Nuova serie - Xli/ 1 - 1994
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO & ISTITUTO PER lA DOCUMENTAZIONE ElA RICERCA S. PAOLO CATANIA
ProprietĂ lc1teraria riservata
jòtocornpusizione SSG - studio sisteini gral'ici Acireale
str11npa 1'ipolitografia (-:-al atea di Gaetauo J\1augeri & C. s.a.s. Via Pien1oni-e 84 - A.circa le
INDICE
LA TEOLOGIA MISTICA DI RUPERTO DI DEUTZ. Il simbolismo erotico (Maurizio Afiolla) Introduzione I. Le radici della teologia II. Simboli erotici nella teologia mistica di Ruperto .
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LA TESTIMONIANZA DELLA RICONCILIAZIONE ALLA LUCE DELL'ESPERIENZA FRANCESCANA (Salvatore Consoli)
Prc1ncssa I. L'annunzio e il segno della riconciliazione della Chiesa II. La Chiesa esperienza di riconciliazione III. Il messaggio di Francesco e Chiara per la riconciliazione nella socielà di oggi SOLIDARIETÀ E BENE COMUNE NEL PENSIERO DI LUIGI STURZO. Fonda1ncnti antropologici e prospettiva etica (Antonio Parisi) Prctncssa I. Relazioni umane e inoralità . 2. Fede e 1noralità: un rapporto sintetico 3. Il bene co1nunc, "fine collettivo trascendente" 4. Libertà e responsabilità Conclusione
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CHIESA E RIVOLUZIONE FRANCESE. Alla ricerca di un nuovo modello teologico politico (Giuseppe Ruggieri) I. I 1nutamcnti delle teologie politiche 2. Variazioni della strategia ro1nana 3. Un vecchio 1nodello 4. Realismo politico e 1nodelli astratti 5. L'in1barazzo della differenza
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L'UNIVERSALITÀ DEL CRISTIANESIMO DI FRONTE ALLE RELIGIONI (Jacques Dupuis) Introduzione 1. L'universalità di Gesù Cristo 2. L'universalità della Chiesa Conclusione
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LE COSTITUZIONI SINODALI DEL VESCOVO DI CATANIA NICOLA MARIA CARACCIOLO (1565) (Adolfo Lo11ghita110) 1. L'ultiino esponente dei Caracciolo fra i vescovi di Catania. 2. Nicola Maria Caracciolo fra luteranesi1no ed evangelismo . 3. Le costituzioni sinodali inedite del 1565 Appendice .
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LEIBNIZ, KANT E IL PROBLEMA DELLA TEODICEA (1!11rico Piscione) 1. L'ambito del problema 2. Prescienza divina e libertà umana 3. L'origine del male 4. Il dibattito sull'"ottimis1no" 5. La radicale contestazione kantiana di ogni teodicea 6. Osservazioni conclusive
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STORICITÀ E LINGUISTICITÀ DEL COMPRENDERE IN H.G. GADAMER (Francesco Venrorino) I. Linguaggio cd esperienza dcl mondo 2. La dialettica della interpretazione 3. L'aspetto universale dell'enncncutica 4. Alla ricerca di alcuni presupposti 5. Alcune conclusioni
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NOTIZIARIO DELLO STUDfO TEOLOGICO S. PAOLO.
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CRONACA DELL'ISTITUTO PER LA DOCUMENTAZIONE E LA RICERCA S. PAOLO
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RECENSIONI
B. PASCAL, La 111ora!e. Testi sce!ri, a cura di S. Nicolosi (Giuseppe Pez.z.ino). J. REIMER - G. DREIFIJSS, Abran10: f'uonio e il silnbo!o; S. HUR\VITZ, Psiche e redenzione; R. SCHARF KJ.UGER, Psiche e Bibbia,· E. DREWERMANN, ]{ ca1n111ino pericoloso della redenzione (Francesco Furnari) E. LANDOLT, Der einzige Heidegger,· lo., Syste1natischer !ndex zu \.Verke11 lfeideggers (Maurizio Afiotta)
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283 287
Synaxis 12 (1994) 7-46
LA TEOLOGIA MISTICA DI RUPERTO DI DEUTZ. IL SIMBOLISMO EROTICO
MAURIZIO ALIOTIA'
Introduzione
In un recente libro sul pensiero medievale, edito dalla Evangelische Verlagsanstalt di Lipsia', un capitolo è interamente dedicato alla Mistica. Significativamente esso è collocato tra il capitolo sull'"alta scolastica" (Hochscholastik) e quello sulla "tarda scolastica" (Spiitscholastik). Questa scelta registra, evidentemente, un dato di fatto; la Mistica è considerata un capitolo della storia della teologia e della filosofia medievale con una sua ben precisa collocazione cronologica. In realtà, come lo stesso autore del libro indirettamente e tra le righe afferma, la Mistica non dovrebbe essere una "teologia" accanto ad altre teologie, ma una dimensione della teologia tout court. O la Teologia è teologia mistica o non è Teologia. Purtroppo ciò non può essere dato per scontato perché dopo la lunga stagione della separazione tra Teologia e Mistica, oggi quest'ultima soffre di una doppia e fuorviante sollecitazioue. Da una parte è fortemente screditata, almeno in alcune sue espressioui, dall'altra è catturata dalle tante forme di esoterismo che attualmente vivono una favorevolissima congiuntura. Giustamente H.K. Kandler
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Professore di 'reologia dogmatica nello Studio Teologico S. Paolo di
Catania. 1 K.-H. KANDLER, Christliches Denken ùn Mitte!after, «Kirchengeschichte in Einzeldarstellung, l/11», Evangelischc Verlagsanstalt, Leipzig 1993.
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Maurizio Aliotta
denuncia la falsità di queste due posizioni, rammentando che la Mistica altro non è che un fenomeno originario religioso che esprime un'esperienza di Dio e una unione con lui'. Per Tommaso d'Aquino la mistica è cognitio Dei experùnentalis. Nulla di esoterico perciò, né di alternativo della capacità cognitiva dell'uomo. Oltre e prima di Tommaso, la grande Tradizione vede nella Mistica l'esperienza dell'unio mystica con Dio e tenta di descriverla, sebbene vi sia la consapevolezza dell'inadeguatezza delle forme espressive di cui l'uomo dispone. Questa è la causa della priorità accordata alla "via negativa", cioè a dire quello che Dio non è ("Teologia negativa"), oppure all'uso di immagini e simboli. Entro quest'ultimo filone si inseriscono i tentativi di esprimere l'unio mystica usando un linguaggio che, andando oltre la pura 1
concettualizzazione, rin1anda diretta1nente all esperienza e di cui si ha
quotidiana prova. In particolare ci si riferisce all'ambito della relazione intersoggettiva, che può essere caratterizzata dall'interscambio e dall'unione. Ora, l'unio n1ystica tra uomo e Dio non annulla le differenze, 111a permette una esperienza di comunione tra un Io e un
Tu, vissuta come l'essere uno pur rimanendo ciascuno nella propria identità. In altri termini, è l'esperienza del trascendere se stessi nell'incontro con l'altro, espressa dai termini eros ed erotismo. Sfortunatamente oggi questi termini sono abusati e usati in un senso peggiorativo. Tuttavia fino all'epoca medievale i teologi hanno fatto largo uso del linguaggio dell'eros per esprimere l'unio mystica. Tra i teologi di primo piano a cavallo tra !'Xl e il XII secolo, Ruperto di Deutz si distingue per l'uso della simbologia erotica e merita, perciò, la
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Ibid., 109. Per la discussione sul rnpporto tra 1nistica e teologia e la responsabilità della teologia come scienza, cfr. H.U. von BALTHASAR, Teologia e santità, in Verbu1n Caro, tr. it., Morcelliana, Brescia 1968, 200-229 (l' art. era co1nparso per la prima volta in Wort und Wahrheit 3 [ 1948] 881-897); ID., Per detenninare dove si colloca la 1nistica cristiana, in Lo Spirito e !'istituzione, tr. it., Morcclliana, Brescia 1979, 256278 (pure in W. BEIERWALTES, H.U. von BALTHASAR, A. M. I-IAAS, Grt111((frage11 der Mystik, «San1n1lungkritericn 33», Johanncs Verlag, Einsidcln 1974; L. MALEVEZ, Pour une théologie de la foi, Desclée, Paris 1969, 216-258; G. RUGGIERI, La co111pagnia della fede, Marietti, Torino 1980, 45-59).
____ La teolog_ia mistica di Ruperto di Deutz
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nostra attenzione 3 • Egli descrive le esperienze di unio mystica attraverso il linguaggio preferito dal mistico, cioè quello dei sensi, legato alla dimensione corporea. Come oblato del monastero di Saint-Laurent di Liegi, Ruperto ebbe come prima fonte della sua formazione la Bibbia. Il suo immaginario e il suo linguaggio furono influenzati soprattutto dal Cantico dei cantici e dall'Apocalisse4 . Oltre a ciò non mancò di una formazione letteraria di qualità, grazie all'eccellente stato delle scuole di Liegi nell'XI secolo. Esse godevano di una buona fama tanto da attirare studenti dall'Inghilterra, Normandia, Spagna e Boemia'. Tra le sue fonti letterarie classiche troviamo Virgilio, Orazio, Prudenzio 6 , ma l'ampia biblioteca di Saint-Laurent gli consente pure una buona conoscenza dei Padri 7 • In particolare sue fonti dirette sono Agostino e Boezio. Nei limiti concessi da un articolo, dopo aver posto alcune necessarie premesse di ordine generale e metodologico (I), saranno esaminati i testi più rilevanti di Ruperto ove ricorre questo linguaggio,
'.l Le notizie sulla vita di Ruperto sono relativaincnte scarse. Nasce intorno al 1075 a Liegi, o nei pressi di Liegi, e per questo talvolta è chiamato Ruperto di Liegi, 1na orainai prevale l'uso di chianu1rlo col nome dell'abbazia di cui fu abbatc a partire dal 1120 fino al 1129, anno della sua 1nortc. Partecipò altiva1nente, da giovane monaco, alla lotta tra potere in1periale e papato parteggiando per il partito ro1nano. Ciò gli costò lunghi anni di esilio. E' l'autore più prolifico del suo tempo
co1nponendo le sue opere 1naggiori nell'arco degli ultimi venti anni della sua vita, cioè a partire dal 1109, anno della rnortc di Anselrno d'Aosta. Tra i diversi studi che gli sono stati dedicali negli ultin1i anni, una presentazione globale della sua vita e delle sue opere è offerta da J. H. VAN ENGEN, Rupert of Deutz, University of California Prcss, Barkeley - Los Angeles - London 1983; per i dati biografici, M. L. ARDUINT, Contributo alfa biografia di Ruperro di Deutz, in Studi Medievali 3a ser. 16(1975) 537582. 4 Cfr. J. H. V AN ENGEN, Rupert of Deutz, cit., 33-34. 5 Cfr. S. BALAN, les sources de l'histoire de liège au Moyen Age. Etude critique, Bruxelles 1903; CH. RENARDY, Les éco!es /iégeoises du X/e au Xl/e sièc/e: Grandes /ignes de leur évo!taion, in ReFue Beige de Philosophie et d'Histoire 57 (1979) 309~328. 6 Cfr. H. SILVESTRE, les citations et rél11ù1isce11ces c/assiques dans l'oeuvre de Rupert de De11tz, in Revue d'Histoire Ecc/ésiastique 45 (1950) 140-174; Io., Rupert de Saint-la11re11t et /es auteurs c!c1ssiques, in Méfanges Felix Rousseau, Bruxelles 1958. 7 Cfr. J. H. VAN ENGEN, Rupert <~( Deutz, cit., 42-48.
IO
Maurizio Aliotta
senza trascurare il confronto con altri autori significativi del suo tempo (Il).
I. LE RADICI DELLA TEOLOGIA
I. Una conoscenza esperienziale
Ruperto fonda la sua teologia principalmente sull'esperienza. In questo egli prende posizione nei confronti della filosofia e della dialettica. Per le sue posizioni fu criticato da alcuni dei più noti teologi del suo tempo: Algero di Liegi, Anselmo di Laon, Guglielmo di Champeaux, Guglielmo di Saint-Thierry e San Norberto di Xanten 8 • L'accento posto sull'esperienza e la critica alla dialettica non debbono far pensare ad un antidialettico sic et simpliciter. I giudizi negativi sulla filosofia e i filosofi significano soprattutto un rifiuto della filosofia pagana erronea9 . Il valore accordato all'esperienza è speculare del rifiuto della pedanteria e dei vuoti sofismi contro cui Ruperto si pronunzia. Egli potrebbe essere quasi definito un "libero pensatore" dell'ortodossia cattolica'" . D'altronde questo atteggiamento non è isolato. Un buon dialettico ed un cultore delle arti liberali a cui dedica anche un poema, Alano di Lilla (1120 ca. - 1210), mentre sostiene la necessità dello studio delle arti liberali per l'uso corretto della ratio in teologia
8 J toni ed il contenuto delle polen1iche contro Ruperto sono vari. Nella lettera dedicatoria al Conuncnto al Vangelo di Giovanni, egli si riferisce a dispute molto dure e a "1nalevoli detrattori" (Co111111entaria in evangeliu111 sancii !ohan11is, Epistula ad Cu11one111, CccM 9, hr. v. RH. Haackc, Brepols, Turnholti 1969, 2). Non sc1nbra questo il caso di Guglielmo di Saint-Thicrry, conten1poraneo e conterraneo di Ruperto, che usa toni sempre rispettosi dcll'abbate di Deutz. Su questa controversia, cfr. A. M. PIAZZON!, Gugliel1110 di Saint-Thierry. li declino dell'ideale n1011astico nel secolo Xli, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Ro1na 1988, 37 - 65. 9 E' questa l'opinione di M. GRAB/\1ANN Geschichte der Scholastische Metllode, voi. II, Herdcr, Freiburg i1n Br. 191 J, 100-104. E' stato anche notato che nella pole1nica contro i suoi avversari, egli si rivela un 1naestro di dialettica, cfr. M. L. ARDUJNI, Neue St11die11 iiber Rupert van Deutz. Sieben Beitriige, Respublica-Verlag, Siegburg 1985, 8. 10
L.c.
La teologia mistica di Ruperto di Deutz --------------
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(Prologo della Summa), nello stesso tempo scrive: «Fratres karissimi, intuendum est quis loquitur, et de quo loquitur. Deus loquitur, ad nos, miseros clericos, loquitur, de nostris inanibus et frivolis studiis loquitur, qui theologiam relinquimus, et ad inanes et transitorias scientias curri1nus, qui contempnimus celesten1 scientia1n et currimus ad inanem philosophiam; immo, quod pessimum est, deserimus celesten1 scientiam et currimus ad negotiatione1n terrenam. Certe, clericus qui sectatur negotia terrena apostata est, mercenarius est; talis clericus redit ad vomitum; respicit retrosum, cum uxore Loth mutatur in statuam salis; cum Loth non audet ascendere superciliuin montis» 11 • Anche l'abate di Deutz apprezza il ruolo delle arti liberali ed il servizio che possono rendere alla Teologia 12 . Nel trattato Donum scientiae, alla fine del De sancta Trinitate et operibus eius spiega la relazione tra sapere profano e sapere teologico. Egli vede le sette arti liberali come ancelle della sapientia, la Teologia, che è la loro signora 1.i. La funzione ancillare del sapere profano non va confusa con la sua disistima", né con la svalutazione della ratio. Anzi quest'ultima, per Ruperto, ha il compito di ricostruire nell'uomo quell'imago Dei che gli appartiene per essenza. In ciò Ruperto segue sant'Anselmo d'Aosta, ma va oltre in quanto considera la ragione come strumento per migliorare il mondo in cui si vive". La ragione è dono di Dio alla sua creatura. Usando i termini della parabola evangelica, Ruperto parla di talentuni rationis 16 • La ratio è perciò una caratterizzazione
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Serino de c!ericis ad theologia111 11011 accedentibus, ed. M.-T. d'Alverny, A!ain de Lil!e. Textes inédits, «Etudes dc Philosophie 1nédievalc, LII», Vrin, Paris 1965, 274. 12 De sancta Trinitate et operib11s eius, De operibus Spiritus Sancti, l. 7, c. 10-17, CCCM 24, edidit R. Haacke, Brcpols, Turnholti 1972. !} Cfr. ibid., I. 7, c. 10, CCCM 24. 14 Perciò l'attcggia1nento di Ruperto non può essere confuso con quello degli avversari delle scienr.e profane e dei sostenitori della se1nplificazione dei program1ni degli studi, chiainati da Giovanni cli Salisbury, nel Metalogicon, Cornificiani. 15 Cfr. M. L. ARDUINI, Neue Studie11, cit., X. 16 «Co1nn1issu1n inquam est hon1ini rationis talentu1n quod si bene expcnderit ipse re1nunerabitur si aute1n in terran1 clefoderit auferetur ab eo et ipse punietur» (f)e sancta Trinitate et operibus eius, J. 2, In Genesùn li, CCCM 21, eclidit R. Haacke, Brcpols, Turnholti 1971, 209).
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Maurizio Aliotta -----
dell'anima dell'uomo. Usando lo schema agostiniano delle vestigia della Trinità nell'uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio, nella sua opera giovanile Liber de divinis ofjiciis Ruperto distingue nella creatura razionale tre elementi: spirito (o anima), razionalità, amore (dilectio). La distinzione è fondata su di una analisi di tipo fenomenologico. Infatti si constata che nell'uomo non c'è razionalità senza anima, ma l'anima umana si distingue da quella animale (anima pecoris), che è solo sensitiva, proprio per essere razionale. La razionalità, poi, si distingue dall'amore, perché non c'è amore senza razionalità, ma può esserci razionalità senza amore, infatti tutti gli uo1nini e tutti gli angeli sono esseri razionali, 1na non ogni uo1no e non ogni angelo hanno l'amore di Dio. Dunque anima, razionalità e amore sono tre realtà distinte (per questo l'uomo è immagine di Dio Trinità, dove vi sono tre persone distinte, il Padre, il Figlio e lo Spirito)". Quando un teologo o un filosofo cristiano medievale parlava di anima dell\101no sottintendeva l attributo "razionale". Agostino, la cui influenza fu determinante sul pensiero del Medioevo latino, affermava che «nihil invenimus an1plius in hon1ine, quan1 carnen1 et anima1n: lotus homo hoc est, spiritus et caro. [ ... ] Vero parte, quam vocant mentem rationalem, illam qua cogitat sapientiam, inhaerens domino ian1 et suspirans in illum» 18 . La ratio agostiniana è l'organo con cui l'uomo percepisce l'illuminazione di Dio: «Consilium sibi ex luce dei 1
dat ipsa anin1a per rationale1n 1nente1n, unde concipit consilium fixu1n in aeternitate auctoris sui» 19 •
Per Ruperto la ratio umana è essa stessa luce. Una luce che illumina la coscienza e consente così di discernere il bene dal male"'· Questa illu1ninazione razionale è di tutti gli uomini, senza distinzioni, perché la ratio appartiene all'uomo 111 quanto creatura, indipendentemente dalla sua condizione attuale di peccatore. La
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De diviniis officiis, lib. 11, CCCM 7, edidit R. 11aacke, Brepols, Turnholti 1967, 383. 18 Enarrationes in Psabnos, Ps 145, 5, SL 40, linea Sss .. 19
L.c. Per questa funzione della ratio, cfr. ALANO Dr LILLA, Reguie, r. 99, ed. N.M.H8.ring, Magistri Alani Regule celestis iuris, in AHDLMA 57 (1981), 204. 20
La teologia mistica di Ruperto di Deutz ------
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posizione di Ruperto si fonda evidentemente sull'antropologia biblica dell' "immagine di Dio", che appartiene all'intera tradizione cristiana: «Ad imaginem quippe dei quae filius est sicut apostolus ait de ilio loquens: qui est imago dei invisibilis et alibi: qui cum sit splendor gloriae et figura substantiae eius ad imaginem inquam dei sive figuram substantiae eius homo conditus est in eo quod rationalis est ad similitudinem vero in eo quod divinae bonitatis imitator conditus est quod proprie sancti spiritus opus est» 21 • «Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza» (cfr. Gen 1, 26.27): secondo l'immagine in ciò che ha di razionale ed eterno, secondo la somiglianza in ciò che lo spinge ad imitare la bontà di Dio. Se la so1niglianza viene meno col peccato, non così l1in1n1agine. La luce della ragione, dunque, permane sia nei buoni che nei cattivi. 1 malvagi, in cui pern1ane la luce razionale, sono perciò inescusabili (cfr. Rom 1; Gv 3, 19 et al.). Nel testo sopra citato, Ruperto interpreta la coppia giovannea luce - tenebre con la coppia ragione - coscienza. Coniuga antropologia (imago Dei) ed etica (discretio rationis). Nell'antropologia dei teologi del XII secolo era diffusa una divisione delle facoltà dell'anima, sintetizzata nel De spiritu et anima, uno scritto falsamente attribuito ad Agostino e che godette per questo di una grande autorevolezza. In esso la facoltà che dispone l'uomo all'esperienza mistica non è la ratio, ma l'intelligentia 22 • Unificando nella ratio le facoltà del discernimento e della contemplazione, rispetto ad altri teologi Ruperto offre una concezione meno intellettualistica dell'esperienza mistica. Ciò è possibile perché la ratio è legata all'antropologia dell'immagine e diventa organo di
21 Liber de divinis oJficiis, lib. 11, CCCM 7, 389. 22 «Ratio est ea vis aniinae, quae rerun1 corporearun1 naturas, formas, diffcrcntias, propria cl acciclentia pcrcipit [... ]. Intellectus ca vis anin1ae est, quae invisibilia percipit, sicut Angelus, ùacn1ones, anin1ac et omnem spirituin creatu1n. Jntelligentia ea vis est, quac in1n1eùiate supponitur Deo: cernit siquiùem ipsum su1111nu1n veruin et vere incon11nutabile1n. Sic igitur anin1a sensu percipit corpora, iinaginationc corporu1n similitudines, ratione corporun1 naturas, intcllectu spiritu1n creatu1n, intclligcntia spiritu1n increatum. Et quidquid sensus percipit, i1naginatio racpracscntat, cogitatio fonnal, ingeniurn investigal, ratio judical, memoria servat, intellecLus separat, intelligcntia comprehendit, et ad meditationctn sive conte1nplationem adducit» (lJe spiritu et anùna, c. 11, PL 40, 787).
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Maurizio Aliotta
percezione dell'illuminazione di Dio, oltre che la facoltà che distingue, separa, secondo l'etimo di discretio, il bene dal male. La peculiarità di qnesta antropologia fondata sulla rivelazione biblica, letta alla luce della tradizione agostiniana, sarà più chiara se confrontata con una posizione diversa. Prendo a modello del confronto Teodorico di Chartres, rappresentante tipico di quella scuola in cui ritroviamo preoccupazioni e temi distanti da quelli dell'ambiente monastico a cui apparteneva Ruperto. Ricordo in particolare il ruolo che gioca la nozione di natura e la mediazione dei classici per i teologi chartriani. In Teodorico abbiamo una distinzione delle facoltà dell'anima sostanzialmente simile a quella del De spiritu et anima: senso, immaginazione, ragione, intelligenza e intelligibilità. La funzione della ratio è propriamente quella di cogliere la "forma" delle cose mediante un processo di astrazione. Ciò che è interessante, e che fa la differenza tra Teodorico e Ruperto, è che nella definizione di ratio è contenuto il riconosci1nento della sua autonomia, infatti ratio est vis anùnae sui agilitate sese 1novens 2-1. E. Maccagnolo traduce il testo: «la facoltà capace di muoversi per la sua stessa capacità di spingersi innanzi» 24 . Il testo preso in se stesso potrebbe rivelarsi oscuro senonché qualche paragrafo avanti Teodorico sostiene che «quando il moto della ragione coglie l'universale, l'anin1a stessa diventa ragione e occupa una posizione mediana ugualmente distante dagli estremi. Così, in quanto si volge verso l'alto, e coglie la verità diventa disciplina. E, infine, in quanto si estende fino alla incomposita totalità di tutte le cose, diventa intelligibilità, che è propria di Dio e di pochissimi uomini» 25 • Questo testo ci dice che l'anima ha la possibilità mediante la ragione di giungere alla contemplazione della "incomposita totalità delle cose", cioè Dio, che è appunto «unità che tutto unifica in sé, senza che divisioni introducano la varietà» 26 . Il proprio della ragione invece è cogliere la pluralità e la divisione. Si noti, per inciso, che qui l'autore
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Glossa al /)e Trinita!e di Boezio II, 6.
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TEODORICO DI CHARTRES, GUGLIELMO DI CONCllES, BERNARDO SJLVESTRE, //
divino e il 111egacos1110. Testi filosofici della scuola di Chartres, a cura di E. Maccagnolo, Rusconi, Milano 1980, l 21. 25 Glossa li, 9, tr. it. in Jbid., 122. 26 Glossa Il, 14; tr. it. in !bid., 124.
La teologia mi5!ica di Ruperto di Deutz
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rimanda a Platone: «L'intelletto è peculiare di Dio e di pochissimi uo1nini eletti» 27 . Vi è dunque un progresso della ragione, cioè un suo passaggio alla disciplina, prima, alla intellegibilità, poi. E' un progresso di natura ex-statica perché consiste nel passaggio dalla ragione alla disciplina e dalla disciplina alla intellegibilità, precisando che «la disciplina considera quelle stesse fanne nella verità, e l'intelligenza la verità stessa infinita»"- Questo progresso non è frutto di una illuminazione dall'alto né vi agisce un impulso esterno all'uomo. Essendo ricondotto al moto della ratio scaturisce dalle stesse facoltà dell'anima dell'uomo, che ad un certo momento del processo conoscitivo si identifica con la ragione, quasi per un procedimento di espansione. D'altra parte, «bisogna volgersi alla cose che sono naturalin, "secondo ragione", a quelle che sono "matematiche", "secondo disciplina", e a quelle che 11
sono "tcologichc 11 , secondo intelligibilità» 29 •
In Ruperto abbiamo una posizione molto diversa perché la sua antropologia non è di tipo fisico-naturalistico, ma psicologicospirituale. In Teodorico la contemplazione è l'esito di un processo conoscitivo fondato sull'intelletto umano. ln Ruperto la contemplazione è il processo conoscitivo fondato sull'azione dello Spirito Santo, che è amore. Egli, dunque, non considera la ratio uno strumento puramente fisico-naturale, piuttosto psicologico-creaturale e in quanto dono possiede una particolare forza legata alla disposizione alla profezia e alla esperienza mistica. A riprova di ciò la vita stessa di Ruperto è stata segnata da questa coscienza profetica e simbolica, che tante difficoltà gli causò con i suoi contemporanei. Poiché era accusato di non avere una buona
formazione accademica, egli si difende ricordando il rigore della sua forn1azione, n1a nello stesso tempo il valore dell'esperienza mistica:
«Manifestino dunque quei sapienti quanto essi vogliono, né tengano celati i no1ni dei loro padri, ai quali sola1nente, con1e essi dicono, è
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Tilneo Sic. Glossa II, 2; tr. il. in TEODORICO DI CHARTRES, BERNARDO SILVESTRE, I/ divino e il 111egacos1110, ciL, 120. 29 Glossa II, 28; tr. it. in ibid., 129. 28
GUGLIELMO DI CONCHES,
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Maurizio Aliotta
stata data la terra, cioè la Scrittura e la scienza delle arti liberali. Io, benché abbia avuto alcuni padri nelle discipline della scuola e sia stato diligentemente impegnato nei libri delle arti liberali, questo dichiaro che la visita ricevuta dall'Altissimo fu per me migliore di dieci padri di tal arte e dalla sua verga spesso fui percorso sulle labbra»"'· Come si vede, per giustificare la legittimità della sua teologia Ruperto si rifà ad una esperienza spirituale, visitatio ab Altissimo". All'esperienza si rifà per giustificare la sua necessità di esprimersi,
30 «Confitcantur ergo sapientes illi quantu1n volunt, nec abscondant patres suos, quibus solis, ut aiunt, data est terra, id est Scripluraru1n artiurnquc liberaliun1 scientia. Ego, qua1nvis et ipse nonnu!los in disciplinis scholaribus patres habucri1n, et in libris artiurn liberalium non segniter studiosus cxstiterirn, hoc profiteor, quia visitatio ab Allissi1no inclior 1nìhi est qua1n decem patrcs cius1nodi, cuius sub virga sacpc in labiis percussus)> (!Je gloria et honore Filii ho111inis super Mattheiun, I. 12, CccM 29, edidit R. Haackc, Brepols, Turnholli 1979, 385s.). Ruperto introduce questa risposta affennando: «non ex pracsutnptìone proprii cordis, scd cx dono 1nihi accidissc gratiae Don1ini, ex dignationc Spiritus sancti, fiduciam talem habcrc traclandi sanctarum Scripturarun1 sacran1cnta, et quod nullo modo facultatc1n hanc assequi potuissc1n, nisi per spiritum bonun1, de quo vcl a quo bona cuncta procedunb>
(ibid., 385). L'istruzione interiore ad opera dello Spirito, accanto ad una istruzione esterna ricevuta nella co1nunità, è un terna vivo nella tradizione cristiana, affondando le sue radici nell'insegnainento dell'apostolo Paolo, cfr. H. ScHORMANN, Haben die pau/inischen Wertungen und Weisungen Model!charakter?, in Gregorianu1n 56 (1975) 237-269. Nella tnidizione prossin1a a Ruperto non rnancano esen1pi chiari. San Bruno (1035 1101), l'iniziatore dei certosini, rivolgendosi a dci fratelli illetterati scriveva: «Gaudcamus et nos quoniam, cu1n scientiac Jittcraruin cxpertes sitis, potens Deus digito suo inscribit in cordibus vestris, non solum mnorcm, scd et notitia111 sanctae legis suae (cf. Gcr 31, 33)» (Ad filios suos cart11sie11ses, 3, Se 88, 84). JI Il tcrn1inc visita/io ha assunto nel ternpo un significato liturgico e giuridico (rispettivamente la fesla della Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta, che i francescani cominciarono a celebrare a partire già dal XIII secolo, e la ispezione canonica). In Ruperto, invece, possiede ancora un significalo più pregnante, riferendosi ccrtainente al racconto evangelico della visita di Maria ad Elisabetta, n1a indicando pure la presenza di Dio nell'aniina, come chiarisce in alcuni testi: «Visitatio nan1quc dci larga grntiae eius donalio est» (De sancta trinitate et operibus eius, lib. 6, In Genesùn VI, CccM 21, 393). Si noti che quest'esperienza è possibile per la facoltà dell'anima razionale ed assume Ja forma della conoscenza contc1nplativa, coinc è detto richian1ando l'esperienza di Elia (I Re 19): «Veru1n per illun1 in Elia sibilutn aurac tenuem frequentior quoque visitatio designatur qua divinitatis auram degustat mens quoties in conte1nplationis sublimitatc suspcnditur» (Liber de divinis ojficiis, lib. 1O, CCCM 7, 345).
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17 La teologia mistica di Ruperto di Deutz - ---- --- -----------------------
nonostante altri prima e meglio di lui l'avessero già fatto 32 . Secondo la' opinione di P. Miquel Ruperto è «uno dei primi autori latini ad impiegare in modo massiccio il vocabolario dell'esperienza per definire o descrivere la relazione spirituale dell'uono con Dio» 33 • Che non si tratti solo dell'affermazione di un principio ce lo conferma il Prologo del Commento al Cantico dei cantici, dove l'autore ricorda una visione che ebbe da ragazzo e che gli schiuse il senso delle Scritture che si accinge a commentare'''. Qui l'interpretazione che egli dà del Cantico è posta in relazione ad una esperienza concreta, una visione che diventa il punto di partenza della sua interpretazione, che è veramente peculiare perché è
32 Cfr. Il Prologo del Co111111e11fo all'Apocalisse, PL 169, 827 e il Co111111e11to a Matleo: «Experirnento didici, sed hoc ipsuin ti1ncns confiteor [... ] Et quac 1nc neccssitas cogit istud confiteri, quod tale quid experi1nento didiccri1n? [ ... [ Cctcris dico et hoc dixisse satis sit, quia revera ctian1 si tacere sivc a scribcndi studio cessare voluero, non vuleo, et hoc 1nihi non concedi scio et bene sentio, et in hoc gaudco [ ... ] bonum et ncccssariu1n non posse tenere, gloriosu1n est, quernadmodu1n Hierc1nias tenere non valens, cun1 dixisset; EL factus est n1ihi scrmo Do1nini in opprobiu1n f... ], ita subiunxit: Et factus est in corde 1neo quasi ignis exaestuans claususque in ossibus rneis, et dcfcci fcrrc non sustinens (Ger 20, 8-9)» (Super Matt., lib. 7, CCCM 29, 196). JJ P. MlQUEL, le vocabulaire de l'expérience spirituelle dans la tradition 111onastique et canoniale de 1050 à 1250, Bcauchesnc, Paris 1989, 56. 34 «Ante annos aliquot cu1n essein iunior cingere 1ne voluera1n et huius no1ninis opus aggrcdi scilicet de incarnatione do1nini per occasionen1 huius1nodi. Coram regina cacloru1n loquor a converso meo quolibet irrideri non debeo dicente; ecce somniator. Sedeban1 quasi solitarius per visun1 noctis et ecce quasi sibilus aurae tenuis per utran1quc aurc1n transcurrens velocius quain dici potest istos in 1nc versiculos deposuit: fe1nina 1nentc dcuin concepit corporc christum: integra fudit eun1 nil operante viro cu1n reversus ad n1e vcrsiculos taliter acceptos mente pertractare1n et nonnullis unde ve! qualiLer acceperi1n sccretius non sine ad1niratione denarrare1n atque ad 1nultoru1n notitiarn versiculi pervenissent qui ta1nen nescirent unde accepissc1n cx 111ultis et diversis quae audiebain occasio se praebuit ut scribere aliquid cupercn1 ùe incarnatione don1ini versaturus grande onus invalidis hu1neris. Circa ide1n tcmpus cl hoc aliud accidit: fratcr quida1n innocentis vitae et 1nundac ac siinplicis aùolcscenliae rctulit n1ihi se vidisse filiu1n Luun1 don1inum noslnnn iesun1 chrislurn sedente1n super altare suun1 et circa eurn collegiu1n sancton1n1 1ne que assidente1n cutn quiete et tenentem cantica canticon11n» (Co111111e11taria in Ca11tic11111 ca111icon1111, Prologo, Cccr.,,1 26, edidit R. Haacke, Brepols, Turnholti 1974, 5-6). Cfr. pure quanto l'a. dice nella sua autobiografia, nel XII libro del Co111111ento a Matteo. Sulle visioni 1nistiche di Ruperto, cfr. R. HAACKE, Die n1ystischen Visionen Ruperts von Deutz, in Sapientiae Doctrina: Mé/anges doni 1-/ildebrand Bascour O.S.fl., Louvain 1980, 68-90.
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nmariana del Cantico 35 . La sua interpretazione spirituale trae perciò la sua ispirazione da un'esperienza mistica che egli stesso descrive. D'altra parte egli chiaramente afferma la preminenza di questa forma di conoscenza teologica sulle altre: «Perché poi nessuno sa questo nome, se non colui che lo riceve? Naturalmente perché non produce la sua conoscenza un insegnamento estraneo, ricevuto dal di fuori, ma l'esperienza personale fatta interiormente»'"· Anche in questo testo Ruperto esprime chiaramente il suo apprezzamento per l'esperienza (proprium intrinsecus experùnentunz), qualificata come personale e interiore. Interiorità e immediatezza: questa conoscenza del nome (di Dio) non può essere frutto di una conoscenza accademica, ma di quella conoscenza, 1unica possibile, frutto del propriuni intrinsecus experimentum. In una breve nota biografica sull'abate di Deutz leggiamo: «Rupertus Tuiticnsis monasterii abbas, a Spiritu Sancto per visionem illuminatus, totam pene Scripturam egregio stylo exposuit» 37 • La preminenza del sapere pratico su quello teorico è ribadita da Ruperto anche nel delineare il rapporto tra fede e conoscenza: «Non ante cognovimus et post credimus sed primum credimus et exinde cognovirnus quia videlicet non cognitio fidem sed fides praecedit cognitione1n»J 8. Più che l ansehniano credo ut intelligani, erede dell'agostiniano crede ut intellegas, è presente l'altro grande terna agostiniano dell'amore. I mistici, più degli speculativi puri, affermano la preminenza dell'atto vitale della fede e della conoscenza sull'oggetto della fede e della conoscenza. Sono in grado, in alcuni casi, di giungere ad una sintesi superiore in cui fede e conoscenza, soggetto ed oggetto dello conoscenza, sono interdipendenti nell'unità della la
prima
interpretazione
1
1
35
L'interpretazione tradizionale era ecc!csìologica, cfr. per i Padri greci il
co1n1ncnto di Origcnc, per i Padri latini Gregorio Magno, 0111elie sui vangeli, Oin. 17,
14. 36
«Quare auten1 hoc nomen ne1no scii, nisi qui accipit? Vid., quia non1inis hujus scientiain, non nlienun1 extrinsecurn docun1entun1, sed proprium intrinsccus cfficit cxpcri1ncntu1n» (In Ap., I. 12, c. 2: PL 169, 881 AB). 7 "' 0NORIUS AUGUSTODUNENSIS, De fta11i11arib11s Ecc!esiae., I. 3, c. 16: PL 172, 232 A. 38 Co111111entaria in eva11ge/iun1 sancii !ohannis, lib. 7, CCCM 9, 378.
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persona che pone l'atto vitale. Ciò avviene per esempio nel contemporaneo di Ruperto, Ugo di San Vittore (+ 1145 ca), quando afferma: «Duo sunt in quibus fides constat: cognitio et affectus. In affectu enim substantia fidei invenitur; in cognitione materia. Aliud enim est fides qua creditur, et aliud quod creditur. In affectu invenitur fides, in cognitione id quod fide creditur. Propterea fides in affectu habet substantiam, quia affectus ipse fides est» 39 • La conoscenza appartiene già costitutivamente alla fede, ma assieme all'affectus, in cui si scopre la substantia della fede. L'atto vitale è prioritario, benché non esclusivo, tanto che si identificano affectus e fides. Nel capitolo successivo a quello del testo citato, Ugo precisa che vi sono tre gradi della conoscenza certa e retta: «Isti sunt tres gradus promotionis fidei, quibus fides crescens ad perfectionem conscendit: primus per pietatem eligere, secundus per rationem approbare, tertius per veritatem apprehendere» 41 '. L'argomentazione che Ugo sviluppa in questa parte della sua opera si conclude riconoscendo che la fede cresce nell'ordine intellettuale con la scienza e nell'ordine affettivo con la devozione: «Secundum cognitionem fides crescit, quando eruditur ad scientiam; secundum affectum crescit quando ad devotionem excitatur et roboratur ad constantia1n»"' 1. Ruperto non giunge alla sintesi del Vittorino e resta ancorato alla sua preoccupazione di affermare il valore dell'esperienza mistica in ordine alla scienza della fede. Commentando un testo del libro dei Giudici identifica la conoscenza col desiderio di Dio: «Terra namque arens est prima gratia rernissionis peccatorum quam in baptismo pariter on1nes accepin1us irrigua vero acquis cognitio vel desideriu1n
caelestium bonorum quod in diversis diversa operator unus atque idem spiritus dividens singulis prout vult>>"12 • Altri testi fanno emergere un'altra caratteristica di questa conoscenza personale e interiore: la "sensibilità". Comn1entanclo
39
De sacrr1111e11tis, I, X, 3: PL. 176, 332. lbid., I, X, 4: PL 176, 333. Questo testo sarà citato da san Bonaventura nel suo Senno IV, in Opera 0111nia V, 567. 4t L.c. 42 De sancta trinitate et operibus eius, lib. 21, In !ibnun Iudicu111, Ccctv1 22, edidit R. Haacke, Brepols, Turnholti 1972, 1148. 40
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l'episodio di Tamar (Gen 38) giustifica la sua opera, contro i sum denigratori, utilizzando il racconto biblico come un'allegoria: <<Cognosce et tu, si vis, utrum necne sit in scriptis 1neis annulus
fidei, baculus spei, armille caritatis, et dicentem audi animam meam: 'De viro, cujus haec sunt, concepi'. Nam et aliquod recolo in me sensibiliter factum, ut indubitantur dicam, quia "datum" hoc sive, 'dominum desursum est, descendens a patre luminum' (.Tac l)»"In Ruperto è accaduto qualcosa sensibilmente (in me sensibiliter factum); questa percezione sensibile di un fatto accaduto si trova nella teologia di Ruperto, che è perciò ricca di immagini sensibili, carnali che vogliono esprimere la relazione con Dio. Le similitudini che esprimono la relazione con Dio sperimentata (visitatio ab Altissimo, prOfJriuni intrinsecus experùnentuni, in n1e sensibiliter factun1) sono immagini a volte molto forti e altamente evocative, prese solitamente da ciò che esprime com immediatezza la sensibilità dell'unione e nello stesso tempo la trascende: l'esperienza erotica. L'uso di immagini erotiche per descrivere l'esperienza dell unione spirituale delJlani1na con Dio non deve meravigliare, perché nella tradizione spirituale cristiana l'esperienza non si riduce né ad una se1nplice soddisfazione del dovere da compiere, né si identifica con fenomeni metafisici più o meno spettacolari, riservati ad una cerchia ristretta di fedeli. E' descritta, invece, nei termini di un rapporto di amicizia che tutti possono aver vissuto e capire. Oppure in termini di una relazione d a1nore, utilizzando le immagini erotiche che vi si riferiscono 44 . D'altronde il simbolismo dell'esperienza erotica è comune a 1
1
molti mistici di religioni diverse e in ciò il nostro autore non si
differenzia da alcuni schemi ricorrenti. La sua peculiarità, come cristiano e co1ne n1onaco, gli viene da una forte concentrazione cristologica. Il centro della sua vita spirituale è Gesù Cristo: «Totus era1n possessus ab ea quae ine tacere non sinebat dilectione Verbi
4:1 !11 regula111 s. Benedicti, I. 1; PL 170, 498 B; cfr. De incendio oppidi Tuitii, c. 15: PL 170, 348 B. 44 Cfr. le osservazioni 1nolto pertinenti di P. MIQUEL, Le vocabu!aire de /'experience, cit., 16 ss. Questo studio è un pregevole strun1cnto di lavoro per la conoscenza dcl vocabolario dell'esperienza nei secoli XI - XIII. L'autore, però, non evidenzia l'uso del simbolis1no erotico nel contesto di questo vocabolario.
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Dei»"'· In questa professione di fede emerge tutta la forza dell'amore di Ruperto per il Verbo di Dio, una forza manifestata dall'immagine evocata dal concetto che egli usa (lotus possessus). Le sue opere non solo usano immagini erotiche per esprimere la sua relazione con Dio, ma esse stesse vengono concepite e giustificate mediante un'immagine erotica. Infatti tutta la santa dottrina e tutta la religione «pndice ambulabat et m sub honesto humilitate sacra1nentoru1n velamine Christi amatoris sui sese obsequio praesentat» 46 • H. De Lubac può paragonare l'opera esegetica di Ruperto «alla casta conquista di una vergine pudica, dalla quale si riceve a poco a poco il consenso e il rispetto» 47 . L'opera dell'esegeta è, dunque, quasi come la seduzione di una fanciulla casta, da cui ottenere un amore onesto. Mi pare che proprio la forte dimensione cristologica della sua vita spirituale e della sua teologia lo portino a concepire l'esegesi come un'opera di seduzione, dato che Cristo e Chiesa sono sposo e sposa e infatti egli parla di Cristo atnante I suoi co1nmenti alla Scrittura sono, egli dice, co1ne un profumo sparso sulla testa e i piedi del Signore". Cristo è lo sposo da amare e a cui bisogna din1ostrare questo amore con segni e gesti concreti. Ma Cristo sposo è anche un rifugio: dinanzi ai suoi detrattori Ruperto si rifugia nel grembo di Gesù 49 . In questo modo Gesù è visto più come madre che come sposo; anche questo tema non è tipico di Ruperto, ma si ritrova sia in autori a lui contemporanei sia in autori posteriori 50 . 11
11
•
45 Div. off, Epist. ad Cuno11e111, CCCM 7, 2. 46 47 48 49
De sancta trinitate et operibus eius, lib. 6, In Genesùn, CCCM 21, 426. H. DELUBAC, Esegesi 111edievale, I, tr. it., Er, Rotna 1972, 417. Super Mali., I. IO, CCCM 29, 307s. !bid., Prologo, CCCM 29, 3-4. 50 Sulla 1natcrnità di Gesù Cristo, cfr. l'Oratio 65 di s. Agostino, s. Matilde di Hackearn (+1298), Margherita d'Oyngot (+1310), Giuliana di Norwich (+1373), certosino Hélion (XV sec.). Cfr. inoltre, A CASSADUT, Une dévotion 111édiéva/e peu connue: la dévotion à Jésus notre 111ère, in Rev. asc. 111yst. 25 (1949) 234-245; C. W. BYNUM, Jesus as Mother and Abbot as Mother, in Jesus as Mother. Studies in the Spiritua!ity of the /{igh Midd!e Ages, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1982; su Giuliana di Norwich cfr. M. A. PALLTSER, Christ, Our Mother of Mercy: Divine Mercy and Co111passion in the Theo!ogy of t!te She1vi11gs of Julian of Nonvich, Dc Gruytcr, New York 1992.
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L'importanza accordata da Ruperto all'esperienza e alla interpretazione mistica delle Scritture fa sì che l'unione dell'anima con Dio venga descritta in modi molto concreti e soprattutto attraverso i simboli erotici tratti dal Cantico dei cantici. Anche quest'uso non è un caso isolato, ma è comune alla letteratura mistica in generale e sopratutto a quelle religioni in cui l'amore gode un posto elevato nella gerarchia dei valori". Tra i mistici più noti della prima metà del XII secolo basti qui ricordare Bernardo di Chiaravalle, con i suoi Sennones super Cantica, e Ugo di San Vittore, il quale nel suo De contemplatione descrive il termine dell'ascesa dell'anima a Dio come un matrimonio spirituale, utilizzando la terminologia del Cantico. Ciò che caratterizza l'uso che ne fa Ruperto è una certa trasgressività, forse conseguenza dei due punti centrali pnma evidenziati, la sua cristologia e l'identificazione di Chiesa e anima. L'anima, poi, è paragonata ad una donna". Come ha osservato M. !del, le immagini erotiche usate per descrivere l'esperienza estatica possono essere classificate in due gruppi principali: «1) Immagini che rappresentano il legame spirituale tra l'amante e il suo amato, cioè descrizioni di emozioni come il senso della ,mancanza, la sottomissione, ecc. [... ]
51
Cfr. per la mistica ebraica, M. lDEL, L'esperienza 111istica di Abraha111 Abulafia, tr. it., Jaca Book, Milano 1992, 201. La tradizione ebraica, ricorre alla siinilitudinc della relazione nuziale anche per espri1ncrc l'i1nportanza dcl sabato. Il sabato (shabbat in ebraico è femminile) è la "sposa" della quale Israele è lo "sposo" e lra i due si intreccia una storia d't:unore, identica a quella dei due an1anti del Cantico dei cantici. Cfr. C. DI SANTE, Parola e Terra. Per 1111a teologia dell'ebraisnio, Marietti, Genova 1990, 96. 52 Conun. i11 ev. lohann., I. 14; De sancta trinitate et op., I. 15 e I. 23. Il paragone dell'ani1na con la donna è antico. Anche se in un contesto profonda1nente diverso, già Origenc lo usava: «Yidcan1us aute1n ctiam per allcgoriam quomodo ad imagine1n Dci ho1no factus 1nasculus et feinina est. Interior hon10 noster cx spiritu et anima conslal. Masculus spiritus dicitur, fe1nina anitna potest nuncupari» (Onielie sulla Genesi, 1: Po Xli, 158 C).
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2) Immagini che dipingono il legame fisico tra l'amante e il suo amato. Queste immagini sono più rare e per lo più usate per dipingere fatti che, per loro natura sono limitati nel tempo» 53 . Nel caso di Ruperto abbiamo molti testi che descrivono in maniera viva e concreta questo legame riferito ad episodi determinati della sua esperienza mistica. Perché il ricorso al Cantico e a immagini erotiche per esprimere questa esperienza mistica? Il Cantico era interpretato solitamente dai n1istici, come un discorso sull 1uomo interiore. Per co1nunicare la
propria esperienza interiore il mistico ha bisogno di immagini e simboli perché la concettualizzazione è insufficiente, se non inadeguata, in quanto si tratta di descrivere una relazione personale con la divinità. Non si tratta, infatti, di descrivere fenomeni strani o stati mentali, come avviene in altri contesti religiosi. Questa unio mystica ha tutto il carattere di una unione sponsale, cioè di unione profonda che giunge, a volte, fino alla fusione. Come esprimere un rapporto d'amore con Dio se non con imn1agini che rimandano ad un'esperienza a1norosa? Proprio con1mentando il Cantico, san
Bernardo scrive: «Quomodo enim graece loquentem non intelligit qui graece non novit, nec latine loquentem qui latinus non est, et ita de ceteris, sic lingua amoris ei qui non a1nat barbara erit» 54 . Sia1no dunque su un doppio versante: l'esperienza d'amore deve essere espressa con un linguaggio d'amore e chi non comprende il linguaggio d'amore non ha esperienza d'amore. Da qui la grande importanza del linguaggio allegorico, che ha la proprietà di contenere i due versanti. Vale ciò che dice M.-D. Chenu: «Intendiamo dapprima l'allegoria in senso generale, processo tipologico che applica, al di là della lettera del testo il valore simbolico delle realtà storiche, preparando e figurando a distanza i diversi contenuti del regno di Dio, i suoi contenuti di fede (mistero, senso "allegorico") , la sua morale (senso tipologico), il suo compiersi finale (senso anagogico); intendiamo soprattutto l'allegoria nel suo senso specifico, cioè la
53
M. IDEL, L'esperienza 111istica, cit., 202.
54
Super Cantica, Senno 79,l, Opera 011111ia, II, Ro1nae 1958, 272s.
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trasposizione attraverso cui le realtà bibliche preparano e significano la dottrina, il "mistero", che lo svolgersi dell'economia della salvezza ha rivelato» 55 .
2. Una.fonte scritturistica
Dom Leclercq individua l'interesse dei monaci medievali per il Cantico nel fatto che esso rappresentava ai loro occhi l'espressione del desiderio di Dio. Il dialogo tra lo sposo e la sposa significava il programma della vita monastica: quaerere Deum. «Il Cantico è il dialogo dello sposo e della sposa che si cercano, si chiamano, s'avvicinano l'uno all'altra e si vedono separati quando credono d'essere prossin1i ad unirsi definitivan1ente» 56 . Il Cantico dei cantici, originariamente poema profano che canta l'amore tra uomo e donna, diventa il simbolo dell'unione tra l'anima umana e Dio. Questo poema amoroso, dice M.-M. Davy, «presenta una filosofia, quella del "Santo dei Santi" che corrisponde all'età perfetta della vita spirituale. La via che vi si trova descritta giunge all'unione dell'anima con Dio, unione così totale che ha per termine l'unità dello spirito. Il Cantico, su questo piano mistico, è l'epitalamo dello sposo e della sposa, di Dio e dell'anima; questa, avendo superato '·le diverse tappe dell'amore, si muove nella carità. Come Dio, scriverà san Bernardo, è inaccessibile all'uomo senza il Cristo che funge da intermediario, come l'amore carnale precede quello spirituale, così un linguaggio puramente spirituale sarebbe incomprensibile. Per questo il Cantico impiega un linguaggio carnale e parla in enigmi; la lettera copre lo spirito come la paglia il grano»". La vera preoccupazione dei mistici è descrivere il loro rapporto personale con Dio e/o, per essere
55
M.-D. CHENU, La Teologia nel Medio Evo. La Teologia nel sec. XII, tr. it., Jaca Book, Milano 1972, 209. 56 J. LECLERQ, lnitiation aux auteurs n1011astiques du Moyen Age. L 1an1our des lettres et le désir de !Jieu, Cerf, Paris 19572, 85. (Tr. it. Cultura u111anistica e desiderio di [)io, Firenze 1965). 57 M.- M. DAVY, !nitiation a la sy111bo/ique ro111ane (X/le sièc!e), Flammarion,
Paris 1977, 125.
La teologia mistica di Ruperto diDeutz
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p1u precisi nel caso di Ruperto, con Cristo. E' questa relazione del fedele con il Cristo che costituisce l'oggetto proprio della teologia mistica di Ruperto. I principali simboli del Cantico che vengono ripresi dai mistici medievali sono l'abbraccio, la vigna, la gazzella, il deserto, la tortora, il vaso di mirra, la negritudine della sposa, il bacio, i seni. Di questi, alcuni appartengono direttamente alla sfera dell'esperienza erotica e ricorrono negli scritti di Ruperto, specialmente il "bacio". Si riferiscono alla Chiesa e all'anima individuale, per l'identificazione sopra ricordata, e segnano una precisa progressione: conoscenza, amore, unione, fecondità. Poichè i mistici non hanno interesse ad una esposizione sistematica dottrinale, ma descrivono la loro esperienza spirituale, come è il caso di Ruperto, le immagini erotiche sono le più adeguate, perché le più personali, le più aderenti ad un'esperienza di amore, che è sempre sensibile e mai solo intellettuale. La conoscenza a cui egli si riferisce è quella conoscenza d'amore che trova il suo paragone più aderente nella "conoscenza" coniugale". Si noti che il presupposto di questa forma contemplativa di conoscenza è sempre cristologico. Essa infatti è possibile mediante Cristo: "chi vede il Figlio vede il Padre" (cfr. Gv 14, 9). Il forte contenuto cristologico della sua vita spirituale e della sua teologia giustifica la sua esegesi mariana del Cantico. Ciò è coerente col suo modo cristologico di comprendere le Scritture: «[Quisquis] Christum sequi cupiens sacrae scripturae studiis incumbit et inde contemplativae vitae pulchritudinem delectabilem esse comperiens protinus ad eius
58
Liber de divinis officiis, I. 10, CccM 7, 337. L'applicazione della "conoscenza" coniugale alla conoscenza di Dio non è un caso isolato. Il riferimento all'esperienza dell'intin1ità coniugale si trova anche in maniera più a1npia riferita alla conoscenza dell'uon10 in autori successivi. Si veda per es. questo testo di Ildegarda di Bingen (1098 - J 179): «Hec sunt etiam instrumenta cdificationis hominis, que langendo, osculando et amplectendo comprehendit, cum ei tninistrant; tangendo scilicct quia homo in ipsis manet, osculando quoniam scicntiam cum ipsis habct, a1nplcctcndo quia nobilc1n potestatem cum eis exercel» (Episto[ariuni [pars prùna: 1XC], epist. lSR, CCCM 91, edidit L. van Acker, Brepols, Turnholti 1991, 35,linea 29). Sull'influsso di Ruperto su Ildegarda di Bingen, cfr. M. L. ARDUINI, Neue Studien, cit., 9.
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amplexus prorumpere gestit» 59 • Per questo, osserva molto acutamente H. De Lubac, il suo è non solo il primo commento "mariale ma anche «il primo commento organico che celebra le nozze di Cristo e della Chiesa nel loro principio: nel mistero dell'Incarnazione del Verbo. Né rapsodo, né novatore, egli vi canta questo "canticum novissi1numn, questo "canticum ainoris", nquo Deus in beatam Virginem deseendit, ita ut Filium ex ea generaret, qui est Christus Jesus, homo verus et Deus super omnia benedictus" (In Cant., pro!.: PL 168, 839-840)» 61 '. E' un commento "mariale" in quanto cristologico. Il passaggio dall'interpetazione ecclesiologica a quella cristologicamariale indica uno spostamento della sensibilità spirituale di Ruperto rispetto ad altri suoi contemporanei. Pare, infatti, che egli sia particolarmente concentrato sul rapporto del singolo con Dio 61 tanto da arrivare all'identificazone della Chiesa col fedele e del fedele con la Chiesa: «Quod de ecclessiis dictum est unusquisque et de se intelligat»'''. La Chiesa, poi, è paragonata alla Vergine Maria, oltre che alla luna e all'anima individuale, da qui si vede non solo la coerenza dell'interpretazione mariana con la concezione cistologica, ma anche con la particolare visione antropologica ed ecclesiologica di Ruperto. 11
,
59 De sancta trinitate et operibus eius, lib. 7, c. 31, /11 Genesùn, CccM 21,
466.
60 H. DE LUDAC, Esegesi n1edievafe, cit., 4 l 2s. Nel Trattato sui vangeli di Giovanni, sant'Agostino inlerpreta l'episodio delle nozze di Cana alla luce del mistero dell'incarnazione, identificando Gesù Cristo con lo sposo e l'u1nanità con la sposa, il seno della Vergine Maria come il talaino degli sposi: «Verbun1 eni1n sponsus, et sponsa caro humana; et utrurnque unus filius dei, el idcn1 filius hominis; ubi factus est caput ecclcsiae, ille uterus virginis Mariac thalamus eius, inde processit tan1quan1 sponsus proccdens de thalan10 suo, exsultavit ut gigas ad currcndam vimn; dc thalamo processil velut sponsus, et invitatus venit ad nuptias» (In lohannes evangeliuni tractatus, tr. 8, 4; SL 36, linea 19 ss.). Per quanto riguarda l'originalità dell'interpretazione mariana di Ruperto, J.H. VAN ENGEN, Rupert of f)eutz, ciL, 295 nota un interessante parallelo con un mosaico, quasi contemporaneo (ca 1140), in Santa Maria in Trastevere a Roma, dove la Vergine in trono, alla destra di Cristo, tiene un libro con dei versi tratti dal Cantico dei cantici. 61 Un particolare interesse Ruperto ha sempre suscitato presso i riformati, su questo tema cfr. J. BEUMER, Rupert von Deutz und sein Einffuss auf die Kontroverstheologie der Refonnationszeit, in Catholica 22 (1968), 207 - 216. Da un punto dì vista evangelico, K.-H. KANDLER, Christliches Denken, cit., 76 ritiene tragico il fatto che per secoli la Chiesa abbia din1enticato autori come Ruperto. 62 Con1111. in ev. sancii lohannis, l. 3, CCCM 9, 126.
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IL SIMBOLI EROTICI NELLA TEOLOGIA MISTICA DI RUPERTO
Le similitudini erotiche che Ruperto usa non si trovano solo nel Commento al Cantico dei cantici, ma sono sparse un po' ovunque nei suoi scritti. Per questo, procedendo nell'analisi dei testi che le contengono, ho adottato un criterio che, sebbene esterno all'autore, non ne forza l'intenzione. I brani sono stati classificati secondo uno schema progressivo suggeritomi da un testo di Riccardo di San Vittore (+ 1173) e che mi sembra essere presente nel pensiero di Ruperto. Riccardo riferendosi a qualtro gradi dell'amore, afferma: «In primo gradu fit desponsatio, in secundo nuptie, in tertio copula, in quarto puerperium» 63 • Lo schema qui suggerito è quello di conoscenza, amore, unione e fecondità. Ora, è questo lo schema che seguiremo per analizzare i testi in questione.
1. L'inunagine del bacio ovvero la conoscenza
Il bacio è il primo e il più sviluppato dei simboli utilizzati, per il semplice fatto che il Cantico comincia proprio con esso: Osculetur me osculo oris sui. Inoltre, esso è un simbolo universale, quasi un archetipo, presente nelle culture e nelle religioni. L'immagine del contatto fisico del bacio è usata per desc1ivere un'esperienza di rivelazione di Dio all'anima. Da ciò si capisce come per Ruperto una rivelazione di Dio non è mai comprensibile come un dato puramente intellettuale, da cui scaturisce una conoscenza astratta, 1na comporta un'esperienza di unione intima con lui. L'ani1na percepisce, sente vivamente in se stessa il contatto di chi la bacia e perciò non dubita che Dio stesso si rivela ad essa per mezzo del suo Spirito:
63 RTCHARD DE SAJNT-YICTOR, les qua/re degrés de fa violente charité, Textc critiquc avcc introduction, traduction et notes par G. Dumcige, Vrin, Paris 1955, 153.
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«Longe minoris gratiae quaelibet anima dum datum optimum sive donum perfectum concipit de sursum descendens ab eodem patre luminum taliter afflatur talem que intus in semetipsa persentit osculantis attactum ut dicere non dubitet nobis autem revelavit deus per spiritu suum»64. L'esperienza di Dio così descritta sottolinea fortemente l'aspetto di rivelazione (de sursum descendens ab eode1n patrem luminum) e di accoglienza (anima concipit ... a.fflatur ... revelavit). Anche la rivelazione alla Vergine Maria è spiegata, con i termini del Cantico dei cantici, usando l'immagine del bacio: «Tibi autem o Maria semetipsum revelavit et osculans et osculum et os osculantis» 65 • La similitudine del bacio come rivelazione è ripresa anche a proposito della Chiesa, ancora una volta equiparata all'anima del singolo: «In canticis ecclesia universalis ve! etiam singulariter qaelibet anima fidelis quae iam usque ad amorem dei profecit hanc primam voce1n emittit: osculetur me osculo oris sui» 66 . Ruperto non è solo a concepire il bacio come simbolo di rivelazione, la stessa interpretazione si ha in san Bernardo: «Revelat autem sine dubio per osculum, hoc est per Spiritum Sanctum» 67 • Sia che si riferisca alla Vergine Maria, sia che si riferisca alla Chiesa, sia all'anima del singolo fedele, Ruperto applica il primo versetto del Cantico. L'identificazione trova la sua giustificazione ultima nel cristocentrismo della teologia e dell'esperienza mistica di Ruperto, che pone al centro l'incarnazione, così che per la Chiesa può
64
65 66
Conunentaria in Canticun1 canticoru111, l. 1, CCCM 26, 1O. L.c. De sancta trinitate et operibus eius, I. 25, In !ibru1n Psabnoru111, CCCM 22,
1408. 67 Super Cantica, Senno 8, 5, in S. Bernardi Opera, I, Roma 1957, 38. Il bacio per san Bernardo è, infatti, si1nbolo dello Spirito Santo: «Osculun1 profecto fuit. Quid? Corporeus ille factus? Non, scd invisibilis Spirilus qui propterea in illo dominico fiatu datus est» (ibid., 8, 2, in ibid., 37). Sull'uso sitnbolico del bacio in Bernardo, nel contesto della sua doltrina trinitaria, cfr. J. LECLERQ, I n1onaci e il 111atrùnonio. Un'indagine sul Xli secolo, tr. it., SEI, Torino
1984, 143 - 164. Per una visione più ampia del simbolismo religioso del bacio, cfr. N.l. PERELLA, An Interpretative History of Kiss sy111bolis1n and Re!ated Religio-Erotic Then1es, Berklcy
, Los Angeles 1969.
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dire: «Piane osculum oris ecclesia tunc adepta est quando dei filius incarnatus est quando in thalamo uteri virginalis divina natura naturae humanae in unam personam coniuncta est» 68 . Lo stesso per l'anima:
«Item quaelibet anima quae deum diligit osculum adipiscitur quando dulcedinem divinitatis occulta inspiratione gustare meretur qui !amen contactus tam velociter transit ut sibilo aurae tenius recte comparetur»"- In quest'ultimo testo ritorna il tema dell'unione con Dio della singola anima per una mozione interiore (occulta inspiratione) della persona, caratterizzata però questa volta dalla brevità e soavità, da qui il paragone col venticello, che richiama evidentemente il testo biblico di I Re 19, 1271 '. Questo paragone è presente pure nel Coniniento a Giovanni, che richiama comunque tti1ninagine del Cantico (5, 4): «Nam nunc quidem dilectus mittit manum suam per foramen et venter humanae infirmitatis intremiscit ad tactum illius ve! tamquam sibilus aurae tenuis raptim figens oscula fugit idem dilectus in illa autem beata vita amicus amicae piena et permanente voluptate copulabitur» 71 .
Il rapporto Chiesa-Cristo come sposa-sposo è pure presente nel Commento a Isaia: «Ecclesia quippe sponsa fidelis nata in patriarchis subarrata in moyse et prophetis illud suspirabat voto cordis festinantissimi ut venire! ipse dilectus et assumendo carnem oscularetur eam osculo oris sui» 72 .
L'interpretazione simbolica del bacio ricorre in diversi autori del XII secolo. In ambito cistercense, dopo Bernardo il simbolo del bacio è spiegato da Aelredo di Rievaulx (1110 - 1167) nel De spiritali
68 De sa11cta trinitate et operibus ei11s, I. 25, In !ibn1111 Psa/1noru111, CCCM 22, 1408. Sul ventre di Maria come tala1no, cfr. AGOSTINO, /11 loha1111is evange!ilon
tractallts, 4, SL 36, linea 19ss. 69 L.c. 70
Nella versione della Vulgata clementina 3 Re 19, 12. Conunentaria in eva11geliu1n sancti lohannis, I. 11, CCCM 9, 642. 72 De sancta trinitate et operibus eius, L 28, In lsaia111 II, CCCM 23, cdidit R. Haackc, Brcpo!s, Turnholti 1972, I 557. 71
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amicitia 13 e prima di Bernardo da Guglielmo di Saint-Thierry, nel suo Commento al Cantico 74 • Rispetto a Guglielmo e Aelredo, per Ruperto il bacio non è solo una immagine, una allegoria per descrivere l'unione dell'ani1na con Dio o della Chiesa con Cristo. E' un gesto concreto che prova nella sua personale esperienza mistica, descritta in un testo, per diversi aspetti, straordinario: «Quod cum festinus introissem, apprehendi quem diligit anima mea (cf. Ct 1,2), tenui illum, amplexatus sum eum, diutius exosculatus sum eum. Sensi quam gratanter hunc gestum dilectionis admitteret, cum inter osculandum suum ipse os aperiret ut profundius oscularer» 75 • Nei testi precedenti si descriveva il rapporto tra la Vergine Maria e Dio, tra la Chiesa e Cristo, tra l'anima e Dio. Qui si descrive un rapporto tra Ruperto e il Cristo crocifisso. Il testo ha attirato
73 «Ad quod osculu1n aniina quacda1n sancta suspirans: osculetur n1e, inquit osculo oris sui! (cf. Cant. l, 1) considcrc1nus istius osculi carnalis proprietatern, ul de carnulibus ad spiritalia, de humanis ad divina transcrnnus. duobus alin1entis vita hon1inis sustcntatur, cibo et acre. et sinc cibo aliqua1ndiu potest subsistere; at sine aere, ne una quidc1n hora. itaque ut viva1nus, ore haurimus aerem et remitti1nus. et ipsum quidem quod e1nittilur vel recipitur, spiritus nomen obtinuit. quocirca in osculo duo sibi spir!tus obviant, et miscentur sibi et uniuntur. cx quibus quaedam mentis suavitas innascens, osculantiu1n rnovct et est igitur osculum corporale, osculu1n spiritale, osculum intellectuale. osculutn corporale impressione fit labioru1n, osculun1 spiritale coniunctionc ani1noru1n, osculu1n intellectuale per dei spiritu1n infusione gratiaru1n» (JJe spiritali a111icitia, II, 21-25, in Opera 011111ia, CCCM I, ediderunt A. Hoste, O.S.B. et C.H. Talbot, Brepols, TurnholLi 1971, 306-307, linea 154 ss.). 74 «Osculu1n a1nica quedatn et extcrior conjunctio corporum est, interioris conjunclionis signu1n et inccntivun1. Quod oris ministerio exhibetur, ut non tantu1n corporun1 sed ex n1utuo contractu ctian1 spirituun1 conjunctio fiat. Sponsus vero Christus spanse sue Ecclesie, quasi osculum de celo porrexit, cum Verbum caro factu1n in tanlun1 ci appropinquavi!, ut se ei conjungeret; in tantun1 conjunxit ut uniret, ut Deus ho1no, hon10 Deus ficret. lpsu1n etiain osculurn fideli aniine Sponsc sue porrigit et i1nprilnit, cun1 de memoria eommuniu1n bonoru1n, privatu1n ei et propriu1n com1ncndans gaudiun1, gratia1n ci sui amoris infundit; spiritum ejus sibi attrahcns, et suu1n infundcns ci, ut invicc1n unus spiritus sint (cf. 1 Cor VI, 17)» (GUJLLAUME DE SAJNT-TH!ERRY, Co111111e11taire sur le Cantique des Cantiques, Textc, notes criliques, trad. par M.-M. Davy, Vrin, Paris 1958, 54). 75 Super Matt., I. 12, CCCM 29, 383-84. Anche nei confronti di san Bernardo Ruperto si distingue per l'importanza che accorda alla sua personale esperienza. Infatti questa insistenza non è propria di Bernardo, co1ne ha notato J. LECLERCQ, lnitiation aux auteurs 111011astique du Moyen Age, cit., 202.
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l'attenzione degli studiosi, perché il gestum di/ectionis dì cui è soggetto l'autore è carico di significati diversi. Come ha osservato 1.-C. Schmitt, innanzi tutto si tratta di un bacio tra due uomini, il monaco Ruperto e il Cristo crocifisso. Il bacio in quanto tale era un gesto diffuso nel Medioevo, sia tra un uo1no e una donna, sia tra un uomo ed un altro uomo. Nel contesto liturgico il "bacio della pace", che riguarda tutta la comunità, è simbolo di pace e unità. Nella liturgia vi è pure un osculum crucifixi, ma con caratteristiche diverse rispetto al bacio di Ruperto76. Anche il bacio tra uomini non era inusuale nella società feudale ed aveva il significato giuridico dell'uguaglianza tra due soggetti. Il bacio tra uguali è un gesto che si distingue da un altro, l'inunixtio nianuuni, che invece indica la sudditanza di un vassallo al suo signore 77 • Nel contesto giuridico della società feudale il bacio tra uguali è os ad os, cioè sulla bocca, mentre quello di Ruperto è in bocca, assumendo così una connotazione sessuale78 . La connotazione sessuale sarebbe evidenziata pure dall'uso del sostantivo dilectio. Il gesto è un gestum dilectionis, un gesto d'amore, che esprime il desiderio d'amore del monaco Ruperto verso il Cristo crocifisso. C'è chi non manca di ricordare che non vengono usati né il sostantivo charitas né anior, n1a dilectio che solitamente esprime il desiderio di un uomo per uua donna o per un altro uomo. Si richiama, dunque, l'aspetto
76 J.-C. SCHMITT, li gesto ne! Medioevo, tr. it., Latcrza, Bari 1990, 272. Nella odierna liturgia cattolica del rito dell'ordinazione ùiaconalc e presbiterale si trova ancora questo gesto per tnanifeslare la promessa di obbedienza dell'ordinando al suo vescovo. 78 Sul significato giuridico del bacio nella socierà feudale, cfr. J. LE GOFF, Le Rituel sy111bo/ique de fa vassa!ité, in Pour 1111 autre 111oye11 Age. Ten1ps, travail et culture en Occident: 18 essais, Galliinard, Paris 1977, 349-420. Le Goff riprende intera1ncnte E. CHENON, Le rOle juridique de L'osc11!11111 dans /'a11cie11t droit français, in Mé111oires de la Société des Antiquaires de France, s. VIII, VI (1919-1923). S. Bernardo vede nel "bacio della bocca" il si1nbolo della relazione e dell'uguaglianza del Padre, del Figlio e dello Spirito. Esso è lo Spirito dato al Figlio dal Padre. E', per il Padre, essere nel Figlio e, per il Figlio, essere nel Padre, Super Cantica, Senno 8, 7; cfr. J. LECLERCQ, I 111onaci e il 1natrùnonio, cit., 155. 77
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dell'omosessualità contenuto nell'immagine che Ruperto usa per descrivere la sua unione mistica col Crocifisso"Ciò è vero, ma la problematizzazione dell'atteggiamento in questione è più nostra che non della coscienza di un monaco medievale. Autori come J. Bowsell parlano di una esaltazione, spesso sublimata, della omosessualità maschile"'· Ma quale è la consapevolezza di Ruperto, o di monaci come lui, quando descrive l'esperienza mistica dell'unione con Cristo nei termini suddetti? Lo stesso Schmitt non manca di fornire alcuni elementi chiarificatori". Innanzi tutto si potrebbe obiettare che Ruperto colloca questa visione durante la sua infanzia, quando era in monastero come oblato. Si dovrebbe escludere perciò una vera consapevolezza. Ma questo secondo i nostri criteri perché in realtà il contesto è la descrizione di una forte crisi vocazionale, che presuppone in verità un certo grado di consapevolezza. Inoltre si sottolinea l'ambivalenza sessuale, sul piano simbolico, del destinatario del gestum dilectionis, cioè Cristo crocifisso. Gesù Cristo, infatti è lo "sposo" della Chiesa, la quale è assimilata alla "sposa" del Cantico dei cantici. Ma Cristo è anche la "madre" da cui nasce la Chiesa, secondo la dottrina patristica della nascita della Chiesa dal sangue e dall'acqua sgorgati dal costato di Cristo sulla croce. La conseguenza, per Schmitt, è che il gesto di Ruperto sarebbe, sul piano simbolico, doppiamente trasgressivo: omosessuale e incestuoso, ma il n1onaco 1nedievale «per una inversione radicale dei valori comuni distingue la dilectio mistica del monaco, votato alla castità, dall'amore carnale verso gli altri uomini. Attraverso lo stesso "gesto", Ruperto esprime l'intensità del suo amore
79
La connotazione sessuale potrebbe essere indicata anche dall'uso dispregiativo di gestus, che i n1cdicvali conoscevano. Infatti, la stessa idea negativa di disordine fisico e 1norale e di vizio, con la preminenza della lussuria e dell'orgoglio, che contiene il tcnnine gesticula1io, viene attribuita a gestus, che, inteso in senso negativo, ha sovente una connotazione di ordine sessuale, riferito a prostitute e 01nosessual i. 80 J. BOSWELL, Cliristiani.nne, tolérance sociale et ho111osexualité en Europe occidentale des débuts de l'ère chrétienne au X!Ve siècle, tr. fr., Gallimard, Paris 1985,
296.299. L'autore esamina testi di Ildebrando di Lavardine, Baudrico di Baergil, Marbodo (tuni del XII sec.). Hl J.C. SCHMITT, li gesto, cit., 273.
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per il Cristo e per la sua immagine e si identifica, in quanto monaco, nella Chiesa»"'. Per Ruperto il gesto, nella sua esteriorità, esprime l'interiorità del soggetto. Commentando l'episodio evangelico della guarigione di un lebbroso (Mc 1, 40ss.), osserva che questi esprime la sua gratitudine non solo verbalmente, ma anche con un gesto del corpo (gestu corporis) 83 • L i1nportanza accordata al "gesto" e I1identificazione con la Chiesa sono elementi importanti per tentare di capire il grado di consapevolezza di Ruperto quando usa la similitudine del bacio a Cristo. L'identificazione con la Chiesa è fondamentale. In realtà, come abbiamo in precedenza visto, egli identifica l'anima individuale con la Chiesa e precisa che l'anima è nella sua natura "donna" 84 . Nulla di strano quindi se nel descrivere l'esperienza mistica dell'unione dell'anima con Cristo-sposo, trovi naturale identificarsi con la Chiesasposa. «Unum quippe sumus corpus caput et membra sponsus et sponsa christus et ecclesia» 85 . 1
s2
L.c.
83 «Nam et leprosus quidcm legitur adorasse non ta1nen dixisse credo in te
neque procidisse sed tantu1n ut 111arcus testatur genunexisse. Hic unus invenitur tan1 voce confessionis qua1n gcstu corporis neccssariam perficicns adoratione1n filii dei idcirco recte per singulos annos in exemplu111 proponitur sanctae ecclesia catechurnenis instante solemnitate paschali baptizandis in 1norte christi» (Co1111nentaria in evangelùun sancti lohan11is, I. 9, CCCM 9, 508). 8' 1 Cfr. Conun. in evang. s. lohannis, lib. 4, CccM 9, 770; De sancta trinitate et operibus eius, lib. 15, !11 Leviticu1n II, Ccc1v122, 857; ibid., lib. 23, In Regu1n, CCCM 22, 1245. 85
De sancta trinitate et operibus eius, I. 28, In lsaian1 II, CCCM23, 1558. In un testo dell'inizio del secolo successivo, scritto dal vice decano di Salisbury, Ton1maso di Chobhain, si concepisce la "maternità" della Chiesa in quanto sposa. La rigenerazione del fedele, mediante il battesi1no, la seconda nascita, è possibile perché la Chiesa è la sposa di Cristo-sposo: «Veru1ntarnen filii sun1us ccclesie que est sponsa Christi nisi ex fonte baptismatis, sicut cx utero inatris, regeneramur ut simus filii regis et regine, scilicet Christi sponsi et ecclcsie sponse ut in Apocalypsi: genus electun1 regale sacerdotiu1n» (Sununa de arte praedicandi, c. 4, CccM 82, curn et studio F. Morenzoni, Brepols, Turnholti 1988, 106, linea 573). Nella stessa opera, poco dopo, si affern1a che «Sponsa Christi est quelibet fidclis ani1na» (ibid., c. 6; cfr. pure c. 7), operando J'assi1nilazione dell'ani1na alla Chiesa.
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Un altro monaco contemporaneo di Ruperto, l'abate Isacco della Stella ( + ca 1169), pone la relazione tra Chiesa-sposa, Maria-sposa e anima-sposa con Cristo-Sposo: «Anche la singola anima fedele pnò essere considerata come sposa del Verbo di Dio, madre, figlia e sorella di Cristo, vergine feconda. Viene detto dunque in generale per la Chiesa, in modo speciale per Maria, in particolare anche per l'anima fedele, della stessa Sapienza di Dio che è il Verbo del Padre [... ] Fra tutti questi cercai un luogo di riposo e nell'eredità del Signore mi stabilii (cfr. Sir 24, 12). Eredità del Signore in modo universale è la Chiesa, in modo speciale Maria, in modo particolare ogni anima fedele. Nel tabernacolo del grembo di Maria Cristo dimorò nove mesi, nel tabernacolo della fede della Chiesa sino alla fine del mondo, nella conoscenza e nell'amore dell'anima fedele per l'eternità» 86 . Il fatto che ci si muova sul piano dell'esperienza mistica e tutta l'attenzione sia centrata sull'individuo, non vuol dire che si salti la mediazione della Chiesa. Certo, vi sono altri autori che affermano più chiaramente che l'unione mistica del singolo fedele con Cristo è possibile in quanto membri della Chiesa-sposa, come nel caso di s. Bernardo: «Gratias tibi, Domine Iesu, qui nos carissimae Ecclesiae tuae aggregare dignatus es, non solum ut fideles essemus, sed ut etiam tibi vice sponsae 111 amplexus iucundos, castos aeternosque copulare1nur» 87 •
86 «Unaquaeque etiain fidelis ani1na, Verbi Dei sponsa, Christi 1nater, filia et soror, vìrgo et fecunda suapte ratione inlelligitur. Dicitur ergo universaliler pro Ecclesia, et spccialìtcr pro Maria, singulariter quoque pro fideli anima, ab ipsa Dci sapientia, quod Palris est Verbu1n, In oinnibus rcquie1n quaesivi et in haereditate
Domini 1norabor. Haereditas eni1n Domini, universaliter Ecclesia, specialiter Maria, singularitcr quaeque fidelis anirna. In labernaculo uteri Mariae moratus est Cluistus novem n1ensibus; in tabcrnaculo fidci Ecclcsia usquc ad consu1n1nationen1 sacculi, in cognitione et dilcctionc fiùclis anirnac in sccula sacculoru1n 1non1bitur» (ISACCO DELLA STELLA, Discorsi, disc. 51: PL 194, 1863.1865). 87 Super Cantica, Senno XII, 11, Opera 011111ia, I, 67. L'identificazione di tutta la Chiesa e quindi dei suoi singoli 1ncn1bri con la "sposa" è chiara1ncntc espressa da s. Bernardo anche in un sermone per la Priina Don1enica dell'Ottava dell'Epifania (Senno Il, 2, in Opera 011111ia JV, 320: «Omnes enim nos ad spirituales nuptias vocati sumus, in quibus utiquc sponsus est Christus Do1ninus [ ... ] Sponsa vero nos ipsi sumus, si
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La percezione che il monaco ha della sua unione sponsale con Cristo passa, perciò inevitabilmente da questa appartenenza alla Chiesa che lo proietta, misticamente, a concepirsi eone sposa di Cristo e non come sposo, che resta un attributo di Cristo soltanto. Tutta la Chiesa è sposa e il monaco vive la contraddizione tra l'essere uomo e nello stesso tempo membro della sposa. Ma poiché in Ruperto si guarda di più all'anima individuale la tensione si dissolve nella identificazione dell'anima con la Chiesa e della Chiesa con la sposa. Anche l'uso del termine dilectio al posto di charitas o _amor può essere letto alla luce dell'influenza del Cantico. La versione latina, infatti, traduce il greco della LXX agape (che a sua volta traduce l'ebraico 'hv) due volte con dilectio, due volte con amor, due volte con charitas. Vi è dunque un perfetto equilibrio, così come nel Commento di Ruperto: 29 volte si usa dilectio, 39 volte charitas, 29 amor (dunque c'è una leggera prevalenza di charitas). Non possiamo trarre conclusioni da questa statistica, ma neanche è possibile semplificare eccessivamente l'uso che Ruperto fa di dilectio, riconducendolo solamente all'uso corrente nel suo tempo. Lo stesso Ruperto, infine, interpretando la visione avuta spiega il bacio come il simbolo di una più profonda conoscenza dei misteri: «Sicque interpretarer illam altaris et ipsius Domini oris apertionem, quot sacramentorum eius profonda deinceps clarius intelligere debere1n» 88 .
non vobis videtur incredibile, et 01nnes simul una sponsa, et ani1nae singulorun1 quasi singulae sponsae»-). Anche per Ugo di San Vittore «Si potrebbero citare 1nolli altri testi da cui risulta che l'inti1no rapporto dell'anima con Dio non è solitario. Non per questo l'anin1a che vi perviene perde il suo carattere essenziale di 111en1bro di Cristo c della Chiesa. E non s1nettc di nulrire la sua fede,jhles, con la Scrittura e i "sacramenti" che le danno Cristo e la incorporano nella Chiesa. E questa fede è insie1ne affezione, affectuS» (F. V ANDENBROUCKE, Spiritualità del 1nedioevo. Nuovi a1nbienti e nuovi prob/en1i [sec. XII - XVI], tr. it., EDB, Bologna 1969, 29). 88 Super Matt., I. XII, CCCM 29, 383.
2. L'unione sessuale
Per esprimere l'unione dell'anima con Dio si usa la similitudine della stessa unione sessuale. Alcuni testi, poi, mostrano che questa unione è feconda. E' lo stesso autore a spiegare l'uso della similitudine: «Et in huiusmodi similitudinibus carnalis sponsi et sponsae contemplatur veritatem caelestis copulae ubi sperat se creatura veris creatoris complexibus fruituram esse quomodo impollutam se custodire potest ad omni cinere id est a cogitationibus carnalis copulae» 89 .
Con più forza nel Commento ad Ezechiele: «!bi revera creator creaturae tamquam sponsus sponsae 111 thalamo vero copulatur coniugio et hac in scripturis sanctis usitata quidem est similitudo sed quinque cubiti sunt inter thalamos id est totis quinque sensibus illi disparantur thalamo ab istis quos solos novit hon10» 90 •
Prevenendo l'obiezione sulla opportunità dell'uso di tale similitudine per indicare una realtà così alta, come l'unione dell'anima con Dio e la profondità dell'amore di Dio, Ruperto afferma che la natura transitoria della similitudine e la sua funzione di rimando ad una realtà altra, non s1n111u1sce l'importanza della verità a cui ri1nanda91 .
La preoccupazione comunque non sembra derivare da un disprezzo della realtà naturale contenuta nella similitudine 92 , ma semplicemente dalla considerazione dell'inadeguatezza di rappresentare una realtà invibibile e immutabile con una visibile e
89 90
De sancta trinitate et operibus eius, I. 14, In Leviticu1n l, CCCM 22, 838. /)e sancta trinitate et operibus eius, L 31, /11 Hiezechiele111 II, CcCM 23,
1700. 91 «Re1n veritatis non extcnuct suspicio affcctatae si1nilitudinis. Na1n rcvcra quaecun1quc sancta et veridica scriptura nobis de amore dei ve! amante deo Ioquitur tam vera tainque constantia sunt ut potius haec nostra carnalia de quibus similitudines ducuntur, illis constantis veritatis quaedan1 quasi un1brae ve! transitoriae imagines sint» (De sancta trinitate et operibus eius, l. 34, De operibus spirit11s sancta, CCCM
24, 1829). 92
Cfr. J. LECLERCQ, I 111onaci e il n1atrin1onio, cit.
