Synaxis 30 2 (2012)

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SYNAXIS XXX/2 – 2012

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA 2013



SOMMARIO

Sezione teologica LE PROVOCAZIONI INASCOLTATE DELLA GAUDIUM ET SPES (Severino Dianich) . . . . . . . . 9 L’impostazione teologica fondamentale della GS, con il superamento del dualismo dei fini e il riconoscimento di una economia di grazia, se accolta veramente permetterebbe alla chiesa di trovare la via per potersi inserire dentro la società attuale pluralista, liberale e democraticamente governata. The attitude of the fundamental theological of GS, with the overcoming of the objects of duality and the recognition of an economy of grace, if it is really accepted it would permit the Church to find the way that will enable it to enter into the present, pluralist, liberal and democratically society governed. REALTÀ PAIDEICA ED APPROCCIO PAIDEICO NEL PAIDAGÒGOS DI CLEMENTE D’ALESSANDRIA: PAIDÉIA E PAIDAGOGHÌA (Francesco Aleo) . . . . . . . . 21 La relazione intersoggettiva, in particolare il rapporto tra il maestro ed il suo discepolo nella cultura filosofica ellenistica, viene assunto da Clemente d’Alessandria, discepolo di Panteno, il cui insegnamento fondato sul «prato profetico ed apostolico», sull’Antico e sul Nuovo Testamento, è completato con l’integrazione di “pratiche” filosofiche, quali la ricerca e l’ascolto, in uso nelle scuole filosofiche del tempo. Paidèia e Paidagoghìa sono così i termini che denotano questa relazione “educativa” nel Paidagògos di Clemente in vista dell’umanazione e dell’impostazione di una valida realtà paideica, nonché di un efficace approccio paideico. The relation between subjects, particularly teacher and scholar, into philosophical hellenistic culture, is assumpted by Clement of Alexandria, scholar of Panthen. The


Panthen’s teaching about «the Apostolic and Prophetic grass», Ancient and New Testament, is completed with “practices” of Alexandria’s philosophical schools in IInd century A.D. Terms of Paidéia and Paidagoghìa in Clement’s Paidagògos denote actually a paideic field and a paideic approach. LA RELAZIONE TRA CORPO E PREGHIERA NEL LIBRO DEGLI ESERCIZI SPIRITUALI DI SANT’IGNAZIO DI LOYOLA (Andrea Zappulla) . . . . . . . . 63 Il presente contributo, tratto dalla tesi di Baccalaureato dell’autore. Il ruolo del corpo nella dinamica degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola ha lo scopo di esaminare la relazione che intercorre tra corpo e preghiera negli Esercizi spirituali. Il tempo, l’ambiente, le posizioni del corpo, i diversi modi di pregare, l’ascesi ed il vitto nonché la penitenza, riletta alla luce dell’esperienza ignaziana, fanno comprendere la preghiera come incontro con il Signore, in cui il corpo e la corporeità acquisiscono un ruolo fondamentale. This paper, taken from the author’s Bachelor thesis: the role of the Body in the dynamic of the Spiritual Exercises of St. Ignatius of Loyola, aims to examine the relationship between body and prayer in the Spiritual Exercises. The weather, the environment, the positions of the body, the different ways of praying, asceticism and meals as well as penance, reinterpreted in the light of Ignatian experience, they make understand the prayer as the encounter with Lord, in which the body and corporeity acquire a fundamental role.

Sezione miscellanea ROSMINI ANTICIPATORE DELLA SVOLTA PERSONALISTICA NELL’ETICA SOCIALE CRISTIANA. CONTEMPORANEAMENTE UN CONTRIBUTO ALLA DETERMINAZIONE DEL RAPPORTO TRA ROSMINI E TAPARELLI SULL’ETICA DEL DIRITTO (Markus Krienke) . . . . . . . . 99 Un paragone approfondito tra le contemporanee Filosofie del diritto di Rosmini e di Taparelli porta al seguente risultato: mentre il gesuita inaugura quel paradigma di “diritto naturale” che doveva determinare l’inizio della Dottrina sociale della Chiesa con le encicliche Rerum novarum e Quadragesimo anno, il Roveretano ha anticipato la svolta paradigmatica dal diritto naturale neoscolastico al diritto personalistico come essa avvenne nei documenti del Concilio Vaticano II. Anche se Taparelli usa per la prima volta il concetto di “giustizia sociale”, è la comprensione rosminiana del termine da considerare rilevante oggi. A comparison between Rosmini’s and Taparelli’s Right’s Philosophies bring to subsequent result: while Jesuit begin paradigm of “natural Right” with the beginning of Church’s social doctrine in Rerum novarum and Quadragesimo anno, Roveretan anti-


cipates the paradigmatic turning from neo-scholastic natural Right to personalistic right as in Vatican’s II documents. Taparelli’s concept of “social equity” is a novity, but today, the rosminian understanding of term is very important. INEDITI DI S. CATERINA DE’ RICCI NEL CARMELO DI S. MADDALENA DE’ PAZZI IN FIRENZE (Chiara Vasciaveo) . . . . . . . . 137 Alessandra de’ Ricci (1522-1590), figlia dei nobili fiorentini Pier Francesco e Caterina di Ridolfo da Panzano, fu religiosa nella comunità di terziarie domenicane di s. Vincenzo di Prato. Riconosciuta come santa della Chiesa cattolica a partire dal 1746, i Ratti, insieme alle Lettere (1542-1590), costituiscono l’opera letteraria della santa pratese. È possibile affermare che la traccia dei Ratti cateriniani, abbia costituito uno dei moduli formali degli scritti di Maria Maddalena de’ Pazzi, che sarebbe venuta a conoscenza delle performances cateriniane, da ragazza, dalle letture di refettorio o sala di lavoro, una volta entrata nel Carmelo. Questo pone interessanti problemi di natura filologica e di critica testuale. Alessandra de 'Ricci (1522-1590), daughter of the noble Florentine Pier Francesco and Caterina di Ridolfo from Panzano, was a religious in the community of Dominican Tertiaries of s. Vincent of Prato. Recognized as a saint of the Catholic Church from 1746 onwards, his Ratti, along with Letters (1542-1590) constitute the literary work of the holy woman from Prato. It’s possible to affirm that the trace of caterinian Ratti, have been constituted one of the formal module of the writings of Maria Maddalena de 'Pazzi, who would have become aware of the cateriniane performances, as a girl, from the readings of the refectory or working room, after her admission to Carmel. This poses interesting problems of philological nature and textual criticism. IL CONTROVERSO EPISCOPATO DI UN PUGLIESE (ARCI)VESCOVO DI CATANIA: FELICE REGANO DA ANDRIA (1839-1861) (Gaetano Zito) . . . . . . . . 159 Dal 1839 al 1861, anni di grandi mutazioni socio-politiche e culturali in Sicilia, fu vescovo di Catania il pugliese Felice Regano. Il vescovo prese parte ai moti politici del 1848 e, in special modo, comprese che ormai era indispensabile intervenire in modo drastico sulla prassi pastorale, sull'accesso al sacerdozio, la formazione e la vita del clero, sulla predicazione dei religiosi e la vita interna nei monasteri femminili. Si impegnò in prima persona a favore dei poveri al punto da ricevere l'appellativo di pater pauperum. Modalità di intervento spesso bruschi e resistenze alle direttive di riforma indussero membri del clero catanese a scrivere lettere anonime alla Santa Sede (edite in Appendice) per accusarlo di indegnità e chiederne la rimozione. From 1839 to 1861, years of great in socio-political and cultural changes in Sicily, Catania was under the bishop of the Apulian Felice Regano. The bishop took part in


the political movements of 1848 and, especially, he understood that it was necessary to intervene dramatically on pastoral practice regarding access to the priesthood, the formation and life of the clergy, on the preaching of religious and the inner life in convents. He worked on the first person in favor of the poor to the point of receiving the common noun of the Poor’s father (pater pauperum). Methods of intervention often abrupt and resistance to reform directives led members of the clergy of Catania to write anonymous letters to the Holy See (published in the Appendix) to accuse him of unworthiness and asking for his removal. IL COLLEGIO «MARIA SS. DELLA PROVVIDENZA» DI ACI SANT’ANTONIO (1812-2012) (Adolfo Longhitano) . . . . . . . . 187 Le vicende del Collegio Maria SS. della Provvidenza di Aci Sant’Antonio dalla sua fondazione (12 gennaio 1812) ai nostri giorni sono analizzate nel quadro dei problemi dell’istruzione pubblica in Sicilia e degli avvenimenti politici che segnarono l’Ottocento: la costituzione del 1812, i moti antiborbonici, la restaurazione, l’Unità d’Italia. Dimostrando la sua natura laicale riuscì ad evitare la soppressione e adeguandosi alle necessità locali fu per quasi due secoli un centro di istruzione, di apprendimento delle arti femminili e di formazione per le ragazze di Aci Sant’Antonio. The events of the Boarding school Holy Mary of Providence of Aci Saint Antonio, from its foundation (January 12, 1812) to the nowadays, they are analyzed in the picture of the problems of public education in Sicily and some political events that marked the nineteenth century: the constitution of 1812, the motions against the Bourbons, the Restoration, the Unification of Italy. Demonstrating its laical nature, The boarding school succeeded to avoid the suppression and adapting itself to the local needs it was for nearly two centuries a center of education, learning and training of some female arts and the formation for the girls of Aci Saint Antonio.

UN’OPERA INEDITA DI ANTONINO AMATO. LA FACCIATA DELLA CHIESA DI MARIA SS. DELLE GRAZIE A TREMESTIERI (Salvo Calogero) . . . . . . . . 207 Nell’Archivio di Stato di Catania, fra gli Atti del notaio Vincenzo Arcidiacono senior del 20 marzo 1710, si trova il contratto di “staleum” fra il «Rev.do Sac.te Don Nunzio Nicolosi» e «magister Antonino de Amato» allo scopo di «farci ed intagliarci una porta di pietra bianca» da porsi nella facciata della chiesa di Santa Maria delle Grazie, nel Piano di Tremestieri. Il contributo dimostra, pertanto, come la facciata della suddetta chiesa è opera inedita del messinese Antonino Amato, indiscusso protagonista nella ricostruzione di Catania dopo il terremoto del 1693. In the State Archive of Catania, among the acts of Notary Vincent Archdeacon senior of 20 March 1710, there is the contract of “staleum” between the «Rev.do Sac.te Don


Nunzio Nicolosi» and «magister Antonino de Amato» with the aim of «making and cutting for us a white stone door» for placing to the front of the Church of saint Mary of Grace, in the surface of Tremistieri. The contribution shows, therefore, as the façade of this Church is unpublished work of Antonino Amato of Messina, undisputed protagonist in the reconstruction of Catania after the earthquake of 1693.

Note ELEMENTI PER LA RIDEFINIZIONE DELLA CRONOTASSI DEI VESCOVI DI CATANIA DI ETÀ PALEOCRISTIANA E BIZANTINA (Vittorio G. Rizzone) . . . . . . . . 247 Il contributo si pone come scopo di presentare un riassetto della cronotassi episcopale di Catania dal periodo più antico fino alla conquista normanna esclusa. Alla luce di nuovi dati — in particolare dei sigilli di vescovi comparsi nel mercato antiquario o conservati in collezioni pubbliche o private — e della rilettura delle fonti storiche è possibile proporre una nuova lista meno ricca di nomi, ma più fedele alla storia. The aim of the paper is to present a rearrangement of the Episcopal list of Catania from the early Christian and byzantine periods until the Norman conquest excluded. On the light of the new data – particularly the seals of bishops appeared in the antique trade or kept in private and public collections – and some revision of the historical sources, it is possible to propose a new list which is less rich in names, but more faithful to the history.

Presentazioni

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Recensioni .

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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

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INDICE

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Sezione teologica Synaxis 2 (2012) 9-19

LE PROVOCAZIONI INASCOLTATE DELLA GAUDIUM ET SPES *

SEVERINO DIANICH**

PREMESSA Al di sopra delle discussioni sul rapporto fra il carattere dottrinale e quello pastorale della GS non va dimenticato l’asserto di GS 91: «Quanto viene proposto da questo santo Sinodo fa parte del tesoro dottrinale della Chiesa». Paolo VI nel Discorso di chiusura del concilio: «E non solo l’immagine della Chiesa manda ai posteri questo Concilio, ma il patrimonio altresì della sua dottrina e dei suoi comandamenti, il «deposito» ricevuto da Cristo e nei secoli meditato, vissuto ed espresso, ed ora in tante sue parti chiarito, stabilito e ordinato nella sua integrità».

Una delle obiezioni più frequenti alla GS è che i Padri si sarebbero lasciati coinvolgere in un particolare clima di ottimismo determinato da alcune vicende del momento storico. Non vedeva così Paolo VI che è ben consapevole degli aspetti drammatici del tempo, che egli descrive come: «[…] un tempo, che ognuno riconosce come rivolto alla conquista del *

Appunti del relatore per la prolusione tenuta in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Accademico dello Studio Teologico S. Paolo di Catania il 26 ottobre 2012. ** Docente di Ecclesiologia presso la Facoltà di Teologia dell’Italia Centrale di Firenze.


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Severino Dianich regno della terra piuttosto che al regno dei cieli; un tempo, in cui la dimenticanza di Dio si fa abituale e sembra, a torto, suggerita dal progresso scientifico; un tempo, in cui l’atto fondamentale della personalità umana, resa più cosciente di sé e della sua libertà, tende a pronunciarsi per la propria autonomia assoluta, affrancandosi da ogni legge trascendente; un tempo, in cui il laicismo sembra la conseguenza legittima del pensiero moderno e la saggezza ultima dell’ordinamento temporale della società; un tempo, inoltre, nel quale le espressioni dello spirito raggiungono vertici d’irrazionalità e di desolazione».

Una seconda obiezione vuole che la GS presenti dei cedimenti al secolarismo e al relativismo. Paolo VI già la conosceva e riconosceva che il concilio «è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento. Questo atteggiamento […] è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone ed atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo».

La sua risposta è netta e dà la motivazione più alta: l’ispirazione della carità: «Noi non crediamo che questo malanno si debba ad esso imputare nelle sue vere e profonde intenzioni e nelle sue autentiche manifestazioni. Vogliamo piuttosto notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità; […] Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo».


Le provocazioni inascoltate della Gaudium et spes

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Infine, i Padri si rendevano conto che il loro documento toccava argomenti sottoposti a una continua e rapida evoluzione. Non per questo ritennero che il loro pensiero avrebbe dovuto essere rapidamente superato e abbandonato «Certo dinanzi alla immensa varietà delle situazioni e delle forme di civiltà, questa presentazione non ha volutamente, in numerosi punti, che un carattere del tutto generale; anzi, quantunque venga presentata una dottrina già comune nella Chiesa, siccome non raramente si tratta di realtà soggette a continua evoluzione, l’insegnamento presentato qui dovrà essere continuato ed ampliato»1.

1. LA PRIMA E FONDAMENTALE PROVOCAZIONE INASCOLTATA Più che di varie provocazioni inascoltate, mi pare che ce ne sia una fondamentale di natura strettamente teologica, ma non per questo meno carica di esigenze di rinnovamento nella prassi della Chiesa: è il superamento della dottrina, tipica della scolastica moderna, del dualismo dei fini. L’attribuzione al mondo e alla storia di un fine naturale e di un fine soprannaturale fu per secoli il supporto dell’impostazione dei rapporti fra la Chiesa e il mondo. La formula dei due fini permetteva, in nome di una supposta ordinazione del mondo a un fine naturale di determinare una certa autonomia del temporale nel suo ambito. La convinzione di fede, però, che la natura è corrotta e non è in grado di raggiungere il suo fine senza la grazia, produceva una visione del mondo come massa di peccato o come vuoto reale di valori, che poteva essere redento solo dalla rivelazione veicolata dalla Chiesa, dalla sua predicazione e dai suoi sacramenti, venendo così a fondare la dottrina del potere indiretto della Chiesa sulla società civile e lo stato, perché di fatto impotenti a sanare la situazione umana e permetterle il raggiungimento del suo fine.

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Gaudium et Spes, 91.


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Severino Dianich

Surnaturel del P. De Lubac 1947, Uditori della parola di K. Rahner 1941l2, Abbattere i bastioni di Von Balthasar 1952 avevano aperto una via diversa. La riscoperta del desiderium videndi Deum (Tommaso) insito nel cuore di ogni uomo e di una dimensione obedienziale della natura umana (Rahner: il trascendentale in Uditori della Parola) nei confronti dell’elevazione soprannaturale dell’uomo comportavano il recupero della dimensione universale del dono salvifico della grazia che sfocerà in LG 2: se per la volontà salvifica universale del Padre la grazia di Dio è operante dovunque la Chiesa non può pensarsi esistente esclusivamente dentro le sue mura, ma presente in mistero in tutta la storia, fino a quando «tutti i giusti, a partire da Adamo, “dal giusto Abele fino all’ultimo eletto”, saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale». Questo riconoscimento di una economia di grazia che avvolge tutta la storia comporta una visione del mondo come destinato ad un unico fine «[…] la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale»2.

Da questo nuovo quadro dottrinale il concilio derivava il bisogno di una svolta nell’atteggiamento della prassi ecclesiale: dalle discussioni sul potere diretto e indiretto della Chiesa sulla società civile si passava alla ricerca delle virtualità, dei rapporti, delle presenze di grazia che la storia come tale è in grado di rivelare nei confronti della storia della salvezza. «Essendo Dio Padre principio e fine di tutti, siamo tutti chiamati ad essere fratelli. E perciò, chiamati a una sola e identica vocazione umana e divina, senza violenza e senza inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla costruzione del mondo nella vera pace»3.

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Ibid., 22. Ibid., 91.


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Tutto questo ha comportato nella GS uno sguardo nuovo sul mondo, da non considerare solo come umanità deviante né come un vuoto di valori, ma come l’interlocutore naturale della Chiesa al quale essa offre la ricchezza della sua fede, e dal quale essa riceve valori e stimoli presenti nella sua storia e nelle diverse culture. 2. DALLA GS ALLA PROBLEMATICA ATTUALE Dal concilio ad oggi, nei paesi di antica tradizione cristiana, il fattore evolutivo più rilevante sembra essere stato l’avvento di una società culturalmente e religiosamente pluralista, non solo per l’immigrazione di persone di altra religione, ma anche per la diminuzione del battesimo dei bambini e per il rilevante flusso di uscita dalle chiese e/o di abbandono della fede. La nuova situazione sta producendo un’accelerazione dei processi di laicizzazione dello stato e di tutte le strutture pubbliche, una progressiva erosione del residuo esercizio di quel tanto di potere indiretto sulla società civile che ancora persiste, una delegittimazione della posizione tradizionalmente privilegiata della Chiesa nei confronti delle altre religioni e una diminuzione effettiva del consenso sociale nei confronti dei pronunciamenti del magistero sui problemi in discussione. Contemporaneamente, soprattutto per l’approdare nelle sedi legislative dei numerosi e gravi problemi suscitati dalle nuove biotecnologie e per le corrispettive prese di posizione della Chiesa sta crescendo l’antagonismo fra la Chiesa, la cultura diffusa e molte agenzie socio-politiche protagoniste del dibattito. Quanto più la presa di posizione dell’autorità ecclesiastica tende, al di là della proclamazione di principio, a determinare la decisione in sede legislativa tanto più la sua azione viene assimilata ad una nuova forma di esercizio di un potere indiretto sullo stato. Ne derivano nell’opinione pubblica diffuse correnti di diffidenza verso tutta la missione della Chiesa che producono inevitabilmente un blocco alla sua stessa possibilità di annunciare il Vangelo e comunicare la fede. Di questo GS 76 esplicitamente si era preoccupata, fino a progettare l’atteggiamento per il quale la Chiesa «rinunzierà all’esercizio di


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certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza». Perché «la sincerità della testimonianza» da rendere a Cristo non risulti offuscata è necessario riferirsi alla apostolica vivendi forma «Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell’esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri della città terrestre».

Ora, la Chiesa non può rinunciare a dare il suo contributo alla società proponendole i valori morali in cui crede «Ma sempre e dovunque, e con vera libertà, è suo diritto predicare la fede e insegnare la propria dottrina sociale, esercitare senza ostacoli la propria missione tra gli uomini e dare il proprio giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime»4.

Ora, «le vie e i mezzi propri del Vangelo» non sono quelli dell’acquisizione e dell’esercizio di un potere, sia pure di quello da acquisire attraverso il più legittimo dei mezzi, la raccolta democratica del consenso. La forma evangelii è la forma Christi, e Gesù nella sua vita pubblica ha sempre rifiutato di scegliere la via del potere. Nel colloquio con Pilato (Gv 18, 28-40) egli esplicita la forma della sua missione messianica: «Il mio regno non è di questo mondo». Egli non intende dire che il suo regno non ha nulla a che fare con i problemi “di questo mondo”, ma nega la provenienza del suo potere da questo mondo (ouk éstin ek tou˘ kósmou toútou) e quindi ne indica una qualità diversa, preferendo all’uso della sua exousìa di fronte ai poteri mondani l’atteggiamento dell’inermità: «Se il mio regno fosse

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Ibid., 76.


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di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei». Abbiamo quindi nei vangeli una testimonianza della prassi di Gesù nei confronti del potere che fa testo per la prassi della Chiesa. Gli strumenti del potere, infatti, per legittimi che siano, mettono a repentaglio di fronte al mondo «la sincerità della sua testimonianza». La sua non fu la via del vincere, visto che Gesù si è costantemente inibito di percorrerla, ma la via del convincere. 3. PROPOSTA DI VALORI UMANI E PROPOSTA DEL VANGELO Dalla dottrina su Cristo come unico fine della storia umana i Padri coerentemente derivano una impostazione del dialogo della Chiesa con il mondo che comporti dalla parte della Chiesa soprattutto la proposta della fede nel Vangelo di Gesù. GS 3 ritiene che la Chiesa debba operare «instaurando con questa un dialogo sui vari problemi sopra accennati, arrecando la luce che viene dal Vangelo». La missione della Chiesa è chiamata ad affidarsi più che all’elaborazione di tutte le sue capacità argomentative, alla forza della testimonianza della sua fede. GS 12 ritiene che di fronte ai grandi problemi dell’uomo la Chiesa «può dare una risposta che le viene dall’insegnamento della divina Rivelazione». Agli atei stessi i Padri conciliari non temono di rivolgere l’invito «a volere prendere in considerazione il Vangelo di Cristo con animo aperto»5. Non solo non si nutre il timore che se «la missione della Chiesa si mostra di natura religiosa»6, essa non riesca ad offrire una vasta gamma di valori umani, ma al contrario si ritiene che proprio in tal modo essa si mostrerà «per ciò stesso profondamente umana». GS 33 piuttosto pensa che la Chiesa debba, «anche se non ha sempre pronta la soluzione per ogni singola questione […] unire la 5 6

Ibid., 21. Ibid., 11.


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luce della Rivelazione alla competenza di tutti allo scopo di illuminare la strada sulla quale si è messa da poco l’umanità». Se ne deriva l’osservazione che «con quanta maggiore umanità e amore penetreremo nei loro modi di vedere», tanto più potremo fruttuosamente dialogare con «coloro che pensano od operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose». Con ciò il concilio non propone affatto una rinuncia alla proposta al mondo della verità, ma che «è l’amore stesso che spinge i discepoli di Cristo ad annunziare a tutti gli uomini la verità che salva». Per cui «occorre distinguere tra errore, sempre da rifiutarsi, ed errante, che conserva sempre la dignità di persona, anche quando è macchiato da false o insufficienti nozioni religiose»7. GS, pur non disdegnando il riferimento al dialogo sulla base della ragione e della legge naturale8 mai pare voler favorire l’idea che l’unica base possibile per interloquire con la società secolarizzata sia quella dell’argomentazione razionale e dei diritti dell’uomo universalmente sanciti, quasi che si dovessero delineare nella missione due percorsi separati. Sarebbe quello della pura predicazione del Vangelo, destinato solo a chiamare alla fede e alla conversione personale e quello della proposta di principi e di valori desumibili dalla sola ragione che, proprio per questo, si presume dovrebbero essere condivisi da tutti. Aver affermato che «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo»9. Ha voluto dire che ogni uomo, anche se non ne riconosce la natura e la missione divina, trova in lui valori fondamentali di umanità. La sua vicenda umana, del resto, fa parte della storia di tutti gli uomini, e si propone ad ogni uomo non solo nell’imponenza della sua condizione divina, ma anche nella ricchezza della sua umanità. Scriveva Henry De Lubac: «Se infatti il cristianesimo è divino, tutto divino, è anche in un certo senso umano, tutto umano, ed è venuto a trasformare l’uomo e rinnovare la 7

Ibid., 52. Cfr. ibid., 74, 79, 89. 9 Ibid., 22. 8


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faccia della terra, insinuandosi, senza lacerarlo, nel fitto tessuto della storia umana»10.

Per questo GS 42 ritiene che «la forza che la Chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea consiste in quella fede e carità effettivamente vissute, e non in una qualche sovranità esteriore esercitata con mezzi puramente umani».

E in GS 40 la Chiesa del concilio «crede di poter contribuire molto a umanizzare di più la famiglia degli uomini e la sua storia» proprio in forza della «fede e carità effettivamente vissute» perché «Nessuna legge umana è in grado di assicurare la dignità personale e la libertà dell’uomo, quanto il Vangelo di Cristo»11. 4. PER UN NUOVO EQUILIBRIO ALL’INTERNO DELLA CHIESA La difficoltà di conciliare la responsabilità della Chiesa nei confronti della sviluppo della società e al servizio del bene comune con la necessità di esercitarla non sulla via del potere ma in forma evangelica sollecita la Chiesa a ricostituire un nuovo equilibrio all’interno dei diversi carismi che sostengono la sua missione. GS 43 traccia una linea che in realtà attende ancora di essere attuata: «Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali». In questo campo non si pensa affatto a dei compiti esecutivi rispetto a quello dei pastori «Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena». Nel compimento del loro compito nella “città terrena”, dai loro pastori «i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, 10 11

H. DE LUBAC, Cattolicesimo. Gli aspetti sociali del dogma, Roma 1964, 250. Gaudium et Spes, 41.


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anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione».

Resta il compito del magistero di definire la “dottrina”, che implica i principi morali ai quali attenersi nell’affrontare i problemi, mentre per la loro attuazione ai laici si raccomanda: «assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero». Proprio in quanto l’applicazione dei principi dottrinali nella concreta situazione socio-politica in genere non compromette la fede, se «Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia, altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso […] in tali casi ricordino essi che nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa».

CONCLUSIONE I padri conciliari, con la GS, hanno lasciato alla Chiesa dei nostri tempi un insegnamento che «dovrà essere continuato ed ampliato»12. È la fatica della Chiesa di oggi nel prosieguo vorticoso dell’evoluzione della società. I padri conciliari ne hanno visto la dimensione profonda ed ampia che Paolo VI così descriveva «L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio».

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Ibid., 91.


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Questo non è solo il paradigma della spiritualità del Concilio che resta consegnato alla storia. È lo stile che il concilio ha consegnato alla Chiesa perché la sua missione possa sempre brillare per la sua forma evangelica.



Synaxis 2 (2012) 21-61

REALTÀ PAIDEICA ED APPROCCIO PAIDEICO NEL PAIDAGÒGOS DI CLEMENTE D’ALESSANDRIA: PAIDÉIA E PAIDAGOGHÌA

FRANCESCO ALEO*

INTRODUZIONE Il testo del recente Documento della CEI, intitolato Educare alla vita buona del Vangelo, inizia con una lunga citazione tratta dal Paidagògos di Clemente d’Alessandria1. L’esortazione di Clemente, rivolta alla «prole», in greco thrémmata, ossia filiali «creature», intende spingerle ad invocare la «divina pedagogia», allo scopo di «completare la bellezza del volto della Chiesa». Verso la Chiesa, «Madre buona», infatti, accorrono «gli ascoltatori del Logos»2. Il testo di Clemente è ricco di riso*

Docente di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, Educare alla vita buona del Vangelo, Milano 2010, 5-6, nota 1: «O allievi della divina pedagogia! Orsù, completiamo la bellezza del volto della Chiesa e corriamo, noi piccoli, verso la Madre buona; diventando ascoltatori del Logos, glorifichiamo il divino piano provvidenziale, grazie al quale l’uomo viene sia educato dalla pedagogia divina che santificato in questo bambino di Dio: è cittadino dei cieli, mentre viene educato sulla terra; riceve lassù per Padre colui che in terra impara a conoscere.». Si rinvia a CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Il Pedagogo. Introduzione, traduzione e note a cura di Dag Tessore, Roma 2005 (Testi patristici 181), III,99,1,341. Su questo brano, posto alla fine del Paidagògos, ritorneremo più avanti, nel corso del presente saggio. 2 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (III). Traduction de C. Mondésert et C. Matray, notes de H.I. Marrou, Paris 1970 (Sources Chrétiennes 158), III,99,1,184: 1

äW th=j makari¿ou qre/mmata paidagwgi¿aj ... to\ kalo\n th=j e)kklhsi¿aj plhrw¯swmen pro/swpon kaiì pro\j th\n a)gaqh\n prosdra/mwmen oi¸ nh/pioi mhte/ra, kaÄn a)kroataiì tou= lo/gou genw¯meqa, th\n makari¿an doca/zwmen oi¹konomi¿an, ... .


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nanze scritturistiche, spirituali, ecclesiologiche e va attentamente vagliato e studiato. La Paidagoghìa rinvia in Clemente all’Oikonomìa, il «piano provvidenziale divino», al quale si sovrappone e con cui quasi s’identifica. Termini quali thrémmata, paidéia, paidagoghìa, oikonomìa, pròsopon o «volto», akroatés o «ascoltatore», ricchi di senso teologico, concorrono a comporre, nella mente dell’autore l’immagine della Chiesa, quale «Madre» che educa i suoi figli. Soltanto lo studio attento e meditato dei testi, congiunto all’escussione delle fonti antiche, può metterci in grado di comprendere lo Sitz im Leben di Clemente d’Alessandria, autore di un’opera quale il Paidagògos, che si proponeva di affrontare il problema della formazione cristiana come formazione umana, nella società del suo tempo. I termini Paidéia e Paidagoghìa, per Clemente, non indicano tecniche, sistemi o modi dell’ “educativo”; non possono essere perfettamente tradotti in italiano con i termini «Educazione» e «Pedagogia». La Madre accoglie i suoi figli e con loro stringe un rapporto ed una relazione intimi e profondi; in tale rapporto e relazione risiede la vita divina cui prepara, come appunto un pedagogo, il Logos. Questi, la Parola del Padre fatta carne, la persona vivente del Figlio di Dio, manifesta la salvezza agli uomini, educando. È l’«educare» o paidagoghéin del Logos a compiere, secondo Clemente, il rinnovamento profondo dell’umano che, con tutti i suoi aspetti ed i suoi risvolti, viene riconosciuto essere «educazione» o paidéia, luogo teologico con l’Incarnazione, della comunicazione del Logos. Nello stesso tempo, il Logos è l’autocomunicazione della conoscenza divina del Padre, vera Gnosis. Dietro l’invocazione alla «divina pedagogia» ossia al Logos esiste nel Paidagògos l’esigenza e la necessità di definire e modellare una piena formazione umana prima che cristiana, un’umanazione o agoghé, che possa e sappia realizzarsi, concretamente, nella vita o bìos, degli uomini. Paidéia e Paidagoghìa appaiono essere i connotati di un rapporto e di una relazione, in vista di questa umanazione. Il dato estremamente interessante che emerge dallo studio del Paidagògos di Clemente d’Alessandria è quello secondo cui Paidéia e Paidagoghìa si calano in un contesto pluralistico, multiculturale, multietnico e multireligioso, qual era Alessandria d’Egitto, al suo tempo. Il Paidagògos non ricerca soltanto l’inculturazione del cristianesimo nell’ambiente alessandrino ma ne dimostra l’intima rispondenza e


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coerenza al volere del Logos, in vista dell’umanazione3. Prima di esaminare le ricorrenze di Paidéia e di Paidagoghìa nel Paidagògos, vorremmo vagliare le fonti in nostro possesso sulla vita di Clemente, allo scopo di evidenziare alcune linee portanti della sua opera. 1. CLEMENTE D’ALESSANDRIA NELLE FONTI ANTICHE Di Tito Flavio Clemente poco si conosce e su di lui molto si discute ancora oggi4. Le notizie più numerose e più sicure, riguardanti la sua vita e le sue opere, le apprendiamo da Eusebio di Cesarea e da Epifanio di Salamina, entrambi pienamente appartenenti al IV secolo. Il primo afferma di lui essere stato: «Uomo che, essendo passato per l’esperienza di ogni cosa (pànton péira), rifiutato prontamente l’errore per essere dalla parte del Logos salvifico, si è liberato dei suoi mali, grazie all’insegnamento evangelico»5.

3 Sulla ricerca di una paide/ia autentica, che possa parlare ancora all’uomo d’oggi, filtrata attraverso una rivisitazione delle fonti e degli autori, quali ad esempio, il Socrate dei Dialoghi platonici e il Kirkegaard di Briciole, in vista dell’umanazione e dell’umanarsi, si rinvia a E. DUCCI, La parola nell’uomo. Umanazione e disumanazione nella pneumatologia di Ferdinand Ebner, Brescia 2005, 12: «Una paideia, però, che esigeva, da chi volesse coltivarla come teoresi-prassi, qualche elemento in più rispetto a quelli solitamente richiesti dalla ricerca pedagogica: che importi dell’uomo prima di qualsiasi altra cosa, che si abbia a cuore il suo reale umanarsi, che proprio per questo si ricerchino le fondamenta più solide e gli scandagli più coraggiosi, incuranti delle mode e delle correnti. In altre parole, una serietà capace di dare il senso giusto e il giusto spazio al rigore epistemologico senza limitarsi ad esso». 4 Su Clemente d’Alessandria, la sua vita e le sue opere, vedi C. MORESCHINI – E. NORELLI, Storia della Letteratura cristiana antica greca e latina, Brescia 1996, I,360383; S. DÖPP – W. GEERLINGS (curr.), Dizionario di Letteratura cristiana antica, Roma 2006, 200-203. Sui problemi, inerenti la sua vita e la sua formazione culturale ed intellettuale, vedi G. LAZZATI, Introduzione allo studio di Clemente Alessandrino, Milano 1939; C. MONDÉSERT, Clement d’Alexandrie. Introduction à l’étude de sa pensée religieuse à partir de l’Ecriture, Paris 1944; S. LILLA, Clement of Alexandria. A study in Christian Platonism and Gnosticism, London 1971. 5 EUSEBIO DI CESAREA, Praeparatio evangelica, II,2,60, in PG 21,120 A: pa/ntwn me\n

dia\ pei¿raj e)lqwÜn a)nh/r, qa=tto/n ge mh\n th=j pla/nhj a)naneu/saj, w¨j aÄn pro\j tou= swthri¿ou lo/gou kaiì dia\ th=j eu)aggelikh=j didaskali¿aj tw½n kakw½n lelutrwme/noj.


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Inferiamo così che era di famiglia pagana6. Dal secondo, apprendiamo che: «Alcuni dicono che Clemente è alessandrino altri ateniese»7. Incerta, sembra, dunque, essere la sua città natale. Da Clemente stesso, apprendiamo che viaggiò molto, poiché negli Stròmata o «Tappezzerie», egli enumera i suoi maestri: «Fra costoro, uno era Ionico, dell’Ellade, altri della Magna Grecia, un altro ancora della Celesiria, uno dell’Egitto, altri dell’Oriente; di lì, uno (era) Assiro, l’altro, per origine, Ebreo di Palestina: m’imbattei nell’ultimo (mio maestro), il primo, però, per capacità (dýnamis) e dopo avergli dato la caccia (therào), essendosi nascosto, mi fermai allora in Egitto. Era costui ape sicula che coglieva i fiori dal prato profetico ed apostolico, che ingenerò (enghennào) nelle anime di coloro i quali lo ascoltavano (akròamai) un perenne tesoro di conoscenza (gnosis)»8.

Il breve passo citato richiama il Dialogus cum Triphone di Giustino, con il quale presenta una certa analogia. Ai parr. 1-8 della sua opera, Giustino, nella prima metà del II secolo, dinanzi al suo interlocutore giudeo, evoca il suo itinerario giovanile attraverso le varie filosofie del suo tempo: stoicismo, aristotelismo, pitagorismo, La versione italiana di questo come di tutti gli altri brani, riportati in nota, tratti dalle fonti riguardanti Clemente d’Alessandria, è opera dell’autore del presente saggio. La nostra versione italiana dal greco è rigorosamente letterale e verificata sulle versioni italiane e francesi, presenti nelle edizioni critiche e nelle traduzioni consultate. 6 La conoscenza dei Misteri pagani, mostrata da Clemente nei suoi scritti, quali il Protreptikòs, in realtà, non è così approfondita da comprovare la sua ascendenza religiosa pagana e la sua provenienza da Atene, cfr. S. DÖPP – W. GEERLINGS (curr.), Dizionario di Letteratura cristiana antica, 200. 7 EPIFANIO DI SALAMINA, Panarion, 32,6, in PG 41,551 B: Klh/mhj te, oÀn fasi¿ tinej ¹Alecandre/a, eÀteroi de\ ¹AqhnaiÍon. 8

CLEMENT D’ALEXANDRIE, Stromata. Traduction de C. Mondesert et M. Caster, Paris 1951 (Sources Chretiennes 30), I,11,2: tou/twn oÁ me\n e)piì th=j ¸Ella/doj, o( ¹Iwniko/j, oiá de\ e)piì th=j Mega/lhj ¸Ella/doj th=j koi¿lhj qa/teroj au)tw½n Suri¿aj hÅn, oÁ de\ a)p'Ai¹gu/ptou, aÃlloi de\ a)na\ th\n a)natolh/n: kaiì tau/thj oÁ me\n th=j tw½n ¹Assuri¿wn, oÁ de\ e)n Palaisti¿nv ¸EbraiÍoj a)ne/kaqen: u(sta/t% de\ perituxwÜn duna/mei de\ ouÂtoj prw½toj hÅn a)nepausa/mhn, e)n Ai¹gu/pt% qhra/saj lelhqo/ta. Sikelikh\ t%½ oÃnti hÅn me/litta profhtikou= te kaiì a)postolikou= leimw½noj ta\ aÃnqh drepo/menoj a)kh/rato/n ti gnw¯sewj xrh=ma taiÍj tw½n a)krowme/nwn e)nege/nnhse yuxaiÍj.


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platonismo per approdare al cristianesimo, in cui trovò la sola filosofia sicura ed utile9. Rispetto al lungo brano di Giustino, però, le differenze sono sostanziali, in quanto Clemente lascia intendere ai suoi lettori che egli non ha compiuto i suoi viaggi allo scopo di ricercare e trovare dottrine nuove. Clemente, dopo aver incontrato il primo fra i suoi maestri — ultimo solo in ordine di tempo — rievoca il suo vagare per il Mediterraneo orientale. Egli ha incontrato l’«ape sicula», il solo maestro o didàskalos capace di generare in lui la vera «conoscenza» o gnosis, termine ricorrente in tutti gli scritti di Clemente e nel Paidagògos. Alla luce di questo incontro, retrospettivamente, Clemente apprezza e valuta le proprie esperienze precedenti, i propri incontri con gli altri maestri ed in ultima analisi, sé stesso e la propria esperienza “educativa”. Egli stesso discepolo, è diventato a sua volta maestro o didàskalos, grazie ad un incontro decisivo per la sua vita e la sua formazione. I brani sopra riportati, una volta analizzati, ci presentano un uomo che ha vissuto nei suoi viaggi «esperienza di ogni cosa», andando in cerca di un maestro non di una dottrina. Proprio a motivo di un particolare didàskalos, egli ha scelto di stabilirsi ad Alessandria d’Egitto. La notizia incerta di Epifanio, riguardo la sua città natale, può spiegarsi, allora, con l’importanza che la metropoli egiziana assunse nella vita e nella ricerca di Clemente, dovuta all’incontro con colui il quale riconobbe essere il suo vero didàskalos. In un certo senso, Clemente nacque due volte, la prima ad Atene, probabilmente intorno alla metà del II secolo, ma la seconda nascita, la più importante, avvenne ad Alessandria. Queste due città del mondo antico, Atene ed Alessandria, nelle scarne notizie della sua vita, si sovrappongono, con la predominanza della seconda, cui Clemente deve l’epiteto di Alessandrino. Ma quale nome e, soprattutto, quale personalità si celava dietro l’«ape sicula»? Eusebio di 9 Per la lettura in versione italiana del Dialogus cum Triphone di Giustino, si rinvia a G. VISONÀ (cur.), S. Giustino. Dialogo con Trifone, Milano 1988. Per un approfondimento della Teologia del Logos in Giustino, si rinvia anche a D. BOURGEOIS, La sagesse des anciens dans le mystére du Verbe chez Sain Justin philosophe et martyr, Paris 1981.


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Cesarea, nella sua Historia Ecclesiastica, ci informa che quest’epiteto si riferiva a Panteno. Leggiamo infatti: «Quegli (Clemente) per nome ricorda nelle Ypotypòseis, che egli compose, essere Panteno il suo maestro, lo stesso cui mi pare, egli faccia allusione nel primo libro degli Stròmata»10.

Su Panteno, ancora più scarse sono le notizie fornite dal vescovo di Cesarea, di lui dice soltanto che: «Panteno si dice che andasse in India… »11. L’aggettivo “siculo” fa pensare che provenisse dalla Sicilia. Scarse, purtroppo, sono pure le notizie intorno alla permanenza di Clemente ad Alessandria. Sempre Eusebio ci informa che: «A quel tempo, succeduto a Panteno, Clemente assumeva la guida della catechesi di Alessandria, dove, fra i suoi frequentatori (phoitetés), vi era Origene. Clemente, commentando la materia degli Stròmata, pone nel primo libro una lista cronologica, comprendente il periodo di tempo sino alla fine del regno di Commodo, tanto che appare evidente come egli vi s’impegni negli ultimi ritocchi, sotto il regno di Severo, il cui periodo racconta la presente opera»12.

Eusebio si mostra lettore attento di Clemente e studioso della sua biografia, citando lunghi brani delle sue opere13. Tuttavia, le sue notizie 10 EUSÉBEÉ DE CESARÉE, Historia Ecclesiastica (V-VII). Traduction de G. Bardy, Paris 1955 (Sources Chretiennes 41), V,11,2,40: oÁj dh\ kaiì o)nomastiì e)n aiâj

sune/tacen ¸Upotupw¯sesin w¨j aÄn didaska/lou tou= Pantai¿nou me/mnhtai, tou=to/n te au)to\n kaiì tw½n Strwmate/wn e)n prw¯t% suggra/mmati ai¹ni¿ttesqai¿ moi dokei. 11 EUSÉBEÉ DE CESARÉE, Historia Ecclesiastica (V-VII), V,10,3,40: o( Pa/ntainoj, kaiì ei¹j ¹Indou\j e)lqeiÍn le/getai. 12 EUSÉBEÉ DE CESARÉE, Historia Ecclesiastica (V-VII), VI,94: Pa/ntainon de\ Klh/mhj diadeca/menoj, th=j kat'Aleca/ndreian kathxh/sewj ei¹j e)keiÍno tou= kairou= kaqhgeiÍto, w¨j kaiì to\n ¹Wrige/nhn tw½n foithtw½n gene/sqai au)tou=. th/n ge/ toi tw½n Strwmate/wn pragmatei¿an o( Klh/mhj u(pomnhmatizo/menoj, kata\ to\ prw½ton su/ggramma xronikh\n e)kqe/menoj grafh/n, ei¹j th\n Komo/dou teleuth\n perigra/fei tou\j xro/nouj, w¨j eiånai safe\j oÀti kata\ Seuh=ron au)t%½ pepo/nhto ta\ spouda/smata, ou tou\j xro/nouj o( parwÜn i¸storeiÍ lo/goj. 13 Sul criterio filologico della ricerca storica in Eusebio di Cesarea, basato sull’escussione e sulla citazione delle fonti consultate, vedi A. GRAFTON-M. WILLIAMS, Come il Cristianesimo ha trasformato il libro, Roma 2011, 195, dove Grafton afferma


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devono essere vagliate con cautela. Eusebio ci fornisce una datazione relativamente sicura nella biografia di Clemente d’Alessandria, impegnato nella composizione e nella stesura finale dei suoi Stròmata, sotto il regno di Commodo e sotto quello di Settimio Severo. Si può, quindi, ragionevolmente ritenere che, l’espressione «a quel tempo» o eis ekéinou toù kairoù, si riferisca all’ultimo decennio del II secolo, durante il quale Clemente attese alla stesura degli Stròmata. Su Panteno, Eusebio, sempre nella sua Historia Ecclesiastica, afferma che: «Panteno dirigeva il didaskaléion, portando a compimento numerose opere a favore di Alessandria, commentando a viva voce o per iscritto i tesori dei divini dogmi»14.

Non pare però possibile ammettere che Panteno fosse alla guida del celebre Didaskaléion, noto come la scuola catechetica di Alessandria15. Semplicemente, Panteno si occupava della catechesi volta alla preparazione dei catecumeni della chiesa di Alessandria, la cui responsabilità fu affidata successivamente a Clemente. Origene, così, sarebbe stato un catecumeno. La catechesi ad Alessandria, sarebbe stata composta di corsi liberi, diretti prima da Panteno, poi da Clemente. Successivamente, il vescovo d’Alessandria, Demetrio, affidò la formazione dei catecumeni ad Origene. Sempre Eusebio ci informa, infatti, che: «(Origene) all’età di diciotto anni fu posto a capo della

che: «Lo studioso (Eusebio N.d.A.) in più occasioni proclamò con forza che la novità del suo modo di trattare molti argomenti consisteva nel basarsi sulla ricerca delle fonti e nel citare in larga misura i testi originali». 14 EUSÉBEÉ DE CESARÉE, Historia Ecclesiastica (V-VII), V,10,40: Pa/ntainoj e)piì polloiÍj katorqw¯masi tou= kat'Aleca/ndreian teleutw½n h(geiÍtai didaskalei¿ou, zw¯sv fwnv= kaiì dia\ suggramma/twn tou\j tw½n qei¿wn dogma/twn qhsaurou\j u(pomnhmatizo/menoj. Eusebio proietta al tempo di Panteno e di Clemente una situazione del suo tempo, quando il Didaskale/ion, da Origene in poi, era diventato una

vera scuola catechetica. 15 Sulla scuola catechetica d’Alessandria, vedi G. BARDY, Aux origines de l’ecole d’Alexandrie, in Revue de Sciences Religieuses 27 (1937) 65-90; A. VAN DEN HOECK, The “Catechetical” School of Early Christian Alexandria, Harvard Thelogical Review 90 (1997) 59-87.


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scuola (didaskaléion) di catechesi»16. È solo con Origene che si può parlare di una vera e propria scuola o Didaskaléion, sul modello del celeberrimo Mousàion, o Museo, l’istituzione ellenistica comprendente la famosa Bibliothéke o Biblioteca d’Alessandria, fondata dai Tolomei17. Nonostante la testimonianza di Eusebio, non sembra probabile che Origene sia stato allievo di Clemente18. Tuttavia, dalle scarne notizie di Eusebio, possiamo concludere che Clemente ebbe incarichi di una certa responsabilità nella chiesa di Alessandria, ma molto probabilmente non era presbitero. Nell’anno 202/203, il verificarsi di atti persecutori nei confronti dei cristiani, sotto Settimio Severo, lo costrinsero a lasciare la città19. Secondo un’altra opinione, Clemente si sarebbe allontanato dalla città a motivo di attriti con il vescovo Demetrio20. Non conosciamo nemmeno l’anno preciso della sua morte che probabilmente avvenne intorno al 22021. Malgrado le scarne ed incerte notizie su Clemente d’Alessandria, possiamo trarne alcune considerazioni non scontate, in grado di guidarci nella nostra ricerca sul Paidagògos. Dalla notizia di Eusebio, secondo la quale Clemente «è passato per l’esperienza di ogni cosa», se ne può arguire che l’espressione pànton péira designi anche le esperienze derivate dall’incontro con i suoi maestri di svariata provenienza geografica, etnica e culturale. Di certo, l’incontro con Panteno, l’ultimo, in ordine di tempo dei suoi maestri, ma il primo, per dýnamis o «capacità», gli ha permesso di vivere un’esperienza particolare, diversa da quella che ha vissuto con gli altri maestri. Infatti, Panteno è 16

EUSÉBEÉ DE CESARÉE, Historia Ecclesiastica (V-VII), VI,3,3,87: eÃtoj d' hÅgen o)ktwkaide/katon kaq’ oÁ tou= th=j kathxh/sewj proe/sth didaskalei¿ou. 17 Sulla celebre Biblioteca di Alessandria e sulle sue controverse vicende nelle fonti storiche che ce ne parlano, vedi L. CANFORA, La Biblioteca scomparsa, Palermo 1991; sull’impianto urbanistico della città antica, vedi C. HAAS, Alexandria in Late Antiquity: topography and Social Conflict, Harvard 2006. 18 Cfr. C. MORESCHINI – E. NORELLI, Storia della Letteratura cristiana antica greca e latina, I, 361. 19 Sul carattere della persecuzione contro i cristiani ad Alessandria sotto Settimio Severo, vedi M. SORDI, I cristiani e l’Impero romano, Milano 1998, 94-95. 20 Cfr. S. DÖPP – W. GEERLINGS, 200. 21 Sulle fonti che ci parlano della morte di Clemente come già avvenuta da anni, vedi C. MORESCHINI – E. NORELLI, I, 361 e S. DÖPP – W. GEERLINGS, 201.


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maestro che possiede in sé la dýnamis. Un maestro che, verosimilmente, non poneva un insegnamento autoritario o astratto bensì acroamàtico — da akroàomai, «ascolto» — in virtù della dýnamis o di una «capacità» tale, che ingenerò (enghennào) nelle anime di coloro i quali lo ascoltavano (akròaomai) un perenne tesoro di conoscenza (gnosis)». Panteno insegnò a Clemente la vera gnosis. Egli, però, non «insegnava» semplicemente bensì «generava» nelle anime di chi lo ascoltava, la gnosis. L’impiego del verbo enghennào per spiegare l’attività d’insegnamento di Panteno è molto particolare; quello di Panteno non è un semplice «insegnare» è un «generare» alla vita. L’insegnamento di Panteno, diversamente da quello degli altri maestri, secondo il ricordo di Clemente, prendeva vita dalla gnosis, generava la gnosis ed attraverso la gnosis portava alla vita chi lo ascoltava. La gnosis ossia la «conoscenza» è tesoro perenne (akeràton), per la salvezza delle anime. È questo insegnamento acroamàtico, diverso da quello degli altri maestri, che convince Clemente a rimanere ad Alessandria; è l’esperienza dell’incontro con questo maestro diverso dagli altri, che induce Clemente a fermarsi nella sua ricerca. Clemente ha fatto tante esperienze e conosciuto tanti maestri. In uno solo ha riconosciuto il vero maestro, colui che gli ha insegnato la vera conoscenza. Il verbo therào che significa «dare la caccia», «cacciare», «inseguire», vuole render ragione di una ricerca appassionata, volta alla ricerca di un insegnamento e di un maestro come Panteno. Probabilmente, a differenza del didàskalos o del sophòs di professione, cinico o stoico, Panteno non promuoveva sé stesso ed il proprio insegnamento, non andava a caccia di discepoli, ma si «teneva nascosto» (lelethòta) ad Alessandria. Era Clemente, però, che «andava a caccia» (therào) di un maestro diverso da quelli incontrati e da lui frequentati, fino a quel momento. Appare significativa la notizia di Eusebio, il quale ci dice che Panteno «commentava a viva voce i divini dogmi». Eusebio annota che Panteno «commentava» o ypomnematìzo anche «per iscritto» o dià syngrammàton i divini dogmi. Nulla però ci è pervenuto di tali scritti. Oltre a non escludere un insegnamento orale, propriamente acroamàtico, l’uso del verbo ypomnematìzo rinvia al sostantivo ypomnémata che possiede il significato principale di «appunti» ed all’inse-


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gnamento di scuola, nel contesto di un rapporto tra discepolo e maestro qual era invalso nelle scuole filosofiche dell’antichità ellenistica greco-romana22. L’ “oralità” dell’insegnamento di Panteno è un elemento indubbiamente fondamentale di quell’insegnamento, definito sopra come acroamàtico. Il rapporto di Clemente con Panteno è profondamente personale e non può non aver improntato di sé tutta la sua opera, incluso il Paidagògos. Clemente, che ha appreso la gnosis dalla «viva voce» del suo didàskalos, mostra di essere attento alla personalità dei suoi maestri piuttosto che alle loro dottrine. L’epiteto di sikeliké mélissa o «ape sicula», riferito a Panteno, può suggerire il metodo di ricerca da lui perseguito. Quale ape su un prato che sceglie e sugge da fiori diversi, svariati pollini, per produrre il miele migliore; allo stesso modo, il vero Didàskalos, quale Panteno, «sul prato profetico ed apostolico» — ovvero sui testi dell’Antico e del Nuovo Testamento - sceglie ed assimila gli insegnamenti migliori dei Profeti e degli Apostoli, per produrre la vera e divina gnosis. Questa appare dunque essere frutto, innanzitutto, di ascolto di veri maestri, quindi, di dialogo con essi e di costante ricerca23. 22

Al riguardo vogliamo riferire quanto dice PIERRE HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino 2005, 19: «La vera formazione (nell’antichità, N.d.A) è sempre orale, poiché solo la parola orale permette il dialogo, ossia la possibilità per il discepolo di scoprire egli stesso la verità nello scambio delle domande e delle risposte, e anche la possibilità per il maestro di adattare il suo insegnamento ai bisogni del discepolo. Numerosi filosofi, e non dei minori, non hanno voluto scrivere, poiché ritenevano — sulla scorta di Platone e probabilmente con ragione — che ciò che la parola viva scrive nelle anime sia più reale e più durevole dei caratteri tracciati sul papiro o sulla pergamena». In questo modo, se la nostra ipotesi è fondata, il metodo di Panteno, la sua catechesi e quella di Clemente hanno preparato il sorgere di quell’ambiente che nel Didaskale/ion di Alessandria, darà vita all’insegnamento gumnastiko/j di Origene, in cui, come un atleta, il discepolo si misura e si esercita con l’insegnamento — quale allenamento o gumnasi/a — del suo maestro. 23 Su Scrittura, Gnosi e mistica nel Cristianesimo antico, possono essere utili i seguenti studi di L. BOUYER, Il Figlio eterno: teologia della Parola di Dio e cristologia, Milano 1977; Gnosis la conoscenza di Dio nella Scrittura, Città del Vaticano 1991; Sophia ou le monde en Dieu, Paris 1994; La Bibbia e il Vangelo: il senso della Scrittura: dal Dio che parla al Dio fatto uomo, Magnano 2007. In particolare, sulla Gnosi in Clemente d’Alessandria, vedi J. DANIELOU, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, Bologna 1975, 521-540.


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2. IL PAIDAGÒGOS L’opera di Clemente d’Alessandria, intitolata Paidagògos, offre nel titolo un’immagine chiara dei contenuti che Clemente vuol esprimere e del programma che intende perseguire. La parola greca Paidagògos, composta da pàis «fanciullo, bambino» ed agoghé «guida» indicava nell’antichità il pedagogo, uno schiavo, appartenente alla familia, a capo della quale stava il Pater familias, con la mansione di accompagnare a scuola ogni giorno il puer nel mondo romano o il pais nel mondo ellenistico di lingua greca. Il fanciullo, in tal modo, aveva una guida che lo accompagnava, letteralmente, verso il suo didàskalos24. Analogamente o per allegoria — dato che con Clemente ci troviamo nella temperie filosofica e teologica gnostica ed alessandrina — il pedagogo è il Logos, il Verbo, la Parola di Dio fatta carne che ci guida, nella sua persona, alla verità tutta intera25. Da quanto egli stesso lascia intendere, all’inizio del Paidagògos, era intenzione di Clemente scrivere tre opere per costituire una trilogia, composta da: un Protreptikòs, un Paidagògos ed un Didàskalos. Le prime due parti sono opere scritte effettivamente da Clemente — il Protrettico ai Greci ed il Pedagogo — la terza, intitolata il «Maestro», non fu mai iniziata, probabilmente a causa della sopraggiunta persecuzione del 202/203 ad Alessandria, per la quale Clemente fu costretto a lasciare la città. Affidiamoci, però, a Clemente ed a quanto egli stesso ci dice, all’inizio del suo Paidagògos: «Il Pedagogo infatti ha a che fare con la guida pratica, non con l’indagine teorica, come pure il suo scopo è di rendere l’anima migliore e non di istruirla: egli guida ad una vita di virtù e saggezza, non di conoscenza»26. 24 Per una più corretta informazione sull’educazione nell’antichità, vedi H.I. MARROU, Storia dell’educazione nell’antichità, Roma 2010, 199-200, sulla figura del Pedagogo. 25 Ovviamente non si può sottacere la presenza di questo termine in Paolo, cfr. Gal 3,24, ove si dice che la Legge mosaica è stata appunto un paidago/goj per condurci a Cristo. 26 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (I). Introduction et notes de H.I. Marrou, traduction de M. Harl, Paris 1960, (Sources Chretiennes 67), I,1,4,110:

Keklh/sqw d' h(miÍn e(niì prosfuw½j ouÂtoj o)no/mati paidagwgo/j, praktiko/j, ou) meqo-


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Il Paidagògos ha, così, un contenuto essenzialmente morale e pratico e si presenta come un manuale per tutte le circostanze della vita del cristiano. Presenta una divisione in tre libri e fu composto intorno al 190. Il Libro I tratta in generale della pedagogia divina, di Cristo che è il Logos e nostro Pedagogo. I Libri II e III, molto diversi dal Libro I, sono un compendio di morale quotidiana cristiana e trattano i temi più vari, dal momento che la pedagogia divina incontra sempre la vita concreta degli uomini. Anche sulla base delle nostre considerazioni sulle scarne fonti della vita di Clemente, possiamo comprendere ancora di più il modo in cui la trilogia dell’Alessandrino si compiva nel Didàskalos. Il Protreptikòs ed il Paidagògos dovevano preparare e far pervenire gli uditori a quell’insegnamento «acroamàtico», proprio di Panteno e del vero Didàskalos, materia della terza opera della trilogia27. Dice, infatti, ancora Clemente: «Questo celeste reggitore, ossia il Logos, allorchè ci invitava alla salvezza, riceveva il nome di esortante (protreptikòs) — così è denominato specificamente, designando il tutto con la parte, questo Logos che ha la funzione di stimolarci — . … . Adesso però il Logos, contemporaneamente in qualità di guaritore e di consigliere, succedendo così a se stesso, incoraggia colui che già prima aveva esortato e principalmente ci promette la guarigione dalle passioni»28. diko\j wÔn o( paidagwgo/j, v kaiì to\ te/loj au)tou= beltiw½sai th\n yuxh/n e)stin, ou) dida/cai, sw¯frono/j te, ou)k e)pisthmonikou= kaqhgh/sasqai bi¿ou. Per la versione

italiana del Paidagògos si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo. Introduzione, traduzione e note a cura di Dag Tessore, 35. Su questo importante brano ritorneremo nelle Conclusioni del presente saggio; la versione italiana corrente, però, con il dovuto rispetto, ci pare in certi punti assai libera e non rispettosa della lettera del testo di Clemente. 27 Per altre notizie sul Paidagògos di Clemente d’Alessandria, si rinvia a C. MORESCHINI – E. NORELLI, I,364-369 ed a S. DÖPP – W. GEERLINGS, 201. Vedi anche H.I. Marrou, Le Pedagogue (I), Introduction, 7-91. 28 CLEMENT D’ALEXANDRIE, Le Pedagogue (I), 1,3,110: ¸O gou=n ou)ra/nioj h(gemw¯n, o( lo/goj, o(phni¿ka me\n e)piì swthri¿an pareka/lei, protreptiko\j oÃnoma au)t%½ hÅn i¹di¿wj ouÂtoj o( parormhtiko\j e)k me/rouj to\ pa=n prosagoreuo/menoj lo/goj: ... nuniì de\ qerapeutiko/j te wÔn kaiì u(poqetiko\j aÀma aÃmfw, e(po/menoj au)to\j au(t%½, paraineiÍ to\n protetramme/non, kefa/laion tw½n e)n h(miÍn paqw½n u(pisxnou/menoj th\n iãasin. Per

la versione italiana, si rinvia a CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Pedagogo, 34-35.


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Il compito principale del Paidagògos è dunque quello di guarire e purificare le anime dei suoi uditori per volgerle — purificate e libere dalle passioni — all’ascolto dell’insegnamento del Didàskalos. Tenteremo di evidenziare non soltanto l’incidenza e le valenze semantiche di Paidéia e Paidagoghìa nel Paidagògos di Clemente d’Alessandria, ma, attraverso l’impiego di questi termini, oseremo intravedere alcuni tratti del vero Didàskalos, colui che pone autentica Paidéia ed autentica Paidagoghìa. 3. PAIDÉIA Quasi all’inizio del Paidagògos, Clemente d’Alessandria presenta Paidéia congiunto a Paidagoghìa, ma definisce chiaramente il secondo termine e pone, implicitamente, la spiegazione del primo: «D’altronde due delle cose più belle e più perfette che ci siano in questa vita, l’educazione (paidéia) e la pedagogia (paidagoghìa), anche noi, onorandole, le designiamo con termini che rimandano alla fanciullezza. Possiamo dire che la pedagogia sia il condurre i giovani, nel modo migliore, dalla fanciullezza alla virtù»29.

Partendo dall’etimo dei due termini, Clemente nota come sia Paidéia sia Paidagoghìa rinviino al bambino (pais) ed alla fanciullezza; per questo motivo sono le «cose più belle e più perfette tra i beni in vita». Identificando Paidagoghìa con «guida» — nel nostro testo agoghé agathé — anzi, «guida buona» del fanciullo, Clemente ne pone anche il fine e la meta, quelli appunto della «guida» o «formazione». Non si può condurre qualcuno verso il nulla; occorre avere ben chiara, all’inizio del cammino, sia la meta sia la via che ad essa conduce. La Paidagoghìa conduce il fanciullo alla virtù o areté e questa è anche la via per la quale arrivarci. Paidagoghìa possiede in sé, allora, un significato “pratico” rispetto a Paidéia. Il condurre l’uomo come un bambino, è il compito e l’opera del Logos. L’insegnamento dell’apo29 Le Pedagogue (I), 16,1,138-139: ¹Ame/lei kaiì h(meiÍj ta\ ka/llista kaiì telew¯tata tw½n e)n t%½ bi¿% kthma/twn paidikv= proshgori¿# timh/santej paidei¿an kaiì paidagwgi¿an keklh/kamen. Paidagwgi¿an de\ o(mologou=men eiånai a)gwgh\n a)gaqh\n e)k pai¿dwn pro\j a)reth/n. Per la versione italiana, si rinvia a Il Pedagogo, 49.


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stolo Paolo aiuta Clemente a meditare sulla differenza tra bambini ed uomini in ordine alla Paidéia ed alla Paidagoghìa, dice infatti: «… (Paolo) semplicemente chiama bambini quelli che sono sotto la Legge, i quali sono agitati dalla paura, così come i fanciulli dagli spauracchi, e chiama invece uomini coloro che sono docili al Logos e padroni di sé»30.

Il Logos, però, si è fatto bambino. In questo dato apparentemente scontato, per noi moderni, ma sconvolgente per il mondo antico, che considerava il bambino come un minorato in attesa di divenire abile ed adulto, Clemente individua la specificità e l’importanza dell’opera del Logos. Questi educa alla vita divina, non prima però di educare alla vita umana, poiché vive in sé stesso l’esperienza del passaggio dall’infanzia all’età adulta31. Quella che è l’esperienza della crescita nella vita dell’uomo, nella vita del cristiano diventa passaggio dalla legge alla grazia, nella fede. Leggiamo questo passo del Paidagògos: «Mirabile Consigliere, Dio potente, Padre eterno, Principe della pace” nell’accrescere l’educazione (paidéia) , “e la sua pace non ha confini” (Is 9,5-6). O grande Dio, o bambino perfetto! “Figlio nel Padre e Padre nel Figlio (cfr. Gv 10,38). E come non sarebbe perfetta l’educazione (paidéia) impartita da questo bambino, la quale raggiunge noi tutti fanciulli ed è la pedagogia (paidagoghìa) che ci guida, noi piccoli del Bambino? Egli “ha steso” verso di noi “le sue braccia” (Is 65,2; Rm 10,21) che sono divenute per noi oggetto chiaro di fede»32. 30

Le Pedagogue (I), 33,3,170: ... a)lla\ nhpi¿ouj me\n tou\j e)n no/m% le/gei, oiá t%½ fo/b%, kaqa/per oi¸ paiÍdej toiÍj mormolukei¿oij, e)ktara/ttontai, aÃndraj de\ tou\j lo/g% peiqhni¿ouj kaiì au)tecousi¿ouj ke/klhken. Per la versione italiana, si rinvia a Il Pedagogo, 66. 31 Può essere utile al riguardo, L. BOUYER, Humain ou chrétien?, Bruges 1958. Vedi anche MARROU, Le Pedagogue (I), Introduction, 23-29. 32 Le Pedagogue (I), 24,2-3,152-154: “qaumasto\j su/mbouloj, qeo\j duna/sthj, path\r ai¹w¯nioj, aÃrxwn ei¹rh/nhj t%½ plhqu/nein th\n paidei¿an: kaiì th=j ei¹rh/nhj au)tou= ou)k eÃsti pe/raj”. äW tou= mega/lou qeou=, wÔ tou= telei¿ou paidi¿ou: ui¸o\j e)n patri¿, kaiì path\r e)n ui¸%½: kaiì pw½j ou) te/leioj h( paidei¿a tou= paidi¿ou e)kei¿nou, hÁ e)piì pa/ntaj dih/kei tou\j paiÍdaj h(ma=j paidagwgou=sa tou\j nhpi¿ouj au)tou=; OuÂtoj ei¹j h(ma=j e)cepe/tase ta\j xeiÍraj ta\j e)nargw½j pepisteume/naj. Per la versione italiana, si

rinvia a Il Pedagogo, 57.


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Subito si nota in questo brano ed in quelli successivi il ricorso alle Scritture sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento. Le citazioni ivi presenti, provenienti dal Vangelo secondo Giovanni, dall’apostolo Paolo e dal profeta Isaia, richiamano quel «cogliere i fiori dal prato profetico ed apostolico», attività propria dell’«ape sicula». Dal brano appena evidenziato, si evince come la Paidéia sia un insegnamento proprio del Logos-paidìon, il Verbo-bambino. Un insegnamento non teorico ma che permane e scaturisce da un preciso rapporto dell’educante con l’educando, del Logos con gli uomini, fanciulli anch’essi, bisognosi della Paidagoghìa. Il Logos-paidìon stende le braccia verso di noi. Egli accorre a noi ma vuole anche che noi accorriamo a lui e che ce ne prendiamo cura. Clemente lascia intendere come la Fede sia in fondo proprio questo: affidarsi al Logos per custodirlo e lasciarci educare da lui. La Paidèia, in Clemente, appare essere la missione del Logos e l’opera per mezzo della quale Dio viene a noi ed in noi. L’incontro della divinità con l’umanità, di Dio con gli uomini, quali bambini incerti e spaventati dall’osservanza della Legge, avviene nel Logos-paidìon, Dio che si fa Parola e per di più bambino. Questi fa vivere agli uomini la condizione dell’infanzia spirituale che consente all’uomo di prestar ascolto al Logos; liberato dalla paura derivante dall’osservanza della Legge, egli diventa padrone di sé (autoexousìos). Ricordiamo come l’uomo antico, in particolare quello greco, era ossessionato dall’ineluttabilità del proprio destino, deciso dalla Fortuna (Týche), in preda a forze irrazionali ed incontrollabili (dàimon), causa di uno stato di infatuazione divina33. I significati di Paidéia e Paidagoghìa, spesso e volentieri, si sovrappongono in Clemente, sulla scorta della LXX, in particolare del Libro del Siracide, dove il senso di Paidéia è quello di «correzione», leggiamo infatti: «Quelli infatti che la lode non spinge con l’esortazione a convertirsi, li pungola il rimprovero; e quelli che, come morti, il rimprovero non riesce a richiamarli alla salvezza, sarà l’insulto a rimetterli in piedi e in cammino 33 Precisamente, in riferimento all’ate omerica ed alla manìa classica che rendevano l’uomo incapace di agire secondo il proprio giudizio, cfr. E.R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, Milano 2011, 84: «Strettamente affini a quest’operatore dell’ate sono gli impulsi irrazionali che, contro la volontà dell’uomo, sorgono in lui per tentarlo».


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Francesco Aleo verso la verità. “Frusta e correzione (paidéia) si addicono in ogni circostanza alla sapienza. Chi ricompone dei cocci e ammaestra uno stolto (Sir 22,6-7) ridà sensibilità alla terra — dice (la Scrittura) — e spinge all’intelligenza chi era ormai senza speranza»34.

L’insegnamento del Logos o Paidéia non consta soltanto della lode (èpainos) che si avvale dell’esortare, in greco protrépein. Anche il rimprovero (psògos) e l’insulto (blasphemìa) servono alla Paidéia per educare gli uomini a camminare verso la verità. La Paidéia, associata alla sapienza (sophìa), proprio con l’ausilio delle Scritture sapienziali, mette in grado Clemente di presentare Paidéia come cammino verso la verità e l’intelligenza (sýnesis). Quest’ultima, accostatasi alla sapienza, permette agli uomini senza speranza, di ritornare a sperare. Lo spettro dei significati di Paidéia è vario; il loro esame e la loro analisi ci consentono di comprendere l’identità e la missione del Logos. Nel senso biblico-sapienziale di «correzione» nella LXX, ritroviamo Paidéia in quest’altro brano del Paidagògos: «Per mezzo di Salomone invece attenua la severità e la durezza dell’accusa e mostra la dolcezza della sua pedagogia (paidagoghìa), dicendo: “Figlio mio, non disprezzare le correzioni (paidéia) del Signore e non sottrarti ai suoi rimproveri; infatti colui che il Signore ama, lo corregge, e sempre sferza il figlio ch’egli accoglie (Prv 3,11-12), mentre l’uomo peccatore declina il rimprovero (Sir 32,17)»35.

Paidagoghìa si sovrappone e s’identifica con Paidéia, nel suo aspetto “pratico”. La versione italiana rende con «dolcezza» il termine philò34 Le Pedagogue (I), 66,3,228: OuÁj ga\r o( eÃpainoj ou) proetre/yato, tou/touj parw¯cunen o( yo/goj, kaiì ouÁj o( yo/goj ou)k e)cekale/sato ei¹j swthri¿an kaqa/per nekrou/j, tou/touj pro\j a)lh/qeian h( blasfhmi¿a diani¿sthsin. “Ma/stigej ga\r kaiì paidei¿a e)n pantiì kair%½ sofi¿aj. Sugkollw½n oÃstrakon kaiì dida/skwn mwro/n”, ei¹j aiãsqhsin aÃgwn, fhsi¿, th\n gh=n kaiì to\n a)phlpisme/non ei¹j su/nesin o)cu/nwn. Per la

versione italiana, si rinvia a Il Pedagogo, 95-96. 35 Le Pedagogue (I), 78,4,250: Solomw½ntoj paramuqou/menoj le/gei ai¹nitto/menoj kata\ to\ parasiwpw¯menon to\ filo/teknon th=j paidagwgi¿aj: “ui¸e/ mou, mh\ o)ligw¯rei paidei¿aj kuri¿ou, mhde\ e)klu/ou u(p' au)tou= e)legxo/menoj: oÁn ga\r a)gap#= ku/rioj, paideu/ei, mastigoiÍ de\ pa/nta ui¸o/n, oÁn parade/xetai”, oÀti “a(martwlo\j aÃnqrwpoj e)kkli¿nei e)legmo/n”. Per la versione italiana, si rinvia a Il Pedagogo, 106.


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teknon che potrebbe essere reso anche con «amorevolezza», richiamante l’atteggiamento paterno o materno. Quello di «correzione» non è però il senso preminente di Paidéia in Clemente, ma completa, in quanto apporto delle Scritture sapienziali dell’Antico Testamento, l’opera “educativa” del Logos divino. Le Scritture sapienziali tratte da Siracide, Proverbi e Sapienza, oltre al senso di «correzione», ci forniscono anche quello di «disciplina», presente in Proverbi36. Il senso di Paidéia, così, si completa, assumendo ora quello di «correzione» ora quello di «disciplina», quindi il significato complessivo italiano di «Educazione». L’insegnamento del Logos, contenuto nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, consente a Clemente di recepire in maniera costruttiva e sapienziale il concetto di Paidéia senza farne una dottrina astratta. «Invero, come esiste una formazione (agoghé) tipica dei filosofi, e un’altra degli oratori, e una dei lottatori, così esiste una specifica nobile attitudine, che corrisponde a un proposito di vita amante del bene e che è il frutto della pedagogia (paidagoghìa) di Cristo, in virtù della quale anche le nostre azioni esteriori — il camminare, il riposo, il nutrimento, il sonno, il letto, il regime di vita e ogni altro aspetto dell’educazione (paidéia) — una volta modellate da questa pedagogia (paidagoghìa), risplendono per dignità e onorevolezza. La formazione (agoghé) che ci dà il Logos, infatti, non è mai tesa all’eccesso, ma è sempre equilibrata»37.

Nell’accezione estensiva di Clemente, Paidéia indica l’umano, è la vita stessa dell’uomo, in tutti i suoi aspetti, principalmente quelli inerenti la sua vita fisica, quali il sonno ed il nutrimento. La Paidéia è la vita divino-umana del Logos che si è fatto uomo in Cristo. L’uomo 36 Cfr. Sir 16,10; 18,13-14, in Le Pedagogue (I), 81,3,256 ed in Il Pedagogo, 108; Sir 31,16-18, in Le Pedagogue (II), 55,2,114 ed in Il Pedagogo, 184; Sir 21,21 in Le Pedagogue (III), 58,2,122 ed in Il Pedagogo, 307; Prv 8,10-11, in Le Pedagogue (III), 35,3,78 ed in Il Pedagogo, 286. 37 Le Pedagogue (I), 99,2,286: ¸Wj de\ eÃsti tij aÃllh me\n filoso/fwn a)gwgh/, aÃllh

de\ r(hto/rwn, palaistw½n de\ aÃllh, ouÀtwj e)stiìn gennai¿a dia/qesij filoka/l% proaire/sei kata/llhloj e)k th=j Xristou= paidagwgi¿aj periginome/nh, kaiì ta\ th=j e)nergei¿aj pepaideume/nai semnaiì diapre/pousin porei¿a kaiì kata/klisij kaiì trofh\ kaiì uÀpnoj kaiì koi¿th kaiì di¿aita kaiì h( loiph\ paidei¿a: ou) ga\r u(pe/rtonoj h( toia/de a)gwgh\ tou= lo/gou, a)ll' euÃtonoj. Per la versione italiana, si rinvia a Il Pedagogo, 124-125.


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possiede in sé la «scelta» (proàiresis) di compiere il bene, in quanto egli è «amante del bene» (philòkalos). La vita secondo Paidéia è segnata e guidata da un ideale di moderazione e di equilibrio che può essere seguito dall’uomo in virtù di una «nobile disposizione» (ghennàia diàthesis) che gli consente di porsi in ascolto dell’insegnamento del Logos divino e di osservarlo. L’ultima notazione del testo richiama la metriopàtheia o la «misura delle passioni» dei filosofi stoici, con il loro ideale di controllo delle passioni e di armonia con la natura38. Numerosi sono i temi stoici che ritroviamo nel Paidagògos, poiché l’opera del Logos illumina e feconda anche le filosofie e le dottrine pagane. Soccorso dalla meditazione sapienziale della LXX, Clemente coglie nell’Agàpe o nell’Amore proprio di Dio, la sorgente da cui scaturisce Paidéia39. «La carità è un bene puro e degno di Dio e la sua azione consiste nel partecipare il bene agli altri. “La carità — dice la Sapienza — è prendersi cura dell’educazione (paidéia); la carità è osservanza delle sue leggi” (Sap 6,17-18)»40.

Massima prova dell’Amore è l’ “educare” ovvero insegnare ad osservare la legge di Dio. Vediamo come nel Libro della Sapienza, paidéia 38

Cfr. P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, 39: «Per gli stoici filosofare è dunque esercitarsi a “vivere”, ossia a vivere coscientemente e liberamente: coscientemente, superando i limiti dell’individualità per riconoscersi parte di un ko/smoj animato dalla ragione; liberamente, rinunciando a desiderare ciò che non dipende da noi e che ci sfugge, per non tenere che a ciò che da noi dipende: l’azione retta conforme alla ragione». Per maggiori informazioni e chiarimenti può essere ancora utile, M. SPANNEUT, Le stoicisme des Péres de l’Église: de Clément de Rome à Clément d’Alexandrie, Paris 1957. Vedi anche L. BOUYER, The christian mystery: from pagan myth to christian mysticism, Edinburgh 1990. Si noti anche il riferimento all’insegnamento della filosofia degli stoici nella formazione dello stesso Panteno, cfr. EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica (V-VII), V,10,39. 39 Riguardo all’a)ga/ph ed al suo rapporto con la gnw¤sij, in Clemente d’Alessandria, si rinvia A. NYGREN, Eros e Agape, Bologna 1990, 354-364. 40 Le Pedagogue (II). Traduction de C. Mondesert et notes de H.I. Marrou, Paris 1965 (Sources Chretiennes 108), 7,1,20: ¹Aga/ph me\n ouÅn xrh=ma kaqaro\n kaiì tou= qeou= aÃcion, eÃrgon de\ au)th=j h( meta/dosij. “Frontiìj de\ paidei¿aj a)ga/ph”, h( sofi¿a le/gei, “a)ga/ph de\ th/rhsij no/mwn au)th=j.” Per la versione italiana, si rinvia a Il

Pedagogo, 136.


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passi a designare quella che chiamiamo in italiano «Educazione». Con paidagoghìa, l’ “educare” di paidéia diventa operativo ma è con l’insegnamento del Logos che, sia Paidèia sia Paidagoghìa, assumono un valore ed un significato del tutto nuovi rispetto all’Antico Testamento. Verso la conclusione del Paidagògos, nel Libro III, troviamo una lunga citazione di Paolo tratta dall’Epistola agli Efesini, in cui troviamo Paidéia: «”Voi, figli, obbedite ai vostri genitori; e voi, padri, non esasperate i vostri figli ma allevateli nell’educazione (paidéia) e nella disciplina del Signore” (Ef 6,1)»41.

Con un carattere pratico e disciplinare, Paidéia nell’uso neotestamentario, in particolare paolino, si trova così applicato alle relazioni all’interno della famiglia. 4. PAIDAGOGHÌA Nel Paidagògos troviamo un’accurata e ricca spiegazione del termine Paidagoghìa. Uno dei sottotitoli dell’opera ne permette di cogliere un aspetto importante. L’espressione «Chi è il Pedagogo e quale la sua pedagogia» mostra come Paidagoghìa non è pura, semplice ed astratta teoria42. Dietro ogni Paidagoghìa, vi sta un pedagogo che pone in atto ed in essere una relazione specifica, “pedagogica”. Nella Paidagoghìa del Logos, Verbo incarnato, si manifesta un agire personale nella relazione educatore-educando, nella quale i due soggetti della relazione agiscono, entrambi dotati della facoltà di compiere delle scelte (proàiresis). La paidagoghìa pone in atto una «guida» o «formazione» (agoghé) da seguire che obbliga sia l’educatore sia l’educando. Quei processi educativi e formativi, la cui epistéme — o statuto epistemologico — informa la moderna Scienza 41 Le Pedagogue (III), 95,1,180: “Ta\ te/kna, u(pakou/ete toiÍj goneu=sin u(mw½n. Oi¸ pate/rej, mh\ parorgi¿zete ta\ te/kna u(mw½n, a)ll' e)ktre/fete au)ta\ e)n paidei¿# kaiì nouqesi¿# kuri¿ou”. Per la versione italiana, si rinvia a Il Pedagogo, 338. 42 Le Pedagogue (I), 53,1,206: {Ti¿j o( paidagwgo/j, kaiì periì th=j paidagwgi¿aj au)tou=.}. Per la versione italiana, si rinvia a Il Pedagogo, 84.


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dell’Educazione, sarebbero vani, secondo Clemente, senza una persona validamente capace di porli in atto. Ovvero, senza un educatore vero non c’è vera relazione educante ed educativa, ovvero non è possibile né Paidéia né Paidagoghìa. Ma cos’è, secondo Clemente, la paidagoghìa? Soltanto i testi del Paidagògos possono rispondere a questa domanda: «E questa pedagogia è la religione in quanto essa insegna a rendere culto a Dio, ci educa alla conoscenza della verità ed è la retta formazione che ci guida al cielo. Il termine “pedagogia” invero può essere usato in vari sensi: è pedagogia quella di chi è guidato e impara, quella di chi guida e insegna, è detta pedagogia la formazione stessa (agoghé) e, infine, le cose insegnate, come è il caso dei precetti. Quanto alla pedagogia di Dio, essa è il diritto sentiero della verità, che ha per fine la contemplazione di Dio, ed è per noi l’indicazione per una santa condotta, in eterna perseveranza»43.

