 che insiste sullo studio e sulla lettura personale della Scrittura è attraversata dovunque da citazioni patristiche dirette. Laddove si insiste sulla preghiera che deve accompagnare la lettura personale incontriamo la citazione diretta - l’unica in tutta la Dei verbum - di Ambrogio di Milano, quando dice che: «quando preghiamo, parliamo a lui; e ascoltiamo lui, quando leggiamo gli oracoli divini.»60.

Ancora una volta, il dato dogmatico cede il posto al carattere sapienziale, intimo e mistico o piuttosto, il dato dogmatico, nelle

consideratione sumus, ut pericula nostra non intelligamus, qui verbum Dei populis praedicamus Consolatur autem nos, quia ubi periclitamur in ministeriis nostris, adjuvamur orationibus vestris. 59 GEROLAMO DI STRIDONE, Commentarium in Isaiam, Prologus, in PL 24,17: ignoratio Scripturarum, ignoratio Christi est. Unde orationum tuarum. 60 AMBROGIO DI MILANO, De officiis ministrorum, I,20,88, in PL 16,50: Illum alloquimur cum oramus, illum audimus cum divina legimus oracula.


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intenzioni dei Padri conciliari, si esplica ora attraverso l’esperienza orante e mistica dei Padri, secondo l’adagio Lex orandi lex credendi. La menzione, riguardante i vescovi, sempre in DV 25, dove si sottolinea che il loro dovere è quello di istruire i fedeli «sul retto uso dei libri divini soprattutto del Nuovo Testamento ed in primo luogo dei Vangeli mediante traduzioni dei sacri testi» impiega ancora una volta Ireneo di Lione, invocato nella Dei verbum, a sostenere e quasi a legittimare il loro ministero nella Chiesa. Il vescovo di Lione li chiama infatti «depositari della dottrina apostolica»61. È curioso notare come il testo di Ireneo faccia menzione dei presbyteri; in effetti, nella Chiesa antica, almeno per i primi tre secoli, episcopus e presbyter furono intercambiabili fra loro. CONCLUSIONI Sarebbe oltremodo presuntuoso affermare di essere riusciti ad aver individuato e spiegato tutti i loci patristici, presenti in Dei verbum. In realtà, si può tranquillamente ammettere che la Dei verbum è pervasa interamente dallo “spirito” dei Padri ed è profondamente segnata dal “carattere” patristico. Basti un solo esempio per tutti, quello offertoci da DV 2, dove l’affermazione conciliare: «Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro»62 contiene il riferimento al De Spiritu Sancto di Basilio di Cesarea, al capitolo XXVII, in cui il Cappadoce parla delle tradizioni della Chiesa non scritte. Vi saranno certamente altri esempi, altri richiami, più o meno impliciti ai Padri; in realtà, essi costituiscono la struttura intima e portante della Dei verbum. I Padri della Chiesa d’oriente e d’occidente non sono più astratti dicta probantia ma guide e testimoni del cammino della Chiesa nella storia. Essi aiutarono i Padri conciliari ad esplicitare cinquant’anni fa quella svolta antro61

IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses, IV,32,1, in PG 7,1071: … apud eos qui in Ecclesia sunt presbyteri, apud quos est apostolica doctrina … . 62 DV 2,873: Haec revelationis oeconomin fit gestis verbisque intrinsece inter se connexis. Ma cfr. anche DV 4,875: tota Suiipsius praesentia ac manifestatione, verbis et operibus signis et miraculis … .


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Il riferimento ai Padri della Chiesa in Dei Verbum

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pologica del Concilio Vaticano II che li portò verso l’Incarnazione e verso la Scrittura come luogo della Rivelazione, attraverso l’ispirazione per opera dello Spirito Santo. È innegabile una certa latitanza dell’azione dello Spirito Santo nella Dei verbum come del resto in tutti i testi conciliari, tuttavia è mirabile il dato di aver inserito lo Spirito Santo nella Tradizione, la quale diventa viva, vera traditio, consegna di Cristo al popolo di Dio nella Chiesa, nella sua Parola, nel suo Vangelo e soprattutto nella Liturgia. Vi sono stati dei compromessi, come si è visto nella doppia versione latina del greco synkatàbasis, a riprova dell’importanza annessa dai Padri conciliari all’Incarnazione del Verbo. Si è notata la cura e la prudenza dei Padri conciliari a non introdurre nel testo della Costituzione Dogmatica punte di intransigenza provenienti da alcuni ma non da tutti i Padri della Chiesa, mantenendo un tono quasi dimesso. Tuttavia, si è notata l’assenza di attenzione per la fragilità della condizione umana in chi annunzia la Parola di Dio, ignorando su questo aspetto proprio l’apporto e le considerazioni di Agostino che è il Padre della Chiesa più citato nella Dei verbum. Tanti possono essere i rilievi ma uno, fra tutti, ci sentiamo di farlo e riguarda l’importanza annessa al vescovo, citando verso la fine della Dei verbum Ireneo, il quale parla invece, di presbiteri.


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PENSARE OGGI LA TRADIZIONE

NUNZIO CAPIZZI*

INTRODUZIONE La Tradizione va pensata come «memoria di Gesù Cristo che avviene nello Spirito santo […] parola di Dio che mediante lo Spirito santo vive nei cuori dei fedeli». In modo appropriato, W. Kasper parla pure di «autotradizione di Dio attraverso Gesù Cristo nello Spirito santo per una continua presenza nella Chiesa»1. Per la teologia cattolica, infatti, un punto fermo sta nell’identificare globalmente la Tradizione con l’essere e con la vita della Chiesa. Il concilio Vaticano II, nella linea della “Tradizione viva” rimessa in luce da J.A. Möhler (1796-1838) e dalla Scuola di Tubinga, ha parlato della Tradizione come eredità globale che la Chiesa ha ricevuto dagli apostoli e ha spiegato che il suo contenuto non è solo «dottrina», ma anche «vita» e «culto». Come insegna DV 8, «la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede». L’eredità apostolica, benché espressa «in modo speciale» (DV 8) nelle Scritture, non si esaurisce in esse, ma comprende anche le tradizioni, la fede, la vita del popolo di Dio. In tale prospettiva dinamica, inoltre, per mezzo della parola scritta e della parola trasmessa, «Dio […] non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo,

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Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. W. KASPER, Tradizione come principio di conoscenza teologica, in ID., Teologia e Chiesa, Brescia 1989, 94-95. 1


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Nunzio Capizzi

per mezzo del quale la viva voce del vangelo risuona nella Chiesa (viva vox Evangelii in Ecclesia), e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti a tutta intera la verità» (DV 8). Il mio contributo si articola in due parti. Prima, farò una presentazione generale del capitolo II della costituzione Dei Verbum, con alcune sottolineature. Dopo, indicherò qualche problema nodale della odierna teologia cattolica della Tradizione2. Quale prospettiva della riflessione, faccio mia una questione formulata da Kasper. A suo parere, per quanto concerne il punto nodale, «non si tratta […] soltanto di singoli contenuti della tradizione e nemmeno di singole questioni ancora da chiarire appieno, come specialmente quella controversa, prima e durante il concilio, del rapporto tra Scrittura e Tradizione, o più precisamente della completezza od incompletezza della Scrittura. Il problema va più in profondità ed investe la natura e il significato della stessa tradizione. Ci troviamo davanti ad un problema fondamentale della fede e forse alla questione più importante per il futuro della Chiesa»3. 1. IL CAPITOLO II DELLA DEI VERBUM: PRESENTAZIONE GENERALE E SOTTOLINEATURE

Le affermazioni principali del Vaticano II sulla Tradizione si trovano nel II capitolo della Dei Verbum, sulla «trasmissione della divina rivelazione». Come afferma H.J. Pottmeyer, questo ha il merito di ridefinire il rapporto tra Scrittura e Tradizione e, soprattutto, la stessa concezione di Tradizione, a motivo del precedente approfondimento del concetto di Rivelazione, nel primo capitolo della Dei Verbum, e del concetto di Chiesa, nella costituzione Lumen Gentium4. 2 Per un approfondimento della riflessione qui sinteticamente presentata, mi permetto di rimandare a due miei studi: Dei Verbum. Storia. Commento. Recezione, Roma 2015; Trento – Vaticano II: i testi sulla Tradizione. Spunti per una lettura, in Urbaniana University Journal 66 (2013)2, 15-35. 3 W. KASPER, Tradizione come principio di conoscenza teologica, cit., 77. 4 Cfr. H.J.POTTMEYER, Tradizione, in R. LATOURELLE – R. FISICHELLA (edd.) Dizionario di teologia fondamentale, Assisi 1990, 1345.


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Ad esempio, come la Rivelazione non viene più presentata quale mera istruzione, ma si dice che avviene «con eventi e parole» (DV 2), così, secondo DV 8, la Tradizione avviene «nella dottrina, nella vita e nel culto» della Chiesa. Il capitolo II è composto dai paragrafi 7-10. DV 7 riprende il decreto tridentino (8 aprile 1546), non facendo una citazione letterale di questo, ma riprendendone le linee generali. In alcuni passaggi il Vaticano II è anche innovativo. Ad esempio, là dove Trento, riguardo all’annuncio del Vangelo fatto da Gesù Cristo, dice solo annunciò (promulgavit), Dei Verbum dice ha adempiuto e promulgato (adimplevit […] promulgavit). La sfumatura si capisce alla luce del I capitolo della costituzione, sul compimento della Rivelazione in Gesù Cristo e sulla sua prospettiva storico-sacramentale che corregge quella prevalentemente giuridica di Trento. La prospettiva storico-sacramentale, in DV 7, si esprime ancora più chiaramente, quando si afferma che il comando di Cristo agli apostoli non riguarda soltanto l’annuncio del Vangelo, ma anche la comunicazione dei doni divini. DV 8 fornisce la descrizione della Tradizione. DV 9 riguarda la Scrittura e la Tradizione, in quanto strettamente unite e comunicanti tra loro: «poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine». DV 10, infine, concerne le relazioni tra la Chiesa, la Scrittura e la Tradizione. Qui troviamo l’importante affermazione, che riprenderemo, sulla «singolare unità di spirito [conspiratio singularis]» tra pastori e fedeli: «la sacra tradizione e la sacra scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi pastori, persevera costantemente nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nella frazione del pane e nelle orazioni, in modo che, nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa si crei una singolare unità di spirito tra vescovi e fedeli». I testi del capitolo II richiedono almeno tre sottolineature. a) La prima, in DV 7, riguarda la prospettiva pneumatologica. Il testo afferma che la trasmissione del Vangelo — promesso nei profeti e adempiuto in Cristo —, accompagnata dalla comunicazione dei doni divini, avvenne con la «predicazione orale, con l’esempio e le


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istituzioni», cioè per mezzo di precetti morali e di riti sacri. Gli apostoli, in particolare, «trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca, dal vivere insieme e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito Santo». Riguardo all’azione dello Spirito Santo, dove Trento aveva Spiritu Sancto dictante5, Dei Verbum mette a Spiritu Sancto suggerente, in riferimento al senso giovanneo dell’azione dello Spirito Santo che, secondo Gv 14:26, ricorda tutto ciò che Gesù ha detto e fa percepire — nel divenire della Tradizione — sempre meglio gli aspetti della rivelazione culminata in Gesù Cristo. Il punto decisivo è la prospettiva pneumatologica, comune al testo tridentino e a quello del Vaticano II. J. Ratzinger — richiamando il discorso tenuto dal cardinale M. Cervini, il 18 febbraio 1546 — parla di tre principi interpretativi: «osserviamo dunque innanzitutto che, contrariamente alla nostra usuale attesa e interpretazione, sono affermati non due, ma tre principi: Scrittura — Vangelo — rivelazione dello Spirito nella Chiesa». Esattamente il secondo e il terzo principio, ossia il Vangelo (evento Cristo che non è solo scritto nei libri sacri, ma anche nei cuori dei credenti e che comunque rimane sempre più grande delle attestazioni) e l’attività rivelatrice dello Spirito Santo nel tempo della Chiesa sono, secondo Ratzinger, gli elementi costitutivi della Tradizione che è, anzitutto, reale e che può essere «definita […] componente pneumatologica dell’evento di Cristo»6. Ratzinger spiega, inoltre, che «ci troviamo di fronte a una concezione, secondo la quale la rivelazione ha certamente il suo e\faépax, in quanto essa si è realizzata in fatti storici, ma ha anche la sua permanente attualità, in quanto l’evento unico già realizzatosi permane continuamente vivente e operante nella fede della Chiesa e la fede cristiana non si riferisce mai soltanto al passato, ma anche al presente e al futuro»7. 5

ALBERIGO G. – AL. (edd.), Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 1991,

663. 6 J. RATZINGER, Un tentativo circa il problema del concetto di Tradizione, in K. RAHNER – J. RATZINGER, Rivelazione e Tradizione, Brescia 1986, 56; 58. 7 J. RATZINGER, Un tentativo circa il problema del concetto di Tradizione, cit., 71.


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b) Collegata alla prima, la seconda sottolineatura, in DV 8, concerne il carattere dinamico della Tradizione. Questa «trae origine dagli apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito santo: cresce infatti la comprensione (perceptio), tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro […], sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione (praeconio) di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità. La Chiesa, cioè, nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio».

La Tradizione progredisce nella Chiesa, grazie all’assistenza dello Spirito Santo. Secondo B. Sesboüé, il progresso è nell’ordine: della recezione, della comprensione e della penetrazione — sotto l’assistenza dello Spirito Santo (soggetto trascendente) — della Tradizione apostolica fondante8. Si dovrebbe insistere di più sull’importanza del termine latino, perceptio: non si sviluppa la Tradizione, ma la percezione delle realtà e delle parole trasmesse. I fattori di crescita sono la contemplazione e lo studio dei credenti, l’intelligenza che viene dall’esperienza spirituale e l’annuncio magisteriale. È importante che il cammino della Parola e il suo approfondimento nel tempo della Chiesa non sia considerato soltanto in riferimento alla gerarchia, ma riguardi tutta la Chiesa, guidata dai suoi pastori. Si potrebbe qui richiamare pure il sensus fidei fidelium di LG 129. c) Con l’ultima sottolineatura, si rimane nel paragrafo 8, nel passo in cui il Concilio, a proposito della Tradizione, mette in luce l’attualità

8 Cfr. B. SESBOÜÉ, La comunicazione della Parola di Dio, in B. SESBOÜÉ – C. THEOBALD, La parola della salvezza, Storia dei Dogmi IV, Casale Monferrato 1998, 472. 9 Cfr. M. SEMERARO, Temi ecclesiologici nel capitolo secondo della Dei Verbum, in Lateranum 61 (1995) 2-3, 123-145; D. VITALI, La totalità dei fedeli non può sbagliarsi nel credere (LG 12): il sensus fidelium come voce della Tradizione, in Urbaniana University Journal 66 (2013) 2, 37-70.


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dell’ascolto del Vangelo, nel suo legame con l’azione dello Spirito Santo: «Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo». Sullo sfondo trinitario, nell’inciso, il testo descrive l’azione dello Spirito Santo riguardo alla trasmissione del Vangelo, indicando due risonanze della sua viva voce: lo Spirito Santo fa risuonare la voce del Vangelo nella Chiesa e, di conseguenza, per mezzo di questa nel mondo. La disponibilità all’azione dello Spirito Santo, come ascolto del Vangelo nella Chiesa, ovvero da parte di questa, è la condizione perché il Vangelo risuoni per mezzo di questa nel mondo. Diversamente, la viva voce del Vangelo non potrà risuonare nel mondo, perché prima non è risuonata nella Chiesa. Ciò fa pensare che la Chiesa può correre il rischio di impedire il risuonare della viva voce del Vangelo, può di fatto rendersi ostacolo ad esso, quando non si rinnova continuamente, ripensando le proprie strutture storiche, le proprie forme esteriori e la propria vita concreta, mediante un continuo ritorno al Vangelo trasmesso e da trasmettere. Il testo riporta al luogo in cui la parola testimoniale della fede trova la propria origine, ossia alla riconfigurazione della vita cristiana secondo il Vangelo e a partire dal Vangelo. Riecheggiano le parole di Paolo: «noi crediamo e perciò parliamo» (2Cor 4,13)10. 2. QUALCHE PROBLEMA NODALE NELL’ODIERNA TEOLOGIA CATTOLICA DELLA TRADIZIONE a) Un primo problema concerne i tradentes, la traditio subiectiva. Si è fatto cenno alla traditio activa (atto di trasmettere), alla traditio obiectiva (contenuto), ma bisogna fare un cenno al soggetto storico, 10

Per un approfondimento delle prospettive indicate in base all’ultima frase di

DV 8, si veda S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale. «Rendere ragione della

speranza» (1Pt 3,15), Brescia 20104, 611-614; C. THEOBALD, Trasmettere un vangelo di libertà, Bologna 2010, 7-14.


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alla Chiesa e a noi credenti che dobbiamo trasmettere, accogliendo il suggerimento del soggetto trascendente, dello Spirito Santo. Theobald, nel riflettere sul problema della comprensione del linguaggio dogmatico della Chiesa — sollevato dal documento L’interpretazione dei dogmi della Commissione Teologica Internazionale (1989) — riprende una considerazione di Y. Congar e pone in risalto due fenomeni che segnano oggi il rapporto dei tradentes con la Tradizione cristiana: la crisi della trasmissione della fede e la crescente sensibilità alle trasformazioni. Scrive Theobald: «la rapida scristianizzazione di una buona parte dell’Europa è giunta a mettere a nudo la base del fondamento culturale del continente, lasciando in superficie un certo numero di monumenti artistici, letterari e istituzionali della sua religione maggioritaria che si prestano ai diversi interessi dei loro ammiratori, cristiani oppure no. Grazie ai mezzi di comunicazione o al turismo, sul nostro territorio e nello spirito degli europei sono presenti anche altre religioni e i loro relativi monumenti […]. Alcuni, soprattutto molti europei, avendo abbandonato lo schema culturale di un’epoca esemplare del passato o di un testo sacro da cui trarre tutto ciò che riguarda le norme del vivere insieme, adottano nei confronti di questa pluralità di tradizioni un rapporto nomade, li visitano come musei o li manipolano a proprio piacimento. Altri, invece, abitano la loro tradizione, in modo più o meno tranquillo, proteggendola talvolta con ogni specie di barriere contro ogni contaminazione esterna […]. Da questa diagnosi risulta una duplice esigenza: anzitutto il richiamo fatto alle comunità e ai singoli di ricevere e di interpretare la Tradizione in modo creativo; poi, e nello stesso tempo, la salvaguardia dello statuto escatologico della Tradizione cristiana»11.

Il rischio connesso ai fenomeni segnalati è duplice. Da una parte, «la conservazione del cristianesimo nei nostri monumenti e nei nostri musei e il fondamentalismo rischiano di anestetizzare le potenzialità di apprendimento interne alla paradosis apostolica». Dall’altra, «il pluralismo radicale delle tradizioni religiose e culturali le relativizza

11 C. THEOBALD, “Seguendo le orme…” della Dei Verbum. Bibbia, teologia e pratiche di lettura, Bologna 2011, 43-44; il corsivo è nel testo.


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e pone il problema dello statuto escatologico del cristianesimo». In ogni caso, la domanda decisiva rimane: «oggi, come conservare credibile, cioè percepibile, l’eph’hapax della misteriosa autorivelazione di Dio nella storia?»12. A mio parere, va condivisa e approfondita la prospettiva ecclesiologica della Dei Verbum, indicata dallo stesso Theobald. Va data importanza cioè all’autentico vissuto ecclesiale della fede. Nel suo primo paragrafo, DV 10 propone l’immagine della prima comunità degli Atti (2,42) e parla della «singolare unità di spirito (conspiratio singularis)» tra vescovi e fedeli. Per Theobald, «probabilmente il pluralismo radicale e delle culture e delle recezioni creative dell’unico vangelo ha bisogno di ripensare oggi in modo del tutto nuovo la forma sinodale di questa conspiratio messianica, e quindi di ripensare il legame tra paradosis apostolica e conciliarità»13. b) Un secondo problema, legato al precedente, concerne la relazione fra Tradizione e rinnovamento, che emerge, con forza, da quando Giovanni XXIII e il Vaticano II hanno lanciato il programma di un necessario aggiornamento della Chiesa14. Il retroterra della questione teologica, per Kasper, sta in un rapporto deformato sia con la tradizione, nel suo aspetto umano, che con il progresso: deformazione che, ultimamente, conduce a contrapporre i due elementi della relazione. La Tradizione potrebbe sembrare una vuota convenzione, un pezzo da museo, in stretto legame con la mentalità tecnologico-scientifica che riduce l’essere umano alla sua natura di bisogno, priva di storia: perde sempre più vigore la forza plasmatrice e normativa del passato, per dare spazio al nuovo, al progresso per il progresso. In tale prospettiva, da un lato, è facile confondere la Tradizione, nel senso teologico, con la tradizione (“t” minuscola!) e, in particolare, con una convenzione, con un’usanza, con il folklore, comunque con qualcosa di superato o di superabile. Dall’altro lato, si dimentica che il progresso è possibile quando una

12

Ibid., 45-46. Ibid., 48. 14 Cfr. W. KASPER, Tradizione come principio di conoscenza teologica, cit., 76. 13


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generazione pone le fondamenta sulla precedente, e ne assimila le esperienze, oppure che il ricordo storico è rilevante per il presente15. Posto che tradizione e progresso non stanno in contrapposizione, Kasper osserva che teologicamente il problema non sta nel ripetere la solita distinzione tra “tradizionalisti” / “conservatori” e “progressisti”, ma piuttosto nel considerare la saldatura tra Tradizione e verità, nello stabilire ciò che corrisponde alla verità, ciò che la rispecchia. L’autorità della Tradizione, infatti, può essere soltanto autorità legata alla verità16. In tal senso, secondo Kasper, va ribadito che «la Tradizione è la memoria di Gesù Cristo che avviene nello Spirito Santo, è la parola di Dio che mediante lo Spirito Santo vive nei cuori dei fedeli»17. All’interno della storia, nelle e attraverso le tradizioni umane, devono mostrarsi la verità e la realtà del Signore risorto. L’avvenimento della Tradizione presenta così una struttura “sacramentale”: i processi umani ed ecclesiali sono “segno” attualizzante e “strumento” dell’autotradizione di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Sorgente e vertice della Tradizione è la celebrazione eucaristica, nella quale si attualizza l’autotradizione di Gesù, avvenuta una volta per tutte. A partire dall’eucaristia, e nella sua prospettiva, esiste poi una serie di altri modi espressivi ed attuativi della Tradizione, dai testi liturgici e magisteriali alla testimonianza dei santi, solo per fare qualche esempio18. Fin dagli inizi, la Chiesa ha conosciuto la tensione tra la fedeltà incondizionata alle origini, al fondamento permanente (cfr. 1Cor 3,11), e l’esigenza di farsi tutta a tutti (cfr. 1Cor 9,22). Già all’interno del Nuovo Testamento, l’unico annuncio normativo e permanente, quello di Gesù Cristo, si è attualizzato in termini sempre nuovi e in situazioni continuamente diverse. Giustamente quindi, come dice Kasper, anche oggi, un rapporto responsabile con la Tradizione implica, oltre il sentirsi vincolati alle testimonianze storiche del

15

Cfr. ibid., 78-81. Cfr. ibid., 82-92. 17 Ibid., 94-95. 18 Cfr. ibid., 95-98. 16


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Vangelo trasmesso, un mantenersi liberi per una verità sempre più approfondita. Prendere sul serio la Tradizione, pertanto, non ha nulla a che vedere con un rifiuto della critica delle situazioni contemporanee e neppure con un rifiuto del profondo rinnovamento della Chiesa. Ma solo se la critica deriva da un’eccedenza della verità e da una fedeltà profonda al Signore Gesù19.

19

Cfr. ibid., 99-103.


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SULL’ISPIRAZIONE E SULLA VERITÀ DELLA SACRA SCRITTURA IN DEI VERBUM 11. ELEMENTI DI ANALISI STORICA E TEOLOGICA

ADRIANO MINARDO*

INTRODUZIONE Il seguente contributo intende offrire un resoconto specifico sulla dottrina dell’ispirazione e della verità della Bibbia significata al n. 11 della Costituzione dogmatica sulla Rivelazione Dei Verbum del Concilio Vaticano II. Tale apporto non si prefigge, pertanto, di proporre uno studio sistematico sul concetto teologico di ispirazione e su quello connesso di verità biblica (che sostituisce, nella terminologia, la formula classica di “inerranza”), quanto piuttosto — nei limiti fissati dalle regole della sintesi — presentare qualche ragguaglio sulla laboriosa ricostruzione dottrinale e semantica di una categoria che risulta essere centrale nel riconoscimento e nella definizione della sacralità dei testi che normano la fede dei cristiani. È esattamente il discernimento ecclesiale dell’origine divina di questi testi, ossia della loro ispirazione, che motiva la complessa operazione di selezione e accoglienza nel canone di alcuni libri ad esclusione di altri1. Da tale discernimento, poi, deriva quella particolare configurazione confessionale all’interno della quale la comunità può professare la sua fede e manifestare la

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Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr. M. GILBERT, Canone delle Scritture, in J.-Y. LACOSTE (ed.), Dizionario critico di teologia, Roma 2005, 266. 1


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sua identità credente. Storicamente pertanto è avvenuto che, mediante la costituzione graduale, complessa e, nondimeno, conflittuale di un canone scritturistico, le comunità si sono raccolte attorno ad un centro fondatore identitario i cui testi, pur nella varietà formale dei generi letterari e dei contenuti, sono serviti da norma per la definizione del comune deposito della fede2. Questo è sempre stato chiaro nella coscienza credente della Sinagoga prima e della Chiesa dei primi secoli poi, al punto che — con S. Tommaso d’Aquino — si è potuto affermare: «sola canonica scriptura est regula fidei»3. E non è un caso che la questione del corpus biblico deuterocanonico (per la quale alcuni libri sono accolti nel canone dai cattolici, ma non dagli ebrei e/o dai protestanti)4 rappresenti, emblematicamente, l’esito di una precomprensione teologica e confessionale che, di fatto, ha comportato l’emergenza di notevoli differenze nella storia della fede, della spiritualità e della pietà di molti cristiani. Il lungo e travagliato processo di canonizzazione dei testi, che li ha resi normativi per la vita di fede della comunità credente, si è perfezionato dunque solo a seguito del riconoscimento della loro trascendente origine divina. Ciò significa, in altre parole, che la canonicità di un testo è data dalla sua riconosciuta ispirazione, non viceversa. Ora, indicare quali siano stati i criteri di detto riconoscimento e, soprattutto, accertare quale sia la legittima “autorità” preposta a fissare tali criteri supera, come compito, i limiti di questo contributo5. 2 Sulla storia della formazione del canone delle Scritture ebraiche e cristiane, cfr. V. MANNUCCI, Bibbia come Parola di Dio. Introduzione generale alla sacra Scrittura, Brescia 1992, 197-243; J.-L. SKA, Il libro sigillato e il libro aperto, Bologna 2005, 115164. 3 TOMMASO D’AQUINO, Commento al vangelo di Giovanni 21, 24, lect. 6, n. 2656. 4 Cfr. N. CALDUCH-BENAGES, L’ispirazione: il problema del corpus deuterocanonico, in P. DUBOVSKÝ – J.-P. SONNET (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 241-244. Ovviamente, occorre precisare che il processo di canonizzazione non ha sempre seguito un criterio uniforme di applicazione da parte delle singole comunità; anche per questa ragione, i pronunciamenti formali e vincolanti sulla determinazione del canone delle scritture sacre per i cristiani sono relativamente tardivi. 5 Come insegna Dei Verbum (= DV) 8 è la «Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei libri sacri».


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Qui, ci soffermeremo sulla dottrina dell’ispirazione in quanto dato di fede acquisito dalla tradizione della Chiesa. Una dottrina del resto che, a partire dal rinnovamento degli studi biblici del secolo scorso, ha suscitato molte più domande e sollevato molte più questioni rispetto a quelle formulate all’inizio della sua lunga storia semantica e teologica. Senza poter entrare nel merito della problematica elenchiamo, a titolo esemplificativo, qualcuno di questi nuovi interrogativi che i risultati favoriti dal metodo storico-critico (sulla critica testuale e sulla storia della redazione di un libro) hanno posto agli studiosi e ai credenti: 1) è ispirato il testo prototipo-originario (quasi impossibile da reperire) o il testo dell’ultima redazione a noi pervenuto, che risulta rielaborato, a volte reinterpretato, talaltra glossato, etc.6? 2) È ispirato il singolo agiografo o i molti che hanno messo mano al testo7? 3) Il testo è ispirato nella sua interezza o soltanto in alcune sue parti, per esempio in quelle che concernono la materia di fede8? 4) È ispirata anche l’interpretazione (da parte di un altro agiografo) di un testo sacro anteriore, il quale sembra attestarsi, evidentemente, “soltanto” ad un certo livello dell’economia di rivelazione9? 6 Alcuni esempi in cui la Bibbia, nella fase di compilazione, di trasmissione e di revisione, corregge se stessa sono offerti da J.-L. SKA, Il libro sigillato, 52-55. 7 La teologia biblica, se ammette una dimensione comunitaria dell’ispirazione, respinge tuttavia l’idea di un’ispirazione collettiva; cfr. V. MANNUCCI, Bibbia come Parola di Dio, 167-169. 8 Il card. J. Newman, per esempio, in un libro del 1884 (On the Inspiration of Scripture), riteneva che non fossero ispirati gli obiter dicta, ossia le affermazioni incidentali di scarsa importanza che non mostrano alcuna attinenza alla materia della fede; cfr. M. TÁBET, Introduzione generale alla Bibbia, Cinisello Balsamo (Mi) 1998, 72. Qui occorre precisare che i documenti magisteriali, invece, hanno sempre respinto la possibilità di restringere l’ispirazione ai soli contenuti dottrinali. 9 Si veda il caso di Paolo che, di tanto in tanto (Rm 10, 6-8 che rilegge Lv 18,5 e Dt 30,11-14; oppure 2Cor 3,7-16 che rilegge Es 34), sembra andare contro l’intentio


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5) È ispirata anche la traduzione dei testi canonici in altre lingue10 tanto più se, come in alcuni casi specifici della LXX, ciò può comportare un progresso della rivelazione11? A queste e ad altre simili domande, si premurano di rispondere i

textus di alcuni passi fondamentali riguardanti la Torah. Cfr. J.-N. ALETTI, Approccio retorico e verità biblica. Il caso del Nuovo Testamento, in P. DUBOVSKÝ – J.-P. SONNET (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 185-203; 195-197. 10 Non a caso, la dottrina islamica ortodossa, che conserva l’idea dell’ispirazione come una vera e propria dettatura verbale del testo sacro al Profeta, riprova la traduzione del Corano in altra lingua. Scrive I. Zilio-Grandi: «senza la lingua araba il Corano non è tale, e questa affermazione va di pari passo con l’idea che, essendo la lingua del Corano, l’arabo è anche la lingua di Dio, o almeno la sua lingua autentica. Per questo la dottrina islamica dichiara che il Corano è intraducibile: perché è la sua stessa esistenza – prima ancora della sua comprensione – che poggia sulla lingua araba, cosicché le traduzioni in altre lingue non sono il Corano. La traduzione del Corano, più che un interdetto, è pertanto una vanità» (I. ZILIO-GRANDI, Tradurre il Corano. Un’ipotesi di lavoro, in il Regno. Attualità 14 (2012) 488-492; 490). J.-L. Ska rimarca la differenza della Bibbia ebraica e cristiana rispetto al Corano, quando afferma che la Scrittura «non impiega un linguaggio diverso, per esempio un linguaggio angelico o un vocabolario che permetta di chiamarlo “lingua divina”. In nessun modo» (J.-L. SKA, Ispirazione e metodo storico-critico, in P. DUBOVSKÝ – J.-P. SONNET (edd.), Ogni Scrittura è ispirata,77-99; 82). 11 Ciò avviene quando, tradotti o attualizzati dei termini tipicamente ebraici, si ricava un nuovo significato. Qualche esempio di come il NT, citando direttamente la LXX, abbia reinterpretato il senso dell’originale ebraico si trova in S. PISANO, Critica testuale e storia del testo al servizio dell’ispirazione, in P. DUBOVSKÝ – J.-P. SONNET (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 100-123; 113. Sarebbe il caso di Is 7,14 (parqšnoj) ripreso in Mt 1,23, di Gn 12,3; 22,18 citati in At 3,25 e Gal 3,8-9. Cfr., inoltre, M. CIMOSA, La traduzione greca dei LXX. Dibattito sull’ispirazione, in Salesianum 46 (1984) 3-14; P. GRELOT, Sur l’inspiration et la canonicité de la Septante, in Sciences Ecclésiastiques 16 (1964) 387-418; P. BENOIT, La Septante est-elle inspirée?, in Exégèse et Théologie, I, Paris 1961, 3-12. Il dibattito è motivato dal fatto che ancora oggi, in molte chiese orientali, il testo greco della LXX è ritenuto ispirato (a seguito, peraltro, della memoria di quell’antica leggenda, contenuta nella Lettera di Aristea, secondo cui 72 saggi, nel III secolo a.C., furono chiamati ad Alessandria a tradurre le Scritture ebraiche; alcune varianti della leggenda ritengono che i 70 o 72 traduttori, segregati in altrettante celle presso l’isola di Faro, al termine dei 72 giorni, avrebbero consegnato sorprendentemente una versione identica delle Sacre scritture; cfr. A. WASSERSTEIN – D.J. WASSERSTEIN, The Legend of the Septuagint from Classical Antiquity to today, Cambridge, UK 2006).


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più recenti modelli e approcci ermeneutici che la teologia biblica e l’esegesi stanno efficacemente applicando al fine di una conciliazione possibile tra la dottrina dell’ispirazione e i risultati delle nuove acquisizioni scientifiche12. Dall’analisi retorica a quella narrativa, dall’analisi semiotica all’analisi linguistica, dalla lettura sincronica alla lettura diacronica, dall’approccio comunicativo-dialogico alle letture contestuali che collocano i testi nel loro proprio Sitz im Leben politico, sociologico, persino filosofico o psicanalitico, tutti questi metodi e criteri ermeneutici intendono a volte sciogliere dubbi, altre volte decodificare, altre volte ancora riattualizzare significati di un testo che non smette di interessare e ri-guardare il lettore di ogni tempo. Tutto ciò senza rinunciare al dato di fede dell’ispirazione, dacché la Bibbia sarebbe ridotta ad una collezione di libri da leggere, da studiare e da commentare sotto il profilo culturale ma non ancora causa nostrae salutis13. Senza qui poter risolvere le intricate questioni emerse sopra (d’altronde riprese soltanto per riferire della consistenza provocatoria del nostro tema), proseguiremo offrendo una panoramica storico-teologica sul concetto dell’ispirazione e della verità biblica e, dopo una breve rassegna dei più rilevanti interventi magisteriali, approderemo all’analisi di Dei Verbum 11. La Costituzione dogmatica Dei Verbum presenta, infatti, l’autorevolissima versione magisteriale di una dottrina che — come ancora auspica l’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini di Benedetto XVI — va approfondita al fine di ritornare ai testi sacri con il rispetto e l’attenzione che ad essi si deve in ragione della loro natura14. 12 Cfr. il documento della PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, del 1993 dove si elencano e si illustrano i principali metodi ed obiettivi dell’esegesi scientifica contemporanea (in Enchiridion Biblicum (= EB), Documenti della Chiesa sulla Sacra Scrittura, Bologna 1993, 1259-1560). 13 Ricorda l’esortazione post-sinodale di Benedetto XVI, Verbum Domini 19: «Quando si affievolisce in noi la consapevolezza dell’ispirazione, si rischia di leggere la Scrittura come oggetto di curiosità storica e non come opera dello Spirito Santo, nella quale possiamo sentire la stessa voce del Signore e conoscere la sua presenza nella storia». 14 Verbum Domini 19: «Certamente la riflessione teologica ha sempre considerato


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1. SULL’ISPIRAZIONE Quando si parla di ispirazione ci si riferisce, anzitutto, all’origine divina della Sacra Scrittura. Questa origine trascendente si disvela, tuttavia, attraverso parole umane, giacché non esiste una lingua divina tale da essere fissata e registrata — come sotto dettatura — in testi scritti recepiti da strumenti umani ignari o passivi15. Infatti, quando la teologia cristiana si riferisce all’ispirazione, sa che essa non va confusa con analoghi fenomeni presenti in altre culture o religioni, dove un essere spirituale superiore è capace di esercitare un’influenza unilaterale ed arbitraria su un soggetto parzialmente cosciente o totalmente estraniato, al fine di presagire il futuro e rendere manifesta la volontà divina16. La storia della comprensione di questo carisma irripetibile diviene, invece, la storia della comprensione dell’articolazione della corriflessività che vede implicati l’iniziativa divina e il coinvolgimento umano, il momento-ruolo divino trascendentale e il momento-ruolo antropologico categoriale nella formulazione, compilazione e stesura di un testo unico per sua natura17. Tale storia, nella sua lunga evoluzione, intende sempre meglio chiarire in che senso Dio sia autore della Scrittura senza ridurre l’agiografo a

ispirazione e verità come due concetti chiave per un’ermeneutica ecclesiale delle sacre Scritture. Tuttavia, si deve riconoscere l’odierna necessità di un approfondimento adeguato di queste realtà, così da poter rispondere meglio alle esigenze riguardanti l’interpretazione dei testi sacri secondo la loro natura. In tale prospettiva formulo il vivo auspicio che la ricerca in questo campo possa progredire e porti frutto per la scienza biblica e per la vita spirituale dei fedeli». 15 Cfr. J.-L. SKA, Ispirazione e metodo storico-critico, 82 ss. 16 Qui rientrano tutte le forme di rapimento mantico o di divinazione o di raptus estatico o di trance legati a presunti fenomeni paranormali o soprannaturali. Nel mondo greco, per indicare le pluriformi espressioni dell’ispirazione, si utilizzano vari termini: qeÒpneustoj, ™nqousiasmÒj, ™p…pnoia (quest’ultimo assente nel vocabolario del NT); cfr. J. SIEVERS, L’ispirazione nel pensiero ellenistico, in P. DUBOVSKÝ – J.-P. SONNET (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 33-46. 17 Cfr. E. SALMANN, L’ispirazione come caso fondamentale dell’analogia, in ID., Presenza di spirito. Il cristianesimo come gesto e pensiero, Padova 2000, 257-277.


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strumento passivo, ma anche in che senso l’uomo sia autore della Scrittura senza ridurre Dio alla figura di un supervisore18. Il campo e i confini di questa indagine sono come fissati, in particolare, da due riferimenti biblici che attestano la singolarità di questa verità di fede; ci riferiamo a 2Tm 3,16: «Tutta la Scrittura infatti è ispirata (qeÒpneustoj; inspirata) da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona».

e 2Pt 1,20-21: «Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi (ferÒmenoi) da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio».

Presupposti questi elementi essenziali della dottrina sull’ispirazione, operiamo una ricognizione rapida dell’impiego e del significato del termine nella storia del magistero e della teologia. 1.1. Uso e significato del termine L’uso cristiano del termine inspiratio è antico, ma non risulta impiegato esclusivamente per designare l’origine divina della Bibbia19. In un senso molto più ampio il sinodo di Orange, nel 529, utilizzava il

18

Come ha scritto K. Rahner: «bisogna che Dio sia autore della Scrittura sotto un punto di vista che: a) lasci impregiudicato un esser veramente tale (anche se in modo analogo) autore letterario, e nello stesso tempo non sia lo stesso punto di vista sotto cui l’uomo è autore letterario, e precisamente, b) in modo tale che questo punto di vista esiga (e non soltanto permetta – e questo per di più solo con arbitrari sotterfugi) che vi sia un autore letterario umano» (K. RAHNER, Sulla ispirazione della Sacra Scrittura, Brescia 1967, 21). 19 I cristiani latini hanno tradotto il termine greco qeÒpneustoj con il termine inspiratio, dal verbo latino inspiro che significa soffiare dentro o sopra, instillare, infondere, ma anche animare, commuovere, infiammare.


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termine in relazione alla conoscenza della salvezza, resa possibile da una particolare illuminazione dello Spirito Santo20. Occorrerà attendere il Concilio di Firenze del 1442 per attribuire alla parola ispirazione il valore di fondamento del carattere divino della Sacra Scrittura, lì dove afferma che «i santi di tutti e due i Testamenti parlarono per ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu Sancto inspirante)»21. Tuttavia non si tratta ancora di una definizione dogmatica22. Tanto è vero che il Concilio di Trento utilizza il termine inspiratio in senso lato e, per indicare l’origine della Sacra Scrittura e delle tradizioni in ciò che concerne la fede e i costumi, preferisce utilizzare il termine dictare. Così il termine inspirare può riferirsi sia all’azione dello Spirito Santo (per la composizione della Bibbia) sia al processo di illuminazione interiore dei fedeli (affinché possano credere o agire in conformità alla fede della Chiesa); il termine dictare (il cui soggetto è lo Spirito) assume, invece, il compito più specifico di significare la trasmissione della verità del Vangelo anche nelle tradizioni non scritte, evidentemente contro l’assunto protestante della sola Scriptura23. Così sancisce il Tridentino, nella IV sessione del 1546: 20 Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum (=DH), Bologna 1996, 377: «Se qualcuno afferma che per la forza della natura si possa pensare come conviene o scegliere qualche bene attinente alla salute della vita eterna, oppure si possa acconsentire alla predicazione salutare, cioè evangelica, senza l’illuminazione e l’ispirazione (inspiratione) dello Spirito Santo, che dà a tutti la soavità nel consentire e nel credere alla verità, è tratto in errore dallo spirito eretico». 21 DH 1334. 22 È nel canone 4 del capitolo 2 della Costituzione Dei Filius del Vaticano I che si perviene alla definizione dogmatica dell’ispirazione biblica: «Se qualcuno non riconosce come sacri e canonici i libri della sacra Scrittura nella loro integrità e con tutte le loro parti, così come sono stati elencati dal santo concilio di Trento, o se nega che essi siano divinamente ispirati: sia anatema» (DH 3029). 23 Del resto, ricorda V. Mannucci, «il Concilio Tridentino non si trovò di fronte ad errori riguardanti l’origine divina dei libri sacri e la loro autorità, che anzi erano stati i capisaldi dei Riformatori protestanti i quali avevano adottato la tesi dell’ispirazione letterale o verbale della Sacra Scrittura» (V. MANNUCCI, Bibbia come Parola di Dio, 155)».