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mutevole. La naturalezza e la prudenza, nello stesso tempo, nell'uso del linguaggio del corpo traspare da un altro testo di Ruperto che descrive l'esperienza mistica di un bacio e un abbraccio, ma questa volta tra una ragazza e il crocifisso. L'esperienza è riferita dal nostro autore per commentare il versetto del Cantico: Dilectus meus misit nianuni suani per foranien, et venter nieus intren1uit ad tactun1 eius (5,
4). La narrazione dell'episodio è preceduta dalla puntualizzazione che la giovane gli racconta ciò che era accaduto in considerazione della sua età (nostra aetate). Ma ecco ciò che era accaduto. Contemplando un crocifisso esposto in una certa chiesa per la preghiera e l'adorazione, la giovane in questione vide il Crocifisso tracciare su di lei che lo guardava il segno della croce. La forza di questo segno la trascinò repentinamente in alto «manibus expansis ad manus illius confixas cruci ita os quoque ori totum que corpus admotum videretur eius corpori>>9J.
L'espressione «la sua bocca sembrava portata alla sua bocca e tutto il suo corpo al suo corpo» descrive evidentemente un'esperienza di unione totale, attraverso l'immagine concreta dell'amplesso. Di altro tenore la perplessità che emerge da uno scritto di un altro grande mistico, ma all'inizio dell'era moderna, s. Giovanni della Croce: «Queste similitudini sembrano spropositi piuttosto che detti ispirati dalla ragione, se non si leggono con la semplicità di spirito e di
91 · <<Porro de tre1norc i!lo tremore sancto et divino tale experimentum sibi evenisse fideli narratione referebat. Aspiciebat per visu1n in quadan1 ecclesia salvatoris imaginem cruci confixam in loco sublimi scilicet ubi dc more consistebat orantibus sivc adorantibus proposita populis. Cum que in eam intenderet vivens i1nago visa est vultu quasi regio radiantibus oculis aspectu que prorsus reverendo manum que sua1n dcxtcram de patibulo adducere signaculum crucis super aspicientein edere magnifica exprcssione dilectus illc dignatus est. Non vana visio immo magnae virtutis sensun1 videnti intulit continuo. Deniquc sicut tremit foliu1n arboris ubi vcntus vchc1nens illud concusserit ita cu1n rcpente in hoc visu evigilasset tremore dulci in lcctulo aliquamdiu trc1nuit veru1ntan1cn tremore blando nin1ium que suavi. Et antcquan1 cvigilaret in ipso visu iam dictu virtus signaculi vidcnte1n sursum rapuit velocius atque facilius quam dici possit n1anibus expansis ad manus illius confixas cruci ita os quoque ori totu1n que corpus admotum videretur cius corpori et ubi somno erupit aliquamdiu sicut iam dictu1n est tremore illo divino multurn delectabiliter vigilans trc1nuit. Hoc pro experirncnto manus vel tactus atque tre1noris divini paucis dieta sint» (Conunentaria in Canticuni canticon1111, lib. 5, CCCM 26, 111).
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intelligenza che contengono, secondo quanto possiamo osservare nel divino Cantico di Salomone e in altri libri della Sacra Scrittura dove lo Spirito Santo, non potendo farci intendere l'abbondanza del suo senso con termini volgari e usuali, rivela i misteri usando figure e immagini strane» 94 .
D'altra parte l'uso è indicato dalla stessa Scrittura. Richiamando la metafora sponsale dei Profeti, Ruperto la applica alla singola "creatura razionale", che egli stesso identifica con l'anima95 . Sebbene Ruperto usi il verbo adhaereo per designare contemporaneamente e l'unione sessuale 96 e l'adesione a Dio 97 , a differenza di altri autori, usando la similitudine dell'unione sessuale impiega solitamente il verbo copulo. Se l'uso della similitudine coniugale si trova in molti mistici di diverse religioni, Ruperto la usa ovviamente all'interno della tradizione cristiana, con particolare riferimento alla Trinità. Questo riferimento, in Ruperto, non è estrinseco ma appartiene al suo stesso metodo teologico. Infatti, come notava già M. Grabmann, in lui vi è uno sforzo teso a portare i contenuti biblici sotto il punto di vista unitario della Trinità. Ne fa fede la sua stessa opera De Trinitate et operihus eius, che contiene un commentario all'Eptateuco, ai Profeti maggiori e ai Vangeli. La fede trinitaria perciò costituisce come un "quadro , completo di Weltanschauung cristiana". Lo stesso intento si trova
94
Cantico Spirituale B, Opere, 490. «Natn est quidcm aliqua siinilitudo a curne sumpta ad deu1n qui spiritus est sacris que inserta scripturis ut in canticis n1ysticis que prophetaru1n libris sub nominibus sponsi et sponsae aut viri et uxoris se<l on1nino figurate hoc fit id est ut in co quod lìttera sonat longe aliud intelligas scilicet in viro deum in semine dei filium id est eius vcrbu1n in ainore spiritu1n siJncturn in uxore creaturam rationiJle1n id est hun1anam anima1n vel angelica1n substantiam» (Liber de divinis officiis, I. 11, CCCM 7, 381). 96 «Qua1nobrem relinquet homo p8trem et matrern et adhaerebit uxori suae et crunt duo in carne una» (Co1111ne11taria in. eva11ge!iu1n. sancti Iohannis, I. 2, CCCM 9, 112 ). 97 «ltc1n: hic autcm finis est adhaerere dea» (De sancta trinitate et operibus eius, I. 41, De operibus Spiritus Sancii, CCCM 24, 2075. 95
39 nell'opera precedente De glorificatione Trinitatis et processione Spiritus SanctiYR. Sovente si tratta dell'incontro con Cristo - e abbiamo visto il bacio al crocifisso, talvolta è l'opera dello Spirito ad essere sottolineata. Non manca comunque lo schema trinitario in quanto tale. In un contesto di dottrina trinitaria, nel Liher de divinis officiis, il tema dell'inabitazione della Trinità è così presentato esplicitamente: «Verumtamen ubi personarum distinctione opus est cum quid cuius que personae sit proprium distinguimus sicut deum patrem vitam in se immortaliter viventem filium que eius dicimus veram et incommutabilem sapientiam per quam universam condidit creaturam sic spiritum sanctum dicimus amorcm eius per quem concnpiscit rationabilem et inhabitare appetit creaturam»". In questo testo il tema dell'inabitazione si intreccia, indirettamente, con quello della natura razionale. Lo Spirito Santo, che è amore - secondo la convinzione che Ruperto esprime più volte -, è l'artefice dell'unione della creatura con Dio. Questa creatnra, agostinianamente, è la creatura razionale. Lo schema trinitario ritorna nel Conunento a Giovanni: «Et hoc profecto magnum dilectionis est praemium quod pater et filins per spiritum sanctum deus unus dilectae animae intrinsecus mira et ineffabili caritatis voluptate copulaturn"m. Questo breve testo merita un approfondimento. Non si tratta solo di un ennnciato dogmatico. Se lo confrontiamo con quello che descrive l'esperienza, sia dello stesso autore sia della ragazza di cui parla nel Commento al Cantico, dell'abbraccio e del bacio al Crocifisso ci accorgiamo che si ripete una dinamica simile. L'unione profonda espressa o dal bacio (profundius oscularer) al Crocifisso o dalla straordinaria voluttà della carità (mira et ineffabili caritatis voluptate), è frutto di uno slancio d'amore. Un'altra caratteristica è l'interiorità
98
Cfr. M. GRA13MANN, Geschichte der Scholastiche Methode, cit., 101, F.J.
Trinidad, Escritura, Historia: la Trinidad y el Espfritu Santo en fa Teologia de Ruperto de /)eutz, Ed. Universidad de Navarra, Pamplona 1988. 99 Liber de divinis officiis, lib. 10, CcCM 7, 350. 10 Co111111entaria in evangelùun sancti lohannis, I. l l, CcCM 9, 642. SESE ALEGRE,
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profonda di queste unioni: unus dilectae animae, intrinsecus. La similitudine coniugale consente di esprimere questa caratteristica di interiore penetrazione, proprio come avvenne in Maria con la Parola di Dio: «Et singulis animabus opitulatur ut intra secreta conscientiae deo patri copulentur et eodem verbo quo virgo felix impraegnata est et ipsae ex eius complexibus fecundentur» 101 • Nel libro X del De officiis, dedicato allo Spirito Santo, l'autore riprende Gv 8, 19 e pone esplicitamente il parallelo tra la "conoscenza" degli sposi e la conoscenza di Dio, mediante la conoscenza di Gesù Cristo 102 • La conoscenza di cui parla Gesù è, per Ruperto, una esperienza d'amore (experimentum amoris). E quale realtà naturale rimanda a questo particolare tipo di conoscenza, che si concretizza nell'unione, se non l'esperienza dell'unione sessuale, assunta simbolicamente? D'altra parte la conoscenza del Padre e del Figlio è opera dello Spirito, che è ainoreH13 . Dunque all 1origine stessa di tale conoscenza vi è l'an1ore. Il desiderio di Dio è forte, talvolta violento: «Intus in interiore homine illa est voluptas quae per thalamos intelligitur qua divinitas amanti creaturae ineffabiliter copulatur verum et praeter hoc foris in loco semper apparet et praesto est ille ,desiderabilis filii hominis aspectus in quem cum desiderent angeli "prospicere sine dubio et homines eadem semper exhilarabuntur
101
lbid., L 2, CCCM 9, 117. «Dc hac patris et sui cognitione paulo superius dixerat doininus: 'si cognovissetis 1nc et patrctn meun1 utique cognovissctis' (cf. Gv 8, 19). Nam dc qua cognitionc dixit nisi de experimento a1noris. Siquidcm pro expcrimento copulac naturalis in sacra scriptura tam honestc quam proprie dici consuevit vir uxorem vcl uxor cognovisse virun1. Qua siinilitudine quia cognoscendus erat deus ab ecclesia per passione1n filii qui haec loquebatur acquisita stati111 addidit: 'et amodo cognoscetis eum'» (Liber de divinis officiis, lib. 10, CCCM 7, 337). 103 «Quac utriusquc cognitio per spiritu1n sanctu1n fit et haec sola est consolatio sanctorum in hoc saeculo peregrinantiun1 quia sublcvati ferunt patienter immo gratanter quod eos n1undus odit exprobrat eicit persequitur tlagellat occidit et tam in prosperis qua1n in adversis orante pro illis hoc spiritu gemitibus incnarrabilibus pro refectionc habent fiere sicut scriptun1 est 'fuerunt mihi lacrimae mcae pancs die et nocte et cactera'» (/. c.). 102
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visione semper desiderata semper praesente amantes sine defectu deficientes sine passione» 104 • Questa ricerca carica di desiderio è espressa pure in un testo del Conunento al Deuterononiio: «In eo quasi in thalamo tota die morabitur in eo inquam id est in cultu eius in lege eius ubi quasi in thalamo anima legitimo viro suo dea copulatur tota die morabitur et inter humeros illius id est inter fortissimas tribus regiam et sacerdotalem requiescet ut non eum vanus error laboris fatiget» 105 . La forza con cui si vive l'esperienza dell'unione dell'anima con Dio la ritroviamo in molti autori. Tra i commentatori del Cantico si veda per esempio il cistercense Giovanni di Ford (1145 ca. - 1214 ca.): «Sic utique, sic anima fontem vitae sitiens quodam violentissimo pii desiderii vinculo Dea aspirante irretitur, irretita vincitur, vincta coarctatur, coarctata exterioribus abstrahitur et interioribus attrahitur deliciis, attracta Christo desiderabiliter per amorem adhaeret, adhaerens feliciter nubit, ut unus cu1n ipso spiritus fiat»w 6. Questa unione non è però senza contenuti e senza condizioni. Essa comporta l'accettazione del culto e la sottomissione alla sua legge e ai suoi comandamenti (in cultu eius, in lege eius): «Ad haec inquam: unde ergo homo copularetur dea si non illi subligaretur obedientiae iugo si non acciperet commissum in quo deberet fidelis existere deo» 107 •
104
De sancta trinitale et operibus eius, I. 31, In Hiezechie/e111 II, CCCM 23,
105
De sancta trinitatis et operibus eius, I. 19, In Deutero1101nit11n II, CCCM 22,
1704. 1101. 106 Super extre111a11i parte111 Cantici canticonan sennones CXX, senno XCVII, 8, CccM 18, ediderunt E. Mikkers et H. Costello, Brepols, Turnholti 1970, 660, linee 157-161. 107 De sancta trinitate et operibus eius, I. 2, In Genesùn Il, CCCM 21, 222. Ancora una volta quanto vale per l'anima è detto anche per la Chiesa: «Significat autem ecclesiam de gentibus quae veluti cerva cervo id est viro suo christo nunc per fidem copulatur» (De sancta trinitate et operibus eius, I. 21, In librran !udicu111, CCCM 23, 1160), «digne per omnia hic omnibus paranymphis in exemplum proponitur id est omnibus qui sponsae christi videlicct sanctae ecclcsiae curam atquc regirnen
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3. La fecondità dell'unione
Quest'unione è feconda, tuttavia non per merito dell'uomo, ma per l'azione dello Spirito Santo: «Sed sicut solo numquam amica concipit osculo sic animae illorum impraegnari non poterant virtute verbi quod est semen dei patris nisi per ingressum spiritus sancti copula dei nostrarum quae animarum perficeretur et per illum usque ad interiora ventris earum se men quod est verbum dei perferretur» "". Anche nel Commento ad Isaia si allude alla necessità dell'azione dello Spirito perché l'unione con Dio sia feconda: «Nota et celebris animabus sanctis est ista veritas quod vere deus amator fideli animae ut sponsus sponsae copuletur atque ex ilio per amoris spiritum suscepto semine impraegnata loquendo prophetando et quod maius est scientiam dei scribendo mater verbi dei efficiatur» 109 • Aelredo di Rievaulx, usando la similitudine dell'unione sessuale molto realisticamente, identifica il "seme" di Gesù Cristo con lo Spirito Santo""· Inoltre riprende e sviluppa il concetto del parto: «lam videtis, et puto quia exsultatis, quod, quando suscepistis semen Spiritus Sancti, non feminam sed masculurn peperistis» 111 • Questo testo diventa intelligibile se si pensa che Aelredo, nella sua interpretazione spirituale della Scrittura, assegna al termine mulier una doppia accezione, una positiva e una negativa: «Mulier in Scriptum aliquando sole! poni in mala significatione, aliquando in bona. In mala significatione solet poni propter mollitiern
sortiuntur ut nequaquan1 adulterinis illam oculis contemplentur et vero sponso eius copulam furentur» (Conunentaria in evangefiun1 sancti lohannis, I. 4, CCCM 9, 180). 108 Liber de divinis (~fjiciis, L 10, CCCl'l-1 7, 336. w9 De santa trinitate et operibus eius, I. 28, In Isaiant II, CCCM 23, 1570. 110
«Scd saepe Dominus noster Iesus Christus ctia1n tali animae se adiungit et
ponit ibi sen1en suu1n. Se1nen domini nostri, qui est verus vir, verus vir potens in
opere et scnnone, semen cius est Spirilus Sanctus. Ab isto semine concipiunt ani1nae: Do1nine, a Spiritu tuo conccpimus, et peperiinus» (Sennones I-XLVI, Senno XXX, 9, CccM 2A, reccnsuit G. Raciti, Brepols, Turnho!ti 1989, 269, linee 75ss.); anche Aelredo usa senza difficoltà la similitudine perché identifica "anitna" e "mulier": «Quaedain enin1 mulicr, id est quaedam ani1na, quae susceperat scmen et parere volebat ait ad Do1ninun1: Domine, quid faciendo vitam aeterna1n possidebo?» (ibid., 269, linea 101 s.). 111 lbid., 270, linea 117.
La teologia mistica diRuperto di Deutz______
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et teneritudinem et infirmitatem; in bona significatione, propter fecnnditatem ve! affectum caritatis quem mulieres solent habere erga filios SUOS» 112 . Ciò significa che l'anima che accoglie il seme di Cristo, cioè lo Spirito Santo, è feconda e partorisce la carità. Quest'idea di fecondità è espressa, dunque, sia in Ruperto sia in altri, concettualmente e linguisticamente col termine "seme''. Sullo sfondo di quest'uso vi è ancora il tema cristologico centrale della teologia e della vita spirituale di Ruperto: l'incarnazione del Verbo, a cui corrisponde il tema mariologico e l'identificazione della sposa con la Vergine Maria, la Chiesa, l'anima individuale. La fecondità, infatti, è sempre riferita alla fecondità della Parola di Dio, che diventa carne e si rende quindi presente; è il frutto dell'amore di Dio. Così la stessa fede, o meglio l'atto di fede, nel Commento a Giovanni, viene definita in termini di fecondità dello spirito: «Credere namque est semen verbi dei cum amore susceptum i1npregnata mente portare» 113 .
Il presupposto dell'affermazione è cristologico, poiché Gesù Cristo è il Verbo di Dio, chi accoglie lui, chi crede nel suo nome, accoglie il Verbo di Dio e diventa figlio di Dio 114 . La fecondità esprime la trasformazione della vita dell'uomo. Colui che incontra Dio in Gesù Cristo rinasce a vita nuova, non per volontà di carne o di uomo, ma per volontà di Dio. Ciò che nelle Scritture è riferito al Figlio unigenito di Dio, si può estendere a tutti coloro che lo accolgono 1 L'.
112
113 114
fbid., 268, linea 47ss. Co111111entaria in evangelùun sancti fohannis, l.l, CCCM 9, 25. «Christus autem non tantu1n caro sed verburn est et maxime ex eo quod dei
verbum est praedictam potcstatem dare potest. His ergo qui sic rcccpcrunt eurn quomodo recipiendum est verbum dei dedit potcstalcm filius dei fieri id est his qui credunt in nomine eius» (/. c.). 115 «lnstat enim et intrinsecus ut suae nostrac communione1n eun1 quem spiritum sanctum dicimus vchementem spiret a1nore1n suun1 que verbu1n ia1n filium iam que a principio et ab aeterno natum et adhuc tmnen ut vere semen sibi mct insitum in 1nultas coniuges id est 1nultas ani1nas spargens deorum quotidic n1ultiplicet gentcm quibus ait propheta: ego dixi: dii estis et filii excelsi omnes. Item guae evangelista dc
44 La filiazione divina dell'anima è dunque opera gratuita di Dio, è rivelazione dall'alto, come non mancano di notare numerosi testi di Ruperto. D'altra parte l'abbondante uso di verbi al passivo o di verbi che indicano ricezione, accoglienza, mostra l'atteggiamento spirituale dell'autore, che identificando creatura razionale con anima e anima con donna, pone le creature nell'atteggiamento della sposa dinanzi allo sposo. L'unione di Cristo con la Chiesa, come dello sposo con la sposa, è tradizionale (cfr. Ef. 5), ma è significativo che autori medievali vedano questa unione già prefigurata in Adamo ed Eva, così che la relazione naturale fra uomo e donna diventa il "tipo" della relazione tra Cristo e Chiesa e tra Cristo e anima. Alcuni decenni prima di Ruperto, s. Pier Dan1iani si esprimeva così:
«Super quo cum loqueretur apostolus dicens: Relinquet homo patrem et matrem suam, et adhaereebit uxori suae, et erunt duo in carne una, praesto subiunxit: Sacramentum hoc magnum est, ego autem dico in Christo et ecclesia. Et vere magnae virtutis inditium, mirandae profunditatis est sacramentum. Per Adam siquidem Christus, per Evam designatur ecclesia» 116 . Questo concetto è sviluppato riprendendo la tradizione patristica della Chiesa che nasce dal costato di Cristo: «Quid est autem quod prius Adam Dominus soporavit, deinde costam ex aius latere unde mulier formaretur eduxit? Nisi quia prius Redemptor in morte dormivit, sic que de latere eius in Translata est Eva de viri latere dormientis, exivit ecclesia de latere Salvatoris in cruce pendentis» 117 • In una interessante spiegazione del sonno di Adamo, Giovanni di Ford dice: «Haec quippe sacrosanctam Christi et ecclesiae adhaesionem etiam Adam in ilio somno suo speculando praevidit, et evigilans dehinc prophetando praedixit» 118 • Anche Ruperto nel Commento al Genesi aveva interpretato il sonno di Adamo nello stesso senso: «Gravem et profundum somnum quod hebraice dicitur tardema illo unico filio dei que verbo !oquens: quotquot autem receperunl eurn inquit dedit eis potestatem filios dei fieri» (Liber de divinis officiis, L 11, CCCM 7, 380). 116 Sennones, Senno LVI, 3, CCCM 57, cura et studio I. Lucchesi, Brepols, Turnholti 1983, 399, linee 55·60. I 17 L. c. 118
Super extren1an1 parte1n Cantici ca11ticorun1 sennones CXX, Senno 98,
CCCM 18, linee 153.155.
La teologia mistica di RufJat_o_d_1_·D_e_u_tz_______45 scilicet quia de profondo mortis somno regeneranda erat novo adae nova coniux ecclesia» 119 • Nel Senno 73, Pier Damiani estende dalla Chiesa all'anima la similitudine: «Felix anima, cuius thalamos caelestis ille sponsus ingreditur ac indissolubili sibi perpetui amoris vinculo copulatur»'"'· Per Ruperto la Parola di Dio penetra, l'anima riceve e ricevendo si unisce a lui in un indissolubile vincolo di amore"'· Egli valorizza, dunque, i tratti dell'esperienza nuziale per descrivere l'unio mystica con Dio. Lo fa in un modo suo proprio sia rispetto a coloro che si riferivano direttamente e ampiamente alla loro esperienza personale (molti di costoro erano cistercensi e certosini), sia rispetto a coloro che parlavano della propria e altrui esperienza in modo velato e indiretto (come san Bernardo e Guglielmo di Saint-Thierry). Ruperto esplicitamente comunica le sue personali esperienze, ma sempre nel contesto della preoccupazione centrale di approfondire i misteri della fede cristiana attraverso lo studio delle Scritture e la preghiera liturgica.
119 De sancta rrinitate et operibus eius, lib. 2, In Genesùn II, CCCM 21, 232. L'esegeta H. Schlier, nel suo commento alla Lettera agli Efesini, sostiene che Ef 5, 25 («E voi, n1ariti, amate le vostre mogli, con1e Cristo ha a1nato la Chiesa») suggerisce che la relazione "tipo" non è quella 1narito-1noglie, n1a Cristo-Chiesa, perché il "co1ne" nel testo greco non è solo esplicativo, 1na causativo, cfr. H. SCHLIER, Der Brief an die /;,"pheser. Ei11e Ko111111e11tar, Di..isseldorf 1971. Recentemente R. PENNA, Lettera agli Efesini, EDB, Bologna 1988, 233 ha niostrato che, anziché parlare di priorità di un rapporto sull'altro, sarebbe n1eglio parlare di 1nutua priorità, «l'una nell'ordine della natura, l'altra nell'ordine della fede». Per quanto riguarda l'dentificazione di Cristo con Ada1no e della Chiesa con Eva, nella tradizione patristica abbia1no unn idea sirnile nello Pseudo-Clcn1ente: «Dice la Scrittura: 'Dio creò l'uo1no 111aschio e fcnunina'. li maschio è Cristo, la fe1nmina è la Chiesa}> (01nefia dello Pseudo-C!e111e11te, XIV, 2; in Patru111 apostoliconon, ed. F.X. Funk, 1, Tubingae
1887, 160. 120 Senno 73, CCCM 57, 439, linea 294. 121
«01nnis eni111 qui habet aures audiendi quas exigit doctrina dci et intrinsecus discit ubi non vox ho1ninis perstrepit nec penetrat caro et sanguis sed sola rcvelatio patris qui est in caelis non potcst se avertere a filio dei sed venit ad n1e inquit credit in me astringitur n1ihi insolubili vinculo dilectionis festinat inter 1ne1nbra inca computari ut eidern cuius ego natura filius su111 ipse quoque in spiritu adoptionis filioru111 abba pater cla1narc possit quo videlicct spiritu praevcnientc docibilis dei modo supradicto factus est» (Co1111ne11taria in evangeliu111 sancii lohannis, 1. 6, CCCM 9, 35).
46 Questi due poli, per lui essenziali, costituiscono il luogo vitale dove le stesse "visioni" ed esperienze mistiche accadono. Se san Bernardo ha espresso con grande forza speculativa l'esperienza mistica, pur ritenendola irripetibile e incomunicabile 12 ', Ruperto la nutre di Bibbia e liturgia trovando in questi due ambiti le forme espressive per comunicarla.
122
Sulla "scoperta dell'individuo" nel XII secolo, cfr. C. MORRIS, The Discovery of !he Individua! 1050-1200, New York 1973 e la critica 1nossagli da C. W. B YNUM, Did the Twe~fth Century Discover the Individua!?, in Journal of Ecclesiastica! History 31 (1980) 1-17.
Synaxis 12 (1994) 4 7-67
LA TESTIMONIANZA DELLA RICONCILIAZIONE ALLA LUCE DELL'ESPERIENZA FRANCESCANA "
SALVATORE CONSOLI'
Preniessa
È sempre più frequente oggi constatare l'esistenza di tensioni e divisioni un po' ovunque: le famiglie, i gruppi (uffici, scuole ... ), i popoli soffrono per la mancanza di pace, di armonia, di unità. Molteplici sono le cause che determinano questo stato di cose: ingiustizie a vari livelli; un marcato individualismo volto a conseguire l'interesse personale; ideologie contrastanti, che in diversi modi fanno uso di violenza e generano nuove tensioni e n1otivi di divisione. Radice di tutto ciò è il peccato, cioè il rifiuto della comunione e dell'amore; esso nasce nell'uomo dall'illusorio tentativo di realizzare se stesso al di fuori di Dio. Così il peccato "aliena" l'uomo dalla sua verità fondamentale, quella di essere "creatura", dipendente e ordinata a Dio. Da qui tutte le alienazioni: la prima e più grave quella da se stesso; poi dagli altri, che l'uomo sente estranei e verso i quali si sente estraneo e "in conflitto infine dalruniverso, col quale instaura un rapporto disordinato e disarmonico. In contrapposizione con tutto ciò, «la riconciliazione con Dio ... non solo ricompone l unità interiore 11
;
1
* Professore di Teologia morale nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** L'articolo è il testo della relazione tenuta al Convegno di studi «Povertà, Giustizia, Riconciliazione» celebrato a Catania nei giorni 25-26 febbraio 1994-, organizzato dal Movitnento Francescano di Sicilia e dallo Studio Teologico S. Paolo in occasione dell'VUI Centenario della nascita di S. Chiara di Assisi.
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Salvatore Consoli
nell'uomo ma comporta anche la sua riconciliazione con gli altri uomini e con la natura» 1•
I. L'annunzio e il segno della riconciliazione della Chiesa
La salvezza e il regno sono dono e mistero di riconciliazione e di comunione tra Dio e gli uomini e tra uomo e uomo. La riconciliazione cammina nella storia per mezzo della Chiesa: essa infatti «è in Cristo come sacramento, cioè segno e stmmento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano»'. Oggi la Chiesa constata le tensioni e le divisioni esistenti ovunque e, conseguentemente, riscopre il suo essere strumento di comunione e di riconciliazione nella storia e nel mondo 3 : deve dare la buona notizia che Dio si è riconciliato con gli uomini in Cristo e li ha riconciliati tra di loro e col creato; ha il compito storico di annunciare «lasciatevi riconciliare con Dio»4, insistendo nel proclamare: «Dio che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo, ha affidato a noi il ministero della riconciliazione»'. Per assolvere la sua sacramentalità deve essere anche segno storico della riconciliazione: essa «mondo riconciliato» 6 deve mantenere la «sua natura originaria di comunità di riconciliati, derivante da Cristo nostra pace (cfr. Ef 2,14) che ci rende rappacificati [ ... ]. Il dovere della pacificazione attinge personalmente tutti e singoli i fedeli>>'.
1 SINODO DEI VESCOVI, La riconciliazione e fa penitenza nella 1nissione delta Chiesa. Li11ea111e11ta, Roma 1982 (d'ora in poi abbr. SINODO, Linea111enta), 8. 2 CONCILJO ECUMENICO VATICANO Il, Cost. dogm. sulla Chiesa Lu111en Gentiunl (d'ora in poi abbr. LG), I. 3 Cfr. i lavori del Sinodo dei vescovi 1983; il Piano pastorale della CEI per gli anni '80. 4 2Cor 5,20. 5 2Cor 5,18; cfr. anche SINODO, Linea111enta, 1 l, 15, 22. 6 S. AGOSTINO, Senno 96, 7, 8: PL 38,588. 7 PAOLO VI, Es. ap. Paterna cu1n benevo/entia, 1974, in Enchiridion Vaticanun1, Edizioni Dehoniane, Bologna 1980, 5, 821~822; cfr. anche 823-825, 846; GIOVANNI PAOLO II, Es. ap. post-sinodale Reconciliatio et Paenitentia, 1984 (d'ora in poi abbr. Rr), 9.
La riconciliazione alla luce dell'esperienza francescana_
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In mezzo alle molteplici tensioni e profonde divisioni che pesano sul mondo di oggi i cristiani debbono essere «testimoni viventi e sorgenti di riconciliazione dentro l'esistenza di tutti i giorni. La riconciliazione con Dio si pone così co1ne fonte di una riconciliazione fraterna - nella comunità ecclesiale e nella società umana · che insieme è grazia ricevuta ma anche responsabilità che i cristiani assumono di fronte al mondo» 8 • Non può non risuonare in questo contesto con accenti particolari la beatitudine: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio»'. Nella esperienza francescana emerge chiaramente che la penitenza oltre ad essere vista come rappacificazione con Dio è tensione verso la comunione con g1i uo1nini e con tutte le creature. La missione della «riparazione della Chiesa» viene capita e assolta come impegno per la pacificazione degli animi cristiani; come richiamo alla indicazione evangelica di mansuetudine e di pace: <<Francesco è convinto che occorra riappacificare i cristiani fra loro, non perché - come si esprimevano i documenti pontifici · si potesse fare più efficacemente la guerra al "nemico della croce di Cristo", ma perché invece potrebbe essere meglio compreso l'annuncio della "pace" al mondo musulmano, al fine di prepararlo all'ascolto del messaggio evangelico. Era pure convinto che quando i cristiani fossero ripieni e gustassero lo spirito delle beatitudini del Cristo, apparirebbe meno difficile accettare il comando di Gesù di non resistere al male col male (Mt 5,39; Le 6,29-30). Questa è la vera ed unica via evangelica che Gesù Cristo chiede alla sua Chiesa m un l!confronto con l'Islam» 10 . La regola francescana, coerentemente con quanto detto sopra nel proporre l'impegno missionario, insiste su una metodologia pacifica nell'accostare gli infedeli, una metodologia "anti-crociata", che 11
R SINODO, Linea111e111a, 42. 9 Mt 5,9. 10 G. BASETTI-SANI, Saraceni, in Dizionario Messaggero, Padova 1983 (d'ora in poi abbr. Dr), l 652.
Francescano, Edizioni
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si fonda nell'esempio di una vita vissuta secondo lo spirito delle beatitudini: «Uno 1nodo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura un1ana per ainore di Dio e confessino di essere cristiani» 11 •
II. La Chiesa esperienza di riconciliazione L'originalità del messaggio cristiano consiste, oltre che nell'annunciare la novità del Vangelo, nel testimoniare la forza morale di tale annuncio attraverso l'esperienza vissuta. Compito della Chiesa è vivere al suo interno la penitenza, la misericordia, la pace, la fraternità, la riconciliazione con il creato, per poter rendere credibile il suo messaggio e così estenderlo a tutti gli uomini.
I. Es11erienza lli penitenza La penitenza, ossia la conversione con cui il cristiano risponde alramore n1iscricordioso di Dio, secondo Reconciliatio et Paenitentia consiste nel "ri-vedere la propria vita, nel "ri-consegnarla al Dio vivo e vero, rinunciando agli idoli, nel ri-ordinare" cioè Ja propria vita nel Cristo. Essa in1plica la "metanoia'\ cioè la conversione a partire da un "nuovo principio", Cristo, mettendo al primo posto la sua sequela e le vie tracciale nel Discorso della Montagna. Ancora la penitenza implica il pentimento, che scaturisce dalla consapevolezza dei "doni'', dei mirabilia Dei, della santità di Dio. Con1porta infine il "faren penitenza, che 1nira a riprodurre l'equilibrio rotto dal peccato, crocifiggendo !"'uomo vecchio" perché 11
11
11
11 S. FRANCESCO, Regola 11011 bollata, in Fonti Francescane, Edizioni Messaggero, Padova 1990 (d'ora in poi abbr. FF), 43. Sull'atteggiarnento non violento di Francesco cfr. G. M!CCOLI, L'esegesi di Ez. 3,18 in Francesco d'Assisi, in Cristia11esùno nella storia 9 (1988) 23-55.
La riconciliazione alla luce dell'esperienza francescana
S1
possa risorgere !"'uomo nuovo". A tal fine, la Chiesa, maestra di vita, suggerisce le pratiche del digiuno, dell'elemosina, della nonviolenza. Le radici del movimento francescano sono da ricercarsi nell'esperienza penitenziale fatta da Francesco nell"'Ordine dei Penitenti", verso il quale il Santo ha convogliato coloro che ufficialmente venivano chiamati Fratres et Sorores de Pccnitentia, ma abitualmente vengono indicati come PCEnitentes beati Francisci fino al prevalere del nome Tertius Orda beati Francisci1 2 • Caratteristica e anima di tale esperienza è il desiderio e la pratica di una rottura, più o meno radicale, con il genere di vita antecedente: un recedere dalla "vita nei peccati".
2. Esperienza di misericordia 1
Comunen1entc bandita dall'uo1no d oggi, la n1isericordia gli è invece necessaria.
Essa è amore verso l'uomo quando è infedele, debole, oppresso, sfiduciato, fuori strada; quando è colpito dal male fisico o morale. Usare e ricevere n1isericordia è fonte di ricchezza spirituale e via per affermare la giustizia. La misericordia infatti non perpetua la disuguaglianza tra chi la offre e chi la riceve, dal momento che si fonda «sulla comune esperienza di quel bene che è l'uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli è propria» 1J. La misericordia non umilia né offende la dignità, anzi la riconosce: quando sbaglia o è in stato di debolezza l'uomo non cessa di essere un uomo, con tutta la sua dignità; pertanto «colui che è oggetto della misericordia non si sente umiliato ma come ritrovato e
12
Cfr. R. PEZZELLI, Pe11ite11za (Ordine della-), in DF, 1297-1310. Lettera enciclica Dives in 111isericordia, 1980, 6.
IJ GIOVANNI PAOLO II,
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rivalutato 11 » 14 • L'uomo per essere se stesso ha bisogno della misericordia: essa lo fa ritornare «alla verità su se stesso» 15 • Così colui che usa misericordia si ritrova più uomo, perché diviene più cosciente della dignità che riconosce nell'altro; e colui che la riceve riscopre la propria dignità. È compito dei cristiani per un verso proclamarla e professarla al proprio interno, rendendo la comunità n1uogo" e segno di misericordia, per l'altro portarla nel mondo", dove può realizzare una società a misura d'uo1no: giusta e fraterna. Incarnare !'"uguaglianza" tra gli uomini fa sì che essi s incontrino tra loro in quel valore con1une che è l'uomo stesso. 11
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1
«li Signore concesse a 1nc, frate Francesco, d'inco1ninciare così a far penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sen1brava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi 1nisericordia. E allonta1u1ndoini da essi, ciò che 1ni se1nbrava amaro mi fu ca1nbiato in dolcezza di ani1na e di corpo. E poi, stetti un poco e uscii dal inondo» 17 •
In questo episodio la misericordia diventa solidarietà con chi si trova in quello stato di grande deholezza che è la lebbra, e nella conseguente emarginazione. Alla scuola di Francesco, Chiara contempla la misericordia di Dio, la scopre, secondo quanto dicono le testimonianze, come dono nella propria vita e in quella degli altri. Vi insiste molto nella regola e suole benedire le sue consorelle con la formula «il Signore [ ... ] vi usi misericordia» 18 .
i.i L.c. is L.c. 16
Cfr. ibid., 14.
17 S. FRANCESCO, Testa111e11to, in FF, l l 0. 18 Cfr. L. TEMPERINI, Misericordia, in DF, 1000-1004; cfr. anche R. MANSELLI, S. Francesco, Bulzoni, Rorna 1980, 42-69.
La riconciliazione alla luce dell'e,s'}Jerienzafrancescana
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3. Esperienza di pace
La pace è il contenuto stesso dell'alleanza tra Dio e il Popolo, perciò le Scritture usano spesso l'espressione «alleanza di pace» 19 • Il Messia è definito un «re di pace» 20 e nel suo regno le armi vengono cambiate in strumento di costruzione"; vengono superate le initnicizie esistenti in natura 22 e si concilia la pace con la giustizia: «Misericordia e verità s 1incontreranno; giustizia e pace si baceranno» 23 . Com-partecipando la sua pace ai discepoli, Cristo li rende messaggeri e costruttori di pace e riconciliazione: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» 24 ; alla sequela di Gesù, è fondan1entale il «n1inistero della riconciliazione» 25 .
Per questo motivo realizzare la pace è compito preciso dei cristiani: «Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti» 26 ; è questo il modo concreto di vivere il Vangelo nel sociale: «la pace è la più inclusiva delle virtù cristiane [ ... ] è l'amore tradotto in termini sociali o globali - un insieme di molte virtù amalgamate tra di loro fino a formare una realtà complessa» 27 • Oggi è più che mai urgente che i seguaci del Signore riscoprano questo ruolo attivo: «Una delle funzioni più importanti dei cristiani è quella di essere fra gli uomini fattori che inducono alla calma e alla pacificazione»". La ricerca della pace per essere efficace deve diventare impegno per la qualità del rapporto sociale. Ma poichè Dio si manifesta come dono soprattutto nella croce, si comprende che la pace è conseguenza del dono personale di sé agli altri: essa dunque non va intesa semplicemente come ordine, come tranquillità, ma come buon
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Js 54, 1O; cfr. Ez 34,25. Js 9,5-6; cfr. Zac 9,9-1 O. Cfr. Is 2,4; 9,4; Mie 4,I-5. Cfr. Is I I ,6-9; Os 2,20. Sai 85,1. Mt 5,9. 2Cor 5,18; Mt 18,17. Rn1 12,18. J. MACQUARIN, citato da B. HAERING, Liberi e fedeli in Cristo, IIJ, Paoline,
Milano 1981, 484. 2 x J. ELLUL, citato da B. HAERJNG,
[.c.
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ordine, essa esclude il dominio diretto o indiretto dell'uomo sull'uomo, di un gruppo su un altro. Da qui la necessità di rivedere la qualità del rapporto intraumano, e di improntarlo alla fraternità, all'uguaglianza, al rispetto della persona. «I rapporti fra gli uomini saranno rapporti di pace se saranno rapporti di dono: rapporti tali, cioè, che ciascuno consideri gli altri come valore, termine del suo personale dono di sé [... ] questa è la radice della pace. Il rovescio della pace non è perciò la guerra (che sarà solo una particolare situazione di non pace); è invece il dominio dell'uomo sull'uomo. Impegnarsi per la pace è impegnarsi per la liberazione di ogni essere umano, di ogni gruppo, che in qualche modo sia oppresso, dominalo da altri uomini o altri gruppi»". Su questa strada la pace diviene essenzialmente impegno per la giustizia: «Effetto della giustizia sarà la pace»"' e centro di attenzione sarà il povero, l'oppresso, l'emarginato: «la giustizia di Dio è sempre la giustizia resa al povero e all'oppresso [... ] il vero giusto è colui che opera per liberare gli oppressi, per spezzare ogni catena. Essere assetati di giustizia e facitori di pace è in realtà la stessa cosa» 31 • Educare alla pace è necessario e fondamentale, ma soltanto se lo si fonda sul convincimento che la pace è possibile e che la guerra può essere bandita; occorre perciò avere fiducia nelle potenzialità di pace presenti nell'uomo, che quando è in armonia con se stesso e con Dio saprà essere operatore di pace anche nei rapporti con gli altri. Francesco fu l'uomo della pace, fatta di perdono, di compassione, di comprensione e di tolleranza per le idee e gli errori altrui: il suo saluto è <di Signore ti dia la sua pace!». Il Celano scrive: <dn ogni suo sermone, pri1na di co1nunicare la parola di Dio al popolo, augurava la pace, dicendo: "li Signore vi dia la pace!". Questa pace egli
29 E. CHIAVACCI, Pace e guerra, in J. B. BAUER f)izionario Teologico, Cittadella, Assisi 1974, 487. :w Is 32,17. 31
E. CH!AVACCJ,
I.e.
- C. MOLAR!
(a cura
di),
La riconciliazione alla luce dell'e5perienzafrancescana -----. - - - - - -------- -
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annunciava sen1pre sinceramente a uo1nini e donne, a tulti quanti incontrava o venivano a lui. Jn questo modo otteneva spesso, con la grazia del Signore, di indurre i nc1nici della pace e della propria salvezza, a diventare essi stessi figli della pace e desiderosi della salvezza etcrna» 32 .
Francesco insiste: «La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori. Non provocate nessuno all'ira o allo scandalo, n1a tutti siano attirati alla pace, alla bontà, allu concordia dalla vostra mitezza. Questa è la nostra vocazione: curare le ferite, fasciare le fratture, richiainare gli s1narriti. Molti, che ci sen1brano men1bra del diavolo, possono un giorno diventare discepoli di Cristo»:n.
S. Bonaventura non esita a chiamarlo «Angelo della vera pace»34. Nell'esperienza francescana la pace proclamata con la bocca è quella che bisogna avere nel cuore: «sono veri pacifici quelli che di tutte le cose che sopportano in questo mondo [... ] conservano la pace nell'anima e nel corpo»". Lo stesso saluto di pace come primo approccio con gli uomini tende a stabilire un atteggiamento ed una metodologia di reciproca accoglienza, che apre il cuore agli altri e fa sprigionare una forza spirituale interiore, capace di ri1nuovere sentimenti e atteggiamenti di ostilità". A fronte della violenza, l'esperienza francescana è per l'atteggiamento di non resistenza: e questo perché guarda più al bene spirituale che ne deriva alla vittima che al male di chi ne è termine 37 ; da qui la capacità di chiamare le tribolazioni con il termine «sorelle» 38 •
32
T. DA CELANO, Vita Priina di S. Francesco d'Assisi, in Leggenda dei tre co111pag11i, in FF, 1469. 34 S. BONAVENTURA, leggenda Maggiore, in FF, 102 I. 35 S. FRANCESCO, Anunonizioni, in l'F, 164. 36 Cfr. J. PAUL, Pace, in DF, 1193-1198. 37 Cfr. Io., Violenza, in DF, 1976-1977. 38 Cfr. E. MARIANI, Volontà di Dio, in DF, 2012. 3
-~
FF,
359.
56 4. Esperienza di fraternità Molte espressioni liturgiche richiamano alla evidente realtà che la Chiesa è "famiglia di Dio" fondata sul Cristo, "primogenito" che rende gli altri figli e fratelli: «Signore, Figlio primogenito del Padre, che fai di noi una sola famiglia [ ... ]» 39 . Il senso del Natale è questo: riconoscenza di essere "figli nel Figlio". Con l'iniziazione si entra nella "famiglia" che è la Chiesa, in cui ci si riconosce "fratelli" perché unico è il Padre". «Ricordati anche dei nostri fratelli che oggi mediante il Battesimo e la Confermazione sono entrati a far parte della famiglia [... ]» 40 Animata e sorretta dalla forza unificante dello Spirito: «Guarda, o Padre, questa tua famiglia [... ] donaci la forza dello Spirito Santo, perché vinta ogni divisione e discordia siamo riuniti in un solo corpo» 41 , è l'unione che la caratterizza e che si esprime nella gioia della fraternità: «[ ... ] uniti nella gioia dello Spirito Santo, formiamo una sola famiglia» 42 . Lo Spirito Santo assolve nella Chiesa la stessa funzione di "familiarità" che assolve all'interno della Trinità. L'esperienza della fraternità impone dei doveri, innanzitutto quello di realizzare la comunione con gli altri: «come figli del Dio "della pace, scambiatevi un gesto di comunione fraterna»; perciò, all'interno di questo compito, continue sono le sollecitazioni alla riconciliazione e alla pace: «In Cristo, che ci ha resi tutti fratelli con la sua croce, scambiatevi un segno di riconciliazione e di pace» 43 . 11
39
40 41
Atto penitenziale dcl Tcn1po di Natale. Prece eucaristica II. Prece eucaristica della riconciliazione I.
42
Prece eucaristica dei fanciulli I.
43
Rito della Messa.
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57
La Lumen Gentium presenta la Chiesa come «casa di Dio, nella quale abita la sua famiglia»". Essa è oggetto di cura da parte di Dio: il vescovo è mandato dal Padre a governare la sua famiglia". Tutto il linguaggio usato esprime in modo significativo e concreto questa realtà: Cristo e i pastori sono visti quali "fratelli"; il ministero è a servizio della famiglia; caratteristica costante e principale dei rapporti interpersonali è l'amore, che diventa per ciascun cristiano un !!essere con 11 raltro.
Questo modo di vivere la Chiesa come famiglia non può che generare atteggiamenti di fiducia e di confidenza degli uomini tra loro e col Padre. Gesù, figlio primogenito, fa sì che gli uomini sperimentino e vivano tra loro la fraternità; essa è dono dello Spirito e si manifesta nel servizio reciproco, fatto di gesti concreti di amore. Gesù «primogenito tra molti fratelli, tra tutti coloro che lo accolsero con la fede e con la carità [... ] ha istituito attraverso il dono del suo Spirito una nuova comunione fraterna, in quel suo Corpo, che è la Chiesa, nel quale tutti [ ... ] si prestassero servizi reciproci [... ]» 46 . Ancora più significativo è constatare che nel piano di Dio l'essere una sola famiglia investe non solo la Chiesa, ma l'intero genere umano.
Tutti infatti provengono da un solo Dio e da un solo uomo e questo determina un sentire e un agire da fratelli: «lddio, che ha cura paterna di tutti, ha voluto che gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero con animo di fratelli. Tutti infatti, sono creati ad immagine di Dio, che da un solo uomo ha prodotto l'intero genere umano affinché popolasse tutta la terra [ ... ]» 47 • Pertanto compito della Chiesa è vivere la fraternità, innanzitutto al suo interno, quindi favorire la realizzazione dell'unità dell'intera
44
45
Lo 6.
Ib;d., 27. CONCILIO ECUMENICO V ATTCANO II, Cost. past. sulla Chiesa nel n1ondo contemporaneo Gaudù1111 et Spes (d'ora in poi abbr. Gs), 32. 47 !bid., 24. 46
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famiglia u1nana; essa deve porsi come testin1onianza e strumento per la realizzazione di tale disegno, infatti: «Tutti gli uomini sono chiamati a formare il Popolo di Dio» 48 • Nella società odierna, divisa da continue tensioni, la Chiesa può essere "segno" di fraternità se i suoi membri si impegnano a vivere da fratelli, un rapporto che ha il dialogo come clima e metodo: essa ha il compito infatti «di cooperare fraternamente al servizio della famiglia umana che è chiamata a diventare in Cristo Gesù la famiglia dei figli di Dio» 49 • La solidarietà vissuta ed estesa farà sì che tutti gli uomini rendano gloria a Dio «come famiglia di Dio e da Cristo Fratello amata» 50 • Il Celano parlando di Chiara e delle sue comunità religiose scrive: «l ... ] dornina tra loro, sopra ogni altra cosa, la virtù di una continua e n1utua carità, che unisce così profondamente le loro volontà che, perfino in una fraternità di quaranta o cinquanta persone, con1c sono in qualche luogo, l'identità del volere e dcl
non volere fa di tante un'ani1na sola)> 51 .
Chiara nella Regola attribuisce caratteristiche di quello materno":
all'amore
fraterno
le
«L'una 1nanifcsti all'altra con confidenza la sua necessità. E se una n1adrc ama e nutre la sua figlia carnale, con quanta 1naggiorc cura deve una sorella amare e nutrire la sua sorella spirituale» 53.
E addirittura è proprio di Francesco considerare i vincoli spirituali più forti di quelli del sangue; l'amore però, per essere
48
Lcl3. Gs 92 50 Jbid., 32. 51 T. DA CELANO, op. cii., in FF, 352. 52 Cfr. S. FRANCESCO, Regola Bollata, in FF, 91; Leggenda dei tre co111pag11i, in FF, 1446; Anonùno Perugino, in FF, 1516; O. VAN ASSELDONK, Madre, in DF, 91949
922. 53
S. CHIARA D'ASSISI, Regola, in FF, 2798.
La riconciliazione alla luce del!' esperienza francescana ------ ---- ----- ------
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fraterno, deve superare i limiti del peccato. La Regola di Chiara in tal senso è concreta ed efficace: «Anunonisco poi, ed esorto nel Signore Gesù Cristo, che si guardino le sorelle da ogni superbia, vanagloria, invidia, avarizia, cura e sollecitudine di questo inondo, dalla detrazione e mormorazione, dalla discordia e divisione. Siano invece sollecite di conservare sempre reciprocamente l'unità della scambievole carità, che è il vincolo della pcrrezione>: 54 .
La fraternità è per Francesco una delle caratteristiche fondamentali del cristiano in attuazione dell'insegnamento di Gesù «voi siete Lutti fratelli». S. Chiara ne è l'interprete più fedele e più autentica e, nello spirito e nella lettera della sua Regola, l'espressione "sorelle povere" indica un elemento fondamentale e costitutivo:quello di essere realmente "sorelle". Francesco recupera la "fraternità" come conseguenza della sua forte esperienza della "paternità" di Dio: vuole che i snoi frati si chian1ino frati n1inoriu, ossia i !!fratelli più piccoli della grande famiglia di Dio-Padre55 . Per Francesco le offese contro la fraternità sono offesa contro la paternità di Dio, che ama di immenso amore Lutti i suoi figli 56 ; da qui l'abitudine del Santo di indicare il Creatore col nome "Dio-Carità", quella carità che unifica lutti e dà senso alla vita57 . Dalla tradizione francescana derivano alcune indicazioni preziose per vivere concretamente la fraternità. 11
11
54
!bid., 2809-2810; cfr. anche S. FRANCESCO, Regola Bollata, in FF, 103. Cfr. A. BONl, Fraternità, in DF, 615-621; cfr. anche M. ROGGEN, Giustizia, in DF, 678-679. 56 Cfr. A. BONI, art. cit., 621. 55
57 «Se Francesco dunque dà a Dio il nome di Carità, non lo fa soltanto perché così è scritto in 1Gv 4,8, 1na perché egli esperin1enta che la carità veramente vissuta nella rinuncia al proprio io per donarsi agli altri e accettarli e riconoscerli quali sono, è corne lo svelarsi e realizzarsi del senso assoluto della vita. Egli esperimenta la carità verso gli altri con1e la realtà utnana concreta e faticosa, nella quale Dio gli si fa incontro e gli porge il suo segreto. Il testo giovanneo esprime dunque non soltanto un insegna1nento che egli accetta eo1ne vero, 1na anche e soprattutto l'esperienza di Francesco che, sonnonlando l'inclinazione egocentrica della natura per realizzare la carità, ha sentito che si realizzava in lui una partecipazione alla vita di Dio, che è carità» (cfr. A. POMPEI, [)io, in DF, 378).
60
Salvatore Consoli a. La considerazione dei nemici
Francesco insiste sul dovere di amare quelli che sono ritenuti nemici, antipatici, quelli che cercano di farci del male o che ci fanno soffrire: ama veramente colui che non si preoccupa del male ricevuto dal fratello, ma brucia a causa del male da cui il fratello è tenuto schiavo". Arriva addirittura a considerarli amici: «Frati 1niei tutti, ascoltian10 ciò che dice il Signore: Amate i vostri nc1nici e fate dcl bene a quelli che vi odiano. Infatti anche il Signore nostro Gesù Cristo, di cui dobbia1no seguire le onne, chiainò amico il suo traditore e si offrì spontanea1nente ai suoi crocifissori. Sono dunque nostri :unici tutti coloro che ingiustamente ci infliggono tribolazioni e angustie, igno1ninie e ingiurie, dolori e sofferenze, 1nartirio e 1norte e li dobbimno amare molto poiché in virtù di ciò che ci fanno, abbiamo la vita ctcrna» 59 .
Bisogna riservare buona accoglienza ai nemici: la dolcezza e la bontà cambiano i cuori 60 • b. Il perdono «Laudato sì, mi Signore, per quelli che perdonano per lo tuo atnore» 61 : il perdono è un e1ninente espressione di a1nore. Chiara, consapevole della realtà umana sempre incline al male, raccomanda il perdono: 1
«Se accadesse, il che non sia, che fra una sorella e l'altra sorgesse talvolta, a 1notivo di parole o di segni, occasione di turban1ento e di scandalo, quella che fu causa di turban1cnto, subito, prima di offrire davanti a Dio l'offerta della sua orazione, non soltanto si getti un1ilmcntc ai piedi dell'altra domandando perdono, ma anche con semplicità la preghi di intercedere per lei presso il Signore perché la perdoni. L'altra poi, n1en1ore di quella parola del Signore: Se
58
Cfr. L. TEMPERINI, An1ore di Dio, in DF, 73-74. 59 S. FRANCESCO, Regola non bollata, in FF, 56. 6 Cfr. J. PAUL, Violenza, in Dr, 1975-1978. 61 S. FRANCESCO, Il Cantico de/fe Creature, in FF, 263.
°
La riconciliazione alla luce dcli' esperienza francescana
61
non perdonerete di cuore, ne1nmeno il Padre vostro celeste perdonerà a voi, perdoni generosainente alla sua sorella ogni offesa fattalc» 62 .
Le fonti alle quali le clarisse debbono attingere la capacità del perdono sono tre: il riconoscimento della debolezza umana; il bisogno di trovare perdono presso Dio e la necessità di custodire l'unione della mutua carità6'.1.
c. La povertà L'esperienza francescana presenta la povertà come via alla fraternità. Mentre la povertà cerca collaborazione, la ricchezza crea muri di protezione; mentre la povertà unisce, la ricchezza divide ed emargina. «Chi attacca il proprio cuore alle ricchezze, non ha più affetto per i suoi fratelli. Il ricco non si dona, ma cerca di imporsi: offre le proprie ricchezze, non per aiutare il suo fratello che è nel bisogno, ma per dominarlo. La fraternità è un dono che si offre e si accetta nella povertà di tutti i figli di Dio, perché chi non è povero ed umile non è capace del dono di se stesso. Forestiero e pellegrino in questo mondo, il povero si asside con fiducia alla "mensa del Signore", imbandita dalla provvidenza e dal lavoro della povera gente. I figli di Dio si 11
ritrovano insieme alla "1nensa del Signore per donare e per ricevere affetto e pane» 64 .
d. La lealtà La tradizione francescana considera la fraternità quale espressione e frutto della lealtà; questa è a sua volta espressione di rispetto, ed il rispetto è segno di considerazione e di stima degli altri.
62
63 64
S. CHIARA D'ASSISI, Regola, in FF, 2803. Cfr. C. G. CREMASCHI, Povere !Ja111e, in Dr, 1363-1366. A. BONI, Fraternità, in DF, 623.
62
Salvatore Consoli
Francesco è ben consapevole che la fraternità esige lealtà e rispetto65 : «Bealo il servo che saprà tanto amare e tcrncre il suo rratello quando è lontano cotne se fosse presso di sé, e non dirà dietro le spalle niente che con carità non possa dire in faccia a Jui» 66 .
Tra tutti i vizi S. Francesco aborrisce particolarmente la detrazione<' 7 .
5. Esperienza lii riconciliazione con il creato
Tutta la creazione è ordinata da Dio all'uomo, che ne è il capolavoro. La somiglianza divina con1porta come conseguenza l 1incarico
che il Creatore dà all'uomo nei riguardi del mondo: gli affida la responsabilità della terra. Essa non gli viene data come oggetto di sfrnttamento arbitrario, ma per rappresentarvi la signoria divina: «Essa è piuttosto affidata alla sua responsabilità come la casa nella quale egli deve abitare, come luogo di soggiorno nel quale egli deve adempiere alla sua vocazione di uo1no, nella storia» 68 . Secondo la concezione biblica, l'uomo non sta di fronte alla natura (= soggetto-oggetto), ma è radicato nell'ambiente naturale: egli si può realizzare solo in un legame permanente e costitutivo con il mondo. Per l'uomo biblico il mondo non è un ambiente neutrale, ma un evento/dono nel quale Dio comunica la vita e nel quale la vita può essere promossa.
Si parla opportunamente di con-creaturalità dell'uomo con la natura.
65
Cfr. ibid., 626.
66
S. FRANCESCO, A1111nonizio11i, in FF, 175.
<>
7
68
Cfr. A. BONI, art. cit., 626-627. A. AUER, Etica de!l'an1bie11te, Queriniana, Brescia 1988, 233.
La riconciliazione alla luce dell'esperienzafì-ancescana
63
Francesco fraternizza con tntte le creature: attribuisce loro il nome di "fratello" o di "sorella", provando sentimenti di cordiale fraternità nei loro confronti. Scrive il Celano: «non s'era rnaì veduto un tale affetto per le crcaturc» 69 .
«Una tale fraternità è segno di un'intuizione profonda. Essa si riallaccia al senso della paternità universale di Dio. Considerando che tutte le cose - scrive san Bonaventura - hanno un origine comune, si sentiva ricolmo di pietà ancor maggiore e chiamava le creature per quanto piccole con il nome di fratello o sorella: sapeva bene che tutte provenivano, come lui, da un unico Principio (LegM 8,6: 1145). Dunque è con un senso teologico fortissimo che Francesco parlava del sole, delle stelle, del vento, dell'acqua, del fuoco [ ... ] come fossero fratelli e sorelle. Ai suoi occhi uno stesso slancio d'amore generava tutti gli esseri e creava fra di loro dei legami di stretta parentela»"'· Francesco instaura un rapporto nuovo con il creato: non cerca Je creature per possederle o dominarle, ma, cogliendovi le tracce della sapienza creatrice, per invitarle a rendere lode a Dio e per trovarvi un itinerario di ascensione verso il Trascendente71 • Significativa la visione francescana della creatura come «anello da sposa» offerto da Dio all'uomo, perché lo porti per suo amore e in sua 1nen1oria72 . Il cantico riconosce tutte le creature nella loro sovrana dignità di creature di Dio!!: arn1onizza insieme tutti gli esseri nel canto di lode e nella comunione profonda7l e, quel che conta, Francesco ha la capacità di armonizzarsi con tutto il creato. 1
11
69 T. DA CELANO, Vita Seconda di S. Francesco d'Assisi, in FF, 750; cfr. anche
Io.,
\lif{/ Prù11a di S. Francesco d'Assisi, in 70 E. LECLERC, Canto, in Dr, 125.
Fr, 461.
71 Cfr. C. B. DEL ZOTTO, Creato, in DF, 279-281; lo., Mondo, in DF, I 043. Cfr. Io., Creato, in DF, 284. 73 Cfr. ibid., 292-293. 72
64
Salvatore Consoli
III. Il messaggio di Francesco e Chiara per la riconciliazione nella società di oggi «L,a Chiesa, per essere riconciliatrice, deve cominciare con J1essere una Chiesa riconciliata [... ]. Dinanzi ai nostri conte1nporanei, così sensibili alla prova delle concrete testimonianze di vita, la Chiesa è chiamata a dare l'esempio della riconciliazione anzitutto al suo interno; e per questo tutti dobbia1no operare per pacificare gli ani111i, inoderare le tensioni, superare le divisioni, sanare le ferite eventuahnente inferte tra fratelli» 74 •
Per vivere la riconciliazione ed esserne strumento valido per la società odierna, la Chiesa necessita dell'esperienza francescana: deve riscoprirla sempre più e saperne proporre gli elementi essenziali. Tra questi è opportuno richiamare quelli particolarmente utili all'uomo d'oggi: l'armonia, la fraternità, il senso del creato, la misericordia, la pace.
Francesco entra in armonia con Dio, con gli altri e con il creato quando decide di dar morte ad una esistenza tutta protesa alla ricerca di sé che lo ripiega sempre più su se stesso. L'armonia con Dio, gli uomini, gli animali, le piante - celebrata nel cantico - è vissuta dal Santo come fraternità universale, nella cui attuazione egli sperimenta Dio come carità", e S. Chiara, nella benedizione, dà un programma di arn1on1a: «Siate sen1pre amanti di Dio e delle anime vostre e di tutte le vostre sorellc» 76 .
74
Rr, 9.
75
Cfr. A.
POMPEI,
Dio, in
DF,
379;
S. BONAVENTURA,
FF, 1198. 76
S. CHIARA D'ASSISI, Benedizione, in FF, 2857.
Leggenda Maggiore, in
La riconciliazione alla luce dell'esperienza francescana
65
Ma la riconciliazione non può mai saltare il momento personale: è indispensabile realizzare prima la riconciliazione con se stessi. L'armonia che i biografi evidenziano in Francesco e in Chiara e che sempre ha costituito una forza di attrazione, è un invito all'uomo d oggi a ritrovare l'armonia in sé e con sé, superando ogni atteggiamento di intima divisione e contrasto; il che è possibile in una gioiosa prospettiva di donazione di sé a Dio, agli altri e alle creature. Oggi per poter essere annunciatori e costruttori di pace, bisogna avere la pace interiore, essere in pace. 1
2. La fraternità
La fraternità francescana testimonia al mondo che la fraternità cristiana è possibile: essa stabilisce rapporti "familiari" fondati sulla povertà, il rispetto reciproco e la lealtà, valori che non possono non diventare cura dell'altro, compassione, comunione e perdono. Francesco e Chiara ridicono alla società d'oggi che povertà e fraternità sono strettamente legate: se gli uomini d'oggi vogliono costruire e vivere la fraternità di cui sentono l'esigenza, guardando a Francesco e a Chiara troveranno un valido punto di riferimento, perché come scrivono i vescovi di Sicilia: «Chiara) "ai piedi di tutti", dice l'urgenza, per il nostro te1npo di rientrare, di riconvertirsi alla fraternità universale e cosmica» 77 .
3. Il creato
Per Francesco ogni creatura è specchio della divina bontà: il Santo stabilisce con esse un rapporto fraterno, grazie anche all'ascesi cristiana. II n1essaggio francescano insegna all uo1no d oggi a guardare 1
1
con fiducia e ad usare con rispetto tutte le realtà create, a beneficio di tutti, e non per egoistico desiderio di appropriazione, inducendo
77
Messnggio, 7 ottobre 1993, 5.
66 l'uomo d'oggi a instaurare con tutte le creature un rapporto fraterno di ainicizia e di riconciliazione. La proposta di Francesco è un vero capovolgimento di tutti i rapporti che l'uomo d'oggi ha abitualmente con gli uomini e con le cose: la fraternità riscoperta va estesa al cosmo intero.
4. La misericordia
Francesco fa propri i mali degli altri, a partire da quelli del lebbroso; esercita la misericordia ad ogni livello: verso i poveri, i frati in tentazione, gli infermi, gli afflitti. Chiara fa altrettanto: le suore testimoniano che «Aveva compassione grande alle afflitte; era benigna e liberale verso tutte le Sore» 78 e il biografo annota che «non limitava il suo affetto all'anima delle sorelle; ma si applicava anche con una meravigliosa carità a curare i loro corpi» 79 . L'uomo d'oggi, se vuole veramente la pace, deve riconciliarsi, attraverso le opere di misericordia, con i molti fratelli nel bisogno. Come disattendere l'indicazione del papa secondo la quale, oggi, la pace è frutto della solidarietà"'?
5. La pace
La pace, nella visione francescana, deve partire dal cuore, come pacificazione interiore ma, giacché la ricchezza divide e la povertà unisce, deve spingere l'uomo di oggi a rivedere con coraggio il suo rapporto con il possesso, se egli davvero vuole essere operatore di pace; e la penitenza, che è rappacificazione con Dio, deve diventare impegno di pacificazione e giustizia tra gli uomini.
78
Processo di canonizzazione, in FF, 3084. Leggenda di Santa Chiara Vergine, in FF, 3233. lW Cfr. GIOVANNI PAOLO Il, Lettera enciclica Sollicitudo Rei Socia!is, Roma 1987, 39. 79
La riconciliazione
ali~. luce
dell'esperienza francescana
67
SarĂ di grande aiuto in quest'opera di riconciliazione s. Chiara, che la Bolla di canonizzazone descrive ÂŤmediatrice di pace e comunione d'amicizia: mite nelle parole, dolce nell'azione e in tutto amabile e graditaÂť 81 .
81
3298.
ALESSANDRO IV, Bolla di canonizzazione di Santa Chiara Vergine, in FF,
Synaxis 12 (1994) 69-105
SOLIDARIETÀ E BENE COMUNE NEL PENSIERO DI LUIGI STURZO. FONDAMENTI ANTROPOLOGICI E PROSPETTIVA ETICA
ANTONINO PARJSJ'
Pren1essa Solidarietà e bene comune costituiscono due aspetti, intin1a1nente congiunti, attorno ai quali si muove la riflessione teologico-morale recente e attuale, tendente a coniugare la problematica morale con le sue implicazioni sociali e politiche. Dal principio di solidarietà, inteso come esigenza diretta della fraternità umana, sia a livello antropologico che spirituale, e indicato anche con i ter1nini anzicizia o carità sociale, si fa dipendere la tensione verso un ordine sociale più giusto nella prospettiva del bene comune, compreso come bene in senso morale che oltrepassa l'ambito dei beni materiali. Il dibattito su questi problemi ha trovato e continua a trovare spazio e risonanza a vari livelli e con differenti accentuazioni e mostra, soprattutto nella nostra epoca in cui riemerge la domanda di un recupero della dimensione etica della vita pubblica, la sua scottante attualità. Don Luigi Sturzo, sacerdote, sociologo e statista, il cui pensiero, profondo e assai fecondo dal punto di vista teologico', è animato
* Dottore in Teologia morale. 1 Si tratta di uno degli aspetti scarsa1ncnte valorizzati del pensiero di Sturzo, sovente riletto e approfondito quasi esclusivamente dal punto di vista sociologico,
70
Antonino Parisi
dall'interesse per la comprensione della realtà sociale e politica in termini cristiani e dalla esplicitazione del rapporto tra l'orizzonte della fede e l'impegno nella sfera civile e politica, sembra offrire, a questo riguardo, alcuni spunti che bene si offrono ad un accostamento alla nostra problematica. L'intero progetto sturziano poggia su una visione dell'uomo che comprende costitutivamente il piano associativo: lo stesso Sturzo la definisce «vera antropologia sociale» 2 • È la chiave interpretativa del suo pensiero: la parabola sturziana muove, infatti, dal tentativo di comprensione dell'identità della persona umana, la cui indole è individuale-sociale, in costitutiva simultaneità. Accanto a questo rapporto di tipo orizzontale c'è, come sua interazione essenziale, lo slancio verticale. Su questo sfondo si modella la capacità della persona di costruire le proprie relazioni e di portare a compimento se stessa in modo integrale, attraverso la piena esplicitazione delle istanze della coscienza morale, in un doppio ordine di rapporti: quello naturale, che ne consente l'apertura alla dinamica sociale', e quello soprannaturale, che tende a superare la contingenza del fattuale per tendere verso fini superiori 4 . L"'antropologia sociale" sturziana fonda il primato della persona su ogni espressione della vita sociale, che da essa trae origine e ad essa è finalizzata: il primato di origine e di finalità è dunque sempre della persona sulla società e sullo Stato, a salvaguardia della dimensione in primo luogo interiore e spirituale della vita sociale di relazione. Su questa direttrice si colloca la consapevolezza che ogni espressione della relazionalità umana deve essere concepita come una esperienza anzitutto etica, per la quale «lutti, individui e società, in reciproca azione e reazione, sul piano naturale e su quello soprannaturale,
filosofico e politico; pertanto la sua sintesi di pensiero 111uove dalla passione per la verità e la 1natrice teologica ne rappresenta il nucleo fondamentale e il riferin1ento costante, talvolta in modo originale e perfino precorrente (alcune sue intuizioni precedono teologi quali K. Rahner e H. De Lubac. Cfr. S. DIANICH, Chiesa in 111issione. Per una ecclesiologia dinan1ica, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1985, 54). 2 L. STURZO, La società: sua natura e leggi, Zanichclli, Bologna 1960, 8 3 Cfr. L. STURZO, Coscienza e politica, Zanichelli, Bologna 1972, 205; lo., la vera vita. Sociologia del soprannaturale, Zanichelli, Bologna 1960, 57. 4 Cfr. L. STURZO, la società ... , cit., l 35.
Solidarietà e bene comune nel pensiero ~i L. Sturza
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rispondono o cooperano, direttamente o indirettamente, alla vocazione universale, da realizzarsi per mezzo delle forme sociali e in ciascuno di noi, al bene e alla cognizione di Dio; tutti, così, divengono, in modo misterioso, cooperatori di Dio per l'edificazione del suo regno» 5 • Il primato dell'etica impone, pertanto, un rapporto di continuità tra il finalismo della persona umana e il finalismo sociale; la strutturazione organica della società deve poter lasciare intravedere questa continuità, che assegna alla morale lo statuto di «legge generale e imperiosa per la coscienza di ciascuno e per quella di tutti, presi insieme» 6 . La configurazione etica dei rapporti sociali non avviene, quindi, ab extrinseco, ma si fonda sulla comune acquisizione di valori cui dare efficacia storica e sulla comune convergenza verso fini condivisi, primo fra tutti il bene assoluto o amore soprannaturale che, sul piano categoriale, costituisce la «sintesi etica della vita sociale»'. La solidarietà sturziana trova, allora, nell'"antropologia sociale" la sua genesi e i suoi orientamenti, per esplicitarsi come configurazione del naturale al soprannaturale e rendere un'immagine viva del soprannaturale nel naturale, diventando quel «legame spirituale d'amore che unisce gli uomini a Dio, in quanto Dio stesso è unito con loro [... ]. Questo legame è operativo in quanto è operativa la fede in Dio per l'amore»'; l'oggetto di questo amore è duplice, Dio e il prossimo: l'amore del prossimo «non è solo un amore dell'individuo per il suo simile, ma anche quello di un gruppo per l'altro e dell'individuo per la comunità», perché chi ama Dio è «colui che fa la
5
L. STURZO, La vera vita ... , cit., 51. L. STURZO, Miscellanea londinese, III, Zanichelli, Bologna 1970, 194. 7 L. STURZO, Crociata d'a111ore, in Il Cittadino di Brescia, 30 agosto 1925, ora in app. a ID., La vera vita ... , cit., 249; si tratta dell'«idcn1 sentire degli individuipersona» (cfr. M. D'ADDIO, Aspetti del pensiero politico-sociale di L. Sturzo nel periodo dell'esilio, in AA.Vv., luigi Sturzo teorico della società e dello stato nelle Opere dell'esilio. Atti del Convegno di studio organizzato dal Libero Seminario Sturziano di Palenno [Palern10, 28-30 novembre 1985], a cura di A. Di Giovanni e A. Palazzo, Massi1no, Milano 1989, 21). 8 L. STURZO, La vera vita ... , cit., 201. 6
72
Antonino Parisi
volontà di Dio - che è amore -» ed «è veramente figlio di Dio e fratello di tutti gli uomini»'. In dipendenza da questa prospettiva, si vuole riflettere sul significato dei termini n1oralità, solidarietà e bene coniune, insistendo sui presupposti attorno ai quali si modellano e ampliando gli orizzonti del finalismo etico, alla luce della relazionalità pluridimensionale della persona umana che comprende, in modo sintetico, il piano naturale e quello soprannaturale.
1. Relazioni uniane e nioralità
«Che cosa è la moralità?», si chiede Sturzow, ed è a partire da questo interrogativo che egli tenta di evidenziare le linee essenziali di un problema che ha in sé il carattere della complessità, perché complesso è il termine di riferimento: la persona umana e le sue relazioni. In un abbozzo di definizione, per la quale «la moralità è la condotta buona secondo la norma morale o etica fondata sulla coscienza» 11 , si delinea una duplice dimensione della categoria "moralità": da una parte il suo profondo legame con la prospettiva dell'operatività, dall'altra la sua trascendenza rispetto allo stesso piano 'categoriale, essendo il suo fondamento ultimo la coscienza. Questa, infatti, è la base su cui si radica la norma morale da cui dipende il giudizio sulla rettitudine dell'agire pratico. Al di fuori di questo fondamento non si dà vera 1noralità, venendosi a creare una sorta di dualismo tra i postulati della coscienza e l'orientamento dell'azione morale 12 • Ponendo l'accento sul termine !!condotta buonan, Sturzo
9 L. STURZO, Politica e 111orafe, Zanichclli, Bologna 1972, 115. Molte le citazioni di Sturzo a riguardo; in esse trova largo riscontro la pri1na lettera di san Giovanni, il cui 1nessaggio è tutto incentrato sul cornandan1ento dell'ainore. JO fbid., 59. 11 L.c. 12 «È giusto fondare la inoralità sulla coscienza, nel senso che non ci può essefe azione morale individuale in contrasto con la coscienza» (/.c.). Sulla tesi della "doppia morale" cfr. L. STURZO, Coscienza e politica, cit., 214.
Solidarietà e bene comune nel pensiero di L. Sturzo
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intende escludere ogni possibilità di equivoco, salvaguardando la valenza positiva dell'impulso di moralità nelle sue espressioni più autentiche. L'idea di "norma morale", dalla conformità alla quale Sturzo fa dipendere la bontà della condotta, richiama quella di legge morale, che analiticamente la precede e formalmente né precisa la connotazione: tutto l agire umano trova in questa la sua ricapitolazione, perché essa rappresenta «la regola suprema delle nostre azioni, siano esse private o pubbliche, di carattere individuale o sociale, nell'interesse di pochi o nell'interesse di molti»''. In linea con la tradizione teologica, che del teorema della legge morale ha fatto uno dei temi centrali tanto in campo dottrinale quanto relativamente al dibattito sulla fondazione della teologia morale, Sturzo ne evidenzia il carattere di intima appartenenza all'ordine della natura umana, che ne costituisce il fonda1nento e, insie1ne, il "luogo" in cui trova esplicitazione: <da legge naturale - scrive affrontando il tema del rapporto tra autonomia ed eteronomia - è nella sua essenza intrinseca alla natura u1nana, anzi è la stessa natura umana (razionale, s'intende) che si esprime co1ne etica» 14 . Questa affermazione contribuisce a precisare i caratteri della moralità, ponendo in rilievo il suo peculiare rapporto con l'uomo interiore 15 , da cui deriva ogni autentica espressione nella forma concreta dell'agire pratico, la morale. Moralità e morale stanno, pertanto, in rapporto di strettissima continuità: l'una è la realtà originante, l'altra l'esplicitazione originata; la mediazione è data dalla 1
coscienza.
13 L. STURZO, La 111orale internazionale, in La liberté, 20 dicetnbrc 1935, ora in app. a lo., La vera vita ... , cit., 280. 14 L. STURZO, A1ora/e auto110111a e 111orale elerono111a, in app. a ID., Prob!e111i spirituali del nostro ten1po, Zanichelli, Bologna 1961, 153. «Questa legge della 1nentc - prosegue - è chiamata legge naturale o legge di Dio; essa si riduce al!a legge della verità e dell'amore, tennini in cui si espri1ne la razionalità umana; ed è perciò inerente e in1mancnte in noi, in quanto siaino i1nmagine e somiglianza della verità e dcll'ainorc assoluto, che è Dio [... ]». 15 Lo stesso Sturzo che, al tennine dcl brano citato, riporta il rifcrin1ento a san Paolo (Roin 7, 22-23): «in interiore1n ho1nincn1 ... » (I.e.).
74
Antonino Parisi
Un ulteriore approccio consente a Sturzo di delineare con maggiore chiarezza le coordinate della moralità. La vita e la realtà della persona umana hanno una dimensione sintetica: l'uomo rappresenta costitutivamente una unità vivente in cui coesistono armonicamente, in equilibrio dinamico, rapporti di ordine materiale e spirituale, di vita interiore e vita esteriore, di qualità, bisogni, desideri, relazioni, condizionamenti; si tratta di «una sintesi concreta, nella quale si fondono tutte le facoltà e convergono tutte le relazioni» 16 • Compito della persona umana è la conquista della propria identità nella fedeltà al proprio essere strutturalmente caratterizzato da una molteplicità di rapporti. La realizzazione di sé passa attraverso questa fondamentale relazione dialogica, in cui entrano a pieno titolo anche quelle realtà che non appartengono immediatamente all'umano: queste devono essere umanizzate per essere acquisite e contribuire così allo sviluppo armonico della persona umana, nel rispetto delle reciproche autonomie. Il termine "sintesi" dice la complessità di questa dinamica, escludendo l'idea di somma, di accostamento privo di unificazione; l'attributo "concreta" sottolinea il rapporto personalità-persona, il compimento progressivo delle potenzialità umane nelle peculiarità proprie dell'individuo: quest'ultimo rappresenta l'espressione reale e visibile del tradursi in realtà della personalità, la dimensione in cui «si realizza e si attua ruo1no singolo, unica realtà vivente» 17 . Vi convergono e si fondono ufacoltà" e irrelazioni Intelletto e volontà sono le "facoltà superiori" che rendono specificamente umana questa sintesi. Il primo consente di indagare sul significato del proprio essere, sul fine del proprio autocompimento integrale; la volontà rappresenta l'adesione della propria libertà e la consapevolezza della propria responsabilità, l'orientamento verso le implicazioni concrete della propria perfettibilità. Ne deriva 11
•
1
un i1n1nagine articolata di vita personale: essa si evolve in «una
16 17
L. STURZO, La vera vita ... , cit., 23. L. STURZO, Politica di questi anni.
Bologna 1955, 166.
Consensi e critiche, II, Zanichelli,
continua partecipazione, selezione, gerarchizzazione di tutti gli elementi che vi s'intramano, fino che si arriva al centro della vita: la luce dell'intelletto che guida e scalda il cuore e muove all'azione per opera della volontà»". Intelletto e volontà o, come spesso ricorre nella terminologia sturziana, «razionalità ed eticità» 19 , costituiscono pertanto la struttura portante del processo esistenziale, animato da un continuo sforzo di trascendenza verso il suo fine ultimo; è ciò che Sturzo chiama «legge della verità e dell'amore» e che usa come sinonimo di legge naturale: alla verità tende l'intelletto, all'amore la volontà. Sono questi i «termini in cui si esprime la razionalità umana» che fanno di questa legge una realtà «inerente e immanente a noi, in quanto sia1no itnmagine e somiglianza della verità e dell'amore assoluto, che è Dio [... ]» 20 • La processualità dinamica di queste relazioni trova il suo centro focale nella realtà della coscienza, che Sturzo definisce come «la razionalità applicata alla vita pratica» 21 •
18
L. STURZO, La vera vita... , cit., 23. «Razionalità ed eticità sono due aspetti del nostro essere [ ... ] che si trovano in tutte le fonne del nostro pensiero e del nostro agire» L. STURZO, Politica di questi anni ... , 11, cit., 265; numerose e assai ricorrenti le espressioni che si prestano a un accostamento al problema; a titolo esemplificativo reputiamo utile 1iportarnc alcune: <<L'elica non è altro che la razionalità dell'attività pratica» (Io., Miscellanea londinese, II, Zanichelli, Bologna 1967, 204); «Ciò che chiamiamo legge 1norale è una norma razionale derivata attraverso l'esperienza dai feno1neni sociali, dai fatti; e, allo stesso modo, i fatti sono la concretizzazione dell'umana razionalità impregnata da valori etici e dalla legge 1norale» (ID., L'influenza dei falti sociali sulle concezioni etiche, in Thought, marzo 1945, ora in ID., Del 111etodo sociologico Studi e pole111iche di sociologia, Zanichclli, Bologna 1970, 204); «[ ... ] tutta l'attività un1ana in quanto razionale è pervasa di eticità; è in sé e per sé morale perché la 1noralità non è altro che la razionalità dell'azione» (lo., Eticità delle leggi eco110111iche, in Sociologia 3 [1958], ora in Io., Del ntetodo sociologico, ciL, 283); «Per 1norale intendiamo la corrispondenza dell'azione umana alla retta ragione, ovvero, [ ... ] "l'attuazione della razionalità nella vita pratica"» (lo., La società ... , cit. 194). 20 L. STURZO, Morale autono111a e 1norale eterono111a, cit., 154. <<La stessa legge di verità e di amore, - continua - che regola l'etica naturale, regola l'etica soprannaturale. Che la verità soprannaturale non sia acquisita per mezzo della ragione, ma per via di rivelazione; che l'amore sia frutto non di natura n1a di grazia, non deve reputarsi eterono1nia, perché l'uomo, per i meriti di Cristo, è stato fatto partecipe, come dice san Pietro, della natura divina» (I.e.). 21 L. STURZO, Politica di questi anni ... , II, cit., 266. «La moralità - scrive altrove - per noi è convergenza dell'azione alla razionalità; è, quindi, materia propria 19
76
Antonino Parisi La
11
vita pratica", espressione concreta della relazionalità, si
esplica attraverso una convergenza di rapporti che acquistano rilevanza anche in forza della strutturazione sociale della vita di relazione. Si giunge così alla determinazione di un altro elemento pecnliare che concorre a evidenziare la valenza poliedrica del termine "moralità" e la dimensione pluridirezionale degli stimoli operativi che vi traggono origine: è l'idea di "tradizione" come espressione sintetica del comune orientamento verso la verità e l'amore, a partire dalla consapevolezza che «la struttura sociale è il mezzo di esplicazione della vita morale di ciascuno e del popolo nel suo insieme»"L'analisi sturziana, a questo riguardo, muove da una riflessione
di tipo etimologico; i termini presi in considerazione sono moralità, costume e tradizione, intendendo dimostrare come il termine moralità costituisca il riferimento essenziale e prioritario: «moralità (da mos), ha il significato di costume; costume, formato per ripetizione e assimilazione, arriva ad avere valore di tradizione; tradizione nel senso storico è quel che per convinzione e per costume viene tramandato da una generazione alraltra. In sostanza tradizione, costu111e, rnorale sono prodotto organico di vita associata, che tende a rendere simili, a legare gli uomini fra di loro e a perpetuarne il tipo sociale [ ... ]» 21 • Ogni tipo di rapporto tende quindi ad inserirsi in una tradizione, ad orientarsi all'interno di un codice morale acquisito per acquistare significatività e ricevere piena co1nprensione; tradizione, costume e morale sono quegli elementi che appartengono alla coscienza collettiva in quella che Sturzo chiama attività della coscienza individuale nella sua «interrifrazione»24, che, feconda di risultati durevoli in una solida trama di relazioni, rappresenta ad un tempo la possibilità della comunicazione delle proprie risorse morali e il condizionamento delle esperienze personali e collettive: «questa vita in società importa limitazioni
della coscienza che unisce nel suo atto conoscenza e decisione volitiva» (Io., Coscienza e politica, cit., 211). 22 L. STURZO, Il probfe111a di una concezione 111ora!e della politica, in app. a ID., Politica e 1norale. Coscienza e politica, cit., 269. 21 · L. STURZO, Politica di questi anni ... , II, cit., 181. 24 Cfr. L. STURZO, Coscienza e politica, cit., 227.
