Nuova serie - Xlii/ 1 - 1995
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO & ISTITUTO PER LA DOCUMENTAZIONE ELA RICERCA S. PAOLO CATANIA
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Jòtoco111pos;:.ào11e SSC - studio siste111i grafici Acircnlr,
str1111pu Tipoli1-ogra!la Calatea di Gaetano i\tlaugcri & C. s.a.s. Td. 095/394B44 - Fux 095/B9482.S Via Pienion1e\ 84 - Acireale
INDICE
Sezione teologico-morale "la {uitinc( EDITORIALE (Giuseppe Ruggieri) LA FUGA CONSENSUALE: SOPRAVVIVENZA DEL MATRIMONIO CLANDESTINO? (Ado(fo Longhitano) I. Introduzione 2. Gli sponsali e la celebrazione delle nozze 3. La riforma della celebrazione nuziale 4. La riflessione dci teologi e dei· canonisti sul matrimonio 5. Natura e finalità della fuga consensuale 6. Conclusione
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15 17 28 32
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COMPORTAMENTI MATRIMONIALI NEI SINODI SICILIANl DEI SECOLI XVI-XVII (Salvatore Consoli) I. Sul senso dci sinodi 2. Analisi dci vari sinodi 3. Conclusioni
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FUITINA E PRASSI PASTORALE NEI VESCOVI SICILIANI TRA '800 E '900 (Gaetano Zito)
1. Il persistere del fenomeno dopo l'Unità 2. Tra 1natri1nonio civile e fuga 3. Dal Concordato al Vaticano II
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Sezione miscellanea TEOLOGIA E PREGHIERA (Ghislain Lafont) Introduzione Metodo L SCALA THEOLOGTAE
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100 101
1. Tl silenzio
lOI
2. La Purola rivolta 3. La Parola costituente
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IL LO SPAZIO DELLA TEOLOGIA
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1. Pri111ato del liturgico 2. L'arrivo del concettuale 3. Narratività cristiana e cultura mitica 4. Sapienza cristiana e pensiero umano 5. Narratività sensata e scienza teologica . Conclusioni
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108 109
111 113 114
JOHN WESLEY E I FRATELLI MORA Vl NEL JOURNAL (Giovanni Cereda)
Pre1nessa
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Introduzione I. John Weslcy e i Moravi: dall'mnmirazione al conflitto
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2. Wesley e H. Molther 3. Wesley scrittore
126 139
Conclusione
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L'ETICA COME FILOSOFfA PRIMA NEL PENSIERO DI LÉVINAS (Giuseppe Schillaci) 1. Filosofia prima e filosofia trascendentale
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2. L'etica 3. L'altro nel medesi1no
176
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PSICOLOGIA DELLA RELIGIONE: UNA TEMATICA ATTUALE (Francesco Furnari) Premessa I. La psicologia della religione in Italia 2. Problematica episten1ologica: definizione dcli 'oggetto di ricerca 3. Vari approcci nel ca1npo della psicologia della religione Conclusione
191 192 196
198 225
Note e commenti MEMORIA E FELICITÀ NEL X LIBRO DELLE CONFESSIONI DI AGOSTINO (Enrico Piscione) I. L'orizzonte teoretico del problema 2. "Mc1noria conLinens" 3. Dalla rncn1oria alla ricerca della felicità
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Recensioni R. GUARDINI, Ethik. Vorlesungen an der UnivcrsiUH Mtinchcn (Maurizio Aliotta) Fan1ig!ia e 1nodernizzazione in Italia tra le due guerre (Gabriella Scribano) li servo di Dio A. !ldefonso card. Schuster o.s.b. nel quarantesùno della 111orte ( 1954-1994), a cura di L. Crippa o.s.b. (Gaetano Zito) G. T1-1EJSSEN, La porta aperta - G. TllE!SSEN, Psychological aspecrs ofpauline theology - K. BERGER, Psicologia storica del Nuovo Testa111ento (Francesco Furnari) A. M. RIZZUTO, La nascita del Dio vivente (Francesco Furnari)
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C. DAU NOVELLI,
NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
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Sezione teologico-morale "La fuitina"
Synaxis XIII/I (1995) 7-13 EDITORIALE GIUSEPPE RUGGIERJ'
1. La "fuitina" o "fuga" è nell'ambiente siciliano una consuetudine ancora viva, anche se forse in declino. Con la "fuga" due fidanzati, o per aggirare lopposizione dei rispettivi genitori, o per azzerare le difficoltà economiche che impedirebbero una celebrazione del matrimonio secondo la forma socialmente recepita, o per sanare una situazione di "disonore" che insorgerebbe una volta che lo stato di gravidanza della fidanzata fosse a tutti noto, o per altro ancora, "celebrano" il loro matrimonio stabilendo pubblicamente la loro convivenza che nel periodo dei primi giorni si svolge tuttavia in luogo "nascosto", almeno formalmente. In periodo più recente quest'ultimo particolare diventa sempre meno importante. Una convivenza con la dichiarata intenzione di essere "definitiva" equivale per ciò stesso ad una "fuga". Il segno inequivocabile che in ogni caso distingue una convivenza da una "fuga" è il linguaggio: la "fuga" infatti introduce sempre un mutamento decisivo nel lessico, per cui si è orinai "marito" e Hmoglie", non sen1plici fidanzati) o amici, o amanti, o conviventi o altro ancora. Anche quando i "fuggitivi" formalizzeranno civilmente e/o ecclesiasticamente la loro posizione, essi si presenteranno davanti all'ufficiale di stato civile e davanti al parroco rispettivamente come "marito" e "moglie". Il
Professore di Teologia fondainentale nello Studio Teologico S. Paolo di
Catania.
Giuseppe Ruggieri
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matrimonio legale dà le garanzie giuridiche necessarie, il matrimonio ecclesiastico "toglie dal peccato", ma non "crea" il rapporto di
"marito e moglie". Una eventuale interruzione dì questo rapporto prima della sua formalizzazione davanti all'ufficiale dì stato civile e/o davanti al parroco introduce una lacerazione personale e sociale qualitativamente diversa dalla interruzione dì un fidanzamento o di una convivenza semplice. La "fuga" infatti crea dei diritti/doveri che un vero e proprio diritto consuetudinario riconosce e regola con
norme non scritte, ma non per questo meno valide. Questa descrizione iniziale dovrebbe essere sufficiente per far comprendere l'interesse del problema. Un interesse tanto più insoddisfatto, in quanto quasi totale è l'assenza dì studi adeguati. Un'assenza questa che già più di venti anni fa veniva lamentata da Giuseppe Giarrìzzo' in una breve rassegna dì alcune pubblicazioni dì lingua inglese, uscite tra il 1964 e il 1972, dedicate alle forme di organizzazione familiare dell'arca mediterranea. Si trattava dì studi che analizzavano il fenomeno in una prospettiva "culturale", che vede l"'onoren co1ne contrassegno della verginità e della castità femminile. Gìarrìzzo tuttavia lì passava al vaglio di una interpretazione "strutturale" del motivo dcli' onore femminile, come funzione necessaria al mantenimento di uno status sociale all'interno di una
struttura gerarchica dei vari gruppi. L'interpretazione "culturale" era in particolare rappresentata da una sociologa cubana, V. MartinezAlìer che aveva studiato il problema al di fuori del contesto mediterraneo, nell'ambiente cubano'. «In una società gerarchica, che vuol preservare il suo "ordine" attraverso la class endogamy, la verginità serve a garantire la purezza nel gruppo, giacché, controllando l'accesso alla sessualità femminile, s'impedisce l'ingresso nel gruppo dì elementi indesiderabili. Il ratto (consensuale) è un modo efficace dì spezzare questa barriera». Ma la Martinez-Alìer
1
Del ratto consensuale in Sicilia. Una proposta di ricerca, in Archivio storico
per In Sicilia Orie111ale 69 (!973) 527-532. 2 Marriage, c!ass and co!our in J9th century Cuba, tesi presentata ad Oxford nel 1970, e fatta conoscere attraverso un estratto apparso in Past and Present 11. 55 dcl
maggio 1972, 91-129.
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aggiungeva un particolare che Giarrizzo considerava non sufficientemente fondato. Essa distingueva infatti l'atteggiamento ufficiale dello Stato da quello della Chiesa e in particolare dell'atteggiamento concreto del clero. Secondo la sociologa cubana, «la chiesa poneva la moralità individuale al di sopra della convenienza: tutti i cattolici erano uguali e perciò liberi di sposare, tanto più se c'erano "ragioni di coscienza". Lo Stato per contro restringeva severamente la scelta individuale nell'interesse della continuità dell'ordine sociale, a prescindere da ogni considerazione di ordine n1orale».
2. Non è stato un interesse storiografico, volto a dipanare problemi come questo appena ricordato o altri simili, che ha portato il comitato scientifico di Synaxis alla scelta di mettere a fuoco il problema della "fuga", quanto piuttosto un interesse teologico pastorale. Si partiva dalla convinzione che la "fuga" fosse sì in declino, e tuttavia ancora sufficiente1nente corposa per analizzare
soprattutto gli atteggiamenti che la Chiesa ha avuto ed ha nei suoi confronti e per trarne qualche conclusione utile per il modo generale di atteggiarsi davanti al "costume". Alla convinzione che si trattasse di un oggetto di analisi utile si accompagnava la "presunzione", tutta da verificare, che ci fosse una distonia tra atteggiamenti proclamati e prassi pastorale concreta, distonia causata da una certa incomprensione del fenomeno stesso che invece veniva e viene meglio colto nell'approccio pastorale concreto. Distonia soprattutto che esige, una volta riconosciuta, un approccio diverso al "costume" dei vari
gruppi sociali, più intelligente ed evangelico al tempo stesso. Venne quindi programmato un quaderno che partisse dall'analisi del fenomeno così come si presenta oggi, per passare ad una ricollocazione storico-teologica del costume della "fuga". Il progetto in parte non è stato realizzato. E questo perché all'ultimo momento è venuta a mancare proprio l'indagine sul presente. Avvalendosi di alcune collaborazioni esterne e partendo dalla
10 documentazione esistente presso il Tribunale dei minori 3 di Catania, si volevano infatti cogliere i tratti attuali del fenomeno. Il quaderno si presenta monco di questa parte dell'analisi e rischia di ingenerare limpressione, per quei lettori che non hanno una conoscenza diretta delle cose, che si tratti di un passato più o meno remoto. Pur con questa lacuna, certamente grave e difficilmente colmabile, si son voluti pubblicare lo stesso gli studi volti alla ricollocazione storico-teologica. Essi permettono alcune conclusioni che, pur nel loro limite, danno a pensare. Ed in primo luogo, dall'analisi storico-giuridica condotta da A. Longhitano, appare come sarebbe contrario alla complessa storia dell'istituto matrimoniale in Sicilia voler ridurre la "fuga" ad un semplice illecito morale. In essa si riflette piuttosto un costume di lunghissima data, prima accolto, poi tollerato e quindi proscritto dalla Chiesa (e in epoca moderna dallo Stato, con acredine ancora maggiore della Chiesa stessa). La "fuga" è cioè una forma di "matrimonio clandestino" che solo in epoca susseguente al Concilio di Trento non ha più trovato alcuno spazio giuridico nella Chiesa e nella società. Lo studio che S. Consoli dedica all'atteggiamento dei sinodi siciliani conferma questa conclusione e apre la strada ad alcune ipotesi di lettura che andrebbero ulteriormente verificate. Per un verso infatti i sinodi del XVI e XVII secolo raramente configurano come colpa morale la fattispecie della fuga. Per altro verso, al di là di riferimenti generici al timor di Dio e alla propria coscienza, non si trovano motivazioni di tipo teologico, quanto di natura sociale: disonore della famiglia, mormorazione, insorgenza di possibili mali. Lo stesso fatto che la fuga possa rientrare tra i "casi riservati" (in quanto rapporto sessuale "prima"' del matrimonio) e che quindi essa venga collocata
3 Il Tribunale dci 1ninori infatti secondo l'attuale legislazione è l'organo competente per il rilascio del nulla osta alla celebrazione di un matrimonio tra minorenni. Essendo le "fughe" una delle principali cause per l'accelerazione delle nozze e per la loro celebrazione in età 1ninorile, la Jocu1nentazione relativa alle varie sentenze offre un 1naterialc preziosissimo per indagare sulla consistenza e sulla evoluzione stessa del fenomeno in questi ulti1ni anni. 4 Dove appare che proprio questo è discutibile, trattandosi per il costu1ne popolare di vero e proprio matri1nonio.
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anche tra i peccati di particolare gravità, sembra doversi soprattutto spiegare con la sua estensione e per la sua pericolosità nei confronti della dottrina e della prassi della Chiesa sul matrimonio. L'ipotesi che si potrebbe avanzare è che il rifiuto della fuga come forma di matrimonio clandestino (e quindi "invalido" dopo il Concilio di Trento) sia da parte ecclesiastica non un atteggiamento "originale", dettato da una più profonda conoscenza delle esigenze del vangelo nei confronti del matrimonio, quanto elemento di un più vasto movimento di "razionalizzazione" dei rapporti sociali, come sembrerebbero indicare gli studi presi in esame dalla rassegna di Giarrizzo sopra citata. Questa ipotesi non viene smentita, semmai viene rafforzata dall'ultimo studio che in questo quaderno prende in esame la "fuga": quello di G. Zito sulla prassi pastorale dei vescovi siciliani tra '800 e '900. Se dapprima la fuga sembra essere identificata al matrimonio civile, man mano essa diviene oggetto di una duplice attenzione. Per un verso letture "pastorali" del fenomeno, soprattutto ad opera dei parroci, dedicano una particolare attenzione a quelle situazioni umane che l'hanno provocata. Domina un atteggiamento di misericordia e di accoglienza. Per altro verso acquista maggiore forza, soprattutto ad opera di vescovi non siciliani e solo in epoca più recente, una "riduzione" del fenomeno ad illecito morale con condanne di particolare rigore. 3. Se dalla prospettiva storico-teologica passiamo all'attualità pastorale, non si può fare a meno di ipotizzare, anche se manca un'indagine accurata sulla persistenza e sulla consistenza di questo costume', come la "fuga" sia in declino non tanto per l'efficacia dell'azione pastorale della Chiesa nei suoi confronti, quanto per la concorrenza che essa subisce da parte del costume "secolarizzato" della convivenza prima (nei giovani) o anche fuori (in quanti non intendono ratificare la loro unione con le nozze civili e/o ecclesiali)
5 Chi scrive vive in una parrocchia della periferia catanese e deve annotare che la proporzione delle "fughe" rispetto ai tnatrirnoni "normali" è altissin1a, di circa 1'80%.
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Giuseppe Ruggieri
del matrimonio. Comunque se un invito può venire dagli studi qm raccolti, questo dovrebbe essere formulato come primato da riconoscere alla "intelligenza misericordiosa" della realtà umana. Il primato dato alla prospettiva giuridica o la riduzione moralistica rischiano di rendere succube la Chiesa di preoccupazioni che dovrebbero restare distinte dall'annuncio del vangelo. Di fatti, come è mostrato dallo studio di Longhitano riportato in questo quaderno, la Chiesa ha codificato, in assenza dello Stato, la forma giuridica del matrimonio deri vandala sostanzialmente dal diritto romano, assumendo al tempo stesso quella funzione di controllo sociale che lo Stato non era in grado di assolvere. I due elementi del matrimonio, forma giuridica e forma sacramentale cristiana, si sono quindi fusi in una unità che come tale non può essere considerata eterna. Ad esempio non dovrebbe essere considerato in contrapposizione con la natura del matri1nonio cristiano che,
all'interno della cultura africana, si dia vita ad una nuova unità tra il sacramento e la dimensione giuridica che, prescindendo dal diritto romano, integri invece le forme giuridiche tradizionali dei popoli africani nella concezione e nella prassi pastorale della Chiesa. In ogni caso, senza addentrarci nei problemi dell'inculturazione dei sacra1nenti, sulla quale è in atto una vivace discussione, possia1no dire che oggi la Chiesa si trova confrontata, all'interno della nostra società, con una situazione socioculturale radicahnente nuova nella
quale non è più pensabile quella funzione di controllo sociale che essa ha potuto esercitare in epoche passate. Si impone quindi di abbandonare consapevolmente questa funzione che spesso viene presupposta istintivamente, per concentrarsi sul messaggio evangelico del patto nuziale e sulla sua dimensione sacramentale, e proporlo con rinnovata forza all'interno di una cultura secolarizzata. La formula della "intelligenza misericordiosa" vuole soltanto sottolineare come ogni situazione u1nana va coinpresa e accolta con il sentire in grande di Dio, perché le donne e gli uomini del nostro tempo possano trovare nell'approccio pastorale quella parola che giudica e rinnova in profondità il loro rapporto umano. La ricchezza del sacramento non può quindi essere scambiata con un presupposto socio-giuridico, ma assimilata interiormente attraverso un dialogo che lascia apparire tutta
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la misericordia di Dio, la sua forza sconvolgente e quel "mistero grande" che rende presente lamore indefettibile di Cristo per la sua sposa, la Chiesa.
Synaxis XIII/I (1995) 15-57
LA FUGA CONSENSUALE: SOPRAVVIVENZA DEL MATRIMONIO CLANDESTINO?
ADOLFO LONGHITANO'
l. Introduzione
Fra le realtà terrene sulle guaii la riflessione teologica si è rivelata particolarmente difficile c'è il matrimonio. Si tratta di una istituzione di diritto naturale, antica guanto l'umanità, nella quale convergono esigenze di natura diversa: antropologiche e teologiche, individuali e sociali, affettive ed economiche' ... Inoltre il matrimonio da sempre è stato considerato come l'istituto nato per disciplinare nella coppia l'esercizio della sessualità; ma questa - nelle diverse culture - è stata caratterizzata da una certa an1bivalenza 2 : se da una parte era considerata positivamente perché consentiva all'uomo di continuare la specie, lo aiutava a raggiungere la piena maturità e a
* Professore di Diritto canonico nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Per un quadro di riferirnento del matri1nonio con le diverse scienze
antropologiche vedi A. M. DI NOLA, Matrùnonio, in Enciclopedia delle Religioni, IV, Vallecchi, Firenze 1972, 248-253. 2 <<La vita sessuale, in tutti i suoi aspetti, è fondarnenlahnente a1nbivalente ed ambigua sotto il profilo magico-religioso. Da un lato i vari comporta1nenti sessuali, con notevoli varianti dipendenti dalle strutture delle differenti società, sono assoggettati ad un'ainpia serie di regole e di nonne, che assumono frequente1ncnte le caratteristiche di tabù [... ]. Da un altro lato, gli atti e gli organi sessuali sono portatori di una forza, di una potenza, di un'energia che viene concepita con1e utile e benefica per il gruppo, quando è utilizzata in specifiche occasioni, anche esse varianli da cultura a cultura. E, cioè, nei riguardi della vita sessuale, en1erge quell'ainbiguità tipica che è propria di ogni -potenza, come realtà carica di valori per il gruppo» (lo., Sesso, in Enciclopedia delle Religioni, cit., V, Firenze 1973, 988-993).
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Adolfo Longhitano
sviluppare la socialità; dall'altra era valutata negativamente perché manifestava la parte ritenuta meno nobile della natura umana e un ostacolo allo svolgimento di attività intellettuali e religiose3 . La Chiesa per diversi secoli non ritenne suo compito occuparsi di una materia già disciplinata nelle diverse regioni da consuetudini, norme e riti diversi; nella maggior parte dei casi si limitò a sostituire i riti pagani e a proibire gli usi che erano in evidente contrasto con la fede e la morale cristiane. I maggiori interventi delle autorità ecclesiastiche si ebbero al tempo della crisi feudale e furono di supplenza dell'autorità politica. La teologia solo molto tardi tentò una riflessione sistematica; 1na nella particolare situazione in cui si trovò la societas christiana nei secoli XII-XIII e con l'affermazione di una competenza esclusiva della Chiesa sul matrimonio, le scuole si sentirono obbligate ad affrontare una problematica più giuridica che teologica. Inoltre la diversa concezione del matrimonio e la molteplicità delle consuetudini esistenti nelle regioni in cui la fede cristiana si era diffusa non facilitò l'affer1nazione di una visione unitaria del proble1na; si spiegano pertanto le contraddizioni iniziali della dottrina e le difficoltà per la coscienza popolare di adeguarsi agli insegnamenti e alla normativa della Chiesa''.
3 Nella concezione dcl 111atrin1onio dci pri1ni secoli dell'era cristiana è costante una linea di pensiero che rifiuta la sessualità e la stessa islituzione dcl n1atri1nonio. Si tratla di selle o di scuole che, pur con 1101ni diversi, convergono in uno stesso attcggia1ncnto negativo: encratisti, gnostici, 1nontanisti, novaziani, asceti, priscillanisti .. (L. GODEFROY, Le 111ariage au fe1nps des Pères, in 1Jictio11naire de Théologie Catholique, IX, Lelouzey et Ané, Paris !927, 2077-2123). I Padri, anche quando difesero la bontà dcl n1alrin1onio, accettarono la sessualità co1nc un 1nale necessario per assicurare la continuità al genere un1ano. E1nble1natica !a visione dcl n1alri1nonio che ha s. Agostino: «la concezione pessi1nistica di s. Agostino sulla sessualità u1nana, per cui l'atto 111atrin1onialc è inseparabile dalla concupiscenza, non consente una visione teologica co1npleta ed equilibrala che includa positivan1enle gli aspetti sessuali fra i "beni" specifici dcl inatri1nonio. Questa concezione severa e un po' 1nanichea influirà notevoln1entc sul pensiero teologico posteriore, che nei concetti fondamentali si rifà coslanlen1ente alle affennazioni agosliniane» (L. DELLA TORRE, Liturgia delle origini cristiane e della Chiesa cattolica, in Encicfopedia delle lleligio11i, cit., llJ, Firenze 1971, [538-1659: 1644). 4 Per la storia del niatrin1onio cristiano vedi in particolare: G. LE BRAS, La doctrine du 111ariage chez !es théofogiens et !es ca11011istes depuis l'an 111ille, in Dictio1111aire de Théologie Catholique, cit., 2123-2317; W.M. PL6CHL, Storia del
_ La fitga consensua(e_:~- sopravvivenza _ç!el nJ.atrùnonio --~landestino? 1 7
Uno dei fenomeni in cui appare evidente il contrasto fra prassi popolare e norme canoniche è quello dei matrimoni clandestini, una espressione che nel corso dei secoli ha assunto diversi significati in relazione alle forme giuridiche o liturgiche stabilite dalla Chiesa e dalle autorità civili per la celebrazione delle nozze. L'ipotesi che il matrimonio clandestino possa costituire il modello più idoneo per comprendere la prassi della fuga consensuale, vigente in Sicilia e nelle altre regioni dell'Italia meridionale, ci viene suggerita da una prammatica del 27 agosto 1773. Il viceré di Sicilia, marchese Giovanni Fogliani, dopo aver denunciato «lo attentato di coloro i quali, affin d'eludere le tante provvide leggi ch'enuncia, commettono una specie di ratto, sebbene col consenso della sedotta donzella, fugandola dalla casa paterna e violata poi mettono nella dura necessità il padre di apprestare forzosamente il suo consenso», per eliminare questo abuso ordina che «senza venir assoluti i rattori dalle pene ingionte nelle leggi comuni e municipali incorrano essi e le ratte donzelle nelle costituite nel divieto de' matrimoni clandestini e di quei effettuati senza il consenso de loro genitori» 5 • L'accosta111ento della fuga consensuale alla fattispecie del matrimonio clandestino ci obbliga a individuare i vari significati che questo modello assume nella riflessione teologica e giuridica sul matrimonio cristiano. 1
2. Gli sponsali e la celebrazione delle nozze
2.1. Pur nella diversità di costumi e di norme che disciplinavano il matrimonio nell'antichità, un dato costante riguardava la presenza diriuo canonico, 2 voli., tr. it., Massi1no, Milano 1963, ad i11dice111; K. RITZER, Le 111ariage dans !es Églises chrétiennes d11 Ier a11 Xle siéc!e, tr. fr., Ccrf, Paris 1970; E. SC!-llLLEBEECKX, !l 111atrù11011io. Realtà terrena e n1istero di salvezza, tr. it., Paoline, Ron1a 1971; P. DACQU!NO, Storia del 111atrù11011io cristiano alla luce della Bibbia, Elle Di Ci, Torino 1984; C. PETRI, IV-V secolo. Il 111atrhnonio cristiano a Ro111a, in AA. Vv., Storia vissuta del popolo cristiano (a cura di J. Dclun1cau e F. Bolgiani), SE!, Torino 1985, 93~121; F. CHIOVARO, Xl-XIII secolo. li 111arrùno11io cristiano in occidente, in ibid., 275-305; B. KLE!NHEYER, Riti riguardanti il 111atrù11onio e la fc1111iglia, in AA. Vv., La liturgia della Chiesa, IX, Celebrazioni sacra111entali, tr. it., Elle Di Ci, 'forino 1994, 103-232 e la lctLeraLura citata in queste opere. 5 X. NICASTRO, Prag111aticanan Regni Siciliae, Lon1us quintus, R. Abbatc sun1ptibus, Panonni 1800, 152-155: 153-154.
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Adolfo Longhitano
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di due momenti celebrativi diversi: gli sponsali e le nozze 6 . Non è possibile considerare gli sponsali alla stregua del moderno fidanzamento; infatti in essi c'era molto di più di una semplice promessa. Proprio in questa prima fase della celebrazione del 1natrimonio si aveva la vera e propria manifestazione del consenso da parte dei nubendi o di coloro che esercitavano su di loro la patria potestà o la tutela, con una serie di solennità giuridiche di varia natura (contratto dotale, tavole sponsali, presenza di testimoni, dono dell'anello, dexterarum coniunctio ... )7 • Tra la celebrazione degli sponsali e le nozze poteva trascorrere un anno o anche 1neno, secondo le esigenze proprie delle famiglie che dovevano preparare la festa nuziale. I nubendi con gli sponsali assumevano precisi impegni reciproci; di fallo fra di loro si costituiva un vincolo socialmente riconosciuto e giuridican1ente tutelato, fino al punto da essere considerati per certi aspetti coniugi. Nel periodo che intercorreva fra gli sponsali e la celebrazione nuziale i rapporti sessuali solitamente erano proibiti; ma in considerazione degli impegni assunti dai
6 Questa prassi era conosciuta non solo dalle diverse culture presenti nel n1editcrraneo, n1a anche dai popolì gern1anici; da ciò l'ipotesi di una sua origine n101to antica derivante dal cornune ceppo indo-curopco di questi popoli (P. DACQUJNO, op. cii., 267-269). 7 Nel giudais1no la celehrazionc degli sponsali prevedeva anzitutto la richiesta al padre della donna da parte dcl pretendente o di un suo delegato; si pattuiva in scritto la cosiddetta kethubbah, cioè una son1ma di de1H1ro che il n1arito avrebbe dovuto pagare alla n1oglic nel caso l'avesse ripudiata senza ragione; il pretendente, co1ne pegno di condurre a suo len1po la donna ncllu proprin casa, dava una n1onela o un oggetto di valore (più tardi un anello), che egli consegnava alla sposa davanti a due tesLin1oni pronunciando la fonnula: «Tu sei con questo a 1ne sposata». La donna accettando il pegno di1nostrava di acconsentire tacitamente al 1nalri1nonio (ibid., 2830). Anche presso i greci e i ronuu1i dcl periodo più antico gli sponsali consistevano nell'accordo fra il pretendente e il padre della donna sulla dote della sposa, che veniva stipulato con la recita di forn1ule rituali alla presenza cli testimoni. In epoca successiva, presso gli scrittori Ialini, si lrova la testirnonianza: della dexterar11111 coniunctio (un gesto e1ninente1nente sacro, con il quale i contraenti conferrnavano il patto concluso), ciel dono dell'anello sponsale alla sposa da parte dello sposo, delle tavole nuziali nelle quali venivano scritti gli in1pegni assunti dai contraenti (ibid., 71-178). Prassi analoghe venivano seguite dalle popolazioni barbariche della Gallia, della Spagna, dei paesi slavi e dai gennani (ibid., 260-278).
_!,_a_f!t~aconsensuale:
sopravvivenza del matrimonio clandestino? 19
nubendi, la società al riguardo poteva dimostrarsi tollerante'. La celebrazione delle nozze consisteva essenzialmente nella consegna della donna al marito da parte del padre o del tutore, e nel suo trasferimento dalla casa paterna alla casa coniugale. Riti religiosi potevano accompagnare 1 due momenti della celebrazione: solitamente erano costituiti da invocazioni alla divinità, da benedizioni augurali o da esorcismi per allontanare la presenza di spiriti cattivi. Gli sponsali e la celebrazione nuziale avevano un carattere eminentemente familiare e privato; gli stessi riti religiosi non erano compiuti dai rappresentanti ufficiali del culto, ma dal padre o dal tutore della sposa9 • Solo a partire dal IV secolo si cominciò ad affermare qualche rito cristiano per la celebrazione degli sponsali e delle nozze; per i primi secoli, secondo gli usi del tempo, era il padre o il tutore della sposa che rivolgeva una preghiera a Dio o invocava l'aiuto divino con una benedizione augurale; se poi fra gli invitati c'era il vescovo o un presbitero questo compito veniva svolto da loro. È probabile che la prassi di riservare al clero lo svolgimento dei riti religiosi si sia generalizzata quando 1 vescovi o qualcuno del presbiterio cominciarono a pronunziare con regolarità la benedizione nuziale in quanto tutori degli orfani della comunità'"·
8 Presso tutti i popoli antichi veniva considerato adulterio il rapporto sessuale che una donna aveva con uno che non fosse il proprio promesso sposo. La sostanziale equiparazione del con1portarncnto dci "ridanzati" a quello dei "coniugati" è docu1nentata in diverse pagine dell'Antico e del Nuovo Tcstmncnto (ibid., 50-57). 9 Una prin1a invocazione alla divinità o una benedizione augurale veniva pronunziala dal padre della donna prin1a che iniziasse il corteo nuziale per il trasferimento della sposa nella casa dello sposo. Una seconda preghiera o rili di csorcis1no, rivolti ad allontanare gli spiriti cattivi dalla casa coniugale, si svolgevano prin1a che gli sposi entrassero nella loro diinora (ihid., 30-33; 57-66;
73-78; 132-142). 10
Sul ten1a sono state formulate dagli storici ipotesi diverse. Inizialrnente, per un difetto di sensibilità storica, prevaleva la tendenza a proiettare fino al tcn1po delle origini usi e riti affermatisi in epoca successiva. Qualche testì1nonianza di Ignazio di Antiochia, Tertulliano e C!en1enle di Alessandria serviva da supporto per sostenere la fondatezza di una tale ipotesi. In tempi a noi più vicini è stalo notato che i brani citati devono essere letti in un diverso contesto e non possono testimoniare l'antichità di uno specifico rilo cristiano delle nozze da celebrare in chiesa, alla presenza di un 1nembro del clero. Per il problc1na vedi in particolare K. RITZER, op. cir., 81-123.
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2.2. Per il nostro terna assume una particolare rilevanza la concezione e la disciplina del matrimonio che troviamo nel diritto romano classico non solo perché essa documenta una delle prassi matrimoniali più antiche, ma anche per l'influsso che esercitò negli ordinamenti dell'antichità, compreso quello canonico. Non rientra nei limiti di questo studio prendere posizione sulla duplice ipotesi formulata dai romanisti circa la natura del matrimonio nel periodo classico": mentre per alcuni il matrimonio romano è stato sempre un negozio giuridico stipulato dal consenso dei contraenti, per altri questa concezione è quella affermatasi in epoca cristiana; in passato il inatrimonio era una situazione di fatto, che sorgeva quando un uomo e una donna idonei stabilivano fra loro un rapporto coniugale con la volontà reciproca, effettiva, continua di essere uniti durevolmente in matrimonio. Nell'una e nell'altra ipotesi perché ci fossero le iustae nu11tiae erano necessari tre requisiti: il conubiuni, la pubertà, il consenso 12 • Quale che sia l'ipotesi ritenuta più fondata sulle fonti, la manifestazione del consenso o della volontà matrimoniale dei contraenti non era legata a determinate forme; le solennità giuridiche
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Per la esposizione delle due diverse concezioni vedi in parlicolarc: O. El 111atrù11011io en derecho ro111a110. Esencia, req11isitos de validez, efectos, diso!ubilidad, Gregoriana, Ro1na 1970; E. VOLTERRA, Ma1rù11onio (diritto ron1a110), in Enciclopedia del /)iriflo, XXV, Giuffrè, Milano 1975, 726-807 e la letteratura citata. 12 Si veda una delle definizioni data al 1natri1nonio da Ulpiano: «lustuin matrin1oniu1n est, si intcr eos qui nuptias contrahunt conubium sit, et tani 1nasculus pubcs tarn fen1ina potcns sit, et utrique consentiant, si sui iuris sunt, aut etia1n parentes eorun1, si in potestate sunt» (Tit11Ii ex cn1pore Ufpiani, 5. 2). «Il co11ubiu111 è un istituto proprio del inondo antico, ove non esiste il principio dell'uguaglianza dello stato giuridico degli uo1nini e dove non è riconosciuto a qualunque essere un1ano in quanto lale il diritto di contrarre n1atrimonio con altro essere urnano di sesso diverso, ma solo se fra l'uomo e la donna esista nei loro reciproci confronti la capacità, dipendente dal loro stato giuridico, a formare fra loro un rapporto coniugale a cui l'ordina1nento giuridico ricolleghi gli effetti giuridici propri del matri1nonio legitti1no, Il conubiu111 pertanto si presentava ai giuristi ro1nani come una condizione positiva, necessaria ed imprescindibile per l'esistenza dcl n1atrimonio, nel senso che tanto l'uomo quanto la donna dovesse avere uno status giuridico tale che alla loro unione coniugale potesse essere attribuito il valore di iustae nuptiae con gli effetti a queste inerenti» (E. VOLTERRA, op. cit., 733). ROBLEDA,
La fuga consensuale: SOJJravvivenza del nzatrhnonio clandestin?_!__]:_I
servivano non tanto a dar vita al matrimonio quanto a provare l'esistenza del consenso o dell' affectio maritalis dei coniugi 13 . Pertanto due contraenti puberi e in possesso del conubium potevano manifestare il consenso o l'affectio maritalis in modi diversi: il giuramento 14, la deductio in donzunz 15 , l'honor nzatrhnonii 16 • Un testo dell'imperatore Probo ( + 282), riportato nel Codice giustinianeo, ci sembra particolarmente utile per il nostro studio: se un uomo aveva portato nella propria casa una donna con l'intenzione di unirsi in matrimonio e questa sua volontà poteva essere testimoniata dai vicini di casa o dalla nascita di figli, anche se non erano state redatte le
13 Si vedano ad esempio due testi di epoca diversa che documentano la stessa concezione. fl pri1no è di Quintiliano: «Nihil obstat quo n1inus iustum matrimoniu1n sit mente coeunliu1n etian1 si tabulae signatae non fuerint; nihil enim proderit signasse tabu!ae si 1nentem matrimonii non fuisse constabit» (M. FADI QUJNTILfANI, Jnstitutionis Oraroriae libri Xli, V.11.32, ed. L. Radermacher, I, B.G. Teubneri, Lipsiac I 965, 279); il secondo di una costituzione di Diocleziano: «Neque sinc nuptiis instrumenta facta matri1nonii ad probatione1n sunt idonea diversu1n vcritatc continente, neque non interpositis instrumentis iure contractu1n n1atri1noniu1n irritun1 est, cum omissa quoque scriptura cetera nuptiarum indicia non sunt irrita» (C. 5. 4. 13). 14 Era la solenne testa/io co1npiuta davanti ai censori di convivere con una data donna liberor11111 quaerendoru111 causa (AULII GELLII, Noctes Atticae, IV, 3, 2; ed. lC. Rolfe, I, Heinemann, London - Harvard University Press, Cambridge Massachussctts 1970, 324-326). Sul tema vedi E. VOLTERRA, op. cit., 739, nota 30. 15 Il materiale trasferimento della donna dalla casa paterna a quella del marito, per quanto fosse un fatto naturale e necessario, assu1neva un significato sociale e giuridico di particolare rilevanza. Infatti «da un lato, altraverso il co1nportan1ento della donna, la quale faceva i! suo ingresso pubblicamente con apposite ceritnonie nella casa dcl 1narito quasi do111iciliu111 n1atrù11011ii, iniziando così la partecipazione alla vita, al rango e alla condizione sociale del 1narito, e, dall'altro lato, dal fatto dell'uomo assente che faceva solennemente entrare la donna nella casa destinata a divenire l'abitazione comune ed ivi permetteva la di lei installazione, si poteva desumere, dato un siffatto reciproco co1nporta1ncnto, che ciascun coniuge aveva la volontà di essere da quel 1norncnto unito con l'altro in n1atrimonio» (E. VOLTERRA, op. cit., 743, nota 34). 16 Era la partecipazione della donna alla dignità e al rango sociale del 1narito, così come si deduce da un testo in cui Ulpiano è chia1nato a stabilire la validità della donazione effettuata tra un uo1no e una donna che da lungo tempo non convivevano più: «Si mulier et inaritus diu seorsun1 quidein habitaverint, sed honorem invice1n 1natrimonii habebant (quod scimus interduin et inter consulares personas subsecutuin), puto donationcs non valere, quasi duraverint nuptiae: non eni1n coitus 1natrimoniu1n facit, sed 1naritalis affcctio» (D. 24. 1. 32. 13).
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tabulae, il matrimonio doveva considerarsi esistente e i figli legittimi 17 • Pertanto non solo nel periodo classico (quando la legge fu formulata), ma anche in epoca cristiana (quando la norma fu inserita nel Codice), il dirjtto romano riconosceva l'esistenza di un n1atrimonio dall'avvenuta deductio in dmnum della donna da parte dell'uomo. Tuttavia non si può affermare che la rilevanza data alla deductio in domum derivi dal concubitus; infatti è fuori discussione per il diritto romano il principio: «nuptias non concubitus sed consensus facit» 18 ; per il diritto romano l'elemento sessuale non assumeva particolare rilevanza, ma veniva considerato come una conseguenza dello stato coniugale, che si costituiva fra la coppia con il consenso o I' affectio 111aritalis. In questa concezione non esistevano nozze clandestine, perché qualsiasi convivenza pubblica di persone in possesso dei requisiti previsti diventava matrimonio legittimo. Solo in mancanza di uno di essi si aveva il concubinato, cioè un 1natrin1onio che non poteva essere considerato iustu111 19 • Se la mancanza del conubiiun e della pubertà erano elementi facilmente determinabili, il consenso o I' affectio maritalis dipendevano dalla volontà dei coniugi"'; pertanto se l'uo1no voleva iniziare solan1ente un concubinato, per evitare che sorgesse la presunzione di legittimo matrimonio, era necessario che manifestasse la volontà di non avere la donna come moglie ma come concubina21 •
17 «Si vicinis vel aliis scienlibus uxoren1 libcroru1n procrcandoru1n causa do1ni habuisti et ex eo n1atri1nonio filia suscepta est, quainvis ncque nuptialcs tabulae neque ad natain filia1n pcrtincntcs factae sunt, non ideo rninus veritas n1atrimonii aut susccptae filiae suam habel potestatcin» (C. 5. 4. 9). 18 D. 35. I. 15; D. 50. 17. 30. 19 Non ci sc1nbra 1nolto chiaro quanto scrive, a proposito di nozze furtive o clandestine nel diritto ro1nano, P. Dacquino (op. cit., 153-155). Non esistendo una forma prescritta per il 1natrin1onio, una convivenza pubblica di una coppia in possesso dei requisiti previsti dalla legge doveva considerarsi matrin1onio lcgittin10. Non si può identificare il concetto di 1natrimonio clandestino, nato successivaincntc in un contesto diverso, con quello di concubinato, noto al diritto ro1nano. 20 È 1nolto chiaro in proposito il testo del Digesto: «Concubinain cx sola ani1ni destinatione acstimari oportet» (D. 25. 7. 4). 21 E. VOLTERRA, op. cit., 744.
La fuga consensuale: sopravvivenza del n1atrùnon.io clandestino? 23 2.3. Le norme che distinguevano le iustae nuptiae dal concubinato riguardavano i matrimoui di coloro che avevano la cittadinanza romana ed erano provvisti di conuhium. La Chiesa normalmente non aveva difficoltà ad accettare il diritto romano e in genere le norme che nei diversi luoghi disciplinavano il matrimonio, anche a costo di dare l'impressione di un certo formalismo 22 • A volte, però, era chiamala ad affrontare situazioni particolari per le quali le nor111e civili non erano ritenute sufficienti, perché non tenevano conto delle esigenze dell'Evangelo: matrimoni fra persone appartenenti a diverse condizioni sociali 2 \ n1atrimoni fra cristiani e pagani o eretici 24, matrimoni fra parenti o cognati ... 25 Nel tempo si pose anche il problema di orientare i fedeli alla osservanza di una determinata forma nella celebrazione del matrimonio. Infatti la garanzia di
22 Si veda la risposta data da papa Leone I(+ 446) all'arcivescovo Rustico di Narbonne a proposito di un chierico che voleva dare in n1oglie la propria figlin ad un uon10, vissuto per diverso te1npo in concubinato con una schiava: «Non ornnis 1nulier viro iuncta uxor esl viri, quia nec 0111nìs filius heres est pstris. Nupliaru1n autern foedera inter ingenuos sunt legitima et inter aequales, et inulto prius hoc ipsu1n Domino constituente, quam initiu1n romani iuris existeret. Itaquc aliud est uxor, alia concubina, sicuL aliud ancilla, aliud libera[ ... ]. lgitur cuiuslibet loci clericus si filimn suam viro habcnti concubinain in 1natri1noniun1 dederit, non ita accipiendum est, quasi ea1n coniugato dederit, nisi forte illa mulier et ingenua [acta, et dotata legiti1ne, et publicis nuptiis honestata vidcatur» (Co!lectio !Jionysiana, PL, LXVII, 288). 23 Il permesso accordato da papa Callisto a donne di alto rango di contrarre una sorta di matrimonio di coscienza con liberti o schiavi della loro casa suscitò l'indignazione di Ippolito ro1nano (Philosopho11111ena, IX, 12, PO, XVI/3, 33853388; nel Migne l'opera è attribuita a Origene). Il dirilto romano (D. I. 9. 8) considerava nulli tali inatrirnoni e puniva le donne con la perdita ciel loro stalo sociale e con la proibizione di tn.1sn1ellerlo ai figli. Mentre da parte di alcuni si elogia l'alteggia1nento autonon10 e realistico dcl papa (L. GODEFHOY, op. cfr., 2110), da parte di altri si fa notare che l'autorizzazione non risolveva ciel Lutto i gravi prohle1ni etici che quelle situazioni co1nportavano: «Il rischio di questi 1natri1noni, legitti1ni nella coscienza e contratti più o 1neno clandestinainente, in quanto non riconosciuti dal diritto, portava alla sterilità o a indurre i coniugi a pratiche abortive piultosto che riconoscere un figlio concepito con un liberto o con uno schiavo» (A. I-IAMMAN, I cristiani nel secondo secolo, Il Saggiatore, Milano 1973, 89). 24 Il proble1na dei matri1noni 1nisti era stato già posto da S. Paolo nella I Cor 7, 12-16; sarà affrontato dai Concili di Elvira (300 circa), cc. 16-17; di Arlcs (314), c. 11; di Laodicea (320), cc. 10 e 31 (W.M. PLOCHJ., op. cit., l, 241-242). 25 Nella questione inizialn1ente la Chiesa si attenne al diritto ron1ano; tuttavia nei concili dell'Europa continentale si nota la tendenza ad estendere il divieto oltre al quarto grado (ibid., 237-238).
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legittimità offerta dal gruppo sociale poteva ritenersi sufficiente in una ristretta cerchia di persone e in condizioni di nor1nal ità; man n1ano che la società si estendeva, oppure nei periodi di guerra o di turbolenze sociali la comune conoscenza dei fatti poteva non essere più sufficiente a garantire il grado minimo di pubblicità e di certezza richiesto da una ordinata vita sociale. Sembra che il primo divieto di celebrare occulte il matrimonio sia stato formulato da papa Ormisda (+ 523) 26 • È probabile che in conseguenza di questo divieto sia nata la nozione di matrimonio clandestino, cioè di un matrimonio celebrato al di fuori delle forme consueten Sull'obbligo di osservare la forma del matrimonio è interessante la risposta che papa Nicolò I diede il 13 novembre 866 ad una serie di quesiti posti dai bulgari. Si trattava di un popolo barbaro, che costituiva uno Stato indipendente da Bisanzio e da poco si era convertito al cristianesimo. I greci, dai quali avevano ricevuto l'evangelizzazione, asserivano che era peccato omettere i riti religiosi previsti per la celebrazione delle nozze. Il papa nella sua risposta dichiara di non condividere questa tesi e, dopo aver notato le differenze esistenti fra il rito seguito dai greci e quello in uso a Roma, conclude che non possono essere accusati di peccato i contraenti che, per le condizioni di povertà in cui si trovano, non sono in grado di
26 W.M. PLOCHL, op. cit., 235; il testo è riportato da Graziano nel Decreto,
pars Il, C. XXX, q. V, c. 2: !E. FRIEDBERG, Co17J11s !uris Canonici (=F), I, Akade1nische Druck - U. Verlagsanstalt, Graz 1959, ! 105. [ fedeli, celebrando un 1natri1nonio clandestino, finivano col creare una situazione irregolare perché si sottraevano al controllo delle autorità costituite e iniziavano una convivenza matrimoniale senza prc1nettere la benedizione nuziale. 27 All'inizio del nostro secolo il Wernz scriveva che nell'ordinamento canonico si possono individuare quattro significati del n1atri1nonio clandestino: quello che anticainente veniva celebrato senza solennità e quello che non si contraeva in facie ecclesiae dinanzi al popolo e ai testitnoni; un terzo significato di nozze clandestine derivò dalla omissione delle pubblicazioni e un quarto dall'obbligo dclln fonna canonica stabilito dal Concilio di Trento (F.X WERNZ, lus Decretaliun1, IV, Ex Typographia Polyglotta, Romae 1904, 218; sul tema vedi pure: P. GASPARRI, Tractatus canonicus de 111atrùnonio, I, Typis Polyglottis Vaticanis 1932, 4l~42; N. IUNG, C/andestinité, in Dictionnaire de Droit Canonique, Ili, Letouzey et Ané, Paris 1942, 795~819). In realtà, come si vedrà nel corso di questo studio, sono più di quattro i significati dati dalla normativa canonica, dai teologi e dai canonisti all'espressione "matrimonio clandestino".
