ISTITUTO PER LA DOCUMENTAZIONE ELA RICERCA S. PAOLO
VI I
CATANIA
1989
ProprietĂ letteraria riservata
Stampato in Italia @ Stab. Tip.
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Printed in Italy
GAL ATE AÂť di G. Maugeri - Via Piemonte 1 84 - Acireale
PRESENTAZIONE
Synaxis VII approfondisce ed evidenzia la natura dei volumi precedenti: da una parte dà uno spazio generoso alla documentazione e dall'altra contiene delle ricerche. Le ricerche prioritariamente riguardano personaggi o fatti della Sicilia ma ve ne sono altre di varia natura. Synaxis anche se si sofferma, in forza delle sue scelte, sul passato non dhnentica il presente: interviene ad ese1111Jio con uno studio nel dibattito attuale sul valore del pensiero di Heidegger in occasione del centenario della nascita.
Continua a ritenere doveroso il dialogo con la cultura laica per discernere quanto di buono è prodotto al di fuori della tradizione cristiana: così facendo, peraltro, s'inserisce nel solco dell'antica tradizione patristica dei «se111ina Verbi)>, ripresa e
approfondita dal Concilio Vaticano Il. E' sua costante preoccupazione restare strumento di dialogo interdisciplinare - teologia, filosofia, storia ... - e inter-istituzionale - Studio teologico, Università ... - come pure strumento di scambio e diffusione della ricerca teologica in Sicilia con altri centri accademici italiani ed esteri. Synaxis è consapevole della ricca documentazione che è riuscita a pubblicare: oltre ad aver messo in luce un patrimonio che era ingiusto lasciare nel buio degli archivi, ha offerto agli studiosi dei preziosi documenti. Non è presuntuoso affermare
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Presentazione
che ormai le ricerche socio-religiose riguardanti la Sicilia sudorientale hanno come passaggio obbligato i suoi documenti. Anche questo settimo volume con l'abbondante documentazione, in buona parte inedita, continua a rispondere ad una esigenza e ad una domanda di conoscenza di fonti per lo studio e /'approfondimento. Synaxis di fatto si trova a prestare un servizio culturale alle Chiese siciliane valorizzando la loro storia particolare e fornendo occasioni di approfondimento su temi di rilevanza ecclesiale e sociale, e alla comunità civile attraverso la riscoperta delle "radici" spirituali. Synaxis svolge la sua attività anche attraverso le sue due collane: Quaderni e Documenti e Studi.
Aspetto promet lente è che giovani professori e alunni dello Studio Teologico S. Paolo si muovono nelle linee di Synaxis: il loro impegno fa ben sperare sulla vitalità che finora Synaxis è riuscita ad avere. Catania, Natale del Signore 1989.
SALVATORE CONSOLI
L'UTILIZZAZIONE DEL C. 55 DEL LIBRO DI ISAIA NEL VANGELO DI GIOVANNI
ATTILIO GANGEMI *
Illuminata dallo Spirito Santo, la Chiesa apostolica comprese che il mistero di Cristo era già adombrato e, in certo senso, anche contenuto nelle diverse immagini dell'AT. Le varie descrizioni e oracoli profetici, al di là del loro senso immediato, contenevano un. senso più profoil'do, percepibile solo alla luce degli eventi di Gesù. Si ;deter,minò così un rapporto di reciproca interazione tra le Scritture dell'AT e gli eventi. Da una parte questi illuminano le Scritture, evidenziando il loro profondo significato 1 e portandole a compimento 2 ; dall'altra le Scritture, così illuminate, illuminano a loro volta gli eventi, ne indicano la necessità 3, ne rivelano la profondità del senso, ne offrono il linguaggio.
* Docente di Esegesi biblica nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr. al contrario 2Cor 4,3.4, che parla di coloro che non vedono lo del glorioso vangelo di Cristo, restando esso per loro ancora velato. 2 Cfr. l'uso del verbo 7tÀ.1]p6w nel NT con· diversi oggetti: i;Ò P'l1itEv (Mt 1,22; 2,15.17.23; 4,14; 8,17; 12,17...); al ypaqio:i (Mt 26,54.56; Mc 14,49); Ti ypaqi{i (Mc 15,28; Le 4,21; Gv 13,18; 17,12; 19,24.36; At 1,16; Gc 2,13). Inoltre Le 9,31; 24,44 (mivi;a -ç/L yEypo:µµÉvaJ; Gv 12,38; 15,25. Soprattutto Gal 5,14. In Gv 19,28 è usato il verbo -rEÀEL6w. 3 Cfr. l'uso del verbo ÙEL con cui si esprime la necessità degli eventi di Gesù: Mt 16,21; 26,54; Mc 8,31; Le 9,22; 17,25; 22,37; 24,7.26.44; At l,16; 17,3. Tale necessità sembra essere data dal fatto che gli eventi erano stati preannunziati dalle scritture (cfr. Le 24,26.27). 1
sph~ndore
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Attilio Cangemi
Ben volentieri perciò il NT si rifà alle Scritture dell'AT per descrivere gli eventi di Gesù 4• Talora gli autori neotestamentari citano singoli testi, più o meno al1a lettera, secondo la versione greca dei LXX o altre versione greche, talora li citano a senso, altre volte soltanto vi alludono, altre volte riprendono interi episodi e brani come schema di fondo nelle loro narrazioni. Nella ripresa dell'AT gli autori del NT dispongono, oltre che del testo originale ebraico, aramaico (particolarmente Daniele) e greco (i libri deuterocanonki), anche delle altre versioni greche, a noi pervenute o sconosciute 5 1 e della parafrasi targu1nica 6, senza dimenticare la mediazione della letteratura intertcstar11entaria 7. Nel riprendere l'AT gli autori del NT manifestano una libertà che proviene loro dalla convinzione della superiorità degli eventi che narrano e anche dalla presenza e dall'opera dello Spirito che, per rnezzo loro, sta portando a compimento, nel senso e nella quantità, la Scrittura stessa. Per questo talora modificano i testi, sottolineano dei particolari, modificano parole, o-illcttono fr<1si, trascurano -dei particolari, fon:dono e ind tegrano reciproca1nente lliversi testi, invertono l'ordine, cam-
4 Basti notare qui i molti usi del termine ypu..cpi} nelle varie sfumature e del verbo ypci:<pw nelle varie forme verbali nel NT riferiti alle scritture dell"AT. 5 In genere il NT riprende l'AT secondo la versione greca dei LXX. Non mancano però degli esempi di divergenze (uno tra i tanti: Gv 19,37; cfr. Ap 1,7). A meno che non si voglia pensare ad una libera modifica del testo dei LXX da parte degli autori del NT bisogna presupporre talora qualche altra versione greca. 6 Cito a riguardo due saggi più significativi: R. LE ÙÉAUT, La nuit pascale, PIB, Rome 1963; M. McNAMARA, The new Teslament and lhe Palestinian Targun1 to lhe Pentateuch, PIB, Romc 1966. Cfr. anche la bibliografia segnalata in quest'opera. Per il 4° vangelo tra i vari studi possiamo segnalare M. E. BoISI\1ARD, Les citations largun1iques dans le 4" évangile, RB 66 (1959) 374-378. 7 Cfr. tra i tanti studi: R. E. BROWN, The Qumran Scrolls and the Johannine (;ospel and Epistles, Csa 17 (1955) 403-419. D. M. STANLEY, The Johannine Literalure (Qun1ran and lohn), Ts 17 (1956) 516-531. AA.Vv., fohn and Qu1nran, edited by J. I-I. Charlesworth, Geoiirey Chapman, London 1972.
Utilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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biano la prospettiva: le Scritture sono chiamate a esprimere un evento che le supera. Tutto ciò potrebbe apparire indebita manomissione; ma tutto ciò, come si è detto, avviene nel NT sotto ispirazione dello Spirito Santo. Non è mia intenzione affrontare in questo studio il problema, peraltro complessissimo, del rapporto tra l'AT e il NT. Quanto molto genericamente ho detto sopra, serve solo a giustificare il presente studio sull'utilizzazione del c. 55 del libro di Isaia nel vangelo •di Giovanni. In realtà lo studio se e ·come il NT o un autore del NT riprenda, in toto o in parte, un libro dell'AT non solo getta molta luce sul rapporto tra AT e NT ma anche aiuta a percepire la profondità di senso degli eventi narrati dal NT e, nel caso nostro, dal vangelo di Giovanni. Questo tipo di indagine non è nuova 8 • Io stesso ho dato il mio contributo rper quanto riguarda il libro dell'Apocalisse 9 , ma qualche tentativo è stato già fatto pure per il 4° vangelo m Benché dagli autori non sia <Sufficientemente sottolineato ",
~ L'indagine è stata condotta soprattutto nel libro dell'Apocalisse di Giovanni. Cfr. A. ScHLATTER, Das alte Testament in der joanneischen Apokalypse, C. Bertelsmann, Giitersloh 1912. J. CAMBIER, Les images de l'A.T. dans l'Apocalypse de S. Jean, NRr 77 (1955) 113-121. A. FEUILLET, Le Cantique des Cantiques et l'Apocalypse, RsR 49 (1961) 321-353. A. VANHOYE, L'utilisation du livre d'Ezéchiel dans l'Apocalypse, Bib 43 (1962) 436-470. D. MoLLAT, Apocalisse ed Esodo, in "S. Giovanni: Atti della XVII settimana biblica", Paideia, Brescia 1964, 345-361. 9 A. GANGEMI, L'utilizzazione del Deutero-lsaia nell'Apocalisse di Giovanni, EuntDoc XXVII (1974) 109-144; 311-339. IO Possiamo citare alcuni studi. E. C. l"ÌOSKYNS, Genesis I-III and St. John's Gospel, Jrs 21 (1920) 210-218. G. ZIENRR, Weisheitsbuch und Johannesevangelium, Bib 38 (1957) 396-418; 39 (1958) 37-60. M. CAMBE, L'influence du Cantique des Cantiques sur le Nouveau Testament, RThom 62 (1962) 5-26. J_ E. BRUNS, Some Reflections on Cohelet and John, Cno 25 (1963) 414416. A. FEUILLET, La recherche du Christ dans la Nouvelle Alliance d'après la christophanie de Jn 20,11-18 (comparaison avec Ct 3,14 ... ), MélLubac, I, Aubier, Paris 1963 93-112. H. B. MOELLM, Wisdom Motifs and John's Gospel, BEvTSoc 6,3 (1963) 92-100. B. VAwTER, Ezekiel and fohn, CBQ 26 (1964) 450-458. J. J. ENz, The Book of Exodus as a lìterary Type far the Gospel of John, JBL 76 (1977) 208-215. 11 Le edizioni critiche (Merk, Nestle - Aland ... ) si limitano a citare ls
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Attilio Gangemi
per conto mio ritengo che il c. 55 del libro di Isaia sia uno dei testi fondamentali ripresi dall'evangelista; oserei dire che esso, opportunamente integrato da altri testi e prospettive dell'AT, costituisca il testo caPdine su cui poggia tutta la prospettiva di fondo del vangelo di Giovanni.
55,1 in margine a Gv 7,37.38. Gli autori in genere propongono la stessa citazione assieme ad altri possibili riferimenti. W. DITTMAR, Vetus Testan1entum in Novo, Vandenhocck & Ruprecht, Gòttingen 1903, 108-130 (per Giovanni), propone l'unico riferimento a Is 55,1 in relazione a Gv 7,37. E. I-IuHN, Die alt testamentlisc'1en Citate und Reminiscenzen im neuen Testament, Mohr, Tiibingen 1900, 70-95 (per Giovanni), oltre Is 55,1 per Gv 7,37.38, cita anche, assieme ad altri testi messianici, Is 55,5 per Gv 10,16a. Is 55 non ha un posto centrale in alcuni studi più specifici. Così C. F. BuRNEY, Our Lord's old Testanient Reference in John 7,37.38, Exp s. 8 20 (1920, 1922) 385·388. Inoltre C. K. BARRETT, The Old Testament in the fourth Gospel, JTs 48 (1947) 155·169. S. H. HooKE, "The Spirit was noi yet", Nrs 9 (1962-1963) 372-380, ammette per Gv 7,37s un possibile riferimento a Is 55,1 (p. 378) ma, con Origene, ammette anche un riferimento a Pr 5,14 e 9,4. Ancora E. D. FREED, Old Testament Quotations in the Gospel of John, Brill, Leiden 1965. Un confronto con Is 55,1-3 è stabilito pure da A. PINTO DA SILVA, Giovanni 7,37·39, Sai 45 (1983) 575·592. Is 55,J.ll non è mai citato da R. MoRGAN, Fulfillnient in the fourth Gospel; the old Testa1nent foundations, Intcrpr 11 (1957) 155·165. Nemmeno M. C. TENNEY, The Old Testa· ment and the fourth Gospel, Bs 120 (1963) 300-308, fa alcun riferimento a Js 55. Più interessante potrebbe essere D. R. GRIFFITHS, Deutero-Isaiah and the fourth Gospel: some points of comparison, ExpTim 65 (1954) 355.360. In realtà non propone un preciso confronto tra i testi del Dt-Isaia e Giovanni. L'unico richiamo utile al nostro scopo è a Is 55,4.5, uno dei testi che esprimono la concordanza di una prospettiva di missione universale nel Deutero·lsaia e Giovanni (cfr. anche ls 42,14.6; 45,22.23; 49,6; 52,10.13·53, 12; 54,5). Più vicino è F. W. YouNG, A Study of the relation of Isaiah to the fourth Gospel, ZNw 46 (1955) 215·233, che nota (p. 228) la relazione tra Gv 6,33 e Is 55,10. Inoltre anche con Gv 6,38 e 19,30: «we recali the promise of I saiah that the pfjµa, will return aftcr the completion (uuv'tEÀ.e:i:v)» di tutto ciò che Dio ha voluto (Ocra fiì'h~À:r1cra). Infine il riferimento a Is 55,1 per Gv 7,37.38 è notato talora anche dai commen~ tari. Cfr. per es. C. K. BARRETT, The Gospel according to St. lohn, SPCK, London 1955, secondo cui (p. 327) in Gv 7,37 c'è una indiretta allusione a Is 55,1. Ma E. HosKYNs - F. N. DAVEY, The fourth Gospel, Faber and Faber, London 1947, nella prospettiva della ricerca del Signore, per Gv 7,31.36, oltre Dt 4,29 e Os 5,6, cita anche Is 55,6.
Utilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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I. IL C. 55 DEL LIBRO DI ISAIA
Il c. 55 .del libro di Isaia 12 , nella sua globalità, non si presenta unitario 13 : alcuni elementi del testo rivelano una pluralità di aggiunte reinterpretative, dovute forse a diverse mani, in diverse epoche, che in se stesse offrono degli elementi bellissimi, teologicamente profondi e di alta spiritualità, ma che impediscono di cogliere uno svi1uppo organico e una tematica unitaria in tutto il c. 55. 1. vv. 1-3 la. Orsù, chiunque è assetato, venite all'acqua e chi non ha denaro venite; 12 Gli studiosi non unanimemente attribuiscono il c. 55 del libro di Isaia all'opera del Deutero-Isaia. Cfr. K. ELLIGER, Deuterojesaja in seinem Verhiiltnis zu Tritojesaja, Kohlhanuner, Stuttgart 1933, che attribuisce i cc. 54.55 al Terzo Isaia: «[ ... ] auch Jes 54 und 55 stammcn von Trtjes [ ... ]» (pp. 163.167). Il Terzo Isaia, durante ancora l'esilio babilonese, avrebbe rielaborato gli oracoli del Dcutcro-Isaia, inserendovi delle parti sue proprie (cc. 40-55), unendoli poi alla sua opera post-csilica dci cc. 56-66. Secondo R. F. MELUGIN, The forn1ation of I saiah 40-55, Walter de Gryter, New York 1976, Is 55,6-13 richiama l'inizio (Is 40,lss) e costituisce l'epilogo di tutto il libro del Dcutero-Isaia (p. 175). Cfr. anche A. BoNORA, Isaia 40-66, servo di Dio, popolo liberato, Qucriniana, Brescia 1988, 24. Il Bonora fa rientrare i vv. 1-5 nel cosiddetto 5° discorso: la gloria di Gerusalemme (52,13-55,5) (pp. 63-64). In ogni caso bisogna porre una divisione tra il c. 55 e il c. 56. Il c. 56 non viene infatti considerato nell'opera di K. PAURITSCH, Die neue Gen1einde: Gott san1melt Ausgestossene und Ar1ne (Jesaia 56-66), Prn, Rome 1971. 13 Classicamente il capitolo è stato diviso in due parti: 1-5 e 6-13. Cfr. K. MARTI, Das Buch lesaja, Mohr, Tiibingen 1900, che individua nei vv. 1-5 due strofe in quattro distici, e nei vv. 6-13 tre strofe in quattro distici (6-9.10-11.12-13) (p. 359). Inoltre B. DUHM, Das Buch Jesaja, Vandenhoeck & Ruprecht, GOttìngen 1914, 384-388. I vv. 1-5 contengono l'invito agli assetati e agli affamati, la promessa di un patto eterno e la benevolenza a Davide. I vv. 6-13 parlano del piano di Dio, incomprensibile agli uomini, ma portato a compimento dalla Parola di Dio. Invece H. FREY, Das Buch der Weltpolitik Gottes, Kapitel 40-55 des Buches Jesaja, Calwer Verlag, Stuttgart 19544, 282-285, distingue tre parti: 1-5 (il patto eterno); 6-11 (!"eterna Parola di Dio); 12-13 (l'eterno ricordo). Secondo K. WESTERMANN, Das Buch lesaja, Kap. 40-66 Ubersetzt und erkliirt, Vandenhoeck & Ruprecht, GOttingen 19702, 226-227, bisogna distìnguere tra 1-3a e 3b-5.
Attilio Gangemi
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lb.
comprate e mangiate (venite e comprate) senza denaro e senza prezzo vino e latte. 2a. Perché spendete denaro in ciò che non è pane e attingete a ciò che non sazia (lett. in ciò che non a sazietà)? 2b. Ascoltate attentamente me e mangerete bene e si delizierà nel grasso la vostra anima. 3a. Porgete le vostre orecchie e venite a me; ascoltate e vivrà la vostra anima; 3b. e stipulerò per voi una alleanza eterna, la benevolenza di Davide fedele. Il v. la, nella prima parte, contiene una esortazione a chiunque è assetato a venire all'acqua 14 • Nella seconda parte invece insiste sul tema della gratuità: deve venire anche chi non ha denaro; l'acqua è una realtà non acquisita, ma donata 15 • Le sole condizioni richieste per ottenerla sono avere sete e accedervi; nessuno è escluso. Le due parti del verso sono strettamente legate e accostano i temi dell'acqua e della gratuità 16 • Non c'è discriminazione a riguardo dell'acqua, ma emerge il carattere del dono gratuito. Il verso seguente !b è aggravato di due parole: «venite e comprate», che sono una chiara aggiunta che riprende l'ultima
14 Kol- sa1ne' (chiunque è assetato). I LXX omettono l'esortazione iniziale h6y (orsù) e traducono oì. ùLtVWv"tEç (gli assetati). C'è uno spostamento di accento dalla universalità (TE) alla qualità (LXX). 1s In lb si propone di leggere non «colui al quale non è denaro>}, ma <<colui al quale non è forza (K6"h))). Questa diversa lettura determina uno spostamento di accento: si insiste non più sulla gratuità della acquisizione, ma sulla capacità della venuta. Nessuno sarebbe escluso dalla venuta: vengono, non solo i forti, quelli cioè che hanno forza, ma anche quelli che non hanno sufficiente capacità. Tale mutazione testuale però non è assolutamente necessaria. Subito dopo infatti si riprende il tema della gratuità; né la ripetizione del termine Kesef disturba il testo. 16
Si può notare nel testo uno schema concentrico:
venite all'acqua e colui ... non è denaro
venite
tema del dono gratuito tema dell'acqua
[Jtiliz.zaz.ione (fel c. 55 di Isaia in Giovanni
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parola del v. la e la prima del v. !b, nello stesso ordine. Essa disturba il verso che, senza quelle parole, risulta costruito molto bene 17 • Il v. lb presenta un progresso rispetto al precedente: l'oggetto da acqui,sire non è soltanto l'acqua, ma anche il vino e il latte. Il v. 2a cambia ancora la prospettiva: non emerge più il tema dell'acquisizione gratuita; ma quello di evitare una spesa sconsiderata, fatta senza una reale utilità: non ha senso spendere denaro in ciò che non è pane e il frutto della propria fatica 18 in ciò che non sazia 19 • E·n1erge così un forte contrasto tra quello che ]'uomo dovrebbe ed è invitato a procurarsi e quello che di fatto si procura. Ma il contrasto è ancora più sottile. Per procurarsi ciò che non è pane e non sazia, cioè per procurarsi delle cose vane, l'uomo deve spendere denaro e dare il frutto della propria fatica. Colui che invece invita, molto probabilmente Dio dal contesto 20 , gratuitamente dona il pane e ciò che realmente sazia. Allo spendere denaro per ciò che non giova, si contrappone il dono gratuito di cose buone da parte di Dio. Anche in questo senso si ha un progresso e un ulteriore elemento di cibo: dal vino e latte si passa al pane e, negativamente, per contrapposizione, a ciò che non sazia. Due ilnperativi (comprate-mangiate) due espressioni negative (senza denaro-senza prezzo) due oggetti (vino-latte) Ma tutti gli elementi possono essere stn1tturati secondo uno schema concentrico: verbi comprate e mangiate modo senza denaro modo senza prezzo oggetti vino e latte Tale schema sottolinea ancora di più l'aspetto della gratuità. rn Questo è il senso dcl termine 1vygy'akem. 19 f<sab"'ah; lett. a sazietà, ]o Secondo C. R. NORTH, Isaiah 40-55, SCM Press Lro, London 19665, 1-17-148, nei vv. l-3a potrebbe parlare un profeta; ma debbono però essere riferiti a Dio perché sono inseparabili dai vv. 3b-5 dove chiaramente è Dio che parla. Cfr. J. L. McKENZIE, Second Jsaiah, Doubleday & Company, New York 1968, 143, secondo cui parla Dio; eccetto nei vv. 6.7 che contengono una interruzione del profeta. 17
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Attilio Gangemi
Il v. 2b sembra costituire il culmine ,della strofa. Nel primo semiverso troviamo un comando molto forte e accorato, quasi perentorio 21 : «ascoltate attentamente». Questa è la vera realtà necessaria: ascoltare il Signore, ascoltarlo attentamente e intensamente, aprire il cuore alla sua voce. L'ascolto di Dio dete!'Illina due effetti che si veòficano nell'uomo. Il primo è espresso nella prima parte .dello stesso verso: «mangerete bene» 22 ; l'ascolto di Dio è paragonato quasi ad un lauto banchetto. Il secondo effetto invece è espresso nella seconda metà del verso; non è diverso dal primo, ·ma solo una es1plicitazione di esso: «si sazierà di vivan,da grassa la vostra anirna». Niente può nutrire e saziare più dell'ascolto di Dio. A questo ascolto si riconducono tutti i commestibili sopra citati: acqua, vino, latte, pane. Esso costituisce non solo il òbo essenziale alla vita umana, ma anche quello che sazia veramente l'uomo. Questi primi quattro versi (la. lb. 2a. 2b) si riferiscono ad un solo soggetto espresso all'i,nizio: «chiunque è assetato». Esso costituisce il punto di partenza e la prospettiva iniziale del brano, che è quella dell'assetato"- Subito dopo però la prospettiva cambia: non si parla più dell'assetato, ma dell'affamato, anche se questa parola esplicitamente non compare. Subito dopo infatti non si legge il venbo bere, come era più logico attendersi, ma il verbo mangiare, e gli elementi menzionati servono a saziare più la fame che non la sete 24 • Le due necessità fondamentali dell'uomo: bere-mangiare, esprimono bene la necessità e l'efficacia dell'ascolto di Dio nella vita umana". Il tema
21 L'imperativo (sim'·'U), seguito da un infinito assoluto, può esprimere la forza del comando, ma può anche esprimere l'intensità dell'azione: ascoltare attentamente. 22 Si riprende il verbo 'akal del 2° verso (lb). 23 Cfr. anche la menzione dell'acqua. 24 I LXX però leggono nlE't'E (bevete). Le altre versioni greche (Aq. Simm. Th.) conservano il verbo originale mangiate (cpciyE"t'E). 25 Possiamo anche notare lo sviluppo degli imperativi: 1. Venite aJI'acqua 2. co1nprate e n1angiate che culminano e quasi sono compendiati nell'imperativo ascoltate. Que~
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centrale di questi quattro versi perciò è l'ascolto di Dio, descritto probabilmente in due momenti, come suggeriscono e esprimono le due immagini diverse. La stessa predisposizione all'ascolto della Parola è presentata con l'immagine dell'andare ali' acqua. L'accoglienza della Parola è presentata con l'immagine del comprare e mangiare. Il v. 3a scaturisce dal v. 2b e, assieme al seguente v. 3b, costituisce un reale progresso e perviene ad ulteriori conclusioni 26 • Esso presenta quattro espressioni: aprite le vostre orec-
chie -
venite a me -
ascoltate -
vivrà la vostra anima 27 •
Queste quattro espressioni stanno in un rapporto progressivo: porgete l'orecchio: indica la predisposizione esterna all'ascolto, che richiama però quella interiore;
st'ultimo imperativo sta in relazione soprattutto con il primo per il carattere di movimento che entrambi presentano: venite all'acqua ascoltate a 1ne L'ascolto di Dio è paragonato all'andare all'acqua. Più precisamente l'immagine sarebbe la scguen te: come si va a Il 'acqua perché si ha sete e si beve, così, assetati dalla Parola di Dio, si va a Dio e lo si ascolta. Sì è notato però che l'immagine non continua con l'azione di bere, ma si passa all'azione di mangiare. u. K. MARTI, op. cit., considera il v. 3a come una glossa. Cfr. anche B. DUHM, op. cit., 385. n II secondo, il terzo e il quarto elemento sono debitori ai versi precedenti. L'espressione venile a me richiama i due imperativi del v. 1 venile, soprattutto il primo che è seguito pure da un complemento di moto a luogo: venite all'acqua. Con quest'ultimo, l'imperativo del v. 3 presenta una più stretta relazione: venite all'acqua venite a me C'è quasi una identificazione tra Dio e l'acqua. Questa identificazione non sarebbe nuova nell'AT (cfr. Ger 2,13; 17,13), ma probabilmente l'identificazione più vera è tra l'acqua e la Parola di Dio, per dissetarsi della quale bisogna, come alla fonte, andare a Dio. L'imperativo ascoltate chiaramente riprende lo stesso imperativo del v. 2b. Anche il termine anima (le vostre anime) era stato già usato nel v. 2b. Si ha però un progresso: nel v. 2b si parlava dell'anima che si sazia di vivanda pingue; nel v. 3a si parla dell'anima che vive.
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Attilio Gangemi
venite a me: indica il movimento concreto alla ricerca della Parola di Dio 28 ; ascoltate: esprime l'attività di chi giunge a Dio e accoglie la sua Paro]a; vivrà la vostra anima 29 : la vita è la conseguenza e l'effetto che l'ascolto della Parola ·produce nell'anima. Quest'ultima espressione sembra essere il vero culmine di tutta la strofa. Il v. 3b manifesta l'intenzione di Dio di volere stipulare 30 con il suo popolo una alleanza eterna, che è stabile •per sempre e non viene mai meno. Quest'ultima espressione «stipulerò una alleanza eterna» non esprime succesisione rispetto aJla frase precedente, ma la spiega. La vita delle anime è determinata dal fatto che Dio stipula una alleanza eterna. L'ascolto da parte del! 'uomo determina, da parte di Dio, la stipulazione di una alleanza eterna, in forza della quale l'uomo vive. Questa alleanza eterna è caratterizzata come «le benevolenze di Davide fedeli». Quello che Dio intende fare è far sussistere la benevolenza promessa a Davide, far rivivere le sue promesse (2Sam 7,1216) 31 • In altre parole, Dio intende suscitare ancora Davide (Ez 37,24-26; cfr. Ez 34,23-25; Sai 89,27-38) come perno e fondamento di una alleanza eterna che stipula con un popolo che lo ascolta e che, in forza di questo ascolto, è pervenuto alla vita. In sintesi, la tematica emergente in questa prima parte (vv. l-3) 32 è la seguente: Dio si rivolge al suo popolo assetato e lo esorta ad andare all'acqua, cioè ad andare a lui e mettersi in
is Si può notare la congiunzione che lega i due imperativi «porgete
[. .. ] e venite)). Essa introduce il secondo imperativo come una conseguenza del primo: la vera predisposizione all'ascolto implica necessariamente l'accedere a Dio per ricercare la sua Parola. 29 La vivanda pingue di cui, secondo il verso precedente, si sazia l'anima, è addirittura la vita. 30 Il verbo w'ekr"tah è una forma di coortativo che esprime l'intenzio-ne di Dio, in nome della quale egli chiama il suo popolo ad andare a lui a dissetarsi della sua Parola. 31 Cfr. J. F1scHER, Das Buch Jsaias, Peter Hanstein, Bonn 1937, 146, secondo cui è generalmente ammessa una allusione a 2Sam 7,8-16. J2 I tre versi testuali in cui questa prima parte è contenuta, possono considerarsi una strofa con tre distici (la.lb/2a.2b/3a.3b).
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ascolto di lui e della sua Parola. Non si tratta pePCiò di sete reale ma, metaforicamente, di sete della Parola di Dio. Da questo ascolto scaturiscono per l'uomo degli effetti benefici, descritti con le metafore del vino, del latte, delle bevande grasse che, in ultima analisi, culminano nel dono della vita. Alla gratuità del dono di Dio si contrappone la stoltezza dell'uomo che spende denaro, frutto della propria fatica, in ciò che non è pane e in ciò che non sazia. Emerge così anche il tema della gratuità, sottol1neata dal fatto che deve venire anche chi non ha denaro. Chi va a Dio riceve gratuitamente, perché Dio non è un Dio che riceve, ma che .dona. L'insistenza sulla esclusione di denaro tradisce un wspetto polemico. Forse si sottintende la polemica contro gli idoli, frequente nel Deutero-Isaia, i quali non donano nulla ma che, al contrario, esigono molti beni dell'uomo per potere semplicemente esistere come simulacro (Is 40,20; 44,9; 45,16; 46,5-7; Sai 115,4-8). Il popolo del Signore, soprattutto negli ultimi tempi dell'esilio babilonese (fo 40,27), ebbe sfiducia nel proprio Dio e la ripose invece negli idoli, per costruire i quali doveva spendere il suo denaro in oro, argento, legname. Il contrasto tra Dio e gli idoli nel nostro testo si sottintende efficacissimo. Dio dona senza chiedere nulla; l'idolo invece chiede tutto senza donare nulla; chiede persino la propria esistenza. Ma adesso Dio intende riprendere e consolidare definitivamente le promesse fatte a Davide, che sembra volere costituire perno (Ez 37,24-26) di una alleanza eterna, che vuole ristabilire con il suo popolo, deluso dagli idoli nei quali aveva riposto la sua fiducia. Lo richiama a sé, lo esorta ad ascoltare la sua Parola, lo vuole saziare dei suoi beni che, in ultima analisi, si identificano con la vita. La parafrasi targumica reinterpreta questo testo nella prospettiva dell'insegnamento 33 • L'assetato diventa colui che desiJJ Non potendo riportare il testo nella lingua e nei caratteri originali, propongo una versione del testo aramaico: la: «Orsù, chiunque desidera imparare (DznJ LMJLF), venga e impari (WJ.JLF), e colui al quale non è denaro, lb: venga, ascolti e impari (W'JLFW) senza prezzo e senza denaro l'istruzione ('LFN), poiché è migliore del vino, e del latte».
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dera imparare. Il vino e il latte che nel testo originale sarebbero
il diretto oggetto dell'acquisto, nel targum diventano un oggetto -di paragone. L'oggetto diretto rimane l'istruzione, che è migliore del latte e del vino. Nel v. 2 il targum non presenta molte differenze rispetto al testo ebraico 34 ; ma le poche sono significative. La parola pane, realtà materiale e concreta, è sostituita dall'espressione più generica ciò che si mangia; in conformità alla sua prospettiva, che è l'insegnamento, la parafrasi aramaica evita qualsiasi immagine materiale 35 . La 1differenza più importante però è l'introduzione del termine MYMRY (la mia parola), che sostituisce la menzione della stessa persona di Dio 36 • Nella prospettiva globale dell'insegnamento proposto dalla interpretazione targumica, il soggetto centrale è la Parola di Dio, che è il Maestro a cui bisogna andare per imparare, il cui insegnamento è migliore del vino e .del latte. Nel v. 3 il targum presenta una sola ·mutazione im·portante, non ·nuov·a del resto, ma operata già nel v. 2 37 ; l'espressione del testo originale «porgete l'orecchio e ascoltate me» diventa «porgete l'orecchio e ascoltate la mia Parola» 38 • Tutte queste differenze tra il testo originale e la parafrasi targumica sono importanti per cogliere bene la prospettiva in cui il vangelo di Giovanni utilizzerà questo testo del libro di Isaia. Tra le tante differenze, più marginali per il nostro scopo, proposte dalla versione greca dei LXX, una sola, già notata, emerge più importante. Mentre il testo originale nel v. I scrive: «Comprate e mangiate», la versione dei LXX ·propone: «Com1prate
J4 «Perché spendete denaro in ciò che non può essere mangiato (BL' LMJKL) e la vostra fatica in ciò che non sazia?)). «Ascoltate diligentemente la mia Parola (LMJMIU) e mangerete ciò che è buono e le vostre anime si sazieranno di pinguedine)). Js Dopo si parla anche nel Targum di pinguedine; ma questa parola può avere un senso più metaforico, riferibile perciò anche all'insegnamento. 36 TE: «ascoltate me»; Targum: «ascoltate la mia Parola». 37 Dove l'espressione «venite a me» era diventata {{ascoltate la mia Parola».
38 WQBJLW LMJMRJ.
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e bevete (-n:lEi:E) 39 . Le versioni greche di Teodozione, Aquila e Simmaco, più in relazione con il testo ebraico, leggono: mangiate (q>ciyE't"E). Mentre in 3a il testo ebraico scrive: «porgete le vostre orecchie e venite a me e ascoltate», i LXX scrivono: «[ ... ] seguite le mie vie e ascoltate» 40 • 2. vv. 4.5 4. Ecco testimonianza per i popoli l'ho costituito, capo e comandante per le genti. Sa. Ecco un popolo che non conoscevi chiamerai e popoli che non ti conoscevano a te aocorreranno, (a causa di Iahvè tuo Dio) [e al Santo di Israele poiché ti ha adornato]. La difficoltà del testo del v. 4 sta nel fatto che l'interlocutore a cui il soggetto si riferisce è espresso non alla 2· pernona, ma alla 3" persona: «l'ho costituito» 41 • Chi parla <Sembra essere la stessa persona dei versi precedenti, cioè Dio e l'interlocutore, presentato alla 3· persona singolare dovrebbe essere, almeno nell'attuale contesto, Davide, menzionato nel verso precedente. Così Dio avrebbe costituito Davide una testimonianza ('ed) per i popoli, comandante e principe per le nazioni 42 • Non si spiega però in che senso Davide sarebbe una testimonianza per i popoli 43 . In realtà il v. 4 sembra introdurre una nuova idea riI codici BLC scrivono però però cpci::yE'"t"E (mangiate). Per le versioni di Aquila, Simmaco, Teodozione, gli Hexapla di Origene riferiscono solo l'espressione npòç µE· C'è da pensare che, come il testo ebraico, in queste versioni doveva precedere un verbo di movimento: «venite a me)). 41 La versione siriaca armonizza il testo traducendo «ti ho costituito». 42 Negano però in genere gli autori che il profeta pensi ad una restau~ razione della monarchia davidica. Forse sarebbe una leadership spirituale che da Davide si trasferirebbe ad Israele. Cfr. C. R. NORTH, op. cit., 147, 148; J. L. McKENZIE, op. cit., 144: l'eternità del patto con Davide è trasferita ad Israele, a cui sono anche trasferiti i titoli di Davide. 43 Secondo J. FISCHER, op. cit., 147 Davide sarebbe testimone in quanto, avendo sottomesso i popoli, ha mostrato la potenza di Dio. Così pure Israele al tempo della salvezza dominerà le nazioni, non però politicamente, ma religiosamente. E. KrssANE, The Book of Isaiah, The RiChview press, Dublin 1943, nota che il v. 4 spiega il carattere della promessa a 39
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spetto al brano precedente, dove Dio esortava il suo popolo ad andare a lui, ascoltare lui, per 'Stipulare una alleanza eterna. Esso non sembra contenere uno sviluppo tematico del brano precedente, la cui prospettiva è futura, mentre il misterioso interlocutore del v. 4 appare già insignito della missione di testi· mane e di capo nei confronti dei popoli 44 • In ogni caso, il v. 3b, già completo in se stesso, in nes,sun modo esige lo svilup· po del v. 4 45 • Il v. Sa, rispetto al v. 4, come si è notato, presenta identico inizio 46 e prospettiva analoga: il rapporto con i popoli 47 • Esso narra quasi un vero e proprio miracolo: nonostante la non conoscenza, si crea un rapporto reciproco tra il misterioso personaggio e i popoli: l'uno chiama, gli altri accorrono 48 • C'è però un mutamento molto forte rispetto al verso precedente: dalla 3" persona singolare «l'ho costituito» si passa alla 2" persona singolare 49 , si passa cioè al dialogo diretto personale. Ciò de· termina u·na cesura tra i due versi, nonostante che chi parla sem1bra esere la stessa ·persona del verso precedente, nonostante lo stesso inizio e nonostante la prospettiva analoga.
Davide, che ora deve realizzarsi: l'incorporazione delle nazioni nel regno. Questa promessa non è contenuta nella profezia di Natan (2Sam 7,8), ma Davide è testimone che Dio realizzerà la promessa del v. 5, che a lui è rivolta, non al popolo di Israele. 44 Nel v. 3 Davide è presentato in rapporto all'alleanza eterna che Dio intende istaurare con il suo popolo. Qui invece, nel v. 4, l'anonimo personaggio diventa il soggetto logico centrale. 45 Il personaggio del v. 4 sembra richiamare, con tutte le differenze, la figura del Servo, costituito da Dio «Luce delle nazioni» (Is 49,6). 46 «Ecco un popolo [ ... ]». 47 Compare il termine g6j ripetuto due volte. > 48 La parafrasi targumica qui modifica il testo. Scrive: {{Ecco un popolo che non conoscevi ti serviranno (TE: a te accorrono)». Il Targum sottolinea non la reciproca relazione di incontro, come il testo ebraico, ma la sottomissione dei popoli. Del resto anche il v. 4 è reinterpretato nella parafrasi targumica in chiave di regalità, più in linea con la menzione di Davide nel v. 3: «ecco capo (TE: testimone) l'ho assegnato; re e do~ minatore su ogni regno (TE: ai popoli)». 49 {{Un popolo che non conoscevi chiamerai e un popolo che non ti conosceva a te accorrerà».
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La difficoltà .però è aocresciuta dal v. Sb, dove si legge la motivazione per cui I'anonimo personaggio chiama un popolo che non conosceva e popoli che non lo conoscono accorrono: «a causa di Jahvè tuo Dio». Questa motivazione intro.duce una diversità di soggetto rispetto ai versi precedenti: nel v. 4 il soggetto poteva essere Dio, ma nel v. Sa, a causa della motivazione del v. Sb, il soggetto non può più essere Dio, ma forse un anonimo profeta. In ogni caso il mutamento di soggetto nei vv. 4.5 è molto brusco. La frase seguente poi «e al Santo di Israele poiché ti ha adornato» non sembra continuare la frase precedente: «a causa di Jahvè tuo Dio» 50 , ma meglio si ricollega al v. Sa 51 , di cui probabilmente è una glossa. Un lettore, leggendo il v. Sa «un popolo che non ti conosceva [ ... ] » avrebbe inteso questo verso riferito a Sion (cfr. cc. 60.62) e volle specificare che questo popolo accorre non solo a Sian, ma anche al Signore, causa del suo splendore 52 • Probabilmente i vv. 4.Sa dovevano essere all'origine un distico indipendente, forse riferito a Sian 53 • Il soggetto che parla ·è Dio: egli ha costituito Sian testimonianza e principe per i popoli. Sion chiamerà genti che non conosceva e popoli che non la conoscevano accorreranno. Poi il distico fu inserito dopo i vv. 1-3 e fu riferito a Davide 54 •
so Nella frase «a causa di Jahvè tuo Dio» l'espressione f<ma'an introduce una proposizione causale. Nella frase «e al Santo di Israele» la particella l' esprime di più un movimento verso. s1 «Un popolo che non ti conosceva a te ('elejka) correranno [ ... ] e al ze Santo di Israele». s2 La frase di Sa «a causa di Jahvè tuo Dio» rimane incompleta. Probabilmente è anche un'aggiunta. 53 Difficilmente la tematica del v. Sa può riferirsi a Davide. Essa richiama meglio la tematica dei cc. 60.62 di Isaia e anche la tematica di Is 2,2-4. 54 La 2" persona singolare «ti ho costituito)) è mutata nella 3a persona singolare (l'ho costituito). Ma questo adattamento smembrò le due frasi del distico. Il v. Sa, diviso dal v. 4, rimase incompleto e un glossatore volle completare aggiungendo la frase «a causa del Signore tuo Dio)). Un altro glossatore volle specificare che i popoli non solo vanno a Sian, ma anche ili Santo di Israele.
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6. 7a. 7b. 8. 9.
lOa. lOb. lOc. 1 la. llb.
3. vv. 6-11 Cercate il Signore mentre egli si fa trovare; invocatelo mentre egli è vicino. kbbandoni l'empio la sua via e l'uomo iniquo i suoi consigli; e torni al Signore e avrà misericordia di lui e al nostro Dio poiché è largo a pendonare. Poiché non (sono) i miei consigli i vostri consigli e non le vostre vie le mie vie. Oracolo del Signore. [Poiché come dista il cielo dalla terra, così di·stano le mie vie dalle vostre vie e i miei consigli dai vostri consigli]. Poiché così come scende la pioggia e la neve dal cielo [e là non torna senza avere irrigato la terra (e la fa genminare e la fa fruttificare, e dà seme al seminatore e pane a colui che mangia)], così sarà la mia Parola che esce dalla mia bocca; [non torna a me vuota, ma compie ciò che ho voluto (e porta a compimento ciò per cui l'ho mandata)].
Nel v. 6 leggiamo una frase che in nessun modo continua
il verso precedente. Contiene la duplice esortazione a cercare e invocare il Signore; sottolinea però che la ricerca e l'invocazione ·non avvengono nell'incerto, ma sono la logica conseguenza di due condizioni già realizzate da parte di Dio: egli si fa trovare, e perciò bisogna cercarlo; egli è vicino, perciò bi1sogna i·nvocarlo 55 • Il Signore non è nascosto, ma si lascia trovare; non è lontano, ma è vicino. Questo è il vero annunzio ·del verso, chia-
ss Le due premesse sono espresse in ebraico all'infinito costrutto con il «b"» circostanziale (b"himmaz•'ò - b''hCjot6). Possiamo tradurle: nel suo lasciarsi trovare - nel suo essere (vicino). Il Targum muta completamente la prospettiva del testo. Esso si esprime così: «cercate il Signore mentre vivete - implorate al suo cospetto mentre esistete». Ciò significa che se ci si imbatte nella morte, sarà troppo tardi per cercare il Signore.
[!tiliz.z.az.ionc dcl c. 55 di Isaia in Giovanni
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ramente fatto da un anonimo profeta che esorta il popolo a fare la sua parte 56 • Il v. 7 comprende un distico con due versi paralleli (7 a. 57 7b) ; entrambi iniziano con una forma esortativo-iussiva: abbandoni (7a), torni (7b). In 7a l'esortazione è di indole negativa: l'empio è esortato ad abbandonare la sua via e l'uomo iniquo il suo consiglio 58 • Il v. 7b invece contiene l'a~petto positivo dell'esortazione: non basta che l'empio negativamente abbandoni la sua via e il suo con·siglio, ma positivamente occorre che torni al Signore. D'altra parte non può tornare al Signore ,ge prima non abbandona la sua via. Il ritorno al Signore, con il conseguente abbandono della propria via, è giustificato e quasi affrettato dal fatto che Dio ha misericordia di colui che abbandona la sua via e torna a lui. Questo atteggiamento personale di Dio verso il peccatore che torna, espresso nella prima parte del v. 7b, corrisponde e si fonda su un aspetto oggettivo di Dio stes•so: egli è grande a perdonare, per questo usa misericordia verso il peccatore che torna a lui 59 • Il distico contenuto nel v. 7 tema-
56 Pur non appartenendo ai versi precedenti, il v. 6 è un ottimo verso poetico. I due semiversi presentano un certo parallelismo: entrambi hanno un imperativo alla 2° persona plurale e un'espressione circostanziale all'infinito costrutto: cercale il Signore invocatelo 1~el suo essere vicino nel suo lasciarsi trovare
Che questo verso non continui i versi precedenti, appare, oltre che dal fatto che non è Dio che parla ma un profeta, anche dal fatto che il destinatario non è una persona singola (individuale o collettiva) interpellata alla 2a persona singolare, ma una pluralità, interpellata alla 2~ persona plurale. 57 Il v. 7 talora è ritenuto una glossa, perché non si adatterebbe bene ai vv. 6-8. Cfr. K. MARTI, op. cit., 359; B. DUHivl, op. cit., 387; mentre il v. 9 prosegue il V. 8. Anche K. WESTERMANN, op. cit., 231. Al contrario J. FISCHER, op. cit., 147, secondo cui il v. 7 sta in connessione con il v. 8. 58 Anche in questo verso troviamo due parti parallele, in parallelismo sinonimo: il malvagio I 'uomo iniquo la sua via il suo consiglio 59 Il rapporto tra la realtà oggettiva di Dio di essere grande nel per~ donare e il suo rapporto personale verso il peccatore che torna a lui,
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ticamente non è lontano dal v. 6, anzi sembra esserne uno svi-
luppo. Ma il legame tra il v. 6 e il v. 7 è solo tematico, non letterario. Il v. 6 esorta a cercare il Signore, a invocarlo; il v. 7 contiene invece l'esortazione all'empio ad abbandonare le proprie vie e tornare al Signore "'. Il v. 8 introduce ancora qualcosa di diverso. Parla Dio e contrappone le sue vie a quelle degli uomini: le sue vie non sono quelle degli uomini, del suo popolo; né i loro disegni sono i suoi disegni 61 • Il verso è molto solenne 62 e, benché sia introdotto dalla particella "Ki" causale, in nessun modo segue lo sviluppo del verso precedente. Inoltre, pur affermando la non identità delle vie e dei consigli di Dio rispetto a quelli degli uomini, il verso non spiega in che cosa consiste questa totale diversità 63 . emerge anche dal parallelismo con cui le due parti del v. 7b sono costruite. Lo iussivo iniziale: torni, è seguito dai seguenti elementi paralleli: Al Signore - Al nostro Dio; moto a luogo (parallelismo sinonimo) ha niisericordia di lui - è grande nel perdonare. Questi due elementi esprimono invece un rapporto complementare e stanno in parallelismo sintetico. La struttura del v. 7b corrisponde a quella del v. 7a. oo Il Targum nel v. 7 propone solo due parafrasi di indole secondaria. Il testo ebraico scrive: ({torni al Signore»; il Targum propone: «torni al servizio del Signore}>. Inoltre, mentre il testo ebraico, subito dopo, scrive <<e al nostro Dio», il testo aramaico parafrasa «al timore del nostro Dio». 6l Il verso è costruito in due parti che stanno tra di loro in paralle· lismo: non non le vostre vie i miei disegni le mie vie i vostri disegni Dal punto di vista dei soggetti i quattro elementi sono strutturati in mndo concentrico: (I;• persona singolare) i miei disegni i vostri disegni (2" persona plurale) (2" persona plurale) le vostre vie • (l" persona singolare) le mie vie 62 La solennità emerge anche dalla conclusione tipica profetica «Ora· colo del Signore)}. 63 Il Targum invece scrive «e non le vostre vie sono giuste come le vie della mia bontà». Il rapporto cambia: Dio è giusto e buono; l'uomo invece è ingiusto e cattivo.
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Il v. 9 è molto lungo. Introduce il paragone della distanza del cielo rispetto alla terra 64 : le vie e i disegni di Dio distano rispetto a quelle degli uomini quanto dista la terra dal cielo, una di•stamJa praticamente infinita. Questo verso, costruito pure secondo un certo parallelismo di frasi 65 , sembra essere un tentativo di spiegare il verso precedente. Nel v. 8 si era parlato della totale diversità del modo di pensare e di agire di Dio rispetto a quello degli uomini e, in particolare, del suo popolo. Il v. 9 esaspera questa diversità, paragonandola alla distanza che c'è tra il cielo e la terra, senza però spiegare ancora in che cosa essa consista 66 • Esso sembra essere una frase aggiunta da un lettore, mediante la quale egli volle spiegare il v. 8 6', che in se stesso non è chiaro: volle precisare il modo di tale diversità, senza però spiegarla. Questo lettore, riprendendo nel v. 9 gli elementi del v. 8 e l'elemento "cielo" del v. 10, sottolineò la diversità che, paragonata alla distanza tra cielo e terra, praticamente è infinita 68 • Nel v. !Oa, mediante la particella "Kì", si introduce un altro verso 69 , che com1prende una proposizione com,parativa, il cui
64 Kf gdb"'Ct: come distano. Si propone di leggere con le versioni all'infinito costrutto comparativo. Il senso però non cambia. 65 Con1e distano così distano. 66 Si può notare che il v. 9, rispetto al v. 8, è molto lungo e non segue la struttura metrica del v. 8, né è possibile togliere qualche elemento. Nella seconda parte il v. 9 riprende all'inverso gli elementi del verso precedente: V.8 V. 9 le mie vie i miei pensieri I i vostri pensieri 1 le vostre vie LI i miei pensieri I L le vostre vie L i vostri pensieri L le mie vie Nel v. 8 il parallelismo è concentrico; nel v. 9 invece il parallelismo è alternato. 67 Il paragone della distanza tra il cielo e la terra può essere stato suggerito dal v. 10 dove appunto si legge la parola "cielo". 68 La parafrasi targumica continua la prospettiva del verso precedente: «così (sono) giuste le vie della mia bontà più che le vostre vie». 69 Secondo C. STUHLMUELLER, Creative Redemption in Deutero~lsaiah, Pie, Rome 1970, 189, questi due versi (Is 55,10.11) sarebbero il culmine,
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secondo termine di paragone si trova poi nel v. 11. Si tratta della pioggia e della neve e della loro manifestazione in terra scendendo dal cielo. Fin qua il paragone non dice nulla; può solo evocare il fatto che la discesa dal cielo della pioggia e della neve e la loro conseguente manifestazione in terra, esprimono la fedeltà stagionale, portatrice benefica di abbondanza"Nel v. !Ob invece si con6idera un altro aspetto complemen" tare: non la discesa della pioggia e della neve dal cielo, ma il loro ritorno in cielo"- Sorprende il verbo al singolare nel v. !Oa "scende", riferito a due soggetti. Ma, posto all'inizio, esso si riferisce direttamente al primo soggetto (pioggia) e, indirettamente, anche al secondo (neve). L'attenzione è più fissata sulla pioggia. Questa, cadendo dal cielo, scende in terra e impregna il terreno. Poi, quando esce il sole, risale dal terreno sotto forma di vaipore acqueo. Ma è evidente che, per risalire, deve essere stata già nel terreno, deve averlo già impregnato e irrigato. Tutta l'attenzione del verso sta proprio nel fatto che la pioggia, calata dal cielo, prima di risalirvi, deve avere irrigato la terra. Così i vv. !Oa e !Ob esprimono due movimenti della pioggia: uno discendente (dal cielo) e uno ascendente (verso il cielo). Tra i due movimenti avviene l'irrigazione della terra. Nel v. !Oc abbiamo un ulteriore ampliamento che descrive tutta l'opera della pioggia che irriga la terra. Due sono soprattutto i suoi effetti progressivi sulla terra: la irriga, la rende feconda, cioè idonea a fruttificare, e la fa germogliare; inoltre nella terra essa, la pioggia 72 , produce dei frutti: dà il seme a colui che non solo dell'epilogo (Is 55,6-11), ma di tutta l'opera del Deutero-Isaia. In essi infatti «the creative power of the Word shines brilliantly». 10 II v. 10 presenta una certa struttura concentrica: scende (verbo) pioggia (soggetto) neve (soggetto) dal cielo (complemento) 71 L'immagine del ritorno della pioggia in cielo sembra essere sug~ gerita dall'esperienza. 72 Il soggetto è la pioggia. NeUa frase ((sicché dia seme al semina~ tare [ ... ]>> il verbo "dare" (nathan) è al maschile, mentre il termine 'erez (terra) è femminile.
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semina e pane a colui che mangia. Si descrive così un bel crescendo dell'efficacia della pioggia nella terra: essa rende feconda J.a terra - la fa germogHare - produce il seme - produce il pane. Notiamo però che il v. lOc né è necessario all'economia dell'immagine del verso precedente, né presenta una precisa struttura metrica sì da essere parte integrante del testo. Probabilmente si tratta di un',aggiunta, mediante la quale nn lettore volle sviluppare gli effetti .della pioggia nella terra. Si ha però un mutamento di prospettiva: il verso precedente insisteva sul fatto che la pioggia, prima di salire al cielo, impregna la terra; quest'ultima frase invece insiste sugli effetti che la pioggia produce nella terra. Nel v. l l troviamo l'applicazione: «Così sarà la mia Parola [ ... ]» 73 . La Parola che esce dalla bocca di Dio è paragonata aUa pioggia che scende dal cielo 74 • Non necessariamente però la Parola di Dio deve raggiungere la terra: può restare in Dio, ma il paragone con la 'pioggia suggerisce che anch'essa scende snlla terra. Si può notare però che il v. I la, nel suo insieme, non corrisponde al v. !Oa: è molto lungo e il metro del verso risulta turbato. C'è però una corrispondenza tra la terza parte del v. I la e la prima parte del v. 11b con il v. lOb 75 • La corri73 Non è necessario personificare qui con J. FISCHER, op. cit., 148, la Parola di Dio, come sarà poi più tardi per la Sapienza nei libri sapienziali. Certo essa appare come la messaggera di Dio che realizza la sua volontà. 74 Tra le due frasi, 1Oa e 1la, si può notare un certo parallelismo: v. !Oa v. Ila così con1e scende così sarà la mia Parola la pioggia e la neve che esce dalla mia bocca dal cielo Il parallelismo non è perfetto, ma pioggia e neve vengono accostati alla Parola di Dio: l'una scende dal cielo, l'altra esce dalla bocca di Dio. Cielo e bocca dì Dio stanno in relazione: da entrambi esce qualcosa. 75 Indicando il testo del v. 11 con lla y e llb a avrem1no il seguente parallelismo: !Ob Ila y llb rJ, e là non torna non torna a me se non (Ki: 'im) se non (Ki: 'im)
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spondenza fa sì che l'ultima parte del v. llb: «e compie ciò per cui l'ho mandata» risulti un'aggiunta, introdotta probabilmente come ampliamento della frase precedente: «Ciò che ho voluto».
Riassumendo, ritengo che nei vv. 8-llb si può individuare un testo originale e due tipi di ampliamento. Il testo originale sarebbe costituito dai vv. 8. !Da. I la a.: v. 8 <<poiché (Kì) i miei ·pensieri non i vostri pensieri e non le vostre vie le mie vie». v. !Da «poiché (Ki), come scende la pioggia e la neve dal cielo». v. !la a «così (Ken) sarà la mia Parola che esce dalla mia bocca)). Il senso di questa strofa di tre versi sembra potersi bEme percepire: la Parola di Dio scende come la pioggia e la neve, immutabile, abbondante, vivificante. In questo senso si capisce bene anche il v. 8: il modo di pensare e di agire di Dio ,sono diversi dal modo di pensare e di agire dell'uomo. Questi non pensa e non fa altro che allontanarsi da Dio, Dio invece non pensa e non fa altro che rendersi presente all'uomo, come la pioggia, mediante la sua Parola. All'infedeltà dell'uomo Dio sembra volere contrapporre la propria fedeltà. In seguito questo testo originale fu ampliato e quasi specificato da due frasi parallele: v. lOb: «e là non torna senza avere irrìgato la terran; v. l laf3: <<non torna a me vuota, senza avere fatto ciò che ho voluto}>.
Si amplia così la prospettiva e si sposta l'accento: la prospettiva non è più solo quella discendente, ma anche ascendente. La pioggia e la Parola tornano dopo avere realizzato il loro ha fatto ha irrigato la terra ciò che ho voluto In questo parallelisn10 anche per la Parola di Dio si stabilisce un movimento ascendente: essa pure torna a Dio. Mentre la pioggia, scendendo dal cielo, prima di tornare, irriga la terra, cosi la Parola dì Dio non torna a lui senza avere realizzato tutto ciò che egli ha voluto.
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effetto. Dalla manifestazione si passa all'efficacia. L'efficacia della pioggia è quella di irrigare la terra, l'efficacia della Parola è queUa di realizzare quanto Dio vuole. Pioggia e Parola sono così accomunati nella duplice parabola: discendente (cielo-terra) e ascendente (terra-cielo). Tra le due parabole si descrive lefficacia di entrambi. Il testo così ampliato divenne oggetto di ulteriore riflessione. Si volle specificare quale fosse questa efficacia. L'efficacia della pioggia è contenuta nel v. !Oc: si descrive tutto l'iter progressivo fino al pane. Più difficile era invece specificare l'efficacia della Parola, per questo ci si accontentò soltanto di aggiungere la frase del v. llb (3: «e porta a compimento ciò per cui l'ho mandata». 4. vv. 12.13 .. I vv. 12.13 sembrano invece descrivere la gioia dell'uscita e della liberazione del popolo del Signore. Non mi fermo a considerarli più specificamente: essi rivelano un'indole diversa rispetto ai versi precedenti 76 • Tuttavia essi sono importanti perché, nel complesso del lavoro redazionale del c. 55 del libro di Isaia, essi sembrano costituire il culmine di tutto il capitolo. Emergono però in questi versi aJcu,ni temi che possono richiamare il vangelo di Giovanni. Anzitutto emerge .il tema della liberazione, espresso dai due verbi al futuro: uscirete - sarete ricondotti. Inoltre sono importanti la menzione della gioia, della pace, del giubilo, che caratterizza l'uscita. Infine è pure ;mportante la menzione del nome che il Signore si è fatto mediante quest'opem di salvezza, la quale rimane un segno eterno che non sarà eliminato. 5. Sintesi dei vv. 6-13 Ritengo di potere individuare nei vv. 6-13 due brevi unità letterarie: 76 Secondo P. AUVRAY -J. STEINMANN, !sale, Du Cerf, Paris 1951, nei vv. 12-13 si riprende il tema della gioia del ritorno e della fecondità del deserto (cfr. Is 41,19; 44,3-4). Inoltre cfr. anche J. L. McKENZIE, op. cit., 145, secondo cui i vv. 12-13 e tutto il c. 55 sono l'ultima parola del Signore e l'ultimo invito ai deportati nel Deutero-Isaia.
30 a.
Attilio Gangemi vv. 7a.7b, che contengono l'esortazione all'empio ad abbandonare le sue vie e tornare al Signore, perché è grande nel perdonare;
1'V. 8. !Oa. !la u., dove si confronta il modo di pensare e agire di Dio con quello diversissimo dell'uomo. Dio non agisce come l'uomo: questi tende ad allontanarsi (vv. 7a.7b), Dio invece si rende vicino mediante la sua Parola. Queste ,due brevi unità letterarie furono redazionalmente collocate sotto il v. 6, che costituisce quasi il verso tematico, alla luce del quale bisogna leggere le due unità letterarie seguenti. Il v. 6 annunzia che Dio si fa trovare e si rende vicino: si manifesta infatti mediante 1a sua Parola (vv. 8. !Oa. lla u.). Inoltre il v. 6 esorta a cercare e .invocare il Signore: per far ciò l'empio deve abbandonare le sue vie (vv. 7a. 7b). Possiamo allora individuare nei vv. 6-13 la seguente unità redazionale: 1. v. 6 : verso tematico: bisogna cercare il Signore mentre si fa trovare e invocarlo mentre è vi,cino. 2. vv. 7a. 7b : l'empio deve abbandonare la sua via (ma deve cercare e invocare il Signore) 3. vv. 8. !Oa. !la u.: il Signore si manifesta mediante la sua Parola (si lascia trovare - è vicino). Questa unità redazionale, come si è notato, ricevette un triplice ampliamento: I. il v. 9, come ampliamento del v. 8. Esso sottolinea ancora di più la radicale diversità tra le vie di Dio e quelle dell'uomo 2. i vv. !Ob. lla[l. 11 bo:, che sottolineano l'efficacia della pioggia e della Parola di Dio. Si •può verosimilmente pensate che questo ampliamento fu fatto per introdurre poi i vv. 12.13 3. i vv. 12.13: la liberazione del popolo e il suo esodo appaiono così in questo contesto redazionale come promessa efficace della Parola di Dio.
b.
6. Sintesi generale Ritengo che il c. 55 ·del libro di Isaia sia un capitolo com-
[!u"/i:_:_o:_io11c di'/ c. 55 di fsoio ill Gio1·01111i
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posito, in cui si possono individuare dei nuclei fondamentali con delle aggiunte posteriori. Il primo nucleo è costituito dai vv. 1-3, che contengono l'invito di Dio di venire a lui e ascoltare, in vista di una alleanza eterna che egli vuole stipulare con il suo popolo. Questi versi sembrano costituire una strofa con tre distici (la.lb/2a. 2b/3a.3b). Il secondo nucleo è contenuto nei vv. 6-11: sotto il v. 6, tematico, vengono accomunate le due brevi unità dei vv. 7a. 7b e 8. IOa. Ila a. Questi due nuclei sembrano stare in un rapporto di domanda e risposta. Nei vv. 1-3 Dio invita a sé per stirpulare una alleanza eterna; nei vv. 6.7.8.10.lla un profeta esorta il popolo a cercare Dio mentre si lascia trovare, perché il suo modo di agire non è quello dell'uomo ma, con la stessa fedeltà della pioggia, egli si rende presente mediante la sua Parola. Le varie aggiunte in questo secondo nucleo ,determinano u.na diversa prospettiva. La tematica fondamentale che emerge è quella della Parola di Dio, che, come la pioggia, scende, porta frutto e realizza quanto Dio vuole. I vv. 12.13, anche se in se stessi di diversa origine e indole, inseriti in questo contesto do·po i vv. 6-11, assumono un nuovo significato: la Parola di Dio salva e libera il popolo. Tra i due nuclei furono inseriti i vv. 4.5, all'origine probabilmente indipendenti. Inseriti in questo contesto, ricevettero una nuova reinter.pretazione e furono riferiti a Davide, menzionato nel v. 3. In questo inserimento e reinterpretazione non sono state evitate delle incongruenze testuali. Due movimenti fondamentali possiamo perciò globalmente cogliere nel brano del c. 55 del libro di Isaia: il cammino dell'uomo invitato ad andare a Dio (vv. 1-3) e il cammino della Parola di Dio che scende e produce effetti di salvezza (vv. 6-11). Questi due movimenti sono importanti per cogliere la prospettiva in cui il vangelo dì Giovanni riprende e utilizza il testo che stiamo considerando.
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Attilio Gangemi Il. IS 55,1-3 E IL VANGELO DI GIOVANNI
I. Cv 7,37-39 Il primo testo e forse quello in cui il riferimento a Is 55, 1-3 risalta con più evidenza è Gv 7,37-39. v. 37: «Nell'ultimo giorno, quello grande della festa, stava Gesù e gridò dicendo: v, 38: se qualcuno ha sete, venga a me e beva, chi crede in me, Come disse la Seri !tura: fiumi dal suo seno scorreranno di acqua viva, v. 39: ciò disse a riguardo dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui. Non ancora infatti era Spirito, perché Gesù non ancora era stato glorificato». La prima espressione delle parole di Gesù «Se qualcuno ha sete" (Mv 'tL<; Ò•<j;Q.) 77 richiama la prima frase del v. 1 del e, 55 del libro di Isaia: «voi tutti assetati» w Nel vangelo di Gio77 L'espressione di Giovanni f<i.v "t'Lç ùt.tVi riprende liberamente il testo di Isaia. I LXX traducono ol Ùt~Wv-re:ç, sottolineando piuttosto la qualità delle persone a cui l'invito è rivolto, che non l'aspetto della universalità sottolineato dal testo ebraico: chiunque è assetato. La versione aramaica, come si è notato, scrive: tutti quelli che desiderano imparare. La sete è identificata con il desiderio di imparare. 78 Il ten1a dell'assetato che da Dio viene saziato con acqua o al quale è pron1essa acqua, compare in molti altri testi dell'AT che possiamo raggruppare in tre categorie: 1. Testi che descrivono o evocano gli eventi del deserto al tempo dell'eso~ do. Il popolo nel deserto ebbe sete; mormorò contro Dio, ma egli fece scaturire acqua dalla roccia, avendo ordinato a Mosè di colpirla con il bastone. Cfr. Es 17,1: «non c'era acqua da bere per il popolo)); v. 2: «dacci acqua perché bevia1no»; v. 3 ((ebbe sete ClOLlj;TJO"EV) lì il popolo di acqua». Dio comanda a Mosè di colpire la roccia (vv. 5.6a); 6b: cce uscirà da essa acqua e berrà il mio popolo)). I termini usati sono: UOwp (n1aim: acqua); rclvw (satah: bere); Ot.l);ciw (za111a': avere sete). Cfr. Nm 20,2-11 (vv. 5.8.11). A questo evento alludono diversi testi nella S. Scrittura: Ne 9,15: «facesti scaturire per essi acqua dalla pietra per la loro sete (e:Lç Ollj;av aUi."Wv))). Cfr. anche il v. 20: (di provvedesti di acqua per la loro sete (LXX: -cQ Oltj;EL aU-rWv)>). Inoltre Sap 11,4: ((ebbero sete (LXX: Èùllj;TJO"av) e ti invocarono e fu data a loro dalla pietra scoscesa acqua e ristoro di sete (LXX: OLtJ;11ç) da una pietra riarsa}>. Inoltre Dt 8,15; Sal 78,16.20: «percosse la
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vanni il verbo lìc<j.iaw, oltre il nostro testo, si legge anche in 4,13.14.15; 6,35; 19,28. Tutti questi usi saranno importanti per la nostra ricerca 79 • Due testi del NT strettamente paralleli a Gv 7,37ss, relazionabili tra di loro, sono Ap 21,6 e 22,17 80 , dove l'autore riprende
rupe e sgorgarono le acque)>; Sal 114,8: «Cambia la roccia il lago, la rupe in fonte di acqua)>, 2. In modo più metaforico, il tema della sete torna in qualche salmo. Sai 42,2: «l'aniina mia ha sete (E:O!.t.l;Y)O"EV) del Dio vivente». L'anima è paragonata alla cerva che anela ai corsi delle acque (v. 1). Inoltre il Sa] 62,2: «ha sele (E:Oll}J11cre:v) di Te la mia anima>>. Ma in nessuno dei due testi, aJmeno esplicitamente, si dice che Dio risponde a questa sete. 3. Si possono citare infine molti testi profetici. Cfr. Zc 14,8: «in quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemn1eJl. Questo testo di Zaccaria è anche importante a proposito di Gv 19,31-36. Is 12,3: {{attingerete acqua con letizia dalle fonti della salvezza». Questo testo riguarda però soprattutto il c. 4 del vangelo di Giovanni. Inoltre Is 35,1: <i gioisci, deserto assetato (61.tJ;Wcra) [ ... ]»; v. 6: {(sgorgheranno le acque nel deserto e ruscelli nella terra assetata (èv yfl 61.tl;Wcrn)>>; v. 7: ~<e in terra assetata una fonte di acqua sarà1> (diversamente il testo ebraico: (([ ... ] e la [terra] assetata [diventerà] fonte di acqua»). Is 41,48: «farò sgorgare fiunzi sulle colline e nel mezzo dei campi delle fonti (7tìjycX_ç); renderò il deserto una laguna e la terra arida (61.tl;Wcrav yf)v) in fonti di acqua)). Questo testo è utile per Gv 7,38, Gv 4 e Gv 19,31-37. Si notano però delle differenze tra il testo ebraico e il testo dci LXX. Inoltre Is 43,20; 48,21 (cfr. diversa lettura tra il testo ebraico e il testo dei LXX); 58,11; 65,13; Ger 2,13 dove Dio stesso si definisce fonte (n.,11yl)v) di acqua viva (U6a-roç Swflç); Ez 36,25. Ma è molto in1portante la visione del c. 47 del libro di Ezechiele, dove il profeta contempla il ten1pio dalla cui porta orientale scaturiva acqua che man niano diventò un grande fiuine portatore di vita. Questa visione caratterizza meglio però la scena dell'apertura del fianco di Gesù, da cui uscì sangue e acqua ((;v 19,34). In Ez 47,1-12 il terrnine acqua si legge molte volte (vv. 1.1.2.3.3.4.4 ..5.8.8.9). Questa lunga serie di testi mostra che il tema dell'assetato, la cui sete Dio sazia, non è esclusiva di Is 55,1 e questo solo elen1enlo non fonda il rapporto tra Is 55 e Giovanni. Lo stesso rapporto però, che e1nerge da diversi elementi messi assieme, deve essere collocato e letto alla luce di tutti i testi sopra citati. 79 Il verbo 61.tJ.;6.w non è frequente nel NT. Nei vangeli sinottici si legge solo 5 volte. L'uso più vicino può essere Mt 5,6: «beati quelli che hanno sete (61.tJ;Wv-rEç) della giustizial1, Gli altri usi sono in Mt 25,35.37. 42.44. Inoltre Rm 12,20 e ICor 4,11. 80 La relazione tra Ap 21,6 e Ap 22,17 si percepisce bene:
Attilio Gangemi
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Is 55,l "'. In Ap 21,6 il Signore promette di dare all'assetato (acqua) dalla fonte dell'acqua della vita gratuitamente. In Ap 22,17 l'assetato (ò lìclj;wv) è invitato a venire e prendere acqua di vita gratuitamente. Questi testi presentano però delle cliffo. renze rispetto al testo di Gv 7 ,37 82 • All'assetato il Signore rivolge il duplice invito progressivo:
venire e bere 83 • a. venga a me L'imperativo Èpxfoi'lw, alla 3· persona singolare, riprende bene !'>mperativo del testo di Isaia, espresso alla z· persona plurale 84 • Come nel testo di Isaia, anche nel testo di .Giovanni
21,6
22,17
chi ha sete (6 lìclj;wv) venga ... dell'acqua (-roV Ué:ìo:'toç) acqua (iJOwp) della vita (-rijs <;wiis) di vita (ì;rnijs) gratuitamente (òwpEciv) gratuita1nente (0.wpEci.v) s1 Per altre osservazioni cfr. il mio studio: L'utilizzazione del DeuteroIsaia nell'Apocalisse di Giovanni, EuntDoc 27 (1974) 123.124. s2 La differenza maggiore tra il testo del 4° vangelo e i due testi di Apocalisse è data dal termine 8wpeciv che, posto alla fine, nei due testi di Apocalisse, riceve un'enfasi particolare. Tutto l'accento nelle due frasi sembra poggiare su questo tcrn1ine. In Gv 7,37 ss invece non solo manca il termine òwpEciv, 1na è assente la stessa tematica della gratuità, che però comparirà in diversa prospettiva, in Gv 4,6-15. Cfr. soprattutto 4,10: -ri}v òwpEÒ:V 't'Oli· Inoltre vv. 11.14.15. ~ 3 ÈpXÉO"'ÒW··· xa!. -rti.vÉ-rw (venga e beva). I due imperativi sono coordinati; 1na il secondo esprime lo scopo del primo: venire per bere. lH lekiì: venite. Il verbo Epxoµai. però non corrisponde al testo dei LXX, dove invece si legge il verbo 1tOpEUoµa1. (rcopEUEail'E). L'autore del 4° vangelo può riprendere a tradurre il testo originale ebraico o può riferirsi alle versioni di Aquila, Simmaco, Tcodozione,- dove si legge il verbo Epxoµai., non però all'imperativo, ma al participio aoristo circostanziale dell'ilnpcrativo ò:.yopci.o-a"t'E (ÈÀ.i!'6'1rtEç cX.yopci.O"a't"E: essendo venuti, comprate). Nel contesto <li Is 55,1·3 ebraico il verbo halak all'imperativo (!"kit: venite), si legge tre volte: v. la: «venite all'acqua)); v. lb; «venite» semplicemente; v. 3: «venite a mc>>, seguito dall'imperativo: ascoltate. Il Targum conserva i tre imperativi: «venite e imparate (la))); <(venite e ascoltate (lb)J>; ((accostatevi alla mia Parola (3)}>. Non sono invece conservati tutti nei LXX. Nel v. la leggiamo il primo ed unico imperativo: rcopEVEO"il'E (ve~
all'assetato (i:-W darò dalla fonte · Io
81.l{JW\l'tL)
V tilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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l'assetato è invitato a venire 85 • Deve venire a Gesù. L'espressione itp6ç µE (a me) concorda bene con la prospettiva di Giovanni 86, ma non certo con la prospettiva di Is 55,1 87 • Essa può essere stata suggerita dal v. 3 88 • In ogni caso c'è una somiglianza di fondo tra Is 55,3 e Gv 7,37: entrambi i testi concordano nel fatto che il movimento è verso una persona 89 : in Is 55,3 la persona è Dio 90 , in Giovanni invece la persona è Gesù. In Gesù
nitc aJl'acqua). In lb è usato il verbo (3aòlSw (andare, can1minare), mai usato nel NT, nella forma del participio aoristo (3aòlo-av'te:ç, à.yop<io-cx:-rE (essendo andati, comprate). Nel v. 3 invece i LXX mutano il testo É'Tt"axoÀ.ouih'}crcx.-rE -raLç OòoLç µou (seguite le mie vie). Nei frammenti delle versioni di Aquila, Simmaco, Teodozione, come ho notato, il verbo EpxoµaL si legge una sola volta e non all'imperativo. Ma nel v. 3 ci è conservata l'espressione Ttp6ç µE (a me) che, in sintonia con il testo ebraico, esige un verbo di movimento, che, in base a 1a, potrebbe essere EpxoµaL· Non bisogna però dimenticare la predilezione giovannea per il verbo ·EpxoµaL che in tutto il vangelo è usato circa 155 volte. La tematica di Is 55,1 ss di venire corrisponde bene alla prospettiva del 4° vangelo. 85 Un simile invito non si legge negli altri testi dell'AT sopra citati. Si potrebbe richiamare Es 18,16: «(parla Mosé) quando hanno qualcosa (gli israeliti) vengano a me (LXX: IEÀ:frwo-L np6ç, µE)}}. Ma la prospettiva è diversa: qui si tratta di giudicare delle questioni tra il popolo. 86 Andare a Gesù è un tema caro al 4" vangelo, espresso in genere con la frase <pxoµr;u 7tp6ç (1,47; 3,2.20.21.26; 4,30.40; 5,40; 6,5.35.37.44.45.65.68; 7,50; I0,41: 11,29; 12,32; 19,39). 87 Nel v. la il movimento è verso l'acqua <i\:cp'UOwp). Nel v. lb il verbo di movimento è senza complen1ento di moto a luogo. 88 Il testo ebraico scrive l"kU 'elaj (venite a me). I LXX, come si è notato, mutano l'espressione del v. 3. Le altre versioni conservano la espressione np6ç, µE che presuppone un verbo di movimento. Torna ancora una volta il problc111a se l'evangelista segue qualcuna di quelle versioni o si riferisce direttamente al testo ebraico. s9 Is 55,3: tkU 'elaj (venite a me); Gv 7,37: «venga a n1e (E:pxÉcrV"w
1tp6ç
µE)».
Si può notare la relazione tra il v. 1 e il v. 3: v. 1: venite (lckU) all'acqua v. 3: venite (I"kU) a me. Ma si possono anche notare tutti i verbi imperativi dei vv. 1-3 che culminano nell'invito ad andare al Signore: V. 1: venite all'acqua / venite/ comprate e mangiate v. 2: ascoltate me e mangerete bene. 90
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si realizzano le prerogative del Dio dell'AT. Dio non si identUìca con l'acqua, che invece sembra identificarsi con la Parola ascoltata che genera vita (v. 3); egli è piuttosto la fonte .di quest'acqua. La stessa prospettiva appare, come vedremo, nel vangelo di Giovanni: Gesù è la fonte dell'acqua, per dissetarsi della quale bisogna andare a lui 91 •
In questi due versi il venire all'acqua sta in relazione ad ascoltare il Signore. Nel v. 3 l'ascolto sta in relazione all'andare al Signore. Si possono notare infatti in questo verso quattro verbi, di cui tre all'imperativo, che esprimono una serie di azioni progressive: porgete !e vostre orecchie - venite a me ascoltate - vivrà la vostra anima. Andare all'acqua significa _andare al Signore, in atteggiamento di disponibilità di ascolto (porgete le vostre orecchie), allo scopo preciso di ascoltarlo. ~' Si pone qui il problema se il v. 38: «fiumi dal suo seno escono di acqua viva)) debba riferirsi a Gesù o al credente. Da dove escono i fiumi di acqua viva: da Gesù o dal credente? In altri termini il problen1a è se il punto debba essere collocato prima o dopo l'espressione ò nt.O'"t'EUwv ELç È:µÉ· Chi lo colloca prima, fa di questa espressione un non1inativus pendens, che sarebbe poi il soggetto logico di tutta la frase. Il riferimento al credente, dal cui seno sgorgano fiumi di acqua viva, potrebbe essere suggerito dal testo di Gv 4,14: «ma l'acqua che io darò, diventerà in lui fonte di acqua viva che zampilla per la vita eterna)). Il problema è abbastanza dibattuto. Fin dall'epoca patristica gli autori sono divisi tra le due posizioni: se i fiumi di acqua viva sgorgano dal seno di Gesù o da colui che crede in lui. Cfr. H. RAHNER, Flumina de ventre Christi ... die patristische Auslegung van 7,37.38, Bib 22 (1941) 269-302; 367-403. Anche C. H. TURNER, On the Punctuation of fohn 7,37-38, JTs 24 (1922-23) 66-70. Pur proponendo la mia interpretazione, non entro direttamente nella discussione per l'indole del mio studio sulla utilizzazione di Is 55 nel vangelo di Giovanni. E' utile proporre però uno sguardo bibliografico che aiuti a percepire l'ampiezza della discussione su uno dei punti più controversi nell'esegesi del vangelo di Giovanni. Per una sintesi ,della problematica cfr. R. E. BROWN, The Gospel according to fohn, I (cc. 1-12), Doubleday & Company, New York 1966, 320-323. A. Secondo alcuni autori ò 7t:LU"t'E-Uwv sLç 鵃 si ricollega a ciò che segue: il credente diventa così la fonte di acqua viva che sgorga a fiumi. Cfr. A. M. DUBARLE, Des fleuves d'eau vive (S. Jean 7,37-39), Rs, Vivre et Penser 3 (1945) 238-241; secondo cui in realtà, il Salvatore, come il maestro di sapienza, promette di far divenire una fonte da cui sgorgherà acqua viva. Inoltre A. AUGUSTINOVJC, Fiunii di acqua viva (Giovanni 7,37-39), TerS 24 (1949) 23-26; J. CoRTÉS QUIRANT, "Torrentes de agua viva" i.. una nueva in-
Uti/izzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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b. beva Il verbo itlvw è difficilmente riconducibile al testo di Is terpretaciòn de In 7,37-38?, EstBib 16 (1957) 279-306; J. B. CORTÉS, Yet another look at fohn 7,37-38, CoB 29 (1967) 75-86; M. MIGUÉNS, El agua y el Espiritu en In 7,37-39, EstBib 31 (1972) 369-398. B. Secondo altri autori ò '1tLO'"'"t'EUwv ELç E:µÉ si riferisce a ciò che precede, e così la fonte dell'acqua è Gesù. Cfr. H. RAHNER, "de dominici pectoris fonte potavit'', ZKT 55 (1931) 103-108; F. M. BRAUN, L'eau et l'esprit (Jn 7,37-38; 19,34; lJn 5,6), RThom 49 (1949) 5-30, secondo cui la promessa di 7,37-38 sarebbe realizzata in 19,34. Cfr. al contrario, B. LINDARS, The Gospel of John, WM. B. Eerdmans, London 19722, reprint. 1986, che dubita che in 19,34 si possa vedere la realizzazione della promessa di 7,37-38. Inoltre C. LATTEY, A note on fohn 7,37-38, Script 6 (1953-1954) 151-153: Cristo, dal cui seno escono fiumi di acqua viva, sarebbe la roccia spirituale prefiguA rata dalla roccia di Mosè (Es 17; Nm 20). Ancora P. SERAFIN DE AusEJO, "Rios de agua viva correrdn de su seno". El pasaje In 7,37-39 y el Coraz6n de Cristo coma fuente de agua viva, EstFranc 59 (1958) 161-185; G. D. KILPATRICK, The Punctuation of fohn 7,37-38, JTS 11 (1960) 340-342; M. KOHLER, Des fleuves d'eau vive. Exégèse de Jean 7,37-39, RTPhil, n.s., 10 (1960) 188-201, che fa pure un accostamento a Cv 19,28-30 e 19,34; H. VAN DEN BusscHE, Jésus, l'unique source d'eau vive; Jean 7,37-39, BiViChr 65 (1965) 17-23. Anche J. HEER, Der Durchbohrte. Johanneische BegriJ.ndung der Herz-Jesu~ V erehrung, Herder, Roma 1966, 62.63. Infine C. H. Dono, The Interpretation of the fourth Gospel; ed. it.: L'interpretazione del quarto vangelo, Paideia, Brescia 1974, secondo cui è difficile pensare che il credente sia fonte di acqua viva (p. 423): una tale idea non ha lasciato tracce né è mai esistita nel vangelo di Giovanni né in alcun luogo del NT (ibid., n. 5). Anche gli autori dei vari commentari al vangelo di Giovanni sono divisi. Al credente pensano alcuni autori (Barrett, Bauer, Behm, Bernard, Durand, Hoskyns, Lightfoot, Lindars, Morris, Rengstorf, Schlatter, Sch,~eitzer, Strathmann, Tillmann, Westcott, Zahn). Un po' singolare è l'interpretazione di R. SCHNACKENBURG, Das Johannesevangelium, II, Herder, Freiburg i.B. 1971, 209, secondo cui la fonte è Gesù; riferisce però l'espressione ò 1tt.O''t"EVwv ELç EµÉ a ciò che segue e traduce: «wer an mich glaubt, (fiir den gilt) wie die Schrift gesagt hat)). L'edizione italiana, voi. II, traduce: «chi crede in me, per lui - come dice la Scrittura, sgorgheranno [ ... ])). A Gesù invece pensano altri autori (Braun, Brown, Lagrange, Mollat, Sanders, Segalla, Wikenhauser. ..). Altri studi, utili per la problematica, sono: C. F. BURNEY, Our Lord's old Testament Reference in fohn 7,37-38, Exp s. 8 20 (1920, a) 385-388; T. H. BINDLEY, fohn 7,37-39, Exp s. 8 20 (1920) 443-447; R. HARRIS, Rivers of Living Water (Jn 7,38), Exp s. 8 20 (1920) 196-202; W. C. ALLEN, St. fohn 7,37.38, ExpTim 34 (1922-1923) 329-330; E. F. F. BISHOP, Drinking Grapes, ExpTim 57 (1945-1946) 307; J. BLENKINSOPP, fohn 7,37-39: another
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55,1-3, almeno al testo ebraico, dove la metafora non continua con l'azione di bere, ma si trasferisce nell'azione di mangiare: Note on a notorious Crux, NTs 6 (1959-1960) 95-98; M. COSTA, Simbolismo battesimale in Giov 7,37-39; 19,31-37; 3,5, RBiblt 13 (1965) 347-383, che, come dice lo stesso titolo, mette in evidenza il senso sacramentale del testo. Fondarsi su Gv 4,14 per affermare che i fiumi di acqua viva in 7,38 escono dal credente non è esatto. La prospettiva dei due testi è diversa: Gv 4,14 non parla del fatto che chi beve diventa fonte viva, ma degli effetti che l'acqua che Gesù dà produce in chi la beve. Nel nostro testo invece la prospettiva è quella della fonte da cui sgorga l'acqua. In realtà diversi motivi inducono a riferire a Gesù l'espressione del v. 38. 1. Anzitutto l'espressione ò 1tL<T't"EUwv Etc; E:µÉ potrebbe costituire con la espressione ol. 1tLO--rEUov"t'Eç ELc; aù-r6v una inclusione letteraria al paragrafo contenuto nei vv. 38.39a: v. 38: chi crede in me v. 39a: i credenti in lui ma si avrebbe nell'ambito della stessa unità letteraria un brusco passaggio dal singolare al plurale, dalla 1" persona singolare (in me), alla 3a persona singolare (in lui). In questo modo poi le due parti (vv. 37 e 38.39a) risulterebbero quantitativamente sproporzionate. 2. Se invece l'espressione 6 TCLO""t'EUwv ELç E:µÉ si ricollega alle parole precedenti, si ottengono due paragrafi che finiscono con due espressioni simili e più coerenti con i rispettivi paragrafi: a. 6 TCLO""t'EUwv ELç ÉµÉ (chi crede in me) b. oL 'l't'LCT"t'EUov-rec; ELc; aù't6v (i credenti in lui). La prima conclusione si adatta al contenuto del primo paragrafo, che contiene le parole di Gesù. La seconda conclusione si adatta meglio al contenuto del secondo paragrafo, che non contiene le parole di Gesù, ma le parole della Scrittura a riguardo di Gesù: Scrittura citata (v. 38), Scrittura commentata dall'evangelista (v. 39a). Il primo paragrafo presenta Gesù che parla e le sue parole comprendono quattro elementi, dopo l'introduzione narrativa: 1. se qualcuno ha sete (E:riv "t"Lç ù1iy;~) 2_ venga a me <Epxfoìlw 1tp6ç µE) 3. beva (7tLVÉ-rw) 4. chi crede in me (0 '1tLO"'t'EVwv cLc; ɵÉ). Questi quattro elementi possono leggersi sia secondo uno schema concentrico (i due imperativi centrali mettono in relazione pure il 1° e 4° elemento), sia secondo uno schema alternato (i complementi dì moto a luogo nel 2° e 4° elemento mettono pure una relazione tra la 1a e la 3a frase: se qualcuno ha sete/beva). Sono così messi in relazione la 1" e la 3a frase: se qualcuno ha sete / beva, e la za e 4a frase: venga a me I chi crede in me. Nel secondo paragrafo (v. 38) il soggetto è la Scrittura,
Utilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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bisogna comprare e mangiare anche senza denaro 92 • Anche in Is 55,2 si ha la stessa prospettiva: non bisogna spendere denaro in ciò che non è pane e in ciò che non sazia. Subito dopo torna il verbo mangiare; mai però si legge nel testo originale il verbo bere. Esso compare nei LXX: «comprate e bevete (rclEi:E) senza denaro e senza prezzo vino e latte» 93 ; ma nelle versioni di Aquila, Simmaco e Teodozione leggiamo il verbo mangiare (mangiate: cpayEi:E). E' .difficile però ricollegare il verbo 1tLVÉ1'w di Giovanni all'uso del verbo rclvw in Is 55,1 (LXX): la prospettiva dei due testi è differente 94 • La menzione esclusiva dell'acqua in Gv 7,37s esige necessariamente il verbo rclvw, che
citata nel v. 38 e interpretata dall'evangelista nel v. 39. In questo secondo paragrafo emerge il seguente schema: 1. come disse la Scrittura: a. fiumi dal suo seno scorreranno 2. Questo disse b. cti acqua viva l a. a riguardo dello Spirito b. che dovevano [ ... ] i credenti in lui In questo schema l'acqua trova un preciso parallelismo, quasi una identificazione, con lo Spirito che scaturisce da Gesù (1) e raggiunge il credente (2). In questo paragrafo l'unico soggetto del duplice verbo è la Scrittura, come appare dal seguente schema: 1. disse verbo 2. la Scrittura soggetto 3. questo oggetto 4. disse verbo In questo schema del paragrafo l'espressione del v. 37 ò n:tO'TEUwv ELç ȵÉ. non trova posto. Non è assolutamente il soggetto del paragrafo che invece è la Scrittura. Non dal seno del credente perciò, ma dal seno di Gesù scaturisce l'acqua viva, così come aveva preannunziato la Scrittura. Invitando a bere, Gesù agisce in piena conformità con la Scrittura che in lui si realizza. Infine le relazioni del nostro testo con Gv 4,1-15; 19,28-30; 19,34 esigono che la fonte sia proprio Gesù. 92 Probabilmente questo elemento del mangiare, come vedremo, sembra essere ripreso in 4,8 («i discepoli erano andati in città a comprare cibi)>) e anche nel c. 6, cfr. 6,5. 93 Probabilmente i LXX considerano il vino e il latte come una bevanda, ai quali si addice meglio il verbo rct'.vw. 94 In Is 55,1 (LXX) si tratta di bere "vino e latte'', in Giovanni si tratta invece di bere acqua.
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l'evangelista usa anche altrove 95 ; ma per esso, egli sembra essere debitore ad altri testi dell' AT "Nella seconda parte del testo (Gv 7,38) la prospettiva dominante è quella della Scrittura. L'introduzione >tcdìwç EL1tEV Ti ypwp1J (come disse la Scrittura) è una comparativa, che sembra ricollegarsi all'ultimo verbo narrativo che esprime una azione di Gesù «hpat,Ev ÀEywv (e gridò dicendo)», con cui si introducono le parole di Gesù. Le due frasi introducono rispettivMllente le parole di Gesù e le parole della Scrittura e presentano una certa reciproca relazione 'fl. Gesù disse quelle parole in conformità a quanto aveva detto la Scrittura. L'azione che quelle parole di Gesù preannunziano realizza quanto ha preannunziato la Scrittura. Le parole «fiumi ,dal suo seno scorreranno ·di acqua viva» sembrano costituire le parole della Scrittura, che l'evangelista introduce .in forma di discorso diretto 98 • Ritengo che queste Cfr. i testi dei cc. 4.6 (4,7.9.10.12.13.14; 6,53.54.56). Cfr. Gen 24,14, nel contesto dell'episodio dell'incontro del servo di Abramo e Rebecca: «abbassa l'anfora perché beva (\'.va. 1Clw))>. Cfr. anche i vv. 17.18.19.22.44.46. Questo episodio è importante nel c. 4 del vangelo di Giovanni: l'incontro tra Gesù e la donna samaritana. Inoltre i diversi testi già citati a proposito della nozione di acqua. Cfr. Es 17,1.2.3.6; Nm 20,2.5.8.10.11; Dt 8,15; Ne 9,15.20; Sa! 78,16.20; 114,8; Sap 11,4; Is 35,6.7; 48,21. 97 Gesù soggetto gridò dicendo verbo come disse verbo la Scrittura soggetto 98 Le parole «fiumi dal suo seno sgorgheranno di acqua viva» hanno suscitato e suscitano non poche difficoltà soprattutto per quanto riguarda il preciso riferimento alla Scrittura. Si sono proposte molte spiegazioni, di cui riferisco solo qualche esempio. H. STRATHMANN, Das Evangelium des Johannes; ed. it.: Il vangelo secondo Giovanni, Paideia, Brescia 1973, 233, riterrebbe che in questa scrittura si tratta di un ricordo impreciso di passi di significato analogo (ls 44,3; 58,11; Pr 18,4). Secondo A. WIKENHAU~ SER, Das Evangelium nach Johannes; ed. it.: L'Evangelo secondo Giovanni, Morcelliana, Brescia 1962, 229, si tratta di una citazione quanto mai libera, il cui senso è che, secondo la Scrittura, nel tempo messianico Dio o il Messia farà scaturire fonti di acqua viva. Inoltre J. JEREMIAS, Golgotha, Leipzig 1926, 80-84 parte da Is 12,3, applicato già, nell'esegesi rabbinica, 95
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V tilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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parole costituiscano una vera e propria citazione della Scrittura poni bile pertanto tra virgolette. Ovviamente l'evangelista non cita un testo particolare: mai infatti nell'AT si legge un'espressione quale è riferita dal nostro autore. E-ssa sembra essere piuttosto quasi una sintesi interpretativa di tutta quanta la Scrittura, che l'evangelista riferisce a Gesù, rileggendo con essa i'! grido «se qualcuno ha sete, venga a me e beva». In ultima analisi tutto il messaggio della Scrittura si riassume nell'annunzio che dal seno di Gesù scorreranno fiumi di acqua viva. Donando dal suo seno fiumi di acqua viva 99 , Gesù porta a compimento tutta la Scrittura 100 • L'espressione tuttavia presenta non poche difficoltà interpretative 101 , la cui considerazione direttamente non rientra nel presente lavoro. Restando nella prospettiva dell'utilizzazione del c. 55 del libro di Isaia da parte del vangelo di Giovanni, è sufficiente affermare che nessuno degli elementi dell'espressione è riconducibile al brano profetico consi,derato 102 • allo Spirito Santo. M. É. BoISMARD, De son ventre couleront des fleuves d'eau (lo 7,38), RB 65 (1958) 523-546, ricollega le parole del Signore al Sai 78,16 (ebraico o meglio aramaico), combinato anche con Is 48,21-22. P. GRELOT, Jean 7,38: eau du rocher ou source du tempie?, Ra 70 (1963) 43-51, pensa che il riferimento sarebbe ad una fusione tra Zc 14,6-9 e Ez 47,1-10, avvenuta già nella tradizione giudaica rabbinica nel contesto della festa delle capanne. Gesù probabilmente si riferirebbe alla tradizione rabbinica dell'acqua del deserto, accostandola al tema della fonte escatologica del tempio. F. M. BRAUN, Avoir soif et boire (Jn 4,10-14; 7,37-39), Mé!Rigaux, J. Duculot, Gembloux 1970, 247-258, parla piuttosto di varie reminiscenze complementari (p. 251), soprattutto quelle che si ricollegano alla roccia colpita da Mosè. Questa esemplificazione di varietà di interpretazioni rivela bene la difficoltà del testo. " Cfr. Gv 19,34. 100 Cfr. Gv 19,30. 101 Cfr. n. 91. 102 Per completezza di indagine è utile proporre le seguenti considerazioni: 1. Il termine Tt:O't'cxµoL (fiu1ni; plurale), al singolare si legge nella descrizione della Gerusalemme celeste di Ap 22,1-2: «mi mostrò un fiume di acqua di vita, che usciva [ ... ]». Esso è ripreso dalla descrizione del tempio nella visione di Ezechiele, dal cui lato destro esce acqua, che man mano ingrossa, fino a diventare un fiume (cfr. Ez 47,5.6.7.9.12). Questo fiume
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Nel v. 39 infine leggiamo l'interpretazione dell'evangelista alle parole della Scrittura: «questo disse (sogg. la Scrittura) a riguando dello Srpirito [ ... ]». L'acqua che sgorga dai seno di Gesù viene identificata con lo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui 103 • E' utile adesso considerare tutto il brano di Gv 7,37-39. Esso si colloca sullo sfondo di una indicazione cronologica molto ampia e molto solenne «nell'ultimo giorno quello grande della festa» 1'"- Su questo stesso sfondo cronologico si colloca la descrizione della posizione di Gesù «Stava (d<r·n'pm) Gesù» 105 • Sullo sfondo della posizione di Gesù 106 si coHoca la sua azione è portatore di vita (vv. 9.9). Si può notare che l'evangelista esplicitamente riferisce a Gesù l'immagine del tempio nel c. 2 (vv. 19-22). Inoltre i vv. 9.10 del c. 47 di Ezechiele sembrano soggiacere nel racconto della pesca sul lago in Gv 21,1-8. Il riferimento a Ez 47,1-11 da parte di Gv 7,38 è sottolineato da J. DANIÉLou, Jn 7,38 et Ez 47,1-11, in Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, StudEv II, 87 (1964), AkademieVerlag, Berlin 1964, 158-163. Si può citare anche Is 32,1.2, che nella versione dei LXX presenta un testo diverso rispetto al testo originale. Il v. 1 parla di un re giusto che regnerà. Nel v. 2 il testo continua: «(LXX) e apparirà in Si on come un fiume {TCo-raµ6ç), che si porta glorioso in terra assetata (È.v yfl ÙLlj;Wrrn)n. Nonostante qualche somiglianza con il nostro testo, nulla però suggerisce una diretta allusione da parte dell'evangelista ad esso. Per la nozione di "fiume" si può citare ancora Is 41,18; 43,19; anD che 66.12. 2. Il verbo f;Éw (scorrere) può richiamare Is 48,21: «acqua dalla roccia fa scaturire per essi; si spaccherà Ja roccia e scorrerà ((.iuY}O"E"t'IXL) acqua». 3. L'espressione OOwp ~Wv (acqua viva), che si legge in Gv 4,10.11.14 (cfr. Ap 21,6; 22,17) si legge anche in Gen 21,19; 26,19; Lv 14,5.6.50.51.52; Nm 19,17; Ct 4,15. Soprattutto Zc 14,8: «in quel giorno sgorgheranno acque vive (00wp SWv) da Gerusalemme». L'evangelista in 19,36 cita Zc 12,10. In Ger 2,13 Dio stesso si definisce «fonte di acqua vivan. Cfr. anche Ger 17,13. 103 Per la relazione acqua-Spirito, cfr. Ez 36,25.26. Inoltre Is 44,3: «farò scorrere acqua sul suolo assetato [ ... ] spanderò il mio Spirito sulla tua discendenza». 104 Pur con tutte le differenze, si richiama l'indicazione cronologica di Gv 19.31. 105 Si noti il carattere assoluto del verbo ctcr'tY}XEL· senza ulteriore determinazione di luogo. 106 Il verbo ìbtpaçrv è all'aoristo ed indica un'azione puntualizzata e concreta. II precedente verbo El.O"'tT}XEL invece è un imperfetto rispetto
Utilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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puntualizzata e concreta, espressa all'aoristo «gridò (~xpa.l;Ev) dicendo». In tutto il brano possiamo notare quattro parti 107 : 1.
Introduzione narrativa, in cui si indica la posizione di Gesù, sullo sfondo di una indicazione cronologica «nel gior· no grande [ ... ] stava Gesù».
2.
Le parole di Gesù «e gridò dicendo se qualcuno ha sete venga a me e [ beva [ chi crede in me»w8 •
3.
Le parole della Scrittura, interpretate dal-l'evangelista come disse la Scrittura fiumi [ ... ] di acqua viva [ questo disse [ dello Spirito che avrebbero ricevuto credenti in lui.
al perfetto Err'tTJXrl o un piuccheperfetto rispetto al presente \:'.cr't"l}µt. In ogni caso indica un'azione continua. L'azione di gridare sembra essere così l'effetto dell'azione precedente, quasi da essa scaturente. Se l'azione di gridare scaturisce dalla posizione, al contrario la descrizione della posizione non è esclusivamente finalizzata all'azione di gridare, ma è espres~ sa in se stessa. L'indicazione della posizione di Gesù sembra essere perciò Io sfondo e il culmine di tutta la descrizione. 107 J. BLENKINSOPP, The Quenching of Thirst: Reflections on the Utte+ rance in the Te1nple, fohn 7,37-39, Script 12 (1960) 3948, distingue nel testo (p. 40): il detto (o segno profetico): «Se qualcuno ha sete [ ... ]», il testo: «come disse la Scrittura [ ... ]»; l'interpretazione: «ciò disse [ ... ]». Questo schema sembra un po' artificiale. Inoltre la struttura chiastica, proposta da A. PINTO DA SrLVA, Giovanni 7,37-39, Sai 45 (1983) 590, è modificabile. Egli fa entrare nel suo chiasmo l'ultima conclusione narrativa dell'evangelista: «infatti non era ancora Spirito [ ... ]», ma non fa entrare la prima introduzione narrativa di 7,37: «nel giorno grande della festa [ ... ]». La conclusione però (p. 591) che la fonte di acqua non è il credente, ma Gesù, è valida. 108 Questa struttura è stata già proposta da I. DE LA PoTTERIE, La sete di Gesù morente e l'interpretazione giovannea della sua morte in croce (Gv 19,28 ... ), in La sapienza della croce, oggi, I, Loc, Leumann (Torino) 1976, 33-58. Cfr. anche J. CABA, Jn 7,37-39 en la teologia del IV Evangelio sobre la oraci6n de petici6n, Greg 63/64 (1982) 647-675. Diversa è invece la struttura che egli propone per tutto il brano di 7,37-39.
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4.
Conclusione narrativa: «non ancora infatti era Spirito, perché Gesù non ancora era stato glorificato» ""·
Lo schema è concentrico: 1. stava Gesù 2. le parole di Gesù 3. Le parole della Scrittura 4.
Gesù non ancora era stato glorificato
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•
Al centro di questo schema stanno in relazione le parole rispettivamente di Gesù e della Scrittura. Questa aveva preannunziato che dal seno di Gesù sarebbero sgorgati fiumi di acqua viva: questo è il nocciolo di tutto il messaggio dell'AT. L'evangelista ulteriormente reinterpreta le parole della Scrittura, riferendole al dono dello Spirito. In conformità e portando a compimento la Scrittura, Gesù invita chi ha sete a venire a lui mediante la fede e bere. La posizione iniziale stava e la menzione finale della glorificazione dicono che tutto ciò si realizzerà al momento della sua glorificazione. Quando egli sarà gloricato fiumi di acqua viva, cioè lo Spirito, sgorgheranno dal suo seno. Alla glorificazione egli diventerà la fonte da cui sgorga e scorre quest'acqua. Divenendo Gesù la fonte, per bere è necessario che si vada a lui. Qui subentra il testo di Is 55,1-3.
Notiamo la relazione con l'introduzione narrativa: stava verbo Gesù soggetto Gesù soggetto fu glorificato verbo Nota J. HEER, Der Durchbohrte .. ., cit., 4 che l'evangelista stesso sottolinea l'importanza delle parole di 7,37-39 notando la :Posizione di Gesù, diversa da quella dei rabbini che, per insegnare, sedevano e anche Gesù talora siede (Mt 5,1; 13,Is; 15,29; 24,3; 26,55; Mc 4,1; 9,35; 13,3; Le 5,3; Gv 6,3; 8,2 ... ). Ma il senso del verbo in Giovanni è più profondo: la posizione stava sembra richiamare la glorificazione. 110 La prima parte, come si è notato nella nota precedente, sta in relazione alla quarta. Il verbo clcr-r'fJxEL (stava) indica un'azione continua e sta in relazione al verbo ÈÙo~ticrfrTJ (fu glorificato), che è piuttosto un aor~".>t0 ingressivo. La posizione di Gesù, espressa con il verbo EiO'"t'rlXEt. 109
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Una volta Dio, per mezzo di un profeta, aveva rivolto a ogni assetato ·l'invito a venire all'acqua, cioè andare a lui e .da lui riceverla: essa è la sua stessa Parola che, se ·ascoltata, genera vita. A.desso quell'invito si realizza e la prospettiva si amplia. Il Dio di Is 55,1-3 è Gesù: egl.i invita ad andare a lui e bere. L'acqua trova una precisa identificazione nello Spirito. In Is 55,1-3 la fonte dell'acqua era Dio e l'acqua era la sua Parola. Adesso la fonte dell'acqua è la Parola di Dio (!,!) .divenuta carne (1,14) e glorificata; l'acqua che l'assetato, nella fede, deve bere è lo Spirito. Emerge la prospettiva trinitaria. 2.
v. 28: V.
29:
v. 30:
Gv 19,28-30 «Dopo ciò, sapendo Gesù che tutto è stato compiuto perché si adempisse la Scrittura, disse: ho sete» [ ... ]
" [ ... ] Gesù .disse: è stato compiuto e avendo reclinato il capo, diede lo Spirito»
Questo testo, che costituisce il 4° paragrafo della 4' parte .della narrazione della passione secondo il vangelo di Giovanni lll, gli eventi al Calvario, è uno dei testi più belli e più suggestivi .di tutto il vangelo. Esso è pure molto .difficile, per il ricco simbolismo che contiene. Non intendo perciò proporre una analisi completa ed esaustiva del brano ma, coerentemente, solo pochi elementi che servono allo scopo del presente lavoro. A questo brano dovrò ancora riferirmi nella terza parte, a propos.ito della ripresa di Is 55,10.11 da parte .del nostro autore.
è quella abituale successiva al momento della glorificazione. Possian10 dire che esso indica lo stato, la situazione perenne di Gesù nella glorifica· zione. In questa posizione egli lancia il grido. L'autore però esplicitamente nota che Gesù non era stato ancora glorificato: ciò significa che egli non considera la descrizione come già realizzata, ma rimanda alla glorificazione come al mon1ento in cui tutto si realizza. 111 1° paragrafo: la crocifissione (19,16b-22) 2° paragrafo: la vicenda delle vesti e della tunica (19,2324) 3° paragrafo: la madre e il discepolo sotto la croce (19,25-27) 4° paragrafo: il nostro brano (19,28-30) 5° paragrafo: l'apertura del costato (19,31-37).