Solidarietà e bene comune nel pensiero di L. Sturzo --------- -----
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reciproche e reciproco aiuto» 25 e consente di concepire il senso morale di un popolo come «comune regola delle buone relazioni umane» 26 • L'identità di una società è legata perciò al «senso o coscienza dell affinità n1orale» e alla «comunanza umanistica», o di valori morali 27 ; «questi potranno esprin1ersi ora come valori familiari (solidarietà di sangue e di origine); ora come valori nazionali (identità di lingua, di razza, di tradizioni, di storia); ora come valori di civiltà (affinità di cultura, di religione e d'ogni altro elemento a contenuto spirituale). In fondo a tutti questi fattori, presi nel loro valore ideale, si trova la radice di un vincolo che non possiamo esprimere se non con Ja parola "an1icizia »w. L'idea di solidarietà trova quindi la sua genesi e 1 suor orientamenti dentro la dinamica della moralità, si esprime in realtà contingenti che assumono configurazione particolare nel tipo di civiltà che una società incarna2 9, per approdare a una dimensione spirituale 1
11
25 L. STURZO, Rianno 111orale, in app. a In., Prob!e111i spirituali del nostro
cit., 208. Sulla convergenza dcl!e relazioni sociali cfr. M. D'Aoo10, Sturzo inte1rrete della «Renon N0Fan11n», in A. D1 GIOVANNI - A. PALAZZO (a cura di), Luigi Sturzo e la «Reru111 Novart11/l))_ Atti della Giornata di studio organizzata dal Libero te111po,
Se1ninario Sturziano di Palenno in collaborazione con la Società siciliana per la Storia patria (Palermo, 6 n1arzo 1982), Massi1no, Milano 1982, 35. 26 L. STURZO, Rian110 111orafe, cit., 208; «buone relazioni umane» perché anirnate dal principio: «non fare il 1nale e l~Jrc i! bene>>, da cui ricevono il carattere di 1noralità; la loro esplicitazione concreta rappresenta l'attuazione di questo bene nella rno!teplicità dei suoi aspetti: «bene spirituale, bene educativo, bene culturale, bene civile, bene politico, bene 111ateriale di soccorso, di beneficenza, 1nutualità, credito, riabilitazione» (I.e.). Resta comunque escluso il detern1inis1110 che s1nentirebbc la natura e la funzione della società annullando il pri1nato della persona. 27 «Per questo preferiaino la parola "co1nuniLà" a quella di società". La cornunanza non è basata sopra una mera utilità, benché l'utilità ne sia uno dei 1notivi pili diretta1ncnte efficaci; la co1nunanza trascende l'utilità in virtù di una superiore convergenza di valori n1orali» (L. STURZO, La società ... , cit., 132). 28
L.c.
Sturzo inserisce il concetto di civill~1 nella dinan1ica della civilizzazione: nella prin1a intravede una cornplessa realtà orientata ad una educazione morale che trova la sua forrna par!icolarc in quel «co1nplesso di senti1nenti, idee, orientainenti e convinzioni di un popolo, concretizzati nei suoi costu1ni, nei suoi istituti giuridici, nelle sue tradizioni, nella sua storia, che ne fonnano il patrimonio attuale e la coscienza vivente», che è la civilizzazione (L. STURZO, Polilica e 111orale, cit., 13); una civiltà che pretende di esaurire in sé il n1oto verso la verità e i valori è all'origine di «tutte le dcfonnazioni degli arresti dcl processo di incivili1nento» (ID., Coscienza e politica, cit., 227-228). 29
78
Antonino Parisi
protesa verso il progressivo emergere dell'eticità: la persona umana e la mutualità delle sue relazioni personali e sociali. In questo senso «eticità ed incivilimento sono due facce della vita associata dell'uomo, il quale, nel contatto e nel contrasto reciproco, eleva, affina e sublima le proprie facoltà, ed ha modo di apprezzare, in ogni evenienza, i valori essenziali della razionalità» 30 ; questi valori garantiscono la moralità dell'agire pratico che, dai postulati della coscienza, si orienta in una molteplicità di atti che vengono «collettivizzati da una convinzione con1une in una concezione spirituale» 31 •
A partire dalla globalità di queste osservazioni è possibile mettere in luce alcuni rilievi. La moralità appartiene alla dialettica del rapporto soggettivitàoggettività: la coscienza individuale è il centro vitale e il fondamento di questo rapporto che, tuttavia, necessita della vita di relazione per esplicitarsi e aprirsi alla universalità delle esigenze della personalità umana. Di conseguenza «la morale è una ed è sempre e allo stesso tempo individuale e sociale, personale e collettiva» 32 , perché si tratta di aspetti complementari di un unico processo. Questa visione permette di uscire dall'individualismo, inserendo uel sociale la persona con tutta se stessa, e di rifuggire dal funzionalismo, che subordinerebbe la problematica morale agli schemi e agli orientamenti sociali. La ricerca del bene comune è il contenuto dell'agire morale che trova normatività nello spirito che lo anima: la comunicabilità dei valori, che si traduce nella comunione dei beni di ordine materiale e spirituale che incarnano i valori; questa consapevolezza fa della morale «una norma comune della società» 33 .
]() !bid., 229 31
32
L. STURZO, Politica e 111ora!e, cit., 60. L. STURZO, Il prob!e111a di una concezione 111ora/e della politica, cit., 268;
«l'errore di parecchi - prosegue Sturzo - è di distinguere la 1norale individuale da quella sociale e politica, cioè per oggetto; non pensando che l'origine della vita morale è la coscienza, e che il termine è in questo mondo il rapporto fra gli uo1nini» (ibid., 269); cfr. anche Io., La società ... , cit., 195. 33 Jbid., 194. La stessa idea di dirillo trova fondatnento nella n1oralc: se non rientra in questa prospettiva cessa di essere diritto (cfr. L. STURZO, Politica e 1nora/e,
cit., 64).
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Infine l'idea di unificazione: autentica moralità è comprensione del progressivo tendere in pienezza verso un'immagine di «umanità intelligente e volitiva», radicata nelle «aspirazioni alla verità e all'amore» da cui traggono origine le sue «esigenze di vita materiale e morale» 34 .
2. Fede e moralità: un rapporto sintetico
Abbiamo già sottolineato quanto sia significativa la rilevanza che Sturzo assegna all'impnlso religioso come coscienza della imperatività dei valori della fede nella prospettiva dell'impegno sociopolitico. C'è uno sfondo teologico che si sottende alla sua opera, una matrice religiosa che gli fa comprendere come la fede necessiti di implicazioni con la realtà antropologica, intesa nella sua globalità, per incarnarsi nella storia, per evitarne la riduzione a puro sentimento religioso di indole verticalistica e intimistica, disincarnato dal contesto vitale dell'esperienza umana. La sua stessa attività politica fu sempre da lui ritenuta come una particolare esplicazione della sua identità cristiana e sacerdotale, come una possibilità concreta di realizzare il comandamento evangelico dell'amore, perché la politica è «Un ramo dell'amore del prossimo» 15 . Il riferimento di fondo è costituito dal rapporto fede-moralità, per una piena comprensione dell'identità umana nel suo porsi di fronte al proprio compimento ultimo. L'orizzonte della fede chiama in causa il vissuto esistenziale e lo proietta verso la sintesi trascendentale": per essa la moralità acquista i caratteri dell'integralità ed esige l'operatività della fede sul piano categoriale. La fede è concepita come una dimensione sintetica, perché riguarda la piena comprensione dell'identità umana, realtà sintetica, nel suo porsi di fronte al compimento ultimo del suo essere, realizzando in tal modo l'orientamento verso la sintesi; «gli uomini, presi nel loro 11
34 35
L. STURZO, Politica di questi anni ... , II, cit., 166. L'intera opera Politica e 111orale è finalizzata alla dimostrazione della
validità di questo principio; cfr. particolarmente 97-115.
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insieme storico e nella loro processualità, - scrive a conclusione di La società: sua natura e leggi - sentono più o 1neno istintivamente, che la spinta alla trascendenza in ideale razionale e di bene, non si arresta fino a che non arriva ad un termine che tutto comprenda e tutto trascenda. Questo termine è per noi Dio, termine individuale e sociale»". C'è un impulso di operatività della fede che fa emergere il nesso imprescindibile con la moralità: è a partire dal dato religioso che è possibile un'autentica comprensione dell'uomo e una efficace trasformazione del mondo, in un impegno storico-creativo che non annulla le energie umane, ma le stimola e le orienta; umanesimo e cristianesin10 trovano coniugazione nel vissuto esistenziale, ne11a sintesi operativa della scelta consapevole di fede, volta a permeare di motivazione religiosa l'azione dell'uomo nel mondo, come luogo proprio di esplicitazione dei valori. Sulla base di tale convinzione Sturzo rileva che «l'errore fondamentale è quello di concepire separatamente umanesin10 e cristianesimo; di 1nantenere distaccati i valori, di contrapporli spesso, infine di eliminare uno dei due dalla sintesi redentrice» 37 .
Il fondamento di questa sintesi, è stato rilevato, è dato dall'unità della persona umana, dalla convergenza delle sue relazioni verso la direzione dell'unificazione trascendente, nella prospettiva della responsabilità cosciente nell'attuazione dell'appello al bene, sia sul piano dell'interiorità che su quello dell'impegno concreto di trasformazione della realtà umana. Fondamento dell'etica più che un ordine metafisico immutabile è la persona che ha compreso la pluralità delle sue relazioni a partire dalla ragione illuminata dalla fede e che si apre a una aspirazione che trascende i li1niti della sua finitezza,
36
L. STURZO, La società ... , cit., 280; «la società di noi con Dio - prosegue - è una trascendenza finale[ ... ] tale da dare significalo a tutta la nostra vita» (I.e.). :n L. STURZO, Chiesa e Stato, Il, Zanichelli, Bologna 1959, 250. Sottolinea inoltre che «dell'urnanesi1no si è falto un'entità divina; della religione cristiana un affare privato, un affare di coscienza o anche una setta, una chiesuola di cui si occupano solo i preti e i bigotti. Bisogna ristabilire l'unione e la sintesi dell'un1ano e dcl cristiano f ... ]» (ID., Politica e n1orale, cit., 130). Ribadisce una visione integrale dell'uo1no, quando afferrna: «A noi cauolici / ... ] inco1nbe il dovere di sollevare i corpi per poter sollevare le ani1nc del popolo» (lo., Sctilli inediti, I, a cura di F. Piva, Cinque Lune, Ron1a l 974, S1).
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che s1 orienta verso una crescente responsabilità a partire da una costante e rinnovata riedificazione di sé, in permanente riformulazione, in chiave personale ed esistenziale, dei rapporti con Dio e con il mondo. Concepire infatti i rapporti col soprannaturale in modo astrattistico, «non nella sintesi della persona umana vivente, ma in una semplicistica proiezione etica» significherebbe fare del moralismo"; si comprende come il legame unitario tra fede e moralità non riguardi due aspetti della vita della persona umana, ma sia da intendere alla luce della partecipazione sintetica alla vita naturale e soprannaturale: difatti «la vita soprannaturale integra tntta la vita u1nana naturale e ne fa unica vita, in quanto influisce nel ritmo di tutte le facoltà umane»'°, e la vita naturale trova esplicazione nel rapporto di relazionalità costitutiva con la realtà del soprannaturale. In sostanza la fede postula una dimensione morale e la moralità assume i caratteri della integralità solo se si apre ad uno sbocco trascendente: di conseguenza ogni azione n1orale non può nascere che da un entroterra umano stabilizzato nel bene, che si aggancia ultimamente al bene eterno. Il punto di partenza è sempre rappresentato dal «concreto esistenziale dell'uomo»"', dalla sua esperienza vitale: anche i rapporti col soprannaturale rientrano in questa prospettiva e trovano in essa l'ambito di riferimento essenziale e la chiave interpretativa. In Sturzo è assente ogni procedimento deduzionistico: non è dalla teologia che si ricavano in11nediatan1ente le verità sulruo1no, ma c'è piuttosto uno sfondo teologico che fa da contesto a un'antropologia personalistica, che inquadra la vita individuale e sociale dentro l'atmosfera della vita soprannaturale, centro unificante di ogni finalità naturale 41 . Scrive a
:rn L. STURZO, la vera vita .. , cit., 24. 39 lbid., 33. 40 Jbid, 25. Si rischierebbe altrin1enti di fare dcll'astrattisn10; occorre partire dal "concreto reale" tenendo conto «dei suoi fattori essenziali e delle sue sintesi esistenziali» (ibid., 9). 41 A questo proposito è stato rilevato che «studiare i fattori della natura u1nana senza tener conto della trascendenza è, secondo Sturzo, un'astrazione 1nentalc, legittima sul piano rnetodologico ma non su quello sostanziale, in quanto si dà per sintesi ciò che invece è una analisi parziale» (G. GUARNIERI, Naturale e soprannaturale nella sociologia di luigi Sturzo, Zanichelli, Bologna 1990, 20).
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riguardo: «lutto l'essere e l'attività umana sono da riportarsi sul piano della redenzione [... ]. Fuori del Cristo non vi è la natura, ma la negazione della natura. Tutti gli uomini, secondo la teologia cristiana vivono del soprannaturale, sotto l'influsso della grazia [... ]. A coloro che adempiono la legge morale e ascoltano la voce interiore della coscienza, non manca la grazia che Cristo ha ottenuto per tutti con il suo Sacrificio» 42 ; sulla base di una promozione integrale dell'uomo, è presente il tentativo di ricondurre ad unità l'intera complessità della problematica umana in una visione religiosa e morale, nella consapevolezza che, secondo la formula scolastica, Gratia non destruit sed supponit naturam et perficit eam, «affinché la grazia, operando con la natura, trovi meno ostacoli possibili sia negli ambiti mentali, che in quelli volitivi» 43 , che Sturzo definisce come un insieme di «principii naturali e soprannaturali, di inclinazioni personali e di abitudini sociali, di fatti biologici e tradizionali, individuali ed ambientali, di passioni, di convinzioni e di profonde modificazioni del proprio io (che ha una decisiva importanza per tutta la vita)» 44 . Nelle prime pagine dell'opera Problemi spirituali del nostro tempo la vita umana è intimamente riferita alle tre virtù teologali: fede, speranza e carità rappresentano i dinamismi essenziali che spingono il processo umano verso la direzione del bene, creando la ricon1posizione unitaria di umanesin10 e cristianesimo. La fede è concepita come consapevolezza dell'organicità della vita dell'uomo, il cui con1pito è cercare l'unità di se stesso, sul piano naturale e soprannaturale, per annullare ogni tendenza disgregante e ogni
42 L. STURZO, Chiesa e Staio, Il, ciL, 249~250.
41 L. STURZO, Scri!ti inediti, I, cit., 218. «L'inserzione del soprannaturale nella storia non abolisce la natura, ma la trasforma. La ragione viene llluininata, la volont8 fortificata, la storia assutnc un orientamento e una n1cta, la scienza resta a servizio ùcll'uoino, le forze sociali, pur dialettican1cntc, concorrono alla realizzazione delle 1nete societarie. Il soprannaturale intcgni la natura, concorre con essa a fonnarc una sintesi e nello stesso tc1npo la trascende» (G. GUARNIERJ, Naturale e sopra1111aturale nella sociologia di Luigi Sturzo, cit., 95). 44 L. STURZO, Scritti inediti, I, cit., 220; e altrove, sul piano del rapporto tra libert8 natura e grazia: ((l'uo1no è naturalmente libero, la grazia non altera la libertà naturale, ina è il 1nezzo perché l'uomo con la sua attività per il bene sia trasportato sul piano soprannaturale» (ID., la vera vita ... , cit., 64).
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dissociazione tra valori interiori e vita pratica; la speranza si configura come persuasione della conquistabilità, della possibilità di storicizzazione del soprannaturale, a partire da un sano realismo, capace di comprendere che l'impegno nel contingente non è l'ultima soluzione delle contraddizioni della storia, e di porre in atto il costante orientamento verso la speranza escatologica; la carità indica la convergenza di fede e speranza nella partecipazione cosciente alla vita naturale e soprannaturale, nella comunione solidale con le realtà terrene e con il bene eterno". Fede, speranza e carità trovano il fulcro vitale nella coscienza, perché generano l'imperativo etico nel soggetto morale che si impegna a vivere responsabilmente la sua esperienza personale-sociale alla luce dei valori fondamentali; la coscienza diventa perciò il luogo di mediazione tra il fondamento religioso o trascendenza del valore e la sua valenza morale o imperatività. Ciò vale in riferimento alla vita individuale e a quella sociale che, come più volte ribadito, trae origine dalla stessa realtà della coscienza. Quale, dunque, il rapporto tra religione e coscienza? «La religione [... ) è un principio sintetico che tutti abbraccia gli elementi di vita terrena, per vivificarli del soffio della moralità, per ordinarli a un fine superiore, per elevarli col carattere della soprannaturalità. Essa, è vero, mira alla coscienza, che è il giudizio ultimo pratico dell'azione dell'ente ragionevole, elemento che dà la moralità e la responsabilità dell'atto umano, ma non può ad essa sfuggire la vitalità pubblica e
45 Queste le parole di SLurzo: «Ii nostro presente processuale può essere rappresentato dalle tre virtù cristiane: fede, speranza e caritù. La fede, che è conoscenza, rappresenta il passato che si riversa nel presente: è la conoscen,,;a della realtà, tuLta la realtà, naturale e soprannaturale, sistemazione cornpleta (scienza e storia, filosofia c teologia) di tutta la realtà di cui noi sian10 partecipi e viventi, la fede è il passalo nel presente. La speranza è lo stesso presente che si riversa nell'avvenire, cioè la stessa conoscenza che si realizza, il fine dcll'uo1no che si raggiunge, il benessere che si conquista, su questa terra con la lolla contro il n1ale, nell'altra vita con la spirituale acquisizione del Bene Supre1no. Il presente è la carità, amore di Dio e del prossi1110, nell'agire e nel patire; Dio e il prossimo sono la realtà conosciuta che a noi si partecipa, oggetto delle nostre speranze celesti e terrene, ragione della solidarietà con essi della nostra esistenza, co1nunione spirituale nella vita più elevata, razionale o n1istica. La carità è il presente» (L. STURZO, Prob/e1ni spirituali del nostro ten1po ... , cit., 10).
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sociale, che è formata da moltissimi atti di coscienza, che influisce sull'ambiente, sull'educazione, sul diritto, sulla economia, sulla scienza, sulle arti, sulla vita intiera dei popoli»"'. C'è quindi una normatività della fede che si pone a fondamento delle norme della coscienza, che conferisce il carattere di moralità ai suoi postulati e garantisce l'evolversi organico della vita individuale-collettiva: la religione è «principio etico-normativo» 47 • La coscienza si pone di fronte al dato religioso in termini di adesione libera e volontaria; diversamente si affermerebbe il dualismo tra l'ordine naturale e quello soprannaturale, tra fede e prassi. La coscienza rappresenta invece quella libertà interiore in cui «coincidono e si completano l'atto morale e l'atto religioso: ogni morale esterna o imposta e ogni religione puramente formalistica, non potrebbero mai pervenire all'interiorità umana e darvi il senso dell'universalità»'". Da questa libertà nasce quella responsabilità per la quale «la fede diviene convinzione operosa» 49 , acquistando quella coniugazione incisiva con la dimensione delragire che Sturzo chia1na «efficacia di trasforn1azione e di unificazione morale» 50 . Anche l'azione della Chiesa si colloca in questa direzione dell'operosità della fede nell'impegno di trasformazione del mondo: essa «attua i principi soprannaturali, edificando sui principi naturali, non solo nell'intimo delle coscienze che trasforma e indìa, ma nell'agone della vita pubblica, nella quale agiscono gli uomini, in un misterioso rapporto di libere volontà e di necessità storiche [ ... ), nello
46 L. STURZO, Sintesi sociali. L'organizzazione di classe e le unioni professionali, Zanichclli, Bologna 1961, 17. 47 Questa l'intera citnzione: «La religione, cotne principio etico-normativo, regola tutte le azioni umane; co1ne fondarnenlo di giustizia, salvaguarda tulti i diritti; co1ne collcgarncnlo di a1norc e di sacrificio, unisce tutli gli uomini, senza differenza di classe; co1ne intento finale, solleva l'uon10 dai bassi e transilori interessi a più nobili ed elevate aspirazioni, desideri più sublitni, integrando e perfezionando il naturale col soprannaturale, e rende organica e convergente la gerarchia teleologica o finale della natura» (ibid., l 50). 48 L. STURZO, la vera vita ... , cit., 206; «la sintesi di intelletto naturale e di fede soprannalurale, di conoscenza umana e di rivelazione di misteri infiniti, si fa nel cuore» (ibid., 72). 49 Jbid., 73. 50 Jbid., 206.
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svolgimento degli ideali sublimi e umili, intellettuali ed economici, morali e letterali, che sembrano assorbire l'uomo e che sono dall'uomo assorbiti nell'atto sintetico della sua doppia esistenza e dei suoi doppi rapporti, di senso e di intelletto, di terra e di cielo»". La funzione civile che il cristianesimo ha sempre esercitalo non va mai separata dalla missione soprannaturale della Chiesa che, attraverso l'influsso sulle coscienze, tende a modellare la vita privata e la vita pubblica sui principi del Vangelo"; tale idea di missione religiosa della Chiesa muove dalla consapevolezza dell'animazione cristiana del sociale, evitando possibili equivoci e rischi di confusione tra realtà ecclesiale e aggregazioni politiche e organizzazioni sociali: non c'è rapporto di identità e si esclude ogni possibile espressione della religione cristiana in termini strettamente politici. In che senso, allora, la religione e la morale esercitano un influsso nella vita pubblica e nella politica? «Questa è la politica che fa la religione: essa vuole l'influenza del Cristianesimo nella vita pubblica delle nazioni; perché la vita e la coscienza pubblica sono coefficienti dell'indirizzo e della formazione della coscienza privata» 53 • Presenza nella vita pubblica significa, per Sturzo, comprendere la priorità dell'impegno religioso sull'azione sociale e politica, la trascendenza di «quei principi morali e sociali che derivano dalla civiltà cristiana come informatrice perenne e dinamica della coscienza privata e pubblica» 54 .
51 L. STURZO, Sintesi sociali ... , cil., 18; in ordine a questo criterio di fondo «la vita soprannaturale della società umana» è intesa come «integrativa, sintetizzante e trascendente la vita naturale» (lo., La vera vita ... , cit., 11); alla base è presente ancora una volta la consapevolezza che non è possibile «guardare J'uon10 come un singolo individuo nella solitudine della sua anima», né «guardar Dio come termine ·singolare di ciascuno, al di fuori della comunione solidale degli uomini fra di loro e con Dio» (ibid., 173-174). 52 Sul rapporto tra civiltà, elica e religione cfr. A. DI GIOVANNI, Attualità di Luigi Sturzo pensatore sociale e politico, Massimo, Milano 1987, 53-56. 53 Il CROCJATO (pscud.), Coscienza religiosa e coscienza politica, in La Croce di Costantino, 7 ottobre 1900, 2. 54 L. STURZO, Sintesi sociali ... , cit., 105; rileva inoltre che «il cristianesi1no dà un fine ultraterreno alla vita personale, e solo attraverso la singola persona dà valore alla vita terrena nella sua socialità, anch'essa trasformata in una solidarietà spirituale detta comunione dei santi, incentrata e vivificata in Cristo e da Cristo» (lo., Coscienza e politica, cit., 232; cfr. anche ID., Socialità cristiana, in Ciltà di vita, maggio-giugno 1953, ora in app. a Io., Prob!e111i spirituali del nostro ten1po, cit.,
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Nella concezione sturziana libertà, natura e grazia risultano, come si è visto, intrinsecamente correlate nella realtà dell'uomo, nel contesto di una visione unitaria che, tramite la coscienza, diventa trasferimento dell'ordine naturale su un piano soprannaturale e possibilità di intelligibilità del soprannaturale nel naturale. La moralità acquista pienezza di senso nell'ottica della fede, in una decisione fondamentale che si realizza in prospettiva dinamica, verso la presa di coscienza di una responsabilità personale e sociale; questo il criterio essenziale: «il cristiano è nel mondo e deve trasformare tutto ciò che è nel mondo secondo i valori religiosi»", perché la vera religiosità, esperienza autenticamente spirituale, oo bisogno, per divenire pienamente umana, di creare le condizioni di possibilità perché l'uomo possa esprimere e realizzare tutte le potenzialità della propria personalità, diventando in tal modo sorgente di valori morali ed elemento unificante del vivere sociale". II cristianesimo, avendo affermato «il primato del valore e della responsabilità» nel dialogo tra Dio e l'uomo e nel dialogo interumano, rappresenta l'espressione più organica del rapporto fedemoralità, impedendo il ripiegamento individualista, a vantaggio della comunione piena e a più dimensioni, «nell'abbraccio solidale di uomini liberi, perché legati lutti da vicendevole amore, un amore unico con doppio oggetto: verso il Padre comune, Dio, e verso fratelli, il prossimo. Questo è il fondamento dell'etica cristiana» 57 •
192). Con1n1enta U. BERNARDI: «La Grazia anima questa comunità, che nella visione di Sturzo si avvicina alla con1unione dei santi, quale divina fonna di solidarietà che abbraccia in Cristo il terreno e il sovrannaturale» (Apporti della sociologia di Giuseppe Tonio/o nella visione societaria di luigi Sturzo, in AA. Vv ., Luigi Sturzo teorico della società e dello stato nelle Opere dell'esilio, cit., 157). 55 L. STURZO, Politica e 111orale, cit., 130. 56 Cfr. M. D'ADDIO, Aspetti del pensiero politico-sociale di L. Sturzo nel periodo dell'esilio, cit., 22. Si tratta del rapporto tra quei dinamismi che G. Buttà chiama "verità unificatrice" e "rnoralità realizzatrice" nella sintesi della coscienza individuale-sociale (cfr. G. BUTTÀ, Luigi Sturzo e la storia, in AA.VV., Luigi Sturzo teorico della società e dello sfato nelle Opere dell'esilio, cit., 170). 57 L. STURZO, Socialità cristiana, ciL, 190.
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3. Il bene co111u11e, ''fine collettivo trascendente"
Appartiene alla dinamica del rapporto immanenza-trascendenza, essendo costitutivamente inerente alla categoria di moralità, l'idea di bene comune, nella sua accezione più ampia e più vera di bene integrale; difatti il bene comune non è una semplice somma di beni, ma una realtà complessa che comprende beni particolari, fini specifici e condizioni necessarie che costituiscono la piattaforma a partire dalla quale si proiettano le esigenze e le aspirazioni dei singoli e della collettività verso gli orizzonti del finalismo umano nel doppio ordine naturale e soprannaturale. C'è unità nel bene, non unicità: si comprende subito come a Sturzo importi far emergere la prospettiva trascendentale come fondante l'impegno per il bene; non si tratta tuttavia di una prospettiva che circoscriva tale impegno alla sola dimensione dell'essere, anzi, proprio perché da essa trae origine, se ne recupera il senso unitario, evitando la riduzione opposta, quella del legame con la sola dimensione dell'agire. In sostanza c'è un «unico appello al bene da raggiungersi dall'uomo nel doppio ordine naturale e soprannaturale»·": da questo unico appello deriva la consapevolezza della comune tensione all'unificazione, trasportando il naturale nel soprannaturale e incarnando il soprannaturale nel naturale 59 . Non c'è unicità perché la ricerca del bene è un compito che attiene alla libertà e alla responsabilità della persona, alla comprensione di sé e al suo libero decidersi per il bene, nelle modalità ritenute più opportune ed efficaci e in rapporto alle urgenze e ai condizionamenti della sua vita personale e di relazione: «le vie pratiche del bene - precisa Sturzo sono innumerevoli e nella loro varietà si adattano ai bisogni, alle
58 L. STURZO, La vera vita ... , ciL., 41. 59 L'opera La vera vita, già nel suo sottotitolo
Sociologia del soprannaturale, manifesta questa profonda convinzione; così Sturzo a pag. 49: «Non possimno vivere una se1nplice vita naturale, essendo stati chiamati alla vita soprannaturale e ad essa elevati, o potenzialinentc o in atto. Non c'è che un'alternativa: o unificare il nostro amore naturale con quello soprannaturale, trasportando in tale vita superiore tutti i valori naturali e inverandoli in essa; ovvero decadere dalla stessa natura, negando perfino l'ainore naturale, che sarà trasfonnato in egois1no, odio e morte».
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inclinazioni, alle vocazioni di ciascuno» 60 • Parlare di bene comune significa dunque fare necessario riferimento alla persona come al criterio fondamentale da cui dipende ogni determinazione di contenuti, come all'elemento che rappresenta ad un tempo la sorgente da cui promana l'impulso al bene e il termine di riferimento dei singoli beni che concorrono alla sua perfezione nel suo essere nella storia e verso il suo destino eterno. Sulla base di questi presupposti, Sturzo manifesta la consapevolezza che non è possibile, in senso stretto, parlare di bene comune in termini propri: è il finalismo della persona umana che dà luce e contenuto al ter1nine astratto "bene comune per questo n1otivo, nelle sue opere, non esiste una trattazione dottrinale in tale direzione, anzi egli è ben convinto che un approccio organico nei confronti della realtà umana, nella globalità delle sue direzioni e dimensioni, deve necessaria1nente condurre ad una precisazione dei term1n1 fondamentali del problema; scrive: «il lettore dei miei libri non incontrerà spesso la frase "bene co1nuneu o simile, 1na vi troverà invece i termini di fine, finalità, finalismo»". La parola "fine" richiama il possesso definitivo delle realtà che lo costituiscono; la "finalità" rappresenta il legame con il soggetto, con i valori che concorrono a precisare i caratteri del suo essere; il ,"finalismo" è una dimensione sintetica che segna il passaggio dalla finalità come orientamento interiore alla concretezza del moto dina1nico verso il fine 62 • C'è quindi neJI 1uomo una costante presenza del fine come oggetto di progettazione: tale progettualità assume i caratteri della globalità perché include la onnidimensionalità del 11
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lbid., 51. L. STURZO, Del 111etodo sociologico... , ciL., 65. 62 Così scrive in riferin1ento alla dinamica processuale dcl finalismo umano: «il dinamismo volto verso l'avvenire, nel processo umano, si traduce in finalità, mentre l'attività che realizzando il presente si perde nel passato si traduce in causalità. In tanto che gli uomini vivono si1nultaneamente questi tre mo1nenti nel processo incessante, essi hanno coscienza della realtà propria, della causalità che li fa essere e della finalità che li fa agire» (L. STURZO, Sociologia e storicis1110, in La Vie lnte!lectuelle, 25 aprile 1934, ora in ID., Del n1etodo sociologico ... , cit., 155). 61
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progressivo compiersi della persona nella sfera individuale e 111 quella sociale. La presenza dell'nrgenza del fine genera nella coscienza un imperativo che indirizza 1 intenzione verso direzioni operative che concorrono a realizzare il fine: la conformità a tale impulso conferisce il carattere di rettitudine all'intenzione. È la retta intenzione che impedisce il distacco tra fini intermedi e fini generali: essa «non fa altro che rendere attuale ed efficace, in tutte le azioni particolari, il fine supremo dell'uomo che è Dio» 63 • Ciò vale tanto per la coscienza individuale quanto per quella collettiva. In tal modo si hanno «fini parziali verso fini più generali» 64 ; i fini particolari devono essere sempre conformi alla natura dell'uomo e vanno perciò confrontati con il criterio fondamentale della ricerca del bene 65 : tutti cooperano al bene universale, individui e forze sociali, in un contesto vitale che non esaurisce 1nai totahnente in sé la carica di tensione verso il bene, ma che allarga progressivamente i confini della realtà appellando sempre nuova1nente la co1npiutezza soprannaturale 66 . Non c è 1nenon1azione di nessun aspetto della vita umana, anzi risulta rifondato l'impegno sociale a partire dal piano trascendentale; queste le parole di Sturzo: «ciascuno ha il suo compito nella vita sociale terrena, ciascuno mette la propria attività a vantaggio comune anche a scopi naturali; ma tutto coopera al bene per coloro che a111ano Dio, che sono chianiati, secondo il suo proposito, alla santificazione (Rom 8, 28). I valori terreni si trasformano in valori soprannaturali per l'appello all'unificazione di vita. Nella concezione cristiana la vita umana non è 1
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L. STURZO, La vera vita... , cit., 92. !bid., 164. 65 «Il fine particolare di ciascuno non può esistere fuori dell'orbita dei fini connaturali all'uo1no, che si assommano nella ricerca del bene. Quanto più il fine particolare è confonnc a natura, tanto più conferisce al bene di ciascuno» (ibid., 38). 66 A riguardo il pensiero di Sturzo si rivela coine «una considerazione sconfinata della realtà, nella quale lutti, individui e società, in reciproca azione e reazione, sul piano naturale e soprannaturale, rispondono e cooperano dircttan1ente o indirettan1entc alla vocazione universale da realizzarsi per mezzo delle forze sociali e in ciascuno di noi al bene e alla conoscenza di Dio; tutti divengono in modo misterioso cooperatori di Dio per l'edificazione del suo regno)) (F. DA CAPRA DOSSO, Un aspetto della Sociologia di Luigi Sturzo. Unificazione "trascendentale" della società, P.U.G., Roma 1970, 44). 64
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negata, è perfezionata. [... ] La società, nel doppio aspetto naturale e soprannaturale, è vissuta dal cristiano, attraverso l'amore, in tutti i gradi della sua attività, in tutte le forme della sua vocazione, nello stesso atto in cui egli cerca la sua salvezza spirituale»"La vita morale, dunque, intesa nel suo senso più spirituale, rappresenta il fine essenziale: ogni altro fine, di qualsiasi ordine, deve ritenersi ad essa indirizzato e subordinato; da questo nesso fondamentale dipende l'utilità di un bene, dal suo essere funzionale e non fine a se stesso". In questa logica rientrano anche i fini sociali e politici: sono mezzi al "fine collettivo trascendente" che è il bene della persona ed è comune perché collettivo, perché appartenente ad ogni persona; il bene comune, collettivo e trascendente, comporta sempre e comunque da garanzia dei diritti individuali come elemento di questo bene» 69 .
Al rapporto fini-mezzi Sturzo dedica il primo capitolo di Coscienza e politica; l'idea di fondo è che «il fine della società civile organizzata in stato e in enti territoriali locali [... ] è quello generico del bene comune sotto l'aspetto temporale, relativamente ai compiti di ciascun organo politico, centrale o locale»"': da questo presupposto scaturisce la costante necessità di verificare la conformità dei singoli organi alla funzione che loro compete; l'orientamento al fine generico trova esplicitazione nella ricerca e nel conseguimento di fini particolari che «sono da riguardarsi come mezzi al fine generale». A loro volta questi fini particolari necessitano di mezzi per poter essere realizzati: «la ricerca dei mezzi idonei per il raggiungimento dei fini particolari è anch'essa una specificazione di fini voluti come mezzi, e così di seguito, arrivandosi al primo passo che è l'atto voluto e ordinato a tutta una serie di fini che si trasformano in n1ezzi». C è una sorta di gerarchia tra i fini particolari, che trae piena luce dalla 1
67
L. STURZO, La vera vita ... ,
cit., 50.
68
Riferendosi ai beni utili e ai fini parziali Sturzo affenna che sono da catalogarsi «nella categoria dei mezzi, mentre la vita morale e spirituale e l'elevazione personale di ciascun individuo (regno di Dio e la sua giustizia) costituiscono il fine» (L. STURZO, Politica e 111orale, cit., 67) 69 L. STURZO, 70
La società ... , cit., 66.
L. STURZO, Coscienza e politica, cit., l 99.
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comprensione del fine generale e che rappresenta anche la modalità concreta con cui ci si orienta verso di esso. In questa dinamica «Ì fini
raggiunti divengono mezzi per fini ulteriori, con un continuo intreccio di fini particolari per arrivare al fine generale e al vero fine dell'uomo: il bene, il bene goduto che chiama altri beni in indefinito» 71 . In modo analogo l'orientamento individuale: «l'attività dei singoli diretta al bene della comunità porta lo stesso intreccio di fini che divengon mezzi per un fine ulteriore, prendendo luce dal fine generale: il benessere; è questa la lampada di guida, più o meno chiara nella foschia del processo umano [... ]» 72 ; al centro è sempre l'attività della coscienza e il suo orientamento fondamentale di conoscenzadiscernin1ento: ~<la coscienza di chi agisce è conoscenza, o meglio presenza, del fine generale e del fine o dei fini particolari voluti in una stretta e vicendevole connessione»; la prospettiva è quella della decisione-determinazione: «il finalismo umano si risolve nella stessa volontà di operare [... ]; ma questa volontà se non è illuminata dalla conoscenza del fine che si vuole ottenere, non può concretizzarsi in realtà creativa» 7 3.
Se dunque il tema del bene comune appartiene al piano morale, il finalismo umano acquista la connotazione di finalismo etico. La speranza è l'elemento che genera il moto di adesione verso il bene, in un rapporto caratterizzato dal desiderio di comunione con il bene sperato, che Sturzo definisce come la genesi dell'amore nella sua espressione fondamentale: «l'amore - scrive - è sollecitato dalle attrattive della speranza, così nell'ordine soprannaturale come nell'ordine naturale: la speranza di un bene»; questo bene rimanda continuamente al suo termine di riferimento assoluto, per cui «nell'ordine naturale si consegue in questa vita», ma «non è mai completo né durevole» 74 . Naturale e soprannaturale trovano riconciliazione appunto nell'idea di bene comune: è quello che Sturzo chiama «circolo
71
12 73 74
L.c. L.c. !bid., 200. L. STURZO,
La vera vita .. , cit.,
75.
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trascendenza-im1nanenza e immanenza-trascendenza» a partire dal quale è possibile assegnare contenuti particolari all'idea astratta di bene che assume, in tal modo, configurazioni concrete garantendo la possibilità del bene, salvaguardando !'autonomia degli ambiti ed evitando ogni circoscrizione riduzionistica; questo circolo «potrà essere realizzato da ogni uomo, che attraverso le manifestazioni storiche del trascendente acquisisce la potenza di trasformarsi in esso» 75 • L'impostazione sturziana indica non soltanto la dinamicità del bene, ma evidenzia anche l'insufficienza di un approccio individualistico: il compimento della persona umana passa attraverso uno sforzo costante di autotrascendenza che, come si è visto, appartiene alla totalità delle sue relazioni. Se da una parte è vero che la persona costituisce il riferimento e il criterio essenziale verso cui converge ogni espressione e configurazioue del bene che da essa prende significato e in essa si risolve76 , è altrettanto vero che questo risolversi non esaurisce in sé la portata pluridimensionale del bene, anzi, poiché la persona non è un'entità chiusa, costituisce un se1npre nuovo stimolo al dialogo e alla partecipazione solidale verso la direzione del finalismo individuale-collettivo"- L'attributo "comune" appartiene al termine nbene non in senso appropriato, n1a proprio: non c'è opposizione tra bene individuale e bene comune, ma 11
75
L. STURZO, Sociologia e storicis1110, cil., 156; affenna inoltre, a proposito del processo un1ano che tende verso l'unificazione trascendente, che «l'unificazione del processo è duplice, l'una immanente nella razionalità u1nana, l'altra trascendente nell'intelletto assoluto. La pri1na risulta dall'esperienza umana; la seconda consiste nel rapporto del contingente con l'assoluto» (I.e.). 76 «La ricerca del bene comune [ ... J è fatta sempre in funzione del bene dei singoli associati» (L. STURZO, Del 111etodo sociologico ... , cit., 68) 77 Così Sturzo sintetizza: «il finalismo della società [ ... J che noi diciamo bene co1nune [ ... ] è 111eglio precisato sotto l'aspetto di diritto della persona un1ana»: si intende affermare anzitutto il diritto fondamentale dcll'autoco1npi1nento che, nella prospettiva del finalismo sociale si traduce nella tutela dci diritti connessi a questo prin10 grande diritto; si tratta della sottolineatura della prospettiva etica che vede nella persona «il tenninc dci beni e dei vantaggi» e nella collettività la garanzia dcll'organicitù che unifica il finalismo individuale e quello collettivo nel rifcri1nento essenziale al bene, nella globalitù di tutte le sue articolazioni (L. STURZO, Politica e 1nora!ità, in Civiltà ftalica, 1 sette1nbrc 1950, ora in app. a Io., Politica e n1orale, cil., 376).
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continuità, perché c'è unità nel bene. Con la consueta chiarezza Sturzo precisa opportunan1ente: «la frase ubene con1une si usa per distinguere questo dal "bene individuale"; al secondo deve attendere ciascuno da sé, e non mai, direttamente, la comunità. Ma a guardarvi dentro, ogni bene individuale si risolve nel bene comune, e [ ... ] ogni bene generale ridonda al bene individuale»"La società si configura allora come comunità per il bene, animata dalla "coscienza sociale" o consapevolezza dei singoli associati e dell'intera collettività della comunione nel bene e del bene, verso la direzione del Bene 79 • Questa coscienza sociale rappresenta la dimensione critico-valutativa dei rapporti interindividuali che «dalla coscienza di ciascuno passa alla convinzione dei nuclei e degli aggruppamenti nel loro articolarsi verso una ragione superiore» che è data dal bene comune; questa convinzione fa dire a Sturzo che, 111 ultima analisi, «lutto ciò che la società in concreto realizza anche se non è bene, è realizzato sotto il 1notivo di bene» 80 . Tale particolare concezione nasce da una sottostante visione sociologica che fa della società non un accostamento di individui che 11
si
muovono
separatamente
verso
un
bene
esclusivista
ed
incomunicabile, ma una comunità di persone aperte alla condivisione come stile consapevole di vita associata, nella piena certezza che questo essere in comunione reciproca nel bene corrisponde alle esigenze più vere della personalità umana in tensione dialogica verso la comunione perfetta, compimento definitivo di ogni aspirazione al
78 !bid., 375: «il bene è solidale - prosegue Sturzo -. Molto, quindi, si equivoca, nei linguaggio usuale, a mettere in contrasto bene individuale con bene co1nune, come se l'uno possa negare e lirnitare l'altro. li contrasto nasce quando l'uno dci due non è vero bene, o a1nbedue non sono veri beni» (I.e.); e altrove, con 1naggiore incisività: «non an11nelto che ci sia bene coinune che non si risolva in bene individuale, né bene individuale che come tale sia opposto al bene comune. [ ... ] un bene individuale che sia opposto al bene eoinune non è e non può essere vero bene [ ... ].Il bene individuale che è vero bene[ ... ] diviene per se stesso bene comune» (L. STURZO, Del n1etodo sociologico ... , cit., 66). 79 Cfr. F. GENTILE, li proble111a istituzionale nella prospettiva di Luigi S1urzo, in AA.Vv., Luigi Sturzo e la crisi delle istituzioni. Alti del Terzo Corso della Cattedra Sturzo (1983), Istituto di Sociologia "L. Sturzo", Caltagirone 1987, 40. 80 L. STURZO, Sociologia storicista, in Sociologia 4 (1958), ora in app. a ID., Del 111e1odo sociologico, cit., 303~304.
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bene. In questo senso vale quanto Sturzo sostiene, ponendo i termini del problema su un piano primariamente spirituale: «ogni forma sociale è riguardata sotto un duplice aspetto: come mezzo per lo sviluppo della personalità spirituale di ciascuno, e come comunione di beni per via dell'amore reciproco. Per coloro che vivono la vita soprannaturale, la stessa società diviene anche una specie di fine, che non potendosi esaurire in se stessa, appella Dio, in cui solo si perfezionano tanto la propria vita spirituale quanto la comunione dei beni sociali»". Si torna in tal modo alla ricomposizioue unitaria degli aspetti del problema, nella prospettiva della unificazione trascendente: su questa base il bene da realizzare coincide con il bene che si vuole realizzare; «fine e bene si convertono», scrive Sturzo: il deontologico viene a fondersi col teleologico, senza confondersi; «il pensiero tende alla verità; la volontà illuminata dalla verità tende al bene; il bene da realizzarsi spinge alrazione» 82 : è un ciclo circolare della coscienza individuale e collettiva che trova dinamicità nella trascendenza della verità e del bene e verificabilità nelle sue realizzazioni concrete sempre perfettibili. L'elemento determinante è dato dalla consapevole acquisizione dei fini, intesi nella loro valenza spirituale, che ne fa un unico grande fine: il bene comune, 11 fine collettivo trascendente 11 •
4. Libertà e responsabilità La tensione al bene, che sta alla base di ogni relazione morale, si gioca sul piano della libertà, concepita come esercizio cosciente di responsabilità nella ricerca ed attuazione del bene, come indice vero e significativo dell'istanza di moralità, nelle sue espressioni interiori e sociali. L'identità del progetto socio-politico sturziano passa attraverso una autentica espressione degli attributi "popolare" e "sociale" che egli assegna a quell'idea di democrazia che trova la sua base ispiratrice nei
81
L. STURZO, La vera vita .. , cit., 49-50.
82
lbid., 170.
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princ1p1 cristiani di solidarietà e dì amore, una democrazia fondata sulla libertà coniugata con la giustizia, sulla responsabilità del vivere sociale e politico in termini di impegno consapevole verso la conquista del bene, attraverso una presenza sociale e una prassi politica animate dalla coscienza della partecipazione libera e responsabile, e tuttavia differenziata, dal carattere dialogico con la complessità della realtà della comunità umana, in spirito di servizio e di cooperazione attiva, mai parallela o disorganica. Quello che potrebbe definirsi lo "stadio ultimo" della dinamica individuale-sociale della libertà, che, da valore originariamente spirituale, diviene fattore genuinamente etico, che trova riscontro in un comune orientamento fonda1ncntale verso espressioni sempre più conformi alla sua valenza originaria"'. In questo senso Sturzo precisa che risulterebbe inadeguata l'affermazione "partecipazione alla vita socialel! senza la necessaria associazione dell'aggettivo "cosciente", in cui risiede la portata espressiva più autentica del rapporto libertàresponsabilità in ordine alla dinamica del vivere socio-politico". Sintomatico il fatto che la globalità della problematica sociale e politica sia ricondotta al tema della libertà morale, sul quale Sturzo torna ripetutamente e con toni sempre nuovi: vi dedica, in particolare, un articolo del I 938 dal titolo La libertà, nel quale afferma che «la vera libertà è anzitutto libertà morale; essa è la base del diritto, è disciplina e ordine»"'; è ribadita la valenza anzitutto morale del problema socio-politico, che solo conseguentemente rimanda alle leggi specifiche dei sistemi rispettivi, fatta salva l'autonomia degli ambiti. Difatti «tutti i rapporti sociali e politici sono rapporti fra uomini viventi, non fra schemi, né fra automi, né fra nun1eri. Da
83 Scrive: «[ ... ] la libertà è la più aderente qualità della coscienza un1ann. [ ... ] Il dinamismo della libertà consiste nella ricerca della verità, nell'amore della verità, nel senso del dovere che i1npone di seguirla e di affcnnarla)) (L. STURZO, Politica di questi anni ... , II, cit., 170). 84 Cfr. L. STURZO, La società .. ., cit., 161: qui la libertà è considerata con1e «partecipazione cosciente dell'individuo alla vita sociale». È iinplicito che ogni società debba offrire tale possibilità di partecipazione. 85 Io., La libertà, in Popolo e Libertà, 19 novembre 1938, ora in app. a ID., Politica e 11·1ora/e. Coscienza e politica, cit., 322.
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questa umanità intelligente e volitiva, dalle sue aspirazioni alla verità e all'amore, dalle sue esigenze di vita materiale e morale, derivano diritti e doveri attuabili nell'atmosfera di libertà individuale e politica»". Si è visto come Sturzo trovi il fondamento della moralità nella tensione dialogica con il fine ultimo, nell'appello al bene da realizzare come costante relazionalità tra immanenza e trascendenza, nell'imperativo etico che coinvolge integralmente la coscienza individuale-collettiva in ogni sua facoltà e dinamismo: la libertà rappresenta l'espressione più vera dell'istanza di moralità della coscienza, perché è la molla che spinge, orientandole, tutte le attitudini del soggetto verso la attuabilità del bene, sulla base di un'autocoscienza critico-valutativa, per «realizzare il bene secondo le proprie inclinazioni, qualità e possibilità»"'· La priorità appartiene al piano del rapporto verità-libertà; tuttavia <da verità è sempre principio operativo e finalistico dell'attività umana; la libertà è sempre la condizione dell'attuazione della verità nella esperienza individuale e nelle varie opere dell'attività collettiva» 88 . In una parola <da libertà è dinamica» 89 , L'idea di libertà richiama quella di libero arbitrio che, «preso come auto-iniziativa, come tendenza a liberare noi stessi dalJ1errore, dal male, dalle passioni, come autodecisione delle nostre azioni, come facoltà di revisione dei nostri orientamenti, di correzione delle nostre abitudini, con1e don1inio su noi stessi, è connaturale alla nostra essenza spirituale intellettiva. Da ciò deriva in noi la piena responsabilità dei nostri atti e delle nostre colpe»"''· Il rapporto col libero arbitrio è
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Jo., Politica di questi anni... , Il, cit., 166. lo., La vera vita... , cit., 38. 88 Io., Politica di quesli a1111i. Consensi e critiche, I, Zanichcl!i, Bologna 1954, 336. 89 Io., Miscellanea /011di11ese, II, cit., 77. 90 Io., La vera vita ... , cit., 56-57. Con1menta M. D'Addio: «[il] libero arbitrio [. .] non può essere negato se non si vuole sottomettere l'uotno ad un destino cieco e all'imn1odificabile determinis1no della natura: e libero arbitrio significa facoltà che ha ogni uomo di togliersi dal condizionamento del male, di contrastare l'errore e di aspirare alla verità[ ... ]» (M. D'Aooro, Libertà e de111ocrazia, in A. DI GIOVANNI - E. GuccrONE /a cura di], Politica e sociologia in Luigi Sturzo, Massi1no, Milano 1981, 155). 87
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espressione di quello, più ampio, tra libertà e responsabilità: «la libertà va accoppiata alla responsabilità; tolta la responsabilità non c'è più libertà; tolta la libertà non c'è più responsabilità»". L'esercizio responsabile della libertà attraverso il libero arbitrio è espressione di una volontà che procede con consapevolezza verso i suoi fini; in questo modo la libertà diventa un valore mai del tutto posseduto, ma sempre aperto alla conquistabilità: conquista ed esperienza fanno della libertà una categoria vivace, mai statica, in costante e crescente conseguibilitàn Libertà e responsabilità costituiscono, pertanto, un binomio inscindibile; A. Di Giovanni, commentando il pensiero di Sturzo a riguardo, pone la questione in termini di «libertà della persuasione» e «persuasione della libertà»: si tratta del «libero persuadersi di qualcosa e ad esso aderire liberamente»"; e inoltre: «la persuasione della libertà è la persuasione dell'Uomo e del suo irrinunciabile valore. Perciò finire la lotta per la libertà sarebbe un finire la lotta per l'Uomo. La nostra persuasione della libertà è invece, anzitutto, persuasione che la
91 L. STURZO, L'uo1110 e il regùne, in La Cité Nouvelle, 1 l aprile 1938, ora in app. a Io., Politica e 111ora{e. Coscienza e politica, cit., 261. 92 Conquista ed esperienza della libertà è il titolo di un articolo di Sturzo pubblicato in Popolo e libertà, 28 rcbbraio 1939, ora in app. a Io., Politica e 1norale. Coscienza e politica, cit.; tra l'altro, così scrive a p. 323: «La libertà, come tutti i valori u1nani a carattere spirituale, bisogna che sia setnpre continua1ncnte conquistata ed esperimentata. Quel che accade all'interno della nostra coscienza, accade nel can1po vasto della società, perché !a società (vita in con1une di uo1nini coscienti) è una proiezione della coscienza nelle 1nutue relazioni u1nane. Così è della libertà presa in singolare, carne principio di autono1nia e di responsabilità personale; così è delle libertà al plurale, co1ne attuazione di quel principio nelle relazioni sociali». Altrove, affennando che la libertà è per lo sviluppo integrale, precisa che «la libertà è facoltà interiore dell'uo1110 prin1a che sociale; 1na è anche sociale e senza di essa è in1possibile qualsiasi sviluppo e progresso. L'educazione e la conquista della libertà si fa con l'uso stesso della libertà. [ ... J ogni libertà, per essere tale, deve poter essere con1presa, conquistata e difesa co1ne libertà» (ID., Rianno 111orale, cit., 207); e ancora: «Liberi non si nasce ma si diventa, nel senso che la liberlà, sotto qualunque aspetto si guardi, è una conquista. Conquista dell'individuo su se stesso, dominando le proprie inclina?;ioni e le proprie passioni; conquista della società perché in essa ciascuno possa sviluppare la propri<l pcrsona!ità, senza iinpedire che altri faccia lo stesso» (ID., Miscellanea londinese, III, cit., 91). 93 A. DI GTOVANNI, Attualità di Luigi Sturzo ... , cit., 58: si di1nostra co1nc l'adesione libera e responsabile della volontà discenda dalla conoscenza della verità.
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libertà è possibile all'uomo e che gli è, insieme, necessana»; si è «persuasi di essa, perché persuasi dei suoi mezzi; persuasi dei suor mezzi irrinunciabili, perché persuasi della libertà» 94 • Sono quattro gli aspetti che caratterizzano la libertà, a partire dalla connaturalità con la persona umana fino alle sue configurazioni sociali più espressive": la libertà è originaria, organica, finalistica e formale 96 • a) La libertà originaria. Appartiene alla persona m modo propno, è all'origine della personalità umana e ad essa insita, è «una libertà al singolare che esige le libertà al plurale» 97 ; Sturzo la definisce come «l'autonomia della personalità umana, realizzabile in un ordine sociale»'". La libertà originaria segna il passaggio dalla dimensione individuale a quella sociale, perché «è l'attuazione, sul piano sociale, della libertà individuale» 99 .
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Ibid., 71-72. Non si hanno due libertà, una individuale e una sociale; Sturzo ribadisce che «la libertà è unica e individuale; [... ] la libertà è espressione di verità e di ordine» (L. STURZO, Ericità delle leggi econo111iche, cit., 294); quando si parla di libertà sociale ci si intende riferire alle di1ncnsioni sociali dell'unica libertà individuale. 96 Cfr. L. STURZO, La società ... , cit., 162. Alcuni rilievi specifici su questi 95
uspetti del pensiero sturziano in M. D'ADDIO, Individuo e società nel pensiero politico di luigi S111rzo. Alli del Prirno Corso della Cattedra Sturziana, Istituto Luigi Sturzo, Ro1na 1983, 31; ID., libertà e de111ocrazia, cit., 155-161; A. DJGIOVANNI,la "concezione organica" co1ne esigenza pofitico-niorale, in A. DI GIOVANNI - E. GUCCJONE (a cura di), Politica e sociologia in Luigi Sturzo, cit., 79-90; G. GUARNIERI, Naturale e soprannaturale nella sociologia di Luigi Sturzo, cit., 61-62. 97 A. DrGrOVANNI, Attualità di luigi Sturzo ... , cit., 11. 9 H L. STURZO, la società ... , cit., 169; rileva inoltre: «La libertà è la stessa autonon1ia "individuale-sociale" della quale è garante l'autorità che assicura l'ordine; non si dà libertà e autono1nia senza ordine» (ibid., 167). «La libertà originaria riguarda la questione [ ... ] se l'uomo si sia assoggettato ad un potere politico-sociale volontariaincntc» (ibid., 162). In ultima analisi «la libertà originaria si riferisce al diritto "naturale" di ogni comunità polilica, di ogni popolo alla propria indipendenza cd autono1nia» (M. D'ADDIO, libertà e de111ocrazia, cit., 159). 99 L. STURZO, la società ... , cit., 166.
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b) La libertà organica. Rappresenta la realizzazione, a livello tipicamente sociale, della libertà originaria""'· «Intendiamo per libertà organica tanto l'iniziativa a creare organismi sociali adatti ai bisogni molteplici della vita, quanto la libertà all'interno degli stessi organismi»w 1 : è una libertà per la progettazione attraverso gli organi di partecipazione; questa libertà non è assoluta, ma limitata, perché necessita di coordinazione armonica con le esigenze della libertà originaria: tuttavia «i limiti della libertà, che o è organica o non è libertà, sono limiti delle libertà per la libertà»rn2 •
c) La libertà finalistica.
Trova la sua espressione nella partecipazione cosciente degli individui alla realizzazione dei fini sociali; ogni organismo sociale è finalizzato al bene: la libertà organica è, quindi, per la libertà finalistica. Queste le parole di Sturzo: «come gli organismi sociali sono di loro natura finalistici, così la libertà organica si risolve in libertà finalistica. La libertà finalistica è la partecipazione cosciente ai fini sociali; solo il cosciente è libero. Il fine è un atto della nostra mente che dirige il nostro agire» "n Il fine generico è il bene comune, la sua concretizzazione una molteplicità di fini sociali: qui risiede la libertà finalistica, nel libero orientamento al bene comune in termini di
ioo Osserva opportuna1nente R. Galli: «[ ... ] nella "libertà organica" si esprime la preoccupazione che gli uotnini nella socielà possano trovare luoghi, occasioni, mo1nenti di vita comunitaria, possano realizzare la loro personalità in tutti i suoi n1ullifonni aspetli ed esigenze t... ]. La natura infinita1nente 1nultiforn1e della persona umana deve essere libera di manifestarsi e realizzarsi in tutte le sue potenzialità ed in tutti i campi della vita associata» (R. GATTI, Luigi Sturzo teorico della de111ocrazia, in AA.Vv., Individuo e società nel pensiero di Luigi Sturzo, cit., 167). 101 L. STURZO,. La società .. ., cii., 170. 102 A. Dr GIOVANNI, Attualità di Luigi Sturzo ... , cit., 11. Si rileva inoltre che «la libertà "organica" si contrappone in Sturzo a quella individualistica che assolutizza la volontà dell'agente e riporta quindi n questa tutte le esigenze della società: essa invece si realizza nell'agire in funzione degli altri e delle loro rispettive sfere di autonomia e trova la sua espressione politica nell'attività finalizzata all'annonico coordinan1enlo dci poteri» (M. D'ADDIO, Libertà e de111ocrazia, cit., 159). to:i L. STURZO, la società ... , cit., 171. In sostanza «la libertà finalistica r... J si risolve nella partecipazione voluta e cosciente all'autorità e all'ordine» (ibid., 173).
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modalità sociali libere il cui vincolo essenziale è costituito dalla conformità al fine genericoHl4. d) La libertà formale. Espressione di un riconoscimento di tipo garantista per l'esercizio di ogni genere di libertà: è una libertà «non creata dallo stato, 1na da esso riconosciuta e for1nalizzata giuridican1ente» 105 • Sullo sfondo c'è la consapevolezza che solo attraverso la libertà formale è possibile creare un equilibrio sociale, nel senso che non sarebbe ragionevole aspirare ad un ordine sociale senza la garanzia di un quadro organico in cui trovano armonica coesistenza più libertà, in convergenza reciproca verso la libertà""· Infine, la libertà formale possiede una componente di oggettività: essa «poggia, come le altre, sulla personalità umana, ma è inerente all'organismo sociale come un elemento obiettivo» 1117 • Ne risulta un quadro omogeneo, che è espressione della relazione fondamentale libertà-responsabilità: da un punto di vista sociale e politico il principio della responsabilità «è la consapevolezza che i risultati positivi o negativi cui pervengono gli ordinamenti democratici dipendono dal modo con cui abbiamo operato nella
104 «Quando parliaino di libertà finalistica, - precisa Sturzo - non i11Lendian10 afferrnare che sia libero il fine generico della società l ... ]. Non è libero il fine generico ùell'un1ano agire, che è il bene, n1a è libera la concretizzazione di tale fine nella continua e rnultipla contingenza dcll'allività individuale; allo stesso inodo non è libero il fine generico di ogni società, che è il bene cornune, ina è libero il rnodo di realizzare questo bene» (ibid., 172). Attraverso la libertà finalistica «acquista particolare rilevanza la consapevolezza dell'azione che si co1npie e la volontà adeguata a tale consapevolezza» (M. D'ADDIO, Liberrà e de111ocrazia, cit., 160). ws A. Di GJOVANNI, Att11alità di luigi Sturzo ... , cit., 11. 106 La libertà fonnale appartiene alla fase della progettazione di un equilibrio sociale: «l'equilibrio sociale perfetlo - dichiara Sturzo - non è 1nai raggiungibile; 1nolle sono le cause che ne alternno i rnpporti. Però un equilibrio norn1alc con tendenza verso un ordine migliore è quello a cui può aspirare una società civile bene evoluta. Le libertà fonnali sono lo strun1ento più delicato per tale equilibrio» (L. STURZO, La società ... , cii., 174-175). «La libertà fonnale o politica - osserva I\1. D'Addio - co1nprende le tradizionali libertà politiche, di sta1npa, di parola, di riunione, di associazione, di voto: essa non è altro che il n1etodo per la risoluzione di tutti i proble1ni della società» (M. D'ADDIO, Libertà e den1ocra2ia, cit., 159). 107 L. STURZO, la società ... , cit., 174.
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società [ ... ]; la responsabilità quindi è la coscienza dei limiti nell'ambito dei quali si esplica la libertà, e ciò consente al diritto di tradursi in una vivente realtà. È proprio il sentimento della responsabilità che segna i limiti della libertà, che le impedisce di travalicare nella licenza, nell'arbitrio [... ]»"JS. Nell'ottica di tale elaborazione acquista rilevanza quello che Sturzo chiama «il metodo di libertà»: si tratta di un «metodo di vita collettiva; prima che formalità è convinzione; prima che rispetto di convenienza è atto di coscienza» 109 ; questo metodo, «per essere valevole in una società, deve essere accettato da tutti e lealmente osservato [ ... ]. La violazione del metodo della libertà, fa cadere la sostanza delle libertà che sono a base della vita politica e civile»""· Il metodo della libertà trova la sua espressione significativa, nell'ambito della organizzazione socio-politica dello stato di diritto, nell'ordinamento giuridico: difatti, «se l'una diga della libertà è la responsabilità individuale, l'altra diga è la legge. Questa è nella coscienza del popolo espressione di giustizia e di moralità»'"· Libertà, responsabilità e diritto, ovvero organicità del vivere individuale-sociale, trovano il 1nomento sintetico nel "fatto umano questo è «reso attivo e completo dalla morale (libertà dal male, atto di coscienza) e dal diritto 11
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108 M. D'Aoo10, Libertà e de111ocrazia, cit., 161. Lo stesso affern1a, altrove, che il principio della responsabilità è una realtà interiore da cui dipende l'autenticità delle relazioni sociali: «Il richia1no alla interiorità vuol sottolineare per Sturzo il fatto che la libertà pone il problen1a della autentica partecipazione degli individui alla vita della società che è la condizione di ogni rea!e progresso in termini di civiltà» (lo., Individuo e società nel pensiero politico di Luigi Sturzo, cit., 31). HN L. STURZO, Politica di questi anni ... , I, cit., 435; è inoltre «Coscienza dci propri diritti e dci propri doveri, [ ... ] autolimitazione disciplinata e senso di responsabilità>> (ibid., Ili, Zanichel!i, Bologna 1957, 331); «La libertà è un n1etodo che annonizza i diritti di ciascuno con i doveri verso gli altri e verso la società presa come un tutto» (ID., Miscellanea londinese, Hl, ciL, 91). 110 L.c. 111 L. STURZO, De111ocrazia, autorità e libertà, in app. a fo., Politica e 111orale. Coscienza e politica, cit., 347; e prosegue: «L'autorità sociale non crea la legge, la riconosce; non la inventa n1a la fonnula, l'adatta, l'attua. La legge nasce, come la responsabilità, dalla natura sociale e 1noralc dell'uomo» (I.e.). Specifica inoltre che la libertà, se è autentica, «parte dal senso dei diritto unito al dovere, e arriva al rispetto altrui nell'uguaglianza sociale che in fondo si risolve cristianarnente nella fraternità» (Io., Politica di questi anni... , III, cit., 461).
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Antonino Parisi
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(giustizia, ordine, autorità, legge)» 1 12. Tutto questo consente di guardare alla libertà come a una realtà unitaria, mai frammentaria: come non si danno più moralità, così non si danno più libertà, ma un'unica libertà nelle sue varie espressioni, tra loro legate da un vincolo di solidarietà, perché <da libertà è come l'anima che vivifica il corpo in tutte le sue funzioni» 1n Ciò fa della libertà non «Un che di assoluto e di astratto», ma «un dato concreto» 114 : da una parte attiene al processo mediante il quale la volontà si rende consapevole dei suoi fini razionali generando la coscienza dell'autonomia, come principio in base al quale è garantita l'attività personale in termini di orientamento spirituale verso il bene, dall'altra comporta una costante commisurazione della realtà a questa razionalità, implica la capacità di interrogare il sociale per creare le condizioni di possibilità di un orientan1ento comune, mediante una partecipazione attiva e consapevole, attraverso un complesso di diritti e doveri 115 ; questi trovano configurazione oggettiva nelle istituzioni sociali e politiche finalizzate a questo comune obiettivo 116 .
112
Ibid., 321; cfr. anche p. 318. in Ibid., II, 167. <,La libertà non è divisibile; buona nella polilica o nella religione e non buona nell'econo1nia o nell'insegnamento: tutto è solidale» (L. STURZO, Miscelfanea londinese, III, cit., 162-163); per questo 1notivo «la libertà si difende a tutti i livelli e su tutti i piani e perdere terreno in un punto significa esporre a pericolo tutto il resto. Il bene co1nune, per Sturzo, è solidale: anche la libertà che ne è l'espressione politica» (L. BATTAGLIA, L'auto1101nia delfe farine sociofogiche: natura e sviluppo, in AA.VV., Luigi Sturzo e {o stato delle auto1101nie. Atti del Quarto Corso della Cattedra Sturzo [l984], Istituto di Sociologia "L. Sturzo", Caltagirone 1988, 70). 11 ~ L. STURZO, Misce/fanea londinese, II, cit., 75. 115 Scrive M. Toso, citando Sturzo: «[ ... ] se è vero che il singolo, staccato dalla vita sociale, si troverebbe in una condizione di vita in cui la sua libertà sarebbe il minimo di libertà, è anche vero che la società senza l'apporto originario ed originante delle singole libertà non sarebbe nulla. La società esiste solo se c'è la coscienza della cooperazione e del fine, ossia se c'è una razionalità libera che la fonda» (M. Toso, Realtà e utopia della politica, Ro1na 1989, 25; il rifcri1nento è a L. STURZO, La società ... , cit., 30~34 e 160); cfr. inoltre L. STURZO, Pofitica e 111ora/e, cit., 34. 116 Osserva D'Addio: «Le istituzioni, in quanto meccanismo sociale, non possono agire al posto dell'uoino e quindi non possono liberare l'uomo dalla responsabilità che l'agire comporta; il presupposto ineliminabile della politica rimane quindi la n1oralc, di qui l'importanza dell'individuazione dcl principio etico
_____Solidarietà e bene comune nel pensiero di L. Sturza
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Nel pensiero sturziano la libertà appare, dunque, come la categoria umana più significativa in ordine al rapporto di moralità individuale-sociale: non è mai ideologia, ma valore morale e metodo sociale e politico 117 ; essa sta a fondamento di ogni organica ricerca e attuazione del bene, capace di coniugare la duplice dimensione personale e collettiva, in un approccio con la realtà oggettiva, permeata dei valori dello spirito, nella quale autonomia d'iniziativa e responsabilità interpersonale costituiscono gli elementi essenziali per la realizzazione del bene comune; «l'individualità esprime il momento della libertà; la socialità quello della organicità» 118 • Il criterio sostanziale rimane l'idea di solidarietà, per la quale si postula un'uguaglianza fondamentale nella dignità personale e sociale, che occorre sempre riconoscere come valore oggettivo da rispettare: di qui l'efficacia "organica" di ogni azione sociale e politica, dal fatto che «ciascun individuo nel suo rispettivo quadro organico, possa arrivare ad essere efficace produttore di bene [... ]»; è necessario «che ciascuno ne abbia coscienza, che ne abbia il senso di responsabilità, il senso del valore morale delle nostre azioni, la volontà della ricerca del bene comune nella cooperazione di tutti. Quale forza immensa si può sviluppare da una simile concezione della vita pubblica! Si dirà che è un sogno. E tale sarà, finché ne manca l'educazione che genera la convmz10ne, la spinta mistica che dà il senso di un dovere superiore» 119 .
fondamentale che legittima un detenninato orientamento politico. Per un ordina1nento dc1nocratico questo principio è quello della libertà e quindi della responsabilità; Sturzo afferma il prilnato della responsabilità quale caratteristica essenziale della dc1nocrazia,
il cui corretto funzionamento dipende dalla cosciente partecipazione di tutti i cittadini alla vita pubblica, in quanto fanno valere questo principio in tutti i loro comporta1nenti, sia privati che pubblici» (M. D'ADDIO, Luigi Sturzo e fa crisi delle istituzioni, in AA.VV., Luigi Sturzo e fa crisi delle istituzioni, cit., 8-9). 117 Crr. F. BARBANO, Storicità e sociologia della libertà. Appunti sul pensiero sociologico di luigi Sturzo, in AA.VV., Luigi Sturzo nella storia d'Italia. Atti dcl Convegno internazionale di studi protnosso dall'Assemblea Regionale Siciliana (Palermo-Caltagirone 1971), I, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 1973, 246. 118 L. STURZO, Politica di questi anni .. ., III, cit., 321. 119 L. STURZO, De111ocrazia, autorità e libertà, cit., 356.
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Conclusione
Si è voluto evidenziare, a partire dal pensiero di don Sturzo, come l'idea di solidarietà abbia insita una portata etica umana che si precisa alla luce dei suoi fondamenti teologici, e come la persona, il suo vissuto esistenziale e la qualità delle sue relazioni rimangano i punti di riferimento essenziali: essa è legata all'autorealizzazione della persona, verso una pienezza di senso che tocca ogni livello della sua essenza e ogni ambito di riferimento, divenendo fondamento dell'unità del vivere personale. La solidarietà è una virtù che, nella misura in cui attiene all'interiorità del processo umano e, contestualmente, alle implicazioni con le sue strutturazioni concrete, pone in risalto quell'impegno di perfettibilità, dal carattere personale e comunitario, che appartiene alla coniugazione organica dei singoli dinamismi umani e li proietta verso Ja ' sintesi trascendentale". In sostanza, la solidarietà indica una compiutezza di vita capace di permeare la globalità delle relazioni umane e trova la sua fonte, il suo riferimento e il suo approdo nel Bene assoluto, che fonda ogni sincera ricerca e attuazione di bene nelle realtà contingenti. Questa valenza teologica arricchisce di senso l'istanza di solidarietà, radicandola nel progetto di Dio, in cui trova fondamento l'unità del 'vivere personale: in tal modo essa si qualifica come risposta alle esigenze del fine ultimo e come pienezza di realizzazione delle 1
aspirazioni u1nane.
Il pensiero di Luigi Sturzo, muovendo da un'antropologia integrale, presenta il vincolo di solidarietà in termini di comunione attiva che trova le sue fonti nella vita trinitaria e conferisce significato all'operatività dell'individuo in società, non solo in ordine alla contingenza delle attività concrete, ma soprattutto in relazione al piano dell'idealità. L'elaborazione sturziana rivela la necessità di guardare all'etica della solidarietà con ampiezza di vedute, verso una sintesi che non si co1npie solo in senso orizzontale, né solo in senso verticale, ma sempre
all'interno del finalismo esistenziale umano, nella fiduciosa speranza che, attraverso una riappropriazione dei principi ideali che motivano
Solidarietà e bene comune nel pensiero di L. Sturzo
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resistenza umana, «possano la verità e il bene concretizzarsi nelle forme sociali e prevalere nello svolgimento della storia» 1"1, per riscoprire quell'appello ad un impegno creativo e responsabile dei cristiani nell'interpretare la realtà umana alla luce del Vangelo, per realizzare una prassi sociale e politica animata dalla fede e vissuta come esigenza intrinseca dell'amore cristiano, in spirito di solidarietà e in tensione verso il bene.
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L. STURZO,
Sintesi sociali . ., cit., 18.
Synaxis 12 (1994) 107-132
CHIESA E RIVOLUZIONE FRANCESE. ALLA RICERCA DI UN NUOVO MODELLO TEOLOGICO POLITICO
GIUSEPPE RUGGIERJ'
I. I mutamenti delle teologie politiche Fu lo stoico Marco Terenzio Varrone (116-27 a. C.), reputato da Agostino «homo omnium acutissimus et sine ulla dubitatione doctissimus» 1 , riprendendo forse Panezio, a distinguere tra la teologia mitica (rappresentata soprattutto dai poeti e nella quale si depositano concezioni false e leggendarie), quella fisica (propria ai filosofi) e quella civile, necessaria alla conduzione della città, «della quale i cittadini e soprattutto i sacerdoti debbono conoscere la funzione»'. Anche il cristianesimo, a partire dal IV secolo, fu costretto ad elaborare più o meno consapevolmente una teologia civile o politica che dir si voglia. Mentre cioè nei primi secoli della sua storia poteva non preoccuparsi del destino della città terrena, quando esso assunse nei confronti della società la funzione che prima era stata della "teologia civile" pagana, inevitabilmente doveva generare riflessioni e giustificazioni del nuovo stato di cose. Occorreva cominciare ad elaborare quindi categorie che giustificassero la progressi va omogeneizzazione tra la comunità cristiana, convocata dalla fede in Gesù Cristo e in attesa del suo ritorno per l'istaurazione del regno di
• Professore di Teologia fondamentale nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 AGOSTINO, 2
De Civita/e Dei VI, 6.
Ibid., VI, 5.
108
Giuseppe Ruggieri
Dio, e la comunità civile. Non si trattava tanto della giustificazione del potere della comunità civile, fatto già presente nella tradizione neotestamentaria, ma della regolamentazione dei rapporti fra "due" città, l'una celeste e tuttavia presente già, e l'altra terrena, destinata a scomparire. I modelli elaborati saranno, dipendentemente da circostanze, interessi e atteggiamenti spirituali, ogni volta differenti. Si dà quindi la teologia politica di Eusebio per il quale l'imperatore cristiano, che è stato «ornato con l'icona del regno celeste, con lo sguardo fisso in alto, guida i terreni governandoli secondo l'idea archetipa, reso forte nella i1nitazione del potere monarchico» 3. Icona e "imitazione" del regno celeste, ma anche del Padre in analogia all "'iconau e all"'imitazione del Logos, costituiscono ormai l'essenza del potere umano e, per ciò stesso, modificano il rapporto che intrattiene con esso la Chiesa in questo mondo·'. Ma già Agostino, con la dialettica fra le due città, rappresenta una concezione molto diversa da quella di Eusebio e oltre tutto ben più operante nei secoli 11
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11
3 De faudibus Constantini JII, 5 (ed Heikcl, GCS 7, 201, 19-20). 4 Per la leologia politica di Eusebio ci li1nitiaino qui a rimandare a A. FARINA, L'ùnpero e l'ùnperatore cristiano in Eusebio di Cesarea. La prùna teologia politica del cristianesùno, Ziirich 1966; J.-M. SANSTERRE, Eusèbe de Césarée et la naissance de la théorie "césaropapiste", in Byzantion. 42 (1972) 131-195; 532-593; G. RUHBACH, Die pofitische Theo!ogie Eusebs von Caesarea, in Io. (Hg.), Die Kirche angesichts der konstantinischen Wende, Darrnstadt 1976, 258; M. GODECKE, Geschichte als Myt!tos. Eusebs "Kirche11geschichte", Frankfurt a. M. 1987 (con bibliografia alle pp. 277-301). Sul rapporto tra teologia politica ed escatologia di Eusebio in particolare cfr. F. TRISOGLIO, Eusebio di Cesarea e !'escatologia, in Aug 18 (1978) 173-190, il quale tende a separare (troppo?) ncttainente la «sordità escatologica» di Eusebio da «sottofondi politici o teologici», ibid., 181; F. S. THIELMAN, Another look at the eschato!ogy of l!usebius of Caesarea, in VigChr 41 (1987) 226-237. La famosa interpretazione di E. PETERSON, Der Mo1101heis111us a!s politisches Proble1n (1935), adesso in Theo!ogische Traktate, Mtinchen 1951, 45-147, secondo il quale la teologia politica di Eusebio è strcttainente legata alla sua "eterodossia", è stata sottoposta ad approfondita verifica in A. SCHJNDLER, Monotheis111us a!s politisches Prob!e111? Erik Pelerson und die Kritik der politischen Theologie, Gtitcrsloh 1978; C. ScHMITT, bersaglio della posizione di Pctcrson, ha ancora replicato con Eusebius als der Protoyp po!itischer Theologie in Polilische Theo!ogie Il, Berlin 1970, 68-88; per una valutazione "teologica" della posizione di Peterson, cfr. G. RUGGIERI, Resistenza e dog111a. li r(fi11to di qualsiasi teologia politica in Erik Peterson, in E. PETERSON, Il 1nonoteis1110 co111e proble11u1 politico, Brescia 1983, 5-26; per uno sguardo co1nplessivo a Peterson, si veda tuttavia di recente la grossa 1nonografia di B. NrCHTWEISS, Erik Peterson. Neue Sicht aus leben 1111d Werk, Freiburg in Br. 1992.
109 successivi, anche se c'è da mettere in conto il fatto che il cosiddetto "agostinismo politico" capovolge in qualche modo la teologia politica dello stesso Agostino'. Costui infatti è abbastanza lontano dalla concezione di una supremazia del sacerdozio sull'impero e rimane sostanzialmente indifferente verso le forme del potere politico, almeno nella misura in cm questo assicura la pace dei sudditi e protegge la fede ortodossa. Il veloce accenno alla differenza tra Eusebio, Agostino, agostinismo politico dovrebbe bastare a dimostrare come le elaborazioni dei modelli teologico-politici saranno ormai di volta in volta legate alle variazioni dei rapporti concreti, storicamente determinati. Comunque nel Medioevo cristiano occidentale si afferma la teologia politica della "cristianità". Questo termine, abbondantemente presente nelle fonti, soprattutto a partire dall'XI secolo, serve a designare una realtà complessa che va distinta sia dalla comunità di fede in quanto tale, sia dai vari "regni" nei quali si ritrovano i cristiani. Non tutto è chiaro nella evoluzione sen1antica che la categoria di "cristianità" subisce6 • Ed è altresì delicato chiarire il
5 Oltre all'opera di H. X. ARQUILLIÉRE, L'A11gustinis111e politique, Paris 2 I955, Zeita11scltau11ngen i11 ihre111 Eù(ffuss auf Politik 1111d Geschichtsschreibung, TUbingen 1917; J. SPORL, Gr11ndfonne11 hoc!1111i11elaf ter!icher Geschichtsa11sc/Ja111111ge11, Mi..inchen 1935; M.-D. CHENU, Conscie11ce de /'historie et théo/ogie au Xl/ sièc/e, in AHDL 21 (1955) 107-133; H. GRUNDMANN, Geschichtsschreibung iin Mittelalter, Miinchen 1965; W. KOLMEL, Regi111e11 christia11u111. Weg und Ergebnisse des Gewa!tenverhi:iltnisses und des Gewaltenverstiindnisses ((8. bis - 14. Jh.), Berlin 1970; A. CROCCO, Il supera111ento del dua/is1110 agosti11ia110 nella co11cezio11e della sroria di Gioacchino da Fiore, in Atti del 11° Congresso !111er11aziona/e di Studi Gioachùniti, S. Giovanni in Fiore 1986, 143-161; G. L. POTESTÀ, Te111po ed escatologia nel Medioevo, in CrSt 9 (1988) 281299; 1na cfr. anche la bibliografia raccolta da C. ANDRESEN, Bib!iographia augustiniana, Darmstadt 1973, 207-21 O E DA T. L. MIETI-I E, Augustinian Bibfiography 1970-1980, Westport-London 1982, 58-62. 6 Bisognerebbe ad esen1pio rispondere alla questione suscitata dal fatto che «a partire dal tc1npo di Carlo Magno i tennini Latiniras - Christianùas - Ro111a11itas sono equivalenti e possono essere scainbiati a vicenda». \V. ULLMANN, The Carolingian Re11aissance and the Idea of Kingship. The Birkbeck Lectures 1968-9, London 1969, 137. Oppure, per portare un altro csc1npio, occorrerebbe esplorare in profondità perché i significati di christianitas con1e parrocchia, diocesi e simili, studiati da M. HELIN, Chrisrianitas, in Archiv11111. Lntinitatis Mcdii Aevi 29 (1959) 229-237, poi possano essersi trasfonnati e/o accompagnati a quelli di un'entità diversa, amalga1na
cfr. E.
BERNHE!M, Mittelalter!iche
11 o
Giuseppe Ruggieri
rapporto della cristianità, non tanto rispetto alla pluralità dei regni, nei confronti dei quali è chiara la distinzione, ma in rapporto allo stesso organismo ecclesiale inteso in senso stretto. Così F. Kempf ha potuto affermare una forte distinzione tra Chiesa e cristianità, soprattutto a partire dalla fine dell'XI secolo'. Anche se la sua distinzione è forse troppo netta, giacché non è possibile separare, soprattutto nella pubblicistica ecclesiastica, ecclesia da christianitas in maniera così evidente', tuttavia una cosa è chiara. Il concetto di cristianità, progressivamente, «per un verso intende preservare la chiesa in quanto chiesa, nella sua essenza, da mescolanze inammissibili con le formazioni mondane, ma per altro verso e al tempo stesso vuole esprimere il fatto che la realtà della salvezza esistente nella chiesa è talmente penetrata nei regna e nell' ùnperiwn, in breve nel mondo, che è sorto un ordinamento che supera i confini della chiesa ed il quale è
di elc1ncnti ecclesiali e sociali. Ma si tratta di alcuni esempi soltanto fra tutta una serie di questioni ancora aperte. 7 Egli definisce la cristianità co1ne la «comunione solidale dci popoli e dei regni cristiani fondata sulla confessione della stessa fede e dell'ubbidienza alla chiesa romana, nella quale (co1nunione) gli stati e le nazioni conservavano il proprio essere politico-culturale indipendente dalla chiesa»: F. KEMPF, /Jnperùan und Nationen in
ihre1n Bezug zur Christianitas-Idee, in X Congresso Internazionale di Scienze Storiche. Ro111a 4-11 Sette111bre 1955, VII, Firenze 1955, 201-205; lo stesso Kcmpf è disposto a concedere un senso più ampio, per cui <~eder christlicher Kulturkreis kann Christianitas gcnannt werden». Io., in Atti del X Congresso Internazionale. Ro111a 411 Sette111hre 1955, Ro1na 1957, 4 I 7. In ogni caso ciò che è discriminante è il fatto che, in forza delle lotte e delle discussioni dell' XI secolo, 1nan 1nano la connotazione tipica dell'idea di cristianità sia la sua distinzione dalla Chiesa; I.e. È questa entità concreta, questa respublica fideliu1n (secondo l'espressione di R. Bacone), i cui diritti e i cui doveri non coincidono esattamente con quelli dell'organismo ecclesiale vero e proprio, pur essendo in rapporto vitale con esso, che poi diventerà significativa per la storia europea. La sottolineatura di Kc1npf sull'indipendenza dell'essere politico degli Stati rispetto alla Chiesa qui non ci interessa. Essa va situata nella sua critica alla ricostruzione che W. Ullmann fa della dottrina ierocratica medievale (F. KEMPF, Die piipst/iche Gewalt in der 111itte/alterlichen Welt. Eine Auseinandersetzung 1nit Walter Ulhnann, in Saggi storici intorno al Papato dei Professori della Facoltà di storia ecclesiastica (Mise. Hist. Pont. XXI), Ron1a 1959, 117-169). Questa ten1atica della eventuale indipendenza, lungo i secoli n1edievali, dcl potere degli Stati da quello papale, va distinta da quella distinzione della christianitas rispetto agli Stati e alla Chiesa stessa. La distinzione infaui tra Chiesa e christianitas (in un necessario nesso tuttavia di dipendenza della seconda dalla prima, per cui non si può dare separazione) soprattutto (giacché è evidente quella tra Stato e christianitas) va affcnnata, comunque si intenda il rapporto tra il potere civile e quello ecclesiastico. 8 KOLMEL, Regùnen C!tristia1ua11 ... , cit., 581-582.