Per Clemente, la Paidagoghìa, in quanto opera del Logos divino, pone in relazione l’uomo con Dio Padre. Il Logos è pedagogo dell’uomo. La Teologia del Logos esplica così tutta la sua valenza educativa e pedagogica. Clemente non vuol compiere un’operazione apologetica e faziosa di proselitismo; egli afferma come la vera religione, in greco theosebéia, è la vera Paidagoghìa, nella misura in cui permetta all’uomo di rendere culto a Dio. Nell’antichità, il culto era di fondamentale importanza, poiché assicurava all’uomo, pagano o giudeo che fosse, la relazione con la divinità. Al culto è connessa «la conoscenza della verità e la retta guida al cielo». Vale a dire che il culto del Logos permette all’uomo di conoscere Dio conoscendo sé stesso. La religione — in greco eusebéia ed in latino pietas — in Clemente non è indottrinamento o fedeltà cieca a sterili dogmi. Partendo, diremmo noi moderni, dal piano antropologico, Clemente stima anche la reli43 Le Pedagogue (I), 53,1-54,1,206-208: Paidagwgi¿a de\ h( qeose/beia, ma/qhsij ouÅsa qeou= qerapei¿aj kaiì pai¿deusij ei¹j e)pi¿gnwsin a)lhqei¿aj a)gwgh/ te o)rqh\ a)na/gousa ei¹j ou)rano/n. Paidagwgi¿a de\ kaleiÍtai pollaxw½j: kaiì ga\r h( tou= a)gome/nou kaiì manqa/nontoj, kaiì h( tou= aÃgontoj kaiì dida/skontoj, kaiì au)th\ tri¿ton h( a)gwgh/, kaiì ta\ didasko/mena te/tarton, oiâon ai¸ e)ntolai¿. ãEsti de\ h( kata\ to\n qeo\n paidagwgi¿a kateuqusmo\j a)lhqei¿aj ei¹j e)poptei¿an qeou= kaiì pra/cewn a(gi¿wn u(potu/pwsij e)n ai¹wni¿% diamonv=. Per la versione italiana, si rinvia a Il Pedagogo, 84.


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gione o la religiosità dei pagani come capace di condurre al Logos, di essere anch’essa Paidagoghìa. Illuminata e guidata dal Logos divino, la theosebéia diventa anche esercizio di conoscenza (epìgnosis), nella verità e nella «formazione» (agoghé). Detto questo, Clemente approfondisce lo specifico della Paidagoghìa ovvero la sua stessa definizione. È Paidagoghìa ciò che unisce l’educante all’educando, il contenuto stesso dell’educazione, il rapporto che lega l’uno all’altro, maestro e discepolo. L’agoghé, termine traducibile con «guida» o «formazione», è la Paidagoghìa e questa è opera del Logos; non è opera umana perché il Logos divino la manifesta come amore del Padre, in risposta alla theosebéia dell’uomo. Come già detto riguardo all’altro termine Paidéia, l’Agàpe, l’Amore divino, è “pedagogico”, nel suo senso più alto che è quello, dopo averlo esortato, di purificare l’uomo dalle sue passioni, per fargli osservare la Legge divina. Ad avvalorare quanto detto, Clemente mostra quale sia il soggetto della Paidagoghìa: «Qui egli insegna la pedagogia. Tramite Mosé, infatti, il Signore fu davvero Pedagogo del popolo antico, ma personalmente è la guida del popolo nuovo, faccia a faccia»44.

Nel testo greco, letteralmente, leggiamo: «Qui è il maestro (didàskalos). Maestro o Didàskalos è il Logos che, attraverso Mosé, suo paidagògos, ha guidato il popolo antico. Ora il Logos-didàskalos pone in atto la Paidagoghìa, è egli stesso Paidagoghìa. Mosé, nell’Antico Testamento, è figura del Pedagogo, del Logos divino. Infatti, più avanti, afferma che: «E in effetti appunto Mosé cede profeticamente il posto al Pedagogo perfetto, che è il Logos, e preannuncia in oracolo il suo nome e la sua opera pedagogica: così consegnando al popolo i comandamenti dell’obbedienza, gli presenta anche il Pedagogo»45. 44

Le Pedagogue (I), 58,1,214: ¹Entau=qa dida/skalo/j e)sti paidagwgi¿aj: kaiì ga\r hÅn w¨j a)lhqw½j dia\ me\n Mwse/wj paidagwgo\j o( ku/rioj tou= laou= tou= palaiou=, di' au(tou= de\ tou= ne/ou kaqhgemwÜn laou=, pro/swpon pro\j pro/swpon. Per la versione italiana, si rinvia a Il Pedagogo, 88. 45 Le Pedagogue (I), 60,2,218: Au)ti¿ka gou=n o( Mwsh=j, t%½ telei¿% profhtikw½j paraxwrw½n paidagwg%½ t%½ lo/g%, kaiì to\ oÃnoma kaiì th\n paidagwgi¿an proqespi¿zei


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Non è casuale l’uso dell’avverbio «profeticamente». Tutta quanta la Scrittura sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento, è per Clemente «testimonianza profetica» (martyrìa prophetiké)46. Assimilando Mosé alla figura del profeta, torna in mente il «prato profetico» ossia l’Antico Testamento, su cui opera l’«ape sicula». Altrove, infatti, Clemente dice: «Anticamente il Logos ci guidava, come Pedagogo, per mezzo di Mosé, poi per mezzo dei Profeti — del resto anche Mosé era un profeta — : la Legge infatti è la pedagogia per fanciulli stizzosi e difficili»47.

In quanto prelude alla Nuova Legge ed alla Nuova Alleanza, poiché ne è «figura» (typos) — anche se Clemente non lo dice esplicitamente — la Paidagoghìa di Mosé, fondata sulla Legge ed i Comandamenti, cede il suo posto alla nuova Paidagoghìa, fondata sulla Grazia. A Mosé ed ai Profeti subentra, chiaro ed evidente, il Logos. Non parla più un Profeta ma il Logos, Parola o Verbo di Dio, ipostaticamente posta nella sua Incarnazione di Figlio di Dio. Riteniamo che il carattere “personale” di Paidéia sia proprio quello che a Clemente preme maggiormente evidenziare. Questo potrebbe spiegare l’assenza del riferimento all’interpretazione tipologica48. L’esame delle Scritture sapienziali e l’insistenza sulla relazione discepolo-maestro, propria dell’insegnamento filosofico greco ed ellenistico, consentono a Clemente di congiungere la sapienza biblica giudaica e quella filosofica pagana con la Legge mosaica veterotestamentaria, nel divino ed evangelico insegnamento del Logos. Così, con l’ausilio della correzione, della disciplina, dell’insegnamento, invalso nelle scuole filosofiche al suo tempo, della Legge divina e del suo insekaiì t%½ la%½ parati¿qetai to\n paidagwgo/n, e)ntola\j u(pakoh=j e)gxeiri¿saj. Per la

versione italiana, si rinvia a Il Pedagogo, 90. 46 Cfr. Le Pedagogue (I), 75,3,244, in Il Pedagogo, 103. 47 Cfr. Le Pedagogue (I), 96,3,280: Pa/lai me\n ouÅn dia\ Mwse/wj o( lo/goj e)paidagw¯gei, eÃpeita kaiì dia\ profhtw½n: profh/thj de\ kaiì o( Mwsh=j: o( ga\r no/moj paidagwgi¿a pai¿dwn e)stiì dushni¿wn. Per la versione italiana, si rinvia a Il Pedagogo,

121. 48

Cfr. Rm 10; Gal 4-5, in particolare 4,21-25; 2Cor 3,12-14.


Realtà paideica ed approccio paideico

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gnamento ad opera del Logos, la Paidéia diventa Paidagoghìa. Paidagoghìa ed Oikonomìa quasi s’intrecciano. Anzi, tutta la storia salvifica dispiega il suo disegno provvidenziale, poiché essa è tutta quanta Paidagoghìa, ove Dio insegna agli uomini con la sua Parola o Logos la sua vita divina. «Davvero molta è la sapienza della sua pedagogia (paidagoghìa) e le vie della sua divina economia (oikonomìa) per condurci alla salvezza sono molteplici. Il Pedagogo testimonia in favore dei buoni, richiama gli eletti a diventare migliori e distoglie dal loro slancio coloro che corrono nelle vie dell’iniquità, esortandoli a convertirsi a una vita migliore. … . E anche l’ardore dell’ira [di Dio] — se vogliamo chiamare ira il suo rimprovero — è segno del suo amore per l’uomo: è Dio che scende ad assumere sentimenti umani (pathos), per amore dell’uomo (philànthropos), per il quale il Logos di Dio si è anche fatto uomo»49.

Sembra più opportuno tradurre il termine tròpos con «modo» e pàthe con «passioni» piuttosto che, rispettivamente, con «vie» e con «sentimenti». Questa identità e reciprocità tra la Paidagoghìa e l’Oikonomìa si compiono nel Logos Paidagògos che riconduce gli erranti sulla via di Dio ma che, soprattutto, si manifesta come «amante degli uomini» (philànthropos) in quanto scende (katabàino) ad assumere le passioni degli uomini50. La katàbasis o «discesa», in Clemente, non è un atto di divina degnazione verso l’uomo; Dio nel Logos si fa 49

Le Pedagogue (I), 74,3,242: Pollh\ de\ h( sofi¿a periì th\n paidagwgi¿an au)tou=, kaiì o( tro/poj th=j oi¹konomi¿aj au)tou= poiki¿loj ei¹j swthri¿an. ProsmartureiÍ me\n ga\r toiÍj a)gaqoiÍj o( paidagwgo/j, e)kkaleiÍtai de\ tou\j klhtou\j e)piì ta\ belti¿w kaiì tou\j a)dikeiÍn speu/dontaj a)potre/pei th=j o(rmh=j, metaqe/sqai de\ ei¹j a)mei¿nw bi¿on parakeleu/etai. ... a)lla\ kaiì to\ e)mpaqe\j th=j o)rgh=j, ei¹ dh\ o)rgh\n th\n nouqesi¿an au)tou= xrh\ kaleiÍn, fila/nqrwpo/n e)stin ei¹j pa/qh katabai¿nontoj tou= qeou= dia\ to\n aÃnqrwpon, di' oÁn kaiì ge/gonen aÃnqrwpoj o( lo/goj tou= qeou=. Per la versione italiana si rinvia a Il Pedagogo, 102. 50 Sulle passioni o pa/qh riteniamo sia importante quanto osservato ancora da E.R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, 235: «I Greci avevano sempre sentito l’esperienza delle passioni come un fatto misterioso e pauroso in cui sperimentiamo una forza che è in noi, e che ci possiede, anziché venir posseduta da noi. La parola stessa pathos lo attesta: come il suo equivalente latino passio, indica qualcosa che accade agli uomini, vittime passive».


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carne, diventa persona umana con passioni umane e parla con la Parola di Dio, anzi, egli stesso è Parola vivente di Dio e lo fa ponendo in atto con l’uomo una relazione personale, essa stessa Paidagoghìa. Quali sono, pertanto, i modi con i quali Paidéia si fa Paidagoghìa? Ecco allora che Clemente illustra l’attività della Paidagoghìa: «Il Pedagogo dell’umanità, il nostro divino Logos, con ogni sforzo e con ogni ingegno di sapienza si è proposto di salvare i suoi piccoli, ammonendo, rimproverando, castigando, accusando, minacciando, guarendo, facendo promesse e concedendo grazie: “Con diverse briglie tiene a freno (Platone, Leges, VII,808d)” gli impeti irragionevoli dell’umanità»51.

Clemente coglie nella Paidagoghìa — che come abbiamo rilevato è l’operare concreto ed attivo della Paidéia del Logos nella vita degli uomini — una sapienza che la sapienza biblica e l’insegnamento evangelico completano, dispiegano e compiono ma che si ritrova e si arricchisce, in svariati modi, anche a contatto con la sapienza dei pagani, nati prima di Cristo. A Clemente viene naturale citare Platone, poiché l’unico Logos Paidagògos ha parlato anche nelle opere dei pagani; le loro leggi sono la chiara testimonianza del loro desiderio di seguire il Logos, il cui significato è anche quello di «ragione». I pagani sono stati educati e preparati dall’esercizio e dall’uso della ragione dei loro filosofi, che, quali «saggi» o sophòi, con la loro sapienza, anch’essi si sono protesi verso la pienezza della sapienza del Logos divino52. In tal modo, davvero questi è «Il Pedagogo dell’umanità, il nostro divino Logos». Clemente, così, illustra più avanti i modi con cui agisce la Paidagoghìa; egli si serve, specialmente, delle Scritture profetiche dell’Antico Testamento senza trascurare la sapienza dei pagani anche

51 Le Pedagogue (I), 75,1,244: Pantiì toi¿nun sqe/nei o( th=j a)nqrwpo/thtoj paidagwgo/j, o( qeiÍoj h(mw½n lo/goj, pa/sv kataxrw¯menoj sofi¿aj mhxanv=, s%¯zein e)pibe/blhtai tou\j nhpi¿ouj, nouqetw½n, e)pitimw½n, e)piplh/ttwn, e)le/gxwn, a)peilou/menoj, i¹wm ¯ enoj, e)paggello/menoj, xarizo/menoj, “polloiÍj tisin oi¸oneiì xalinoiÍj” ta\j a)lo/gouj th=j a)nqrwpo/thtoj “desmeu/wn” o(rma/j. Per la versione italiana si rinvia a Il Pedagogo,

103. 52 Sul filosofo antico come «saggio», cfr. P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, 191-192.


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se questa appare, in certi punti, distante dalla sapienza del Logos divino. Afferma infatti: «Avremmo potuto citare come nostri sostenitori in questo discorso (zétesis) i filosofi, che affermano che solo chi è perfetto è lodevole, mentre il malvagio è da biasimare. Ma poiché alcuni di loro denigrano l’essere beato ritenendo che esso non agisca nella realtà, né agendo in se stesso né intervenendo fuori di sé poiché non comprendono il suo amore per l’uomo (philanthropìa) — a causa dunque di costoro e di quelli poi che non accettano la connessione tra il giusto e il buono, abbiamo lasciato perdere il riferimento [ai filosofi]»53.

Intanto, nel testo greco troviamo il termine zétesis, il cui significato è quello di «ricerca». I «filosofi» di cui parla Clemente sono quelli stoici, per i quali Dio non può intervenire in favore dell’uomo, dal momento che per essi Dio è un essere perfetto in sé e non può volere la conversione dei malvagi ma solo il biasimo per questi e la lode per i giusti. Dio, però, afferma convinto Clemente, è philànthropos, ama l’uomo e vuole la conversione di tutti, specialmente dei malvagi. È il Vangelo o «lieto annunzio» che mostra uno scarto insuperabile rispetto alla Philosophìa degli antichi. All’inizio del Libro II, Clemente avverte il lettore come la Paidagoghìa debba avere un fine pratico volto ad informare di sé tutta la vita umana: «Attenendoci allo scopo che ci siamo proposti, tracceremo ora per sommi capi un abbozzo di come debba essere in ogni circostanza della vita, colui che si chiama Cristiano; faremo ciò raccogliendo dalle Scritture tutto ciò che concerne l’aspetto pratico — cioè utile alla vita quotidiana — della [divina] pedagogia (paidagoghìa)»54. 53 Le Pedagogue (I), 93,2,274: ¹Enh=n me\n ouÅn sunhgo/rouj h(miÍn th=j zhth/sewj tau/thj e)pispa/sasqai filoso/fouj, oià fasin e)paineto\n eiånai mo/non to\n te/leion, yekto\n de\ to\n fau=lon tugxa/nein. ¹All' e)peiì sukofantou=si¿ tinej to\ maka/rion, w¨j pra/gmat' ou)k eÃxon ouÃte au)to\ ouÃte aÃll% t% parexo/menon, th\n filanqrwpi¿an a)sunetou=ntej au)tou=, dia\ tou/touj dh\ kaiì tou\j eÃti to\ di¿kaion ou) prosa/ptontaj t%½ a)gaq%½, oÀde o( lo/goj h(miÍn parvth/qh. Per la versione italiana si rinvia a Il

Pedagogo, 118-119. 54 Le Pedagogue (II), 1,1,10: ¹Exome/noij toi¿nun tou= skopou= kaiì ta\j grafa\j


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L’inizio del Libro II tratta del comportamento riguardo al cibo. Siamo dunque all’approfondimento pratico e concreto della Paidagoghìa che deve trovare applicazione nella vita quotidiana del cristiano. Notiamo, poi, l’espressa volontà di Clemente di ricercare ed addurre passi delle Scritture per rinforzare e dimostrare il suo discorso. È il metodo dell’«ape sicula», ora applicato per approfondire l’ambito pratico e disciplinare entro il quale parlare di Paidagoghìa. Importante è pure l’applicazione di Paidagoghìa all’esercizio della sessualità ed al matrimonio tra i coniugi: «Ma unirsi senza avere per scopo la procreazione di figli è un oltraggio alla natura; bisogna invece prendere la natura per maestra e osservare le sue sapienti disposizioni pedagogiche (paidagoghìa) con cui essa stabilisce un tempo adatto: all’età senile essa non concede più di usare del matrimonio e all’età infantile non lo concede ancora; oppure non ci si sposi affatto»55.

La Paidagoghìa, in questo brano, non afferisce al Logos, bensì alle sapienti disposizioni della natura che ordina e finalizza la sessualità alla procreazione. È questo il suo fine “naturale” ovvero pedagogico, per cui l’esercizio della sessualità non è riservato ai fanciulli ed agli anziani, dal momento che sia gli uni sia gli altri non possono prendersi cura dell’educazione della prole, nata dall’unione tra uomo e donna. In questo modo, la Paidagoghìa guida la vita e l’agire pratico degli uomini e permette di scorgere l’ordine, secondo paidagoghìa, della natura e delle cose create. D’altra parte, è proprio nella vita concreta, fisica o bìos che si osserva la paidagoghìa56. A differenza del filosofo antico — quale sophòs, il «saggio» stoico o cinico — che si estranea dalla vita o bìos degli uomini, è proprio pro\j to\ biwfele\j th=j paidagwgi¿aj e)klegome/noij, o(poiÍon / tina eiånai xrh\ par' oÀlon to\n bi¿on to\n Xristiano\n kalou/menon, kefalaiwdw½j u(pograpte/on. Per la versione

italiana si rinvia a Il Pedagogo, 130. 55 Le Pedagogue (II), 95,3,184: To\ de\ mh\ ei¹j pai¿dwn gonh\n sunie/nai e)nubri¿zein e)stiì tv= fu/sei, hÁn xrh\ dida/skalon e)pigrafome/nouj ta\j sofa\j tou= kairou= e)pithreiÍn paidagwgi¿aj, to\ gh=raj le/gw kaiì th\n paidikh\n h(liki¿an, pareisa/gousan toiÍj me\n ga\r ou)de/pw sunexw¯rhsen, tou\j de\ ou)ke/ti bou/letai gameiÍn, plh\n ou) pa/ntote gameiÍn. Per la versione italiana si rinvia a Il Pedagogo, 220. 56 Cfr. Le Pedagogue (III), 41,3,90, in Il Pedagogo, 292.


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invece nella concretezza del bìos che deve calarsi e va vissuta dai cristiani la Paidagoghìa del Logos divino. Clemente non teme di affrontare problemi morali scottanti che si pongono ai cristiani del suo tempo, immersi in una società, quale quella alessandrina della fine del II secolo, multietnica, multiculturale, multireligiosa, dalla vocazione cosmopolita e da atteggiamenti nonché da opinioni etiche, le più varie e diverse57. Egli affronta, per esempio, il problema della liceità del comportamento omosessuale, tratto comune e distintivo della società greca ed ellenistica58. Guidato dalle Scritture, quindi dall’episodio della punizione di Sodoma, mirabilmente Clemente affronta i problemi e le domande etiche che questo tratto della civiltà antica, in cui è nato e vive, poneva ai cristiani del suo tempo, senza scadere in un banale atteggiamento di condanna od in un vuoto moralismo: «Ciò che subirono i Sodomiti fu un castigo per chi aveva commesso iniquità, ma è un insegnamento pedagogico (paidagoghìa) per coloro a cui questa storia viene narrata (cfr. Gn 19,1-25; ed in Gd 7; 2Pt 2,6). … . Il Logos che tutto contempla li vide; ad esso infatti non è possibile che sfuggano coloro che compiono sacrilegi. Il vigile Custode dell’umanità non lasciò passare sotto silenzio la loro dissolutezza. In tal modo egli distoglie noi dall’imitarli e con sapiente pedagogia ci richiama alla sua propria temperanza»59. 57

Cfr. Marrou, Le Pedagogue (I), Introduction, 61-66. Per una migliore conoscenza dell’omosessualità e della bisessualità nelle fonti antiche greche e romane ed una maggiore chiarezza nella loro comprensione, si rinvia ad E. CANTARELLA, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Milano 1995. Allo scopo di non incorrere in facili giudizi ed in pareri contrastanti di segno opposto, si rinvia a PLATONE, Il Simposio. Introduzione, traduzione, note e apparati di G. Reale, Milano 2000 (Bompiani testi a fronte 11), IV,180 E-181 C,60-63 e XII,118-143 (Discorso di Diotima) per intero. Si vedrà dunque come già gli antichi greci distinguessero l’ eÁrwj, puro e celeste, per le anime, dall’altro eÁrwj, impuro e terreno, per i corpi. Il primo è il vertice dell’ eÁrwj o amore vero. La novità di Clemente consiste nell’introduzione del rapporto educatore-educando, già presente nel metodo maieutico di Socrate, ma che diventa nel Paidagògos, luogo e mezzo per la comunicazione della swfrosu/nh o «saggezza» degli educatori, fondata sulla Scrittura e sulla filosofi/a e sul dialogo intersoggettivo. 59 Le Pedagogue (III), 43,5-44,1,94-96: to\ Sodomitw½n pa/qoj kri¿sij me\n a)dikh/sasi, paidagwgi¿a de\ a)kou/sasin. ... e)peiÍden au)tou\j o( pantepo/pthj lo/goj, 58

oÁn ou)k eÃsti laqeiÍn a)no/sia drw½ntaj, ou)de\ e)phre/mhsen tv= a)selgei¿# au)tw½n o(


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Francesco Aleo

La Paidagoghìa del Logos divino permette a Clemente di interpretare le Scritture «profetiche» dell’Antico Testamento e di scorgerne il loro potenziale salvifico. Il castigo divino diventa Paidagoghìa per coloro i quali ascoltano l’insegnamento del Logos. Dio non vuole punire i peccatori; il peccato dei Sodomiti attira, però, il castigo e la punizione divine, perché esso è sacrilegio contro Dio e contro l’uomo, sua creatura. «Distogliendoci dalla loro imitazione (dei Sodomiti) verso la saggezza dei suoi (del Logos) pedagoghi», lo sguardo vigile del Logos ci spinge a cercare un’altra guida, quindi anche un’altra formazione. Nonostante gli uomini siano sempre sotto lo sguardo vigile del Logos, essi sono liberi (autoexousìos) di compiere le proprie scelte (proàiresis). Il Logos Paidagògos non costringe, ma purifica, anche con il rimprovero ed il biasimo; guarisce dalle passioni insane, non è autoritario, non ricorre alla violenza ma la sua «formazione» (agoghé) è improntata a fermezza. Clemente denomina il suo “discorso” su Paidéia e Paidagoghìa, zétesis «ricerca»; sia Paidéia sia Paidagoghìa vogliono essere i mezzi con cui costruire la vera umanazione, la piena vita umana, che trova nel Logos incarnato la sua agoghé, «guida» e «formazione» autentiche. La Paidagoghìa dei Sodomiti si rivela, così, anche nella punizione divina. Essa — come d’altra parte Clemente illustra nel Libro I — non è punizione fine a sé stessa di un Dio vendicativo. Altrove, Clemente ci parla di un Dio philànthropos, la cui ira è segno d’amore per l’uomo; di un Logos che si è abbassato all’umanità, assumendone tutte le passioni umane, le pathe, allo scopo di insegnarci a moderarle; poiché «La formazione (agoghé) che ci dà il Logos, infatti, non è mai tesa all’eccesso, ma è sempre equilibrata»60, per vivere da uomini secondo natura e secondo la legge di Dio. Clemente non segna a dito i Sodomiti e quelli caduti nel loro peccato, non oppone ad essi l’insegnamento del Logos — con il rischio di renderlo moralistico, ripetitivo ed astratto — bensì testimonia quel movimento che, in virtù del Logos, ci distoglie dai peccati e ci conduce verso la «saggezza dei pedagoghi», di coloro i quali aÃgrupnoj th=j a)nqrwpo/thtoj fu/lac: a)potre/pwn de\ h(ma=j th=j mimh/sewj th=j e)kei¿nwn, pro\j swfrosu/nhn th\n au(tou= paidagwgw½n. Per la versione italiana si rinvia

a Il Pedagogo, 294. 60 Vedi supra, nota 37.


Realtà paideica ed approccio paideico

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sappiano educare con saggezza, non con presunzione o con facile e sterile moralismo. I Sodomiti possono essere guariti dalle loro pathe sacrileghe, per la saggezza o sophrosýne, concretamente esperita nella persona di autentici educatori o pedagoghi. Ancora una volta, con delicata insistenza, Clemente avverte come Paidéia e Paidagoghìa siano i connotati di un rapporto e di una relazione educativa, tali che costruiscano nella persona degli educatori o pedagoghi, una realtà paidéica ed un approccio paidéico. Nel dodicesimo capitolo del Libro III, Clemente pone nel Paidagògos tutta una serie di brani biblici o Testimonia, sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento. Conosciamo ormai a quale metodo e soprattutto, a quale maestro, appartenga questo stile di ricercare sul «prato profetico ed apostolico». Dopo aver citato brani dell’Antico Testamento, Clemente pone anche brani del Nuovo Testamento e conclude questa rassegna di passi biblici dicendo: «Entrambe le Leggi hanno servito il Logos per educare (paidagoghìa) l’umanità, l’una tramite Mosé, l’altra tramite gli apostoli. Ecco allora la pedagogia (paidagoghìa) messa in atto per mezzo degli apostoli»61.

Tutta la Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento è Paidagoghìa del divino Logos. Sia i profeti sia gli apostoli, con il loro insegnamento, educano l’umanità. Ormai verso la fine della sua opera, Clemente svela ai suoi lettori quale sia il suo scopo: «Molte sono poi le cose dette in maniera enigmatica e molte quelle espresse in parabole, da cui può trarre beneficio chi le legge. Ma non è compito mio — dice il Pedagogo — insegnarvi queste cose: ora infatti abbiamo bisogno, per la spiegazione di quelle sante parole, di un Maestro (Didàskalos); è verso di lui che dobbiamo ormai dirigerci. Per me è giunto il tempo di terminare la mia pedagogia (paidagoghìa), e per voi di prestare ascolto (akroàomai) al maestro (didàskalos). Quest’ultimo vi 61 Le Pedagogue (III), 94,1,178: ãAmfw de\ twÜ no/mw dihko/noun t%½ lo/g% ei¹j paidagwgi¿an th=j a)nqrwpo/thtoj, oÁ me\n dia\ Mwuse/wj, oÁ de\ di' a)posto/lwn. Oiàa gou=n kaiì di' a)posto/lwn <h(> paidagwgi¿a. Per la versione italiana si rinvia a Il

Pedagogo, 338.


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Francesco Aleo accoglierà, avendo voi già ricevuto l’educazione (agoghé) di una buona pedagogia, e v’insegnerà le sentenze [divine]»62.

Clemente consegna i suoi ascoltatori al Didàskalos, il Maestro, colui che è capace di spiegare tutte le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, anche quelle più oscure e dall’interpretazione più ardua. Possiamo osare affermare che questo Didàskalos avrà in sé una dýnamis capace di porlo in grado non semplicemente di spiegare le Scritture - cosa che ha già fatto il Paidagògos – ma di porre i suoi lettori finalmente, dinanzi alla vera Gnosis. Se, prima, essi si sono lasciati guidare dal Paidagògos, in vista della sua agoghé, o «formazione», ora devono affidarsi al Didàskalos, in vista dell’akròasis, o «ascolto» del suo insegnamento. L’insegnamento del Didàskalos è così acroamàtico: fa divenire i suoi discepoli ascoltatori (akroatés). Riportiamo, quindi, l’esortazione finale che segna la conclusione del Paidagògos: «O allievi (thrémmata) della divina pedagogia (paidagoghìa)! Orsù completiamo la bellezza del volto della Chiesa e corriamo noi piccoli, verso la madre buona; diventando ascoltatori (akroatés) del Logos, glorifichiamo il divino piano provvidenziale (oikonomìa), grazie al quale l’uomo viene sia educato dalla pedagogia (paidagogàomai) [divina] che santificato in quanto bambino di Dio: “è cittadino dei cieli” (Fil 3,20) mentre viene educato (paidagogoùmenos) sulla terra; riceve lassù per Padre colui che in terra impara a conoscere. Di tutto, invero, il Logos è creatore, Maestro e Pedagogo»63. 62

Le Pedagogue (III), 97,3,182: Polla\ de\ kaiì di' ai¹nigma/twn, polla\ de\ kaiì dia\ parabolw½n toiÍj e)ntugxa/nousin eÃcestin w©feleiÍsqai. ¹All' ou)k e)mo/n, fhsiìn o( paidagwgo/j, dida/skein eÃti tau=ta, didaska/lou de\ ei¹j th\n e)ch/ghsin tw½n a(gi¿wn e)kei¿nwn lo/gwn xrv/zomen, pro\j oÁn h(miÍn badiste/on. Kaiì dh\ wÐra ge e)moiì me\n pepau=sqai th=j paidagwgi¿aj, u(ma=j de\ a)kroa=sqai tou= didaska/lou. tou= didaska/lou. ParalabwÜn de\ ouÂtoj u(ma=j u(po\ kalv= teqramme/nouj a)gwgv= e)kdida/cetai ta\ lo/gia. Per la versione italiana si rinvia a Il Pedagogo, 340, essa, però, in certi passaggi, appare assai libera. 63 Le Pedagogue (III), 99,1,184-186: äW th=j makari¿ou qre/mmata paidagwgi¿aj: to\ kalo\n th=j e)kklhsi¿aj plhrw¯swmen pro/swpon kaiì pro\j th\n a)gaqh\n prosdra/mwmen oi¸ nh/pioi mhte/ra, kaÄn a)kroataiì tou= lo/gou genw¯meqa, th\n makari¿an doca/zwmen oi¹konomi¿an, di' hÁn paidagwgeiÍtai me\n o( aÃnqrwpoj, a(gia/zetai


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È il brano citato all’inizio del documento magisteriale della CEI con il quale abbiamo iniziato il presente, modesto, saggio. Ne scorgiamo, dopo quanto detto, la sua profondità e complessità, poiché inizia ad introdurre la figura del Didàskalos, appena accennata, a conclusione del Paidagògos. Proprio il Didàskalos doveva costituire l’argomento della terza opera della sua trilogia. Giunto alla fine del Paidagògos, Clemente invita i suoi lettori ad elevare un Inno al divino Logos con queste parole che non hanno bisogno di commento: «Poiché il Pedagogo ci ha costituiti nella Chiesa e ci ha affidati alle sue proprie cure di Logos che insegna e sovrintende tutto, sarebbe bene che, giunti a questo punto, ripagassimo il nostro debito di giusta gratitudine lodando il Signore in maniera degna della sua sapiente pedagogia (paidagoghìa)»64.

5. L’APPROCCIO PAIDEICO DEL DIDÀSKALOS IN CLEMENTE D’ALESSANDRIA L’attenzione alla persona di Clemente d’Alessandria ed al testo del Paidagògos, volta a rinvenire anche il suo tentativo di compiere una riflessione teologica sistematica su Paidéia e Paidagoghìa, ci ha condotto in quello che viene riconosciuto essere l’ambito della Teologia del Logos. Ci ha fatto tra l’altro conoscere la valenza pedagogica di questa prima riflessione teologica cristiana sul Logos, che comincia a porsi con Giustino a Roma ed a delinearsi con Clemente ad Alessandria, nel corso del II secolo, per raggiungere, nel III secolo, con Origene, la sua forma ed elaborazione più compiute. Solo nel IV secolo, con i Padri Cappadoci, si parlerà di Theologhìa e di theolode\ w¨j qeou= paidi¿on, kaiì politeu/etai me\n e)n ou)ranoiÍj e)piì gh=j paidagwgou/menoj, pate/ra de\ e)keiÍ lamba/nei, oÁn e)piì gh=j manqa/nei. Pa/nta o( lo/goj kaiì poieiÍ kaiì dida/skei kaiì paidagwgeiÍ. Per la versione italiana si rinvia a Il Pedagogo, 341. 64 Le Pedagogue (III), 101,3,190: ¹Epeiì de\ ei¹j th\n e)kklhsi¿an h(ma=j katasth/saj o( paidagwgo\j au)to\j e(aut%½ parakate/qeto t%½ didaskalik%½ kaiì panepisko/p% lo/g%, kalw½j aÄn eÃxoi h(ma=j e)ntau=qa genome/nouj misqo\n eu)xaristi¿aj dikai¿aj kata/llhlon a)stei¿ou paidagwgi¿aj aiånon a)nape/myai kuri¿%. Per la versione italiana

si rinvia a Il Pedagogo, 343-344.


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ghéin, di «discorso» o di «discorrere» su Dio. Il termine Theologhìa, infatti, trovandosi nei testi di filosofi antichi come Platone, Aristotele e degli stoici, per spiegare le proprietà e le prerogative degli dèi del Pàntheon pagano, non potè, per questa ragione, per lungo tempo essere impiegato dagli scrittori cristiani più antichi. Clemente, alla fine del II secolo, nel Paidagògos, denomina il suo discorrere su Paidéia e su Paidagoghìa, come zétesis o «ricerca», volta ad evidenziare l’opera “educativa” del Logos divino nella vita degli uomini, dispiegatasi nella divina Oikonomìa della Storia della Salvezza. Pur nell’inadeguatezza del logos umano, della parola umana, del parlare umano, Clemente si “accorge” che Dio ha parlato nel suo Figlio, che Dio viene incontro all’uomo nella sua Parola, Parola di Dio o Logos. Anzi, il Verbo incarnato nel Dio fatto uomo è il Logos-paidìon, il Verbo-bambino che stende le braccia per esser curato ma soprattutto per curare ed educare gli uomini alla vita divina. Con un abile gioco di parole, gli alessandrini ribadivano che il Logos divino è Parola di Dio, proferita dal Padre, ma è anche lo stesso Figlio di Dio. Dio, così, si è fatto Logos, non semplicemente Parola, ma Parola intima e nascosta, nei secoli, di un Dio che con la sua Parola rivolta all’uomo, si è rivelato Padre: Logos fattosi carne, Figlio suo prediletto, uomo per Dio, Dio fra gli uomini. La Parola divina, in quanto comunicazione, implica alterità e reciprocità, quindi una relazione con chi l’ascolta65. L’ “Io” divino si manifesta nel Figlio, sua Parola vivente, in una relazione che coinvolge il “tu” umano, il quale, nella Parola del Figlio, a lui rivolta da Dio, riconosce il proprio “io” come posto in relazione con Colui che parla. In questa relazione, la parola umana si trova su un piano di intimità e di rivelazione, con il “Tu” divino. Su questo piano, avviene un continuo dialoghéin o «dialogare» dell’Uomo con Dio nel Logos divino, servendosi del logos umano, a partire dall’incontro con il Logos-Figlio che vela e ri-vela il Padre, nel senso che lo disvela ma lo vela una seconda volta66. Cosicché, Colui che parla si rivela a colui che ascolta e questi, cono65

Cfr. Le Pedagogue (I), Introduction, 34-42. Per un approfondimento dell’alterità e dell’intersoggettività nella realtà educativa e nella teoresi pedagogica attuali, per la definizione di un loro ruolo nella moderna filosofia dell’educazione, si suggerisce la lettura e lo studio degli scritti di Ferdinand Ebner, originale pensatore austriaco dei primi decenni del XX secolo. Per 66


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scendo sempre più il “Tu” divino, conosce sempre più anche il proprio “io”, penetrando sempre più in profondità nella “tuità” e nella “iità” o per meglio dire, nella mutualità della relazione tra Dio e l’Uomo67. Questo assunto “apocalittico” — da apokàlypsis o «rivelazione» — non ancora espresso ed elaborato in forma sistematica, può essere considerato una vera e propria “scoperta” della riflessione teologica cristiana del II secolo che fonderà, con Giustino, Clemente d’Alessandria e poi con Origene, la Teologia del Logos68. È con la parola o logos, propria dell’uomo, in quanto lo distingue dagli animali, che l’uomo vive e si esprime; è con la propria parola o logos che l’uomo va incontro al mistero di un Dio che, pur inconoscibile e nascosto, si rivela nel Logos divino del proprio Figlio, fatto carne ed ipostaticamente posto nell’Incarnazione, in comunicazione con gli uomini, quale Parola vivente del Padre. Nel suo dia-loghéin con gli uomini, Dio Padre, rivelandosi nel Logos, viene incontro all’uomo, gli si manifesta nel Figlio per conoscerlo e quindi amarlo (cfr. Gv 3,16). Il Logos fatto carne è la sua ultima e definitiva Parola rivolta all’uomo negli ultimi tempi (cfr. Eb 1,1)69. Non dimora soltanto in mezzo agli uomini (cfr. Gv 1,1), ma li educa, quale loro divino Paidagògos, alla vita divina con la sua vita umana e terrena. L’azione del Logos-Figlio è così fatta di Paidéia e Paidagoghìa. Il Logos incarnato si pone tra Dio e l’Uomo e facendo questo pone nuovamente l’umano, educato, una introduzione ed un invito alla lettura ed alla meditazione degli scritti di Ebner, si rinvia allo studio di Edda Ducci, vedi supra, nota 3. 67 Vedi E. DUCCI, La parola nell’uomo, 95-104; 105-124. In particolare, vedi anche IDEM, In margine a un sintagma ebneriano nuovo, prezioso, rivelativo, irrecusabile: la Duhaftigkeit des Bewußtseins, in S. ZUCAL-A. BERTOLDI (a cura di), La filosofia della parola di Ferdinand Ebner, Brescia 1999, 117, nota 3. 68 Sulla Teologia del Logos, può essere ancora utile J. DANIELOU, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, 429-440 e C. CERAMI, La Trasfigurazione del Signore nei Padri della Chiesa, Roma 2010. 69 Per illustrare quanto esposto finora, sulla funzione della Parola in F. Ebner, ci pare utile citare E. DUCCI, La parola nell’uomo, 206: «L’uomo è tale perché ha la parola. Questa luce gli illumina la realtà insondabile del rapporto creativo (Dio crea l’uomo parlandogli, rivolgendogli la parola in seconda persona) e gli consente un ulteriore avvicinamento al mistero della Parola fatta carne, al mistero di Dio fatto uomo. Il Prologo del Vangelo di Giovanni diventa il filo conduttore della sua riflessione sull’uomo».


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formato, assunto e trasfigurato dal Logos70. In tal senso, si spiega la connotazione morale e pratica del II e del III Libro del Paidagògos, nei quali tutti gli aspetti del bìos dell’uomo sono vagliati e passati in rassegna, quindi rivisti alla luce della Paidéia e della Paidagoghìa del Logos, dal mangiare, al bere, all’esercizio della sessualità. Vagliando le notizie sulla sua vita ed in particolare quelle che lo stesso Clemente ci fornisce, ci siamo soffermati sul suo incontro con la persona e l’insegnamento del Didàskalos Panteno, ad Alessandria. Panteno ha saputo gettare in Clemente un fermento, capace di far sorgere in lui una prospettiva, esprimentesi nell’intenzione originaria di voler realizzare una trilogia, comprendente il Protrettico ai Greci ed il Pedagogo, compiutamente realizzantesi ne Il Maestro, ma che non fu mai portata a termine. Da questa prospettiva, colta ovviamente nel Paidagògos, vorremmo trarre un approccio che oseremmo definire paidéico, volto ad evidenziare il fondamento di una realtà paideica valida per il nostro tempo, tanto travagliato71. Nella nostra indagine sul Paidagògos, abbiamo evidenziato in più luoghi testuali il ricorso di Clemente al metodo dell’«ape sicula». L’impiego di Testimonia sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento, in tutta l’opera ed in particolare alla fine, manifesta quell’attività, propria del suo maestro, di cogliere «i fiori del prato profetico ed apostolico». La presenza di citazioni di filosofi e di poeti pagani nel Paidagògos, anche se in misura minore rispetto al Protreptikòs, testi70

Ci pare importante, per avvalorare quanto andiamo affermando, riportare un passaggio delle riflessioni di Ebner, nella versione italiana dei suoi scritti dal tedesco, ad opera di Edda Ducci, ibid., 253: «Tra Dio e l’uomo sta l’uomo. Questi potrebbe, momentaneamente, spostare Dio, e lo fa anche. Perché non avvenga Dio è diventato uomo in Cristo. Cristo ci ha insegnato a vedere Dio nell’uomo. E lo si è rapidamente, spesso ‘misticamente’, frainteso, frainteso in rapporto a se stessi, perché non si è tenuto presente che Dio è il ‘Tu’ dell’Io nell’uomo. Dio nell’uomo – no, Cristo non l’ha inteso misticamente ma proprio eticamente: ciò che fate al più piccolo dei vostri fratelli l’avete fatto a me, e ciò che avete fatto a me l’avete fatto a Colui che mi ha mandato. Perché l’uomo sta tra Dio e l’uomo». 71 Per un approfondimento, si rinvia ai seguenti studi di E. DUCCI, «Paidéia» e «Metéxis», in Rassegna di scienze filosofiche (1967) 264-292; Il rapporto io-tu nella persuasione, in Pedagogia e vita (1971) 640-644; Essere e comunicare, Roma 2003; La comunicazione da anima ad anima è ancora auspicabile?, in E. DUCCI (cur.), Aprire su paideia, Roma 2004, 15-20.


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monia non soltanto il ricorso alla cultura pagana ed il riconoscimento in essa di valori positivi per la vita cristiana. Tale ricorso non è semplicemente “strumentale” all’inculturazione del cristianesimo nella società ellenistica alessandrina, ma attesta l’attenzione di Clemente al rapporto maestro-discepolo, invalso nelle scuole ellenistiche e ad Alessandria72. Come giustamente osserva il grande studioso francese di Filosofia antica Pierre Hadot, Clemente d’Alessandria è colui il quale collega strettamente la Philosophìa, come «modo di vita», alla Paidéia73. Al tempo di Clemente, nelle scuole ellenistiche, l’insegnamento della Philosophìa constava di pratiche terapeutiche, volte alla cura delle passioni e ad una trasformazione profonda della maniera di vedere e di essere dell’individuo74. Di questo particolare insegnamento della Philosophìa, ci parla Filone d’Alessandria nel Quis divinarum heres sit o L’erede delle cose divine, databile alla prima metà del I secolo d.C.: «Tutto ciò che alimenta l’ascesi (àskesis) gli è imbandito: la ricerca (zétesis), l’investigazione, la lettura, l’ascolto (akròasis), l’attenzione, la continenza, l’indifferenza dinanzi a ciò che è moralmente indifferente»75. 72

Sull’uso delle citazioni letterarie e poetiche nelle opere degli autori pagani del

II secolo, quali ad esempio Plutarco di Cheronea, è illuminante lo studio di

P. CARRARA, Plutarco ed Euripide: alcune considerazioni sulle citazioni euripidee in Plutarco (De aud. Poet.), in Illinois Classical Studies XIII (1988) 2, 447-455. Sull’insegnamento nelle scuole dell’età ellenistica e sull’influenza che esse hanno avuto sulla formazione di una paide/ia cristiana, vedi: W. JAEGER, Cristianesimo primitivo e paideia greca, Firenze 1966; A. QUACQUARELLI, Le fonti della Paidei/a ante nicena, Brescia 1967; ID., Scuola e cultura dei primi secoli cristiani, Brescia 1976; E. OSBORN, Ethical Patterns in Early Christian Thought, Cambridge 1978; P.L. DONINI, Le scuole, l’anima, l’impero. La filosofia antica da Antioco a Plotino, Torino 1982; M. MAZZA — C. GIUFFRIDA (curr.), La trasformazione della cultura nella Tarda Antichità. Atti del Conv. (Catania Univ. degli St., 27 sett. — 2 ott. 1982), I-II, Roma 1985; A. GIARDINA (cur.), Società romana e impero tardo antico, IV (Tradizione dei classici, trasformazioni della cultura), Roma-Bari 1986. Vedi anche F. ALEO, L’educazione classica greca antica e la cultura cristiana in Basilio di Cesarea. La relazionalità come forma educativa, in Ho Theologos XXVIII (2010) 2, 283-291. 73 Cfr. P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, 72. 74 Ibid., 32. Vedi anche A.-M. MALINGREY, Philosophia. Ètude d’un group de mots dans la literature grecque, de Presocratiques au V siecle après J.-C., Paris 1961. 75 FILONE D’ALESSANDRIA, L’erede delle cose divine. Prefazione, traduzione, note e apparati di R. Radice, Milano 1994, 253, 177: pa/nta ga\r ta\ th=j a)skh/sewj e)dw¯dima


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L’insegnamento della Philosophìa di cui parla Filone è un’àskesis, o «esercizio» che consta di “pratiche”, fra le quali, prima appare la zétesis o «ricerca», quindi fra le altre, ma non meno importante, l’akròasis o l’«ascolto». In virtù di queste ed altre “pratiche”, il «saggio» o sophòs si esercita a cogliere la sapienza. Filone, profondamente influenzato dalla filosofia stoica e da quella platonica — che cerca di trasfondere nell’interpretazione delle Sacre Scritture giudaiche — individua, nella santità degli uomini e delle donne della Bibbia, quella ricerca della sapienza divina che accomuna greci e giudei76. I termini zétesis ed akròasis, in Clemente, hanno allora una chiara e perspicua valenza “filosofica”. L’akròasis, allora, non è semplice «ascolto», ma è la “pratica” dell’«ascolto» che prepara, nel Paidagògos, l’uditore come l’esercitante di un corso di “esercizi spirituali”, ad accogliere l’insegnamento acroamàtico del Didàskalos. Tale esperienza, compiuta dal discepolo, era dunque particolare. Ricordiamo ancora una volta l’affermazione di Clemente, secondo la quale l’insegnamento di Panteno «generava» la gnosis nelle anime di coloro i quali ascoltavano. L’insegnamento acroamàtico, praticato nelle antiche scuole alessandrine di Philosophìa, viene da Panteno ora fondato sui testi delle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, a differenza di Filone che si esercitava soltanto sulle Scrittura giudaiche dell’Antico Testamento. In un contesto cosmopolita di scambi culturali, filosofici, spirituali, fra grecità, ellenismo, giudaismo e cristianesimo, qual era quello di Alessandria alla fine del II secolo, Clemente s’impegna a tracciare un percorso “pratico” che prepari all’ascolto dell’insegnamento acroamàtico, proprio del Didàskalos. Una volta, infatti, che il discepolo uditore, avesse ricevuto l’esortazione del Protreptikòs, quindi l’istruzione del Paidagògos, così incoraggiato, sostenuto e soprattutto purificato dalle passioni, poteva dedicarsi con profitto all’ascolto dell’insegnamento acroamàtico del Didàskalos, divenendone «ascoltatore» o akroatés. kaqe/sthken, h( zh/thsij, h( ske/yij, h( a)na/gnwsij, h( a)kro/asij, h( prosoxh/, h( e)gkra/teia, h( e)cadiafo/rhsij tw½n a)diafo/rwn. 76

Per un inquadramento dell’opera di Filone nella cultura ellenistica ed in particolare nell’ambiente culturale di Alessandria, si rinvia a G. Reale, in FILONE D’ALESSANDRIA, L’erede delle cose divine, Saggio introduttivo, 7-51.


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Clemente, così, assimila al Cristianesimo la Philosophìa, per la precisione le “pratiche” filosofiche del suo tempo77. All’akròasis del sophòs antico, succede l’akròasis del Didàskalos cristiano che pone un insegnamento in continuità con quello precedente della Philosophìa antica, ma da cui si distacca, poiché impiantato sul «prato profetico ed apostolico» delle Sacre Scritture. Tuttavia, Clemente, proprio in virtù di questo ascolto (akròasis), viene spinto alla ricerca (zétesis), addirittura alla caccia ed all’inseguimento (theréin) di un maestro come Panteno che si «nascondeva». La gnosis, «generata» in lui, per una nuova esistenza, dall’insegnamento acroamàtico di Panteno, riteniamo afferisca proprio a quel rapporto particolare tra Clemente e Panteno, tra il discepolo ed il suo maestro, tra l’educando e l’educatore. Clemente d’Alessandria non pone ancora una riflessione sistematica sulla realtà educativa o Paidéia e sulla teoresi pedagogica o Paidagoghìa; egli, però, mostra di comprendere come l’opera educativa del Logos non possa prescindere dalla relazione e dal dialogo intersoggettivo, tra Dio e l’Uomo, tra il didàskalos e l’akroatés, tra l’ “io” ed il “tu”78. «Stendendo le braccia» verso di noi, il Logos-paidìon intende muoversi verso la creazione di una relazione intersoggettiva, di cui oggi una moderna filosofia dell’Educazione non può non tener conto. Non però in quanto semplice riflessione od argomentare sulla relazione, quanto piuttosto intersoggettività, istanza ed urgenza di un “io” che si sente interpellato da un altro “io” a diventare “tu” ed a relazionarsi con un altro “tu”79. In questo caso, l’ascolto o akròasis, diventa una vera e propria pratica di umanazione, capace di far uscire l’ “io” da sé stesso e di trasformarlo in un “tu”. Altra pratica di umanazione può essere considerata quella dýnamis propria del Didàskalos, «capa77 Cfr. P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, 67: «Nei primi secoli il Cristianesimo ha presentato se stesso come una filosofia, nella misura stessa in cui assimilava la pratica tradizionale degli esercizi spirituali». 78 Al riguardo ci pare significativa un’osservazione conclusiva sull’opera di Ebner in E. DUCCI, Essere e comunicare, 77: «La parola è una realtà che si svolge tra l’io e il tu, che ponendola, presuppone la relazione dell’io al tu, perché è in essa che la relazione a Dio, trovando il vero fondamento, si esprime, in quanto primariamente relazione dell’io al Tu». 79 Cfr. ibid., 112-115.


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cità» acquisita, accresciuta, maturata in sé, di vivere la relazione intersoggettiva. Un educatore o Didàskalos, dotato di akròasis e di dýnamis così intese, fornirà al discepolo non più nozioni o informazioni, bensì quella conoscenza o gnosis, adeguata ad intercettare la sua domanda di umanazione, senza temere di screditare il proprio ruolo o di perdere la propria autorità. Il Didàskalos di Clemente, fondato sia sulle Scritture sia sulla Philosophìa, con un proprio metodo ed una propria personale ricerca o zétesis, darà luogo ad una realtà e ad un approccio paideici80. Un educatore così inteso sarà capace di offrirsi al discepolo non come semplice “agente” o “referente” educativo ma come “ambiente” di risposta. Pertanto, un approccio paideico che generi gnosis — non conformismo, appiattimento o semplice “informazione” — sarà capace di giungere nelle profondità dell’io dell’educando, scoprendone ed evidenziandone i talenti e le risorse81. L’educando che impara ad esprimerle nella sua vita, sarà “generato” ad una esistenza rinnovata, per umanarsi82. Il fatto che Clemente dica che Panteno «fosse nascosto» ad Alessandria, potrebbe essere un modo per suggerire al discepolo di mettersi prima alla ricerca del vero Didàskalos, quindi all’ascolto del suo insegnamento? È difficile rispondere a questa domanda, ma è evidente che, dalle considerazioni svolte precedentemente sul testo del Paidagògos, emergono parecchi spunti per fondare un dialogo educativo che sia necessariamente intersoggettivo83. 80

Cfr. ibid., 114. Per avvalorare quanto detto finora, riportiamo un’ultima considerazione sugli spunti educativi in vista dell’umanazione negli scritti di Ebner, tratta da E. DUCCI, La parola nell’uomo, 197: «L’incontro vero e reale con l’altro per l’immenso potenziale liberante e creante che rivela è fonte e effetto della gioia immensa, della sicurezza massima per la certezza vitale, prima che razionale, dell’esserci di Dio». 82 Cfr. ibid., 175. 83 Per ulteriori approfondimenti si rinvia a L. MUNFORD, The Tranformation of Man, New York 1956; A. POMA, La filosofia dialogica di Martin Buber, Torino 1974; A. NEHER, L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Casale Monferrato 1983; C. NANNI, L’educazione tra crisi e ricerca e ricerca di senso. Un approccio filosofico, Roma 1990; C. SCILIRONI, Il volto del prossimo. Alla radice della fondazione etica, Bologna 1991; P. RICOEUR, Sé come un altro, Milano 1993 (con un contributo di D. IANNOTTA, L’alterità nel cuore dello stesso, 11-69); M. BUBER, Il prin81


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6. CONCLUSIONI: I TRATTI DEL DIDÀSKALOS IN CLEMENTE D’ALESSANDRIA Quali sono allora i tratti che compongono i lineamenti del Didàskalos? Non essendo stata scritta da Clemente la terza opera della sua trilogia, possiamo intravederli fra quelli propri del Paidagògos. Tornando su brani precedentemente considerati, all’inizio di quest’opera, leggiamo: «Il Pedagogo infatti ha a che fare con la guida pratica (praktikòs), non con l’indagine teorica (methodikòs), come pure il suo scopo è di rendere l’anima migliore (beltièin) e non di istruirla (didàskein): egli guida ad una vita di virtù e saggezza (sòphron), non di conoscenza (epistemonikòs)».

Possiamo inferire da questo brano i tratti fondamentali del pedagogo (paidagògos) e del maestro (didàskalos). Il pedagogo è “pratico” o praktikòs, il maestro è, invece, “teorico” o methodikòs. Al primo, spetta “migliorare” l’anima di chi ascolta, al secondo, “istruirla”. Il pedagogo guida l’anima verso una «vita di saggezza» (bìos sòphron), il maestro, invece, la guida verso una «vita di conoscenza» (bìos epistemonikòs). Sembra dunque chiamarsi epistéme, la conoscenza propria del discepolo (akroatés), e gnosis, quella conoscenza, propria invece del Didàskalos. Questi trova discepoli preparati ed esercitati dal Paidagògos, nella ricerca (zétesis) e nell’ascolto (akròasis). La gnosis posseduta dal maestro e da lui insegnata, assimilata dal discepolo, diventa in questi epistéme. È il maestro, in virtù della sua capacità (dýnamis), a volgere la gnosis in epistéme, rendendo il discepolo capace di imparare, recepire ed assimilare tutti quegli insegnamenti cipio dialogico e altri saggi, Cinisello Balsamo 1993; R. MANCINI, L’ascolto come radice. Teoria dialogica della verità, Napoli 1995; S. PALUMBIERI, Amo dunque sono. Presupposti antropologici della civiltà dell’amore, Cinisello Balsamo 1999; M. GENNARI, Filosofia della formazione dell’uomo, Milano 2001; I. SANNA, L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità, Brescia 2001; P. SEQUERI, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Milano 2002; C. VIGNA (a cura di), Etica trascendentale e intersoggettività, Milano 2002; J. DE FINANCE, A tu per tu con l’altro. Saggio sull’alterità, Roma 2004; C. CALTAGIRONE, L’umanità dell’uomo. Sondaggi antropologici tra scienza e filosofia, Caltanissetta 2004; IDEM, La misura dell’uomo. La questione veritativa in antropologia, Caltanissetta 2009, in particolare, 190-204.


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impartiti dal Paidagògos ed esperiti nella propria vita (bìos) improntata a saggezza ed a virtù. Questo insegnamento che segue a quello del Paidagògos, è proprio del Didàskalos. A questi spetta «insegnare» (didàskein), per curare l’aspetto “teorico” (methodikòs); al Paidagògos, invece, spetta «guidare» (agoghéin), curando l’aspetto “pratico” (praktikòs). Si può quindi osservare come, curiosamente, Clemente ribalti le moderne metodiche pedagogiche ed educative. Mentre per noi moderni, la “teoria” precede la “pratica”, per Clemente, invece, l’aspetto “pratico” precede quello “teorico”: il pedagogo viene prima del maestro. Quest’ultimo, però, non è semplicemente e puramente “teorico”, ma methodikòs, attinente cioè al metodo. Nel metodo, infatti, la gnosis dev’essere agganciata alla realtà ed ai problemi che essa pone innanzi (pro-bàllein), altrimenti non sarebbe metodo e non diventerebbe epistéme. Il metodo o méthodos deve saper andare «oltre» (metà) la «via» (odòs) consueta che segue la ricerca (zétesis), allo scopo d’indirizzarla su una nuova via. Possiamo dunque ragionevolmente affermare che se la ricerca è un tratto del pedagogo, il metodo è, invece, un tratto, proprio del maestro. In un altro testo, Clemente afferma: «Avremmo potuto citare come nostri sostenitori in questo discorso (zétesis) i filosofi, che affermano che solo chi è perfetto è lodevole, mentre il malvagio è da biasimare»84.

Rispetto al Protreptikòs, ove è tutto un susseguirsi di citazioni di opere di autori pagani insieme ai loro miti - utili e necessari a Clemente per comprendere e confutare le loro concezioni religiose nel Paidagògos, Clemente si muove su un altro piano, più propriamente filosofico. Dinanzi alla Teodicéa dei filosofi stoici, secondo i quali la divinità riserva lode ai giusti e biasimo ai malvagi, l’Alessandrino oppone un Dio philànthropos, amante degli uomini. 84 Anche se il termine zh/thsij ricorre una sola volta nel Paidago/goj di Clemente d’Alessandria, varie e ricorrenti sono le ricorrenze di zh/tein. Tuttavia, non può essere un caso che l’unica ricorrenza di zh/thsij si trovi nel confronto con i filosofi stoici, inerente la Teodicéa, nel passo precedentemente considerato del nostro saggio.


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Questo è assente nella concezione religiosa dei greci85. L’Amore di Dio, poi, o Agàpe, è profondamente “pedagogico”; la prova, anzi, che Dio è philànthropos è quella secondo cui Dio, per mezzo del suo Lògos, educa gli uomini alla vita divina. La Paidéia e la Paidagoghìa di Clemente, allora, preparano l’uomo, attraverso la vita vissuta, secondo l’insegnamento “pratico” del Logos Paidagògos, ad ascoltare l’altro insegnamento, quello “metodico” dello stesso Logos che nella relazione intersoggettiva, realtà paidèica dell’ “io” con il “tu”, si disvela quale vero e divino Didàskalos, capace di trasformare chiunque si metta in vero ascolto (akròasis) e di porlo in continua ricerca (zétesis), generando in lui (enghennào) una vita divina ed autenticamente umana.

85 Di conseguenza, i greci non amavano gli déi ma li temevano o ne avevano paura. Per maggiori e più utili chiarimenti, si rinvia ad E.R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, 78: «D’altra parte, l’amore di Dio manca nel vocabolario greco più antico: filo/qeoj, compare per la prima volta in Aristotele».



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LA RELAZIONE TRA CORPO E PREGHIERA NEL LIBRO DEGLI ESERCIZI SPIRITUALI DI SANT’IGNAZIO DI LOYOLA*

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Esaminando il libro degli Esercizi spirituali ignaziani, si rimane meravigliati per l’importanza che sant’Ignazio dà all’influsso del corpo sulle attività spirituali1. Si ha l’impressione che fino a non molti anni fa, l’educazione religiosa non abbia valorizzato sufficientemente il coinvolgimento del corpo nella preghiera. L’educare alla preghiera era inteso come un semplice atto di apprendimento e di ripetizione di preghiere tradizionali, nelle quali il corpo non aveva un ruolo particolare; tutt’al più si esortava a non assumere in chiesa un atteggiamento sconveniente. Per questo motivo, dunque, stupiscono l’intuizione di sant’Ignazio e i suoi suggerimenti in relazione ai diversi momenti della giornata dell’esercitando, indicazioni che valorizzano il clima generale in cui si svolge il mese. Quando si fa riferimento alle posizioni corporali, infatti, non ci si può limitare a parlare dello «spazio» che si occupa e per mezzo del quale si è naturalmente legati a tutto ciò che è intorno a noi. Bisogna * Estratto della tesi di baccalaureato in Teologia, discussa il 12 febbraio 2010 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, relatore prof. Giuseppe Buccellato SdB. ** Baccelliere in Teologia. 1 Per un maggiore approfondimento sul ruolo del corpo nella pratica degli Esercizi si veda l’importante contributo del padre Louis Boisset in L. BOISSET, Quand la prière prend corps, in Cahiers de Spiritualité Ignatienne 8 (1984) 15-20.


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piuttosto toccare almeno la questione del contesto ambientale, sia materiale che spirituale, che avvolge il nostro corpo. 1. LA VISIONE DELL’UOMO NELL’ANTROPOLOGIA IGNAZIANA Per meglio comprendere il ruolo del corpo nella preghiera è opportuno tracciare una sintesi sulla concezione che sant’Ignazio aveva dell’uomo, così come emerge dal libro degli Esercizi. «Che sant’Ignazio — ha scritto il gesuita Manuel Ruiz Jurado — sia stato un grande conoscitore degli uomini lo affermano i suoi contemporanei e biografi. Questa conoscenza potrebbe però essere stata effetto di un progredito senso comune, o di un’acuta capacità intuitiva, sviluppata dalla sua educazione cortigiana, dai suoi multiformi contatti sociali e dai suoi viaggi attraverso terre tanto diverse. In realtà, essa è dovuta molto di più alla sua immensa capacità di riflessione sulla sua ricca e straordinaria esperienza interiore, illuminata da un innegabile carisma di discernimento degli spiriti»2.

Salve restando le considerazioni di Jurado, è necessario sottolineare che Ignazio non ha voluto strutturare in modo sistematico un trattato di antropologia, e nemmeno una “descrizione” antropologica più o meno completa. «Tuttavia Ignazio ci ha lasciato — continua Ruiz Jurado —, ben sottolineata nei suoi scritti, gli elementi che ci permettono di scoprire tutta una concezione antropologica che serve di base alla sua applicazione sistematica sia nella vita spirituale personale sia nella direzione spirituale o formazione cristiana degli altri»3. A questo punto ci si potrebbe chiedere quale sia la concezione che Ignazio ha dell’uomo. Una prima risposta a questa domanda ci può essere data da quanto afferma il padre Manuel Ruiz Jurado: «Sant’Ignazio considera l’uomo un essere composto (il “composito”, 2 M. RUIZ JURADO, L’antropologia di sant’Ignazio di Loyola, in CH. A. BERNARD (cur.), L’antropologia dei maestri spirituali. Atti del simposio organizzato dall’Istituto di Spiritualità dell’Università Gregoriana (Roma 28 Aprile – 1 Maggio 1989), Cinisello Balsamo 1991, 239. 3 L.c.


La relazione tra corpo e preghiera

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EE 47) fondamentalmente di anima immortale (“parti superiori”, EE 87) e corpo corruttibile (“parti inferiori”, ibid.); questo, più per un influsso evangelico e paolino che per un contatto diretto col platonismo e con l’agostinismo. La sua è una concezione gerarchica. Ritiene che per un’attività corretta, secondo la regola suprema di ogni ordine che è la santissima volontà divina, è necessario subordinare le parti inferiori a quelle superiori, e queste sottometterle all’influsso della grazia di Dio. […] Sant’Ignazio distingue nel composto umano, per ciò che si riferisce alle “parti inferiori” o “corpo corruttibile” dell’uomo: la carne e le ossa, i moti spontanei, il sesso e i sensi corporei. In questa parte carnale del composto umano si sperimenta il dolore o il piacere, la fame, la sete, la fatica, gli appetiti dei sensi o del sesso (“la carne”, EE 85): tutto ciò viene designato con il termine “sensualità”»4.

In un articolo di non molti anni fa, pubblicato nella rivista di spiritualità ignaziana Manresa, il padre Bravo scriveva, a proposito della concezione antropologica di Ignazio: «La antropologia ignaciana hay que partir del supuesto de que la espiritualidad rica y triunfante de los Ejercicios se fundamenta sobre la filosofía de la paradoja, de cuño tan ignaciano, en quien lo divino no entró, ni mucho menos, a amenguar lo que había en él de maravillosamente humano. San Ignacio quería que laboráramos en el empeño de nuestra santificación “como si” todo dependiera de nosotros, de nuestro esfuerzo personal, pero exigía al mismo tiempo que todo lo esperáramos exclusivamente de arriba. El edificio soberano de nuestra santidad lo construiría el divino arquitecto sobre la colaboración a la gracia de todos los esfuerzos individuales. Este es el eje bipolar de la espiritualidad ignaciana. El esfuerzo personal absoluto que coopera generosamente con la gracia divina»5.

Questa concezione, che si trova alla base del libro degli Esercizi, è dunque il presupposto della spiritualità ignaziana. Non bisogna però dimenticare che Ignazio utilizza un vocabolario ben preciso, anche se il nucleo di tutto il discorso e la risposta alla domanda su come egli concepisca l’uomo, la troviamo nel Principio e Fondamento: «El 4 5

Ibid., 241-242. B. BRAVO, Hacia una antropologia ignaciana, in Manresa 24 (1952) 91, 213.


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hombre es criado para alabar, hacer reverencia y servir a Dios nuestro Señor y, mediante esto, salvar su ánima»6. «San Ignacio coloca al ejercitante — afferma Royón Lara — en el Principio y Fundamento frente a los dos extremos esenciales de toda antropología: “el hombre es criado […] para salvar su ánima”; esto es, el ejercitante tiene ante sí su origen y su fin; San Ignacio quiere que cale profundamente en ellos, precisamente para que de ahí saque el auténtico sentido de su vida, porque del hecho de que el hombre acepte o no, vitalmente, su origen divino y que su existencia tiene como finalidad definitiva el salvar su alma, dependerá el signo constructivo o negativo de todo su quehacer humano»7.

Ritornando al vocabolario degli Esercizi, sin dalla prima settimana si incontrano tre termini che si ritroveranno in tutto l’itinerario degli esercizi: la memoria, l’intelligenza, la volontà8. Essi stanno alla base dell’antropologia di tutto il testo ignaziano9, — come sottolinea Evain 6 IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali. Ricerca sulle fonti, a cura di Pietro Schiavone, Cinisello Balsamo 1995, 23. Gli Esercizi spirituali (EE) sono citati secondo la numerazione marginale e la versione spagnola dell’edizione sopracitata; pertanto le citazioni, che il lettore troverà nel testo, si riferiscono sempre a questa edizione. 7 E. ROYÓN LARA, Antropologia cristocéntrica del principio y fondamento, in Manresa 39 (1967) 153, 349. 8 Per ulteriori approfondimenti su questo argomento si veda M. RUIZ JURADO, L’Antropologia, cit., 244-253. Il padre Ruiz Jurado descrive il composto umano analizzando la dimensione percettivo-intuitiva, la dimensione intellettivo-razionale, la dimensione affettivo-tendenziale ed infine la dimensione operativa. Questa analisi risulta molto interessante per comprendere il pensiero di Ignazio in merito all’uomo. In particolare una dimensione degna di nota a cui si pone attenzione è quella affettivo-tendenziale, «particolarmente caratteristico dell’antropologia ignaziana è il ruolo da essa concesso alla dimensione affettiva e volitiva (sentimentale, emotiva, tendenziale), influenzata non solo dalla parte razionale e intuitiva dell’uomo, ma anche da quella sensibile, e con ripercussioni possibili anche nella parte inferiore e corporea del composto umano. Fra queste ripercussioni corporee, oltre alle lacrime frequentissime che giunsero a fargli correre il pericolo di perdere la vista, alcune di quelle che sant’Ignazio nel suo Diario riferisce come esperienza personale sono degne di nota: l’oppressione di petto per l’intenso amore, il drizzarsi dei capelli e l’ardore straordinario in tutto il corpo, il sentire la pressione delle vene» (ibid., 248). 9 Cfr. F. EVAIN, De l’Image a la Ressemblance. La dimension anthropologique du texte ignatien, in Cahiers de Spiritualité Ignatienne, Suppléments, 11 (1982) 36-41.


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— ma «la présentation de l’anthropologie des Exercices serait gravement incomplète si l’on omettait la place qu’y tient le corps de l’Homme»10. Aggiunge il gesuita Pietro Schiavone: «Bisogna, poi, dare per scontato che il Nostro intende coinvolgere l’uomo in ogni sua dimensione. L’uomo che vive vita umana nel senso più ampio dell’espressione, che, quindi, oltre a ragionare e motivare, desiderare e scegliere, ricordare e immaginare, esperimenta emozioni, nutre affetti, coltiva sentimenti; l’uomo che è anche corpo e che, perciò, quando per esempio, prega, è invitato a fare gesti di riverenza [EE 75,2], prendere comoda, producente posizione [EE 76. 77], “avvalersi dell’oscurità o della luce, del buono o del cattivo tempo” [EE 130] e anche — chiara nota di giusta considerazione delle esigenze del corpo — “dei vantaggi delle stagioni, come il fresco d’estate, e il sole o calore d’inverno” [EE 229]»11.

Si comprende, così, come l’antropologia ignaziana, che si struttura e si costruisce sull’antropologia biblica12, quando parla dell’uomo lo fa riferendosi all’uomo nella sua totalità. Infatti: «Si l’on prend en considération l’ensemble des Exercices, — afferma François Evain — il est manifeste que l’Homme est en quête de Dieu avec tout son être, corps y compris. On trouve, en effet, dans le texte ignatien, une véritable phénoménologie de la corporéité qui constitue un préalable indispensable au discernement spirituel. Il ne faut pas perdre de vue que l’expérience spirituelle proposée par saint Ignace consiste en une série d’exercices. C’est pourquoi le retraitant est invité à prier avec son corps»13.

Sant’Ignazio vede l’uomo nell’insieme della sua situazione terrena, reale e concreta. Scrive il gesuita Ruiz Jurado: «In Cristo l’uomo trova il senso, la forma della sua vita e la forza e la 10

Ibid., 41. P. SCHIAVONE, Il Discernimento. Teoria e prassi, Milano 2009, 169. 12 Uno studio più approfondito sulla relazione tra l’antropologia biblica e il libro degli Esercizi si può trovare in G. CUSSON, Cammini di Dio in terre umane. Antropologia biblica ed Esercizi, Roma 2005. 13 F. EVAIN, De l’Image, cit., 42. 11


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Andrea Zappulla speranza per viverla. Ciononostante, trovare questo posto specifico di ognuno nella edificazione del regno di Cristo nel suo Corpo che è la Chiesa, non è il risultato di una decisione autonoma e indipendente dell’uomo, ma, come per Cristo, quello dell’ascolto e dell’accettazione della volontà del Padre, con un’attenzione costante alla guida dello Spirito. Ecco perché, nella concezione ignaziana, l’uomo deve avere il suo centro vitale più che in se stesso in Dio, Trinità»14.

Si comprende, alla luce di quanto detto, come nell’antropologia ignaziana l’uomo sia chiamato non soltanto ad essere, a immagine di Dio, ma anche a somiglianza di Dio, questo perché: «L’antropologia generale ignaziana — scrive ancora Ruiz Jurado — scopre l’uomo come immagine di Dio, redenta dal sangue di Cristo, capace della sua gloria, che deve realizzarsi nella somiglianza e identificazione con Cristo, per la piena applicazione in essa della redenzione e la sua incorporazione al piano di Dio nella Chiesa. Su questo piano acquistano senso l’ascesi, il dolore, l’obbedienza e anche la morte personale. Possiamo considerarla un’antropologia costruita sull’esperienza illuminata dalla teologia, un’antropologia nella quale l’uomo non si comprende se non a partire da Dio e nel suo progetto di amore in Cristo e nella continuazione della sua opera, nella Chiesa, attraverso l’azione dello Spirito Santo in essa e in ciascuno dei suoi membri. In questa antropologia, Maria è presente come Madre, come esemplare umano perfetto e come interceditrice nella realizzazione del progetto uomo. Nell’antropologia ignaziana, come ha scritto von Balthasar, “l’uomo non deve essere interpretato sullo sfondo del suo proprio enigma, ma nello spazio preparato per lui dall’amore divino, e in quello dove già lo ha collo14 M. RUIZ JURADO, L’Antropologia, cit., 254. Inoltre, si noti come «nell’antropologia ignaziana l’uomo non appare tanto disegnato in un progetto di progresso lineare, quanto in un costante processo circolare (o a spirale sempre più fine) di incontro amoroso con la volontà divina, circolo di morte e di vita in Dio, per compiere sempre e in tutto con maggior perfezione il servizio di Dio. Morire sempre più a se stessi, per vivere più in Dio, uscire sempre più da sé, per vivere più in Cristo, per Dio. […] Questa antropologia ignaziana è stata qualificata di trascendentale o transculturale, perché in essa la persona umana è considerata nella sua dimensione trascendente, non nella peculiarità di una determinata cultura» (ibid., 255-256). 15 L.c.


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cato l’amore. L’uomo è giudicato dall’amore, orientato all’amore, liberato dall’amore e reso capace dell’amore”»15.

2. IL TEMPO NEGLI ESERCIZI SPIRITUALI DI SANT’IGNAZIO DI LOYOLA Sin dall’inizio Ignazio, in merito alla durata degli esercizi, afferma nella quarta annotazione: «Tamen, no se entienda que cada semana tenga de necesidad siete o ocho días en sí. Porque como acaece que en la primera semana unos son más tardos para hallar lo que buscan, es a saber, contrición, dolor, lágrimas por sus pecados; asimismo, como unos sean más diligentes que otros, y más agitados e probados de diversos espíritus; requiérese algunas veces acortar la semana, y otras veces alargarla, y así en todas las otras semanas siguientes, buscando las cosas según la materia subyecta; pero, poco más o menos, se acabarán en treinta días»16.

Si comprende subito come Ignazio dimostri un particolare interesse per la persona che si accosta a fare gli esercizi. Infatti, da questa annotazione, si nota che non è l’esercitando in funzione del tempo, ma il tempo in funzione dell’esercitando17. Ciò che non viene messo in discussione è, però, il tempo totale degli esercizi che deve essere all’incirca di trenta giorni. La giornata «tipo» degli esercizi ignaziani prevede cinque esercizi di preghiera, intervallati da tempi di riposo. Ogni esercizio di preghiera può essere pensato come articolato in tre fasi, diverse ma strettamente collegate: la preparazione, il tempo dell’esercizio propriamente detto, la revisione. Per il momento soffermiamoci solo sulla seconda fase: la durata dell’esercizio. Ignazio sin dall’inizio degli Esercizi afferma l’importanza della durata dei singoli esercizi che deve essere di un’ora, 16

EE, 4. In merito al tempo in funzione dell’esercitando ed alla consapevolezza del momento presente si veda M. BISI, Formazione all’interiorità e alla consapevolezza. Itinerario ed esercizi pratici, Roma 2000, 128-139. Un ulteriore contributo lo si può trovare in A. GENTILI – A. SCHNÖLLER, Dio nel silenzio. Manuale di meditazione, Milano 1999, 269-280. 17


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senza che si ceda alla tentazione di diminuirne o aumentarne il tempo. Così afferma nella dodicesima annotazione: «El que da los ejercicios, al que los recibe ha de advertir mucho que, como en cada uno de los cinco ejercicios o contemplaciones, que se harán cada día, ha de estar por una hora, así procure siempre que el ánimo quede harto en pensar que ha estado una entera hora en el ejercicio, y antes más que menos. Porque el enemigo no poco suele procurar de hacer acortar la hora de la tal contemplación, meditación o oración»18.

I primi due esercizi della giornata, quello di mezzanotte19 e quello del mattino, si fanno al risveglio dal sonno20: Ignazio consiglia di prepararsi riflettendo sull’esercizio che si deve fare mentre ci si veste. Infatti, nella seconda addizione afferma: «Cuando me despertare, no dando lugar a unos pensamientos ni a otros, advertir luego a lo que voy a contemplar en el primer ejercicio de la media 18 19

EE, 12.

L’ultimo esercizio che Ignazio propone, il quinto della giornata, consiste in un nuovo collocarsi davanti ai misteri contemplati durante il giorno applicando tutti i sensi interni. Si tratta di vedere, come se fossi lì presente, udire, toccare, odorare, assaporare. Ad esempio l’applicazione dei sensi in merito alla contemplazione dell’inferno consisterà in: «El primer punto será ver con la vista de la imaginación los grandes fuegos, y las ánimas como en cuerpos ígneos. El segundo, oír con las orejas llantos, alaridos, voces, blasfemias contra nuestro Señor y contra todos sus santos. El tercero, oler con el olfato humo, piedra azufre, sentina y cosas pútridas. El cuarto, gustar con el gusto cosas amargas, así como lágrimas, tristeza y el verme de la consciencia. El quinto, tocar con el tacto, es a saber, cómo los fuegos tocan y abrasan las ánimas» (EE, 66-70). 20 Sappiamo infatti da Giovanni Pietro Maffei che il Padre Ignazio dormiva circa quattro ore per notte. Afferma, inoltre, Maffei che una volta congedato il segretario, «quod supererat temporis, necessariae tribuebat quieti; id erat spatium horarum circuite quattuor» (G. P. MAFFEI, De vita et moribus Ignatii Lojolae, qui Societatem Jesu fondavi, Venezia 1585, 265). Inoltre, per motivi di salute, non si alzava subito, ma subito si metteva in preghiera come troviamo scritto in una pagina del suo Diario: «pregando, appena sveglio, non finivo di ringraziare con intenso fervore Dio nostro Signore, con illuminazione e con lacrime, per averne ricevuto un dono così grande e una luce così abbondante che non si può spiegare. Dopo essermi alzato da letto continuava in me l’ardore interno e la devozione che avevo provato, e al ricordo del grande dono che avevo ricevuto mi sentivo spronato a nuova e sempre più grande devozione e lacrime» (IGNAZIO DI LOYOLA, Diario spirituale, a cura dei Gesuiti della Provincia d’Italia, Roma 2007, 400).


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noche, trayéndome en confusión de mis tantos pecados, poniendo ejemplos, así como si un caballero se hallase delante de su rey y de toda su corte, avergonzado y confundido en haberle mucho ofendido, de quien primero recibió muchos dones y muchas mercedes. Asimismo, en el segundo ejercicio, haciéndome pecador grande y encadenado, es a saber, que voy atado como en cadenas a parescer delante del sumo Juez eterno, trayendo en ejemplo cómo los encarcerados y encadenados, ya dignos de muerte parecen delante su juez temporal. Y con estos pensamientos vestirme, o con otros, según subyecta materia»21.

Anche già la prima cura del corpo — lavarsi e vestirsi — non deve assorbire l’attenzione, che viene orientata subito a Dio. Ignazio, già dalla prima settimana, consiglia una scansione del tempo della giornata valevole per tutte e quattro le settimane: «El primer ejercicio se hará a la media noche; el segundo, luego en levantándose a la mañana; el tercero, antes o después de la misa, finalmente que sea antes de comer; el cuarto, a la hora de vísperas; el quinto, una hora antes de cenar. Esta repetición de horas, más o menos, siempre entiendo en todas las cuatro semanas, según la edad, dispusición22 y temperatura ayuda a la persona que se ejercita, para hacer los cinco ejercicios o menos»23.

21

EE, 74. Da queste parole si comprende come Ignazio costantemente tenga al benessere, anche fisico. A questo proposito leggiamo: «Favre fece gli esercizi nel quartiere di San Giacomo in una casa situata alla sinistra, in un periodo in cui si attraversava in carretta la Senna, tanto era ghiacciata. E benché il Padre osservasse attentamente le labbra dell’esercitante, se mai esse s’increspassero, per capire se egli toccava cibo, quando esaminò Favre, scoprì che da sei giorni non aveva mangiato nulla, dormiva in camicia sui ceppi di legno che gli avevano portato per accendere il fuoco e faceva le meditazioni in un cortiletto ricoperto di neve. Quando il Padre lo seppe, gli disse: “Penso e ritengo per certo che non avete peccato in questo, che invece avete grandemente meritato; prima di un’ora tornerò e vi dirò ciò che dovete fare”. Il Padre si recò allora in una chiesa vicina a pregare: e il suo desiderio era che Favre rimanesse senza toccar cibo per lo stesso periodo di tempo che egli stesso aveva trascorso, e a ciò poco mancava. Ma, benché ne avesse il desiderio, non osò permetterglielo dopo aver pregato; tornò quindi per accendergli il fuoco e preparargli da mangiare» (MONUMENTA IGNATIANA, Fontes narrativi de S. Ignatio de Loyola et de Societatis Iesu initiis, I, Romae 1943-1965, 704-705. D’ora in poi si utilizzerà l’abbreviazione FN). 23 EE, 72. 22


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La medesima considerazione la ritroviamo in merito all’esame particolare e quotidiano che comprende tre tempi e due esami. In questo caso Ignazio propone che il primo tempo sia fatto appena alzati, il secondo dopo pranzo ed il terzo dopo cena24. Infine, arrivati alla quarta settimana Ignazio consiglia di ridurre i momenti di preghiera da cinque a quattro, e propone una nuova distribuzione del tempo nel corso della giornata: «comúnmente, en esta cuarta semana es más conveniente que en las otras tres pasadas hacer cuatro ejercicios y no cinco. El primero, luego en levantando a la mañana; el segundo, a la hora de misa o antes de comer, en lugar de la primera repetición; el tercero, a la hora de vísperas, en lugar de la segunda repetición; el cuarto, antes de cenar, trayendo los cinco sentidos sobre los tres ejercicios del mismo día, notando y haciendo pausa en las partes más principales y donde haya sentido mayores mociones y gustos espirituales»25.