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«Il sacrosanto concilio Tridentino ecumenico e generale, legittimamente riunito nello Spirito Santo […] ha sempre ben presente di dover conservare nella chiesa, una volta tolti di mezzo gli errori, la stessa purezza del Vangelo, che, promesso un tempo dai profeti nelle sante Scritture, il Signore nostro Gesù Cristo, figlio di Dio, prima annunciò con la sua bocca, poi comandò che venisse predicato a ogni creatura dai suoi apostoli, quale fonte di ogni verità salvifica e di ogni norma morale (tamquam fontem omnis et salutaris veritatis et morum disciplinae). E poiché il sinodo sa che questa verità e disciplina è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte che, raccolte dagli apostoli dalla bocca dello stesso Cristo, o dagli stessi apostoli, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu Sancto dictante), trasmesse quasi di mano in mano, sono giunte fino a noi, seguendo l’esempio dei padri della vera fede, con uguale pietà e venerazione accoglie e venera tutti i libri, sia dell’antico che del nuovo Testamento, essendo Dio autore (auctor) di entrambi, e così anche le tradizioni stesse, inerenti alla fede e ai costumi, poiché le ritiene dettate dalla bocca dello stesso Cristo o dallo Spirito Santo (vel a Spiritu Sancto dictatas), e conservate nella chiesa cattolica in forza di una successione mai interrotta»24.

Il termine dictare — almeno nel magistero cattolico post-tridentino — non va inteso nel senso della dettatura verbale di un messaggio25. Applicato soltanto alle tradizioni non scritte che, in quanto tali, non necessitano di una formulazione verbale fissa e definitiva, si può affermare che dictare, per il Concilio di Trento, sia sinonimo di inspirare26. 24 25

DH 1501.

I teologi luterani e calvinisti del XVI e XVII secolo, al fine di rimarcare l’autorità della sola Scrittura a dispetto della teologia cattolica, utilizzavano l’espressione dictatio mechanica. Su questa linea, la calvinista Formula Consensus Helvetica del 1675 riteneva ispirati anche i segni e i punti ortografici. Ma la teoria dell’ispirazione verbale della Bibbia si era diffusa anche tra alcuni teologi cattolici. Il rappresentante principale lo si riconosce nel domenicano D. Bañez (1528-1604), il quale avrebbe esercitato la sua influenza su tutta la scuola domenicana fino al XVIII secolo; cfr. M. TÁBET, Introduzione generale alla Bibbia, 370. 26 Cfr. V. MANNUCCI, Bibbia come Parola di Dio, 156. Anche il Concilio Vaticano I, riprendendo il Tridentino, ha impiegato il termine inspirare, sia in riferimento alla formazione della Sacra Scrittura (DH 3006; DH 3029) sia come mozione interiore nel


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Come per i concili precedenti, non si può affermare che la categoria della inspiratio qui sia assurta a formula dogmatica. Né, tantomeno, ci si inoltra in una illustrazione descrittiva del carisma. A Trento, come poi al Vaticano I27, si riafferma semplicemente il fatto della ispirazione come processo genetico della Sacra Scrittura, senza analisi ulteriori riguardo alla natura dello stesso carisma. Il primo tentativo magisteriale volto a descrivere la dinamica dell’ispirazione lo si deve, invece, all’enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII (1893), il cui merito è quello di aver affrontato diffusamente i due grandi argomenti dell’ispirazione e dell’inerranza. In particolare, sull’ispirazione, si legge: «Infatti egli stesso [lo Spirito Santo] così li stimolò e li mosse a scrivere con la sua virtù soprannaturale, così li assisté mentre scrivevano, di modo che tutte quelle cose e quelle sole che egli voleva, le concepissero rettamente con la mente, e avessero la volontà di scrivere fedelmente e le esprimessero in maniera atta con infallibile verità: diversamente non sarebbe egli stesso l’autore di tutta la sacra Scrittura»28.

prestare il consenso alla predicazione del vangelo (DH 3010); ma conosce anche la categoria del dictare, usata solo per le tradizioni orali. Il termine dictare verrà poi ripreso ed esteso ai Libri sacri dalla Providentissimus Deus di Leone XIII, nonché dalla Spiritus Paraclitus di Benedetto XV. Per evitare tuttavia fraintendimenti sul corretto significato del termine, esso non sarà più impiegato a partire dalla Divino afflante Spiritu di Pio XII. 27 Costituzione Dogmatica Dei Filius: «Questa rivelazione soprannaturale, secondo la fede della chiesa universale, proclamata dal santo concilio di Trento, è contenuta “nei libri scritti e nella tradizione non scritta, che, ricevuta dagli apostoli dalla bocca dello stesso Cristo o trasmessa quasi di mano in mano dagli stessi apostoli, per ispirazione dello Spirito santo (Spiritu Sancto dictante), è giunta fino a noi”. Questi libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, nella loro interezza, con tutte le loro parti, così come sono elencati nel decreto di questo concilio e come si trovano nell’antica edizione latina della Volgata, devono essere accettati come sacri e canonici. La chiesa li considera tali non perché, composti per opera dell’uomo, sono stati poi approvati dalla sua autorità, e neppure soltanto perché contengono senza errore la rivelazione; ma perché, scritti sotto l’ispirazione dello Spirito santo (Spiritu Sancto inspirante), hanno Dio per autore e come tali sono stati trasmessi alla chiesa» (DH 3006). 28 EB 125.


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Una novità, rispetto ai testi magisteriali precedenti, riguarda l’introduzione in positivo dell’istanza della verità, qualificata come infallibile; se così non fosse, Dio non sarebbe l’autore della Sacra Scrittura. Emerge con tutta evidenza l’elemento formale dell’auctoritas divina per riaffermare, come al Concilio Vaticano I, il dato di fede che i testi sacri sono ritenuti tali non per un’approvazione arbitraria susseguente da parte della Chiesa, né per l’assistenza garantita dallo Spirito perché gli agiografi non cadessero in errore: sono sacri e canonici perché la Chiesa così li ha ricevuti nella corrente viva della Tradizione29. L’enciclica inoltre, come si accennava sopra, ha tentato una sorta di descrizione fenomenica dell’avvenimento dell’ispirazione. Schematicamente vi si può leggere la preventiva e perdurante disposizione dello Spirito ad illuminare la mente dell’agiografo, a muoverne la volontà, ad assisterne i sensi e le facoltà esecutive30. L’agiografo è soltanto uno strumento nelle mani dello Spirito. 29 Si tratta di una reazione alle due teorie note come «teoria dell’approvazione susseguente» e «teoria dell’assistenza negativa». La prima sarebbe stata sostenuta nel XVII secolo dal gesuita L. Lessius, pervenuta alla vigilia del Concilio Vaticano I nella versione di D. von Haneberg (vescovo di Spira); secondo questa teoria un libro, benché scritto con le sole capacità umane, diventerebbe canonico a seguito dell’approvazione e dell’atto di convalida della Chiesa. Questa teoria è stata rigettata perché identificherebbe ispirazione e canonicità. La seconda teoria (sostenuta da un discepolo di Lessius, J. Bonfrère nel XVII secolo e dal premostratense J. Jahn nel XVIII secolo) ritiene che l’ispirazione sia soltanto una preservazione dall’errore dell’agiografo garantita dallo Spirito Santo. Anche questa teoria è stata respinta dal Concilio Vaticano I, giacché identificherebbe ispirazione e inerranza. Ambedue le teorie, in ogni caso, implicano che le Sacre Scritture, per quanto concerne la loro origine, non si possano distinguere da qualsiasi altra opera letteraria. Cfr. M. TÁBET, Introduzione generale alla Bibbia, 35 ss. 30 Questo schema richiama la teoria del card. G.B. Franzelin, pubblicata nel 1870 nel libro Tractatus de divina Traditione et Inspiratione. Secondo questa teoria, riproposta durante i lavori del Concilio Vaticano I, è possibile distinguere nei testi sacri un elemento formale e uno materiale: mentre l’elemento formale concerne il contenuto (dunque i pensieri e i concetti ispirati da Dio), l’elemento materiale riguarda le parole e le espressioni che servono a veicolare la rivelazione. Secondo tale distinzione, dunque, Dio è il vero autore della Scrittura (perché a lui risale l’elemento formale), mentre l’agiografo mette mano soltanto all’elemento materiale che, in virtù dell’ispirazione, trasmette in maniera infallibile quanto Dio intende comunicare. Nonostante


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Anche la seconda enciclica biblica Spiritus Paraclitus di Benedetto XV (1920) si muove lungo questa scia magisteriale. L’ispirazione è

presentata come una grazia soprannaturale o un carisma transeunte concessi da Dio perché gli agiografi intendessero rettamente, secondo verità, il contenuto della rivelazione divina, senza con questo compromettere la libertà, le facoltà operative, la fantasia, il genio umani. Tutto questo, senza soluzione di continuità, dal concepimento al compimento del libro: «Dio con un dono della sua grazia illumina lo spirito dello scrittore, riguardo alla verità che questi deve trasmettere agli uomini per ordine divino. Egli suscita in lui la volontà e lo costringe a scrivere; gli conferisce un’assistenza speciale fino al compimento del libro»31.

Sarà invece la terza enciclica biblica, la Divino afflante Spiritu di Pio XII (pubblicata nel 1943, cinquantesimo anniversario della Providentissimus Deus), a riconoscere la prerogativa di autori letterari agli agiografi (non solo, dunque, scrittori) e a manifestare apprezzamenti per i risvolti positivi e fecondi della nuova esegesi (“i nuovi lumi apportati dalle moderne indagini”). Se l’enciclica non utilizza più il termine dictare, tuttavia ricorre ancora alla distinzione tomista della causalità principale32, per cui l’agiografo nello scrivere il libro sacro è organo dello Spirito Santo, sebbene strumento vivo nel pieno delle sue facoltà volitive e intellettive. «Partendo [i teologi cattolici] nelle loro disquisizioni dal principio che l’agiografo nello scrivere il libro sacro è organo, ossia strumento dello Spirito Santo, ma strumento vivo e dotato di ragione, rettamente osser-

fosse respinta al Vaticano I, questa teoria fece scuola per parecchi decenni. Solo dopo le osservazione critiche di esegeti come J.M. Lagrange e di L. Alonso Schökel (per le quali non è possibile scindere il pensiero dal suo linguaggio) la teoria fu abbandonata; cfr. L. ALONSO SCHÖKEL, La parola ispirata, Brescia 1967, 61; V. MANNUCCI, Bibbia come Parola di Dio, 159. 31 EB 448. 32 La distinzione risale a San Tommaso, per il quale l’autore principale della Sacra Scrittura è lo Spirito Santo, mentre l’uomo ne è l’autore strumentale; cfr. Quaestiones de quodlibet 7, q. 14, ad 5.


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vano che egli sotto l’azione divina talmente fa uso delle sue proprie facoltà e potenze, che dal libro per sua opera composto tutti possono facilmente raccogliere “l’indole propria di lui e come le sue personali fattezze e il suo carattere”»33.

Si nota, dunque, una valutazione positiva e determinante dell’intervento dello scrittore sacro, pienamente presente a se stesso e allo Spirito, di modo che non è più ammissibile confondere la sua opera con il semplice compito svolto da un segretario. Senza aver aggiunto riflessioni di tipo introspettivo o psicologico sull’ispirazione biblica, l’enciclica ha comunque moderato il discorso autoritativo dei concili precedenti e, più in generale, ha sdoganato gli studi biblici cattolici verso un confronto più aperto e meno apologetico con i risultati dell’esegesi moderna34. Ciò ha consentito la formulazione di nuove teologie sull’ispirazione che, nel complesso, si propongono come alternativa alla dottrina classica tomista del rapporto causale e strumentale35. Tra queste ricordiamo l’opera del domenicano P. Benoit, secondo cui l’ispirazione sarebbe da comprendersi insieme e in analogia agli altri carismi con cui lo Spirito ha suscitato e animato tutta la storia della salvezza (dunque dalla vocazione degli eroi biblici, al compito dei profeti, alla missione degli apostoli, all’ispirazione tout court degli agiografi)36. Di rilievo è anche la teoria letteraria di L. Alonso Schökel il quale, proponendo una ricostruzione del testo in tre tempi (collezione del materiale, intuizione ed esecuzione), ritiene che soltanto le ultime due fasi ricadano sotto la mozione ispiratrice37. Una terza teoria, che

33

EB 556. Cfr. G. BORGONOVO, Genesi e ricezione della costituzione conciliare Dei Verbum, in Teologia 31 (2006) 146-172; 151. 35 Cfr. S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale, Brescia 2002, 583-585. 36 Cfr. P. BENOIT, Rivelazione e ispirazione, Brescia 1966. 37 Cfr. L. ALONSO SCHÖKEL, La parola ispirata, 190-194. Questa teoria avrebbe il merito di evidenziare la piena libertà dello scrittore sacro nello stimare come utili tutte le informazioni, le esperienze, i valori della sua coscienza e della sua umanità, messe a servizio delle altre due fasi in cui obbedisce all’illuminazione creativa dell’ispirazione. 34


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ha riscontrato notevole interesse tra i teologi, è stata elaborata da K. Rahner, secondo cui l’ispirazione si svela ultimamente come «un momento della paternità di Dio nei confronti della Chiesa»38. In quanto Dio ha voluto e creato la Chiesa, l’ha pure dotata di elementi costitutivi ed essenziali, fra cui la Scrittura. Perciò Dio è l’autore ispirante della Bibbia: «L’ispirazione […] non è altro che la causalità originaria di Dio, nei riguardi della Chiesa, in quanto questa causalità è in relazione proprio a quell’elemento costitutivo della Chiesa primitiva come tale, che è precisamente la Scrittura»39. Qui sta racchiuso il concetto limite dell’ispirazione, «senza che a questo punto — afferma K. Rahner — possa essere chiamata in aiuto una speciale teoria psicologica»40. Una tale constatazione può far concludere che il ricorso a dottrine psicologiche e introspettive appaia insufficiente e provvisorio per una buona sistematizzazione del carisma dell’ispirazione circa la sua natura. Probabilmente è questa la ragione per cui la Pontificia Commissione Biblica, nel documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, sembra aver escluso dalla sua analisi la questione dell’origine trascendente delle Scritture41, rimandando all’elaborazione teolo38 K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Cinisello Balsamo (Mi) 1990, 477. 39 ID., Sull’ispirazione, 55. Se questa impostazione costringe Rahner a pensare l’ispirazione a partire dal Nuovo Testamento, ciò non significa che egli abbia negato il carattere ispirato dell’Antico Testamento. Anzi, anch’esso è compreso all’interno dell’economia di salvezza come preistoria di quella nuova ed eterna alleanza sigillata in Gesù Cristo. Ragion per cui il Nuovo Testamento, e con esso la stessa Chiesa, non possono comprendersi al di fuori o al di là di quella historia salutis che ha riguardato il popolo di Israele e che vede nel Verbo incarnato l’evento culmine e cruciale della missione divina di autocomunicazione. 40 ID., Corso fondamentale sulla fede, 476; cfr. ID., Sull’ispirazione, 54-55. 41 Il documento ha esplicitamente dichiarato: «Non si ha qui la pretesa di prendere posizione su tutte le questioni che riguardano la Bibbia, come, ad esempio, la teologia dell’ispirazione» (EB 1273). Come ha notato Ch. Theobald: «il testo non usa neanche la terminologia classica della “dottrina d’ispirazione”, ma parla di “teologia dell’ispirazione”» (CH. THEOBALD, La recezione del Vaticano II. 1. Tornare alla sorgente, Bologna 2011, 584).


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gica il compito di continuare a riflettere sul carisma dell’ispirazione. Così si legge: «Quando affrontano i testi biblici, gli esegeti hanno necessariamente una precomprensione. Nel caso dell’esegesi cattolica, si tratta di una precomprensione basata su certezze di fede: la Bibbia è un testo ispirato da Dio e affidato alla Chiesa per suscitare la fede e guidare la vita cristiana. Queste certezze di fede non arrivano agli esegeti allo stato bruto, ma dopo essere state elaborate nella comunità ecclesiale dalla riflessione teologica. Gli esegeti sono quindi orientati nella loro ricerca dalla riflessione dei teologi dogmatici sull’ispirazione della Scrittura e sulla funzione di questa nella vita ecclesiale»42.

2. SULL’INERRANZA Tematicamente legata alla dottrina dell’ispirazione è quella di inerranza, con cui si indica l’immunità da errore della Bibbia in quanto quest’ultima è sacra ed ispirata. L’argomento ex auctoritate che molti Padri prima e la teologia poi hanno sostenuto per difendere la sacralità dei testi canonici si basa, sostanzialmente, sulla seguente affermazione: poiché la Sacra Scrittura è ispirata da Dio (e Dio non può essere considerato mendace) ed è ispirata in tutte le sue parti (e non soltanto in alcune ad esclusione di altre), non è lecito pensare consequenzialmente che possa contenere errori di sorta. Non sorprende, così, che le evidenti discordanze della Bibbia, sia all’interno dell’AT sia all’interno del NT, fossero risolte dagli antichi ricorrendo alle armonizzazioni o alle interpretazioni di tipo allegorico. Ma si è dato anche il caso che autorevoli teologi e pastori, come Agostino, dinanzi ad un errore evidente nella Sacra Scrittura, fossero disposti ad ammettere piuttosto la fallibilità o l’insufficienza della conoscenza umana43.

42 43

EB 1489.

AGOSTINO, Epistola 82, 1, 3: «Io, infatti, confesso alla tua benevolenza che soltanto ai libri delle Scritture, che vengono chiamati canonici, ho imparato a prestare


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Richiamiamo adesso, a titolo esemplificativo, due formulazioni risalenti al XIV secolo con cui si evoca tale argomento d’autorità a fondamento della veridicità e credibilità della Sacra Scrittura44. Nel 1323, nel contesto della polemica contro alcuni francescani spirituali sulla povertà di Cristo, Giovanni XXII affermò che la Bibbia non può contenere il fermento della menzogna45. Qualche anno dopo, nel 1351, Clemente VI ritenne oggetto di fede che il Nuovo e Antico Testamento, in ogni libro, contenessero la verità indubitabile su tutte le cose, sotto ogni aspetto (veritatem indubiam per omnia continere)46. Queste due dichiarazioni sono importanti perché rilevano le due forme essenziali dell’inerranza — in negativo (assenza di falsità) e in positivo (verità certa su tutte le cose scritte) — che saranno impiegate fino al Concilio Vaticano II. Entrambe ruotano attorno all’argomento cardine dell’autorità divina. L’inerranza diviene pertanto un oggetto di fede. L’enciclica Qui pluribus di Pio IX del 1846 tematizza l’inerranza con la fiducia che Dio non può né ingannarsi né ingannare. Al fine di mostrare la superiorità della fede sulla ragione, di «difendere e divulgare la gloria di Dio e la fede cattolica» come contromisura e correzione degli errori dell’epoca (indifferentismo e razionalismo primi fra tutti), il pontefice, una tale venerazione e onore, da credere fermamente che nessuno dei loro autori abbia commesso errore alcuno nello scrivere. Qualora poi, mi imbattessi in essi in qualche cosa che sembrasse contraria alla verità, non avrò il minimo dubbio che ciò dipenda o dal codice difettoso, o dal traduttore che non ha interpretato rettamente ciò che fu scritto, o che la mia mente non è arrivata a capire». Vale la pena riportare le parole di Giustino: «Che le Scritture possano contrastare fra di loro […] mai oserò né pensarlo, né dirlo; e se vi fosse qualche Scrittura che sembri essere tale […] piuttosto confesserò di non capire quel che significhi e cercherò di persuadere anche quanti sospettano che le Scritture contrastino fra di loro, affinché piuttosto la pensino come me». Sulla falsariga, Crisostomo: «Quando vedrai qualcuno che, mosso dai propri ragionamenti, oserà contraddire la divina Scrittura, trattalo come un pazzo»; infine, Girolamo: «è da empi affermare che la Scrittura mentisce»; citati da M. TÁBET, Introduzione generale alla Bibbia, 97 nn. 23-24. 44 Cfr. C. A. ALVES, Ispirazione e verità. Genesi, sintesi e prospettive della dottrina sull’ispirazione biblica del concilio Vaticano II (DV 11), Roma 2012, 29. 45 Costituzione Cum inter nonnullos del 12 novembre 1323 (DH 930). 46 Lettera Super quibusdam a Mekhithar, katholicos degli Armeni (DH 1065).


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appoggiandosi alla convinzione che «la religione prende ogni forza dall’autorità di Dio che parla», retoricamente chiede: «Chi infatti ignora o può ignorare che bisogna avere piena fede nel Dio che parla e che nulla è più conforme alla ragione stessa che ammettere, aderendovi saldamente, quelle cose che si siano constatate come rivelate da Dio, che non può né ingannarsi né ingannare?»47.

La formula sarà citata alla lettera nel cap. 3 sulla fede della Costituzione dogmatica Dei Filius, dove si legge: «La chiesa cattolica professa che essa [la fede] è una virtù soprannaturale, per la quale sotto l’ispirazione divina e con l’aiuto della grazia, noi crediamo vere le cose da lui rivelate, non a causa dell’intrinseca verità delle cose percepite dalla luce naturale della ragione, ma a causa dell’autorità di Dio stesso, che le rivela, il quale non può né ingannarsi né ingannare»48.

Sigilla il medesimo argomento l’enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII del 1893. Qui si rispecchia l’irrefrenabile atteggiamento di difesa dell’autorità, della dignità e della verità della Bibbia, a fronte delle allora recenti scoperte archeologiche e paleontologiche, prova evidente — queste ultime — dell’inattendibilità storica di alcuni passi biblici49. Affermando l’estensione dell’ispirazione e dell’inerranza a tutta la Sacra Scrittura, vi si legge: «Infatti tutti i libri e nella loro integrità, che la chiesa riceve come sacri e canonici, con tutte le loro parti, furono scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, ed è perciò tanto impossibile che la divina ispirazione possa contenere alcun errore, che essa, per sua natura, non solo esclude anche il minimo errore, ma lo esclude e rigetta così necessariamente,

47

Enchiridion delle Encicliche (= EE) 2/109. DH 3008. 49 Si vede come tale atteggiamento apologetico non abbia tenuto conto dell’invito, rivolto alla teologia e al magistero da parte delle moderne scoperte scientifiche (il caso Galilei docet) e dell’esegesi storico-critica, di meglio chiarire il significato del termine errore. 48


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come necessariamente Dio, somma verità, non può essere nel modo più assoluto autore di alcun errore»50.

Il legame ispirazione-inerranza è sempre spiegato nei termini della classica deduzione logica ed apodittica: se la Scrittura è ispirata da Dio ne consegue che sia scevra di errore, perché non è assolutamente ammissibile che Dio possa dissimulare, in un modo o in un altro, la verità51. Anche Benedetto XV dovette reagire con toni preoccupati e infuocati allo scopo di salvaguardare la sacralità della Bibbia con l’enciclica Spiritus Paraclitus (1920), scritta in occasione del 1500° anniversario della morte di S. Girolamo, Doctor maximus Sacrae Scripturae: «Se ancora vivesse, certamente san Girolamo lancerebbe acuminati strali contro questi imprudenti che [...] pretendono di scoprire nei Libri Sacri procedimenti letterari inconciliabili con l’assoluta e perfetta veracità della parola divina, e professano sull’origine della Bibbia un’opinione che tende unicamente a scuotere l’autorità o addirittura ad annullarla»52.

Ciò importava, dunque, di non poter escludere alcun passo biblico dall’ispirazione, di non poter limitare il contenuto ispirato soltanto agli elementi dottrinali tout court, di asserire che gli autori biblici non si sono limitati a riferire la verità soltanto come si conosceva al loro tempo53. Insomma, per il magistero di fine Ottocento e inizio Novecento l’estensione dell’ispirazione e dell’inerranza copre tutta la Bibbia, dalla prima all’ultima pagina, riaffermando una lunga tradizione patristica e teologica che, sinteticamente, possiamo siglare con le

50

EB 124. EB 125: «Tale è l’antica e costante fede della chiesa, definita anche con solenne sentenza dai concili Fiorentino e Tridentino, e confermata infine e dichiarata più espressamente nel concilio Vaticano [I]». 52 EB 461. 53 Cfr. G. BORGONOVO, Genesi e ricezione della costituzione conciliare Dei Verbum, 150. 51


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parole di Tommaso d’Aquino: quidquid in sacra Scriptura continetur, verum est54. È evidente come, sia la teologia sia la riflessione biblica, mancassero di un’adeguata chiarificazione della nozione di “errore”, interpretata più secondo l’opposizione logica ed intellettuale del sistema binario vero/falso che sulla scia dischiusa da un senso salvifico universale. Occorre attendere la terza enciclica biblica del 1943, la Divino afflante Spiritu di Pio XII, per scorgere spiragli di apertura magisteriale su una più positiva considerazione degli studi biblici. La Divino afflante Spiritu, infatti, parla esplicitamente di generi o forme letterarie, sollecita allo studio della critica testuale e storica, invita ad impiegare le nuove conoscenze e acquisizioni scientifiche, allo scopo di intraprendere un dialogo fecondo fra esegesi e scienza55. Per esprimere meglio il concetto della mancanza di errore, l’enciclica riprende un’analogia patristica fra il Cristo e la Scrittura, accolta poi in Dei Verbum 1356: «come il Verbo sostanziale di Dio si è fatto simile agli uomini in tutto, “eccetto il peccato” (Eb 4, 15), così anche le parole di Dio, espresse con lingua umana, si sono fatte somiglianti all’umano linguaggio in tutto, eccettuato l’errore. In questo consiste quella condiscendenza (sunkat£basij) del nostro provvido Dio, che già san Giovanni Crisostomo con somme lodi esaltò e più e più volte asseverò trovarsi nei sacri Libri»57.

L’enciclica, pertanto, esortando al necessario approfondimento degli studi biblici, ha posto la premessa per ritenere la verità contenuta

54

TOMMASO D’AQUINO, Quaestiones de quodlibet q. 17, a. 26, ad 1. Cfr. EB 547 ss. 56 DV 13: «Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo». Come si nota, in DV 13 manca il riferimento all’eccezione di ciò che comporta la kenosi del Verbo: il peccato (per la natura umana) e l’errore (per il testo sacro). 57 EB 559. 55


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nella Scrittura non tanto nei termini tomisti di una corrispondenza tra intelletto e realtà, quanto di un’istanza salvifica cristologicamente centrata58. In questo senso la Dei Verbum rappresenterà, tempo dopo, una pietra miliare fondamentale che segna un ulteriore passo in avanti nel vastissimo campo dell’esegesi e della teologia. Oggigiorno, così, l’inattendibilità storica di molte pagine della Bibbia (soprattutto dell’AT) non costituisce un ostacolo serio che possa far inciampare e cadere il principio dell’ispirazione e quello dell’inerranza. La “semplice” constatazione del passaggio dallo studio dei fatti storici realmente accaduti (storia) allo studio del modo di interpretarli e scriverli (storiografia) rivela, in questo senso, una novità di ampio respiro per i cultori di scienze bibliche. Come chiarisce P. Dubovský: «Il passaggio dalla storia alla storiografia prima di tutto forza gli interpreti della Bibbia ad abbandonare le domande tipo se Gerico fu realmente o meno conquistata da Giosuè e, quindi, di lasciare da parte la semplificazione eccessiva: se il testo è ispirato, deve essere per forza storicamente accurato. Le domande di uno studioso di storiografia antica si formulano in un’altra maniera? Quale ideologia/teologia sta dietro una tale presentazione? Così, biblisti e teologi non devono più sprecare energia per affermare la storicità di ogni singolo racconto biblico, ma possono individuare il messaggio sottostante»59.

Prospettiva liberante e benefica, senza dubbio, con la quale è possibile concludere che ogni epoca della storia della salvezza (attestata nella Sacra Scrittura) ha conosciuto una sua teologia della salvezza che, di volta in volta, risponde alla verità di una relazione tra viventi (Dio e uomini) calati nel grande scenario di una storia in atto60.

58 L’allusione allo scopo salvifico della Scrittura l’aveva già resa la Providentissimus Deus che, citando sant’Agostino, scrisse: «gli scrittori sacri, o più giustamente “lo Spirito di Dio che parlava per mezzo di essi, non intendeva ammaestrare gli uomini su queste cose (cioè sull’intima costituzione degli oggetti visibili), che non hanno importanza alcuna per la salvezza eterna”» (EB 121). 59 P. DUBOVSKÝ, Storia, fantasia e ideologia. Il metodo storico interroga l’ispirazione, in P. DUBOVSKÝ – J.-P. SONNET (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 136-154; 151. 60 Allora il testo ridiventa parola di Dio rivolta all’uomo, soffio che continua a


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3. SULL’ISPIRAZIONE E LA VERITÀ DELLA SCRITTURA IN DEI VERBUM 11 La turbolenta storia della redazione della Dei Verbum rappresenta una cifra ermeneutica imprescindibile per comprendere la reale portata di questa costituzione conciliare. Si è affermato che la Dei Verbum è il portale di ingresso del Concilio Vaticano II, perché presenta la Chiesa stessa anzitutto in ascolto della Parola di Dio (Dei verbum audiens). Dall’incipit del documento si registra subito, come avvenuto, il mutamento di una consolidata e plurisecolare autoreferenzialità autoritativa: si ammette che solo una Chiesa che sa ascoltare la Parola di Dio è una Chiesa che sa annunciare Dio agli altri. Testi come la Dei Verbum, dunque, hanno cercato di dare una fisionomia quasi profetica a questo cambiamento di prospettiva, intendendo recuperare i tesori della Scrittura e della Tradizione. In tal senso, «come dichiarano le ultime relationes, questa Costituzione dogmatica ci colloca di fatto al centro teologale del concilio, offrendoci la chiave di tutti gli altri testi e l’esplicitazione del loro principio ecumenico e pastorale»61. Sotto questo profilo, anche il tema dell’ispirazione può emblematicamente rappresentare il passaggio del testimone da una apologetica dell’autorità ad una teologia della Parola. Ma esso, come ogni passaggio decisivo, è avvenuto attraverso il superamento di momenti di notevole criticità. Difatti, nonostante le aperture della Divino afflante Spiritu, la ventilare e interpellare la coscienza del credente nell’hic et nunc della storia, Verbo che va in cerca del suo nuovo autore. Sotto questo profilo, M. Grilli sostiene che l’ispirazione non è un fatto puntuale accaduto una volta per sempre nel passato, ma si compie come evento nel dialogo/incontro tra la Scrittura e il suo lettore: «lo stesso Spirito opera negli uni e negli altri, dal momento della redazione scritta fino al momento dell’attualizzazione». (M. GRILLI, L’«ispirazione» della Scrittura in chiave comunicativa, in P. DUBOVSKÝ – J.-P. SONNET (edd.), Ogni Scrittura è ispirata, 223-240; 232). A nostro avviso, autorizza questa linea interpretativa DV 13, quando afferma che la sacra Scrittura deve «esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta». 61 CH.THEOBALD, La recezione del Vaticano II, 598.


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teologia biblica ufficiale allora vigente era ancora informata all’apologetica dell’autorità del Dio rivelante. Cosicché, fu questa teologia intellettualistica ed autoritativa a confluire nel primo schema dei lavori conciliari sulla rivelazione divina De fontibus62. Tale schema, del resto, «costituiva una delle quattro torri (De Ecclesia, De deposito, De fontibus e De ordini morali) dalle quali respingere gli attacchi alla Chiesa di Roma»63. Ma quale fu, invece, la sorpresa dei redattori facenti parte della commissione teologica preconciliare quando videro respinto, con forti opposizioni, lo schema presentato in aula64. Si intuiva che qualcosa stava cambiando: era il preludio di una nuova primavera dello Spirito. O, comunque, l’inizio dell’intricata vicenda che avrebbe visto ben quattro redazioni prima della promulgazione della Dei Verbum65.

62

Cfr. G. RUGGIERI, Il primo conflitto dottrinale, in G. ALBERIGO (dir.), Storia del concilio Vaticano II. 2. La formazione della coscienza conciliare, Bologna 2012, 259293. 63 R. BURIGANA, La Bibbia nel Concilio. La redazione della costituzione Dei Verbum del Vaticano II, Bologna, 1998, 9. Fondamentale rimane la testimonianza di U. BETTI, Storia della costituzione dogmatica “Dei Verbum”, in La Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Leumann (To) 1966, 13-68. 64 Tale commissione teologica — così si chiamava prima dell’inizio del Concilio — era presieduta dal cardinale Alfredo Ottaviani (che rappresentava l’archetipo del difensore del depositum fidei), prefetto del Sant’Uffizio, e aveva come segretario il gesuita Sebastian Tromp. 65 La Dei Verbum in realtà ha avuto una gestazione complessa e stratificata in più livelli di organismi o persone. Dalla ricostruzione di R. Burigana possiamo individuarne almeno otto: il Papa; i Padri conciliari; la commissione di coordinamento del Concilio; fino al 1963 la commissione mista, composta da quella dottrinale e dal Segretariato per l’Unità dei Cristiani; le sottocommissioni in cui si suddivise la commissione mista; dall’inizio del 1964 la sola commissione dottrinale; dal 7 marzo 1964 la sottocommissione speciale incaricata di redigere lo schema De divina revelatione; i singoli periti (cfr. R. BURIGANA, La Bibbia nel Concilio, 171-434). Inoltre cfr. ID., Alla riscoperta della Parola di Dio. La storia della redazione della costituzione Dei Verbum, in Parola spirito e vita 2 (2008) 58, 9-33; U. BETTI, Storia della costituzione dogmatica “Dei Verbum”, in La Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Leumann (To) 1966, 13-68.


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3.1. La redazione del primo schema Il tema dell’ispirazione e dell’inerranza fu introdotto nel secondo capitolo dello schema De fontibus, nei paragrafi 7-14. Ne esponiamo sinteticamente il contenuto: 1) Dio è l’autore primario e principale66 del testo sacro nella sua integralità; 2) ogni passo della Scrittura è ispirato; 3) l’inerranza è una conseguenza dell’ispirazione; 4) l’agiografo è ritenuto organon o strumento dello Spirito Santo67. Prevale, dunque, una concezione meccanica dell’ispirazione (tipica della controversistica cattolica) che, peraltro, diventa il principio dell’immunità assoluta da errori della Scrittura. Facendo propria la distinzione tra contenuti di fede e contenuti profani, la commissione preparatoria aveva così di fatto esteso l’inerranza ad ogni passo della Bibbia, enfatizzando l’insegnamento delle encicliche bibliche precedenti. Come ha notato V. Mannucci: «[lo schema preconciliare] cita, sì, la Providentissimus Deus e la Divino afflante Spiritu, le quali affermavano che la Bibbia non contiene e non può contenere errori in nessuna delle sue parti; ma omette di citare quel

66 In questo schema, dunque, vi si legge la distinzione classica di Dio come autore principale della Sacra Scrittura, appellativo scomparso nelle versioni seguenti e soprattutto nel testo finale di DV 11. Lo si ritrova, invece, nel documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa dove, se non è detto esplicitamente che l’autore umano sia strumento o organo dello Spirito, tuttavia si fa riferimento all’autore divino (trascendente) come autore principale, richiamando una distinzione che i Padri conciliari avevano accantonato. Così si esprime il documento della Pontificia Commissione Biblica: «Il senso letterale della Scrittura è quello espresso direttamente dagli autori umani ispirati. Essendo frutto dell’ispirazione, questo senso è voluto anche da Dio, autore principale»; ed ancora: «Suo fondamento è il fatto che lo Spirito Santo, autore principale della Bibbia, può guidare l’autore umano nella scelta delle sue espressioni in modo tale che queste esprimano una verità di cui egli non percepisce tutta la profondità» (EB 1407; 1422). 67 Ma ci si riferisce all’agiografo più come scrittore che come autore (nonostante le aperture della Divino afflante Spiritu).


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criterio positivo indispensabile per applicare l’inerranza assoluta, già formulato da S. Agostino e che già Leone XIII aveva richiamato»68.

Presentato al Concilio il 14 novembre 1962 e discusso fino al 20 novembre, il testo venne respinto da molti Padri (alcuni molto influenti, tra cui i cardinali Liénart, Frings, Alfrink, Bea), dopo infuocati dibattiti in aula69. Fu allora proposto di votare sull’opportunità di proseguire il dibattito attorno ad un testo evidentemente osteggiato. Ma la soglia dei due terzi richiesta per decretare il ritiro dello schema, non fu raggiunta per soli 155 voti (su 2209 Padri votanti). Dal punto di vista strettamente giuridico, pertanto, il dibattito doveva proseguire. Ma Giovanni XXIII, interpretando la volontà di una maggioranza de facto (quasi il 62%), decise il ritiro del testo per sottoporlo alla rielaborazione di una commissione mista, composta dalla commissione dottrinale70 e dal Segretariato per l’Unità dei Cristiani, con due copresidenti, il cardinale Alfredo Ottaviani e il cardinale Agostino Bea, ambedue poco disposti a concedere all’altro facili vittorie71. 3.2. Dal secondo al terzo schema Lo schema predisposto dalla commissione mista non venne discusso in aula nella seconda sessione del 1963, ma fu consegnato ai 68 V. MANNUCCI, Bibbia come Parola di Dio, 254. Il criterio positivo rimanda allo scopo salvifico della verità biblica; cfr. sopra n. 58. 69 Come scrive R. Burigana: «Diveniva sempre più evidente che il dissenso dei padri non era circoscritto al solo De fontibus, ma si estendeva all’intero progetto dogmatico della preparazione» (R. BURIGANA, La Bibbia nel Concilio, 154). Cfr. anche J. GROOTAERS, Il concilio si gioca nell’intervallo. La «seconda preparazione» e i suoi avversari, in G. ALBERIGO (ed.), Storia del concilio Vaticano II. 2. La formazione della coscienza conciliare, Bologna 2012, 385-559; 415-416. 70 La commissione dottrinale fu istituita, a Concilio avviato, in sostituzione della commissione teologica preparatoria. Questa nuova commissione dottrinale era composta in parte da periti e membri della precedente commissione teologica e in parte da altri membri eletti dai Padri conciliari, una volta confermati il presidente A. Ottaviani e il segretario S. Tromp. Cfr. C. A. ALVES, Ispirazione e verità, 119. 71 Cfr. R. BURIGANA, Alla riscoperta della Parola di Dio, 16-18; C. A. ALVES, Ispirazione e verità, 119-121 ss..


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Padri per riceverne le osservazioni per iscritto. Tuttavia solo la commissione dottrinale — dopo la riesumazione voluta da Paolo VI di un testo inspiegabilmente sepolto72 — si occupò della rielaborazione dei suggerimenti dei Padri, senza l’ausilio del Segretariato per l’Unità dei Cristiani73. Per quanto concerne il nostro tema, le osservazioni miravano a ridimensionare la forte connotazione meccanicistica dell’ispirazione, mettendo in debito risalto — nulla togliendo alla paternità divina — il ruolo dell’uomo quale autore dei testi sacri. La rinnovata commissione dottrinale74 pertanto, produsse un terzo schema nel quale non si parla più di Dio come di autore principale della Sacra Scrittura e, riguardo all’inerranza, si attenua l’espressione precedente “assolutamente immune da ogni errore” modificandola in “senza nessun errore”75. Il testo De divina revelatione (comprendente sei capitoli: sulla rivelazione, sulla trasmissione della rivelazione, sull’ispirazione, sull’Antico Testamento, sul Nuovo Testamento, sulla Scrittura nella vita della Chiesa) venne presentato in aula nel settembre del 1964. Le linee del dibattito tuttavia non erano facilmente individuabili né conducevano ad un assenso generale. La commissione pertanto 72 Per il nuovo pontefice, infatti, il testo andava re-inserito nell’agenda dei lavori della terza sessione (settembre-ottobre 1964). 73 A parte la mancata determinazione del ruolo del Segretariato, ossia se fosse limitato soltanto alla revisione del De fontibus o dovesse continuare la cooperazione per gli altri testi, pare che la commissione dottrinale mostrasse il desiderio di lavorare senza alcuna interferenza esterna; cfr. C. A. ALVES, Ispirazione e verità, 173. 74 Il 7 marzo 1964 fu istituita, infatti, una sottocommissione speciale per la revisione dello schema De divina revelatione, che comportò l’ingresso di nuovi membri. Tra i componenti più noti figurano: il biblista belga mons. A. Charue, presidente di questa sottocommissione e secondo vice-presidente della commissione dottrinale; il francescano U. Betti, segretario di questa sottocommissione; G. Philips co-segretario insieme a S. Tromp della commissione dottrinale da poco allargata; il vescovo E. Florit e l’abate C. Butler, che ebbe un ruolo essenziale nella stesura del n. 11; tra i periti vanno ricordati L. Cerfaux, C. Colombo, Y. Congar, S. Garofalo, A. Grillmeier, K. Rahner, J. Ratzinger, O. Semmelroth, P. Smulders (cfr. R. BURIGANA, La Bibbia nel Concilio, 255). 75 Per un’utile sinossi di questi schemi cfr. C. A. ALVES, Ispirazione e verità, 124129; V. MANNUCCI, Bibbia come Parola di Dio, 252.


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ritornò sul testo consapevole di ripresentare in aula un documento problematico che avrebbe deluso non pochi Padri conciliari. Il testo, pertanto, fu riproposto in assise il 20 novembre 1964 con delle modifiche riguardanti soprattutto il tema caldo della trasmissione della rivelazione, ma con questa peculiarità procedurale specificata da mons. P. Felici: sullo schema si sarebbero dovuti inviare, entro il 31 gennaio del 1965, solo modi e non osservazioni76. Il fatto è che alcuni Padri non si limitarono ad inviare i modi, ma avanzarono vere e proprie proposte di emendamento che, una volta accolte, avrebbero importato una necessaria revisione al testo. 3.3. Dal quarto schema alla promulgazione di Dei Verbum Le osservazioni pervennero ben oltre la data fissata. Dopo una lunga serie di interventi e di dibattiti che condussero alla redazione di un quarto schema discusso in aula, si aggiunse un intervento decisivo di Paolo VI77. Il pontefice, infatti, ritenne di convocare il 17 ottobre 1965 la commissione dottrinale per discutere definitivamente tre modifiche avanzate dalla minoranza: sulla tradizione costitutiva, sull’espressione veritas salutaris e sulla storicità dei vangeli78. Inoltre 76 La differenza era rilevante: «le osservazioni riguardavano un testo ancora in corso di elaborazione, mentre i modi si riferivano ad un testo già votato e accolto dal concilio» (R. BURIGANA – G. TURBANTI, L’intersessione: preparare la conclusione del concilio, in G. ALBERIGO (dir.), Storia del concilio Vaticano II. IV. La Chiesa come comunione, Bologna 1999, 483-648; 546). 77 Il pontefice era «deciso a giocare fino in fondo il suo ruolo di attento ascoltatore di ogni voce proveniente dall’aula, nella ricerca di formule sulle quali potesse far convergere il maggior numero possibile di padri e non fosse offerta l’immagine di una Chiesa divisa» (R. BURIGANA, La Bibbia nel Concilio, 317). 78 Nota G. Caprile: «A proposito della “veritas salutaris”, la Commissione era invitata a voler “considerare con nuova e grave riflessione la convenienza di omettere nel testo l’espressione veritas salutaris, espressione relativa all’inerranza della Sacra Scrittura. La perplessità del Santo Padre, a questo riguardo, è maggiore che per l’osservazione precedente [rapporti tra Scrittura e Tradizione], sia perché si tratta di dottrina ancora non comune nell’insegnamento biblico teologico della Chiesa, sia perché non pare che la formula sia stata abbastanza discussa nell’aula conciliare, e sia perché, a giudizio di autorevolissime persone competenti, tale formula non è scevra dal pericolo di cattiva interpretazione. Sembra prematuro che il Concilio si


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manifestò il desiderio che il cardinale Bea rientrasse a pieno titolo a far parte della commissione di revisione. Di fatto, l’esautorato cardinale divenne il protagonista dei lavori, mettendo in secondo piano la guida di G. Philips. Alla fine, come scrive R. Burigana: «dopo interminabili discussioni, anche di carattere procedurale, con le ventilate minacce da parte di alcuni membri di considerare invalida una votazione appellandosi al Tribunale del concilio, vennero approvate le modifiche allo schema»79.