La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio cfrmdestino? 25 celebrare solennemente le nozze; per loro è sufficiente il solo consenso emesso in conformità alle leggi vigenti; infatti è il consenso che dà vita al matrimonio; se esso viene a mancare, tutto il resto (anche lo stesso coito) diventa inutile 28 • I rilievi che questo testo ci suggerisce sono diversi: 1) il papa dimostra di far propria la concezione del diritto romano sul matrimonio e la propone come valida anche per un popolo barbaro che si presume avesse leggi e usi propri; 2) c'era una celebrazione nuziale delle persone benestanti, che prevedeva anche i riti religiosi in chiesa, e e' era una celebrazione nuziale "essenziale" dei poveri che prevedeva la sola manifestazione del consenso: il papa, ispirandosi al diritto romano, relativizza la stessa forma religiosa della celebrazione a tutto vantaggio della semplice manifestazione del consenso; 3) la prassi matrimoniale instaurata sotto l'influsso del diritto romano determina anche una diversa concezione teologica del matrimonio: mentre i greci esigono la presenza del presbitero e il rito religioso perché si possa avere una celebrazione sacra, per il papa sono gli sposi che rendono sacro il loro matrimonio manifestando il consenso; 4) il requisito minimo ed essenziale che il papa richiede per la lecita e valida celebrazione delle nozze è la manifestazione del consenso «secundum leges»; probabilmente si tratta delle consuetudini locali; che potevano ritenere sufficiente una sorta di forma elementare sul modello della romana deductio in domum; 5) la manifestazione dcl consenso ritenuta sufficiente dal papa ha una pubblicità minima, garantita dagli usi locali: la società è in grado di distinguere un vero matrimonio da un concubinato o da un rapporto occasionale.
28 «( ... J Haec sunt iura nuptiaru1n, haec sunt praeter alia, quae nunc ad n1en1orian1 nobis occurrunt, pacta coniugion1n1 sollcmnia; peccatu1n aute1n esse, si haec cuncta in nuptiali foedcrc non intervcniant, non dici1nus, quernad1nodun1 Graecos vos astruere dicitis, praesertim cu1n tanta soleat artare quosdam rerutn inopia, ut ad haec praeparanda nullum his suffragetur auxiliu1n; ac per hoc sufficiat secundum leges solus eorum consensus, de quorum coniunctionibus agilur. Qui consensus si solus in nuptiis forte defuerit, caetera 01nnia etia1n cum ipso coitu celebrata frustrantur, Ioanne Chrysostomo magno doctore testante, qui ait: "matrimonium non facit coitus sed
voluntas" [... ]» (PL, CXIX, 979-980).
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2.4. Proprio nel periodo in cui Nicolò I, scrivendo ai bulgari, sosteneva la liceità di un matrimonio celebrato anche senza la forma canonica, le condizioni socio-politiche in cui si trovavano le regioni dell'Europa occidentale ponevano problemi di segno opposto: dare risposte certe e univoche ad una serie di domande di fondamentale importanza per la riforma della Chiesa e della società: quando diventano leciti i rapporti sessuali? Quando l'unione della coppia diventa indissolubile: dopo la manifestazione del consenso o dopo la consumazione del matrimonio? Quando si ha l'adulterio: dopo la celebrazione degli sponsali o dopo la celebrazione nuziale? Gli elementi utili per risolvere la questione erano diversi: con riferimento alla concezione del 1natrimonio che si aveva nel diritto ro1nano, si poteva privilegiare la manifestazione del consenso"; il diritto francogermanico prevedeva il trasferimento della tutela dal potere paterno alrautorità maritale 30 ; secondo una concezione più antica, ancora presente presso alcune popolazioni barbariche, si poteva privilegiare il rapporto sessuale". Tuttavia questo elemento da solo non poteva costituire il matrimonio sia perché non era in grado di dare al n1atrimonio certezza giuridica e carattere sociale, sia perché la
29 È la posizione assunta da papa Nicolò I nella riposta ai bulgari sopracitata. :m (di 1natrin1onio germanico ha co1ne base due negozi giuridici: la promessa bilaleralc che viene slrelta fra il titolare del 111u11d sulla donna (n11111doa!do) e lo sposo, in virili della quale il prin10 s'i1npegna a consegnare e il secondo a ricevere con1e n1oglie la donna (latinainente despo11satio): e, in un secondo 11101ncnto, la lraditio della donna stessa, la quale dunque, in ambedue i negozi, figura co1nc oggetto (res tradita) e non come soggetto (essendo incapace di diritto)» (F. CALASSO, Medioevo del dirilto, I, Giurfrè, Milano 1954, 128). 31 Le teorie dcl consenso e della copula, che divisero le scuole di Parigi e cli Bologna nei secoli Xl-Xli, non erano così contrapposte fra loro con1e potrebbe far credere una certa schen1atizzazione scolastica. La teoria della copula, che non sc1nbra di origine gcnnanica, per porre in essere il n1atrimonio non escludeva la necessità dcl consenso; arfcnnava solan1ente che esso doveva trovare il suo necessario co111pimcnto nel rapporto fisico. In realtà si voleva annonizzare il principio stabilito dal diritto ro1nano con alcune esigenze proprie dell'ordina1nento canonico: la rilevanza riconosciuta al bonu111 prolis, la prassi di dispensare il n1atrimonio non consumato ... (G. OESTERLÉ, Co11se11te111e11t 111atri111011ial, in !Jictionnaire de Droit Canonique, cit., IV, Paris 1949, 293-354: 293-298).
La .fuga consensuale: sopravvivenza del niatrùnonio clanllestù?'?? 27
prevalente concezione negativa della sessualità esigeva un rito religioso con significato di purificazione''. Il problema apparve di difficile soluzione sia perché la varietà delle consuetudini e delle norme matrimoniali vigenti nei diversi popoli non favoriva la riflessione teologica e giuridica, sia perché la legislazione sul matrimonio non veniva formulata dalla Chiesa. Se si preferiva la concezione romanistica c'era da determinare il tipo di consenso al quale dare rilevanza: la principale manifestazione del consenso da parte dei nubendi si aveva negli sponsali, garantita in molti casi da documenti scritti, da testimoni, dallo scambio di anelli o di doni; ma in questo caso c'era da qualificare giuridicamente la celebrazione nuziale e l'inizio della convivenza dei coniugi. Affermando che il matrimonio era posto in essere dal consenso manifestato dai contraenti negli sponsali, non si poteva più sostenere la illiceità dei rapporti sessuali prima della celebrazione nuziale, durante la quale si avevano i riti religiosi e l'intervento del clero. Inoltre, considerata la prevalente natura familiare e privata degli sponsali, se si fosse ritenuto formalmente compiuto il matrimonio in questa prima fase, l'istituto matrimoniale sarebbe stato sottratto al controllo dell'autorità e la celebrazione nuziale in chiesa avrebbe potuto essere considerata un'appendice i1nportante ma non necessaria, con la conseguenza di rendere impossibile una chiara distinzione fra matrimonio legittimo e illegittimo, celebrato secondo le norme stabilite o secondo la volontà soggettiva dei contraenti. Lo stesso problema era stato avvertito anche nella legislazione civile. Gli imperatori d'oriente con diversi interventi normativi avevano determinato un progressivo accostamento degli sponsali alla celebrazione nuziale. Infatti per evitare che la celebrazione degli sponsali in età in cui non erano consentite le nozze diventasse una
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A tal proposito si vedano i rilievi ironici che farà S. Pier Da1niani (+ 1071) ai sostenitori della teoria della copula: se è il concubito che istituisce il matrin1onio come mai si affcnna che la prostitute lo profanano? Sarebbe più corretto dire che lo celebrano. Gli stessi postriboli più che essere condannati e considerati stainbcrghe n1aleodoranti, dovrebbero essere valorizzati e ritenuti degne camere nuziali. Infine co1n'è possibile conciliare il carattere pubblico e onesto delle nozze con quello riservato del coito? (De ten1pore celebrandi nuptias, PL, CXLV, 659-668: 664).
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facile scorciatoia per aggirare le proibizioni poste dalla legge, il legislatore aveva deciso di disciplinare anche questa prima fase della celebrazione del matrimonio''.
3. La riforma della celebrazione nuziale
3.1. Il punto di arrivo di questo processo di accostamento fra gli sponsali e le nozze fu costituito dalla unificazione dei due momenti celebrativi, disposta per facilitare la celebrazione del matrimonio pubblico. Questa scelta fu determinata soprattutto dalla crisi morale, sociale e politica del la società feudale. La decadenza della moralità pubblica, i rapimenti a scopo di matrimonio, l'aumento dei matrimoni clandestini, fecero avvertire la necessità di una riforma generale. La via più idonea da percorrere sembrò quella di costituire un'autorità forte, munita di ampi poteri. Il ricorso alle false decretali consentì ai riformatori di far credere che il progetto di riforma da loro formulato fosse in realtà il modello della Chiesa primitiva3•1• In tal modo fu facile assicurare alle autorità ecclesiastiche una competenza molto ampia in materia di matrimonio; aspetti che tradizionalmente erano stati affrontati dal legislatore civile (la disciplina degli sponsali), divennero oggetto delle norme canoniche. La disciplina degli istituti fondamentali per la vita della società (il matrimonio e la famiglia) consentì alla Chiesa di accrescere il suo potere di controllo sociale. Nel momento di crisi e nel vuoto di potere politico della società feudale, questo sconfinamento della Chiesa nell'ambito della competenza dello Stato non trovò oppositori. D'altra parte il diverso punto di vista da cui la Chiesa si collocò per disciplinare il matrimonio
:n Si veda la novella 74 dcll'i1nperatore Leone VI il Filosofo (886-912) che stabilisce per la celebrazione degli sponsali la stessa età richiesta per il matrin1onio (Les 11ovel/es de Léon VI le Sage, ed. P. Noal!cs-A. Dain, Société "Les Belles Lcttres",
Paris 1944, 262-264). J4 Sulla crisi della società feudale e le false decretali vedi; A. FLICHE, La Réfonne Grégorienne, I, Louvain-Paris 1924, l-38; A. FLICHE - V. MARTIN, Storia delta Chiesa, VI, tr. it., SAIE, Torino 1977, 346-360; 423-441. Per l'influsso avuto sulla normativa canonica dcl 1natrimonio vedi: K. RITZER, op. cit., 340-360.
La fìtga consensuale: sopravvivenzadel matrimonio clandestino? 29 conferì a questo istituto una dimensione socio-politica di per sé estranea all'aspetto sacramentale. Sarà proprio questa dimensione ad esercitare nei secoli successivi un pesante condizionamento non solo nella normativa, ma anche nella riflessione sugli aspetti teologici e giuridici del matrimonio. La riforma del matrimonio ebbe come obiettivi: unificare in un solo rito la celebrazione degli sponsali e delle nozze, predisporre un rito semplice e obbligatorio per tutti onde evitare le unioni clandestine, premettere un'indagine alla celebrazione per verificare la idoneità dei contraenti e l'assenza di impedimenti'', stabilire i confini del lecito e dell'illecito, dcl valido e dell'invalido nel momento in cui nasce l'istituto sul quale la società ha il suo fondamento. Sulla base di questi principi la celebrazione delle nozze avveniva in due luoghi distinti, ma nello stesso giorno: la prima parte - costituita dagli antichi sponsali - veniva celebrata fuori dalla chiesa (in facie ecclesiae), la seconda parte - le nozze - veniva celebrata all'interno della chiesa. Responsabile dei due momenti celebrativi era il presbitero. Questa prassi sorse nella Normandia nei secoli X-XI e si diffuse man mano in Europa ad opera dei nonnanni e dei 1nonaci irlandesi:i 6.
35 Si veda un passo delle false decretali, attribuito a papa Evaristo e citato da Graziano, nel quale si indicavano i criteri per un nHtlrin1onio legittirno: «Aliter legiti1nu1n non fit coniugiu1n, nisi ab his, qui super ipsam fe1nina1n do1ninatione1n habcrc videntur, et a quibus custoditur uxor petatur, et a parcntibus propinquioribus sponsctur, et lcgibus dotelur, et suo 1e1nporc sacerdotaliter, ut 1nos est, cun1 precibus et oblationibus a sacerdote benedicatur, et a parani1nphis, ut consuetudo docet, custodita et sociata, a proxi1nis congruo tempore petita Jcgibus dotetur, ac solcinniter accipiatur, et biduo et triduo orationibus vacenl, et castitatein custodiant. lta pcracta legitin1a scitote esse conubia; aliter vero prcsu1npta non coniugia, scd adulleria, ve! contubcrnia, vel stupra, aut fornicationes potius, quain legiti1na coniugia esse non dubitate, nisi voluntas propria suffragaveril, et vota succurrerint legitin1a,> (!Jecreto, pars Il, C. XXX, q. 5, I; F, I, 1104). ~ 6 K. RITZER, op. cit., 332-360. Non si trallò di una diffusione im1nediata e universale; tradizioni diverse rimasero ancora per secoli nelle regioni d'Europa. Le proble1natiche dcl n1atri1nonio nel 1nedioevo europeo sono esposte da G. DUBY, Il cavaliere, la donna, il prete. Il 111atrù11011io nella Francia feudale, tr. it., Laterza, Bari 1982; Io., Medioevo 111aschio. A111ore e 111atrùnonio, tr. it., Latcrza, Bari 1988; D. I-IERLIHY, La fa111iglia nel 111edioevo, LL it., Laterza, Bari 1987; AA. Vv., La l'ifa privata dal feudalesùno al rinascùne11to (a cura di Ph. Ariès e G. Duby), tr. it., Latcrza, Bari 1987.
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In Sicilia la dominazione islamica, iniziata nelle città sud occidentali nel secolo IX e conclusasi nel secolo XI, determinò una interrnzione traumatica nella vita e nelle tradizioni cristiane; pertanto la prassi matrimoniale vigente in Sicilia a partire da questo secolo non può essere ricollegata alla introduzione del cristianesimo. Possiamo ritenere che la prassi introdotta dai normanni dopo la conquista, sia stata quella vigente nelle loro regioni. Infatti, se si prescinde dai residui elen1enti cristiani di rito orientale sopravvissuti alla deno1ninazione islamica, r ordinamento ecclesiastico dato dai normanni fu quello latino e i primi vescovi o abati, ai quali i conquistatori affidarono prevalentemente la responsabilità dell'evangelizzazione e della riorganizzazione delle diocesi, furono prelati o monaci della loro etnia, prelevati dalle regioni di nord-ovest della Francia". Pertanto le celebrazioni del matrimonio introdotte in Sicilia dai conquistatori dopo la fine della dominazione islamica furono due: quella di rito greco e quella di rito latino, secondo il modello affermatosi presso le popolazioni normanne. In questo periodo una costituzione di Ruggero II (l 031-1101) rese obbligatoria nel Regnum Siciliae (che comprendeva anche le regioni dell'Italia meridionale) la celebrazione pubblica e solenne delle nozze in chiesa con la benedizione del sacerdote. Non sappiamo quale accoglienza abbia avuto questa norn1a e se sia ri1nasta in vigore nei secoli successivi; di fatto anticipava di oltre un secolo le prescrizioni del Concilio Lateranense IV: obbligava tutti e con le sanzioni che co1nn1inava ai trasgressori (la illegittimità dei figli nati dai n1atrin1oni clandestini, con la conseguente impossibilità di succedere nell'eredità
37 F. CHJ\LJ\NDON, f{istoire de la don1inatio11 nonnand en !talie et en Sici/e, Il, Librarie A. Picarcl el fils, Paris 1907, 589-592; E. PONTIERI, Prefazione a G. MALATERRA, /)e rebus gestis Rogerii Calabriae et Sici/iae con1itis et Roberti Guiscardi ducis fra tris eius, V. Zanichelli, Bologna 1928, V- VI; A. LONGHITANO, La parrocchia nel/a diocesi di Catania prùna e dopo il Concilio di Trento, Istituto Superiore cli Scienze Religiose, Palenno 1977, 7-15; S. TRAMONTANA, La Sicilia da/!'i11sedia111e11to 11or111a11no al \lespro (1061-1282), in AA. Vv., Storia della Sicilia, III, Società editrice storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1980, 177-304: 186-199.
La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino? 31 paterna e - per le donne - di avere la dote)'" non favoriva la prassi dei matrimoni clandestini presso le classi più abbienti, ma poteva rivelarsi ininfluente per coloro che non avevano problemi di successione o di dote.
3.2. La riforma del matrimonio, attuata secondo il modello proposto dalle false decretali, segnò una svolta nella disciplina e nella celebrazione nuziale 19 : a) se in passato gli sponsali erano stati celebrati in famiglia, secondo usanze e norme dettate dalla società o dal legislatore civile, con le innovazioni introdotte furono disciplinati dalle norme canoniche e celebrati dinanzi alla chiesa e alla presenza del parroco; tuttavia la benedizione, lo scambio degli anelli e la dexterarum coniunctio finirono per perdere significato sociale e giuridico per mantenere solamente un valore "rituale"; b) l'introduzione di una sola celebrazione matrimoniale rese più facile il ricorso al matrimonio pubblico e determinò l'eli1ninazione di 1nolte situazioni irregolari; e) le norme canoniche formulate per disciplinare la celebrazione delle nozze introdussero una prassi unitaria e fecero venir 1neno consuetudini di diversa origine; d) la Chiesa, assumendo l'iniziativa di questa riforma, si trovò nelle condizioni di controllare la celebrazione nuziale e di rivendicare
:u; <<Sancin1us Jcgc pracscnti volentibus 01nnibus contrahere 1natrin1oniu1n, ncccssitatc1n i1nponi universis ho1ninibus regni nostri, et nobilibus, 1naxirne post sponsalia celebrata, sollcn1nitatc debita, et sacerdotali bcncdìctionc prac1nissis, n1alri1noniun1 solcnniter, et publicc cclcbrari. Alioquin novcrint a1nodo, n1oricnles conlra nostrum regale cdicluin ncquc cx tcstamcnlo, ncquc ab intestato se habituros hcredes legitin1os, ex clandestino 1nalrin1onio et illicito contra nostrain sanctione1n procrcatos; 1nulicrcs ctiain dotcs aliis nubentibus legitin1e dcbitas non habcrc. Rigorc1n cuius sanctionis omnibus illis re1nìttirnus, qui pro1nulgationis huius te1npore ia1n 1nalrin1oniu1n contraxcrunt. Viduis ctian1 volcntibus duccrc viru1n huius necessitatis vinculu1n relaxainus» (P. CANCIANI, Barbaror11111 feges a11tiq11ae, I, apud S. Coletiun1 et F. Pittcriun1, Ycnctiis 1781, 360-361; nella raccolla Co11stirutionu111 Regni Sicifiae libri lii, sun1ptibus Antonii Cervoni, Neapoli l 773, 343-344, il testo nonnativo è conuncntato da Andrea du Isernia). 39 P. DACQUJNO, op. cit., 350-359.
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nel tempo la competenza esclusiva sul matrimonio; ma nella riflessione sulla natura e i fini di questo istituto e nella formulazione di una coerente normativa fu condizionata da problematiche di per sé estranee alle finalità della propria missione; e) si accentuò il processo che portò alla prevalenza di elementi individuali su quelli sociali; f) il nuovo rito fece diminuire ma non eliminò la prassi dei matrimoni clandestini, che venivano considerati illeciti ma validi. Ai coniugi che avevano manifestato il proprio consenso al di fuori delle forme consuete restava solamente lonere della prova.
4. La riflessione dei teologi e dei canonisti sul matrimonio
4.1. Ali' inizio del sec. XII la rinascita del diritto romano e la riaffermazione della concezione del matrimonio costituito sul consenso dei contraenti offrirono ai primi scolastici e ai canonisti lo spunto per una riflessione dottrinale sul matrimonio cristiano"'· Se da una parte bisognava difendere il matrimonio dagli attacchi del neomanicheismo dei catari", dall'altra era necessario individuare il momento in cui il 1natrimonio si poneva in essere per dare una risposta ad alcune esigenze della prassi pastorale. La discussione più che teologica fu essenzialmente giuridica. Solo alla fine di un lungo travaglio dottrinale la maggior parte dei teologi e dei canonisti finì per accettare l'idea che il matrimonio è uno dei sette sacramenti che conferisce la grazia42 • Nelle prime esposizioni dottrinali sembra che gli
40 G. LEBRAS,op.
cit., 2129-2149. L'eresia con diverse denominazioni ed accentuazioni dottrinali si diffuse in Oriente e in Occidente: dal bogo1nilis1no dell'in1pero bizantino ai patari della Bosnia e della Lombardia, si catari della Francia n1eridionale e agli albigesi della Linguadoca e dcl!' Aquitania. Fu condannala dal Concilio Lateranense Ili (l 179): A. FL!CHE V. MARTIN, op. cit., IX/2, SAIE, Torino 1977, 845-872; Conci/ioruni Oec11111enicor111n Decreta (:::COeD), Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 1991, 224. 42 Le difficoltà incontrate per l'affcnnazionc di questo principio furono dì diversa natura: anzitutto la 1nolteplicità dci significati con i quali era adoperato il tern1ine "sacrainento" e la ricerca di quello che allo stesso tempo si potesse applicare al 1natri1nonio e agli altri sacra111enti; poi la particolare natura del 1natrimonio che era una realtà con1une a fedeli e infedeli, all'antica e alla nuova legge, rilevante più per la 41
La fuga consensuale: SOJJravvivenz(t __(fel 111atrùnonio cland_e_~tino? 3 3
autori si limitassero a giustapporre le diverse concezioni senza tentare una sintesi. Ivo di Chartres (+ 1116) nella collezione di canoni Panorniia·0 e in alcune sue lettere a volte dà l'in1pressione di distinguere il consenso degli sponsali da quello delle nozze'", a volte sembra confondere i due concetti 45 ; analogamente in alcuni casi fa credere di far propria la teoria del consenso 46 , in altri prende in considerazione anche il principio della copula"; si dimostra molto rigido nel proibire i 1natrimoni clandestini 48 e per avere una auctoritas
società che per la Chiesa; inoltre in questo sacramento il ruolo principale era dei laici e non dei sacerdoti; infine per 1nolti era inaccettabile l'ìdes che una realtà così conta1ninata dal peccato potesse conferire la grazia; tutt'al più si poteva affermare che il n1alri1nonio non conferisce la grazia 1na iinpedisce il peccalo (G. LE BRAS, op. cii., 2196-220; F. CHTOVARO, op. cii., 295-304). 41 PL, CLXI, 1041-1344. L'opera anticipa per 1nolti aspetti il Decreto di Graziano. 44 «Post sponsalia, guae futurarurn nuptiaruin sunl pron1issio, foedcra quoquc consensu eon11n qui contrahunt et eorun1 in quorun1 sunt poteslate cclebranlt1r» «responsio Nicolai I ad consulta Bulgaronnll», ibid., lib. VI, cap. 9, 1246). Si veda l<1 stessa citazione riportata nella lcllera 134 (PL, CLXII, 143-144). '15 «Coniugcs vero appellanlur a prin1a desponsationis ride» (testo di S. Ambrogio, ibid., cap. 15, 1247). «Si quis divinis Scripturis iuraverit mulieri se crnn legiti1nam uxoren1 habituru1n, ve! si in oratorio late sscrainentu1n dederit, sit illa !cgiti1na uxor, qua1nvis nulla dos, nulla scriptura alia interposita sil» (testo da una novella, Panorinia, cil., cap. 7, 1245). Da notare che, secondo un'altra testi1nonianza citata, gli sponsali potevano essere celebrati «a pri1nordio aetatis [_ ... ] id est si non sinl iuniores quarn septe1n annis» (teslo dalle pandette, ibid., cap. 13, 1246). Lo stesso concetto espriine nella lettera 161: «Qui iura1nento paclu1n coniugale firn1avit, ex 1naiori parte sacra1ncntun1 coniugale implevit» (PL, CLXII, l 65) e nella lettera 167: «rnulierem alii dcsponsata, alteri non licet habere in coniugiun1» (ibid., 170). 46 «Desponsata viro, eoniugis norncn accipit. Cu1n eni1n initiatur coniugiun1 coniugii non1cn assun1itur. Non eni1n defloratio virginis fil coniugiu1n, sed pactio conìugalis»- (testo di S. Ambrogio, Panonnia, cit., cap. 14, 1247). Si veda anche l'affennszione contenuta nella lettera 134 sopracitata, 242 (PL, CLXIl, 250) e 246
(ibid., 253). 47 «llla n1ulier non pertinel ad 1natri1noniun1 cun1 qua non celebratur nuptiale 1ninisleriun1» (rubrica ciel con1pilatorc); segue !'auctoritas: «Cuin sociclas nuptiaru111 ita ab initio constituta sit ut prsetcr scxus coniunctione1n non habeant in se nupti<1e coniunctionis Christi et Ecclesiae sacran1entun1, dubiurn non esl eain n1ulierc1n non pcrtinerc ad n1atrin1onium in qua docetur nuptialc non fuisse n1inistcriunn> (Lesto cli papa Leone, Panonnia, cit., cap. 23, 1248). 48 «Ul nullus fidelis, cuiuscunquc condilionis sit, occulte nuptias faciat, sed benedictione a sscerdotc accepla publice nubat in Don1ino» (decreto cli papa Onnisda,
ibid., cap. 5, 1245).
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che appoggi la propria tesi modifica a suo favore il testo di papa Nicolò l"; ma nello stesso tempo è per la loro validità 50 Una distinzione fondamentale per lo sviluppo della dottrina è quella che si affermò in questo periodo fra il consensus de futuro (fidanzamento) e il consensus de praesenti (matrimonio) 51 • Se si considera la testimonianza dei Padri e la prassi tradizionale - seguita ancora in molti luoghi - di celebrare in tempi diversi gli sponsali e le nozze, era i1nportanle distinguere il 1no1nento in cui i nubendi facevano una se1nplice promessa, dal mo1nento in cui 1nanifestavano effeltivainente la volontà di unirsi in n1atri1nonio.
4.2. La prima espos1z1one completa del matrimonio s1 trova nelle opere di Ugo di San Vittore(+ 1141), uno dei più grandi teologi n1cdievali 52 . Prelin1inarmcntc egli fa notare che il 1natri1nonio è l'unico sacran1ento preesistente al peccato originale; tuttavia n1entrc prima del peccato era stato istituito ad officium, dopo il peccato divenne ad re111etliun1 perché bisognava legiui1nare la concupiscenza 5 -'. Ponendosi, poi, il problema della causa efficiente del matrimonio fa propria senza tcntennatnenti la leoria ro1nanistica del consenso:
19 • «Haec sunt, praeter a!ia quae ad n1c1noria1n non occurrunt, pacta coniugioruin sole1nnin. Peccatun1 auten1 esse, si haec cuncta nupliali foeclere non interveniunt, diciinus» (ibhl., cap. 33, 1250). Nel testo originslc sopracitato si legge: «Pcccaturn autern esse [... ] 11011 dici111us)), 50 «Solet autcn1 quacri cu111 n1asculus et fernins nec illa n1aritus, ncc illa uxor a!tcrius sibin1et non filioru111 procreandoru111 causa, scd pro incontinentiis solius causa concubitus copulanlur, ca fide inedia, ut ncc i!lc cun1 altera, ncc il!a curn altero id faciat, utrun1 nupliae sinl vocandac. Et potest quiden1 fortasse non absurcle hoc appellari connubiu1n, si usque ad n1ortern alicuius eoru1n et inter cos placuerit, et prolis gcncratione1n quarnvis non ea causa coniuncli sunt, non tnn1en vitaverint [_ ... J» (testo cli S. Agostino, ibid., cap. 27, 1248). 51 Questa distinzione se1nbra siJ stata introdotta da Guglicln10 di Cha1npeaux (+ 1122) (G. LE BRAS, op. cit., 2142). 52 f)e sacn1111e11tis, libri II, pars Xl, ~<De sacrarnento coniugii)), PL, CLXXVI, 174-618: 479-520; /Je B. Mariae virginitale. Libellus epislolaris, PL, CLXXVI, col.
857-876. 53 «Initiun1 coniugi i duplex est; una ante peccatu1n ad officiu1n; altera post pcccatuin ad ren1ecliun1. Prin1a ut natura 1nultiplicarctur; sccunda ut natura cxcipcrclur, et vitiu1n cohiberetur>) (!Je sacra111en1is, cit., 48 J ).
La fuga consensuale: sopravvivenza clel niatrhnonio
clandestino~--~')
«1natrin1oniun1 non facit coitus sed consensus» 54 . Egli si chiede se non sia necessario anche il consensus coilus perché il matrimonio possa esistere, ma respinge questa ipotesi affermando che questo secondo consenso accompagna, non costituisce il malri1nonio 55 • Il tlebitiun coinvolge entrambi i coniugi, tuttavia non si può affermare che se esso dovesse mancare verrebbe meno il matrimonio; che sarebbe tanto più vero quanto più fondato sul vincolo dell'amore e non sull'ardore della concupiscenza 5<'. Il matrimonio è sacramento sia in quanto coniugio che nasce dal consenso, sia in quanto r~fficiiun coniugii, che si ha nella congiunzione fisica 57 . Il nostro teologo inoltre distingue bene il consenso degli sponsali (consenso de futuro) dal matrimonio (consenso de praesenti). Anche se la promessa è giurata, resta sempre
54 «Causa cfficiens est conscnsus 1nt:1teri<1lis per vcrba dc praescnti cxpressus. Consensus, qui in anirna est, con.un Ecclcsiarn debet den1onstrare, sine quo non est coniugiu1n, unde dicitur: "Matri1noniun1 11011 facil copula corpon11n, sed voluntas ani1narun1"» (/11 episto!a111 I ad Corintliios, PL, CLXXV, 524). «Si quis aulcn1 quacrnl quando coniugiu1n esse incipi<it, clici1nus quod ex quo tt:1lis consensus qualcrn supra deffinivin1us inter 1nasculun1 et focn1inan1 factus fuerit, ex quo st<1lin1 coniugiu1n est, quen1 etsi poslea copula carnalis sequitur, nihil tan1en coniugio ainplius ad virtuten1 sacran1enli confertur» (De sacra111e11tis, cit., 485). 55 «Quaeris ergo utru1n sinc conscnsu coitus coniugiurn esse possil [ ... ]. DisculiaTnus (ut postulas) quid sii coniugiun1. Quid eni1n est coniugiurn nisi lcgitin1a socieL<is inter vinnn et fe1ninnrn; in qua videlicel societatc cx pari consensu uLcrque sen1etipsun1 debel alleri? DebituTn aulen1 hoc duobus 1nodìs consideratur, ut scilicct et se illi conservet, et se illi non neget [... ]. Spontnncus ergo consensus inter vin1n1 el fe1ninain lcgitin1e factus, guod utcrque alteri dcbilore1n sui se spondet; iste est qui coniugiu1n facit [ ... ]. Est adhuc alius conscnsus, scilicet carnalis co1nn1e1-cii ad invicein exigendi atque reddendi, si1nilern inter virun1 et inulicrc1n pactionern constiluens: con1es et non effector coniugii, officiurn et non vinculun1, qui et ipse La1nen cun1 pnri ab ulroque voto suscipitur, pari etian1 necesse est debito teneatun> (De B. fl1ariae virgi11itate, cit., 858-859). 56 «Nec Lan1en hoc officio cessante, veritate1n sivc virtutc1n coniugii cessare credcndu1n est, in10 potius tan[o vcrius et sanctius coniugiu1n esse, quod in solo charitalis vinculo, et non in concupiscenlia carnis et libidinis ardore foederatun1 esl» (ibid., 860). 57 «Coniugiu1n t<1111en veruni, et vennn coniugii sacra1ncntun1 esse, etian1 si carnale corn1ncrciurn non fuerit subsecutu1n, irno potius Lanto verius el sanctius esse, quanto in se nihil habet unde castitas erubescat, secl unde charitas glorictur. Nan1 et ipsun1 coniugiuin sacran1enlun1 est, sicul et ipsu111 officiu1n coniugi sacrainentu1n esse cognoscitur. Secl coniugiutn, ut dignun1 est, sacra111entu1n est illius societatis quae in spiritu est inter Deu1n et anin1a1n. Officiun1 vero coniugii sacra111enlun1 est illius socictalis quac in spirilu esl intcr Deun1 et anin1a1n» (De sacra111e11tis, ciL., 482).
36 un impegno da realizzare in futuro, non un fatto irrevocabile. Chi non mantiene un giuramento è spergiuro, ma non diventa incapace di emettere un consenso con un'altra persona58 . Sulla base di questo principio, egli distingue nelle fonti quando il termine desponsata si riferisce a chi ha fatto una promessa e quando indica chi ha contratto un 1natrimonio 59 . Perché il consenso rie JJraesenti possa dar vita al matrimonio, è necessario che sia legittimo, cioè emesso da persone abili, non inibite da impedimentiw Esiste una forma prescritta per manifestare il consenso dinanzi ai testimoni; tuttavia se i nubendi lo manifestano arbitrariamente in segreto, con le parole stabilite o in modo equivalente, diventano coniugi a tutti gli effetti, anche se sarà difficile provare che un tale matrimonio sia stato effettivamente celebrato".
58 «Considera quod longe aliud est pro1nittere atque aliud faccrc. Qui pro1niltit nondun facit; qui aulen1 faciL ian1 facit quod facit. In eo qui pro1nittit si non facil quod prornillit, n1endacium est. In eo au(e1n qui facit, etian1 si post factu111 pocnitct, tan1cn factu1n 01nnino est quod factu1n est. Quì ergo se proinisit uxore111 duclurun1, nonc!un1 tcmcn uxorc1n duxit [ ... ]. Non1cn autcn1 desponsalionis non ipsun1 coniugii conscnsurn quo n1atrimonium finnatur, scd paclionen1 et prornissione1n futuri conscnsus significare in ipsa vocis expressione coniici1nus quia et spandere non dare est aut faccrc sed pron1iltere>> (ibid., 486-487). 59 «Cum cni1n initiatur coniugiun1 lune coniugii nornen assu1nitur, in quibus verbis, sicut supra dictu1n est, si desponsationern accipi1nus in ca quando consensu n1aritali coniugiu1n sancitur, recte !une ipsurn coniugiun1 incohari et non1en coniugis assumi dicitur» (ibid., 488). 60 «Legitimae personac sunt: quas non i1npedit ve! votu1n contincntiac, vel sanguis, vel orda, ve! dispar cultus, ve! condiLio, vel frigiditas naturac» (In epistofa111 I ad Corinthios, cit.). 61 <(Cu1n ille dicit: 'Ego te accipio in 1ncan1, ut deinceps et tu uxor inca sis, et ego 1naritus tuus' et illa si1niliter dicit: 'Ego te accipio in rncu1n, ut ùcinceps et ego uxor tua sin1 et tu tnaritus 1ncus', aut scilicet hoc dieunt, aut ali ud quoùcu1nque si1nile illi, in quo el si non hoc faciunt, hoc tan1en intelligunL Aut si non hoc dicunt quia fortassis alicubi verba non celebranlur, sed rcs agitur, tarnen hoc faciunt. Ducit illain, accipit illain, sicut 1nos est legitì1nus ducenùi uxores. Cum igitur hoc sicut n1os est dicunt vel faciunt et in hoc sibi consentiunt, hoc est quoc! dicere volo, quoù ùcinceps coniugcs sunt, sive hoc dixerinl; et in hoc sibi consenserìnt corani legiti1ns testibus sicut dcbcnt, sivc forte soli seorsu1n et in secreto ne1nine attestante vel astante qualiler non dehenl; tamen omnino coniuges sunt, ncc dcinceps nisi alia e1nergat causa dissidii ab invicen1 separari licitc possunt, cliain si propter furtivum conscnsu1n si facturn negaverint convinci non possint» (!)e sacra111entis, cit., 488).
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.fuga consensuale'._·_ sopravvivenza del___ ~natrùnonio clandestino? 3 7
4.3. Due opere contribuirono alla dottrina del matrimonio cristiano, divenuta patrimonio comune delle scuole e punto di riferimento per la normativa canonica: il Decreto di Graziano (1140 circa) e le Sentenze di Pietro Lombardo (1151 circa). Il fine che Graziano si prefiggeva nella sua opera era di armonizzare le norme spesso contraddittorie contenute nella legislazione canonica di un millennio; non per nulla egli intitola la sua collezione Concordia discordantiun1 canonun1; tuttavia, dando una scorsa alle auctoritates da lui scelte per trattare il terna del matrimonio è facile constatare che non riuscì pienamente nel suo intento. Le sue affermazioni in molti casi sono imprecise (non sempre distingue fra consenso de futuro e consenso de praesenti e adopera la stessa terminologia per indicare i fidanzati e i coniugi) 62 , a volte non dà l'impressione di essere coerente: commentando alcuni testi sembra affermare che il solo consenso sia sufficiente a porre in essere il inatrimonio 6\ 1na spiegando altre testimonianze fa credere che solo con la copula si
62 La difficoltà si spiega anche con la citazione di auctoritates che si riferiscono ad epoche diverse e testimoniano prassi 1nolto differenti. Solo tenendo presente la differenza esistente fra l'antica celebrazione degli sponsali, in cui i nubendi e1nettevano un vero e proprio consenso attestato dalle tavole dotali e dai testin1oni, e la prassi successiva nella quale si dava 1naggiore rilevanza a!la celebrazione nuziale, era facile contestualizzare gli scritti degli autori che egli cita. Si vedano in tal senso tutte le auctoritates citate nella pars II, C. XXVII, q. 2, successive al dictuni post c. XXXIV; F, I, 1073-1078): «Apparet ergo, hanc non fuisse coniuge1n, cui vivente sponso alteri nubendi licentia non ncgatur. Quomodo ergo sccundu1n Ambrosiu1n et rcliquos Patres sponsae coniuges appellantur, et his 01nnibus argumentis coniugcs non esse probantur? Sed sciendu1n est, quod coniugiu1n desponsatione initiatur, conmixtione perficitur. Unde inter sponsun1 et sponsarn coniugiun1 est, scd initiatun1; inter copulatos est coniugiun1 ratutn>>. 6 ·1 «Sunt enin1 nuptiae sivc 1natri1noniurn viri inulierisque coniunctio individuam vitae consuetudine1n retinens [... -j. Fuil enitn inter cos consensus, qui est cfficiens causa 1natri1nonii, iuxta illud Ysidori: 'Consensus facit 1natri1nonium'» (pars II, C. XXVII, q. 2, dictu111 Gratiani ante c. I; F, I, 1062). Subito dopo queste affennazioni cila fra le auctoritates un detto attribuito a S. Giovanni Crisostotno: «Matrimoniu1n quidem non facit coitus sed voluntas, et ideo non solvit illud scparatio corporis, sed voluntatis» (c. I) e la nota Re.1ponsio ad consulta Bulgaron1111 (866) di papa Nicolò I: «Sufficiat solus secundum leges conscnsus eorum, de quoru1n quarumcu1nque coniunctionibs agitur. Qui solus si defuerit, cctcra ctimn cum ipso coitu celebrata frustrantur» (c. 2). Dopo questi due detti Graziano aggiunge: «Cum ergo intcr istos consensus intercesserit, qui solus 1natrimoniu1n facit, patet hos coniugcs fuisse [ ... ],, (F, I, 1062-1063).
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realizzi un vero 1natrin1onio<'4. Delle nozze ha più una visione naturale che sacramentale; rara1nente adopera il termine sacra111entu111 per indicare il matrimonio e quando lo adopera non gli dà un significato costante: a volte se ne serve per indicare l'indissolubilità del matrimonio"\ altre volte lo stesso vincolo o il segno dell'unione di Cristo con la Chiesa"'· Anche Graziano ritiene che la forma della celebrazione serva solamente per provare le avvenute nozze; pertanto i matrimoni clandestini sono pienamente validi 67 . A tal proposito è interessante una espressione che egli adopera nella spiegazione della lenninologia del matrimonio: si chiama legittimo e rato il matrimonio contratto secondo la forma prevista dalla Chiesa, si chiama rato ma non legittimo il matrimonio di chi, trascurando la forma giuridica e i riti religiosi (contemptis omnibus illis solempnitatibus), si unisce a una donna solo per amore (solo affectu) 68 •
64 Graziano fa rifcrirncnlo sopra!lulto a due testi spuri: il prirno è altribuito a s. Agostino, 1nn proviene dtillc false decretali: «Non dubiu111 est, illan1 1nuliere1n non pertinere ad 1nt:1trin1oniun1, cun1 qua docetur non fuissc connlixtio sexus» (pars Il, C. XXVII, q. 2, c. 16; F, I, 1066); il secondo è di S. Leone Magno, rna risulta n1anipolato a tal punto da falsnre il pensiero del papa: «Cun1 societas nup!iarun1 ila a principio sii instituta, ut prctcr connlixlione1n scxuun1 non habeanl in se nuptiae Christi et ccclcsiae sacran1cntu1n, non dubiun1 est, illarn 1nulicrcrn non pertincrc ad 1natrin1oniu1n, in qua docetur non fuisse nuptialc n1isteriun1» (c. 17; I.e.). 65 «l ... ] Si ergo [ ... j adultera1n reti nere nulli pennittitur, inulto 1nin1us in coniugiuin duci licebil cuius puclicitiae nulla spcs h~ibctur. Debel eniin intcr coniuges ficles scrvari et sacran1cntu1n, que cun1 defuerinl, non coniuges, scd adulteri appcllantur» (pars Il, C. XXXII, q. I, post c. IO; F, I, 1118). 66 «luxta hanc clistincLionen1 intclligenda est auctoritas illa Augustini: "Non dubiu111 est, illa1n 1nulicrc1n non pertinerc ad nu:1trirnoniun1, cum qua docctur non fuisse con1nixtio sexus". Ad n1atrimoniu1n perfectun1 subintclligendun1 est, tale vidclicct, quod habeat in se Christi et ecclesiae sacra1ncnlu1n 1 ... J» (pars II, C. XXVII q. 2, dictu111 post c. 39, F, I, 1074). 67 «Coniugia, que ela1n conlrahuntur, non negantur esse coniugia, nec iubcntur dissolvi, si utriusque conrcssionc probarì poterunl: veru1ntan1cn prohibentur, quia 1nutala allcrius corun1 volunlate, altcrius confessione fidcs iudici fieri non polesi» (pars 11, C. XXX, q. 5, dictu111 post c. 11; F, I, 1107). 68 «Coniugiun1 aliud est legiti1nu1n et non ratun1, aliud ratun1 et non lcgitin1u1n, aliud icgiti1nu1n et ratuni. Lcgiti1nu1n coniugiun1 est, quod legali institutione vel provinciac 1noribus eontrahitur. Hoc inter infidcles ratu1n non est, quia non est rinn111n et inviolabile [... ]. Inter fidcles vero ratun1 coniugiu1n est, quia coniugia, se1nel inita intcr eos, ulterius solvi non possunt. Horum queclam sunt legitin1a, veluti cu1n uxor a parentibus tradilur, a sponso dotatur, et a sacerdote benedicitur. 1-Jaee Lalia coniugia legitin1a et rata appellantur. Illorum vero coniugia,
~a fitga consensurtl~_·: SOJJravvivenza -~{el
nJ.atrf:ntonio_ clandestino? 39
4.4. Pietro Lombardo sì dimostrò molto più chiaro e coerente nel formulare la dottrina del matrimonio; nella sua esposizione egli fa propria la concezione consensuale esposta da Ugo da San Vittore, ma sì servì anche dei rilievi fatti da Graziano nel Decreto, che in molti casi chiarisce spiegandoli in un contesto più logico e coerente. Seguendo lo schema di Ugo da S. Vittore, avvia la sua trattazione affermando una duplice fondazione del matrimonio: prima del peccalo era un dovere, dopo il peccato un rimedio; infatti nel paradiso terrestre la prima coppia non avrebbe avvertito né l'ardore della concupiscenza, né il dolore del parto; contrariamente a quanto si verificò dopo il peccato. Tuttavia la concupiscenza non rende cattivo il matrimonio, ma l'esercizio della sessualità al di fuori del matrimonio 69 . Nella nuova legge il matri1nonio è un sacramento, cioè un segno sacro dell'unione di Cristo con la Chiesa"'; fino a quando fra gli sposi non si verifica la co1111nixt;o sexui11n non si ha la piena configurazione al modello di Cristo e della Chiesa". Solo il consenso de praesenti dà vita al matrimonio 72 ; il consenso rie futuro costituisce una promessa; questa, anche se è confennata da giuramento, non pone in essere un matrimonio; lo spergiuro può essere obbligato alla penitenza, ma eventuali nozze che egli ha contratto con ailra persona devono essere ritenute validen Negli scrittori ecclesiastici è necessario distinguere
qui contcinptis on1nibus illis sole1npnitatibus solo affectu aliquarn sibì in coniugen1 copulant, huisce1nodi coniugiu1n non legitimun1, sed ralu1n tantu1nn1odo esse credittir» (pars II, C. XXVII, q. ! , dictu111 post c. 17; F, I, I 089). 69 Se11tentiaru111 !ibri quatuor, lib. IV, Dist. XXVI, PL, CXCII, 908-910. 70 «Cu1n ergo coniugiu1n sacrarnentum sii, et sacrun1 signu1n est, et sacrae rei, scilicet, coniuncLionis Christi et Ecclesiae, sicut ait Aposlolus [... ]. Ut cni1n inter coniuges coniunctio esl secundu1n consensum anin1oru1n et secundurn pcnnixtioncn1 corporun1, sic Ecclesia Christo copulatur voluntatc et natura qua quidein vull cum eo; et ipse forn1mn su1npsit dc natura hominis. Copulala est ergo sponso spiritualiter et corporaliter, id est charitate ac conformitate naturae. Huius utriusquc copulae figura est in coniugio. Consensus enim coniugutn copulain spiritualc1n Chrisli et Ecclesiae, que fil per charitaten1, significat» (ibid., 909-91 O). 71 «Sed superius posita, ea rationc dieta intelligcndu1n csl, non quin pcrtincal n1ulicr illa ad 111atrin1oniu1n, cu1n qua non est pennixtio sexuu1n; scd non pcrtinet ad 1natri111oniun1 quod exprcssa1n et plenain tenet figurarn coniunctionis Christi et Ecclesiae» (ibid., 91 O). 72 «Efficiens aulen1 causn n1atri1nonii est conscnsus, non quilibet, scd per verba cxpressus, nec de futuro, scd dc praesenti» (/.c.). 7.l Dist. XXVII, 914.