Inoltre, sempre nella quarta settimana, si suggerisce una variazione di alcune delle dieci addizioni, come la seconda, la sesta, la settima e la decima. La seconda addizione diventerà: «Luego en despertándome, poner enfrente la contemplación que tengo de hacer, queriéndome affectar y alegrar de tanto gozo y alegría de Cristo nuestro Señor»26. 3. L’IMPORTANZA DELL’AMBIENTE27 NEGLI ESERCIZI SPIRITUALI Gli esercizi sono un tempo esclusivo, particolarmente dedicato al Signore, una parte della propria vita che quantitativamente potrebbe 24

Cfr. EE, 24-27. EE, 227. 26 EE, 229. 27 Si noti, ancora, come nella preghiera ignaziana l’ambiente assuma un posto importante. «La qualità dell’ambiente ha indubbiamente un grande significato in rapporto allo stile di vita, al raccoglimento, alla meditazione, alla vita in genere. Per questo chi medita cerca il deserto, un luogo silenzioso e tranquillo. Pensiamo a Gesù: si ritirava spesso in luoghi solitari, sulla montagna, nel deserto, all’orto degli Olivi; pensiamo ai cercatori di Dio, prima e dopo Gesù, in tutte le tradizioni religiose» (M. BISI, Formazione, cit., 37). 25


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sembrare irrilevante ma che sovente comporta un riesame profondo e una “riforma” della propria esistenza, con scelte anche molto importanti. Per questo niente può essere lasciato al caso e niente deve ostacolare in alcun modo l’abbraccio dell’anima devota da parte del suo Signore. Per prima cosa Ignazio raccomanda l’isolamento, da amici e conoscenti come pure da ogni terrena preoccupazione affermando che: «En los cuales, por vía ordenada, tanto más se aprovechará, cuanto más se apartare de todos amigos y conocidos y de toda solicitud terrena; así como mudándose de la casa donde moraba, y tomando otra casa o cámera, para habitar en ella cuanto más secretamente pudiere; de manera que en su mano sea ir cada día a misa y a vísperas, sin temor que sus conocidos le hagan impedimento»28.

Sono tre le ragioni e i vantaggi personali che derivano da tale distacco: «El primero es que, en apartarse hombre de muchos amigos y conocidos y, asimismo, de muchos negocios no bien ordenados, por servir y alabar a Dios nuestro Señor, no poco merece delante su divina majestad; el segundo, estando ansí apartado, no teniendo el entendimiento partido en muchas cosas, mas poniendo todo el cuidado en sola una, es a saber, en servir a su Criador, y aprovechar a su propia ánima, usa de sus potencias naturales más libremente, para buscar con diligencia lo que tanto desea; el tercero, cuanto más nuestra ánima se halla sola y apartada, se hace más apta para se acercar y llegar a su Criador y Señor; y cuanto más así se allega, más se dispone para recibir gracias y dones de la su divina y suma bondad»29.

Nel Direttorio autografo, Ignazio non solo ribadisce l’opportunità che l’esercitante si trasferisca in un luogo dove non possa essere visto e non abbia l’opportunità di parlare con alcuno30, ma sottolinea che tale isolamento debba avvenire soprattutto durante il periodo dell’ele28 29

EE, 20.

L.c. Cfr. IGNAZIO DI LOYOLA, Direttorio autografo, a cura dei Gesuiti della Provincia d’Italia, Roma 2007, 339. 30


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zione, affinché l’esercitando non voglia «vedere o sentire cosa che non venga dall’Alto»31. Il silenzio32 richiesto non è solo quello della bocca: Ignazio consiglia di «refrenar la vista, excepto al recibir o al despedir de la persona con quien hablare»33. Allo stesso modo raccomanda di «no reír, ni decir cosa motiva a risa»34, per tutto il tempo degli esercizi. Da tutti questi elementi si comprende come l’esercitando deve aiutarsi ed essere aiutato a rimanere nel più grande raccoglimento, evitando con ogni cura di dare ascolto alle voci esterne o interne, che possano distrarlo dall’ascoltare quella del Signore. Infine, sempre in merito all’ambiente, Ignazio nella settima addizione suggerisce di «privarme de toda claridad, para el mismo efecto, cerrando ventanas y puertas el tiempo que estuviere en la cámera, si no fuere para rezar, leer y comer»35. Successivamente, alla quarta settimana, Ignazio modifica la addizione affermando: «usar de claridad o de temporales cómodos, así como en el verano de frescura, y en el invierno de sol o calor, en cuanto el ánima piensa o conyecta que la puede ayudar para se gozar en su Criador y Redentor»36. Queste indicazioni, possono apparire scarne e concise ma sono, allo stesso tempo, puntigliose. Come si diceva prima, niente deve essere lasciato al caso ma tutto deve concorrere a creare le condizioni ottimali per favorire il dialogo con il Signore. Le indicazioni di Ignazio valgono anche per la preghiera al di fuori del tempo forte degli esercizi. Spesso è bene, così come consigliano molti padri dello spirito, avere un angolo riservato per la preghiera perché, se l’ambiente aiuta ad «entrare in preghiera», aiuterà anche il ricordo di aver già pregato in quel luogo37. Anche pensare che si vada 31

L.c. In merito a questo importante elemento per la preghiera ed al suo valore propedeutico all’unione con Dio si veda M. BISI, Formazione, cit., 17-32. Inoltre si veda anche A. GENTILI – A. SCHNÖLLER, Dio, cit., 249-268. 33 EE, 81. 34 EE, 80. 35 EE, 79. 36 EE, 229. 37 Cfr. EE, 20. 79. 130. 229. 32


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a pregare in una determinata ora può sicuramente aiutare ad entrare in preghiera38. 4. LA RELAZIONE TRA CORPO E PREGHIERA 4.1. Le posizioni del corpo nella preghiera «L’esperienza umana dimostra — afferma il documento Alcuni aspetti della meditazione cristiana della Congregazione per la Dottrina della Fede — che la posizione e l’atteggiamento del corpo non sono privi d’influenza sul raccoglimento e la disposizione dello spirito. È un dato al quale alcuni scrittori spirituali dell’oriente e dell’occidente cristiano hanno prestato attenzione»39. Sant’Ignazio nel libro degli Esercizi dà una grande importanza agli atteggiamenti da assumere per entrare in preghiera40; tre in particolare: • Le preparazioni41, più o meno remote che, come abbiamo visto precedentemente consistono nel distacco dagli amici e dai luoghi frequentati abitualmente42, nel quadro e l’ambiente43, nell’evitare 38

Cfr. EE, 73. 74. 78. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Alcuni aspetti della meditazione cristiana (15.10.1989), in EV, 11/2709. 40 «Dans les Additions, — afferma Evain — Ignace n’énumere pas moins d’une demi-douzaine d’expressions corporelles de la prière: á genoux, prosterné, couché, assis, debout, me promenant, etc.. Certains ont pu voir une similitude avec les techniques du Yoga dans la Troisième manière de prier suggérée par saint Ignace, celle qui procède “par rythme”: “En chaque souffle de la respiration, on priera mentalement... Pendant l’intervalle entre une respiration et la suivante, concentrer le regard sur le sens du mot ou sur la personne á qui s’adresse la prière… etc.”. Enfin, le corps est present — consciemment — dans tout ce qui environne ou conditionne la prière: il est question du coucher, du lever, de l’habillement, comme aussi du rire, du renard, du parler etc.» (F. EVAIN, De l’Image, cit., 42). Inoltre, per maggiori dettagli in merito alla pedagogia della preghiera negli Esercizi si veda G.C. FEDERICI, La pedagogia ignaziana della preghiera, in E. ANCILLI (cur.), La Preghiera. Bibbia, teologia, esperienze storiche, I, Roma 1988, 297-300. 41 Cfr. F. ROSSI DE GASPERIS, Sentieri di vita. La dinamica degli Esercizi ignaziani nell’itinerario delle Scritture, I, Milano 2005, 92-102. 42 Cfr. EE, 20. 43 Cfr. EE, 79. 130. 229. 39


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di ridere44, nel controllo degli occhi e della vista45, nell’orientare verso la preghiera i pensieri al momento di andare a dormire46, quando ci si alza47 e nel corso della giornata48, nelle penitenze49. • I passi da fare prima di entrare in preghiera. Ignazio, suggerisce che la preghiera vada preparata e non sia frutto dell’improvvisazione. Proprio in merito a questo propone nella terza addizione: «Un paso o dos antes del lugar donde tengo de contemplar o meditar, me pondré en pie, por espacio de un Pater noster, alzado el entendimiento arriba, considerando cómo Dios nuestro Señor me mira, etcétera, y hacer una reverencia o humiliación»50. Ignazio sembra ricordare, in questo modo, che non si entra in preghiera in modo naturale e immediato, ma che occorre usare una gradualità per passare dai propri pensieri alla presenza e alla consapevolezza di Colui che deve raccogliere e orientare l’attenzione dell’esercitando. Il corpo, già preparato con una certa distensione, esprime, con lo stare in piedi e con la riverenza, il rispetto e l’ossequio dovuti alla Divina Maestà51. Ignazio inoltre aggiunge, riprendendo proprio questa addizione, «ante de entrar en la oración repose un poco el espíritu, asentándose o paseándose, como mejor le parecerá, considerando a dónde voy y a qué. Y esta misma adición se hará al principio de todos modos de orar»52. I passi che facciamo secondo il nostro ritmo, o i minuti di 44

Cfr. EE, 80. Cfr. EE, 81. 46 Ignazio nella prima addizione afferma: «La primera adición es, después de acostado, ya que me quiera dormir, por espacio de un Avemaría pensar a la hora que me tengo de levantar, y a qué, resumiendo el ejercicio que tengo de hacer» (EE, 73). 47 Cfr. EE, 74. 130. 206. 229. 48 Cfr. EE, 78. 130. 206. 229. 49 Cfr. EE, 82-87. 50 EE, 75. Da questa citazione si nota come la prospettiva ignaziana sia molto significativa: l’uomo che è stato da Dio creato è adesso da Dio guardato, o meglio scrutato benevolmente essendo che nel testo troviamo me mira. 51 Lo stesso Padre Ignazio «diceva il Benedicite stando in piedi, sempre preparandosi e raccogliendosi un po’ prima come era solito in tutte le cose, ma specialmente in quelle di Dio. Aveva allora tale espressione e pietà e riverenza, che noi tenevamo spesso, stupiti, gli occhi su di lui» (FN I, 639). 52 EE, 239. 45


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silenzio, seduti in modo confortevole, possono rappacificare lo spirito per permettergli di considerare dove va e a fare cosa e in presenza di chi53. Quindi è importante usare bene il tempo della preparazione. Questi momenti di apertura alla preghiera non sono perduti, anzi attraverso queste fasi prendiamo coscienza che non possiamo “comandare” la preghiera, ma soltanto disporci a quella esperienza che Dio vorrà donarci. • Durante la stessa preghiera, una certa posizione può esprimere la nostra relazione con Dio o anche essere di aiuto per aprirci ad una relazione più profonda. A questo proposito, si afferma nella quarta addizione: «Entrar en la contemplación, cuándo de rodillas, cuándo postrado en tierra, cuándo supino rostro arriba, cuándo asentado, cuándo en pie; andando siempre a buscar lo que quiero»54. Poco più avanti viene precisato che questa addizione si può osservare solo in privato e non nei luoghi pubblici: «La cuarta addición nunca se hará en la iglesia delante de otros, sino en escondido, como en casa, etcétera»55. Ignazio si inserisce qui alla tradizione della Chiesa per cui il corpo non solo facilita la preghiera, ma l’accompagna, diventando esso stesso linguaggio56. Da quanto detto si comprende che non può esservi conflitto tra ciò che il cuore vive e ciò che il corpo esprime: un certo modo di stare, 53

Cfr. EE, 131. EE, 76. 55 EE, 88. 56 Cfr. A. GENTILI – A. SCHNÖLLER, Dio, cit., 309-315. In queste pagine i due autori, inserendosi all’interno dell’itinerario degli Esercizi, presentano e propongono alcuni modi attraverso cui il corpo diventa linguaggio. Scrivono ancora Gentili e Schnöller: «“Non saprei come pregare senza il corpo — scrive frère Roger Schutz di Taizé —. In certi periodi ho coscienza di pregare più con il corpo che con la mente. Il corpo è là, ben presente, per ascoltare, capire, amare. Sarebbe una beffa fare i conti senza di lui”. Tutte le esperienze “spirituali” in qualche modo dunque presuppongono il corpo e integrano la corporeità. Occorre perciò familiarizzarsi con il proprio corpo e scoprire il ruolo che esso riveste in ordine alla pratica meditativa. […] Ci si deve educare a trasformare il corpo in un linguaggio e a percepirlo come tale. Infatti “i movimenti del corpo aiutano la liberazione della mente e le trasformazioni del mentale permettono al corpo di esplicare tutte le proprie potenzialità”. Ne segue che “lo sviluppo della percezione sensoriale conduce all’affinamento della coscienza”. Si basa su questi principi l’impegno di “dare la parola al corpo” quando si tratta di pregare» (ibid., 46). 54


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spesso è più un’esigenza interiore che il frutto di una riflessione razionale. A volte, quando la mente non riesce a essere lucida per stanchezza, per malattia, per un dolore o per una preoccupazione troppo grandi, il corpo può fare “da solo” la preghiera, semplicemente con il proprio stare davanti al Signore57. A questo punto diventa necessario fare riferimento ad una nota importante in cui Ignazio, portando la propria esperienza, afferma che «en dos cosas advertiremos: la primera es que, si hallo lo que quiero de rodillas, no pasaré adelante; y si postrado, asimismo, etcétera; la segunda, en el punto en el cual hallare lo que quiero, ahí me reposaré, sin tener ansia de pasar adelante hasta que me satisfaga»58. Non si 57

Per capire più profondamente quanto detto si propongono alcuni esempi di postura del corpo nella preghiera per comprendere sempre di più come il nostro corpo possa diventare linguaggio: la posizione in piedi esprime rispetto, vigilanza, ascolto, disponibilità ad obbedire. Questa posizione, troppo spesso trascurata dai cristiani, è l’atteggiamento normale della preghiera nella maggior parte delle religioni. Lo Spirito divino fa mettere in piedi Ezechiele prima di parlargli: «mi disse: “Figlio dell’uomo, alzati, ti voglio parlare”. A queste parole, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai che mi parlava» (Ez 2,1-2). Stare in ginocchio (cfr. Rm 14,11) dice dipendenza, sottomissione, implorazione, pentimento e supplica; stare seduti sui talloni esprime attesa, ascolto, attenzione; mettersi seduti su un banco o una sedia è un atteggiamento di domanda, disponibilità e riposo accanto a Dio: l’inclinazione manifesta umiltà, riverenza, pentimento; questi sentimenti sono ancora più accentuati nella posizione accovacciata col volto a terra, che interpreta anche l’adorazione; la prostrazione totale (Cfr. Sal 45,12), cioè completamente distesi, supini, esprime la grandezza di Dio e la miseria dell’uomo. Anche le braccia e le mani sono molto importanti: giunte dicono adorazione, esultanza, slancio, presenza a Dio; poste a forma di coppa, all’altezza del petto, esprimono domanda, accettazione o offerta. Le braccia alzate, ma non tese, sono piuttosto indice di intercessione o di una supplica, lode o ringraziamento; le braccia tese alla verticale sono piuttosto indice di intercessione o di una supplica accorata; distese lungo il corpo, con le palme delle mani in avanti, è la posizione del servitore in ascolto mentre le braccia incrociate sul petto esprimono raccoglimento, consenso e gratitudine; le braccia a croce, infine, associate alla posizione verticale, indicano il desiderio di tendere a Dio abbracciando il mondo. Gli occhi (cfr. Sal 123,2), a loro volta, è importante che stiano fissi in un punto o semichiusi o chiusi per evitare la distrazione provocata da ciò che c’è intorno (cfr. M. BISI, Formazione, cit., 52-54; A. GENTILI – A. SCHNÖLLER, Dio, cit., 305-308; M. BALLESTER, Una lectura corporal de los ejercicios, in Manresa, 61 (1989/2) 239, 147-159; F. JALICS, Desiderio di Dio. Esercizi di contemplazione, Milano 2000, 257-259; T. ŠPIDLÍK, La preghiera. Secondo l’oriente cristiano, Roma 2002, 107-128). 58 EE, 76.


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tratta dunque del gusto di fare una serie di esperimenti ma di trovare ciò che aiuta ad essere in sintonia con il Signore nella meditazione o contemplazione particolare che si sta facendo. Infine, il terzo momento, separato dall’esercizio ma ad esso collegato, è l’esame della preghiera. È interessante il fatto che Ignazio non suggerisca quasi nulla circa il tempo tra un esercizio e l’altro e sulle attività consigliate per riposare senza perdere il proprio raccoglimento. Relativamente all’esame, che è pur sempre un momento di preghiera, viene detto: «Después de acabado el exercicio, por espacio de un quarto de hora, quier asentado, quier paseándome, miraré cómo me a ido en la contemplación o meditación; y si mal, miraré la causa donde procede y, así mirada, arrepentirme, para me enmendar adelante; y si bien, dando gracias a Dios nuestro Señor; y haré otra vez de la misma manera»59. Dunque si direbbe che Ignazio immagini che l’esercitando, dopo un’ora trascorsa in ginocchio, in piedi, o prostrato si riposi mettendosi a sedere oppure camminando un po’. Si tratta, non a caso, delle stesse indicazioni che si trovano per la distensione consigliata prima di iniziare un nuovo esercizio di preghiera. Benché non sia detto in modo esplicito, è evidente che la verifica della meditazione o contemplazione include anche la valutazione di tutto ciò che riguarda il corpo, non solo circa la posizione assunta durante la preghiera ma anche in merito alle altre addizioni relative all’uso o meno della luce, o alla pratica della penitenza, di cui parleremo a breve. Si comprende, a questo punto, come la preparazione e le posizioni del corpo servano per accogliere la grazia che l’esercitando domanda nella preghiera preparatoria60 di ogni meditazione o contemplazione affinché «todas mis intenciones, acciones y operaciones sean puramente ordenadas en servicio y alabanza de su divina majestad»61. 59

EE, 77. Una delle tante grazie che Ignazio propone all’esercitante è per esempio: «Aqui pedir interno sentimento de la pena que padecen los dañados para que, si del amor Señor sterno me olvidare por mis faltas, a lo menos el temor de las penas me ayude para no venir en pecado», in questo caso ci troviamo all’interno del quinto esercizio in merito alla contemplazione dell’inferno. Oppure «demandar lo que quiero: será aquí pedir crecido y intenso dolor y lágrimas de mis decado» (EE, 55). 61 EE, 46. 60


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Se si matura una buona relazione con il proprio corpo, le diverse posizioni possono avere un rapporto diretto con le attitudini interiori. Esse possono quindi esprimere ciò che si vive profondamente. Anche se non si vive ancora secondo la chiamata di Dio, l’equilibrio con il proprio corpo può essere un aiuto per una vita più profonda e consapevole al servizio di Dio e degli uomini. Talvolta, si dimentica che abitualmente il nostro entrare nell’atteggiamento di raccoglimento e di apertura a Dio non è immediato. Infatti, nella misura in cui si prova all’inizio, forse timidamente, a prendere in considerazione anche il corpo, si potrà fare esperienza di una preghiera che coinvolge interamente. Il suggerimento di Ignazio, come si è visto precedentemente, è quello di non prendere, almeno inizialmente, in pubblico tutte queste posizioni; l’esercitando viene invitato a sperimentarle nella solitudine, dove nessuno può disturbarlo. Elemento caratteristico della spiritualità ignaziana è il vivere tutte queste cose esclusivamente per «alabar, hacer reverencia y servir a Dios nuestro Señor»62. Non tutto è adatto a tutti. Ignazio afferma che «según que se quisieren disponer, se debe de dar a cada uno, porque más se pueda ayudar y aprovechar»63. Bisogna che si cerchi ciò che può giovare al singolo, ma non si può pensare che gli stessi suggerimenti possano essere di aiuto per tutti, in modo impersonale e indistinto. Si deve cercare ciò che conviene per pregare nella situazione attuale in cui si fa l’esercizio. A questo punto bisogna fare attenzione a dei pericoli da evitare: il primo è dato dalla preoccupazione di imparare ad «usare» delle posizioni corporali che esprimono degli atteggiamenti profondi, correndo il rischio che si dimentichi il fine della preghiera64. Sant’Ignazio ci invita, poi, ad utilizzare posizioni e metodi favorevoli alla preghiera, mirando sempre a ciò che voglio e desidero65 e cioè cercdo la volontà divina nella situazione personale che vivo66. Certo è 62 63

EE, 23. EE, 18.

64 Ignazio ricorda sempre che il fine della preghiera è «servicio y alabanza de su divina majestad» (EE, 46). 65 Cfr. EE, 48. 66 Cfr. EE, 55. 65. 76. 91. 104.


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il fatto che non si potrà mai trovare, valida per ogni tempo e situazione, la preparazione e la posizione perfetta. 4.2. Il secondo ed il terzo modo di pregare Al termine del libro degli Esercizi vengono suggeriti tre modi di pregare; Ignazio, nel secondo, afferma: «El segundo modo de orar es que la persona, de rodillas o asentado, según la mayor disposición en que se halla y más devoción le acompaña, teniendo los ojos cerrados o hincados en un lugar, sin andar con ellos variando, diga Pater, y esté en la consideración desta palabra tanto tiempo cuanto halla significaciones, comparaciones, gustos y consolación en consideraciones pertinentes a la tal palabra; y de la misma manera haga en cada palabra del Pater noster, o de otra oración cualquiera que desta manera quisiere orar»67.

Questo modo di pregare invita ad una preghiera di «contemplazione» ma non nella modalità in cui è proposta durante gli esercizi. Si tratta piuttosto di una preghiera semplice e meno discorsiva rispetto alla meditazione, che soprattutto mira a creare uno speciale rapporto tra l’orante e la Persona a cui è rivolta. Dopo il momento preparatorio, l’orante è invitato a scegliere una posizione del corpo e a tenere gli occhi chiusi o fissi in un punto, per evitare distrazioni. La preghiera consiste nel soffermarsi su ogni parola dell’orazione prescelta, per esempio il Padre Nostro, per trovare significati, paragoni, gusto spirituale. Terminata l’ora di preghiera, se l’orante non si è fermato su tutte le parole, termina la preghiera normalmente e poi recita le altre come fa di solito. Il giorno dopo potrà riprendere dal punto in cui si è fermato. È essenziale che si termini con un colloquio con il destinatario della preghiera, «el coloquio se hace, propiamente hablando, así como un amigo habla a otro, o un siervo a su señor: cuándo pidiendo alguna gracia, cuándo culpándose por algún mal hecho, cuándo comunicando sus cosas, y queriendo consejo en ellas»68. 67 68

EE, 252. EE, 54.


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Il terzo modo di pregare si presenta come un’orazione legata al secondo modo ma più semplice e forse per questo adatta a persone spiritualmente più mature. Scrive Ignazio: «El tercero modo de orar es que con cada un anhélito o resollo se ha de orar mentalmente, diciendo una palabra del Pater noster, o de otra oración que se rece, de manera que una sola palabra se diga entre un anhélito y otro, y mientras durare el tiempo de un anhélito a otro, se mire principalmente en la significación de la tal palabra, o en la persona a quien reza, o en la bajeza de sí mismo, o en la diferencia de tanta alteza a tanta bajeza propia; y por la misma forma y regla procederá en las otras palabras del Pater noster; y las otras oraciones, es a saber, Avemaría, Anima Christi, Credo y Salve Regina, hará según que suele»69.

Il terzo modo di pregare si presenta come il più originale e interiore. Ignazio rimanda a quanto detto per il secondo modo, per quanto riguarda la preparazione e la richiesta di grazia. Non si dice nulla, invece, sulla posizione del corpo, né riguardo alla durata. La concentrazione è garantita dal prestare attenzione al ritmo fisiologico della respirazione. L’orante pronuncia una parola della preghiera ad ogni respiro, facendo attenzione al suo significato, o alla persona cui è rivolta, alla grandezza di quest’ultima o alla propria miseria. Per far questo si presuppone abbia già una buona familiarità con la preghiera che sta pronunciando, che l’abbia approfondita e gustata in altri tempi, per cui basta la semplice ripetizione della parola per evocare significati, gusto, consolazioni. Padre Ballester, in un articolo comparso nel 1982 su Manresa70, ha affermato che: «En el ’Libro de los Ejercicios’ aparece un método de oración, que posee, una notable afinidad con las tradiciones orientales de meditación, basadas en la repetición de un Nombre de Dios o un sonido sagrado, llamado “mantra”, al mismo tiempo que se controla el ritmo respiratorio. Se trata del llamado “Tercer Modo de orar”»71. Inoltre ha messo in evidenza i punti di contatto e le differenze che 69

EE, 258. M. BALLESTER, Métodos orientales del control respiratorio y tercer modo de orar ignaciano, in Manresa, 54 (1982) 211, 167-174. 71 Ibid., 167. 70


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esistono tra i metodi orientali di controllo del respiro, in ambito cristiano e non cristiano, ed il terzo modo di pregare di Ignazio. Le maggiori affinità padre Ballester le riscontra con la spiritualità ortodossa e, in particolare, con la tradizione esicasta72. Le riportiamo qui in modo schematico: I. Un primo punto di contatto è costituito dal coinvolgimento del corpo, e, in particolare, della respirazione corporea, nella preghiera73; II. un’altra somiglianza è legato al fine che si propone: favorire un’esperienza spirituale di forte intimità con Dio74; III. un’ultima affinità viene intravista nella ripetizione di una formula al fine di tenere concentrata l’attenzione mentale75. 72 In merito all’argomento della relazione tra il libro degli Esercizi di sant’Ignazio e la spiritualità ortodossa e la tradizione orientale si veda J. FERNANDEZ DE RETANA, Los ejercicios de San Ignacio, escuela de oración continua, in Manresa, 58 (1986) 227, 145-153. 73 «Lo primero que encontramos en una perspectiva de afinidad entre este modo de orar y los métodos orientales, es sin duda el puesto esencial que ocupa en él un control del ritmo respiratorio» (M. BALLESTER, Métodos, cit., 167). 74 «Una segunda coincidencia se refiere al fin que ambos metodo pretenden. Tanto San Ignacio como los hesycastas tratan de obtener una experiencia espiritual. Es cierto que el libro de los Ejercicios no indica una petición expícita de la devoción, al hablar del Tercer Modo de Orar. Sin embargo, está fuera de duda que la “devoción” no solo no es rechazada por San Ignacio, sino deseada y buscada, tanto en los Ejercicios como en las líneas esenciales de su espiritualidad. El hesycasta por su parte, busca con las peculiaridades propias de su método, una experiencia mística y contemplativa. Lo hace con una decisión y lo expresa en unos términos, que desconciertan y sorprenden un poco a nuestra mentalidad occidental. Al comenzar su opúsculo, Nicéforo anuncia solemnemente que va a exponer “una ciencia de vida eterna, celeste. Más aún: se trata de un método que conducirá a todo aquel que lo practique, sin fatiga y sin sudor, hasta las puertas de la apathia (o felicidad contemplativa)”. Ni Nicéforo, ni menos aún San Ignacio, buscan de modo exclusivo la experiencia espiritual. Sin embargo, mientras que el fin primordial del método hesycasta es, con palabras de Nicéforo, “conocer y penetrar con un conocimiento espiritual al Reino de Dios dentro de nosotros», el de San Ignacio, tanto en los Ejercicios como en su actitud espiritual de conjunto, es “la gloria de Dios”» (ibid., 170). 75 «El tercer aspecto que aparece común a los dos métodos de oración es el de tener como contenido de la atención mental una fórmula que se repite. La pronunciación de la formula, según los hesycastas, ha de serinvariablemente la misma. […] Para San Ignacio, en cambio, la palabra que se repite varía en cada respiración, si bien


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Lo stesso autore sottolinea anche le divergenze tra i due metodi evidenziando, in particolare la minore flessibilità del metodo esicasta, che si presenta come un processo determinato e strutturato, un itinerario centrato sulla progressiva interiorizzazione della medesima formula nel luogo del cuore. Il terzo modo di Ignazio, invece, si configura piuttosto come una indicazione pratia sul cammino verso una spiritualità più profonda e personale76. Infine, è interessante notare come anche la Congregazione per la Dottrina della Fede nel suo Alcuni aspetti della meditazione cristiana, dopo avere affermato l’importanza della relazione tra corpo e preghiera, dice: «Nella preghiera è tutto l’uomo che deve entrare in relazione con Dio, e dunque anche il suo corpo deve assumere la posizione più adatta per il raccoglimento. Tale posizione può esprimere in modo simbolico la preghiera stessa, variando a seconda delle culture e della sensibilità personale. In alcune aree, i cristiani, oggi, stanno acquisendo maggior consapevolezza di quanto l’atteggiamento del corpo possa favorire la preghiera. La meditazione cristiana dell’oriente ha valorizzato il simbolismo psicofisico, spesso carente nella preghiera dell’occidente. Esso può partire da un determinato atteggiamento corporeo, fino a coinvolgere anche le funzioni vitali fondamentali, come la respirazione e il battito cardiaco. […] Occorre tuttavia ricordare che l’unione abituale con Dio, o quell’atteggiamento di vigilanza interiore e di invocazione dell’aiuto divino che nel Nuovo Testamento viene chiamato la “preghiera continua”, non si interrompe necessariamente quando ci si dedica anche, secondo la volontà di Dio, al lavoro e alla cura del prossimo. “Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”, ci dice l’apostolo (1Cor 10,31). La preghiera autentica infatti, come sostengono i grandi maestri spirituali, desta negli oranti un’ardente carità che li spinge a collaborare alla missione della chiesa e al servizio dei fratelli per la maggior gloria di Dio»77.

ha de ser una sola palabra y no más, pronunciada en cada tiempo de inspiración espiración» (ibid., 170-171). 76 Cfr. ibid., 171-174. 77 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Alcuni aspetti, cit., 2710-2713.


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5. L’ASCESI ED IL VITTO NEL LIBRO DEGLI ESERCIZI SPIRITUALI Un altro elemento emerge dalle indicazioni che Ignazio dà relativamente al sonno, al vitto, alle pratiche ascetiche. Per il momento ci soffermiamo sulle ultime due, del sonno se ne parlerà quando faremo riferimento alla penitenza. Ignazio dedica molta attenzione al problema del vitto: nei direttori per tre volte egli afferma che «[l’esercitando] non mangi né beva se non quello che chiederà»78 e che deve essere cura di chi lo serve informarsi dopo ogni pasto cosa vuole per il pasto successivo: «Quando uno fa gli esercizi , gli sia sempre domandato cosa vuole mangiare, e lo si dia, anche se chiede un pollo o un nonnulla, come ne avrà devozione, in tal modo che, quando ha finito di mangiare, egli stesso dica a chi sparecchia o gli porta il cibo, ciò che vuole a cena; similmente, dopo cena, ciò che vorrà mangiare il giorno seguente; poiché [Ignazio] giudica essere questa una delle cose che aiutano maggiormente»79. «Poiché il regime del vitto influisce molto sulla elevazione o depressione della mente, perché la sobrietà e l’astinenza sia volontaria e adatta all’indole di ciascuno, colui che dà gli esercizi avvisi l’esercitante che, al pranzo, chieda ciò che vuole gli venga preparato per la cena, e, alla cena, il pranzo del giorno seguente. E dica a chi lo serve che, sempre, quando porta via la tovaglia e i piatti del pranzo, chieda che cosa vuole per la cena seguente, e, alla cena, che cosa per il pranzo successivo; e gli porti esattamente quanto domanderà, sia che chieda il cibo della comunità o anche migliore di questo, sia solo acqua o vino e pane. Tuttavia, colui che dà gli esercizi cerchi di sapere come si trovi con quel regime di vitto, per evitare eccessi opposti»80.

Nel libro degli Esercizi Ignazio fa poi riferimento al cibo nelle addizioni relative alle pratiche ascetiche e, analogamente a quanto fatto 78

IGNAZIO DI LOYOLA, Direttorio, cit., 339. ID., Note date a voce sopra gli Esercizi, a cura dei Gesuiti della Provincia d’Italia, Roma 2007, 344. 80 Ibid., 347. 79


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per il sonno, sottolinea che la penitenza si esplicita nel togliere dalla mensa non il superfluo ma una parte del necessario e quanto più si toglie tanto è meglio, purché però non ne consegua una qualche malattia; così leggiamo nel primo modo della decima addizione: «La primera es cerca del comer; es a saber cuando quitamos lo superfluo, no es penitencia, mas temperancia; penitencia es, cuando quitamos de lo conveniente, y cuanto más y más, mayor y mejor, sólo que no se corrompa el subyecto, ni se siga enfermedad notable»81. Pure in questo caso, anche se non è detto esplicitamente, è chiaro che la guida deve essere al corrente delle scelte dell’esercitando. «En la tercera semana de Ejercicios da San Ignacio ocho “Reglas pam ordenarse en el comer para adelante” [210-217]. Pocas veces hemos oído la explicación de estas Reglas durante los Ejercicios, quizá porque a muchos habrá parecido cosa de poca monta decir a los Ejercitantes “que del pan conviene menos abstenerse” [210], y otras consideraciones parecidas. Realmente, si a esto se redujeran las tales Reglas, quizá no andarían del todo fuera de camino; pero las “Reglas para ordenarse en el comer” son algo más que eso y son materia muy apta para una instrucción espiritual. […] San Ignacio en las ocho Reglas para ordenarse en el comer da normas concretas de cosas muy particulares y, por consiguiente, mudables. Da largo permiso para comer pan, permiso del todo inútil para los que, estén a régimen y lo tengan prohibido. Dejemos, pues, las aplicaciones demasiado concretas, y vayamos a los grandes principios aplicables siempre y a muy diferentes materias. Es este un carácter distintivo de San Ignacio: la universalidad de sus principios, como de hombre que redueia todas las cosas a muy pacas ideas»82.

Ma qual è il senso di queste Regole? «El sentido de estas Reglas es “ordenarse en el comer”. Así lo resalta su mismo título. Está dentro, además, de toda la dialéctica de la espiritualidad de Ignacio: ordenarse ante una posible “afección desordenada”. Se trata de aplicar unas normas de elección a una realidad concreta y coti-

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EE, 83. J. SERRAT, Plática sobre las reglas para ordenarse en el comer, in Manresa 9 (1933) 36, 345. 82


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diana; realidad, por lo demás, que puede estar sometida a “tentación” y “desorden”»83.

Quindi che cosa sostengono queste Regole? «Las Reglas pretenden que asumamos unas determinadas realidades necesarias con un determinado talante espiritual. Es una realidad sobre la que puede ser conveniente una enmienda o una reforma. […] Las Reglas pretenden situarnos en un clima determinado, y “lo que dicen”, lo dicen desde ahí: se trata de ordenar el uso de una realidad humana necesaria, que de hecho puede entrar en desorden, ya que el apetito actúa como una verdadera tentación. […] “Ordenar” significa buscar una resolución práctico-práctica; por eso, lo que ayude al orden hay que admitirlo, lo que haga daño “lanzarlo”. Esta decisión resolutiva recuerda el título mismo de las “Reglas de discreción de primera Semana”»84.

Da quanto detto si comprende come, attraverso queste indicazioni perché in futuro ci si possa ordinare nel mangiare85, Ignazio vuole insegnare all’esercitante come sia in genere conveniente regolarsi. In primo luogo consiglia la sobrietà nella qualità del cibo, suggerendo di limitarsi nel prendere cibi raffinati ed afferma: «Acerca de los manjares se debe tener la mayor y más entera abstinencia; porque así el apetito en desordenarse como la tentación en instigar son más prontos en esta parte; y así la abstinencia en los manjares para evitar 83 C. GARCÍA HIRSCHFELD, Las «Reglas para ordenarse en el comer para adelante». Aplicación de estas Reglas a un tema muy actual [210-217], in Manresa 56 (1984) 220, 197. 84 L.c. 85 Cfr. EE, 210-217. Queste regole che Ignazio dà si possono adattare nel modo di vestire e di viaggiare, nelle ricreazioni e nelle vacanze, nell’uso del denaro, dei massmedia (radio, televisione, libri, riviste, giornali), dei beni di consumo in generale. Inoltre per una curiosa applicazione di queste Regole si veda C. GARCÍA HIRSCHFELD, Las «Reglas, cit., 201-202; dove richiama l’attenzione ad un testo di un commentatore del XIX secolo: il padre Marin de Boylesve che fa un’applicazione curiosa di queste Regole al tema della lettura. Infine non si deve dimenticare che per inquadrare queste regole all’interno della spiritualità ignaziana bisogna sempre fare riferimento al linguaggio ed al vocabolario che Ignazio usa. Una sintesi sull’argomento si può trovare in ibid., 198-201.


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Andrea Zappulla desorden, se puede tener en dos maneras: la una, en habituarse a comer manjares gruesos; la otra, si delicados, en poca cuantidad»86.

Egli consiglia anche di mangiare con maggiore libertà il pane, da sempre cibo dei poveri. Di esso, infatti, «conviene menos abstenerse, porque no es manjar sobre el qual el apetito se suele tanto desordenar, o a que la tentación insista como a los otros manjares»87. Circa il bere – anche se si fa riferimento solo al vino e alle altre bevande alcoliche – occorre una maggiore temperanza e controllo di sé per accettare quello che giova ed eliminare quello che nuoce88. In merito ai cibi89 occorre una temperanza più esigente, in maniera analoga all’uso del bere, perché la tendenza a eccedere è più forte e la tentazione più insistente. Perciò occorre abituarsi ai cibi più semplici e comuni e usare in piccola quantità dei cibi più raffinati. L’esercitante dovrà, quindi, astenersi e limitarsi nella quantità e questo sia per essere meglio predisposto a ricevere le comunicazioni divine, sia per imparare a meglio valutare ciò che serve davvero. Nella quarta regola si legge: «Guardándose que no caiga en enfermedad, cuanto más hombre quitare de lo conveniente, alcanzará más presto el medio que debe tener en su comer y beber, por dos razones: la primera, porque así ayudándose y disponiéndose, muchas veces sentirá más las internas noticias, consolaciones y divinas inspiraciones para mostrársele el medio que le conviene; la segunda, si la persona se vee en la tal abstinencia, y no con tanta fuerza corporal ni disposición para los ejercicios espirituales, fácilmente vendrá a juzgar lo que conviene más a su sustentación corporal»90.

Ignazio con questa regola indica un obiettivo che è al di là della 86 87 88

EE, 212. EE, 210.

«Acerca del beber – scrive Ignazio – paresce más cómoda la abstinencia, que no acerca el comer del pan; por tanto, se debe mucho mirar lo que hace provecho, para admitir, y lo que hace daño, para lanzallo» (EE, 211). 89 Cfr EE, 82-87. 90 EE, 213.


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virtù della temperanza e sconfina praticamente nella penitenza91; però, negli Esercizi lo scopo della austerità non è quello che si prefigge la penitenza, o almeno non coincide del tutto92, bensì si tratta di una «terapia» temporanea per giungere al giusto mezzo, alla giusta misura, che è visto da Ignazio come frutto di un dono, di un impegno e di una esperienza. Egli, inoltre, consiglia di mangiare pensando a Gesù a tavola con i suoi, impegnando la mente in qualche pia meditazione così da non essere totalmente presi dal cibo ma assorti comunque nel Signore; così scrive: «Mientras la persona come, considere como que vee a Cristo nuestro Señor comer con sus apóstoles, y cómo bebe, y cómo mira, y cómo habla; y procure de imitarle. De manera que la principal parte del entendimiento se ocupe en la consideración de nuestro Señor, y la menor en la sustentación corporal, porque así tome mayor concierto y orden de cómo se debe haber y gobernar»93;

oppure «otra vez, mientras come, puede tomar otra consideración, o de vida de santos, o de alguna pía contemplación, o de algún negocio espiritual que haya de hacer; porque estando en la tal cosa atento, tomará menos delectación y sentimiento en el manjar corporal»94. Nella settima regola, Ignazio riassume, in un’espressione sintetica, quanto già accennato nelle due precedenti: «Sobre todo se guarde que 91 Cfr. EE, 83. Ignazio, in una lettera a Francesco Borgia datata 20 settembre 1548, aveva confidato: «Io ho lodato molto i digiuni e l’astinenza rigorosa anche dai cibi comuni, e per un certo tempo ne ho goduto, ma non potrei più farlo per l’avvenire quando vedo che lo stomaco, per via di tali digiuni ed astinenze, non può compiere le sue funzioni normali né digerire quel po’ di carne ordinaria o di altri alimenti che sostengono convenientemente il corpo umano. Sarebbe meglio piuttosto cercare tutti i mezzi possibili per ridargli le forze, mangiando qualunque cibo concesso e tante volte quante sarà vantaggioso, senza scandalo del prossimo. Dobbiamo infatti amare il corpo nella misura che obbedisce all’anima e l’aiuta. Questa poi con tale aiuto e obbedienza si dispone maggiormente a servire e lodare il nostro Creatore e Signore» (IGNAZIO DI LOYOLA, Epistolario, a cura dei Gesuiti della Provincia d’Italia, Roma 2007, 1091-1092). 92 Cfr. EE, 87. 93 EE, 214. 94 EE, 215.


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no esté todo su ánimo intento en lo que come, ni en el comer vaya apresurado por el apetito, sino que sea señor de sí, ansí en la manera del comer como en la cuantidad que come»95. Si comprende, allora, come la persona bene educata, e tale deve essere una persona spirituale, evita di lasciarsi assorbire durante i pasti da ciò che mangia ed è «señor de sí»96 nel modo di mangiare, evitando la fretta, e la eccessiva quantità di cibo. Infine, l’ottava regola indica una norma di saggezza umana e di sapienza spirituale per mettere in pratica la regola precedente: «Para quitar desorden mucho aprovecha que, después de comer o después de cenar, o en otra hora que no sienta apetito de comer, determine consigo para la comida o cena por venir, y ansí consequenter cada día, la cantidad que conviene que coma; de la cual por ningún apetito ni tentación pase adelante»97. Da quanto scrive Ignazio, si comprende che, per evitare di lasciarsi dominare da impulsi disordinati, giova molto stabilire la quantità che conviene mangiare in un momento in cui non si è sotto lo stimolo della fame, e cioè dopo pranzo, dopo cena o in altro momento in cui non si senta appetito, di modo che non si vada al di là di quanto si è prestabilito né per appetito né per tentazione. E qui il padre Ignazio inserisce un richiamo al combattimento spirituale «por más vencer todo apetito desordenado y tentación del enemigo, si es tentado a comer más, coma menos»98. Si tratta di quell’agere contra, fondamentale nella spiritualità ignaziana e tante volte sottolineato negli Esercizi con diverse sfumature99.

95 96

EE, 216.

Questa espressione ha un valore pregnante che va al di là del semplice essere padroni di sé. In questo caso questa espressione sembrerebbe significare che il nutrirsi è come se fosse una maniera di partecipazione alla signoria del Cristo sull’universo creato. 97 EE, 217. 98 L.c. 99 Cfr. EE, 13. 16. 21. 97. 157. 169. 172. 319. 325. 351.


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6. LA PENITENZA NELLA PROSPETTIVA DEGLI ESERCIZI IGNAZIANI Il ruolo della penitenza100 viene affrontato da Ignazio nella decima addizione: «La décima adición es penitencia, la cual se divide en interna y externa. Interna es, dolerse de sus pecados, con firme propósito de no cometer aquellos ni otros algunos. La externa, o fruto de la primera, es castigo de los pecados cometidos, y principalmente se toma en tres maneras»101.

Ignazio parla della penitenza interna e esterna (o corporale)102. Quest’ultima dovrebbe essere frutto di quella interna, cioè della contrizione, della vera conversione del cuore. È una premessa molto 100 Un contributo in merito al tema di «fare penitenza» all’interno del libro degli Esercizi spirituali, si trova in M. GIULIANI, L’esperienza degli esercizi spirituali nella vita quotidiana, Roma 1999, 67-76. 101 EE, 82. 102 Riporto, di seguito, alcuni brani di lettere del Padre Ignazio per meglio inquadrare il suo pensiero su questa delicata materia. Così scriveva a Inés Pascual: «Il Signore poi non esige da lei che faccia cose faticose e nocive alla sua persona, anzi vuole che viva gioiosa in lui, dando il necessario al corpo. Il suo parlare, pensare e conversare sia in lui. Orienti a questo fine tutte le cose necessarie al corpo, anteponendo sempre i comandamenti del Signore. Questo egli vuole e questo ci comanda» (IGNAZIO DI LOYOLA, Epistolario, cit., 922). Risultano pure chiarificatrici le indicazioni offerte a Francesco Borgia: «Sarebbe meglio piuttosto cercare tutti i mezzi possibili per ridargli le forze [parla del corpo], mangiando qualunque cibo e tante volte quante sarà vantaggioso, senza scandalo del prossimo. Dobbiamo infatti amare il corpo nella misura che obbedisce all’anima e l’aiuta. Questa poi con tale aiuto e obbedienza si dispone maggiormente a servire e lodare il nostro Creatore e Signore. Rispetto alla terza questione “di macerare il suo corpo per nostro Signore”, sarei d’avviso d’eliminare tutto ciò che possa portare a qualche goccia di sangue. E anche la sua divina maestà avesse dato grazia per questo e per quanto detto, come son convinto nella sua divina bontà, tuttavia per l’avvenire, a meno che non le dia ragioni o prove, sarebbe meglio abbandonare tali pratiche e, invece di cercare di versare sangue, cercare più immediatamente il Signore di tutti, cioè i suoi santissimi doni. […] Qualunque di questi “santissimi” doni si deve preferire a tutti gli atti di penitenza corporale, che sono buoni nella misura che tendono a conseguire tali doni “o parte di essi”. […] E così, quando il corpo si trova in pericolo per eccessivo lavoro, è più sano ricercare questi doni mediante atti d’intelligenza o altri esercizi moderati. Allora non sarà sana solo l’anima, ed essendo sana la mente in corpo sano, tutto sarà più sano e più adatto per il maggior servizio di Dio» (ibid., 1091-1093).


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importante perché la penitenza corporale non si cerca o si pratica per se stessa, ma come segno di cammino verso una conversione integrale. Nel contesto degli esercizi, per esempio, è espressione e risposta all’amore misericordioso di Dio, che ci salva nel mistero della morte e risurrezione di Cristo. Sia nel corso degli esercizi, sia nel contesto della vita ordinaria, la penitenza corporale punta all’integrazione corpo-spirito della quale abbiamo già parlato a proposito della posizione del corpo nella preghiera. Non si tratta di un’ascetica che prende le mosse da un rifiuto del corpo ma di una pedagogia di integrazione, di un’educazione della dimensione corporale del nostro essere per poterla integrare nella vita dello Spirito e nel servizio apostolico del Regno. Ignazio affronta il tema della penitenza nel cibo, nel dormire e anche nel castigare la carne, infliggendole dolore sensibile. In merito al mangiare se ne è già parlato. Qui ci limitiamo a presentare ciò che Ignazio scrive a proposito del primo modo di fare penitenza: «La primera es cerca del comer; es a saber cuando quitamos lo superfluo, no es penitencia mas temperancia; penitencia es cuando quitamos de lo conveniente, y cuanto más y más, mayor y mejor, sólo que no se corrompa el subyecto, ni se siga enfermedad notable»103. Circa il secondo modo che riguarda il dormire Ignazio è molto conciso e ne parla solo in questo contesto; in merito alla penitenza all’interno della decima addizione così scrive: «Cerca del modo del dormir; y asimismo no es penitencia quitar lo superfluo de cosas delicadas o moles, mas es penitencia, cuando en el modo se quita de lo conveniente, y cuanto más y más, mejor, sólo que no se corrompa el subyecto, ni se siga enfermedad notable, ni tampoco se quite del sueño conveniente, si forsan no tiene hábito vicioso de dormir demasiado, para venir al medio»104.

Infine il terzo modo riguarda, come si diceva prima, il castigo della carne; egli afferma: «La tercera: castigar la carne, es a saber, dándole dolor sensible, el cual se da trayendo cilicios o sogas o barras de hierro 103 104

EE, 83. EE, 84.


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sobre las carnes, flagelándose, o llagándose, y otras maneras de asperezas»105. A questo punto, però, bisogna fare attenzione perché Ignazio fa seguire tutto questo da una nota importantissima per comprendere fino in fondo come lui intende concretamente questa mortificazione della carne: «Lo que parece más cómodo y más seguro de la penitencia es que el dolor sea sensible en las carnes, y que no entre dentro en los huesos; de manera que dé dolor y no enfermedad. Por lo cual parece que es más conveniente lastimarse con cuerdas delgadas, que dan dolor de fuera, que no de otra manera que cause dentro enfermedad que sea notable»106.

Si può citare un ulteriore insegnamento sulla delicata materia della penitenza citando un passo di una lettera che il padre Ignazio scrive a Teresa Rejadell datata 11 Settembre 1536: «Non si deve trascurare il naturale nutrimento e la distensione dovuti al corpo. Nutrimento: quando per occuparsi a meditare, si dimentica di dare ristoro al corpo, superando il tempo previsto per la meditazione. Distensione: deve essere piuttosto pia e consiste nel lasciar vagare l’intelletto come voglia su temi buoni o indifferenti, escludendo i cattivi. Seconda. Capita a molti, dediti all’orazione o contemplazione, che, avendo molto esercitato il loro intelletto prima di dormire, non possano poi dormire, continuando a pensare alle cose contemplate o immaginate. Il nemico allora cerca di protrarre i buoni pensieri in modo che, tolto il sonno, il corpo ne soffra; cosa da evitare assolutamente. Col corpo sano lei può fare molto; se è malato, non so cosa potrà fare. Il corpo in buono stato aiuta notevolmente a fare molto male o molto bene: molto male in quelli che hanno volontà depravata e cattive abitudini; molto bene in quelli che hanno la volontà ancorata in Dio ed esercitata nelle buone abitudini»107.

È importante notare come Ignazio parli anche dei limiti nel fare penitenza. Si legge, infatti, che la penitenza non deve arrivare al punto in cui la persona si indebolisca e ne consegua una infermità108. Ignazio 105 106 107 108

EE, 85. EE, 86.

IGNAZIO DI LOYOLA, Epistolario, cit., 942-943. Cfr. EE, 83-84.


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era consapevole che, a causa degli eccessi che egli stesso aveva commesso in questo campo, la sua salute aveva riportato un danno permanente. Si arriva così al secondo aspetto, quello della temperanza o moderazione che, secondo il santo, non è ancora penitenza. Quest’ultima si pratica in momenti particolari, la temperanza invece deve essere uno stile di vita. Consiste nel non usare del piacere in un modo dannoso, esagerato, eccessivo, superfluo, stravagante; insomma, bisogna imparare ad usare il piacere in un modo saggio. Questo concetto include prima di tutto la sobrietà e la semplicità, che sono l’opposto del superfluo, dello smodato, dello sregolato. Non è soltanto questione di quantità, ma anche di stile. In secondo luogo include il non recare danno né a se stessi né agli altri: a se stessi nel senso che la penitenza non deve danneggiare la salute, agli altri, perché occorre essere attenti alla solidarietà e alla condivisione. Infine la temperanza comporta anche l’attenzione affinché il piacere non crei una dipendenza, così da non poter farne a meno di quella certa cosa, anche se lecita e questo per non perdere la propria libertà. In merito a ciò che stiamo dicendo Ignazio afferma anche che: «cuando la persona que se ejercita aún no halla lo que desea, ansí como lágrimas, consolationes, etc., muchas veces aprovecha hacer mudanza en el comer, en el dormir y en otros modos de hacer penitencia; de manera que nos mudemos, haciendo dos o tres días penitencia, y otros dos o tres no; porque a algunos conviene hacer más penitencia, y a otros menos; y también porque muchas veces dejamos de hacer penitencia por el amor sensual y por juicio erróneo, que el subyecto humano no podrá tolerar sin notable enfermedad; y algunas veces, por el contrario, hacemos demasiado, pensando que al cuerpo pueda tolerar; y como Dios nuestro Señor en infinito conoce mejor nuestra natura, muchas veces en las tales mudanzas da a sentir a cada uno lo que le conviene»109.

Ignazio consiglia all’esercitante, che non riceve le grazie che desidera, di provare a fare dei cambiamenti nelle modalità che ha adottato ed anche di fare penitenza alcuni giorni piuttosto che altri, per giun109

EE, 89.


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gere così a comprendere cosa gli conviene di più. In questo modo l’esercitante (e anche chi lo accompagna) impara a lasciare che sia il Signore a far capire cosa Egli voglia dalla sua creatura: in questo modo anche il corpo impara concretamente ad obbedire ad un Altro. Colui che accompagna, dice Ignazio nelle Note date a voce, deve essere propenso a dare all’esercitante lo strumento di penitenza che vuole e dunque a lasciare libero l’esercitante di regolarsi secondo la propria coscienza ed afferma: «riguardo alle altre penitenze, gli si spieghi ciò che dicono gli Esercizi, e nel caso chieda qualche strumento, per esempio disciplina, cilicio, ecc., in generale chi dà gli esercizi si mostri favorevole a dare ciò che chiede»110. È importante notare che Ignazio, col trascorrere degli anni, dimostra sempre maggiore equilibrio circa le penitenze corporali, probabilmente anche grazie alla propria esperienza personale. Per esempio, nella lettera a Francesco Borgia del 20 Settembre 1548, afferma: «Sarei d’avviso d’eliminare tutto ciò che possa portare a qualche goccia di sangue»111. L’Ignazio maturo sembra aver compreso che ciò che è più importante non è la molta penitenza corporale, che pure è prevista e disciplinata, ma l’abbandono totale della propria volontà a quella di Dio. In ultimo, da quanto detto precedentemente, si può dedurre che la penitenza può consistere nel dire no a una cosa piacevole, magari conveniente o lecita. Ma allora perché dire no, perché privarsi di un piacere legittimo? Ignazio nella prima nota all’addizione che si sta esaminando indica tre ragioni: «El primero, por satisfacción de los pecados pasados; segundo, por vencer a sí mesmo, es a saber, para que la sensualidad obedezca a la razón 110

IGNAZIO DI LOYOLA, Note date, cit., 344. ID., Epistolario, cit., 1092. Si nota, inoltre, come Ignazio si riveli, ancora una volta, uomo di discrezione e di moderazione. In merito a questo scrive in una lettera: «Tutto negli esercizi di penitenza deve servire di mezzo per raggiungere il fine, il quale consiste in questo: che si renda lo spirito più malleabile e l’anima più libera e più adatta al servizio di Dio. Tali esercizi non sono fine a se stessi. La nostra aspirazione non dev’essere di flagellarci a sangue; molto meglio versare lacrime innocue sopra i propri peccati e sopra la passione di Cristo. Un’anima sana in corpo sano è la più adatta al servizio di Dio» (MONUMENTA IGNATIANA, S. Ignatii de Loyola, Societatis Iesu fundatoris Epistolae et Istructiones, II, Matriti 1903-1911, 17-18). 111


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Andrea Zappulla y todas partes inferiores estén más subyectas a las superiores; tercero, para buscar y hallar alguna gracia o don que la persona quiere y desea; ansí como si desea haber interna contrición de sus pecados, o llorar mucho sobre ellos o sobre las penas y dolores que Cristo nuestro Señor pasaba en su pasión, o por solución de alguna dubitación en que la persona se halla»112.

Concludendo, le norme che Ignazio propone per la penitenza sono una pedagogia spirituale che insegna a usare del piacere sensibile con vera libertà spirituale, ma anche a saper dire no anche a forme legittime di piacere quando l’esperienza insegna che la prudenza, il senso comune, l’attenzione a Dio o alle necessità dei fratelli, consigliano l’astinenza. CONCLUSIONE Alla fine di questo studio sul ruolo del corpo nella dinamica degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola, possiamo rilevare che dall’impostazione antropologica ignaziana che riflette la posizione dell’antropologia cristiana del suo tempo, si nota come il corpo non venga visto come un ostacolo nella preghiera ma come risorsa e dono di Dio, e una consapevolezza profonda della propria corporeità porta a trasformare il proprio corpo in linguaggio. Dall’impostazione ignaziana si comprende, inoltre, che nella preghiera, che è incontro con il Signore, il corpo e la corporeità acquisiscono un ruolo fondamentale, in quanto il corpo diventa luogo di incontro in cui fare esperienza della Grazia di Dio che Ignazio costantemente fa chiedere all’esercitando. Il corpo diventa così espressione di ciò che c’è nel cuore, non dimenticando che come afferma Luciano Manicardi «Il corpo è il libro del tempo, il libro su cui restano registrate emozioni, sofferenze ed esperienze di un passato che non è dietro di noi, ma 112 EE, 87. Un approfondimento su questo tema si può trovare in J. R. GARCÍAMURGA, «Dolor con Cristo doloroso» como revelación y fuente de gracia, in Manresa 65 (1993) 255, 153-168.


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dentro di noi; le posture del nostro corpo non sono innocenti, ma sono il frutto di una storia, sono rivelazione ed eloquenza. Il nostro corpo porta inscritta in sĂŠ la memoria della nostra origine, del grembo da cui proveniamoÂť113.

113

L. MANICARDI, Il corpo, Magnano 2005, 21.



Sezione miscellanea Synaxis 2 (2012) 99-136

ROSMINI ANTICIPATORE DELLA SVOLTA PERSONALISTICA NELL’ETICA SOCIALE CRISTIANA. CONTEMPORANEAMENTE UN CONTRIBUTO ALLA DETERMINAZIONE DEL RAPPORTO TRA ROSMINI E TAPARELLI SULL’ETICA DEL DIRITTO

MARKUS KRIENKE*

1. PERCHÉ RISCOPRIRE ROSMINI PER IL PENSIERO ETICO-SOCIALE CRISTIANO OGGI? Nonostante l’emarginazione sistematica del pensiero rosminiano da ogni influsso “dominante” sulla cultura moderna, sancita sia dal neotomismo sia dal neoidealismo nel primo secolo successivo alla morte di Rosmini, e quindi nella II fase della Wirkungsgeschichte del pensiero rosminiano1, dobbiamo notare che dopo la cosiddetta III fase alcuni (pochi) elementi del pensiero di Rosmini sono passati non solo nel “patrimonio comune” degli esperti del pensiero del grande Roveretano, ma anche nel repertorio di quelli che di Rosmini sanno poco o niente, fino a perdere quasi ogni effetto di sorpresa teoretica. Questo vale sia per alcuni caposaldi del pensiero teoretico-metafisico, come anche per tanti temi del suo pensiero etico-sociale. Si riconosce *

Docente di Filosofia moderna e di etica sociale presso la Facoltà di Teologia di Lugano. 1 Cfr. M. KRIENKE, Rosmini e la filosofia tedesca. Stato della ricerca e prospettive, in ID., Sulla ragione. Rosmini e la filosofia tedesca (La Rosminiana, 1), Soveria Mannelli 2008, 31-108; ID. – G.L. SANNA, Zu einer neuen Erforschung des Verhältnisses zwischen Rosmini und der deutschen Philosophie, in Quaestio 5 (2005) 658-661.


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l’importanza di alcune “formule” centrali — prime fra tutte «la persona umana è il diritto umano sussistente» — ripetendole ormai in maniera stereotipata, senza approfondire più di tanto che cosa esse possano significare per la riflessione etico-sociale. Anche se in questo modo si valorizza senz’altro l’importanza e la lungimiranza di Rosmini, difficilmente nasceranno così dal suo pensiero nuovi impulsi non solo per approfondire la comprensione del nostro ordinamento etico-sociale ma anche per i suoi possibili sviluppi futuri oltre la crisi attuale. Questa ricezione di Rosmini “per formule” è, in un certo senso, il risultato naturale di come nella III fase si cercava di recuperare il pensiero del Roveretano, ossia in modo decontestualizzato e senza confrontarlo con le istanze del pensiero moderno. Tale metodo era imposto da un contesto che lo travisava gravemente fino a sfociare nella condanna del 1888 e che lo sospettava di essersi basato decisamente sui presupposti teoretici moderni del pensiero trascendentale e idealista. Se come reazione a questo difficile contesto, si interpretava Rosmini con l’intenzione di dimostrare la sua “consonanza” con San Tommaso, senza considerare invece che egli aveva fatto passare il pensiero cattolico attraverso le sfide critiche della modernità, non si coglievano pertanto i veri aspetti teoretici e pratici del suo pensiero2. Ecco perché Rosmini è noto oggi soltanto tramite alcune formule standardizzate: il suo contributo alla modernità non è stato ancora “pensato”, né per quanto riguarda la sua filosofia teoretica, e neppure per la filosofia pratica. In questo senso, appare significativo che proprio uno dei volumi usciti recentemente, dedicato a diffondere alcuni momenti innovativi del pensiero rosminiano nell’ambito del pensiero teoretico e pratico cattolico, porta felicemente il sottotitolo «Antonio Rosmini verso il Vaticano II»3. Ma all’attualità del suo pensiero etico-sociale risulta dedicato solo un contributo che riassume ottimamente il pensiero politico2

Cfr. M. KRIENKE, La Denkform rosminiana come alternativa moderna alla modernità. Sull’attualità del confronto di Rosmini con Kant e Hegel, in M. DOSSI – M. NICOLETTI (edd.), Antonio Rosmini tra modernità e universalità, Brescia 2007, 95125. 3 Una profezia per la Chiesa. Antonio Rosmini verso il Vaticano II, Panzano in Chianti (FI) 2009.


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giuridico di Rosmini4 senza però nemmeno riferirlo a quel momento che nel Concilio Vaticano II ha rappresentato niente di meno che la svolta paradigmatica nella riflessione etico-sociale cattolica portando al tramonto definitivo un pensiero che per un centinaio di anni aveva guidato la riflessione del mondo cattolico sulla società e sul rapporto tra Stato e Chiesa5. Se Rosmini in un modo importante ha anticipato questa svolta, e questa anticipazione non si esprime soltanto nella sua definizione del diritto, ma anche nel suo concetto di giustizia sociale e nel suo costituzionalismo, allora non soltanto si inserisce come uno dei pochi pensatori cattolici dell’800 nella riflessione post-vaticana sul rapporto tra cristianesimo e società, ma a questo punto si può anche interrogarlo su alcuni nodi attuali ed urgenti di questa riflessione e su possibili prospettive per il nuovo secolo. Senz’altro una tale riflessione dovrà sempre tener presente anche i limiti di uno sguardo su un pensatore 150 anni dopo la sua morte, innanzitutto quando si tratta del suo pensiero etico-sociale che è esposto più del pensiero teoretico all’influsso dei presupposti culturali del suo tempo e di proprie convinzioni, religiose, personali o quali possano essere. Considerare questi fattori e valutare Rosmini rispetto agli sviluppi della riflessione del proprio tempo (come nel nostro caso con un anticipatore del pensiero neoscolastico ossia Luigi Taparelli), sembra un compito imprescindibile per individuare la “rilevanza” del suo pensiero6. 4 Cfr. M. CIOFFI, Rosmini nostro contemporaneo, in Una profezia per la Chiesa. Antonio Rosmini verso il Vaticano II, cit., 195-225. 5 Cfr. M. KRIENKE, «La mano visibile del diritto». La Rerum novarum e il liberalismo. Riflessioni in occasione del 120° della prima enciclica sociale, in Rivista teologica di Lugano 16 (2011) 265-291; cfr. W. KORFF – A. BAUMGARTNER, I principi sociali come struttura fondamentale della società moderna: personalità, solidarietà e sussidiarietà, a cura di M. Krienke, in L’Ircocervo, 2010/2, 1-24, http://goo.gl/iTkxx (1.01.2013). Un confronto più approfondito con i documenti etico-sociali del Concilio e della Dottrina sociale della Chiesa post-conciliare offre Fernando Bellelli, Rosmini prima e dopo la Dottrina sociale della Chiesa. Spunti per una rilettura post-conciliare del suo pensiero politico, in S. SPIRI (ed.), Rosmini, Gioberti e Gustavo di Cavour. Cristianesimo, filosofia e politica nel Risorgimento, 2 voll., Villasanta (MB) 2012, II, 289-317. Questo contributo sottolinea piuttosto le dimensioni antropologiche e pastorali di questo confronto, insistendo anche sulla situazione post-conciliare, ma tralasciando quelle politico-giuridiche in senso stretto. 6 Cfr. S. MUSCOLINO, Rosmini e la filosofia tedesca, in Rivista di filosofia neo-scola-


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2. DAL DIRITTO NATURALE AL DIRITTO PERSONALISTICO L’accennato cambiamento paradigmatico operato dal Concilio supera l’idea neoscolastica di diritto naturale che stava al fondamento delle prime due encicliche sociali Rerum novarum e Quadragesimo anno. Tale concetto aveva il vantaggio di fondare un pensiero cattolico-sociale sulla base del diritto e quindi non direttamente sulla teologia morale che non poteva fungere più da istanza di legittimazione e di giudizio dello Stato moderno secolarizzato e ormai sempre più pluralistico7. Così si proponeva una base apparentemente oggettiva ed un terreno di argomentazione razionale con le istanze non cattoliche della società e della scienza. Non soltanto la Chiesa nei suoi rapporti con lo Stato, ma anche le associazioni cristiane, soprattutto dei lavoratori, e i partiti politici cattolici (che fino al 1919 non erano pienamente riconosciuti da parte del Magistero) avevano bisogno di un fondamento “autonomo”8. Questo concetto di diritto naturale derivava innanzitutto dalla dottrina della scuola tomistica che aveva sostituito il tradizionalismo di inizio ’800 e ne aveva trasformato alcune istanze nella seconda metà di quel secolo e soprattutto con Leone XIII nella dottrina neoscolastica. Il simbolo più caratteristico del tradizionalismo consisteva nel basare la legittimazione dell’ordinamento pubblico e sociale non sulla libertà del soggetto individuale, e quindi sulla categoria di persona, ma nel derivarlo direttamente da Dio. Il punto di riferimento più imporstica 98 (2006) 151-155; M. KRIENKE, Rosmini und die deutsche Philosophie. Zur Aktualität der Kant- und Idealismusrezeption Antonio Rosminis, in Theologie und Philosophie 80 (2005) 566-574. 7 Questo metodo è confermato, ex negativo, ancora da Ratzinger nel 1964 quando accusò la dottrina tradizionale di diritto naturale neoscolastico di aver ridotto il diritto speculativamente, mettendo tra parentesi le sue dimensioni storiche e teologiche; cfr. J. RATZINGER, Naturrecht, Evangelium und Ideologie in der katholischen Soziallehre, in K. V. BISMARCK – W. DIRKS (edd.), Christlicher Glaube und Ideologie, Mainz 1964, 24-30. 8 Cfr. R. UERTZ, Die katholische Sozialethik im Transformationsprozess der Industrialisierung und Modernisierung, in A. HABISCH – H. J. KÜSTERS – R. UERTZ (edd.), Tradition und Erneuerung der christlichen Sozialethik in Zeiten der Modernisierung, Freiburg 2012, 119-153, qui 120.


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tante di tale dottrina fu Roberto Bellarmino secondo il quale l’«omnis potestas a Deo» (Rm 13,1) non poteva che legittimare un ordinamento monarchico. E anche se con Leone XIII, e quindi con la neoscolastica, si era passato ad un atteggiamento di neutralità nei confronti delle forme di Stato, la democrazia comunque non veniva intesa sull’idea della sovranità popolare e quindi sull’individuo soggetto del diritto, perché il criterio neoscolastico per qualsiasi forma di Stato — sia essa monarchica o democratica — era il rispetto dell’ordinamento organico e corporativistico della società come espressione moderna del concetto classico di bene comune che sin da San Tommaso era la categoria etica leggittimatrice del diritto9. Contro l’individualismo liberale e la massificazione socialista, in questo ordinamento organico si esprimeva, secondo il pensiero dei “solidaristi” neoscolastici, il carattere naturaliter socialis della natura umana10. Questo ordinamento organico teorizzato dal “solidarismo”11 era concepito come sistema vero e proprio alternativo sia al liberalismo individualistico, da un lato, che al socialismo collettivista, dall’altro. Siccome si considerava il socialismo come una delle conseguenze del liberalismo, il solidarismo si configurava innanzitutto come critica al liberalismo12. Particolarmente si riteneva sbagliato il principio secondo il quale l’ordinamento sociale si generasse “dal basso” e che la società 9

Questa concezione trova consenso fino ad oggi, cfr. soprattutto A. UTZ, Sozialethik, vol. 1. Die Prinzipien der Gesellschaftslehre, Heidelberg-Löwen 1958, 198201. 10 Del Lehrbuch der Nationalökonomie di H. Pesch in 2 voll., Freiburg 1905, viene citato il primo volume con l’edizione del 1924, il secondo con quella del 1920. Qui cfr. I, 34, 447. 11 «Individualismo e socialismo sono estremi. Non tutto in essi risulta sbagliato. Il problema da risolvere in teoria come in prassi nella nuova era del nostro sviluppo economico può consistere perciò soltanto nell’enucleare il giusto da entrambi i sistemi e di collegarlo in un nuovo sistema coerente» (H. PESCH, Eine neue Ära unserer wirtschaftlichen Entwicklung, in Stimmen der Zeit 90 [1916] 243-268, qui 248). 12 Ciò si evince da affermazioni che sottolineano che le relazioni di solidarietà, non solo nella famiglia, ma soprattutto con i connazionali e con i soci della stessa corporazione, sono l’unico modo per superare l’individualismo e l’egoismo del mercato, e che quindi soltanto la «socializzazione degli uomini» — termine presente fino nei pronunciamenti di Giovanni Paolo II — può essere un rimedio a tale individualismo (PESCH, Lehrbuch der Nationalökonomie, II, cit., 219-221).


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si potesse fondare sull’istituto del contratto13. Ciò era considerato contrario all’idea centrale del pensiero scolastico ossia il bene comune che consisteva nell’ambito sociale in quell’ordinamento che assegnava a ciascun individuo il suo posto da cui gli derivano poi, di conseguenza, i doveri sociali corrispettivi. Era quindi l’idea di una metafisica sociale che vedeva la persona sempre incarnata in un contesto di dipendenze reciproche e di rapporti disuguali che erano moralmente tenuti dai rispettivi doveri derivanti dall’ordinamento stesso per ogni singolo. Questo ordinamento è fatto da strutture che a loro volta sono razionalmente conoscibili e per le quali l’ultima autorità interpretativa spettava — come del resto per tutto l’ambito morale che sottostava alla potestas indirecta in temporalia — all’autorità ecclesiastica. Concretamente, queste strutture si realizzavano non soltanto tramite la famiglia e lo Stato, ma soprattutto all’interno delle società attraverso corporazioni che risultavano da un’analogia delle strutture medievali trasferite nel mondo moderno. Grazie a queste strutture, e con la conseguente definizione del principio di sussidiarietà nell’enciclica Quadragesimo anno, la Chiesa intendeva formulare un’alternativa non solo teoretica al liberalismo e al socialismo, ma anche ai vari totalitarismi di destra e di sinistra, che sono nati in Europa a partire dal 1917. Quindi lo Stato moderno, che proprio negli anni ’20 tendeva in tutta l’Europa al totalitarismo, non fu contrastato per un ideale “liberale”, ma premoderno, che lo interpretava come esplicitazione ed assolutizzazione del soggettivismo moderno. Il principio di sussidiarietà, quindi, per la Quadragesimo anno non era per niente inteso come un principio liberale, ma di organizzazione sociale corporativistica14. Ma fatalmente il corporativismo non era il principio più adatto per confrontare il totalitarismo, e questo per due motivi: da un lato, si vedeva, specialmente nel caso dell’Austria, che proprio un corporati13 Ciò significa che «in Pesch la solidarietà è fondata nella natura sostanzialistica e sociale dell’uomo e non ancora nel suo stato di persona e di soggetto morale» (T. BOHRMANN, Solidarität und Solidarismus bei Heinrich Pesch (1854–1926), in K. HILPERT – T. BOHRMANN [edd.], Solidarische Gesellschaft. Christliche Sozialethik als Auftrag zur Weltgestaltung im Konkreten, Regensburg 2006, 13-27, qui 26). 14 Cfr. J. VAN DER VELDEN (ed.), Die berufsständische Ordnung. Idee und praktische Möglichkeiten, Köln 1932; J. MESSNER, Die berufsständische Ordnung, Innsbruck 1936.


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vismo scolastico poteva condurre facilmente a costruire un ponte all’organizzazione totalitaristica della società che anch’essa si basa su un certo ragionamento corporativistico ed organicista; dall’altro, come secondo motivo, non si considerava che proprio il pensiero liberale avrebbe costituito delle istituzioni valide per contrastare il totalitarismo in quanto rivendicava, attraverso l’organizzazione sussidiaria della società, le libertà individuali contro qualsiasi ingerenza statale. Il fatto però che anche la Chiesa, sin dall’800, condannasse il liberalismo, poteva addirittura creare tanta confusione in alcuni cattolici nel loro atteggiamento nei confronti del totalitarismo15. Solo con Giovanni XXIII si è compiuta la svolta verso una concezione del diritto della persona e quindi verso la dimensione soggettiva del diritto. Ciò si esprime non soltanto con l’enciclica Pacem in terris, in cui la Dottrina sociale della Chiesa parla per la prima volta, più di sette decenni dopo la Rerum novarum, e 15 anni dopo la Dichiarazione dei diritti umani dell’ONU, in maniera positiva dei diritti umani, ma già con la Mater et magister del 1961 che anticipa di ben quattro anni la definizione del cambiamento paradigmatico che la Gaudium et spes realizza per la riflessione etico-sociale della Chiesa: ossia che «principium, subiectum et finis omnium institutorum socialium est et esse debet humana persona»16. Con questo principio, la Dottrina sociale della Chiesa, così come era formulata dalla Rerum novarum e dalla Quadragesimo anno e come si poneva nel pensiero corporativistico e solidaristico del neotomismo, cambia decisivamente il suo principio base e riconosce che l’ordinamento sociale non è deducibile a priori ma è un risultato della libertà umana e, perciò, è un qualcosa da giustificare moralmente a partire da quest’ultima. Si capisce che proprio l’affermazione della legittima autonomia dell’ordine poli15 Sembra perciò tanto conseguente quanto paradossale che proprio il pensatore liberale e protestante Röpke trovi molti aspetti liberali nella sua interpretazione della Quadragesimo anno. Questa interpretazione deriva dall’argomentazione antisocialista e dalla spinta contro lo statalismo, espresse chiaramente nella Quadragesimo anno, e quindi piuttosto nella sua pars destruens che non in un pensiero positivo-costruttivo di libertà individuale. 16 Gaudium et spes, n. 25. Cfr. nella Mater et magistra: «i singoli esseri umani sono e devono essere il fondamento, il fine e i soggetti di tutte le istituzioni in cui si esprime e si attua la vita sociale» (n. 203).


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tico e del mondo formulerebbe il presupposto più coerente per la giustificabilità dell’ordinamento sociale. L’istanza morale nei confronti della quale questa giustificazione deve essere realizzata è la dignità e la libertà della persona perchè è essa che nella sua dimensione costitutiva trascendente non può essere completamente sottomessa a nessun ordinamento sociale pena la perdita della sua libertà e quindi dell’istanza legittimatrice delle istituzioni. Dopo questo cambiamento paradigmatico, il diritto cioè l’ordinamento sociale non è più incarnato in una struttura sociale corporativistica ma si realizza come prima istanza nella persona dalla quale derivano i principi etici dell’ordinamento sociale. E questi sono i diritti fondamentali come espressione autentica della libertà della persona. Al posto della “verità” dell’ordinamento, ossia della conoscibilità della sua struttura oggettiva giusta, è subentrato il valore della libertà di ogni singolo. Solo in questo momento la persona si assume la responsabilità per le strutture stesse e quindi si realizza la loro dimensione etica. Infatti, ormai si parla di un’“etica sociale delle strutture” (Sozialstrukturenethik), e di un’“ubbidienza come responsabilità” (Gehorsamsverantwortung) verso le norme dell’ordinamento sociale17. 3. L’ANTICIPAZIONE DI ROSMINI Non sembra una ovvietà soltanto grammaticale che il principio giuridico rosminiano, la persona come diritto ontologico, sia una perfetta anticipazione di questa svolta del concetto di “diritto naturale” nell’etica sociale cristiana. Nella sua Filosofia del diritto Rosmini ha di fatto anticipato anche le conseguenze di questa svolta per la comprensione di ciò che è un’istituzione sociale: cioè di essere non un’entità regolata da un bene comune sostanziale, ma il corrispettivo oggettivo della realizzazione della libertà personale. Il diritto ontologico della persona non significa altro che la libertà in cui consiste il principio personalistico abbia una struttura non determinata dal soggetto, e quindi non dal suo arbitrio, ma dall’essere. La riflessione 17 Cfr. W. KORFF – A. BAUMGARTNER, I principi sociali come struttura fondamentale della società moderna: personalità, solidarietà e sussidiarietà, cit., 8.


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sull’istituzione, a partire da Hegel e Rosmini, non concepisce la moralità come qualcosa che debba limitare la libertà, ma piuttosto ciò in cui consiste l’affermazione della libertà di se stessa, e che arriva quindi per la prima volta alla distinzione sistematica tra “libertà” e “arbitrio”18. La prima si distingue dal secondo, in altre parole, proprio nel fatto di affermarsi soltanto volendo la libertà altrui, non “negandola”19: «[s]ono veramente libero solo quando anche l’altro è libero, e viene da me riconosciuto come tale»20. In questo riconoscimento della libertà nella sua dimensione oggettiva si determinano le strutture istituzionali fondamentali che non stanno a disposizione della volontà soggettiva (dell’arbitrio). Rosmini, nella sua Filosofia del diritto, dà infatti una puntigliosa e dettagliata mappa che esplicita queste dimensioni nelle loro due facce principali del “diritto individuale” e del “diritto sociale”, in quanto le “deduce” dal principio base, ossia dalla persona come libertà morale. Rosmini, nel suo personalismo, è riuscito a dare alla libertà una declinazione ontologica, nella forma morale dell’essere. In essa, come descrive nell’inoggettivazione trattata nella Teosofia, la libertà afferma se stessa ed è in se stessa soltanto affermando l’altro21, determinando così la sfera morale come l’incontro “inoggettivato” di persone. Per questa dimensione morale, la persona è costitutivamente indirizzata all’altro per realizzarsi in rapporti di 18

«Anche se questa distinzione terminologica non è un’invenzione di Hegel, nella Rph [Lineamenti di filosofia del diritto] diventa per la prima volta la base teoretica di una teoria filosofica sulla libertà. La confusione tra questi due, cioè tra la libertà e l’arbitrio, ha impedito precedentemente di poter conoscere il carattere comunicativo della libertà» (T. KOBUSCH, Die Entdeckung der Person. Metaphysik der Freiheit und modernes Menschenbild, Darmstadt 19972, 161). 19 Questo è affermato nei Lineamenti di Hegel: «[i]l concetto astratto dell’Idea della volontà è, in generale, la volontà libera che vuole la volontà libera» (G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del Diritto, a cura di V. Cicero, Milano 20102, § 27). 20 G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a cura di C. Cesa, Roma-Bari 2009, § 431 aggiunta. «Nel riconoscimento il sé finisce di essere questo singolo; giuridicamente esso è nel riconoscimento, cioè non più nel suo esserci immediato […]; l’uomo è necessariamente riconosciuto ed è necessariamente riconoscente» (G.W.F. HEGEL, Jenaer Systementwürfe III, a cura di R.-P. Horstman [Gesammelte Werke, 8], Düsseldorf 1976, 215). 21 Cfr. A. ROSMINI, Teosofia, 6 voll., a cura di M. A. Raschini e P. P. Ottonello (Edizione critica, 12-17), Roma-Stresa 1998-2002, nn. 867-901.


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riconoscimento, e perciò la definizione del principio giuridico di Rosmini sta nella dimensione teleologica della sua realizzazione22. Per questo la forma morale è il centro della metafisica personalistica di Rosmini ed è la teoria morale che afferma il suo principio giuridico fondamentale secondo il quale la persona è diritto sussistente. Soprattutto nella seconda parte di quest’opera, ossia nel Diritto sociale, Rosmini evidenzia che questo approccio non si riduce affatto ad un individualismo metodologico giuridico, ma che — sulla stregua della riflessione hegeliana — la libertà della persona si realizza soltanto in e attraverso istituzioni sociali che sono le strutture stabili dell’inoggettivazione23. La società civile è soltanto l’ultima di queste strutture e si riferisce sussidiariamente alle prime due, determinate dalle relazioni naturali e soprannaturali della persona in quanto tale: esse si configurano per Rosmini, da un lato, in una relazione che non dipende dall’arbitrio, perché costituita non dall’uomo ma dalla grazia divina come si rivolge in maniera perfezionatrice all’uomo. Ogni uomo, secondo Rosmini, è destinato a questa perfezione individuale della sua persona, e per questo il primo suo riferimento relazionale non è costituito da se stesso, e nemmeno dagli altri uomini, dai quali in questo caso dipenderebbe, ma da quello che è il totalmente altro24: l’uomo in questa maniera non è solo fondato nell’essere (l’uomo come diritto sussistente) ma indirizzato al suo supremo perfezionamento che però non lo sottomette ad altri, ma che può derivare soltanto da un’alterità che è quella più originaria al suo essere. In quanto l’uomo viene perfezionato dalla grazia nella sua persona — cioè nel principio della sua volontà che viene santificata — essa costituisce la più nobile realizzazione morale della libertà della persona, e in quanto tale l’afferma22

Hegel lo formula come «sii una persona e rispetta gli altri come persone» (G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del Diritto, cit., § 36), mentre Rosmini lo definisce «[a]ma gli esseri tutti» oppure «ama l’essere ovunque lo conosci, in quell’ordine ch’egli presenta alla tua intelligenza» (A. ROSMINI, Principi della scienza morale, a cura di U. Muratore [Ediz. crit., 23], Roma-Stresa 1990, 107, 110); cfr. ID., Filosofia del diritto, 6 voll., a cura di P. Orecchia (Ediz. naz., 35-40), Padova 1967-1969 (= FD), IV, nn. 664-667 (IV, pp. 896s.). 23 Cfr. FD I, pp. 49-66. 24 Cfr. FD II, nn. 488, 492s., 566, 576, 633s., 866s. (IV, pp. 850s., 853s., 873, 875s., 888, 953s.).