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E' importante stabilire la relazione tra questo brano e il precedente, Gv 7,37-39 112 • Possiamo individuare soprattutto tre elementi di relazione: a. la menzione della Scrittura (1) ypa.qr/j) 113 ; in entrambi i testi il termine Ti ypaqn\ non rimanda a un testo particolare dell'AT ma alla Scrittura nel suo complesso u4 ; b. il verbo lìt<)i6.w (avere sete), che in 7,37 è riferito agli uomini, ma che in 19,28 Gesù pronunzia riferito a se stesso 115 ; c. la menzione ·dello Spirito, che nei due testi appare in un rapporto che possiamo caratterizzare come di dono (19,30) e di accoglienza (7,38) "'· Benché Gv 19,28-30 esplicitamente non riprenda Is 55,1-3, le relazioni tra i due testi (7,37-39 e 19,28-30) m sono importanti 112 Per questa parte segnalo due studi tra i tanti: J. P. AUDET, La soif, l'eau et la Parole, Re 66 (1959) 379-386, secondo cui esiste un sottile legame tra 7,37.38 e 19,28-30. Inoltre G. MORETTO, La sete di Cristo in croce, RBiblt
15 (1967) 249-274. 113 7,38: «come disse la Scrittura»
19,28: «perché si adempisse la Scrittura». Questo uso globale del termine ypoccp1). allusivo a tutta la Scrittura nel suo complesso, si trova anche in 2,22; 17,12; 20,9. Il termine è usato anche al plurale a.i. ypa.cpa.l (5,39). Talora il termine fi ypacp-fi. al singolare, allude a qualche testo particolare dell'AT: 10,35 (Sai 82,6); 13,18 (Sai 41,10); 19,24 (Sai 22,19); 19,36 (Es 12,46; Nm 9,12; anche Sai 34,21); 19,37 (Zc 12,10). Forse anche 7,42. m Oltre 7,37 e 19,28 il verbo lìt<)i6.w si legge anche in 6,35 e 4,13.14.15. Con questi testi bisogna pure stabilire una relazione. 116 Dono: 19,30: «diede (7tapÉ0wxEv) lo Spirito». Accoglienza: 7,38: «a riguardo dello Spirito che dovevano ricevere (À.aµf36.vELvl i credenti [ ... )». I due testi presentano una concatenazione, come appare dal seguente schema concentrico: 19,30: a. diede (m:tpÉlìwxEvl b. lo Spirito 7,38: b. lo Spirito a. ricevere (),o;µf36.vELV) Logicamente 7,38 segue 19,30. 111 L'autore però in questo testo alluderà a Is 55,10.11. Il verbo Ot~ciw in 19,28 non si ricollega direttamente a Is 55,1 ma al Sal 69,22: «per la mia sete (ELç 't'Ì')V Oltl;a:v) mi fecero bere aceto (È:n:6"ttcra.v)». Nel contesto 114
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per il nostro lavoro, tanto più che queste relazioni non vertono su elementi marginali, ma su quelli fondamentali e strutturalmente essenziali tra i .due testi 118 • 3. Gv 19,34 Stabilita la relazione tra Gv 7,37-39 e 19,28-30 possiamo considerare anche il testo di 19,34, dove l'evangelista narra di uno dei soldati che, con la lancia, aprì il fianco di Gesù e subito uscì sangue e acqua. Quest'azione del soldato è al centro di tutta la descrizione e costituisce quasi il culmine di tutta l'azione globale che si sviluppa nei vv. 31-37 119 • Nemmeno per questo testo, r.icco peraltro, come il precedente, di profondo simbolismo, interessa l'analisi completa 120 • Anche qui il problema importante per il nostro lavoro è stabilire le relazioni. La relazione tra questo testo e il precedente Gv 19,28-30 è duplice 121 : il termine ol;oç (aceto) si legge tre volte (cfr. Mt 27,48; Mc 15,36; Le 23,36). Ma se Gv 19,28-30 sta in relazione a Gv 7,37-39, una indiretta allusione a Is 55,1 non si può escludere. 11~ Glì elementi essenziali del testo di Gv 7 ,37-39 sono: la sete - la Scrittura - l'acqua viva - lo Spirito. Gli elementi essenziali di Gv 19,28-30 sono invece: la Scrittura - la sete - lo Spirito. 7,38 19,28 sete <(se qualcuno ha sete [ ... ]» Ja Scrittura la Scrittura «ho sete» l'acqua viva Io Spirito lo Spirito In 19,28 non si menziona l'acqua, che però sarà poi menzionata in 19,34. 11 9 Tutto il brano di 19,31-37 si può articolare in 5 paragrafi: I. i giudei (v. 31) 2. i soldati (v. 32) 3. uno dei saldali (vv. 33.34) 4. colui che ha visto (v. 35) 5. la Scrittura (vv. 36.37). 120 A proposito di 19,34 cfr. R. GALDOs, Apertumne est militis lancea en1ortui Jesu latus?, Vo 5 (1925) 161-168; A. VACCARI, "Exivit sanguis et aqua" (Ioh 19,34), Vo 17 (1937) 193-198; E. MALATESTA, Blood and Water from the pierced Side of Christ (ln 19,34), StAns 66 (1977) 168-181. 121 Circa il rapporto tra 7,37-39 e 19,34, J. M. BovER, Christus, fans aquae vitae (Ex loh 7,37-39), Vn I (1921) 109-114, dopo avere notato la problema·
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la prima relazione è complementare, negli elementi di acqua (19,34) e di Spirito (19,30) 122 ; b. la seconda relazione riguarda la duplice menzione della Scrittura nel contesto w_ Nella seconda menzione della Scrittura, in 19,37, l'evangelista cita Zc 12,10: «guarderanno a colui che hanno trafitto}}. Questo testo serve bene a unire le nozioni di acqua e di Spirito"'Così l'acqua di Gv 19,34 e lo Spirito di 19,30 si richiamano 125 • Si realizza quanto Gesù aveva promesso sia nel dialogo a.
tica più generale di Gv 7,37-39, scrive: «nunc iam, si a stricta den1onstra~ tione ad piarn accomodationem, fundatam tamen, transimus, libct notare quam apte illis Jesu Domini verbis 'si quis sitit, veniat ad mc et bibat' illa evangelistae respondeant 'unus militum lancea latus eius apcruit (vul~ neravit) et continuo exivit sanguis et aqua' (19,34)». 122 Gli elementi di acqua e Spirito in 7,37-39 sono accostati; qui invece sono smembrati. L'accostamento di 7,37-39 suggerisce la relazione tra 19,34 (acqua) e 19,30 (Spirito). Cfr. anche altri accostamenti: 1,26.35 (v. 26: ((io battezzo in acqua)); v. 35: «questi è colui che battezza in Spirito Santo))), Inoltre cfr. anche 3,5.8 dove sono accostati acqua e Spirito. Sul rapporto acqua-Spirito cfr. J. S. MURRAY, Water and Spirit (John 3,5), ExpTim 59 (1947-1948) 138-139; F. M. BRAUN, L'eau et l'esprit (In 7,37.38; 19,34; /Jn 5,6), RThom 49 (1949) 5-30, che sottolinea la realizzazione in 19,34 della promessa di 7,37-39. Infine cfr. I. DE LA POTTERlE, "Naitre de l'eau et naitre de l'Esprit; le texte baptismal de Jn 3,5, in La vie selon l'Esprit, Du Cerf, Paris 1965, 31-63, che sottolinea il carattere battesimale di Gv 3,5. 123 La menzione della Scrittura però è di divccsa indole; non si tratta di tutto I'AT nella sua globalità, ma di testi particolari. La prima menzione (v. 36) rimanda a Es 12,46 (cfr. Nm 9,12 e anche Sai 34,21); la seconda (v. 37) rimanda a Zc 12,10. 124 L'evangelista cita Zc 12,IOb. Zc 12,lOa parla di una effusione dello Spirito; Zc 13,l parla di una fonte aperta. Zc 12,IOa e 13,1 stanno tra di loro in rapporto paralJelo: 12,JOa: effonderò sulla casa di Davide e sugli abilanti di Gerusalemme uno Spirito di grazia e supplica guarderanno ... 13,1: una fonte aperla per la casa di Davide e per gli abitanli di Gerusalemme. 12-1 A questa relazione non si oppone la menzione precedente dcl sangue. 11 sangue (leggi: <1sangue e acquai), non all'inverso) richiama l'alleanza fondata sul sangue dell'Agnello. Da questa alleanza scaturisce il dono dello Spirito.
Uti/izzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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con la samaritana 126 , sia nel testo di 7,37-39 m. Ritengo perc10 che in Gv 19,34 si realizza, non solo la promessa fatta da Gesù, ma anche la stessa promessa fatta da Dio fin dall'AT 128 •
Gv 4,7-15 «Viene una donna dalla Samaria ad attingere acqua [ ... ]» 4.
v. 7: vv. 8-14 [ ... ] v. 15: «Signore, dammi quest'acqua, perché non abbia sete e non venga qui ad attingere». La completezza della ricerca esige che consideriamo un altro testo che presenta dei paralleli con i testi precedentemente considerati: Gv 4,7-15, nel contesto del dialogo tra Gesù e la donna samaritana 129• Anche per questo brano interessa al no-
126 Cfr. 4,14a: «Chi beve dell'acqua che io darò»; cfr. 14b: «l'acqua che io darò». 121 Cfr. 7,39: «scorreranno fiumi di acqua viva. Ciò disse dello Spi-
rito [ ... ]». 1211
Si possono ancora evocare tutti i testi dell'AT dove si parla della promessa dell'acqua: Is 35,67; 41,18; 43,20; 44,3; 48,21; 49,!0; Gl 4,18 ... Soprattutto Zc 14,8. In particolare il fianco di Gesù squarciato dal soldato richiama tre tipi di immagini: !. la roccia del deserto (Es 17,1-7; Nm 20,1-11; Dt 8,15; Ne 9,15; Sai 78,15.16. 20; 105, 41; Sap 11,4; anche Is 48,21). Il riferimento alla roccia del deserto è tanto più probabile per il fatto che nel contesto (19,36) l'evangelista si riferisce al c. 12 dell'Esodo (Es 12,46). Il comando dato da Dio a Mosè di colpire la roccia con il bastone (Es 17,5.6a; Nm 20,8) suggerisce un parallelismo di immagini: Esodo Giovanni Mosè uno dei soldati colpì aprì con il bastone con la lancia la roccia il fianco uscì uscì acqua acqua 2. Il tempio della visione di Ezechiele, da cui scaturisce acqua (Ez 47,1.2. 4.5.12). Cfr. in Gv 2,19.20 l'immagine del tempio riferita a Gesù. 3. La fonte aperta preannunziata dal profeta Zaccaria. Donando l'acqua, Gesù realizza in sé le immagini prefigurative dell'AT: la roccia, il tempio, la fonte. 129 Tutto l'episodio culmina nella professione di fede dei samaritani
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stro scopo non una completa ana<lisi letteraria e tematica, ma solo la sottolineatura di alcuni elementi fondamentali. Anzitutto è importante il verbo &v-rUw (attingere), che in questo brano si legge due volte (vv. 7.15) "". La stessa posizione nel brano sottolinea la sua importanza e ·dice che "attingere acqua", nel contesto, è una delle tematiche centrati, forse la più centrale. Tuttavia questo elemento non deriva da Is 55, ma sembra che l'evangelista lo riprenda da Is 12,3 m e soprattutto da Gen 24, dove è narrato l'incontro tra il servo di Abramo e Rebecca 132 • (v. 42). Il dialogo stretto invece si protrae fino al v. 26. In esso si possono individuare tre parti tematiche: I. vv. 7-15: l'acqua 2. vv. 16-18: il marito 3. vv. 19-26: l'adorazione del Padre. Al nostro scopo interessa soltanto la prima parte. 130 V. 7: «viene una donna dalla Samaria ad attingere (à;.v"tÀ:ijtral.) acqua)). V. 15: «dammi quest'acqua, perché [ ... ] non venga più ad attingere
(6'.vi:ÀEtv)». Il verbo &:v't' ÀÉw in questa sezione sembra costituire una inclusione letteraria. Nel NT il verbo Ò'..V"t' ÀÉw, al di fuori del 4° vangelo, non si iegge mai. Nel vangelo stesso, oltre i nostri usi, si legge due volte nell'episodio di Cana (2, 8. 9). BJ Cfr. Is 12,3: «attingerete (LXX: &.v-rÀ.{icrE"t'E) acqua con gioia dalle fonti (Ex "t'Wv TCì}yWv) della salvezza (crw"t'11plou) ». Si noti il termine 1tTJY-fi• che nel contesto del c. 4 si legge nei vv. 6.6.14. Inoltre è importante il termine 't'oU crwi:11plov· L'unico uso dei termini crw-r11plo: e crw"t'{ip nel 4° vangelo è proprio nel contesto del c. 4, rispettivamente nei vv. 22. 42. 132 Il c. 24 di Genesi sembra costituire una delle matrici fondamentali su cui l'evangelista costruisce il suo racconto sull'incontro di Gesù con la samaritana. Cfr. v. 13; ccecco io sto alla fonte dell'acqua e le figlie [ ... ] vengono ad attingere acqua>}; v. 15: «viene Rebecca, avendo l'idria (-ri}v ùOplav) sulle spalle [ ... ] scesa presso la fonte, riempì l'idria e salì»; v. 17: il servo chiede: «dammi da bere (1t6't'Lcr6v µE) un po' d'acqua dalla tua idria» (cfr, Gv 4,7); v. 20: c<corse al pozzo (È7tL "'CÒ cppÉ.o:p) per attingere e diede da bere anche ai cammelli» (cfr. l'allusione in Gv 4,12. Il termine giovanneo "'CÙ itpɵµo:"'Co: però si legge solo in Gv 4,12 ip tutta la Bibbia greca). Cfr. v. 19. Diversi elementi, oltre il verbo O:v'tÀ.Éw compaiono in Gen 24, presenti in Gv 4,1-12: i termini uop(o: (vv. 14. 15. 16. 17. 18. 20. 43. 43. 45. 46; nel NT solo in Gv 4,28 e 2,6.7); 'lt'fJ'Y'l\ (vv. 13. 15. 29. 30. 42. 43. 45;
Utilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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E' pure importante il verbo lìi<jlciw (avere sete), che in questo brano si legge tre volte, di cui due volte è pronunziato da Gesù, in 4,13.14, non però riferito a se stesso 133 , e una volta in bocca alla donna samaritana (4,15), riferito però a se stessa: «tvo: µ1) lìi<jlw (pePChé non continui ad avere sete)». Assieme a questo verbo si può notare la menzione dell'acqua, frequente in questo contesto (vv. 7.10.11.13.14.14.15) 134 e il verbo 'ltlvw (bere) che nel contesto del c. 4 si legge 6 volte 135 • Quanto ai possibili riferimenti a Is 55,1-3 due elementi soprattutto si possono notare 136. Anzitutto il verbo &yopci!;w (comprare) m In Is 55,1 Dio esorta a comprare (ayopaO'«'t'E) senza denaro e senza prezzo vino e latte 138 • In Gv 4,8, nel contesto cfr. Gv 4,6.6.14); q>pÉo:p (vv. Il. 20; cfr. Gv 4,11. 12). Il fatto poi che Rebecca corse a casa ad annunziare (Gen 24,28-31) richiama la samaritana che va ad annunziare ai suoi concittadini (Gv 4,28). In Gen 29 abbiamo un analogo incontro tra Giacobbe e Rachele, L'unico elemento di relazione però è il solo termine q>pÉo:p (Gen 29, 2. 2. 3. 8. 10). Anche in Es 2,16 si legge che le 7 figlie del sacerdote di Madian venivano ad attingere acqua da un pozzo, presso il quale Mosé si era messo a sedere (v. 15). Mosè attinse per loro. Le fanciulle narrano: «un egiziano [ ... ] ha attinto per noi». Non mancano in Gv 4 degli elementi allusivi a questo episodio. Cfr. soprattutto Es 2,15 e Gv 4,6 (anche Gesù sedeva). Molto più vagamente i termini <ppÉa.:p e '1tT}yi} potrebbero richiamare la storia di Agar _cacciata da Abramo (Gen 16, 7. 14; 21, 14. 19). Per quanto riguarda il termine <ppÉa.:p si può segnalare anche Nm 21,26. Non entro in merito alla tematica del pozzo, peraltro ampia e complessa. Segnalo solo uno studio che può aprire delle prospettive: E. TESTA, Il Targum di /s 55, 1.13 scoperto a Nazaret e la teologia sui pozzi dell'acqua viva, Liber Annuus Fr 17 (1967) 259-289. 133 Cfr. 4, 13: «Chi beve di quest'acqua, avrà ancora sete»; v. 14: <{chi beve dell'acqua che io darò, non avrà mai sete». 134 L'espressione VOwp SWv di 4, 10 richiama espressioni analoghe nell'AT. Cfr. Gen 21, 19; 26, 19; Lv 14, 5. 6. 50. 51. 52; Nm 19, 17; Ct 4, 15; Ger 2, 13. 135 Cfr. 4, 7. 9. 10. 12. 13. 14. Altri usi sono in 6, 53. 54. 56; 18, 11, oltre ovviamente 7, 37. 136 Diciamo solo che si tratta di possibili riferimenti. Non si può escludere il riferimento a Is 55, 1-3, ma nemmeno esplicitamente affermarlo. 137 Non è frequente questo verbo. In Giovanni si legge solo in 4,8; 6, 5; 13, 29 (cfr. inoltre Mt 14, 15; Mc 6, 36. 37). 138 Il riferimento a Is 55, l può essere più possibile per l'analogia del contesto. Is 55, 1 si legge nel contesto in cui Dio invita a venire al-
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dell'incontro di Gesù con la donna, l'evangelista nota che i discepoli erano andati in città a comprare (à.yopà.crwcnv) cibi 139 • L'altro elemento è suggerito dai test,i ·paralleli .di Ap 21,6 e 22,17 dove, al termine di ogni frase, si legge l'avverbio lìwpEÙ.V " 0. Questo avverbio nel vangelo di Giovanni si legge solo in 15,25 141 • In Gv 4,10 però Gesù dice alla samaritana: «se conoscessi il dono di Dio», usando il sostantivo -li lìwpEci 142 . L'uso di questo termine all'autore del 4" vangelo può essere stato suggerito da Is 55,1, dove emerge la prospettiva della gratuità? Pongo solo il problema"'-
l'acqua. In Gv 4, 8 il contesto è quello della donna che va ad attingere acqua. 11 verbo àyopciSw può richiamare i testi che narrano la vicenda di Giacobbe e dei suoi figli, che erano scesi in Egitto a comprare viveri, da Giuseppe. Si noti che nel v. 5 l'evangelista menziona Giuseppe. Cfr. Geo 41, 57; 42, 5: «Vennero anche i figli di Israele a con1prare (àyopriSE1.v))); v. 7: «Comprare cibi (b.yopci.rra.i. BpWµa.-rcx.)». Inoltre 43, 4. 22; 44, 25. 139 In questa prospettiva il termine -rpocp-r'} (solo qui in Giovanni) può riassumere il pane, il vino, il latte di Is 55, 1-3 o può ricollegarsi al termine ppwµacra: dei testi di Genesi (Gen 42, 7; 43, 4. 22; 44, 25). 140 Ap 21, 6: «lo a chi ha sete (i;Q OL~Wv-r1J darò dalla fonte dell'acqua della vita gratuitamente (ùwpEci.v))>. Ap. 22,17: «chi ha sete (ò ùn!JWv) venga, chi vuole prenda acqua di vita gratuitamente (OwpEriv))>, Si è già notata l'enfasi che in questi due testi l'avverbio posto alla fine assume. 141 Nel contesto di una citazione: «mi odiarono senza motiv_o (0{iJpEciv)>) (cfr. Sai 35, 19; 69, 5). Nel NT però si legge anche in Mt 10, 8. 8; Rm 3, 24; 2Cor 11, 7; Gal 2, 21; 2Ts 3, 8. 142 Nel vangelo di Giovanni si legge solo qui. Ma degli usi importanti del termine nel NT (Al 2,38; 8,20; 10,45; 11, 17; Rm S, 15.17; 2Cor 9, 15; Ef 3, 7; 4, 7; Eb 6, 4) inducono a credere che esso appartenga al vocabolario neotestamentario. 143 Ho suggerito questa ipotesi a riguardo dell'avverbio OwpEciv in Ap 21, 6; 22, 17, nel mio studio: L'utilizzazione del Deutero-l.'iaia ... , cit., 123. 124. In Is 55, l l'invito a venire è rivolto anche a chi non ha denaro; c'è l'esortazione a comprare senza denaro e senza prezzo vino e ]atte. Nel v. 2 la prospettiva cambia: non più comprare senza denaro, ma spendere bene il proprio denaro. Sia l'autore del 4° vangelo che l'autore di Apocalisse avrebbero riassunto questa prospettiva nel termine {i OwpEti o nell'avverbio &wpE<iV· Si può però notare l'enorme differenza <li prospettiva che si determina tra l'avverbio &wpEriv di Apocalisse e il sostantivo 1}
Utilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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La relazione di Gv 4,7-15 con gli altri testi già considerati è data dai seguenti elementi: a. con Cv 19,34, per il solo termane Oowp b. con Cv 19,28-30 per il verbo oc<)iciw 144 c. con Gv 7,37-39 per il termine Oowp 145 e i verbi oc<)iciw, 7tlvw, Epxoµa.t.
d.
146.
Un ultimo confronto si può stabilire tra Gv 4,7-15 e Gv 2,1-11, per i termini 6:.vi:ÀÉw 147 , VOpla 148 , OOwp 149 •
OwpEci del 4° vangelo, la cui considerazione però non rientra direttamente nel presente studio. 144 Colgo l'occasione qui per notare una relazione molto importante che emerge tra 4, 6 e 19, 13, i due soli testi giovannei dove è menzionata l'ora sesta. In uno studio più ampio questa relazione rivela tutta la sua importanza. E' utile però adesso notare la relazione delle frasi: 4, 6 19, 13 sedeva (è:xa.ilÉ~E'tO sogg. Gesù) fece sedere (èxtiìh.O"EV sogg. Gesù) presso (È71:1.) su (È7tD la fonte (-r'jj 7t1JYii) un seggio ((ji)µocnç) ora (wpa) ora (wpo)
era (r}v) era (T'iv) circa (Wç) circa (Wc;) sesta (Éx1."T}) sesta (ÉX't'T}) Il parallelisn10 conferma la lettura al transitivo del verbo txtii}LcrEV in 19, 13: non Pilato sedette, ma Pilato fece sedere Gesù. Per questo problema cfr. A. KuRFESs, 'EKA0ILEN 'EIII BHMATOL (lo 19, 13), Bib 34 (1953) 271; I. DE LA PorrERIE, Jésus roi et juge d'après lo 19, 13: E:xtii}r.cre:v É7CÌ ~1\µa't"oç. Bib 41 (1960) 217-247. Anche F. SPADAFORA, lo 19,13, in Saggi di critica ed esegesi biblica, Lateranum 28 (1962) 213-214. L'indicazione cronologica dell'ora sesta in 19,13 sembra essere lo sfondo su cui si collocano gli eventi al Calvario. 145 Notiamo soprattutto Gv 4, 10 (00wp ~Wv) e 4, 11 ('t'Ò OOwp 't0 ~Wv); cfr. 7, 38 (ì)lìm:oç l;Giv't"oç). 146 Cfr. 7, 37: {{venga a me e beva~}. Gv 4, 7: «Viene una donna dalla Samaria ad attingere acqua)). Cfr. v. 15: «[ ... ] dammi quest'acqua, perché non abbia più sete e non venga (OtEpxwµa.d qui ad attingere». 147 Oltre Gv 4, 7.15, il verbo à.v-rÀf:w si legge solo in Gv 2, 8: «attingete (ci.v-rÀ-r)cra:i:e:) ora e portate al capotavola}>; v. 9: «i servi [ ... ] che avevano attinto (ot i}v-rÀ.T}x61."e:ç) l'acqua)), Questa esclusività di usi suggerisce la relazione tra i due testi. 143 Gv 2, 6: «sei idrie (UOpla:t) di pietra». v. 7: «riempite le idrie ("t"Ò:.ç ùOpla:ç) di acqua». 149 Gv 2, 7. 9. 9.
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Sembra che in tutti questi testi ci sia un progresso terminologico che parte dall'acqua (19,34) e culmina nel verbo avi;Mw di 4,7.15 e soprattutto di 2,8.9. Prima di proporre una sintesi di tutti questi testi, notiamo altni elementi dove un'allusione a Is 55,1-3 può essere possibile: a. anzitutto la nozione di pane (&p-roç) nel c. 6, nei vv. 5.7.9.11.13.23.26 e soprattutto nei vv. 31.32.33.34.35.41.48.50.51. 51.51.58.58. In Is 55,2 si parla di pane in modo negativo: non bisogna spendere denaro in ciò che non è pane. Ma, a parte il fatto che il termine pane non s,i legge nei LXX 150 , si può notare che la nozione di pane tornerà in Is 55,10. Con quest'ultimo testo bisognerà stabilire più particolarmente un confronto. b. Il verbo ascoltare (&.xovw), che leggiamo in Is 55,3 151 • Nel vangelo di Giovanni il verbo axovw rkorre con una certa frequenza"'- Ma anche nell'AT H verbo ascoltare ha, come numero e pregnanza di usi, tale importanza che è ben difficile ricondurre ad un solo testo la molteplicità degli usi giovannei del termine, pur senza dimenticare l'enfasi con cui il comando di ascoltare è espresso in Is 55,2.3. c. Il verbo mangiare (fo·ìllw), i cui usi giovannei sono compendiati quasi tutti nel c. 6 "'- Il verbo mangiare si legge in Is 55,l.2 154 ; ma, senza escludere un'aHusione a Is 55,1.2, il c. 6 del iso Si legge invece nella versione di Teodozione (Ev oUx d.pi:otc) e Simmaco (oùx Ù1tÈp &p'twv). 151 V. 2: «ascoltate (àxoUcro:'t"E) me e mangerete bene»; v. 3: «ascoltate (LXX: ÈTI:a.xoUo-a."'tE) [ ... ]>}, Il testo ebraico formula il comando di ascoltare in modo molto enfatico all'imperativo, seguito dall'infinito costrutto, del verbo sama'. Nel v. 3 però si legge solo l'imperativo. 1s2 Circa cinquantotto volte. 153 Undici volte nel c. 6 (vv. 5. 23. 26; soprattutto vv~ 31. 31. 49. 50. 51. 52. 53. 58). Si legge anche tre volte nel c. 4, riferito a Gesù; v. 31: «Rabbì, 1nangia (cpcl:yE)»; v. 32: «io ho un cibo (~pWcri.v) da mangiare (cpayEiv), che voi non conosceten; v. 33: «forse qualcuno gli ha portato da mangiare (cpayELv)>>. Un ultimo uso è il 18, 28. 154 Nel testo ebraico ('akal) e nelle versioni di Aquila, Simmaco, Teodozione (cp!X.yE'tE). I LXX mutano invece in «bevete (1tlE"tE)»; ma qualche lettura variante ha cp!X.yE"tE· Nel v. 2 però leggiamo: «ascoltate me e mange~ rete benen. Stavolta i LXX traducono cp<i.yecr1'e &,ya,l}a,.
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vangelo di Giovanni orienta pure ai testi che descrivono o evocano l'episodio veterotestamentario della manna nel deserto. d. Infine l'espressione di Is 55,3: «ascoltate e vivrà la vostra anima» 155 , oltre il tema ·della vita 156 , presenta un legame tra vita e ascolto. Non rientra nel presente lavoro lo svi.Juppo del tema giovanneo della vita. Notiamo però soltanto qualche testo che può richiamare questa temaNca di Is 55,3. In Gv 5,24 leggiamo: «chi ascolta (ò ... àxouwv) la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna» 157 • Subito dopo, nel v. 25, Gesù continua: «viene l'ora ed è adesso, quando i morti udranno la voce del Figlio di Dio e queUi che hanno udito vivranno» 158 • Nel v. 28 infine sono ripresi gli stessi temi del v. 25, modificati e approfonditi: «viene l'ora in cui tutti quelli che sono nei sepolcri, udranno la sua voce». L'autore non continua menzionando semplicemente la vita, ma introducendo la tematica più ampia del giudi;oio 159 • In questo contesto troviamo anche Gv 5,40, dove il tema della vita non è legato all'ascolto, bensì all'andare a Gesù. Si rimane ancora nell'ambito della tematica di Is 55,1-3 160 • In questa prospettiva è pure im-
iss Così nel testo originale. I LXX aggiungono l'espressione Èv ò:yafroLç («vivrà di beni la vostra anima))). !56 Il tema de1la vita è frequente nel 4° vangelo. Con il verbo ~cX.w (5, 25; 6, 51. 57. 58; 11, 25. 26; 14, 19); con il termine l;w{j (1, 4; 3, 15. 16. 36; 5, 24. 26. 40; 6, 27. 33. 35. 40. 47. 48. 54; 11, 25; 14, 6; 17, 2; 20, 31). La fonte della vita è Gesù (l,4;5,26.40; 6, 33. 35. 68 ... ); la vita è legata alla fede (3, 15. 16. 36; 5, 24; 6, 40. 47; 20, 31), al mangiare il pane (6, 27. 48. 54). 157 Troviamo gli elementi essenziali del testo di ls 55, 3: il verbo ascoltare e la tematica della vita. Sembra che questo verso di Gv 5,24 sia un an1pliamento di Is 55, 3: l'oggetto dell'ascolto è la inia Parola. Tra l'ascolto e la vita si introduce la tematica della fede. La tematica della vita ha un maggiore approfondimento: dal generico «Vivrà}), _si passa al più specifico «avrà la vita eterna». iss Qui lo schema è ancora più essenziale e più vicino a Is 55, 3: l'au~ tare non introduce nessun altro elemento. Specifica solo che l'oggetto del· l'ascolto è «la voce del Figlio di Dio» e marca di più il tema dell'ascolto, introducendo due volte delle forme del verbo O:xoUw. 159 Si contrappone resurrezione di vita CSwflç) a resurrezione di giudizio (xplo-Ewç). iro Gv 5, 40: '<non volete venire a me (EÀ.i}ELV 11:p6c:; µE) per avere la
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portante il c. IO dove, fin ·dall'inizio, nel v. 3, s.i legge delle pecore che ascoltano la voce del pastore. Nel v. 4 si dice che le pecore lo seguono {iixoÀ.ouìlEt) IM Il tema della vita compare nel v. IO, dove Gesù dichiara di essere venuto «perché abbiano vita e abbiano abbondantemente». Il tema deH'ascolto torna ancora nel v. 16, dove l'effetto però non è la vita, ma l'unità 162 • Infine i1mportanti sono i vv. 27.28: «le ·mie pecore ascoltano la m1ia voce e io le conosco e mi seguono e io ·dò a loro la vita eterna» 163 • Si può notare che nel c. 6 la tematica della vita sta in relazione con la tematica .del mangiare'"- Così in 6,51: «io sono il Pane vivo che è disceso dal cielo 165 • Se qualcuno mangia vita (Lvc.x. Swi)v Ex'fJ't'E)». Si noti il parallelismo tra 5, 40 e 7, 37: 5,40 7,37 l'assetato non volete venga a me venire a me e per avere
la vita
beva
Cfr. Is 55, 3: «Venite a me, ascoltate e vivrà la vostra anima>), I LXX modificano il testo originale: non scrivono «venite a me», ma «seguite le mie vie (E."Jta.xoÀiou~crcx.-i:E i;a.iç òOoLç µou)n. Le versioni di Aquila, Simmaco, Teodozione, presuppongono un testo come quello originale. Conservano infatti l'espressione 7tp6ç µE che presuppone un verbo dì movimento. 161 Si può ricollegare questo elemento a Is 55, 3 (LXX): «seguite le·mie vie»? La difficoltà sta nel fatto che globalmente non è chiaro se l'evangelista segue il testo ebraico, i LXX o altre versioni. 162 Cfr. 10, 16: «la mia voce ascolteranno (<i.xoUcrovcn.v) e diventeranno un solo gregge, un solo pastore». 163 Tra il tema dell'ascolto e quello della vita, l'evangelista introduce le tematiche della sequela e della conoscenza. Chiaramente amplia lo schema. Torna però ancora il problema di quale testo segue l'evangelista. Qui possiamo notare qualche altro testo non del tutto chiaro però: 12, 47. che considera il caso di chi ascolta le parole di Gesù ma non le custodisce: egli si imbatte nel giudizio operato dalla stessa Parola. Inoltre 18, 37, dove si dà il criterio per ascoltare la voce di Gesù: essere dalla verità. Cfr. al contrario 8, 43. tM Nel c. 6 Gesù si definisce il Pane. Cfr. 6, 35 (il Pane della vita); 6, 48. La tematica del pane sarà poi ripresa a proposito dei riferimenti con ls 55, IO. 11. Il tema del mangiare, come ho già notato, compare anche nei vv. !. 2 di Is 55. . 165 Sarà oggetto del nostro studio anche l'espressione: ~<che scende (xa:r.af3alvw) dal cielo (Éx -roU oùpavoU)»,
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di questo pane vivrà in eterno 166 ». In questo contesto possiamo dtare anche 6,27: «operate non un cibo (~pw<nv) 167 che perisce, ma un cibo cl1e ri,mane per la vita eterna». e. Infine il testo di Gv 6,35 sembra contenere una qualche particolare allusione a Is 55,1-3: «io sono il pane della vita: chi viene a me (ò ÉpxoµEvoç npoç ɵÉ) non avrà mai fame, chi crede in me non avrà sete (ou µ1] 0L1j11\o-n)» 168 . Ofr. inoltre Gv 6,45: «chiunque ha udito dal Padre ed ha imparato, viene a me (epxE-i:aL TipÒç ɵÉ)» 16'.
Tutti questi elementi che isolatamente possono non suggerire nulla al nostro scopo, messi assieme rivelano bene che l'autore del 4° vangelo ha in mente il c. 55 del libro di Isaia e, più particolarmente per il momento, i vv. 1-3. Volendo adesso riassumere la prospettiva con cui il nostro evangelista riprende e utilizza H testo di Is 55,1-3, possiamo proporre alcune tematiche riprese dal testo profetico: a. l'assetato è invitato ad andare all'acqua anche senza denaro b. bisogna andare e mangiare c. non bisogna spendere denaro in ciò che non è pane e in ciò che non sazia d. bisogna ascoltare il Signore per avere la vita. 166 Cfr. anche v. 54: «chi mangia (cambia il verbo: O 'tpWywv) la mia carne e beve il mio sangue, ha vita <Sw'l)v) eternan. Inoltre v. 57: <<Chi mangia me (ò i;pWywv) anch'egli vivrà CST]o-EL) a causa mia»; v. 58: «non come mangiarono Gfrpa:yov) i vostri padri e morirono. Chi mangia (0 -rpWywv) questo pane vivrà in eterno». Nel v. 60 però si torna ancora al tema dell'ascolto: «dura è questa parola e chi può ascoltarla (àxoUEi.v) ?». Al contrario, cfr. v. 63: «le parole ('trl. p'l)µa.i:a) che ho detto a voi, spirito sono e vita». Infine v. 68: «parole (j)-f}µo::ta.) di vita hai)). 167 Il termine f3pWcr1.ç. come vedremo, richiama Is 55,10. 168 Le allusioni sono diverse: il pane, la vita, l'andare a Gesù G!pxoµa.r. rtpéç cfr. 7,37; 5,40). Il verbo 0Ltf;G.w esprime proprio il motivo per cui, secondo Is 55,l bisogna andare all'acqua. Cfr. Gv 4,15: «perché non abbia più sete». 16\t I due temi di Is 55,1-3: ascoltare, andare a, vengono ripresi molto liberamente dall'evangelista e inseriti in uno schema teologico più approfondito e più ampio. Secondo Is 55,1-3 si va a Dio, per ascoltare; qui invece si va a Gesù dopo e in conseguenza dell'ascolto. Muta anche il rapporto delle persone: si ascolta il Padre (causa) e si va a Gesù (effetto).
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Il senso e l'intima connessione di queste tematiche nel testo di Isaia sono stati già evidenziati nella prima parte dd pre;sente lavoro. L'autore del 4° vangelo riprende questi elementi in una n,uova co·nnessione e in una nuova sintesi, che giustifica talora una più libera ripresa del testo. La sinte&i è data dalla persona .di Gesù e dal suo mistero di Parola di Dio (!,!) divenuta carne (1,14). Nella persona di Gesù i singoli elementi, in nuovo dinamismo, convergono e si niassumono: a. Gesù invita l'assetato a venire all'acqua che lui dà, essendo lui la fonte dell'acqua. b. Il mangiare bene a cui esortava Is 55,1-3 è possibile in Gesù, perché lui è il pane, e il frutto di questo mangiare è la vita. c. Alla vita so perviene ascoltando Gesù. E' chiaro che queste tematiche provenienti da Is 55,1-3 e riassunte in Gesù dall'evangelista vengono riprese e inserite sullo sfondo più ampio della propria esperienza e riflessione teologica, della rivela~ione neotestamentaria e della molteplicità di altri testi e immagini veterotestamentarie che egli riprende e intreccia. In particolare l'invito all'assetato a venire a lui e a bere, anche se esplioitamente è formulato in 7,37-39, in realtà è sviluppato in tutti i testi di Gv 19,34; 19,28-30; 7,37-39; 4,7-15; 2,1-11. a. In 19,34 si descrive l'apertura della fonte dell'acqua. L'azione del soldato è la positiva azione di legame tra la morte di Gesù e il frutto della sua morte. La sua morte rende Gesù fonte di acqua viva e ,il soldato, ripetendo il gesto di Mosè, apre la fonte. Si realizza allora una duplice scrittura. La prima (v. 36) si ricollega aH'azione negativa dei soldati, che non gli spezzarono le gambe: la morte di Gesù è stata l'immolazione del nuovo agnello pasquale''°- La seconda scnittura:
170 A questa prima scrittura si ricollega la menzione del sangue. Cfr. la tematica del sangue in Es 12. Cfr. anche J. BoNSIRVEN, La nolation chronologique de Jean 19,14, aurait-elle un sense symbolique?, Bib 33 (1952)
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··guarderanno a colui che hanno trafitto» (v. 37, cfr. Zc 12,lOb) spiega, alla luce del contesto di Zc 12,10, il senso deH'azione del soldato e l'immagine dell'acqua: si apre la fonte (Zc 13,1) e sgorga acqua, che è lo Spirito (cfr. Zc 12,lOa) m. Gli uomini così sono indotti a guardare in atteggiiamento di compunzione e di fede a colui che hanno trafitto. b. In 19,28-30 172 abbiamo individuato due elementi fondamentali: la sete di Gesù e il ·dono dello Spirito, inseriti nello sfondo più ampio del terzo elemento, il compimento della Scrittura. Si nota anzitutto il passaggio dalla scrittura concreta (19,36.37) alla Scrittura globale (19,28ss): non si realizza una scrittura particolare, ma la Scrittura nel suo complesso. I due elementi che tra di loro stanno in relazione: la sete di Gesù e il dono dello Spirito, sembrano essere il punto iniziale (sete) e il culmine (dono dello Spirito) di tutto un cammino, che però negli elementi intermedi, almeno esplicitamente, non è descritto dall'evangelista. Dicendo «ho sete», Gesù rivela agli uomini la sete, condizione indispensabile per potere poi donare lo Spirito. Il progresso rispetto al precedente testo di 19,34 si percepisce bene. Oltre il passaggio dalla scrittura particolare aHa Scrittura nel suo complesso, il progresso tematico è il seguente: la fonte è stata aperta e adesso bisogna accogliere quest'acqua ... Ma la condizione indispensabile per poterla ricevere è avere sete e Gesù rivela la sete, alla quale risponde donando lacqua che è lo Spirito.
511-515, secondo cui in 19,14 e 19,36 l'evangelista mostra che Gesù realizza la figura deJl'Agnello pasquale. 111 Cfr. nota 122. 112 A questo testo dovremo tornare per il verbo 1."E1."ÉÀEcr1."rt.L· E' importante notare il seguente schema: A. tutto era compiuto B. ho sete A'. è compiuto B'. diede lo Spirito Cfr. anche I. DE LA PoTTERIE, La sete di Gesù morente... , op. cit., 45. Sullo sfondo del compimento stanno in relazione la sete di Gesù e il dono dello Spirito.
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c. Il testo di 7,37-39 segna un ulteriore progresso nispetto a 19,28-30. Gesù si rivolge a chi è assetato, al quale formula un invito. Per potere accogliere l'invito bisogna prima riconoscersi tra gli assetati; ciò è rpossribile solo se è stata rivelata la sete. Nel testo precedente Gesù ba rivelato la sete e ora può invitare l'assetato a venire a lui e bere. L'acqua è lo Spirito di cui, in conformità alla Scrittura, egli è la fonte. La Sc11ittura, genericamente menzionata in 19,28-30, qui, in 7,37-39 riceve un contenuto preciso: parlava del fatto che dal seno di Gesù dovevano sgorgare fiumi di acqua viva. Questi si identificano con lo Spirito. d. L'accoglienza dell'invito sembra essere descritta in Gv 4,7-15 dove l'assetato si identifica con una sola persona, paradigmatica 173 , tipica, la donna samaritana"'- Senza ignorare la profondità del c. 4, sembra che l'azione della donna sia precisamente la risposta all'invito di 7,37: 7,37: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva». 4,7: «viene una donna [ ... ] ad attingere acqua>>. La samaritana appare certo l'assetato che può saziiare la ·SUa sete solo con l'acqua che Gesù dà (cfr. 4,13-15). La prospettiva progredisce: il problema non è più queHo di andare a Gesù, ma di atti,ngere acqua, dopo essere an,dati a lui 175 • e. Ma il problema in 4,7.15 rimane aperto. Si dice che la donna samaritana viene ad attingere (v. 7) acqua e chiede a Gesù che le dia la sua acqua, perché non abbia più sete e non venga più lì ad attingere (v. 15). Il testo non contrappone il dono di Gesù dell'acqua all'azione stessa di attingere, ma
173 Che riceve molta luce se inserita in un altro filone giovanneo, che però esula da questo lavoro. 174 Ciò potrebbe spiegare la diversa formulazione giovannea di 7 ,37 rispetto a Is 55,1. Gv 7,37: «Se qualcuno ha sete»; Is 55,1 (TE): «chiunque è assetato»; Is 55,1 (LXX): «gli assetati». 175 Abbiamo già notato come il verbo civ1." ÀÉw, usato due sole volte, precisamente all'inizio (v. 7) e alla fine del brano (v. 15), costituisce quasi una inclusione letteraria a questa prima parte del dialogo tra Gesù e la samaritana.
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alla riipetizione di un certo attingere. Ciò significa che implicitamente la samaritana sarebbe invitata a compiere un'altra azione di attingere, quella però che non ha bisogno di essere ri petuta, perché è sufficiente a saziare la sete 176 • Quest'ultima azione non viene descritta qui, ma sembra che sia descritta nel c. 2, l'episodio di Cana, dove Gesù espressamente comanda di attingere (v. 8: cìvi:À:1\uai:E) e portare al capotavola. Nel v. 9 seguente si parla di coloro che hanno attinto (ol i}vi:À.11x6i:Eç) 1
l'acqua in. Emerge in tutti questi testi un filò conduttore che può essere proposto nel seguente modo: a. si apre la fonte (19,34); b. Gesù rivela la sete, a cui risponde mediante il .dono deHo Spirito (19,28-30); c. rivelata la sete, invita l'assetato a venire (7.37-39); d. la donna samaritana, assetata, accoglie l'invito e viene ad attingere (4,7-15); e. Gesù comanda di attingere (2,8.9) m
176 Si può notare la forn1ulazione della frase di 4,15, in contrapposizione anche alla frase di 4,7: 4,7 fpXE'tlXL iiv-rÀi}o-aL
4,15 lìcipxw1w;c
àvi:À.ELV
II verbo 61.Épxwµcx1. per la particella Oui e per la sua formulazione al congiuntivo presente, csprirnc una venuta concreta abituale. Co1ne pure il verbo àv'TÀEi'v, all'infinito presente, esprime la ripetizione. La particella finale negativa l'.va p.i) mira a far cessare la ripetizione di un'azione. Il confronto con il v. 7 suggerisce che c'è un altro attingere, su un altro piano (cfr. v. 14: «quest'acqua [ ... ]» - {d'acqua che io darò[ ... ]»), che avviene una volta sola, perché basta a saziare la sete. 177 Si noti il participio perfetto sostantivo o!. fiv"t' À.ìpCé"t'Eç, che non indica coloro che hanno compiuto qucll 'azione concreta di attingere, niente impedendo che per il futuro possano tornare ad attingere. Gli o!. f]v'tÀ.Tr x6TEç sono piuttosto quelJi che, avendo compiuto l'azione di attingere, in essa permangono e da essa sono caratterizzati; non hanno più bisogno perciò di attingere. Evidentemente non si tratta più di un attingere materiale. Gv 2,8.9 sembra perciò costituire il vero culmine di un filo conduttore, che parte da 19,34 e culmina in 2,8.9, passando attraverso 19,28-30; 7,37-39; 4,7-15. 178 Il profilo di questo lavoro è soltanto l'utilizzazione di Is 55 nel 1
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La seconda prospettiva suggerita da Is 55,1-3, quella di Gesù - pane, del quale bisogna mangiare per avere la vita eterna, è praticamente compendiata nel c. 6, dove l'evangelista sviluppa '1a tematica del pane. Il testo di Gv 6,35 suggerisce che proprio nel pane si realizza tutta la prospettiva di Gesù - fonte di acqua, diffusamente rias•sunta sopra 179 • Tre prospettive, in ·pratica, il testo di Is 55,1-3 sembra suggerire ali' evangelista: I. Gesù è la fonte di acqua da bere. 2. Gesù è il pane da mangiare. 3. Gesù è il pastore da ascoltare e seguire. In ultima anaJ,isi la prospettiva è una sola: Gesù - causa di vita eterna, che egli dona in quanto è fonte di acqua, pane, pastore 180 •
III. IS 55,10.11 E IL VANGELO DI GIOVANNI
Nel confronto tra questi versi di Is 55 e il vangelo di Giovanni, seguirò una via diversa rispetto alla parte precedente. Tenterò di riscontrare le singole frasi del testo di Isaia nel van-
\'angelo ùi GioYanni. Un'analisi più approfondita e specifiCa dei singoli testi avrebbe presentato in maniera molto più ricca e articolata questo filo conduttore, che, sulla scia di Is 55,1-3, l'evangelista sembra sviluppare nei testi sopra citati. 179 Si può notare lo schen1a di Gv 6,35: a. 6 Epx6p.Evoç rcpòç ÉµÉ ov µli 7tEtvci:.O"n b. ìtLO"--CEVwv El.e, ÉµÉ oV µi) 0Lo/liO"EL Leggian10 qui il verbo ÒL~d:.w, che è l'unico uso oltre i testi considerati (cfr. 4,13.14.15; 7,37; 19,28). L'espressione ò Èpx6µEvoc; npòç ȵÉ, riferita a Gesù. Pane, richian1a 7,37: «venga a men. L'andare a Gesù sta in rapporto con il credere in lui. I1 cammino a Gesù è il credere in lui. Chi va a GesùPane, trova Gesù-fonte dì acqua. Il Pane è la fonte dello Spirito.
o
1so Una lettura più ampia del vangelo di Giovanni aiuta a riassumere organicamente queste tre prospettive. Gesù è la Parola che si fa pastore e, facendosi Pane, diventa fonte di acqua viva. Come pastore, conduce al Padre, come Pane, è fonte dello Spirito. Ovviamente le due prospettive si integrano reciprocamente.
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gelo di Giovanni; poi, attraverso l'analisi delle relazioni, proporrò una sintesi sul modo come l'evangelista utilizza questi versi.
«Come scende la pioggia o la neve dal cielo»
l.
In questa frase, che contiene il paragone della pioggia e della neve, riferito subito dopo alla Parola di Dio, è importante l'espressione «scende [ ... ] dal cielo» (xa:-ra~jj ... tx -rou oùpavou) 181 • Troviamo usato il verbo xa-.:a~a.ivw e il complemento di moto .da luogo (dal cielo) è costruito con i:x e il genitivo. Questa espressione, nel vangelo di Giovanni, è usata in diversi testi, prevalentemente compendiati nel c. 6 182 , in •relazione al Pane"'- In 6,33 Gesù afferma: «il Pane di Dio è colui che scende (ò xa1:1<0alvwv) dal cielo (tx i:ou oùpavov)». Ancora in 6,41: «Io sono il Pane (ò &p·wç) che è disceso (o xa;·rn0U.ç) dal cielo (tx i:ou oùpavou),, 184. Inoltre 6,50: «questo è il Pane che dal cielo scende (o tx -rou oùpo:voiJ xccro:0alvwv)» 185 • Così l'espressione xa:r.a.f3alvw ... Èx "'t'oU oùpavou è tipica del c. 6 del vangelo di Giovanni 186 • Invero questa espressione non è assente dal NT. Si legge soprattutto in Ap 21,1.10, per caratterizzare la futura discesa escatologica della
1s1 TE: jered (scende) ... n1in-hassan1ajm (dal cielo). 1s2 Oltre il c. 6 l'espressione si legge in 3,13, riferita da Gesù a se stesso: 1<nessuno è salito (àvo:f3Éf311xev) al cielo (e:i.c; "t"Ov oUpav6v) se non colui che dal cielo (è:x --coU oùpavoU) è disceso (xa:Ta.[36:.ç), il Figlio dell'uomo». L'allusione è a Pr 30,4 ma l'indole e la formulazione del testo di Proverbi è diversa: <1chi è salito ('tlc; &.vÉ0i]) al cielo (Ei.c; 'tbv oUpa.v6v) ed è disceso (xa.l. xa.--rÉf3-11)}). Il movimento è esattamente inverso. Non si legge nel testo di Proverbi l'espressione Ex 't"OV oVpa.voV· Il testo di Proverbi sottolinea la salita al cielo, il testo di Gv 3,13 invece la discesa dal cielo. 183 Il pane (Cip"t'ov ELç BpWcrLv) è espressamente menzionato nel contesto stesso di Is 55,10.
184
Cfr. v. 51, dove l'autore specifica: ((il pane quello vivente (0 &p'toç
é SWv)» e inverte l'ordine dei termini é Ex 'toU oVpa:voU xa.'ta.(3cX.ç. 185
Cfr. 6,58: ((che è disceso dal cielo (0 Eç oùpa.voU xa.-ra.(3tiç)». Altre volte manca il verbo xo::ra.Bcx.lvw. Cfr. 6,31: 11un pane dal cielo diede loro da mangiare». Cfr. v. 32: unon Mosè ha dato a voi il pane dal cielo, ma il Padre mio dà a voi il Pane dal cielo». 186
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Gerusalemme celeste 187• Ma la peculiarità giovannea nel vangelo è che essa è riferita al Pane 188 • La tematica del pane che viene dal cielo è presente nell'AT 189 , ma la formulazione letteraria è diversa 190• L'espressio1s1 Cfr. Ap 21,2: (cla città santa [ ... ] vidi, nzentre scendeva dal cielo (Èx i;oU oùpavoiJ), da Dio (cl.7tò -roU 11EoU)». Cfr. anche identica espressione in 21,10 e quasi identica in 3,12. La prospettiva però è diversa. Riguarda la città santa e si riferisce al tempo escatologico. In Giovanni si tratta piuttosto del mistero dell'incarnazione che culmina nel Pane. Per il NT si può citare Mt 28,2: <(un angelo del Signore, sceso dal cielo»; 1Ts 4,16: «il Signore stesso [ ... ] scenderà dal cielo (6:1t' oUpavoV)». Qui però si tratta della venuta escatologica del Signore. Ap 10,l «un angelo forte che scendeva dal cielo (Èx -roU oùpavoU)». Cfr. Ap 18,1; 20,1. In diversi testi si parla di un fuoco che scende dal cielo (Ap 13,13; 20,9; Le 9,54: ait6). Ap 16,21: una grandine grande. 1ss Nel c. 6 ci sono però anche altre espressioni non riferite al Pane, n1a che Gesù riferisce a se stesso: 6,38, importante: «sono sceso (xcx:'t'af3€.f3YJxcx.) dal cielo (à1tò 'tOiJ oùpcx.voiJ), non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato)), A questo testo dovremo più avanti tornare. In 6,42 si ha la mormorazione dei giudei: «come ora dice che dal cielo (i:x -roU oùpo:voU) sono sceso (xo:-ro:f3Éf3YJxo:J?)). In 1,32 l'espressione è riferita allo Spirito: «ho visto lo Spirito discendere (xo:i:a.fja.Lvov) come colomba dal cielo (É.ç oVpa.voU)». 1s9 Soprattutto nei testi che narrano o evocano l'episodio della manna nel deserto. 190 Es 16,4: «ecco io sto per far piovere (\)w) pane dal cielo (&pi:ovç Èx -roU oUpcx.voU)». A questo testo pensa E. D. FREED, Old Testament Quotations in the Gospel of lohn, Brill, Leiden 1965, 11-16, a proposito della espressione Èx -roU oùpa.voV di 6,31, letto sia secondo il TE sia secondo la lettura del TO. Cita anche Es 16,15 (TE.TJI) e il Sa! 78,24 (TE.Targum). Si può però osservare che in questi testi manca il verbo xa-raf3alvw. Altri riferimenti alla letteratura giudaica sono proposti da C. K. BARRETT, The Gospel according lo St. John, SPCK, London 1955, 289. In Ne 9,15 leggiamo: <(pane dal cielo (i::t;, oUpcx.voV) hai dato a loro>). Inoltre Sai 78 (77), 20.24: «[ ... ] diede loro pane del cielo (oUpcx.voU)». 25. Il riferimento a Ne 9,15 è proposto da A. FEUILLET, Les thèmes majeurs du discours sur le pain de vie (Jn 6); contribution à l'étude de la pensée johannique, NRT 82 (1960) 803-822. Il riferimento al Sal 78 è proposto anche da F. X. PORPORATO, Panem coeli dedit eis: Ps 77 (78) et loh 6, Vo 9 (1929) 79-86. Ancora Sa! 105, 40: «li saziò con il pane del cielo (oUpavoU; 2MssTE <(dal cielo))); Sap 16,20; «[ ... ] dal cielo offristi loro un pane già pronto>>. Tutti questi testi si richiac mano bene nella descrizione del Pane in Gv 6, ma non giustificano ancora l'uso del verbo xcx.'t'a.Ba.lvw.
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ne stessa xa:taf3rx.lvw Éx "'t'OV oUpavoiJ non è assente dall' AT 191 , ma solo in I.s 55,10.11 è riferita al mistero della Parola che, scendendo come pioggia o come neve dal cielo, diventa pane. Questa pure è la prospettiva dell'autore del 4° vangelo.
2.
«così sarà la mia Parola che esce dalla mia bocca»
Prima di considerare gli altri elementi del v. IO, passiamo alla applicazione della comparativa: il modo di fare della pioggia e della neve richiama quello della Parola. Anzitutto è importante la menzione esplicita della "Parola" .di Dio, che nel testo di Is 55 compare nei vv. 10.11, anche se nei vv. 1-3 la sua prospettiva non è assente 192 • Il soggetto centrale dei vv. 10.11 è la Parola di Dio; ciò concorda molto bene con la prospettiva di fondo del vangelo di Giovanni, secondo cui Gesù è la Parola di Dio divenuta carne 193 • Di questa Parola si dice che «esce dalla bocca di Dio (8 f.àv F.1;1'),,iln Éx -rou <ri;6,µa:tl6ç
191 Nell'espressione «un fuoco che scende dal cielo». Cfr. 2Re 1,10.12b.14; Dt 28,14: «polvere dal cielo scenderà su di tei> Anche 2Mac 2,10 (il fuoco). Espressioni analoghe sono nel Sal 18,17; 144,5; Dn 4,10 (Th). l't2 Nel v. 3 infatti leggiamo: «ascoltate e vivrà la vostra anima>>. L'ascolto presuppone la parola. Prima ancord si legge ~(porgete le vostre orecchie>1. Ma anche nel v. 2 si parlava di ascolto, con1andato in modo enfatico all'imperativo seguito dall'infinito assoluto (ascoltaÌe: sim''U samòa'). Non è casuale il fatto che nei vv. 2.3. espressamente il Targum menziona la Parola: v. 2: «Obbedite (QBJLW QBL') alla inia Parola (LMJMRY)>). Cfr. anche v. 3. 193 La prospettiva della personificazione della Parola, centralissima nel vangelo di Giovanni, è lontana ancora dal lesto di Isaia. Nel testo ebraico leggiamo il termine dabar, ma nei LXX e nel Targu1n la pregnanza dcl termine è sminuita. I LXX traducono -rò pflµa e il Targum non usa il termina MJMR', ma FTGM. II termine fifiµa nel vangelo di Giovanni è usato 12 volte e, benché riferito alla Parola di Dio (3,34; 8,47; 17,8) e di Gesù (5,47; 6,63.68; 8,20; 10,21; 12,47.48;. 14,10; 15,7), è espresso al plurale e rimanda a parole concrete. Il confronto deve essere fatto con la Parola di Dio personificata, indicata nel vangelo di Giovanni con il termine À6yoc; (1,1.1.1.14), Cfr. anche 5,24: «chi ascolta la mia parola (Tbv À6yov µou). 38; 8,31.37.43.51.52; 10,35; 12,48; 14,23.24; 15,3.20. Nonostante la differente concezione, la prospettiva della Parola rendeva appropriata e riferibile a Gesù la ripresa di Is 55 da parte dell'autore del 4° vangelo.
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µou)». Diverse volte, con il verbo éE,Epxoµa.c (uscire), Gesù esprime la sua origine da Dio. Così in 8,42: «da Dio sono uscito (Éx i:ou ilEoii él;ijÀ.itov) e vengo»; 13,3: «da Dio uscì»; 16,27: «avete oreduto che da Dio sono uscito». Più importante, come vedremo, è il testo di 16,28: "sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo". Nel v. 30 i discepoli concludono: «in questo conosciamo che da Dio (a1tÒ ilEoii) sei uscito (él;ijldleç) ». Infine in 17 ,8, nella preghiera dell'Ora, a proposito dei discepoli, Gesù afferma: «hanno conosciuto veramente che da Te sono uscito (1w.pa <rou él;ijÀ.itov)». Questi usi del verbo é!;Épxoµac potrebbero anche non essere indicativi per la ripresa di Is 55,11 da parte del nostro autore. Si può infatti cit3're Sir 24,3 che ha un'espressione analoga a quella di Is 55,11 194 , e il c. 24 del libro del Siracide è presente all'autore del 4° vangelo 195 • Ma, a parte la concomitanza tra Is 55 e Giovanni per l'esplicito riferimento alla Parola, si può notare che in Sir 24 e, in genere, nella prospettiva sapienziale, c'è una sola rparabola: quella discendente. La Sapienza scende dal cielo per dimorare tra gli uomini ma non si parla di un suo ritorno in cielo. In Is 55,10.11 troviamo invece una duplice parabola: discendente e ascendente. La pioggia scende dal cielo e la Parola esce dalla bocca di Dio; di essi si dice che non tornano se non dopo avere realizzato il loro effetto. Ciò significa che dopo avere esaurito il loro compito, tornano là da dove sono venuti 1%. Questa duplice prospettiva appare anche nel van-
°'
1
Sir 24,3
a7tÒ tri:6µai:oç V~lo--rou
él;ijÀ.ìlov
Is 55, 11 (LXX)
o ... tt,ÉÀ.ìln Èx -roU cr"t"6µa:"t"6c; µou
Nel c. 24 del libro del Siracide la Sapienza, personificata, parla di ~e stessa. Dopo avere narrato la sua origine, indica la missione che, per comando di Dio, deve assolvere. Cfr. v. 8: «Allora il creatore di ogni cosa mi diede i suoi ordini: nietti la tua tenda (x,o:-ço:crx'Y)vwcrov) in Giacobbe». Nel v. 4 ancora leggiamo: «posi la inia tenda1} (:x;a.-rEcrx-fivwcra.) nell'alto». Cfr. Gv 1,14 dove della Parola divenuta carne si dice che <<.,,Pose la sua tenda (È.o-xl)vwrrcv) in noi». 196 Ciò è più marcato nel testo ebraico. I LXX usano solo il verbo CÌ7tO<Y't'pa.<pi) (ritorna) senza alcuna determinazione. N"el v. 10 la versione 195
Utilizzazione del c. 55 di Isaia zn Giovanni
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gelo di Giovanni: entrambe le parabole sono chiaramente presenti "'- Possiamo soprattutto citare alcuni testi particolari: Gv 13,3: «da Dio uscì (discendente) e a Dio va (ascendente)» 198 ; particolarmente importante è 16,28, dove la duplice parabola è più completa: sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo - lascio il mondo e vado al Padre 199 • Inoltre in tutto il vangelo appare la tensione di Gesù verso il suo ritorno 200 • In questa duplice parabola si colloca l'azione della pioggia (Is 55,10), come pure quella della Parola (v. 11). In questa duplice parabola l'evangelista colloca l'opera di Gesù.
di Sim1naco legge U7toO-'t'pÉtJ;n· Le versioni di Aquila, Simmaco, Teodozione, in confor1nità al testo ebraico, aggiungono npòc; µE xÉvov (a me vuota). Il testo ebraico invece nel v. 10, a proposito della pioggia, scrive: «e là non torna>); nel v. 11, a proposito della Parola, scrive: «non torna a me vuota)>. 197 La terminologia però è diversa. Il testo ebraico entrambe le volte usa il verbo sùb. I LXX entrambe le volte usano il verbo &:n::oa-'t'pÉcpw. Diversamente Simn1aco, cfr. nota precedente. Nel 4° vangelo né il verbo àrcoO"'t'pÉcpw nè il verbo UnocrrpÉ.cpw sono mai usati. Ma, benché la termi· nologia sia diversa, la prospettiva è la stessa. l9B Le due parabole stanno tra di loro in parallelo: ò:rcò ilEoV 1tpÒç i:Ov i}i::6v
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u7t&yn
Dal Padre al mondo (parabola discendente). Dal mondo al Padre (parabola ascendente). Lo schema delle due parabole, come esige la loro stessa natura, è con· centrico: sono uscito dal Padre J sono venuto net mondo J L lascio il mondo L vado al padre 200 Tale tensione è espressa in diversi verbi e diversi oggetti: !. u106.yw: a colui che mi ha mandato (7,33; 16,5); in assoluto (8,14.21.22; 13,33.36: 14,4.5); a Dio (13,3); al Padre (16,10.17). 2. nopEuqµm: in assoluto (7,35; 14,2.3; 16,7); al Padre (14,12.28; 16,28). 3. &.vaf3alvw: al cielo (3,13); dove era prima (6,62); al Padre (20,17); Padre e Dio (20,17). Si può notare il testo di 13,1 dove, con il verbo µei:a.fialvw, l'ora di Gesù è caratterizzata come il passaggio da questo mondo al Padre. 199
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3.
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«ha fatto czo che ho voluto e ha portato a compimento ciò per cui l'ho mandata»
A proposito della Parola. il testo di ls 55,11 esprime due serie di azioni parallele: una da parte di Dio (ho voluto - l'ho mandata), una da parte della Parola (ha fatto - ha po:rtato a compimento). L'espressione tradotta alla lettera dal testo ebraico «Ciò che ho voluto», dai LXX è tradotta con ocra 1i1lD.ncra. Il senso non cambia, ma è importante la formulazione letteraria. Troviamo nei LXX il verbo Ì)ÉÀ.w (volere). Questo verbo è usato diverse volte nel vangelo di Giovanni, ma nessun uso ha particolare importanza; hanno invece massima importanza tre usi del sostantivo derivato 1lÉÀ.nµa (volontà), che l'evangelista mette in bocca a Gesù 201 : Gv 4,34: <di mio cibo (ɵÒv ~pwµa) è fare (tv.a 11:DL1ÌO"w) la volontà di colui che mi ha mandato e portare a compimento la sua opera» 202 • Gv 5,30: «non cerco la mia volontà (-i;ò 1lÉÀT}µa i:ò ȵov), ma la volontà (i:ò ìlÉÀnµo:) di colui che mi ha mandato» 203 • 201 Un'allusione a Gesù che compie la volontà di Dio si ha in bocca al cieco nato in 9,31. 202 Su quest'ultima frase «portare a compimento la sua opera» torneremo ancora in seguito. Diversi elementi, oltre il termine 1ÌÉÀ:riµa.. richiamano Is 55. Già la stessa duplicità delle frasi, in parallelo, fare la sua volontà portare a compimento la sua opera richiama la duplice frase di Is 55,11: ha fatto ciò che ho voluto ha compiuto con successo ciò per cui l'ho inviata. Inoltre il termine 0pWµa., oltre la tematica del mangiare dei vv. 1-3, richiama il v. 10, dove si parla del «pane a colui che mangia>1 (la'okel; Aq. Simm. Th.: -rQ to-frloV'tL; LXX ELç 0pWo-Lv). Il verbo fare 1tOL'i)o-w) si legge nel testo ebraico di Is 55,11 (LXX diverso; Aq. Simm. Th. 'itOt.-i}o-Et.). La menzione del Padre come <(colui che mi ha mandato11 richiama Is 55,11: <(ciò per cui l'ho inviata» (soggetto: Dio; oggetto: la Parola). I LXX scrivono ancora diversamente; Simm. e Th. Oo-a. ci.1tÉO"tELÀ.a. a.Ù't6V· Nel contesto i discepoli esortano Gesù a mangiare. 203 Questo testo è meno completo. Valga per esso però qualche osservazione fatta nella nota precedente.
o:va.
V tilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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«Sono sceso dal cielo (xao:a[lÉ[l1pm a7tÒ i:où oupo:voù) non per fare (oux tva 7totw) la mia volontà {i:o i'lÉÀ:r1µ0:), ma la volontà di colui che mi ha .mandato»""· La peculiarità di quest'ultimo testo è duplice: una in riferimento a Is 55,10.11 20', l'altra nell'economia .del vangelo stesso: subito dopo, nei vv. 39.40, si indica il contenuto della volontà di Dio"". Che Gesù deve compiere la volontà di Dio, non è un tema esclusivamente giovanneo, ma appartiene alla tradizione neotestamentaria 2<17; né il riferimento veterotestamentario a Is 55 ,11 "" Gv 6,38:
2.04 Anche per questo testo valgono alcune osservazioni fatte a pro~ posito del testo di 4,34. 20 5 In legame alla menzione della volontà di Dio, Gesù riferisce a se stesso l'espressione che Is 55,10 riferiva alla pioggia: «sono sceso dal cielo». In Gesù si fondono qui le peculiarità che in Is 55,10.11 distinta~ mente erano riferite alla pioggia e alla Parola. Lo scopo per cui Gesù è sceso dal cielo è proprio per compiere la volontà di Dio. 206 La volontà del Padre che ha mandato Gesù è che egli non perda nessuno di quelli che gli ha dato, ma lo resusciti nell'ultimo giorno (v. 39). Nel v. 40 si approfondisce il v. 39: al "non perdere" corrisponde l' "avere la vita eterna" e si indicano anche le condizioni per avere la vita eterna: vedere il Figlio e credere in lui. Gv 6,39.40 è ulteriormente approfondito da Gv 3,14-16: perché il Figlio possa diventare oggetto di contemplazione e di fede e perciò possa dare la vita eterna, deve essere innalzato, come il serpente innalzato da Mosè. 207 Restando neJl'an1bito della tern1inologia, il termine V-ÉÀ;Y}µa richiama Le 22,42, nel contesto della preghiera di Gesù al Getsemani; «non la mia volontà, ina la tua sia fatta». Inoltre At 13,22 riferisce a Davide, non senza allusione a Gesù, Is 44,28: «farà tutte le mie volontà ('t'à, V"EÀ:l)µa-rri µou)». Soprattutto il termine 1ÌÉÀ.T)µa richiama Eb 10,7.9.10, dove è ripreso dal Sal 40 (LXX 39), 7 esplicitamente citato e riferito a Gesù: ({ecco vengo a compiere (-roU '1toLf)O"ad la tua volontà ('t"Ò V-ÉÀT)µri o-ou))). Nel v. 36 è riferito ai fedeli. Il verbo -frt)~w rimanda invece ai racconti del Getsemani secondo Matteo e Marco. Cfr. Mt 26,39: «[ ... ] non con1e voglio (-frÉÀ.w) io, ma come tu)>; Mc 14,36: «[ ... ] non ciò che io voglio, ma ciò che tu)>, Il verbo V-ÉÀ.w invece in Giovanni è usato da Gesù per manifestare la sua volontà al Padre (17,24) o a riguardo del discepolo (21,22.23). I testi del Getsemani sopra citati, in cui Gesù si adegua alla volontà del Padre, sembrano ispirarsi al Sai 40,7.8, espressamente citato in Eb 10,7-10. V. 7: «sacrificio e offerta non hai voluto (oUx fiV"ÉÀT)aaç) [ ... ] ecco vengo a fare (-roU 1tOLfjO"aL) la tua volontà (,;ò V"ÉÀT)µO; crou)1>. La
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è esclusivo, ma la convergenza di diversi elementi provenienti da questo testo permette, almeno in Giovanni, di ricollegare ad esso lo scopo di Gesù, che è venuto dal cielo a compiere la volontà di colui che lo ha mandato 209 • L'espressione seguente di Is 55,11: «e ha compiuto con successo ciò per cui l'ho inviata» 210 in stretto legame con la precedente, così come suona, in Giovanni non si legge. Il testo di Gv 4,34 però, come ho notato, suggerisce di citare l'espressione: x;rx.L '"tEÀELWo-w aÙ'toU i:O Epyov 211 (porti a compimento la sua opera), che però >risente molto della mano dell'evangelista 212 • terminologia del salmo è la stessa di Is 55,11, tranne il verbo fare nei LXX. Non è improbabile che nei testi sopra citati Giovanni dipenda dalla tradizione neotestamentaria della preghiera di Gesù al Getsemani e, indirettamente, dal Sal 40,7.8. Ciò non esclude che lo schema base in cui inserisce questo elemento proveniente da altra tradizione, sia Is 55,11, tanto più che i termini coincidono. 208 Oltre il Sal 40,7.8 si può citare anche Is 44,28, ripreso da At 13,22 e originariamente riferito a Ciro: ((il mio amico (LXX cppove:Lv; TE: lettura incerta) [ ... ] tutte le n1ie volontà farà (LXX rc6.v-ra -rO:.. fre:À:f]µa:tti µou rcoi.i']cre:i.; TE: «tutto ciò che ho voluto compirà») )). Inoltre anche il Sal 143,10: «insegnami a fare la tua volontà». Il testo di 2Sam 23,5 è incerto. 209 In Giovanni si legge anche il termine à.pe:cr'tci, in 8,29 («ciò che piace a lui faccio sempre»). Può richiamare Es 15,26; Dt 6,18; 12,25.28; 21 ,9; cfr. 2Esd 7,18: 10,11; Tb 4,21; Pr 21,3: Sap 9,9.18; ls 38,3; Bar 4,4. 2w Il testo dei LXX è abbastanza complesso: «e conduca felicemente (e:UoOWcrw: chi è il soggetto?) le tue vie e i n1iei comandi (sic!)». Le altre versioni sono più coerenti: xa.-re:uihlvn (Aquila); xa.'t'opfrWcre:i. (Simmaco, Teodozione). 211 Le peculiarità giovannee sono l'uso del verbo 't'EÀ.e:i.6w e l'espresn sione a.U't'oU "t"0 Épyov· Il primo letterariamente non è suggerito da Is 55,11, a meno che l'evangelista non traduca liberamente il verbo "hiz"ljah", mai peraltro tradotto con 't'EÀ.e:i.6w nei LXX. La seconda espressione a.ù-roV -rO Epyov sembra essere invece tipicamente giovannea. L'espressione "t'EÀ.e:i.6w 't'h Epyov può avere qualche parallelo in Ne 6,3.16; Sir 7,25. Inoltre il verbo i;EÀ.ELOW si legge nel Sa! 40,7 (Aq. Sìmm. Th.). 212 Un'espressione parallela si legge in 17,4: «avendo compiuto l'opera ("t'O Epyov 't'EÀ.e:i.Wcra.ç) che hai dato a me di compiere». In 5,36 l'oggetto del verbo è al plurale 't0: E.pya ... a.U-rci· In 19,28 il verbo 't'EÀEt.Ow è usato per indicare il comphnento della Scrittura. In 5,36 però leggiamo che le opere che il Padre ha dato a Gesù da compiere testimoniano che «il Padre mi ha mandato)). Questa ultima espressione, a cui è finalizzata la testimo-
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Nell'espressione precedente «ha fatto ciò che ho voluto», non ho considerato ancora il verbo ha fatto. Nel testo originale ·ti-aviamo il comunissimo verbo 'asa'; ma ciò che richiama l'at~ tenzione è la traduzione dei LXX, in relazione a qualche uso giovanneo del termine corrispondente. I LXX trnducono ll.v <TUvi:EÀ.•a'ilii 213 ; nel vangelo di Giovanni leggiamo due volte il verbo 'rEÀÉw 214 {19,28.30) e una sola volta il sostantivo "tÉÀ.oç (fine, compimento), da cui il verbo deriva. La centralità dei contesti in cui questi termini sono inseriti 215 fa sì che la loro estrema rarità
nianza delle opere che Gesù compie, ci riporta nell'ambito di Is 55,11: «ciò per cui l'ho inviata» (quest'ultima espressione manca nei LXX, ma si legge in Simm. e Th.: Ocra. &1tEcri:fJ.. À.a: a.ù't"6v). In 17,4 l'opera che il Padre ha dato al Figlio da compiere e che Gesù ha compiuto, nel contesto, sem bra essere la vita eterna (cfr. 6,38.39.40; 3,14-16). Il legame con la menm zione della volontà del Padre in 4,34, la menzione del fatto che il Padre ha mandato Gesù in 5,36, il legame con la vita eterna in 17,3.4 (cfr. Is 55,3) lasciano supporre che l'autore del 4° vangelo in questa seconda espressione xa.L "t'EÀELWO"W o;Ù'toiJ -rò Epyov abbia liberamente ripreso la seconda espressione di Is 55,11: <ce ha compiuto con successo ciò per cui l'ho inviata» formulandola secondo un linguaggio suo proprio. L'ap~ profondimento del senso di questa espressione giovannea appartiene ad un più accurato lavoro esegetico. 213 Congiuntivo aoristo passivo dal verbo cruvi;EÀEw (compiere); I. v. O' 't"EÀE01J"fj, dal verbo semplice "t'EÀEw. Aq. Simm. Th. hanno invece 7tOL-iicrEL· Il verbo crvv-rEÀEw si legge anche in Is 10,12: «quando il Signore avrà terminato (cruv't'EÀEcrn) tutta l'opera sua (LXX 7tci.V"t'a 7tOLWv), sul monte Sion e in Gerusalemme [ ... ]»; il testo però è chiaramente punitivo. In Is 44,24 leggiamo anche: «il Signore che porta a compimento (cruv-rEÀWv) tutte le cose)>. 0
214 Altre volte, come si è notato, Giovanni usa il verbo "tEÀELéw (6 volte): Gesù deve portare a compimento l'opera di colui che lo ha mandato (4,34; cfr. 17,4), oppure le opere (5,36). Secondo 19,28 è portata a compimento la Scrittura. In 17,23 si parla dei discepoli che debbono essere resi perfetti .('t'ETEÀELWµEvoL) nell'unità. Nel NT il verbo -rEÀEL6W si legge diverse volte: Le 2,43; 13,32; At 20,24; Fil 3,12; Gc 2,12. In particolare nella la lettera di Giovanni (2,5; 4,12.17.18) e soprattutto nella lettera agli Ebrei (Eb 2,10; 5,9; 7,19.28; 9,9.; 10,1.14; 11,40; 12,23). Ma nessuno di questi testi costituisce un reale parallelo con il nostro. 215 Si può notare qui la struttura letteraria di Gv 13,1-5 e Gv 19,28-30. In Gv 13,1-5 si coglie la seguente struttura:
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di uso evidenzi di pm la loro importanza 216• -La domanda emerge evidente: nell'uso di questi termini, l'evangelista dipende dal <ruV'tEÀEoi}ii di Is 55 (LXX)? Emerge qui ancora una volta il problema se l'evangelista dipenda dal testo semitico (ebraico o aramaico) o dal testo greco (LXX o altra versione). A giudicare da quanto ho potuto finora costatare in questo lavoro, non v. 1:
sapendo (Elowçl avendo amato (à.ya:rn'}O'.a.ç) amò fino al compimento (Ei.ç 'tÉÀ;oç 1)ycl7CT}cre\J) vv. 2-5: avendo gettato (~E~Àrpt6i:oçl sapendo (Elowçl si alza da tavola pone le vesti si cinse versa acqua cominciò a lavare ... e asciugare ... I quattro participi stanno in relazione concentrica; il secondo e il terzo stanno in opposizione: all'amore di Gesù si contrappone l'azione di Satana nel cuore di Giuda. Il verbo amò fino al compimento corrisponde alla serie di verbi nei vv. 2-5, tra cui è particolarmente sottolineato il quarto versa acqua ... La struttura di 19,28-30 è stata già evocata. Si può ricordare il seguente schema alternato: v. 28: tutto è stato compiuto ('Jtri.V'ta:: 't'E't'ÉÀ.EO"'t'O:t.) ho sete v. 30: è stato compiuto ('tE'1:-É:À.Ea"t'ad diede lo Spirito. Si può notare la relazione con 13,1: 13,I 19.28-30 Elç i:Élvoç f 'tE'tÉÀ.EO""t'O'..t.
rrr<i"TJ"'"
il lì«jJw I L 'tE'tÉÀE<T'WCL
L mxpÉowxEv i:Ò 1tVEVµa Il compin1ento dell'amore di Gesù si concretizza nel dono dello Spirito. Inoltre, per la relazione tra 13,I e 13,2-5, l'acqua che Gesù versa nel catino sta in relazione con lo Spirito che dona in 19,30. 216 Il verbo 'tEÀ.Éw potrebbe richia1nare qualche altro uso nel NT senza intaccare la peculiarità dell'uso giovanneo che deriva anche dal modo assoluto con cui i termini sono utilizzati. Le 18,31: «ecco saliamo a Gerusalemme e saranno compiute (-cEÀ.eui>-f}aE"tad tutte le cose scritte per mezzo dei profeti a riguardo del Figlio dell'uomo». Inoltre At 13,29: «Come compirono tutte le cose scritte di lui».
Uti/iz.;:.azione del c. 55 d; Isaia i11 Ciol'anni
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pare che il problema possa univocamente risolversi decidendo in modo unilaterale per questo o l'altro testo; sembra infatti che l'autore fondamentalmente abbia presente il testo ebraico 217, ma alcuni elementi sembrano richiamare questa o quell'altra traduzione greca. Per conto mio ritengo non improbabile la supposizione che l'autore, di origine semitica e familiare con il testo semitico, scrivendo in ambiente greco, in lingua greca e, verosimilmente per giudeo-ellenisti (cfr. 7,35), pur conservando la matrice fondamentale del testo originale semitico a lui noto, sia venuto a contatto con la versione greca dei LXX o altre versioni, riprendendo qualche elemento più consono alla sua prospettiva. Non è improbabile perciò che nell'uso dei termini o;ÉÀoç (13,1) e soprattutto "'EÀ.Éw (19,28-30) l'evangelista possa essere stato influenzato dal verbo o-uv-rEÀEo-ììii dei LXX. Ma il problema se in questo particolare !'evangelista dipenda da Is 55,11 non si risolve mediante il solo stretto confronto letterario che, come abbiamo visto, non è solidamente fondante, ma mediante la considerazione di altri elementi contestuali che, oltre l'uso più generico di Is 55, possono fondamentalmente ricondursi a tre:
1. l'uso assoluto del verbo 'tE'tÉÀEtr1'o:c, soprattutto in 19,30, dove è l'unica parola che Gesù direttamente pronunzia, in stretto legame alla quale compie l'azione seguente di reclinare il capo e donare lo Spirito 218 . 2. L'uso nello stesso contesto di un verbo più pregnante, ma della stessa rad.ice -rùn6w 219 . 3.
La connessione in 4,34 del verbo '1'EÀ.Ec6w con il cibo di Gesù,
:17 I vari mutamenti escludono un riferimento pedissequo al testo ara1T1<.iico. 218 In 19,28 il verbo 't'E'tÉÀEcr-rat. non è una parola direttamente pronunziata con1e in 19,30. Inoltre non costituisce proposizione principale ma, mediante la particella O't't., dipende dal participio ElOWç. Infine ha un oggetto: 1tci.v-ra,. Tutto l'accento perciò non sta sul verbo 't'E't'ÉÀE<r't'at.. ma sull'oggetto nci.v'ta posto prima del verbo. 219 Il verbo l:'EÀEt.6w in 19,28·30 è espresso tra i due usi del verbo
'tE't'ÉÀ.EO"'t'.CX.L·
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che è compiere la volontà di colui che lo ha mandato 2w Tutti questi elementi permettono di concludere che l'evangelista, usando e mettendo in bocca a Gesù il verbo 'tE'tÉÀ.Erro;m, in 19, 28-30, e usando il termine -i:Élcoç in 13,1, dipende dal testo di Is 55,11. Dicendo 'tnÉlcEtr't<XL Gesù fa una duplice dichiarazione: dichiara di essere quella Parola che il Padre ha mandato a compiere quanto egli vuole e dichiara pure di avere compiuto quanto il Padre gli ha comandato. Quale sia l'opera che Gesù ha compiuto si può comprendere bene dagli stessi testi di 13,l e 19,28-30. In 13,l si legge che Gesù, avendo amato i suoi che erano nel mondo, portò a compimento l'opera di amore. Quest'opera di amore è desoritta nella serie di azioni nei vv. 2-5, culminanti nel fatto che Gesù versò acqua in un catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli 221 • In 19,28-30 i due usi del verbo 1:E1:Élcw-raL stanno rispettivamente in relazione con la sete di Gesù 222 (v. 28) e con il dono dello Spirito 223 (v. 30). Questo verbo così mette in relazione la sete di Gesù con il dono dello Spirito. La sete di Gesù, come si è notato, costituisce l'inizio e il culmine di una serie di azioni intermedie che in questo contesto, almeno direttamente, l'evangelista non descrive. Si percepisce così, oltre la relazione letteraria 214 , anche la relazione tematica tra 13,1-5 e 19,28-30. In 13,1-5 il compimento dell'amore sembra consistere nel fatto che Gesù versa acqua in un catino, con cui lava i piedi dei discepoli. In 19,28-30 il 210 Inoltre in 5,36 la connessione tra il verbo 'tEÀEL6w e il fatto che il Padre ha mandato Gesù. Si può notare che in 5,30 si parla della volontà del Padre che Gesù cerca. Si può richiamare anche- la connessione tra il verbo -rEÀ.EL6w e la vita eterna in 17,3.4. 221 EL; 't"ÉÀ.oç JÌyt±.11:'f)<JEV· L'espressione El.e; -rEÀ.oç, senza l'articolo, non indica il tempo (fino alla fine), n1a la qualità e l'intensità dell'azione. Gesù porta a compimento la sua opera di amore, porta l'opera di amore alla sua pienezza. 222 <1vedendo che tutto era stato compiuto, disse: ho sete». 223 E' stato compiuto; e, reclinato il capo, diede lo Spirito. ZN "'t"EÀ..oç ~ i:i:::tEÀEO"'tat.·
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compimento si attua nella sete di Gesù che culmina nel dono dello Spirito. Tornano ancora i temi dell'acqua e dello Spirito: l'opera di Gesù culmina nel dono dello Spirito, simboleggiato nell'acqua. Ma nel contesto, in relazione alla Scrittura, l'evangelista usa il verbo o:EÀ.EL6w. Dovremmo chiederci •perché usi qui un verbo pregnante e in che senso la Scrittura è portata a compimento. Adesso è importante notare come il verbo o:EÀ.Ec6w rimandi a Gv 4,34 e 17,4, dove è usato in riferimento all'opera di colui che ha mandato Gesù e che Gesù deve compiere. Quale sia lopera del Padre che lo ha mandato e che Gesù deve compiere, da Gv 4,34 e Gv 17,4 si può dedurire bene. Secondo Gv 17,3.4 quest'opera consiste nel dono della vita eterna 225 • Il testo di 4,34 direttamente non dice nemmeno in che cosa consista quest'opera, ma il legame tra 4,34 e 6,38-40 lo indica bene 216 : entrambi i testi par.lana della volontà di colui che ha mandato Gesù. Questa volontà «del Padre che mi ha mandato» è descritta nel v. 40: «chiunque vede il Figlio e crede in Lui ha la vita eterna». Giungiamo ancora al tema della vita eterna. Donare la vita eterna è l'opera del Padre che Gesù deve compiere e per cui egli è stato mandato. Il testo di Gv 6,38-40 pre-
225
Si può notare in 17,l-5 la seguente stn1ttura letteraria concentrica:
1. Padre ... glori/ìca il tuo Figlio perché il tuo Figlio glorifichi Te. 2. come hai dato a lui potere su ogni carne, perché chiunque hai dato a lui dia ad essi la vita eterna. 3. questa è la vita eterna. 2. io ti ho glorificato, avendo con1piuto l'opera che hai dato a n1e da compiere.
1. E ora, glorifica me, o Padre ... Da questo schema emerge bene che l'opera che il Padre ha dato a Gesù da compiere consiste nel donare la vita eterna. 226 Il lega1ne è dato dalla menzione della volontà di colui che ha n1andato Gesù e che egli deve compiere: 4,34: fare (\'.va 1tot.fiuw) la volontà (i:ò frÉÀTjf.LO:) <li colui che 1ni ha mandato (o:ov nɵ<)iavo:éç µE). 6,38: sono sceso <lai ciclo non per fare (oùx Lva 1tOLW) la mia volontà (-i-Ò iÌÉÀTjµa -rò ~µ6v), ma la volontà (-rò frÉÀT}µa) di colui che mi ha n1andato C-toU n:ɵtf;o:.v-i;6c; µe).
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senta inoltre un legarne molto stretto con il testo di Gv 3,14-16 m secondo il quale, per diventare oggetto di fede e, secondo 6,40, oggetto .di contemplazione, il Figlio deve essere innalzato. Nei testi sopra citati possiamo cogliere un progresso: 1. Il Figlio deve essere innalzato (3,14-16): questo indica il modo come Gesù deve morire (àno~vn<rxeiv: 12,33). Ciò richiama 19,31-37: la morte di Gesù; cfr. v. '34: «quando vide che era morto [ ... ] (i;EWTJXO'L'O:)». Si richiama pure il conseguente colpo di lancia che fa usci>re sangue e acqua.
2. Innalzato, il Figlio diventa oggetto di contemplazione e di fede. Ofr. 19,37: «guarderanno a colui che hanno trafitto». 3. Divenuto oggetto di contemplazione e di fede, Gesù dona la vita eterna e in ciò porta a compimento l'opera del Padre. 4. Ma il Gesù innalzato e divenuto oggetto di contemplazione e di fede è il Gesù dal cui fianco squarciato sgorga acqua (19,34), che manifesta la sete e dona lo Spirito (19,28-30). Questo Gesù bisogna contemplare e in questo Gesù bisogna credere per avere la vita eterna. 5. Ma questo Gesù è colui dal cui seno, secondo la Scrittura, sco11rono fiumi di acqua viva; questo Gesù cl1e sta lancia un grido a chi è assetato, perché venga a lui, creda in lui e beva (7,37-39). 6. Le due prospettive si fondono. Gesù innalzato è la fonte di acqua viva; chi contempla deve compiere un atto di fede
Notian10 il seguente rapporto: chiunque crede in lui (1téiç ò n:t.cr-rEUwv Év a.V't"f{J) abbia vita eterna (Ex-n Sw-iiv o:LWvt.ov). 3,16: chiunque crede in lui O:va néiç Ò TCLO"'t"EUwv ctç a{vc.ov) non perisca (µi) ècrc6À'(j't"o:'.L), nza abbia vita eferna (à).,).,'Exn Swi}v al.Wvt.ov). 6,39: chiunque Cn:iiç) ha dato a mc, non perda (µ'ii ò:noÀ.Éuw) n1a resusciti ... 6,40: chiunque Crcéiv) vede il Figlio e crede in lui (rcLcr-rcVwv EÌ.ç aù"t6v) ab/Jia vita eterna Gtxri Sw'hv aì.Wv!..ov). 17,2: chiunque hai dato a lui (n;liv O ÒÉÒ0Jxaç aU"tc{)) dia a loro vita eterna (C:,w1)v aì.WvLov). Questi cinque testi stanno tra di loro in relazione. 221
3,14:
Utilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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dinamico: andare a lui e bere. Mediante il dono dell'acqua che è lo Spirito, si ottiene la vita eterna 228 • Tutta questa prospettiva concorda bene con la prospettiva di Is 55,10.11: Dio manda la sua Parola a fare ciò che egli ha voluto e portare a compimento tutto ciò per cui l'ha mandata. Tutto ciò è realizzato da Gesù, Parola di Dio divenuta ca>rne, nel modo sopra descritto. Riservandomi di proporre una sintesi globale alla fine di tutto il lavoro, ritengo che quanto finora ho detto permetta un approfondimento e una reinterpretazione. L'approfondimento riguarda i .due verbi -i:iÀÉw e -i:EÀELOW, entrambi usati nello stesso contesto di 19,28-30. Ho avanzato già l'ipotesi che questi due verbi richiamino il verbo crvvnÀEcrfrn di Is 55,11 (LXX). Usando però nel medesimo contesto due verbi diversi ma dalla stessa radice (-i:ÉÀoç), l'evangelista esprime una distinzione tra di essi éhe non deriva dal contenuto semantico di cia.scun verbo, ma dall'uso che di essi l'autore fa. Il verbo -rEÀÉW è usato in relazione all'opera di Gesù; il verbo più intensivo 1:EÀEL6w è usato invece in relazione all'opera del Padre che Gesù ·deve compiere e in relazione alla Scrittura. L'opera del Padre è contenuta e delineata nella Scrittura: dare la vita eterna mediante il dono dello Spirito. La Scrittura prevede anche il modo come tutto ciò si realizza: divenendo Gesù fonte di acqua viva. Gesù compie (-rEÀÉw) da parte sua quest'opera: diviene fonte di acqua viva, dona lo Spirito che opera la vita eterna. L'opera che Gesù compie è l'opera che il Padre gli ha dato da compiere 219 , l'opera del Padre, delineata e contenuta nella Scrittura. Portando a compimento (-i:EÀÉw) quest'opera, Gesù porta a compimento (-i:EÀELow) l'opera del Padre, porta a compimento (-rEÀELow) la Scrittura, il cui obiettivo fondamentale era, come si è detto, dare all'uomo la vita mediante lo Spirito"'- La reinterpretazione 22s Cfr. Ez 36,26.27. Soprattutto la visione delle ossa aride di Ez 37,1-14: v. 5: «faccio entrare in voi lo Spirito e vivrete}>; v. 6: <dnfonderò in voi lo Spirito e vivrete)); v. 14: «porrò il mio Spirito in voi e vivrete». 119 Per Gv 5,36 segnalo lo studio più filologico di A. VANHOYE, L'oeuvre du Christ don du Père (In 5,36 et 17,4), RsR 48 (1960) 377-419. 1 3° Che l'obiettivo sia la vita, emerge anche dall'azione simbolica de~
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riguarda il tema .della volontà del Padre che ha mandato Gesù e che Gesù deve compiere. A riguardo il testo che bisogna riprendere è Gv 4 ,34, dove Gesù descrive il suo cibo con due espressioni strettamente collegate, espresse al congiuntivo e introdotte dall'unica particella iva: 1tot1irrw 'tEÀEt.Waw verbo i:ò ì)ÉÀ.1]µot i'XÙ"tOiJ oggetto i:ou 11:ɵljiavi:6ç µE 't'0 :Epyov Lo stretto parallelismo suggerisce che la seconda frase dia il contenuto alla prima: la volontà del Padre è che Gesù porti a compimento la sua opera 231 • Ma queste due frasi possono leggersi anche in modo storico: il fare la volontà del Padre esprime storicamente l'inizio di un cammino che trova il suo culmine nel portare a compimento l'opera del Padre. Si comprende bene che si tratta del cammino della passione che inizia al Getsemani e culmina al Calvario. La prima frase «compia la volontà [ ... ]» rimanda, come ho già notato, alla preghiera di Gesù al Getsemani che, nel suo posto, Giovanni non riferisce, ma che da questo e al1Jri indizi mostra di non ignorare (ofr. 12,27). Secondo i tre vangeli sinottici quella preghiera ebbe un contenuto preciso: l'adesione di Gesù alla volontà del Padre. La seconda frase «e porti a compimento [ ... ] » rimanda, per l'uso dello stesso verbo i:EÀ.w)w e dei .due verbi i:EÀ.Éw alla scena di 19,28-30, dove Gesù porta a compimento la Scrittura che delinea l'opera del Padre. Possiamo adesso tentare una prima e parziale rilettura di Is 55,10.11, quale è fatta dall'evangelista. Is 55,10.11 distingueva e confrontava, paragonandole, le vicende della pioggia e della Parola. L'evangelista le fonde e le riferisce all'unica persona di
scritta in 13,1-5: l'acqua versata nel catino è finalizzata a lavare i piedi dei discepoli. Non è il momento qui di interpretare globahnente questa
azione simbolica. 231 In 6,40 la volontà del Padre riceve un preciso çontenuto: <(chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna)). L'opera del Padre che Gesù deve compiere è appunto dare la vita eterna. Trova conferma la prospettiva che sopra abbiamo esposto.
Utilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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Gesù di cui, alla luce <li Is 55,10.11, descrive la vicenda. Gesù è la Parola di Dio (1,1) che: a. b. c.
d.
esce da Dio (origine e preesistenza divina) 232 , scende dal cielo (incarnazione), fa la volontà di Dio e porta a compimento la sua opera (il cammino di Gesù dal Getsemani alla croce, dove diventa fonte di acqua viva e, mediante lo Spirito Santo, dona la vita eterna) 233 • Avendo portato a compimento la sua opera (di Dio) può tornare a Dio.
Ma a questo punto bisogna tener conto di altri elementi di Is 55,10.11 che, indubbiamente, allargano la prospettiva. Essi riguardano le vicende della pioggia, ma che levangelista riferisce a Gesù. Il primo elemento riguarda il fatto che la pioggia, impregnando e facendo germinare la terra, produce seme per il seminatore; il secondo è che procura pane da mangiare 234 • Benché questi due effetti siano descritti letterariamente in modo parallelo, è facile cogliere il loro nesso intrinseco: il seme giova al seminatore per seminare; poi, seminato, diventa pane per colui che mangia. Nei LXX la parola seme corrisponde al termine O'ltÉpµa., il verbo seminare 235 corrisponde al verbo <r1t<lpw. In Giovanni il
n2 Il discorso si può estendere a tutte le espressioni formulate con le particelle ci1t6 cd È:x, n1agari senza il verbo ÉçÉpxoµo:i.233 Eb 10,5 sembra estendere il compimento della volontà di Dio alla stessa incarnazione: «entrando nel n1ondo, dice>>. Si cita poi il Sai 40,7. Non pare però che sia questa la prospettiva di Giovanni. Cfr. 6,38: «sono sceso dal cielo [ ... ] per compiere la volontà}>. 234 Le due espressioni sono parallele: - seme a chi semina (lazorea') - pane a colui che mangia (là'okel). I LXX modificano la seconda espressione: «pane per cibo (&p't'o\I Elc;, ~pWcn,v)>}. Le versioni di Aquila, Simmaco e Teodozione conservano invece il senso del testo ebraico: «a colui che mangia (-rW Eo-iìlo\l't't.))), I LXX mutano la prospettiva: non «pane per colui che mallgia», ma «pane da mangiare». 235 «colui che semina>> è espresso al participio presente.
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verbo <ntElpw si legge solo due volte (4,36.37), il termine trrcepµa; invece tre volte (7,42; 8,33.37). Non interessano gli usi del termine 0"11:ERµa 236 , ma sono molto importanti gli usi del verbo O"TCELpw, entrambi nello stesso contesto. In 4,36, dopo avere fatto costataire che i campi si avvicinano già alla mietitura, Gesù afferma che il mietitore riceve la ricompensa e raccoglie frutto per la vita eterna. Continua il Signore: «perché chi semina (6 O"itelpwv) insieme gioisca e chi miete». Nel verso seguente Gesù costata la verità del detto «altro è chi semina (6 trrodpwv) e altro è chi miete»; subito dopo fa l'applicazione: «io vi ho mandato a mietere ciò che voi non avete faticato (xowmaxa'tEÌ, altri hanno faticato (xExomaxacnv) e voi siete subentrati nella loro fatica (xorcos) ». I mietitori sono chiaramente i discepoli; ma chi è il seminatore? E' importantissimo nel v. 38 il mutamento di prospettiva: nel v. 37 si parlava di colui che semina (6 trrcElpwv) e di colui che miete (6 i'lEp[ì;wv). Nel v. 38 si distingue invece non tra chi miete e chi semina, ma tra chi miete e chi ha faticato: la mietitura è messa in relazione non alla semina ma alla fatica; semina e fatica si richiamano. I discepoli non hanno né seminato né tanto meno faticato. La menzione della fatica è importante, dal momento che nel contesto del v. 38 l'evangelista usa due volte il verbo xomaw (faticare) e una volta il termine x6itos (fatica). Si può notare che in tutto il vangelo l'evangelista solo una volta, qui, usa il termine :x.67toç, e tre volte il verbo xo11:t.ciw, due volte qui e una volta nel v. 6: ,siamo nello stesso contesto. La rarità degli usi sottolinea la peculiarità dei termini, inoltre emerge chiara la relazione tra il v. 38 e il v. 6: nel v. 6 leggiamo che Gesù, «stanco (xExorcw:xws) per il viaggio (Éx -rfjs 6ooircoplw;), sedeva presso la fonte» 237 • La conclusione si impone: colui che ha faticato, e perciò è il seminatore, è Gesù.
236 In 7,42 si parla del Messia che, secondo la Scrittura, deve provenire dalla stirpe di Davide (È:x -roU u-rcEpµa:Toç Aa.uLò). In 8,33 i giudei si definiscono: discendenza di Abran10 (o-1tÉpµo:. 'ABpa.4µ). Gesù mostra la contraddizione tra questa loro pretesa e l'atteggiamento concreto: «SO che discendenza di Abramo siete, ma [ ... ]» (v. 37).
237
Si può notare che tutte tre le volte il verbo
X01tt.ciw
è al perfetto:
Utilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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Il v. 6 inoltre è abbastanza singolare: contiene l'indicazione cronologica dell'ora sesta che, come ho già notato, in tutto il vangelo di Giovanni si legge solo qui e in 19,14. Ho già indicato il parallelismo tra 4,6 e 19,14; sembra perciò che dietro la de5crizione di 4,6 a riguardo di Gesù che, affaticato, sedeva presso la fonte, si nasconde l'allusione a un altro cammino di Gesù che parte .dal Getsemani e culmina nell'intronizzazione davanti a Pilato, cioè sulla croce 238 , dove lui diviene fonte di acqua viva 239 • Sembra perciò che in Gesù si realizzi la fatica del seminatore, precisamente nel suo cammino di passione fino alla croce, su cui egli, affaticato, siede. Lì diviene fonte (cfr. Gv 4,6: sedeva presso la fonte). A questa fatica segue la gioia del.la mietitura: quest'ultima opera è affidata ai discepoli 240 • Ma in tutto quello che finora ho considerato, domina la prospettiva del seminatore, non quella del seme; il testo di Isaia parla invece «del seme per colui che semina». Un testo esplicito, nel vangelo di Giovanni dove l'immagine del seme, con il termine <ntEpµo: riferito a Gesù, come si è notato, non si legge. Ritengo però che, in assoluto, l'immagine non sia assente e si può individuare in 12,24 241 dove, in prospettiva di glorificazione (v. 23), Gesù dichiara: «Se il chicco di grano, caduto a terra, non muore, rimane solo; ma se muore, porta molto frutto». Dal contesto emerge chiaro che il chicco di grano che, caduto a terra, muore è lui, Gesù 242 • Il frutto che l:;t caduta e la morte cfr. v. 6 XEX07tl.ctXWç {part. perfetto); v. 38 XEXOrt:i.<.ix.a't"E (perfetto); v. 38: XEX07tLci:X.aO"L V (perfetto).
23s La scena della proclamazione di Pilato in 19,14 e la scena della crocifissione in 19,17 ss stanno in stretta relazione. 239 Notare il termine 1tYJY1J che :richiama Gv 19,34. Cfr. Zc 13,1. Una relazione si può stabilire anche tra 19,17-22 (la crocifissione) e 19,31-37 (l'apertura del costato). 240 Giungiamo alla stessa prospettiva a cui siamo giunti considerando il v. 36, dove Gesù dichiara che il suo cibo è fare la volontà di colui che lo ha mandato e portare a compimento la sua opera. 241 Per questo testo cfr. E. RAsco, Christus granum frumenti (lo 12,24), Vn 37 (1959) 12-25; 65·77. 242 Cfr. il duplice verbo CÌ7toih±vn del v. 24, in relazione ad altri usi dello stesso verbo riferiti a Gesù (cfr. 11, 51; soprattutto 12,33 e 19,33: -cEW1]XOi;o:).
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del chicco di grano determina, per cui esso non rimane solo, si può individuare ne1la venuta dei greci che chiedono di vedere Gesù (12,20ss). Morendo, perciò, sembra che Gesù realizzi la duplice immagine del seme e del seminatore. Questa convergenza di immagini apparentemente diverse, si spiega bene con quei testi in cui Gesù stesso dichiara che è lui a donare la propria vita. Si può cita;re soprattutto Gv 10,17.18: «io pongo la mia vita per riprenderla [ ... ]. Nessuno la toglie da me, ma io la pongo (seme) da me stesso (seminatore)». Cfr. anche Gv 15,13. La seconda immagine, tratta dalla metafora della pioggia, è quella del pane. Abbiamo già notato la differente prospettiva in cui il testo ebraico e il testo dei LXX pongono l'immagine del pane 243 • Non ci fermiamo a considerare la nozione di pane: essa torna massiccia nel c. 6, sia nel racconto della moltiplicazione, sia nel discor,so seguente a Cafarnao 244 • Non c'è dubbio che in questo capitolo Gesù s'i,dentifichi con il pane. Abbiamo già notato pure i riferimenti a Is 55,10.11 che il c. 6 di Giovanni presenta. Ma è importante notare la prospettiva in cui il pane è presentato; torna ancora <però il problema se l'evangelista segua il testo ebraico o i LXX: sembra infatti che abbia presenti entrambe le prospettive. Secondo la prospettiva del testo ebràico, il pane è per colui che mangia. Questa prospettiva eme,rge chiara nel c. 6, dove il verbo Écrìllw è usato diverse volte in riferimento al pane 245 : chi mangia sono coloro a cui Gesù dà il pane. Nella versione greca dei LXX leggiamo l'espressione 11.p-wv dç ~pwcnv (un pane per cibo, per l'azione di mangiare). La prospettiva cambia. Si sottolinea non il destinatario del pane, ma lo scopo del pane. Il termine ~pwo-cç (cibo o azione di mangiare) si legge 4 volte nel vangelo di Giovanni: tre volte nel c. 6 (vv.
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TE: <(pane per colui che mangia)>; LXX: <1pane per mangiare». Cfr. 6,5,7,9.ll.1323.26.3U2.32.33.34.35.41.48.50.51.5!.51.58.58. li termine &p-roç si leggerà poi solo in 13,18 e 21,9.13. 245 Già nel racconto della moltiplicazione dei pani (6,5: «pani, perché mangino costoro»). Ancora in 6,23.26. 31.31: <(un pane [ ... ] diede [. .. ] da mangiare)); vv. 49.50.51: «se qualcuno mangia (cpcX:yn) di questo pane»; vv. 52.53.58. Cfr. a riguardo J. J. O'ROURKE, T1vo Notes on St. John's Gospel...: 2. qit<y<cv and rclvELV• Cso 25 (1963) 124-128. 244
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27.27.55) e una volta in 4,32. Nel c. 6 il triplice uso è riferito all'uomo'"'; in 4,32 invece l'unico uso è riferito a Gesù. Nello stesso contesto troviamo un termine della stessa radice: ppWµa.. Il termine ppwcrtç ha un senso più generale e indeterminato 24', Gesù infatti afferma: «io ho un cibo da mangiare (ppwcrtv <pa.yecv) che voi non conoscete». Il termine ppwµa. invece, nel v. 34, trova un contenuto preciso e concreto: «il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato». Secondo il testo di Isaia, sia ebraico che greco, in ultima analisi il pane è finalizzato al mangiare. L'autore del vangelo riprende questa tematica riferendola sia a Gesù che aII'uomo. Gesù deve mangiare, non un pane materiale ma spirituale, deve compiere la volontà del Padre, deve portare a compimento la sua opera, deve essere insieme il sen1e e il seminatore, il chicco di grano che, cadendo e morendo, porta molto frutto. Il frutto del chicco di grano può essere solo la spiga, da cui deriva il frumento, con cui si fa il pane. In ultima analisi il cibo di Gesù è farsi pane da mangiare (LXX): divenuto pane, egli appartiene a colui che mangia (TE). Adesso la sintesi si am plia; ma questo ampliamento coincide con la sintesi generale del presente lavoro. Per questo è opportuno considerare prima l'ultimo elemento che emerge dal c. 55 di Isaia. Non pare che, per questo elemento, si possa concludere per la dipendenza del vangelo di Giovanni da Is 55, ma è utile notare una consonanza temattca. In Is 55 leggiamo l'esortazione: «cercate il Signore mentre si fa trovare; invocatelo mentre è vicino» 248 • Il tema del cercare 1
246
Nel v. 27 Gesù esorta ad operare un cibo (forse meglio tradurre
BpWut.v: azione di 1nangiare), non quello che perisce, ma che rimane per la vita eterna. Nel v. 55 il senso è piuttosto quello di "cibo": la mia carne è veramente cibu. :-11 Ì'~On è necessario determinare qui l'esatta sfumatura dei due termini BpGJuLç e 0PW.µo:., che a prima vista sembrano sinonimi, ma che l'autore, usandoli nello stesso contesto, sembra distinguere. 248 Letteralmente il testo ebraico suona: «cercate il Signore neJ suo farsi trovare, invocatelo nel suo essere vicino)). I LXX mutano il testo, introducendo la congiunzione Ka.l: <(cercate Dio e nel suo farsi trovare, invocatelo, per il fatto che è vicino a voii>. Bisogna cercare il Signore e, dopo averlo trovato, bisogna invocarlo, scoprendo che è vicino. La ver~
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(S'lJ4:Éw) e del trovare (Eùplo-xw) il Signore emerge con una certa insistenza nel 4' vangelo. Già in 1,38 ai due discepoli che, all'annunzio del Battista, lo seguivano, Gesù chiede: «Cosa cercate (4:l S'lJ4:EL1'E)?». Più avanti, nel v. 41 leggiamo le parole di Andrea a Pietro: «abbiamo trovato (Eùprpt0-µrv) il Messia». Nel v. 45 si leggono ancora le parole di Filippo a Natanaele: «colui di cui scrisse Mosè [ ... ] abbiamo trovato (Eùp-i}x0-µrv): Gesù il figlio di Giuseppe da Nazaret» 249 • In alcuni testi la ricerca di Gesù si risolve in maniera negativa. In 7,11 si leg;ge che i giudei cercavano Gesù nella festa 250 • Nel v. 34 invece Gesù afferma: «mi cercherete, ma non mi troverete e dove sono io voi non potete venire» 251 • In Gv 8,21, il Signore, parlando ancora ai giudei, è più drastico: «mi cercherete, ma mori1rete nei vostri peccati». Viceversa in 13,33 ai discepoli Gesù dichiara: «mi cercherete [ ... ] dove io vado voi non potete venire». Per i giudei l'esito negativo della ricerca è definitivo, per i discepoli invece è solo momentaneo. Possiamo infine notare i testi di 18,4.7, dove a quelli che erano venuti a catturarlo due volte Gesù pone la domanda: «chi cercate (-i;lva. S'lJ"tfrtr)?». Anche alla Maddalena, in 20,15, il Signore pone la domanda: «chi cerchi?» 252:.
sione di Simmaco introduce il tema della lode: lodate (cx:LvEL'tE) e chia1nate (xa;ÀÉcra:1;E). La prospettiva del Targum è completamente differente: «cercate il. timore del Signore ntentre siete viventi; implorate davanti a lui mentre esistete>), 249 Altri testi si possono citare che parlano di una ricerca. In 5,44 Gesù rimprovera i giudei che cercano gloria reciproca, ma la gloria che è da Dio solo non cercano (2° pers. pi. t;,Tj'!EL't"E). Inoltre 6,24: «(le folle) vennero [ ... ] cercando Gesù e, avendolo trovato [.,.])); v. 26: «mi cercate non perché-avete visto dei segni [ ... ]». 250 Di una ricerca dei giudei si parla anche in 11,56. Si può notare lo schema che emerge dai vari testi: a. 7,11; ricerca dei giudei b. 7,34-36: esito negativo della ricerca a. 11,56: ricerca dei giudei. 251 Nel v. 35 i giudei commentano: «dove va che non lo troveremo?». Nel v. 36 i giudei stessi ripetono le parole di Gesù: «che cos'è la parola che ha detto: mi cercherete, ma non mi troverete [ ... ])).