Per quanto concerne il nostro tema, le novità del quarto schema riguardavano perlopiù la chiarificazione della dottrina dell’inerranza. Esso presentava l’espressione positiva veritas salutaris, richiamando in tal modo l’insegnamento del Concilio di Trento a proposito del Vangelo che è fonte di ogni verità salvifica80. Era maturata l’idea che la Bibbia è ispirata non perché non contiene errori, ma perché insegna senza errore la verità rivelata da Dio. Tuttavia, «la minoranza e Paolo VI temevano […] che tale esplicitazione della verità delle Scritture fosse un modo per reintrodurre l’idea, rifiutata da Providentissimus Deus, di un’ispirazione parziale del testo, che consisterebbe nel distinguere materialmente, nelle Scritture, tra il campo del “profano”, storicamente relativo ed eventualmente foriero di errori, e alcuni enunciati “religiosi”, definitivi e aventi valore di rivelazione»81.

Così nella revisione della ricomposta commissione mista, l’espressione “verità salvifica” verrà sostituita con una perifrasi che, tuttavia, non muta la sostanza teologica della precedente formula ritenuta sospetta82. Come sostiene Ch. Theobald:

pronunci sopra questo problema tanto delicato. I Padri ora non sarebbero forse in grado di giudicarne la portata e la possibile abusiva interpretazione. Non si preclude, con l’omissione, lo studio successivo della questione”» (G. CAPRILE, Tre emendamenti allo Schema sulla Rivelazione, in La Civiltà Cattolica 117 (1966) 214-231; 225). 79 R. BURIGANA, Alla riscoperta della Parola di Dio, 30. 80 Cfr. sopra n. 24. 81 CH.THEOBALD, La recezione del Vaticano II, 582. 82 Cfr. R. BURIGANA, La Bibbia nel Concilio, 393; Ch. THEOBALD, La chiesa sotto


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«L’espressione proposta […] è una chiave di interpretazione della totalità delle Scritture. La formula di compromesso che alla fine viene scelta e accettata — appena — da Paolo VI è oggettivamente equivalente a quella del 1964»83.

La votazione dell’ultima versione dello schema — oramai approvato dal papa nonostante la non placata serie di accesi dibattiti all’interno della commissione dottrinale — venne fissata per il 29 ottobre 1965. Detta votazione non prevedeva la discussione sul contenuto, né l’approvazione con modifiche, ma stabiliva la fase decretoria per la promulgazione dell’intero documento84. Il 18 novembre, dopo un estenuante iter conciliare, fu votato il testo della Dei Verbum, con il seguente esito: 2344 placet e 6 non placet. Il n. 11 di Dei Verbum, presenta dunque un “reinquadramento”85 della dottrina sull’ispirazione e sulla verità della Sacra Scrittura rispetto al Concilio tridentino, al Vaticano I e alle tre encicliche bibliche, ma più ancora rispetto alla lontana controversistica cattolica dei decenni precedenti. Così vi leggiamo: «Le verità divinamente rivelate, che nei libri della sacra Scrittura sono contenute e presentate, furono messe per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu Sancto afflante). Infatti la santa madre chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché, scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu Sancto inspirante) (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16), hanno Dio per autore (Deum habent auctorem) e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse degli uomini che usò, servendosi delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori (veri auctores) tutte le cose e soltanto quelle che egli voleva. Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati, cioè gli agiografi, asseriscono, è da ritenersi

la Parola di Dio, in G. ALBERIGO (dir.), Storia del concilio Vaticano II. V. Concilio di transizione, Bologna 2001, 285-370; 303. 83 CH.THEOBALD, La recezione del Vaticano II, 582. 84 Cfr. C. A. ALVES, Ispirazione e verità, 308. 85 Cfr. CH.THEOBALD, La recezione del Vaticano II, 565-586.


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asserito dallo Spirito Santo, si deve professare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio, in vista della nostra salvezza (veritatem, quam Deus nostrae salutis86 causa) volle fosse messa per iscritto nelle sacre lettere. Pertanto “tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, affinché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tm 3,16-17)».

Sotto il profilo della dottrina classica dell’ispirazione, i chiarimenti del dettato conciliare riguardano il contenuto (ossia le realtà divinamente rivelate) e l’attribuzione della paternità degli scritti sacri all’autore divino e agli autori umani. Rispetto agli schemi precedenti occorre notare che Dio non è più qualificato come autore “principale”, ma se ne professa l’iniziativa ispiratrice senza appellativi. Per quanto invece concerne gli agiografi, onde non ritenerli dei meri segretari, si specifica che sono autori veri, ossia liberi di esprimersi secondo le loro facoltà e capacità volitive, mentali, intellettuali, culturali. Quest’ultimo riconoscimento, che implica i tratti di una vera e propria mediazione umana, ha confermato che non è possibile identificare rivelazione e ispirazione (pena la legittimità di una lettura fondamentalista del testo) ed ha ammesso – senza dirlo – la necessità di un’ermeneutica critica capace di far risplendere il messaggio di un testo anche alla luce della sua storia complessa e complessiva. Una novità di rilievo la si rinviene attorno alla questione della verità della Sacra Scrittura, a partire dalla terminologia che rimpiazza quella inafferrabile dell’inerranza. Molti lamentano che, dal punto di vista teologico, sarebbe stata più efficace l’espressione del penultimo schema veritas salutaris, a significare una più evidente correlazione costitutiva tra l’evento di rivelazione e il suo contenuto salvifico.

86 L’espressione Deus nostrae salutis causa potrebbe essere legittimamente intesa in due modi diversi, perché il termine causa può essere tradotto sia come nominativo (Dio che è causa della nostra salvezza) sia come ablativo (in vista della nostra salvezza). La commissione dottrinale precisò che la sua intenzione era di esprimere il senso dell’ablativo, e che nostrae salutis causa «deve essere tradotto per la nostra salvezza» (Acta Synodalia sacrosancti concili oecumenici Vaticani II, V/3, 641).


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Malgrado il compromesso di una circonlocuzione atta a placare animi piuttosto polemici87, si è tuttavia chiarito che la verità insegnata dalla Sacra Scrittura non è legata all’assenza di errori o di inesattezze, di imprecisioni o di contraddizioni, quanto piuttosto connessa all’evento rivelativo e ricapitolativo che è Gesù Cristo88. Come sostiene C.A. Alves: «ciò che bisogna cercare nella Bibbia è tutto quello che appartiene all’oggetto della rivelazione e solo quello. In questo senso, il contenuto della rivelazione e dell’ispirazione è lo stesso»89. La verità della Scrittura conduce, pertanto, al cuore della rivelazione. Si può dunque affermare che essa non rientra nell’opposizione dialettica della logica, ma nella questione del senso che attraversa tutte le pagine della Scrittura, dall’evento di creazione a quello dell’elezione, dalla liberazione alla redenzione ultima in Gesù Cristo90. CONCLUSIONE Accogliendo le suggestioni della teologia biblica degli ultimi decenni, vorremmo concludere insistendo sulla comprensione della natura del carisma in relazione e in analogia alla dinamica di tutti gli altri carismi che dicono la corrispondenza tra Dio e uomo in una condizione provvidenziale che scorge tra l’uno e l’altro una coopera-

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Ch. Theobald ricorda che «Tromp attacca sulla “verità salutaris”. “Egli vuole assolutamente che la parola “salutaris” sia soppressa, perché, se non si dice in modo puro e semplice che la Scrittura non contiene che la verità senza alcuna riserva, si arriva logicamente a dare a Dio del bugiardo”» (Ch. THEOBALD, La chiesa sotto la Parola di Dio, in G. ALBERIGO (dir.), Storia del concilio Vaticano II. V. Concilio di transizione, Bologna 2001, 285-370; 303). 88 Cfr. H. WALDENFELS, Teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, Roma 1988, 571; A. GRILLMEIER, La verità della Scrittura, in La verità della Bibbia nel dibattito attuale, Brescia 1968, 181-246; H. GABEL, Ispirazione e verità della Scrittura (DV 11), in L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano 2001, 20. 89 C. A. ALVES, Ispirazione e verità, 384. 90 Così, riprendendo la lezione di Girolamo, si potrebbe affermare che se l’ignoranza della Scrittura è causa dell’ignoranza di Cristo, l’ignoranza di Cristo comporterà l’ignoranza della verità della Scrittura; cfr. C. A. ALVES, Ispirazione e verità, 386.


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zione singolare dove chiari sono, da una parte, l’iniziativa e la mozione di Dio e, dall’altra, il riflesso libero dell’uomo. Qui ci sembra rinvenire il momento ermeneutico decisivo per comprendere la dottrina dell’ispirazione che si pone, pertanto, come punto medio tra una istanza trascendentale che richiede Dio all’origine della Scrittura ed una istanza storico-categoriale che im-pegna (ovvero mette nel segno dello Spirito) l’agiografo nel concorso attivo delle sue facoltà. Questa comprensione avrà il notevole merito di rifuggire da due estremi, ossia da una concezione massimalista che vedrebbe esasperata l’ispirazione fino a comprenderla come una dettatura verbale, ma anche da una concezione minimalista che vedrebbe l’ispirazione ridotta alla mera espressione di un estro devoto e spirituale. Inoltre, una riflessione adeguata sull’ispirazione dovrebbe far emergere primariamente l’indissolubilità del carisma dell’agiografo dalla comunità di fede dove questi ha vissuto o a cui si rivolge, perché non risulti staccato il dono dato e ricevuto nella comunità dal dono dato e ricevuto per l’edificazione della medesima (cfr. 1Cor 12, 7) e a vantaggio delle altre, dislocate in luoghi e tempi diversi. Solo così si potrà meglio comprendere l’ispirazione come un carisma speciale donato da Dio, in un tempo speciale, ad individui speciali, in analogia a tutti gli altri carismi che la grazia continua a suscitare senza che questi uomini vengano menomati della loro libertà e volontà, per seguitare ad essere profezia e memoria della più efficace Parola di Dio nella storia.


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LA RICEZIONE DELLA DEI VERBUM

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INTRODUZIONE La ricezione della DV è testimoniata e valutata dal numero e dalla qualità di documenti magisteriali, pontifici e degli episcopati locali che ad essa si riferiscono, dalla revisione dell’insegnamento della Sacra Scrittura nelle Ratio Studiorum delle Facoltà e degli Studi teologici, dalle iniziative in ambito catechetico e più diffusamente pastorale per educare i fedeli ad una lettura quotidiana, critica e spirituale, della Parola di Dio contenuta nella Bibbia, che di tale Parola ne è il Sacramento, dalle numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative. P. L. Ferrari1 offre una panoramica dei documenti ufficiali che hanno ripreso e sviluppato alcune delle istanze presenti nella DV: il documento della Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, del 1993 che riprende il c. III della DV; ancora, della stessa Pontificia Commissione Biblica, il documento Il Popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana del 2001, che sviluppa i presupposti del cap. IV della Costituzione; il simposio celebrato nel 1999 dalla Congregazione per la dottrina della fede sull’orientamento esegetico negli studi biblici, i cui Atti sono apparsi nel 2001 nelle edizioni Città del Vaticano sotto il titolo di L’interpretazione della Bibbia nella vita

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Docente di Esegesi biblica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. P. L. FERRARI , Oltre la Dei Verbum: il documento della PCB del 1993, le riletture e l’attualizzazione, in PSV 2 (2008), 86, nota 2. 1


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della Chiesa; il convegno organizzato da Catholical Biblical Federation – Pontifical Council For Promoting Christian Unity nel 2005 sul tema Sacred Scripture in the Life of the Church. 40° anniversary of Dei Verbum; il Sinodo dei Vescovi celebrato nell’ottobre 2008 su La parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. 1. ESEGESI E MAGISTERO Una panoramica esemplare, non esaustiva, come quella appena delineata, testimonia di come la DV abbia determinato la riflessione magisteriale e teologica in ordine alla Sacra Scrittura come anima della teologia, nonostante i percorsi non siano stati a volte in linea con quanto richiesto dalla Costituzione né i risultati ai quali si è pervenuti immediatamente riconducibili alle sue intuizioni. Non va trascurato, ad es., il fatto che il documento della Pontificia Commissione Biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, non sia stato assunto dal Papa Giovanni Paolo II, perché ritenuto quasi un manuale di metodologia esegetica, ma sia stato edito sotto la diretta responsabilità della stessa PCB. E ancora, bisogna notare come il documento della PCB Il Popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana sviluppi i presupposti del cap. IV della DV a partire, purtroppo, esclusivamente da una teologia cristiana su Israele, la quale non tiene conto della tradizione viva di quest’ultimo e, lontano dallo spirito conciliare, giudica semplicemente e solamente “possibile”, come pure rischioso per la stessa fede cristiana, il ricorso alla tradizione ermeneutica in essa contenuta. Il n. 22 così recita: Lo sconvolgimento prodotto dallo sterminio degli ebrei (la shoa) nel corso della seconda guerra mondiale ha spinto tutte le Chiese a ripensare completamente il loro rapporto col giudaismo e, di conseguenza, a riconsiderare la loro interpretazione della Bibbia ebraica, l’Antico Testamento. Alcuni sono arrivati a domandarsi se i cristiani non debbano rimproverarsi di essersi impadroniti della Bibbia ebraica facendone una lettura in cui nessun ebreo si riconosce. I cristiani dovrebbero allora leggere questa Bibbia come gli ebrei, per rispettare realmente la sua origine ebraica? Ragioni ermeneutiche obbligano a dare a quest’ultima domanda una risposta negativa. Infatti, leggere la Bibbia alla maniera del giudaismo


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implica necessariamente l’accettazione di tutti i presupposti di quest’ultimo, cioè l’accettazione integrale di ciò che è costitutivo del giudaismo, in particolare l’autorità degli scritti e delle tradizioni rabbiniche, che escludono la fede in Gesù come Messia e Figlio di Dio. In rapporto alla prima questione, la situazione è invece diversa, perché i cristiani possono e devono ammettere che la lettura ebraica della Bibbia è una lettura possibile, che si trova in continuità con le sacre Scritture ebraiche dall’epoca del secondo Tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente ad essa. Ciascuna delle due letture è correlata con la rispettiva visione di fede di cui essa è un prodotto e un’espressione, risultando di conseguenza irriducibili l’una all’altra. Sul piano concreto dell’esegesi, i cristiani possono, nondimeno, apprendere molto dall’esegesi ebraica praticata da più di duemila anni, e in effetti hanno appreso molto nel corso della storia. Dal canto loro possono sperare che gli ebrei siano in grado di trarre profitto anch’essi dalle ricerche esegetiche cristiane.

Le affermazioni qui contenute rendono ragione, peraltro, di quali siano alcune direttrici attuali in campo esegetico, pastorale e in quello del dialogo interreligioso che il magistero definisce: esse si profilano, a volte, come un’apologetica teologica, mentre il Concilio, come si esprime nella DV e in tutte le altre Costituzioni e documenti che produsse, abbandonò dichiaratamente la posizione difensiva dei precedenti Concili di Trento e del Vaticano I per assumere un’istanza critica sulla Chiesa in sé e nel suo rapporto con la storia e con il mondo2. Se il documento della PCB L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, sviluppando le indicazioni della DV, in particolare quelle presenti al n. 12, e con esse quelle già emerse con la Providentissimus Deus di Leone XIII del 18 novembre 1893, con la Spiritus Paraclitus di Benedetto XV del 15 settembre 1920 e con la Divino Afflante Spiritu di Pio XII del 30 settembre 1943, riafferma la validità del metodo storico-critico in seno all’indagine esegetica, senza comunque tacerne i limiti, e propone una concomitanza di metodi e di approcci nello studio del testo scritturistico che renda così fruibile la polisemia 2 Basti analizzare quali nessi intercorrino tra la DV e la Dichiarazione conciliare Nostra Aetate per comprendere quale ottica fosse assunta nella lettura della Sacra Scrittura in un contesto interreligioso.


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del testo, oltre che la sua struttura e tradizione3, la nota polemica di Ratzinger, secondo il quale per l’esegesi moderna “o l’interpretazione è critica o si rimette all’autorità; le due cose insieme non sono possibili”4 continua una discussione mai conclusa circa non soltanto il compito ecclesiale dell’esegeta e le modalità con le quali deve compiere il suo lavoro, peraltro tracciate già in DV 23, ma anche in relazione all’incidenza dei risultati dell’indagine esegetica nella vita della Chiesa e nell’attività pastorale. DV 23 sottolinea come il lavoro degli esegeti si svolga sotto la vigilanza (sub vigilantia) del Magistero5, riaffermando in tal senso “un quadro ermeneutico ampio” in seno al quale esegesi scientifica ed esegesi teologica rappresentano due aspetti necessari e concomitanti di una medesima realtà, quella cioè costituita dalla Scrittura e dal suo significato. In tale quadro non c’è concessione di alcun tipo ad un’esegesi di tipo dogmatistico e sul versante della razionalità scientifica e su quello concernente i contenuti della fede, ma la ricerca del senso delle Scritture è condotta attraverso un ascolto umile del testo, che può essere esercitato anche da chi non crede. Problematiche appaiono, pertanto, le affermazioni contenute nell’Esortazione Apostolica postsinodale di Papa Benedetto XVI del 30 settembre 2010 Verbum Domini al n. 30, la quale a sua volta cita il documento della PCB L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa II, A,2: “la giusta conoscenza del testo biblico è accessibile solo a colui che ha un’affinità vissuta con ciò di cui parla il testo”. Si riconosce, quindi, la validità delle analisi critiche del testo, ma, allo stesso tempo, si rileva la loro incompiutezza per la vita della Chiesa se esse non sono guidate dalla fede. Eppure, è da considerare che i dati emersi dalla razionalità critica, esercitata con onestà intellettuale, non sono in contrasto con i 3 Il documento propone una “sintonia” di metodi diacronici e metodi sincronici, rispettando così il dato della Traditiongeschichte posto in relazione con quello della Redaktiongeschichte. 4 J. RATZINGER, L’interpretazione biblica in conflitto, in I. DE LA POTTERIE – R. GUARDINI – J. RATZINGER – G. COLOMBO – E. BIANCHI, L’esegesi cristiana oggi, Casale Monferrato 20003, 99. 5 I Padri conciliari rinunciarono alla formula più rigida sub ductu Magisterii.


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dettami della fede, a patto che si stabilisca cosa sia la fede e quale sia il luogo sorgivo dei suoi contenuti e, nel caso di più luoghi, come questi stiano in relazione, compito quest’ultimo assunto già da DV 9 quando delinea identità e relazione di Scrittura e Tradizione. Un esempio illuminante di come lo studio della Bibbia attraverso prospettive non di fede possa aprire orizzonti nuovi all’intelligenza del credere è offerta dall’analisi svolta da N. Frye sulla Bibbia secondo il metodo della filosofia analitica del linguaggio6. 2. UN VUOTO DA COLMARE Il dibattito sul ruolo ecclesiale dell’esegeta coinvolge la divulgazione dei frutti del suo lavoro. Il rischio che si corre, da parte degli esegeti, è quello di condurre una ricerca critica del testo che non abbia un’incidenza sulla vita pastorale, rimanendo un esercizio di grande erudizione, il cui linguaggio è comprensibile soltanto dagli specialisti; da parte degli operatori pastorali e dei fedeli si nota, invece, la tendenza a rimuovere o celare quanto si è appreso nei corsi di esegesi presso le Facoltà o gli Studi teologici in nome di una prudenza che attende la crescita dell’intelligenza del popolo di Dio. Ma l’intelligenza si accresce solo attraverso un nutrimento vero; e i dati del lavoro scientifico condotto con onestà intellettuale possono soltanto rafforzare il cristiano in quella nuda essenzialità che è la fede. Il problema, in molti, è la corrispondenza tra dati scientifici e proclamazioni dogmatiche: dimenticano, costoro, che la Tradizione della Chiesa, proprio perché ha fissato i contenuti della sua fede in determinate epoche storiche, con il linguaggio proprio del tempo, non ha mai avuto paura ed anzi ha promosso lo sviluppo del significato del dogma e la sua riedizione in un linguaggio facilmente comprensibile a tutti, allo stesso modo della Scrittura, i cui testi non sfuggono, benché ispirati, al solco della storia, diventando essi stessi interpretazione storica di eventi riletti allo stesso tempo alla luce della fede in un linguaggio squisitamente umano. La Scrittura, nota il documento

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Cfr. N. FRYE, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Torino 1986.


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della PCB, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa III, A, 3 è infatti essa stessa un lavoro di interpretazione, svolto dalle comunità dalle quali essa è prodotta e per le quali diviene norma normans non normata, ma esposta e sottoposta comunque all’interpretazione che ne attualizzi il messaggio di salvezza (cfr. DV 11). Dall’esegeta si esige, pertanto, «la partecipazione […] a tutta la vita e a tutta la fede della comunità credente del loro tempo» (ibid., III, A, 3); il magistero garantisce l’autenticità dell’interpretazione, essendo, secondo il dettato di DV 10, ministro della Parola, nello studio della quale riconosce gli esegeti come figura ministeriale (cfr. DV 12). 2.1. La catechesi Lo iato tra studio esegetico e vita pastorale, specie per quel che concerne l’omiletica e la catechesi, si avverte ancor oggi nonostante il moltiplicarsi di centri e di iniziative per la conoscenza della Scrittura. La Nota pastorale della Commissione Episcopale per la dottrina della fede e la catechesi, La Bibbia nella vita della Chiesa. «La Parola del Signore si diffonda e sia glorificata» (2Ts 3,1) del 18 novembre 1995, a trent’anni dalla promulgazione della Dei Verbum, dopo un bilancio attento di frutti positivi e di aspetti carenti, propone una serie di indicazioni operative a largo spettro perché la Parola di Dio contenuta nelle Scritture sia conosciuta ed animi ogni settore della vita pastorale della Chiesa. La catechesi stessa, sottolineano i Vescovi nella Nota, “ è certamente una delle vie più eminenti di contatto con la Bibbia” (n. 28). Dal testo del catechismo va ricavato un cammino biblico che si leghi alle tre dimensioni della Parola che i vescovi italiani individuano: “ la dottrina, cioè la riflessione di fede della Chiesa; i sacramenti, cioè la celebrazione di fede della Chiesa; la carità, cioè la vita di fede della Chiesa” (l.c.). Nel 1989 è stato istituito il Settore dell’Apostolato Biblico, «settore non evidentemente della pastorale (la Bibbia non può costituire un settore) ma Settore dell’Ufficio Catechistico Nazionale»7, perché la catechesi sia permeata

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L. CHIARINELLI, Situazione della pastorale biblica nel contesto religioso e culturale


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dalla Scrittura e i credenti possano essere educati alla lettura quotidiana della Parola, coniugando criticità scientifica e spiritualità. 2.2. La Verbum Domini e l’omiletica L’Esortazione Apostolica Verbum Domini di Benedetto XVI, presentata l’11 novembre 2008, raccoglie e presenta i frutti del lavoro del Sinodo, celebratosi dal 05 al 26 ottobre in Vaticano, avente per tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”. Essa consta di tre parti: 1) Verbum Dei; 2) Verbum in Ecclesia; 3) Verbum Mundo, mentre il leit-motiv biblico è rappresentato dal Prologo giovanneo (cfr n. 5). La VD si situa, pertanto, sulla scia dei documenti che hanno promosso la sapienza biblica e ne raccoglie l’eredità. La prima parte consta di tre sezioni: nella prima, il Papa, insieme con i padri sinodali, sottolinea come la Parola del Dio che vuole comunicarsi all’uomo sia presente analogicamente nella natura e nella storia degli uomini e della Chiesa (la Tradizione viva), mentre la sua eccellenza è rappresentata dalla persona di Gesù il Cristo nel suo Mistero Pasquale compiuto secondo le Scritture. L’uomo accoglie la Parola e vi risponde con la fede, la quale si traduce in ascolto, sul modello di Maria di Nazareth (seconda sezione). L’ascolto è custodia e comprensione piena della Parola depositata nelle Scritture: da qui la necessità di un’ermeneutica ecclesiale che coniughi competenze esegetiche, autorità interpretativa del magistero e sensus fidelium. In tal modo, è recuperata l’unità intrinseca tra lettera e spirito, mentre la Parola torna ad essere l’anima della vita della Chiesa e della testimonianza dei suoi Santi (terza sezione). La seconda parte consta anch’essa di tre sezioni: dopo aver affermato la perenne attualità della Parola nella vita della Chiesa (prima sezione), il Papa si preoccupa di indicare percorsi per ciò che concerne il luogo originario nel quale Dio e l’uomo si incontrano nella Parola, in UCN-SAB, La Bibbia nel magistero dei vescovi italiani. Documenti della LXIII Assemblea Generale della CEI (Roma 19-23 maggio 1997), Leumann, Torino 1998, 25, nota 15; cfr L. MAZZINGHI, Parola di Dio e vita della Chiesa, in RIVB LV (2007) 401429.


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la liturgia, essendo la lex orandi lex credendi. Traduzioni appropriate, formazione dei lettori, omelie ben dosate, riscoperta del silenzio, canto liturgico sono tutte dimensioni che permettono la giusta celebrazione della Parola nella vita orante della Chiesa (seconda sezione). Dalla liturgia, nella quale la Parola, insieme al Pane eucaristico, trova la sua collocazione appropriata e degna alla catechesi il passo è breve: ogni insegnamento è ispirato alla Parola, che diviene il nutrimento quotidiano dei fedeli nello stato di vita proprio di ciascuno (terza sezione). La terza parte è suddivisa in tre sezioni ancora: il Papa individua come compito primario della Chiesa l’annuncio della Parola in forza dell’accoglienza che di essa la Chiesa stessa opera. Alla Chiesa, a tutti i battezzati, spetta annunciare il “logos della Speranza” (prima sezione). Un annuncio da testimoni che diventa impegno, a livello locale ed internazionale, perché siano riconosciuti i diritti di ciascuno, specialmente dei più poveri, ad una vita degna e perché il mondo si impegni in cammini di riconciliazione: dura la condanna della guerra. Una Parola che raggiunga tutti e che sia espressione della cura di Dio per tutti (seconda sezione). Una Parola che ha ispirato le culture e che anche oggi, attraverso la sapienza dei fedeli, è chiamata ad entrare nell’alveo culturale contemporaneo. Una Parola che, evangelizzando le culture, ne illumina le risorse, mentre rimane a fondamento di dialogo con le altre tradizioni religiose, nello spirito del Vaticano II (terza sezione). La conclusione della VD, oltre che proporre Maria come icona dell’ascolto fattivo, sottolinea la dimensione della gioia, quella cristiana, che scaturisce dall’accoglienza di una Parola, il cui calore e la cui forza non hanno pari. Una gioia di cui il mondo oggi ha bisogno per non smarrirsi nella distrazione dei rumori e ritrovare la pienezza di silenzio e di parole, segni della Parola dello Sposo dell’umanità. Una Parola d’amore. Papa Benedetto XVI al n. 59 dell’Esortazione così raccomanda ai presbiteri circa l’omelia: 59. «Diversi sono i compiti e gli uffici che spettano a ciascuno riguardo alla Parola di Dio: ai fedeli spetta l’ascoltarla e il meditarla; l’esporla invece


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spetta soltanto a coloro che, in forza della sacra ordinazione, hanno il compito magisteriale, o a coloro ai quali viene affidato l’esercizio di questo ministero», vale a dire Vescovi, presbiteri e diaconi. Da qui si comprende l’attenzione che nel Sinodo è stata data al tema dell’omelia. Già nell’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, avevo ricordato che «in relazione all’importanza della Parola di Dio si pone la necessità di migliorare la qualità dell’omelia. Essa infatti “è parte dell’azione liturgica”; ha il compito di favorire una più piena comprensione ed efficacia della Parola di Dio nella vita dei fedeli». L’omelia costituisce un’attualizzazione del messaggio scritturistico, in modo tale che i fedeli siano indotti a scoprire la presenza e l’efficacia della Parola di Dio nell’oggi della propria vita. Essa deve condurre alla comprensione del mistero che si celebra, invitare alla missione, disponendo l’assemblea alla professione di fede, alla preghiera universale e alla liturgia eucaristica. Di conseguenza, coloro che per ministero specifico sono deputati alla predicazione abbiano veramente a cuore questo compito. Si devono evitare omelie generiche ed astratte, che occultino la semplicità della Parola di Dio, come pure inutili divagazioni che rischiano di attirare l’attenzione sul predicatore piuttosto che al cuore del messaggio evangelico. Deve risultare chiaro ai fedeli che ciò che sta a cuore al predicatore è mostrare Cristo, che deve essere al centro di ogni omelia. Per questo occorre che i predicatori abbiano confidenza e contatto assiduo con il testo sacro; si preparino per l’omelia nella meditazione e nella preghiera, affinché predichino con convinzione e passione. L’Assemblea sinodale ha esortato che si tengano presenti le seguenti domande: «Che cosa dicono le letture proclamate? Che cosa dicono a me personalmente? Che cosa devo dire alla comunità, tenendo conto della sua situazione concreta?». Il predicatore deve lasciarsi «interpellare per primo dalla Parola di Dio che annuncia», perché, come dice sant’Agostino: «È indubbiamente senza frutto chi predica all’esterno la parola di Dio e non ascolta nel suo intimo». Si curi con particolare attenzione l’omelia domenicale e nelle solennità; ma non si trascuri anche durante la settimana nelle Messe cum populo, quando possibile, di offrire brevi riflessioni, appropriate alla situazione, per aiutare i fedeli ad accogliere e rendere feconda la Parola ascoltata.

CONCLUSIONE La DV ha restituito la Bibbia ai suoi lettori. Nel tentativo di renderla loro più fruibile diverse le traduzioni che di essa sono edite.


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E spesso i lettori stessi rimangono confusi e disorientati. La prima traduzione in lingua italiana dai testi originali si deve al gesuita Alberto Vaccari (1875-1965) su espresso desiderio di Pio X. Tra il 1967 e il 1981 compare, a cura delle Edizioni Paoline, una versione della Bibbia in 46 volumi, raccolti poi, nel 1984, centenario della nascita di Giacomo Alberione (1884-1971) in un unico volume dal titolo La Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali: la versione dei libri biblici è operata da ciascun studioso, coinvolto nel progetto, a partire dalle lingue originali, mentre il testo è corredato da introduzioni e note critiche. Da questa versione nasce l’edizione economica La Bibbia. E Dio disse… (200710), l’edizione da studio Bibbia Emmaus (20052), l’edizione tascabile Bibbia Tabor (20076). La CEI edita la versione ufficiale della Bibbia nel 1971 e, dopo alcune revisioni, nel 1974: le note in essa sono tratte dalla traduzione della Bibbia promossa dall’École Biblique et Archéologique Fançaise, La Bible de Jérusalem. Il testo è il medesimo de La Sacra Bibbia, a cura di E. Galbiati, A. Penna – P. Rossano, UTET, Torino 1963 (successive edizioni nel 1964 e nel 1974). Abituati al linguaggio aulico di questa edizione, adottata dai lezionari e dalla Liturgia delle Ore, la nuova versione ufficiale del 2008, se guadagna in adesione al testo, benché criticabile in diversi punti, rinuncia ad una tradizione mnemonica che ha permesso di ritenere a memoria interi brani biblici e che ha costituito l’edizione tipica di molte preghiere, tra le quali il Magnificat o il Benedictus: come sostituire all’espressione ormai abituale del cantico di Maria “come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre” il lessema “come aveva detto ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza, per sempre”? O ancora come sostituire l’incipit del Nunc dimittis “Ora lascia, o Signore che il tuo servo vada in pace” con l’espressione “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace”? La domanda non è oziosa né retorica: in essa, come in tutto il lavoro di traduzione e di interpretazione, è insita la preoccupazione e la fatica di rendere intellegibile al popolo cristiano una Parola, scritta con linguaggio umano e confessata Parola di Dio, la quale, per ciò stesso, non può sottrarsi al vaglio della razionalità scientifica e, allo stesso tempo, chiede di essere inserita in un quadro ermeneutico ampio, non limitato dai principi della critica filologica e


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letteraria, che ne esprima per intero la pienezza di significato che essa stessa pretende, nella sua trama, essere universale. Il lavoro esegetico e teologico consiste nella dimostrazione della validità di questa pretesa attraverso l’individuazione della natura e degli aspetti di questo medesimo significato celato tra le righe della Scrittura.


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Seminario interdisciplinare 8 aprile 2014 “La costituzione conciliare Sacrosanctum concilium”

SACRAMENTO E SACRAMENTI IN SACROSANCTUM CONCILIUM: L’APPORTO DEI PADRI DELLA CHIESA

FRANCESCO ALEO*

INTRODUZIONE Trattare della Costituzione dogmatica Sacrosanctum concilium sulla sacra Liturgia significa occuparsi della prima materia affrontata dai Padri nell’assise conciliare ovvero la Liturgia e della prima costituzione dogmatica partorita dal lavoro delle commissioni del Concilio Vaticano II. Intesa come azione di Cristo e di tutta la chiesa, la meditazione ed il lavoro volto a ridisegnare il posto ed il ruolo della Liturgia nella chiesa guidò successivamente la riflessione ed il lavoro delle altre commissioni, volto a produrre le altre tre costituzioni dogmatiche ed i nove successivi decreti conciliari. Il lavoro della commissione sulla sacra Liturgia discusse dei sacramenti e della loro celebrazione, dei segni e dei riti con cui si esprimono, del loro rapporto con i fedeli e della loro relazione con la Chiesa. Proprio a questo rapporto ed agli altri temi, è dedicato il presente contributo ovvero al modo in cui sono trattate e definite la nozione o il concetto di sacramento e di sacramenti nella Sacrosanctum concilium. Prima di entrare nel merito della questione, vorremmo fare una sortita nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium per volgere lo sguardo sulla nozione di sacramento, quale emerge dal lavoro dei

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Docente di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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padri conciliari, successivo a quello posto sulla Liturgia. Vi troviamo dunque la seguente definizione di sacramento: «E poiché la chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, il sinodo intende illustrare con maggior chiarezza ai suoi fedeli e al mondo intero la natura e la missione universale, proseguendo l’insegnamento dei concili precedenti.»1.

Possiamo trarre dalla citazione qui addotta due importanti considerazioni: – è possibile comprendere la chiesa a partire da Cristo e in dipendenza da lui; – la chiesa si fonda sulla sua vita, morte e risurrezione e sull’unità del suo Spirito. Alla definizione di chiesa sopra citata si lega strettamente quella di sacramento; anzi, si può osare affermare che durante i lavori del Concilio, la nozione di chiesa non possa essere stata possibile pensarla senza aver prima definito quella di sacramento, come dimostrerebbe proprio il fatto, sopra accennato, che la Liturgia fu la prima materia ad essere affrontata dai Padri conciliari. Il sacramento non può così che essere pensato a partire da Cristo ed in dipendenza da lui; inoltre, nel sacramento ristà Cristo stesso, la sua vita, morte e risurrezione in comunione con il suo Spirito. Come la chiesa, allora, il sacramento non soltanto serve gli uomini nella storia, ma nella storia ripresenta agli uomini la persona di Cristo, la sua vita, morte e risurrezione. Inoltre, il sacramento comunica agli uomini nella storia la comunione con Cristo dono del suo Spirito, nell’attesa della Parousìa. La croce, allora, la realtà ripugnante della passione e morte di Gesù, è da considerarsi sacramento o segno che «la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio.» (1Cor 3,19), dal momento che «la parola della 1 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium (21.11.1964), in EV, 1,284: Cum autem Ecclesia sit in Christo veluti sacramentum seu signum et instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque generis humani unitatis, naturam missionemque suam universalem, praecedentium Conciliorum argumento instans, pressius fidelibus suis et mundo universo declarare intendit.


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croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio.» (1Cor 1,18). Nella nozione e nel concetto di sacramento si osserva, pertanto, un dinamismo orientato dall’alto verso il basso, da Dio verso l’uomo, ma anche una linea ascendente, che va dal basso verso l’alto, dall’uomo verso Dio, rivelatosi nel Figlio quale Padre. La linea discendente, visibile nell’agire umano di Gesù, segnala la direttrice di senso mirante alla santificazione degli uomini; quella ascendente, invece, si traduce nei gesti di adorazione e di riconoscimento degli uomini verso Dio2. Va da sé che sacramento e chiesa non possano essere distinti, potendosi affermare che è la chiesa a porre gesti di adorazione e di riconoscimento nei sacramenti o segni sacri con i quali ed attraverso i quali viene espressa e vissuta nella chiesa la fede in Cristo, sacramento del Padre. I segni sacri, contenuti ed espressi dalla nozione di sacramento e di sacramenti, esistono, allora, non soltanto per l’uomo ma anche, in certo senso, per Dio. Solo in quanto realizzano la santificazione dell’uomo e manifestano la gloria di Dio possono essere espressi o celebrati nella chiesa: sono per l’uomo proprio nella misura in cui lo conducono al Padre. Dal momento che Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazareth, la vita umana del Verbo incarnato dispiega un dinamismo teandrico cui partecipa il sacramento. Per cui, il sacramento non fa semplicemente scendere qualcosa dall’alto, ma coinvolge attivamente la creatura umana nell’evento dell’incarnazione di Cristo che in certo qual modo, nei sacramenti, si ripete, diventandone oggetto interpellato. La chiesa e i suoi sacramenti sono così segni della condiscendenza che Dio Padre mostra nei confronti dell’uomo ed allo stesso tempo, della disponibilità dell’uomo verso Dio, quale Padre misericordioso. Si potrebbe osservare come sacramento sia in fondo l’amore di Dio Padre che accondiscende all’uomo fino a farsi sua carne e sacramenti, siano, dall’altra parte, la risposta dell’uomo a questo amore di Dio con i suoi gesti di adorazione e di riconoscimento. Tuttavia, la salvezza oggetto dell’amore di Dio per l’uomo non si è ancora compiuta né

2 Cfr. F. COURTH, I sacramenti. Un trattato per lo studio e la prassi, Brescia 1999, 25 e ss., cui rinviamo per quanto verrà detto nel presente contributo.


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pienamente manifestata; i sacramenti esprimono allora nella chiesa una tensione tra la salvezza come ci si presenta nel momento attuale e la salvezza nella sua condizione definitiva. La teologia è chiamata a riflettere su questa tensione, espressa con la formula del “già” e “non ancora”, dove il primato spetta al “già” (cfr. 1Cor 3,12). In questa tensione di “già e non ancora” troviamo abbozzato un altro tratto tipico dei segni sacramentali nei quali ristanno e si esprimono i sacramenti. I segni o i sacramenti non rinviano alla presenza del divino in modo assolutamente evidente; spiegano ma nello stesso tempo anche nascondono. Infatti, la pochezza e la fragilità del segno in cui Dio si rivela ostacola in un certo senso la rivelazione stessa di Dio agli uomini ed il suo riconoscimento. Gesù di Nazareth che pur segnalava e comunicava la salvezza divina, durante la sua vita terrena, è stato spesso frainteso, anche nella sua natura più profonda. 1. SACRAMENTO, SACRAMENTI E CHIESA Crediamo di aver spiegato a sufficienza come non si possa parlare di sacramento e di sacramenti senza parlare anche della chiesa, nella quale i sacramenti sono posti e vanno compresi. Anzi, il sacramento ed i sacramenti con i loro segni esprimono la natura e l’essenza più intime della chiesa che, nel suo insieme, è fatta di vita, parole ed opere. Tutto questo, nella chiesa, costituisce specchio, segno ed indicazione della realtà invisibile della salvezza divina e viene espresso nei sacramenti o nei segni sacramentali che rendono la chiesa, con il loro riferirsi a Cristo, segno efficace, fino a diventare strumento, ben più che “mero” simbolo3. Strumento efficace ed attivo di comunione, la chiesa, in virtù dei sacramenti, dilata la propria comunione e dilata anche la comunione con Dio. Ciò che al Concilio Vaticano II premeva acclarare, come del resto già nella Mystici Corporis (1947), era appro3 Per un approfondimento ulteriore di questi temi liturgici, ma principalmente ecclesiologici, nella Patristica greca del IV secolo, in particolare negli scritti dello Pseudo Macario Egizio e nel De Spiritu Sancto di Basilio di Cesarea, si rinvia a F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa. Basilio di Cesarea e lo Ps. – Macario Egizio: due prospettive ecclesiologiche a confronto, Firenze – Catania 2009.


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fondire il lato visibile, intramondano della chiesa, facendo leva sulla dimensione spirituale che le è pure propria. Così Lumen gentium al capitolo 8 sottolinea che: «Ma la società gerarchicamente organizzata da una parte e il corpo mistico dall’altra, l’aggregazione visibile e la comunità spirituale, la chiesa della terra e la chiesa ormai in possesso dei beni celesti non si devono considerare come due realtà separate; esse costituiscono al contrario un’unica realtà complessa, fatta di un duplice elemento, umano e divino. Per una non debole analogia essa è paragonata al mistero del Verbo incarnato».

Come non si può dissociare in Cristo l’elemento divino da quello umano, così non si può separare, nella chiesa, l’elemento divino da quello umano. Si profila allora il concetto di sacramento e la nozione di sacramentalità di LG 8: «Infatti come la natura umana assunta serve al Verbo divino come vivo organo di salvezza (vivum organum salutis) indissolubilmente unito a lui, in modo non dissimile l’organismo sociale della chiesa serve allo spirito vivificante di Cristo come mezzo per far crescere il corpo (cfr. Ef 4,16).»4.