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zione assoluta della libertà: «ogni uomo ha il diritto di libertà assoluta, non solo quanto alla potenza, ma ben anco alla virtualità di essa»25. Dall’altro lato, anche la “famiglia naturale”, «società domestica», ha il compito perfezionatore dell’uomo, ma del suo aspetto naturale e non personale e in quanto tale anch’essa è “extra-sociale”, come si potrebbe dire con Rosmini. L’“extrasociale” in questo caso significa che queste due società derivano dalla persona umana e quindi precedono la “società civile”, ponendo ad essa delle condizioni apriori. Anche se per Rosmini la società civile è sempre una dimensione sociale indispensabile per la realizzazione della libertà personale, rispetto alle due precedenti ha una funzione meramente sussidiaria: la libertà morale, in altre parole, si deve perfezionare prima nel suo aspetto soprannaturale, poi in quello naturale, e infine in quello civile. Evidentemente, le prime due società relativizzano l’ambito politico che si riferisce alla società civile. Ciononostante non sarebbe giustificato dal testo di Rosmini assegnare a quest’ultima soltanto una dimensione “arbitraria” oppure “utilitaristica”, indirizzata meramente a rincorrere i “bisogni” della natura umana; perché assolve dimensioni di bene comune, di incivilimento e di educazione26. Ma queste questi ultimi momenti trovano il loro criterio nella persona che tende alla sua perfezione, quindi alla realizzazione del suo essere e della sua dignità. Rosmini concepisce, quindi, anche nella sua dottrina delle “tre società” un personalismo conseguente e le pensa a partire dalla libertà della persona e ad essa finalizzate. Per Hegel, questo riconoscimento che consiste nella piena affermazione dell’altra persona si media tramite la realizzazione della persona attraverso il proprio corpo e attraverso la proprietà privata, quindi tramite i diritti individual-liberali27: per questo motivo, l’amore 25 FD II, n. 786 (IV, p. 929); cfr. II, nn. 541, 606 (IV, pp. 868, 881). «Se non che l’umanità di questi individui coll’entrare nella Chiesa si sviluppa e cresce, la loro personalità si sublima. Egli è questo un fatto giuridico, appartenente al Diritto soprannaturale: in virtù di questo fatto, la persona, la libertà essenziale dell’uomo, dimanda un rispetto infinitamente maggiore» (ibid. II, n. 788 [IV, p. 930]). 26 Cfr. C. LIERMANN, Rosminis politische Philosophie der zivilen Gesellschaft, Paderborn et al. 2004. 27 Cfr. H. ILTING, Rechtsphilosophie als Phänomenologie des Bewußtseins der


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famigliare è sempre una forma insufficiente di riconoscimento il quale avviene per la prima volta in maniera autentica nella società civile dove però, in quanto riconoscimento della persona come bourgeois e quindi come singolo possessore, ancora non raggiunge la vera affermazione della libertà che non può mai avvenire tramite la concorrenza del mercato ma soltanto nel riconoscimento di ogni persona come citoyen, come soggetto di diritti all’interno dell’eticità dello Stato di diritto28. Mentre, infatti, nell’amore famigliare, così Hegel, manca la dimensione della libertà che rende “vero” il riconoscimento tra persone, queste vengono affermate, nella loro piena dignità e libertà, nello Stato di diritto: in questo modo per Hegel la persona si realizza come bourgeois e citoyen. Rispetto a questa concezione di Hegel, si evince come Rosmini, nel suo costituzionalismo, afferma pure l’importanza dello Stato di diritto, ma lo attribuisce non all’individuo kantiano o postkantiano, ma alla persona sussistente nella natura della sua corporeità che è riferita all’essere nella sua dimensione assoluta, perché ne partecipa nel fondamento della sua natura29: la persona è costituita nell’intuizione dell’idea dell’essere e ciò costituisce la sua dignità naturale30. Se la persona, in maniera ontologica, è indirizzata ad un perfezionamento che oltrepassa ciò che politicamente o socialmente risulta organizzabile, allora lo Stato di diritto può avere soltanto funzione sussidiaria, non costitutiva, della dignità della persona. Sta in questo la differenza fondamentale tra Rosmini ed Hegel. Considerando questa riflessione rosminiana alla luce degli sviluppi della Dottrina sociale della Chiesa dalla Rerum novarum fino alla Mater Freiheit, in D. HENRICH – H.-P. HORSTMANN (edd.), Die Theorie der Rechtsformen und ihre Logik (Veröffentlichungen der Internationalen Hegel-Vereinigung, 11), Stuttgart 1982, 225-254. 28 Cfr. G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del Diritto, cit., § 260; cfr. M. THEUNISSEN, Die verdrängte Intersubjektivität in Hegels Philosophie des Rechts, in D. HENRICH – H.-P. HORSTMANN (edd.), Die Theorie der Rechtsformen und ihre Logik, cit., 317-381, qui 336. 29 A. ROSMINI, Antropologia in servizio della scienza morale, a c. di F. EVAIN (Ediz. Crit., 24), Roma-Stresa 1981, n. 906. 30 «Niuno ha diritto di comandare a quello che sta ai comandi dell’infinito» (FD I, n. 52 [I, p. 192]); cfr. A. ROSMINI, Filosofia della politica, a cura di G. Marconi (Ediz. crit., 37), Roma-Stresa 1978, p. 137.


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et magistra, e quindi con la riflessione neoscolastica della seconda metà dell’800 e dei primi decenni del ’900, si può constatare subito che in Rosmini non si trova un pensiero social-solidaristico, come esso caratterizza la riflessione gesuitica in quel periodo, ma una metafisica della libertà della persona. Questa si esprime proprio nel suo giudizio ambivalente sul “contrattualismo”: come gli autori neoscolastici, anch’egli lo critica perché la società non è un “costrutto” dell’arbitrio umano ma deriva dalla struttura della libertà umana stessa. Allo stesso momento però Rosmini riconosce anche la necessità del contratto come strumento metodologico per affermare la liberà originaria (negativa) della persona che nello Stato di diritto non deve mai essere sacrificata e in questo sta il momento condiviso con Hegel. Ma mentre Rosmini la afferma sempre nella sua dimensione individuale, Hegel la vede realizzata (e quindi “conservata”) soltanto nello Stato. I neotomisti, Rosmini ed Hegel convergono quindi nell’idea anticontrattualistica, ma per motivi molto diversi in ognuno dei tre casi. Contrariamente ai primi, Rosmini ed Hegel distinguono tra “libertà” ed “arbitrio” e, nell’interesse di declinare la libertà nelle sue dimensioni etiche, sia Rosmini che Hegel concepiscono una comprensione di costituzione non contrattualistica. In questa dimensione si esprime la loro profonda convinzione che la libertà se rimane individualistica non si libera dall’astrattismo e non genera strutture di doveri sociali dove soltanto può giungere al suo compimento31. L’uomo diventa concreto nell’intersoggettività e la libertà umana è quella realtà che fonda in maniera originale questa dimensione. Senz’altro, dal punto di vista della “scuola”, un tale ordinamento intersoggettivo sottrae ai doveri naturali dell’uomo la loro base ontologica e sembra di esaltare la soggettività moderna. Ma in realtà sia Rosmini che Hegel intendono rifondare, con la categoria del riconoscimento, la

31 «Per un soggetto che si autodetermina “moralmente” sono possibili determinati obblighi in riferimento ad una comunità particolare di uomini che assicura la libertà degli individui, garantendo contemporaneamente la propria libertà dai loro scopi casuali» (L. SIEP, Was heißt: “Aufhebung der Moralität in Sittlichkeit” in Hegels Rechtsphilosophie?, in Hegel-Studien 17 [1982] 75-96, qui 94).


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dimensione dei doveri nel diritto razionale moderno dopo Kant, e quindi la classica esigenza del “diritto naturale”32. Questa prospettiva sta alla base dell’eticità hegeliana, dove l’uomo nella famiglia, nella società civile e nello Stato non affronta dei “doveri” nel senso morale classico (la moralità come secondo momento è superato nell’eticità), ma in quanto strutture non-arbitrarie di libertà: il suo diritto liberale è sempre contestualizzato in un ambito di doveri che in questo caso sono associati con i doveri “pubblici” della famiglia, della società e dello Stato. Per Rosmini, al contrario, questi doveri rimangono all’interno della perfezione morale interiore della persona per cui nemmeno lo Stato o la società ne potrebbero giudicare. Infatti, e contrariamente ad Hegel, Rosmini può affermare l’importanza fondamentale della libertà di coscienza33. Nonostante questa “interiorità” — che Hegel doveva superare nello Stato perché gli appariva un “soggettivismo” morale — Rosmini non cade in quel kantismo bersaglio della critica hegeliana. Ora, è proprio da considerare che questo kantismo nasce dall’interesse di lasciare ad ogni persona la responsabilità su come realizzare la propria felicità. Né Hegel né Rosmini negano questo acquisto, stabilendo per la sfera pubblica non un “bene” sostanzialistico nel senso greco, ma una metafisica della libertà che garantisce il necessario riconoscimento affinché questa felicità si possa realizzare. E nell’ontologia di Rosmini, tale felicità si realizza nel perfezionamento della persona e della natura umana. I mancanti doveri morali e giuridici di Kant, Rosmini li fonda non come Hegel nell’eticità dello Stato, ma nella relazione intersoggettiva34: con l’altro assoluto e con l’altra persona. In questo senso, non è a livello politico dell’istituzione che viene realizzata la libertà e la sua dimensione morale, ma nella persona, che in quanto persona individuale funge come criterio morale dell’istituzione35. E proprio 32

Cfr. FD I, p. 166; cfr. II, n. 562 (IV, pp. 862s.). Cfr. G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del Diritto, cit., § 139; Rosmini, FD I, p. 185. 34 In questo senso, Rosmini chiama il principio giuridico di Kant «principio “della coesistenza”» (FD I, n. 255, nota [I, p. 244, nota]; cfr. ibid. I, p. 160). 35 «Il diritto secondo Kant è l’ordine che anche un popolo di demoni avrebbe: il diritto pura opera di ragione […]. Il diritto secondo Hegel è in sostanza la storia, e la 33


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questo argomento che Rosmini elabora nella Filosofia del diritto e che non troviamo nel pensiero cattolico, con questa coerenza e sistematicità, in tutto l’Ottocento. Contrariamente a Kant, Rosmini non riduce il riconoscimento a riconoscimento giuridico (limitandolo alla sfera della limitazione esteriore della libertà), e contrariamente a Hegel non lo identifica nelle istituzioni dell’eticità (privando la persona della sua dimensione di essere fine della eticità), ma lo situa nelle relazioni intersoggettive che diventano normative per qualsiasi istituzione sociale. Il perfezionamento della persona è inserita in un contesto di riconoscimento, costituito dell’assoluto e dell’altra persona. Ciò presuppone, come afferma anche la Caritas in veritate, una base ontologicamente forte in senso personalistico, che Rosmini ha elaborato nella Teosofia. 4. IL LIBERALISMO SUI GENERIS DI ROSMINI Rosmini, negli anni ’40 dell’800, individuava con estrema sensibilità il rischio dell’inglobamento da parte della dimensione politica nei confronti dell’individuo: infatti, del socialismo e del comunismo già nel 1847 analizzava ciò che sarebbe stata poi la critica fondamentale del liberalismo di un secolo dopo, ossia l’utopismo che sopprime le dimensioni fondamentali di libertà36. Proprio affrontando questo rischio, Rosmini doveva, sulla base del suo concetto di libertà morale, impedire innanzitutto di politicizzare l’intersoggettività. Le relazioni interpersonali stanno, per il Roveretano, nella dimensione del perfezionamento della persona, in cui la libertà non è pensata a partire dalla sua astrazione individuale, ma come realizzazione della persona forza che personifica la storia, lo Stato. Il diritto secondo Rosmini è l’individuo in quanto vive nelle sue innumerevoli forme in tutte le infinite apprensioni dell’essere la sua vita personale. E cioè solo per Rosmini il diritto è libertà» (G. Capograssi, Il diritto secondo Rosmini, in id., Opere, vol. 4, Milano 1959, 321-353, qui 349s.; cfr. anche G. CAMPANINI, Rosmini e la modernità. La Filosofia del diritto 150 anni dopo, in Ius 40 [1993] 57-69). 36 Cfr. W. CALIGIURI, Utopismo e utopia nel pensiero storico-politico di Rosmini, in S. SPIRI (ed.), Rosmini, Gioberti e Gustavo di Cavour. Cristianesimo, filosofia e politica nel Risorgimento, cit., II, 319-368.


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umana, che è realizzazione della libertà morale, resa possibile dall’intuizione dell’idea dell’essere come primum ontologicum. Per Rosmini, il costituzionalismo deve basarsi sulla definizione della persona come diritto sussistente e riconoscerla nella sua aprioricità al politico: affermare la persona come diritto ontologico non significa basare la costituzione sull’individualismo metodologico ma di concepirla come conditio sine qua non del riconoscimento del soggetto nella sua libertà morale, cioè nella realizzazione della propria struttura metafisica. In questo senso, Rosmini introduce la giustizia sociale non come “virtù dello Stato”, inteso nel senso di una “virtù redistributiva”37, ma come esigenza metafisica del riconoscimento della libertà: ossia di assicurare, nelle disuguaglianze relazionali in cui si realizza la libertà, l’universalità della dignità umana. Rosmini afferma centralmente che esiste un duplice livello di universalità, che riguarda, da un lato, l’individualità astratta della persona, e dall’altro quella delle «infinite particolarità»38, attualizzando in chiave personalistica la classica distinzione tra giustizia commutativa e giustizia distributiva. La “ubbidienza come responsabilità” nei confronti delle norme sociali, per esprimerla con la terminologia di Korff/Baumgartner e nel senso del Concilio Vaticano II, si realizza quindi sia come diritto che come dovere, nei confronti della libertà individuale e del riconoscimento sociale. Quest’ultima dimensione attua, a ben vedere, la vera fondazione morale del diritto in Rosmini, in quanto è stata elaborata nei Principi della scienza morale, laddove il riconoscimento è il primo momento della morale dovuta alla persona dell’altro. Questo è anche il fondamento della morale perché leciti, come sottolinea Rosmini contro Kant, sono solo gli atti corrispondenti all’ordine morale 37

Se Hayek, infatti, si rivolge contro un tale fraintendimento del concetto di giustizia sociale, allora Rosmini corrisponderebbe pienamente con questa critica. Contrariamente al liberale austriaco, Rosmini non scarta il concetto di giustizia sociale ma lo recupera nel suo senso giuridico-costituzionale, come sarà dimostrato più avanti; cfr. S. MUSCOLINO, Persona e mercato. I liberalismi di Rosmini e Hayek a confronto (La Rosminiana, 2), Soveria Mannelli 2010. 38 «[N]oi uomini siamo vestiti d’infinite particolarità, che non ispettano all’umana essenza, e che tuttavia danno il fondamento a diverse relazioni che passano fra di noi, a diversi nostri diritti» (FD I, p. 164).


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(«protetti dalla legge morale»). Di conseguenza, Rosmini non concepisce la morale come la “negazione” del diritto nel senso che gli contrappone l’interiorità della soggettività (ciò viene affermato da Kant ed Hegel), ma come il suo fondamento: ossia in quanto pensata come realizzazione della libertà soggettiva attraverso il riconoscimento. Ciò esige una morale capace di includere nell’esplicitazione fondamentale della libertà l’altro — proprio quell’istanza che nel pensiero di Kant ed Hegel viene a mancare nel suo senso originale. Mentre la libertà riconosce l’altro restando in se stessa — e ciò diventa la struttura del diritto —, l’amore porta all’autoaffermazione dell’io soltanto nell’altro perché riconosce solo nell’altro se stesso — ma tale prospettiva non è esigibile dal diritto e infatti supera la struttura fondamentale dell’inoggettivazione. Ma solo nell’amore l’attualità della libertà raggiunge il suo perfezionamento: «se l’amante è oggimai l’amato, il subietto medesimo dee sussistere come per sé amato, che è l’ultima concepibile attualità, e perfetta quiete, dell’essere»39. Questa è autodeterminazione della ragione che non è la necessità del concetto ma l’autodonazione nei confronti di quell’alterità che grazie all’intuizione dell’idea dell’essere può essere riconosciuta ed amata e quindi essere momento indispensabile dell’autodeterminazione del soggetto all’interno dell’ordine dell’essere. Soltanto in questo rapporto tra soggetto e soggetto nell’ordine dell’essere, secondo Rosmini, la libertà, e in questo ordine la autodeterminazione, si deve fondare40. La società è rigorosamente basata sulla libera volontà della persona, come sottolinea Rosmini sia nella Filosofia del diritto sia nella Filosofia della politica. Ma ciò non significa che sarebbe una realizzazione secondaria o “arbitraria” della stessa: infatti, Rosmini afferma che la società civile è espressione della libertà della persona ma non 39

A. ROSMINI, Teosofia, cit., n. 1032. «Libertà vera può esistere soltanto se l’ultimo motivo del comportamento è quello di agire secondo la ragione — e cioè: se è possibile una determinazione autonoma e allo stesso tempo razionale di fini ultimi. Da ciò risulta che la libertà nel suo senso supremo e più proprio presuppone un’autonomia del concetto e cioè una fondazione ultima del pensiero. Un agire in questo senso libero è quindi massimamente prevedibile — è l’unità di libertà e necessità» (V. HÖSLE, Hegels System. Der Idealismus der Subjektivität und das Problem der Intersubjektivität, Hamburg 21998, 489). 40


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del suo arbitrio41. In questo modo, non si deve considerarla separatamente dalle altre due società, e così si ricollega anche ad un ragionamento fondamentale che Rosmini svolge all’interno della “società teocratica”: mentre la grazia divina apre senz’altro una dimensione perfezionatrice della persona che la colloca in una relazione non politicizzabile, ogni uomo, già per il fatto di essere creato è costituito in maniera iniziale e atematica in tale dimensione. Così tutto il genere umano è interpretato come il primo abbozzo di una società universale, proprio in quanto fonda ogni persona come individualmente creato. In questa dimensione, individualità e universalità coincidono, ed evidentemente questa coincidenza non si lascia realizzare in nessun tipo di società che si realizza necessariamente in strutture concrete e categoriali. Ciò vale anche per la Chiesa in quanto corpo sociale, anche se essa realizza attraverso una società visibile la sua intima costituzione soprannaturale. In quanto tale, nella sua visibilità la Chiesa è segno di universalità che per definizione abbraccia tutta l’umanità. Così, per Rosmini, la dimensione universale non si sottrae alla concretezza della natura umana, ma ne costituisce il suo orizzonte imprescindibile e di perfezionamento. Come orizzonte, quindi, la Chiesa è segno per quella società universale del genere umano che non corrisponde a nessuna società politica, ma che è espressione dell’universalità dell’humanum. Universale, per Rosmini, quindi non è una natura individualistica della persona, ma sempre la persona nella sua costitutiva relazione ad altrum la quale sussiste a priori all’altro concreto, perché è radicata nella dimensione trascendente della persona: l’intuizione dell’idea dell’essere. L’individualità per Rosmini è universale, quindi, solo se identica ad una seconda universalità ossia quella della relazione ad altri. Tale relazionalità costitutiva è l’affermazione della libertà nel riconoscimento42 che diventa quindi a maggior ragione il ragionamento sistematico della fondazione della società civile. Essa è determinata dalla libertà individuale, ma quest’ultima è sempre rela-

41

Cfr. A. ROSMINI, Filosofia della politica, cit., 386. Cfr. M. KRIENKE, “Ama gli esseri tutti”. Il problema della fondazione dell’etica in Antonio Rosmini, in Rivista teologica di Lugano 14 (2009) 151-176. 42


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zione, e quindi la libertà morale di ogni persona cerca l’affermazione della libertà come essa avviene in ogni società come sua base etica43. Ciò che distingue la concezione rosminiana da Hegel è che questa seconda universalità non necessita di per sé la dimensione dello Stato per poter essere affermata44, in quanto trova già la sua base ontologica nella società del genere umano, e questa è, nella sua prospettiva di perfezionamento, non indirizzata allo Stato, quindi alla dimensione politica, ma alla Chiesa e cioè alla dimensione morale e pre-politica. Sta in questo il liberalismo sui generis di Rosmini. In questo modo, il Roveretano propone una riflessione moderna, in chiave personalistica e non istituzionale, su quel dualismo costitutivo della tradizione cristiana che è la dialettica tra “impero” ed “ecclesia”. Questo dualismo, in altre parole, è affermato come garanzia di libertà anche per la società moderna, solo che non viene più realizzato nella dualità tra Papa ed Imperatore, ma tra “società teocratica” e “società civile”, e quindi sulla base del costituzionalismo. Rosmini teorizza, in queste dinamiche della relazionalità della persona, una vera e propria alternativa sia alla teoresi solidaristica del diritto naturale neoscolastico sia a quella idealistica e neoidealistica che da Fichte ad Hegel sfocia nella dottrina dello Stato, anticipando del resto, riguardo alla Dottrina sociale della Chiesa, le intuizioni fondamentali del Concilio e ancora di più della recente Caritas in veritate. Infatti c’è chi vede nella pretesa di “vedere l’uomo non solo come sostanza ma anche come relazione”, la necessità di sottoporre l’intero ambito sociale sotto questa relazione e di istallare un’economia civile che mette in crisi le dimensioni liberali che sono un effetto senz’altro positivo della tradizione smithiana. Rosmini, al contrario, incoraggiava di “studiare gli inglesi”, basando la società civile sul valore centrale della persona individuale, senza però ridurre le istituzioni del costituzionalismo ad un mero individualismo metodologico, anzi riconoscendo proprio a questo livello l’importanza delle istituzioni di riconoscimento delle strutture di libertà. L’importanza di questa 43 Questo tipo di “società” è stato chiamato dai solidaristi la «solidarietà generale umana»; cfr. H. PESCH, Lehrbuch der Nationalökonomie, II, 219-224. 44 Cfr. G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del Diritto, cit., § 30.


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proposta rosminiana, soprattutto se si considera la riflessione cattolica sullo Stato moderno e il costituzionalismo fino al Concilio Vaticano II, deve ancora essere valorizzata adeguatamente. Un primo aspetto di questa valorizzazione consiste nel paragonare Rosmini ad uno dei padri del pensiero neoscolastico, Luigi Taparelli. 5. ROSMINI E TAPARELLI È stato considerato come per Rosmini la struttura sussidiaria della società non è semplicemente un principio applicato alla struttura organica e corporativistica del corpo sociale ma, al contrario, grazie ad esso la società è pensata radicalmente a partire dalla persona e dalla libertà. Risiede qui l’anticipazione del Concilio, in quanto il solidarismo, erede del diritto naturale neoscolastico, nel suo rifiuto del liberalismo moderno non è ancorato nella persona. Ciò deriva in maniera palese da un esame degli autori del solidarismo che infine hanno steso la Quadragesimo anno e che in ultima analisi si rifanno, tra l’altro, a Taparelli, uno dei “padri” della neoscolastica (anche se conosce poco il testo dell’Aquinate e lo cita piuttosto per confermare le sue tesi piuttosto che per riproporlo come autore principale dell’800). In questo senso, Taparelli risulta più un autore del suo tempo che un pensatore rivolto al medioevo, e infatti nel suo Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto cerca di derivare il diritto naturale non da una determinazione metafisica del bonum commune, come avvenne nella tradizione scolastica medievale, ma dalla considerazione della natura umana individuale45. Siccome proprio per questo approccio alcuni ritengono Taparelli il grande anticipatore del Concilio e, caso ha 45

Cfr. J. MESSNER, Die Erfahrung in der Naturrechtslehre von Taparelli d’Azeglio, in Miscellana Taparelli, Roma 1964, 299-324, soprattutto 307-310. Il gesuita con cui Rosmini intrattenne un breve scambio epistolario alla fine degli anni ‘20 sul problema teoretico dell’ilemorfismo e sulla riforma degli studi ecclesiastici (cfr. E. DI CARLO, Un brano di lettera inedito di A. Rosmini al P. L. Tapparelli [!] d’Azeglio, in Rivista Rosminiana 18 [1924] 65-71), ha pubblicato questa opera in due volumi nel 1843 a Palermo, mentre Rosmini, nello stesso periodo, ossia tra 1841 e 1843, pubblicò la Filosofia del diritto a Milano in due volumi. Rosmini non si riferisce mai esplicitamente al Saggio teoretico, come del resto non risulta che Taparelli avesse fatto un riferimento all’opera rosminiana successivamente alla sua pubblicazione. Un paragone,


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voluto, che la sua opera apparisse contemporaneamente alla Filosofia del diritto di Rosmini46, risulta di grande interesse sistematico un paragone critico tra i due, al fine di una migliore collocazione di entrambi rispetto al Concilio Vaticano II. Evidentemente, un semplice saggio indirizzato ad evidenziare la novità e la rilevanza anticipatrice di Rosmini non è il luogo adatto per svolgere un paragone esaustivo tra due opere così articolate. Si tratta piuttosto di concentrarsi su alcuni momenti sistematicamente centrali. Questo paragone aiuta a capire innanzitutto che in Taparelli, nonostante cominci dall’esperienza individuale dell’uomo, abbiamo a che fare ancora con una concezione classica del diritto naturale che cerca di inserire nei trattati cattolici della sua epoca l’approccio dall’individuo che poi viene però integrato completamente nella nozione del bene comune, unico principio di riferimento di un diritto naturale tomistico. In questa maniera egli cerca di attualizzare la filosofia sociale cattolica dell’epoca, ritornare a San Tommaso, e presentare un’alternativa valida all’individualismo, all’utilitarismo e all’idealismo del suo tempo47. Il confronto con l’Aquinate, nel caso di Rosmini, si presenta in maniera significativamente diversa, ossia attraverso il ripensamento della sua metafisica realistica come metafisica della libertà: per questo non si tratta di introdurre Tommaso come “aggiunta” o “correzione” all’individualismo moderno, ma di ripensare il diritto moderno con una nuova riflessione sulla libertà come fondamento del diritto, quindi, non può basarsi su un lavoro esegetico che esaminerebbe i rimandi reciproci, ma dovrà instaurare un paragone sistematico. 46 Secondo Gray, Taparelli non fa riferimento a Rosmini per il decreto di Gregorio XVI che nel 1843 impose il silenzio ad entrambe le parti, quella gesuitica, e quella rosminiana, che negli anni precedenti hanno svolto una polemica ardua (cfr. C. GRAY, A. Rosmini e L. Taparelli d’Azeglio, in Rivista Rosminiana 14 [1920] 65-86, qui 66). Ciò varrebbe, di conseguenza, anche per qualsiasi riferimento mancante a Taparelli nelle opere rosminiane. Di Carlo testimonia che Taparelli ha mandato una copia della sua opera a Rosmini con una lettera d’accompagnamento che non è reperibile, mentre la risposta di Rosmini del marzo 1844 è pubblicata dallo stesso (cfr. E. DI CARLO, Un brano di lettera inedito di A. Rosmini al P. L. Tapparelli [!] d’Azeglio, cit., 68, 71). 47 Cfr. F. DIRSCH, Solidarismus und Sozialethik. Ansätze zur Neuinterpretation einer modernen Strömung der katholischen Sozialphilosophie, Berlin 2006, 232s.


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laddove Taparelli si sofferma ancora sulla riflessione sulla natura umana e la sua tendenza metafisica alla “felicità”. Questa concezione Rosmini la rielabora in confronto critico con Hegel, fino a poter distinguere tra l’aspirazione individuale alla felicità e le condizioni sociali di libertà che derivano dalla necessaria dimensione sociale di essa. Rispetto a Taparelli, il Roveretano guadagna così la possibilità di distinguere tra “moralità” e “legittimità” non soltanto per la persona in quanto individuo — e questo è possibile anche all’interno del diritto naturale premoderno — ma anche a livello delle istituzioni sociali stesse48. La nozione del bene comune di Taparelli impedisce proprio quest’ultimo passaggio, in cui consiste, però, la svolta paradigmatica del Concilio Vaticano II. Sia Rosmini che Taparelli si rivolgono, sulla scia del tomismo giuridico della modernità, contro l’individualismo e il contrattualismo moderno che nella rivoluzione francese ha festeggiato il suo trionfo decisivo. Il concetto di diritto deriva, per entrambi, dall’idea dell’ordine morale conoscibile dalla ragione umana, e quindi basato sull’idea del dovere che ad ogni individuo deriva dalla stessa istanza dell’ordine. Nonostante questi elementi in comune, la loro rispettiva definizione del diritto si distingue su un punto decisivo: laddove Taparelli parla di un ordine reale in cui la natura dell’individuo è orientato al bene e alla felicità, per Rosmini si tratta di un ordine della libertà umana, ossia, nelle parole del Roveretano, dell’ordine dell’essere morale, in cui l’orientamento al bene e alla felicità avviene per l’autodeterminazione del soggetto. Infatti, mentre in Taparelli la legge esprime l’autorità dell’azione moralmente giusta, in Rosmini essa protegge la libertà in quanto realizza l’azione moralmente giusta49. 48 Questo aspetto importante si evince dallo studio sulle Grundlinien di Hegel da parte di J. RITTER, Moralität und Sittlichkeit. Zu Hegels Auseinandersetzung mit der kantischen Ethik, in M. RIEDEL (ed.), Materialien zu Hegels Rechtsphilosophie, 2 voll., Frankfurt a. M. 1975, II, 217-244. Come riporta Gray, per Croce consisterebbe proprio in questa non-distinzione il vantaggio di Taparelli su Rosmini, affermando appunto come la posizione di Taparelli e non quella di Rosmini, «fa tutt’uno dell’Etica col Diritto» (C. GRAY, A. Rosmini e L. Taparelli d’Azeglio, cit., 67; cfr. 70). 49 Infatti, Taparelli definisce il diritto «[u]n’irrefragabile potere secondo ragione» (L. TAPARELLI, Saggio teoretico di Diritto naturale appoggiato sul fatto, 2 voll., Roma 19284 [= ST], n. 350), mentre Rosmini trova la definizione: «[i]l diritto è una podestà


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Questa variazione, per quanto sottile sembri, è però decisiva per la definizione delle posizioni teoretiche di Rosmini e di Taparelli nei confronti sia della tradizione, sia della modernità. Infatti, mentre in Taparelli la “protezione giuridica” mira all’azione reale, in Rosmini è indirizzata all’autodeterminazione del soggetto all’azione in quanto ha acquisito il titolo morale50. Questa differenza si traduce anche nel fatto che in Taparelli il diritto si rivolge all’altro e impone di rispettare la sua azione51 mentre in Rosmini il diritto si rivolge al soggetto e alla sua determinazione della libertà. Il problema dell’esperienza in Taparelli, che è la base del fatto, è proprio quella di non essere individuale bensì della natura umana, per cui non è la volontà individuale, ossia la libertà, che si esprime in essa, ma il senso comune52. Di conseguenza, il criterio etico con il quale cercano di elaborare un’idea alternativa di diritto e società, è significativamente differente: laddove Taparelli ricorre al bene comune tomistico in cui la tendenza alla felicità individuale acquisisce la sua dimensione etica, Rosmini riesce a realizzare la svolta verso la persona come diritto sussistente. Per Taparelli la struttura sociale (la realizzazione della giustizia sociale) si determina, in questo modo, a partire da un «Tutto», come egli si morale, o autorità di operare; o sia: [i]l diritto è una facoltà di operare ciò che piace, protetta dalla legge morale, che ne ingiunge ad altri il rispetto» (FD I, p. 107). 50 Gray esprime questa differenza come segue: «è vero che l’uomo tende al bene e che ciò consegue dall’esser il bene il fine della creazione, ma il bene è termine generico; in realtà l’uomo tende in modo immediato a dei beni, e questi non sono tutti della stessa natura», perché si dividono innanzitutto in «beni soggettivi e beni oggettivi» (C. GRAY, A. Rosmini e L. Taparelli d’Azeglio, cit., 69). È atto lecito e non immorale, tendere verso i primi, come sottolinea Gray con Rosmini contro Taparelli. 51 Cfr. ST nn. 342, 344. 52 «Esso [il fatto] è fatto dell’umanità in quanto coincide con il senso comune, inteso questo come sistema conoscitivo e valorativo. Il significato il fatto lo ottiene dal senso comune. Il fatto trova la sua radice e il suo presupposto nelle dimensioni e nella trama del senso comune» (G. AMBROSETTI, Diritto come potere e diritto come ordine nel pensiero del Taparelli, in Miscellana Taparelli, 1-25, qui 9). Nella nota, Ambrosetti stabilisce proprio in questo punto una comunanza con Rosmini, che senz’altro si impone ad una lettura superficiale che mette tra parentesi la dimensione fondamentale della libertà soggettiva sia nei Principi della scienza morale sia nella Filosofia del diritto e che grazie all’essere morale non “sparisce” nell’affermazione dell’ordine oggettivo (cfr. ibid., nota 15).


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esprime, ossia dall’idea sostanzialistica del bene comune, che deriva quindi, come del resto in Hegel53, da un tutto etico: anche se, contrariamente ad Hegel, esso non viene identificato con lo Stato perché ha una dimensione metafisica che oltrepassa la sfera della libertà individuale e perciò anche della politica. Se Taparelli fa discendere quindi da questo “Tutto” il corpo sociale (con le sue corporazioni) che inserisce la persona nell’ordine solidaristico, egli rimane senz’altro critico verso un’identificazione della prospettiva finalistica della persona con il politico, fosse anche lo Stato di diritto. Ogni diritto, infatti, per il diritto naturale classico, sta sotto la riserva di questo bene comune, metafisicamente determinabile nella sua esplicitazione morale. Per questo motivo, la tradizione del bene comune è avversa ad un personalismo basato sull’affermazione della libertà e dei diritti fondamentali, e quindi dimostra ‘paradossalmente’ molti tratti in comune con Hegel. Questa coincidenza evidentemente non intenzionale è risultato dell’identica spinta critica contro il liberalismo moderno e la sua declinazione della libertà come libertà soggettiva. Mentre Hegel cerca di superare quest’istanza kantiana tramite una reintegrazione dell’individuo moderno all’interno del politico aristotelico, ripensando quest’ultimo secondo il principio di libertà soggettiva moderna, Taparelli la nega in qualsiasi sua espressione riportando l’etico aristotelico-tomista ad una considerazione della natura umana che non deve tenere conto della libertà soggettiva54. Rosmini non sceglie né l’una né 53 «[L]a filosofia di Hegel non conosce nessun concetto espresso di intersoggettività; le sue categorie fondamentali sono sostanza e soggetto. Al fine di pensare il concetto di eticità che supera la soggettività della moralità, Hegel deve ricorrere alla categoria della sostanza che nella sua essenza sta ancora più in profondità che non la soggettività» (V. HÖSLE, Hegels System. Der Idealismus der Subjektivität und das Problem der Intersubjektivität, cit., 473s.). 54 Nella luce di questa costatazione risultano incomprensibili quelle interpretazioni di Taparelli che gli attestano un individualismo moderno come novità specifica del suo pensiero. Così innanzitutto l’indagine articolata di Dirsch sul solidarismo e i suoi anticipatori. Per l’autore l’indicatore per una «visione sul mondo individualistica» è la differenziazione tra due significati di «bene comune», uno individuale che si riferisce all’essere e ai valori della persona, e uno sociale che si riferisce alle condizioni sociali per la realizzazione e per il miglioramento di questa condizione individuale (cfr. F. DIRSCH, Solidarismus und Sozialethik. Ansätze zur Neuinterpretation einer modernen Strömung der katholischen Sozialphilosophie, cit., 230s.). Queste due dimensioni, però,


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l’altra via affermando la libertà soggettiva nella persona da determinare, quindi, come libertà morale55. Ciò gli consente, contrariamente a Hegel e Taparelli, di riflettere in maniera positiva sul liberalismo, integrandolo in una metafisica della persona. Mentre per Hegel e Taparelli la libertà ha il suo senso solo all’interno dell’ordine corporativistico, per Rosmini essa è situata nella sfera extra-sociale della persona. In questo sta, difatti, la differenza fondamentale di Rosmini dalle istanze culturali principali del suo tempo. Questa dimensione extrasociale della liberà morale della persona non è affermata da Taparelli per il quale, nel momento in cui i corpi morali si distruggono, restano solo atomi dispersi, incapaci di relazioni ‘autonome’56. In Rosmini, invece, vengono piuttosto postulati nel testo di Taparelli senza apportare dei riferimenti, e Dirsch si riferisce di fatti soltanto alla critica domenicana alla posizione di Taparelli, specificando poi che il nostro pensatore non può essere certamente visto come un esponente del giusnaturalismo razionale moderno. Con quest’ultimo, già la scolastica spagnola condivideva la determinazione razionale della natura umana e l’importanza del contratto che sarebbe caratterizzata da un «elemento autonomo-individualistico» (ibid., 231). Ma Dirsch ammette che sarebbe difficile provare che Taparelli si rifà al giusnaturalismo moderno in quanto dimostrerebbe piuttosto una posizione critica nei suoi confronti; inoltre nega anche qualsiasi derivazione dagli scolastici spagnoli: «[e]gli [Taparelli] interpretò il diritto naturale in maniera originale senza riprendere elementi fondamentali dalla tradizione strettamente tomistica. In questo punto si lasciano trovare tanti punti in comune con Francesco di Suárez» (ibid., 232). Questa posizione, comunemente condivisa, è stata fondamentalmente determinata dall’interpretazione del domenicano Arthur-Friedolin Utz che attribuisce a Taparelli il punto di partenza dai diritti individuali dell’uomo (cfr. A.F. UTZ, Ethische und soziale Existenz. Gesammelte Aufsätze aus Ethik und Sozialphilosophie 1970–1983, a cura di H.B. Streithofen, Walberberg 1983, 337s.). Così anche Küppers sottolinea che la visione della giustizia sociale in Taparelli si contraddistinguerebbe proprio per il fatto che egli partirebbe dai «diritti dei singoli» per integrarli poi nel «bene comune» (A. KÜPPERS, Gerechtigkeit in der Marktwirtschaft, in A. Rauscher [ed.], Das Ringen um die Soziale Marktwirtschaft, Köln 2010, 85-103, qui 89). Invece la nostra analisi porta a costatare proprio il contrario, ossia che i diritti individuali si trovano collocati ab origine nel bene comune. 55 Per Rosmini, come sottolinea Gray, «il diritto s’aggira nella sfera del bene soggettivo lecito, ossia del bene soggettivo in quanto non è posto in contrasto col bene oggettivo» (C. GRAY, A. Rosmini e L. Taparelli d’Azeglio, cit., 71). Un’azione non deve essere sempre dedotta dalla morale, perché basta che non sia contraria alla morale, e questo significa essere protetta dalla legge morale, come dice Rosmini. 56 Cfr. L. TAPARELLI, La libertà in economia, in La Civiltà Cattolica, IV, 1860, VIIIIX, 33-53, 159-174, 414-433, qui VIII, 34.


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oltre che intere realtà personali, restano anche le dimensioni sociali della società teocratica e di quella domestica. Queste ultime due, invece, in Hegel non potrebbero essere espressioni vere ed autentiche della persona, al di fuori dello Stato di diritto57. Anche se Taparelli sottolinea senz’altro il fatto che la persona è il valore morale fondamentale da rispettare da parte dello Stato, non è a livello di mere costatazioni che la si assicura istituzionalmente. Ciò che manca in lui è la declinazione sussidiaria dello Stato rispetto alla persona e non rispetto al bene comune. Mentre in quest’ultimo caso esso non si relativizza nei confronti della persona, ma rischia addirittura di guadagnare la priorità in quanto realizzazione superiore dello stesso58, solo l’identificazione del bene comune come dimensione finalistica della persona e quindi attraverso le due società principali rosminiane afferma anche istituzionalmente la dignità dell’individuo. Per Taparelli, come del resto in Hegel, rimane decisivo che nella tradizione aristotelica il bene dell’unità più grande e più completa è maggiore a quello dell’unità più piccola e lo legittima. Ed infatti, la propria teoria, Taparelli la riassume «in pochi tratti» in questo modo: «[e]sistenza di associazioni d’uomini uniti dalla natura, uguali fra di loro nell’essenza, disuguali nelle persone, liberi nel volere, epperò bisognosi di un principio di unità o naturale o almeno artificiale: ecco i precipui fatti, a cui abbiamo applicato l’universal principio del dovere. I risultamenti di 57 A Luf sembra assurdo «qualificare per questo motivo il sistema di Hegel come dispotico, totalitario o reazionario. Nonostante tutta la critica ad un liberalismo “atomistico” e il rifiuto dei principi della rivoluzione […] come astrazioni, la sua teoria si trova sul suolo della statualità moderna, il cui compito elementare è di realizzare la libertà. Ma nel contesto del suo concetto risulta difficile risolvere il caso della differenza tra particolarità e universalità, e la discrepanza tra pretesa giuridico-politica e l’affermazione individuale di libertà in maniera diversa che non a scapito della libertà individuale. Nella luce di un concetto di Stato “organico” Hegel non prevede né principi democratici né garanzie di diritti fondamentali» (G. LUF, Menschenwürde in der Philosophie des Deutschen Idealismus, in K. SEELMANN [ed.], Menschenwürde als Rechtsbegriff [Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie, Beiheft 101], Wiesbaden 2004, 82-92, qui 91). 58 Afferma Nell Breuning ancora nel 1948 che nei confronti delle sfide etiche, «fallisce» lo Stato “neutrale” mentre lo «Stato “oggettivo” le affronta e le risolve» (O. v. NELL-BREUNING, Wörterbuch der Politik, vol. II. Zur christlichen Staatslehre, Freiburg 1948, coll. 22s.).


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tale applicazione sono stati che l’uomo debbe esser governato, e così è di fatto; che chi governa è più forte, e insieme ha l’autorità, ed è così; che i sudditi non sono sovrani, ed è così; che la monarchia non è repubblica, nè la repubblica monarchia, ed è così…»59. Rosmini invece pensa il bene comune politico a partire dalla cospirazione delle volontà singolari e quindi radicalmente a partire dal principio di libertà individuale. Nel pensiero cattolico ed idealistico del suo periodo questo approccio doveva sembrare radicalmente liberale ed individualistico, ma una tale accusa ignora la metafisica della persona del Roveretano delineata in precedenza. Ciò risulta dal semplice fatto che una concezione scolastica di diritto naturale non dispone di un chiaro mezzo per distinguere la dimensione morale da quella politica: il concetto del bene comune non offre un criterio chiaro a tal fine. Perciò un’affermazione giuridico-politica della persona deve risultare in linea di principio in conflitto con il bene comune60. Rosmini realizza quindi un accordo che era fuori dalla portata teoretica sia dell’idealismo sia del neotomismo della sua epoca, ossia l’accordo delle libertà secondo il principio extra-sociale della natura umana. Questo in Rosmini è il risultato del principio di persona: il dovere morale di riconoscimento elevato dalla sua determinazione morale nell’azione singolare-reale alla sua declinazione come libertà morale, e quindi in quanto si realizza come determinazione — cioè affermazione e non limitazione — della libertà soggettiva61. Il diritto, per Rosmini, è quindi questo ripensamento della morale nel riconoscimento come autodeterminazione della libertà soggettiva62. Per questo motivo, Rosmini può identificare la persona con il diritto sussistente: non si tratta quindi di una definizione “oggettiva” ma “soggettiva” della 59

ST n. 592. Infatti, proprio questo conflitto sarà superato soltanto a partire dalla Gaudium et spes, nn. 25s. 61 «Nella pratica, cioè negli atti moralmente buoni, la ragione della dignità e merito intrinseco di questi atti è parimente duplice: cioè questi atti sono cosí nobili ed eccellenti, perché procedono da un essere intelligente, e terminano pure a favore di un essere intelligente; giacché, come abbiamo poco fa mostrato, ogni atto morale, acciocché sia veramente tale, dee essere un amore che abbia per suo termine qualche essere dotato d’intelligenza» (A. ROSMINI, Principi della scienza morale, cit., pp. 115s.). 62 FD I, p. 118; cfr. pp. 125-128. 60


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libertà (a partire dal Nuovo saggio “sussistenza” indica la dimensione reale e quindi “soggettiva” dell’essere, mentre “esistenza” definisce quella “oggettiva” ed ideale), e in questo modo la definizione rosminiana non viene intesa nella sua sistematica più profonda se non nella tradizione moderna a partire da Kant ed Hegel. Proprio per questo motivo, l’interesse soggettivo, come movente centrale della società borghese moderna, può essere accolto positivamente all’interno del diritto — e anche in questo aspetto Rosmini dimostra più vicinanza ad Hegel che non a Taparelli. In Taparelli, infatti, l’interesse soggettivo è situato ad un livello inferiore alla natura razionale e non viene visto all’interno della dinamica specifica umana di realizzazione di libertà63. L’insufficiente riflessione soggettiva sul diritto in Taparelli si dimostra palesemente anche nella riflessione sulla libertà delle associazioni quali elementi basali del corporativismo: egli non declina la libertà delle associazioni come diritto individuale-soggettivo, ma come diritto corporativistico, ossia come caratteristico delle associazioni stesse nei confronti delle altre istanze sociali64. In questo modo egli assicura senz’altro la precedenza del dovere (la concretizzazione del bene comune operata dall’associazione) al diritto soggettivo ma non media questo rapporto nella persona, ma al livello sovraindividuale del bene comune e dell’ordinamento corporativistico come prima espressione dello stesso. Contrariamente a questa determinazione del diritto “dall’alto”, Hegel e Rosmini lo concepiscono radicalmente a partire dalla persona. Taparelli parte, a rigore di termini, appunto dalle associazioni e non dalla persona: esse sono per Taparelli corpi morali da contrapporre all’economia liberale65. Rosmini invece pensa la libertà della società moderna senz’altro come affermazione della creatività e responsabilità del singolo, della libertà imprenditoriale e di quella associativa delle persone, affermando pienamente la dimensione della «legittima autonomia delle realtà terrene», formulata dalla Gaudium 63 Cfr. T.C. BEHR, Luigi Taparelli’s Natural Law Approach to Social Economics, in Journal des Economistes et des Etudes Humaines 13 (2003) 225-246, qui 235. 64 Cfr. T.C. BEHR, Luigi Taparelli and a Catholic Economics, in Journal of Markets & Morality 14 (2011) 607-611, qui 609s. 65 Cfr. L. TAPARELLI, I corpi morali sotto l’influenza del teorema della libertà economica, in La Civiltà Cattolica IV, 1859-1860, VIII, 669-711; IX, 257-273.


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et spes 36. Questa prima conseguenza del personalismo del Concilio può essere riconosciuta quindi senz’altro come già pienamente realizzata in Rosmini. Mentre Taparelli nega una tale autonomia nel suo principio, Hegel non la può riconoscere come fine, il quale può essere trovato solo nello Stato. Rosmini, al contrario, concentra la dimensione morale sulla persona, sulle associazioni religiose e sulle famiglie, ancora prima di parlare di ulteriori associazioni, le quali sono poi collocate nella società che nasce proprio dalla libertà che risulta dall’affermazione della persona e delle prime due società66. Se Taparelli interpreta la libertà soltanto all’interno delle associazioni e non come originalmente radicata nel soggetto, non stupisce che anche quelli che oggi sono i due principi dell’etica sociale cristiana che derivano direttamente dalla persona, ossia solidarietà e sussidiarietà, non sono fondate a loro volta sul principio di persona ma sono declinate in vista delle associazioni67. Al di fuori dell’ordinamento corporativistico non si realizza né solidarietà né sussidiarietà, mentre per Rosmini essi sono le prime concretizzazioni della persona stessa: la solidarietà deriva dal riconoscimento morale tra le persone, e la sussidiarietà è la pretesa della precedenza della persona nei confronti dello Stato. 6. GIUSTIZIA SOCIALE E SUSSIDIARIETÀ La definizione di giustizia sociale come determina fino ad oggi la riflessione etico-sociale della Dottrina sociale della Chiesa si basa sui presupposti di colui che usò per la prima volta questo concetto, ossia Taparelli: «Social justice […] refers to an equilibrium in the social order, between individuals and associations at various levels, one 66 Solo così Rosmini riesce ad affermare la persona sia come principio sia come fine di tutte le istituzioni sociali, laddove Kant salva la prima dimensione a scapito della seconda, ed Hegel recupera la seconda “togliendo” la prima; cfr. P. PIOVANI, Hegel nella filosofia del diritto di Rosmini, in C. FURNO (ed.), Scritti giuridici in memoria di Piero Calamandrei, vol. 1. Dottrine filosofiche e generali del diritto, Padova 1958, 411-438, qui 420. 67 Behr riassume in una formula esatta la comprensione di Taparelli: «La necessità e il diritto culminano nell’obbligo morale di associarsi; l’obbligo dell’associazione con gli altri è indirizzato al perfezionamento del bene comune umano» (T.C. BEHR, Luigi Taparelli D’Azeglio, S.J. (1793–1862) and the Development of Scholastic Natural-Law


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which is appropriate to human nature, one which maximizes human freedom to associate (solidarity) in the pursuit of private goods, while minimizing interference in the direction of those private activities (subsidiarity) to the extent required by the common good»68. Questa definizione tecnica potrebbe senz’altro valere anche per Rosmini e in effetti non sottolinea le specificità della concezione di Taparelli. Senz’altro l’innovazione di Taparelli consiste nel non aver ridotto il significato di giustizia sociale alla mera giustizia legale tommasiana e all’idea di dedurre apriori le norme del corpo sociale. Contrariamente a un tale fraintendimento neoscolastico, la dimensione degli individui e l’interazione dei corpi sociali vengono compresi da Taparelli nella loro dinamica originale69. Ciononostante, la giustizia sociale non è pensata a partire dalla libertà individuale e quindi dai diritti soggettivi della persona, ma diventa sinonimo di “bene comune” nel senso dell’ordinamento sociale tra individui e società nel loro plurale. Rosmini, invece, concepisce la giustizia sociale come criterio etico di un ordinamento costituzionale basato sui diritti soggettivi e quindi affronta pienamente la problematica moderna tra individuo e Stato. Per tale motivo, la concezione rosminiana è nettamente liberale, mentre quella di Taparelli la si può definire così soltanto in seconda istanza in quanto deduce l’ordinamento sociale dalla natura umana e non dalla persona nella sua libertà individuale. Di conseguenza, e contrariamente a Taparelli, Rosmini assegna senz’altro una dimensione real-politica allo Stato e al potere politico, riguardo all’esigenza di ordinare tutte le forze verso una finalità Thought As a Science of Society and Politics, in Journal of Markets & Morality 6 [2003] 99-115, qui 106). 68 T.C. BEHR, Luigi Taparelli’s Natural Law Approach to Social Economics, cit., 229. 69 Cfr. H. SCHACHTSCHABEL, Der Wandel des Gerechtigkeitsbegriffs, in H.-J. SERAPHIM (ed.), Zur Grundlegung wirtschaftspolitischer Konzeptionen, Berlin 1960, 59-94, qui 78s.; cfr. anche T.C. BEHR, Luigi Taparelli and a Catholic Economics, cit., 608. In ogni caso, proprio questa attenzione alla dimensione individualistica all’interno di una concezione del bene comune conferiva all’enciclica Rerum novarum quel carattere tutto particolare tra i pronunciamenti di Leone XIII in cui confluiscono anche le considerazioni fondamentali di Taparelli (cfr. A.-F. UTZ, Johannes Messners Konzeption der Sozialphilosophie, in A. KLOSE [ed.], Das neue Naturrecht. Die Erneuerung der Naturrechtslehre durch Johannes Messner, Berlin 1985, 21-62, qui 57).


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unica70. Questa dimensione rende Rosmini più “moderno” di Taparelli. Sembra significativa l’osservazione che laddove per Rosmini sta la “persona” nel suo confronto critico con lo Stato, in Taparelli abbiamo a che fare con il termine ordine71. Così, mentre si potrebbe definire la giustizia sociale in Taparelli come “la realizzazione della libertà attraverso l’ordinamento corporativistico della società, finalizzato al bene comune, ed assicurando di conseguenza la libertà della persona”, in Rosmini essa significa “il riconoscimento della libertà soggettiva e morale della persona, e dei suoi legami religiosi e famigliari che la caratterizzano pre-politicamente, a tutti i livelli della costituzione della società civile, e come rivendicazione nei confronti dello Stato”. In quanto, però, per entrambi la giustizia sociale ha la finalità di esprimere un criterio etico per l’ambito politico-giuridico non identificato con lo Stato, sia Taparelli che Rosmini ricorrono alla declinazione morale della relazione sociale nella sua dimensione interpersonale, intravedendo evidentemente in questo tratto un elemento importante di modernizzazione del concetto di diritto naturale scolastico. Il “fatto”, sul quale appoggia il diritto per Taparelli, consisterebbe appunto proprio in questa relazione. Le considerazioni precedenti, però, hanno dimostrato che questa relazione non è pensata, come in Rosmini, come realizzazione della persona nella libertà, ma soltanto a partire dall’istanza normativa della legge: «[i]n verità, come potrebbero esservi doveri reciproci senza relazioni reciproche? Come relazioni senza qualche congiunzione, come congiunzione senza qualche legge? Come legge senza legislatore e senz’autorità? Data poi la congiunzione di molti esseri intelligenti sotto un’autorità comune, che altro ci manca per costruire una società?»72. L’elemento della legge, che rimanda a quello dell’autorità, diventa quindi conditio sine qua non per la relazione, ma questa condizione è una condizione deduttiva che non tiene conto della dimensione fondamentale della libertà soggettiva. La giustizia sociale, 70

C. LIERMANN, Rosminis politische Philosophie der zivilen Gesellschaft, cit., 423s. Cfr. L. TAPARELLI, Esame Critico degli Ordini Rappresentativi nella Società Moderna, Roma 1954, 257. 72 ST n. 299. 71


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quindi, non viene determinata a partire dall’autodeterminazione del soggetto, come in Kant, Hegel e Rosmini. Taparelli si situa, in poche parole, in una linea alternativa a questi tre pensatori, definendo la giustizia sociale come «[i]l primo principio di morale applicato all’essere sociale [che] ci obbliga a procacciare altrui il bene, e per conseguenza ad astenerci dallo impedirglielo[;] egli è chiaro che ne sorge in altrui un diritto correlativo di operar il proprio bene senza esserne da noi impedito, finché egli non fa ostacolo al nostro»73. In altre parole, essa si esaurisce nel riconoscimento di un ordine prestrutturato a prescindere dal “fatto” della libertà soggettiva74. L’indipendenza soggettiva, per Taparelli, esiste soltanto in quanto non impedimento di orientarsi al bene, e quindi al bene comune, non in quanto riconoscimento ed affermazione della libertà75. Per questo motivo, in Taparelli — come del resto in Kant — l’autorità acquisisce una dimensione importante come «capacità di legare le libere volontà»76: ciò porta fino all’affermazione dell’autorità divina che deve necessariamente governare la società77. L’autorità deve non soltanto limitare le libertà individuali ma anche condurre tutti più facilmente al loro fine78. Rosmini individuava perfettamente che in questa mora73

ST n. 359. Cfr. M. KRIENKE, Risorgimento e giustizia sociale. Lo Stato di diritto di Rosmini: utopia – idea – profezia?, in S. SPIRI (ed.), Rosmini, Gioberti e Gustavo di Cavour. Cristianesimo, filosofia e politica nel Risorgimento, cit., I, 301-342, qui 337. 75 «Questo potere irrefragabile di operare il proprio bene a norma del proprio giudizio senza poter ragionevolmente essere impedito, è ciò che appellasi dritto d’indipendenza; […] la tendenza al bene essendo nell’uomo per sé illimitata non può aver limiti se non o dalla materia dei suoi limiti che può mancare, o dai dritti altrui che possono incrociarle il cammino. Può dunque ciascuno adoprar quanto ha di forze a procacciarsi il vero suo bene, cioè il bene ordinato finché non urti in qualche dritto altrui. A questo limite i due poteri opposti si collidono, e rimane sospesa l’azione del dritto del più debole, essendo impossibile che due poteri siano attivamente e contemporaneamente contrarii ossia che la ragione detti all’uno che egli ha da ricevere, e insieme detti all’uno che egli ha da ricevere, e insieme detti all’altro che non deve dare» (ST n. 360s.). 76 ST n. 426. 77 Cfr. ST n. 346. 78 «Ma la lor natura è libera; come potranno dunque correre concordi ad un medesimo termine? Non altrimenti che guidati da un principio di unità, che ne unisca gli 74


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lizzazione dell’autorità si sacrifica ciò che della modernità è assolutamente da affermare anche da parte di una dottrina cattolica: ossia la libertà soggettiva. Ma ciò diventa possibile in una linea coerente con il diritto naturale classico, se l’autorità non produce il diritto ma si limita al compito di «regola[re] la modalità dei diritti della detta comunanza»79, affermando la dimensione morale della libertà della persona. A questo punto diventa di importanza fondamentale che la società per Rosmini si basi non sull’autorità ma sulla libera volontà, per cui il passaggio alla società non è “naturale” come in Taparelli80, ma un fatto che non può in alcun modo eliminare la libertà soggettiva. Per questo fatto, nel cooperare tutti verso il fine comune, definizione classica che condividono Taparelli e Rosmini, in Taparelli manca l’elemento della libera autodeterminazione. La società è pensata taparellianamente nelle relazioni del «compenso» per le ineguaglianze naturali e concrete81 dalle quali nascono i rapporti di giustizia e di benevolenza che sono immediatamente la società82, per cui Taparelli può affermare che «l’uomo è naturalmente in società»83. Per questo motivo, la giustizia sociale in Taparelli non è una risposta alla modernità, come in Rosmini ed Hegel, ma una radicale alternativa, in quanto si sostituisce alle dimensioni della libertà soggettiva, dei diritti soggettivi, e della costituzione. Per questo motivo, sembra importante chiarire che mentre per Taparelli l’autorità «non è dalla moltitudine (ossia dalla collettività) giacché essa non può né crearla né abolirla, e non è della moltitudine sforzi verso codesto termine per via concorde. Non può dunque esistere società senz’autorità che l’armonizzi; e però tostochè in qualche forma uomini si uniscono a convivere sulla terra, esiste nella loro unione una autorità naturale, destinata dal Creatore a far sì che nella tendenza al bene essi camminino concordi senza riuscir l’uno all’altro di ostacolo nell’uso dei mezzi, ossia dei beni limitati con cui tendono al bene sommo» (ST n. 587). 79 FD II, n. 1731 (V, p. 1248). 80 Gray individua in questo passaggio immediato in Taparelli il pericolo del totalitarismo; cfr. C. GRAY, A. Rosmini e L. Taparelli d’Azeglio, cit., 76. 81 ST n. 323; cfr. n. 355. 82 Cfr. ST n. 337. «[L]’uomo è dunque in società ogni qual volta è con altri uomini in relazione» (ibid., n. 340). 83 ST n. 326; nell’orig. in corsivo. «[L]a società è necessità di natura» (ibid., n. 335).


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giacché essa non governa ma è governata», per Rosmini essa è un fatto che nasce soltanto con la società stessa84: questo passaggio immediato dalla natura alla società si esprime in Taparelli nell’esclusione radicale di ogni idea di “contratto” che potrebbe fondare la società sulla libertà soggettiva85, mentre Rosmini afferma un «contratto sociale, origine […] ad un tempo della società e del governo»86, anche se egli, come critica al contrattualismo, non può riconoscergli più che un’importanza astratta. Siccome questa libertà per Rosmini non è astratta ma sussiste solo in relazioni di riconoscimento, le dimensioni della famiglia e della società teocratica precedono la competenza contrattuale dell’individuo. Solo in Rosmini, in altre parole, si afferma una vera e propria intersoggettività come espressione di libertà, la quale per Taparelli è esclusa dall’identificazione tra natura e società. Per questo ragione, ci si chiede come mai interpreti come Solari e Corrado possano parlare in Taparelli di una vera e propria «esperienza di relazioni intersoggettive», se non in un modo improprio. Sembra però che loro adoperino questi termini in senso filosofico, suggerendo che per Taparelli le istituzioni nascono da un processo intersoggettivo di libertà87. Invece, risulterebbe piuttosto adeguato in riferimento a Rosmini parlare di questa «esperienza di relazioni intersoggettive», che si condensa in una vera e propria esperienza del diritto, tematizzato poi in chiave rosminiana da Giuseppe Capograssi. Questa differenza si rispecchia, infine, in una concezione fondamentalmente diversa di “sussidiarietà” in entrambi i pensatori. Siccome in Taparelli manca l’elemento personalistico della relazione intersoggettiva, che consente di distinguere eticamente tra Chiesa, 84 Per Rosmini il potere politico «risiede come in prima sua sede e radice nei padri associati insieme» (FD II, n. 1703 [V, p. 1240]). 85 «Ma questo stato beatissimo non durò lungo tempo (peccato che l’autore non siasi degnato almeno d’indicarci lo spazio di tal durata!) e le cagioni furono perché non vi era chi insegnasse la legge di natura, né chi giudicasse i litigi, né chi sostenesse con la forza il dovere. Or tutte queste ragioni non sono elleno una chiara dimostrazione della impossibilità della società di uguaglianza e d’indipendenza primitiva» (ST n. 564). 86 FD II, n. 1731 (V, p. 1248). 87 Cfr. S. SOLARI – D. CORRADO, Social Justice and Economic Order According to Natural Law, in Journal of Markets & Morality 12 (2009) 47-62, qui 56.


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famiglia e società civile (e in essa sono contenute le varie associazioni), la società non è pensata secondo una sussidiarietà personalistica, ossia secondo una “sussidiarietà orizzontale”. Infatti, il problema principale della definizione della Quadragesimo anno consiste proprio nella mera affermazione della precedenza del livello inferiore di società, non consentendo di pensare di diverse qualità di società quali la Chiesa e la famiglia a differenza della società civile. Rosmini, a questo punto, introduce un criterio etico per differenziare tra diverse “qualità personalistiche” di corpi sociali, e questa possibilità manca sia in Taparelli che in Hegel. Infatti, a ben vedere, tra Taparelli ed Hegel sussiste semplicemente una differenza funzionale ma non fondamentale nella definizione della sussidiarietà: mentre per il primo c’è da privilegiare l’unità inferiore, l’ultimo preferisce quella superiore. Rosmini, invece, concepisce un concetto davvero alternativo che individua nella persona il criterio etico della sussidiarietà, sciogliendola da ogni determinazione politico-sociale della stessa: due società non si integrano per niente nella dinamica della precedenza della società inferiore o superiore, ma come realizzazioni dell’essere persona sono pre-politici e pre-sociali che istituzionalizzano il fatto che la persona non si perfeziona in nessun ordinamento politico, per quanto sussidiario fosse. Nei confronti di Taparelli ed Hegel, la differenza rosminiana sta nel fatto che la considerazione dell’intersoggettività nel diritto conduce ad una filosofia sociale che permette di differenziare tra «i concreti rapporti giuridici che relazionano le persone dentro una società»88, e non semplicemente le istituzioni etiche che si sostituiscono di fatto (Taparelli) o di diritto (Hegel) all’individuo. Infatti, nell’importante Capo VI Taparelli afferma centralmente che «[o]gni consorzio dee conservare la propria unità in modo da non perdere la unità del tutto; ed ogni società maggiore provvede alla unità del tutto senza distruggere la unità dei consorzii»89. Taparelli afferma 88

G. DIANIN, Luigi Taparelli D’Azeglio (1793–1862). Il significato della sua opera, al tempo del rinnovamento scolastico, per l’evoluzione della teologia morale, RomaMilano 2000, 385. 89 ST n. 694; nell’orig. in corsivo. E precisa: «Niuno, spero, vorrà credermi sì stolido che io voglia obbligare con questa legge ogni società a farsi parte di altro maggior tutto, o a dividersi in varii consorzii: lasciamo alla natura, ai bisogni, al dritto l’incarito


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quindi innanzitutto l’autonomia dei consorzi, che include la loro capacità di esistenza quando cessa politicamente il Tutto. L’autonomia dei consorzi però non è assoluta ma relativa in quanto nel nome del bene comune l’autorità può «entrare nella direzione dei consorzii quando trattasi di drizzarli al bene comune»90. Questa relativa autonoma non sussiste quindi in riferimento alla persona ma al «Tutto»; nei confronti della persona, infatti, il consorzio sussiste anche se tramonta il «Tutto». Non si tratta quindi dell’affermazione di una liberà soggettiva o dell’affermazione della persona come principio etico dei consorzi, ma Taparelli sottolinea la necessaria determinazione loro a partire dal Tutto. Anzi, Taparelli afferma che l’intervento nel consorzio è giustificato sulla base della “verità naturale” dello stesso, in quanto un intervento deve essere mirato a rimuovere l’eventuale suo disordine e quindi per restaurare la sua “vera libertà”91. In questa maniera, il punto di riferimento rimane per Taparelli la “suprema autorità”, e questo momento può essere definito a tutti gli effetti antiliberale e antipersonalistico: «negl’individui nasce il dovere di obbedienza alla suprema autorità, e il dritto di riceverne protezione contro i disordini dell’autorità subordinata»92. Difatti, Taparelli nel suo principio dell’«associazione ipotattica» afferma che «è chiaro che un poter secondario può essere guidato dal supremo alle vie del giusto se talor traviasse»93. Le associazioni hanno il loro potere, quindi, a partire dalla suprema autorità. Un’autonomia delle associazioni, collocate nella società civile, e quindi della società di associare i consorzii e formare il Tutto sociale: posta questa formazione, noi diciamo che il dovere del consorzio è tendere all’unità del Tutto, il dovere del Tutto è non distruggere l’essere dei consorzii» (ibid., n. 695). 90 ST n. 704; nell’orig. in corsivo; cfr. n. 706. Comunque viene consigliato che questo intervento non sorpassi ma si realizza attraverso «l’autorità particolare» (ibid., n. 705). 91 Cfr. ST n. 709. 92 ST n. 713. Questa impostazione non viene relativizzata ma solo confermata dalle altre due relazioni che ivi nascono: «[n]ei consorzi nasce la relazione di parte col tutto; e però il dovere di partecipare degli oneri, e il dritto di partecipare del bene comune. Nella società maggiore nasce la relazione di tutto colla parte, e però il dritto di valersene per comun vantaggio, e il dovere di tutelarne la esistenza e la felicità anche parziale» (l.c.). 93 ST n. 1003.


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civile stessa, Taparelli non può pensarla e identifica invece la logica e la ragion di Stato con il “Tutto” sociale. In questo modo, egli non dà una vera e propria collocazione liberale alla sua dottrina dei “consorzi”. Proprio la problematica della definizione di sussidiarietà nella Quadragesimo anno, ossia che questo principio «non viene collegato con considerazioni riguardo l’etica dello Stato, della costituzione o del diritto»94, per cui in questa definizione si riproducono i limiti della concezione taparelliana, che attraverso il solidarismo gesuitico di Pesch si media fino a Gundlach come principale estensore dell’enciclica. In questa dimensione la libertà soggettiva e morale della persona non è il criterio di ogni ordinamento pubblico, come invece richiesto dalla definizione di Gaudium et spes 25. Infatti, mentre per Rosmini le istituzioni sociali si basano sulla libertà della persona extra-sociale, le solidarietà specifiche, quella della famiglia, quella poi dei cittadini e infine quella dei corporati deriva, per i solidaristi, in maniera lineare da questa base95. Secondo Rosmini, soltanto un concetto di sussidiarietà che parte dal riconoscimento della libertà dell’individuo consente una vera e propria etica politica perché prende sul serio la possibilità di organizzare la sfera politica come compito della responsabilità libera della persona. In questo senso, egli anticipò gli sviluppi della seconda metà del ’900 che vide la comparsa dell’idea corporativistica (e ancora di più quella organicistica) che veniva sostituita poi anche ufficialmente dal principio di persona96. CONCLUSIONE Il confronto tra le teorie di Taparelli e Rosmini, pur in tutta la restrizione che impone un semplice articolo, fa emergere Rosmini 94 R. UERTZ, Vom Gottesrecht zum Menschenrecht. Das katholische Staatsdenken in Deutschland von der Französischen Revolution bis zum II. Vatikanischen Konzil (1789–1965), Paderborn et al. 2005, 294. 95 Cfr. PESCH, Lehrbuch der Nationalökonomie, II, cit., 219-224. 96 Cfr. E.-W. BÖCKENFÖRDE, Organ, Organismus, Organisation, politischer Körper, in O. BRUNNER – W. CONZE – R. KOSELLECK, Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, vol. 4, Stuttgart 1978, 519-622.


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come il vero antesignano della svolta paradigmatica del Concilio Vaticano II, mentre Taparelli risulta l’anticipatore degli inizi della Dottrina sociale della Chiesa fino al Concilio. Entrambi hanno determinato la Dottrina sociale della Chiesa come nuova disciplina con la quale la Chiesa risponde alla modernità e le sue sfide: mentre Taparelli era il punto di riferimento per il primo periodo, fino al Concilio, le idee di Rosmini hanno anticipato i suoi sviluppi conciliari e post-conciliari. È compito nostro oggi di trarre da queste analisi le conseguenze giuste per avviare un pensiero utile al III millennio, nel segno di una “ontologia trinitaria della persona” richiesta dalla Caritas in veritate97 e che non può non ispirarsi alle intuizioni profonde del Roveretano.

97

Cfr. BENEDETTO PP. XVI, Enciclica Caritas in veritate, n. 56.


Synaxis 2 (2012) 137-158

INEDITI DI S. CATERINA DE’ RICCI NEL CARMELO DI S. MADDALENA DE’ PAZZI IN FIRENZE

CHIARA VASCIAVEO*

Alessandra de’ Ricci (1522-1590), figlia dei nobili fiorentini Pier Francesco e Caterina di Ridolfo da Panzano, fu religiosa nella comunità di terziarie domenicane di s. Vincenzo di Prato, gruppo intensamente legato all’esperienza spirituale del Savonarola. Suor Caterina, dal 1746, è riconosciuta come santa della Chiesa cattolica. La sua fama sembra ricalcare da vicino il ruolo pacificatore e materno della sua patrona, Caterina da Siena e, come tale, non poteva sfuggire all’attenzione di un’altra giovane fiorentina che stava considerando l’orientamento da dare alla propria vocazione religiosa, Caterina de’ Pazzi (poi s. Maria Maddalena del Verbo incarnato). Al suo ingresso nel Carmelo di s. Maria degli Angeli di Firenze, suor Maria Maddalena trovò un ambiente fervente, non solo legato ai circoli riformistici savonaroliani, ma anche in particolare comunione con le domenicane di Prato. Tale era l’amicizia di questo Carmelo con le domenicane da aver avuto in dono, presumibilmente, un voluminoso fascio di manoscritti delle parole “estatiche” di suor Caterina de’ Ricci, una serie di sue lettere e non solo di indumenti dai lei usati, ma anche dopo la morte, reliquie del suo corpo. Nei suoi confronti, le carmelitane fiorentine hanno nutrito presto un vero culto, come verso

*

Dottore in Teologia.


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la laica domenicana Maria Bartolomea Bagnesi (1515-1577) di cui, dalla morte, ebbero in custodia il corpo, da subito venerato1. Queste due figure in particolare, costituirono, nell’itinerario spirituale di s. Maria Maddalena, insieme a s. Caterina da Siena, dei riferimenti non semplicemente testuali ma decisamente performativi. Come battezzate nella terra di Toscana, esse erano state capaci di disegnare un proprio itinerario di fede pur nella difficilissima situazione della donna. La loro vita era stata protesa verso una personale fedeltà all’Evangelo e un deciso rinnovamento della Chiesa, costituendo il termine di raccordo, spesso trascurato dalla storiografia maddaleniana, tra il Carmelo fiorentino e i circoli savonaroliani, ormai però impegnati in una dimensione decisamente profetica e spirituale, non più direttamente politica di riforma. Dei vari testi e materiali inediti, recensiti solo per tre lettere nella schedatura della collana ricciana2, si vorrebbe fornire, in questo 1 C. VASCIAVEO, Radici ecclesiali dell’esperienza mistica di Maria Maddalena di Firenze. Note introduttive sulla biblioteca monastica, in Synaxis 1 (2006) 41-86, in part. 65-69. Di recente è stata da me rinvenuta e identificata la lastra tombale che documenta il primo segno epigrafico di venerazione verso M. B. Bagnesi. Si tratta di una lastra in pietra serena che riporta la seguente epigrafe: Hic iacet corpus Ven[erabilis] Sororis Mariae / De Bagnesis III ordinis Sancti Dominici vitae / honestate et morum probitate integerrimae / quae vixit an(nos) 63. Obiit autem V Kalendas / Iunii MDLXXVII / Moniales Sanctae Marie Angelorum / posuerunt anno salutis MDLXXXXI. Realizzata nel 1591, evidentemente nella chiesa di S. Frediano, essa fu portata dalle monache a Borgo Pinti come documenta il Richa (G. RICHA, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne’ suoi quartieri, Firenze 1754, 325) ed ancora trasportata dalla comunità nei suoi successivi spostamenti presso Borgo Pinti (16281888), Piazza Savonarola (1888-1928) e Careggi (dal 1928). 2 Cfr. G. M. DI AGRESTI (cur.), Santa Caterina de’ Ricci. Testimonianze sull’età giovanile, I, Firenze 1963; ID., Santa Caterina de’ Ricci. Libellus de gestis di fr. Niccolò Alessi. Parte I e II, II, Firenze 1964; ID., La vita della rev. serva di Dio la madre Suor Caterina de’ Ricci di S. Razzi, III, Firenze 1965; ID., Santa Caterina de’ Ricci. Documenti storici, biografici, spirituali, IV, Firenze 1966; ID., Santa Caterina de’ Ricci. Cronache – Diplomatica – Lettere varie, V, Firenze 1969; ID., Santa Caterina de’ Ricci. Bibliografia Ragionata con Appendice Savonaroliana, VI, Firenze 1973; D. TROSA, Prolegomeni alla spiritualità di Santa Caterina de’ Ricci, VII, Firenze 1975; DI AGRESTI G. M. (cur.), Introduzione all’Epistolario. Bibliografia – Fondi – Indici I, VII/1, Firenze 1976; ID., Santa Caterina de’ Ricci. Epistolario I (1542-1554), VIII, Firenze 1973; ID., Santa Caterina de’ Ricci. Epistolario II (1555-1563), IX, Firenze 1973; ID., Santa


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contributo, una prima, introduttiva rassegna delle fonti della de’ Ricci rilevanti nel vissuto spirituale di s. Maria Maddalena de’ Pazzi e nella raccolta delle sue parole da parte delle sorelle. 1. IL MONASTERO DOMENICANO S. VINCENZO FERRER DI PRATO Nel complesso esordio del secolo XVI che vedeva la munificenza da mecenate di Giulio II e Leone X, a fronte degli austeri richiami evangelici di Lutero, gli scontri di truppe europee segnavano tragicamente molti territori italiani, terrificando la popolazione con furti e omicidi di massa. Ben prima del sacco di Roma (1527), a partire dal 29 agosto 1512, l’esercito spagnolo, sconfitto a Ravenna, aveva sottoposto Prato ad un durissimo saccheggio di oltre venti giorni, propiziato da Giovanni de’ Medici (poi Leone X), per favorire un ritorno dei Medici a Firenze, ormai tramontate le velleità repubblicane di matrice savonaroliana. Anche la situazione economica non poteva non risentire di tale contesto. Se a partire dal XIV secolo, l’industria laniera aveva soppiantato l’agricoltura e la crisi generale aveva travolto Prato, tanto che i suoi abitanti giunti a circa 22.000 nel 1339, erano scesi nel 1551 a 6.000 nel centro e altrettanti nei sobborghi3. L’unico prestigio rimasto ai pratesi erano i luoghi pii di sostegno sociale come gli ospedali e le confraternite, oppure i conventi e i santuari, come la chiesa delle Carceri o quella del Soccorso. 1.1. Prato tra conventi e monasteri Nel cinquecento risultavano presenti a Prato due abbazie, tre conventi di francescani (i conventuali a S. Francesco, i minori al Palco e i cappuccini a S. Maria all’erta), più ciascuno con un convento, domeCaterina de’ Ricci. Epistolario III (1564-1577), X, Firenze 1974; ID., Santa Caterina de’ Ricci. Epistolario IV (1578-1587), XI, Firenze 1974; ID., Santa Caterina de’ Ricci. Epistolario V (1588-1590), XII, Firenze 1975; ID., Aspetti di vita pratese del ’500, Firenze 1976 (Collana Ricciana = CR). 3 E. RIPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, IV, Firenze 1841, 646.


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nicani, agostiniani, carmelitani e serviti. Le comunità femminili erano in numero di dieci, con una popolazione di circa 1200 monache su12.000 abitanti. Due monasteri erano di Clarisse (s. Chiara e s. Giorgio), uno di benedettine (s. Michele), due di Agostianiane (santa Trinita e s. Matteo) e quattro di domenicane (s. Niccolò, s. Caterina, s. Vincenzo e s. Clemente). Inoltre, complessa risultava la questione tanto degl’ingressi che, spesso, per migliore entità della dote, finivano per essere riservato alle ragazze fiorentine (come a s. Niccolò) anziché alle pratesi, che del concreto mantenimento delle monache. Infatti, l’invasione delle forentine favoriva il formarsi di veri clan familiari all’interno del monastero, con comunità che spesso superavano il centinaio di monache. Inoltre, lo scarso rendimento delle doti (a detta di s. Caterina, s. Vincenzo disponeva di rendite solo per il mantenimento delle monache durante solo quattro mesi4), imponeva la necessità di praticare questue e di chiedere l’aiuto della città. La situazione sarebbe divenuta drammatica quando la clausura avrebbe imposto il divieto sia di provvedere direttamente a collocare il poco lavoro di filatura o di artigianato che ogni forma di questua. 1.2. S. Vincenzo come comunità domenicana osservante L’origine del monastero di s. Vincenzo Ferrer è legato ad una richiesta, da parte del priore domenicano riformato di s. Domenico, alla priora di s. Caterina, suor Brigida, di far entrare nove postulanti insieme. Ne nacque una complessa diatriba cittadina che portò il 29 agosto del 1503, all’idea di una nuova fondazione, inizialmente allocata in una casa in affitto, fino al 19 maggio 1505, data in cui fu acquistata un’iniziale dimora continuamente allargata. Il 4 ottobre del 1513 vide l’accettazione ufficiale del gruppo da parte dell’ordine come terziarie regolari5. Purtroppo, l’archivio monastico attuale di s. Vincenzo presenta molte lacune, tra cui l’assenza di Costituzioni antiche della Comunità 4

CR V, 118-119. Il passaggio al secondo Ordine, sotto il profilo giuridico, è avvenuto solo nel 1973, per richiesta della Comunità, malgrado non sia del tutto in linea con il carisma ricciano. 5


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e di documentazione precisa intorno alla clausura, uniformata dopo il Concilio di Trento, alla normativa papale per tutte le monache6. Ampiamente da farsi è una storia della vita femminile domenicana, spesso determinata nelle sue specificazioni giuridiche da indicazioni della curia romana più che da specificità carismatiche7, al di là di una troppo ovvia omologazione di tutte le comunità nelle categorie posteriori di “monache del secondo ordine” o di “laiche del terz’ordine”, che accorpano fenomeni assai variegati e difficilmente assimilabili da comunità a comunità, con variabili multiple8 addirittura cittadine, 6

Si ringraziano sentitamente le Monache Domenicane di Prato, in particolare la priora, madre Caterina e suor Immacolata, l’archivista, per la fraterna collaborazione offerta. 7 Cfr. G. CARIBONI, Osservazioni sui percorsi normativi per le comunità religiose femminili nell’ambito dei Predicatori fino a Umberto di Romans, in G. ZARRI – G. FESTA (curr.), Il velo, la penna e la parola, Firenze 2009, 31-48; M. RAININI, La fondazione e i primi anni del monastero di San Sisto: Ugolino di Ostia e Domenico di Caleruega, ivi, 49-70; M. LEHMIJOKI – GARDNER, Le penitenti domenicane tra Duecento e Trecento, ibid., 113-123; ID., Dominican Penitent Woman, New York 2005; ID., Writing religious rules asan interactive process: dominican penitent Woman and making of their «Regula», in Speculum 79 (2004) 660-687. 8 Opportunamente scrive M. Lehmijoki – Gardner, con una prospettiva estensibile ben oltre il medioevo: «Il fatto che il laicato domenicano esistesse fino al 1402-1405 senza né una regola formale né un’accoglienza ufficiale nell’Ordie non necessariamente significa che le laiche non fossero domenicane… Essere domenicani nel medioevo non era un ideale fisso stabilito nel tempo di s. Domenico […] L’identità domenica era un concetto in evoluzione sul quale generazioni di frati, monache e laici affiliati lasciarono il loro segno… L’ordinamento istituzionale e gli ideali delle penitenti medioevali erano coloriti e complicati. Poiché alle organizzazioni di quelle done mancavano i regolamenti formali come pure una pianificazione centralizzata e un’attenzione sistematica nei loro riguardi, essi variavano molto da un luogo all’altro e quel poco di organizzazione che esisteva era provvisorio» M. LEHMIJOKI – GARDNER, Le penitenti domenicane, cit., 119-120. Un’analisi condotta sul Carmelo fiorentino di S. Maria degli Angeli (il primo con riconoscimento pontificio nell’Ordine) dal 1450 al 1564, analogamente, suggerisce molta prudenza nel retroproiettare categorie giuridiche posteriori, sulla fluida situazione medioevale e rinascimentale, prima del globale inquadramento tridentino con tutte le sue rigidità, e di ritenere che in precedenza esistessa una sola forma “esemplare” di vita religiosa femminile negli ordini mendicanti identificabile con la forma giuridica claustrale. Cfr. V. LOIODICE, Regola e Statuti delle Monache di S. Maria delli Angeli di Fiorenza, Tesi di laurea specialistica in Archivistica e Diplomatica, Università di Roma Tor Vergata, pro manuscripto, Roma 2009, 18-27. Ancora più ambiguo, in tale contesto, e fonte di non poche confu-


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come avvenne proprio a Prato. Anche la scelta di una comunità osservante di Terziarie, piuttosto che il monastero domenicano claustrale di S. Niccolò, potrebbe non essere irrilevante, ad esempio, nel percorso spirituale della de’ Ricci. E solo entro tale concreto quadro storicosociale, dovrebbero intendersi certe episodi e scelte della sua vita, “estasi” comprese. Quando entrò in s.Vincenzo di Prato, Alessandra fu la 147a suora. La situazione abitativa non doveva essere delle migliori, se si faceva cenno a «celle antiche» con finestre «troppo alte e picciole»9, che causavano «infermità e catarri»10, mentre in inverno dalla strada senza fognatura «l’acqua entra in quelle case e le tiene inferme»11. La comunità, legata ai frati domenicani riformati di s. Domenico attraverso confessori e superiori, connotata da alcune rigidità ascetiche, richiedeva un’intensa vita comunitaria, senza beni individuali e con una seria frequenza del coro. Come di consueto, sentita era la devozione eucaristica e la meditazione della Passione del Signore12. 2. PROFILO BIOGRAFICO DI S. CATERINA DE’ RICCI Alessandra de’ Ricci13, nata a Firenze il 23 aprile 1522, prima bimba dopo tre fratelli, intorno ai quattro anni, era rimasta orfana della sioni, risulta l’uso ed l’estensione delle categorie “vita attiva” o vita contemplativa”, originate tardivamente (nel XIX secolo) nell’ambito del diritto ecclesiastico, in storiografia. 9 CR V, 13. 10 L.c. 11 Archivio Stato Prato D 162, f. 18r in CR V, 124. 12 CR VII, 30-36. 13 Cfr. oltre alla CR: M. A. PARENTI, Ricordi filologici e letterari (Pistoia 1847) in C. GUASTI, Le lettere spirituali e familiari di Santa Caterina de’ Ricci…, Prato 1861, 9697; G. CARDUCCI, Fra Girolamo Savoarola e Caterina de’ Ricci(Firenze 1861), in Primi saggi, Bologna 1939, 193-197; G. CESARE, Santa Caterina de’ Ricci, in Memorie domenicane 25 (1908), 68-81; P. GUERRINI, Carteggi mistici domenicani del Cinquecento, in Memorie domenicane 55 (1938) 116-122; G. PIERATTINI, L’epistolario di S. Caterina de’ Ricci, in Memorie domenicane 66 (1949) 26-39, 74-89; C. MASSAROTTI, Le lettere di S. Caterina de’ Ricci, in Memorie domenicane 68 (1951) 11-37.104-125.137-147; G. GETTO, Santa Caterina de’ Ricci e la sua spiritualità del concreto in La letteratura


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mamma, anche se la donna sposata da Pier Francesco in seconde nozze, Fiammetta Diacceto, tenne degnamente il posto della scomparsa. Donna Fiammetta rispettò la disposizione interiore alla preghiera e al raccoglimento della piccola, anzi la aiutò ad ottenere dal padre il permesso di entrare come educanda nel monastero benedettino di S. Piero a Monticelli, dove era badessa suor Lodovica14, sorella di Pier Francesco. Durante un soggiorno estivo nella villa di campagna della famiglia, nei pressi di Prato, la giovane Sandrina conobbe due suore della comunità domenicana di s. Vincenzo di Prato, fondato trent’anni prima. Direttore spirituale di questa comunità era lo zio di Alessandra, p. Timoteo Ricci15, mentre in precedenza il priore della comunità domenicana maschile di Prato, era stato il fratello della seconda moglie di Pier Francesco che acconsentì con molte reticenze alla richiesta della figlia. Quindi molteplici erano i legami familiari ed ambientali che guidavano, come è noto, le scelte vocazionali del passato.

ascetica e mistica in Italia nell’età del Concilio Tridentino, Firenze 1948, 51-77; R.M. SORGIA, Santa Caterina de’ Ricci. «Qui di santi non ce n’è», Padova 2004; ID., Santa Caterina de’ Ricci. «Qui di santi non ce n’è», Padova 2004; P. LUNGO, Ricerca e ritrovamento di sé. Il percorso umano e teologale di Santa Caterina de’ Ricci, Bologna 2005; A. SCATTIGNO, «Carissimo figliolo in Cristo». Direzione spirituale e medazione sociale nel’epistolario di Santa Caterina de’ Ricci, in L. FERRANTE – M. PALAZZI – G. POMATA (curr.), Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazione nella storia delle donne, Torino 1988, 219-239; A. SCATTIGNO, Le visioni di suor Caterina de’ Ricci, in M. MODICA VASTA (cur.), Esperienza religiosa e scritture femminili tra medioevo ed età moderna, Acireale 1992, 43-75; A. SCATTIGNO, Esperienza mistica e rinnovamento della religiosa in Caterina de’ Ricci, in Il velo, la penna e la parola, cit., 193-215. 14 Da questa zia imparò una devozione al Crocifisso cui rimase fedele per tutta la vita, che consisteva nella recita di in 35 Pater noster, assumendo varie posizioni col corpo in relazione col mistero contemplato. Ad esempio in ginocchio nell’orto, con le mani legate dietro nel pretorio, ecc. Cfr. CR IV, 9-10. 15 Timoteo de’ Ricci, nato probabilmente nel 1485, vestì l’abito domenicano a Bologna nel 1506. Dal 1530 divenne priore del convento domenicano di Prato e dal 1531 al 1546, fu confessore delle monache di S. Vincenzo. Fu priore anche a Fiesole e poi a Perugia dove morì nel 1552.