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Nel NT il tema della ricerca di Dio non è assente, ma neppure molto sottolineato. Un testo importante è At 17,27 .dove si ·indica lo sforzo dell'umanità: «cercare (S1J"t"ELV) Dio se mai Io raggiungano e lo trovino (EilpoLEV)». In Rm 10,20, citando Is 65,2, Paolo ricorda la vocazione dei pagani : «sono stato trovato (EÙpÉilr)v) da quelli che non mi cercano (µli S1J1'·oucnv)» 253 • Nell'AT si parla con una certa frequenza della •ricerca del Signore. Particolarmente significativi sono dei testi del Deuteronomio o di indole deuteronomista. Dt 4,29 scrive: "[ ... ] di là (dalla terra di esilio) cercherai il Signore e lo troverai, se lo cercherai con tutto il cuore e con tutta l'anima». Inoltre anche !Gr 22,19: «dedicatevi con tutto il cuore e con tutta l'anima a cercare il Signore» 254 • Anche i salmi parlano di una ricerca del Signore. Cfr. Sai 24,6: «questa è la generazione di quelli che lo cercano (s11i:ovvi:wv)» 255 • Ma i libri sapienziali, oltre che della ricerca di Dio 256 , parlano anche della ricerca della Sapienza 257 •
2s2 Conosciamo l'esito delle due domande. Alle due risposte {<Gesù Nazareno)) seguono diversi effetti. La prima volta inciampano e cadono; la seconda volta Gesù chiede che i suoi vadano via. Si avverte un certo parallelismo per contrasto con 1,38. 253 Altri testi potrebbero essere: Mc 1,37; forse anche Mt 7,7.8, dove però esplicitamente non si parla della ricerca di Dio. Cfr. Le 11,9.10. Inoltre Mc 3,32; Le 24,9.49; 9,9; 19,3. Si possono citare però anche dei testi dei racconti postpasquali: Mt 28,5: «So che Gesù che è stato crocifisso cercate [ ... ]». Inoltre Mc 16,6; Le 24,5; «perché cercate il Vivente tra i morti? [ ... ]». 254 Cfr. anche 2Cr 11,16: 15,12. Inoltre Es 33,7; 2Sam 22,1; lCr 10,14: 21,30: 2Cr 16,12: 18,4.7; 34.26 ... 255 Inoltre Sal 27,8: cdl tuo volto, Signore, io cerco)); Sal1 78,3.4; 83,17; 105,3.4: «cercate il Signore e sarete rafforzati [ ... ]». 256 Nel c. 13 del libro della Sapienza si parla della ricerca di Dio da parte dei non giudei, attraverso la creazione. Purtroppo questa rice"rca non ha avuto effetto (cfr. vv. 6.9). Inoltre Pr 28,5; Sap 1,1: <(rettamente pensate al Signore, cercatelo con semplicità di cuore}}. Nel Cantico dei Cantici la ricerca riguarda la sposa che cerca lo sposo (Ct 5,6; 9,1.2. Cfr. al contrario, Gv 20,15 ss). 257 Cfr. soprattutto Pr 1,29 (a riguardo degli empi) «mi invocherete e non vi esaudirò. Mi cercheranno gli empi e non mi troveranno}). Questo testo è molto vicino a Gv 7,11.34.35.36: 8,21. Cfr. inoltre Pr 3,13; 4,22. Al contrario Pr 8,17: c1quelli che mi cercano mi troveranno [ ... ]>},
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Infine il tema della ricerca del Signore si trova anche nei profeti 258 • Questa molteplicità di testi non permette di concludere che nella tematica di cercare e trovare il Signore il nostro evangelista dipenda da Is 55,6: nessun altro elemento comprova la dipendenza.
Sintesi generale Al termine dell'analisi di tutti gli elementi del c. 55 del libro di Isaia, più o meno chiaramente ripresi dall'autore del 4° vangelo, possiamo proporre una sintesi di tutti gli elementi che da questo confronto emergono. 1. L'autore del 4° vangelo non riprende tutti gli elementi di Is 55, ma la sua utilizzazione quasi esclusivamente concerne i due blocchi contenuti nei vv. 1-3 e 10.11. Altre eventuali allusioni ad altri versi possono trovare,. nell'ambito dell'AT altri riferimenti, anche migliori. Nella ripresa di questi elementi l'autore del vangelo non cita alla lettera né parafirasa i testi a senso, ma ri1prende da essi, anche letterariamente, prospettive e immagini molto utili per caratterizzare il mistero di Gesù che egli nel suo vangelo vuole descrivere. Penso che il testo .di Is 55, nei suoi due blocchi dei vv. 1-3 e 10.11, sia uno dei testi fondamentali, o forse anche quello fondamentale che, oltre le singole immagini, offre la prospettiva di fondo a tutto il vangelo. L'evangelista, riprendendo schema e immagini, li reinterpreta alla luce del mistero di Gesù, per descrivere il quale egli non esita a smembrare, quasi a sbriciolare, il testo, creando nuovi passaggi e nuove prospettive. Inoltre egli amplia lo schema di Is 55 e lo approfondisce mediante l'apporto di altre tradizioni veterotestamentarie parallele, mediante l'apporto della dflessione neotestamentaria e della sua propria tradizione e riflessione.
Am 8,12: «cercheranno la Parola del Signore, ma non la troveran· Inoltre Sof 2,3; Is 9,12; 31,1; 51,1; 58,2; Ger 10,21; 50(27),4; 29(36),13; Bar 4,8; Ml 3,1. Infine un testo importante è Is 65,1: «divenni manifesto a quelli che non mi cercano; fui trovato da quelli che non mi interrogavano». 2ss
no».
Utilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni ------·---
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2. Studiando l'utilizzazione di un testo dell'AT da parte di un autore neotestamentario è importante stabilire che tipo di testo egli segua: se il testo ebraico, se la parafrasi targumica o la versione greca; in quest'ultimo caso, se la versione dei LXX o qualche altra delle versioni greche pervenuteci in frammenti o qualche altra eventuale ipotetica. Il problema però non deve essere posto in modo schematicamente rigido. Può darsi il caso, come probabilmente nella lettera agli Ebrei o nell'opera lucana, ma anche Paolo e i vangeli di Matteo e Marco, che l'autore citi e commenti la Sorittura secondo il testo dei LXX. Può darsi anche il caso che un autore, come nell'Apocalisse di Giovanni, utilizzi il testo della Scrittura traducendo in greco dalla lingua originale, a lui più familiare. Può anche darsi il caso che un autore del NT utilizzi il testo greco, ma guidato dalla prospettiva del testo ebraico o aramaico. Per quanto riguarda il presente lavoro, ho confirontato il testo ebraico, il testo aramaico targumico, la versione greca dei LXX e i frammenti delle versioni greche di Aquila, Simmaco e Teodozione. Senza volere tirare conclusioni generalizzate a tutti i testi dell'AT ripresi dal vangelo di Giovanni, ma limitatamente all'utilizzazione del testo di Is 55, credo di potere affermare che l'evangelista non segua alcun testo particolare, ma li conosce tutti, utilizzando ciò che è più confacente alla sua prospettiva. Lo studio da me condotto lascia supporre che l'autore del 4" vangelo, profondo conoscitore della Scrittura nella lingua originale e nelle tradizioni della madre patria (Targum) 259 , vivendo e scrivendo in an1biente greco, venne a contatto con la o con le varie versioni greche, utilizzando di esse ciò che poteva servire meglio al suo scopo. Nel corso della analisi ho indicato gli elementi che meglio si ricollegano al testo ebraico o alla versione greca. Vorrei solo notare che verosimilmente la prospettiva del Targum, che soprattutto nei vv. 1-3 annulla qualsiasi altra immagine e si fonda esclusivamente nella prospettiva della Parola, dell'istruzione, del-
259 L'indole aramaica del 4° vangelo è notata da M. E. BOISMARD, /mm portance de la critique textuelle pour établìr l'origine araméenne du 4" évangile, in AA.Vv., L'évangile de Jean, J. Duculot, Paris 1958, 41-57.
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l'insegnamento, dell'imparare, può avere avuto un particolare influsso sulla marcata concezione giovannea della Parola. 3. Il testo di Is 55 servì bene al nostro autore per la sua prospettiva della Parola di Dio. Essa emerge nell'invito all'ascolto, nel v. 1, ma emerge soprattutto nei vv. 10.11, dove la vicenda della Parola di Dio è paragonata alla vicenda della pioggia e della neve. Secondo il testo di Isaia, pioggia e Parola hanno in comune una duplice parabola: a. b.
discendente (dal cielo - dalla bocca di Dio) ascendente (dalla terra al luogo di provenienza).
Tra le due parabole si descrive lo scopo per cui pioggia e Parola scendono, dopo avere esaurito il quale, possono risalire. Lo scopo della pioggia è quello di impregnare e far germogliare la terra, e dare seme al seminatore e pane a colui che mangia. Lo scopo della Parola è fare quanto Dio vuole e portare a compimento ciò per cui Dio l'ha mandata. La Parola di Dio, secondo il vangelo di Giovanni, è Gesù, leterna Parola (1,1) divenuta carne (1,14). Di essa levangelista narra la vicenda nel mondo, sullo sfondo della duplice parabola: discendente (da Dio al mondo) e ascendente (dal mondo a Dio). Gesù è venuto dal cielo e da Dio per compiere un'opera, dopo di che può tornare a Dio. Quest'opera è l'opera del Padre, delineata nella Scrittura e consiste ne] dare agli uomini la vita eterna. 4. Egli darà la vita eterna mediante una vicenda che l'evangelista qui e lì esprime nei suoi particolari, riprendendo e fondendo gli elementi che Is 55 distintamente e rispettivamente riferisce alla pioggia e alla Parola. Essendo la Parola, Gesù deve compiere la volontà di Dio, portando a compimento l'opera per cui il Padre l'ha mandata. Questa opera, che coincide con la volontà di Dio, si compie nel cammino che va .dal Getsemani alla croce ed è lo scopo dell'incarnazione. Is 55,10 sembra caratterizzare questo cammino come un camn1ino che va dal seme al pane. Come seme, di cui egli stesso è il seminatore, Gesù deve cadere a terra e morire; deve diventare pane: chi mangia di esso ha la vita eterna.
Utilizzazione del c. 55 di Isaia in Giovanni
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5. Ma i vv. 1-3, dove leggiamo dell'invito rivolto all'assetato di venire all'acqua, suggeriscono ancora un'altra prospettiva: Gesù, per donare la vita eterna, deve diventare fonte di acqua viva. Le due immagini del pane e della fonte di acqua viva convergono nell'unica realtà della vita eterna. Questa pure è la prospettiva di Is 55,3: «ascoltate me e vivrete». 6. Ma c'è una relazione tra il pane e la fonte di acqua viva? La relazione deve esserci necessariamente: entrambe le immagini si riferiscono a Gesù ed entrambe le immagini hanno come scopo la vita eterna. Ma c'è una intrinseca relazione tra di loro? A me pare che il testo di Gv 6,35 suggerisca questa intri11seca relazione: riferisce infatti le parole di Gesù: «chi crede in me non avrà mai sete», esattamente dopo la menzione del Pane"", in un contesto in cui il tema centrale è ancora il Pane. Inoltre in Gv 4,34-36 si menziona il cibo e soprattutto in 4,8 (-rpoqn\), all'inizio del dialogo tra Gesù e la donna samaritana, il cui primo argomento (vv. 7-15) è appunto l'acqua. In un contesto in cui si parla del Pane, si menziona il bere, in un contesto in cui si parla dell'acqua si menziona il mangiare. Tutto ciò suggerisce che la fonte dell'acqua sia proprio il Pane. Se ciò è vero, abbiamo una ulteriore luce sul carattere sacramentale del vangelo di Giovanni. 7.
Possiamo allora proporre il seguente schema riassuntivo:
a. l'eterna Parola di Dio, che esce da Dio, b. scende dal cielo per compiere la volontà di Dio e portare a compimento Isi. sua opera, c. diventa carne, d. si fa seme che si semina, cioè muore e porta molto frutto, e. diventa pane, f. nel Pane egli è quella fonte che un soldato aprì con la lancia e da cui sgorgò l'acqua che è lo Spirito, mediante il quale dona la vita eterna. In ciò egli ha compiuto l'opera affidatagli
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Cfr. 6,35 a: «Io sono il Pane della vita [ ... ]».
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dal Padre, ha portato a compimento l'opera del Padre delineata e contenuta nella Scrittura. g. Scaturita l'acqua, comincia, mediante la fede, il cammino dell'uomo verso di essa: GesÚ rivela la sete (19,28); può rivolgere l'invito all'assetato a venire a lui e bere (7,37ss); una donna raccoglie l'invito e viene dalla Samaria ad attingere acqua (4,7-15); GesÚ comanda di attingere l'acqua (2,8.9). h. Compiuta l'opera per cui fu inviata nel mondo, la Parola, nella prospettiva giovannea, secondo lo schema di Is 55, torna al Padre nella pienezza della sua gloria (c. 17).
MODELLI ECCLBSIOLOGICI NEGLI SCRITTI E NELLA PRASSI PASTORALE DI MONS. GERLANDO MARIA GENUARDI, PRIMO VESCOVO DELLA DIOCESI DI ACIREALE
DOMENICO MASSIMINO*
Con H presente articolo si vuol presentare la concezione di Chiesa di mons. Gerlando Maria Genuardi, primo vescovo della diocesi di Acireale. Egli nasce a Girgenti (Agdgento) il 9 settembre del 1839 da una nobile e ricca famiglia 1. Il contesto storico-culturale
* Dottorando in Teologia dommatica. Sin da bambino il Genuardi dimostra una versatilità per lo stato ecclesiastico e ancor giovinetto entra nel seminario diocesano ove si di~ stingue per la pietà e l'esito degli studi. Appena ordinato diacono frequenta il collegio dei SS. Agostino e Ton11naso, uno dei migliori del tempo, per perfezionare i suoi studi. Il giovane don Gerlando sin dai primi anni di sacerdozio dimostra di essere un tipo intransigente e battagliero, sia ri~ guardo alla situazione della diocesi agrigentina che attraversa un periodo di profonda crisi a causa della sede vacante, sia nei rapporti col governo liberale. Svolge il ministero sacerdotale come confessore e direttore spi~ rituale presso case religiose e nell'impegno in diverse opere di zelo. Si interessa pure della stampa curando la pubblicazione di due periodici: L'Avvenire prima e poi La Verità Cattolica che hanno però entra1nbi pochi mesi di vita perché invisi alle autorità politiche. Su mons. Genuardi vedi i seguenti testi: G. CONTARINO, Le origini della diocesi di Acireale e il prin10 vescovo, a cura dell'Accademia degli Zelanti e dei Dafnici, Acireale 1973; D. DE GREGORIO, Profili di sacerdoti agrigentini, Firenze 1962; ID., Ottocento ecclesiastico agrigentino, I, Agrigento 1966; lo., Mons. Domenico Turano, Ed. La Carità, Palermo 1967; ID., Ottocento 1
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in cui si forma ed opera da sacerdote e da vescovo è quello della Sicilia risorgimentale, costituito dail'.intrecciarsi di diverse linee di pens-iero e tendenze politiche, che mantengono però come base comune l'attaccamento ai valori tradizionali, tra i quali, al primo posto, la fede cattolica. Nel giugno del 1872 è nominato vescovo della nuova diocesi di Acireale e viene con~ sacrato a Roma ]']] agosto successivo nella chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio a Fontana di Trevi. Se è interessante esaminare l'ecclesiologia d"i un vescovo in quanto è pastore e quindi costruttore in prima persona della Chiesa e di una Chiesa particolare, lo è ancora di più studiare quella del primo vescovo di una diocesi. Egli ha il delicato compito di "plantare" una Chiesa gettando delle solide fondamenta, organizzando ed 'incrementando le forze esistenti, curando la nascita di quelle opere necessarie per una struttura diocesana. Questo non indifferente lavoro esige un progetto ecclesiologico in quanto una seria pastorale non si ha se non su solida base teologica. A quale concezione di Chiesa si è ispirato mons. Genuardi nello svolgimento del suo compito? Su quale progetto la Chiesa di Acireale è stata "piantata"? Condotti da tali domande compiamo una disamina degli scritti e della prassi pastorale del vescovo. I primi anni di episcopato non sono facili per il giovane vescovo Genuardi, il quale però sa fronteggiare ogni difficoltà con il suo spirito forte e battagliero che lo fa essere deciso e talora intransigente nelle varie siiuazion1i che si vengono a creare e negli urti avuti con alcuni mem'bri del numerosissimo clero. Acireale nella seconda metà dell'Ottocento conosce un periodo di splendore e di prestigio in campo sociale a cui, con
ecclesiastico agrigentino, Il, Agrigento 1968; R. Dr MARIA, Fine Ottocento llli Acireale, a cura deJI'Accadcrnia degli Zelanti e dci Dafnici, Acireale 1972; A. DI PIAZZA, Mons. G. M. Genuardi prin10 vescovo di Acireale, Gir~ genti 1912. Sulla situazione e le posizioni del clero siciliano nel secolo scorso può essere consultato F. M. STABILE, Il clero paler1nitano nel prùno decennio dell'unità d'Italia (1860-1870), 2 voll., a cura dell'Istituto di Scienze Religiose, Palermo 1978.
Modelli ecclesiologici del vescovo Genuardi -----
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l'istituzione del vescovado e grazie all'opera di mons. Genuardi, corrisponde un pullulare di opere cattoliche, nel contesto di una pastorale solida e ben organizzata. La lunga e feconda attivHà del vescovo Genuardi ha fine con la morte avvenuta tra il 4 e il 5 giugno del 1907. 1.
La prima lettera pastorale
Gli scr.itti di mons. Genuardi sono soprattutto costituiti dalle lettere pastorali a cui si unisce qualche discorso tenuto ·in determinate occasioni 2 • Prima di considerare le linee ecclesiologiche emergenti dall'insieme degli scritti è interessante soffermarci un po' sulla prima lettera pastorale, scritta a Roma nell'agosto del 1872 in occasione della consacrazione episcopali;, in quanto si presenta con una tematica prettamente ecclesiologica. E' significativo che il primo vescovo di una diocesi dedichi alla Chiesa la prima lettera pastorale che è di carattere programmatico. Genuardri così mostra d-ì essere cosciente che il suo lavoro concerne la costruzione di una Chiesa locale per cui non può fare a meno di tracciare un progetto ecclesiologico da tenere costantemente presente 3 • Nel descrivere la Chiesa vengono usate alcune categorie desunte per lo più dalla Scrittura, che mettono in risalto il suo aspetto misterico; essa è i-I "mistico edificio"; "la sposa di Cristo"; "la bellissima regina"; "il trono fulgido"; "la Gerusalen1me celeste". Troviamo pure in queste lettere la categoria di "Corpo di Cristo" la quale sintetizza in modo equilibrato l'aspetto visibile con quello
2 Non tutte le lettere pastorali e i discorsi hanno un titolo, per cui quelli che lo hanno saranno indicati col titolo proprio, mentre gli altri con la data di e1nissione o con l'indicazione dell'occasione per la quale sono stati scritti. 3 <([ ... ] non credo possa trovare io argomento per voi di n1aggiore utilità e di importanza, su cui trattenervi in questa mia prin1a lettera, che questo appunto, onde vengo invitandovi a contemplare, sebbene in povero abbozzo, la divina maestà cd ineffabile bellezza della Chiesa Cattolica considerata nel suo ordinamento, nella sua missione sulla terra ed in quella finale del Cielo)) (prima lettera pastorale, Roma 1872, 7).
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misterico. Nella descrizione della Chiesa con tali categorie è ben chiara T'influenza su Genuardi della mediazione patristica, del catechismo tridentino e, per la categoria di Coqio di Cristo, del Mohler e del Collegio Romano. Ma quale definizione di Chiesa dà il Genuardi in questa sua p11ima lettera? Egli considera la Chiesa in senso largo, in un senso meno .Jargo ed in senso proprio. La Chiesa in senso largo è tutta la creazione -destinata a rendere gloria a Dio; in senso meno largo è l'associazione delle creature dotate di intelletto e volontà che hanno in se stesse la capacità di essere santificate da Cristo; infine in senso proprio la Chiesa è l'unione delle anime umane congiunte come membra a Cristo capo supremo, le quali godono il trionfo del cielo, si purificano dalle colpe oppure nel corpo si trovano ancora nel cammino terreno 4 . Notiamo in questa concezione, secondo la quale ogni creatura è ordinata a Cristo e alla Chiesa, che viene ripresa la teoria della obbedienzialità propria di S. Tommaso d'Aquino e ciò non ci sorprende in quanto il Genuardi privilegia con convinzione la teologia tomista 5 • Nella definizione di Chiesa data dal Genuardi troviamo messo in luce l'intimo rapporto che intercorre tra la Chiesa trionfante, rpurgante e militante. E' da notare che, subito dopo aver definito la Chiesa in senso proprio come Corpo di Cristo, riferisce •immediatamente tale definizione alla Chiesa trionfante, poi alla purgante e infine alla militante di cui dice essere nello stato di viatrice, quasi a indicare che proprio nella dimensione escatologica la Chiesa raggiunge il suo stadio massi0
4 «La Chiesa, o fratelli e figli dilettissimi, riguardata nel suo lato senso è tutta la Creazione, la quale in Gesù Cristo e per Gesù Cristo fu recata in atto, e destinata per grazia a compiere la esteriore ed eterna glorificazione di Dio. In senso però meno largo, <lessa Chiesa è l'associazione, alla quale sono ordinate tutte le creature, che hanno intelletto ed amore, e quindi capaci ad essere santificate in Lui e per Lui. In senso finalmente proprio, essa è l'assc1nbramento delle anime umane, che fu· rono, siccome n1embra congiunte a Gesù Cristo supremo loro capo, [ ... ]))
(I.e.). 5
Cfr. TOMMASO D'AQUINO, Summa th., III, q. 8, a. 3c.
,lfodclli ccclcsiulugici dcl vescovo (;c11lf(/l/li
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di realizzazione e a quel termine essa tende mentre è ancora pellegrina sulla terra. ,Da un inno liturgico della dedicazione della Chiesa il Genuardi ricava la missione che la Chiesa ha da compiere sulla terra 6 • Essa nell'escaton realizza in pienezza l'immagine della città splendida costruita con pietre vive e perfette e in questo punto, quasi riecheggiando la famosa pagina del Pastore di Erma riguardante la costruzione della torre sull'acqua 7, dice che sulla terra essa è impegnata a lavorare e a perfezionare le pietre vive essendo queste il suo scopo immediato, mentre quello finale è la glorificazione di Dio per Gesù Cristo 8 . Mentre la Chiesa svolge tale missione deve contemporaneamente sostenere una lotta contro i nemici che la circondano e appunto per questo oltre che viatrice si chiama pure militante. E' facile scorgere nelle affermazioni riguardanti la Chiesa in lotta èontro ·i nemici, oltre che la sottolineatura di un aspetto sempre costante in essa, un riferimento alla situazione politica italiana nella quale la Chiesa trova non poche difficoltà. Dopo aver considerato la natura e la missione della Chiesa, partendo da questa passa a trattare la sua costituzione gerarchica. Specificatamente ciò che costituisce la missione della Chiesa è "l'insegnamento della dottrina, l'esercizio del culto, l'amministrazione dei sacramenti, l'offerta del sacrifizio e le regole della morale" 9 • Tale missione implica un potere che deriva da Gesù Cristo stesso e che egli particolarmente affida a n10
6 L'inno liturgico da cui il vescovo prende spunto è Caeleslis Urbs Jerusalen1 dei comune della dedicazione della chiesa. 7 Cfr. Pastore di Er111a, XI (3) - XV (7), Città Nuova, Ron1a 1981. 8 «Questa eccelsa missione della Chiesa di Gesù Cristo è stupendamente espressa dalla sacra liturgia in quel cantico, ove si rappresenta la santa Città, ossia la Chiesa trionfante nell'atto di elevarsi sino alle stelle fabbricata di pietre vivaci; il che ne conduce a considerare l'utlìcio ùella nostra Chiesa nel inondo la quale è parte di quella universale supra descritta, e tosto scorgiamo esso non altro essere, per così dire, che quello di lavorare le pietre vivaci, le quali condotte alla necessaria perfezione, vengono poi collocate al loro posto nel maestoso cdifìzio» (prima lettera pastorale, cit., 8-9). 9 Ibid., 9.
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coloro che ricoprono i gradi del sacer.dozio gerarchico la cui pienezza risiede nell'episcopato per cui nella Chiesa vi è una parte docente ed una discente, l'una attiva e l'altra passiva 10 • In questa prima fondamentale riflessione sulla Chiesa fatta dal Genuardi e proposta alla diocesi non può mancare di essere sottolineato il ruolo ecclesiale del romano pontefice nei confronti del quale mons. Genuardi dimostra sempre particolare attaccamento e profonda devozione. Citando anche la Pastor Aeternus, vede il primato romano come un'esigenza del sacerdozio e della fede che hanno bisogno di un centro di unità 11 • A tutti gli apostoli Cristo affida determinati compiti, ma per la salvaguardia dell'unità non può stabilire un'eguaglianza assoluta e così, in quanto la fede è una, deve necessariamente esserci un centro di unità 12 • Tale centro è la sede romana, la sede di Pietro su cui si poggia l'edificio
JJ ((Egli (Gesù Cristo) pertanto con som1na sapienza vi provvide ordinando che tullo si compia per modo conforme alla condizione di noslra natura, cioè di uomini ad uomini, onde vi fosse nella Chiesa chi istruisce e chi e istruito, chi riceve e chi dona, chi governa e chi è governato, chi amministra e chi è amministrato» (ibid., 10). Il «Ma dobbiamo ormai accostarci a questo Pontificato supremo, dal quale la gerarchia medesima riceve la sua unità ed al suo divino fondatore Gesù Cristo vien rannodata [ ... ]. La fede adunque cd il Sacerdozio sono due titoli (ai quali potrebbero aggiungersi degli altri, che per brevità qui tralasciamo) pei quali era alla Chiesa indispensabile quel centro di unità, cui il Signor nostro Gesù Cristo ha largarncntc provveduto con le singolarissime prerogative concesse a Pietro, e non tanto, alla sua persona quanto al suo uthcio, e però comuni a coloro che dell'ufficio medesimo sarebbero stati nella lunghezza dei secoli investiti)> (l.c.). 12 ((Gli uffici di insegnare, di battezzare, di assolvere, di consacrare l'Eucarestia e di offrirla, come verissimo sacrifizio insieme agli altri, furono da Gesù Cristo affidati a tutti gli apostoli; ma se tra essi una eguaglianza assoluta fosse stabilita non solo nella dignità ed autorità personale ma ancora nel grado della loro preminenza e nelle Chiese che da :.essi sarebbero state istituite, ne avrebbe per fermo non pure scapitato quella unità che deve essere prin1a condizione di ogni società perfetta. D'altra parte se la fede deve essere una come uno è Dio, ed uno il battesimo, in qual modo si sarebbe potuto mantenere l'unità della credenza, senza un centro di saldissima unità nel magistero>> (ibid., 10-11).
Modelli ecclesiologici del vescovo Genuardi
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della Chiesa ". Afferma quindi con chiarezza che il cattoHco deve essere romano, deve essere necessariamente legato alla sede romana centro del cattolicesimo, se vuole essere autentico cattolico. Bisogna riconoscere che, considerati i tempi, la riflessione del Genuardi sulla sede romana e sul papa in questa sua prima lettera, pur se calorosa ed entusiasta, si mantiene su di un piano di equilibrio muovendosi su base teologica. Ritroviamo in questa concezione qualche traccia della teologia del Mohler riguardante il papa espressa nella Unità della Chiesa.
2.
Carattere apologetico dell'ecclesiologia del Genuardi
La tematica ecclesiologica è abbastanza presente negli altri scritti del vescovo; in quasi ogni lettera troviamo dei riferimenti alla Chiesa, delle sottolineature intorno al suo mistero, alla sua vita e alla sua missione. Conoscendo l'atmosfera politica e culturale della seconda metà del XIX secolo, non ci sorprende di riscontrare sovente negli scritti del Genuardi un tono apologetico di cui risente evidentemente anche la sua ecclesiologia. In quasi tutte le lettere è considerata la crisi in cui versa la società del tempo, sono considerati periodi tristi e le difficoltà che la Chiesa deve affrontare, si parla spesso dei suoi "nem•ici" che muovono guerra contro di essa e contro la sua missione. Ma, pur in mezzo a tante tempeste, essa è vista incedere sicura sempre più adorna di bellezza, potenza e gloria 14 • Tale sicurezza la 13 «A lui (Pietro) Gesù Cristo cambiò il nome di Simone, in quello di Cefa, o Pietro, onde preannunziargli simbolicamente, che sopra di lui come saldissima pietra avrebbe edificato la sua Chiesa)) (ibid., 11). 14 «Mentre il mondo in mezzo alle più angosciose agitazioni corre ciecamente l'inesorabile carriera del tempo, che col rapido succedersi degli anni involge negli abissi del passato le umane generazioni, la Chiesa di Dio, Fratelli e Figli Nostri amatissimi, sebben oggi di quasi dappertutto travagliata dalla più ingiusta ed implacabile persecuzione, correndo anche essa la sua divina carriera sulla terra, raccoglie col tempo nuovi splendori
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Chiesa trova non certam·ente in se stessa, ma in Dio che le offre H suo intervento soprattutto quando vengono a mancare i supporti umani 15 • Nessuno può mettere a tacere la Chiesa che tra le tante avversità, da madre amorosa continua a proclamare a tutti i popoli il messaggio cristiano della conversione 16 • La Chiesa è il luogo nel quale risiede la verità. Diverne volte il Genuardi le attribuisce la prerogativa di maestra infallibile della verità scorgendo in essa quello spirito di intelligenza che la fa essere tale 17 • Come la colonna di fuoco illumina neldi bellezza, di potenza e di gloria, e compiendo la sublime sua m1ss1one di santificare le generazioni, viene accrescendo la beata falange degli eletti e degli abitatori della eterna città di Dion (lettera pastorale per la quaresima 1877. Acireale 1877. 3). ({Il secolo XIX [ ... ] vede la Chiesa di Gesù Cristo procedere maestosa nel suo glorioso cammino in mezzo a continui e fieri assalti satanici, e raccogliere immensi frutti dell'apostolato delle missioni cattoliche [ ... ] e vede che il magistero e la dottrina del suo capo visibile, il Romano Pontefice, ognora splendidi di sapienza divina, vengono proclamati faro di sal~ vezza delle nazioni e della pericolante società» (lettera pastorale Il solenne 01naggio a Gesù Cristo Redentore e al suo angusto vicario nel chiudersi del secolo XIX e a sorgere del XX secolo, in Il Zelatore Cattolico 2 [1898] 19). 1s «[ ... ] allorquando alla Chiesa sembrano venire meno tutti gli umani aiuti, l'ora dell'onnipotente intervento di Dio è vicina» (lettera pastorale del 7 dicembre 1899, in Il Zelatore Cattolico 12 [1899] 198). 16 «Né persecutori sanguinosi, né eretici astuti, né apostati fraudolenti, né increduli beffeggiatori, né materialisti abbruttiti hanno giammai potuto far tacere la voce possente della Sposa del Nazareno, la quale in mezzo alle follie dei secoli ed allo strepitio dei pubblici e dei privati delitti ha sempre gridato con amore di madre e con impero di regina, che invano gli uomini si argomentano di tuffarsi nelle onde impure dei mondani godimenti per estinguere i rimorsi della loro coscienza, e che è dì assoluta necessità al restauramento dell'ordine morale sconvolto dalla colpa il pigliarsi volontariamente delle pene anche sensibili» (lettera pastorale per la quaresima del 1882, Acireale 1882). 17 «La Chiesa Cattolica, Fratelli e Figli dilettissimi, madre e maestra infallibile di verità e di giustizia, non ha mai lasciato attraverso dei secoli l'esercizio della sua divina missione a pro dell'umanità travagliata [ ... ] in lei, al dir della Sapienza, risiede lo spirito dell'intelligenza, santo, unico incontaminato, infallibile, soave, amante del bene, penetrante, irresistibile,
Modelli ecclesiologici del vescovo Genuardi
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la notte gli ebrei lungo il percorso del!' esodo, così la Chiesa colonna di verità spande luce tra l'oscurità del mondo 18 • La Chiesa quindi in quanto maestra infallibile della verità è il punto di riferimento per ogni popolo, essa è infatti chiamata la madre dei popoli e delle nazioni. In queste convinzioni emerge chiara lassimilazione da parte del Genuardi del progetto di Leone XIII: lorigine della crisi sociale è da individuarsi nell'apostasia da Dio e dalla Chiesa; il ritorno a Dio e alla Chiesa costituisce quindi il rimedio per il SUiperamento della crisi. L' i>pologia che il Genuardi fa della Chiesa si fonda non su argomentazioni umane, ma sul fatto che essa è un mistero: è sì una società, e tale termine appare anche se pochissime volte, ma una società che racchiude un mistero, che è impregnata di mistero in quanto non ha il suo fondamento su strutture umane pur avendone bisogno, ma nella volontà di Dio da cui essa trae la propria origine 19 • All'apologia della Chiesa è strettamente legata, facendo un tutt'uno con essa, l'apologia del papa che raggiunge talora toni che soprattutto oggi sembrano eccessivi e di sapore mistificante. Nel!' ecclesiologia genuardiana il ruolo di Pietro e dei suoi
benefico, amatore degli uomini, benigno, costante, sicuro, tranquillo, che tutto può, tutto prevede, e tutti contiene gli spiriti» (lettera pastorale La Chiesa e il Liberalismo e la salute delle nazioni, in La Palestra Cattolica 4 [1888] 97). 1s «Essa (La Chiesa) è colonna e fermezza di verità (1 Tim 3,15). Figurata in quella colonna di fuoco che nell'oscurità guidava il popolo di Dio dalla terra di schiavitù in quella promissione, la Chiesa è dal suo divin fondatore destinata a sgombrarci d'attorno le tenebre del secolo e a con~ durci dal terreno pellegrinaggio alla Gerusalemme celeste>> (lettera pasto raie per la quaresima 1885, Acireale 1885, 14-15). 19 «(La Chiesa) Guarda essa il passato, compiangendo la fine infelice dei figli a lei infedeli o ribelli, e, benedicendo il suo divin sposo per le glorie ed i trionfi incomparabili che le ha procurato nei secoli trascorsi, tranquilla contempla il suo avvenire, conciòssiacché poggiando nel cielo il suo principio come il suo termine, la sua forza come la sua gloria nulla ha a che fare con i calcoli fallaci e spesso malvagi dell'umana politica e terrena sapienza» (lettera pastorale per la quaresima 1877, cit., 3). 0
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successori trova un posto rilevante accentuato anche per la situazione politica italiana e siciliana in particolare. Come nella prima lettera pastorale, anche negli altri scritti il ministero del romano pontefice è inquadrato nella considerazione teologica riguardante il servizio all'unità della Chiesa. Ad esempio, nella pastorale del 1886 citando una lettera del card. Schiaffino dice che "la società cattolica trova nella cattedra di Pietro l'unità di mente e di cuore" 20 • Il papato è visto come il centro di splendore della Chiesa e come centro necessario perché "ove è Pietro ivi è la Chiesa". I cattolici quindi debbono tenere in grande considerazione la parola del papa e mons. Genuardi non perde occasione per presentarla e farla conoscere tanto che qualcuna -delle lettere pastorali non è altro che la presentazione di qualche enciclica pontificia di cui si riporta il testo per intero 21 • Troviamo anche presente il tema dell'infallibilità pontificia. Nella pastorale del settembre 1881 si parla del magistero infallibile del pontefice, considerato, con espressioni in verità eccessive, come "la pietra angolare dell'ordine, della pace e della civiltà e l'unica fonte di verità e di giustizia" 22 • Considerando però l'insieme delle lettere e facendone una lettura sinottica, pare che il Genuardi abbia percepito lo spirito autentico della Pastor Aeternus contenente il dogma dell'infallibilità pontificia. L'infallibilità del sommo pontefice, se pur ex sese non autem ex consensu ecclesiae, non è affatto slegata dall'infallibilità di tutta la Chiesa, ma anzi ne è l'espressione. Infatti il Genuardi più volte parla dell'infallibilità della Chiesa che appunto definisce "maestra infa!Hbile di verità". Tale convinzione è altresì e~pressa in una ·notificazione in occasione
Lettera pastorale per la quaresima 1886, Acireale 1886. «Ora il centro di splendore della Chiesa è il Papato, giacché ove è Pietro, ivi è la Chiesa, quindi per godere di tutta la forza di questa luce bisogna studiare con specialità la dottrina e la parola del Papa nei Concilii, nelle Bolle e negli Atti pontifici o della S. Sede>> (Discorso per la riapertura degli studi nel seminario, letto 1'8 novembre 1885, in La Palestra Cattolica 9 [1886] 204). 22 Lettera pastorale del 22 settembre 1881, Acireale 1881. 20
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della festa dell'Immacolata e poi in una lettera pastorale del 1879 nei quali scritti la proclamazione del dogma dell'immacolato concepimento di Maria del 1854 è vista come l'espressione della fede della Chiesa sottolineando anche la comunione dell'episcopato col papa 23 • Se gli scritti di mons. Genuardi si presentano rivestiti per di più di toni apologetici d'altronde concepibilissimi in questi tempi, la sua riflessione sulla Chiesa non si riduce ad una retorica dalle espressioni ridondanti perché al di là di espressioni e toni apologetici Genuardi presenta un chiaro contenuto teologico.
3.
Uso di categorie biblico-patristiche
Come abbiamo già accennato trattando la prima .Jettera pastorale, mons. Genuardi, nel descrivere la Chiesa e presentarne il mistero, fa largo uso di categorie attinte per lo più dalla Scrittura e dal patrimonio patristico. La categoria più usata è indubbiamente quella "sponsale"; diverse volte la Chiesa è presentata come la sposa del Nazareno, la quale non cessa di benedire il suo sposo divino che l'assiste, le procura gloria e le infonde speranza. Lo sposalizio tra Cristo e la Chiesa avviene sulla croce al momento supremo della realizzazione del piano redentivo per cui la Chiesa sposa del Cristo risulta tutta bagnata di sangue del Redentore suo sposo 24 • Con tale catego23 «Voi certamente o carissimi ricorderete ancora con giusta esultanza e tripudio come Roma ed il mondo accolsero l'infallibile parola del Vicario di Gesù Cristo, dell'Immortale pontefice Pio IX, 1'8 dicembre 1854, circondato sulla cattedra di Pietro dagli angeli di quasi duecento diocesi, siccome altrettanti testimoni della fede dei popoli» (notificazione Per la festa dell'In11nacolata Madre di Dio, Acireale 1874). «Era quella l'eco soM lenne che la cattolica Chiesa per bocca del suo Maestro e Supremo Pastore, dopo diciotto secoli di universale credenza ripeteva nel Tota pulchra es dalla divina Sapienza, fin da tutta l'eternità rivolto a Colei che nei divini decreti di misericordia veniva eletta Madre dell'Unigenito divin Figliuolo Redentore del mondo» (lettera pastorale dell'8 novembre 1879, Acireale 1879). 24 «Questa singolare impronta e questo nuovo suggello sono le sue sacrosante stimmate impresse nel corpo verginale di lei, che confitta con
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ria è messo in risalto l'aspetto comunionale nel rapporto tra la Chiesa e il Cristo, e la Chiesa bagnata da sangue di Gesù Cristo appare l'ambito nel quale si sperimenta la nuova alleanza sancita da quel sangue. Altra categoria abbastanza adoperata è quella di "madre" e di "maestra". I due termini li troviamo quasi sempre abbinati indicando così una visione della Chiesa che da madre amorosa e provvidente insegna ·in modo infallibile ai suoi figli la verità e la giustizia. La Chiesa è madre che bisogna ascoltare con docilità assoggettandosi al suo sapiente magistero 25 • Nella pastorale per la quaresima del 1874 è spiegato il titolo di ma,dre attribuito alla Chiesa: è madre perché feconda, dona la vita ai cristiani, li genera figli di Dio, fratelli di Cristo, eredi del regno celeste e più di ogni madre terrena li genera alla libertà 26 • Oltre che essere madre acmorosa e maestra infalli-
lui nella croce e con lui agonizzante, mostra a carattere di sangue a tutto l'universo l'atto autentico e solenne dcl suo legitti1no nascimento e quello insiernc delle divine sue sposalizie con G. Cristo; ond'essa, non altrimenti che Sefora a Mosè, ripete a G. Cristo nel corso dei secoli quelle sublimi parole: Tu mi sei sposo di sangue>) (lettera pastorale per la quaresima 1831, Acireale 1881, 10). <([ ... ] Avete con voi una madre invincibile, la quale tutta bagnata dal sangue del suo divin sposo, del suo medesimo sangue e del sangue de' suoi figli [ ... ]» (lettera pastorale per la quaresima 1874, Acireale 1874, 7). 2.'i «Nel dovervi atlunque Fratelli, e Figli dilettissimi, annunziare la benigna indulgenza che anche in quest'anno, compatendo alla nostra fiacchezza e rimettendo al suo primitivo rigore quanto alle austerità corporali la Chiesa ci usa, non possian10 lasciarci sfuggire sì opportuna occasione, senza richiamare alla vostra mente i preziosi, soavi cd inestimabili rapporti di giustizia, di riconoscenza e supre1no interesse che legano voi tutti a questa amorosissima Madre, e perciò stesso vi impongono il sacro dovere di ascoltare dociln1ente la sua voce e assoggetarvi al suo felice governo)) (ibid., 4). 26 «Fermatevi per poco, o Dilettissimi, a considerare la vita che nell'ordine soprannaturale vi ha dato la Chiesa onde con ogni ragione viene riguardata siccome vera Madre dei cristiani, ma altresì è Madre per ogni riguardo superiore a qualunque madre terrena, fosse pur questa rivestita delle doti più luminose di mente e di cuore, fosse pur questa risplendente per dignità e potenza. E invero è la Chiesa, o Fratelli e Figli Carissimi, che strappandovi dalla schiavitù del demonio e del peccato vi ha generati
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bile è anche regina adorna di bellezza che con tono imperioso
fa sentire la sua voce invitando i popoli alla conversione. E' significativo il mettere insieme le due categorie di madre e regina che indicano due aspetti dell'unica Chiesa che si integrano a vicenda: si uniscono in essa l'amore delicato e premuroso di una madre con la maestosità e l'imperiosità di una regina. Troviamo ancora la Chiesa considerata secondo "simboli nautici" tanto usati da innumerevoli padri come Clemente Alessandrino, Ippolito e Ambrogio nella loro ecclesiologia 27 • La Chiesa è la nave che deve percorrere l'insidioso mare del mondo verso il porto definitivo ma la cui ancora è già ben fissa in cielo. Tale immagine di Chiesa trova piena accoglienza nella riflessione di mons. Genuardi evidentemente anche per la sua attualità in quei tempi tanto travag.liati. Il mare amaro e infido di cui parlano i padri trova una concretizzazione nella situazione politica, culturale e sociale del tempo, all'interno della quale tra avversità provenienti da ogni parte la Chiesa non può desistere dal compiere la sua t,raversata, dal continuare a svolgere la sua missione di salvezza.
alla libertà dei figliuoli di Dio. E' la Chiesa che generandovi alla vita della grazia vi ha tramutato in novelle creature così risplendenti in bellezza da invaghire il cuore di Dio. La madre terrena vi ha dato la vita terrena, la Chiesa vi ha elargito la celeste; la madre terrena vi ha dato una vita caduca, corruttibile, pcritura; ma la Chiesa vi ha donato immensamente di più con darvi la vita eterna, incorruttibile imperitura. Ecco quali titoli produce la Chiesa per mostrare a chicchesia, che dessa è vera madre de' cristiani, ed inoltre tal madre che per ogni riguardo vince a dismisura tutte le rnadri terrene. A ciò si aggiunga l'essere quella madre rivestita di tal nobilissima e potente dignità da rendere i propri figli non solo amici di Dio, il che sarebbe un prodigio superiore a qualunque potenza e dignità creata, ma ancora fratelli di Gesù Cristo, ma ancora veri figli adottivi di Dio, ed eredi del regno dei cieli, e sollevandoli al di sopra degli ordini tutti di natura, farli arrivare alla visione intuitiva di Dio, farli partecipi della di Lui beatitudine trasformarli in Lui, renderli secondo il detto Salmo altrettanto Dei - Ego dix Dii estis et filii excelsi onznes (Ps. LXXXI V. 6) e farli regnare eternamente con lui)) (ibid., 4-5). 11 Per l'uso nei padri dei simboli nautici in riferimento alla Chiesa cfr. H. RAHNER, L'ecclesiologia dei padri, Ed. Paoline, Roma 1971, 397-966. V
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A conclusione della prima visita pastorale nel 1875 mons. Genuardi esorta i fedeli a tenersi strettamente uniti a Cristo nella "mistica navicella" della Chiesa 28 • In questa espressione sentiamo riecheggiare le pagine patristiche che rileggono in chiave cristiana la leggenda di Ulisse il quale, legato all'alhero della nave, supera la tentazione delle sirene. Così il cristiano ben attaccato a Cristo sulla nave della Chiesa riporta vittoria sulle insidie che gli provengono dal mondo. Genuardi quindi, ai cristiani turbati da dottrine antireligiose da cui potrebbero essere attratti, indica il legame col Cristo nella Chiesa come ciò in cui si trova sicu,rezza per passare incolumi tra le sirene del secolo. Altro simbolo nautico usato dal Genuardi riferendolo al la Chiesa è quello "dell'ancora" che ha un evidente riferimento alla speranza 29 • La Chiesa considerata ancora di salvezza appare quindi il luogo nel quale si coltiva la virtù della speranza, che nasce dalla fede vissuta come ancoraggio alla salvezza. La Chiesa è vista anche secondo la categoria dell' "edificio" ed è presentata come la "costruzione" che non può crollare perché saldamente fondata. Tale costruzione non è frutto di mani d'uomo, ma è la città di Dio, opera delle sue mani, è l'opera più santa e misericordiosa uscita dal cuore divino 30 • Si parla anche della Chiesa come "popolo" e "collPO mistico di Gesù Cristo" 31 • E' presente l'idea biblica di popolo
«[ ... ] attingeremo per noi e per voi quell'inefl:'abile forza di luce, di grazia e di carità che valga ad avvalorarci in mezzo alle presenti tempestose procelle nella fede e nell'amore a Gesù Cristo Salvatore nostro, tenendoci strettamente a Lui nella mistica navicella fieramente agitata, che è la Chiesa» (lettera in conclusione della prima visita pastorale, Giarre 28
1875). 29 ((Dov'è dunque la sola, la sicura ancora di salute per la generazione novella della nostra patria? Nella Chiesaii (lettera circolare Sull'istruzione religiosa, Acireale 1889, 2). 30 Cfr. lettera pastorale La Quaresima e l'enciclica «Sapientiae Christianae)), Acireale 1890 e lettera pastorale per la quaresima 1894, Acireale 1894. 31 «Ma voi inoltre siete cristiani, redenti dal figliuolo di Dio Gesù Cristo col suo sangue, chiamati per grazia speciale, a preferenza di infiA
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eletto formato da coloro che per una grazia speciale e in modo gratuito sono stati chiamati a formarlo. Vi è quindi in risalto il concetto di elezione che bene si colloca in una riflessione ecclesiologica. La categoria di Corpo di Cristo è più di una volta riscontrata, anzi nella prima lettera costituisce la definizione della Chiesa intesa in senso proprio. Con l'uso di tale categoria che recupera l'aspetto misterico e l'aspetto visibile della Chiesa, il Genuardi dimostra di percepire la sensibili la ecclesiologica del XIX secolo espressa soprattutto dal Mi:ihler e dal Collegio Romano; attraverso tale categoria mons. Genuardi vuole altresì sottolineare il valore della condivisione che sussiste nella Chiesa in quanto formata dalle membra di un unico COil]JO 32 • Nella lettera pastorale della quaresima del 1881 la Chiesa è presentata come l'arca di verità che brilla di bellezza 33 • L'immagine dell'arca ha in sé due riferimenti biblici: quello del Genesi riguardante l'arca fatta costruire da Dio a Noè e quello dell'Esodo circa l'arca dell'alleanza fatta costruire a Mosè, ambedue leggibili in chiave ecclesiologica. La Chiesa quindi a.ttraverso tale categoria appare l'arca sulla quale si è nella verità scampando il pericolo di dottrine mortifere e nello stesso tempo l'arca che contiene la parola di verità, la legge di verità luminosa e illuminante. Infine la Chiesa cattolica è vista come la realizzazione sulla terra del Regno di Dio, il quale così, in una concezione
niti altri, a forn1are il suo popolo cd essere membri dcl suo corpo mistico, che è la Chiesa)> (lettera pastorale, La vita avvenire, in Il Zelatore Cattolico 2 [1897] 18). 32 ((L'Apostolo S. Paolo sin dai primi tempi del cristianesimo rappresentava il corpo mistico di Cristo, la Chiesa Cattolica, sotto la !ìgura del corpo umano per csprin1ere la intima unione delle membra tra di loro (2Cor 12-26) onde se un n1en1bro patisce patiscono insieme tutti i membri» (lettera pastorale per la quaresin1a 1907, in Il Zelatore Cattolico 3 [1907] 34). _u «L'arca divina di verità, di giustizia, di pace cd amore la santa Chiesa cattolica brilla anche oggi dinanzi agli occhi nostri di luce splendidissima, di sovrumana bellezza e di celeste candorc1> (lettera pastorale per la quaresi1na 1881, cit., 9).
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di Regno di Dio chiaramente un po' restrittiva, viene a coincidere con la Chiesa stessa 34 • Come abbiamo avuto modo di vedere, diverse sono le categorie che il Genuardi usa per presentare la Chiesa, ed è significativo che tra di esse solo molto sporadicamente appare quella di società. Ciò sta ad indicare che mons. Genuardi più che una ecclesiologia societaria di stampo be!larminiano tendente ad accentuare l'aspetto della visibilità della Chiesa, assume una ecclesiologia che piuttosto ne mette in risalto la dimensione misterica pur afferman,done la visibilità. 4.
Rapporto tra ecclesiologia e cristologia
Sappiamo bene che l'ecclesiologia non può prescindere dalla cristologia in quanto la Chiesa non può fare a meno di riferirsi a Cristo da cui trae la propria origine. Mons. Genuardi comprende bene il rapporto sussistente tra Cristo e la Chiesa e nei suoi scritti lo mette abbastanza in evidenza. A tal proposito è alquanto significativo l'uso della categoria ecclesiologica di corpo mistico di Cristo sopra considerato, ch·e evidenzia !'in~ timo rapporto tra Cristo e la Chiesa e tra le stesse membra in quanto inserite in C'risto unico capo, ed offre una chiave cristologica al discorso ecclesiologico permettendo così ad esso di uscir fuori .da certe seccl1e in cui era rimasto arenato. Il Genuardi insiste sul dovere del cristiano di conoscere ed amare Cristo Gesù e su tale argomento scrive anche una lettera pastorale, quella per la quaresima del 1895, dalJ'.insieme della quale si può desumere una verità implicita in essa, ma chiara nel pensiero del Genuardi: conoscere ed amare Gesù Cristo è aspetto preponderante della vita della Chiesa per cui non si può fare esperienza vera di essa senza questa conoscenza e questo amore. A tal proposito comprendiamo
34 «L'amabile provvidenza che con soavità le cose tultc dispone alla glorificazione del suo Regno terreno, che è la cattolica Chiesa)> (dopo le feste giubilari rendimento di grazie e ammonimenti pastorali, in Il Ze-
latore Cattolico 9 [1897) 153).
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quanto sia espressiva la frase esortativa del Genuardi sopra esaminata: «tenersi strettamente uniti a Cristo nella mistica navicella ,della Chiesa». La Chiesa è considerata la continuatrice dell'opera di salvezza del Cristo; la missione del Cristo è la propria missione e quindi, in quanto egli è l'unica via per la salvezza, anch'essa può essere definita tale 35 • Per continuare l'opera di Cristo la Chiesa deve seguire le sue orme, le orme di lui che porta la croce e che si immola. Il suo compito comporta un lasciarsi assimilare al Cristo della passione; ciò è necessario se vuole che la sua opera sia efficace 36 • La Chiesa, portando nella sua vita le tracce della passione del Cristo, mostra l'origine della sua nascita e del suo sposalizio: essa è la comunità che nasce dalla Pasqua, celebra la sua unione sponsale con Cristo per cui è bagnata dal suo sangue, vive cioè in Cristo l'esperienza dell'alleanza tanto intensa da caratterizzarsi con l'attributo di sponsale. Si approfondisce così, evidenziandone la valenza cristologica, la categoria ecclesiologica "sposa di Cristo" tanto usata dal Genuardi. Comprendiamo bene che nel considerare il rapporto CristoChiesa, il riferimento al Cristo della passione, pur essendo direi quasi obbligatorio per la comprensione di esso, risulta più marcato in quanto i tempi vissuti dal Genuardi sono particolarmente difficili per la Chiesa che incontra svariati ostacoli nello svolgere la sua missione. Le stimmate impresse nella Chie-
35 «Se per avventura potesse trovarsi a salute da quella di ascoltare la Chiesa e seguirne gli insegnamenti, potrebbero costoro benignarsi più o meno probabiln1ente di evitare l'eterna rovina. Ma quest'altra via non v'è, avendo il divin Salvatore stabilito per tutti sulla terra quell'unica e sola via che in nome suo può ripetere: Io sono la via, la verità e la vita, ego su1n via veritas et vita, e che nessuno può far ritorno· alla casa dell'eterno suo Padre se non per mezzo di essa, nemo venit ad Patrem nisi per me, (Joan. XIV)» (lettera pastorale per la quaresima 1874, cit., 5-6). 36 «La Chiesa può considerarsi la continuazione dell'opera di un Dio che sale sul Golgota, e però nella sua vita deve nel mondo rappresentare la più perfetta immagine del suo divin fondatore [ ... ]. A somiglianza del suo divin fondatore quando è giunta al colmo dell'immolazione Essa attira a sé ogni cosa» (Panegirico di S. Vincenzo de' Paoli, Acireale 1873, 13)~
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sa hanno col passare dei tempi concretizzazioni storiche diverse e il Genuardi al suo tempo le scorge nella prassi politica italiana, nella massoneria, nelle ideologie antireligiose, nello sbandamento di alcuni ecclesiastici in seguito al risorgimento, in tutto ciò che tenta di umiliare la Chiesa ostacolandone la missione. Genuardi però mostra di considerare quella situazione difficile con una grande ottica di fede che gli permette di vedere proprio nella sofferenza della Chiesa il segreto della sua fecondità. Mons. Genuardi non tralascia di parlare della viva presenza di Cristo nella Chiesa sottolineando che egli è rpresente nel magistero e nel governo di essa 37 • Obbedire a Cristo e obbedire alla Chiesa formano quindi un tutt'uno. La dimensione cristologica dell'ecclesiologia è particolarmente marcata dai teologi cattolici più in vista del XIX secolo. Mons. Genuardi, mettendo abbastanza in risalto il rapporto Cristo-Chiesa, dimostra ancora una volta di aver percepito quelle istanze teologiche che caratterizzano il rinnovamento ecclesiologico nel XIX secolo.
5.
La missione della Chiesa
Nella concezione di mons. Genuardi la missione della Chiesa consiste percipuamente nel continuare fedelmente la stessa missione del Cristo e di essere quindi portatrice di salvezza . .Il ruolo della Chiesa il Genuardi lo considera in un ordine soprattutto spirituale: essa è chiamata a compiere una missione di santificazione, deve aiutare i suoi figli a rispondere quanto meglio possibile alla vocazione alla santità che proviene loro dal battesimo, li deve far crescere spiritualmente in modo da far loro raggiungere la beatitudine celeste. La Chiesa è lo strumento perché i popoli ritornino a Cristo e in quel particolare momento storico è così individuato
37 «[ ... ] Lui (Gesù Cristo) sempre vivente nei nostri altari, e nel magistero e nel governo della Chiesa [ ... ]» (lettera pastorale Sulla conoscenza e l'amore di nostro Signore Gesù Cristo, in Il Zelatore Cattolico 2 [1895] 21).
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il ruolo non indifferente che la Chiesa deve esercitare nel mondo: riportare i popoli a Cristo in modo da superare quella crisi a più livelli in cui ve!'sa la società. L'assillo, se così possiamo dire, da cui la Chiesa è spinta non può essere altro che la salvezza del genere umano, per cui sostiene ogni battaglia, non risparmia ogni energia, affronta ogni difficoltà, fedele sempre alla sua missione dalla quale trnspare tutta la sua nobiltà. Genuardi, additando la Chiesa come maestra infallibile di verità, vuole affermare che uno dei compiti più specifici che essa deve compiere è appunto il servizio alla verità, è chiamata ad indirizzare ogni uomo sui sentieri della verità. La verità che la Chiesa predica non è di origin·e umana, non è una qualsiasi ideologia, ma è verità divina, espressione della volontà di Dio che ha dato alla Chiesa il compito di esserne una fedele interprete per gli uomini di tutti i tempi 38 • Fare la volontà di Dio, dovere di ogni cristiano, coincide quindi con l'obbedire alla Chiesa, con l'essere docili alla sua missione attraverso la quale, per volere di Dio, è vincolata la sua volontà. Su questa linea si inserisce l'impegno della Chiesa per la catechesi su cui mons. Genuardi molto insiste sin dai primi anni del suo episcopato costituendo uno dei punti forti del suo ministero. Pur se l'espressione "missione della Chiesa" indica una azione che ha come soggetto tutta la Chiesa in tutte le sue componenti, di fatto, parlando del soggetto di tale missione, il Genuardi opera una restrizione marcando il ministero del sacevdozio gerarchico come quello che concretamente l'incarna e da cui essa è espressa 39 •
J8 <((State) sottomessi perciò affezionati di cuore al comandamento di santa Chiesa, la quale ha da Dio il mandato di darci la fedele interpretazione della santa sua volontà}) (lettera pastorale per la quaresima 1881, cit., 3). 39 «Ma l'azione della Chiesa non si manifesta che per mezzo del sacerdozio)> (lettera circolare Sull'istruzione religiosa, cit., 2).
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6.
Chiesa e carità
Genuardi è chiamato il vescovo della carità, e a ragione, non solo per la virtù esercitata nella sua vita personale, ma anche per l'impegno con cui richiama i suoi fedeli alla carità in ogni occasione offertagli e con cui si prodiga per l'istituzione in ·diocesi di associazioni caritative. Nel pensiero di Genuardi Chiesa e carità aippaiono due realtà strettamente legate per cui quel!' e congiunzione potrebbe diventare verbo (Chiesa è carità), risultando così più esplicito l'intimo nesso sussistente tra la Chiesa e la carità vista dal Genuardi come un aspetto essenziale di essa. Egli afferma che l'indole propria della Chiesa è appunto la carità la quale, lasciata in eredità da Cristo, costituisce il distintivo autentico dei cristiani 40 • Il predicare e il praticare instancabilmente la carità è imposto alla Chiesa dalla fedeltà a Cristo e al suo messaggio, dall'essere la continuatrice della sua opera di salvezza 41 • Seguire le orme del suo fondatore che insegna l'amore dalla catkdra della croce la spinge a farsi dono e a essere quindi feconda in nient'altro se non in questo suo immolarsi per Cristo con Cristo e in Cristo. Ci accorgiamo che ritorna qualche tema cristologico già preso in considerazione: siamo infatti convinti che le varie tematiche che si riferiscono alla prospettiva ecclesiologica non possono essere nettamente separate le une dalle altre, ma si richiamano a vicenda. Genuardi vede la Chiesa come il luogo della vera carità, in essa la carità può es.sere trovata e non altrove 42 • Per la qua~
40 <([ ... ] poiché la carità, di cui Ella si vanta è quella n1edesima che Gesù Crisi.o insegnò con !'e3empio della parola, durante tutta la sua vita, e poi lasciò in eredità alla sua Chiesa è come segnale distintivo dei suoi veri seguaci)) (lettera pastorale Carità e Filantropia, Acireale 1892, 10). 4 1 «La Chiesa fedele a codesta missione affidatale dal suo divin fondatore, predicò sempre e praticò in n1ezzo agli uomini la vera carità di Gesù Cristo: quella carità santa, giusta e disinteressata, che ama gli uomini nel Padre celeste, e con ogni sollecitudine procura loro il vero bene» (ibid., 11). 42 «Ma pure tutto ciò non bastava a guarire le odierne piaghe sociali, giacché se è vero, come dicesi, che la carità è il bisogno di questo secolo
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resima 1892 mons. Genuardi scrive una lettera pastorale dal titolo Carità e filantropia facendo una netta distinzione tra la carità che risiede nella Chiesa e quelle forme di filantropia, che non meritano il nome di carità, praticate da coloro che non cercano il vero bene degli uomini in guanto assecondano il male ed allontanano da Dio. La carità della Chiesa invece è la stessa carità del Cristo, essa è soprannaturale perché proviene da Dio e diretta a Dio e così procura il vero bene all'uomo essendo per natura e per efficacia tanto diversa dai sentimenti filantropici umani di cui è di gran lunga migliore 43 • La carità con nota espressione è spesso chiamata "forma ecclesiae"; negli scritti di mons. Genuardi non troviamo tale espressione, ma ne troviamo lo spirito, il significato profondo 44 • La carità, più che un aspetto morale, più che qualcosa
e, se nello stesso tempo la carità non si trova che nella Chiesa, era necessario che allor quando questo secolo sarebbe stato guidato dal1a carità a rivolgersi verso la Chiesa, questa a sua volta si fosse trovata tutta bella, tutta santa e capace di attirare a sé i suoi sguardi e trattenerli>> (Panegirico di S. Vincenzo de' Paoli, cit., 12-13). 43 «Oggi si va insinuando ed acclamando una carità fraterna tanto falsa e pericolosa, quanto difforme da quella comandata da Dio ed insegnataci dalle pratiche della Chiesa, dal medcsin10 Iddio stabilita n1adre dei poveri e tutrice dci loro diritti. Alcuni tutti intesi ai beni della terra, come se questi fossero il fine ultimo dell'uomo, se alcuna cosa fanno a pro dell'umanità, ne procurano solo gli interessi temporali e materiali senza punto curarsi dei beni dello spirito; anzi spesse volte a danno e pregiu~ dizio di questi. Altri mossi da odio contro Dio, esercitano una carità ten~ dente ad allontanare gli uomini da Lui, o strappare dal seno della Chiesa i suoi figli, a trascinare gli incauti sulla via dell'errore e della perdizione, e con le parole di co1111niserazione, di felicità e di virtù (cbe al dire dello stesso Proudhon, sono tante maschere), seducono i figli del popolo. Questa, Figli amatissin1i, non è vera carità fraterna: essa, se ben si consideri, è figlia naturale di quella filantropia che il Condorcct, il Turgot, J'Elvezio e gli altri increduli del secolo passato, inventarono in odio alla vera religione e per inganno all'umanità)) (lettera pastorale Carità e Filantropia, cit., 4). 44 La riflessione concernente il binomio Chiesa e carità è di estrema importanza e attualità e prova ne è l'XI Congresso dell'Associazione Teologica Italiana che si è svolto a Trento dal 9 al 13 settembre 1985 trattando proprio questo tema. Il discorso sulla carità non si può restringere
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concernente unicamente l'agire della Chiesa, è ,da mons. Genuardi considerata come costitutiva di essa. L'esrpressione "la Chiesa è carità", anch'essa -non presente nei suoi scritti, ma da noi coniata, dice a nostro avviso fedelmente e felicemente nella sua stringatezza il pensiero del Genuardi sul rapporto tra la comunità ecclesiale e questa virtù.
7.
Il concetto di diocesi
Rifacendoci anzitutto alla prima lettera pastorale è significativo che, rivolgendosi alla sua diocesi, egli la chiami col tcrn1ine Chiesa 45 . Crediamo che ciò non sia un fatto pura1nente terminologico, ma che la terminologia usata riveli un determinato pensiero, una particolare co_ncezione. Gcnuardi chiamando di primo acchito la diocesi col termine Chiesa lascia largamente in.tendere che per lui essa ne è la realizzazion,e. Nell'espressio~ ne "Chiesa acitana" c'è il senso della Chiesa locale; c'è l'idea di diocesi non come parte di Chiesa, ma dell'una, santa, cattolica e apostolica presente in un ,determinato luogo. Questa nostra lettura dell'espressione "·Chiesa acitana" è convalidata dal discorso che mons. Arista ausiliare di Genuardi e suo successore fa ai funerall del vescovo. Egli a un certo punto parla esplicitamente del concetto che Genuardi aveva di diocesi e dice che in essa non vedeva soltanto i pa,rticolari interessi di una porzione del popolo di Dio ma quelli della Chiesa universale 4('.
unicarr1cnte al carnpo n1oralc, 111a ha un suo posto e non poco rilevante in quello do111n1atico ed ccc!esiologico in particolare. Cfr. G. BoF, Il principio urnorc e fa C.1:iesu, in Il Regno - Aflualità 18 (1985) 484-487 De Caritate Eccfesia. Il principio «t11nore» e la chiesa. Atti dcll'XI Congresso Nazionale dell'Associazione Teologica Italiana. Trento. 9-13 sette111bre 1985, Ed. Messaggero, Padova 1987. 45 «Qual parola troverassi acconcia a recarti il primo saluto ed il volto più ardente de! tuo primo Pastore o vaga e nascente Chiesa acitana?)> (prima lettera pastorale, cit., 3). -16 «Nel suo concetto la Diocesi era tutto [ ... ], ed era tanto compreso della sua missione di Vescovo, per quanto nella sua diocesi non vedeva
il1odclli ecclesiolo6ici dcl l'l',<;covo Genuardi
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Altra conferma ci proviene dal Bollettino Ecclesiastico che inizia le sue pubblicazioni nel 1876 e nella testata reca la famosa frase .di S. Cipriano: «Cum singulis pastoribus portio gregis sit adscripta [ .. .J unum tamen gregem pascimus, unam ecclesiam a Christo Domino super Petrum origine unitatis et ratione fundata» 47 • La presenza di tale frase con il significato che contiene dice la concezione del vescovo che si muove nella convinzione che la diocesi pur se portio gregis ha in sé tutte quelle caratteristiche che la fanno essere Chiesa in modo completo e a pieno titolo. Mostra altresì di avere vivo il senso della sollecitudo omnium ecclesiarum che deve animare ogni pastore ·della Chiesa. Pur se pochi testi vi sono a riguardo possiamo senz'altro affermare che ·mons. Genuardi mostra una visione di diocesi alquanto interessante e moderna. Restando nella piena fedeltà al papa ed affermando la concreta comunione universale considera la diocesi non come una regione ecclesiastica o addirittura una provincia vaticana, ma iJ luogo in cui è realizzata la Chiesa. Possiamo dire che nella concezione del Genuardi, pur con i condizionamenti del tempo, troviamo già albeggiare quel!' equilibrio tra Chiesa particolare e Chiesa universale che sarà poi il Concilio Vaticano II a sanzionare con esplici-ta chiarezza 48 •
Le note della Chiesa
8.
In una riflessione ecclesiologica che voglia essere completa non può mancare tra gli altri temi di rilievo la considerazione delle quattro note di unità, santità, cattolicità ed apostolicità che la tradizione cristiana ha attribuito allà Chiesa. In
soltanto gli interessi particolari del gregge ;_1 lui affidato, ma bensì gli interessi generali della Chiesa, ai quali scn11)fc informava tutti i suoi pensieri. tutti i suoi atti, tutto il suo zelo» Vf: -,1,-e1nu vale di A1ons. Gian1battisla Al'ista, in Il Zelatore Cattolico 1I fl907] 162). ~7
S.
~B
Cfr. Lul"nen Gentiu1n, 23; C!Jristus Do1ninus, 11.
CIPRIANUS,
Ep. 55,70.
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Domenico Massimino
questa tematica la riflessione del Genuar.di presenta delle lacune in quanto in nessuna lettera pastorale, in nessun discorso vi sono riferimenti espliciti in modo sistematico alle quattro note. Con ciò non vogliamo dire che gli argomenti inerenti ad esse siano del tutto ignorate, ma che non sono trattati come ci si potrebbe aspettare e come in verità si sarebbe dovuto. Su tali temi quindi troviamo solo qualche espressione, solo sparuti accenni che li sfìorano unicamente di striscio. Il tema dell'unità della Chiesa è quello che più si riscontra, ma non perché affrontato direttamente; esso infatti è preso in considerazione sempre all'interno di a1tre tematiche. Per lo più tale tema viene in risalto nel discorso sul ruolo del papa all'interno della comunità ecclesiale, in quanto il ministero papale è considerato dal Genua~di come espressione e garanzia dell'unità della Chiesa vista come unità di mente e di cuore 49 • L'unità della Chiesa consiste quindi nell'aderire da parte di tutti ai medesimi principi e nell'essere animati dai medesimi sentimenti che trnspaiono nella concreta pratica cristiana. Pare che il Genuardi veda l'unità della Chiesa non nel senso .di una uniformità massificante: è un'unità di mente e .di cuore, non di forme, non di espressioni, non ,di concretizza~ zioni. E in tal senso è interessante notare che nella pastorale del 1886, scritta in occasione del giubileo sacerdotale di Leone XIII, alla nota dell'unità lega quella della cattolicità: Genuardi vede l'unità e cattolicità come un tutt'uno nella Chiesa, non aspetti contrastanti ma complementari del suo essere. Per cui la Chiesa si espande raggiungendo popoli e culture diverse eppure mantenendo intatto ed inviolato il vincolo dell'unità di mente e ,di cuore 50 •
4·~ «[ ... ]questa società cattolica, che ravvivata dallo spirito del Signore, trova nella cattedra di S. Pietro, e nel magistero del Vicario di G. C. una meravigliosa unità di 111cnte e di cuore» (citazione da una lettera del car· dinale Schiaffino del 28 giugno 1886 nella lettera pastorale Per il giubileo sacerdotale di S. Santità Leone XIII, Acireale 1886, 4). s::i «E' proprio della Chiesa Cattolica, Fratelli e Figli nostri carissimi, il potere felicemente congiungere alla più bassa e sublime espansione della sua vita nel tempo e ne1Jo spazio, il più tenero ed intimo vincolo di unità,
.'\!fodc!li ecclesiologici dcl
11 cscovo
Gc11uardi
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Non è aliena dal pensiero del Genuardi, pur non trovando un'adeguato sviluppo, una visione di unità come comunione all'interno della Chiesa. Nel discorso che il vescovo fa 1'8 novembre 1885 per l'apertura degli studi nel seminario esorta tutti alla concordia e quindi alla comunione e, allargando il cerchio dalle mura del seminario, menziona la concordia che deve esserci tra i superiori e il vescovo, tra questi e il papa, mostrando la valenza ecclesiale di essa e quasi affermando tra le righe che il rapporto di unità esistente nella Chiesa non è altro che un rapporto intessuto all'insegna della comunione 51 • Risulta invero un po' angusta la visio.""' circa il fondamento della unità ecclesiale: esso è quasi unicamente ravvisato nella cattedra di Pietro obliando certi principi spirituali. Lo Spirito Santo è il grande assente nell'ecclesiologia genua·rdiana, pur se l'aspetto spirituale della Chiesa è "bbastanza marcato e ciò costituisce senza dubbio una lacuna di rilievo. Come già ci siamo potuti rendere conto nelle pagine precedenti, si nota nel Genuardi una certa influenza del Mi:\hler, ma è soprattutto il Mi:\hler della Simbolica, non quello della Unità della Chiesa, opera nella quale l'ecclesiologia è presentata in chiave pneumatologica ed è individuato nello Spirito il fondamento dell'unità ecclesiale. Riguardo alla santità della Chiesa possiamo riferirci solo a qualche espressione contenuta in un'pmelia fatta per la festa di Tut.ti i Santi del 1876. Il vescovo in essa passa in rassegna varie figure e conclude sottolineando la vocazione universale a cui tutti sono da Dio chiamati e che vocazione cristiana e vocazione alla santità di fatto coinci dono 52 • Genuardi 1
che in certi straordinarii avvenimenti raccoglie con1e in un sol palpito di cuore i 1nolti n1ilioni di anime credenti sparse su tutta la terraJ1 (ibid., 3). 51 «Conviene dunque che tutti siano concordi: i giovani alunni coi superiori, coi n1=testri e la regola; i superiori e i maestri siano concordi fra loro e il vescovo, e il vescovo in perfetta adesione col Papa da cui deriva la verità, la forza e la vita>~ (Discorso per la riapertura degli studi nel se1ninario, art. cit., 205). 52 Cfr. 01nelia di Mons. Vescovo di Acireale per la festa di Ognissanti, detta alla cattedrale 1'1 novembre 1876, in Bollettino Ecclesiastico 1l (1876) 93.
Dcn11e11ico 1\.-1<1ssi111i110
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non parla .della santità ontologica della Chiesa e di c10 su cui essa si fonda, ma è piuttosto considerata la chiamata alla santità che investe tutta la Chiesa, che è rivolta ad ogni cristiano, ed i santi sono quindi coloro che hanno corrisposto ad essa per cui vengono indicati come modelli da imitare. Non ci sentiamo di affermare con assolutezza che Genuardi non abbia il senso di una Chiesa costitutivamente santa, ciò infatti sarebbe troppo azzardato e superficiale; possiamo soltanto rilevare dagli elementi a nostra disposizione che tale concetto non emerge ab·bastanza. Riguando al pensiero del Genuardi sull'apos·tolicità della Chiesa, pur credendo che il Vescovo ne abbia il senso, nulla possiamo dire in quanto nulla emerge negli scritti a nostra disposizione.
Il clero
9.
Genuardi, seguendo la scia della tradizione cattolica, ha un'altissima concezione del sacerdozio ministeriale che considera come quella forza che deve sostenere la missione della Chiesa, la quale soprattutto in esso risiede 53 • Genuardi sembra convintissimo che per il progresso di una .diocesi si esige un clero compatto nella comunione col vescovo e formato spiritualmente e culturalmente, ed è proprio per questo che egli reagisce di fronte ad abusi e disordini che con energia cerca di eliminare. Nelle lettere pastorali sovente si rivolge al clero, richiamandolo alle proprie responsabilità pastorali ed esortandolo a condurre una vita di autentica testimonianza. A tal proposito la prima lettera pastorale contiene un lungo indirizzo ai canonici, ai parroci e a tutti i sacerdoti nel quale, con riferimenti scritturistici, patristici e del magistero, ricorda i doveri di ordine spirituale e pastorale di chi si trova nello stato ecclesiastico. Indica quindi due strade che egli giudica sia necessa-
53
Cfr. nota 39.
Modelli ecclesiologici del vescovo Genuardi
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,rio percorrere per ben corrispondere alla vocazione sacerdota· le: la preghiera e lo studio. La formazione di un clero santo e colto caipace di affrontare le difficili controversie del tempo co,stituisce l'obiettivo del Genuardi, il quale è convinto che nell'opera della Chiesa e in particolare nell'edificazione della nuova diocesi esso debba stare in prima linea guidando col ve· scovo la vita ecclesiale. A tale scopo nel 1895 fonda l'accademia dei SS. Agostino e Tommaso, di rigorosa impostazione tomista, con la funzione di mantenere sempre fresca la cultura filosofico-teologica. Nel discorso che fa per la sua inaugurazione Genuardi si pone sulla linea dell'Aeterni Patris e, individuando la matrice della situazione di allora in specifiche dottrine antireligiose, rileva il bisogno, soprattutto per il clero, di coltivare una sana filosofia indicando quella di Agostino e Tommaso .di cui non ce ne può essere migliore 54 • Un clero santo e colto non può rinchiudersi ,jn un santuario proprio alienandosi dall'epoca in cui vive, ma deve accogliere le sensibilità del tempo impregnandole di spidto cristiano. Nel giugno del 1901 scrive una lettera pastorale dal titolo Il clero e i tempi presenti nella quale, in pieno accordo con la Rerum N ovarum, chiama i sacerdoti all'impegno nell'azione sociale e nell'incremento all'Opera dei Congressi per essere, in corrispondenza alla propria vocazione soprattutto in quei tempi, «l'uomo di Dio e del popolo». Da quanto abbiamo considerato possiamo dire che nella concezione ecclesiologica ,del Genuardi il ruolo del clero è preponderante, tanto da far emergere un'immagine <li Chiesa dal volto clericale. Ma sarebbe troppo superficiale conclndere affermando in modo assoluto che il Genuardi abbia una concezione clericaie della Chiesa. Al di là di sottolineature eccessive, peraltro espressione di quel tempo, e considerando tutto l'insieme degli scritti e della prassi pastorale, come meglio ci accorgeremo in seguito la clericalità della concezione ecclesiologica del Genuardi resta, ma sino a.cl un certo punto, essendo
54 G. M. GENUARDI, Leone XIII restauratore della scienza e della civiltà cristiana nel secolo XIX, discorso in Il Zelatore Cattolico 10 (1895) 149-163.
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in qualche modo ridimensionata dallo stesso pensiero del vescovo. E' tenuto in alta considerazione il ruolo dei religiosi. Ciò è testimoniato non tanto dagli scritti quanto dalla prassi del vescovo, il quale fa in modo che nella nuova diocesi ve ne sia una viva presenza per reggere gli istituti di formazione e di carità. Nelle poche righe che troviamo in qualche scritto riguardante la vita religiosa Genuardi sottolinea soprattutto il servizio .della preghiera e della testimonianza discreta reso dalle claustrali. Pur se negli scritti non compaiono adeguate considerazioni sulla vita rdigiosa, comprendiamo che nel pensiero del vescovo essa costituisce un valore e nella sua immagine di Chiesa i religiosi sia di vita attiva, sia di vita contemplativa occupano un posto ben definito e di notevole rilevanza.
10. La società oivile Nei riguardi della società civile del suo tempo mons. Genuardi è abbastanza critico e spessissime volte lamenta la profonda crisi in cui essa si trova, dovuta all'aipostasia dai principi cristiani e dalla Chiesa. Egli non usa mezzi termini nel controbattere correnti come il liberalismo, il socialismo, la massoneria che si presentano con notori aspetti antireligiosi e influenzano la società civile. Il Genuardi in questo campo è battagliero fin dai primi anni del suo ministero sacerdotale non evitando di compiere anche gesti polemici che gli procurano persino fastidi con la giustizia. Giunto vescovo ad Acireale non retrocede dal suo atteggiamento critico e polemico nei confronti di quelle correnti ideologiche, ma qui non trova forti ostilità in quanto nell'ambiente acese la religiosità nella sua espressione cattolica è fortemente sentita e i principi del cattolicesimo hanno un ascendente non indifferente fra il popolo a prescindere dai ceti di appartenenza. Se a livello di prassi l'ambiente acese non gli dà occasioni di rparticolari dimostrazioni, sul piano delle idee combatte con fermezza quelle ideologie le quali, pur non infiltratesi tra la gente della diocesi come in altri posti, restano sempre, a giu-
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dizio del vescovo, un vicino pericolo contro cui cosa saggia è premunire il popolo. Nel luglio del 1888 viene pubblicata una lettera pastorale con la quale il vescovo presenta alla diocesi l'enciclica leonina Libertas e nella quale, affermando che la vita della Chiesa cattolica può definirsi una invitta difesa dei sovrani beni dell'uomo, si scaglia contro il liberalismo considerato una nuova eresia che strappa le nazioni dal seno della Chiesa. Dà una definizione del liberalismo esaminandolo nella .dottrina e nella pratica: nella dottrina esso è ribellione nei confronti di Dio, nella pratica ingenera confusione tra il bene e il male. A conclusione della lettera indica il rimedio per il superamento della crisi della società: esso consiste nel ritorno alla madre Chiesa che è sfata abbandonata 55 • Nella lettera pastorale per la quaresima del 1892 Carità e filantropia, chiaramente indirizzata contro il socialismo, polemizza con coloro i quali, animati da un senso di pura e semplice filantropia che non è carità, allontanano da Dio e dalla Chiesa. L'azione .di tali persone è utilitaristica in quanto, pur di far proseliti, assecondano il popolo anche nel male, procurano dei beni materiali e temporanei tralasciando quelli spirituali che sono eterni. Perciò la filantropia di tali correnti non cerca il vero bene dell'uomo che consiste in una sua promozione integrale, ma offre solo beni parziali mentre la carità della Chiesa vuole quel bene spingendo all'impegno per una autentica ed integrale crescita dell'uomo 56 • ,Alla luce di queste concezioni deve essere considerato l'impegno del Genuardi perché in campo cattolico nascano opere sociali. Egli vede nel socialismo un enorme pericolo, si rende conto che si sta correndo il grosso rischio di perdere buona parte delle masse popolari attratte dagli ideali propugnati dai socialisti e dalle loro promesse. Mons. Genuardi nella considerazione della società del suo
ss Cfr. lettera pastorale La Chiesa e il liberalismo e la salute delle nazioni, art. cit., 97-101. 56 Cfr. nota 41.
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tempo non si ferma solo a fare diagnosi negative ma, assumendo in pieno la linea di Leone XIII, indica dei sentieri, fa delle proposte, promuove iniziative nella convinzione che il faro della Chiesa non può essere spento e che da esso e solo da esso può giungere alla società quella luce necessaria per uscir fuori .dall'oscura cr1s1 in cui essa si trova. Da questo atteggiamento traspare chiaro il pensiero del Genuardi secondo il quale la Chiesa, rimanendo fedele a quei principi che le ha dato il suo fondatore nei riguardi dei quali non può accettare nessun compromesso con il mondo, non può in momenti ,difficili alienarsi in un mondo proprio fatto di nostalgiche rimembranze, ma deve avere il coraggio di inserirsi tra le vicende della storia per continuare a portare con forme o metodi adatti ai tempi l'eterno messaggio ,della salvezza. La Chiesa per essere fedele alla sua missione non può rinserrarsi ignorando i mutamenti che avvengono nella società civile, con coraggio apostolico essa deve accogliere la sfida che le proviene dal mondo sapendo scorgere tra le vicissitudini della storia ciò che, con espressione moderna, potremmo chiamare "i segni ·dei tem:pi".
11. La famiglia Tra gli aspetti della cura pastorale del vescovo Genuardi quello riguardante la famiglia è sicuramente uno dei privilegiati. Non solo nelle lettere pastorali non di rado si indirizza alle famiglie cristiane, ma ne scrive qualcuna interamente su tale argomento. Genuardi sembra convintissimo che il cambiamento della società all'insegna della fede e della obbedienza alla Chiesa non può partire se non dalle famiglie. Comprende quindi che il campo della famiglia esige una cura particolare assolutamente non trascurabile. Genuardi considera la famiglia cristiana come una piccola Chiesa all'interno della quale vengono vissuti i valori della fede e che è caratterizzata da particolari connotati che la rendono una realtà altamente ecclesiale. E' significativa in tal senso la definizione che nella pastorale rlella quaresima del 1891, scritta per incitare le famiglie alla consacrazione alla Santa
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Famiglia di Nazareth, dà della famiglia cristiana ispirandosi a Cicerone e a S. Agostino: secondo Cicerone essa è il seminario della repubblica, secondo S. Agostino è Chiesa privata 57 • Le due definizioni sono complementari in quanto la famiglia costituisce una cellula primaria sia per la società come per la Chiesa. Nella famiglia si riceve sia la vita del corpo che quella dell'anima ed il pater familias incarna nell'ambito della sua famiglia sia i doveri dell'autorità civile sia quelli della Chiesa 58 • Genuardi insiste molto sulla responsabilità ,dei genitori nell'educazione dei figli nei confronti dei quali sono chiamati a svolgere un ruolo di maestri insegnando loro le virtù 59 • La famiglia cristiana deve anzitutto essere luogo di catechesi, anzi ne è il luogo primario in cui i bambini apprendono i principi della fede cristiana e i genitori quindi di conseguenza dovrebbero essere i primi catechisti per i loro figli 60 • Tale compito
s1 Cfr. lettera pastorale Sulla consacrazione delle Famiglie Cristiane alla Sacra Famiglia Gesù, Maria e Giuseppe, Acireale 1891. 58 «La società adunque per la quale Iddio aveva preparato l'uomo, la prima fra tutte in ordine del tempo e d'importanza, è la famiglia, nel seno della quale l'uomo riceve la vita del corpo e dell'anima, alla cui ombra egli nasce, e dalla quale educato, entra nella grande famiglia che è la società civile [ ... ]. Per lo ché, i doveri del Principe e della Chiesa si vengono compendiati e si riassumono come in loro principio in quelli del padre di famiglia» (ibid., 4-0). 59 «Si, o genitori cristiani, voi vi date cura a provvedere ai bisogni materiali di coloro ai quali avete dato i giorni, e ciò è ben giusto e neff cessario; ma non deve fermarsi qui la vostra sollecitudine: i vostri figli sono stati creati ad immagine di Dio, hanno essi uno spirito ed un cuore pieghevoli come Je membra del loro delicato corpicciuolo, bisogna quindi illuminare questo spirito e dirigere questo cuore di buon'ora a virtù, ed è questa la più grande e la più importante vostra obbligazione» (lettera pastorale Sulla educazione cristiana della gioventù, Acireale 1880, 4ff5). 60 «(La Chiesa) oltre all'obbligo gravissimo che impone ai parenti di istruire essi stessi la loro prole e di procurarne in ogni modo l'istruzione [ ... ]» (Sulla istituzione della Compagnia per la Dottrina Cristiana, Giarre 1874, 5). «Fa d'uopo che dal pulpito e dal confessionale con gravi parole s'inculchi spesso ai genitori l'obbligo di far frequentare ai loro figli questa scuola parrocchiale della Dottrina Cristiana, e di aggiungere anche l'inff segnamento domestico» (lettera circolare Sull'istruzione religiosa, cit., 3-4).
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essi esercitano pm che con parole con l'esempio di vita cristiana offerto e il Genuardi ·rileva come un bambino difficilmente potrà vivere secondo l'educazione religiosa ricevuta se non riscontra nei genitori un esempio vivo ·di ciò che ha imparato. La famiglia cristiana è ancora luogo di preghiera, ambito in cui risuona la preghiera e si impara a pregare ed è anche scuola di carità. Gli aspetti sopra considerati permettono di comprendere che nel pensiero del Genuardi vi è una analogia tra la famiglia e la Chiesa: la famiglia non appare soltanto realtà ecclesiale, cellula della Chiesa, ma è Chiesa privata, Chiesa domestica che ha in sé, in un certo senso ed in un certo modo, i con~ notati della stessa Chiesa. In quello che abbiamo considerato risulta chiaro che mons. Genuardi ha un'alta considerazione del matrimonio. In una lettera circolare della vigilia dell'ascensione del 1903 egli afferma espressamente che dopo il sacerdozio, è il matrimonio cristiano ad essere il fondamento della società 61 • Nella 'Tillessione che egli ne fa mette implicitamente in luce la ministerialità insita nel matrimonio cristiano. Richiama agli sposi i compiti loro pertinenti nell'ambito familiare che hanno una risonanza nella Chiesa e nella società e costituiscono quella forma ministeriale derivante dal sacramento del matrimonio la quale, pur se non è espressa in questi termini, è abbastanza percepita dal Genuardi.
12. Il seminario Tra le opere fondate .dal Genuardi quella .da lui più sentita, per la quale impegna ogni energia, che segue con particolare 61 «Il matrimonio cristiano, che certamente, dopo il sacerdozio, deve considerarsi come l'istituzione fondamentale della famiglia e della società tutta, e co1ne 1nezzo necessario per conservare nel seno della medesima la morale del Vangelo, è a tutti ben noto come ai nostri luttuosi tempi venga con ogni mezzo insidiato e profanato per opera della dominante rivoluzione anticristiana ed antisociale, onde estinguere, nei popoli con la fede la cristiana morale» (lettera circolare della vigilia dell'Ascensione 1903, in Il Zelatore Cattolico 6 [1903] 81).
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cura è senza dubbio il seminario, che mons. Salvatore Bella nella commemorazione per il primo anniversario della sua morte definisce «l'opera eminentemente sua» 62 e che, come afferma lo stesso Genuardi, segna il coronamento dell'attuazione della tanta sospirata diocesi acese 63 • Mons. Genuardi, venendo ad Acireale come primo vescovo della diocesi, evidentemente non vi trova il seminario, la cui realizzazione, quindi, diventa una delle sue prime grandi aspirazioni di vescovo. Abbiamo visto come egli ci tenga ad avere un clero santo, dotto e all'avanguardia e comprende bene che a tal fine la diocesi necessita di un seminario nel quale i giovani chiamati alla vita sacerdotale possano ricevere quella formazione culturale e spirituale esigita dai tempi per essere all'altezza della situazione. Il desiderio del vescovo si realizza gradualmente e bisogna aspettare quasi dieci anni perché ad Acireale vi sia un seminario propriamente .detto, completo in quelle strutture ad esso necessarie. Il 15 dicembre 1881 si tiene l'inaugurazione ufficiale in occasione della quale lo stesso mons. Genuardi .pronuncia un discorso, motivo di tante polemiche, con cui detta le linee programmatiche del seminario acese. Il discorso si articola fondamentalmente in tre parti: nella prima traccia brevemente la storia dell'educazione dei chierici nella Chiesa; nella seconda tratta la formazione spirituale; nella terza quella culturale. Consideriamo particolarmente la seconda e terza parte del discorso dalle quali emerge meglio il pensiero del ve-
62 Cfc S. BELLA, A1.ons. Gerlando Maria Genuardi, (discorso con1men10rativo) Acireale 1908. Sui prin1i anni dcl seminario acese vedi AA.Vv., Per la storia del sen1inario di Acireale nel centenario della sua istituzione, in Memorie e Rendiconti dell'Accadernia di Scienze Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale, serie III I (1981) 359-431. 63 (<Si, o Signori, a buon diritto Acireale festeggia questo giorno, in cui con l'inaugurazione del Sc1ninario, vede felicemente coronata quell'opera che per oltre ad un n1ezzo secolo fu l'obiettivo deJle sue più ardenti e nobili aspirazioni, l'onore, cioè della sede episcopale in tanta avversità di tcrnpi mirabilmente conseguito)) (Discorso inaugurale, letto nell'aula deJ seminario diocesano, Acireale 1881, 3).
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scovo sul seminario. La formazione spirituale ha un posto premill1ente e il Genuardi sottolinea in modo marcato la formazione all'obbedienza: egli ritiene che, soprattutto in quei tempi nei quali si rivendioa la libertà di pensiero con il rischio di incorrere in errori dottrinali, l'esercizio .della virtù dell'obbedienza sia più che mai necessario soprattutto per i sacerdoti i quali, ad iminazione del Cristo, obbedientissimo al Padre, debbono obbedire al loro vescovo. Da tale sottolineatura così marcata rileviamo che per mons. Genuardi l'obbedienza al vescovo è una delle maggiori virtù che debbono caratterizzare il sacerdote. Probaibilmente questa convinzione gli si fa più ferma dati i contrasti e le polemiche avuti con alcuni membri del clero diocesano nei primi anni di episcopato. Oltre che la formazione spirituale il seminario deve offrire ai giovani chierici una solida preparazione culturale per un in~ serirnento più efficace nella società. Genuardi sottolinea l'importanza dell'istruzione letteraria e filosofica nonché di quella t·eologica, indicando come punto di riferimento, soprattutto per gli studi filosofici e teologici, la teologia tomista e termina il discorso inaugurale esprimendo la sua gratitudine a Leone XIII il quale con l'Aeterni Patris mette in auge il tomismo come strada sicura per il pensiero filosofico e teologico. Per mons. Genuardi il prete deve essere capace di affrontare i tempi nei quali vive e da cui non ·può estrancarsi. Il seminario d·eve educare anche in questo senso e appunto per questo istituisce in esso una cattedra di economia sociale, per rendere i futuri sacerdoti atti a rispondere alle esigenze determinate dai tempi. Ben presto il ·seminario di Acireale acquista una rinomanza non indifferente tanto da diventare punto di riferimento anche per chierici di altre diocesi, manifestandosi così la solidità dell'istituzione e la serietà di impostazione. Il seminario senza .dubbio costituisce una delle opere più riuscite del Genuardi.
13. L'opera catechistica Il 16 novembre 1874, ad appena due anni .dal suo ingresso in diocesi, mons. Genuardi costituisce la Compagnia della Dot-
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trina Cristiana per incrementare il catechismo, rendendo nota tale istituzione in una lettera pastorale nella quale sottolinea l'importanza della catechesi e come essa sia precipuamente uno dei primi doveri di un vescovo e dei sacerdoti "- Nella prima lettera pastorale parlando della missione della Chiesa menziona anzitutto tra i suoi aspetti più salienti l'insegnamento della dottrina cristiana dando ad esso un posto di primaria importanza nell'azione pastorale. L'istruzione catechistica nei territori che formano la diocesi di Acireale probabilmente lasciava a desiderare, soprattutto in quelli appartenenti precedentemente all'arcidiocesi di Messina, a causa della considerevole distanza dal centro. Si era diffusa qualche opera catechistica in dialetto siciliano, pur se pochi ne erano i lettori dato l'analfabetismo, e in certe zone ci si limitava a impartire ai ragazzi solo qualche ru·din1ento della dottrina cristiana 65 . Si comprende allora l'impegno immediato del Genuardi per incrementare l'insegnamento catechistico incoraggiando soprattutto i sacerdoti a non tralasciare il compito primario della catechesi. La Compagnia della Dottrina Cristiana, che il vescovo prescrive per ogni parroochia, ha una larga diffusione in diocesi raggiungendo diverse migliaia tra ragazzi e ragazze a cui è impartita una solida educazione religiosa. Il vescovo consiglia ai sacerdoti di non essere larghi nelI1am1nettere i ragazzi ai sacramenti, ma di accertarsi anzitutto .della loro preparazione. Nel pensiero del Genuardi quindi è chiaro quel binomio "evangelizzazione e sacramenti" che, soprattutto dopo il Vaticano II, è stato oggetto di particolari studi e convegni e che sottolinea l'importanza dell'evangelinazione come esigenza della sacramentalizzazione. Per mons. Genuardi è troppo poco che la Chiesa abbia
M La coinpagnia della Dottrina Cristiana, pur se con un nome un po' diverso (Confraternita della Dottrina Cristiana), sarà raccomandata circa trent'anni dopo dall'enciclica Acerbo Nhnis (1905) e prescritta dal Codex Juris Canonici del 1917. 65 Ad Acireale si diffonde un libretto Poesie morali siciliane pubblicato dal sacerdote Vincenzo Gangi che, in senso largo, si potrebbe considerare un catechismo popolare.
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solo interesse a sacramentalizzare, ma soprattutto essa deve potenziare la sua azione evangelizzatrice q:>er rimanere fedele alla sua missione e sopperire a quell'ignoranza religiosa causa di traviamenti e defezioni. La lettera pastorale del novembre 1874 non è l'unica che inculchi la catechesi come compito da praticare e incrementare nella nuova diocesi; si registrano infatti altri ampi interventi del Genuardi sull'argomento e pare proprio che il vescovo non per.da la minima occasione per parlare della necessità del catechismo. Soggetti dell'azione catechistica sono designati, come abbiamo visto, anzitutto i sacerdoti. Ma a fianco di essi mons. Genuardi chiama anche i laici nell'impegno della catechesi, i quali, soprattutto in mancanza di clero, devono offrire il loro contributo nell'insegnamento della dottrina cristiana, per cui si deve dar loro una formazione adeguata in modo da essere quanto meglio all'altezza del compito"'· Il laicato ancora è visto svolgere una funzione di supplenza, ma intanto non si può negare lo stato di fatto di un suo inserimento attivo nell'opera evangelizzatrice .della Chiesa. In tal senso è significativo quello che Genuardi dice nella pastorale per la quaresima del l 880, affermando che coloro i quali sono impegnati nell'educazione so-
66 «Che se malgrado il concorso di tutto il clero, i Catechisti non saranno in numero sufficiente da poter dare l'insegna1nento nel n1odo dalle Regole della Pia Società prescritte, voi potrete trovare venerandi confratelli, nei membri di parecchie pie Congregazioni e Confraternite laicali, che con grande nostra consolazione abbiamo conosciuto ferventissimi in ogni opera di culto, di pietà e di gloria di Dio, altrettanti zelantissimi cooperatori che si recheranno a soinmo pregio essere chiamati a parte in affare di tanta importanza; ad Essi tutti noi fin da ora rivolgiamo le più calde e vive istanze perché vogliano cooperare con Voi a questo santo fine, fiduciosi che saremo esauditi» (lettera pastorale Sulla istituzione della Con1pagnia della Dottrina Cristiana, cit., lit:). «Bisogna però, senza farci illusioni, confessare che rimane ancora molto da farsi per occorrere ai presenti bisogni; e per farsi di più è necessario che cresca il numero e il zelo degli operai nel clero e nel laicato [ ... ] che si abbiano molti maestri e maestre che sostengono l'insegnamento ordinato per classi» (lettera circolare Sull'istruzione religiosa, cit., 3).
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prattutto religiosa dei fanciulli e dei giovani svolgono una specie di sacerdozio a nome della famiglia e della società 67 • Coloro tra i laici che più degli altri e prima degli altri sono obbligati dal loro stato ad assolvere l'impegno della catechesi sono i genitori i quali, aiutati dai padrini e dalle madrine, debbono fare per i figli da primi catechisti. Essi non solo debbono mandare i figli al catechismo parrocchiale, ma anche curare un insegnamento religioso domestico che il vescovo reputa tanto importante perché la catechesi sia completa ed efficace. Destinatari della catechesi sono anzitutto i fanciulli, ma non solo, in quanto il vescovo inculca la catechesi per gli adulti perché a suo giudizio tutti hanno bisogno del catechismo che costituisce un insegnamento permanente nella vita del cristiano 68 • Per la catechesi all'adulto non ci si può fermare ai metodi tradizionali, ma bisogna tentarne nuovi attraverso cui si possa raggiungere un maggior numero di persone. Genuardi, il quale fin .da giovane mostra una spiccata sensibilità per la stampa, consiglia la pubblicazione di periodici che possono risultare un valido strumento per una efficace e diffusa opera catechistica tra gli adulti. Ai molteplici interventi attorno alla necessità del catechismo corrispondono inziative promosse o favorite dal vescovo per la diffusione dell'insegnamento religioso soprattutto tra i ragazzi e i giovani. La Compagnia della Dottrina Cristiana si diffonde a macchia d'olio tra le zone della diocesi, nascono le congregaCfr. lettera pastorale Sulla educazione cristiana della Gioventù, cit. {(Procurate soprattutto di togliere quei funesti pregiudizi, che da un falso principio si sono purtroppo introdotti e vi si van sempre più radicando nell'animo delle persone adulte e specialmente in quelle che per nascita civile e per educazione sono o si credono più colte ed istruite, cioè a dire, che l'obbligo di frequentare e di studiare la Dottrina di Gesù CriSto si restringa e si compia nei confini dell'età dell'infanzia e della gio· ventù, che chi è altrimenti colto ed istruito nelle cognizioni terrene non abbisogna di tale frequenza e studio» (lettera pastorale Sulla istituzione della Compagnia della Dottrina Cristiana, cit., 8). «In ultimo non vogliamo tralasciare di ricordarvi il grave bisogno, che ai nostri giorni si sperimen~ ta, di tale istruzione anche negli adulti» (lettera circolare Sull'istruzione religiosa, cit., 5). 67 68
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zioni delle figlie di Maria, collegi maschili ed educandati femminili, i circoli cattolici "S. Veneranda" e "S. Gerlando". Nel 1884, a distanza di dieci anni dalla istituzione della Compagnia della Dottrina Cristiana, il Genuardi fonda l'associazione di S. Francesco di Sales per la difesa e la conservazione della fede, tipica espressione dell'atteggiamento apologetico del tempo. Essa ha lo scopo di aiutare il clero nella difesa della fede e di sostenere le opere catechistiche"'. Nel 1887 viene pubblicato un Catechismo della Dottrina Cristiana a struttura dialogica e ad uso della diocesi di Acireale, segno del fervore catechistico diffusosi in diocesi e che, indubbiamente, non può non essere in linea con le concezioni del vescovo esprimendone il pensiero. Ci soffermiamo a prendere in esame la lezione ottava concernente la spiegazione .dell'articolo nono del simbolo: credere Ecclesiam. E' diviso in quattro paragrafi: 1) della Chiesa in generale; 2) della Chiesa cattolica e dei suoi caratteri; 3) gerarchia e popolo della Chiesa; 4) fuori della Chiesa cattolica non vi è salute. I primi due paragrafi riecheggiano la triplice definizione di Chiesa fatta dal Genuardi nella prima lettera pastorale considerandola in senso largo, meno largo e stretto. Il primo paragrafo dopo aver sottolineato l'azione santificatrice .dello Spirito nella Chiesa, spiega il termine Chiesa in senso generale intendendo la congregazione dei fedeli, che, uniti in Cristo, formano con lui un solo corpo. Essa sussiste fin dall'inizio del mondo in quanto: «a cominciare da Adamo tutti quelli che si salvarono ebbero la fede in Gesù Cristo, e per mezzo di questa fede appartennero alla Chiesa, di cui Gesù C'risto è il capo» 70 . Riscontriamo in questo passo la concezione della Chiesa "ab Abel" propria di alcuni padri per cui la Chiesa esiste a cominciare dal primo giusto che implicitamente ha fede in Cristo ed è ordinato ad essa 71 • E' da rilevare l'originalità che 69 Cfr. lettera pastorale La preziosità della fede e l'opera di S. Fran· cesco di Sales, Acireale 1884. 10 Catechismo della Dottrina Cristiana, lez. 8, par. 1, Acireale 1887. n Cfr. Pastorale di Erma, VIII (4), 1; I. CRYSOSTOMUS, In Gen. Horn., 19, 6; S. AMBRosrns, De Caìn et Abel, I, 2, 3: Exsp. 1-118, I, 4; S. AuGUSTINUS, De cìvìtate Dei, XV, I; XV, 18, 2; XVIII, 51, 2.