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quando il termine sponsa significa promessa sposa e quando coniuge". Il matrimonio si dice legittimo quando sono osservate tutte le formalità previste dalle leggi canoniche; da ciò non si può affermare che un matrimonio contratto con il solo consenso e senza l'osservanza della farina canonica sia invalido 75 • Un consenso cle praesenti manifestato clandestinamente dà vita ad un matrimonio, che deve essere considerato valido ma illecito e i contraenti quasi adulteri o fornicatori; se uno di loro interrompe la convivenza o manda vrn l'altro coniuge, i giudici non possono intervenire a sostegno del vincolo coniugale per mancanza di testimoni 76 •
4.5. Alla concezione consensuale affermata ed esposta da Pietro Lombardo faranno riferimento i papi nel loro magistero; se Alessandro III(+ 1181) e Innocenzo III(+ 1216) incominciarono a tradurre questi principi in norme canoniche, le decretali di Gregorio IX - promulgate nel 1234 - diedero all'istituto matrimoniale canonico un certa co1npiutezza formale e contribuirono all'affern1azione di una disciplina unitaria". A proposito dei matrimoni clandestini ci
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DisL. XXVII, 913.
75 «Legitin1un1 non fit coniugiurn, nisi ab his qui super foc1ninan1 clo1ninatione1n habere vidcntur, et a quibus custoditur. Uxor petat, et a parentibus sponsetur, et lcgibus doletur, et a sacerdote (ut 1nos est) benedicatur, et a paranymphis custodiatur ac solc1nniter accipialur» (DisL XXVIII, 915). 76 «Hoc autc1n non ita intelligendum est, tanqua1n sine enumeratis non possit esse lcgiti1num coniugiuin, sed quia sine iliis non habct decore1n el honestaten1 debita1n. In huius eni1n sacra1ncnti celebratione, sicut in aliis, quaedam sunt perlincntia ad substantiain sacramenti, ut consensus de pracscnti, qui solus sufficit ad contrahcndurn matrimoniu111; quaeda1n vero pertinentia ad dccorc1n et solernnitate1n sacran1cnti, ut parentu1n traditio, saccrdotum benedictio, et huius1nodi [ ... ]. Sine his ergo non quasi legiti111i coniuges, sed quasi adulleri ve! fornicatores conveniunt, ut illi qui clanculo nubunt; et utique fornicatores essent, nisi eis suffragaretur voluntas verbis expressis de praesenti, quac legiti1num inter eos facit matriinonium. Nain et consensus occultus de praesenti per vcrba expressus, coniugium facit, licct non sit ibi honestus contractus, scd 1natri1nonium non sanxit consensus qui in occulto fuit. Si enim altcruin dìn1isit, non cogitur iudicio Ecclesiae redirc et co1nmanere quasi cum coniuge, quia non potest probari tcstibus contractus, qui in occulto est factus» (!.c.). 77 In questo periodo possono considerarsi acquisiti il principio ro1nanistico «Conscnsus non concubitus facit nuptias» e la distinzione fra consenso de praese11ti e de .fì1turo. Si veda in tal senso la rubrica: «Contrahcns successive per vcrba dc
La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino? 41 sembrano particolarmente rilevanti due interventi: una risposta di Alessandro III e le prescrizioni del Concilio Lateranense IV (1215). In Inghilterra. un matrimonio era stato celebrato senza l'assistenza del sacerdote e le solennità d'uso, ma non era stato consumato. Successivamente la sposa celebrò un secondo matrimonio solenne con un altro uomo, con il quale ebbe regolari rapporti. Il papa nella sua risposta faceva notare: se nel pri1no matrimonio si era avuta la manifestazione reciproca del consenso con le parole: «Ego te recipio in 1neum et ego te recipio in meam», né l'uo1no né la donna avrebbero potuto contrarre un nuovo matrimonio 78 . La risposta non è priva di un certo formalismo; il papa, invece di riconoscere come valida una qualsiasi manifestazione naturale del consenso, sembra introdurre il principio di una sua manifestazione secondo una certa forma, a testimonianza di una esigenza che nell'ordinamento canonico si farà sempre più urgente: richiedere un mm1mo di solennità giuridiche per rispondere al fondamentale bisogno di certezza che si ha in un qualsiasi gruppo sociale organizzato. Le solennità giuridiche non riguardavano semplicemente il momento della celebrazione (manifestazione del consenso con una determinata formula, presenza del presbitero e dei testimoni), ma l'inchiesta previa praesenti cu1n duabus, tcnctur adhacrcrc primac. Si autc1n pri1no contraxil per verba de futuro, secundo per verba de praesenti, adhaerebit secundae», che introduce un brano di s. Agostino: «Duobus modls dicitur fides pactionis et consensus. Si aliquis alicui n1ulicri fidc1n fcccrit pactionis, non debet aliam duccrc. Si alia1n duxcrit, pocnitentian1 debet agere de fide inentita; 1naneat tmnen cun1 illa, quam duxit. Non enim rescindi dcbet tantu1n sacra1nentu1n. Si autein fecerit fide1n consensus, non !icet ei a!iam ducere. Si autc1n duxerit, dimittet ipsa1n, et adhacrebit uxori priori. Est autem fides pactionis, quando aliquis promittit alicui fidem, quod eam duce\, si permiserit eu1n re1n secuin habcre, ve] etiarn pro consensu. Fides autem consensus est, quando etsi non stringit inanum, corde tamen et ore consentit ducere, et 111utuo se concedunt unus alii, et mutuo se suscipiunt» (X, lib. IV, tiL IV, c. 2; F, II, 680). Non 1nanca tuttavia qualche ambiguità. Si veda ad esen1pio la rubrica: «Sponsalia de futuro transcunt in 1natrimoniu1n per carnale1n copulam subsecuta1n [ ... ]», che introduce la risposta data da Gregorio IX al vescovo di Le Mans: «ls, qui fidcn1 dedit M. 1nulicri super matrimonio contrahendo, carnali copula subsecuta, etsi in facie ecclesiae ducat aliam et eognoscat, ad primu1n redire tenetur, quia lieet praesuinptum pri1nu1n matri1noniun1 vidcatur, contra praesu1nptione1n ta1ncn huiusmodi non est probatio adn1ittenda. Ex quo sequitur, quod nec veru1n, nec aliquod ccnsctur 1natrimoniun1, quod de facto est postn1odun1 subsccutum» (X, lib. IV, tit., Il, c. 30; F, II, 672). 78 E. FRIEDBERG, Quinque con1pi!a1iones antiquae, Compilatio I, lib. IV, tit. IV, c. 6 [8], Akaden1ische Druk - U. Verlagsanstalt, Graz 1956, 47.
42 per accertare l'idoneità dei contraenti. Saranno le norme del Concilio Lateranense IV ad estendere a tutta la Chiesa l'obbligo della celebrazione pubblica dei matrimoni secondo una determinata procedura: «Seguendo i nostri predecessori proibian10 assolula1nentc i nu1tri1noni clandestini e vietiaino inoltre che vi assista un sacerdote. Estendendo la consuetudine vigente in alcuni luoghi a luttc le a!trc regioni, stabilian10 che i 111atrimoni in procinto di essere celebrati saranno pubblicati nelle chiese dai sacerdoti, fissando un tennine entro i! quale chi vuole e ne ha rnotivo possa opporre un lcgitti1no in1pedi1ncnto. Nel caso di sospelli contro questa unione suscettibili di essere provatì, il contratto sarà fonnalinentc vietato, finché appaia chiaramente dalle prove il da farsi. I figli nati da un rnatrin1onio clandeslino o vietalo saranno considerati senz'altro illegittin1i senza possibilità di ricorso a causa dell'ignoranza dei genilori» 79 .
In questo contesto si afferina la nozione di n1atrin1onio rato o legittimo, in opposizione a matrimonio clandestino: il primo è il matri1nonio posto in essere dal consenso de praesenti dei contraenti, manifestato in conformità alle norme canoniche e preceduto dalle pubblicazioni"'; il secondo è il matrimonio nato da un consenso manifestato in modo informale, senza le pubblicazioni e le solennità previste dalle norme canoniche 81 • Il matrimonio clandestino, supposta
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COcD, 258. Le decretali dì Gregorio IX, citando una risposta di Alessandro 111 al vescovo di Salerno, descrivono le solennità giuridiche solitamente richieste per la celebrazione delle nozze: (([_ ... ] Si inter viru1n et n1ulierem legitin1us conscnsus sub ea solen1niLate, quac fieri solet, praesente sciliceL sacerdote aut etia1n notario, sicut ctiam in quibusdan1 locis adhuc observatur, coram idoneis tesLibus, inlervcniat dc praesenti, ila guiden1, quod unus alteru1n in suo muruo consensu verbis consuetis cxprcsse recipiat utroque dicente: 'ego te <lccipio in 1neam' et 'ego te accipio in 1neu1n', sivc sit instrurnentu1n interpositu1n sive non, non licet 1nulicri alii nubcrc. Et si nuberit, elian1si carnalis copula sit sccuta, ab eo separari debet [... ]» (X, Jib. IV, tit. IV, c. 3; P, II, 681). Le pubblicazioni erano prescritte nel c. 3 del Lil. III, con esplicito rifcri1nento al Concilio Lateranense IV (F, 11, 679-680). 81 La glossa al cap. 3, libro IV, tiL III delle Decretali di Gregorio IX così spiega il 1natri1nonio clandestino: ((Dicitur clandcstinurn 1natri1noniu1n tribus n1odis: uno modo cu1n non habentur testes; secundo cu1n non sit cun1 solc1nnitatc; tcrtio dicitur clandestinun1, quod sit contra tenore1n huius conslilutionis, videlicct non prae1nissa dcnunciationc». 80
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la idoneità dei contraenti, è illecito ma valido e la sua esistenza va provata in foro esterno 82 •
4.6. La prima riflessione di teologi e canonisti sul matrimonio servì per dare una risposta ad alcune domande urgenti che poneva la pastorale, ma lasciò sostanzialmente insoluto il problema dei n1atrimoni clandestini e alcune questioni dottrinali di natura teologicaEJ: quale rapporto c'è fra il matrimonio naturale e il sacramento? Se Gesù Cristo si limitò ad elevare alla dignità di sacramento il matrimonio naturale, qual è il ruolo della Chiesa e del ministro sacro? La causa efficiente della grazia è il consenso degli sposi o la benedizione del presbitero? La scelta di far propria la concezione consensuale del diritto romano garantiva la libertà del consenso, ma non offriva soluzioni valide per eli1ninare la piaga dei matrimoni clandestini e per spiegare la natura dei riti sacri e il ruolo del presbitero: la benedizione agli sposi era un sacramentale, qualcosa che serviva Q[f ornan1entiun del matrimonio già costituito; il sacerdote era un se1nplice testin1onc; i veri ministri del sacramento erano i contraenti; la grazia del sacran1cnto era causata dal loro consenso 84 . A
82 «Quod nobis ex tua parte significatun1 est, ut de clandestinis matrimoniis dispensare debere1nus, non viden1us, quae dispensatio super his sit adhibenda. Si cni1n 1natri1nonia ila occulte contrahuntur, quod exinde legiti1na probatio non appareat, ii qui ea contrahunt, ab ecclesia non sunt a!iqualenus coinpellendì. Veru1n si personae contrahentiu1n hoc vo!ucrint publicare, nisi rationabilis et lcgititna causa praepediat, ab ecclcsia recipienda sunl el coinprobanda, tanquain a principio in ecclesiae conspectu conlntcla» (X, lib. IV, tit. III, c. 2; F, Il, 679). 83 Nella elaborazione della dottrina sul 1natri1nonio non fu 1nai chiara la distinzione dcl ruo!o avuto dai leologi da quello dci canonisti; visto che il 1natri1nonio veniva considerato al!o stesso len1po contratto e sacran1ento difficilincnte una tale distinzione si sarebbe potuta avere. Furono rare le opere nelle quali i teologi nella esposizione della dottrina sul 1natri1nonio rinunziarono delibcratainenlc a trattare gli aspetti canonistici (G. LE BHAS, op. cit., 2162-2163). 84 Si veda su questo argo1nento la chiara posizione assunta da s. Tom1naso. Egli, dopo avere spiegato che l'assoluzione dcl presbitero è indispensabile per la remissione dei peccati, aggiunge; «Scd in 1natrin1onio actus nostri sunt causa sufficiens ad inducendu1n proxin1un1 effcclun1, qui est obligatio: quia quicun1quc csL sui iuris, potcst se alteri obligare: et ideo sacerdotis benedictio non requiritur in 1natri1nonio quasi dc cssentia sacra1ncnli (/11 !V11111 Sent., dìst. XXVIII, q. I, a. 3, ad
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coloro che legavano l'azione della Chiesa solamente alla presenza e alla funzione del sacerdote il catanese Nicolaus de Tudeschis (alias Abbas Siculus o Panormitanus) (+ 1445) nel suo commento alle Decretali faceva notare che il termine "Chiesa" significa anche moltitudine di fedeli; pertanto non può essere ritennto clandestino un matrimonio contratto in facie ecclesiae secondo le consuetudini del luogo". La riflessione teologica, già condizionata dalla situazione sociopolitica in cui si era sviluppata, trovò ulteriori condizionamenti nella rinascita dello Stato, che in materia di matrimonio reclamava le antiche competenze legislative e giudiziarie"'', e nella negazione della sacramentalità del matrimonio da parte dei riformatori 87 . Questa nuova situazione determinò un atteggiamento difensivo che non consentì di giungere a conclusioni obiettive e teologicamente fondate. Da più parti si auspicò una seria rifonna del n1atrimonio non solo per 2urn). Vedi l'esposizione dcl piano seguito dai teologi dcl Medio Evo per la fonnulazione della dottrina classica sul n1atrin1onio fatla da G. LE BRAS, op. cii.,
2171-2224. 85 «[ ... ] Unde quaero, numquid 1natrimoniun1 dicatur ex hoc clandestinu1n, vide ad hoc quod nostcr Ioannes Andrea in additionibus concludit quod dumn1odo 1natrin1oniu1n sit contractuin in fccic ccclcsiac non potest tale 1natrimonium appellari clandestinu1n, [ ... '] et licct vcrburn "ccclcsia" su1natur 1nultiplicitcr, tamcn in proposito sumitur ecclcsia pro collectionc fideliun1 [ ... ]» (Abbaii Panonnitani Con1enlaria in quartu111 et q11i11tu111 libn1111 Decrela/iu111, in c. 3, lib. IV, ti!. III, VII, apud Iuntas, Vcnetiis 1617, 18r). 86 I pri1ni colpi alla giurisdizione ecclesiastica furono inferti dai governi dci co1nuni italiani ostili alla Chiesa (Pistoia, Milano, Firenze ... ). In Francia la legislazione dcl re non si prefisse di disciplinare il 1natri1nonio pri1na dcl XVI secolo. Nell'Impero, la lotta fra Ludovico il Bavaro c Giovanni XXII costituì l'occasione per fonnulare le premesse alla teoria del 1natri1nonio civile. Si vedano in tal senso gli scritti di G. Occam e di Marsilio da Padova (G. LE BRAS, op. cii., 2220-2222). x7 Lutero espone il suo pensiero sul rnatrin1onio con queste parole: «Abbian10 detto che in ogni sacraincnto è contenuta la parola della divina promessa, a cui deve prestar fede chi riceve il sacramento: il solo simbolo non può essere ritenuto sacraincnto. Mai si legge che abbia ricevuto la grazia di Dio chi abbia preso n1oglie. Anzi, neppure il si1nbolo è stato istituito da Dio nel malri1nonio. Mai si legge che esso sia stato istituito da Dio, sebbene tutto ciò che si fa visibilinente possa essere inteso co1ne sin1bolo o allegoria di cose invisibili. Ma le allegorie non sono sacrmncnti, co1ne noi li intendiaino. Inoltre, essendo esistito il 1natri1nonio fin dalla creazione del mondo ed esistendo ancora, anche presso gli infedeli, non ci sono ragioni per definirlo sacran1ento della Nuova Legge e della sola Chiesa [ ... ]» (M. LUTERO, La cattività babilonese della Chiesa, in Scritti politici, a cura di L. Firpo,
UTET, Torino 1978, 225-347: 313-314).
La _fuga -~on.sens~tal_~: sopravviv~nza del nia_!rilnoni(_! clandestino?___'±._5 eliminare la piaga dei matrimoni clandestini 88 , ma anche per ristabilire un nnovo equilibrio fra aspetti giuridici e teologici nella riflessione e nella disciplina di un sacramento di vitale importanza per la vita della Chiesa e della società.
4.7. Il dibattito sul matrimonio al Concilio di Trento fu lungo e complesso, perché bisognava affrontare problemi dottrinali e disciplinari sui quali non c'era uniformità di pensiero e di prassi. Una prima discussione si ebbe durante il periodo bolognese (1547)"', sospesa nel 1552 per venire incontro al desiderio dei riformatori di essere presenti alla trattazione di un argomento così iinportante90 • Fallita la possibilità di averli al Concilio, il tema fu ripreso nel 1562"'· Fu necessario formulare quattro schemi e protrarre la discussione per circa otto mesi, prima di giungere all'approvazione definitiva del decreto (l I novembre 1563) 02 • Il tempo impiegato per la discussione nel periodo bolognese e nell'ultimo periodo potrebbe far credere che il Concilio abbia affrontato e definito i problemi che la dottrina classica non era riuscita a risolvere. In realtà i padri si limitarono a trattare alcuni aspetti della dottrina posti in dubbio dai riformatori e ad affermare la competenza della Chiesa sul matrimonio, ma evitarono di prendere posizione sulle questioni discusse all'interno della dottrina cattolica. Seguendo questi criteri, fu data per scontata la dottrina del consenso di derivazione romanistica con laffermazione che Cristo elevò alla dignità di sacramento il contratto naturale e lo
88 Si lrattava di una prassi 1nolto diffusa che era causa di scontri fra le fa1niglie e di disordini sociali. In Francia uno dei prin1i interventi dcl potere civile nella disciplina del matrin1onio ebbe cornc oggetto questo argo1nento: Enrico IJ, in un celebre editto dcl 1556, conferì ai genitori la faco!tà di diseredare i figli che avevano contratto un 1natrirnonio clandestino senza chiedere il consenso dei gcnilori e ai giudici di applicare queste pene (G. LE BRAS, op. cit., 2223). 89 H. 1EDIN, Storia del Concilio di Trento, III, tr. it., Morcelliana, Brescin 1973, 75-123; 199-226. 90 G. LE BRAS, op. cit., 2233. 91 H. JEDIN, op. cit., IV/2, Brescia 1981, 139-173. 92 Per un esame dci quatlro sche1ni dcl decreto vedi G. LE BRAS, op. cit., 22332247.
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rese indissolubile. L'approfondimento della sacramentalità del matrimonio fu limitala alla materiale applicazione della dottrina ilemorfica di derivazione scolastica9 '. Andrebbe del tutto fuori strada chi ritenesse marginale il tema dei matrimoni clandestini nella discussione sul matrimonio affrontata dal Concilio di Trento°'. In realtà fu uno dei temi più dibattuti perché strettamente collegato ai problemi dottrinali, sui quali non c'era convergenza di pensiero: il rapporto contratto-sacramento"' e la potestà della Chiesa di invalidare il contratto o il sacramento già in possesso dei requisiti di validità (il consenso degli sposi) 96 ; il ruolo del presbitero e della benedizione nuziale"; la scelta più opportuna per un intervento di riforma: porre
9.:i I..,a teoria ile1norfica dci sacrrnnenti si nffern1ò nel sec. XIII e incontrò qualche difficoltà di applicazione al s8cra1ncnto del n1alrin1onio. Fu accolta la tesi proposla da Alberto Magno e Ton11naso d'Aquino: 1natcria sono gli atli dei contracnli, la fonna la n1anifcstazionc dcl consenso per verha de proesenti. Tuttavia si pose il problen1a dcl valore sacra1nen1ale di quei n1atrirnoni celebrati fra assenti o senza la 1nateriale pronun1,ia delle parole della fonna; secondo la tesi di Duns Scolo che aveva trovato 1nolto seguito, dovevano essere considerati contratti privi della cli1nensionc sacran1enlale; secondo altri la teoria ilc1norfica non era applicabile al sacraincnto dcl 1natrin1onio (ibid., 2202-2205). 9.i Nel dibattito conciliare i n1atri1noni clandestini sono intesi con due significati diversi: I) il 1nalrin1onio celebralo dai n1inorcnni senza il consenso dci genitori e senza la presenza dei teslin1oni; 2) in genere tutti i 1natri1noni celebrati sen1,a tcstirnoni. Lutero riteneva invalidi i 1natri1noni clandestini, intesi nel pri1no significato; questa tesi non contraddiceva a nessuna verità rivelata, n1a solo alla teoria dcl consenso; pertanto se si accettava una concezione ciel 111alri1nonio fondata sulla clourina dcl consenso, bisognava respingere la tesi di Lutero. In un pri1no rno1nento era stata avanzala la proposta di dichiarnre nulli tuui i 1natri1noni clandestini, passati e futuri. Nella discussione si fece notare che un provveclin1enlo riguardante il passato incontrava difficollà insorn1onlabili sul piano dottrinale e su quello della pratica attuazione (H. JEDJN, op. cir., III, 199-226). 95 Per giustificare il potere delln Chiesa cli invalidare i 111atri1noni clandestini, n1olli fecero ricorso n!la dislin1,ionc fra contratto naturale e sacran1cnlo: la Chiesa avrebbe dovuto intervenire dichiarando nullo il conlrauo naturale, senza toccare il sacrainento; 1nai questa clistin1,ione ebbe tanti sostenitori con1e in questa rase dcl dibattito tridentino (G. LE BRAS, op. cit., 2238). 96 Era questo l'argo1nento pili forte addollo da coloro che si opponevnno alla proibizione dei rnalri111oni clandestini 1neclianle l'introduzione della forrna obbligatoria: un clc111cnto secondario (la forn1a) non poteva invalidare l'ele111ento essenziale (il consenso). Si veda in particolare l'intervento ciel vescovo di Rossano
(ibid., 2237). 97
Sarebbe stato facile dichiarare la invalidità dei 1nalri1noni clandestini, se si fosse accettato il principio che solo la 1ncdiazione ciel presbitero poteva causnre la
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un impedimento e rendere inabili le persone, oppure obbligare all'osservanza di una forma con la presenza del sacerdote? Su quest'ultin1a ipotesi si orientò la maggioranza. L'obbligo della forma per la validità del matrimonio, sancito dal Concilio di Trento, può essere considerato lo sbocco naturale di un istituto giuridico che si era evoluto seguendo una coerente linea di sviluppo. Il notissiino decreto T(unetsi 98 inizia con una dichiarazione di validità dei matrimoni clandestini (da intendere nella duplice accezione assunta nella discussione) celebrati fino a quel momento; fu il frutto del compromesso raggiunto faticosamente per rompere il fronte agguerrito della minoranza ostile all'approvazione della rifor1na: «Quantunque non si debba dubitare che i 1natrin1oni clandestini, celebrati con il libero consenso dei contraenti, sono validi e veri 1natri1noni, fino a che la Chiesa non li avrà resi invalidi, e perciò a buon diritto sono da condannare, co1ne il santo sinodo li condanna con l'anaten1a, quelli che negano trattarsi di veri e validi rnatri1noni e coloro che falsamente affermano che i n1alrin1oni contralli dai figli n1inorenni senza il consenso dci genitori sono nulli, e che i genitori possono renderli validi o invalidi, luttavia la santa Chiesa cli Dio per giustissirnì 111otivi li ha se1npre disapprovati e proibiti)>.
Tuttavia il Concilio deve prendere atto che le proibizioni non sono servite a nulla; perciò intende ovviare a tanti inali ritenendo in1prorogabile un intervento più incisivo. Il rimedio che intende adottare per il futuro riguarda l'obbligo ad valditatem della forma canonica nella celebrazione del matrimonio: «Quelli che tenteranno di contrarre 1natrirnonio in n1aniera diversa da quella prescrilta, e cioè alla presenza del parroco o di altro sacerdote, autorizzato dallo stesso parroco o dall'ordinario, e davanti a due o tre testi1noni, il santo sinodo li rende assolula1nenle incapaci a contrarre il 1natrirnonio in tale 1nodo e dichiara invalidi e nulli questi contratti, co111e li annulla e li invalida con i! prescnlc decrelo».
grazia; n1a questa ipotesi avrebbe con1portato una riformulazione dcl!a dottrina tradizionale fondala sostanzia!n1enle sulla centralità del consenso dei contraenti
(ibid., 2235-2236). 98 COeD, 755-757.
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Parallelamente a queste prescrizioni, assunse un significato diverso il matrimonio clandestino; inizialmente era la celebrazione delle nozze nella quale non si rispettava la forma stabilita dal Concilio. Infatti il Catechismo romano, promulgato da Pio V nel 1566, sotto la rubrica «clandestina n1atri1nonia rata non sunt», invitava i parroci ad istruire i giovani e le ragazze, che potevano essere ingannati dalla ignoranza e dalla passione, a considerare valido matrimonio solamente quello celebrato alla presenza del proprio parroco e dei testimoni". Pertanto c'è da presumere che la prassi dei matrimoni clandestini si sia protratta anche negli anni successivi alla promulgazione dei decreti del Concilio, con la differenza che in passato un matrimonio celebrato con la sola manifestazione privata del consenso era considerato valido, con le nuove norme diventava una convivenza di fatto priva di rilevanza giuridica, ma utile per ottenere il consenso dei genitori alla celebrazione delle nozze e far superare ostacoli di diversa natura. A partire dal 1581 la S. Congregazione del Concilio, con una serie di interpretazioni autentiche di tipo formalistico, dichiarava che la presenza passiva del parroco o del!' ordinario era sufficiente per una valida celebrazione del matrimonio; perciò se due contraenti si fossero presentati al proprio parroco con l'inganno e avessero pronunziato la formula del consenso dinanzi ai testimoni, il matrimonio, doveva essere riconosciuto valido 100 . Questa prassi diede luogo ad una nuova tipologia di n1atri1nonio clandestino: una celebrazione che rispettava dal punto di vista formale l'obbligo stabilito dal Concilio (la presenza del proprio parroco e dei testimoni), ma non era preceduta dalle pubblicazioni e dalla verifica di idoneità dei contraenti. Non è facile nella documentazione del tempo stabilire a quale dei due significati si riferissero i vescovi quando esortavano i
99 Catechis11111s ex decreto Concilii Tridentini ad parochos, cap. VIII, «Dc Matrirnonio», IL 29, Marietti, Taurini 1914, 319. 100 G. LE BRAS, op. cit., 2248. Si ebbe Lutta una casistica sull'atleggia1nento dcl parroco, che chiudeva gli occhi e le orecchie per non vedere e udire, che cercava di scappare ed era costretto con la forza ... La Congregazione del Concilio, affennato il principio, trasse tutte le conseguenze, anche le più strane (F. L. FERRARIS, voce Matrit11011ù11n, in Pron1pta bibliotheca ca11011ica, iuridica, 111oralis theologica, V, Migne, Lutctiac Parisiorurn l 858, 3 J 9-582: 473-483).
Lf!_[l~ft~~---~!!!~~-~n.suale: sopravvivenza del 1natriinonio clancj~~!J!!o? 49
fedeli a evitare i matrimoni clandestini o stabilivano pene contro coloro che non osservavano le norme vigenti; probabilmente intendevano comprendere le diverse prassi che finivano per svuotare di significato la riforma tridentina. In definitiva si può affermare che il Concilio di Trento non segnò la fine dei matrimoni clandestini sia nel significato che questa espressione aveva in passato, sia in quello assunto dopo la riforma. Infatti in molte regioni d'Europa i decreti del Concilio di Trento non furono promulgati; perciò rimasero in vigore le norme precedenti'"'; nei luoghi in cui si ebbe la promulgazione, i fedeli si dimostrarono riluttanti ad osservare l'obbligo della forma canonica nella celebrazione del matrimonio e per aggirare l'ostacolo fecero ricorso o alle celebrazioni di sorpresa 102 (si ricordino i manzoniani promessi sposi) o alla fuga consensuale; due prassi diverse che in Sicilia, con la prammatica del viceré citata all'inizio di questo studio, furono configurate nella fattispecie dei matrimoni clandestini'"'· L'intervento
101 I canonisti, nel trattare il teina della fonna canonica dcl n1atri1nonio, erano costretti a fare un elenco dci luoghi nei quali, non essendo stati promulgati i decreti del Concilio cli Trento, non vigeva l'obbligo della farnia canonica dcl n1atrin1onio (F.X. WERNZ, op. cii., 21 l-301: 237-244). 102 In Francia questi 1natri1noni erano tutt'altro che rari e venivano chia1nati alla Gaulininc dal no1nc di un notabile che aveva fatto ricorso ad una di queste celebrazioni a sorpresa (G. LE BRAS, op. cit., 2248). Si sceglievano i n101nenti pili i1npensati per sorprendere il parroco: 1nentrc era a letto, n1entre celebrava la 1nessa o i riti liturgici, durante il passeggio .. IOJ Vedi nota 5. Il n1archesc Fogliani, nell'equiparare il rallo consensuale ai rnatrirnoni clandestini, faceva riferi1ncnto ad una precedente pra1n1natica, da lui prornulgata il 3 agosto 1767, con la qua!c proibiva il ricorso a questo tipo di celebrazione e stabiliva pene severe contro i contraenti e i testi1noni. Nel docu1nento si legge: «Divenuto onnai troppo fa1niliare e frequente il disordine perniziosissin10 nelle sue triste conseguenze dc' clandestini, che tutto dì accadono col disagio di tante onorate fainiglic, colla rovina talvolta degli stessi contraenti e disturbo dc' popoli e dello Stato [ ... ]». Le pene previste per questo tipo di reato erano 1nolto severe: «rispetto allo sposo, se ignobile, la pena di cinque anni di galea e se nobile di anni cinque di confinazione in un castello di qualche isola del Regno da eleggersi a nostro arbitrio e dci nostri successori, e rispel!o alla sposa se ignobile di anni cinque cli carcere, se nobile di anni cinque cli rinsernuncnto in un reclusorio fuori della propria patria». Inoltre i contraenti venivano esclusi dalla successione legittin1a ed ernno soggetti «alla tota! diseredazione, ove così piacesse a' suoi genitori»; i tcsti111oni erano puniti con «mini cinque di galea» (A. GALLO, Codice ecclesiastico sico/o, libro Ili, tit. IV, ùipl. 49, Starnperia Carini, Palermo 1851, 119). Con la equiparazione
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Adolfo Longhitano
legislativo del marchese Fogliani se può essere considerato fra i primi a disciplinare in modo esplicito la fuga consensuale, accostandola ai matrimoni clandestini, non ci induce a credere che si trattasse di un
fenomeno nuovo. Mentre la Chiesa si era occupata da sempre degli aspetti morali del problema, le autorità civili intervennero per arginarne le conseguenze sociali negative: i contraenti ponendo i genitori dinanzi al fallo compiuto, li obbligavano ad accantonare quei progetti di apparentamenti tra famiglie e di aggregazioni di patrimoni sui quali si fondava la società del tempo. Non si può neppure affermare che il legislatore civile, affrontando questo problema, intendesse sostituirsi a quello ecclesiastico rivendicando una sua specifica competenza. Le norme del viceré Fogliani non differivano da quelle promulgate nel sec. XII da re Ruggero II: da una parte non mettevano in discussione che l'unica forma di celebrazione del matrimonio era quella canonica, dall'altra si limitavano a disciplinare alcuni effetti civili ai quali la Chiesa solitan1ente prestava una 1ninore attenzione.
Sulla stessa linea della prammatica viceregia sì poneva un decreto del vescovo dì Catania Corrado Maria Deodata del 2 maggio 1792, che introdusse qualche elemento di novità nei tentativi di contrastare una prassi che riconosceva diffusa. L'ordinan1ento
canonico della diocesi di Catania considerava il vescovo unico parroco. I pastori d'ani1ne (a parte alcune eccezioni) non erano parroci con potestà propria, ma seinplici vicari cooperatori, ai quali il
vescovo delegava le facoltà necessarie""· Il vescovo Deodata, oltre al consueto ricorso alle pene canoniche per i trasgressori (scomuniche, interdetti, sospensioni, esclusione dalla sepoltura ecclesiastica), ritenne
di aver trovato un rimedio efficace avvalendosi di questo particolare ordinamento: rendeva invalidi i 1natrimoni celebrati in fraude e senza pubblicazioni, sospendendo le facoltà necessarie a tutti i sacerdoti che non le avevano per diritto proprio ma per delega del vescovo (la maggior parte dei pastori d'anìme):
della fuga consensuale ai n1atri1noni clandestini, anche i "fuggitivi" incorrevano in queste pene. IO-I- A. LONGHITANO, op. cii.
La fuga consensuale: sopravvivenza riel 111atrùnonio clandestino?- -5-I ---«[ ... ] E poiché nella nostra città e diocesi vi sono alcuni che senzu esser parrochi hanno et habitu cl actu ovvero aclu sola1nentc la facoltà di assistere a' matrimoni, dichiarian10 in virtù del presente editto che in tutti i casi predetti la togliarno a loro affatto e la rcvochimno cspressan1ente a tutti e singoli presenti e futuri che non l'hanno da! diritto co1nune, ma che la riconoscono da' nostri predecessori e da noi i1111nediale o mediate o forse dal <liriLlo nostro particolare, di 1nanieru che se questi per l'avvenire assistessero a' n1alri1noni da contrarsi senza essere dispensale tulle e tre le denunzie [... ] dichiaria1no di ora per allora in tutli questi casi e in ognuno di loro nulli ed invalidi si falli 1natrimoni>)rns.
4.8. Il problema di una ridefinizione della teologia e della normativa del matrimonio si ripropose al Concilio Vaticano I (18691870)""'. Nonostante il tempo trascorso dall'ultima grande assise conciliare, nel clima in cui si svolse il dibattito, nelle tematiche discusse, nel metodo seguito, nel l'atteggiamento dei teologi e dei canonisti troviamo molte analogie con il Concilio di Trento. Agli errori dei protestanti si aggiunsero quelli introdotti dal razionalis1no e dal regalismo: negazione della dimensione sacramentale del tnatrimonio, separazione del contratto dal sacramento, competenza dello Stato in tema di legislazione matrimoniale, introduzione del matrimonio eivile obbligatorio 111 eoneorrenza con quello ecclesiastico. La con11nissione teologico-dog1nalica elaborò quattro sche1ni di un decreto dottrinale che non raggiunse 1nai l'aula conciliare. Il metodo seguito nelle discussioni e nella redazione dci documenti era quello della teologia controversistica. 1 temi dcl dibattito furono prevalentemente di natura dogmatico-politica: elevazione dcl contratto naturale alla dignità di sacran1ento, inseparabilità del contratto dal sacramento per i battezzati, competenza esclusiva della Chiesa nella formulazione degli impedimenti, rapporto fra il consenso dei contraenti e il ruolo del sacerdote nella
JOS CATANIA. ARCHIVIO CURJA ARCJVESCOV!LE, Rdif!i
1792-1803, 37v-4lv:
39v-40r. 106 Gli atti della commissione tcologico-dog1natica, che curò i hivori per lo schema del 1natri1nonio, sono presi in essine da E. CORECCO, Il sacerdote 111i11istro del 111atril11011io, in La Scuola Cal!o!ica 98 (!970) 343-372; 427-476 e da P. PETRUZZI. Chiesa e società civile al Concilio \faticano I, PuG, Ron1a 1984, 202-216.
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Adolfo Langhirano -----
celebrazione nuziale, possibilità di identificare la forma giuridica con quella liturgica""· Gli atti della commissione, i verbali dei dibattiti, i diversi schemi del decreto conciliare furono utilizzati dal card. Gasparri nei lavori per la codificazione del 1917' 08 •
4.9. Solo nel nostro secolo, con il decreto Ne temere della S. Congregazione del Concilio (1907)"19 e con il codice di diritto canonico ( 1917), sarà riconosciuta insufficiente la presenza passiva del parroco e del vescovo e sarà resa obbligatoria per tutta la Chiesa la forma canonica per una valida celebrazione del matrimonio 110 • In questo nuovo contesto, non poteva più verificarsi un tnatri1nonio di sorpresa; la stessa nozione di 111atrimonio clandestino non aveva più motivo cli essere adoperata. La fuga consensuale o il consenso inanifestato privata1nente potevano dar vita solo ad una convivenza. Dcl tutto diverso dal matrimonio clandestino è il matrimonio di coscienza, cioè la celebrazione segreta delle nozze, ma nel rispetto della for1na liturgica e di precise norme canoniche 111 . Il codice di diritto canonico, promulgato nel 1917, segna l'ultimo sviluppo della concezione del matrimonio affermatasi nella Chiesa con la riflessione dei teologi e dei canonisti medievali: Cristo per i battezzati elevò alla dignità di sacramento lo stesso contratto naturale; perciò fra i battezzati non ci può essere valido contratto che non sia allo stesso tempo sacramento (can. 1012); il matrimonio è posto in essere dal consenso manifestato legittimamente da persone
107 In un cli1na diverso, anche partendo dalla concezione consensuale <li origine ro1nanistica e sviluppando le tesi cli alcuni autori classici con1e Melchior Cano, sarehbc stato possibile fare qualche proposta innovativa in Lema di rapporto contn1tto-sacra1nento e di causalità della grazia. Vedi in proposito le riflessioni conclusive dello studio di E. CORECCO, op. cit., 463-476. P. PETRUZZI, op. cii., 215. P. GASPARRI, Codicis iuris canonici fontes, VI, Typis Polyglottis Valicanis, 1962, 867-870. 11 °Cann. 1094-1103. lOX
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111 Una disciplina dcl 1natri1nonio segreto era stata emanata da Benedetto XIV con la bolla Satis Vohis del 17 nov. 1741 (P. GASPARRI, Codicis iuris canonici fo11tes, cit., I, 701-705). Il codice del 1917 lraltò il teina ai cann. 1104-1107.
La fìtga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino? 5 3 riconosciute abili dal diritto (can. 1081 ); il consenso può essere manifestato personalmente o per procuratore (can. l 088 § 1); devono essere riconosciuti validi solamente i matrimoni contratti dinanzi al parroco, all'ordinario del luogo o ad un loro delegato ed almeno due testimoni (can. 1094); in pericolo di morte e quando, senza grave incomodo, non è possibile avere il parroco, l'ordinario dcl luogo o un loro delegato è valido il matrimonio contratto dinanzi ai soli testimoni (can. 1098); un matrimonio contratto invalidamente può essere sanato in radice dalla Santa Sede, cioè riconosciuto valido con effetto retroattivo un consenso naturalmente sufficiente ma giuridican1ente inefficace, senza l'obbligo di rinnovarlo (cann. 1138-1141 ). Questa normativa si poggia sui due principi di fondo che hanno retto per secoli l'ordinan1ento matrimoniale canonico: la concezione romanistica del consenso e la coincidenza per i battezzati del matrimonio naturale con il sacramento. Se è il consenso degli sposi a dar vita al n1atri1nonio e se il matrimonio così costituito è sacramento a tutti gli effetti, si spiegano: il significato marginale riconosciuto al presbitero e ai riti religiosi, la possibilità di celebrare il sacramento anche senza la presenza del presbitero nei casi di necessità, il matrimonio celebrato per procura, l'istituto della sanazione in radice in cui l'autorità ecclesiastica interviene per far valere la potestà di giurisdizione, non quella di ordine. Il Concilio Vaticano II non cambiò questa struttura di fondo, ma si limitò a trovare un fondamento personalistico e biblico al consenso degli sposi. La stessa linea fu seguita dal codice di diritto canonico promulgato nel 1983 1"-
112 Durante i lavori di revisione si aprì un dibattito sulla opportunità di accogliere nel nuovo codice il principio della identificazione per i battezzati ciel 1natri1nonio naturale con il sacnl!nento. Sull'argomento vedi: U. NAVARRETE, Matrùnonio cristiano e sacran1ento, in AA. Vv., A111ore e stabilità nel 111atrin1011h), Ro1na 1976, 53-75; J. MANZANARES, Habitudo 111atri111011i11111 baptizatoru111 i11ter el sacra1ne11t11111: 011111e 111atrù11011iu1n duon1111 baplizator11111 estne necessario sacra111entu111?, in Periodica 67 (1978) 35-71. Per le scelle della con11nissione cli riforma del codice di diritto canonico fu detcnninantc il documento pubblicato nel 1977 dalla COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La sacra111e11ta!ité du 111ariage chrétien. Seize thèses de christologie sur le sacran1ent de 111ariage, in Enchiridion Vatica11u111, VI, EDB, Bologna 1980, 352-397. La stessa co1n1nissione illustrò il
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5. Natura e finalità della fuga consensuale 5.1. Nella tipologia delle diverse forme di unione di una coppia, la fuga consensuale ha una sua precisa identità che va individuata' 13 • Sono due gli elementi che contribuiscono a definire la sua natura: quello consensuale e quello sessuale. La fuga non può essere considerata una semplice convivenza, perché solitan1entc i conviventi non vogliono o non possono contrarre un regolare 1natri1nonio; mentre i "fuggitivi" danno vita ad una convivenza per superare gli ostacoli che si frappongono alla celebrazione delle nozze. Non possiamo considerare la fuga come un n1atrimonio clandestino o segreto, perché la coppia intende dare alla propria scelta la massima pubblicità proprio per affrettare le nozze; per lo stesso motivo non possiamo accostare la fuga ad una qualsiasi relazione sessuale al di fuori delle regole, che solitamente avviene in segreto e prescinde dal matrimonio. Nella coscienza popolare la fuga consensuale equivale ad un matrimonio informale, cioè ad un consenso 1nanifestato naturalmente e ad una convivenza attuata al di fuori delle norme, che esige di essere regolarizzata al più presto. La prassi popolare della fuga consensuale si fonda sul meccanismo legato da una parte alla
docu1nento nel voluinc Problé!nes doctrinaux du 111ariage chrétien, Ccntrc CcrfauxLcfort, Louvain la Ncuvc 1979. J U In una breve e non esauriente analisi degli usi 1natri1noniali siciliani la fuga consensuale (f11i1ù1a) così viene descritta: «Tra gli usi e costun1i nuziali non si può non accennare allafuitina, un 1nodo forzoso di contrarre il 1natri1nonio voluto dai due inna1norati, che erano i1npcditi dalla volontà di una o di entra1nbe le famiglie. I due giovani che fuggivano, che scappavano di casa, avevano certatnente preso accordi segreti tra loro, dopo avere studiato bene la data, l'ora, le n1odalità per arrivare allo scopo (quasi se1npre era con1plice un'ainica o una parente), 1nettendo così tutti di fronte al ratto con1piuto e conseguentemente obbligando i genitori ad accettare la loro unione. La regola non scritta, 1na tacita1nente sancita, voleva che i fuggitivi se ne stessero tre giorni insic1nc, ternpo sufficiente per "consu1nare" il matrimonio. Seguivano i1n1nediatan1ente le nozze "riparatrici" per legalizzare questa unione considerata ano1nala [ ... ]. Spesso questo 1nodo di contrarre 1natri1nonio veniva praticato dalle fa1niglie povere, per evitare così Lutle !e spese connesse alle nozze in piena regola: ed in questi casi ahneno una delle due 1nadri sapeva, se non addirittura non favoriva la f11ilina» (G. CORJA, Usi nuziali e 111a11giar di nozze in Sicilia, Cavallotto, Catania 1994, 34-35). Non 1ni risullano tratlazioni specifiche su questo argo1nento; negli anni passati si è avuto l'invito autorevole ad una ricerca, che non sen1bra sia stato accolto: G. GJARRJZZO, Del rallo consensuale in Sicilia. Una proposta di ricerca, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale 69 (1973) 527-532.
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fitga consensuale: sopravvivenza del n1atrùnonio
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ferma volontà dei due di contrarre matrimonio e dall'altra alla situazione "di peccato" che si viene a creare con la convivenza. Quando una coppia decide di vivere insieme non fa che esprimere pubblicamente il proprio consenso; i due si considerano marito e moglie a tutti gli effetti; la società ne prende atto e come tali li tratta. L'elemento sessuale, che gioca un ruolo non indifferente in questa prassi, è considerato da un punto di vista negativo: una sessualità che, al di fuori del matrimonio, è causa di "disonore". In questo contesto le nozze sono considerate una for1nalità urgente e necessaria per legalizzare il consenso già inanifestato, ma ancora di più per eliminare le conseguenze negative (personali e sociali) di una sessualità vissuta al di fuori delle regole.
5.2. Se si vuole considerare la fuga consensuale alla luce della prassi matrimoniale vigente nell'antichità si deve concludere che questa usanza popolare si ricollega al matrimonio informale, riconosciuto valido dagli antichi ordinamenti giuridici perché è presente l'elemento considerato costitutivo: un consenso n1anifestalo pubblicamente. Non credo che nella prassi della fuga consensuale si possano trovare tracce dell'antica concezione del matrimonio posto in essere dalla copula: non si tratta di un matrimonio celebrato privatan1ente con il concubitus, che esige di essere formalizzato con il consenso; per quanto l'ele1nento sessuale eserciti un ruolo rilevante, non si può affermare che sia prevalente rispetto a quello consensuale. Le stesse considerazioni si possono fare a proposito della qualifica di "matrimonio riparatore" data alle nozze di coloro che hanno fatto ricorso all'espediente della fuga consensuale. Di per sé nella categoria del n1atrin1onio riparatore rientrano anche i casi di coloro che sono "obbligati" a celebrare le nozze perché hanno avuto rapporti sessuali o perché hanno provocato una maternità senza attuare la fuga consensuale. Tuttavia nella mentalità popolare i due sono considerati marito e moglie prima della formale celebrazione del matrimonio solo se hanno dato vita ad una pubblica convivenza. Da ciò si deduce facilmente che non è tanto il rapporto fisico che pone in essere un
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matrimonio informale, quanto il consenso manifestato pubblicamente nella convivenza.
5.3. Non comporta particolari problemi l'analisi teologica della fuga consensuale. La teologia sacramentaria in generale e la riflessione sul matrimonio in particolare si è sviluppata tardivamente nella Chiesa. Il matrimonio per diversi secoli fu considerato una realtà appartenente ali' ordine della creazione, elevata da Cristo alla dignità di sacramento; perciò il matrimonio naturalmente valido di due battezzati diventava sacramento; non spettava alla teologia affrontare il problema della sua essenza e non era compito della Chiesa disciplinarlo con le sue norme; tutt'al più si potevano indicare le conseguenze etiche derivanti per il battezzato dalla nuova situazione in cui veniva a trovarsi con il 1natrimoniol1 4. In questa prospettiva, se
consideriamo la fuga consensuale un matrimonio informale, valido per la mentalità popolare, i "fuggitivi", se battezzati, prima ancora di procedere alla celebrazione del matrimonio in chiesa, assumono tutti 1 diritti e doveri propri degli sposi cristiani.