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2.1. L’ingresso tra le domenicane di Prato Ad un’età per le vedute dell’epoca, consueta, tredicenne, il 18 maggio 1535, Alessandra prese dalle mani dello zio p. Timoteo l’abito domenicano tanto desiderato, insieme al nuovo nome: Caterina, probabilmente in onore della mamma morta e della grande santa senese. Dopo non pochi dubbi sulla sua attitudine alla vita religiosa, fu ammessa alla professione il 24 giugno 1536. La serenità degli esordi, infatti, durò poco. La giovane novizia era preda di “distrazioni” continue che le impedivano di partecipare al coro, di lavorare, di nutrirsi in refettorio con le altre suore. Spesso soffriva di insonnia e prolungato rifiuto del cibo. A volte veniva trovata immobile, irrigidita nelle membra, con difficoltà di parola. In tale situazione, le relazioni con le altre consorelle non potevano non tendersi, accentuate dalle continue richieste di coerenza che la giovane domenicana rivolgeva loro. Si aggiunse, quindi, al disordine psicofisico galoppante, un notevole isolamento che non dispiaceva a Caterina. Infatti ella preferiva al coro, la solitudine della sua cella, dove pregava a lungo dinanzi ad un Crocifisso portato da casa. La situazione risultava sempre più preoccupante, finché nel 1538, sopraggiunse il crollo con calcoli renali, asma e febbri, probabilmente di origine malarica. Dopo ripetute suppliche e preghiere, fino ad un voto espresso dalla comunità la sera del 22 maggio, anniversario della morte del Savonarola, suor Caterina risultò improvvisamente guarita. Dal 1538 al 1554, ma particolarmente dal 1541 al 1543, durante la prima parte della sua vita religiosa, la de’ Ricci visse dei particolari stati spirituali, variamente definiti che, in un primo tempo, furono accolti con timore e censura da parte delle consorelle e dei superiori. In seguito, dopo vari esami secondo le possibilità dell’epoca, vennero riconosciuti come peculiari doni carismatici che la resero una personalità religiosa di spicco della Toscana cinquecentesca. Il cuore delle esperienze cateriniane consisteva nel rivivere la passione del Signore tra il giovedì e la domenica, particolarmente il venerdì. Per decisione dello zio, dalle relazioni raccolte dopo tali esperienze, sia direttamente che attraverso colloqui di suor Caterina con


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suor Maria Maddalena Strozzi, nacquero i Ratti che, insieme alle Lettere (1542-1590), costituiscono l’opera letteraria della santa pratese. 2.2. Una complessa trama di relazioni Nel 1547, suor Caterina fu eletta sottopriora e, nel ’52, priora, incarico che, con le opportune alternanze avrebbe mantenuto, stimata e benvoluta dalla comunità16, fino alla morte17. A partire dal 1558, il monastero pratese divenne una fabbrica in continua evoluzione grazie all’imprevista liberalità di Filippo Salviati, nobiluomo fiorentino, cugino del granduca, noto per la sua avarizia, che ritenne di aver dovuto la sua salvezza, in una tormenta del 1553, alla priora domenicana. Nell’arco di pochi anni, inoltre, suor Caterina fu seguita in monastero dalle sorelle Lucrezia (suor M. Benigna † 1562), Marietta (suor M. Clemente † 1554), Maddalena (suor Filippa † 1552) e Lessandra (suor Ludovica † 1555). Ma la sua vita fu molto travagliata da vari avvenimenti, sia relativi alla sua famiglia che alle vicende storiche del tempo. Ad esempio, molti problemi furono causati a suor Caterina dalla sua famiglia. Mentre il fratello Giovanbattista divenne domenicano e Ridolfo, cavaliere di Malta, altri due fratelli, Francesco e Roberto, ebbero un’esistenza avventurosa. L’ultimo, in particolare, fu cacciato di casa dal padre, piuttosto collerico e vendicativo, e per molti anni vagò ramingo in Europa, per sfuggire ad una condanna. Per loro, suor Caterina dovette arrivare a scusarsi con i suoi benefattori. Il più piccolo, invece, Vincenzino, fu affidato al procuratore del monastero Antonio Gondi, ma non le risparmiò ulteriori delusioni anche nella vita matrimoniale. Altri suoi parenti, come la cugina Alessandra, dopo una vita dissoluta, ebbero anche una fine tragica, cui non fu estranea Bianca Cappello, poi moglie del granduca Francesco I. Coinvolta in un’avventura sentimentale con il Bonciani, marito 16

Cfr. Sulle monache di S. Vincenzo di Prato S. RAZZI, Vita di suor Caterina de’ Ricci, in CR III, Libro I, cc. 7-8. 17 P. LUNGO, Ricerca e ritrovamento di sé. Il percorso umano e teologale di Santa Caterina de’ Ricci,cit., 22-32.


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della Cappello, finì uccisa da sicari nel 1572. Questa fu un’altra parte, spesso trascurata, della passione umana vissuta da s. Caterina negli eventi ordinari. Durante la sua vita monastica, non mancarono neppure tensioni sia con i superiori dell’ordine che con gli ordinari. Infatti, non solo si crearono problemi con i domenicani, riguardo all’autenticità delle sue esperienze ma la situazione si inasprì dopo le disposizioni pontificie di Pio V, a partire dal gennaio 1570, in ordine all’applicazione della clausura tridentina ad un monastero di terziarie che diversamente avevano professato18. Successivamente, particolarmente dal 1583, l’arcivescovo Alessandro Medici mosse una vera campagna contro il culto riconosciuto dalla de’ Ricci e dall’intero monastero, oltre che dalla provincia riformata, verso il Savonarola19. A tali contraddizioni, si aggiungeva il vasto giro di conoscenze di questa religiosa, in significativo contatto con laici e frati, prelati e monarchi del tempo, da Giovanna, figlia dell’imperatore Ferdinando d’Austria, sposa di Francesco Medici, sacrificata sull’altare degli interessi dinastici, all’ambasciatore del granduca a Roma Bernardo Ricasoli (1566); dal cardinale Giulio della Rovere, duca di Urbino, a suo fratello Guidobaldo; dal cardinale Alessandro Farnese al cardinal Niccolò Gaddi; da Bianca Cappello, prima amante, poi moglie del 18 Cfr. Lettera a fra Antonio Brancuti (provinciale romano op), 6 marzo 1576, n. 618 in CR X, 398-403. Lettera a fra Serafino Cavalli (generale op), 30 maggio 1576, n. 589 in CR X, 365-367. Lettera a mons. Vincenzo Ercolani op, 29 agosto 1577, n. 629 in CR X, 416-419. Lettera a Bianca Capello, 15 aprile 1585, n. 818 in CR XI, 243-244. Lettera a Vincenzo de’ Ricci, 18 agosto 1589, n. 1023 in CR XII, 115-116. Lettera a Ferdinando de’ Medici, 16 ottobre 1589, n. 1039 in CR XII, 127. Lettera a Francesco de’ Medici, 3 aprile 1581, n. 712 in CR XII, 110-111. Lettera a Vincenzo de’ Ricci, 16 agosto 1589, n. 1027 in CR XII, 114-115. 19 La Ricci era riuscita a procurarsi alcune reliquie, tra cui un dito del Savonarola in C. GUASTI, Le lettere spirituali e familiari di Santa Caterina de’ Ricci…, Prato 1861, Documenti, 54-56. Cfr. anche A. D’ADDARIO, Aspetti del governo spirituale del cardinale Alessandro de’ Medici, in Aspetti della controriforma a Firenze Roma 1972, 243327. Interessanti le sue lettere al granduca in qualità di ambasciatore a Roma, prima della nomina a cardinale, in merito ai circoli savonaroliani: C. GUASTI, L’officio proprio per fra’ Girolamo Savonarola e i suoi compagni, scritto nel secolo XVI, Prato 1860, 19-24.


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granduca Francesco, fino a s. Maddalena de’ Pazzi20 e s. Filippo Neri21. In particolare, suscitava mormorazioni la sua amicizia con il discepolo Filippo Salviati che, prodigo mecenate, era arrivato a costruirsi anche un piccolo alloggio adiacente al monastero per dei periodi in cui vi era ospitato con la famiglia. Tutto questo amareggiò gli ultimi anni della vita della domenicana e, forse, getta una luce sulla risposta piuttosto fredda che inviò alla giovane Maddalena de’ Pazzi che l’aveva interpellata per una conferma del suo vissuto ed una qualche collaborazione nella renovatione della Chiesa che ella sognava22. Ma già prima della morte di Caterina de’ Ricci fiorirono testimonianze23 e, dopo il suo trapasso, anche biografie edite24. Introdotto il processo nel 1602, fu beatificata da Clemente XII solo nel 1732 e canonizzata, da Benedetto XIV, nel 1746. 20 Lettera a s. Maddalena de’ Pazzi, 12 agosto 1586, n. 858 in CR XII, 286-287. Cfr. anche Lettera ricevuta n. 1, in S. MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Epistolario completo, C. Vasciaveo (cur.), Firenze 20092, 211-212. 21 Lettera a s. Filippo Neri, 1587 o 1588, n. 1063 in CR XII, 159-161. 22 S. MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Lettere sulla Renovatione in Epistolario completo,cit., n. 9-10, 99-105. 23 Cfr. Fra Modesto Masi, priore di S. Domenico, relazionò sugli avventimenti accaduti tra il 22 maggio 1540 e il 4 agosto del 1542 (CR I, 79-117). Lo zio Timoteo Ricci († 1552) scrisse una sua Relazione, in CR I, 121-135. Importante risulta: Una lettera schritta a un suo amico e fratello in X° Giesu, racolto, fatto et ordinato, se non in tutto in parte, delle cose grande e meravigliose della R.da Madre suor Caterina De’ Ricci, cioè gli Ratti et Visioni su come di sotto si dirà, a gloria di Dio e di Maria Vergine (27 settembre 1549) in CR I, 17-74. Tale testo viene detto anonimo a CR I, 5. Successivamente, in CR IV, 16 n. 18 e 169-170, nonché in CR VI, 15-16, viene identificato in fra Tommaso Neri OP, corrispondente di S. Filippo Neri, celebre teologo che difese il Savonarola nel 1558 dinanzi al S. Uffizio. Purtroppo quella edita non risulta edizione critica per varie ragioni, anche per essere stata realizzata sulla base di tre testimoni: solo due selezionati tra gli svariati mss dell’archivio monastico di Prato e l’altro localizzato nel ms 2363 della Riccardiana. Si ricordano anche Santa Caterina de’ Ricci. Libellus de gestis di fr. Niccolò Alessi (1552-1555), in CR II; la Lettera a Vincenzo de’ Ricci doppo la morte della Sorella di Suor Filippa Altoviti (7 febbraio 1590) in CR IV, 137-140 e il Breve raccolto della Vita e costumi di Suor Caterina de’ Ricci di mons. Francesco Cattani da Diacceto (1592, domenicano, fratello della seconda moglie di Pierfrancesco Ricci e priore di S. Domenico in Prato all’ingresso di Caterina), in CR IV, 161-182. 24 Cfr. S. RAZZI, La vita della rev. serva di Dio la madre Suor Caterina de’ Ricci …,


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3. LE RELAZIONI TRA IL CARMELO FIORENTINO E LE DOMENICANE S. VINCENZO DI PRATO Il Carmelo fiorentino, attraverso predicatori come il Capocchi e il confessore Campi, era entrato dal 1560 circa, nell’orbita dei circoli savonaroliani (di cui s. Vincenzo di Prato costituiva un capofila)25, ormai però coinvolti in una dimensione decisamente profetica e spirituale di rinnovamento ecclesiale. L’amicizia e i rapporti erano intrecciati attraverso percorsi molteplici, di cui si possono ormai individuare poche, ma non irrilevanti tracce, a partire dagli scambi di testi, testimonianze di miracoli26 e reliquie. La profezia savonaroliana di rinnovamento correva attraverso movimenti d’osservanza e rinnovamento che forse espressero il meglio di sé al femminile, in un’acuta consapevolezza dell’inadeguatezza di troppi alla propria vocazione cristiana e insieme, nella supplica appassionata di rinnovamento. La de’ Ricci pregava: «O sposo mio, tu non hai negare nulla alla tua sposa. Deh! Fammi questa gratia: rinuova un poco la tua Chiesa! Tu vedi pur come la sta, che ella non ha più forma di Chiesa. Deh! Volgi un poco l’occhio sopra di lei della tua misericordia e sopra tutti i peccatori»27, senza per questo negare responsabilità personali: «Signor mio, io ti raccomando li poveri peccatori e fratacci e le monachaccie: le son venute alla santa religione per servire a te e così ti promessono, Lucca 1594. S. Razzi, domenicano, era entrato nel noviziato riformato di S. Marco a Firenze nel 49, sotto la guida di un fervido sostenitore di Caterina de’ Ricci, fra Matteo Strozzi. Divenne confessore di S. Vincenzo nel 1591 e cominciò a stendere la vita della monaca da poco defunta. 25 Cfr. C. VASCIAVEO, Radici ecclesiali, cit., 55-69. 26 Nella Biblioteca Nazionale di Firenze, Conv. Soppr. I. VII.2, si trova un interessante manoscritto dal titolo: In questo libro saranno notati alcuni miracoli del R. P. F. Hieronimo Savonarola e di sua santi compagni con nota di possesso: Liber Venerabilis sororis Mariae Caroli de Bagnesiis de Florentia et presbiteri Augustini Campi de Pontremulo eius confessoris. 27 S. CATERINA DE’ RICCI, Ratti della Santa, Ms 25, Archivio Monastero Domenicano S. Vincenzo – Prato, XVI sec., 154v. [Per la collocazione archivistica, si fa riferimento all’attuale Inventario e Catalogo Archivio Storico, L. BANDINI – R. FANTAPPÉ (curr.), pro manuscripto, Prato 1991-1993. Esso non coincide più con la numerazione riportata in CR VI, 15-19]. Per una più agevole comprensibilità, per tutti i testi trascritti, rispetto all’originale, si è ritoccata lievemente la grafia e la punteggiatura.


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e tu sai come le si portano. Anchora li pretacci ti raccomando, Signore. Poi disse: Oh, oh, oh! Questo bisogna tacere. Oh! Quanti giuda ci sono in questa Chiesa. Rinnuova, rinnuova, Signore, questa Chiesa, ché tu vedi che non ha più forma di Chiesa»28. Sembra fare eco a tale quadro, la parola della mistica carmelitana, non solo nelle sue Lettere sulla Renovatione della Chiesa29, ma anche nel suo testo più intenso sul ruolo dello Spirito Santo, Rivelazione e Intelligentie:«Fa questo amor proprio nell’anima come quel vermicello che, col suo sottile e continuo roder, va consumando le barbe di essa anima. Et da tutte le creature lo veggo più nutrire che non fa il fanciullo la nutrice al suo petto. Ma chi sarà quello sì forte che possa levare la puzza dalle creature e tale abominevole lordura dalle tua anime? Le farà nel suo discendimento questo Spirito. E che si moverà a fare? Si moverà a purificare. Prima a purificare i cuori delle creature, tanto che sendo purificati verranno poi in loro a esaltare il Verbo che con l’amor proprio havevano abbassato, con fare il voler del Demonio che è contrario al Verbo, tanto che col medesimo vocabolo d’amor si dispregia e si esalta. Varie son le vie e i modi co’ quali sei stato subblimato e esaltato da’ tua eletti, et che tu hai subblimato e esaltato loro»30. Profonda appare la consonanza tra queste donne tanto diverse, eppure così vicine alla santa senese:«O amor mio, rinuovaci tutti! Tu vedi come noi stiamo: non ci è più chi possa placare l’ira tua. Deh! Amor mio, tu vedi che noi siamo duri, non temiamo nulla. Tu ài mandato tanti segni e noi non ci moviamo. O vuoi tu che noi stiamo così? Vuoi tu che quel pretioso sangue che tu versasti da quelle pretiosissime tue vene con tanto amore sia sparso invano per li miseri peccatori? Deh! Facci misericordia e rinnuovaci e tiraci, percuotici e gira tondo, gira per tutto, Signore, che tutti ne abbiamo bisognio»31. 28

Ibid., 183r. S. MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Epistolario completo, cit. 30 S. MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Revelatione e Intelligenze, IV, Firenze 1964, 57. 31 S. CATERINA DE’ RICCI, Ratti della Santa, cit., 207v-208r. Cfr. SANTA CATERINA DA SIENA, Le Lettere, Milano 1987, n. 209, 72-75; n. 175, 1086-1088. ID., Le Orazioni, a cura di G. Cavallini, Roma 1978, n. X, 105-115. ID., Il Dialogo, a cura di G. Cavallini, Siena 1995, 216-224. 29


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4. S. MADDALENA CONOBBE TESTI DELLA DE’ RICCI PRIMA DI ENTRARE AL CARMELO? Presso l’Archivio di Stato di Firenze, in un fascicolo miscellaneo, era già segnalata in letteratura, l’esistenza di un piccolo manoscritto che reca in calce la dicitura «Di madonna Caterina de’ pazzi»32. Ovviamente tale epigrafe non prova, in modo assoluto, nulla. Ma non si può neppure escludere che questo breve testo sia effettivamente appartenuto a s. Maria Maddalena e in vista di tale possibilità, merita un esame meno superficiale. Sul cartoncino che funge da copertina, un’altra mano annotava: «Vita e miracoli di suor Caterina Ricci». Sul recto del primo foglio, invece, con altra grafia, probabilmente anche più tarda rispetto alle precedenti cinquecentesche, la titolazione è differente: «Compendio di alcune cose operate dal Signore Dio in una sua Ancilla dell’ordine de predicatori habitante nella terra di Prato Suor Caterina de Ricci». Di esso si riporta l’incipit: «Se delli negotij, et operatione del secolo non basta molte volte l’anio à noi di quelle assai inteligenti, et pratiche di satisfare ne ad altri, ne pur a voi stesso per lettera molto manco a me delle cose sopra naturali quasi senza numero, et delle quali i non sono intelligente ne pratico mi basta l’animo con nostro breve, ne lungo sodisfar à me medesimo ne ancora voi. Dico di suor Cateria Fiorentina suora in in santo Vincentio di Prato monasterio dell’ordine de Predicatori»33.

L’explicit conclude: «et, il benefitio dall’Eccellenza della Duchessa di Firenze la quale tal impresa gli concesse con gli altri sopra nominati in detto monasterio di santo Vincentio, tutto sia solo laude di Jesu Cristo Re del Cielo et della serva sposa celeste non solo di suor Caterina ma di tutte l’anime, che à esso fedelmente credono e gli vogliono sempre servire. Amen»34.

32

Presente in ARCHIVIO DI STATO DI FIRENZE, Carte Strozziane, I.CVI, 5, ff. 20-39. Ibid., f 20r. 34 Ibid., f 39v. 33


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Per chi ha un minimo di confidenza con le fonti ricciane, non è difficile identificare in tali righe, un testo molto noto ed anche antico, indicato come Una lettera schritta a un suo amico e fratello in X° Giesu, racolto, fatto et ordinato, se non in tutto in parte, delle cose grande e meravigliose della R.da Madre suor Caterina De’ Ricci, cioè gli Ratti et Visioni su come di sotto si dirà, a gloria di Dio e di Maria Vergine (27 settembre 1549)35. Tale testimonianza, inizialmente detta anonima in CR I, 5, successivamente, è stata attribuita dal Di Agresti, a fra Tommaso Neri op36, che avrebbe ragguagliato s. Filippo Neri sulle vicende della giovane domenicana. Ci si limita, in questa sede, a fare cenno al problema filologico dell’identificazione delle diverse mani che hanno redatto il manoscritto, che presenta l’intero testo rispetto all’edizione fatta dal Di Agresti e potrebbe essere stato, in origine, completato da altri fogli. Inoltre, potrebbe essere stato ricopiato, magari nel ’600, per usura dei fogli originali, di cui è rimasta traccia solo nel cartoncino esterno, finendo per essere poi considerato solo quale reliquia, non più testo in uso per la meditazione di qualche monaca. Se fosse davvero appartenuto alla giovane s. Maria Maddalena, costituirebbe un interessante riscontro della circolarità di scambi ed informazioni tra gli ambienti fiorentini riformistici del ’500, estesi dalla De’ Ricci al Neri, coinvolgenti, a vario titolo il Carmelo sito in s. Frediano. Tali circoli riformistici, avendo ormai abbandonato prospettive di riforma politica, erano, lentamente, riusciti ad integrarsi, con prospettive di sola riforma ecclesiale, nel contesto fiorentino granducale. 5. FONTI DELLA DE’ RICCI NEL CARMELO FIORENTINO Tutt’altro che chiara e completa è la storia degli “scritti ricciani”, che meglio sarebbe classificare tra le parole dette e riportate da varie consorelle, di volta in volta, segretarie per scelta di superiori o della stessa Caterina. Tale condizione di oralità che li contassegna, come in casi simili (si pensi alla De’ Pazzi), oltre ai normali problemi ermeneutici 35

CR I, 17-74.

36

Cfr. n. 13.


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apre una serie di questioni filologiche e paleografiche di collazione delle fonti che la CR è lontana dall’aver risolto, avendo pubblicato una messe di dati comprensiva di fonti vere e proprie, ma anche di biografie, testimonianze coeve e successive, per diversi aspetti eterogenee. Si pensi, a titolo d’esempio, che tale collana manca proprio dell’edizione dei Ratti, tentata anche successivamente in contesti universitari, ma senza aver visto ancora la luce. Inoltre, nell’ambito dei manoscritti editi, problematica è la situazione di talune recensioni che non sempre danno conto in maniera puntuale degli effettivi manoscritti adoperati nelle edizioni dell’archivio monastico pratese, né costituiscono l’esito finale della collazione di tutte le copie disponibili anche solo nello stesso archivio37. Il volume VI della CR, ad esempio, dà conto dei manoscritti noti al Di Agresti, ma non è sempre esplicitata la datazione delle raccolte manoscritte e dei diversi materiali riuniti in ciascuna di esse. Pertanto è difficile sia delineare un possibile ordine nello stemma codicum tra i diversi manoscritti disponibili, sia comprendere con assoluta certezza quali parti di quali manoscritte siano state edite. Ciò fatto salvo, tale volume costituisce una preziosa base di partenza. Con tali limiti, si può affermare che nell’archivio pratese sono oggi identificabili dieci raccolte di Ratti, databili tra il XVI e il XVIII sec. circa38, cui occorre aggiungere il Ms A/VI/24 del Seminario Arcivescovile di Firenze (XVI sec.) e il Ms 2363 (XVI sec.) della Riccardiana. A buon diritto, a questi codici noti, dovrebbe affiancarsi il manoscritto custodito nel Carmelo di s. Maria degli Angeli (XVI sec.). Per quanto attiene alle lettere, se ne conoscono tra originali e copie, oltre un migliaio, anche se cospicue devono essere state le perdite39. Ad esse si aggiungono due inediti localizzati nell’Archivio fiorentino e una ricollocazione di un’altra lettera che si temeva smarrita negli anni ’70. 37

L.c. Cfr. CR VI, 15-19: tra i più antichi si segnalano in particolare il n. 28 S. CATERINA DE’ RICCI, Ratti della Santa (CR 8), il n. 26 S. CATERINA DE’ RICCI, Ratti della Santa (CR 10) e il n. 32 S. CATERINA DE’ RICCI, Ratti della Santa (CR 5). 39 Cfr. CR VII, 169-203. 38


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5.1. I “Ratti” presenti nel Carmelo S. Maria degli Angeli Per quanto attiene al manoscritto 4.2.D.1 del Carmelo di s. Maria degli Angeli (XVI sec.), è costituito da fascicoli legati insieme con copertina in pergamena, per un totale di 848 pagine40. Esso risulta redatto da diverse mani di cui la principale, dai primi sondaggi compiuti, sembra ritrovarsi nel manoscritto n. 28 dell’Archivio delle domenicane di Prato. A differenza dei manoscritti pratesi, presenta una raccolta non strettamente cronologica ma anche tematica, suddivisa in sette sezioni. La prima sezione, (pp. 1-85; 86-112 bianche), comprende una serie di narrazioni della Passione. La seconda (pp. 113-139; 140 bianca), riporta una serie di narrazioni cateriniane in cui sono presenti parole di Gesù e della Madonna. La terza (pp. 141-174; 175-180 bianche) raccoglie: «Parole nel sonno», come abitualmente erano indicate dalle monache gli stati di apparente coscienza alterata, in cui Caterina faceva i suoi discorsi. Nella quarta sezione (pp. 181; 182-184 bianche; 185-198; 199-204 bianche), sono trascritte: «Parole prolate dalla Boccha di suor Caterina Ricci in sogno: dormendo di sonno naturale: raccolte da suor Maria Madalena Strozzi». Nella quinta sezione segue un solo racconto relativo alla Passione del Signore (pp. 205 - 210; 211 -212 bianche). Nella sesta sezione (inizia la numerazione antica a fogli 1-316), invece, molto ampia, sono raccolte testi in ordine cronologico estesi dal novembre 1542 all’agosto 1543. Si tratta di una cronaca puntuale delle parole cateriniane, con vari passaggi sulla Passione (pp. 213-848). La settima sezione, a se stante, presenta due versioni delle visite di Maria de’ Medici a Prato (pp. 849-876). Data l’estensione del manoscritto, a titolo di saggio, se ne riporta l’incipit: Primo Venerdì II febbraio 1541. El giovedì, festa della Purificatione, suor Caterina entrò in ratto della passione circa hore 23. Se bene era solita entrare in tal consideratione della passione per lo adrieto, el giovedì, a 40 CISMAF (Centro Internazionale di Studi S. Maddalena – Firenze, presso il Carnelo omonmo): Misure: mm 210 x 150. Le prime 212 pagine sono provviste solo di numerazione moderna. Da pagina 213, appare una parziale numerazione antica a fogli.


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hore 18, come di sotto si intenderà apertamente. Penso [che] questo giorno entrassi più tardi per esser festa di letitia. E cosi durò in ditto ratto di passione tutta la notte; e il venerdì fino al sabbato mattina con pocho pianto ma con molta afflitione, per esser fissa nella consideratione della passione del Figliuol di Dio e così del dolore della sua madre dolcissima. Et è da notare che la ditta suor Caterina soleva per circa mesi cinque per l’adrieto, sempre el giovedì, a hore diciotto, entrare in grandissimo pianto con qualche estasi interpollato. E così durava per tutta la notte e il venerdì fino al sabbato a vespro, cioè in tal pianto. Né mai punto el giovedì notte, né il venerdì notte dormiva di sonno naturale o tanto pocho che è quasi incredibile a chi non avessi la esperientia certa come ho hauto io suor Maria Madalena custode sua. Erono questa sua pianti molto eccitativi alle Monache che la vedevono e udivono a rammemorarsi e considerare la passione del Signore. Ma suor Caterina che è sempre stata desiderosa di non essere in openione delle persone, molto di tal cosa notabile si affliggeva e quanto poteva si anda//1v//va nascondendo. Ma perché chi si trova in communità, sotto l’obedientia, non si può mai tanto stare ascosa che spesso non sia necessitato trovarsi con le altre. Per il che, vedendo suor Caterina non si poter celare, incominciò grandemente a pregare el Signore che li levasse questo pianto tanto notabile e per ottenere più facilmente tal gratia molto di questo, pregava la Vergine santa e in particulare questo giovedì mattina molto efficacemente li chiese questa gratia sopradetta. Apparendogli la Vergine santa visibilmente come si truova nel libro delle visione che pregandola che si degnasse levargli quelle tante lacrime e che non harebbe voluto quella cosa tanta notabile, la Vergine la esaudì dicendogli: “Queste lacrime non ti erono date per te, ma per un certo effetto. E domandando, lei disse: “O Mamma santa, a che effetto mi son date queste lacrime?” Rispose la Vergine: “Questo io non te l’ho a dire. Ma io son contenta levartele e non piangerai più, se non un’hora sola el venerdì. Ma non però in tutto l’esaudì che li seguitò poi dalli 3 di febbraio 1541 per ciascun venerdì, un tal profondo et mirabil ratto, incominciando ogni giovedì, a hore diciotto. Nel qual tempo è rapita dal Signore e unita a se, in un tal ratto nel qual con seco patisce parte di tutte le sua passione, non solamente mentalmente, ma etiam corporalmente. E in tal ratto e passione, dura fino al venerdì sera a hore 22 in circa, nel qual tempo sta quasi del continuo ratta //2r// tanto che appena se gli può dare un pocho mangiare. E se bene in tal ratto non piange, salvo il venerdì, da hore 17 fino a hore 18 diciotto, patisce col Signore etiam nel corpo suo parte di tutte le sua passione. E sempre di venerdì in venerdì, va crescendo la profondità di tal ratto e così l’acerbità delle pene come si vedrà notato di venerdì in venerdì.


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5.2. Le lettere Nella CR sono riportate tre lettere di Caterina de’ Ricci presenti nel Carmelo fiorentino, a cui vanno aggiunti due inediti ed una lettera che si riteneva all’atto dell’edizione smarrita e descritta tramite una copia. Allo stato attuale, il piccolo corpus del Carmelo si presenta in tal modo: Prima lettera — inedita, indirizzata al Duca d’Urbino del 12 ottobre 1558, per mano della Giacchinotti. Seconda lettera — la n. 414, indirizzata a Giovanni Michelozzi del 22 marzo 1571, per mano della Giacchinotti41. Terza lettera — la n. 816, indirizzata a Dianora Berardi del 26 febbraio 1584 [secondo l’anno fiorentino, in realtà 1585] detta scomparsa, in realtà oggi localizzata e disponibile in Archivio, identificata come redatta per mano della Giacchinotti42. Quarta lettera — la n. 858, indirizzata a Suor Maria Maddalena de’ Pazzi, del 12 agosto 1586 per mano della Barucci43. Quinta lettera — inedita, indirizzata a Vincenzo de’ Ricci, del 6 di luglio 1588, per mano della Giacchinotti. In questo contributo, per motivi di brevità, si è scelto di riportare l’inedito più antico (12 ottobre 1558). È evidente una conoscenza di vecchia data tra la religiosa pratese e il duca di Urbino che a lei si rivolgeva per la direzione spirituale. [Altra grafia]: 12 Ottobre 1558 / S. Caterina de’ Ricci al Duca di Urbino Molto Illustrissimo et eccellentissimo Signor mio dio Vi doni la sua santa pace. Dal Vostro Servidor ho ricevuto 4 Giulii e dal Vostro Reverendo padre, fra’ Pacifico cappuccino, la Vostra lettera qual mi è stata grata intender la Vostra Valitudine [di cui] mi sono rallegrata assai con tutte queste madre e sorelle, Vostre humilissime serve. 41

CR X, 145. CR XI, 241-242. 43 CR XI, 286-287. 42


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Il prefato padre mi ha detto quanto sia il bisogno e desiderio di Vostra eccellentia, alla quale dico che la debba stare sicura e di buona Voglia dell’anima del suo genero Antonio [che] si riposa et è in luogho di salute. E preghate il Signore Iddio che vi facci salvo, né vi fa bisogno starvi di mala Voglia. Se havete fede nel Signore Iddio, fate ogni sforzo di lavarvi ormai tali fanttasia perché codesta cosa sia una tentatione diabolicha per impedirvi ogni buona opera E con dar la Vostra anima in disperation, guardatevi, signor mio, e confidatevi di me che non Vi direi bugia, né mai ci dimentichiamo di Voi nelle nostre orazione, benché deboli sieno. E Vi ringraziamo della Vostra limosina e charità della quale priegho Iddio che vi rimuneri di tanto subsidio a questo monastero. E priegho Vostra eccelentia [che] letta a la presente, la sia contenta [di] gittarlla al fuocho. El prefato padre ragionerà, a Vostra eccelentia, di un nostro fratello il quale lizardo (?) tutto quello può che sia Favor che gniene hazo obrigho, per il prefato li diza, sopra ciò, il mio desiderio, e Io per la non tediar fazo fin. Offerendoci e raccomandandoci sempre Iddio, felice e Illustrissima Sua eccelentia la conservi. Di Prato, dì XII dottobre 1558. Di Vostra excellentia Suora Caterina de’ Ricci di San Vincentio.

CONCLUSIONI È evidente che l’avvio del procedimento canonico di s. Maria Maddalena de’ Pazzi nel 1611, non consigliava, sia per ragioni politiche che ecclesiastiche, dopo le epurazioni promosse dal card. Alessandro de’ Medici in tutta la sua diocesi, di rimarcare i serrati rapporti che avevano unito il Carmelo fiorentino di s. Maria degli Angeli con le domenicane di s. Vincenzo di Prato e con il culto dei “tre martiri”, ossia il Savonarola e i suoi due confratelli, le cui reliquie, probabilmente con non pochi problemi di coscienza, erano passati dalla Bagnesi alle monache carmelitane44. È fin troppo evidente che finché fu possibile, la loro venerazione era 44

Cfr. C. VASCIAVEO, Radici ecclesiali, cit., 57-58.


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stata ben coltivata tanto a s. Vicenzo che al Carmelo, con raccolte di testimonianze tra diverse monache comprese le responsabili di Firenze. La presenza di un intero manoscritto delle “estasi” ricciane, probabilmente, spedito in fascicoli, oltre alle lettere e alle reliquie di s. Caterina de’ Ricci, suggerisce una prossimità amicale di tutto riguardo. E da questa messe di dati emerge, pure attraverso un primo esame, una dipendenza anche formale della raccolta delle parole e degli eventi della vita della carmelitana fiorentina da parte delle consorelle, sulla falsariga delle procedure usate dalle domenicane pratesi per la de’ Ricci, particolarmnte per il testo dei Quaranta Giorni45. Esattamente come le pratesi, le carmelitane di s. Maria degli Angeli, dinanzi al dire della loro giovane sorella, su ordine del Campi, predisposero una e poi più segretarie, in grado di trascrivere non solo le sue parole, ma anche gli ambienti in cui erano pronunciate, corredandole di brevi didascalie e, più tardi, raggruppandole con criteri svariati, ancora da indagare. Successivamente, si provvide anche a redigere, a partire dal 1598, una breve biografia, ancora vivente suor Maddalena, intitolata Breve ragguaglio46, da parte di suor Pacifica del Tovaglia, in vista di più ambiziose mete che evidentemente non escludevano un processo canonico. Si ritiene che, nel prosieguo degli studi, l’esemplarità letteraria e agiografica delle raccolte pratesi dovrà essere più accuratamente sondata e posta a tema. Da quanto si può notare, pare che il modello pratese dei Ratti, sia servito intanto come falsariga dei lavori delle carmelitane che trovandosi dinanzi ad un caso simile a quello costituito dalle meditazioni della de’ Ricci, provvidero ad informarsi e documentarsi su come procedere in materia. Ma è anche possibile che la traccia dei Ratti cateriniani, abbia costituito uno dei moduli formali della stessa Maria Maddalena de’ Pazzi che le performance cateriniane potrebbe aver udito sia da ragazza che nelle letture di refettorio o sala di lavoro, una volta entrata al Carmelo. Rispetto al ruolo spirituale dei gesuiti, sicuramente marcato e signi45 SANTA MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Quaranta giorni, E. Ancilli (cur.), I, Firenze 1960, 69-93. 46 SANTA MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Quaranta giorni, cit., 69-93.


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ficativo nel Carmelo fiorentino a partire dal 1590, occorrerà mettere meglio a fuoco la significativa pedagogia biblica e formativa posta in essere non solo dai frati domenicani, ma anche da donne domenicane, laiche e religiose, come Maria Bartolomea Bagnesi e Caterina de’ Ricci, verso la carmelitana Maria Maddalena de’ Pazzi, felice sintesi e punto di arrivo di un intero arco storico della spiritualità italiana, dal tardo-medioevo al barocco.


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IL CONTROVERSO EPISCOPATO DI UN PUGLIESE (ARCI)VESCOVO DI CATANIA: FELICE REGANO DA ANDRIA (1839-1861)*

GAETANO ZITO**

Dal 1839 al 1861 la diocesi di Catania è stata governata dal vescovo Felice Regano. Dopo centodieci anni, dalla morte di Raimondo Rubi (1727-1729), ultimo dei vescovi spagnoli, la diocesi di Catania riceveva un vescovo non siciliano. La nomina era conseguenza dell’applicazione, anche alle istituzioni ecclesiastiche, della decisione del governo borbonico di collocare dei napoletani ai vertici delle magistrature e delle amministrazioni civili ed ecclesiastiche della Sicilia, affidando ai siciliani impieghi minori nelle provincie napoletane1. La cosiddetta legge sulla promiscuità nell’isola era stata varata nel 1837 a seguito dell’insurrezione antigovernativa di quell’anno. Catania era stata tra le città protagoniste dei moti rivoluzionari. La decisione del sovrano di nominare Regano, come successore del francescano conventuale Domenico Orlando (1823-1839), manifestava pertanto la precisa volontà di posizionare in città un napoletano in grado di mantenerla fedele alla * Contributo offerto per la miscellanea in onore di Salvatore Palese, preside emerito della Facoltà Teologica di Puglia, fraterno amico, maestro e compagno nel servizio ecclesiale, in particolare all’Associazione archivistica ecclesiastica. Il testo — edito in Ministerium Pauperum. Omaggio a Mons. Salvatore Palese, a cura di Mario Spedicato, Lecce 2013, 215-234 — viene qui riproposto per favorirne la reperibilità a quanti si occupano di storia siciliana. ** Docente di Storia della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 A. SINDONI, Dal riformismo assolutistico al cattolicesimo sociale, Roma 1984, 11,38-39.


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corona. Identica logica non mancò pure nella decisione del sovrano, lo stesso anno 1839, di nominare arcivescovo di Palermo il teatino napoletano Ferdinando Maria Pignatelli (1839-1853), promosso cardinale. La diocesi di Catania, per di più, anche a seguito della rivolta di quell’anno, venne penalizzata con un’ulteriore riduzione del suo territorio assegnato, in parte, alla erigenda diocesi di Acireale (1844), dopo le decurtazioni subite per la fondazione delle diocesi di Caltagirone, Nicosia e Piazza Armerina tra il 1816 e il 1817. Come conseguenza si ebbe un nuovo rilevante ridimensionamento della fisionomia socio-politica della città. Il governo accolse l’aspirazione di Acireale a divenire sede di diocesi dopo che, nei moti del 1837, la città si era schierata a favore del sovrano. Ad essa venne pure riconosciuta la condizione canonica di diocesi immediatamente soggetta alla Santa Sede, non suffraganea di Catania. La sua autonomia, però, poté ottenerla solo nel 1872, quando venne superata la clausola che prescriveva la contemporanea assenza tanto dell’arcivescovo di Messina che del vescovo di Catania, da entrambe la nuova diocesi prendeva il territorio. In compenso del ridimensionamento territoriale, alla diocesi di Catania venne promessa la promozione a sede arcivescovile, anch’essa immediatamente soggetta alla Santa Sede (28 luglio 1844). Ne ottenne il titolo con la bolla di Pio IX Romana Ecclesia, del 4 settembre 1859, entrata in vigore il 17 aprile 1860. Il primo a godere del titolo di arcivescovo e del privilegio del pallio fu proprio Felice Regano ma solo per pochi giorni. A causa dello sbarco di Garibaldi a Marsala, l’11 maggio 1860, l’esecuzione della bolla si dovette rinviare e Regano ricevette il pallio il 20 marzo 1861, appena qualche giorno prima di morire, il 29 marzo successivo, cosicché poté indossarlo solo da morto2. Felice Regano era nato ad Andria (BA) il 5 giugno 17863. A causa della legislazione borbonica che impediva ai vescovi di ammettere 2 Sull’iter che ha portato alla fondazione delle nuove diocesi nel 1844, cfr. G. ZITO, La fondazione della diocesi di Caltanissetta, in Synaxis XV (1997) 311-352; ID., Nascita di una diocesi: Noto (1778-1844), in Synaxis 16 (1998) 565-621; una sintesi in ID., Sicilia, in ID. (cur.), Storia delle Chiese di Sicilia, Città del Vaticano 2009, 87-94. 3 Le note biografiche sono desunte dal Processus Datariae per la sua nomina episcopale, edite da A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1595-1890), Firenze-Catania 2009, 718-721.


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liberamente al sacerdozio quanti ne avessero voluto, gli fu impedito di accedere agli ordini sacri e, trasferitosi a Napoli, in un primo tempo si dedicò agli studi in medicina. Attenuatasi la politica governativa, fece ritorno ad Andria e il 16 giugno 1810 venne ordinato sacerdote dal vescovo Salvatore Maria Lombardi (1792-1821). Docente in seminario di teologia morale e di diritto canonico, esaminatore prosinodale e canonico della cattedrale, dopo la morte del vescovo Giovanni Battista Bolognese (1830-1832) resse la diocesi in qualità di vicario capitolare, fino alla nomina del nuovo vescovo Giuseppe Cosenza (1832-1850), in seguito arcivescovo di Capua e cardinale. Non avendo conseguito il grado accademico della laurea, dopo la presentazione per l’episcopato da parte di Ferdinando II (15 maggio 1839), prima di firmare la bolla di nomina a vescovo di Catania, l’11 luglio 18394 Gregorio XVI conferì a Regano la laurea in teologia honoris causa (25 giugno 1839), per i lunghi anni di insegnamento in seminario. Prese possesso della diocesi l’11 agosto per procura al vicario capitolare, Silvestro Platania. Ricevette l’ordinazione episcopale a Roma, il 1° settembre, dal siciliano card. Emanuele De Gregorio (1758-1839); venne in sede il 12 novembre 1839. Per gli eventi che hanno radicalmente mutato la fisionomia politica e sociale della Sicilia ma, in special modo, a causa del suo temperamento e del suo stile di vita, gli anni di episcopato di Regano furono segnati da forti contrasti e da gravi accuse. «Le testimonianze concordano — osserva Longhitano — nel descrivere il Regano come un uomo austero, burbero e testardo, di non facile rapporto con gli altri, che conduceva una vita ritirata e frugale, senza dare eccessiva importanza alle forme e al suo abbigliamento. Tuttavia dietro questo aspetto poco appariscente nascondeva una grande attenzione e generosità per i poveri e per coloro che avevano subìto ingiustizie»5. Questa particolare sensibilità per i poveri fu considerata identitaria del suo episcopato al punto che, alla 4

Lo stesso giorno è datata la sua lettera pastorale alla diocesi catanese: F. REGANO, Clero et populo, s.n.t., 1839; in edizione italiana: F. REGANO, Lettera pastorale, Napoli 1839. 5 LONGHITANO, Le relazioni «ad limina», cit., 721; alle pp. 721-738 i tratti salienti del suo progetto pastorale, delle accuse mossegli per la sua intransigenza e della partecipazione ai moti del 1848.


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sua morte, si decise di connotarlo e tramandarne la memoria scrivendo nell’epitaffio apposto in cattedrale, insieme al nome al cognome e agli anni di episcopato, semplicemente: «pater pauperum»6. Su due versanti, in particolare, vennero a Regano resistenze e pesanti accuse: la formazione impartita in seminario, il rigore nell’ammettere al sacerdozio e nell’esigere la riforma della vita del clero e di alcune prassi pastorali; il tentativo di esercitare il controllo sulla presenza e sull’attività dei religiosi in diocesi. I suoi avversari, oltre che sulla stampa periodica e sulla libellistica locale, si spinsero al punto di accusarlo presso la Curia romana e chiederne a più riprese la rimozione. 1. SEMINARIO E CLERO Tra le priorità nel governo della diocesi, Regano pose la riforma della vita del clero. A dieci anni circa dalla sua venuta in diocesi, nel 1848, si faceva osservare la differenza «che avvi tra il clero attuale, e quello di un decennio addietro. Non si vedono più nel piano del Duomo passeggiare a folla una moltitudine di preti sin dal far del giorno, ed aspettare ivi, come i murifabbri, la messa a discapito della dignità del sacerdozio». Ai sacerdoti al di sotto dei quaranta anni di età non concesse la facoltà di ascoltare le confessioni delle donne, nemmeno delle monache, considerato che «ogni moniale facevasi lecito di sciegliersi a gusto suo un padre confessore, e con questo passare delle belle ore giornalmente conversando nello stesso confessionale»7. 6 C. DE MARCO, Sulla cotidiana distribuzione del pane ai poveri nell’atrio del palazzo vescovile in Catania, Catania 1844. L’intensa opera caritativa di Regano si fondava sulle rendite della mensa vescovile i cui diritti, a seguito del decreto di Ferdinando II dell’11 dicembre 1841 che ordinava in tutta la Sicilia la cessazione della riscossione o dell’esercizio di qualsiasi diritto feudale, egli dovette difendere in lunghe controversie giudiziarie conclusesi ben oltre dopo la sua morte, con l’arcivescovo Dusmet, a favore della mensa. In CATANIA, ARCHIVIO STORICO DIOCESANO (ASD), Fondo Episcopati. I. Sezione secoli XV-1867: Episcopato Felice Regano (1839-1861), carpetta 11, fasc. 7 e 10, la corrispondenza di Regano con Antonino Galifi e Mario Lombardo riguardante i censi, le decime e le cause patrimoniali della mensa (18481859). Le ragioni contro le decime furono sostenute da Salvatore Marchese: O. CONDORELLI, Salvatore Marchese (1811-1880) tra diritto, storia ed economia. Appunti per una biografia, in Diritto e religioni 2 (2007) 2, 307-338. 7 Le due citazioni in Risposta ad un libercolo calunnioso a carico del vescovo


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Nel suo primo editto per l’apertura dell’anno seminaristico, del 15 settembre 1841, espresse con chiarezza le idee direttrici a cui avrebbe informato la formazione da impartirsi in seminario: «Essendo nostro vivissimo desiderio preparare un Clero, che risponda alla sublimità di sua vocazione, che congiunga alla integrità della vita quel sapere, che lo regoli utile alla Chiesa ed abile ai doveri del santo ministero, che concilii a se e al sacerdozio il rispetto e l’amore e l’ammirazione del popolo sempre tanto migliore quanto più eccellenti sono i Ministri posti a dottori duci ed esempio del popolo; e persuasi, che siffatto bene non possiamo sperare, se non da una santa istituzione, che sì bei frutti produca; abbiamo rivolto le nostre cure al nostro Chierical Seminario, ove veggiamo riposte le speranze della Chiesa, l’onore il decoro del sacro ministero, e dal quale procede la dottrina di pietà e quello spirito di religione, onde ottiene l’Altare utili e chiari ministri, sudditi fedeli al Trono, e la Società cittadini illuminati e probi. […] Esigiamo che coloro i quali aspirano all’onor del Sacerdozio diano sotto gli occhi nostri le più chiare e luminose prove di loro vocazione, perché sia assicurata la scelta degli utili ministri, ed attendano di proposito all’acquisto di quella dottrina e probità senza le quali gli ecclesiastici saranno d’inciampo a’ fedeli e di danno alla Chiesa»8.

Secondo Regano, dunque, il giovane chierico doveva ricevere, pur se in una ineccepibile visione ancien régime di alleanza trono-altare9, attuale di Catania ed avente per titolo- L’allontanamento di ogni regio. Voto del pubblico catanese, Catania l848, 7-8.12. Di questa difesa del Regano non si conosce l’autore; in calce si annota soltanto che è stata stampata «A cura, ed a spese dei sennati Sacerdoti, religiosi e laici catanesi». 8 ASD, Fondo Editti e Circolari, 1814-1899, fasc. 6, editto a stampa. Il Regano «tutto si spese all’incremento ed alla floridezza del suo Seminario sapendo bene, che i giovani una volta educati con diligenza agli studi sacri, e rassodati nel buon costume e nella religione sarebbero diventati quali Iddio li ha detti “il sale della terra e la luce del mondo” (Mat. 5). Vi direi, che egli solo e niun’altro esaminavali prima che ricevessero gli ordini sacri per giudicare da se medesimo se veramente ne fossero degni rigettando chiunque a lui non sembrasse tale»: F. DISCONZI, Elogio di Monsignor Felice Regano Arcivescovo di Catania letto il giorno 3 aprile 1861 per le sue esequie solenni nella Cattedrale, Catania 1861, 11-12. Altro elogio funebre, B. GUGLIELMINO, Felici Regano pontifici Catinensi jam extincto, elogium, ex typis Regalis Hospitii, Catinae 1861. 9 I seminari «non davano ombra al Governo dopo la restaurazione del 1815, poiché l’altare era alleato col trono, ed educavano perciò le menti all’assolutismo»:


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una formazione culturale ampia per saper trasfondere nel comportamento e nell’attività pastorale, insieme ai valori spirituali, un impegno e un’educazione del popolo di carattere socio-politico, in grado di gestire anche gli aspetti sociali della religione. Rispetto al suo predecessore, oltre che per i contenuti della formazione, Regano ritenne indispensabile mutare indirizzo al seminario anche per i rapporti dei seminaristi con la famiglia e la società. Infatti, pur riconoscendo che «la lunga dimora fuori le mura di esso Seminario evidentemente ritarda i progressi de’ chierici nelle lettere, ed affievolisce la loro pietà», concesse loro, come riposo dalle fatiche dello studio, 45 giorni di vacanze annuali da trascorrere in famiglia, dal 3 settembre al 15 di ottobre. Coerentemente con questa impostazione, Regano si mostrò piuttosto severo nel promuovere i giovani al sacerdozio. In diversi casi li fece attendere oltre il trentesimo anno di età, fintanto che non riconosceva in loro quella maturità e quei requisiti culturali e morali ritenuti indispensabili ad un prete. I suoi sostenitori gli riconoscevano, infatti, che «venne nel savissimo divisamento di diminuire il numero delle ordinazioni, e di farne degni quei giovani che fossero sperimentati della loro dottrina e della loro morale nel Seminario dei Chierici, come vuole il Concilio» di Trento10. Per qualificare ulteriormente la preparazione culturale dei seminaristi, Regano aveva elaborato un nuovo progetto dell’ordinamento degli studi del seminario, dall’anno scolastico 1860-61, ma gli avvenimenti politici del 1860 non glielo permisero. Intendeva organizzare in cinque anni il corso teologico e aggiungere gli insegnamenti di storia ecclesiastica, sacri riti e cerimonie. Nel corso filosofico aveva programmato di inserire pure gli insegnamenti di fisiologia, anatomia, igiene. Nei corsi inferiori, poi, voleva far studiare la storia naturale. E a «a perfezionare l’insegnamento Linguistico si amava aggiungere la Lingua Tedesca»11. Un progetto di ampio respiro culturale che rispondeva agli orientaF. SCADUTO, Stato e Chiesa nelle Due Sicilie, Palermo 1969,11.139 (prima edizione: Palermo 1887). 10 Risposta ad un libercolo calunnioso, cit., 15-16. 11 F. DISCONZI, Elogio di Monsignor Felice Regano, cit., 12. Dai bilanci del 1858 si evincono gli insegnamenti, i docenti e lo stipendio da ciascuno percepito: teologia


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menti filo-liberali di Regano testimoniato anche dalla presenza in seminario dello scolopio Melchiorre Galeotti che, a causa del suo protagonismo politico nella rivoluzione del 1848 e per le sue idee liberali, era stato mandato in esilio da Palermo. Nel 1854 Regano lo accolse come insegnante in seminario; vi rimase fino alla conclusione dell’anno scolastico 1858-59 quando, a settembre, poté tornare a Palermo12. D’altronde, lo stesso Regano aveva condiviso gli ideali risorgimentali del 1848. Si era rifiutato di svolgere l’attività poliziesca chiestagli dal ministro Del Carretto, di controllare e riferire gli atteggiamenti politici dei catanesi, e manifestò apertamente la sua condivisione alla rivoluzione, sostenuta anche finanziariamente: in cattedrale benedisse solennemente il tricolore, intonò il Te Deum di ringraziamento per la vittoria degli insorti, congedò la folla con la solenne benedizione e, a fine marzo, prese parte al parlamento generale convocato in Palermo. La sua posizione fu condivisa da gran parte del clero catanese e da molti religiosi e, tra i membri del comitato generale che governarono in quell’occasione la provincia di Catania, vi fu il vicario generale, il canonico Silvestro Platania. Di Regano, nel 1848, si scrisse che «il Vescovo di Catania Monsignor D. Felice Regano è un uomo giusto, dotto, pietoso, forte, e perché nimico della tirannide, amante della santa, e vera libertà»13. Questa sua posizione favorevole all’Unità d’Italia gli venne riconosciuta ancora all’indomani del passaggio dei Mille dalla Sicilia: dogmatica il domenicano Luigi Ferrara, onze 36; diritto canonico Gioacchino Russo, onze 36; teologia morale Giuseppe Coco Zanghì, onze 36; eloquenza Girolamo D’Andrea, onze 36; filosofia, lo scolopio Melchiorre Galeotti, onze 30; umanità Mario Viola, onze 30; matematica Salvatore Fragalà, onze 24; lettore di seconda Domenico Russo, onze 28; lettore di prima Antonino Sacchiero, onze 24; lingua francese Luigi Pappalardo, onze 12; lingua greca Giuseppe Coco Zanghì, onze 12; canto fermo Luigi Fiorito, onze 12; calligrafia il signor Giovanni Percolla, onze 12. CATANIA, ARCHIVIO SEMINARIO ARCIVESCOVILE, Sezione legale, fasc. B. 19. Un’onza nel 1860 equivaleva a lire 12,75; secondo il coefficiente ISTAT del 2011 il valore sarebbe di poco più di 57 euro. Regano aveva pure voluta la pubblicazione di un periodico: Tromba della Religione. Giornale periodico compilato sotto gli auspici di Monsignor Felice Regano vescovo di Catania, Stamperia F. Pastore, Catania 1844. 12 G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (18671894), Acireale 1987, 149-150. 13 Risposta ad un libercolo, cit., 19.


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«L’Arcivescovo di questa città hassi attirato la attenzione di tutti per le sue pietose opere. Un numeroso stuolo di poveri si presenta tutto dì alla porta sua, e trova sempre il pane da sfamarsi e ancora da soddisfare alle sue necessità più urgenti. Noi cogliamo questa occasione per manifestare, a chi possa ignorarle, queste bellissime opere; che peraltro sonosi vedute da lui ancora quando la tirannide infioriva e specialmente nei luttuosi giorni che di poco precedettero la rivoluzione nostra del 31 maggio. Questo Arcivescovo se mai venisse meno la fama del clero siciliano, basterebbe a mantenerla: in lui alla pietà si accoppia la dottrina vera di Cristo, che non è serva dei potenti, e contraria al giusto e onesto»14.

Le direttive del Regano furono condivise dal giovane rettore del seminario da lui scelto Giovanni Guttadauro (1814-1896). Non mancarono, ovviamente, le critiche all’uno e all’altro da parte di una porzione del clero. Rimproveravano al rettore certi suoi «pregiudizi»: si prediligevano i chierici vicini alla Congregazione dei sacerdoti della dottrina cristiana, che si riuniva nella chiesa di S. Maria della Lettera; per gli esercizi spirituali ai seminaristi si chiamavano sempre i padri gesuiti, «come se in Catania mancassero soggetti degni di sì ufficio»; non si rendeva conto che si lasciava influenzare molto dalla pietà este14 Elogio pubblicato il 13 settembre 1860 dal giornale catanese L’Unità e l’indipendenza. Giornale politico letterario, 1, n. 14 (1860) 3; bisettimanale, pubblicato a Catania dal 27 luglio 1860 al 9 luglio 1861, esprimeva tendenze moderate ma risoluta avversione ai reazionari borbonico-clericali. Nel 1849, ristabilitosi il potere borbonico, gli atti ufficiali si premurarono a dare una lettura filogovernativa della permanenza di Regano a Palermo: «l’empia prepotenza de’ ribelli tratteneva in Palermo quasi in ostaggio. La sua fermezza religiosa, nell’opporsi costantemente alle esecrande mire dei rivoltosi, i suoi patimenti e le sofferenze pel decorso di quindici mesi, onde riuscire in questo nobilissimo scopo, formano per lui un elogio così lusinghiero, che noi ci dispensiamo volentieri di parlarne»: Notiziario delle cose avvenute l’anno 1848 nella guerra siciliana, Napoli 1848, 52. Anche il vicario generale Platania, l’11 aprile 1849, dovette emanare una disposizione per sancire, secondo una precisa logica strumentale della religione e del culto, il ristabilimento dell’ordine pubblico: «Trovandoci nella perfetta tranquillità e pace per lo felice arrivo in questa città delle truppe di S. M. il Re N. S. (D.G.), crediamo nostro dovere ordinare che si faccia in questa città e diocesi un triduo di ringraziamento all’Altissimo», da concludersi domenica 15 aprile con la messa solenne in cattedrale, alla quale avrebbero preso parte le autorità e il senato cittadino, da concludersi con il canto del Te Deum e il suono delle campane delle chiese della città e della diocesi: Raccolta di atti e decreti del governo [di Sicilia, 18491851]: aprile-ottobre 1849, Palermo 1849, 77.


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riore dei seminaristi. Gli riconoscevano, tuttavia, che non era «un bigotto, ossia un’ipocrita; giacché in fondo non ha cattiva morale (volesse Iddio, che i giovani da lui carezzati fossero nel fondo dell’anima della stessa guisa !)»15. Negli anni del rettorato Guttadauro (1845-1858), in seminario si formarono preti e futuri vescovi zelanti, dalla soda formazione culturale e spirituale, capaci di raccogliere la sfida del mondo moderno, fedeli al papa e in grado di avviare modelli pastorali attenti alle diverse necessità del popolo. Della diocesi di Catania, insieme allo stesso Guttadauro poi vescovo di Caltanissetta, Giuseppe Coco Zanghì, primo vicario generale dell’arcivescovo Giuseppe Benedetto Dusmet (1867-1894) e suo consulente al concilio Vaticano I, morto prematuramente nel 1878 all’età di 49 anni; Francesco Castro, l’altro vicario generale di Dusmet; Antonino Caff, rettore del seminario catanese negli anni dell’episcopato Dusmet e suo vescovo ausiliare; Mariano Palermo, vescovo di Lipari e poi di Piazza Armerina; il nipote di Guttadauro, Giuseppe Francica Nava, prima suo ausiliare a Caltanissetta e poi nunzio apostolico in Belgio e a Madrid, arcivescovo di Catania e cardinale. Nel seminario di Catania si formarono pure preti di altre diocesi e fra questi va segnalato Giovanni Blandini, della diocesi di Caltagirone vescovo di Noto16. 2. LO SCONTRO CON I RELIGIOSI Nei primi decenni del sec. XIX la situazione complessiva delle comunità religiose siciliane non lasciava tranquille sia le autorità ecclesiastiche romane, quanto lo stesso governo napoletano. Di fatto, al governo importava controllare in special modo i religiosi, per arginare l’influsso che essi erano in grado di esercitare sulla vita sociale, politica ed economica del territorio in cui vivevano. Influsso particolarmente rilevante a causa della complessiva struttura della Chiesa siciliana, con 15

Risposta ad un libercolo calunnioso, cit., 16. I vescovi furono ricordati da G. BLANDINI, Elogio funebre di Monsignor Giovanni Guttadauro vescovo di Caltanissetta. Recitato presente cadavere nei solenni funerali del dì 28 aprile 1896, Noto 1896. Per Coco Zanghì e Castro, cfr. G. ZITO, La cura pastorale, cit., 137-140. 16


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l’assenza di una capillare rete parrocchiale, che aveva proprio nei religiosi un elemento portante della vita cristiana del popolo. Sappiamo come la vita dei religiosi fosse uno dei punti cardini del programma pastorale fin dall’inizio del pontificato di Pio IX17. Al fine di acquisire dati veritieri sulla condizione formale delle comunità e sulla loro osservanza regolare, con specifiche notizie sui singoli membri, al momento di istituire la S. Congregazione sopra lo Stato dei Regolari (1847) il papa decise di affidare ai vescovi il compito di rispondere ad un articolato questionario sulle condizioni delle comunità religiose nelle rispettive diocesi e, al contempo, indicare concrete proposte per una incisiva riforma della vita religiosa18. L’iter per introdurre la riforma nella vita dei religiosi si era appena avviato quando sopraggiunsero i moti rivoluzionari del 1848, e fu giocoforza doverlo sospendere. Gli stessi religiosi dell’isola non rimasero estranei all’insurrezione, come già in precedenti simili occasioni19. Gli eventi del ’48 e l’acuirsi degli abusi da parte dei religiosi indussero la S. Congregazione sopra lo Stato dei Regolari ad emanare, da Portici, il noto drastico provvedimento del 15 novembre 1849, esclusivamente per i religiosi di Sicilia, con il quale si intimò essere «inopportuno ammettere nuovi Postulanti all’abito, ed i Novizi alla Professione nello stato presente». Per tutte le comunità maschili dell’isola, di conseguenza, senza alcuna eccezione, veniva sospesa per due anni, sotto pena di nullità, l’ammissione dei postulanti al noviziato e la professione 17

cfr. G. MARTINA, Pio IX (1846-1850), Roma 1974, 507-517; ID., Pio IX (18511866), Roma 1986, 213-245. 18 Copia della circolare in ASD, Fondo Religiosi e Religiose, C. M. 15, fasc. 1. Sulla situazione dei regolari in Sicilia, cfr. A. GAMBASIN, Religiosa magnificenza e plebi in Sicilia nel XIX secolo, Roma 1979, 173-184; R. MANDUCA, La diocesi di Caltagirone nell’inchiesta sui regolari di Sicilia di Pio IX (1847-1850), in Synaxis 10 (1992) 419-551. 19 «A Siracusa, durante le rivoluzioni del ’21 e del ’48, i conventi si erano trasformati in focolai di rivolta»: A. GAMBASIN, Religiosa magnificenza, cit., 173. Anche i religiosi catanesi non erano rimasti indifferenti spettatori. Nel 1820 diversi monaci benedettini di S. Nicola l’Arena, sebbene avessero prestato giuramento di fedeltà al re nelle mani del vescovo, avevano preso parte ai moti insurrezionali e nel 1822, per ordine del governo, erano stati trasferiti ed incardinati in altri monasteri dell’isola: G. ZITO, Benedettini a Catania tra conflitti e riforma. La visita abbaziale del 1822 a S. Nicola l’Arena, in F. G. B. TROLESE (CUR.), Monastica et Humanistica. Scritti in onore di Gregorio Penco O.S.B., Cesena 2003, 519-560.


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religiosa dei novizi, salvo il caso di quei novizi di età superiore ai venti anni e che avessero già completato il prescritto noviziato. L’adempimento del decreto venne demandato ai vescovi i quali, in considerazione dell’eccezionalità della circostanza, potevano e dovevano compiere la visita apostolica alle singole case religiose della propria diocesi, per acquisire sicure e dettagliate informazioni sulle comunità e «specialmente sulla condotta degl’individui, sulle qualità dei Superiori, e dei Maestri dei Novizi, e circa il materiale, ed il formale dei Noviziati». Una esatta relazione finale doveva da loro essere trasmessa alla S. Congregazione sopra lo Stato dei Regolari, indicando i possibili provvedimenti da adottare «a bene, ed utilità degl’istituti medesimi»20. Nella diocesi di Catania il vescovo Regano emanò sollecitamente il decreto di sospensione delle professioni religiose ed avviò l’indagine sullo stato delle comunità21. A Catania vi erano 14 comunità religiose: 5 di francescani (minori osservanti, riformati, terz’ordine, conventuali e cappuccini), 2 di carmelitani (riformati della Scala e di Monte Santo), 2 di domenicani, 2 di minoriti, 1 di benedettini, 1 di camilliani noti come crociferi e 1 di frati minimi. In esse vivevano 313 religiosi: 192 sacerdoti, 74 tra laici professi e conversi, e altri 47 a vario titolo (chierici, studenti professi e non professi, laici non professi, terziari). Altri 38 religiosi erano assenti per motivi vari; per lo più, per trasferimento provvisorio in altre comunità, oppure per servizi da prestare alla propria famiglia religiosa. Di particolare rilievo l’assenza di ben 13 benedettini dal monastero di S. Nicola l’Arena: per malattia, per impegni in seno alla congregazione cassinese, per la gestione dei beni 20 Copia a stampa del decreto, inviato il 26 dicembre successivo ai superiori religiosi della diocesi, in ASD, Fondo Religiosi e Religiose, C.M. 15, fasc. 1. La contestualizzazione in G. MARTINA, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878). Relazioni I, Milano 1973, 202210. 21 Le informazioni assunte dal vescovo sulle comunità religiose, in bozza e con ogni probabilità solo parzialmente, sono conservate in ASD, Fondo Statistica, fasc. 22: «Stato nominativo del clero regolare di Catania con le qualità e le virtù religiose, sociali, politiche, letterarie e scientifiche 1850». La relazione definitiva e dettagliata del Regano si trova in ARCHIVIO SEGRETO VATICANO (ASV), Congregazione Speciale Super Statu Regularium, scatolo 81-95.


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del monastero. Vi erano ospiti, invece, 3 monaci di altre comunità: 2 per malattia e 1 per testimonianza da rendere presso il Tribunale civile. Complessivamente, in ottemperanza alle disposizioni pontificie, a 27 giovani venne ingiunto per due anni di non poter emettere lecita e valida professione religiosa. Di ciascun religioso Regano stilò un sintetico giudizio sulla preparazione culturale, sulla moralità personale, sulle relazioni comunitarie, sull’esercizio del ministero e sull’opinione pubblica che si aveva di loro22. Sull’attività dei religiosi in diocesi, in verità, Regano riteneva di dover esercitare maggiore giurisdizione di quanto non gli fosse riconosciuta, preoccupato dei riflessi che la loro attività poteva avere sulla vita dei fedeli. Ai fini di un’efficace riforma della vita religiosa propose alla S. Sede l’abolizione di tutti i privilegi di cui godevano gli ordini religiosi; il divieto per loro di accettare per la professione e di ammettere al sacerdozio coloro ai quali era stato negato dai vescovi; norme precise per vincolare i religiosi a sostenere davanti al vescovo l’esame previo all’ordinazione sacerdotale e il divieto ai superiori di farlo eludere all’ordinando con il trasferimento ad altra sede; la proibizione di uscire da soli dal convento; la dipendenza dai vescovi23. In attesa che Roma si pronunziasse sulle sue proposte, in forza delle direttive già emanate dalla Curia romana per la riforma dei religiosi e considerata la valutazione complessivamente negativa che aveva maturato sulla loro disciplina, Regano decise di esercitare un maggiore controllo sulla loro attività in diocesi. Con decreto del 3 gennaio 1848, avviò una speciale vigilanza sulla loro predicazione. Appellandosi alle prescrizioni del concilio di Trento e del sinodo diocesano di Bonadies (1668), prescrisse «che niuno del Clero secolare 22 Per una disamina ampia di tutta questa documentazione relativa ai religiosi nella diocesi di Catania, cfr. G. ZITO, I rapporti vescovo-regolari in epoca moderna e contemporanea dall’Archivio Storico Diocesano di Catania, in I religiosi e la loro documentazione archivistica. Atti del XIX convegno degli archivisti ecclesiastici (Roma 15-18 ottobre 1996), in Archiva Ecclesiae 42 (1999) 81-105. Per i religiosi a Catania, si veda pure A. COCO – G. SAMPERI, Conventi e ordini regolari maschili a Catania nella prima metà dell’Ottocento, in Synaxis 19 (2001) 165-186. 23 Relazione del Regano, in risposta all’enciclica del 17 giugno 1847, Ubi primum, inviata il 28 novembre successivo: ASV, Congregazione Speciale Super Statu Regularium, scatolo 81-95.


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o regolare, anche nelle chiese dell’Ordine proprio ardisca predicare senza che abbia da Noi l’approvazione, e la benedizione, che daremo tutte le volte che niun motivo ci obbligasse a negarsi; e riguardo a’ regolari dopo che ci avranno esibito ciò che sapientemente fu disposto dall’uno e l’altro Concilio»24. L’opposizione al decreto da parte dei religiosi fu immediata ed incrementò i loro malumori contro il vescovo. Un libello anonimo, pubblicato il 26 febbraio successivo al decreto, raccoglieva una serie di accuse verso Regano e, tra esse, quella di aver depredato i religiosi dei privilegi concessi loro dal concilio di Trento, anche sulla predicazione: «tu negasti la tua benedizione a chi ti venne obbediente a chiederti venia per la predicazione nella propria chiesa, che di venia solo ti era debitore secondo il Concilio; tu anche giungesti con sommo scandalo dei fedeli e con disonore di chi esercitava il grave ministero d’istruire il popolo, tu giungesti a far sospendere la predicazione in suo corso!»25. La polemica, lungi dal placarsi, continuò ancora più determinata. Un nuovo sommario di addebiti, anch’esso anonimo, venne edito in risposta alla difesa del Regano. A proposito dei religiosi, il vescovo venne ora accusato di eccessivo rigore nel concedere loro la facoltà di confessare, al punto che «nella Chiesa del Carmine frequentatissima 24 ASD, Fondo Religiosi e Religiose, C. M. 14, fasc. 1. Il testo fa esplicito riferimento al Concilio di Trento: cap. 2 della sess. 5 de reformatione: «Regulares vero cuiuscumque ordinis, nisi a suis superioribus de vita, moribus et scientia examinati et approbati fuerint, ac de eorum licentia, etiam in ecclesiis suorum ordinum, praedicare non possint; cum qua licentia personaliter se coram episcopis praesentare et ab eis benedictionem petere teneantur, antequam praedicare incipiant». Al can. 4 della sess. 24 de reformatione: «Nullus autem saecularis, sive regularis, etiam in ecclesiis suorum ordinum, contradicente episcopo praedicare presuma». Il sinodo diocesano di Bonadies, rimasto in vigore fino al successivo celebrato dall’arcivescovo card. Giuseppe Francica Nava nel 1918, alla sess. 1, cap. 6 (De Verbi divini Concionatoribus), paragrafi 21 e 22 prescriveva la esatta osservanza di tutti i decreti del concilio di Trento sotto pena di scomunica: Decreta in principe Dioecesana Synodo quam Illustrissimus & Reverendissimus Dominus Fr. D. Michael Angelus Bonadies Episcopus Catanensis … celebravit Catanae die 11, 12 et 13 Maij 1668, Catanae 1668, 15-16. 25 Non è stato possibile ritrovare il testo originale del libello, ma di esso sono riportate precise notizie ed ampi stralci in: Risposta ad un libercolo calunnioso, cit., 14. Questa accusa specifica pare abbia permesso ai difensori di Regano di individuare l’autore, pur senza nominarlo esplicitamente: «se il Vescovo ha proibito a te di predi-


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vi sono tre soli Confessori. Nelle Chiese de’ Domenicani e Minoritelli vi è un sol Confessore». L’insieme dell’atteggiamento del Regano induceva l’anonimo autore del pamphlet ad avanzare l’ipotesi «che se dipendesse da lui li manderebbe tutti a spasso, e per perdersene la memoria chiuderebbe anche le Chiese»26. L’aspra diatriba persisteva ancora un decennio dopo. Un esposto anonimo, a firma de «I Regolari della Diocesi di Catania», venne inviato il 17 novembre 1858 al card. Antonio Cagiano, prefetto della Congregazione del Concilio, nel quale si riproponevano le accuse formulate contro il Regano nei precedenti libelli27. L’esposto attribuiva alla esclusiva responsabilità del vescovo, per la sua avversione ai religiosi, la condizione di grave disordine in cui versava la diocesi. Centrale era il tema della predicazione: lo si accusava di forzare le prescrizione del tridentino e, quindi, di impedire a molti religiosi di predicare, di ingerirsi nella giurisdizione propria dei superiori e, forte del sostegno dei suoi vicari foranei «spesso opposti ai Frati per interessi personali», di sostenere che «non è necessario che si predichi nelle Chiese dei Regolari». Alla luce del magistero pontificio e dell’autorevolezza del card. De Luca e di altri giuristi, gli veniva contestata come pretestuosa l’interpretazione dei decreti conciliari e, pertanto, veniva ritenuta illegittima e invalida la sospensione comminata ai predicatori religiosi, a maggior ragione se, col permesso dei superiori, erano stati approvati in altre diocesi. Di conseguenza, i religiosi si dovevano ritenere sciolti dall’obbligo di obbedire al vescovo e liberi di predicare nelle chiese del proprio ordine. La documentazione al presente disponibile non ci permette di conoscere quale esito abbia avuto tutta la vicenda. A Roma, in ogni caso, non pare abbia trovato molto credito. In quegli anni le congregazioni romane faticavano per purificare e tenere sotto controllo la care, è stato perché la parola di Dio si prostituisce in bocca di un frate scandaloso», mentre il permesso di predicare non era stato mai negato ai religiosi esemplari e preparati: ibid., 14-15. 26 Sul retro del testo a stampa Regano annotò: «Reclamo contro me stesso». Il documento, non datato, si conserva in ASD, Fondo Episcopati. I. Sezione secoli XV1867: Episcopato Felice Regano (1839-1861), carpetta 11, fasc. 2: Carte personali. 27 ASD, Fondo Religiosi e Religiose, C. M. 15, fasc. 1.


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vita dei religiosi, in Sicilia specialmente, e un efficace apporto potevano garantirlo i vescovi. Sta di fatto che l’esposto, dopo un mese, dalla S. Congregazione del Concilio venne trasmesso a quella dei Vescovi e Regolari e da questa, il 12 marzo 1859, venne inviato a Regano perché riferisse sugli addebiti che gli venivano ascritti28. Su chi possa essere stato il promotore della resistenza al vescovo, dei libelli anonimi e dell’esposto inviato alla Curia romana pare che non debbano esservi dubbi sulla persona del cappuccino Gesualdo De Luca da Bronte29. La conferma è data da un ampio e articolato studio del De Luca, pubblicato a fine anno 1859, in cui trattava tanto della libertà di predicazione per i religiosi, quanto delle loro esenzioni dall’autorità episcopale circa l’amministrazione dei sacramenti e l’esercizio del ministero sacerdotale. Con questa pubblicazione riteneva di aver eretto delle «dighe al torrente delle pretensioni, anziché trasceso i limiti delle altrui spettanze»30. Gesualdo De Luca non si presenta come un comune frate liberaleggiante, insofferente dell’autorità dei superiori e di quella ecclesiastica più in generale. Egli stesso aveva ricoperto incarichi di governo nel suo ordine: provinciale, definitore e custode generale dei cappuccini. Per la 28 Purtroppo, tanto nell’Archivio Storico Diocesano di Catania, quanto nell’Archivio Segreto Vaticano non si è ancora trovata traccia di un’eventuale risposta del vescovo. 29 Al Giudice del Tribunale di Regia Monarchia, il 25 aprile 1859, poco dopo aver ricevuto da Roma l’esposto presentato contro di lui, sui cappuccini Gesualdo e Luigi da Bronte, Regano scriveva: «sono famosi negli anni del mio vescovado, e più dell’altro p. Gesualdo a causa dell’ostinatezza mostrata nella loro patria avendo predicato contro il mio divieto». Fin dal 1850, su Gesualdo De Luca Regano aveva inviato tre rapporti al Giudice della Regia Monarchia e altri sei al Luogotenente Generale in Palermo. Il 9 novembre 1850 al Giudice, al quale si era rivolto il De Luca in opposizione al decreto sulla predicazione, il vescovo indicava nei cappuccini di Bronte il focolaio della ribellione e in p. Gesualdo «il corifeo della discordia e della opposizione». Il 2 agosto 1858 al Luogotenente scriveva che il De Luca era «d’indole irrequieta ed arrogante» e voleva sobillare il clero diocesano di Bronte: ASD, Fondo Registra Litterarum, 1858-1860, ff. 46r-v; 71; 82v-84v. Brevi notizie su De Luca (18141892) in G. DE LUCA, Esame di controversie ecclesiastiche, Catania 1859, 294-295; Necrologio dei religiosi della provincia di Messina dei Frati minori cappuccini, compilato da P. Candido Chichi, Messina 1986, 56. 30 G. DE LUCA, Esame, cit., VIII.