La natura umana porta e media la natura divina: è questo il dato nuovo della rivelazione cristiana, apportato dall’evento dell’incarnazione del Figlio di Dio. Così come nell’incarnazione, nella chiesa, il divino risulta sempre storicamente e umanamente mediato: questo significa “sacramentale”. La chiesa è segno ed indicazione della salvezza non ancora compiutamente realizzata, essa ne rappresenta

4

Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. sulla chiesa Lumen gentium (21.11.1964), 8, in EV, 1/304: Societas autem organis hierarchicis instructa et mysticum Christi Corpus, coetus adspectabilis et communitas spiritualis, Ecclesia terrestris et Ecclesia coelestibus bonis ditata, non ut duae res considerandae sunt, sed unam realitatem complexam efformant, quae humano et divino coalescit elemento. Ideo ob non mediocrem analogiam incarnati Verbi mysterio assimilatur. Sicut enim natura assumpta Verbo divino ut vivum organum salutis, Ei indissolubiliter unitum, inservit, non dissimili modo socialis compago Ecclesiae Spiritui Christi, eam vivificanti, ad augmentum corporis inservit (cfr. Ef 4,16).


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la forma mediatrice, la figura espressiva provvisoria e percettibile. Infatti, ribadisce LG 48: «Ma fin quando non vi saranno i cieli nuovi e la terra nuova abitati dalla giustizia (cfr. 2 Pt 3,13), la chiesa pellegrinante continua a portare iscritta nei sacramenti e nelle istituzioni del tempo presente la figura fugace di questo mondo; e vive tra le creature che gemono nei dolori del parto e aspettano la manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8,19-22).»5.

Infatti, pur essendo stata costituita da Cristo «quale sacramento universale di salvezza» (cfr. LG 48)6, la chiesa, per quanto segno della salvezza divina, nasconde nello stesso tempo l’agire di Dio e si serve pur sempre di creature deboli e peccatrici, per attuare nella storia la sua opera di salvezza. La chiesa come sacramento di salvezza si incontra allora totalmente nel segno finito della chiesa, di una chiesa che attualizza l’amore salvifico di Dio in Gesù Cristo, totum sed non totaliter7. Essa cioè comunica l’amore di Dio in pienezza (cfr. Ef 1,23), ma sempre in figura umana, incompiuta e frammentaria8. La chiesa, così, si fonda sulla volontà salvifica ed universale del Padre e Cristo l’ha costituita come comunione fraterna di fede, speranza e carità, perché annunci la redenzione che egli ha operato a favore di tutti gli uomini; lo Spirito Santo è l’anima e il fondamento di questo operare di Dio nella storia (cfr. LG 8), che mediante il ministero e i sacramenti santifica il popolo di Dio e dona quelle capacità personali che il singolo mette a disposizione della chiesa intera9.

5

Cfr. ibid., 48, in EV, 1/4178: Donec tamen fuerint novi caeli et nova terra, in quibus iustitia habitat (cfr. 2Pt 3,13), Ecclesia peregrinans, in suis sacramentis et institutionibus, quae ad hoc aevum pertinent, portat figuram huius saeculi quae praeterit et ipsa inter creaturas degit quae ingemiscunt et parturiunt usque adhuc et exspectant revelationem filiorum Dei (cfr. Rm 8,19-22). 6 Cfr. ibid., 48, in EV, 1/416: … ut universale salutis sacramentum constituit; 7 Cfr. M. KEHL, La Chiesa. Trattato sistematico di ecclesiologia cattolica, Cinisello Balsamo (MI) 1995, 77. 8 Per ulteriori approfondimenti si rinvia all’opera teologica di H.Urs von Balthasar (1905-1988) ed in particolare al suo studio Il tutto nel frammento, Milano 1990. 9 Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem (18.11.1965), 3, in EV 1/918-921.


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2. LA RIFLESSIONE PATRISTICA DEI PRIMI SECOLI Se cercassimo nei Padri una teologia dei sacramenti costruita secondo i criteri della teologia moderna rimarremmo facilmente delusi. Presso i Padri greci o latini e, soprattutto, prima di Agostino d’Ippona, non esiste una riflessione teologica sui sacramenti come la intendiamo noi oggi. Tuttavia gli scritti patristici abbondano di loci nei quali compare la menzione di sacramento e di sacramenti; il problema consiste nell’individuare l’approccio peculiare della riflessione teologica dei Padri al sacramento ed ai sacramenti, quindi nel comprendere come questa confluisse nella liturgia, intesa dai primi cristiani non come riflessione astratta, ma quale vita liturgica della comunità cristiana. Un approccio importante è quello liturgico-tipologico, in base al quale, i Padri non pensavano ad una specie di dimostrazione logica dei sacramenti, ma li ponevano in relazione con la storia della salvezza10. Posti nella vita liturgica quindi nell’oggi della comunità cristiana, i sacramenti sono una tappa del cammino verso l’escatologia o la Parousìa ovvero il ritorno di Cristo nella gloria; in tal modo, i Padri ponevano la loro riflessione — all’origine ovviamente cristologica — sul significato e sul valore dell’istituzione dei sacramenti da parte di Cristo. Una prima conclusione cui i Padri pervenivano anche per impulso della meditazione dei testi paolini, vedeva il sacramento come un contenuto nuovo presente in forme preesistenti e preparate da millenni, giunto a noi in Cristo, il cui corpo era sacramento del Padre, quindi nella chiesa e nei suoi segni sacramentali. I Padri ponevano allora un metodo tipologico, servendosi del quale partivano dai segni attraverso i quali si manifestavano i sacramenti, tangibili e visibili nella celebrazione sacramentale (acqua, olio, pane, vino, riti), quindi risalivano all’annuncio che di essi è stato fatto nell’AT e nel NT o antitýpos, per giungere al sacramento stesso che in rapporto con la persona di Gesù Cristo ha così trovato la sua origine o piuttosto la sua vera radice o týpos. A questo metodo, i Padri ne

10 Si rinvia a A. NOCENT, Sacramenti, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, III, Genova-Milano 2008, 4642-4651.


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facevano seguire un altro, prettamente liturgico, che permette di dedurre dal týpos le conseguenze per la vita cristiana. È questo il metodo impiegato dai Padri sia d’oriente che d’occidente nelle loro Catechesi mistagogiche, per tutto il IV secolo, il secolo d’oro del Catecumenato. I Padri si servivano per la loro analisi esegetica e la loro riflessione liturgica dei Testimonia, i passi scritturistici dell’AT e del NT che prefiguravano e rinviavano a Cristo, il Verbo incarnato. Si soffermavano quindi sulle Lettere paoline, individuando luoghi testuali importanti quali 1Cor 10,1-5, ma anche su 1Pt 3,19-21, nei quali il diluvio e la roccia dell’Oreb sono týpos del battesimo. Su Col 2,17, per cui il culto giudaico è ombra o skiàs del culto vero che deve ancora venire oppure su altri numerosi luoghi epistolari neotestamentari11. Servendosi del metodo “tipologico”, i Padri utilizzano il NT come “contenitore” di importanti týpoi. È il caso di Tertulliano (160-220) e di Ambrogio (333/334 – 396) con la piscina di Bethesda di Gv 5, per il battesimo12. Cirillo di Gerusalemme (313 – 386/387) con la parabola del festino e degli invitati di Mt 22,3, per l’eucaristia13. Gregorio di Nazianzo (326 – 390 ca.) con la parabola delle dieci vergini di Mt 25,1 e ss., per i sacramenti dell’iniziazione cristiana, nella quale vede l’avvio ed il cammino verso il banchetto escatologico14. Tertulliano con il racconto delle nozze di Cana di Gv 2, per l’eucaristia15. Anche l’AT fornisce ai Padri i týpoi per le proprie

11

Cfr. Gv 3,12; 1 Cor 11,7;15,40-48.49; Rm 1,23;8,29. Cfr. TERTULLIANO. Opere catechetiche. Edizione latino - italiana a cura di C. MORESCHINI, Roma 2008 (Scrittori cristiani dell’Africa romana, 2), De Baptismo, 5,5,168-169: Figura ista medicinae corporalis spiritalem medicinam praedicabat, ex forma qua semper carnalia in figura spiritalium antecedunt.; AMBROISE DE MILAN, Des Sacraments des Mysteres. Texte établi, traduit et annoté par B. BOTTE, Paris 1961, (Sources Chrétiennes, 25 bis), II,3,7,74-75: Quod significat figuram venture domini nostri Iesu Christi. 13 Cfr. CIRILLO DI GERUSALEMME, Procatechesi (Patrologia Graeca), II-IV, T. 33,336-341. 14 Cfr. GREGORIO DI NAZIANZO, Oratio XL in sanctum baptismum, XLVI (Patrologia Graeca), T. 36,425. 15 TERTULLIANO, De Baptismo, cit., 9,4,174-175: prima rudimenta potestatis suae vocatus ad nuptias aqua auspicatur.; CIPRIANO. Lettere 51-81. Edizione latino-italiana 12


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Catechesi, come l’acqua, il diluvio, il Mar Rosso, l’acqua del Giordano, i pani offerti da Melchisedec o la manna, il pasto, presente sia nell’AT che nel NT, la roccia dell’Horeb o il sangue di Cristo16. Si potrebbe riassumere il metodo tipologico – patristico, affermando che l’intento dei Padri non era quello di offrire un vero concetto di sacramento ma piuttosto di mostrarlo. I momenti più importanti di questo metodo erano il soffermarsi sul segno, investigando la Scrittura, quindi interpretando la Parola di Dio mettendola in relazione con l’AT ed il NT. La Scrittura “nascondeva” il segno o il vero significato della lettera della Scrittura; si procedeva quindi alla spiegazione ed all’esplicitazione dell’origine del sacramento o dei sacramenti; infine, si procedeva all’inserimento del segno rinvenuto e scoperto, nella storia della salvezza. Tuttavia, occorre dire che non tutti i Padri seguivano ed osservavano il metodo tipologico. Teodoro di Mopsuestia (350 – 428), per esempio, non si è quasi mai legato ai tipi, ma ha cercato di tracciare un parallelo tra la liturgia visibile e quella invisibile. Fondandosi sulla Lettera agli Ebrei, precisamente su Eb 8,5;10,1, vede nel sacramento un’imitazione rituale delle azioni storiche di Cristo e tenta di riferire i riti sacramentali ai racconti evangelici17. Nella medesima linea si pone anche lo Ps. Dionigi Areopagita, vissuto intorno all’anno 500, il quale si orienta nettamente verso il simbolismo, secondo cui le realtà sensibili sono le immagini delle realtà intelligibili18. Il “contenitore” disponibile non è però tanto la Sacra Scrittura, a cura di C. moreschini, Roma 2007 (Scrittori cristiani dell’Africa romana, 5/2), Epistula, LXIII,12,152-153: ut cum dominus in nuptiis de aqua vinum fecerit, nos de vino aquam faciamus, cum sacramentum quoque rei illius admonere et instruere non debeat … .; cfr. CIRILLE DE JÉRUSALEM. Catéchèses Mystagogiques. Introduction, texte critique et notes de A. PIÉDAGNEL, Paris 1966 (Sources Chrétiennes, 126 bis), IV,2,136-137. 16 Per i numerosi e preziosi luoghi testuali enumerati si rinvia a A. NOCENT, Sacramenti, cit., 4643-4645. 17 TEODORO DI MOPSUESTIA. Les homélies cathéchétique de Théodore de Mopsueste. Introduction, texte critique et notes par R. TONNEAU-R. DEVREESSE, Città del Vaticano 1949 (Studi e Testi), Homiliae, XII,2;XV,25-27, 325.503-509. 18 Si rinvia a PSEUDO-DIONIGI, De divinibus nominibus (Patrologia Graeca), IIXII, T. 3,525-996.


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in cui rinvenire i Testimonia ed i luoghi biblici dell’AT e del NT, quanto piuttosto la liturgia orientale; questa fornisce allo Ps. Dionigi un vasto materiale simbolico cui attingere abbondantemente. Il metodo liturgico — simbolico, preferito dai Padri antiocheni, a differenza di quello liturgico — tipologico preferito dai Padri alessandrini, però, non è privo di pericoli e prepara il falso simbolismo presente in alcuni dottori medievali come Amalario di Metz (775 – 850). 2.1. Sacramentum / mystérion, sacramenta / mystéria Il termine sacramentum compare nel latino cristiano dei testi delle veteres latinae, le più antiche versioni latine della Bibbia, risalenti al II secolo. Il termine corrispettivo in greco è quello di mystérion, anche se nel latino cristiano è presente il termine mysterium. Gli studiosi si sono chiesti le ragioni per le quali i cristiani latini sceglievano e quindi adottarono il termine indigeno sacramentum, in luogo di mysterium tradotto dal greco mystérion19. Le posizioni intorno all’origine di sacramentum sono due ed in parte integrabili a vicenda. Secondo Christine Mohrman, i cristiani latini preferirono scramentum a mysterium perché quest’ultimo termine definiva una realtà astratta e scelsero quindi di usare sacramentum, termine indigeno, presente nel latino classico. Inoltre, mysterium, soprattutto al plurale mysteria era legato all’uso dei misteri pagani e ciò sconsigliava ai cristiani di sceglierlo come termine di uso corrente. Nel latino classico o nel latino profano, sacramentum indicava innanzitutto una iniziazione confermata da un giuramento, quindi, come significati derivati, il giuramento militare, il servizio militare, un legame di natura sacra e giuridica ed infine «cose sacre». Quest’ultimo significato era evocato dalla composizione di sacrum con il suffisso nominale generico – mentum. L’altra posizione sostenuta da Adolph von Harnack e portata avanti dagli studiosi successivi, ipotizza una relazione del termine sacramentum con il giuramento militare, cui poteva per analogia

19 Si rinvia a A. GRAPPONE, Sacramento, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, III, Genova-Milano 2008, 4651-4655.


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ricollegarsi il battesimo, visto come l’impegno che dava inizio alla vita cristiana, intesa come militia Christi. La questione risiede nell’accezione rituale e liturgica del termine greco mystérion, quale sembra assumere per esempio in Giustino, vissuto nell’arco del II secolo e presso la comunità cristiana dello stesso periodo. Potrebbe darsi che l’accezione liturgica e rituale di mystérion abbia determinato l’introduzione del latino sacramentum, legato ad ambienti militari e ad un senso giuridico o legale che poteva dar luogo a riti o a cerimonie civili. La molteplicità delle teorie formulate al riguardo testimonia della scarsità della documentazione disponibile ma anche della difficoltà di precisare il valore semantico di sacramentum già nella lingua profana, in cui evidentemente la parola era evocatrice di molteplici sfumature di senso. La sua stessa ambiguità deve aver favorito l’incontro di sacramentum con mystérion, appartenente ad un frasario cristiano in rapida evoluzione e quindi dai contorni assai sfumati. Tuttavia, è possibile affermare che esiste un’area semantica già formata e chiarita presso i cristiani del II secolo, espressa e tematizzata da mystérion e sacramentum che rende ragione nel suo significato sia degli aspetti dottrinali ed etici che di quelli liturgici e rituali. Secondo le osservazioni e le conclusioni di studi recenti è un dato di fatto che il mystérion greco compare nelle veteres latinae africane o Afra, mentre quelle europee, come per esempio l’Itala, scelgono il termine mysterium20. La Volgata di Gerolamo di Stridone del IV secolo attesta invece l’uso del termine mysterium. Le Lettere agli Efesini ed ai Colossesi usano indifferentemente i due termini senza che sia possibile determinarne il motivo. I Padri non si accontentano di una presentazione dei sacramenti limitata alla tipologia o al simbolismo anche se non si può negare che essi siano stati attratti da una terminologia precristiana. L’uso del termine mystérion in Paolo certamente non implica un legame con i misteri pagani; il termine gli serve per indicare il piano di salvezza eternamente nascosto in Dio e rivelato in e da Cristo (cfr. Rm 16,25-26; Ef 3,5). Tuttavia, mystérion diventa sempre più la denominazione precisa dei sacramenti. Giustino e Tertulliano

20

Cfr. F. COURTH, I sacramenti. Un trattato per lo studio e la prassi, 40.


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si oppongono a quest’uso del termine e vedono nei misteri pagani un’imitazione dei sacramenti cristiani21. A differenza dei misteri cristiani, i misteri pagani tentano di provocare una presenza dell’attività di una divinità che, invece, è presente da sempre nei misteri cristiani. Così, i Padri, in opposizione ai culti solari, vedono il cristianesimo come il vero possessore del vero sole e Clemente di Alessandria (140/150 – 220 ca.) supplica gli adepti dei culti degli déi pagani di venire a celebrare i veri misteri, impiegando il vocabolario corrente per i culti pagani che intende rigettare ed imitandoli22. Al tempo del declino delle religioni misteriche, a partire dal IV secolo, i Padri non hanno paura di possibili confusioni ed utilizzano abbondantemente il vocabolario proprio dei culti misterici contemporanei23. Il termine mystagoghìa diventa così di uso comune presso i cristiani, basti pensare alle Catechesi mistagogiche di Cirillo di Gerusalemme. Si parla così di “prestiti”, cui però i Padri davano una spiegazione ed una motivazione importanti. Essi, infatti, pensavano che i culti misterici fossero stati una preparazione provvidenziale al culto cristiano e soprattutto alla teologia dell’attualizzazione degli atti salvifici di Cristo. Non si tratta semplicemente di un memoriale, quale l’anàmnesis dell’ellenismo o la memoria della civiltà latina, ma piuttosto dello zìkkaron giudaico palestinese ossia attualizzazione del passato nel presente, dinanzi agli occhi di Dio, perché egli si ricordi, agisca e faccia camminare il suo popolo dell’alleanza verso la fine dei tempi o la Parousìa. 21 Cfr. GIUSTINO, Apologie. Testo, versione, introduzione, note a cura di S. FRASCA, Torino 1938 (Corona Patrum Salesiana), Apologia I, LXVI,130-131; TERTULLIANO. Opere dottrinali. Edizione latino-italiana a cura di C. MORESCHINI, Roma 2010 (Scrittori cristiani dell’Africa romana 3/2a), De praescriptionibus, 40,1,84-85: … qui (diabolus) ipsas quoque res sacramentorumdivinorum idolorum mysteriis aemulatur… .; De baptismo, cit., 2,1,160-161: Sedenim quanta vis est perversitatis ad fidem labefactandam vel in totum non recipiendam, ut ex his eam impugnet ex quibus constat! 22 Cfr. CLEMENT D’ALEXANDRIE. Le Protreptique. Introduction, traduction et notes de C. MONDESERT, Paris 1949 (Sources Chrétiennes, 2), XII,119,1-2,188-189. 23 Cfr. BASILE DE CÉSARÉE. Sur le Saint Esprit. Introduction, texte, traduction et notes par B. PRUCHE, Paris 2002 (Sources Chretiénnes, 17 bis), XXVII,67,97,486-487.


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2.2. Il contributo di Tertulliano Avendo acclarato che il termine sacramentum proviene dalla lingua latina e che non ha un proprio corrispondente in quella greca, risulta chiaro che la realtà indicata dal termine, quale il rito d’iniziazione militare dei romani, abbia avuto una parte importante se non determinante nel valore e nel significato di sacramentum nei secoli successivi24. La recluta, nel promettere la sua totale obbedienza all’imperator si consacrava (sacrare) alle divinità degli Ínferi, con una preghiera imprecatoria. Questa preghiera-giuramento, unita al segno impresso sul corpo del soldato, formava il sacramentum militare o sacramentum militiae, che per sempre o per un tempo determinato legava il soldato al suo imperator. Il fatto essenziale del sacramentum consisteva nell’essere un rito di consacrazione e di iniziazione misterica, come risulta in Tito Livio25. Si può concludere, quindi che, dall’origine, sacramentum è termine naturalmente esoterico, tale cioè da indicare un rapporto che non è aperto a tutti, ma è riservato ad alcuni che ne portano il “segno”. Quest’ultimo significato emerge chiaramente soprattutto in Tertulliano come chiave di volta dell’intera evoluzione del termine sacramentum. Ora, il passaggio da mystérion a sacramentum poteva essere suggerito dalla somiglianza strutturale tra il giuramento militare di fedeltà e la promessa battesimale. Come il miles con il sacramentum entrava nella militia, così, il cristiano, con il battesimo, entrava nella militia Christi. Un battesimo che si interpreti come promessa solenne assume il carattere di un rito d’iniziazione a forte valenza etico – attiva; assume, allora, anche uno spiccato riferimento ai contenuti riassunti nel Credo e nella regula fidei della chiesa che trovano il loro fondamento nella rivelazione biblica. Il che spiega perché Tertulliano dilati il significato etico di sacramentum fino a comprendervi i mystéria della storia della salvezza. Per lui, sacramentum significa: simbolo, celebrazione di salvezza, contenuto 24 Vedi S. MARSILI (a cura di), Teologia della celebrazione dell’eucaristia, in Anamnesis. Eucarestia. Teologia e storia della celebrazione. 3/2, Genova 1991, 51-52. 25 Cfr. TITI LIVII, Ab urbe condita. A cura di E. D’Arbela, Verona 1944, Liber X,38,2,100: … ritu quodam sacramenti vetusto velut initiatis militibus.


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di fede26; indica il battesimo o sacramentum aquae nostrae e l’eucaristia, indicata semplicemente come sacramentum27. Con Tertulliano, perciò, questo termine ha finito per avere un significato particolare, designante un preciso contenuto: la fede. Ciò gli dà anche la possibilità di opporre in maniera più pregnante e più significativa i culti cristiani ai culti pagani: così, i misteri pagani hanno soltanto la «materia apparente» del sacramento, mentre il culto pagano viene chiamato non sacramenta28. 2.3. Il contributo di Ambrogio La tipologia costituisce in un’unica unità passato, presente e futuro, perché la particolarità del suo metodo sta proprio nel mostrare, attraverso il parallelismo degli eventi della storia della salvezza, nell’AT e nel NT, l’unità del progetto di Dio. Così, mysterium è per Ambrogio, prevalentemente una categoria di lettura e d’interpretazione della Scrittura: mediante la ricerca del mysterium, questa non si risolve in una pura emanazione di fatti. La scoperta del mysterium diventa così la percezione d’un progetto unitario di Dio che va manifestandosi come storia di salvezza29. Secondo Ambrogio, nel sacramento del battesimo, il neofita ha visto tutto ciò che ha potuto vedere con occhi umani, ma non ha potuto vedere tutto ciò che è stato prodotto nel sacramento. Infatti, per il vescovo di Milano, quello che non si vede è ben più grande di ciò che si vede e che è temporale, perché quello che

26 TERTULLIANO, De baptismo, cit., 4,4,164-165: Igitur omnes aquae de pristina originis praerogativa sacramentum sanctificationis consequuntur, invocato Deo. 27 ID., De baptismo, cit., 1,1,158-159 ed Adversus Marcionem. Tertulliani Opera Pars I (Corpus Christianorum series latina, I), I,23,9,466: super alienum panem alii Deo gratiarum actionibus fungitur. 28 ID. Opere apologetiche. Edizione latino – italiana a cura di C. MORESCHINI, Roma 2006 (Scrittori cristiani dell’Africa romana, 1), Ad nationes, I,16,20,406-407: De sacramentis nostrae religionis, opinor, intentatis, et sunt paria vestris etiam non sacramentis. 29 Si rinvia allo studio di E. MAZZA, La mistagogia. Le catechesi liturgiche della fine del IV secolo e il loro metodo, Roma 1996.


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non si vede è eterno30. Questa definizione vale per tutti i sacramenti e definisce la nozione stessa di sacramento in Ambrogio. Per il sacramento dell’eucaristia, usa sia il termine mysterium che quello di sacramentum31. I due termini sono legati, parla così di sacramenta mysteriorum o mysteria sacramentorum32. Rimane, però, nonostante tutto, la difficoltà di precisare il significato dei due termini. Entrambi sono categoria ermeneutica della storia della salvezza ed entrambi hanno un loro utilizzo nei sacramenti e nella dottrina mistagogica di Ambrogio. Nella storia biblica, Ambrogio scorge molti sacramenta: il progetto di Dio viene mediato da molte realtà sensibili (persone ed eventi) che, proprio per la loro visibilità, diventano “segni” di una realtà più profonda. Il sacramentum, nei testi biblici, concentra la tensione del passato verso Cristo. Ambrogio applica il termine sacramentum anche alla realtà del NT, ossia al Cristo con la sua croce salvifica. Talvolta, mysterium indica un rito sacramentale; ma anche la stessa preghiera viene chiamata mysterium33. Non mancano tuttavia le precisazioni: sacramentum designa quello che si vede, cioè l’esteriore; mysterium, invece, il contenuto, ciò che è interiore. I sacramenta ci introducono ai mystéria e, a loro volta, i mystéria ci fanno comprendere il segno esteriore o sacramenta34. Si può concludere affermando

30

Cfr. AMBROISE DE MILAN. De sacramentis, cit., II,4,62-63. AMBROGIO DI MILANO. Commento al Salmo 118/2. Opere esegetiche VIII/1. Introduzione, traduzione, note e indici di F. PIZZOLATO, Roma 1987 (Biblioteca Ambrosiana, 10), Expositio in psalmum 118,13,20,78-79: … altero per imaginem dei et carnis dominicae sacramentum. 32 ID., Apologia del profeta David a Teodosio Augusto. Opere esegetiche V. Introduzione, traduzione, note e indici di F. LUCIDI, Roma 1981 (Biblioteca Ambrosiana, 5), De Apologia prophetae David ad Theodosium Augustum, 12,58,116117: Supergressus enim umbram spiritu prophetico ipsa vidit mysteriorum sacramenta caelestium, quorum typum Moyses praefiguravit in lege. 33 ID., La Fede. Opere dogmatiche I. Introduzione, traduzione, note e indici di C. MORESCHINI, Roma 1984 (Biblioteca Ambrosiana, 15), De fide, IV,10,124,314-315: Nos autem quotienscumque sacramenta sumimus, quae per sacrae orationis mysterium in carnem transfigurantur et sanguinem, “mortem domini adnuntiamus” (cfr, 1Cor 11,26); cfr. AMBROISE DE MILAN. De sacramentis, cit., V,3,12,124-125. 34 Cfr. AMBROISE DE MILAN. De mysteris, cit., I,2-3,156-157. 31


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che i sacramenta sono per Ambrogio i riti sacri, i mystéria sono il senso profondo delle Scritture35. 2.4. Il contributo di Agostino Dopo Tertulliano è soprattutto Agostino (354 - 430) a sviluppare in maniera decisiva il concetto di sacramentum. Sotto l’influenza della dottrina neoplatonica dell’essere e del simbolo, egli annovera i sacramenti tra i segni visibili, cui corrisponde una realtà invisibile che appunto i segni dischiudono ai nostri sensi. La differenza dai tanti altri segni sta nel fatto che i sacramenti indicano il sacro o il divino36. Più precisamente, il segno si compone di elemento e parola, dove quest’ultima qualifica l’elemento nel suo carattere di segno. Per sua stessa natura l’elemento, come ad esempio l’acqua, gode di una certa capacità originaria di orientazione, la stessa che la parola poi rafforza nel sacramento del battesimo, attraverso il rito. In tal modo, parola e sacramento concorrono a qualificare il carattere di orientazione e di segno dei sacramenti, anche se l’accento sta sempre sulla parola. Ciò riguarda anche l’eucaristia: «Quel pane che voi vedete santificato sull’altare, per mezzo della parola di Dio, è il corpo di Cristo. Quel calice, anzi quel che ha il calice, santificato per mezzo della parola di Dio, è il sangue di Cristo.».

Od anche:

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Si rinvia a G. FRANCESCONI, Storia e simbolo, Brescia 1981. AGOSTINO D’IPPONA. La Città di Dio I (Libri I-X). Opere filosofico-dommatiche V/1. Testo latino dell’ed. maurina confrontato con il Corpus Christianorum, introduzione di A. TRAPÉ, R. RUSSELL, S. COTTA, traduzione di D. GENTILI, Roma 1978 (Nuova Biblioteca Agostiniana, V), De civitate Dei, X,5,692-693: Sacrificium ergo visibile invisibilis sacrificii sacramentum, id est sacrum signum est.; Le Lettere II. Testo latino dell’ed. maurina confrontato con il Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, traduzione e note di L. CAROZZI, Roma 1971 (Nuova Biblioteca Agostiniana, XXII), Epistola, 138,1,7: signa quae ad res divinas pertinent sacramenta appellantur. 36


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«Per mezzo di codeste (parole), Cristo Signore volle raccomandare il suo corpo ed il suo sangue, versato per noi per la remissione dei peccati.»37.

Più precisamente, per parola deve intendersi la fede della chiesa. Leggiamo: «Da dove viene questa grande forza dell’acqua che tocca il corpo e lava il cuore, se non dall’efficacia stessa della parola: non in quanto parlata ma perché creduta? Perché anche nella parola una cosa è il suono che passa, un’altra la forza che permane.».

Agostino poi adduce tutta una serie di citazioni scritturistiche che parlano appunto dell’efficacia della parola38. E continua: «Non potrei in alcun modo attribuire la purificazione all’elemento che scorre e si sperde, se non aggiungessi: “nella parola”. Mediante chi crede, questa parola della fede, offre, benedice, bagna, ed è così potente nella chiesa di Dio da purificare anche un bambinetto ancora incapace di credere nella giustizia con il cuore e di professare la salvezza con le labbra.»39.

37

AUGUSTIN D’HIPPONE. Sermons pour la Pâque. Introduction, texte critique, traduction, notes et index par S. POQUE, Paris 2003 (Sources chrétiennes, 116), Sermo CCXXVII. Sermo beati Augustini episcopi de sacramentis habitus die sancto Paschae, 10-15,234-235: Panis ille quem videtis in altari sanctificatus per verbum dei, corpus est Christi. Calix ille, immo quod habet calix, sanctificatum per verbum dei, sanguis est Christi. Per ista voluit dominus Christus conmendare corpus et sanguinem suum quem pro nobis fudit in remissionem peccatorum. 38 Cfr. Rm 10,8-10;At 15,9; 1Pt 3,21;Ef 5,25s. 39 AGOSTINO D’IPPONA. Opere. Commento al Vangelo e alla prima lettera di S. Giovanni. Introduzione a cura di A. VITA. Traduzione e note di E. GANDOLFO, Roma 1985 (Nuova Biblioteca Agostiniana, XXIV/2), In Johannis Evangelium Tractatus, 80,3,1236-1239: Unde ista tanta virtus aquae, ut corpus tangat et cor abluat, nisi faciente verbo: non quia dicitur, sed quia creditur? Nam et in ipso verbo, aliud est sonus transiens, aliud virtus manens. Hoc est verbum fidei quod praedicamus, ait Apostolus: “quia si confessus fueris in ore tuo quia Dominus est Jesus, et credideris in corde tuo quia Deus illum suscitavit a mortuis, salvus eris. Corde enim creditur ad justitiam, ore autem confessio fit ad salute” (Rm 10,8-10). Unde in Actibus Apostolorum legitur: “Fide mundans corda eorum” (At 15,9); et in Epistola sua beatus Petrus: “Sic et vos”, inquit, “Baptisma salvos facit; non carnis depositio sordium, sed conscientiae bonae interrogationis” (1Pt. 3,21). Hoc est verbum fidei quod praedicamus: quo sine


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Per Agostino, il concetto di sacramentum è molto ampio e serve a designare parecchi riti ecclesiastici che in seguito non verranno considerati «sacramenti» strictu senso. Egli annovera tra i sacramenti dell’Antica Alleanza le prescrizioni rituali, il sabato, la circoncisione, il sacrificio, la festa di Pasqua, l’unzione dei sacerdoti e dei re, il battesimo di Giovanni. Per sacramenta egli intende, nella Nuova Alleanza, tutte le cerimonie in uso nella Chiesa. Il più delle volte, però, Agostino impiega il termine sacramentum nella sua accezione più ristretta, a significare i sacramenti veri e propri della chiesa. Tra questi primeggiano il battesimo e l’eucaristia, la cui efficacia sta nel fatto che, in definitiva, chi in essi agisce è Cristo. Si può concludere affermando che per Agostino il sacramento ha due livelli: 1. un primo livello, previo ai sensi, è solo l’aspetto esteriore del rito o quod videtur speciem habet corporalem. Riportiamo per esteso il suo pensiero su questo punto, in quanto è importante ai fini del nostro discorso: «Perciò, fratelli, codeste cose si chiamano sacramenti, perché in essi si vede una cosa e se ne comprende un’altra.».

2. un secondo livello è oggetto della sola conoscenza intellettuale o quod intelligitur. Nei sacramenti c’è la realtà della salvezza capace di produrre un’efficacia o fructum habet spiritualem, su coloro che ne partecipano, infatti: «Quello che si vede, ha un aspetto corporale, quello che si comprende ha un frutto spirituale.»40.

dubio ut mundare possit, consecratur et Baptismus. Christus quippe nobiscum vitis, cum Patre agricola, dilexit Ecclesiam, et seipsum tradidit pro ea. Lege Apostolum, et vide quid adjungat: “Ut eam sanctificaret, inquit, mundans eam lavacro aquae in verbo” (Ef 5,25-26). Mundatio igitur nequaquam fluxo et labili tribueretur elemento, nisi adderetur, in verbo. Hoc verbum fidei tantum valet in Ecclesia Dei, ut per ipsum credentem, offerentem, bene dicentem, tingentem, etiam tantillum mundet infantem; quamvis nondum valentem corde credere ad justitiam, et ore confiteri ad salutem. 40 AGOSTINO D’IPPONA, Discorsi. Testo latino dell’edizione maurina e delle edizioni


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Citiamo, quindi, ancora una volta il pensiero di Agostino, poiché riteniamo sia più opportuno far parlare i testi: «Il sacramento vi ha consegnato qualcosa, spiritualmente vivificherà il vostro intelletto. Sebbene sia necessario celebrarlo visibilmente, tuttavia, è opportuno comprenderlo invisibilmente.»41.

3. ALCUNE CONSIDERAZIONI Potremmo così trarre da quanto detto una prima provvisoria considerazione, secondo la quale i sacramenti nutrono la chiesa, la sua vita, le sue parole, le sue opere. Alimentando la fede, la speranza e la carità del popolo che nella chiesa li celebra attraverso riti e segni, i sacramenti rispondono all’iniziativa d’amore di Dio Padre con la comunione e l’obbedienza alle mozioni dello Spirito Santo, effuso su tutta la chiesa. I Padri si occupano dei due sacramenti fondamentali: il battesimo e l’eucaristia; essi, però, non ignorano gli altri sacramenti e ne trattano, basti pensare al De paenitentia di Ambrogio di Milano. A motivo della nostra brevissima e sommaria rassegna di loci patristici, nei quali compare la menzione di sacramento e di sacramenti, possiamo affermare che sono tre i motivi per cui alla fine, in età patristica, si è venuta ad imporre la voce sacramentum: 1. Non era una parola estranea; 2. Non evocava i misteri pagani; 3. Implicava un momento etico-religioso. postmaurine. Traduzione e note di P. BELLINI, F. CRUCIANI, V. TARULLI, Roma 1984 (Nuova Biblioteca Agostiniana, XXXII/2), Sermo 272, 1,1042-1043: Ista, fratres, ideo dicuntur sacramenta, quia in eis aliud videtur, aliud intelligitur. Quod videtur, speciem habet corporalem, quod intelligitur, fructum habet spiritualem. 41 ID., Esposizioni sui Salmi. Testo latino dell’edizione maurina ripresa sostanzialmente dal Corpus Christianorum. Traduzione, revisione e note illustrative a cura di V. TARULLI, Roma 1970 (Nuova Biblioteca Agostiniana, XXVII), Enarratio in Psalmum, 98,9,434-435: «Sacramentum aliquod vobis commendavit, spiritualiter intellectum vivificabit vos. Etsi necesse est illud visibiliter celebrari, oportet tamen invisibiliter intellegi.».


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Inoltre, abbiamo visto come il metodo tipologico nei Padri, posto sia nell’AT che nel NT, ponesse Cristo non soltanto come sacramento dell’amore del Padre ma anche come autore e protagonista dei sacramenti. Pertanto, da una concezione dei sacramenti così intesa, in chiave cristologica, discendono cinque importanti conseguenze: 1. Gesù Cristo nato, vissuto, che ha patito, è morto ed è risorto, è sacramento. È sacramento originario o radicale, per mezzo di lui, in lui e per lui, ci si introduce alla realtà del sacramento ed attraverso di lui, nello Spirito Santo, veniamo introdotti al Padre. 2. Se Gesù cristo è persona, allora il sacramento ed i sacramenti hanno carattere personale: sono incontri del Dio tripersonale con l’uomo e dell’uomo con lui. Non sono processi materiali che produrrebbero “qualcosa” nell’essere umano. 3. Il rapporto che Gesù di Nazareth intrattiene con il Padre è un elemento essenziale del suo stesso messaggio, da esso deriva il suo incondizionato rapporto con gli uomini. Riconoscere il Dio trinitario ed il suo rivelarsi nella persona di Gesù Cristo e nello Spirito Santo conferisce ai sacramenti, concepiti come “incontri” con la divinità una permanente vitalità ed efficacia. Gesù Cristo non può essere semplicemente la “causa efficiente” dei sacramenti. 4. I sacramenti devono mostrare il carattere dell’ “umano”, devono far trasparire «la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini» (cfr. Tt 3,4), non possono in alcun modo assomigliare ai misteri pagani, come quelli di Demétra o ad un culto che evochi, tra orrori e rapimenti, le potenze del sangue e della fertilità, come quello di Dioniso. 5. I Sacramenti sviluppati in chiave trinitario – cristologica non si prestano ad assolutizzazioni. Infatti, essi possono venir compresi soltanto come attuazione di un più ampio processo di grazia. Non solo “producono” grazia, ma sono essi stessi prodotti dalla “grazia”, cioè da Gesù Cristo nello Spirito Santo, da una grazia che essi incorporano e concretizzano, ma non esauriscono. La grazia eccede sempre il sacramento.


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4. LOCI PATRISTICI NELLA SACROSANCTUM CONCILIUM Numerosi sono i luoghi testuali in cui ricorre sacramentum e sacramenta nella Sacrosanctum concilium, nonché mysteria, le cui ricorrenze esulano però dalla nostra indagine. Questa privilegia quei luoghi testuali che attingono direttamente o indirettamente da testi patristici. Tuttavia, è importante fare alcune brevi considerazioni sull’utilizzo dei testi patristici nella Costituzione dogmatica sulla sacra liturgia o Sacrosanctum concilium. La Costituzione sulla sacra liturgia promulgata, alla fine della Sessio III, il 4 dicembre del 1963, presenta due citazioni dirette e ben otto citazioni indirette di testi patristici42. Quanti parteciparono alle sessioni antepreparatorie e preparatorie per le questioni liturgiche da trattarsi in Concilio e coloro che, all’atto pratico, provvidero alla stesura del testo della Costituzione sulla sacra Liturgia erano senz’altro competenti in materia liturgica e provenienti da tutta la cattolicità. Sulla scia di Achille M. Triacca che ha dedicato un saggio proprio ai loci patristici della Costituzione dogmatica sulla sacra Liturgia vorremmo appuntare la nostra attenzione su alcune delle dieci citazioni patristiche ivi presenti. Prima di giustificare la nostra scelta e di esporne il criterio, vorremmo considerare brevemente le modalità d’uso formale che guidano Triacca all’esame delle citazioni patristiche in Sacrosantum concilium. Intanto, su dieci citazioni, ben otto si trovano nel Capitolo I e soltanto due nel Capitolo II, dopo di che non si ha alcun’altra citazione patristica nel prosieguo della Costituzione dogmatica. Questo dato empirico non può passare inosservato, tanto più che si afferma solennemente l’intenzione dei padri conciliari di trarre le letture liturgiche dalle opere dei Padri43. Si può spiegare una tale presenza

42 Si rinvia agli utili prospetti grafici offerti da A.M. TRIACCA, L’uso dei «loci» patristici nei documenti del Concilio Vaticano II: un caso emblematico e problematico. Dai dati ad iniziali considerazioni valutative, in E. DAL COVOLO – A.M. TRIACCA (a cura di), Lo studio dei Padri della Chiesa oggi, Roma 1991, 149-183, presenti alle pp. 152-153. 43 Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum concilium (04.12.1963), 92, in EV, 1/163: lectiones de operibus Patrum, Doctorum et Scriptorum ecclesiasticorum depromendae melius seligantur.


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“concentrata” nei primi due capitoli della Sacrosanctum concilium con due considerazioni, di cui la seconda dipende, se non ne è conseguenza diretta, dalla prima: 1. Che i primi due capitoli sono dedicati rispettivamente alla restaurazione ed all’incremento della sacra Liturgia e dell’eucaristia, prestandosi meglio questi due soggetti al ricorso ai Padri. Non sfugge però a nessuno che la materia dei Capitoli III, IV e V si presta ancor meglio al ricorso ai testi patristici. 2. Che ciò fa pensare ad un intervento sul testo conciliare a più mani e con diversi stili redazionali, in assenza di una pianificazione interna. Ipotesi plausibile, dal momento che si trattava del primo documento conciliare e dell’inizio dei lavori delle commissioni44. Anche gli altri documenti conciliari rivelano una semplice casualità nel citare i Padri. Vengono usati a volte solo per accostamento di idee, a volte vengono citati in modo generico, a volte non si vuole fare lo sforzo di ricercare i testi da citare. Secondo l’opinione di Triacca, il pensiero dei Padri era sulla stessa linea del testo conciliare e ci si riferisce a loro con rimandi generici. Un’osservazione o considerazione che può farsi riguarda il passaggio già avvenuto negli ambienti teologici degli anni precedenti al Concilio Vaticano II: quello da una “Teologia delle conclusioni” ad una “Teologia delle fonti”45. La rarità delle citazioni patristiche in Sacrosanctum concilium, quasi paradossalmente, evidenzia ancor maggiormente le poche citazioni patristiche presenti. Queste non sono aggiunte semplicemente in fondo alle pagine della Costituzione dogmatica sulla sacra Liturgia per provare o dimostrare la verità o la coerenza di quanto discusso e proclamato, ma attestano l’introduzione e la presenza di idee guida e di concetti

44 Si rinvia alle puntuali ed articolate considerazioni di A.M. Triacca, L’uso dei «loci» patristici nei documenti del Concilio Vaticano II, cit., 158-166. 45 Cfr. J. LECLERCQ, Un demi-siècle de synthèse entre histoire et théologie, in Seminarium XVII n.s. (1977) 1, 21-35.