6. Conclusione
Al termine di questa rapida analisi storico-giuridica, possiamo costatare la presenza di una linea ininterrotta esistente fra la prassi popolare della fuga consensuale e le più antiche consuetudini matrimoniali dell'antichità. La fuga consensuale si ricollega alla deductio in domum considerata dall'ordinamento giuridico romano come una valida 1nanifestazione di consenso; si ricollega al caso prospettato da Graziano di chi, tralasciando le formalità giuridiche e liturgiche, si unisce per an1ore ad una donna e celebra un n1atrin1onio valido anche se illecito; nel quadro normativo formulato dal Concilio di Trento ha molte analogie con il matrimonio tentato dai promessi
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E. SCHILLEBEECKX, op. cit., 269-435.
La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino? 5 7 sposi manzoniani per superare gli ostacoli frapposti al loro matrimonio. Componendo insieme i diversi elementi giuridici e antropologici evidenziati nel corso di questa analisi, riteniamo di poter considerare la fuga consensuale come l'affermazione della prioritĂ di un fatto ritenuto essenziale per la vita individuale e sociale (il matrimonio) nei confronti delle norme e delle consuetudini che lo disciplinano. La coppia, sentendosi limitata da proibizioni e tradizioni riconosciute valide ma secondarie nell'esercizio di un suo diritto soggettivo indiscutibile, capovolge il rapporto stabilito dalle norme per affermare la prevalenza dell'elemento essenziale su quello accidentale. Durante i secoli le autoritĂ ecclesiastiche, per scoraggiare questa prassi, hanno fatto ricorso a pene canoniche molto severe o hanno obbligato i contraenti a celebrare le nozze in sacrestia e senza i tradizionali addobbi. Probabilmente non hanno tenuto presente che, nella mentalitĂ popolare, anche le proibizioni o le pene diventavano elementi accessori e secondari, che potevano influire solo marginalmente nell'esercizio di un diritto ritenuto fondamentale.
Synaxis XIII/I (1995) 59-72
COMPORTAMENTI MATRIMONIALI NEI SINODI SICILIANI DEI SECC. XVI-XVII
SALVATORE CONSOLI'
1. Sul senso dei sinodi
Molti sono gli studiosi attuali che considerano i sinodi fonte per la storia: l'interesse in tal senso è cresciuto sempre più per le preziose testimonianze che i documooti sinodali contengono'. Pur se strettamente aderenti ai dettali del Concilio di Trento, non si può negare che i diversi sinodi siano anche il riflesso della realtà religiosa dei loro tempi. Nello studio di essi una attenzione particolare va ai "casi riservati" che costituiscono delle spie sul comportamento e sulle tendenze più diffuse in una determinata epoca. «Se imponeva certe norme e certi decreti con la comminazione di pene per gli inadempienti vuol dire che l'assemblea sinodale partiva da fenomeni presenti e diffusi nel corpo sociale-religioso che si volevano rimuovere o correggere. In tal senso, le leggi sinodali [ ... ] vanno viste
* Professore di Teologia morale nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Cfr. G. GIARRIZZO, Sinodi diocesani e pofitica delle r~fonne nel Regno di
Napoli (sec. XVIII), in AA.VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987. 105-111.
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Salvatore Consoli
come la rimozione di fatti e di fenomeni anormali largamente diffusi»'. II sinodo costituisce sempre una risposta a fenomeni largamente diffusi tra i fedeli di una determinata diocesi: è, pertanto, una fonte di notevole importanza per la conoscenza della vita etico-religiosa3 . Anche se innegabilmente le prescrizioni sinodali hanno carattere spesso iterativo, sicché si ripetono non solo le formule ma pure le stesse parole', esse sono tuttavia espressione della vita eticoreligiosa di una diocesi'. Per tali motivi la ricerca sul fenomeno della fuitina non può non attingere alla fonte preziosa costituita dai testi sinodali, di cui disponiamo.
2. Analisi dei vari sinodi I. II sinodo siracusano del l 553 prescrive che gli sponsali e il matrimonio siano contratti in Chiesa o in casa alla presenza dei genitori o di parenti come pure di altri testimoni, e sempre con la presenza del sacerdote6 . Lo stesso sinodo vuole che si ammoniscano le ragazze sulla gravità e pericolosità dei matrimoni clandestini per i pericoli in essi
2 A. CESTARO, Sinodi e parrocchie ne/l'Italia n1oderna (secoli XVl/J-X/X), in op. cit., 135. 3 Cfr. ibid., 130. 4 Cfr. G. GJARRIZZO,
art. cii., 112-1I3.
5 Cfr. A. CESTARO, art. cit., 139.
6 «Omnibus et singulis subditis Nostris consulimus, cosquc et monen1us, ne dcinceps quisquis praesu1naL sponsalia per vcrba de praesenti, ve! de futuro, ac ctian1 sub annuii subarratione matrimoniun1 contrahcrc, nisi in Ecclesiis, vel locis publicis, aut don1ibus parcntuin ac cum praesentia saccrdotis proprii, et patris et nuHris contrahcntiurn si habucrint, aut si non habucrint curn praesentia proxi1norun1 propinquorum utriusque partis, si adesse voluerint, et alioruin testium fide dignorun1, qui de utriusque partis consensu clare testificari ubique possint et valeant»: Synodales constitutiones Syrac11sanen. Ecc!esiae ... pronudgatae die octavo 111ensis Septe111bris 1553, Panhormi 1555, Tit. VII, cap. I.
Co1nporta111enti n1atrùnoniali nei sinocli siciliani...
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insiti, sia di ordine sociale che personale, a motivo della loro indole privata e, conseguentemente, della loro inconsistenza giuridica7 • Lamenta del resto la consuetudine di quanti si separano non solo dopo gli sponsali, ma persmo dopo la convivenza e l'unione sessuale8 • L'intervento sinodale suppone ovviamente una prassi diffusa di matrimoni clandestini, e cerca di ovviarvi stabilendo e prescrivendo una forma pubblica di celebrazione. Anche se non se ne parla esplicitamente la "fuga" rientra, credo, nella descrizione che si fa dei matrimoni clandestini; vi sono presenti tutti gli elementi, e cioè il desiderio del matrimonio, lo stare già insieme e l'unione sessuale: «Proibiamo che coloro i quali abbiano contratto segretamente o diversamente da come prescritto abbiano ad incontrarsi l'un con l'altro o di avere rapporti carnali, e a frequentare la casa dell'una o dell'altra parte come sposi o spose, e che si chiamino marito e moglie finché tale unione non sia stata confermata pubblicamente»'. La proibizione del convivere come sposi e dell'uso di chiamarsi già "sposi" ancor prima della celebrazione pubblica del matrimonio è sintomo di una mentalità certamente diffusa.
2. Il sinodo di Monreale del 1554 prescrive quasi con le stesse parole del sinodo di Siracusa la forma per gli sponsali e per il
7 «Admoneant insupcr saccrdotcs in Ecclcsiis pucllas quae graviter pecccnt clandestine contrahendo. Et quot ho1nicìdìa, quot rixas, et quot scandala, clandestina 1natrirnonia secu1n afferant, et quod non credant viris sibi clandestine polliccntibus, cun1 illi subtracto virginitatis spolio, negare soleant, se quicquain pro1nisisse, in grave da1nnun1 et detrimentun1 dictarun1 infacliciu1n et 1niscraru1n pucll<uu1n, quae fuerunt credulse. Unde postea niendicare coguntur, et on1nibus contc1nptibilcs haberi ..... )):/.c. Credo che nell'ulti1na frase ci sia una velala allusione alla condizione di "disonorate" a seguito dello sbocco nella prostituzione. 8 L.c. 9 «1nhibe1nus, ne secreto aut aliter quain pracdictun1 est contrshentes debeant ad invice1n conversari aut com1nisccri, scd ncquc do1nos alterius psrtis quasi sponsi, vel sponsac frcquentari omnino, neque sponsi, ncquc sponsac appcllari doncc tslia sponsalia pubblice (sicut pracfertur) per verba de praesenti fuerint confirn1ata, quan1 confinnationem quo citius co1nrnodc poterit, fieri volu1nus»: ibid., cap. IL
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matrimonio e commina la pena della scomunica non solo alla coppia che non la osserva, ma anche a quanti in qualsiasi modo collaborano"'. Ed esplicitamente la stessa scomunica o la pena di quattro mesi di carcere viene comminata a quanti convivono prin1a di celebrare il matrimonio nella forma prescritta, pur avendo lintenzione di fm'lou Dall'insieme degli elementi - volontà di sposare differendone però la celebrazione ufficiale, convivenza, cooperazione esterna per tale scelta - credo che si possa ravvisare anche la prassi della fuga consensuale. Dalla pena inflitta, poi, si può dedurre che si tratta di un fenomeno diffuso che interpella l'autorità ecclesiastica nella sua responsabilità pastorale.
3. Il sinodo di Catania del 1565 12 , il primo ad essere celebrato dopo il decreto Tametsi, promulgato I' 11 novembre del 1563 dal Conci Iio di Trento per stabilire la forma canonica necessaria per la validità del matrimonio, richiama ampiamente e in lingua volgare la dottrina del Concilio sulla forma del matrimonio e insiste che venga da tutti attuata". Tra i casi riservati trovia1no i peccati «Di quilli chi rapino le donne»'": giacché subito dopo c'è anche quello del ratto e dello stupro violenti della donna, credo che in questo caso si possa ravvisare anche
IO Co11stit11tio11es Synodales 111etropo!itanae Ecclesiae Montis Rega!is, In Civitatc Montis Regalis 1554, Tit. IV, cap. 4:«quod si id facere neglixcrìnt, cxcotnunicationis sententia1n ipso facto incurrant, ctiain auxiliun1, open1, consiliu1n et favorcrn praestantcs, a qua non nisi a do1nino Archiepiscopo vel generali Vicario absolvantun>. 11 «Ne sub practcxtu sponsaliun1, aut 111alri1nonii per verba de pracscnti secrete aut publice sponsi sponsarurn: aut sponsae sponsorun1 don1os frcqucntcnt aul ad invicc1n convcrscntur, doncc publicc per saccrJoten1 et testes fidedignos ut dictun1 est supra n1atrin1oniu1n fucrit confirmatu1n, ac publicalun1 sub excon1unicationis poena aul carceris quadrin1estris, interclicin1us»: ibid., cap.12. 12 Per il testo e la storia di questo sinodo cfr. A. LONGHITANO, Le costituzioni sinodali del vescovo di Catania Nicola Maria Caraccio/o (1565), in Synaxis 12(1994) 167-215. 13 lbid., 209-211. 14 lbid., 208.
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la fuga consensuale, che spesso veniva considerata dalla parte dell'uomo. Nell'appendice, tra i casi riservati dal vescovo Vincenzo Cutelli c'è l'assoluzione di coloro che hanno avuto relazione sessuale con il partner prima di aver ricevuto la benedizione in Chiesa 15 •
4. Il sinodo di Patti del 1567 ribadisce la forma prescritta dal Tridentino e riproduce in lingua volgare il testo del decreto nell'intento di farlo conoscere al popolo cristiano così da poter più facilmente sconfiggere la pratica dei matrimoni clandestini. Riserva d'altra parte al vescovo la decisione sui matrimoni da celebrare contro la volontà dei genitori a motivo dei mali e degli scandali che sogliono scaturire da tali matrimoni". L'insistenza su tali matrimoni, come pure il fatto che il vescovo si riserva il giudizio di opportunità, denota che si tratta di un fenomeno diffuso. La decisione pastorale del sinodo si spiega per meglio delimitarne la portata e, soprattutto, per evitarne le conseguenze negative. Non è difficile ravvisare in questo fenomeno dei matrimoni contro il consenso dei genitori la presenza, almeno parziale, della fuga consensuale.
5. L'altro sinodo della stessa diocesi, celebrato nel 1584, s1 sofferma sul fenomeno della coabitazione e della consumazione sessuale prima ancora della celebrazione del matrimonio; oltre la
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Jbid., 215. «Quan1vis matri1nonia, quae invitis parentibus fiunt, non ideo irrita sint, quia tamcn quando illis invitis contrahuntur, pleraque inala et scandala oriri solenr, his occurrere volcntcs; praecipimus ne parochus ul!us ... 1natrimonio copulare ausit, scd de ea re nos ccrtiores reddant, ut ipsa scdulo perpensa, quid sit agendu1n n1aturc delibcrc1nus ... »: Synodales constitutiones Pactensis Ecc/esiae pro111ulgatae in Sy11odo celebrata a11110 a Cliristo nato 1567 die 26 la11uarii, Apud Hercdcs Pctri Spire, Messanac 1567, Tit. De sponsalibus et 111atrù11011h"s, cap. 4. 16
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scomunica comminata per tali casi, prevede la pena carceraria e
pecuniaria da assegnare ad arbitrio del vescovo' 7 . L'insistenza e, soprattutto, la severità delle pene indicano la persistenza del fenomeno e il suo radicamento nella cultura popolare, nonostante le indicazioni della Chiesa.
6. Il sinodo di Cefalù, celebrato nello stesso anno, dopo aver riportato il decreto Tametsi del Concilio di Trento, interviene duramente contro l'uso della coabitazione prima della celebrazione canonica del matrimonio'" e formula in lingua volgare la cosiddetta banna per poter essere compresa dal popolo: «Perché havendo pervenuto à notitia dello Illnstrissimo e Reverendissimo Monsignor Dom. Ottaviano Praeconio Episcopo di Cephalu che in questa Città di Cephalu e sua diocoesi si rennova uno abuso che primo che si facissero li denuntiationi, e publicationi delli matrimonii nella Chiesa conforme al Sacro Consiglio Tridentino soliano li contrahenti senza nissun riguardo del timor di Iddio, e delli conscientii loro consumare matri1nonio da unde à successo molte volte che scoprendosi fra loro alcuno lcgitimo impedimento, hanno restato detti matrimonii senza effetto in gravi preiuditio dell'honore dclii parenti; scandalo, et murmuri del papula [ ... ]»". Risulta quindi evidente che il matrimonio informale continua ad essere largamente diffuso, nonostante l'intervento di Trento e le pene previste dai sinodi delle varie Chiese: nella stessa banna si lamenta espressa1nente che «Si è, pervenuto di nuovo à notitia che alcune persone hanno perseverato, e perseverano in detto abuso poco curando di detto ordine, e carrichi delli conscientii loro» 20 .
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Constitutiones synodales ... in dioecesana synodo pro11111lgatae anno Don1i11i 1584, Apud loannc1n Franciscu1n Carraram, Panonni 1584, pars I, cap. 14. 18
Sanctiones synoda!es aedite in dioecesana congregatione habita in Cepha!11de11si Ecclesia, Apud Io. Franciscun1 a Carram, Panhonni 1584: cfr. cap. 3. 19 L.c. 20 L.c.
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Non credo che vi siano elementi per escludere da questo fenomeno la fuga consensuale. Le motivazioni addotte sono di ordine sociale - l'onore della famiglia e la reazione del popolo - ma non se ne trovano di natura morale, se si eccettua un generico riferimento al timor di Dio c alla propria coscienza. Questo sinodo, evidentemente per inculcare le indicazioni tridentine sulla forma canonica del matrimonio, tra i peccati riservati al vescovo colloca quelli commessi dai fornicatori e da coloro che hanno rapporti carnali con la moglie prima di ricevere la benedizione sponsale". Tra la fornicazione è certamente da annoverare anche la fuga: è logico supporre che qnesto peccato si trovi tra i riservati a motivo del mal costume che si vuole estirpare o, quanto meno, arginare.
7. Il sinodo di Mazara del Vallo, tenuto nel 1585, afferma chiara1nente ed espressainente che non è la co1>ula ma il consensus a porre in essere il matrimonio c lamenta che molti che hanno l'intenzione di contrarre in seguito il 1natrin1onio coininciano subito la coabitazione e le relazioni sessuali". La lamentela che molti subito nsano dell'atto sessuale fa pensare che la pratica fosse piuttosto diffusa. Si afferma che tale costume è un'offesa a Dio e un'ingiuria del sacra1nento ed è, inoltre, origine di molti mali e scandali2\
21 «Fornicatores, ve! adulteri publici, ve! admoniti per iniunlionen1 nostrac Curiae, et cognoscentes canu11itcr uxores ante Ecclesiae Bcncdictionc1n»: ibid., cap. 8. 22 «Cu1n 111atri111oniun1 non faciat carnalis copula, scd legitin1us conscnsus: n1ulti inconsiderate faciunt, ut factis capitulis, seu accordìjs pro 111atrimonio futuro contrahendo, per 111issioncm anuli carnaliter se cognoscunt, cl in concubinatu vivunt, et in peccato, in offensa1n Dei, et iniuria1n sancti Sacrmnenli: unde multa inala, et scandala oriri, experienlia docuit»:Constitutiones et decreta synodi dioecesanae Mazarensis . q11a111 celebravit a11110 1584, Apud Ioannem Francìscu1n Carraran1, Panonni 1585: De Sancto Sacran1e11to n1atrùnonij, cap. 9. 2.i L.c.
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L'affermazione apodittica che non è la copula ma il consenso a costituire il matrimonio fa supporre o la presenza di qualcuno che riprende e insegna la dottrina della scuola bolognese o che la diffusa prassi di far precedere la coabitazione alla celebrazione fosse segno della presenza di tale concezione, in evidente contrasto con la dottrina ormai ufficiale della Chiesa.
8. Il sinodo di Palermo del I 586 fa obbligo ai parroci di sconsigliare il matrimonio senza il consenso paterno perché contrario al dovere del!' obbedienza e del rispetto ai genitori". Aggiunge, però, che bisogna ammonire i genitori affinché, nel desiderio di rafforzare economicamente la famiglia, stiano attenti a non destinare al matrimonio solo uno o due dei figli, dotando! i oltre il dovuto, esponendo, per conseguenza, gli altri non sposati ad essere irretiti dai lacci dell'incontinenza. Bisogna inoltre insistere perché non trattino con odio o con severità i figli che si sono accasati senza il loro consenso e contro la loro volontà. Fa loro obbligo di insegnare chiaramente che i matrimoni debbono essere liberi, altrimenti sortiscono risultati disonesti e turpi 25 • Dissuade coloro che hanno intenzione cli sposare di evitare qualsiasi forrna di n1atrin1onio privato (cla111 ineundun1 ne tentent) 26 come pure dal rapporto sessuale prima della benedizione sacramentale 27 : sarebbe una colpa mortale riservata al vescovo e passibile di multa".
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Co11slitutio11es . in dioecesana synodo pro11111/ga!ae 011110 1586, Apud Io. Franciscun1 Carrarain, Panarmi 1587, pars II, cap.8, p.66. 25 L.c. · «Parentes quandoquc 1noncndi, ne fmniliac a1nplificandae studentes filiurn unu1n cx 1nultis, aut alleru1n provcntu, rcditibusque, qua1n par essct, opirnun1 1natrirnonio traùentcs, non iugatos, solutosque rcliquos incontinentiac tcndieulis inescandos obijciunt. Neve nbsque eonnn consensu, voluntatcquc Jocatos, odio acriter prosequantur, severoque in eos ani1no inscnsoque fernntur. Hincquc Parochis illos ùocendi copia crit, libera inatri1nonia esse oporterc, sccus exitus inhonestos, turpesque sorliri solere». 26 !bid., p.68. 27 L.c. 28 L.c.
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Dall'insieme si possono cogliere diversi elementi che alludono alla prassi della fuga consensuale. Da una parte si continua ad ammonire i giovani, come fanno quasi tutti i sinodi, perché non sposino senza il consenso dei genitori e, quindi, con1c suole avvenire in questi casi, perché non si decidano per la fuga. Dall'altra però si prende atto e si condanna, per la prima volta rispetto agli altri sinodi, l'atteggiamento dei genitori che, non rispettando la libertà dei figli sia riguardo al matrimonio sia riguardo alla scelta della persona, li mettono nella tentazione della fuga. Da notare, inoltre, che è il primo sinodo a giudicare colpa mortale l'unione sessuale prima della celebrazione del sacramento. In mamera certamente più chiara e precisa che in altri sinodi viene col1ocato tra i casi riservati: si tratta evidenten1ente di un fenomeno diffuso che la pastorale ritiene di dover estirparcn
9. Il sinodo di Agrigento del 1589 testimonia la persistenza del convincimento secondo cui la convivenza e il rapporto sessuale con l'i1npegno del futuro matri1nonio non costituisca peccato 30 • Il sinodo per correggere questa mentalità e per togliere tale abuso richiama la forma prescritta dal Tridentino e commina delle pene allo sposo e ai genitori della sposa che ne fossero in qualche 1nodo consenzienti3 1• C è una chiara antitesi tra il pensare della Chiesa e quello popolare; l'inizio del matrimonio con la fuga non è eia attribuire solamente al cedimento alla passione da parte della coppia o ad un modo forte per superare l'opposizione dei genitori, perché a 1
29 Jbid., cap. 4, p. 49: «Omnes, qui coniugiu1n clan1 incunt, et ante sacn1menlale1n unionen1 copula carnali 1niscenlur>>. 3 Co11stit11tio11es et decreta piena synodo dioecesana Agrige11ti11a digesta, Apud Io. Antoniurn dc Franciscis, Panorn1i I 589, pars Il, tit. 8, cap. 2: 1<sponsi carnaliter .se iungunt, et co1nmoranlur in concubinatu, falso crcdentes non peccare practextu futuri rnatri1nonij». 11 L.c.: <<Huie igitur 1norbo n1cdentcs et tulc abusun1 tollentes, n1andmnus; ne sponsus coneubat cu111 .sponsa, nisi factis n1onitionibus, cl .servala pracdicta fonna benedictionc1n habuerint sub poena unciaruin quinque; piis operibus applicanda. Parenles vero sponsac si id penniltant praenarratu fonna non prius servala, aliannn unciannn quinque; pocnan1 similiter incurrant».
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volte c'è il consenso tacito dei genitori, soprattutto di quelli della sposa.
IO. Il sinodo di Mazara del Vallo del 1610 è particolarmente severo verso coloro che hanno rapporti carnali prima della celebrazione del matrimonio: lo considera peccato grave riservato; prevede delle pene da stabilirsi ad arbitrio del vescovo e per contrarre in seguito il matrimonio si richiede la licenza dello stesso ordinario 32 • Il tenore del testo e le misure prese sono chiara testimonianza di un fenomeno certamente diffuso che la Chiesa, giudicandolo particolar1nentc nocivo, intende sradicare:;\
11. Il sinodo di Catania del 1623 esorta ed ammonisce i figli di famiglia a non voler contrarre matrimonio all'insaputa o contro il volere dei genitori: si tratta di una mancanza alla obbedienza e al rispetto dovuti a loro". Punisce coloro che osano coabitare prima di contrarre il 1natri1nonio e, con pene maggiori, quanti hanno rapporti sessuali come pure i genitori e i parenti conniventi1 5 • Da notare che,
:n Constitutiones dioecesanae synodi episcopi Mazariensis, Apud lo. Antoniutn dc Franciscis, Panonni 1610, De Matri111on~j sacra111e11to, cap.3: «Sponsis, ut huius Sacra1ncnti gralia digni reddantur, on1nino interdici1nus, ne antcquan1 ad Matri1nonij celebrationc1n accc<lanl, carnaliter coniungantur, secus ultra pocnas arbitrio nostro infligcndas, et peccati gravitatcn1, cuius absolutione111 peculiari nostro iudicio refcrainus, a Parochis ad contrahendurn sine licentin nostra nullatenus, adn1iltantun>. :n Cfr. anche ibid., De poenitentiae Sacrc1111e11to, cnp. 2. 34 Catanensis ecc!esiae synodus dioecesa11a ... , Typis loannis Roffij et Francisci Petroni, Militclli V.N. 1623, pars II, cap. 8, n.97. 15 lbid., n.98: «Qui vero ante contractu1n per vcrba de praesenti n1atri1noniun1, cohabitare ausi fuerint, pocna unciarun1 quinque n1ulctentur, quod si etiarn consurnn1asse cornperturn fucrit, inlcrea durn denunciationcs dc more fiunt, exco1n1nuniccntur, et n1ulcta unciarum dece1n, pocnaquc carceris Episcopi arbitrio plectantur, in quam etiam poenam incurrcnt parentes, et consanguinei, qui sponsae curan1 gcrunt, si constitutionis huius fractioni conscnserinl».
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contrariamente ad altri sinodi, non viene punito solo l'uomo ma la coppia. In questa fattispecie analizzata dal sinodo ben s1 msensce il fenomeno della fuga consensuale, della quale però non si parla esplicitamente.
12. Il sinodo di Cefalù del 1635, se da una parte ammonisce severamente i genitori della sposa a non consentire alla figlia la coabitazione prima della celebrazione pubblica del matrimonio, dall'altra li invita a voler consentire l'onesta conversazione e la familiarità tra i futuri sposi, di giorno e alla presenza dei genitori stessi 36 • Dal fatto che li punisce abbastanza severamente" si deduce che si tratta di un costun1e perverso contrario alla prassi del matri1nonio che la Chiesa con il Concilio di Trento ha voluto stabilire.
13. Il sinodo di Catania del 1668 fa obbligo ai parroci di dissuadere i giovani dal contrarre il matri1nonio all'insaputa o senza il consenso dei genitori: nel caso di insuccesso prima di dare inizio alle pubblicazioni bisogna interpellare il vescovo 18 • Con termini ripresi quasi alla lettera dal precedente sinodo della stessa diocesi proibisce la coabitazione e il rapporto sessuale prima
36 Constitutiones synodales ab episcopo C'epha!aedilano editae anno Do111ini 1635, Apud Deciurn Cyrilluin, Panormi 1636, pars II, cap. 8, p. 54: <<Acritcr 1noneri populos iubemus, ne parentes suas filias in 1nanus sponsi tradant ante contractactionen1 de praesenti cora1n Parocho, et tcstibus, neve pennittant una eos habitare, ne dum noctu, sed ncque intcrdiu, neque connivendun1 esse in tanta re existi1nent [ ... ] nequc tan1cn sponso dc dic cun1 sponsa corarn eius parcntibus, aut curam gerentibus honestam collocutione1n, farniliaritatc1nquc interdictam volun1us». 37 L.c: «si quid peccatu1n fuerit, pocnain non solum sponso, sed etia1n parentibus sponsae incutietur unciaru1n dcnu1n; practcrca, el vinculonnn, atque carceris ad nostru1n arbitratum». 38 Decreta in principe dioecesa11a synodo qua111 . ce!ebravit Catanae die 11.12 et 13 1naij 1668... , Apud Ioscphum Bisagni, Catanae 1668, sess. l, decr. 9, cap. 1, n. 23.
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della celebrazione del matrimonio e commina le pene non solo alla coppia ma anche a tutti coloro che in qualsiasi modo fossero conniventi 39 . Esorta gli sposi a non voler macchiare all'origine il loro matrimonio e per dissuaderli prospetta il quadro dei mali sociali, personali e fisici che sogliono seguire in tali casi"'·
3. Conclusioni
1. In nessuno dei sinodi analizzati si trova il termine fuga. Vi si allude però sia quando si parla dei matrimoni clandestini, sia quando si stigmatizza il fenomeno della coabitazione e dei rapporti sessuali prima della celebrazione del matrimonio, come pure quando si sconsigliano i matrimoni all'insaputa o contro la volontà dei genitori. In diverse descrizioni di questi fenomeni sono presenti infatti gli elementi caratteristici della fuga, e precisamente l'intenzione di contrarre in seguito ufficialmente il matrimonio, la coabitazione e il rapporto sessuale e, per conseguenza, il considerarsi già sposi.
2. I sinodi antecedenti al Concilio di Trento stabiliscono la forma pubblica per la celebrazione del matrimonio e quelli successivi riproducono o, almeno, si rifanno tutti al decreto Tametsi per sconfiggere il fenomeno dei matrimoni clandestini. Emerge chiaramente come, in contrasto con la Chiesa, che vuole l'inizio del matrimonio con la celebrazione pubblica e secondo le formalità stabilite, vi sia un costume popolare che vi dà inizio in forma privata, con la coabitazione e il rapporto sessuale, preceduti, a volte,
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lbid., n. 11. !bid., n. 12: «Sponsos itcrurn, iterun1que in visceri bus Iesu Christi obsccrarnus, et hortamur ut sanctas nuptias horu1n scclcruin i1nrnunditic ne premaculent, sciantque eiusmodi foedere contracta matrin1onia ut plurirnurn rixaruin, perturbationu1n, infinnitatu1n, sterilitatis, indigentiae, caeteraru1nque 1niseriaru1n, quibus fan1iliac obruuntur, sed pracscrtin1 natoru1n infoelieis infortunij ubere1n originen1 esse solere». 40
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dalla fuga: tale fenomeno continua anche dopo l'intervento del Concilio.
3. Giacché ne parlano tutti i sinodi delle varie Chiese dislocate in tutte le parti dell'isola, si tratta di un fenomeno diffuso in tutta la Sicilia. Dalla insistenza con la quale se ne discute e, soprattutto, dalla severità delle pene si deduce che è un fenomeno pervcrsivo che lautorità ecclesiastica sente il dovere di sradicare.
4. Le pene assegnate ai genitori e a tutti 1 conniventi non consentono di attribuire tale fatto solo ad un cedimento passionale dei giovani, ma anche ad una mentalità ben radicata e ben diffusa.
5. Resta l'interrogativo se vi si possa ravvisare la presenza, o almeno qualche traccia, della concezione della scuola bolognese che sia la copula a costituire il matrimonio.
6. L'ammonimento di tutti i sinodi perché i giovani non contraggano matrimonio all'insaputa o contro la volontà dei genitori e, soprattutto, le difficoltà frapposte dall'autorità ecclesiastica per la celebrazione del 1natrin1onio, se da una parte sono chiara testimonianza del fenomeno della fuga, dall'altra ce ne fanno intuire qualche motivazione: paradossalmente la Chiesa, con la sua insistenza sulla obbedienza e riverenza dovute ai genitori anche in tema di matrimonio, potrebbe avere una parte di responsabilità.
7. Tardivamente e solo un paio di sinodi sentono il bisogno di ammonire i genitori sulla libertà dei matrimoni come pure sul dovere di facilitare gli incontri conoscitivi tra la coppia.
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8. Solo qualche sinodo definisce in termini espliciti peccato grave la fattispecie della fuga. Al di lĂ di riferimenti generici al timor di Dio e alla propria coscienza, non si trovano motivazioni di tipo teologico, quanto soprattutto di tipo sociale: disonore della famiglia, mormoraz10111, insorgenza di possibili mali.
9. Tra i peccati che i vari sinodi considerano riservati, oltre il rapimento delle vergini, si trova la fornicazione e il rapporto sessuale prima di contrarre matrimonio pubblico: nell'uno e/o nell'altro caso va annoverata certamente la fuga. Dati la natura pedagogica e l'intento socio-ecclesiale soggiacenti alla prassi dei "casi riservati", si può facilmente dedurre che i sinodi giudicano il fenomeno della fuga particolarmente grave e per lestensione del fenomeno e per la sua pericolosità nei confronti della dottrina e della prassi della Chiesa sul matrimonio.
Synaxis XII!/1 (1995) 73-98
FUITINA E PRASSI PASTORALE NEI VESCOVI SICILIANI TRA '800 E '900
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1. Il persistere del fenomeno dopo l'Unità
Nel clima di progressiva laicizzazione della società nel nuovo Stato unitario, la secolarizzazione del matrimonio equivaleva ad una ulteriore conquista che permetteva di scrollarsi di dosso una pesante giurisdizione ecclesiastica nella sfera sociale. Con il 1° gennaio 1866 entrava in vigore il nuovo Codice Civile e con esso veniva introdotta l'obbligatorietà del matrimonio civile'. La Chiesa si preoccupò per questa ulteriore ingerenza dello Stato in materia che riteneva di sua esclusiva competenza non solo per la radicale messa in questione della sacramentalità del matrimonio, ma anche per l'insorgere di facili conflitti fra impedimenti canonici e civili.
* Professore di Storia della Chiesa nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Soprattutto nelle nazioni latine l'introduzione del matri1nonio civile, come le leggi sui beni ecclesiastici, i religiosi e la scuola, faceva parte di quelle iniziative assunte dai regimi liberali nel corso dell'Ottocento, alla luce dcl giuris<lizionalis1no aconfessionale, tese a rivoluzionare i rapporti dello Stato con la Chiesa tipici del!' ancien régùne, improntandoli ora ad una drastica separazione e ad un atteggiamento di difesa da ogni ingerenza della Chiesa nella vita sociale e politica: cfr. G. MARTINA, La Chiesa nell'età del liberalis1110, Morcelliana, Brescia 1978, 47-
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Il legislatore civile, infatti, non aveva alcun interesse, nella regolamentazione degli impedimenti, a mantenerne in vita alcuni dirimenti di esclusivo carattere ecclesiastico (disparità di culto, ordine sacro, voto e professione religiosa, cognazione spirituale, ecc.) che potevano tuttavia ostacolare la celebrazione del rito religioso dopo quello ci vile. Ma la gerarchia ecclesiastica, soprattutto, deplorò la secolarizzazione di un atto considerato strettamente religioso, regolatore anche della vita sociale, temendo un costante incremento delle convivenze fondate sul solo matrimonio civile, ritenuto canonicamente concubinato, e l'accrescersi della negligenza religiosa nei coniugi, con gravi riflessi nell'educazione dei figli e nella moralità pubblica. In pratica, la nuova legge veniva ad incrinare irreparabilmente quella condizione di societas christiana che nel matri1nonio aveva uno dei suoi punti forza 2. I problemi di ordine pastorale e sociale posti da questa "novità", il susseguirsi di progetti di legge tesi alla introduzione dell'obbligo della precedenza dell'atto civile alla celebrazione del sacramento, e il costante riproporsi dei tentativi di far passare la legge sul divorzio, lungo tutto l'Ottocento e l'inizio del Novecento accentrarono l'assillo dell'episcopato siciliano, in sintonia con le direttive della Santa Sede e con l'azione degli altri vescovi italiani, sulla difesa della sacramentalità del matrimonio quale unica via di convivenza sponsale. Per cui, il fenomeno della "fuitina", che persisteva ben radicato nell'isola, doveva ora considerarsi secondario poiché di fatto non metteva in dubbio la sacramentalità del matrimonio, la differiva solamente senza per questo incrinare sostanzialmente il controllo ecclesiale sul matrimonio. Povertà, mancanza di dote, disparità di classe sociale e/o di condizione economica, opposizione familiare erano le cause principali
2 Sulla introduzione del matrimonio civile in Italia si veda: S. FERRART, Religione e Codice Civile. Di11a111ica istituzionale e problen1atica a111111inistra1iva del dirilfo 1natrit11011ia!e postunitario, li Mulino, Bologna 1975; per la reazione dei vescovi siciliani e gli effetti nell'isola: G. ZlTO, La cura pastorale a Catania negli anni del/' episcopato D11s111et ( 1867-1894), Galatea, Acireale l 987, 428-446.
Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra '800 e
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che spingevano alla convivenza senza aver celebrato prima il sacramento del matrimonio. La prassi pastorale abituale era in genere remissiva: si prendeva atto della convivenza, ma al contempo si tendeva al superamento delle difficoltà frapposte al fine di regolarizzare, ecclesiasticamente e socialmente, la situazione dei conviventi, soprattutto se già la coppia attendeva un figlio. Possibile, tuttavia, documentare anche una prassi rigida, come il caso del parroco di Bagheria che chiedeva di sospendere la convivenza per due mesi prima della celebrazione del sacramento del matrimonio 3 • La documentazione archivistica offre la possibilità di registrare alcuni casi di "fuitina", indice del sicuro persistere dcl fenomeno, con sfaccettature diverse ma accomunate dalla identica esigenza di regolarizzare una situazione giudicata moralmente pecca1ninosa e socialmente irregolare, scandalosa e destabilizzante. Nella coscienza dei "fuggitivi", tuttavia, non vi era la benché n1inima volontà di opporsi alla sacramentalità del matrimonio: non vi accedevano perché in vario modo se ne consideravano impediti. Il 3 aprile 1850 il Consigliere Distrettuale della Sottointendenza del Distretto di Acireale, R. Pennisi, presentava al vescovo di Catania, Felice Regano (1839-1861 ), la richiesta di abbreviare i tempi delle pubblicazioni canoniche per regolarizzare con il matrimonio la condizione di concubinato di due giovani acesi: «Fuggita dalla casa paterna la nominata Rosaria Cavallaro col suo pro1ncsso sposo Giovanni Torrisi ainbi di questa Co1nunc, venne fallo alla Polizia per in1pedire lo scandalo e riparare al risentimento dei parenti, non che per ussicurarc l'onore della giovane che ad u1nilc 1na onesta fa1niglia appartiensi
3 F. M. STABJLE, Il clero palennitano nel prùno decennio dell'Unità d'Italia ( 1860-1870 ), Istituto Superiore di Scienze Religiose, Palenno 1978, 426. I! fenon1eno è docu1nentato 1nolto diffuso anche per la Sardegna dove la decisione della convivenza era dettata più dalla «miseria cronica», e quindi dalla impossibilità a solennizzare il rito con fastose feste esteriori, che da una precisa «volontà di contrastare un inscgnainento positivo della Chiesa». E lo stesso clero, disattendendo le direttive della gerarchia ecclesiastica, si niostrava n1olto indulgente perché auribuiva a n1otivi di ordine econo1nico e non a carenza di senso religioso la decisione di coabitare: T. CABIZZOSU, Chiesa e società nella Sardegna centrosettentrionale ( 1850-1900), Il Torchietto, Ozieri 1986, 205-214.
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Gaetano Zito affidarla in casa di persone benviste e distinte. TI Torrisi intanto dichiarDndosi pronto a sposarla, ne ha volontariamente assunto l'obbligo innanzi alla polizia, e siccome il genitore della giovane, atteso il ricevuto oltraggio, 1nostravasi ritroso di prestare il consenso pel matrimonio e fornire alla figlia quel corredo che la sua condizione può co1nportarc, si è riuscilo colle dovute riflessioni e garbate 1naniere indurvelo, cosicché appianate le differenze e gl'interessi, si è nel caso di passare agli atti di rito per unirsi legittirna1ncnte
in sacro nodo. Or co1nccché gran fatto in questi casi necessaria si rende l'abbreviazione dei termini, onde non avvenga che col decorso de' giorni s'intiepidiscano le intenzioni dell'una o del!'allra parte de' sposi e genitori rispettivi, io n1i pennetto rivolgenni alla pietà che tanto la dislingue, affinché si degni penneLtere che le consuete denunzie si promulgassero la pri1na in un giorno di do1nenica, e le altre in due giorni di lavoro consecutivi» 4.
Il 16 febbraio 1865 il cappellano curato di S. Michele in Acireale, sac. Salvatore Grassi, presentava al vicario capitolare della diocesi, Gaetano Asmondo, una supplica per far elargire una somma di denaro in favore dei "fuggitivi". Questi, a causa della loro estrema povertà, non erano in grado neppure di poter disporre la somma necessana per il disbrigo della documentazione previa alla celebrazione del sacramento del matrimonio: «Sono anni due e 1ncsi cinque che questi due contrahenti hanno vissuto nello scandalo, ho sofferto molte fatiche a persuadere il padre dello sposo, che ingiustan1ente e irragionevo!n1ente si ha opposto, ho pregato a questo Sottoprefetto che caritatevohnente si i1npegnava persuaderlo, l'istesso ha fallo il Delegato, cd il Sindaco, ma tulto inutile, non ini hanno giovato né le pron1esse, né le suppliche, né le 1ninacce, finaln1cntc con1e Iddio volle è venuto a confessarsi e si è indouo a dare il consenso, i contraenti pure si sono confessati e allontanati tra loro. Questi sono quelli stessi che un tempo si presentarono alla E. S. e la R. V. mandò me in suo non1c nell'avvocato dei poveri per gli atti rispettosi, e non fece nulla. Sono povcrissi1ni, io ho dato
4 CATANIA. ARCHIVIO STORICO DIOCESANO (Aso), Fondo Matrùnoni, Carte per 1natrimoni, fase. 2. A stretlo giro di posla, 4 aprile 1850, il vescovo inviò la risposta: pern1etteva le pubblicazioni canoniche «la prima oggi stesso nella benedizione serotina, la 2A Don1enica prossin1a ventura nel pieno sacrificio, e la 3A inercolcdì giorno 1O dcl corrente alla benedizione serotina»: Io., Registra Litteranun, 1849-1852, f. 39r.
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delle clcn1osine per non perire la prole da loro nata, quindi si persuade bene l'E. S. R. che l'unico rnio scopo è scioglierle dal peccato 1na nulla giovano le mie fatiche se non sono autorizzate dal!a speri1nentata carità dall'E.S.R.» 5.
Il 10 ottobre 1875 il vicario foraneo sac. Antonino Anile e il pro-maestro notaro sac. Gaetano Maglia, del comune di S. Maria di Licodia, chiedevano al vicario generale di Catania, Giuseppe Coco Zanghì, l'autorizzazione a procedere per la celebrazione di un matrimonio dispensando lo sposo dal consenso del la madre vedova che, per impedirlo, aveva pure tentato di uccidere il figlio: «Dovendosi contrarre inatri1nonio avanti la Chiesa eia Francesco Patti, figlio del fu Michele e della vivente Francesca Con1rnendatorc, con Maria Nicolosi, figlia dclii furono Francesco e Rosa Furnari, cli questa Co1nune, ci veggia1no costretti ricorrere a V. S. lll.n1a e R.nui perché si benignassc ordinare, che si cffcttuisca il detto 1natri1nonio, reso ormai necessario per le peculiari circostanze, non ostante il dissenso della 1nadre dello sposo, la quale per mottivi capricciosi e futili si è ostinata a non autorizzare il figlio alla celebrazione di detto 1natrirnonio. Ci è d'uopo manifestarle che il detto pro1nesso sposo ha l'età di anni 23, che la della madre da 1nolti anni addietro fu la pri1na a progettargli il detto n1atri1nonio con la Nicolosi, che poscia per l'incostanza e volubilità fem1ncnilc nlutò parere, e piuttosto attaccò lizza contra la eletta pro1ncssa sposa sino a venire a falli criminali, e contro il proprio figlio, fatti che provocarono l'intervento de' Carabinieri, e dcl Pretore 1nanda1nentale di Palernò, e fu la detta Conunendatore tradotta in prigione; che il detto figlio non ancor guarito dalla ferita ricevuta supplicò il Pretore dopo cinque giorni per la scarcerazione della rnadrc; che ad onta di cic) il detto figlio sempre provocato da lei per le continue vessazioni e rninaccc di togliergli la vita fu costretto ad abitar fuori della sua casa; che la della rnadrc è stata pili volte da noi chiamata per venire ad una conciliazione col figlio, e si è sc1npre oslinala nella negativa, e non cessa n1ai di provocarlo all'ira; e che fina!n1ente la sposa orfana e povera, benché per lo innanzi onesta cd onorata, trovasi ora deflorata dallo stesso sposo e gravida. Tutte queste ragioni ci 1nuovono a supplicarla, sicché dia con pre1nura le necessarie disposizioni per avverarsi il detto inalri1nonio 1na!grado il dissenso della inadre dello sposo, e cic) lanto per
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Aso, Fondo MalrÌlnoni, Carte per n1atri1noni, fase. 5.
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Gaetano Zito salvare l'onore della giovane sposa, quanto per prevenire e distogliere i delitti, che potrebbero avvenire, e che si minacciano in a1nbe le fatniglie» 6 .
Questi tre casi offrono alcune indicazioni per la comprensione di un fenomeno abbastanza diffuso, determinato anche da condizioni di povertà, se non addirittura di miseria. La decisione, anzitutto, è consensuale e conseguente alla opposizione dei genitori, opposizione che in uno dei casi si è espressa anche con l'aggressione fisica nei confronti del figlio. Nei fuggitivi si registra la chiara volontà di non voler permanere in una condizione alla quale in un certo modo si sentivano costretti; al contrario, desideravano appianare le difficoltà e chiedevano di essere reintegrati nei rapporti familiari e nella piena comunione ecclesiale. La condizione di convivenza seguente alla fuga, comunque, costituiva un disordine sociale e uno scandalo religioso: in regime di christianitas non solo l'autorità ecclesiastica 1na anche le autorità civili e di polizia venivano coinvolte per appianare le difficoltà che si frapponevano alla celebrazione del matrimonio come sacramento. Spesso necessitava pure appianare presto i rapporti tra i due fuggitivi e le rispettive famiglie onde prevenire il verificarsi di possibili disordini: tra le famiglie coinvolte potevano esplodere conflitti in connessione con interessi economici 1na anche con il disonore introdotto nella parentela proprio con la fuga e con la particolare concezione dell'onore della donna che, ritenuto intaccato con la perdita della verginità fuori da una convivenza regolata dalle norme della Chiesa e della società, poteva essere reintegrato solamente grazie alla legalizzazione del rapporto. Si potrebbe allora supporre che, in qualche caso, possa anche configurarsi una assenza di volontà libera nel contrarre il matrirnonio: onnai convivevano, dunque per i genitori, e per il giudizio emesso su di loro dalla società, dovevano assolutamente sposarsi. Nella gran parte dei casi, invece, la fuga costituiva una 1nodalità per assicurarsi il
6 Jbid., rase. 3. Pulroppo non è possibile registrare la risposta delle autorit8 diocesane agli altri due casi poiché in Aso n1ancano i Registra Li1teran1111 degli anni 1865 e 1875.
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consenso dei genitori, ponendo questi di fronte ad una situazione giudicata ormai irreversibile. Certamente nel terzo caso documentato la fuga, e ancor più il decidere di vivere <onore uxorio» con la conseguente gravidanza, era stato un atto di forza del giovane per costringere la madre ad acconsentire al n1atrimonio.