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sua competenza teologica e giuridica il p. Felice Fenech da Lipari31 lo volle suo segretario, e il cappuccino Francesco Saverio D’Ambrosio, vescovo di Muro Lucano, lo scelse come proprio consultore al concilio Vaticano I. Per le sue doti intellettuali gli venne concessa l’abilitazione ad insegnare teologia e fu chiamato a dirigere il seminario della prelatura di S. Lucia del Mela. Affermava di essere stato eletto professore sostituto di diritto canonico nell’Università di Palermo, docente di filosofia e socio di varie accademie32. Dopo la morte di Regano, negli anni del conflitto tra il vicario capitolare di Catania, Gaetano Asmondo, e il rettore del seminario, Gioacchino Russo, De Luca difese la validità della giurisdizione del vicario sul seminario. Dopo la soppressione dei religiosi, a lui si deve la ripresa della comunità cappuccina a Bronte e la riacquisizione dei locali del convento33. Come spiegare il pertinace e insanabile conflitto scatenatosi tra Regano e De Luca? Ciascuno dei due era caparbio assertore delle proprie prerogative e intendeva difendere ad ogni costo la propria posizione: per De Luca le esenzioni religiose; per Regano l’autorità episcopale. Un dato, dal contesto generale, emerge con tutta evidenza: in quegli anni di radicali rivolgimenti politici e sociali, dagli incisivi influssi sulla vita dei fedeli e sulle strutture ecclesiastiche, in modo del 31

Fenech nel 1854 era stato promosso consultore della S. Congregazione dei Vescovi e Regolari. De Luca avrà trovato in lui un valido sostenitore presso la Curia romana ma, a quanto pare, senza alcun effetto. Fenech (1792-1866) fu provinciale in varie provincie cappuccine, definitore e procuratore generale del suo ordine: G. DE LUCA, Elogio funebre in lode del Rev.mo P.re Felice Fenech da Lipari, Bergamo 1867; Lexicon Capuccinorum, Romae 1951, 576; Necrologio dei religiosi, cit., 145-146; Fenech fu «rigido difensore dell’osservanza regolare, intransigente e filo borbonico»; per l’ostilità di molti frati liberali fu perseguitato dalla polizia borbonica, arrestato a Napoli nel 1850 e tenuto in carcere per due mesi: G. MARTINA, La situazione degli istituti religiosi, cit., 217-218; 290-292. 32 Al 29 novembre 1858 non pare, però, che abbia ancora ricevuto la cattedra: cfr. F. CONIGLIARO, Note sulla Facoltà di Teologia dell’Università di Palermo, in Synaxis XIV (1996) 193-194. Al 1883 elencava 42 opere edite, 2 di prossima pubblicazione e 8 inedite,in cui affrontava i più disparati argomenti: G. DE LUCA, Storia della città di Bronte, Milano 1883 (rist. anastatica Bologna 1986), annotazione a fine volume. Sulla sua produzione teologico-giuridica, cfr. S. PATERNÒ, Gesualdo De Luca teologo del sacramento del matrimonio, Napoli 1979. 33 G. ZITO, La cura pastorale, cit., 155, 289-290.


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tutto particolare la riforma dei religiosi, tenacemente perseguita dai pontefici dall’indomani del congresso di Vienna, passava attraverso un nuovo modello ecclesiologico, quello romano appunto, incentrato sull’autorità e la giurisdizione del romano pontefice esercitata in loco dai vescovi e strenuamente sostenuta dall’intervento in loro favore dalle congregazioni romane. 3. GLI ESPOSTI ALLA SANTA SEDE CONTRO REGANO I provvedimenti di Regano e il suo stile di governo provocarono rimostranze che non si limitarono alla pubblicazione in città di libelli di aperta e aspra critica. Il gruppo degli avversari, nascondendosi dietro l’anonimato, chiese a più riprese l’intervento della Santa Sede contestando al vescovo atteggiamenti, asserzioni, decisioni ritenute non confacenti alla dignità episcopale e, soprattutto, giudicate dannose per la cura animarum e deleterie per il sereno andamento della diocesi. Un esposto anonimo del 1853 presentava in dodici punti il «diportamento non buono del Vescovo di Catania»34. Le accuse concernevano le resistenze di Regano a chiedere alla Santa Sede le dispense di primo e secondo grado di affinità per il matrimonio; la rigidità nell’ammettere al sacerdozio e l’orientamento a tenere le ordinazioni sacre una sola volta l’anno, con la conseguenza che in molte zone rurali i fedeli restavano senza la celebrazione della messa per mancanza di preti; era rigoroso nel concedere la facoltà di confessare; concedeva una sola volta l’anno la facoltà ordinaria di assolvere dai casi riservati, tra la domenica delle Palme e la domenica in Albis; imponeva ai predicatori l’obbligo di chiedere il permesso di predicare, anche ai religiosi, e sceglieva lui i predicatori quaresimalisti; impediva che si tenessero missioni popolari; aveva limitato la libertà elle monache di clausura, limitando il permesso per il confessore straordinario e concedendo ad estranei (medici ed operai) i permessi di ingresso in monastero solo in casi di estrema necessità; puniva i preti 34

CITTÀ DEL VATICANO, SEGRETERIA DI STATO. SEZIONE RAPPORTI CON GLI STATI, Fondo Affari Ecclesiastici Straordinari (AAEESS), Napoli-Sicilia, 1853, pos. 301, fasc. 96, ff. 81-82v. Il testo integrale in Appendice, 1.


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pubblicamente, ricorrendo anche a farli rinchiudere nel carcere pubblico o in qualche convento; aveva negato il permesso di confessare un moribondo a due preti indicati da questo ma che non erano abilitati e il malato erano morto senza ricevere i sacramenti, rifiutando di confessarsi con altri. «In una parola — annotava l’anonimo estensore del testo — non è un Vescovo promotore del bene e del buon essere della perfezione cristiana; […] tiene solamente per regola fissa il suo capriccio e suo volere». A ben vedere, tuttavia, le accuse consegnano con tutta evidenza un chiaro progetto del vescovo: mettere ordine nella vita della diocesi; estirpare gli abusi nella prassi pastorale del clero secolare e regolare; ridare credibilità alla clausura nei monasteri femminili, anche a costo di favorire la nullità di professione a chi non intendeva rimanervi; arginare una visione prevalentemente formale e sociologica della religione per indurre i fedeli a tradurre in coerente comportamenti etici il dirsi cristiani. Era, dunque, un nuovo modello pastorale che Regano intendeva imporre in diocesi e quanti non lo condividevano, in nome della prassi tradizionale, gli muovevano aspre critiche e ricorrevano alla denigrazione, ponendo l’accento in special modo sui suoi modi sbrigativi e bruschi di trattare un po’ tutti. Di questo stridente intreccio fra i contenuti del suo governo e le forme con cui mirava ad imporre la sua azione pastorale ne era convinto Salvatore Calcara, canonico della cattedrale di Palermo e già vicario generale dell’arcivescovo card. Ferdinando Maria Pignatelli, al quale il 30 giugno 1853 si era rivolto il segretario di Stato, card. Giacomo Antonelli: «E però potrà, a mio avviso, caratterizzarsi il Vescovo di Catania qual burbero benefico in rapporto alla Società Civile, e qual zelantissimo Pastore in rapporto alla Società dei fedeli». La risposta di Calcara convinse Pio IX, informato dal card. Antonelli, a disporre il non luogo a procedere contro Regano35. Un nuovo esposto venne inviato al papa il 15 gennaio 1856, a firma di un sedicente sac. Euplio Duara, curato della chiesa sacramentale di S. Gaetano a Catania. Anche questo esposto di fatto, però, era anonimo. Infatti, ad un controllo sui registri di Battesimo e di 35 Ibid., ff. 88r-v; 91. Cfr. il testo integrale della lettera e della nota di Antonelli in Appendice, 2.


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Matrimonio di tale chiesa nel 1856 il cappellano curato era Lucio Gulli e suo coadiutore Michele Bonaccorsi36. L’autore dell’esposto denunzia la desolazione in cui era caduta la diocesi di Catania, in precedenza a suo dire la «più edificante Diocesi dell’Isola!», da quando era governata da Regano. In dettaglio, gli addebitava il ridotto numero di ordinazioni sacerdotali, per cui non vi era più un numero sufficiente di preti per le esigenze dei fedeli, soprattutto nei paesi; il rifiuto a chiedere alla Santa Sede le dispense per i matrimoni; era generoso con i poveri ma impiegavi capitali della mensa vescovile in Puglia; non amava tenere a casa immagini sacre e celebrava la messa solo nei giorni festivi; a causa del colera, in due anni aveva abbandonato la città di Catania per cinque mesi ogni volta; si fidava solo del segretario e del vicario generale, «di poca entità e di solo nome», e non convocava alcuno per farsi consigliare anche su argomenti delicati e di rilevante importanza; di recente, infine, aveva nominato il preposto curato di Aci S. Lucia contravvenendo alle tavole di fondazione di quella collegiata37. Anche questo esposto, benché anonimo, venne tenuto in conto presso la Curia romana e presentato a Pio IX. Questa volta il papa, il 16 aprile 1856, dispose che si scrivesse al nunzio apostolico a Napoli, Innocenzo Ferrieri, così da avere informazioni di sicura autorevolezza. Il nunzio rispose al card. Antonelli il 24 maggio successivo38, dopo aver interpellato Giovanni Battista Tarallo, vicario capitolare di Monreale (dal 1850 al 1858 la diocesi rimase sede vacante) in quegli anni ancora metropolitana per Catania, e Saverio Gerbino arcidiacono e parroco della cattedrale di Caltagirone39. Le notizie fornite al nunzio da 36 37

ASD, Fondo Registri canonici, S. Gaetano: Battesimi, 1856; Matrimoni, 1856. AAEESS, Napoli-Sicilia, 1856, pos. 319, fasc. 111, ff. 3-4.. Cfr. il testo integrale

della lettera e della nota di Antonelli in Appendice, 3. 38 Ibid., ff. 12-13; la risposta di Gerbino (10 maggio) e quella di Tarallo (17 maggio), ibid., ff. 14, 16-17. Il 19 aprile aveva, frattanto, proposto al card. Antonelli di chiedere notizie su Regano a due provinciali che, nei giorni successivi, si sarebbero recati a Roma, quello dei carmelitani “calzati” e quello dei minori osservati: «persone ambedue superiori ad ogni eccezione per quanto mi è stato asserito. Per la dimora che hanno in Catania, e per ragione del loro officio possono essere in grado di somministrare le notizie che si desiderano»: ibid., f. 10. Di tale possibile consultazione non si ha notizia. 39 G. SCHIRÒ, Monreale, in G. ZITO (cur.), Storia delle Chiese di Sicilia, cit., 541.


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entrambi concordavano sull’inconsistenza delle accuse a Regano, accuse al più ritenute esagerate, anche perché mostrava ritrosia fino all’eccesso nel ricevere regali e adulazioni. Non destinava le rendite della mensa vescovile ad uso privato, bensì se ne serviva per ingenti elemosine ai poveri, per costituire doti di matrimonio alle ragazze povere, per sovvenire alla penuria di alcuni monasteri femminili40. Era severo nell’ammettere all’ordine sacro ma teneva le ordinazioni due volte l’anno: aveva ordinato 69 sacerdoti negli anni scorsi e altri 12 erano stati approvati per la Pentecoste di quell’anno. La penuria di preti era da attribuire «piuttosto alla scarsezza delle vocazioni ed alla miseria generale», in rapporto alla vastità della diocesi. Al contrario di quanto lo si accusava, la sua sollecitudine per sopperire alle esigenze di clero lo aveva indotto a chiedere ed ottenere, dalla Commissione esecutrice del Concordato del 1818 (l’art. 21 stabiliva ducati 50 come minimo e ducati 80 come massimo), la riduzione della tassa del patrimonio sacro a ducati 25 per quattro giovani meritevoli ma privi di mezzi. Si rifiutava di chiedere le dispense di matrimonio per i gradi stretti di consanguineità e di affinità di primo grado, in ottemperanza alle direttive della stessa Santa Sede, mentre per gli altri gradi più che rifiutarsi valutava con rigore le motivazioni addotte. Per la nomina di Aci S. Lucia si riconoscevano le qualità dell’eletto e una sua qualche partecipazione al corpo capitolare in quanto mansionario o canonico secondario; ciò che aveva indispettito i canonici di quella collegiata era soprattutto la mancata osservanza delle norme. Gerbino e Tarallo, tuttavia, riconoscevano un’eccessiva severità e modi scortesi nell’agire di Regano «ed alquanta inurbanità nel portamento: eccezioni che io stesso — annotava il nunzio — osservai allorché cinque anni indietro lo conobbi personalmente. Queste eccezioni sono messe anche più in rilievo per avere due volte abbandonata la sua residenza invasa dal morbo asiatico», con discredito per la dignità episcopale. In particolare, Gerbino annotava che il vescovo aveva «grandissimi Saverio Gerbino nel 1872 sarà vescovo di Piazza Armerina e nel 1887 trasferito alla sede di Caltagirone: G. TANDURELLA, Piazza Armerina, ibid.,703; G. PACE, Caltagirone, ibid., 328-329. 40 Vengono indicati i monasteri di S. Agata e il Reclusorio della Visitazione di Catania, quello della SS.ma Annunziata di Paternò.


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meriti e buonissime qualità da un canto, durezza estrema dall’altro, la quale lo rende poco sollecito dei bisogni spirituali dei fedeli, ritenendo che alla mancanza dei Sacerdoti Confessori, Predicatori, ed offerenti può ben supplirsi con la Contrizione, colla Lettura, e col Rosario». A proposito del rigore nell’ammissione al sacerdozio, Tarallo annotava che «il frutto però di siffatta severità è stato più istruzione e più costume nel Clero, e quantunque questo fosse ridotto minore di numero, pure nel tutto mi assicurano essere sufficiente». In precedenza, poi, Tarallo si era dovuto occupare dell’argomento perché, come sede metropolitana, gli erano stati inoltrati due atti d’accusa contro Regano al quale, prima di esaminarli legalmente, li aveva sottoposti: «mi ha risposto con ragioni così valevoli, che si sono ritirati i querelanti». Anche in questo caso, a seguito delle informazioni pervenute, l’esposto venne archiviato41. Da esso, come dall’altro esposto, tuttavia, emerge con chiarezza la svolta che Regano intendeva dare alla formazione e alla prassi pastorale del clero, all’attività dei religiosi in diocesi e al modo come i fedeli intendevano la religione e i sacramenti. In quegli anni di rilevanti mutazioni socio-politiche, la radicata struttura di societas christiana presentava robuste sacche di resistenza ad ogni novità nell’ambito ecclesiastico, preoccupate di perdere quelle certezze tramandate dal passato ma delle quali non si prendeva coscienza che ormai erano anacronistiche ed avviate verso un’irreversibile rinnovamento al quale, in modo drastico, contribuì pure l’Unità d’Italia. Regano, in tal senso, si pone come un vescovo che seppe raccogliere tanto la sfida posta dai moti risorgimentali, quanto 41 Le critiche a Regano continuarono anche dopo la sua morte. Al pro-segretario della S. Congregazione del Concilio, Pietro Giannelli, il 13 luglio 1865 quattro sacerdoti di Acireale (Giuseppe Musmeci, Rosario Rao, Pietro Patané e Mario Leonardi), «quali deputati del Clero della Città», in quegli anni ancora in diocesi di Catania, attribuivano a Regano la penuria di clero in diocesi: «partendo dal principio che la moltitudine dei preti poteva essere nociva al Culto ed al decoro del Sacerdozio, lo spinse ad estremo rigore e ridusse i preti ad un numero assai ristretto e si diede ad un altro estremo, cioè di mancare al servizio del Culto un numero proporzionato di Sacerdoti». Situazione di necessità che lo aveva costretto, a parere di Rocco Santoro, curato di S. Tecla (Acireale), scrivendo a Prospero Caterini, prefetto della S. Congregazione del Concilio, il 27 giugno 1865 «ad adibire persone che non meritavano la cura delle anime». ASV, S. C. Concilii, Positiones, vol. 2586.


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quella avanzata dal filone culturale dei cattolici filo-liberali e che, un po’ flebilmente, sembra annodarsi ad istanze di illuminismo cristiano. In tal senso, però, diventa imprescindibile la ricerca e lo studio della sua formazione culturale, della sua docenza e della sua attività prima della nomina al’episcopato. APPENDICE 1.

Esposto anonimo e non datato sul modo come il vescovo di Catania governa la diocesi. CITTÀ DEL VATICANO, SEGRETERIA DI STATO. SEZIONE RAPPORTI CON GLI STATI, Fondo Affari Ecclesiastici Straordinari (AAEESS), Napoli-Sicilia, 1853, pos. 301, fasc. 96, ff. 81-82v. [f. 81]«Memorie Coscienziose sul diportamento non buono del Vescovo di Catania 1°. Abuso. Non vuole assolutamente far suppliche alla S. Sede per dispensare in primo o secondo grado di Affinità; moltissimi dimorano [in] concubinato con figli, domandano per riparare la dispensa dal Vescovo, e a tutti risponde: “non posso, lo vedono loro, fanno come hanno fatto”. Contentandosi di rimanere legati per non scioglier loro colla dispensa impetrata. 2°. Moltissimi credendo di riparare alla loro Coscienza formano apparente domicilio in altra diocesi, ottengono con grandissime spese la dispensa, con frode si maritano non già innanzi al legittimo Parroco, e subito ritornati in diocesi si credono di aver riparato agli affari di sua coscienza. Il Vescovo questo lo conosce, e tace per sistema. 3°. Tiene Ordinazioni a grandi stenti una volta all’anno. Sono diventati i Preti tanto puochissimi, che trovansi Comuni con due, tre o pur niente sufficienti a poter tutti ascoltare la Messa, nelle chiese rurali non trovasi più chi poter celebrare per quella gente contadina, e riclamando presso il Vescovo risponde: “che importa, si dicono il Rosario”. 4°. Vi è una somma penuria di Confessori, paesi di tre, o quattro mila anime, uno, due, al più tre Confessori, desiderano frequentare i Sacramenti, non trovasi chi potesse rompere il pane, domandano Confessori al Vescovo, risponde: “basta una sol volta all’anno”. Ai Cappellani o Confessori che domandano per aiuto più confessori, risponde: “Lasciateli, conservatevi la salute”. Con gusto sospende Confessori a non più mai abilitarli. 5°. Accorda la facoltà di assolvere dai Casi riservati una volta l’anno nel tempo della Quindena Pasquale [i quindici giorni che intercorrono tra la


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domenica delle Palme e la domenica in Albis], se in altri tempi la ricercano i Confessori a grandi stenti l’accorda, e vengono sgridati come se i Confessori avessero commesso tali delitti, dicendo: “lasciateli tali scomunicati”. 6°. I predicatori ogni volta che sono invitati a fare una qualche predica nell’anno devono presentarsi al Vescovo [che] ha fatto nauseare tanto gli operarj che per non fare anticamera si contentano più tosto di tralasciare quel bene. Anche proibisce i Religiosi di predicare nelle proprie Chiese; [f. 81v] in molte Chiese de’ regolari, che si manteneva il Culto colla predicazione, rimaste deserte; e non ricercandosi altro che la sola benedizione del Vescovo impedisce con dire: “La predicazione è mia”. 7°. Si riduce ogni anno a far la scelta ei Predicatori Quaresimalisti negli ultimi giorni del Carnevale (quasi sembra voler far perdere tale costume pietoso); i detti predicatori non vogliono predicare nella sua diocesi, e la maggior parte dei paesi restano senza predicazione contentandosi di mandare una fatta di esercizi spirituali; vi è un malcontento generale, e si aumenta la rilasciatezza, e mal costume; in una parola, non è un Vescovo promotore del bene e del buon essere della perfezione cristiana; si tedia dar la Cresima a ragazzi moribondi, ributta con furia le povere madri che con instanza lo ricercano, gridando: “andate, non è necessario”; tiene solamente per regola fissa il suo capriccio e suo volere. 8°. Certe anime pietose l’avvertiscono, basta parlare con dimostrare il malcontento per non esaudirle. Tanti buoni ecclesiastici si hanno insinuato pel buon essere della sua Chiesa e per togliersi il malcostume di chiamare Missionari e farsi una pubblica Missione come hanno praticato gli altri Vescovi di Sicilia nelle loro Diocesi, e non sono stati esauditi. Sembra nemico della predicazione. Anzi certi buoni Missionari Preti di Caltagirone vollero dare una fatta di Missioni in [Aci] S. Antonio diocesi di Catania, a grandi stenti accordò loro la facoltà de’ Casi riservati, negando tutte le altre facoltà che sogliono accordarsi da Vescovi a’ Padri di detta Missione, e nel suo termine partirono scandalizzatissimi di tale diportamento del Vescovo. Ma dice allo spesso: “La Chiesa mai manca, parte da questa, va ad abitare altrove”. Non così la discorreva S. Francesco di Sales. 9°. Tiene sommo piacere in affliggere di continuo le povere Monache de’ Monasteri con ordinative tanto ristrette da far nauseare la vita monastica sino a ridurle (dir vorrei) alla disperazione, sotto la veduta di scrupolo non accorda verun permesso, e per le loro necessità mandare il Procuradore per entrare il Medico, gli operai e maestri necessari, ed anche qualche Confessore straordinario di quei che sono rimasti, che a grandi stenti l’accorda, come se vecchi Confessori fossero di scandalo, ed ha tolto quella semplicità che prima godevano nei loro Monasteri. 10°. Alle replicate istanze, che fanno di continuo quelle povere Moniali


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per avere Confessori per quiete della loro coscienza estraordinarj non vuole [f. 82] affatto accordare, né piegarsi alle lacrime e sospiri, ma per sistema durissimo vuole assolutamente che tutte si confessino con un sol Cappellano, quantunque Monasteri di Ottanta e Novanta Anime, che affatto può giungere a confessarle un solo perché Anime di perfezione; e se mossi da necessità replicano con lettere, o altri inviati a domandar Confessori dimostrando la necessità precisa della loro Coscienza, più indurendosi risponde con scherno: “Non si persuadono queste teste di pezze”. Per le tante durezze, anzi barbarie trattandole come nemiche hanno incominciato a rilasciare lo Spirito, a pentirsi della vocazione, e cinque di diversi Monasteri si hanno fatto la causa di nullità di professione, svestite da Monache, alcune accasate, ed in appresso se ne vedrà di più, mentre il peso della Clausura, che prima non l’apprendevano, or si per la mancanza de’ Confessori, che acquietavano la loro Coscienza, si per le tante restrittezze, incomincia a pesare di troppo, ed in tutti i Monasteri delle Monache si mormora con troppo malcontento, e si giunge quasi a desiderargli la morte. 11°. Altro non si ascolta per tutta la Diocesi, che mormorazioni contro di lui, malcontento generale. Castiga i Preti con pubblici castighi, o nelle Carceri pubbliche, o in qualche convento; si atterriscono i Preti di entrare in qualche casa di Regolari per non dirsi di essere Carcerato, ed altro non pretende, che vedersi sparlato da tutti, ed accrescere il malcontento. 12°. Conchiude tutto questo racconto, che sembra incredibile per un Prelato. Cadono in grave malattia due, che non credevano per sistema la religione, che da tanto tempo non si confessavano, i medici ordinando il Viatico non volevano affatto confessarsi, un Prete mosso da zelo si portò dall’ammalato, e lo persuade a confessarsi con delle belle convincenti ragioni, ma non voleva confessarsi con lui stesso (questo non era Confessore). Si portano allegri dal Vescovo per accordare la confessione a quel Prete, non volle assolutamente accordare, né par per quello solamente, e lo fa morire così. Anche coll’altro, un Religioso, che quantunque Missionario, non era abilitato si porta da quel moribondo e lo persuade a confessarsi, ma colla condizione di volersi confessare con lui solamente, si portano dal Vescovo, dimostra[f. 82v]no le circostanze del moribondo, lo pregano accordare la Confessione per quello solamente a quel tanto degno Missionario che di già l’avea convertito, ripregano con lagrime, non volle affatto persuadersi, dicendo: “vi sono altri approvati, che si confessi con altro”; si risponde che vuol confessarsi con altro, e risponde: “non posso”. Si porta tale nuova al moribondo, ed irritandosi grida: “Io sempre l’ho detto che la Confessione è un C … Giacché il Vescovo non crede”. E così morì quel povero infelice con tanto scandalo della popolazione. Volesse Iddio che ripari, per non raffreddarsi vi è più la religione nella Diocesi di Catania».


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2.

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In agosto (senza giorno) 1853 il canonico Salvatore Calcara, già vicario generale dell’arcivescovo di Palermo card. Pignatelli, risponde informazioni chiestegli dal card. Giacomo Antonelli, segretario di Stato di Pio IX, in merito al precedente esposto. AAEESS, Napoli-Sicilia, 1853, pos. 301, fasc. 96, ff. 88r-v.

«Rispondo un po’ tardi alla Sua veneratissima in data di 30 Giugno del corrente anno 1853, stante che non avendo io per lo innanzi una conoscenza diretta dello stato della Chiesa di Catania, né volendo prestare ascolto alle tante ciarle, le quali narrami sul conto del Vescovo di quella Chiesa, ho divisato migliore espediente indagare ed attendere all’uopo accurate informazioni da personaggi distinti e non sospetti. Trovandomi oramai in grado di serenare per avventura l’animo di Vostra Eminenza R.ma, ho il bene di assicurarle che le imputazioni lanciate a carico del Vescovo di Catania, e delle quali fassi distinta menzione nel sullodato foglio sono, a dir vero, non che sospette ma quasi onninamente false. L’unico e solo difetto di quel Vescovo, se pur tale potrà appellarsi, è quello di fare egli alle persone che gli si appressano brusca cera, e tal volta anche rozze maniere. Malgrado un tal neo, rappresenta egli al Pubblico doti pregevolissime. Perocché spiega in ogni occorrenza una retta intenzione, precision fatta d’ogni umano riguardo; mostrasi in realtà di essere il Padre dei poveri; veglia indefessamente su la disciplina del Clero; governa e mantiene il proprio Seminario in stato di floridezza così per la moltitudine degli Allievi, come per l’istruzione letteraria; non si permette d’imporre le mani per le Sacre Ordinazioni se non su quei Chierici, i quali abbiano dato saggio e di probità di costume e di sufficiente dottrina. Se poi apparisce egli ritroso nel rilasciare certificati, tendenti a provocare dalla Santa Sede dispense per matrimoni, ciò ha luogo per la depravazione dei chiedenti, i quali fuor di ragione, e sacrilegamente intendono di contrarre nozze in faciem Ecclesiae mentre proseguono a convivere in tresca illecita, e se non addimostrasi egli generoso verso i Monaci, ed i Frati nel concedere loro pagelle di Confessori, ciò avviene perché nei Chiostri trovansi, generalmente parlando, allocati da più tempo l’ignoranza ed il mal costume. E però potrà, a mio avviso, caratterizzarsi il Vescovo di Catania qual burbero benefico in rapporto alla Società Civile, e qual zelantissimo Pastore in rapporto alla Società dei fedeli. Colgo intanto l’occasione di ritributare all’Eminenza Vostra Reverendissima i miei umilissimi rispetti, ringraziandola ad un tempo per la


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fiducia, che Ella ripone nella mia persona, mentre baciando l’orlo della Sacra Sua Porpora ho l’onore dirmi, di Vostra Eminenza Reverendissima umilissimo e devotissimo servo vero Canonico Salvatore Calcara Palermo Agosto 1853» Annotazione del card. Antonelli (f. 91): «Ex audientia SS.mi diei 24 Augusti 1853. Sua Santità è rimasta ben soddisfatta dell’annesse informazioni sul Vescovo di Catania».

3.

Reclami contro Felice Regano vescovo di Catania presentati a Pio IX da un sedicente sac. Euplio Duara, curato di S. Gaetano: Catania, 15 gennaio 1856. AAEESS, Napoli-Sicilia, 1856, pos. 319, fasc. 111, ff. 3-4.

«Il soscritto curato della parrocchia di S. Gaetano in Catania di Sicilia, col bacio del Sacro Piede osa esporre quanto appresso. Questa Diocesi è ormai pervenuta allo stato di desolazione a cui tendeva dacché è stata governata da questo Prelato M.r D. Felice Regano. Oh Dio quale desolante scena presenta la già più edificante Diocesi dell’Isola! Egli avverso a promuovere sacri ministri sfugge or con un pretesto, or con un altro a tenere Ordinazioni: del che ha emerso, che in ogni paese della Diocesi dopo anni sedici di suo governo, i Sacerdoti sono ridotti a medietà, che è quanto dire, ne’ paesi piccoli esistono uno o due vecchi di pochissima utilità; ne’ maggiori, o manca chi amministrasse i Sacramenti, o questi sono affidati a ministri ignoranti, e di cattivi costumi; vi ha deficienza positiva di confessori, ed in alcun luogo i fedeli devono percorrere lunga strada per confessarsi. Manca chi istruisse il popolo ne’ doveri di Religione; è posta a negozio la elemosina delle Messe, anzi è giunta la necessità di sospendere la celebrazione di quelle assegnate ad ore tarde colla consueta elemosina. Si niega altresì il Vescovo a scrivere commendatizie presso la Santità Vostra per dispense di matrimonio… ed oh quali disordini! Famiglie [f. 3v] disonorate, donne, e figli coperti di rossore, e nella disperazione. Si ottengono poi si fatte consulte da altri prelati ed ecco che si combinano carte senza regola e viziate, e perciò quantità di matrimoni nulli. I costumi poi particolari di M.r Vescovo sono pieni di mistero. Sembra disinteressato, e fa delle elemosine, ma impiega buoni capitali nella sua patria ricavati dalla azienda vescovile. Presso lui nessuna eccezione di persone, e gli adulatori nessuna breccia fanno nel di lui animo, ma persone di non sana opinione lo inducono facilmente a risoluzioni niente lodevoli. È inesorabile


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coi delinquenti ma non calcola i buoni, e non ama conoscerli. La sua casa è quasi spoglia di Sacre immagini, non celebra Messa, tranne i giorni festivi. In due anni sussecutivi ha abbandonata Catania per cinque mesi per ogni volta intimorito pel Cholera e dice per sua legittimazione che “Colla morte non si transige”, espressione opposta alla sola idea di Parroco e Pastore. Dimorava in uno di essi due anni nel Villaggio di Valverde presso i PP. Agostiniani, nella cui chiesa peraltro parrocchiale, non entrò nessuna volta, e passandovi innanzi le porte, sia che ivi eravi esposto il Divinissimo, sia che davasi la diaria benedizione, affrettava il passo per entrare in Convento o in carrozza. Nell’intero regolamento di si vasta Diocesi il Vescovo non ha che un giovane il quale scrive sotto la sua dettatura, e chiamasi Segretario; ed un Vicario generale di poca entità e di solo nome, poiché non è chiamato a parte degli affari; nel suo palazzo non si convocano Aule né persone savie sono chiamate nelli scabrosi negozi. Dal che resulta che un uomo come lui [f. 4] il quale ha oltrepassato gli anni 70, diffidente di tutti, volendo trattare di tutti gli affari, non esclusi quelli delle rendite della mensa, e la economia di sua casa, ne ritarda il disbrigo, e tutto giorno si mostra abbattuto di cure di malessere, e con cera sì cupa da disanimare chi ha necessità di trattarlo; oppure emette risoluzioni contro diritto e ragione sulle quali si ferma, inflessibile e duro. Infiniti fatti si possono umiliare alla santità Vostra su questo assunto ma eccone uno recentissimo. Elesse or da vicino a Preposito Curato di Aci S. Lucia un giovane mansionario, non curando la fondazione della collegiata prescrivente che fra i soli canonici deve eligersi il loro capo: le rimostranze di quei rispettabili individui non ebbero ascolto. Santissimo Padre, la lacrimevole posizione di questa Diocesi non può non interessare vivamente il di Lei animo, ed eccitare il più efficace zelo. Trattasi niente meno che maggior mente mancati i ministri il che fra anni due avrà luogo, mancate le istruzioni, e gli aiuti di religione, svanirà la religione istessa. Il supllicante, col più profondo rispetto Le bacia il sacro piede e si soscrive. Euplio Duara curato di S. Gaetano» Annotazione sul f. 3: «Ex audientia SS.mi diei 16 Aprilis 1856: Sua Santità ha ordinato che si scriva a M.r Nunzio di Napoli per informazione».



Synaxis 2 (2012) 187-205

IL COLLEGIO «MARIA SS. DELLA PROVVIDENZA» DI ACI SANT’ANTONIO (1812-2012)

ADOLFO LONGHITANO*

Uno studio sul Collegio Maria SS. della Provvidenza di Aci Sant’Antonio non può limitarsi a un discorso celebrativo per ricordare il secondo centenario della sua fondazione. I Collegi di Maria hanno permesso di scrivere pagine di indubbio interesse nella storia della Sicilia del ’700 e dell’800 e la ricostruzione delle loro alterne vicende offre la possibilità di rivisitare un periodo di grandi mutamenti nella vita delle nostre città e delle nostre Chiese. La ricerca nella ricca documentazione conservata nell’archivio del Collegio mi ha consentito di percorrere due secoli di storia del comune di Aci Sant’Antonio, in particolare la storia delle scuole femminili nel periodo in cui dall’istruzione intesa come privilegio di pochi si passò all’affermazione di un diritto da assicurare a tutti i cittadini. Prima di affrontare il tema specifico della fondazione del Collegio di Maria è necessario fare una breve premessa storica per conoscere anche sommariamente i problemi legati all’istruzione e alle scuole primarie in un comune della zona etnea sul finire del governo borbonico e nei primi decenni dell’unità d’Italia.

* Docente emerito di Diritto canonico presso lo Studio Teologico di S. Paolo di Catania.


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Adolfo Longhitano

1. L’ISTRUZIONE IN SICILIA AL TEMPO DEI BORBONI Solo in tempi relativamente recenti si pose il problema di dare ai cittadini l’istruzione base che ponesse tutti nelle condizioni di «leggere, scrivere e far di conto». In passato l’istruzione era riservata ai chierici, che per la missione loro affidata dovevano spiegare la Sacra Scrittura e celebrare i riti secondo le formule fissate nei libri liturgici. Gli stessi nobili, occupati com’erano a gestire e a difendere le proprie terre, non avevano tempo per studiare. Man mano anche i nobili si resero conto che era importante saper leggere e scrivere, e al personale dei propri castelli aggiunsero i precettori o maestri per i figli. Non esistevano o erano molto rare le scuole pubbliche; chi voleva istruirsi doveva frequentare le scuole esistenti presso le cattedrali, i monasteri e i conventi, oppure rivolgersi agli insegnanti privati, che dovevano ottenere dal vescovo il permesso di aprire scuole di grammatica e di insegnare1. Il problema di rendere accessibile l’istruzione a tutti i cittadini si pose con maggiore continuità sotto l’influsso delle idee illuministiche. I sostenitori di questo diritto non erano spinti solamente da un principio ideale di uguaglianza; nelle loro rivendicazioni avevano un peso non indifferente le motivazioni di natura economica: la nascita delle prime industrie e il progredire delle colture agricole esigevano una manodopera istruita e qualificata. L’idea di rendere accessibile a tutti l’istruzione non fu accolta in modo pacifico e senza contrasti. Da parte dell’aristocrazia, del clero e delle classi dominanti si temeva che l’istruzione generalizzata del popolo, potesse turbare l’equilibrio sociale e provocare pericolose rivendicazioni da parte delle classi subalterne. Inoltre per consentire a tutti l’accesso all’istruzione era necessario creare una rete di scuole pubbliche, un problema che rinviava all’autorità competente a prendere questa iniziativa. L’ordinamento che si era dato la società medievale e moderna prevedeva la guida di due autorità, quella civile e quella religiosa. In tema di insegnamento l’autorità religiosa aveva da 1 A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1595-1890), Firenze-Catania 2009, 80-81; 205.


Il collegio «Maria SS. della Provvidenza»

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sempre rivendicato l’esercizio di un proprio controllo per garantire la coerenza con i princìpi della religione cristiana. In Sicilia i Borboni, durante gli anni delle riforme, avevano cercato di limitare l’influenza della Chiesa nel governo dello Stato, ma nel clima di restaurazione introdotto dopo il Congresso di Vienna del 1815, conferirono ai vescovi e ai parroci ampie competenze nell’ordinamento scolastico che avevano per oggetto: la scelta dei monasteri e dei conventi come sede delle scuole, il giudizio di idoneità degli insegnanti, la loro nomina e destituzione, la definizione dell’orario scolastico e la durata dell’insegnamento2. Si affermò in tal modo un modello di scuola confessionale e allo stesso tempo clericale, che dopo l’unità d’Italia il governo cercò in tutti i modi di riformare. Il primo progetto per promuovere una rete di scuole pubbliche rimonta al 1788, quando il viceré principe di Caramanico incaricò Giannagostino De Cosmi — un sacerdote agrigentino fra i protagonisti del rinnovamento culturale operato a Catania dal vescovo Salvatore Ventimiglia3 — a promuovere l’istituzione delle scuole normali. Il problema fu affrontato una seconda volta, a distanza di qualche decennio, quando il Parlamento siciliano emanò un bando di concorso per un piano di riordinamento dell’istruzione pubblica, secondo la costituzione emanata nel 1812. I risultati non furono eccezionali se si pensa che in tutta la Sicilia nel 1815 risultavano funzionanti 35 scuole normali pubbliche, delle quali solo 25 erano realmente attive. Effetti più positivi si ebbero in seguito al decreto del 27 novembre 1818, che imponeva l’obbligo di istituire in tutti i comuni una scuola primaria con il metodo normale, assistita da uno o più maestri secondo i bisogni della popolazione. Il metodo normale, al quale faceva riferimento il decreto, è quello in uso ai nostri giorni: prevedeva l’istituzione di classi differenziate, 2 Lo stato dell’istruzione in Sicilia al tempo dei Borboni è preso in esame da A. CRIMI, Teoria educativa e scuola popolare in Sicilia nel tempo dei Borboni, Acireale 1978; G. BONETTA, Istruzione e società nella Sicilia dell’Ottocento, Palermo 1981; S. CUCINOTTA, Sicilia e siciliani. Dalle riforme borboniche al “rivolgimento” piemontese. Soppressioni, Messina 1996, 203-300. 3 G. DI GIOVANNI, La vita e le opere di G. Agostino De Cosmi, Palermo 1888; A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina», cit., 571-625.


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ognuna delle quali doveva avere un insegnante. In quegli anni costituì una svolta innovativa, se si pensa che l’insegnamento prevalente era quello individuale, più rispondente all’idea dell’istruzione riservata ad una piccola élite. Nello stesso periodo si era diffuso in Europa il metodo del mutuo insegnamento o lancasteriano, introdotto dagli inglesi Bell e Lancaster, che prevedeva il coinvolgimento degli alunni più bravi. L’insegnamento veniva impartito in un’unica grande classe suddivisa in otto livelli, corrispondenti alle capacità acquisite dagli scolari. A ogni livello era preposto un “monitore” (in genere un alunno del livello superiore). Un unico maestro era il responsabile dell’intera classe. Questo metodo permetteva di raggiungere interessanti risultati con un minore impiego di insegnanti e di aule4. Per avere un’idea del grado di alfabetizzazione della zona etnea mi limito a riferire alcuni dati statistici del 1833: ad Acireale solo 1 abitante su 10 sapeva leggere e scrivere, a Giarre 1 su 15, ad Aci Sant’Antonio 1 su 12, ad Aci San Filippo 1 su 15, a Piedimonte 1 su 19. In tutta la provincia di Catania, con l’esclusione del capoluogo, solo il 4,75 % della popolazione sapeva leggere e scrivere. Queste cifre non distinguono fra maschi e femmine. In realtà c’era un enorme divario fra i due sessi nel grado di alfabetizzazione: su 100 persone che sapevano leggere e scrivere 80 erano maschi e solo 20 erano femmine5. 2. I COLLEGI DI MARIA PER L’ISTRUZIONE FEMMINILE: ORIGINE, IDENTITÀ E DIFFUSIONE

Un ruolo rilevante per risolvere in Sicilia il problema dell’istruzione femminile fu svolto dai Collegi di Maria. Un’istituzione fondata nel 1721 dal cardinale Pietro Marcellino Corradini a Sezze, nel basso Lazio, ma diffusasi rapidamente in Sicilia, soprattutto nella zona occidentale6. 4

A. CRIMI, Teoria educativa, cit., 67-107. G. BONETTA, Istruzione, cit., 55-72. 6 V. VENDITTI, Il cardinale Corradini e i Collegi di Maria, Sezze 1963; G. DE SANCTIS, Pier Marcellino Corradini cardinale “zelante”, Roma 1971; S. CUCINOTTA, Sicilia e siciliani, cit.; Atti del Convegno di studi sulla personalità del cardinale Pier 5


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Fine proprio di questa istituzione era l’istruzione gratuita delle ragazze del popolo, che imparavano a leggere e a scrivere e allo stesso tempo venivano addestrate nelle arti tipicamente femminili: taglio e cucito, rammendo e ricamo. Le insegnanti, chiamate “collegine”, erano donne che votavano la propria vita all’elevazione delle ragazze del popolo. Solitamente non erano suore e non vestivano l’abito religioso, ma facevano vita comune nell’istituto, dedicandosi all’educazione e alla formazione delle ragazze. Nei Collegi di Maria si seguiva prevalentemente il metodo del mutuo insegnamento. Le ragazze più capaci e più preparate erano scelte per insegnare alle loro compagne sotto la guida di una maestra. Crescendo potevano restare nel Collegio e dedicare la propria vita all’insegnamento oppure rientrare in famiglia. Il cardinale Corradini più che dettare delle regole uniformi aveva creato uno schema, che fu sviluppato con modalità diverse secondo le esigenze dei luoghi. Di solito in ogni diocesi si redigevano le costituzioni da valere per i Collegi fondati dentro i confini diocesani. La rapidità con cui diffusero questi istituti in Sicilia ci fa capire che rispondeva ad un’esigenza molto sentita e diffusa: non erano solo i vescovi o i sacerdoti a prendere l’iniziativa della loro fondazione; gli stessi feudatari si adoperavano e spesso fornivano i mezzi necessari, perché nei loro domini questa istituzione contribuisse alla promozione delle donne con i benefici sociali che si possono facilmente immaginare. Se ci interroghiamo sull’identità giuridica dei Collegi di Maria difficilmente potremo dare risposte univoche: erano istituzioni religiose o civili? Dipendevano dall’autorità dei vescovi o del re? In una società in cui non esisteva una netta distinzione fra ordinamento civile e religioso queste domande non avevano lo stesso significato che possono avere oggi. Erano istituzioni che avevano come fine primario l’insegnamento, di competenza delle autorità religiose sotto l’aspetto della coerenza con i principi della dottrina e dell’etica cristiana, ma nello stesso tempo erano soggette alla vigilanza delle autorità civili.

Marcellino Corradini: 10 giugno 1990, Palermo 1993; L. CAMINITI, Educare per amore di Dio. I Collegi di Maria fra Stato e Chiesa, Soveria Mannelli 2005.


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3. LA FONDAZIONE DEL COLLEGIO DI MARIA AD ACI SANT’ANTONIO: ORDINAMENTO E ATTIVITÀ L’iniziativa di fondare ad Aci Sant’Antonio un Collegio di Maria fu presa con un certo ritardo rispetto a realizzazioni analoghe, che si erano avute nella Sicilia occidentale e nella stessa diocesi di Catania. Il primo Collegio di Maria siciliano era stato fondato a Palermo nel 1721. A partire da questa data ne erano sorti tanti altri nella stessa città e diocesi di Palermo e in tutta la Sicilia. Le circostanze della fondazione del Collegio di Maria di Aci Sant’Antonio sono descritte nell’atto di fondazione, stipulato presso il notaio Pietro Muscarà, il 12 gennaio 18127. Una «pia e devota persona», di cui non si fa il nome, aveva donato al sac. Domenico Cavalli la rilevante somma di onze 200 da destinare a fini di beneficenza. Il sacerdote aveva pensato di istituire un Collegio di Maria ma, costatando che il capitale di cui disponeva non era sufficiente per mantenere con le sue rendite due maestre e una conversa, aveva deciso di investirlo per aumentarne il valore. Quando si rese conto che il patrimonio di cui disponeva — accresciuto anche da successive donazioni — bastava a realizzare il suo progetto, decise di chiedere l’autorizzazione al re Ferdinando tramite il vescovo di Catania. La notizia del proposito di istituire un Collegio di Maria si era diffusa in paese e non pare sia stata accolta da tutti con favore. Nei documenti del tempo si accenna all’opposizione «dei malevoli», che tentarono di impedire la realizzazione del progetto. Mentre il sac. Cavalli si adoperava per ottenere il consenso del re, qualcuno — qualificato nell’atto di fondazione come «nemico di Dio» — fece pervenire alla corte una lettera a firma del sacerdote, nella quale la somma raccolta riconosciuta insufficiente per la fondazione di un 7 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, Fondo notarile. Atti rogati dal notaio Pietro Muscarà, 1812. Nell’archivio del Collegio si trova una copia del documento trascritta il 10.03.1972 dal direttore dell’Archivio di Stato, dott. Gino Nigro e autenticata dal notaio G. De Rubertis di Acireale il 26.06.1991. L’atto di fondazione, con l’approvazione del vescovo di Catania Corrado Maria Deodato e un altro documento sul patrimonio del Collegio, è anche trascritto nei registri della curia diocesana: ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI CATANIA, Registra minutarum 1810-1812, 266v-285v.


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Collegio di Maria veniva offerta al re come contributo al mantenimento dell’esercito. Il re, non sospettando l’inganno, incaricò il Tribunale del Real Patrimonio di informare i giurati e il parroco di Aci Sant’Antonio che egli non intendeva accettare la somma donata e che bisognava invece adoperarsi per istituire in paese il Collegio di Maria, un’opera molto utile al bene di tutti. È lecito interrogarci sull’identità delle persone che avevano cercato di ostacolare l’iniziativa del sacerdote. È da escludere che si trattasse di persone appartenenti al ceto popolare, beneficiario della nuova istituzione. Gli ostacoli potevano avere come movente o l’inimicizia personale o il timore che la fondazione di un Collegio di Maria turbasse l’equilibrio sociale esistente in paese. In quest’ultimo caso ad opporsi potevano essere elementi del clero o del ceto nobiliare. Nell’atto di fondazione troviamo descritta l’identità giuridica della nuova istituzione con un abbozzo di statuto: il Collegio sarebbe stato intitolato a Maria SS. della Provvidenza, come quello esistente a Catania, del quale si adottavano le costituzioni. Il suo patrimonio era costituito da un capitale di onze 540, dal quale si sarebbe ottenuta ogni anno la rendita di onze 27 per mantenere due maestre e una conversa, e da un «tenimento di case con due gisterne e con chiusa di terra e vigna di dietro […], esistenti in questo suddetto quartiero di Aci San Antonio e contrada dei Quattro cantoni». Questi immobili erano stati acquistati dallo stesso sac. Cavalli dalle sorelle suor Maria e suor Marianna Musumeci al fine di erigervi il Collegio di Maria. Il fondatore riservava per sé e i suoi eredi il diritto di patronato laicale, in conformità alle leggi esistenti. In forza di questo diritto spettava a lui la nomina di due amministratori laici e la presentazione al vescovo di un sacerdote come direttore del Collegio. Nello stesso atto di fondazione egli nominava come direttore il cappellano curato del paese, sac. Lucio Caramma, e come rettori laici il dott. Eusebio Cantarella e don Salvatore D’Amico. Il Collegio poteva ospitare solo le collegine e le educande; non poteva trasformarsi in reclusorio per accogliere donne pentite o pericolanti. Tutte dovevano osservare una rigida clausura. L’atto di fondazione era stato approvato e confermato dal vescovo di Catania, Corrado Maria Deodato.


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A distanza di alcuni anni dalla fondazione, il 21 marzo 1819, il sac. Cavalli, su richiesta dell’intendente della provincia, scrisse e consegnò alle autorità comunali una sorta di regolamento con le attività che l’istituto intendeva svolgere: a) le ragazze esterne che vogliono istruirsi devono recarsi ogni giorno al Collegio per apprendere le arti proprie delle donne. L’istruzione ha la durata di tre ore al mattino e tre nel pomeriggio. Le stanze nelle quali sono accolte devono essere distinte da quelle della comunità; b) nel pomeriggio delle domeniche le donne di ogni età e condizione sono invitate nella chiesa del Collegio per essere istruite dalle collegine nella dottrina cristiana; c) il Collegio si rende disponibile per preparare a proprie spese le bambine alla prima comunione. A tal fine per la durata di otto giorni, a gruppi di otto o dieci per volta, le bambine sarebbero state ospitate nelle stanze dell’istituto e istruite dalle collegine; d) il Collegio accoglie pure a proprie spese per la durata di otto o dieci giorni le donne che desiderano fare un corso di esercizi spirituali secondo il metodo di s. Ignazio; e) infine il Collegio accoglie per l’istruzione e la formazione le bambine e le giovani fino all’età di vent’anni, a meno che non vogliano fermarsi per dedicare la propria esistenza all’insegnamento8. Un ordinamento così chiaro e dettagliato può darci l’impressione che il Collegio avesse già iniziato le tante attività programmate a vantaggio delle donne di Aci Sant’Antonio. In realtà, esaminando i documenti d’archivio, si deve costatare che la nuova istituzione solo a distanza di oltre trent’anni avviò la propria attività e non fu mai un vero e proprio Collegio di Maria, come lo aveva ideato il suo fondatore. In altre parole: l’istituto non riuscì a formare nel corso degli anni quel nucleo di collegine, che avrebbe dovuto costituire il suo elemento trainante. Nei primi decenni dopo la fondazione, i responsabili del Collegio pensarono di impiegare le risorse disponibili per costruire gli edifici necessari allo svolgimento delle attività programmate9. Solo a 8 ARCHIVIO DEL COLLEGIO MARIA SS. DELLA PROVVIDENZA, ACI SANT’ANTONIO (=AC), Miscellanea. 9 Notizie contenute nell’atto notarile del 13 novembre 1843 con cui il fratello del


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partire dal 1846 troviamo nel Collegio le Figlie di S. Anna con il compito di avviare una scuola per le ragazze del paese10. Ci chiediamo: oltre le difficoltà di natura economica, quali furono le cause che impedirono la piena attuazione del progetto voluto dal fondatore? 4. IL DIFFICILE ADEGUAMENTO DEL COLLEGIO ALLE LEGGI DELLO STATO UNITARIO Il Collegio di Aci Sant’Antonio fu istituito e cominciò a svolgere la sua attività negli anni delle grandi svolte storiche della Sicilia: nel 1812, anno della sua fondazione, con la nuova costituzione approvata dal parlamento siciliano sul modello inglese fu abrogata la feudalità; pertanto le magistrature del comune non furono più nominate dalla famiglia Riggio, ma elette dai cittadini che ne avevano il diritto. Nel clima di restaurazione conseguente al Congresso di Vienna del 1815 fu istituito il Regno delle Due Sicilie con i tentativi avviati dai Borboni di soffocare sul nascere la rivoluzione in Campania e in Sicilia. Nel 1837 e nel 1848 i rivoluzionari ebbero il sopravvento sulle truppe borboniche e per poco si ebbe l’illusione che si potesse instaurare un nuovo governo di matrice liberale. Nel 1860 sbarcò a Marsala Garibaldi con i Mille, nel 1861 fu proclamata l’unità d’Italia. Il governo italiano, riproponendosi di introdurre nelle diverse regioni una legislazione uniforme, si trovò nella necessità di sostituire con le leggi piemontesi l’ordinamento lasciato in Sicilia dai Borboni. In Sicilia, al contrario delle altre regioni italiane, non si erano avute le riforme volute da Napoleone; pertanto fu necessario affrontare e risolvere due difficili problemi: avviare la riforma fondiaria e neutralizzare il rilevante potere esercitato dalla Chiesa nelle strutture dello Stato. I Collegi di Maria, considerati come una tipica istituzione di Antico fondatore conferisce il diritto di patronato al sac. Francesco Di Grazia (AC, Miscellanea). 10 Nel registro delle entrate e della uscite del Collegio troviamo la nota: «A Suor Maria Margarita Di Prima, maestra del Collegio per gratificazione dovutagli con detta qualità per quest’anno 1846 onze 4, stante che altre onze 4 furono contribuite da devote persone» (AC, Prima giuliana delle rendite del nuovo venerabile Collegio di Maria fondato nella città di Aci SS. Antonio e Filippo [...]).


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regime, furono oggetto di numerosi interventi legislativi che miravano alla loro soppressione o alla riforma11. A fronte dell’azione svolta dallo Stato, i Collegi di Maria per evitare la soppressione predisposero una strategia di sopravvivenza. I Borboni li avevano considerati enti ecclesiastici soggetti all’autorità dei vescovi12; tuttavia nel loro ordinamento esistevano elementi sufficienti per farli ritenere enti laicali; infatti nella maggior parte dei casi le collegine non erano suore, non indossavano un abito religioso e svolgevano un’attività laica: insegnare alle giovani a leggere e a scrivere e istruirle nei lavori femminili13. Nelle numerose vertenze giudiziarie avviate presso i tribunali negli anni successivi, furono proprio questi elementi a salvare molti Collegi di Maria dalla soppressione, perché considerati enti laicali, non sottoposti alle leggi emanate per gli ordini e le corporazioni religiose. Non fu necessario il ricorso ai tribunale perché il Collegio di Aci Sant’Antonio venisse riconosciuto ente laicale; ma l’iter per ridefinire la propria identità giuridica non fu né breve né facile. Dopo l’unità d’Italia, con l’avvento del nuovo governo, ebbero inizio le richieste di informazioni per conoscere la natura e le finalità del Collegio. Il 24 agosto 1860 il governatore del distretto, tramite il sindaco, chiese al patrono di presentare i bilanci del Collegio, così come era richiesto alle opere pie di natura laicale che avevano come attività la beneficenza e 11 Nel 1862 con la legge del 3 agosto furono assoggettati al regime giuridico delle opere pie anche gli istituti di beneficenza di natura mista o ecclesiastica e si diede facoltà ai consigli provinciali e comunali di riformare le opere pie che non potevano raggiungere i fini prefissi negli statuti. Con la legge del 10 agosto 1862 fu sancito l’obbligo di dare in enfiteusi i beni ecclesiastici della Sicilia. Con la legge del 7 luglio 1866 furono soppressi gli ordini e le congregazioni religiose e i loro beni incamerati dallo Stato. 12 In una lettera del 3 dicembre 1841, inviata a tutti i vescovi della Sicilia dalla Luogotenenza di Sua Maestà e conservata nell’archivio del nostro Collegio, si legge: i veri Collegi di Maria, che avevano regole proprie approvate dalla Chiesa, non dovevano essere soggetti al Consiglio degli ospizi ma alla giurisdizione dei vescovi (AC, Prima giuliana, cit.). 13 Sulla identità giuridica dei Collegi di Maria si vedano in particolare: F. SCADUTO – A. BERTOLA, Collegi di Maria, in Novissimo Digesto Italiano, III, Torino 1957, 475479; S. LANDOLFI, Collegi di Maria, in Enciclopedia del Diritto, VII, Milano 1960, 386388; L. CAMINITI, Educare per amore di Dio, cit.


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l’istruzione14. Seguirono le ispezioni. Da parte degli amministratori del Collegio ci sarà stata qualche forma di resistenza, perché in una lettera del 10 giugno 1863, il sindaco fu invitato a verificare se le autorità di vigilanza avrebbero incontrato per la visita gli stessi «ostacoli clericali» dell’anno precedente e a ricordare agli amministratori che il Collegio era soggetto alla vigilanza scolastica governativa15. Nelle risposte del patrono si nota una certa titubanza, nel timore che affermazioni imprudenti potessero compromettere definitivamente l’esistenza dell’istituto. Se in passato gli amministratori avevano sempre dichiarato che il Collegio era ente ecclesiastico, soggetto all’autorità del vescovo, nelle risposte inviate al governo italiano troviamo affermazioni di segno contrario: l’ente era stato fondato come Collegio di Maria, ma in realtà non lo era mai diventato, perché non si era formato il nucleo delle collegine che avrebbe dovuto dirigerlo; visto che la sua attività era limitata all’insegnamento, doveva essere considerato un ente laico di istruzione e non di beneficenza16. Nel 1867 il presidente della Deputazione provinciale informava che il Collegio era stato riconosciuto ente laicale di istruzione e come tale doveva spogliarsi di ogni apparenza claustrale e doveva darsi un nuovo statuto per evitare «l’ingerenza indebita del clero alle cose dell’opera pia estranee alla parte puramente spirituale»17. In un’altra lettera del 20 maggio 1869 si legge che il Ministero dell’interno aveva invitato la Deputazione provinciale a cancellare dall’elenco delle opere pie il Collegio di Aci Sant’Antonio e a considerarlo ente morale di istruzione dipendente dal Ministero dell’istruzione pubblica18. Il fine che il Collegio si proponeva di raggiungere era strettamente legato alla sua identità giuridica. Il Collegio si era sempre proposto di 14 15

AC, Atti vari – Orfanotrofio,

L.c. AC, Deliberazioni, 16 luglio 1863. Le due tipologie comportavano una diversa identità: gli istituti di beneficenza erano soggetti alla legge del 3 agosto 1862 sulle opere pie e dipendevano dal Ministero di grazia e giustizia e dei culti, mentre gli istituti di istruzione erano regolate da altre norme e dipendevano dal Ministero dell’interno e dell’istruzione pubblica. 17 AC, Atti vari – Orfanotrofio. 18 L.c. 16


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offrire l’istruzione di base alle ragazze del paese e allo stesso tempo di avviarle ai lavori femminili. Dopo l’unità d’Italia il governo, volendo assicurare a tutti i cittadini un insegnamento pubblico e non confessionale, obbligò i sindaci ad aprire le scuole elementari maschili e femminili, a nominare insegnanti forniti di un valido titolo di studio e a pagare loro adeguati stipendi, attingendo ai magri bilanci comunali. La politica scolastica avviata dal governo segnò per i Collegi di Maria l’inizio della fine: istituiti per svolgere un ruolo di supplenza, dovevano orientarsi verso altre attività quando lo Stato prese coscienza della necessità di organizzare in proprio l’insegnamento primario. Non si trovarono in una situazione più felice i sindaci, obbligati a non servirsi più dei Collegi di Maria per le scuole elementari femminili e a cercare altre aule e maestre fornite di diploma. Nei fatti non era possibile dare immediata attuazione a norme così onerose e si fece ricorso a non facili compromessi. Nel 1864 il Collegio di Aci Sant’Antonio risulta chiuso. Il 4 maggio il consiglio comunale nominò una commissione per discutere con il patrono e con il vescovo le condizioni per la sua riapertura. A conclusione dell’incontro fu stipulata una convenzione, in cui probabilmente il patrono accettava che le scuole femminili del Collegio diventassero pubbliche, come se fossero scuole comunali. In una lettera del 5 gennaio 1865, scritta dal sindaco, leggiamo che erano stati «troncati gli ostacoli» che avevano indotto il patrono a chiudere la pubblica scuola del Collegio di Maria; la convenzione stipulata fra le parti era stata approvata dal Consiglio scolastico provinciale; il patrono veniva esortato a tenere aperta la scuola pubblica per la tanto necessaria istruzione e educazione delle fanciulle del comune19. Quando sembrava che il problema fosse stato risolto, se ne presentarono altri, che riaprirono i contrasti su un altro fronte. Se le scuole elementari femminili del Collegio erano diventate pubbliche, dovevano osservare le leggi dello Stato ed erano soggette alle ispezioni degli uffici governativi. A conclusione di una di queste ispezioni furono fatti i seguenti rilievi, trasmessi al sindaco dal sotto prefetto di Acireale il 1° giugno 1869: alla scuola non potevano essere iscritte le 19

L.c.


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alunne che avevano superato i 12 anni ed avevano meno di 6 anni; la maestra (una suora) per due volte era stata riconosciuta non idonea all’insegnamento delle lettere, perciò poteva limitarsi solamente a istruire le alunne nei lavori femminili; il comune non poteva esimersi dall’obbligo di provvedere all’istruzione femminile, perciò doveva assumere maestre laiche, munite di titolo di insegnamento valido, in grado di dare alle ragazze un’educazione civile e prepararle a diventare buone madri di famiglia, non «pinzocchere»; si doveva istituire una commissioni di ispettrici, composta delle più distinte madri di famiglia per vigilare sull’andamento della scuola; durante le ore di lezioni nessuno poteva entrare nelle aule scolastiche ad eccezione delle ispettrici e delle autorità governative e municipali20. Con quest’ultimo rilievo probabilmente si voleva impedire al patrono e al clero locale l’ingresso nelle aule scolastiche e favorire il passaggio da una scuola privata ad una scuola pubblica, da una scuola confessionale ad una scuola laica. L’ispezione non era stata fatta solamente alle scuole femminili del Collegio, ma anche a quelle maschili, collocate in altra sede, e gli ispettori avevano fatto rilievi non meno pesanti: l’amministrazione comunale doveva provvedere seriamente alla pubblica istruzione anche nella borgata di Valverde; bisognava sostituire gli insegnati privi di titolo di studio valido, fra i quali c’erano alcuni sacerdoti; il comune non dava ai maestri lo stipendio minimo garantito dalla legge21. Quello di nominare insegnanti idonei e ben remunerati era uno degli obiettivi che il governo si proponeva di raggiungere per risollevare le sorti delle scuole primarie. Infatti a causa degli stipendi insufficienti, l’insegnamento costituiva un secondo lavoro, svolto da persone incapaci e impreparate. Il 26 settembre 1869 il consiglio comunale si riunì per discutere i rilievi fatti dal sotto prefetto e affrontare il tema della scuola. Il sindaco e i consiglieri con voto unanime respinsero punto per punto i rilievi fatti dalle autorità scolastiche e fecero notare: la presenza del 20

L.c. Queste notizie si desumono dal verbale della seduta del consiglio comunale del 26 settembre 1869 (l.c.). 21


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Collegio di Maria nel paese doveva essere considerata una fortuna; non si riusciva a capire perché mai si doveva fare a meno delle sue scuole per aprirne altre con grande dispendio di denaro che il comune non aveva; le risorse comunali erano costituite solamente dai dazi e proprio in quel periodo si doveva risolvere con urgenza il problema della sepoltura dei cittadini con la costruzione del cimitero; non si accettava la decisione delle autorità scolastiche di respingere la nomina degli insegnanti delle scuole maschili con la motivazione che non era indicato lo stipendio da corrispondere e che alcuni di loro erano privi di un valido titolo di studio; si faceva notare che gli insegnanti dichiarati non idonei, da tempo svolgevano la loro attività con profitto degli alunni e con soddisfazione delle famiglie; non si era provveduto ad aprire una scuola femminile a Valverde perché le ragazze in quel quartiere erano poche e occupate nei lavori agricoli22. La polemica fra il Consiglio scolastico provinciale e le autorità comunali era destinata a continuare, perché le nomine dei maestri trasmesse dal sindaco furono respinte una seconda volta e il consiglio comunale fu convocato il 20 ottobre 1869 per riesaminare il problema. Com’era prevedibile, consiglieri e sindaco si irrigidirono nella loro posizione e con delibera unanime ribadirono le conclusioni della seduta precedente, aggiungendo che non era loro intenzione aumentare le tasse o i dazi per far fronte alle spese dell’istruzione, perché si rischiava di provocare un esodo in massa dei cittadini verso gli altri comuni del circondario; non si vedeva la necessità di aumentare gli stipendi ai maestri, perché gli interessati si ritenevano soddisfatti della somma ricevuta; non giovava a nessuno chiudere il Collegio, che da anni svolgeva con profitto e con plauso l’attività di istruire e educare la ragazze del comune. Il Consiglio comunale concludeva con l’invito alle autorità scolastiche provinciali di ripristinare la situazione precedente23. 22 Ibid. Come segno di attenzione alle osservazioni del Consiglio provinciale scolastico, che aveva giudicato deplorevole lo stato dell’istruzione e dell’educazione impartita nel Collegio di Maria, si stabiliva di chiudere temporaneamente le scuole e si ingiungeva al patrono di presentare entro otto giorni le tavole di fondazione, il regolamento, lo stato patrimoniale dell’ente e una proposta di miglioramento dell’istruzione e dell’educazione. 23 L.c.


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Dalla documentazione esistente sembra doversi affermare che solo verso la fine dell’Ottocento fu possibile attuare le indicazioni date dal Consiglio scolastico provinciale alle autorità comunali: nominare e stipendiare insegnanti laiche per le scuole femminili; da quel momento il Collegio si limitò ad ospitare le scuole comunali nelle proprie aule24. 5. LA NUOVA IDENTITÀ DEL COLLEGIO Il disimpegno dall’insegnamento di base orientò i responsabili del Collegio a indirizzare i propri sforzi verso altri tipi di insegnamento: quello della musica e la scuola di lavoro, in cui si raggiunsero obiettivi di rilievo: nel 1875 alla IV Esposizione industriale di Palermo la commissione esaminatrice conferì alle alunne del Collegio una medaglia d’argento nei «lavori donneschi» e nel 1892 all’Esposizione nazionale di Palermo fu attribuita la «menzione onorevole in ricamo in oro e in bianco»25. Nonostante i risultati raggiunti in queste attività, restava insoluto il problema di fondo dell’identità giuridica del Collegio e del suo fine specifico. L’istituto di Aci Sant’Antonio non poteva rientrare nello schema dei Collegi di Maria fondati dal card. Corradini; non era un ente di istruzione perché non aveva più scuole proprie, ma si limitava ad ospitare quelle comunali; le scuole di musica e di lavoro erano a pagamento, quindi ad esse potevano accedere solo le ragazze appartenenti alle famiglie più agiate. Il 17 luglio 1890 fu promulgata una nuova legge per il riordino della pubblica beneficenza e si avviò un censimento degli enti esistenti. Sulla base dei criteri fissati da questa legge, il 21 ottobre 1902 il Collegio di Aci Sant’Antonio fu dichiarato istituto di beneficenza e opera pia. Nella lettera con cui il sindaco comunicava l’avvenuta approvazione, il patrono veniva esortato a modificare lo statuto per adeguarlo alla nuova identità giuridica26. 24 La notizia si deduce da una lettera inviata dal sindaco al patrono il 7 aprile 1876, per informarlo di alcune decisioni prese dal Consiglio scolastico della provincia (l.c.). 25 AC, Scuola professionale. 26 L.c.


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Il patrono e gli altri membri dell’amministrazione decisero di trovare per il Collegio nuovi sbocchi. Già nel 1899 si era pensato di aprire un asilo d’infanzia ed era stata predisposta una bozza di statuto27. Nel 1902 era stata progettata l’apertura di un orfanotrofio; ma bisognava fare bene i conti con le rendite limitate del Collegio28. Nel 1904 la Congregazione di carità, un organismo comunale che si occupava degli enti di beneficenza, avanzò la proposta di trasformare il Collegio in ospedale, visto che quello esistente in paese era diventato un ospizio per anziani29. Il consiglio comunale e gli amministratori del Collegio respinsero questa ipotesi, perché estranea alla volontà del fondatore e fecero la proposta di aprire un orfanotrofio30. La discussione fra i responsabili del Collegio e le autorità comunali fu animata e si protrasse per qualche tempo. Nel 1906 su questa ipotesi si raggiunse un’intesa e fu predisposto il relativo statuto, che avrebbe dovuto essere approvato dalle autorità competenti31. In realtà l’orfanotrofio non entrò mai in funzione, perché nelle more dell’approvazione dello statuto, si ritenne più opportuno revocare le precedenti delibere e decidere l’apertura di una scuola professionale, partendo da una considerazione elementare: viste le modeste risorse del Collegio, l’orfanotrofio avrebbe potuto accogliere solo sei orfanelle e venire incontro ai bisogni di un numero molto limitato di famiglie; invece l’istituzione di una scuola professionale avrebbe potuto soddisfare le attese di un numero maggiore di persone32. Secondo la statuto approvato nel 1915, la scuola accoglieva gratuitamente le ragazze povere del comune; le altre e quelle non residenti potevano iscriversi pagando una retta. Nel verbale di una visita della Commissione di patronato si legge che la scuola era stata aperta nel mese di aprile del 1915; risultavano iscritte 36 alunne, che frequenta27 28 29

AC, Deliberazioni. AC, Atti vari – Orfanotrofio, 3 marzo 1902.

L.c. Ibid., 20 luglio 1904, 15 marzo 1905, 7 maggio 1906. 31 Il patrono nella lettera di accompagnamento per l’invio di un foglio statistico, il 2 gennaio 1907, scrive che si attende l’approvazione dello statuto per ammettere le orfanelle nel Collegio (AC, Deliberazioni e documenti). 32 AC, Miscellanea, 16 gennaio 1913. 30


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vano i corsi di sartoria, rammendo e ricamo33. Era gestita dalle Figlie di S. Anna, che fin dal 1846 avevano assunto la direzione del Collegio34. Dopo l’istituzione della scuola professionale, nel 1917 il Collegio estese la sua attività con l’apertura di un asilo infantile per i bambini poveri, finanziato dal comune35. L’avvio delle nuove attività coincise con gli anni della prima guerra mondiale, ai quali fece seguito la crisi economica e sociale del dopo-guerra. Nel 1921 le Figlie di S. Anna lasciarono il Collegio, perché la retribuzione che ricevevano non era più sufficiente alle loro necessità36. Furono sostituite dalle Figlie della Misericordia e della Croce37. Non è possibile stabilire la durata della scuola professionale e il periodo di permanenza delle Figlie della Misericordia e della Croce, perché i documenti di archivio su questo argomento si fermano al 1925. L’ultima fase che dobbiamo prendere brevemente in esame è quella della direzione delle Figlie di Maria Ausiliatrice, iniziata nel 1931 e conclusasi nel 200738. Nella convenzione stabilita fra il patrono e l’ispettrice leggiamo che le suore dovevano occuparsi del laboratorio, dell’asilo d’infanzia, della catechesi e dell’oratorio per le ragazze. Si tratta dell’attività che il Collegio aveva svolto da sempre e che fu programmata e attuata con riferimento alle mutate condizioni dei tempi e al carisma specifico delle salesiane di don Bosco. A tal proposito è importante considerare una clausola della convenzione: «Il Consiglio di amministrazione dichiara di lasciare piena libertà alle suore nello svolgimento delle opere relativamente 33 34

AC, Scuola professionale, 6 settembre 1915.

Ibid., 10 febbraio 1916. Il suggerimento di aprire una scuola professionale era stato dato probabilmente dalla dott. Giuseppina Tenerelli, direttrice della scuola professionale dell’Educandato Regina Elena di Catania. Nel mese di settembre del 1915, in segno di riconoscenza per l’interessamento dimostrato verso la scuola di Aci Sant’Antonio, le fu donato un arazzo, primo lavoro eseguito dalle alunne (AC, Scuola professionale, 14 settembre 1915). 35 AC, Deliberazioni, 12 aprile 1917. 36 Ibid., 11 febbraio 1922. 37 Ibid., 10 novembre 1922. 38 AC, Figlie di Maria Ausiliatrice.


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alla missione e al metodo propri della Congregazione Figlie di Maria Ausiliatrice». Questa nota ci induce a introdurre un principio di discontinuità nella vita e nell’azione del Collegio. Se ad una considerazione superficiale tutto sembrava procedere con il consueto ritmo del passato: laboratorio, scuola materna, catechesi, oratorio..., in realtà l’attività svolta nei confronti della bambine e delle giovani del paese era animata da uno spirito nuovo. Le salesiane potevano contare su una specifica preparazione pedagogica e religiosa, in grado di trasmettere i valori umani e cristiani con il linguaggio e il metodo propri di s. Giovanni Bosco. Se si tiene presente che le Figlie di Maria Ausiliatrice hanno operato ad Aci Sant’Antonio per settantasei anni, è facile dedurre la particolare incidenza che hanno avuto nella formazione di diverse generazioni di bambine, di giovani e di madri di famiglia. CONCLUSIONE A conclusione di questo breve viaggio nei duecento anni di storia del Collegio Maria SS. della Provvidenza di Aci Sant’Antonio voglio solamente far notare come sia necessario anche per le istituzioni ecclesiastiche prendere atto dell’evoluzione storica della società e adeguarsi alle sue cadenze. La storia va avanti e non possiamo né programmare il suo cammino, né tanto meno fermarlo. Se non vogliamo essere emarginati dobbiamo sforzarci di intuire l’indirizzo che man mano segue nel suo progresso e di inserirci con un’azione allo stesso tempo intelligente e adeguata. Quando nel Settecento si avvertì il bisogno di permettere alla donna di inserirsi in modo consapevole nella vita sociale, a fronte delle gravi carenze dello Stato, si moltiplicarono le iniziative nella società per dare una risposta pronta ed efficace. Man mano che lo Stato si assunse le proprie responsabilità, era necessario prendere atto della nuova situazione per diversificare i modi della propria azione. Negli ultimi decenni i mutamenti sociali sono stati sempre più profondi al punto da mettere in crisi non solo le modalità di azione delle istituzioni ecclesiastiche, ma la loro stessa sopravvivenza. Le Figlie di Maria Ausiliatrice non decisero la chiusura della casa di Aci


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Sant’Antonio per motivi economici, ma per mancanza di vocazioni: le suore presenti erano tutte anziane e non c’era più la possibilità del ricambio. Le stesse difficoltà si incontrano oggi per operare un ricambio nella provvista delle parrocchie. Si tratta di questioni legate all’evoluzione storica della società, che non si risolvono con lo scoramento o il rimpianto, ma con l’accettazione, la comprensione e la volontà di adeguarsi.



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LO SCULTORE MESSINESE ANTONINO AMATO E LA CHIESA MARIA SS. DELLE GRAZIE DI PIANO TREMESTIERI (CT)

SALVATORE MARIA CALOGERO*

PREMESSA Il primo a scoprire l’attività del messinese Antonino Amato1 a Catania fu Francesco Fichera2 che, riscontrando il suo nome in molti contratti di estaglio, lo definì Indiavolato. Guglielmo Policastro, sulla base di una notizia comunicatagli da Domenico Puzzolo Sigillo, scrisse che Antonino Amato era figlio di Giovan Maria e di Caterina Ferro, però, pur scrivendo che i genitori ebbero undici figli3, non riportò la sua data di nascita o quella dei suoi figli Andrea e Tommaso. Recentemente è stato pubblicato il contratto di «Estaglio» per il portale della chiesa di Sant’Agata alla badia (fig. 1), che documenta la presenza di Giovan Maria Amato a Catania nel 1683. Nel suddetto *

Ingegnere specializzato nel restauro di edifici storici e monumentali. «È uno dei principali membri, il terzo con il nome Antonio, di quella famiglia di “lapidum incisores” attiva nel primo trentennio del Settecento, soprattutto nella Sicilia Orientale, a Messina e a Catania» (M. ACCASCINA, Profilo dell’architettura a Messina dal 1600 al 1800, Roma 1964, 68). «Antonio, in particolare, […] opera prevalentemente a Catania ove giunge dopo alcune significative esperienze messinesi» (L. SARULLO, Dizionario degli Artisti Siciliani, Architettura, Palermo 1993, 13). 2 F. FICHERA, G. B. Vaccarini e l’architettura del Settecento in Sicilia, I, Roma 1934, 61. 3 G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, Catania 1950, 257. 1


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contratto si legge che maestro Giovanni Maria Amato, figlio del defunto Francesco, e suo figlio Antonino, marmorari della città di Messina, si obbligarono a fare «una porta di marmo fino e bianco di Genua per la porta maggiore della chiesa di detto monasterio a tutte loro proprie spese e travagli cossì di qualità e condizioni, conforme si contiene nel disegno seu modello per tal causa fatto, sottoscritto di mano cossì di detta reverenda abbadessa come di don Ugo Tedeschi, figlio di don Agathino di questa predetta città di Catania di me notaro infrascritto e di detto magistro Antonino Amato»4.

Fig. 1 – Particolare del portale d’ingresso nella chiesa della badia di S. Agata. 4 Staleum pro monasterio Sanctae Agathae contra magistrum Joannem Mariam et magister Antoninum de Amato (ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA [= A.S. CT], 1° versamento notarile, busta 743, carte 1070-1075, 16 febbraio 1683 – notaio Principio Pappalardo trascritto in E. MAGNANO DI SAN LIO, Giovan Battista Vaccarini, architetto siciliano del Settecento, Siracusa 2010, 247).


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Giovan Maria Amato rimase a lavorare a Catania anche dopo il 1683, come è documentato dal compenso che egli ricevette il 13 gennaio 1685 per lo staglio degli ornamenti da «mettersi nella facciata della Casa di detto Almo studio»5. Quindi, si può ipotizzare che la famiglia Amato sia stata residente a Catania prima del terremoto del 1693 e che, nella stessa città, furono instaurati legami di parentela con altre famiglie di artigiani. Consultando i Registri Canonici, conservati nell’Archivio Storico della Diocesi di Catania, sono state trovate le date dei matrimoni e dei battesimi di alcuni personaggi che strinsero rapporti di parentela con gli Amato di Messina e contribuirono alla ricostruzione della città dopo l’evento sismico. Ad esempio, nell’aprile del 1689, nella chiesa Collegiata, fu celebrato il matrimonio fra il messinese Domenico Viola6 e Grazia Amato, figlia di Giovan Maria e di Caterina Ferro, indicata messinese, abitante a Catania7, confermando l’ipotesi che nel 1689 Giovan Maria Amato abitava a Catania da oltre cinque anni. Antonino Amato nel frattempo ritornò a Messina in cui, nel 1685, realizzò i due pilastri in marmo commesso del baldacchino del duomo, progettati dal pittore Giovanni Quagliata, e nel 1694 le opere marmoree della sacrestia8, realizzate insieme a suo fratello Tommaso. Antonino Amato, insieme a suo cognato Domenico Biundo9, realizzò le porte della cittadella di Messina (fig. 2), progettate nel 1682 5

ARCHIVIO STORICO UNIVERSITÀ DI CATANIA (= A.S.U. CT), Fondo Casagrandi, Vol. 7, cc. 1 v. e 2 r., 13 gennaio 1685 (citato in S. CONSOLI, l’Archivio dell’Università: memoria dell’Ateneo e storia del Palazzo, in Il Palazzo del Siciliae Studium Generale, Caltanissetta 2007, 236). 6 In quel periodo, il messinese Domenico Viola era impegnato a realizzare la chiesa di San Nicolò l’Arena progettata nel 1686 dall’architetto Giovan Battista Contini, uno fra i più importanti cantieri della città. 7 Domenico Viola (messinese), figlio di Francesco e di Teresa de Maria, si sposa con Grazia Amato (messinese e abitante a Catania), figlia di Giovan Maria e Caterina Ferro (ARCHIVIO STORICO DELLA DIOCESI DI CATANIA [= A.S.D. CT], Registri canonici, Collegiata, matrimoni, f. 14, aprile 1689). 8 G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, cit., 257. 9 Domenico Biundo, figlio di Giovanni e di Agata Rizzari, si sposa con Giovanna Amato, figlia di Giovan Maria e Caterina Ferro. Si trasferì a Catania dopo il terremoto del 1693, come testimonia la nascita delle due figlie, battezzate una nella chiesa di


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dall’ingegnere militare don Carlos de Grunembegh10, che furono prese a modello durante la ricostruzione di Catania dopo il terremoto del 1693, probabilmente sulla base delle indicazioni progettuali impartite dal duca di Camastra con la consulenza dello stesso de Grunembergh11.

Fig. 2 – Porta del “Fronte-Cortina” della cittadella di Messina. È visibile anche la porta dell’Opera a martello, ancora oggi esistente. (foto di Francesco Fichera, 1934). Sant’Agata alla fornace il 2 agosto 1695 (A.S.D. CT, Registri canonici, S. Biagio, battesimi, f. 21, 2 agosto 1695) e l’altra nella Cattedrale il 30 ottobre 1697 (A.S.D. CT, Registri canonici, Cattedrale, battesimi, f. 74, 30 ottobre 1697). La sua residenza a Catania è confermata anche dal suo matrimonio con Agata Privitera celebrato il 31 marzo 1704, dopo essere rimasto vedovo di Giovanna Amato e della seconda moglie, Maria Gentile (A.S.D. CT, Registri canonici, S. Maria dell’Aiuto, matrimoni, f. 2, 31 marzo 1704). 10 F. RESTUCCIA, Catania del ’700. Dai segni al linguaggio nella ricostruzione, Roma 1997, 34. 11 Cfr. S. BOSCARINO, Sicilia e Spagna: architettura e città nel Seicento, in Annali del barocco in Sicilia 5 (1998) 19-21.


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Nel febbraio del 1689 lavorò nella chiesa dei Gesuiti a Tropea (RC) dove, in società con Domenico Biundo, realizzò la statua in marmo a mezzo busto del gentiluomo Carlo Scattaretica e due acquasantiere nella chiesa di Santa Maria della Pietà della stessa città, anche queste in marmo. In quest’ultima chiesa ritornò nel 1698 per realizzare due altari, fra i quali quello maggiore con il paliotto in commesso di pietre dure e lapislazzuli, contrassegnato dalle armi della famiglia di Francia12. Antonino Amato ritornò a Catania dopo il terremoto dell’11 gennaio 1693, insieme a sua moglie Angela Blandomonte e ai suoi figli Andrea (nato a Messina fra il 1687 e il 1688), Tommaso (nato a Messina fra il 1689 e il 1690) e l’unica figlia femmina Giovanna, attratto dalle nuove occasioni lavorative. Dopo la nascita del primo figlio catanese di Antonino Amato, il 12 gennaio 1696, che testimonia la sua residenza a Catania in questo periodo13, e la morte prematura di questo bambino, i coniugi ebbero altri due figli maschi: Giovanni (nato a Catania fra il 1699 e il 1700) e Giacomo (nato a Catania fra il 1702 e il 1703). 1. NOTIZIE SULLA FAMIGLIA MESSINESE DEI BLANDAMONTE Angela Blandamonte, probabilmente, era figlia dello scultore messinese Andrea Blandamonte, figlio di Placido, come si evince dal nome del figlio primogenito, che fu chiamato come il nonno materno e non Giovan Maria, come il padre di Antonino Amato, dimostrando la stima che quest’ultimo ebbe per il suocero. Della famiglia messinese dei Blandamonte finora gli Storici dell’Arte hanno riportato solo l’attività di Placido come autore della cappella del SS. Sacramento (fig. 3), realizzata nel 1655 nella cattedrale

12 A. PREITI, Tropea. Profilo storico insediativo tra arte e architettura, in Daidalos 2 (2002) 3, 18-29. 13 Giovan Battista, Placido, Vittorio Amato, figlio di Antonino e di Angela Blandamunti. Padrino mastro Giovan Battista Longobardo (A.S.D. CT, Registri canonici, S. Maria dell’Aiuto, battesimi, f. 9 n. 6, 12 gennaio 1696).


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Fig. 3 – Particolare della decorazione in marmo commesso nella cappella del SS. Sacramento nel duomo di Reggio Calabria (Placido Blandamonte, 1655).