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portanti. Un’importante idea guida, nettamente patristica, fu quella per la quale, nella Chiesa antica, il soggetto delle azioni liturgiche è l’Ekklesìa tutta intera e non soltanto il ministro ordinato; questo portò a rivedere interamente la struttura della costituzione dogmatica sulla sacra Liturgia. 5. SACRAMENTUM E SACRAMENTA IN SACROSANCTUM CONCILIUM: IL CONTRIBUTO DI CIPRIANO E DI AGOSTINO Visto e considerato che per quanto riguarda l’uso e l’impiego delle citazioni patristiche da parte dei padri conciliari nella Sacrosanctum concilium si nota una certa “casualità”, senza un progetto od un piano che dia l’idea di un indirizzo o di una scelta interpretativa predefinita in materia liturgica, vorremmo soffermarci soltanto su quattro delle dieci citazioni patristiche o rimandi ai Padri, presenti nella Costituzione dogmatica in oggetto, allo scopo di intravedere almeno l’orizzonte di senso verso il quale si orientavano i padri conciliari, riguardo l’accezione di sacramento e di sacramenti. Le citazioni che abbiamo considerato provengono da Cipriano di Cartagine e da Agostino d’Ippona. Per la precisione, una citazione proviene dalla combinazione di due passi di due opere ciprianee. Le rimanenti tre provengono tutte da Agostino d’Ippona, due provengono dalla stessa opera, la terza da un’altra46. Sono tutte e tre citazioni molto importanti a motivo dei contenuti teologici e liturgici che sussumono. Il cristianesimo africano ed il suo contributo alla definizione di sacramento e di sacramenti finisce così per essere oggetto delle nostre brevi considerazioni. Leggiamo il passo di SC 26 in questione: «Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della chiesa, che è “sacramento di unità”, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi. Perciò esse riguardano l’intero corpo della chiesa, lo manifestano e lo implicano; ma i singoli membri vi sono inte-

46 Si rinvia a E. DAL COVOLO, Sant’Agostino e i Padri della Chiesa nella preparazione del Concilio Vaticano II e nei suoi documenti, in ho theológos 30 (2011) 435-448.


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ressati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e della partecipazione attiva.»47.

È un passaggio questo molto denso che considera i sacramenti e la loro celebrazione non come azioni private ma quali sono veramente: azioni liturgiche della chiesa. Attraverso queste azioni liturgiche, il popolo compie gesti di adorazione e di riconoscimento verso Dio non in quanto singoli individui, ma come popolo, radunato in ed attraverso quel «sacramento di unità» che è la chiesa. Ecco che ci troviamo dinanzi alla citazione od al rimando a Cipriano, nell’espressione unitatis sacramentum, in SC 26, ricorrente in due testi ciprianei: il De ecclesiae catholicae unitate e l’Epistola 66. Nel De ecclesiae catholicae unitate, Cipriano fa riferimento all’indivisa tunica di Cristo, quale segno dell’unità della chiesa: «Si mostra questo mistero dell’unità (hoc unitatis sacramentum), questo vincolo della concordia che forma un tutt’uno connesso indissolubilmente, quando nel Vangelo la tunica del Signore Gesù Cristo non si divide e non si spezza assolutamente; anzi mentre tirano a sorte la veste di Cristo e chi potesse indossare meglio il Cristo, la veste è ricevuta intatta e la tunica è posseduta integra e indivisa.»48.

L’unità e la concordia della chiesa vengono qui simboleggiate dalla tunica cucita tutta d’un pezzo di Gesù, lasciata intatta ed indivisa.

47

CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum concilium (04.12.1963), 26, in EV 1/42-43: Actiones liturgicae non sunt actiones privatae, sed celebrationes Ecclesiae, quae est «unitatis sacramentum», scilicet plebs sancta sub Episcopis adunata et ordinata. Quare ad universum Corpus Ecclesiae pertinent illudque manifestant et afficiunt; singula vero membra ipsius diverso modo, pro diversitate ordinum, munerum et actualis participationis attingunt. D’ora innanzi, citeremo per comodità i riferimenti a Sacrosanctum concilium con SC. 48 CIPRIANO, Opuscoli/2. A cura di A. CERRETINI – S. MATTEOLI – C. MORESCHINI – C. DELL’OSSO – M. VERONESE (Scrittori dell’Africa romana, 6/2), De ecclesia catholicae unitate, 7, 32-33: Hoc unitatis sacramentum, hoc vinculum concordiae inseparabiliter cohaerentis ostenditur quando in evangelio tunica Domini Iesu Christi non dividitur omnino nec scinditur sed, sortientibus de veste Christi quis Christum potius indueret, integra vestis accipitur et incorrupta atque indivisa tunica possidetur.


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L’immagine della tunica viene accostata a quella del popolo che quasi sostituisce la tunica. Nell’AT, il profeta Achia, in 1 Re 11,3132.36, si straccia la veste mentre si divide l’unità del popolo, a simboleggiare la situazione storica d’Israele. Non così avviene per il nuovo popolo di Dio che è la chiesa. Infatti, leggiamo: «questa (veste) unica, indivisa, tutta di un pezzo, mostra la stretta concordia del nostro popolo, che si è rivestito del Cristo; per mezzo del mistero (sacramento) e del simbolo (signo) della veste ha manifestato l’unità della Chiesa.»49.

Israele è quindi segno che anticipa il nuovo popolo, ma a differenza di quello, il nuovo popolo di Dio o la chiesa è sacramento ovvero compie la realtà dell’AT, nel senso che la perfeziona, poiché Israele è diviso, la chiesa no. In quanto la chiesa si riveste di Cristo, la veste di Gesù, destinata a rimanere indivisa, diventa il segno ed il simbolo della perenne unità della chiesa. Il passo conciliare compendia ed esprime il senso presente in De catholicae ecclesiae unitate, 7. Non si può tuttavia parlare stricto sensu di citazione indiretta. L’idea portante di Cipriano, quella di sacramento dell’unità, che abbraccia tutto il popolo, chiamato a far parte della Chiesa, intesa come realtà misteriosa, è accolta dai padri conciliari. Questo mistero presente nell’AT, sotto l’antitypos del mantello del profeta Achia, rinvia al NT, ove il typos si compie nella veste indivisa di Cristo. Nell’AT la veste è stracciata, nel NT rimane indivisa; il mistero del mantello, inverato dalla croce e dalla veste indivisa, in Cristo e nella sua veste diventa sacramento. L’idea portante, quella dell’unità della chiesa, espressa nel primo testo ciprianeo, viene supportata, ampliata e completata nell’Epistola 66 del vescovo di Cartagine, ove leggiamo: « … la Chiesa tuttavia non si allontana da Cristo, e che la Chiesa è costituita per lui dal popolo unito al suo sacerdote e dal gregge che si accompagna al suo pastore.»50. 49

Ibid., 7, 34-35: individua, copulata, conexa ostendit populi nostri, qui Christum induimus, concordiam cohaerentem; sacramento vestis et signo declaravit ecclesiae unitatem. 50 CIPRIANO, Lettere/2 (51-81). Traduzione di M. VINCELLI, note di G. TAPONECCO,


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I padri conciliari, più che presentarci una citazione indiretta, in realtà, mostrano il ricorso ad un rimando a Cipriano. In tal modo, l’ispirazione ciprianea dell’unità della chiesa, quale nuovo popolo di Dio, evocata e portata avanti da una singola espressione, viene sorretta e sviluppata dalle parole del testo epistolare del vescovo cartaginese, cui i padri conciliari ricorrono per porre questo popolo sotto l’autorità del legittimo pastore o del suo vescovo. L’ispirazione proveniente dalla “gemma” lessicale unitatis sacramentum, incastonata evocativamente nel testo conciliare, viene così fortemente evidenziata. Si può osare affermare che i padri conciliari abbiano individuato delle singole parole o espressioni, quali vere “gemme” lessicali della Patristica, in grado di far riconoscere la peculiarità di Cipriano di Cartagine o di altri Padri. Per cui, se la “gemma” tratta da Cipriano ed incastonata nel testo conciliare è il mistero dell’unità della chiesa o unitatis sacramentum, un’altra “gemma” lessicale preziosa è il mistero dell’amore verso Dio o sacramentum pietatis, tratta dagli scritti di Agostino d’Ippona. Leggiamo, infatti, nel paragrafo del testo conciliare che parla dell’eucaristia: «Il nostro Salvatore nell’ultima cena, nella notte in cui veniva tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue, col quale perpetuare nei secoli fino al suo ritorno, il sacrificio della croce, e per affidare così alla sua diletta sposa, la chiesa, il memoriale della sua morte e risurrezione: sacramento di amore (sacramentum pietatis), segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, “nel quale si riceve Cristo, l’anima viene colmata di grazia e ci è donato il pegno della gloria futura”.»51.

Roma 2007 (Scrittori cristiani dell’Africa romana, 5/2), Epistula, LXVI,8,1,184-185: .. ecclesia tamen a Christo non recedit et illi sunt ecclesia, plebs sacerdoti adunata et pastori suo grex adhaerens. 51 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum concilium (04.12.1963), 47,83: Salvator noster, in Cena novissima, qua nocte tradebatur, Sacrificium Eucharisticum Corporis et Sanguinis sui instituit, quo Sacrificium Crucis in saecula, donec veniret, perpetuaret, atque adeo Ecclesiae dilectae Sponsae memoriale concrederet Mortis et Resurrectionis suae: sacramentum pietatis, signum unitatis, vinculum caritatis, convivium paschale, in quo Christus sumitur, mens impletur gratia et futurae gloriae nobis pignus datur. Segue quindi, alla fine, una citazione tratta dal Breviarium Romanum.


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Varie sono le “gemme” di Agostino riportate in SC 47: oltre a sacramentum pietatis, vi ricorre vinculum caritatis, signum unitatis, convivium paschale. Tuttavia, soltanto il confronto con il testo di Agostino, tratto dal Commento al Vangelo secondo Giovanni, può farci comprendere il senso, il significato ed il valore del ricorso dei padri conciliari all’Ipponate: «È quello che dice l’Apostolo, quando ci parla di questo pane: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo” (1Cor 10,17). Mistero di amore (sacramentum pietatis)! Simbolo di unità! Vincolo di carità! Chi vuol vivere, ha dove vivere, ha di che vivere. S’avvicini, creda, entri a far parte del Corpo, e sarà vivificato.»52.

Non si tratta dunque di una citazione indiretta ma nemmeno di una citazione diretta stricto sensu. Si ha come l’impressione che ai padri conciliari, intenti a lavorare ed a mettere insieme la materia liturgica e le considerazioni su di essa, quindi a scrivere il testo della Costituzione dogmatica sulla sacra Liturgia, siano sovvenute come in lampi fugaci, ma ricchi di spunti e di evocazioni, citazioni patristiche essenziali ma precise, a confermare e supportare quanto andavano meditando e scrivendo. Sembra pertanto che vi abbiano lavorato non soltanto più mani ma più menti, intente a ricordare, a trovare ed a citare i Padri. Un’altra citazione tratta dal Commento al Vangelo secondo Giovanni di Agostino, la si trova in SC 7: «(Cristo) È presente con la sua potenza nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza.»53.

52

AGOSTINO D’IPPONA, Commento al Vangelo e alla Prima Epistola di S. Giovanni. Testo latino dell’edizione maurina. Introduzione a cura di A. VITA, traduzione e note di E. GANDOLFO, Roma 1968 (Nuova Biblioteca Agostiniana, XXIV/1), In Iohannis Evangelium Tractatus, 26,13,610-611: Inde est quod exponens nobis apostolus Paulus hunc panem, “Unus panis”, inquit, “unum corpus multi sumus”. O sacramentum pietatis! O signum unitatis! O vinculum caritatis! Qui vult vivere, habet ubi vivat, habet unde vivat. Accedat, credat, incorporetur, ut vivificetur. 53 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum concilium (04.12.1963), 7,9: Praesens adest virtute sua in Sacramentis, ita ut cum aliquis batpizat, Christus ipse baptizet.


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Leggiamo quindi il testo di Agostino da cui è stata tratta la sentenza conciliare: «Battezzi pure Pietro, è Cristo che battezza; battezzi Paolo, è Cristo che battezza; e battezzi anche Giuda, è Cristo che battezza.»54.

Si tratta di una citazione di Agostino compendiata per mostrare l’unica radice e l’unica origine dei sacramenti ovvero l’unico sacramento che è Cristo. I padri conciliari mostrano di non adottare acriticamente e supinamente il passo patristico cui fanno ricorso. Dal momento che è Cristo che battezza nei suoi ministri, è sempre Cristo presente nei sacramenti della chiesa. In tal modo, i sacramenti sono “luoghi” in cui abita Cristo, è presente in essi e santifica con essi la sua chiesa attraverso l’attività dei suoi ministri. Riportiamo quindi la citazione di Agostino forse la più importante tra le citazioni presenti in Sacrosanctum Concilium: «Quest’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo dell’Antico Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore, principalmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione, mistero col quale “morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ha rinnovato la vita.”. Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la chiesa.»55.

54

AGOSTINO D’IPPONA, In Ioh. Ev. Tr., cit., 6,7,128-129: Petrus baptizet, hic est qui baptizat; Paulus baptizet, hic est qui baptizat; Iudas baptizet, hic est qui baptizat. 55 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum concilium (04.12.1963), 5,7: Hoc autem humanae Redemptionis et perfectae dei glorificationis opus, cui divina magnalia in populo Veteris Testamenti praeluserant, adimplevit Christus Dominus, praecipue per suae beatae Passionis, ab inferis Resurrectionis et gloriosae Ascensionis paschale mysterium, quo “mortem nostram moriendo destruxit, et vitam resurgendo reparavit.”. Nam de latere Christi in cruce dormientis ortum est totius Ecclesiae mirabile sacramentum. È presente, prima della citazione patristica, una citazione tratta dal Missale romanum.


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Nel testo di Agostino troviamo: «Adamo, dunque, rappresenta [Cristo] venturo; e come dal fianco di Adamo addormentato fu tratta Eva (cfr. Gen 2,21-22), così fu del Signore addormentato, cioè morto dopo la sua passione: dal suo fianco, squarciato dalla lancia mentr’egli era ancora sulla croce, scaturirono i sacramenti (sacramenta), attraverso i quali vien formata la Chiesa.»56.

Si può osservare quanto precisa e puntuale sia l’affermazione di Agostino che distingue i sacramenti dalla chiesa: questa si forma attraverso quelli, scaturenti dal costato di Cristo, il sacramento del Padre. Ciò induce a pensare che i padri conciliari abbiano rinvenuto non la dimostrazione, bensì la consonanza e la convergenza nei testi patristici del loro pensiero e delle loro opinioni e si siano riconosciuti in citazioni dei Padri compendiate, evocate, ma esprimenti la loro univocità ed il loro consenso. Così dal costato di Gesù Cristo ovvero dalla sua morte violenta sulla croce, da lui accettata per amore, è scaturito il sacramento di tutta la chiesa. Ovvero, quel mistero che ne sta a principio e fondamento: Gesù Cristo che ha patito, è morto, è risorto ed è presente in tutti i sacramenti della chiesa. In tal modo, sembra che i padri conciliari, senza considerare i Padri alla stregua di dicta probantia o di pezze d’appoggio ai loro assunti, intendano la chiesa come sacramento nel quale convivono e ristanno tutti i sacramenti. Sia il sacramento della chiesa che è sacramento d’unità che i sacramenti traggono la loro esistenza e sostanza da Cristo, il sacramento del Padre. Questo è un dato importante, dal momento che, nel progresso dei lavori sulla Costituzione dogmatica sulla sacra Liturgia, i padri conciliari rinvenivano negli antichi testi patristici non solo la

56

AGOSTINO D’IPPONA, Esposizione sui Salmi, IV. Testo latino dall’edizione maurina ripresa sostanzialmente dal Corpus Christianorum. Traduzione, revisione e note illustrative a cura di V. TARULLI, Roma 1977 (Nuova Biblioteca Agostiniana, XXVIII), Enarratio in Psalmum 138,2,460-461: Si ergo Adam forma futuri, quomodo de latere dormientis Eva facta est (cfr. Gen2,21-22), sic ex latere Domini dormientis, id est, in passione morientis, et in cruce percusso de lancea, manaverunt Sacramenta, quibus formaretur Ecclesia.


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conferma ma anche il loro stesso modo di sentire e di pensare per giungere alle loro stesse conclusioni e ad un orientamento comune. CONCLUSIONI Non potendo giungere a conclusioni vere e proprie, visti i limiti della nostra indagine, ristretta all’esame ed all’analisi delle ricorrenze dei testi di Cipriano di Cartagine e di Agostino d’Ippona, nella Costituzione dogmatica sulla sacra Liturgia o Sacrosanctum concilium, vorremmo semplicemente puntualizzare quella che è la questione posta dalla nostra riflessione. Ovvero, dopo quanto abbiamo premesso, avendo passato in rassegna l’origine del termine sacramentum / sacramenta e la loro accezione nei Padri più rappresentativi della chiesa e del cristianesimo antico, ci chiediamo in quale rapporto stia il sacramento con i sacramenti, nella costituzione dogmatica in oggetto. Stupisce l’assenza di citazioni provenienti dall’opera di Ambrogio di Milano, il quale mostra di distinguere bene il sacramento sacramentum o mysterium dai sacramenti sacramenta o mysteria, ciò dimostra che l’interesse dei padri conciliari al lavoro nella commissione sulla sacra Liturgia era ben altro che quello di una chiarificazione dei termini e del loro ambito lessicale. Probabilmente, ciò che a loro più premeva non era tanto definire la natura del sacramento e dei sacramenti nella loro consistenza oggettiva ed estrinseca, quanto, piuttosto, porre l’attenzione al rapporto intrinseco del sacramento e dei sacramenti con la chiesa. Manca qualsiasi riferimento a Tertulliano, a motivo, probabilmente, di certe punte radicali della sua riflessione ecclesiologica che lo portarono a distinguere, fino a contrapporle, l’ecclesia Spiritus o la comunità carismatica, dall’ecclesia numerus episcoporum o la chiesa gerarchica, fino ad escludere questa da quella57. Ciò spiegherebbe il ricorso ai testi di Cipriano di Cartagine e di Agostino d’Ippona, i Padri che, nella situazione storica della chiesa d’Africa, nel III secolo con il problema dei lapsi, per il primo e nel IV secolo

57 Cfr. TERTULLIANO, Opere montaniste. A cura di A. CAPONE – S. ISETTA, Roma 2012 (Scrittori cristiani dell’Africa romana, 4/2), De pudicitia, 21,16-17,354-355.


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con il problema dei donatisti, per il secondo, si trovarono a dover fornire delle risposte adeguate ed a varare misure disciplinari e pastorali urgenti. In quanto i sacramenti sono azioni liturgiche nella chiesa e della chiesa, in essi ristà Cristo stesso, tesi che trova conferma in Agostino. Cristo è il sacramento del Padre, è autore dei sacramenti, ha fondato la Chiesa. Questa è sorta ed è nata dal sacrificio di Cristo crocifisso, sacrificio accettato ed offerto per amore della volontà del Padre, che Gesù lascia come sacramento, sospeso sulla croce, quale pegno d’unità per i secoli futuri e che la chiesa, in quanto popolo radunato dal suo Signore, raccoglie, quale sua precipua eredità e tiene ad osservare, proprio attraverso l’unità, nel memoriale eucaristico, pena il suo non senso e la sua inconsistenza. Il crocifisso, quindi, è posto all’origine della chiesa e questa si pone sotto il crocifisso, dal cui costato, secondo Agostino, promanano i sacramenti oppure, secondo i padri conciliari, il «mirabile sacramento di tutta la chiesa» (SC 7). Sotto la croce, sta la veste indivisa di Cristo, segno e sacramento, secondo Cipriano, dell’unità della chiesa. Abbiamo allora in Sacrosanctum concilium l’immagine potente, riproposta in primo luogo attraverso Agostino, ma presente anche in Cipriano, della chiesa radunata sotto il crocifisso, da accostarsi all’altra immagine, quella della chiesa sposa, adunata al convito, cui è affidato il memoriale della santa cena. Sono due immagini, in realtà, intrinsecamente legate, nella citazione di Agostino, forse quella più importante tra le citazioni patristiche presenti in Sacrosanctum concilium. Cristo crocifisso è il sacramento, quello radicale o la radice di tutti i sacramenti, nella chiesa. I padri conciliari spingono verso ulteriori conseguenze le conclusioni dei Padri, per cui i sacramenti, come il battesimo e l’eucaristia, sono luoghi in cui abita Cristo, questi allora abita nella chiesa ed opera nei sacramenti, attraverso i suoi ministri. L’affermazione di Cipriano, per il quale, in un certo senso, Cristo è la chiesa indivisa, nel senso indicato dalla sua veste inconsutile ed indivisa sotto la croce, sacramento o mistero dell’unità della chiesa, e quella di Agostino, per il quale, Cristo è il pane unico e vero che ci nutre per fare di noi un solo corpo, fa dire e sostenere ai padri conciliari che la chiesa può porsi ed intendersi, ha senso e consistenza, solo se si riferisce, sotto la croce, a Cristo crocifisso. Se, dunque, per il cartaginese, l’essere nella


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chiesa consiste nel «rivestirsi» di Cristo o induere Christum, espressione fra l’altro, il cui senso è presente in Tertulliano58; per l’ipponate, l’essere nella chiesa consiste nell’«incorporarsi» in Cristo o incorporari in Christo. Le due prospettive di Cipriano e di Agostino, “battesimale” l’una, “eucaristica” l’altra, teologico-liturgiche, ma pur sempre storiche, sono tuttavia superate in Sacrosantum concilium oppure in via di superamento, in vista di una visione ecclesiologica nuova ed originale che, tuttavia, sembra non potersi ancora cogliere pienamente. Si può osservare come il testo conciliare recuperi pienamente la soggettualità di Cristo nei sacramenti, anzi, è Cristo crocifisso il sacramento. In tal modo, se è l’unità a configurare la consistenza oggettiva della chiesa o unitatis sacramentum, sotto il crocifisso, è Cristo stesso a configurare i sacramenti nella loro relazione con la chiesa. Come abbiamo visto, i padri conciliari fanno propria l’asserzione di Agostino, secondo il quale Cristo è presente nei sacramenti, nei quali abita, come nel battesimo, come nell’eucaristia. Anzi, nell’unico pane, è Cristo stesso che si dona al suo popolo, lo nutre, lo costituisce e lo forma. Si può allora affermare che due sono le direzioni, indicate dai Padri, nelle quali i padri conciliari si riconoscono e procedono, nell’accezione e nell’uso di sacramento e di sacramenti in Sacrosanctum concilium. Una è quella dell’unità del popolo di Dio, radunato nella chiesa in Cristo, particolarmente nel battesimo, sotto l’autorità dei pastori, come si premura a precisare Cipriano. L’altra è quella della soggettualità di Cristo, presente ed agente nei sacramenti, nel battesimo ma particolarmente nell’eucaristia, ove Cristo chiama gli uomini a far parte del suo corpo, come ha la cura di puntualizzare Agostino. Tuttavia, come rilevato sopra, si ha l’impressione che i padri conciliari non siano riusciti a portare a piena espressione una visione ecclesiologica nuova ed originale che pur traspare dal modo in cui i testi di Cipriano e di Agostino sono inseriti nel testo conciliare. L’importanza di questi due Padri nella Costituzione dogmatica sulla sacra Liturgia

58 Cfr. TERTULLIANO, Opere dottrinali. A cura di C. MORESCHINI – P. PODOLAK, Roma 2010 (Scrittori cristiani dell’Africa romana, 3/2.b), De carnis resurrectione, 63,1,426-427, ove Tertulliano insiste sulla metafora sponsale.


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può invitare ad uno studio e ad un approfondimento del cristianesimo antico africano, in particolare della sua riflessione ecclesiologica, posta sotto il crocifisso59. Si nota, soprattutto, come la prospettiva escatologica, nei testi conciliari evidenziati, sia carente, nonostante sia bene precisare come sarebbe un equivoco sostenere che i padri conciliari, in Sacrosanctum concilium, abbiano trascurato l’escatologia. Eppure, è curioso come nella citazione tratta dall’Enarratio in Psalmum 138 di Agostino, i padri conciliari abbiano riportato nel testo conciliare soltanto la seconda parte della citazione agostiniana. Si tratta perciò di una citazione che sarebbe improprio definire indiretta, non sarebbe da ritenersi nemmeno diretta, poiché la scelta della seconda parte e l’esclusione della prima suppone una scelta, quindi una riflessione previa da parte dei padri conciliari. Non si tratta, d’altra parte, di un rimando dal momento che è mancante della prima parte; si tratta, pertanto, di una citazione monca, volutamente mutila, perché, probabilmente, altri erano i problemi di cui i padri conciliari, all’inizio del Concilio ecumenico Vaticano II, dovevano occuparsi. La prima parte della citazione tratta dal Commento sul Salmo 138 di Agostino completa e compie il senso della seconda parte, riportata in SC 5. Nella prima parte, Agostino offre un’altra bellissima immagine proposta da Agostino e presente nel Cristo crocifisso della seconda parte: quella del Cristo dormiente sulla croce presente anch’essa in Tertulliano60. Per Agostino, il crocifisso non è morto ma dorme, prima di essere sepolto per risorgere, effonde dal suo costato il sacramento o i sacramenti della sua vita o della sua morte redentrice. Il Cristo dormiente sulla croce, secondo Agostino, è il typos — compiuto e realizzato nel Cristo risvegliato dal sonno della morte o risorto — posto in rapporto con l’antitypos dell’Adamo

59 In particolare, la riflessione ecclesiologica di Tertulliano, sull’ecclesia numerus episcoporum e sull’ecclesia Spiritus, completata da quella di Cipriano, sull’ecclesia sacramentum unitatis, appare proficua di spunti e di approfondimenti per l’ecclesiologia moderna e contemporanea. 60 Cfr. TERTULLIANO, Opere catechetiche. A cura di S. Isetta – S. Matteoli – T. Piscitelli – V. Sturli, Roma 2008 (Scrittori cristiani dell’Africa romana), 2, De baptismo, II,12,7,182-183.


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dormiente, forma futuri ovvero prefigurazione di Cristo. Dal costato di Adamo dormiente fu tratta la donna, Eva sua sposa, a formare una carne sola; dal costato di Cristo scaturì il sacramento dell’acqua e del sangue che originò la chiesa, quale sacramento d’unità. Dal sonno di Adamo fu creata Eva; dalla morte di Cristo, anzi, dal Cristo dormiente sulla croce prossimo a risorgere da morte, fu creata la chiesa. Vi si trova, pertanto, un’altra immagine ricchissima di evocazioni e di spunti ecclesiologici; infatti, l’antitypos della coppia Adamo — Eva o dell’una caro, adombra un altro typos: quello della coppia Cristo — chiesa. Cristo è allora lo sposo della chiesa sposa, fino a formare con la chiesa una sola carne od un solo e medesimo corpo, indiviso sulla croce. L’immagine della chiesa radunata in unità sotto il crocifisso ma che da lui scaturisce e con lui si rapporta intimamente è allora legata a quella sponsale della chiesa sposa, unita a Cristo, sposo della chiesa; le due immagini in Agostino, si compenetrano, reciprocamente ed intrinsecamente e si riassumono, ricapitolandosi, in quella, suggestiva, del crocifisso dormiente. In effetti, in SC 47, è presente il riferimento alla sponsalità della chiesa che si compie, sacramentalmente, nel convito eucaristico e negli altri sacramenti, dal momento che in essi abita Cristo. Tuttavia, questa via avrebbe potuto essere ulteriormente battuta e spinta verso importanti conseguenze che si percepiscono nei documenti conciliari successivi. In Agostino, la sponsalità, nell’accezione dell’una caro, viene allora vista come via o forma della sacramentalità della chiesa, realizzantesi proprio nella presenza e nell’unione di Cristo crocifisso con e nei sacramenti, con e nella chiesa, sua sposa, fino a formare con essa una sola carne. I sacramenti, in primis il battesimo e l’eucaristia, servono alla chiesa per rivestirsi dell’unità, indivisibile, secondo Cipriano e per nutrirsi di Cristo, unico pane, secondo Agostino, nell’attesa della sua venuta o del suo risveglio, alla Parousìa. In questa, come nelle altre direzioni o precisi orientamenti che scelgono di seguire, nella Costituzione dogmatica sulla sacra Liturgia, riteniamo che i padri conciliari trovino il conforto dei Padri della chiesa antica, in ispecie di Cipriano e di Agostino.


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L’ECCLESIOLOGIA DELLA SC NEL QUADRO DEL MAGISTERO CONCILIARE

PIETRO SCARDILLI*

INTRODUZIONE La domanda dalla quale partiamo è questa: come la costituzione liturgica si inserisce nel quadro della riforma ecclesiale voluta e operata dal concilio? La costituzione liturgica è stata il primo documento ad essere elaborato e promulgato dal concilio. Ed è allo stesso tempo l’unico schema, tra quelli preparati dalle commissioni preconciliari, che è stato giudicato soddisfacente dai padri, perché realmente rinnovato dal punto di vista biblico e nel linguaggio. In esso il concilio ha riconosciuto i frutti di un lavoro anteriore veramente saggio ed equilibrato. Il testo originario non subì, durante il dibattito conciliare, delle sostanziali modifiche: si potrebbe dire che la costituzione liturgica fu approvata fin dal 14 novembre 1962, malgrado molte discussioni. Così, non ha potuto beneficiare del confronto col lavoro realizzato dal concilio in altri settori e confluito nei documenti posteriori. Infatti, nel momento in cui il testo sulla liturgia è stato messo a punto, non erano ancora emersi parecchi interrogativi importanti, non erano ancora state sollevate obiezioni rilevanti e, soprattutto, non era ancora manifesta l’ampiezza che avrebbe assunto lo schema de ecclesia. Così

*

Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Pietro Scardilli

la costituzione liturgica, che è servita di «rodaggio» ai lavori delle altre sessioni conciliari, è stata privata di quegli apporti e sviluppi ecclesiologici successivi che avrebbero potuto diversamente arricchire la sua visione della chiesa dandole più ampiezza e profondità. I documenti posteriori contengono alcuni sviluppi dei princìpi che SC ha semplicemente enunciato o intuito. Con ciò non si vuole negare che la costituzione liturgica presenti una propria peculiarità con aspetti che sono assenti in altri documenti. La SC non ha potuto trarre vantaggio di tali sviluppi fatti dallo stesso concilio; è però legittimo il tentativo di scorgere una correlazione e una certa interdipendenza tra il primo documento e i successivi che vennero promulgati dal Vaticano II, almeno per quanto riguarda la connessione tra riforma della liturgia e riforma ecclesiale. «Il peso di SC sull’intero esito del concilio è innegabile; cito solo due fatti. Il primo riguarda la velocità di approvazione dello schema liturgico rispetto agli altri schemi che vennero ampiamente emendati, rimandati in commissione, talvolta abbandonati. L’alto grado di maturità di questo documento è stato una sorpresa per gli stessi vescovi, che lo hanno accolto e approvato con entusiasmo, facendone il punto di riferimento allorquando si trattava di superare le cadute di tono e le paure di alcuni settori dell’episcopato intimoriti dal coraggio e dalle novità del concilio. Non si poteva contraddire ciò che era stato approvato in SC, sarebbe stata una mancanza di fede nell’azione dello Spirito santo. Così la SC è diventata alla fine il boccone amaro trangugiato da molti presuli, specialmente della curia romana, che hanno dovuto mantenere la coerenza dei principi teologico-pastorali della riforma liturgica fino all’approvazione contrastata del documento sulla libertà religiosa. Il secondo fatto, conseguenza del primo, si riferisce alle violente e traumatiche reazioni di alcuni settori ecclesiali che, per rigettare il progetto ecclesiale del concilio, hanno gridato al tradimento perpetrato, a loro dire, proprio in ambito liturgico. La riforma liturgica sarebbe stata la matrice di tutti i guai del post-concilio. Al di là del giudizio di merito sui guai prodotti dal concilio, essi probabilmente avvertivano con lucidità la connessione tra riforma liturgica e riforma della chiesa1».

1 R. TAGLIAFERRI, Rileggendo la “Sacrosanctum concilium”: le intenzionalità, le domande a cui risponde nella globalità del magistero conciliare,in CRO 98 (1997) 33-34.


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Ci si sforzerà qui di suggerire i punti salienti di collegamento con le altre tre costituzioni, insieme alle quali SC forma il «quadrilatero dell’architettura conciliare»2, trascurando, intenzionalmente, una molteplicità di altri argomenti che, non riguardando principalmente la sfera ecclesiologica, non interessano il presente studio. Tutta la teologia della liturgia è in SC, modulata da un sottofondo ecclesiologico, e le due realtà — liturgia ed ecclesiologia — sono profondamente congiunte. Tale corrispondenza consente alla costituzione liturgica di sintetizzare e anticipare tutti i grandi temi successivi che hanno contribuito, ciascuno a suo modo, alla riforma generale della chiesa: 1. la parola di Dio nella vita della chiesa e del cristiano, 2. la natura e la missione della chiesa, 3. il dialogo col mondo contemporaneo. 1. SACROSANCTUM CONCILIUM E LUMEN GENTIUM La costituzione liturgica si richiama ad una determinata visione di chiesa, la LG disegna quel volto che la SC semplicemente abbozza. Anzi si può affermare che la svolta decisiva del concilio verso una nuova impostazione ecclesiologica, si ebbe precisamente durante la discussione dello schema sulla liturgia. L’ecclesiologia che soggiace all’impianto di riforma liturgica pensato da SC presenta già la realtà profonda e misterica della chiesa: essa è primariamente il luogo in cui viene accolta e comunicata agli uomini la vita divina in Cristo e nello Spirito. Ecco perché gli elementi istituzionale, giuridico e societario sono subordinati alle realtà invisibili, a Cristo cioè che agisce ed è sempre presente nella sua chiesa, alla chiesa intera come comunità di peccatori perdonati, raggiunti dalla grazia di Dio. Il de ecclesia presentato in aula era costruito su un impianto scolastico e apologetico per cui la gran parte dei padri conciliari volle che fosse permeato dallo stesso orientamento e dallo stesso linguaggio,

2

Cfr. ibid., 33.


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più pastorale che teorico, che avevano caratterizzato la costituzione liturgica. Di fatti fu riplasmato da capo a fondo. Contrariamente allo schema iniziale che cominciava con un capitolo de ecclesiae militantis natura, per una decisione di «importanza incalcolabile»3 LG si apre con un capitolo sulla chiesa come mistero, dal quale scaturisce poi il capitolo sul popolo di Dio e sulla costituzione gerarchica della chiesa. La chiesa è considerata, prima di tutto, nel disegno salvifico del Padre (cfr. LG 2) che nella missione e nell’opera del Figlio ha trovato compimento (cfr. LG 3). La chiesa è il corpo di Cristo nel senso biblico, patristico e medievale, cioè la comunità di fedeli incorporati al Cristo risorto per la fede e i sacramenti, e non invece semplicemente nel senso di corpo sociale e/o di società organizzata e visibile. L’istituzione gerarchica è considerata in questo capitolo in chiave pneumatologica, accanto ai carismi (cfr. LG 4: doni gerarchici e carismatici), e dal punto di vista sacramentale (cfr. LG 7). Nell’unica e medesima chiesa, che è allo stesso tempo «società gerarchicamente organizzata» e «corpo mistico», «aggregazione visibile» e «comunità spirituale» (cfr. LG 8), l’istituzione è strumento a servizio della comunione (cfr. LG 8 e 18). LG 8 sembra riprendere SC 2. Afferma la natura umano-divina della chiesa, chiarisce l’inseparabilità dell’elemento visibile e invisibile e ribadisce il primato dell’elemento divino giustificandolo a partire dall’analogia con l’unione ipostatica del Verbo incarnato. Il primato del divino sarà poi applicato in altri punti della LG, dove si darà risalto agli elementi interiori e soprannaturali della chiesa. Queste considerazioni consentono alla LG di offrire – una visione misterico-sacramentale della chiesa (LG capitoli I e II); – una visione della gerarchia a servizio della comunione (LG III);

3 Cfr. O. ROUSSEAU, La costituzione nel quadro dei movimenti rinnovatori di teologia e di pastorale degli ultimi decenni, in G. BARAÚNA (ed.), La chiesa del Vaticano II, 111-112.


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– una rivalutazione della dignità sacerdotale e profetica del popolo di Dio (LG IV); – un’insistenza nuova sulla chiamata universale alla santità e sull’indole escatologica di tutta la chiesa (LG V e VII). La partecipazione attiva, piena e consapevole di tutti i fedeli all’azione liturgica della chiesa, in virtù del loro battesimo, mi sembra l’intuizione di maggiore spessore di SC per gli evidenti riflessi ecclesiologici. Essa postula, come ho già affermato, una ecclesiologia del popolo di Dio. La liturgia è, in effetti, azione del popolo riunito in assemblea e gerarchicamente costituito (cfr. SC 26). L’idea di un popolo santo che è chiamato a cantare le lodi di Dio, e dove tutti sono partecipi attivamente, richiedeva un fondamento dottrinale che LG offre nel trattare il sacerdozio universale dei battezzati, idea chiave del NT che sterili controversie avevano rigettato nell’ombra. La LG fonda biblicamente questa visione della liturgia nel capitolo II: de populo Dei. La volontà di Dio è quella di costituirsi un popolo che viva in amicizia con lui (cfr. LG 9), un popolo messianico, carismatico (cfr. LG 12) e missionario (cfr. LG 16-17). LG esplicita dunque ciò che nella costituzione liturgica è solo implicito. Il tema del sacerdozio universale dei fedeli era veramente presente nello spirito dei redattori dello schema liturgico. Proprio questo dato rilevante del NT implica la partecipazione piena, attiva e consapevole di tutti i fedeli all’azione liturgica. È il sacerdozio battesimale che abilita i credenti ad offrire durante il sacrificio eucaristico l’oblazione del sacrificio spirituale, affinché il Signore faccia di essi un’offerta eterna a lui gradita (cfr. SC 12). Il battesimo è la porta che apre l’ingresso alla vita nuova del cristiano (cfr. LG 4), il necessario punto di partenza di tutta la sua esistenza nella fede, nella speranza e nella carità. Il battesimo ci inserisce in Cristo come membra vive del suo corpo e genera la chiesa, organismo sacramentale e comunità sacerdotale, per cui tutti entrano di diritto nel culto nuovo inaugurato dal Cristo e vi prendono parte attivamente (cfr. LG 7, 9, 10, 26, 31). I membri della chiesa, comunità sacerdotale (cfr. LG 10), esercitano il loro sacerdozio precipuamente nella celebrazione eucaristica, durante la quale i fedeli


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«partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e culmine di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa. Offrendo il sacrificio e ricevendo la santa comunione, prendono parte attivamente all’azione liturgica, non in maniera indistinta ma ognuno secondo il proprio ruolo. Cibandosi poi del corpo di Cristo nella santa assemblea, manifestano in concreto l’unità del popolo di Dio, unità che il sacramento dell’eucaristia mirabilmente esprime e realizza» (LG 11).

Nella celebrazione eucaristica si manifesta il volto autentico della chiesa: ognuno vi è chiamato a svolgere la propria partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo: il vescovo e i presbiteri agendo in persona Christi, i fedeli offrendo la loro vita come sacrificio in unione al sacrificio redentivo di Cristo. «Perciò la chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli cristiani non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, con una comprensione piena dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, pienamente e attivamente, siano istruiti nella parola di Dio, si nutrano alla mensa del corpo del Signore, rendano grazie a Dio offrendo la vittima immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma, insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo mediatore, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti» (SC 48).

Sembra difficile vedere nella SC un’affermazione chiara e netta del sacerdozio battesimale. Nella LG l’affermazione non manca né di forza né di chiarezza. In LG 9 la citazione di 1Pt 2,9 è riportata per caratterizzare il popolo messianico, che realizza la profezia del cuore nuovo e della conoscenza intima di Dio, rinato dal battesimo e dallo Spirito. In LG 10, la dottrina del sacerdozio comune è descritta secondo quest’ordine schematico: – sacerdozio di Cristo, – comunicato al nuovo popolo di Dio, – attraverso la consacrazione battesimale, – per essere un sacerdozio santo, – per poter offrire in sacrifico spirituale tutte le loro attività umane, – per annunciare i mirabilia Dei,


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– per offrire se stessi come oblazione vivente, – per dare ovunque testimonianza a Cristo. LG 10 conclude affermando che tutti i fedeli «in virtù del loro sacerdozio regale, concorrono ad offrire l’eucaristia ed esercitano il loro sacerdozio nel ricevere i sacramenti, nella preghiera e nel ringraziamento, nella testimonianza di una vita santa, nell’abnegazione e nell’operosa carità». L’esercizio del sacerdozio comune sarà poi l’oggetto dell’art. 11. Negli art. 10-11 troviamo dunque il fondamento teologico di quel principio che SC non cessa di richiamare: la partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia. È il carattere battesimale che deputa al culto ed alla testimonianza pubblica resa alla fede, e tutti i sacramenti sono fondati su questa possibilità radicale e ne schiudono le virtualità. Questo insegnamento è ripreso nel capitolo sui laici in LG 34, dove il sacerdozio battesimale appare come il fondamento dell’offerta di tutta la vita a Dio, con un orientamento fondamentale alla celebrazione dell’eucaristia: «Gesù Cristo sommo ed eterno sacerdote vuol continuare anche attraverso i laici la sua testimonianza e il suo servizio; perciò li vivifica col suo Spirito e li spinge incessantemente a intraprendere ogni opera buona e perfetta. A coloro che ha unito alla sua vita e alla sua missione, Cristo concede di partecipare anche alla sua funzione sacerdotale […]. Tutte le loro opere, preghiere e iniziative apostoliche, la stessa vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, la distensione spirituale e corporale, se compiuti nello Spirito, e anche le stesse sofferenze della vita, se sopportate con pazienza, diventano sacrifici spirituali a Dio per Gesù Cristo. Nella celebrazione dell’eucaristia tutto ciò viene piissimamente offerto al Padre insieme con l’oblazione del corpo del Signore. Così anche i laici consacrano il mondo a Dio, quali suoi adoratori ovunque santamente operanti!.

La liturgia, manifestazione della comunione del nuovo popolo di Dio, lo è anche della sua struttura gerarchica. L’eucaristia, in modo particolare, è l’espressione di una comunità diversificata e organizzata (cfr. SC 26), presieduta dal vescovo come suo pastore proprio (cfr. SC 41-42). L’unità dell’unico sacerdozio di Cristo, partecipato «in diverso modo» a coloro che hanno ricevuto il ministero dell’ordine e a tutti fedeli, è manifestata dalla concelebrazione presbiterale (cfr. SC 57),


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come dall’unità dell’assemblea intera che partecipa attivamente alla celebrazione che a sua volta la esprime e la realizza (cfr. SC 47-48). In questa visione, l’istituzione gerarchica è intrinsecamente modellata dal mistero di grazia e di unità della quale è a servizio. Senza alcun dubbio, una simile concezione della struttura gerarchica della chiesa è in armonia profonda con quella che si trova nel capitolo III di LG. La manifestazione della comunione gerarchica è costituita dalla collegialità apostolica (cfr. LG 19) ed episcopale (cfr. LG 22), che esprime la diversità della chiesa e la sua unità di cui il senso profondo è la condivisione della stessa vita divina (cfr. LG 23). A sua volta, la collegialità presbiterale configura coloro che partecipano di questo ministero (cfr. LG 28). Questa struttura collegiale ed il suo legame intimo di significato nella concelebrazione sono messi molto in luce dal decreto sul ministero e la vita dei presbiteri: «Tutti i presbiteri, insieme ai vescovi, partecipano dello stesso e unico sacerdozio e ministero di Cristo in modo tale che la stessa unità di consacrazione e di missione esige la loro comunione gerarchica con l’ordine dei vescovi: tale comunione essi esprimono ottimamente nella concelebrazione liturgica, e professano nel celebrare insieme ai vescovi la sinassi eucaristica» (PO 7).