Chiesa e rivoluzione francese
111
segnato soprattutto e in maniera decisiva dalla christianitas, dalla comunione vitale della fede e dei sacramenti» 9 • Sarà la rivoluzione francese, dopo che già la divisione delle Chiese nel secolo XVI aveva mutato radicalmente la realtà della cristianità medievale, a segnare l'insorgere di assetti nuovi nei rapporti tra Stato e Chiese, per cui la cristianità non potrà che sussistere ormai come "mito", ma, proprio in questo suo statuto mitico "idealeu, realmente operante soprattutto a partire dalla Restaurazione 10 • Il passaggio verso una nuova teologia politica non sarà tuttavia facile. Il processo sarà lungo e complesso. Esso era in qualche modo iniziato presso i fautori "cristiani" della stessa rivoluzione e subirà un accelerazione con la rivoluzione stessa. La presente ricerca, estremamente circoscritta, sia per il tempo (1796-1799), che per lo spazio (una provincia, quella bolognese, dello Stato pontificio), si propone appunto di documentare un momento di questo travaglio attraverso un esempio in qualche modo marginale e tuttavia sufficientemente significativo. Se è vero infatti che la concezione che la Chiesa sviluppa di se stessa in rapporto alla società degli uomini è sempre storicamente relativa a precisi assetti sociali, giuridici, politici, è altresì vero che ci sono momenti particolarmente illuminanti per comprendere questo rapporto. Si tratta di quei momenti nei quali viene messo radicalmente in discussione il vecchio assetto e occorre quindi ripensare fin dalle fondamenta un nuovo rapporto. Allora la Chiesa è chiamata sempre di nuovo a verificare la propria relazione al regno di Dio, di per se stesso trascendente rispetto alla storia degli uomini, ancorché in essa variamente sperimentato, sperato, atteso. Allora la Chiesa è chiamata a ripensarsi. Inevitabile che sorga allora una dialettica vivace tra spinte innovative, aperte al nuovo, e spinte conservatrici, paurose di fronte al rischio concreto che con il 1
9
Jbid., 582.
10 R. MANSELLI,
Il Medioevo co111e "cristianitas": una scoperta ro111antica, in
V. BRANCA, Concetto, storia, 1niti e i111111agi11i del Medioevo, Firenze 1973, 91-133; Civi/isation chrétienne. Approche historique d'une idéologie (XVIII-XX siècle), Paris
1975; D. MENOZZI, Intorno alle origini del 111ito della cristianità, in CrSt 5 (1984) 363-400; G. MrccOLI, Tra 111ito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato 1986; P. RAEDTS, De christehjke ntiddeleeuwen als 111ythe, in TTh 30 (1990) 146-158.
112 nuovo assetto si perdano non solo privilegi, ma altresì la sostanza stessa del tesoro che la Chiesa è tenuta a conservare. L'analisi quindi di questi momenti particolarmente caldi è quanto mai istruttiva. In essi, quasi esemplarmente, vengono ad esprimersi atteggiamenti prima insospettati e adesso possibili, anche se poi la maggior parte di essi risulterà perdente. E fu così che, quando le armate francesi imposero a Bologna, alla fine del '700, un ordinamento sociale ispirato ai principi della rivoluzione del 1789, i cristiani intravidero nuove strade per la collocazione del vangelo nella storia. Dovettero quindi elaborare nuovi modelli teologico-politici. Lo fecero traendo dal loro tesoro cose vecchie e cose nuove. Per un triennio, a partire dal giungo 1796, la rivoluzione francese fu infatti "esportata" (senza che per questo si vogliano negare fermenti presenti già in alcuni, certamente non rappresentativi della comune mentalità") a Bologna. I mutamenti furono traumatici, soprattutto per la compagine ecclesiastica e cristiana in genere. Il compito che mi prefiggo nelle pagine seguenti è quello di documentare il modo come alcuni "intellettuali" (mi si perdoni la re1niniscenza gra1nsciana di questo ter1nine in una stagione che sembra voler esorcizzare alcune interpretazioni storiche) ripensarono o come non vollero ripensare il significato sociale e politico del gruppo a cui erano organici". Non intendo offrire un quadro
11
Per il clirna in cui fu accolta l'occupazione francese a Bologna, cfr. adesso
U. MARCELLI, «Introduzione», Repubblica Cispadana. Consigli legislativi dei
Sessanta e dei Trenta (Alfi inediti, 1797), III/l, Bologna 1988, 11-47. È tuttavia utile ancora P. AMBRI BERSELLI, Le idee ff·ancesi a Bologna nella seconda 111età del secolo XVIII, in Bol!e!tino dei Museo del Risorgilnento 5(1960) 335-343. Ma soprattutto occorre nolare co1ne una certa atmosfera favorevole ai francesi poteva giocare sul risenti1nento verso la politica pontificia sorda alle richieste del senato e dcl popolo per il manteni1nento dei tradizionali privilegi. Questo aspetto è i1nportantc per capire, co1ne più avanti si dirà, uno scritto di Luigi Morandi all'indomani della sostituzione dcl vecchio regin1e pontificio. Ma questo era ben altra cosa da quello che i pochi giacobini di Bologna propugnavano e che non trovava appoggio alcuno nello stesso Napoleone. Su questi giacobini cfr. dello stesso U. MARCELLI (curatore), Il Gran Circolo costituzionale e il «Genio de111ocralico», I/ I, Bologna 1986, 11-72. 12 Ho cercato di trattare alcuni dei problemi sollevati nel presente contributo in Teologi in difesa. Il confronto tra chiesa e società nella Bologna della .fine del Settecento, Brescia 1988.
Chiesa e rivoluzione francese ·---- ·---. · - -.. · - - .
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·-··
completo, ma solo seguire un filo, tenue e tuttavia sufficientemente visibile. Senza voler entrare in dispute che ritengo superate, sul carattere cristiano o meno dell'Aujklàrung, sulla notevole consistenza di una Aufklii.rung cattolica 1:\ 1na senza nemmeno voler arrivare a quell'ampiezza di ipotesi interpretative certamente utili e tuttavia tendenti ad assorbire il particolare nell'universale 14 , mi pare invece necessario, ai fini di un serio tentativo di comprendere il senso degli avvenimenti, ripercorrere alcuni snodi fondamentali di quel ripensamento, in un ambiente preciso come quello bolognese. In quell'ambiente infatti la rivoluzione impose un modo diverso di collocarsi rispetto a problemi che, fino alla immediata vigilia dell'89, apparivano meno cogenti e meno eversivi, almeno per la più diffusa visione delle cose. Non mancava certo nelle immediate vicinanze chi, come l 'Amaduzzi, con presagio profetico poteva avvertire, di fronte alle riforme giuseppine, come «i grandi fermenti e le gran crisi difficilmente si contengono tra giusti cancelli» e come il secolo aspettasse un compimento rivoluzionario che avrebbe messo fine ad un'epoca 15 • Ed è ancor vero che l'enciclica Inscrutabile divinae
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Può essere consideralo conclusivo lo status quaestionis delineato da M. Introduzione all'Aufkliir1111g cattolica in Italia, in Ca!!olicesùno e !tani nel Se!!ecento italiano, Ron1a 1981, 1-47. ROSA,
11 ' Tali sono ad esc1npio rispettivainente il pregio certissimo e il probabile rischio della sintesi di B. PLONGERON, Théologie et po!itique {ili siécle des Lu111ières, Genèvc 1973. Esemplare invece n1i se1nbra il saggio, che utilizzerò ainpiarncnte, di D. MENOZZI, Regùne di cristianità e rivoluz.ione borghese. La chiesa bolognese nel triennio giacobino, in CrSt 3 (1982) 103-136. Di reccnle, per il più vasto an1bilo italiano, ha presentato una utile serie di testi che docu1nentano la discussione che accon1pagnò i 1nutainenti imposti dagli eventi rivoluzionari V. E. GtUNTELLA, Le dolci catene. Testi della co11trorivo/11zio11e ca!!olica in Italia, Ro1na 1988. Ma purtroppo la raccolta si arresta proprio all'alba del triennio rivoluzionario. PcrtinerHe ci se1nbra co1nunque la sua osservazione: «(L'Italia) Negli anni 1796-1799 conoscerà in ritardo la rivoluzione, quella dcl Direttorio, ed anche la parentesi di un nuovo radicalìs1no anticristiano, dopo il fruttidoro dell'anno VI, interesserà 1narginalmente le repubbliche italiane. Sono gli anni in cui cessa necessarian1ente ogni aperta polen1ica rivoluzionaria [ ... ] lo stesso «Giornale ecclesiastico di Ron1a» diverrà pili prudente e lo Stato della Chiesa affiderà ad opuscoli anonitni la difesa della sua politica tra l'armistizio di Bologna e la pace di Tolentino», ibid., XXXIII. 15 Cfr. M. ROSA, Politica ecclesiaslica e r(fonnis1110 religioso i11 Italia alla fint! dell'antico regilne, in CrSt 10 (1989) 227-249: 247-248.
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sapientiae consilium, il manifesto programmatico di Pio VI, in un esasperamento del topo.1· apologetico antiilluminista e antideista, additava ai governanti, oltre che ai pastori della Chiesa, il pericolo imminente del dissolvimento di «quei vincoli mediante cui gli uomini sono legati fra di loro e con i dominanti e sono altresì mantenuti in freno nel dovere» 16 . Sia il papa che l' Amaduzzi erano ben accetti all'arcivescovo Gioannetti che corrispondeva con questi e del papa aveva ripreso il programma nelle sue Lezioni pastorali". Ma non bisogna nemmeno esagerare la portata di quelle aperture (Amaduzzi) o di quelle paure (Pio VI). In qualche modo, persino qualche anno dopo l'esplosione rivoluzionaria, la mentalità comune fuori della Francia resisteva. Le preoccupazioni nuove semmai si saldavano, e questo deve essere tenuto presente per valutare le reazioni dei decenni successivi, a quella che negli anni '80 era diventata la preoccupazione dominante. Non è esagerato infatti dire che si afferma una strategia "ro1nanau, che trova la sua 1nassi1na espressione nel «Giornale ecclesiastico»" e facile eco nella Bologna dell'arcivescovo Gioannetti 19 , strategia che partiva dalla convinzione secondo cui il pericolo centrale consisteva appunto nell'attacco condotto dallo spirito del secolo all'autorità della Chiesa e degli Stati. Diventavano così secondarie, all'interno del campo cattolico, le tradizionali dispute sulla grazia, mentre si individuava il valore e la garanzia somma dell'ordine da difendere nell'autorità romana.
16 Teslo dell'enciclica in Bul!ariu111 Ron1a11111n. Continuatio, V, 176-180. Per una collocazione di questa enciclica, cfr. D. ~1ENOZZl, Tra rifonna e restaurazione. Dalla crisi della società cristiana al 1niro della cristianità n1edievale ( 1758-1848), in Storia d'Italia. Annali 9: La chiesa e il potere politico dal MedioeFo aLl'età conte111poranea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino 1986, spec. 780-781; G. RUGGIERI, Teologi in d!fesa ... , cit. 55-57. 17 Cfr. G. RuoGJERI, Teologi in d~/"esa ... , cit., 53-63. 18 G. PIGNATELLI, Aspetti della propaganda cattolica a Ro111a da Pio VI a leone Xli, Ron1a 1974. 19 G. RUGGIEHI, op. cit., 53-63.
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2. Variazioni della strategia romana Allo stato attuale di conoscenza delle fonti non è possibile documentare la strategia sottesa alla pubblicazione dell'opera Dei diritti dell'uomo, dello Spedalieri 20 • Resta ancora insuperato il giudizio di Carlo Botta che, pur fantasticando già per il 1791 di un timore romano per una calata dei francesi in Italia, nella sua Storia d'Italia dal 1789 al 1814, edita a Parigi nel 1837, coglieva tuttavia con acume la sostanza del progetto teologico politico che lo Spedalieri rappresentava: far sì cioè che «la religione santificasse certi principi politici, acciocché non facessero più forza contro di lei, ed al tempo stesso, il che era più importante, si pruovasse ch'ella era il mezzo più efficace, anzi il solo che fosse abile a prevenire gli abusi, che sogliono spingere i popoli a trascorrere contro i principi. Così ammessa e conciliata la radice politica con la religione, si toglieva, speravano, agli avversari quell'arma tanto potente delle opinioni, che allora più che nei tempi passati erano prevalse, e si confennava vieppiù l'imperio della religione [ ... ]». Ma, se questo giudizio coglie la sostanza oggettiva del libro, non esaurisce il problema interpretativo. Questo problema infatti comprende anche quello della intenzionalità sottesa ad un'operazione di per sé ambigua. Il carattere ambiguo dell'operazione è dimostrato dal fatto che essa venisse respinta come eversiva da una parte e accortamente utilizzata dall'altra parte proprio da quei cattolici "de1nocratici che cercarono un n1odus vivendi con il nuovo assetto rivoluzionario. 11
20 Su questo autore cfr. G. RUGGIERI, Teologia e società. Mo111enti di un co11fro1110 sul finire del '700 in nferùnento all'opera di Nicofa Speda/ieri, in CrSl 2 (1981) 437-486. Di recente è tornato sulla figura dello Spcdalieri, n1a purtroppo senza nuove fonti docurncnlarie, E. Pll, [In aspelto della reazione cattolica: ii caso Spedalieri, in CrSt 10 (1989) 251-272. Non apportano dati rilevanti due pubblicazioni recenti: S. POLITI, Il «dialogo» sul «contratto sociale», ovvero la risposta della Chiesa di Renna alla cultura del/'i!h1111i11is1110 e alla «Dichiarazione dei diritti de!!'uo1110», in La Critica sociologica 92 (1990) 37-64; Atti del convegno di Studi su Nicola Speda/ieri nel 250° anniversario della nascita (Catania-Bronte, 4 e 6 Dice111bre 1990 }, Brontc 1991.
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È così emerso il problema del modello teologico politico quale vuole essere affrontato in questo contributo. In simbiosi multipla con le esigenze della prassi storicamente determinata, ogni volta emerge un modello che deve collegarsi ad una visione ideale (anche se a volte identificata con una determinata epoca storica, ad es. quella della Chiesa precostantiniana o della Chiesa medievale) per poter pensare sia la conservazione dell'esistente, sia la possibilità stessa della sua eversione. È chiaro allora che i modelli teologico-politici si intrecciano e si con1battono a vicenda. Ma essi veicolano al tempo
stesso desideri più profondi che in questo modo trovano una espressione più eloquente, per noi, di quanto a volte non siano i fatti bruti. In ogni caso, se il libro dello Spedalieri, Dei diritti dell'uomo, uscito nel 1791 con la falsa indicazione di Assisi, sembra proporre una possibile coniugazione dei diritti proclamati dalla rivoluzione con rautoritarisn10 romano, proprio per aumentare la nostra confusione sulla portata effettiva della strategia romana sottesa a quel libro, su ben diverse posizioni si colloca il breve romano Quod aliquantum del 1791 che, a ben otto mesi dalla Costituzione civile del clero votata dal!' Assemblea nazionale, ne condanna il contenuto. Veniva infatti respinta la volontà del!' Assemblea che stabiliva «cmne un diritto, che l'uomo goda in società di una libertà assoluta, che non solo gli garantisce di non essere sindacato nelle sue opinioni religiose, ma gli assicura inoltre l'arbitrio di pensare, dire, scrivere e persino pubblicare qualcosa in materia religiosa. Mostruosità che, secondo lAssemblea, derivano ed emanano dalla naturale eguaglianza e libertà fra gli uo1nini» 21 . Ma forse Ja diversità della posizione è solo apparente, perché si precisava che l'intervento del papa non doveva essere inteso con1e nna opposizione alla nuova legislazione civile, approvata anche
21
Testo in Collectio11 générale des brefs e i11str11ctions de notre trés-saint père le pape Pie VI re!at(l~ rì la Révolution française (ed. e trad. di M.N.S. Guillon), Paris 1798, 124. La traduzione qui proposta è quella di D. MENOZZI che ha pubblicato alcuni brani del breve in Cristianesùno e rivoluzione francese, Brescia 1977, 106-114. Manca tutlavia un'analisi approfondita di questo docuinento, fonda1nentale per conoscere la posizione ufficiale della Chiesa nei confronti della politica religiosa della rivoluzione.
117 dal re, e nen1meno come tentativo di restaurare l'antico regime, co1ne
vanno dicendo alcuni calunniatori. L'unico intento infatti era quello di «mantenere impregiudicati i sacri diritti della chiesa e della sede apostolica [ ... ]. Chiaramente appare che l'uguaglianza e la libertà, tanto esaltate da codesta assemblea, finiscono, come già dimostrammo, per sovvertire la religione cattolica, ed è per questo che l'Assemblea ha rifiutato di riconoscerle il titolo di dominante nel regno, titolo di cui ha sempre goduto». C'era, a dire il vero, un punto in cui l'intenzione dello Spedalieri e quella del breve sembrano saldarsi: laddove si manifesta una certa libertà rispetto al vecchio regime e ci si concentra su I carattere dominante della religione cattolica e su quella serie di diritti, anche sul piano materiale, che se ne facevano discendere. Semmai lo Spedalieri assolveva un compito ulteriore a quello del breve. Questo infatti resta bloccato sulla generica condanna per un verso (anche se poi questa veniva relativizzata con la dichiarazione che la Chiesa non era interessata al ristabilimento del vecchio regime) e la difesa dei diritti della Chiesa per altro verso. Lo Spedalieri invece progetta un modello, un quadro ideale, ma ricostruito dopo l'onda d'urto della rivoluzione, entro cui fosse possibile appunto avviare, fermo restando il riconoscimento dell'autorità della Chiesa cattolica, una presa d'atto della filosofia che presiedeva i cambiamenti rivoluzionari. Questa alla fine ne risultava modificata, ma il semplice fatto che fosse stata ripensata preludeva alla possibilità di accordi, di riconoscimenti pratici vicendevoli. Tre furono principalmente i detonatori che i1nposero all'interno della Chiesa bolognese la verifica del vecchio e del nuovo (dello Spedalieri) modello teogico politico: l'incameramento dei beni ecclesiastici, la ridefinizione "costituzionale" del ruolo della religione cattolica nella Cispadana prima e nella Cisalpina poi, il problema del giuramento. L'impressione che si riceve è che solo con la costituzione della Repubblica Cisalpina, con l'eliminazione del carattere "dominante" della religione cattolica, ma anche di quello della sua "conservazione" (residuo della vecchia posizione nella Cispadana), si 11
11
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impone una teologia politica del cristianesimo che vada al di là degli acco1noda1nenti e si ponga su basi realmente nuove 22 • Ma, come si sa, il radicalismo della Cisalpina ebbe breve durata e quindi l'appuntamento per una nuova riformulazione dello statuto pubblico del cristianesimo si sarebbe ripresentato, in Italia, in congiunture molto più tarde.
3. Un vecchio modello
Nella Raccolta de' bandi, notificazioni, editti ... pubblicati in Bologna dopo l'ingresso delle truppe francesi accaduto li XVIII giugno !796, al voi. XII, in data 27 dicembre 1796, troviamo la notifica, da parte del senato bolognese, dei decreti di Bonaparte relativi alla riduzione dci monasteri e all'incameramento di molti beni ecclesiastici, alla soppressione dei diritti di stola e alla loro sostituzione con «decente congrua». Con uno scritto che si presentava sotto l'autorità dell'arcivescovo Gioannetti, ma che con ogni probabilità era stato redatto dal suo provicario F. Arrighi 21, la Chiesa bolognese prese ufficialn1ente posizione. Era una posizione in cui rivivevano, anche se in maniera pacata, gli elementi della strategia "romana" alla fine del Settecento. Sulla potestà di Cristo legislatore veniva fondato non solo il potere spirituale della Chiesa, che si esprime nella legislazione che riguarda le "anime", ma altresì il suo diritto a «far leggi riguardanti l'esterno governo, il buon ordine, il regolamento de' fedeli». Ne deriva, contro linterpretazione puramente spirituale del
22
Che un analogo processo di reinterpretazione della teologia politica si sia avuto in an1bienti "giansenisti" che lentainente, nella figura di Gaetano Giudici, pervengono non solo a "prendere atto" della nuova situazione, ma a ripensare crcativa1nente la figura pubblica del cristianesi1no, ho cercato di 1nosLrarlo in Allorno ai dirifli defl'uo1110: !eologia e/o politica, in Cultura e religione nell'età di Angelo Maria Querini, a cura di G. Benzoni e M. Pegrari, Brescia 1982, 623-633. Sulla figura del Giudici cfr. anche A. TURCHETTI, L'esperienza politico-religiosa di Gaetano Giudici, ((cristiano i!Lu111i11alo», in M. ROSA, Catto!icesi1110 e !11111i ... , cit., 239-266. 23 A/li Cittadini Senatori di Bologna, sl. s.d., ma internamente dalalo il 9 gennaio 1797. Sulla figura del Gioannctti cfr. il mio Teologi in difesa ... , cit. Per un'analisi articolata dello scritlo, cfr. ~n particolare ibid., 75-81.
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giusnaturalismo di origine protestante, il diritto delle immunità ecclesiastiche, sia delle persone che delle cose. L'estrema concessione che un siffatto modello poteva offrire era quella messa già in atto dal Borromeo il quale «di fronte alla richiesta del senato di Milano, non volle che i chierici obbedissero ad una legge laicale, ma egli stesso emanò una legge con cui li costrinse al medesimo tributo». Veniva così esemplarmente illustrata l'ultima adattabilità del modello teologico-politico mutuato dal Suarez ed elaborato secoli prima per conservare il molo pubblico della Chiesa. Che il modello fosse vecchio, lo dimostra il fatto che esso, sempre all'interno della Chiesa bolognese era stato già messo in atto da un teologo "organico" alla strategia pastorale del Gioannetti, Michelangelo Griffini 24 • L'occasione era stata offerta, nel 1793, dalla riedizione dell'opera del Pilati, Di una riforma d'Italia. In quest'opera riecheggiava il vecchio riformismo settecentesco che adesso, a due anni dalla rivoluzione, assumeva carattere ben più pericoloso per la compagine ecclesiastica. Il Griffini se ne rendeva conto 25 e, sempre nel 1793, rimandava alla «lagrimevole catastrofe della misera Francia» per mettere in guardia dalle conseguenze pratiche del progetto del Pilati rivisitato"'. Ma è interessante che in quella data il Griffini sostenesse lo stesso modello che avrebbe guidato l'atteggiamento ufficiale della Chiesa bolognese di fronte alla caduta dell'immunità ecclesiastica e, soprattutto, si preoccupasse di esorcizzare l'ideale della Chiesa primitiva, come epoca della purezza ecclesiale".
4. Realismo politico e modelli astratti Se questo vecchio modello teologico politico persisteva, esso tuttavia ben presto si rivelò inadeguato, soprattutto in vista della linea
24
Su questo personaggio cfr. Teologi in. difesa ... , cit., 85-112. Brevi r~flessioni di Eufrasia Lisùnaco su il libro della Rifonna d'Italia, Bologna 1793. 26 lbid., 154. 27 lbid., 14 ss. 25
_12_0 ___ ·-·· __ . _ . _!Jiuseppe Ruggier_i-·.--··--·---- _ morbida sulla quale, per differenti motivi, avevano interesse a convenire il Gioannetti da una parte e Napoleone dall'altra. Ed è sul piano della politica costituzionale che si afferma da parte ecclesiastica una linea moderata la quale avrà bisogno quindi di una differente motivazione teologica rispetto a quella vecchia, funzionale ad un confronto conflittuale. Già il problema si poneva con l'occupazione francese in quanto tale e con il mutato governo della città. È difficile comprendere il senso che potesse avere l'approvazione ecclesiastica al Ragionamento di L.(uigi) M.(orandi) al popolo bolognese sopra la presente abbracciata mutazione di governo, apparso dopo l'entrata delle truppe francesi in città, nella II parte del 1 79628 • In ogni caso l'opuscolo riduceva la questione in termini inoffensivi sul piano della disciplina ecclesiastica. Distinguendo infatti dalla potestà spirituale del pontefice quella che gli competeva in quanto sovrano temporale, poneva semplicemente il problema della legittimità di un mutamento della forma di governo. Mentre rimane intatta l'obbedienza dovuta al papa, vescovo di Roma, non altrettanto poteva dirsi per il giuramento di fedeltà a lui in quanto sovrano civile. Questo giuramento era infatti legato ad un "patto sociale". Il Morandi assumeva in parte le teorie contrattualistiche sull'origine della società. La sovranità sorge, almeno per la forma di governo, da una convenzione. Tutti gli individui sono eguali e liberi per diritto di natura. «In questa libertà cospirano tutti gli individui di nostra natura in ragione eguale; e però fra loro esiste una perfetta eguaglianza per riguardo a convenire nella civile società.
28 D. MENOZZI, Regùne di cristianità ... , ciL, 107, vede nella teologia politica di questo opuscoletto la sanzione dell'accordo profilatosi tra senato e vescovo. Io preferisco sfu1nare questo giudizio, nel senso che tutta !'attività del Morandi, fu piuttosto tollerata per necessità. Ma è vero che ancora Morandi non aveva avuto occasione di 1nanifestare le sue opinioni più avanzate, cd è altresì vero che è chiaro l'accordo tra senato e arcivescovo, soprattutto nel pri1no periodo dell'occupazione francese. Sul Morandi manca uno studio soddisfacente. Si possono tuttavia vedere, oltre al già citato saggio dcl Menozzi, U. MARCELLI, Pole111iche religiose a Bolog11a nel secolo XVIII, in Alti e Me111orie de/la Deputazione di storia patria per le province di Ro111agna 6 (1954-55) 103-177; D. ORI, Un giacobino bolognese. Il ci1tadi110 Luigi Mora11di Parroco di San Sebastiano, dissertazione dattiloscritta, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi di Bologna, 1976-77.
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Nella quale, qualunque sia, entrando l'Uomo, conviene che riconosca sovranità e subordinazione, ciocché inchiude patto sociale, il quale suol essere seguito dal giuramento». 29 • Il patto è in parte naturale e tacito, nella misura in cui esso tocca «i rapporti chiari ed im\Dutabili» tra i singoli e la società, giacché la stessa natura «esprime le condizioni della podestà di colui che comanda e l'obbedienza di coloro che si sono sottoposti». Il patto è invece «di convenzione» nello stabilire lattuale forma di governo, soprattutto nella misura in cui tra «lo stato governante e governato s'individuarono dalle membra del corpo sociale delle reciproche promesse» 30 • Ma giacché il papa aveva violato le promesse stabilite nel patto che aveva legato i bolognesi allo Stato pontificio, adesso era legittimo revocare il giuramento di fedeltà a lui e prestarlo ad un altro sovrano per una diversa forma di governo". C'era implicito nel ragionamento del Morandi qualcosa di più profondo delle conclusioni che lui ne tirava. L'affermata uguaglianza nei diritti dei cittadini poteva infatti condurre ad un diverso modello teologico politico. Ma il passo non veniva fatto e tutto veniva racchiuso nel contesto più efficace di una disamina della politica pontificia. Inoltre il Morandi fluttuava con una certa confusione tra l'orizzonte della costituzione della società come tale e quello del rapporto fra Stati diversi. Tutto sommato, il ragionamento restava di basso profilo. Del resto, con la semplice "mutazione di governo", non erano ancora posti i problemi che sarebbero sorti con la nuova costituzione, soprattutto con la riformulazione del ruolo della religione cattolica nella società. Tre furono le costituzioni che di fatto, nel breve arco di tre anni, si succedettero a Bologna. La prima propria a Bologna, la seconda della Cispadana, la terza della Cisalpina. Tre furono anche le formulazioni del rapporto tra religione cattolica e società. Si preferì
29 Ragio11a111ento di L(uigi) M(orandi) al popolo bolognese sopra la presente abbracciata 111utazio11e di governo, XI. 30 lbid., XIII. 31 11 Morandi docu1nentava questa violazione, da parte del pontefice sovrano, degli antichi privilegi, stabiliti nelle leggi concordate tra il popolo bolognese e Niccolò V. Poteva quindi far leva sul malcontento causato dalle ulti1ne disposizioni dcl governo pontificio. Cfr. sopra n. l l.
132__···--··--···-- . Giuseppe Ruggier_i__···----··--··tacere di questo rapporto nella costituzione bolognese, si volle invece la "conservazione" della religione cattolica nella cispadana, con la conseguente esclusione degli altri culti, ad eccezione della "continuazione" di quello ebraico. Si arriva infine al famoso art. 355, titolo XIV della costituzione cisalpina in cui si affermava che «A niuno può essere impedito l'esercizio di culto che ha scelto, conformandosi alle leggi. Il potere esecutivo veglia alle esecuzioni delle medesime ed impedisce l'esercizio delle loro funzioni a quei ministri di qualunque culto che hanno demeritata la confidenza del governo. Niuno può essere obbligato a contribuire alle spese di qualunque culto». La decisione di far silenzio sulla questione della religione nella costituzione bolognese del 1796 fu certamente frutto di un accordo, per lo meno nei fattin Infatti anche se venne respinta la proposta avanzata dagli Assunti di Magistrati perché, nel Piano di Costituzione elaborato dalla Giunta costituzionale insediatasi subito dopo la venuta dei francesi, venisse proclamato il dovere della "conservazione" della religione 3', il senato mandava chiari segnali, soprattutto con un Editto ad hoc, perché da siffatta omissione non si traessero conclusioni opposte al mantenimento della religione 34 • Gioannetti da parte sua con un Avviso al popolo ed Istruzione ai Parrochi, sulla premessa che la costituzione aveva per oggetto "solamente" la nuova forma dello Stato politico, non ometteva di dare il suo formale e pieno appoggio ad essa". Anche qui poteva essere implicita una radicale mutazione del
32 Cfr. A. DE STEFANO, Rivoluzione e religione nelle prùne esperienze costituzionali italiane (1796-1797), Milano 1954, 47-57. :n Cfr. le Riflessioni degli Assunti di Magistrati e Deputati aggiunti a no111e del Senato di Bologna fatte sopra il piano di Costituzione, pubblicate in A. DE STEFANO, op. cit., 127-140. In particolare si chiedeva nel cap. 1 paragrafo 3: «E per ciò stesso che la Rcligion cattolica è co1ne base della Costituzione, si pone in riflessione, se conveniente per avventura non fosse di annoverare tra i doveri di Cittadino così la conservazione di questa Religione, co1ne la conservazione di se medesiino, e parrebbe degno del vostro accorgin1ento il vedere, se il 1nancarc a sì fatti doveri non meriti espressa comminazione di pena». 34 D. MENOZZI, Regitne di cristianità ... , cit., I08. 35 L'avviso, che porta la data del 14 novembre 1796, fu inserito nella Raccolta ufficiale dei Bandi. Il testo si può vedere adesso in DE STEFANO, op. cù., 141-
142.
- - - - · - · - Chiesae_rivoluzione francese_ ----·-~3 modello teologico, ma di fatti questa non avviene, anzi tutto viene interpretato come se nulla fosse mutato. Evidentemente l'una e l'altra parte avevano interesse a non forzare le cose, almeno fino a quando ciò non fosse stato necessario. La discussione per la Costituzione della Cispadana impose invece che il dibattito si ponesse anche sul piano dei principi. Se prestiamo attenzione al fatto che pochi mesi soltanto separano le diverse costituzioni, possiamo facilmente comprendere come i modelli a disposizione non fossero poi molti. E, soprattutto, su tutto questo veloce susseguirsi gravava il peso della politica napoleonica, sostanzialmente orientata ad una gestione moderata delle cose, particolarmente in questa fase 36 • I principi che suggerivano, nella costituzione della Cispadana, lomissione di qualsiasi accenno alla funzione della religione, vennero propugnati dal ferrarese G. Compagnoni. Ma il suo intervento" formulava esplicitamente e senza possibilità di equivoci le ragioni di questo atteggiamento. Esse erano tali da escludere il modus vivendi che era reso possibile dalle concrete circostanze in cui era stata invece formulata la costituzione bolognese. Esse erano infatti funzionali al principio della libertà e, quindi, della libertà di culto. «Una Religione costituzionalmente proclamata diventa una Religione dominante; ed è intrinseca condizione di una Religione dominante l'ottenere diversi essenzialissimi diritti sopra qualunque altra, che pur venga nel medesimo Stato tollerata». Da qui all'intolleranza e alle persecuzioni il passo sarebbe stato quindi breve e Compagnoni non ometteva di ricordare gli episodi delle varie guerre di religione. Inoltre il Compagnoni metteva in guardia da un pericolo abbastanza concreto. Il riconoscimento del carattere dominante della religione avrebbe comportato infatti altresì la reintroduzione, ali 'interno della giovane repubblica, di quel secolare conflitto tra sacerdozio e impero che «incatenò per molti secoli l'Europa». Non se ne aveva un esempio
36
Riinando a D. MENOZZI, op. cit., per una ricostruzione più analitica dcl
dibattito. Quello che qui mi preme è piuttosto la individuazione delle coordinate ideali in cui gli intellettuali più vicini alla chiesa cercarono di collocare gli avvenimenti. 37 Testo in A. DE STEFANO, op. cii., 150~ 157. Citerò da questa edizione.
12~-··- _-··_Giuseppe Ruggieri_ _ · · - · - · · - · · - _ proprio nella lettera che il Gioannetti aveva inviato al senato di Bologna in opposizione alla politica riguardante il ridimensionamento degli ordini religiosi e l'incameramento dei loro beni? Con ciò il Compagnoni non voleva mostrarsi avverso alla religione cattolica: «Io ne adoro i sagri suoi dogmi, ammiro la purità della sua santa morale [ ... ]. Riputerei la più alta sventura pel Popolo Cispadano se fosse nel crudo esperimento d'acquistare la libertà mettendo a rischio il più alto dono che Dio abbia fatto agli uomini». Dove collocava quindi Compagnoni la sua proposta? Con grande lucidità egli intuiva la concezione ideale che doveva presiedere ai nuovi rapporti e che si esprimeva in una duplice riformulazione, riguardante sia la natura di una costituzione che quella della religione stessa nel loro rispettivo rapporto con la società. Per quanto riguarda la costituzione, riecheggiando forse inconsapevolmente i pensieri dei "politici" come de l'Hospital e Bodin che, durante le lotte religiose avevano cercato di fondare una politica della tolleranza, Compagnoni affermava che essa traduce solamente un patto fra uomini. Invece «È la Religione un rapporto dell'Uomo con Dio, non un rapporto dell'Uomo con l'Uomo». In una costituzione democratica doveva semplicemente esser garantito ad ogni cittadino il diritto di scegliersi la religione che vuole. Per quanto riguarda la religione, il Compagnoni non si esimeva dal formulare un principio "teologico". «La conservazione della Religione non è opera né degli uomini, né delle loro Leggi: avrebbe così troppo deboli fondamenti. Essa è opera soltanto della Provvidenza, che secondo il suo beneplacito l'ha donata agli Uomini; e che secondo la giustizia de' suoi consigli l'ha tolta ]oro».
Veniva così alla luce il nuovo modello teologico politico, l'unico, in quelle circostanze, atto a garantire la verità del cristianesimo dentro le mutate condizioni. Gli oppositori del Compagnoni se ne rendono conto. È quindi di interesse estremo vedere come fra di essi affiori il ricorso al modello dello Spedalieri. Qui basterà riportare l'esempio di Fava Ghisilieri, che esplicitamente rimanda, durante il dibattito all'autore dell'opera Dei diritti
dell'uomo. Ma è utile analizzare, anziché i suoi interventi al congresso di Modena in cui si discuteva della costituzione 38 , la sua più ampia esposizione degli stessi principi in Riflessioni politico-morali raccolte da un solitario ad uso della gioventù libera dell'Italia". Il Fava è consapevole di avere dalla sua la politica di Napoleone. I francesi infatti danno esempio di moderazione e mettono in guardia dal ripetere qnegli errori funesti che prevalendo «nei tempi della terribile loro Rivoluzione, condussero quasi la Francia sull'orlo estremo di un' irreparabil ruina» (12-13), mentre «certuni» si sforzano di rinnovare in Italia la catastrofe di tanti mali. Con questa stupefacente consapevolezza npost-rivoluzionaria", il Fava può quindi procedere ad una riformulazione "cattolica" dei principi atti a reggere una nuova intesa tra religione cattolica e società. Questa riformulazione avviene utilizzando il topos apologetico dell'utilità sociale della religione secondo il metodo filosofico-razionale e lo schema messo già in atto dallo Spedalieri 40 . Occorreva tuttavia correggere in qualche modo lo Spedalieri. Costui infatti aveva costruito il proprio ragionamento in riferimento alla proclamazione dei diritti. Ma ormai, nel 1797, si trattava piuttosto di considerare l'utilità e la necessità del cattolicesimo in riferimento alle nuove costituzioni sociali. Si trattava quindi di mostrare la coerenza della religione cattolica con le nuove società democratiche. Per questo Fava si preoccupava di distruggere l'osservazione del Montesquieu «che il Cattolicismo meglio assai si conviene alle Monarchie che alle Repubbliche» (154ss.), e di recuperare il discorso
38
Rispcttivainentc del 25 gennaio e del 4 febbraio 1797. I testi sempre in A.
DE STEFANO, op. cii., 143-149; 158-164. 39 Bologna 1797. L'attribuzione al Fava dell'opera uscita anonin1a non dovrebbe suscitare dubbi, cfr. D. :t\1ENOZZI, Regùne di cristianità, cit., 113 n. 30. 40 La conclusione di questo "ragionainento" a p. J53: «Dunque è ditnostrato abbastanza che la sola Religione dci Cattolici è la vera, perché ha uno stretto rapporto colle azioni niorali degli Uo1nini; perché propone loro un tale interesse che supera qualunque altro, il quale <li!ettar gli potesse a scostarsi dalla via retta; perché sola è dotata di precisione, di certezza; e perché infine coll'istruzione sì pubblica che privata, col culto esterno e colla forza del buon ese1npio, imprin1e di continuo negli Uo1nini idee abitualinente predotninanti». C'era qui, rispetto all'impianto più 1netafisico dello Spcdalieri, una intonazione "inorale" che il Fava traeva dal Mably.
126__ ·--·.-·-· --·· Giuseppe Ruggieri_·--··--·--·--··sull'eguaglianza e sulla libertà all'interno della religione cattolica. Per questo egli attribuiva alla religione il compito di alimentare con l'umiltà l'uguaglianza sancita dalle leggi. Infatti se queste potevano distruggere la diseguaglianza fondata snlla nobiltà della nascita non distruggevano poi la diseguaglianza nelle ricchezze. Ed ancor si mostrava che la diseguaglianza che il cristianesimo manteneva al suo interno, a causa delle ecclesiastiche dignità, era perfettamente analoga anche a quella che la repubblica manteneva a causa dei vari uffici. Si dà quindi una «inevitabile disuguaglianza» (163), ma nel caso delle dignità ecclesiastiche questa ineguaglianza deve apprezzarsi soprattutto come correttivo alla loro estraneità negli affari secolari. «Son cittadini, egli è vero, e perché tali è da preservarsi loro il diritto di concorrere alla sanzione delle leggi costituzionali, e alle scelte dei magistrati: ma riassumer debbono poi subito ]'alte funzioni del sublime loro ministero; ed essere i perpetui mediatori tra il popolo e Dio, né ingerirsi più oltre nella Repubblica. In tal modo l'inevitabil distinzione dei loro grandi non potrà mai interessar la politica Costituzione» (164). In altri termini, la Chiesa è in realtà diversa dalla società e anzi, proprio per questo, ad essa si conviene più la forma monarchica che quella di repubblica, ma in questa sua estraneità essa assolve una funzione necessaria alla società stessa, che quindi la società deve riconoscere. C'era quindi lo sforzo di accettare un sistema di "estraneità" tra le attività propriamente ecclesiastiche e la vita sociale. 11
Ciò che era essenziale era tuttavia Ja conservazione di "questa Chiesa
nella società. Dovrebbe essere inutile sotto I ineare al commentatore co1ne questa affermata "estraneità avesse un senso ben diverso da quello che essa rivestiva per i difensori della separazione della Chiesa dallo Stato. Per costoro infatti essa arrivava ad una "privatizzazione" dello statuto ecclesiale, mentre per uomini come il Fava essa era funzionale al riconoscimento di ciò che la società non poteva possedere in proprio. L'obiezione più forte che si poteva mnovere contro la posizione espressa dal Fava, e di fatti risultata vincente nella costituzione cispadana, era che in questo modo si affermava il principio dell'intolleranza religiosa e della discriminazione dei cittadini. Fava non retrocedeva di fronte al principio anche se era preoccupato di darne una interpretazione moderata. Egli ammetteva 11
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che il cristianesimo è intollerante. Anzi sottolineava che doveva esserlo, se non voleva cessare dall'essere la fonte unica, certa, precisa, uniforme della morale (168). Del resto intolleranti sono tutte le religioni, come dimostra la storia del calvinismo, della Chiesa d'Inghilterra e lo stesso Lutero. La violenza che tuttavia segue da questo principio di intolleranza non è necessaria, ma deriva dagli abusi di quanti si sono serviti della religione. Quella che con le parole del Mably Fava propugnava non era la repressione che si esprimeva nel rogo. «Dio non ha bisogno del nostro braccio per vendicarsi [ ... ] Deve però il Legislatore infliggere i castighi necessarii a intimidire l'irreligione, e impedirla dal corrompere la società». Questo non è soltanto un dovere del sacerdozio, ma altresì dei magistrati (181). Il modello teologico politico che si adeguava alla situazione della Cispadana, in una ripresa abile di una certa tradizione illuminista e dell'apologetica dello Spedalieri, si concludeva quindi in una riproposizione intatta della funzione "dominante" della religione nella società, anche se mitigata con l'assunzione di quei principi rivoluzionari e democratici che, dopo gli anni violenti del terrore, potevano senza troppo danno essere riconosciuti. Diversa fu invece, come abbiamo già visto, la situazione creatasi con la Repubblica cisalpina, già nel luglio del 1797. L'arcivescovo di Bologna scompare quasi dalla scena pubblica e si chiude in un prudente lealismo". Ci sono indizi per pensare che il punto più difficile da accettare era proprio quello della libertà religiosa42 • Non mancavano voci, espresse in opuscoli anonimi, che difendevano il nuovo stato di cose come più consono alla lezione evangelica43 , ma i tentativi di ripensamento più consistenti si focalizzarono soprattutto attorno alla questione del giuramento.
41
42
G. H. UGGIER!, Teologi in difesa, cit., 83ss. D. MENOZZI, Regùne di cristianità ... , cit., 121.
43
lbid., 121-123.
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5. L'imbarazza della differenza
«lo N.N., giuro inviolabile osservanza alla costituzione, odio eterno al governo dei re, degli aristocratici e degli oligarchi, e ]Jro1netto di non so,fferire gianunai alcun giogo straniero e di contribuire con tutta la mia forza al sostegno della libertà e della uguaglianza, e alla conservazione e prosperità della Repubblica». Era questo il testo del giuramento imposto ai pubblici funzionari, che sul finire del 1797 era stato reso noto dal Direttorio esecutivo della Cisalpina". L'obbligo del giuramento faceva corpo con le nuove disposizioni riguardanti le nomine dei vescovi e dei parroci, obbligati anch'essi a giurare. Ciò che quindi veniva messo oggettivamente in discussione era lantico statuto pubblico della Chiesa. Esisteva, a dire il vero, una profonda contraddizione tra il dettato della costituzione che di per sé, con l'affermata libertà religiosa, implicava la privatizzazione radicale dello statuto ecclesiale, e le disposizioni amministrative di intervento nella nomina dei vescovi e dei parroci, più consone ad una politica giurisdizionalista che alla secolarizzazione propugnata dall'ideologia repubblicana. Ma su questa strada, che avrebbe significato la richiesta di una radicale libertà della Chiesa come contrappeso alla sua privatizzazione, nessuno si volle impegnare". Troppi interessi, dall'una e dall'altra parte, impedivano dal farlo 46 • Del resto occorre forse ammettere che questa stessa lettura che qui facciamo proietta troppo ali' indietro acquisizioni di coscienza che solo col tempo sarebbero diventate più robuste e storicamente attive. Il dibattito si concentrò piuttosto su punti meno radicali e tuttavia non privi di interesse.
44 Cfr. adesso A. V A LENTI, Il dibattito sul giuran1e11fo civico nella repubblica cisalpina, in CrSt 10 (1989) 307-345. 45 Anche se bisogna costatare co1ne non 1nancassc chi si accorgeva che, nel nuovo contesto, fosse necessaria una rifonna della Chiesa che la riportasse al suo statuto primitivo: D. MENOZZI, Regùne di cristianità ... , cit., 129ss. 46 Lo stesso rimando al modello della Chiesa primitiva, anche quando veniva fatto con radicalità, ad es. in un autofe ferrarese come Hcraud (cfr. A. VALENTI, op. cit., 319-322), dà l'impressione di costituire un riferi1nenlo utopico, anziché un effettivo ripensaincnto dcl presente.
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Senza pretesa di offrire un panorama completo delle posizioni, e prescindendo anche dalle posizioni decisamente contrarie al giuramento esemplarmente espresse da una Lettera al Commissario del Potere esecutivo 47 , perché troppo bloccate nella difesa del vecchio regime, è invece utile mettere a raffronto due scritti ugualmente favorevoli al giuramento, ma con intenzione diametralmente opposta. Il primo di essi è quello del Griffini", il secondo è del Morandi". La posizione espressa dal Griffini era quanto mai abile. Convinto che un rifiuto assoluto del nuovo ordine di cose avrebbe creato ulteriori difficoltà alla Chiesa, egli è orientato ad una convivenza con il nuovo regime che permettesse una certa libertà di manovra. Ora, a suo avviso, sia coloro che rifiutano che coloro che propugnano l'accettazione del giura1nento ignorano che con esso non si tratta né di adottare né di approvare la costituzione. Questa è già stata adottata e approvata. Il giuramento implica solo l'obbligo di osservanza ad una costituzione elaborata ad un livello di responsabilità in cui chi presta giuramento non è coinvolto. A partire da questa premessa, il problema che il Griffini pone è soltanto quello di analizzare se la formula, in cui si esprime questo obbligo di osservanza, offenda o non offenda Dio. In ogni caso infatti le leggi sono necessarie. Ora all'autore della Lettera d'Ireneo a Filalete, la formula del giuramento non sembra ricadere sotto le leggi moralmente inaccettabili. Infatti anche l'odio di cui essa parla non è un odio positivo, ma solo indiretto e negativo «quale suole aversi da
47 Ne fu autore il card. A. Mattei, arcivescovo di Ferrara. L'opuscolo agì da catalizzatore anche per le prese di posizione bolognesi. Cfr. A. V A LENTI, op. cit., la quale tuttavia tende ad assirnilare troppo le posizioni dell'arcivescovo ferrarese e di quello bolognese. Costui, al di là di ogni valutazione sua, ricercò sen1pre un 111odus vivendi con il nuovo rcgin1e. Ln sua posizione è forse 1neglio espressa dallo scritto dcl Griffini, qui di seguito analizzato, che dall'opuscolo dc!!'arcivescovo ferrarese. 4 x Lettera d'Ireneo a Fifalete in cui si esa111ina se sia feci/o o no il giura111ento civico che si esige alla Repubblica cisalpina, Bologna 1798; cfr. G. RUGGIERI, Teologi i11 difesa ... , cit., 107-111. 49 In effetti analizzeren10 qui due opuscoli, uno anteriore e uno posteriore alla Lettera d'Ireneo ... : Parere sul gi11ra111ento alla Repubblica, Bologna 1797; Parere del cittadino Morandi sopra il libro intitolato: Lettera d'Ireneo a Fila!ete intorno al giura111e11to civico che si esige dalla Repubblica Cisalpina, Bologna s.d., 1na intcrnan1ente datalo il 20 Fiorile anno 6 Rcp.
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ognuno contro quelle cose che si oppongono ai nostri interessi e alla propria felicità» (64). Né vale, come aveva fatto l'arcivescovo ferrarese, appellarsi al papa che avrebbe dichiarato illecito il giuramento. Infatti in tale posizione non si esprime un dogma, ma soltanto un'opinione privata del pontefice che pertanto non può costituire legge ecclesiastica. Si condivideva quindi la linea, presente anche in alcuni ambienti romani e che nel Gioannetti trovava una interpretazione spiritualista50 , di realismo tattico.
Ben diversa la posizione del Morandi. Il suo Ragionamento si impegna in una difesa come tale dei principi sottesi alla costituzione cisalpina. Essi implicano che la società civile e la società ecclesiastica obbediscano a due leggi differenti, per cui ciò che è illecito nella Chiesa, come la libertà religiosa, può non esserlo nella società. Le due società sono distinte per natura loro, sia nei fini che nei mezzi. Inoltre il fatto che la legge della società civile non riconosca formalmente il carattere dominante della religione cattolica non sta a significare che questo carattere sia negato. Il privilegio di essere "dominante" da parte della religione cattolica non può «avere altro buon senso, se non che la ·maggior parte degli individui della società ne siano seguaci; e come a niuno si vieta il seguirla, ella resta nel suo essere di prima» (1 O). Né può la religione cattolica poter rivendicare il ricorso alla coazione «che solo la barbarie dei secoli passati, e una Religion mal intesa» le poté riconoscere. La parola di verità che Cristo consegnò ai cristiani è l'unica forza che essi possono usare. «Tutto ciò che sa di dotninazione, com'è l'aver foro in cui agitar cause civili e criminali,
dar sentenze che risguardino gli averi e i corpi, castigare con pene corporali, etc., è del tutto estraneo allo spirito e al carattere essenziale della Società religiosa» (16). L'ideale teologico-politico propugnato dal Morandi era quindi quello espresso dalla formula ecclesia in impero: non dell'impero o sottomessa all'impero, ma semplicemente nell'impero. «Ella infalti ci è straniera» (17). Uguale quindi è la condizione dei cristiani, e segnatamente i ministri del loro culto, a quella degli altri cittadini. Su questo punto di arrivo si attestava la
50 G. RUGGIERJ,
Teologi in difesa ... , cit.,
8ls., 110.
___________ Chiesa e_rj_voluzionefrancese__ ___________L3_1
difesa che della nuova costituzione faceva il Morandi. Egli al fondo non si impegnava in un effettivo ripensamento positivo della nuova funzione che la religione cattolica avrebbe dovuto assumere in un contesto come quello istaurato dalla costituzione Cisalpina. Manca soprattutto a lui l'analisi approfondita del dinamismo storico del cristianesimo, quale invece nella vicina Milano avrebbe elaborato il Giudici 51 • Se questa era la difesa dei nuovi principi costituzionali, analoga a quella che poi avrebbe avuto il Griffini è l'interpretazione dell'odio richiesto dal giuramento. Esso non era odio a persone, ma odio a cose e al male che si oppone al bene della società. Tanto più quindi apparve pericoloso al Morandi lo scritto del Griffini. Contro questo è diretto il suo Parere, tutto attento a mettere a nudo la sua «più fina malizia aristocratica per indurre la diffidenza e il malcontento nel Popolo». E non si pnò negare al Morandi che vedesse giusto. Dove stava la malizia? Nel sospendere il giudizio sulla costituzione in quanto tale e nel propugnare solo la liceità dcl giuramento giacché la formula di questo non induceva positivamente al male. Ma il problema era per il Morandi se si accettava quel rifiuto di mescolare società civile e società religiosa che la costituzione invece affermava. E quindi ribadiva, con un eccessivo semplicismo, l'assoluta differenza tra società civile tulta esteriore e temporale, e società ecclesiastica tutta spirituale. I tre anni "rivoluzionari" furono troppo brevi perché le idee si rassodassero ed emergesse una sensibilità effettivamente nuova. Gli uomini a volle pongono delle azioni che sono in anticipo sui loro pensieri. Occorre del tempo perché si dia un riequilibrio effettivo e stabile. Finito il triennio rivoluzionario, dopo la parentesi degli austrorussi, Bologna, in epoca napoleonica, avrebbe al fondo conosciuto un equilibrio che sarebbe stato più vicino alla situazione della Cispadana che a quella della Cisalpina. Se infatti i concordati napoleonici non riproponevano la garanzia coercitiva della compattezza della società cristiana, essi avrebbero al contempo reso
51
Cfr. il mio Attorno ai diritti
del/'1101110 ... ,
cit.
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Giuseppe Ruggieri
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possibili tutta una serie di misure atte a mantenere i privilegi ecclesiastici. E quindi era impensabile che le provocazioni del triennio rivoluzionario potessero, ancor prima della Restaurazione, essere raccolte fino in fondo. Ma qnel che l'indagine umile dello storico può riuscire a ricostruire è sufficiente per farci comprendere come la storia del Vangelo cristiano nel tempo non riesce ad assorbire la sua resistenza rispetto alle varie catture, ecclesiastiche e mondane, che gli uomini sono portati a fare di esso. Ci sono catture che sembrano definitive, proprio perchÊ durano secoli. Ma sono sufficienti pochi momenti perchÊ quello che sembrava eterno si dissolva all'improvviso. E quei momenti sono sufficienti ad alimentare la speranza di quanti non si rassegnano a dimenticare una differenza.
Synaxis 12 (1994) 133-165
L'UNIVERSALITÀ DEL CRISTIANESIMO DI FRONTE ALLE RELIGIONI
JACQUES DUPU!S'
Introduzione Prima di situare il tema, sarebbe utile cominciare col definirne i termini. Cosa che farò in quattro tempi, riferendomi esplicitamente al titolo: «L'universalità del cristianesimo di fronte alle religioni». 11
11
Il cristianesùno. Cristianesi1no è un termine la cui ambiguità dà adito ad un certo numero di distinzioni. Si riferisce prevalentemente alla fede e alla dottrina cristiana, come sono contenute nella tradizione della Chiesa e delle Chiese? Oppure alla Chiesa e alle Chiese, alla loro vita e alla loro testimonianza? O forse allo stesso Gesù Cristo, alla sua missione, alla sua persona e al suo mistero? Secondo la 11
11
comprensione che si vorrà adottare, il concetto di universalità troverà
diverse applicazioni e assumerà diversi sensi. Rifacendomi al motto «il cristianesimo è Cristo» - motto da capire correttamente - occorre in primo luogo ricordare che Gesù Cristo, la sua persona e la sua opera, è al centro della fede e del mistero cristiano. Vi occupa un posto unico, quale nessun'altra tradizione religiosa attribuisce - come si vedrà più avanti - al suo fondatore. Gesù Cristo è qnindi personalmente al centro della fede cristiana, e poiché ne abbiamo apertamente testimonianza sia nel Nuovo Testamento che nella tradizione ecclesiale, non ci soffermeremo. S'impone invece la
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Professore emerito nella Pontificia Università Gregoriana di Roma.
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Jacques Dupuis
necessità di distinguere, senza pertanto scinderli, il mistero di Gesù Cristo da quello della Chiesa, in quanto non sono sullo stesso piano. Secondo la definizione della Chiesa proposta dal Concilio Vaticano II, la Chiesa è «in Cristo come un sacramento o segno e strumento del1'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (LG l; LG 48; AG I; Gs 42, 45). In altri termini, essendo Gesù Cristo personaln1ente il inistero di salvezza, la Chiesa si definisce come sacramento di Cristo". Gesù Cristo è in sé il sacramento primordiale dell'incontro con Dio mentre la Chiesa è il sacramento di Gesù Cristo. Sacramento primordiale e sacramento derivato, mistero assoluto e mistero relativo - potremmo dire. Comunque, la definizione della Chiesa come sacramento di Cristo implica un "decentramento" radicale della Chiesa, la quale deve comunque essere completamente centrata sul mistero di Gesù Cristo. Ora, una prospettiva eristocentrica, piuttosto che ecclesiocentrica, non può non avere importanti conseguenze riguardo all'universalità di Cristo e della Chiesa nei confronti delle religioni. Occorre dunque distinguere queste due prospettive. Nell'ambito della teologia cristiana delle religioni, il primo interrogativo investe il rapporto verticale tra le tradizioni religiose e il mistero di Gesù Cristo, non il rapporto orizzontale con il cristianesimo o con la Chiesa che ne deriva. A questo punto 11
1ni sia consentito stabilire un parallelismo con la situazione in cui si
trova la teologia ecumenica. Anche qui la questione primordiale non è quella del rapporto orizzontale tra la Chiesa cattolica romana e le altre Chiese o comunità ecclesiali, ma quella del rapporto verticale tra le differenti Chiese e il mistero di Gesù Cristo, da cui deriva la questione del loro reciproco rapporto. In un caso come nell'altro, una prospettiva cristocentrica, allo stesso tempo più fondamentale e più ampia rispetto ad una prospettiva ecclesiocentrica troppo stretta, apre la via a concezioni meno ristrette. Ne vedremo l'applicazione riguardo all'universalità del mistero di Gesù Cristo da una parte e della Chiesa dall'altra: ambedue non sono sullo stesso piano né hanno la stessa portata.
Universalità. Di quale universalità si tratta? Questo termine anch'esso ambiguo, lo è a maggior ragione nel recente dibattito sulla teologia delle religioni. Si tratta di affermare, per Gesù Cristo, la sua
..__L_'universalità del cristianesimo di fronte alle religioni___l3 5
persona, la sua opera e il suo mistero -- ed eventualmente, riguardo alla Chiesa in quanto sacramento di Gesù Cristo -, la capacità di rispondere all'aspirazione universale dell'umanità di unione con l'assoluto e al desiderio umano della salvezza-liberazione? Tale universalità sarebbe priva di qualsiasi presunzione di assoluto, in quanto si applicherebbe a qualsiasi altra tradizione religiosa, o a qualsiasi altra "figlira salvifica" proposta da queste tradizioni ai loro seguaci, come pure ai loro fondatori come Gautama il Buddha, o Maometto. Universalità, insomma, relativa o relazionale? Oppure, al contrario, quando si tratta di Gesù Cristo, la teologia cristiana intende affermare una universalità che va qualificata come assoluta? Magari non nel senso di negare nelle altre tradizioni religiose la presenza di manifestazioni e di autentiche rivelazioni di Dio all'umanità, ma nel senso che comunque Dio abbia potuto manifestarsi attraverso tutta la storia della salvezza; l'evento Gesù Cristo, in questa storia, ha un significato unico e universale per tutta l urnanità, con conseguenze e ripercussioni che si estendono a tutti i suoi membri. Universalità, dunque, assoluta e non solo relativa. Questo afferma la fede cristiana quando dice che Gesù Cristo è il "salvatore universale" di tutta l'un1anità. Vari termini hanno espresso questa universalità di salvezza in Gesù Cristo. Si è parlato di unicità, di centralità, di finalità. Tutti questi termini vanno presi con le dovute cautele. "Unicità" può evocare l'idea di esclusivismo: proprio alla maniera di una corrente della teologia delle religioni che, sebbene antiquata, è tuttora viva e vegeta. Si tratta della corrente che si rifà in parte alla teologia dialettica di Karl Barth, secondo la quale non c'è salvezza se non nel Cristo professato nella Chiesa, come non c'è rivelazione divina se non nella tradizione giudeo-cristiana. Non è certo questo il modo di intendere ]"'unicità assoluta" di Gesù Cristo, che non è esclusiva, ma inclusiva. Anche il termine "finalità'', d'altronde, può essere oggetto di travisamento. Potrebbe lasciare intendere che l'evento Gesù Cristo mette un termine alla automanifestazione divina nella storia della salvezza, allorché non solo l'evento Gesù Cristo resta orientato verso il suo compimento escatologico nel ritorno del Signore alla fine dei tempi, ma anche il carattere decisivo dell'evento Gesù Cristo non esclude la possibilità di ulteriori manifestazioni di Dio nella storia degli uomini. La storia della salvezza 1
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Jacques Dupuis
- che va oltre le frontiere del cristianesimo e della Chiesa - non è compiuta. Per quanto decisivo, l'evento Gesù Cristo non è "definitivo" nel senso di ultimo. Il termine "centralità" è quindi preferibile ad un altro? Forse, purché, però, vada inteso precisamente nel senso che l'evento centrale influisce su tutta l'umanità ed imprime alla totalità della storia il suo senso e il suo orientamento. L'evento Gesù Cristo, nella teologia cristiana, è la chiave ermeneutica della storia della salvezza, il principio d'intelligibilità del mondo e della storia. Tuttavia, anche qui, parlando di "universalità" o di "centralità", s'impone una distinL;jone tra due livelli chiaramente diversi: quello dell'evento Gesù Cristo, e quello della Chiesa-sacramento. L'universalità del primo è assoluta, quella del secondo relativa, poiché il Cristo è il mistero primordiale, come la Chiesa è il mistero derivato. Le religioni. Le religioni rivendicano, per sé o per i loro fondatori, una qualsiasi universalità? In caso affermativo, questa universalità è identica o simile a quella che la fede cristiana ha tradizionalmente rivendicato per l'evento Gesù Cristo e per il cristianesimo''? Una risposta generale non c'è; ogni caso andrebbe esan1inato separata1nente. Anzi, a volte non c'è nem1neno una risposta omogenea all'interno di quello che spesso va considerato, talvolta abbastanza astrattamente e arbitrariamente, una stessa religione. Facciamo alcuni esempi.
È noto che lislam, pur riconoscendo il carattere profetico dì Gesù di Nazareth - che non esita a porre al dì sopra dello stesso Mosé - gli nega il carattere d.ecisivo attribuitogli dal cristianesimo. Maometto è il «sigillo dei profeti» e il Corano la pienezza della rivelazione, che perfeziona e compie tutta la rivelazione profetica precedente. In Maometto e nel Corano è raggiunta la finalità dell'essenza del profetismo: infatti, in essi, si perfeziona tutto quello che Dio intende comunicare all'umanità in materia di condotta, insegnamento, direttive, precetti e ammonimenti. Sicché, la comprensione islamica della rivela-
1 Si veda H. CO\VARD, Plurali.wn: Challenge to World Religions, Maryknoll, Orbis Boods, Ncvv York 1985.
L'universalità del cristianesimo di fronte alle religioni
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· · - - - · - - · - - - - - - - - · - - · · - - · · · - -...- -..- -... - -..- -
zione divina mette senza ombra di dubbio l'accento sulle prescrizioni dettate all'uomo da Dio, che sono l'espressione della sua sovranità e della sua trascendenza inviolabili. li Dio trascendente è dispensato da qualsiasi impegno personale con l'umanità, al quale la sua sovranità non potrebbe consentire. Per cui la salvezza cos'altro può essere se non la riconoscenza di questa trascendenza divina assoluta - lasciare che Dio sia Dio - e la cieca sottomissione ai suoi decreti. Su questa profonda convinzione l'islam basa il suo concetto di universalità. li profetismo non-coranico è superato dal Corano, il solo a contenere la regola di condotta che porta alla salvezza. Mentre, al contrario, il Vangelo testimonia una iniziativa di automanifestazione da parte di Dio in Gesù Cristo, attraverso la quale entra in relazione con la situazione umana non solo in termini di educazione e di legge, ma di autodonazione, di grazia e di comunione. Per quanto riguarda l'induismo la situazione è molto diversa ma altrettanto complessa. Non si può infatti parlare di atteggiamento uniforme in materia di rivendicazione all'universalità da parte dell'induismo; tra l'altro l'uniformità nell'induismo è un'astrazione perché ci sono diverse tradizioni e diverse correnti, co1ne pure diverse scuole e
«vie» di salvezza, che non abbiamo qui il tempo di approfondire. Basti un esempio: quello più adatto al nostro argomento è nella corrente della Bhakti, la dottrina dell' avatàra o «discesa» divina. Senza pertanto dilungarci sul rapporto tra la dottrina indù delI'avatara e la dottrina cristiana dell'incarnazione, possiamo mettere in risalto il suo carattere salvifico e la sua portata universale. Lo faremo basandoci su alcuni testi fondamentali della Bhagavad-Gita. In primo luogo 4:6-8, dove Krshna dichiara a Arjuna: «Benché io sia innato, imperituro e signore degli esseri; tuttavia, restando fenno nella inia natura, io nasco e rinasco, grazie al mio potere magico (san1bhav5my tlt1nam5yay3)» (v.6). ~<Tutte le volte che la giustizia (dharma) decade, o Arjuna, e l'ingiustizia (adharma) si leva,
io emetto una parte da 1nc (l'itm5nan1 srjamy ahain)» (v.7). «Per la protezione dei buoni c per la distruzione dci malvagi,
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______ __.J<icques Dupuis ________________ _ per consolidare la giustizia (dharma), io rinasco (sa1nbhvarny) età dopo età» (v.8) 2 .
Si noterà che Ja «discesa» o manifestazione sotto forma umana di K rshna non è concepita come inserimento personale di Dio nella storia degli uomini. Krshna non nasce dalla nostra razza, né soffre per la nostra salvezza. È uomo solo in apparenza, non in realtà; la sua manifestazione umana è solo una somiglianza, come se volesse apparire di essere quello che la sua trascendenza gli impedisce di accondiscendere a diventare in realtà. Pertanto la finalifa di questa manifestazione non è meno salvifica: «per la protezione dei buoni e la distruzione dei malvagi, per consolidare la giustizia». Si tratta di ristabilire un ordine cosmico, non un atto salvifico come lo intende la concezione cristiana. Notiamo ancora il carattere ripetitivo «età dopo età»,
della manifestazione divina sotto forma umana: logica conseguenza della sua natura epifenomenale; proprio come, per contrasto, nella dottrina cristiana, l'incarnazione in quanto impegno decisivo di Dio nell'umanità, riveste un carattere di unicità (ephapax) che il Nuovo Testamento, S. Paolo in particolare e la lettera agli Ebrei, non mancano di sottolineare. Il che non vuol dire che la dottrina indù del!' avatiira, soprattutto nella Bhagavad-Gita, non ambisca affatto all'universalità. I testi infatti ne testimoniano. La Bhagavad-Gita (9:22,25), ma anche coloro che pieni di fede «Sacrificano ad altri dei». Così si legge nella Bhagavad-Gita 9,24: «Anche coloro che, devoti ad altri dei, sacrificano loro pieni di fede,
sacrificano in realtà a mc solo, o Aijuna, in un modo diverso dalla nonna» 3 .
2 Si veda Il canto del beato. Bhagavad-Gita. A cura di Raniero Gnoli. Classici delle religioni, Le religioni orientali, Unione tipografico-Editfice Torinese, Torino 1976, 98. 3 Ibid., I 75.
L'universalità del cristianesimo di fronte alle religioni
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A volte si è visto qui l'equivalente indù del «cristianesimo anonimo» di Karl Barth. Krshna appare come il salvatore di coloro che, per ignoranza ma con cuore sincero, adorano altri dei a cui offrono sacrifici. Occorre tuttavia notare che la prospettiva della Bhagavad-Gita non supera quella, tra tante altre, della o delle tradizioni indù della Bhakti. Il suo titolo all'universalità resta, pertanto, relativo, come d'altronde lo implica la natura stessa della manifestazione divina sotto forma umana espressa nella dottrina dell' avatara. Se invece guardiamo al buddismo, la prima cosa che balza agli occhi è il parallelismo, spesso messo in risalto', tra Gautama - il Buddha - e Gesù Cristo. Al pari della fede cristiana che ha attribuito a Gesù il titolo di "unto" (masiah), così la tradizione buddista ha onorato Gautama del titolo di "Buddha" (l'illuminato); inoltre, la tradizione cristiana è partita dal Gesù della storia per svilupparsi nel Cristo della fede, come la tradizione buddista è passata dal Gautama della storia (Shakyamuni) al Buddha della fede (Amida Buddha). In ambedue i casi la tradizione religiosa ha assunto il suo nome dal titolo conferito al suo fondatore: il cristianesimo e il buddismo. Tuttavia una differenza c'è. Per quanto unico sia l'onore che la tradizione buddista iniziale attribuisce a Gautama il Buddha, esso nou è affatto paragonabile a quello che la fede cristiana primitiva attribuisce a Gesù Cristo. Gautama ha senz'altro annunciato un messaggio di liberazione, come Gesù ha annunciato la buona novella del regno di Dio; inoltre l'autorità conferita a Gautama proviene da un'eminente esperienza religiosa, come quella di Gesù procede dalla sua esperienza di Abba. Tuttavia, se Gautama è il salvatore, lo è in veste di "illuminato11 che attraverso il suo esempio e il suo insegnamento indica agli altri la via della liberazione; Gesù invece è la via. Sin dall'età apostolica la fede cristiana lo ha riconosciuto come il salvatore universale non nell'intento di introdurre una qualsiasi novità, ma per riconoscere
4 Si veda L. SWIDLER, «lesus» U11s111passab!e Uniqueness: Two Responses, in Horizons 16 (1989) 119; A. PlERIS, Love Meets Wisdo1n, Maryknoll, Orbis Books, New York 1988; Io., The Buddha and the Christ: T\FO Mediators of Liberation, in R.S. SUGIRTl-IAHAJAH (cd.), A.sian Faces of Jesus, Maryknoll, Orbis Books, New York 1993, 46-61.
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il senso e annunciare quello che Dio aveva fatto per l'umanità nella persona e nell'evento Gesù Cristo. L'universalità che il buddismo attribuisce a Gautama-il-Buddha e quella di Gesù Cristo secondo il cristianesimo non sono sovrapponibili, se non altro perché il loro significato non ha lo stesso valore. Una è d'ordine morale, fors'anche funzionale, l'altra d'ordine ontologico. Ulteriori sviluppi hanno caratterizzato il buddismo del "grande veicolo" (mahayiina), dove Gautama-il-Buddha è considerato divino. Si è perfino creduto di poter cogliere nel buddismo e nel cristianesimo primitivo caratteristiche comuni nel loro sviluppo. Infatti, come i primi cristiani hanno via via riconosciuto in Gesù una presenza divina, così la tradizione buddista mahayanista ha registrato «una deificazione quasi completa del Buddha». Ambedue riproducono lo stesso modello di «discendenza divina» verso l'umanità'. Tuttavia c'è da precisare che per quanto riguarda Gautama-il-Buddha, si tratta di un vero e proprio processo di deificazione allorché Gesù non è un uomo deificato ma Dio "umanizzato". L'uno procede dall'uomo, l'altro è un'azione divina. La fede cristiana, sin dall'età apostolica, ha riconosciuto in Gesù il salvatore universale di tutti gli uomini. La Chiesa degli apostoli è andata avanti verso l'intelligenza del suo mistero di Figlio di Dio, il Salvatore, perché ne ha riconosciuto il senso profondo, come Dio l'aveva rivelato attraverso la sua vita e manifestato in ultimo nella sua ri11
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surrezione.
Mi sono sforzato, altrove, di mostrare la continuità di fondo che soggiace all'interno della diversità, anch'essa reale, tra la cristologia implicita del Gesù storico e la cristologia esplicita della Chiesa apostolica e della tradizione cristiana dopo'. Non è il caso di tornarci. Di fronte alle religioni: il dialogo. Dando per scontato che il dialogo interreligioso deve attualizzarsi in situazioni specifiche con-
5 P.F. KNITTER, Horizons on Christianity's New Dialogue with Buddhis111 in Horizons 8 (1981) 40-61; Io., Jesus-B11ddha-Krish11a: Still Present, in Journal of Ecu111enical Studies 16 ( 1979) 651-671. 6 Si veda J. DUPUIS, Introduzione al/a cristologia, Piem1ne, Casale Monferrato
1993,
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crete, e quindi con le singole tradizioni religiose, in questa sede non potremmo affrontare le diverse religioni se non per sommi capi. Si tratterà quindi di mostrare, in due tempi, prima l'universalità di Gesù Cristo poi quella della Chiesa, come è capita dalla tradizione cristiana, in quello che ha di specifico e di unico, rispetto alle analoghe tendenze ali 'universalità, veicolate da altre tradizioni religiose, di cui abbiamo dato sopra alcuni noti esempi. Si tratta quindi, non è inutile insistere, di teologia cristiana delle religioni. Va comunque chiarito - per sgombrare il campo da qualsiasi presunzione utopica volta a costruire una teologia universale delle religioni, comune alle diverse tradizioni religiose, come fu annunciata in anni recenti da diversi autori' - che qualsiasi teologia, in quanto riflessione sulla propria fede, è essenzialmente confessionale. C'è una teologia cristiana delle religioni, come c'è una teologia indù, buddista, islamica delle religioni. Esse sono diverse, anzi contraddittorie, come lo è l'universalità da esse rivendicata. Ogni teologia confessionale deve, comunque, tener conto della realtà globale della pluralità delle tradizioni religiose 8 , anzi elaborarsi nel mutuo dialogo. Tutto ciò richiede, da una parte, l'impegno nella fede religiosa propria a partire e all'interno della quale il discorso teologico si elabora e, dall'altra, uno sforzo positivo sincero - con le sue pesanti esigenze - per entrare, per quanto possibile, nella visione della realtà (world-view, Weltanschauung) e nell'esperienza religiosa veicolata dalle altre tradizioni 9 .
I. L'universalità di Gesù Cristo
Abbiamo già indicato in quale senso "assoluto" è stata capita dalla tradizione cristiana, sia che si tratti della tradizione apostolica che di quella post-apostolica. Non è qui il caso di insistere, se non per ri-
7 Si veda per esempio W. CANTWELL SMITH, Toward a World Theo/ogy, WcsLminster Press, Philadelphia 1981. 8 Si veda per ese1npio T. BALASURIYA, P!anelary Theo!ogy, SCM Press, London 1984. 9 Si veda a questo proposito J. DUPUIS, lésus-Christ à la renco11/re des religions, Desclée, Paris 1989, 300-305.
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cordare la dinamica della fede sulla quale si appoggia l'universalità di Gesù Cristo, come fu capita tradizionalmente. Il punto di partenza è l'esperienza apostolica della salvezza universale in Gesù Cristo, attraverso la sua vita, le sue parole e i suoi atti, e singolarmente attraverso levento pasquale della sua morte e risurrezione. Su questo sfondo soteriologico si è sviluppata una cristologia, prima funzionale, poi ontologica, come condizione a priori necessaria della salvezza nniversale in Gesù Cristo, oggetto del!' esperienza fondante. Così Gesù Cristo fu riconosciuto essere il salvatore universale, mediatore obbligato tra Dio e gli uomini, in virtù della sua personale identità di Figlio di Dio incarnato, che unisce nella sua propria carne, attraverso il processo della kenosi alla gloria, l'intera umanità con Dio. Ora, questa fede nella persona e nell'opera di Gesù Cristo e l'universalità del mistero cristiano che ne deriva sono stati messi in causa negli u1tirni anni. Questo dibattito merita la nostra attenzione.
I. l. Il dibattito attuale sulla pluralità delle tradizioni religiose Questo dibattito non verrà qui ripreso nella sua interezza. Dopo aver rapidamente ricordato i dati meno vicini daremo la precedenza all'esame degli ultimi sviluppi. È ormai diventato consueto classificare le di verse opinioni sotto le tre seguenti categorie: ecclesiocentrismo, cristocentrismo e teocentrismo, alle quali corrispondono rispettivamente i tre modelli: l'esclusivismo, l'inclusivismo e il cosiddetto "pluralisn1011. Non ci soffennere1no sull'ecclesiocentris1no esclusivista che poggia sulla teologia dialettica di Karl Barth, sopra ricordata, secondo la quale la professione esplicita della fede in Gesù Cristo nella Chiesa è necessaria alla salvezza. Basti ricordare che questa posizione, di per sé insostenibile, fu ufficialmente condannata dal magistero ecclesiale 10 Il cristocentrismo inclusivista, al contrario - comunque si voglia capirlo, e ritorneremo sulle varie interpretazioni - professa che Gesù Cristo è proprio il salvatore universale; ma la salvezza in Cristo supera le fron-
10 Si veda la lettera del S. Uffizio all'arcivescovo di Boston (8 agosto 1949) a proposito del caso L. Feeney, Ds 3866~3873.
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tiere della Chiesa, in quanto basta la fede implicita. Negli ultimi anni, questo cristocentrismo inclusivista è stato seriamente messo in discussione e gli è stata contrapposta una visione teocentrica che sviluppa un modello "pluralista". Autori recenti, in considerevole numero, si sono eretti a paladini di un "cambiamento di paradigma", che comporta il passaggio dal cristocentrismo inclusivista ad un teocentrismo pluralista11.
In sostanza di che cosa si tratta? Se il cristianesimo si propone di praticare un sincero dialogo inter-religioso - il quale, per essere tale deve porsi su un piano di uguaglianza - esso deve prima rinunciare a qualsiasi presunta "unicità" della persona e dell'opera di Gesù Cristo, nel senso di elemento "costitutivo" universale di salvezza. John Hick è tra i difensori di quello che egli stesso chiama la "rivoluzione copernicana" in cristologia. L'espressione è quanto di più appropriato per significare il passaggio da un sistema d'interpretazione, ormai invecchiato, ad un altro più aderente alla realtà. Infatti, come si è passati da un sistema tolemaico geocentrico ad un sistema copernicano eliocentrico, quando Copernico e Galileo scoprirono che non era il sole a girare intorno alla terra ma il contrario, così, dopo aver creduto per secoli che le altre tradizioni religiose girassero intorno al cristianesimo, Òggi è il momento di riconoscere che il centro intorno al quale gravitano e si evolvono tutte le religioni, cristianesi1no compreso, non è altro che Dio stesso. Questo nuovo paradigma implica necessariamente che si abbandoni ogni posizione di privilegio o di particolare significato, sia per il cristianesimo sia per lo stesso Gesù Cristo. Secondo il teocentrismo pluralista ogni tradizione religiosa rappresenta una manifestazione di Dio nelle differenti culture umane. La tradizione cristiana fondata in Gesù Cristo è una di queste, e tutte usufruiscono, ciascuna in seno alla propria differenza, della stessa uguaglianza di fondo. Non si tratta quindi, per quanto concerne Gesù Cristo, di unicità né costitutiva della salvezza né assoluta, ma di una unicità pretta-
11 Accenniamo tra gli altri: J. HICK, God and the Universe of Faiths, Mac1nillnn, London 1973; Io., God Has Many Nan1es, Macmillan, London 1980; Io., Proble1ns of Religiosus Pl11ra!isn1, Macmillan, London 1985; P.F. KNJTTER, No Other Na111e?, Scivt Press, London 1985.
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mente relativa e relazionale. In altre parole: se esiste una universalità di Gesù Cristo, consiste nella capacità che hanno il suo messaggio e la sua persona di rispondere all'aspirazione religiosa delle persone umane in diversi luoghi e in diverse circostanze. Lo stesso discorso vale per le altre "figure salvifiche" appartenenti ad altre tradizioni; tutte usufruiscono della stessa unicità relazionale. C'è da aggiungere che il teocentrismo pluralista ha fatto scuola e, a testimonianza degli slogans che lo diffondono, ha assunto una certa militanza. Dopo quello di «cambiamento di paradigma» e di «rivoluzione copernicana» si è aggiunto ultimamente quello di «passaggio del Rubicone». «Passare il Rubicone», in questo contesto, significa riconoscere una volta per tutte lo stesso valore e lo stesso significato alle diverse tradizioni religiose e rinunciare a qualsiasi presunzione di carattere esclusivistico e nonnativo per il cristianesin10 e Gesù Cristo 12 • A sua volta, anche il teocentrismo pluralista è stato messo in discussione. Alcuni autori hanno fatto notare che il dilemma posto da John Hick, tra ecclesiocentrismo esclusivista e teocentrismo pluralista, è così ristretto da trascurare la posizione mediana del cristianesimo inclusivista. È stato fatto ugualmente osservare che il teocentrismo pluralista è di per sé insostenibilen; infatti, nonostante il suo universalis1no apparente, questo modello finisce coll'imporre aprioristicamente, come categoria interpretativa, il concetto teista proprio delle religioni monoteiste, al quale le tradizioni non-teiste devono conformarsi per forza, e in base a cui sono giudicate.
Gli stessi protagonisti del teocentrismo, reagendo a queste accuse, hanno proposto paradign1i di sostituzione. Così, in un volu1ne
più recente dal titolo significativo, An inte1pretatio11 of Religion: Hu-
12 Si veda L. S\VIDLER (ed.), Toward a Unipersal Theology of Religion, l\1aryknoll, Orbis Books, New York 1987, soprattutto pp. 227-230; ugualmente J. HICK-P.F. KNTTTER (cds), The Myth of Christian Uniqueness, Maryknoll, Orbis Books, New York 1987. D Si veda pef es. J.J. LIPNER, Does Copernicus l/e!p?, in R.W. ROUSSEAU (cd.), !nter-re/igious Dialogue, Ridge Ro\v Press, Scranton 1981, 154-174, che accusa
1. 1-Iick di relativismo ingenuo e di idealismo a-storico.
___ L'universalità del cristianesimo_ difronte alle religion_i__ l 45 man Responses to the Transcendent 14 , John Hick, abbandonando il linguaggio teista, parla ormai di "trascendenza", e dal teocentrismo imbocca la via radicale della "centralità del Reale" (Reality-centredness), come egli stesso la chiama. I-Iick sostiene ormai che tutte le religioni sono vie di salvezza verso il "Reale" trascendente; nessuna è superiore o inferiore, nessuna possiede una rivelazione privilegiata o esclusiva. Il termine "Reale" vuole significare che il Divino non può in ultima analisi essere considerato come personale (teista) né come impersonale (non-teista). La nozione di "mito" - che J. Hick ha applicato prima alla persona di Gesù Cristo", poi all'idea di "unicità" del cristianesimo - si estende ormai al concetto stesso di Dio come rappresentante della realtà ultima, che nell'induismo si chiama Brahman, nell'islam Allah, nel giudaismo lahvé e così via 16 • Così parlare del «Padre nostro che è nei cieli», vuol dire parlare del "Reale" in chiave mitologica17. D'ora innanzi J. Hick, che rifiuta qualsiasi legame ontologico tra linguaggio umano e realtà divina, introduce un uso puramente strnmentale del linguaggio religioso. Tutte le religioni, senza eccezione, spingono ad uscire da se stessi verso la realtà divina generatrice di amore e di pietà per le persone umane. La nozione di mito è applicata al concetto di Dio per de-centrare lo stesso teocentrismo e aprire alla "centralità del Reale". Tutte le tradizioni, teiste o no, devono essere sottoposte ad un processo di demitologizzazione; nessuna può rivendicare un accesso privilegiato alla realtà, se non in termini di etica imposta dalla struttura pluralista 18 •
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New Havc, Yale University Press, 1989.
15 Si veda J. H1CK (ed.), The lvfyth ofGod Incarnate, ScM Press, London 1975;
e più rccente1ncnte Io., The Metaj>lior ofGod Incarnate, ScM Prcss, London 1993. 16 J. I-!JCK - P.F. KNITTER, op. cit., 343-361. 17 Jbid., 298. 18 Per una critica approfondita della nuova versione dcl 1nodcllo pluralista di J. Hick, si veda G. D'COSTA (ed.), Christian Uniqueness Reconsidered. The Myth of a Plura!istic Theology of Religions, Maryknoll, Orbis Books, New York 1987; Jo., Taking Orher Re!igions Serio11sly: So111e lronies in tlie Current Debate on a Christian Theology qf Re!igions, in The Tho111ist 54 (1990) 519-529. L'autore 1nostra che il nuovo paradign1a di J. Hick lo porta all'agnosticismo, tulte le tradizioni religiose essendo ridotte alla stessa i1npotenza riguardo alla verità.
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In quanto a P. Knitter, egli risponde alle obiezioni contro il teocentrismo pluralista, proponendo come nuovo paradigma quello che chia1na "soterio-centris1no oppure il "Regno-centrismo". Poiché, osserva, tutte le religioni si prefiggono la salvezza o la liberazione umana, il loro valore come vie di salvezza per i loro propri membri è per tutte uguale nonostante le loro diversità. Il criterio secondo il quale devono essere valutate è la misura del loro contributo all'autentica liberazione delle persone umane. Tutte devono essere nel mondo segni della presenza del regno di Dio e tutte devono, a più di un titolo, contribuire insieme alla crescita del regno di Dio 19 • 11
"Centralità del Reale 11 , "Regno-centrismon o "soteriocentris1nou
sono, nel pensiero dei loro autori, altrettanti paradigmi di supplenza o versioni alternative del modello teocentrico pluralista la cui intenzione fondamentale consite nell'opporsi e sostituirsi al cristocentrismo inclusi vista. Ma il prezzo di questa sostituzione è alto per la fede cristiana tradizionale riguardo alla persona e all'opera di Gesù Cristo. È in gioco l'unità e l'universalità dei mistero di Gesù Cristo, secondo la sua comprensione tradizionale. C'è, quindi, l'urgenza di dimostrare che resta possibile un cristocentrisn10 inclusivista aperto come unica
via percorribile per una teologia cristiana delle religioni degna di questo nome. Riferendosi ai due assiomi paolini di I Tim 2,4-5 secondo i quali, da una parte Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e dall'altra, uno solo è «il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo GesÙ»i c'è da osservare che solo il cristocentrismo inclusivista, a differenza dell'ecclesiocentrismo esclusivista da una parte e del teocentrismo pluralista dall'altra, è capace di tener insieme i due capi della catenaw. Porre l'accento solo su uno dei due assiomi compie-
19 Si veda P.F. KNITTER, La théologie catho/ique des religions à la croisée des chen1ins, in H. KONG-J. MoLTMANN (cds), Le christia11is111e panni !es re/igions du 111011de, in Co11ciliu"1 203 (198611) 129-148; ID., Toward a Liberation Theology of Refigions, in J. HICK-P.F. KNITTER (eds), The Myth of Christian U11ique11ess, cit., 178-200; ID., Missiona1)1 Activity Revised and Reaffinned, in P. MOJZES-L. SWIDLER (cds), Christian Mission and lnter-Re!igious Diafogue, The Edwin Prcss, Lewiston
1990, 77-92. 20
Si veda G. D'CosTA, Theology and Re!igious P!uralis111, Basel Blackwell,
Oxford 1986.