Nella coscienza dei fuggitivi sembra indubbio, dunque, che la gravidanza diventava il modo eclatante per ottenere con certezza, pur se temporalmente dilazionato, il consenso familiare. I genitori, inoltre, si vedevano costretti ad acconsentire al matrimonio possibilmente prima del parto, di modo che il nascituro poteva registrarsi al battesimo come figlio legittimo. I due, frattanto, si consideravano marito e moglie, e come tali si presentavano ed erano ritenuti da tutti. Di fronte alla società, infatti, la convivenza seguente alla fuga equivaleva già ad una inequivocabile dichiarazione pubblica del consenso 1natri1noniale, anche se necessitava ancora della ratifica ecclesiastica.
Il clero, poi, mostrava un fondamentale atteggiamento di comprensione e non di condanna del fcnon1eno: ciononostante però obbligava i fuggitivi a vivere separati prima di accedere al matrimonio. In verità, tuttavia, sembra che la preoccupazione di fondo, più che la sacramentalità del matrimonio in senso strettamente teologico, fosse la moralità tra il popolo del proprio territorio pastorale e, a tal fine, ci si prodigava in tutti i modi - dal contributo finanziario', alla sollecitudine per ottenere il consenso parentale al matrimonio - pur di pervenire presto alla riparazione dello scandalo con la celebrazione del sacramento. Una prassi pastorale, dunque, che induceva a porsi dalla parte dei fuggitivi per sanare una situazione giudicata immorale, senza che ciò nondimeno equivalesse ad una presa di posizione contro le rispettive famiglie.
7 «Caro Segretario, rin1ctto una \eltcra per Matrimonio da farsi in Battiati. Se potessi risparn1iarc le spese ti sarei grato perché sono due giovani da rnolto tempo ruggiti, e senza mezzi»: il benedettino Luigi Patentò Raddusa, vicario foraneo di S. Giovanni la Punta, al Della Marra, segretario dcl Dusinct: lettera del 28 1narzo 1882 in Aso, Miscellanea paesi: Trecastagni, Conservatorio delle Vergini II, fase. 2.
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Il braccio di ferro sembra quindi doversi cogliere tra i genitori e la Chiesa, più che tra la Chiesa e i giovani. L'opposizione al matrimonio da parte dei genitori andava contro le prescrizioni della Chiesa che voleva sanare subito la condizione di immoralità; preminente era una impalcatura di riferimenti diversa dai valori religiosi, quali: l'oltraggio perpetrato contro l'onore della famiglia, la possibilità di fornire la figlia di un dignitoso corredo, l'imposizione della propria volontà al figlio. Il giudizio sociale, di conseguenza, sembra essere maggiormente determinante della autorità della Chiesa e della sua capacità di incidere un tessuto sociale per modificare un costume ben radicato tra il popolo.
2. Tra nzatrùnonio civile e fuga
I vescovi dell'isola, nelle loro relazioni ad lùnina, tra i caratteri della moralità del popolo, stigmatizzavano la piaga della convivenza derivata dalla introduzione del matrimonio civile, che infrangeva la sacramcntalità del matrimonio e produceva scandalo, n1entre non evidenziavano il fenomeno della fuga, più facilmente controllabile dall'autorità ecclesiastica sebbene comunque deprecabile 8 • In effetti, il
8 «Ad i1npcdicnda inala ex civili, quod appellant, n1atrin1onio, provcnicntia, praeservationis, si quae sint, ren1edia adhibcri possunt, veluti fideles monendo ne civilis actus ab ecclesiastico sejugantur, et censuras, ubi opus fucrit, tninitando»: priina relazione dell'arcivescovo Dusn1et (1869), edita da G. DI FAZIO, Dus111et a Catania ( 1867-1894): Chiesa e 111ovùnento cattolico, in Archivio Storico per fa Sicilia Orientale 73 (1977) 137. E nella terza relazione (1881) Dusmet si ran11naricava: «Ne quid rcticca1n quod sciarn, oportet et de re injucuncla verba facerc, quac uttarnen ut spero paullati1n cvancscct, dc ni1nia scilicet facilitaten1 qua quicla1n, ignorantia ve! errore clecepti, matri1noniu1n, uti vocunt, civile contraherc audent; Matrirnoniun1 Sacrosanctuin Ecclcsiac Sucra1nentu1n incuriose et culpabiliter neg!igcntcs. Suasionibus el auxiliis ctia1n pecuniariis ad tanturn tollendu1n abusu1n enixc labaro, et nun1crus legaliurn concubinatun1 quotidie dccrcscit>:..: Asv, S. C. Co11ci/ii, Relat. Visit. ad litnina, Catanien. 207 B, f. 280v. Il redentorista Cannclo Valenti, vescovo cli Mazara dcl Vallo, nella terza relazìone (1880) scriveva: «Altera et quiclen1 magna plaga est 1natrimoniun1, ut ajunt, civile, ad quod facile confugitur, cum recidi in1probe vclit justas difficullates quas forte auctoritas ecclesiastica opponi!, ve! ut possit obtincri facìlius dispensatio jure negata aul dilata}}: edita da G. NICASTRO, La diocesi di Mazara nelle relazioni "ad lùnina" dei suoi vescovi ( 1800-1910), Istituto per la storia della Chiesa 1nazarese, Mazara del Vallo 1992, 198.
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numero di matrimoni civili e di convivenze pare che fosse piuttosto elevato, tanto che i vescovi ritennero urgente istituire un'opera diocesana con l'esclusiva finalità di «santificare col matrimonio le illecite unioni massime quelle confermate dal contratto civile»: l'opera di S. Francesco Regis: «Un incaricato speciale di Mons. Arcivescovo fa le ricerche sulle illccilc unioni. S'intima subito dalla Curia la separazione. L'Archivio Arcivescovile unico parrocchiale appresta le carte gratis, o si ritirano da fuori scinprc gratis; i curati apprestano tutto gratis dalla parte loro. Ai pili poveri si dà spessissimo una so1n1narclla a 1natri1nonio co1npiuto. Se osta in1pcdi1ncnto si ritira la dispensa 011111i110 gratis. La media annuale di siffatti matri1nonii per Catania è di circa 550. Lo stesso si fa in tulti i coinuni della dioccsi» 9 .
La causa delle fughe prematrimoniali e dei matrimoni civili, con la conseguente scandalosa convivenza, veniva attribuita non solo alle mutate condizioni socio-culturali di fine secolo ma anche alla crescente ignoranza sui contenuti della dottrina cristiana: «li solo Catechisn10 insegna ai cristiani che il Matrimonio non è un sen1plice contratto, dipendente in tutto dai soli contraenti, ma un gran Sacran1ento». E alle convivenze non sancite dal sacra1nento del matri1nonio si attribuivano pure disordini e gravi reati: «Rancori, sospetti, odì, risse, miserie, depravazioni, gravissimi scandali, brutalità e qualche volta delitti di sangue vengono a sciogliere quella unione non suggellata con la benedizione di Dio. Felicità non ce ne sarà mai in quella casa, perché non vi ha pace fra coloro che non sono in pace con Dio» 10 •
9 Catania sacra ossia stato del clero dell'Arcidiocesi catanese, Tip. C. Galatola, Catania 1886, 43. Nel 1880 a Catania si erano celebrati 660 1natri1noni religiosi e 723 rnatrirnoni civili: G. ZITO, La cura pastorale ... , cit., 432. Anche i vescovi dell'Italia 1ncridionalc, dopo l'introduzione dcl n1atri1nonio civile, avevano auspicato una vasta diffusione di questa opera, n1a con caratteri prcttan1entc 1norali: Nonne da seguirsi 11ell'a111111i11istrazio11e del sacran1e11to del 111atrù11011io dirette dagli arcivescovi e vescovi 11apolita11i e siculi ai 111olto RR. ?arrochi delle rispeffive diocesi nella circostanza della pro11111lgazio11e della nuova legge sul 1natrin1011io ciFile, Napoli 1866, 70-72. 10 G. FRANCICA NAVA, Sul!'i11segna111e1110 della do/frina cristiana (l 895), in Io., Lettere pastorali, Stab. Tip. Sociale, Brontc 1908, 49, 50-51.
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D'altra parte, nel corso della prima visita pastorale (1897-1899) Giuseppe Francica Nava veniva informato dal clero della diocesi di Catania che il concubinato era tra gli inconvenienti principali da denunciare nella moralità del popolo. Per il clero le motivazioni erano da ricercare nella indifferenza religiosa, nella «proibizione dei genitori di sposare tale o tal altra persona», nella «mancanza di mezzi pecuniari per sopperire alle spese che nel matrimonio sogliono occorrere» 11 • L'urgenza di una prassi pastorale che prestasse particolare attenzione al sacramento del matrimonio venne riconosciuta dai vescovi siciliani nella seconda conferenza episcopale, tenutasi a Palermo nel settembre del 1898 12 • Verificando le condizioni religiose dell'isola, tra le cause che non rendevano la vita del popolo veramente cristiana vi era indubbiamente una non «genuina idea» dcl 1natrimonio. Erano numerosi, infatti, i casi di matriinonio civile non associati a n1atrin1onio religioso, come pure le fughe prematri1noniali,
matri111oni clandestini e i «n1atrin1oni dei vaghi». Per i vescovi il fenomeno della fuga era piuttosto frequente. Era fondamentalmente da attribuire alle scarse condizioni finanziarie delle fa1niglie, e gli stessi genitori in genere non erano estranei alla decisione dei figli di convivere senza celebrare il sacramento. Spesso, tuttavia, la decisione di convivere era determinata dalla consuetudine inveterata che obbligava i figli, per virtù di obbedienza, a sottomettere al consenso dei genitori la scelta della moglie o del marito. I vescovi, nondimeno, evidenziavano la presenza di situazioni in cui i figli dovevano essere garantiti nella loro libertà di scelta, pur se questa contravveniva alla volontà dei genitori. La soluzione dei
conseguenti conflitti non poteva non appartenere all'autorità ecclesiastica, la sola in grado di adoperarsi per il vero bene di tutti:
11 La diocesi di Catania alfa fine dell'Ottocento nella visita pastorale di G. Francica Nava, a cura di G. Di Fazio, Ed. di Storia e Letteratura, Ro1na 1982, 31. 12 Sulle riunioni dei vescovi dell'isola, la priina è dell'aprile 1891, cfr. C. NARO, I cento anni della conferenza episcopale siciliana, in Ho Theof6gos 9 (1991) 297-309.
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«Con vivo dolore, non di rado, assistia1no allo scandalo delle fughe che avvengono tra i promessi sposi sconsigliati, o dei matrimoni così detti clandestini, i quali, o sono conseguenza delle predette fughe, od anche, talvolla, per evitare le necessarie pratiche onde aversi le fedi di stato libero, o si1nili altri documenti, avvengono anche col consenso dei genitori. Ad i1npedire tali scandali pcl debito del nostro ufficio pastorale, richiarniaino tutti quanti i fedeli delle singole diocesi a ponderare bene, co1ne il 1natri1nonio sia l'atto più in1portantc della vita, e co1nc perciò i coniugi, considerati co1nc figli, debbano 1nostrarsi sempre ubbidienti alla volontà dei genitori, che, generalmente, possono n1eglio conoscere se uno od un altro n1atri1nonio ben si addica ai propri figli. Che se poi in qualche caso eccezionale, fosse irragionevole i! diniego dcl consenso dci genitori, sllora potranno i figli fare appello a Noi, o personalmente o per n1ezzo dei loro Parroci, e noi allora c'in1pegnercn10 a ridurre a 1niglior consiglio i genitori, o, in caso di ostinazione, a disporre ciò che meglio provvederà agli interessi spirituali e temporali degli oratori»1.'.
Nonostante la persistente denunzia di tali comportamenti da parte dei vescovi e lo zelo pastorale che il clero abbia potuto esplicare, di fatto continuava a persistere una autonomia del popolo dalle disposizioni della Chiesa per quanto concerneva il matrimonio. Fondamentalmente, non pare dunque che una porzione di fedeli si n1ostrasse convinta della assoluta necessità di sottomettere l'inizio della convivenza alle norme ecclesiastiche, senza che ciò comunque equivalesse alla negazione dell'autorità della Chiesa e della sacramentalità dell'evento. Nelle relazioni (Uf lhnina di inizio secolo continuava la denunzia del concubinato, delle unioni illecite, delle fughe e il permanere di queste situazioni tra i peccati riservati 14 • Ma, dei vescovi dell'isola, una
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Le conferenze episcopali della regione sicula
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in Polenno ne!
se/fe111bre del 1898. Lettera pastorale, Scuola tip. Boccone dcl povero, Pa!cnno 1898,
13. 14 Letterio D'Arrigo, arcivescovo di !Vlessina, nel 19 l l la1nentava un gran nu1ncro di concubinati: Asv, S. Congregatio Concistoria!is, Rc!ationcs Mcssancn., 53. Tra i comportamenti deplorevoli del popolo difficili da arginare Francica Nava, nel 1908, denunziava per Catania «uniones illicitae ac frequentes raptus»: ibid., Calanen., 54. E nella relazione del 1916 elencava i casi riservati per la diocesi, e tra questi il 19° riguardava: «Copula carnalis inler sponsos de futuro, ve! cohabitatio
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maggiore attenzione nella valutazione complessiva di queste situazioni, e della fuga in particolare, ha mostrato il milanese Alessandro Lualdi, arcivescovo di Palermo ( 1904-1927) 15 • La sua provenienza, estranea alla cultura siciliana, gli ha permesso di svelare dei retroscena che probabilmente dai suoi confratelli nell'episcopato venivano considerati scontati. Nella relazione ad lùnina del 1911, deplorando l'aumento dei concubinati in città, avvertiva che la fuga avveniva sotto forma di rapimento concordato tra i fidanzati, e ne puntualizzava le cause che soggiacevano alla decisione: libidine, desiderio di sposarsi al più presto, soprattutto quando non vi era il consenso dei genitori, necessità di evitare le spese che abitualmente solennizzavano il rito del matrimonio. Per i fuggitivi, però, la celebrazione delle nozze avveniva senza indugio, in segreto, privati di ogni forma solenne e della presenza dei parenti: «Concubinatus rari achnodu1n in pagis nnlitiplicantur in urbe. Depluandu1n
contra sanclitatcrn n1stri1nonii habctur, quod qui dc futuro 1natrin1onio privalin1 vel pubblice sponsionen1 sibi 1nutua1n dederunt, saepissi1ne curn silnulato raptu, fuga1n arripiunt. l-loc aute1n fit sivc libidinis causa, sivc ad urgcndun1 rnatrin1oniun1, quod aliqua de causa et speciatin1 aversione parentun1 moras paliatur, sivc ctia1n ad cvitandas cxpcnsas, quas, iuxta loci consuetudines, pateretur 1natrin1oniun1, quod legitime celebraretur. Usu eni1n cx advcrso habetur, quod n1atrin1oniu1n coru1n qui fugain arripuerunt, celebretur statirn et secreto sine ulla pon1pa et parentum concursu» 16 .
coru111de1n etiarn unius noctis quamvis sine copula, ta1n respectu sponsi et sponsae, quan1 palris el n1atris sponsae copulam aut cohabitationem permittentiutn»: ibid., 13. La Concistoriale, nella risposta del 18 marzo 1919 invitava Francica Nava a tenere in diocesi le sacre nlissioni «lit fideles illegiti1nas unioncs sacramento n1alri1noni sancnt, o vìtiis contra sanctitote1n coniugii abstìncant et ad incliroes 1nores suan1 agendi ratione1n co1nponant»: ibid., ff.n.n1. Il vescovo di Trapani Francesco Maria Raiti, invece, nella relazione del 1916 registrava una situazione inversn rispetto alle altre diocesi: «Raro pariter habentur 1natri1nonia nlere civilia, neque vìdentur vigere alii abusus speciales contra sanctitate1n 1natri1nonii»: ibid., Drcpanen., 24. 15 Per la sua elezione a!l'episcopalo e la nomina a Palermo, cfr. G. ZITO, L'episcopato urbano della Sicilia dall'Unità alla crisi 111odernista, in Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920). Atti del convegno di studi, Catania 18-20 1naggio 1989, Galatea, Acireale 1990 (Quaderni di Synaxis, 6), 110-112. 16 Asv, S. Congregatio Concistorialis, Relationes Panonnitan., 29-30.
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I motivi di ordine economico e la libertà dalla volontà dei genitori sembrano, dunque, le costanti nella decisione della fuga 17 • Eppure, il primo concilio plenario siculo, 1920, a proposito del matrimonio si limitava a trascrivere gran parte dei canoni (da 1012 a 1143) del Codice di Diritto Canonico, con l'aggiunta di alcune norme generali, ma senza prescrivere alcunché in rapporto alla "fuitina". Né l'argomento venne preso in esame dall'episcopato trattando dei principali vizi da correggere nella vita dei fedeli, se si eccettua un riferimento generico al divieto per i futuri sposi di coabitare prima della celebrazione del sacramento del matrimonio'"·
3. Dal Concordato al Vaticano Il
È ancora ad un vescovo di provenienza esterna alla cultura dell'isola, il piemontese Evasio Colli, vescovo di Acireale ( 1928-1932), che si deve una preoccupata denunzia dell'elevato numero di matrimoni preceduti dalla fuga. Da una indagine compiuta al protocollo delle pratiche matrimoniali nella curia vescovile di
17 Pur non registrando esplicita1ncntc il fenon1cno, tuttavia, l'inchiesta parlamentare di inizio secolo sulle provincie meridionali lascia intravedere le cause che favorivano la fuga pre-rnatrimoniale: «Generahnente sono i parenti che preparano e combinano le cose e stipulano le condizioni dcl contratto»: Inchiesta parlarnentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie 111erìdìonali e nella Sicilia. VI: Sicilia, Relazione del delegato tecnico Prof Giovanni lore11zoni, J, Tip. Nazionale, Ron1a 1910, 464. Dalla stessa inchiesta sappiarno che l'età inedia dei nubendi si aggirava intorno ai 28 anni per gli uo1nini e ai 18-20 anni per !e donne: ibid., 466. 18 Concilùun ple11arù1111 siculu111 Panonni anno 1920 habitun1, Typis Polyglottis Vaticanis, Ro1nae 1921, cann. 98-110 e 223-231; can. 103 §2: «Parochi aute1n doceant fidelcs qua1n opprobriosu1n, periculis plenu1n et divinae legi contrariuin sit, ut sponsa adeat sola sponsi domu111, et eo n1agis ut ibi ante 1natri1noniu1n con11noretur». D'altra parte, osserva Stabile, «pensato e prograrnn1ato pri1na della pro1nulgazione del codice, la sua celebrazione nel 1920 e i suoi canoni furono voluli come adcgua1nento di Lutto il sistema ecclesiastico siciliano al nuovo codice, con la eli1ninazione di qualunque residuo dcl codice ecclesiastico siculo e qualunque consuetudine contraria»: F. M. STABILE, l'azione pastorale dei vescovi siciliani tra il pri1110 e il secondo concilio plenario siculo ( 1920-1952), in Chiesa e società a Caftanisse!fa all'i11do1na11i della seconda guerra 111011dhi!e. Atti dcl convegno di studi organizzato dall'Istituto teologico-pastorale "Mons. G. Guttadauro", CalLanisseLta 24-26 aprile 1984, a cura di P. Borzomati, Ed. del Se1ninario, Caltanissetta 1984, 84.
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Acireale, alla fine degli anni '20, risultava che «quasi il 50% dei matrimoni che si vogliono contrarre sono preceduti dalla famigerata fuga dei fidanzati, oppure dai matrimoni civili già contratti con altre persone senza alcun vincolo religioso» 19 •
Il secondo caso, sistematicamente denunziato dai vescovi fin dal 1866, venne di fatto a venir meno con lart. 34 del Concordato del 1929 che riconosceva piena validità civile al matrimonio religioso e in 1nateria assegnava an1pia competenza all'autorità ecclesiastica: «Lo
Stato italiano, volendo ridonare all'istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili». Il matrimonio, dunque, dopo oltre sessanta anni di costante e ferma opposizione della gerarchia ecclesiastica al matrimonio civile e ai tentativi di legalizzazione del divorzio, rientrava nella sfera di assoluto controllo della Chiesa, facendo cadere così uno degli elementi caratteristici della legislazione liberale ottocentesca. Adesso l'episcopato siciliano indirizzava una specifica e seria attenzione pastorale al fenomeno della fuga, mantenendosi comunque nell'alveo del recupero di moralità nel popolo. L'argomento, infatti, venne di nuovo esplicitamente affrontato nella conferenza episcopale del I 930 e inserito nella successiva lettera pastorale collettiva, stilata proprio da Evasio Colli. Il testo venne redatto con un linguaggio del tutto nuovo rispetto alle precedenti dichiarazioni: le «famigerate fughe dei fidanzati» - si noti: identica definizione data da Colli nella sua lettera pastorale sopra citata -, venivano anzitutto denunziate dai vescovi, come una delie «quattro
cancrene» di fronte alle quali «il senso morale pare che non più reagisca, quasi fosse 1norto» 20 . Si decise, quindi, di e1nanare una normativa drastica finalizzata ad arginare un fenomeno che, a parere
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E. COLLI, L'Azione Cat1ofica e l'anno santo per il giubileo sacerdotale del papa. Lettera pastorale al clero ed al popolo della città e diocesi, in Bollettino diocesano di Acireale 2 (1929) 23. 20 Le altre tre cancrene erano: la 1noda del vestire, la sterilità volontaria e l'aborto: ibid., 17-18.
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dei vescovi, il più delle volte era previsto, permesso e favorito dagli stessi parenti: «Circa le fughe dei fidanzati (che inolliplicate diventano una vergogna per tuLti e che, per contrasto, danno alla tradizionale riservatezza delle nostre fanciulle quasi un senso di sottile ipocrisia) non si conceda per esse facilitazione alcuna nelle pratiche matri1noniali, né si dia, a suo ten1po, solennità alle susseguenti nozze; si usi invece coi colpevoli e coi favoreggiatori ogni giusta severità per far sentire ai rei il 1nalc co1n1nesso e non dare ansa ad altri di iinitarli» 21 .
Per la prima volta, dunque, 1 vescovi enunciarono una valutazione di particolare gravità morale del fenomeno. Perché questa loro deliberazione fosse più facilmente veicolata tra il clero e tra i fedeli, fu esplicitamente estrapolata dalla lettera e ampiamente diffusa tramite gli organi ufficiali delle curie diocesane, i bollettini ecclesiastici. In essi, al testo citato venne allegato un altro «tassativo precetto», approvato nella stessa conferenza episcopale, finalizzato a scoraggiare ulteriormente le fughe: il matrimonio dei fuggitivi s1 sarebbe dovuto celebrare in sacrestia, senza alcuna espressione di solennità, e non in chiesa. I parroci, poi, avevano l'obbligo di informare la propria curia circa l'esatto adempimento delle surriferite norme 22 • La proibizione di solennizzare il matrimonio dei fuggitivi, sebbene colpiva sia la coppia quanto le rispettive famiglie in una delle peculiari forme di festa proprie del popolo siciliano, tuttavia non contribuì ad arginare il fenomeno della fuga; al contrario, spesso si riusciva a rendere ugualtnente solenne il rito grazie alla numerosa partecipazione di parenti ed amicin
21 Al clero e al popolo di Sicilia. Lettera dell'episcopato siculo dopo !e co1?fere11ze tenutesi in Palenno ne!!a casa dei padri !ig11ori11i all'Uditore dal giorno 12 al 19 ottobre 1930, Tip. Pontificia, Palenno 1931. 17 e 18. 22 Bollettino diocesano di Acireale 4 (1931) 76. 23 L'arciprete di Montedoro il 16 1narzo 1934 infonnava il proprio vescovo, Giovanni Jacono, del diffondersi di tale usanza; e identica notizia fornivano allri parroci della stessa diocesi di Caltanissetta: C. NARO. La Chiesa di Caftanisseffa tra le
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All'inizio degli anni '30 sembra piuttosto che il fenomeno abbia registrato una forte crescita, e di ciò si rammaricavano i parroci con i propri vescovi: auspicavano «Sanzioni più gravi e atte a fermare questa china di insensibilità morale e religiosa che atterrisce. Ci vorrebbe non il timore di Dio che non c'è, ma il timore di una legge penale che dovrebbe fare il potere civile»". Se l'appello ad una legge dello Stato lasciava chiaramente intendere l'impotenza dell'autorità ecclesiastica ad arginare il fenomeno, particolare interesse rivestiva invece la lettura che di esso se ne dava: non più in chiave sociologica o in connessione con la sacramentalità del matrimonio, quanto piuttosto come denuncia di una forte decadenza morale e religiosa. Il vescovo .Tacono nella relazione ad lùnina del 1931, attribuiva lindifferenza morale alle oscenità che venivano rappresentate nei pubblici cinematografi 25 . Un segnale inequivocabile di questa nuova lettura del fenomeno si ebbe con la lettera pastorale del 1935, seguita alla riunione dell'episcopato tenutasi a Catania nell'aprile del 1934, e redatta da Giovan Battista Pernzzo vescovo di Agrigento ( 1932-1963). I vescovi espressero una forte apprensione per la generale situazione della società: nei sessanta anni seguiti all'Unità la penisola si era avviata verso la scristianizzazione e il costituirsi di un nuovo paganesimo. La società siciliana si era ridotta in «tristissime ed obbrobriose condizioni». Per l'episcopato siciliano si viveva ormai in una «triste realtà», palesemente indicata dalla «moda invereconda», dalla «pron1iscuità», dalla «n1ania dei divertimenti», dai balJi, da una maggiore libertà di relazioni e dalla «immorale fuga delle figliuole colla connivenza dei genitori» 26 • due guerre. I: Ideale sacerdotale e prassi pastora/e, Sciascia, Caltanissetta-Ro1na 1991, 491, n. 20. 24 Lettera del parroco di Yillalba, 17 luglio 1934, al vescovo Jacono: ihid., 488. 25 lbid., 489. 26 Al clero e al popolo di Sicilia. Lettera dell'episcopato siculo dopo le cot~ferenze tenutesi in Catania nella villa S. Saverio dal 16 al 21aprile1934, Tip. Pontificia, Palcnno l 935, 34-36. Nella successiva riunione della conferenza episcopale i vescovi non pare che abbiano ripreso I'argornento dei fuggitivi poiché non se ne trova traccia nella lettera pastorale che seguì alla riunione: Pro aris et focis. Per la d(fesa de!l'altare e del focolare studiare e vivere ii catechis1no, Lettera
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La denunzia dei vescovi, per quanto lapidaria, insieme alla mutata lettura delle cause del fenomeno, evidenziava un altro elemento nuovo: il matrimonio dei fuggitivi non era finalizzato alla riparazione di una relazione ostacolata dalle famiglie, bensì concludeva una decisione consensuale in cui un ruolo di complicità era svolto proprio dai genitori. La fuga, dunque, si era sempre più radicata nel costume del popolo: gli stessi genitori erano palesemente compartecipi della decisione dei figli e, presumibilmente, in non pochi casi la promuovevano loro stessi soprattutto quando le condizioni finanziarie non permettevano di sostenere l'onere delle spese per festeggiare le nozze. Ma anche tra il clero si registrava una qualche indulgenza verso i fuggitivi, con conseguente difformità nella prassi pastorale. Il I 0 giugno l 939 il vescovo di Acireale, Salvatore Russo (1932-1964), ritenne indispensabile emettere un decreto per ribadire a tutti i parroci l'obbligo di celebrare in sacrestia il matrimonio dei fuggitivi e per chiarire cosa importasse l'esclusione di ogni solennità: «nella prassi costante della Chiesa il celebrare il matrimonio senza solennità importa la privazione della Benedizione Nuziale e della Messa nuziale (cfr. Can. 1101 J.C.)». Qualcuno dei parroci, infatti, sembra che ritenesse legittimo, dopo il rito del matrimonio in sacrestia, celebrare in chiesa la messa per gli sposi e impartire loro la solenne benedizione 27 • La celebrazione del matrimonio dei fuggitivi si limitava, dunque, esclusivamente allo scambio rituale del consenso dei dell'episcopato siculo dopo le conferenze episcopali de/l'aprile 1937, Tip. Pontificia, Palermo 1937. 27 Il testo del codice del 1917 recitava: «Parochus curet ut sponsi benedictione1n solle1nne1n accipiant, quae dari cis potcst ctiam postquan1 diu vixerint in matri1nonio, sed solutn in Missa, servata speciali rubrica et excepto tempere feriate». Per chiarificare ulteriormente la nonna, venne trascritta una parte dcl decreto n. 3922 della S. C. Dei Riti, ciel 30 giugno 1896: «Tctnporibus vero prohibitis, nuptiae quiclem celebrari possunt de liccntia Episcopi, et sine solle11111itate ideoquc privatim et omissa Missa et benedictionc». Ulteriore segnale di una prassi tendenzialmente inorbida, adottata da una parte ciel clero nei confronti dei fuggitivi, può ritenersi la partecipazione dci sacerdoti «al convito o al trattenimento che si svolge in casa degli sposi fuggitivi». Alla domanda se ciò era ammissibile o meno, nel decreto episcopale si rispose: «negative et ultra» perché equivaleva ad un controsenso con la prassi adottata dalla Chiesa nei confronti dci fuggitivi: Bollettino diocesano di Acireale 45 (1939) 101-102.
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nubendi, in presenza del parroco e dei testimoni: senza la messa, perché avveniva in sacrestia, e senza benedizione solenne, perché non si celebrava la messa. Il caso dei fuggitivi non era, comunque, l'unico che obbligava i vescovi siciliani ad intervenire per sanare canonicamente situazioni di
irregolarità che si registravano nell'isola circa il sacramento del matrimonio. Erano diventati talmente numerosi anche i casi di matrimoni tra zii e nipoti che la S. Congregazione dei Sacramenti se ne lamentava in una apposita nota del 20 agosto 1940 con il card. Lavitrano, arei vescovo di Palermo (1928-1945) e presidente della conferenza episcopale siciliana 28 • Le dispense dall'impedimento di consanguineità in primo grado di linea collaterale misto col secondo, chieste dalle diocesi siciliane per tali matrimoni, infatti costituivano annualmente quasi la metà di quelle chieste dalle altre diocesi di tutta Italia. Nella stessa nota, inoltre, si denunziava l'aggravarsi del «malvezzo della fuga e della corruzione di giovani anche minorenni, allo scopo di ottenere con più facilità le dispense matrimoniali e specialmente quella dallo impedimento di età per la donna: con le quali contraendosi il matrimonio, il corruttore giunge, in qualche caso, a liberarsi dal carcere». Per il dicastero vaticano il fenomeno della fuga era intimamente connesso con la perdita dei valori morali, per cui si liberalizzavano sempre più i comportamenti sessuali, sottraendosi alle prescrizioni della Chiesa. Le ragazze erano incoraggiate ad un precoce approdo ai rapporti sessuali e al la convivenza, accedendo al matrimonio in un secondo 1no1nento: o per regolarizzare il rapporto, oppure per riparare l'onore. Nel caso in cui la ragazza fuggitiva non era maggiorenne ruomo veniva incriminato per ratto di n1inorenne, arrestato e messo in prigione; e poiché il matrimonio permetteva di ottenere la scarcerazione, sorgevano non poche perplessità sulla validità del sacramento e in particolare sulla libertà della decisione di sposarsi. Ma la nota della Congregazione lascia trasparire pure il ricorso alla fuga
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Bollettino ecc{ esiastico delf 'archidiocesi di Catania 45 ( 1941) 11-12.
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quale mezzo sicuro per ottenere dispense da impedimenti, come nel caso di consanguineità surriferito: l'autorità ecclesiastica ne favoriva facilmente la concessione pur di sanare canonicamente la condizione di pubblici peccatori, così come erano ritenuti i fuggitivi. Tali situazioni, avvertiva Roma, degradavano ulteriormente la moralità pubblica e mettevano seriamente in dubbio sia la liceità quanto la validità del sacramento del matrimonio: «Ognun vede in queste circostanze non solo quale gravissi1no danno si reca alla prole cd alla 1noralità, ma anche, quale ingiuria si infligge allo stesso sacra1nento del matrimonio. Ed infatti in simili casi l'età imrnaLura delle ragazze e le varie circostanze fanno realmente dubitare sia della esistenza o
della libertà del vero consenso, sia della capacità della donna e della consapevolezza dei gravi in1pcgni che gli sposi assumono, n1entre d'altro canto gli stessi Ordinari non hanno 1nodo di garcntirc il buon esito della dispensa» 29 .
Sollecitati dalla S. Congregazione dei Sacramenti a porre un argine al dilagare di questi inconvenienti, i vescovi siciliani, nella riunione del 1° ottobre 1940, decisero di confermare quanto disposto nelle precedenti conferenze e di assumere nuove e più drastiche misure punitive e, questa volta, anche nei confronti dei genitori dei fuggitivi «a fine di renderli più vigilanti nell'impedire le fughe». I «colpevoli della così detta fuga» dovevano essere espulsi dalle associazioni cattoliche e dalle confraternite, né per il futuro avrebbero potuto farne parte. Identica punizione veniva comminata per quei genitori che avrebbero favorito, consigliato oppure, anche soltanto tacitamente, acconsentito alla fuga dei figli. Agli stessi genitori, per di più, si sarebbe dovuta negare l'assoluzione e la benedizione della casa nel tempo pasquale. I vescovi deliberarono pure di non inoltrare domande di dispensa dall'impedimento di zii e nipoti e dall'impedimento di minore età; per di più, chiesero alla S. Sede di attivare i canali istituzionali per invitare le procure presso le corti d'appello dei tribunali siciliani perché adottassero maggior rigore nel
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Ibid., 12.
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concedere le suddette dispense. Ed infine, per tutelare la libertà del consenso dei nubendi, e salvaguardare il sacramento del matrimonio da possibili strumentalizzazioni, concordarono di concedere soltanto in rarissimi casi la dispensa per matrimoni dei carcerati finalizzati alla scarcerazione dello sposo"'· Il ricorso alle suddette sanzioni - per inasprirle ulteriormente si sarebbe dovuto ricorrere ormai alla scomunica - lascia chiaramente emergere nell'episcopato siciliano un atteggiamento di sgomento ma anche una certa stanchezza nei confronti di un fenomeno che non solo non si riusciva ad arginare, bensì assumeva connotati sempre più gravi anche nella tipologia. Per la S. Sede, dalla quale i vescovi si erano sentiti in certo modo redarguiti per il perdurare nell'isola di situazioni che incrinavano gravemente la dignità e la stessa sacramentalità del matrimonio, come pure per l'episcopato il fenomeno della fuga segnalava la difficoltà di non pochi fedeli di attenersi ai precetti della Chiesa in materia di morale sessuale. Fenomeno che al contempo veniva considerato gravemente destabilizzante di quella societas christiana che si era pensato di poter restaurare proprio rn quegli ultimi due decenni, fidando nel!' appoggio del regime fascista 3 '.
3n L.c.; cfr. pure il Bollettino diocesano di Acireale 46 (1940) 105. Nella stessa riunione venne decisa la costituzione del Tribunale ecclesiastico regionale per le cause 1natrimoniali, con sede in Palenno. Se nella diocesi nissena non pare che queste nonne emanate dalla conferenza episcopale, su proposta di mons. Peruzzo, siano state applicate (cfr. C. NARO, op. cit., 491), la loro pubblicazione nei bollettini diocesani, con la «preghiera» ai parroci di ìnfonnare i fedeli, esortandoli ad accoglierle «con cristiana sotton1issione», e di curarne la esatta osservanza, ne i1nplicava l'obbligo della esecuzione da parte del clero. Se in realtà tali nonne poi siano state o meno esatta1nentc osservate è possibile dcsu1ner!o soltanto da una non agevole indagine specifica che va oltre la deli1nitazionc posta a questo contributo. Va notato, comunque, che le decisioni assunte in questa riunione della conferenza episcopale vennero ribadite dalla curia di Catania nel 194-7: Bo!letti110 ecclesiastico dell'archidiocesi di Catania 51 (1947) 38. 31 Sull'argomento, cfr. F.M. STABJLE, La Chiesa nef!a società siciliana della prùna 111età del novecento, Sciascia, Caltanissetta-Rotna 1992, 203-221; G. ZITO, Vescovi, politica e fascis1110 in Sicilia, in Cristianesi1110 e de111ocrazia nel pensiero dei cattolici siciliani del Novecento. Atti dcl convegno di studi nel 90° della lettera pastorale dei vescovi siciliani Lei de111ocrazia cristiana del 1903, Palermo 1994, a cura di C. Naro, Centro Siciliano Sturzo, Palermo 1994, 215-275. Per l'attenzione
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In quello stesso anno, il 29 dicembre 1940, una voce nuova e solitaria si levò tra i vescovi siciliani per far comprendere la gravità e «il disordine di andare allo stato matrimoniale per la via della fuga». Dal linguaggio precettivo e sanzionatorio, irrigidito nella condanna, si staccavano i toni pacati e pedagogici, di grande afflato pastorale, della riflessione di Mario Sturzo, vescovo di Piazza Armerina ( 1903-194 I). L'argomento venne da lui affrontato nel contesto di una lunga e articolata lettera pastorale: La vocazione, realtà costitutiva della vita cristiana, tanto in ordine al sacerdozio quanto al matrin1onio 32 . Dedicando un paragrafo alla fuga, Sturzo eleggeva a modello di fidanzamento e di matrimonio l'episodio biblico di Tobia e Sara. Ripercorrendo la vicenda dei due, presentava alle ragazze l'esemplarità di Sara, donna timorata di Dio che acconsentì al matrimonio per obbedienza al Suo progetto e «non per effetto di passione»: reale causa delle fughe. Esse erano da considerarsi occasione di peccato grave e, di conseguenza, causa di morte spirituale ben più grave della morte corporale perché punita con <da pena dell'eterna infelicità». In particolare, rivolgendosi direttamente ai giovani orientati alla fuga, nutriva fiducia che anche essi avrebbero accolto il suo monito e li invitava a ponderare la decisione del matrimonio lasciandosi docilmente guidare da chi aveva a cuore il loro vero bene: «Ed ora la parola pastorale a voi giovani che, aspirando allo stato coniugale, non vi andate per le vie dell'onestà e della preghiera, della n1ortificazionc e dcl consiglio, n1a per i precipizi delle fughe. Io so bene che voi, essendo giovani inesperti e avendo la n1ente ottenebrata dalle passioni, non siete inollo disposti ad ascoltarmi. lo però non rni perdo di coraggio per questo, e confido nel Signore che dà alla parola del Pastore grazie speciali; e confido nell'apostolato dei vostri parroci i quali n1eglio di 1ne sentono le ansie della carità paterna; e confido nella collaborazione dei vostri parenti e dci vostri a1nici. Né per questo cesso di confidare anche in voi. Fcrn1alevi per un
n1ostrata dalla Chiesa e dal fascis1no nei confronti della fainiglia, cfr. C. DAu NOVELLI, Fa111ig/ia e 111odernizzazio11e in Italia tra !e due guerre, Studiu1n, Roma 1994. 32 M. STURZO, la vocazione, in ID., Alla scuola di Gesù. lettere pastorali dal dice1nbre 1939 all'agosto 1941, Tip. Ed. Piernontese, Torino 1941, 241-246. Sulle lettere pastorali di Sturzo si veda: P. BUSCEMI, Conoscenza di Dio e vita in Dio nelle lettere pastorali di Mario Sturzo, in Synaxis 8 (1990) 191-261.
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n1omento e ascoltatemi ahncno per curiosità, e ascoltate i parroci e quelle altre persone che sentono come mc e come i vostri parroci le torture della carità fraterna. Si tratta non solo di castighi temporali che, appunto perché temporali, avranno tern1inc, 1na si tratta di cternità» 33 .
Una seria riflessione sulla condizione eterna a cui si sarebbe andati incontro a causa del peccato della fuga avrebbe dovuto, secondo Sturzo, inibire la «spensieratezza» e il persistere nei «disordinati disegni» di quanti progettavano di accedere al matrimonio fuori del cammino prescritto dalla Chiesa. Solo una ponderata visione della sessualità, infatti, poteva offrire la vera pace interiore: «io vi assicuro che voi non avrete più pace sino a che non diate ascolto alla voce amorosa della grazia che vi invita a penitenza»". Per l'atipico vescovo di Piazza Armerina urgeva adottare metodi pastorali nuovi: piuttosto che infliggere punizioni, convincere i giovani a prepararsi idoneamente al matrimonio per mettere ordine nella loro vita: «perché in ordine al matrimonio ogni disordine nella preparazione è micidiale e va evitato, e perché il peccato è sempre micidiale all'anima e va sempre evitato ad ogni costo senza che si possa parlar d'eccezioni»J 5 .
La bufera della guerra, il passaggio degli Alleati e gli anni immediatamente seguenti non favorirono un miglioramento della situazione, né la serenità per studiare e adottare una diversa prassi pastorale, auspicata da Mario Sturzo quale via privilegiata per evitare il ricorso alla fuga. Al contrario, il fenomeno della fuga e delle situazioni matrimoniali irregolari divenne sempre più frequente: l'inquietudine per il futuro, la difficoltà a progettare una regolare celebrazione del matrimonio, le condizioni economiche generali, i legami affettivi instaurati dalle ragazze con militari inglesi ed
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M. STURZO, La vocazJone, ciL, 245.
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!bid., 246. Ibid., 247.
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americani di passaggio, sono alcuni degli elementi che favorirono il ricorso alla soluzione immediata della convivenza36 . La condizione generale dell'isola, l'urgenza di far fronte ad una miriade di necessità materiali e il comprendere come dovere prioritario il metter mano ad una immediata e soda ricostruzione morale della società, consolidò nei vescovi la convinzione della bontà di una prassi pastorale imperniata sulle censure, per arginare la perdita di riferimenti cristiani alla vita quotidiana. Nel «Vigoroso appello dell'Episcopato Siculo al Popolo Siciliano», del 1° dicembre 1944, in seguito alla riunione della conferenza episcopale tenuta a Palermo, si prendeva in esame la situazione creatasi con la guerra e venivano additate le soluzioni. I vescovi, con toni molto allarmati, denunciavano il peggioramento della situazione religiosa, morale e sociale, ed esprimevano una severa condanna nei confronti di «alcuni gravi peccati fattisi ormai comuni e generali»: la moda invereconda, il mercato nero, le rapine, i delitti, e «la fuga delle ragazze a scopo di matrimonio, fuga così contraria alla dignità della donna, all'onestà dei costumi ed alla santità della famiglia»n Ai parroci, in particolare, fu chiesto di punire «esemplarmente gli sposi fuggitivi»: ma il testo non specificava in cosa comistesse l'esemplarità della punizione. Dagli atti della conferenza episcopale, tuttavia, sappiamo che ai fuggitivi non poteva concedersi l'agevolazione prevista dall'art. 13 della legge 27 luglio J 929 n. 847: l'esenzione, cioè, della richiesta e delle pubblicazioni allo stato civile per il 1natri1nonio religioso che, con1unque, in seguito veniva ugualmente trasmesso agli uffici comunali e normalmente ratificato. I vescovi, in pratica, non volevano premiare i fuggitivi con lammissione ad nna rapida celebrazione delle nozze, snellendo anche per loro l'iter burocratico. In un periodo in cui non era agevole produrre la documentazione attestante lo stato libero dei nubendi,
16 Per alcune osservazioni di ordine generale sulla situazione morale della Sicilia in questi anni, cfr. F.M. STABILE, La Chiesa nella società siciliana, cit., 229-
236. 37
Il testo dell'appello in Bo!letrino ecclesiastico dell'archidiocesi di Catania
48 (1944) 33-37: 33.
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principalmente dello sposo, - sia per la difficoltà nelle comunicazioni con uffici di comuni diversi, sia per la distruzione di documenti a seguito dei bombardamenti, sia anche per la impossibilità ad attestare con assoluta certezza lo stato libero dei militari alleati - si pensava di arginare la fuga pretendendo almeno la completezza della documentazione e punendo con il differimento del matrimonio rispetto all'intento dei nubendi. Ancora più drastica la prescrizione relativa ai casi di matrimoni di fuggitivi in cm la sposa era minorenne e lo sposo, consequenzialmente, era stato carcerato con l'accusa di ratto di minore: i vescovi proibirono di celebrare tali matrimoni finalizzati alla scarcerazione del "seduttore" perché compromettevano la libertà del consenso, svilivano la santità del matrimonio e affievolivano la moralità pubblica. Dovevano essere talmente frequenti simili situazioni che i vescovi, a costo di salvare la validità del sacramento, non disdegnavano di accettare che in tali casi si arrivasse pure al matrin1onio civileJ 8. L'episcopato siciliano, tuttavia, ritenne che 1 grandi cambiamenti sociali del dopo guerra e i mali morali che con più virulenza attentavano alla santità della fede e alla purezza dei costumi, non potevano più arginarsi appellandosi ai canoni disciplinari e alle direttive pastorali del concilio plenario del 1920. Dopo una lunga preparazione, dal 1947 al 1952, con grande solennità si celebrò a Palermo il secondo concilio plenario siculo, dal 14 al 22 giugno 1952, presieduto dal card. Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo (19451967), in qualità di legato pontificio". Le decisioni conciliari assunte per il sacramento del matrimonio si appellavano al magistero di Pio XI esposto nella enciclica Casti connubii (1930). In particolare, invitavano i parroci ad adoperarsi perché i giovani accedessero alle nozze con il consenso dei genitori, anche nel caso in cui avessero raggiunto la maggiore età; e
:rn Le due norn1e, che la Curia di Catania chiedeva ai parroci di eseguire «religiosamente»: ibid., 52. 39 Per una visione di insie1ne dell'assise conciliare, cfr. F. M. STAl3lLE, La Chiesa nel!a società siciliana, cit., 307 ~318.