Nell’assemblea che si forma attorno all’altare, sulla scorta di SC 41 e 42, LG 26 vede una speciale presenza di Cristo che ha la forza di concentrarvi la chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Non mi sembra azzardato poter affermare che, quelle verità dogmatiche che SC presuppone o a cui fa allusione, nella LG trovano esplicitazione a un livello più profondo. La LG può essere, a ragione, considerata un prolungamento e un approfondimento organico della SC. «Chi vorrà far assimilare ai fedeli le grandi prospettive del De ecclesia, ha una sola via da percorrere chiara e sicura: portare gradualmente il popolo alla “piena, intelligente, attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche” (cost. liturgica, art. 14). La liturgia allora non sarà altro che un’autentica ecclesiologia vissuta: quella del Vaticano II4». 4 P. VISENTIN, I fondamenti della vita liturgica nella costituzione “Lumen gentium”, in RPL 4 (1966) 269.


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Le intime connessioni tra SC e riforma ecclesiale si possono cogliere anche da un rapido sguardo ad alcuni tratti salienti che qualificano il rapporto tra la costituzione liturgica e le altri due grandi costituzioni del Vaticano II: DV e GS. 2. SACROSANCTUM CONCILIUM E DEI VERBUM Nella SC la riscoperta della parola di Dio che vivifica la chiesa è l’anima della riforma liturgica. La stessa costituzione è tutta plasmata dalle sorgenti bibliche e patristiche a cui ha ampiamente attinto. Così si legge nell’art. 24: «massima è l’importanza della sacra Scrittura nella celebrazione liturgica. […] Perciò per favorire la riforma, il progresso e l’adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga promossa quella soave e viva conoscenza della sacra Scrittura […]». La chiesa, come vive dell’eucaristia, vive ugualmente della parola di Dio. Essa non può farne a meno perché è la regola suprema della propria fede (cfr. DV 21), particolarmente quando viene proclamata nella liturgia (cfr. DV 25). «Il ruolo decisivo della Parola, fatto emergere fin dall’inizio da SC, è stato talmente enfatizzato nella sua efficacia sacramentale che qualcuno, educato alla polemica antiprotestante, ha parlato di protestantizzazione del cattolicesimo, oppure, con più garbo, di ottavo sacramento5».

La parola proclamata durante l’azione liturgica è presenza reale di Cristo. La parola di Dio nata nella e per la liturgia, qui si fa sacramento. «Cristo realmente presente nelle specie eucaristiche del pane e del vino, è presente, in modo analogo, anche nella parola proclamata nella liturgia»6.

5 6

R. TAGLIAFERRI, Rileggendo la “Sacrosanctum concilium”, cit., 37. BENEDETTO XVI, Es. apost. Verbum domini (30 settembre 2010), 56.


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3. SACROSANCTUM CONCILIUM E GAUDIUM ET SPES L’ecclesiologia del popolo di Dio, riportata in auge dal recupero del sacerdozio comune dei fedeli attraverso la declericalizzazione della liturgia, ha contribuito fortemente ad una rivalutazione del laicato e della “mondanità”: temi propri della costituzione pastorale Gaudium et spes. La SC, infatti, individua nella partecipazione alla liturgia il fondamento di una vita cristianamente impegnata nella testimonianza della carità e del servizio, presentando una comunità cristiana che celebrando i divini misteri non dimentica di essere stata collocata da Dio nel mondo come «vessillo innalzato sui popoli» (SC 2). Il piano di riforma della liturgia poi, secondo gli art. 37-39 di SC, persegue come finalità l’adattamento all’indole e alle tradizioni dei vari popoli. Si può intravedere in questa indicazione generale il primo tentativo di inculturazione della fede. «Il rapporto con la cultura e le culture è talmente intrinseco al messaggio cristiano che non vi può essere separazione; perciò il dialogo non è solo univoco e il porgere il vangelo implica anche il ricevere. […] Gaudium et spes applica con coerenza questo nuovo modo di porsi della chiesa quando afferma che essa dà e riceve»7. Così, infatti, si legge in GS 44: «Come è importante per il mondo che esso riconosca la chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento così pure la chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano. […] Essa, infatti, fin dagli inizi della sua storia, imparò ad esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; e inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: allo scopo, cioè, di adattare, quanto conveniva, il vangelo, sia alla capacità di tutti sia alle esigenze dei sapienti. E tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione».

La riforma liturgica e la riforma della chiesa sono intimamente legate alla cultura dei popoli in cui la chiesa vive ed opera, perché

7

Ibid., 37.


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l’incarnazione è la legge alla quale la chiesa deve sempre conformare la sua modalità di presenza nel mondo. Questo sguardo panoramico mostra il chiaro nesso tra riforma liturgica e riforma della chiesa e conferma «che il programma di riforma conciliare corre sul filo della riforma liturgica, che ha orchestrato le grandi svolte del concilio senza protagonismi, ma come un inconscio collettivo reso creativo dallo Spirito»8. 4. SC 50 ANNI DOPO: TRA ATTUAZIONE E CAMMINO ANCORA DA COMPIERE

La costituzione liturgica, dopo un lungo iter redazionale, veniva approvata quasi all’unanimità con soli 5 voti di scarto. All’indomani della promulgazione della SC, R. Guardini scriveva: «come sappiamo, il lavoro liturgico è giunto ad un punto importante. Il concilio ha posto le basi per il futuro e il modo in cui ciò è stato attuato e la verità che si è resa manifesta, rimarrà per sempre un classico esempio di come lo Spirito operi nella chiesa. Ora si tratta di vedere in qual modo il lavoro debba essere iniziato, affinché la verità possa diventare realtà9».

Una volta concluso il concilio, inizia il tempo della sua assimilazione o recezione. La “recezione” di un testo conciliare non equivale tout court alla sua “applicazione”. Mentre quest’ultima, infatti, si basa sulla lettera delle decisioni e quindi cerca di tradurre in prassi quello che il concilio indica come principio, la recezione è quel processo che vede il realizzarsi dello spirito che ha animato un’assemblea conciliare e “verifica” il modo con cui quello spirito viene accolto nell’insieme della chiesa. Esso non dev’essere considerato come un momento a se stante, quanto piuttosto come il secondo momento di un unico processo conciliare. La riforma liturgica promossa da SC doveva,

8

Cfr. R. TAGLIAFERRI, Rileggendo la “Sacrosanctum concilium”, cit., 38. R. GUARDINI, Lettera su “l’atto di culto e il compito della formazione liturgica” (1964), in Humanitas 20 (1965) 85. 9


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nella sua applicazione, tradurre lo spirito del Vaticano II nella prassi ecclesiale e nella vita del popolo di Dio. Non è possibile giungere ad una sua corretta interpretazione di SC se si fa astrazione dalla “riforma liturgica” che ne è seguita e che costituisce la sua prima recezione. La SC è all’origine della riforma liturgica, ma il modo in cui la riforma liturgica si è attuata “interpreta” concretamente la SC, la cui comprensione della riforma è, dunque, connessa con le reazioni suscitate alle prime applicazioni della riforma che essa comandava di eseguire10. Per alcuni i contenuti e le indicazioni della SC apparivano addirittura deludenti o, comunque, bisognosi di una verifica, per altri il documento conteneva idee troppo innovative e progressiste. Nel gennaio del 1964, il processo di rinnovamento liturgico, che doveva essere condotto alla luce dei principi e delle linee direttive contenuti nella costituzione, fu affidato per volontà di Paolo VI ad un organismo speciale, costituito da vescovi e da esperti, denominato Consilium ad exequendam constitutionem liturgicam. Nel giro di dieci anni circa il consilium concludeva il suo lavoro potendo pubblicare in edizione tipica latina quasi tutti i libri liturgici. Sarebbe stato compito delle conferenze episcopali nazionali provvedere alle traduzioni e agli adattamenti nelle varie lingue e alle rispettive pubblicazioni, previo l’imprimatur della Santa Sede (cfr. SC 37-40). Tutta la vicenda della riforma liturgica e della recezione di SC non è certamente solo questione di traduzioni dei libri liturgici in edizioni rinnovate, né tanto meno di pubblicazioni di documenti magisteriali in materia di applicazione della riforma. Molti cambiamenti esteriori, infatti, non hanno provocato quella nuova ondata di rinnovamento interiore che anche Giovanni XXIII aveva auspicato. Il concilio — scrive G. Dossetti — «vuole conversione e non semplice adeguazione storica. Una conversione che avviene anche attraverso i rinnovamenti istituzionali e sociologici,

10 A. CATELLA, Luci e ombre della recezione di “Sacrosanctum concilium” in Italia: livello della riflessione, livello della prassi, in CRO 98 (1997) 6.


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ma principalmente soprattutto ed essenzialmente, opera nell’intimo, per la forza dello Spirito santo che ringiovanisce la chiesa con l’evangelo. Cioè il ringiovanimento di spirito e di conversione, nel ritorno sempre più profondo e più radicale dell’evangelo. Molte volte sia dai singoli cristiani, sia dalla gente di fuori, il ringiovanimento della chiesa è inteso come una specie di annacquamento dell’evangelo. Invece il ringiovanimento della chiesa non può avvenire altro che per una concentrazione sempre più radicale della chiesa sull’evangelo; senza mediazioni attenuatrici, un misurarsi del cristiano e della chiesa, un riformarsi dell’uno e dell’altro sempre di più al cospetto dell’evangelo11».

Lo scopo principale della riforma era quello di favorire una maggiore comprensione e attiva partecipazione del popolo alla vita liturgica della chiesa. Ed è proprio nell’accoglienza positiva della “nuova” liturgia da parte dei fedeli di ogni dove che si può trovare un primo giudizio sulla SC. Fu tanta e tale l’eccitazione con la quale veniva accolta l’innovazione, che si pensò di aver risolto tutti i problemi o che, in ogni caso, essi fossero di facile soluzione. È da rilevare anche che quel movimento di opposizione che si era manifestato durante il concilio in una parte minoritaria dei padri, crebbe durante il postconcilio dinanzi all’avanzare della riforma e si espresse anche attraverso attacchi violenti contro i principali responsabili del rinnovamento, nonché contro lo stesso Paolo VI. Purtroppo una punta estrema di questa dura opposizione, capeggiata dal vescovo mons. Lefebvre, arrivò fino alla rottura definitiva col pontefice e con la chiesa cattolica, trascinando nello scisma alcune comunità cristiane di stampo tradizionalista. Coloro che si espressero così duramente contro l’opera di rinnovamento ecclesiale, che passava soprattutto attraverso la riforma liturgica, mostrarono ignoranza verso ciò che più sta a cuore alla chiesa: dare al popolo di Dio la possibilità di esprimere la propria fede celebrandola durante la liturgia. Resta da dire che coloro che ancora oggi si oppongono al progetto di rinnovamento ecclesiale propugnato dal Vaticano II, rappresentano, quantitativamente, una minoranza esigua di fronte

11

G. DOSSETTI, Per una «chiesa eucaristica», 12.


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alla stragrande maggioranza di coloro che, invece, hanno aderito alla riforma. Oggi, a distanza di cinquant’anni dalla SC, nonostante molto resti ancora da compiere, si può affermare che siamo veramente dentro un contesto ecclesiologico nuovo. Quelli che non abbiamo vissuto la situazione preconciliare forse non ci rendiamo conto di quali cambiamenti nella prassi ecclesiale sia stata foriera la riforma liturgica promossa da SC. Tuttavia, questo breve arco di tempo che è trascorso — breve perché la recezione o assimilazione di un testo conciliare si misura sempre sui tempi lunghi — consente di fare soltanto un bilancio provvisorio. È anzitutto innegabile che il rinnovamento postconciliare della chiesa è passato soprattutto grazie alla riforma liturgica, per mezzo della quale è stato possibile raggiungere tutti, anche il cristiano medio. È allora legittimo chiedersi se e fino a che punto le idee e la dottrina presenti nella SC siano state applicate e abbiano innescato un vero e proprio movimento di recezione, un vero rinnovamento ecclesiale. In questo senso, una prima considerazione degna di nota è il fatto che l’entusiasmo degli inizi è sfumato. Con l’andar del tempo la spinta della “novità”, che aveva suscitato interesse e acceso speranze spesso eccessive, è andata sempre più affievolendosi. «Si parla molto di concilio ma non ci si crede più»12. Certo tanto lavoro è stato fatto, ma molte mete restano ancora da raggiungere. In realtà, mi sembra di poter affermare, che non è ancora avvertita, a tanti livelli, la consapevolezza che la liturgia è il momento per eccellenza in cui il Risorto visita la sua chiesa, il luogo in cui il credente può conoscere la chiesa facendone vitale esperienza, può sentirsi chiesa, membro di una comunità di fratelli redenti e amati dal Signore, può attingere la grazia che lo sprona a vivere la sua testimonianza di fede nel mondo. È ancora troppo diffusa l’idea della liturgia come rubricismo o semplice cerimoniale. In altre parole, la liturgia non appare ancora come la fonte e il culmine di tutta la vita della chiesa. A livello teorico si ha coscienza che il rinnovamento ecclesiale

12

ID., Conversazioni, Milano 1994, 21.


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passa attraverso il rinnovamento liturgico. Ma quando si passa dalla teoria alla prassi è facile constatare come la pastorale sia imperniata su altri elementi, come la catechesi, la testimonianza della carità, l’impegno nelle realtà socio-politiche. Non è ancora passata l’idea che per poter essere lievito che fa fermentare la massa è necessario ritornare al primato dell’esperienza di Dio sul semplice fare. Prima di tutto Dio; è questo lo slogan che il concilio manifesta affidando l’inizio dei lavori alla liturgia. Quando lo sguardo a Dio non è al primo posto, tutto il resto perde il proprio orientamento. La sentenza della Regola benedettina «Nulla deve anteporsi al culto divino» (Regula Benedicti, 43, 3) vale in modo speciale per il monachesimo certo, ma ha anche importanza rispetto all’ordine delle priorità per la vita stessa della Chiesa e per quella di ciascuno in particolare secondo il proprio stato di vita. Con la medesima chiarezza Paolo VI si è espresso nel discorso di promulgazione di questo importantissimo documento, quando disse: «[Con l’approvazione di questa Costituzione] ravvisiamo infatti che è stato rispettato il giusto ordine dei valori e dei doveri: in questo modo abbiamo riconosciuto che il posto d’onore va riservato a Dio; che noi come primo dovere siamo tenuti ad innalzare preghiere a Dio; che la sacra Liturgia è la fonte primaria di quel divino scambio nel quale ci viene comunicata la vita di Dio, è la prima scuola del nostro animo, è il primo dono che da noi dev’essere fatto al popolo cristiano, unito a noi nella fede e nell’assiduità alla preghiera; infine, il primo invito all’umanità a sciogliere la sua lingua muta in preghiere sante e sincere ed a sentire quell’ineffabile forza rigeneratrice dell’animo che è insita nel cantare con noi le lodi di Dio e nella speranza degli uomini, per Gesù Cristo e nello Spirito Santo. […] Sarà dunque utile far tesoro di questo risultato del nostro Concilio, come di quello che deve animare e in un certo senso caratterizzare la vita della Chiesa».

«La liturgia è poco amata perché non induce a far niente, in un certo senso smobilita anche nell’attitudine di fare il bene, chiedendo solo di fare spazio all’Altro, a Dio»13.

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R. TAGLIAFERRI, Rileggendo la “Sacrosanctum concilium”, cit., 40.


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Mi sembra di poter individuare in questi atteggiamenti la sfida che oggi si pone davanti alla recezione della SC e della riforma ecclesiale in generale: 1. una certa diffusa disaffezione verso la liturgia e tutto ciò che sa di attinenza al culto e al rito, avvertiti spesso come puro formalismo e vuota esteriorità, 2. il silenzio che è calato su alcune tematiche care alla costituzione come per esempio: a. al tema della liturgia come peculiare momento dell’economia salvifica, per cui essa è culmen et fons, b. al ruolo dei laici nella liturgia, c. all’intima connessione tra parola e sacramento che esige una nuova mentalità pastorale, silenzio che porta inevitabilmente ad una sua recezione formale, a un certo ritorno al tradizionalismo. «Stupisce che vi siano ancora nostalgici della messa di san Pio V, e ancora di più la facilità con cui certe autorità romane autorizzano questi nostalgici a dire la messa del vecchio messale al posto di quello di Paolo VI e del Vaticano II»14. Non è raro, oggi, sentir rivolgere verso il Vaticano II, soprattutto da parte di giovani presbiteri, l’accusa della scomparsa del senso del mistero nella liturgia e della sacralità nella vita cristiana. È questa un’accusa vecchia e inconsistente. Il mistero, in senso biblico, non è ciò che non si comprende. La riforma liturgica promossa dal Vaticano II ha ricollocato, al centro della liturgia, il vero mistero: la morte e la risurrezione di Cristo. E, sempre grazie alla riforma liturgica, è stato ribadito con forza che non è la sacralità ma la santità il tipico valore cristiano. Come altri documenti conciliari, la SC può essere ormai superata in alcune sue posizioni, tuttavia il processo di recezione ecclesiale che ha innescato, di certo non ancora concluso, rimane un cantiere aperto in cui vale la pena di ritornare ad impegnare le proprie energie. Questo è, in ultima analisi, il messaggio sempre nuovo di SC: per

14 P. VISENTIN, Radici e significato della riforma liturgica nella coscienza e nella prassi della chiesa, in CrO 98 (1997) 47.


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rilanciare il rinnovamento della prassi ecclesiale, bisogna ripartire proprio dalla liturgia15. «La liturgia non è tutto nella chiesa, ma non se ne può fare a meno se si vuole vivere la creatività dello Spirito. Questo è un principio pastorale del Vaticano II che si può interpretare in senso minimalista, con gli attuali esiti deludenti, o invece far esplodere nella sua consistenza simbolica come raro spazio concesso all’uomo per un’anticipazione fragile del Regno16».

15 A. Melloni spiega che il ritorno alla liturgia spesso «ha prodotto impreviste involuzioni neoritualiste, ritorni neodevozionali […], ribellismi narcisisti di chi pensa di poter “disporre” del segno e del gesto come di un gusto». Mentre ritornare alla liturgia secondo lo spirito del Vaticano II significa compiere quegli sforzi per far dialogare liturgia e culture locali, «perché la costituzione SC ha ricreato il circuito vitale fra liturgia e vita della chiesa, fra mistero e storia: che la chiesa determinasse la liturgia, per riconoscerne gli elementi oggettivi e immutabili, era un dato acquisito; ma che la liturgia, nel modo in cui si dà, descriva e determini la chiesa nel suo sviluppo è questione che ancora oggi, a quarant’anni di distanza, suscita passioni e allarmi». Il proliferare di interventi magisteriali in materia liturgica sembrerebbe frenare il lievito di rinnovamento che è stato innescato dalla riforma liturgica promossa da SC. «Il punto non è — continua ancora Melloni — il gusto per l’innovazione scapestrata o la ricerca di un equilibrio “politico” fra conservazione e cambiamento: tali effervescenze e fatiche si sono esaurite nel primo decennio postconciliare e oggi non hanno nerbo. Il nodo è istituzionale: riguarda chi è il custode del celebrare e cosa è custodito dal celebrare. SC, nell’assegnare tante responsabilità alle conferenze episcopali, non aveva solo applicato un principio politico di sussidiarietà nella gestione del potere ecclesiastico e tanto meno s’era limitata a sottrarre competenze agli organi romani per un gusto democratizzante figlio della cultura del tempo. La costituzione distribuiva compiti per “lingua” perché riconosceva che la chiesa era e non poteva non essere varietà di vite e di persone, di luoghi e di storie alle quali dovevano rispondere organi di comunione chiamati a interpretare tempi e culture condivise, di cui il vescovo singolo è espressione, ma di cui non può essere interprete fuori da una logica di comunione» (A. MELLONI, “Sacrosanctum concilium” 19632003. Lo spessore storico della riforma liturgica e la ricezione del Vaticano II, in RLIT 6 [2003] 910-914). 16 R. TAGLIAFERRI, Rileggendo la “Sacrosanctum concilium”, cit., 42.


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LA RICEZIONE DELLA SACROSANCTUM CONCILIUM NEL CODEX JURIS CANONICI DEL 1983

GIUSEPPE GURCIULLO*

PREMESSA Il Diritto canonico non può concepirsi senza un contenuto che sia anche teologico1. La Canonistica2, tuttavia, non è la fonte di produzione di questa sua dimensione sostanziale, oggetto del proprio sapere e operare. Tale compito è demandato alla riflessione teologica che definisce le verità di fede, le quali sono da intendersi in senso assoluto, per loro natura immutabili, quantunque con valenza generica. Queste definizioni dottrinali sono ricevute dalla Canonistica come postulati pre-giuridici, regole informanti, paradigma e offerte alla vita pastorale della Chiesa, come canones, ma solo dopo la loro «espressione razionale e tecnica propria del linguaggio giuridico»3 o, in altri termini, dopo quel processo prettamente giuridico di loro traduzione in linguaggio canonistico4. In questo senso, la Canonistica, si qualifica come scienza ricettiva

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Docente di Diritto canonico presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr. P. ERDÖ, Teologia del Diritto canonico. Un approccio storico-istituzionale, Torino, 1996, 7. 2 La Scienza di riferimento di tutto ciò che ha valore giuridico nella Chiesa. 3 PAULUS PP. VI, Allocutio: Ad Praelatos, Auditores et Officiales Tribunalis Sacrae Romanae Rotae, a Beatissimo Patre novo litibus iudicandis ineunte anno coram admissos, 28 ianuarii 1972, in AAS, LXIV (1972), 204. 4 Cfr. IOANNES PAULUS PP. II, Constitutio Apostolica: Sacrae Disciplinae Leges, 25 ianuarii 1983, in AAS, LXXV (1983), II, XI. 1


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nei confronti dell’operato dei teologi e, al tempo stesso, di mediazione a favore della vita pastorale, in quanto strumento tecnico teso a fornire una chiara normativa funzionale in vista dell’efficacia missionaria della Chiesa5. Tale processo — strumentale o funzionale che dir si voglia — è perfettamente significato da quell’immagine che vede la vita ecclesiale come un pendolo in continua oscillazione tra la riflessione teologica e la dimensione pastorale, con la Canonistica collocata al centro di tale movimento. Quest’ultima sarebbe così interessata da un doppio moto: in un verso, riceverebbe i contenuti dalla Teologia, per trasmetterli in modo oggettivo e stabile alla vita pastorale; in senso inverso, come avviene per altro propriamente in un moto oscillatorio che contempla anche l’onda di ritorno, accoglierebbe le sfide sempre nuove, le problematiche concrete, che sorgono in ambito pastorale, dalla missione appunto, e che, necessitando di risoluzioni secondo l’ortodossia della fede, sono trasmesse alla riflessione teologica perché siano dogmaticamente approfondite, definite e risolte6. In altre parole, visto che la fede richiede l’intelligenza (fides quaerens intellectum), la Canonistica si serve dell’operato della Teologia che indaga e illumina i misteri della Rivelazione, contribuendo così ad arricchire il Depositum fidei; dall’altro, dato che la stessa fede richiede anche l’azione (fides quaerens actionem), la riflessione teologica si serve della Canonistica, che offre alla dimensione pastorale, precise norme di condotta per orientare e rendere stabili le azioni pratiche della Chiesa7.

5

«Il Diritto della Chiesa è orientato a valori che costituiscono la comunità dei cristiani, oppure sono necessari o utili per la vita di questa. La norma di Diritto canonico deve configurare questi valori in modo da rendere possibile alla comunità di appropriarsene nella prassi. Questo fatto determina la relazione tra Diritto canonico e Teologia». P. ERDÖ, Teologia del Diritto canonico, 41. 6 Cfr. P. GHERRI, Quali istanze istituzionali pone oggi la pastorale al modo in cui comprendere e vivere il cammino di iniziazione cristiana? Prospettiva canonistica, in G.I.D.D.C. (cur.), Iniziazione cristiana: Confermazione ed Eucarestia (Quaderni della Mendola). XXXV incontro di studio (Hotel Planibel di La Thuille, 30 giugno-4 luglio 2008), Milano, 2009, 111-114 7 Cfr. P. ERDÖ, Teologia del Diritto canonico, 41.


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1. CONCEZIONE DI LITURGIA NEL CJC DEL ’83 Alla luce di tale premessa, non sarebbe né giustificabile né fondato pensare che la concezione di Liturgia sottesa all’attuale Codice, promulgato nel 1983, non tenga in debita considerazione l’approfondimento della sua natura teologica, quale Scienza strettamente legata all’ecclesiologia di comunione, così come proposto dalle sollecitazioni teologiche del movimento liturgico del XX secolo e definita nell’ultima riflessione conciliare confluita in Sacrosanctum Concilium. Pensarla diversamente, significherebbe continuare a sostenere che il Diritto canonico, ed il suo Codice, mantengano un’impostazione rubricista che svilisce, di conseguenza, la visione teologica della Liturgia8. A detta di qualche autore, una tale critica, semmai dovesse essere stata formulata seriamente, dovrebbe essere considerata solo il frutto di quella fobia da giuridicismo, a causa della quale alcuni liturgisti, dimentichi che qualunque forma di antigiuridicismo ecclesiale non è un atteggiamento conforme né al dogma, né all’ortodossia della fede9, guarderebbero ai canonisti con la preoccupazione che l’operato di questi ultimi produca un inaridimento e una tecnicizzazione della ricchezza del culto10. Il concetto di liturgia che l’attuale codice recepisce, in conformità a quanto scrisse Giovanni Paolo II nella Sacrae Disciplinae Leges: «il Codice corrisponde in pieno alla natura della Chiesa, specialmente 8

Cfr. B. ESPOSITO, Il rapporto del Codice di Diritto canonico latino con le leggi liturgiche, in Angelicum 82 (2005) 175-176. L’orientamento teoretico e la sensibilità scientifica di quei canonisti che condividono le considerazioni fatte in premessa, permettono di superare quella deriva riduzionistica della loro Scienza quale parte della teologia pratica, improntata al metodo esegetico del Codice e finalizzata a dare, con fare rubricista, indicazioni solo formali all’agire del cristiano (Cfr. P. GHERRI, Teologia del Diritto: il nome di una crisi?, in Ius Canonicum, XLIII [2003], 249-299). 9 Cfr. M. DEL POZZO, La dimensione giuridica della Liturgia, in AA.VV., Diritto e Liturgia (Quaderni della Mendola). XXXVIII Incontro di Studio (Centro Pio X – Borca di Cadore, 27 giugno – 1 luglio 2011), Milano, 2012, 52. 10 Cfr. J. HERRANZ, Crisi e rinnovamento del Diritto nella Chiesa, in AA. VV., Ius in vita et in missione Ecclesiae, Acta Symposii inmternationalis iuris canonici occurrente X anniversario promulgationis Codicis iuris canonici, diebus 19-24 aprilis 1993 in Civitate Vaticana celebrati, Città del Vaticano, 1994, 29-54.


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come viene proposta dal magistero del Concilio Vaticano II»11, è senz’altro quello conciliare12. Il secondo canone del CJC ’83, infatti, in conformità al n. 7 di Sacrosanctum Concilium: «[...] la liturgia è ritenuta quell’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo mediante il quale con segni visibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale», ai tradizionali termini riti, cerimonie e funzioni, del vecchio Codice, per trattare la materia liturgica, preferisce infatti quello di celebrazione delle azioni liturgiche. Tale terminologia dimostra che l’attuale Codice è passato «da una concezione e da una prassi essenzialmente statica e formalistica della Liturgia, come complesso di riti e cerimonie da osservarsi scrupolosamente, pena la loro illiceità o invalidità, con risvolti a livello di responsabilità giuridica e morale, a quello di azione sacra, attraverso la quale, con dei riti, nella Chiesa e mediante la Chiesa, viene esercitata e continuata la fedeltà all’opera sacerdotale di Cristo, cioè la glorificazione di Dio e la santificazione degli uomini»13. Tenuto conto di ciò, la dimensione propriamente tecnica del linguaggio giuridico, attraverso la quale le norme si esprimono, fornendo precise e puntuali indicazioni circa i requisiti esigiti ad validitatem e ad liceitatem di ogni forma celebrativa, pertanto, non dovrebbe indurre ad affermare uno stile rubricista del Codice14. Dovrebbe, piuttosto, far prendere consapevolezza che lo strutturale formalismo del Codice serve a tutelare e a garantire la trasmissione 11

IOANNES PAULUS PP. II, Constitutio Apostolica: Sacrae Disciplinae Leges, II, XI. Se così non fosse, si dovrebbe necessariamente attribuire un agire ‘schizofrenico’ al successore di Pietro che — ovviamente in anni diversi e con la titolarità dell’ufficio affidata a persone differenti — ha promosso ed approvato la riforma liturgica, promulgato la Costituzione dogmatica Sacrosanctum Concilium e l’attuale Codice di Diritto canonico. Significherebbe, inoltre, che il Sommo Pontefice, con pronunciamenti e atti tra loro discordanti o addirittura in contraddizione, sia incorso in una grave incoerenza agendi e avrebbe minato la linearità dottrinale del magistero supremo. 13 B. ESPOSITO, Il rapporto del Codice di Diritto canonico latino con le leggi liturgiche, in Angelicum 82 (2005) 159. 14 Cfr. ibid., 176. 12


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del suo contenuto sostanziale, in diverse occasioni anche di natura teologico-liturgico. Spirito e forma nel Diritto vanno sempre coniugati insieme, altrimenti si favorirebbe una visione solo idealistico-trascendentale dell’esperienza cristiana, non si renderebbe un vero servizio né al fedele né alla Chiesa e la Canonistica tradirebbe la propria natura di scienza giuridica (deontica), avente oggetto e metodo giuridici e presupposti teologici (ecclesiologici-sacramentali)15. Il linguaggio propriamente giuridico non svilisce i contenuti. Non mette in discussione la natura della sua dimensione sostanziale. Il Diritto canonico, attraverso la sua missione di assicurare la validità e la liceità minimale delle celebrazioni e dei sacramenti, fa da barriera e garanzia proprio contro il rubricismo. 2. LA RICEZIONE DELLA SACROSANCTUM CONCILIUM NEL CJC DEL ’83 Durante i lavori di revisione dell’attuale Codice, la Sacrosanctum Concilium è stata tenuta in considerazione per la redazione di circa un centinaio di canoni. È una mole di leggi piuttosto importante e certamente non è un dato da sottovalutare se si tiene conto del fatto che il CJC del ’83 non è un codex liturgicus e che, tra l’altro, l’onere di disciplinare la materia liturgica è stato demandato ad altri documenti magisteriali16. 15 Cfr. G. DALLA TORRE, Lezioni di Diritto canonico, 2ª ed., Torino, 2004, 25-27; M. VISIOLI, Il Diritto canonico nella vita della Chiesa, in G.I.D.D.C. (cur.), Corso istituzionale di Diritto canonico, Milano, 2005, 44; P. GHERRI, Lezioni di Teologia del Diritto canonico, Roma, 2004, 124. Questo è quanto si può desumere, tra l’altro, dai contributi pubblicati nella rivista Concilium, dove, pur sostenendosi il legame tra Teologia e Diritto canonico, non si fonda teologicamente la natura del Diritto della Chiesa. Anzi — in opposizione all’impostazione di pensiero della scuola tedesca — proprio secondo la convinzione che teologizzando il Diritto canonico si arriverebbe ad immobilizzare le verità teologiche, trasmettendo di conseguenza questa stessa immobilità alla pastorale, la quale diventerebbe a sua volta moralistica e giuridicista, si pronuncia con uno slogan che qualificherà tutta la sua linea di pensiero: “de-teologizzare il Diritto” (Cfr. ÉDITORIAL, in Concilium, I [1965], 8, 7-9. Si cita l’Éditorial della sezione di Diritto canonico dell’edizione francese di Concilium in quanto questo contributo non è stato inserito nell’edizione italiana della medesima rivista). 16 Tra i tanti libri liturgici, nella editio typica latina, che hanno riformato la


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Dal confronto del contenuto di tale mole di canoni con il documento conciliare sulla Liturgia è ben chiara la ricezione di alcuni punti fermi che sono stati alla base di tutta la riforma liturgica succeduta al Concilio Vaticano II. Tra questi: la chiarificazione della natura teologica della liturgia; l’importanza della Parola di Dio; la connessione tra liturgia e Chiesa; la dimensione culturale della liturgia. Si tratta di principi direttivi applicati tanto in quella parte di norme di carattere generale17 che in quelle più specifiche che trattano: l’Eucarestia18, i Sacramenti in genere19, il Sacramento dell’Ordine20, i Sacramentali21, la professione religiosa22, i riti funebri23, l’ufficio

materia liturgica, dalla Sacrosanctum Concilium fino ad oggi, si ricordano: Kyriale simplex (1969); Cantus in Missali Romano (1964); Ordo Missae (1965); Ritus celebrationis et communionnis sub utraque specie (1965); Variationis in ordinem hebdomadae sanctae (1965); De oratione communi seu fidelium (1966); Variationes in ordinem Missae inducendae (1967); De ordinatione Diaconi, Presbyteri et Episcopi (1968); Ordo celebrandi matrimonium (1969); Missale Romanum (1969); Ordo Baptismi parvulorum (1969); Ordo benedictionis abbatis et abbatissae (1970); Officium divinum: Liturgia horarum (1970); Ordo confirmationis (1970); Ordo initiationis christianae adultorum (1972); Ordo cantus missae (1972); Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae (1972); De institutione lectorum et acolitarum (1973); Ordo Paenitentiae (1973); Missale Romanum – ed. typica altera (1975); Ordo dedicationis ecclesiae et altaris (1977); Ordo lectionum Missae, ed. typica altera (1981); Caerimoniale Episcoporum (1984); De benedictionibus (1984); Passio Domini nostri Iesu Christi (1986); Pontificalis Romani de ritu ordinationis episcopi, presbyterorum et diaconorum, ed. typica altera (1990); Ordo celebrandi matrimonium, ed. typica altera (1990); De exorcismis et supplicationibus quibusdam (1998); Ordo Missae, Institutio generalis Missalis Romani, ed. typica tertia (2002); Martyrologium Romanum, ed. typica altera (2004). Per un ulteriore approfondimento si consultino le raccolte di libri liturgici: CENTRO AZIONE LITURGICA, Enchiridion Liturgico. Tutti i testi fondamentali della liturgia tradotti, annotati e attualizzati, Casale Monferrato, 1989; R. KACZYNSKI, Enchiridion documentorum instaurationis liturgicae, I-II-III vol., Torino, 1976-1997. 17 Cfr. SC, 24; 27; 28-46. 18 Cfr. SC, 47-58. 19 Cfr. SC, 59-78. 20 Cfr. SC, 76. 21 Cfr. SC, 79. 22 Cfr. SC, 80. 23 Cfr. SC, 81.


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divino24, l’anno liturgico25, la musica sacra26, la legislazione sull’arte sacra27, l’uso delle insegne pontificali28. Seguendo l’ordine di successione dei libri dell’attuale Codice, questi principi riformatori sono stati tenuti in considerazione per la redazione dei canoni del II, III e IV libro29. Nel II, il De Populo Dei, per la redazione dei canoni riguardanti: a) le norme previe sui fedeli in genere; b) gli obblighi e i diritti comuni dei christifideles; c) la 24

Cfr. SC, 83-101. Cfr. SC, 102-111. 26 Cfr. SC, 112-121. 27 Cfr. SC, 122-129. 28 Cfr. SC, 130. 29 Il riferimento alla Sacrosanctum Concilium per la redazione dei canoni di questi libri del Codice è stata desunta da uno studio di: A. GUTIÉRREZ, Leges Ecclesiae post Codicem iuris canonici editae, VII, Romae, 1994, 10078-10395. Per ogni canone di seguito indicato si dà il riferimento conciliare. Nel Libro II: can. 206, § 2 (SC, 64); can. 213 (SC, 19); can. 214 (SC, 4); can. 252, § 3 (SC, 16-17); can. 254, § 1 (SC, 16); can. 382, § 4 (SC, 41); can. 389 (SC, 41); can. 515, § 1 (SC, 42); can. 528, § 1 (SC, 35; 52); can. 528, § 2 (SC, 42; 59); can. 543, § 1 (SC, 35; 42; 52; 59); can. 619 (SC, 19). Nel Libro III: can. 767, § 1 (SC, 35; 52); can. 767, § 2 (SC, 52); can. 767, § 3 (SC, 49); can. 771, § 2 (SC, 9); can. 777, n.1 (SC, 14); can. 788, § 1 (SC, 64); can. 826, § 1 (SC, 22,2; 36; 38; 40). Nel Libro IV: can. 835, § 1 (SC, 41); can. 835, § 4 (SC, 26-31); can. 836 (SC, 9-11; 3336; 59); can. 837, § 1 (SC, 26-32); can. 837, § 2 (SC, 14; 26; 27; 48); can. 838, § 1 (SC, 22,1); can. 838, § 2 (SC, 36); can. 838, § 3 (SC, 22,2; 36; 3-4; 39; 40); can. 838, § 4 (SC, 22); can. 839, § 1 (SC, 12; 13); can. 840 (SC, 6; 7; 14; 26-28; 59); can. 842, § 2 (SC, 71); can. 843, § 2 (SC, 19); can. 846, § 1 (SC, 22,3; 63); can. 846, § 2 (SC, 4); can. 851 (SC, 64; 67); can. 853 (SC, 70); can. 881 (SC, 71); can. 898 (SC, 48); can. 899, § 2 (SC, 14; 26; 33); can. 899, § 3 (SC, 47); can. 902 (SC, 57); can. 904 (SC, 2; 27); can. 907 (SC, 28); can. 918 (SC, 55); can. 925 (SC, 55); can. 928 (SC, 36; 54); can. 960 (SC, 72); can. 1000, § 1 (SC, 75); can. 1001 (SC, 73); can. 1004, § 1 (SC, 73); can. 1027 (SC, 129); can. 1029 (SC, 9); can. 1063, 3° (SC, 19; 59; 77); can. 1119 (SC, 78); can. 1120 (SC, 77; 78); can. 1166 (SC, 60); can. 1167, § 1 (SC, 63; 79); can. 1168 (SC, 79); can. 1169, § 2 (SC, 79); can. 1173 (SC, 83; 84); can. 1174, § 1 (SC, 95-98); can. 1174, § 2 (SC, 100); can. 1175 (SC, 88; 89; 94); can. 1186 (SC, 103; 104; 111); can. 1188 (SC, 111; 125); can. 1190, § 3 (SC, 126); can. 1192, § 1 (SC, 80); can. 1210 (SC, 124-128); can. 1216 (SC, 123-128); can. 1220, § 1 (SC, 122; 124); can. 1220, § 2 (SC, 126); can. 1234, § 2 (SC, 124); can. 1246, § 1 (SC, 102; 106-108); can. 1247 (SC, 106); can. 1248, § 2 (SC, 35 n. 4); can. 1250 (SC, 110). 25


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formazione dei chierici; d) i Vescovi diocesani; e) le parrocchie e i parroci; f) i Superiori e i loro consigli. Nel III, il De Ecclesiae munere docendi, per la redazione dei canoni che trattano: a) la predicazione della Parola di Dio e l’istruzione catechetica; b) l’azione missionaria della Chiesa; c) gli strumenti di comunicazione sociale e in specie i libri. Nel IV, il De Ecclesiae munere santificandi, per la redazione dei canoni su: a) la Sacra Liturgia; b) i Sacramenti in genere; c) il Battesimo; d) la Confermazione; e) la Santissima Eucarestia; f) la Penitenza; g) l’Unzione degli infermi; h) l’Ordine sacro; i) il Matrimonio; l) gli altri atti del culto divino; m) i luoghi e i tempi sacri. L’innovazione codiciale prodotta dalla ricezione di questi orientamenti dottrinali conferma il dato teoretico che la capacità ecclesiale di intendere il volere divino e di esprimerlo conseguentemente in norme, giuridiche e positive, è una capacità sottoposta all’evoluzione storica, cioè un’operazione assolutamente categoriale, in grado di produrre canones intrinsecamente relativi, provvisori, imperfetti e modificabili, dato lo scarto ineliminabile tra qualunque ideale, compreso quello evangelico, e il reale proprio della storia30. Allo stesso tempo, attesta che le norme canoniche, rispetto ai valori che tramandano nell’azione missionaria della Chiesa, hanno almeno una triplice valenza strumentale: conservatrice, profetica ed ecclesiale31. 30

«Relativo, in quanto legato ad una concreta situazione di vita in cui nasce e per cui nasce; provvisorio, perché soggetto ad essere trasceso dal futuro che irrompe nel presente; imperfetto, perché incapace a soddisfare ed esaurire in sé ogni esigenza dell’essere umano; modificabile, perché è proprio specifico del divenire della storia la novità che domanda un cambiamento». A. MARTINI, Il Diritto nella realtà umana, in G.I.D.D.C. (cur.), Il Diritto nel mistero della Chiesa, I, Roma, 19882, 41-42. 31 Conservatrice, in quanto la legge può arricchire le generazioni future preservando per loro il discernimento e la saggezza del passato, anche se conserva la comprensione di un valore così come esiste nel momento in cui la legge stessa è stata promulgata. Profetica, perché presentando ideali che la comunità è chiamata ad attuare e sfide che ne stimolano la crescita diviene innovativa, si protende al futuro e sollecita quanto di meglio vi è nella comunità, pur spronando la comunità a maggiore fedeltà. Ecclesiale, dato che ha una responsabilità unica nel suo genere: deve conservare la saggezza pastorale e i valori già acquisiti nel corso del pellegrinaggio del Popolo di Dio. Cfr. J. PROVOST – K. WALF, Diritto canonico e realtà della Chiesa, in Concilium XXII (1986) 3, 12-13.