Fig. 4 – Portale d’ingresso al Blandamonte, 1672).

duomo

di Acireale

(Placido


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di Reggio Calabria14, e del portale d’ingresso nel duomo di Acireale15 realizzato fra il 1668 e il 1672 (fig. 4). Come scrive Sebastiano Di Bella, la famiglia dei Blandamonte aveva una delle botteghe più avviate di Messina16, di cui fu capostipite Placido, figlio di Jacopo, citato dai documenti sin dal 1636 per aver venduto ad un certo Francesco de Angelica 35 onze «di marmori et uno peczo misco gialino et nigro»; e già noto per avere eseguito nel 1638 a Reggio Calabria nella chiesa di San Domenico un sepolcro, «superbissima urna», su commissione di un certo Diego Strozzi17. «L’attività del marmoraro, ancora in vita nel 1666 e morto prima del 167918, fu concentrata soprattutto dal sesto al settimo decennio come 14

Il 14 febbraio 1655 i Rettori della Cappella del SS. Sacramento della cattedrale di Reggio Calabria si accordarono con Placido Brandamonte per la decorazione in marmo commesso della Cappella del SS.mo Sacramento. I Rettori si impegnarono a fornire i materiali per la realizzazione del progetto dell’artista, che prendeva a modello la Cappella Maggiore di S. Nicolò della Casa Professa della città di Messina, e descriveva con minuzia i particolari della decorazione da eseguire. Il 24 febbraio 1655 alla gara di appalto non si presentò nessuno e l’opera fu commissionata ufficialmente al Brandamonte, che rispettò i termini del contratto e consegnò l’opera compiuta alla fine di agosto (S. GIACCA, La decorazione della Cappella del SS. Sacramento di Reggio Calabria attraverso la lettura degli atti notarili del tempo, in Brutium 63 [1984] 2, 2-4). 15 Il 17 gennaio 1667 venne stabilito «dal Vicario D. Francesco Platania e dai governatori del Duomo» di Acireale di fare costruire «il prospetto di marmo della porta maggiore del Duomo con statue dell’Annunziata, di S. Venera e S. Tecla» per il prezzo di mille onze. L’incarico fu poi eseguito dal Blandamonte negli anni tra il 1668 e il 1672 (V. RACITI ROMEO, Cenni storici e documenti sulle chiese di Acireale, Palermo 1899, 29. Vedi anche L. SARULLO, Dizionario degli Artisti Siciliani, Scultura, Palermo 1995, 32). 16 I documenti conservati nell’Archivio di Stato di Messina, relativi alla famiglia Blandamonte, sono stati trascritti dal prof. Sebastiano Di Bella (Cfr. S. DI BELLA, Scalpellini marmorari e “mazzunari” a Messina nel Seicento, in Archivio Storico Messinese 65 [1993] 105-122). 17 Per il documento del 1636 vedi: ARCHIVIO DI STATO DI MESSINA (= A.S. ME), Fondo Notarile (= F.N.), vol. 155, f. 568; per quello del 1638: F. ARILOTTA, Rapporti sociali e commerciali fra Reggio e Messina negli atti notarili del secolo XVII esistenti presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria, in Messina e la Calabria dal basso Medioevo all’Età contemporanea, Atti del X Colloquio Calabro-Siculo, Messina 1988, 430. 18 Il 10 marzo 1666 Andrea Blandamonte, in un contratto di commissione, si dichiarava figlio di Placido (vedi A.S. ME, F.N., vol. 205, f. 424), mentre il 7 marzo 1679, in una


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attesterebbero diversi atti notarili»19. Dal 1653 al 1654 lo troviamo accanto a Vincenzo Lombardo impegnato alla decorazione di una cappella nella chiesa del monastero di San Michele, voluta per testamento dal vescovo di Patti, Luca Cocchiglia20. Nel 1656 Placido Blandamonte si impegnava a fare una o due cappelle — ancora non era stato stabilito il numero — in marmo di Carrara per l’Apostolato del Duomo di Messina. I lavori dovettero proseguire a rilento se ancora nel settembre del 1662 lo stesso Blandamonte «mosso dal pio affetto che ha sempre tenuto e tiene verso la maggiore chiesa e detti Santi Apostoli»21 riduceva i suoi compensi. Una terza commissione fu affidata al Blandamonte intorno al 1664, anno in cui veniva liquidato con onze 16 per «manifactura et etiam pro pretio custodia Sanctae Mariae Schalis»22. Questa commissione ebbe certamente una storia insolita. Infatti, un documento del 1661 ci informa che l’ingegnere della Regia Curia, tal Giovanni Rizzo, aveva ordinato al genovese Giorgio Ravena 25 pezzi di marmo «cioè pezze ventiquattro di marmo bianco et pezzo uno di marmo misco» per fare la suddetta custodia. Non si sa cosa sia successo ma il contratto venne annullato qualche mese dopo, nonostante Ravena avesse lasciato a Messina un

fideiussione a favore di Francesco Broccia — di nota famiglia di marmorari (vedi S. DI BELLA, Notizie dei marmorari messinesi (1700-1743), Messina 1981, 6 ss.) — precisava che era figlio del quondam Placido (vedi A.S. ME, F. N., vol. 275, f. 436). 19 Oltre ai documenti di commissioni, sono stati rintracciati, sempre relativi a Placido Blandamonte, una fideiussione del 4 giugno 1663 a favore di Jacopo de Angelo (vedi A.S. ME, F.N., vol. 203, f. 404v.) ed una garanzia del 28 giugno 1666 per un certo Domenico Mazzullo (vedi A.S. ME, F.N., vol. 204, f.456). 20 Un primo pagamento di 20 onze è registrato in data 17 novembre 1653 (A.S. ME, F.N., vol. 195, f. 128), ne segue un secondo di 8 onze il 2 settembre 1654 dove, fra l’altro, il notaio per un “lapsus” scrive Placido Lombardo anziché Vincenzo (A.S. ME, F.N., vol. 196, f. 4v.). Ancora un pagamento di 4 onze è registrato il 23 settembre 1654 (A.S. ME, F.N., vol. 196, ff. 58v.-59). Da altri documenti (A.S. ME, F.N., vol. 196, ff. 3v.-4; 58) si apprende che la decorazione della cappella era stata voluta da Luca Cocchiglia. 21 A.S. ME, F.N., vol. 181, ff. 337-338,339. Inizialmente erano stati stabiliti i seguenti prezzi: tarì 14 e grani 10 per il palmo liscio e tarì 23 per quello intagliato. Successivamente questi prezzi passarono rispettivamente a tarì 11 e tarì 20. 22 A. S. ME, F. N., vol. 228, ff. 565V.-566.


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suo procuratore, tal Giovan Battista Salonia, e nonostante fosse stata consegnata parte dei marmi già ordinati23. Placido Blandamonte morendo lasciava la bottega nelle mani dei figli: Andrea, Giacomo, Giovanni e Giuseppe24. Andrea già nel 1666 doveva essere in grado di lavorare indipendentemente se firmava il contratto relativo alla costruzione di un sottarco nella cappella dei Magi della chiesa di Santa Maria di Basicò. La decorazione doveva essere condotta su un disegno prestabilito e «con pietre di Trapani di color verde e gialino e paragone di Genova»25. Questo è l’unico documento in cui compare un solo figlio di Placido. Ve ne sono altri due riferiti sempre al solo Andrea, ma non sembra che essi possano essere messi in relazione a lavori26. Tutti i fratelli Blandamonte compaiono in un documento del 1683 che è il primo ad attestare la loro attività a Catania. In quell’anno si impegnavano col priore del convento di San Domenico di Messina a fare nell’altare maggiore della chiesa del convento di Santa Caterina da Siena della città etnea, su disegno dell’architetto Raffaele Margarita27, la predella con scalini, la balaustra con venti balaustrini e sei pilastrini. Questi ultimi dovevano essere decorati ad intaglio: due con cartocci, due con «armi della religione e due o [con armi] del sig. 23 Per il contratto vedi A.S. ME, F.N., vol. 220, I, ff. 358-60, per la nomina di procuratore a Giovan Battista Solonia vedi A.S. ME, F.N., vol. 220, I, ff. 364- 365, per la cancellazione del contratto vedi lo stesso volume, f. 360. 24 Gli stessi nomi — tranne quello di Andrea — ricorrono in un elenco di argentieri pubblicato da Ciolino (Cfr. C. CIOLINO, L’arte orafa e argentaria a Messina nel XVII secolo, in Orafi e argentieri al Monte di Pietà. Artefici e botteghe messinesi del sec. XVII, Messina 1988, l31). Poiché non viene fornita indicazione della fonte da cui è stata tratta la notizia riferita al 1682, non è possibile effettuare una verifica chiarificatrice. 25 A.S. ME, F.N., vol. 205, f. 424. 26 Il 2 aprile 1666 in un bastardello è registrato il nome del marmoraro per un «actus rogatorius […] in personam Laurentii de Termini» (vedi A.S. ME, F.N., vol. 205, f. 487v.). Successivamente, il 7 marzo 1679, Andrea fa una fideiussione a favore di Giuseppe Broccia fu Francesco (vedi A.S. ME, F.N., vol. 275, f. 436). Quest’ultimo era capostipite di nota famiglia di marmorari (vedi S. DI BELLA, Notizie dei marmorari messinesi (1700-1743), cit., 6 ss.). 27 Architetto messinese al quale il Susinno attribuisce, seguito poi da altri autori, la chiesa delle Anime del Purgatorio (F. SUSINNO, Le vite de’ pittori messinesi, 1724, a cura di V. Martinelli, Firenze 1960, 178).


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Barone Massa o d’altra persona»28. Il mese successivo i fratelli Blandamonte, escluso Giovanni, forse a Catania o in altra località, firmavano sempre col priore del convento dei Domenicani di Messina su ordine di Anna e Francesca Gioeni, monache terziarie nel convento dello stesso ordine della città etnea, un nuovo contratto col quale si impegnavano a fare una lapide marmorea, ancora su disegno del Margarita, da collocare nella chiesa di Santa Caterina da Siena sempre di Catania. Si raccomandava agli artefici la bontà dei marmi e se ne indicava il tipo da utilizzare per le varie decorazioni. Inoltre si precisava «che le gioie della corona sopra della detta impresa (stemma) [dovevano essere] di petra vinetorina e smalto a colore di lapislazzolo»29. Ma la consuetudine dei Blandamonte di lavorare a Catania era già stata inaugurata dal padre come attesterebbe un documento del 1688 con il quale Giuseppe e Giovanni si obbligavano a portare a termine «una balata marmorea di sepultura» per Francesco d’Amico, che Placido non aveva potuto completare «per alcuni arcidenti» prima, e poi perché passato a miglior vita30. Da questi documenti, trascritti da Sebastiano Di Bella, si evince l’importanza della famiglia Blandamonte fra gli artigiani di Messina nella seconda metà del Seicento e la loro presenza in alcuni cantieri catanesi. Pertanto, in attesa del rinvenimento dell’atto di matrimonio fra Antonino Amato e Angela Blandamonte, nell’archivio di qualche parrocchia di Messina, non si può escludere che fra le due famiglie sia stato instaurato un legame di parentela. 2. L’ATTIVITÀ DI ANTONINO AMATO A CATANIA DOPO IL 1693 In un Atto del notaio Carlo lo Monaco di Catania, stipulato il 29 agosto 1694, relativo alla riedificazione del tenimento di case dell’U.J.D. don Tommaso Bonifacio, sito nella contrada SS. Ascensione e confinante con le vie pubbliche «ex meridie et septentrione, et cum 28

A.S. ME, F.N., vol. 280, ff. 77-80. A.S. ME, F.N., val. 280, ff. 113-115. 30 A.S. ME, F.N., vol. 248, ff. 576-579. Nel documento non compaiono né Andrea né 29

Giacomo, gli altri due figli di Placido.


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domibus don Bernardi Tornabene ex occidente et aliis confinibus», ridotto «a causa terremotus in casaleni», oltre ai lavori pagati il 9 novembre 1694 «alli mastri serratori per serrare detta pietra per li intagli delli cantoniere», il 25 luglio 1695 furono registrate le paghe ai «mastri intagliatori per intagliare li intagli di ribisco per le fenestre e porte delli studij e porticato fatti da mastro Antonino d’Amato e compagni duemila e settecento palmi»31. Questo documento fa capire che Antonino Amato riprese a lavorare nella città etnea nel 1695. Il primo agosto del 1697 intervenne nel cantiere della chiesa Collegiata, dove si aggiudicò l’appalto per fare «una affacciata di pietre bianche e negre con una scalonata pure di pietre negre quali devono servire per la nova Chiesa Collegiata nuovamente da fabricari […] e nello proprio sito dove pria era situata la chiesa antica di detta Collegiata […] giusta il disegno per tal causa facto […] esistente detto disegno in potere del Tesoriere della Collegiata»32. Nel relativo contratto notarile, si leggono i nomi degli altri partecipanti alla gara d’appalto: Giovanni Miraglia, Alonzo di Benedetto, Diego di Benedetto, Giovanni Bertuccio, Francesco Nicosia, Paolo Battaglia e suo cognato Domenico Viola, mentre Antonino Amato risulta «messinese e abitante a Catania»33. Suo genero, il palermitano Pietro Vivilacqua alias facciabianca, marito di Giovanna34, fu fideiussore35 per questo lavoro. Nel 1703 intervenne nel monastero benedettino di San Nicolò l’Arena dove suo cognato Domenico Viola aveva lavorato per tanti anni36. Come risulta dai libri della fabrica nova, nel mese di giugno 31 A.S. CT, 2° vers. not., b. 354, cc. 874-878, 29 agosto 1694 – notaio Carlo lo Monaco (citato in E. MAGNANO DI SAN LIO, Maestranze ed architetti nella Catania del Settecento, in CATANIA, Catania 2010, 31-50). 32 A.S. CT, 1° vers. not., 1 agosto 1697 – notaio Francesco Pappalardo (citato in F. FICHERA, G. B. Vaccarini e l’architettura del Settecento in Sicilia, cit., 54). 33 L.c. 34 Pietro Vivilacqua (palermitano), figlio di Giuseppe e di Antonia Faraci, si sposa con Giovanna Amato (messinese e abitante a Catania), figlia di Antonino e di Angela Blandomonte. 35 Fideiussore o mallevadore è colui che garantisce l’adempimento di una obbligazione assunta da un’altra persona. 36 Sulla costruzione della chiesa di San Nicolò l’Arena del monastero dei bene-


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1703 fu comprata la «carta reale per il disegno del Monasterio» e furono pagate «onze 2 ad Antonino Amato, che fa il disegno del Monasterio in conto»37. L’operato di Antonino Amato nel cantiere di San Nicolò l’Arena fu pattuito con i padri Benedettini il 13 ottobre 1703 con un atto notarile, nel quale furono riportati i compiti assegnatigli: «I mastri Antonino Amato (filius quondam Joannis Marie de Amato, nec non) e suo figlio Andrea (lapidum incisores Urbis Massane et ad presens habitatores huius Clarissime et fidelissime Urbis Catine) si obbligano con il monastero, insieme ad «altri due maestri eligendi e nominandi per detto Antonino d’Amato stipulante fra lo termine e spatio di anni due, da contarsi dal primo di maggio prossimo venturo di questo anno presente 12ª inditione corrente 1704 innanzi, intagliare tutte le pietre bianche che saranno necessarie per fare l’affacciate di levante, mezzogiorno e noviziato del novo Monasterio di San Nicolò che si sta fabricando e questo secondo il disegno fatto da detto Antonino d’Amato stipulante […] In quanto all’ornato cioè cartocci, figure, mascaroni, bottini, balconi grandi e piccoli et altre figure che si dovranno fare, sia tenuto et obligato come s’obliga lo detto Antonino d’Amato farle di propria sua mano e non di mano d’altre persone per patto ecc., […] Procede di patto che sia tenuto et obligato lo detto Antonino d’Amato stipulante, conforme in virtù del presente contratto, s’obligò et obliga alli detti Monasterji, per essi al detto loro Reverendissimo padre Abbate, con l’intervento e consenso sopradetti stipulante, allenzare il Monastero nuovo, e se fosse necessario di farsi qualche disegno farlo, e questo per il medesimo prezzo di tarì sette il giorno da pagarsi di giorno in giorno come di sopra si è detto»38.

In questo documento si legge che le maestranze si obbligarono a modellare le pietre bianche per «fare l’affacciate di levante, mezzogiorno e noviziato del novo Monasterio di San Nicolò che si sta fabricando e questo secondo il disegno fatto da detto Antonino d’Amato», dettini a Catania Cfr. S. CALOGERO, L’architetto Giovan Battista Contini a Catania, in Synaxis 3 (2011) 259-291. 37 A.S. CT, Fondo Benedettini, b. 1188, c. 73, giugno 1703. 38 Staleum pro Monasterio Sancti Nicolai et Antoninum de Amato et consortes. (A.S. CT, 1° vers. not., 13 ottobre 1703 – notaio Francesco Pappalardo, trascritto in F. FICHERA, G. B. Vaccarini e l’architettura del Settecento in Sicilia, cit., Doc. B, 226).


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facendo capire che i prospetti est e sud dovevano essere realizzati seguendo il progetto redatto dallo stesso Amato che, oltre a svolgere il ruolo di architetto direttore dei lavori, «allenzando» la fabbrica, svolse il ruolo di esecutore, realizzando l’apparato decorativo e le sculture. È riportato, inoltre, l’obbligo dei padri benedettini di concedere ad Antonino Amato «tutto il Realto vicino detto Monasterio nuovo, dove olim abitarono li padri del Convento di Santa Teresa di questa predetta città, e questo gratis e senza loghiero alcuno», che doveva servire metà per lavorare «e l’altra metà per habitarci li detti d’Amato con loro famiglia». Quindi, dopo essersi trasferito con la sua famiglia a Catania, nel 1703, dopo l’incarico ricevuto dai benedettini, la famiglia Amato andò ad abitare nelle case di proprietà dei monaci, in prossimità dell’attuale via Teatro Greco. I lavori eseguiti nel monastero riguardarono gli «intagli fatti di tutta la facciata della nuova chiesa di detti venerabili Monasteri, incluse le scale, contraporte di dentro e cantonere pure di dentro che rivoltano la facciata del Ponente […] inclusi quelli delli mura della clausura verso tramontana che attualmente esistono»39. Nella chiesa progettata nel 1686 dall’architetto romano Giovan Battista Contini, oltre a realizzare l’ornato della chiesa (28 tabelloni, 6 scartocci, 6 nicchie, abbacucco delli 4 pilastroni), lo scultore eseguì «palmi tremila ottocento quaranta due per li pilastri del nuovo claustro di pietra bianca», comprendenti: «l’Intaglio di sedici fenestre del detto claustro, cioè otto poste ed altre otto da mettersi […] lo Portone in menzo dell’otto fenestre poste […] due porte a latere dell’otto fenestre poste a mezzogiorno […] quarantatre fenestre a maddalena, cioè n° 34 poste e 9 da mettersi nel primo claustro di pietra bianca […] lo Porticato della clausura immenso la strada non finito e da finirlo conforme l’altro senza le statue, ed armi […] undici Capitelli […] pilastretti n° sedici […] graste n° sedeci […] sbozzatura di cento e sei balaustri […] fogliatura di detti balaustri»40. 39

Computum finale Pro Monasterio Sancti Nicolai contram Magister Antonino de Amato (A.S. CT, 2° vers. not., b. 1084, da c. 501 r. a c. 503 r., 31 gennaio 1712 – notaio Vincenzo Arcidiacono senior). 40 L.c.


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Nel 1704, lo stesso Contini ricevette 10 zecchini «per li disegni, e Pianta della Chiesa»41 di San Nicolò l’Arena, facendo capire che il disegno del monastero fu eseguito da Antonino Amato, ma subordinandolo alle scelte progettuali dell’architetto romano. Nei documenti si legge che il 15 luglio 1686 «fu approvato il progetto dell’architetto Giovan Battista Contini (che era venuto seriamente da Roma) […] e questo fu sottoscritto e firmato, ed è custodito in una stanza con lo stesso modello ligneo fatto da maestro Gioacchino Guglielmino da Catania; come ugualmente anche il disegno di tutto il cenobio progettato dallo stesso Contini»42. Dai documenti esaminati, riguardanti l’attività svolta dallo scultore messinese, invece, non è stato trovato alcun incarico relativo al progetto di impianti planimetrici di edifici, sia civili che religiosi, ma solo per opere di scultura e decorazioni di facciate. Inoltre, il pagamento di «onze 2 ad Antonino Amato, che fa il disegno del Monasterio in conto», non ha confronto con le 280 onze date al Contini nel 1686. Pertanto, ad Antonino Amato si deve attribuire il “disegno” dei prospetti del monastero e non quello dell’impianto planimetrico, che era stato pensato dal Contini insieme a quello della chiesa. Inoltre, la pianta pubblicata nel 1835 da Hittorf e Zanth fa vedere quattro chiostri, due a ponente, dove si trovavano i dormitori, e due a levante, dove erano collocati gli scaloni e gli ambienti comunitari. Il chiostro posto a sudovest, l’unico esistente prima del terremoto, fu preso a modello per quelli nuovi e al centro di ogn’uno fu prevista una fontana, delle quali solo quella del chiostro posto a sud-ovest fu realizzata prima del terremoto. Delimitava l’area un muro di cinta (a sud e a nord), una teoria di stanze, simmetriche rispetto ai due ingressi principali del monastero (a est), e un giardino posto a ovest, il cui disegno rimanda a modelli romani. Nonostante la variante al progetto originario apportata dal Vaccarini, questo progetto fu conservato dai monaci tanto da essere 41

«10 zecchine regalate a Contini in Roma per li disegni, e Pianta della Chiesa» (A.S. CT, Fondo Benedettini, b. 1188, c. 74 - luglio 1704). «tarì 6 per intelararsi li disegni della Chiesa» (ibid., c. 76, agosto 1706). 42 BIBLIOTECA REGIONALE UNIVERSITARIA DI CATANIA (= B.R.U. CT), Fondi antichi, Fondo Anastasi Biondi, MSU 264.2, da c. 240 a 255 (Cfr. S. CALOGERO, L’architetto Giovan Battista Contini a Catania, cit., 267).


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descritto nel 1835 come «Plan gènéral du couvent des bénédictins a Catane»43 (fig. 5).

Fig. 5 – Plan gènéral du couvent des bénédictins a Catane, Adam Sculp (Hittorf e Zanth, 1835).

43

HITTORF E ZANTH, Architecture modern de la Sicile, Parigi, 1835.


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Fig. 6 – Portale d’ingresso allo scalone del monastero di San Nicolò l’Arena. (L. Dufourny, 1789).

Nel mese di febbraio 1712 iniziarono i lavori nel chiostro di ponente nel quale, oltre a realizzare i nuovi intagli nelle aperture, Antonino Amato ricostruì il colonnato di marmo progettato dall’architetto Giulio Lasso, distrutto dalle scosse sismiche. Nella contabilità si legge che Antonino Amato si obbligò con il Cellerario del monastero «di farci la statua del Glorioso S. benedetto due Angioli, e l’armi, […] e consignare al detto di Amato stipulante tutto il Portone di pietra di Taormina con sue colonne»44, facendo capire che nel 1712 era stato in parte realizzato il prospetto est del monastero. Questo portone fu 44

Computum finale Pro Monasterio Sancti Nicolai contram Magister Antonino de Amato (A.S. CT, 2° vers. not., b. 1084, da c. 501 r. a c. 503 r., 31 gennaio 1712 – notaio Vincenzo Arcidiacono senior).


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rilevato da Leon Dufourny45 nel 1789 (fig. 6), prima di essere sostituito da quello nuovo disegnato dall’architetto Carmelo Battaglia e Santangelo. Nel mese di settembre 1713, fu redatto un nuovo computo finale nel quale, oltre a citare la fornitura di marmo da parte del messinese mastro Pasquale Amato, figlio di Giovan Maria, furono riportate le altre opere eseguite da suo fratello Antonino a questa data: «16 fenestre complemento di 40 […] 2 portoni cioè uno a levante, e l’altro à tramontana complemento di 3 et quello à mezzogiorno […] ripezzo di 3 porte complemento di 5 […] 5 porte nuove […] concia di 31 peduzzi di marmo, stricatura, e 7 nuovi […] per stricatura di palmi 30 di marmo, e per mastria di 10 pezzi di pietra biancha per dove non entrano li semirotti […] 12 peduzzi di pietra biancha […] 9 rosoni […] palmi 629 di fascetta […] 29 colonne complemento di 49 con suoi piedistalli, base, e capitelli […] 14 archi con sua balaustrata complemento di 27 […] 62 piramidi per tutta la balaustrata […] 4 semirotti complemento di 24 […] 6 capitelli nuovi complemento di 49 […] una base nuova complimento di 52 […] tutta la balaustrata della scala […] palmi 140 di marmo per la chiappella della scala // e più a mastro Paschale d’Amato e per esso al Rev.mo P. Abbate da Messina per palmi 408 di marmo comprato à tarì 5.16 per palmo quadro per fare 3 colonne, 3 capitelli, e 3 archi, che mancano in detto nuovo Claustro onze 78.26.8 // per serratura di palmi 392 di marmo per detti a grana 19 per palmo onze 12.12.8 // à mastro Antonino Amato à conto dell’onze 30 havute per la sua maestria, ed assistenza nell’assettare, e lavorare dette colonne, capitelli, ed archi di tutta perfezione onze 10»46.

Le paghe ad Antonino Amato furono trascritte fino al mese di ottobre 1716 e in base a quanto riscontrato nei documenti la sua opera riguardò tutte le opere d’intaglio e scultura nella chiesa e nei due chiostri, quello di levante di pietra bianca e quello di ponente in marmo. Mentre lavorava nel monastero di San Nicolò l’Arena insieme a suo figlio Andrea, nell’aprile del 1707, Antonino Amato si obbligò con 45 Prospetto del monastero di S. Nicolò l’Arena, in Lèon Dufourny, Notes rapportèes d’un voyage en Sicile (BIBLIOTECA NAZIONALE DI FRANCIA, Estampes, ms. ai segni Ub 236, tomo V, fol. P125203, pubblicato da G. PAGNANO, Dal mito alla storia, in Catania, Catania 2007 , 205). 46 A.S. CT, Fondo Benedettini, b. 1191, c. 210, settembre 1713.


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il principe di Biscari per fare nel suo palazzo della marina «sette fenestroni d’intagli di pietra bianca»47 (fig. 7) e, nel 1709, insieme anche all’altro figlio, Tommaso, lavorò nella Cattedrale di Catania, impegnandosi «di intagliarci la pietra bianca da dove incomincia lo bianco fino alli cullarini delli pilastri con tutti l’archi … con incominciare dallo 30 dello istante mese di settembre innanzi, con essere detto servizzo benvisto a mastro Giuseppe Longobardo capo mastro delle fabriche di questa suddetta città per patto», mentre i deputati dell’opera grande consegnarono «alli detti Amato tutta la pietra necessaria»48. Contemporaneamente fu effettuata la fornitura di pietra di Siracusa «benvista però, detta pietra bianca, non solamente a mastro Giuseppe Longobardo capo mastro di questa suddetta città, ma ancora a mastro Antonino d’Amato intagliatore»49. Quest’ultimo cedette a mastro Paolo Battaglia «terzia parte et portione ut del sopra detto servizzo per detto di Amato preso a staglio assieme con detti suoi figli»50. I lavori di ricostruzione della Cattedrale iniziarono il 19 giugno del 1709, con la posa della prima pietra, e il 3 settembre dello stesso anno «Vincentius Vivilacqua alias Facciabianca, magistri Antonius Biundo et Magistri Paulus Battaglia lapido incisores»51, tutti imparentati con gli Amato, furono incaricati per scolpire la pietra. Inoltre, nel 1715 magister Antonino Amato si obbligò «di fare due fonti d’acqua benedetta di marmo bianco di Genova per servigio di detta chiesa Cattedrale tutti di Commiso di Giallo di Venezia e pietra di Trapani […] e giusta il disegno ad questo effetto fatto»52.

47 A.S. CT, 2° vers. not., b. 1249, c. 447 e segg., 26 aprile 1707 – notaio Vincenzo Russo (Cfr. V. LIBRANDO, Il palazzo Biscari in Catania, in Cronache di archeologia e di storia dell’arte, Catania 1964, Doc. A, 146). 48 A.S. CT, 1° vers. not., b. 1037, c. 80 r. e v., 27 settembre 1709 – notaio Francesco Pappalardo (Cfr. S. CALOGERO, La ricostruzione della cattedrale di Catania dopo il terremoto del 1693, in Synaxis 22 [2004] 1, 113-148). 49 Ibid., 2° vers. not., b. 1080, da c. 100 r. a c. 103 r., 7 ottobre 1709 – notaio Vincenzo Arcidiacono senior. 50 Ibid., da c. 119 r. a c. 120 v., 9 ottobre 1709. 51 Ibid., c. 11 r., 3 settembre 1709. 52 Ibid., b. 1091, c. 319r-v, 20 novembre 1715, notaio V. Arcidiacono senior.


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Fig. 7 – Particolare del prospetto del palazzo alla marina del principe di Biscari. (foto di Vito Librando, 1964).

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Risale al 21 settembre 1714 il contratto di Liberatione per realizzare il partito centrale del prospetto di levante nell’Almo Studio di Catania, in cui è descritto nel dettaglio il lavoro da eseguire: «In primis. Si dovrà fare la sua sogliata di pietra nigra quale circola intorno tutta lo zoccolone di mesco di qual si trova in detti Studi tutto ben lavorato e scorniciato secondo la forma del disegno; sopra la quale si dovranno fare le sue basi reali con sue colonne scorniciate alla Salamuna con suoi frutteri nelli vacanti di dette colonne Torcionate coi suoi capitelli di sovra d’ordine Jonico e Composito; ogni Capitello lavorato di tutte le quattro affacciate, e suoi contra capitelli reali di retro che posano sovra le palastri di dietro le colonne, in mezzo d’un pilastro, e un altro si dovrà fare la nicchia tutta di pietra con tutto il concavo: e sua figura di tutto rilievo lunga palmi 7 e mezzo, ad eletione della Deputazione quali nomi di figura li piace: Sopra detti Capitelli si dovrà fare architravata e friscio e cornice con sei cagnola, e Festone del rimanente del friscio di fuora in fuora, e suo arco a bottesco abbugnato e diamantato come anche i piedi dritti di detto arco e suoi Vittorie diamantate secondo la forma del disegno, come anche li frontespizii e figure poste a sedere sovra detti frontespizii con suoi balatoni sovra li cagnoli del balcone scorniciati della modanatura della gola diretta; e li cagnoli devono havere la scorniciatura del cornicione di primamano, che circola tutto il torno i detti cagnoli, come anche nel mezzo d’un cagnolo e l’altro si dovrà fare il rimanente della sottomano del cornicione, che anche circola intorno di fuora in fuora; anche si dovrà fare il Fenestrone secondo la forma del disegno con suoi piedistalli; nelle quali posano l’arpie, e contropiedistalli, dove posano le figure e detti piedistalli coi suoi basamenti, e cimasi, e sue basi sotto le dette arpie, con li capitelli, sovra la testa di dette Arpie e contro capitelli, e cartocci a canto con suoi membretti: sovra di essi dovrà andare architravata friscio e cornice secondo la forma del disegno, e suoi frontespizii in forma di Cartilloni, e in mezzo di detta cornice la sua tabella di rilievo, con suoi festoni a canto e all’altro; sovra detta cornice si dovrà fare il zoccolo dove poserà l’Aquila con l’armi di Sua Maestà con la croce in mezzo con due festoni attaccati con il frontespizio, e il zoccolo dell’aquila. Tutta questa opera che sia secondo la forma del disegno di buona Architettura come l’arte richiede; magistralmente operata. Chi piglierà questo staglio dovrà pagare il disegno»53. 53 Fra i partecipanti alla gara di appalto vi erano i maggiori artefici della ricostruzione di Catania: Girolamo Palazzotto, Domenico Francalanza, Pietro Melita,


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Fig. 8 – Particolare del prospetto di levante dell’Almo Studio. (incisione di Antonio Bova, ante 1761).

Le decorazioni e le sculture nell’originario partito centrale del prospetto nel palazzo dell’Università furono realizzate da Antonino Amato e sono visibili nell’incisione pubblicata dal Leanti nel 1761, sulla base del rilievo di don Francesco Battaglia (fig. 8), suo nipote acquisito. In un documento del 29 dicembre 1714, conservato nell’Archivio Storico dell’Università di Catania, si legge che dovevano essere pagate:


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«onze dieciotto e tarì quindici a mastro Vincenzo Vivilacqua alias facciabianca a conto di quelle oze 22.29.13 per le quali fu liberato a detto di Vivilacqua, come ultimo dicitore e minor offerente, l’assettito del porticato grande con suo finestrone, nella parte di levante nella casa di esso Almo Studio giusta la forma del disegno; nella qual somma di onze 18.15 vi sono comprese quelle onze cinque pagate a mastro Antonino d’Amato mastro intagliatore figurista per dover fare tutte le figure, ed altri per servigio di detto porticato»54.

In un atto giudiziale del 25 giugno 1703, citato dal Policastro, si leggeva che Antonino Amato «fu seriamente chiamato ad effettuare faciendi et costruendi nuova pianta e struttura secondo le regole dell’architettura del superbo venerabile monastero e chiesa del Padre S. Benedetto sotto il titolo di San Nicolò l’Arena, come in avanti dello stesso Amato furono fatti e costruiti moltissimi insigni luoghi, cioè la casa dell’illustrissimo Senato, il Palazzo dell’Episcopio per atti della R. Curia Patriziale di questa città»55. Chiaramente, alla luce di quanto abbiamo visto, non tutte queste opere furono realizzate da Antonino Amato, come la Casa del Senato, il palazzo vescovile e la pianta del monastero di San Nicolò l’Arena, ma egli intervenne sicuramente nei più importanti cantieri della città. 3. LA CHIESA DI MARIA SS. DELLE GRAZIE NEL PIANO DI TREMESTIERI Consultando gli Atti del notaio Vincenzo Arcidiacono senior del 20 marzo 1710, si trova il contratto di «Staleum» fra il «Rev.do Sac.te don Nunzio Nicolosi» e «magister Antonino de Amato». Con questo contratto il maestro Antonino Amato, figlio del defunto Giovanni Maria della città di Messina, si impegnò a «farci ed intagliarci una porta di pietra bianca uguale a quella del venerabile convento di San Antonino Amato, Diego Arancio e Vincenzo Vivilacqua “alias faccia bianca” (A.S.U. CT, vol. 91, foglio volante, 21 settembre 1714. Trascritto in F. FICHERA, G. B. Vaccarini e l’architettura del Settecento in Sicilia, cit., Doc. C, 230). 54 A.S.U. CT, fondo Casagrandi, n. 20 bis, c. 3 r., 29 dicembre 1714. 55 G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, cit., 257.


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Domenico fuori le mura di questa suddetta città (di Catania) che guarda al ponente». Il portale («porta») preso a modello fu quello dell’ingresso laterale della chiesa di San Domenico in via Santa Maddalena, annessa all’ex convento di Santa Maria la Grande dei padri domenicani. Nel contratto furono riportate le dimensioni dell’opera: «cioè in quanto al lavoro solamente, ed in quanto allo lume dev’essere lunga palmi quattordici e larga palmi sette e mezzo, come ancora farci il fenestrone sovra detta porta di lume con suoi cosci, pilastro, membretto, scartocci a lato membretto, cornici di sopra frontespitio e zoccolo nel mezzo seu piedestallo ove posar deve la figura con essere detto fenestrone di lunghezza palmi setti e mezzo e di larghezza palmi quattro, con farci ancora ed intagliarci una statua seu figura di pietra bianca di Santa Maria la Grazia con un bambino in mano con essere detta statua seu figura palmi sei oltre il piedestallo, e parimente farci ed intagliarci pure di pietra bianca altri due statue cioè una di San Pietro, e l’altra di San Paolo, quali devono andare sovra li pilastri seu frontespitio della porta suddetta con essere di palmi cinque per ognuna»56.

Il portale doveva essere alto quattordici palmi (metri 3,58) e largo palmi sette e mezzo (metri 1,92). Sopra il portale si realizzava il «finestrone», alto sette palmi (metri 1,92) e largo quattro palmi (metri 1,02), «con suoi cosci, pilastro, membretto, scartocci a lato membretto, cornici di sopra frontespizio e zoccolo nel mezzo seu piedestallo ove posar deve la figura», cioè la statua «seu figura di pietra bianca di Santa Maria la Grazia con un bambino in mano» che doveva essere alta sei palmi (metri 1,54) oltre il piedistallo. Della stessa pietra bianca si dovevano scolpire anche le statue di San Pietro e San Paolo, ciascuna alta cinque palmi (metri 1,28), che dovevano essere collocate ad asse dei pilastri del portale, sopra il frontespizio. Quindi Antonino Amato doveva realizzare un portale di una chiesa in pietra bianca, apportando delle modifiche al modello di rife56

Staleum pro Rev. Sac. don Nuntio Nicolosi contra magister Antonino de Amato (A.S. CT, 2° vers. not., b. 1081, da c. 42 r. a c. 43 v., 20 marzo 1710 – notaio Vincenzo Arcidiacono senior).


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rimento, e il suo intervento riguardava l’intero prospetto della chiesa, nel quale doveva inserire un «fenestrone» con la statua di Santa Maria delle Grazie e, sopra le paraste del portale, le statue dei Santi Pietro e Paolo, anch’esse in pietra bianca. Nel contratto si leggono, fra l’altro, i patti e le condizioni a cui dovevano sottostare i contraenti e il luogo dove si trovava la suddetta chiesa: «quali detto tutto suddetto servitio come sopra da farsi habbia e debbia da essere bene e magistralmente fatto ed intagliato, e secondo richiede l’arte di ottimo e perito maestro intagliatore, e di buona pietra bianca. Ed essere benvisto tutto il servitio come sopra da farsi a persone pratiche eligende da detto di Nicolosi stipulante per patto. Tra che tutto detto servitio devesi finire d’intagliare per tutto il mese di maggio p. c. di questo suddetto anno presente e corrente 1710; con che però finito che farà d’intagliare per tutto tempo lo servitio suddetto sia tenuto ed obligato come si obliga detto di Amato stipulate lo servitio suddetto come sopra da farsi ed intagliarsi assettare colle sue proprie mani nella chiesa sotto il titolo della Madonna della Grazia esistente in detta Terra di Tre mistieri, e quartiero del Piano»57.

Il lavoro d’intaglio e le sculture dovevano essere completati entro il mese di maggio 1710 ed essere collocati dallo stesso Antonino Amato nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, nel quartiere del Piano della Terra di Tremestieri. Oggi la facciata della chiesa è caratterizzata superiormente da un timpano triangolare che, insieme alla trabeazione e le due paraste laterali, ne determina l’ordine gigante (fig. 9). All’interno del timpano si trova una nicchia dove è collocata la statua di Santa Maria delle Grazie e sotto la trabeazione si trovano il «fenestrone» e il portale d’ingresso, disposti lungo l’asse di simmetria della facciata. Nel portale di questa chiesa (fig. 10) sono state apportate alcune modifiche, rispetto al modello di riferimento catanese (fig. 11). È stato sostituito il cherubino, posto nel tabellone dell’architrave, con un altorilievo che rappresenta le anime del Purgatorio; al posto delle ampolle, poste nell’asse dei pilastri, sono state inserite le statue dei Santi Pietro e 57

L.c.


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Paolo; e fu inserito il finestrone dove era posta originariamente la statua di Santa Maria delle Grazie, oggi collocata nella nicchia del timpano triangolare della facciata (fig. 12), eliminando gli angeli che reggevano lo stemma domenicano presenti nel modello. Al disegno semplice del ÂŤfenestroneÂť si contrappone quello del portale, che si rifĂ ai modelli messinesi.

Fig. 9 – Facciata della chiesa di Santa Maria delle Grazie.


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Fig. 10 – Portale d’ingresso alla chiesa di Santa Maria delle Grazie.


Lo scultore messinese Antonino Amato

Fig. 11 – Rilievo del portale laterale d’ingresso nella chiesa di San Domenico (Rilievo di Francesco Fichera, 1934)

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Fig. 12 – Particolare della facciata con la statua di Santa Maria delle Grazie.


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Il portale è costituito da un sistema di paraste di ordine Ionico, con dado, base e capitelli pensili, sovrapposti alla sottostante parasta, che racchiudono il vano architravato. Il sistema di paraste è costituito da mostre e contromostre piane in cui sono presenti specchiature, separate da rosoni, e volute a spirale, che legano il piedistallo e la contro mostra alla superficie intonacata della facciata. L’architrave è caratterizzata dagli altorilievi, mentre nei dadi dei capitelli pensili sono presenti facce di cherubini. Il disegno dei capitelli pensili si ripete ai lati della stessa trabeazione evidenziando la cornice tripartita che si raccorda mediante volute a spirale con il davanzale del «fenestrone» e che sostiene le ali del timpano, costituite da acroteri di sostegno alle sculture dei due Santi. Le basi delle paraste contengono scudi con figure allegoriche di volatili, sormontate da facce di cherubini. 4. ALTRE OPERE REALIZZATE DA ANTONINO AMATO Prima della facciata della chiesa nel piano di Tremestieri58, Antonino Amato realizzò diversi monumenti sepolcrali in marmo commesso: nel 1705 quello per il vescovo Andrea Riggio59, collocato nella cappella di Sant’Agata della Cattedrale (fig. 13), e nel 1709 quello per don Consalvo Asmundo, marchese di San Giuliano60, nella chiesa di Santa Maria dell’Indirizzo. Antonino Amato si impegnò il 14 giugno 1711 con la Venerabile Congregatione sancta Maria de Auxilio per realizzare nella chiesa di Santa Maria dell’Aiuto a Catania: «una machinetta di Marmo di Genova di buona condizione e qualità con essere di grossezza tre diti per ogni fatto più o meno secondo richiede l’arte, con sei colonne di pietra di libici, seu Trapani con essere però la 58 Questa, da quanto risulta dai documenti reperiti, è l’unica facciata di chiesa progettata dallo scultore Antonino Amato. 59 G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, cit., 287. 60 Obbigatione pro Illustre e spectabile D. Consalvo Asmundo Marchione Sancti Juliani contra magister Antoninus de Amato et q. (A.S. CT, 2° vers. not., b. 1080, da c. 102 r. a c. 103 r., 7 ottobre 1709 – notaio Vincenzo Arcidiacono senior ); Staleum pro Illustre et Spectabile don Consalvo Asmundo contra magister Antoninus de Amato (ibid., da c. 133 r. a c. 134 r., 17 ottobre 1709).


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Pradella dell’Altare habbia e debbia d’essere di Pietra di Tavormina col commisso bianco di sopra ingastato e li scalini di detto Altare pure habbiano e abbiano ad essere di Commiso ribiscato»61.

Fig. 13 – Monumento sepolcrale del vescovo Andrea Riggio (foto di Francesco Marchica, 2009). 61

Staleum Pro Venerabile Congregazione sancta Maria de Auxilio cum magister Antoninus de Amato (A.S. CT, 2° vers. not., b. 1083, da c. 231 r. a c. 233 v., 14 giugno 1711 – notaio Vincenzo Arcidiacono senior).


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Questa macchinetta, ultimata nel 1712, fu sostituita nel 1786 da quella tardo-barocca ancora oggi esistente62. Nello stesso periodo Antonino Amato realizzò una «fontana di marmo bianco di Genova»63 (fig. 14) nel baglio del palazzo di don Arcaloro Scammacca e Perna, barone della Bruca e Cruscunà.

Fig. 14 – Fontana di Nettuno nel cortile del palazzo del barone della Bruca. (foto di Pietro Di Stefano, 1933). 62

G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, cit., 298-299. Staleum pro Illustre don Arcaloro Scammacca contra magister Antoninum de Amato (ibid., b. 1254, c. 483 r. e v., 22 novembre 1711). Vedi anche S. CALOGERO, Il palazzo del marchese di San Giuliano a Catania, Palermo 2009, 114. 63


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Il 26 settembre 1714 ebbe dal sacerdote don Antonino Piccione l’incarico per realizzare nella chiesa del SS. Rosario, della terra di Biancavilla «un avantialtare di commisso giusta il disegno fatto da detti di Amato e Costa, che esiste in potere di detto di Piccione per un altare nella chiesa maggiore di detta terra sotto titolo del SS. Rosario; e questo di buon lavoro e giusta il disegno suddetto portato e disegnato in detta terra»64. Tra i figli di Domenico Viola, cognato e socio di Antonino Amato, che continuarono il lavoro di lapidum incisores vi furono Francesco e Lorenzo. Francesco Viola65 eseguì alcuni lavori in società con suo cognato Paolo Turrisi, fra i quali vi fu quello documentato dal contratto del 12 febbraio 1715, con il quale i due si obbligarono con il Rev. Can. don Michelangelo Fiorenza e con don Sebastiano Sangiorgio, della città di Adernò, «di fare due colonne e due archi d’intaglio, nec non le finestre pure d’intaglio che saranno necessarii per l’aumento della fabrica della Ven.le Collegiata Chiesa Matrice di questa Città medesima secondo formalità e modello dell’altri colonne, archi e finestre di detta Collegiata Matrice Chiesa questo incominciando dalli otto marzo prox. vent.».

Nel suddetto contratto si legge che i «dicti de Torrisi et Viola in solidum ut sopra de ratio promiserunt et promitterunt pro magister Antonino d’Amato dicta Urbis Catanae, magister Scultore», facendo capire che per le parti scultoree intervenne lo zio materno di Francesco: lo scultore Antonino Amato, della città di Catania, che nel

64 Estaleum pro rev. Sac. don Antonino Piccione cum magister Antoninus de Amato et q. (A.S. CT, 1° vers. not., b. 2281, c. 179 r. e v., 26 settembre 1714 – notaio Giuseppe Capace). Vedi anche S. CALOGERO, La ricostruzione della chiesa madre di Biancavilla dopo il terremoto del 1693, in Synaxis 24 (2006) 1, 145-175. 65 Francesco Viola e sua sorella Flavia si sposarono nel 1712, il primo con Agata Turrisi (della città di Paternò e abitante a Catania), figlia di Antonino e di Rosa Pistorio, la seconda si sposò con suo fratello Paolo Turrisi (A.S.D. CT, Registri canonici, S. Maria dell’Idria, matrimoni, f. 38 novembre 1712), mentre Lorenzo si sposò nel 1720 con la catanese Agata Romeo, figlia di Angelo e Vincenza Robuazzo (A.S.D. CT, Registri canonici, S. Maria dell’Idria, matrimoni, f. 1, 14 settembre 1720).


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1715 realizzò anche le sculture in pietra bianca per la facciata della chiesa di San Sebastiano ad Acireale66. Dopo il 1716 Antonino Amato incominciò a lavorare fuori Catania, lasciando i cantieri ai suoi figli Andrea e Tommaso, che lo sostituirono soprattutto nella realizzazione del monastero di San Nicolò l’Arena. La presenza di magister Antonino Amato in Calabria è documentata il 20 luglio 1720, quando realizzò due angeli marmorei per la cattedrale di Mileto67, e nel 1731 quando, insieme ai catanesi Antonino e Giuseppe Palazzotto68, realizzò l’altare maggiore della cattedrale di Gerace, in marmo commesso. Sebastiano Di Bella ha trovato nell’Archivio di Stato di Messina alcuni contratti che documentano l’attività di Antonino Amato nella città dello stretto69. L’8 marzo 1722, mentre si trovava a Messina, si impegnò insieme ai suoi fratelli Pasquale e Biagio a realizzare i gradini e la custodia nella chiesa di San Rocco a Piazza Armerina, in commesso di marmi colorati, stipulando il contratto presso il notaio Paolo Bottari di Messina70. Entro il mese di gennaio del 1729, gli stessi fratelli Amato completarono la decorazione della facciata nella chiesa di San Nicolò a Messina, per la quale fu saldato un importo complessivo 352 onze, 25 tarì e 6 grani; il materiale impiegato per l’opera fu il marmo bianco con colonne di Saravezza e bardiglio71. Inoltre, nel 1732 fu stipulato il contratto con il quale suo figlio Giacomo si impegnò a realizzare i gradini e la predella dell’altare maggiore nella chiesa di San Liberale a Messina in mischio di Taormina72. Se non ci fossero stati i terremoti del 1783 e del 1908, sarebbero ancora visibili queste e tante altre opere dello scultore messinese. A Catania ritornò nel 1733, per riprendere a lavorare come scultore 66 S. BELLA, Quando la pietra si fa merletto: la facciata della Basilica San Sebastiano di Acireale, in Agorà 29-30 (2007) 50-53. 67 R. CAPUTO, Il Museo Statale di Mileto, Vibo Valenzia 2002. 68 Il nome degli autori è inciso nella parte posteriore dell’altare (cfr. S. CALOGERO, La Badia di San Giuliano in via Crociferi, Palermo, 2010, 188). 69 S. DI BELLA, Notizie dei marmorari messinesi (1700-1743), cit. 70 A.S. ME, vol. 725, ff. 300-301. 71 A.S. ME, vol. 315, ff. 277-279. 72 A.S. ME, vol. 805, ff. 73-74.


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in alcuni cantieri che si stavano ultimando in quel periodo73. Infatti, il 5 giugno si impegnò con il Rettore del Collegio dei Gesuiti per realizzare, insieme a suo figlio Carmelo74, «tutta la scalonata da farsi innante la porta grande della Chiesa di detto Venerabile Collegio di pietra bianca di Tauormina»75. Con lo stesso figlio si impegnò l’8 novembre 1734 per realizzare nella cappella del Santo Sepolcro della Vergine e Martire nostra concittadina, all’interno della chiesa di Sant’Agata la Vetere: «la macchinetta di marmo secondo lo modello existente in potere di detto Rev. di Noto e questo bene e magistralmente con assettare detti staglianti in solido et loro proprie spese e travagli detta machinetta con assettarla sino al secondo piedestallo, di modo che si deve assettare il detto Santo Sepolcro cum incosturare detti mastri detta machina […] magistralmente del modo e forma che è assettata la machina di San Francesco Saverio nella chiesa della venerabile compagnia di Gesù di questa città, il tabernacolo lo deve fare uguale a quello della Cappella del SS. Sacramento existente nella Chiesa Collegiata di questa suddetta Città cum metterci pure detti mastri dui mezzi colonnetti, come pure devono trasportare tutti li cimasi per mettere li Candeli e … lo principio della scalonata di detto altare la devono detti mastri da fare a fuga della faccia dell’altare»76.

Nel 1736, all’età di settantasei anni, gli incarichi ricevuti da Antonino Amato riguardarono prevalentemente la realizzazione di sculture, come quelle inserite nella facciata della chiesa della Santa 73 La sua presenza a Catania è documentata anche dalla nascita di suo figlio, battezzato l’11 luglio 1733 (Rosario, Salvatore, Giuseppe Amato, figlio di Antonino e di Giavanna Manciasi. Padrino magister Giuseppe Palazzotto. A.S.D. CT, Registri canonici, SS. Filippo e Giacomo, battesimi, f. 25, 11 luglio 1733). 74 Carmelo Amato, figlio di Antonino e di Giovanna Mangiasi, nasce a Catania il 10 ottobre 1713 (A.S.D. CT, Registri canonici, S. Maria dell’Idria, battesimi, f. 2, 10 ottobre 1713). Si sposa il 21 febbraio 1735 con Anna Longo, figlia di Agatino e Maria Recupero (A.S.D. CT, Registri canonici, Collegiata, matrimoni, f. 4, 21 febbraio 1735). 75 A.S. CT, 2° vers. not., b. 886, da c. 577 r. a c. 578 v., 5 giugno 1733 – notaio Pietro Russo. 76 Staleum pro Rev. Sac. et Canonicus don Jacintho Noto et consortibus contra magister Antoninus Amato et consortes (ibid., b. 888, da c. 139 r. a c. 141 v., 8 novembre 1734).


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Casa di Loreto77. L’incarico, ricevuto il 12 maggio 1737, per la scultura della madonna dell’elemosina da inserire nella nuova facciata della chiesa madre di Biancavilla (fig. 15), dopo che il mastro catanese Pasquale Serafino78, alias Nocca, eseguì gli intagli in pietra lavica delle porte, finestre e paraste della facciata, conferma la sua attività prevalente di scultore. Nel relativo contratto si legge: «Antoninus Amato quondam Joannis Maria, et Dominicus Amato Pater et filius Urbis Messane et habitatores Urbis Catanae» si obbligò con il «R.mo Abbati don Petro Maria Piccione Uti Heconomo et procuratori Venerabilis Ecclesiae Matricis sub titolo S. Maria Elemosina huius predicta terra Alba Villa di farci una mezza statua di marmo della nostra gran signora Maria dell’Elemosina della medesima disposizione come si trova nella sua immagine, d’altezza palmi quattro e larghezza palmi tre con suo Piede stallo di pietra russa di Taormina alto palmi dui con sua nuvola sotto della statua di pietra palumbina Taormina con tre Serafini di marmo bianco posti in detta nuvola imperniati. Di collocarsi nella nicchia della Prospettiva di detta Ven.le Chiesa Madre e questo magistrabilmente secondo richiede l’arte»79.

77 Extaleum pro Rev. don Pietro Lauria contra magistrum Antoninum de Amato et consortem (A.S. CT, 1° vers. not., b. 2304, c. 643 r., 7 agosto 1736 - notaio Giuseppe Capace. Documento trascritto in E. MAGNANO DI SAN LIO, Giovan Battista Vaccarini, architetto siciliano del Settecento, cit., 332). 78 Pasquale Serafino, figlio di Antonino e Francesca Pappalardo, sposò Angela Palazzotto, figlia di Francesco e Andreana Grillo (A.S.D. CT, Registri canonici, S. Maria dell’Aiuto, matrimoni, f. 14 n. 2, 6 maggio 1711). Era cognato dei fratelli Girolamo, Filippo, Antonino e Giuseppe Palazzotto, fra i più importanti lapidum incisores venuti da Messina a Catania, fra i quali: Girolamo e Giuseppe divennero architetti, realizzando importanti edifici, sia civili che religiosi. I messinesi Palazzotto erano imparentati con i Biundo. Infatti, Giuseppa Palazzotto, sorella maggiore di Francesco, sposò il 31 maggio 1683 Santi Biundo (D. PUZZOLO SIGILLO, L’architetto Girolamo Palazzotto [Fra Liberato da Messina] 1676-1754, estratto dagli Atti della reale Accademia Peloritana, Vol. XXXVII, 1935 – XIV, parte II, Doc. VI, 583-615) che, probabilmente, era parente di Domenico e Antonio Biundo. Quindi, per via indiretta, erano imparentati con Antonino Amato. 79 A.S. CT, CC.RR.SS., b. 25 (ex b. 23), c. 745r. (12 maggio 1737). Vedi anche S. CALOGERO, La ricostruzione della cattedrale di Catania dopo il terremoto del 1693, cit., 162.


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Fig. 15 – Particolare della porta maggiore nella chiesa madre di Biancavilla.


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Nello stesso periodo ricevette anche l’incarico, insieme ai suoi figli Domenico, Francesco, Giovanni Maria, Giacomo e Carmelo, per realizzare il pavimento in marmo bianco, mischio di Taormina e bardiglio nella chiesa di Sant’Anna a Messina, che doveva essere ultimato entro giugno del 173880. 5. ALTRE NOTIZIE BIOGRAFICHE SULLA FAMIGLIA AMATO Andrea Amato, figlio maggiore di Antonino, si sposò nel mese di gennaio 1707 con Rosa Minardi, una ragazza catanese rimasta orfana del padre81. Il contratto di matrimonio fu stipulato il 28 dicembre 1706 e fu preceduto da una donazione di 10 onze82, ricevute dalla ragazza in seguito al sorteggio del «bussolo», che il patrigno della sposa, mastro Domenico Gallo, si impegnò a versare al promesso sposo. Qualche anno dopo morì la moglie di Antonino Amato, Angela Blandomonte, e l’11 aprile 1712 si sposò l’altro figlio, Tommaso83. La madre della futura sposa, donna Caterina Alfano, rimasta vedova del notaio Vincenzo Greco, si impegnò a versare 10 onze84 al futuro genero, anche queste ottenute dal sorteggio del «bussolo». 80 A.S. ME, vol. 1031, atti n. 7 e 69, ff. 19-22 e 225-228, notaio Domenico Leone di Messina. 81 Andrea Amato, figlio di Antonino e di Angela Brandamonte, si sposa con Rosa Minardi, figlia del defunto Giovanni e Agata Puleio. Quest’ultima si era risposata con mastro Domenico Gallo nel 1693. Inoltre, quando Agata Puleio si sposò con Giovanni Minardi, risultava già vedova di Francesco Turrisi (A.S.D. CT, Registri canonici, S. Biagio, matrimoni, 81 n. 74, 3 ottobre 1684). 82 Contractus Dotali et Donationis legati onze 10 Pro magister Andrea de Amato contra Venerabilem Cappella SS. Crucifixi (A.S. CT, 1° vers. not., b. 1076, da c. 389 r. a c. 390 r., 28 dicembre 1706 – notaio Mauro Greco). Contractus Dotali ad usum Cat. inter Magistrum Andrea de Amato sponsum ex una et Rosa Minardi sponsa ex altera (ibid., da c. 395 r. a c. 398 v.). Il “bussolo” era stato istituito da Graziella Coltraro e consisteva nella donazione di 10 onze alle orfane che dovevano sposarsi, in seguito a sorteggio fatto dal Rettore della Cappella del SS. Crocifisso della Cattedrale. 83 Contractus Dotali ad usum Cat. inter Magistrum Thomas de Amato sponsum ex una et Joanna Greco sponsam ex altera (A.S. CT, 2° vers. not., b. 857, da c. 379 r. a c. 380 v., 21 febbraio 1712 – notaio Pietro Russo). 84 Tommaso Amato, figlio di Antonino e di Angela Brandomonte, si sposa con


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Il 28 dicembre 1712 furono celebrati altri due matrimoni; quello di Giovanna Amato85, rimasta vedova del marito nel 1708, che si sposò con il messinese Francesco Mangiasi86, e quello della figlia di quest’ultimo, Giovanna Mangiasi, che si sposò con il padre della sposa, Antonino Amato87. Testimoni nei due matrimoni furono lo scultore messinese Santo Bara e suo genero Giuseppe Arena, soci della famiglia Amato in molti lavori. La composizione del nucleo familiare di Antonino Amato è riscontrabile nei Riveli di Catania effettuati il 6 luglio 1714 in cui il rivelante risulta di anni 53, sposato con Giovanna Mangiasi, con a carico tre figli: il chierico don Giovanni (di anni 14), Giacomo (di anni 11), Carmine di un anno e i figli di Pietro Bevelacqua e di sua figlia Giovanna, rimasti orfani del padre: Antonino (di anni 12) e Domenico (di anni 10); nonché l’altra nipote, Giuseppa d’Arrio88. Il matrimonio di Tommaso Amato con Giovanna Greco89, figlia di un notaio, consentì alla famiglia Amato di stringere rapporti di amicizia con l’Aristocrazia catanese90. Ma fu con i figli di Andrea Giovanna Greco, figlia del defunto notaio Vincenzo e di Caterina Alfano (A.S.D. CT, Registri canonici, S. Maria dell’Aiuto, matrimoni, f. 8, 11 aprile 1712). 85 Pietro Vivilacqua, alias faccia bianca, morì nel 1708. 86 Francesco Magniasi, messinese e abitante a Catania (vedovo della defunta Serafina Castagna), figlio di Vincenzo e della defunta Lucrezia Danesi, si sposa con Giovanna Amato, figlia di Antonino e della defunta Angela Blandomunti, vedova del defunto Pietro Vivilacqua alias facciabianca (A.S.D. CT, Registri canonici, S. Maria dell’Idria, matrimoni, f. 5, 28 dicembre 1712). 87 Antonino Amato, catanese (vedovo della defunta Angela Blandamunti), figlio dei defunti Giovan Maria e Caterina Ferro, si sposa con Giovanna Mangiasi, messinese e abitante a Catania, figlia di Francesco e della defunta Serafina Castagna (A.S.D. CT, Registri canonici, S. Maria dell’Idria, matrimoni, f. 5, 28 dicembre 1712). 88 ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO (= A.S. PA), Deputazione del Regno, Riveli di Catania 1714-1715, b. 1404, f. 396, 6 luglio 1714. Antonino Amato risulta povero di beni. Negli stessi riveli del 6 luglio 1714 risulta che Tommaso Amato ha 24 anni, mentre in quelli del 3 luglio 1714, risulta che Andrea Amato ha 26 anni e che ha tre figli: Antonino di 5 anni; Francesco di 3 anni e Agata. 89 Pietra, Francesca, Giovanna Greco, figlia di Vincenzo e di Caterina Alfano. Padrino Illustrissimo don Francesco Maria Paternò barone di Raddusa e Capitano di Giustizia della città di Catania (A.S. CT, Registri canonici, Cattedrale, battesimi, f. 39, 6 aprile 1694). 90 Oltre al padrino di Giovanna Greco, cioè don Francesco Maria Paternò barone di Raddusa e Capitano di Giustizia della città di Catania, anche quello di suo fratello


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Amato che vi fu il vero passaggio della famiglia Amato dalla categoria di artigiani a quella di dottori in legge e di sacerdoti. Infatti, dopo quello di Agata Amato con don Francesco Battaglia, nel 172791, il 16 settembre 1736 fu celebrato il matrimonio di Caterina Amato92 con don Domenico Sorace93, dottore dell’una e l’altra legge e, probabilmente, compagno di studi del primogenito di Andrea, don Antonino, che a sua volta si sposò nel 1741 con donna Isabella lo Re94. Gli altri figli: Francesco e Giuseppe, divennero sacerdoti95. L’11 novembre 1736, dopo la morte di Rosa Minardi, Andrea Amato si sposò con donna Domenica Russo96. Prima di sposarsi divenne Francesco fu un aristocratico catanese: don Michelangelo Tedeschi (A.S. CT, Registri canonici, Cattedrale, battesimi, f. 117, 29 gennaio 1704). 91 Don Francesco Battaglia, figlio del defunto Paolo e Angela Biondo, si sposa con Agata Amato, figlia di Andrea e Rosa Binardi (A.S. CT, Registri canonici, S. Maria dell’Idria, matrimoni, f. 6, 23 febbraio 1727). I capitoli matrimoniali furono pubblicati il 28 luglio 1721, quando Agata aveva 9 anni e Francesco 19 (A.S. CT, 2° vers. not., b. 1102, da c. 669 r. a c. 674 v., 28 luglio 1721 – notaio Vincenzo Arcidiacono senior). Il matrimonio fu celebrato in seguito alla dispensa ricevuta da Roma per il vincolo di consanguineità fra gli sposi. Probabilmente, Angela Biundo era figlia di Domenico e di Giovanna Amato, come si evince dal nome dei suoi figli, che furono chiamati: Francesco (dal nome del padre di Paolo Battaglia) e Domenico (dal nome del padre di Angela Biundo). 92 Vincenza, Caterina, Angela Amato, figlia di Andrea e Rosa Minardi (A.S. CT, Registri canonici, S. Maria dell’Aiuto, battesimi, f. 1, 7 settembre 1715). 93 Don Domenico Soraci, figlio di don Andrea e della defunta Agata Pira, si sposa con Caterina Amato, figlia di Andrea e della defunta Rosa Minardi (A.S. CT, Registri canonici, S. Biagio, matrimoni, f. 1, 16 settembre 1736). I capitoli matrimoniali furono pubblicati il 17 agosto 1736 (A.S. CT, 2° vers. not., b. 1132, da c. 979 r. a c. 992 v., 17 agosto 1736 – notaio Vincenzo Arcidiacono senior). 94 Capitula Matrimonialia Inita Inter U.J.D. don Antoninum Amato sponsum parte ex una et donna Isabella lo Re Sterlino, Ficarra Noto et Montiliana sponsa parte ex altera (A.S. CT, 2° vers. not., b. 1141, cc. 971-1005, 3 febbraio 1741 – notaio Vincenzo Arcidiacono senior. Cfr. E. MAGNANO DI SAN LIO, Maestranze ed architetti nella Catania del Settecento, cit., 33). 95 A.S. PA, Deputazione del Regno, Riveli di Catania 1753, Vol. 2403, f. 68 e Vol. 2404, f. 295). Don Francesco Amato ha 44 anni e suo fratello, il chierico diacono don Giuseppe Amato, ha 22 anni. 96 Don Andrea Amato (vedovo della defunta Rosa Gallo), figlio di mastro Antonino e della defunta Angela Pernamonti, si sposa con Domenica Russo (vedova del defunto Matteo Zappalà), figlia del defunto don Francesco e di donna Maria Salizar (A.S.D. CT, Registri canonici, Collegiata, matrimoni, f. 2, 11 novembre 1736).


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Chierico e fu citato nei contratti Chierico Coniugato, come si legge nell’Atto stipulato l’11 dicembre 1737 relativo alla Cappella della Visitazione nel Duomo di Enna97, iniziata il 23 ottobre 1736. Uno dei i primi contratti di estaglio stipulati da Andrea e Tommaso Amato è del 1709, quando i due fratelli si impegnarono con il barone della Sigona per realizzare gli intagli per la facciata del suo palazzo, confinante con la chiesa Collegiata nell’odierna via Etnea98. Da quel momento i fratelli Amato ebbero incarichi in tutta la Sicilia ed eseguiti in società con i Biundo, i Vivilacqua, i Viola e i Battaglia, ai quali erano legati da rapporti di parentela. Quello di Enna fu l’ultimo incarico ricevuto da Andrea Amato99 dopo una carriera che lo vide passare dal ruolo di magister lapidum incisores a quello di Architectore Civilis. Invece, si sa poco di Tommaso Amato, la cui attività è documentata fino al 1739100. 97

Nel contratto si legge che don Antonio Scarlata della città di Castrogiovanni doveva pagare 60 onze all’U.J.D. don Antonino e al Sac. don Francesco Amato per il computo «dell’Opera di marmo che lo suddetto don Andrea padre sta facendo nella detta Matrice Chiesa di detta Città juxta formam accordis, et conventionibus» (A.S. CT, 1° vers. not., b. 6424, da c. 321 r. a c. 322 r., 11 dicembre 1737 – notaio Alfio Politi senior). Su questo argomento vedi E. GAROFALO, Maestranze “catanesi” nell’entroterra siciliano: la cappella della Madonna della Visitazione e la Custodia del SS. sacramento nel Duomo di Enna, in Lexicon 3 (2006) 45-50. 98 Obligatio pro illustre don Michelangelo Paternò et Castello contra mastrum Andrea de Amato et consortes (A.S. CT, 1° vers. not., b. 1036, c. 483 r. a c. 484 v. e c. 747 r. e v., 27 maggio 1709 – notaio Francesco Pappalardo). Vedi anche S. CALOGERO, Il palazzo del marchese di San Giuliano a Catania, cit., 113. Andrea Amato aveva compiuto 20 anni e Tommaso Amato 18. 99 Don Andrea Amato, della città di Catania e abitante a Enna, che «iacens super lecto», nel pieno delle sue facoltà mentali dettando le proprie volontà testamentarie cede il lavoro di completamento della cappella della visitazione nella matrice di Enna e l’incarico di realizzare la custodia del SS. Sacramento a suo nipote Domenico Bevacqua. Mentre ai suoi figli U.J.D. don Antonino, Sac. don Francesco e al chierico don Giuseppe lascia una cospicua somma di denaro (ARCHIVIO DI STATO DI ENNA, Notai di Castrogiovanni, b. 1343, cc. 323-325 v., 19 gennaio 1742 – notaio Vito Planes). 100 S. CALOGERO, La cappella di Maria Santissima della Carità a Licata, in Lembasi 3 (2011) 4, 51-72. L’ultimo figlio di Tommaso Amato e di Giovanna Greco, registrato nei registri canonici della chiesa di Santa Maria dell’Aiuto, nacque il 19 agosto 1737 (A.S.D. CT, Registri canonici, S. Maria dell’Aiuto, battesimi, f. 35, 19 agosto 1737).


Note Synaxis 2 (2012) 247-261

ELEMENTI PER LA RIDEFINIZIONE DELLA CRONOTASSI DEI VESCOVI DI CATANIA DI ETÀ PALEOCRISTIANA E BIZANTINA

VITTORIO G. RIZZONE*

Benché sia provata una certa sopravvivenza della organizzazione ecclesiastica, il periodo della dominazione musulmana costituisce certamente una cesura nella storia della Chiesa siciliana. A questo periodo, infatti, occorre attribuire anche la perdita dei dittici, già in avorio e poi in pergamena, con i quali si tramandava la lista dei nomi dei vescovi1. Sulla scorta dell’esempio di quanto è stato possibile ricostruire per la diocesi di Siracusa2 — il contenuto dei suoi dittici, infatti, è andato in gran parte conservato perché contenuto in un manoscritto pubblicato nel 1520 —, anche i dittici di Catania e delle altre chiese siciliane, redatti molto verisimilmente a partire dall’età bizantina, dovevano registrare, in ordine cronologico a partire da una data pros* Docente di Lingue classiche e Archeologia cristiana presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Sull’uso dei dittici vd. M. NAVONE, I dittici eburnei nella liturgia, in M. DAVID, Eburnea diptycha. I dittici d’avorio tra Antichità e Medioevo, Bari 2007, 301-302. 2 V.G. RIZZONE, Il contributo dell’epigrafia alla cronotassi dei vescovi di Siracusa (secc. IV-VII), in 13th International Congress of Greek and Roman Epigraphy (Oxford, 2-8 september 2007), in c.d.s. (http://ciegl.classics.ox.ac.uk/html/webposters/69_ Rizzone.pdf); ID., Opus Christi edificabit. Stati e funzioni dei cristiani di Sicilia attraverso l’apporto dell’epigrafia (secc. IV-VI), Troina 2011, 54-64; ID. L’apporto della epigrafia, della sfragistica e dell’archeologia alla cronotassi dei vescovi di Siracusa (secc. IV-IX), in Vescovi, Sicilia, Mediterraneo nella tarda antichità, Atti del Convegno di studi (Palermo, 29-30 ottobre 2010), Caltanissetta 2012, 303-333.


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sima a quella dell’inizio della redazione, i nomi dei presuli e forse anche minimi accenni al loro operato; per i periodi più antichi, invece, dovevano essere artificiosamente elaborati, talvolta mischiati con le tradizioni dei santi locali, soprattutto quando si pretese di collegare ad età apostolica l’origine della propria chiesa: così per Siracusa, ma anche per Catania ed altre sedi vescovili. La perdita di questi dati ha comportato una riscrittura della storia della chiesa diocesana attingendo ad altre fonti: così, ad esempio, Rocco Pirro3, basandosi su fonti storiche quali le corrispondenze dei Pontefici Romani, gli atti conciliari e sinodali — in cui le firme apposte dai partecipanti sono state però talvolta lette in maniera forzata ed erronea —, sulle fonti agiografiche e su quelle liturgiche, ha presentato le cronotassi dei vescovi delle diocesi siciliane. Per quanto concerne Catania, la lacunosa lista episcopale stabilita dal Pirro fu integrata ed in alcuni punti emendata, come segue, dal De Grossis4: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

S. Beryllus. Anno 42 vel 44 S. Everius. Anno 260 Severinus. Anno 312 Domninus Anno 430 Fortunatus. Anno 512 Elpidius. Anno 580 Leo. Anno 590 Iovinus. Anno 602 Iohannes. Anno 643 Iulianus. Anno 673 S. Iacobus martyr. Anno 730

3 R. PIRRO, Notitiae Siciliensium Ecclesiarum, Panormi 1630-1649, quindi Sicilia sacra, (rist. ampliata a cura di A. Mongitore), Palermo 1733. 4 PIRRO, Notitiae Siciliensium Ecclesiarum, cit., I, ff. 513-518; I.B. DE GROSSIS, Catanense Decachordum sive novissima Sacrae Catanensis Ecclesiae Notitia, Catanae 1642, chorda decima, ff. 159-161; ID., Catana sacra sive de episcopis Catanensibus, Catanae 1654, ff. 9-41. Da questi sembra dipendere il manoscritto di F. COLONNA (Catania, Biblioteca Civica Ursino Recupero, Ms I, 40, 129) che contiene le vite dei vescovi catanesi. Da ultimo sulla cronotassi dei vescovi di Catania vd. G. ZITO (ed.), Archivio Storico Diocesano di Catania, Inventario, Catania 1999, 19.


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12. 13. 14. 15. 16. 17. 18.

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S. Sabinus. Anno 760 S. Leo vocamine II. Anno 778 Theodorus. Anno 786 S. Severus. Anno 802 Euthymius. Anno 850 Antonius. Anno 874 Leo hoc nomine III. Anno 994.

A questi nomi occorre aggiungere quello del vescovo Serapione: egli è ricordato, insieme ad Euplo, in alcuni codici del Martyrologium Hieronymianum il 12 settembre, talvolta insieme a certi Magnus e Secundinus5. È possibile che si tratti dello stesso Euplo, martire del 304, che viene ricordato pure il 2 settembre. Il Lanzoni spiega la presenza di Euplo, oltre che per il dies natalis il 12 agosto, anche per il 12 settembre, con la consuetudine provata altrove a ricordare i santi nello stesso giorno di mesi differenti6, e se, da un canto, rimane incerto se collegare Serapione alla stessa persecuzione in cui perì Euplo, dall’altro sembra sia da escludere una sua datazione al tardo VIII secolo7. Le notizie su Berillo “protovescovo” di Catania appartengono al più presto ad epoca iconoclastica8. Di lui se ne parla come primo vescovo nella Vita di San Leone il Taumaturgo e la Vita di San Pancrazio riferisce che Berillo venne ordinato ad Antiochia dall’apostolo Pietro insieme ai protovescovi Pancrazio di Taormina e Marciano di Siracusa: è abbastanza convincente l’ipotesi che si tratti di una leggenda agiografica «sorta in ambito catanese tra gli ultimi anni del secolo VIII ed i primi del IX, trovando in quella di s. Marciano la sollecitazione ed il modello» (Morini), proprio nel tempo in cui Catania veniva elevata ad arcidiocesi e quindi a sede metropolitana. 5

AA.SS. Septembris IV, Venetiis 1761, ff. 2 e 5. F. LANZONI, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), Faenza 1927, 624-625. Agata, oltre che il 5 febbraio viene ricordata pure il 5 luglio e il 5 ottobre, nonché il 12 luglio, il 25 di luglio e di gennaio, il 6 e il 31 di dicembre. 7 V. AMICO, Catana illustrata, sive sacra et civilis Urbis Catanae Historia, Catanae 1740, I, ff. 387-388. 8 LANZONI, Le diocesi d’Italia, cit., 621. 6


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Tale leggenda poteva sostenere tali pretese metropolitiche9. Non è da escludere, tuttavia, la storicità di Berillo, benché rimanga incerto il periodo in cui è vissuto: forse il III, o, al più tardi, il IV secolo, al pari del suo omologo siracusano Marciano10. Quanto a S. Everius, o, meglio, Severus, questi è noto da una tarda fonte agiografica, il martirio dei tre santi lentinesi Alfio, Cirino e Filadelfo, vittima della persecuzione decisa “dall’imperatore Licinio dietro istigazione del feroce consigliere Valeriano”: negli ultimi sviluppi del romanzo agiografico si legge che il vescovo catanese Severo vien fatto chiamare dal “protovescovo” Alessandro-Neofito a Lentini a festeggiare la Natività della Madre di Dio e, poi, l’Esaltazione della Croce, e per consacrare insieme il tempio della Deipara11: è stato osservato che «si stabilisce in tal modo un vincolo di dipendenza e di filiazione della diocesi di Lentini rispetto a quella di Catania, che appare peraltro sede principale del persecutore Tertullo»12. Il Severus menzionato in questo racconto agiografico sembra essere una riproposizione del Severinus menzionato nella Translatio Sanctae Agrippinae, come del vescovo di Catania che, al tempo di Costantino, avrebbe consacrato a Mineo — città che doveva ricadere 9

E. MORINI, Dell’apostolicità di alcune chiese dell’Italia bizantina dei secoli VIII e IX. In margine agli “Analecta Hymnica Graeca”, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia 36 (1982) 72-73; IDEM, Sicilia, Roma e Italia suburbicaria nelle tradizioni del sinassario costantinopolitano, in S. PRICOCO – F. RIZZO NERVO – T. SARDELLA (ed.), Sicilia e Italia suburbicaria tra IV e VIII secolo. Atti del Convegno di Studi (Catania, 2427 ottobre 1989), Soveria Mannelli 1991, 144-147; S. PRICOCO, Monaci e santi di Sicilia, in Santi e demoni nell’Alto Medioevo, XXXVI Settimana CISAM (Spoleto, 7-13 aprile 1988), Spoleto 1989, 319-376, quindi in Monaci, filosofi e santi. Saggi di storia della cultura tardoantica, Soveria Mannelli 1992, 265-266. Diversamente M. STELLADORO, S. Berillo protovescovo e l’apostolicità della chiesa di Catania, in Studi sull’Oriente Cristiano 5/1 (2001) 133-152; EAD., La tanto discussa origine apostolica della Chiesa di Catania, in Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata III s., 2 (2005) 143-172. 10 Cfr. G. MORABITO, s.v. Berillo, vescovo di Catania, santo, in Bibliotheca Sanctorum, II, Roma 1962, c. 1284. 11 C. GERBINO, Appunti per una edizione dell’agiografia di Lentini, in Byzantinische Zeitschrift 84/85/1 (1991/1992) 26-36; M. RE, Il codice lentinese dei Santi Alfio, Filadelfo e Cirino. Studio paleografico e filologico, Palermo 2007, 63. 12 D. MOTTA, Percorsi dell’agiografia. Società e cultura nella Sicilia tardoantica e bizantina, Catania2 2004, 322.


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anch’essa nell’ambito della diocesi di Lentini che dopo la conquista normanna verrà assorbita da quello di Siracusa13 — la chiesa dedicata alla Santa14. A giudizio del Lanzoni tanto il Severus di Catania che consacra la chiesa a Lentini, quanto il Severinus di Catania che consacra la chiesa a Mineo, potrebbero essere una retroproiezione del santo vescovo Severus il cui episcopato si colloca agli inizi del IX secolo15. A ciò si aggiunga che proprio in questo periodo la chiesa catanese fa sentire più forte la sua influenza all’esterno, e, in particolare, nelle diocesi contigue; essa viene elevata di dignità dapprima “arcivescovile” e quindi “metropolitana”, benché priva di sedi suffraganee. Il Lanzoni ha già chiarito che nessun vescovo di Catania ha partecipato ai concili di Efeso e di Calcedonia16. Il primo vescovo storicamente accertato è Fortunato, nel 515 inviato da Papa Ormisda insieme ad Ennodio di Pavia e ad altri a Costantinopoli per ricucire lo scisma acaciano17. Nella cronotassi seguono Elpidius e Leo (I) menzionati, rispettivamente, negli epistolari dei Pontefici Pelagio I (e non II) e Gregorio I18. Per quanto riguarda Elpidio, l’ipotesi che il suo episcopato duri fino 13 Cfr. L. ARCIFA, Dinamiche insediative nel territorio di Mineo tra tardoantico e bassomedioevo. Il castrum di Monte Catalfaro, in Melanges de l’École Française de Rome. Moyen Age 113 (2001) 275, 283, 291, 294-295. 14 MOTTA, Percorsi dell’agiografia, cit., 162-170, con bibliografia precedente. 15 LANZONI, Le diocesi d’Italia, cit., 628-629. 16 LANZONI, Le diocesi d’Italia, cit., 629. La menzione di Domnino come vescovo di Catania «che, nel 451, fu presente al sinodo di Efeso» (sic !) si trova però stranamente ripetuta in F. GIUNTA, La prima Chiesa Romano-Bizantina, in G. ZITO (ed.), Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna, Torino 1995, 5. 17 Per Fortunato vd. CH. PIETRI – L. PIETRI, Prosopographie chrétienne du Bas Empire. 2. Italie (313-604), Rome 2002, I, 863-865, s.v. Fortunatus 12; S. COSENTINO, Prosopografia dell’Italia Bizantina (493-804), Bologna I (A-F) 1996, II (G-O) 2000, I, 474, s.v. Fortunatus 10; 18 Per Elpidio vd. PIETRI – PIETRI, Prosopographie chrétienne, cit., I, 972, s.v. Helpidius 5; COSENTINO, Prosopografia, cit., I, 395, s.v. Elpidius 6. Per Leone vd. PIETRI – PIETRI, Prosopographie chrétienne, cit., I, 1276-1279, s.v. Leo 17; COSENTINO, Prosopografia, cit., II, 271-272, s.v. Leo 17; B. SAITTA, Catania nel «Registrum Epistolarum» di Gregorio Magno, in L. GIORDANO (ed.), Gregorio Magno. Il Maestro della comunicazione spirituale e la tradizione gregoriana in Sicilia. Atti del Convegno (Vizzini, 10-11 marzo 1991), Catania 1991, 90-94, 99; G. MAMMINO, Gregorio Magno e la riforma della Chiesa in Sicilia, Catania 2004, passim.