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in questo primo paragrafo presenta detto catechismo, in quanto in quasi tutti i catechismi del tempo la spiegazione dell'articolo inizia subito con la definizione di Chiesa cattolica, tralasciando una definizione di Chiesa in senso largo. Sempre nel primo paragrafo si trattano le tre parti della Chiesa: trionfante, purgante e militante e si conclude dicendo che l'articolo nono del simbolo principalmente si riferisce alla Chiesa militante che è la Chiesa cattolica di cui si dà la definizione nel paragrafo successivo. Essa è vista come «la società di tutti i battezzati viatori che professano la fede e la legge di Gesù Cristo partecipano ai medesimi sacramenti, e, sotto il governo del Romano Pontefice e dei vescovi a lui sottoposti, formano un solo medesimo corpo» 72 . E' essenzialmente la definizione classica del Bellarmino con qualche revisione. Ad esempio troviamo qui riferita alla Chiesa la categoria di corpo che nel primo paragrafo si presenta in modo più specifico come Corpo di Cristo formato dai fedeli a lui uniti 73 ; pur se continua a definire la Chiesa come società non sottolinea con la stessa marcatura del Bellarmino la sua visibilità. Fatta questa definizione presenta il capo invisibile della Chiesa Gesù Cristo e il capo visibile il romano pontefice, obbedire al quale è necessario per far parte della Chiesa di Gesù Cristo. Sono poi trattate le quattro note della Chiesa: unità, santità, cattolicità e apostolicità a cui si aggiunge quella di romanità; si considera l'infallibilità della Chiesa e, legata ad essa, quella del papa; infine dice che il papa, i vescovi e i sacerdoti formano la Chiesa "insegnante" distinguendo così nella Chiesa una parte docente e una parte discente. Vogliamo fare una breve considerazione sulla nota della santità della Chiesa che mons. Genuardi nei suoi scritti presenta piuttosto nel suo aspetto ascetico-morale, esprimendo esplicitamente laspetto ontologico di essa presente invece nel catechismo in cui la santità della Chiesa è anzitutto riferita
Catechismo della Dottrina Cristiana, lez. 8, par. 2, cit. «(Per Chiesa in senso generale) si intende la congregazione di tutti i fedeli che sono uniti con Gesù Cristo, e formano un solo corpo con esso» (ibid., par. !). 12
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al suo capo Gesù Cristo, alla fede, alla legge e ai suoi comandamenti 74 • Nel terzo paragrafo sono trattate le due classi che compongono la Chiesa: la gerarchia e il laicato. Spiega il ministero del papa, dei vescovi e dei sace:rdoti e incuka al popolo il rispetto per coloro che sono investiti dell'ordine sacro. Nell'ultimo paragrafo si dice che al di fuori della Chiesa cattolica apostolica romana non -ci può essere salvezza e si fa un'analogia con l'arca di Noè, vista come figura .della Chiesa, stando fuori dalla quale, nessuno poté scampare dalla morte provocata dal diluvio. Quindi gli infedeli, gli eretici, gli scismatici, gli apostati, gli scomunicati e anche i bambini non battezzati, trovandosi fuori dalla Chiesa, non possono salvarsi. La penultima questione riguarda il problema della salvezza per i giusti dell'Antico Tesetamento che di fatto non sono entrati a .far parte della Chiesa cattolica. Si risponde che «Si sono salvati in virtù della fede che avevano in Cristo venturo per mezzo della quale già appartenevano spiritualmente alla Chiesa cattolica ed osservando la legge di natura e di Mosè» 75 . Emerge quindi di nuovo il tema di una Chiesa "ab Abel", già visto nella considerazione del primo paragrafo. Conclude con l'affermazione che per ottenere la salvezza bisogna «Sempre stare nella Chiesa Cattolica uniti al Papa ed ai Vescovi, credere tutte le verità che essi ci insegnano, ubbidire a loro, ed osservare i comandamenti di Dio e della Chiesa» 76 • Notiamo che l'obbedienza al magistero della Chiesa è menzionata prima ·dell'osservanza dei comandamenti. La preoccupazione di sottolineare l'autorità del papa e dei vescovi ·porta talora, come in questo caso, a non rispettare quello che dovrebbe essere il giusto o:rdine.
74 «Perché la Chiesa si dice santa? Perché è Santo il suo Capo e fondatore, che è Gesù Cristo, perché è Santa la sua fede, santa la sua legge, i suoi sacramenti santificano le anime, tutti i suoi figli sono chiamati alla santità ed una moltitudine immensa di essi sono santi, e niuno può essere santo se non è membro di essa Chiesa11 (ibid., par. 2). 1s Jbid., par. 4. 76 L. c.
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14. I comitati cattolici Negli ultimi decenni del XIX secolo si incrementano un po dovunque i movimenti cattolici laicali esigiti in buona parte dalla situazione in cui si trova la società del tempo n. Di fronte ai rigurgiti antireligiosi del governo e di certe correnti ideologiche, ]a Chiesa sente il bisogno di organizzare il laicato cattolico che si vuole più impegnato a fianco ai sacerdoti nella difesa e propagazione della fede. Certamente quando la fede cattolica era .da tutti pacificamente condivisa non si sentiva il bisogno di tali organizzazioni, semmai le confraternite costituivano occasione di aggregazione e formazione per i laici cattolici. I comitati cattolici però differiscono tanto dalle confraternite: mentre ]'attività di queste è costituita prevalentemente da pratiche devozionali per la crescita spirituale di ciascun aderente, i movimenti cattolici vogliono formare laici per un impegno attivo nella Chiesa più fattivo e più organizzato. Possiamo allora dire che gli aspetti negativi della società del tempo non recano solo danno alla Chiesa, ma talora diventano implicitamente un pungolo per essa, iper una riorganizzazione e rivitalizzazione e nel caso nostro determinano di fatto !'organizzazione e la promozione del laicato cattolico. Mons. Genuardi, che senza dubbio è uno spirito attivo, non rimane indietro in quest'opera nei confronti del laicato e si impegna fino in fondo nella promozione di èsso non fermandosi a consolidare le confraternite sollecitandone la cura ma, come offensiva ai mali del secolo e particolarmente alla massoneria, riconosce il valore dell'Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici che cerca di far nascere nella nuova diocesi acese. Nella lettera pastorale per la quaresima del 1896 con un pizzico di soddisfazione riconosce i frutti che il lavoro pastorale svolto in tal senso ha già prodotto; è con piacere che egli nota la costi-
77 Elementi bibliografici sul movin1ento cattolico: G. DE RosA, Il movimento cattolico in Italia, Laterza, Bari 1966; A. GAMBASIN, Il movimento sociale nell'Opera dei Congressi (1874-1904), PVG, Roma 1958; AA.Vv., Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, 3 voli., Marietti, Torino 1981-1984.
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tuzione del comitato diocesano e l'attività dell'Azione Cattolica già avviata nelle opere di zelo, di carità e di catechesi. E' cosciente però che non bisogna fermarsi paghi dei frutti raccolti ma, seguendo l'invito del papa, bisogna incrementare ulteriormente l'opera dell'Azione Cattolica perché abbia più vigore e si espanda maggiormente 78 • Il desiderio del vescovo consiste nel veder sorgere in ogni parrocchia .della diocesi comitati parrocchiali efficienti, i quali lavorino non ognuno a sé, ma insieme, in coordinamento, sempre sotto la guida dei pastori 79 • Un laicato così organizzato forma "il valoroso drappello ausiliare del vescovo e del clero nel combattere le sante battaglie della verità, della giustizia e della carità, a gloria di Dio e della Chiesa, ed in salvezza della cara nostra patria" 80 • Il Genuardi indubbiamente presenta nelle sue idee certi limiti ma, considerando la sua prassi pastorale, egli di fatto compie un'opera di promozione nei confronti del laicato. Appare chiaro negli scritti e nella prassi che il Genuardi considera l'impegno attivo dei laici non un elemento di contorno, ma un valore di cui la Chiesa, soprattutto in quel tempo, non •può fare a meno. Le opere istituite per i laici e con i laici testimoniano come il vescovo desideri in diocesi un laicato maturo capace
7g ((Da parte nostra abbiamo con l'aiuto di Dio gettato in questa diocesi !e fondamenta dell'Azione Cattolica nelle molte svariate opere ed istituzioni di zelo, di carità e di cristiana educazione, di cui essa va ricca; è già bello e costituito in questa città il Comitato Diocesano: ora è necessario per rispondere ai comandi del Vicario di Gesù Cristo, dare all'Azione Cattolica nella nostra Diocesi nuovo slancio, vigore ed espansione gli augusti e sapientissimi insegnamenti dell'istesso Pontefice)} (lettera pastorale Lo Quaresilna e il dovere dell'Azione Cattolica, in Il Zelatore Cattolico 2 [1896] 21). 79 <(Su adunque, o dilettissimi, che la nostra amata Chiesa Acese presto si allieti di veder sorgere in ogni sua Parrocchia quei benemeriti e salutari Comitati parrocchiali, che federati alle altre cattoliche associazioni ed ai Comitato diocesano, sotto la guida d~i rispettivi Pastori dovranno formare, come difatto formano in altre Diocesi italiane il valoroso drappello ausiliare del Vescovo e del clero nel combattere le sante battaglie della verità, della giustizia e della carità, a gloria di Dio e della Chiesa, cd a salvezza della cara nostra Patria)} (ibid., 22). &o L. c.
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di un impegno ecclesiale fattivo. Nel pensiero ecclesiologico del Genuardi è quindi ben chiaro, al di là di certe espressioni e di certe sottolineature e .di certe espressioni, che i laici non costituiscono una Chiesa passiva, ma che anch'essi sono chiamati a partecipare alla missione attiva della Chiesa. Nella suddetta pastorale del 1896 vi è un passo interessante nel quale il vescovo, stimolando i laici, ricorda loro il sacramento della Cresima che li ha resi soldati del ·Cristo, capaci cioè a svolgere un impegno attivo nella Chiesa 81 • In questo passo a nostro avviso è indicato il fondamento sussistente all'azione dei laici, costituito non tanto dal fatto che il clero abbia bisogno di collaboratori anche se tale aspetto emerge, quanto piuttosto dal Battesimo e dalla Cresima che rendono la persona membro attivo della Chiesa. Il vescovo menziona la Cresima, sacramento d·ella maturità cristiana, quasi 1per dire che l'impegno ecclesiale dei laici è quel naturale frutto che scaturisce dal sacramento ricevuto.
J5. Le opere sociali Mons. Genuardi dimostra di essere un uomo attento al tempo in cui vive e con accortezza ne capisce le esigenze che la Ch.iesa, se vuol continuare la sua missione ed essere così fedele al suo fondatore, non può ignorare. Egli è fermissimo nei principi per cui rigetta ogni forn1a di co111•promesso con tutto ciò che potrebbe solo apparire cedimento di fronte agli avversari, ma ne1lo stesso tempo si rende conto senza smentire se stesso che, in un mondo che cambia, anche la pastorale deve cambiare. I principi di sempre devono ora trovare concretizzazioni nuove, la Chiesa deve avere il coraggio di imboccare nuove strade per rimanere quella lampada che brilla di viva luce, punto di riferimento per i popoli. 81 <(E voi, figli carissimi dcl laicato cattolico diocesano, ricordatevi del Crisma di salute, onde il Vescovo vi segnava in fronte per infondervi il coraggio dei soldati di Cristo: ahimè! Che in molti dei nostri moderni cristiani di ciò ormai non è rimasto che una mera reminiscenza della prima età» (l. c.).
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Il ·secolo XJX è caratterizzato dall'emergere di una sensibilità sociale che trova una sua espressione nel socialismo che man mano si diffonde. La Chiesa a questo punto si trova di fronte a un bivio: alienarsi -dalla storia vivendo in un proprio mondo e limitandosi a lanciare anatemi alla nuova società, oppure inserirsi in essa cercando di rispondere alle nuove richieste emergenti. La seconda linea senza dubbio esige più coraggio ed è questa che la Chiesa sceglie nella sua espressione del conclave quando nel 1878 viene elevato al soglio pontificio Gioacchino Pecci col nome di Leone XIII, un nome legato ad un'enciclica, la Rerum Novarum, che risponde in chiave cristiana a11e istanze sociali del tempo. Mons. Genuardi nella sua pastorale si mostra pronto a seguire in campo sociale le sollecitazioni di Leone XIII alle cui encicliche fa frequente ed esplicito riferimento. Si impegna quindi perché in diocesi nascano opere sociali, istituzioni di benefìcienza, aggregazioni di operai, casse rurali e, attraverso conferenze, si formi un certo spirito orientato all'azione sociale cristiana. A tale attività, come abbiamo già visto, chiama soprattutto i sacerdoti i quali, corrispondendo alle esigenze dei tempi, debbono tentare nuove forme nel loro ministero per non permettere che le masse popolari abbandonino la religione ammaliate dalle dottrine socialiste. Il vescovo interpella anche il laicato cattolico perché offra il suo contributo nelle iniziative sociali che anzi debbono nascere sotto un'unica direzione, quella della Opera dei Congressi e nella piena fedeltà e sottomissione al magistero della Chiesa. L'impegno sociale del Genuardi non dobbiamo pensare che sia determinato unicamente da un fattore di obbedienza al papa e di docilità alle sue indicazioni, ma il vescovo rivela una spiccata sensibilità sociale che appare esplicitamente o implicitamente in div,ersi scritti. A esempio nella lettera pastorale per la quaresima del 1876, prima quindi del pontificato di Leone XIII e della Rerum Novarum, tratta della santità del giorno festivo ed afferma che tale precetto non risponde soltanto a esigenze religiose, ma anche a esigenze umane per cui il giorno del Signore è anche il giorno dell'uomo, propugnando così per il lavorato-
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re il diritto al riposo festivo che gli permette il dovuto rapporto con la famiglia e l'effettivo svolgimento dei suoi doveri di padre e di sposo 82 • Bisogna anche notare che l'azione sociale promossa dal Genuardi si pone su larghi orizzonti in quanto non compie alcuna discriminazione di sorta nei confronti di chi può essere beneficato. Prova ne è il Segretariato del popolo, istituzione nata nel 1898 che si propone di svolgere un'opera ispirata alla carità in favore non solo dei cattolici, ma di qualsiasi persona appartenente a qualsiasi gruppo, che si riferisce a qualsivoglia ideologia in quanto, come si commenta, "la carità ignora queste ,distinzioni" 83 . C.osì l'interessamento verso i poveri non dove far trascurare le classi più abbienti, ma la missione della Chiesa a tutti deve rivolgersi rispondendo ai bisogni di ciascuno 84 . 1
s2 «Laonde il riposo nel settimo giorno venne comandato al popolo ebreo non solo per motivi di religione, ma ancora per altri motivi di umanità, ragioni tutte che ugualmente sussistono in ordine all'istituzione e all'osservanza della Domenica; sicché il riposo dell'anima e del corpo, nonché il bene dcll'uoino, per ogni aspetto, fa il disegno cd il fine dell'istituzione del Giorno del Signore che potrebbe a buon diritto, come osserva un moderno apologista, chiamarsi altresì il Giorno dell'uo1no [ ... ]. Ed in vero la Domenica è per tutti, ma principalmente per l'uomo che consacra tutta la sua vita al lavoro esterno e penoso il giorno per eccellenza nel quale ricordandosi dell'oracolo di Gesù Cristo 'Non di solo pane vive l'uon10, ma di ogni cosa che Dio comanda', (Matth. IV, 4) fa egli ttegua per qualche istante con gli interessi materiali per ricordarsi della dignità dell'anima sua, de' severi impegni presi verso Dio, delle speranze del cielo e delle condizioni apposte alla promessagli beatitudine [ ... ] la Domenica è per tutti ma specialmente per l'uomo di lavoro, il giorno della famiglia. Separato quasi sempre dalla sua sposa, da' suoi figli per necessità del suo lavoro, che diverrebbero per lui le relazioni di famiglia, se egli almeno non si riserbasse un giorno nel quale possa esercitare in una materia più sensibile per l'educazione dei figli, per la cultura della sua intelligenza, per le comunicazioni intime del cuore la benefica influenza di cui la religione e la natura investono pieno d'onore che gli conferisce magnifiche prerogative, ed insieme gravi e sacrosanti doveri?» (lettera pastorale Sulla osservanza della Domenica e dei giorni festivi di precetto, Acireale 1876, 5-6). sJ Cfr. Cronaca Diocesana, in Il Zelatore Cattolico 4 (1898) 68. 84 «Così il sacerdote con la mente illuminata dalla vera sapienza cristiana e col cuore acceso dalla carità di Dio, saprà parlare come conviene
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Nella concezione di una Chiesa che non deve alienarsi dalla società che cambia, ma si deve inserire in essa con nuovi metodi pastorali, si pone l'interesse .del Genuardi per la stampa come strumento nuovo adatto ai tempi per diffondere la verità della fede. Fin dai primi anni di sacerdozio dedica parte del suo apostolato alla stampa cattolica e da vescovo mantiene tale interesse che lo spinge a caldeggiare inziative in merito, determinando la nascita immediata in diocesi .del Bollettino Ecclesiastico che verrà poi incorporato ne La Palestra Cattolica, un periodico di più ampio respiro culturale e religioso il quale, in seguito, si chiamerà Il Zelatore Cattolico. La serietà d'impostazione e ·solidità di contenuti che si riscontrano in esso fanno trasparire l'impulso del vescovo e la sua convinzione circa la validità della stampa nella formazione del popolo. 1
16. Conclusione Siamo giunti alla conclusione del nostro lavoro nel quale a;bbiamo tentato di ricostruire il pensiero ecclesiologico di mons. Genuardi alla luce del quale prende corpo la Chiesa di Acireale. Da quello che abbiamo esaminato il Genuardi ci appare figlio del suo tempo; il suo pensiero senza dubbio appartiene a quella svolta ecclesiologica che si determina in seguito alla delusione suscitata dalla prassi politica piemontese e che propugna un maggior legame al papa e una difesa delle sue prerogative. L'attaccamento al romano pontefice da parte di mons. Genuardi è più che mai vivo e sentito ed egli non cessa di inculcarlo ai figli della nuova diocesi. Le sue affermazioni ecclesiologiche quindi si presentano con un tono apologetico ed in polemica con la situazione sociale e politica. In Genuardi però ]'apologetica, anche se .raggiunge accenti ridondanti, ci sem-
ai nostri giorni, al ricco e al povero perché entrambi vadan salvi da ogni pericolo di pervertimento e da ogni funesta seduzione» (lettera pastorale Il clero e i tempi presenti, in Il Zelatore Cattolico 6 [1901] 74).
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bra essere come un velo determinato <la! tempo che avvolge un pensiero ecclesiologico teologicamente ricco e di ampio respiro. Egli utilizza il patrimonio della tradizione e coglie la Chiesa nella sua dimensione misterica, avente una missione specificamente spirituale, abbandonando così una certa lettura ecclesiologica in chiave societaria tendente a mettere in risalto soprattutto l'aspetto visibile. Il Genuardi fa propria !'immagine di Chiesa Corpo di Cristo e, mostrando così di seguire gli indirizzi ecclesiologici del Mohler e del Collegio Romano, ne sottolinea la natura teandrica. La dimensione cristologica, secondo la sensibilità del tempo, è abbastanza presente e marcata: la Chiesa è Corpo di Cristo; è la sua sposa; in essa si fa esperienza di lui; farlo conoscere e farlo amare è la sua missione specifica. A questo punto possiamo mettere in risalto un limite del suo pensiero sulla Chiesa: si nota in esso un certo cristomonismo ecc1esiologico che il Mohler, come ben sappiamo, evita. Negli scritti del Genuardi per nulla appare la dimensione pneumatologica della Chiesa e come abbiamo fatto notare, ciò costituisce una lacuna di un certo rilievo . .Per il rapporto Chiesa-mondo mons. Genuardi si trova per convinzione profonda sulla linea tracciata da Leone XIII. Negli scritti e nella prassi pastorale a riguardo ci .dà un'immagine di Chiesa attenta alle esigenze -dei tempi, che non si aliena, ma ne accetta la sfida e sa trovare forme nuove di apostolato per continuare in tempi nuovi la sua missione salvifica. La Chiesa nella concezione del Genuardi si presenta con un volto piuttosto clericale, ma se ciò costituisce un dato di fatto, non si può parimenti negare che egli promuova il laicato cattolico lasciando trasparire una convinzione secondo la quale il laicato non può ridursi a svolgere un ruolo unicamente passivo ma è chiamato a collaborare attivamente col clero nello svolgere la missione della Chiesa. Indubbiamente la sua visione del ruolo del laicato non è, e non può pretendersi che sia, quella offertaci dal Concilio Vaticano II. Resta però il fatto altamente positivo che il Genuardi impegna i laici nella pastorale organica .della diocesi apprezzando il loro contributo e favorendo così
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da parte sua quel movimento di maturazione del laicato cattolico che col Vaticano II giun~erà a un approdo significativo. Possiamo concludere ché l'immagine di Chiesa di mons. Genuardi, pur non priva di limiti, si presenta caratterizzata da un'intelligente apertura a una certa sensibilità ecclesiologica maturata in quel tempo e a nuovi metodi pastorali più rispondenti alle istanze di quella società. Mons. Genuardi crea una diocesi ben compaginata dando slancio in essa a una vitalità ecclesiale che la rende attiva attorno al suo pastore nella piena fedeltà e docilità alla Santa Sede. Hd è proprio questa lorma caratteristica che a nostro avviso il Genuardi imprime alla Chiesa di Acireale tenuta viva con sagacia e zelo dai suoi successori.
ANTROPOLOGIA E MORALE . IL PENSIERO E L'ESPERIENZA DI DANIELE CONCINA O. P.
SALVATORE CONSOLI"
1.
Introduzione
1.1. Notizie biografiche e profilo morale di Daniele Concina Daniele Concina, nato a Clauzetto nel Friuli il 2 ottobre 1687, riceve la prima educazione dai padri gesuiti ma, spinto dall'inclinazione allo studio e dal desiderio di vivere la povertà, nel 1707 a Conegliano veste l'abito dei domenicani, nella congregazione riformata dal beato Giacomo Salomone. Dopo pochi anni dedicati all'insegnamento, si dà al ministero della predicazione: per il successo che ottiene viene chiamato nelle principali città d'Italia. Dal 1730, data della sua prima polemica, quella sulla povertà dei religiosi, passa la vita predicando e scrivendo contro i sostenitori della morale lassa, prendendo occasione dalle molteplici controversie che si presentano: le 28 voluminose opere stanno a testimoniarlo. Il 21 febbraio 1756 muore a 69 anni, nel convento del SS. Rosario di Venezia. Il capitolo generale dell'ordine, riunito a Roma in quell'anno sotto la presidenza di Benedetto XIV, suo grande amico e sostenitore, inserisce negli atti un elogio del padre Concina, dove fra l'altro si afferma che «vitae suae graviter, sancteque moderabatur».
* Docente di Teologia morale nello Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Salvatore Consoli
Benedetto XIV, in una lettera privata, scrive che Concina, oltre alle qualità di ordine intellettuale, possedeva molte virtù di ordine morale e spirituale. Si dedicava con tenacia e assiduità allo studio della Scrittura, dei Padri come pure delle opere dei teologi e dei filosofi, studio che in certi periodi si protraeva per dodici ore al giorno. Tra i Padri conosceva in modo particolare S. Giovanni Crisostomo e S. Agostino. Lo studio dei Padri gli consentì di assimilarne a tal punto il pensiero e le virtù che alcuni riconobbero, al dire di una biografia, «redivivam in ipso priscorum Patrum imitationem». E' bene portare maggiore luce sulla persona e sull'attività di P. Daniele Concina 1, che non merita di restare dimenticato
I pochi articoli e le molte notizie sul Concina si fondano tutti su De Danielis Concina vita et scriptis commentarius, Typographia Jo. Mariae Rizzardi, Brixiae 1767. Quest'opera, oltre al quadro completo delle notizie biografiche, delle opere e delle varie controversie, dà pure il profilo morale e spirituale del Concina. Al di fuori delle controversie, che costituiscono un capitolo interessante della storia della morale nel secolo XVIII, si dice ben poco sul Concina: il lettore ri1nane con l'impressione che la sua vita passi da una controversia all'altra, come l'uragano da una regione all'altra, ma non sa quale teologia e quali preoccupazioni stanno al fondo di tutte queste lotte. Viene presentato solo come uno dei personaggi principali nella lotta tra gesuiti e domenicani sulla questione del probabilismo (cfr. R. CouLON, Concina Daniel, in Dictionnaire de Théologie Catholique, III, Letouzey et Ané, Paris 1923, coli. 676-707; Th. DEMAN, Probabilisme, ibid., XIII, coli. 417-619). Più recentemente è stato studiato all'interno degli atteggiamenti che si registrano al secolo XVIII nella Chiesa. Hanno scritto in tal senso A. C. ]EMOLO, Il giansenisn10 in Italia prìina della rivoluzione, Laterza, Bari 1928; A. VECCHI, Correnti religiose nel sei-settecento veneto, Istituto per 1a collaborazione culturale, Venezia-Roma 1962; A. PRANDI, Religiosità e cultura nel '700 italiano, Il J\1uiino, Bologna 1966: ma i loro lavori, oltre a non essere esaustivi, tengono presente solo un Concina polemista e apologista e non il Concina teologo. Lo si accetta e Io si condanna soprattutto per il suo rigorismo, ma non è stata ancora sufficientemente studiata la sua concezione di teologia morale. Così conosciuto, Concina è poco conosciuto: più in superficie che in profondità. La conoscenza che si ha è parziale: piuttosto essa riguarda il profilo del probabilismo-rigorismo e apo1
D.
SANDELLUS,
Antropologia e morale in D. Concina
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soprattutto per il suo tentativo di recupero, nel sec. XVII, di ciò che c'è di meglio, nei Padri e nella Scolastica, ai fini del discorso morale. Daniele Concina ha della morale una concezione teologica: le assegna infatti quale scopo il condurre tutti alle vette della santità, quale fondamento la grazia di Cristo, quale oggetto specifico e caratteristico le virtù teologali, che rendono possibile il rnggiungimento della meta 2• La fonte, ovvero i «luoghi», ove va attinta la morale che voglia essere cristiana sono la Scrittura e la Tradizione in senso pieno e vivo - i Padri, il magistero e i santi - 3 • 1.2. L'antropologia illuministica e l'antropologia del Concina Questa ricerca intende individuare i presupposti antropologici che stanno alla base del pensiero morale di Daniele Concina. Scopo di essa pertanto non è dare un giudizio di valore sull'antropologia dell'Autore, quanto piuttosto dimostrare come essa costituisca un presupposto culturale - cioè un apriori - e un impianto metodologico della sua teologia morale. Conoscere il punto di partenza è indispensabile: ogni teologia si fonda ,su un'antropologia; per capire un autore bisogna innanzitutto scoprire la sua concezione antropologica. Nei secoli XVII - XVIII in Europa imperano due atteggiamenti di fondo: quello teologico-spirituale - proprio dell'ago-
logetico che il profilo teologico. Leggendo infatti la bibliografia esistente si ricava l'impressione di un Concina "giornalista" della morale. Se è vero che l'attività polemica non gli ha consentito di sisten1atizzare la dottrina, non è n1eno vero che al fondo delle sue pole1niche sta una precisa concezione teologica della n1orale. 2 Per lo sviluppo di questi argomenti vedi S. CONSOLI, Morale e santità. Metodologia per una morale teologica secondo Daniele Concina, Editrice La Roccia, Rorna 1983; Io., Chiamata di tutti alla santità e vita teologale nella riflessione morale del P. Daniele Concina, in AA.VV., Una hostia. Studi in onore del Cardinale Corrado Ursi, D'Auria Editore, Napoli 1983,
245-275. 3 Vedi il saggio S. CONSOLI, Le fonti per una morale teologica nel pensiero di Daniele Concina O. P., in Sapienza 36 (1983) 40-59.
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stinianesimo, della scuola berulliana e del giansenismo 4 - che sottolinea gli effetti del peccato originale sulla natura umana e la conseguente incapacità dell'uomo; e l'atteggiamento fiducioso nelle forze dell'uomo, proprio della scuola gesuitica e del cosiddetto umanesimo devoto 5 • Queste due concezioni hanno tali conseguenze in capo di teologia morale che, senza tenerle presenti, sarebbe imrpossibile capire tutte le dispute che si registrano in quei secoli. Alla luce di queste visioni fondamentali dell'uomo e della grazia va capita la morale di Daniele Concina. Mentre S. Tommaso per la sua teologia morale parte dall'uomo immagine di Dio: immagine che si deve sviluppare e realizzare attraverso la vita morale; il Condna parte dall'uomo caduto, che deve redimersi e riacquistare la somiglianza con Dio attraverso la vita morale. Sono due visioni ispirate da due atteggiamenti spirituali diversi: dall'ottimismo in S. Tommaso, dal pessimismo in Concina. E ciò non deve meravigliare, perché come giustamente osserva A. C. Jemolo: «In ogni momento della vita del cristianesimo si sono trovate di fronte, in contrasto più o meno deciso, più o meno larvato dalla formula teologica, due concezioni antitetiche dei rapporti tra l'uomo e la divinità, delle forze e delle possibilità umane, della padronanza dell'uomo sul proprio destino mondano ed ultraterreno [ ... ]. Le risposte sono strettamente legate all'indole ed alla sentimentalità dei pochi che in ogni epoca hanno una propria forte od autonoma vita religiosa, strettamente connesse all'ottimismo ed al pessimismo, al senso di floridezza di forza di fiducia o di
4 Cfr. P. Poc1~RAT 1 La spiritualité chrétìenne, III, Gabalda, Paris 1925, 493 s.; IV, VI; H. BnEA·lOND, fli.~loire littéraire du senti1nent religeux en Fr{111cc depuis la fin des guerres de religion jusqu'à nos jours, IV, Biand et Ga~'. Paris 1921, 25-31; L. CoGNET, La spiritualité française au XV/le siècle, La Coloin.bc, Paris 1949, 86-100; A. C. JEJVIOLO, Il giansenis1110 in Italia pri11u1 della rivoluzione, cit., 46, 135 s.; A. VECCHI, ('orrenti religiose nel seise!lecento Peneto, cit., 422-447; G. CACCIATORE, S. Alfonso de' Liguori e il Gia11se11is1110, Libreria Fiorentina, Firenze 1944, 47-56. -' Cfr. A. C. JL\IOLO, op. cit., 10-20; A. VECC!ll, op. cit., 138-139; H. BREJvlONT, op. cit. 17, 72, 116-117. 1
A11tropu!ugio e 111uraf(' in /J. ('onci11a
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stanchezza di debolezza di scoramento che, anteriori ad ogni teologia, sgorgano spontanei ed immediati da ogni animo umano» 6. Tutta la morale del Concina è fondata su una particolare concezione della natura umana da una parte, e sulla rivelazione intesa come antidoto e salvezza dall'altra parte: togliendo l'antropologia verrebbe meno una colonna dell'edificio teologico del nostro Autore. La sua antropologia, e quindi la sua teologia morale, si sviluppa in opposizione ali' antropologia ottimistica dell' illuminismo 7 • Fu proprio del '700 considerare le cose non nel loro stato di corruzione attuale ma nella loro costituzione naturale. In tutte le opere dell'illuminismo, letterarie e filosofiche, l'attenzione è rivolta al problema dell'uomo 8 . L'uon10 in sé è buono: con le sole sue risorse ·può raggiungere la felicità, scoprire la verità e seguire il bene. La corruzione non è frutto del peccato originale bensì delle cattive leggi. L'uomo con le sue possibilità, facendo il debito uso della ragione, può trovare il riYnedio da solo, senza alcuna redenzione dall'esterno, per bandire dal mondo l'ingiustizia e il dolore, e ciò mediante la conoscenza delle leggi e il dominio su di esse. Gli illuministi sono pieni di un ottimismo che si potrebbe definire messianico; il loro ottimismo nasce dalla fiducia nelle forze e nelle capacità dell'uomo, nella possibilità di un continuo progresso e di un miglioramento della specie umana e della società grazie alle invenzioni della scienza a servizio dell'uomo. Questa loro speranza in una "età dell'oro" per la storia umana si fonda sulla fede nella ragione.
A. C. }E.ivlOLO, op. cit., 1-2. Ci si ispira a quanto detto su questo argomento da: V. J. BouRKE, Histoire de la 111orale, Cerf, Paris 1970; E. CASSIRER, La filosofia dell'illuminis1110, La nuova Italia, Firenze 1944; J. LDRTZ, Storia della Chiesa, Ed. Paoline, Alba 1967; G. MARTINA, La Chiesa nell'età dell'assolutis1110, del liberalisn10, del totalitarismo. Da Lutero ai nostri giorni, Morcelliana, Brescia 6
7
1970. s Cfr. A. VECCHI, op. cit., 410 s.
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Negando ogni intervento di Dio nel mondo, l'illuminismo rifiuta la rivelazione e la redenzione. L'ideale dell'illuminismo, il suo vero "Dio" è la natura, ciò che è naturale; così 5i parla di religione naturale, di diritto naturale, di stato naturale: ci si trova in intima opposizione al soprannaturale. L'esagerata considerazione della ragione sfocerà, durante la rivoluzione francese, nella "religione" della ragione 9 • Il peccato originale o viene negato o relegato in secondo ,piano: conseguentemente si cerca di scuotere la tradizione agostiniana su tale argomento: «il pensiero del peccato originale è l'avversario co,rnune, a combattere il quale si uniscono i diversi indirizzi della filosofia illuministica» '°-
Necessità di conoscere la natura u1nana
2.
Condizione indispensabile per un solido impianto della teologia morale è la previa conoscenza della natura umana, delle forze, delle inclinazioni e delle debolezze che essa possiede u Ciò innanzitutto è richiesto dallo scopo stesso che il moralista si prefigge con la sua attività: «Siquidcm munus illius est naturam hanc dirigere, moderari, instrucre, et ad finem quo tendit, ducere. Si autem eiusdem vires, inclinationes, morbos, et ceteras alias eiusdem affectiones compertas non habcat, fungi officio suo nullo 1nodo valet» 12.
Ancora, non potrebbe il moralista esporre in modo adeguato la legge evangelica, evitando gli estremi di un appesantimento o di uno svuotamento, se non conoscesse le forze reali .della volontà umana 13 •
Cfr. G. MARTINA, op. cit., 369-371; J. LORTZ, op. cit., 321. E. CASSIRER, op. cit., 201. li Ad theologia111 christianam dogmatico-moralem apparatus, apua ;:,1monem Occhi, Romae 1751 (d'ora in poi abbr. Apparatus), I, 1. 1, d. 1, c. 1, n. 2. 12 L. c. u Della storia del probabilismo e del rigorismo, dissertazioni teologiche, morali e critiche, nelle quali si spiegano, e dalle sottigliezze dei mo9
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E poi, giacché la medicina si apprezza solo in relazione alla malattia, sarebbe impossibile capire appieno la morale evangelica senza prima conoscere i] malato, l'uomo 14 • Riferendosi <rd Agostino, Concina dice che i pagani, pur essendo coscienti della debolezza umana, ne ignoravano la causa 15 • Se questo induce a scusare i pagani, non altrettanto è da farsi con alcuni cristiani, i quali sono stolti come quel medico che vorrebbe guarire un infermo senza tener conto del male di cui è affetto 16 • L'Autore è convinto che per poter gu1dare effìcace·mente i cristiani è indispensabile conoscere i loro mali, nelia loro entità e nelle loro radici: <(Porro nisi confessarius apprime horum capitalium criminum naturam, indolem, proprietates, et funestissima consectaria penetraverit, nulla curare ratione suos poterit poenitentes; in1mo vitia ipsa fovebit, dum excolere virtutes arbitrabitur. Superbia, inanis gloria, avaritia innumeras externarum virtu· tum formas assumuntii n.
3.
La natura umana
Date le varie accezioni che il termine "natura" ha avuto ed ha presso filosofi e teologi, per evitare fraintesi l'Autore dice cosa lui intende con tale termine: derni probabilisti si difendono i principi fondamentali della teologia cristiana, apud Simone1n Occhi, Lucca 1743 (d'ora in poi abbr. Della storia del probabilismo e del rigoris1110), II, d. 4, c. 6. 14 Della religione rivelata contro gli ateisti, deisti, 1naterialisti, indifferentisti che negano la verità de' 1nisteri, presso Simone Occhi, Venezia 1754 (d'ora in poi abbr. Della religione rivelata), I. 3, c. 13, n. 1: «Fa di mestiere di ben conoscere l'uomo per formare unqi. giusta idea dello spirito caratteristico della Cristiana Morale>>. 15 Apparatus, I, d. 1, c. 1, n. 4: l'Autore cita lib. IV conlr. lui., c. 12, dove Agostino, parlando di M. Tullio, dice che «Rem vidit, causam nescivit [ ... ] quia sacris Iitteris non eruditus ignorabat originale peccatum» (PL 44, 767). 16 Theologia christiana dogmatico moralis, Typographia J. F. Paci, Romae 1749-1751 (d'ora "'in poi abbr. Theologia christiana), VI, diss. prolegomena, c. 11, n. 1. 17 lbid., X, 1. 4, d. 2, praeloquiurn.
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«In praesens accipitur pro libero humano arbitrio, intellectu nempe et voluntate, non exclusis phantasia, et appetitu sensitivo, aliisque affectibus, et propensionibus, quibus homo utitur ad suas exercendas operationes. Immo corpus ipsum naturae nomine comprehenditur: ex varia quippe corporum dispositione, et temperamento, ex diversitate aetatis, sexus, sanitatis, varii animi affectus, et motus dimanat» 18 •
Il Concina ha della natura umana un concetto abbastanza comprensivo e reale: una concezione non quidditativa ma esistenziale; non astratta ma concreta. Non si limita a considerare la condizione spirituale dell'uomo, ma anche quella corporea, sottolineando il ruolo che hanno le condizioni biopsichiche e caratteriali. La sua è dunque una concezione totale dell'uomo.
4.
La natura umana nello stato decaduto e sue capacità
Nei secoli XVI - XVII l'agostinianesimo, il baianesimo, la scuola gallicana di spiritualità nonché il giansenismo hanno una visione piuttosto tragica del peccato originale e, accentuando i suoi effetti negativi e mettendo in rilievo il niente dell'uomo, fanno emergere il tutto che è la grazia 19 • Senza volere minimamente stabilire il tipo o il grado di dipendenza, dobbiamo riconoscere che il nostro Autore ha lo stesso atteggiamento. Egli irrfatti guarda l'uomo caduto con incubo, data la drammaticità del suo stato: «Serio meditare quam for1nidandum, tremendumque mysterium sit homo super terram» 20.
,
E descrive tale stato con immagini tragiche. La prima è quella del soldato in mezzo ai nemici, che insidiato da ogni parte, non ha mai tregua: «Miles est in ca1npo hostium circumdatus multitudinc. Conflic-
rn Apparatus, ibid., n. 1. 19
20
Per la bibliografia vedi le note 4 e 5. Theologia chrisliana, VI, diss. prolegomena, c. 10, n. 4.
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tus perpetuo absque indugiis, insidiae, proditiones, certamina sine intermissione» 21.
Ma più drammatica è l'immagine della nave: «Navis est in medio mari, hinc procellis, fluctibus, turbinibus, illinc piratis, proditoribusque exagitata. Fremente aquarum strepitu, coelum obnubilatum tonitrua, fulgura, sagitasque jagulatur. Fausto sidere constante, recta portum versus tendit, at perpetuo subiecta naufragii peri culo» 22.
Sottolinea che l'uomo in questa condizione è tra la gloria e la perdizione 23 ; non può essere mai sicuro perché: «Et, dum portu potiri coelumque tenere credit, en irae Iibidinis, vindictae turbinem, qui navem submergit; aetemoque naufragio periciitatur homo, perpetuis suppliciis cruciandus» 24 •
Accanto a questa descrizione globale Concina ce ne dà un'altra più dettagliata, analizzando tutte le conseguenze del peccato originale nell'uomo. Se dello stato di innocenza caratteristica era l'armonia tra l'uomo e Dio e tra le varie parti nello stesso uomo - , dopo il peccato ne è l'assenza. L'uomo era sottomesso a Dio, ma «In mezzo agli splendori di sì eccellenti doti, e di una vita sì tranquilla e gioconda si accende un'orgogliosa compiacenza della propria grandezza, ed una specie di indipendenza, ed uguaglianza col supremo Sovrano, che lo precipita nel peccato di ribellione» 25.
A questa rottura di sottomissione ne segue un'altra all'interno dell'uomo stesso: le passioni si rivoltano contro la ragione, la carne contro lo spirito, l'uomo è diviso e la primitiva armonia si è mutata in guerra atroce 26 • L. c. L. c. 23 L. c.: «Splendidissimam supra adspectat coronam, regale diadema, amplissimum irnperiurn, felicitatem sen1pitemam. Infra respicit flammarum voraginem, sulphuris torrentem, fletus, ululatus, aerumnas, tormenta infinita». 24 L. c. 25 Della religione rivelata, Le.; cfr. anche Apparatus, I, d. 1, c. 6, n. 3. 26 L. c.; cfr. Apparatus, i.e. i1
22
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C'è dell'altro: l'uomo resta profondamente ferito dal peccato. Oltre alla ferita dell'intelletto, la cui conseguenza è l'ignoranza in tutte le sue manifestazioni 27 , ve n'è un'altra: «[ ... ] è l'anzore disordinato, ed impetuoso della volontà verso il ben proprio apparente, vale a dire verso la vanità, grandezze, e ricchezze, di questo mondo [ ... ]» 2s.
Questa ferita è una delle più gravi: appoggiandosi a S. Agostino 29 , l'Autore· vede questo amore disoICdinato come la scaturigine di tutti i mali 30 • La terza ferita è la libidine, cioè «il desiderio ardente della voluttà e del piacere nella parte sensitiva» 31 : l'appetito concupiscibile e quello irascibile ormai non sono un aiuto per l'uomo bensì due nemici domestici 32 • La maggior parte degli uomini comunemente è irretita da due mali, dalla concupiscenza della carne e dalla cupidigia delle ricchezze: sono due mali mortali di cui l'uomo difficilmente riesce a liberarsi 33 •
l7 Apparatus, ibìd., n. 4: qui l'Autore, seguendo S. Agostino, enumera quattro "piaghe" di questa ignoranza: 1) ignoranza delle cose necessarie a conservare la vita; 2) l'imbecillità; 3) difficoltà ad acquistare la scienza; 4) incostanza della nostra mente; cfr. anche Theologia christiana, VI, diss. prolegomena, c. 11, n. 1; Della storia del probabilismo e del rigorismo, d. 4, c. 6, par. 1, n. 3. 2s De' teatri antichi e moderni contrarj alla professione cristiana libri due del P. Daniele Concina dell'Ordine dei Predicatori in confenna delle sue dissertazioni De Spectaculis theatralibus alla Santità di N. S. Benedetto XIV, Eredi Barbiellini, Roma 1755 (d'ora in poi abbr. De' teatri moderni), I. 1, c. 2, par. 1, n. 4. 29 S. Agostino in De Civ. Dei, I. 22, c. 13, dopo avere ampiamente e dettagliatamente analizzato i mali e i peccati degli uomini afferma: <<Verum haec hominu1n sunt mala, ab illa tamen erroris, et perversi amoris radice venientia, cum qua omnis filius Adam nascitur» (PL 46, 776). 3o Apparatus, I, d. 1, c. 6, n. 6. 31 De' teatri 1noderni, l.c.; cfr. anche Della storia del probabilismo e del rigorismo, l.c. 32 Apparatus, ibid., nn. 7-8. 33 In epistolam encyclicam Benedicti XIV adversu.s usuram commentarius quo illustrata doctrina catholica Nicolai Broeders."en ac aliorum errores refelluntur, ex Typographia Palladis, Romae 1748 (d'ora in poi abbr. In epistolam Benedicti XIV), d. 1, c. 1, n. 1: «Duo sunt vitiorum genera
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A questa interna divisione e a queste ferite si aggiungono le tentazioni del demonio e del mondo: «a questo interno offuscamento di mente e crudele conflitto tra gli appetiti e volontà, una guerra esteriore aggiugnesi dal Mondo suscitata, e dal Demonio)> 34,
Il mondo dal Concina è visto in una prospettiva negativa: non solo non ha dei valori, ma costituisce un pericolo per l'uomo; più che luogo per la realizzazione, è una tentazione; l'uomo deve chiedersi non come stabilirvi la sua dimora quanto piuttosto come fuggire da esso al più presto possibile e in modo immune. Ma cos'è questo peccato le cui conseguenze pesano tanto sull'umanità? Qual è la sua natura? L'Autore fondandosi sulla Scrittura, sui Padri e in modo particolare su S. Tommaso dice che il primo peccato è stato un peccato di superbia: {{bonum porro spirituale quod appetiit Adam, non potuit esse terminus, seu obiectum superbiae, nisi quatenus in ejus amore servata mensura non est quarn divina regula praestituit; sed ea contempta reiectoque omni limite, concupitum bonum spi-. rituale fuit [ ... ] proprium bonum praeter confinia et mensu~ ram a Deo praefinitam appetiit>) 35.
Il peccato è un atto di autarchia, un andare al di là dei confini fissati da Dio. Adamo infatti non volle tener conto della regola o norma fissata dalla parola di Dio. Il peccato dell'uomo è proprio il non volere essere soggetto a Dio, il voler essere autosufficiente, il volersi costruire da se stesso la propria vita. Nelle sue opere Concina insiste molto sulla superbia. La considera fonte di tutti i peccati: è il peccato più grave, perché, mentre con gli altri peccati l'uomo si allontana da Dio o per affinitate summa devincta, concupiscentia nempe carnis, et divitiarum cu~ piditas, quibus maxima hominum pars semel irretita, et veluti dementata raro inde emergit, sed compedes in dies sibi aggravat, et vulnera vulneri~ bus adjicit, donec omni ex parte sauciata, mortaliter aegrotet, aeternumque demum periclitetur)>. 34 Della storia del probabilismo e del rigorismo, l.c. 35 Apparatus, I, d. I, c. 4, n. 3.
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ignoranza o 'Per debolezza, con la superbia non vuole sottomettersi a Dio e alla sua legge 35 • Da qui la sua critica a quei casisti . e a quei confessori i quali, mentre trattano a lungo dei peccati della carne e della gola, parlano solo per transennam della superbia, nonostante che «hoc est crimen cuius a nostro protoparente ex asse heredes instituti sumus; hoc est omnium peccatorum ·principium et cap,ut» 37 • E' pertanto impossibile curare gli altri mali - i vizi e i peccati - lasciandone intatta la radice, la superbia 38 • Quali le capacità dell'uomo caduto? Cosa riesce a fare? L'Autore avverte che bisogna evitare due scogli, Pelagio che attribuisce tutta l'osservanza della legge al solo libero arbitrio - e Lutero, Calvino e Giansenio - secondo i quali il libero arbitrio è stato estinto dal peccato originale - 39 • Secondo il Concina: «L'uomo per lo peccato originale ferito, ad un infermo appunto rassomigliato egli viene, che sebbene la vita possiede, nondimeno le opere dell'uomo sano non può effettuare>> 40.
Riconosce all'intelletto la capacità di conoscere qualche verità e alla volontà quella di compiere qualche opera buona senza l'aiuto speciale di Dio: 36 Theologia christiana, X, I. 4, d. 2, c. 1: l'Autore cita S. Tommaso «superbia habet aversionem a Deo ex hoc ipso quod non vult Deo, et eius regulae subjici. Unde Boetius dicit, quod cum omnia vitia fugiant a Deo, sola superbia se Deo opponit)} (II-Ilae, p. 162, a. 6). 37 Jbid., c. 2, monitum. Js L. c. 39 Della storia del probabilismo e del rigorismo, II, d. 4, c. 6, par. 1, n. 1: «E primamente dobbiamo due scogli scansare sempremai in questa materia. L'uno de' pelagiani, l'altro de' Luterani, Calvinisti, e Giansenisti. Tutta la osservanza della legge al solo libero arbitrio attribuisce Pelagio. Al più come utile ammette, non giammai come necessario, il soccorso della djvlna attuale grazia. Lutero, non solarnente tutto leva all'arbitrio, ma nella originai colpa estinto lo vuole, di cui il nome solo, ed il titolo in noi sia rimasto. A Lutero si avvicina Calvino, il quale sebbene l'arbitrio confessa, forzato però, e necessitato lo vuole dalla divina grazia. A Calvino unisconsi i Giansenisti, le ereticali dottrine de' quali dalla Chiesa con~ dannate a tutti palesi sono». 4-0 L.c.
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({Peccatum autem Adae [ ... ] naturam nostram non destruxit: naturalia laesit non surripuit. Vivit enim, tametsi vulneratum, arbitrium liberum. Ergo aliquod bonum rationis sibi proportionatum velle potest [ ... ] et intellectum aliquod verum cognoscere, et voluntatem aliquod bonum velle passe absque speciali Dei auxilio» 41.
Opponendosi a Baio - secondo cui tutte le opere degli infedeli sono peccati e le virtù dei filosofi vizi 42 - , dice espressamente che con le sole forze della natura e l'aiuto generale di Dio l'uomo può compiere qualche opera buona: «S. Augustinus [ ... ] distinguit opera quae ad Deum, seu quae ad vitam aeternam viam sternunt, et ducunt; et opera quae ad praesentem attinent vitam. Priora nec inchoare, nec perficere homo valet viribus suis sine speciali Dei auxilio. Posteriora vero po test solo· Dei generali concursu [ ... ]. Porro haec opera, iuxta regulas rationis peracta, moraliter bona sunt» 43•
Ma l'Autore soggiunge che l'uomo non può conoscere tutte le verità di mcdine naturale; che all'offuscamento della mente segue lo sviamento della volontà; che senza la grazia non può vincere le gravi tentazioni ed evitare il peccato e nemmeno amare Dio come autore della natura 44 • E aggiunge: «Se il pervertimento dell'armonia degli appetiti è sì sregolato: se le tenebre della mente sono cotanto dense, che lo stesso conoscimento delle naturali verità Morali, e il conseguimento del bene ci impediscono; quale sarà la cecità nostra, quale l'impotenza per conoscere il vero ed amare il bene dell'ordine superiore? Neppure un passo in questa via celeste noi possiamo avanzare senza il soccorso del nostro clementissimo Redentore» 45•
Apparatus, I, d. 1, c. 7, n. 6. Propp. 25 e 26 (DS 1925). 43 Apparatus, ibid., n. 11. 44 Della storia del probabilismo e del rigorismo, ibid., n. 6. 45 Jbid., n. 7. Leggendo il pensiero dell'Autore sul peccato originale appare chiaro l'influsso di S. Agostino: le continue e lunghe citazioni delle opere del Santo stanno a confermarlo (cfr. ad es. Apparatus, I, d. 1). E' innegabile la sua visione pessimistica sulle condizioni dell'uomo; il suo rifarsi al pensiero scolastico e all'insegnamento comune sembra solo formale più che sentito. 41
42
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L'Autore ha esagerato - e lui ne è cosciente - nella analisi della situazione attuale della natura umana a scopo pedagogico: il male fa apprezzare il rimedio; la coscienza dell'irnfermità spinge a chiedere nella preghiera gli aiuti necessari 46• La sua analisi non è fine a se stessa: lo studio dei mali dell'uomo e delle loro radici ha senso solo in vista dei rimedi da apportarvi 47 •
La morale evangelica a salvezza dell'uomo decaduto
5.
L'Autore, a più riprese e in contesti diversi, afferma che la morale evangelica ha di mira la riforma dell'uomo attuale, corrotto e -debole: <(Nulla v'ha di più contrario al senso, alla carne, alla libertà degli appetiti sregolati, quanto la legge evangelica, per essere legge tutta celeste, e divina, imposta da Dio appunto per frenare la concupiscenza, sommettere alla ragione la rebellione delle passioni umane)} 48.
Anche nell'opera Della religione rivelata, dopo aver descritto ai non credenti le linee fondamentali e specifiche della morale evangelica, si preoccupa di rapportarla esplicitamente all'uomo caduto: «Ben conosceva il nostro Divino Maestro la infermità nostra per poter riformare ad un sì alto disegno il tenore dei nostri costumi» 4".
E, sempre nella stessa opera, afferma chiaramente che la morale evangelica si oppone alle passioni e al disordine presenti nell'uomo a seguito del peccato: ((Questa Morale di Gesù Cristo crocifigge la nostra carne, mette freno alle passioni nostre più impetuose, toglie il disordine
Jbid., n. 6. Apparatus, I, d. 1, c. 4, n. 4: «Sat mihi in praesentia est, malorum quibus humana natura laborat, radicem, et principium patefecisse, ut heinc, quae curandae infermitatì medicina sit applicanda, constet)). 4il Della storia del probabilismo e del rigorismo, I, d. 1, c. 1, par. 2, n. 6. 49 Della religione rivelata, I. 3, c. 7, n. 3. 46
~7
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introdotto dal peccato, e vi introduce la obbedienza degli appetiti alla ragione, della ragione a lddio, e cambia l'uomo carnale, e sensuale in uomo spirituale, e divino» so_
La morale evangelica quindi si pone come principio umt1vo per tutto quello che il peccato aveva diviso - l'uomo da Dio e l'uomo in se stesso - e vuole introdurre al posto della legge della carne - dovuta sempre al peccato - la legge dello spirito; e questo per una trasformazione radicale dell'uomo, da carnale e sensuale in s,pirituale e divino. L'Autore, oltre a considerare il vangelo globalmente preso come antidoto alla natura umana corrotta anch'essa globalmente vista, cerca di analizzare ciascuna norma e precetto evangelici in rapporto ad una debolezza o passione o disordine dell'uomo caduto. Così ad esempio vede la povertà evangelica quale antidoto della cupidigia. Giacché la cupidigia è fonte di tanti inali, e come radice penetra tutti i meandri dell'animo umano, Cristo per strappare tale radice oltre al consiglio di povertà ci dice, per mezzo di Luca 51 , le mete da raggiungere e il modo di procedere, perché non rinasca la cupidigia e non ci sia possibilità alcuna di essere ingannati 52 . Ma la nostra natura accetta quest'antidoto, cioè la legge evangelica? Non facilmente, risponde l'Autore, anzi cerca di scrollarsene a qualsiasi costo:
so Jbid., n. 2; cfr. pure Della storia del probabilismo e del rigoris1110, I. c. 51 L'autore allude ad At 3. s2 Disciplina apostolico-1nunastica dissertationìbus theolugicis illustrata, et in duas partes tributa; in quarun1 prin1a, de voto pauperfatis vita communi circu111scripto; in altera, de caeteris eiusden1 disciplinae praecipuis capitibus disserifur. Accedunt selecta quaedam veterum thcologorum monumcnta, ex Typographia Belleoniana, Venetiis 1739 (d'ora in poi abbr. Disciplina apostolico-1nonastica), pars 1, d. I, c. l, n. 3; cl'r. pure Esposizione del dogma che la Chiesa Romana propone a credersi intorno l'usura, colla confutazione del libro intitolato: Del!'! n1piego del danaro, presso Simone Occhi, Napoli 1746 (d'ora in poi abbr. Esposizione del dogma), 1. 3, c. 7, n. 4, dove l'Autore mette in stretto rapporto i due precetti evangelici, la fornicazione e l'usura, con la condizione dell'uomo caduto.
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«Di qui nasce una veemente inclinazione di scuotere il giogo di questa legge. Dentro di noi il nostro amor proprio si fa interprete della legge, e qual eloquente e sagace avvocato la persuade a raddolcire il rigore, ad estenuare la obbligazione, e con mille artifizj uniformarla al genio delle proprie brame>> sJ.
La teologia lassa del tempo ha, secondo Concina, le radici in questa insofferenza della natura umana nei confronti della legge evangelica. Essa infatti difende come lecito e santo tutto ciò che risponde alla natura, ne asseconda le brame e le passioni 54 • Da qui le lotte contro coloro che difendono la legge evangelica e cercano di assoggettare ad essa gli appetiti umani 55 • Solo in questa luce si può capire a fondo l'accanita lotta che il Concina ha sferrato contro il probabilismo: l'Autore vede in esso la giustificazione della rivalsa della natura corrotta sulla legge evangelica; il satanico tentativo di rendere inutile la legge evangelica, svuotandola del suo contenuto. Questa sua · convinzione appare ad evidenza nella preghiera che, a chiusura della sua opera sulla storia dcl probabilismo, rivolge a Gesù Cristo: «Da tanto tempo hanno tentato gli uomini di conformare questo giogo alla carne, a' sensi, agli appetiti. Hanno moltiplicato volumi immensi di opinioni dirette e riflesse, putative e reali per sortire cotesto accomodamento. Ecco, o Signore, il vero, ed unico soggetto delle tante dispute, delle tante guerre teologiche, che ardono tra' seguaci Vostri. Si vorrebbe rendere la vostra Croce piacevole agli appetiti, e confacevole a' sensi la via da Voi calcata. E perché questa è una chimera, un evento direttamente impossibile, quindi è, che si compongono volumi di riflessioni probabilistiche per rendere possibile I 'impossibile. Questa sola considerazione dovrebbe bastare, o Sapien-
53
Della storia del probabilis1110 e del rigoris1110, I.e.
54
L. c.: «Tutto ciò, che facilita il piacere, per santo si difende, e per
giusto: 'Sanctum est, quod volumus', cotne osservò acutamente Agostino, Per quanto noi ci industriamo di scoprire queste sottilissime arti di giustificare ciocché torna a nostro vantaggio, e di penetrare dentro gli ultimi semi del nostro animo tutto intento a dilatare la libertà del nostro vivere, non mai arriviamo al fondo». 55 L. c.
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za Incarnata, per farci conoscere, quanto vane, e quanto fallaci, e seducenti sono le opinioni inventate per alleggerire il Vostro giogo, e per seminare di piaceri, e di trastulli la spinosa Via del Calvario» 56,
Non solo la legge evangelica, ma anche la legge della Chiesa è vista dall'Autore in rapporto allo stato attuale dell'uomo corrotto. La Chiesa per raggiungere lo scopo - la trasformazione dell'uomo - , cerca e offre mediante la sua legislazione degli antidoti, delle medicine per curare i mali dell'uomo. La natura corrotta però non accetta la legge della Chiesa, anzi ne cerca la prevalsa, allo stesso modo che per la morale evangelica 57 • 6.
La grazia e l'uomo caduto
Per gli illuministi la salvezza non può venire dall'alto ma deve venire dallo stesso uomo. Il loro deismo infatti pur ammettendone l'esistenza nega qualsiasi intervento di Dio nel corso della storia 58 • Rousseau ad esempio è convinto che come la colpa appartiene "al di qua" così pure la sua redenzione e liberazione -va compiuta dall'uomo stesso e non attesa invano dal di fuori 59 • Di simile parere sono gli autori della Enciclo-
pedia"'. Per il nostro Autore invece, trovandosi l'uomo irretito dal male internamente ed esternamente, la salvezza non gli può venire che dall'esterno, dal'l'alto dci cieli"- Il Cristo infatti vie56 Op. cit., c. ultimo, {(A Gesù Cristo, via, verità e vita)). -"'7 Un esen1pio evidente sul con1e l'Autore rapporti il suo discorso all'uomo decaduto si trova in tutte le opere nelle quali egli espone la legge ecclesiastica del digiuno: si veda ad es. La disciplina antica e rnoderna della Ru111ana Chiesa intorno al sagra quaresil11ale digiuno espressa ne' due hrevi 'Non t1111!Jigirnus' e 'In supre1na' del regnante so1nmo pontefice Benedetto XIV, illustrata con osservazioni storiche, critiche e teologiche, appresso .Simone Occhi, Venezia 1742 (d'ora in poi abbr. La disciplina t1ntica e 111oderna). ss Cfr. J. LoRTZ, op. cii., 321 s. 59 Cfr. E. CASSIRER, op. cit., 222-223; V. J. BOURKE, op. cit., 233-235. w Cfr. J. LORTZ, op. cii., 328 s.; G. MARTINA, op. cit., 396 s. 61 Della storia del probabilis1no e del rigorismo, d. 4, c. 6, par. 1, n. 3.
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ne per dare all'uomo «soccorsi interni ~he rinforzano la natia debolezza, ed esterni, che illuminano, e dirigono a camminare per lo diritto sentiero» 62 • Per Concina l'uomo è tutt'altro che autosufficiente, è un essere molto debole e, a vive immagini, lo presenta bisognoso dell'aiuto di Dio: «Ci vuole Iddio con tratto della sua infinita sapienza così infermi, come siamo, languidi, e piagati da ogni parte, per tenerci nella felice necessità di stare sempre mai quai mendici al nostro dovizÌoso padre; quai infermi al nostro divino medico, quai servi al nostro onnipotente Signore attaccati, e congiunti, implorando da Lui grazie, ajuti, e sussidj per poter combattere contro i nostri potenti nemici, demonio, mondo, e carne)) 63.
Concupiscenza e peccato, segni v1v1 della sua debolezza, sono strumenti provvidenziali perché l'uomo si mantenga in u.n atteggiamento di ricorso a Dio &1_ Ma l'aiuto di Dio è del tutto indispensabile nell'ordine soprannaturale: fondandosi sulla Scrittura - «sine me nihil potestis facere» (Gv 15,5) e «sufficientia nostra ex Deo est» (2 Cor 3,5) - afferma senza esitare che «neppure un 'passo in questa via celeste possiamo noi avanzare senza il soccorso del nostro clementissimo Redentore)) 65 • La vita cristiana sarebbe impossibile senza la grazia: solo essa rende possibile l'osservanza della legge evangelica: «[ ... ] per adempiere la legge cristian.1 co111c conviene, è necessaria la grazia di Dio; che questa grazia rende alla debolezza pratican1cnte osservabile la leggc1) 66.
Della religione rivelata, ibid., n. 2. De' teatri 1noderni ibid., n. 5. M L. c.: «[ ... ] con tratto di providcnza ineffabile ha voluto lasciarci sotto il giogo di tante calamità, affinché se nel prin10 uomo lo splendore della sua grandezza gli fu occasione d'insuperbirsi, la esperienza non interrotta delle nostre infermità sia una continua rimernbranza di profonda un1iltà, cd uno stimolo pungente a chiedere il necessario ajuto per non perire tra lante angustie. Sicché la povertà e n1alattia, in cui ci ha lasciati, servono a conservarci sempre uniti al nostro divino 1\iedico, da cui unicamente la nostra guarigione dipende, e la nostra salute)). os Della storia del probabilisn10 e del rigoris1110, I.e.; cfr. pure De' teatri moderni, I.e. 66 L. c. 01
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L'Autore infatti è convinto che «la Morale evangelica è certamente su,periore alle umane forze» 67 • Da ciò si vede come per il Concina la morale non è un'etica fondata sulle forze naturali dell'uomo, che ha come scopo il raggiungimento della bontà naturale, ma una legge divina, che si fonda sull'uomo elevato e divinizzato nel Cristo, che ha come scopo Io sviluppo e la perfezione della figliolanza divina. La superiorità della morale evangelica la dimostra il fatto che nessuno di quelli che vivono fuori della Chiesa ha raggiunto mai il grado di moralità proprio della morale cristiana 68 • Con la grazia del Cristo non solo viene superata la sproporzione tra le forze dell'uomo e le esigenze del vangelo, ma addirittura l'osservanza ne diviene d@lce e soave 69 • Opponendosi ai moralisti del tempo e in modo esplicito ad Antonio Sirmondo, a Tommaso Sanchez, a Tommaso Tamburino e ad Antonio Escobar 70 che, interpretando falsamente l'affermazione evangelica la legge è soave, cercavano di ridurre le esigenze della legge evangelica, l'Autore insiste nel dire che la legge è soave solo per l'aiuto che dà la grazia: {<Noi in poche parole rispondiamo, che la legge evangelica è · dolce, benigna, e soave, perché, se impone obblighi austeri, e virtù sublimi, e precetti contrarj alla carne, alle passioni; concede insieme una celeste unzione, una grazia divina, che rende non solo possibile, ma facile, e soave la osservanza di tutti e quanti i comandamenti» 71 •
La concezione che lAutore ha della grazia appare dagli aggettivi con i quali la suole qualificare. E' frequente infatti trovare nelle sue opere espressioni come «onnipotente grazia» 72 , «la grazia efficace, e trionfatrice di Gesù Cristo» 73 ; ed è tale Della relìgione rivelata, 1. 3, c. 19, par. 1, n. 1. L. c. 69 L. c.: «Ma se il giogo di questa Morale è superiore alle naturali forze degli omeri umani, egli diviene proporzionato, dolce, e soave per le forze, che somministra la grazia efficace e trionfatrice di Gesù Cristo». 10 Della storia del probabilismo e del rigorismo, II, d. 4, c. 5. 11 lbid., c. 6, par. 2, n. 8; cfr. pure i nn. 2 e 6. n De' teatri moderni, l.c. 73 Della religione rivelata, l.c. 67
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perché per mezzo di essa noi siamo uniti «al Dio delle armate, delle vittorie, e dei trionfi» 74 ; essa rende la volontà talmente «rigorosa, e robusta» 75 che può intraprendere «con invincibile coraggio» 76 le imprese più ardue. L'Autore, senza nominarli esplicitamente, critica L. da Molina, F. Suarez e le loro rispettive scuole che parlano di grazia versatile e di grazia congrua 77 e chiaramente afferma che secondo la Scrittura e i Padri, la grazia è di sua natura efficace, altrimenti avremmo l'assurdo che il primo determinante all'a;zione non sarebbe Dio ma la volontà umana 78 : attribuisce alla volontà solo una capacità di concorso al bene, ma le nega chiaramente la determinazione al bene che appartiene solo a ;Dio.
Con S. Agostino 79 , l'Autore si meraviglia di coloro che pongono l'efficacia della grazia nella debolezza umana, anziché nella onnipotenza della bontà divina: «La volontà dell'uomo sarà quella, che determinerà la indifferenza dell'ajuto celeste? Non sarebbe in questo caso la creatura il primo determinante? Perché costoro non possono comprendere il modo impenetrabile, onde lddio muove, e determina la volontà, per questo ardiscono di negare le verità più luminose delle Scritture, e dei Padri, cioè dire che lddio è il primo determinante: che Iddìo è la sorgente di ogni perfezione, per conseguenza di ogni determinazione: che l'efficacia della grazia da Dio onnipotente, non dalla creatura debole inferma, e per ogni parte ferita deriva? Io resto sorpreso dallo stupore, dice S. Agostino, che si trovino uomini cotanto prevenuti, i quali vogliono riporre la efficacia della grazia più tosto nella debolezza, e gravissima infermità della umana volontà, che non nella onnipotenza della divina bontà» 80•
La grazia in nessun modo può essere determinata dallo uomo: si avrebbe che la potenza sarebbe condizionata dalla 74
75 76 77
78 79 80
lbid., 1. 3, c. 7, n. 2. Della storia del probabilismo e del rigorismo, d. 4, c. 6, L. c. Della religione rivelata, ibid., n. 3. Jbid., nn. 10-11. De persev., 17 (PL 45, 1018-1022). Della religione rivelata, ibid., n. 16.
pa~»
1, n. 7.
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impotenza e l'uomo potrebbe vantarsi di costituirsi con la sua libera determinazione nello stato di salvezza 81 • Se è chiaro che la grazia divina riceve la sua determinazione ed efficacia, per cui è vittoriosa, non dall'infermità dell'uomo ma da Dio stesso 82 , è altrettanto chiaro però che l'uomo, anche sotto la grazia la più efficace e sotto la dilettazione la più vittoriosa, conserva sempre una indifferenza attiva al bene e al lffiaie 83 • Alla classica difficoltà sul come accordare la grazia di sua natura efficace - con l'indifferenza del libero arbitrio Concina risponde che si tratta di «Un arcano superiore alla umana capacità» 84 • Ciò è dovuto all'insufficienza della mente umana: infatti se si difende il libero arbitrio, pare che si .venga a negare la grazia; se invece si sottolinea lefficacia della grazia, pare che venga a distruggersi il libero arbitrio 85 • Non si deve dimenticare che per capire il modo di agire di Dio si dovrebbe poter comprendere Dio, cosa impossibile alla creatura 86 •
BI L. c.: «Se due anime provedute della medesima grazia versatile, e collocate nelle stessissime circostanze, l'una determinasse la grazia, e l'al~ tra la rifiutasse, non potrebbe quella vantarsi contra di questa di essersi con la sua libera determinazione costituita in istato di salute? Se la grazia divina fosse versatile, determinabile dalla umana libertà, lddio non potrebbe, ancorché volesse, salvare un peccatore, quando il peccatore non volesse determinare la grazia versatile: e così la creatura potrebbe rendere frustranea la divina onnipotenza». 82 Jbid., n. 18. 83 L. c. " Jbid., n. 8. 85 L. c. 86 Ibìd., n. 13: «La maniera con cui Dio opera in noi, ci è incognita. Noi non possiamo comprendere il modo fisico con cui Dio opera nelle creature prive di libertà, e poi vogliamo comprendere il modo, con cui opera nelle creature libere? Se noi conoscessimo il modo, onde Iddio determina la nostra volontà, allora comprenderemmo la concordia della nostra libertà con la sua determinazione: ma perché ci è incognito questo modo, per questo ci è occulta questa concordia. E quelli che pretendono di comprendere questa concordia, presumono di con1prendere il modo onde Dio opera: e chi pretende di comprendere questo modo, presume di comprendere Iddio: perché lddio, solo da Iddio può essere compreso:
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E' proprio in questa concezione della grazia che ha fondamento la visione teocentrica della teologia morale del Concina. Miseria dell'uomo da una parte e primato di Dio dall'altra sono le due colonne su cui !'Autore costruisce tutta la sua teologia morale: con questa luce si comprende il posto che egli dà nella vita morale .del cristiano all'umiltà e alla preghiera.
7.
Conseguenze della grazia: umiltà, preghiera e recidivi
Quali le conseguenze nella espos1z10ne scientifica della teologia morale della antropologia teologica dell'Autore? La sua concezione della grazia resta un problema a sé oppure ha degli sviluppi nell'impianto ·della morale in genere e nello sviluppo dei temi particolari? Si tratta di esaminare il pensiero metodologico del Concina su questo argomento. A tal fine sono chiarificatori tre problemi: l'umiltà, la preghiera e il caso dei recidivi. L'Autore presenta l'umiltà non come una delle tante virtù cristiane, ma come il fondamento di tutta la vita cristiana 87 • Per capire a fondo tale affermazione bisogna tener presente che per Concina la morale cristiana ha il compito di rifare l'uomo distrutto dal peccato originale, per cui alla superbia, causa e segno di tale peccato, deve contrapporsi un atteggiamento di umiltà: «Superbia est illud originale peccatum, quod Dea principatum eripere pertentavit, et constitutum ordinem interturbavit. Humilitatis virtus antidotum unicum est superbiae, quae in omnibus peccato originali infectis dominatur, comprimendae op~ portunum et necessarium>) ss.
Come la superbia fu per l'uomo l'inizio del suo allontanarsi da
e se il modo, con cui opera lddio, fosse compreso dalle creature, Iddio non sarebbe lddio, ma creatura». a1 Apparatus, I, d. 2, c. 6, par. 2, n. 2. 88 Theologìa christiana, IX, 1. 2, d. 1, c. 5, par. 2, n. 12; cfr. pure Della religione rivelata, 1. 3, c. 13, par. 2, nn. 1 e 4.
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Dio, e quindi della sua rovina, così l'umiltà è l'inizio del suo avvicinarsi a Dio, e quindi della sua salvezza. L'Autore, fondandosi sul Nuovo Testamento e sui Padri, dimostra la necessità dell'umiltà per la salvezza eterna 89 , dato che il «vizio predominante in tutti gli uomini egli è la superbia» 90 , tanto pericoloso quanto occulto e insidioso. Ad esso - che è l'origine di tutti i peccati 91 - l'umiltà fa da antidoto e da medicina «tanto più amara e difficile da sorbirsi, quanto è più violento, e don1inante il rnor,bo, cui ,dee cacciare» 92 • L'umiltà, virtù esercitata dal Cristo e quindi da tutti i cristiani che sono chiamati ad imitarlo 93 , è indispensabile per restare uniti a lui 94 • Il cristiano che nel Battesimo ha rinunziato al demonio e alle sue opere non deve dimenticare che fra queste al primo posto c'è la superbia 95 , onde l'esortazione: «Recogita ergo, o Christiane, num revera opera superbiae renuntiaveris, num humilitatis spiritum, nempe Christum Dorninum, intueris; alioquin fallax est renuntiatio tua, mendax est professio tua))%.
Compiti principali dell'umiltà sono «il primo di sommettere l'uomo a Iddio; il secondo di abbassare l'uomo sotto gli altri uomini» n. Il cristiano potrà acquistare la vera umiltà attraverso la contemplazione dell'uomo caduto 98 , della propria infermità e miseria 9'.ì, e soprattutto attraverso la considerazione che quanto abbiamo di buono e quanto di bene riusciamo a compiere lo
" Ibid., X, I. 4, d. 2, c. 2, nn. 1 - 4. Della religione rivelata, ibid., n. 1. 91 Theologia christiana, ibid., monitum. 92 Della religione rivelata, ibid., n. 4. 93 Jbid., c. 14, n. 7. 94 L. c. 95 Theologia christiana, VIII, 1. 2, d. 1, c. 17, n. 4. 90
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CJ7 98
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L.c. Della religione rivelata, 1. 3, c. 13, par. 2, n. 5. Apparatus, I, d. 1, c. 7, n. 1. /bid., I, d. 2, c. 6, par. 2, n. 4; Theologia christiana, X, 1. 4, d. 2, c.
2, n. 6.
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dobbiamo alla gratuita misericordia di Dio "", nonché con la constatazione che abbiamo maggiori peccati degli altri 101 • Non dimenticando che l'Autore riallaccia l'umiltà all'antropologia, si comprende la sua convinzione che la grazia, la quale rende possibile la salvezza, Dio la concede solo agli umili: «Senza la grazia è impossibile la eterna salute. Questa grazia la nega Iddio ai superbi, e la concede ai soli umili. Adunque è uguale alla necessità della divina grazia la necessità della evanm gelica umiltà p~r salire in Paradiso» 102.
Da quanto precede risulta ovvio che il Concina giudichi insipienti i casisti che trattano poco e della superbia - portando la scusa che raramente si può peccare mortalmente di superbia - e dell'umiltà - lasciandola agli autori di mistica - , pensando che essa non sia necessaria a tutti i cristiani ma solo a quelle anime privilegiate che aspirano alla perfezione 103 • E' a causa di questa dottrina che i cristiani non si accusano di tale peccato e i confessori non li interrogano 104 • L'Autore esorta i confessori a diagno·sticare attentamente nei cristiani il male della superbia e a mettere tutte le cure per estirparlo 105 , dato che non si può guarire un infermo senza cacciare la malattia né costruire una fabbrica senza prima togliere l'ostacolo: «la superbia è il veleno mortifero dell'anima, l'ostacolo che rende impossibile l'edifizio del tempio spirituale» "". Se oltre a togliere l'ostacolo della superbia, il confessore mette il fondamento dell'umiltà, facilmente potrà innalzarsi l'edificio della perfezione 107 • Apparatus, ibid., nn. 5-9. Della religione rivelata, l.c. 10 2 Ibid., D. 10. 103 Jbid., nn. 2 e 9; Theologia christiana, ibid., rnon~tum. 104 Jbid., n. 2; Theologia christiana, I.e. 1os Theologia christiana, l.c, 100 Della religione rivelata, ihid., n. 10. J07 Theologia christiana, ibid., monitum: «Radicem ergo superbiae aver· runcare in poenitentibus vestris conamini, et profundo vulneri humilitatis remedium diligenti studio applicate. Si evangelicam humilitatem eos do· cueritis, si in eadem exercueritis et vosmet ipsos, et illos; omnes incredi· bilem virtutis et sanctitatis profectum comparabitis [ ... ]. Si hoc assecuti fuerint, sancti erunt Christiani)), 100 101
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Altra conseguenza della sua antropologia teologica è la concezione della preghiera; essa viene intimamente legata all'umiltà in quanto ne è l'espressione immediata e tangibile. L'Autore parlando della preghiera dice che «tra i molti doveri del cristiano verso Iddio quello della preghiera è uno dei principali, e degl'importanti» '"', e che «Io spirito del cristiano è uno spirito di preghiera e di speranza» 109 , anzi arriva ad affermare che «la vita del cristiano è la preghiera» 110 • Concina presenta la preghiera come una necessità per la vita cristiana e come una espressione delle virtù teologali 111 • Per capire a fondo la concezione che il Concina ha della ·preghiera bisogna riferirsi necessariamente alla sua concezione antropologica: egli infatti non considera tanto la preghiera in se stessa quanto in rapporto all'uomo caduto. La preghiera ha un duplice ,scopo: <<Il primo (ufficio) di cantare le divine laudi; e questo non è mai troppo lungo, anzi debb'essere per quanto comporta la professione nostra lunghissimo, e continuo» 112.
ma insiste di più sul secondo aspetto: «Il secondo uffizio della preg11iera egli è d'implorare incessantemente dalla divina Misericordia i soccorsi, e gli aiuti efficaci a curare le nostre piaghe, a rinforzare la nostra debolezza, e ad avvalorare il nostro spirito per poter trionfare dei nostri nemici. La vita del cristiano è la preghitra» 113.
Il Concina fonda la necessità della preghiera sulla necessità della grazia. Le conseguenze del peccato, come sopra abbiamo visto, sono disastrose e solo la grazia può salvare )'uomo così mal ridotto 114 : il ruolo della preghiera appare in tutta la sua evidenza in tale contesto e tenendo conto che Dio «questa grazia vittoriosa, e trionfatrice comunemente non la dispensa, se 108 109
JJO
u1 ll2 JJ3 ll4
Della religione rivelata, 1. 3, c. 8, par. 4, n. 3. Jbid., c. 19, par. 4, titolo. Jbid., c. 8, par. 4, n. 4. Jbid., c. 19, par. 4, n. 3. Jbid., c. 8, par. 4, n. 5; cfr. pure il n. 4. Jbid., n. 4; cfr. pure il n. 5. Cfr. il punto 4 di questo articolo.
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non a chi con umile e fervente orazione la implora» 115 • E giacché nell'uomo restano sempre il segno della miseria e il bisogno dell'aiuto divino, è necessario che preghi sempre per impetrare e ottenere la sua grazia 116 • Alla stessa conclusione sulla necessità della preghiera l'Autore arriva partendo dalla legge e dallo scopo della morale che è la perfezione: essa è raggiungibile attraverso delle leggi e dei consigli che, eccedendo le forze dell'uomo caduto, necessitano per essere osservati della grazia di Dio e «questa grazia è ordinariamente congiunta alle nostre preghiere» m Il Concina è convinto che l'osservanza della morale cristiana è venuta meno appunto perché la maggior parte dei cristiani non prega 118 , anzi afferma ancora ·di più: «i cristiani in gran parte si .dannano, perché trascurano affatto l'esercizio della preghiera; anzi una gran parte ignora il vero spirito dell'orazione» 119 • E' insistente e sempre chiara la sua argomentazione: «[ ... ] senza la preghiera Iddio non concede la sua ulteriore grazia e senza la sua grazia non si può osservare la legge, e senza la osservanza della legge non c'è salute)) 120,
La conseguenza è ovvia: se si vuole riformare la vita cri~ stiana, è necessario cominciare dalla preghiera, ma da una preghiera autentica 121 •
115 Della religione rivelata, ibid., n. 1; cfr. pure De sacramentali absolutione impertienda aut differenda recidivis, consuetudinariis dissertatio theologica ad En11n. Nerium Card. Corsinum, ejusdem ordinis patronum vigilantissimum, apud Simonem Occhi, Venetis 1755 (d'ora in poi abbr. De sacran1entali ahsolutione), c. 8, n. 12. ll 6 L. c.; cfr. pure c. 8, par. 4, n. 10; Della storia del probabilismo e del rigorismo, II, d. 4, c. 6, par. 1, n. 6;De' teatri moderni, 1. 1, c. 12, n. 20. 111 Jbid., c. 19, par. 4, n. 1; cfr. pure Della storia del probabilismo e del rigorisnto, ibid., n. 7. 118 Della storia del probabilis1no e del rigorismo, l.c.; cfr. pure Della religione rivelata, 1. 3, c. 8, par. 4, n. 10; Theologia christiana, X, 1. 4, d. 1, c. 5, monitum. 119 Della religione rivelata, 1. 3, c. 19, par. 4, n. 2. 120 Jhid., n. 10. 121 Jhid., c. 8, par. 4, n. 10: «Non è possibile di riformare il nostro costume, se non ravviviamo le nostre preci. La orazione è di precetto fon-
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La preghiera, che è richiesta dalla condizione dell'uomo e dalla perfezione evangelica, intanto è efficace in quanto è espressione e frutto della vita soprannaturale: «questa orazione :Perché ottenga i favori richiesti, fa di mestiere, che sia animata da una fede viva, e da una speranza ferma»"'- La fede fa luce oltre che sulla nostra condizione anche sul cammino, sulla meta della vita cristiana e su Dio 123 ; la speranza, ancorandoci a Dio, facilita il ricorso a lui e lo rende pressante. Nella logica del nostro contesto è molto utile esaminare brevemente il pensiero de1 Concina sui recidivi. Mentre alcuni, ad esempio T. Tambuuno, C. La-Croix, D. Viva 124 , sostenevano che l'assoluzione potesse darsi sempre ai recidivi e agli abitudinari che danno segni di pentimento anche se non di cambiamento di vita, Concina a più riprese 125 sostiene che per poter ·dare l'assoluzione è necessario che i recidivi e gli abitudinari diano segni e garanzie di autentico cambiamento di vita 126 • dato sulla necessità deJla divina grazia, onde ripulsare gli assalti dei nostri nimici. Non si adempie questo precetto con una apparenza, e maschera di preghiera. Risolviamoci adunque di afferire a Iddìo le nostre suppliche secondo quelle regole, che Gcsl1 Cristo medesimo ci ha insegnate, ed allora cristiana sarà la vita nostra. 'Rectc novit vivere, qui rectc novit orarc': conchiude Agostino)). 12:i Jbid., c. 19, par. 4, n. 3. 12.1 L. c. 12.i Cfr. Theologia christian(I, IX, 1. 2, d. 3, c. 7. Si veda pure la posizione in questo senso di una c0ngregazionc di sacerdoti facenti capo ai gesuiti e che nel 1754 a Roma pubblicano un libro dal titolo f,ibri prhni DecretaliH111 sefectas theses Congregatio sacerdott1111 in do111. prof. Rom. Soc. Jesu D.D.IJ .. prae111ittitur dissertatio theologica a sacerdole eiusde111 Conf!,ref!,alionis hahita, lahente hoc a11110 1754. 125 Oltre che nella Theologia christiana Concina ritorna sull'argomento nel 1753 con Istruzione de' confessori e dei penitenti per {lf/1111inistrare e frequentare deg11an1e11te il sanlissin10 sacrainento della penitenza, presso Si1none Occhi, Venezia (d'ora in poi abbr. lstruz.ione dei confessori e dei penitenti) ed ancora nel 1755 con il volume De sacran1entali ahsolutione. 126 Chi sono i recidivi? Mentre per l'Autore dell'opera Libri priini Decretaliu111 selectas theses, cìt., perché un peccatore possa essere definito recidivo si richiede la ricaduta in peccati della stessa specie «Verbum Recidivus, considerando particulam re, videtur referri ad actum reiteratun1
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A noi interessa la sua argomentazione a partire dalla grazia. Giacché nel campo della grazia l'iniziativa è sempre di Dio, l'Autore afferma chiaramente che «la vera conversione, e giustificazione del peccatore è di tutti i doni celesti il massimo, il supremo» 127 • La conversione è un dono della «incomprensibile Misericordia divina» 128 • In che consiste il dono della conversione e della giustificazione del peccatore? L'Autore risponde che Dio nel giustificare il peccatore dà «Una grazia, non versatile e labile, ma vittoriosa e trionfatrice»"': il peccatore risorge in forza della grazia, resa efficace non per il contributo umano ma dai meriti infiniti del Cristo " 0 • Quali gli effetti di questa grazia nel peccatore? L'Autore li vede in termini di fortezza, di resistenza e di vittoria di fronte alle avversità della vita 131 • Il Concina ama sottolineare gli effetti della grazia in relazione al peccato. Con l'aiuto della grazia j,l peccatore detesta il male ed evita la frequente ricaduta nel peccato 132 ; i sacramenti danno degli aiuti tanto efficaci perché il peccatore giustificato non ricada nelle colpe passate m eiusdem speciei)> (7), per Concina basta il fatto del ricadere: ((in quaecumque igitur gravia crimina relabantur Christiani; non minus recidivi sunt hi, qui diversac, ac illi, qui e.iusdem speciei flagitia frequentcr perpetrant» (De sacran1entali absolutione, c. 3, n. 2). Argo1nenta dal fatto che il penitente deve avere la volontà di evitare il peccato e non un detern1inato peccato. 121 Istruzione dei confessori e dei penitenti, c. 14, par. 1, n. 2; cfr. pure De sacranientali absolutione, c. 8, n. 12; c. 12, n. 7. 12s Ibid., n. 4. 129 L. c.,- cfr. pure De sacramentali absolutione, c. 3, n. 3. uo De sacran1entali absolutione, c. 12, n. 7: <(Resurgit auxilio gratiae, non indifferentis, non versatilis, quae ab humana infirmitate suam efiicacitate1n accipiat, sed ope divinae, victricis, et triumphatricis, quae a Deo ipso, et infinitis Christi Jesu meritis suam efficaciam hauriat». l31 Istruzione dei confessori e dei penitenti, l.c.: «Esaltando lddio questi fortunati peccatori alla sua divina amicizia, gli rende forti, robusti, e trionfatori di tutte le umane vicende, tribolazioni, ed avversità)); cfr. pure De sacra111entali ahsolutione, c. 9, n. 19. 132 Ibid., c. 3, n. 3: «Omnia et quaecumque gravia scelera dctestatur, et reipsa a frequenti relapsu abstinet, et praecisa aliqua insolita, et inopinata tentatione, vcl occasione, constantissime omnia mortifera crimina devitat)). u3 Jbid., c. 9, n. 12.
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Stando così le cose ci si trova davanti al dilemma: «Medicina buona, e ricadute frequenti è un paradosso strano, ed insieme ridicolo1> 134.
Le spiegazioni possibili sono due: o la grazia è inefficace, o la grazia non viene ricevuta. Esclusa la prima ipotesi giacché «è verità di fede, che la medicina sacramentale sia efficace, robusta e poderosa» 135 , per l'Autore resta la seconda, e cioè che: <<[ ... ] le confessioni di questi recidivi sieno comunemente sacrileghe: perché se veramente ricevessero la medicina valida e potente della giustificazione, ne sperimenterebbero gli effetti della fermezza, e della stabilità» 136•
Fondandosi su S. Paolo 137 , l'Autore infatti è convinto che caratteristiche della vera giustificazione sono «la fe=ezza e la stabilità» 138 , .per cui «il peccatore veramente convertito e giustificato non ricade comunemente nel ·peccato mortale>) 139 , perché la grazia dà le forze efficaci per perseverare nello stato di grazia 140 • E allora sorge spontanea la domanda: «Come dunque possono dirsi giustificati, e veramente convertiti i moderni Cristiani, se appena sacramentati ritornano a ravvolgersi nella stessa pozzanghera di prima?>> 141.
Per l'Autore le ricadute continue nel peccato sono segno evidente della nullità delle confessioni e delle comunioni 142 ; a sostegno della sua tesi si appella al senso comune dei fedeli
134
Jbid., c. 14, par. 6, n. 6.
Bs L. c.
L. c.; cfr. pure De sacramentali absolutione, c. 17 n. 11. Cita 2 Cor 7, 10; 1 Cor 15,l; Col 1, 23. Istruzione dei confessori e dei penitenti, c. 14, par. l, n. 2. 139 Ibid., n. 5. 140 De sacramentali absolutione, c. 13, n. 9. 141 Istruzione dei confessori e dei penitenti, c. 14, par. 6, n. 12. 142 De sacramentali absolutione, c. 17, n. 11: «Nam curo post plurimas Confessìones, et Communiones nequaquam reviVixerint, signum est evidens, eas Confessiones, et Communiones fuisse sacrilegio pollutas»; cfr. pure Istruzione dei confessori e dei penitenti, c. 14, par. 6, n. 6. 136
137 138
Salvatore Consoli
168
che giudica negativamente coloro che, pur accostandosi ai sacramenti, perseverano nella vita peccaminosa: {{Gli stessi Cristiani di buon senso, e non prevenuti da certe n1assime di alcuni Casisti, quanto veggono tanti e tante a frequentare i Sacramenti Santissimi, cd a continuare la stessa vita peccaminosa, decidono, che costoro sono tanti sepolcri imbiancati, ed astuti ippocriti, che vogliono accoppiare il Mondo col Vangelo» 143 •
Per i confessori le continue ricadute dovrebbero essere segno di mancanza di preparazione e di dolore 144 • Da quanto precede si vede come l'atteggiamento dell'Autore sul problema dei recidivi è in stretto rapporto con la sua concezione della grazia 145 •
8.
Conclusioni
1. Questo articolo dimostra che !'attività del Concina è guidata da una precisa concezione antropologica: è proprio tale concezione a spiegare da una parte il suo giudizio chiaramente negativo sul suo tempo e sulla teologia probabilistica, e dall'altra la sua visione della morale cristiana come antidoto che mira a riformare l'uomo caduto. Tutta l'attività del Concina - predicatore, moralista, apologista - nonché lo zelo e la veemenza che lo caratterizzano,
Istruzione dei confessori e dei penitenti, c. 14, par. 1, n. 5. De sacramentali absolutione, c. 9, n. 12: «Vidcntes fructus tot Confessionum, et tot Sacramentorwn Eucharistiae nullos esse, profecto solidum habent fundamentum judicandi, recidivos istos consuetudinarios, ne in posterum quidem, veros fructus poenitentiae daturos, proindeque nec firmum propositum, nec verum dolorem tunc temporis habere». I4s Su questo problema il Concina viene comunemente giudicato rigorista; potrebbe anche esserlo, ma giustizia vuole che si sPieghi il perché dell'atteggiamento. Se questo lavoro a qualcosa serve, vuole proprio mostrare il motivo delle sue posizioni. Come già detto, in questa sede interessa non la sua posizione su un dato problema ma il procedimento metodologico: ancora una volta constatiamo come il punto di partenza per l'Autore è sempre l'antropologia. 143
144
----··
Antropologia e morale in D. Concina
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169
trovano adeguata spiegazione solamente nella sua concezione antropologica e nella visione teologica che ha della vita cristiana. Segno ne è il fatto che tali concezioni si trovano in tutte le opere e ritornano continuamente in diversi contesti. 2. Questo lavoro caratterizza inoltre la morale del Concina. Risulta che la sua è una morale teocentrica: trovando nella grazia il suo fondamento e la sua pos.sibilità, si spiega anche profondamente la necessità dell'umiltà e della preghiera per la vita cristiana. 3. Nello stesso tempo emerge chiaramente una linea metodologica dell'Autore; la sua teologia morale si fonda su una precisa antropologia teologica: per Concina non si può costruire una vera morale senza una solida base antropologica, dalla quale risultino le forze e le capacità dell'uomo concreto. Concina infatti oltre che teoricamente anche di fatto fonda la teologia morale sull'antropologia 146 • Il suo è un contributo metodologico molto valido anche oggi: la morale deve necessariamente conoscere I',uomo che intende aiutare a percorrere le vie della salvezza. 4. Ma non altrettanto positivo potrà essere il giudizio se si considera l'analisi che il nostro Autore ha fatto dell'uomo del suo tempo. Oltre a giudicare negativamente ogni manifestazione "nuova" ·ne ricerca con troppa faciloneria la causa nel peccato originale senza ricorrere minimamente alla storia e al-
I46 La coerenza metodologica del Concina emerge in tutte le sue opere. Si vedano ad esempio quelle che riguardano il problema del prestito a interesse e dell'usura: Esposizione del dogma; In epistolam Benedicti XIV; Usura contractus trini dissertationibus historico-theologicis demonstrata adversus mollioris ethices casuistas, et Nicolaum Broedersen. Accedunt appendices duae ad commentarium auctoris adversus usuram, ex Typograpia Palladis, Romae 1746: in queste opere l'argomento più convincente per dimostrare l'illeceità dell'usura Concina lo trova nella considerazione del rapporto usura~natura decaduta. Lo stesso metodo si ritrova, nelle opere della maturità, a proposito del teatro: si vedano De spectaculis theatralibus christiano cuique tum laico, tum clerico vetitis dissertationes duae. Accedit dissertatio tertia de presbyteris personatis, apud Simonem Occhi, Romae 1753; De' teatri moderni, cit.
170
Salvatore Consoli
le condizioni socio-culturali. La considerazione unilaterale dell'uomo caduto non gli consente d'ascoltare l'uomo concreto del suo tempo, portatore di nuove istanze ed esigente di nuove risposte. Tale sordità anziché a rispondere con nuovi argomenti (nuova teologia) lo induce a ripresentare la teologia "antica", quella non contaminata dai tempi. Egli è profondamente convinto che la morale è immutabile e immob;Je: ogni tentativo di acculturazione significa tradimento della morale evangelica. La sua concezione antropologica se da una parte fa capire meglio la coerenza person,.Je del Concina e giustifica tutta la sua attività, dall'altra è di ammonimento per il teologo a dialogare con l'uomo vero, altrimenti creerà attorno a sé il deserto e il discorso morale cadrà nel silenzio. 5. Daniele Concina merita di non essere dimenticato non solo per il ruolo che tiene nella storia della teologia morale della sua epoca, ma anche per il contributo metodologico che offre all'attuale rinnovamento. Tale contributo lo dà sia negativamente che positivamente. Negativamente in quanto la teologia morale deve stare attenta a capire e a dialogare con l'uomo vivo, pena il ripiegamento su se stes,sa e, conseguentemente, la rottura con i grandi movimenti culturali al cui contatto può restare viva e vivificante. Positivamente in quanto -la teologia morale, se vuole assolvere al suo compito salvifico, deve salvaguardare la sua identità teologica a contatto col mistero del Cdsto e attingendo la propria vitalità dalla grazia.
IL TBMA DEI DIRITTI UMANI IN JACQUES MARITAIN E LA DICHIARAZIONE CONCfLIARE SULLA LIBERTA' RELIGIOSA
ENRICO PISCIONE*
Introduzione Il bicentenario della rivoluzione francese con le enfatiche celebrazioni degli inunortali principi dell'89, il crescente interesse che uomini di oultura e giuristi musulmani provano, da almeno un decennio, per il tema dei diritti umani costituiscono di certo un'interessante provocazione per rivisitare la produzione teorica più significativa che la cultura cattolica, nel senso ampio del termine, è riuscita ad offrire, negli anni più recenti, su questa tanto dibattuta problematica. Riteniamo, a tal proposito, che due contributi, anche se di natura molto diversa, possano essere privilegiati fra gli altri: alludiamo alla riflessione filosofica di J acques Mari tain e alla dichiarazione conciliare Dignitatis H umanae sulla libertà religiosa, su cui ~ppunto intendiamo ora soffermarci.
1.
La v1swne maritainiana dei diritti umani nel contesto pluralistico odierno
Nel volume L'uomo e lo Stato, ritenuto non a torto una «sintesi magistrale» 1 del pensiero politico post-bellico di Jac* Docente nei Licei. A. SCOLA, L'alba della dignità umana. La fondazione dei diritti umani nella dottrina di Jacques Maritain, Jaca Book, Milano 1982, 82. 1
Enrico Piscione
172
ques Maritain, il battagliero filosofo francese presenta degli spunti originali sulla vexata quaestio dei diritti umani e del loro fondamento razionale. Il contributo maritainiano acquista di certo un maggior rilievo se si tien conto che esso nasce dall'impegno culturale profuso dal nostro autore nelle discussioni promosse dall'Unesco per elaborare la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, approvata poi dall'Assemblea generale del1'0.N.U. il 10 dicembre 1948. Il punto di partenza del discorso maritainiano è una lucida presa d'atto della situazione concreta in cui versano gli uomini d'oggi, scissi fra una maggiore consapevolezza della bontà di certe (<verità pratiche riguandanti la loro vita in comune» 2 e l'impossibilità filosofica di trovare un fondamento teorico univoco. Questo contrasto, fenomenologicamente incontrovertibile, fra una formulazione comune dei diritti fondamentali dell'uomo (si pensi appunto alla carta dell'O.N.U.) e la mancanza di una fondazione speculativa di essa conduce al paradosso per cui si deve ammettere l'indispensabilità delle giustificazioni razionali e, nello stesso tempo, la loro inutilità o, se si preferisce, la loro impotenza a creare una piattaforma teorica valida per uomini di diverse fedi ed ideologie. Maritain brillantemente si tira d'impaccio proponendo una distinzione fra "comuni principi esplicativi", su cui è impresa disperata pensare di raggiungere un accordo, e "principi d'azione" su cui, invece, è possibile che differenti tradizioni filosofiche o religiose trovino un'ampia convergenza sul piano pratico. E' fin troppo chiaro che la posizione maritainiana non intende essere per nulla un cedimento ad una fopma di eclettismo filosofico, ma un geniale tentativo di uscire dall'empasse paralizzante di una varietà di interpretazioni e di giustificazioni dei diritti umani - spesso tra loro in conflitto - e che, secondo un'osservazione realistica del filosofo francese, sarà destinata 1
2
J. MARITAIN, L'uomo e lo Stato, trad. it., Vita e Pensiero, Milano
1982, 89.
I diritti umani in J. Maritain e nel Vaticano II
173
a rimanere «fino a quando non vi sarà unità .di fede e unità di filosofia nello spirito degli uomini» 3 • Proprio un tal modo d'impostare il problema, molto attento ad individuare un nesso vitale fra pratica e teoria, permette a Maritain di non abbandonare o, meglio, di ripetere con un suo apporto creativo la prospettiva ontologica dell'Aquinate che coglie il fondamento del diritto positivo nella legge naturale. E' appena il c«so di avvertire con il nostro Autore che la dottrina della legge naturale, così come è stata pensata da Tommaso d'Aquino, non va per nulla confusa con la formulazione antropocentrica dei diritti dell'uomo elaborata nel XVIII secolo, quando con Rousseau e con Kant la filosofia del diritto ha presentato «l'indivi1duo come un dio» ed ha cons~derato «tutti i diritti che gli vengono attribuiti» come «i diritti assoluti ed illimitati di un dio» 4 •
I due elementi della legge naturale
2.
Dei due elementi che compongono la legge naturale, ossia quello ontologico e quello gnoseologico, Maritain dà un maggior rilievo al secondo perché esso, come avremo modo di sottolineare, consente al filosofo francese di «pprezzare le indagini degli etnologi sull'evoluzione della coscienza morale dell'umanità, i cui ·dati storico-empirici acquistano ,una particolare importanza in una visione dinamica della legge naturale, com'è quella che le pagine maritainiane intendono proporre. Volendo, però, procedere -con ordine ci accorgiamo che per scoprire l'elemento ontologico della legge naturale dobbiamo seguire ·con pazienza la com:plessa a11gomentazione .di Maritain, la quale per la verità, pur con qualche innovazione te~minolo gica, non presenta un carattere 1particolarmente innovativo rispetto alla dottrina tomistica tradizionale. Nell'universo ogni ente si caratterizza, secondo Marìtain, per una normalità ·di funzionamento necessaria perché ogni co-
' Ibid., 91. Ibid .. %.
4
174
Enrico Piscione
sa raggiunga la pienezza propria del suo essere. Se si applica questa generale norma ontologica all'uomo, si comprende bene come per il filosofo francese esista un ordine oggettivo immutabile che la rngione umana è abilitata a scoprire e la volontà è inclinata ad amare. Quest'impianto teorico serve a definire esattamente la nozione di legge naturale o legge non scritta, la quale sola permette agli uomini di realizzare con pienezza se stessi e di vivere in profondo accordo con i fini essenziali e necessari che costituiscono il proprium della loro umanità. Il presupposto ontologico della legge naturale ha in sé due interessanti asipetti. Innazitutto va sottolineato come essa non sia una norma astra-tta, una sorta di platonica i,dea del Bene, ma al contrario è coestensiva «a tutto il campo .della moralità naturale» 5 ; in secondo luogo, proprio per il suo carattere formale, che le impedisce sia di dare origine ad una minuta precettist·ica e sia anche 'cl.i pos.itivizzarsi in un preciso ca.dice scritto, la legge naturale presenta un suo intimo dinamismo, perché noi uomini possiamo divenire consapevoli in ·un lontano futuro - ci avverte Maritain - «di obbligazioni o di diritti di cui forse oggi non abbiamo idea» 6 . L'osservazione appena fatta introduce bene l'aspetto gnoseologico della legge naturale. Proprio perché quest'ultima - e su tale punto il filosofo francese non cessa d'insistere - è legge non scritta, gli uomini la conoscono con maggiore o minore difficoltà, secondo gradi diversi e perciò muta anche la comprensione che dì essa si può avere nelle diverse epoche storiche, come pure l'applicazione dei suoi principi generali, «propter multam varietatem rerum humanarum», secondo q·uanto afferma Tommaso d'Aquino nella Summa Theologica, nell'articolo 2 della quaestio 95 della I-II"'. Quindi con il tempo, come già si diceva, si può avere una sempre più precisa ed estesa conoscenza del diritto naturale. Ci preme ora soITerrnarci su quale tipo di conoscenza ~li uomini possono avere della legge naturale. Su tale questione
5
lbid., 103.
6
L. c.
l {/iritti u111ani in J. Maritain e nel Vaticano li
175
Maritain offre una risposta complessa ed originale. Se della legge naturale si considera solo il preambolo, oss.ia l'affermazione che «bonum est faciendum et prosequendum, et malum vitandu·m», gli uomini hanno ,di esso una conoscenza che presenta il carattere dell'immediata evidenza intellettuale. Se, però, si prescinde da questa premessa irrefutabile, e si consj.dera invece la legge naturale nel suo concreto articolarsi come !'«insieme delle cose da fare e da non fare» 7 , essa richiede la fatica di una graduale conoscenza storica che va di pari passo con le inclinazioni u.mane e con lo svil1up·po della coscienza morale e dell'esperienza sociale di cui l'uomo è capace nelle varie fasi della sua storia. Questo particolare tipo di conoscenza non percorre per nulla la via del 'procedimento rigorosamente astrattivo, che poi si cristallizzerà in Groti,us in un rigido modello matematico - deduttivo, ma procede per una sorta di esperienza tendenziale o comunque ante-predicativa nella quale il soggetto, per dirla con l'efficace espressione maritainiana, «ascolta e consulta quella specie di canto prodotto [ ... ] dalla vibrazione delle sue ten·denze ,interiori» 8 . E' questa la cosiddetta conoscenza per 'inclinazione che può trovare - già Io si è accennato - una sua valida conferma in rigorosi studi etnologici volti a dimostrare l'autenticità di quelle inclinazioni che hanno condotto la ragione umana a prendere una coscienza sem·pre più chiara dei precetti 'del diritto naturale precedentemente riconosciuti come un patrimonio del genere .umano «a partire dalle più antiche comunità sociali» 9 • Un esempio con.creto di ciò Marìtain lo individua nel fatto che, mentre l'antichità e il medioevo erano particolarmente attenti nel privilegiare le obbligazioni dell'uomo. i·] xvnr secolo ha avuto il merito, pur con le tante an1biguità già sottolineate, di mettere in rilievo con1e i diritti dell'uomo siano egualmente esigiti dalla legge naturale.
I hid., 104. lhid., 107. ' !bid., 108. 1
~
176 3.
Enrico Piscione Fecondità della posizione maritainiana e dato rivelato
Ritornando in sede conclusiva, alla tesi di Maritain secondo cui è realizzabile sul piano pratico un acc011do fra ideologie diverse, c'è da precisare che per il filosofo francese una tale pos·sibilità non è un comrpromesso pratico, ma si basa S1U un dato teorico, ossia la nozio,ne di "ideologia pratica". Essa concretamente si presenta, già lo si osservava, come una convergenza sui principi d'azione fondamentali implicitamente riconosciuti da tuHi i popoli non con una formulazione che si caratterizza 1per chiarezza e ,distinzione ma che si è fermata, per dir così, allo stato aurorale della coscienza. Questa ideologia pratica, secondo Maritain, spinge i popoli a scoprire nel flusso vitale della loro storia e nel loro preconscio collettivo una «sorta di residuo comune, una sorta di comune legge non scritta» 10 che si viene a trovare al punto .di convergenza delle più disparate tradizioni spirituali e delle più diverse ideologie teoriche. Un tale accordo pratico presenta pure una sua dignità filosofica ·perché mette in luce, come è stato osservato, «Che c'è qualcosa che viene prima di ogni teoria e che ha, pragmaticamente, un valore p.iù universale della teoria» 11 • Questa originale posizione maritainiana, che già ha av·uto storican1ente una sua fecondità, può continuare ad averla. Essa, a parer nostro, oggi può consentire, ad escn1·pio a 1nusulmani e cristiani, di ev1itare uno scontro teologico insu.pcrabile e .d'incontrarsi, co·me su·gg:erisce padre Borrmans, in «un diaJo,go sui valori più approfo·ndito sia nei suoi fon,darncn ti et i.ci che nelle sue es·pressioni giuridiche» 12 • Saremmo, tuttavia, parziali espositori del punto di vista maritainiano se non sottolineassimo che per il pensatore .francese i diritti e i doveri dell'uomo si radicano ultimamente in Dio,
IO fbid., 90. 11 A. ScoLA, op. cit., 167. 12 ì·A. BoRRMANS, Droits de l'hon1111e et dialogue isla1110-chrétien, inter-
vento ancora inedito alle "Journées parisicnnes (ll-12-IX-1988) de la Conféderation des juristes catholiques", 3. La traduzione è nostra.
I diritti umani in J. Maritain e nel Vaticano II
177
che è il "Giusto" per antonomasia. Ci sembra questa la motivazione dì fondo che srpinge Maritain ad insistere sull'esistenza dii doveri cui non corrispondono parallelamente dei diritti. Il supremo dovere per il cristiano che g1ì impone di donare tutto e di nulla chiedere in contraccambio è certamente fa carità. Comprendiamo bene allora come la trattazione maritainiana dei diritti registri non poche volte affermazioni dì questo genere: «Solo quando il Vangelo sarà penetrato nel profondo della coscienza umana, la legge naturale si manifesterà nel suo pieno splendore e nella sua perfezione» 13 • Il che è un'espressione concettualmente elaborata della grande scorperta esistenziale che Jacques e Ralssa Maritain, ventenni, ebbero durante quel .dialogo decisivo per la loro conversione con Léon Bloy, che ci viene riferito nel passo più toccante Dei grandi amici. Da quel colloquio, come scriverà poi Ralssa, i due uscirono con la consapevolezza che «tutti i valori erano spostati, come per una molla invisibile», perché «Si sapeva, o ·si in;dovinava, che non v'è che una tristezza, quella di non essere santi» 14 •
Sinergia di verità e libertà nella Dignitatis Humanae
4.