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mentari, come fanno le due posizioni estremiste, porta a problemi teologici insolubili. Resta il paradigma del cristocentrismo inclusivista, solo capace di tenerli insieme. L'evento Gesù Cristo vi è chiaramente affermato come intervento decisivo di Dio nella storia, in vista della salvezza universale degli uomini; la porta resta tuttavia aperta, come vedremo più avanti, per il riconoscimento di manifestazioni divine autentiche attraverso la storia dell'umanità e di elementi «di verità e di grazia» (AG 9) nell'ambito delle altre tradizioni religiose per la salvezza dei loro membri. Intanto, tra il cristocentrismo inclusivista e il teocentrismo pluralista la fede cristiana non ha una vera e propria scelta; le rimane solo la prima via. D'altronde, precisiamolo, tra il cristocentrismo e il teocentrismo non esiste opposizione, ma mutua implicazione. Il cristocentris1no cristiano è insieme teocentrico e viceversa; anzi è cristiano solo a questa condizione. Il che vuol dire che, se Gesù Cristo è al centro del piano divino per l'umanità lo è perché vi è stato posto da Dio stesso, non dagli uomini o dalla Chiesa. E inoltre, è al centro non come il fine o lo scopo verso il qnale tendono la vita religiosa degli uomini e le tradizioni religiose dell'umanità, ma molto esattamente come mediatore tra Dio e gli uomini, costituito da Dio stesso come la via che porta a lui. Dio (il Padre) resta scopo e fine; Gesù non si è a lui sostituito, anzi, non ha sn1esso di riferirvisi; la Chiesa, seguendolo, ha sen1pre fatto la stessa cosa. Nella teologia cristiana non c'è quindi reciproca opposizione tra cristocentrismo e teocentrismo; tutti e due s'interpellano vicendevolmente. Si parlerà quindi precisamente di cristocentrismo teocentrico - per diverse che siano le comprensioni alle quali resta aperto, e a cui adesso ci riferiamo.
1.2. Due comprensioni contrastanti del cristocentrismo inclusivista Può essere inteso in due differenti modi: ambedue concordi nel mantenere l'unicità costitutiva di Gesù Cristo nell'ordine della salvezza e la sua universalità assoluta", ma an1pia1nente divergenti sul concetto di salvezza in Cristo dei membri di altre tradizioni religiose. Da una parte si tratta della cosiddetta "teoria del compimento" e dal11
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l'altra, in mancanza di un termine più adeguato, della "teoria della presenza del mistero di Cristo nelle tradizioni religiose". Secondo la "teoria del compimento" tutte le religioni dell'umanità rappresentano l'innata aspirazione dell'uomo ad unirsi con Dio; tutte ne sono espressioni nelle diverse culture e aree geografiche dell'umanità. Pertanto Gesù Cristo, - e quindi il cristianesimo - rappresenta la risposta data da Dio a questa aspirazione umana universale. Mentre tutte le religioni dell'umanità sono delle espressioni diverse del!' homo natura/iter religiosus, e quindi "religione naturale", solo il cristianesimo, come risposta divina alla richiesta uinana di Dio, è religione soprannaturale". Questa prima opinione fu illustrata nella prima metà del secolo da alcuni autori in contesto asiatico; in occidente annovera grandi nomi della teologia recente, come J. Daniélou 21 , H. de Lubac 2 2, H.U. von Balthasar23 e altri. La trovian10 anche nell'esortazione apostolica EvangeW Nuntiandi (1975) di Paolo VI, che fa seguito al sinodo dei vescovi sull'evangelizzazione del mondo moderno (1974). Scrive il papa: 11
<<Anche di fronte alle espressioni religiose natun:1li più degne di sLin1a, la Chiesa si basa dunque sul fatto che la religione di Gesù, che essa annunzia mediante l'evangelizzazione, n1ettc oggettivamente l'uomo in rapporto con il piano di Dio, con la sua presenza vivente, con la sua azione; essa fa così incontrare il mistero della Paternità divina che si china sull'umanità; in altri termini, la nostra religione instaura effettiva1nente con Dio un rapporto autentico e vivente, che le altre religioni non riescono a stabilire, sebbene esse tengano, per così dire, le loro braccia tese verso il cielo (53)» 24 .
21 Si veda per esen1pio J. DANJÉLOU, le 111ystère du salti! des nations, Scuil, Paris 1946. 22 H. de LURAC, Paradoxe et 1nys1ère de !'Eglise, Aubier-Montaigne, Paris 1967. 23 H.U. von BALTHASAR, Cordula 011 l'épreuve décisive, Beauchesne, Paris 1968; Io., Das Christen/11111 und die We!treligionen, Antwort des Glaubens, 1979. 24 AAS 68 (1976) 42; La doc11111entatio11 catholique, n. 1689, 4 gennaio 1976, I I.
Secondo la teoria del compimento il mistero della salvezza in Gesù Cristo raggiunge i membri delle altre tradizioni religiose in quanto risposta divina all'aspirazione religiosa dell'uomo; ma le stesse tradizioni religiose non hanno alcun ruolo in questo mistero di salvezza. H. de Lubac spiega che attribuire loro un valore salvifico positivo equivarrebbe a metterle in competizione con il cristianesimo, la cui unicità e universalità verrebbero così messe in pericolo. Equivarrebbe a stabilire vie parallele di salvezza, e così facendo, distruggere l'unità del piano divino per l'umanità di cui "asse" unico e il punto di convergenza obbligato è il cristianesimo. Notiamo subito che, seguendo su questo punto H. de Lubac, si finirebbe coll'accomunare l'unità e l'universalità di Gesù Cristo a quella del cristianesimo; ora, come abbiamo già detto - e vi si ritornerà - queste non sono sullo stesso piano; devono essere chiaramente distinte. D'altronde sostenere un valore positivo delle tradizioni religiose per la salvezza dei loro membri, implica necessariamente stabilirle in un rapporto competitivo con Gesù Cristo e la Chiesa, come vie parallele di salvezza? Non potrebbe trattarsi di modalità diverse - non parallele - di mediazioni del mistero di Gesù Cristo, senza pertanto attentare alla sua universalità costitutiva? È quello che dobbiamo vedere più da vicino esaminando la seconda posizione. Secondo la teoria della presenza del mistero di Cristo nelle religioni le diverse tradizioni religiose dell'umanità non rappresentano soltanto, nella storia della salvezza, altrettanti interventi divini nelle nazioni che le orientano verso l'avvenimento decisivo in Gesù Cristo; esse mantengono oggi stesso per i loro membri un valore positivo nell'ordine della salvezza, mediante la presenza operativa, in esse e per mezzo di esse, di Gesù Cristo e del suo mistero di salvezza. Il mistero di salvezza in Gesù Cristo è senz'altro unico; ma le altre tradizioni religiose sono, in virtù del piano divino di salvezza, messe in rapporto con questo mistero di cui rappresentano a modo loro un certo ordine di mediazione. Nessuna religione è puramente naturale, poiché ciascuna rappresenta storicamente un intervento divino nella storia delle nazioni e esistenzialmente una certa mediazione del n1istero di salvezza in Gesù Cristo. Per cui, a diversi titoli, sono tutte soprannaturali.
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Tra i rappresentanti qualificati di questa teoria possiamo citare R. Panikkar, il cui primo libro, The Unknown Christ "f Hinduism 25 , ne ha ispirato il titolo. Ci sono anche K. Rahner 26 , H. Schlette27 , A. Roper 28 e G. ])'Costa". Tra i documenti del magistero ecclesiale centrale il più vicino a questa teoria è il recente documento, pubblicato congiuntamente dal Consiglio per il Dialogo Interreligioso e la Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli sotto il titolo: Dialogo e annuncio (1991) 31 '. Vi si legge, infatti, a proposito dell'unità e dell'universalità della salvezza in Gesù Cristo: «Da questo n1istcro di unilà ne deriva che tutti gli uo1nini e lutte le donne che sono salvali partecipano, anche se in 1nodo differente, allo stesso n1istero di salvezza ìn Gesù Cristo per 1nczzo del suo Spirito. I cristiani ne sono consapevoli, grazie alla loro fede, 1nentre gli altri sono ignari che Gesù Cristo è la fonte della loro salvczzu. Il inistcro di salvezza li raggiunge, per vie conosciute da Dio, grazie all'azione invisihile dello Spirito di Cristo. È attraverso la prutica di ciò che è buono nelle loro proprie tradizioni religiose e seguendo i dellami della loro coscienza, che i Inen1bri delle allre religioni rispondono positivrnnente all'invito di Dio e ricevono la salvezza in Gesù Cristo, anche se non lo riconoscono con1e il loro Salvatore (29)» 31 .
Secondo la teoria di cui si tratta qui, le tradizioni religiose dell'umanità hanno, in quanto istituzioni storiche e sociali, valore di sai-
25 R. PANTKKAR, The U11k11own Christ of Hinduis111, Darton Long1nan Todd, London 1964, edizione riveduta e a1npliata l 981; (traduzione italiana: // Cristo sconosciuto def/'i11duis1110, Vita e pensiero, Milano 1976). 26 K. RAHNER, Das Christentu111 und die nichtchtristlichen Religionen, Schriften zur Theologie, Band V, Benzigcr, Eisiedeln 1962, 136-158; ID., Die a11011y1ne11 Christen Schnften ... , Band VI, 1965, 13-33; Io., Grundkurs des C!a11bens: Eù{/i"ihrung in den Begr(ff des Christe11t11111s, Freiburg Vcriag Herder, Freiburg i1n Brcisgau 1976. 27 R.H. SCHLETTE, Die Religionen as The11u1 der Theo/ogie, Vcrlag Herder, Freiburg in1 Breisgau 1963. 28 A. ROPER, Die a11011y111e11 Christen, Mainz-Matthias-Grtinewald-Verlag, j 963. 29 G. D'COSTA, Theology and Religious Pluralisn1, ciL, 1. 30 Per un com1nentario teologico di questo documento, si veda J. DUPUIS, «Dialogue and Procla111ation»: A Theo/ogical Co111111e11tary (in starnpa). 31 Testo in Bulletin Pontificiun1 Consiliu1n pro Dialogo Inter Refigiones, n. 77: 26 (1991/2) 172.
vezza in virtù della presenza attiva del mistero di Gesù Cristo in esse. I membri di queste tradizioni vengono dunque salvati per mezzo di Cristo, non a prescindere dalla loro appartenenza e dalla pratica sincera della propria tradizione, ma in essa e, in un certo senso, attraverso di essa. Magari, questa presenza attiva del mistero di Gesù Cristo nelle tradizioni religiose è "nascosta" e "sconosciutan ai loro membri, 1na nondimeno reale. Questa presenza attiva, nascosta e sconosciuta, del mistero di Cristo nelle tradizioni religiose, K. Rahner l'ha designata col termine di "cristianesimo anonimo". Il termine ha sollevato delle discussioni che non è necessario qui riproporre. Lo stesso K. Rahner ha giustamente osservato che non è l'espressione ad avere importanza, ma il suo contenuto. Qual è dunque il suo significato? Che il mistero della salvezza in Gesù Cristo raggiunge i membri delle altre religioni in e attraverso la pratica sincera della loro tradizione. Occorre dunque riconoscere nelle tradizioni momcuti o elementi soprannaturali di grazia. Intanto, va sottolineato che si tratta di un rapporto della tradizione religiosa vissuta con il mistero di Gesù Cristo, non con la Chiesa. Il cristianesin10 anonimo" significa un rapporto col mistero primordiale di Gesù Cristo, non in primo luogo con il mistero derivato della Chiesa. Notiamo anche che c'è una profonda differenza tra il cristianesimo anonimo o implicito da una parte e il cristianesimo esplicito dall'altra. Senz'altro la salvezza in Gesù Cristo è la stessa dall'uua e dall'altra parte; ma ambedue le situazioni rappresentano ordini distinti di mediazione o di presenza sacramentale. Non si può infatti ridmTe la differenza a una pura questione di consapevolezza dell"'essere cristiano", in quanto la consapevolezza resterebbe velata nel primo caso, mentre diventerebbe riflessa nell'altro. Infatti, alla conoscenza esplicita della persona e del mistero di Gesù Cristo tramite l'ascolto della parola rivelata e la condivisione della fede ecclesiale, si aggiunge, nel cristianesimo esplicito, la celebrazione del mistero di Gesù Cristo nella vita liturgica e sacramentale della Chiesa al cui centro c'è l'Eucaristia. Si tratta dunque di due regimi distinti di salvezza in Gesù Cristo, di diverse modalità di mediazione del suo mistero. Per questa ragione il 11
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cristianesimo anonimo resta, in virtù della sua natura, orientato verso il
cristianesimo esplicito. Non è qui il caso di spingere oltre lo studio della presenza attiva del mistero di Gesù Cristo nelle tradizioni religiose, in virtù della quale possono essere a giusto titolo chiamate "vie" di salvezza per i loro seguaci". Basti dire che la vita religiosa dei membri delle altre tradizioni religiose non può essere teologicamente separata - in modo fallace e astratto - dalle tradizioni religiose nelle quali questa vita religiosa è vissuta. La pratica sincera della tradizione propria è la realtà che dà espressione concreta all'esperienza di Dio - e del mistero di Gesù Cristo - fatta dai loro membri. Ne è l'elemento visibile, il segno, il sacramento; esprime, sostiene, sorregge e contiene - per così dire - l'incontro con Dio in Gesù Cristo come è vissuto da essi. Pertanto, e in questo preciso senso, le altre tradizioni rappresentano un ordine di mediazione - incompleto pure, ma reale - dcl mistero di salvezza per i loro membri. Contengono in sé elementi «di verità e di grazia» (AG 9), attraverso i quali Dio incontra e salva gli uomini in Gesù Cristo. Secondo il punto di vista che ci interessa in questa sede, le spiegazioni precedenti hanno messo in risalto che, nonostante tutte e due
le comprensioni del ncristocentrisn10 inclusivistan sostengano la stessa universalità assoluta del mistero di Gesù Cristo nell'ordine della salvezza, esse la concepiscono non di 1neno diversamente: in n1odo ristretto e angusto da una parte, più largo e generoso dall'altra; nel senso che secondo la teoria della presenza del mistero di Cristo nelle tradizioni, la salvezza, di cui Gesù Cristo è l'elemento costitutivo obbligato, raggiunge gli uomini nelle loro situazioni concrete, anzi prende lo spunto da queste stesse situazioni. Il mistero di Gesù Cristo è presente e attivo non solo nei cuori degli uo1nini 1na anche nelle tradizioni religiose alle quali appartengono. L'universalità di Gesù Cristo, pur restando una, si trova dilatata alle dimensioni del mondo.
32 Mi ci sono adoperato altrove. Si veda lésus Christ à fa rencontre des religions, cit., 160-195.
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2. L'universalità della Chiesa Sin dall'introduzione abbiamo ricordato che la Chiesa è stata definita «in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (LG I; cfr. Gs 42). Lo abbiamo dimostrato dicendo che la Chiesa è sacramento di Cristo come lo stesso Cristo è per priorità il sacramento dell'incontro con Dio; proprio come Gesù Cristo è il mistero primordiale, la Chiesa è mistero derivato. Il che vuol dire che, al di là d'una prospettiva ecclesiocentrica troppo ristrntta, la teologia deve assumere una prospettiva cristocentrica, l'unica appropriata. Questo è vero in generale; lo è in particolare per l'ecu1nenisn10 in senso stretto, co1nc pure per l'e-
cumenismo in senso lato riguardo al posto occupato dal mistero cristiano nel pluralismo religioso. Lo stesso si trova singolarmente applicato alla questione dell'universalità di Gesù Cristo e della Chiesa per il fatto che non sono sullo stesso piano. Si è visto che la fede cristiana continua a considerare l'universalità di Gesù Cristo in senso assoluto,
mentre quella della Chiesa è, al contrario, relativa. La ragione è che Cristo appartiene all'ordine dei fini - essendo l'unione a Cristo la realtà stessa dcl mistero di salvezza - mentre la Chiesa è nell'ordine dei mezzi, attraverso i quali il fine può essere raggiunto. Tra Gesù Cristo e la Chiesa c'è tutta la differenza insita nella distinzione classica tra la necessitas rei e la necessitas medii. Cosa che mi accingo a mostrare.
Come dobbiamo quindi capire l'affermazione conciliare secondo la quale la Chiesa è «Sacramento universale di salvezza» (LG 48; cfr. AG I; Gs 45) oppure che la Chiesa è «da lui (da Cristo) per essere strumento della redenzione di tutti» (Lo 9); oppure, che la Chiesa cattolica è «mezzo generale di salvezza» (generale auxilium) (UR 3)? Segno, sacramento, stru1nento; universale o generale: non c'è unanimità tra i teologi sul modo di capire questi termini. È il senso dell'universalità della Chiesa qui in causa; lo è specialmente per quanto concerne la salvezza in Gesù Cristo dei membri delle altre tradizioni religiose. Una risposta adeguata sembra debba essere cercata in una prospettiva "regno-centrica", inseparabile dalla prospettiva cristocentrica elaborata precedentemente.
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2.1. La prospettiva del regno di Dio in Gesù Cristo Non c'è dubbio che il regno di Dio sia al centro della predicazione e della missione di Gesù, del suo pensiero e della sua vita, delle sue parole e delle sue azioniD È altresì fuori dubbio che il regno, che Dio aveva cominciato ad istaurare nel mondo attraverso la vita terrena di Gesù, è diventato realmente presente nel mistero della sua morte e 11
risurrezione. Non c'è quindi rottura di continuità tra il regno-centri-
smo" dell'annuncio del Gesù storico e il "cristocentrismo" del kerygma apostolico. D'altronde il Vangelo dà anche testimonianza che, secondo lo stesso Gesù, il regno, già presente, che egli annuncia, deve svilupparsi per raggiungere finalmente la sua pienezza. La risposta alla domanda se il Gesù storico ha messo il regno di Dio in rapporto con la Chiesa e se ha segnato il rapporto tra il regno e la Chiesa, sia per identificarli che al contrario per distinguerli, desta un certo disagio tanto più che i riferimenti fatti da Gesù alla Chiesa sono soltanto indiretti. Si sa che solo due volte, i Vangeli recano il termine ekklesia, ambedue in Matteo: in Mt 16,18, la "predizione della Chiesa" subisce l'influenza redazionale illuminata dalla pasqua del Signore, in Mt 18,18 ekklesia rimanda alla comunità locale senza che occorra dargli un senso tecnico. Resta il fatto che Gesù ha scelto "i dodici" a cui ha affidato per priorità l'incarico di continuare la sua missione evangelizzatrice in vista del regno di Dio; "i dodici" diverranno gli "apostoli" attraverso la risurrezione di Cristo e il dono dello Spirito alla pentecoste 34 • Questo umovimento 11 avviato da Gesù, destinato a diven-
tare Chiesa e nel cui ambito ha stabilito una autorità competente, è stato da lui concepito come identico al regno di Dio che annunciava? Oppure, al contrario, il regno era per Gesù una realtà più ampia al servizio della quale collocava in anticipo la sua Chiesa? Sappiamo che la missione storica di Gesù fu, principalmente se non esclusivamente, diretta verso Israele. In Mt 15,24 Gesù professa
33 Cfr. per esernpio G.R. BEASLEY-MURRA Y, Jesus and the Kingdorn of God, Paternoster Prcss, Exeter 1986, soprattutto 144-146; N. PERRJN, Tlie Kingdon1 of God in the Teaching of Jesus, SCM Press, London 1963; Io., Rediscovering the Teaching of Jes11s, SCM Press, London 1967. 14 · Cfr. J. GUJLLET, Entre Jésus et l'Eglise, Seui!, Paris 1985.
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esplicitamente di essere stato «inviato per le pecore perdute di Israele» e, allorché invia i "dodici" in missione, am1nonisce loro di «non andare fra i pagani e di non entrare nelle città di Samaria» ma piuttosto di «andare alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 10,5-6). Queste annotazioni con ogni probabilità possono essere considerate sostanzialmente autentiche. Tuttavia, Gesù mostra una grande ammirazione per la fede del centurione romano: «In verità vi dico presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande» (Ml 8, 10). Gesù prende spunto dalla fede di un "pagano" per annunciare l'ingresso delle moltitudini, che verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa nel regno dei cieli (Mt 8,11-12). Questo ingresso degli "altri" nel regno non è soltanto escatologico; si svolge in un primo tempo nella storia, come la parabola del banchetto (Mt 22,1-14; Le 14,15-24) ne testimonia 35 . Peraltro in occasione di "escursioni attraverso la Samaria e la Siro-Fenicia Gesù entra a contatto con gente che non appartiene al popolo eletto. Ancora una volta si meraviglia della fede di questi "pagani" e fa, sotto loro richiesta e a loro favore, dei miracoli di guarigione (Mc 7,24-30; Mt 15,21-28). Non ci si deve qui ingannare e pensare che questi miracoli a beneficio di estranei non abbiano lo stesso senso di quello che Gesù attribuisce a tutti i suoi miracoli; tutti significano che il regno di Dio è già presente e operante. Le guarigioni e gli esorcismi a favore degli "altri" indicano quindi che il regno di Dio è presente e attivo tra loro; si estende a quelli che vi entrano attraverso la fede e la conversione (Mc 1,15). Non si può quindi dire che Gesù ha identificato il regno al "movimento" da lui creato e destinato a diventare la Chiesa. Bisogna piuttosto riconoscere che già in anticipo egli metteva la Chiesa al servizio del regno quando inviava i "dodici" in missione coll'impegno di annunciare la venuta del regno (Mt 10,5-7). La «buona novella» che la Chiesa dovrà annunciare dopo la sua risurrezione (Mc 16,15) è quella stessa che Gesù annunciò durante la sua vita terrena: la venuta del regno (Mc I, 15). La Chiesa è destinata ad annunciare non se stessa, 1na il regno di Dio. 11
35
Si veda C.S. SONO, Jesus and the Reign qf God, Fortress Prcss, Minneapolis
1993, 3-38, soprattutto 24-38.
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Ora, ciò che Gesù aveva distinto fu spesso identificato dalla tradizione teologica. Ho mostrato altrove che lo stesso Concilio Vaticano II non è senza pecche su questo punto 36 . Il Concilio ha certo fatto sua la distinzione tra il regno di Dio già presente nella storia e la sua realizzazione escatologica; ma, seguendo una certa tradizione, ha continuato ad identificare il primo con la Chiesa. Ciò lo si vede nei testi fondamentali della Lo in cui la Chiesa viene considerata «in terra il germe e l'inizio» del regno di Cristo e di Dio (Lo 5), oppure dove viene detto che «La Chiesa [ ... ] è il regno di Cristo già presente in mistero» (praesens in mysterio) (LG 3). Nel mio lavoro: L'Eglise, le Règne de Dieu et !es "autres", ho mostrato 37 che la stessa identificazione tra il regno di Dio presente nella storia e la Chiesa si ritrova nel documento della Commissione Teologica Internazionale, intitolato Temi scelti d'ecclesiologia in occasione del XX Anniversario della chiusura del Concilio Vaticano Il (1984) 38 . Ho creduto poter concludere'" che il primo documento del magistero centrale della Chiesa in cui viene distinto il regno di Dio presente nella storia dalla Chiesa è la lettera enciclica Redemptoris Missio (1990), di Giovanni Paolo II. La Chiesa, spiega il papa, «è effettivamente e concretamente a servizio del Regno»; lo è, tra l'altro, diffondendo nel mondo i "valori evangelici", che del regno sono espressione e aiutano gli uomini ad accogliere il disegno di Dio» (RM 20). Inoltre aggiunge: «É vero, dunque, che la realtà incipiente del regno può trovarsi anche al di là
dei confini della Chiesa nell'umanità intera, in quanto questa viva i "valori evangelici" e si apra all'azione dello Spirito che spira dove e come vuole (cfr. Gv 3,8);
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bisogna subito aggiungere che tale di1nensionc temporale del re-
36 Si veda J. DuPUIS, L'Eglise, le Règne de Dieu et /es "autres': in J. DoRÉ-CH. THEOBALD (cds), Penser fa foi. Recherches en théologie at~jourd'hui. Mélanges ojfert à
Joseph Moingt, Cerf-Assas, Paris 1993, 330-334. 37 J. DORÉ-CH. THEOBALD, op. cit., 334-336. 38 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Doctanenta - Docun1enti { 19691985), Libreria Editrice Vaticana, Ro1na 1988, 462-559. 39 J. ÙORÉ-CH. THEOBALD, op. cit., 336-338.
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gno è inco1nplcta, se non è coordinata col regno di Cristo, presente nella Chiesa e proteso alla pienezza escalologica (RM 20)» 40 .
L'affermazione è prudente e sostiene una presenza privilegiata del regno di Dio nella sua realtà storica in seno alla Chiesa; nondimeno asserisce che questa realtà va oltre i limiti della Chiesa per riversarsi su tutta l'umanità. Il fatto di riconoscere che il regno di Dio nella storia non si limita alle dimensioni della Chiesa, ma si estende a tutto il mondo, non è senza interesse o conseguenze per una teologia cristiana delle religioni, come pure per l'universalità della Chiesa nell'ordine della salvezza e della sua missione nel mondo. Come capire che la Chiesa è al servizio del regno di Dio nel mondo e nella storia? Più precisamente ancora, come capire l'universalità che le è attribuita nell'ordine della salvezza? Si tratta, in definitiva - per porre la questione in termini precisi - di una casualità efficiente universale, o piuttosto di una universalità nell'ordine della finalità? Di una mediazione ecclesiale oltre i limiti visibili della Chiesa, oppure di una orientazione verso di essa e della realtà universale della salvezza che è il regno di Dio presente nel mondo?
2.2. La Chiesa, sacramento del regno di Dio Due questioni si pongono qui. Si può identificare la realtà della salvezza in Gesù Cristo con quella del regno di Dio presente nel mondo, in modo che facciano parte del regno tutti coloro che sono salvati nel Cristo attraverso la fede, anche se non lo conoscono esplicitamente? E se così è, come capire la sacramentalità della Chiesa rapportandola alla realtà della salvezza già presente e attiva nel mondo oltre i limiti della Chiesa? In altri termini, in quale senso la Chiesa è "sacramento del regno di Dio ? 11
40 AAs 83 (1991) 267; La docu111e11tatio11 catholique, n. 2022, 17 febbr., 1991, 160. Questo testo è molto vicino ad un brano dcl docu1nento Dialogo et a11111111cio (n. 35), accennato sopra. Testo in Bulfeti11 Po111ificiu1n Consiliu111 pro /)iafogo inter Religiones, cit., l 74.
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La Commissione Teologica Internazionale si è posta questa domanda e ha risposto affermando la sacramentalità della Chiesa-regno di Dio presente nella storia rispetto al regno di Dio compiuto nella sua pienezza escatologica 41 . L'enciclica Redemptoris Missio si orienta verso un'altra direzione. Vi si parla di Chiesa «germe, segno e strumento» del regno di Dio al quale la Chiesa è ordinata, ma che già nella storia supera i suoi limiti (RM 18,20). Il Cristo, infatti, ha dotato la Chiesa «della pienezza dei beni e dei mezzi di salvezza». Da cui risulta fra Chiesa e il regno di Dio «una relazione singolare e unica, che pur non escludendo lopera di Cristo e dello Spirito fuori dei confini visibili della Chiesa, conferisce ad essa un ruolo specifico e necessario» (RM 18). Come concepire questo ruolo? E più specificamente, come capire che la Chiesa è nella storia il sacramento del regno già presente? La teoria sacramentale può qui essere di grande aiuto. È stata applicata con grande chiarezza da K. Rahner al rapporto tra Chiesa nel mondo e regno di Dio nella storia. Infatti, scrive: «Chiesa non si identifica con "regno di Dio", 1na è il sacrainento storico-salvifico dcl regno di Dio nella fase escatologica, constituita con Cristo, della storia della salvezza, che pennette l'attuarsi dcl regno di Dio. Finché durerà la storia, la chiesa non si identificherà 1nai col regno di Dio. Questo regno di Dio è definitiva1ncntc presente soltanto col finire della storia, con la venuta di Cristo e il giudizio universale. 1na esso non è semplice1nente quella realtà non ancora subentrata che più tardi si porrà al posto del mondo, della sua storia e del]' esito di questa storia. 11 regno stesso di Dio si verifica nella storia dcl mondo (non solo della chiesa) ovunque si attui nella grazia l'obbedienza verso Dio, co1ne accettazione dell'autopartecipazionc di Dio [ ... J. Per questo regno di Dio nel inondo, che però non potrà 1nai essere i_dcnlificato in senso assoluto con una detenninata oggettività 1nondana, la chiesa è una parte essendo essa stessa nel inondo e operando, nei suoi 1nc1nbri, anche storia-del-1nondo [cfr. D 1783] e soprattullo il particolare sacra1nento fondamentale, ossia la 1nanifestazione (segno) storico-saivifico-cscatologica cd efficace dcl fatto che nell'unità, nelln realtà, nella fratellanza ecc. dcl 111ondo il regno di Dio è nell'atto di ve-
41 Si veda COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Docu111e11ti - Docu111enta ( 1969-1985). cit., 556-557.
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nire cosicché anche qui, come nei singoli sacra1ncnti, segno e realtà designata non vanno 1nai staccati, 1na nen11neno identificati» 42 .
La classica distinzione, in teologia sacramentale, tra il segno e la cosa significata - più esattamente tra il sacranientuni tantu111, la res et sacramentwn e la res tantum - si trova così applicata al rapporto storico tra regno di Dio e Chiesa e al molo della Chiesa rispetto al regno di Dio presente nella storia. La Chiesa, nel suo aspetto visibile, è il sacramento (sacramentum tantum); la realtà significata (res tantum) in essa contenuta e conferita è l'appartenenza al regno di Dio; la realtà intermedia, la res et sacramentum, è il rapporto che si stabilisce tra i membri della comunità ecclesiale e la Chiesa, in virtù del quale partecipano alla realtà del regno di Dio. Ma, come implica la teoria sacramentaria, Dio non è ristretto dai sacramenti (Deus non tenetur sacramentis). Il che vuole dire che si può raggiungere la realtà del regno di Dio senza passare attraverso il sacramento della Chiesa e dell'appartenenza al suo corpo. Gli "altri" possono così essere membri del regno di Dio senza far parte della Chiesa e senza passare attraverso la sua mediazione. Non per questo la Chiesa è meno segno efficace, voluto da Dio, della presenza nel mondo e nella storia della realtà del regno di Dio; essa deve testimoniare e servirlo. Si vede allora in che senso si può, riprendendo le formule del Concilio sotto una nuova luce, capire il modo in cui la Chiesa è sacramento del regno nella storia. Il Concilio diceva che nella Chiesa il regno di Cristo è «già presente in mistero» (LG 3). Secondo la teoria sacramentaria, il riferimento non è soltanto alla presenza anticipata nella Chiesa del regno di Dio orientato verso il suo compimento finale. Si tratta piuttosto della Chiesa in quanto presenza misterica o sacramentale (in mysterio) della realtà del regno di Dio già presente nel mondo e nella storia. La Chiesa è il "sacramento del regno". Il che vuol dire per rifarci ad una formula del documento finale della Conferenza di Puebla (1979) - che in essa «si manifesta in modo visibile quello che Dio sta portando a ter1nine silenziosainente nel inondo intero. È il
12 ' K. RAMNER,
Chiesa e 111011do, in Enciclopedia teologica Sacra111ent1un Mundi
(a cura di Karl Rahner), li, Morcclliana, Brescia 1974, 195.
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luogo in cui si concentra al massimo l'azione del Padre [ ... ]. La Chiesa è anche lo strumento che introduce il regno tra gli uomini, per spingerli verso la loro meta finale» (132) 43 • La presenza della Chiesa-segno nel mondo testimonia quindi che Dio vi ha stabilito il suo regno in Gesù Cristo. D'altronde, in quanto segno efficace, contiene e produce la realtà da essa significata e dà accesso al regno di Dio attraverso la sua parola e la sua azione. Ma la Chiesa fa altrettanto parte della sfera sacramentale e quindi appartiene al campo del relativo. La sua necessità non è tale da far sì che l'accesso al regno di Dio non possa avvenire se non attraverso di essa; gli "altri" possono fare parte del regno di Dio e di Cristo senza essere membri della Chiesa e senza passare attraverso la sua mediazione. La presenza sacramentale del regno di Dio nella Chiesa è tuttavia privilegiata, poichè ha ricevuto da Cristo «la pienezza dei beni e dei mezzi di salvezza» (RM 18). Ne è il «sacramento universale» (LG 48). Per questa ragione coloro che hanno accesso alla salvezza e al regno fuori di essa, n1entre non sono incorporati in quanto 1ne1nbri, sono co1nunque ad essa 11 ordinati 11 (ordinatur) - con1e nota la costituzione Lun1en Gentiian (16) - senza pertanto riprendere la dottrina anteriore dei "membri di desiderio Il fatto che la Chiesa sia sacramento del regno di Dio universalmente presente nella storia non sembra implicare necessariamente da parte della Chiesa una universale azione mediatrice di grazia nei confronti dei membri delle altre tradizioni religiose che, rispondendo al1' offerta divina attraverso la fede e l'amore, sono entrati nel regno di Dio. Infatti, la mediazione sacramentale della Chiesa, in senso stretto, consiste nell'annuncio della parola e nella celebrazione dei misteri nell'economia sacramentale di cui l'Eucaristia è il centro. Ora, questa mediazione sacramentale della Chiesa non raggiunge i membri delle altre tradizioni religiose. Per cui è stato suggerito in precedenza che una mediazione, che possiamo dire di supplenza, entri in gioco nel caso dei membri di altre tradizioni religiose. Si tratta di un ordine di 11
•
4.l Puebla. L 'evangeliz.z.azione nel presente e nel futuro defl'A111erica Latina. Pucbla dc los Angeles, 27 gennaio - 13 febbraio 1979, EMI, Bologna 1979, 113.
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mediazione del mistero di Gesù Cristo contenuto in queste stesse tradizioni, che, di per sé, come è stato detto prima, è incompleto e provvisorio. Si dirà quindi che gli "altri", senza essere in qualsiasi modo membri della Chiesa-sacramento, siano ad essa ordinati, come pure la casualità della Chiesa nei loro confronti non è dell'ordine dell'efficienza, ma della finalità. In questo senso si esprimeva già Y. Congar: «Ogni cattolico deve an11nettere e ainmcttc che sono esistiti e che csisLono doni di luce e di grazia in opera per la salvezza, fuori dci lin1iti visibili della Chiesa. Non ci sc1nbra neanche necessario sostenere, co1ne pure succede ordi~ naria1ncnte, che queste gnizic siano ricevute attraverso la Chiesa: basta che lo siano in vista della Chiesa e che orientino verso la Chiesa [ ... ]»'H.
Alcuni autori pensano di poter fondare una 1nediazione universale della Chiesa nell'universale, della Chiesa nell'ordine della salvezza sul suo potere d'intercessione. La Chiesa infatti intercede, in special modo nella celebrazione eucaristica, per la salvezza del mondo e di tutti gli uo1nini 45 . Occorre tuttavia osservare che l'intercessione e la preghiera della Chiesa per la salvezza degli "altri", anche in seno alla celebrazione e alla preghiera eucaristica, non è dell'ordine della causalità efficiente, 1na 1norale. La salvezza degli altrin non è la res tantuni dell'Eucaristia; essa consiste bensì, come dice la liturgia, in particolare la stessa preghiera eucaristica, nell'unità della Chiesa. Resta che la causalità della Chiesa-sacramento rispetto alla salvezza degli "altri" è d'ordine n1orale o di finalità. La sua universalità, secondaria rispetto a quella di Cristo che è assoluta, è relativa e aperta a diverse snpplenze. Si ritrova così l'affermazione anteriore secondo la quale ad una pro11
44
Y. CONGAR, L'Egfise, sacre111e11! universel d11 saf11f, in Eg!ise vivante 17 (1965) 339-355. Si veda anche ID., Ce!fe Eglise que j'aù11e, Cerf, Paris 1968. Sulle diverse opinioni teologiche a questo proposito, si veda J.P. THETSEN, Tlie llltiinate Church and the Pro111ise (d' Sa!vation, St. John's University Prcss, Collegeville, Minnesota 1976, 65-121. Alla fine del testo qui citato, Y. Congar aggiunge: «! ... ] oppure che vi incorporano invisibiln1cnle». Questo ricorso finale all'appartenenza invisibile alla Chiesa, siinile all'essere 1ne1nbro della Chiesa in voto, sc1nbra essere quello che LG 16 ha delibcratan1ente scelto di non riprendere in proprio. 45 Si veda F.A. SULLIVAN, Salvution 011tside the Church?, Paulist Prcss, New York/Mahwah 1992, 159-161.
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spettiva ecclesiocentrica troppo stretta conviene sostituire una prospettiva cristocentrica e regno-centdca più ampia.
Abbiamo detto che gli "altri" accedono al regno di Dio nella storia attraverso l'ubbidienza al Dio del regno nella fede e la conversione; abbiamo anche detto che il regno è presente nel mondo là dove i "valori del regno" sono vissuti e promossi. Secondo l'enciclica Redemptoris Missio, la realtà avviata dal regno è presente nell'umanità intera, «in quanto questa viva i valori evangelici e si apra all'azione dello Spirito» (RM 20). La teologia della liberazione ha messo l'accento sul ruolo giocato dai "valori evangelici" - o "valori del regno" - nello stabilire il regno di Dio tra gli uo1nini. Il regno di Dio, come di1nostra J. Sobrino, 11
11
era per Gesù «la realtà veran1ente ultin1a» che dava senso alla sua vita,
alla sua azione e al suo destino. Ora, questa realtà ultima, alla quale tutto è subordinato, è in opera e si avvicina agli uomini là dove, nella sequela di Gesù, essi condividono i valori del regno: l'amore e la giustizia46 . In quanto alla teologia delle religioni, essa s'impegna a mostrare come, aprendosi all'azione dello Spirito, gli "altri" partecipano alla realtà dcl regno di Dio nel mondo e nella storia. Adotta così un modello regno-centrico. Il che non la dispensa - come osserva lenciclica Redemptoris Missio (18-20) - di mantenere una prospettiva cristocentrica. Non si può infatti separare il regno di Dio nella storia dal Gesù storico nel quale è stato instaurato, né dal Cristo la cui regalità presente ne è lespressione. Partecipando alla realtà della salvezza quale è il regno di Dio, gli "altri" sono di per sé soggetti all'azione salvifica di Gesù Cristo in cui il regno è stato stabilito. Lungi dall'escludersi l'un l'altro, regno-centris1no e cristo-centris1no si chiamano a vicenda. In quanto al la n1issione della Chiesa, sarà vista sotto una nuova luce in prospettiva cristocentrica e regnocentrica. Di esse non si parlerà con1e di una 1nediazione universale di salvezza, riservando questo termine a Gesù Cristo, come fa il Nuovo Testamento (1 Tim 2,4-5), ma
46
Cfr. J. SonRJNO, Jésus en A111érique Latine, Cerf, Paris 1986, 137-162: 144-
146. Si veda anche ID., Jesucris!o !iberador, Trotta, Madrid 1991.
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in termini di testi1nonianza, di servizio, di annuncio. La Chiesa deve
testimoniare all'universo la presenza nel mondo del regno di Dio instaurato in Gesù Cristo, servire la sua crescita e annunciarlo. Il che significa che la missione della Chiesa deve autodecentrarsi interamente per incentrarsi in Gesù Cristo e nel regno di Dio. Un annuncio del regno di Dio che facesse a meno della sua dimensione eristica non potrebbe dirsi cristiano. Pretendere di annunciare il regno di Dio senza annunciare Gesù Cristo non farebbe altro che svuotarlo di quello che, secondo il Vangelo e la teologia del Nuovo Testamento, ne è il contenuto concreto: non farebbe altro che ridurre Gesù Cristo a uno dei tanti profeti che hanno annunciato il futuro regno di Dio, a loro estraneo. Il regno di Dio senza Cristo non è il regno del Nuovo Testamento; come di fatto, Gesù senza il regno non sarebbe il Gesù della storia al quale la tradizione evangelica, anche studiata criticamente, rende testimonianza. Non c'è dubbio che il regno di Dio al quale i credenti delle altre tradizioni religiose appartengono nella storia è proprio il regno inaugurato da Dio in Gesù Cristo; proprio quello che Dio, risuscitando Gesù dai morti, gli ha consegnato tra le mani per esercitarlo, e che sotto la regalità di Gesù Cristo è destinato da Dio a crescere verso la sua pienezza ultima. Mentre i credenti di altre fedi religiose percepiscono il richiamo di Dio attraverso la loro propria tradizione, diventano in verità - anche senza averne la formale consapevolezza - n1embri e partecipanti del regno. Il modello "regno-centrico" di una teologia delle religioni non può aggirare o evitare la prospettiva cristocentrica.
Partecipando al mistero della salvezza, i seguaci di altre tradiz10111 religiose sono quindi membri del regno di Dio già presente come realtà storica. Per quanto riguarda le tradizioni religiose, queste contribuiscono, n1isteriosamente, alla costruzione del regno di Dio tra i loro seguaci e nel mondo. Mentre la Chiesa è nel mondo il "sacran1ento universale 11 del regno, le altre tradizioni esercitano, rispetto ai
loro membri, una certa mediazione del regno, senz'altro differente e meno completa, la quale, inoltre, sembra difficile a determinare teologicamente in 1nodo più preciso.
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Conclusione Una prospettiva cristocentrica e regno-centrica permette così, rispetto alle altre tradizioni religiose dell'umanità, di capire con più precisione e sottogliezza il senso dell'universalità del mistero cristiano. Permette infatti di distinguere chiaramente l'universalità, assoluta, di Gesù Cristo da quella, relativa, della Chiesa. Possiamo senz'altro dire che Gesù Cristo è, nella sua persona e nel suo mistero, il regno di Dio; la Chiesa è il sacramento del regno - come lo è di Gesù Cristo - nel mondo e nella storia. Non viene pertanto appannata l'universalità della sua missione allorché, autodecentrandola, la ricentra sull'essenziale, Gesù Cristo e il regno stabilito in lui da Dio. Tale prospettiva è stata di recente felicemente avvalorata in un documento emanato dalle Chiese asiatiche. Si tratta di una consultazione teologica organizzata dall'Ufficio per l'Evangelizzazione della Federazione delle Conferenze dei Vescovi Asiatici (FABC) tenutasi a Hua-Hin (Tailandia) nel novembre 1991. Nelle conclusioni finali, intitolate L'evangelizzazione in Asia, si legge a proposito del regno di Dio e del ruolo della Chiesa·": «Il regno di Dio è [ .. ] universalrnente presente e operante. Ovunque uo1nini e donne aprono se stessi al n1istero della divina trascendenza che incon1be su di essi ed escono da se stessi per amare e servire gli uo1nini, lì il regno di Dio è operante f ... ]. Dove Dio è accolto, dove i valori del Vangelo sono vissuti, dove la dignità uinana è rispettala[ ... ] lì il regno di Dio è presente[ ... ]. In tutti questi casi gli uon1ini rispondono all'offerta di Dio della sua grazia in Gesù Cristo nello Spirito ed entrano nel regno di Dio per un atto di fede [ .. ]». ((Ciò diinostra che il regno di Dio è una realtà universale, estesa oltre i confini della Chiesa. È la realtà della salvezza in Gesù Cristo, a cui partecipano insieme cristiani e gli allri. È il fondamentale "mistero dell'unità" che ci unisce più profondan1ente delle differenze religiose che ci dividono. Visto in questo inodo, un approccio "regno-centrico" alla teologia della inissione non pone in alcun modo in questione la prospettiva cristocentrica della nostra fede. Al contrario il "regno-centrisn10" necessita del cristocentris1110, e viceversa, perché è
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La docu111entation catho!iq11e, n. 1046, 15 marzo 1992, 287-293: 291. Traduzione italiana, FABC, Co11s11ltazione teologica. !Jialogo e annuncio in Asia, in li Regno-lJoctonenti 9 (1992) 315-320.
L'universalità del cristianesimo di fronte alle religioni
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in Gesù Cristo e attraverso l'evento-Cristo che Dio ha stabilito i! suo regno sulla terra e nella storia umana (cfr. RM 17-18) (30)»·. «In questa realtà universale del regno di Dio, la Chiesa ha un ruolo unico e insostituibile da giocare [ ... ]. Il centro della missione di evangelizzazione della Chiesa è la costruzione del regno di Dio e l'edificazione della Chiesa per essere al servizio del regno di Dio. Il regno è dunque più an1pio della Chiesa. La Chiesa è il sacrainento del regno, lo rende visibile, è ordinata ad esso, lo promuove, n1a non si identifica con esso (31)». «[ ... ] Se la Chiesa è il sacra1ncnto dcl regno, la ragione di ciò consiste nel fatto che la Chiesa è il sacramento di Gesù Cristo stesso che è il mistero della salvezza, cui la Chiesa deve offrire testin1onianza ed è chiamata ad annunciare. Essere al servizio del regno significa per la Chiesa annunciare Gesù Cristo. A questo scopo la Chiesa ha ricevuto doni e carismi speciali ed è guidata dallo Spirito Santo. Grazie a questo conferimento il regno di Dio è sacramental1nente presente nella Chiesa in un modo speciale. È vero che la Chiesa non è fine a se stessa, essendo ordinata al regno di Dio, di cui è gern1c, segno e strumenlo (RM 18) (33)».
Synaxis 12 (1994) 167-215
LE COSTITUZIONI SINODALI DEL VESCOVO DI CATANIA NICOLA MARIA CARACCIOLO (1565)
ADOLFD LONGHITANO''
1. L'ultimo esponente dei Caracciolo fra i vescovi di Catania 1.1. Se si legge la cronologia dei vescovi di Catania dal 1524 al 1568 si ha l'impressione che la diocesi sia diventata un feudo privato della famiglia napoletana dei Caracciolo'. Il 18 gennaio 1524 veniva nominato Marino Ascanio Caracciolo, un personaggio di primo piano nelle vicende politiche italiane ed europee a cavallo fra i due secoli: protetto e segretario del card. Ascanio Sforza, dopo aver fatto esperienza nella corte pontificia durante il pontificato di Alessandro VI, ricevette importanti incarichi diplomatici da Giulio II, Leone X (assieme a G. Aleandro fu incaricato della pubblicazione in Germania della bolla Exurge Domine che condannava Lutero), Adriano VI e Clemente VII, apprezzato consigliere e collaboratore dell'imperatore
* Professore di Dirilto canonico nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1
C. EUBEL, Hierarchia catho!ica, III, Typis librariac Regcnsbcrgianae, Monasterii 1922, 159. Si tratta del ramo dei Caracciolo Rossi e in particolare dei discendenti di Domizio Caracciolo: Marino - il primogenito dei suoi undici figli - apre la lista dei vescovi napoletani di questo periodo, seguono: Scipione, altro figlio di Domizio, Luigi, nipote di qucst'ulti1no (non conosciamo il nome del padre), Nicola Maria, altro nipote di Do1nizio, figlio di Giovanni Batlista, che succedette al fratello card. Marino nella contea di Gallarate (V. SPRETI, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, II, edizione anastatica, A. Forni, Bologna 1981, 302-303).
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Carlo V, che gli affidò il governo del ducato di Milano; fu creato cardinale da Paolo IIF. La nomina a vescovo di Catania, nelle intenzioni di Carlo V che lo presentò e di Clemente VII che firmò la bolla, voleva essere una ricompensa per le delicate mansioni affidategli, ma non doveva costituire la fine della sua brillante carriera ecclesiastica. Infatti con il conferimento della sede vescovile gli fu riconosciuto il cosiddetto diritto di accesso e di recesso, cioè di presentare al governo della diocesi una persona di sua fiducia e di subentrarle in caso di sede vacante. Marino Caracciolo non vide mai la diocesi di Catania; in forza del diritto conferitogli, presentò come vescovo il fratello Scipione Caracciolo e quando questi, nel 1529, morì riprese il governo della diocesi, per presentare, nel 1530, il nipote Luigi Caracciolo. Anche quest'ultimo ebbe un breve governo e morì nel 1536; ancora una volta subentrò il card. Marino, che presentò il giovanissimo nipote Nicola Maria, nato nel 1512 dal fratello Giovanni Battista e da Beatrice Ga1nbacorta 3 .
1.2. L'ultimo dei Caracciolo fu nominato il 6 gennaio 1537 e prese possesso della diocesi il 25 marzo, prima ancora di ricevere la consacrazione episcopale, perché non aveva ancora raggiunto l'età canonica di ventisette anni'. La giovane età del Caracciolo e la nomina ottenuta secondo l'abusata prassi del nepotismo non costituivano un buon presagio per la sua futura azione pastorale; ma lo storico catanese G. B. De Grossis, dopo circa sessant'anni dalla sua morte, poteva dare su di lui un giudizio lusinghiero: «aetate quidem immaturus, sed muneri supra aetatem idoneus, ut ei perbelle illud
2 G. DE CARO, Caraccio/o Marino Ascanio, in Dizionario biografico degli italiani [=DBI], XIX, Roina 1977, 414-425; H. JEDIN, Il Concilio di Trento, tr. it., I, Morcclliana, Brescia 1973 2 , 349-351. 3 R. PIRRI, Sicilia Sacra, I, Apud haeredcs P. Coppulae, Panormi 1733 3, 552555; D. CACCAMO, Caraccio!o Nicola IVIaria, in Dsr, cit., 435. 4 A. LONGHJTANO, La parrocchia nella diocesi di Catania prùna e dopo il Concilio di Trento, Ist. Sup. di Scienze Religiose, Palermo 1977, 41-42.
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conveniat, iuventus quidem computabatur in annis, sed erat senectus mentis immensa» 5 •
2. Nicola Maria Caracciolo fra luteranesimo ed evangelismo
2.1. La personalità del vescovo Nicola Maria Caracciolo assume una particolare rilevanza nelle travagliate vicende di questo periodo, perché viene indicato da alcuni storici come appartenente al circolo napoletano di Juan Valdés e come filoluterano 6 • Questi giudizi sulla matrice culturale e religiosa del nostro vescovo si fondano sulle accuse rivoltegli da Giovan Francesco Alois 7 , il 7 marzo 1564, nel processo che si concluse con la condanna al rogo dell'imputato. Questi affermò che prima del 1547, assieme ad un suo amico luterano, si era recato a far visita al vescovo di Catania Nicola Maria Caracciolo. li prelato, conversando su alcuni temi biblici, aveva dichiarato di condividere le posizioni luterane e aveva 1nostrato loro una copia dei Ser111oni di fra Bernardino Ochino, del Beneficio di Cristo e di alcuni scritti di Valdés che possedeva; i due avevano anche letto alcune pagine di questi antori in sua presenza 8 • Assieme al vescovo di Catania l'imputato aveva accusato come simpatizzanti dei riformatori: gli arcivescovi di Otranto
5 I. B. DEGROSSIS, Catana sacra, Ex typographia V. Petronii, Catanae 1654,
253. 6 C. A. GARUFJ, Contributo alla storia dell'Inquisizione in Sicilia nei secoli XVI e XVII. Doc11111enti degli archivi di Spagna, in Archivio Storico Sicilia110 N.S. 38 (1913) 264-329: 329; S. CAPONETTO, Origini e caralteri della Rifonna in Sicilia, in Rinascùnento 7 (1956) 2, 219-341: 236; V. VTNAY, La R1fon11a protestante, Paidcia, Brescia 1970, 329-330; D. CACCAMO, op. cit., 434. 7 M. ROSA,Alois Gian Ftancesco, in DBI, II, Ro1na 1960, 515-516. 8 «[ ... ] De la deposici6n de Juan Francisco de Aloys, por otro no1nbre Caserta, se sacan las confcsiones siguientes. Dél, quc estri en numero tres [Obispo de Catanea], dice quc poco rintes de los rumores de Nripoles, le fué a visitar, juntamente con otro compaficro suyo, Luterano, y, hablando de la cosas de la Scriptura, se !es declarò que tenia y creia las opiniones Luteranas, y le 1nostr6 que tenia en su poter los Sennones de fray Bernardino de Sena, y El beneficio de C'risto, y otros scriptos de 1nano dcl Valdesio herejiarca, en los cuales libros lcyeron alguna partes allf en su presencia>> (Lettera di Pedro Afrin dc Rivera, duca di Alcalà e viceré di Napoli, a Filippo Il di Spagna, in BENEDE'CT'O DA MANTOVA, Il Beneficio di Cristo [a cura di S. Caponetto], G. C. Sansoni - The Newberry Library, Firenze-Chicago 1972, 457).
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e di Reggio; i vescovi di Cava, d'Isola, di Caiazzo, di Nola, di Penne e di Policastro. Il viceré di Napoli, avuti in mano gli atti del processo, si era affrettato ad informare il re Filippo II; ma poiché si trattava di fatti avvenuti molti anni prima e si sospettò che l'imputato avesse fatto tutti quei nomi per propria discolpa, non fu preso alcun provvedimento9 • 2.2. I giudizi divergenti degli storici sulla figura del vescovo Caracciolo derivano dall'uso non sempre univoco di alcuni concetti storiografici di uso comune: evangelismo!(, "riforma cattolica", "controriforma" e dalla prospettiva non sempre metodologicamente corretta dalla quale sono considerati i fatti di questo periodo storico"'· Possiamo considerare convergenti due concetti di "evangelismo" e di "riforma cattolicau: indicano quel movi1nento della prima metà del secolo XVI, che si prefiggeva la riforma della Chiesa dall'interno con il ritorno allo spirito del Vangelo". Non si trattava di 11
9 M. ROSA,
op. cii.
10 Se a pri1na vista potrebbe sc1nbrarc relativa1nente sen1plicc l'uso di detern1inati concetti storiografici, a ben riflettere si deve riconoscere che la loro formulazione obbedisce alla scelta di un preciso n1ctodo storico. Scrivendo su questo teina D. Canti1nori aveva già sottolineato che era inevitabile per lo storico di fonnulare e adoperare detenninati concetti storiografici; essi, tuttavia, sono semplici strumenti di lavoro, che non vanno fonnulati arbitrariamente, ma neppure possono essere frutto di preco1nprensioni filosofiche e teologiche (D. CANTIMORI, Rifor1na cattolica, in Scritti di storia, II, Einaudi, Torino 1976, 537-553). In particolare dietro i concetti di "riforma cattolica" o di "controriforn1a" non possiamo trovare una concezione apologetica della storia, che pretende dilnostrare la presenza di una corrente di riforn1a nella Chiesa da contrapporre alla riforma avviata da Lutero, oppure l'inconsistenza dci tentativi di rifonna della Chiesa di fronte all'azione risoluta dei protestanti. Si tratta sen1plicc1nente di configurare fatti e personaggi di un detenninato periodo storico, e di adoperare con coerenza e senza forzature i concetti formulati. Per il problema 1netodologico vedi anche: D. CANTIMORI, Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, Laterza, Bari 1960, 17-26; G. ALBERIGO,
Dina111iche religiose del Cinquecento italiano tra Rifonna, Rifonna cattolica, Co11tronfonna, in Cristia11esùno nella storia 6 (1985) 543-560; G. MICCOLJ, La storia religiosa, in Storia d'Italia, liii, Einaudi, Torino 1974, 429-1079: 431-447. 11 Il concetto storiografico di "evangelisn10" è stato creato da P. Jmbart dc la Tour per designare le tendenze riformistiche francesi. H. Jedin lo ha applicato alle correnti parallele italiane (E. M. JUNG, Eva11gelis1110, in Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano 1950, 886-887). Il concetto di "riforma cattolica" fu fonnulato dallo storico protestante W. Maurenbrecher, divulgato dal Pastor e approfondito da H. Jedin, che lo considera equivalente ad "evangelis1no" (H. JEDIN, R(fonna cattolica o
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un movimento omogeneo, ben definito dal punto di vista dottrinale, costituito da persone provenienti da esperienze culturali e spirituali analoghe. I diversi gruppi che lo formavano, per quanto cercassero di mantenersi in contatto fra di loro e si servissero di metodi, criteri e valutazioni comuni, costituivano «un intricato groviglio di itinerari religiosi individuali apparentemente contraddittori»". Basti pensare alla formazione e alle esperienze religiose dello spagnolo Juan Valdés, del cappuccino Bernardino Ochino, dell'agostiniano Pietro Martire Vermigli, dell'umanista Marcantonio Flaminio, del vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, di Gaetano da Thiene, dei cardinali Jacopo Sadoleto, Gaspare Contarini, Reginaldo Pole e Gian Pietro Carafa (il futuro Paolo IV), delle nobildonne Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga. «Caratteristica di questo movimento, l'idea di Platone "porta a Paolo" [ ... ], la tendenza conciliatrice di fronte ai riformatori protestanti [... ], l'accentuazione dei motivi "spirituali" della dottrina cristiana, sul fondamento evangelico; la critica agli abusi, il riconoscimento della necessità di riforme particolari e generali, da farsi però entro l'ambito della unità e della tradizione (dal quale uscivano i riformatori d'oltralpe) e da iniziarsi con la riforma dei costumi e della moralità individuali»D All interno di un movimento così vario, avevano una fisiono1nia più definita i diversi circoli che si ispiravano alla dottrina o alla prassi di determinati personaggi. Fra i più noti c'è quello che si riuniva attorno a Juan Valdés, uno spagnolo che operò a Napoli dal 1535 al 1541 1•1• Sulle radici dottrinali dei valdesiani si hanno fra gli storici 1
contror(fon11a'!, tr. it., Morcelliana, Brescia 1974 3, 7-33) e co1nuncmente acccllato nel linguaggio storiografico (D. CANTIMORI, Rifon11a cattolica, cit.; G. ALBERIGO, op. cit.) . Un'antologia di testi sulla rifonna cattolica è stata curata da M. MARCOCCHI, la nfonna cattolica. Documentazioni e testiinonianze, 2 voli., Morcelliana, Brescia 1967. Si noti, tuttavia, che in questo autore l'espressione "riforma cattolica" assume un particolare significato: si escludono le correnti ritenute filoluteranc e si include il movirnento della controrifonna. 12 A. ROTONDO', I n1ovùnenti ereticali nell'Europa del Cinquecento, in Rivista Storico ltalia11a (=RSI) 78 (1966) 103-139: 134. 13 D. CANTIMORI, la nfonna in Italia, in Questioni di storia n1oderna (a cura di E. Rota), MarzoraLi, Milano 1948, 181-207: 184-185. 1 ~ V. VINA Y, op. cii., 319~332; D. CANTIMORI, /{ circolo di Juan Va/dés e gli altri gruppi evangelici, in U111a11e!iÙllO e religione nel Rinascùnento, Einaudi, Torino 1975, 193-203; M. FIRPO, Tra afu111brados e "spirituali". Studi su luan de Valdés e il
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valutazioni diverse, spiegabili con la caratteristica di fondo di persone che rifiutavano precise etichette teologiche e dottrinali. Il mistico spagnolo «partiva dal presupposto che, essendo la "riforma interiore", la "riforma degli uomini", quella che più contava, si potesse vivere anche sotto la legge (indifferente per loro come ogni legge) della Chiesa di Roma, seguendone i precetti e i comandamenti per non scandalizzare i deboli, e propagando la vera dottrina, finché riformati tutti gli uomini si sarebbe avuta anche la riforma della Chiesa» 15 . «A ve va una grande efficacia il pensiero di Valdés, che però accentuando il motivo della riforma interiore conduceva a una religiosità puramente individuale o di piccoli gruppi, non adatta a produrre o a guidare un movimento largo e radicato in tutti i ceti della popolazione, come doveva essere un movimento di riforma generale» 16 • La riforma cattolica affondava le sue radici nella devotio moderna, negli scritti di Erasmo, nel neo-platonismo di Ficino, nella mistica del Savanarola, nell'etica della compagnia del Divino Amore e nella mistica spagnola degli A!umbrados. Anche se molti conoscevano il pensiero dei riformatori e se ne servivano nei loro scritti, l'evangelismo non può essere identificato con la riforma protestante: manca la componente rivoluzionaria, non ci sono gli spunti e i motivi antiromani dei protestanti, Roma non è considerata la Babilonia irriformabile e da combattere, essa pnò e deve essere riformata con il ritorno all'antico; non si chiede la riforma delle istitnzioni e dei dogmi fondamentali, ma quella dei costumi e della disciplina". 2.3. Il movimento, che rimase circoscritto ad un gruppo persone di alta cultura e di alta posizione nella società laica ecclesiastica, fu conosciuto da un più vasto pubblico attraverso predicazione del cappuccino Bernardino Ochino e Il beneficio
di ed la di
valdesianesitno nella crisi religiosa del '500 italia110, Olscki, Firenze 1990; S. CAPONETTO, la R1fonna pto!estante ne/l'Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino 1992, 81-94. 15 D. CANTIMORI, La R(fonna in !tedia, cit., 188. 16 lo., Eretici italiani del Cinquecento, Sansoni, Firenze 1967, 24. 17 ID., La rifonna in Italia, cit., 185; H. JEDIN, Rifonna cattolica, cit., 35-45; G. Mrccotr, op. cit., 1019-1020.
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Cristo, un piccolo trattato spirituale scritto nel monastero San Nicola l'Arena di Nicolosi (Catania) intorno al 1537 dal benedettino mantovano Benedetto Fontanini - meglio conosciuto come Benedetto da Mantova - e rivisto dal punto di vista letterario da Marcantonio Flaminio". La stessa valutazione di questo volumetto non trova concordi gli storici: per alcuni è un'opera in cui si inanifestano con chiarezza i tratti dell'evangelismo italiano, pertanto non può essere considerata manifestamente eterodossa 19 ; per altri, che vi hanno scoperto infiltrazioni calviniste e luterane, deve essere ritenuta una volgarizzazione delle principali tesi dei riformatori protestanti'"· Ha fatto notare giustamente G. Miccoli che questa scoperta, per quanto importante, non cambia la natura dell'opera: «Spiega e chiarisce meglio le varie componenti e suggestioni che entrano in gioco in quegli ambienti, e quindi anche nella sua composizione, ma non muta la sostanza della loro linea politica e operativa: perché l'attingere da parte loro agli scritti dei riformatori corrispondeva al loro giudizio su quelle dottrine, ma non spostava la loro volontà politica di operare all'interno della comunione romana» 21 • 2.4. Nel giudizio di tutti i personaggi, che possono essere ricollegati alla riforma cattolica, bisogna evitare il grave errore
18 S. CAPONETTO, Benedelto da Mantova, in DBl, VIII, Roma 1966, 437-441. Vedi !'edizione critica dell'opera, curata da S. Caponetto: BENEDETro DA MANTOVA, Il Beneficio di Cristo, cit. 19
H. JEDIN, Il Concilio di Trento, cit., 411; G. MICCOLI, op. cit., 1012.
20 Già fin dal 1544 il do1ncnicano A1nbrogio Catarino aveva pubblicato un Co111pe11dio d'errori et inga1111i !11tera11i contenuti in 1111 librelfo senza non1e d'autore i11titolato «Trattato 11tilissi1110 del Benefizio di Christo cn1cUi'sso» (lo scritto si Lrova in BENEDETTO DA MANTOVA,// Ben(;fi'cio di Cristo, cit., 347-422); questo scritto detenninò la condanna del!'Inquisizione con l'ordine di sequestro e di distruzione dell'opera. La condanna fu detern1inante per far ritenere il trattato uno scritto luterano. Jn tempi a noi più vicini altri autori hanno condiviso questo giudizio, perché hanno trovato trascritte nell'opera pagine di Lutero e di Calvino (G. MIEGGE, Ispirazione protestante del Beneficio di Cristo, in L'Appello 7 [1942] 132-137; T. BOZZA, Il Beneficio di Cristo, Ed. di Storia e Letteratura, Ron1a 1976; V. VINAY, op. cit., 326-
330). 21
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metodologico di un giudizio a posteriori, a partire cioè dalla conclusione della loro vicenda personale o dal punto di vista dell'Inquisizione nel periodo in cui il movimento entrò in crisin I diversi personaggi, che avevano costituito i circoli dell'evangelismo, dopo il fallimento dei colloqui di Ratisbona23 e l'azione repressiva dell'Inquisizione, furono costretti a prendere posizione con scelte in alcuni casi drammatiche: alcuni furono carcerati e condannati a morte, altri varcarono le Alpi per chiedere rifugio in Svizzera e confluirono fra i calvinisti o i luterani, qualcuno morì prima ancora che gli inquisitori mettessero al vaglio le sue dottrine e il suo operato, altri infine rimasero inseriti nelle strutture ecclesiastiche e continuarono ad operare per la riforma della Chiesa negli spazi consentiti dalle autorità. L'esito finale della vicenda personale di questi personaggi in molti casi sembra un frutto del caso o una scelta fatta in stato di necessità, quindi non libera, per evitare il pericolo della tortura e della condanna. Comunque l'opzione di confluire fra i riformati o il giudizio di condanna per eresia pronunziato dall'Inquisizione non può servire come metro di giudizio per le dottrine o l'attività precedenti. Il n1ovi1nento di riforma cattolica 1nantiene la sua caratteristica fisionomia a prescindere dalla conclusione drammatica delle vicende personali di alcuni suoi co1nponenti 24 .
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Ibid., 1006. Per una ricostruzione di questi colloqui vedi: H. JEDIN, Il Concilio di Trento,
cii., 425-438.
24 Analizzando le idee religiose del Cinquecento italiano, D. Canti1nori fa
notare che solo per scn1plificazione riassuntiva si può proporre una duplice bipartizione: «campo di coloro che sono condotti dall'en1pito rinnovatore fra i seguaci di Lutero, dì Zwingli, di Calvino, o fra gli "anabattisti", e "spirituali"; can1po di coloro che non lasciano la tradizione dell'unità e dcl legarne con Roma r... ]. Non si tratta, nel Cinquecento italiano, di carnpi sc1npre e nettan1ente separati e contrastanti: anzi, si deve rilevare che c'è un fluire e rifluire continuo, ora 1neno ora più intenso [ ... ]. In un prin10 ciclo, dall'inizio del secolo fino alla convocazione e apertura del Concilio di Trento e alla istituzione dcl Sant'Uffizio, prevalgono i 1notivi del rinnovu1nento della vita cristiana, ecclesiastica o 1neno; nel secondo, che va all'incirca fino a qualche decennio dopo la conclusione dcl Tridentino, le controversie e le distinzioni dottrinali e dogn1atichc cominciano ad assu1nere parte sen1pre rnaggiore e sctnpre insistente, sicché la distinzione fra cattolici ed eretici luterani diventa se1npre più netta, co1ne decisa e ncttu diventa la condanna dei "luteruni"» (D. CANTJMORI, Le idee religiose del Cinq11ecento. La storiograjla, in Storia della
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2.5. Con la crisi dell'evangelismo inizia il fenomeno del nicodemismo, cioè il comportamento di quei cristiani che, pur accettando interìorinente le idee dei rifor1natori, esteriormente
continuarono a frequentare le chiese cattoliche per evitare il carcere o l'esilio 25 . Anche su questo fenomeno non c'è una convergente valutazione da parte degli storici. Mentre da alcuni è sopravvalutato, come se la maggior parte degli appartenenti al movimento della riforma cattolica avessero deciso di mimetizzare le proprie idee per evitare la persecuzione, da altri viene considerato un fenomeno
limitato nelle persone e nel tempo. Per alcuni è stato il Valdés il teorizzatore del nicodemismo; altri, invece, hanno fatto osservare che una tale concezione è del tutto estranea al pensiero del Valdés, per il quale, nella necessaria distinzione fra interiore (la vita spirituale, la devozione, la meditazione mistica, la convinzione che solo la fede giustifica) ed esteriore (i dogmi, il sistema dei sacramenti, le buone opere, le osservanze) era il primo ad avere importanza; mentre il secondo era irrilevante, perciò non era necessario coinbatterlo o farne oggetto di particolare discussione". In ogni caso va tenuto conto che il Valdés morì prima del fallimento dei colloqui di Ratisbona e dell'istituzione dell'Inquisizione, cioè prima di quegli avvenimenti che portarono alla crisi dell'evangelismo e costrinsero gli appartenenti a questo movimento alle scelte già viste. 2.6. Come si colloca il vescovo Nicola Maria Caracciolo 111 un quadro così complesso e variegato? Se si fa riferimento alla sola testimonianza di Francesco Alois, non è possibile dare una risposta a questa do1nanda. Non si può in alcun 1nodo sostenere che il nostro vescovo «nutrisse simpatie "luterane" e tenesse rapporti con eleinenti
lefferatura italiana, diretta da E. Cecchì e N. Sapegno, V, Garznnti, Milano 1967, 187: 26 e 36). 25 ID., Nicode111is1110 e .\peranze conciliari nel Cinquecento italiano, in Studi di storia, cit., 518-536; C. GJNZBURG, li 11icode111isn10. Si1111i!azio11e e dissi111ulazio11e religiosa nell'Europa del '500, Einaudi, Torino 1970. 26 D. CANTIMORI, Il circolo di .luan de Va/dés, cit.; ID., Gli eretici del 111ovilnento rifonnatore italia110, in U111a11esù110 e religione, cit., 204-214; S. CAPONETTO, la R~'fon11a protestante, cit., 85.
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valdesiani» 27 • Teoricamente egli avrebbe potuto conoscere il Valdés a Napoli nel periodo antecedente alla sua nomina; infatti quando nel 1537 il Caracciolo, all'età di venticinque anni, fu preposto alla diocesi di Catania, il mistico spagnolo da due anni viveva e operava a Napoli; ma si tratta di una semplice ipotesi che attende conferma. Molto più correttamente possiamo ritenere che il nostro vescovo avesse fatto proprio lo spirito della riforma cattolica e seguisse con interesse gli scritti di quelle persone che auspicavano un rinnovamento della Chiesa a partire dalla riforma interiore delle persone, fra i quali il Beneficio di Cristo e gli scritti del Valdés. Questa ipotesi trova conferma nelle costituzioni sinodali che pubblichiamo.
3. Le costituzioni sinodali inedite del I 565
3 .1. Il vescovo Nicola Maria Caracciolo aveva già celebrato un sinodo nel 1539; le costituzioni erano state approvate dalla Santa Sede il 30 luglio 1544 e promulgate nello stesso periodo. Di esse non abbiamo il testo, ma solamente qualche notizia negli Atti del vescovo e negli storici locali 2 ". Con la chiusura del Concilio di Trento, era necessario celebrare un nuovo sinodo per riformare l'ordinamento diocesano in conformità alle indicazioni dei decreti conciliari. Si trattava di munirsi di uno strumento utilissimo per portare a compimento il progetto di riforma avviato negli anni del suo lungo governo pastorale. Nell'ultimo decennio, durante i lavori del Concilio di Trento, il Caracciolo aveva tentato alcune riforme strutturali nella diocesi: riformare l'esercizio della cura delle anime con l'erezione delle
27 D. CACCAMO, op. 28 I. B. DE GROSSIS,
cir., 434.
op. ca., 260. Nel I 547 il vicario generale G. Monsecato, prendendo possesso dell'ufficio, si prefiggeva principalmente il compito: «edicione sinodaliu1n et constitutionu1n hattcnus per rev.un1 cl.uni episcopum prcdicturn confinnacionc et cxcquutionc cu1n effectu previdere ut a quibuslibct obnoxiis observentur» (CATANIA. Al~CHJVIO CURIA ARCIVESCOVILE, Tutt'Atti [=TAJ 1546-1547, I 84v-l 85r). Di queste prime costituzioni sinodali non trovia1no alcun cenno nell'opera di F. G. SA V AGNONE, Conciti e sinodi di Sicilia. Tip. Impresa generale d'affissione e pubblicità, Palermo 1910.
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parrocchie, riorganizzare l'insegnamento religioso per i bambini e gli adulti, abolire l'ufficio e la giurisdizione dell'arcidiacono, secolarizzare il capitolo della cattedrale costituito dai benedettini, curare la formazione spirituale, morale e culturale del clero .. .' 9 • Nell'attuazione di queste riforme aveva incontrato notevoli difficoltà e resistenze: le magistrature cittadine e le corporazioni artigiane si erano opposte formalmente alla erezione delle parrocchie nella città di Catania, appellando al tribunale della regia monarchia30 ; i benedettini della cattedrale non si rassegnavano alla soppressione e cercavano in tutti i modi di ostacolare l'azione del vescovo"; lo stesso atteggiamento aveva assunto l'arcidiacono in carica, il bolognese Antonio Guidalotto 32 • Un'altra dolorosa esperienza aveva segnato la vita del nostro vescovo negli ultimi anni: la cattura da parte del pirata Dragut (24 giugno 1561) mentre si recava a Roma, invitato dal papa Pio IV per un colloquioD La prigionia a Tripoli si protrasse fino all'aprile del
29 1
A, LONGHJTANO, op. cit., 41-78.
lbid .. 79-94. G. MESSINA, L'archivio del Capitolo de!fa Cattedrale di Catania e le u!tùne vicende dell'Abbazia Sant'Agata, in Synaxis 6 (1988) 243-269. 32 A. LONGHITANO, op. cii., 67-72. 33 «Di Roma li XII di luglio 1561 [ ... ]. S'è inteso che nel giorno di S. Giovanni Battista havcndo havuto aviso le galee di Sicilia che erano 3 et due del duca de Medinaceli, et una dcl Marchese di Terranova, et una del Capitano Cicala, che s'erano acco1npagnate 3 fuste de' ne1nici che stavano vicino al'isola dc Filicudi, volendo andare a buscarle, scopersero subito vicino a loro 9 vasselli grossi di Dragut Rais, che non potevano fuggire senza perdita de alcuni di loro et illi, volendo fare di necessità legge, si 1nisero in ordine per defcndcrsi da detti infideli, dai quali furono investiti et combattendo per spatio di più di tre hore con 1nortalità grandissi1na da l'una et l'altra parte infine prevalsero nen1ici, dalli quali furono superati cl tutti presi con gl'huo1nini et menati alla terra di Filicudi, nelle quali galere vi era il Vescovo di Calanca con tutti suoi famigliari per venire al concilio di Trento r... J; et condutto poi il tutto a Tripoli di Barbaria» (BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA, Urbinate Latino: avvisi di Ro1na, I 039, 287r-v). La notizia fornita dal documento sulla destinazione dcl vescovo non è corretta: il Concilio di Trento, dopo una sospensione di quasi dieci anni, era stato riconvocnto in data 29 nove1nbre 1560, ma cli fatto si riunì il 18 gennaio 1562 (H. JEDIN, Il Concilio di Trento, cit., IV/I, 35-68; 125-158). Il Caracciolo era stato convocato da Pio IV ad un colloquio: «Venerabilis frater salutem et Apostolicarn benedictionem. Nonnullis de causis te ad Apostolorum li1nina cupimus venire. ltaque hortmnur fraternitate1n tuain ut, con1posilis ccclesiae tuae rebus, ad Nos libenter admodu1n visuros vcniat quain 1naturri1nc sine inco1nmodo valctudinis suae poterit. Datu111 Ron1ne apud Sanctun1 Pctru1n sub annulo Piscatoris, dic XXI 1naii 1561, "
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1562"; la sua liberazione avvenne dopo il pagamento di un ingente riscatto". Tutti questi avvenimenti avevano contribuito a rafforzare in lui la tendenza alla interiorità, che traspare dagli atti del suo governo conservati nell'archivio diocesano. Le costituzioni sinodali che pubblichiamo 36 , per quanto incomplete, - mancano i primi 80 capitoli - assumono una particolare rilevanza sia perché ci danno gli elementi necessari per ricostruire il profilo spirituale e teologico di un esponente dell'evangelismo italiano, sia perché ci permettono di individuare e approfondire le direttrici sulle quali si muove uno dei padri conciliari per attuare i decreti tridentini. Trattandosi di un documento molto ricco di suggestioni, ci limitiamo solamente ad indicare qualche spunto per la sua utilizzazione storiografica.
Pontificatus Nostri anno sccunùo» (Asv, Ann. XLIV, 11, fol. 74v). Il papa, avuta notizia della sua cattura, scrisse una serie di lettere al viceré Giovanni de la Cerda, al capitolo della cattedrale e al clero di Catania, ai napoletani Ascanio e Carlo Caracciolo (fratelli o nipoti dcl nostro vescovo) per 1nanifestarc il suo disappunto e per attivare le iniziative del riscalto (Asv, Ann. XLII, 15, 416r-417r; 418r; 419r420r). 34 Durante !a sua prigionia sen1bra che il vescovo fosse libero di 1nuoversi per la città. Frutto dcl suo soggiorno a Tripoli è un documento Discorso dell'essere di Tripoli, indirizzato probabilinente al viceré duca di Medinaceli, nel quale il Caracciolo descrive la personalità del corsaro Dragut, la situazione in cui viveva la popolazione di Tripoli, le sue fortificazioni e dà i suggeritnenti sul 1nodo n1igliore per attaccare e liberare la città (Asv, Fondo Borghese, serie 1, 596, 85r-89v). Su quest'ulti1no docu1nento vedi l FRAIKIN, U11 piano di attacco di Tripoli nel 1562, in Rivista d'Italia 15 (1912) 123-128 . .1 5 Il rais Dragut, subito dopo la cattura del vescovo, aveva già fatto conoscere l'entità del riscatto richiesto per la sua liberazione: «Di Roina li 26 detto {luglio 1561} [... ].Il Vescovo di Catanea pagherà il riscauo 10.000 scudi et Sua Santità ha 1nandato in Regno brevi che si possino riscuotere sussidii caritativi et altre cose si1nile per riscaLtare li prigioni» ( Ur/Jinate Latino, cit., 289r). Ottenuta la liberazione, il Can1cciolo sbarcò a Sciacca il 24 aprile 1562 (TA !561-1562, 307r) e, dopo un periodo di quarantena, fece il suo ingresso a Catania il I luglio ([ A. MERLlNO], Cronaca sicì/ia11a del secolo XVI, a cura di V. Epifanio e A. Gulli, Tip. Virzì, Palern10 1902, 221). Pio IV, in una prima lettera dcl 1 n1aggio 1562, si congratulò per la sua liberazione e lo esortò a trascorrere un periodo di riposo in diocesi (Asv, Ann. XLIV, 11, 244r-v); in una seconda lettera del 1 dicc1nbre lo invitò a recarsi a Trenlo per prendere parte al Concilio (ibid., 285v-286r) . .ir, Conlrariatncnle a quanto scrive Savagnone, che riprende V. A1nico, le seconde costituzioni sinodnli del Caracciolo non furono pron1ulgatc nel 1564, ina nel 1565 (F. G. SAVAGNONE, op. cii., 140-141).
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3.2. Non è di poco conto far notare che le costituzioni sono scritte in lingua volgaren, e con un linguaggio fresco e allo stesso tempo efficace, che difficilmente troviamo nei testi normativi. Il vescovo sa che il primo requisito perché le norme contenute nelle costituzioni siano osservate è la loro comprensione; ma, conoscendo il modesto livello culturale del clero e l'ignoranza del popolo, sa che solamente usando la lingua volgare può sperare che il suo discorso venga recepito'". Una delle caratteristiche che risaltano ad una prima lettura delle costituzioni è la familiarità del suo estensore con la sacra Scrittura, che cita non come sfoggio di erudizione, ma come frutto di una abituale meditazione. Nei vari articoli il vescovo non sviluppa un suo pensiero, che poi cerca di avallare con citazioni bibliche, considerate con1e auctoritates di particolare rilevanza 1na pur se1npre estranee al discorso che sviluppa. Le sue parole sono spesso una continua parafrasi di brani scritturistici che, oltre a contenere le autorevoli indicazioni della parola di Dio, manifestano la sua fede personale e la sua ricca interiorità, secondo il modello caro alla devotio 111.oderna. Dal punto di vista teologico egli non si allontana dalle scelte del concilio. Accetta la dottrina dei sacramenti che operano la grazia, tuttavia sottolinea che nel battesimo «per la fede del merito di Christo
37 Nella classica trattazione di Benedetto XIV, De synodo dioecesana, seri Ila nel 1758, non trovian10 alcuna indicazione su un eventuale obbligo di usare la lingua latina nella stesura delle costituzioni (lib. VI, 1-2, in Be11edicti XIV[ ... ] operu111 editio 11ovissh11a [ ... ], Xl, Typographia Aldina, Prati 1844, 149-151); tuttavia esse solilainente erano scritte in latino. Nei sinodi siciliani dcl Cinquecento trovin1no scrille in lingua volgare solo le forn1ule del cutechis1no che i parroci dovevano insegnare ai fedeli. 38 A conferrna dell'ipotesi di una precisa scelta del vescovo nell'uso della lingua volgare, c'è la nota che leggiaino alla fine del docu1nento: «Lette et publicate ( ... ] in pulpito Castri Ioannis n1atricis ecclesiae» (fol. 23r). La pro1nulgazionc delle costituzioni solitmncnte avveniva con la loro lettura nell'asse1nb\ea sinodale o nella chiesn cattedrale; il vescovo poteva anche disporre che il lesto venisse esposto nei luoghi in cui si era soliti pron1ulgare le leggi (BENEDETTO XIV, op. cii., lib XIII, 484). Il Caracciolo sernbra distinguere la pubblicazione dalla pron1ulgazione delle costituzioni sinodali (per questa distinzione vedi F. G. SA V AGNONE, op. cii., 64-66); 1na perché le norn1e proinulgale nel sinodo potessero es.sere parlate 11 conoscenza cli lulti i fedeli dei diversi centri della diocesi, era necessario che fossero scritte in lingua volgare.