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2.1. NEL II LIBRO DEL CJC DEL ’83 A fronte del n. 64 di SC, dove si legge: «si ristabilisca il catecumenato degli adulti, diviso in più gradi, da attuarsi a giudizio dell’Ordinario del luogo, in modo che il tempo del catecumentato, destinato ad una conveniente istruzione, sia santificato con riti sacri da celebrarsi in tempi successivi», con il can. 206, § 2, ripreso anche al can. 788, § 1, si è reintrodotto, nella iniziazione cristiana, il catecumenato degli adulti, inteso come quel cammino preparatorio al battesimo di coloro che non essendo ancora incorporati alla Chiesa, hanno tuttavia manifestato la propria volontà di esserlo32. In questo modo, il Codice recepisce l’intento dei Padri conciliari di riaffermare due ragioni principali: 1) recuperare la tradizione della Chiesa; 2) provvedere ad una adeguata formazione al sempre più crescente numero di adulti che si accostano al lavacro battesimale33. A favore di quest’ultimi, e soprattutto dei fedeli strictu sensu, cioè i battezzati, ai cann. 213 e 214 vengono formalizzate tre spettanze giuridiche in termini di diritti dei fedeli34, a cui corrispondono nel testo conciliare precisi doveri dei Pastori35: a) la ricezione dei beni spirituali della Chiesa, soprattutto la Parola di Dio e i sacramenti; b) la libertà di rendere 32 J. FORNÉS, Fieles cristianos, in AA.VV., Comentario Exegético al Código de Derecho canónico, II/1, Pamplona, 20023, 45. 33 Cfr. A. D’AURIA, Verso uno statuto per il catecumenato: il catecumenato e l’iniziazione cristiana degli adulti, in AA.VV., Iniziazione cristiana: profili generali (Quaderni della Mendola). XXXIV Incontro di Studio (Hotel Planibel di La Thuile, 26 luglio 2007), Milano, 2008, 110. 34 I diritti dei fedeli, alla luce del fatto che la Chiesa non permette la privatizzazione degli elementi da cui scaturisce la piena appartenenza alla comunità cristiana, ossia i vincoli della Professione di fede, dei Sacramenti e del Governo ecclesiastico (cfr. can. 205), dovrebbero essere detti piuttosto spettanze giuridiche dei fedeli, nel senso di mezzi concessi dalla stessa Chiesa per il bene spirituale e personale di ciascun fedele, e non come diritti soggettivi tout-court alla stregua di quelli fondamentali degli Ordinamenti secolari, espressione e strumento della massima emancipazione dell’individuo da ogni vincolo sociale o istituzionale di origine umana, quasi costituissero una sorta di privato dominio che il fedele possa autonomamente gestire e far valere erga omnes in senso democratico. Cfr. G. DALLA TORRE, Lezioni, 83. 35 Cfr. SC, 19; 4.


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culto a Dio secondo il proprio rito liturgico; c) seguire liberamente un proprio metodo di vita spirituale purché conforme alla dottrina della Chiesa. Riconoscere giuridicamente una tale ampiezza di libertà personale al fedele dimostra in maniera eccellente la veridicità e la fondatezza di chi scrive che il Diritto canonico di oggi è caratterizzato da una spiccatissima sensibilità personalista36. Circa la formazione dei chierici, così come dice la Sacrosanctum Concilium al n. 16 dove si legge: «Nei seminari e negli studentati religiosi, la sacra liturgia va computata tra le materie necessarie e più importanti; nelle facoltà teologiche poi tra le materie principali, e va insegnata sotto l’aspetto sia teologico e storico, che spirituale, pastorale e giuridico», ai cann. 252, § 3 e 254, § 1, si stabilisce l’insegnamento obbligatorio della liturgia durante il curriculum studiorum e si istituisce la figura del responsabile di tali studi, detto comunemente Prefetto degli studi. A quest’ultimo è affidato l’onere di garantire l’osservanza di tale norma e coordinare le varie discipline insegnate secondo un’ottica di intima unità e armonia. Circa l’edificazione del Popolo di Dio mediante le celebrazioni liturgiche e soprattutto per significare l’unità e la comunione tra il Pastore e il suo Popolo quale assemblea credente, il Codice, al can. 382, § 4, prevede che la presa di possesso canonico della diocesi da parte del Vescovo si svolga nell’ambito di un contesto celebrativo. Questo canone recepisce SC n. 2, dove si legge che la liturgia, «mentre ogni giorno edifica quelli che sono nella Chiesa in tempio santo nel Signore, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo, nello stesso tempo e in modo mirabile irrobustisce le loro forze perché possano predicare il Cristo; e così a coloro che sono fuori mostra la Chiesa come vessillo innalzato sui popoli, sotto il quale i dispersi figli di Dio possono raccogliersi, finché si faccia un solo ovile e un solo pastore»37. 36 Cfr. P. GHERRI, Diritto canonico, Antropologia e Personalismo, in P. GHERRI (ed.), Diritto canonico, Antropologia e Personalismo. Atti della II Giornata Canonistica Interdisciplinare (PUL, 6-7 marzo 2007), Città del Vaticano, 2008, 14. 37 SC, 2.


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Al can. 389, per garantire poi quella «particolare manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il Popolo santo di Dio in quelle celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucarestia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il Vescovo circondato dai suoi sacerdoti»38, si raccomanda ai Vescovi diocesani di presiedere frequentemente la celebrazione dell’Eucaristia nella propria chiesa cattedrale o in altra chiesa della propria diocesi, soprattutto nelle feste di precetto e nelle altre solennità. Nei confronti dei parroci, in ottemperanza al n. 59 di Sacrosanctum Concilium, dove si legge: «I sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del Corpo di Cristo e, infine, a rendere culto a Dio, in quanto segni, hanno poi anche la funzione di istruire. Non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono [...]. Conferiscono la grazia [...]», il can. 528, § 2 prescrive che la celebrazione dell’Eucaristica diventi il centro vitale della comunità parrocchiale. La partecipazione ad Essa, ai sacramenti e, in generale, a qualunque azione liturgica, dovrà essere ritenuta dagli stessi ministri di Dio indispensabile e funzionale alla vita soprannaturale dei fedeli. In tal senso vigilino perché nella propria comunità parrocchiale non si insinuino abusi nel modo di celebrare. Ai cann. 386; 528, §1; 619, in termini di doveri rivolti ai Vescovi diocesani, ai parroci e ai Superiori religiosi, sono recepite, in ultimo, le raccomandazioni conciliari di curare con zelo e con pazienza la formazione liturgica della porzione di Popolo di Dio loro affidata39. 2.2. NEL III LIBRO DEL CJC DEL ’83 Una più abbondante proclamazione della Parola di Dio nel contesto cultuale è stata una delle scelte più evidenti della riforma liturgica conciliare. In questo senso i padri conciliari sono pervenuti

38 39

SC, 41. SC, 19.


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ai convincimenti, di natura dottrinali, che dalla predicazione della parola di Dio: a) è resa manifesta la storia salvifica; b) è alimentata la fede dei cristiani; c) attingono significato i segni liturgici; d) trovano ispirazione e contenuto le preghiere e i canti40. Il libro III del CJC, dedicato al munus docendi, è quello che si è fatto carico di tali orientamenti dottrinali. Il primo principio teologico recepito quasi alla lettera al can. 767, §§ 1-3 è quello di SC n. 52, che «raccomanda vivamente l’omelia, che è parte della stessa azione liturgica; in essa, nel corso dell’anno liturgico, vengono presentati, dal testo sacro, i misteri della fede e le norme della vita cristiana. Nelle messe della domenica e dei giorni festivi con partecipazione di popolo, l’omelia non si ometta se non per grave motivo». Il predetto canone, tuttavia, aggiunge all’indicazione conciliare una riserva dell’omelia al sacerdote o al diacono41, a differenza di quanto si legge al can. 766 dove si tratta della predicazione in generale, alla quale possono essere ammessi anche i laici. Si tratta di una riserva esclusiva che non ammette eccezioni, tanto che la Pontificia Commissione per l’Interpretazione Autentica del Codice, il 26 maggio 198742, ha precisato che tale norma non contempla neanche la possibilità di essere dispensata da parte dei Vescovi diocesani e l’art. 3 dell’Instructio interdicasteriale su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti ha precisato che non è ammessa la prassi di affidare l’omelia né a seminaristi non ancora

40 Cfr. P. SORCI, La Sacrosanctum Concilium a trent’anni dalla promulgazione, in Ho Theológos 1 (1994), 47. 41 La riserva esclusiva dell’omelia al Ministro ordinato durante la celebrazione eucaristica è un dato affermato in diversi documenti magisteriali. Per un approfondimento, cfr.: IOANNES PAULUS PP. II, Adhort. Ap. Catechesi tradendae, 16 octobris 1979, in AAS, 71 (1979), 1227-1340; PONTIFICIA COMMISSIO DECRETIS CONCILII VATICANI II INTERPRETANDIS, Responsum, 11 ianuarii 1971, in AAS, 63 (1971), 329; SACRA CONGREGATIO PRO CULTU DIVINO, Instructio Actio pastoralis, 15 maii 1969, in AAS, 61 (1969), 809; ID., Instructio Liturgicae instaurationes, 15 septembris 1970, in AAS 62 (1970) 696; SACRA CONGREGATIO PRO SACRAMENTIS ET CULTU DIVINO, Instructio Inaestimabile donu, 3 aprilis 1980, in AAS 72 (1980) 331. 42 Cfr. PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Responsum, 26 maii 1987, in AAS 80 (1987) 1249.


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ordinati, né a sacerdoti o diaconi che in qualunque maniera abbiano abbandonato l’esercizio del sacro ministero. In questo senso, la stessa Instructio aggiunge che «si deve ritenere abrogata dal can. 767, § 1 qualsiasi norma anteriore che abbia ammesso fedeli non ordinati a pronunciare l’omelia durante la celebrazione della S. Messa»43. Lo stesso can. 767, al secondo paragrafo, recepisce la raccomandazione conciliare, tradotta in termini d’obbligatorietà, da non disattendere se non per grave causa, di tenere l’omelia nei giorni di domenica e nelle feste di precetto in tutte le celebrazioni eucaristiche con concorso di popolo. In questo senso si registra un ritorno al rigore proprio del Concilio di Trento44, diversamente dalle norme del CJC del ’17 che ai cann. 1344-1345 si pronunciavano in modo molto meno rigoroso rispetto alla necessità dell’omelia nelle stesse occasioni. L’annunzio della Parola di Dio, tuttavia, non può essere limitato ai soli fedeli ma deve necessariamente essere rivolto anche ai non credenti, come si legge in SC n. 9. In questo senso la Chiesa riafferma come propria causa e finalità imprescindibile, l’azione missionaria universale, affidando al can. 771, § 2 l’onere di non disattendere il dovere missionario proclamato e, di conseguenza, quella regola della Deontica secondo cui «ogni società ha la propria giustificazione, natura e funzione, ragion d’essere e principio normativo o norma originaria o fondamentale, nella propria finalità, secondo il principio della logica normativa: “il principio è il fine”. Ed il fine della Chiesa è la missione che Cristo le affidò: missione universale storica salvifica»45. Novità del Concilio in ambito liturgico, senza ombra di dubbio, per la grande utilità dei fedeli, è stata l’introduzione dell’uso delle lingue parlate nella celebrazione della Santa Messa e per l’amministrazione dei Sacramenti46. Il Codice recepisce tale orientamento al can. 826, § 2, non sancendo, tuttavia, che la competente autorità, a cui 43 Cfr. CONGREGATIO PRO CLERICI ET ALIAE, Instructio De quibusdam quaestionibus circa fidelium laicorum cooperationem sacerdotum ministerium spectantem, 15 augustii 1997, in AAS 89 (1997) 3, 864-865. 44 Cfr. CONCILIUM TRIDENTINUM, Sessio XXIV, can. 4. 45 T. JIMÉNEZ URRESTI, De la Teología a la Canonistica, Salamanca, 1993, 250. 46 Cfr. SC, 36.


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spetterebbero la traduzione e l’approvazione dei libri liturgici, dall’editio typica, in latino, nelle diverse lingue moderne, sia l’assemblea episcopale territoriale legittimamente costituita47. 2.3. NEL IV LIBRO DEL CJC ’83 Il Libro IV del Codice, il De Ecclesiae munere santificandi, è quello che più di tutti tratta la materia liturgica e, di conseguenza, la parte del Codice che ha maggiormente recepito le definizioni conciliari contenute nella Sacrosanctum Concilium. Per brevità espositiva si farà riferimento ai soli canoni introduttivi di questo libro e a quelli che trattano i Sacramenti in genere. L’intento di questa parte del Codice, a norma dei cann. 838 e 841, è quello di regolamentare, con un ruolo certamente prevalente sulle regole liturgiche, a norma del can. 2, gli aspetti più rilevanti del munus santificandi in relazione alla liturgia e ad altri strumenti con cui la Chiesa persegue la sua missione santificatrice: preghiere, penitenze e opere di carità. Poiché le azioni liturgiche «riguardano tutto il corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano»48, fin da subito il Legislatore universale si è preoccupato di affermare la dimensione comunitaria delle celebrazioni liturgiche nella Chiesa come Popolo santo, radunato e ordinato. Negli stessi termini utilizzati in SC n. 26, il can. 837, pone, pertanto, in risalto il carattere pubblico del culto liturgico, confutando qualunque sua connotazione privata. A tal proposito, le norme canoniche, prescrivendo il coinvolgimento di ogni fedele, vogliono garantire la funzione pubblica e comunitaria dell’azione liturgica, senza, tuttavia, tralasciare di affermare la diversità funzionale degli ordini, dei ministeri e dei vari servizi affidati agli stessi fedeli tenuto del loro stato di vita. A tal proposito, nella successione dei quattro paragrafi del can.

47 Cfr. SC, 22, 2; 36, 4. Il Legislatore, al can. 838, ha disposto, invece, che la previa approvazione delle versioni in lingua corrente dei libri liturgici, preparati dalle Conferenze Episcopali, è di competenza della Santa Sede. 48 SC, 26.


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835, si fa esplicito riferimento ai Vescovi, quali principali dispensatori dei misteri di Dio, moderatori, promotori e custodi di tutta la vita liturgica nella Chiesa loro affidata e, come è scritto in SC n. 41, grandi sacerdoti. Si continua citando i presbiteri, i diaconi e i fedeli laici. Di questi ultimi si fa esplicito riferimento ai genitori, che conducono una vita coniugale secondo lo spirito cristiano e attendono all’educazione cristiana dei figli, e, alla luce di SC n. 29, si fa accenno ai ministranti, ai lettori, ai commentatori, ai membri della schola cantorum. A garanzia di una partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa, il can. 836, recependo il contenuto di SC nn. 9-11; 33-36; 59 non tralascia di sottolineare che il culto cristiano, nel quale si esercita il sacerdozio comune, procede dalla fede e in essa si fonda. Ai ministri ordinati, pertanto, si raccomanda di provvedere assiduamente e con diligenza di ravvivare e illuminare tale virtù teologale. Agli stessi Ministri di Dio, il can. 846, in perfetta conformità a quanto si legge in SC n. 22, 3, sancisce l’obbligo di celebrare i Sacramenti, osservando fedelmente quanto prescritto nei libri liturgici approvati dalla competente autorità, senza aggiungere, togliere o mutare alcunché di propria iniziativa e di celebrarli secondo il proprio rito liturgico di appartenenza. CONCLUSIONE Dopo aver trattato, generatim saltem, la ricezione del documento conciliare Sacrosanctum Concilium da parte del CJC ’83, ritengo interessante riproporre le sfide in ambito liturgico contenute nella Nota pastorale della CEI sul rinnovamento liturgico in Italia a vent’anni dalla promulgazione della stessa costituzione conciliare49. I vescovi italiani, dopo aver espresso pieno compiacimento per l’edizione dei nuovi libri liturgici, pubblicati in breve tempo dopo il termine dell’assise conciliare e aver manifestato la medesima soddisfazione per il notevole favore incontrato dalla liturgia rinnovata,

49

1984.

Cfr. P. VISENTIN (cur.), La riforma liturgica in Italia. Realtà e speranze, Padova,


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segnalarono tre nodi irrisolti a loro giudizio gravi e ancora da attenzionare: 1) un rinnovamento interiore nel vivere il mistero liturgico non proporzionato rispetto alla riforma; 2) il rischio di un nuovo formalismo liturgico; 3) la passività di molte assemblee che non avrebbero preso coscienza della propria funzione nell’azione liturgica. Anche se sono passati diversi anni, circa trenta, da quando fu scritto tale documento, probabilmente, gli stessi tre nodi rimangono ancora delle sfide aperte. Se così fosse, sarebbe necessaria un’ulteriore riflessione comune da parte di teologi, liturgicisti e pastoralisti al fine di fornire al Legislatore nuove e precise indicazioni risolutive da trasmettere al concreto vissuto della Chiesa. Cosi facendo, verrebbe confermata quella dinamica, al tempo stesso, di ricezione e di mediazione, detta in premessa, propria della Canonistica, tramite la quale trovano il loro punto di incontro in sede normativa la riflessione teologica e il concreto vissuto della comunità ecclesiale per una più adeguata e pertinente azione legislativa che favorisca un’esperienza di fede piena e co-responsabilmente aperta alla Grazia.


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LA LITURGIA: SORGENTE E NORMA DELL’AGIRE MORALE SECONDO LA SACROSANCTUM CONCILIUM

SALVATORE CONSOLI*

Papa Francesco, in un messaggio scritto in occasione del 50° della promulgazione della Sacrosanctum concilium, ha affermato che «una liturgia che fosse staccata dal culto spirituale rischierebbe di svuotarsi, di decadere dall’originalità cristiana in un senso sacrale generico, quasi magico, e in un vuoto estetismo»: giacché “culto spirituale” significa una vita vissuta nel modo che piace a Dio, ne consegue che la liturgia è generatrice di morale. Quasi che non bastasse, aggiunge che la liturgia, essendo “azione di Cristo”, come insegna la Sacrosanctum concilium, «spinge dal suo interno a rivestirsi dei sentimenti di Cristo»1: l’inserimento sacramentale in Cristo comanda e rende possibile l’agire e il trasformarsi in Cristo, cioè l’etica della Sequela Christi. 1. IL CONTESTO IN BREVE 1. Gli scritti neotestamentari e, particolarmente, Giovanni e Paolo mettono in stretto rapporto battesimo, eucaristia e vita cristiana: i sacramenti, per Giovanni, consentono il “permanere” in Cristo come il tralcio con la vite, mentre per Paolo costituiscono l’indicativo di salvezza da cui scaturisce l’imperativo etico del cristiano. * Docente emerito di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Messaggio ai partecipanti al simposio “Sacrosanctum Concilium. Gratitudine e impegno per un grande movimento ecclesiale”, 18 febbraio 2014.


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Salvatore Consoli

Per i Padri della Chiesa la vita morale quotidiana dei cristiani consiste nell’incarnare gli atteggiamenti che scaturiscono dall’incontro sacramentale con Cristo, evento e dono salvifico: la loro catechesi precisa il contenuto di questo incontro salvifico e indica il significato per la vita quotidiana del sacramento celebrato, appunto per questo è detta mistagogica. Nel periodo successivo alla Scolastica, a motivo del distacco della teologia morale dalla dogmatica e della decadenza della liturgia, i manuali desumono le norme della vita cristiana quasi esclusivamente dal Decalogo, che, a sua volta, non viene visto nel contesto del dinamismo salvifico dell’Alleanza sinaitica. La trattazione manualistica dei sacramenti, tralasciandone la dimensione misterica, ne ha sottolineato quella giuridica: i sacramenti, cioè, vengono studiati e presentati non tanto come misteri di salvezza che diventano sorgente di vita nuova per i credenti, quanto piuttosto come “doveri” precisati dal diritto della chiesa; tra i molti doveri il fedele ha il dovere di ricevere i sacramenti. «Il moralista tipico vede la grazia come un mezzo per adempiere i comandamenti. Mette i comandamenti al primo posto e vede la differenza tra Antico e Nuovo Testamento nell’osservanza del decalogo. Nell’Antico Testamento mancava la grazia per osservare i comandamenti; ora, nel Nuovo Testamento, la grazia è sufficiente se si usano tutti i mezzi, i sacramenti e via di seguito. È un atteggiamento antropocentrico, moralistico, che considera la grazia di Cristo e, in fondo, Cristo stesso solo come mezzo per la legge, per i comandamenti. Ma il primato non è tenuto dalla legge, dai comandamenti… il primato spetta a nostro Signore, che ci viene incontro con la sua grazia e col suo amore esigente»2. 2. Grazie al lavoro, veramente prezioso, del movimento biblico e del movimento liturgico, i cui frutti sono stati recepiti dal Vaticano II, coi documenti conciliari si ha un ritorno alla concezione biblicopatristica: i doveri dei cristiani vengono fondati sui sacramenti, viene

2

B. HÄRING, Verso una teologia morale cristiana, Roma 1967, 112.


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recuperato il cristocentrismo sacramentale proprio della Tradizione, che imprime un carattere cristocentrico all’etica e un carattere pasquale che consiste nella conversione come superamento continuo dell’uomo vecchio. La teologia morale recupera il necessario rapporto con la liturgia: non è più pensabile una teologia morale che consideri i sacramenti come un gruppo di doveri o come aiuto per assolverli, essi debbono essere considerati come fondamento della vita morale cristiana e come sorgente delle norme: «ciò che è specifico della morale cristiana e ciò che la distingue da ogni altro sistema etico, è proprio il fatto che essa ha … nei sacramenti… origine, forma, norma, finalità»3. La Lumen gentium presenta i sacramenti come partecipazione ai misteri della vita di Cristo: la conformazione sacramentale richiede l’assimilazione morale, facilitata dal dono dello Spirito che aiuta e rende possibile la configurazione esistenziale a Cristo4. 3. Il Concilio si trova davanti un culto che si esaurisce nel momento rituale senza sfociare nella vita: «la fractio panis è ridotta a pura ‘dimensione rituale’ (che fa pena), quando mangiamo insieme il pane consacrato e, usciti di chiesa, continuiamo tutto come prima»5. E non esita a vedere nel distacco fede-vita, culto-vita una delle cause dell’ateismo e della areligiosità imperanti e lo annovera «tra i più gravi errori del nostro tempo» e lo qualifica come «scandalo»6: ne prospetta il superamento nella «sintesi vitale»7 tra fede e religione e tra culto e vita quotidiana. Per aiutare i fedeli a fare questa sintesi opera la riforma liturgica: una liturgia più adeguata e maggiormente partecipata può contribuire non poco a superare il distacco tra culto e vita.

3

B. HÄRING, Vita cristiana nella luce dei Sacramenti, Vicenza 1970, 18. Cfr. n. 7. 5 M.D. CHENU, Evangelizzazione e Sacramenti nell’incontro tra la Chiesa e il mondo di oggi, in AA.VV., Evangelizzazione e Sacramenti, Torino-Leumann 1972, 98. 6 GS, 43. 7 L. c. 4


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2. LA SACROSANCTUM CONCILIUM 1. Il Concilio dà inizio ai suoi lavori con la riforma e l’incremento della liturgia appunto perché è convinto della interdipendenza tra culto e vita morale dei cristiani: «La liturgia infatti, mediante la quale…“si attua l’opera della nostra redenzione”, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa…In tal modo la liturgia, mentre ogni giorno edifica quelli che sono nella Chiesa per farne un tempio santo nel Signore, un’abitazione di Dio nello Spirito, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo, nello stesso tempo e in modo mirabile fortifica le loro energie perché possano predicare il Cristo. Così a coloro che sono fuori essa mostra la Chiesa, come vessillo innalzato di fronte alle nazioni…»8.

La liturgia di sua natura garantisce la continuità tra l’evento salvifico di cui è memoriale e il suo incarnarsi nella vita dei credenti, e, per loro tramite, ne assicura l’inserimento nella storia: essa oltre al valore misterico ha pure un valore etico. Il memoriale, infatti, ripresenta l’evento salvifico allo scopo di coinvolgere nell’evento stesso coloro che ne fanno memoria: diventa giudizio salvifico del presente e programmazione del futuro; l’indicativo di salvezza diventa imperativo di salvezza, camminare cioè in novità di vita a immagine di Cristo. I sacramenti hanno delle “potenzialità” che muovono chi li riceve in avanti (pro-muovere), favorendone la crescita e aprendo ad una incessante novità fino alla maturazione secondo la «piena statura di Cristo». 2. Il Concilio Vaticano II, inserendosi nel solco della tradizione apostolica e patristica, presenta la liturgia e, in modo particolare, i sacramenti come «fonte» dell’etica cristiana, nel senso che i fedeli

8

SC, 2.


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debbono esprimere nel comportamento ciò che sono divenuti grazie ai sacramenti ricevuti nella celebrazione liturgica: «Nondimeno la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia…Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall’eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo…»9.

L’evento celebrato impegna e dà la capacità a chi riceve i sacramenti di compiere quanto essi significano (fons unde omnis eius virtus emanat): la celebrazione è fonte e culmine della vita cristiana; c’è, pertanto, un profondo rapporto tra anamnesi liturgica e vita morale. Il n. 10, da considerare nel contesto dei nn. 9-13 e non in modo isolato, presenta la liturgia come un momento particolarmente significativo ed efficace tra le molteplici attività della Chiesa; nella visione che ne scaturisce, la liturgia non solo non ingabbia il fedele, ma anzi lo spinge a motivare la vita quotidiana e ad impegnare nella storia la sua responsabilità: ritengo, pertanto, che il pericolo di «panliturgismo» così come il rischio di «cultualizzare» la vita, paventato da alcuni, non esiste. «Culmen et fons», termini stranamente presenti fin dalla prima bozza, mettono in correlazione la liturgia con le altre attività del credente: vetta nella quale converge tutto il lavoro etico del credente e sorgente donde tutto questo lavoro sgorga. L’incontro sacramentale, pur essendo un tempo forte, ha un suo posto nell’insieme della vita cristiana, che consiste nel convertirsi, nel portare frutto nella carità… 3. La Chiesa, comunità cultuale perché edificata dai sacramenti, deve cercare in essi le norme del proprio agire; ogni celebrazione, nel momento in cui edifica la Chiesa stessa, la impegna; mentre riceve i doni di Dio, la Chiesa deve scoprire le esigenze esistenziali presenti in tali doni e da essi scaturenti:

9

SC, 10.


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«I sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del corpo di Cristo e, infine, a rendere culto a Dio; in quanto segni, hanno poi anche la funzione di istruire. Non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono; perciò vengono chiamati “sacramenti della fede”... È quindi di grande importanza che i fedeli comprendano facilmente i segni dei sacramenti e si accostino con somma diligenza a quei sacramenti che sono destinati a nutrire la vita cristiana»10.

Caratteristica della morale cristiana è il fatto che trova origine, norma e forma nella liturgia e, specialmente, nei sacramenti. Per la comunità cristiana l’esperienza liturgico-sacramentale non è uno dei tanti momenti ma è quello fondamentale da cui prende origine il suo agire e nel quale scopre le direzioni da dare alla propria esistenza. Considerare i sacramenti doveri e aiuti della vita cristiana — come ha fatto la manualistica — è impoverirli, significa non percepire il loro essere «fondamento» e «sorgente» della vita e della morale cristiana. A seguito della Sacrosanctum concilium, la Lumen gentium11 presenta i sacramenti come elementi costitutivi e scaturigine dell’agire della Chiesa, e i vari Decreti scoprono e indicano i doveri della Chiesa e delle varie categorie dei cristiani sempre a partire dal dato sacramentale12: la chiave sacramentale consente di leggere in profondità i vari documenti, salvandoli da una interpretazione puramente giuridica. 4. Perché ciò avvenga è, innanzitutto, indispensabile da parte dei fedeli una partecipazione all’azione liturgica il più possibile attiva e consapevole: «Ad ottenere però questa piena efficacia, è necessario che i fedeli si accostino alla sacra liturgia con retta disposizione d’animo, armonizzino la loro mente con le parole che pronunziano e cooperino con la grazia

10

SC, 59.

11

Cfr. 7. Cfr. ad es. AA, 3; AG, 5; PO, 7-10; UR, 2-3.

12


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divina per non riceverla invano. Perciò i pastori di anime devono vigilare… che i fedeli vi prendano parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso»13.

Essendo la liturgia fonte e scuola di discepolato, è necessaria una adeguata educazione liturgica per tutti i fedeli a una partecipazione attiva: «È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia…Essa infatti è la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano…»14.

5. I Padri usavano il metodo della catechesi mistagogica, cioè davano le norme della vita morale cristiana a partire dal sacramento o che sta per essere celebrato o che è stato celebrato, traendo il significato morale sia dal simbolismo dei riti come pure dalla tipologia biblica, mettendo cioè il singolo sacramento in relazione ad avvenimenti salvifici. La Sacrosanctum concilium si inserisce in tale metodologia perché profondamente convinta della natura didattica della liturgia: «Benché la sacra liturgia sia principalmente culto della maestà divina, tuttavia presenta anche un grande valore pedagogico per il popolo credente. Nella liturgia, infatti, Dio parla al suo popolo e Cristo annunzia ancora il suo Vangelo; il popolo a sua volta risponde a Dio con il canto e con la preghiera…i segni visibili di cui la sacra liturgia si serve per significare le realtà invisibili, sono stati scelti da Cristo o dalla Chiesa. Perciò non solo quando si legge “ciò che fu scritto a nostra istruzione”(Rm 15,4) ma anche quando la Chiesa prega o canta o agisce, la fede dei partecipanti è alimentata »15.

13

SC, 11. SC, 14. 15 SC, 33. 14


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A tale scopo vuole che i riti siano chiari in vista proprio della comprensione dei fedeli: «I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni»16.

Convinta che «nella liturgia rito e parola sono intimamente connessi», sempre allo stesso scopo vuole che il ministero della parola faccia emergere i significati e le implicanze etiche delle celebrazioni e sottolinea «attinga anzitutto alle fonti della sacra Scrittura e della liturgia»17. L’assemblea liturgica è momento privilegiato per la scoperta dell’agire cristiano: con-vocata e pro-vocata dalla Parola di Cristo «giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la S. Scrittura»18, la comunità legge la storia e scopre il suo agire alla luce di quanto ascolta e rivive nel memoriale liturgico. CONCLUSIONI 1. Sacrosanctum concilium, recuperando la centralità dell’azione liturgico-sacramentale, consente al fedele di immergersi nel misteroCristo e così trovare la forza e la possibilità di vivere come Cristo ha insegnato: «la liturgia diviene così la sorgente stessa della vita morale, il luogo dal quale il credente deve partire per assimilare ontologicamente la vita di Cristo e renderla trasparente nelle sue decisioni quotidiane»19. 2.“Agere sequitur esse”: compito dell’etica è scoprire ed indicare l’agere in rapporto all’esse. La morale cristiana si trova davanti ad un

16

SC, 34. SC, 35; cfr. anche n. 24. 18 SC, 7. 17

19

G. PIANA, Iniziazione cristiana, NDTM, 605.


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esse in cui, oltre all’elemento naturale, c’è un elemento soprannaturale; un esse che, oltre ad essere termine dell’azione creativa, è anche termine dell’azione salvifica di Dio in Cristo. In breve, l’esse sul quale lavora la morale cristiana è un esse sacramentale, che trova la sua origine, la sua norma e il suo alimento nei sacramenti celebrati dalla liturgia: l’agere cristiano, per conseguenza, è un agere sacramentale, trova cioè nei sacramenti la sua fonte e la sua norma. 3. La Teologia morale e la Catechesi debbono sempre più e sempre meglio presentare i sacramenti non come gruppo di doveri o come aiuto per assolvere dei doveri, ma soprattutto come fonte di doveri, come misteri di salvezza che si concretizzano nella “vita nuova” dei cristiani. Non si può negare che del dettato tridentino, che i sacramenti «significando causant», la teologia ha approfondito l’aspetto della causalità e dell’efficacia, cioè il sacramento-causa; ora deve maggiormente approfondire il significato dei singoli sacramenti per l’etica cristiana e per l’impegno dei discepoli, cioè il sacramento-segno: la dogmatica ha posto l’attenzione su ciò che i sacramenti producono, la morale deve porre la sua attenzione sul significato etico e sul perché di ciò che è stato prodotto. Il contatto col mistero di Cristo, celebrato dalla liturgia e voluto da Optatam totius 16 per il rinnovamento dello studio della morale, consentirà alla Teologia morale di recuperare la propria identità e mostrare la propria specificità: non bisogna dimenticare che la Telogia morale si era ridotta a sterile casistica proprio perché aveva perso il contatto con la liturgia. 4. La Sacrosanctum concilium ha chiara la coscienza della necessità di inculturare la liturgia e adattarla20 all’indole e alla cultura dei vari popoli e a tale scopo dà delle indicazioni ai nn. 23.37-40 e ciò perché

20 Cfr. G. CAVAGNOLI, A 50 anni dalla «Sacrosanctum Concilium»: un tentativo di bilancio, in Rivista liturgica 100 (2013) 755-789.


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«la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente...»21;

e ne ribadisce lo scopo «raggiunga la sua piena efficacia pastorale anche nella forma rituale»22.

Resta tuttavia sempre il problema: nonostante la lingua volgare, l’introduzione di alcuni riti ed alcune semplificazioni si può dire che i segni sono per tutti e ovunque chiari ed eloquenti? I battezzati sono preparati a leggere in profondità i segni liturgici? Da più parti si avverte, innanzitutto, la necessità di creare un “nuovo linguaggio” liturgico: se la fede è fonte e norma della preghiera non basta tradurre i testi liturgici ma crearne di nuovi che accolgano, ad es., la nuova teologia delle realtà terrene. Inoltre, dato che si è passati chiaramente da una visione cosmocentrica ad una visione antropocentrica, non si possono attingere i riti essenziali solo dalla natura (acqua, balsamo…) ma dall’uomo, dall’etica (giustizia, amore…): la liturgia, cioè, deve sempre più attingere dalla storia anziché dalla natura. Ancora, si desidera un maggiore realismo sia per gli elementi naturali (es. pane) che per i gesti umani (es. saluto), che venga cioè rispettato maggiormente il loro valore naturale. Infine, nella liturgia l’invocazione di Dio non deve sopprimere o velare la responsabilità dell’uomo: l’uomo d’oggi, infatti, distingue bene tra cause seconde e causa prima. 5. Se la liturgia, nel tempo stesso in cui è lode a Dio, diventa pure norma di comportamento per la comunità celebrante, i cristiani saranno un segno di novità per il mondo: è la maniera più efficace per

21 22

SC, 48. SC, 49.


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dimostrare che il cristianesimo è una forza che trasforma la vita e non un’alienazione, una fuga dal mondo. La liturgia fa sì che la comunità ecclesiale diventi sempre più ciò che deve essere: sacramento ovvero segno vivo di Cristo, sacramento di salvezza23. Dai sacramenti, particolarmente dall’Eucaristia, il cristiano potrà attingere la forza e l’indicazione per essere davanti al mondo, come dice il Concilio, un testimone della risurrezione e un segno del Dio vivo24: il culto infatti, celebrando la pasqua di Cristo, impegna quanti vi partecipano a realizzarla a livello sia personale che sociale.

23 Cfr. E. SCHILLEBEEKX, Cristo sacramento dell’incontro con Dio, Roma 1963, 273-296. 24 Cfr. LG, 38.


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LA RELAZIONE TRA LA SCRITTURA E LA LITURGIA ALLA LUCE DELLA SACROSANCTUM CONCILIUM

ATTILIO GANGEMI*

Questo contributo mira a cogliere la relazione tra la Scrittura e la Liturgia quale è espressa chiaramente dalla costituzione conciliare “Sacrosanctum Concilium”. Guidati poi dallo spirito della stessa costituzione tenteremo di evidenziare alcuni elementi, impliciti nel testo conciliare, che costituiscono l’intima natura di tale relazione. 1. LE INDICAZIONI ESPLICITE DEL CONCILIO Sulla relazione tra la Scrittura e la liturgia, richiamiamo specificamente i nn. 24-25.35.51.56.92 della stessa costituzione conciliare, dove tale relazione appare in maniera più esplicita. Sono importanti anzitutto i nn. 24-25: nel n. 24 il testo conciliare afferma l’importanza della S. Scrittura nella celebrazione eucaristica. Spiega che da essa infatti si attingono le letture da spiegare poi nell’omelia e i salmi da cantare; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preci, le orazioni e i carmi liturgici. La conseguenza è chiara: il Concilio raccomanda una “soave” e “viva” conoscenza della Sacra Scrittura, così come è sempre stato nella tradizione della chiesa. Nel seguente n. 25, quasi come un corollario, il Concilio auspica che siano rivisti, quanto prima i libri liturgici, evidentemente anche la parte specifica riguardante le Scritture.

* Docente emerito di Esegesi biblica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Il n. 35 poi propone alcuni criteri che servono ad evidenziare, nella liturgia, l’intima connessione tra Rito e Parola. Auspica anzitutto che, nelle celebrazioni, la lettura della S. Scrittura sia più abbondante, più varia e meglio scelta; sia indicato dalle rubriche il momento più opportuno per l’omelia e questa poi sia fatta con fedeltà e nel debito modo, attingendo alle fonti bibliche e liturgiche. Esorta anche a promuovere la celebrazione della Parola di Dio nella vigilia delle feste più solenni, nelle ferie dei tempi forti, soprattutto nei luoghi dove manca il sacerdote. Il n. 51 insiste ancora perché ci sia una lettura più completa del testo sacro, in modo che, in un determinato numero di anni, “vengano aperti più largamente i tesori della Bibbia”. Il n. 56 poi, data la stretta congiunzione delle due parti nella celebrazione della Messa, la liturgia della Parola cioè e la liturgia Eucaristica, “sì da formare un solo atto di culto”, esorta i pastori ad istruire con cura i fedeli perché partecipino a tutta la Messa, ovviamente fin dall’inizio e non soltanto ad una parte di essa, specificamente la seconda, come talora avveniva nel passato e come anche tuttora avviene. Alla S. Scrittura poi la costituzione conciliare torna nel n. 92, dove propone alcuni criteri per la scelta delle letture, riguardanti però non solo la S. Scrittura, ma anche le opere dei Padri e degli scrittori ecclesiastici e le cosiddette “passioni” o vite dei Santi. Queste ultime debbono essere riviste dal punto di vista storico. Per quanto riguarda la lettura della S. Scrittura, si raccomanda che questa sia ordinata in modo che i tesori della Parola divina siano più facilmente accessibili e proposti con maggiore ampiezza: auspicio già formulato nel n. 35. Non pare che ci siano nel testo conciliare altri passaggi che in maniera più forte evidenzino l’intima relazione tra la S. Scrittura e il mistero che si celebra. In questo senso, ci sembra di scorgere un limite nella costituzione conciliare: forse si desiderava che si illustrasse ulteriormente tale intima relazione tra la Scrittura e l’Evento di Cristo celebrato nella liturgia. In questo senso, ci permettiamo di proporre, più avanti qualche osservazione, che scaturisce dai testi biblici ma è anche suggerita implicitamente dalla stessa costituzione conciliare.


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2. L’INTIMA NATURA DELLA LITURGIA Per questo aspetto, mi riferisco soprattutto al proemio della Costituzione e al cap. primo della stessa. Dalla loro lettura, al di là delle applicazioni concrete, emerge con chiarezza quale sia il fondamento a cui la costituzione conciliare si ispira e su quali basi essa poggia: questa è appunto la Sacra Scrittura. Nel n. 2, citando la Secreta della nona domenica dopo la Pentecoste, il Concilio insegna che soprattutto nel divino sacrificio dell’Eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione1. Nella liturgia perciò si rende manifesto il mistero di Cristo e della chiesa e i fedeli sono resi massimamente capaci (“summe eo confert”) di esprimere nella loro vita e di manifestare agli altri lo stesso Mistero e la genuina natura della chiesa che ha la caratteristica di essere nello stesso tempo, umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili (“invisibilibus praeditam”), fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia ancora pellegrina. Emerge così un triplice scopo dell’azione liturgica: attuare e rendere presente il mistero di Cristo e della chiesa, edificare i membri della chiesa come tempio dove Dio dimora, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo, corroborare i cristiani perché possano predicare Cristo e additare a quelli che sono fuori, la chiesa, come quel vessillo promesso e innalzato da Dio per tutti i popoli (Is 11,2), perché si possano raccogliere in unità i figli di Dio dispersi (Gv 11,52) e si faccia, in Cristo, un solo ovile e un solo pastore (Gv 10,16). Nel seguente capitolo primo, il Concilio, nel n. 5, descrive l’intima natura della Sacra liturgia. Richiamando Eb 1,1, il Concilio ricorda che Dio «dopo avere parlato in molti modi e a più riprese ai Padri per mezzo dei profeti», nella pienezza dei tempi, mandò il suo Figlio, Verbo fatto uomo, a risanare i cuori affranti (Is 61; Lc 4,18). Mediatore tra Dio e gli uomini (1Tm 2,5), Cristo, nella sua umanità, unita alla

1 Si tratta della secreta della nona domenica dopo Pentecoste, secondo il Messale promulgato da Pio V: «quoties hujus hostiae commemoratio celebratur, opus nostrae redemptionis exercetur».


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persona del Verbo, fu strumento della nostra salvezza ed operò la nostra perfetta riconciliazione con Dio. Tale opera di salvezza, preannunziata, nelle Scritture dell’AT, è realizzata da Cristo nel suo mistero pasquale di passione, morte, resurrezione, ascensione, seguita dal dono dello Spirito Santo, fino alla fine dei tempi, quando, Signore dei vivi e dei morti, Egli tornerà nello splendore della sua gloria. Fino perciò al suo ritorno, Cristo ha affidato alla chiesa, scaturita dal suo costato aperto, mentre « dormiva sulla croce (in cruce dormientis)» (Gv 19,33-34), la sua opera di salvezza. Nel n. 6 seguente il Concilio evoca l’opera della Chiesa. Gli apostoli furono da lui inviati nel mondo, come Lui era stato inviato dal Padre (Gv 20,21). Essi, ripieni di Spirito Santo e, con loro tutta la chiesa, hanno una duplice missione: predicare (praedicantes) anzitutto il vangelo a tutti gli uomini (Mc 16,15), annunziando che il Figlio di Dio, con la sua morte e resurrezione, ci ha liberati dal potere di satana (At 26,18), ci ha ottenuto la remissione dei peccati e ci ha resi partecipi dell’eredità tra i santi. Inoltre, e forse anche soprattutto, attuare (exercerent) la salvezza in Cristo, mediante il Sacrificio eucaristico e i sacramenti, sui quali si impernia tutta la vita liturgica (circa quae tota vita liturgica vertit). Ciò avviene anzitutto mediante il Battesimo, mediante il quale gli uomini vengono inseriti nel mistero pasquale di Cristo e diventano membra vive del suo corpo, e poi nella cena del Signore (dominicam coenam), mangiando la quale, annunziano e proclamano la morte del Signore fino al suo ritorno (1Cor 11,26). Spiega ancora il Concilio, nello stesso n. 6, che, dal giorno della Pentecoste, che «segnò la sua manifestazione al mondo», mai la chiesa ha tralasciato di riunirsi in assemblea per celebrare il mistero pasquale, «mediante la lettura di quanto “nella Scrittura” lo riguardava (Lc 24,27)», mediante la celebrazione dell’Eucaristia, «nella quale vengono ripresentati la vittoria e il trionfo della sua morte (cioè di Cristo», e mediante l’azione di grazie «a Dio per il suo dono ineffabile (2Cor 9,15)» in Gesù Cristo, a lode della sua gloria (Ef 1,12) per virtù dello Spirito Santo. Particolarmente importante infine è il n. 7 della costituzione conciliare: il concilio, con molta forza e chiarezza, afferma la presenza di Cristo nella liturgia. Scrive infatti il Concilio: «per realizzare un’opera


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così grande, Cristo è sempre presente (semper adest) nella sua chiesa, soprattutto nelle azioni liturgiche (praesertim in actionibus liturgicis)», nella liturgia quindi Cristo è presente in maniera particolare. Il testo conciliare poi elenca i vari ambiti della sua presenza. Anzitutto nella Messa, sia nella persona del ministro, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente inoltre, con la sua potenza (virtute sua) nei sacramenti, ciò che fa dire ad Agostino che quando uno battezza è Cristo che battezza2. È presente nella sua Parola «giacché è Lui che parla quando nella Chiesa si leggono le Sacre Scritture». È presente infine nella chiesa quando essa prega e loda, così come Gesù stesso ha affermato: «quando due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt 18,20)». In quest’opera così grande Cristo associa sempre la sua chiesa, sua sposa: questa prega il suo Signore e, per mezzo di Lui rende il culto all’eterno Padre. Conclude perciò il Concilio, nello stesso n. 7, che giustamente la liturgia è ritenuta come l’esercizio del sacerdozio di Cristo, che egli però non compie da solo, ma insieme alla sua chiesa che è il suo corpo mistico (1Cor 12). Scrive perciò ancora il Concilio che «ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo che è la chiesa, è azione sacra per eccellenza e nessun’altra azione […] ne uguaglia l’efficacia». Ci sembra di scorgere qui la vera natura del sacerdozio della Chiesa, che in nessun modo sostituisce quello ministeriale. Il sacerdozio della chiesa sembra perciò consistere nel fatto che questa è intimamente unita a Cristo e con essa e per mezzo di essa Cristo prolunga nella storia la sua opera di salvezza. Leggendo poi e riflettendo sul vangelo di Giovanni, possiamo dire che la chiesa è un popolo sacerdotale, in quanto, unita a Cristo, e dietro Cristo suo pastore, è in cammino verso il Padre, come Gesù stesso ha detto: «Io sono la via, la verità e la vita: nessuno può pervenite al Padre se non attraverso di me (Gv 14,6)». Il sacerdote infatti, come tutta la lettera agli Ebrei insegna, è colui che apre al popolo la via verso il Santuario di Dio (cfr. particolarmente Eb 9-10). Solo Cristo, morendo e risor-

2

Cfr A. AGOSTINO, In Joannis Evangelium Tractatus VI, I, 7, in PL 35, 1428.