Ci rpare che le riflessioni maritainiane sui diritti umani possano trovare il loro punto focale nella nozione di libertà religiosa, com'è stata formulata nella dichiarazione del Vaticano II Dignitatis Humanae, molto orpportunamente ritenuta il «cuore dell'avvenimento conciliare» 15 • Il nucleo di fondo della dichiarazione consiste nel' riconoscimento della libertà di coscienza come un diritto naturale ed inalienabile della persona umana. Riconoscimento, questo, accompagnato dalla confessione esplicita che, pur essendo sempre stata viva nel patrimonio dottrinale ·della Chiesa la convinzione che «nessuno può esere costretto con la forza ad abbrac105. I grandi amici, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1966, 103. is R. BuTTIGLIONE, Il pensiero di Karol Wojtyla, Jaca Book, Milano 1982, 208. 13
J.
MARITAIN, op. cit.,
14
R.
MARITAIN,
178
Enrico Piscione
ciare la fede», tuttavia nelle vicissitudini concrete deUa storia umana «,di quan.do in quan·do si sono avuti modi .di agire meno conformi allo spirito evangelico, anzi ad esso ·contrari» 16 • La dichiarazione non solo non si esime dall'affermare che la libertà di coscienza deve esere riconosciuta e sancita come un diritto civile che va accolto dall'or:dinamento giuridico della società, ma si sforza anche di cogliere i problemi più scottanti in cui l'esercizio di una tale libertà può essere minacciato·, se non addirittura misconosciuto. Conseguentemente il documento conciliare dichiara che alle comunità religiose deve ess·ere garantito il diritto di «manifestare liberamente la virtù singolare della propria dottrina nell'ordinare e nel vivificare ogni ·umana attività» 17 , sia a livello educativo e sia an che sul piano ·culturale e sociale. Un esame più ampio meriterebbe, a tal proposito, il paragrafo 5 che pone l'accento sulla libertà religiosa della famiglia e sul diritto proprio e primordiale dei genitori di stabilire la educazione da dare ai propri figli, secondo il loro convincimento religioso. Un altro punto fondamentale della Dignitatis Humanae è riscontrabile nell'affermazione che è necessaria una tutela particolare delle minoranze da parte del potere •statuale in quelle società in cui «viene attribuita ad una determinata comunità religiosa una spociale posizione civile», perché sarebbe facile, in un caso del genere, mettere in atto una legis.Jazione discriminante. In una situazione siffatta la dichiarazione conciliare raccomanda alla potestà civile di prendersi cura affinché «!'eguaglianza giuridica dei cittadini [ ... ] non sia, apertamente o in forma occulta, mai lesa, o che non si facciano fra essi discriminazioni» 18 • , Dopo aver esposto, a grandi linee, le questioni nodali da un punto di vista giuridico su cui si sofferma la dichiarazione sulla libertà religiosa, intendiamo comprendere quale sia il fon1
16 Dignitatis Humanae, 12. Il testo, in lingua italiana, è ripreso dal volume I documenti del Vaticano II, LER, Napoli 1966, 747. Il Ibid., 4. 18 Jbid., 6.
I diritti umani in J. Maritain e nel Vaticano II
179
<lamento teologico-filosofico che sta alla base di questo tanto discusso documento conciliare. Per rispondere a tale domam.da, riteniamo che occorra innanzitutto ·mettere in evi,denza come la Dignitatis Humanae, in modo originale e creativamente fedele alla più autentica tradizione cattolica, sia riuscita a superare due posizioni unilaterali e riduttive su una così delicata e complessa questione. La prima, che - per comodità espositiva - chiameremo tradizionalista, pone l'accento sul fatto che la rivendicazione della libertà di coscienza, indulgendo quasi all'idea illuministica di tolleranza e dimenticando (ci si passi l'espressione) i diritti ogigettivi di Dio, possa implicare, in una certa misura, una sorta d'atteggiamento agnostico nei confronti della verità. Affermazione questa che porterebbe all'ammissione da parte del credente che la prapria fede venga considerata alla stregua di una semplice opinione, degna di rispetto come tante altre opinioni. La seconda posizione, che si potrebbe definire soggettivistica e che prende le mosse dalla convinzione che la coscienza è quel luogo sacro in cui si gioca il rapporto dell'uomo con l'Assoluto, mette in gua~dia dal rischio di un assenso, si direbbe con Newman, puramente nozionale e pevciò di un'accettazione non convinta della verità religiosa. Rischio questo che si corre .quando la persona umana non si sente obb)igata nella propria interiorità ad aderire alla fede. Il documento conciliare, per dirla in breve, trascende e vedremo subito attraverso l'apporto di quale apparato concettuale - il dissidio apparentemente insuperabile fra una «verità contro la coscienza» e una «coscienza contrq la verità». La Dignitatis Humanae si serve insieme delle due categorie di verità e libertà e insiste sulla loro reciproca, dinamica appartenenza. Deriva da qui il fatto che il riconoscimento della libertà religiosa, lungi dal sancire il diritto all'errore, è la •solenne proclamazione che la verità va cercata, conseguita ed amata come quella irrecusabile certezza cui ci spinge un'obbligazione profondamente avvertita dalla coscienza. Ci pare che la chiusa del paragrafo 2 della dichiarazione sia, a tal proposito, davvero illuminante. In essa leggiamo che
180
Enrico Piscione
gli uomini, in quanto esseri dotati di ragione e di libertà e perciò resrponsabili, hanno l'obbligo di cercare e di aderire alla verità e di «Ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze».
Un tale obbligo, tuttavia, non può essere soddisfatto in maniera autenticamente umana se le persone «non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo della immunità della coercizione esterna». Questo modo d'impostare il problema porta alla conclusione, densa di aprplicazioni pratiche, che il diritto alla libertà religiosa non trova il suo fondamento «SU una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura»
19
•
Il grande insegnamento della Dignitatis Humanae è dunque riassumibile, come è stato acutamente notato, nell'affermazione che <<la verità è un fatto oggettivo» ma ((anche un'esperienza soggettiva, un divenire vero dell'uomo attraverso la sua adesione libera alla verità oggettiva» 20 •
19
20
lbid., 2. R. BuTTlGLIONE, op. cit., 222.
IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA DI DIO NELLA FILOSOFIA DI A. GRATRY
ANTONINO FRANCO*
Introduzione Per A. Gratry 1 il problema fondamentale dell'uomo è quello dell'ascesa a Dio. La filosofia se vuole essere veramente "amore della sapienza" deve rispondere a questa profonda aspirazione, caratterizzandosi come la scienza del metodo che rende al.l'uomo possibile l'itinerario verso Dio. Il problema della conoscenza religiosa era molto dibattuto nell'apologetica del tempo che aveva come interlocutori il razionalismo, il deismo e iJ positivismo scientista. Una razionalità intesa come unico orizzonte epistemico, come elemento necessario o necessario e sufficiente per la conoscenza religiosa, .si poneva come critica radicale alla soprannaturalità della fede - rivelazione. * Docente di Teologia fondamentale e Filosofia nelio Studio Teologico S. Paolo di Catania. I Joseph Alfonse Gratry nasce a Lille il 29 marzo 1805. Compie i primi anni di studio a Tours. All'età di 16 anni è mandato a compiere gli studi di retorica e filosofia nel liceo Enrico IV di Parigi. In questi anni, per l'influenza negativa dei suoi maestri, subisce un certo disorientamento religioso; è qui inoltre che accade pure l'avvenimento più importante della sua vita: la conversione a una fede vissuta in maniera radicale. Sono le domande sul senso che inducono il brillante liceale a rivalutare i suoi progetti e a fargli decidere di consacrare la sua vita alla ricerca appas~ sionata della verità. Nell'intento di perseguire questo progetto e davanti allo spettacolo di tanti intellettuali che con il pretesto delle scienze posi-
182
Antonino Franco
E' nota la reazione cattolica a queste correnti di pensiero. Taluni difensori della fede, per difendere la soprannaturalità della rivelazione si spinsero fino a saerifìcare la ragione (fideismo e tradizionalismo); mentre altri, volendo comporre le verità dogmatiche con le istanze del pensiero contemporaneo, rischiarono di incrinare la nozione stessa di fede (semirazionalismo). Questo è il sitz im leben del ConciJio Vaticano I e anche il contesto culturale nel quale si iscrive l'opera di Gratry. Egli
tive rigettavano la religione, decide di iscriversi (1825) a l'Ecole Polytechnique, per approfondirsi nella scienza e per dimostrarne il sostanziale ac~ corda con la religione. In questo periodo decide di fare il voto di castità e di dedicarsi con cuore indiviso al servizio della religione. Dal 1828 al 1840 fa parte a Strasburgo del sodalizio di giovani intellettuali fondato da Louis Bautain. Riceve l'ordinazìone sacerdotale nel 1832. Non è però un vero discepolo del Bautain perché ne rifiuta il fideismo e il dispotismo intellettuale. Nel 1840 è no1ninato, a Parigi, direttore del collegio Stanislas e nel 1848 è chiamato a ricoprire il posto di cappe!L?,no nell'Ecole Normale Superieure. Venuto via dall'Ecole Normale in seguito a una polemica culturale con E. Vachcrot, direttore della Scuola, dà vita con il padre Pététot e il padre Valrogcr al nuovo oratorio di Francia (1852). Incomincia per il Gratry con la nascita dell'oratorio, un periodo di grande equilibrio e di intensa esperienza mistica. E' in questo momento sereno che egli dà il meglio della sua produzione filosofica: De la connaissance de Dieu, 2 voll., Douniol, Paris 1853; Logique, 2 voll., Douniol, Paris 1855; De la connaissance de l'd111e, 2 voll., Douniol, Paris 1857. Nel 1861, in seguito a gravi dissensi con il Pététot circa ]'orientamento da dare all'oratorio e deve lasciare la comunità, pur volendo restare giuridicamente oratoriano. Nel 1863 diviene professore di morale alla Sorbona. Negli ultimi anni della usa vita si lancia in una controversia sulla infallibilità del papa. L'8 dicen1brc 1869 si apre il Concilio Vaticano I. Nel periodo preparatorio e nelle dispute che lo accompagnano c'è molta passionalità. Il Gratry sostiene con una serie di argomentazioni insufficienti la pericolosità e la infondatezza della definizione dell'infallibilità papale. Il suo pensiero su questo tema è espresso nelle quattro Lettres à Mgr. Decha~nps (1870). Quando il dogma è definito, non ha la minima esitazione a sotto1nettersi alla autorità della Chiesa con una lettera a mons. Guibert, arcivescovo dì Parigi, del 25 novembre 1871. Muore a Montreux, in seguito a un male inguaribile, il 7 febbraio 1872.
La conoscenza rii n;o nella filosofia d; Gratry
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infatti concepisce la filosofia come sapienza: mentre rivendica, reagendo al fideismo di L. Bautain 2 , l'attività della ragione per l'ascesa a Dio ne evidenzia la costitutiva fragilità e iJ bisogno ch'essa ha, di fatto, di un aiuto per poter compiere correttamente il suo itinerario e giungere alla verità totale. Per il nostro A. inoltre la sapienzialità dela filosofia s1 realizza nell'orizzonte di una razionalità non separata dalle altre facoltà: intelligenza, volontà e cuore 3 . Una volontà in sintonia con la verità cercata e una prassi
Così annota Gratry, nel suo diario, a proposito del sodalizio di Strasburgo: «Per il fatto stesso che non condividevo il fanatismo antirazionale e non ammettevo altre follie inqualificabili [ ... ], fui tenuto d'occhio come un razionalista, come uno spirito poco docile alla luce [ ... ]}), Diario della rnia vita (introduzione e traduzione di A. Bergamaschi), Vita e Pensiero, Milano 1965, 122. La prima edizione del diario è del 1874, e ha per titolo Souvenirs de ma jeunesse. P. Poupard sintetizza in questi termini la posizione fideista del Bautain: «Exagérant sa réaction contre le primat de la raison, Bautain va jusqu'à affirmer son impuissance à parvenir à la certitude en matière métaphysique et religieuse: elle ne peut, à elle seule, ni dérnontrer l'existence de Dieu, ni établir les motifs de crédibilité de la religion chrétienne. C'était, en refusant à bon droit de faire de la foi la conclusion contraignante d'un raisonncment rationnel, lui eniever du mè1ne coup, mais à tort, son caractère d'adhésion raisonnable», Introduction in Journal Ron1ain de l'Abbé Louis Buutain (1838), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1964, XV. La dottrina completa di Bautain sul primato della fede si trova nell'opera La Philosophie du Christianis1ne. Correspondance religieuse de L. Bautain, 2 voll., Dérivaux, Paris, Strasbourg 1835. Sulla posizione del Bautain cfr.: P. POUPARD, Un essai de philosophie chrétienne au XIX'· siècle. L'Abbé Louis Bautain, Desclée et Cie, Paris Tournai - Rame 1961. 2
3 «Il più grande flagello della filosofia di ogni tempo è stato questa [ ... ] separazione dell'intelligenza che si isola, nell'anima, da!Je altre forze; che si separa artificialmente dal sentin1ento e dalla volontà [ ... ]. Questo vizio che separa l'intelligenza dalla volontà, la speculazione dalla prassi, la ragione pura dalla vita morale, e l'uno e l'altra dal sentimento e dalle ispirazioni di Dio al fondo dell'anima [ ... ] è veramente il flagello del1a filosofia, l'ostacolo alla sapienza [ ... ]», De la connaissance de l'à1ne, Il, Téqui, Paris 1915 7, 42-43 (citeremo in seguito da questa edizione).
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morale conseguente sono considerate le condizioni necessarie per il retto funzionamento della ragione 4 • Questo itinerario è possibile perché l'uomo porta dentro di sé un presentimento arcano di Dio (senso divino) che orienta ,!'intelligenza umana verso l'Infinito. Questa prospettiva globale caratterizza la teodicea gratryana come un metodo sapienziale. Il pensiero di padre Gra try sul problema della conoscenza religiosa nel suo riferimento a Tommaso d'Aquino e alla grande tradizione sapienziale dell'agostinismo pare anticipare le precisazioni della costituzione dogmatica Dei Filius e, ne1lo stesso tempo, nella variegata e quasi ecclettica poliedricità, ci mostra le principali istanze del dibattito teologico-culturale precedente il Vaticano I. Siamo convinti che lo studio del!' opera de11' A. possa offrire utili elementi per cogliere la complessità di tale dibattito. Con questo obiettivo vogliamo descrivere la struttura logica della teodicea gratryana nei suoi principali elementi. Articoliamo la nostra indagine in tre momenti. Dapprima studieremo l'articolazione del discorso sulla conoscenza di Dio, dando largo spazio all'analisi del procedimento dialettico e alle sue applicazioni in fisica e matematica. In un secondo momento, rivolgendo l'attenzione alla antropologia e alla prassi morale, trattevemo delle condizioni morali necessarie al corretto esercizio del procedimento ·dialettico e dei rapporti fede-ragione come applicazione concreta della logica vivente e .della sapienza vissuta.
4 Quando Gratry espone la teodicea di S. Agostino afferma che gli esiti agostiniani sono «completi, rigorosi, assoluti, senza mescolanza di errore, di equivoco né di esitazione)). E ne dà la ragione: «Perché S. Agostino [ ... ] ha praticato come procedimento inorale e intellettuale per elevarsi a Dio, precisamente tutto ciò che Platone ha detto; purificarsi, santificarsi, distaccarsi dalla terra, strappare quei chiodi di cui parla Platone, per i quali la voluttà ci tiene legati; disprezzare gli onori, le ricchezze, i piaceri dei sensi; dirigere intera la propria anima verso Dio [ ... ]». De la connaissance de Dieu, I, Téqui, Paris 19189, 158 (le citazioni si riferiscono a questa edizione).
La co11oscel1'::a di Dio nel/o filosofia di Grat ry
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Infine esporremo, in una sintesi essenziale, i caratteri del metodo sapienziale, per procedere a una valutazione critica coodusiva. I.
I I problema filosofico di Dio
Il 25 aprile 1853, Alfonso Gratry pubblicava un articolo n elJa rivista Le Correspondant, dove in sintesi era contenuto lo sch ema di tutto il suo lavoro filosofico. Il punto di partenza era una costatazione sull a cultura de l tempo. In ogni ambito di ricerca filosofica, teologica e scientifica la ragione, secondo Gratry, era in p ericolo. Si diffidava della ragione, in teologia, per la paura che l'indagine razionale po tesse minacciare di «scalzare la fede» 5 • In filosofia imperava J'ne_gelismo che, sempre secondo Gratry, s ostituiva alle leggi della logica quel.le dell'assurdo, distruggendo con il principio d i. contraddizione la possibilità di giudizi validi. Le scienze, per l'ebbrezza dei loro progressi, diffidavano del!"ill!dagine razionale r itenendola inutile e dannosa per un vero progresso . Il risultato di ques ta .diffidenza verso la ragione era in te ologia il tradizionalismo e il fideismo, in filosofia una s orta d i scetticis mo e nelle scienze il pos itivismo scientista ch e ta]ora faceva della scienza positiva .] 'unica e vera scienza. Questo s tato di cose, continua il Nostro, creava nella s ocietà una sorta di .dimissione intellettuale, facendo sì che «una pigra 1pusillani~ità» 6 e un «dubbio scoraggiato ch e s opporta tutti gli errori» 7 , di·ventasse m etodo di vita. Di più ancora, la ragione pubblica viveva senza esercitar e alcun m etodo logico, non s i verificavano più le basi de i ragionamenti, non si discerne'll•a il vero dal falso, non s i vagli avano i pro e i contro iprima del giudizio e tutto era tollerato. Ris ollevare questo s ta to d el-
; A. GRATRY, lntroduction à la philosophie, in Le Correspondant 32 ( 1853) J13 .
• Jbid., 112. 7 l bid., 113.
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la ragione era per il Gratry rendere un servizio alla società e alla religione. Il danno .di una ragione "isolata" e "astratta", di una ragione senza metodo e svilita, si rivela in maniera paJese nei riguardi della religione cristiana. «Violare le leggi della ragione - dice il Gratry - e ingannare gli spiriti liberandoli dal giogo di queste leggi, è nei riguardi della vera religione, l'attacco più pericoloso)) 8 • Unico mezzo per combattere il cristianesimo è distruggere la ragione e la libertà. La ragione invece, nel suo uso retto, non può essere di ostacolo alla fede cristiana, perché inevitabilmente fa scorgere la presenza di Dio in tutte le cose che sono oggetto della sua conoscenza e deJ.le sue analisi. Ritorna spesso nelle opere del Gratry la frase di Fénelon: «Oggi noi manchiamo più di ragione che di religione». Gratry è profondamente convinto, con la migliore tradizione filosofica cristiana, che la ragione non può arrivare a conclusio,ni con~ trarie alla fede e che un retto uso di essa apre alla fede facendo desiderare la visione beatifica. Si delinea già da queste battute, con un punto fermo di partenza, una pista di indagine nella filosofia gratryana: fede e ragione possono allearsi, e da questa alleanza scaturisce la sapienza cristiana. Qual è .dunque il compito preciso che si impone al filosofo? Bisogna, afferma con nettezza Gratry, «risollevare e salvare la ragione!». E' questa la prima opera da intraprendere se si {cvuole salvare la religione, la società, la civiltà» 9 • Bisogna ristabilire la logica, e proclamare «che nel mondo c'è errore e verità, e che si può distinguere l'uno dall'altra; che c'è per il pensiero un1ano un metodo vero, cioè dei principi certi e dei procedimenti (razionali) legittimi» 10 • Ora, il metodo logico autentico deve svolgere, secondo il nostro A., le seguenti funzioni: " !bid., 130. 9 lbid., 134. 10 De la connaissance de Dieu, I, cit., 31. La stessa frase si trova testualmente in !ntroduction à la philosophie, cit., 134.
f,a conoscenw di Dio nel/a filosofia di Cratrv
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1") Separare la filosofia dalla sofistica: "bisogna che marciando in senso inverso dell'ecdettismo contemporaneo, la filosofia proceda [ ... ] a scomunicare i suoi nemici domestici» 11 descrivendo con esattezza la via che conduce al vero e quella che sprofonda nel nulla 12 • 2") Restituire forza e autonomia alla ragione e alla filosofia, facendole uscire dall'isolamento. E' necessario che la filosofia entri nel campo delle scienze particolari, per esserne !'elemento sintetico e coagulante, facendo riprendere a tutte le scienze i loro naturali rapporti. 3") Unire insieme alla ricerca razionale la pratica della virtù, facendo in modo che le facoltà dell'anima, intelligenza e volontà, si prestino un mutuo aiuto «per elevarsi al loro unico oggetto, che è il bene e nello stesso tempo la verità» n 4") Lasciare alla ragione e all'intellìgenza l'apertura verso l'Assoluto. Scrive Gratry: «la ragione è una forza che cerca il suo principio e il suo fine. Ora la verità è che il principio e il fine della ragione è Dio» 14 • Bisogna quindi ribadire con forza che la ragione può dimostrare l'esistenza di Dio e aprirsi nella fede alla "visione" del Dio vivente. In questo schema sommario ci sono in germe tutte le idee che il Gratry ha sviluppato nelle opere a più vasto impegno filosofico: soprattutto vi sono descritti tutti i contenuti che ne caratterizzano il metodo come metodo sapienziale: il primato della pratica del bene e della virtù, e l'apertura a Dio . .• 1
1. 1. Filosofia e teodicea Dopo tali premesse, si potrebbe pensare che il primo impegno filosofico del Gratry abbia avuto per oggetto la logica,
Introduction à la philosophie, cìt., 135. Quando Gratry parla in questi termini vi è una chiara allusione a Hcgel e ai suoi seguaci francesi. Per lui Hegèl è il sofista per antonomasia, il paladino dell'assurdo, il distruttore della logica. u lntroduction à la philosophie, cit., 136. Cfr. De la connaissance de Dieu, I, cit., 33. 14 Introduction à la philosophie, cit., 136. Il
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per riproporre agli uomini del suo tempo le leggi della sana ragione, restaurando i canoni della logica classica. Invece Gratry inizia la sua produzione filosofica occupandosi del problema filosofico di Dio, cioè di teodicea. Per cogliere le ragioni di questa scelta facciamo subito alcune osservazioni. Quale scopo avrebbe avuto per il Gratry una restaurazione della logica? Certamente quello di risanare la ragione individuale e pubblica, e di ridare fiducia a quanti diffidavano della filosofia. Ora è proprio questo il fine che Gratry si propone parlando della conoscenza di Dio. Nella premessa alla prima edizione del suo trattato De la connaissance de Dieu, egli ci dice che due sono i motivi di fondo .dell'opera. «Da una parte [ ... ] mostrare tutta la portata della ragione umana, e, come si esprime S. Tommaso d'Aquino, la forza troppo poco conosciuta del ragionamento, anche nella questione più importante, quella della conoscenza di Dio» 15 • E' necessario in~ fatti chiarire che l'ascesa razionale dell'uomo a Dio è il più alto uso che l'uomo possa fare della sua ragione e che questo procedimento razionale di ascesa è rigoroso come ogni altro procedimento della ragione. Dall'altra parte, chiarire che non bisogna « [ ... ] astrarre la filosofia naturale da ogni dono soprannaturale, e che è dannoso separare nella pratica [ ... ] le due luci della ragione e della fede» 16 • Dunque, posto che il fine della ragione è Dio, dimostrare le possibilità della ragione di raggiungerlo e di salire, con la fede, più in alto, alla visione, significa ridarle coraggio, dopo l'esperienza distruttrice dei nuovi sofisti. Ora, ai cristiani spet~ ta questo compito: insegnare alla ragione a orientarsi verso il suo fine naturale, la contemplazione di Dio. Gratry inizia il discorso specifico sulla conoscenza di Dio chiarendo cosa intende per filosofia, delimitandone l'oggetto e le finalità. E' Bossuct a fornirgli la definizione: «La sapienza
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De la connaissance de Dieu, I, cit., XXI.
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L. c.
La conoscenza di Dio nella filosofia di Gratry
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consiste nel conoscere Dio, e nel conoscere se stessi. Queste parole, sono in sintesi, la vera definizione della Filosofia» 17 • La filosofia dunque vive e si sviluppa attorno a due poli: Dio e l'uomo. L'uomo che cerca incessantemente di raggiungere Dio con l'intelligenza e la volontà, con uno slancio teorico e pratico; e Dio che, presente nell'anima umana, attira l'uomo a sé. Ora, i dati dell'esperienza sono oggetto della filosofia, nella misura in cui acquistano ragione e significato dentro questa relazione uomo-Dio. Definito il concetto di filosofia, inizia subito a descriverne a grandi linee la struttura intrinseca. Egli dice: «Le parti della filosofia sono: I - La Conoscenza di Dio (Teodicea). II - La Conoscenza dell'anima, considerata nei suoi rapporti con Dio e ·Con il corpo (Psicologia). III - La Logica, che è lo sviluppo della Psicologia, e che studia l'anima nella sua intelligenza, e le leggi di questa intelligenza. IV - La Morale, che è un altro sviluppo della Psicologia, e che studia l'anima nella sua volontà, e le leggi di questa volontà» 18 • Il punto di partenza è la teodicea. I motivi che giustificano tale scelta ci sembrano sostanzialmente due. a) La teodicea sintetizza in una sola questione tutti i problemi fondamentali della filosofia. La concezione di un filosofo intorno al problema di Dio mette in opera e rivela l'insieme delle sue concezioni 19 • Il problema di Dio richiede l'opera attiva di tutti gli strumenti filosofici; conoscendo quindi la teodicea, si conoscerà anche tutto il pensiero di un autore. «La teodicea di un autore
lbid., 41. " Ibid., 43. 19 In De la connaissance de Dieu, I, nel capitolo introduttivo, l'A., esprilmendo l'intenzione di proporre un excursus storico della teodicea dei grandi filosofi, afferma che tale esposizione altro non è che un compendio di quasi "l'intera" storia deJla filosofia. l7
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comprende il suo metodo, implica la sua logica, la sua morale, la sua metafisica e la sua teoria delle idee, dunque anche la sua psicologia. In questo senso la filosofia è tutta intera nella Teodicea» 20 • b) La teodicea è la parte più elevata, più profonda, e nello stesso tempo più facile della filosofia. Essa scaturisce dall'atteggiamento, connaturale a ogni uomo, che alla vista delle cose e ·delle realtà finite si "slancia", per così ·dire, immediatamente verso l'infinito. Ogni positività finita fa scattare questa molla, questa capacità poetica del cuore umano che si libra, quasi inebriato, verso la felicità stabile, l'amore eterno e la verità senza ombre. «Questo slancio intellettuale e morale, di cui è capace ogni anima umana, è l'atto e il procedimento fondamentale della vita razionale e della vita morale» 21 • "Questo slancio" e questa "preghiera naturale" 22 , costituiscono l'oggetto della teodicea: essa è un approfondimento critico e sistematico del procedimento che sale a Dio per dimostrarne l'esistenza. La prospettiva in cui Gra try pone la teodicea è essenzialmente dinamica, più puntata sul momento ascensionale che su quello esplicativo della natura e degli attributi di Dio. La definizione che ne dà non lascia dubbi; egli scrive: «La teodicea è la scienza di questo mirabile procedimento della ragione, che sale a Dio, e si innalza a conoscere e a dimostrare l'esistenza, la natura, gli attributi di Dio» 23 • I. 2. Prove dell'esistenza di Dio
Entriamo ora direttamente in merito alle questioni centrali .della teodicea. Gratry si pone questi interrogativi preliminari: è possibile dimostrare l'esistenza di Dio? L'esistenza di Dio è una verità
20
21
·22 23
De la connaissance de Dieu, I, cit., 56; cfr., ibid., 43. Jbid., 47. Jbid., 287. Ibid., 43. La sottolineatura è nostra.
!Ja co11osce1r:.a di lJio ncl/{/ fi/o,<;ofìa di Gratr_v
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evidente? Ora, seguendo S. Tommaso, Gratry dichiara che l'esistenza di Dio è un fatto per se notum quoad se ma non per se notum quoad nos. Infatti nel primo caso si dovrebbe conoscere l'essenza di Dio, per affermare che ad essa pertiene in sé l'esistenza come necessaria. Dice il Nostro: «[ ... ] tutti gli uomini non conoscono il senso della parola Dio; non comprendono tutti che Dio è precisamente "Colui che è", la verità dell'esistenza di Dio non è evidente per tutti ed essa deve essere dimostrata a .partire da nozioni comuni» 24 • Dunque, l'esistenza di Dio può e deve essere dimostrata; e, nonostante sia fondata dal punto di vista dell'esperienza su uno slancio quasi immediato dello spirito umano che passa <<Sans nul circuit ,dc raisonnement» 25 dal finito all'infinito, essa ha bisogno di tutto il rigore proprio di un teorema di geometria perché abbia un fondamento teoretico indubitabile. Due sono le prove classiche che propongono, con sfumature diverse, gli autori esaminati dal Gratry: la prova a priori, «Che parte dalla considerazione dell'essenza di Dio, così come è rappresentata dall'idea che si ha di Lui» 26 , per affermare l'esistenza necessaria; e quella a posteriori che parte .dai dati di esperienza immediata, mondo e anima, per dimostrare l'esistenza di Dio come causa e ragione sufficiente di tutto. Ora, subito egli si schiera apertamente per la prova a posteriori, perché è l'anima del procedimento dialettico, quel procedimento che coglie l'infinito nel finito, «mediante una esperienza di contrasto e per lo slancio della ragione che, senza svolte, né giri, né "discorsi", concepisce e afferma l'infinito)) 27 • Con questo però il Gratry non toglie ogni valore alla prima prova. Anzi, egli sostiene che la prova a priori è ugualmente 1
lbid., 44. lbid., 47. 26 S. VANNI RovrGHI, Ele1nenti di filosofia, II, La Scuola, Brescia 1964, 24 Z5
136. 21 De la connaissance de Dieu, I, cit., 336. Il testo francese rende l'idea in maniera più espressiva: «[ ... ] par une expérience de contraste et par l'élan de la raison qui, sans détour ni circuit, ni discours, conçoit et déclare l'infini».
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necessaria, perché attribuisce alla nozione di Dio, colta a posteriori, esattezza e rigore matematico. Chiariamo meglio quest'idea. Egli dice che il valore della prova a priori è nel fatto che si veda necessariamente connessa all'id.ca o essenza di Dio, l'esistenza necessaria; però una tale idea .di Dio deve per forza essere ricavata a posteriori. Ora, a noi pare che .parlando in questi termini, il nostro Autore si collochi fuori di una esatta interpretazione della prova a priori classica, dove l'idea di Dio è un prin1un1, che non procede in nessuna maniera dall'esperienza e dove «il medio della dimostrazione è ontologicamente anteriore al predicato deJla conclusione» 28 • Egli vede questo suo modo di intendere la prova a priori perfettamente realizzato in S. Anselmo che, secondo Gratry, taluni criticano perché non lo considerano nella sua globalità. A proposito di S. Anselmo, così si esprime cercando di cogliere la visione d'insieme: «Ecco dunque du·e mo1nenti: l'u.no, che a partire dal desiderio o dalla vista di beni limitati, concepisce il nome e la formula dell'essere tale che non se ne possa concepire uno più grande, cioè semplicemente l'Essere; e l'altro che riconosce subito sotto questo solo nome, l'esistenza attuale e reale, ivi contenuta necessariamente, giacché non si saprebbe dire: l'Essere non è» 29 • In conclusione, per Gratry, prova a posteriori e prova priori «formano un tutt'uno, e l'una si sostien·e per opera dell'altra» 3<). Solo così la prova dell'esistenza di Dio diviene inattaccabile: essa è una verità di fatto, perché fondata sulla visione degli esseri limitati e sulla presenza misteriosa di Dio nell'anima (senso divino); e insie1ne una verità di ragione, perché l'esistenza è necessariamente im,plicita nella nozione di Essere infinito, pena la caduta in contraddizione. Se volessimo esprimere quanto già detto in modo più ardi-
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29 30
s.
VANNI ROVIGHI, op. cit., 135. De la connaissance de Dieu, I, cit., 223-224. 1bid., 297.
Lo co11oscc11:JL di IJh; 111!!/a filoso/io di Gr(lfry
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nato e facendo riferimento più specifico alla struttura complessiva del procedimento teoretico che "prova" l'esistenza di Dio, possiamo affermare che per Gratry si tratta come di tre momenti della ragione, dialetticamente ordinati tra loro. 1°) L' "i.dea" confusa e innata di Dio, quasi verbo impersonale cl1e permea la ragione e il cuore umano. Essa agisce in noi senza di noi, ponendo nel nostro cuore la nostalgia .del divino. Già Platone metteva nella parte superiore dell'anima le vestigia del divino, che sospendevano la radice di noi stessi «a qu.el luogo .dove l'anima trasse la sua ,prima origine» JJ, on·de il ricorso alla reminiscenza. Per il Nostro, B'ossuet e Fénelon pensano come Agostino che la ragione dell'uomo è il riflesso di Dio in noi, che ci rende capaci di conoscere le verità necessarie. Il filosofo che in questa prospettiva ha visto più chiaro è l'oratoriano Thomassin, che nel cap. XIX del Theologicorum dogn1atun1 ci parla di un «quida1n sensus arcanus, quo Deus tangitur, magis quam cernitur aut intelligitur». Questa presenza arcana .di Dio in noi, come un primo a priori, costituisce il fondamento di ogni ascesa a Dio; senza di esso Dio non potrebbe essere cercato e conosciuto. 2") Il secondo momento è il procedimento dialettico a posteriori: esso serve a chiarire l'idea arcana di Dio che sentiamo nel profondo dell'anima. Sono proprio i dati concreti, la natura e l'anima, che danno la coscienza esplicita della esistenza di Dio. Dal finito si induce l'infinito, dal contingente il necessario, .dagli effetti la causa. Questo momento a 'posteriori è definito dal Gratry: «procedimento che ricerca in ogni ordine di fenomeni, l'idea che in Dio vi corrisponde» 32 , e inoltre «la ragione che cerca la visione ·di Dio attraverso la natura» 33 • E' il "senso d.ivino" che fa cogliere all'intelligenza umana l'infinito di Dio, spingendola a penetrare «i dati bruti del mondo dei cor-
n PLATONE, Tùneo, 90b, trad. it. a cura di C. Giarratano, Laterza, Bari 1928. .n A. GRATRY, Logique, II, Douniol, Paris 1858, 75 (le citazioni del II vol. della Logique sono tratte da questa edizione). 3J L. c.
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pi» 34 e il mondo degli spiriti, visti come il luogo della presenza di Dio. La caratteristica del procedimento dialettico è quella di arrivare ad una conclusione diversa dal punto di partenza. 3") Il terzo momento è all'insegna ancora dell' a priori (nel senso gratryano); esso è costituito dall'analisi deduttiva operata dalla ragione che scandaglia l'idea di Dio, ottenuta a posteriori, e ne deduce rigorosamente l'esistenza necessaria. L'analisi senza l'idea di Dio è impensabile; tuttavia essa la completa dimostrando «l'esistenza di Dio, sotto forma matematica e con rigore matematico» 35 • Per Grat1-y quindi l'idea di Dio, da cui si deduce l'esistenza necessaria, deriva dalla prova a posteriori e dice riferimento ai dati sperimentali mondo e anima. Egli ribadisce ancora, con Anselmo e Cartesio, che questo modo di procedere «è valido solo per Dio, per il fatto stesso che Dio è il solo essere necessario. Fuori di Dio l'ideale e il reale sono separati. In Lui, reale e .ideale sono identici» 36 • 1. 3. Rilievi cri tic i
Concludendo queste note introduttive, vorremmo fare qualche rilievo critico. Innanzitutto, si può dire che la connessione necessaria vista dal Gratry tra la prova a posteriori e quella a ,priori, costituisca veramente una prova più esaustiva dell'esistenza di Dio? A noi pare che quando l'intelligenza abbia colto l'esistenza di Dio partendo dagli effetti della sua potenza e dai dati sperimentali più comuni, allora la prova a priori, anche in edizione gratryana, si rivela inutile perché non aggiunge nulla di nuovo. «Noi non abbiamo d'altra parte bisogno di analizzare l'idea .di Dio, per scoprire la sua esistenza come necessaria; la "concezione" stessa di questa idea è frutto della comprensione di questa necessità: l'idea di Dio è concepita perché la
3.1 In., Logique, I, nouvelle édition, Téqui, Paris 1908, 12 (le citazioni del I voi. della Logique si riferiscono a questa nuova edizione). 35 De la connaissance de Dieu, I, cit., 227. 36 L. c., sottolineatura nostra. Cfr. ibid., 298.
!~a co110.<.;cf.!11:.,u
rii !Jio 11el!n filosofia di Gratry
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sua esistenza ci appare necessarja» 37 . Questa precisazione del Pointud-Guillemot ci sembra guanto mai pertinente. E' indubbio che dall'idea di Dio, ottenuta a posteriori, si possono dedurre ed esplicitare tutte le nozioni in essa contenute; ma certo, in questo caso, esse fondano la loro garanzia di validità non tanto nell'idea guanto nel procedimento da cui essa deriva. Merito del Gratry, in questo primo approccio di teodicea, è forse quello di aver puntualizzato che l'idea di Dio deve fondarsi sull'esperienza, o meglio sulla ragione che interpreta i dati dell'esperienza. Cessa così di essere un'idea pura e astratta, con solo valore logico, diventando l'espressione di una conoscenza pregna di realtà. Tuttavia, egli «non riesce a 1nostrare come questa idea, quantunque fondata, quantunque vera, possa donare una novità .di conoscenza che sorpassi quella da cui essa deriva la sua origine e la sua garanzia» 38 . La prova a posteriori quindi dimostra l'esistenza necessaria di Dio, e quella a priori (nel senso gratryano) non fa altro che esplicitare e puntualizzare meglio quanto già dimostrato. Peraltro, si può dire che lo stesso Gratry, nonostante proclami in alcuni punti la validità della prova a priori, non vi annette poi, di fatto, molta importanza. Concludendo infatti la prima parte del trattato Sulla conoscenza di Dio, enumera ancora le possibili prove dell'esistenza di Dio, riconducendole a tre: la prova cosmologica, psicologica e ontologica, secondo che la ragione salga a Dio partendo dalla natura, dall'anima e dalle sue profonde aspirazioni o dalla idea di Dio presa in se stessa. Le prime due sono chiaramente prove a posteriori: in esse <<Dio è conosciuto mediante i suoi effetti>> 39 • Ma in quanto l'idea di Dio, come abb.iamo già visto, è derivata a posteriori, le tre prove, fondamentalmente, si riconducono alla prova a posteriori. (<Dun·que, in fondo - scrive il N·ostro - c'è solamente una prova del!' esistenza di Dio che può formularsi in questi ter-
37 B. PoINTlHl - GUILLEJ\!IOT, Essai sur la philosophie de Gratry, Beauchesne, Paris 1917, 12. 38 L. c . .19 De la connaissance de Dieu, Il, cit., 129.
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mini: c'è qualche cosa, dunque Dio esiste» 40 • A conclusjone dunque vorremmo ribadire ancora l'inutilità e l'illegittimità della prova a priori gratryana. In sintesi: a) la prova a priori qui in questione non è quella di Anselmo e di Cartesio. Lo stesso Gratry ha affermazioni esplicite a questo pro·posito: «Noi non vediamo Dio, non vediamo l'essenza e la sostanza dell'essere immutabile e delle sue perfezioni» 41 ; b) quando I' a priori diventa esplicativo, deducendo le sue conclusioni dall'idea di Dio, non è una prova e soprattutto non ha alcun valore agli effetti della dimostrazione dell'esistenza di Dio.
Il procedimento dia/et tico
2.
2.1. Cenni storico-teoretici sull'induzione Analizzando il volume I de De la connaissance de Dieu, abbiamo rilevato come la prospettiva nella quale si colloca il Gratry per approfondire il problema di Dio è essenzialmente "dinamica'': teodicea intesa non tanto come studio approfon~ dito su Dio e i suoi attributi, quanto piuttosto analisi del procedimento che ogni uomo usa per salire fino a Dio. Dopo le numerose anticipazioni sul procedimento dialettico che costituiscono il nerbo dei due volumi de De la connaissance de Dieu, in cui l' A. cerca di mostrare come ogni vero filosofo se ne sia servito, egli dedica esplicitamente a questo argomento tutto il libro IV della Logique. Egli sostiene che il discorso sul procedimento dialettico è fondato per la prima volta nella storia della filosofia da Platone. Ed è proprio un testo di Platone che è posto dal Gratry a fondamento delle chiarificazioni successive. Cita un lungo brano della Repubblica, VII, 532, dove si dice che le due divisioni del mondo intellegibile rispondono ai due modi fondamentali di procedere .dell'anima nel suo lavoro conoscitivo. L'ani-
40
~1
L. c. Logique, II, cit., 87.
La conoscenz.a di Dio nella filosofia di Gratrv
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ma è costretta a servirsi nella sua ricerca delle jmmagini del mondo visibile come punto di partenza, «ma, ora non si eleva da questi punti di partenza verso il loro principio (oux É1t'àpxiJv rcoprno,µÉV'l]) ma discende verso le loro conseguenze; ora, nell'all'altro procedimento, si slancia da questo punto di partenza a un principio in esso non contenuto [ ... ]» 42 • Secondo il Gratry è delineata già qui la differenza strutturale dei due modi di procedere dell'intelligenza: j] procedimento deduttivo-sillogistico e il procedimento induttivo-dialettico; l'uno resta nell'ambito delle "ipotesi" o "punti di partenza sensibili", l'altro appoggiandosi su di esse le trascende, cogliendo il vero intellegibile e il principio (àpxl\) di tutto. Ma è Aristotele, "inventore" della logica antica, che fornisce ancora alcune .distinzioni molto importanti tra i due procedimenti razionali. «L'induzione è l'inverso dcl sillogismo [ ... ]. L'induzione pone le proposizioni, alle quali la ragione giunge senza intermediario logico; il sillogismo pone le conclusioni alle quali conducono gli intermediari» 43 • Quindi, sottolinea Gratry, anche per Aristotele la ragione ha due modi di procedere essenzialmente distinti. Ancora, c'è da cogliere una differenza fondamentale tra i due: l'induzione parte dal particolare e giunge all'universale; il sillogismo invece .dall'universale deduce il particolare. Più chiaramente l'induzione, nella prospettiva del particolare, ci dà il principio e ]'universale; il sillogismo deduce dall'universale conclusioni particolari. Tra i due c'è quindi un rapporto ineliminabile, per il darsi stesso di ogni tipo di ragionamento: l'induzione fornisce al sillogismo le maggiori, essa è la via che ad esse conduce; e le maggiori sono il punto di partenza del sillogismo 44 • Repubblica, VII, 532. Analitici pri1ni, I, 23. 44 Cfr. j seguenti testi di Arostotele: Analitici prin1i, I, 23; Analitici secondi, I, 18; Etica nico1nachea, VI, 3. E' significativa la veemenza con la quale Gratry difende la radicale e sostanziale differenza, in Aristotele, tra sillogismo e induzione. Egli polemizza con M. Barthélemy St. Hilaire e con J. de Maistre, i quali in qualche modo riconducevano l'induzione al sillogismo. Per l'A. la discriminazione tra i due procedimenti è determi42 PLATONE,
43 ARISTOTELE,
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2. 2. La struttura dialettica della vita intellettiva Fermiamo la nostra attenzione sul significato preciso che assume per Gratry il procedimento dialettico. Egli lo definisce come lo slancio della ragione che con immediatezza dal punto di partenza finito coglie e concepisce l'infinito reale. Ma il discorso sull'induzione dialettica m Gratry scaturisce da tutta una antropologia spiritualistica e mistica che bisogna richiamare un momento. L'anima umana porta dentro di sé il senso dell'infinito come una sorta di presenza arcana e profonda di Dio: l'uomo è l'immagine di Dio. Questa presenza innata e arcana dell'infinito in noi produce come conseguenza due principi razionali: il principio di identità e il principio di ragione sufficiente 45 • Il prindpio di identità fonda la possibilità del giudizio e di ogni ragionamento che procede per deduzione sillogistica dalle premesse alle conclusioni. Il principio di trascendenza (o di ragione· sufficiente) si può definire «la disposizione della nostra intelligenza, il procedimento universale della ragione, che consiste a elevarsi da ogni cosa creata e finita all'infinito, compreso l'infinito non solamente nel senso della quantità, ma nel senso cristiano della qualità, del valore e della perfezione, cioè ciò che è tale che non se ne possa concepire uno maggiore,, 46• Gratry sottolinea inoltre che la dialettica come procedimento che va al di là del punto di partenza è profondamente radicata in talune operazioni comuni della nostra vita intellettiva. La percezione altro non è, in pratica, che un uscire da sé, trascendere l'impressione soggettiva e affermare al di là di questa l'esistenza di un oggetto reale. Diversamente si cadrebbe nata dal termine medìo, che non è presente nel procedimento induttivo. Cfr. Logique, I, cit., 28. 45 Logique, I, cit., XCIII, nn. 3, 4, 6. 46 Definizione che unisce l'idea platonica di Bene con quella del Dio vivente, presente nel profondo dell'anima, tipica della mistica cristiana. Cfr. L. FoucHER, La philosophie catholique en France au XIX siècle avant la renaissance thoniiste et dans son rapport avec elle (1800-1880), Paris 1955, 205.
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in una sorta di fenomenismo soggettivo, che afferma dei fenomeni successivi privi di realtà oggettiva. La percezione non è tout court il procedimento dialettico vero e proprio, essa partecipa in qualche modo di una dinamica dialettica (come apertura ad altro da sé) nel punto di partenza del pensiero 47 • Anche l'astrazione, la generalizzazione, l'analogia hanno alla base questo slancio dello spirito fuori dell'identico. L'astrazione astrae dai dati gli accidenti variabili e le condizioni individuali, per cogliere solamente le qualità essenziali, quelle per le quali una cosa è quella che è. Tale procedimento è l'inizio della geometria e l'anima dell'algebra. La generalizzazione è il punto di arrivo dell'astrazione, che è lo strumento che «determina l'unità che regna nella infinita varietà degli individui» 48 • L'analogia ammette una qualche identità o somiglianza tra due cose e conclude all'una per ciò che essa esperisce nell'altra. Tutte queste operazioni dell'esperienza quotidiana, praticate perfino dai bambini, hanno due elementi comurii: l'intelligenza arriva a una conclusione che sorpassa o trascende il dato iniziale; e inoltre la credenza quasi inconscia che ci siano leggi profonde al di là del dato. Gratry, dopo aver dimostrato i germi e i primi passi della vera induzione, incomincia a operare alcune chiarificazioni: 1) L'induzione vera non è l'induzione di Bacone che procede per tàtonnement (a tastoni), per sperimentazione empirica dando risultati sempre ipotetici, ma essa si «eleva senza incertezza a conclusioni che hanno tutta l'autorità dell'evidenza» 49 • 2) Inoltre, l'induzione baconiana non cerca la causa trascendente dei fenomeni, ma si muove nell'ambito .della natura, con iposa, ponitur effectus; sublata causa, tollitur effectus; variata causa, ponitur effectus; sublata causa, tollitur effectus; variata causa, variatur effectus» 50 •
47
Logique, II, cit., 45.
48
lbid., 49.
49
P. - P. ROYER COLLARD, Oevres de Reid, IV, 383. Citato dal GRATRY,
Logique, II, cit., 41. 5IJ F. BACONE, Novum Organun1, II, afor. 15-16.
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Ora, la vera induzione dialettica, certo, ha il suo punto di partenza nella realtà concreta, nell'esperienza, ma essa non ha bisogno di verificare e di provare le sue conclusioni con questa. Essa è «un procedimento, che senza intermediari di sorta, pone le maggiori immediate che non si possono derivare da altre maggiori» 51 • Ma questa immediatezza non esaurisce ancora il concetto di induzione dialettica. L'induzione è creativa in metafisica, perché essa spinge la ragione al fondo, non nella ricerca di leggi naturali contigenti (successione e coesistenza rli fenomeni), ma nella ricerca delle leggi eterne, l'infinito, Dio. Così la ricerca di Dio gode della validità di ogni operazione logica legittima. 2. 3. A!pplicazioni concrete del procedimento dialettico Posti questi preliminari di ordine introduttivo e chiarito filosoficamente il procedimento induttivo, Gratry fornisce due esempi di applicazione concreta dell'induzione, che ne esplicitano la portata metafisica. Applicata al mondo dei fenomeni fisici, nella ricerca delle leggi della natura, essa ci dà tutte le scoperte inattaccabili dell'astronomia; applicata al "mondo" della matematica essa diventa calcolo infinitesimale. a) L'induzione fisica. Per Gratry l'esempio più significativo in questo campo è dato dalla ricerca compiuta da Keplero. Quale il suo metodo? Quali le sue conclusioni? Keplero parte da un postulato di fondo: l'universo è l'immagine di Dio ed è governato da leggi eterne. Compito dell'uomo di scienza è conoscere e cogliere dietro i segni sperimentali il significato di essi; soprattutto dar vita alla natura scoprendone il messaggio profondo. Ma cosa sono le leggi della natura se non le idee di Dio che hanno presieduto alla creazione? Aveva scritto S. Tommaso: «omnia regulantur lege aeterna et participant eam, in quantum ex ea inclinantur in proprios actus et fines» 52 • Dio
sr L@gique, II, cit., 31, nota. s2 S. To.rvIMASO, Sum1na Th., J.JJ, q. 91.
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e legge eterna si identificano; e ogni creatura porta in sé queste vestigia immutabili della sua origine. Quali vestigia dell'Essere possono portare gli astri e i loro movimenti? Dove trovare nelle loro forme geometriche un segno ,di lui? Keplero è convinto che il cerchio, come figura geometrica, porterebbe queste vestigia e si mette a] lavoro per verificare nell'universo astronomico questa ipotesi. Commenta il Gratry questa prima fase del metodo: «Così la vera induzione, o il procedimento infinitesimale ha per risorsa questa "fede" naturale, che afferma prima le leggi, c10e che crede all'unità sotto la diversità, al necessario sotto il contingente, all'infinito sotto il finito, alla geometria sotto la confusione apparente» 53 • Il procedimento induttivo allora diventa lo strumento della ragione umana, che cerca Dio in tutte le cose. Esso è tale non solo perché fondato su una "fede implicita" (sourde) nella presenza di Dio nella natura, ma anche perché scaturisce essenzialmente dalla ragione umana che è spinta da una visione molto implicita del verbo universale, una prima impressione oscura del senso divino. Il fine della ragione, ciò che essa cerca, è una visione chiara anche se indiretta o speculativa di Dio. Ora, la sana ragione non può sottrarsi a questo modo .di procedere; esso le è connaturale, così come «la cre·denza all'esistenza delle leggi, all'esistenza dell'nnità sotto la diversità, dell'assoluto sotto il contingente, della legge eterna sotto. le forme della natura» 54 • Dopo questa credenza-dono entra in funzione l'astrazione, che va oltre le apparenze nella sperimentazione dei fenomeni. «Poi, con l'induzione propriamente detta, la ragione passa da un numero finito di fatti particolari che rientrano un po' nella legge, all'affermazione precisa della legge, che si estende all'infinità possibile dei casi particolari» 55 • A questo punto avviene, secondo Gratry, un salto qualitativo che colma un abisso, passando dal particolare ad una nozione che "porta" l'infinito.
53
54 55
Logique, II, cit., 73. lbid., 72. lbid., 78.
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Ci si può chiedere: queste idee, cioè le leggi della natura, sono per noi la visione diretta di Dio? Gratry risponde che esse sono le immagini intellegibili di Dio. Ma la . ragione dell'uomo mira costantemente a conoscere la causa di queste idee, ché esse sono un'immagine della loro causa 56 • b) L'induzione matematica. Lo stesso procedimento induttivo operante nelle leggi geometriche per «conoscere l'essenza delle forme, la loro natura e il loro carattere» 57 dà vita al calcolo infinitesimale. Qui emerge come grande inventore un filosofo-scienziato che per il Gratry è stato l'ideale del vero pensatore: Leibniz. Bisogna analizzare queste forme perfette che non si trovano come tali nella natura: esse sono i.dee astratte, che hanno la loro ragion d'essere in Dio, «nel quale è tutto ciò che è perfetto» 58 • Esse portano il carattere dell'infinito. Gratry si chiede: come procedere per analizzare questo infinito? «Come entrare con il pensiero nella natura intima di queste forme perfette che, se sono perfette e assolutamente continue, racchiudono necessariamente sia !'infinitamente semplice come !'infinitamente grande, cioè una infinità di elementi piccoli, che costituiscono una sola forma o in altri termini una sola idea?» 59 • In fondo noi ci troviamo di fronte a questo problema: «essendo dati per esempio due punti di una curva, trovare nelle loro differenti posizioni, nei rapporti particolari dipendenti da queste posizioni, il rapporto essenziale che li lega tutti come punti di una curva unica e definita» 60 • Ora, che metodo bisogna seguire per raggiungere la legge di questi elementi sparsi e variabili? Approfondendo l'analisi, egli trova due rapporti: uno variabile, discontinuo, finito che dipende dalla posizione relativa a punti differenti; l'altro perfettamente fisso, immutabile, che dipende dal fatto che i due
5' 51
Cfr. ibid., 79. lbid., 95. 5B Jbid .. 96. 59 !bid., 97. w Logique, I, cit., CII.
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punti appartengono alla stessa curva. L'analisi trova quindi una formula generale dove i due elementi sono messi bene in evidenza: f'x+XL'.x. Essa è formata da due termini: uno, f'x, è invariabile anche quando i due punti si avvicinano, esso «è la parte essenziale di questo rapporto, che scaturisce dal fatto che tutti i punti sono punti di una stessa curva» (differenziale) 61 ; l'altro XL'.x diminuisce diminuendo la loro distanza e si annulla quando questi punti si toccano (differenza). Ora, lo scopo del calcolo infinitesimale consiste nel giungere, mediante l'analisi della differenza, alla differenziale, per quella legge che è profondamente sottesa a tutto questo procedimento: tutto ciò che è nel finito si trova nell'infinito senza limiti. Ciò può avvenire quando questi punti vengono, con un lavoro di astrazione, posti fuori della quantità, cessando di essere dispersi; è allora «in questa semplicità ideale, secondo la parola di un grande geometra, tutta la curva è come riunita in un solo punto. E in effetti la semplice differenza implica e dona tutte le proprietà della curva» 62 • Quindi, secondo Gratry, anche il procedimento infinitesimale parte dal finito, dal variabile e dalla quantità, per concludere all'infinito e all'immensità immutabile. Anzi esso è definito dal Gratry «il tipo di ogni procedimento induttivo» 63 • E' interessante, come esempio, citare l'applicazione del calcolo infinitesimale al movimento, perché nella prospettiva gratryana è molto feconda per una "metafisica del calcolo infinitesimale". Il Gratry cita come punto fermo in questa indagine il Carnot che sostiene essere il calcolo infinitesimale «l'espressione naturale del modo di generazione delle grandezze fisiche che crescono per elementi più piccoli di ogni grandezza finita»"Posta questa premessa egli si chiede quale sia l'elemento infinitesimale del movimento, cioè questi principi infinitamente piccoli che lo generano. Jbid., CIV. /bid., CV. Cfr. la descrizione analoga dcl calcolo infinitesimale in De la connaissance de Dieu, II, cit., 111-114. nJ Logique, I, cit., CV. 64 Logique, II, cit. 128. 61
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Per rispondere egli incomincia col porsi un problema. E' un fatto che la durata e lo spazio siano divisibili all'infinito; dunque un essere qualunque che si muove nello _spazio e nel tempo percorre l'infinito. Allora è anche verosimile l'opinione di M. Poisson nel suo Traité de mécanique, ove è detto: «gli infinitamente piccoli hanno una esistenza reale; non sono solamente un mezzo di investigazione immaginato ·dai geometri» 65 • Ma questa posizione così chiara sembra però impossibile in sé. La terra per percorrere la sua orbita deve percorrere una quantità infinita di punti, quindi le bisognerebbe un tempo infinito. Ma siccome essa impiega un tempo particolare, allora ogni movimento risulta impossibile. Gratry, poiché non sa uscire da questo enigma, propone una soluzione di tipo mistico, che si inserisce molto bene nel suo modo di fare filosofia come ricerca sapiente della presenza di Dio. Egli dice citando S. Paolo: «E' in Dio solo che esistiamo, che viviamo e che ci muoviamo». Dio solo è la causa, principio, supporto dell'essere; allo stesso modo lui solo è la causa, principio, supporto della vita e della durata ... Senza di lui, né l'essere né il tempo né lo spazio né il movimento possono èssere concepiti né esistere 66 • Vediamo come queste affermazioni risignificano il discorso che stiamo esaminando. I principi del movimento sono dei movimenti infinitamente piccoli, immobili; «principi dell'estensione al di sopra di ogni estensione, questi principi di dnrata al di sopra del tempo e della misura, sono l'immensità intravvista sotto lo spazio, l'eternità sotto il tempo [ ... ], e la forza infinita di Dio sotto le forze e sotto i movimenti finiti» 67 • In altri termini, con questi infiniment petits noi cogliamo le idee eterne di Dio, che sono Dio stesso. Certamente si tratta qui non di una conoscenza esaustiva e adeguata di Dio e della sua essenza, bensì di una conoscenza di Dio come esistente perché fonte e contenuto di quest'idea. In fondo, sostiene il Gratry, questa è la
Ibid., 129. "' Cfr. ibid., 130-131. 67 Ibid., 125-126. 65
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prova di S. Tommaso: .dal movimento si dimostra l'esistenza di Dio come motore immobile; «perché Dio è la sola causa prima di ogni movimento; niente si può muovere senza Dio, soprattutto se si definisce il movimento [ ... ] come passaggio dalla potenza all'atto» 68 •
Calcolo infinitesima/e e prova de/I' esistenza di Dio Dopo questa analisi della posizione precisa di Gratry su un punto di grande attualità anche oggi, facciamo qualche riflesc)
sione critica. Ci poniamo innanzitutto qualche domanda. Perché Gratry ha voluto introdurre in teodicea una serie di analisi sul calcolo infinitesimale? Riteneva egli forse questo discorso sul procedimento dialettico-infinitesimale fondante, per una nuova dimostrazione dell'esistenza di Dio, in un contesto culturale dove era fortemente sentita la spinta del positivismo scientista? Prima di rispondere diciamo che per Gratry, i procedimenti induttivi della metafisica, della fisica e della matematica (calcolo infinitesimale) hanno la stessa matrice comune nell'essere tutti un transitus dal finito all'infinito e, con applicazioni distinte, sono concretizzazioni di un unico procedimento connaturale alla ragione che procede per trascendenza e senza intermediari, lanciandosi verso l'infinito. Ora, in fisica - come dimostrato da Keplero - e in matematica questo procedimento è stato di una creatività straordinaria; quindi in concreto esso è un procedimento valido, rigoroso e fonte di scienza, nonostante non proceda per concatenazione sillogistica. Così precisamente si esprime Gratry: «Il più grande servizio che il calcolo infinitesimale abbia reso alla filosofia, è di fare meglio comprendere il rigore del procedimento induttivo generale» 69 • Cadrebbero quindi le obiezioni .di alcuni ambienti scettici che criticano come scarsamente rigorose le prove dell'esisten-
68 69
Ibid., 181: Resumé sur l'induction. lbid., 182.
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za di Dio perché fondate tutte sul procedimento dialettico, giacché l'induzione «interrompe la serie delle deduzioni, colma gli abissi, passa dal finito all'infinito» 70 : cosa impossibile per coloro che ammettono il solo procedimento deduttivo. Quindi «il solo calcolo infinitesimale rende fatue tutte le loro obiezioni» n Allora per il Gratry non si tratta di una nuova di1nostrazionc dell'esistenza di Dio con il calcolo infinit.=sin1ale ma di dare alle prove antiche elementi di rigorosità e maggiore precisione. Perfino la classica prova dell'esistenza di Dio fondata sul movimento riceve, secondo il Gratry, mediante il calcolo infinitesimale, dettaglio e precisione. Così conclude questa serie di riflessioni nel suo Resumé sur l'inductiun: <(E' ben inteso dunq11e: 1°) che il procedin1cnto infinitesimale, applicato alla geometria pura ci dona l'idea di infinito astratto, e allora non dimostra l'esistenza di Dio; 2°) che questo procedimento, applicato all'analisi del movimento non fa altro che precisare dettagliatamente l'antica prova dell'esistenza di Dio per il movimento>> 72 • Da parte nostra vorremmo notare, en passant quella che ci sen1bra costituire una sorta di ondeggiamento di opinioni intorno a quest'ultimo argomento, sulla prova dell'esistenza di Dio per il calcolo infinitesimale. Gratry ha appena proclamato che il calcolo infinitesimale non fornisce una prova dell'esistenza di Dio. Ma riprendendo subito il discorso al paragrafo successivo, tenta ancora una sintesi dcl modo di procedere dell'induzione dialettica e così, dopo aver descritto i vari momenti di apDlicazione, deduce una conclusione che è l'opposto di quanto aveva detto prima. Egli dice infatti: «Questo procedimento consiste dunque, che si sappia o meno, nel cercare Dio e nel vedere Dio nella natura: perché cercare la legge sotto i fatti, l'unità e la stabilità nella molteplicità e nella mobilità, è cercare Dio senza saperlo; è cercare il senso di questo segno sensibile che si chiama la natura, è vedere come la natura significa Dio e i suoi 1
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L. c. lbùl., 183.
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L. c.
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differenti attributi. Non è solamente l'unità e la stabilità che la ragione cerca nella natura; essa vi cerca tutti gli attributi di Dio» 73 • Questo ondeggiamento appare, a nostro avviso, come una vera e propria contnuddizione. Ora, per uscirne ci pare di dover osservare quanto segue. Se raggiungere gli attributi di Dio è, per l'Autore, conosce Dio stesso e provarne ]'esistenza, delle due, una: o ammette di aver fornito una nuova prova dell'esistenza di Dio per il calcolo infinitesimale; o riconosce che tutto quanto ha detto sulla identità della induzione scientifica e del calcolo infinitesimale con il procedimento metafisico-dialettico (cosa che costituisce la struttura portante della sua logica e del suo lavoro filosofico) non ha alcun valore. Ci resta ancora da discutere un altro punto d'interesse per il procedere del nostro discorso: si tratta della prima conclusione del calcolo infinitesimale applicato alla geometria pura: l'idea astratta dell'infinito. Anche questa idea per il Gratry, pur non dimostrando l'esistenza di Dio, può essere un punto di partenza per una dimostrazione rigorosa. Egli afferma: «Dunque se la geometria ci conduce alla idea di infinito, la ragione può ulteriormente impossessarsi di questa idea astratta, idea che il nostro spirito incontra .dappertutto [ ... ], e può a partire da questa idea, considerata come un effetto di Dio in noi, stabilire le dimostrazioni ordinarie dell'esistenza di Dio» 74 , Ciò per il Gratry significa dimostrare l'esistenza ·di Dio non con la geometria ma mediante l'idea di infinito che è in noi. Questa soluzione ci pare pericolosa perché prende come punto di partenza un'idea che non ha niente a che vedere con l'infinito metafisico, essendo essa un puro prodotto ideale, una pura ipotesi logica senza adaequatio ontologica. 2. 4. Procedimento dialettico: polemica Gratry-Saisset Il primo autore francese che ha avuto grosse perplessità intorno al discorso di Gratry sul procedimento dialettico infinite73 74
Jbid., 185. Sottolìncatura nostra. lbid., 179-180
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simale è stato Emile Saisset. Egli, lo stesso anno in cui appare la Logique, appronta una critica pertinente e precisa sui punti contraddittori o quantomeno carenti del metodo gratryano 75 , Saisset inizia la sua disamina con una captatio benevolentiae, dove si riconosce al Gratry una grande sensibilità per i problemi del tempo, per averne descritto con chiarezza i mali: separazione tra filosofia e scienza e diffidenza per i punti di contatto tra la filosofia e il cristianesimo. Indi passa all'attacco dicendo che il sistema del Gratry poggia su un fondamento equivoco e dannoso. «La sua grande scoperta dell'identità dei tre procedimenti della fisica, della matematica e della filosofia è una idea falsa [ ... ]» 76 • Certamente, sostiene, si può essere molto d'accordo sul procedimento filosofico che colma con immediatezza l'abisso che separa la creatura dal Creatore e l'essere finito dall'infinito ma non si riesce a identificare questo modo di agire della ragione con il procedimento che mette in opera l'induzione scientifica e il calcolo infinitesimale. Il metafisico e il fisico cercano cose totalmente diverse: l'uno cerca Dio e i suoi attributi; l'altro cerca le leggi della natura. «Ma cos'è una legge della natura? Un fatto generale, niente più [ ... ]. Particolare o universale, esso conserva la propria essenza; esprime che potrebbe essere o non essere, che non ha niente in sé di necessario e di assoluto» 77 • In fondo, sostiene Saisset, le leggi della natura non sono altro che generalizzazioni di fatti e come tali non possono essere concepite fuori del campo della contingenza. Quindi niente universalità, necessità e carattere di infinito alle leggi della natura: esse non sono le idee necessarie ed eterne che sono in Dio, né tanto meno sono l'immagine esatta della causa. E' vero che sia il fisico come il metafisico hanno lo stesso punto di partenza: i fatti, la natura, il mondo dei fenomeni, ma il fine e gli strumenti della loro indagine non sono identici. 75 Cfr. E. SAISSET,, ,Une logique nouvelle à l'Oratoire, in Revue des Deux Mondes 11 (1855) 913-942. '' Ibid., 922. 11 Ibid., 924.
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Gratry risponde a questa prima critica con grande sfoggio di erudizione polemica, ripetendo di pari passo quanto aveva già detto nel suo secondo volume della Logique; e con fare polemico invita il Saisset a dimostrargli come la ragione abbia tre procedimenti differenti 78 • A noi sembra che il Gratry non abbia voluto cogliere la positività della critica cercando, a volte, di staccare frasi dal contesto per fare vedere come lo scritto di Saisset fosse contraddittorio 79 • Questo difetto veniva spesso rimproverato al Gratry anche da E. Vacherot, che per primo aveva fatto i conti con la polemica gratryana 80 • Comunque, il punto focale della polemica·· con Saisset è la identità del procedimento metafisico e quello infinitesimale, e l'assimilazione dei due infiniti, quello della metafisica e quello della matematica. Egli dice che Leibniz ha inventato il calcolo infinitesimale per avere uno strumento di quadratura delle curve e ricondurre, tra l'altro le linee curve «à des assemblages de lignes droites » 81 • Quando noi ad esempio dobbiamo risolvere problemi di calcolo riguardanti un cerchio, possiamo cercare di ridurre il
7BLa risposta di Gratry alle critiche del Saisset si trova in forma meno diretta nella Introduction alla Il edizione della Logique, Douniol, Paris 1858 e in un articolo intitolato No.te sur un article de, M. Sais$ef, contre la Logique du Père Gratry, in Le Correspondant 37 (1856) 30-61. 79 E' significativo un fatto. Sembra che l'A. avesse capito che qualcosa non quadrava nella sua teoria delle leggi fisiche; perciò ha voluto nella II edizione della Logique (proprio alla fine della famosa Introduction aggiunta) dissipare qualche malinteso. Prima aveva scritto, sulla scia di Royer Collard, che «la natura è contingente, le sue leggi, no» (Logique, II, 59). Nella Jntroduction alla II ed., così si espresse: «Le leggi della na~ tura sono contingenti primo perché la natura stessa è contingente; poi perché Dio le avrebbe potuto imporre altre leggi [ ... ]». Dopo questa asserzione fa marcia indietro e, considerando le leggi fisiche in se stesse, sostien~ che e~se sono verità eterne. Conclude infatti il suo discorso dicendo: «[ ... ] è necessario che ci siano delle leggi e che queste leggi siano delle idee di Dio, e che Dio governi tutto conformemente a ..se stesso». Logique, I, cit., XXXVI. 80 Cfr. E. VACHEROT, La méthode théologique, in Revue des Deux Mondes 80 (1869) 152. 81 E. SAISSET, art. cit., 929.
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cerchio a una figura geometrica più semplice come un esagono. Così al posto del raggio consideriamo inizialmente l'apotema del poligono, e il perimetro di esso al posto della circonferenza ... Ma se noi consideriamo il poligono inscritto nel cerchio con un numero considerevole di lati, vediamo che questo poligono, più cresce il numero dei suoi lati, più tende a identificarsi col cerchio. Più diventa infinitamente piccola la lunghezza dei lati del poligono e più diventa infinitamente grande il numero dei lati. «Ciò vuol dire che il numero .dei lati può essere reso grande tanto quanto si vuole e la grandezza di questi lati piccola quanto si vuole, e l'assimilazione di un poligono ad un cerchio, tanto più vicina alla verità quanto si vorrà» 82 • Il poligono cioè non sarà mai il cerchio, ma tende ad assimilarvisi costantemente. A questo punto, il problema che ha guidato queste analisi: «Il solo punto che ci interessa è di sapere se questo movimento alterno dal finito all'infinitamente piccolo e dall'infinitamente piccolo al finito, che costituisce il calcolo infinitesimale, può essere assimilato, come assicura il P. Gratry, al metodo che usano i metafisici per dimostrare l'esistenza e gli attributi di Dio» <i. La risposta per Saisset è negativa nel modo più assoluto. La matematica si occupa della grandezza e da essa non esce mai. Ora, proprietà insita alla natura della grandezza è di essere moltiplicabile e divisibile all'.infinito. Qui sta, per il Saisset, la origine dell'infinitamente piccolo e dell'infinitamente grande. Nel nostro esempio del poligono, !'infinitamente piccolo è costituito. dal lato del poligono la cui lunghezza può essere indefinitamente .diminuita; !'infinitamente grande è concepire che a misura che diminuisce la lunghezza del lato del poligono cresce indefinitamente il numero dei lati. Conclude allora Saisset: «l'infinito matematico è dunque un indefinito, e questa conclusione è una conseguenza semplicissima .della natura essenziale della grandezza» 84 • Quindi non viene qui colmato alcun abisso tra finito e infinito perché il concetto di infinito come limite della
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lbid., 931. lbid., 932. Ibid., 933.
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grandezza fuori della grandezza è un indefinito concepito in continuità con essa. Esso, come possibilità di crescita indefinita, dice limite e non pienezza di essere come l'infinito metafisico. Per il Saisset il tentativo del Gratry di operare un avvicinamento tra scienza e filosofia, e tra filosofia e teologia, tentativo nobilissimo, si risolve in una gran confusione e con una manipolazione indebita della scienza per i fini tipici della teologia 85 • Gratry, dal canto suo, sul calcolo infinitesimale rimprovera al Saisset di aver fatto il giusto cammino ma .di non essere giunto a] termine. Indubbiamente è vero che ciò che intende Gratry come infiniment petit e infiniment grand non è la quantità dei lati del poligono, inscritto in un cerchio, crescenti e decrescenti. Per Gratry queste nozioni sono il limite della grandezza crescente e decrescente al di fuori della grandezza stessa: «Così vedete ancora, da una parte la grandezza indefinitamente crescente, e d'altra parte al di sopra di ogni grandezza possibile, !'infinitamente grande attuale e propriamente detto, anche se astratto» 86 • Tra la quantità o la grandezza crescente o decrescente e questi limiti c'è l'abisso dell'infinito, che solo il pensiero colma andando dal finito propriamente detto all'infinito. E' necessario uscire dalla quantità, sostiene il Gratry, per raggiungere questo infinito che è l'idea più creativa della matematica. CDsì, per lui, il pensiero del Saisset resta sospeso e non conclude 87 • Per noi il "vincitore" di questa polemica resta il Saisset, perché coglie molto bene i punti poco chiari della Logique. Ad esempio, questo infinito geometrico fuori della· quantità è per li Saisset incompleto e astratto e, nonostante Gratry Io collochi come gravido di realtà nell'Essere increato, rischia di ridurre la metafisica al mondo della pura astrazione materna-
85 Cfr. ibid., 936, a proposito dell'equazione algebrica: zero moltiplicato per l'infinito = un'a quantità qualunque. "" Logique, Il, cit., 446. 87 Tutto ciò è esposto in maniera più articolata nella Introduction alla II ed. della Logique, chiarendolo meglio con il discorso della circonferenza e del poligo~o inscritto. Cfr. Logique, I, cit., LXXIV.
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tica e di svuotare l'infinito di Dio di tutto il suo contenuto di essere. «Ecco Dio, i suoi attributi, divenuti come l'estensione dei geometri, delle nozioni puramente astratte, e forse, se si vuole spingere l'assimilazione più lontano, delle nozioni irrealizzabili, idee del pensiero che possono essere conosciute solo a condizione di contraddirsi» 88 • Quindi, a parere di Saisset, il grande antihegeliano rischia di rimanere preso dentro i principi della filosofia tedesca, che egli stesso aveva definito come la contrnddizione vivente e la distruzione ,della logica. 2. 5. Osservazioni sul procedimento dialettico a) Procedimento dialettico e induzione metafisica. Abbiamo visto, descrivendo l'induzione dialettica, che una delle sue caratteristiche è quella di non possedere un termine medio. Gratry ama molto accostare a questa prospettiva l'induzione dialettica. Essa è uno slancio dell'anima che partendo dallo spettacolo del mondo conclude immediatamente a Dio. La parola élan è ripetuta molto dal Gratry per indicare un procedimento che non è per nulla discorsivo. A tal proposito possiamo prendere taluni testi molto significativi. Il procedimento dialettico «[ ... ] consiste, diciamo, nel cancellare immediatamente, con il pensiero, i limiti dell'essere limitato e le qualità imperfette, che uno possiede e vede, per affermare, senza altro intermediario, l'esistenza infinita dell'Essere e delle sue perfezioni, corrispondenti a quelle che uno vede» 89 • Le parole chiave: «immediatamente» e «senza altro intermediario», «senza alcun ragionamento» 9<\ unite ad altre molto simili che definiscono !'induzione «atto simultaneo dell'intelligenza e della volontà» 91 , non lasciano .dubbi sul pensiero del Gratry. D'altra parte però, a proposito dello stesso argomento, nel-
88
E. SAISSET, art. cit., 935.
89
De la connaissance de Dieu, I, cit., 49. La sottolineatura è nostra. Jbid., 47. Jbid., 55.
9()
91
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la Introduzione al 2° volume della Logique, l'Autore aggiunge altri elementi che concorrono a rendere questo procedimento possibile, e che per noi hanno tutto il sapore di intermediari logici"- Egli dice al n. 3 del Résumé sur l'induction che l'anima "sentendo" Dio (senso divino), ha come innate due idee: «L'una è l'idea dell'essere, dell'essere finito e dell'essere infinito; l'altra è l'idea di causa, di causa prima e di causa finale» 93 • Sostiene altresì al n. 5 dello stesso luogo che queste due idee costituiscono le radici della ragione e da esse scaturiscono «i due principi razionali: il principio di identità e il principio di trascendenza; principio di identità relativo all'idea di essere; principio di trascendenza relativo all'1dea di causa» 94 • Sono questi principi, connaturali alla ragione e talora agenti in essa senia eh' essa ne abbia coscienza esplicita, i criteri informatori del mondo delle cose finite. E' questo principio di trascendenza, chiamato da Leibniz principio di ragione sufficiente, che giuoca un ruolo primario in quest'ascesa dal finito all'infinito per abolizione dei limiti. A questo punto viene da chiederci: questo principio di trascendenza non giuoca un ruolo di intermediario logico? L'idea di Dio o di infinito può diventare chiara ed esplicita senza questa mediazione? Certamente no. Allora l'induzione, anziché essere un passaggio immediato che non ha alcun intermediario, è un «passaggio prudente dove lo spirito si serve di un doppio punto di appoggio, da una parte di un principio generale, dall'altra di dati sperimentali, per giungere a una conclusione che sorpassa l'esperienza» 95 . E' indubbio che il Gratry su questo punto resta un po' ondeggiante, ma a nostro avviso non lo si può accusare di non accettare interamente l'apporto dei principi generali. Secondo noi, quando il Gratry insiste sulla mancanza di intermediari 92 Non ci occupiamo per adesso del "senso divino" e delle "condizioni morali" del procedimento dialettico, perché saranno oggetto di specifica trattazione in seguito. 9.i Logique, I, /ntroduction, cit., XVIII. 94 L. c.; cfr. De la connaissance de l'dme, I, cit., 265-267. 95
B. POINTUD -GUILLEMOT, op. cit., 29.
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nello slancio induttivo, egli vuole asserire in forma netta che l'induzione non è riducibile alla deduzione o al sillogismo. Sillogismo che sarebbe così formato: la legge razionale come maggiore, il rapporto causale ottenuto come minore e la legge cercata come conclusione. Ora, nel caso del procedimento sopra descritto, noi cadremmo in una quaternio terminorum, per l'accezione del soggetto della minore che non è la stessa di quella del soggetto della conclusione. Nel primo caso si tratta di un rapporto causale· constatato in uno o più casi dati, nella conclusione invece il soggetto diviene astratto e universale. Quindi l'induzione non è assimilabile al sillogismo perché essa come processo di trascendenza conclude a una conclusione non inclusa nel punto di partenza. La critica che solitamente si fa al Gratry, di presentarci un procedimento induttivo mistico come fondato solo su un'esperienza del divino che esclude ogni intermediario logico, è ingiusta e non corrisponde a quanto lo stesso Gratry asserisce nell'introduzione alla II edizione .della Logique. Forse c'è da dire che, talora preso dall'affiato mistico, non puntualizza bene i concetti, dando questi intermediari come scontati, ma il suo senso mistico non porta mai all'annientamento, bensì è attivo e riconosce in pieno tutte le risorse della ragione. Tuttavia i critici hanno fatto notare questa carenza. Afferma il Largent: «Quando Gratry ripete [ ... ]: tutto è finito sulla terra, ma io provo una tendenza irresistibile verso l'infinito e il perfetto, dunque esiste un Essere infinito e perfetto; questo argomento, nonostante sia interamente induttivo, non suppone per essere valido un principio senza il quale non si potrebbe concludere niente dai due fatti di esperienza dati nelle premesse?». «L'induzione vale solo ·per l'affe!'mazione previa di u,n principio come questo: ogni tendenza irresistibile deve avere il suo oggetto. E questo principio sarebbe valido se noi non ammettiamo pr.ima una legge provvidenziale e con la legge il Dio da cui essa dipende?» 96 •
96
A.
LARGENT,
Gratry, in DThC, VI/2, Paris 1920, col. 1759.
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E' chiaro che Gratry non si sveste della sua fede per filosofare, anzi talora ragione e fede si intersecano meravigliosamente. b) Procedimento dialettico e induzione scientifica. Un altro punto sul quale il pensiero del Gratry crea qualche problema è la perfetta identità che egli istituisce tra il metodo dialettico della metafisica e l'dnduzione scientifica. Abbiamo visto, parlando dell'induzione applicata da Keplero, come per il nostro Autore l'induzione scientifica arrivi alle leggi necessarie ed eterne della natura concependole come le idee divine che hanno presieduto alla creazdone. Induzione scientifica come ricerca «di leggi necessarie ed eterne, che sono in Dio» 97 • E ancora: «il procedimento infinitesimale nelle sue applicazioni particolari è un proceddmento che ricerca in ogni ordine di fenomeni, l'idea che vi corrisponde in Dio» 98 e tutto ciò che è in Dio è Dio stesso. Vale a dire che scoprendo la legge dei fenomeni «Uno si slancia realmente dalla pluralità alla totalità, alla totalità infinita, cioè dal finito ali' infinito» 99 • Abbiamo visto anche, parlando del Saisset, quali sono le critiche precise che ha rivolto a Gratry. Ma chiediamoci ora cosa sia, in fondo, questa totalità infinita che esprime la legge, questo suo carattere di universalità. Il Pointud-Guillemot nota acutamente che dire totalità infinita è già una contraddizione, perché la legge abbraccia tutti i casi simJ!i a quelli osservati, tutti i fatti dello stesso genere, collocati nello spazio e nel tempo""'. Si deve quindi parlare di una totalità indefinita. Questo concetto non è per nulla ,identificabile con !'infinito; esso implica la non conoscenza di tutte le possibilità di applicazione della legge (per questo non ha limiti) ma non pienezza e perfezione. L'infinito non div,iene e non riceve dal possibile un'estensione nuova. La legge inoltre è relativa a un determinato o~dine di fatti,
"' Logique, II, cit., 62. 98 Jbid., 75. 99 Ibid., 71. 100 Cfr. B. Po1NTUD - GUILLEMOT, op. cit., 32.
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presi in esame secondo un preciso punto di vista. Quindi la sua universalità non è per nulla assoluta. Ancora: la legge si presenta come necessaria? Senza dubbio essa implica una concatenazione necessaria tra fatti o gruppi di fattJ; se un fenomeno è dato, un altro se ne produrrà necessariamente. In ogni caso è sempre una necessità determinata dalla natura e dalla situazione di questi fatti. Cambiando la natura di quesN ,fenomeni cambia H loro rapporto e cambia anche la legge. In questo condividi"mo in pieno quanto asserisce Pointud-Guillemot nel suo saggio sulla filosofia di Gratry: «La legge non fa delle cose ciò che esse sono, esprime solo cfo che risulta dalla loro esistenza; essa non produce la stabilità della natura, la constata; essa è la traduzione in linguaggio logico di ciò che accade di fatto nel mondo sensibile» 101 • Ora è un fatto che la natura è contingente, quindi le leggi come manifestative o esplicative di essa non possono mai uscire daJrambito della contingenza 102 • Comunque, su questo punto, restano valide le osservazioni del Saisset che sostengono a viva forza come le leggi non sono altro che generalizzazione di fatti e soprattutto che il fine della metafisica e della fisica non è identico 103 • Il metodo dello scienziato è del tutto differente da quello del filosofo anche se, dicevamo, il punto di partenza è comune. Lo scienziato arriva alla legge dopo lunghe osservazioni, comparandole tra di loro, cercando di cogliere mediante continue sperim·en.tazioni ciò che in un fenomeno è accidentale e ciò che è essenziale. Il contatto coi fenomeni è prolungato e bisogna sempre verificare la legge coi fatti che l'hanno generata. Il metafisico invece dimora poco nelle spedmentazioni o nelle comparazioni dei dati, perché non cerca le loro relazioni. Qui il centro di interesse è trovare un oggetto che spieghi e giustifi-
101 io2
Ibid., 34. Si veda quanto già detto sulla nota di Gratry all'inizio del I volume della Logique (II ed.), dove sembra che l'A. inclini ad accettare questa osservazione, che poi nella stessa pagina smentisce categoricamente. Hn Cfr. E. SAISSET, art. cit., 924-925.
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chi i fatti stessi mediante il principio di ragione sufficiente. Egli non cerca solo un legarne logico tra le cose, quanto un legarne vivente e reale, ontologico, con la causa divina. Anche da un punto di vista strettamente logico, i due modi di procedere razionali non ci sembrano assimilabili. Nel caso dell'induzione scientifica noi troviamo una caratteristica netta: la generalizzazione di un rapporto tra cose, coJ.to dalla ragione con un processo di astrazione che scarta quanto non concerne il rapporto cercato. Quindi la legge esprime una visione parziale della ricchezza del reale; e anche se abbraccia una generalità di fenomeni, resta sempre nello stesso orizzonte epistemico. Nel procedimento metafisico intanto l'astrazione non mira a e1irninare semplicemente l'accidentale e le note individuali di un oggetto, bensì essa cancella dal!' oggetto quanto diminuisce il suo essere, lo restringe e lo impoverisce; essa elimina ciò che non fa di questo oggetto una realtà piena e perfetta. E' così che si può raggiungere l'idea di Dio come l'Essere infinito e perfetto, e solo così nella conclusione noi troviamo qualcosa di qualitativamente differente dal punto di partenza. Da questa disamina si può vedere come la fisica e ,la metafisica si muovano in campi differenti: l'una resta nel campo del particolare e del contingente offrendo una spiegazione parziale dei fenomeni; l'altra cerca la causa di tutto e Dio come fondamento del!' ordine e delle leggi, e come prima e somma realtà. Si noti bene: con ciò nessuno dice che la ragione non adopera le stesse leggi stEutturali in fisica e in metafisica 10', ma che l'oggetto di indagine è diverso totalmente, cosicché si generano anche differenze metodologiche sostanziali ed esiti differenti.
c) Procedimento dialettico e calcolo infinitesimale. Concludendo il cap. IV del libro II della Logique Gratry identifica ancora il procedimento dialettico al calcolo infinitesimale. Infatti come il procedimento dialettico anche il calcolo infini,tes,i-
104 Cfr. Note sur un article de M. Saisset ... , cit., 93. Qui Gratry ritorce al Saisset la sua critica, dicendo: «Donc il s'agit pour lui de montrer que la raison a trois procédés logiques différents, et raisonne autrement en philosophie en phisique et autrement en géometrien.
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male «Osserva il finito per analizzare 'l'infinito; prende il finito per esempio dell'infinito; distingue in questo infinito due termini, l'uno essenziale, invariabile (f'x), e l'altro accidentale e variabile (Xlix), che diminuisce a misura che uno si avvicina all'infinito, e che si annulla quando vi si giunge, o piuttosto che, annullato per ipotesi, introduce perciò anche H carattere d'infinito nella nozione che si era dedotta dal finito. Tale è il procedimento infinitesimale. L'identità del procedimento per la fisica e la geometria è manifes,ta» 105 • Avevamo definito a suo tempo la natura del calcolo infinitesimale come il procedimento induttivo operante sulle forme geometriche per conoscerne l'essenza, la loro natura e il loro carattere. Ma l'infinito che raggiunge il calcolo infinitesimale è lo stesso dell'infinito della metafisica? La gran parte dei critici non è d'accordo con questa tesi. La prima obiezione che viene rivolta si fonda sulla natura stessa di questo infinito matematico. La matematica e il calcolo infinitesimale raggiungono un infinito astratto, puro prodotto della nostra ragione. Anche Gratry sembra propendere per questa idea, quandQ afferma citando Ampère e Poisson che 1'infiniment petit non è una quantità piccolissima. Si chiede quindi: «Se l'elemento infinitesimale non è una quantità, cos'è allora? E' una idea, un'idea, dico, e basta!,, 1°'. Fin qui ci siamo. Immediatamente però Gratry non si rassegna a non conferire a questa idea un valore ontologico concreto e attuale. Continua, così la stessa frase: «E se ogni cosa ideale è reale, essa è una realtà [ ... ]. Sì, all'idea· astratta che noi abbiamo dell'infinitamente grande e del!'infinitamente piccolo corrisponde una realtà che esiste nella natura delle cose, in Dio, nell'infinito attuale e reale» 100 • Con questo ricorso alla teoria delle idee Gratry dà alle astra:oioni matematiche oggettività e concretezza di essere. In fondo, come per le leggi fisiche noi conoscevamo le idee di
1os Logique, II, cit., 116-117. Sullo stesso problema, cfr. De la connaisu sance de Dìeu, II, cit., 115. 106 Ibid., 124. 101
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Dio, elemento fondante delle cose create, così con le nozioni matematiche ·noi abbiamo (<una certa visione di Dio» 108 • Solo che in fisica le leggi scaturivano dall'osserva:oione e dalla sperimentazione; i concetti matematici invece no.n scaturiscono da fatti o fenomeni, perché la natura non ci fornisce strutture perfette: esse sono solo fn1tto dello spiri.to umano che Ii crea e li mette Jn opera. «Il rigore assoluto delle conclusioni matematiche proviene dal legame logico delle nozioni che si concatenano, a partire da un piccolo numero di elementi convenzionali e di definizioni, che esprimono le leggi di generazione delle figure per mezzo di questi elementi» 109 • Quindi l'idea di infinito matematico legata a principi e ipotesi totalmente ideali, pur avendo un forte valore logico, non sembra avere un fondamento oggettivo fuori di questi prodotti puramente ideali. Direbbe Gratry: ogni cosa ideale è reale almeno in Dio, perché a ogni i<dea chiara nello spirito corrisponde una rea1tà. Ma 1a coerenza logica e la non contraddittorietà di una idea non gli garantiscono affatto un'esistenza oggettiva e attuale. Lo stesso Gratry aveva detto che .Ja conclusione di ogni procedimento sillogistico è valida se il punto di partenza è un dato reale «derivato dalla natura delle cose» irn Così, quando uno prende per punto di partenza un puro possibile, la conclusione sarà necessariamente una possibilità. Ora la matematica vuole provare la possibilità logica delle sue conclusioni e la loro rigorosità; di conseguenza l'infinito matematico non è pregno di realtà come quello metafisko. !noi.tre descrivendo il calcolo infinitesimale avevamo visto come Grat1y si sforzava di dargli un fondamento oggettivo applicandolo al movimento. Egli vede gli infiniment petits come ,; principi del movimento e dell'estensione al di là di ogni movimento ed estensione. Queste nozioni non ci sono nel mondo sensibile, tuttavia esercitano una azione concreta su di esso:
ios L. c. 109 110
B. POINTUD-GUILLEMOT, op. cit., 42. De la connaissance de Dieu, I, cìt., 50.
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sono in fondo i germi del movimento, della durata e dell'estensione. Gratry è ben lontano con questa precisazione a concepire J',infinitamente piccolo come un'idea in Dio: esso in fondo risponde a un oggetto fuori di noi. Egli dice a proposito del movimento della terra: «C'è qui una rea1tà esterna, l'ellissi realmente percorsa dalla terra punto per punto; ellissi nella quale, o piuttosto sotto la quale, una infinità assoluta di punti, cioè .di elementi infinitamente piccoli, esistono effettivamente» 111 • Quindi qui l'infinito matematico cessa di essere una nozione puramente logica, formata dalla stessa ragione a partire da certe ipotesi, e di assumere una consistenza concreta. Come mai al!om questa contraddizione in Gratry? Non aveva detto che l'infinito matematico non esisteva nella natura creata? Sembra che per lui questa contraddizione non sussista perché egli è convinto che la geometria pura non è capace di raggiungere ,J'infinito reale ma solo la geometria applicata. Ma qui è il punto: sia la geometria pura come quella applicata procedono con nozioni astratte e concludono a nozioni dello stesso genere 112 • Le conclusioni del calcolo infinitesimale non si applicano per nulla alle cose fisiche. E' vero che con il movimento (passaggio daHa potenza all'atto) si può ,dimostrare l'esistenza di Dio, ma non perché il calcolo infinitesimale vJ scopre l'infinito come germe di ogni movimento. Questo è un infinito astratto, irreale, non attualmente esistente. Il movimento è un fatto concreto che .richiama una causa originaria e originante. Crediamo che si possa contestare al Gratry l'affermazione secondo la quale la prova per il calcolo infinitesimale applicato al movimento sia la stessa di quella di S. Tommaso: esse si muovono su due piani diversi. E poi, come una nozione astratta, che ha fondamenti meno solidi, potrebbe dare più rigore alla classica prova dell'esistenza di Dio? m Logique, II, cit., 146-147. 112 Il PoINTUD - GUILLEMOT, op. cit., 45, riporta a tal proposito questa
acuta osservazione del Riquier: «L'elemento matematico di ogni scienza applicai~ è esclusivamente analitico, ma dà luogo ad Una evocazione continua di certe immagini o apparenze fisiche».
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Inoltre, si può dire che la matematica raggiunga un vero infinito, anche se puramente logico? Il Saisset aveva visto la natura di questo Jnfinito nella proprietà che ha la grandezza di essere indefinitamente divisibile. Gratry aveva risposto citando un testo <li Pascal che questi infiniti geometrici sono al di fuori della grandezza come i 1imiti irraggiungibili di essa. Così infatti il Gratry: «L'infinitamente grande e !'infinitamente piccolo sarebbero le due estremità della quanHtà al di fuori della ·quantità, verso le quali cresce o decresce la quantità, senza poterci mai giungere» 113 • Ma questa risposta pertinente, forse, contro l'obiezione di Saisset non può soddisfare. E' vero che mentre la quantità cresce o decvesce indefinitamente, i limiti infinitesimali si presentano come sottratti a queste vicissitudini, e qualora potessero essere raggiunti l'indefinito assumerebbe tutti i caratteri dell'infinito. Ma questi limiti, concepiti grazie a un'operazione della ragione, dicono sempre come nozioni un riferimento alla quantità indefinitamente crescente o decrescente. Essi sono dei limiti che la ragione pone per fermare in qualche modo questa crescita incessante dei numeri: questo infinito non è un vero infinito logico, ma il termine approssimato della quantità considerata. E' una realtà almeno ideale? E' una ipotesi il cui vero nome è limite, e si chiama infinito solo perché la nozione che pone, appare sottratta alla legge di "crescenza" e di «decrescenza delle quantità» 114 • Quindi anche da un punto di vista logico la nozione di infinito non è concepita come un vero infinito bensì come fine di una progressione geometrica, fine non raggiunto dalla progressione, ma posto dalla ragione per dirigerla.
* * * Pensiamo di avere sufficientemente chiarito come il tentativo di Gratry <li rigorizzare il discorso metafisico nel suo itinerario a Dio con il calcolo infinitesimale non sia riuscito. Gratry
113
114
Note sur un article de 'M. Saisset ... , cit., 43. B. POINTUD - GUILLEMor: op. cit., 50.
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scrivendo l'introduzione polemica alla seconda edizione della Logique, non ebbe chiaro il senso delle critiche rivoltegli, che in ultima analisi volevano essere il rimprovero di avere presentato una fisica e una geometria metafisicheggianti. «Quando egli crede di aver colto l'infinito nella legge, o nella nozione geometrica [ ... ]; e che dimenticando il punto di vista rigorosamente scientifico dove lo scienziato resta saldo, egli penetra gli oggetti di queste scienze con considerazioni metafisiche, che derivano ,da un'altra fonte e da un'altra scienza» Hs. Questo giudizio è, a nostro modo di vedere, una chiave di lettura molto intelligente per l'opera gratryana. E' il teologo e il mistico, che già ha provato l'esistenza di Dio e vive questa. come esperienza di fede nella contemplazione, che è portato a vedere e sentire la presenza di Dio dappertutto. Ma, se questa esperienza religiosa e mistica fa sentire Dio onnipresente, con ciò non si può affermare che le leggi fisiche o geometriche equivalgano a U·na certa conoscenza di Dio. Sempre le scienze. con le loro leggi ci offriranno degli oggetti finiti che bisogna oltrepassare per poter arrivare a qualche nozione di Dio. Ripetiamo che qui sta l'equivoco: confondere il piano della fisJca con quello della metafisica. Nella fisica si ottiene una spiegazione relativa a certi fenomeni particolari e contingenti e, una volta raggiunta, la ricerca si ferma. Nel calcolo infinitesimale la ragione pone un :liimite convenzionale alle nozioni di infiniment petits e di infiniment grands progressivamente decrescenti o crescenti. Nella ricerca metafisica invece la ragione non si ferma a un limite indefinHo, né alle generalizzazioni di fatti contingenti: essa cerca la ragione sufficiente e ultima di tutto, la causa incausata, e l'Essere assoluto. Quindi non si tratta di dimostrare la fecondi-tà del calcolo infinitesimale, come fa Gratry, per rispondere a queste critiche: esso resta sempre valido come acquisizione della matematica, ma non ha nulla da dirci sull'Essere as·soluto, su Dio 116 . Jbid., 64. Taluni critici, tra quali il Pointud-Guillemot e il Caro, hanno fatto rilevare che la scelta del termine infinito attribuito a Dio dal Gratry, men· 115
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3.
Il senso divino
3. 1. Excursus storico
Nell'excursus di storia della filosofia che Gratry espone nei due volumi De la connaissance de Dieu, egli cerca di pro· vare come tutti i filosofi citati hanno in qualche modo praticato il procedimento dialettico. Tale procedimento esige due con· dizioni: una "qualche presenza" di Dio nell'anima e un eser· cizio di purificazione morale. Non a caso abbiamo scritto «Una qualche presenza di Dio nell'anima». Infatti, come per il procedimento dialettico egli spesso accomuna punti di vista disparati di filosofi che hanno tra di loro solo una lontana analogia. Platone aveva cercato il principio fondante della dialettica nell'anima intellegibile che è sospesa a Dio. In fondo la reminiscenza è possibile perché l'uomo ha in sé la presenza del divino (IMov). E' in questa luce che Gratry interpreta la parola lìa.lµwv del Timeo m, cioè come senso divino operante nell'anima dirigendola verso la felicità. Quindi una prima connotazione del senso come un principio intellettuale, r.isvegliato dai fantasmi del mondo sensibile. In Aristotele, secondo il Gratry, i.l senso divino ha la caratteristica di un'attrazione universale del motore immobile, come attrazione del desiderabile e dell'intellegibile, quasi un principio profondo che anima l'univerno conducendolo al proprio fine 118 • A questa attrazione quasi cieca si contrappone Agostino, per diversi aspetti molto più vicino alla reminiscenza platonica; egli parla di una «sorta di memoria occulta» 119 del Somtre è il debito pagato alla sua fotn1azione scientifica è stata per lui la fonte di tante confusioni. Il termine infinito non sarebbe tanto un attributo speciale quanto piuttosto il carattere comune di tutti gli attributi divini. Essi ritengono più corretto l'attributo di assoluto perché esprime meglio il carattere di necessità e di perfezione totale d1 Dio. 111 Cfr. De la connaissance de Dieu, I, cit., 73-74; PLATONE, Timeo, 89-90. ll8 Cfr. De la connaissance de Dieu, I, cit., 124. 119 S. AGOSTINO, De Trinitate X, 3, 5, PL, XLII, col. 975.
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mo Bene nella nostra anima. E inoltre, nota Gratry, la memoria di Agostino è ben differente da quella di Platone: qui la memoria è una specie di esperienza di Dio che deriva dalla sua presenza in noi. «Essa (l'anima) porta in sé l'essere Assoluto, la Ver·i.tà stessa, il Bene stesso; ne sente qualcosa necessariamente» 120 • Ma gli autori che offrono al Gratry qualcosa di più per chiarire il concetto del senso divino sono i grandi autori del XVII secolo: Fénelon, Bossuet, Leibniz, Pascal e soprattutto Thomassin. Le citazioni del Traité de l'existence de Dieu di Fénelon ci convincono poco a tai proposito, perché esse parlano di un riflesso divino nella ragione, come quasi un'illuminazione, ché la abilita all'intelligenza. Dice Fénelon: «E' dunque nella luce di Dio che io vedo tutto ciò che può essere visto» 121 • Con Bossuet, invece, incomincia a connotarsi il senso divino in maniera più precisa: egli ammette l'apporto di influenze particolari, estranee all'intelligenza propriamente detta, per la formazione della nozione di Dio. Come l'uomo mutabile e finito può arrivare alla idea di Dio che è uno Spirito puro?: questo è il problema di Bossuet. Egli risponde dicendo che c'è nell'anima "una forza nascosta" che è legata a un principio più alto. Per il Gratry questa risorsa nascosta fa che l'anima "tocchi" Dio e le permetta di slanciarsi in alto verso l'eterno e l'infinito 122 • Leibniz ha descritto pur senza sistematicità nei Nuovi Saggi le condizioni per il procedimento dialettico, fornendo al Gratry elementi che egli giudica probativi per la sua teoria del senso .divino. Parlando delle >dee innate, Leibniz scrive: «Cosa sono queste idee che sono in noi, non sempre in modo che si possano percepire, ma sempre in modo che si possano fare emergere dal proprio fondo per renderle percepibili?» m Gra try in120
De la connaissance de Dieu, I, cit., 183. Traité de l'existence de Dieu, II, 4, nota 58. Cfr. De la connaissance de Dieu, II, cit., 55. G. W. LEIBNIZ, Nouveaux Essais, IV, 10, 7. La traduzione è nostra.
121 FÉNELON, 122
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terpreta questa frase dicendo che una tale idea di Dio innata altro non è che il senso divino. Per Leibniz ci sono verità che si "sentono" quasi per istinto, non immediatamen,te esplicite, però sentite come vere. Ciò, dice Gratry, ci ricorda le "ragioni del cuore" di Pascal, con una differenza tra i due: per Leibniz queste idee profonde sono in seguito comprese dalla ragione, per Pascal no m Citiamo infine Thomassin, perché è l'autore citato di più dal Gratry, e a noi sembra quello che ha fatto sì che in Gratry si precisasse la teorfa del senso divino. Nel II voi. del De la connaissance de Dieu,..Gratry riassume in maniera diffusa questa teoria del Thomassin, citando in nota il testo preciso del Theologicorum dogmatum; nel I voi.' del De la connaissance de l'àme, invece, cita per intero il classico cap. XIX del libro primo che porta questo titolo: Supra vim intelligendi est sensus quidam arcanus quo Deus tangitur magis quam cernitur aut intelligitur. Già il t<itolo è significativo e delinea i trat.ti essenziali del senso divino: esso implica una presenza misteriosa, non chiara razionalmente, che fa sent·ire Dio e dà alla ragione la base per una nozione chiara. Così si esprime il Thomassin: «Al di sopra dell'intelligema c'è al centro dell'anima, un senso arcano, un contat.to misterioso, il presentimento, il silenzio dell'anima, con .iJ quale Dio è sentito piuttosto che compreso, che lo' tocca più che vederlo» 115 • Questa esperienza profonda che l'uomo si porta dentro, nella radice della sua anima costi.tuisce la base per conoscere qualcosa di Dio. E' interessante vedere in questa concezione del Thomassin qual è il procedimento che mette in luce questo senso a~cano facendolo diventare chiara dimostrazione dell'esistenza di Dio. Il testo questa volta e il cap. XVIII del libro I del Theologicorum dogmatum. A noi, s·i .dice sostanzialmente, è dato di 124 Gratry ha sempre covato un po' di stizza per Pascal, perché questi diffidava nelle possibilità della ragione in ordine alla conoscenza di Dio. 125 L. THOMASSIN, Theologicorum dogmatum, I, 19, 2. Citato da Gratry in De la connaissance de l'time, I, cit., 209.
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conoscere Dio mediante le idee innate che abbiamo di giustizia, di verità, di sapienza, di bontà, di beatitudine somma, eterna, immutabile. Queste idee del nostro animo noi le riferiamo a Dio senza difetti e senza limiti, affermando di Dio tutto quello che di positivo è in noi. Continua il Thomassin: «Noi ci serviamo di questi simboli per descrivere Dio; a ciò siamo spinti da questa conoscenza profonda, nella quale la natura ci fa sentire che c'è un Dio, cioè un essere sommo, incomprensibile, ineffabile» 126 . Allora una conclusione s'impone sul senso divino, così come ci viene presentato dal Thomassin: la base di ogni conoscenza di Dio non è intellettuale ma esperienziale, non si ha dapprima altro che (<un presenti.mento, un profondo presagio, una div,inazione, un contatto segreto e come l'effetto misterioso di un profumo piuttosto che una intelligenza esplicita» 127 • Qui non si tratta di una conoscenza ma di un contatto con le cose divine 128 • Da questo sommario schizzo, possiamo vedere che nella prospettiva del senso ·divino, Gratry accomuna pensatori e idee non omogenei. Il senso divino è presentato talora come un princ1p10 intellettuale, idea innata, intuizione o reminiscenza, presentimento della ragione; talora come «attrazione confusa, istinto cieco che solleva e guida lo spirito e il cuore; talora ancora come una maniera speciale di conoscere, distinta dal cuore e più alta della ragione» 129 • 3. 2. Natura e funzione del senso divino Nell'excursus storico, incomincia a delinearsi la concezione gratryana del senso divino e, in parte, le sue funzioni. Vorremmo adesso tematizzare la nozione di senso divino nella
L. c. Cfr. De la connaissance de l'ànie, I, cit., 212. Cfr. De la connaissance de l'iin1e, I, cit., 220. 128 Cfr. De la connaissance de Dieu, JI, cit., 26-27; cfr, L. THOil.1ASSIN, op. cit., I, 18,11. 129 B. Po1NTUD- GurLLEil.10T, op. cit., 91. Cfr. De la connaissance de Dieu, I, cit., 290. 126
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sua specifica natura, la sua collocazione nella psiche dell'uomo e le sue funzioni in ordine alla teodicea. N elio studio sistematico dell'anima nel I voi. De la connaissance de l'dme, Gratry cercando di approfondirne le pieghe più profonde, .dice che l'anima ha tre potenze essenziali: il senso, l'intelligenza e la volontà. Dopo questa prima affermazione, egli tenta di analizzare la sensibilità facendo notare che essa è la radice dell'anima e che per una sorta di (<penetrazione rnut11a delle facoltà» no essa è l'elemento fondante dell'unità dell'anima, perché porta in sé in maniera implicita l'intelligenza e la volontà. Questo senso è «Une sorte d'intelligence sourde et de volonté instinctive, double élérnent mèlé, à la fois représentatif et affectif, qui pousse d'une part à la perception claire, et d'autre part à l'acte de volonté» 131 • Ciò che caratterizza questo senso, per il Gratry, è ancora di essere la sfera di una vita profonda, nascosta, che è in noi senza di noi che si dispiega a livello inconscio e istintuale. Questo senso nella sua passività ha una triplice capacità di sentire: capacità di sentire il corpo e la natura (senso esterno), capacità di sentire la stessa anima (senso interno) e capacità di sentire Dio (senso divino). Quindi il senso divino è un'esperienza naturale di Dio che ogni uomo può constatare in sé, che richiede di essere, mediante la ragione, percepita coscienten1ente e esplicitata con chiarezza. Il passaggio dal senso divino come dono, come parola nascosta di Dio, ad una coscienza espressa, è in fondo quanto deve operare la teodicea e il procedimento dialettico. "E' per questo senso - dice Gratry - che l'anima prende le ali» 132 e che è capace di rapportare l'esperienza del mondo esterno e ]'esperienza intin1a a Dio: il senso esterno e iI senso intimo uniti al senso dìvino ci fanno interpretare l'esperienza 11mana come contingente, dandoci la "nostalgia dell'infinito" e facendoci ve-
uo De la connaissance de l'ihne, I, cit., 186. lbid., 187. Ll 2 Jbid., 207. JJJ
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dere la natura e l'anima come parole di Dio da interpretare. Il senso divino, come atto del divino, ed esperienza di Dio confusa, offre alla ragione il punto di partenza esperienziale per conoscere Dio. «Dio per la sua presenza, ci fa questo dono, che è innato, continuo,, universale; il dono è fatto: è messo nelle nostre mani; ci resta di prenderlo con la ragione e con la libertà; ci resta di rendere esplicita in noi, con la ragione, l'idea confusa di Dio, e, con la libertà .la vaga attrazione verso Dio»"'- E' per il senso divino che è data la possibilità del procedimento dialettico che si lancia dal finito all'infinito; è la sua unione con tutti ,i campi dell'esperienza umana che fa sì che questa diventi un punto di partenza concreto verso Dio. Meglio ancora possiamo precisare: è un fatto che si conosca Dio con la ragione, ma non con la ragione astratta o pura. Essa ha bisogno di partire da qualcosa di concreto e di preciso, cioè dai dati dell'esperienza esterna e intima, che destando il senso divino in noi ce lo fanno conoscere in maniera esplicita 134 • Possiamo tentare a questo punto una sintesi precisa del procedimento dialettico vedendone schematicamente i passaggi, in modo da cogliere tutta l'importanza del "senso divino" in questa ascesa dell'uomo a Dio. Prima affermazione di principio: «L'anima ha il potere di essere conforme a tutto [ ... ] sente Dio, il mondo e se stessa» 135 • «Sente questo fondo e centro di se stessa per il quale tocca Dio d'un tatto segreto e ·incorporeo» 136 • Questo senso .dell'anima, che è la sua prima potenza, contiene come profondamente implicite l'intelligenza e la volontà, o meglio è la radice di queste due potenze 137 • Oltre a ciò il senso, come istinto del desiderabile e dell'intelligibile, implica due idee innate: l'idea dell'essere finito e infinito; l'idea di causa, di causa prima e di causa finale. 133 134
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De la connaissance de Dieu, I, cit., 291. Cfr. Logique, I, cit., 85; De la connaissance de l'dme, I, cit., 192. Logique, I, cit., XCII; cfr. De la connaissance de l'dme, I, cit., 192. De la connaissance de l'J.me, I, cit., 196. Cfr. ibid., 186; Logique, I, cit., XCIII.