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renasce un morto' homo purgato da ogni machia» (cap. 86); «la santificationi del sacramento non si procede né dal ministro, né da quella aqua alimentari absoluta ma da la parola dela Santissima Trinità» (cap. 88). Perciò esorta il sacerdote che amministra i sacramenti a suscitare la fede in coloro che li ricevono perché «credendo et intendendo il divino misterio del Sacramento vegnino ad partecipar dela gratia di Christo Salvator nostro» (cap. 85). Nella confessione è la Chiesa che assolve dai peccati «per virtù dela parola et de li clavi lassati da Christo», tuttavia non manca di sottolineare che «è absoluto il penitente che si confida nella divina misericordia di soi peccati» (cap. 95). Il matrimonio è «stato istituito da Iddio, partorito dal costato di Christo in croce e da lui confirmato. In quel sacramento [ ... ] si conferisse lo Spirito Santo et una certa divina gratia con quali lo homo ama la sua mogie di vivo amore casto, et la donna all'incontro il suo marito et lo reverixi come suo capo» (cap. 98). Secondo le categorie care all'evangelismo non manca il richiamo al «modo che se faceva nella primitiva ecclesia» (cap. 94); non omette di raccomandare ad ogni sacerdote di essere «fedele nel dispensare il Evangelio di Christo, insegnando al popolo che Christo essere venuto in carne manifestando la divina gratia a tutti li homini [ ... ], ammaestrar el popolo che Christo ha dato se stesso per noi per recoperarci da ogni iniquità, elegendosi un popolo amatore di boni operi» (cap. 81); è cosciénte che il popolo spesso è portato ad equivocare fra fede e superstizione, perciò esorta: «Et per livari li superstitioni et alcune devotioni di persone ignoranti, ordinamo chi li amministratori si forzino a questi ignoranti farli capaci del vero, demostrandoci come devono confidare al solo Iddio et tutti così indrizare in Dio» (cap. 117). Il lunghissimo elenco di peccati riservati (cap. 142) può indurci ad affermare una estrema rigidità del nostro vescovo e la tendenza ad una visione pessimistica dell'uomo, propria dell'evangelismo. Il Caracciolo, riservando· alla sua giurisdizione l'assoluzione di questi peccati, pensava di distogliere i suoi fedeli da
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comportamenti trasgressivi ritenuti più gravi 39 • L'eccessiva lunghezza di questo elenco risalta maggiormente se si confronta con quello del vescovo Vincenzo Cutelli, che troviamo in appendice al documento (fol. 23v). Nei capitoli delle costituzioni sinodali che restano c'è un solo accenno, e molto contenuto, a coloro che nelle prediche «seminassero false doctrine o qualche errore di heresia>> (cap. IO 1). Per il resto, neppure negli Atti del vescovo si trova traccia di atteggiamenti allarmistici o persecutori nei confronti dei "luterani". Tutto questo potrebbe indurci a ritenere che il Caracciolo, coerente con la linea di condotta tenuta dai vari circoli della riforma cattolica, intendesse seguire un atteggiamento irenico, ed evitare l'intransigenza che si sarebbe manifestata negli anni e negli uomini della controrifor1na 40 , Dal punto di vista giuridico, non disponendo della documentazione relativa alla celebrazione del sinodo, non siamo in grado di conoscere le procedure seguite dal vescovo, il tipo di consultazione stabilita con il clero, il criterio seguito nella formulazione delle costituzioni sinodali". Si noti come il soggetto della maggior parte degli articoli delle costituzioni è «il ministratore di sacramenti». Il vescovo lo ha scelto come suo interlocutore privilegiato per dare alla parrocchia la centralità voluta dal concilio. Questa sua scelta ci induce a credere che egli, nonostante le difficoltà incontrate
39
F. L. FERRARIS, Pro111p!a bibliotheca canonica, iuridica, n1oralis, theologica [ ... ], voce Reservatio casuun1, (edizione rivista e accresciuta dai benedettini di Monte Cassino), li, Mignc, Lutetiae Parisioru1n 1858, 1317~1342. 40 Le scarse testimonianze sulla diffusione delle idee dei riformatori e sulla presenza di circoli luterani nella diocesi di Catania, ha indotto gli storici a formulare diverse ipotesi (S. CAPONETTO, Origini e caratteri, cit.; Io., La r~fonna protestante, cit., 426~427; V. VINAY, op. cit., 319-332; A. LONGHITANO, op. cit., 48-52). Parricolarmente rilevante è la solenne celebrazione di un "autodafè" il 13 marzo 1569, ad oltre un anno di distanza dalla morte del Caracciolo (9 gennaio 1568), alla presenza dell'inquisitore generale. Lo "spetracolo" è descritto nei particolari dalla Cronaca siciliana del secolo XVI, cit., 225-226. Sorprende tuttavia la conclusione: i sessantasette condannati, il giorno seguente ebbero la grazia per la mediazione dei giurati; segno che non si trattava di veri e propri eretici. 41 Sull'argo1nento si vedano i rilievi di F. G. SA VAGNONE, op. cii., e il nostro studio A. LONGHITANO, La nonnativa sul sinodo diocesano dal Concilio di Trento al codice, in Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia. Atti del convegno di studi, Catania, 15-16 maggio 1986, Galatea, Acireale 1987, 33-85.
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nella istituzione delle parrocchie, intendesse realizzare il suo progetto". Tenendo conto di questo rilievo, possiamo apprezzare le costituzioni del Caracciolo per il contributo che offrono allo studio dell'applicazione del Concilio di Trento 43 . Le norme formulate nelle costituzioni non hanno quel rigido formalismo che troviamo nei sinodi coevi". Possiamo affermare che il nostro vescovo, seguendo la più antica tradizione della Chiesa, fa scaturire la norma dagli stessi principi teologici e le fa assumere una carica di spiritualità, solitamente estranea ai testi normativi. 3.3. li testo inedito che pubblichiamo è conservato in un volume cartaceo, senza titolo, dell'archivio parrocchiale della chiesa madre di Enna. Il volume contiene documenti di varia natura e di diversi
42 Si vedano in tal senso le norme del c<1p. 54 - il cui contenuto possian10 ricostruire da una lettera dcl Caracciolo al vicario di Piazza - che facevano obbligo ai sacerdoti e ai chierici di partecipare ogni domenica alla 1ncssa parrocchiale e prescrivevano che le n1esse nella altre chiese e confraternite fossero celebrate «poi che sarà co1nplìta la n1essa de l'ecclesia parrochiale nela qual parrocchia sono situati li detti confratcrnitati et oratorii» (TA 1565-1566, f. 56v). Vedi infra la nota 45. 43 E' onnai molto vasta la letteratura sull'applicazione del Concilio di Trento; sul teina vedi in particolare gli studi che fanno riferimento all'Italia 1neridionale: G. ALBERIGO, Studi e proble111i refalivi aff'applicazione del Concilio di Trento in Italia ( 1945-1958), in RSI 70 (1958) I, 239-298; ID. L'episcopato nel cat/o/icesùno posttridentino, in Cristianesùno nella storia 6 (1985) 71-91; Il Concilio di Trento e la rifonna Tridentina (a cura di l. Rogger). Atti dcl convegno internazionale, Trento 2-6 settembre 1963, 2 voli., Roma-Freiburg 1965; M. ROSA, Religione e società nel Mezzogiorno fra Cinque e Seicento, De Donato, Bari 1976; G. DE ROSA, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Laterza, Bari 1978; C. Russo, Chiesa e co111u11ità nella diocesi di Napoli tra Cinque e Sef!ece11to, Guida, Napoli 1984; L'applicazione del Concilio di Trento nel Mezzogiorno (a cura di A. Cestaro), Edisud, Salerno 1986; Il Concilio di Trento nella vita spirituale e culturale del Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo (a cura di G. Dc Rosa e A. Cestaro). Atti del convegno di Maratea, 19-21 giugno 1986, 2 voll., Osanna, Venosa 1988; L. DONVITO, Società 111eridionale e istit11zio11i ecclesiastiche nel Cinque e 11el Seicento, Franco Angeli, Milano 1987; Clero e società 11ell'lta!ia 111oder11a (a cura di M. Rosa), Laterza, Bari
1992. 44 Si vedano ad ese111pio: le Synodales constitutio11es Pactensis ecclesiae, Mcssanae 1567, en1anate dal vescovo Bartolo1neo Sebastian; le Constitutiones et
decreta condita in piena synodo dioecesana sub il!.1110 et rev.1110 d.110 Don Antonio Lo111bardo, episcopo Maz.ariensi [... ], Panhonni, apud Io. Matthcun Maydain, 1575; le Sa11ctio11es synoda/es aedite ab ill.1110 et rev.1110 Don Octaviano Praeconio episcopo Cepha!udensi [... ], Panhormi, apud Io. Franciscum a Carran1., 1584.
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periodi, che probabilmente furono rilegati nei secoli XVII o XVIII. E' verosimile che al tempo della rilegatura mancasse già il fascicolo con i capitoli 1-80 delle costituzioni. Possiamo desumere il contenuto dei capitoli 8, 14, 54, 62, 64 da una lettera del Caracciolo al vicario di Piazza, che gli aveva chiesto chiarimenti su di essi: per lo più riguardano il comportamento del clero 45 . La copia delle costituzioni sinodali è coeva, trascritta con una grafia che si riscontra nei registri di curia di questo periodo: probabilmente è di un collaboratore del vescovo. Da questo originale, nel secolo XVIII, il canonico Vito Coco trascrisse una copia - sempre mutila - oggi conservata nell'Archivio del capitolo cattedrale". Si tratta di una trascrizione alquanto scorretta che inizia dal cap. 82; a margine del primo foglio troviamo la seguente nota: «Capitoli sinodali trovati da me Vito Coco nell'archivio di Castrogiovanni. Essi sono anteriori a Mons. Caracciolo perché !'ebrei
45 « [ ... ] Habbiamo provisto chel capitolo ottavo per lo quale si ordina che tutti preti et iaconi intervengano a Luttc le prediche del'anno, sotto pena di carceri ad arbitrio nostro et al vicario sotto pena di excon1nn1nica in casu che lo sa et di subito non ni dona aviso, che si osservi sì come è stato ordinato per detto capitulo et non conveni che si faccia il contrario. Et il capitolo XIII!, per il quale ordina1110 che nissuno prcli ne iacuno presun11na portare alcuna specie di sita in li soi vestiinenli, vi dicimo che si intendi etiarn per lo tcrzanello [... ]. Et quanto al capitolo 18, per lo quale ordinan10 che nissuno de lo clero porta anni né di notte, né di giorno et massime in la città, habbiarno provisto che andando fora dela città li preti o clerici possano portare arn1i difensivi et una spata convenente a lo stato clericale per loro defensione. Et quanto al cap. 54, per lo quale havin10 ordinato che li rettori confratri et cappellano dell'oratorii debbiano havcre complito la 1ncssa, offitio et sai devotioni al uscir del solo et subito andar giontan1entc le donuncniche et feste comandate ale loro parrochie per intendere dal parrochiano le cose pertinente a la salute, habbiaino provisto et così ordina1no che le messe in li detti confratenitati et oratorii si possano celebrare poi che sarà cornpleta la 1nessa dc l'ecclesia parochiale, nela qual parrocchia sono situati li detti confratenitati et oratorii. Et il cap. 62, per lo quali have1no ordinato che li sacerdoti et cleriel vcgnano a li processioni ordinarii et extraordinarii sotto pena di unci cinco etc., volimo che si osserva sì con1e è stato ordinato per detto capitolo [ ... ]. Et quanto al cap. 64, per lo quale havin10 ordinato che tutto lo clero si conferisca al'esequio di sacerdoti gratis et senza pagamento, perché ni haveti scritto che li cappellani della 1natre chiesa stano in questa obscrvantia di pigliare la intorcia per !a cona et servimento della ecclesia tanto da li seculari co1ne dali clerici, habbian10 provisto et così ordinamo che in questo si osservi sì come per il passato è stato costumato osservarsi et che li cappellani siano mantenuti in la loro positioni [... ]. Date Catanie, die XI novembris, VIII ind., 1565» (TA 1565-1566, 56r-58r). 46 /11iscellanea Coca, 82, 349r-393v.
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furono espulsi da Sicilia nel 1492 e pure in questi capitoli si suppongono !'ebrei esistere pure in Sicilia». La nota del Coca fa riferimento ad nno dei peccati riservati elencati nelle costituzioni: «Di quelli che vanno alli sinagoggi et a li nocci o ali festi di li giudei» (fol. I 9v). La nota può avere una certa rilevanza solo per l'elenco dei peccati riservati, che probabilmente veniva desunto da documenti antichi o di altre diocesi dell'Italia continentale, senza che si provvedesse ad aggiornarlo alle mutate condizioni dei tempi o dei luoghi. Non c'è dubbio che le costituzioni siano state scritte dal vescovo Caracciolo dopo il Concilio di Trento. In appendice troviamo un altro elenco di peccati riservati: quello del vescovo Vincenzo Cutelli, che governò la diocesi di Catania dal 1577 al 1589". Nella trascrizione del documento le j e le y sono state cambiate in i, la punteggiatura e le maiuscole sono state adattate ai criteri moderni48 •
47
R. PIRRI, op. cii., 555-556; G. FALLICO, Cutelli Vincenzo, in DBI, XXXI, Roma 1985, 533-534. 48 I docun1enti dei concilii sono citati da Conciliorun1 Oecun1eniconon Decreta (;:;:CQeD), EDB, Bologna 1991; il Co1pus !uris Canonici dall'edizione critica curata da Ae. Fricdberg (=F), Akadcn1ische Druck - U. Verlagsanstalt, Graz 1959.
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APPENDICE ENNA, ARCHIVIO DELLA CHIESA MADRE
Volume senza titolo, ff. 7r-23v {CONSTITUTIONES SINODALES
del vescovo di Catania Nicola Maria Caracciolo (1565)}
{81.} {... }1 omni fraudi; et poi sia fidele nel despensare il Evangelio di Christo, insegnando al popolo che Christo essere venuto in carne manifestando la divina gralia a tutti li ho1nini, amaestrandoli dc annegare et renuntiare la iinpietà et li seculari desideri, vivendo piarncnte, sobriainente et iuslamenti in lo scculo; amaestrar cl popolo che Christo ha dato se stesso per noi per recoperarci da ogni iniquità, clegendosi uno popolo ainatore dc boni operi [cf Tt 2, 11-15}. Et finalinente quello chi ha da considerare et pensare de continuo il administratore di sacramenti sic chi Dio lo ha posto come speculatore et exploratore nella sua ecclesia, acciò si elli vedendo il 1nale sopra del popolo et non si sonirà, come diche Ezechiele, la tro1nba dela correctionc et de la parola de Jddio, 1na essendo negligente, verrà el coltello di Dio sopra de l'anima. Sapia cl ad1ninistratore di sacra1ncnti chi el Signore con suo gran danno rccherchirà da le sue mani da quelli aniini [cfEz 3, 16-20]. 82 - Come lo ad1ninistratore di sacramenti debia rcprendere li peccati Ali ininistratori di sacramenti particolarmenti parla San Paulo quando diche: «Argue, obsccra, incrcpa)> [2 T1n 4, 2] et però esso debe essere agro riprendituri di vitii et essendo posto, co1nc dice el propheta, acciò annuncii al popolo le sue scelerità [cf Is 58, l']. Et avertisca qual1nente {nel} rcprenderc i peccati che conservi la fama de la persona et, dove che occorrissi nominarilo, ricordisi del admonitioni evangelica: «Si pcccaverit fratcr tuus vadc et corri pc eu1n intcr te et ipsu1n solu1n» [Mt 18, 15]. Et
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imitando sempre i rninistratorc di sacramenti la doctrina et cxe1npio di Christo di vincere con la benevolentia et carità la severità et la ira, con esseri pronto a perdonare
a quello che lo offende et pecca in ipso «non modo septics sed scptuaginta septics» [Mt 18, 22], et insie1ne con Christo sia piò pronto ad liberare che ad condennare la udultcra penitente et che retorni ad nova vita [cf Gv 8, 3-11]. [fol. 7v]
83 - Circa quale cose principalmente el parrocchiano deve erudire sua plebe Poi che il administratore di sacramenti haverà {nei} giorni festivi celebrato oi finita la declarationi dclo evangelio, adn1onisse spesso cl popolo ad far orationi per tutti li potestà spirituali et te1nporali acciò, co1no dice lo apostolo: «Quicta1n et tranquillam vitan1 agamus in 01nni pictate et castitate» [I T1n 2, 2]. Ordinamo che cl ministratore di sacran1cnti exorti al popolo in la orationi per li defunti, fachendosi pia1ncnti et dicendosi devotan1enti una volta la orationi dominica per tutti. Finalmente sia admonito eJ ad1ninistratore di sacrarnenti erudire la plebe di preccpti dela lege, rctnemorandoli spisso dcli articoli dela fede, di sacra1nenli dila Chiesa, con qualchi breve dcclarationi et dc la oratione do1ninica ditta cl «Pater Noster» [cf Conc. Trid., scss. V, Decr. Super lectione et praedicatione, l l, COeD, 669; scss. XXIV, de
ref, c. 4, ibid., 763]. 84 - Ad1nonitioni ad 1ninistratore di sacramenti circa quelle cose che debbono observare nel despensatione de sanctissi mi sacrainenti La santa Ecclesia, co1ne ainorevole notrice di sai fideli, tiene sempre presso di sé sette sacramenti come sette utili remcdii et divine medicine, per le quale è parso a Dio medicari i nostri inali spirituale, et per quelle ancora darce la sanità del'anirna, infondendoci la 1nedicina de la sua gratia salutari. Resta però solo di ad1nonire il ministratore di sacramenti quali cose conveni abservare circa la dispensalione de ciascuno sacra1nento. 85
~
Dclii sacramenti
Essendo che ne sacramenti è diverso quello che si vede da quello chi si opera, poiché nei sacrarnenti sotto cerLi signi dc cose visibile, sensibile si infonde nel'anin1a Ja invisibili gratia, di qui è che il ministratore de sacramenti debbia instruire il popolo dc quello chi si fa nel dare di ciaschiduno sacra1nento, acciò per questi externi signi di sacrainenti si vegna ad excitare la devotioni deli fedeli in Dio, et credendo et intendendo il divino n1inisterio del sacramento vegnino ad partecipar dela gratia di Christo Salvator nostro [cf Cune. Trid., sess. XXIV, de ref, c. 7, COeD,
764].
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86 - Del sacramento dcl Baptismo Il administratore di sacramenti instruisca prima al popolo che cosa sia sacramento et incomenzando dal baplismo [fai. 8r] che cosa clii sia et quello che in questo sacran1cnto se opera; come si remette ogni culpa attuale, originale et veniale; che qui vi mora e! vecho hon10 et per la fide dcl merito di Christo renasce uno rnorto ho1no purgato da ogni machia 2; che collui che si bapliza se renova per il lavacro dcla regenerationi de aqua et de Spirito nella efficacia del sangue di Christo sparso; et finalinente che nel baptis1no se spogle del vecho Adamo et si veste di Iesu Christo, acciò sì co1ne egli resuscitò da morte in vita per gloria del Patre, cossì e! baptesmo resuscitato in spiritualinente habia da caininar per una nova vita [cf Conc. Trid., sess. V, Decrettan super peccato originali, 5, COeD, 667].
87. Il administratorc di sacramenti de baplismo debia poi admonirc quelli che portano el fanciullo al baptcs1no demandanti il patrine eligano cl nome dela chiesa et !a sua fede, per 3 il baptes1no offeriscano a Christo il fanciullo, et che i patrini respondendo per nornc et parte dei fanciulle si constituiscano debitori et quasi sono securità per loro. Et che poi che quei fanciulli sonno venuti ad quelli anni de la descritioni sono obligaLi a darli quello che l'anno pro1niso, cioè la institutionc dci casi dela fede, insegnarilc il siinbolo con la oralioni dominica et insieme am1nonerle di essere recordevole del voto fatto ne! baptismo dc rcnunzare la carne, el mondo et lo diavolo fachendo digna vita di Christo.
88. Il parrochano debi instruire il popolo de tutti le ccremonii et signe del baptis1no et del cathecisn10, acciò si den1ostri la institutione dela fede che è necessaria a collui che si vol baptizarc; lo exorcis1no, acciò si coniure il de1nonio et sia cacciata 4 la sua virtù; che si segna col segno dela Croce nel fronte, nel petto de quello che si ha da baptizare, acciò con questi santissimi signi siano fortificati tutti li sensi del corpo contra li fig1ncnti diabolichi; si appone il sale nella [bocca) di chi si baptiza, acciò condito in la divina sapienlia sia senza fctor dc peccato, né per lo avenire si habbia a generare in esso purificationi di venni, di vitii; si soffia nella sua faccia acciò, con1c insufflando Christo a li apostoli si dette el Spiritu Santo, [fol. 8vJ cossì co1no in questo atto nexi el tristo spiritu per minzo dcl Spiritu Sancta; di poi con la saliva si tocca l'aurichi, acciò col tacto della superna sapienza stiano apti ad audirc le parole dc Iddio; et le toccano le nari a sapere discernere l'odore dela vita et de la morte; poi vene
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inachia] machina per] per ripetuto cacciala] cachata
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al fonte el sacerdote consecrandolo con la bcncdictionc del {... }5, acciò si sappi 6 che la santificationi dcl sacramento non si procede né dal ministro, né da quella aqua ali1nentari absoluta ma da la parola dela Santissima Trinitati; di poi interrogato il fanciullo si renuncia a Sathana et si responde per altrui bocca a questa parola «abrenuntio», acciò sì co1nc per altrui peccato è dannato et per altrui fede et confessione sia salvato; poi fatta la renuntia al demonio si tinge nel petto del baptlzato col novo olio sancta, acciò sia santificato contra el nemico né l'abia da perseverare cose i1n1nundc et nocive; finalmente si ungi nelle spalle dove è la forza di portari i pesi, acciò pigli forteza portari el suave iugo del Signore et con paticnza portare la cruce de li tentationi; ultimamente e! baptizato, dopo tre volte essiri annaffiato 7 nel fonte et vestito di uno panno bianco, ad significare che in nomi dela santissima Trin.itati sia spoglato diii veche spogle di Adamo et vestirsi da presenti di Christo novo homo. 89. Il 1ninistratori di sacrmnenti debe ad1nonire in che modo si debbe venire al baptesmo, chi patrini vegnino ad baptizari il fanciullo habiano da convenire del suo nome; acciò poi nel baptesmo possano piò presto del guadagno del'anima a Cristo che del nome, admonisca il n1inistratori di sacran1cnti chi si debba venire ad baptesmo con so1nma devotioni senza oro, argento et pompe nel petto, poi che sia bono ininisterio dove si renuncia a tutte queste cosi et però~ deposto ogni rasto 8 , si debe venire con humiltà di spirito et con vera fiducia in Dio. 90. Perché questa è stata se1npre la volontà di patri catolici, che il sacramento del baptismo si habia da conferire in fazia de la ecclesia et receversi in loco sacro, perciò ordinaino inviolabilmente chi de una i1n1ninentc necessità in fora, da essere innanti et multo bene conoxuta, chi nixuno ministratore di sacramenti debbia dare cl baptesmo in casa nixuna privata di qualsivoglia nobile citalino. [fol. 9r] 91 - Del sacramento de la santa Eucharistia Il ministratore circa questo sacramento debia instruire el popolo chi sutta quelli visibili specii del pane et del vino si sia il vero corpo et sango di Christo, credendo chi sì come la divinità mai fu separata dal sepolcro dcl morto corpo, multo più nel sacrarncnto dcl'altarc non cssiri la divina natura separala dal divino corpo di lesu [cf Conc. Trid., sess. XIII, c. I, COeD, 693-694]. Et perciò, continendosi nella Eucharistia {il corpo} di Cristo vero Idio, debea il ministratore di sacramenti exortare
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del] lacuna nel testo sappi _l scapi annaffiato] ainffato fasto] fausto
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il popolo chi stia nella incssu con tremore et le1norc, et quando se alza la santissima hostia si inclinano di ogni revcrcntia, et prostata con lo corpo in terra, con la menti adori il santissi1no crucifixo. 92. Il 1ninistratori di sacramenti admonisca la plebi del modo di recevere la santissima Eucharistia et rnonstrarile quanto grave peccato se acquesta di venire indignainenti a la partecipationi di uno tali et tanto sacramento, dichendo Santo Paulo chi colui indignamenti mangia et beve in questa mensa del santissimo corpo e sangue di lesu Christo mangia e beve lo eterno iudicio [cf 1 Cr 11, 27]; et vole dire l'apostolo chi l'anima se ingottisse uno vivo inferno per soa propria culpa. Admonesca ancora il christiano chi vogla recevere questo sacra1nenlo con la conscienza bene exa1ninata, con l'anima bene porgata et con la menti di ogni effetto et desiderio di peccare lontano, acciò insien1c con Iuda, lo quale indignamente si trova presenti a la mensa del Signore, {non} ne dia loco ai diavolo [cf Conc. Trid., sess. XIII, c. 7, COeD, 696]. 93. Ordinan10 chi colui chi havc fntto la sua confessione ad altro confessore che al ministratorc non sia da lui ad1neso ala santa comunioni, che non habia fide! testimonianza di essere confessato, non lassando ancora il administratore di sacramenti prìma 9 !a comunioni di exaininargli la conscienza de quelle cose che allui parrà particolannente ne prccepLe dcla lege, ne principal articoli dela fede. 94. Si bene è da esseri cxortato scinpri el popolo al reccvcre più volti l'anno quello sancto cibo con1e vita de l'ani1na al modo che se faceva in la primitiva ecclcsia, pure i ministratore di sacramenti, secondo la disciplina ecclesiastica, exorti il popolo chi aln1cno per tutto l'anno una fiata, quanto a quelle che sono nel anno dc la discritioni, con so1nma reverenza et contritione et confessioni di peccati vogla rcceverc la santissi1na comunioni [cf Conc. Trid., scss. XIII, Canones de eucharistiae sacr.• 9. COeD, 698; sess. XIV. c. 5, COeD, 707]. [fai. 9v] 95. Il parrochiano adn1onisci il popolo in venire almeno li do1ninìchi et li altri fcsti a la 1nessa, acciò participi spiritualmenti di quel santissi1no sacrificio [cf Cane. Trid., sess. XXII, Decr. de observandis et vitandis in ce!ebratione 111fasan11n, COcD, 736]; havendo desiderio di co1nunicarsi sacramentahnenti sia ad1nonito ancora di corrcgere et rcprchenderc l'abuso dc quelli i quali inanzi al fine dela messa, senza aspcttari la bencdiclione dcl sacerdote, si parlino senza reverenza alcuna.
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prima] prin1a ripetuto
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96 - Del sacramento dela penitenza Volendo il ministratore di sacramenli ben confissari debia sapiri, et cossì instruiri il penitenti, che la penitenza, in quanto è sacramento, particolarmcnti consisti in quella absoluplioni che se gli dà al fini, nella quali, per virtù dela parola et de li chavi lassati da Christo, è absoluto il peccatore penitente che si confida nella divina misericordia di soi peccati. Poi la penitenza vera si consisti nella contritioni, confessioni et satisfaclioni, dcl!e quale parte debe instruere il ministratore al suo penitenti, exortandolo ad apriri la sua conscicnza de tutti sai peccati commesse co1ne stessi dinanzi a Dio, sapendo dissen1ere inter leprain et lcpram [cf Conc. Trid. sess. XIV, capp. 1-9, COcD, 703-711]. 97. Il ministraLore di sacramenti finita che serrà la confessioni, pri1na chi dia la absolutioni, ad1nonisca alo confitenti a detestari et ad haver in odio il rnale commisso, inco1nenzando ad vivere de una vita tali che per lo advenire non habia ad incorrere in nexuno peccato, recorclogli chi dissi Christo ala donna adultera: «Vade et ia1n a1nplius noli peccare» [Gv 8, 11], recordati ancora al penitenti d'aver un vivo effetto, credendo di esserli rc1nesi i peccati per !a misericordia dc Tddio, in virlù dcl sangue de Christo et per la absolutioni de la sua parola. Di poi si corn1nctta la degna penitenza et co1nc 1ninistratorc di Christo con le impositione delc inani absoluta il penitenti. 98 - Dcl sacra1nento del rnatri1nonio li adininistratore, pri1no che facino la coppula del matrin1onio la donna et lu hon10, {spieghi} quello che in questo sacra1nento si fa, con mostrarli essere stato istituto eia lddio, partorito dal costato [fai. !Or] di Christo in croce et da lui confirmato. Il qual sacramento, pigliandosi carne si debbc insie1ne con la beneditione et oratione sacerdotali, si conferisse lo Spirito Santo et una certa divina gratia con quali lo hoino a1na la sua inogle di vivo ainorc casto, et la donna all'incontro il suo 1narito et lo reverixi carne suo capo [cf Conc. Trid. sess. XXIV, Doctrina de sacra111ento n1atrù11011ii, COeD, 753-754].
99. In quo 1natrin1onio i ministratori di sacra1ncnti exortino lo homo et la donna ad rendere insiernc la fede, la quale consiste che fora del toro 1natri1noniali non vi sia coniunctionc con altro né con altra, che gian1ai chi è exento chi per morte o si dissolve il 1natri1nonio [cf Conc. Trid., sess. XXIV, Doctrina de sacraniento 111atrii11011ii, COeD, 753-7541. Adrnonirsi ancora quelli chi hanno da contrahiri n1atri1nonio chi non contrahano per nexuno effetto mondano né di riccheze, né libidini ma o per officio di generari figloli con educarle religiosamenti et instruirli nella pietà christiana, o per ren1edio dcla humana fragilità per evitar ogni peccato di fornicationi. Et potrà el rninistratorc a dar quello terribile excmpio dc setti 1nariti de
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Sarra, tutti occisi dal diabolo per essersi coniuncti per libidini et senza la debita preparatìoni [cf Tb 7, 10-17; 8, 1-18]. Però il minislratorc consigli, exorti quelli chi hanno da contrahirc, che avantc la cognitionc si disponghino al digiuno, alla confessione et ui peglar la santissima Eucharistia. 100 - Che nexuno sia admesso ad predicare senza licenlia del suo vicario oi vero del episcopo Ite1n ordinaino a lutti et singoli rctturi di la ecc!csia et a tutti altri ali quali spetta la cura dele aniine che non debiano né prcsun1ano admcttere ad predicare a nexuno predicatore dì qualsivogla stato, ordine, come chiesa, ezetto chi pri1na non sia presentato annoi o al nostro vitario per lettere sigillate del suo prelato et da noi aprobato et mandato specialincnti a predicare con veri lettere patente, sotto pena di essere castigati ad arbitrio nostro oi dcl nostro vicario [cf Conc. Trid., sess. XXIV, de ref. c. 4. COeD, 763].
1O1 - Con1e se dcbia denuntìare li scandalosi predicatori
Ite1n ordinaino a tutti eL singoli retturi di ccclesia et altri che hanno cura de anin1e le quali spcctano 10 chi alcuni prcdicaturi di qualsivogla grado, ordini si siano dc scandalosa vita eL che nelle prcdicationi, recitando faboli rcdicolosi ad usanza di baffoni, excitano lo popolo ad ridere o che retraessero li prelati dcle ecclesie et sacerdoti oi [fol. lOv] sc1ninassiro false doctrine o qualche errore di heresia, che con ogni diligcntia debiano referirc et notificare a noi o a nostro vicario altrarnenti serrano castigati gravimenti da noi [cf Conc. Trid. sess. V, Decrettan. super lectione et praedicatione, 15, COeD, 670]. 102 11 - Chi li sacerdoti adininistratori tutti li giorni di fcsti debiano dcclarare lo evangclio ala ecclcsia Item 12 ordinan10 a tutti sacerdoti chi ogni do1ninica et festa co1nandata infra li sollenni della 1nissa, secondo chi Dio ci concedirà, lo quale sole dare la gratia sua et con 1nolta virtù a quelli chi predicano lo evangelio suo santo, debiano explanarc al popolo lo cvangelio con carità et si1nplicità dc cori [cf Conc. Trid., sess. XXIV, de ref, c. 4, COeD, 763], et quelli sacerdoti che sono ignoranti itnparino da li sacerdoti eruditi, et habiano la expositione delo cvangelio in volgare, et referiscano quelli cosi
JO spcctano] I I 102] 103
sperano
12 lten1] scrive Ite1n ordinan10 a tutti et singoli rccturi di ecclesic et altro che hanno cura dc anime poi espunte
192 quali su utili al popolo, et declarato chi haviranno lo evangelio secondo che Dio ci havirà concesso, debiano pronontiare la oratione dominica prima in latino et in volgare lingua: «Pater noster», «Patre nostro» et di poi cossì medcsmo la salutationi angelica dicendo: «Ave Maria)} et lo simbolo de li apostoli: «Credo in Deum», «Credo in Dio» et li ciechi precetti: «Unum cole Deum etc ... », «Adora uno solo Dio etc ... » et la confessioni generali dichendo: «lo ini confesso a Iddio etc ... » et admoniscano ancora li loro patTochani che sempre se facino lo signo de la santa croce: «In no1nine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Ame1n>. Et si contravcrrano a li predetti ordini serrano castigati ad arbitrio nostro o del nostro vicario. 103 - Che si soni la ca1npana quando se alza lo corpo di Christo et con che devotione debbe stare lo popolo quando se alza la hoslia Item ordinan10 chi tutti sacerdoti per la cità et diocese nostra habiano da introducere questo ordine et consuetudine, chi quando se alza lo corpo et sangue di Christo nostro Signore se soni la campana cielo can1panaro, et priino [fol. 11 r] se debc dare alcuno segno con la campana quando se dice «Sanctus, sanctus». Et lo popolo se debbe ad1nonire chi quelli li quali in li iorni di festa non pono venire et essiri presenti ala messa per qualche infinnità o perché se rctrovano in campagna o per la via o per altro necessario o probabile causa, quando senteranno sanare la campana, debiano con li ginochi inchinarsi adorare et levare il core in Dio et considerare che da ipso siaino rescaUati con suo preciosissimo sangue lcf Eb 9,12; l Pt 1,19] et per questo referiscano gratia di tanti beneficii. Et similmente le sacerdoti spesse volte debiano insegnare li loro parrochiani che quelle che sono in li ecclesie, quando in la celebratione dela messa se alza la hostia sancta, si debiano inclinare in terra con grande reverenza; et quando se lege lo evangclio non debiano sedere, ma stando in piede attenti odano le parole di nostro Signore Iesu Christo. I 04 - Che se soni la campana tre volli il giorno per salutare la gloriosa Vergine Et perché questa cosa et che devotatnenti salutiamo a quella per la quale apparse la salute del Inondo, ordinian10 che in qualsivogla ecclesia parrochiale per tutto lo anno se debbia sanare la campana per tre volte il giorno per salutare la gloriosa Vergine Maria videlicet: la 1natina, ad menzo giorno {e la sera}; ciò sia bono principio, nieglo inedia et oplimo fini. Et li sacerdoti exortino et inducano lo popolo audendo lo tocco dela campana diano et offeriscano l'angelica salutationi alla gloriosa Vergine Maria pregandola devotainente per la pace, acciò in quello nlodo ogniuno possa consequitarc le indulgcntii concessi dal Sumn10 Pontifichi.
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105 - Dc li ieiunii; si devino inti1nari al popolo per li adminislratori Ite1n ordiniamo che tutti sacerdoti administratori in li loro ecclesie ad1noniscano li parrochiani chi voglano observari !i iciunii indutli dala santa matri Ecclcsia, cossì co1nc si devino obscrvari da tutti quelle persone che hanno la età con1petentc et che {non} sono infermi [cf Cane. Trid., sess. XXV, de ref De delectu ciboru111, ieiuniis et diebus festis, COcD, 797]. Li ieiuni sono: dela quadragcsi1na, li iciunii deli quatro tcn1pi videlicct; dc lo advento del Signore, poi dila festa di Santa Locia, et poi dii a Cennere in pritna settimana [fol. 11 v] di Quadragcsiina, et poi di Penlccosles in rnediantc, poi di Ja Exaltationi di Santa Cruchi, item la vigilia di la Natività di nostro Signore Iesu Christo, de la Assun1ptionc dela Beata Maria Virgine, itern la vigilia di Tulti Sancti, dela Natività di S.to Ioanni Abbatista, in la vigilia di Pentccostes, et di Santo Laurenzo, et di Santi Apostoli Petro et Paulo, Simoni et !uda, Andrea et dcli altri apostoli, appai diii vigilii di Santo Philippo et lacobo et di Santo Ioanni Evangelista, in le quali vigilii si debeano abstencrc de non mangiare carne, ove, caso et altri lactacinii. Et principalinente se debiano abstcnere da li viLii, perché non giova· ncnti ad hon10 iciunare et fare orationc se pri1na non si re1novc la niente da le iniquitate et la lingua dele 1nonnoratione et baractationc ['cf ls 58, 1~9].
106 - Che li ad1ninistratori debiano adinoniri li popoli che non delonghino la confessioni
Et perché inulti parrochiani et padri dc famiglia sono tanto pigri et negligenti che tardano et dclongano la confessione di loro pesi per insino al fine dela Quadragesin1a, quando 13 che li administratori dc le ecclesie sono occupati circa li divini offitii, di tal 1nodo che de loro confessione non pono bene instruirc et exa1ninare li loro parrochiani et fare la debita intcrrogationi, perciò statuirno et ordinaino che tutli et singoli adn1inistratori di sacramenti, tutti li giorni di don1inica, incorninzando dela Settuagesi1na, debiano admonire li princhipali parrochiani loro, tanto n1ascoli con1c fcrnini, et palrc di fainigla che si voglano confessari loro rcccati innanti do1ninica de Passione, ad1ninizando el protestando che si essi principali parrochiani rccusirano fari dcl ditta modo, non serrano ndrnissi alla co1nunionc per insino apoi dela octava di Pasqua, et ultra dc lo quali te1npo se iniungirà lo ieiunio per penitenza, cossì co1nc nella Quadragcsi1na, eccetto chi non ci intervenisse urgente necessità.
Lì
quando] scri11e che poi espunto
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Adolfo Longhitano l 07 - Le exortationi che si divino fari alla con1unione
Item statuimo et ordinaino che si faciano le exortationi oportuni et i1nportuni, rcprehcndendo et pregando li parrochiani che se voglano preparare a tanto sacrainento
dela co1nunionc, [fol. 12r] adochendoci li cxen1pli et auctoritati cossì co1ne nostro Signore !e haverà donati. 108 - Che li 1ninistratori ad1noniscano ali infermi chi chamano pri1na il medico spirituale nelle loro infinnitati et dopo il 1nedico corporali Ite1n statui1no et ordina1no a tutti ad1ninistratori che spesse volte ad1noniscano le !oro parrochiani che, quando accadessi che fossiro infern1i et inalati, pri1na si debino chamari lo confessore spirituale et dopo cercare lo 1ncdico corporali, perché data la 1nedicina spirituale piò 1neglo i giova et per sé la rnedicina corporale. Si ordina a tutti 1ncdichi chi, essendo chamati per 1nedicari et curari li inalali, debiano prima induchere et adinoniri li infenni ala confessione di loro peccati et dopo darili la 111edichina corporali fcf Innocenzo IH, in c. 13, X, lib. 5, tiL 38, F. II, 888; Conc. Lateranense IV, 22; COeD, 245-246]. Ali quali medichi, si per due volte haveranno prolongato la confessione, se debba fare intì1na spesse volte, secondo li tenori dcl nostro editto per noi pro1nulgato, lo quali havc1no voluto qua inserire, acciò per la observanza di quello si poza spesse volte per le parrochie et predicatore publicare et inti1nare al popolo.
109 - Aedictum Lo offitio dela cura pastorale annoi incontento comn1ove et induce ad non tacere li pericoli del nostro popolo, et acciò la morte non si incrudelisca piò alrocin1enli nel 1nìscri et incaute ani111c che non in essi corpi, chi omninamenti hanno da morire, ni excita ad proveder quanto poten10; undi advienc che la feliche recordationi di Innocentio papa tercio [cf Cane. Lateranense IV, 22, COeD, 245-246} considerando che la infirn1ità corporale alcune volte provene dal peccato, il Signore dichendo a quel languido che havia sanato: «Vade et amplius noli peccare ne deterius tibi aliquid contingat>t [Gv 5,14], et che alcuni colcati a letto per causa de infcnnità, essendo persuasi da li n1cdichi che voglano disponerc di la saluti dc l'anima loro, si 1nettano in una grandi desperationi, uncli piò facilmenti incorrano nel pericolo della 1norle, slatuimo nel consiglo generali et distinta1ncnti co1n111anda1no ali inedici di corpo che, accadendo essiri chamati per 1nedicari li infermi, principalmenti ad1nonessiro et inducissiro essi infcnni a cha1nari li medichi di l'anima, accioché [fol. 12v] poi che fussc provisto allo infcrn10 dela saluti spirituali, si procedesse con pili salubrità al rerncdio delln n1edicina corporale, perché cessando la causa cessa lo effetto, co1nn1andando chi si alcuno deli 1nedichi contrnvcnissi ala 1nedcs1ni
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constitutioni, poiché fussc publicata, se remova per tanto tempo dal introirc dcla ecclesia perfino che haverà competente1nenle soddisfatto 14 ala detta contraventione. Ma perché la predetta constitutioni per la corruptioni del munda è lassata in la negligcntia et inobedientia di n1olti, havcrno deliberato confirmarla con la iinpositione della infradetta pena; et però a tulti et singoli 1nedichi che al presenti suno et al futuro serrano in la cità di Catania et in nostra diocesa, thenore praesentium, li ad1none1no et cxorta1no in Dio, et ad issi ancora et ad ogniuno de loro co1nanda1no et ordinamo, in virtù dela sancta obedienza et sotto pena di cxco1nunica et interdetto de lo ingresso della ecclesia, che accadendo esseri chamati ad rnedicare infenni, tanto inascoli come fcmini, attendano ad observare et i1nplere questa constitutione tanto secolare, non timendo lo interio della morte acciò lo corpo sia fatto salvo, conoscendosi che l'anima è rnollo più preciosa chi non é il corpo. 11 O - La pena che impedixe i sacerdoti oi li notari di andari a casa di li infermi ltern statuimo et ordinan10 che ncxuno di qua innanti publicatnente oi occultan1enti i1npedisca che non passino intrari in casa deli infenni li sacerdoti al presenti ad1ninistratori o li notari con li Lesli1nonii, quando chi serrà oportuno et liberainenti, secondo chi vorrano li infenni; et che non siano impediti exprimiri la loro disposiLioni per tcstarnento o qualsivoglia atto di ultima voluntà, sotto pena di excomunica a che contraverrano; et di satisfare a quelli chi serrano lesi per lo con11nodo et lucro che havirano reportato dalo testan1ento o allra dispositionc; ordinando ancora chi la presenti conslitutioni si debbia spesse volte publicare nelle ecclcsie, acciò nixuno possa allegari ignoranza. 111 - Della cura chi se deve bavere circa li figloli gittatici nello hospitali o altra casa di pietà Et perché n1olti poviri che non sanno de can1pari et alin1entari loro figloli solino, forzati per !a gran povertà, gettari et exponere dilli figloli in lo hospitali oi loci et casa dì pietà, le quale non volendo noi chi siano [fol. 13r] troppo gravati, accioché con più facilità cl co1nmodità si possa exercitare questa pietà verso li veri poviri, statui1no et ordinaino chi questi patri et 1natri, li quali senza officio di pietà gcttiranno et exponiranno o serrano gettate et cxponetc loro figloli in la detta casa di pietà, si la facultà et patrirnonio loro serrà sofficienli, siano constritti sub pena exco1nunicationis refare et restituire alla detta casa di pietà tutti et singuli spesi fatti per dilli figloli cxposti, o vero accordarsi con li rettori et governatori di ditta pietà. Et quelli ancora che sapirano el havirano noticia dcl patri et 1natri di detti figloli exposti volemo che siano tenuti revclarii annoi o a nostro vicario o alli rctturi
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soddisfallo] condiffato
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di ditta pietà, exortando a tutti et singoli sacerdoti dela nostra diocesi che con ogni carità dcbcno elli spesso visitare le case del nutrice 15 chi lattano ditti figloli cxposti cxistenti {in} li confini di loro parrochii, per accomandarli a ditte matrice et con diligenza intrinsicarc si sono bene trattate dal nutrice et di ogni cosa farne relatione annoi o a nostro vicario.
112 - De li mastri di scola et di li figloli et che nella scola non si legiano autori laxivi Item ordinmno che tulli et singoli patri et matri, tutori, curatori li quali hanno
cura di figloli debiano et con insignari ditti figloli, li quali laxivi et scandalosi; et non hun1anità, 1na ancora debìano figloli non diventano vitiosi parenti et cunituri.
so1nma diligcntia cercari et eligiri boni prcceptori per precepturi siano di bona dignità et non legano autori sola1nenti dcbiano insignari a ditti figloli !iteri et insignari boni costumi et la vita christiana, acciò detti per la imperitia di preccptori et negligentia di loro
113 - Che li laici non si mandino a piglari li sacra1nenti ecclesiastici ma si che niandino sacerdote con li soi ampullucic Et perché non è cosa conveniente chi le cose sacre et sancte si portino et 1nanigiano con n1ani prophani, ordinamo che nexuno sacedotc debia dcstinari né mandari alcuno laico per piglari li sacramenti ecclesiastici, et che lo sacristano o altro clerico deputato a dispensari quelli sacramenti non li debia dari ad alcuno laico, né manco sacerdote chi non havesse [fai. 13v] soi ampollucie di stagno, secondo el solito, sollo pena di esseri castigati ad arbitrio nostro o del nostro vicario. 114 - Che li administratori di sacramenti tegnano lo libro di baptis1no et libro sacerdotali lten1 orclinan10 che tutti sacerdoti et ad1ninistratori di sacra1nenti, li quali hanno li fonti di baptcsn10, debiano nel baptizari avirc lo libro di baptizari, secondo la consuetudine della nostra ecclesia. Et ultra dcbiano havere lo libro chi si intitula «Libro sacerdotali» lo quali è niulto utili et necessario a tulli clerichi et maxime adininistratori, sotto pena di esseri castigati da noi o dal nostro vicario.
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nutrice] 1nalrice
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115 - Che li ad1ninistratori di sacra1nenti tegnano libri per scriviri li nomi di compari et baptizati Item ordinamo chi tutti sacerdoti 1ninistratori dila ecclesia baptisinali debiano ha vere uno libro particolarmente, a, quali si descrivano tanto li nomi di li compari quanto ancora li nomi di figloli baptizati, cossì come si dispone per lo sacro Consiglo Tridentino [Sess. XXIV, de re.f. matri1n., c. 2, COeD, 757]; che debiano tenere et conservare bene il detto libro et con diligentia custodirlo acciò in futuro possa parere di la età di dilli figloli et dc la compaternità. 116 - Che si debiano exequirc li comandamenti de la corte episcopali Item ordinamo chi tutti sacerdoti ininistratori et clerichi dcbiano senza dimora exequire li nostri 1nandati et le citationi, 1nonitione et suspensioni, executionc, sequestrationi et altre litere de la nostra corte episcopale, del exequutionc dele quale ne 16 habiano de mandare annoi la relationi in scriptis, altra1nenti si serrano negligenti, se habiano da presentare davanti noi o al nostro vicario, acciò si possa castigare come si convene. 117 - Exortatione chi si devino fari per i niinistri ul popolo per levari la superstitioni Et per livare li superstitioni et alcune devotioni di persone ignoranti, ordina1no chi li administrutori si forzino a questi ignoranti farli capaci del vero, de1nonstrandoci co1ne dovemo confidare al solo Iddio et tutti cosi indrizarc in Dio. Et quella dcvotione chi hanno inverso ulcuno sancta la devino indrizari con quella dcvotioni chi è in quello santo adorino et reveriscano a Dio, perché li sancti [fol. 14r) sono metnbri di Cristo et tempio di Dio et quando preghiaino li sancti insieme dovemo ancora pregare lddio che ni conceda che li pregheri diii sancti ni siano utili (quando noi siamo indigni) non per causa di essi sancti, 1na per causa di nostro Signore Iesu Christo, cossì co1ne dicono tutti li orationi dele Ecclesie universale [cf Conc. Trid., sess. XXV, De invocarione, veneratione et reliquiis sanctorron, et de sacris ù11agi11ib11s, COeD, 774-776]. 118 - Di renovarsi il sacramento alinanco tri volti il mese Ite1n statuimo et ordina1no che tutti li sacerdoti che hanno cura di anin1e et ad1ninistrationc del sacratissimo Sacra1nento dc la Eucharistia in le loro ecclesie,
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ne] non
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almanco tre volte per ogni mese, dcbiano piglare la Eucharistia reservata per li infermi et preparari nova Eucharistia, acciò nel sacrario non ci resti alcuna cosa di putrcfactioni. 119 - Che continuamenti debc stare accesa la lampada innante el santissitno corpo di Christo Ile111 ordinarno a lutti et singoli sacerdoti, li quali hanno cura del anime, che innanti lo Santissi1no Sacramento chi è in le loro ccclcsic ci debiano essere et conservare una la1npa la quali stia sempri di notte et giorno alluminata in honorc et reverenza di tanto grandi sacraincnto. 120 - Che li publici concubinarii et usurarii non si rcccvano a la comunione Et perché si retrov<1no inulti concubinarii, usurarii et altri perseveranti in notorii peccati et scandalosi li quali promcttcno 17 a loro confessuri reduccrsi ala bona vita el lassare le concubine et restituire la usura, et di illà a poco te1npo tornano di novo nel peccalo et non observano quello che hanno pro1niso, ordinrnno chi tutti ordinaturi di sacra1ncnti ad quelli tali personi perseveranti in li peccati non li debbiano communicare, essendo persona scandalosa la quale non ha fatto la debita satisfactionc et penitenza [cf Conc. Trid., scss. XXIV, canones ref 111atrini., 8, COeD, 758; ivi, de r~f, c. 8, p. 764].
121 - Che non sia licito usari li sacran1enti vechi Et perché si retrovano alcuni sacerdoti li quali per crassa ignoranza o per 1nalitia non havcndo navi sacramenti, per inulti n1esi et alcuna volta per tutto lo anno, usano li vechi sacra1nenti tanto in lo baptisn10 co1nc in la cxtrema untione, non avcrtendo chi tali i1nprobi sacerdoti secondo li sacri canoni [fol. l4v] sono digni di deposcitioni, ordinan10 chi quelli tali sacerdoti che usiranno la cris1na et altri sacramenti vechi, ultra la pena dila ligi siano gravin1enti puniti.
122 - Del baptesn10 e dcl fonte baptismale Circa lo baptes1no, lo quali è la porta di tutti sacra1ncnti, avertiscano beni tutti sacerdoti chi non baptizano ad alcuno, cxccepto in aqua pura clcmcntali o calida sia o frigida, con li ccrcinonii et forma solita et consueta [cf Cane. Trld., sess. VII, canones de sacr. baptis111i, 2, COeD, 685]; dunque non si faccia el baptesn10 in aqua rosata o vino o alrre si1nile liquore.
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pron1etteno] promeuemo
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Et li detti sacerdoti tegnino beni a menti il modo e la forma di baptizare et habiano preparate tutte le cose necessarie allo atto di baptizari, perché non sempri si po' haveri tcinpo di recorrere al libro et di cercari con tanta pristiza le cose necessarie al baptesn10. Et perché ancora spesse volte solino accadere multi casi repentini et in tempo di necessità pono et immo 18 devino baptizare etia1n li laici, altramenti peccariano mortalmenti, ordinamo chi li ditti sacerdoti instituiscano et adn1oniscano li laici parrochiani ul1neno una volta cl n1csc in uno giorno di festa qualmenti etiarn issi laici tanto mascoli con1c fcmini in casu di necessità pano baptizari, videlicet, quando non si po' trovare il sacerdoti o si li figlolì sono constituti nello articolo della morte, infundendo aqua supra la testa del figlolino, dicano le parole seguente et non altri parali attentainenti et con devotioni di fare quello chi vole la Ecclesia: «Io ti baptizo in no1ne del Padre, del Figlo et del Spiritu Sancta)>. Li sacerdoti adunca spessi volti in la ecclcsia monescano et insegnano quelli cosi al popolo, acciò che nixuno morisse senza baptesmo. Et si portasse alcuno a baptizari delo quali se dubitassi se fossi baptizato, li sacerdoti di poi diii altri ceri1nonii, che ordinatan1ente se soglino fari quando venino in quello atto di baptizari dicano questi parali: .;<Si tu sei baptizato io non ti baptizo; 1na si tu non sci baptizato io ti baptizo in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti>). Et si alcuno farsi retrovassi alcuna creatura lo quali non sapessi se fussi baptizata si oi non et quella fossi in li extre1ni et articulo dela 1norte potrà quello baptizarla con le supradittc parole. [fol. 15r) 123 - Dc farsi uno capello sopra lo fonte baptisn1ali et dc tenersi un vaso per lo atto di baptizari llen1 ordinaino che in ogni ecclesia che ci è fonti baptis1nali sopra lo quali o sia uno copcrcho sive uno capello ben serrato con una chavc con la quale ferme [cf Conc. Lateranense IV, 19; COcD, 244], si chi deve tenere sempre preparata l'aqua di baptizari, la quali ogni anno la debiano benedicbiri li administratori di sacramenti in lo sabbatbo Sancta, in lo sabbato di Pentecostes. Et ditto fonte si debbe ben continuainenti ben guardari et acciò tal sacrainento sia trattato con piò reverenza et pietà 19 • Si debia tenere uno honorato vaso di stanno a questo solo uso, di gettare et aspergere l'aqua del baptis1no sopra la testa.
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immo] san10 pietà] J'i1npietà
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124 - Ad1nonitione di quelle cose chi spettano ale co1npari et aie co1nmare circa le costu1nc di li loro figloli Item ordinamo che lo sacerdote, finito chi haverà lo sacramento dcl baptismo, debia ingiungere alle co1npari et commare, chi vaglino cxcitare et ad1nonire lo patri et la matri dc lo figlolo baptizato ad laudari et gloriari Idio, lo quali ha fatto tanta gratia alloro figlolo, chi per lo santo baptis1no sia stato figlolo di Dio et participi del regno celesti; et che voglano ben guardare et custodire il ditta figlolo da ogni pericolo di casu fortuito; et che venendo il figlolo ala età ci dcbino fari et imparari la orationi dominica, con l'angelica salutationi et simbolo deli apostoli, et facinolo insignari nela fidi catholica. Et ancon1 il sacerdote deba ad1nonire et arrecordare alle compare el comrnarc chi si lo patri et 1natri serrano negligenti in le cose preditte sono essi obligati 1-drlc perché in lo allo del baplismo, co1ne plegi promittino a Dio chel baptizato al suo tempo serrà fidele a Dio. 125 - Quali persone sono prohibite tenere al baptes1no Item ordinmno che, ecceptuata la causa di necessità, non si debia rccevere né ad1nettere ad tenere et levare lo figlolo del sacro fonti alcuno chi non sapirà il Pater noster, né l'Ave Maria, né lo Credo, né ancora se debe ad1nettere quello lo quali senza legitti1no impedi1nento non se habia confessato et communicato in quello anno; ordinando ancora [fol. 15v] che nixuno rettor o clero seeulari o regolari di qual si vogla ecclesia si faza compari di nixuno senza nostra cxpressa licentia; et similrnenti li patri et matri non pono tenere al fonte senza causa di necessità. 126 - Da in1parari a quelli chi si hanno da baptizari le nome di li sancti Et perché grandin1enti errano quelli li quali alloro fig!oli ci mettino nomi di pagani et di gentili, volendo essiri autori di novi noini, et lassano li 1101ni deli santi con li preghi et soffragii delli quali debeno essiri custoditi et guardati li nostri figloli quali si hanno da baptizari, non che voglano 1nettiri non1i di pagani et gentili, 1na no1ni di sancti o di sancte secondo !'ordine del cristiane. 127 - Quelli chi non sanno lo Patri nostro et l'Ave Maria non siano recevuti ala co1nunionc 1Le1n perché la necessità dela salute esseri fidcli christiano debe sapere lo Pater noster et l'Ave Maria et lo Credo et la forma dc la confessione, retinendo al 1nanco el senso, et havcndo li sacerdoti et predicaturi chi predicano et insegnano non si pono excusari non habbia che chi insegnare le cose necessarie alle salute, perciò ad maior confusione di questo ordinaino che tali persone ignoranti non siano recevuti et
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ad1nissi ad comunicarsi la Pasca co1nc li altri in la ecclesia, né manco contrahere matrimonio in facie ecclesiac. 128 - Che alli usurarii non si concedano sacramenti excepto che pri1na non facino la restitutioni Item statuiino et ordinan10 che nixuno sacerdoti prcsu1na concedere li sacra1ncnti ecclesiastici a persone publici usurarii, cxccpto chi prima non faccino la debita restitutioni et mali oblali a questi li quali spettano o vero habiano prestato cautione, di salisfare in la nostra corte episcopali secondo la fonna dcl generali consiglo Lugdunensc incipit: «Quan1quain de usuris, etc.» [Conc. Lugdunense II, 27; COeD, 329]. [fol. I6r] 129 - Che li ecclesi al tcinpo debito si aprino et si chodano Et perché in la casa et oratorio di lddio non è licita di fare nixuna cosa se non pregari et diri orationi a Dio, et per evitari li furti, sacrilegii et ruffianigii chi alcuni volti si solino preparari et con1metteri in la ecclesia per persone i1nprobe te1nerarii, ordinamo che li reuori, guardiani di!e ecclcsic loro, finiti che serrano li offitii loro, al debito tempo chudano et aprano li porti delle ecclesic; et sirnilmente li ecclcsic chi sono in Ii casali et in ca1npagna, celebrati che serrano li offitii, 01nnina1nenli si debino chudiri. Et acciò se satisfazi ala devotione dcli homini, sopra li porte di dette ecclesie si potrano fari certi fenestri con croce di ferro; et si ce fossiro alcuni ecclesie li quali di notti et di giorno restano aperte, debiano procurare di intimarle annoi, acciò possiano ben providere. Et intratanto nexuna persona presuma celebrari in dette ecclesie sotto pena di esseri castigati da noi o dal nostro vicario. 130 prophana
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Che li cimbiteri si tegnano serrali et in quelli non si exerciti cosa
Et perché li cimbiteri delli ecclesi godano ancora le imonitate ecclesiastiche et lu dicto loco et terra sancta poiché in quello si contengano li ossa et la terra di li fideli defuncti, ordina1no che li ditti citnbiteri si debino teniri circun1dati di muri oi chusi in altra chusura, meuendoci gradi di ferro o di legno a lo introito, azoché in quello non pozino andari ani1nali brutti ma solainenti li 20 hon1ini, per reverenza di lo loco sacro et degli corpi di li fideli chi sono sepulti in ditto ci1nbiteri. Et non si pozano in ditto loco trattari ncgotii seculari o altri cosi mercantiì, né permettere che si facciano danzi o cascarde dissolute, né si cantano canzuni laxivi né altri insolentii, perché quali
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li] scrive parola illegibile poi espunta
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alcuni volli ni sequitano violationi delle ccclesie et cimbiterii et varii et diversi delitti in offcnsa dela divina maestà, sotto pena di essiri castigati li contravenienti ad arbitrio nostro o del nostro vicario. [fai. 16v] 131 - Che li officiali laici non debbiano peglari li clcrichi senza licentia di monsignor reverendissimo Ite1n ordinaino a tutti et singuli officiali laici che non presu1nano pigiare né detiniri a nixuno clerico senza nostra expressa liccntia o del nostro vicario, eccepto neli casi nelle quali per la lege communi o per quelle nostre constitutione si pennetti poterisi piglari [c. 8, IO, 17, X, De iudiciis, lii! (F2, 241, 242, 246); e.I, 2, 9, 12, 18, X, De foro co111pe!e11ti, II/II (F2, 248, 250, 251, 255)]. Et in ditta casu, si scrrà piglalu di notli, si deve presentare ud alcuno honcsto sacerdote lo quale, se lo vorrà plegiarc, di prcscntarilo annoi la matinn sequente; allura pigiata la pligiria si debe lassnre nndare, altrninenti si dcbia rcscrvari perfina intanto che la 1natinn seguente serrà presentato annoi. Ma si serrà preso a hora di giorno da continente, quanto più honesta1nenti si porrà f'nre, si deve 1ninare in la nostra corte episcopale per presentnrsi annoi. 132 ~Che li administratori 1nandino li no1ni di quelli chi si sono confessati et co1nunicati et la pena deli administratore che non li denunciano Pnssato 21 cl tempo de la confessioni et comunioni stntuto dala santa 1natri Ecclesin, acciò quello chi comandano li sacri canoni chi lo mandino in effetto, statuiino et ordinarne chi tutli li sacerdoti debinno 1nandari ala nostra curti episcopali li nomi et li cognomi di tutti quelli chi in quello anno serrano comunicati et confessati, con assignatione delle cause per le quale omni uno non s'a voluto confessare et co1nunicare. Le quale volc1no che se servano per li nostro 1nagistro notaro in libro separato et alche, precedendo la adtnonitionc canonice, et quelli volendo perseverari nella loro perfidia, finiti tutti li termini assignati, ad convincere tulla la malitia possiano pervenire alla cxcomunicatione, comandando quelli essiri excomunicati; li quali poco existimando li precepti della santa matri Ecclesia hanno delongato confessarsi et co1nn1unicarsc una volta l'anno senza legiti1na causa approbata per loro confissori. Et si alcuno dcli parrochiani se haverà confessato et comunicato in altro chi la propria patria dove era licito confessarsc, dc questo ne potrà certificare lo rettori seu rninistraturi di sacramenti, allramenti per causa di loro ncgligcntia si procedirà contra di loro come si non fossero conressati et comunicati. Et si alcuno administratori, cessando la iusta causa, non denuntiarà a la nostra corte episcopali a quelli li quali non
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Passato] Lassato
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hanno voluto obediri ali co1nandamcnti di la sancta rnatri Ecclcsia et a questi nostri costitutioni o si, poi dcla [fol. 17r] denunciationc dcla 1nedesmi constitutioni, alcuni di quelli rctrova nella sua ecclesia lo quali non sia confessato et comunicato {et} per ncgligcntia oi malitia non sia denuncialo, quello tale sacerdote per colpa dcla sua negligentia o malitia gravi1nente serrà condannato ad arbilrio nostro o del nostro vicario. 133 La fonna dela absolutioni di quelli chi suno stati publicati per excomunicati Et havendo Iddio illu1ninati li cori di ditti cxcomunicati et volendo essi retornari nel grcmio dela ecclesia et farse 1nc1nbri de Christo lo quali è capo dela ecc!esia, allora cessando la causa per la quali questi tali erano cacciati et exclusi fuora dcl consortio di christiani et havendo obtinuto licentia da noi, ordina1no che lo sacerdote in un giorno de domenica o altra festa comandata debba comandare a tutti quelli chi sono stati excomunicati et denunciati per exco1nunicati che stiano con li ginocchi in terra alla porta di la ecclesia et di poi, innanti chi si celebri la missa, dato lo signo della can1pana, in presentia di lo popolo congregato nelli divini officii, lo ditto sacerdote debia andare parato con la stola et con una virga in 1nano et absolvere li dilli cxcomunicati secondo la forn1a data dala lege in la asbolutione del'cxcomunicato; et dandogli con iuramento, con salrni et n1isereri, con Gloria Patri, battendoli con la virga finito ogni versiculo et fare tri volti, et lo Pater Noster et quattro versiculi: «Salvum fac» et «Nihil proficiat», «Esto ei», «Domine cxaudi» et la oratione: «Deus cui proprium» mutando quella parola «delictorum» in verbu1n «exco1nunicae» et di poi absolvendo dica questi parali: «Ego absolvo te a vinculo excomunicationis quarn incurristi pro eo quod non es confessus et co1nunicatus hoc anno, et rcstituo te comunioni fideliu1n». Et di poi che comanda que chi a di con1andare, avertendo chi tali battitura con la virga non si deve fari ali donne perché non ci conviene battire ali donni 22 . 134 - Che la exco1nunica si deve grandernente temere et quanti inali partorisca [fai. 17v] Che le excommunicationi sì devino grandiinenli temere si prova con la autorità di Santo Gregorio, lo quali dice che la sententia del pastore o iusta sia o ìniusta si deve te1nere [c. 1, C. Xl, q. III, F. 642]; et con1c diche santo Crisostomo chi nixuno deve 1ninisprezare le vinche ecclesiae cioè le excomunicationi [c. 31, C. Xl, q.
22 donni] scrive I 34 - CJ1e la excomunicationi si deve te1nere et quanti niali partorisca poi espunte
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Ado(fo Longhitano ____
III, F. 653], immo dice sancta Augustina che nulla 23 cosa deve accussì temere il cristiano come di essiri excomunicato [c. 33, C. XI, q. lii, F. 653]. Perché lo excomunicato non po' communicarc o praticare con li ho1nini et le altre {non} devino comn1unicare allui né esso a quelli altri; et communicando ali altri gravemente pecca, perché pare volere 1ninisprezare et fare poco cunto di la exco1nunica et usurpare la comunione allui vietata et interdetta, quali per essiri a maior pena che conversar con l'ho1nini. Item excludi da li sacramenti di la ccclesia. Itcin la excomunica priva li excon1unicati da li suffragii di la ecclesia li quali valina a quattro cosi: primo ad augu1nento della gratia24 che hanno, secondo ad meritare le gratie che non hanno, terlio ad havere la protetione de Dio, quarto a meritare la defensione di li inimici. lte1n lo excomunicato perché non po' essiri presenti con li altri a li cosi divine, né fare oratione con !'altri in la ecclesia, né po' stare tanto propinquo ala ecclesia che poza intendere l'officii divini. lte1n lo exco1nunicato non po' coinpariri in iuditio co1ne attore ma si è convenuto po' rcspondere. Itcn1 non po' essiri procuratore né advocato, né si po' dare per tcsti1nonio, né far el qualsivoglia atto legitimo e finalmente il dc1nonio si ha potestà sopra di lui co1ne sua pecora. 135 - Quanto sia grave pcriculo conversare con excoinunicati Quanto gravi peccato e pcriculo sia conversare et praticare con excon1unicati per questa sola cosa si inanifesta che con lo excomunicato non è licito fare oratione, né parlare, né 1nangiare altrarnenti li participa {a li} inconveniente {chi} accadi no nella excornunica et peccano 1nortalmenti; et ultra li cosi supraditte spessi volte infra l'anno per li sacerdoti udministraturi I fai. 18r] si dcvi insinuari al popolo quanto sia cosa gravi et pcriculosa perseverar i in la excon1unica per un anno et {che sia} su spetto di hcrcsia [Conc. Trid., scss. XXV, de ref, c. 3, COeD, 786]; contra di esso si può procedere co1ne suspelto di eresia, perché si presume nlalamenti sentire di li sacrrnncnti et della potestatc della ecclesia, non faciendo né potendo fare quella cosa la quali ogni fedele christiano è obligato e non 25 curando della sua exco1nunica. 136 - Chi l'administraturi di sacrrnncnti debbano publicare li excomunicati in tutti li giorni della dominica insino a tanto chi habbiano obtenuto l'absolutione Et accioché si possa evitare lo periculo della excomunica, et li cxcornunicati pieni di vergogna siano costrittl più presto retornare alla gratia della conciliatione, commandamo et ordinaino a tutti sacerdoti curati et rctturi di ecclcsie chi ognuno, di ogni giorno di dorninica, publicarnenti, in li solle1nnitati delle messe, debiano
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nulla] nella gratia] scrive secondo poi espunto non] scrive potendo poi espunto
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denunciari ad essi excomunicati, et non debbe cessare da la ditta publicatione et denunliatione per insino a tanto che ditti cxco1nunicati haveranno consecuti lo beneficio di la absolutione. 137 - Iustificatione sopra cl fare della cxa1nina alli confessuri et di eligere boni et opti1ni confessuri Vedendo noi chi multi stanno senza confessioni et communioni per spalio di mesi et anni, in grave prciudicio di l'ani1ne loro, et alcuni che aspettano l'ulti1no giorno del sacro digiuno, et allura tutti in uno tempo si confessano l'erruri et piglano la comunione, havcndo fatto inanti nulla satisfactione di opera di lacrime, et alcuni chi procurano di essiri assoluti di quelli chi non sono sacerdoti loro. Et a che cosa debbono attribuire questi tanti 26 enormi eccessi non facilmente lo poten10 excogitarc, eccetto chi hogi alcuna volta si eligiano tali iudici di la penitenza o 1nassi1ni indotti seu cupidi, senza carità, senza zelo, li quali pri1na cssa1ninano le burze che non le coscienze di Ii confitenti. Et perciò, a talchì questo tanto necessario non si poza minisprezzare da alcuni, con celeri ren1edio attcndimo a dare soccorso; per la qual cosa pregamo a tutti religiusi prelati chi di bono animo supportino se presentare chi sono li religiusi innanti a noi o al nostro vicario, secondo la forma delle constitutioni di li sacri Consigli, venino et di lo ultro li atterrano voli1no essiri diligenti a cognoscere la sufficienza di quelli chi sono [fol. 18v] deputati ad intender la confessione [cf Conc. Trid., sess. XXIII, de re/ c. 15, COcD, 749]. Quando che uno caso di tanto peso e di tanto momento non lo si deve trattare da ogni uno, ina li seculari chi non videranno più quella nutnerosa quantità cli confessori, si desistano eia aspiuare, essendo fatti certi per chi causa noi faccia1no questo, di qual causa essendo certificati, si eligano padre spirituale a quelli che su più dotti, et di li boni li più meglo, aie quali co111111cttino in seeuro la salute de l'anin1e loro; dello quale non dcvi agli ho1nini essiri pili cosa speciosa, secundo lo consiglio di santo Augustina, quando chi adn1onisce a chi si voglia confessare: onninamenli alli n1cgliori confessori chi si poza trov<lrc. 138 - De non imponerse la penitenza pecunialiter o dirsi 1nessa per quelli che confessano cl dunano la penitenza Et ancorché nelle sacre lettere se con1anda chi li peccati si possano recattari con elee1nosinc perché «Sicut aqua extinguit ignern ita elee1nosina extinguil peccatun1» [Sir 3, 33], nondi1nino ordina1110 che li sacerdoti ad1ninistraturi et retturi dele ecclcsic, et qualsivoglia religiosi deputati ad audire la confessione, non
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tanti] scrive errori poi espunto
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Adolfo Longhitano ~~~~-
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impongano per li peccati penitenza di denari {da} applicarsi in utilità d'essi o da loro 1nonastcrio o d'alcuno allro nominato da essi, 1na per li peccati impongano penitenza di digiuni o pcrcgrinatione; li quali l'habbiano da disponcre per li penitenti a quelle persone chi essi vorranno. Et si li detti sacerdoti et religiosi i1nponirano per penitenza alli penitenti chi facci celebrare missa, similmente si dcbbe remettere in arbitrio dcl penitente accui esso vorrà chi dica le dette missc; di 1nodo chi non si celebrano per persona suspetta con la quali dilli confessuri habbiano intelligenza acciò dclli religiusi, sub pretextu di carità et pietà, non faccino cose d'avaritia.
139 - Che si debbano poncrc in qualsivoglia ecclesia li nomi di li deputati a confessare Itcn1 staluirno et ordinamo a tutti priuri, prepositi, guardiani, vicarii et altri prelati di qualsivoglia frati mendicanti e di qualsivoglia monastero et ordine di religiosi, chi vogliano et debbiano in una carta scrivere li norni dc loro religiose presentati et per noi approbati; e ditta carta 1nettere et affigere in uno loco di l'ccclesia, et questi dove si poza facilincnte legere, azochì quelli li quali vorranno confessare ad confessore religiosi, prirno vedano si ditti religiusi o religiose sono dcli no1ninali et approbati, altramenti se si confessirano a religiose chi non sono [fol. l 9r] di detto numero di li approbati, lo sapiano chi non pono mai essiri assoluti di li loro peccati. Et quello lo quale non essendo approbato prcsu1nirà audirc la confessione sarà gravemente punito. 140 - De lo loco dove devono confessare li sacerdoti e del confessorio Et per evitari li scandali chi solino multi volti accadere nella confessione statuimo et ordinamo chi le confessione, 1nassime de le donne nella ccclesia, si debbano audire in loco aperto et evidente et non in loco secreto, di tal 1nodo chi lo confessore et lo penitente stiano egual!ncnte visti da tutti; et chi le confessione non si pozano audirc inanti spunta <li suli né poi dcl tramuntari dcl sole; e quando accaderà di confcssari alcuna donna, volemo chi infra lo sacerdote confessore et la donna penitente ci sia una tabula con la grada, la quali tabula chiainamo confessorio; et cossì ordinamo chi in tutte l'ccclesie vogliano havere in uso le dette tabule o confessorio. 141 - Dc li casi penitentiali reservati al vescovo insieme con la nutncratione di quelli Et perché alcuni tanto seculari quanto religiosi in pcrditioni di l'anirna presu1nono assolvere li nostri sudditi da li casi a la Sede Apostolica o a noi rescrvati, ancorché non habbiano tali potestà, per la presenti costitutione ordinamo chi non si debbia credere a una sola palora di questi tali chi dicano havcre tali potestà, eccetto chi
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non facciano fede con li presenti instrumcnti di tali potestà, declarando noi l'assolutione a loro fatta in li casi predetti essiri nulli et invalidi eccetto chi specia!Jnente de la Sede Apostolica o da noi o dal nostro vicario ci fussi concesso di posser assolver in detti casi [cf Cane. Trid., sess. XIV, cap. 7, COeD, 708]. Et perciò prohibemo a tutti tanto seculari carne religiosi chi non presumano intra1ncttcrsi in li casi speciali a noi reservati, ma detti casi si debbiano rc1ncttcrc a noi oi al nostro vicario, declarando l'assolutione in li casi preditti falla per loro senza nostra liccntia o del nostro vicario non valere, eccetto chi non fossi fatta in lo articulo de la rnorti et quelli chi contravcrrano siano privati di l'audientia di la confessione et in pena di esseri castigati a nostro arbitrio. 142 - Casus reservati De li excomunicali per qualsivoglia sco1nunica 1naiuri dcla lcge o de l'hon10 et da quelli chi participano in lo delitto di li denonciati sapendo essiri excornunicati. Dc le 1nagaric o sortilegi et di quelle chi esercitano l'arte n1agica. Di quelli chi 1nala1ncntc usano l'hostia sacra, l'oglio santo et lo chris1na et altre cose sacre. [fol. l9v] Dc la co1n1nutationi di qualsivoglia voti, eccetto chi non siano peregrinationi infra la diocesi. Di li mali oblati certi o incerti, si non ci sono quelli ali quali si devono restituire di due libre in suso. Di quelli chi contrahino n1atrimonio contra la comandamenti oi contra la prohibitione del superiore et al tempo interdetto et prohibito, oi stando so primo 1natrimonio, oi clandestianc1nenti et an11nucciuni, eccetto chi poi non sia fatta la publicatione di detto matrimonio. Di li publici delitti et cnonni et di quelli a li quali si deve imponiri solle1nni penitenza, eccetto chi non fussi penitenza extra canonica. Di la oppressione di li figlioli apostamenti, oi casualmenti, oi co1nc si voglia pro crassa ncgligcntia, o di quelli chi tenino con essi li figlioli infante quando dannino, si altramente li pono tenere co1111nodatncntc. De l'hon1icidio per qualsivoglia modo perpetrato. Dc la falsa tcstin1onianza in iudicio, di quelli chi giurano falsan1ente in iudicio et di qualsivoglia altro giuramento falso proiudiciali. Di quelli chi fanno o co1nandano chi si faccino oi attestino falsi istnnnenti, oi di quelli chi falsificano bolle o alcune publice litere. Dcl incesto, fino al quarto grado inclusive, della affinità, consanguinità et spiritualità. De la corrutione dele donne monache tanto professe con1e non professe, di quelli chi inlrano in li 1no1u1sterii di donni 1nonachi, et di quelli chi hanno andato o andiranno a visitare ai a parlare ctiarn ali parlatorii con dette n1onachc, et de le donne
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n1onache le quali escino fora deli claustri senza licenza de li superiori in scriptis obtenta. Di quelli chi si giungino carnalmcnti con l'infideli et con l'ani1nali bruti, et di quelli chi usano contro natura, oi con quelli chi sono instituti in ordine sacro, tanto l'agenti con1c il paticnti. Di quelli chi vanno alli sinagogi et a li nocci o a li fesli di li giudei. Di quelli chi battine li clerici et di quelli chi tin1no li clerici a lo foro scculari o di quelli che li molestano in detto foro. Di quelli chi rapino le donne, Di quelli chi per forza corru1npino et violano le donne vergine. [fol. 20rJ De la simonia etia1n ignorantin1ente et uno simplice beneficio commesso. Dc quelli chi battine lo patri et la matr"i. De quelli chi gettano foco volontaria1nenti, oi di quelli chi donano aiuto et conciglio a quelli chi gettano lo foco. Di quelli chi mangiano carne nello ternpo di la quadragesi1na senza lcgitima causa et senza consiglio dcl nlcdico temporale et spirituale. Dc li fractori et violatori de la i1nn1unitate dc le ccclesic et dc la libertĂ ecclesiastica. Di quelli chi occupano le cose sacre oi li beni o ragione del vescovo et di ]'altri ecclesii et lochi pii et di quelli chi sano !'occupatori et non li rivelano. Di quelle chi occupano l'ecclesie vacante et di quelli chi ci dunano con conciglio aiuto e favori per 111enzo di li laici. Dc li laici li quali governano l'hospitali, scholi, lochi pii senza primo rendiri conto di l'ad1ninistrationi et di li beni chi hano pervenuto in le mani loro. Di quelli chi cligino li rettori et preti in l'ecclesie vacanti sub pretextu di iuspatronatus falso, et di li sacerdoti o clerici chi hanno consentuto a tali clcctioni e s'hanno inchiuso detti beneficii. Di li clerici chi non andana in habitu et tonsura. Di quelli chi violano volontariainente l'ecclesie con effusione di sangue oi dcl seme hu111ano. Di quelli previti li quali revelano la confessione sacrainentali oi ex patto si pigliano alcuna cosa per la confessione. Di quelli li quali non hanno sodisfatto li legati ad pias causas intra lo tcnnino statuto di la lcgc oi del testatore, oi nol hanno denunciato al ordinario. De le donne le quale se sotlomettino al pacto de altre donne et di quelle chi ci donano aiuto, consiglio et favore. Dc le donne 1naritate chi hano conceputo d'un altra persona chi del marito, se pure le figliole partorite suno spurie e sono reputate figlie del 1narito. Di quelle chi 1nandano a gettare li proprii figli a lo loco de la pietĂ , si pure hanno sufficiente facultĂ di poterle sustinere, eccetto chi non li provedessero di l'alimenti. [fol. 20v]
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Di li concubinarii et di quelli chi tenino donni sospetti di la incontinenza, le quale con lutto chi siano am1noniti non s'hanno voluto desistiri. Di quelli chi <lunano vencno a biviri acciochì alcuno se more oi alcuna donna non possa concepire ai chi si di verta. De li heretici, schismatici et usurarii et di li notarii chi fanno li contratti
usurarii. Di li 1nariti chi lassano li sai mugleri senza legitiina causa, et e converso li n1ugleri chi lassano li mariti senza causa legiti1na. Di quelli chi suno ordinati ad alcuno ordini sacro senza liccnlia di loro ordinario o per salto, et di quelli chi celebrano scientementi in la ccclesia polluta et interdetta, oi con laici ai altre non sacrate, o innanti giorno o poi di nona, o in case private senza licentia del superiore. Di quelli chi sepeliscono l'herctico o cxco1nmunicalo, interdetto, usurario manifesto et altri simili in loco sacro. { 143} - Dc la forma chi si ha da tenere in lo contrahire del nlatrimonio
Item statuin10 et ordinamo chi in li matrin1onii contrahendi s'osservi diligenti1ncnti lo decreto del sacro Concilio Tridentino del tenore seguente [Cane. Trid .. sess. XXIV, de ref rnatr., c. I, COeD, 755-757]. Ancorchì non sia da dubitare chi li 1natrimonii clandestini fatti con lo libero consenso di li contrahenti siano fatli et veri 1natrirnonii, 1nentri chi l'ccclesia non l'ha fatto extraheri, et perciò legitimamenti se debbiano condennare, cossì come lo santo Conciglio l'excommunica et li condanna, quelli li quali negano detti matri1nonii essiri contratti et veri, et falsamenti affermano li matri1nonii contratti da li figli di fan1iglia senza consensu di loro patri e matri cssiri irriti, et chi ditti patri pano resecare con fari irriti tali 1natri1nonii. Nondi1nino la santa ccclesia per so iustissime cause sen1pre ha detestato et prohibito quelli 1natri1nonii, ma advertendo lo santo Conciglio chi quelle prohibitionc per la inobedientia degli hon1ini non giovano, considerando li gravi peccati chi nascono da questo 1natrirnonio clandestino, e massi1ne quelli chi stano in slato di dannalionc, quando chi havcndo lassato la propria mogliera con la quale hanno contratto inatrimonio sccretarncnte di poi contrahino n1atri1nonio con altra donna publica1ncnle, con quella campano in perpetuo adulterio; ali quali inali non si potendo da la ecclesia, la quale non giudica dc le cose occulte, dare soccorso, eccello chi con più efficacia si ci doni alcuno rernedio. Percioché seguendo li vcstigii del sacro Conciglio Lateranense celebrato sotto Innocentio tertio [cf Cane. Lateranense IV, 51; COeD, 258], con1manda chi di qua innanti, primo che si contraha matrilnonio, si debbia tre volte dal proprio parroco dcl contrahentc, in tre giorni di festa continui, in la ccclesia, in inenzo li solenni di la 1nissa, publicaincnte denunciare infra quale persone si ha da contrahere 1natri1nonio el, fatte le delle denunciatione, si non si presenta nixuno i1npedimento, lo giorno [fol. 2 lr] si debbc procedere ala celebratione dcl matri1nonio in facie ecclcsie; onde li
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administraturi di sacramenti, poi chi haveranno interrogato l'huomo et la donna et inteso l'animo e consenso d'intratnbo dui dica: «Ego vos coniungo in rnatri1nonium in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti», oi uti altro ordine et palare ricevute da ogniuna provincia. Et si alcuna volta serrà probabile suspitionc chi lo rnatri1nonio si possa 1nalitiosamenti i1npedire s'innante si farrano tale denunciatione, alhora in detto caso oi si faccia una dcnunciatione, oi alineno in prescntia del ad1ninistratore oi di dui o tre testimoni si celebri il matrimonio et da poi, prius chi si consumi il matrimonio, si faccino le denunciatione in le ccclesie, azochì si ci sono alcune denunciationi d'impcditnento piò facilmente si po' scotnbogliare, eccetto chi l'ordinario non giudicasse essere rneglio non si fare le dette denunciationi, il che il santo Conciglio re1net1i al giudizio et prudentia anco del'ordinario. Et si alcone tentiranno altrainente contrahcre matrimonio senza essere presenti l'administratore et senza due o tre testi1nonii, a questi tali lo santo Conciglio li fa inhabili a contrahere del detto modo; et questi contratti li dona per irriti et nulli, cossì come per lo presente decreto si fa irriti et nulli; et li adininistraturi oi altri sacerdoti, li quali con manco numero di tcstimonii, e li teslimonii li quali senza l'ad1ninistratore o sacerdoti siano presenti a questo contratto 1natrimoniale, et ancora essi contrahenti cornanda chi siano graveinenti puniti ad arbitrio dcl'ordinario. Et ancora il detto santo Coneiglio {Tridentino} essorta che lo marito et la 1noglieri non habbiano insien1i videsmi casa, innante chi pigliano la beneditionc sacerdotale in la ecclesia, et chi la benedittione si faccia del proprio administratorc e non da qualsivoglia altro; se no da esso adn1inistratore oi da l'ordinario si possa concedere licentia ad altro sacerdote a fare la della bcneditione, non obstanle qualsivoglia privilegio oi consuetudine i1nmemorabili essere licito fare la detta beneditione, haverà presumuto coniungere n1atri1nonio oi benediri le spose de la ecclesia senza licenza del parochano di detti sposi, ipso iure tanto ten1po stia suspeso finché sia assoluto dal'ordinario di quello parroco lo quale dovea essere presente al 1natri1nonio o dal quale se dovrà pigliare la bcneditione. Et di più l'administratore habbia uno libro in lo quali si descriva li no1ni di li sposi et de li testimonii, il giorno et locho del matrimonio contratto; lo quali libro con diligentia Io guardi et tenghi in potiri suo. Ulti1namenti lo sacro Conciglio essorta le spose chi inanti chi contraheno, almeno per tre giorni inanti chi consu1nano il 1natrirnonio, si confessino diligenti1nenti loro peccati et piamcnti vadano a pigiare lo santissiino sacran1cnto di la Euchuristia; et se alcune provincie, oltra la preditta solle1nnitate in questo caso usano altre laudabile constitutione et ceremonie, quelli lo santo consiglio grandcmenli desidera chi 01nninamenti si ritengano. E acciò questi precepti siano salubri, non siano nascosti ad alcuno, comanda a tutti l'ordinarii chi quanto piò presto potranno [fol. 21 v] habbiano cura fare publicarc questo decreto al populo et farilo esplicare a tutti et singuli ecclcsi di loro diocesi; et questa publicatione per lo pri1no anno si faccia spessi volti, et da poi queste volte vederanno che serrà conveniente et di più comanda chi questo decreto inco1ncnza
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havere il suo vigore in ogni cità poi di trenta giorni, da contarsi dal giorno chi sarà falla la pri1na publicatione in detta cità. { 144} - Chi li notari non debbiano publicare li contratti matri1noniali se pri1na non su stati fatti li denunciationi et publicationi dc li 1natrimonii per li administratori di sacrainenti Item statuiino et ordinamo a tutti et singuli notari de la nostra diocesi et di questa cità chi non debbiano né presumano stipulari contratti sponsalitii per vcrba de presenti, o subarrationi di anello o instrumenti dotali, eccetto chi non siano stati fatti li denuncii et publicationi preditli, iuxta forn1ain capitoli precedenti, sotto la pena di essiri gravilnenti puniti ad arbitrio nostro o del nostro vicario. { 145} - Chi si facciano li inventarii di li beni di li ecclesii
Et acciochì li beni di li ecclesii tanto 1nobili co1ne stabili non si vengano a pcrdiri per negligentia et ignorantia di li prelati o retturi di dctli ccclesii, statuimo et ordinan10 a tutti singuli retturi et administraturi di la ecclesia, 1nonasterii et altri qualsivoglia lochi pii chi, re1nanenti freni e ferini cl in questa constitutione intesi per rcpetuti li peni e censuri olitn editi e promulgati, tanto per li constitutioni di la felici recordationi di Paulo 11, come di li altri su1nmi Pontifici et per la dispositioni di li sacri canoni, contra quelli chi senza decreto di !a Sedi Apostolica alienano li beni stabili di la ccclcsia et sacri lochi, quelli li quali al presenti sono rettori et ad1ninistraturi, intra tennino di dui inesi, da contarsi dal giorno chi serrano promulgati le presente eonstitutione, e quelli li quali serrano in futuro, infra tern1ino di uno rnisi dal giorno chi piglierano la possessione di delta rettoria, insie1ne con dui gentilho1nini li più antiqui et con lo capitano di ditta cità o terra dove è situata la ditla ecclesia o loco pio, debbiano fare uno inventario di tutti li beni rnobili e stabili di la ecclesia e lochi prcditti, annotando in uno libro tutti li vasi sacri distinta1nenti, renditi censuali, vigni, terri seu tenuti, casi et altri possessioni con sue qualitati et confini, scrivendoli o f<lcendoli scriviri con la subscriptione di li dai gentilhomini e capitano. E fatto lo ditta inventario, ffol. 22r] una copia aulhcntica del detto inventario si legna in potere del detto rettore et administratorc et un'altra in potere del dillo capitano oi di li <lui detti gentilho1nini, et un'altra copia siano tenuti presentarla ala nostra corti episcopali; la quali copia d'inventario voli1no chi si trasfcrixa in uno libro speciahncnti destinato a questo effetto in !a nostra corte ad perpet1u1n1 rei rnetnoriam.