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gendo ha raggiunto Dio nel vero santuario del cielo e si è assiso alla sua destra. Al popolo ormai è possibile raggiungere Dio, a condizione però che resti intimamente unito a Cristo. Un ultimo numero, il n. 8, vorrei anche brevemente considerare prima di tirare qualche conclusione e proporre qualche breve riflessione. In questo numero, il Concilio insegna che non c’è soltanto la liturgia terrena, ma anche la liturgia celeste. Quest’ultima è preparata, anticipata, “pregustata (praegustando)” da quella terrena. Quest’ultima poi, celebrata nel tempo del nostro pellegrinaggio terreno, fa anelare ed orienta a quella celeste, che sarà celebrata nella Gerusalemme celeste, che è il trono di Dio e dell’Agnello (Ap 21,22)3. Si avverte in questo paragrafo, l’influsso della lettera agli Ebrei e soprattutto dell’Apocalisse, alla quale vogliamo brevemente riferirci, per qualche nostra riflessione, nel paragrafo seguente di questo intervento. 3. ALCUNE NOSTRE RIFLESSIONI SUL RAPPORTO SCRITTURA-LITURGIA Dalla lettura del testo conciliare emerge che esso, pur rimandando talora anche a precedenti interventi magisteriali4 e anche ad elementi liturgici e patristici, soprattutto si riferisce e fonda frequentemente la sua riflessione sulla Scrittura. Abbiamo indicato alcuni allusioni a testi biblici, ma queste potevano ulteriormente moltiplicarsi. È evidente che il documento conciliare sulla liturgia poggia il suo insegnamento sulla S. Scrittura. Un’altra osservazione è possibile ancora evidenziare: Scrittura e Liturgia convergono verso lo stesso oggetto, il mistero di Gesù, celebrato nell’azione liturgica e “narrato” nella Scrittura, sia in maniera più nascosta ed implicita, tra le pieghe dell’AT, sia in maniera chiara ed esplicita nel NT. Emerge tra i due aspetti pure una interazione. La liturgia celebra l’evento di salvezza narrato dalle Scritture; queste a loro volta illustrano e spiegano l’evento celebrato nella liturgia. Tra

3 Cfr. a riguardo J. COMBLIN, La liturgie de la Nouvelle Jérusalem (Apoc 21,122,5), in ETL 29 (1953) 5-40, 4 Ci riferiamo soprattutto ai nn. 6.7, dove è richiamato il concilio tridentino.


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l’evento di salvezza storicamente verificatosi e il popolo che lo celebra, c’è il racconto che spiega l’evento stesso e coglie anche il suo significato; esso poi trova anche una sua formulazione per iscritto. 3.1. Scrittura e liturgia nell’AT Nell’AT il popolo, in terra di esilio, in Babilonia cioè (sec. VI), celebrò l’evento di liberazione, da Dio operato secoli prima, dalla terra di Egitto. Il suo ricordo fu tramandato da padre a figlio per secoli e, man mano, progressivamente, fu anche fissato per iscritto. La sua formulazione scritta sarebbe servita poi come schema per l’evocazione liturgica dell’evento stesso. È noto che il cap. 12 dell’Esodo, che descrive la celebrazione della pasqua, si presenta più come un rituale liturgico che non come un vero racconto storico. Benché la sua formulazione possa essere più recente, esso tuttavia si ricollega ad un evento tramandato nei secoli attraverso le generazioni. Tale carattere di evocazione storico liturgica può essere attribuito anche a tutti i primi quindici capitoli del libro dell’Esodo, dal grido dei figli di Israele giunto fino a Dio, fino, attraverso tutte le vicende intermedie, al cantico di Mosè nel cap. 15. Tra gli eventi realmente accaduti e la loro formulazione letteraria, con tutti gli adattamenti insiti nella trasmissione orale, c’è la fase del “racconto”, fino alla formulazione scritta, che costituisce lo schema per la celebrazione dell’evento. La stessa formulazione scritta dell’evento aiuta a comprendere quello che si celebra. In Es 12,26-27 è menzionata anche la domanda che i figli, nel contesto della celebrazione nella terra promessa, dovranno rivolgere ai padri sul significato di quel rito, i padri dovranno rispondere che è il sacrificio della pasqua per il Signore, il quale passò oltre le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì gli egiziani. Ma già in Es 10,2 i segni che Dio operò in Egitto, debbono costituire un racconto da fissare nella memoria dei figli e dei figli dei figli. Analoga domanda dei figli che chiedono ai padri sul significato delle leggi e delle norme che il Signore ha dato, si legge anche in Dt 6,20ss. La risposta dei padri ha il carattere di un memoriale liturgico: si era schiavi in Egitto, ma il Signore compì dei segni e prodigi contro il


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faraone e la sua casa e fece uscire il suo popolo dall’Egitto per condurlo verso la terra che, con giuramento, aveva promesso ai padri; il Signore allora comandò di mettere in pratica tutte le leggi e le norme che aveva dato. Ci sembra allora di poter concludere evidenziando le seguenti tappe. Alla base c’è l’evento quale realmente si è verificato nella storia; questo nel tempo è stato “raccontato” e tramandato, nei secoli, di padre in figlio; il racconto man mano evidenzia il valore salvifico e il significato profondo dell’evento, che forse, agli occhi profani poteva magari non avere nulla di eclatante ed è fissato anche per iscritto; la stesura scritta costituisce la base per la sua evocazione storica, per la “memoria” dell’evento da Dio operato. La Bibbia, almeno per gli eventi dell’esodo, non presenta più una semplice narrazione storica, ma offre un memoriale che permette di celebrare, anche nei secoli seguenti, l’evento che Dio ha operato. Emerge allora la seguente interazione: il racconto liturgico che si è man mano formato, permette di far memoria e di celebrare l’evento narrato di salvezza; la celebrazione dell’evento “fa memoria”, attua cioè al presente, quanto il racconto stesso descrive ed evoca. Il racconto stesso poi spiega il senso di quanto si compie nel rito concreto che il popolo celebra; il rito concreto diventa allora memoriale vivo ed attuale della salvezza che il Signore ha operato in favore del suo popolo. 3.2. Scrittura e liturgia nel NT Il rapporto Scrittura-liturgia appare più chiaro nel NT. I tre vangeli sinottici, e anche Paolo in 1Cor 11,23-26, ci hanno tramandato, codificato nei loro scritti, quello che Gesù fece la sera precedente la sua passione, quando offrì ai discepoli il pane, identificato con il suo corpo, e il vino, identificato con il suo sangue; comandò inoltre ai discepoli di fare anch’essi, in sua memoria, il gesto da lui compiuto. In questo modo, Gesù conferì un nuovo significato alla cena pasquale: essa non era più memoriale dell’uscita dei figli di Israele dall’Egitto, ma memoriale di Gesù, nella globalità della sua persona e del suo mistero. Il quarto evangelista, come è noto, non narra la cena


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con il pane e il vino; ma nel suo vangelo è importante il cap. 6, dove riferisce del discorso di Gesù tenuto a Cafarnao, l’indomani della moltiplicazione dei pani. In quel discorso, senza mezzi termini e ripetutamente, Gesù identificò il pane con se stesso5 e con la sua carne6. In Gv 1,14 il quarto evangelista narra che «la Parola divenne carne». Con questa espressione certo egli allude all’incarnazione del Verbo; se però teniamo presente che il termine “carne” nel quarto vangelo si legge 12 volte, di cui ben sette nel cap. 6, se inoltre teniamo conto che i soli usi del termine riferiti alla carne di Gesù sono nel testo di 1,14 e sei in quelli del cap. 6 7 e, infine, se teniamo pure conto che, nel v. 51, direttamente ed esplicitamente Gesù identifica il pane con la sua carne, dobbiamo concludere che, nell’espressione di 1,14 «la parola divenne carne», si allude non soltanto all’incarnazione, ma, implicitamente, anche al fatto che la Parola divenne pane. Appare così contenuto, nel vangelo di Giovanni, tutto un iter della Parola eterna, dalla sua preesistenza al suo divenire pane, passando ovviamente attraverso le tappe dell’incarnazione e della sua croce gloriosa e glorificante. Da allora la chiesa ha sempre obbedito al comando del Signore. Nelle varie comunità ecclesiali sono usate diverse forme liturgiche, diverse lingue, diversi riti; la stessa chiesa latina, nelle sua varie riforme liturgiche, fino ai nostri giorni, ha mutato le varie forme celebrative, ma è rimasta immutata ed immutabile l’azione di Gesù che, per suo comando, la chiesa continua sempre a ripetere. Non sappiamo come si svolgesse concretamente la liturgia nella chiesa gerosolimitana, né quali fossero le parole esatte pronunziate da Gesù, ovviamente in lingua aramaica, e usate in quella liturgia: esse infatti sono giunte a noi in lingua greca e, per di più, nella forma diversificata di Matteo-Marco e di Luca-Paolo. La stessa azione liturgica della chiesa apostolica è indicata, negli scritti neotestamentari, con l’espressione generica di “spezzare il pane”8. Forse uno schema 5

Cfr. vv. 33.35.41.48.50.51.58. Cfr. v. 51. 7 Vv. 51.52.53.54.55.56. 8 Cfr. At 2,42,46; 20,7.11; 1Cor 10,16. 6


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liturgico può essere contenuto in At 2,429. Possiamo tuttavia supporre che, fin dai primi giorni, si avrebbe avuto cura di fissare per iscritto, ovviamente in lingua aramaica, le parole usate da Gesù nella cena, tradotte poi in greco e trasmesse in duplice forma, quando il vangelo superò i confini della Palestina e si aprì al mondo greco. Queste parole poi, tramandate dalla chiesa apostolica, cooptate nelle narrazioni evangeliche e riferite anche da Paolo, costituiscono il fondamento per la chiesa di sempre. L’attuale formula liturgica, magari mettendo insieme, soprattutto nella “consacrazione del vino”, elementi della tradizione matteo-marciana e di quella lucano-paolina, riflette, a pieno titolo, l’azione di Gesù. Le sue parole, divenute anch’esse “Scrittura” costituiscono per la chiesa di sempre il fondamento per la sua perenne rinnovazione del memoriale del Signore. Possiamo dire perciò che la celebrazione del memoriale liturgico del Signore sgorga dalle sue stesse parole, tramandate dalla chiesa apostolica e divenute, anch’esse, Scrittura. Il pane e il vino che, anche nell’esiguità del segno sacramentale, la chiesa ripropone continuamente come corpo e sangue di Cristo, assicurano, fino alla fine dei secoli, la presenza del Signore (Mt 28,20), spiegano, prima ancora che Pietro, perché le porte degli inferi non potranno mai nulla contro di essa (Mt 16,18), assicurano la sua perenne sussistenza pur in mezzo alle immancabili tempeste del mare della storia10. 3.3. L’Eucaristia fondamento degli altri Sacramenti Da Gesù, presente nel pane e nel vino, scaturiscono tutti gli altri sacramenti. Anzitutto il Battesimo. Paolo, in Gal 3,27 insegna che, quanti sono stati battezzati in Cristo, si sono rivestiti di cristo; lo stesso Paolo poi, nel cap. 6 della lettera ai Romani, spiega che con il 9

Possiamo notare i quattro elementi: l’insegnamento degli Apostoli, la comunione, lo spezzare il pane, le preghiere. 10 Tutti e quattro i vangeli narrano l’episodio della tempesta sedata. Gesù placa il mare. Marco, in 6,52, sembra attribuire la paura dei discepoli sulla barca al fatto che non si erano ricordati del pane.


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battesimo siamo stati immersi nella morte di Cristo, orientati a morire con lui per camminare con lui in novità di vita. Giovanni soprattutto appare ancora più chiaro. A Nicodemo Gesù spiega che bisogna rinascere da acqua e da Spirito (Gv 3,5): si tratta di quell’acqua e Spirito che, al momento dell’esaltazione, sgorgheranno come un fiume dal suo seno (Gv 7,37-39), e che defluiranno dal costato aperto sulla croce (Gv 19,34.30). Possiamo dire che l’acqua battesimale è la stessa acqua che scaturì dal costato aperto di Cristo sulla croce e che, misticamente, sgorga continuamente dalla sua croce perennemente viva e presente nel pane e nel vino. Qualcosa di analogo si può dire anche per il sacramento della riconciliazione. Leggiamo in Mt 26,28 che il sangue di Cristo è stato effuso per la remissione dei peccati. Secondo Ef 1,7 nel sangue di Gesù otteniamo (e"comen) la redenzione, la remissione dei peccati; secondo 1Gv 1,7 il sangue di Cristo ci purifica (kaqaròzei) da ogni peccato11. Benché il perdono di Dio ci raggiunga attraverso il sacramento della riconciliazione, esso in realtà scaturisce dal sangue perennemente presente nella chiesa nel segno sacramentale. La stessa cosa si può dire anche per il sacramento dell’Ordine Sacro, in cui, raggiunto dallo Spirito Santo, che sgorga da Gesù (Gv 20,21), attraverso le mani e la preghiera del Vescovo, l’uomo è abilitato a rimettere i peccati e a celebrare il memoriale del Signore. L’Eucaristia è la fonte perenne dello Spirito Santo nella chiesa. La stessa cosa infine si può dire anche per il sacramento del matrimonio: nell’Eucaristia, memoriale del Signore, si manifesta perennemente l’amore di Gesù e, attraverso di esso l’amore del padre. Tale amore raggiunge due persone umane, consacra il loro amore e li abilita ad essere segno del suo amore nel mondo. Il fatto che essi sgorgano dal mistero di Cristo celebrato nell’Eucaristia, mostra l’opportunità nella prassi liturgica di celebrare gli altri sacramenti nel contesto di una celebrazione eucaristica.

11 Si può notare, sia in Ef 1,7 che in 1Gv 1,7 la forma verbale all’indicativo presente; essa rimanda meglio non al sangue sparso 2000 anni fa sulla croce, ma a quello perennemente presente nella chiesa nei segni sacramentali.


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3.4. La Scrittura e il senso del memoriale liturgico La Scrittura infine illumina e aiuta a comprendere il senso del memoriale del Signore liturgicamente celebrato. Paolo così ci insegna che l’eucaristia è il centro su cui e attorno a cui si costruisce l’unità della chiesa. Leggiamo in 1Cor 10,17 che, poiché uno è il pane, noi che, pur siamo molti, formiamo un solo corpo, perché tutti mangiamo dello stesso pane. Il pane eucaristico perciò è centro e fondamento di unità. Qualcosa di analogo si legge anche in Gv 12,32, dove Gesù dichiara: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Il raduno dei figli di Dio dispersi perciò avviene attorno alla croce (cfr. anche 11,52); non si può pensare però soltanto alla croce storica del tempo di Pilato, ma bisogna pensare alla croce perenne nella chiesa presente nel memoriale eucaristico. In questo senso si esprimono anche le anafore liturgiche; pensiamo alla seconda, nella quale, dopo l’anamnesi e l’epiclesi, si prega per la chiesa terrena guidata dai suoi pastori, si prega per la chiesa che si purifica, si fa voto di essere annoverati, insieme alla Vergine e ai santi, nella chiesa già in patria. Tutta la chiesa così è radunata sacramentalmente attorno a Gesù nel pane e, assieme a lui e per mezzo di lui, eleva la massima lode che da dalla terra può salire al Padre. La Scrittura mostra che lo stesso memoriale eucaristico assume anche il carattere di annunzio: ancora Paolo, in 1Cor 11,26, afferma che, chi mangia “quel pane” e beve “quel sangue”, quelli da Gesù donati come suo vero corpo e vero sangue, annunzia la morte del Signore fino al suo ritorno. Vogliamo però illustrare ulteriormente l’aspetto della Scrittura che aiuta anche a cogliere il senso del mistero che si celebra nel memoriale liturgico, riferendoci sia ad alcuni testi del NT sia anche al lezionario, il cui uso precede nella celebrazione dei sacramenti soprattutto nella liturgia eucaristica. 3.4.1. Alcuni testi Quanto alle Scritture del NT, i testi potrebbero essere moltiplicati. Ci limitiamo a indicarne soltanto alcuni.


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Il primo è Mc 6,35-44: il primo racconto della moltiplicazione dei pani. In questo racconto è descritta una duplice azione di Gesù a favore della folla. Narra l’evangelista che Gesù, sceso dalla barca, vide la folla e si commosse perché erano come pecore senza pastore: si mise allora ad insegnare e la sera moltiplicò i pani. La moltiplicazione dei pani è narrata con gli stessi termini con cui Gesù, nella cena, presentò ai discepoli il pane come suo corpo. Non si fa fatica a comprendere come, secondo Marco, su un popolo “come pecore senza pastore”, Gesù stesso si fa pastore. Egli si fa pastore prima insegnando, poi, la sera, donando il pane, cioè mediante la parola e il pane. Parola e Pane sono i due elementi della celebrazione eucaristica: in essa il pastore si manifesta e pasce il suo gregge appunto con la parola e con il pane12. Un altro testo è Lc 24,13-35: la narrazione dell’incontro di Gesù con due discepoli che, delusi, tornavano al loro villaggio ad Emmaus. L’indole liturgica di questo racconto è comunemente accettata; troviamo infatti quattro elementi che possono richiamare uno schema liturgico. Tali elementi sono: la situazione esistenziale di amarezza e sconforto dei due discepoli che tornano al loro villaggio delusi nella loro speranza, l’intervento tacito di Gesù che, a partire dalle Scritture, mostra la necessità dei patimenti del Messia, Gesù poi in casa spezza il pane e i discepoli lo riconoscono, i due discepoli tornano a Gerusalemme ed entrano in sintonia con la professione di fede degli undici, che dichiarano che il Signore è risorto ed è apparso a Simone. Soprattutto sono importanti i due elementi centrali operati da Gesù: la spiegazione delle Scritture lungo la via e lo spezzare il pane in casa. La spiegazione delle Scritture determina una positiva agitazione del cuore; lo spezzare il pane apre gli occhi e permette di riconoscere il Signore. Il racconto mostra anzitutto che il Risorto si inserisce tacitamente nell’esistenza degli uomini e inoltre indica la maniera come si perviene alla chiara comprensione della sua presenza, attraverso le Scritture prima e il pane poi13. 12 Matteo, in 14,13-21 non menziona il pastore e le due attività di Gesù sono le guarigioni e, la sera, il pane. 13 L’indole liturgica può estendersi a tutto il cap. 24 del vangelo di Luca. Dopo la


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Un altro testo, riferito però più direttamente non all’Eucaristia ma al Battesimo, è Rm 6,3-4ss. In questo testo Paolo ci spiega che l’immersione battesimale è una immersione nella sua morte. Più specificamente è un coinvolgimento nella sua sepoltura, che consacra il cristiano a condividere, morendo al peccato, la morte di Cristo, per condividere poi la sua stessa gloria (cfr. Col 3,1-4). Possiamo riferirci anche a Gv 19,31-37, benché una considerazione adeguata di questo testo esigerebbe la considerazione di tutta l’indole del quarto vangelo. Leggiamo in questo testo che i giudei, essendo imminente ormai il sabato e la festa di Pasqua, perché i corpi dei crocifissi non restassero sulla croce durante quelle feste, chiesero a Pilato che fosse provocata loro una morte istantanea mediante il “crurifragium” e così, intervenuta la morte, potessero essere tolti via. Narra l’evangelista che i soldati vennero e spezzarono le gambe dei due crocifissi ai lati, ma non di Gesù essendo egli già morto. La deposizione dalla croce, essendo già intervenuta la morte, avrebbe potuto essere fatta anche senza spezzare le gambe. Giovanni però, nel suo racconto, si esprime in maniera tale da insinuare tacitamente che, non avendo subito il crurifragium, Gesù non fu nemmeno tolto dalla sua croce. Gli avvenimenti seguenti confermano tale insinuazione. Leggiamo nel testo che un soldato con la lancia aprì il costato di Gesù e ne scaturì sangue ed acqua. In tale azione l’evangelista vede realizzate diverse immagini dell’AT: sulla sua croce Gesù è la fonte di cui parlava il profeta Zaccaria (Zc 12,10-13,1), è il tempio da cui sgorga acqua come un grande fiume, quello contemplato in visione da Ezechiele (Ez 47), è la roccia che anticamente colpì Mosè con il suo bastone (Es 17,1-7; Nm 20,1-8). L’insinuazione sopra indicata è confermata anche dalla citazione di Zc 12,10 in Gv 19,37: sulla sua croce Gesù resta come oggetto di contemplazione e di fede. Tutto ciò l’evangelista non può dirlo esplicitamente: contraddirebbe alla storia e alle narrazione dell’esperienza dei due discepoli di Emmaus, segue il racconto dell’apparizione del Risorto agli uomini. Gli elementi del primo racconto sono: Scritturepane; gli elementi del secondo racconto sono: pesce-Scritture. La duplice menzione delle Scritture include i due elementi che caratterizzano i racconti della moltiplicazione dei pani: pane e pesce.


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stesse narrazioni evangeliche secondo cui Gesù fu deposto dalla sua croce. Tutto ciò però si può dire dal punto di vista sacramentale: nell’Eucaristia Gesù rimane nella sua croce, radicato nell’amore del Padre (Gv 15,10), sorgente perenne di acqua viva, oggetto di contemplazione e di fede (Gv 3,14; 6,38-40), fonte inesauribile di vita eterna. L’ultimo testo a cui vogliamo riferirci è il libro dell’Apocalisse, la cui globale indole liturgica è quasi universalmente riconosciuta. Non possiamo adesso considerare tutto il libro: dobbiamo limitarci soltanto a considerare qualche elemento. L’ambito cronologico in cui la rivelazione a Giovanni avviene, è indicata in Ap 1,10: essa si è verificata “nel giorno del Signore”, nel giorno cioè in cui la comunità cristiana fa memoria della morte e resurrezione del Signore. La rivelazione di cui l’autore gode non è perciò staccata dal mistero celebrato nella liturgia. In questa circostanza cronologica, l’autore sente una voce, che è quella del Signore, che gli comanda di scrivere ed inviare alle chiese quello che ha udito. Possiamo caratterizzare la parte dei capp. 1-3 come una grande liturgia della parola: l’autore deve ascoltare e riferire alle chiese, cioè mediare, la Parola del Signore. In 4,1-2 leggiamo che l’autore è invitato a salire in cielo: inizia così, in prospettiva celeste, la narrazione di tutta la serie di visioni fino alla Gerusalemme celeste di 21,1-22,5. È importante la visione dell’Agnello nei capp. 4-5. Diversi anni fa abbiamo avanzato l’ipotesi che tale visione è costruita sullo schema di una antica anafora liturgica14. C’è infatti il trisaghion in bocca ai quattro viventi (4,8); segue l’inno di lode al Dio creatore (4,11), l’inno all’Agnello redentore (5,9-12), che richiama bene una anamnesi liturgica, c’è infine la dossologia finale con l’Amen, in cui è coinvolta tutta quanta la creazione (5,13-14). I vv. 1-8 del cap. 5, tra le due “assiologie”, al Dio creatore e all’Agnello redentore, descrivono la comparizione dell’Agnello, che “sta” come “immolato”, i cui sette occhi sono i sette Spiriti di Dio inviati su tutta la terra. L’Agnello riceve un potere che lo abilita a prendere il libro e ad aprirne i sigilli:

14 Cfr. A. GANGEMI, La struttura liturgica dei capitoli 4 e 5 dell’Apocalisse di San Giovanni, in Ecclesia Orans 4 (1987) 301-358.


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che lo rende cioè Signore della storia. Emerge in tale descrizione tutto il mistero dell’Agnello, di morte, resurrezione, effusione dello Spirito Santo, sessione alla destra di Dio, la sua costituzione come Signore della Storia. Tale descrizione del mistero dell’Agnello può corrispondere bene a quella che, nella Messa, noi chiamiamo “la consacrazione”, dove si ripropone il mistero del Signore. Emerge però una differenza: mentre nella liturgia terrena il mistero del Signore è evocato dai segni sacramentali, nella liturgia celeste, come è la prospettiva dell’autore, invece è descritto nella sua diretta realtà, in cielo. Emerge una conseguenza: in terra, il mistero di Gesù è celebrato nei segni sacramentali; in cielo invece esiste eternamente nella sua diretta realtà. I segni sacramentali del pane e del vino presentano in terra quello che, nella realtà, è eternamente presente nel cielo. Si può proporre un nuovo senso del memoriale: esso ripropone in terra, nei segni sacramentali, quello che, nella diretta realtà, è eternamente presente nel cielo. Alla fine della sua opera l’autore introduce l’anelito della sposa. Si tratta del testo di Ap 22,17-22. In questi versi che appunto concludono l’opera, prescindendo da aggiunte di indole secondaria (i vv. 1819.21), si può individuare una strofa di quattro versi, costruita probabilmente sull’antica invocazione aramaica “maranathà”. In essi l’autore riferisce l’anelito dello Spirito e della sposa e anche di colui che ascolta e riecheggia “vieni Signore Gesù”, insieme alla certezza offerta dal Signore stesso che garantisce la sua venuta. Con questa strofa si chiude tutta la rivelazione biblica e l’invocazione “vieni, Signore Gesù” è come una grande eco che si diffonde e si prolunga nella chiesa di sempre attraverso i secoli. Tutta la parte dei capp. 4-22 dell’Apocalisse, in un crescendo che culmina nella visione della Gerusalemme celeste, è inclusa tra due aspetti del mistero di Cristo: la sua glorificazione pasquale (capp. 4-5) e il suo ritorno (22,17-22). L’indole liturgica di tutta l’Apocalisse e anche il momento storico in cui è ambientata: “il giorno del Signore”, inducono a ritenere che l’ambito da cui essa e su cui poggia l’Apocalisse sia appunto quello di una celebrazione liturgica, nella quale si fa memoria del mistero pasquale del Signore e nella quale ci si proietta e si anela al suo ritorno.


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Tutto il libro dell’Apocalisse rivela nella chiesa un problema esistenziale molto grave: siamo in tempo di persecuzione (forse quella scatenata da Domiziano) e molti cristiani, atterriti dai tormenti, hanno pensato di attuare, se non l’hanno già attuata, la loro defezione da Cristo. L’autore vuol sostenere i cristiani a perseverare rivelando loro il senso di quella persecuzione e lo fa a partire dalla celebrazione eucaristica nella chiesa. Essa non è scatenata dall’impero romano, bensì da Satana. I cristiani muoiono per Cristo e nella liturgia si celebra non solo la sua morte ma anche la sua resurrezione e glorificazione. Se i cristiani accettano di morire per Cristo, oggi muoiono condividendo la sua morte, ma condivideranno un giorno anche la sua resurrezione e glorificazione. Se invece, aderendo all’idolo dietro il quale si nasconde Satana, defezionano da Cristo, potranno avere oggi un prolungamento di vita, ma sono esclusi dalla resurrezione: sperimenteranno quella “morte seconda”, che sarà il destino eterno di Satana e dei suoi adepti. Una morte cioè dalla quale non si risorge. L’autore, pastore con Cristo, delle sue chiese, si rivela così un presidente di assemblea15 che mira a sostenere i cristiani a partire dalla liturgia che celebra e, quasi “squarciando” i segni sacramentali, con il linguaggio suo proprio, descrive questo mistero celebrato in terra ma che sussiste eternamente in cielo. La persecuzione, scatenata, al di là dell’impero romano, da Satana, durerà fino al ritorno del Signore, quando l’antico serpente sarà eliminato; nel frattempo i cristiani debbono restare fedeli a Cristo, condividendo il suo mistero e anelando al suo ritorno. Così il libro dell’Apocalisse, mentre spiega il mistero di Cristo che si celebra nella chiesa, rilegge tutta la vita cristiana a partire da quel mistero. Cristo sperimentò l’ostilità satanica (12,1-5), morì ma è risorto. Analoga ostilità, fino alla parusia, sperimenteranno i cristiani, i figli della donna. Se questi restano fedeli e accettano di morire per Cristo, condivideranno la sua resurrezione; se defezionano, si imbatteranno, come abbiamo detto, nella morte

15 Ci permettiamo di indicare quanto molto tempo fa abbiamo già suggerito, cfr. A. GANGEMI: «Il Presidente dell’assemblea nel IV Vangelo e nell’Apocalisse», in Ho Theologos 21(1979) 67-74 (consideriamo però soltanto l’Apocalisse).


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seconda dalla quale non si risorge, perché fuori di Cristo non c’è vita (1,17b-18). 3.4.2. Il lezionario Un’ultima parola sembra doverosa a riguardo del lezionario da seguire nelle celebrazioni liturgiche. Esso obbedisce alle istanze conciliari che, come abbiamo già osservato, auspica una maggiore abbondanza e varietà, e anche una migliore scelta, delle letture da adottare nelle azioni liturgiche16. Benché l’attuale lezionario superi le letture brevi e talora anche estrapolate dal loro contesto proposte nelle liturgie dell’antico messale romano, esso tuttavia rimane ancora rivedibile e perfettibile. Non si può però negare il suo merito di promuovere una conoscenza più ampia delle Sacre Scritture e di introdurre in maniera più completa nel mistero celebrato. Nell’attuale lezionario possiamo distinguere tra i tempi forti e il tempo ordinario. I tempi forti, come è noto, sono l’Avvento, la Quaresima e il tempo postpasquale. Nel tempo di Avvento guida la lettura continua del libro di Isaia, il profeta che meglio previde il mistero dell’incarnazione, della nascita da una vergine e della passione del Messia; nei giorni poi più direttamente precedenti il Natale accompagnano anche i vangeli dell’infanzia, quello di Matteo e soprattutto quello di Luca, che stabilisce un parallelo tra gli eventi iniziali di Giovanni il precursore e quelli del Messia. Il tempo del Natale poi è accompagnato, oltre che dagli eventi dell’infanzia di Gesù, soprattutto dalla prima lettera di Giovanni, il cui messaggio è che il Verbo eterno, incarnandosi nella nostra realtà umana, è venuto a manifestarci l’eterno amore di Dio. Nel tempo pasquale è proposta la lettura continua del libro lucano degli Atti degli Apostoli e del vangelo di Giovanni. Quest’ultimo indica la maniera come fare esperienza del Signore risorto, nel battesimo, nell’Eucaristia, nell’amore vicendevole; inoltre suscita l’attesa del dono dello Spirito Santo, orienta i cuori verso il Padre al quale

16

Cfr. SC 35,1.


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La relazione tra la Scrittura e la Liturgia

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Gesù è salito e al quale i discepoli sono chiamati a salire con Lui. Il libro degli Atti degli Apostoli invece descrive il cammino della chiesa nel mondo, la cui crescita è determinata dalla Parola di Dio, predicata dagli Apostoli, ma diffusa con la potenza dello Spirito Santo; indica inoltre qual è l’impegno prioritario della chiesa e dei singoli cristiani nel mondo: testimoniare il Signore risorto, perché tutti possano pervenire alla fede. Più eterogenee appaiono le letture del tempo quaresimale, che non seguono specifici libri biblici, ma particolari tematiche, illustrate magari da letture appropriate. Tali tematiche riguardano le opere quaresimali, l’impegno di conversione, la progressiva introduzione nel mistero della passione e morte di Gesù, fino al culmine costituito dalla lettura della narrazione della passione di Gesù nella settimana santa. Nel tempo ordinario il lezionario segue piuttosto una lettura continua sia dei tre vangeli sinottici, partendo, nei tre cicli annuali, da un evangelista per poi aprirsi anche agli altri, sia, alternati, dei vari libri dell’AT e del NT. Anche in questa lettura continua, che forse andrebbe rivista e meglio divisa nelle varie pericopi, si può scorgere un aspetto tematico: è delineato il tempo della chiesa, con la sua indole e le sue esigenze. 4. CONCLUSIONE Abbiamo tentato di evidenziare, in questo nostro intervento, le istanze della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium sul rapporto tra la Scrittura e la liturgia. Abbiamo percepito che le due parti non sono giustapposte, ma intimamente connesse. Abbiamo tentato anche di chiarire questa intima connessione. Possiamo allora concludere che, tra di esse, esiste una stretta interazione. La liturgia nasce dall’evento narrato che viene poi celebrato; ciò vale sia per l’AT, dove tra l’evento storico e la sua celebrazione c’è lo spessore della trasmissione orale e la formazione di un racconto, sia anche per il NT dove tra l’evento di Gesù e la sua celebrazione c’è la predicazione apostolica che interpreta l’evento stesso, lo narra e lo propone anche in forma scritta.


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Attilio Gangemi

È possibile però dire anche dire il contrario. Certi testi dell’AT, che hanno piuttosto il carattere non di un racconto storico, ma di un rituale liturgico, presuppongono già una celebrazione. In certi testi poi del NT si coglie in maniera più evidente, il loro fondamento liturgico. Così la lettera agli Ebrei appare più come una omelia eucaristica, come anche la prima lettera di Giovanni che, più che battesimale, sembra essere omelia eucaristica. Lo sfondo battesimale si coglie meglio nella prima lettera di Pietro; l’Apocalisse sembra essere una rilettura della vita cristiana, aperta alla speranza futura, alla luce del mistero che si celebra nel giorno del Signore; lo stesso quarto vangelo sembra gravitare attorno al mistero della Parola di Dio divenuta pane. Nell’attuale connessione liturgica, in cui la proclamazione della Parola precede la celebrazione dell’evento, tale interazione appare anche chiara: la Parola di Dio proclamata introduce e spiega il senso dell’evento, l’evento celebrato poi attua ciò che è proclamato dalla Parola di Dio. Ciò emerge soprattutto in relazione all’Eucaristia. Questa appare non solo come il compendio del mistero di Gesù, dalla sua preesistenza alla sua parusia, ma anche della storia della salvezza e del tempo della chiesa, che sacramentalmente già sperimenta quell’unità che realizzerà man mano nella storia e anela verso il ritorno del Signore, la cui venuta, in certo senso è anticipata. La Scrittura spiega, nelle varie tappe dell’anno liturgico, quello che già è contenuto nel segno sacramentale. Riconosciamo che queste nostre sono semplicemente delle riflessioni incipienti, che esigono ulteriore e più approfondita ricerca e riflessione; riteniamo tuttavia che il rapporto Scrittura-Liturgia è molto stretto e la sua chiarificazione aiuterebbe a comprendere meglio il duplice tesoro prezioso nella chiesa, la Scrittura e i Sacramenti: non Scrittura senza i sacramenti, né i sacramenti senza la Scrittura. Aiuterebbe inoltre i cristiani ad accostarsi con maggiore impegno alle S. Scritture e a vivere più intensamente e con maggiore coscienza il mistero di Cristo presente nei sacramenti della chiesa.


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INDICE

SOMMARIO

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INTRODUZIONE .

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CONCILIO E LITURGIA: RECEZIONE E PROSPETTIVE DELLA SACROSANCTUM CONCILIUM (Matias Augé cmf) . . . . . . . . . . . . 1. Il problema ermeneutico del Vaticano II . 2. Dal cuore della costituzione SC al cuore della riforma liturgica 3. Alcune questioni particolari . . . . . . 4. La ritualità e il senso del sacro . . . . . 5. Conclusioni . . . . . . . .

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Seminario interdisciplinare del 12 dicembre 2012 “Nodi emergenti dei grandi temi della costituzione conciliare Dei Verbum” LA COSTITUZIONE DOGMATICA “DEI VERBUM”. ASPETTI BIBLICI (Attilio Gangemi) . . . . . . . . 1. Il proemio (n. 1) . . . . . . . 2. Il disegno di Dio rivelato (n. 2) . . . . . 3. La preparazione della rivelazione evangelica (n. 3) . . . 4. La rivelazione in Cristo (n. 4) . . . . . 5. Qualche completamento . . . . . . 6. La necessità della fede (n. 5) . . . . . . 7. Conclusione . . . . . . . .

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IL RIFERIMENTO AI PADRI DELLA CHIESA IN DEI VERBUM (Francesco Aleo) . . . . . . . Introduzione . . . . . . . 1. Lo Studio dei Padri: necessità di un approccio nuovo . 2. Teologia e Storia nel Concilio Vaticano II: il ruolo dei Padri 3. Il Riferimento ai Padri della Chiesa nella Dei Verbum . Conclusioni . . . . . . .

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PENSARE OGGI LA TRADIZIONE (Nunzio Capizzi) . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . 1. Il capitolo II della Dei Verbum: presentazione generale e sottolineature 2. Qualche problema nodale nell’odierna teologia cattolica della Tradizione

51 51 54 57 59 82

85 85 86 90

SULL’ISPIRAZIONE E SULLA VERITÀ DELLA SACRA SCRITTURA IN DEI VERBUM 11. ELEMENTI DI ANALISI STORICA E TEOLOGICA (Adriano Minardo) . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . 1. Sull’ispirazione . . . . . . . . 1.1. Uso e significato del termine . . . . . 2. Sull’inerranza . . . . . . . . 3. Sull’ispirazione e la verità della Scrittura in Dei Verbum 11 . . 3.1. La redazione del primo schema . . . . . 3.2. Dal secondo al terzo schema . . . . . 3.3. Dal quarto schema alla promulgazione di Dei Verbum . . Conclusione . . . . . . . .

95 95 100 101 109 115 117 118 120 124

LA RICEZIONE DELLA DEI VERBUM (Carmelo Raspa) . . . . Introduzione . . . . 1. Esegesi e Magistero . . . 2. Un vuoto da colmare . . . 2.1. La catechesi . . . 2.2. La Verbum Domini e l’omiletica . Conclusione . . . .

127 127 128 131 132 133 135

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Seminario interdisciplinare del’8 aprile 2014 “La costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium” SACRAMENTO E SACRAMENTI IN SACROSANCTUM CONCILIUM: L’APPORTO DEI PADRI DELLA CHIESA (Francesco Aleo) . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . 1. Sacramento, sacramenti e chiesa . . . . . 2. La riflessione patristica dei primi secoli . . . . 2.1. Sacramentum / mystérion, sacramenta / mystéria . . . 2.2. Il contributo di Tertulliano . . . . . 2.3. Il contributo di Ambrogio . . . . . 2.4. Il contributo di Agostino . . . . . . 3. Alcune considerazioni . . . . . . . 4. Loci patristici nella Sacrosanctum Concilium . . . 5. Sacramentum e sacramenta in Sacrosanctum Concilium: il contributo di Cipriano e di Agostino . . . . . . Conclusioni . . . . . . . .

139 139 142 145 148 151 152 154 157 159 161 168

L’ECCLESIOLOGIA DELLA SC NEL QUADRO DEL MAGISTERO CONCILIARE (Pietro Scardilli) . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . 1. Sacrosanctum Concilium e Lumen Gentium . . . . 2. Sacrosanctum Concilium e Dei Verbum . . . . 3. Sacrosanctum Concilium e Gaudium et Spes . . . . 4. SC 50 anni dopo: tra attuazione e cammino ancora da compiere .

173 173 175 181 182 183

LA RICEZIONE DELLA SACROSANCTUM CONCILIUM NEL CODEX JURIS CANONICI DEL 1983 (Giuseppe Gurciullo) . . . . . . . Premessa . . . . . . . . . 1. Concezione di Liturgia nel CJC del ’83 . . . . 2. La ricezione della Sacrosanctum Concilium nel CJC del ’83 . 2.1. Nel II libro del CJC del ’83 . . . . . 2.2. Nel III libro del CJC del ’83 . . . . . 2.3. Nel IV libro del CJC ’83 . . . . . . Conclusione . . . . . . . .

191 191 193 195 199 201 204 205


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LA LITURGIA: SORGENTE E NORMA DELL’AGIRE MORALE SECONDO LA SACROSANCTUM CONCILIUM (Salvatore Consoli) . . . . . . . . 1. Il contesto in breve . . . . . . . 2. La Sacrosanctum Concilium . . . . . . Conclusioni . . . . . . . .

207 207 210 214

LA RELAZIONE TRA LA SCRITTURA E LA LITURGIA ALLA LUCE DELLA SACROSANCTUM CONCILIUM (Attilio Gangemi) . . . . . . . . 1. Le indicazioni esplicite del concilio . . . . . 2. L’intima natura della liturgia . . . . . . 3. Alcune nostre riflessioni sul rapporto Scrittura-Liturgia . . 3.1. Scrittura e liturgia nell’AT . . . . . 3.2. Scrittura e liturgia nel NT . . . . . 3.3. L’Eucaristia fondamento degli altri Sacramenti . . . 3.4. La Scrittura e il senso del memoriale liturgico . . . 3.4.1. Alcuni testi . . . . . . . 3.4.2. Il lezionario . . . . . . . 4. Conclusione . . . . . . . .

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INDICE

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