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ammonivano i genitori sulla gravità dell'obbligo di vigilare sui figli che si preparavano al matrimonio: «ne pravis amoribus indulgeant» e conoscessero i doveri del matrimonio sacran1ento, da assumere liberamente e rettamente. Ai pastori d'anime il concilio raccomandava di ingegnarsi con tutte le forze per estirpare la pessima consuetudine, molto diffusa, della fuga prematrimoniale: per gli sposi fuggitivi si ribadiva la prescrizione di celebrare il matri1nonio in sacrestia, senza partecipazione di invitati e privo di qualsiasi solennità"'· Il testo esprime un atteggiamento ormai rassegnato dei vescovi su un fenomeno che, seppur faceva inorridire, imponeva loro di confermarlo saldamente radicato nel costume del popolo siciliano, nonostante tutte le deliberazioni assunte per estirparlo. Dalla documentazione esaminata non emerge, tuttavia, da parte dcli' episcopato, una approfondita analisi delle cause che inducevano alla fuga, se si esclude il persistere della denunzia della sensualità e della perdita di valore del matrimonio come sacramento. L'esigenza di consolidare la dottrina della Chiesa sul matrimonio, e di chiarirne alcuni aspetti per la prassi pastorale, è riscontrabile anche nei "vota" inviati da alcuni vescovi siciliani per il Vaticano II: ma nessuno di loro accenna ai matrimoni dei fuggitivi e tanto meno al fenomeno della fuga 41 • Né la riconquista della piena giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio grazie al concordato del 1929, né le sanzioni adottate dai vescovi nei confronti dei fuggitivi, in funzione dell'ideale societas christiana, sono riuscite a far estinguere in Sicilia il fenomeno della fuga. Essa persiste tuttora, anche se in misura molto modesta rispetto ai decenni passati: indice della difficoltà ad accettare la giurisdizione ecclesiastica in una sfera ritenuta di esclusiva pertinenza privata. Ma è
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° Conci!iu111
plenarùon sic11/u111 Il. Acto et decreta o Sacra Congregationc
Co11cifii recognita, Tip. Poliglotta Vaticana, Ronu1e 1954, dccr. 272-274, 279. 41 Si vedano i "vola" dei vescovi: Salvatore Russo di Acireale, Pietro Capizzi
di Caltagirone, Antonio Catarclla di Piazza Armcrina e Francesco Pennisi di Ragusa, in Aera et docun1enta Concilio Oecunzenico Vaticano li apparando. Series I (antepraeparatoria), vo!u111en li: consilia et vota episcopon1111 ac prae/aton11n, pars III: Europa, Italia, Typis Polyglottis Vaticanis, Città dcl Vaticano 1960, 18, 135136, 537, 559.
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Gaetano Zito
tutto il costume sessuale e la cultura del matrimonio che sono radicalmente cambiati, per cui la fuga non costituisce più motivo di apprensione pastorale e gli stessi matrimoni dei fuggitivi, dopo il recupero della dimensione liturgica e sacramentale del sacramento grazie al Vaticano II, vengono celebrati senza alcuna differenziazione dagli altri. Dopo il Vaticano II, dunque, sebbene da parte dei vescovi non siano state esplicitamente abrogate, le norme da loro emanate contro i fuggitivi sono di fatto decadute nella prassi pastorale: già Mario Sturzo aveva ben compreso l'impotenza di un atteggiamento punitivo e, nonostante la sua visione sembra permanesse fondamentaln1ente moralistica, optava per il percorso più arduo della formazione dei giovani al matrimonio. L'aggravarsi della denunzia e delle sanzioni emesse a partire dalle conferenze episcopali degli anni '30 richiede, piuttosto, dì indagare il ruolo svolto, in seno alle riunioni, dai vescovi provenienti da altre regioni e quanto hanno inciso in particolare Colli e Peruzzo, ambedue piemontesi, che hanno redatto le lettere pastorali collettive. A conclusione di questo excursus una domanda sì impone: ma ì parroci eseguirono fedelmente le disposizioni dei vescovi? Non è facile, senza un'ampia indagine archivistica, dare una risposta
esauriente. Tuttavia, a giudicare dal segnale offertoci dal decreto emanato il I 0 giugno I 939 dal vescovo di Acireale, Russo, e per la memoria di sacerdoti anziani, la prassi pastorale adottata nelle parrocchie era improntata a molto buon senso più che ad un atteggiamento persecutorio nei confronti dei fuggitivi. In genere, il parroco conosceva bene la condizione delle famiglie dei fuggitivi, le n1otivazioni della decisione, i sentimenti, in non rari casi, profonda1nentc cristiani, e interveniva 1nagari aiutando i giovani anche finanziariamente. Gli stessi vescovi, d'altra parte, credo che conoscessero le scappatoie adottate dai loro parroci e, pur dovendo richiedere obbedienza alle decisioni collegialmente assnnte, presumibilmente apprezzavano lo zelo pastorale di coloro che, per la salus animarum, si mostravano attenti a non allontanare dalla Chiesa proprio quei fedeli ritenuti più bisognosi di cure morali e materiali.
Sezione miscellanea
Synaxis XIII/I (1995) 99-115
TEOLOGIA E PREGHIERA GHISLAIN LAFONT o.s.b.'
Introduzione Teologia e preghiera. Di queste due parole, la pnma evoca spontanea1nente un discorso costruito, sistematico, organico, coerente;
è una organizzazione del dato rivelato: Sapientis est ordinare; counota anche l'idea di corso, di insegnamento (magistero); implica lo scritto, attraverso cui ci provengono i monumenti della tradizione e i saggi moderni. Nell'insieme, una dottrina; gli organi produttivi sono il cervello e la mano; la dimensione implicata è piuttosto lo spazio. La seconda parola, "preghiera", evoca l'invocazione, la lode e l'intercessione, un certo silenzio che è anche ascolto, una co1nunione,
una relazione interpersonale ineguale, dunque adorante; implica una attualità, una presenza: la preghiera non si capitalizza, non si ripone come in un granaio in una memoria scritta. Gli organi produttivi sono piuttosto in generale la sensibilità, il tatto, poi l'orecchio e la bocca; la dimensione implicata è piuttosto il tempo. Nasce allora la domanda: c'è una connessione possibile tra questi due mondi dell'espressione, e quale? Si può anche formularla così: la messa in rapporto di queste due parole non condurrebbe a modificare non poco il contenuto delle nozioni? Una teologia che fosse essenzialmente legata alla preghiera conserva la sua "logica"?
* Già del Pontificio Ateneo S. Anseln10 di Ron1a.
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Una preghiera articolata ad una teologia non riceve una certa sostanza che l'invocazione pura da se stessa non contiene? Inversamente, ci si potrebbe chiedere perché "Teologia e Preghiera" è un tema di ricerca e di discussione. Se noi definiamo la preghiera come parola indirizzata a Dio o, più profondamente forse, ascolto di Dio, come mai questa non sarebbe necessariamente parte della teologia, che è parola su Dio? E come esprimere qualcosa su Dio se non c'è relazione viva con lui?
Metodo Quale potrebbe essere allora il metodo per stabilire una connessione tra sapere e spiritualità, intelligenza e co1nunionc, teologia e preghiera? Il metodo che vorrei proporre qui consiste nel considerare teologia e preghiera come due flessioni della parola, del logo.1'. Il loro comune denominatore è giustamente la parola: Parola su Dio, Parola a Dio, fondata, l'una e l'altra, sulla Parola di Dio. Una parola che si ascolta, una parola che invoca, una parola che esprime. Un tale metodo dovrà condurci a esaminare innanzitutto i registri della Parola e definire attraverso ciò una scala theologiae, un percorso ascendente verso la perfezione della Parola. Esso ci porterà in seguito ad esaminare gli spazi della Parola: dove e come questa risuona? Come essa è ricevuta e riflettuta, ardo theologiae? Bisognerebbe infine chinarsi sui tempi della Parola e tentare una interpretazione dei meandri della teologia, per comprendere anche come teologia e preghiera hanno potuto essere poco a poco separate e come esse possono oggi celebrare il loro ritrovamento: tempus theologiae. Non possiamo percorrere qui in dettaglio tutte le tappe, in particolare la terza, che suppone un apprezzamento interpretativo dell'insieme della storia della teologia, ma cercheremo di porre qualche punto di riferimento del percorso da intraprendere per le due prime tappe.
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I. SCALA THEOLOGIAE
I. Il silenzio
Se vi è teologia, qual che sia il concetto che noi ne facciamo, vi è - almeno noi crediamo - Parola di Dio, Rivelazione. La teologia è interamente sospesa all'iniziativa di un Dio che si rivolge all'uomo. Ne segue che la prima dimensione della teologia, dimensione "previa" potremmo dire, ad ogni sviluppo del linguaggio, è il silenzio. Questo presenta una duplice dimensione: da una parte, precede e attende la Parola (il silenzio, è ciò che c'è quando non c'è parola); si identifica allora all'ascolto, quando, nel silenzio, l'orecchio è in attesa del rumore, di una voce, di una parola. Semplicemente, questo ascolto è intensificato dal fatto che è ascolto di un Dio che potrebbe parlare: l'uomo Horer des Wortes, come lo definisce Karl Rahner. Il secondo silenzio è quello del discernimento di una parola divina effettivamente rivolta: se Dio parla, come riconoscere la sua Parola nello spazio, necessariamente creato, in cui essa si fa intendere? L' instinctus interior jidei è capace di discernere, in una costellazione di parole e di fatti (cfr. Dei Verbum 2: «verba et opera»), Dio che si rivolge; questo è il silenzio dello Spirito. O, per dire le cose altrimenti: 1. la Parola di Dio richiede (suscita) un'attesa: il silenzio come un vuoto che si apre ad essere colmato (estensione alla Parola di Dio di ogni ascolto umano). 2. La Parola di Dio, in quanto si esprime divinamente, si identifica ad un certo silenzio: differenza fra lo scambio umano di parole e lo scambio con Dio che parla. Anche lì dove c'è parola attuale di Dio, c'è ritorno al silenzio, che è verifica (è proprio Dio che parla) e profondità (la parola di Dio al di là di ogni parola umana). In questo senso, la teologia non può che svilupparsi in un clima di silenzio e di ascolto, da restituire continuamente, quale che sia loggetto teologico intorno al quale si gira. Questo sarebbe un primo e permanente livello della preghiera, come fondamento di ogni teologia.
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2. La Parola rivolta
La Rivelazione è, in questa prospettiva, la rottura del silenzio iniziale (in vista di pervenire ulteriormente al silenzio pieno). Bisogna che questa rottura abbia luogo. Se no il silenzio resterà un'attesa mai colmata e lascerà l'uomo nella inquietudine; oppure, poco a poco, genererà una rinuncia all'attesa, e si troverà la pace in una identificazione di sé a sé, risultato di una ascesi tutta umana. Il fatto della Rivelazione scopre al contrario il luogo antropologico e teologico dell'ascolto: l'orecchio attento alla rottura del silenzio, e della risposta, come accoglienza e obbedienza. Ci sono quindi diversi livelli in questa rottura del silenzio. Ne distinguerò tre: * quello della proposta di una alleanza, nella quale la Parola divina manifesta Dio nella sua apertura all'uomo; ciò che corrisponde, io penso, a ciò che dopo Karl Rahner, si chiama volentieri "autocomunicazione divina"; * quello della nomina iniziale legata alla creazione del mondo e, in un mondo, dell'uomo. Qui, la Parola rivela l'uomo all'uomo, nell'atto stesso in cui lo costituisce uomo; * quello di un compimento della parola, dopo la memoria dei fatti, dopo la disseminazione e la riconciliazione della diversità delle persone e delle comunità: invocazione eterna nel Cristo. Il primo ascolto, quello della proposta di Alleanza, risponde innanzitutto ad una invocazione da parte di Dio: il nome dell'uomo è chiamato, invocato, rivolto: «Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: 'Abramo, Abramo'. Rispose: 'Eccomi'» (Gen 22,l ). Il nome è qui come un indicativo sonoro che permette ali 'uomo di essere chiamato, una melodia nella quale si riconosce e che lo determina ali' ascolto. Il nome esiste quando è pronunciato e l'uomo esiste nel suo nome allorché ascolta e risponde. Una tale invocazione d'altra parte implica la totalità dell'uomo e segnatamente il suo corpo. L'uomo, nel suo corpo, è invitato ad un comportamento che non è più definito da uno spiegamento armonioso delle sue disponibilità spontanee, ma dalla parola che propone, nello spazio nuovo che crea, l'invocazione. Se Dio si rivolge, egli crea in effetti uno spazio di alleanza in cui si significa simbolicamente la sua
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proposizione divina e in cui può aver luogo la risposta umana: così nel testo di Genesi 22 di cui ho citato l'invocazione iniziale, lo spazio è costituito dal Monte Moria come luogo della prova e del sacrificio. Già, nel Giardino dell'Eden, Dio aveva costituito uno spazio simbolico definito dai due alberi, l'uno proibito, l'altro differito, spazio la cui esistenza qualifica tutti gli altri. In altri termini ancora: la parola di Dio comporta un progetto: essa è legge; inevitabilmente questo progetto presenta una componente negativa: «Tu non mangerai [ ... ] Tu mi offrirai tuo figlio in olocausto [... ]»: anche solo sul piano umano, ascoltare implica lo spostarsi quel poco per incontrare l'altro che parla, che è differente e che non dice ciò che si potrebbe immaginare da se stessi. Quando si tratta di Dio, si può pensare che il "sacrificio" attinge a delle dimensioni inaudite, di cui la prova di Abramo è il segno: Parola e comunione non vanno senza prova 1• La Parola dà allora luogo ad una risposta, inseparabilmente dalla voce, che risponde alla chiamata del nome («Eccomi»), e del corpo («Abramo stese la mano e prese il coltello»), che risponde all'ingiunzione del progetto. La Parola rivolta ha in effetti bisogno di una tale risposta: per essere vera1nente Parola, bisogna che essa sia riconosciuta, accettata come tale, obbedita (o scartata, o trasgredita, che è un modo pervertito di riconoscere la Parola). Solo la risposta dà alla Parola di essere Parola; altrimenti, essa grida nel deserto e tutto ricade in un silenzio di morte, a meno che l'uo1no, attraverso il suo rifiuto, non si smarrisce in un inondo imn1aginario, quello di una auto-affermazione priva di ogni alleanza. Ma la recezione della Parola implica la formazione di una immagine di Dio. In un primo tempo, questa non è espressa: è come inclusa nell'invocazione o nel rifiuto; qualifica la parola rivolta a Dio. Ma, in un secondo tempo, si esprimerà, non più sul 1nodo invocativo
1 In altri tennini, c'è in ogni alleanza e, più particolarmente in ciò che concerne l'Alleanza divina, un aspetto drmnmatico, al di fuori di ogni fatalità e pri1na di ogni peccato: per essere se stessa, la Parola deve decentrare: in Colui che la rivolge e accetLa di uscire da sé, e in colui che l'accoglie e accetta così di modificare la sua esistenza secondo la sua parola. Il peccato e la sua storia non fanno che con1plicare e rendere e1ninente1nente doloroso il dra1nn1a primordiale e se1npre presente senza il quale non c'è scambio di parola.
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("tu") ma sul modo indicativo ("egli"), in un nome: si ha qui il punto di partenza dei "nomi di Dio''. Questa immagine è qualificata nello stesso tempo dalle circostanze della Parola e dal suo contenuto: Dio= «Colui che mi ha parlato all'Eden, e al Monte Moria [ ... ], e mi ha chiesto questo»; ma è qualificata anche dalla risposta: se io rifiuto di obbedire, l'immagine di Dio diviene automaticamente quella di un oppressore dalla cui tirannia io voglio liberarmi: «Dio, colui che mi minaccia di morte, Dio colui che mi domanda il sangue di mio figlio». Nello stesso modo, la propria immagine di sé è qualificata dalla risposta: l'uomo si nomina egli stesso figlio o avversario di Dio. Vediamo qui che l'oggettività della nominazione divina è come legata alla soggettività della risposta. Non si può dire in verità i nomi di Dio se non si obbedisce a ciò che questi nomi significano per noi. Ora, poiché noi viviamo in un mondo in cui c'è stata disobbedienza, vediamo che le immagini che noi ci facciamo di Dio e i nomi che gli dia1no devono continua1nente essere purificati attraverso la conversione all'obbedienza, - il che vale anche per la nostra percezione dell'uomo, che va dalla dissomiglianza alla somiglianza così come si esprimevano i Padri del XII secolo. Nella misura in cui questa Parola di alleanza è incessantemente ripresa e ripresentata da Dio, tutto l'insieme di parola e di risposta ch'essa ha provocato e provoca, al livello del nome e del corpo, dà luogo al racconto. Questo definisce la valutazione dell'evento della parola e la qualifica della memoria: «Dio ha parlato (dove? quando? come?) ed ecco come io ho (noi abbiamo) risposto», in vista del perseguimento di una condotta. Da questa modalità del racconto che prende la Parola di Dio risulta una caratteristica fondamentale della teologia: questa si sviluppa all'interno di una testimonianza. Il cristiano crede che Dio ha parlato agli uomini attraverso le peripezie della storia della salvezza, che culmina nell'evento pasquale della morte e della risurrezione del Figlio di Dio: da questa Parola/Evento, riceve la testimonianza interiore dello Spirito e la testimonianza verbale della Chiesa e, a sua volta, trasmette questa testimonianza, in vista di preparare il compimento escatologico dell~ Parola. Si potrebbe dire pure che la teologia presenta una caratteristica essenzialniente pro,,fetica, nella 1nisura in cui essa testimonia una storia
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che non è chiusa e di cui può anticipare la fine, come pure il racconto di questa storia non è possibile se il cristiano non è coinvolto in ciò che racconta, entrando senza reticenze nel sacrificio della comunione senza il quale non c'è evento di Parola. Giunti a questo punto, possiamo fare una prima pausa. Si potrebbe dire che la teologia è prima di tutto invocativa/auditiva: essa non esiste al di fuori dell'evento ascolto/parola. Inoltre, nella misura in cui essa viene vissuta, oggi, in un contesto misto di obbedienza e di rifiuto, la teologia è, e deve sapersi, perdonatalc011fessante. Infine, essa è teologia narrativa, non nel senso che la teologia consisterebbe nel raccontare piuttosto che nel pensare, ma perché il processo di Alleanza dentro il quale si inscrive tutta la teologia, si sviluppa in una continuità che bisogna conoscere e interpretare al fine di continuare. Mi sembra che tutti questi ambiti non possono esistere se non nella preghiera, vale a dire la coscienza vissuta e vivente di una relazione di cui Dio ha l'iniziativa e l'uomo la risposta.
3. La Parola costituente Ho menzionato sopra un'altra dimensione della Parola, alla quale è senza dubbio difficile accedere quando la prima dimensione è mancata. Questa seconda dimensione è più interiore; anche se non è la prima intesa, essa è la prima proferita: costituisce quella stessa eh' essa nomina: Parola creatrice che si origina dalla Sapienza di Dio (qui distinta dalla Profezia, di cui abbiamo parlato): «lo ti ho chiamato per nome, ti ho formato nel seno di tua madre»: la primissima invocazione di Dio all'uomo è di una tale intensità che essa crea ciò che invoca, non soltanto l'uomo, ma il mondo nel quale questo è messo: «In principio Dio creò il cielo e la terra». Per meglio capire l'originalità di tale parola creatrice, si può notare eh' essa non dà formalmente luogo a una risposta. Questa Parola di Dio costituisce; in questo senso, di conseguenza, non chiede nulla, s'impone e impone. La reazione è allora piuttosto di meraviglia, di stupore, di ammirazione. Tutto ciò che emerge dal!' ordine della parola creatrice, prima di dare luogo all'investigazione, provoca ad
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un'altra forma di preghiera: come si dice volentieri oggi, la teologia è dossologia. Ciò nonostante non la rende muta, poiché dall'ammirazione e dalla dossologia possono nascere il desiderio religioso del sapere, l'investigazione della saggezza e, poco a poco, una messa iu parole dell'opera di Dio riconosciuta e rispettosamente scrutata. E trattandosi dell'ascolto relativo di una tale parola, essa corrisponde a ciò che si potrebbe chiamare l'ascolto di se stessi, del proprio nome, del proprio corpo, che è ascolto di Dio creatore. Tuttavia in un mondo in frantumi, questo ascolto suppone un riapprendimento: né l'orgoglio dell'autonominazione né la disperazione del corpo mortale, ma l'accoglienza del creato; in sé e, per estensione spontanea, del mondo intero e degli altri uomini. L'accoglienza è qui riconoscimento e invocazione di Dio con1e Origine viva, che corrisponde a un'altra e forse più primitiva flessione del nome Padre; questa accoglienza è disponibilità, "mollare la presa" del corpo aperto ad ogni gesto positivo e costruttore. Si può rilevare, a questo proposito, che questo primo ascolto di Dio è legato alla relazione dell'uomo con i suoi genitori. Strutturalmente, è Io stesso procedimento d'accettazione di sé a partire dalla parola/generazione di un altro. Di modo che, la guarigione della perturbata relazione con i genitori può essere apertura della relazione giusta con Dio, mentre, reciprocamente, l'invocazione del Creatore può disporre alla guarigione e alla riconciliazione umane.
IL LO SPAZIO DELLA TEOLOGIA
Troppo frammentarie, le precedenti indicazioni sulla Parola di Alleanza ("parola rivolta") e la Creazione ("parola costituente") sono sufficienti però ad introdurci alla questione dello spazio della teologia: dove dunque, concretamente, risuona questa parola? Oggi dove è questo spazio in cui la Parola rompe il silenzio, propone l'Alleanza, riceve la sua risposta e inscrive come in filigrana la realtà della creazione? Io propongo che questo sia la liturgia (ancora un luogo di preghiera!), e che, se si volesse utilizzare una formula classica, il primo e indeformabile "luogo teologico" sarebbe la
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liturgia, più specialmente nella sua celebrazione fondatrice, l'Eucaristia della Chiesa.
1. Primato del liturgico Si potrebbe dire in effetti; la teologia nasce là dove i cristiani si riuniscono per intendere un racconto fondatore, illustrato da altre letture prese dal Libro ispirato delle Scritture, - e incarnato in una simbolica corporea. Questo racconto fatto «nel nome di ... (Dio, Gesù Cristo, la Chiesa, la Tradizione)» parla del male e del suo perdono e lascia contemplare una Alleanza nuova (questione della guarigione e del senso), mentre, in discreto contrappunto, questo racconto parla della creazione (questione dell'origine). Ad un tale racconto si risponde immediatamente con la voce e il corpo, mediante una mozione dello Spirito: instinctus interior .fidei: fede accordata al racconto. Azione di grazie per il perdono e per lAlleanza. In altri termini, c'è un primato del liturgico cioè dello spazio del silenzio, della parola, dei gesti e delle cose attraverso cui noi confessiamo e celebriamo la salvezza che ci è data attualmente da Dio nel Cristo. La teologia è prima di tutto l'interpretazione dei linguaggi e dei gesti di cui ci si serve per celebrare la salvezza nei sacramenti. A partire da questo si articolano le dimensioni seguenti della teologia: * in primo luogo, la lettura biblica, parte integrante della liturgia e che entra così nel campo teologico; * in secondo luogo, il campo etico che si origina nella liturgia, ne trae la sua legge fondamentale («perdere la propria vita e così trovarla») e reciprocamente ne permette il compimento concreto nella vita della comunità cristiana. Questo esplica senza dubbio i due campi fondamentali della teologia dei Padri, che sono molto spesso dei vescovi, ma anche dei monaci: * il commentario spirituale (cioè eristico e dunque liturgico) della Scrittura così come la catechesi mistagogica, da una parte, sfociante sulla conoscenza di Dio (gnostike)
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l'esortazione etica dall'altra (parktiké), basata meno sui comandamenti che sull'analisi delle passioni e quella, opposta, dei movimenti dello Spirito, il tutto in vista di una risposta alla Parola di Dio rivolta nel Cristo'.
2. L'arrivo del concettuale
Questo linguaggio liturgico come diviene allora sapere concettuale? Credo che il processo interviene nella misura in cui il complesso liturgia/bibbia/etica incontra le culture alle quali appartengono i cristiani e deve dunque esprimersi in un linguaggio che permette di porre la fede cristiana nello stesso tempo in situazione e di purificare le culture. Il cristiano non può dunque sfuggire ad un duplice confronto: da una parte tra il narrativo liturgico integrale che l'uomo riceve come Rivelazione e gli altri tentativi di costruire l'uomo e di risolvere la questione del senso, che egli può incontrare nel suo universo umano; d'altra parte tra la saggezza creazionale e altri approcci che si direbbe filosofici o religiosi del reale. Tali confronti sono impossibili senza una riflessione intellettuale che permette le valutazioni, gli incontri, le correzioni, i rifiuti. E' così, credo, che un materiale di immagini, di nozioni, intervengono per questo lavoro di discernimento e di messa a posto. Il processo, come ho detto, funziona nei due settori precedentemente delimitati: alleanza e creazione.
2 Se ciò che qui è proposto è esatto, allora il priino riferi1ncnto della teologia non è la Sacra Scrittura, tna la celebrazione liturgica. Si potrebbe dire tuttavia: il riferimento primo è la Sacra Scrittura 1na innanzitutto nella celebrazione liturgica. Quando in effetti si parla di Sacra Scrittura, a 1ncno di considerare un fondainentalisn10 letteralista che rende inutile la teologia, si in1plica interpretazione ed enncneutica: i Libri Sacri non ci svelano il senso se non in una congiuntura che fornisce degli elementi e dei criteri di con1prensione, senza n1ai esaurire il testo; essi richiedono un impegno dcl lettore, al di fuori dcl quale ii senso svanisce in quanto perde ogni corrispondenza con l'uomo reale. Nel suo luogo eucaristico co1ne celebrazione, il testo delle Scritture riceve un criterio supremo poiché lì e da nessun'altra parte accede alla sua verità totale, mentre gli è data la risposta adeguata. L'atto liturgico è così il criterio ulti1no della verità delle interpretazioni; senza sopprimerli, riconcilia le diversità e concilia i paradossi.
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3. Narratività cristiana e cultura niitica
In effetti, accanto al racconto e all'impegno liturgico ed etico cristiano, ci sono altri racconti e altri impegni che si possono chiamare "liturgici" o corporali, anche in una civilizzazione secolarizzata come la nostra che, avendo rigettato certi simboli, ne fabbrica altri: l'uomo non può vivere senza qualche tipo di narratività che parla del!' origine e del destino e che tenta di scongiurare il male; tali narratività usano dei simboli essenziali, che sono prestati al linguaggio e alle immagini del cibo, del sesso, della morte, del cosmos ... In altri termini, la nostra narratività liturgica si confronta con ogni sorta di narratività mitiche,
con ciò che queste implicano, in sottofondo, come immagini, poi come concetti dell'uomo, del mondo e di Dio. Il confronto è paradossalmente polemico e benevolo: diciamo, in modo più inglobante, che è in cerca di discernimento. Non tutto è detto esplicitamente nella narratività liturgica cristiana (che può dunque istruirsi di altre narratività) e non tutto è giusto nelle narratività mitiche (che bisogna dunque correggere). La teologia, da questo punto di vista, è una immensa catharsis del linguaggio, che si spoglia della sua chiusura in sé e del suo idealismo, per ritrovare la sua dimensione dialogica e il suo valore espressivo di un reale. Ma questa catharsis nel campo intellettuale non è possibile, così semplicemente, senza la metanoi"a costante che strappa il pensiero e il cuore a questa chiusura di cui l'impotenza del linguaggio e l'aberrazione della praxis, tanto liturgica che etica, non sono che un segno tra altri. Noi scorgiamo un tale discernimento in pratica nella teologia dei Padri e nel loro modo di situare, per esempio, la mistagogia cristiana in rapporto alla mistagogia pagana (per non parlare della mistagogia ebraica). La polemica è forte contro i culti pagani, non soltanto a causa degli dei che essi onorano in vista di ottenere dei beni terrestri (il sole o la pioggia) o di garantirsi la felicità nel mondo misterioso dei n1orti; poi) dalla polemica contro i culti) si passa
facilmente a quelle contro le idee del mondo, degli dei e degli uomini, soggiacente a queste mistagogie. Non si può negare, tuttavia, che una tale polemica implica anche un arricchimento certo nel pensiero mistagogico cristiano: così la purificazione e la collocazione dcl tema
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autentico della mediazione, lo sviluppo della cristologia nella prospettiva dell'unica mediazione del Cristo e delle sue condizioni in c10 che concerne tanto l'essere quanto l'agire di Gesù, l'immaginazione di un mondo in cui gli spiriti non sono una minaccia, sia che abbiamo trovato il loro posto positivo, come gli angeli e i santi, sia che il loro potere malefico sia considerato come scongiurato dalla redenzione operata dal Cristo: i demoni. Penso qui, ma si potrebbe prendere altri esempi, al confronto costante tra Agostino e Porfirio nella Città di Dio. Agostino non distrugge il pensiero di Porfirio fino al punto da non lasciare niente che gli permetta di costruire un pensiero cristiano nello stesso quadro culturale ed eventualmente con delle nozioni o immagini comuni ai due mondi, quello del filosofo pagano (ma "filosofo" implica qui "misto" e "mistico") e quello del vescovo cristiano, lui anche filosofo e mistico. Si potrebbe qui rimarcare che quando il coufronto è fatto da grandi spiriti suppone un impegno spirituale forte; la fede, la speranza e la carità sono tanto più necessarie quanto più il quadro culturale è alla fin fine unico o almeno molto simile nei due casi (o nei due campi). La verità del cristianesimo che si esperimenta al di là delle parole nella liturgia e nel silenzio è ciò che dà la sua intraprendenza e la sua forza alla riflessione teologica. Oggi, noi siamo chiamati allo stesso tipo di lavoro. La nostra vita liturgica si sviluppa innanzitutto in virtù del dinamismo dello Spirito che illumina la nostra tradizione e ce ne permette una ripetizione creatrice; d'altra parte, come al tempo dei Padri, ma forse con strumenti diversi, il nostro commentario della liturgia è preso dalla nostra Bibbia. In questo senso, c'è una certa autarchia spirituale e orante della pratica e del pensiero liturgico cristiano. Ma, dal momento che noi stessi vogliamo innanzitutto renderci conto, poiché siamo degli uomini, del senso di questa pratica, e giacché dobbiamo confrontarla con le pratiche del mondo in cui noi viviamo, si lascia disegnare lo stesso atteggiamento paradossalmente polemico e benevolo. La necessità teologica e l'urgenza apostolica ci spingono a pensare la nostra vita simbolica cristiana, tenendo conto per esempio di ciò che l'etnologia, la psicanalisi, Ja filosofia delle religioni ci rivelano del comportamento umano di fronte ad un assoluto di cui
Jl I non c'è "idea" ma che è presente ad ogni vita umana. Per limitarmi qui ad un ambito più specificamente toccato, credo nel mondo francofono, tutta la tematica del dono, indicata da Marce! Mauss, ripresa in diversi modi e con delle parole differenti da Levi-Strauss, Bataille, Baudrillard, può dare luogo a polemica, ma può anche fornire un principio organizzatore della intelligenza teologica, non soltanto della liturgia, ma dell'antropologia, dell'idea cristiana di alleanza e forse dell'idea cristiana di Dio. Negli autori che ho appena nominato, il dono (o le flessioni verbali equivalenti) è lontano dall'essere soltanto un'idea, un concetto intelligente per spiegare il reale. O ancora, è certo una idea, ma un'idea-forza che, nell'uno o nell'altro, ha generato dei comportamenti, personali o politici, che noi possiamo giudicare aberranti, ma ai quali noi non possiamo opporre nulla che non parta anche da un impegno che va al di là della pura speculazione. Qui ancora, il pensiero non può giungere a maturità se non generato dal culto spirituale e dalla vita teologale che anima questo.
4. Sapienza cristiana e pensiero u1nano
In secondo luogo, accanto alla Parola Alleanza, c'è, nella fede e nella pratica cristiana, una Parola della Sapienza sull'origine, la natura, la fine dell'uomo, i suoi comportamenti e, parallelamente sul divino e su Dio. Come sopra, quando era questione dell'alleanza, possiamo dire che tutto non è esplicito nella sapienza biblica e che tutto non è vero nel1e sapienze umane. Vi è fecondazione e correzione reciproche. La riflessione, in ogni caso, si sporge sulla potenza di Dio e, alla fin fine, sul suo Essere trascendente, mentre essa d'altra parte mette in valore la partecipazione delle creature, ciascuna secondo la sua natura e mediante l'intervento della sua libertà: tutto questo emerge da un conoscere, da un sapere, e vi è nell'uomo un desiderio di approfondire questo conoscere. Siamo qui, indubbiamente più di quando si tratta dell'Alleanza, nell'ambito dell'intelligenza che astrae e giudica. Se un tale desiderio di conoscere si sviluppa nella verità (ciò
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che suppone l'umiltà del pensiero nella sua ricerca e nella sua espressione del reale), produce precisamente ciò che san Tommaso ha cercato di stabilire: una "scienza" teologica, nello stesso tempo pienamente articolata secondo l'ordine del reale e in legame contemplativo con la Sapienza/Scienza divina. In san Tommaso, lo si sa, la teologia era considerata come scienza, tuttavia in un modo tutto speciale: «scienza subalterna alla scienza divina»: la presentazione ordinata degli articoli di fede era ritenuta come uno specchio della conoscenza che Dio ha di se stesso, conoscenza beatificante poiché essa si eguaglia al fulgore interiore dell'Intelligenza divina. Per lungo tempo non si dimenticava questa relazione di subalternità, si dimorava in un atteggiamento contemplativo; lo sforzo teologico stesso era con1e un cammino di avvicinamento verso la conoscenza beatifica, e ogni passo compiuto nel campo del sapere teologico era come una sorta di "beatitudine imperfetta". Si può dubitare che san Tommaso avrebbe raggiunto una tale lucidità e una tale sobrietà nella sua espressione teologica se non avesse conservato vivo questo legame tra la teologia come scienza e la Scienza divina, così come Dio la conosce. Dopo di lui, tuttavia, con lo sviluppo dell'apologetica e l'influenza surrettizia, anche in teologia, di un certo nominalismo o di un reale razionalismo, il legame tra speculazione teologica e contemplazione di Dio, l'aspetto di "visione come in uno specchio" della teologia, sono sfumate sono anche scomparse. La mistica e la ragione si sono allontanate l'una dall'altra. Oggi, noi non siamo molto sensibili (ma in parte forse è un male) all'aspetto religioso, spirituale, della sistematizzazione teologica, ed è molto più difficile a noi che a san Tommaso unire lavoro teologico e contemplazione. La difficoltà viene in parte dal fatto che noi siamo meno intelligenti del Dottore angelico: lì dove lui padroneggiava il processo intellettuale e poteva avervi una scala parallisi o una lectio divina, noi possia1no appena oltrepassare lo stadio dello studente medio che non comprende molto bene e non è capace di percepire la scintilla spirituale presente in una speculazione acuta. La difficoltà viene anche da ciò: che noi viviamo in un tempo di sfiducia nei confronti della ragione (ciò che non impedisce d'altra parte la ricerca di una ipertrofia del modo matematico e tecnico del pensiero); non cogliamo
__T_e_ologia e preghiera
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spontaneamente l'aspetto religioso della speculazione intellettuale; così anche, per ridare una dimensione spirituale alla teologia, noi siamo tentati di sviluppare un certo sospetto nei confronti del suo carattere di ricerca intellettuale, del suo aspetto, come si dice volentieri oggi "ontoteologico": nutriamo volentieri una preferenza per le teologie di tipo apofatico (d'altra parte anche esse molto sofisticate) che fanno volentieri ricorso al patrocinio di Dionigi o di Eckart, o per le teologie immediatamente orientate sull'amore, sotto l'egida di san Bonaventura. La densità della preghiera o della spiritualità sarebbe allora in ragione inversa della razionalità della teologia. Questa attitudine di sfiducia, tuttavia, non risolve la questione dell'articolazione tra teologia e preghiera, poiché essa tende a cancellare l'uno dei due termini, la teologia, a vantaggio del secondo, la preghiera. Bisognerebbe rinunciare veramente al carattere intellettuale della teologia? Si può essere tentati, ma bisogna resistere alla tentazione, nella misura in cui la conoscenza, il sapere, risponde ad un desiderio profondo di ogni uomo, anche nella misura in cui una certa dose di sapere è necessaria alla verità, almeno vicina, di un agire. L'alternativa non è tra sapere e non-sapere ma tra questo tipo di sapere e tal'altro. La questione sarebbe per noi: qual è il tipo di sapere teologico che si articolerebbe con il desiderio della comunione con Dio nello Spirito? Per dire le cose più concretamente, ci spetta senza dubbio, in un contesto culturale differente di quello del medioevo, di operare una collocazione di uguale ispirazione a quella di san Tommaso: articolare in sapienza le scienze esatte (astrofisica ... ) e le metafisiche che corrispondono loro, le scienze umane e le meta-antropologie che esse implicano, e la rivelazione di Dio creatore e salvatore.
5. Narratività sensata e scienza teologica
Si pone un problema, al quale ho fatto allusione più in alto: come realizzare una connessione autentica tra "narratività sensata)) del!' Alleanza e questa "scienza" teologica, esito di una mediazione della Sapienza? Come ho anche detto, non c'è soluzione definitiva ed
Ghislain Lqfont
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unica, e la "sintesi" non esiste se non nella vigilanza. Come la "conte1nplazione" è inclusa in ogni vera teologia concepita come
scienza, così pure la vigilanza è richiesta nell'articolazione del linguaggio dell'Alleanza e del linguaggio della Creazione che rendono questa attenzione viva al punto che la si può chiamare preghiera.
Conclusioni
Teologia e preghiera. L'aporia, alla quale noi abbiamo fatto allusione iniziando che trova forse qualche elemento di soluzione in ciò abbiamo appena detto, anche se le nostre proposizioni sono schen1atiche e provvisorie.
l. Innanzitutto occorre cessare di identificare "teologia" e "concetto" da un parte, "preghiera>) e "sentimento" dall'altra.
Questa separazione cade da se stessa per il fatto che si considera la teologia come derivante dalla Parola di Dio, nell'attualità di questa che si rivolge all'uomo. 2. II silenzio, come ambiente permanente dell'ascolto della Parola, è dunque un costituente essenziale della teologia, e spetta al teologo mantenersi in tale atteggiamento interiore, così penetrante come d'altronde è il suo lavoro speculativo: è un primo e permanente livello della preghiera. 3. La Parola di Dio che determina fondamentalmente una Alleanza si fa udire in pienezza nella Liturgia cristiana. Ne segue che la celebrazione liturgica è, al più alto grado, atto teologico: qui, ancora, la preghiera è costitutiva della teologia. 4. La prima distanza che si potrebbe dire "intellettuale" tra l'atto liturgico e la riflessione (intellectus /idei = intellectus liturgiae) è ordinata ad una migliore comprensione della Parola di Alleanza celebrata nella liturgia: il commentario e la meditazione orante (lectio divina) della Bibbia, il commentario della Mistagogia, la definizione delle esigenze etiche contenute nella risposta alla Parola sono indubbiamente i primi livelli della teologia come riflessione. Essi non ricevono significato se non nel loro rapporto vivente con l'atto
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liturgico, e reciprocamente questo può divenire ancor più "scambio di Parola" con Dio se è meglio compreso. Qui ancora, la relazione Teologia/Preghiera è costituente. 5. Il confronto che si impone al momento dell'incontro di una cultura fondata sul!' Alleanza, celebrata nella Parola, scambiata con altre culture, rende necessario uno sviluppo intellettuale più considerevole, e il rischio non è piccolo di isolare la riflessione culturale dalla preghiera come risposta alla Parola. Ma questo rischio non è inevitabile. Nell'ambito della "narratività sensata", il confronto culturale implica la revisione costante degli impegni effettivi della persona al livello dei valori che definiscono la sua storia e il suo percorso; loggettività della teologia implica qui, molto più di quanto non esclude, un impegno teologale che affini l'intelligenza. Nel campo della "scienza teologica" ci compete di reinventare qualcosa dell'atteggiamento contemplativo che fu di san Tommaso all'interno di più acute investigazioni del!' orda sapientiae. In ogni modo, lo si vede dunque, non ci potrebbe essere veramente teologia senza il dinamismo teologale della fede, della speranza e della carità, che nella pratica è preghiera. Inversamente questo dinamismo può permettere al teologo un migliore discernimento di ciò che può veramente servire ad una costruzione del!' intellectus fide i per il nostro tempo, al di là delle curiosità e delle complicazioni spesso molto vane.
Synaxis XIII/l (1995) 117-152
JOHN WESLEY E I FRATELLI MORAVI NEL JOURNAL
GIOVANNI CEREDA'
Preniessa
Le vicende che dapprima unirono e poi divisero J. Wesley ed i Moravi non hanno molto stimolato lo studio e la ricerca. Ciò si è verificato non soltanto in ambito italiano, dove la persona e la dottrina di Wesley sono poco conosciute, ma anche in nazioni dove il protestantesimo è confessione religiosa prevalente. Probabilmente, la brevità temporale del rapporto tra Wesley ed i Moravi (1738-1745) spiega il poco interesse. La trattazione più ampia, è dello storico tedesco Martin Schmidt nel suo fohn Wesley, a theological biography, in tre volumi, mentre, in ambito inglese, il Journal di Wesley rimane la fonte principale di notizie pur se, inevitabilmente, tendenziosa. Secondo E. Troeltsch, storico tedesco, il risveglio metodista fu l'onda lunga del pietismo tedesco che raggiunse l'Inghilterra. Pur rispettando questa opinione e condividendo lo stretto rapporto di parentela tra i due movimenti, non credo alla confluenza dell'uno nell'altro o ad una loro coincidenza. In realtà, in J. Wesley troviamo tanti contributi mai accolti in modo passivo, ma sempre con spirito
* Licenziato in Teologia n1ora!e. Questo studio è un estratto della tesi di Licenza in Teologia morale difesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
1I 8
Giovanni Cereda
critico ed originale. Suggerimenti, progetti, metodi ed esperienze furono filtrati e riordinati secondo un genio creativo particolare. Anglicanesi1no, pietisn10, puritanesimo, calvinismo, arminianesi1no
sono presenti nella sua sintesi di fede, ma non come filoni di pensiero autonomamente posti l'uno accanto all'altro e facilmente distinguibili, ma in una sintesi di fede unica ed equilibrata. Si noterà subito come il limite di questa breve ricerca sia l'unilateralità delle fonti che sono di area prettamente wesleyana. Zinzendorf, Molther e Spangenberg sono valutati secondo la comprensione e l'interpretazione di Wesley nel suo Journal. Una maggiore obiettività richiederebbe l'analisi degli scritti di area morava che, attualmente, non rientra nello scopo di questo articolo che intende evidenziare una prospettiva soltanto che, secondo il mio parere, offre già una valida prima lettura degli eventi che segnarono il rapporto tra Wesley ed i Moravi.
Introduzione
John Wesley, nacque in Inghilterra, ad Epworth, il l7 giugno 1703, da famiglia anglicana e fu educato alla fede fin dalla più tenera età. Svolse gli studi universitari ad Oxford dove fu attratto da testi che esaltavano la spiritualità come disciplina personale con una profonda venatura mistica tanto che, H.A. Snyder, A Serious Cali to a Devout and Holy Life di William Law fu fondamentale per la sua crescita spirituale. Ad Oxford fondò un club per lo studio della Scrittura, il 1/ie Holy Club (Club dei santi) e s'impegnò assiduamente alla cura dei carcerati e dei poveri della città. Partì missionario per lAmerica per evangelizzare i nativi pellerossa, tornando, tuttavia, deluso ed in crisi, nel dubbio di non aver mai creduto in Cristo. L'incontro con i Moravi, in modo particolare con Peter Bohler, segnò una profonda svolta nella sua vita. Partecipando ad uno dei loro incontri a Londra, ad Aldersgate Street, il 24 maggio 1738, ebbe una profonda esperienza di fede personale. Nel suo Journal, periodico da cui traiamo le maggiori notizie sulla sua vita e sulla sua predicazione, riassu1nendo la sua esperienza, scrisse:
119 «Sentii di aver fede solo in Cristo, Cristo soltanto per la mia salvezza; ed ebbi la certezza che Egli aveva lavato i miei peccali, proprio i 1nici, e mi aveva salvato dalla legge del peccato e della morte» 1•
l. .fohn Wesley e i Moravi: dall'ammirazione al conflitto
1.1 Gli inizi Dopo il fallimento americano, l'incontro tra Wesley ed i Moravi, nella persona dì Peter Bohler, fu di fondamentale importanza per il riformatore inglese. Bohler credeva di poter organizzare, ad Oxford, una comunità simile a quella di Herrnhut, sede priucipale della comunità morava in Germania. Il predicatore tedesco rifiutava ogni forma di teologia filosofica o naturale in voga sia negli ambiti filosofici che ecclesiastici inglesi del tempo; perciò, tra i primi avvertimenti a Wesley, incluse anche l'esortazione a rifiutare ogni forma di filosofia. «Ho 1nolto conversato, per tutto il tempo, con Pctcr Bohlcr, - scrive Wesley nel suo Journal - ma non l'ho ben compreso; in rnodo particolare quando mi ha detto, 'Mi frater, mi frater, excoquenda est i sta tua phi!osophia'. (Fratello mio, fratello mio, la tua filosofia deve essere purificata)» 2 •
In effetti, era alquanto normale a quel tempo, come afferma Lelìevre, che «Alcuni (1ninistri), nelle città specialmente, acquistavano una celebrità effimera servendo il pubblìco secondo i suoi gusti, e diluivano in frasi senti111entali i facili temi della religione naturale. Altri, con1e il dottore Sainuel Clarkc, il Vescovo Hoadley, l'erudito Whiston, predicavano ardita1nente il dcisn10 o l'arianesi1no [ .. ] la
1 J. WESLEY, Journal, in Wesley's Works, I, Beacon Hill Press, Kansas City Mo. 1983, 63. 2 lbid.. 85.
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predicaz.ione ortodossa, anche nei suoi n1igliori rappresenlanti, Tillotson, Bull e Waterland, mancava dcll 'essenza dell 'Evange!o».J.
Accogliendo la fede nei termini proposti da Bohler, quale conoscenza di Gesù, 1. Wesley invece poté predicare il vangelo nonostante dentro di sé si sentisse confuso e dubbioso, dopo il fallimento americano. Bohler proponeva, il classico schema di stampo pietista: La conversione quale es1Jerienza nionientanea che trasforn1a la vita e rende nuove creature, per una fede fondata su Cristo e non su se stesso. Questo messaggio riuscì a dargli fiducia in Dio e coraggio nuovo. L'esperienza susseguente, quella di Aldersgate, segnò un'altra tappa fondamentale e lo incoraggiò a realizzare un progetto lungamente celato in cuore: quello di andare a visitare le comunità morave in Germania.
1.2 Il viaggio in Germania Con un piccolo gruppo di amici, Wesley giunse ad Herrnhut, il l 0 agosto 1738. In questo centro vide attuato un cristianesimo notevolmente diverso da quello anglicano e fu talmente colpito dalla spiritualità dei membri di questa comunità da esclamare subito: «lddio ha accordato, alla fine, il desiderio del rnio cuore: Io sono in una chiesa di cui la cittadinanza è nei cicli, la quale possiede lo spirito che era in Cristo e la quale ca1n1nina co1ne egli stesso ha cain1ninato. Tulti i 1nembri non hanno che un medesin10 Signore cd una medesi1na fede; perciò partecipano essi tutti al 1nedesi1no Spirito. Spirito di dolcezza e di amore, che ani1na uniformernentc e continuamente tulta la loro condotta, Oh, che cosa sublime e santa il cristianesin10! E quanto un tale cristianesimo differisce da quello che usurpa di solito il suo nome, ben a torlo senza dubbio, poiché esso non purifica il cuore e non rinnova la vita all'innnagine del nostro redentore» 4 •
3 M. LELIEVRE, Giovanni Wes!ey, Prosperini Editrice, Padova 1877, 42-43. 4
L.c.