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{ 146} - Chi quelli chi novarncnti suno stati provisti di beneficio debbi ano ancora presentare l'inventario Item co1nandarno et ordinarno a tutti quelli li quali in futurum receveranno le ecclesii o lochi prcditti debbiano fare li detti inventarii e quelli presentari in la nostra corte episcopali innanti chi incon1inzano a n1inistrare li beni et frutti di le ecc!esie et lochi preditti, declarando che quelli 1nedesi1ni chi sono novamenti previsti di benefici, ccclcsii et lochi preditti siano privati di tutti frutti e renditi perceputi innanti la confettione di decto inventario, e quelli si dcbbiano applicare a la cainbera
episcopale. { 147). lten1 ordinamo ancora chi ogni ecclesia, quello il quale di detta cura di dcttn ecclesia debbia tenere uno libro parlicolarc et tengano descritti li noini et cognon1i di tutti e singuli parrochiani di detla ecclcsia. { 148} - Chi non si pozano cxpignorare li beni ecclesiastici
Ite1n ordina1no chi nixuno, sia chi si voglia, non presuma impignorari li calici, li cruci, li vcsti1nenti e qualsivoglia altri ornan1cnti ecclesiastici per qualsivoglia urgente necessilà, senza nostra expressa !icentia; sotto pena di unzi vinti da applicarsi alla can1bera episcopali et di altri peni reservati a noi o al nostro vicario. [ 149} - Contro l'occupatore di beni ecclesiastici
S'alcuno laico o clcrico occupa ai deteni beni, oi possessioni, oi ragioni, oi instru1nenti, scritturi, oi qualsivoglia altra cosa spettante o pertinente a qualsivoglia ecclcsia, 1nonaslcrii, altari et lochi pii di la nostra diocesi debbiano havere notificato, consignalo et restituito ad essi de novo o a cui spettano, infra tennino di uno 1nisi dal giorno dela publicatione delc presenti constitutionc; altran1ente passato il ditta mesi quello chi a!Jo presente detenino, et si ancora in futuro alcuni occuperano et detern1nno, si serrano clerici incorrano in la pena di essiri privati di li benefici, ina si sarn.1110 laici, ultra la pena di la exco1nunica, la quale voleino chi tutti incurrano, s'intendano ancora privali ipso fatto di tutti privilegi ecclesiastici, proventi {... J 27 et ragioni [fol. 22v] co1ne si voglia obtcnti da la ecclesia [cf Cane. Trid., sess. XXII, de re{., c. 11, COeD, 741 ].
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proventi] lacuna nel testo
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{150) - De la investigatione de si1nili occupatori et oppressori di 28 1niserabile persone Ite1n statui1no et ordinamo chi lutti li clerici, massimi beneficiati, stiano registrati et attendano per acercari per suttili se ci sono alcuni chi detenino beni ecclesiastici, o decime, oi si ci sono oppressori 29 di la ecclesiastica libertati, di li lochi pii, de le vidue e de le pupille et altre 1niserabi!i persone; et si ni troveranno alcuno lo debbiano significare et rcfcrire a noi oi al nostro vicario, acciò contra questi tali si possa fari la debita provisionc; et quelli chi serrano ncgligcnli in questo serrano puniti sccundo la qualità di la persona [cf Cane. Trid., sess. XXll, de ref, c.
J 1. COcD, 741). { 151} - Chi si renda il conto di l'ad1ninistn1tione di lochi pii ogni anno
innanti i! vescovo ai innanti li deputati sai Et pcrchì li procuratori et priuri et allri si1nili administraturi di inulti ecclesii et altri lochi pii di la nostra diocesi spissi volti, a libito e voluntà loro, intro di sé dispensano a le fabrichc di detta ecclesia et lochi pii le rendite et proventi et oblationi chi provenino de dilli ecc!esii; oi ancora con li dinari et renditi di li ditti lochi pii, senza liccntia et consensu di li rettori di la ecclcsia et lochi prcditti, cercano li proprii co1nmodi; et alcuna volta fanno contralti vitiosi, non ti1ncndo convertiri li ditti dinari ad altri cosi privati, né attendino a rendiri conto di li dinari perceputi et inborzati per loro, defraudando li preditti lochi pii e le proprie anime. Et però acciochì li frutti, proventi, oblationi et cleemosine dc le ecclesie et lochi preditti siano ordinatamenti et laudabilmente dispensati, secondo le pie volontate di li fideli et dispositione di li sacri canoni, per la presente constitutione, conforme alli decreti del sacro Concig!io Tridentino, ordinamo chi tutti li predetti governaturi di dette ccclesic o lochi pii debbiano tutte cose dispensare fidelrnente, senza attendere alle loro privati commodi con la scientia et intervento del rettore oi suo loco tenente; et se1nprc attendino alla utilità di la ecclesia et di tutti e singuli spese, distributionc et atti fatti per loro, ogni anno, al tempo consueto, ne debbiano rendere conto fidelc e reale a noi o a nostro vicario, non obstante qualsivoglia privilegio per consuetudine in contrario; ma si per privilegio oi consuetudine alcuno oi constitutione di loco si dovesse rendere conto ad altre persone a recever detlo conto, alhora con dette persone s'introvenga {a} la nostra prcsentia o del nostro vicario, altrainenti le debite ralioni fatti a li detti ad1ninistraturi siano irriti et nulle et non servano nenti [cf Conc. Trid., sess. XXJJ, de ref, c. 9, COeD, 740]. [fol. 23r]
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di] scrive parola ifleggibile poi espunta oppressori] oppressi
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Adolfo longhitano { 152} - Chi si debbia no esscquire li dispositioni di li testatoti
EL perché è cosa inulto pia adimplcri et obscrvare le ultime volontà di li testatori, co1nc perpetui legi et al nostro officio pastorale pertienc prevedere a queste cose et defcndere et essequire li testamenti di li fidcli defunti, perciò comandamo cl ordinamo a tutti e singuli exequitori di testan1enti, tanto clerici co1ne laici, che senza dclongationi vogliano cssequiri qualsivoglia dispositione di li testatori alloro comn1isse et per essi una volta accettate, sotto pena di essere castigati ad arbitrio nostro o dcl nostro vicario [cf Cane. Trid., sess. XXII, de ref, c. 8, COeD, 740]. { 153} - Che non si debbia vigilare in le ecclcsie a tc1npo di notti sotto qualsivoglia pretextu Et perché per le vigilie de la notte che si fanno in le ecclesie __ _?i solino corn1nettere 111ulti enonni peccati, perciò ordinan10 a tutti et singuli, tanto prelati di n1onasterii con1e rettori di altri ecclesii, chi non perrniltano chi nelle loro ecclesii si facciano queste vigilie di notte et per qualsivoglia causa e necessità et per causa di voti; et quelli chi haveranno falli tali voti di vigilare in le ecclesie di qualche santo patrono, vigilare in !e loro case et in la notte pregare Jddio et li sanli, et cossì compiere ditti voti, sotto pena di essiri castigati sì grave1nenti ad arbitrio nostro o del nostro vicario. Ill.1nus et Rev.mus dominus Nicolaus Maria Dei et Apostolicae Sedis Gratia episcopus Catanensis degens in civitate Castri Ioannis, in discursu visitationis confinnat, rathificat et approbat 01nnes et quascumque constitutioncs et ordinationes et sinodales ac omnia et singula statuta, decreta, dieta ac capitula olìm per eurn factas ac facta in preteritis visitationibus in dieta civilatc usque ad pracsentern diem. Quibus quide1n constitutionibus, capitulis et edictis vidi et adiungi n1andat 01nnes et singulas alias ordinationes, constitutiones et sinodales ac omnia et singula capitu!a et statuta et decreta et edicta noviter per eum factas et facla in visitatione in ditta civitate in anno sae indictionis 1565, quas et quae inviolabiliter observari 1nandat sub poenis et censuris in eisdern contentis. Lette et publicate per rev.dum patrem 1nagistrun1 Christophorum Neapolitanu1n, theologun1, in pulpito Castri Ioannis matricis ecclesiae. [fol. 23v] Casus reservati ab ill.n10 et rev.ino episcopo di Catania Vincentio li Cultelli l. 2. 3. 4.
Absolutio ab exco1nunicationc a iure ve! ab homine Absolutio abutentiun1 sacra1nento Eucharistiae ve! aliis sacramentis Absolulio abutentiu1n arte rnagica Absolutio co1nmutationis votorun1 5. Absolutio cri1ninis pro quo venit irnponenda sole1nni poenilentia 6. Absolutio opprimentiun1 filios pro quavis causa
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7. Absolutio cri111inis cuiuscunque homicidii
8. Absolutio siinoniae ta1n in ordinibus quam in beneficiis 9. Absolutio inccndiariorum 1O. Absolutio procurantium abortu1n et etiain eorum qui consiliu1n et auxilium dcde1unt ut abortus fieret, licet foetus non sit animatus 11. Absolutio procurantium sterilitatem tam pro se quam pro aliis 12. Absolutio eorum qui fuerunt concubinarii 13. Absolutio corum qui non sunt bencdicti secundum consuetudincm ecclesiae vel qui praticaverunt cum sponsis ante benedictionem 14. Absolutio habentiu1n 1nalc oblata, certa vel incerta, si non cssent illi quibus est rcstitucndurn a tarenis duodecim supra 15. Absolutio criminis contra natura1n.
Synaxis 12 (1994) 217-232
LEIBNIZ, KANT E IL PROBLEMA DELLA TEODICEA
ENRICO PISCIONE'
1. L'ambito del problema Un confronto fra Leibniz e Kant sul terna della validità teoretica o meno della teodicea implica non appena, com'è naturale, un'esposizione critica delle posizioni dei due filosofi, ma anche un riferire, per lo meno nelle grandi linee, su quel dibattito attorno all"'ottimismo", che è stato fra i più vivaci del Settecento filosofico europeo. La Teodicea di Leibniz, sia per la data di pubblicazione e sia anche per la novità delle tesi che porta innanzi, ha costituito il punto di riferimento obbligato di tutta l'appassionata querelle settecentesca sul!' optimisme, per dirla col sottotitolo di uno scritto che ha avuto in quella discussione un posto d'onore, alludiamo al celeberrimo romanzo di Voltaire, Candide, sul quale dovremo tornare.
2. Prescienza clivina e libertà untana
La filosofia cristiana di Leibniz, di questo pensatore dominato da preoccupazioni davvero ecumeniche che si propose quasi di essere
* Docente di Filosofia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Enrico Piscione
il «legale difensore di Dio e del sno mondo»', si chiarisce in antitesi evidente alle posizioni di Spinoza. Il pensatore di Lipsia, nel Discorso preliminare sulla c011formità della fede con la ragione che costituisce, in un certo senso, il suo manifesto metodologico-apologetico, rifiuta infatti la separazione spinoziana fra fede e ragione e ritiene anzi che il lume naturale, «lungi dall'essere contrario al cristianesimo, serve da fondamento a tale religione»'. Si contrappone così esplicitamente anche a quanto andava sostenendo Bayle, il brillante e spregiudicato controversista che nel suo Dizionario storico e critico negava, appunto, con ricchezza di argomentazioni, qualsiasi approccio razionale alla fede cristiana. Nei saggi di Teodicea apparsi nel 1710 Leibniz non solo fa intravedere il nesso di continuità fra ragione e fede, ma cerca anche di dar corpo ad una conciliazione fra le varie confessioni cristiane e, in questo tentativo di dimostrare, almeno nell'ambito del cristianesimo, l'identità di fondo di tutte le dogmatiche, si serve proprio della discorsività razionale. Ora appunto uno dei labirinti in cui si perde la ragione u1nana e in cui si registra un 1naggior dissenso fra i cristiani, soprattutto dopo la riforma luterana, è costituito dalla grande problematica dell'origine del male con le connesse questioni della libertà dell'uomo e della giustizia di Dio: si tratta, per dirla con la parola cara allo stesso Leibniz, del problema della teodicea, ossia di quella disciplina filosofica che vuole tentare proprio un discorso razionale, come recita il sottotitolo dell'opera summenzionata, «stir la bonté de Dieu, la liberté de l'homme et l'origin du mai». Anche su questo scottante argomento Bayle aveva preso posizione ed aveva rinnovato, in pieno XVIII secolo, le antiche dottrine manichee dei due principi metafisici del bene e del male in perenne lotta fra loro. Di fronte alle conclusioni scettiche dell'Autore del Dizionario storico e critico cui il male appariva o come un quid
1 H.V. VON BALTHASAR, Gloria, V, trad. it., Jaca Book, Milano 1978, 419. Sul pensiero di Leibniz si può proficuamente consultare C. OTTAVIANO, Le basifisicon1eta.fisiclte della .filosofia di Leibniz, Muglia, Catania 1966. 2 G. W. LEIBNIZ, Teodicea, a cura di V. Mathieu, Zanichelli, Bologna 1973,
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limitante l'onnipotenza divina o, addirittura, come una colpa da imputare alla dispotica volontà del Creatore che l'avrebbe potuto evitare, Leibniz, filosofo spiritualista e uomo sinceramente religioso, avverte l'urgenza di difendere la "giustizia di Dio" e, più in generale, di mostrare la legittimità dell'uso della ragione nel territorio della verità rivelata. Entrando adesso nel vivo della questione della teodicea, non si può non osservare che essa implica una risposta alla grande domanda su come sia possibile conciliare la libertà dell'uomo con la prescienza di Dio. Leibniz si fa paladino della libertà umana; quest'ultima infatti, secondo il Nostro, non può mai ridursi alla libertas indijferentiae perché, se così fosse, essa, da un lato, rischierebbe di precipitare nell'insignificanza assiologica e, dal!' altro, ridurrebbe la prescienza divina a causa necessitante dell'umano agire. Appare chiaro infatti che un Dio che tutto prevedesse e tutto necessaria1nente determinasse non solo, co1ne si è accennato, annullerebbe la moralità dell'azione umana, ma conferirebbe allo stesso attributo del!' onnipotenza un carattere dispotico. Leibniz non vuol cadere nell'ingenuità teologica, tanto nefasta, di un Guglielmo d'Ockam secondo cui l'onnipotenza divina non sarebbe sottoposta a nessuna legge, sebbene stabilita ab aeterno. Per uscire da questa impasse, lAutore «da teologo scaltrito nella terminologia che è propria di una questione fra le più ardue, se non la più ardua senz'altro della mente umana»\ propone una sottile distinzione fra necessità assoluta e necessità ipotetica. La prescienza divina apparterrebbe al secondo tipo di necessità e per questo Leibniz può sostenere che gli avvenimenti contingenti non mutano la loro natura perché scelti da Dio. L'Autore non cancella dunque la radicale contingenza della libertà umana, giacché per lui il fatto che Dio conosca il futuro inclina ma non necessita il volere dell'uomo. La famosa massima «astra
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C. FABRO, La preghiera nel pensiero 111oderno, Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma 1979, 147.
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inclinant non necessitant» potrebbe ben sintetizzare il nesso dialettico che, secondo il filosofo di Lipsia, s'instaura fra prescienza divina e umana libertà. Convinto della efficacia argomentativa di questo ragionamento, l'autore della Teodicea si scaglia, pertanto, contro quel procedimento logico che gli antichi chiamavano il «Sofisma pigro», ossia l'inferire dall'onniscienza divina la conclusione che la salvezza non richiederebbe l'impegno della libertà umana a collaborare con la bontà di Dio. Chi assumesse un tale atteggiamento esistenziale, al fondo fatalistico, si collocherebbe, secondo Leibniz, in una situazione che è estremamente distante dall'autentica sensibilità morale cristiana, la quale attribuisce un grande ruolo, per il raggiungimento della salvezza, al gesto umile, ma spiritualmente efficace, della preghiera. Se quanto detto è vero, non sapremmo dire se possa, e fino a che punto, essere condivisa la tesi di Jean Guitton che ha voluto vedere nella Teodicea «la traduzione in linguaggio razionale della predestinazione 1uterana» 4 .
Leibniz, invece, contro il razionalismo irreligioso di Spinoza e contro il misticismo quietistico di Fénelon, sottolinea, con estremo vigore, accogliendo la posizione cattolica, che l'uomo è chiamato ad un impegnativo rapporto personale con Dio che Io liberi, ad un tempo, dalla presunzione che possa salvarsi senza l'aiuto della grazia, ma anche da un pigro fatalismo che lo spingerebbe a svalutare lapporto del suo agire meritorio.
3. L'origine del male
L'altro grande tema della Teodicea è la riproposizione di un famoso interrogativo di Boezio, di chiara impronta agostiniana: «Si Deus est, unde malum? Si non est, unde bonum?>>'. E sulle orme di Agostino Leibniz fa sua la tradizionale distinzione fra male metafisico, fisico e morale. La trattazione da parte del Nostro del tema del male
4 J. GUITTON, Pascal et Leibniz. Étude sur deux type des penseurs. AubierMontaignc, Paris 1951, 114. 5 G. W. LEIBNIZ, op. cit., 169.
metafisico e fisico non presenta, rispetto a quella del vescovo d'Ippona, particolari novità o spunti originali; il punctwn dolens anche per il filosofo di Lipsia rimane la genesi del male morale, ossia l'enigma di quel disordine etico che è il peccato. In linea con l'ortodossia cristiana e polemizzando col neo-manicheismo di Bayle, Leibniz intravede nel!' agire peccaminoso dell'uomo lagostiniana «aversio animi a Dea», che va imputata soltanto alla responsabilità umana. Dio non è, in alcun modo, la causa determinante del peccato, può semmai solo "permetterlo". Sul mistero della "permissione" del male da parte di Dio l'Autore della Teodicea ha scritto pagine davvero interessanti ed originali, che trovano il loro fulcro teorico nella distinzione, d'origine tardo-scolastica, che Leibniz riprende, fra voluntas a11tecedens che vuole il bene in sé e volu11tas co11seque11s che vuole il meglio. Dunque la volontà di Dio ha dei gradi, ma solo la volontà consegnente risulta quella finale e decisiva. Da qui la lineare conclusione leibniziana che «Dio vuole tutto il bene in sé antecedentemente, e vuole il meglio conseguentemente, con1e un fine» 6. Effetto della voluntas consequens è che Dio crea liberamente il mondo come il migliore dei mondi possibili. L'eterna bontà divina, se è valido il leibniziano criterio del meglio che presiederebbe alla misteriosa logica del!' azione creatrice di Dio, "permette" dunque il peccato, ma solo a titolo (per riprendere una nozione già usata a proposito della prescienza divina) di necessità ipotetica e, comunque, sempre finalizzandolo ad un bene superiore. L'argomentazione del nostro Autore mira ad eliminare, alla radice, ogni possibile conflitto fra male del mondo e gloria divina ed approda all'esaltante certezza con cui si chiude la prima parte della Teodicea che «non c'è niente di così sublime come la saggezza di Dio, niente di così giusto co1ne i suoi giudizi, niente di così puro con1e la sua santità e niente di più immenso della sua bontà» 7 .
6 7
Ibid., 172. Ibid., 222.
222
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Certo, Leibniz volle essere il difensore, secondo il significativo titolo di un suo scritto, della causa Dei. Tuttavia l'imperturbabilità con cui iI suo Dio governa, anziché amare, l'uni verso come il più perfetto dei monarchi, lascia perplessi. L'obiezione appare abbastanza semplice: ci si chiede, cioè, se il Dio di Leibniz non abbia perduto il volto personale di Cristo e non rientri nel pascaliano dieu des philosophes o, addirittura, non si identifichi col Dio - geometra dei deisti. E se, forse, può apparire eccessivo il giudizio di un Meinecke secondo cui il sapiente architetto leibniziano «che con superiore saggezza e con piena consapevolezza diede vita a questo mondo, con tutte le sue deficienze, come al migliore dei mondi possibili, 11011 era altro che il più perfetto uomo» 8 , è innegabile, tuttavia, che ne11'universo di Leibniz, così naturalmente ar1nonico, è assente il senso del dramma del peccato e della redenzione e che la gloria di Dio presenta un «carattere d'intangibilità da parte di qualsiasi elemento tragico» 9 .
La Teodicea, che più di ogni altro scritto dovrebbe, proprio in forza del suo stesso contenuto, essere pervasa da un intenso pathos ed evidenziare l'abisso del peccato dell'uomo e l'inimmaginabile gratuità della misericordia divina che soccorre la debolezza umana, appare davvero, secondo un acuto suggerimento di Von Balthasar, «Un ostensorio grandioso»w dove manca, però, ciò che dovrebbe stare al suo centro, ossia la Passione redentrice di Cristo. È forse questo il motivo fondamentale per cui la riflessione leibniziana, pur tanto generosamente protesa a difendere - se così è lecito dire - i diritti di Dio, risulta poco convincente e, comunque, incapace di dire una parola realmente persuasiva all'uomo moderno che si dibatte fra sazia incredulità ed inquieta ricerca del Redentore.
11
F. MEINECKE, Le origini dello storicis1110, lrad. iL, Sansoni, Firenze 1970,
9
H. V. VoN BALT!-!ASAR, op. cit., 427. fbid., 429.
17. JO
4. Il dibattito sull"'ottimismo" La tesi leibniziana del mondo come «il migliore dei mondi possibili» trovò consensi e dissensi e coinvolse in un'interessante disputa pensatori, solo per citare i più grandi, della levaturà di Voltaire, Rousseau e Kant. Fu il terribile terremoto di Lisbona del novembre 1755 che spinse Voltaire a scrivere l'anno seguente appunto il Poema del disastro di Lisbona nel quale esclamava con feroce spirito corrosivo: «Philosophes trompés, qui crìez tout est bien Accourcz, conte1np!ez ces ruines affreuses, Ces débris, ces lambcaux, ces cendrcs malheureuses» 11 •
Nel 1759 il filosofo francese pubblicava contro l'ottimismo leibniziano il suo famosissimo Candido. Le tragedie della vita non riescono a mettere in discussione e ad intaccare I' optimisme ad oltranza con cui Pangloss, il maestro di Candido e, per così dire, il portavoce letterario della Teodicea leibniziana, educa il suo giovane discepolo. Pangloss, alla fine del racconto, pur ricordando, quasi a mo' di sintesi, tutti gli avvenimenti tristi ed incomprensibili che hanno segnato la vita di Candido, tuttavia s'incaponisce ancora nel sostenere 1eibnizianamente che gli uon1ini vivono nel «migliore dei mondi possibili» in cui «tutti gli avvenimenti sono concatenati fra loro» 12 • Il maestro di Candido incarna la figura del filosofo astratto che, sostanzialmente per una forma di orgoglio intellettuale, si ostina a ripetere le sue teorie ampiamente smentite dalla realtà. Di Pangloss scrive Voltaire che «avendo sostenuto una volta che tutto va a meraviglia, seguitava a sostenerlo pur non credendoci affatto»"-
11 Citato nell'introduzione di G. Nicoletti a F. M. ÀROUET ])E VOLTAIRE, Candido ov\lero de!l'ottù11is1110. Lettere sugli inglesi e altri scrilfi, trad. it., UTET, Torino 1962, 13. 12 lbid., 137. 13 Ibid., 133.
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Più positiva di certo appare la personalità di Candido che, ammaestrato dalle vicende della propria esistenza, si schiera, si direbbe, per un pessimismo teorico e per un ottimismo pratico, abbracciando una Weltanschauung in cui è più importante agire bene che discutere, attribuire un primato al lavoro fecondo piuttosto che alle dispute inutili. Da qui la celeberrima battuta finale del romanzo: «Giusto rispondeva Candido, - ma bisogna coltivare il nostro orto» 14 . Agli occhi del filosofo francese, lottimismo di Leibniz risulta dunque non soltanto privo di giustificazione razionale, ma evasivo, se non addirittura "empio". La satira feroce a cui è sottoposto Pangloss non nasce nel nostro Autore - ed è interessante osservarlo - da una pregiudiziale atea, ma dalla convinzione dell'impossibilità di difendere la "causa di Dio" a partire dalla presenza del dolore e del 1nale. Voltaire infatti «riesce è stato acutan1ente scritto - a "giustificare" Dio solo nella misura in cui lo colloca lontano dalle vicende u1nane» 15. Nel 1759, lo stesso anno della pubblicazione del Candido, il Kant della fase precritica apportava il suo contributo alla tanto dibattuta questione sull'ottimismo dando alle stampe il breve ma significativo saggio Ober den Optùnismus. Anch'esso si riferisce alla querelle originata dalla grande calamità di Lisbona, argomento peraltro, questo dei terremoti, che Kant aveva affrontato in due articoli dall'impostazione severamente scientifica, Sulle cause dei terrenzoti, Consiclerazioni aggiuntive sui terrenzoti accacluti negli u!tùni te111pi.
Lo scritto kantiano sull'ottimismo ha un tono certamente parenetico-consolatorio e l'Autore, che è ancora sotto l'influenza della lezione metafisica del filosofo di Lipsia, sostanzialmente condivide le tesi della Teodicea. Citiamo qui, a titolo esemplificativo, un'affern1azione che sen1bra quasi essere stata scritta da Leibniz. «Per
il fatto stesso che Dio - osserva Kant - ha scelto solamente questo
14
/bid., 137.
15
S. NICOLOSI, Le origini del deis1110 in Voltaire e ne/l'Enciclopedia, in
Sapienza 45 (1992) 152.
Leibniz, Kant e il problema della teodicea- - - - - -225 -------
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mondo tra tutti i possibili che Egli conosceva, deve averlo ritenuto il migliore, e dato che il suo giudizio non falla mai, esso è effettivamente il migliore» 16 • Ma anche ammesso e non concesso - sostiene il nostro appartato filosofo verso la fine dello scritto - che non si riesca a dare una dimostrazione rigorosamente argomentativa della dottrina leibniziana, la tesi del migliore dei mondi possibili va comunque accettata per nna decisione della volontà e una coraggiosa opzione etica, capace di supplire alle eventuali carenze del ragionamento propriamente teoretico. «Se sarò costretto - scrive il nostro Autore che incomincia forse, suo malgrado, a filtrare le ottimistiche posizioni di Leibniz attraverso il vaglio di un incipiente rigore cdtico - a scegliere tra errori, preferisco in ogni caso quella buona necessità in cui ci troviamo bene e dalla quale non può nascere se non !'ottimo. Perciò sono convinto, e con 1ne forse è convinta una parte dei miei lettori, e sono al contempo ben lieto di ritrovarmi cittadino di un mondo che non era possibile fosse migliore»". Questa enunciazione di natura pragmatica non impedisce, però, a Kant di chiudere il saggio con un tono intensamente lirico che è difficile ritrovare poi nella produzione successiva del filosofo di Kiinigsberg, così guardingo nel suo procedere e così timoroso che l'uomo possa essere ingannato dall'illusorietà del nulla. E proprio nell'ultima battuta del saggio il pensatore, continuando a parlare in prima persona, pur già cosciente del limitato potere conoscitivo concesso alla «debole mente umana», può con esaltante certezza affermare: «Mi guarderò attorno fino al limite massimo al quale mi sia dato arrivare e comprenderò sempre più che l'intero è l'ottimo, e tutto è buono in rappmto all'intero»". Uu illustre studioso di Kant, Mariano Campo, coglie per l'appunto in questa
16 E. KANT, Saggi di talune co11sideraz.io11i s11ll'ottii11is1110, in Scritti precritici, a cura di P. Cucaballesc, nuova edizione riveduta e accresciuta da R. Assunto e R. l-lohencmser, Laterza, Bari 1953, 96. Si tenga presente, fra l'altro, che nel 1753 I' Accade1nia berlinese aveva bandito un concorso dal titolo: «On detnande l'examen du systètne de Pope, conteno dans la proposition: Tout est bicn>>. 17 lbid., 97. rn Ibid., 98.
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operetta del pensatore di Konigsberg «I' ottimismo superficiale col suo poco o nessun senso del peccato e del male, della tragicità del libero arbitrio, e con la sua misconoscenza della carità redentrice: Leibniz superficializzato in Pope» 19 • Kant - sappiamo dalla testimonianza di Borowski, uno dei suoi primi biografi - rinnegherà le conclusioni del suo giovanile scritto Sull'Ottimismo e ritornando, più di un trentennio dopo, sul tema della "giustizia di Dio" nel saggio Sull'insuccesso di ogni tentativo di teodicea, di cui ora dobbiamo occuparci, approderà ad una posizione molto distante da quella di Leibniz che aveva ispirato le sue prime riflessioni sull'argomento. Non ci pare tuttavia storiograficamente corretto presentare il Kant della maturità come il "padre del pessimismo'', perché già nei Sogni di un visionario che sono del I 766 e poi nelle successive opere della fase critica, il filosofo di Konigsberg, seppur nega il carattere di scienza della metafisica, non rinuncia comunque alla cosiddetta "fede morale" che lo porterà ad abbracciare una visione moderatamente ottimistica della vita, illuminata comunque da quella speranza nel cui nome non è possibile tollerare «il pensiero che tutto finisce con la morte» 20 . Certamente non sarà un caso fortuito che Kant concluda i Sogni di 1111 visionario con l'espressione che Voltaire - l'abbiamo già ricordato - pone sulle labbra del suo Candido: «Fateci attendere alla nostra sorte, lasciateci andare in giardino e Iavorare» 21 , quasi che il
Nostro voglia sottolineare che la fede morale fonda i valori, al di là delle incertezze della pura teoresi e delle diatribe oziose dei sofisti di ogni epoca.
19
M. CAMPO, la genesi del criticis1110 kantiano, part. I e II, Magenta, Varese
1953, 202. 20 E. KANT, Sogni di un visionario chiariti con sogni della 111etafisica, in Scrùti precritici, cit., 426. 21 Ibid., 427.
5. La radicale contestazione kantiana di ogni teodicea
Introducendo la traduzione italiana del saggio kantiano Su/l'insuccesso di ogni tentativo di teodicea che è del 1791, Arturo Massolo opportunamente osserva che nello scritto del filosofo di Konigsberg «Dio non è al centro, ma al centro è l'uomo che discute di Dio»"- E il filosofo che si occupa di teodicea impegnandosi, come avvocato della difesa, a sostenere la "causa di Dio", si coinvolgerebbe in un'impresa filosofica fallimentare in quanto non riuscirebbe, secondo Kant, a scagionare la saggezza divina di essere responsabile del dolore umano. Alla tesi tradizionale secondo cui l'umana sofferenza servirebbe a redimere l'uomo e a renderlo degno della felicità che non avrà mai fine, Kant ribatte che la bontà di Dio sarebbe stata in grado, se l'avesse voluto, di escogitare uno strumento diverso atto sia a purificare l'uomo che a costituire le condizioni per le quali «la creatura fosse contenta di ogni epoca della sua vita» 23 • L'Autore contesta dunque che la teodicea possa avere la dignità di un'esposizione dottrinale, perché non è possibile individuare una connessione fra mondo sensibile e mondo intelligibile. Con grande vigore e forte convinzione Kant, che ha già sostenuto nella Ragion pura l'impossibilità della metafisica come scienza, afferma appunto che «la nostra ragione è assolutamente incapace di intendere il rapporto che c'è tra un mondo, quale è quello che noi possiamo conoscere sen1pre attraverso l'esperienza, e la saggezza supre1na» 24 . V'è una spaccatura de jure e de facto fra i due mondi e fra loro non è possibile instaurare alcuna Verbindung. Ed ancora in modo perentorio, quasi a dissipare ogni possibile dubbio, scrive il Nostro: «Ma non possediamo né possiamo sperare di giungere a possedere il concetto della unità concorde di quella saggezza artistica con la saggezza n1orale in un mondo sensibile» 25 . Solo una rivelazione divina potrebbe coslituire un nesso fra i due n1ondi, 1na «a tale conoscenza
22 Cfr. la nota introduttiva dì A. Massolo alla trad. it. dell'opera di E. Kant, Su/l'i11s11ccesso di ogni tentafipo di teodicea. in Studi Urbanali 29 (1955) 5. 23 E. KANT, op. cii .. 11. 24 lbid., 14. 2s L.c.
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però nessun essere 1norta1e può mai arrivare» 26 . La conclusione, dunque, è quanto mai lineare. «Ogni teodicea, fino ad oggi, non ha mantenuto - scrive Kant - la sua promessa: giustificare, cioè, la saggezza morale nel governo del mondo contro i dubbi che vengono sollevati e che si fondano su ciò che insegna l'esperienza del 1nondo» 27 . La realtà mondana pertanto, quando da essa pretendiamo di risalire all'interpretazione finale che ne dà Dio, non può non rimanere per noi uomini, secondo l'incisi va espressione kantiana, «Un libro chiuso». Se dunque ogni teodicea dottrinale è votata immancabilmente all'insuccesso, tuttavia Kant non chiude un possibile s1liraglio ad un altro tipo di discorso sulla "giustizia di Dio", diremmo quasi ad una teodicea esistenziale. Si tratterebbe, in questo caso, «dell'interpretazione non di una ragione argomentante (speculativa) com' egli spiega - ma di una ragione pratica e imperativa» 28 • Chi nell'Antico Testamento ha incarnato questo tipo di teodicea e ne ha dato quasi un'autenticazione esistenziale è Giobbe che, a differenza dei suoi amici, secondo l'esegesi kantiana, fondava la sua fede in Dio sulla moralità. Kant è proteso a cogliere la differenza fra l'atteggiamento spirituale degli amici di Giobbe, evasivamente consolatorio, e quello di Giobbe stesso più realisticamente drammatico e soprattutto più sincero. Quest'ultimo, infatti, pur riconoscendo che la coscienza non gli muove alcun rimprovero per l'intera sua vita e che, per ciò che concerne le inevitabili debolezze dell'uomo, Dio stesso saprà bene di averlo fatto una creatura dehole, si dichiara per il sistema della incondizionatezza del decreto divino. «Egli è unico dice - e fa quello che vuole» 29 • A questo misterioso ed affascinante personaggio del!' Antico Testamento, presentato dal filosofo di Kiinigsberg come uno spirito profondamente pio ed autenticamente umile, egli mette in bocca,
26
21 28 29
Jbid., 15. L. c.
lbid., 15-16. !bid., 16.
parafrasando il testo di Giobbe 27,5-6, parole di una notevole finezza spirituale: «Finché non verrà la mia fine, io non voglio dipartirmi di un passo dalla mia pietà» 31 '. Vale la pena fare ancora un'altra citazione di questo testo kantiano tanto interessante e, in fondo, poco conosciuto, in cui il filosofo di Konigsberg tesse un appassionato elogio della figura di Giobbe. «Dunque soltanto la purezza del cuore - osserva ancora il nostro Autore - non la superiorità di conoscenza, l'onestà di confessare schiettamente i propri dubbi, e la ripugnanza a simulare convinzioni che non si hanno, soprattutto avanti a Dio (dove questa malizia è senz'altro priva di senso): queste sono le qualità che hanno determinato il giudizio a favore dell'uomo onesto nella persona di Giobbe e contro il pio simulatore» 31 • Italo Mancini, da par suo, così sintetizza la posizione del Giobbe kantiano: «La sincerità vale più della verità, la purificazione del cuore più della confessione dogmatica; la trepida libertà di pensiero più della simulazione di credenze che non reggono, perché al pensiero non si dà nulla ad intendere. Vincere la cattiva inclinazione della natura umana restituendola alla sincerità 01iginaria, questo val più di posticci articoli di fede»n La pagina di Kant su Giobbe merita - anche se andrebbe collocata, a parer nostro, in un contesto speculativo diverso - una ripresa, e questo spunto kantiano di una possibile teodicea esistenziale - secondo noi - non va fatto cadere, perché fecondo di possibili sviluppi.
6. Osservazioni conclusive
Sarebbe troppo facile, anche se 111 linea di massima corrispondente al vero, contrapporre Leibniz a Kant e additare nel
fbid., 18. L.c. I. MANCINI, Il 111011do dei fini e la teologia di Kant, in AA.Vv., Ricerche sul «regno dei fini» kantiano, a cura di A. Rigobello, Bulzoni, Roma 1974, 31-32. ;\O
31 32
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primo il convinto difensore della "causa di Dio" e nel secondo il radicale teorico dell"'insuccesso" di ogni forma di teodicea. Certo, fra i due si può constatare una profonda differenza nella prospettazione del tema della teodicea che li porta ad esiti diametralmente opposti. Per il filosofo di Lipsia, infatti, è legittimo condurre un discorso filosofico sulla giustizia di Dio proprio perché egli instaura, a differenza di Spinoza, un legame di continuità fra fede e ragione, fra il lume naturale e la rivelazione cristiana. Per il pensatore di Kiinigsherg, invece, - labbiamo già sottolineato - non si d~r connessione alcuna fra mondo sensibile e mondo intelligibile, né tanto meno noi uomini riusciremo mai a possedere la nozione dell'unità concorde» (der Einheith in der Zusammenstimmung) che originerebbe una connessione fra la saggezza di Dio e le vicende, spesso così disarmoniche, della concreta storia umana. Ora però, prima di passare ad ulteriori considerazioni sulla figura del Giobbe kantiano, vorremmo ribadire, con Leibniz contro Kant, che la teodicea, anche nella sua forma non argomentativa, così come d'altra parte il problema dell'immortalità dell'anima, implica necessariamente una dimensione metafisica della realtà o, quanto meno, per usare una felice espressione di Armando Rigobello, un <<in1pegno ontologico». 11
L'espressione di1nensione metafisica" non indica tanto e in prima istanza, a parer nostro, l'elaborazione di un compiuto sisten1a
dottrinale, quanto la possibilità di instaurare un nesso, Kant direbbe una Verbindung, fra sfera naturale e sfera sovrannaturale dell 'hwnaine condition. Nesso che si riesce a costituire meglio, a parere di chi scrive, con quel n1etodo er1neneutico-se1nantico di cui Paul Ricoeur ci ha offerto un grandioso esempio nella sua Simbolica del maleJJ, piuttosto che con gli strumenti della ragione discorsiva. Non è infatti possibile dare un'interpretazione positiva dell'inevitabile angustia delle coordinate spazio-temporali in cui si svolge la vita umana e ancor di più dell'esperienza del dolore se gli
33 Sul teina della teodicea basata sul 1netodo ermcneutico-se1nantico in Ricoeur, ci permcttian10 di rinviare al nostro saggio E. PISCIONE, La sùnbolica del nude in Ricoeur co1ne scopel'fa del Sacro, in Pet fa filosofia 131 (1988) 111-115.
231 uomini non riescono ad inserire la loro vicenda in un contesto ontologico che, sottraendola alla deriva nichilistica e ad un esito ultimamente disperato, non alluda in qualche modo, magari attraverso ciò che Marce! chiamerebbe gli «approcci concreti» del mistero dell'essere, alla trasfigurazione religiosa dell'umana condizione. Questo significa che un'autentica teodicea, oltre a richiedere, come si diceva, una dimensione metafisica, che sa cogliere il permanere sostanziale della bontà del reale, deve contenere in sé anche un'implicazione propriamente escatologica. Metafisica ed escatologia si richiamano a vicenda: non basta infatti appena la vittoria sul limite attraverso la perennità delle forme, ma occorre anche il possibile superamento della "figura" di questo mondo nel suo compimento definitivo. Con terminologia paolina potremmo affermare che il gemito della creazione immersa nelle doglie del parto aspetta la piena epifania della «gloria dei figli di Dio». Se volessimo dire anche una parola sintetica riguardo al dibattito sull'"ottimismo" che ha attraversato tutto il Settecento filosofico europeo, a noi sembra di poter sostenere che 1' atteggiamento più autenticamente cristiano è quello definito da Emmanuel Mounier col!' efficace ossimoro optimisme tragique. «L' ottimisn10 tragico - è stato acutamente scritto - è intervento ed insieme consapevolezza del limite, decisione realizzatrice ed insieme testimonianza di ciò che continuamente ci trascende, è interpretazione del dolore e contemporaneamente espressione di speranza» 34 •
Tornando, ora, alla figura del Giobbe kantiano ci pare che essa, se inquadrata in una prospettiva teoretica ben diversa da quella fornitaci dal filosofo di Ki:inigsberg, potrebbe suggerirci un contributo positivo perché si apra un varco verso una possibile teodicea, per usare la stessa terminologia di Kant, non dottrinale, ma pratica. Cosa intendiamo dire? In fondo il Giobbe che Kant ci presenta, non è una esemplificazione concreta dell'autentico homo religiosus ed anche la
'.1
4
A. RIGOBELLO, Il personalis1110, Città Nuova Editrice, Ro1na 1975, 45.
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sua pietas, in verità, fa tutt'uno con una semplice e sincera confessione
del cuore sganciata, però, dall'adesione alla verità rivelata. Pure la sofferenza, in fondo, non è vissuta da Giobbe, almeno secondo lesegesi offertaci dal pensatore di Konigsberg, come un atto di fede attraverso il quale, coll'umile ma sempre feconda testimonianza personale, si possa manifestare davvero 1' opera di Dio. Si tenga presente, fra 1' altro che il testo kantiano da noi preso in esame è del 1791 e precede di appena due anni il più ben noto volume La religione entro i limiti della sola ragione, in cui l'esperienza religiosa viene moralisticamente ridotta alla «conoscenza di tutti i nostri doveri come comandamenti divini» 35 • Ma a noi pare che nella figura biblica di Giobbe potrebbe esser lecito individuare l'uomo di fede il quale, con un atteggiamento di speranza, intravede nel suo soffrire, che umanamente parlando potrebbe rimanere assurdo ed incomprensibile, la concreta circostanza posta da Dio stesso perché si realizzi in lui quella promessa di felicità fatta ad ogni creatura dal l'unico Essere che è I' assolutamente Fedele ed il Giusto per antonon1asia.
Si pone, allora, il problema della fondazione di una nuova teodicea che prenda le mosse dalla constatazione di un mondo che porta i segni della bontà del Creatore, ma non per questo si manifesta perfetto e compiuto. Esso appare piuttosto un universo perfettibile, fatto oggetto di speranza e di redenzione. La realtà cosmica ed umana va letta, pertanto, come già si diceva, non solo con gli strumenti della ragione, ma anche con quelli dell'ermeneutica simbolica e soprattutto alla luce della categoria biblica dell'alleanza di cui Giobbe, per citare ancora questo affascinante personaggio dell'Antico Testamento, può essere una pregnante incarnazione.
35
E. KANT, La religione entro i lùnili della sola ragione, trad. it., Laterza,
Bari l 980, J 68.
Synaxis 12 (1994) 233-267
STORIClTA' E LINGUISTICITA' DEL COMPRENDERE IN H. G. GADAMER
FRANCESCO VENTORINO'
I. Linguaggio ed esperienza del mondo
Un'affermazione di Gadamer ci sembra estremamente utile come punto di partenza della nostra esposizione del suo pensiero: «Nella esperienza ern1eneutica non si può separare la farnia linguistica dal contenuto che viene trasmesso. Se ogni lingua è una visione del mondo, non lo è in quanto rappresenta un certo tipo di lingua (nel senso in cui la vede il linguista), ma in virtù di ciò che in essa è detto e comunicato» 1• Ciò che è implicito in questa affermazione è innanzitutto che Gadamer concepisce l'esperienza ermeneutica come dialogo tra l'interprete e il testo. Scopo di questo dialogo non è tanto il trasferirsi dell'interprete nella mente dell'autore, in una immediata partecipazione di una personalità all'altra, come lo intendeva Schleiermacher, né il ripetere in sé i suoi Erlebnisse, come voleva Dilthey, quanto piuttosto l'intendersi su qualcosa. L'intendersi, per Gadamer, è sempre intendersi su quàlcosa; il comprendersi è un comprendersi in qualcosa'.
* Professore di Filosofia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 H. G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Ila ed., Tiibingen 1965, trad. it. Verità e 111etodo, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1972, 505. 2 Ibid., 441. E più avanti soggiunge «Il dialogo è un processo di
coinprensione. E' proprio di ogni vero dialogo il fatto che uno risponda all'altro, riconosca nel loro vero valore i suoi punti di vista e si trasponga in lui non nel senso di volerlo comprendere come individualità, 1na di intendere ciò che egli dice. Ciò che si tralta di cogliere sono le sue ragioni, in 1nodo da potersi intendere con lui
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Analogamente l'Autore afferma che chi si mette in rapporto con la tradizione letteraria di una lingua straniera, in modo da far sì che essa gli parli veramente, non ha un rapporto oggettivo con la lingua come tale; aver appreso a capire una lingua straniera non significa altro che essere 1n condizione di ricevere in sé ciò che in essa viene detto'. Altra premessa implicita nell'affermazione citata è che il processo della comprensione come esperienza ermeneutica è sempre un fatto di linguaggio'. Scrive appunto Gadamer: «II linguaggio è il medium in cui gli interlocutori si comprendono e in cui si verifica rintesa suJla cosa»5. Ancora, l'affermazione che nella esperienza ermeneutica non si può separare la forma linguistica dal contenuto che viene trasmesso,
sull'oggetto dcl dialogo. Non mettiamo dunque la sua opinione in rapporto con lui con1e individuo, 1na con la nostra propria opinione e con le nostre idee in proposito. Là dove abbiaino di mira veramente l'altra individualità co1ne tale, co1ne per esempio nel colloquio terapeutico o nell'interrogatorio ùell'i1nputato a un processo, non si realizza davvero la situazione della co1nprensionc» (ibid., 443).
'lbid., 505-506. 4 !bid., 441. 5 Jbid., 442. Più avanti viene esplicitata la portata di questa affermazione: «Il presupposto per lo sviluppo del significato teorico che il carattere linguistico del dialogo possiede per ogni tipo di comprensione ci viene dal ro1nanticismo tedesco. Esso ha 1nostrato co1ne con1prensione e interpretazione siano in definitiva una cosa sola. Solo in seguito a questa scoperta, co1nc abbian10 visto, il concetto di irllcrpretazione, che nel secolo XVII aveva avuto solo un ristretto significato pedagogico-occasionale, acquista una posizione teoretictt centrale, che è attestata in 1nodo caratteristico dalla posizione chiave che il problen1a dcl linguaggio viene ad acquistare nell'a1nbito generale dellu filosofia. A partire dal ron1anticis1no, non ci si può im1naginare che i concetti di cui si serve l'interpretazione si aggiungano alla comprensione come qualcosa che si prelevi dal deposito del linguuggio, dove se ne starebbero già bell'e pronti, secondo la necessità, quando inanelli una con1prensionc imn1ediata. Invece i{ linguaggio è il 111ezzo unh1ersale in cui si attua la co111pre11sio11e stessa. li niodo di attuarsi della co111pre11sio11e è l'interpretazione. Ciò non significa che non ci siano specifici proble1ni dell'espressione. La differenza tra il linguaggio del testo e il linguaggio dell'interprete, o la distanza che separa il traduttore dall'originale non sono affatto questioni secondarie. All'opposto, è vero invece che i problemi dell'espressione linguistica sono già di per sé proble1ni della co1nprensione stessa. Ogni con1prcnsione è interpretazione, e ogni interpretazione si dispiega nel 111edù1111 di un linguaggio, che da un lato vuol lasciare che si esprin1a l'oggetto stesso e dall'altro, tuttavia è il linguaggio dell'interprete» (ibid., 447).
suppone l'intima unità di pensiero e linguaggio 6 , per la quale si ha come conseguenza /1unità di coniprensione e interpretazione1 •
6 Dopo aver fatta un'analisi del problc1na dcl linguaggio così come risulta trattato nel Cratilo di Platone in rapporto al!a sua in1postazionc nella moderna linguistica, Gadamer afferma: «L'idealità del significato risiede [ ... ] nella parola stessa. La parola è già sen1pre significato. Ma d'altra parte questo non significa che la parola esista indipendentemente da qualsiasi esperienza co1nc qualcosa che viene a subordinarsi ad essa. Non si può pensare che l'esperienza sia dappri1na senza parole, e che attraverso l'alto della denon1inazione diventi in un secondo ten1po oggetto di riflessione, come se fosse sussunta sotto l'universalità della parola. E' invece costitutivo dell'esperienza stessa cercare e trovare le parole che sappiano esprirncrla. Si cerca la parola giusta, cioè la parola che vera1nente è appropriata alla cosa, di 1nodo che in essa la parola stessa si esprima. Anche se escludiamo esplicita1nente che ciò indichi un se1nplice rapporto di riproduzione iinitativa, resta vero che la parola "appartiene" in qualche 1nodo alla cosa stessa, c non è qualcosa con1e un segno accidentale legato estcrionncnte con la cosa» (ibid., 479). E altrove: <<L'intima unità di pensiero e linguaggio è il presupposto da cui anche la linguistica parte. Solo su questa base essa è diventata una scienza. Solo perché sussiste una tale unità ha senso l'atto di astrazione con cui lo studioso prende ad oggetto il linguaggio co111e tale. Solo perché seppero inettcre il linguaggio in rapporto con i pregiudizi convenzionali della teologia e dcl razionalismo, Herdcr e Humbolt furono in grado di riconoscere le lingue come modi di vedere il mondo. Riconosciuta l'unità di pensiero e linguaggio poterono giungere a confrontare i diversi modi di configurarsi di tale unità. Noi partiamo qui dallo stesso riconosci111ento, ma per fare il cammino opposto. Cerchian10 infatti, al di là di tutte le differenze delle lingue, quella unità indissolubile di pensiero e linguaggio che abbian10 incontrato nel fenon1cno ermeneutico co111e unità di comprensione e interpretazione» (ibid., 462-463). 7 «Il proble111a che ci guida è quello dell'aspe//o co11ceHuale di ogni co111prensio11e. Solo in apparenza è un problema secondario. Abbia1no visto che l'interpretazione concettuale è il modo di attuarsi dell'esperienza ermeneutica stessa, proprio per questo il problema che qui si pone è così difficile. L'interprete non è consapevole dcl fatto che, nella interpretazione egli rnette se stesso e i propri concetti. La fonnulazionc in parole è così inti1nan1ente intrecciala con il pensare stesso dell'interprete che non è mai temutizzata co1ne tale, A questo si aggiunge il fatto che le cose sono state interiormente confuse da inadeguate teorie dcl linguaggio. E' evidente, per esempio, che una concezione strumentalistica dcl segno, che concepisce la parola e il cancello con1e strumenti, bell'e pronti o da approntare co1ne tali, si lascia sfuggire concretan1cnte il senso dcl feno111eno enneneutico. Se ci atteniamo davvero a ciò che accade nella parola e nel discorso, e anzitutto in ogni dialogo con la tradizione condotto dalle scienze dello spirito, dobbiamo riconoscere che in tali fenomeni si verifica continuainente una produzione di concetti. Ciò non significa che, per escrnpio, l'interprete adoperi parole nuove o inusitate. Ma l'uso delle parole già note non nasce da un atto di sussunzione logica 111cdiantc cui un detcrn1inato particolare venga sussunto sotto l'universalità del concetto. Abbia1110 visto che la comprensione co111porta sempre una appficatio (cfr. ibid., 358-363) e quindi opera un costante sviluppo dei concetti. E' questo che dobbian10 tener presente
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La comprensione avviene sempre all'interno di una interpretazione nella quale l'interprete connette intimamente se stesso e i propri concetti con il linguaggio che usa'. Il processo della comprensione si verifica quindi insieme ad un costante sviluppo di concetti e di parole che, arricchendosi di comprensione, esprimono la ricchezza crescente della comprensione stessa che si ha di un testo o del mondo 9 . Questo processo non è recuperabile da quella filosofia del linguaggio che, riducendo la parola a segno che ha il suo stretto significato all'interno di una struttura linguistica, si muove verso l'ideale scientifico della denotazione rigida e univoca di ogni parola e, pertanto, di ogni concetto 10 • anche qui, se vogliaino liberare il peculiare carattere linguistico della comprensione dalle prevenzioni della così detta filosofia dcl linguaggio. L'interprete non si serve delle parole e dci concetti con1e un artigiano si serve dei suoi strumenti. Si tratta di riconoscere che ogni co1nprensionc è intirnan1ente intessuta di concetli, respingendo ogni teoria che non riconosce l'intima unità di parola e cosa» (ibid., 463). fi «Il linguaggio che vive nel parlure concreto, e che abbraccia ogni co1nprcnsione, anche quella dell'interprete di un testo, è così profondainente avviluppalo con l'attuarsi cffellivo del pensiero e dell'interpretazione, che se pretendia1no di prescindere dai contenuti effettivi delle lingue per badare solo alla loro forn1a, ce ne 1ascian10 sfuggire tutta la ricchezza» (ibid., 465). 9 «E' chiaro che il parlare, anche se comporta una subordinazione di ciò che di volta in volta è inteso sotto l'universalità di un significato già dato, non può essere concepito co1ne la con1binazione di questi atti di sussunzione, mediante i quali qualcosa di particolare viene subordinata a un concetto generale. Chi parla, cioè chi usa parole dotate di significato universale, è orientato alla particolarità di una detern1inala situazione obiettiva, di modo che tutto ciò che dice partecipa dcl carattere particolare della situazione alla quale egli guarda. Questo però significa, d'altra parte, che il concetto universale indicato dalla parola si arricchisce esso stesso, di volta in volta, mediante le intuizioni obiettive particolari, di 1nodo che alla fine si origina una parola nuova e più specifica, che rende meglio il carattere particolare di una certa intuizione obiettiva. Per quanto dunque il parlare presupponga l'uso di parole già date che hanno un loro significato universale, c'è tuttavia un processo continuo di formazione di concetti, cd è attraverso di esso che la vita del linguaggio e delle significazioni si sviluppa» (ibid., 491). rn «Si può dire, fonda1nentaln1ente, che ovunque la parola assun1e una pura funzione di segno !'originaria connessione di pensiero e parola, che qui è oggetto della nostra attenzione, si trasforn1a in un rapporto strumentale. Questa modificazione del rapporto originario nel senso della riduzione della parola a segno sta alla base di ogni formazione di concetti scientifici, e per noi è diventata qualcosa di talinente ovvio che occorre un autentico sforzo per ricordare che, accanto all'ideale scientifico della denotazione univoca e precisa, la vita del linguaggio continua a svolgersi nel suo solito 1nodo [ ... ].
Infine, si presuppone la lingua con1e visione del n1011do 11 • «Il linguaggio non è solo una delle doti di cui dispone l'uomo che vive nel mondo; su di esso si fonda, e in esso si rappresenta, il fatto stesso che gli uomini abbiano un mondo. Per l'uomo, il mondo esiste come mondo in un modo diverso da come esiste per ogni altro essere vivente nel mondo. Questo mondo si costituisce nel linguaggio [ ... ] il linguaggio non ha da parte sua alcuna esistenza autonoma rispetto al mondo che in esso si esprime. Non solo il mondo è mondo soltanto in quanto si esprime nel linguaggio; il linguaggio, a sua volta, ha esistenza solo in quanto in esso si rappresenta il mondo» 12 • Da ciò deriva l'originaria linguJsticità deJruomo co1ne essere nel 111011doD e insieme cotne essere capace di elevarsi al n1ondo 14 • L'organizzazione delle parole e delle cose, che ogni lingua struttura in 1nodo peculiare, rappresenta una forn1azionc naturale dei concetti che è molto distante dal siste1na della fonnazione scicnlifica dci cancelli. Essa si conforma totahnentc all'aspetto umano delle cose, al siste1na dei bisogni e degli interessi dell'uon10. Ciò che per una certa con1unità linguistica è essenziale in una cosa può venir coordinato 1ncdiante una denominazione unitaria con altre cose per i! resto anche inolto diverse, solo che anch'esse possiedano quella stessa qualità ritenuta essenziale. L'attribuzione del no1ne (i111posilio 110111inis) non corrisponde affatto ai concetti essenziali della scienza e del suo siste1na di classificazione per generi e specie. Rispetto a questo, anzi, sono spesso solo accidenti quelli in base a cui si determina il significato generale di una parola» (ibid., 497-499). 11 Ibid., 506. 12 lbid., 507. 13 L.c. E più avanti: «L'esperienza linguistica dcl mondo è "assoluta". Essa oltrepassa la relatività di ogni posizione d'essere, giacché abbraccia ogni in sé, quali che siano i rapporti (relatività) in cui esso si 1nostra. La linguisticità della nostra esperienza dcl mondo precede tutto ciò che è riconosciuto cd enunciato co1nc essente. Il rapporto fonda1ncnlale tra linguaggio e n1ondo non significa perciò che il n1ondo divenga oggetto del linguaggio. Ciò che è oggetto di conoscenza e di discorso è invece giù se1nprc compreso nell'orizzonte dcl linguaggio, che coincide col inondo» (ibid., 514-515). 14 «L'innalzarnenlo al di sopra dell'ainbiente significa [... ] per l'uo1no, cfeparsi al 111011do, e non indica un abbandono dell'mnbientc, ina una nuova posizione nei confronti cli esso, un atteggia1ncnto libero, distanziato, che è se1npre un fatto legato al linguaggio. Di un linguaggio degli anin1ali si può parlare solo per aequivocatio11e111. li linguaggio è infatti, nel suo uso, una libera e variabile possibilità dcll'uo1no. Per lui il linguaggio non è variabile solo nel senso che vi sono anche altre lingue che si possono i1nparare. E' qualcosa di variabile anche in se stesso, in quanto, per una stessa cosa, co1nporta la possibilità di diverse espressioni [. .. ]. La possibilità di comunicazione che esiste tra gli ani1nali non conosce una si1nile variabilità. Dal punto di vista ontologico, ciò significa che essi si intendono bensì tra di loro, ma non si intendono su fatti co1ne tali, il cui insie1ne totale costituisce il
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Il mondo linguistico in cui uno vive abbraccia fondamentalmente tutto ciò a cui la nostra comprensione pnò arrivare. Dice infatti Gadamer: «E' vero che chi è cresciuto in una certa tradizione linguistica e culturale vede il mondo diversamente da come Io vede chi appartiene a una tradizione diversa. E vero che i 1nondi" storici, che si succedono nel corso della storia, sono diversi tra loro e dal mondo attuale. Tuttavia è sempre un mondo umano, cioè un mondo linguistico, quello che si presenta in ogni tradizione. In quanto costituito linguisticamente, ognuno di questi mondi è aperto a ogni possibile nuova intuizione e quindi ad ogni possibile ampliamento della sua propria concezione del mondo, e conseguentemente anche accessibile agli altri» 15 • In questo senso non si può parlare di un mondo in sé. «La perefettibilità infinita dell'esperienza umana del mondo significa invece che, in qualunque lingua uno viva e si n1uova, non può 1nai pervenire ad altro che a una sempre più ampia prospettiva, a una sen1pre più an1pia visione del n1ondo". Tali visioni del inondo non sono relative nel senso che si possa loro contrapporre il 1nondo in sé'1, come se si potesse immaginare una posizione giusta al di fuori del mondo linguistico umano dalla quale sia possibile cogliere il mondo co1n è in se stesso» 16 . Non si può pensare di guardare dall'alto il mondo linguistico: non c'è un punto di vista esterno all'esperienza linguistica del mondo, dal quale tale esperienza possa essere guardata oggettivamente 17 • Per l'uomo c'è solo una possibilità: mantenendo il suo propno modo di entrare in rapporto con il mondo, cioè il linguaggio, 11
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inondo. E' quanto già Aristotele ha visto in n1odo pcrfcttarnente chiaro: n1enlrc il grido degli anirnali serve .scn1prc solo a indirizzare gli ani1nali della stessa specie verso certi co1nportainenti detern1inati, la co1nunicazione che si verifica attraverso il fogos apre e manifesla l'ente stesso co1ne tale» (ibid. 509). 15 lbid., 511. 16 /bi d., 511-512. E così prosegue: «Non si mette qui affatto in dubbio che il inondo possa sussistere, e forse in futuro sussista di fatto, senza l'uo1no. Ciò è del resto presupposto nel significato fondan1enlale di ogni visione linguistica del inondo. Ogni visione dei nlondo ha di rnira l'essere in sé del inondo. Tale essere in sé è la totalità a cui l'esperienza linguisticainente strutturata si riferisce» (I.e.). 17 lbid., 517-518.
Storicità e linguisticità de/comprendere in H. G. Gadamer
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ampliarlo ed arricchirlo attraverso nuovi mondi linguistici di cm si appropria. «Chi ha linguaggio, ha il 1nondo» 18 • La visione del mondo come propria dell'esperienza linguistica, così come è stata definita, non è riducibile però al concetto di "teoria" su cui si è costmita la scienza moderna". Nello strutturarsi linguistico della esperienza umana del mondo non è presente solo qualcosa che venga misurato e calcolato, «ma c'è l'essente che, nel modo in cui si mostra all'uomo come essente e come significante, viene ad espressione nella parola»w. «E' qui - e non nell'ideale metodico della costrnzione razionale, che domina le moderne scienze matematiche della natura - che il comprendere che si verifica nelle scienze dello spirito si può riconoscere» 21 . E' il mezza del linguaggio quello da cui tutta la nostra esperienza del mondo e in particolare l'esperienza ermeneutica si sviluppa. «Né uno spirito infinito, né una volontà infinita possono realizzare in modo più pieno di noi l'esperienza dell'essere che è conforme alla 11
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Jbid., 518. 19 «La teoria nel senso n1oderno è un 1nezzo di costruzione, 1nediante il quale si riuniscono esperienze diverse e si rende possibile il loro dominio. Co1nc anche il linguaggio dice, le teorie si "costruiscono". Jn ciò è gill in1plicito che una teoria si sostituisce all'altra, e che ciascuna si attribuisce fin da principio solo una validità relativa, che dura finché il progresso della conoscenza non ne fornisca una 1nigliore» (ibid., 519). «Questo non è affatto il caso dell'esperienza naturale del inondo che accade nel linguaggio. Parlare non significa affatto rendere disponibili e calcolabili le cose. Non solo perché l'asserzione e il giudizio sono soltanto una tOnna particolare entro la nu1ltifonne varietà dcl linguaggio; ina anche perché anch'esse rin1angono avviluppale all'interno dell'insierne dei co1nporla1nenti vitali. La scienza obiettivante, di conseguenza, avverte nell'esperienza naturale fonnulata nel linguaggio una fonte di pregiudizi. Coine 1nostra l'esempio di Bacone, proprio contro i pregiudizi del linguaggio e contro la sua ingenua teologia, la nuova scienza dovette aprirsi la via, n1ediantc il 1netodo n1ate1natico alla libera costruzione delle sue ipotesi e delle sue teorie» (ibid., 518-519). 20 Jbid., 52!. 21 L.c. ((CCJn1e le cose, queste unità della nostra esperienza costituite 1nediante la qualificazione e l'attribuzione di significato, si csprirnono nelle parole, così anche il dato storico che ci viene trasn1esso di nuovo viene portato ad espressione in quanto lo con1prendiarno e interpretian10. Il carattere linguistico di questo espritnersi è lo stesso che la linguisticità dell'esperienza del inondo in generale. E' questo che ha condotto alla fine la nostra analisi dcl feno1ncno ermeneutico all'esarnc del rapporto tra linguaggio e inondo» (ibid., 521-522).
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nostra finitezza. E' solo il "mezzo" del linguaggio, che, essendo in rapporto con la totalità dell'ente, mette l'essere storico-finito dell'uomo in coinunicazione con se stesso e con il mondo» 22 • Questo rapporto con la totalità dell'ente si attua nella dialettica della parola: «ogni parola prorompe come dal centro di una totalità e ha rapporto con una totalità in virtù della quale soltanto essa è parola. Ogni parola fa risuonare la totalità della lingua a cui appartiene, e fa apparire la totalità della visione del mondo che di tale lingua è la base. Ogni parola, nell'attimo del suo accadere, rende presente, insieme il non detto a cui essa, come risposta e co1ne richiarno, si riferisce» 23. Alla dialettica della parola corrisponde la dialettica del discorso, cioè quella perenne virtualità del discorso, «che fa entrare in gioco una totalità di senso senza poterla dire interan1ente» 2'1• Ogni discorso umano è finito perché in esso, secondo Gadamer, c'è sempre una infinità di senso da sviluppare e da interpretare. Il fenomeno ermeneutico si può capire solo in base a questa finitezza fondamentale dell'essere umano permanente in rapporto con la totalità di senso.
2. La dialettica della inte1pretazione
Alla concezione del rapporto trascendentale tra essere e verità, propria del pensiero antico e medievale, «che vede la conoscenza come un momento dell'essere stesso e non anzitutto come un fatto del soggetto» 25 , alla dialettica soggetto-oggetto, così come viene
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!bid., 523. L. c. 24 L.c. 25 !bid., 524. «Questo stretto inseri1ncnto della conoscenza nell'essere è il presupposto dcl pensiero antico e medievale. Ciò che è, è essenzialmente vero, e cioè presente nella prcsenzialità di una n1entc infinita; solo per questo è possibile al pensiero u1nano finito conoscere l'ente. Qui non si pone dunque alla base il concetto di un soggetto che è per sé e che pone tutto il resto con1e oggetto. All'opposto, in Platone l'essere dell' "anirn<l" è definito dal fatto che essa partecipa del vero essere, cioè <1ppartienc alla stessa sfera d'essere delle idee, e Aristotele dice che l'anima è in qualche n1odo tutte le cose. In questo pensiero non c'è traccia dell'idea di una 1nente separata dal mondo, che è certa di se stessa e che deve in un secondo tempo trovare la 23
definendosi a partire da Cartesio e che culmina nella filosofia hegeliana"', Gadamer sostituisce la dialettica della domanda, come luogo in cui si attua l'evento ermeneutico, in forza della reciproca appartenenza di soggetto e oggetto"«L'autentico evento ermeneutico è [... ] reso possibile solo dal fatto che la parola che ci giunge dal passato e che dobbiamo ascoltare ci tocca direttamente, come una parola che si rivolge specificamente a noi. Abbiamo sopra illustrato questo aspetto della cosa analizzando la logica della domanda, mostrando come l'interrogante diventi interrogato e come in tale dialettica della domanda si attui l'evento ermeneutico. Tale analisi va tenuta presente qui per definire esattamente il senso del concetto di appartenenza che corrisponde alla nostra ermeneutica» 28 • E' iinportante a questo punto chiarire cosa sia per Gadan1er questa logica della domanda cui corrisponde un nuovo concetto dell'appartenenza del soggetto all'oggetto dell'interpretazione. Nella seconda parte dell'opera che stiamo esaminando, Gadamer così descrive la logica della domanda: «Che un determinalo testo divenga oggetto di interpretazione significa già di per sé che esso pone una domanda all'interprete. L'interpretazione ha dunque sempre un rapporto essenziale con la domanda che vien posta all'interprete. Comprendere un testo significa comprendere questa domanda» 29 . Si via d'accesso all'essere del n1ondo; spirito e inondo sono originaria1nentc connessi; il rapporto è il fatto più originario» (f.c.). 26 Jbìd., 525-527. 27 «E' una necessità in1posta dal contenuto stesso quella che ci spinge a superare il concetto di oggetto e di oggettività del comprendere in direzione di un riconosci1ncnto della reciproca appartenenza di soggetto e oggetto. E' stata la critica dei concetti di coscienza estetica e di coscienza storica quella che ci ha condotli alla critica del concetto di obiettività e ci ha spinto a rifiutare le basi cartesiane della scienza 1noderna, recuperando detcrn1inate verità del pensiero greco. Non possian10 però seguire semplice1nentc né la filosofia greca, né la filosofia dc!l'identitù dcli'idcalis1no tedesco. Il nostro punto dì partenza è il cancello del linguaggio co1ne "1nezzo". Su questa base, il concetto di appa1tenenza non .si definisce più co1ne il legarne teleologico dello spirito alla con1paginc essenziale dell'essere, co1ne invece accade nella 1netafisica. Il fauo che l'esperienza enneneutica abbia il n1odo di essere del linguaggio, che fra la tradizione e l'interprete abbia luogo un dialogo, fornisce una base dcl tutto diversa e nuova» (ibid., 527). 28 29
L.c. Jbid., 427.
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comprende il testo nel suo senso solo in quanto si raggiunge l'orizwnte della domanda ( Fragehoriwnt) all'interno del quale si definisce la direzione significativa del testo. «Chi vuol comprendere, dunque, deve risalire con il domandare al di là di ciò che è detto. Deve comprendere il detto come risposta, in base alla domanda di cui rappresenta la risposta. In questo deve risalire oltre il detto è però implicito un domandare al di là di esso» 30 . All'inizio sta la domanda che il testo pone a noi, l'esser chiamati in causa dal la parola del passato obbliga noi, gli interrogati, a co111inciare a nostra volta ad interrogare. Noi cerchiamo di ricostruire la domanda di cui il testo rappresenterebbe la risposta. Ma non potremo riuscirvi senza trascendere con il nostro domandare l'orizzonte storico del testo stesso. «La ricostruzione della domanda a cui il testo vuol dare risposta è sempre a sua volta compresa all'interno di un domandare nel quale noi cerchiamo la risposta alla domanda che il passato ci pone. La domanda in quanto ricostruita, non può mai stare dentro il suo orizzonte originario. Infatti, l'orizzonte storico che si delinea nella ricostruzione non è un vero orizzonte circoscrivente; esso stesso è a sua volta incluso nell'orizzonte che abbraccia noi che domandiamo e che siamo interpellati dalla parola del passato [... ]. Abbiamo chiamato questo fatto la "fusione di orizzonti"»". la fltsione lii orizzonti che accade nella co1n1Jrensione è l'opera specifica del linguaggio. L'intesa su qualcosa, nella dialettica della domanda, che caratterizza il processo della comprensione avviene necessariamente in fonna linguistica, e ciò non nel senso che la con1prensione venga for111ulata successiva111ente anche in parole;
l'attuarsi della comprensione è sempre un venire-alla-parola del contenuto sul quale ci si intende. L'intesa significa che nella con1prensionc viene elaborato un linguaggio comune 32 . 11 «L 1inizio del1 1interpretazione, che appare un 111omento 11 tetico , è già in realtà una risposta e, co1ne ogni risposta, il senso di una
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l.c. fbid., 431-432. Cfr. ibid., 436-437.
interpretazione si definisce in base alla domanda che ci viene posta. La dialettica di domanda e risposta precede dunque sempre la dialettica dell'interpretazione. E' essa che determina il carattere di evento della coniprensione 33 . Da ciò consegue che l'ermeneutica non conosce un problema del cominciamento, come per esempio c'è un problema del cominciamento in Hege1» 34 • Dalla logica della domanda che si sottintende all'evento della comprensione e alla dialettica della interpretazione, nasce una nuova concezione dell'appartenenza del soggetto all'oggetto della interpretazione. «Se vogliamo definire correttamente il concetto di appartenenza (Zugehorigkeit) che qui è in questione - scrive Gadamer - dobbiamo
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Per chiarire il carattere di evento che ha la comprensione, Gadamcr la paragona al dialogo, l<l cui intesa o ra1Ji1nento non è un evento che dipende da noi, anche se si co1npic in noi: «Diciarno solitarncnte 'condurre un dialogo', 1na quanto più un dialogo è autentico, tanto meno il suo modo di svolgersi dipende dalla volon!à dell'uno o dell'altro degli interlocutori. li dialogo autentico non riesce niai co1ne noi volevarno che rosse. Anzi, in generale è più giusto dire che in un dialogo si è "presi", se non addirittura che il dialogo ci "cattura" e avviluppa. Il 1nodo come una parola segue l'altra, il n1odo in cui il dialogo prende le sue direzioni, il n1odo in cui procede e giunge a conclusione, tutto questo ha certo una direzione, 1na in essa gli interlocutori non tanto guidano, quanto piuttosto sono guid11Li. Ciò che "risulta" da un dialogo non si può sapere pri1na. L'intesa o il falli1nenlo è un evenlo che si con1pie in noi. Solo allora possian10 dire che c'è stato un buon dialogo, oppure che esso era nato sotto una cattiva stella. Tullo ciò indica che il dialogo ha un suo spirito, e che le parole che in esso si dicono portano in sé una loro verità, fanno "apparire" qualcosa che d'ora in poi "sarà")) (ibid., 441). 14 Ibid., 539. «li problcn1a dell'inizio, dovunque si ponga, è se1npre in verità il problema della conclusione. Solo in bt:ise alla fine, inratti, si definisce il principio, appunto con1e principio della fine. In base al presupposto del sapere infinito, che costituisce il presupposto della dialettica speculativa, questo porta al proble1na essenziahnente insoluto del punto di partenza da cui bisogna con1inciare. Ogni principio è rine e ogni fine è principio. In ogni caso, in questa prospettiva di circolare co1npitnento, il proble1na speculativo sul con1incia1nento delln scienza filosofica si pone, fonda1nentalinenle, dal punto cli vista del con1pi1nento raggiunto. In 1nodo del tulto diverso stanno le cose nella coscienza delln determinazione storica, nella quale si attua l'esperienza ennencutica. Essa è consapevole della costitutiva e pern1anente apertura dell'accadere del senso a cui partecipa [... J. Ogni appropriazione della tradizione è sloricamente nuova e diversa; il che non significa che ogni appropriazione sia solo un 1nodo approssiinativo e insufriciente di con1prenclere In tradizione; ogni appropriazione è invece l'esperienza di un "aspetto" della cosa stessa>> (ibid., 539-540).
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prestare attenzione alla peculiare dialettica che caratterizza il fenomeno dell'udire ( Horen). Non solo perché chi ode è qualcuno che, per così dire, è interpellato. Piuttosto, è importante rilevare che colui che è interpellato non può non udire, che lo voglia o no. Non può rifiutarsi di udire, come può fare invece nel caso del vedere chi si rifiuta di vedere guardando da un'altra parte [... ]. Appartenente (zugehdrig) è ora chi è interpellato dalla tradizione, dalla parola del passato. Chi in tal modo sta dentro una tradizione [ ... ] non può non udire ciò che attraverso di essa giunge a lui. La verità della tradizione è come il presente, che è i1n1nediata1nente 1nanifesto ai sensi. Il modo di essere della tradizione non è ovviamente qualcosa dì sensibilmente immediato. Esso è linguaggio, e l'udire che la comprende, interpretando i testi, inserisce la verità di essa in un proprio modo di rapportarsi linguisticamente al mondo. Questa con1unicazione linguistica tra presente e tradizione, co1ne abbia1no visto, è I1accadere che si verifica in ogni cornprensione» 35 • L'esperienza ermeneutica, come esperienza autentica, però, non può far sì che quell'evento che essa stessa è non sia accaduto36 • Nello sviluppare questa concezione dell'appartenenza, Gadamer è mosso dalla constatazione delle insufficienze del moderno concetto di n1etodo: «nella esperienza ern1eneutica si incontra una specie di dialettica, un agire della cosa stessa, un agire che contrariamente alla
/bid., 528~529. «Questa struttura dell'esperienza cnnencutica, che contrasta così radicalinente con l'idea di rnetodo della scienza, sì fonda a sua volta sul carattere di evento che è pfoprio dcl linguaggio e che abbiamo ampiainente illustrato. Non solo l'uso della lingua e lo sviluppo del rnezzo linguistico è un processo rispetto a cui nessuna coscienza singola può assu1nerc un attcggiarnento consapevole: rispetto a ciò, è leueralinente più giusto dire che è la lingua che parla in noi, piuttosto che noi parlia1no la lingua (sicché, per escrnpio, dalla lingua di un testo si può delenninarc più esatlarnenlc l'epoca a cui ris3le che non il suo autore); più in1portantc ancora, e noi lo abbian10 costantc1nente sottolineato, è che non come lingua, cioè non co1ne gran11natica o co111e lessico, n1a co1ne venire all'espressione di ciò che è contenuto nella tradizione, il linguaggio costituisce l'autentico evento cnneneutico, che è insien1c appropriazione ed interpretazione. Solo qui si può dire a ragione che questo evento non è un nostro agire sul contenuto, 1na un agire del contenuto stesso» (ibid., 529-530). 35
36
metodologia della scienza moderna è piuttosto un patire, un comprendere che è un accadere, un evento» 37 • Questa dialettica, che struttura l'esperienza ermeneutica tra comprendere ed accadere, ha la sua condizione in una più radicale appartenenza dell'interprete alla tradizione dalla quale gli viene il testo stesso da comprendere e interpretare. In forza di questa appartenenza l'esperienza ermeneutica si consuma nella medietà tra familiarità ed estraneità; il testo da comprendere è insieme familiare ed estraneo all'interprete, estraneo in forza della distanza temporale, familiare per il rappmto con la tradizione che l'interprete vive, tradizione nella quale gli viene presentato non solo il testo, ma insieme a questo la comprensione che di esso si è avuta, i cui effetti agiscono ora sulla sua con1prensìone 38 . E' a questo modo che Gadamer supera l'opposizione astratta fra tradizione e storiografia, fra storia e sapere sulla storia. «L'effetto del mantenersi di una tradizione e l'effetto della ricerca storiografica costituiscono una unità, la cui analisi non può che mettere in luce di nuovo una rete di influssi reciproci. Fare1no bene, perciò, a non considerare la coscienza storica come qualcosa di radicalmente nuovo, ma come un momento nuovo all'interno di quello che da sempre è il rapporto dell'uomo con il passato. Si tratta, in altre parole, di
37 !bid., 531. L'autore poi sviluppa una serie di osservazioni rivolte a precisare la dialettica enneneutica nei confronti di quella 1netafisica di Platone e di Hegel. Pur riconoscendo una certa analogia fra !e due, perché «co1nc la dialeltica filosofia porta in luce la totalità della verità attraverso la soppressione di tutte le posizioni unilaterali, che si realizza mediante l'accentuazione e il superamento delle contraddizioni, così anche il lavoro crn1eneutico ha il co1npito di 1nettere in chiaro una totalità di senso in tutti i suoi aspetti». Tuttavia Gadamcr giudica irriducibili ad unità questi due atteggiainenti nei confronti della realtà, sia perché la dialettica filosofica non raggiunge «la di1nensione dell'esperienza linguistica del rnondo», co1ne luogo della co1nprensione, sia perché la dialettica filosofica n1isconosce la costitutiva e pennanente apertura dell'avvcnin1ento della comprensione. Per un approfondimento cfr. ibid., 532-541. 38 Cfr. ibid., 340-357. In particolare cfr. 350-351, dove viene chiarito il principio della Wirkungsgeschicte, o storia degli effetti, che entrano scn1pre a detenninare la co1nprensione di un'opera storica, la quale accade proprio all'interno degli effetti che essa ha avuto nella storia.
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riconoscere la tradizione come momento costitutivo dell'atteggiamento storiografico e di indagarne la fecondità ermeneutica»"La coniprensione, dunque, non va intesa tanto conie un 'azione del soggetto, quanto come l'inserirsi nel vivo di un processo di trasmissione storica, nel quale presente e passato, soggetto e oggetto continuamente si sintetizzano. E' questo che a Gadamer interessa mettere in luce nella sua teoria della esperienza ermeneutica, contro l'idea che essa sia un "procedimento" soggettivo da svolgere secondo un determinato 1netodo40 • In questa prospettiva acquista un nuovo significato quella che Heidegger chiamava la precomprensione dentro la quale accade ogni con11Jrensione ed ogni interpretazione. {<L'anticipazione di senso che guida la nostra comprensione di un testo non è un atto della soggettività, ma si determina in base alla comunanza che ci lega alla tradizione» 41 • La coscienza della deter111.inazione storica diviene quindi coscienza della propria situazione er1neneutica, la chiarificazione di essa è un co1npito che non si conclude 1nai. «Essere storico significa non poter 1nai risolversi totalmente in autotrasparenza» 42 . Ecco perché la storicità del nostro comprendere, come inserirsi vivo in un processo di trasmissione storica, non dipende dal suo essere
39
Ibid., 331. ibid., 340. 41 lbid., 343. «Questa co1nunanza, però nel nostro rapporto con la tradizione è in continuo allo di farsi. Non è sen1plice1nenle un presupposto già sen1prc dato; siaino noi che la istituiamo in quanto co1nprendiaino, in quanto partecipiaino alliva1nente al sussistere e allo svolgersi della tradizione e in tal nlodo la porLia1no noi stessi avanti. Il circolo della coinprensione non è dunque affatto un circolo "metodico", 1na indica una struttura ontologica della comprensione» (l.c.). 42 Ibid., 352. «Ogni sapere di sé sorge in una datità storica, che possiarno chia1nare, con Hegel, sostanza, in quanto costituisce la base di ogni riflessione e comporta1nento dcl soggetto, e quindi definisce e circoscrive anche ogni possibilità, da parte dcl soggetto, di capire un dato storico tras1ncsso nella sua alterità. Il compito dell'enneneutica filosofica si può quindi, su questa base, definire co1ne quello di risalire l'itinerario della Fe11on1enologia dello spirito hegeliana fino a rnettere in luce in ogni soggettività la sostanzialità che la detennina» (/.c.). E' da notare ancora che nlcntre per Hegel questo processo di chiarificazione ha con1pi1nento nello spirito assoluto, per Gadamer esso, per l'affennazione fatta soprn, non si risolve nu1i in una co1npiuta autotrasparenza del soggctro storico-un1ano. 4
u Cfr.
riconosciuta. «Proprio questa è la forza della storia rispetto alla coscienza finita dell'uomo: essa trionfa anche là dove l'uomo, per la sua fede nel metodo, nega la propria storicità» 43 •
3. L'aspetto universale dell'ermeneutica Abbiamo osservato sopra come per Gadamer sia da affermare l'universale linguisticità del co111prendere; il niondo linguistico in cui si vive abbraccia tutto ciò a cui la nostra co111prensione può arrivare. Il linguaggio è un niezzo in cui io e ,,1nondorr si congiungono e si JJresentano nella loro originaria congenerità. Ci è apparsa, ancora, la struttura speculativa del linguaggio, «che consiste nel non essere un riflesso di qualcosa di fissato, ma un venire alJlespressione in cui si annuncia una totalità di senso» 44 • Per questa via ci sian10 trovati a definire resperienza er1neneutica stessa
43
/bid., 351. Ibid., 541. Nelle pagine precedenti così Gadan1cr aveva chiarita la strutlura speculativa del linguaggio: «Il linguaggio ha in sé Qualcosa di speculativo [ ... ] come attuarsi di un senso, come accadere dcl discorso della comprensione. Questo processo è speculativo nella tnisura in cui le possibilità finite della parola sono n1esse in rapporto con il senso che si 1nanifcsta con qualcosa che indica nella direzione di un infinito. Chi ha qualcosa da dire, cerca e trova le parole 1nediante cui può farsi intendere dagli altri. Ciò non significa che egli fa delle "asserzioni". Che cosa significhi fare delle asserzioni, e quanto poco ciò sia un effettivo dire quel che si intende, è cosa che sa bene chiunque abbia 1nai partecipato, anche solo con1e tcstiinonc a un interrogatorio. Nell'asserzione, l'orizzonte di senso di ciò che davvero si ha da dire viene nascosto con 1netodica esattezza. Ciò che ri1nane è il "puro" senso dell'asserzione. E' questo che si inette a verbale. Ma, ridotto in tal 1nodo all'asserzione, è già se1npre un senso sfigurato e distorto. All'opposto, quando si dice quel che si ha in mente, quando ci si intende, accade che il detto viene tenuto unito a una infinità di non detto nell'unità di senso, e solo così viene reso con1prensibilc. Chi parla in questo modo può adoperare le parole più usate e abituali e tuttavia riesce ad esprimere ciò che non è detto e che ha da esser detto. ln questo senso, colui che parla si atteggia speculativainente, in quanto le sue parole non rispecchiano l'ente, 1na portano ad espressione un rapporto con la totalità dell'essere. A ciò è connesso il fatto che chi ripete qualcosa di già detto, anche se, co1ne colui che redige un verbale, non intende affatto distarcene il senso, 1nodifica necessariamente il senso di ciò che è detto. In tal modo si 1nanifesta già nel quotidiano darsi del linguaggio un tratto essenziale del rispecchiamento speculativo: l'inafferrabilità di ciò che, pure, vuol essere la più fedele ripetizione dcl senso» (ibid., 535-536). 44
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come un movimento speculativo, cioè come un agire della cosa stessa sul soggetto che comprende parlando e, pertanto, come un venire all'espressione del senso che è un avvenimento mai compiuto nella sua totalità. «Ora ci risulta chiaro che questo agire della cosa stessa, questo venire ad espressione del senso, indica una struttura fondamentale di tutto ciò che in generale può essere oggetto del comprendere. L'essere che può venir compreso è linguaggio. Il fenomeno ermeneutico riflette per così dire la sua propria universalità sulla struttura stessa del compreso, qualificandola in senso universale come linguaggio e qualificando il proprio rapporto all'ente come interpretazione» 45 • Ciò che viene ad espressione nella parola, infatti, non è qualcosa che esista prima separatamente, perché solo nella parola riceve la propria sostanziale determinatezza46 .