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ai tempi di Pelagio II se non fino al 590, quando viene eletto Leone19, non è dimostrata in quanto il riferimento che fa Papa Gregorio (Reg. Ep. XIV,16 del 604: «praeceptum vero beatae recordationis Pelagii prodecessoris nostri datum ad Elpidium prodecessorem vestrum…»), se concerne le lettere inviate da Pelagio I (556-561) e non II (579-590), predecessore di Gregorio, ad Elpidio20, non fa di questi l’immediato predecessore di Leone. Anche Iovinus, vir illustris catanensis, è noto da una lettera (Reg. Ep. IX,15) di Gregorio Magno, datata al 598, dalla quale emergono la pietà di Iovino e le buone relazioni con il Papa, ma non vi si fa alcun riferimento ad un suo eventuale ministero ordinato. Iohannes è stato identificato con il vescovo che partecipò al Concilio Lateranense I dell’anno 64921, ma la lezione “Ioannes Carinensis” in luogo dell’ipotizzata “Ioannes Catinensis” risulta confermata dal corrispondente testo greco «'Iw£nnhj ™p…skopoj KarinÁj»22. Carini è sede vescovile attestata per la prima volta in età gregoriana23. Iulianus è il vescovo che prese parte al sinodo romano convocato da Papa Agatone nel 680, sottoscrivendone la lettera sinodica presentata poi al Concilio Ecumenico III tenuto a Costantinopoli tra il 680 e il 68124. 19

Così COSENTINO, Prosopografia, cit., I, 395; II, 272. P.M. GASSÓ – C.M. BATLLE (ed.), Pelagii I Papae epistulae quae supersunt, Barcelona 1956, 70-72 (lettera 23 del 2 febbraio 559), 183-185 (lettera 73 dell’aprile 559): forse Gregorio Magno fa riferimento a questa seconda missiva. 21 PIRRO, Notitiae Siciliensium Ecclesiarum, cit., I, 517. 22 Vd. J.D. MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, Florentiae, dal 1759, rist. Paris – Leipzig, dal 1901, X, cc. 867-868; 1165-1166; COSENTINO, Prosopografia, cit., II, 186, s.v. Iohannes 221. 23 Su questa sede vescovile vd. ora BONACASA CARRA, R.M. ET ALII, La catacomba di Villagrazia di Carini e il problema della ecclesia carinensis. I risultati delle recenti esplorazioni, in Atti del IX Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Agrigento, 20-24 novembre 2004), Palermo 2007, 1837-1839; M. DE FINO, Diocesi rurali della Sicilia tardo antica: i casi di Carini e di Triocala, in Vetera Christianorum 46 (2009) 3156. La diocesi di Karine compare anche nelle Notitiae Episcopatuum: vd. J. DARROUZÈS, Notitiae Episcopatuum Ecclesiae Constantinopolitanae, Paris 1981, Notitiae 3,628, 13,684 e 14,49. 24 COSENTINO, Prosopografia, cit., II, 238, s.v. Iulianus 28; F. WINKELMANNS (ed.), 20


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Per quanto concerne l’VIII secolo già il Lancia Di Brolo ha con facilità rilevato come l’unico presunto martire siciliano del primo iconoclasmo, Iacobus, non sia stato siciliano né morto nell’VIII secolo, ma tra l’813 e l’820 al tempo di Leone V l’Armeno25 e lo ha escluso, pertanto, dal novero dei vescovi di Catania e dei santi siciliani. Quanto a Leo (Leone il Taumaturgo), il cui Bios lo colloca al tempo di Leone III Isaurico e Costantino V Copronimo (insieme dal 720 al 741)26, a giudizio di A. Acconcia Longo si tratta dello stesso vescovo Leone vissuto ai tempi di Papa Gregorio Magno: la sua figura, al pari di quelle dei contemporanei ed altrettanto discussi vescovi Gregorio di Agrigento ed Agatone di Lipari, diviene argomento di una vita romanzata elaborata in periodo iconoclasta27. Dallo stesso Bios di San Prosopographie der mittelbyzantinischen Zeit. Erste Abteilung (641-867), Berlin – New York, dal 1999, I/2, 429, n. 3551. 25 D.G. LANCIA DI BROLO, Storia della Chiesa in Sicilia, Palermo 1884, II, 207-215; per i dubbi sulla cronologia vd. anche P. SCHREINER, Problemi dell’iconoclasmo nell’Italia meridionale e nella Sicilia, in Le relazioni religiose e chiesastico-giurisdizionali. Atti del Congresso Internazionale sulle relazioni fra le due sponde adriatiche, Roma 1979, 122-123. 26 COSENTINO, Prosopografia, cit., II, 276, s.v. Leo 41; WINKELMANNS, Prosopographie, cit., I/3, 2-6, n. 4277; G. DA COSTA-LOUILLET, Saints de Sicile et d’Italie méridionale aux VIIIe, IXe et Xe siècles, in Byzantion 29/30 (1959-1960) 89-95; A. ACCONCIA LONGO, La vita di S. Leone vescovo di Catania e gli incantesimi del Mago Eliodoro, in Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici 26 (1989) 3-98; EAD., La vita di S. Leone di Catania, in PRICOCO – RIZZO NERVO – SARDELLA, Sicilia e Italia suburbicaria, cit., 215-226; EAD., Note sul dossier agiografico di Leone di Catania: la trasmissione della leggenda e la figura del mago Eliodoro, in Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici 44 (2007) 3-38; F. FERLAUTO, Un encomio inedito di San Leone vescovo di Catania (BHG 981d), in Byzantino-Sicula III, Miscellanea di scritti in memoria di Bruno Lavagnini, Palermo 2000, 97-121, con bibliografia precedente. È possibile anche una datazione al tempo di Leone IV e Costantino VI (insieme dal 776 al 780). 27 A. ACCONCIA LONGO, I vescovi nell’agiografia italo-greca. Il contributo dell’agiografia alla storia delle diocesi italogreche, in A. JACOB – J.-M. MARTIN – G. NOYÉ (ed.), Histoire et culture dans l’Italie Byzantine: Acquis et Nouvelles Recherches, Rome 2006, 133-136; EAD., Santi siciliani di età iconoclasta, in T. SARDELLA – G. ZITO (ed.), Euplo e Lucia 304-2004. Agiografia e tradizioni cultuali in Sicilia. Atti del Convegno di Studi (Catania – Siracusa, 1-2 ottobre 2004), Firenze 2006, 297. Afferma la storicità di Leone e propone di identificare l’“iconodulo” mago Eliodoro con il vescovo iconodulo Teodoro presente al Concilio di Nicea invece M.-F. AUZÉPY, L’analyse littéraire et l’historien: l’exemple des vies de saints iconoclastes, in Byzantinoslavica 53 (1992) 66; vd.


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Leone il Taumaturgo dipendono le poche notizie su Sabinus, suo predecessore28. L’unico vescovo sicuramente accertato per l’VIII secolo è Theodorus, il quale fu protagonista, insieme al suo diacono Epifanio rappresentante della chiesa di Sardegna, del Concilio Niceno II Ecumenico VII tenuto nel 78729. Dopo Theodorus, Severus, il quale sarebbe stato vescovo di Catania tra l’802 e l’814 al tempo, cioè, dell’imperatore Niceforo I, è noto soltanto dai menologi30. Nel corso del IX secolo hanno occupato la cattedra catanese i metropoliti Euthymius, noto per la sua adesione allo scisma di Fozio, dal quale poi prese le distanze31, e forse anche Antonius, noto grazie ad un sigillo plumbeo, del quale si hanno notizie a partire dal XVII secolo e già in possesso del nobile D. Blasco Romano Colonna32. Il terminus ante quem per Antonius è dato dallo scorcio del IX secolo, allorquando Catania cadde in mano musulmana, ma ancora nel 997 il vescovo Leone firma tra i metropoliti al sinodo costantinopolitano del 21 febbraio di quell’anno33. Orbene, di sette vescovi catanesi sono noti i sigilli — quattro in latino e tre in greco — qui presentati in ordine cronologico, alcuni dei quali arricchiscono il quadro prosopografico della chiesa di Catania:

anche la replica di A. ACCONCIA LONGO, A proposito di un articolo recente sull’agiografia iconoclasta, in Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici 29 (1992) 3-17. 28 WINKELMANNS, Prosopographie, cit. I/4, 70, n. 6470. 29 WINKELMANNS, Prosopographie, cit., I/4, 438-439, n. 7579; E. LAMBERZ, Die Bischofslisten des VII. Ökumenischen Konzils (Nicaenum II), München 2004, 47; Atti del Concilio Niceno Secondo Ecumenico Settimo, introduzione e traduzione di P.G. DI DOMENICO. Saggio encomiastico di C. VALENZIANO, Città del Vaticano 2004, 50, 115, 146, 236, 382, 397. 30 AA.SS. Martii III, Venetiis 1736, f. 486. Cfr. F. RUSSO, s.v. Severo, vescovo di Catania, santo, in Bibliotheca Sanctorum XI, Roma 1968, c. 989. 31 WINKELMANNS, Prosopographie, cit., I/1, 585, n. 1857. 32 DE GROSSIS, Catanense decachordum, cit., chorda secunda, 91. 33 PG CXIX, c. 741.


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1. Mercato antiquario34. R/ Magni Episc(opi) V/ Eccl(esiae) Cat(anensis) «Di Magnus vescovo / della chiesa catanese» 2. Catania. Collezione privata35. R/ Iohannis Episc(opi) V/ Eccl(esiae) Cat(anensis) «Di Iohannes vescovo / della chiesa catanese» 3. Londra, British Museum, Seal XLIV, 16236; Siracusa, MAR 4842 R/ Georgii Episc(opi) V/ croce S(an)c(t)ae Eccl(esiae) Cat(anensis) «Di Georgius vescovo / della santa chiesa catanese» 34 Classical Numismatic Group. Mail Bid Sale (20 march 1996). Auction 37, n. 2268; Studies in Byzantine Sigillography 6 (1999) 118. 35 G. MANGANARO, Sigilli diplomatici bizantini in Sicilia, in Jahrbuch für Numismatik und Geldgeschichte 53/54 (2003-2004) 76, n. 23. 36 I. CARINI, Sopra un sigillo siciliano inedito del Museo Britannico, in Nuove Effemeridi Siciliane di Scienze Lettere ed Arti di Palermo, agosto-settembre 1869, 120; W. DE GRAY BIRCH, Catalogue of Seals in the Department of Manuscripts in the British Museum, London 1900, 36, 37, n. 17639; V. LAURENT, Les corpus des sceaux de l’empire byzantin. V. l’Église, Paris 1963, 701, n. 893; COSENTINO, Prosopografia, cit., II, 39-40, s.v. Georgius 14 = Georgius 23.


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4. Mercato antiquario37. R/ croce Constant(ini) Ep(is)c(opi) V/ s(an)c(t)ae Eccl(esiae) Cat(anensis) «Di Constantinus vescovo / della santa chiesa catanese» 5. Siracusa, MAR 4902738. R/ Monogramma cruciforme. QeotÒke bo»qei tù sù doÚlJ V/ QeodèrJ (™)pisk(ÒpJ) Kat£n(hj) «Madre di Dio, soccorri il tuo servo / Theodoros vescovo di Catania» 6. Londra, British Museum, Seals, XL, 7239. R/ Monogramma cruciforme. QeotÒke bo»qei tù sù doÚlJ V/ [+ Kons]<t>ant…n<w> <m>htrop[(ol…tV)] Kat£n(hj) «Madre di Dio, soccorri il tuo servo / Konstantinos metropolita di Catania» 37

Sternberg, Sale XXVI (november 16, 1992); Studies in Byzantine Sigillography 3 (1993) 206, n. 503; WINKELMANNS, Prosopographie, cit., I/2, 512, n. 3753. 38 G. LIBERTINI, Miscellanea epigrafica, in ArchStorSicilia 27 (1931) 50-52; LAURENT, Les corpus, cit., 701-702, n. 894; MANGANARO, Sigilli diplomatici, cit., 76, n. 24. 39 DE GRAY BIRCH, Catalogue, cit., n. 17830; LAURENT, Les corpus, cit., 702-703, n. 895.


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7. Vaticano, Cabinet 159; Palermo, MAR 2540. R/ Monogramma KÚrie bo»qei tù sù doÚlJ V/ +Anton…J mhtropol»tV pÒlewj Kat£nhj «Signore, soccorri il tuo servo / Antonios metropolita della città di Catania» I sigilli con didascalia latina, devono essere circoscritti al periodo compreso tra il VI ed il VII secolo, prima, cioè, che il greco soppianti il latino nei documenti ufficiali41. Il sigillo di Theodoros appartiene ad un vescovo già attestato storicamente; il metropolita Antonios è noto soltanto dai sigilli. Dei vescovi Magnus e Constantinus e del metropolita Konstantinos la cronotassi episcopale di Catania stabilita dal De Grossis non fa alcuna menzione42. Ed anche Iohannes, se, appunto, è da escludere l’identificazione con l’omonimo vescovo di Carini presente al Concilio 40 F. FERRARA, Storia di Catania sino alla fine del secolo XVIII con la descrizione degli antichi monumenti ancora esistenti e dello stato presente della città, Catania 1829, rist. anast. Sala Bolognese 1974, 385-386; Corpus Inscriptionum Graecarum IV, 9001; J. SABATIER, Plombs, bulles et sceaux byzantins, in Revue archéologique 15 (1858) 96, n. 6; LAURENT, Les corpus, cit., 703-704, n. 896, con bibliografia precedente; V. LAURENT, Les sceaux byzantins du Médailler Vatican, Città del Vaticano 1962, 166167, n. 159; ID., Une source peu étudiée de l’histoire de la Sicile au haut moyen âge: la sigillographie byizantine, in Byzantino-Sicula, Palermo 1966, 47-48, n. 4; COSENTINO, Prosopografia, cit., I, 168, s.v. Antonius 10. 41 Cfr. V. VON FALKENHAUSEN, La presenza dei greci nella Sicilia normanna. L’apporto della documentazione archivistica in lingua greca, in R.M. CARRA BONACASA (ed.), Byzantino-Sicula IV. Atti del I Congresso Internazionale di Archeologia della Sicilia Bizantina (Corleone, 28 luglio – 2 agosto 1998), Palermo 2002, 32. 42 Il nome di Magno ricorre in alcuni codici del Martyrologium Hieronymianum per il 12 settembre insieme a quelli dei martiri Euplo, Serapione vescovo e di Secondino, ma di questo Magno non si dice che sia vescovo.


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Lateranense del 649, è un nome nuovo nella sequenza dei vescovi catanesi43. Georgius, già ignorato dai precedenti studiosi, è stato identificato dal Carini44 con il vescovo che fu presente al sinodo romano convocato da Papa Agatone (678-681) nell’ottobre del 679 per regolare i rapporti con la Chiesa di Inghilterra45. Osserva il Laurent che questo prelato allora doveva essere alla fine del suo episcopato giacché nel 680 è il successore Giuliano a firmare la lettera pontificale indirizzata all’imperatore bizantino Costantino IV46. Con i sigilli di Konstantinos e di Antonios Catania appare come sede metropolitana. Benché sia infondata l’ipotesi di alcuni autori ecclesiastici, come il Pirro ed il De Grossis, che al tempo del Concilio Niceno II Catania sarebbe divenuta sede metropolitana — è invece ancora semplice sede vescovile come dimostra anche dal sigillo del vescovo Teodoro —, tuttavia proprio in quel Concilio Catania assolve un ruolo di primo piano e ciò può aver favorito la sua promozione47. 43 Al Concilio Lateranense dell’ottobre 649 tenuto sotto la presidenza di Papa Martino (649-653) non è presente il vescovo di Catania, né quello di Siracusa: cfr. A. ACCONCIA LONGO, La vita di Zosimo vescovo di Siracusa: un esempio di «agiografia storica», in Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici 36 (1999) 10-12. In questo periodo i legami tra Roma e la Sicilia, in processo di bizantinizzazione, sono molto intensi. È stato rinvenuto molto probabilmente nella Sicilia orientale un sigillo del predecessore Papa Teodoro (642-649, maggio) — vero organizzatore del Concilio insieme a Massimo il Confessore —, conservato in una collezione privata catanese: MANGANARO, Sigilli diplomatici, cit., 76, n. 22; IDEM, Note storiche ed epigrafiche per la villa (praetorium) del Casale di Piazza Armerina, in Sicilia Antiqua 2 (2005) 188-191, fig. 31; allo stesso Pontefice si deve la costruzione di una Chiesa dedicata al martire catanese Euplo (Liber Pontificalis, Theodorus). Sui Papi Teodoro e Martino e i loro rapporti con la Sicilia vd. anche MOTTA, Percorsi dell’agiografia, cit., 174-177, la quale osserva che l’assenza del vescovo di Siracusa Zosimo, ma si potrebbe aggiungere anche quella dei vescovi di Catania e di Ravenna, «rappresenta il rifiuto di riconoscimento nei confronti di un pontefice, la cui investitura non è ufficialmente riconosciuta a Costantinopoli…». 44 CARINI, Sopra un sigillo siciliano, cit., 1-20. 45 MANSI, Sacrorum Conciliorum, cit., XI, c. 179; WINKELMANNS, Prosopographie, cit., I/1, 639, n. 2021. 46 MANSI, Sacrorum Conciliorum, cit., XI, c. 305. Vd. supra nota n. 24. 47 Cfr. J. DARROUZÈS, Listes épiscopales du Concile de Nicée (787), in Revue des études byzantines 33 (1975) 11-12.


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Tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo, infatti, Catania diventa sede arcivescovile48, come risulta dalle Notitiae Episcopatuum 2, 3 e 4 che per l’Occidente bizantino sembrano fotografare una situazione da datare entro il primo quarto del IX secolo49. Un riflesso dell’ascesa del prestigio della sede catanese presso la capitale dell’Impero è certamente il culto di Sant’Agata, in onore della quale viene eretta una chiesa a Costantinopoli nel Triconco50. Se si trattasse del Triconco del Palazzo fatto costruire dall’imperatore Teofilo (829-842)51, la costruzione della chiesa sarebbe di poco anteriore o in parte contemporanea al patriarcato del siciliano Metodio (843-847), cantore della vergine martire catanese52. In questo periodo Catania diviene metropoli senza sedi suffraganee e molto probabilmente è stato Eutimio a divenire il primo vescovo metropolita, al tempo dello scisma di Fozio nell’869: egli firma in questa qualità gli atti del Concilio Costantinopolitano IV e tuttavia, in un caso viene registrato tra gli arcivescovi: si tratta di una svista o, come pensa il Laurent, è forse un segno del fatto che la nomina a metropolita era recente53. Diverse Notitiae Episcopatuum segnano Catania tra le metropoli dal IX e ancora fino al XIV secolo54, e c’è da rilevare come 48

LAURENT, Les corpus, cit., 700. DARROUZÈS, Notitiae Episcopatuum, 23, 39 e 43, Notitiae 2,86.230; 3,61; 4,76 per Catania. 50 Un altro riflesso del legame tra Catania e la Grecia, ancora più stretto in conseguenza degli attacchi musulmani alla Sicilia, è la presenza del catanese Atanasio nel Peloponneso, riparato ancora decenne con la famiglia a Patrasso e divenuto poi vescovo di Metone (818-885): di lui ha scritto l’orazione funebre San Pietro, vescovo di Argo (852-922): vd. G. DA COSTA – LOUILLET, Saints de Grèce au VIIIe, IXe et Xe siècles, in Byzantion 31 (1961) 313-315; E. FOLLIERI, Santi di Metone: Atanasio vescovo, Leone taumaturgo, in Byzantion 41 (1971) 400-402. 51 Diversamente, ma in maniera non probante, R. JANIN, La géographie ecclésiastique de l’Empire byzantin, I, Le siège de Constantinople et le Patriarcat oecumenique, III, Les églises et les monastères, Paris 1953, 10-11. 52 Vd. da ultimo, C. CRIMI, S. Agata a Bisanzio nel IX secolo. Rileggendo Metodio patriarca di Costantinopoli, in SARDELLA – ZITO, Euplo e Lucia, cit., 143-163, con bibliografia precedente. 53 LAURENT, Les corpus, cit., 700. MANSI, Sacrorum Conciliorum, cit., XVI, cc. 44, 54, 75 (qui come arcivescovo), 82, 97, 134, 158. 54 DARROUZÈS, Nototiae Episcopatuum, cit., 55, 71, 140, 143 e 176, Notitiae 7,47.653; 8,47; 9,527; 10,633; 11,46; 12,44; 13,695; 14,51; 15,44; 16,44; 17,57; 18,57; 19,59. 49


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la sede metropolitana di Catania sia l’unica sede vescovile siciliana registrata nelle notitiae compilate in epoca più tarda (15-19). Per quanto concerne il metropolita Leon, attestato per l’anno 997, occorre tenere presente che in una collezione privata catanese si custodiscono anche dei solidi di Teodosio II, che facevano probabilmente parte di un tesoretto occultato nella Sicilia orientale, e che recano graffiti i nomi di Leon e di Platon metropoliti55. Rimane incerto se il primo si possa identificare con il metropolita catanese o con un omonimo metropolita di Sicilia, noto dalla Cronaca di Cambridge56, e del quale si conserva il sigillo57. Espungendo dalla lista i nomi dei vescovi fittizi, la cronotassi dei vescovi di Catania sicuramente accertati è la seguente (in corsivo sono indicati quelli per i quali non mi sento di escludere la storicità, ma per i quali rimane fortemente incerto il periodo storico in cui vissero): — — 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Berillo (III-IV secolo ?) Serapione (IV secolo ?) Fortunato (…515-516…) Elpidio (559-…) Leone I (…591-604…) Magno (VI-VII secolo) Giovanni (VII secolo) Costantino I (seconda metà del VII secolo) Giorgio (…-679) Giuliano (680-…)

Per la presenza di un vescovo greco, Iacobos, il quale nel 1103 investe il vescovo latino di Catania Ansgerio della chiesa di San Giovanni di Fiumefreddo presso Taormina vd. H. ENZENSBERGER, Fondazione o «rifondazione»? Alcune osservazioni sulla politica ecclesiastica del conte Ruggero, in ZITO, Chiesa e società in Sicilia, cit., 33. 55 G. MANGANARO, Sigilli e graffiti su solidi nella Sicilia bizantina, in ByzantinoSicula III, cit., 208, 210, nn. 1-3, figg. 9-14. 56 In M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula, I, Torino – Roma 1880, rist. Catania 1982, 283; P. SCHREINER, Die byzantischen Kleinchroniken, I, Wien 1975, 337. 57 LAURENT, Les corpus, cit., 697, n. 888; J. NESBITT – N. OIKONOMIDES, Catalogue of Byzantine Seals at Dumbarton Oaks and in the Fogg Museum of Art, I. Italy, North of Balkans, North of the Black Sea, Washington D.C. 1991, 37-38, n. 10.1.


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— — 9. 10. 11. 12. 13. 14.

Sabino? Leone II ?(…- 780 circa?) Teodoro (…784-787…) Severo (…802-814…) Eutimio (…858-869…) Costantino II (IX secolo) Antonio (IX secolo) Leone II (o III ?; …997…).

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Presentazioni Synaxis 2 (2012) 263-273

B. APRILE (cur.), Dialogo tra le culture. Ebraismo – Cristianesimo – Islam, Edizioni Messaggero, Padova 2011, Euro 30,00. L’introduzione di Mons. Paolo Urso, vescovo di Ragusa, efficace ed esauriente per la puntualità delle riflessioni proposte e per l’uso di un linguaggio appropriato, permette di cogliere lo spirito di quest’opera di più autori, dedicata non tanto al semplice dialogo fra le religioni, quanto piuttosto a quel dialogo fra le culture, generate dalle principali religioni della storia dell’umanità, più volte entrate in conflitto fra loro, i cui esiti politici, sociali ed economici, legati agli eventi della nostra storia recente e contemporanea, fanno avvertire con sempre maggior urgenza come la conoscenza reciproca fra credenti di fedi e religioni diverse, appartenenti a culture diverse, sia premessa indispensabile per una pacifica convivenza fra loro. Mons. Urso rileva la reale possibilità di un autentico dialogo fra le religioni e le culture quando queste si impegnino a «provare a camminare con le scarpe dell’altro, a condividere le sue attese e le sue speranze» (p. 14). Nel nome di un dettato pratico, verificabile, mai astratto, l’opera intende trattare l’argomento del dialogo fra le culture ed inevitabilmente, fra le religioni, essendo le prime il vissuto ineliminabile delle seconde. Inizia la serie dei contributi di quest’opera Zdzisław J. Kijas (pp. 19-32) che persegue l’obiettivo della formazione e del costituirsi di una Cattedra del Dialogo fra le culture, non nascondendo al lettore ed a sé medesimo le difficoltà e gli ostacoli che possono incontrarsi nella realizzazione, oggi, di itinerari e di progetti educativi, in vista della formazione all’interculturalità ed all’internazionalità. Il dibattito sui diritti umani e la loro tutela può aprire uno spiraglio che consenta l’avvio di un dialogo dei cristiani con l’Islam, dialogo che ha precedenti illustri nella storia del Cristianesimo con Francesco d’Assisi, con lo stile mite e disarmato proprio del vero dialogo, nel contesto, invece, armato, della Crociata


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medievale. Frutto del dialogo con culture e religioni diverse sarebbe certamente il ripensamento della stessa esperienza della fede cristiana, da ricentrarsi e da rifondarsi nuovamente su preghiera e meditazione, lettura della Parola, preghiera in comune, dialogo reciproco, regole di vita, pena «l’impoverimento ed il rischio per la sicurezza» (p. 31), da intendersi della fede cristiana stessa, la cui testimonianza va oggi vissuta, inevitabilmente ed incontestabilmente, sulle vie dell’interculturalità e dell’internazionalità. Proprio la Bibbia, o «i libri», riferendosi con questo termine al mondo cui appartiene e nel quale la Bibbia è nata, ossia al patrimonio di esperienze e di culture, comune a tanti popoli, non soltanto a quelli di religione cristiana, è l’argomento del contributo di Maria Armida Nicolaci (pp. 33-81), la quale cerca di evidenziare la peculiarità e l’unicità della Sapienza soggiacente alla Scrittura. La Sapienza, problema difficile a cui la studiosa si accosta con umiltà e pazienza, cosciente di voler arrivare ad una cerchia di lettori la più ampia possibile, al di fuori di quella, ristretta, degli specialisti, viene spiegata ed espressa con l’uso felice del termine «codice genetico», applicato alla «gestazione ed al parto di un corpo» (p. 35) cui raffrontare la Bibbia che nasce, vive e cresce come A.T., giungendo a maturità e fioritura nel N.T. In quanto rivelazione divina nell’umanità di Gesù Cristo, risorto dai morti, la Sapienza altro non è che amore, anzi l’”amare”, per citare La stella della redenzione di Franz Rosenzweig (p. 79). Nella Bibbia, dunque, è tràdita la testimonianza d’amore di «colui che è il vivente» (cf. Apocalisse di Giovanni). Il contributo di Elena Lea Bartolini (pp. 82-116), insigne ebraista, comincia dal ruolo fondamentale che la Torah, il popolo e la terra giocano nelle scritture veterotestamentarie e negli scritti rabbinici. Dio si rivolge ad un soggetto umano concreto, definito come popolo, cui donare la Legge o Torah, necessaria al suo fondarsi ed al suo organizzarsi, all’insegna della convivenza umana, avvertendo il bisogno di uno spazio e di un luogo abitabili, ossia la terra e Gerusalemme. Senza la terra non si rende conoscibile e sperimentabile la promessa divina dell’elezione ad Abramo. Con la terra si compie e si consuma il matrimonio sinaitico fra Iahvé ed il suo popolo; con Gerusalemme, la terra diventa il luogo concreto della fedeltà di Dio alle sue promesse pur con i rovesci, i travagli, le sofferenze che il popolo eletto ha dovuto


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subire. Il contributo di Luciana Pepi sul pensiero ebraico (pp. 117-134) consente di completare le considerazioni della Bartolini. Il tratto culturale più caratteristico dell’Ebraismo è l’interrogazione, elemento dialettico necessario a rendere conto della propria fede e del proprio pensare in contesti etnici, culturali e religiosi diversi, incontrati nell’intrecciarsi ed amalgamarsi con popoli e culture differenti della diaspora di Israele nei lunghi secoli della sua storia. Il contributo di Gianni Colzani dedicato all’ellenismo ed all’ellenizzazione (pp. 135-189) si sofferma, invece, sul ruolo che ha giocato una cultura diversa da quella ebraica come la cultura greca, nella formazione della Scrittura. Innegabile è l’apporto della cultura e del pensiero greco, principalmente ellenistici, nella formazione dei libri sapienziali. Gli autori sapienziali, entrati in contatto con la ricerca della felicità, presente nelle correnti di pensiero ellenistiche, si dedicarono da prospettive nuove a ripensare il destino dell’uomo nel cosmo e nella storia ed il suo rapporto con Dio. In ultimo, nel N.T., la relazione con l’evento e la persona di Cristo offrì l’occasione a Paolo di utilizzare i temi e la ricerca di senso del pensiero greco calandole nella misericordia e nella giustificazione anche dei peccatori. Il ruolo e la funzione del dialogo, negli scritti dei Padri della Chiesa, sono invece esaminati nel contributo di Biagio Aprile, sotto la forma di un rapido excursus storico (pp. 190-237). Uno degli assunti che rendono attuali i Padri, secondo Aprile, è quello secondo il quale «una verità è vera nella misura in cui risulta anche vivibile» (p. 196), laddove l’adattamento della verità al contesto storico, politico, culturale, religioso dell’interlocutore non si risolve mai a scapito del suo rinnegamento e dello smarrimento dell’identità che dalla verità proviene; identità che nella conversione e nella testimonianza di vita dei Padri diviene appartenenza al popolo di Dio, in cammino verso la santità. L’Esicasmo e la preghiera del cuore, a cura di Giuseppe Ferro Garel (pp. 238-272), ci conducono verso la conoscenza della cristianità orientale, bizantina e russa. Il controllo del respiro e del ritmo cardiaco nell’orante caratterizzano la preghiera del cuore che Garel afferma avere parecchi punti di contatto con il sufismo dell’Islam e venire incontro alle esigenze della modernità, soprattutto per quanto concerne il perseguimento dell’esychìa o della tranquillità, quanto mai urgente oggi, fra le convulsioni


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della vita moderna e postmoderna. Molto interessante, invece, appare il contributo di Paolo Branca sul pluralismo religioso, visto da una prospettiva coranica (pp. 273-292), facendo intravedere un altro volto, davvero inedito dell’Islam, in un commentario coranico ottocentesco (pp. 281-285), nel quale certi passi del Corano mostrano come risieda, nella volontà imperscrutabile dell’unico Dio, il persistere insieme, dinanzi all’Islam, dell’Ebraismo e del Cristianesimo. Sulla stessa linea si collocano il contributo di Adnane Mokrani che parla di pluralismo nell’Islam (pp. 293-309) e quello di Nicola Benassi su Dio, l’uomo ed il mondo nell’Islam (pp. 310-335). Mokrani predilige l’approccio filologico ai testi coranici mettendo a confronto due diverse versioni in lingua italiana del Corano: quella di Hamza Roberto Piccardo che definisce “esclusivista” e quella di Gabriele Mandel Khan che chiama, invece, “inclusivista” ed ha il merito di evidenziare l’importanza del testo di una sura coranica, a lungo ingiustamente negletta: «Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto [degli uomini] un’unica comunità. Ma egli lascia entrare chi vuole nella sua misericordia (42,8).» (p. 302). Benassi sceglie invece di citare documenti e dichiarazioni frutto d’incontro, di condivisione e di studio di imam e di rabbini che, insieme, interrogano le scritture bibliche e quelle coraniche vagliando anche recentissimi documenti del Magistero della Chiesa Cattolica come la Caritas in veritate di Benedetto XVI. Infine, l’opera si conclude con il contributo di Salvina Fiorilla sulle tracce materiali lasciate da ebrei e musulmani nel Medio Evo nella Sicilia sud-orientale (pp. 336-364). Iscrizioni funerarie testimoniano l’esistenza di cimiteri ebraici nell’area iblea, attestanti l’esistenza di una comunità ebraica fiorente che conviveva pacificamente con arabi musulmani e cristiani fino al XVI secolo, quando il clima culturale della Sicilia, improntato a tolleranza, vigente per tutto il Medio Evo, mutò radicalmente. È particolarmente indicativo che un contributo così specialistico come un saggio di archeologia chiuda questa densa ed interessante raccolta di studi, esperienze, testimonianze di dialogo interculturale ed interreligioso. Il dialogo, oltre che doveroso diventa in quest’opera un’opportunità carica di prospettive da non perdere e mette sulla via dell’approfondimento e della conoscenza di una vera e propria cultura mediterranea, caratterizzata da distinte facies culturali e religiose quali l’ebraica, la cristiana, la


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musulmana. Quest’opera può permettere di riconoscere l’apertura di un’area d’intensi scambi culturali e religiosi quale quella mediterranea. Inoltre, il dialogo interculturale ed interreligioso che vi si delinea, reca in sé le istanze di un profondo rinnovamento religioso che coinvolge tutte e tre le grandi religioni mediterranee. L’Ebraismo viene presentato come comprensivo dei suoi complessi rapporti con la diaspora — soprattutto quella nel mondo ellenistico — che, di fatto, apportò contributi nuovi ed estranei alla cultura ebraica. Scopriamo, inoltre, nell’ultimo contributo (pp. 350-351), un Ebraismo mediterraneo le cui tracce materiali come le sinagoghe, riassorbite e quasi cancellate nel tessuto urbano dei secoli successivi, si trovano ancora in Sicilia, autentico crocevia mediterraneo di popoli, religioni e culture diverse, vero laboratorio di convivenza e di reciproca tolleranza. L’Islam, invece, presenta scarse tracce materiali ed emergenze archeologiche quasi irrilevanti nell’isola, tuttavia, il ritrovamento della ceramica invetriata, tipicamente araba, attesta la persistenza, in età normanna, fino al XII secolo, di abitati rurali e di villaggi che sono stati indubbiamente insediamenti di comunità islamiche. Infine, scorgiamo un Cristianesimo, la cui fede e la cui esperienza di Dio ha bisogno urgente di nuova linfa vitale proveniente soltanto dal confronto con problemi e modelli culturali e religiosi diversi. Se una testimonianza vogliamo trovare a dimostrazione della vocazione della Sicilia al dialogo ed alla convivenza pacifica fra culture e religioni diverse, basti citare l’iscrizione quadrilingue che ricorda Anna, nome proprio ebraico, madre del sacerdote Grisanto, nome proprio greco, risalente ai primi decenni del XII secolo, in ebraico, greco, latino ed arabo, custodita nella Chiesa di S. Michele de Indulciis a Palermo e riportata fra le tavole fotografiche che corredano l’ultimo contributo della Fiorilla. Un’opera dunque preziosa, utile per tutti gli studiosi e gli appassionati del dialogo e della cultura; capace di evidenziare come il dialogo in passato si sia reso possibile, in un luogo ed in un tempo reali, pur fra mille ostacoli e difficoltà; in grado anche di sottolineare, nel presente, la reciprocità delle culture e delle religioni che, in uno scambio proficuo di esperienze, porta frutti di crescita e di maturità per gli uomini di buona volontà di tutte le generazioni a venire. Francesco Aleo


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S. MAGRÌ, Agathae, beatae virginis et martyris. La figura e l’ideale di santità di Agata nell’eucologia eucaristica romana e nei Propri regionali siciliani, Città Aperta-Studio Teologico S. Paolo, Catania 2011, pp. 520, Euro 30,00. Affrontare lo studio della Liturgia e dell’Agiografia occupandosi, in particolare, dei testi eucologici e di tutti quei documenti, testimoni nei secoli del culto dei santi, esige oggi un approccio diverso rispetto al passato; è quello che Salvatore Magrì, nell’introduzione al suo ponderoso studio sul culto di Agata, vergine cristiana martirizzata a Catania il 5 febbraio del 251, durante la persecuzione dell’Imperatore Decio, cerca di spiegare. Non limitandosi ad affermazioni di principio di stampo apologetico, ma avvalendosi del metodo storico-critico e dell’approccio alle fonti che da esso proviene, l’autore conduce, nei testi considerati, una seria e valida ricerca. Infatti, egli dichiara che: «Questo approccio ci ha permesso di far emergere la dimensione storica del personaggio studiato, la quale va tenuta in grande considerazione per il fatto che non ci si può accostare ad un testo agiografico o un testo liturgico senza prima conoscere l’evoluzione e la diffusione della venerazione suscitata, nel corso dei secoli, dal santo che ne è protagonista; la diffusione del culto, infatti, è il maggior veicolo che promuove la realizzazione, la composizione, la redazione, l’esemplificazione e la trasmissione dei testi composti per onorare quel santo.» (pp. 25-26). Passando in rassegna ed esaminando pazientemente i testi eucologici dedicati al martirio di Sant’Agata, il suo studio intende soffermarsi sia sui testi eucologici Romani — appartenenti cioè alla Liturgia Romana — sia su quelli Propri — regionali o siciliani — che la riforma liturgica, inaugurata e realizzata dal Concilio Vaticano II, ha dovuto di necessità rimuovere dai libri liturgici riveduti, a favore di quelli della Liturgia Romana. Perspicuamente, l’autore fa osservare come la riforma liturgica abbia corso il rischio di impoverire la liturgia delle chiese locali, soprattutto per quanto riguarda il culto dei santi; afferma infatti: «Questi formulari vorrebbero rispecchiare la visione che oggi la Chiesa ha dell’idea di santità, ma è ovvio che ciò può avvenire soltanto entro certo limiti e a prezzo della rinuncia della ricchezza di tanti testi che sono stati abbandonati.» (p. 137). Il volume ha quindi il pregio di rammen-


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tare l’importanza della preghiera nella vita della Chiesa, in particolare, di quella liturgica, nel culto dei santi; la conoscenza e lo studio della sua dimensione storica e culturale concorrono all’assimilazione della vita e dell’esempio dei santi, proprio attraverso la preghiera e la devozione, autentici “luoghi teologici”, poiché Lex orandi lex credendi. Il Magrì non manca di soffermarsi sui fondamenti teologici dei testi studiati oltre che sui generi letterari (cursus), sullo stile (chiasmo) delle orazioni (p. es. p. 302) e sui dati della tradizione manoscritta che ce le hanno trasmesse. Valga per tutte la seguente, validissima, osservazione dell’autore: «Attraverso la modalità della supplica, si evidenzia il dinamismo relazionale dove l’umanità bisognosa si rivolge al suo Salvatore e, ricorrendo all’intercessione della santa martire, si evidenzia ulteriormente l’azione della paternità di Dio sollecitato a concedere forza e protezione.» (p. 218). In questo modo, la Liturgia diventa “ponte” tra Storia e Teologia, perché, nel luogo concreto della vita del santo e del suo martirio, la santità individuale diventi proposta di vita cristiana ed ecclesiale da realizzarsi nell’oggi della vita del credente, attraverso la fede. L’autore, come dichiara nell’Introduzione, si prefigge lo scopo di «fornire un originale studio che, recuperando e valorizzando culturalmente quel patrimonio che è stato accantonato a motivo della riforma liturgica, vada ad arricchire i già numerosi studi su Sant’Agata con una prospettiva che, nelle precedenti pubblicazioni sulla martire catanese è stata solo accennata mediante il semplice elenco delle fonti liturgiche che la riguardavano, ma mai approfondita e studiata.» (p. 11). Approfondire e studiare le fonti ed i documenti del culto di Sant’Agata fin dalle sue origini, avvalendosi di tutte le fonti documentarie — e non solo di quelle liturgiche — pervenuteci dal passato è certamente l’aspetto più importante e più significativo di questo studio che va oltre finalmente i dati, antropologici e sociologici, sia pur importanti, del culto agatino. L’autore presenta una sterminata massa documentaria, consistente sia nella letteratura liturgica sia nella letteratura agiografica su Sant’Agata. Il culto dei santi, infatti, in particolare quello agatino, è un fenomeno testimoniato da due tipi di fonti, inquadrantesi entro due contesti documentari assai diversi tra loro, quali la Liturgia e l’Agiografia. Il Magrì fa dialogare la Liturgia con l’Agiografia e questa con quella «proprio su ciò che li accomuna e sulle fonti alle quali


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entrambi fanno riferimento.» (p. 26); il volume manifesta, fin dal capitolo iniziale, l’intenzione di compiere uno studio più approfondito dei testi liturgici presi in considerazione; l’autore allarga allora il campo di ricerca della Letteratura liturgica (Calendari, Martirologi, Libri liturgici), soffermandosi sui testi eucologici riferentisi al culto agatino (Romani, Propri, Formulari per la Messa) — argomento precipuo del volume — e della Letteratura agiografica (Acta e Passiones martyrum, Vitae sanctorum, Legendae), con l’esame dei documenti epigraficomonumentali (epitaffio di Iulia Florentina, sarcofago di Sant’Agata, ecc.) fino ai documenti iconografici (fra i tanti, il mosaico di S. Apollinare Nuovo a Ravenna e l’affresco del Veronese in S. Pietro a Murano). Lo studio si compone di tre parti: nella prima, si mette a disposizione del lettore un ricco dossier “agiografico” sulla figura di Agata, caratterizzato dall’analisi delle fonti storico-agiografiche e di quelle liturgiche nonché di quelle epigrafico-monumentali, essenzialmente archeologiche (cap. I); nella seconda, si trattano le espressioni eucologiche, materializzate nei testi eucologici sia quelli Romani sia quelli dei Propri regionali e nei formulari eucaristici propri della memoria di Sant’Agata (capp. II-V); nella terza, infine, si offrono le linee teologico-liturgiche per evidenziare l’attualità dell’ideale di santità femminile che propone la vita ed il martirio di Sant’Agata, oggi (cap. VI). Il capitolo I, oltre che fare la storia degli studi su Sant’Agata e sulle persecuzioni in Sicilia, durante i primi secoli della diffusione del Cristianesimo nell’isola, offre una completa rassegna degli studi, delle fonti, sia liturgiche sia agiografiche sia epigrafiche sia archeologiche sia iconografiche, non limitandosi ad un semplice elenco ma cercando di evidenziare di ciascuna di esse la portata storica e l’apporto documentario alla tradizione liturgica del culto agatino. Tutte le fonti monumentali ed epigrafiche sono, dunque, enucleate e vagliate dall’autore. Dai resti, rinvenuti nell’area cimiteriale extra moenia, compresa tra via Androne e via Dott. Consoli, a Catania — ove si evidenzia il passaggio dall’incinerazione pagana all’inumazione cristiana — di due importanti basiliche sicuramente martiriali, la prima degli inizi del IV secolo — subito dopo, quindi, la Pax costantiniana — e la seconda, risalente al VI secolo (pp. 75-80), passando per l’epigrafe di Iulia Florentina (p. 91), per il sarcofago custodito nella chiesa di S. Agata la


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Vetere (pp. 81-88), fino ai luoghi del martirio (pp. 93-95), l’autore offre un panorama ed un quadro completi delle testimonianze storicoarcheologiche su questa figura di vergine e martire catanese del III secolo. Non trascura nemmeno la questione dei natali di Agata, se a darglieli, cioè, siano state Palermo o Catania. Fonti agiografiche bizantine asseriscono la sua provenienza da Palermo da dove sarebbe stata tradotta a Catania per esservi interrogata da Quinziano (p. 113, n. 267). D’altra parte, la Passio di Santa Lucia testimonia il culto di Agata come legato indissolubilmente alla città di Catania, nella quale si trovava la sua tomba, insieme a quelle di altri martiri (Euplo), come attesta l’epitaffio di Iulia Florentina. L’autore sfiora, ma con competenza e ricchezza di documentazione, una mole di problemi storici ed archeologici che il suo studio, giustamente, non poteva affrontare in forma completa ed esaustiva, pena snaturarne il carattere, peculiarmente liturgico, ove, l’indirizzo analitico-descrittivo del capitolo iniziale si coniuga felicemente con quello teologico-sistematico del capitolo finale. Perspicua appare la notazione, secondo la quale, tra il II ed il III secolo avviene una straordinaria ripresa, nel Cristianesimo, delle speranze apocalittiche sulla scorta del Montanismo (p. 38). Dato questo che può spiegare il fenomeno dei martiri e del martirio che tanto impressionò le fonti pagane di quel periodo (Marco Aurelio e Luciano di Samosata). Efficace, poi, la descrizione sintetica delle modalità con le quali ebbe luogo la persecuzione di Decio (249-251), destinata al fallimento e condotta con ambiguità dalle autorità, persino nella stessa capitale dell’Impero, citando le fonti che ne attestano la portata storica, quali, soprattutto, Cipriano, con il suo De lapsis, la cui esistenza, ovviamente, è sottintesa dall’autore (p. 41). A motivo del carattere liturgico di questo studio, è comprensibile anche l’omissione della notizia della scoperta di alcuni libelli, custoditi per secoli dalle sabbie del deserto egiziano. Il riferimento ad almeno uno dei testi fra quelli ritrovati, avrebbe potuto non soltanto, in un certo qual modo, far rivivere quanto, almeno, far comprendere meglio la storicità della persecuzione di Decio. Tuttavia, l’autore non manca di rilevare l’importanza del culto agatino nella “strategia” di comunione, operata dalla Chiesa di Roma, nella persona di pontefici quali Simmaco († 514), Papa dal 506 e di Gregorio Magno (540-604), nei rapporti che la legavano


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alle chiese di Sicilia, testimoniata dalla costruzione di basiliche a Roma, dedicate alla vergine e martire catanese quale quella di S. Agata dei Goti, edificata già nel V secolo (pp. 99-100). Concorda con questi ultimi dati e si motiva ulteriormente, l’inserimento del nome di Agata, insieme a quello di Lucia, nel Canone Romano, databile, quindi, al V secolo per quello di Agata ed al VI secolo per quello di Lucia. Poste, come sono, dopo Agnese e Cecilia, il fatto che «il pontefice concesse il primo posto a sante straniere quasi come segno di ospitalità.» (pp. 130131), evidenzia un altro significativo elemento di quella “strategia” di comunione che l’autore ha così sagacemente evidenziato. Il Messale gregoriano è il prodotto di questo interesse e di questa attenzione della Chiesa romana verso le chiese di Sicilia, evidenziato appunto attraverso il culto dei martiri. Proprio la dedicazione della chiesa di S. Agata dei Goti nel V secolo a Roma, potrebbe essere stata l’occasione per la composizione dei testi eucologici confluiti poi, insieme ad altri anteriori (Gelasiano), nella redazione del Messale gregoriano e quindi nella Liturgia Romana, diventando i testi eucologici Romani (p. 152). Seguono poi tre capitoli (capp. III-V) il cui titolo, emblematicamente, rende ragione dell’importanza e del ruolo della Liturgia e delle fonti liturgiche nella ricerca storica e teologica del culto dei santi. Dedicati all’analisi minuziosa e paziente dei testi eucologici del formulario Gelasiano, Gregoriano e dei Propri locali, i capitoli centrali del volume presentano una massa scientificamente ordinata e criticamente fondata di dati vagliati ed interpretati dall’autore. L’ermeneutica permette di apprezzare le fonti liturgiche in quanto attestano le dimensioni entro le quali si è espressa e sviluppata la devozione verso i santi, in particolare, verso Sant’Agata; la vita di pietà, ancora una volta, diventa così inedito ed importante “luogo teologico”. Al riguardo, diventa assai prezioso l’inserimento di note a piè pagina ricchissime di contenuti, importanti per tutti coloro i quali vogliono accostarsi alla Teologia liturgica. In esse si spiegano tutti i termini significativi riscontrati nei testi eucologici, permettendo di apprezzarne la ricchezza spirituale e la valenza teologica. Il capitolo finale è assai ricco di considerazioni teologiche sul martirio; prende avvio da alcuni significativi termini, riscontrati nei testi eucologici presi in esame dall’autore (martyr, beata, virgo, ecc.), soffermandosi sulle molteplici dimensioni


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del martirio e della santità di Agata (dimensione antropologica, cristologica, pneumatologica, escatologica, ecclesiologica, teologico-liturgica). L’autore offre, poi, una sintesi efficace dei principali profili di una teologia martiriale, testimoniati nel secolo appena trascorso da Karl Rahner ed Hans Urs von Balthasar, talvolta in contrasto fra loro, sul valore e sul carattere della testimonianza cristiana nel mondo attuale, ove la tendenza alla secolarizzazione rischia di appiattire il martirio verso una generica vocazione alla carità ed all’amore del prossimo (pp. 415-419). In ultimo, l’autore passa in rassegna le principali questioni legate alla verginità cristiana, saldata insieme con la santità e la testimonianza di Agata, evidenziandone, ancora una volta, le sue molteplici dimensioni. Uno studio ricco e documentato, criticamente solido e fondato, che offre al lettore attento e non soltanto a quello erudito, la possibilità di conoscere e di soffermarsi sul culto di Agata e dei martiri, per farne compagni di santità lungo il viaggio della propria esistenza di fede, lungo quel viaggio, nel mare della Storia, che la chiesa, quale nave, compie verso nuovi e sconosciuti orizzonti. Ci piace, infine, concludere con una nota finale dell’autore il quale osserva che: «I santi non sono mai una conferma dello status quo della Chiesa, ma lo mettono in questione.» (p. 473). Francesco Aleo



Recensioni Synaxis 2 (2012) 275-281

L. FRACASSA, A caccia della lepre. La meditazione silenziosa della tradizione cristiana, Lindau, Torino 2012, pp. 153 (I Pellicani). Pur temporalmente lontani dal nostro secolo, è indubbio che i cosiddetti “Padri del deserto” e i primi cenobiti cristiani, rappresentino ancor oggi un valido contributo per ogni credente in Cristo, desideroso di condurre un’autentica vita secondo lo Spirito. Una delle caratteristiche di quest’aurea epoca spirituale cristiana è la meditazione silenziosa, tecnica di preghiera che ritroviamo, invero, mutatis mutandis, anche in altre tradizioni religiose, quali l’Induismo, il Buddhismo e il Sufismo islamico. All’interno della chiesa cattolica, il secolo appena trascorso annovera diversi uomini spirituali, profondi conoscitori delle religioni orientali — Thomas Merton, Jules Monchanin, Henry Le Saux, Bede Griffiths, Raimon Panikkar, John Main — che hanno vissuto e scritto sulla meditazione silenziosa. E proprio di quest’ultimo, monaco benedettino inglese (1926-1982), il volume di suor Lorella Fracassa si sofferma ampiamente a trattare, collegandolo a Giovanni Cassiano (360ca-432/433), autore di due tra le più importanti opere dell’antichità monastica cristiana: le Institutiones coenobiticae e le Collationes. È stato p. Main, infatti, a recuperare e far rifiorire oggi l’insegnamento sulla meditazione silenziosa, così come abba Isacco ne parla nelle Collationes IX-X. E possiamo parlare di una vera e propria folgorazione quella avuta da Main in ordine alla meditazione silenziosa. Prima di diventare monaco benedettino ad Ealing Abbey (Londra), John Main aveva beneficiato degli insegnamenti di Satyananda, uno swami induista. Questi l’aveva iniziato, infatti, alla meditazione mantrica. Divenuto monaco nel 1959, un incontro casuale con un giovane, avvenuto a Washington nel 1974 mentre dirigeva la St. Anselm’s Abbey School, lo portò a rileggere l’Holy Wisdom del benedettino inglese dom Augustine Baker (1517-1641), per il quale il fine


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della vita monastica, proprio alla luce della tradizione dei Padri del deserto e di Giovanni Cassiano, è la preghiera continua. Per questa motivazione, tale tradizione spirituale insiste sulla ripetizione continua e ininterrotta di un solo versetto — per abba Isacco, citato da Cassiano (Collationes X, 10, 2): «O Dio, vieni a salvarmi, Signore, vieni presto in mio aiuto» (Sl 69, 2); per John Main, un versetto tratto dal Nuovo Testamento, quale, ad esempio, maranatha (cfr. p. 80) - per arginare la distrazione della mente. Questa riscoperta costituì per p. Main una vera e propria illuminazione perché, oltre ad intuire «l’immediata somiglianza tra il “solo versetto” di Cassiano e il mantra orientale» (p. 30), gli fece nascere il desiderio di far scoprire la bellezza della preghiera silenziosa a tanti contemporanei, perché riteneva il metodo praticabile da tutti. Il testo che presentiamo si compone di due parti. Nella prima, Fracassa evidenzia i momenti più importanti della ricerca spirituale che ritroviamo nelle vicende biografiche di Giovanni Cassiano e di John Main. La seconda parte, il cuore del volume, tratta di quegli elementi monastici presenti nell’opera di Cassiano e nei Padri del deserto — il fuge, tace, quiesce di abba Arsenio (pp. 83ss.), l’attenzione (pp. 108ss.), il discernimento degli spiriti (pp. 113ss.), la semplicità (pp. 120ss.) — ripresi da Main ed estesi ad ogni credente laico perché, secondo il benedettino inglese, «il termine “monaco”, non identifica una circoscritta categoria di persone, ma fa riferimento alla “dimensione monastica” costitutiva dell’essere umano. In tal modo la semantica di “monaco” è dilatata e approfondita. […] Consapevole di essere “monaco”, ciascun uomo può coltivare l’unione interiore con Dio attraverso la preghiera contemplativa» (p. 32). E, a tal proposito, diversi sono i riferimenti che Fracassa fa all’archetipo del monaco, quale “dimensione costitutiva della vita umana” (p. 33) di Panikkar (Beata semplicità, Assisi 2007), secondo il quale gli uomini possono «dilatare i propri “confini spirituali” oltre le coordinate spazio-temporali, trasformandosi così, spiritualmente, in “comunità”» (p. 133), al di là, pertanto, del vivere in comune in uno stesso luogo. Ringraziamo Lorella Fracassa - appartenente alle Suore Maestre di Santa Dorotea, specializzata in Counseling Educativo presso la Scuola Internazionale di Scienze della Formazione (Venezia), Dottore in


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Lettere Cristiane e Classiche presso l’Università Pontificia Salesiana (Roma) e docente di Materie letterarie e Latino presso il Liceo “Tito Lucrezio Caro” di Cittadella (Padova) — per averci ricordato, attraverso il suo libro, l’importanza della preghiera meditativa silenziosa continua (il “pregare incessantemente” di abba Isacco/lo “stare alla Sua presenza” di p. Main) per ogni credente in Cristo ed anche per aver sottolineato la sua valenza nel dialogo interreligioso. Concludiamo, segnalando come alla figura e all’insegnamento di p. John Main si rifà, dal 1991, The World Community for Christian Meditation (www.wccm.org), diretta spiritualmente dal benedettino olivetano londinese p. Laurence Freeman, che fu l’assistente di p. Main, che presenta anche la sezione italiana (www.wccmitalia.org), costituita nel 2007, dal vescovo di Brescia, Associazione privata di fedeli. Mario Torcivia

U. SARTORIO, Fare la differenza. Un cristianesimo per la vita buona. Prefazione di Carmelo Dotolo. Postfazione di Armando Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 2011, pp. 254 (Teologia Saggi). Nella produzione teologica di diversi autori, ricorre a volte un volume che raccoglie articoli e contributi apparsi precedentemente in riviste e/o libri, insieme a qualche inedito. Il libro che presentiamo appartiene alla suddetta tipologia. L’Autore è Ugo Sartorio (Gambara, Brescia 1958), frate minore conventuale della Provincia Patavina, licenziato in Teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana (Roma) e Direttore delle riviste “Credere Oggi” e “Messaggero di sant’Antonio”. Il testo raccoglie contributi che vanno dal 2004 al 2011, compreso un inedito del 2010, ed è arricchito da un’Introduzione dello stesso Sartorio, volta a dare un legame, secondo la cifra della differenza, ai vari studi. Completano il testo, una Prefazione a firma di Carmelo Dotolo, docente di Teologia delle Religioni presso la Pontificia Università Urbaniana (Roma) e Presidente della Società Italiana per la Ricerca Teologica (SIRT), una Postfazione vergata da don Armando Matteo, docente di Teologia Fondamentale alla


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Pontificia Università Gregoriana e Assistente nazionale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI), le fonti dalle quali sono stati tratti gli studi e l’Indice dei nomi. Inserendosi nella variegata produzione letteraria dedicata al dibattito sul cosa consista e sul come debba essere intesa e vissuta la differenza del cristianesimo, l’Autore sottolinea nell’Introduzione come «La differenza cristiana non ha nulla a che fare con il moralismo, non è fissità o fissazione identitaria né tantomeno universalismo esclusivo ed escludente, quanto piuttosto universale apertura a tutto e a tutti — secondo lo stile messo in atto e poi teorizzato da san Paolo — perché il Vangelo s’innesti in ogni esperienza umana così com’è avvenuto nella nostra, facendola fiorire» (p. 11). Certo, possiamo parlare di differenza cristiana perché si è ormai definitivamente conclusa l’epoca della cristianità, ma l’opera di evangelizzazione della chiesa continua sempre, afferma Sartorio, intessuta da un linguaggio e da stili di vita che non possono non essere nuovi. Il volume si compone di due parti. Nella Prima — Pensare la differenza — troviamo i primi tre contributi, apparsi tutti nel 2005, riguardanti: il ruolo della teologia specificamente cristiana e il suo imprenscidibile rapporto con la ragione (pp. 43-61), il contesto contemporaneo nel quale situare l’annuncio evangelico, consapevoli che sempre si dovrà avere a che fare con la cultura (pp. 63-106) e tre forme di annuncio — nuova evangelizzazione, inculturazione, testimonianza — «che riassumono le caratteristiche e le tonalità di uno sforzo unitario che la chiesa sta dedicando all’azione missionaria» (p. 24; pp. 107-128). La seconda Parte — Vivere la differenza — presenta gli altri tre studi: il rapporto tra chierici e laici, relazione che, nella storia, ha sempre delineato l’immagine della chiesa tout court e che ancora oggi presenta un deficit in ordine alla stragrande maggioranza dei battezzati che sono i laici (inedito, 2010; pp. 131-151), la vita consacrata, il cui presente è oggi “sospeso” (2011; pp. 152-168) e la disamina di alcune posizioni di teologi (Schillebeeckx, Rahner, Tillard, Matura, Maggioni, Rocchetta, Moioli, Ferasin) sul rapporto tra celibato per il Regno e matrimonio cristiano (2004; pp. 169-216). Concludiamo evidenziando la profonda intelligenza dell’Autore


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che traspare da tutti i contributi, non obliando tutti quei nodi ed emergenze che le tematiche esaminate presentano, come anche la simpatia verso il mondo contemporaneo, senza mai sottacere la funzione di pungolo che il cristianesimo sempre dovrà esercitare nei riguardi di ogni società di uomini e donne. Mario Torcivia

R. NARDIN – G. PICASSO, Un’esperienza monastica tra storia medievale e spiritualità contemporanea. I Benedettini di Monte Oliveto, Abbazia di Monte Oliveto 2010, pp. 208 (Quaderni di Monte Oliveto [2]). Spesse volte risulta difficile reperire studi pubblicati in varie riviste e in anni diversi, specie quando i periodici si rivolgono ad un pubblico settoriale, interessato ad una specifica materia, o quando la diffusione delle suddette riviste non si presenta abbastanza capillare. Per questo salutiamo con vivo piacere la pubblicazione del secondo numero dei Quaderni di Monte Oliveto che, pur rivolgendosi ai giovani monaci benedettini olivetani in formazione, rappresenta un testo prezioso per quanti vogliono addentrarsi sempre più nella conoscenza della storia e della spiritualità della Congregazione monastica benedettina di S. Maria di Monte Oliveto. Essa venne fondata il 26 marzo 1319 da Bernardo Tolomei (1272-1348) — canonizzato da papa Benedetto XVI appena tre anni fa, il 26 aprile 2009 — ed approvata il 21 gennaio 1344 da papa Clemente VI. Il volume si compone di due parti e di un’Appendice. Nella prima parte, di carattere storico, sono stati raccolti cinque studi (di cui uno inedito) e una testimonianza (anch’essa inedita) di dom Giorgio Picasso; nella seconda, riguardante il presente della Congregazione monastica benedettina, troviamo cinque studi (di cui un inedito) di dom Roberto Nardin. L’Appendice presenta tre pronunciamenti dei papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, avutisi in occasione di particolari avvenimenti della Congregazione olivetana: il 650° anniversario della morte di Bernado Tolomei, la canonizzazione dello stesso e il


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quarto centenario della canonizzazione di Francesca Romana, l’oblata di Tor de’ Specchi (Roma). I summenzionati autori, ambedue monaci olivetani, sono abbastanza noti nel mondo accademico. Il primo, dell’Abbazia di Seregno (Milano) è stato docente di storia della Chiesa, Preside della Facoltà di Lettere dell’Universita Cattolica di Milano e Direttore del «Centro Storico Benedettino Italiano»; attualmente, tra le altre cose, è Direttore scientifico della rivista Benedictina. Il secondo, dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore (Siena), insegna a Roma, presso la Pontificia Università Lateranense e il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. La quasi totalità dei contributi dei due studiosi sono stati pubblicati ne L’Ulivo. Periodico della Congregazione di Monte Oliveto, negli anni 2001-2009. Nella Presentazione, l’ormai ex Abate generale dom Michelangelo Tiribilli, evidenzia come il «libro permette in qualche modo di ritornare alle origini e di ripensare alla nostra storia presente per poter discernere con maggiore consapevolezza il nostro futuro a partire da una chiara comprensione del nostro specifico carisma» (p. 7). Tra i contributi di dom Giorgio Picasso, segnaliamo La spiritualità dell’antico monachesimo alle origini di Monte Oliveto (pp. 17-28) e Sulle orme dei fondatori di Monte Oliveto (pp. 39-47). Nel primo, troviamo presentata la storia della nascita della comunità fondata da Bernardo Tolomei, ultima congregazione monastica italiana sorta nel Medioevo — in un momento di crisi della vita monastica, quale fu il Trecento — le sue principali caratteristiche ascetiche e il suo pieno riconoscimento nella spiritualità della regola benedettina. La Congregazione olivetana si riconobbe nella regola del Patriarca dei monaci d’Occidente per la consonanza di temi quali «la ricerca di Dio, la preghiera liturgica, la pratica delle grandi virtù: umiltà, obbedienza, silenzio» (p. 25), anche se gli olivetani ridimensionarono fortemente due dimensioni importanti della regola di san Benedetto: l’ufficio dell’abate e la stabilitas loci. Quello dei monaci olivetani fu, inoltre, un legame col monachesimo benedettino che non fece venire mai meno il legame, altrettanto importante, col monachesimo egiziano antico (Pacomio, Paolo eremita, ecc.). Il secondo contributo di dom Picasso che evidenziamo studia l’«ambiente che il Beato


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(Tolomei, ndr.) e i suoi primi compagni (i senesi Patrizio Patrizi, Francesco e Ambrogio, ndr.) seppero creare e nel quale si inserirono e lo alimentarono i monaci di Monte Oliveto del secolo XIV, il secolo delle origini» (p. 40). E questo grazie alle diverse fonti olivetane che dom Picasso cita: la Cronaca di Antonio da Barga e la Cronaca della Cancelleria. Tra gli studi di dom Roberto Nardin, evidenziamo Come si caratterizza una comunità olivetana in rapporto alla Chiesa e al mondo (pp. 154-170) e Comunione e comunicazione. La Commissione per comunicazioni sociali e la rivista della Congregazione. Storia recente e considerazioni personali (pp. 171-190). Il primo contributo è la rielaborazione di una riflessione spirituale offerta nell’aprile 2009 alla famiglia Olivetana, in occasione della canonizzazione di Bernardo Tolomei. In questa riflessione dom Nardin presenta i caratteri fondamentali dell’identità della Congregazione olivetana, rifacendosi soprattutto alla Ratio formationis dei Benedettini di Monte Oliveto, entrata in vigore nel 2007. Una caratteristica peculiare di questa identità «è data dalla communio, nella doppia prospettiva di communio nella comunità e della congregazione, in cui il monaco vive nella comunità ed è della congregazione» (p. 159). Per questo, proprio al termine del primo capitolo della prima parte della suddetta Ratio, «viene descritto ‘l’Olivetano’ come colui che sperimenta l’intensità e la radicalità della communio all’interno di quella concreta porzione della Congregazione che è la Comunità, ed è in essa che è chiamato a vivere quotidianamente, sotto la guida del suo Abate, il suo personale cammino di santità nella sequela Christi» (pp. 156-157). Evidenziamo, infine, il contributo su Comunione e comunicazione, perché troviamo delineata la storia degli ultimi decenni della rivista degli Olivetani, L’Ulivo, dal 1970 ad oggi. Mario Torcivia



Synaxis 2 (2012) 283-291

NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

1. LICENZIATI IN TEOLOGIA MORALE Il 17 febbraio 2012: FARINA MARINA LAURA FRANCESCA, Sequela e Discepolato in Dietrich Bonhoeffer. (relatore prof. P. Buscemi) VALORE FABIO, Il profilo etico dell’adozione. Un approfondimento alla luce dell’adozione divina. (relatore prof. C. Lorefice) SCANDURA VINCENZA, La maternità come via di santità. Riflessione teologico-morale a partire dalla Mulieris dignitatem per una comprensione cristiana della maternità. (relatore prof. V. Rocca) BARNABA IRENE, L’insegnamento della Chiesa sulla coscienza morale: il rapporto tra la coscienza e la verità nella enciclica Veritatis splendor nei nn. 54-64. (relatore prof. S. Millesoli) MELISSA DUILIO ANTONIO, Il De oratione di Origene. Elementi strutturali, tematici e commento. (relatore prof. R. Gisana)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

Il 29 giugno 2012: MWAMPENJELE DANIEL SITAYILA, To announce the christian marriage in the culture of Malila people in Tanzania. Situation analysis and Pastoral Prospective (relatore prof. J.A. Kudielumuka Bamanadio) SIWINGA EVODIUS ALOIS KIZINGA, Indissolubility of Christian marriage; a pastoral challenge to the catholic Church of Tanzania. Afro-Christian approach in the teachings of Episcopal Conference of Tanzania. (relatore prof. J.A. Kudielumuka Bamanadio) SAMBATARO MARIA RITA, L’amore di Gesù per la Chiesa, modello e fondamento dell’amore coniugale in Ef 5,21-33. (relatore prof. A. Gangemi) Il 12 ottobre 2012: FICHERA PIETRO, Il mistero della sofferenza nel pensiero e nella vita di Giovanni Paolo II alla luce della Salvifici doloris. (relatore prof. V. Rocca) VASILE CINZIA ANTONELLA, La Familiaris consortio e la formazione della coscienza morale nelle relazioni familiari. (relatore prof. V. Rocca) D’AQUINO MARGHERITA, Bernardo di Chiaravalle e Christophe Lebreton. Influssi e distanze . Dai Sermoni sul Cantico dei cantici al Diario (relatore prof. G.A. Neglia)


Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

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2. BACCELLIERI IN TEOLOGIA Il 17 febbraio 2012: TIRENDI SALVATORE, L’azione pastorale di don Pino Puglisi. (relatore prof. M. Torcivia) CICCIARELLA GIORGIO, Vita cristiana e chiamata alla santità nell’esperienza umana e negli scritti di Nino Baglieri (1951-2007). (relatore prof. C. Lorefice) LEONARDI SANTO, Silenzio e parola in come si vince a Waterloo. Un saggio di Michele Federico Sciacca. (relatore prof. L. Saraceno) NICOLOSI FRANCESCO, Note caratteristiche dell’esperienza cristiana di Giuseppina Faro. (relatore prof. S. Consoli) CARBONARO ALFIO, Comunicazioni sociali e nuova evangelizzazione nei documenti della CEI. (relatore prof. V. Rocca) MALTESE FRANCESCO, La Chiesa popolo di Dio nella riflessione ecclesiologica postconciliare. (relatore prof. N. Capizzi) D’AMBROSIO VALERIA, Innocenza originaria, concupiscenza e redenzione del corpo in poemi, drammi e catechesi di Giovanni Paolo II. (relatore prof. S. Raciti) LUTRI DOMENICO, Il sacramento della Penitenza: riconciliazione con Dio e con la Chiesa. Coscienza e confessione del peccato nell’attuale contesto pastorale. (relatore prof. S. Raciti)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

CARAMBIA ARMANDO, La pastorale nelle carceri come prossimità della Chiesa. (relatore prof. A. Pennisi) MESSINA CAMILLO, La parrocchia nel vigente codice di Diritto canonico alla luce delle determinazioni del Concilio Vaticano II. (relatore prof. G. Giombanco) RAGONESI MARIA, Il diritto alla vita nel Magistero della Chiesa. (relatore prof. A. Sapuppo) MAZZAGLIA MARIA, L’opera che il Padre ha dato a Gesù da compiere. Analisi esegetica di Gv 17,4. (relatore prof. A. Gangemi) Il 29 giugno 2012: NICOLOSI GIOVANNI ALFIO, La formazione morale dei giovani in Giovanni Paolo II nelle giornate mondiali della gioventù. (relatore prof. V. Rocca) PLATANIA VENERANDO MASSIMO, Le dimensioni morali del Sacramento della Confermazione nei catechismi della Conferenza Episcopale Italiana. (relatore prof. V. Rocca) LICITRA MARIAGRAZIA, L’Eucaristia nella vita e nella missione della Chiesa. Prospettive pastorali a partire da Ecclesia de Eucharistia. (relatore prof. S. Raciti) AIOLA GABRIELE, Una particolare esperienza cristiana nel territorio acese: l’Eremo di Sant’Anna. (relatore prof. G. Zito) ARANCIO GIANNI, Le parabole della Misericordia nel Vangelo di Luca. (relatore prof. C. Raspa )


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Il 12 ottobre 2012: CONTI SANTO, Giovanni 21, 15-19 in alcuni esegeti contemporanei. (relatore prof. C. Raspa) MAZZEPPI GIOVANNI GIOACCHINO SALVATORE, L’Arcivescovo Francica Nava e la formazione dei preti a Catania (1895-1928). (relatore prof. G. Zito) LUCA SALVATORE, Primato e collegialità nella costituzione gerarchica della Chiesa. (relatore prof. G. Baturi) DI STEFANO GIUSEPPE, Michelangelo, artista e teologo. Tratti di cristologia e mariologia michelangiolesca negli scritti di Timothy Verdon e Stefano De Fiores. (relatore prof. E. Palumbo) GALLITTO ANDREA, La condilectio nel De Trinitate di Riccardo di San Vittore. (relatore prof. N. Capizzi) SUDANO VITO, L’episodio dei “Discepoli di Emmaus (Lc. 24, 1331)”: metafora della società contemporanea alla luce del documento della CEI “educare alla vita buona del Vangelo”. (relatore prof. A. Fallico) FALLICA VITTORIO, Riflessione pedagogica e formazione umana in Edith Stein (relatore prof. A. Crimaldi) BATTIATO SEBASTIANO, Gli eventi nel cenacolo e nel cammino di Gesù verso l’orto degli ulivi. Analisi letteraria, redazionale e teologica di Mt 26,1-29; Mc 14,1-25; Lc 22,1-38; cfr. Gv 13,1-38; Inoltre di Mt 26,30-35 e Mc 14,26-31. (relatore prof. A. Gangemi)


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SERAFINI MARIA PAOLA, La coscienza morale in John Henry Newman. (relatore prof. V. Rocca) CASERTA VINCENZO, La formazione spirituale nella fase adolescenziale. Linee di fondo per una pastorale giovanile. (relatore prof. A. Pennisi) 3. SEMINARIO INTERDISCIPLINARE Giovedì 16 febbraio 2012 si è tenuto, presso lo Studio Teologico S. Paolo, il 2° dei quattro Seminari interdisciplinari su: Memoria conciliare: le scelte del Vaticano II. Il Seminario di quest’anno aveva per tema: Nodi emergenti di alcuni temi della Costituzione Conciliare Gaudium et Spes. Ha visto gli interventi dei docenti del S. Paolo: Francesco Conigliaro, “Il punto sul dialogo con il mondo contemporaneo”; Carmelo Raspa, “L’utilizzo della Scrittura nella GS”; Corrado Lorefice, “Una chiesa povera per il mondo contemporaneo”; Antonino Crimaldi, “La dialettica tra antropologia razionale e antropologia savrannaturale”; Piero Sapienza, “Dopo la GS è ancora possibile una dottrina sociale?”; Adriano Minardo, “Il dialogo interculturale alla luce della GS”, Salvatore Consoli, “L’amore coniugale: dalla GS alla Familiaris Consortio”, Francesco Brancato, “Il fine della storia umana”. Moderatore è stato Corrado Lorefice. 4. DISPUTATIO Giovedì 01 marzo 2012 si è tenuto l’atto conclusivo della Disputatio su Il rapporto Chiesa e mondo secondo Gaudium et Spes: una ‘lezione di stile’, guidati da Francesco Scanziani, docente di Antropologia teologica, Escatologia e Mariologia nel Seminario Arcivescovile di Venegono, dove risiede, all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano e alla Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale. All’incontro hanno partecipato docenti e alunni dello Studio Teologico S. Paolo che si sono confrontati in gruppi di Studio e in aula sui molteplici aspetti del tema.


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5. COLLOQUI ROSMINI Venerdì 20 aprile 2012, presso lo Studio Teologico S. Paolo si è tenuto il 2° Convegno dei “Colloqui Rosmini”, avente titolo: “La politica di Antonio Rosmini”. Ha visto gli interventi dei docenti. Ha introdotto Piero Sapienza, ed hanno relazionato, Giuseppe Astuto, “Rosmini e il costituzionalismo europeo”, docente dell’Università degli Studi di Catania; Paolo Armellini, “L’Unità d’Italia nella visione politica di Rosmini”, docente dell’Università di Roma; Francesco Conigliaro, “Filosofia e politica in Rosmini”, dello Studio Teologico S. Paolo; Markus Krienke, “Rosmini anticipatore della svolta personalistica nell’etica sociale cristiana”, della della Facoltà Teologica di Lugano; Salvatore Muscolino, “Rosmini di fronte alla modernità: diritti, economia e persona”, dell’Università di Palermo; Piero Sapienza, “ La concezione antiperfettistica della politica in Rosmini”. Sono seguiti interventi e dibattiti. All’incontro hanno partecipato docenti e alunni dello Studio Teologico S. Paolo che si sono confrontati in gruppi di Studio e in aula sui molteplici aspetti del tema. 6. INCONTRI Il 13 ottobre 2012, presso la Chiesa di San Sebastiano a Cerami (EN), si è tenuto un incontro di antropologia ed etica sanitaria avente titolo: “Le confraternite e l’origine dei sistemi sociosanitari”. Dopo il saluto del Parroco, Arc. Carmelo Anello e la presentazione del Superiore della Confraternita, Michele Pitronaci, sono intervenuti. Gaetano Zito, Sara Paci, Silvana Raffaele, Santo Fortunato, Angelo Musumarra. Ha moderato Mario Messina. 7. CORSO: “SCUOLA DI FORMAZIONE ALL’IMPEGNO SOCIALE E POLITICO” Il 20 ottobre 2012, presso i locali dello Studio Teologico S. Paolo hanno avuto inizio le lezioni della “Scuola di Formazione all’impegno sociale e politico”.


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

8. S. E. REV.MA MONS. JEAN-LOUIS BRUGUÉS ALL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA Giovedì 25 ottobre 2012 S. E. Rev.ma Mons. J.-L. Brugués ha tenuto presso l’Aula magna del Rettorato dell’Università di Catania, una Lezione dal titolo “Quale futuro per il cristianesimo?”. Sono seguiti i saluti del Magnifico Rettore dell’Università di Catania, Prof. Antonino Recca e del Arcivescovo di Catania S. E. Rev.ma Mons. Salvatore Gristina; a coordinare l’incontro è stata la Prof.ssa Maria Barbanti. 9. INAUGURAZIONE ANNO ACCADEMICO Venerdì 26 ottobre 2012 si è tenuta l’inaugurazione del 44° anno accademico dello Studio Teologico S. Paolo. La mattina si è svolto il consueto incontro tra la Presidenza, i Docenti, i Rettori dei seminari e i Vescovi delle Chiese che aderiscono al S. Paolo. Il pomeriggio, alla solenne concelebrazione eucaristica presieduta dal Bibliotecario e Archivista di Santa Romana Chiesa, S. E. Mons Jean-Louis Brugués, sono seguiti: il saluto del Moderatore dello Studio, l’Arcivescovo Salvatore Gristina: la relazione del Preside. mons. Gaetano Zito e la prolusione accademica su Vaticano II concilio del futuro?, tenuta da S. E. Mons. J.-L. Brugués. 10. CONVEGNO DI STUDI DEL CESIFER Il 21 e il 22 novembre 2012 si è svolto, presso le Biblioteche riunite Civica e Ursino Recupero ed il Coro di notte del Monastero dei Benedettini di Catania, sede della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi, in collaborazione con il CeSIFeR, lo Studio Teologico S. Paolo e l’Università degli Studi, il Convegno di studi su Il corpo e l’esperienza religiosa. Sono intervenuti docenti dello Studio e dell’Università: Teresa Sardella, Giuseppe Ruggieri, Francesco Aleo, Arianna Rotondo, Francesco Migliorino, Rossana Barcellona, Roberto Osculati, Marilena Modica, Vincenza Scuderi, Antonio Crimaldi, Luca Saraceno, Antonio Sichera, Rosa Maria Monastra, Maurizio Aliotta.


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11. NECROLOGIO Il 28 dicembre 2012 è tornato alla casa del Padre mons. Antonino Longhitano, docente invitato di Filosofia allo Studio Teologico S. Paolo. La Sua presenza discreta, la sua affabilità, la generosità e la competenza nella docenza sono state il tratto distintivo nei suoi anni di servizio allo Studio.



INDICE

SOMMARIO

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Sezione teologica LE PROVOCAZIONI INASCOLTATE DELLA GAUDIUM ET SPES (Severino Dianich)

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Premessa .

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1. La prima e fondamentale provocazione inascoltata .

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2. Dalla GS alla problematica attuale .

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3. Proposta di valori umani e proposta del Vangelo 4. Per un nuovo equilibrio all’interno della Chiesa

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Conclusione

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REALTÀ PAIDEICA ED APPROCCIO PAIDEICO NEL PAIDAGÒGOS DI CLEMENTE D’ALESSANDRIA: PAIDÉIA E PAIDAGOGHÌA (Francesco Aleo)

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Introduzione

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1. Clemente d’Alessandria nelle fonti antiche .

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2. Il Paidagògos

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3. Paidéia

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5. L’approccio paideico del Didàskalos in Clemente d’Alessandria

4. Paidagoghìa

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6. Conclusioni: i tratti del Didàskalos in Clemente d’Alessandria

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Indice

LA RELAZIONE TRA CORPO E PREGHIERA NEL LIBRO DEGLI ESERCIZI SPIRITUALI DI SANT’IGNAZIO DI LOYOLA (Andrea Zappulla) . . . . . . . 1. La visione dell’uomo nell’antropologia ignaziana . . 2. Il tempo negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola . 3. L’importanza dell’ambiente27 negli Esercizi spirituali . 4. La relazione tra corpo e preghiera . . . . 4.1. Le posizioni del corpo nella preghiera . . . 4.2. Il secondo ed il terzo modo di pregare . . . 5. L’ascesi ed il vitto nel libro degli Esercizi spirituali . . 6. La penitenza nella prospettiva degli esercizi ignaziani . Conclusione . . . . . . .

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Sezione miscellanea ROSMINI ANTICIPATORE DELLA SVOLTA PERSONALISTICA NELL’ETICA SOCIALE CRISTIANA. CONTEMPORANEAMENTE UN CONTRIBUTO ALLA DETERMINAZIONE DEL RAPPORTO TRA ROSMINI E TAPARELLI SULL’ETICA DEL DIRITTO (Markus Krienke) . . . . . . . . 1. Perché riscoprire Rosmini per il pensiero etico-sociale cristiano oggi? 2. Dal diritto naturale al diritto personalistico . . . . 3. L’anticipazione di Rosmini . . . . . . 4. Il liberalismo sui generis di Rosmini . . . . . 5. Rosmini e Taparelli . . . . . . . 6. Giustizia sociale e sussidiarietà . . . . . Conclusione . . . . . . . .

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INEDITI DI S. CATERINA DE’ RICCI NEL CARMELO DI S. MADDALENA DE’ PAZZI IN FIRENZE (Chiara Vasciaveo) . . . . . . . . 1. Il Monastero domenicano S. Vincenzo Ferrer di Prato . . 1.1. Prato tra conventi e monasteri . . . . . 1.2. S. Vincenzo come comunità domenicana osservante . . 2. Profilo biografico di s. Caterina de’ Ricci . . . . 2.1. L’ingresso tra le domenicane di Prato . . . . 2.2. Una complessa trama di relazioni . . . .

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Indice 3. Le Relazioni tra il Carmelo fiorentino e le domenicane S. Vincenzo di Prato . . . . . . 4. S. Maddalena conobbe testi della de’ Ricci prima di entrare al Carmelo? . . . . . . . 5. Fonti della De’ ricci nel Carmelo fiorentino . . . 5.1. I “Ratti” presenti nel Carmelo S. Maria degli Angeli . 5.2. Le lettere . . . . . . . Conclusioni . . . . . . .

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IL CONTROVERSO EPISCOPATO DI UN PUGLIESE (ARCI)VESCOVO DI CATANIA: FELICE REGANO DA ANDRIA (1839-1861) (Gaetano Zito) . . . . . . . . 1. Seminario e clero . . . . . . . 2. Lo scontro con i religiosi . . . . . . 3. Gli esposti alla Santa Sede contro Regano . . . . Appendice . . . . . . . .

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IL COLLEGIO «MARIA SS. DELLA PROVVIDENZA» DI ACI SANT’ANTONIO (1812-2012) (Adolfo Longhitano) . . . . . . . . 1. L’istruzione in Sicilia al tempo dei Borboni . . . . 2. I Collegi di Maria per l’istruzione femminile: origine, identità e diffusione . . . . . . . . 3. La fondazione del Collegio di Maria ad Aci Sant’Antonio: ordinamento e attività . . . . . . . 4. Il difficile adeguamento del Collegio alle leggi dello Stato unitario 5. La nuova identità del Collegio . . . . . Conclusione . . . . . . . .

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UN’OPERA INEDITA DI ANTONINO AMATO. LA FACCIATA DELLA CHIESA DI MARIA SS. DELLE GRAZIE A TREMESTIERI (Salvo Calogero) . . . . . . . . Premessa . . . . . . . . . 1. Notizie sulla famiglia messinese dei Blandamonte . . . 2. L’attività di Antonino Amato a Catania dopo il 1693 . . 3. La chiesa di Maria SS. delle Grazie nel Piano di Tremestieri . 4. Altre opere realizzate da Antonino Amato . . . . 5. Altre notizie biografiche sulla famiglia Amato . . .

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Indice

Note ELEMENTI PER LA RIDEFINIZIONE DELLA CRONOTASSI DEI VESCOVI DI CATANIA DI ETÀ PALEOCRISTIANA E BIZANTINA (Vittorio G. Rizzone) . . . . . . . .

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Presentazioni

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Recensioni .

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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

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INDICE

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