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Dall'idea di causa nasce il principio di trascendenza come bisogno implicito della ragione di risalire alla causa di tutto. Questi sono gli elementi impliciti e oscuri che entrano in gioco nel procedimento dialettico; sono riassumibili nella parola "senso" come luogo di luci impJ.icite che a~pettano una occasione per esplicitarisi. Come avviene allora il passaggio dall'esperienza del contingente all'assoluto, dal finito all'infinito? Il senso ha bisogno di essere svegJ.iato mediante l'esperienza degli oggetti particolari e dell'anima: è il senso divino che, svegliato ci fa cogliere le cose come immagini di Dio, come partecipanti in maniera finita della sua grandezza e delle sue perfezioni, dandoci l'idea di Dio come infinito e come ragione sufficiente di tutto. Così conclude Gratry: «Io dico in primo luogo che, senza la "molla" del sentimento, che è la luce implicita che Dio dà perché egli si fa sentire e oorne essere assoluto e come causa prima e finale, senza questa spinta del senso divino, questo slancio o processo di trascendenza non sarebbe possibile. L'anima non va a Dio senza di Dio» 138 • E possiamo aggiungere, non solo non va a Dio senza di Dio che è il termine ultimo del procedimento dialettico metafisico, ma non potrebbe neanche esercitare in tutti gli altri campi il procedimento induttivo dialettico. Dunque non è possibile, seguendo Pratry, operare il transitus dal finito all'infinito poggiandosi solamente sui dati della sensazione. Parlando del .procedimento dialettico, avevamo mostrato come l'Autore insiste spesso sul fatto che l'induzione è uno slancio, senza alcun interrnediar-io, dal finito all'infinito. Tra il punto di partenza e quello di arrivo, c'è un abisso; e non è dato neanche .un legarne logico come per es. il termine medio della deduzione. Sostiene il Pointud-Guillernot che Gratry introducendo il senso divino vuole colmare un vuoto nella sua teoria cercando di riavvicinare finito e infinito. Con questa teoria, in fondo, non si introduce il metodo di identità nel
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Logique, I, XCIX.
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•procedimento dialettico? metodo che per il Gratry era totalmente assente e neanche implicito? «En effe!, en admettant l'impossibilité d'aflìrmer Dieu, à partir de la sensation, sans autre donnée, il affirme que la raison ne peut passer du méme à un different sans lien avec ce ,n1ème; il lui faut ici posseder déjà dans son point .de départ un élément ,du méme ordre que celui qu'e!Ie déploiera dans la conclusion» 139 • Condivi•diamo in pieno questa osservazione, che peraltro è fondata, a nostro avviso, nel discorso che Gratry porta avanti quando dice che la facoltà di conoscere è la ragione fondata sui dati dell'esperienza (senso interno, senso esterno, senso divino), esplicitando e chiarendo quanto in essa contenuto. E allora, il punto di arrivo del procedimento dialettico non è già implicito nel punto di partenza? 3. 3. Carattere mistico della dialettica La presenza del senso divino dona indubbiamente un tocco mistico-sapienziale alla riflessione gratryana. Anzi egli non ha alcun timore nel sostenere come «questo punto, che è l'introduzione in filosofia del misticismo vero e necessario» 140 , sia l'aspetto più creativo della filosofia fin dalle origini. Crediamo che l'A. abbia saputo vedere con intelligenza il fatto mistico e forse da esso influenzato, abbia saputo dare al suo pensiero un equilibrio sorprendente. Cos'è stato per lui, da un punto di vista storico, il misticismo cristiano? Quali le sollecitazioni positive per la filosofia e per la scienza? Esso rappresenta nella storia della cultura una reazione contro ragionamenti sterili e completamente fuori della realtà, .in altri termini, di disgusto del ragionamento astratto e isolato, e il bisogno dell'esperienza» m In campo religioso i mistici non si pongono il problema di Dio come un fatto da approfondire razionalmente, bensì corr1e ur1'esperienza da se11tire i1el profondo dell'anima e da amare con tutte le proprie forze. B. PoINTUD- Gu1LLEMOT, op. cit., 95. De la connaissance de Dieu, II, cit., 16. "' lbid., I, 282. 139
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Con la parola misticismo s'intendono talora dottrine disparate, e noi non vogliamo fare in questa sede una riduzione superficiale del problema, diciamo solamente che è caratterizzato da un grande peso che dà nei rapporti dell'uomo con Dio, al cuore e al sentimento, talora oscurando la ragione, proiettandosi verso una sperimentazione diretta del divino. Il falso misticismo è quello che annienta le facoltà razionali o le riduce al minimo, che «a forza di dire 'Dio solo' rifiuta il lavoro, la virtù, la lotta della libertà morale, come anche la fatica della ragione» 14'. Un misticismo che riducendo alla passività la creatura, la annienta in Dio. Gratry invece, in linea con la teologia cattolica, distingue molto bene la conoscenza di Dio che l'uomo può raggiungere con l'uso ordinato delle sue facoltà naturali e la conoscenza "sperimentale", cbe si ottiene per la grazia che eleva in qualche modo la natura ad un livello più alto. La conoscenza sperimentale diretta dei mistici è qualcosa di soprannaturale. Egli ripete continuamente che la conoscenza razionale di Dio è sempre mediata e imperfetta, e fa rilevare, con noiosa scrupolosità, negli autori che tratta, i due gradi dell'intellegibile divino: quello naturale e quello soprannaturale. Quando quindi Gratry parla del senso divino cerca con molta precisione di non ridurlo a facoltà conoscitiva e di non soppiantare con esso la ragione. E' vero che ci sono qua e là delle frasi che potrebbero essere interpretate diversamente. Per esempio: quando espone a tal proposito il pensiero di Thomassin, qualche volta non calibra bene le parole, tuttavia non è possibile ad un esame approfondito dei testi attribuire a Gratry una confusione in questo senso. Gratry definisce, l'abbiamo già visto, il senso divino come un ressort, una presenza quasi istintiva che ci spinge continuamente a conoscere e a volere, ma come tale esso non ha la chiarezza delle conoscenze esplicite e razionali. E' la ragione che raggiunge, spinta dal senso divino, la conoscenza di Dio. Quindi, concludendo, il senso è sempre una spin-
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De la connaissance de l'ii.me, I, cit., 208.
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ta sourde e instinctive che dà le ali all'anima in questa ascesa verso l'infinito, tuttavia la conoscenza chiara di questo "istinto" e di quello che contiene è opera della ragione 143 • Questo dono divino naturale inoltre ci conduce alla conoscenza di Dio, con l'attività normale della ragione, e non richiede un intervento particolare di Dio. Possiamo dire che il carattere mistico del pensiero gratryano si risolve nel dare importanza, nell'ascesa a Dio, alla globalità delle potenzialità umane: ragione e sentimento, non tanto a rinunziare alla dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio o tanto meno a ridurre la ragione a un rango secondario. Contrariam2nte al mistico, Gratry non vede il senso divino come un elemento che completa la certezza della conoscenza di Dio, esso spinge a questa certezza; in lui non c'è un godi·mento estatico di Dio quanto un'ansia di ricerca e una continua inquietudine. Si tratta quindi di una «attuazione vaga e di una idea con1fusa» 144 , non chiara1nente cosciente, che spinge ad una ricerca continua e ad una tensione verso }'assoluto. E' Dio che ha creato la nostra anima a sua immagine, che le ha impresso questa nostalgia del Sommo Vero e del Sommo Bene; disposizione e non possesso chiaro. Da qui scaturisce per l'uomo un compito: bisogna rendere questo dono cosciente, «i.J nous reste à rendre explicite en nous, par la raison, l'idée confuse de Dieu, et, par la liberté, la vague attrai! vers Dieu» 145 •
* * * Quanto acbbiamo detto fin qui sul senso divino illumina in maniera precisa alcuni aspetti sapienziali della riflessione gratryana. Egli ha capito che la ricerca su Dio non può non coinvolgere tutto l'uomo, cuore e intelligenza, libertà e ragione. Ma, in concreto, a cosa è assimilabile il senso divino? Abbiamo visto che non è un dono soprannaturale né una
visione diretta dell'in>fì.11ito: esso è come una "molla" e im143
144 14s
Jbid., 187. De la connaissance de Dieu, I, cit., 291. L. c.
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plica tutte le aspirazioni profonde che si agitano nell'animo umano. L'attrait du désiderable et de l'intelligible, è la ricerca della felicità, l'amore per il Bene, la ricerca profonda del Vero e del Bello: cose alle quali l'uomo aspira perché la sua anima è una "parola di Dio" 146 • Questi sentimenti incontestabili, che ci proiettano in una continua ricerca e spesso ci rendono inquieti altro non sono che il bisogno di assoluto e di infinito che portiamo dentro. La ragione reclama una verità totale e il cuore un amore senza limiti. Ora, trattare queste aspirazioni come fatti che esercitano un'influenza sulla ragione e costituiscono la base del suo lavoro, per Gratry e per noi, significa abbattere il pregiudizio razionalistico (Gratry dice cartesiano) «che ciò che non è idea chiara non è niente» 147 • E' una prova di sapienza e di onestà verso l'uomo non porre il problema di Dio come il risultato della ragione che procede in modo geometrico senza tener conto delle aspirazioni dell'anima e delle sue contraddizioni che spesso sfuggono al puro ragionatore. Dio quindi diventa il fine supremo cui l'anima tutta intera tende per natura, con il concorso di tutte le sue facoltà. Prima di finire vorremmo fare al Gratry un rilievo di ordine teoretico. Riassumendo, abbiamo detto che il senso e le sue funzioni (senso divino compreso) per il Nostro «operano in noi indipendentemente dalla nostra conoscenza e dalla nostra libertà, come le funzioni della vita nutritiva» 148 che sono in noi senza di noi. In secondo luogo, i contenuti del senso servono da base esperienziale alla facoltà conoscitiva (ragione) che vi aggiunge le sue chiarezze; anzi questo impulso particolare spinge la ragione nella sua ricerca del vero. 146 L'A. a tal proposito adopera una frase molto significativa che vorremmo citare testualmente: «Dieu est dans l'àme, puisqu'il y est pour la parler, et lui parler». De la connaissance de l'àn1e, I. cit., 206. "' Ibid., 196. '" lbid., 187.
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Questo slancio provocato dal senso divino, questi desideri profondi e istintivi corrispondono ad un bisogno innato di vero che fa in modo che la ragione si plachi solo quando giunge alla conoscenza di Dio. «Quando Dio è conosciuto lanima capisce che già lo pre-sentiva e che il cuore reclamava colui che la ragione afferma» 149 • Ora, come posso dire di dimostrare l'infinito appoggiandomi su senso divino, se questo mi appare tale dopo che ho provato ]'esistenza di Dio o dopo averla raggiunta in qualche modo per altra via? Questa osservazione non mira a cercare cavilli quanto a far notare che il metodo gratryano, spesso ricco di belle intuizioni, non riesce a essere molto rigoroso. Qui non si .discute la funzione del senso divino, quanto il fatto di porlo, a volte, come base sperimentale perché la ragione abbia un fondamento concreto per conoscere Dio. In questo caso tutto il discorso dei fatti concreti, come punto di partenza per la dimostrazione dell'esistenza di Dio, verrebbe quasi a cadere e non si vede perché si dovrebbe ricorrere ad essi se già l'anima contiene tutto quanto può conoscere su Dio, in maniera confusa, nella sua prima facoltà (senso). Ora, ridurre il ruolo dei fatti contingenti solo come occasioni per "svegliare" il senso significa realmente ammettere di dare scarsa importanza a quanto è stato detto sul procedimento dialettico. Resta fermo che l'aspetto più interessante del senso divino è quello impulsivo, di ressort che dà all'anima una spinta dinamica per passare da ogni cosa finita all'infinito, proiettandola verso una conoscenza razionale di Dio. Solo allora il desiderio del Bello, del Bene e del Vero, appariranno tendenze verso Dio e riceveranno il loro vero compimento.
(Continua)
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B. POINTUD. - GUILLEMOT, op, cit., 113.
MARTIN I-IEIDEGGER A CENTO ANNI DALLA NASCITA FILOSOFO DELLA CliISI EPOCALE DELL'OCC!DENTI',, INTERPRETATI! COME STORIA DELL' "OBUO DELL'ESSERE"
SALVATORE LATORA *
Il 1989 è l'anno anniversario dei filosofi, di Wittgenstein ma anche di Martin I-leidegger 1; pensatori epocali l'uno e l'ailtro, le cui meditazioni, ·possiamo .dire, hanno segnato il lavoro specu_lativo del loro tempo e continuano ininterrottamente a influenzare anche il nostro, In entrambi si sono rilevati dei paralleDocente di Filosofia nei Licci. 1 Martin f-leideggcr nacque a Messkirk nel Badcn il 26 setternbre 1889 da genitori di confessione cattolica. In una delle sue rare confessioni personali egli dice: «L'intin1a appartenenza del mio lavoro alla Foresta Nera e ai suoi uomini proviene da un secolare e insostituibile legame svcvo-alc1nanno alla propria terra)> (CLAUS GRDSSNER, Filosofi tedeschi conte111 poranei, Città Nuova, Ron1a 1980, 157). «Nella città natale il padre lavorava con1e bottaio e sagrestano. Il giovane Heidcgger ebbe così contcmporanean1ente contatto con \'artigianato - fu d'aiuto nel cerchiare botti per vino e mosto - e con la Chiesa Cattolica e i suoi riti» (l.c.). Frequenta le scuole·· prin1aric e il ginnasio a Costanza e a Friburgo; nell'anno scolastico 1909-10 si iscrive alla facoltà teologica di Friburgo. (<Negli uliimi anni del liceo, precisamente nell'estate del 1907, ini aveva colpito il problema dell'essere, col quale mi ero imbattuto leggendo la dissertazione di Franz Brentano, il maestro di Husscrl. Questa si intitola: Del 1nolteplice significato dell'esser secondo Aristotele ed è del 1862. Il libro 1ni era stato donato dal mio paterno amico e conterraneo, più tardi arcivescovo di Friburgo i. Br., Dr. Conrad GrObcr; a quel te1npo era parroco della chiesa della Trinità a Costanza. [ ... ] (in me trova conferma) un detto dcl poeta HOldcrlin, che si trova nella quarta strofa dell'inno Il Reno e corr1incìa: '[ ... ] Poiché / come co1ninciasti, così rimarrai'» M. Ii.EIDEGGER, In ca111111ino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, 87-88. Osserva Grosscner: come molti figli di artigiani cattolici, tieidegger
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lismi: un primo e un secondo momento speculativo (la cosiddetta Kehre); gli sviluppi linguistici o ermeneutici; l'esito mistico ecc. Per quanto riguarda Heidegger, uno dei suoi discepoh pm prestigiosi, Hans Georg Gadamer, ha intitolato una recente raccolta di studi in onore del maestro I sentieri di H eidegger ad imitazione del motto in esergo che il filosofo di Messkirk ha voluto nella riedizione delle sue opere: Vege, nicht Werke «'Sentieri non opere"). Una metafora che indica in fondo il senso cli tutta la meditazione filosofica di Heidegger; egli, infatti, ha indicato il proprio filosofare come Denkweg (Denken = pensare; w·eg = via), pensare in cammino, cioè non un pensare che si racchiude in uno statico sistema, ma un difficile e tortuoso cammino lungo un fitto bosco, interrotto di tanto in tanto da una radura (Lichtung = radura; iHuminazione). Un sentiero, dunque, sul quale il pensiero avanza illuminato da sprazzi di luce. Ma come possiamo riconoscere che quello che stiamo percorrendo sia un vero sentiero?
fu allievo dei gesuiti e iniziò a studiare teologia, anzi egli aflerma: «senza questa origine teologica non sarei mai giunto sulla via dcl pensiero». Durante lo studio teologico legge J'Ernteneutica di Schleiermachcr: «Il problema che allora ini tormentava era soprattutto quello del rapporto tra la parola della Sacra Scrittura e il pensiero teologico-speculativo» (l.c.). Ottiene la libera docenza con una licenza su Duns Scoto. Nel 1913 termina i suoi studi universitari e quando nel 1916 Husserl viene chiamato all'università di Friburgo, Heidegger ne diviene assistente. Dal 1923 al 1928: professore incaricato di filosofia a Marburgo, dove ebbe come collega ed amico, per cui si consideri il reciproco influsso, Rudolf Bultn1an. E' attento anche all'opera di E. Cassirer, il cui lavoro su La filosofia delle fanne somboliche è stata da lui recensita. Dopo il 1927-29 c'è un lungo periodo di silenzio in cui Heidegger continua a tenere i corsi ma non pubblica nulla. Nel 1928 succede a Husserl nell'università di Friburgo, dove diviene anche rettore nei famigerati 1933-34, anni della compromissione con il nazional-socialismo. Per tali suoi precedenti nel 1945 deve interron1pere le lezioni all'università secondo il divieto del comando delle forze di occupazione; insegnamento che riprenderà solo nel 1951 come professore emerito sempre nell'università di .1:riburgo. Muore a Friburgo il 26 maggio del 1976.
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Gadamer, nella stessa opera 2 ci dà la chiave di lettura, che è poi un principio o criterio ermeneutico valido per leggere non solo l'opera del maestro, ma qualunque altra. «Soltanto chi cammina insieme sa che si tratta di u·n sentiero» 3 ; comprendere un Autore, dunque, vuol dire ascoltare, domandare, dialogare nel percorrere insieme la stessa strada. «Dd resto, da Essere e Tempo fino alle ultime riflessioni, Heidegger conserva alla metafora del sentiero un posto privilegiato. Quasi a confermare questa persistenza, egli giunge a dire, durante il suo ultimo seminario (1973): nella filosofia ci sono solo sentieri» 4 • Una delle sue opere più importanti, dopo fa svolta (Kehre). s'intitola proprio: Sentieri Interrotti, che traduce, come concordato da Pietro Chiodi con Jo stesso Autore, il titolo originale dell'opera: Ho/zwege. Heidegger è un filosofo su cui si sono accese, anche di recente, tante palemiche; molteplici e opposti sono gli influssi derivati dal suo pensiero; le sue numerose opere e la sterminata storiografia pongono problemi di non fadle interpretazione. Come spiegare le tante contraddizioni in cui ci si imbatte studiando le opere e la "storia degli effetti", di colui che viene considerato uno dei massimi filosofi del ventesimo secolo? Fanno parte forse dell'ambiguità e dell'espressione sempre più oracolare ed oscura dei! suo Autore, o derivano dalle molteplici tematiche variamente riprese negli sviluppi storici posteriori? A scopo esemplificativo ne indichiamo solo alcune. Heidegger viene considerato l'iniziatore dell'esistenzialismo, eppure in polemica con J. P. Sartre, che ispirandosi al suo pensiero -]o interpretava in senso umanistico, egli smentisce tale definizione, perché nel suo itinerario cerca l'essenza del pensare e considera l'uomo piuttosto come il custode, "il pastore dell'essere" di cui propone l'attento ascolto.
2 H. G. GADAM:ER, I sentieri di Heidegger, Marictti, Torino 1987.
' Ibid., 105. ' Ibid., IX.
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E' la questione della "svolta ontologica" (Kehre), anche se si tratta di una ontologia che vuole essere di tipo nuovo, che ispira •tutta la produzione filosofica, dopo Essere e Tempo (1927), l'opera che lo rese famoso. Esistenzialista, dunque, o metafisico? Vale la tesi della rottura o quella accettata dall'Autore e filologicamente più corretta della "continuità", secondo cui le opere successive a quelJa del 1927 non sono che uno sviluppo per esigenza interna dello s1esso pensiero? Del resto Essere e Tempo rimase interrotta e l'opera attuale comprende solo due deI!e tre sezioni della prima parte! E ciò non può essere senza significato. Le fonti del pensiero heideggeriano sono nel neokanti>smo di Rickert, in Brentano, nei pensatori cristiani e in quelili greci in particolare; ma decisiva è stata la lezione della fenomenologia del suo maestro Husserl, che lo volle poi successore neHa cattedra di filosofia a Friburgo. Ma al discepolato e all'amicizia successe la rottura per ve-, dute discordanti nel campo del pensiero; tuttavia, gli •studiosi più attenti ritengono che non si può capire la grande lezione delJa fenomenologia di Husserl senza gli sviluppi del pensiero di Heidegger, come sostiene Carlo Sini 5 . Sul piano politico: come va considerata la sua adesione al nazionalsocialismo? E' stato un errore occasionale o lo spirito nazista permea tutta 1a sua opera, che da moilti viene considerata, dopo la "svolta", inattuale e regres,siva? E inoltre, come è da intendere la dimensione religiosa della sua filosofia, il rapporto tra filosofia e teologia, la riscoperta del sacro, l'apertura al divino, se egli ha più volte dichiarato che di Dio non si può dir nulla; e tuttavia nell'intervista rilasciata a Der Spiegel, pubblicata per sua espressa volontà solo dopo la sua morte, egli conclude che «Ormai solo un Dio ci può salvare»? C'è da ricordare ancora la critica radicale al mondo de1Ia
s C. SINI, Heidegger e il cammino verso il linguaggio, in AA.Vv., Eredità di Heidegger, a cura di L. Martini, TransEuropa, Bologna 1988, 117-128.
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tecnica come frutto necessario del nichilismo dehla metafisica occidentale; per non pari'are degli apporti rilevanti che sul piano della interpretazione storiografica Heidegger ha dato dei presocratici, di Platone, di Aristotele, di Kant, di Niet20sche; di poeti come Holde~lin e Rilke. Filosofia, Estetica, Teologia, Religione, Politica, Cultura, Civiltà della tecnica, Linguistica sono coimplicate in questo pensiero. Di tanti problemi possiamo esaminarne solo qualcuno e m maniera succinta!
H eidegger e la politica
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E' ritornata più volte, anche con battage giornalistico, la questione di un Heidegger compromesso con il nazionalsocialismo. Anzi, Vietar Farias ha pubblicato tutto un volume: Heidegger e il nazismo, di recente tradotto anche in italiano 6 , per sostenere, non so quanto legittimamente, che Heidegger è rimasto sempre nazista! Come si sa Heidegger nel 1933 - 34 fu eletto rettore dell'università di Friburgo e restò in carica per 10 mesi, perché prima dello scadere del mandato si dimise per sopravvenuti dissensi. Le fonti storiografiche a cui ci si può rifare sono: 1) il discorso inaugurale del 27 maggio 1933, L'Autoaffermazione dell'Università tedesca; 2) il memoriale dell'autodifesa dal titolo: Il rettorato 1933-34, affidato al figlio Hermann 7 ; 3) M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, intervista con lo Spìegel 8• E alla letteratura critica: Lowith, Lukacs, Adorno, Stein; i più recenti, Farias, Habermas, Derida, Gadamer, e gli italiani, C. Antoni, Caracciolo, Landolt, Vattimo, Berti, Galimberti, Marini, Regina, Cristaldi, Brancaforte etc.
V. FARIAS, Heidegger e il nazismo, Boringhieri, Torino 1989. M. HEIDEGGER, L'Autoaffer1nazione dell'Università tedesca, Il Rettorato, a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1989. 8 M. HEIDEGGER, Ormai solo un Dio ci può salvare, intervista con lo Spiegel, a cura di Alfredo Marini, Guanda, Parma 1987. 6
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Si pongono i seguenti due problemi: c'è un nesso tra l'adesione di Heidegger al nazionalsocialismo e la sua filosofia? E più in generale, qual è il rapporto tra filosofia e politica? In primo luogo bisogna guardarsi dall'uso soltanto ideologico della filosofia che può portare a screditare tutta una elaborazione di pensiero, anche validissima, quando il suo autore professa un credo politico che riteniamo errato. Non perché apprendiamo che Herbert von Karajan abbia aderito al nazismo, le sue magistrali interpretazioni musicali, divenute ormai un mito, vadano recisamente scartate! In secondo luogo bisogna convincersi che il filosofo anche grande, come tutti gli umani, non è infallibile. Per quanto riguarda Heidegger, egli aderì nel 1933, ma a modo suo, ~l nazismo e ne subì personalmente le conseguenze venendo esonerato dall'insegnamento accademico a cominciare dal 1946 (fino al '51) dalla commissione alleata di occupazione malgrado il suo pensiero, in un lungo periodo di approfondimento, travalicasse e di gran lunga lo spirito attivistico e irrazionalistico di quel movimento. Non bisogna sottovalutare il «fatto che l'abbandono dd rettorato da parte di Heidegger prima dello scadere del suo mandato fu un gesto contro i nazisti, che la sua filosofia fu sempre più sospetta ai nazisti e che egli ha criticato il nazionalsocialismo, ad esempio nelle interpretazioni di Nietzsche. Le sue lezioni erano sorvegliate da SS e SD.» 9 • La verità è che il pensiero di Heidegger, formatosi nel solco del filone cattolico tedesco, alle sollecitazioni, come si è detto, del neocriticismo e della fenomenologia, vive gli anni drammatici della repubblica cli Weimar e vuole superare tale crisi con una revisione radicale di tutta la tradizione del pensiero occidentale che si riassume nella metafisica, nella tecnica e nel conseguente nichilismo. A questo proposito sono molto significative le pagine 48-49 e 203 di Introduzione alla metafisica,
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C. GRossNER, I filosofi tedeschi contemporanei, Città
1980, 155-156.
Nuova, Roma
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che è un'opera nata da un corso universitario del 1935 ma pubblicata nel 1953 10 • La via di uscita per Heidegger sarebbe nel recupero della visione ontologica dell'uomo e del suo pensare. Quindi, se si possono accertare delle connivenze devono essere disapprovate, ma vanno evitate anche semplicistiche affermazioni di equivalenze! Un confronto con il caso italiano di Giovanni Gentile nei rapporti con il fascismo sarebbe molto utile. 2.
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Nelle molteplici contraddizioni della nostra età Max :Weber ha individuato tuttavia un carattere comune, che, con espressione efficace, egli ha descritto come il disincanto del mondo; 10 M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1979: «Questa Europa, in preda ad un inguaribile accecamento, sempre sul punto di pugnalarsi da se stessa, si trova oggi nella morsa della Russia da un lato e dell'America dall'altro. Russia e America rappresentano entrambe, da un punto di vista metafisico, la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell'organizzazione senza radici dell'uon10 massificato [ ... ]. La decadenza spirituale della terra è così avanzata che i popoli rischiano di perdere l'estrema forza dello spirito, quella che permetterebbe almeno di scorgere e di valutare çome tale questa deca~ denza (concepita in rapporto al destino dell'«essere»). Questa semplice constatazione non ha nulla che vedere con il pessimismo nei confronti della civiltà, come del resto neppure con l'ottimismo; poiché l'abbuiarsi del mondo, la fuga degli dei, la distruzione della terra, la riduzione del~ l'uomo a massa, il sospetto gravido d'odio contro tutto ciò che è creativo e libero, ha in tutta la terra già raggiunto una tale proporzione che delle categorie così puerili come pessimismo e ottimismo sono divenute ormai da gran tempo risibili. Siamo presi nella morsa. Il nostro popolo, il popolo tedesco, in quanto collocato nel mezzo, subisce la pressione più forte della morsa; esso, che è il popolo più ricco di vicini e per conseguenza il più esposto, è insieme il popolo metafisico per eccellenza>) (4849). Tale popolo storico deve operare un nuovo cominciamento. ((Ciò che oggi qua e là si gabella come filosofia del nazionalsocialismo - e che non ha minimamente che fare con l'intima verità e la grandezza di questo movimento (cioè con l'incontro tra la tecnica planetaria e l'uomo moderno) - non fa che pescare nel torbido di questi valori e di queste totalità" (203).
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viviamo in u.n mondo in cui :scienza, organizzazi,one razionale e burocratica hanno tolto agli enti ogni carisma e ogni sacralità. Ora, ci sembra che Heidegger possa dirsi autore epocale, perché avvertendo i sommovimenti più sotterranei del nostro tempo ci ha iniziati a pensare in modo planetario dandoci l'interpretazione più profonda del nichilismo occidentale e avendo compreso meglio di altri g.Ji effetti disumanizzanti della tecnica; «la scienza non pensa», «la tecnica è violenza» egli affermava. Qui è stato veramente profetico il suo giudizio. Abbiamo voluto manipolare tutto, come se fossimo stati noi i padroni della realtà, e gli effetti disastrosi di questo percorso dalle esplosioni atomiche all'inquinamento, alla massificazione, al degrado del nostro pianeta sono ormai visibili sotto gli occhi di tutti! La filosofia di Heidegger, attraverso una sintesi originale fra esigenze esistenziali, metodo fenomenologico che mira ali' originario, al precategoriale, al "mondo della vita" (Husserl) e ricerca essenziale di una nuova ontologia della differenza, di tipo linguistico ed ermeneutico, ci fa riscoprire il significatò originario del pensare, più che una nuova filosofia accademica, volendo riportare l'uomo all'originario stupore nell'ascolto della parola dell'Essere. In questo nuovo evento (Ereignis) starebbe la saJ.vezza degli umani. L'efaborazione di questo pensiero parte da una critica globale a tutta la metafisica occidentale e si scandisce in due momenti segnati da una "svolta" (Kehre). In Essere e tempo (1927), l'opera più sistematica, ma incompleta (dopo di allora non ha pubblicato altro che raccolte di lezioni, studi e conferenze), il "primo" Heidegger centra il suo discorso -sull'esistenza umana (Dasein = Esserci) che si apre alla comprensione dell'Essere (Sein), attraverso sentimenti rivelatori come l' "angoscia" e "l'essere-per-la: morte", che ren1dono autentico l'uomo sempre in situazione (essere-nel-mondo; essere-con gli altri). Nelle opere successive (Lettera sull'umanesimo, 1946; Sentieri interrotti, 1950; Saggi e discorsi, 1954; In cammino verso il linguaggio, 1959; Tempo ed essere, 1980) il cosiddetto "secon-
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do" Heidegger abbandona ogni residuo antropocentrismo e pone al centro della sua speculazione l'Essere, che bisogna lasciar parlare, se l'uomo sa ,stare in attento ascolto. L'Essere rparla nelle varie epoche attraverso ,il pensare essenziale e il poetare il cui potere è non violento. Tra gli studiosi di Heidegger, chi considera le opere successive come un tradimento dei motivi esistenzialistici della prima, opta per la tesi deila "rottura"; chi invece so~tiene la "continuità", e noi fra questi, legge Essere e Tempo come una introduzione alla problematica ontologica successiva. La domanda metafisica fondamentale è la seguente: «Perché vi è, in generale, l'essente e non il nulla?». Secondo Heidegger, tutta la metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, non è stata altro che un'indagine sull'ente piuttosto che sull'Essere, perché ha dimenticato la differenza ontologica e cioè la trascendenza o frdducibilità ·dell'Essere a ente avendo eliminato il problema del "niente"; compreso lo stesso cristianesimo che, rimasto prigioniero degli schemi della metafisica classica, è costretto a pensare Iddio sempre come un ente, anche se Summum Ens et increatum 11 1
11 La risposta che l'antica metafisica ha dato al problema del «niente» è in realtà queJJa di una sua esclusione; infatti il principio enunciato è: Ex nihilo nihil fit. Per Parmenide solo l'essere eterno è; il non~essere non è. Per tutto il mondo antico: tutto deriva da una materia preesistente eterna su cui lavora il demiurgo (Platone); o esiste una materia informe potenziale, dtlnamis a cui l'atto primo dà forma (Aristotele). Il cristianesimo nega la tesi della metafisica classica affermando il principio che Ex nihilo fit ens creatum; il nuJla è quindi l'ente extradivino che non esiste affatto. Ma, secondo Heidegger, si tratta di un progresso solo apparente, perché in fondo lo stesso cristianesimo, pensando anche Iddio come un ente, resta ancora prigioniero degli schemi classici ed è incapace di problematizzare l'essere e il niente. Per Heidegger la vera formula che esprime il rapporto originario è: Ex nihilo 01nne ens qua ens fit «Il niente non rimane l'opposto indeterminato dell'ente/ma si scopre come appartenente all'essere dell'ente. Il puro essere e il puro niente è dunque lo stesso. Questa tesi di Hegel (Scienza della logica, Opere, III, libro I, 74) è legittima. Essere e niente fanno tutt'uno, ma non perché entrambi, dal punto di vista del concetto
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L'uomo occidentale si è lasciato incantare dall'era positiva e si è abbandonato ad un pensare calcolante che si realizza nella tecnica. La tecnica per Heidegger non è l'applicazione pratica delle scQPerte scientifiche, ma è lessenza stessa della metafisica, la quale avendo obliato l'Essere, si è ridotta a volontà di volon.tà ed ha bisogno dell'efficacia pratica per verificare la propria validità. Quindi ''l'oltrepassamento della metafisica" heideggeriano è del tutto diverso da quello voluto da Carnap nel saggio omonimo in cui, sulla base del cr.iterio di verificabilità, decreta l'insignificanza o l'insensatezza di termini come "assoluto", "eterno", "Dio'', "essere", "nulla" etc. e paragona i metafisici a «musicisti senza talento!)> 12 • Heidegger è più vicino a Kant che, pur sostenendo l'impossibilità di una metafisica che voglia presentarsi come scienza sperimentale, ha voluto costruirne un'altra di tipo nuovo. Perciò giustamente dice E. Berti: «Il superamento .della metafisica heideggeriano espri.me, rispetto a quello carnapiano, una
hegeliano del pensiero, coincidano nella loro indeterminatezza e immediatezza, ma perché l'essere stesso è per essenza finito e si manifesta solo nella trascendenza dell'esserci che è tenuto fuori del niente. Se è vero che la domanda dell'essere come tale è la domanda che avvolge la metafisica, allora anche la domanda del niente è tale da abbracciare l'intera metafisica)) (M. HEIDEGGER, Che cos'è metafisica? in Segnavia, cit., 75). Contemporaneo di quest'opera è il saggio su L'essenza del fondamento, in cui Heidegger precisa il concetto di «differenza ontologica». «Il nulla è il nulla dell'ente, quindi l'essere, colto a partire dall'ente, la differenza ontologica è il non fra ente e essere. Ma, allo stesso modo che l'essere come non dell'ente non è un nulla nel senso del nihil negativum, così la differenza, come non fra ente e essere, non è semplicemente l'in~ venzione di una distinzione intellettuale (ens rationis)» (Essenza del fondamento, cit., 623). Altre volte Heidegger ha precisato il concetto di essere come "luce" proiettata dall'esserci come progetto. Nel corso di un seminario tenuto a Heidelberg nel '64 Heidegger ebbe a dire che il titolo di Essere e Tempo sarebbe stato più giustamente formulato come: Essere e Illuminazione (G. VATTIMO, lntroluzione a Heidegger, Laterza, Bari 1971, 70). 12 R. CARNAP, Il superamento della metafi'sica mediante l'analisi del linguaggio, in Il Neoempirismo, UtET, Torino 1969, 504-532.
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nuova esigenza: prima si trattava, per la metafisica, di 'fare i conti con la scienza'; ora si tratta invece di lasciare aiperto uno spazio a ciò che sta oltre la metafisica stessa, cioè l'amb1to non dell'irrazionale, ma del sopra-razionale, sia questo l'ambito della poesia o quello della fede. Perciò la vera realizzazione della Ueberwindung heideggeriana sembra da ravvisarsi nell'ermeneutica di Gadamer, Pareyson, Ricoeur» 13 • Espressioni simili abbiamo anche in Von Balthasar 14 •
B E. BERTI, Ueberwindung della metafisica?, in AA.Vv., La metafisica e il problema del suo superamento, Gregoriana editrice, Padova 1985, 9-39. 14 H. U. VON BALTHASAR, Nello spazio della metafisica, V, Gloria, Jaca Book, Milano 1978, 387 ss. «Il superamento della metafisica non vuol dire né la distruzione, né meno ancora il ripudio della metafisica bensi «appropriazione originaria» [ ... ].Tutta intera Ja filosofia dello spirito, da Platone a Kant, Fichte, Hegel viene indicata come responsabile della degradazione nel materialismo e nel tecnicismo [ ... ] . In questa sua regressione demolitrice alla domanda delle origini, si dovrà citare, accanto a Nietzsche e alla sua domanda distruttiva fino al nulla, la poesia dell'essere di Rilke e di Trakle, più in rilievo ancora HOlderlin ( ... ] infine la cristologia e la teoria della kenosi [ ... ]. Ma più di ogni altro vi si incontra Tommaso d'Aquino con il quale Heidegger ha in comune l'intuizione della trascendenza dell'essere e la difl'erenza, fondamentale per ogni pensiero, fra essere (Sein) ed ente o esistente (Seinde), anche se le interpretazioni delJa differenza divergono fin dal primo momento. Per entrambi l'atto di essere che abbraccia ogni ente è l'elemento illuminante (Lichtende) e quindi il luogo d'origine della verità, l'elemento sorgivo, massimamente prossimo (intimum) pur essendo massimamente lontano, l'elemento colmante (più ente d'ogni qualsiasi ente) e insieme nullitario (non sussistente) (Solo l'ente 'è', I' 'è' stesso, I' 'essere', non 'è'), l'unità al di là di qualsiasi enumerazione [ ... ]. Dietro Heidegger sta pure Plotino [.,.])). Per la filosofia che è totalmente diversa dalla teologia e per la filosofia cristiana che è un malinteso come un "ferro ligneo» si veda: M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica, cit., 18-24. Per le riserve di questa impostazione heideggeriana si veda della stessa opera il paragrafo: "Perdita. del guadagno", 399-403. E la valutazione che ne dà Pareyson, secondo il quale occorre recepire ({il concetto di rapporto ontologico con cui Heidegger ha validamente vivificato e rinvigorito la filosofia d'oggi, evitando tuttavia il vicolo cieco in cui egli l'ha cacciata con la sua proposta di un'ontologia soltanto negativa e col suo rifiuto totale della filosofia occidentale da Parmenide a Nietzsche>> (Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1976, 9).
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Nel pensiero heideggeriano ci sono delle conquiste o riscoperte innegabili. Prima fra tutte la tesi della portata ontologica del conoscere umano, sulla base del rapporto fondamentale o plesso originario: uomo-Essere (Dasein), che era in fondo la tesi di S. Tommaso, pur con le dovute distinzioni e differenze. Da qui la denuncia della "dimenticanza del!' essere" che domina il destino della storia occidentale e dell'intera storia europea in particolare, in cui prevale la volontà sul pensiero, il fare sull'essere, la scienza, la tecnica, la politica sulla saggezza, l'homo faber sull'homo sapiens; la conclusione è che: «l'animale da lavoro è abbandonato all'ebbrezza delle sue opere, perché sbrani se stesso e si annienti nel nulla di nulla» 15 • Da qui anche la riproposizione della tematica del "sacro" come via di salvezza dell'uomo che, ponendosi all'ascolto deJ,Ja voce dell'Essere, potrà riscoprire la sacralità della vita e della persona umana nel rispetto dei ritmi della natura. «La perdita della dimensione del sacro e della salvezza è forse il più autentico aspetto profano della nostra epoca» 16 • Quello che altri hanno chiamato secolarizzazione. Heidegger indica perciò un'altra via rispetto a quella perseguita da Feuerbach, Marx, Nietzsche che consideravano illusoria la problematica del "sacro". Inoltre Heidegger ha tematizzato il valore ontologico del linguaggio e l'importanza del problema ermeneutico divenendo così il precursore di molte correnti della filosofia e della teologia del Novecento. «L'uomo parla sempre. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo, ci dedichiamo ad un lavoro o ci perdiamo nell'ozio [ ... ] il linguaggio fa dell'uomo quell'essere vivente che eg,li è in q11anto uomo». «Ciò ohe fa essere il linguaggio come linguaggio è il Dire originario (Die Sage) in quanto Mostrare». «La parola è il rapporto che via via incorpora e trattiene i1n sé la cosa in modo che essa 'è' una cosa». La parola non crea l'essere ma lo dice, e dire significa: mostrare, far apparire, dischiudere illuminando ce-
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M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, 73. H. G. GAIJAMER, op. cit., 162.
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lando, nel senso di porgere ciò che chiamiamo mondo. Questo rporgere il mondo, che è insieme un illuminare e celare o velare, è la vivente essenza .del ,dire» 17 • Ermeneutica non vuol dire poi semplice interpretazione ma, secondo l'etimologia della parola che deriva da Hermes, il messaggero degli dei, significa portare un messaggio, un annunzio dell'Essere nel dire originario che è proprio dei poeti e dei pensatori essenziali. 3.
Teologia, Religione e Fede in Heidegger
Si incontrano spesso nella scrittura di Heidegger termini come Ereignis = evento; o Denken = pensare, che egli collega a Danken = ringraziare, o anche a Dichten = poetare; Heiligen = del sacro; Heilen = della salvezza; termini, come si vede, carichi di senso religioso, sicché giustamente il Caracciolo nella introduzione a In cammino verso il linguaggio dice che: «La filosofia di Heidegger accentua sempre più il suo carattere kerigmatico e teologico, per cui non è dato caratterizzarla se non con parole e metafore tratte dalla tradizione religiosa» 18 • E Von Balthasar afferma: «Questa filosofia dell'essere del cattolico e momentaneamente gesuita Heidegger, è allo stesso modo di quella di Nietzsche figlio di pastore e di Rilke rampollo di ambiente cattolico-pietistico, permeata in ogni suo aspetto da motivi teologico-cristiani trasformati». E ancora: «Dietro Heidegger sta pure, come Tommaso, non Aristotele, bensì quel Plotino per il quale lessere resta sempre il mistero superconcettuale (al di là della metafisica, il cui luogo è il nous). Tutta questa lista di antenati dimostra quanto ancora il pensiero di Heidcgger sia e intenda essere radicalmente occidentale; anche i suoi dialoghi con il lontano oriente sono quelli di un occidentale nell'intelligenza dell'essere propria della mistica tedesca e della 'metafisica dei santi'» 19 • 11 M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, 27, 199, 135, 157. 1s M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, cit., 10. 19 VoN BALTHASSAR, Gloria, V, cit., 386, 390, 391.
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Che alla base della formazione di Heidegger ci sia lo studio della teologia lo dice egli stesso: «senza questa origine teologica non sarei mai giunto sulla via del pensiero» 20 che abbia meditato le lettere di S. Paolo, che a Friburgo abbia tenuto un corso intitolato "Fenomenolog.ia delle religioni" e che al suo discepolo K. Lowith abbia dichiarato: «io non sono un filosofo ma un teologo cristiano» sono informazioni ormai acquisite perché forniteci da studiosi e biografi di Heidegger come Poggeler, Lehmann, Sheehan, Gadamer. Inoltre è un dato di fatto che da più di mezzo secolo teo1ogi protestanti e cattolici come Bultmann, Rahner, Welte, Ott si richiamano al pensiero di Heidegger, anzi K. Rahner pensa che d'odierna teologia cattolica non è più pensabile senza Martin Heidegger 21 • Il problema allora è quello di vedere in che rapporto stanno effettivamente Filosofia Teologia e Fede nel pensatore di Friburgo. E' certo che Heidegger vede la liberazione e la salvezza dell'uomo in un Dio che però non si può identificare con quello di una religione rivelata. D'altra parte per il filosofo di Friburgo Dio non si può attingere con il semplice pensare; nel mondo si può solo pensare e custodire l'Essere e rendersi disponibili al Dio che deve venire; qui Heidegger si sente più vicino a Holderlin, il poeta cantore degli ·dei fuggiti dalla terra, anche se ancora molto abbiamo del divino, che non alle attese della comunità cristiana in seno alla Chiesa. La teologia è una scienza? Qual è il suo rapporto con la filosofia? La teologia è necessaria alla fede? In due saggi assai interessanti 22 Heidegger porta avanti 11 suo stesso ,discorso di fondo: essendosi la teologia affermata
c.
GROSSNER, op. cit., 157. Ibid., 156. 22 La conferenza, ·Fenomenologia e teologia, che fu tenuta a Tubinga il 9-3-1927. La lettera dell'll marzo 1964: Alcune indicazioni su aspetti fondamentali del dibattito teologico su: «Il problema di un pensiero e di un linguaggio non obiettivanti nella teologia attuale». Entrambi gli scritti sono pubblicati a cura di N. M. De Feo: M. HEIDEGGER, Feno1nenologia e teologia, La Nuova Italia, Firenze 1974. 20
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come scienza, essa cade nell'antico, può parlare di che cosa è Dio non di chi è Dio e quindi è impossibile che possa spiegarci la fede, perché «la fede comprende se stessa come credente». Ci sarebbe da chiedere aI!ora se sia possibile un linguaggio non obiettivante in teologia. Heidegger critica la ontoteologia cristiana, cioè il cristianesimo ridotto a cultura, a concezione del mondo, ma poi non contrappone, come fa ad esempio Pascal, al Dio dei filosofi il Dio di Abramo, di Isacco etc., sicché ci verrebbe da osservare, come mai questo filosofo che attende un nuovo Dio per gli uomini, lo cerca tra i poeti? Non ha sentito dire, ancora dopo duemila anni che Cristo è venuto per la salvezza degli uomini? Dice giustamente Ricoeur che Heidegger parlando di Dio ignora completamente la dimensione biblica. Osservazioni critiche illuminanti ci vengono anche dalla Stein 23 , anche lei della scuola di Husserl, che, pur apprezzando le ricerche spesso illuminanti di Heidegger, ne vede i limiti nel concetto univoco e quindi riduttivo di Essere, non considerando dall'interno stesso dell'esserci, i tre gradi dell'essere: come vita naturale, vita di grazia e vita di gloria. E questo perché il filosofo trascura il criterio deJI'analogia entis; identificando verità ed essere, eludendo la domanda sul destino dell'anima, etc. Ha voluto forse rimanere nei limiti del filosofare avverten,doci che i sentieri tradizionali ormai non sono più sufficienti a farci parlare di Dio? Malgrado tutto, dice C. Fabro: «Heidegger resta sempre lo stimolo pù efficace alla ripresa della metafisica: egli è, e non può non essere per noi, come l'Ebreo errante, nel simbolo caro
23 Si veda in voi. curato da A. Brancaforte:. E. STEIN, La filosofia esistenziale di M. Heidegger, Editrice Herder, Roma 1979. Di E. LANDOLT, Heideggeriana, Marzorati, Milano 1967, e tutti gli altri studi che lo stesso Landolt ha pubblicato su Teoresi, la rivista diretta da Vincenzo La Via. Cfr. anche M. CRISTALDI, Nota sulla possibilità di un'ontologia del linguaggio in Wittgenstein e in Heidegger, in Teoresi 22 (1967) 1~2.
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a Kierkegaard, che accompagna i pellegrini fino alle soglie della Terra Santa, ma senza entrarvi mai» 24 • Lo è anche quando vuole indicarci un sentiero per la nuova teologia? Tutta l'opera dì Heidegger, da Essere e Tempo (1927) a Sentieri interrotti (1938), a Gelassenheit (1959), ai due saggi di Fenomenologia e Teologia (1964) è percorsa dall'interesse per la problematica del sacro e per quella teologica, nell'ambito del tema centrale del!' "essere", concepito come "disoccultamento" o "dìsvelamento"; e alla ,luce dì questi principi sì analizza la cultura moderna, caratterizzata da quella che viene chiamata la EntgOtterung, cioè la "sdivinizzazione", da cui non è esente la stessa cultura cristiana che è andata sempre più secolarizzandosi e perciò rientra nell'alveo deUa stessa logica nichilistica verso cui è ormai avviata la civiltà moderna 25 •
24 C. FABRO, S. Ton11naso davanti al pensiero nioderno, in Le ragioni del Ton1is1no, Edizioni Ares, Milano 1979, 50-95. Cfr. anche K. LOV·.'ITII, Saggi su Heidegger, trad. it., Einaudi, Torino 1974; G. MARCEL, Dialogo sulla speranza, a cura di E. Piscione, Logos, Roma 1984: cap. II, "Heiaegger e la nullificazione della metafisica", 43-61. Per il filosofo francese de "l'essere incarnato" l'interrogarsi sull'esserci di M. Heideggcr non può essere che un falso problema, Egli conclude il suo saggio dicendo: «Con una formula che mi sembra adatta a segnare ad un tempo il inia accordo e il mio disaccordo con il filosofo di Holzwege: penso da una parte che Heidegger abbia avuto il grandissimo merito di riconoscere l'intimo lcgan1e che unisce l'Essere e il Sacro; ma temo d'altra parte che, per il suo misconoscimento dcl prossimo in quanto persona e dcll'intersoggettività, gli sia impossibile accedere alla sfera in cui questa parentela, se non questa identità, fra l'Essere e il Sacro, trova il suo significato più pieno e ricco)) (61). 25 Per questa problematica si vedano: U. REGINA, Heidegger, Esistenza e Sacro, Morcelliana, Brescia 1974. I riferi1nenti alla teologia in Sein un Zeit, nell'edizione citata, e in Gelassenheit, il saggio Il. L'epoca dell'immagine dcl mondo, nell'edizione citata, 71-101. E. GARULLI, Heidegger e la storia dell'ontologia, Argalia, Urbino 1978; specialmente: "La modalità ontologica del sacro" 171-178, e "I-Ieidegger e la teologia", 238-240. A11..Vv., Heidegger et la question de Dieu, Grasset, Paris 1980, 346, per il quale si veda la presentazione di P, VALORI, Heìdegger e la questione di Dio, in La Civiltà Cattolica, 1982, IV, 45-51. C. FABRO, L'Assenza di Dio e l'inevitabilità del problema di Dio in
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Ora, data questa analisi della realtà, Heidegger vuole impostare in modo nuovo il rapporto fra ragione e fede e a questo riguardo assume grarrde importanza l'incontro con Bultmann a Marburg. Il volume Fenomenologia e Teologia, già citato, che porta la dedica proprio a Rudo]f Bultmann («Ricordando con amicizia gli anni di Marburgo 1923-1928 "), com prende una conferenza, tenuta a Tubinga ne] 1927: "La positività della teologia e il suo rapporto con 1a Fenomenologia" e un saggio: Il proble-
ma di un pensiero e di un linguaggio non obiettivanti nella teologia, del 1964. Due saggi scritti in momenti molto distanti fra di loro e perciò stesso significativi, Cosa si propone Heidegger? «Questo scritto potrebbe, forse, provocare una ripresa della riflessione sul carattere per molti aspetti problematico della cristianità del cristianesimo e della sua teologia, ma anche sul valore problematico .della filosofia e pertanto, su ciò che qui viene esposto» 26 • E, per chiarire il ·contesto, fa riferimento ai suoi scritti precedenti come La sentenza di Nietzsche: Dio è morto, in Sentieri interrotti (Holzwege), Nietzsche, II, Il Nichilismo europeo. La tesi che sostiene il filosofo di Friburgo è che b teologia sia una scienza positiva; esistono due possibilità fondamentali di scienza: quelle che hanno per oggetto un campo determinato dell'essente, e in questo caso si tratta di scienze antiche, o quella che rivolge il suo interesse al più vasto campo deII'essere, ed è la scienza ontologica, cioè la filosofia. Quindi, ogni scienza si distingue dalla filosofia in modo assoluto. D'altra parte, ogni scienza si determina a partire dal suo ambito di indagine (positum) e, poiché la teologia è l'autocoscienza ·del cristianesimo, nella sua manifestazione storico-mondiale, il suo dato positivo è la cristianità, la quale si determina
Fleidegger, in Introduzione all'ateisn10 1noderno, II, Studium, Roma 1969,
962 ss. 16 M. HEIDEGGER, Fenomenologia e teologia, a cura di N. M. De Feo, La Nuova Italia, Firenze 1974, 3-4.
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a pa~tire dalla fede. La fede è un modo di esistenza dell'essere umano, è l'elemento costitutivo essenziale della cristianità, è rapporto esistenziale al Crocifisso; la fede è rigenerazione, essa comprende se stessa solo credendo. La teologia, come autointerpretazione concettuale dell'esistenza -credente, è u.na scienza istorica particolare, essa <cpuò solo rendere più difficile la fede, mostrando, cioè, che la credenza non può essere acquisita da essa dalla teologia in quanto scienza - n1a unicamente e solo ·dal credere» 27 • Ciò non esclude il suo aspetto sistematico e pratico; la teologia come scienza istorica e sistematica si specifica in: esegesi, istoria ecclesiastica, e dei dogmi. C'ome scienza pratica, a sua volta, si specifica in: omiletica e catechetica. La teologia non è la scienza speculativa di Dio, in quanto Dio non è oggetto della sua ricerca, non è filosofia della religione né storia del,la religione né psicologia della religione, ma è scienza antica pienamente indipendente"- Qual è dunque il rapporto della teologia con la filosofia? «Non la fede, bensì la scienza della fede, in quanto scienza positiva, ha bisogno della filosofia» 19 . Si veda, ad esempio, il concetto di "colpa", che è una originaria determinazione ontologica .dell'esistenza dell'esserci e il concetto di "peccato", comprensibile solo nell'ambito della fede. Allora «la filosofia è il correttivo ontologico che indica formalmente il contenuto antico, cioè precristiano, dei fondamentali concetti teologici» 30 • «Non c'è, al,Iora, qualcosa come una filosofia cristiana, che è semplicemente 'un ferro legnoso'. Non c'è neanche una teologia neokantiana, fondata su una filosofia dei valori, o fenomenologica, così come non esiste una matematica fenomenologica» 31 •
M. HEIDEGGER, op. cit., 18. '" Ibid., 21-24. 29 Jbid., 24. 30 Ibid., 29. J1 Ibid., 30. Heidegger ribadirà tale concetto in Introduzione alla 1netafisica, cit. 19. Ci sarebbe da osservare però con E. Gilson che «è sconcertante che uomini i quali sostengono Che la grazia può rendere moralmente 21
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Nel secondo dei saggi, Heidegger si pone tre interrogativi, a cui cerca di rispondere, a partire dal secondo: 1) di che cosa si deve occupare la teologia in quanto modo di pensare e di parlare della fede cristiana e di ciò in cui essa crede? 2) pensiero e linguaggio sono sempre obiettivanti? E se non lo sono 3) in che modo il problema di un pensiero e di un linguaggio non obiettivanti sia un autentico problema? 32 • In rapporto al problema del linguaggio due sono le posizioni estreme e contrapposte che la filosofia attuale ci offre: quella di Carnap e l'altra de1lo s-tesso Heidegger; una concezione tecnico-scientifica del linguaggio, e l'e~perienza speculativo-ermeneutica del linguaggio. Ora, osserva Heidegger, che è opinione assai diffusa considerare ogni pensiero in quanto rappresentazione e ogni linguaggio in quanto comunicazione, come obiettiva11ti. E' questo un equivoco in cui sono caduti anche i sostenitori della filosofia della vita, come Nietzsche e Bergson. Bisogna invece avere «la consapevolezza che i.I linguaggio non è opera dell'uomo: il linguaggio parla. L'uomo parla solo in quanto egli corrisponde al linguaggio [ ... ] pensare criticamente vuol dire distinguere continuamente tra ciò che ha bisogno di una prova per la sua giustificazione, e ciò che, per la sua verifica, richiede il semplice vedere ed accogliere» 33 • Sono linguaggi oggettivanti quelli delle scienze della natura, in quanto il loro oggetto è calcolabile e spiegabile mediante .Ja nozione di causa; tale oggettivazione è la caratteristica del nostro tempo che cerca di ridurre tutto alla manipolazione scientifico-tecnica. Ci sono però aspetti importanti del pensiero e del linguag-
migliori gli uomini, si rifiutino di ammettere che la Rivelazione possa rendere la filosofia n1igliore come filosofia. Anche a livello di metafisica c'è stata fra le dottrine di Aristotele e di Tommaso, la stessa continuità che c'è stata tra la concezione del mondo prima della Incarnazione di Cristo e dopo>). La fede dunque migliora la ragione, come la teologia la filosofia. La grazia non soppianta ma perfeziona la natura. 32 M. HEIDEGGER, op. cit., 35. '' Ibid., 40.
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gio che non sono oggettivanti e ad essi deve ispirarsi la teologia nel suo compito positivo «che è di spiegare, all'interno del suo proprio ambito della fede cristiana e partendo dall'essenza propria di essa, ciò che essa deve pensare e come deve dirlo. In questo compito, è nello stesso tempo compresa la questione, ·se la teologia possa essere ancora una scienza, perché probabilmente essa non deve essere in generale una scienza)) 34 • L'opera si conclude con un'aggiunta alle indicazioni, ove si iprivilegia il dire poetante in quanto è "esserci" e si cita il sonetto ad Orfeo, 1,3 di Rilke. «Ll dire poetante è presenza presso [ ... ] e per Dio. Presenza vuol dire: semplice disponibiltà, che non vuole niente, che non conta su nessun risultato. Presente presso [ ... ] puro far dire la presenza di Dio» 35 • Anche qui Heidegger imposta il problema ma non dà soluzioni, indica solo sentieri che si possono intraprendere a partire dall'esperienza del Dasein o dell' Ereignis o della Gelassenheit. Per l'esperienza sacramentale-ontologica si richiedono virtù come la carità o l'amore. A tal rigua~do è significativa la nota 6 nel cap. V di Sein und Zeit, prima edizione, in cui si cita un pensiero di Pascal (Quando si parla di cose umane si dice che bisogna conoscerle per poterle amare [ ... ] i santi al contrario, parlando di cose divine, dicono che bisogna amarle per conoscerle, e che non si entra nella verità se non attraverso la carità) e S. Agostino (Non intratur in veritatem nisi per charitatem). «Come per altri aspetti del pensiero heideggeriano, anche per il sacro e la teologia non è possibile ipotizzare delle soluzioni; è possibile bensì seguire un pensiero i.n cammino (Unterwegs). Questo conduce in una zona dove l'ombra è unita alla luce: una radura (Lichtung), come nel bosco, in cui il tralucere è la condizione di apparire delle cose. Per chi ha occhi per vedere, non c'è nulla da mostare: c'è .piuttosto da indicare la strada per giungere al luogo (Ort) appropriato. Per immettersi negli Holzwege, occorrono perciò i Wegmarken. Solo quando
J4 Jbid., 46. " Ibid., 47.
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si è arrivati nella radura parla il sacro e parla il divino. 'Parla l'anima? Parla il mondo? Parla Dio?' (Der Feldweg: il sentiero di campagna)» 36 • Un cammino, dunque, che porta alla radura, raggiungendo la quale non ci sarebbe altro che l'ineffabile o il mistico, il pensare deve allora segnare al linguaggio i suoi limiti; un confronto con il pensiero di Wittgenstein sarebbe forse molto proficuo a questo riguando. Ma qui si voleva trattare principalmente del rnpporto tra Heidegger e 1a teologia, sul quale problema desideriamo conclu·dere con due osservazioni. Prima di tutto c'è da registrare un dato di fatto sugli influssi e sviluppi che il pensiero heideggeriano ha suscitato nei teologi sia protestanti che cattolici. Basta anche un rapido elenco. Si rifanno ad Heidegger R. Bultmann, ad es. in Credere e comprendere; K. Rahner, in Uditori della parola; B. Welte, in Sulla traccia dell'eterno; ma anche Ebeling, Fuchs, e Gogarten che si rifanno al cosiddetto secondo Heidegger. In secondo luogo, su questa ontologia del linguaggio e sull'ermeneutica teologica hanno avanzato critiche e riserve parecchi Autori di cui bisogna tenere giusto conto. Edward Schillebeeckx, professore di dommatica nell'università di Nimega, sottolinea che <<il cristianesimo non è un'impresa puramente ermeneutica, una mera spiegazione rdell'esistenza, ma anche un rinnovamento dell'esistenza, intendendo per "esistenza" qualcosa che tocca l'uomo nella sua qualità di persona e nella sua 'socialità». E pertanto, «questo solo fatto dimostra già che una semplice "ermeneutica tipo Gadamer" delle scienze dello spirito risulta insufficiente per Ja teologia. Il cristianesimo non è soltanto una spiegazione dell'esistenza, ma è anche ed essenzialmente un rinnovamento dell'esistenza, di cui
36
E.
GARULLI,
op. cit., 187, 188. L'Autore cita in nota: F.
COSTA, Heideg~
ger e la teologia, Longo, Ravenna 1974, dove si studiano le implicazioni
fra le tre teologie presenti nella meditazione heideggeriana: n1etafisica, poetico-sacrale e cristiana (o della Croce). Si cfr. anche G. MORETTO, L'esperienza religiosa del linguaggio, Le Mon~ nier, Firenze 1973.
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fa teoria è il momento implicito. La doxa, che possa chiamarsi "orthos" o meno, dovrà essere ritrovata .nell'ortoprassi. Queste considerazioni sono ignorate, per esempio, nella corrente "in~ terpretazione esistenziale" ddla Bibbia». Egli vede, anche in Heidegger, quello che è un pericolo costante del cristianesimo: la gnosi. (<La eresia che minaccia per sua natura qualsiasi forma di ·cristianesimo, e che lo minacciò di morte sin dalle sue origini, è la gnosi. La gnosi riduce il cristianesimo ad una teoretica dottrina di salvezza [ ... ] essa lo riduce ad un chiarimento ermeneutico dell'esistenza, senza interesse per il rinnovamento effettivo del mondo e dell'esistere umano» 37 • Anche G. Penzo rivolge una critica articolata alla problematica teologica heideggeriana e condividendo il pensiero del Trotignon ammette, come è evidente, che il vocabolario heideggeriano è tutto permeato di espressioni teologiche, ma si tratta in fondo è una teologia senza teofania; il sacro di cui parla Heidegger è il sacro estetizzante di Hi:ilderlin, un sacro poetico per il quale Cristo e Dioniso sono sullo stesso piano! A parere dell'Ott, citato sempre da Penzo, c'è una sola possibilità d'incontro tra la problematica heideggeriana e quella teologica, e precisamente nell'ambito metodologico. Al di fuori di questo aspetto il pensare heideggeriano resta equivoco, perché elimina ogni autentica dimensione trascendente 38 • Prendere coscienza di questi limiti, rivelarne le aporie di fondo, ma per proseguire sulla linea di un ulteriore possibile percorso, questo mi sembra il compito che si è assunto P. Ricoeur. «Con la filosofia heideggeriana non si cessa di praticare l'operazione di risalita alla causa, ma si diventa incapaci di compiere il tragitto di ritorno che dovrebbe condurre dall'ontologia fondamentale alla questione propriamente epistemologica riguardante lo statuto delle scienze dello spirito. Orbene, una filosofia che interrompa il dialogo con le scienze ·non si rivolge
37 E. 104, 105.
ScHILLEBEECKX,
Intelligenza della fede, Paoline, Milano 1975, 103,
Js G. PENZO, Pensare heideggeriano e problematica teologia. Sviluppi
della teologia radicale in Germania, Queriniana, Brescia 1970, 185,
189~192.
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che a se stessa [ ... ] Platone ci ha insegnato che la dialettica ascendente è più facile, il vero filosofo però si manifesta nelfa dialettica discendente. A mio avviso in Heidegger resta insoluto il problema seguente: come si può rendere conto di una questione critica in generale entro il quadro di un'ermeneutica fondamentale?» 39 • Nel teologo G. Ruggieri, trovo l'itinerario di una teologia che porta alla logica della presenza, anche se egli non cita mai Heidegger. Egli distingue la questione di senso dalla questione della verità e parla della necessità dell'annichilamento della teologia. Per Ruggieri non ha valore decisivo la scienza ma bisogna attraversare la scienza; è una questione di senso non di verità. «Per dimostrare il "senso" della sua verità, la teologia deve perdersi nel sapere umano e mostrare, all'interno di questo, con i mezzi che esso offre, seguendo lo statuto dell'autoriflessione, i luoghi di intelligibilitèi della presenza. Questa riflessione non è "post-cristiana". L'annichilamento e l'esodo .della teologia sono infatti un atteggiamento di presenza. L'avvenimen· to cristiano è proprio questa povertà che è ricchezza. E soprattutto non si tratta di consegnare il sapere contemporaneo ad un altro sapere, bensì di svelare ciò che esso venera. L'esito non è la dimostrazione della verità di Dio, ma la semplice indicazione del luogo in cui questa verità può svelare ciò che noi conosciamo. La dimostrazione della verità di Dio è possibile solo come testimonianza di un'assunzione già avvenuta della carne. La rimozione dcl non senso e la dimostrazione della verità non sono un'unica operazione, n1a procedimenti contigui, uniti dall'unica consapevolezza del soggetto. La teologia conte1ll· paranca è ancora lontana dall'avere portato a termine quest'im· presa [ ... ] si esige una ripresa rigorosa della mistica, come luogo privilegiato in cui emerge la logica della presenza» 40 •
39 P. RICOEI;R, En-neneutica filosofica ed ern1eneutica biblica, Paideia, Brescia 1977, 43-44, ma anche il cap. I\1: "La costituzione ermeneutica della
fede 40
biblica",
95· 100. G. RLGGIERI, La co111pagnia della fede. Linee di teologia fondamen-
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Ora, mi sembra che per questa opera di rimozione del non senso e di indicazione del luogo in cui la verità può svelarsi, la forte esigenza espressa dalla filosofia di Heidegger, pur con quelle aporie già prima rilevate, possa additarci dei sentieri ancora percorribili.
tale, Marietti, Torino 1980, 57. Ma anche tutto il cap. III: "Il vissuto attrala razionalità: la responsabilità della teologia come scienza", 45-59. Per un confronto con Maritain si veda: P. PALUMBO, Maritain e Heidegger. Un confronto circa la "domanda fondamentale'', in AA.Vv., J. Maritain e il pensiero contemporaneo, Massimo, Milano 1985 1 216-236. ver~o
LE "FORME" DELLA FEDE NEL GIOVANE HEGEL
GIUSEPPE CRISTALDI*
Proemio Il semantema "fede" è centrale in ogni discorso religioso. Il problema è poi determinarne il referente, sia concettuale che reale. La determinazione concettuale non dovrebbe essere operazione ardua, giacché il concetto di fede si colloca all'interno di una traina concettuale, che costituisce, talora in nuce, il "sistema". Operazione più delicata e complessa è quella della determinazione reale, giacché l'intenzionalità ultima e radicale del concetto non sempre è esplicita e talora si può anche celare dentro un plesso di intenzionalità o di superficie o precarie o addirittura surrettizie. Si dice questo, tenendo presente la distinzione newmaniana tra fede «nozionale» e fede «reale» 1. La prima si svolge a livello cognitivo, la seconda coinvolge tutto l'uomo. Ma se ci si ferma alla prima, si mortifica e s'interrompe lo stesso dinamismo intenzionale del concetto. La «fatica del concetto», di cui Hegel parla non senza pathos, comporta pure questo andare a fondo della sua intenzionalità. Nelle pagine che seguono s'intende delineare uno schizzo di fenomenologia della fede negli scritti teologici giovanili di Hegel '.
'" Già Profèssorc associato di Filosofia della Religione all'Università Cattolica di Mila))o.
Cfr. J. H. NE\.Vl'liIAN, Gra1nn1ar of Assent, Clarendon Press, Oxford 1985. L'esame si limita ai seguenti scritti giovanili di Hegel: Religione popoiare e cristianesimo; Vita di Gesù; La positività della religione cri~ 1
2
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Per questo si parla di "forma". Vero è che la "forma" (Gestalt) si lega al "contenuto" (Inhalt). Ma questo può essere considerato a due livelli: a livello di valenza assiologica, come contenuto della fede (fides quae); oppure a semplice livello fenomenologico, in quanto il contenuto incide sul configurarsi della forma. Nelle pagine che seguono il contenuto è assunto come determinazione della forma, mettendo tra parentesi (epocheizzando, alla maniera di Husserl) il contenuto assiologico. E' indubbio però che non ci si può fermare, in un discorso filosofico globale, alla sola rilevazione della forma. Questa chiede e sollecita l'interpretazione della forma, in quanto "forma" di un "contenuto". La fenomenologia chiede .di dare luogo, con un delicato passaggio dialettico, all'ermeneutica. Lo scopo del presente studio è prevalentemente fenomenologico, ma non ci si potrà esimere da indicazioni ermeneutiche.
I. LA FEDE COME "FORMA SOGGETTIVA"
L'ordinamento di questi cinque frammenti (il primo composto a Tubinga nel 1793, gli altri a Berna tra il 1794 e il 1795) in uno scritto "progettualmente" organico si deve al Nohl, che vi pose pure il titolo di Religione popolare (Volksreligion da
stiana; Lo spirito del cristianesimo e il aggiuntivi e gli abbozzi). Si ritiene di potere individuare le "soggettiva" (in Religione popolare); b) polare e in Vita di Gesù); e) "positiva"
suo destino (esclusi i frammenti seguenti "forme" della fede: a) "etico-estetica" (in Religione po(in Positività); d) "dialettica" (in
Spirito del cristianesi1no). L'edizione seguita è quella curata da E. MIRRI, Scritti teologici giovanili,
Guida Editori, Napoli 1972 (che traduce la raccolta curata da HERMAN NOHL, nel 1907). Le successive edizioni, in due volumi, riportano la medesima impaginazione, Le citazioni incorporate nel testo si rifanno a questa edi· zione. Per il testo tedesco si segue la seguente edizione: G. W. F. HEGEL, Werke in ZHJanzig Bdrulen, f: FrUhe Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a. Main 1971 (dove sono riportati anche gli scritti politici, ma non è riportato il Le ben J esu).
Le "forme" della fede nel giovane H egei
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Lacorte tradotto con "religione nazionale") 3 e cristianesimo, titolo ritenuto in genere aderente al contenuto dei cinque frammenti. L'esame di questi frammenti è qui condotta con l'intento di rilevarvi la "forma" della fode. I. Frammento di Tubinga
Il frammento, anche se incompleto, ha l'andatura di una, sia pure iniziale, trattazione, con un proemio ampio e tre capitoli o paragrafi piuttosto brevi. La fede non vi è tematizzata (il tema è la "religione popolare"), ma alcune volte vi è richiamata esplicitamente (cfr. pp. 34, 36, 38, 39, 42, 43, 45, 47, 50, 52, 53), senza dire che per molti versi il concetto di fede si lega con quello di religione. L'interrogativo che sorge e che, forse, in questa scrittura hegeliana rimane senza risposta è questo: la religione popolare (dove il "politico" ha tanta parte) è l'ideale definitivo, la forma "perfetta" di religione oppure essa è soltanto lo stadio storicoesistenziale verso la religione razionale? La distinzione fondamentale è quella tra religione oggettiva e religione soggettiva. La prima è costituita non solo da istituzioni, cerimonie e·simili che si condensano in esteriorità, ma anche dalla dottrina che è caratterizzata dal dominio dell'intelletto e della memoria. «La religione oggettiva è 'fides quae creditur'» (p. 34). La religione soggettiva invece " è religione vivente, è attività interiore, è operosità rispetto al mondo esterno» (p. 35). Essa «è affare del cuore, suscitante interesse per un bisogno della ragione pratica» (p. 38). E' chiaro, e sarà costante, il riferimento a Kant, al Kant della Ragion pratica e della Religione dentro i limiti della sola ragione, sia pure con la prospettiva del superamento del dualismo kantiano tra sensibilità e pura ragion pratica. In opposizione alla fides quae, costituita dai contenuti dogmatici, la fides qua (anche se questa espressione non è esplicitamente usata da Hegel) si configura come "sentimento morale" (p. 38 e 48).
J
C.
LACORTE,
Il primo Hegel, Sansoni, Fir.enze 1959.
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Ora la religione popolare è la stessa religione soggettiva che si oggettivizza in forme storico-culturali, mantenendo però in queste la propria ispirazione e intenzionalità soggettiva. E il compito educativo dello Stato, in vista della religione popolare, sarà di riportare b religione oggettiva, che tende alla staticità e alla sclerosi, alle sue radici e intenzionalità soggettive. La religione popolare si distingue, per la sua "magnanimità", dalla religione privata, che è caratterizzata dalla "ristrettezza". Ma se la religione soggettiva si risolve nella ragion pratica o morale, che cosa a questa aggiunge la religione? La forza di un sentimento dove gioca «la libera e bella fantasia» (p. 59). Il sentimento morale si configura pure come sentimento estetico. Il tema della "forma bella" si annuncia fin da questo primo scritto, per ricomparire poi nella Vita di Gesù e nello Spirito del cristianesimo. Si capisce, allora, come per lo studente dello Stift di Tubinga l'ideale sia la fede dei greci: per la ricchezza del sentimento, per l'apertura fantastica, per la serenità della vita. Il quadro dello spirito greco è idilliaco. Ben lontano dal senso tragico che vi scoprirà Nietzsche (l'immagine hegeliana richiama quella di Carducci in Alle fonti del Clitunno). Ma ora questo «alunno della bella fantasia», questo genio della libertà, della grazia, della serenità «è fuggito dalla terra» (pp. 58-59). Ed è fuggito per opera del cristianesimo, spirito "straniero" al genio tedesco. Anche da ciò il "risentimento" .del giovane Hegel verso il cristianesimo. O forse è il risentimento verso il cristianesimo a suscitare, per contrapposizione, l'enfasi idilliaca nei riguardi dello spirito greco? Si può avanzare, a questo punto, qualche rilievo d'inquadramento storico. 1) Lo Hegel di Tubinga porta con sé quell'illuminismo, che aveva pervaso la sua prima formazione a Stoccarda. Ma l'illuminismo, dentro il cui orizzonte si muove 1'1 giovanile speculazione di Hegel, è quelle le'5inghiano (non per nulla l'opera maggiormente citata è Nathan il saggio di Lessing). In questo ol'izzonte, la ragione non è astrattamente staccata dalla storia, ma con la storia intreccia rapporti e legami. Anche la ragion pratica, di ascendenza kantiana, non disdegna l'apporto del sentimento, le ragioni del cuore, il supporto della bella fantasia. Forse il di-
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stacco più netto da un illummismo intellettualistico si ha nella distinzione tra "illun1inismo" e "saggezza" (richiamo al "saggio" del Nathan lessinghiano). «L'illuminamento dell'intelletto rende sì più avveduti, ma non migliori». Diversa da esso è la saggezza, che non è scienza, ma «è elevazione dell'anima», è «saggezza pratica», accompagnata .da «Un quieto calore, da un dolce fuoco», che «parla dalla pienezza del cuore» (p. 44). Per cui più che di religione "naturale" si parla di religione "popolare", che è "sintesi storica" di religione soggettiva e di religione oggettiva. 2) Nei riguardi di Kant si preannuncia quel "rinnovamento" del kantismo, di cui Hegel parlerà in una lettera a Schelling da Berna 4. E' accolta la prospettiva di fondo con la risoluzione della religione in moralità, ma con l'assunzione della sensibilità al livello della razionalità morale, per cui la sensibilità non è in sé ostacolo, ma aiuto ed espressione di moralità. Da notare la svalutazione della teologia come conoscenza, ma per motivi diversi da quelli di Kant. La teologia, che non è più religione, è una «conoscenza, in cui opera solo l'intelletto raziocinante» (p. 37). Nei riguardi di Kant è da notare ancora l'assenza del problema del male, che invece ha scorci abissali nelle pagine della Religione dentro i limiti della sola ragione. Nella scrittura hegeliana il male è visto illuministicamente come errore. 3) In rapporto al cristianesimo è stato rilevato !'«oblio di Cristo»'. Il cristianesimo è staccato dal suo originario originale, che è Gesù Cristo, ed è visto e interpretato soltanto come concezione oggettiva (religione "oggettiva", appunto), lontana sia dallo spirito greco che da quello germanico. Con il "risentimento" (per l'educazione ricevuta nello Stift di Tubinga), di cui sono testimonianza le lettere da Berna a Schelling, s'intreccia il "fraintendimento": così la fede nella provvidenza divina viene ridotta o in mancanza di avvedutezza, o viene congiunta con la labilità del sentimento o di esaltazione o di depressione, addirittura viene sottilmente tradotta in una larvata voluttà del soffrire;
4 HEGEL, Lettere, trad. it., Laterza, Bari 1972, 8-12. s H. KONG, Incarnazione di Dio, Queriniana, Brescia 1972, 41 ss.
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così la preghiera è intesa come calcolo utilitaristico; così del sacrificio cristiano non viene avvertito il significato di amore" all'interno della economia della salvezza (addirittura si afferma che il modo più "crasso" di concepire l'idea del sacrificio si trova nella chiesa cristiana {p. 55 e nota 9). Sembra che alla radice del cristianesimo si ponga la «scissura tra vita e dottrina» (p. 57). Concludendo si può dire che in questo primo scritto la fede, anche se non tematizzata esplicitamente, si configura come "forma soggettiva", e precisamente come forma morale-estetica, con intenzionalità educativa (morale-politica), per la presenza e per il compito dello Stato nei riguardi della religione popolare. La fede, cioè, è "forma strutturale", senza intenzionalità alla Trascen.denza (con esclusione, quindi, di ogni possibile intenzionalità alla Trascendenza "nella" storia). L'intenzionalità si svolge, e si consuma, dentro l'orizzonte dell'immanenza. 11
2. Frammento 2
Il risentimento nei riguardi del cristianesimo si condensa, in questo frammento bernese, sulla figura di Cristo (non si parla di "Gesù", come invece nella Vita di Gesù e nello Spirito del cristianesimo) a cui è contrapposta la figura di Socrate. La contrapposizione è troppo recisa e schematizzata, senza sfumature, per presentarsi, anche solo storicamente, credibile. Già l'ambiente, in cui le due figure si collocano, esprime un netto contrasto. Socrate vive in uno stato repubblicano, in un clima di libertà; Cristo invece appartiene ad un popolo rozzo, dalla cultura grossolana. Anche il modo d'insegnare è opposto: fami!bre, discorsivo in Socrate, imperativo e categorico in Cristo, secondo il modulo ddla cultura ebraica. Opposto pure il tipo di discepolato: ristretto e chiuso quello di Cristo; aperto e senza frontiere quello di Socrate. Ma la diversità e l'opposizione è radicale: Socrate, come amico e maieuta, portava «nella maniera più fine verso una dottrina che si dava da sé» (p. 60), mentre Cristo diventa, sia pure per un travisamento dei discepoli, «oggetto di fede» (p. 63). Si delinea così l'oggettività della dottrina e della prassi cri-
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stiana, c10 che sarà chiamato in seguito "fede positiva", caratterizzata dall'estraneità all'uomo e «dallo spirito di setta» (p. 63). Mentre ]'insegnamento di Socrate è rivolto all'interiorità e si traduce in insegnamento morale. E la moralità è bellezza e bontà interiore L'«agathòn è innato in noi, è qualcosa che non può essere inculcato con le prediche» (p. 65). Anche la morte di Socrate è bella. «Egli parlò con i suoi discepoli della immortalità dell'anima come un greco parla alla ragione e alla fantasia» (p. 64). Il richiamo a Kant è esplicito. L'immortalità è un postulato, su cui si basa il vigore della speranza. E dove viene meno il vigore di quel postulato, dove viene meno cioè il vigore della vita morale come vita autonoma, anche la speranza dell'immortalità diviene debole e si ha bisogno di un supporto estrinseco, oggettivo, come 1' "ordo salutis" proposto dal cristianesimo. In questo frammento, la polemica anticristiana, propria dell'illuminismo, si congiunge con il paradigma kantiano, secondo il quale viene idealizzata la figura di Socrate che «Senza intermediari ricondusse solo l'uomo alla sua interiorità» (p. 65) 6 • 3. Frammento 3 Un curioso intreccio di spirito illuministico e di spirito romantico •percorre l'inizio di questo frammento. Ad un "originario spirito infantile" viene collegata l'oggettività, sia politica che religiosa. Questo spirito infantile è bivalente: per un verso è semplicità primitiva, con la freschezza dell'immaginazione, della
"
6 Ben diversa l'impostazione data da Kierkegaard, in Briciole di fìlosofia e nella Postilla, al confronto tra Socrate e Cristo. Socrate è l'espressione, con il suo insegnamento di interiorità, della religiosità naturale - la religione A - . Ma Cristo è molto di più, è il "paradosso assoluto", la sostanza e la sorgente della religione di secondo grado - la religione B ·, dove è rischioso il "salto" della fede. Socrate è soltanto 1nacstro. Cristo è maestro e salvatore, che non solo propone la fede, ma con1unica pure, nel segreto dell'esistenza, le condizioni del credere. Per cui, nella prospettiva di Kierkegaard, non basta sapere che cosa è il cristianesimo, ma bisogna "diventare" cristiani. E' il tema dell'ultima grande opera pseudonima di Kierkegaard: Esercizio del cristianesimo (in Opere, Sansoni, Firenze 1972, 693-822).
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fantasia, del cuore; ma per altro verso è stadio che deve evolversi con la maturazione della ragione così che si possa dare armonia tra sensibilità, immaginazione, cuore e ragione (p. 69). Se invece lo stadio infantile si fissa, non accompagnandosi allo sviluppo della ragione, si ha la degenerazione delle istituzioni che da esso erano nate. Il frammento esamina la degenerazione della religione oggettiva, che pur valida, almeno in certe forme, nello stadio infantile, diventa invece alienazione, quando allo stadio infantile non segue lo stadio razionale. Si individuano due cause di tale degenerazione: una si potrebbe chiamare trascendentale e consiste nel «carattere misterioso dell'oggetto della religione» (p. 68); l'altra si potrebbe chiamare categoriale, cioè storica, quando si ha come una concrezione del senso del mistero in misteri depositati presso una casta, quella dei preti (una istituzionalizzazione del mistero). La religione oggettiva, che ha origine dallo spirito infantile, va ricondotta al "popolo", come religione popolare (è questo, s'è detto nel frammento di Tubinga, il compito educativo-politico dello Stato), con la commozione di «senso, fantasia e cuore, senza che la ragione debba uscirne vuota» (p. 68), con la devozione come impiego ed elevazione di tutte le facoltà dell'anima, con la sintesi tra il dovere rigoroso e la bellezza e la letizia (p. 69), con l'ordinamento popolare delle feste. Questa degenerazione della religione assume via via nel frammento la caratterizzazione di "positiva". Ed è la religione cristiana. Hegel traccia, a questo punto, un profilo fosco della storia del cristianesimo, che ha generato "amarezza" e "odio" (p. 69). Questo è avvenuto: per la degenerazione del clero, che si è distaccato dai principi dello stesso Gesù, cui ci si rifaceva; per l'interpretazione letterale, e non secondo lo spirito, degli stessi comandi di Cristo; per l'applicazione in campo pubblico di una dottrina e di una normativa (quelle di Gesù) che avevano finalità privata (formazione di persone singole). Il voler piegare a popolare una religione privata ha dato luogo al sorgere di istituzioni violente, come le punizioni ecclesiastiche, le penitenze, le confessioni. Al cristianesimo, c0me religione positiva, è contrapposta la religione soggettiva, «che non si può ingurgitare sotto forma di
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dogmatica» (p. 74). L'educazione ecclesiastica dei cristiani, a carattere oggettivo, soffoca la religione soggettiva, creando una «disorganizzata angosciosità della coscienza» (p. 73). Gli uomini adulti, guidati dalla ragione, non sopportano «Una religione che vuole far loro eternamente da balia» (p. 75). La critica al cristianesimo è acre e accusa la presenza del "risentimento". Ma il risentimento si fa precomprensione illumi· nistica. In essa l'uomo adulto è «guidato dalla ragione» (p. 76), ma l'uomo non è solo ragione. E anche sentimento, fantasia, cuore. Con il motivo illuministico s'intreccia il motivo romantico. Il frammento si chiude con un dittico, letterariamente efficace, ma unilaterale nell'interpretazione e nella contrapposizione: la morte del cristiano e la morte del greco (molte analogie con quanto descritto da Foscolo nei Sepolcri). Triste, paurosa, angosciosa la morte del cristiano; serena e lieta la morte del greco, per il quale l'immagine della morte è quella di «Un genio bello, il fratello del sonno» (p. 77). E la finale è, nel suo risentimento, amara e triste, in quanto Hegel si pone all'interno di una società cristiana, condividendone il destino. «A quelli (ai greci) la morte ricordava il godimento della vita, a noi ricorda il nostro soffrire. Per loro era un invito alla vita, per noi alla morte» (p. 78). 1
4. Frammentò 4
4.1. Premessa La critica alla religione positiva (cristiana) si fa più radicale e articolata. Cristo e il cristianesimo sono dissociati con il passaggio dalla religione privata alla religione pubblica, nella quale lo Stato deve intervenire. Il cristianesimo si configura come estraneazione e alienazione (il termine più usato è Entfremdung, ma compare pure l'altro F criiusserung). La radice dell'alienazione è la fede storica in una persona, Cristo. E' inevitabile il conflitto tra ragione (fede razionale) e fede storica. 4.1.1. Problema della consistenza cristologica Si è parlato, nel periodo bernese, di "concentrazione su Ge-
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sù" 7• Forse, negli scritti giovanili, è in questo frammento il punto più intenso di tensione cristologica. E' il "segreto" di Cristo che s'intende afferrare. Da questo punto di vista si parla, qui, .di consistenza" cristologica. E' ripreso il confronto tra Cristo e Socrate, ribadendo la preminenza di Socrate sul piano umano, ma in Cristo si ha I' "aggiunta del divino", che è opera non dell'intelletto, ma della fantasia (p. 88). «Qui, per il credente, non vi è più un uomo virtuoso ma è apparsa la virtù stessa [ ... ] la virtù senza macchia ma non senza corpo» (p. 89). Il ·divino in Gesù (si badi come, nello stesso contesto, Gesù è identificato con Cristo) è "mito", in quanto non è riconoscimento della ragione, ma opera della fantasia. Ed è mito "ambivalente". che può servire alla vita morale, se sottolinea il valore della virtù, ma può allontanare dalla vita morale se si traduce nella fede in una persona. Se si passa, cioè, come fecero i discepoli, dalla fede morale alla fede storica. Il "vero divino", infatti, è espressione della moralità (nello Spirito del cristianesimo il "divino" sarà al di là della semplice moralità). «Per tale ideale, che per noi sarebbe l'immagine della virtù, vi è stato bisogno di un Uomo-Dio. Ciò tuttavia va bene se il vero divino in lui lo troviamo non nel fatto che egli è la seconda persona della divinità, che è generato dal padre ab aeterno, ecc., ma nel fatto che il suo spirito, la sua disposizione d'animo, concorda con la legge morale, la cui idea infine dobbiamo trarre da noi stessi» (p. 100). Siamo nel punto nodale e cruciale della cristologia. Qual è il "segreto" (Geheinmis) di Gesù Cristo? Hegel lo risolve nella struttura della vita morale. La 'fede in Gesù dovrebbe, allora, risolversi in fede nella legge morale. Forma soggettiva, strutturale, della fede. Il divino non è il segreto di Gesù, è un' "aggiunta" sia pure bella e moralmente efficace, ma sempre "aggiunta"· ("accidentalità", si direbbe con il linguaggio della Positività). Quando Hegel parla della fede in Gesù come persona storica, coglie in fondo ciò che il cristianesimo dichiara essere la sua 11
1
H. KtiNG, op. cit., 83 ss.
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"essenza" 8• Ma dentro una "precomprensione" per un verso illuministica, per un altro verso kantiana (non emerge ancora la precomprensione "dialettica", anche se forse la si può trovare in nuce). La fede storica viene opposta, e perciò svalutata, alla fede strutturale. Tale fede è svalutata in quanto "storica" ed è, perciò, la storia ad essere svalutata, come contingenza, come accidentalità, come il "particolare" per sé non significante. Ma quando, nella prospettiva dialettica, la storia assumerà peso e spessore assiologico, potrà la fede storica, all'interno del sistema hegeliano, essere rivalutata? Si pensi che, nelle lezioni berlinesi di Filosofia della religione, il cristianesimo sarà dichiarato, nella storia, come la "religione assoluta". Coerentemente Hegel risolve la "imitazione di Cristo" nell'esercizio della vita morale, in quanto Cristo si presenta come i1 prototipo della virtù. Bonhoeffer parlerà non di imitazione ma di "Sequela" 9• La consistenza di Cristo è di natura etica, e non ontologicopersonale. Cristo è risolto - e dissolto - nell'orizzonte immanente della moralità, senza s1porgere come "evento fondatore".
4.1.2. Problema della fede storica L'orizzonte della storia è quello della contingenza e non della necessità razionale. La religione cristiana è stata costruita su «verità storiche, in cui l'elemento miracoloso è sempre soggetto all'incredulità. Finché è religione privata ognuno è libero di credervi o meno, ma diventata religione pubblica, dovranno esserci degli increduli» (pp. 79-80). La fede cristiana è, perciò, contingente. «La fede in Cristo in quanto persona storica non è fondata su un bisogno della ragione pratica ma è una fede che si basa sulla testimonianza di altre persone» (p. 96). E', perciò, fede indiretta. «La fede storica è per sua natura limitata, la sua diffusione
8 Cfr. R. GUARDINI, L'essenza del cristianesimo, trad. it., Morcelliana, Brescia 1968. 9 D. BONHOEFFER, Nachfolge, trad. it., Qucriniana, Brescia 1971.
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dipende da circostanze casuali e costituisce una fonte da cui non tutti possono attingere» (p.96). Questa fede, cioè, non è universale. In poche parole: «i motivi della fede in Cristo si fondano sulla storia» (p. 97), sono cioè contingenti, ubbidiscono alla casualità storica (l'accidentalità, di cui si parla nella Positività), non sono universali. La storia della fede cristiana è stata quella della formazione dei "miti", non tanto nella fase primitiva, dove il padre di famiglia era anche il sacerdote, quanto in quella ulteriore in cui «Una classe è depositaria dei miti» e «acquista ben presto sulla fede pubblica un tale dominio che può giungere fino ad un potere molto esteso, o per lo meno ha sempre in mano le redini nei riguardi delle dottrine e della religione popolare» (pp. 97-98). La fede storica è manipolabile ai fini .del potere. Dirà Marx: è ideologia. La fede storica si basa sull'autorità e non sulla ragione. «Non rientra immediatamente nella sua natura risvegliare lo spirito della riflessione». «Rispetto alle verità storiche, il popolo è abituato a credere a quello che gli è stato raccontato fin dalla giovinezza, a non cadere mai in dubbi e a condannare l'ingolfarsi in ricerche sulla loro verità» (p. 98). Ma qui si profila lo sbocco drammatico: l'incontro con il "destino". E il destino di ogni credere, non solo di quello storico, ma anche di quello vivo che è "tensione dell'anima", è di commisurarsi con la ragione, quando questa «si avventura a provare da se stessa quella fede, ad attingere da sé i principi della possibilità e della verosimiglianza, non prendendo in considerazione, anzi mettendo da parte, quell'artificioso edificio storico che afferma un primato sulle verità razionali fondato su basi storiche» (pp. 98-99). Il credere, passando attraverso il vaglio della ragione, si fa fede razionale. 4.2. Problema della fede razionale In contrapposizione alla fede storica, che è estraneità dal soggetto e caduta nella contingenza, la fede razionale è fiducia nella stessa ragione, che si costruisce come fede, sulla base dei propri principi. In fondo la fede razionale è quella che nasce dalla morale (la "ragion pratica") ed è tesa alla vita morale. «Il
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fine supremo dell'uomo è la morale, e, fra le sue disposizioni a promuoverla, quella per la religione è una delle più eccellenti. La conoscenza di Dio non può essere una conoscenza morta, per sua natura; essa ha origine nella natura morale dell'uomo, nel bisogno pratico, e da essa scaturisce a sua volta la morale» (p. 78). La circolarità che qui si stabilisce è tra la vita religiosa e la vita morale, ma il principio originario e genetico è il medesimo: la struttura morale del soggetto, la ragion pratica. La fede razionale non può non avere, nei riguardi della fede storica, un atteggiamento polemico. Essa «cerca di far crollare la fede storica con il motteggio, con la rappresentazione dell'as· surdità di numerosi racconti, oppure con il considerare la storia sacra come qualsiasi altra opera umana, presu·pponendo nei suoi miti, come è accaduto per le tradizioni di altri popoli, la passi· bilità che siano mutati o che abbiano avuto il loro fondamento solo in credenze popolari». Infine «assale la fede storica con le sue stesse arn1i, non trovando nei libri che ne costituiscono il fondamento ciò che la fede vi trae, e cercando di adattarseli in tutti i modi possibili» (p. 99). Il conflitto è insanabile. Le due fedi non possono convivere, a meno che, come avviene nella religione popolare, l'oggettività della fede storica non si possa risolvere, nella sua sostanza, in razionalità. La regola, perciò, che riguarda i dogmi di una reli· gione popolare è che «essi devono essere i più semplici possibile e non devono contenere niente che la ragione umana universale non riconosca, niente che, affermando o detcr1ninando qualcosa dogmaticamente, trascenda i limiti della ragione, anche se l'auto· rizzazione a ciò dovesse trarre origine dal cielo stesso» (p. 81). 4.3. Problema della fantasia come "organo" della religione L'essenza della religione soggettiva è risolta nella volontà (ragione) morale. La religione oggettiva deve essere piegata a farsi funzione della religione soggettiva, cioè della vita morale (religione popolare). Nasce allora l'interrogativo: qual è il pro· prium della religione di fronte alla morale? Nel frammento di Tubinga si diceva che la religione aggiunge alla morale la forza del "sentimento". Qui si aggiunge un altro proprium, quello
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della bellezza della fantasia, produttrice di miti. In tal senso la fantasia può esser detta "organo" della religione. Però è proprio la bellezza della fantasia che richiede che con essa siano in armonia l'intelletto e la ragione. «I misteri, i dogmi che non sono né concepibili né rappresentabili per la ragione o per l'intelletto, proprio perché sono inconcepibili, lo sono altrettanto poco per la fantasia, poiché per questa essi sono interamente e affatto contraddittori» (pp. 80-81). Ma di fronte alle dottrine contraddittorie, dove anche la bellezza si lacera nell'irrazionalità, intelletto, ragione e fantasia sospendono la loro attività. «Rimane solo la memoria che accoglie in sé determinate connessioni di parole, che deve conservarle per sé, isolarle e far valere il meno possibile ]'intelletto» (p. 82). In un altro luogo ciò viene chiamato I' "ossario della memoria". Perciò la fede storica non è fantasia, ma "memoria" di parole. Tuttavia tali parole, «Che per la ragione sono perdute poiché non può concepirle, per l'intelletto sono impensabili, per la fantasia irrappresentabili, e sono utilizzabili solo per la memoria», possono avere importanza per il "cuore" e così esercitare un influsso sulla determinazione della volontà (p. 85). Ciò che potrebbe essere chiamato !'«astuzia della ragione pratica». Se a livello di contenuto mitico, l'organo della religione è la fantasia, a livello d'influsso e di determinazione pratica la grande riserva della religione è il "cuore". Si tratta, allora, di "raffinare" talune dottrine "ultraumane" della religione cristiana, perché possano «tendere a divenire morali» (p. 85). La fantasia cristiana, per quanto riguarda la vita utraterrena, è contrapposta alla fantasia greca. La prima «è triste e malinconica, orientale; non cresciuta sul nostro suolo, non vi si può mai assimilare» (p. 80). Si tratta di «religiose sregolatezze della fantasia» che portano !'«irrompere della disperazione più triste e più angosciosa» (pp. 85-86). Mentre la «fantasia delle baccanti greche si esaltava fino all'illusione di veder presente la divinità stessa e fino al più selvaggio irrompere di un'ebbrezza senza regole», ma tutto questo «era un delirio della gioia, del giubilo, un delirio che rientrava ben presto nella vita comune» (p.85). La dottrina .della vita ultraterrena è fondata sul «bisogno pratico di creare una connessione tra questa e l'altra vita». «Ma perché essa divenga degna di una religione morale, si deve pro-
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cedere con cautela nel trattarla, perché si possa consolidare ,ella fede dei popoli» (p. 86). La cautela sarà l'opera educativa dello Stato ai fini della religione popolare. Ritorna con una certa frequenza, nella scrittura hegeliana, il termine "angoscia". Vien fatto di pensare, per un confronto, al Concetto dell'angoscia di Kierkegaard. L'angoscia di cui parla Hegel è di tipo psicologico, nasce dalla sregolatezza della fantasia. Si può facilmente esorcizzare con l'esercizio della ragione. L'angoscia invece di cui parla Kierkegaard è di tipo esistenziale. Sfugge alla ragione ragionante, dall'andatura astratta, perché si salda con il segreto dell'esistenza. L'angoscia .. ha le sue radici in un "trauma" (così lo chiama Guardini in Esistenza del cristiano 10) dell'esistenza, che la coscienza cristiana chiama "peccato origina1e". L'angoscia esistenziale può essere esorcizzata solo dalla fede, nel paradosso della remissione dei peccati. Però nel dettato hegeliano si può intravvedere un' "angoscia" più profonda e più cupa, non religiosa ma laica: quella che nasce dallo scontro con il "destino". 4.4. Problema dell'interve1<to dello Stato Lo Stato interviene a livello di religione oggettiva, per volgerla verso la religione soggettiva, in funzione della moralità. La funzione dello Stato è politico-educativa, ai fini della religione popolare. Se lo Stato consente il distacco della religione oggettiva dalla moralità, cioè dalla «r"!gione, che non può transigere nella sua esigenza di essere moralmente buona» (p. 83), allora si ha un "edificio abietto", in cui pratiche e istituzioni presumono di essere sostitutive dell'impegno morale (qui Hegel esemplifica con il richiamo allo Stato della Chiesa e allo Stato di Napoli). Qui il sovvertimento è insidioso e grave, perché «quei principi che sovvertono la moralità e che profanano l'umanità e la divinità[ ... ] vengono pubblicamente insegnati e non solo, ma, cosa ben più viva dell'insegnamento, vengono intessuti nel modo più intimo con l'intera struttura dello stato» (p. 84). Si profila !'anomalia 10 R. GUARDINI, L'esistenza del cristiano, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1985, 107 ss.
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patologica dello Stato confessionale, quale verrà esaminata nello scritto sulla Positività. Ci si può chiedere quale sia la ragione, in forza della quale lo Stato può e deve intervenire, non sulla religione privata, ma sulla religione popolare. Anche se tutto ciò non è ancora tematizzato, sembra che la ragione sia la stessa natura "etica" dello Stato, come espressione, a livello di vita associata, della stessa struttura naturale, cioè etica, dell'uomo. Si preannuncia il tema dello "Stato etico", che sarà sviluppato nella Filosofia del diritto.
5. Frammento 5 Frammento breve, ma denso, pervaso da un nuovo fremito speculativo, che chiede, per esprimersi, la via nuova della dialettica. La religione, infatti, è vista nel divenir·c (dialettico) della storia, che presenta, in rapporto all'uomo che è il soggetto della storia, il polo negativo dell'estraneazione e il polo positivo della riappropriazione. La religione, in questo contesto storico, è in stretto rapporto con la politica. Si ha la delineazione di tre epoche: antica, cristiana, nuova. L'epoca antica è caratterizzata dalla libera repubblica, dove la religione è virtù rr1oralc e civile. L'epoca cristiana invece è sea gnata dalla perdita della libertà e della virtù pubblica, con la prevalenza del privato. La fede si fa positività. «Se le idee sono inaridite e ridotte a chin1erc, la fede può aderire soltanto ad un individuo, può appoggjarsi solo ad una persona, che è di escn1pio ed è oggettc dr ammirazione" (p. 102). Il compilo dell'epoca nuova sarà quello della riappropriazione, nella regione dell'uomo, di qua!lto, per carenza di vig:orc morale, era stato estraneato nella fede. «Il bello della natura umana, che noi stessi ponevamo nell'individuo a noi estraneo, in quanto trattenevamo di essa solo tutte le cose disgu~tose di cui è capace, viene di nuovo con gioia conosciuto da noi come nostra opera, ce ne appropriamo, i1nparando :perciò a sentire rispetto per noi, n1entre prima ci credevamo solo oggetto di disprezzo,, (p. 103). «Il sistema della religione», caduto <d'intero angoscioso apparato, l1artificioso sisten1a di impulsi e consolazioni, in cui tanti uomini deboli trovavano
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ristoro», potrà avere «una propria vera e autonoma dignità» (p. 103). Al "sistema" artificioso della positività si oppone il "sistema" autonomo della religione come moralità. La religione non ha un suo spessore specifico, autonomo, e tutta si risolve nell'autonomia della vita morale. La fede si configura, perciò, come "forma soggettiva". Il Peperzak ha visto in questo frammento un «abbozzo di filosotìa della storia» u. M. Rossi vi scorge ancora la presenza dell'illuminismo e del kantismo, alla cui luce vanno intesi i concetti di alienazione e di appropriazione u E. De Negri, invece, legge il frammento come «spia del segreto hegeliano e romantico», in quanto in esso si prepara «il passaggio dal romanticismo ellenizzante al ron1anticismo cristiano e moderno» 13 • Su questo frammento, particolarmente significativo nello svolgersi del pensiero giovanile di Hegel, si possono avanzare le seguenti "annotazioni problematiche". 1) Si parla di tre età, ma in quanto "religiose". Ma che cosa le caratterizza come "religiose"? Si potrebbe rispondere: la fede come bellezza del sentire morale (si ha la congiunzione tra etico ed estetico). Nella prima età è presente la bellezza, nella terza è presente la ragione, nella seconda manca la "bellezza della ragione". La seconda è religione alienata (rivolta al contingente) e alienante (fa perdere il vigore e la bellezza dell'universale). (Da notare come queste categorie ritorneranno in Marx, in un complesso rapporto economico-politico, ma sempre con radice e sostanza antropologica). 2) Qual è il rapporto tra queste tre età? Non è di "evoluzione" (dal meno al più), ma non è ancora un rapporto "dialettico". La riappropriazione, infatti, avviene non mediante la ripresa del negativo (la "potenza del negativo", di cui parlerà la Fenomenologia dello Spirito), ma mediante la sua esclusione.
11 A. T. B. PEPERZAK, Le jeune Hegel et la vision morale du monde, M. Nijhoff, La ffaye 1960, 53. 12 M. RossI, Da H e gel a Marx, I: La formazione del pensiero politico di Hegel, Feltrinelli, Milano 1970, 116. 13 E. DE NEGRI, Interpretazione di Hegel, Sansoni, firenze 1943, 26.
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L'evoluzione avviene, invece, tra la prima e la terza fase (la bellezza si sviluppa in ragione). La seconda fase è il "puro negativo", la pura alienazione. 3) L'intenzionalità della fede è immanente e strutturale: rivolta alla verità morale bella, mediante la "rappresentazione" (la teoria del "mito"). 4) Nel cristianesimo l'intenzionalità della fede è deviata (e da ciò l'alienazione) verso una persona storica (individuo). Però tale intenzionalità originaria può essere recuperata, se la persona storica è assunta come "rappresentazione" della virtù. Da ciò l'opposizione tra fede strutturale e fede storica. 5) Si può dire che le pagine di Hegel giovane costituiscano per la fede cristiana una sfida e una provocazione. a) Sfida: alla rivendicazione dell'originalità originaria del cristianesimo e della fede cristiana. b) Provocazione: a rendere ragione (con tutte le risorse della ragione) del credere, come paradossale decisione di libertà; a presentare nella "densità" di Cristo l'armonioso nexus mysteriorum; a rivendicare la bellezza "atipica" della testimonianza cristiana; a far trasparire nella prassi storica l'intenzionalità soterica dell'amore.