____ John Wesley e i.fratelli Moravi nel Journal _ __
121
Il conte Zinzendorf lo affascinò per la sua naturale nobiltà, per l'amore genuino, che, d'altronde, vedeva dovunque, non solo tra i membri della comunità, ma anche nei riguardi degli ospiti.
1.3 Testimonianze di conversione e santificazione
Ad Herrnhut, ascoltò le predicazioni di Christian David sullo stato intermedio del credente giustificato ma non ancora gloriosamente liberato secondo l'interpretazione comune ai Moravi, di Romani c. 7. Accompagnò il conte nelle sue visite pastorali; ascoltò testimonianze di insegnanti quali David Nitschman, Augustine Neusser, che sottolineavano la giustificazione per fede e negavano ogni importanza alle opere, ma la testimonianza che lo incoraggiò maggiormente fu quella di Christian David, tra i primi a venire ad Herrnhut. Cresciuto nella fede cattolica, mediante la predicazione del pastore Schwedler, amico di Zinzendorf, aveva abbracciato la fede luterana. La certezza della salvezza, come veniva definita quella profonda e sicura convinzione di essere salvati, fu un'esperienza susseguente. Grazie alla predicazione di Zinzendorf, ad Herrnhut, aveva compreso che le due esperienze della giustificazione e della certezza della salvezza sono separate tra di loro convincendosi sempre più che non doveva confidare nei propri sentimenti o nelle proprie forze ma doveva ·adagiarsi completamente su Cristo. Accogliendo la giustificazione come un atto perfetto di Dio compiuto in Cristo Gesù sentì il proprio cuore invaso dalla certezza della salvezza. Wesley voleva ascoltare proprio questo perché ciò che intendeva provare era la netta distinzione tra giustificazione e certezza di fede. Adesso aveva una testimonianza vivente della propria convinzione. Christian David, seppur iniziando da Lutero, si era allontanato definitivamente dalla sua posizione sulla giustificazione che, secondo il riformatore tedesco, richiedeva penitenza, autocritica e autocondanna, scoprendo il senso vero del sola gratia che è un adagiarsi completamente e solamente su Cristo. Come afferma M. Schmidt, il sermone predicato da Christian David su 2 Cor 5,18-20, causò una fortissima impressione su Wesley
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perché negava ogni forma di preparazione soggettiva alla giustificazione essendo opera di Dio soltanto, un miracolo che si riceve e non che si merita. Chiare e forti furono le parole di Christian che tuonarono nella mente di Wesley e vi rimasero impresse per sempre: «Tutta l'opera di giustificazione è di Dio; la sovranità di Dio è mantenuta incond i zi onatarnen te» 5 .
Wesley scoprì rn Christian David un secondo Bohler che gli chiarì, ancor meglio, il senso della giustificazione, che è un miracolo inaudito e da cui scaturisce una potenza ricreatrice che rende nuove creature.
1.4 L'ecclesiologia e l'adorazione dell'agnello Ciò che inoltre colpì favorevolmente Wesley e che, in seguito, applicò alle comunità da lui fondate in Inghilterra, fu l'ecclesiologia del conte Zinzendorf ed in modo particolare la cura pastorale assidua e la suddivisione in cori e classi della comunità. Il coute aveva un acuto interesse per la vita quotidiana dei membri della comunità tutta imperniata sull'adorazione dell'Agnello, in cui ogni credente si ritrovava insien1e e stabiliva una vera comunione spirituale. Gli incontri erano solenni e pieni di amore rispettoso. Come affermava Zinzendorf: «Sia che insegniamo o preghian10, sia che cantia1no o rneditia1no, sia che rirnaniaino in piedi o seduti, in qualsiasi situazione ci trovia1no [ ... ] dobbiarno condurci come se fossimo alla presenza dcli' Agnello con un senti1nento di riverenza e adorazione» 6 .
5
M. SCHMIDT, fohn Wesfey. A Theologica! Biography, Epworth Prcss,
London 1971, 296. 6
A. J. LEWIS, Zinzendo1f, the Ecu111enical Pioneer, ScM
1962, 64.
Press LTD, London
fohn Wesley e i fratelli Moravi nel Journal ____ 123
Tutta l'attività settimanale aveva lo scopo di preservare l'anima del credente da ogni distrazione e tentazione mantenendola ferma nel Signore e nel suo amore. In qualsiasi momento ci si poteva rivolgere al conte o a qualche suo collahoratore per trovare aiuto, conforto, sostegno e consiglio. A volte, uno dei collahoratori di Zinzendorf entrava, improvvisamente, in un laboratorio o in una officina e
guardava fisso i suoi fratelli, in silenzio. Questo sguardo, ben compreso, intendeva la muta domanda: «È l'Agnello nei tuoi pensieri 7» 7 • Vi era, quindi, un grande desiderio e impegno a nv1vere l'esperienza di fede, lo zelo e l'entusiasmo spirituale della Chiesa primitiva. Non c'è da stupirsi, perciò, se lo stesso Wesley pensasse di trovarsi in una comunità in cui si viveva nello Spirito della Chiesa primitiva, in una perfetta koinonia. La con1unità era suddivisa in unità più piccole, i cori, dove ognuno poteva trovare uno spazio di ascolto e di intervento. Wesley fu affascinato da questo amore, dalla solidarietà e dall'interesse per la vita comune. In verità l'impressione che ebbe di Herrnhut fu, per certi versi, esageratamente positiva. Nelle lettere scritte al fratello Charles e all'amico James Hutton, in Inghilterra, si nota la forte influenza che egli suhì persino nello stile epistolare, sempre più modellato su quello paolino. Rivolgendosi ali' amico Hutton ha ampie pagine di elogio e di ammirazione per la comunità morava. Ciò evidenzia, ripeto, il livello di accoglienza del pensiero moravo a cui era pervenuto come confermano i suoi riferimenti al Cristo sofferente, spogliato, umile. Si può parlare di completa e supina adesione? Non credo, perché, nonostante tutto, rimase in Wesley una salutare capacità critica che gli evitò un totale conformismo a favore di un atteggiamento critico che lo rendeva difficilmente plasmahile dall'esterno o facilmente soggiogahile nelle scelte. Lelìevre sottolinea co1ne non si possa assolutamente pensare ad una forn1a di ingenua
credulità in Wesley e neppure ad una forma di amhizione. Era, invece,
7
lbid., 65.
Giovanni Cereda
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un uomo che voleva provare tutto, e tutto doveva essere provato prima di essere accolto". Quando lasciò Herrnhut, il 14 agosto 1738, confessò di essersi trovato bene e di aver trascorso dei giorni felici, ma aggiunse che Dio lo chiamava altrove e questo già faceva prevedere una certo distacco. Proprio nella su citata lettera inviata al fratello Charles, si era augurato di poter provare ogni cosa e di non dover mai chiamare qualcuno maestro. Vi erano certamente segni di discordanza con i Moravi non ancora messi a fuoco ma che, in seguito, si sarebbero manifestati provocando la rottura. L'addio da Herrnhut fu, nondimeno, caloroso e fraterno e, per diverse ore di cammino, fu accompagnato da un bel gruppo di fratelli moravi.
1.5 Il ritorno in Inghilterra Il 16 settembre 1738 J. Wesley fu di nuovo a Londra. Pieno di entusiasmo riprese l'opera di predicazione rivolgendosi, in modo particolare, ai carcerati e ai quartieri poveri delle grandi città industriali. Fedele alla tradizione anglicana, predicava soltanto dal pulpito, cioè dentro la Chiesa, e fu doloroso il momento in cui questo gli fu negato. Intanto, all'interno della comunità di Fetter Lane, fondata da un gruppo di moravi e neo-metodisti, cominciava a delinearsi il suo genio organizzativo. Alla luce dell'esperienza vissuta in germania, Wesley creò un sistema di classi, bande e circuiti, trovando quel rimedio adatto a rivitalizzare la vita religiosa, non soltanto a livello personale ma anche ecclesiale, consistente nell'appropriazione della salvezza mediante una diretta esperienza di fede, ed una conservazione dei risultati grazie ad una costante cura delle anime. Ben presto, però sorsero problemi e si evidenziarono le differenze tra il nascente movimento metodista e quello dei Moravi.
8
Ibid., 66.
_ fohn Wesley e i fratelliMoravi nel Journal
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1.6. La Fetter Lane society: contrasti con i Moravi La comunità che si riuniva a Fetter Lane, formata da Moravi e da cosiddetti neo-metodisti, seguiva uno schema ecclesiale simile a quello di Herrnhut con la suddivisione in bande formate da 5-10 persone che si incontravano due volte la settimana. Bohler, coadiuvato da J. Hutton, era stato uno dei più attivi promotori di questo sistema ancor più sviluppato, adesso, da Wesley. Può darsi che nella creazione delle bande, vi fosse il tentativo di formare, in ambito laicale, un sistema quasi monastico con una rigida disciplina ed una forte caratteristica di spiritualità personale, ma sempre aperto al mondo e non da esso separato. Importante, sotto questo aspetto, fu anche lapporto fornito dagli scritti di Lutero, ed in modo particolare, dal suo commento all'Epistola ai Galati. Wesley, infatti, considerava Gal 5,6 uno dei testi fondamentali della Scrittura: «Poiché in Gesù Cristo non vale né la circoncisione né l'incirconcisione ma la fede che opera nell'amore». Perciò, nella stessa misura in cui sottolineava l'importanza della fede, era anche convinto dell'importanza dell'amore, inteso come evidenza visibile del sentimento del cuore. Fu proprio questa comprensione del messaggio biblico che lo portò a rifiutare e a combattere i I legalismo, di parte romana ma anche calvinista, e, secondo il suo giudizio, l'antinomismo di parte moravopietista. Per circa un anno, comunque, Wesley e Bohler lavorarono insieme e posero le basi della nuova Chiesa non pensando di creare una nuova istituzione. Wesley si considerava pur sempre me1nbro della Chiesa anglicana e seppur osteggiato dalla gerarchia, rifiutava persino la semplice idea di creare una Chiesa libera. Il suo interesse era quello di stabilire un sistema di cura pastorale e sociale che potesse risvegliare la coscienza religiosa degli strati più indigenti della società inglese del tempo. Fu, perciò, attratto dall'opera dell'evangelista ed antico collega di Oxford, George Whitefield. Ritornato dall'America, questi predicava a Bristol, alla folla di minatori del posto, inaugurando un nuovo sistema di predicazione pubblica. Wesley volle personalmente vedere l'opera nascente rimanendone profondamente colpito seppur disorientato. Non aveva mai pensato si potesse
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Giovanni Ceree/a
abbandonare il pulpito per la strada e le piazze! Eppure, il giorno dopo il suo arrivo, già predicava all'aperto e due mesi dopo cominciava a formare bande e ad organizzare società. Whitefield ripartì per l'America e Wesley dovette occuparsi da solo di quest'opera nascente a Bristol, che già mostrava segni di un grande futuro; infatti, Wesley predicava e la gente accorreva! Dopo pochi mesi dal suo esordio come predicatore pubblico, il suo genio organizzativo si palesò chiaramente. Come già avvenuto a Londra, divise la nuova co1nunità in società, bande e classi. Le società, avevano lo scopo di riunire i credenti per la preghiera, per ricevere il messaggio di esortazione e per meglio collaborare insieme nell'amore per Dio e per il prossimo. A Bristol e a Londra, organizzò dozzine di queste società che dipendevano direttamente da lui e da lui erano tenute insieme. Le bande erano delle formazioni all'interno delle società, che maggiormente risentivano dell'esperienza e dell'influenza morava essendo cellule formate da uomini o donne per una più continua e appropriata cura pastorale. Tuttavia, la struttura portante di tutto il sistema era formata dall'insieme delle classi che erano tipiche chiese/famiglia che si riunivano settimanalmente con lo scopo di seguire meglio la vita ed il progresso del singolo credente. Questo sistema ecclesiale non tardò a manifestare i suoi frutti, ma proprio allora sorsero dei problemi a Londra. La guida della Fetter Lane society fu assunta da Henry Molther, un missionario moravo che, nell'attesa di potersi recare in America, era costretto a soggiornare a Londra.
2. Wesley e H. Molther
2.1 Confronto storico-dottrinale Il luterano Molther, come Bohler, aveva studiato a Jena. Unitosi ai moravi era stato, da loro, ordinato pastore. Originario dell'Alsazia, un'area, in Francia, soggetta all'influenza mistica quietista, insegnava una dottrina della quiete in netto contrasto con quella dei mezzi di
Jo/m Wesley e i fratelli Moravi nel Journol
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grazia di Wesley e, secondo quest'ultimo, neauche in linea con il pensiero moravo. Nel suo Journal, il riformatore inglese scrive: «Nel settembre 1738, quando ritornai dalla Germania, esortai tutti coloro che ebbi modo d'incontrare, a ricercare quella grande salvezza che si ottiene per fede nel sangue di Cristo; ad attenderla "mediante gli ordinan1cnti della chiesa" e "facendo tutlo il bene, secondo le opportunità, a tulli gli uomini". E n1olli trovarono l'inizio di quella salvezza, la gratuita giustificazione, ottenendo pace con Dio in Cristo, rallegrandosi nella speranza della gloria di Dio, ed avendo il suo amore sparso nei cuori. Ma nel sette1nbre 1739, 1ncntrc sia io che mio fratello Carlo eravamo assenti, alcune persone s'infiltrarono danneggiandoli grandemente e sovvertendo le loro ani1nc» 9 •
Nel Joumal del successivo novembre, aggiunge: «Ho lasciato Bristol e, di sabato, n1i sono recato a Londra: la prinu1 persona che ho incontrato era stata da 1ne lasciata con una forte fede, zelante nelle opere buone; 1ni disse, però, che, il sig. Molther l'aveva pienainentc convinta di non aver n1ai posseduto la vera fede; e l'aveva anche avvisnta che, fin quando non avesse ricevuto la vera fede, doveva cessare da ogni opera esteriore; cosa che lei aveva subito fatto sicura che, prima o poi, ne avrebbe goduto i benefici. La sera, il sig. Bray, parlava con entusias1no della "quiete" davanti al Signore. Inoltre parlò arnpliamenle dci pericoli delle opere esteriori che, coinc affermava, "io ho fatto fino ad oggi")) w.
Ancora sullo stesso Journal, egli annota: «La nostra società si è riunita alle sette di inattina ed è rimasta in silenzio fino alle otto. Quindi, si è alzata una persona (Spangenberg) che ci ha invitato a guardare a Cristo ed a rimanere adagiati sulle sue n1ani. la sera, ho incontrato le donne della nostra società a Fetter Lane dove alcuni fratelli avevano detto che nessuno di loro aveva una fede vera, affennando in 1nodo palese che: 1) fin quando non avessero avuto la vera fede, dovevano rimanere nella "quiete" cioè (co1ne hanno spiegato) dovevano astenersi dai "mezzi di grazia", eo1ne sogliono definirsi, e dalla Santa Cena in particolare. 2) Questi ordinamenti non sono 1nezzi di grazia, poiché non vi è altro n1czzo che Cristo» 11 •
9 J. WESLEY, IO
Jbid., 247.
Il
L.c.
op. cit., 80.
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Giovanni Cereda
Stranamente, quello che Wesley aveva trovato tra i Moravi, cioè la certezza della fede salvifica in Cristo, veniva negata ai nuovi convertiti inglesi. Wesley, infatti, afferma: «Molti di coloro che dappriina sapevano in chi avevano creduto, erano stati gettati nel vano ragionare e, perciò, pieni di dubbi e paun1, da cui non riuscivano a trovare una via d'uscita. Molti furono condotti a negare il dono di Dio e ad affermare che non avevano mai avuto alcuna fede; specialmente coloro che erano ricaduti nel peccato e, conseguentemente, nelle tenebre; e quasi tutti avevano tralasciato i mezzi di grazia dicendo che dovevano, adesso, cessare dalle proprie opere e, da ora in poi, confidare soltanto in Cristo; erano poveri peccatori, e non dovevano fare altro che cadere ai suoi piedi» 12 •
Fortunatamente, vi erano delle eccezioni che lo avevano incoraggiato a replicare alle posizioni morave. Una donna aveva chiaramente testimoniato di avere la fede salvifica e di sentire continuamente la presenza di Cristo «fin dal primo momento in cui Egli le si era presentato nello spezzare il pane»". Wesley, allora, s'impegnò a rinnovare lo spirito dei credenti caduti in una forma di frustrazione e rassegnazione spirituale e morale, chiarendo quale fosse la vera quiete che si doveva tenere davanti a Dio. Nel Journal scrive: «Tutta questa setti1nana rni sono impegnalo anche 1nediantc conversazioni private a "confortare i dubbiosi" cd a riprendere "gli zoppi" che "sono stati allontanati dalla via" se 1nai potessero esser guariti» 1'1.
La situazione era grave e la controversia si presentava dolorosa. Molther rappresentava un pericolo e gli eventi susseguenti lo confermarono. Infatti, non considerava seriamente l'aspetto sacramentale della Chiesa e, secondo Wesley, la sua dottrina mancava di un sano equilibrio tra spiritualità interiore ed esteriore. Il riformatore inglese invece, considerava importante l'apporto del
12 1
·~
14
Ibid., 248. L.c. Ibid., 249.
John Wesley e i fratellLMoravi nel Journal ---
129
credente non nei termini di una conquista della propria salvezza, ma di sua manifestazione. Gerald Craff afferma: «l Moravi avevano 1nostrato a Wesley la vera natura della fede salvifica: egli era stupito, tuttavia, perché essi non riuscivano a co1nprcndere le sue necessarie i1nplicazioni. La !oro eredità luterana li rendeva riluttanti contro ogni accenno di "opere buone". Wesley, allora, pensava che essi stessero rendendo la vita religiosa una "ruga dalla realtà"» 15 •
In verità, il confronto non era soltanto con i Moravi inglesi n1a anche con la rigida dottrina calvinista della salvezza quale assoluto atto sovrano e declaratorio di Dio. I Moravi negavano ogni forma di apporto o coinvolgimento dell'uomo in modo particolare alla conversione e, perciò, parlavano di quiete, passività, attesa davanti a Dio. Era qualcosa che Wesley non poteva accettare perché rendeva il credente incapace di rispondere a Dio e di mantenersi nella Grazia; ecco perché predicava di evitare i due estremi dell'orgoglio spirituale ma anche dcl pessimisn10 e della passività di colui che si sentiva soltanto destinatario della Grazia e n1ai attivamente inserito, seppur nei termini di risposta alla Grazia, nel piano di salvezza di Dio e della conservazione del frutto, cioè 1' a1nore: «Ho esortato intcnsainenle coloro che avevano credulo ad evitare i due opposti estremi - l'uno, l'idea che, essendo nella gioia e nella luce, l'opera fosse co1npiula quando era sollanlo inizinta; l'altro, l'idea che, lrovanclosi nella sofferenza, non fosse ancora iniziata, poiché non la vedevano ancora conclusa» 16 •
La situazione, specialmente a Londra, precipitò velocen1ente e metà della comunità scelse di seguire i Moravi ritenuti gli unici degni di essere ascoltati. Wesley decise di recarsi a Londra dove trovò una Chiesa divisa con i suoi men1bri, disorientati, in continua tensione e
15 G. CRAGG, The
~Vorks
of fohn lVesley, Oxford Universìty Prcss, London
1985, 11. 16
J. WESLEY, op. cit., 249.
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Giovanni Cerella
rivalità, tanto che molti, scaduti dal primo amore, s1 «divoravano a vicenda» 17 • Quei pochi rimasti, a motivo del loro entusiasmo, erano persino considerati preda dell' ilrunag inazione e di spiriti anhnaleschi 18 • Wesley incontrò Molther personalmente, il 31 dicembre dello stesso anno, come descrive nel suo diario: «Ebbi una lunga e particolare conversazione con lo stesso sig. Mollhcr. Soppesai tutte le sue parole con la n1assi1na attenzione, chiedendogli di spiegare ciò che non capivo, chiedendogli continuainente 'con1prcndo bene ciò che dici? E' questo ciò che intendi o no?'» 19.
Tornato a casa, passò subito ad elencare le differenze che ormai erano palesi. Conviene riproporle integralmente: «Riguardo alla fede, voi credele: 1. Non vi sono "gradi di fede" e nessun uon10 ha alcun grado di fede prima che ogni cosa in lui non sia divenuta nuova, pri1na che egli abbia la piena certezza della fede, la costante tcsti1nonianza dello Spirito, o la chiara percezione che Cristo abita in lui. 2. Si1nil1nente, credete che non vi sia "fede giustificante" o uno stato di si1nile giustificazione. 3. Quindi, credete elle i fratelli Hutton, Ed1nonds cd altri non avevano "fede giustificante" pri1na di avervi incontrato. 4. E, in generale, che quel clono di Dio che 1nolti hanno ricevuto da quando Peter Bohler è venuto in Inghilterra - cioè una sicura fiducia dell'an1ore di Dio nei loro confronti - non fosse fede giustificante. 5. E che la "gioia e J'a1nore" conseguenti erano provocati da "spiriti ani1nali", eia "natunilità" o dalla "i1n1naginazionc" e non erano "gioia dello Spirito Santo'', e "vero a1nore di Dio sparso nei loro cuori". lo, invece, credo: I. Vi sono gradi nella fede; una persona può giungere ad uno di essi prima che tulle le cose divengano nuove, pri1na che egli abbia la piena certezza della fede, la continua testin1onianza dello Spirito o la chiara percezione che Cristo abiti in lui.
17
18
!bid., 256.
l.c. 19 L.c.
fohn Wesley e i fratelli Moravi nel Joumal
13 l -------
2. Sirnihnente, credo che vi sia un grado di fede giustificante (e, quindi, uno stato di giustificazione) prossi1no, e solita1ncntc antecedente, a questo. 3. E, io credo che il nostro fratello Hutton, insien1e ad altri, aveva fede giustificante pri1na ancora che essa fosse visibile. 4. E, in generale, che il dono di Dio, che molti avevano ricevuto da quando Pctcr Bohlcr era giunto in Inghilterra, cioè, "una sicura fiducia dell'amore di Dio per
loro'', era fede giustificante. 5. E che la gioia e l'amore conseguenti, non provenivano da spiriti ani1nali, dalla natura o dall'irnrnaginazione; n1a erano una certa 1nisura di "gioia nello Spirito Santo" e di "ainorc di Dio sparso nei loro cuori". Riguardo alla via della fede, voi credete che il n1odo di raggiungerla sia quello di attendere Cristo e ri1nanerc nella quiete; cioè, non usare (ciò che noi definimno) 1nczzi di Grazia; non andare in chiesa; non partecipare alla Con1unione; non digiunare; non usare niolte preghiere private; non leggere la Scrittura; (perché credete, questi non sono n1ezzi di Grazia; cioè, non con1unicano nonnalmenle la Grazia di Dio ai non credenti e che sia i1npossibile parteciparvi senza credere in essi) non fare alcun bene ten1poralc. Non lcntarc di fare del bene spirituale perché, voi credete, non è dato alcun dono dello Spirito a chi non lo possiede ancora e che coloro che non hanno fede sono con1plelan1cnte ciechi e, perciò incapaci di guidare altre anirne. lo, invece, credo: La via per ottenerla è quella di "attendere" Cristo cd essere quieti, usando tutti i n1czzi di grazia. Perciò, credo sia giusto per colui che sa di non aver fede (i.e. quella fede conquistatrice) andare in chiesa; partecipare alla Con1unione; digiunare pregare privatainente il più possibile leggere le Scrillurc, perché credo che questi siano "1nezzi di grazia", i. e. cornunicano, norn1aln1cntc, la grazia di Dio agli increduli ed ognuno può usarli anche senza confidare in essi. Co1npicre tutto il bene ten1porale possibile» 20 •
20
Jbid., 259.
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Giovanni C'erecla
Notiamo qui, le prime grandi differenze tra Wesley e i Moravi. Secondo il riformatore inglese, la fede è passibile di crescita e di sviluppo, non in quantità ma in maturità. E' un dono che necessita l'apporto del credente perché da bambina divenga fede adulta, da immatura raggiunga la maturità. Probabilmente, come afferma Sergio Carile, la differenza sul concetto di fede dipendeva da un diverso significato che si attribuiva al termine stesso: «Il 1netodis1no, ponendo in evidenza il ruolo dell'an1ore nel rapporto dell'uon10 con Dio, ha ripristinato, ravvivandolo, il significato della fede come "fiducia" distinguendola dalla fede quale "credenza'', cd ha ricollocato, al suo giusto posto, collegandolo al 1novente divino, l'clemcnlo dinamico della fede, cioè la fiducia ncll'an1orc che Dio n1anifesta all'uon10 salvandolo» 21 .
Era tuttavia, innegabile, in Wcsley, un certo ottimismo della fede per cui l'uomo, dal primo momento in cui è investito dalla Grazia divina, ritrova la libertà di rispondere ad essa in modo positivo. Altrettanto innegabile era il fatto che Wesley fosse stato influenzato dalla dottrina morava nel considerare la fede un adagiarsi completamente sulle mani di Dio. A tal proposito, Giancarlo Rinaldi propone un azzeccato paragone quando afferma che «Il concetto di fede, in Wesley, può essere paragonato all'atteggiainento di un bainhino piccolo che, dovendo attraversare la strada, per pri1na cosa dà la mano a suo padre [ ... ]» 22 .
E' la stessa convinzione che ritroviamo nei Moravi: la fede è un incontro, un venire insieme, che però, in Wesley, include anche una trasformazione interiore ed un progresso, secondo un ritmo di crescita psicologico/spirituale, non uguale per tutti. Vi sono gradi di fede, per cui anche una fede debole è pur sempre fede secondo il riferimento scritturale alla I Lettera di Giovanni, cap. 2, 12-14. Inoltre, la fede è operante, non soltanto un'attesa e un'accoglienza passive, 1na un
21 22
S. CAR!LE, Attualità del pensiero 111etodista, Claudiana Torino 1971, 56~57. G. RINALDI, fohn Wesley; la pe1fezio11e cristiana, Ecu1ncnc Quaderni,
Velletri 1989.
John_Wesley e i.fratelli Moravi nel Journ_a_l_____1_3_3
rapporto dinamico di amore tra l'amante e l'amato, una feconda relazione d'amore reciproco. Questo spiega l'accusa rivolta ai Moravi, di possedere una dottrina non soltanto falsa ma anche pericolosa perché celante, al suo interno, una grave forma di antinomismo moderno, molto più pericoloso dell'antico. Wesley fu molto sensibile a questo problema. Sia il calvinismo, con la sua rigida comprensione di un Dio legalista, sia I' antinomismo di cui i Moravi (almeno quelli inglesi e, secondo l'accusa di Wesley, più o meno coscientemente), erano i nuovi propugnatori, erano due pericoli ancor più gravi perché non palesi. Ciò era aggravato dal fatto che i suoi stessi semi (secondo il riformatore inglese) erano da sempre presenti nel vangelo tanto che, alla domanda se la verità del vangelo non fosse vicina all'una o all'altra posizione, egli soleva rispondere dicendo «che la distanza era minore dello spessore di un capello» 2 '. Wesley intendeva, invece, mantenere un equilibrio tra prassi e teoria; negava ogni forma di salvezza per meriti o per conoscenza razionale, ma riteneva falsa una fede senza le opere, intese come frutto della salvezza. Vittorio Subilia, a tal proposito, afferma: «In una pagina rivelatrice dcl suo "Journal'', vergata il 1° Dice1nbre 1767, J. Wcslcy [ .. ] osserva che non è necessario avere una chiara concezione della giustificazione i1nputata per essere salvati. Il tema della giustificazione è affrontato in termini significativi in un sermone sulla vigna dell'Eterno (fs 5,4). Dopo aver espresso un illimitato elogio del conte di Zinzendorf, Weslcy osserva: "E' stato di frequente osservato che ben pochi hanno espresso un chiaro giudizio riguardo alla giustificazione [ ... !. Chi più di M. Lutero ha scritto abilinente sulla giustificazione per sola fede? E chi è stato più ignorante della dottrina della santificazione o più confuso nelle sue concezioni? [ .. ]. Ma è piaciuto al Signore concedere ai 1netodisti una piena e chiara nozione di questi concetti e della profonda differenza che li caratterizza. Essi sanno che è nello stesso 1non1ento in cui un uorno è giustificato che inizia la santificazione [ .. J la nuova nascita in1plica un can1bian1enlo dell'anin1a [ ... ])) 24 •
2 -'
A.C. OUTLER, !fohn Wesley, Oxford Univcrsity Press, New York 1964,
24
V. SUBILIA, la giust;jicazione per.fede, Paideia, Brescia 1986, 317-318.
151.
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Giovanni Cereda
Secondo Wesley, la novità del vangelo risiede in una fede che è completo abbandono a Dio ma che ha certamente un risvolto o un contenuto etico, più che logico o intellettuale, essendo basato principalmente sull'amore. E' l'amore che motiva la risposta del cristiano all'amore di Dio in Gesù Cristo, risposta che, però, non esclude, anzi, necessita la partecipazione a tutti quei mezzi di grazia stabiliti da Dio e rintracciabili nella Scrittura. Wesley non intendeva propugnare un sinergisnio salvifico 1na una forma di equilibrio nuovo tra l'invito di Cristo, i mezzi da lui disposti alla salvezza (i.e. mezzi di grazia) e la risposta dell'uomo ma non in termini di restitutio, bensì di agape, cioè con lo stesso sentimento d'amore con il quale si è amati.
2.2 I comandamenti ed i sacramenti All'obiezione che esiste un solo comandamento nel Nuovo Testamento (ii credere), Wesley rispondeva osservando come lo stesso Gesù avesse messo in guardia dal non praticare i comandan1enti (Le 17, I O) giungendo a dire: «Se voi mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15). Osservare i comandamenti è un privilegio che non esclude il dovere perché il sacramento è ancora considerato luogo dove Dio ha disposto d'incontrarci. Se Dio ha deciso d'incontrarci lì, Egli è certamente presente per offrire la sua grazia salvifica e sostenitrice. Wesley si avvide del pericolo dell'antinomismo quando, per altri, questo era un problema ormai superato. La giustificazione, secondo il riformatore inglese, non era, allora, soltanto l'atto pacificatore tra Dio e l'uomo, ma lavvio dell'opera di santificazione. Secondo Schmidt: «Questo concetto di santità può essere considerato mìstico-spiritunlistico nella tradizione di Scougal e Law, rna è vcrarnente significativo il fatto che le parole
"fai i! bene" presenti in ogni atlività dcl circolo studentesco di Oxford e che con John Burton avevano convinto Weslcy ad andare in Georgia per servizio, siano, adesso, chiaramente rifiutate. Nella sua relazione con Dio egli (Wesley) aveva raggiunto una
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John Wesley e i fratelli Moravi nel Journal ·---·
di1nensionc al
di
··-----
sopra dell'etico, che concerneva
-----··
la
santità e
non
la
consacrazione» 25 .
Comandamenti e sacramenti fanno parte della vita del credente, sono mezzi di grazia, mezzi efficaci mediante i quali Dio ci incontra. Ciò non significa che Egli ne risulti localmente limitato, ma, certamente, rappresentano un luogo privilegiato d'incontro. Il sacramento è necessario per mantenerci saldi su Cristo e per non ricadere in una santità per ineriti, poiché la perfezione cristiana ri1nane sempre un atto di Dio, che libera dall'egoismo che ancora permane nel credente.
2.3 La situazione precipita: accuse reciproche tra Wesley c Molther Le posizioni dottrinali di Wesley sui comandamenti e 1 sacramenti acuirono i toni del confronto tra i due predicatori. Wesley fu persino accusato di essere «un figlio del demonio ed un servo della corruzione avente gli occhi pieni di adulterio ed incapace di cessare di pcccare» 26 .
Nonostante tutto, continuò a predicare e ad insegnare l'importanza di una vita morale chiara e distinta comprendente la partecipazione ai sacramenti. L'epistola di Giacomo e le sezioni evangeliche in cui si sottolinea come Gesù non avesse rinnegato i con1andan1enti 1na li avesse compiuti, confermavano le sue posizioni. Molther, d'altronde, per giustificazione intendeva un cambiamento prettamente legale mentre Wesley andava oltre e parlava di trasfor1nazione 1norale, rigenerazione e santificazione, seppur iniziale. Secondo Wesley, la dottrina di Molther era pericolosa perché negava la presenza di una seppur piccola fede nel credente non ancora
25
M. SCHMIDT, op. cit., Il, l, 13.
26
Ibid., 43.
Giovanni Cereda
136
pienamente certo della salvezza o interamente santificato, secondo la propria terminologia. L'insegnamento di Molther si allargava a macchia d'olio e Wesley riceveva sempre più lettere in cui si confessava uno stato di grave confusione nella comunità di Fetter Lane. Si recò nuovamente da Molther e per due ore s'intrattenne con lui sui temi della certezza della fede e della quiete passiva. Le posizioni rimasero invariate anzi, Molther affermò drasticamente, che «per coloro elle hanno un cuore puro gli ordinan1enti non sono un "dovere", a loro non viene co1nandato di usarli, sono liberi, li possono usare oppure no; anzi,
coloro che hanno un cuore puro non dovrebbero usurli (particolannente la santa cena) perché Dio non cornanda né designa il loro uso (non li comanda a nessuno e li designa solo ai credenti) perché non sono "n1ezzi di grazia", poiché non vi è altro inczzo di
grazia che Cristo so!tanto» 27 •
Si nota qui, l'estremizzazione del principio del solus ChrL1·tus luterano a negazione di qualsiasi altra forma di manifestazione della grazia di Dio che potesse, anche virtualmente, adombrare l'unicità di Cristo. Molther negava che la salvezza potesse liberare completamente dal peccato o dai pensieri peccaminosi, dando piena certezza della salvezza finale. Questa negazione, secondo Wesley, manteneva uno spazio quasi "di riserva'', al peccato. Diversa era anche la valutazione della fede che in Molther era più di tipo dogmatico mentre in Wesley aveva un contenuto più esperienziale e psicologico. Quest'ultimo perciò, manteneva la presenza di vari livelli di fede che meglio si accordavano e descrivevano il normale ritmo vitale dell'uomo. Considerava la gioia e l'entusiasmo, entro certi limiti di ragionevolezza, come espressioni visibili, seppur iniziali, della salvezza. Ciò, invece, aveva scandalizzato Molther (e, prima di lui, Spangenberg) il quale aveva accusato i membri della Fetter Lane Society di forme deteriori di emotivismo quali il singhiozzare, sospirare e strepitare giungendo alla posizione opposta della quiete silenziosa, passiva, quale rimedio a questo male.
27
A.e. OUTLER, op. cit., 359-60.
fohn Wesley e i fratelli Moravinel Joumal
137
Wesley, tuttavia, sospettava che il vero conflitto fosse tra Bohler e Molther, tanto da porsi quasi a difensore delle <<idee luterane-paoline classiche della giusliricazione, rappresentate da Zinzendorf e Bohlcr contro un "hernnuttcr" della giovane generazione, riconoscendo che la differenza risiedeva nell'opposizione tra una forma di pietà localizzala nella chiesa cd orientata alla Scrittura cd alla preghiera, cd un n1isticis1no silenzioso, solitario cd indipendente»n.
Provò, allora, a meglio definire l'atteggiamento d'attesa del credente nei termini di una pace profonda che Dio dà, e non di un'attesa passiva. Si recò ad Oxford e poi a Bristol, e la sua predicazione arrecò grande sollievo a persone che ormai disperavano della propria salvezza. Chi lo aveva accusato e denigrato si era riconciliato con lui e aveva ritrovato la pace di Dio (molte di queste esperienze sono riportate nel suo .lournal del 25 gennaio I 740). Altri, però, erano estremamente confusi e si perdevano dietro a distinzioni fantasiose tra "fede certa" e "fede di adesione", come se esistessero due tipi di fede. Rifacendosi agli scritti di san Paolo, Wesley confutava le loro posizioni: «Inoltre, affermate l'esistenza di due tipi di fede in un unico Signore. L'apostolo Paolo, invece, parla dì una fede in un unico Signore. Con "siele salvati per fede", co1nprendo che voi siete salvali dai peccati esteriori cd interiori. Non ho 1nai conosciuto un'anin1a salvata senza quella che, voi, definite la fede che dà certezza. Cioè, una fiducia certa che, per i meriti di Cristo, è stato riconcilialo con Dio» 29 .
Tornato a Londra il 23 aprile 1740, si recò da un membro della comunità di Fetter Lane, un certo Simpson, che ancora una volta gli confessò la propria confusione causata dal divieto di partecipare ai mezzi di grazia. Partecipò al culto nella Fetter Lane Society, ma vi trovò un clima freddo e scostante. Dopo circa due ore, in cui tutti erano ri1nasti in silenzio, improvvisamente, si era alzata una persona che aveva sconsigliato dal confidare troppo nei fratelli in fede.
28 29
M. SCHMJDT, op. cii., 42. J. WESLEY, op. cit., 261.
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Sempre più perplesso, per più di due ore, si trattenne a parlare con Molther, ma poi, ancora una volta deluso, ritornò a casa. Nel suo Joumal del 23 aprile 1740, scrive: «Credo che non 1neno di trenta persone abbiano parlato con 1nc negli ulti1ni due giorni. Tutte sono state esortate fortemente a 1. negare ciò che Dio ha cornpiuto nelle loro ani1ne e ad affennarc, invece, di non aver 1nai posseduto una fede vivente. 2. Rimanere nell'attesa passiva fin quando non l'avessero posseduta; tralasciare ogni n1ezzo di grazia; non frequentare la chiesa; non partecipare alla cena del Signore; non usare preghiere private o, ahneno, non troppo spesso e non in 1nodo udibile o in tc1npi prestabilili» 30 .
Insieme al fratello Charles, .Tohn si recò di nuovo da Molther. Ancora una volta, questi negò che vi potessero essere gradi nella fede, anzi, aggiunse che fino a quando permangono il dubbio e la paura, non e' è fede. Diceva, ancora, che nessuno è giustificato se non quando ha un cuore puro con la perenne presenza di Cristo e dello Spirito Santo, ed inoltre, come leggiamo sempre nel Joumal, che: <(chi non lo possiede (il cuore puro) dovrebbe riinanere nell'attesa passiva fin quando non l'abbia ottenuto; cioè, come egli spiegava, non deve usare gli ordinamenti o i cosiddetti mezzi di grazia [ ... J; gli ordina1nenti, per chi ha un cuore puro, non sono un dovere. Non viene ordinato di usarli; si è liberi, possono essere usati oppure no. Coloro che non hanno un cu6re puro non dovrebbero prendervi parle (in modo particolare, alla cena del Signore)» 31 •
Recatosi da un amico, un certo Stonehouse ad Islington, Wesley ebbe la conferma definitiva della natura subdola di questo vano rag10nare. Scrive nel Joumal del 30 aprile 1740: «Mi sono recato da un <unico (lo end), rnr. Stonehouse ad lslington. Egli, però, ha im1nediata1nentc esposto il problema, confessandomi che era, adesso, pienarnente convinto che nessuno possiede dei gradi di fede fin quando non è perfetto co1ne "Dio è perfetto". Gli chiesi 'possiedi, allora, qualche grado di fede?' Egli
10 · 31
Jbid., 269. lbid., 270.
John Wesley e i fratelli Moravi nel Journal
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rispose: 'No, perché non ho un cuore puro'; mi rivolsi alla doincstica chiedendole: 'Esther, hai un cuore puro?' Rispose: 'No, il mio cuore è disperatamente 1nalvagio 1na non ho paura né dubbio. So che il n1io Signore mi aina ed io lo amo; lo sento ogni rnomento!'. Dissi, allora, chiaramente al suo padrone: 'Questo pone fine al tuo ragiona1ncnto. E' questo lo stato che tu neghi [ ... J'» 12 ,
La disputa non era, certamente, di poco valore, Il grave rischio era quello di negare quel tipo di fede, debole ed insicura, ma che è, pur sempre, un primo passo verso la fede adulta. Se la si nega o la si priva dei primi convincimenti e del sostegno dei mezzi di grazia indispensabili alla crescita spirituale, non si fa altro che impedire ogni salvezza. Negando i gradi della fede e ponendo la purezza del cuore come segno di conversione si innalza così tanto l'ideale cristiano da renderlo raggiungibile soltanto da un gruppo ristretto di persone, o persino da nessuno, contrastando la Bibbia stessa che parla di gradi di fede, di fede debole ma pur sempre fede. Costretto, allora, dalla serietà del problema e dal!' evidenza del danno causato da un simile modo di pensare, Wesley si decise a confutarlo apertamente e in modo drastico e inequivocabile.
3. Wesley scrittore
3.1 Gli articoli sul "Journal" Naturalmente, quanto dirà 111 seguito non sarà soltanto il risultato della sua polemica con Molther ma anche il frutto della sua esperienza di fede e l'inevitabile contributo della sua eredità anglicana. Il suo pensiero aveva già preso la forma di una mediazione tra quello classico anglicano che dava spazio ad una cooperazione umana nell'ampia opera di salvezza e quello moravo-pietista-luterano in cui tutta l'enfasi della salvezza era posta su Dio e sulla sua Grazia.
12
lbid., 271.
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Il Joumal divenne lo strumento più efficace per confutare le dottrine morave e meglio chiarire i termini del confronto. In quello del giugno 1740, egli scrive: «Considerando come non vi fosse più tempo <la perdere senza correre il rischio di distruggere la causa di Dio, co1ninciai a fare quanto, da Le1npo, avevo deciso colpire alla radice il grande inganno [ .. ]. Dopo aver vagato per molti anni sul nuovo sentiero della salvezza per fede e per opere, circa due anni fa piacque a Dio 1nostrarci l'antica salvezza soltanto per fede. E n101ti, ben presto, gustarono questa salvezza essendo giustificati libera1nente, avendo pace con Dio, rallegrandosi nella speranza della gloria di Dio (cf. Rn1 5, 1-2) ed avendo 'il suo amore sparso nei loro cuori'. Questi can11ninavano sul sentiero dei suoi comanda1nenti, con1pivano ogni dovere verso Dio e gli uomini. Rispettavano gli ordinainenti del Signore e, 1ncdiante questi n1czzi che egli aveva stabilito per giungere a quel fine, ricevevano giornaln1enle la grazia come sostegno nel ten1po della necessità (cf. Ebr 4,16) e progredivano di "fede in fede". Circa otto o nove 1ncsi fa, sorsero alcuni uo1nini i quali affennavano dottrine contrarie a quelle che noi avevatno ricevuto, Essi affennavano che eravaino ancora sulla via sbagliata, che non "aveva1no alcuna fede", che la fede non ha gradi e, conscguente1nente, che la fede debole non è fede e che nessuno è giustificalo fin quando non avrà ottenuto un cuore puro senza provare più alcun dubbio o paura. Essi affennavano che l'unico con1andainento nel Nuovo Testarncnto è quello di credere; che non vi è alcun dovere da co1npiere e che, quando l'uomo crede, non è vincolato o obbligato a fare niente di quanto è lì comandalo; in particolare, non è soggetto agli ordina1ncnti, cioè (con1e essi spiegano) non è vincolato o obbligato a pregare, a partecipare alla S. Cena, a leggere o ascoltare le Scritture. E' libero di usare o rifiutare tutte queste cose (non essendo in schiavitù) secondo come egli sente "il proprio cuore libero di fare". Inoltre, affermavano che un credente non può usare alcuno di questi quali "mezzi di grazia" poiché lale espressione non ha un fondainento scritturale; inoltre, chi non ha un cuore puro non deve assolutamente usarli e non dovrebbe pregare, né scrutare la Scrittura o partecipare alla S. Cena, 1na rin1anere nel!'attesa passiva - cioè, abbandonare queste "opere della legge" - ed allora, certamente, otterrà la vera fede che, fin quando non sarà nella "quiete", non potrà ottenere» 33 .
33
!bid., 254.
John Wesley e i fratelli Moravi nel Journal
141
Wesley rispose a queste affermazioni in modo deciso chiarendo subito il significato di "fede debole": «Per "fede debole" intendo: I. Quella che è ancora fram1nista a paura, particolannente la paura di non poter giungere alla fine. 2. Quella che è fra1nmista al dubbio, sia di aver ingannato se stessi o di non
esser stati realmente perdonati. 3. Quella che non ha ancora purificato il cuore pienamente e non è ancora libera da tutti gli idoli. Perciò, considero "fede debole" quella di quasi tutti i credenti che da poco hanno ristabilito la "pace con Dio" Nondi1neno, che tale fede debole sia fede, è confermato da: I. S. Paolo: "Ora accogliete chi è debole nella fede (cf. Rn1 14,1); 2. S. Giovanni, quando parla dci crcdcnli che erano "fanciulli'', "giovani" e "padri" (cf. I Gv 2,1, 12-13); 3. Le stesse parole del Signore 'Perché avete paura, uomini di poca fede? Ma io ho pregalo per le (Pietro), affinché la tua fede non venga 1neno' (cf. Mt 8,26; Le 22,32). Egli, perciò, aveva fede. Eppure, era così debole che non soltanto il dubbio e la paura, 1na anche il peccato grossolano, nella stessa notte, prevalsero su di lui. Nondi1neno, egli era "puro per la parola che Cristo aveva pronunciato (Gv 15,3) - cioè, giustificato - pur se, è chiaro, non possedeva ancora un cuore puro. Vi sono, perciò, gradi di fede e Ju fede debole è vera fcde» 34 .
Analizzando questo aspetto, si chiarisce il motivo di tanta determinazione e serietà nella difesa della gradualità della fede e della partecipazione ai mezzi di grazia. Wesley era un uomo che vagliava ogni cosa non soltanto alla luce della Scrittura ma anche dell'esperienza, e negare la validità della fede debole significava non soltanto rifiutare una verità biblica, ma anche mettere a repentaglio la vita di migliaia di credenti che, seppur non ancora pienamente purificati, avevano però dato chiari segni di cambiamento, di vita nuova e il cui vero problema, secondo Wcsley, era più legato alla crescita spirituale che alla nascita. La sua stessa esperienza personale lo confermava, perché la propria conversione era già avvenuta prima di Aldersgale, ma lì egli aveva compreso il senso ed il valore della vita
34
lbid., 275-276.