Il linguaggio e quindi la comprensione definiscono in generale e fondamentalmente ogni rapporto dell'uomo col mondo. L'er1neneutica è quindi in questo senso un aspetto universale della filosofia, e non solo la base metodologica delle cosiddette scienze dello spirito47 • Muovendo dalla linguisticità del comprendere si è sopra sottolineata la finitezza dell'evento linguistico, nel quale di volta in volta si concreta la comprensione. Il linguaggio che le cose parlano non si conclude nell'autotrasparenza di un intelletto infinito: è il linguaggio che percepisce e in cui si esprùne il nostro essere storicofinito48. Ma per definire meglio la funzione della parola nell'esperienza ermeneutica e in che modo essa divenga il rapporto universale dell'uomo con la realtà, Gadamer prende le mosse dal concetto di bello alla ricerca di una analogia illuminante.
45
ibid., 542.
46
L.c. 542.
47
lbid., 543. lbid., 543-544.
48
Storicità e linguisticità del comprendere in H. G. Gadamer 249 --------·-------- --- ---·- --·------·--------- Il concetto di bello nella metafisica classica aveva una funzione che non si limitava affatto all'ambito estetico in senso stretto, limitazione che subì invece nel corso del secolo XIX. «Tutto ciò che non appartiene alla sfera delle necessità della vita, ma riguarda il "come" del vivere, [... ] ossia tutto ciò che i greci riunivano sotto il concetto di paideia, si chiama kalòn. Le cose belle sono quelle il cui valore rifulge di per sé. Non si può chiedere a che cosa servono. Esse sono preferibili per se stesse [ ... ] e non, come l'utile, in vista di qualcos'altro[ ... ]. Il concetto di bello assume quindi uno strettissimo rapporto col bene (agathòn) in quanto, come fine che merita di essere scelto per se stesso, subordina a sé ogni altra cosa come mezzo. Ciò che è bello, infatti, non è riguardato come mezzo in vista di altro. Così nella filosofia platonica troviamo una stretta connessione, e non di rado uno scambio, tra l'idea del bene e l'idea del bello» 49 . Questa definizione della bellezza ha un carattere universalmente ontologico. Natura e arte, in questa prospettiva, non stanno affatto in opposizione, anche se rispetto alla bellezza la superiorità della natura è indiscussa. L'arte può scoprire e perfezionare, in modo artificiale, la bella natura dell'ordine ontologico; il bello, dunque, non si incontra anzitutto e fondamentalmente nell'arte, che può essere pensata solo entro l'orizzonte di questo ordine ontologico 50 . Abbiamo notato sopra come solo nel secolo XIX la problematica estetica si sposti esclusivamente all'arte. «Tale spostamento della problematica estetica al solo campo dell'arte presuppone ontologicamente un'idea dell'essere inteso come massa informe o retta solo da leggi meccaniche. L'intelligenza creativa
49
Jbid., 545. «La base dello stretto legaine dell'idea dcl bello con quella dell'ordinan1ento teleologico del\ 'essere è il concetto pitagorico-platonico di 1nisura. Plutone definisce il bello n1ediante i concetti di 1nisura, convenienza, proporzione; Aristotele ne indica gli clen1enli costitutivi [ ... ] nell'ordine [ ... ] nella sin11netria [... ] e nella definitezza [. .. ] e li trova realizzati in modo esemplare nella n1atematica. Lo stretto legarne tra l'ordine matc1natico del bello e l'ordine dei cieli significa dcl resto che il Kos111os, il 1nodello di ogni ordine visibile, è insien1e il più alto ese1npio di bellezza nell'a1nbito dcl visibile. La 1nisura, la sin1n1ctria, è la condizione decisiva della bellezza» (ibid., 546). 50 Jbid., 546-547.
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dell'uomo, che produce ciò che gli è utile mediante la costruzione meccanica, giunge alla fine a concepire anche ogni cosa bella in base all'opera del proprio spirito»". Il bello di natura viene a perdere così la sua supremazia, al punto che alla fine viene concepito soltanto come un riflesso dello spirito 52 • Per quanto, però, Platone abbia strettamente legato l'idea del bello con l'idea del bene, egli ha in mente anche una differenza fra di esse, e questa differenza comporta una peculiare superiorità del bello. Platone sostiene che quando si tenta di cogliere il bene in sé, questo si rifugia nel bello. «Il bello si distingue dunque dal bene, che è assolutamente inafferrabile, in quanto è più suscettibile di essere colto. Fa parte della sua essenza il fatto di essere qualcosa che appare. Nella ricerca del bene, ciò che si mostra è il bello. Questo è anzitutto un carattere con cui si presenta all'anima umana. Ciò che si mostra in forma perfetta attira a sé l'a1nore» 53 . Il bello ci conquista immediatamente, giacché «solo la bellezza sortì questo privilegio di essere la più percepibile dai sensi e di tutte la più amabile» (Fedro, 250 d.). Il bello è ciò che di per sé «è più manifesto» 5.i. «La bellezza non è semplicemente la simmetria, ma l'apparire stesso che su di essa si fonda. Essa ha la natura del risplendere.
51
Jbid., 547. «A ciò corrisponde bene il fatto che solo ora che si è giunti ai li1niti della costruibilità meccanica dell'ente, la scienza n1oderna si ricorda dcll'autonorna valenza ontologica della ''fonna" e introduce l'idea della forma, come principio conoscitivo supplementare, nella spiegazione della natura, anzitutto nello studio della natura vivente (biologia, psicologia). Essa non rinuncia così alla sua posizione fondamentale, nla cerca solo nuovi e più raffinati 1nezzi per raggiungere il proprio obiettivo, il do1ninio dell'ente. Conte1nporaneamente, però, la scienza lascia sussistere ai propri margini, cioè ai margini dcl dominio dell'ente da essa realizzato, la bellezza della natura e la bellezza dell'arte, che servono a un piacere disinteressato» (I.e.). 52
« [ ... ] lo stesso concetto di "nwtura" llssume solo di riflesso, in connessione con il concetto di arte, quellw accezione che gli è propria a partire da Rousseau. Diventa un concetto polemico, l'wltro dello spirito, e in quanto tale non ha più nulla di quella universale dignità ontologica che era propria del Kos111os come ordine delle cose belle» (I.e.). 53 Jbid., 548. 54 Ibid., 348-349.
Risplendere però significa risplendere su qualcosa, come il sole, e quindi apparire a propria volta in ciò su cui la luce cade. La bellezza ha il modo di essere della luce [ ... ]. La luce non è solo la luminosità di ciò che essa illumina; rendendo visibile altro, si fa visibile essa stessa, e non è visibile altrimenti se non in quanto rende visibile altro. Già il pensiero antico ha rilevato questa natura riflessa della luce [... ]» 55 . Ora ciò che è stato detto circa la struttura ontologica del bello, intesa come il risplendere in cui le cose si manifestano nella loro misura e nei loro contorni precisi, per Gadamer vale anche per il dominio dell'intellegibile. «La luce che tutto fa apparire in modo che risulti in se stesso evidente e intellegibile è la luce della parola. Si fonda dunque sulla metafisica della luce lo stretto rapporto che c'è fra il risplendere del bello e l'evidenza dell'intellegibile» 56 • Gadamer a questo punto dichiara che proprio questo rapporto lo ha guidato nell'impostazione del problema ermeneutico, anche se la problematica che ha svolto e i risultati che ha raggiunto non presentano alcun richiamo, nemmeno implicito, alla metafisica della luce57 •
55
Ibid., 550. Ibid., 551. 57 l.c. «Se ora consideriaino l'affiniLà di essa (la metafisica della luce) con la nostra impostazione, ci torna utile tener presente che la struttura della luce è chiarainentc separabile dall'idea di una fonte sensibile-spirituale della luce del tipo di 56
quella dcl pensiero neoplatonico- cristiano. Ciò risulta chiaro già dall'interpretazione che Agostino dà dcl racconto della creazione. Agostino osserva in quel testo che la luce viene creata pri1na della differenziazione tra le cose e pri1na che vengano creati i corpi lun1inosi del cielo. Ma pone in particolare l'accento sul fatto che l'iniziale creazione divina del cielo e della terra accade ancora senza la parola di Dio. Solo nella creazione della luce Dio con1incia a parlare. Questo parlare, mediante il quale la luce viene chia1nala all'essere, Agostino lo interpreta cotne un illuminarsi spirituale da cui è resa possihile la differenziazione delle cose create. Solo 1nedianle la luce la n1assa infonne risultata dalla creazione iniziale di cielo e terra diventa suscettibile di essere plas1nata in forn1c semplici. Possiamo vedere in questa geniale spiegazione agostiniana della Genesi un'anticipazione dì quella interpretazione speculativa del linguaggio che abbia1no sviluppato nell'analisi della struttura dell'esperienza ermeneutica del inondo, secondo la quale la inolteplicità dcl pensato nasce soltanto dall'unità della parola. Di qui possiamo anche renderci conto che la 1netafisica della luce n1ette in rilievo, nell'antico concetto di bello un aspetto che si fa valere anche al di fuori di ogni Jcga1ne con una 1netafisica sostanzialistica e di ogni riferin1ento 1netafisico allo
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La metafisica del bello ha dunque delle conseguenze per la problematica ermeneutica svolta da Gadamer: essa mette in luce lo sfondo ontologico della esperienza ermeneutica del mondo. «In base alla metafisica del bello vengono chiaro innanzitutto due punti, che risultano dal rapporto tra il risplendere del bello e l'evidenza dell'intellegibile. In primo luogo, che il manifestarsi del bello come il modo di essere della comprensione ha un carattere di evento; in secondo luogo, che l'esperienza enneneutica, come esperienza di un senso trasmesso, viene a partecipare dell'immediatezza che da sempre è riconosciuta come caratteristica della esperienza della verità» 58 , Anzitutto sulla base fornita dalla speculazione sul bello e sulla luce, Gadamer trova possibile giustificare la preminenza che egli ha attribuito all'agire della cosa stessa nell'ambito dell'esperienza ermeneutica e ciò contro il moderno metodologismo scientifico. Come il bello ci avvince senza con questo inserirsi e coordinarsi subito con la totalità dei nostri orientamenti e delle nostre valutazione, allo stesso 1nodo anche l'evidente 59 è come il sorgere di una nuova luce in virtù della quale si amplia il campo di ciò con cm abbiamo a che
fare 60 • L'esperienza ermeneutica si colloca in questo ambito perché anch essa è l'accadere di una esperienza autentica. <<Il fatto che in un certo discorso qualcosa si imponga con1e "evidente", senza peraltro essere accertato, giudicato e deciso in ogni riguardo, si verifica proprio nel caso in cui qualcosa di trasmesso dal passato ci parla. Venendo 1
spirito infinito di Dio. L'anslisi della posizione del concetto di bello nella filosofia classica greca ci conduce dunque a riconoscere che questo aspetto di tale metafisica ha un significato produttivo ancora oggi)) (ibid., 551-552). 58 !bid., 552. 59 «Ciò che è "evidente" è sempre qualcosa di detto: una proposta, un piano, una congettura, un argo1nento sono detti convincenti o evidenti. Si sottintende se1npre, qui, che ciò che in tal 1nodo è "evidente" non è din1ostrato e non è assolutmnente certo, ma .si i1npone co1ne più plausibile nell'a1nbito del possibile e dcl probabile. Così, possia1no ammettere che un certo argomento ha qualcosa di "evidente" o convincente proprio quando voglia1no tuttaviu accettare l'urgomento opposto. In questo ca.so, si lascia in sospeso il problema di co1ne esso possa accordarsi con il resto di ciò che ritcniaino "giusto", e si dice solo che esso è in "sé" convincente, cioè che c'è qualcosa in suo favore. Qui il nesso con il bello risulta chiaro» (ibid., 553). 60
L.c.
compreso, ciò che in tal modo è trasmesso si impone nella sua validità 1
e sposta la linea dell orizzonte in cui fino ad ora erano circoscritti. E
1 ,
nel senso che abbiamo detto, una vera esperienza. L'accadere del bello come l'evento ermeneutico presuppongono entrambi fondamentalmente la finitezza dell'esistenza umana»". Ma il carattere metafisico del bello, secondo Platone, è costituito proprio dal fatto che in esso si salda lo iato tra l'idea e il fenomeno 62 • «Dove chiama in causa l'evidenza del bello, Platone non è più costretto a rimanere sul piano dell'opposizione tra l'idea e la sua immagine. E' il bello stesso che insieme pone e toglie questa opposizione»"'· Questa osservazione serve a Gadarner per precisare l'analogia con l'evidenza che si riscontra nell1esperienza ern1eneutica. In essa non
c'è semplicemente un dato che si tratta di coordinare con il resto della nostra conoscenza, 1na qualcosa che ci viene incontro dal passato che ci dice qualcosa. In essa pertanto si salda l'esperienza del senso nell'attuarsi della interpretazione del linguaggio: «le parole che portano ad espressione un contenuto sono un evento speculativo» 64 .
Ora questo venire all'espressione nel linguaggio è l'universale esperienza della verità. «Non c'è cosa, dove vien meno il linguaggio. Il parlare, come abbiamo sottolineato, non è mai la sussunzione del particolare sotto concetti generali. Nell'uso delle parole non accade solo che il dato intuitivo venga reso dominabile come un caso particolare dell'universale: esso diventa invece presente nella parola stessa - allo stesso modo in cui l'idea è presente in ciò che è bello» 65 • Ciò che, in questa prospettiva, si intende per verità Gadamer tenta ancora di definirlo impiegando il concetto di gioco linguistico. «Giochi linguistici sono quelli con cui imparian10 - e di imparare non cessiamo mai - a capire il mondo»""· Ciò che importa a Gadamer nell'impiego di questo concetto è il mettere in evidenza che nel gioco
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lbid., 553-554. !bid., 555. lbid., 555-556. lbid., 557. lbid .. 558. L.c.
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linguistico è il linguaggio stesso che gioca. Il linguaggio è così l'autentico subjectum del gioco, «il quale ci si rivolge, ci si offre e si sottrae, pone domande e si dà esso stesso risposte, acquietandosi» 67 . Il comprendere non è dunque un gioco nel senso che chi comprende possa mantenere un atteggiamento di disimpegno e rifiutare di prendere una precisa posizione nei confronti dell'appello che gli viene rivolto. «Chi comprende è già sempre in un accadere in cui un determinato senso si fa valere [ ... ]. Quando comprendiamo un testo, il significato di esso ci si impone esattamente come ci avvince il bello. Esso si fa valere e si impone già sempre, prima che noi, per così dire, ce ne accorgiamo e siamo in grado di verificare esplicitamente la legittimità della sua pretesa di significare»'". Nel comprendere siamo inclusi entro un accadere di verità. Così non esiste certamente alcuna comprensione che sia libera da ogni pregiudizio", per quanto ci si possa proporre di sottrarsi ad esso. L'impiego di metodi scientifici non basta a garantire la verità. «Ciò che non è dato dallo strumento del metodo, deve invece e può effettivamente essere realizzato attraverso una disciplina del don1andare e del ricercare, che garantisce la verità» 70 .
4. Alla ,.;cerca e/; alcuni presupposi; In una conferenza tenuta nel 1962 a Parigi, su invito della Maison de l'Allemagne 71 , Gadamer affermava che soprattutto nel contesto culturale odierno deve diventare più acuta la domanda del
67
l.c.
68 69
L.c. Circu l'assurda presunzione di liberarsi da ogni pregiudizio nella
cornprcnsione, cfr. ibid., 312-334. 70 !biti., 559. 71
Pri1na edizione in Aspekte der A1odernitdt, GOttingen 1965, 77-100, inclusa poi in Klei11e Schrifte11e11 l, J. C. B. Mohr, TUbingen 1967, trad. it. con il titolo I fo11da111e11ti filosofici del XX secolo in H. G. GADAMER, Enneneutica e 111etodica univers({/e, Marietti, Torino 1973.
modo in cui l'uomo possa comprendere se stesso nell'insieme di qnella verità sociale dominata dalla scienza72 • Per rispondere a questa domanda egli si propone di riflettere ancora una volta sulla risposta che ad essa si può trovare in Hegel, per preparare risposte più specifiche ed esaurienti. «La filosofia di Hegel ha aperto alla realtà sociale dell'uomo un itinerario di autocomprensione, sulla cui linea ci troviamo ancora oggi, in quanto essa sottoponeva il punto di vista della coscienza soggettiva ad una critica esplicita» 7 J. Lo spirito soggettivo, secondo Hegel, è posto di fronte allo spirito oggettivo, quello spirito che si oggettiva nei costumi di un paese e nel suo ordine giuridico, nonché nella costituzione dello stato. Questo spirito non si riflette mai adeguatamente in nessuna autocoscienza singola soggettiva, perché esso abbraccia tutti, sicché nessuno di fronte ad esso possiede una libertà superiore. «Ciò che è implicato in questo concetto, ha ora per Hegel un'importanza centrale: lo spirito della morale, il concetto dello spirito di popolo, tutta la filosofia del diritto di Hegel si basa sul tentativo di superare lo spirito
72 «Oggi [ ... J si vive nella coscienza di un inondo che si evolve in1prcvedibiJinentc e ci si attende dai falli1ncnti della lotta e degli indirizzi della scienza, che essa fonni da sé la vera istanza di determinazione. E' su di essa che si spera, se ne vale la pena, per evitare il male e per conquistare la prosperità. La socient stessa si appoggia con sorprendente docilità alla esperienza scientifica, e in tutti i ca1npi della vita, fin nel campo forn1alivo, regna l'ideale della pianificazione cosciente e della aulorità precisa1ncnte funzionale. Analogatncnte, ci divcntanQ lentan1entc estranee la cultura dell'interiorità, l'ascesa dci conflitti personali della vita uinana, l'acuta psicologizzazione e la raccolta forza espressiva della sua rappresentazione artistica. Gli ordini sociali sviluppano forze fonnali così potenti, che l'individuo stesso, nella sfera inti1na della sua esistenza personale, a n1ala pena possiede ancora la consapevolezza di vivere secondo le proprie decisioni. Così oggi deve diventare più acuta la do1nanda di co1ne l'uo1no possa co1nprendere se stesso nell'insie1ne di quella verità sociale don1inata dalla scienza»: H. H. GADAMER, Enne11e11tica e 111etodica universale, cit., 123-124. 73 L.c. L'idealisn10 speculativo di Hegel, secondo Gadan1er, è caratterizzato dalla critica più acuta della filosofia della riflessione, che egli considerava co1nc una rnalattia dello spirito rornanlico e della sua debole interiorità. Da questa critica della riflessione cui era sottoposta la coscienza soggettiva, nasceva un nuovo concetto di spirito soggettivo.
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soggettivo e ciò è riposto alla base dell'ordinamento della società u1nana» 74 •
Lo spirito assoluto è il superamento per Hegel di questa opposizione tra spirito soggettivo e spirito oggettivo: «Hegel vede in ciò la peculiarità dell'arte, della religione e della filosofia, per il fatto che, in tali ambiti, non si subisce questa opposizione. In queste forme abbiamo un ultimo adeguato metodo in cui lo spirito si riconosce come spirito, mentre l'autocoscienza soggettiva e la realtà oggettiva che ci sorreggono, in certo qual modo si compenetrano così che non ci viene incontro niente di estraneo perché riconosciamo e approvian10 co1ne nostro proprio tutto ciò che ci viene incontro.
Com'è noto, !'esigenza specifica della filosofia della storia di Hegel - e in essa si compie la sua filosofia dello spirito - è anche di riconoscere e di approvare, nell'intima necessità degli avvenimenti, ciò che sembra accadere aJ singolo co1ne destino estraneo» 75 .
Ora, ciò che alla fine del XIX secolo, secondo Gadamer, è rimasto vivo della critica hegeliana dello spirito soggettivo non è il credo nella riconciliazione, che riconosce e comprende tntto ciò che è estraneo ed oggettivo, ma al contrario l'estraneità e l'oggettività intese come diversità di tutto ciò che va incontro allo spirito soggettivo. «Ciò che in Hegel significa spirito oggettivo, nel pensiero scientifico del XIX secolo viene inteso come l'altro dello spirito, e con ciò si è creata una coscienza 1netodica unitaria secondo il 1nodello della conoscenza naturale [... ]. Natura e storia perciò sono viste nello stesso senso come oggetti dell'indagine scientifica. Essi formano l'oggetto della conoscenza»"'. Il nostro secolo, secondo Gadamer, ha avvertito l'unilateralità di questo metodologismo scientifico, che ha portalo l'estraneità all'interno stesso della coscienza; la coscienza e l'autocoscienza non
offrono più alcuna testimonianza che non abbia due significati, uno innnediato che ne nasconde uno reinoto. L'im111ediato è l'illusione che
74 75
76
!bid., J 26. Ibid., 127. lbid., 128.
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copre la verità del remoto, che per essere conosciuta ha bisogno dell 'interJJretazione 77 •
Nessuno ha compreso, meglio dell'Idealismo tedesco, che la coscienza e il suo oggetto non costituiscono due mondi separatin Tuttavia la critica del concetto di soggetto che il nostro secolo ha sperimentato, è qualcosa di diverso dalla ripetizione di ciò che ha prodotto l'Idealismo tedesco. Si impone, dunque, per Gadamer, un recupero del concetto di spirito soggettivo, così come Hegel l'ha ripreso e risvegliato a nuova vita dalla tradizione cristiana dello spiritualismo 79 • Questo concetto sta, infatti, per il Nostro alla base di tutta la critica dello spirito soggettivo,
77 «Qui una parola ci dà il giusto significato, per riconoscere con1c questo crollo dei valori della coscienza soggettiva arrivi fino al profondo: è il concetto della interpretazione; un concetto filosofico-u1nanistico che agli inizi della nuova era veniva ancora i1npiegato 1nolto ingcnua1ncntc dalle scienze naturali con1e interpretalio 11a!11rae, e che ora ottiene un'importanza riOessa. Da Nietzsche in poi, a questo concetto è stata connessa l'esigenza che l'interpretazione abbracci soltanto il reale che si estende su tutlo il pensiero soggettivo, con un lcgittitno scopo di cognizione e spiegazione. Si pensi al ruolo che il concetto di interpretazione, dopo Nietzsche, svolge nell'arnbito psicologico e 1noralc, quando scrive: 'Non esistono fcno1neni 1norali, esiste soltanto un'interpretazione n1orale dei feno1neni'» Ubid., 130). 78 «Al riguardo esso ha persino coniato il concetto di "Filosofia dell'identità". Ha n1ostrato che in realtà coscienza e oggetto sono soltanto le parti di un insieme, e che ogni distacco forzato del puro soggetto e della pura oggettività è dog1natisn10 del pensiero. La "Feno1ncnologia" di Hcgci, nei suoi avvenimenti clram1natici, si basa senz'altro sul fatto di diventare autocosciente, con1e qualsiasi coscienza che pensa un oggelto si 1nodifica e insie1ne rnodifica di nuovo, necessariamente, anche il suo oggetto, così che si conosce la verità sollanto nel con1pleto annulla1ncnto, nel!' "assoluto" sapere dell'oggetlività del pensalo» (ibid., 133). 79 «Il concetto di spirito soggettivo ha la sua origine ne! concello dello spirito che proviene dalla lradizione cristiana, cioè ne! concetto-pneu1na del Nuovo Testainento, nel concetto dello Spirito Santo. Lo spirito pncun1atìco dell'amore, il genio dello spirito conciliativo, ciò che il giovane Hegel aveva indica(·o in Gesù, 1nostra proprio questa con1unanza che supera le singole individualità. Hegel cita un'espressione araba: un uon10 della tribù di Ur, un inodo di dire originale orientale che fa vedere co1ne per le persone che parlano così, il singolo non sia affatto un individuo, n1a un con1ponente di detta tribli. Questo cancello dello spirito soggettivo, le cui radici si spingono lontano nell'antichità, trova in Hegel la sua spiegazione filosofica in quanto esso stesso viene superato da ciò che 1-lcgcl chiaina spirito assoluto. Con ciò Hegel intende una fonna di spirito che non contiene più in sé nessun genere di estraneità, di alterità, di opposizione r... ]» (ibid., 126-127).
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che ci è stata imposta come compito storico dall'esperienza dell'epoca post-hegeliana. «Questo concetto dello spirito che trascende la soggettività dell'Ego ha la sua vera analogia nel fenomeno della lingua, così come oggi si è sempre più spostato al centro dell'indagine filosofica contemporanea, e precisamente a tal punto che il fenomeno della lingua, di fronte a quel concetto dello spirito, che Hegel trasse dalla tradizione cristiana, possiede la preferenza conforme alla nostra finitezza, da essere infinito come lo spirito e pur tuttavia finito come ogni avvcnimento» 1m. L'analogia tra il fenomeno della lingua e il concetto della soggettività hegeliana, concetto che, secondo Gadamer, va recuperato per un superamento della estraneità del soggetto con la realtà e con se stesso cui l'ha ridotto la filosofia del nostro tempo, ripropone la presenza dei Greci nel pensiero attuale. Per loro, infatti, parola e concetto sono ancora in i1nn1ediata, sciolta comunicazione 81 • Ma l'altra conseguenza di una ripresa della concezione della soggettività hegeliana si avrebbe in una riflessione sulla coscienza storica 82 . «La coscienza, inserita nel divenire storico, che cerca di riflettere i propri pre-giudizi e controlla la propria precomprensione porrebbe un limite all'oggettivismo ingenuo che falsifica così bene tanto la teoria positivista della scienza quanto il fondamento dato alle scienze sociali mediante la fenomenologia e l'analisi linguistica» 83 .
lbid., 144. «La fuga nei logoi, con la quale Platone ha dischiuso nel Fcdone l'effettiva svolta occidenlale della metafisica, è anche, al te1npo stesso, il mantenersi vicino, da parte dcl pensiero, alla conoscenza linguistica dcl inondo in gcnersle. Con ciò i greci sono per noi così rappresentativi, che si sono opposti al dog1natis1no dcl concetto e alla "coercit.ione del siste1na''. A ciò si deve, se essi hanno reso possibile l'indagine di fenon1eni che don1inano il nostro conOilto con la tradizione propria, con1c quelli del carattere individuale e dell'autocoscienza, e insicn1c anche l'intera grande sfera dell'Essere elico-politico, senza cadere, in questo, nelle aporie del soggcttivis1no n1oderno» (ibid., 143). 82 Cfr. l-1. G. GADAMER, Rherorik und ldeo/ogiekritik in Kleine Schriften I, cit., traci. it. Retorica, En11eneutica e Critica della ideologia, in Enneneutica e n1etodica universale, cit. 83 !bid., 58. HO
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Ma che cosa realizzerebbe questa riflessione in ordine al problema della storia universale, cioè alla rappresentazione di un fine della storia che emerge senza fine dalle rappresentazioni teologiche dell'azione sociale? La riflessione ermeneutica si oppone alla pretesa di una filosofia della storia che abbia un contenuto, ma la coscienza storica non cesserà per questo di tracciare, in base al proprio orientamento verso il futuro, una storia universale di cui essa possiede un'eminente comprensione. «Ma allorché la riflessione ermeneutica diviene operativa, cosa fa? Quale relazione stabilisce con la tradizione di cui pur prende coscienza? La mia tesi - puntualizza l'Autore - ed io penso che essa risulti necessariamente dal riconoscimento della nostra finitezza e del nostro essere condizionati dal divenire storico, è che l ermeneutica ci insegna a denunciare ogni dogn1atismo esistente tra la tradizione vivente, "naturale 11 , e la sua appropriazione riflessa» 84 • Habermas obietta a Gadamer85 che la riflessione ermeneutica «fa subire una metamorfosi profonda all'elemento scientifico. In ciò sarebbe la inaccettabile eredità che ci avrebbe lasciato l'idealismo tedesco, dopo averla ricevuta dallo spirito del XVIII secolo. Quand'anche l'esperienza hegeliana della riflessione non potesse più compiersi in una coscienza assoluta, I' "idealismo del linguaggio" che non andrebbe al di là della pura tradizione culturale, della sua appropriazione e del suo sviluppo ermeneutico, non di meno resterebbe un triste spettacolo di impotenza di fronte alla totalità reale che costituisce il contesto vitale della società, prodotto non solo dal 1
L.c. J. Habennas avanza obiezioni contro Gadatncr nella sua Zur logik der Sozialwissenschaften, J. C. B. Mohr, Ttibingen 1967 (numero speciale della Philosophische Ru11dscha11, febbraio 1967), trac!. it., logica delle scienze sociali, il Mulino, Bologna 1970. Il saggio di Gadainer che stia1no esaminando costituisce h1 84 85
sua risposta. L'approfondiincnto della discussione da parte di Habennas la trovia1no in Der U11iversaliiitsa11spr11ch der Henneneutik, nella raccolta flenneneutik und Dialektik I (in onore dì Gadainer nel 70° co1nplcanno), Tiibingen 1970, 73-104. L'ulteriore risposta di Gadan1cr la leggiaino in Jusq'a quel point la langue pr4fonne-t-e!fe la pensée, in /Je111itizzazio11e e ideologia (Atti del convegno indetto dal Centro internazionale di studi umanistici e dall'istituto di studi filosofici, Ron1a, 4-9 gennaio 1973 ), Istituto di Studi Filosofici, Ro1na 1973.
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linguaggio ma dal lavoro e dal potere. La riflessione ermeneutica dovrebbe convertirsi in critica dell'ideologia» 86 . A questi rilievi Gadamer risponde affermando che «se si parte dalla problematica ermeneutica, la verità obbliga a considerare come assolutamente assurdo il fatto che gli elementi reali del lavoro e del potere possano situarsi al di fuori delle loro frontiere. Cos'altro sono dunque pregiudizi su cui conviene che rifletta lo sforzo ermeneutico? Da cos'altro essi possono provenire? Dalla tradizione culturale? Certo, anche. Ma come si forma quest'ultima? L'idealismo del linguaggio sarebbe invero una grottesca assurdità, a meno che esso non intenda costituire una semplice funzione metodica [ ... ]. Si vuole solamente comprendere ciò che si lascia comprendere. Solo in questo senso va intesa la proposizione seguente: L essere che si può con1prendere è linguaggio 1» 87 • Nello specchio del linguaggio si riflette tutto ciò che è. In esso ed in esso soltanto sorge davanti a noi non solo ciò che pensiamo e sappia1no di noi stessi, 1na anche ciò che non ci si presenta in nessun altro luogo perché è ciò che noi siamo. «In definitiva il linguaggio non è assolutan1ente una specola; ciò che noi cogliamo in esso non è un riflesso del nostro essere e di ogni essere, ma l'interpretazione e l'appropriazione di ciò che vi è di noi nei rapporti reali di lavoro e di potere, oltre che in ogni altro rapporto che costituisce il nostro 1
1
mondo» 88 .
La risposta di Gadamer ad Habermas è, dunque, che la problematica ermeneutica non esclude la critica all'ideologia sottesa a
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H. G. GADAMER, Enneneutica e 111etodica universale, cit., 59-60. Così Gadarner qui rinssume le obiezioni falle a lui da Habermas. 87 lbid., 61-62. 88 Jbid., 62. E pili avanti: «Ora quesla non significa assoluta1ncnte, secondo n1e (pensi quel che pensi Habcnnas), che la coscienza, provvista della sua articolazione linguistica, deter1nina l'essere n1aterialc della prassi vitale, 1na soltanto che non vi è realtà sociale, con tutte le sue reali contraddizioni, che non si riveli a sua volla in una coscienza provvista della propria articolazione linguistica. La realtà non sopraggiunge "a dorso di linguaggio", 1na sul dorso di coloro che nutrono soggettivan1ente l'idea che essi co1nprendono il inondo (o non lo comprendono più), idea che sopraggiunge anche nel processo linguistico» (ibid., 66). Cfr. anche, su questo tema, Jusq'à quel poi111 la langue préfonne-t-e!!e la pénsée?, cit., 67.
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giustificare i rapporti di produzione e di dipendenza vigenti nella società, e ciò in forza della universalità della linguisticità che caratterizza ogni esperienza umana e ogni esperienza di comprensione e interpretazione 89 . La problematica ermeneutica deve affermare la propria universalità soprattutto di fronte alla pretesa della scienza contemporanea di assorbire la riflessione ermeneutica e di porla al proprio servizio. Di fronte ad essa va ribadito ciò che solo la riflessione ermeneutica può produrre9 1l. Quello che è proprio ed insostituibile della riflessione ermeneutica va soprattutto affermato di fronte alle scienze sociali. «li distacco metodico, a cui esse devono il loro progresso, riguarda in questo caso il mondo sociale ed umano nella sua totalità. Questo mondo si vede, per essa, elevato al potere della scienza della pianificazione, nella programmazione, nell'organizzazione, nello sviluppo, insomma di innumerevoli funzioni che tutte determinano, per così dire esterionnente, la vita di ciascun individuo e di ciascun gruppo»". Ora non può concepirsi una sociologia elevata a riflessione ermeneutica, nemmeno quella sociologia che distingue il sociologo dal tecnico della società, e si muove spinta da un puro interesse per l'emancipazione dell'uomo verso una riflessione critica, come la
89 Cfr. H. G. GADAMER, En11ene111ica e n1etodica universale, cit., 69-70. 90 «Tutte le scienze contcn1poranee sono caratterizzate da un distacco profondainenle radicato che esse pretendono abusivamente imporre alla coscienza naturale e che, inediante la rnessa in questione del concetto di metodo, era già pervenuta a coscienza riflessa fin dallo stadio iniziale della scienza inoderna. La riflessione ern1cneulica non pretende di 1nutare nulla di questo quadro. Ma essa, evidenziando le rispettive preco1nprcnsioni tematiche di ogni singola scienza, può scoprire nuove dimensioni problematiche e servire così indirettamente al lavoro inetodologico. Essa, peraltro, cd è ciò che più conta, può ricondutTc a livello di coscienza ciò che la 1netodologia scientifica considera come proprio esclusivo progresso, nonché i modelli di dissimulazione e di astrazione che tale 1nctodologia esige e mediante i quali essa oltrepassa la coscienza naturale, abbandonata in uno stadio di ignoranza: quella coscienza tuttavia che pure consuma le invenzioni e le informazioni ottenute dalla scienza e non cessa mai di adeguarvisi» (ibid., 70). 91 lbid., 71.
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vorrebbe Habermas. A tale riguardo l'Autore mvoca a suo favore l'esempio della psicanalisin Ma proprio a proposito della psicanalisi è da notare che «la forza emancipatrice della riflessione assunta dallo psicanalista ritrova [... ] necessariamente il suo limite nella coscienza sociale all'interno della quale l'analista come il suo paziente, si comprende in tutto con tutti gli altri. La riflessione ermeneutica ci insegna infatti che il ncommercio" degli uomini nella società ci rinvia continuamente, nonostante tutte le tensioni e le perturbazioni che vi attentano, ad una connivenza sociale che ne assicura l'esistenza» 93. Donde l'interrogativo: quale autointerpretazione della coscienza sociale - che poi di fatto viene a coincidere con l'insie1ne dei costu1ni conviene o no negare e su quale conviene interrogarsi per scoprirne una opposta, spinti dalla volontà rivoluzionaria di trasformazione? Tale questione all'interno della teoria psicoanalitica e della teoria sociologica rimane senza risposta. «Donde risulta, almeno sembra, fatalmente, che ciò che la coscienza si rappresenta vagamente come principio emancipatore è costituito dalla dissoluzione di tutte le contraddizioni legate al potere; il che significherebbe semplicemente che l'utopia anarchica rappresenta necessariamente la sua ultima immagine vettoriale. Ma almeno questo, certamente, dal punto di vista ermeneutico è senz'altro una falsa coscienza» 94 . Tutto questo per Gadamer è il frutto di una concezione della soggettività che, all'origine, si afferma come estranea all'oggettività dell'essere e della storia. «L'esperienza ermeneutica infatti non è dello stesso genere di quella esperienza in cui qualche realtà esteriore esige di essere penetrata. Siamo invece impegnati in qualcosa ed è proprio per questo qualcosa in cui noi siamo impegnati che noi ci apriamo a qualcosa di nuovo, di insolito, di vero» 95 . Con1e riconosciamo, infatti, in ciò che ci viene incontro la novità? «La nostra attesa e
92 93 94
95
crr.
ibid., 72-73. L.c. Jbid., 73. !bid., 81.
predisposizione ad intendere ciò che è nuovo, non sono forse necessaria1nente determinate dal vecchio in cui siamo sommersi?» 96 . Ciò che è costitutivo dell'uomo uon è l'essere estraniato dal proprio passato storico. Egli, iufatti, è collocato nei confronti della storia, in cui la sua esistenza si svolge, in una posizione intern1edia fra familiarità ed estraneità e questo fonda, secondo Gadamer, la centralità e l'universalità del problema ermeneutico. E' la familiarità, cioè l'appartenenza originaria alla realtà, che ne consente la comprensione, mentre è l'estraneità che impedisce a questa comprensione di risolversi in autotrasparenza della realtà stessa, in spirito assoluto. Così Gadamer pensa che oggi debba essere recuperata l'istanza dell'oggettività all'interno della soggettività propria della filosofia hegeliana. Lo stesso carattere di evento che ha la con1prensione della realtà da parte dell'uomo, presuppone questa originaria appartenenza dell'uomo alla realtà e nello stesso tempo la condizione storica, nella quale si compie, mai definitivamente, l'umana presa di coscienza di essa. Questo crediamo che sia il presupposto ultimo della teoria dell'esperienza ermeneutica di Gadamer, come pure crediamo che questo sia il motivo ultimo del suo scontro con Habermas 97 • Questo presupposto su cui si fonda la decisione di Gadamer per l'ermeneutica e per un certo tipo di ermeneutica, qual è quella che egli propone, è proprio il punto fondamentale che in tutto il suo discorso deve essere ulteriormente chiarito. Proprio il concetto di medietà tra familiarità ed estraneità come luogo dell'evento della comprensione, merita una precisazione ulteriore. Infatti dalla sua inadeguata chiarificazione deriva 11
11
,
L. c. Questa nostra supposizione è confortata dall'opinione di Paul Ricocur: «Pour Habermas, le défaut principal de l'hcrmenéutique di Gada1ncr est d'avoir 01110/ogisé l'hcnnéneutique; il cntend par là son instance sur l'entente, sur l'accord, co1n1nc si le consensus qui nous précède étaiL quelquc chosc constitutif, de donné dans l'Ctrc ( ... ). li apparticnt à une crilique dcs idèologics de pcnser en tcrmes d'anticipation cc que l'hcrn1éneutique des traditions pense en tcrmes de tradition assu1née. Autrcinent dit, la critique des idéologies i1nplique que soit posé camme l'idéc régulatrice, en avant de nous, ce que l'hern1éncutique dcs traditions conçoit com1nc cxistant à l'origine de la cotnprénsion» (P. RICOEUR, Hennéneutique et Critique des idéo/ogies, in De111itizzazione e ideologia, cit., 48). 96 97
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l'impossibilità per Gadamer di distinguere l'interpretazione dalla comprensione, le quali appunto in lui si identificano. Pare che questo derivi dal fatto che non si consideri adeguatamente la distanza oggettiva propria di ogni testo, che richiede pertanto, per la sua comprensione, un adeguato lavoro di interpretazione, nel quale è insostituibile il contributo della scienza. Così Gadamer si trova a voler contrastare la pretesa scientista di costituire l'orizzonte globale della comprensione della realtà, sottolineando i limiti che da questa comprensione sarebbero imposti al rapporto dell'uomo con se stesso e con il mondo; a questa pretesa di globalità da parte della scienza egli contrappone l'unico possibile globale orizzonte della comprensione, che è quello ermeneutico. Ma non riesce a utilizzare e quindi ad inglobare il sapere scientifico dentro il processo ermeneutico". Questo sarebbe possibile solo se egli
98 E' questo forse il molivo per cui Gada1ncr presta facilmente il fianco alle obiezioni di Habcnnas, con1e risulta da questo brano della Logica delle scienze sociali: «[ ... ] anche Gadamer favorisce, senza volerlo, la svalutazione positivistica
dell'enneneutica. Egli concorda con i suoi avversari nell'opinione che l'esperienza ennencutica 'superi l'a1nbito di controllo di una 1netodica scientifica' (H. G. GADAMER, Warheit und Melhode, Tiibingcn 1965, Introduzione). Nella prefazione alla seconda edizione della sua opera, Gadamcr riassun1e la sua indagine nella tesi per cui 'il 1nomento storico effettuale in ogni comprensione di tradizioni è efficace e resta efficace anche là dove ha preso piede la nlctodica delle inoderne scienze storiche e si pone con1e "oggetto" quanto storican1cnte è avvenuto ed è stato tra1nandato: come un oggetlo che si tratta di constatare come un reperto sperin1entale: come se la tradizione fosse estranea e, dal punto di vista un1ano, incon1prensibilc come l'oggetto della fisica' (ibid., XIX). Questa giusta critica di una errata autoco1nprcnsione oggeltivistica non può tuttavia condurre alla sospensione della estraneazione metodica dell'oggetto, la quale distingue un coinprendere autoriflettente dall'esperienza co1nunicativa di ogni giorno. Il confronto Ira "verità" e "metodo" non avrebbe dovuto indurre Gadamer a contrapporre astrattarnentc l'esperienza ermeneutica alla conoscenza 1neLodica nel suo insieme. Quell'esperienza è onnai il terreno delle scienze ermeneutiche; e anche se fosse possibile allontanare con1pleta1nente le li11111a11ilies dal!'ambito della science, le scienze dell'azione non arriverebbero con questo a collegare insieme procedimenti empirico-analitici e procedin1cnti ermeneutici. L'esigenza che l'ern1eneutica fa valere legilti111a1nente contro J'assolutis1no, anche se fecondo di risultati pratici, di una n1ctodologia generale delle scienze sperimentali, non la dispensa dalla questione 1netodologica in generale: o queJl'esigenza produce effetti entro le scienze, oppure te1niaino che non valga nulla» (J. HABERMAS, Logica delle scienze sociali, cit., 251252).
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desse più spessore all'interpretazione dentro il fenomeno della comprens10ne.
5. Alcune conclusioni Per Gadamer non è possibile, dunque, separare nell'esperienza ermeneutica il linguaggio dal contenuto. Il mondo linguistico in cui l'uomo vive abbraccia fondamentalmente tutto ciò a cui la nostra comprensione può arrivare. E' impossibile ipotizzare un punto di vista esterno all'esperienza linguistica del mondo. L'essente, come essente e come significante, viene ad espressione nella parola. Anche la dialettica fra la parola e la totalità dell'ente si attua all'interno della dialettica tra la parola e la totalità della lingua come visione del mondo. Se la dialettica del discorso mantiene viva quella virtualità perenne del discorso, che fa entrare in gioco una totalità di senso, senza poterla mai dire interan1ente, non per questo si riconosce una trascendenza di significato rispetto a ciò che è stato detto, perché quella totalità di senso cui il discorso rimane perennemente aperto è il senso di ciò che è stato detto storicamente. Così, condizione esauriente dell'esperienza ermeneutica è l'appartenenza dell'interprete al suo passato; questa appartenenza è in forza del passato e non dipende dal libero riconoscimento nel presente. La precomprensione di ogni interpretazione non è dunque un atto della soggettività dell'interprete, ma si determina in base a questa appartenenza. Essere storico significa dunque non poter mai risolversi totalmente in autotrasparenza. Questa dichiarazione di Gadamer, se non nega esplicitamente, certamente censura la tensione dell'uomo a comprendersi a partire dal suo rapporto con la realtà misteriosa dell'essere che, irriducibile alla storicità dell'esperienza umana, rimane se1npre ultiman1ente trascendente nei confronti di essa.
La metafisica del bello che Gadamer riprende dalla filosofia classica dovrebbe mettere in luce lo sfondo ontologico della esperienza ermeneutica del mondo. Ma questa intenzione non sembra avere esito soddisfacente. Infatti Gadamer sviluppa le sue
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considerazioni sull'esperienza estetica soltanto per mettere in evidenza il carattere di evento della comprensione e il carattere di immediatezza di ogni esperienza della verità. Ma da lui l'evento è definito come qualcosa che ci viene incontro dal passato e ci dice qualcosa, quindi non solo come qualcosa che accade nella storia, ma come qualcosa che viene dalla storia. In realtà il richiamo al carattere di immediatezza di ogni esperienza della verità ha la sua ragion d'essere nel tentativo di superare lo iato tra idea e fenomeno e, pertanto, nella tensione a saldare l'esperienza del senso con l'attuarsi dell'interpretazione nel linguaggio. Ultimamente quindi, anche il richiamo alla metafisica del bello non introduce un punto di riferimento trascendente rispetto alla storicità dell'esperienza della verità. Il linguaggio, infine, in quanto evento speculativo, da Gadamer viene definito come insieme di parole che portano ad espressione un contenuto. Questo venire all'espressione di un contenuto nel
linguaggio è definito come l'universale esperienza della verità. I rilievi critici che avanziamo nei confronti del pensiero di Gadamer e che sono peraltro documentati nell'esposizione che sopra ne abbiamo fatta, ci mettono in grado di rispondere alla domanda sul rapporto che egli instaura tra l'esperienza ermeneutica e la verità dell'essere in quanto tale. Ci sembra che in Gadamer la tensione dell'uomo alla verità risulti 1nortificata e, ulti1namente, rinchiusa dentro un orizzonte storicistico.
Se è vero, infatti, che una rivelazione dell'essere può a noi arrivare attraverso la tradizione storica, nello stesso tempo non si può negare lo scarto che esiste tra ciò di cui l'uomo, in forza della propria storia, può appropriarsi e ciò.che all'uomo, nella sua storia, può essere soltanto donato. L'evento, non solo co1ne evento storico, ma co1ne evento che dà senso alla storia, è quello che non ritroviamo a fondamento del rapporto ermeneutico dell\101no con la realtà, così come esso viene
descritto nella dottrina ermeneutica di Gadamer. Alla soggettività individuale non si offre altro termine dialettico che la soggettività storica dell u1nanità. 1
Storicità e linguisticità del comprendere in H.G. Gadamer
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Nella sua polemica contro la teoria positivista della scienza e contro le così dette scienze sociali, che abbiamo intenzionalmente riportata, Gadamer afferma che, in ultima istanza, all'interno di qualsiasi teoria scientifica rimane irrisolta la domanda circa che cosa far valere quando si è spinti dalla volontà rivoluzionaria di trasformazione della realtà sociale. E così, contro l'ingenuo oggettivismo delle scienze, Gadamer propone la maturità di una coscienza storica che riconosce, nella esperienza ermeneutica, che la nostra attesa e predisposizione ad intendere ciò che è veramente nuovo per I1uo1no sono necessariamente fondate e determinate dal vecchio in cui siamo sommersi. Ma questa sorta di trascendenza storica non garantisce una esauriente risposta alla domanda che Gadamer stesso si pone, perché essa non intravede altro fondamento al valore e quindi alla verità sull'uomo se non in ciò che storica1nente è stato riconosciuto con1e tale. Il veraniente nuovo è l'unico evento hnpossibile. Non sarà questa conclusione la più eloquente dimostrazione dei limiti di un approccio storicistico al problema della verità? Esso finisce col negare la ragione nella sua intima strnttura, come apertura ad ogni possibilità.
Synaxis 12 (1994) 269-274
NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
1. Disputa/io e Lectio communis del Il semestre
Tra le iniziative individuate insieme da professori e alunni, al fine di qualificare ulteriormente il livello scientifico dello Studio S. Paolo, una particolare rilevanza ha avuto la ripresa della nantica" n1a sempre valida disputa/io. La prima si è tenuta il 17 marzo 1994 sul tema: L'universalità del cristianesimo di fronte alle religioni. Essa si è svolta in due momenti: approfondimento personale e in gruppi di studio, pilotato dalla lettura di una essenziale quanto completa bibliografia sul terna; confronto globale sul terna con relazione del lavoro dei gruppi di studio e lezione del prof. J. Dupuis della Pontificia Università Gregoriana, (il testo si trova alle pp. 133165), il quale ha sviluppato due questioni. In primo luogo l'universalità di Gesù Cristo (chiarendo lo status quaestionis per la teologia delle religioni nelle sue varie proposte di soluzione, per poi illustrare due comprensioni contrastanti del cristocentrisrno inclusivista), ed in secondo luogo l'universalità della Chiesa (secondo la prospettiva del regno di Dio in Gesù Cristo e della Chiesa stessa come sacramento del regno di Dio), delineando infine l'importanza del regno di Dio per la teologia delle religioni. Il lavoro in gruppi di studio e il dibattito seguito hanno ulteriormente permesso di approfondire alcune questioni quali: la figura centrale del Cristo singolare ed universale, la Chiesa come sacramento, l'idea del regno, il ruolo dello Spirito, i risvolti pastorali dell'intera discussione.
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Notiziario dello Studio S. Paolo
Anche nel II semestre si è tenuta la lectio conununis per singoli corsi: al I Propedeutico Verità e opinioni oggi; al II Propedeutico Filosofia e teologia; al Triennio teologico Legge e libertà.
2. Convegni e incontri di studio Per !'VIII centenario della nascita di S. Chiara lo Studio Teologico S. Paolo e il Movimento Francescano di Sicilia hanno celebrato a Catania un convegno di studi su Povertà - Giustizia Riconciliazione nei giorni 25-26 febbraio 1994. La individuazione delle tematiche è stata guidata dalla convinzione che la figura e gli scritti di S. Chiara mantengono una grande attualità e si presentano come una grande occasione per riflettere e comprendere le tendenze e le problematiche della nostra epoca. Temi e relatori: DIEGO C!CCARELLI, dell'Università di Palermo: Contributo alla tradizione 1nanoscritta e/ariana; FRANCESCO GULLO, dell'Istituto Teologico S. Tommaso di Messina: Il privilegiwn paupertatis in Chiara; CATALDO MIGLIAZZO, già Ministro Provinciale dei Frati Minori di Sicilia: Rilettura del privilegium paupertatis per l'oggi; SALVATORE CONSOLI, dello Studio Teologico S. Paolo: La Chiesa eSJJerienza e stru111ento di riconciliazione 11er la società odierna; MARIO CASCONE, dello Studio Teologico S. Paolo: La dinamica
della giustizia a/luale tra povertà e solidarietà. Seguendo la tradizione degli anni precedenti di incontri con specialisti di Esegesi di AT, il 21 aprile 1994 si è tenuto un incontro con il prof. Alexander Rofé, dell'Università di Gerusalemme, su:
L'approccio ebraico alle Scritture ieri e oggi.
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3. Collaborazioni scientifiche
Lo Studio Teologico S. Paolo collabora con il CE.S.BI., Centro Studi di Bioetica, per favorire la riflessione e lo studio su problematiche di natura etico-giuridica connesse con lo sviluppo delle scienze biomediche e le loro applicazioni pratiche sull'uomo. Il S. Paolo, nel mese di giugno, ha tenuto un corso di aggiornamento al clero della diocesi di Patti per presentare le coordinate teologiche e le implicanze pastorali dell'enciclica Veritatis Splendor.
4. Associazione ex-alunni
Il 12 maggio 1994 si è tenuta una nunione congiunta del Comitato dell'Associazione e dci Presidenti dell'Assemblea degli Studenti che si sono succeduti nel corso degli anni. Oltre ad una presa di coscienza dello sviluppo delle varie attività culturali e delle pubblicazioni scientifiche del S. Paolo, l'incontro ha avuto lo scopo di rivitalizzare l'Associazione in modo che gli ex-alunni possano essere ancora una realtà presente e operante all'interno dello Studio.
5. Master in Pastorale familiare Dopo una opportuna consultazione con i vescovi dello Studio e con i responsabili della pastorale familiare delle diocesi cui appartiene il S. Paolo, con il nuovo anno accademico si darà vita ad un corso che permette di conseguire il titolo di Master in Pastorale familiare. Il Master, che non si pone in alternativa ai corsi per operatori di pastorale familiare che le varie diocesi organizzano, mira a dare una base teologico-pastorale ed una qualificazione "specifica" in ordine alla pastorale familiare; esso è attento ad evidenziare le necessarie dimensioni antropologico-culturali della nostra isola.
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Notiziario dello Studio S. Paolo
Il corso, della durata di due anni, prevede materie biennali ed annuali.
6. Partecipazione al seniinario "Chiesa-Carità nella ricerca teologica"
Lo Studio Teologico ha partecipato al seminario di studio sul tema: Chiesa-Carità nella ricerca teologica tenutosi a Frascati nei giorni 5-7 maggio 1994. Il seminario, promosso dalla "Commissione Episcopale per il servizio della carità" della CE! e dalle Facoltà Teologiche italiane (Cagliari, Milano, Napoli, Palermo, Roma), aveva come destinatari i docenti delle suddette Facoltà Teologiche, delle Sezioni parallele e degli Istituti loro aggregati. Gli obiettivi del seminario erano: affrontare e approfondire il tema Chiesa-Carità nella ricerca teologica; precisare la "collocazione" del tema carità, dal punto di vista teologico e pastorale, nel piano organico degli studi e dei programmi a partire da quanto è già in atto; verificare la possibilità - a livello accademico - di una "istituzione" (dipartimento, istituto di ricerca, centro studi, ecc.) che promuova la ricerca sul tema in oggetto e la formazione specifica dei futuri docenti e degli operatori pastorali.
7. Settimana di studio per il clero
Dal prossimo anno il S. Paolo terrà una settimana di studio per il clero delle diocesi cui appartiene lo Studio Teologico. L'iniziativa, concordata con i vescovi e gli incaricati per la forn1azione per1nanente del clero delle nostre diocesi, avrà i seguenti caratteri: scientificità, per dare un sussidio alla formazione permanente del clero, non intaccando quindi le iniziative proprie di ogni diocesi; residenzialità, per garantire lo studio e la fraternità; frequenza, avrà cadenza annuale e si terrà nella terza o quarta settimana di giugno. Il tema non necessariamente dovrà essere legato all'attualità: importante è affrontare argomenti fondamentali con uno sguardo immancabile alla nostra Sicilia.
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Scopo della settimana è, inoltre, garantire il legame tra il S. Paolo e le diocesi, tra l'insegnamento ricevuto e la formazione permanente, tenuto conto che buona parte dei partecipanti saranno exalunni.
8. La ''fuitina"
Volendo dare ai prossimi volumi di Synaxis un taglio tematico, è stata avviata una ricerca sul fenomeno tipicamente siciliano della nfuitina", la fuga pren1atrimoniale. Tale ricerca, già in avanzata fase di realizzazione, è condotta da docenti del S. Paolo e di altre istituzioni culturali, ed è finalizzata alla comprensione psico-sociologica e teologico-pastorale di un fenomeno che ha profonde radici nella cultura dell'isola ma che, a parere di alcuni, ultimamente sembra affievolito.
9. Annuario 1993-94
Prima della conclusione delle lezioni di questo anno accademico lo Studio Teologico S. Paolo ha pubblicato il suo Annuario 1993-94. Esso è stato redatto in anticipo rispetto agli altri anni per poterlo presentare al papa nell'incontro previsto a Catania il 30 aprile: le circostanze lo hanno reso impossibile. Il contenuto si divide in sei ampi capitoli: "Le persone", con l'elenco delle autorità accademiche, dei docenti e degli alunni del I ciclo, del Il ciclo e del Master in Teologia della vita consacrata; "Gli studi con le ratio stulliorinn e i programn1i dei rispettivi corsi; "Attività didattico-culturali complementari'', in cui sono riportate le cronache dei principali eventi cxtra-curriculari connessi con una più an1pia for1nazione culturale degli alunni; "Norn1el!, descrizione dettagliata delle normative che regolano il calendario dell'anno accademico, le iscrizioni, gli esami, la biblioteca e i vari servizi; Varie", per1nette di conoscere i no1ninativi di coloro che hanno conseguito il grado accademico della Licenza e del Baccellierato, oltre alle varie iniziative tese a favorire la vitalità del S. 11
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Notiziario dello Studio S. Paolo
Paolo; "Vademecum per l'anno accademico 1994-95", è un prontuario con il calendario delle lezioni, le norme per l'iscrizione e l'indicazione dei corsi che saranno tenuti nel prossimo anno accademico.
Synaxis 12 (1994) 275-276
CRONACA DELL'ISTITUTO PER LA DOCUMENTAZIONE E LA RICERCA S. PAOLO
I. Pubblicazioni
Il nostro Istituto ha curato le seguenti pubblicazioni: Nel mese di dicembre 1992 Synaxis X: un volume di 638 pagine.
Nel mese di dicembre 1993 è stato pubblicato Synaxis. Indici ( 1983-1992). Nel mese di marzo 1994 insieme allo Studio S. Paolo è stato pubblicato Synaxis Xl, Nuova Serie: un volume di 294 pagine.
2. Consiglio Direttivo
Il 9 febbraio 1994 si è riunito il Consiglio Direttivo. Ha programmato la ripresa dell'attività dell'Istituto in sintonia con la nuova situazione giuridico-accademica dello Studio S. Paolo.
3. i\ssemblea dei Soci
Mercoledì 2 marzo 1994, nella sede dell'Istituto, si è riunita l'assemblea dci soci, a norma del!' art. 6 dello Statuto. In tale assemblea è stato presentato il resoconto delle attività svolte nel periodo successivo all'ulti1na riunione assen1bleare, tenutasi il 31 marzo 1992, e sono stati discussi cd approvati i bilanci degli anni 1992 e 1993.
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Cronaca dell'Istituto
Si è poi proceduto all'elezione dei membri del nuovo Consiglio Direttivo che risulta cosÏ composto: Presidente: Salvatore Consoli; Vice Presidente: Gaetano Zito; Segretario organizzativo: Michele Pennisi; Tesoriere: Carmela Rita Ronsisvalle; Segretario: Francesco Capodanno. Revisori dei conti: Franca Carta, Salvatore Latora e Adolfo Longhitano. Infine sono state programmate le attività per il 1994.
Synaxis 12 (1994) 277-290
RECENSIONI
B. PASCAL, La morale. Testi scelti, introduzione, traduzione e note di Salvatore Nicolosi, Edizioni "li Tripode'', Napoli 1994.
Questa scelta antologica sulla morale di Blaise Pascal ha il suo naturale referente nel mondo della scuola e in tutti coloro che n1uovono i primi passi - incerti, ma decisivi - verso una lettura diretta del grande filosofo francese. Senza dubbio, non è facile impresa realizzare un efficace strumento didattico per i docenti e, nel contempo, garantire agli studenti un agevole accesso alle fonti. Basti immaginare le oggettive difficoltà che ai giovani possono presentare alcune pagine pascaliane, coi loro problemi morali radicati nel Seicento e con certe riflessioni di teologia morale, sullo sfondo di quei dibattiti sulla libertà, la salvezza e la grazia, che investirono il mondo cattolico post-tridentino. Comunque, bisogna dire che il rigore scientifico e la cura appassionata di uno studioso con1e Salvatore Nicolosi non potevano non risolvere al meglio i diversi problemi legati alla scelta antologica, alla traduzione e all'apparato delle note. A tal proposito, ci sembra quanto n1ai opportuno il criterio di presentare, accanto ad una vasta rassegna dei Pensieri, un buon numero di Lettere e di Opuscoli che, pur catalogati tradizionaln1ente come "scritti n1inoriu, forniscono al
giovane lettore un prezioso contributo per una più approfondita ed articolata comprensione della tnoralc pascaliana. Pensia1no, ad esempio, alla quarta lettera (ottobre 1656) indirizzata da Pascal a Mademoiscllc dc Roannez, mirabilmente incentrata sul tema del
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Giuseppe Pezzino
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nascondimento e della rivelazione di Dio; pensiamo, inoltre, alla Preghiera per domandare a Dio il buon uso delle malattie (1659), dove spicca il travaglio della riflessione pascaliana sul significato cristiano del dolore e della morte. La malattia, nella prospettiva del filosofo francese, diventa un'anticipazione del supremo momento della morte; di quella morte cristiana che non spalanca affatto gli abissi del nulla, ma offre un infinito orizzonte di speranza nell'eterno e di dolcezza nell'abbraccio filiale con Dio. «Signore - recita la Preghiera di Pascal - fate che io mi consideri in questa malattia come in una specie di morte, separato dal mondo, spogliato di tutti gli oggetti delle mie passioni, solo alla vostra presenza, per implorare dalla vostra misericordia la conversione del cuore; e che così io abbia un'immensa consolazione dal fatto che voi mi mandate adesso una specie di n1orte per esercitare la vostra
misericordia, prima che mi mandiate effettivamente la morte per esercitare la vostra giustizia».
Si ripropone, dunque, il problema del male non già nella sua din1ensione cos1nica, secondo la linea che va dalla riflessione paolina
della Epistula ad Romanos alla polemica antipelagiana di Agostino, bensì nella sua dimensione soggettiva, come male-dolore, come concreta angoscia dell'individuo devastato dalla sofferenza e dalla malattia. Ci accostiamo così al cuore della morale di Pascal, riflettendo sulla miseria dell'uomo e sul suo disagio nell'universo e nella storia.
Schiacciato fra !'infinitamente grande e !'infinitamente piccolo, ruon10 vive nell'incertezza e nell'infelicità. E quanto più la ragione scientifica a11arga i suoi confini e s'insuperbisce, tanto più l'uomo si perde e si sgo1nenta in un infinito senza centro e senza periferia.
Siamo, dunque, al paradosso del Seicento: le Grand Siècle , il secolo della rivoluzione scientifica moderna, è segnato dal tramonto della 1
centralità dell uon10 nell'universo e dall'inconsistenza ontologica
dell'esperienza, sempre in bilico tra realtà e sogno. In altri termini, quando sembra che la ragione di matrice cartesiana possa estendere il suo dominio su tutto, proprio allora risalta maggiormente l'incapacità di penetrare, con le sole categorie scientifiche, il mistero del malessere e della miseria dell'uomo. Sicché, 1
malgrado la boria della ragione, l uon10 resta un 1nistero a se stesso; e
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finisce per precipitare o nell'arroganza del dommatismo razionalistico oppure nella disperazione dello scetticismo. Perciò, nell'Entretien avec M. de Saci del 1655, Pascal individua queste due posizioni filosofiche nello stoicismo di Epitteto e nello scetticismo di Montaigne. Il primo, confidando esclusivamente sulla ragione e sulla volontà dell'uomo, propone una morale "d'una superbia diabolica", che ci fa illudere di poter cogliere la verità e il bene con le sole forze umane. li secondo, umiliando l'arroganza della ragione, dissolve ogni certezza morale nel relativismo scettico e ci spinge pericolosamente verso l'indifferenza e la disperazione. Considerato il fallimento delle due principali soluzioni filosofiche, Pascal indica nel Cristianesimo quella terza via che può condurci e a svelare il mistero della miseria umana e ad appagare l'inestinguibile sete di felicità. Schiavo di quell'amor sui, che spezza il rapporto con Dio e con l'eterno, l'uomo perde se stesso e, quindi, la capacità di comprendere veramente e pienamente se stesso. Incostante e superficiale, egli s'abbandona allo stordimento del divertissement, alla distrazione continua, per non pensare alla propria miseria e, soprattutto, per sfuggire al pensiero di una morte che incombe come suprema vanificazione di tutte le vanità della vita; vanitas vanitatum, dixit Ecclesiastes . Sicché, nei Pensieri , Pascal ci avverte esplicitainente: ~<L'unico sollievo delle nostre miserie è il divertimento, e, tuttavia, esso è la nostra più grande miseria. Infatti, è soprattutto il divertimento che c'impedisce di pensare a noi stessi e ci porta insensibilmente alla perdizione. Senza di esso saremmo immersi nella noia e questa ci spingerebbe a cercare un n1ezzo più consistente per uscirne. Ma i I divertimento ci diletta e ci fa giungere alla morte inavvertitamente». Ma, se c'è un segreto istinto ad alienarsi nel divertissement, per non pensare alla miseria un1ana, c'è pure un altro segreto istinto divina scintilla; residuo della grandezza originaria - che ci fa intuire che la vera felicità non sta affatto nel tumulto, bensì nel riposo. E poiché la vera e piena felicità risiede soltanto in un oggetto infinito ed immutabile, cioè in Dio; allora, secondo Pascal, quest'innegabile aspirazione umana all'infinita felicità ci fa cogliere, accanto alla
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condizione di miseria, la traccia di una passata, ed ormai perduta,
grandezza. L'uomo, insomma, tende al raggiungimento dell'eterno e dell'infinito, perché ha conosciuto in precedenza una condizione di grandezza soprannaturale; perché porta dentro di sé l'anamnesi di un bene perduto, che si tramuta in rimpianto e nostalgia. Le miserie umane, infatti, recano testimonianza della grandezza dell'uomo, perché sono n1isères de grand seigneur, rnisères d'un roi déposséllé. Ecco allora, secondo Salvatore Nicolosi, chiarirsi il mistero dell'uomo sulla scia della riflessione cristiana che da Paolo va ad Agostino, e poi da Giansenio a Pascal: questa lacerante doppiezza di grandezza e miseria non è la condizione pura1nente !!naturale" dell'uomo. Non lo è, perché in tal caso vivremmo in muta rassegnazione e non saremmo rosi dal tarlo dell'affanno e dell'insoddisfazione. Invero, la nostra è una natura decaduta e corrotta a causa del peccato originale, che non solo ci ha privati dei doni soprannaturali e preternaturali, ma ci ha pure precipitati nel profondo dissidio tra la sfera della ragione e quella del senso. Pertanto, alla luce del mistero del peccato originale, possiamo finalmente leggere in trasparenza il mistero del disagio umano. E ancora: grazie al mistero dell'incarnazione e della redenzione, è possibile risalire dalla condizione di miseria dell'uomo alla speranza del riscatto e del ritorno alla beatitudine in Dio. D'altra parte, superata la doppiezza di grandezza e miseria nell'uomo, Pascal può puntare alla soluzione d'un altro grande problema: il carattere ambivalente delle cose corporee che, da un canto, ci seducono e ci fanno di111enticare Dio, attirandoci verso
l'idolatria; e, dall'altro, ci parlano di Dio e ci presentano allegoricamente la realtà vera ed invisibile a cui dobbiamo tendere. In altri ter1nini, la corporeità della natura rivela e, nel conten1po, nasconde il divino ai nostri occhi: Vere tu es Deus abscon.llitus.
Sicché, nel Vecchio Testamento, Dio si rivela e si nasconde sotto il velo della natura; dopo, ancor più si manifesta e si nasconde nell'Incarnazione; infine, come Eucarestia, Dio raggiunge la forma più incomprensibile di nascondimento e di rivelazione. Intendiamoci bene: è certamente vero che più Dio si rivela, più si nasconde; 1na tutto
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ciò è vero agli occhi di coloro che guardano erroneamente alla realtà visibile, alla corporeità delle cose, come alla realtà autentica, e non già con1e alla figura alla in1maginen, della vera ed invisibile realtà. Pertanto, concordiamo pienamente con l'osservazione di Salvatore Nicolosi: «Questa dottrina della funzione figurativa delle cose visibili e della consistenza sostanziale delle invisibili può considerarsi il filo conduttore non solo della dottrina morale, ma di tutta. la concezione pascaliana dell'uomo e del mondo». In conclusione, possiamo dire che quest'antologia ci sembra degna della migliore accoglienza, perché offre - sia nella scelta intelligente dci testi pascaliani, sia nel pregevole saggio introduttivo la possibilità di accostarsi alla morale di Pascal con serietà scientifica e con acu1ne critico, senza con ciò escludere affatto una chiara esposizione ed una piacevole lettura. 11
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Giuseppe Pezzi110
J.REIMER - G. DREIFUSS, Abramo: l'uomo e il simbolo, trad. it., La Giuntina, Firenze 1994. S. HuRWITZ, Psiche e redenz.ione, trad. it., La Giuntina, Firenze 1992. R. SCIIARF KLUGER, Psiche e Bibbia, trad. it., La Giuntina, Firenze 199 l. E. DREWEHMANN, Il cammino pericoloso della redenzione. La leggenda di Tobia interpretata alla luce della psicologia del profondo, trad. it., Queriniana, Brescia 1993.
Abbiamo messo assieme queste quattro pubblicazioni perché l'oggetto di studio e il metodo che li unisce è il medesimo: esegesi veterotestamentaria attraverso l'approccio psicoanalitico o della psicologia del profondo. Sono da encomiare, a mio modesto parere, le due case editrici, la prin1a di tradizione ebraica, l'altra cristiana, per avere avuto l'ardire di presentare nello scheletrico panorama italiano, riguardante pubblicazioni su questi argomenti, questi quattro agili volumetti, che si fanno leggere con passione e che stimolano il lettore alla riflessione profonda e alla curiosità e ricerca ulteriore, sia per lo stile nel porgere i contenuti, sia per la veste editoriale e bibliografica, sia per l'erudizione - specialmente nei primi tre - profusa con semplicità e con chiarezza. Ci augurian10 che questi studi suscitino verainente l'interesse degli addetti ai lavori, sia esegeti che psicoanalisti, a produrre ricerche
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Francesco Furnari
in questo campo, ricerche che invero scarseggiano in Italia, rimanendo sempre debitori a tedeschi, francesi e anglosassoni. I primi tre Autori sono di origine ebraica e psicoanalisti junghiani, il quarto - che ha scosso le Chiese tedesche con qualche eco anche in Italia - è il noto teologo cristiano e psicoterapeuta junghiano di Paderbon. Come inai un lega111e-interesse così specifico tra ebrais1110, cristianesimo e psicoanalisi?
Dando uno sguardo alla storia della psicoanalisi, tale "esilio" di Dio e del religioso dalla tradizione giudeo-cristiana è "impossibile". Basta pensare alla "tematica del padre", che è il quadro in cui si è svolto l'intreccio del rapporto personale, professionale, umano e affettivo tra Freud-Jung e la Spielrein e tra Jung e Neumann bene esemplificato, riguardo al primo rapporto, in quella magnifica metafora narrativa, tratta dal libro di Tobia (3 .7 e 8. I) inserito nella prima edizione del 1909 nel Saggio sul Padre, in cui Jung incomincia ad operare un mutamento radicale, privilegiando l'idea di un archetipo paterno in cui il complesso paterno sarebbe solo una grandezza minore.
Freud e Jung non mancarono di privilegiare di fatto, perché legata al loro patrimonio familiare, ai loro vissuti infantili e alla loro conoscenza cullurale, la religione cristiana e quella ebraica.
I suddetti volumi applicano la metapsicologia psicoanalitica alla di1nensione religiosa, così come si evince dalla storia, tradizione e
scrittura dei testi sacri. Certo i termini che si trovano in questi libri, Dio, sacrificio, profezia, elezione, redenzione, Cristo, Yahweh, saranno
forse più frequenti dei termini quali Io, Es, Super-Io, individuazione, Inconscio. Ma ciò non deve trarre in inganno. Basti pensare che la psicoanalisi) fin dalle sue origini, ha usato i suoi strumenti di riflessione e di indagine non disgiunte dalle n1etafore. E la 111etafora viva è il 111ezzo attraverso cui si esprime l'inconscio personale e collettivo religioso. Il suo linguaggio, infatti, non è fatto di ragionamenti o principi, ma di immagini, simboli, sogni, miti. Lo studio di Reimer e Dreifuss mette in evidenza il significato simbolico profoudo che il cammino di Abramo, visto come un 11
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percorso di nindividuazione 11 , non interessa solo gli ebrei ina tutte
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quelle culture dove ancora rimane vivo l'archetipo del sacrificio. Si veda, per esempio, la suggestiva ultima parte dello studio dove si fa un parallelo tra la "legatura" di Isacco all'ombra dell'olocausto e dì tutte le guerre nazionali che si sono riflesse nella generazione attuale. Nel libro dì S. Hurwìtz si affronta il complesso tema della redenzione emblematizzato nel sottotitolo: l'idea di redenzione nel!' ebrais1110 e cristianesùno. Individuazione conie via di salvezza. Questa via di redenzione che è data dal cammino di individuazione non è da intendersi come «una nuova religione élitaria, né co1ne surrogato della religione» ma come una via che parta dall'esperienza diretta del numinoso. L'Autore sì sofferma nel secondo saggio, I motivi archetipici nella mistica chassidica, a rilevare le profonde affinità che intercorrono tra mistica ed esperienza dell'inconscio. Nell'ultimo saggio della raccolta: Ahasvero: l'eterno viandante, il viaggiatore, il peregrinare viene visto come un modello di redenzione. L'Autore dimostra come questa del fa1noso «ebreo errante» è una leggenda non ebraica, una proiezione dell'ombra collettiva dell'occidente cristiano «come condizione irredenta di ciascuno», che è stata così proiettata sugli ebrei. Psiche e Bibbia della Schaf Kluger, con un raro esempio di lettura psicologica della Bibbia senza scadere mai in rìduzionismi di vario genere, nei tre contributi junghiani classici proposti traccia la via al simbolismo della individuazione, proposta attraverso il tema dell'elezione (bachar) del "popolo eletto", affrontato da due diverse prospettive, come destino dì un intero popolo nel primo saggio e come dramma di un individuo nel secondo, dedicato a Saul, il re malato dì melanconia. Questo della vocazione-elezione è un compito tremendo che mette in scelta e a rischio la salute psichica e sociale della personalità individuale e collettiva. Ci si può salvare a patto che sì viva l'elezione non come potere staccato dall'essere servo, dal servire. Nell'ultimo saggio, su Salomone e la regina dì Saba nella Bibbia e nella Leggenda, viene riproposto il tema della coniuctio di maschile ("animus") e femminile (''anima") e del suo potere di redenzione, una volta accettato e unificato nel proprio Sé.
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Lo stesso tema della coniunctio, visto attraverso il viaggio, il cammino, l'attraversamento delle acque, come ricerca della parte di Sé e della propria identità, viene affrontato da E. Drewermann nella lettura psicoanalitica della leggenda biblica di Tobia. Attraverso la vicenda dei protagonisti, Tobia, Anna, Tobi, Raguele, Edna, Sara, Raffaele, Asmodéo, che sono "tipici" e come tali, sono rintracciabili, dal lato della psicodinamica nonché dalla psicologia del profondo in ogni uomo, il Drewermann ci comunica l'elemento centrale del suo pensiero: il messaggio della fiducia originaria e del superamento dell'angoscia; angoscia che nasce dal conflitto tra «intuizione e istituzione, tra rigidità e verità, tra Dio del diritto e il Dio dell'amore» (p. 7). L'angoscia viene superata dalla dedemonizzazione dell'amore, mediante la scoperta e l'incontro con Dio, per cui leros è da quel momento in poi «fiamma violenta di Dio» (Ct 8,6), che unifica il binomio "amore-sessualità". «Non tcinere nulla! Il nostro viaggio andrà bene, e così anche il ritorno, perché il canunino è sicuro» (Tb 5,16).
E in questo nostro viaggio alla luce di Dio, non temeremo nulla se con umiltà e con il rispetto reciproco dei vari campi del sapere, intraprenderemo lo studio e la ricerca servendoci dell'approccio psicoanalitico nell'esegesi biblica. Su questa linea è anche la Pontificia commissione biblica con il suo Interpretazione della Bibbia nella Chiesa (cfr. pp. 55-56). Il credente che usa l'approccio psicoanalitico nell'esercitare il desiderio della Parola, che poi al suo fondo è domanda d'amore, come affermava Lacan, dovrà tenere conto di una distinzione fondamentale: Dio non è l'immagine di Dio impressa archetipicamente nel fondo personale e collettivo della nostra arnma. Non è dunque una nostra sen1plice proiezione. Francesco Furnari
E. LANDOLT. Der einzige Heidegger. Eine Deutung nach dem systematischen Index, (Beitriige zur Philosophie. Neue Folge), Cari Winter - Universitiltsverlag, Heidelberg 1992. E. LANDOLT, Systematischer Jndex zu Werken Heideggers. Was ist das - die Philosophie. Neue Folge), Cari Winter - Universitiitsverlag, Heidelberg 1992.
Con piacere presentiamo al lettore italiano questi due volumi di E. Landolt, che rappresentano un utilissimo strnmento di lavoro per lo studio di M. Heidegger. Il secondo contiene un indice dei concetti fondamentali di tre opere del filosofo tedesco: Was ist das - die Philosophie ?, ldentitiit und Differenz, Gelassenheit. Il primo espone i criteri ermeneutici che hanno guidato la stesura degli indici. Questi indici non sono una semplice lista di parole chiavi né una concordanza strettamente detta. Elencano le parole chiavi in ordine alfabetico insieme alle citazioni dei contesti in cui si trovano. Lo scopo dichiarato del curatore è quello di offrire uno strumento per la comprensione di Heidegger così come egli è. Non lo si vuole interpretare, bensì "leggere" e far parlare i testi: «La nostra non è dunque», affe11na Landolt, «una interpretazione, ma una exposizione (Dar-legen) , una lettura dei testi heideggeriani» (Der einzige Heidegger, p. 8). È evidente quale sia l'approccio scelto dal curatore per accostarsi al pensiero di Heidegger: quello fenomenologico, cioè ricavare il senso del testo da ciò che esso stesso fa apparire. D'altronde
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Maurizio A liotta
questo è espressamente detto (i.e.). Il curatore, infatti, è convinto che la ricchezza del pensiero di Heidegger è tale che se ne possono dare, e di fatto se ne sono date, molteplici interpretazioni. Tuttavia vi è un Heidegger proprio che solo una lettura ermeneutica e fenomenologica può consentire di cogliere. Si tratta di porsi dinanzi al testo non da un punto di vista "ideologico" cioè soggettivo, ma nmateriale cioè oggettivo. Questo metodo, che Landolt chiama metodo-lettura, dovrebbe consentire di cogliere il significato dell'opera di Heidegger per quello che essa è, per quello che l'autore voleva dirci, non per quello che una determinata interpretazione ci suggerisce che possa essere. Certo si potrebbe già avanzare una obiezione, a partire dall'osservazione di Gadainer che «chi comprende è già se1npre in un 11
accadere in cui un deter1ninato senso si fa valere». La lettura fcnoinenologica ci consente veramente una comprensione del
significato del testo heideggeriano definibile oggettiva perché "n1atcriale 11 , in opposizione ad una interpretazione ideologica, in quanto "soggettiva 11 ? La soggettività non appartiene già ad una scelta
previa di lettura, seppure fenomenologica? Inoltre è opportuno rammentare che per lo stesso Heidegger l'interpretazione letteraria non si fonda sull'attività umana, perché non è innanzi tutto qualcosa che noi facciamo, ma qualcosa che noi vogliamo che accada. Dunque, lo stesso sottometterci al testo con un atteggiamento passivo consegue al nostro voler essere interrogati da esso. Mi pare, perciò, che il livello soggettivo e quello oggettivo in realtà interagiscono. Il linguaggio in quanto tale, per Heidegger, è un evento quasi oggettivo. Non è un tnero strun1ento di con1unicazione, un 1neccanismo secondario per
esprimere idee. È la vera dimensione nella quale si trova la vita umana e attraverso cui il mondo è posto in primo piano. Solo dove c'è linguaggio c'è "mondo" in senso un1ano. Seguia1no ora la presentazione dei principi ermeneutici esposti
da Landolt nella guida agli indici. La comprensione del significato di ogni singola parola chiave si ha quando la considerazione della struttura semantica è accompagnata da uno sguardo sinottico e dal loro gioco enneneutico.
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"Struttura semantica" significa il senso che viene dal contesto. In altri termini, ogni parola chiave non è presa isolatamente dal suo contesto, invece gli indici riportano tutte le espressioni dell'opera considerata dove essa ricorre. Si dà perciò un senso che il curatore chiama senso seniantico, cioè il senso dato dal contesto e che va al di là di quello letterario proprio, strettamente lessicale. Può darsi perciò che uno sia il senso dato da un dizionario, altro quello semantico, che traiamo dal contesto. "Sguardo sinottico" è guardare insieme tutte le citazioni della stessa parola chiave nell'opera in questione o in diverse opere di Heidegger. Con ciò si ha la possibilità di uno sguardo d'insieme comparativo delle diverse opere a cui appartengono le stesse parole chiavi. Inoltre si può condurre un esame critico (co1nparativo filologico) del senso e delle figure delle rispettive parole chiavi. "Gioco ermeneutico" delle parole chiavi significa che parole chiavi sono correlate ad altre parole chiavi per un'affinità strutturale o di senso. Nasce così un "oltresenso" (iiber-Si1111), che Landolt nella prefazione agli indici chiama anche "più-senso" (mehr-Sinn) (Systematischer Index, p. 13), perché nasce dal "detto" (Gesagten) ciel "tutto" (Gesamten), cioè tutte le parole chiavi correlate insieme. Per Landolt si dà anche un "oltre-senso" (ciber-Sinn) dal "11011 detto" (Ungesagten) dell'insieme, che egli nella prefazione agli indici chiama "più-senso" (i.e.), perché come diceva lo stesso Heidegger «il non eletto [ ... ] dice di più». Il "non detto" è un altro aspetto del "detto", così come il "delto" è un aspetto del "non detto". La percezione del "non detto non è però così sen1plice in quanto il pensiero, co1ne diceva Hcidegger, «è prima di tutto un ascoltare [ ... ] ma noi non pensiamo a ciò». Forse proprio per questo si sente il bisogno di strumenti che invitino all'ascolto o, per lo meno, che suggeriscano un atteggiamento di ascolto. In definitiva, disponiamo di un index heideggeriano che non è un nudo elenco di "parole", 1na una co1npilazione alfabetica di parole chiavi assie1ne alla loro struttura sintagmatica, così da n1ostrare il senso manifesto (semantico) e il senso nascosto (ermeneutico) dei testi. per es. si dà la parola chiave Sprache (in Was ist das - die Philosophie ?) assieme (syn) agli altri membri della frase con cui è in relazione (ge11
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Maurizio Aliotta
setzt, ge-syn) all'interno di un ordine) una struttura, cioè una "frase"
(tagma). Ă&#x2C6; dunque un indice tematico dinamico, dove struttura, contenuti e senso interagiscono, secondo le regole del!' ermeneutica linguistica. Ci si augura che questi indici trovino una buona accoglienza presso gli studiosi perchĂŠ rappresentano senz'altro uno strumento pregevole per la ricerca sul pensiero di Heidegger. Maurizio Aliotta
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