II. LA FEDE COME "FORMA ETICO-ESTETICA"
Certamente strana questa Vita di Gesù, composta a Berna tra il maggio e il luglio del 1795 14 • Strana per il kantismo, assunto monoliticamente, in forma quasi ossessiva. Addirittura sulle labbra di Gesù vengono poste le massime kantiane. E' stata, infatti, chiamata la vita di Gesù secondo Kant. Strana per l'intenzionale manipolazione dei testi, con la riduzione di ogni sporgenza nel trascendente, come i miracoli e la risurrezione, con il "deliberato travisamento" (Mirri) di tutto il senso della predicazione e dell'opera di Gesù. 14 Cfr. G. ScHtiLER, Zur Chronologie von Hegels Jugendschriften, in Hegel-Studien, Il, 1963, 111·159.
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Non sembra pertanto lontano dal vero lo Haering, quando :avanza l'ipotesi di una "sperimentazione" del kantismo nei ri· :guardi della figura di Gesù, per vedere come il cristianesimo, almeno nel suo capo e iniziatore, poteva essere piegato a strumento di religione popolare 15 • E non è lontano dal vero il Peperzak quando osserva che la pesante interpretazione kantiana ha tolto dai vangeli, non solo la religione, ma anche la poesia 16 • Un'interpretazione molto suggestiva, anche se non molto persuasiva, è quella "estetica" di Antimo Negri n Egli vede, nel kantismo dì Hegel a Berna, la mediazione di Schiller e di Holderlin. La morale di Kant è tendenzialmente "estetica", volta al superamento della dualità e della scissione tra sensibilità e ragione. E la lezione della Vita di Gesù può essere etica e non moralistica, perché in fondo è lezione estetica. La ragion pratica si .trasfigura in sentimento morale, che è purificazione e trasformazione della sensibilità (bereinigte Gesinnung e Sinnesiinderung). Gesù è "anima bella" e la religione cristiana, in lui, è "religione bella". Sembra però che in tal maniera la Vita di Gesù venga 1etta, retrospettivamente, alla luce dello Spirito del cristianesimo. Tenendo presente la suggestione di A. Negri con riferimento, anche, a taluni spunti offerti nella Religione popolare, si può dire che la forma soggettiva della fede, che è ancora trascendentale generico, si specifichi come "forma etico-estetica". Sembra darsi cioè una saldatura circolare tra l'etico e l'estetico. Questo toglierebbe al kantismo della Vita di Gesù il suo apparente pesante monolitismo morale, per aprirlo in una prospettiva, che già è presente in Kant con la Critica del giudizio e che nel giovane Hegel rappresenta il punto "originale" di ripresa e di superamento .del kantismo, fino alla critica, piuttosto acre e sommaria, che della morale kantiana verrà fatta nello Spirito del cristianesimo. Nell'inizio dell'opera si indica l'orizzonte precomprensivo, dentro il quale si svolgerà la "rilettura" della vita di Gesù. «La Js T. HARING, Hegel, sein Werk und sein V/o!len, I, Te11hner, Leipzig
und Berlin 1929-38, 186-87. 11> 1
~
A. T. B. PEPERZAK, op. cit., 66. Cfr. Introduzione alla Vir11 di GPsù, trad
it.,
Laterza, Bari JQ?l,
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ragion pura incapace di ogni limite è la divinità stessa. E' secondo la ragione, dunque, che è ordinato in generale il mondo (e in nota si cita Gv 1); è la ragione che indica all'uomo la sua destinazione, l'incondizionato scopo della sua vita. Spesso essa è bensì oscurata, ma mai è stata ·del tutto spenta: anche nell'oscuramento si è sempre conservato un debole barlume di essa» (p. 119). In un sottotitolo, non riprodotto dal Nohl, si leggeva di «un'armonizzazione dei vangeli» 18 • Armonizzazione non conseguente, ma precedente la "cosa" del testo. Da ciò l'impossibilità di rilevare la novità paradossale dell'evento cristiano. Per cui sia l'etico come l'estetico si risolvono dentro la struttura del soggetto. La fede è "forma strutturale", di cui l'etico e l'estetico sono le categorie determinanti. Certo nella delineazione, e valutazione, della figura di Gesù, dalla Religione popolare a questa Vita di Gesù è chiara un'evoluzione positiva, che avrà il suo sbocco nel Gesù dell'amore dello Spirito del cristianesimo. Qui non avrebbe senso un confronto con Socrate, come quello prospettato nel frammento 2 di Berna. Anche Gesù è un "maestro di virtù" e il suo insegnamento .è rivolto all'interiorità, ad una dottrina «Che si dà da sé». Nel dialogo con Nicodemo, la moralità è definita "splendore della ragione" e la legge morale "fiore" di questa (pp. 124-25). La voce della ragione è identificata con la voce della divinità. «Ma come potete voi far valere la ragione come supremo criterio del sapere e del credere, dal momento che non avete mai ascoltato la voce della divinità, non avete mai udito nel vostro cuore l'eco di questa voce e non prestate attenzione a colui che fa risuonare questo tono?» (p. 135). La scelta dei dodici non è più interpretata nel senso di "chiusura nel privato". «Dalla moltitudine dei suoi ascoltatori, Gesù ne scelse dodici che onorò del suo particolare insegnamento, per renderli capaci della diffusione della sua dottrina e per avere almeno alcuni cui poter ispirare in maniera pura il suo spirito» (pp. 136-37). Nella disputa, sorta tra i discepoli su chi tra loro 18 Cfr. D. D. RoscA, Vie de Jesus, introduction, 39, cit. da Negri, op. cit., 20.
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fosse maggiore nel regno di Dio, Gesù chiamò un fanciullo e disse ai discepoli: «Se voi non vi cambierete e non ritornerete all'innocenza, alla semplicità e alla ingenuità di questo fanciullo, voi non sarete veramente cittadini del regno di Dio; [ ... ]. Guardatevi bene dal disprezzare qualcuno, meno che mai la semplicità del cuore: è il fiore più tenero e più nobile dell'umanità, l'immagine più pura della divinità» (p. 147). Però questa morale bella non equivale «ad un quieto godimento della vita». Il "destmo" - quel «destino che io attendo ed esigo per me» - sia di Gesù che dei suoi, sarà segnato dal conflitto tra «una fede imposta e legata alla lettera» e la ragione che ha «il diritto di darsi legge .da se stessa e di credere liberamente e liberamente assoggettarsi ad essa» (pp. 154-55). Perciò Gesù respinge la fede "positiva" nel Messia e rimanda alla santa legge della ragione. «Ma esigo forse io rispetto per la mia persona? o fede in me? o voglio imporvi come mia invenzione un criterio per valutare e giudicare il valore degli uomini? No; il rispetto per voi stessi, la fede nella santa legge della vostra ragione, l'attenzione al giudice interno che è nel vostro petto, alla coscienza, un criterio che è anche un criterio della divinità, tutto ciò io ho voluto ridestare in voi» (p. 170). Il discorso di commiato, certamente distante dalle vibrazioni intense e dagli squarci abissali del vangelo giovanneo, è il discorso del "maestro di virtù". «Finora sono stato vostro maestro e la mia presenza ha guidato le vostre azioni; ora vi lascio, ma non vi abbandono come orfani; vi lascio una guida in voi stessi: io ho ridestato in voi il seme del bene che la ragione pose in voi, e il ricordo dei miei insegnamenti e del mio amore per voi manterrà saldo in voi questo spirito della verità e della virtù cui gli uomini non rendono omaggio solo perché non lo conoscono e non lo cercano in se stessi. Voi siete diventati uomini che confidano finalmente in se stessi, senza dande estranee. Quand'anche io non sia più con voi, sia vostra guida la vostra sviluppata moralità» (p. 177). Gesù è il maestro, ma non il "salvatore", come invece sottolineerà Kierkegaard. Un certo pathos vibra nella descrizione dell'ultima cena, con il precetto dell'amore e con l'indicazione della forza di questo;
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dell'agonia del Getsemani («Qui, nella solitudine della notte, la natura rientrò per qualche tempo nei suoi diritti: il pensiero del tradimento del suo discepolo, dell'ingiustizia dei suoi nemici e della crudeltà del destino che attendeva s'impadronì di Gesù, lo scosse e lo riempì di angoscia», p. 179); della morte. «Ai piedi della croce stava in profondo dolore la madre di Gesù con alcune sue amiche; di tutti i fidi compagni di Gesù solo Giovanni era con loro e condivideva il loro dolore. Gesù li vide insieme a sua madre: 'Eccoti un figlio al posto mio'; e a Giovanni: 'considerala come tua madre'; e Giovanni, secondo il desiderio del suo amico morente, la prese nella sua casa e in sua cura. Dopo alcune ore che pendeva dalla croce, sopraffatto dal dolore, gridò: 'Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonalo?'. E dopoché ebbe gridalo ancora di aver sete ed ebbe preso un po' di aceto che gli si porse in una spugna, disse ancora: 'Padre, nelle tue mani io rimetto il mio spiri lo'; chinò poi la testa e spirò» (pp.187-88). Ma la scena del centurione, così densa e potente in Marco (15, 39: «Vedendolo spirare in quel modo, il centurione che gli era davanti disse: Veramente quest'uomo era Figlio di Dio»), .diventa incolore e da retorica: «Anche il centurione romano che aveva comandato l'esecuzione ammirò il comportamento calmo e la composta dignità con cui Geslt morì» (p. 188). L'itinerario di Gesù sbocca in un sepolcro, che non diventerà "vuoto" perché non conoscerà il fremito e il bagliore della risurrezione.
III. LA FEDE COME "FORMA POSITIVA"
1. Prospettiva e ripresa
La stesura originaria de La positività della religione cristiana, eiaborata a Berna nel 1795-96, è chiaramente costituita .da due parti. Nella prima parte si delinea la "positività" della religione cristiana, nella seconda se ne rilevano le conseguenze e le applicazioni sul piano politico. La forma "positiva" si rivela così come "anti-politica".
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Questa seconda parte mostra come il problema politico fosse vivacemente presente nel giovane Hegel. Per questa via, questo scritto bernese si può ricollegare al tema della "religione popolare", trattato nel primo scritto (specie se si tiene presente il primo frammento aggiuntivo alla Positività). Ma lo scritto sulla Positività viene ripreso a Francoforte, nel settembre del 1800, quando Hegel aveva composto, tra l'inverno del 1798 e l'estate del 1799, Lo spirito del cristianesin70 e il suo destino. Il rifacimento, quindi, della Positività avviene nel clima di quella "svolta" o di quella "crisi variamente interpretata dai critici, in cui sembra maturarsi un mutamento di prospettiva, con il delinearsi della concezione dialettica, che caratterizzerà lo Hegel maturo. C'è .da chiedersi se questo rifacimento dovesse comportare, nelle intenzioni di Hegel, il rifacimento di tutto lo scritto, specie di quella seconda parte di natura storico-politica, che sembra essere stato !'obiettivo principale della riflessione hegeliana, oppure se esso da solo, collocato all'inizio, potesse servire a dare a tutto lo scritto una nuova chiave di lettura, quella, cioè, dialettica. Questo secondo criterio pare abbia spinto il Nohl a far precedere, nella sua edizione, alla stesura originaria di Berna il rifacimento di Francoforte. Il Mirri, invece, nell'introduzione all'edizione italiana, inizia con l'esame della stesura di Berna, per passare poi a quello del rifacimento francofortese. Anche nella rilevazione fenomenologica delle forme della fede, che qui si tenta;· si segue questo secondo procedimento, che sembra, anche filologicamente, più aderente 19 • 11
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2. La positività come accidentalità storica
Nelle prime battute di questo scritto, non prive di una certa vena polemica, sembra veder emergere, di fronte al constatato pluralismo di interpretazioni del cristianesimo, una esigenza che si potrebbe chiamare di carattere fenomenologico. Rilevare 1~
L'edizione tedesca citata pone prima la redazione or1g1naria, pp. 104-190, e poi, dopo i fram1nenti aggiuntivi (Zusiitze), pp. 190-217, la nuova redazione dell'inizio (Neufassung des Anfangs), pp. 217·229.
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cwe l'originario cristiano. A questo potrebbe mirare il "mettere tra parentesi" sia una "professione di fede" (Glaubenbekenntnis) all'inizio della trattazione sia la "convinzione personale" dell'autore. Ma subito, sulla intravista innocenza fenomenologica, prevale la precomprensione ermeneutica, che già è stata presente e operante nei precedenti scritti .del giovane Hegel. Esplicitamente si afferma «che è stato posto a fondamento di ogni giudizio sullo spirito e sulle varie forme e modificazioni della religione cristiana il principio che il fine ( Zweck) e l'essenza (Wesen) di ogni vera religione - ed anche perciò della nostra - è la moralità» (p. 234). Il richiamo a Kant si fa esplicito, in polemica con la legislazione ecclesiastica, alla fine dello scritto (p. 302 s.) 20 • Se dunque la religione "vera" si risolve nella moralità come forma soggettiva, l'aggiunta di ogni elemento storico - I' "accidentale" (das Zufiillige), come vien detto nel rifacimento francofortese (p. 223; ed. ted. p. 221) - con pretesa di universalità costituisce il "positivo". La rilevazione che Hegel compie delle "accidentalità" storiche che portarono alla positività della religione cristiana non è di carattere fenomenologico, ma di carattere ermeneutico. Non si ricerca I' "originario" storico del criD stianesimo, ma l'origine storica della positività con cui il cristianesimo, per il suo "destino", non può non configurarsi. La prima accidentalità storica è costituita dalla condizione servile e legalistica della religione ebraica, in cui il cristianesimo storicamente si radica. Però spinte eterodosse, come quelle degli esseni e di Giovanni Battista, ebbero modo, con la frequentazione di nazioni straniere, di «conoscere i più bei fiori dello spirito umano» (die schoneren Bluten des menschlichen Geistes kennen), cioè la virtù autonoma e libera (p. 235; ed. ted. p. 106). Si profila così, in iscorcio, la forma etico-estetica della fede, come forma soggettiva. La seconda accidentalità è costituita dall'insegnamento di Gesù, che è strutturalmente ambivalente, in quanto nella sua
2o Posizione antitetica sarà invece quella di Kierkegaard, che in Tin1ore e Tremore porrà la "religione" di Abramo al di là della sfera della moralità, nella regione del mistero e del paradosso.
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"forma" esso è positivo, richiamandosi, come a principio fondativo, alla volontà divina - estranea e straniera all'uomo anche se, nel suo contenuto essenziale, esso non riguardava le dottrine o le pratiche positive, ma i precetti della virtù. La terza accidentalità, quella determinante, proviene dal mutamento di prospettiva dei discepoli. Il richiamo alla sua persona, che Gesù aveva fatto occasionalmente, diviene per i discepoli essenziale e caratterizzante. La fede è, essenzialmente, fede nella persona di Gesù. Ora qui Hegel Locca il punto centrale dell'originario cristiano, lo tocca non come ori,ginario originale, ma come originario "derivato" e perciò positivo. Nell'originaria coscienza crisliana la fede in Gesù si configurava come il muoversi (pisteuein eis) e l'aprirsi dell'esistenza a Gesù, quale evento di salvezza, come incarnazione di Dio, come amorosa presenza dell'Assoluto nella storia. Il presupposto illuministico-kantiano impedisce a Hegel tale rilevazione. O meglio la rilevazione dell' "essenza" del cristianesimo, cioè la fede nel Cristo Gesù, avviene, ma con una forma ern1eneutica sovrapposta. Per l'irrompere dell'ermencusi nella rilevazione della forma, si può dire che il senso del cristianesimo viene, fenornenologican1ente, stravolto. L'originario non coincide con l'originalità dell'origine, ma con la "positività" del derivato. Il positivo è il non-autentico, ma esso, proprio per la sua negatività dialettica, rimanda all'autentico. Bisogna perciò andare oltre il positìvo, verso l'autentico originario. Questo passo ulteriore Hegel cercherà di compierlo nello Spirito del ci-istianesimo e il suo destino. Al termine del suo scritto, quando si dà il riferimento a Kant, Hegel contrappone alla interiorità della legge morale, come forma soggettiva, la esteriorità della legge morale cristiana. «Ma la religione cristiana ci annunzia che la legge morale è qualcosa che esiste al di fuori di noi, è un dato (als etwas Gegebenes)»; «presenta all'uomo la legge morale come un dalo (als etwas Gegebenes)» (p. 303; ed. ted. p. 189). Ora qui bisogna fare un'osservazione: che secondo la coscienza della fede il "dato" (Gegebenes come Gabe) non è essenzialmente e fondamentalmente la legge morale, ma una Persona, Gesù il Cristo, come libero evento di salvezza. Il "dato", quindi, non assume la configurazione del-
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l'estraneità impositiva, ma della libera proposta di salvezza, nella interiorità e nell'intimità dell'amore. Non si dà perciò quell' "alienazione" (Veriiusserung) che Hegel teme provenga all'uomo dall'accettazione della morale cristiana come estranea e imposta. Infatti la legge cristiana è la stessa persona di Cristo, che ama e si ama nell'interiorità della coscienza. Si avverte anche qui, nel problema della "datità", la mancanza della rilevazione fenomenologica della forma del dato. Dato, infatti, differisce da dato. C'è il dato che si impone nella forma della costrizione e c'è il dato che si dona nel libero gesto dell'amore. Il cristianesimo originario si pone, come libera iniziativa dell'Assoluto che irrompe nella storia, come "dono". (Gegeben come Gabe) di salvezza. Non si configura come "accidentalità storica", ma come "evento" (Ereignis) nella storia, con una originale dimensione soterica e agapica. 3. La positività come forma "anti-politica"
Hegel scorge nel sorgere della Chiesa, come passaggio dal privato al pubblico, il suo carattere necessario di "setta". Si può dire che è il suo "destino". Che non è quello dello Stato. Nella matura Filosofia del diritto Hegel poi rileverà la valenza etica dello Stato, come massima espressione storica dell'eticità. Ma un annuncio di essa si può intravvedere in questa giovanile scrittura hegeliana. Lo Stato, cioè, non si configura, come la Chiesa, quale un dato di accidentalità storica, ma come un dato della stessa struttura dell'uomo. Le radici dello Stato non sono nel "positivo", ma nel "soggettivo nel senso cioè che questo termine assume in questi scritti hegeliani, come struttura trascendentale dell'uomo. Da ciò il suo carattere universale e pubblico, mentre la religione positiva, nata dall'accidentalità storica, è particolare e privata, cioè i' settaria''. Lo Stato, come tale, è neutro, è laico,, deve rispettare e difendere la libertà religiosa dei cittadini, ma solo in quanto essa si esprime nella sfera del privato. Di fronte allo Stato, la fede è "opinione", che si può anche cambiare, senza che costituisca un vincolo giuridico-politico. Quando invece una Chiesa, che per necessità storica si configura come "setta", entra nella sfera dello Stato e addirittura 11
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si identifica con esso (Hegcl ha presenti gli Stati confessionali della Germania), allora la fede, che dovrebbe essere intima e libera, si trasforma in coazione e violenza. Il carattere settario della Chiesa deriva o, meglio, si manifesta dal fatto che l'ideale originario di libertà, che sta all'inizio dei movimenti religiosi (Hegel si rifà all'ideale e all'opera di Gesù come all'ideale e all'opera dei primi esponenti della riforma protestante) subisce poi "determinazioni" autoritarie e istituzionali, che oggettivano in staticità conservatrice l'originario moto libero dello spirito. Ma il positivo, che è proprio della setta, introdotto nello Stato, specie se questo assume la forma .di Stato confessionale, diventa principio di corruzione dello stesso Stato, assume, cioè, forma "anti-politica". Si creano anomalie e squilibri a livello giuridico-associativo. Quello che in una società privata poteva essere fratellanza e solidarietà si trasforma, trasferito come privilegio giuridico·politico, in ingiustizia, con la discriminazione tra cittadini e cittadini. Quello che poteva essere spontanea comunità di beni o libera elargizione diventa profitto da parte di piccoli gruppi. Il principio dell'eguaglianza, che poteva anche essere esercitato autenticamente in una piccola comunità diventa, in una società variamente articolata e composita, ipocrisia. Di~ venta perciò "commedia" la lavanda dei piedi compiuta dagli alti prelati il giovedì santo. E quello che originariamente, la Cena, era stato un semplice e commovente incontro di amici, nella fraternità delle parole e della mensa, si è trasformato, per il sovrapporsi del "positivo" dogmatico e autoritativo, in un rito misterioso, imposto e vuoto. Ma ancora, nel rnpporto con gli altri, se nel credente <di po· sitivo della propria religione ha un valore infinito ed il suo cuore non ha niente da porre più in alto» (p. 255), in lui sorgerà, nei riguardi degli appartenenti ad altre sette, «O pietà o orrore». Ma se le vie della pietà saranno quelle della persuasione, quelle dell'orrore potranno essere le vie della violenza e dell' oppressione. La violenza poi forse più sottile ma decisiva per la stessa fede si compie nella "determinazione' che viene imposta da una maggioranza nei concili e nei sinodi. Maggioranza all'interno del
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concilio o del sinodo, ma forse minoranza rispetto alla massa dei fedeli. Si tratta poi di una maggioranza in genere non rappresentativa del popolo. Comunque la "determinazione" è imposta. Viene violata la libertà della coscienza. Tale violenza della "deter· minazione" della fede imposta emerge pure nel modo di educare i bambini. A questo punto il problema non è tanto quello della "genesi" della fede (la positività dell'accidentalità storica) quanto quello del suo "contenuto" e della sua "trasmissione". Nell'ottica di H'.egel il discorso dovrebbe essere consequenziario. Se la radice della fede è positiva, anche i suoi contenuti e i suoi modi di trasmissione dovranno essere positivi. Ma Hegel contrappone costantemente, sullo sfondo e sia pure in filigrana, alla fede positiva la fede "migliore" della libertà morale. In fondo anche la stessa .fede positiva conserva la nostalgia di quel soffio di libertà che pur pervase la sua originaria accidentalità storica. Hegel ha ricordato lo spirito libero e bello di Gesù e lansia di libertà dei primi riformatori protestanti. Questa nostalgia è tradita e soffocata ·dagli sviluppi della positività, che si mostra sem· pre meglio come l'antitesi della libertà, alienazione da questa 21 •
21 All'interno dell'ottica della fede cristiano-cattolica si pongono, qui, due problemi: quello della "conservazione" e quello della "trasmissione" dell'originario autentico. Per l'eventuale confronto si fanno due nomi;
Newman e Rosmini. 1) Newman, ancora anglicano ma prossimo all'adesione, anche esterna, al cattolicesimo, si pose il problema della possibilità, nel travaglio della storia, della "corruzione" della dottrina cristiana. Fu proprio lo studio dello "sviluppo" della dottrina cristiana a convincerlo della necessità di una Chiesa che avesse in sé un magistero qualificato e autorevole, per conservare e difendere dalle adulterazioni il messaggio originario. Nel silenzio di Littlernore, scandito dalla preghiera, Newman lavora indefessamente, con rigore di storico ma anche con la passione della fede, al Development of Christian Doctrine. Newinan scorge che proprio lo studio dello sviluppo storico lo conduce non già alla staticità ripetitiva della Via Media (costruita sul principio di Vincenzo di Lérins: quod semper, quod ubique, quod ab omnibus), ma al dinamismo omogeneo della confessione cattolica romana. E prima di portare a compimento il suo libro, che proprio nella sua incompiutezza porta il segno della grande tensione spirituale, Newman il 9 ottobre 1845 aderisce pubblican1ente alla
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4. La positività come negativo-dialettico A prescindere .dal fatto se Hegel intendesse rifare tutto lo scritto sulla Positività oppure, se con il rifacimento di Francoforte intendesse assumere tutto lo scritto in una nuova ottica di lettura, qui si vuole solo rilevare la "forma" della fede quale emerge da questo rifacimento. Il punto di partenza è la distinzione tra religione naturale, che è una, e religione positiva, che assume vari volti a seconda delle varie situazioni storiche. «La religione che si sia adattata a questa varietà diviene una religione positiva, poiché la sua stessa relazione alla accidentalità è un'accidentalità» (p. 220). Ma non potrebbe la religione positiva essere vista come un esprimersi storico della religione naturale? Hegel contrappone drasticamente la religione positiva alla religione naturale, perché l'accidentalità storica, anzi l'accidentalità dell'accidentalità, che è qualcosa di precario, di mutevole, di transitorio, di non essen-
Chiesa cattolica romana. Da cattolico poi, dopo la proclamazione, nel Concilio Vaticano I, del dogma dell'infallibilità pontificia, dovette difendere l'autentica dottrina cattolica, distinguendola chiaramente da certe forme dell'estren1ismo cattolico inglese (rappresentato da Manning, W. G. W~rd) che enfatizzava indebitamente e acriticamente la portata del dogma. Anche sull'apporto dei "laici" all'interno della vita della Chiesa, per la "determinazione" della fede scrisse un contributo, che a taluni apparve audace, mentre era solo acuto e precorritore. In questa prospettiva il problema è quello della distinzione tra il "derivato autentico", perché "con-forme" con l'originario (e in quanto tale garantito dal magistero qualificato), e "derivato con autentico", che può anche essere "dis-forme" in rapporto all'originario. 2) Nelle Cinque piaghe della santa Chiesa Rosmini esamina certe "anomalie", che nel groviglio delle situazioni storiche, si sono determinate nel corpo storico della Chiesa (come la separazione tra clero e laicato, l'insufficiente formazione del clero, la disunione tra i vescovi, la nomina dei vescovi dal potere politico, la situazione economica). Ma la distinzione di fondo, del duplice volto della Chiesa, è chiara e presente in Rosmini. Il volto originario della Chiesa (quello che potremmo chiamare "ecclesiale"), quello garantito dalla istituzione di Gesù Cristo e dall'arcana presenza dello Spirito, esce sempre indenne, quale organismo soterico-sacramentale, dalle bufere della storia. Ma il volto storico-culturale della Chiesa (quello
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ziale (accidentalità, appunto), si trasforma, nella religione positiva in ''sacro comandamento". Mentre, perciò, la religione naturale è una, «poiché la natura umana è solo una», con "concetti semplici", che «per la loro universalità, divengono al contempo concetti necessari e caratteri dell'umanità» (p. 219), la religione positiva è varia per accidentalità storiche, imponendo tale accidentalità come "comando", e suscitando i "sentimenti" con "violenza". Il fatto si è che il "sovrappiù" della religione positiva "annulla la libertà", in quanto «avanza pretese contro l'intelletto e la ragione e contraddice alle loro leggi necessarie» (p. 222). L'analisi di Hegel si fa sottile. La positività riguarda non tanto i contenuti della fede (la fìdes quae) quanto la "forma" (la fìdes qua). E la forma è la determinazione autoritativa (autorità estranea all'uomo) che si oppone alla libertà e non può non tradursi in violenza. «Ogni dottrina, ogni comandamento può divenire positivo, perché ognuno di essi può essere annunziato in modo violento, con la soppressione della libertà» (p. 223). che potremmo chiamare "ecclesiastico") è affidato al rischio della libertà umana, su cui grava il peso del peccato. Le piaghe si costituiscono nell'ecclesiastico, ma hanno risonanza nell'ecclesiale, giacché i due aspetti non sono sovrapposti ma dialetticamente uniti dentro lo spessore ambiguo della storia. Per questo Rosmini parla di "cinque" piaghe, vedendo riflessa nel corpo dolorante della "santa" Chiesa l'immagine del piagato e crocifisso Signore. Il dramma della Chiesa, che diventa anche sofferenza straziata della fede, è questo: di potersi fare, nel suo corpo storico cultu· raie, nel suo volto ecclesiastico, "schermo" e non "trasparenza" del suo volto autentico, quello ecclesiale, che si salda con il volto del Signore Gesù e della sua presenza di salvezza è segno e veicolo. Nasce da ciò l'esigenza, che è stimolo di conversione, di autocritica della Chiesa. Si avverte, con ciò, la distanza che corre tra il pathos della critica ec· clesiastica di }Iegel e quello della critica di Rosmini. Il pathos di Hegel è quello "laico", che si esalta nell'esaltazione della ragione dialettica e vede la fede come "positiva" e perciò a sé ostile e ostile la Chiesa che porta il segno e il destino della positività (diventa però significativo, e perico· loso, che si vada delineando il pathos dello Stato etico). Il pathos di Rosmini è, invece, quello della "fede" che nella Chiesa, anche piagata nel suo corpo ecclesiastico, crede e ama la presenza del Signore che salva nell'amore. Perciò la critica non è acre, anche se coraggiosa; non è disperata anche se sofferta.
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E la radice della positività è vista, senza reticenze, nella «fede in un ultrapotente affatto estraneo» (p. 227). La trascendenza di Dio è vista come estraneità e dominio (questa concezione della trascendenza peserà sulla cultura contemporanea: sarà ripresa, infatti, in chiave economico-politica, da Marx; in chiave esistenziale, da Sartre). E precedentemente era stato delineato, sia pure di scorcio, l'orizzonte della immanenza del divino nell'uomo. Il discorso precedente si era rivolto a quella che può essere chiamata, partendo dall'insegnamento di Gesù, l'ambiguità originaria del cristianesimo. Certamente si dà, nell'insegnamento e nell'opera di Gesù, un vivo e sincero aspetto umano. Hegel precisa: «Questo aspetto del rapporto della religione cristiana cogli uomini non può chiamarsi per se stesso positivo: esso si fonda sul presupposto, bello certamente, che tutto ciò che vi è di alto, . di nobile, .di buono negli uomini è qualcosa di divino, viene da Dio, è suo spirito, che da lui procede. Ma invero questo aspetto diviene acuta positività, se si separa assolutamente la natura umana dalla divina, se non si ammette nessuna mediazione di esse eccetto che in un solo individuo, e si avvilisce ogni coscienza umana del bene e del divino nell'ottusità e annullamento di una fede in un ultrapotente affatto estraneo» (p. 227). Il destino drammatico e patetico del cristianesimo è questo: che nasce in Gesù come religione morale e libera, ma nell'insegnamento di Gesù, per via dell'accidentalità· storica (la predicazione in ambiente giudaico), si dà quell'ambiguità, per cui dai discepoli potrà essere decisamente declinata la positività. I contenuti infatti della predicazione di Gesù sono i precetti della virtù. Siamo nella sfera della moralità e della libertà. Ma la "forma", con cui questi precetti vengono proposti, è l'autorità divina. Siamo nella sfera del positivo. Lo sviluppo del positivo si ha nell'opera dei discepoli, da cui nasce il concretizzarsi della Chiesa come "setta". Con tutte le complicazioni che ciò comporta, come la proiezione· del privato nel pubblico, come la determinazione autoritativa della fede e della prassi, come la costrizione quale conseguenza politica. Per cui sembrano essere due i compiti da assumere di fronte al cristianesimo come religione positiva. Sul piano politico, riportarlo nel campo e nei hmiti del "privato". Sul piano dei con-
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tenuti, del costume, dell'ethos, assimilarlo e risolverlo nello spirito della libertà. Questa, infatti, sembra essere la novità prospettica di questo rifacimento: il senso della dialettica, che è dialettica della libertà dello spirito, che assume nel suo movimento anche il "positivo", che non è quindi puro negativo, ma "negativo-dialettico". La coscienza del positivo sveglia la coscienza della libertà. Già il riconoscimento del positivo comporta un suo superamento nello spirito della libertà. «Solo quando si risveglia un animo diverso, solo quando questa natura acquista sentimento di sé, richiedendo quindi libertà per sé e non ponendola solo nel suo Essere Ultrapotente, soltanto allora la religione che fin qui si è avuta può apparire positiva» (p. 221). Il cristianesimo, allora, non è da abolire - pur riducendolo, a livello politico, alla sfera del privato - , ma da assimilare e risolvere nella dialettica della libertà dello spirito. Hegel si assunse questo compito, immenso e terribile. Risolvere il cristianesimo in "trasparenza", sia pure abissale, dello Spirito, "dentro" l' "intero" di questo.
IV. LA FEDE COME "FORMA DIALETTICA"
1. Premessa
Anni cruciali quelli di Hegel a Francoforte, dal 1797 al 1800. Scrivendo, il 27 maggio 1810, da Norimberga a K. H. Windischmann, con riferimento ad uno stato di crisi psicologica da questo attraversato, così Hegel si confidava: «Ho sofferto per un paio d'anni di questa ipocondria fino all'esaurimento delle forze. Certo ogni uomo ha conosciuto una tale svolta nella sua vita, il punto oscuro della concentrazione della sua natura, che egli deve attraversare perché ne venga assicurato e confermato nella certezza di se stesso, nella certezza della vita consueta e quotidiana, e, se si è reso incapace di essere soddisfatto da questa, nella certezza di una più nobile esistenza interiore» 22 • 21 HEGEL,
Lettere, cit., 105.
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La "crisi" di Francoforte è rappresentata, a livello speculativo, dallo Spirito del cristianesimo e il suo destino (il titolo è stato dato da Nohl, ritenuto in genere dai critici come aderente; solo lo Haering fa notare che vi avrebbe dovuto trovare posto anche il tema dell' "amore", che appare centrale nell'economia dello scritto francofortese). Se ci si limita su questo piano (a livello esistenziale, infatti, la crisi resta un "segreto", che sfugge alle analisi psicologiche, quali quelle tentate dal Rosenzweig) la "crisi" appare composita, in quanto in essa riemergono temi antichi, come la critica alla religione positiva (e la positività viene addirittura individuata nella stessa legge morale di Kant), che però vengono ripresi in una prospettiva nuova, che annuncia ulteriori sviluppi: la prospettiva dialettica. Tesi certamente suggestiva, e confortata anche da concreti riferimenti, quella del Wahl ("la coscienza infelice") 23 e del Della Volpe ("Hegel romantico e mistico") 24 • Ma gli elementi romantici e mistici, che pur non mancano in quest'opera francofortese, vanno sempre inseriti in quel travaglio del pensare dialettico, che trova già, nel Frammento del 1800, un primo tentativo di "sistema".
2. La fecle ebraica come "scissione" Nelle prime righe si trova la definizione, in riferimento alla storia del popolo ebraico, sia di "spirito" (Geist) che di "destino" (Schicksal). Queste definizioni non sono astratte, ma concrete, nel riferimento cioè alla concretezza della storia ebraica. Ma, per analogia, si potranno pure applicare al cristianesimo. Si dice che lo "spirito" della storia ebraica è l'unità (Einheit), che subito dopo viene precisata come "anima" (Seele), che ha governato tutto il destino (alle Schicksa/e) dei discendenti di Abramo. Questo spirito assume forme diverse, dell'accettazione di un' "essenza estranea" o della sottomissione "alle catene del più forte". 23 J. WAHL, Li malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, PUF, Paris 1951. 24 G. DELLA VoLPE, Hegel ro1nantico e rnistico (1793-1800). Le origini e la forniazione della dialettica hegeliana, Le Monnier, Firenze 1929.
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Ora è proprio quest'ultima forma che viene chiamata "destino". Dall'unità come spirito si giunge al destino dello "stritolamento", secondo la plastica espressione usata al termine di questa prima parte, dove è rievocata la figura di Machbet, al cui destino di distruzione è associato il destino di distruzione della "fede" del popolo ebraico (p, 372), Si potrebbe perciò così ricostruire la traiettoria. Dallo spirito dell'unità si giunge al destino di stritolamento, attraverso il peso della fede che nel popolo ebraico è scissione. Il destino storico del popolo ebraico nasce dalla sua fede che è scissione. La storia ebraica è fatta iniziare da Abramo, che è il padre della fede come scissione. Ma è dato di cogliere la scissione anche in due figure .della preistoria ebraica Noè e Nimrod, che si pongono come il tipo e l'antitipo, all'interno della stessa scissione. Di fronte all'esperienza lacerante dcl diluvio, sia Noè come Nimrod si rifanno, per ricostituire il mondo lacerato, ad un "ideale pensato": Noè alla potenza di Dio, Nimrod alla potenza dell'uomo. Ma sia in un caso come nell'altro si tratta di un'unità pensata, di una essenza estranea in un oggettivazione che si conD figura con la categoria del "dominio". Si ha la scissione tra soggetto e oggetto, con la creazione di una situazione servile che corrisponde a quella del dominio. La figura di Abramo, il capostipite, è delineata con il vigore del pathos tragico. L'unità di Abramo come capostipite .è già il frutto della separazione. Abramo lascia la sua terra, la sua famiglia, la sua gente. Il suo dramma è quello della scissione tra libertà e amore. «Abramo volle non amare e per ciò essere libero» (p. 355). Ma la libertà nata dalla scissione genera scissione. Così in Abramo la paternità si scinde dalla libertà nella disposizione a sacrificare il proprio figlio Isacco. Così Abramo si sente separato dagìi altri popoli, che vengono dominati con l'astuzia o sono asserviti con la rorza. Egli «non poteva amare nulla» (p. 257). Alla radice di questa scissione dai molti volti c'è la scissione fondamentale tra Abramo e Dio. Dio è infatti trascendenza estranea e dominatrice. E' l'unità pensata fuori e al di sopra della natura e della storia. E' l'infinita oggettività, e quindi l'infinita positività. 1
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Il senso della lacerazione percorre tutta la storia ebraica. Che resta una storia ''estrinseca'', perché fatta dalla potenza estranea e dominatrice. La legislazione ebraica è caratterizzata dal dominio che crea la servitù. L'oggetto infinito si identifica con il soggetto assoluto (con ciò la punta estrema della scissione tra soggetto finito e oggetto infinito che è pure soggetto assoluto), che pone come antitetici a sé da una parte il popolo ebraico e dall'altra il resto dell'umanità e il mondo. Gli ebrei non ebbero «alcun sentore della sua (del soggetto infinito) divinizzazione nell'intuizione dell'amore e nel godimento della bellezza». Per contrasto si anticipa la fede di Gesù come riconciliazione nell'amore, che è "bello". Conseguenze .di ciò furono la passività della liberazione e il vuoto nel culto. Il ricorrente lamento degli ebrei contro Mosè e la nostalgia dell'Egitto come la vicenda della loro liberazione avveniva «senza anima e senza un proprio bisogno di libertà (p. 360). E il vuoto del tempio mostrava che «il sacro era eternamente al di fuori di loro, non visto, non sentito». Era come un indice emblematico del vuoto della loro esistenza di "cuori passivi". La scissione si accompagna al vuoto della verità e della libertà. La legislazione di Mosé è puro comando, determinazione autoritativa. Riprendendo e commentando a suo modo un'asserzione di Mendelsohn, Hegel rileva che nella situazione di "dominio" in cui versavano gli ebrei non poteva esservi il senso della verità e della libertà. «Infatti la verità è bellezza rappresentata con l'intelletto e il carattere negativo della verità è la libertà» (p. 364) (die Wahrheit ist die Schonheit, mit dem Verstande vorgestellt, der negative Charakter der Wahrheit ist Freiheit) (ed. ted. p. 288). Quel "carattere negativo" è da intendersi come l'altro aspetto, il risvolto della verità. Il positivo intellettuale della verità è la bellezza, mentre la libertà è l'altro aspetto della yerità, quello cioè non noetico ma operativo. Si configura così l'intreccio .dialettico di implicazione tra verità, bellezza e libertà. La scissione di questi valori apre il baratro del vuoto, il destino dello stritolamento. Questa prima parte si chiude con il confronto tra la tragedia del popolo ebraico e la tragedia greca. In questa infatti la ne·
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cessità del destino s'intreccia «con il venir meno di una bella essenza» (p. 372), (Schicksal des notwendigen Feltritts eines schonen Wesens) (ed. ted. p. 297), mentre in quella il destino si avvolge con le "essenze estranee" (fremde Wesen) con cui il popolo ebraico si legò, in solidarietà di dominazione e di distruzione. La tragedia greca perciò suscita sentimenti di timore (Furcht) e di compassione (Mitleiden), mentre la tragedia del popolo ebraico può suscitare soltanto orrore (Abscheu). Si potrebbe, concludendo, avanzare qualche rilievo. 1) Il primo rilievo riguarda la "precomprensione" con cui Hegel svolge la lettura dell'Antico Testamento e, in particolare, del Genesi. A parte il fatto, peraltro significativo, di aver tralasciato i primi capitoli del Genesi, dove si parla dell'originaria condizione edenica e della scissione del peccato, la lettura è fatta con un criterio ermeneutico che appare estraneo al testo stesso. La precomprensione non è più quella illuministica o quella kantiana1 così decisamente presenti nei primi scritti. Si annuncia ora la precomprensione tipica e originale di Hegel: quella dialettica. Ma è da chiedersi se questa precomprensione speculativa, certamente potente e suggestiva, sia congrua al testo, che non è testo filosofico, ma testo dichiaratamente "religioso", inserito in una tradizione, che 1o considera "sacro" o ispirato". La precomprensione hegeliana appare, perciò, laica e riduttrice. Non si fa parlare la "cosa" del testo. A proposito di rapporti tra ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica Paul Ricoeur ha osservato: "Un rapporto del tutto opposto tra le due ermeneutiche appare invece proprio quando si considera l'ermeneutica teologica applicata ad un certo tipo di testi, quelli biblici: essa rivela caratteri così originali da provocare un progressivo capovolgimento di relazione, tanto che l'ermeneutica filosofica resta subordinata all'ermeneutica teologica e ne diventa organon» 25 . Nel testo biblico si dà, per usare ancora espressioni di Ricoeur, un' "eccedenza di senso" e una "logica della sovrabbondanza", che vanno intePpretate in chiave religiosa e non in chiave speculativa. 11
25 P. RrcCEUR, Ermeneutica filosofi-ca ed ern1eneutica biblica, Paideia,
Brescia 1977, 79·80.
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Gli studi, poi, storico-esegetici recenti mettono sempre pm in luee la reciproca implicazione tra Antico e Nuovo Testamento, secondo l'antico effato; In Vetere Novus late/, in Novo Vetus pale/ 16 • Si può dunque dire che l'interpretazione di Hegel appare speculativamente potente, ma esegetieamente e storicamente arbitraria. 2) Un'ambiguità semantfea può essere rilevata nella "figura" (non diciamo ancora "concetto") del "destino", ehe per un verso è qualcosa di estraneo, ''forza", "potenza", non voluto, ma "dato" dalla realtà naturale e storica, per altro verso è voluto, deciso, scelto. Ma dietro l'ambiguità semantica ci sta, nella prospettiva dialettica hegeliana, l'ambivalenza del reale. Emblematica la situazione di Abramo, che si oppose al destino della natura, che avrebbe voluto la "residenza" dell'uomo (a tale destino invece si sottopose Giacobbe), ma volle essere nomade. Al "destino dato" oppose il "destino scelto". E ancora: «per essere libero, Abramo volle non amare». Dove il destino della libertà è plasmato, secondo la propria categoria, in libertà dall'amore. Si preannuncia, forse, quello ehe sembra emergere da tutto l'appassionato discorso dello Spirito del cristianeshno, cioè che il "destino" è la stessa "dialettica"? 3) Un ultimo rilievo si può fare circa la figura di Abramo, confrontata eon quella costruita da Kierkegaard, in Timore e Tremore. Sono due figure possenti, scolpite con vigore e pathos. Ma esse sorgono in due orizzonti diversi. L'orizzonte dell'Abramo hegeliano è il ".destino". L'orizzonte dell'Abramo kierkegaardiano è la "fede". L'Abramo di Hegel è l'eroe della volontà ehe erede nel proprio destino e lotta eon il destino estraneo. L'Abramo di Kierkegaard è l'eroe della fede, che vuole, al di là della stessa sfera etiea, quello che Dio vuole. La solitudine dell'Abramo hegeliano è orrendamente tragica, perché l'esito è quello della scissione e dello stritolamento. La solitudine dell'Abramo kierkegaar.diano è estremamente drammatica, perché la tensione della fede,
26Cfr. G. SEGALLA, L'uso dell'Antico Testamento nel Nuovo: possibile base per una nuova teologia biblica, in Rivista Biblica 32 (1984) 161~174.
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volta spasmodicamente nell' "assurdo", si placa nella ricomposizione dell'unità, con il ritrovamento del figlio.
3. La fede di Gesù come "amore" Hegel ama contrapporre subito lo "spirito" di Gesù allo spirito ebraico. Si contrappongono due destini e, in essi, due "fedi": quella della scissione e quella della riconciliazione. Il dramma, e la tragedia, si sposta: dall'interno del popolo ebraico, dal suo "spirito", al rapporto tra il popolo ebraico e Gesù, che del popolo ebraico fa parte. Fa parte, sì, ma ne esce. Al destino della scissione contrappone il destino dell'amore. E alla legalità non contrappone la moralità, come farà Kant, ma va oltre la scissione, nella sfera dell'amore, che è "pienezza" (pleroma), riconciliazione, bellezza. Nella ripresa dello spirito ebraico si ha, ora, una svolta inattesa. Si fa rientrare in esso anche la legge morale di Kant. La critica .a Kant, secondo il cui modulo paradigmatico era stata costruita la Vita di Gesù, si fa acre, forse ingiusta. Ma è critica sottile, che preannuncia certe pagine della Fenomenologia dello Spirito. L'estraneità oggettiva e dominatrice della legge si può avere anche "dentro''. Il "padrone" si può anche trasferire nella interiorità del cuore e travestirsi di moralismo. Il comando morale, l'imperativo categorico si rivela "positivo", come la legge ebraica, se esso, disgiungendo l'essere e il dover-essere, l'inclinazione e la legge, la forma e il contenuto, lacera l'unità dell'uomo. Di fronte allo spirito ebraico, che rivive nello spirito kantiano, Gesù presenta il "genio superiore" della riconciliazione. E la riconciliazione è 1nodlficazione" dell'amore, che è "vita", dove la pluralità di elementi non si esaspera in lacerazione, ma converge in "bella" unità. Ritorna qui una prospettiva, che già era via via emersa anche negli scritti precedenti. L'elemento religioso, cioè, facendosi amore, assume lo splendore della bellezza. Gesù è "anima bella". E nell'amore da cui e con cui fiorisce la bellezza sembra che si superi - ma fino a che punto? - il punto cruciale di queste pagine hegeliane: la riconciliazione, cioè, col destino e del destino. 11
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La scrittura hegeliana si fa qui particolarmente complessa, perché si commisura con I' "ambiguità" del destino. Il campo di applicazione è quello dei rapporti tra legge, colpa e punizione. Tra legge e colpa non si può dare riconciliazione. La legge, proprio per la sua universalità, non può condonare la colpa, la quale richiede la punizione. Ma la punizione non riconcilia con la legge, giacché il colpevole resta sempre, di fronte alla legge e di fronte a se stesso, colpevole con la sua "cattiva coscienza". Il genio superiore dell'amore va oltre la dialettica dell'opposizione tra legge e colpa, tra colpa e punizione. Va oltre, in una dialettica nuova: quella della "riconciliazione del destino". Questa dialettica è certamente ardua, perché il destino viene avvertito anche come "ostile". Ma questa ostilità l'amore, con il suo genio superiore, la vede e la colloca dentro la vita. Il "luogo" della riconciliazione del destino è la vita. E nel ritmo della vita l'elemento ostile, l'opacità del destino, pur restando ostile, viene avvertito come condizione di vita. «Il sentimento della vita che ritrova se stessa è l'amore, ed in esso si riconcilia il destino» (p. 395). In tal n1aniera con il suo genio superiore, l'amore rende a sé amica anche quella parte della vita che gli sembrava, ed anche gli era, ostile, ma come un "frammento" che l'amore riprende non più separato e isolato, ma in1merso. e come disciolto, nel "tutto". «Nell'amore la vita ha ritrovato la vita» (p. 401). In questa prospettiva Hegel legge l'episodio della Maddalena e interpreta la remissione dei peccati. Nell'episodi9 della Maddalena, che Hegel ridescrive con pathos lirico, mentre l'onesto Simone esprime la legalità nel suo avvertire « la sconvenienza che Gesù si intrattenga con una simile creatura» e i discepoli esprimono la moralità nell'avvert're che il corrispettivo di quel profumo poteva essere donato ai poveri, è solo Gesù "anima bella" «che coglie la bellezza della situazione» e proclama che «Ella (la donna) ha fatto in me una cosa bella» (pp. 405-6). E poco prima, trattando pure dell'episodio della Ma.ddalena e della sua "fede", Hegel trova la sua più bella - e, nel contesto di questi scritti giovanili, strana e anomala-formulazione della fede. "E fede in Gesù non è semplicemente un essere a conoscenza della sua realtà, un sentire la propria realtà inferiore alla sua in potenza e forza, ed essere suo servo; fede è una conoscen1
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za dello spirito attraverso lo spirito, e solo spiriti eguali possono conoscersi e comprendersi reciprocamente» (p. 402). La definizione hegeliana ha come un forte sapore biblico (e forse ubbidisce alla suggestione del vangelo giovanneo: "conoscere" come «esperienza amativa esistenziale»). La fede "in" Gesù, allora, non è più la fede "positiva" degli scritti precedenti. Ma il discrimen sta proprio nel significato e nel valore terminativo dell' "in Gesù". Gesù è il termine consumativo, perché valore emergente, di quel "credere in", come nella prospettiva .dei vangeli e del Nuovo Testamento, oppure è soltanto, come sembra emergere da tutta l'economia della scrittura hegeliana, la "mediazione" di un movimento che sorge e si consun1a dentro l'orizzonte immanente della "natura"? Difatti Hegel afferma:. «Anche Gesù trovò la connessione fra i peccati e la loro remissione, fra alienazione da Dio e riconciliazione con lui, nella natura non fuori di essa» (p. 401). Il tema della remissione dei peccati, che a Kierkegaard farà nascere le pagine roventi della Malattia mortale, a Hegel sembra invece suggerire la raffinatezza di un gioco dialettico. La remissione dei peccati si opera, non per l'irrompere paradossale della misericordia di Dio dentro le trame opache dell'esistenza, ma per il circolo dialettico della vita che si riconcilia, nell'amore, con la durezza del destino. L'orizzonte dell'immanenza è sempre presente e avvolge e risucchia anche queste pagine belle e commosse su Gesù. Ha in fondo ragione il Peperzak quando dice che non di Cristo si tratta qui ma di una "divinologia dell'uomo". La forza di riconciliazione dell'amore ha come due ambiti in cui si svolge. Non solo l'ambito del destino, con la opacità del peccato, ma ancora l'ambito della virtù. L'amore, infatti, relativizza ogni virtù e riconcilia, a livello superiore, la molteplicità delle virtù. E' propria della virtù, isolata in se stessa, la spinta all'enfasi totalizzante. Ciò comporta, per la connessa assolutizzazione delle altre virtù, conflitti insanabili. Si profila così ciò che Hegel chiama icasticamente «la disperazione della virtù, la colpa della stessa virtù» (p. 407). Vale anche qui un richiamo di confronto a Kierkegaard. Per Kierkegaard <da disperazione è il peccato». E il peccato, che porta con sé il vortice della disperazione infinita - la "malattia mortale" - è il rinchiudersi 1
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dell'io in sé, senza porsi "in trasparenza" davanti a Dio. E' la vertigine dell'assolutizzazione del relativo. Anche Hegel acutamente colpisce nel segno, individuando la colpa nella stessa virtù, quando questa esce dal relativo e presume di adeguare a sé l'intero. E difatti «se l'amore non fosse l'unico principio della virtù, ogni virtù sarebbe nello stesso tempo un vizio» (p. 406). Senza l'amore, sulla virtù peserebbe la "disperazione" della colpa. Ma in Hegel manca quel "davanti a Dio", come realtà personale, che invece è potentemente presente nelle pagine kierkegaardiane. La ·prospettiva di Gesù è: «virtù senza dominio e senza sottomis~ sione», in opposizione ancora all'«autocoercizione della virtù kan~ tiana» (p. 406). L'amore «non è unità .del concetto ma unicità dello spirito, divinità» (p. 409). Riemerge chiarissimo l'orizzonte dell'immanenza. «Amare Dio è sentirsi nel tutto della vita, sentirsi senza limiti nell'infinito». E allora «la potenza dell'oggettivo è infranta dall'amore». «Solo l'amore non ha limiti» (p. 409). 4. Il dramma dell'amore nella cena eucaristica
Una pagina particolarmente intensa e, per certi versi, aporematica è dedicata da Hegel, in questo contesto, alla cena eucaristica. L'ultima cena di Gesù fu "una cena d'amore". Ma precisa Hegel «l'amore non è ancora religione» (p. 409). Siamo in un punto cruciale. Allora la fede di Gesù come "amore" non è ancora fede religiosa? Che cosa darà all'amore il carattere di religioso? E' possibile, ancora, il passaggio dall'amore come ricchezza unificata .di sentimento all'amore come atto religioso? Oppure il destino dell'amore è quello di dissolversi, quando si passa all'oggettività "positiva" del religioso? Hegel precisa: «Questa cena non è un'azione religiosa vera e propria; solo infatti un'unificazione nell'amore oggettivizzata dall'immaginazione può essere l'oggetto di una venerazione religiosa» (p. 409). Però poco dopo agginnge: «questa cena sta tra un convito di amici e un atto religioso. Questo rende più difficile indicarne chiaramente lo spirito» (p. 410). L'aporia dell'esprimersi dipende, allora, dall'aporia e dall'ambiguità del gesto, che per un verso è gesto di amicizia nella freschezza del sentimento dell'amore, ma per un altro verso - «prendete[ ... ] bevete [ ... ] mangiate[ ... ] fate questo
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in memoria di me [ ... ]» - è un gesto di rappresentazione religiosa. Da ciò la difficoltà di inte:rpretare e di rivivere la cena di Gesù. Hegel polemizza con la tesi cattolica e con la tesi riformata, mentre sembra far sua la tesi luterana (non senza fraintendimenti nella prima e nella terza). Nella tesi cattolica della presenza reale egli vede un'oggettivazione fisicalista che blocca e corrompe il sentimento dell'amore. Nella tesi riformata della cena come simbolo vede la separatezza, l'estraneità tra simbolo e cosa simboleggiata. Fa sua, invece, la tesi luterana della "presenza mistica11. «Nell'azione vi è più .di quanto non si veda; essa è un'azione mistica» (p. 411). Per "mistico" Hege! intende "spirituale", nella pregnanza di significato che la parola "Spirito" va assumendo nello svolgersi della speculazione hegeliana. «Solo lo spirito comprende lo spirito», scriverà ancora in seguito. Nell'orizzonte dell'immanenza. Dentro ben diverso orizzonte, invece, parlavano dell'Eucaristia, sotto l'influsso della patristica, come di Corpus mysticum i teologi medioevali, studiati da Henri De Lubac (nel volume che ha come titolo proprio Corpus mysticum) 27 • Qui il "mistico" indica l'arcano ma reale intervento della Trascendenza, che entra nella storia, che entra nella stessa struttura sostanziale del pane e del vino, per farne segno e veicolo di una Presenza .di salvezza nel travaglio della storia e dell'esistenza. «Qualcosa di divino era promesso e si è disciolto in bocca» (p. 414), è la conclusione amara di queste pagine vive e tese. La cosciente esperienza della .fede cattolica risponde che, anche se il pane si è disciolto in bocca, rimane, nel segreto dell'esistenza, il segno di un incontro e di una comunicazione di amore.
5. Nel segreto di Gesù «All'idea che gli ebrei avevano di Dio come loro signore e padrone, Gesù contrappose il rapporto di Dio agli uomini come di un padre verso i figli» (p. 415). Nella figura del "padre", con21
Cfr. H. DE
LVBAC,
Corpus 1nysticum, L'Eucaristia e la Chiesa nel
Medioevo, trad. it., Gribaudi, Torino 1968.
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trapposta dialetticamente alla figura del "padrone", Gesù è coinvolto nel "segreto" del suo essere. Siamo al punto culminante della speculazione cristologica di Hegel. Chi è Gesù? Il "segreto" di Gesù è coinvolto nella dialettica dell'amore che è la sua fede. Si dà un processo di toglimento del limite, di cui l'amore è il compimento. La moralità toglie il limite della signoria .della legge; l'amore toglie il limite della moralità. Il pleroma dell'amore sembra che debba pure invadere la sfera del religioso, unificandosi con la riflessione della rappresentazione. Ma qui sporge una contraddizione dialettica: quella tra l' "oggetto infinito" dél religioso e il limite (finito) della sua intuizione o rappresentazione. Da qui nasce l'aporia del "dire Dio". La figura del "padre" adombra, nel limite della sua rappresentazione, quella "vita pura" che è il "divino". «Poiché il divino è vita pura, tutto ciò che vien .detto deve necessariamente non avere nulla di opposto in sé ed ogni espressione della riflessione sui rapporti dell'oggettivo o sulla sua attività in azioni oggettive deve esser evitata; effetto del divino è infatti solo un'unificazione degli spiriti; solo lo spirito comprende e include in sé lo spirito» (p. 416-17). Ma il linguaggio religioso non può declinarsi che in linguaggio riflessivo, mediante figure e categorie rappresentative. A questo punto Hegel svolge una raffinata esegesi che meriterebbe un discorso più lungo e puntuale, anche a livello filologico, del prologo del vangelo giovanneo. Il Logos viene interpretato dialetticamente come l'infinito che si esprime nella molteplicità del reale. Anche le due espressioni, con cui Gesù rivela il segreto di sé, essere cioè "figlio di Dio" e "figlio dell'uomo", sono interpretate in circolarità dialettica, connessione dell'infinito e del finito. Il pensiero qui corre al commento rosminiano all'Introduzione del V angelo di S. Giovanni"- Si può dire che nelle due indagini il punto di convergenza sia il medesimo: il "segreto" di Gesù. Ma nella prospettiva di fede di Rosmini, il segreto di Gesù si salda con il segreto del Padre, sporgendo nella ineffabile trascen28
Cfr. A.
RosMINI,
L'introduzione del Vangelo secondo Giovanni co1n-
mentata1 Cedam, Padova 1966.
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denza del mistero. Nella prospettiva immanentistica di Hegel,
il segreto di Gesù si salda con il segreto del "divino", di cui Gesù è pur sempre una determinazione individuale e, perciò, limitativa, che chiede di essere tolta. Il destino di Gesù sarà, allora, quello di "scomparire", perché emerga il divino. La comprensione del segreto di Gesù rientra in un processo, che si potrebbe chiamare di "coscientizzazione del divino". Le varie figure - del padre, del logos, del figlio di Dio e figlio dell'uomo - immettono in quel segreto del segreto di Gesù che è il "divino". Dalla fede in Gesù si passa alla fede nel divino. La cristologia è propedeutica alla "divinologia dell'uomo". «La fede nel .divino è possibile solo in quanto il divino è nel credente stesso che ritrova se stesso, la sua propria natura, in quello in cui crede [ ... ]. Lo stato intermedio fra l'oscurità - l'esser cioè lontano dal divino, l'esser prigioniero della realtà - e una vita propria interamente divina, una fiducia in se stessi, è la fede nel divino. Essa è un presentire e un riconoscere il divino, un <lesi~ derare l'unificazione con esso, un bramare una vita uguale; ma non è ancora il vigore del divino che ha penetrato tutti i fili della coscienza del credente, ne ha indirizzato ogni relazione con il mondo, spira nella sua intera essenza. Perciò la fede nel divino sorge dalla divinità della natura del credente. Soltanto una modificazione della deità può conoscere la deità» (p. 425). Si può, allora, dire che la dialettica della fede si delinei in questi tre momenti: a) conoscimento di Gesù e fede in lui (fede positiva); b) riconoscimento del "divino" in Gesù e nel credente (fede morale? fede speculativa? fede mistica?); c) toglimento della "positività" come il limite della fede. Ma allora il destino della fede è la dialettica? La fede è destinata ad essere positiva, ma in quanto positiva, è destinata a morire. "Il compimento della fede, il ritorno alla divinità da cui l'uomo è nato, conclude il ciclo del suo sviluppo» (p. 431). La fede muore come positività, ma rinasce come vita nell'unità. 6. Il destino del tramonto Gesù "anima bella", in cui «il divino era giunto a compimento» (p. 434), si trovò di fronte a due possibilità di destino:
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o accettare il destino di scissione del popolo ebraico e rinunciare così all'identità della sua anima bella; oppure combattere "con coraggio" questo destino, per rimanere però da esso schiacciato. Tramonto ignominioso, nel primo caso; eroico e tragico, nel se~ condo. Ma sempre "tramonto". Non sarà, allora, che il vero destino, quello richiesto .dalla dialettica, è il tramonto e che alla libertà di Gesù si offrono solo le "modalità" del destino? L'osservazione sc:mbra giustificare l'identificazione del destino con la dialettica. Le pagine sul destino di Gesù sono potentemente drammatiche. In fondo la tragedia di Gesù travalica la sua vicenda personale - che ha sempre il pathos vigoroso del "sublime" e del!' "orribile" come lotta tra il puro e l'impuro, tra il sacro e il non sacro (p. 443) - e si rivela come sconfitta dell'amore quale riconciliazione. L'amore, infatti, o si espande nel mondo, ma con il mondo si contamina, cadendo nella positività dell'oggettività mondana; oppure si chiude in sé, si raccoglie nella sua interiorità, estraneandosi dalla realtà del mondo e cadendo nella positività dell'oggettività individuale. Il destino della dialettica spezza e sconfigge la riconciliazione dell'amore. Gesù, lottando contro il destino della scissione del suo popolo, non poté però non soccombere sotto il destino della mancata riconciliazione dell'amore. Vi soccombette non senza dolore e ~on senza fiducia. Una tragedia analoga, anche se di direzione diversa, incombe sulla comunità cristiana. Il suo destino ha un'ambivalenza originaria, che per via della "positività" si trasforma in ambivalenza finale e tragica. L'ambivalenza originaria consiste nella dualità del lato negativo, l'opposizione al mondo, e del lato positivo, il vincolo dell'amore. «Quest'amore è uno spirito divino, ma non è ancora religione; perché divenisse tale doveva manifestarsi in una forma oggettiva» (p. 446). Incombe perciò il destino della positività. E' I' "impulso alla religione", questo "supremo bisogno dello spirito" ad unificare il soggettivo con l'oggettivo, il visibile con l'ìnvisibile. «La comunità ha bisogno di un Dio che sia il Dio della comunità, nel quale si manifesti l'amore esclusivo che è il suo
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carattere, la sua relazione reciproca; non come un simbolo, una allegoria, non come una personificazione di un soggettivo [ ... ] ma come ciò che è nel cuore, che è sentimento, e che al contempo è anche oggetto» (p. 447). Quando Gesù era vivo, si era formata attorno a lui la cerchia degli amici, la cerchia dei cuori: «egli era il loro vivo legame, il divino rivelato e formato; in lui era apparso loro anche Dio, la sua individualità univa armonicamente per loro in un vivente l'indeterminato e il determinato» (p. 448). Si tratta però di sintesi provvisoria che viene spezzata con la morte. Il bisogno religioso, però, che vuole unire la forma alla vita e la vita alla forma, che non poteva rassegnarsi alla forma senza vita del crocifisso, ma d'altra parte doveva dare alla vita una forma .divina, celebrò l' "apoteosi" della fede con la risurrezione di Cristo. «Nella resurrezione e nell'ascensione di Cristo l'imma· gine ritrovò la vita, e l'amore ritrovò la manifestazione della sua unicità» (p. 448). Nei riguardi della resurrezione di Gesù, che è il centro e il cardine della fede cristiana («se Cristo non fosse risuscitato, vana sarebbe la nostra fede» I Cor. 15, 14), Hegel pone una netta dicotomia tra la sfera empirica della storia e la regione della religione. «Considerare la resurrezione di Gesù come un evento (Begehenheit) significa porsi dal punto di vista dello storico, che non ha nulla che vedere con la religione» (pp. 448-49). La dicotomia in Historie e Geschichte apparirà nel Jesus di Bultmann. La resurrezione non appartiene alla storia dei fatti empirici, ma alla storia della fede. La resurrezione non è Begehenheit, non è Geschehen, ma è Ereignis. Ma, nell'economia dell'incarnazione, l'evento si fa significare e veicolare dal fatto. E' pertinente l'osservazione di Hegel che «la fede o meno (e qui si parla di fede "storica") in questa resurrezione con1e una semplice realtà senza l'interesse della religione è cosa dell'intelletto» (p. 449). L'evento sfugge alla competenza .dell'intelletto e richiede "gli occhi della fede". Ma, insiste Hegel, l'intelletto avanza i suoi diritti. E i suoi diritti sono quelli di declinare nell'oggettività la bellezza religiosa della resurrezione. La forma bella della resurrezione viene congiunta con la forma oggettiva e individuata dcl crocifisso. Si stabilisce così "un mostruoso legame" (ungeheure Verbin-
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dung) 29 • E per esso «da tanti secoli milioni di anime anelanti a Dio hanno combattuto e tormentato se stesse» (p. 450). Nel processo di divinizzazione di Gesù s'inseriscono i miracoli e le profezie (la considerazione suII'immortalità sembra estranea alla coerenza del discorso). Anche questi sono segno di «Un determinato oscillare fra realtà e spirito» (che Hegel contrappone all'inteiletto europeo), che proponeva «queila netta opposizione che nell'ulteriore sviluppo doveva diventare accoppiamento di vivo e di morto, di reale e divino. Questo oscillare, con l'associare Gesù reale a Gesù glorificato e divinizzato, mostrava di voler soddisfare il più profondo impulso perola religione, ma non lo soddisfece, trasformando così l'impulso in un'infinita inestinguibile inquieta brama» (p. 456). Che cosa, infatti, era avvenuto nel processo di divinizzazione di Gesù? Era avvenuto che per l'inesorabile dialettica del destino Io spirito ebraico di scissione era penetrato nello spirito cristiano, lacerando lo spirito dell'amore. Il Gesù amico e confidente è diventato signore e "maestro da cui dipendere. Gesù diventa per la comunità come un estraneo" e un' "oggettività" (•p. 451). E fu in questa situazione critica, «in cui la comunità cadde nelle braccia del destino» (p. 451), di quel destino al quale Gesù si era opposto. «E questo destino ebbe a suo ce.ntro l'estendersi deII'amore, che fuggiva ogni relazione, ad una comunità; e quanto più questa si estese, sempre più coittcise col destino del mondo, sia accettandone inconsciamente molti lati sia macchiandosi sempre più con esso nel combatterlo». II destino della scissione ha vinto la riconciliazione deII'amore? Al destino del tramonto di Gesù è coIIegato il destino del tramonto dell'amore? La conclusione di Hegel è tragica: l'opposizione è nel divino (Entgegensetzung in dem Gottlichen). «In tutte le forme della religione cristiana che si sono sviluppate nel progressivo destino del tempo giace questo carattere fondamentale deII'opposizione nel divino» (p. 456). Da ciò il perenne oscillare della Chiesa cri11
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Il Mirri aveva tradotto precedentemente con "tremendo legame" cfr. !rad. it., ed. L. U. Japada, L'Aquila 1970, 174.
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stiana «all'interno dell'opposizione fra Dio e mondo, fra divino e vita», «ma è contrario al suo carattere essenziale trovare pace in una viva impersonale bellezza, ed è suo destino che chiesa e stato, culto e vita, pietà e virtù, agire spirituale e agire mondano giammai possano fondersi in uno» (p. 457). Il destino di tramonto del cristianesimo sta in questa sua interiore e insana~ bile lacerazione.
7. La dialettica come destino Dal progrediente discorso svolto da Hegel in questi scritti giovanili sembra emergere l'identificazione tra dialettica e destino. Solo nella dialettica, quale svolgimento di libertà nella necessità (come si delinea la prospettiva negli scritti della maturità), il destino si placa in quella "viva impersonale bellezza", da cui la lacerazione cristiana è tanto lontana. Lo schema dialettico dello Hcgcl maturo sarà quello triadico di tesi, antitesi e sintesi. Il tipo di movimento è chiamato Aufhebung che è nello stesso tempo toglimento e superamento. Il perno dcl movimento appare la "negazione". Non il negativo assoluto, ma il negativo dialettico, appunto, cioè la negazione che permette la ripresa ad un livello superiore di vita. E la vita è lo Spirito. La dialettica è dello Spirito e nello Spirito. Si può vedere, negli scritti giovanili, un preannuncio, o anche il germe virtuale, della futura prospettiva dialettica triadica? Limitandoci al tema della fede si può individuare, in questi . quattro scritti, come una dialettica della f.ede quale "divenire per negazione". Nella Religione popolare, la fede si configura come "forma soggettiva" (la fìdes qua intesa come moralità, quale struttura trascendentale del soggetto) che nega I' "oggettività" (fra cui la fìdes quae). Nella Vita di Gesù, la fede assume la "forma eticoestetica" (la fede di Gesù come "anima bella"), che nega la "de-formità". Nella Positività, la fede come "forma positiva" nega l'universalità della natura umana, l'integralità e la bellezza della struttura trascendentale del soggetto. Per cui la forma positiva è alienazione, estraneazione. Si dà qui come un ribaltamento della negazione. Nelle prime due forme la negazione si
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muoveva dal soggetto verso l'oggetto, in questa terza forma, invece, la negazione va dall'oggettività, in cui il soggetto si è alienato, verso la soggettività. Nello Spirito dei cristianesimo, infine, la fede, come "forma dialettica", nega se stessa, nel travaglio dell'autolacerazione e dell'autoscissione dell'amore, per dare luogo ad una nuova forma di vita, quella del Wissen assoluto, della trasparenza del concetto, dell'autocoscienza filosofica. Anche la negazione della fede, con il travaglio della "coscienza infelice", sarà feconda ai fini della crescita dell'autocoscienza e dell'autopossesso dello Spirito. Nella dialettica come destino si configura così il destino dialettico della fede.
EPILOGO
1. Perché scritti teologici? A dare agli scritti la sua qualificazione di "teologici" è stato il Nohl, pubblicandoli nel 1907. Forse non senza qualche suggestione del Dilthey. Nella Storia della giovinezza di Hege/, Dilthey parla degli "studi teologici" di Hegel e, nella seconda sezione, connette la «genesi della visione del mondo di Hegeh con gli studi teologici. Ma nel riferire sui contenuti degli scritti, egli li presenta come «scritti sulla religione cristiana» e «frammenti storico-religiosi» 30 • Forse il Nohl li presentò come "teologici" sia per distinguerli dagli scritti politici, di cui parla pure il Dilthey, sia per collocarli, almeno inizialmente, nell'atmosfera degli studi compiuti nello Stift di Tubinga. Ci sarebbe pure il contenuto. De re theo/ogica agitur: cioè della fede, del cristianesimo, di Gesù, della Chiesa. Non può sfuggire però una certa "ironia" del titolo (non nelle intenzioni del Nohl, ma nella cosa stessa). Fin dal frammento di Tubinga la teologia, ben distinta dalla religione, è de-
30 Cfr. N. DrLTIItY, Storia della giovinezza di Hegel e fra1111nenti postunzi, Guida, Napoli 1986.
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finita come «Conoscenza, in cui opera solo l'intelletto raziocinante» (p. 37). La teologia appartiene alla religione oggettiva, ha come ambito la fides quae credilur, dove si esercitano le facoltà dell'intelletto e della memoria. E', perciò, arida, senza vita, non coinvolge il cuore, è "ossario della memoria". Certamente Hegel non avrebbe accettato tale titolo, che suona in dissonanza e in contrasto con il tono e con la movenza che i suoi scritti intendevano avere. Il Nohl o non avvertì l'accezione negativa che il termine .. aveva nella scrittura hcgeliana oppure, forse volutamente, volle sottrarlo a tale accezione, per riportarlo in un significato largo e in certa maniera depauperato, quello cioè di "argomento teologico". Il discorso di Hegel non può dirsi teologico, non solo in senso tecnico ma neppure in senso proprio, perché non nasce dalla fede come principio epistemico né si costruisce nella fede e con la fede. Sarebbe stata più pertinente l'espressione usata dal Dilthey, cioè di scritti ' storico-religiosr'. Un'indicazione valida, però, potrebbe venire alla stessa teologia dogmatica dalle considerazioni di Hegel. L'indicazione, cioè, del rischio di una scissione tra teologia, dominata da intelletto e memoria, e vita. La flessione intellettualistica, sotto l'influsso dell'illuminismo, ha dominato nei manuali di teologia. Le verità .di fede ridotte in proposizioni, la strumentalizzazione dei passi scritturistici, fatti servire a sussidio di tesi intellettualisticamente proposte. Già prima del Concilio Vaticano II, nell'ambito della teologia cattolica si erano fatte sentire voci per un rinnovamento di metodo e di spirito nella teologia cosiddetta scientifica. Già il titolo di un antico testo poteva essere indicativo: Theolqgia mentis et cordis. Nel primo dopoguerra si ebbe a Innsbruck un tentativo di teologia "kerygmatica". Il p. Congar scriveva del "buon uso del Denzinger". Dopo il Concilio Vaticano II, il rinnovamento teologico ha riguardato sia i temi come, fondamentalmente, il metodo. S'è ribaltato l'antico procedimento. La fonte del pensare teologico è costituita, non da "tesi", ma dalla ricchezza ·e novità della Parola di Dio, letta e interpretata dentro la vita della tra1
1
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dizione e della comunità ecclesiale. Ciò si è accompagnato al rinnovamento dcli' "apologetica", che si è andata configurando come "teologia fondamentale" (fondamentale non nel senso teoretico di fondazione dei successivi discorsi teologici, ma nel senso metodologico di propedeutica ad essi). Sarebbe interessante, per la critica ai testi di teologia morale, il confronto tra Pascal e Hegel. La critica di Pascal, non priva di una flessione di rigorismo giansenistico, a!la casistica gesuitica si basava sulle esigenze della fede vissuta. La critica di Hegel si basa sulle esigenze della ragione morale-estetica, in cui si risolve la fede soggettiva. Entrambi muovono dalle "ragioni del cuore": ma nel "cuore" di Pascal batte la fede in Gesù Cristo (il nome, scritto come "fuoco", al centro del "Memoriale" cucito sul petto); nel "cuore" di Hegel batte la fede nella impersonale ragion pratica. 2. Quale cristologia? Si dà, in Hegel, una sola cristologia oppure ci sono diverse cristologie? E. Brito parla al plurale, di "cristologie" negli scritti giovanili di Hegel 31 . Si tratterebbe di vedere, se queste cristologie sono, dal punto di vista hegeliano, convergenti o divergenti. Ciò, per riflesso, solleva pure la domanda sulla possibilità e legittimità di un pluralismo cristologico all'interno della stessa fede cristiana. 31 E. BRITO, La Christo!ogie de Hegel. Verhu111 Crucis, Bcauchcsnc, Paris 1983, 19 ss. Cfr. pure J. YcRKES, The Christology of Hegel, State University of Ne\V York Press, Albany 1983, che nella conclusione presenta la cristologia di Hcgel in Retrospect e in Prospect, 212 ss.; B. BoURGEOIS, Le Christ hégelien, in AA.\f\'., Hegel et la religion, a cura di Guy Planty-Bonjour, PuF, Paris 1982, 177-211; P. CODA, Il negativo e la Trinità. Ipotesi su Hegel, Città Nuova, Ron1a 1987, che si chiede se si possa parlare di radici cristiane della De11kfor1n hegeliana, 67 ss.; R. THEIS, L'écriture et son at.llre. Du rapporr entre la philosophie et la théologie dans ics écrits de jeunesse de Hegel, in Freiburger Zeitschrift fiir Philosophie und Theologie 28 (1981) 1 177"205 (dove si parla di anti1101nie christique, 183 ss.). Per un confronto tra dialettica cristiana e paradosso cristiano cfr. KATE NADLER, Der dialek.tische Widerspruch in Hegels Philosophie und das Paradoxon des Christenti11ns, Vermag vo11 F. Meiner, Leip?ig 1931.
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Il Mirri, nel commento allo Spirito del cristianesimo 32 , ritiene che in questo scritto non si dà una vera e propria cristologia, a meno che questa non si identifichi con la "divinologia dell'uomo". Forse, nella scrittura hegeliana, l'identificazione non è così drastica. Una distinzione abbastanza chiara pare emergere tra i primi tre scritti e quello francofortese. Nei primi tre scritti la cristologia si può chiamare di hpo illuministico-kantiano (intendendo qui il kantismo come lo sbocco e, per certi versi, il superamento dell'illuminismo). Una cristologia, in fondo, monocorde. Nello Spirito, invece, sembra emergere una cristologia nuova, quella che si continuerà nelle opere successive: la "cristologia dialettica". Già lo stesso simbolismo dogmatico della duplice natura, la stessa dualità (dialettica) del nome: figlio di Dio e Gglio dell'uomo, stanno ad indicare che si tratta di una realtà in movim·ento, che non si lascia sequestrare dal paradigma illuministicokantiano. Gesù Cristo è il nodo, emergente nella storia, in cui si stringe il circolo tra l'umano e il divino, tra il positivo e il negativo, tra la riconciliazione dell'amore e il peso del destino. E qui sorge una domanda: che cosa è stato, in fondo, a determinare, in cristologia, la svolta dialettica? Uno svolgin1cnto autonomo della ragione (anche se non disgiunta da "crisi" spirituale e psico1ogica) da illun1inistica. a kantiana, a dialeuica? Oppure è stato proprio l' "inciampo" (lo "scandalo") con Cristo, il con1n1isurarsi con la sua realtà paradossale e sconcertante, con la pretesa però di piegarla dentro i paran1etri di una ragione, non più monocorde, ma dram1naticamente tesa nella bipolarità? Insomma: è stata la dialettica a determinare la cristologia, oppure è stata la cristologia a far esplodere la dialettica' E quindi: il destino di Cristo sarà la dialettica, oppure Cristo sarà il destino della dialettica? li Brito pone come issue del suo lavoro la Gloria Unigeniti. E traccia delle linee pour une christologie post-hégelienne. Anche Kiing aveva inteso il suo lavoro come «prolegomeni per una futura cristologia».
32 HEGEL,
op. cii., 137. Cfr. n. 29.
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All'inizio della sua voluminosa opera il Brito pone questo detto di F. van Baader: «Depuis que Hegel a allumé le feu dialectique (autodafé de tonte la philosophie jusqu'ici) on ne peut faire son salut qu'en le traversant, c'est-à-dire en y conduisant sa personne et son oeuvre, et non pas en faisant abstraction ou en l'ignorant».
3. Quale fede? La prospettiva della "fede dialettica" dell'ultimo scritto francofortese supera, e in certa maniera annulla, la distinzione-opposizione di fede soggettiva e fede oggettiva, fede strutturale e fede storica, fede razionale e fede positiva, dei primi scritti. Hegel aveva detto che il passaggio - alienante - si era avuto, quando dalla fede nell'ideale morale, di cui Gesù era come esempio e prototipo, si era passati alla fede in Gesù, come persona storica. Gesù era diventato l'oggetto della fede, che così veniva estraneata dalla regione della soggettività. Ora questa concezione di Gesù "oggetto" di fede è lontana dalla presentazione che i vangeli fanno, in forma narrativa, del "credere". L'espressione privilegiata è "credere in" (pisteUein eis). Non si tratta, quindi, di un "oggetto" che si afferma per credenza, ma è un "soggetto" con cui si stabilisce un rapporto di fiducia, di dedizione, di affidamento. Il rapporto di fede è rapporto intersoggettivo. L'esistenza si apre, rompendo la chiusura di sé, ad un soggetto, facendolo entrare nella vita di sé, facendolo in-esistere nella propria esistenza. E questo dentro l'orizzonte della storia. Non si tratta, dunque, di rapporto soggetto-oggetto, ma di rapporto soggetto-soggetto, cioè di rapporto interpersonale 33 • L'atto di fede si configura come "evento esistenziale-storico". Non si potrebbe chiamare questo movimento della fede, in certa maniera dialettico? La fede, infatti, comporta la negazione di sé come totalità esaustiva, l'accettazione del "totalmente Altro" entrato nella storia. E questa accettazione, che
33 Cfr. J. MouRoux, Io cr~do in Te. Struttura personale dell'atto di fede (con riferimento a testi di san Tommaso), Morcelliana, Brescia 1966.
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diventa assimilazione, richiede ancora la negazione, la rinuncia, l'ascesi, la kenosis della croce. La coscienza che la fede cristiana ha di sé è di essere, in questo modo, dialettica. Ma il divario (incolmabile? irriducibile?) tra l'orizzonte di Hegel e quello della coscienza riflessa della fede è questo. Per la coscienza cristiana della fede, il "principio" della dialettica è lo stesso Cristo (che, come annotava Kierkegaard, dà anche le condizioni d·el credere), che in certa maniera "spossessa" l'io, per farsi, nell'io, nuovo principio di vita (audacemente S. Paolo dice: (<non sono più io a vivere, ma è Cristo che vive in me», Gal 2,20). Nell'orizzonte di Hegel il principio è lo "Spirito". Nella fenomenologia dello Spirito, travagliata dall'infinita potenza del negativo, Cristo è, come emerge nelle lezioni di Filosofia della religione, 1' "emblema" di tutta la vicenda umana, il nodo cruciale di tutta la storia. Ma non è il "principio". Il principio è "oltre" (quell' "oltre la fede" che Kierkegaard rinfacciava a Hegel come dissolutore del cristianesimo). Ma l'emblema resta, il nodo cruciale resta, per usare l'espressione paolina ripresa da Kierkegaard, come "freccia nella carne"
34 •
34 Cfr. J. W. SCHMIDT- JAPTNG, Die Bedeutung der Person Jesu ùn Denlcen des jungen Hegels, Vandenhoeck & Ruprecht, GOttingen 1924, che ritiene come decisivi i fra1nn1enti francofortesi sulla "vita" (das reine Leben), sottolinea l'oscillazione dialettica tra il Gesù uomo e il Cri~to della primitiva comunità, per conchiudere: Ueber dieses eigentil111lich dialektische Sch1vanken ist Hegel Stellung zu Jesus auch in der Zukunft nicht hinausgekommen (85).
LE NUOVE FRONTIERE DELL'ISLAM STATO E RELIGIONE NEI PAESI ARABO-MUSULMANI
GIUSEPPE DI FAZIO*
Fino agli anni trenta l'Islam sembrava un torrente in secca, destinato ad estinguersi per via naturale. Qualcuno, anzi, salutò il crollo del califfato e l'imposizione in Turchia di un regime laicista e nazionalista (1923) come un "risveglio" dei popoli musulmani che li avrebbe portati all'abbandono dell'Islam 1• A più di mezzo secolo di distanza da quell'evento non solo l'Islam non ha esaurito la sua carica vitale, ma è divenuto un fiume in piena che allunga le sue propaggini in tutti i continenti. Le statistiche, sia pur provvisorie, parlano di 800 - 900 milioni di musulmani esistenti oggi nel mondo 2 • Rispetto a cinquant'anni fa, quando i seguaci di Maometto erano circa 200 milioni, la crescita è stata vertiginosa (più del 400 per cento) e ha sconvolto la tradizionale geografia islamica.
* Docente di Storia delle Chiese locali nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. I. ZINGARELLI, Il risveglio dell'Jslcun, Treves, Milano 1928. Cfr. anche inondo pluralista, in La Civiltà Cattolica, 1980, I, 117-132. 2 Una statistica completa, ma aggiornata al 1977, è quella di R. V. WEEKES (Muslin1 peoples. A World ethnographic Survey, Green\vood press). Per Weekes la popolazione musuhnana mondiale ammontava, nel 1977, a 719.721.000. Testi più recenti parlano di 800-900 n1ilioni di musulmani (cfr. A. A. ROEST CROLLIUS, op. cit., 118). 1
A. A. ROEST CROLLIUS, Il ris1 1eglio dell'Isla1n in un
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L'Islam tradizionale, legato ad una società agricola e artigiana, prevalentemente arabo, è ormai un ricordo del passato. Alle soglie del duemila gli arabi costituiscono il 15 per cento del grande filone musulmano che trova seguaci soprattutto nel sub-continente indiano, in Iran, Afghanistan, Urss, Malesia e nell'Africa a sud del Sahara 3 • La presenza musulmana è cresciuta in maniera impressionante anche in Europa occidentale dove conta ormai più di 10 milioni di seguaci. In Francia vivono quasi 3 milioni di fedeli musulmani (fra cui alcune decine di migliaia di convertiti); 2 milioni circa vivono in Germania, 800 mila in Gran Bretagna, 200 mila in Italia, con una forte concentrazione a Roma, Milano, in Puglia e in Sicilia 4• In quest'ultima regione si calcola che vi siano circa 20 mila immigrati africani, due terzi dei quali sono di religione islamica. La presenza musulmana in occidente, iniziata attraverso l'immigrazione temporanea, conosce oggi fatti nuovi: il fenomeno dello stanziamento stabile in Europa di importanti nuclei di seguaci di Maometto e le conversioni all'Islam (spesso eccellenti). Sono ormai famosi i casi del coreografo Maurice Béjart, del filosofo Roger Garaudy, del critico letterario Todorov e, in Italia, del principe Pallavicini. Il volto dell'Islam in Europa, pertanto, non è più soltanto quello degli immigrati adibiti ai lavori più pesanti e umili, ma anche quello dei grandi centri culturali e delle imponenti moschee. A Parigi opera già da qualche anno un centro islamico che è fra i più grandi del mondo. Uno analogo sta per sorgere a Madrid, mentre a Roma si avviano alla conclusione i lavori della più importante moschea d'Europa. In totale si contano oggi nell'Europa occidentale più di duemila moschee'. 3
L. c. Le sti1ne ufficiali non corrispondono spesso ai dati reali. Sul problema delle statistiche circa la presenza musulmana in Europa cfr. F. DASSETTO - A. BASTENIER, Europa: nuova frontiera dell'I slani, Edizioni Lavoro, Roma 1988, 97-100. s Ibid., 100-110. 4
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Nelle grandi questioni mondiali, come nella nostra vita quotidiana diventa sempre più difficile evitare l'impatto con l'Islam. Il "caso Rushdie", d'altronde, ha fatto vedere come ormai l'Europa non possa più fare a meno di confrontarsi con un universo culturale (quale quello musulmano) che per la prima volta da diversi secoli non è più un fatto ad essa esterno 6 • L'Islam, infatti, è oggi un fattore dello spazio sociale, culturale e politico europeo 7 • La presenza musulmana in Europa (che come abbiamo accennato è assai consistente anche in Sicilia) pone inevitabilmente delle questioni a cui bisognerà dare risposta. Non è il caso in questa sede di affrontarle analiticamente; ma val la pena, almeno, di indicarle. C'è anzitutto il problema del rispetto del tempo islamico. Come si sa i musulmani sono chiamati al rito delle preghiere quotidiane; essi considerano, inoltre, come giornata sacra il venerdì e hanno un lungo tempo di digiuno (il ramadan). Laddove i nuclei musulmani sono consistenti il problema insorge. E' accaduto per esempio che in alcune fabbriche francesi gli operai maghrebini abbiano chiesto spazi per la preghiera nei luoghi di lavoro (affrontando anche vittoriose battaglie sindacali sulla questione) 8 • Un secondo problema riguarda le scuole. Sono ormai numerose le richieste di costituire scuole per i figli degli immigrati del Nordafrica e di inserire l'insegnamento dell'Islam nelle scuole pubbliche occidentali dove frequentino le lezioni alunni musulmani 9 • In terzo luogo c'è il problema dei matrimoni misti, dal momento che non esiste omogeneità fra il diritto islamico e il diritto civile occidentale w Come si vede, l'accrescersi della presenza musulmana nel
6 Cfr. T. Rrccr, Dietro le quinte dell'affaire Rushdie, in 30 Giorni, 7 (1989) 3, 8-11.
7 F. DASSETTO - A. BASTRNIER, op. cit., 13-14. 8
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lbid., 115-118. Cfr. R. ANSUINI, In Occidente una jihad denzografica, in 30 Giorni,
7 (1989) 3, 14-15. 10 M. BORRl\tfANS, Il confronto fra cristiani e 1nusullnani nel Mediterraneo, in Politica internazionale 12 (1987) 94.
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vecchio continente pone a noi europei l'impellente necessità di reimpostare un dialogo con l'universo culturale e religioso di cui essa è portatrice. La questione è ancora più avvertita nei luoghi di frontiera fra Europa e Nordafrica, dove più forte è il flusso di manodopera da sud verso nord. E' questo il caso della Sicilia, che registra vere e proprie "isole" di presenza massiccia di immi~ grati nordafricani (si pensi a Mazara del Vallo, Palermo, Vittoria, Catania). Finora il rapporto fra le popolazioni indigene e gli immigrati, pur non conoscendo forme evidenti di razzismo è rimasto confinato nella sfera degli interessi economici e ha ·conosciuto una sostanziale estraneità culturale. Da qualche anno, tuttavia, si segnalano tentativi, da entrambi le parti, di aprire una breccia nel muro dell'indifferenza. I musulmani cominciano a chiedere alle autorità siciliane spazi per !'espressione della loro fede religiosa (è recente la richiesta di locali per una moschea a Palermo) e l'apertura di scuole per i figli dei tunisini emigrati a Mazara e Palermo. Dall'altro lato si moltiplicano le iniziative a sostegno della dignità degli immigrati: centri sociali, ambulatori, strutture di solidarietà, affidati prevalentemente al lavoro del volontariato". Esiste anche, nell'isola, un tentativo di avviare un .dialogo culturale col mondo musulmano: il Meeting del Mediterraneo 12 • C'è da dire che questo dialogo fra culture e mondi diversi non è certo fra i più facili. Spesso, infatti, s'incontrano interlocutori musulmani dell'ala più radicale e integralista, che negano per principio la possibilità stessa del dialogo con ''l'occidente cristiano". Ma è anche vero che le correnti moderate 11 Da segnalare soprattutto i centri sociali e le iniziative dei sindacati confederali e delle Caritas diocesane. 12 L'associazione Meeting del Mediterraneo opera a C~tania dal 1981. Al suo attivo ha l'organizzazione di manifestazioni internazionali (finora ne sono state tenute sei) con la partecipazione di personalità del mondo politico, culturale, economico e reEgioso di diversi Paesi mediterranei. L'associazione pubblica anche una collana editoriale («Quaderni del Mediterraneo»). Per informazioni ulteriori, cfr. AA.Vv., La riscoperta del Mediterraneo. Alla ricerca di una cultura dell'incontro, Catania 1985 (in particolare
l'ìntrod~zione).
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dell'Islam si stanno da tempo disponendo a ricercare punti .di contatto e di incontro con la cultura occidentale ll. Nel tentativo, a lungo termine, di aprire un dialogo proficuo con l'Islam (che si affianchi agli scambi economici fra Europa e Nordafrica) la Sicilia, certo, vive un'opportunità storica. Essa, infatti, per ragioni storiche e geografiche potrebbe essere quel "ponte" di dialogo fra Paesi diversi che vivono sulle sponde del Mediterraneo 14 • Lo studio che in questa sede proponiamo (incentrato sui rapporti Stato-religione nei Paesi arabo-musulmani) vuole essere un contributo alla conoscenza di quell'universo culturale e religioso col quale la società italiana nei prossimi anni dovrà sempre più confrontarsi. I. In quest'ultimo decennio un fenomeno ha acquistato contorni n1acroscopici: i più importanti centri di elaborazione culturale dell'Islam (con in lesta l'università egiziana Al-Azhar del Cairo e il centro islamico d'Europa) hanno intensificato i loro sforzi per produrre progetti "islamici" di costituzione che potessero servire da modello ai Paesi musulmani. Il fatto, come nota Lucie Pruvost, rappresenta in qualche modo un paradosso, perché finora la tesi classica dei fondamentalisti sosteneva che il Corano è l'unica costituzione possiM bile per un Paese musulmano 15 • l3 Sul dialogo isla1no-cristiano si veda in particolare M. Bo1iRMANS, Orienta1nenti per un dialogo tra cristiani e 111usulinani, Pontificia Università Urbaniana, Roma 1988. 14 ((La Sicilia è con la sua ricca tradizione culturale e religiosa, il luogo ideale per riscoprire quei valori che possono unire gli uomini. Anziché punto nevralgico dello sn1ercio della droga, dcl commercio delle armi e della criminalità organizzata, essa è chiamata a diventare crocevia del dialogo tra le religioni e tra le culture, per dare al mondo un insostituibile contributo di speranza e di pace» (card. P. PouPARD, intervento al III Meeting del Mediterraneo, Catania 22 novembre 1986, in AA. Vv., Sulle sponde del 1nare di Ulisse. L'ùnpossibile ritorno?, Edicooper, Palermo 1987, 1-5. 15 Si veda in proposito Etudes Arabes-Dossiers, n. 72, 1987, dedicato al tema "L'Islam Religion de I'Etat". Il volume n1onografico, curato da R. Bellani, M. Borrmans, M. T. Hirsch, J. Lacunza, A. Muller, L. Pruvost, E. Renaud contiene, oltre a un interessante saggio conclusivo di L. Pruvost,
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I progetti costituzionali prodotti da Al-Azhar o dal consiglio islmnico d'Europa o dall'Iran hanno, in verità, un significato opposto a quello che le costituzioni hanno avuto ai loro inizi in Europa. Nel vecchio continente esse segnarono la fine delle monarchie di diritto divino. Secondo i recenti progetti dei giuristi musulmani, invece, esse rappresentano uno strumento per sacralizzare le istituzioni politiche e l'organizzazione sociale. Al di là di tutto, comunque, va notato che questo atteggiamento è un passo avanti rispetto alla negazione di principio dello strumento costituzionale, ritenuto un portato del colonialismo.
2. Ma quale spessore ha, in realtà, questo fenomeno? Alcune date servono per orientarsi. Nel 1978 l'università di Al-Azhar produce la sua bozza di costituzione che dovrebbe servire da modello per gli Stati musulmani che vogliono sottrarsi alla sudditanza giuridica occidentale 16 • All'articolo 1 essa enuncia due questioni fondamentali per lo Stato: il riconoscimento che i musuhnani costituiscono una nazione (umma) e il riconoscimento della sharia come fonte di tutta la legislazione. L'anno seguente l'Iran di Khomeini vara una costituzione che «in un'ipotetica scala di islamizzazione occuperebbe oggi il gradino più alto» 17 • Nell'80 le pressioni islamistiche provocano in Egitto alcune sostanziali modifiche alla costituzione del 1971. Quest'ultima proponeva già un'attenuazione delle tendenze laicizzanti delle costituzioni provvisorie del 1953, '56 e '58 e ribadiva che l'Islam è religione di Stato e la sharia una fonte principale della legislazione. Ma queste sottolineature non erano evidente-
ampi stralci di modelli di costituzioni islamiche. Sull'argomento si veda anche O. CARRE (a cura di), L'lslan1 et l'Etat dans le 111onde d'aujourd'hui, PuF, Parigi 1982. 16 Cfr. Draft of the lslan1ic Constitution, in Al-Azhar Magazine, English Scction, voi. 51, aprile 1979. 11 L. PRUVOST, Conclusion generale in L'Islam Religion de l'Etat, Etudes Arabes-Dossiers, cit. La costituzione iraniana ha subito recentemente (luglio 1989), modifiche che ampliano i poteri e le prerogative del capo dello Stato.
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mente bastate a calmare la spinta fondamentalista. Così nel 1980 la nuova costituzione egiziana sancisce all'articolo 2 che la sharia è la fonte principale della legislazione 18 • Tre anni più tardi il consiglio islamico d'Europa rende pubblico a Islamabad il suo progetto costituzionale, che istituzionaliz"za una visione islamica dell'organizzazione sociale. Nel 1986 l'Algeria approva la nuova carta nazionale nella quale l'Islam viene riconosciuto come «la migliore garanzia di vittoria nella battaglia per la costruzione e l'edificazione» sociale 19 • Nello stesso anno a Teheran, nel corso della quarta "Conferenza del pensiero islamico" viene redatto un progetto di costituzione per il Libano, ricalcato sul modello della costituzione iraniana'"Questi elementi lasciano intravvedere una tendenza, ma non possono certo essere usati per fare generalizzazioni sulla situazione dei Paesi musulmani. Si può dire, tuttavia, secondo quanto sostiene il sociologo Younes Moudjahid, ohe nei musulmani resta la nostalgia di una integrazione reale tra religione e istituzioni socio-politiche, come lo fu al tempo dei primi quattro califfi "· Nei decenni post-coloniali, inoltre, il ricorso all'Islam è divenuto uno dei fattori di sostegno nella politica del centralismo statale. «C'è una convergenza - nota Mohamed Arkoun tra l'appello dell'Islam all'unità nella comunità e quello dello Stato a formare la nazione»"- Anche se, fa notare ancora Arkoun, "l'Islam è utilizzato dal potere politico più di quanto esso non ispiri questo potere>) 23 • 1s Sulla situazione dell'Egitto nell'epoca di Nasser e Sadat si veda Pouvoir et idéologie dans l'Egypte de Nasser et de Sadat, in L'Egypte d'aujourd'hui, CNRS, Parigi 1977, 243-266. 19 Cfr. la Carta nazionale algerina (16 gennaio 1986) pubblicata da Etudes Arabes-Dossiers, cit., 91-101. 20 Cfr. B. ETIENNE, L'lsla1nisn10 radicale, tr. it., Rizzoli, Milano 1988, 219-220. 21 Cfr. G. Dr FAZIO, Il paradosso 1nusul1nano, in 30 Giorni, 1 (1987) 6, 27-31. 22 M. ARKOUN, Emergences et problè111es dans le 1nonde 1nusulman contemporain (1960·1985), in Islamochristiana 12 (1986) 146. 23 lbid., 155. O.
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3. I casi egiziano e iraniano forniscono sul tema in esame spunti di grande interesse. Dalla presa del potere di Mohammed Ali, nel 1805, l'Egitto ha conosciuto un progressivo processo di laicizzazione nel campo politico e legislativo. Si può dire anzi che con Ali nasce un nuovo Stato, influenzato nei suoi organi istituzionali dal modello napoleonico e dalla tradizione dei moderni Stati europei. Il processo si è andato rafforzando sotto l'occupazione britannica, prima, e poi sotto il regime militare che si installa nel 1952. Questa tendenza ha esautorato sempre. più la legislazione fondata sulla sharia, fino a provocare nel 1955 l'abolizione dei tribunali sharaitici. La laicizzazione sarebbe andata avanti incontrastata se non ci fosse stata la sconfitta egiziana del giugno 1967. Da allora cominciò un'inversione di tendenza: il ricambio del gruppo dirigente si è accompagnato a una ripresa dell'Islam, come fattore di identità nazionale e di autonomia culturale. E' rinato in questo modo il progetto di una nuova società egiziana che «preconizza l'adozione di un sistema politico ed economico, fondato sui principi coranici e sulla sunna del profeta, dal quale siano cancellate le tracce dell'esperienza so- ' cialista nasseriana e di quella liberista di Sadat, percepite come dicotomica manifestazione dell'occidente» 14 • In quest'ottica tutto ciò che sa di occidente viene rigettato come anticoranico (da qui il rifiuto delle istituzioni statuali occidentalizzanti) e si crea il terreno favorevole per la rinascita delle tendenze più marcatamente integraliste, che volendo realizzare "l'essenza dell'Islam", ripropongono l'unità di din (religione) e dawlah (Stato). Non è un caso che proprio in questo periodo ritrovano grande consistenza i "Fratelli musulmani", che erano stati dichiarati fuori legge nel 1954 e che sono portatori di una précisa teoria sul governo islamico. Secondo i seguaci di Hasan al-Banna, infatti, un governo islamico si distingue per tre ca-
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G. CONTU, La funzione di Al-Azhar come polo culturale, in Politica
internazionale 12 (1987) 105.
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ratteristiche fondamentali: «!) la sua Costituzione è il Corano: essa è divina e non può essere modificata dagli uomini; 2) il governo ha necessariamente un Consiglio (Shurah) che decide tutto secondo il Corano; 3) il capo di Stato (e del governo) è l'unico mandatario della comunità e riceve dalla comunità la sua autorità; perciò la comunità ha il dovere di sostituirlo se non governa secondo la legge» 25 • Contro questa insorgenza di integralismo, che è costata la vita al presidente Sadat, i governi egiziani hanno cel1Cato di promuovere U ruolo dell'università di Al-Azhar come massima istanza culturale e religiosa dell'Islam sunnita., preoccupandosi al tempo stesso di controllarne le decisioni. Da un lato, perciò, Al-Azhar ha visto accrescersi enormemente il suo prestigio - soprattutto attraverso l'acquisizione della prerogativa di emettere pareri ufficiali sulla conformità alla sharia degli atti del governo - , ma al tempo stesso ha conosciuto un sempre maggiore controllo politico 26 • La famosa università musulmana ha finito perciò per avere un «ruolo essenziale di cerniera» tra l'esigenza di una so~ cietà conforme all'Islam e gli obiettivi politici di uno Stato moderno 27 • Va letto in questa prospettiva il progetto al-azhariano di una costituzione secondo il Corano, che cerca di fondere insieme l'istanza degli integralisti (avere una società islamica) e l'istanza dei musulmani moderati (avere una costituzione adeguata ai tempi). In Iran, per passare al secondo esempio, la lotta alla laicizzazione della vita sociale ha conosciuto forme cruente e si 25 F. BERTIER, L'idéologie po!itique des Frère Musulmans, in Les Ten1ps Modernes, 8 settembre 1952, 541 ss. Si veda anche K. SAMIR, Khomeini e i "Fratelli musulmani". Un ritorno integrale alle radici dell'Jsla1n, in La Civiltà Cattolica, 1980, I, 445-458. " Cfr. G. CoNTU, op. cit., 105-106. n Al-Azhar ha avuto nel decennio del dopo Camp David un ruolo chiave nei rapporti tra Egitto e mondo arabo. Essa ha contribuito in maniera determinante «a far rioccupare all'Egitto il qalb al urubah (il cuore dell'arabità) - come lo definisce Hosni Mubarak - in seno alla ummah araba» (ibid., 104).
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è concretizzata, nel 1979, con l'esilio dello scià e l'avvento del1' "era khomeinista". E' interessante notare come l'opposizione di Khomeini e dei suoi seguaci allo scià (e ai suoi alleati) derivasse essenzialmente dall'operazione compiuta da questi ultimi: separare l'Islam dalla vita pubblica, applicando al contempo una costituzione importata dall'occidente 18 • Khomeini, nel periodo dell'esilio, aveva lanciato forti strali contro la costituzione persiana: essa gli appariva come contraria al Corano e alla autentica tradizione musulmana. La sovranità ereditaria, l'autorizzazione a bere vino e a lucrare interessi bancari, l'appli'cazione del sistema giudiziario occidentale erano tutti elementi che suonavano ostili ai leaders sciiti. Secondo il pensiero di Khomeini, invece, la base su cui costruire lo Stato è proprio la legge religiosa (sharia), che è perfetta perché viene da Dio. In questa prospettiva lo Stato non ha bisogno di un parlamento che legiferi, ma piuttosto di organizzare l'applicazione delle leggi. A tal fine il capo dello Stato deve essere un dottore della legge giusto (faqih 'adii): egli «avrà la stessa autorità del Mahdì» (il Messia atteso) e dovrà essere seguito 29 • Questi progetti, espressi da Khomeini in alcune conferenze tenute nell'Iraq del sud agli inizi degli anni '70, sono poi divenuti - come vedremo - i pilastri su cui si è costruito lo Stato musulmano in Iran e che rimangono saldi anche nel dopo-Khomeini. A noi preme rilevare in questa sede l'attualità che ha assunto in tutto il mondo musulmano il dibattito su Stato e religione o, per dirla con Arkoun, sul rapporto che deve instaurarsi tra le tre d: religione I din), società I dunya) e Stato I dawlah). Viene da chiedersi, infatti: l'Islam è per sua natura una religione che fa tutt'uno con lo Stato, oppure questo connubio è il frutto di incrostazioni storiche? E che posto possono occupare nel mondo islamico esempi come quello del Senegal, dove lo Stato pur essendo a larga maggioranza musulmano,
28 Si vedano le osservazioni di K. Samir ad alcune opere teologicopolitiche di Khomeini. Cfr. K. SAMIR, op. cit., 447 ss. 29 Ibid., 448.
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si proclama laico e un cattolico ha potuto guidare .il Paese nei primi due decenni di indipendenza? 4. In un coraggioso documento reso pubblico agli inizi del 1986 gli intellettuali musulmani che fanno parte del Gruppo di ricerche islamo-cristiano (Cric) hanno affrontato di petto la questione arrivando a una inequivocabile conclusione 30 • «L'unione dei due poteri, lo spirituale e il temporale, nella medesima persona - sia esso il Califfo o il Ca·po di Stato - , al di là del caso eccezionale del Profeta stesso è frutto della storia e dei giochi politici» 31 • Anzi, sostengono gli estensori del documento, «questa dottrina per quanto sia detta islamica non si può richiamare né al Corano né ad alcun hadit». Fra gli estensori del testo figurano personaggi come Mohamed Arkoun, .docente di islamistica all'università di Parigi, Abdelmajid Charfi e Mohammed Talbi dell'università di Tunisi e lo storico marocchino Mohammed Zniber. Gli intellettuali musulmani che fanno parte del Cric si sono spinti ancora più avanti. In unità coi colleghi cristiani che operano nell'ambito dello stesso Gruppo di ricerche hanno stilato un documento che enuncia alcuni principi fondamentali, su cui cristiani e musulmani potrebbero concordare in materia di relazioni tra Stato e religione. Nel documento si individua un obiettivo essenziale: il rispetto del pluralismo in tutte le sue dimensioni. «Lo Stato - si legge nel testo avendo per fine il bene comune, deve preoccuparsi di assicurare non solamente la libertà dell'opzione di fede, ma anche i mezzi concreti dell'espressione di questa fede, del culto e dell'insegnamento religioso» 32 •
Etat et Religion, in lslamochristiana 12 (1986) 49-72. lbid., 63. Il Gric (Groupe de Recherches lslamo-Chretien) è stato fondato nel 1977 e riunisce intellettuali cristiani e musulmani di diversi Paesi. Esso ha sedi a Rabat, Tunisi, Parigi, Bruxelles. Per ulteriori informazioni sulle attività e le pubblicazioni del Gric, cfr. /slamochristiana 4 (1978) 175-186. 32 GRIC, Etat ... 1 cit., 67. 30 GRIC, 31
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Il documento prodotto congiuntamente da cristiani e musulmani segna certamente una tappa storica. Bisogna tenere i;>resente, tuttavia, che esso è frutto di un gruppo di intellettuali che lo hanno redatto e sottoscritto a titolo puramente personale. Esso serve però a sfatare il principio secondo cui nell'Islam l'unità fra religione e Stato è un fatto strutturale ineliminabile. Ciò non significa, evidentemente, che in molte zone e - soprattutto nei Paesi arabo musulmani - la realtà non presenti quella inscindibile connessione. Non è un caso, infatti, che la quasi totalità di questi Paesi (che costituiscono quantitativamente solo il 15 per cento del mondo musulmano) riconosce l'Islam come religione di Stato. Fuori dal mondo arabo, invece, se si eccettuano i casi dell'Iran, del Pakistan e della Mauritania, la situazione presenta caratteri e sfaccettature diverse 33 • 5. Anche negli Stati musulmani apertamente confessionali, tuttavia, li grado di islamizzazione delle istituzioni non è ovunque lo stesso. I redattori di Etudes Arabes hanno provato a definire i criteri di "islamicità" di uno Stato sottoponendo ad analisi le costituzioni e i testi ·politici fondamentali di venti Paesi musulmani (in maggioranza arabi). Sono stati individuati due livelli di analisi: il primo riguarda le enunciazioni di principio presenti nelle carte costituzionali, il secondo le loro applicazioni 34 • Dall'indagine ~isul-
33 Nel mondo arabo-musulmano solo la Siria fa eccezione al generale riconoscimento dell'Islam come religione di Stato. Sotto il regime del presidente Assad l'unica concessione agli integralisti è stata la decisione di mantenere l'Islam come "religione del capo di Stato". 34 Questa- analisi presenta caratteristiche e scopi diversi da un'altra simile condotta da B. Etienne nel suo volume L'I slamis1no radicale, cit. Etienne fa una distinzione fra gli «Stati arabo n1usulmani che hanno tentato la secolarizzazione se non la laicizzazione della società e quelli per i quali l'egemonia passa attraverso il controllo della religione». Da questa partizione di fondo emergono tre tipologie di Stati. Alla prima appartengono gli Stati «che permettono, tollerano o sopportano una coa. bitazione tra l'Islam ufficiale e differenti forme di Islam». In questa prima categoria Etienne inserisce Egitto, Marocco, Kuwait.
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ta che il riferimento esplicito all'Islam nelle costituzioni è espresso quasi esclusivamente dagli Stati arabi. Dei 21 Paesi della Lega araba, infatti, due (Arabia Saudita e Sultanato di Oman) hanno nientemeno che il Corano come costituzione, mentre altri sedici si richiamano espressamente all'Islam. Ma l'enunciazione di principio potrebbe limitarsi a un fatto formale: occorre perciò vederne le applicazioni. La prima riguarda la fi-gura del capo dello Stato. Può un non musulmano ricoprire la massima carica dello Stato? Se si eccettua qualche raro caso di Paese musulmano non arabo in cui lo Stato si proclama laico, la risposta è generalmente e rigidamente negativa. L'appartenenza alla religione musulmana è espressamente richiesta nelle costituzioni di molti Paesi come condizione per accedere alla guida dello Stato. E' così in Algeria, Siria, Tunisia, Yemen del Nord, ma anche nelle monarchie ereditarie di Giordania e Kuwait, dove si richiede al pretendente al trono di essere «figlio legittimo di genitori musulmani». In Marocco, addirittura, il re è considerato <«emiro dei credenti». Una spia interessante per comprendere eventuali legami che uno Stato musulmano mantiene con modelli occidentali è data dall'organizzazione dei poteri. Il progetto predisposto dal consiglio islamico d'Europa invita a scartare la tradizionale separazione tipica delle costituzioni occidentali. Secondo questo progetto ispirato a ideali musulmani «l'Assemblea (nazionale) è solo consultiva (shurd) e l'esecutivo (al-Imdm) è sottoposto al controllo di un consiglio di saggi (più o meno cooptati tra di loro)» 35 •
La seconda tipologia si caratterizza per «l'esclusione di tutte le altre forc me di Islam, specialmente dell'Islam popolare denunciato come arcaismo e residuo della storia>> (e qui Etienne inserisce Stati come l'Arabia Saudita, l'Algeria, il Pakistan e la Libia). La terza tipologia è quella degli Stati che «invertono l'ordine din-dunya~ dawla e cercano di mettere dai,vla al primo posto, mediante un progetto di laicizzazione e [ ... ] di secolarizzazione della società civile» (cfr. B. ETIENNE, op. cit., 225-226). 35 Cfr. M. BORRMANS, Il confronto fra cristiani e musulmani nel MediD terraneo, cit., 94.
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In Iran, invece, la costituzione anche dopo gli emendamenti del luglio 1989 rimane inserita in un contesto di "sovranità del dogma", ti:pico del diritto sciita. Esistono, infatti, tre poteri retti da istituzioni diverse, ma ciascuno di essi è posto sotto la sorveglianza diretta della gerarchia religiosa 36 • Un'altra spia significativa è costituita dal riferimento alla sharia. In alcuni Paesi (vedi gli Emirati Arabi) essa è considerata come una fonte principale della legislazione, mentre in altri (per esempio Egitto e Sudan) è la fonte della legislazione. Ma il principio più significativo ai fini della determinazione del grado di islamicità di uno Stato è quello della "censura dei costumi" (hisba) attualmente in vigore <in Iran. Essa si presenta, infatti, come una forma di legalizzazione del controllo sociale. In forza di questo principio qualsiasi cittadino quando si accorge della violazione di un precetto coranico può richiedere l'intervento della forza pubblica. Questo, però, come detto, rappresenta l'apice di uno Stato confessionale. Anche se non proclamata teoricamente, la hisba tuttavia conosce nei Paesi arabi molte applicazioni pratiche. 6. Al di là dell'analisi puramente formale, tuttavia, si possono fare alcune considerazioni sul rapporto Stato-religione nei Paesi arabo-musulmani. Quasi ovunque, nel mondo arabo, esiste un controllo statale sulla vita religiosa che prende varie forme. La nomina del personale di culto, la responsabilità nella costruzione di nuove moschee, la formazione di insegnanti di religione islamica, la redazione di manuali di insegnamento dell'Islam: sono tutte questioni che vengono assoggettate all'azione di ministeri governativi 37 • Questo stretto legame che si determina fra la sfera statale e quella religiosa comporta di fatto un "confessionalismo" in senso islamico della maggior parte degli Stati arabi. Le conseguenze di questa concezione del potere statale sono particolarmente evidenti nella pratica quotidiana a livello sociale,
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Etudes Arabes-Dossiers, cit., 73 ss. M. BoRRMANS, op. cit., 95.
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ma anche negli aspetH giuridici per ciò che attiene lo statuto personale e familiare. «Questo statuto - nota giustamente Maurice Borrmans - dipende dall'appartenenza confessionale delle persone, sicché accanto a un codice applicabile ai cittadini musulmani, si ammette che i cristiani e gli ebrei abbiano i loro propri codici o 'diritti canonici' oltre che i loro tribunali ecclesiast ici o rabbjnici» 38 • In una società così concepita la libertà religiosa diviene puramente simbolica: si dà alle comunità religiose non islamiche lo statuto di comunità protette, che consente loro, al massimo, la sopravvivenza. Ma, in fondo, questa limitazione posta alla libertà religiosa finisce per essere tout court un bavaglio ad altri diritti fondamentali della persona umana, a cui sono interessati anche gli stessi musulmani. 1
Js L, c. L'A. fa notare che «gli stessi codici di statuto personale inclusi quelli dell'Algeria e della Tunisia, mantengono tre ostacoli a conferma di questo confessionalismo: alla musulmana non viene riconosciuto il diritto di sposare un non musulmano (questi deve abbracciare l'Islam per con· trarre matrimonio con lei, anche all'estero); i parenti cristiani del bambino in tenera età la cui madre cristiana è deceduta non hanno il diritto di assicurarne la custodia (haddna); nessun diritto di successione esiste, infine, tra due persone di religioni differenti, cosicché la vedova cristiana di un marito musulmano deceduto non ha diritto a nessun titolo all'eredità (a meno che egli non abbia fatto un testamento a suo favore)».
IL RILANCIO DEL SEMINARIO DI CATANIA DURANTE L'EPISCOPATO DI MONS. SALVATORE VENTIMIGLIA (1757 - 1772)
PIERO SAPIENZA *
Premessa In questo mio lavoro mi fermerò ad esaminare la riforma morale e culturale del seminario di Catania, promossa dal vescovo mons. Salvatore Ventimiglia, tenendo come punti di riferimento le disposizioni che egli promulgò a tale riguardo attraverso tre editti, emanati rispettivamente il 1 ottobre 1758, il 2 settembre 1759 e il 29 agosto 1770. E' opportuno precisare che gli editti menzionati non sono stati finora pubblicati, se si eccettuano le citazioni di alcuni punti salienti di quello del 1759 e dell'altro del 1770, riportati in un altro mio studio sul seminarfo di Catania nel periodo del vescovo Moncada 1• Tutti e tre gli editti, manoscritti, adesso vengono pubblicati interamente e allegati in appendice al presente lavoro. I. IL DIFFICILE AVVIO DELLA RIFORMA DEL SEMINARIO
I.
Il principale educatore del clero: il vescovo L'azione pastorale di Salvatore Ventimiglia 2, vescovo di Ca-
* Docente di Filosofia e Scienze dell'educazione nelle scuole secondarie superiori. 1 Vd. P. SAPIENZA . S. CONSOLI, Le regole del sen1i11ario di Catania del 1788. Approccio di lettura critica, in Synaxis 5 (1987) 93· 152. 2 Salvatore Ventimiglia nacque il 15.7.1721 a Palermo, da Vincenzo,
Piero Sapienza
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tania dal 1757 al 1772, può essere collocata, accanto a quella di alcuni altri zelanti vescovi "riformatori" di quello stesso periodo 3, su quell'orizzonte di rinnovamento, definito "della ripresa tridentina 4• All'interno di questo contesto, il centro nevralgico, da cui sarebbe potuta scaturire una rifioritura della vita della comunità ecclesiale, doveva essere costituito da una profonda riforma del clero. Ciò, però, implicava la necessità e l'urgenza di un immediato potenziamento e di una serfa valorizzazione del seminario, l'istituzione educativa voluta dal Concilio di Trento per assicurare, appunto, un'adeguata formazione ai futuri sacerdoti. Infatti in questa direzione cominciò a muoversi mons. Ventimiglia appena giunto a Catania, manifestando, nell'editto emanato il 1 ottobre 1758, la sua chiara intenzione di applicare le disposizioni tridentine riguardanti il seminario. 11
principe di Belmonte, e Maria Anna Statella dei principi di Villadorata. Studiò a Palermo presso il collegio carolino dei gesuiti. Dopo aver scelto la vita ecclesiastica ed essere stato vicario generale del vescovo di Palermo, nel 1757 venne nominato vescovo di Catania. Nel 1772 la S. Sede accettò le sue dimissioni dalla sede episcopale di Catania. I motivi di r~uc<;la ri:•uncia non sono molto chiari: contrasti tra Ventimiglia e il goveri10? Oppure la sua forte sensibilità di coscienza, che gli faceva sentire la propria inadeguatezza di fronte alle grandi responsabilità pastorali? Finora su tale -questione mancano approfonditi studi critici. Tornato a Palermo, Ventimiglia ricoprì la carica di supremo inquisitore del S. Ufficio. Morì a Palermo 1'8.4.1797. Ricordiamo che, nel 1783, Ventimiglia aveva donato la sua ricca biblioteca all'università di Catania, di cui era stato gran cancelliere; nel 1788 aveva fatto una cospicua donazione <lei suoi beni a favore dell'albergo dei poveri della stessa città (cfr. P. CASTORINA, Elogio storico di Monsignor Salvatore Ventinziglia vescovo di Catania, Tip. G. Pastore, Catania 1888, II). 3 In questa schiera, nella Sicilia della seconda metà del secolo XVIII, possiamo annoverare i seguenti vescovi: Serafino Filangeri a Palermo, Francesco Testa a Monreale, Antonio dc Requesens a Siracusa, Andrea Lucchesi Palli ad Agrigento, Gabriello Di Blasi a Messina (cfr. D. SCINÀ, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIII, III, L. Dato, Palermo 1824-1828, 1-5). 4 Cfr. X. TOSCANI, Il reclutamento del clero (secoli XVI-XIX), in Storia d'Italia. Annali 9: La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all'età contemporanea, Einaudi, Torino 1986, 572-628: 602.
Il seminario durante l'episcopato Ventimiglia
331
Nel citato documento, il trentasettenne vescovo di Catania esordisce con un brev·e richiamo storico ricordando che, «ne' primi più felici secoli della Chiesa», i vescovi attribuivano fondamentale importanza «all'educazione» 5 dei futuri sacerdoti. E infatti le antiche e numerose disposizioni, emanate a tale scopo, costituiscono un'eloquente testimonianza. Ancora, continua Ventimiglia, i padri del Concilio di Trento, volendo rinnovare «la dicaduta .disciplina del Clero», ribadirono la linea dei loro antichi predecessori, decretando l'istituzione dei seminari e curando la stesura di opportuni (<regolamenti» 6 , affinché la vita ivi si svolgesse secondo criteri fo.rmativi ben precisi. A partire da questa, per così dire, giustificazione storica, mons. Ventimiglia motiva la sua decisione di imprimere nuovo impulso per il rilascio del seminario vescovile, persuaso che con questa "rifomna" sarebbe stato lecito sperare di «poter un giurno vedere in questa Diocesi i sacerdoti .del secondo ordine corrispondere perfettamente alla .dignità del loro ufficio ed alla Santità ·del sublime carattere» 7 • E' questa attesa di un futuro rinnovamento della vita ecclesiastica ad esigere, scrive ancora Ventimiglia, che «le prime sollecitudini del nostro pastora] governo» 8 siano focalizzate attorno ad un'istituzi~ne educativa tanto fondamentale per la com·urnità cristiana. Da quanto esposto finora emerge, quindi, che, nel piano pastorale di mons. Ventimiglia, vi è un inscindibile legame tra la formazione sacerdotale curata nel seminario, la testimonianza di una vita esemplare, offerta dai sacerdoti, e la conseguente rinascita della vita cristiana della Chiesa locale. Nello spirito dell'antica tradizione, mons. Ventimiglia vuole che i futuri presbiteri siano educati nel seminario diocesano, 1
5 CATANIA.
ARCHIVIO CURIA
ARCTVESCOVTLE
1752-1761, 52v. (gli Editti, manoscritti, d'ora
con
E). 6
L.
c.
Ibid., 53r. s Ibid., 52v.
1
(=ACA), Registro di
Editti in poi saranno abbreviati
Piero Sapienza
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affinché egli stesso abbia la possibilità di seguire da vicino («sotto !'occhi nostri»', com' egli scrive in modo incisivo), lo sviluppo della loro vocazione, la maturazione della loro vita spirituale e intellettuale, per giungere, in tal modo, ad operare un retto discernimento dei loro {(meriti e talenti» io. Nel nostro documento affiora un primo orientamento pedagogico, che, nei successivi editti sullo stesso problema, andrà evidenziandosi in maniera più esplicita. Intendiamo riferirci alla necessità che i futuri preti inizino il loro iter formativo, all'interno del seminario, sin «dalla prima adolescenza»"- Infatti, nella fase adolescenziale la personalità è facilmente plasmabile, e pertanto i candidati si trovano nelle condizioni psicologiche favorevoli per poter assimilare profondamente lo «Spirito ecclesiastico» 12 • Inoltre, l'esigenza di offrire ai chierici una solida formazione culturale «nelle sagre scienze» 13 è un'altra motivazione importante, per cui si richiede un adeguato tempo di permanenza in seminario.
Precarie condiz.ioni morali e culturali del clero catanese
2.
La prima parte del nostro editto ci fa intravvedere, come in filigrana, quella che era la situazione del clero catanese all'arrivo del nuovo vescovo Ventimiglia. Questi, infatti, a distanza di un anno, e precisamente nell'editto del 2.9.1759, affermerà a chiare lettere che, durante la sua visita pastorale per i vari paesi della diocesi, ha dovuto purti:oppo constatare "lo stato deplorabile e di decadimento generale del nostro Clero» ". E in realtà il declino spirituale, morale e culturale del clero cli Catania aveva profonde radici, essendo iniziato da lungo tempo. Il vescovo A. Riggio, sin dal 1717 nella sua relazione ad limina, scritta durante il suo esilio, aveva denunciato con forza lo stato
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lbid., 53r.
IO
L. c.
i1
L. c. L. c. L. c. Ibid., 61r.
12 13 14
Il seminario durante l'episcopato Ventimiglia
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di grave crisi del seminario e le piaghe del clero catanese, il quale, durante l'assenza del pastore, aveva abbandonato gli ideali di vita sacerdotale, offrendo ai fedeli esempi malvagi e dottrine funeste 15 • Dall'esilio di Riggio (1713) fino alla nomina di P. Galletti (1729), Catania, praticamente, ebbe i vescovi solo sulla carta. Infatti, per varie vicende, sulle quali non ci soffermeremo, in quanto esulano dal nostro argomento, A. De Cienfuegas e A. De Burgos non misero mai piede nella loro diocesi, e R. Rubi morì alcuni mesi dopo l'inizio del suo ministero 16 • Questa lunga mancanza di un governo pastorale acuì i mali della Chiesa catanese. I ventotto anni dell'episcopato di Galletti, predecessore di Ventimiglia, avevano visto l'ulteriore aggravarsi di questa incresciosa situazione. Il clero, sbandato moralmente e sprovveduto culturalmente, non aveva nel •suo vescovo il polo di riferimento. A tal proposito, Castorina scrive che Galletti «non si curò punto del ·suo clero; restando questo frantumato nel suo regime della chiesa in potere d'inetti, d'ipocriti e d'ignoranti» 17 • Nei decreti del visitatore regio G. A. De Ciocchis, venuto a Catania nel 1743, così si legge:"[ ... ] quod Episcopus in delectu eorum, qui ad clericatum admitti postulant, ita diligenter et religiose se gerat, ut nonnisi idoneos, atque a scientia et moribus probatos assumat [ ... ] » 18 • E viene stabilito che il vescovo "[ ... ]
15 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO (=Asv), Relazione "ad lintina", Catania A (=Riggio) 1717, 163v. Delle relazioni ad limina della diocesi di Catania, dal 1590 al 1890, si sta occupando A. Longhitano, il quale ha cominciato a pubblicare sistematicamente i suddetti documenti a partire da Synaxis 1 (1983}. Le relazioni di Riggio e Ventimiglia, da me citate nel presente lavoro, mi sono state offerte gentilmente da Longhitano. Bisogna, inoltre, aggiungere che la relazione del vescovo Riggio viene pubblicata da Longhitano nel presente numero di Synaxis: Le relazioni ad limina della diocesi di Catania (1702-1717). La relazione di Ventin1iglia, invece, non è stata ancora pubblicata. 16 Vd. Asv, Relazione "ad limina", Catania B (=Ventimiglia) 1762, liv. 17 P. CASTORINA, op. cit., 190. 18 G. A. DE CIOCCHIS, Sacrae regiae visitationis per Sicilian1, Caroti III regis iussu, acta decretaque omnia, III, ex typ. Diarii Litterarii, Vallis Neti, Panormi 1836, 30.
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neminem ad clericatum admittat, qui per biennium saltem in aliquo Seminario literis, et ecclesiasticis institutis non fuerit imbutus, nec eum praeterea ad titulum patrimonii clericali ordini adscribat, quam si Ecclesiae utilitas, ve! necessit<;s id postulare videatur» 19 • Se De Ciocchis ritiene doveroso fare queste raccomandazioni al vescovo Galletti, ciò significa che egli aveva constatato che l'ammissione agli ordini sacri non avveniva in forza di un criterio, per cui si operava il discernimento della vocazione dei candidati, tenendo conto, tra gli altri elementi, dell'esemplare pietà, della condotta e della loro preparazione culturale. Non solo, ma, da quanto sopra citato, traspare anche che per i] reclutamento del clero non si faceva riferimento né all'utilità né alle necessità della Chiesa locale. E infatti in quel periodo, nella diocesi di Catania, si registra una pletora di preti e di chierici, che appare sproporzionata rispetto al numero degli abitanti. Le cifre sono molto eloquenti: 1.667 preti (senza contare 13 cappellani curati in città e 8 parroci sparsi per la diocesi); 47 diaconi; 52 suddiaconi; 866 chierici. Questa immensa folla clericale avrebbe dovuto provvedere a bisogni spirituali di 123.322 persone 20 ! B;sogna osservare, inoltre, che la stragrande maggioranza di questi chierici non passava per il seminario. Infatti, dalla stessa relazione di De Ciocchis, sappiamo che soltanto un esiguo numero di aspiranti al sacerdozio dimorava nel seminario catanese, ed esattamente 70 21 • Pertanto il visitatore regio sente il dovere di raccomandare al vescovo di non ammettere •nessuno tra il clero, se prima non sia stato formato nelle lettere e nelle discipline ecclesiastiche almeno per un biennio, in qualche seminario. E' legittimo, quindi, de.durre che nella Chiesa catanese le disposizioni tridentine sul seminario venivano regolarmente disat-
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Cfr. ibid., 182-183. Vd. ibid., 183.
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tese e che, pertanto, mancando altri centri alternativi destinati alla formazione sace1,dotale 12 , la vita del clero era in condizioni di grave decadenza. Lo stesso fatto che mons. Ventimiglia, il 30.3.1758, emana un editto 23 per richiamare tutto il clero (dai preti ai tonsurati) all'osservanza dei canoni e delle disposizioni sinodali che vie· tano a tutti gli ecclesi;±stici .di frequentare spettacoli pubblici, sta a dimostrare che lo stile di vita del clero catanese non era conforme alle norme disciplinari e che vi era un generale e cliffo. so rilassamento dei costumi. Queste molteplici e gravi carenze, nella vita del clero, avran· no avuto delle ripercussioni negative sull'andamento pastorale e, quindi, sulla vita di fede del popolo. E' tuttavia opportuno notare che la triste condizione del clero catanese e la situazione di parados-sale resistenza al tridentino erano, purtroppo, caratteristiche comuni a tutto il meridio· ne d'Italia. Ad esempio, da una relazione ad limina di mons. A. Anzani, vescovo di Campagna e Satriano (Campania) dal 1736 al 1770, conosciamo le grandi difficoltà incontrate nel governo della diocesi, a causa dell'impreparazione culturale e della dec;±denza morale del clero: «Sia in queste chiese che servo, sia in alcune altre, ho notato non senza particolare e profondo dolore che la. maggior parte di quei giovani che aspirano al sacerdozio non si propongono un retto fine. Essi non si attengono mai alle direttive del vescovo [ ... ] e non desiderano aiutarlo nell'ammini-
22 In alcune diocesi, alla carenza forn1ativa dci scn1inari supplirono «Congregazioni religiose, o anche solo gruppi di sacerdoti, che intendevano dare una risposta alla domanda di forma7:ione e di aggiornamento del clero» (M. GuAsco, La fonnazione del clero: i sen1inari, in Storia d'Italia, cit., 629-715: 658). Nella diocesi cli Palern10, a ese1npio, esisteva un centro di questo genere, e sen1bra che svolgesse abbastanza bene il suo ruolo: vd. A. LONGHTTANO, La Chies(J palennitana nelle relazioni "ad lhnina" dell'Ottocento, in Atti del III convegno di studi cusmaniani: L'eredità spirituale e sociale di G. Cus1nano Palern10 17-20 novc1nbrc 1988 (di prossima 1
pubblicazione). 23
Vd. AcA, E 1752-1761, 44v-45r.
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straziane .della Chiesa e non accettano mai di buon animo il suo parere, come se il ves·covo parlasse per •parlare [ ... ] » 2'. Per questo è stato scritto ohe la storia religiosa del mezzogiorno è la storia di come il Concilio di Trento non si poté mai attuare 25 • Ovviamente questo giudizio però va inserito in tutto il precario contesto socio-culturale ed economico del sud. In particolare, tale contesto negativo aveva delle ripercussioni sui seminari. Infatti «la vicenda dei seminari, che istituiti premurosamente dai vescovi, duravano il classico spazio di un mattino e morivano per mancanza di mezzi, è tra le più penose che si conosca della storia religiosa del mezzogiorno [ ... ] » 26 • Ma, a sua volta, l'assenza di una soli.da e seria istituzione educativa produceva un clero come quello già sopra descritto. Il circolo, pertanto, si chiudeva: carenza di buoni seminari, che, d'altronde, restavano deserti, quindi impossibilità di avere un clero ben formato, secondo gli ideali tridentini. Nota ancora De Rosa: «Per arrivare a realizzare un tale modello di prete, si aveva bisogno di seminari di una qualità che non esisteva in alcuna diocesi del mezzogiorno; si aveva bisogno di rendite che mancavano, .data anche la riottosità del clero ricettizio a paga-re le tasse per il mantenimento dei seminari, si aveva bisogno di uno sforzo organizzativo pedagogico-culturale nuovo [ ... ] » 27 •
3.
Primo abbozzo di riforma del seminario
L'azione riformatrice di mons. Salvatore Ventimiglia viene, quindi, ad inserirsi in un contesto molto grave, complesso e problematico. Ma il vescovo affronta con decisione e con fermezza i nodi della questione e ·dichiara, senza mezzi termini, che non sarà conferito nessun ordine né in sacris né minore «a chi non
24 Relazione "ad limina", citata in G. DE ROSA - A. CESTARO, Territorio~ e società nella storia del mezzogiorno, Guida, Napoli 1973, 220 ss. 2s Vd. G. DE RosA 1 Chiesa e religione popolare nel mezzogiorno, Laterza, Bari 1978, 172. 26 L. c. 21 Ibid., 176.
Il seminario durante /'episcopato Ventimiglia
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compisca nel Seminario Ves.covile di questa Città il corso degli Studij, che in esso prescriveremo» 28 • Notiamo, innanzitutto, che il vescovo stabilisce che gli studi non possono essere compiuti in un seminario qualsiasi (come invece abbiamo visto permesso dallo stesso De Ciocchis: in aliquo Seminario), bens\ esclusivamente in quello diocesano. Osserviamo, inoltre, che Ventimiglia, in questo editto, non determina ancora il nuovo curriculum degli studi seminaristici. Ciò, infatti, co·me vedremo, avverrà nell'anno successivo. Anche a coloro che avevano già compiuto il corso degli studi veniva richiesto ugualmente di trascorrere un periodo, anche se breve, di permanenza in seminario, affinché fosse provata la loro vocazione e la loro condotta morale e perché, contemporaneamente, fossero verificate le loro capacità e attitudini. Ma, anche su questo punto, l'editto rimane ancora sul generico, non stabilendo quanto tempo dovesse durare la permanenza e limitandosi, invece, a dire: l'aspirante agli ordini «pa•ssi almeno nel medesimo seminario un qualche tempo da determinarsi a nostro arbitrio [ ... ] ,, 29 • ' E per scoraggiare coloro che aspiravano più che agli ordini ai benefici, cercando di sfuggire alla severa disciplina del seminario, Ventimiglia precisa che, in futuro, i benefici vacanti della diocesi saranno concessi solo a coloro che saranno stati formati nel seminario, secondo le direttive sopra acèennate 30 • Mons. Ventimiglia, però, vuole essere un uomo concreto e non vuole dare disposizioni sulla necessità di una regolare vita seminaristica, senza dotare il seminario di tutto ciò che l'avrebbe potuto rendere efficiente e idoneo ad assolvere i suoi compiti formativi, sia sul piano morale-spirituale, sia su quello culturale. Egli, infatti, promette: "Né si risparmierà da noi spesa o fatiga alcuna acciò possano trovarsi in esso tutti i mezzi più opportuni all'educazione e al profitto de' Chierici cossì nella pietà come nelle lettere» 31 • 28 29
'° 31
AcA, E 1752-1761, 53r. L. c. Vd. I. c. L. c.
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Ci sembra opportuno osservare, inoltre, che la concretezza di Ventimiglia è rivolta non solo all'istituzione, ma anche alle singole persone. Egli, infatti, ha ben presente il precario e difficile quadro economico della Sicilia e, pertanto, volendo venire incontro a quei candidati, che non sarebbero potuti entrare in seminario a causa delle loro difficoltà economiche, istituisce delle borse di studio per un certo numero di alunni (non sappiamo quanti). Costoro saranno scelti «a concorso dalla Città e dalla Diocesi>> e «SÌ manterranno franchi di ogni spesa» ·12 , E' da notare, a questo punto, il gesto di generosità dello stesso vescovo, il quale diede il suo personale contributo economico per la realizzazione di quanto sopra proposto. Ferrara, infatti, scrive che Ventimiglia «CO'll il suo denaro [ ... ] mantenne» in sen1inario «coloro che ricchi di ingegno poveri erano di fortuna» 33 •
32 L. c. La penuria dci rnczzi cco11on1ici dcl sc111inario catanese è lamentata da Venti1nig\ia nella relazione "ad lin1ina" del 1762. h·i il \·escovo nota: «[ ... ] auxitque Epi~L·opus Riggius censum, scd ta1n latae Dioeccsis paupcribus Clericis alendis 1ninime pai-cn1» (As\, Ri:lu;:.ione ''t1d !i111ina", Catania B 1762, !Or). Forse tra le righL' possiamo lL'gg.erc che anche per questo n1otivo, data la po\'ertà della fan1ig!ia, 1nolti chiL'rici, pur animati da sinceri sentin1entì per la vocazione sacerdotale, ùi fatto non potevano pern1ettersi di vivere in seniinario. Pertanto, dobbian10 supporre che nonostante la severa selezione dci candidati, attuata da Ventin1iglia, secondo le disposizioni dci suoi editti, e nonostante il suo i1npegno ad aumentare le entrate eçonon1iche dcl seniinario {vd. ihid., 13v), tuttavia sarà rimasto sempre alto il nurncro dL'i chierici esterni. E ccrtan1entc, caso per caso, ciò sarà avvenuto anche con il permesso dello stesso vescovo, poiché l'amministrazione del scn1inariu non sarebbe stata in grado di sopperire alle necessità economiche di tutti gli aspiranti al sacerdozio. A conferma di questa ipotesi, sen1pre nella relazione menzionata, tro\·ian10 che nel 1762 i seminaristi erano ottanta (vd. ìbid., 13v). E' ovvio, però, che queste osservazioni non sminuiscono per nulla il grande valore della riforma ventimiliana, inserita nel contesto settecentesco. 33 F. FERRARA, Storia di Catania sino alla fine del secolo XV I I I. Con la descrizione degli antichi monumenti ancora esistenti e dello stato presente della città, Tip. L. Dato, Catania 1829, 242.
Il seminario durante l'episcopato Ventimiglia
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II. L'ARTICOLAZIONE DEL PROGETTO DI RIFORMA
Al primo editto che, come abbiamo avuto modo di osservare, è molto generico, a distanza di un anno (2 settembre 1759) ne seguì un altro, molto più puntuale e articolato. Mons. Ventimiglia, adesso, ha un quadro più chiaro della penosa situazione del clero della sua Chiesa, e può già definire meglio il suo progetto di riforma del seminario, strutturandone l'itinerario educativo in modo da rispondere agli urgenti bisogni del tempo. Il vescovo, visitando la sua diocesi, ha potuto verificare direttamente la condizione di decadenza generale del suo presbiterio, tanto da dover riconos•cere con amarezza: «Nella gran moltitudine dei Sacerdoti del Second'ordine che si è portato a noi, quasi in ogni luogo in cui siamo stati, pochissimi ne >tbbiamo trovati a cui potesse commettersi l'esercizio delle gravi importantissime incombenze che sono proprie del loro Sagra e divino carattere» 34 • Davanti a questa gravissima carenza, in mons. Ventimiglia si radica più profondamente la convinzione che la scelta dei «cooperatori» del suo ministero debba essere fatta «colla più esatta diligenza». E pertanto, affinché egli possa esercitare questo delicato discernimento, ribadisce che i futuri sacri ministeri dovranno formarsi nel seminario diocesano: <<sotto i nostri occhi» 35 , scrive, usando la stessa plastica immagine dell'editto precedente. Dopo questa premessa, nell'editto citato, troviamo che Ventimiglia delinea innanzitutto un modello di prete, e in relazione a tale ideale passa, quindi, a esporre gli scopi educativi essenziali del seminario. Riferendosi, poi, a questi parametri, egli rende noto il nuovo curriculum degli studi che viene instaurato nel seminario di Catania, elencando le varie discipline che ivi saranno insegna te. Le sanzioni disciplinari, contenute nell'editto, ·contro coloro
" AcA, E 1752-1761, 6lr. 3s
L. c.
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ohe non si atterranno aUa nuova normativa stabilita, sono strettamente collegate con l'intelaiatura generale del piano educativo formulato da mons. Ventimiglia. 1.
Il modello di prete nel progetto educativo del seminario
Il prete ideale, secondo il nostro editto, deve essere proteso con tutte le sue energie ad «edificare il Mi>stico Corpo di Gesù Cristo»
36
•
Affinché tale scopo sia realizzato i sacerdoti devono, innanzitutto, condurre una vita .santa, informata da un'ardente «Carità». Tale «santità» dovrà manifestarsi con il linguaggio concreto ed efficace dello «esempio», la cui forza è capace di edificare la gente. Ma tutto ciò implica uno stile di vita, distaccato da altri fini (materiali ed economici), che non coincidano con il vero bene del popolo di Dio 37 • Queste caratteristiche, adesso delineate, però, secondo Ventimiglia, devono essere coniugate con una solida cultura. I preti, infatti, devono risplendere tra la gente sia per la santità della loro vita, come anche «col lume di lor dottrina» 38 . Il prete, quindi, deve essere un uomo di santità e di cultura. In base a questo modello di vita sacerdotale, il ves>eovo struttura i percorsi educativi e puntualizza le mete pedagogiche del suo seminario. Durante il periodo della formazione seminaristica, i candidati al sacerdozio dovranno, in primo luogo, «distaccarsi dallo spirito del mondo» 39 , dovranno, cioè, acquisire una nuova mentalità, conforme allo spirito evangelico e coerente con la missione che un giorno saranno chiamati a svolgere, così da essere «1pastori secon•do il cuore di Dio» 40 • Per raggiungere questo scopo sarà necessario che i semina-
36 L. c. " Vd. I. c. Js L. c. 39 Ibid., 61v . ., Ibid., 61r.
11 seminario durante l'episcopato Ventimiglia
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risti si nutrano costantemente "delle parole della fede» 41 , e le as,similino. Il seminario, inoltre, si propone di guidare i chierici ad acquisire una profonda familiarità con le grandi verità del cristianesimo; e ciò non solo in vista della maturazione interiore individuale, ma anche nella prospettiva del ministero, che essi dovranno svolgere a favore del popolo di Dio. Nell'editto, infatti, 1E1ggiamo che i seminaristi devono «rendersi familiari quelle gran verità che devono un giorno insegnare agl'altri» 42 • Per attuare il suo progetto di rinnovamento, Ventimiglia, in primo luogo, si preoccUJpa di scegliere per il seminario dei superiori all'altezza del difficile compito educativo. Nella relazione ad limina del 1762, il Nostro scriverà che ha nominato rettore del seminario un uomo molto ten·ace e <<severioris disciplinae», e che ha posto come direttore spirituale un valido predicatore di esercizi spirituali, che aveva avuto esperienza ·pastorale in cura d'anime 43 . Dalla stessa relazione, sappiamo che le mete educative, proposte da Ventimiglia nell'editto, erano conseguite attraverso l'articolazione della vita spirituale del seminario, scandita con ritmi quotidiani, settimanali, mensili e annuali. Infatti: ogni giorno, nella cappella del seminario, i chierici partecipavano alla messa, alle preghiere comuni, alla meditazione del mattino, all'esame di coscienza serale. Inoltre, i chierici maggiori recitavano in comune l'ufficio divino; ogni settimana si tenevano lezioni sul catechismo eca clesiastico; ogni mese si svolgeva il ritiro spirituale di una giornata; ogni anno erano previsti 8 giorni di esercizi spirituali 44 • Tornando adesso all'editto del 1759, troviamo che il vescovo, infine, sottolinea che il supporto della formazione seminaristica è costituito da una salda e sana cultura teologica. Pertanto, i
41
Ibid., 61v.
42
L. c. Vd. Asv, Relazione "ad limina", Catania B 1762, 13r. Vd. 1. c.
43
44
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chierici dovranno «acquistar la sana dottrina e la Scienza ecde·siastica» 45 • Quindi, sinteticamente, gli scopi educativi del seminario si pos,sono articolare nel seguente modo: a) distaccare il seminarista dalla mentalità mondana (e nel '700 ciò costituiva già un arduo compito); ciò sarebbe avvenuto attraverso il nutrimento continuo della Parola di Dio; b) trasmettere al seminarista una solida conoscenza del patrimonio della fede, che domani avrebbe dovuto insegnare ai fedeli; c) offrire una sicura e sana conoscenza teologica, capace di affrontare gli assalti del razionalismo illuministico e di superare gli sbandamenti eterodossi. Posto a confronto con queste mete educative, ]'aspirante al sacerdozio sarebbe stato vagliato nella genuinità della sua vocazione. E infatti dobbiamo rilevare che, ultimamente, ciò che fa da sfondo alla necessità della residenza in seminario è il bisogno di provare la vocazione. Perciò il candidato non può ridurre la sua es,perienza seminaristica a un breve e irrisorio spazio di tempo. In tal modo si spiega il rammarico di Ventimiglia verso coloro i quali rendevano «infruttuose» le sue premure, protese a ristabilire e riformare il seminario. Il vescovo, infatti, aveva constatato che molti vanificavano il senso del suo primo editto, tentando, con i loro ingegnosi artifici, di limitare il loro ingresso in seminario soltanto a «pochi mesi prima del!' ordinazione» 46 . Ma Ventimiglia si chiede: «com'è possibile che basti un sì corto spazio di tempo a provare il merito di coloro che son chiamati a funzioni sì grandi e sì sublimi [ ... ] ? » 41 • J\!on solo, ma in un arco di tempo brevissimo è anche impossibile che i seminaristi maturino gli ideali di vita sacerdotale sopra descritti.
46
AcA, E 1752-1761, 6lv. L. c.
41
L. c.
45
Il seminario durante l'episcopato Ventimiglia
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Ecco, allora, che il nuovo editto chiarisce e puntualizza che
il periodo di tempo da trascorrere in seminario è di IO anni 48 • E infatti, Ventimiglia, dichiarando di volersi conformare alla pra:ssi della Chiesa antica, alla mens del Concilio di Trento e all'esempio di S. Carlo Borromeo e di altri santi vescovi, pres<crive che i candidati al sacerdozio dovranno «passare la intiera loro adolescenza nel Vescovi! Seminario, e compiersi indispensabilmente il corso di dieci anni» 49 • Emerge, così, chiaramente, la preoccupazione pedagogica secondo la quale i germi della vocazione devono essere coltivati sin «dalla prima e 'Più tenera età» 50 , in un luogo ::>datto. Il seminario :pertanto sarà strutturato come istituzione educativa, chiusa e separata dal mondo, capace di creare un'atmosfera favorevole al corretto sviluppo vocazionale. L'età dell'ingresso in seminario e dell'inizio del curriculum degli studi, necessari per arrivare al sacerdozio, è fìs-sata a 14 anni. Così il candidato giungerà all'ordinazione presbiterale all'età prescritta dai canoni tridentini (cioè 24 anni). Mons. Ventimiglia dichiara, con fermezza, che coloro i quali non si atterranno alle nuove dis posizioni saranno rigorosamente esclusi dall'ammissione agli ordini sia sacri che minori e, ovviamente, da ogni beneficio 51 • Tale regola generale, però, si articola in maniera eccezionale per chi ha superato il quattordicesimo anno di età e per coloro che sono stati già ordinati in sacris. Infatti, in questo primo periodo di applicazione della nuova legge, i giovani candidati, di età superiore ai 14 anni, avrebbero dovuto presentare una domanda ai rispettivi vi·cari foranei o al rettore del seminario di Catania, e, dopo le feste natalizie, sarebbero stati esaminati «diligentemente» dallo stesso vescovo, «intorno alla loro vocazione e a' loro talenti» 52 • 1
" Vd. ibid., 62r. L. c. so Jbid., 6lv. 51 Vd. ibid., 6lr. si Vd. ibid., 62v. 49
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Piero Sapienza
Il vescovo avrebbe accolto in seminario soltanto coloro che avrebbe ,ritenuti «capaci e idonei» 53 e, secondo il loro grado di preparazione culturale, li avrebbe ammessi alla frequenza delle varie classi scolastiche. La seconda deroga alle disposizioni generali dell'editto riguanda coloro che già sono stati ordinati suddia·coni o -diaconi. Per costoro Ventimiglia si limita a stabilire che trascorrano «nel Seminario un semestre» -"4 , secon1do la con·suetudine vigente. Alla fine di tale periodo, essi «potranno presentarsi all'esame ne' soliti tempi delle Sagre Ordinazioni» 15 • Il vescovo ha la chiara consapevolezza che la sua nuova normativa sul seminario apparirà «dura» a molti degli interessati 56 , .perché contrasta con una comoda prassi molto diffusa. Ma egli, "fidando l'impopolarità, ribadisce che la scelta dei sacri ministri va fatta con estrema oculatezza, perché è in gioco «la santificazione e la salute di tutto il Popolo» 57 • E' questo valore pastorale l'orizzonte ultimo sul quale si deve collocare l'azione educativa di Ventimiglia e la sua viva e ferma decisione .di rinnovare e rinvigorire il seminario, senza cedere alla facile indulgenza e alla superficialità, elementi, questi, che .generano i «gravissimi disordini» 58 111orali e spirituali, di cui già il Nostro aveva avuto esperienza visitando la sua vasta diocesi. Ed è sempre per un fine squisitamente pastorale, e cioè per «il vantaggio spirituale del gregge» 19 , che Ventimiglia decide di esaminare personalmente gli aspiranti agli ordini, anche a costo di sobbarcarsi una grande mole di lavoro. Ma egli dichiara di affrontare «volentieri» la ((fatica indispe11sabile .de' tanti esami» 60 , perché ritiene suo preciso dovere rendersi conto, in modo diretto, della retta intenzione e delle capacità dei candidati.
s3
L. c.
Ibid., 63r. ss L. c. " Vd. I. c. 51 L. c. 54
5s
L. c.
59
L. c.
60
L, c.
Il seminario durante 1'episcopato Ventimiglia
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Dobbiamo rilevare che Ventimiglia spesso ribadisce la sua responsabilità educativa nei confronti del seminario. Egli, infatti, aveva potuto constatare che all'origine dei molti mali, allignati nell'istituto catanese, c'era stata, tra l'altro, la grave negligenza del vescovo Galletti. Nella relazione del 1762, Ventimiglia scrive che, al suo arrivo in diocesi, aveva dovuto prendere atto che in ·seminario erano stati trascurati non solo gli studi e la disciplina, ma anche la stessa vita di pietà 61 • Ventimiglia, quindi, sa bene che, se vuol dare alla Chiesa locale un clero all'altezza dei suoi compiti, deve assumersi le sue responsabilità di primo formatore, sin dall'iniziale discernimento vocazionale, senza delegare altri per un compito così delicato. 2.
Il nuovo ordinamento degli studi
L'editto del 1759 ci offre uno spaccato del rinnovamento culturale propugnato da Ventimiglia nel seminario di Catania. Innanzitutto sappiamo come erano strutturati gli studi nel corso dei dieci anni sopra ricordati: a) due anni di grammatica; b) due anni di lettere umane; c) due anni. di filosofia; d) quattro anni di teologia 62 • Questo schema di ratio studiorum non differisce da altri, in uso presso i seminari europei, e ricalca quello dei gesuiti 63 • Secondo Ventimiglia, tutti i seminaristi, senza alcuna distinzione o discriminazione, avrebbero dovuto percorrere questo iter scolastico. Il prete, quindi, ·'doveva uscire dal seminario con un bagaglio culturale all'altezza del secolo dei lumi. Sappiamo, però, che, in linea di principio, ciò non avveniva in altre diocesi, dove spesso si prevedeva per i futuri sacerdoti una carriera scolastica diversificata, a seconda delle loro doti in-
61 Vd. Asv, Relazione "ad limina", Catania B 1762, 12r. " Vd. AcA, E 1752-1761, 62r. 63 Cfr. Ratio atque institu.tio studiorum societatis Jesu, Feltrinelli, Mi~ !ano 1979.
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tellettuali, e in funzione dei compiti e delle mansioni che in seguito avrebbero dovuto svolgere"Per quanto riguarda la verifica del profitto degli studi, l'editto prevedeva che gli studenti sostenessero esami finali annuali. A questi esami, condotti dai rispettivi professori, avrebbe assistito, per i medesimi motivi sopra accennati, lo stesso vescovo, il quale, per l'ammissione agli ordini, avrebbe valutato non solo la preparazione culturale del candidato, ma anche la sua condotta, se conforme o meno ai regolamenti del seminario 65 • Durante la loro carriera scolastica, i seminaristi catanesi avrebbero dovuto studiare le seguenti discipline: I. le lingue dotte (latino e greco); 2. la storia della Religione; 3. l'eloquenza cristiana; 4. la morale; 5. le istituzioni di diritto canonico e civile; 6. il computo ecclesiastico; 7. il canto corale; 8. i riti e le cerimonie della Chiesa "Il vescovo Ventimiglia vuole che nel suo seminario siano formati preti culturalmente preparati, oltre che santi (come già ricordato). Pertanto nella ratio studiorum del seminario egli prevede, oltre alle discipline sopra elencate, l'introduzione di eventuali altri insegnamenti, utili alla cultura e al ministero di «Un degno ecclesiastico» 67 , capace di essere un interlocutore qualificato per gli uomini .del suo tempo. A tal proposito os·serviamo che mons. Ventimiglia, pur dando una impostazione classica agli studi seminaristici, tuttavia operò, contemporaneamente, un'apertura alle istanze della nuova
64 Cfr. M. GuASCo, art. cit., 651. 673-674. Per quanto riguarda il sen1inario di Catania, notiamo che gli ideali culturali, promossi da 1nons. Ventimiglia, furono recepiti nelle regole pron1ulgate dal vescovo Moncada nel 1788 (vd. P. SIPTENZ.I. S. CONSOLI, al"f. cit., 118). 65 Vd. AcA, E 1752-1761, 62r. Non sappiamo quali fossero le regole in vigore nel se111inario catanese durante il periodo che stiamo esa1ninando. Non risulta che Ventimiglia abbia pubblicato delle nuove norn1e, anche se ciò sembra strano, dato il suo i1npegnativo progetto di rifor1na del sc1ninario (sui regolamenti dcl seminario di Catania, dalla fondazione fino al 1788, vd. P. SAPlENZA - S. Co:-.<sOLI, art. cii., 95-96). 66 Vd. AcA, E 1752-1761, 62r. 67
L. c.
Il seminario durante l'episcopato Venlimiglia
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cultura scientifica come si andava delineando sotto le spinte illuministiche. Infatti egli provvide, innanzitutto, al rinnovamento culturale e didattico del seminario in modo globale, favorendo l'introduzione di «Un metodo di studi più ordinato e adatto ai tempi» 68 , e, allo stes·so tempo, istituendo nuovi corsi «·di scienze esatte e naturali» 69 , oltre a quelli «di algebra» e <<di geometria» 70 • In tal modo Ventimiglia attuava quanto De Ciocchis aveva raccon1an dato durante la sua visita, e cioè che in seminario si tenessero «lectiones geometriac», e che venissero rinnovati «studia vero physica [ ... ] ,, "Inoltre, affinché gli studi scientifici venissero condotti secondo il metodo sperimentale, che sempre più si andava affermando, mons. Ventimiglia non esitò a far acquistare per le scuole del seminario gli strumenti necessari allo scopo: «lnachine di fisica - scrive Ferrara - furono fatte venire, e da quell'angolo remoto di Europa colla evidenza dello sperimento si fu a parte del metodo con il quale il secolo cominciò a studiare le leggi dei corpi» 72 • 1
Un corpo docente quafr(ìcato
3.
La ristrutturazione del piano di studi, però, sarebbe stata vana, se non si fosse [?rovveduto a coslituil'L' un collegio di docenti ben qualificato per il delicato compito educativo da svolgere. Pertanto, nell'editto del 1759, il vescovo Ventimiglia promette che chiamerà ad insegnare nel suo scn1inario «abili e dotti Professori» D. Noi sappian10 che questa pron1essa fu n1antcnuta. Infatti, durante l'episcopato vcntimiliano, il scn1inario di Caos P. CAsro1u-..;A, op. cii., XIV. L. c. iO F. FERRAR-\, op. cit., 241. 11 G. A. DE C1occH1s, up. cìt., 194. n F. FERRAR:\, op. cit., 241. 73 AcA, E 1752-1761, 62r. 69
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tania poté contare su un coDpo docente veramente rinomato. Fu scritto, in seguito, che il vescovo vi ({chiamò a precettori ,uomini sommi ed esteri e nazionali [ ... ] ,, 74 • Tra gli altri ricordiamo: p. Alessandro Bandiera di Siena: professore di eloquenza; p. M. Agostino Corsaro o.p.; p. M. Ludovico Marullo o.p.; can. GiannAgostino De' Cosmi: oltre all'insegnamento, ebbe la ·direzione nello studio delle lettere e delle scienze; don Leonardo Gambino: chiamato da Palermo a Catania. Insegnò matematica e filosofia; sac. Giuseppe Sciacca: professore di retorica; sac. Raimondo Platania: contestatore del metodo di insegnamento in vigore presso le scuole dei gesuiti 75 ; sac. Sebastiano Zappalà-Grasso: professore di greco, latino e italiano. Fu anche direttore della tipografia del seminario (sul lavoro didattico di questo docente ci soffermeremo più avanti).
4.
Le nuove scuole del seminario
Infine, sempre a proposito della riforma scolastica, nell'editto citato troviamo una novità. Mons. Ventimiglia, in modo categorico, afferma che tutti i candidati al sacerdozio hanno l'obbligo di frequentare le scuole del seminario diocesano. E, pertanto, non saranno riconosciuti validi analoghi studi ecclesiastici, compiuti «in alcun altra Scuola o seminario» 76 • Si tratta di una presa di posizione innovativa perché, dalle notizie trasmesse nella già citata visita di De Ciocchis, sappiamo che per l'ammissione al chiericato ci si limitava a prescrivere un biennio di studi, compiuti in un seminario qualsiasi. 74 F. STRANO, c~atalogo ragionato della biblioteca ventiiniliana, Tip. della R. Università degli Studi, Catania 1830, V. Nel 1762 Ventimiglia scriveva di aver chiamato a insegnare nel suo scininario professori da Palermo ({atque etiam ex Italia» (vd. Asv, Relazione "ad lin1ina", Catania B 1762, 13r.). 75 Vd. F. STRANO, op. cit., V. In particolare, per qu('.tnto riguarda Pla· tania troviamo che Scinà scrive: <(Non è a tacersi che il Platania era avverso al metodo d'insegnamento tenuto in Catania dai pp. Gesuiti, cui egli sempre resistette e spesso vinse e battè)) (D. ScINÀ, op. cit., 437-438). '' AcA, E 1752-1761, 62r.
Il seminario durante /'episcopato Ventimiglia
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Ma per i motivi già più volte accennati, e cioè affinché Ventimiglia potesse seguire da vicino le varie fasi della formazione dei seminaristi e rendersi conto della genuinità della loro vocazione, allo scopo, quindi, di scegliere con «la più cautelosa diligenza [ ... ] i Ministri del Signore» 77 , i chierici, d'ora innanzi, avrebbero dovuto risiedere nel seminario vescovile, non solo per la formazione spirituale, ma anche per quella culturale. Anche questo progetto fu realizzato. Sappiamo, infatti, che Ventimiglia «stabilì» nel Seminario «scuole proprie di cui prima mancava [ ... ] » 78 • Bisogna, inoltre, rilevare che tali scuole, già nel breve arco di tempo (15 anni), dell'episcopato di Ventimiglia, raggiunsero un notevole splendore, tanto che l'impulso culturale che aveva dinamizzato il seminario ventimiliano fu a lungo riconosciuto e apprezzato, con termini lusinghieri: «Nel Seminario dei Chierici si formò una famosa scuola di scienze ecclesiastiche, di letteratura claossica greca, latina ed italiana» 79 ; da tale scuola usd· rono, nella seconda metà del Settecento, «i più distinti letterati e gli scienziati più famosi, da' quali vennero istituiti i migliori intelletti del nostro secolo [ ... ] » 80 •
Ampliamento del!' edificio
5.
Ventimiglia con le sue iniziative di riforma aveva voluto restituire al semi,nario la sua funzione educativa, s-ia mora1e che culturale. Ma ciò comportava anche dei problemi logistici. Infatti, prescrivere ai chierici la residenza obbligatoria in seminario, protratta, fra l'altro, per un decennio, e l'avervi stabilito scuole interne, significava affrontare anche un impegno di ampliamento e di ristrutturazione dei locali del seminario.
77 78 79
'°
Ibid., 63r. F. STRANO, op. cit., V. P. CASTORINA, op. cit., XII. Ibid., IV.
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Ma anche davanti a questi non lievi problemi, con i loro pesanti riflessi economici, Ventimiglia non indietreggia. A questo punto è opportuno tratteggiare qualche breve cenno storico. L'edificio del seminario era andato distrutto, come del resto quasi tutta la città di Catania, e ridotto a un cumulo di macerie nel terremoto del 9 gennaio 1693. Un cronista del tempo, Privitera, così scrive: « [ ... ] nel con1u·ne eccidio si rovinò il celebre seminario seppellendovi sotto le pietre molti alunni convittori. Erano tutti 28 ne morirono 21, ne restarono 7» 81 • Dopo alterne vicende, finalmente, i locali per la costruzione del nuovo seminario furono reperiti in un'ala del distrutto episcopio, ceduto dal vescovo Riggfo, dietro richiesta della deputazione del seminario. E così, il 21 ottobre 1706, fu posta la prima pietra del nuovo edificio «al cantone che fa la strada Uzeda» 81 • L'opera è dell'architetto Alonzo Di Benedetto, ma nel periodo che stiamo esaminan,do non era stata ancora portata a termine. Ventimiglia, pertanto, si occupò anche della fabbrica del seminario, facendo sì che fosse completata e abbellita 83 . E anche in questa direzione egli manifestò la sua attenzione e il suo amore verso il seminario, dando con munificenza il proprio denaro per portare avanti i lavori necessari: «a sue spese - scrive Ferrara - accrebbe del doppio le stanze per contenere gli alunni [ ... ],, "-
81
F.
PRIVlTERA,
DoloroS(/ tragedia, Catania 1695, 65.
( :::_· AsA), La fondaz.ione del Se111inario di Catania, e i suoi benefattori. con le scritture concernenti alle tasse e ritasse, editti, destinazioni di delegati e co1111nissarii, stabili111enti, aggravii et altre, f. XXII v. R3 Ventin1iglia, nella citata relazione del 1762, scrive di aver provveduto non solo ad a111pliare i locali del seminario, ina anche a renderli <(elegan6ores>} (Asv, Relazione "ad lilnina", Catania B 1762, 13v.). Il successore di Ventimiglia; C.M.D. dc Moncada, arrivando a Catania, nell'editto del 30 settembre 1773, esprimerà il suo pieno con1piacirnento per aver trovato «in ottimo stato>i il scn1inario dei chierici, sia dal punto di vista spirituale e culturale, sia «in rapporto al temporale delle fabbriche e degli introiti [ ... ]» (AcA, E 1769·1776, 44r). 84 F. FERRARA, op. cit., 242.
R2 CATANIA.
ARCllI\110 Sn:rv!INi\RIO ARCTVESCOVTLE
Il seminario durante l'episcopato Ventimiglia 6.
351
Primi esiti della riforma ventimiliana
Gli esiti del globale rinnovamento pedagogico del seminario promosso da mons. Ventimiglia, a lunga scadenza (almeno alla fine di un ciclo formativo), furono quelli positivi, sopra abbozzati, con conseguenze benefiche anche sul piano pastorale, come vedremo subito. Ma quasi certamente, specialmente all'inizio, tra i chierici vi saranno state delle resistenze all'opera riformatrice voluta dal vescovo. Ciò, d'altronde, era stato previsto dallo stesso vescovo nel suo editto 85 • E comunque, essendo i mali del clero catanese antichi e ben radicati, i frutti della riforma ventimiliana non si sarebbero potuti raccogliere immediatamente. Infatti, appena tre anni dopo l'emanazione dell'editto del 1759, nella relatio ad limina del 1762, mons. Ventimiglia presenta un quadro piuttosto fosco della situazione dcl suo clero diocesano, ancora simile a q,uanto egli stesso aveva accennato, con forte pennellata, in apertura dello stesso editto 86 • I sacerdoti, tali solo di nome, sottolineava il vescovo, erano n·umerosi (esem1pio: a Viagrande, paesino vicino Catania, vi era,no 60 sacerdoti per 600 abitanti). Questi preti speravano nelle elemosine dei fedeli, date in occasione della celebrazione di messe, per mantenersi economicamente. Ma poiché ciò accadeva raramente, leggiamo ancora nella relazione, essi svolgevano i più svariati lavori per conto ·di laici: custodi di vigne o di campi, doganieri, esattori d'im1poste, e ad.dirittura <<armati» si prestavano a far da gua~dia del conpo a chi viaggiava. I più fortunati, poi, si dedicavano a piccoli affari, alla caccia, oppure rimanevano in ozio. Il clero catanese, globalmente preso, veniva descritto da Ventimiglia, come ignorante, litigioso, indisciplinato, immorale 87 • Questa grave decadenza morale e culturale del clero aveva avuto come conseguenza l'abbandono dell'impegno catechetico e ss Vd. AcA, E 1752-1761, 63r. 86 Vd. Asv, Relazione "ad limina", Catania B 1762, 11v e ss. E' necessario, però, notare che in questa relazione affiorano motivi di speranza per una futura ripresa. Uno di questi motivi Ventimiglia lo individua nell'avvio della riforma del seminario (vd. Asv, ibid., 13r). " V d. ibid., 11 v - 12r.
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Piero Sapienza
pastorale. Nella relazione, infatti, il vescovo scriveva che aveva trovato fanciulli e giovani che ignoravano i prindpi fondamentali della fede o che avevano solo qualche vaga notizia di Dio e del Salvatore. E la causa di tale ignoranza religiosa, accompagnata da una cattiva condotta, veniva denunciata in modo lapidario: «obmutescentib·us pastoribus» 88 • Ma il giudizio di Ventimiglia, a proposito dell'istruzione religiosa popolare, diventa nettamente positivo nell'editto del 21 settembre 1769. In questo documento viene affrontato il problema della catechesi da trasmettere in diocesi, attraverso i canali parrocchiali. Notiamo che sono passati esattamente dieci anni dall'emanazione del secondo editto sul seminario (2 settembre 1759). Nel nuovo documento il vescovo può constatare che il suo impegno per la promozione della catechesi, trasmessa per mezzo del suo Compendio della Dottrina Cristiana 89 , usato nella Chiesa catanese, è stato «benedetto» ed è «prosperato». Infatti Ventimiglia riconosce di aver «ispirato un santo zelo non solo a Reverendi Parochi e Curati [ ... ] m'ancora a tutti i Sacerdoti, ed Ecclesiastici», i quali hanno collaborato alla diffusione capillare dell'istruzione religiosa tra il popolo 90 • Questo lavoro pastorale, svolto dal clero, aveva trovato ampia corrispondenza tra il popolo, il quale andava sempre più maniifestan·do {<una viva e andente brama di im·parare» la dottrina cristiana e «di istruirsi ne' doveri .del cristianesimo)) 91 • Quanto sopra testimoniato dallo stesso Ventimiglia, denota un netto mutamento del quadro della Chiesa catanese: adesso i sacerdoti sono coinvolti nell'opera di rinnovamento pastorale,
ss Jbid., lSr. S. VENTli\iffGLIA, Co1npendio della Dottrina Cristiana ricavato d(/l Catechis1no ron1ano e disposto in lingua siciliana, ad uso della diocesi di Catania, Bentivegna, Palermo 1761. Sull'uso dei catechismi dialettali in Sicilia durante il secolo XVIII, vd. G. DI FAZIO, Vescovi riforn1atori e cristianizzazione della società nella Sicilia del settecento, in Synaxis 2 (1984) 89
447-472. 90 ACA, E 1769-1776. 91 L. c.
TOL
N
Il seminario durante /'episcopato Ventimiglia
353
promossa dal loro vescovo, e sono impegnati attivamente nella catechesi; pertanto, anche il tenore di vita spirituale dei fedeli appare più elevato. Si può allora, a nostro avviso, affermare che, a dieci anni dall'avvio della riforma del seminario, mons. Ventimiglia cominciava a raccogliere, sul versante della vita pastorale, i primi positivi frutti, sintomi dell'attività di un clero formato nel nuovo contesto morale, spirituale e culturale che era stato creato nel seminario catanese.
III. L'ULTIMO EDITTO SUL SEMINARIO: 1770
Il terzo editto sul seminario vescovile di Catania fu emanato da Ventimiglia il 29 agosto 1770. In questo nuovo documento, il vescovo affronta due problemi. Uno di ordine disciplinare e l'altro di ordine scolasticodidattico.
I.
Le vacanze in famiglia
Con la prima questione, l'editto ci conferma nell'ipotesi, sopra formulata, della concezione pedagogica che stava alla base della vita seminaristica e ci apre uno spiraglio sugli eventuali "incidenti di percorso". Gli alunni del seminario catanese, al tempo di Ventimiglia, trascorrevano due mesi di vacanze in famiglia. Il vescovo, però, ad un certo punto ha dovuto prendere atto che, durnnte questo periodo, vissuto fuori del seminario, i chierici disperdevano quanto acquisito nel corso dell'anno scolastico, sia nello studio coine nella pietà: "[ ... ] nel lungo spazio di due mesi di vacanze,f.~he è stato solito ad accordarsi nel nostro Seminario Vescovile,>si sono i Chierici per la maggior parte alienati dagli studj e raffreddati nel loro fervore da quello spirito, con cui camminavano le Strade del Signore [ ... ] ,, 92 •
" Jbid., llr.
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Piero Sapienza
Pertanto, davanti a una situazione così incresciosa, mo,ns. Ventimiglia decide di abolire completamente le vacanze in famiglia: « [ ... ] abbiamo proposto di togliere affatto le suddette vacanze [ ... ] » 93 . In via eccezionale, egli è disposto «a concederne venti giorni», soltanto a coloro «che saranno richiesti da lor Parenti» 94 • E ciò no·n avverrà in maniera indiscriminata, ma secondo un piano articolato che il rettore del seminario stabilirà ogni anno per ciascuna cla,sse 95 • Dalle constatazioni fatte da Ventimiglia e dalle decisioni adottate in proposito, emerge che il seminario catanese era strutturato come istituzione educativa separata dal mondo, dove la vita del seminarista veniva programmata minutamente e seguita con vigilante attenzione dai superiori. Questo tipo di impostazione pedagogica, però, se da un lato poteva conseguire esiti positivi (come abbiamo notato sopra per il rinnovamento culturale e morale), d'altra parte, specialmente durante il delicato periodo giovanile della formazione, poteva produrre una certa incapacità all'autocontrollo. E infatti il chierico non riusciva a gestire la propria vita e gli impegni seminaristici, durante il tempo di vacanze, trascorso al di fuori degli schemi della vita comune del seminario. Dall'editto, quindi, si evince che il prolungato e continuo contatto con il mondo esterno nei due mesi estivi, insieme alla mancanza di un vigilante e diretto controllo esercitato dai superiori, come avveniva in seminario, erano stati sufficienti a far saltare quanto edificato durante il corso dell'anno, e a far sì che i chierici non si attenessero alle indicazioni disciplinari e ai regolamenti stabiliti per le vacanze"·
L. c. L. c. " Vd. 1. c. 96 Vd. l. c. Non sappiamo quali fossero le norme che regolavano la vita del seminarista catanese in vacanza. Tuttavia da una lettera inviata da mons. Ventimiglia a fr. Rosario Campione dell'eremo di S. Anna in Valverde, possiamo avere qualche idea. Nella suddetta lettera il vescovo chiede informazioni sul chierico G. Ferlito di Acicatena, prima di ammetterlo agli ordini sacri. A proposito della sua «condotta in tempo delle 93
94
Il seminario durante l'episcopato Ventimiglia
355
E' opportuno notare, però, che la concezione educativa, sopra accennata, non era esclusivamente tipica del seminario di Catania, ma costituiva un modello pedagogico comune alla maggior parte dei seminari europei che, a loro volta, si rifacevano, per taluni aspetti, alla matrice dei collegi gesuiti 97 •
Innovazioni metodologiche nei corsi di grammatica
2.
Oltre a questa delicata questione disdplinare che, come abbiamo osservato, denotava sia lo stile di vita che il seminarista conduceva durante le vacanze, sia il modello pedagogico al qual~ si ispirava la formazione morale e disciplinare trnsmessa in seminario, nell'editto si affronta un aspetto di un particolare problema metodologico~di.dattico che, a nostro avviso, merita particolare rilievo, perché ci svela alcuni tratti della fiorente vita culturale del seminario ventimiliano. Si tratta, cioè, di «una nuova Grammatica delle due lingue Latina ed Italiana»'", fatta compilare e stampare dietro espressa richiesta del vescovo. Ventimiglia, infatti, vuole che in tutta la diocesi le scuole di grammatica, dipendenti dall'autorità ecclesiastica, adottino «lo stesso metodo d'insegnare j princìpj delle belle lettere» 99 , uniformandosi ai criteri didattici già sperimentati e seguiti nel seminario dei chierici 100 • Lo scopo di questo provvedimento episcopale è duplice. In primo luogo, si mira al conseguimento di un rapido e
ultime vacanze)), Ventimiglia domanda: «se abbia vestito abito talare, fre· quentato i sagramenti, se abbia fuggito il giuoco caccia, ed altre vanità, e se siasi in sostanza fatto conoscere esemplare, e di edificazione in tutti i suoi andamenti!>. La lettera porta la data del 12 marzo 1770. Quindi è anteriore di cinque mesi al nostro editto. La lettera è citata in G. Dr FAzro, Il grande inquisitore e l'eren1ita. Docun1enti per una storia sociale e reli· giosa della Sicilia nel settecento, in Synaxis 1 (1983) 274. 97 Cfr. M. Gu'.l\.sco, art. cit., 640 ss. 98 AcA, E 1769-1776, l lr. 99
L. c. ioo Vd. I. c.
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«felice progresso» 101 degli studi letterari in tutta la diocesi. Ventimiglia, infatti, è persuaso che la nuova metodologia, proposta nella grammatica, sarebbe stata più adatta a infondere negli studenti il «gusto delle lettere» 101 , come già accadeva in semi~ nario. Inoltre, se tutti i professori delle scuole soggette alla giurisdizione vescovile avessero adottato la stessa grammatica, seguendone il metodo didattico proposto, allora, la formazione letteraria di base sarebbe stata uniforme per tutti gli allievi della diocesi. Ciò avrebbe pcrn1esso di raggiungere il secondo obiettivo a cui mirava questa iniziativa, cioè, con1e s~rivc il vescovo, che: «Ì figliuoli che per l'avvenire entreranno in Sen1inario venissero con quelli stessi lumi, co' quali alleviamo i nostri Chierici» 103 • In tal .modo, questi giovani alunni avrebbero potuto agevolmente inserirsi nelle varie classi del sen1inario, trovandovi una continuità metodologica. L'autore della grammatica di cui parla l'editto, è il sacerdote Sebastiano Zappalà-Grasso '°4 , il cui nome abbiamo elencato nelle pagine precedenti insieme a quello di altri professori che, nel perio,Jo ventìmiliano, resero famoso il sen1inario di Catania. Zappalà insegnava nel scn1inario dci chierici greco, latino e italiano. Il nuovo testo di grammatica, stampato nella tipografia dcl seminario di Catania nel 1770, pubblicato in due volumi, era intitolato: Cento lezioni che contengono le regole grammaticali
delle due lingue Latina ed Italiana !O!
fbid., 1 lv.
102
lbid., llr.
105
•
Jbid., llv, Sebastiano Zappalà- Grasso nacque a Catania il 3 marzo 1738. Insegnò greco, latino e italiano nel seminario vescovile di Catania e fu direttore della tipografia ivi fondata da n1ons. Ventimiglia. Fu docente di diritto canonico presso l'università cli Catania. Nel 1800 fu vicario generale della diocesi. Nel 1803 gli fu affidata la direzione delle regie scuole norinali. Morì a Catania il 16 diccn1bre 1820 (cfr. P. CASTORTNA, op. cii., 168). 10s S. ZAPPALA - GRASSO, Cento fez.ioni che contengono le regole gram1naticali delle due lingue Lc1ri11c1 ed Italiana. Ad uso del seminario di Catania, 2 voll. nelle stampe del Seminario, Catania 1770. l03
104
Il seminario durante lepiscopato Ventimiglia
357
Nell'introduzione, l'autore stesso sottolinea che egli ha composto queste regole grammaticali «&d uso del seminario [ ... ] per autorevole comando di Monsignor nostro Vescovo Salvator Ventimiglia [ ... ] » e, riecheggiando quasi le stesse parole dell'editto sopra citato, ricorda che «per suo (del vescovo) ordine si deggiono in tutte le scuole della nostra Diocesi con metodo uniforme . [ .. .l » 106 . insegnare Prima di esaminare il taglio metodologico di quest'opera, bisogna precisare che essa rientrava nel più ampio piano di rinnovamento didattico e culturale, che Ventimiglia andava promuoven.do nel seminario w7 • Bisogna sottolineare, inoltre, che tali innovazioni metodologiche riguardavano non solo le discipline umanistiche e teologiche, ma anche quelle scientifiche (al cui metodo d'insegnamento abbiamo accennato nelle pagine precedenti). Tornando adesso al testo scolastico citato nell'editto del 1770, notiamo che la grammatica di Zappalà era divisa in due parti, perché il suo studio era programmato per i due anni dei corsi grammaticali, previsti nel curriculum studiorum del seminario 108 • Secondo ]'impostazione didattica proposta da Zappalà, l'insegnante avrebbe dovuto svolgere cinquanta lezioni all'anno; a sua voi ta, per ogni lezione era prevista una spiegazione, che si protraeva lungo l'arco di una settimana 109 La prima novità metodologica che riscontriamo nell'opera consiste nel fatto che tratta non solo delle regole grammaticali latine ma, contemporaneamente, quasi sinotticamente, anche di quelle italiane: ((con pari passo» 110 • L'autore, infatti, sostiene che, senza trascurare lo studio del latino, bisogna tuttavia valorizzare la lingua italiana, «la quale è stata per l'addietro messa in non cale» lll, come se fosse poco necessaria e senza importanza. c·on questa osservazione, da u11 Jbid., III. Cfr. P. CASTORINA, op. cit., XIV. 10s Vd. AcA, E 1752-1761, 62r. 109 Vd. S. ZAPPALÀ-GRASSO, op. cit., IV. uo L. c. 111 Jbid., III. 106
107
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lato Zappalà s1 inseriva, con una precisa pos1z1one, nella polemica tipica del Settecento sul valore o meno della lingua italiana nel campo letterario, d'altra parte, però, voleva offrire una motivazione pastorale ai seminaristi per stimolarli a studiare con impegno la lingua italiana. E infatti, Zappalà ricorda ai suoi allievi: mentre il latino sarà utile «per la intelligenza de' divini officj e de' sacri libri della nostra Santa Religione», a sua volta una buona conoscenza della lingua italiana sarà indispensabile e necessaria «per la istruzione del Popolo, e per wprire i vostri sentimenti nel distenderli in iscrittura» 112 . Ci sembra opportuno rilevare che da queste brevi puntualizzazioni emerge come il background della formazione culturale del seminario ventimiliano è costituito da una preoccupazione e finalità pastorali. Tale pastoralità, nel futuro ministero sacerdotale, il chierico la esprimerà, innanzitutto, attraverso l'educazione religiosa trasmessa al popolo con l'istruzione dottrinale, perciò mediante un buon servizio della Parola. Osservian10, inoltre, che, in linea con un'istanza positiva dell'illuminismo, anche l'ecclesiastico avrebbe dovuto collocare la sua cultura nella prospettiva dell'utilità sociale. La seconda navi tà metodologico-didattica, che viene proposta nella grammatica in questione, concerne l'apprendimento dele regole grammaticali. Zappalà, nella prefazione, precisa che le regole devono essere apprese e conosciute, n1a non come un fine a sé stante, tanto da essere imparate a memoria addirittura «in versi, con1e i più hanno fatto)) 113 fino a ora. La conoscenza delle regole, invece, ha valore di mezzo, certamente utile e indispensabile, ma il fine è quello di arrivare alla comprensione dei testi degli autori classici. Pertanto, Zappalà raccomanda agli studenti: «Siate solleciti al sommo di ben capire le regole, senza prendervi gran fatto briga di recarvele a memoria (fuori de' piegamenti de' nomi, e de' verbi, che dovete bene a fondo fermarveli alla mente) che quanto al ritenerle non vi sarà esercizio
112 L. c. "' Ibid., V.
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359
migliore, che continuamente osservarle, e renderne conto sulla lettura de' buoni Autori» 114 • Questo accostamento diretto ai classici della letteratura, avrebbe generato negli studenti «il verace gusto» delle lingue 115 • E ciò, in definitiva, si configurava come la meta didattica da conseguire. Rileviamo, ancora, che nella stesura della grammatica emerge la sensibilità pedagogico-didattica dell'autore, il quale tiene conto della gra-duale maturazione intellettuale degli studenti. Infatti, avendo configurato il fine didattico degli studi grammaticali nel far scaturire negli allievi il buon gusto letterario, Zappalà ha ritenuto opportuno sfrondare il testo per il primo anno di tutte quelle «eccezioni, appendici, e scolj, i quali vi confondono la mente, e vi mettono in ,pena)) 116 • Le eccezioni, quin,di, sono rimandate alla fine dcl secondo volume e sono distribuite «in poche liste ad ordine Alfabetico» 117 . Un particolare accorgimento tecnico-didattico, curato nella grammatica, riguarda l'uso del «Corsivo carattere» per quelle poche eccezioni che è stato necessario riportare. Il carattere corsivo serve per indicare che il professore ha facoltà di tralasciare la spiegazione di queste regole, se lo ritiene opportuno, in base al tipo di classe in cui svolge il suo insegnamento 118 • Potremmo dire, prendendo in prestito la terminologia moderna, che nella grammatica si propone "un insegnamento a.dattato Il testo di grammatica, infine, viene corredato con un «picciol Vocabolario», ideato con alcuni accorgimenti didattici significativi, allo scopo di agevolare il lavoro degli studenti: il vocabolarietto, spiega Zappalà, « [ ... ] vi mostrerà le voci, ma tutte della più pura Latinità, delle cose più comuni ripartite in varie classi, per entro cui vi ho racchiuso la Mitologia, o vogliam dire la Scienza delle favole del Paganesimo, e i Riti dell'antica Roma, senza le quali contezze è a voi malagevole molto, od anzi 11
•
ll4
115 11 6
111 118
L. c. Jbid., VI. lbid., IV. L. c. V d. ibid., IV-V.
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impossibile pervenire alla fondata intelligenza degli aurei Scrittori Latini» 119•
3.
Studi di retorica: scelte didattiche e motivazioni pastorali
Volendo ancora continuare lo schizzo della fioritura culturale che, per opera di mons. Ventimiglia, si andò realizzando nel seminario di Catania, passiamo a esaminare un altro testo adoperato nelle due classi successive a quelle di grammatica. Si tratta di una raccolta di orazioni di Cicerone destinate agli studenti del corso di retorica, edite a cura dello stesso Sebastiano Zappalà-Grasso, con i tipi del seminario, sempre nello stesso anno 1770 120 • Nell'introduzione, scritta in latino, Zappalà, elogia11Jdo l'arte retorica di Cicerone, motiva la scelta di questa raccolta di orazioni: si vuole proporre agli studenti un modello stilistico da imitare, affinché essi possano affinare il loro stile letterario e la loro arte retorica 111 • Pertanto, Zappalà esorta i suoi allievi a leggere Cicerone, continuamente, con un impegno sem1pre più inten~ so, fino a renderselo familiare, così da assimilarne Io stile m E' da notare, però, che questo studio non è finalizzato a una sorta .di erudizione intellettuale, staccata dal contesto e dalle mete educative della formazione seminaristica. Infatti, osserviamo che in Zappalà, profes,sore di retorica, riaffiora la preoccupazione pedagogica, secondo la quale, ultimamente, gli studi di umanità e di retorica dovranno contribuire a formare il futuro maestro di dottrina, capace di saper parlare bene al popolo delle cose di Dio: « [ ... ] facile vobis erit, cum Sacerdotio inaugurati fueritis, sacras conciones, Tullii arte politas, ad populum christianum habere» 123 • Ibid., VI. S. ZAPPALÀ, M. T. Ciceronis novus orationum delectus. Interpretatione, notis, atque analisi illustratus. Ad usum Seminarii Catinensis, Typis Seminarii, Catinae MDCCLXX. 121 Vd. ibid., III. 122 Vd. ibid., VI. i23 L. c. 119
120
Il seminario durante l'episcopato Ventimiglia
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Dall'introduzione sappiamo con quali criteri didattici è stata operata la selezione delle orazioni presentate nel volume. Innanzitutto, rileva Zappalà, " [ ... ] jucundiores delegimus, et quae principem inter aHas locum tenent» 124 • Inoltre, continua l'autore, si ha avuto cura di scegliere quelle orazioni che «vestrisque mentib1.is sunt magis accomrnodatae» 125 • In altre parole, la didattica in vigore nelle scuole del seminario catanese privilegiava l'importanza dell'opera e, allo stesso tempo, teneva presente l'età e le esigenze dei giovani allievi. E infatti, all'interno di quest'orizzonte pedagogico si spiega anche la scelta del testo critico di C. Merouville, il quale coniugava insieme la chiarezza e la profonda conoscenza di Cicerone: " [ ... ] utque minori negotio ean1m intelligentiam assequamini, Caroli Merouville Tullianarum obscuriorum vocum interpretationem, eiusque perspicuas subtexuimus notas, qui omnes Cioeronis ora ti on es in lucem dedit, analysimque subjecit [ ... ] ,, 126 • Infine, conclude Zappalà, questa raccolta di orazioni è preceduta dalla vita di Cicerone, curata dallo stesso Merouville, «per annos consulares» 127 • 4.
La tipografia del seminario
Le due opere, di cui sopra ci siamo occupati, co1ne già accennato, sono state stampate nel seminario di Catania. Infatti, tra le varie e feconde iniziative, propugnate da mons. Ventimiglia per la promozione culturale dei suoi chierici, c'è da annoverare anche quella della fondazione di una tipografia propria del seminario vescovile. Questa iniziativa, che denotava la lungimiranza e !'apertura intellettuale di Ventimiglia, costituiva certamente una grande novità, che suscitava stupore e ammirazione. Scinà riferisce: Venti-
124
12s
126 127
!bid., IV. L. c. L. c. lbid., VI.
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miglia fondò nel seminario, «cosa non mai veduta tra noi, una tipografia», dotata anche di caratteri greci, «per la stampa delle opere che gli giovassero nell'insegnamento dei Chierici» 128 • Tra i promotori di questa iniziativa troviamo ancora lo stesso Sebastiano Zappalà-Grasso. Infatti, nella prefazione all'opera 'ExÀe:xV"Év-ra. Èx 't'o0 AouìCLa.voiJ La.µoacl:tEwc;. Notis ac lexico ila lustrata 119 , pubblicata nel 1770 in due tomi, e stampata con i tipi del seminario di Catania, Zappalà, quasi con una ·punta di compiacimento, dichiara di essere stato lui a proporre al vesco· vo l'iniziativa della tipografia del seminario: " [ ... ] auctor fui (li· ceat in hoc mihi gloriari) nostro Episcapo Salvatori Vintimillio de me optime merito, quem ego honoris, et ·pietatis causa nomino, auctor, inquam, fui instituendae in nostro Seminario Typogra· fica e Officina e [ ... ] » im. L'esigenza di dotare il seminario di una tipografia propria è dettata dalla necessità di fornire ai chierici i sussidi didattici necessari per affrontare con adeguata serietà gli studi. Infatti, pur essendo stati ideati per i giovani stl1denti di lettere umane, nota Zappa1à, <(tot \exica, tot co111rncntaria» 111 degli antichi scrittori, tuttavia in Sicilia, e nel caso s·pccifico a Catania, tali testi sono difficili da reperire. La n1otivazione di questa difficoltà viene espressa con un'an1ara constatazione: « [ ... ] quia in eo vivimus ulti1ni mundi angulo, quo pauci, iide1nque rari permeant libri» 132 • Anche a quel tempo, ci permettiamo osservare, la Sicilia su· biva una forma di emarginazione culturale. Ma l'iniziativa di una Chiesa locale, con a capo un vescovo come il Ventimiglia, già ailora si configurava ancl1c come impegno di promozione un1ana per la stessa società civile. La 1nedesima osservazione va fatta per quanto riguarda lo impulso dato da Ventimiglia agli studi scientifici. Infatti, come
D. Sc1NÀ, op. cit., TI, 320, nota l. S. ZAPT'ALì\., 'ExÀ.Exflfv't"a Èx -coV AovxLavo0 Laµocrci.'tEwc:;,. Excerpta ex Luciano Sa111osatensi, no1is ac lcxico illustrata. Ad usum Sen1inarìi Ca· 12s
129
tinensis, 2 tonù, Typis Sen1inarii, Catinac MDCCLXX. tlO Jbid., VI. 131 lbid., V. m Jbid., VI.
Il seminado durante l'episcopato Ventimiglia
363
abbiamo accennato nelle pagine ·precedenti, il vescovo aveva fatto acquistare e ritirare da altri Paesi gli strumenti necessari per affrontare con metodo moderno lo studio della fisica. Dobbiamo, infine, notare che la tipografia del seminario non solo colmava la suddetta carenza di libri scolastici, ma adempiva al suo scopo in maniera eccellente. Infatti Zappalà non tralascia di sottolineare che il testo greco di Luciano, pubblicato dal seminario, si presenta con un'invidiabile veste tipografica: «e domesticis typis prodeunt selecta quaedam ex Luciani Samosatensis operibus, quo non temere alterum inveneritis tersiorem, elegantioremque» 133 . Lo stesso giudizio favorevole sull'ottima qualità tecnica dei lavori, stampati in seminario, viene formulato da Ferrara: "Una ristampa di molti dialoghi di Luciano greco-latini formò dovunque l'ammirazione degli estimatori delle nitide, e belle stampe» ll4• E il Castorina aggiunge che la tipografia del seminario si distinse soprattutto per <da massima correttezza delle opere» 135 •
5.
Il metodo degli studi teologici
Le opere sopra esaminate ci hanno fatto intravvedere il rinnovamento culturale e metodologico-didattico sul versante letterario~uma11istico.
Ma, carme è stato accennato, l'im'pulso innovativo che mons. Ventimiglia diede agli studi del seminario comprendeva anche la ristrutturazione dell'impianto metodologico delle discipline teologiche. A tal proposito abbiamo due notizie, a nostro avviso, abbastanza significative, le quali ci offrono uno spaccato della direzione in cui Ventimiglia orientò il rinnovamento teologico del suo seminario. La prima notizia ci viene fornita da Scinà, il quale tramanda che mons. Ventimiglia aveva progettato di fare stampare nella
L. c. F. FERRARA~ op. cit., 242. 135 P. CASTORINA, op. cit., 194. 133
134
Piero Sapienza
364
tipografia del seminario «Una teologia dogmatica coi testi della Scrittura in ebraico e greco, e coi passi dei Sacri Concilii e dei Padri così greci che latini» 136 • Ci sembra opportuno rilevare che una tale impostazione dello studio della teologia dogmatica, a nostro avviso, aveva una valenza innovatrice e rispondente alle istanze della ricerca teologica. Infatti si trattava di uno studio basato sulla Scrittura e sui Padri, oltre che sulla tradizione del magistero ecclesiastico, e proposto con taglio scientifico, attraverso le fonti presentate nella loro lingua originale. L'opera non fu stampata, dato che Ventimiglia lasciò Catania, ma il suo progetto ci manifesta ugualmente gli orientamenti seguiti e le piste su cui si muovevano i docenti dei corsi teologici del seminario catanese. La seconda notizia, che ci rivela la nuova linea metodologica promossa da Ventimiglia, riguarda l'introduzione ,dei princìpi e del metodo di S. Tommaso d'Aquino nell'insegnamento della teologia, tenuto in seminario m A tal proposito, c'è da aggiungere che Ventimiglia, come gran cancelliere dell'università di Catania, volle che la dottrina dell'aquinate venisse posta come punto di riferimento anche negli studi universitari 138 . Riteniamo di poter affermare che mons. Ventimiglia, sin dal suo arrivo a Catania, avrà cominciato a realizzare il suo disegno di un recupero e di una valorizzazione del pensiero tomista. Ci sembra significativo, infatti, il gesto compiuto sin dal 1758, allorché egli destinò un'aula dell'università a cappella, dedicandola, appunto, a S .Tommaso"'· Altro segno del suo orientamento tomista, Ventimiglia lo diede chiamando ad insegnare in seminario il domenicano A. Corsaro, il quale commentava la Summa contra gentes dell'aquinate 140 . 136
D. ScrNÀ, op. cit., Il, 350.
137
Cfr. P.
CASTORINA,
Cfr. l. c. "' Cfr. ibid., 199. 140 Cfr. ibid., 182. l3s
op. cit., 182.
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Dobbiamo rilevare che il vescovo promuoveva a Catania lo studio di S. Tommaso, in un periodo in cui tale studio non era coltivato. E infatti, nel mondo cattolico gli studi tomisti avrebbero ricevuto un forte e nuovo impulso con l'enciclica Aeterni Patris, emanata da Leone XIII il 4 agosto 1879. Nel documento pontificio si raccomandava ai teologi "]'aurea sapienza" di S. Tommaso d'Aquino, disponendo che i princìpi e il metodo della sua dottrina fossero posti alla base della formazione filosofica e teologica del clero 141 •
SPUNTI CONCLUSIVI
Il quadro finora tracciato ci ha fatto intravvedere come il clin1a culturale, che si andava respirando nel seminario ve11timi1iano, era tale che in esso si poté formare «Una fan1osa scuola di scienze ecclesiastiche, di letteratura classica greca, latina cd italiana» 142 • Ma, come abbiamo avuto modo di notare, il vescovo Ventimiglia puntava ad una riforma integrale della vita del suo clero. Infatti l'opera di rinnovamento culturale era condotta in sinergia con la formazione spirituale, morale e disciplinare dei seminaristj. Nell'introduzione alla citata grammatica, lo Zappalà ricorda ai giovani cl1ierìci (<I1amorevolc zelo» di mons. Ventimiglia, il quale «non si chiama mai pago, e contento di promt1overe in voi non men la pietà, che le lettere [ ... ] ,, 143 • E ribadisce ancora, in un'altra o.pera, che il vescovo, con ammirevole vigilanza, pro'Vvede aut ex aequo pii cxistatis aiumni, ac !iterati}> 144 • Sembra che il progetto educativo, portato avanti in seminario da mons. Ventimiglia, abbia avuto un'effettiva incidenza sulla qualità della vita del clero. Il nostro vescovo è stato infatti
141 Cfr. K. BTI-ILJ\1EYER H. TUECI-ILE, Storia della Chiesa, traci. it., IV, Morcelliana, Brescia 1966-\ 296. 142 P. CASTORINA, op. cit., XII. 143 S. ZAPPALÀ - GRASSO, Cento lezioni ... , cit., VI. 144 Io., M. T. Ciceronis ... , cit., VI.
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ricordato come «il ristauratore della disciplina ecclesbstica, il promotore della più solida istruzione dcl clero [ ... ] " 145 • L'onda di rinnovamento educativo, partendo dal seminario, si sarà propagata, a sua volta, per tutto il tessuto della Chiesa locale. E' stato scritto, infatti, che con Ventimiglia "la Chiesa catanese ebbe ministri degni di servirla, Catania e la Diocesi ebbero uomini, che furono am111irati pe' talenti, e per le virtù» 146 • E', però, opportnno rilevare che l'opera di rinnovamento di mons. Ventimiglia ebbe un respiro molto ampio, che valicò i confini del seminario, per giungere a ossigenare anche la stessa comunità degli uomini. Infatti, come già osservato in antecedenza, le innovazioni e le iniziative culturali del vescovo catanese (dalla tipografia del seminario con i caratteri greci, agli strumenti per lo studio della fisica, fino all'aver chiamato a insegnare a Catania, nel seminario uomini che brillavano per la loro cultura) mentre rinnovavano il seminario e la vita ecclesiale, allo stesso tempo, costituivano un valido apporto per la promozione umana della stessa società civile. In tal modo, l'impegno che il vescovo catalizzava verso il seminario contribuiva a far uscire la stessa città di Catania da una sorta d'isolamento e di emarginazione culturale nei confronti di altri centri culturali europei. Pertanto, si può affermare che Ventimiglia «contribuì non poco alla coltura intellettiva e morale della Sicilia, al decoro patrio ed al progresso delle scienze e delle lettere" 147 • E il seminario, potremmo dire, fu come l'epicentro da cui si irradiò questo dinamismo. A questo punto, a nostro avviso, affiorano suggestivi spunti che possono offrire una traccia per avviare un'ulteriore ricerca sulla nostra storia locale. Infatti, in questo lavoro abbiamo presentato un tassello (il seminario), relativo all'arco di un quindicennio (l'episcopato ventimiliano), del grande mosaico della storia di Catania nella
145 146 147
P. CASTORINA, op. cit., II. F. STRANO, op. cit. 1 V. P. CASTORINA op. cit., V. 1
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seconda metà del secolo XVIII. Stando all'ipotesi, che da qualche tempo una certa tendenza storiografica va verificando (es: Jedin, De Rosa, Prosdocimi), e cioè, che non si può separare la storia civile da quella ecclesiastica, allora, potrebbe essere interessante continuare ad approfondire questo rapporto. Si tratterebbe, nel nostro caso, di vedere quali riflessi concreti abbia avuto e quale dinamica abbia impresso il rinnovamento del seminario catanese nello sviluppo culturale e sociale della comunità cittadina della Catania della seconda metà del Settecento.
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APPENDICE EDITTO SUL SEMINARIO 1OTTOBRE1758 1 (52v) Editto. Noi Salvadore Ventimiglia de' Prencipi e Conti di Ventimiglia, pela misericordia di Dio Vescovo di Catania, Conte di Mascali, Consigliere di S.S. R.M., Gran Cancelliere degli Studi di quest'Alma Università, e di tutto il Regno di Sicilia ed Isole adjacenti. Con quanta cura si applicassero i Vescovi ne' primi più felici secoli della Chiesa all'educazione de' Chierici destinati al sacrosanto e tremendo ministero dell'altare, cc lo danno abbastanza a conoscere quei 1nolti antichi canoni ne' quali l'erezione e stabilimento de' Se1ninarij Vescovili s'ordina e prescrive. Con egual zelo i Padri dcll'ulti1no generale Concilio intenti a ristorare la dicaduta disciplina del Clero, comandarono che i primi illustri esempij da' Successori inlitandosi, l'uso de' Seminarij de' Chierici da per tutto nella Cattolica Chiesa si rinovasse, e molti Santissimi regolamenti intorno a' medesimi con esatta accuratezza disposero. Perciò le prime sollecitudini del nostro pastora! governo alla riforma di questo nostro Sc1ninario abbiamo rivolte, persuasi che dal medesimo il più gran frutto (53r) di nostre fatighe potrà da noi ricavarsi, se educandosi in esso sotto l' occhi nostri i Ministri del Santuario, dello Spirito Ecclesiastico dalla prima adolescenza imbevuti e nelle sagre scienze addottrinati potranno di grado in grado n1aturamente pro1nuoversi con piena cognizione de' meriti e talenti di ciascheduno. Speria1no in tal guisa confonnarci al precetto del!' Apostolo di non imporre le mani sollecitamente ad alcuno e non comunicare agl'altrui peccati, e poter un giorno vedere in questa Diocesi i Sacerdoti del secondo ordine corrispondere perfettamente alla dignità del loro Ufficio ed alla Santità del sublime carattere. A tal fine vi notifichiamo con quest'editto esser nostra costante risoluzione il non accordare verun ordine, non solamente de' sagri, ma anche de' minori, a chi non compisca nel Seminario Vescovile di questa Città il corso degli Studij, che in esso prescriveremo, o non passi almeno nel medesimo Sen1inario un qualche te1npo da detenninarsi a nostro arbitrio, e che pe l'avvenire i beneficij tutti, che vacheranno nella nostra Diocesi, a quei soli ordinariamente concederemo, che nel Senlinario anno data a noi prova della loro capacità e regolare condotta. Né si risparnlierà da noi spesa o fatiga alcuna acciò possano trovarsi in esso tutti i n1ezzi più opportuni all'educazione ed al profitto de' Chierici, cossì nella pietà co1ne nelle lettere. Oltre il numero dell'Alunni, che vi si n1anteranno franchi di ogni spesa, che scieglieretno a concorso dalla Città e Diocesi, (53v) vi potranno aver luogo tutti coloro che pagheranno la solita contribuzione de' Convittori, cioè onze quindeci all'anno, ovvero onze cinque per ogni quadrimestre anticipatamente; e questi sebbene in abito talare nero diverso da quello degl'alunni assisteranno ca' medesin1i alle sagre funzioni nella nostra Chiesa Cattedrale. Si aprirà il Scnùnario nel giorno 4 del prossimo noven1bre, dedicalo alla gloria di S. Carlo Borro1neo, alla di cui prottezzione non 1neno che a quella della Concittadina e Padrona S. Agata Vergine e Martire, e più ancora al Padrocinio singolare di Maria Madre di Dio, lo stesso Senùnario ed i Chierici d'esso raccomandiamo. Preghiamo intanto co' più accesi voti dcl cuore il nostro Signor Gesù Cristo, Pastore e 1 AcA, E, 1752-1761, 52v-53r.
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Vescovo dell'ani1ne nostre che benedica quest'opera intrapresa pe !a gloria del suo santo nome, e pela edificazione del suo tnistico corpo discelga Egli i Ministri del suo Sacerdozio, i dispensa tari de' suoi misterij, i cooperatori del suo apostolato, e santificandoli coll'interna operazione della divina sua grazia gli faccia degni della sorte de' Santi e della preclara eredità, che ci ha 1neritato col prezioso suo sangue. Dato in Catania nel nostro Palazzo Vescovile a primo ottobre 1758. Salvadore Ventimiglia - Vescovo di Catania
EDITTO SUL SEMINARIO DEL 2 SETTEMBRE 1759 2 (61r) Noi Salvadorc Ventitniglia. La visita da Noi intrapresa della nostra vasta diocesi scoprendoci dapertutto lo stato deplorabile e di decadimento generale del nostro Clero, ci ha vieppiù persuasi e convinti dell'obbligo indespensabile che abbian10 di scegliere pc l'avvenire colla più esatta diligenza e formarci sotto a i nostri occhi i Sagri Operarj e Cooperatori dcl nostro Ministero. Nella gran moltitudine dei Sacerdoti del Second'ordine che si è portato a noi, quasi in ogni luogo in cui sian10 stati, pochissimi ne abbiaino trovati a cui potesse commettersi l'esercizio delle gravi iinportantissime incon1benze che sono proprie del loro Sagro e divino carattere. Quindi si è accresciuto in noi l'impegno di non promuovere se non degni Ministri del Signore, Pastori secondo il cuor di Dio, e operarj Apostolici della sua Chiesa, che colla Santità di lor vita, col disinteresse di lor condotta, col lume di lor dottrina, colla forza del loro esempio e coll'ardore di lor carità possano edificare il Mistico Corpo di Gesù Cristo. E quanto più l'umana cupidigia procurerà per via di sforzi ed impegni d'introdursi nel Santuario, tanto sareino più attenti a custodirne con diligenza la porta e proibirne l'ingresso. A questo oggetto sebbene con un altro nostro generale Editto dcl primo ottobre dello scorso anno 1758 avessin10 dichiarato la nostra costante risoluzione di non accordare nessun ordine non solamente dei Sagri, tna anche dei 1ninori (61v) se non a chi passasse prima un qualche te1npo nel nostro Seminario Vescovile di Catania per provarsi da Noi la sua vocazione e i suoi talenti; con lutto ciò giudichiamo ora spiegare più chiaramente le nostre intenzioni intorno al te1npo della dimora nel Se1ninario, avendo conosciuto pe esperienza che n1olti si riservano ad entrarvi pochi 1nesi prin1a dell'ordinazione, e pretendono con ciò deludere tutte le nostre precauzioni, e rendere infruttuose le nostre pren1ure nel ristabilirlo e riformarlo con1e abbiamo fatto. I1nperocché com'è possibile che basti un sì corto spazio di te1npo a provare il inerito di coloro che son chia1nati a funzioni sì grandi e sì sublimi? e con1e potranno così presto distaccarsi dallo spirito dcl mondo, nudrirsi delle parole della fede, rendersi fatniliari quelle gran verità, che devono un giorno insegnare agl'altri, e acquistar la sana dottrina e la scienza Ecclesiastica di cui devono indispensabilmente essere adorni? Il Sagro Concilio di Trento co1nanda con gran raggiane che l'educazione de' chierici ne' Sen1inarj cominci dalla prima e più tenera età. Lo stesso avean prima pre2
Ibid., 61r-63r.
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scritto gl'antichi Canoni ordinando a' Vescovi la più vigilante cura in allevare i Giovani destinati a i sagri Ministeri, co1ne tenere piante che produr debbono i preziosi frutti di vita eterna: e !o stesso in questi ultimi ten1pi si è 1nesso in prattica dall'infatigabile zelo di San Carlo, e di tanti illustri Vescovi, che han seguitato le sue gloriose vestigie. Volendo intanto conformar la nostra condotta ai regolamenti della Chiesa ed all'esetnpio de' Santi, notifichiamo col presente nostro Editto a tutti coloro che si credono chiamati dall'Altissimo al servizio de' Santi Altari, e che aspirano d'ascendere di grado in grado alla dignità del Sacerdozio, che altromodo (62r) non s'aprirà loro pc arrivarvi, nella nostra diocesi, fuorché di passare la intiera loro adolescenza nel Vescovi! Se1ninario, e compiervi indispensabilmente i! corso di dieci anni: i primi due dc quali i1npicgheranno allo studio della grammatica, i due seguenti a quello delle lettere un1anc, due altri alla filosofia, e l'ultiini quattro alle scienze Teologiche, dichiarando che nulla gioverà loro l'attendere allo studio di queste in alcun altra Scuola o Seminario, né alcun altro inerito. Nel corso di questi anni dieci potranno provvedersi nel Seminario di tutte quelle più utili cognizioni che convengono a un degno Ecclesiastico, apprendendovi le Lingue dotte la Storia della Religione l'eloquenza cristiana e la sana morale le istituzioni di Diritto Canonico e Civile il con1puto Ecclesiastico il canto corale j Riti e cerimone della Chiesa e quant'altro può contribuire alla lor coltura e professione sotto gli abili e dotti Professori che vi andcremo introducendo. Gli Studenti saranno tutti nella fine d'ogni anno esa1ninati alla nostra presenza e secondo il profitto da loro riportato e la regolar condotta che avre1no in essi riconosciuta conferiremo loro ad uno ad uno gl'ordini, ed a suo tempo anche j Sagri. Ma perché a sodisfare al corso prescritto di dieci anni, dovrà comunemente da ognuno co1ninciarsi la carriera degli Studj nel Seminario sino l'anno quattordicesimo di sua età pc arrivare al Sacerdozio all'età richiesta dal Tridentino, non è difficile che molti giovani s'incontrino (62v) nella nostra Diocesi chian1ati da Dio allo Stato Ecclesiastico provveduti dei neccssarij talenti e disposti ad ubedir pienamente a tutte le nostre determinazioni, i quali però hanno già trascorsa l'età d'anni 14. E quelli resterebbero aH3.tto esclusi dall'ingresso nel Seminario e per conseguenza da ogni speranza di ascendere agl'ordini Sagri, ci sembra raggionevole il provvedere anche a costoro, che non sono in colpa di aver trasgredita una legge che non potevano prevedere. Quindi ordinia1no, che tutti quei che aspirano allo Stato Sacerdotale e che han già trascorsa l'età d'anni 14 debban fra lo spazio di tre mesi da correre dal giorno della pubblicazione del presente Editto presentarsi ai rcspettivi vicari foranei in ogni Città e terra della nostra Diocesi, e nella Città di Catania al Rettore del Se1ninario. Q1J.elli noteranno il non1e, la Patria, l'età e gli Studi d'ogn'uno, ed a noi le note fOrmate rimetteranno. Quindi debbono tutti trovarsi alla nostra presenza nel fine del corrente anno e precisamente doppo le feste del S. Natale del nostro Divino Redentore, affinché possiamo diligenten1ente esatninarli intorno alla loro vocazione e a' loro talenti, e quei, che capaci e idonei giudicheremo, introdurli nelle differenti classi a proporzione dell'abilità di ciascheduno; trascorso quel tern1ine resterà affatto escluso da ogni speranza di ordinazione chiunque non trovasi in età proporzionata a co1npiere il decennio da noi prescritto. Per coloro però che trovansi già impegnati ne' sagri ordini del Diaconato e Suddiaconato ci contenteremo che passino (63r} nel Seminario un semestre siccome sin'ora si è pratticato; e compito che l'abbiano, potranno presentarsi all'esame ne soliti ten1pi delle Sagre Ordinazioni.
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Se1nbrerà forse dura questa legge perché contraria al costun1e, ina il comando dcl Grande Apostolo di non affrettarci nella in1posizione delle mani, i canoni, che prescrivono la più cautelosa diligenza nello scegliere i Ministri del Signore, l'in1portanza di questa scelta, da cui dipende ordinariamente !a santificazione e la salute di tutto il Popolo, e finalmente la funes1a sperienza dei gravissimi disordini che partorisce l'indulgenza e facilità sopra un punto sì rilevante, ci hanno detenninati doppo 1natura riflessione e consiglio a stabilir queste regole, e a soggettarci volentieri alla fatica indispensabile de' tanti esaini e di una indifessa applicazione affin di accertar per guanto è possibile il vantaggio spirituale del Gregge alla nostra cura co1n1nesso. Preghia1no intanto co' più accessi voti del nostro cuore il nostro Signor Gesù Cristo che riguardando con pienezza di 1nisericordia questa diletta sua Chiesa, che acquistassi collo sborzo del prezioso suo sangue, la proveda abbondantemente di operaj forn1ati col suo spirito santificati colla sua grazia educati col suo timore, nudriti delle massime del suo Vangelo, ripieni dello zelo del suo santo Non1e e infianuna1i dalla divina sua carità, che corrispondendo co' ineriti all'altezza del grado a cui son destinati ed ajutando a sostenere il peso fonnidabile del nostro Apostolato, riescono il nostro gaudio e la nostra corona. Dato in Palenno a 2 Settembre 1759. Salvadore Ventin1iglia - Vescovo di Catania
EDITTO SUL SEMINARIO 29 AGOSTO 1770 3 (llr) Noi Salvadore Ventimiglia Vescovo di Catania. Avendo veduto che nel lungo spazio di due tnesi di vacanze, che è stato solito ad accordarsi nel nostro Se1ninario Vescovile, si sono i Chierici pe la n1aggior parte alienati dagli Studj e raffreddati nel loro fervore da quello spirito, con cui camn1inavano le strade del Signore, nonostante i provvedin1enti che vi abbiam dato più volte, e le regole, che abbiam loro prefisso, abbia1no proposto di togliere affatto le suddette vacanze, e lo notilìchian10 per tnezzo del presente Editto a tutta la nostra diocesi, piegandoci solan1ente a concedere venti giorni pe quei della diocesi che saranno richiesti da lor Parenti, con quel tenore e rego~ lamento, con cui gli ripartirà in ciaschedun anno alle varie classi il Rettore del Sen1inario. Volendo ancora che le Scuole di Gra1nmatica in tutta la nostra diocesi tenessero lo stesso 1netodo d'insegnare j principij delle belle lettere e seguissero il nlcdesimo tenore, con cui si regolano gli Studj nel nostro Se1ninario, abbiamo di nostro ordine fatto distendere una nuova Gra1nn1atica delle due lingue latina ed Italiana, e voglian10, che nell'apertura delle nuove Scuole tuni i Precettori della nostra Città e diocesi di Catania, soggetti alla nostra Vescovile giurisdizione, si servissero pe l'avanti di questa nostra nuova Gram1natica, e secondo il suo tenore regolassero gli Studj, cd istillassero a' loro allievi quel gusto delle lettere, che abbian10 introdotto nel nostro Se1ninario, ad intendin1ento che insegnandosi con metodo unifonne le u111ane lettere in tutta (llv) la nostra diocesi, potessero in brieve tempo 3
lbid., 1769-I776, lh-llv.
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aver felice progresso; e i figliuoli che pe l'avvenire entreranno in Seminario venissero con quelli stessi lu1ni, co' quali allevi;uno i nostri Chierici. Sperian10 di certo che tutti i Precettori si daranno sollecita preinura di unifonnarsi a' nostri senti1nenti, e concorreranno con Noi a pro1nover le lettere. Che però ricorrerà ciascheduno al Rettore del nostro Seminario pe quelle copie, che saranno alla sua Scuola necessarie, che ne resterà subito provveduto. Ordiniamo finalmente ai nostri Revv. Vicarij foranei che invigilassero a far esattamente eseguire questa provvidenza e la 1nanifestassero a' respettivi maestri, incaricandone loro la puntuale esecuzione.
In Catania 29 agosto 1770. Salvadore Ventimiglia - Vescovo di Catania