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cristiana, aveva avuto la certezza della salvezza, aveva provato "col cuore" quanto aveva già compreso con la mente. Il confronto tra le due posizioni era, perciò, importante perché, quanto Molther affermava poteva causare uno stato di anoressia spirituale nel neo convertito o una pericolosa forma di antinomismo asfittico, contro cui Wesley era molto sensibile. D'altronde, come abbiamo già accennato, la polemica non aveva soltanto Molther quale obiettivo ma era indirizzata anche alle correnti teologiche all'interno della chiesa anglicana che parlavano di giustificazione imputata senza una piena ed indispensabile consapevolezza né, tanto meno, collaborazione dell'uomo. John Veneer, per esempio, rettore della St. Andrews Church a Chichester, parlava dì giustificazione imputata cd anche di una rico1npensa per il credente, senza che avvenisse alcun cambiamento radicale in lui. «Ogni cosa viene da Cristo,» affcnnava, "perché !'uon10 è consideralo giusto non per un proprio inerito, 1na sollanlo per Cristo» 35 .
Weslcy rifiutava questa forma di calvinismo che ascriveva tutto a Dio ma, nello stesso tempo, stava attento a non cadere nel moralismo (che, a quel tempo, intendeva le opere a detrimento della Grazia, che, sempre all'interno della Chiesa anglicana, era insegnato da molti quale via per accedere a Dio. L'anglicanesimo, infatti, aveva due anime, una delle quali sosteneva il retto agire quale mezzo di salvezza, come nel caso di Beveridge e Tillotson, che parlavano di opere necessarie alla salvezza. Era questo l'ambiente in cui si muoveva Wesley. Da un lato vi era il rigoroso cristocentrismo e fideis1no dei Moravi, dall'altro una varietà di posizioni all'interno della Chiesa inglese, in cui fede ed opere coesistevano nel piano di salvezza n1a con enfasi diverse o con l'esclusione di una a favore dell'altra.
35 AA. Yv., Moralis111, justification a11d !he controversy over n1ethodis111, in Jo11n1af of f:,'cclesiasticaf History 4414 (1993) 661.
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Wesley non era contrario alle opere e, seppur predicasse una santità del cuore o delle intenzioni, parlava anche di opere secondo lideale della dottrina della pe1fezione cristiana che è amore operante: <di credente non doveva soltanto con1piere delle buone opere, ma doveva e poteva giungere ad un tale stato che tutte le sue opere erano compiute per a1norc e 1nisericordia» 36 .
Tuttavia, quanto comprese ad Aldersgate, cioè che la salvezza è soltanto per fede secondo lo schema classico paolino/luterano, non poteva non influire sulla sua definizione della salvezza quale opera di Dio, soltanto per Grazia. L'esperienza susseguente con i Moravi e le estremizzazioni di Molther lo convinsero, però, che la fede non è soltanto sentimento, né la conversione un espediente giuridico di pacificazione con Dio, ma comporta, invece, un rinnovamento dell'uomo (la lettura dei mistici cristiani quali Macario, Clemente Alessandrino e di quelli moderni quali William Law confermavano la sua posizione). Wesley, perciò, condivideva il sola Gratia, ma nel senso che questa rendeva l'uomo capace di cooperare con Dio, non nell'opera di salvezza, 1na di restaurazione della sua immagine nel credente. «Perciò, - conclude Snydcr - il ralli1nento da parte del credente a cooperare con l'opera di Dio, era una chiara disubbidienza. Su qucstu base, Wcslcy resistette a 1nolte tendenze 1norave e poi, in seguito, si separò da loro»-n,
Riguardo al pericolo di antino111isn10, come abbian10 g1a accennato, Wesley rispose alle posizioni di Molther e Spangenberg che consideravano inutile l'osservanza dei co1nandamenti, rifacendosi sempre al dato scritturale. Nel suo Joumal scrive: «Ho considerato !a seconda affennazionc, che vi è soltanto un con1anda1nento nel Nuovo Testainento cioè, "credere", che non vi sia alcun altro dovere e che il credente non è obbligato a far niente con1e cornandaincnto: Quale grossolana,
J(i
Jbhf., 667. I-LA., The radical ~Vesley, lntcr-varsily Press, Illinois, 1980-47.
37 SNYDER,
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evidente contraddizione all'intero tenore dcl Nuovo Testaincnto che, in ogni sua parte, è pieno di comandamenti, da San Matteo ali' Apocalisse! E' sufficiente osservare: ! . Che questa netta arrennazionc è vergognosa1ncntc contraria alle parole proprie del Signore 'chi dunque avrà violato uno di questi mini1ni co1nandamenti [ .. J sarà chian1ato 1ninimo nel regno dei cieli' (cf. Mt 5,19). Poiché non c'è niente di più evidente qui, che egli intenda più di uno, molti con1andamenti che ogni anirn<l, credente o no, è obbligata ad osservare co1nc co1nando. 2. Che questo intero sche1na è capovolto da quell'altra affermazione del nostro Signore 'così anche voi, quando avrete fatto ciò che vi è cotnandato, dite: Noi sian10 servi inutili; abbimno rauo quel che cravaino in obbligo di fare' (cf. Le 17,10). 3. Che sebbene fare ciò che Dio con1anda sia un privilegio dcl credente, ciò non ha niente a che vedere con i! proble1na. Egli lo fa co1ne "dovere prescritto" e, "per co1nando di Dio". 4. Che quesla è la più sicura evidenza della sua fede secondo le parole del nostro Signore 'se mi ainate (che non può avvenire fin quando non si crede) osservate i 1niei co1nandainenti' (cL Gv 14,15). 5. Che desiderare di rare ciò che Dio comanda, n1a non con1e co1nanclo, signirica 1ninacciare non la libertà bensì l'indipendenza; una lale indipendenza che neanche Paolo possedeva poiché 'sebbene il Figlio l'avesse reso libero, tuttavia egli non era senza la legge di Dio 1na sollo la legge di Cristo'; Inie che i santi angeli non hanno poiché 'essi ubbidiscono ai suoi comandamenti e alla voce della sua parola' (cf. Sai 103,20); si, diversa da quella dcl Cristo poiché, con1e il Padre gli ha coinandato, così egli ha parlato (cf. Gv 12,49.50)» 38 .
3.2 I dialoghi A questa prima confutazione, Wesley aggiunse una serie di sermoni sulle ordinanze sacre, i mezzi di grazia, e la Cena del Signore (Fate questo in ricordo di me) ed alcuni dialoghi. Due furono diretti a chiarire, ancor meglio, il senso ed il contenuto della sua denuncia: A dia!ogue between an antinomian and his friend (Un dialogo tra un antinomista ed il suo amico) ed A second dialogue between an antinomian and his friend. Pur se non palesemente diretti contro Molther e Spangenberg, è facile intravedere come, in realtà, entrambi siano il suo termine di confronto. L'Outler afferma:
~8
A.C. 0UTLER, op. cit., 363.
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«Questi (i due dialoghi) furono indirizzati diretta1ncntc contro i moravi e i dissidenti quali William Cudworth che denunciavano ciò che essi definivano "la predicazione legalista di Wesley" considerata un'abominazione» 39 •
Nel primo, all'ipotetico interlocutore che espone la tesi dell'inutilità delle opere, egli ripropone la loro importanza insieme al retto uso della ragione. A volte sembra che Wesley risponda ironicamente e persino in modo sprezzante all'interlocutore, accusandolo di contraddirsi e di non fare un buon uso della ragione. Alla luce della stima che egli mantenne sempre nei confronti dei Moravi, non credo si possa generalizzare la sua condanna a tutto il gruppo; fu, certamente, molto deluso ed infastidito dal modo di fare di Molther. Dei dialoghi darò un breve sunto citando le parti che ritengo più attinenti al mio terna. Il primo dialogo inizia con l'antinornista che chiede all'amico che cosa egli intenda per giustificazione: «Ant.: An1ico: Ant.: A1nico:
Ant.: A1nico: Ant.:
A1nico: Ant.:
39 40
Bene, veniamo al punto. In cosa confidi per la tua giustificazione e salvezza? Soltanto nei meriti di Cristo, che sono i rnici se credo veran1ente che egli 1ni ha ainato cd ha dato se stesso per me. Se! Così poni delle condizioni alla salvezza! E non lo fai anche tu? altri1ncnti, renderesti Dio bugiardo, poiché le sue parole specifiche sono 'chi crede sarà salvato, chi non crede sarà condannato'. Cosa significa se non - 'se credi' (vi è la condizione), sarai sai vato? Non 1ni piace il termine "condizione". Trovane un altro 1nigliore e lo eviterò. Tuuavia, insisto affermando che non è richiesto nicnl'altro che la fede sia per la giustificazione che per la sai vezza. Cosa intendi con 'non è richiesto nient'altro?'. Intendo 'vi è soltanto un dovere che è quello del credere. Non si deve far niente ma attendere, nella quiete, la voce dcl Signore. Le porte del ciclo sono chiuse a chi si sforza nelle opere ed aperte a chi crede. Se non faccian10 niente per il ciclo, farcino quel tanto che Dio richicdc'» 40 .
!bid., 221. J. WESLEY' op. cii., 268.
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In queste prime battute intravediamo delinearsi le due posizioni e si risente l'eco di certe affermazioni di Molther e Spangenberg. Sia i due pastori moravi che Wesley, personificati in questo dialogo, dall'antinomista e dall'amico, si pongono a difensori della sana dottrina. Entrambi affermano che la salvezza è soltanto per fede, ma, per l'antinomista, "aver fede" intende l'esclusione di qualsiasi altro apporto o condizione che possa, seppur minimamente, far dubitare dell'efficacia del sangue di Cristo. L'amico, non nega questa verità, anzi, l'esalta, ma afferma che non si può negare come la Scrittura parli di un apporto, di un fare del credente che confermi la fede salvifica. E di come vi sia, inoltre, nel credente, una giustizia non semplicemente imputata ma impartita. Aggiunge, inoltre, che il credente non è sottoposto alla legge giudaica, cioè alla sua condanna ma è pur sempre sottoposto alla legge stessa (anche in questo caso, però, si parla di legge giudaica e non cristiana). Ogni credente, quindi, deve mantenere le pratiche religiose, le ordinanze del Signore quali il Battesimo e la santa Cena. Praticare queste cose, invece, secondo l'antinomista, oscurerebbe il valore salvifico unico della fede. Altro argomento importante è quello della giustizia nel credente. L' antinomista afferma che ((Ant.:
A1nico: Ant.;
An1ico;
Ant.: A1nico: Ant.: Arnica: Ant.: A1nico: Ant.:
I credenti non posseggono alcuna giustizia personale. La nostra giustizia non è allro che l'i1nputazionc della giustizia di Cristo. Credo che Cristo, n1ediante il Suo Spirito, produca la giustizia in tutti coloro a cui la fede è i1nputata per la giustizia. No, assoluta1nente! Ogni nostra giustizia è in Cristo. E' completamente in1putata e non personale. Siaino scn1prc giusti in Cristo, 1nai giusti in noi stessi. Il credente non è, allora, giusto o santo? Certainente, ina egli è santo in Cristo non in se stesso. Non vive in 1nodo santo e non è santo nel cuore? Certan1ente! Perciò, di conseguenza, non è santo in se stesso? No, no, soltanto in Cristo, non santo in se stesso. Non ha alcuna santità in se stesso. Non ha in se stesso l'a1norc di Dio e dcl prossimo, !a piena i1n1nagine di Dio? Certamente, 1na questa non è santità evangelica.
John Wesley e i fratelli Moravi nel Journal. _ _ _ _I 4_7 A1nico:
Ant.: A1nico:
Il tuo è un vano ragionare! Poni dei cavilli sul non1c 1na accetti picnmnente quanto io affenno. Accetti che un credente sia santo nel cuore e nella vita. Questo è quanto io intendo per santità o giustizia personale. Confermo che questa non è santità evangelica. La santità evangelica è la fede. Attieniti a questo e risolverai il problema. Secondo !a Lua supposizione, infatti, si potrebbe concludere: 'La fede è santità o giustizia; ma la fede è in ogni credente, perciò, la santità o la giustizia è in ogni credente'» 41
.
Ad una prima lettura si ha l'impressione che tutta la polemica ruotasse attorno ad un)incomprensione o confusione terminologica. In effetti, le posizioni erano discordi perché l'antinomista non negava, semplicemente, l'uso di un appellativo, ma che, nel credente avvenisse un cambiamento interiore. In Wesley, invece, si poteva parlare di una forma di theosis, per cui, il credente era anche rigenerato, nasceva di nuovo e poteva crescere sempre più in santità secondo l'immagine di Cristo. Il confronto tra la visione pessimistica luterana ed una realistica della Grazia era evidente, pur se, sorprendentemente, entrambi ponevano linsegnamento paolino come fonte della loro teologia. Il secondo Dialogo segue, più o meno, le orme del primo, tentando di screditare la posizione antinomista accusata di palesi contraddizioni. Tutto ciò comprovava la netta frattura che ormai si era creata tra J. Wesley, Molther, Spangenberg ed i loro seguaci. Detraendo importanza alla Chiesa, ai suoi ordinamenti, alle sue istituzioni i Moravi creavano una forma pericolosa di rilassatezza morale ed un'indifferenza religiosa che, come già in parte accadeva, avrebbe messo in dubbio ogni certezza di salvezza e sicurezza personale del credente esprimendo un'ulteriore tendenza al privatismo cd al pessimismo della fede. Oppure ancor peggio, ali' altro estremo, avrebbe portato il credente all'orgoglio spirituale, a divenire legge a se stesso, non avendone una esteriore a cui obbedire. In questo modo si sarebbe caduti nel più pericoloso soggettivismo ed il cristianesimo sarebbe divenuto una forma di spiritualismo disincarnato (da qui la sua accusa di misticismo) e soggettivo tale da
41
lbid., 272.
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rendere la Parola di Dio un semplice sostegno secondario. Wesley, invece, affermava che tutta la Scrittura è piena di comandamenti, ordinanze, norme, prescrizioni e negarne la validità attuale per il credente, significherebbe negare la Scrittura. Nello stesso anno 1745 Wesley scrisse un breve trattato dal titolo Estratto da una breve esposizione della differenza tra i fratelli moravi (cosiddetti) ed i rev. mr. Jo/111, e Charles Wesley. Al lettore, Wesley indirizzava la seguente esortazione: «Poiché coloro che sono sotto la direzione del conte Zinzendorf (volgannente conosciuti come fratelli n1oravi) sono i pili comuni, e perciò, di gran lunga i più pericolosi, fra gli attuali antino1nisti in Inghilterra, mi impegno, principahnentc, a
proteggere coloro che sono se1nplici di cuore perché non siano vittirnc di questi scaltri cacciatori» 42 .
Ad essa seguì un elenco delle differenze tra i Moravi ed il suo pensiero su quei temi considerati di maggior valore, come, per esempio, quello sul valore della legge e delle opere, e della giustificazione e santità che, secondo Wesley, i Moravi confondevano considerandoli simultanei. Gli articoli 5 e 6 di questo estratto sono, in questo senso, molto importanti. Wesley così riporta il pensiero dei Moravi: 5. [ ... ] siamo santificati interainente al 1non1ento in cui siaino giustificati e non siamo più o rncno santi fino al giorno della nostra n1ortc; l'intera santificazione e l'intera giustificazione sono una medesirna cosa ed avvengono nello stesso istante. 6. Il credente non è mai santificato o santo in se stesso, ina soltanto in Cristo; non possiede alcuna santità in se stesso, essendo la sua santità i1nputata e non personale» 4 ·1 •
Wesley confuta queste affermazioni dicendo che, nel primo caso, la Parola di Dio afferma il contrario così come conferma la propria esperienza personale. Riguardo al punto 6, aggiunge:
42 4 -'
Ibid., 201. lbid., 202.
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«La santità scritturale è l'immagine di Dio; la rncnte che era in Cristo; l'an1orc di Dio e dell'uomo; l'un1iltà, la gentilezza, la ten1peranza, la pazienza e la castità. E così fredda1nente affermale che questo sia soltanto i1nputato al credente e che egli non possiede alcuna di questa santità in se stesso? E' la ternperanza soltanto i1npuLata a colui che è ancora bevitore; o la castità a colei che continua nella prostituzione? No, ma un credente è realmente casto e te1npcrato e, se è così, è 1nolto più santo in se stesso. Un credente a1na Dio o no? Se lo arna ha l'amore di Dio in lui. E urnile, rispettoso o paziente? Se lo è, egli ha queste disposizioni in se stesso; e se non le ha in se stesso non è umile, rispettoso e paziente. Non puoi, perciò negare che ogni credente sia santo in se stesso, sebbene non da se stesso; altri1nenti negheresti che egli sia santo e se non lo è, non potrà vedere il Signore. E tuttavia, se la santità, in generale, è la Inente che era in Cristo, che cosa si può intendere con 'un credente non è santo in se stesso ma in Cristo soltanto?' se non che la mente che era in Cristo sia anche nel credente!. Quale ainn1asso di palpabile contraddizione, quale parlare insensato !» 44 .
Ciò che Wesley intendeva sottolineare, è la profondità e l'ampiezza dell'opera di Cristo che non soltanto salva ma rigenera. Perciò aggiunge, «nello stesso 1nomento in cui un uomo è giustificalo, inizia la santificazione. Poiché quando è giustificato, è 'nato di nuovo', è 'nato dall'alto', 'nato dallo Spirito' (cf. Gv 3,3.6); questo, pur non essendo (co1ne alcuni invece suppongono) l'intero processo di santificazione, è indubbiaincntc il suo accesso [ .. ]; la nuova nascita iinplica un grande cmnbiamento nell'ani1na di colui che 'è nato dello Spirito' co1nc quello avvenuto nel suo corpo quando è nato da una donna. Non soltanto un ca1nbia1ncnto esteriore, con1e dall'ubriachezza alla sobrietà, dal furto all'onestà questa è la povera, sterile, miserabile condizione di coloro che niente sanno della vera religione - 1nu un ca1nbia1nento interiore da disposizioni n1alvagc e sante; dall'orgoglio all'umiltà, dalla passionalità alla 1nitczza, dall'irritabilità e scontentezza u\Ja pazienza e rassegnazione; in poche parole, da una incntc 1nondana, sensuale, demoniaca alla mente che era in Cristo Gesù (cf. Filip 2,5)» 45 .
Come era giunto, Wesley, a queste conclusioni che segnavano la rottura definitiva con la Chiesa morava? Non aveva egli dimostrato, nel recente passato, una profonda ammirazione per questa Chiesa ed in modo particolare, per il conte Zinzerdorf? Aveva, Wesley, avuto
44 45
L.c. L.c.
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modo di chiarire meglio, con il fondatore di tale movimento, le problematiche sorte con Molther e Spangenberg, oppure si era disinteressato a verificare se quanto i due predicatori tedeschi sostenevano in Inghilterra, fosse dottrina ortodossa morava? Non si deve credere che Wesley desiderasse staccarsi dai Moravi per creare una propria denominazione o movimento per la bramosia di divenirne il capo assoluto. Alla sua morte, Wesley persino non riconoscerà niente di buono in sé o degno di essere ricordato, se non che «Dio è con noi». Il vero motivo della separazione bisogna ricercarlo in ambiti più nobili e rispettabili, sia di diversità di pensiero teologico/filosofico, quali il valore e la vocazione dell'uomo, che di tradizione religiosa, riguardante, in modo particolare, la Chiesa e i sacramenti.
Quanto egli scrisse nei due dialoghi è proprio la sintesi e la conclusione a cui era giunto dopo aver confrontato Je sue convinzioni sia con Molther e Spangenberg, sia con il conte Zinzendorf. Egli non negò mai la possibilità di poter ricucire il rapporto con i Moravi, anzi, inizialmente, come già affermato, pensava che i due predicatori moravi in Inghilterra avessero distorto il loro pensiero originale. La sua delusione fu grande quando comprese che anche Zinzendorf era sulla loro stessa posizione.
Conclusione
Riassumendo, possiamo giungere alle seguenti conclusioni: I. Wesley portò alle sue giuste conclusioni il rapporto dinamico tra fede interiore e sua tnanif'estazione esteriore secondo l'icleale paolino di fede operante. La dottrina di Molther rappresentava, perciò, una grave minaccia a questo suo ideale che egli seppe mantenere nonostante le polemiche. 2. Gradualità della certezza della salvezza. Wesley considerava l'itinerario spirituale dell'uomo secondo uno schema di continua ascesa e crescita in maturità, segnata da punti forti quali la conversione, la santificazione, prima della glorificazione finale. La santificazione era considerata un processo ali' interno di un rapporto
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già risanato, per Grazia, con Dio che produce già pace nel cuore, certezza di salvezza e gioia. 3. La gioia della fede. La salvezza è il dono di Dio per eccellenza che sovrasta ogni possibile tragedia di vita e sofferenza perché è vita nuova, di prorompente liberazione dal peccato. Non può, perciò esserci un cristianesimo cupo e triste. Wesley accettò manifestazioni spirituali anche spettacolari senza porsi molto il problema dal punto di vista scritturale ma più da quello esperienziale ed esistenziale. Questo fu un pregio ma anche un limite a motivo di possibili estremizzazioni. Al di là di ogni speculazione o interpretazione psicologica o socio-culturale, rimane comunque il fatto che egli non le considerasse manifestazioni di "spiriti animali" o "maligni". 4. L'espressione della fede era tanto importante quanto la sua appropriazione a livello personale. E' questo un dato molto importante ed anche rappresentativo di tutta la dottrina wesleyana. Fede personale e sua 1nanifestazione con la concretizzazione in forn1e visibili di aiuto sociale (creazione di farmacie per il popolo, di banche per i poveri ... ) a favore dei più deboli sono sempre state il segno della presenza wesleyana nel mondo. L'esclusione di fede ed opere o l'enfasi su una o l'altra, ha sempre minacciato la credibilità del programma e della dottrina wesleyana. S. Wesley considerava lo Spirito santo coinvolto in tutta l'opera di salvezza e persino precedente111ente alla conversione (la Grazia preveniente). La sua valutazione dell'uomo non era pessimistica e neanche ottimistica ma realistica perché riconosceva il bisogno ed anche l'impossibilità dell'uomo di salvarsi, ma andava oltre la sola riappacificazione con Dio in termini legali perché proponeva la restaurazione dell'immagine di Dio nell'uomo quale santità o perfezione del cuore (sentimento). 6. Stadi di maturità spirituale. Come nella maturità umana, Wesley notava degli stadi di crescita spirituale nel credente. La sua vita era perciò meno caratterizzata dalla continua contrizione e dal dispiacere per il peccato e più dall'ottimismo della Grazia che non minimizzava il peccato ma lo rendeva vincibile. Secondo i moravi, e la
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tradizione luterana, questo era un passo troppo azzardato e la giustificazione come la santità erano di tipo posizionale anziché etico. 7. Distinzione tra giustificazione e santificazione. Fu questo il motivo principale della rottura tra Wesley e Molther. Quest'ultimo affermava che fin quando il cuore non fosse stato purificato non si potesse parlare di salvezza, mentre Wesley credeva che il "cuore puro", inteso quale unico sentimento d'amore per Dio con l'unica intenzione di fare la sua volontà, fosse una tappa (crisi) all'interno della Grazia salvifica quale processo dinamico di crescita all'immagine e somiglianza di Cristo. Terminiamo qui questo breve studio. Quanto Wesley compr e ancor oggi valido e significativo perché esprime una chiara consapevolezza del valore della fede e delle opere frutto dell'amore, riuscendo a coniugarle pur mantenendo sempre la preminenza a Dio. Non smise mai di amare i Moravi pur notando in loro l'incapacità a far giungere alle dovute conseguenze il loro stesso proposito a motivo di una visione limitata della Grazia santificante. Nel 1771, dopo più di vent'anni di separazione, riabbracciò il vecchio amico James Hutton. Nel 1783, all'età di 80 anni, mentre era in Olanda, volle assistere ad un culto moravo ed ascoltare un po' della loro musica. Partecipò ad una loro "festa d'amore" in un mai sopito sentimento di amicizia e rispetto nei loro confronti. Forse, al di là di ogni dottrina e successo, ciò che veramente rimane forte richiamo per ogni generazione ed anche per noi oggi, è la capacità di vero ecumenismo che significa saper amare e rispettare, sempre, coloro che pensano in modo diverso da noi.
Synaxis XIII/1 (1995) 153-189
L'ETICA COME FILOSOFIA PRIMA NEL PENSIERO DI LÉVINAS
GIUSEPPE SCHILLACI'
1. Filosofia prima e filosofia trascendentale
Una lettura piuttosto superficiale del pensiero di Lévinas potrebbe indurre a considerare tale pensiero una morale e colui che lo propone un moralista'. Il termine etica potrebbe risultare rischioso se con questo si intendesse un comportamento o una serie di comportamenti definiti "morali", il che porterebbe ad una lettura del pensiero levinassiano ben orientata: «etica - dice lo stesso Lévinas - è una parola pericolosa: significa che bisogna comportarsi come all'asilo, dove bisogna essere morali!»'. In effetti l'etica richiama tutt'altra direzione verso cui occorre incan1minarsi.
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Docente di Filosofia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Cfr. E. LÉVINAS, Éthique et injini, Fayard, Paris 1982, 11, in cui Ph. Nemo nella presentazione del volume, intervista da lui stesso curata, si csprin1c così: «Em1nanuel Lévinas est le philosophc de l'éthique, sans doute le scul moraliste de la pensée contc1nporaine. Mais à ceux qui le croicnt spécialiste de l'éthique co1nmc si l'étique, était une spécialité, ces quelques pages, avant la lecture, apprendront la thèsc csscnticllc: que l'éthique est la philosophic prc1nière, celle à partir de laquellc les autres branchcs de la métaphysique prennent sens». 2 L. GHIDINI, Dialogo con E1111na11uel Lévinas, Morcelliana, Brescia 1987, 36. Lévinas, poco più avanti, alla domanda della dott.ssa Ghidini: «corne definisce il suo personalismo? Etico, religioso o n1ctafisico», risponde dicendo che <<L'etica qui prende il significato stesso della relazione con un'altra persona».
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Giuseppe Schillaci
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Il pensiero occidentale, nel complesso, si trova quasi vincolato iu uno schema interpretativo che vuole la filosofia mostrarsi nel gioco diadico di pensiero e azione, ragione pura e ragion pratica, gioco che finisce per affermarsi quasi inevitabilmente come dualismo filosofico. Ora, «lo sforzo di Lévinas è proprio quello di spezzare la ferrea ed unitaria regola del gioco diadico giocato dalle opposte tendenze del pensiero occidentale: gioco unico, funzionante non ad onta, bensì grazie alle distinzioni che lo dividono e alle contrapposizioni che in esso vicendevolmente si sfidano» 3 •
La filosofia opera del soggetto non si riduce al pensiero, cioè non è originariamente pensiero, per cui con Olivetti si può più specificamente dire che «il soggetto non è originariamente pensiero, non è originariamente attività pratica, e non è nemmeno, passività, se per passività si intende il semplice opposto dell'attività, l'altro termine di una diade che si definisce nel gioco della determinazione reciproca, esattan1ente come vi si definiscono pensiero ed essere» 4. Il passo oltre, che Lévinas ci invita a compiere e che egli stesso non esita a realizzare, ha come quadro storico di riferimento la filosofia del soggetto: la filosofia trascendentale. La filosofia prima è da concepire dentro questo quadro di riferimento che vede nel soggetto la nozione essenziale. È questo il progetto della filosofia moderna, che Husserl ascrive a Cartesio e che viene a riassumersi in questi termini: «Diviene necessario ricostruire l'edificio che potrebbe corrispondere alla idea della filosofia, concepita come unità universale delle scienze che si elevano sopra un fondamento di carattere assoluto. Questa necessità della ricostruzione, che si imponeva a Cartesio, si realizza in Cartesio sotto forma d'una filosofia orientata verso il soggetto»'. La ricostruzione della filosofia stessa, secondo Husserl dunque, nel pensiero moderno ha come punto di partenza essenziale il
3 M. M. OLIVETTI, lntersoggettivirà, Alterità, Etica. Do111ande fi!os<~fiche a E. Lévinas, in Archivio di Filosofia 53 (1985) 266. Adesso raccolto insieme ad altri saggi nel volu1ne di M. M. OLIYETTJ, Analogia de{ soggetto, Laterza, Bari 1992, 74, il capitolo IV dal titolo Inversione dell'appercezione trascendentale, 73-97. 4 lbid., 267. 5 E. HUSSERL, Méditations cartésiennes. lntroduction à la phénon1énologie, trad. a cura di G. Peiffcr e E. Lévinas, V rin, Paris 1986, 2.
L'etica come filos"fia prima nel pensiero di Lévinas
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soggetto. La lettura stessa di Lévinas non può sfuggire a questo riferimento storico della filosofia trascendentale. «In effetti il quadro storico, che è proprio alla proposta di Lévinas e in rapporto al quale va giudicata la riuscita del passo oltre, è quello che ho evocato facendo riferimento a Fichte, perché è il quadro della filosofia trascendentale che si trasforma in filosofia prima. Da un punto di vista puramente terminologico questa trasformazione avviene con Husserl, il quale appunto scrive di Erste philosophie (è probabilmente Husserl, assai più che Aristotele, che Lévinas ha in mente quando, polemicamente parla dell'etica come filosofia prima o, se si vuole, ha presente il Cartesio delle Meditationes de prima philosophia, ma non senza la reduplicazione delle Meditazioni cartesiane di Husserl)» 6 • La filosofia prima, storicamente, acquista un suo preciso ambito speculativo con Aristotele il quale la definisce come la scienza che coglie il tò 611 in quanto tò 6n, cioè la scienza fondamentale che non si limita ad indicare questo o quello ma intende e coglie il tò 611 in generale. Sotto certi aspetti la metafisica di Aristotele si presenta come un trattato della "definizione" per cui quella che avrebbe dovuto essere la filosofia prima risulta essere seconda, «poiché definire non è porre, 1na semplice1nente enunciare I' ousia di un essere già ente»7 . Ma occorre ribadire che il referente dell'espressione "filosofia prima", più che Aristotele nel pensiero di Lévinas, è piuttosto Cartesio: Meditationes de prima Philosophia. li titolo nell'originale latino presenta già la nozione di "filosofia prima", titolo che nella
6 M. M. OLIVETTI, lntersoggettività, Alterità, Etica. !Jo111ande filosofiche a E. Lévinas, 270. L'Autore dell'articolo sottolinea ulteriorn1ente l'i1nportanza dell'appercezione trascendentale di Fichte, il quale non è fra i filosofi n cui Lévinas si riferisce nel tentativo di risalire oltre l'essere, ribadendo che «nella sostanza è con Fichte che ha luogo per la pri1na volta la trasformazione protologica della filosofia trascendentale inaugurala da Kant; da quel Kant a cui anche Husserl si richia1na esplicitamente proprio nel mo1nento in cui anch'egli dà luogo ad una trasformazione protologica dell'appercezione trascendentale» (I.e.). 7 V. JANKELEVITCH, Philosophie preniière, P.U.F., Paris 1986, I. L'Autore continua sottolineando che «une métaphysique qui traite non pas du fait d'Etre, 1nais de l'etre en tant que tel, non pas de l'einai mais de 1'611 camme universel prédicat et de l'ousfa de eet étre, c'est-à-dire du plus essentiellcment "étant" (ens) de cet ètre, une tclle métaphysique ne peut ètre qu"'hypothétique"» (I.e.).
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traduzione francese recherà l'aggiunta dell'aggettivo métaphysique'. Cartesio non ha scritto delle meditazioni metafisiche ma delle meditazioni che concernono la filosofia prima, il termine metafisica sostituisce semplicemente quello di filosofia prima. Per tanto un uomo che vuole intraprendere la ricerca della verità deve cominciare ad applicarsi «alla vera filosofia, di cui la prima parte è la metafisica che contiene i principi della conoscenza, dentro i quali si trova la spiegazione dei principali attributi di Dio, dell'immortalità dell'anima e di tutte le nozioni chiare e semplici che sono in noi» 9 • E più avanti continua con l'immagine, conosciuta, in cui indica che «la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che escono da questo tronco son tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, la medicina, la meccanica e la morale; intendo la più alta e più perfetta morale, la quale presupponendo una completa conoscenza delle altre scienze, è l'ultimo grado della sapienza» 10 Da notare in questo testo come Cartesio pone la metafisica alla base ma indica come ultimo grado della sapienza stessa la morale in quanto frutto della filosofia in quanto sapienza. A partire da queste considerazioni, si può affermare che la tradizione speculativa chiamava metafisica, la filosofia prima, per cui la sistematizzazione dello stesso Cartesio si inserisce in una riflessione che andava facendosi. Infatti, nei primi e più noti commentatori della filosofia di Aristotele, la metafisica è intesa come ciò che mira a sottolineare la conoscenza dell'ente in guanto ente: «la metafisica, in ogni caso, concerne lente, che sia comune o colto in quanto tale, o
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Ctì·. J. L. MARION, Sur le pris111e n1étaphysique de Descartes, P.U.F., Paris
1983, 1: J. L. Marion, infatti, per
1ncttcre
in luce l'estraneità di Cartesio riguardo alla
nozione 1netafisica, constata che «l'étrangeté éventuelle de Descartcs à la n1étaphysique se rnarque, d'abord et symboliquement par le fait qu'il n'a pas écrit dc
Méditations 1nétaphysiq11es, puisquc l'adjectif provicnt ici d'un ajout du traducteur au titre origina!: Meditationes de prùna Phifosophia». 9 R. DESCARTES, les principes de la philosophie, in Oeuvres et le!!res, Gallirnard, Paris 1953, 565. Il testo si trova nella lettera di Cartesio a l'abbé Picot suo a1nico che ha tradotto la sua opera dei Principia che sarebbe servita da prefazione. io R. DESCARTES, Oeuvres et lettres, 566.
L 'e!ica come filosofia prima nel pensiero di Lévinas
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che sia primo e astratto dalla materia»". In questo contesto speculativo Kant riprende una nozione che veniva sviluppandosi nella tradizione scolastica tedesca" all'interno della quale si metteva in particolare evidenza, con Baumgarten, la metafisica come la scienza che contiene i primi principi della conoscenza umana. In questi termini la metafisica non si rivolge più ali' ente in quanto ente ma tende a porre in particolare rilievo la conoscenza, di modo che la metafisica si sviluppa «come critica della ragion pura, poiché la metafisica si identifica già con i principi dell'intendimento puro e ch'essa si raddoppia semplicemente con la (conoscenza) critica (dei principi) della conoscenza» 13 • La rivoluzione copernicana, dunque, così come si presenta nella filosofia trascendentale e in modo particolare nella filosofia kantiana, affonda le proprie radici già nel pensiero filosofico di Cartesio, il quale, secondo Marion, «decide coscientemente e nettamente d'un ribaltamento nell'essenza stessa della metafisica; lo indica esplicitamente commentando il titolo latino che egli elabora per le Meditationes in cui privilegia la nozione di filosofia prima a svantaggio della nozione di metafisica» 14 . La metafisica perciò nella concezione di Cartesio è quell'ambito speculativo in cui si parla delle prime cose le quali si possono conoscere soltanto quando si fa filosofia in maniera ordinata".
11 J. L. MARJON, op. cit., 2; «iorsque Descartes entre en scène, la tradition philosophique a conquis, au tenne d'un travail qui ren1ontc aux premicrs co1n1nentateurs d'Aristotele et traverse toute la pcnséc 1nédiévalc, un concept à pcu près ferme dc la n1étaphysiquc>>. 12 Si veda a tal proposito l'ampio studio di J. F. COURTINE, Suarez et le systè111e de la 111étaphysique, P.U.F., Paris 1990, la IV parte Métaphysique scolaire et pensée 1noderne, in cui rileva che «on le sait, e' est principalen1cnt Ch. Wolff et son dìsciplc Baumgarten qui contribuèrcnt à "vulgariscr'' le terme "ontologie", et c'cst principalement Ch. Wolff et son disciple Bau1ngarten qui contribuèrent à "vulgariser" le tenne "ontologie", et c'est par leur intennédiaire, en tout cas, qu'il passe à Kanl età Hegcl. En 1730, Wolff publie une Prùna phi/osophia sive ontologia, par laquelle il inaugurc un vaste projet d'o]JUS 111etaphysicae» (ihid., 438). n J. L. MARION, op. cit., 3. 14 L.c. 15 A tal proposito Cartesio nella lettera a Mersenne dell' 11 novembre 1640 così scrive: «je n'y ai point mis de titre, mais il me sc1nble que le plus propre sera de 1ncttrc Renati Descartes Meditationes de prùna Philosophia; car je me lraite point cn
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Cartesio, sottolineando le prime cose che si possono conoscere filosoficamente, infatti, pone l'accento in maniera decisa sulla conoscenza, perciò «il primato passa risolutamente dall'ente primo da conoscere alla conoscenza stessa (eventualemnte fissata in un ente); inversamente, l'ente come tale (e anche come primo) sparisce. Nel titolo stesso delle Meditationes, attraverso i suoi silenzi e le sue intenzioni ugualmente riconosciuti, si co1npie il rovesciamento della
definizione della metafisica che oppone la prima scolastica all'ultima, in una parola san Tommaso (e Suarez) a Kant (e la Schulmetaphysik)» ''. Lo spostamento di attenzione, nella riflessione filosofica alla conoscenza in quanto tale si dirige, pertanto, ali' io che secondo Cartesio esplica la sua natura come attività essenzialmente cogitativa. Husserl, a tal proposito, nelle Meditazioni, evidenziando l'importanza del!' ego cogito puro di Cartesio, si esprime in questi termini: «inaugura un nuovo tipo di filosofia. Con lui la filosofia cambia totalmente di velocità e passa radicalmente dall'oggettivismo ingenuo al soggettivismo trascendentale» 17 • La soggettività trascendentale è l'orizzonte dentro cui si muove e si sviluppa, secondo questa interpretazione, la filosofia da Cartesio ai nostri giorni. Husserl ricerca, nella sua lettura della filosofia cartesiana, in fondo, il senso di una trasformazione in atto nel suo tempo e, quello che sembra essere più importante, la necessità di una filosofia prima che possa finalmente dare quella unità ormai da secoli perduta. Pertanto, Husserl rileva che «lo stato di discussione nel quale si trova attualmente la filosofia, l'attività disordinata ch'essa dispiega dà a riflettere. Dal punto di vista dell'unità scientifica, la filosofia è, dopo psrticulicr de Dieu et de l'an1e, 1nais en général de toutes Ics premières choses qu'on pcut connaitre en philosophant» in Oeuvres et !ettres, 1094. In un'altra leLtera, sempre dell'l l nove1nbre 1640, riconfenna «jc vous envoic enfin 111011 écrit dc Métaphysique, auquel je n'ai poinL mis titre, afin dc vous en faire le parrain, et vous laisser la puissance de !e baptiser. Je crois qu'on le pourra no1nmer, ainsi que je vous ai écrit par ma précédente, Meditatio11es de prùna Philosophia; car je n' y trai te pas sculement de Dieu et l'ilme, 1nais en général dc toutes Ics prcrnières choses qu'on pcut connailrc en philosophant par ordre» (ibid., 1095 - !096). lG J. L. !\1ARION, op. cit., 4. Si veda pure J. r. CoURTINE, op. cit., il capitolo Brève ren1arque sur le débat Descartes-Suarez, 482-495. 17 E. HusSEl~L, Méditations cartésiennes, 3.
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la metà del secolo scorso, in uno stato di decadenza manifesta in rapporto ai secoli precedenti. L'unità è sparita dappertutto: nella determinazione dello scopo come nella posizione dei problemi e del metodo. All'inizio dell'era moderna la fede religiosa si trasforma sempre più in convenzione esteriore, una fede nuova colse e sollevò l'umanità intellettuale. La fede in una filosofia, in una scienza autonoma. Quindi la cultura umana doveva essere guidata e illuminata da punti di vista scientifici e attraverso ciò riformata e trasformata in una cultura nuova e autonoma»l 8.
2. L'etica
L'unità è perduta, sia nella produzione filosofica sia prioritariamente fra i filosofi, in quanto non esiste più un "luogo" spirituale comune" dentro il quale sarebbe in fondo possibile ricostruire un clima filosofico unitario. Husserl si riconosce, nel suo tentativo speculativo, ali' interno della riscoperta dcli' ego cogito puro"' che si presenta come la certezza assoluta, come filosofia prima. li punto di partenza viene, dunque, collocato nell'ambito della filosofia trascendentale, la quale viene caratterizzandosi come indagine eminentemente conoscitiva. Il valore della conoscenza e la sua rilevanza 1netafisica, ecco 1'ambito storico e speculativo dentro cui occorre collocare il percorso filosofico levinassiano.
18
Ibid., 4. Cfr. I.e.: Husserl, rilevando le controversie e i contrasti fra scuole filosofiche e filosori, prospetta che «il a bien cncore cles Congrès phi!osophiques; les philosophcs s'y rencontrcnt, mais non Ics philosophics. Ce qui n1anque à cellcsci c'est un "licu" spirituel con11nun, où cllcs puissent se Loucher et se fécondcr 1nutucllc1nent. L'unité csl, peut-étrc, 1nicux sauvcgardée à l'intéricur de certaincs "écolcs" ou "tendanccs", 1nais cc particularis1nc 1nè1ne pennct dc n1aintenir notre caractéristique de l'état général de la philosophie, au tnoins en ses point essenticls». 2 Cfr. ibid., 5. L'Autore si domanda «la sculc rennissancc vrain1ent féconde ne consisterait-e\lc pas à ressuscitcr Ics Méditations cartesienncs, non certes pour les adoptcr de toutcs pièces, 1nais pour dévoiler tout d'aborcl la signification profonde d'un retour radical à conduit ù l'ego cogito pur, et fairc rcvivre ensuitc Ics valeurs éterncllcs qui en jaillissent? C'est du moins le chemin qui a conduit à la phénoinénologie trascendentale». 19
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2.1 Enfasi dell'ontologia Lévinas interpreta tutta la tradizione filosofica occidentale dentro la correlazione che intercorre tra conoscenza ed essere che «è il luogo intelligibile, il darsi stesso del senso. La conprensione dell'essere - la semantica di questo verbo - sarebbe così la possibilità stessa della saggezza e dei saggi e, a questo titolo, filosofia prima. La vita intellettuale - e perfino quella spirituale - dell'Occidente, in virtù del primato attribuito alla conoscenza identificata con lo Spirito, si mantiene fedele alla filosofia prima di Aristotele, interpretata secondo l'ontologia del libro Gamma della Metafisica o secondo la teologia e l'onta-teologia del libro Lambda nel quale il riferimento dell'intelligibilità alla causalità prima di Dio resta riferimento a un Dio definito dall'essere in quanto essere»". La filosofia prima, che pure viene scorta da Lévinas già nella metafisica aristotelica, raggiunge il suo culmine nella modernità all'interno della quale momento qualificante sarà l'identificazione del!' essere e del sapere: «ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale» 22 . A parere di Lévinas la modernità, «sarà caratterizzata dal fatto che l'identificazione e l'appropriazione dell'essere da parte del sapere culminerà nell'identificazione di essere e sapere. Il passaggio dal cogito al sum è tanto radicale da farci ritrovare nell'ambito del conosciuto la stessa libera attività del sapere, estranea ad ogni finalità esterna. Quest'ultima - la libera attività del sapere, - costituisce anche l'intrigo dell'essere in quanto essere che è l'oggetto conosciuto del sapere. La Saggezza della filosofia prima si riduce all'autocoscienza, l'identità dell'identico e del non identico. Il lavoro del pensiero ha ragione di qualunque alterità delle cose e degli uomini»''.
21 E. LÉVINAS, Etica co111e filosofia prirna, in E. LÉVINAS - A. PEPEHZAK, Etica co111e .filosofia prùna, Gucrini, Napoli 1989, 47. 22 G. W. F. 1-IEGEL, li11ean1e11ti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1913, 12. Cfr. G. W. F. HEGEL, Enzyklopddie des philosophischen Wissenschaften in Grundisse ( 1827), Felix Mcincr Vcrlag, Hamburg l 989, 32: «In der Vorrede zu n1eincr
Philosophic des Rechts s. XIX. befinden sich di Satze: was vcrnUnftig ist, das isL wirklich; und was wirklich, das ist vernUnftig». 23
E. LÉVINAS, op. cit., 49.
L'etica come jilos~fia prima nel pensiero di Lévinas
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La modernità è dunque caratterizzta da questa capacità identificante che vede al centro del nuovo ordinamento speculativo l'io: l'appercezione trascendentale. La filosofia moderna si articola in questo ambito in cui, secondo Kant dell'introduzione della Critica della Ragion pura, la ragione prende in mano le redini attraverso la conoscenza di sé (Selbsterkenntnis) 24 • Kant mette in particolare evidenza questa capacità trascendentale dell'io, nel quadro storico irrefutabile del pensiero in quanto sapere, che però pretende superare con la Critica della Ragion pratica. Nel momento in cui Lévinas richiama la nozione di soggetto visto come appercezione trascendentale è chiaro che ha, più immediatamente, in mente Husserl e non Kant". La nozione di filosofia prima viene, dunque, compresa in questo preciso ambito storico-speculativo. L'iniziativa Ievinassiana mira a con1p1crc un "passo oltre" e non rimanere, quindi, nel pensiero inteso co1ne sapere, per cogliere una significatività più originaria del sapere stesso, una saggezza anteriore della filosofia prima che non si articola dentro la conoscenza ontologica. Lévinas, in questo senso, affer1na ulteriormente che «in effetti, l'esperienza irriducibile e ultima della relazione mi sembra nel faccia a faccia degli uomini, nella socialità, nella sua significazione morale. Ma bisogna capire che la moralità non giunge come uno strato secondario, al di sopra di una riflessione astratta sulla totalità e i suoi pericoli. La morale ha una portata indipendente e preliminare. La filosofia prima è I' etica» 26 •
24 Cfr. I. KANT, Kritik der reinen Ven1l(ff, Fclix Meiner Vcrlag, Han1burg 1956, 7: «Sic ist offcnbar die Wirkung nicht dcs Lcichlsinns, sondern dcr gcrcirten Urteilskraft des Zeitalters, wclchcs sich nicht Hinger durch Schcinvissen hinhalten ltisst und eine Aufforderung an dic Vcrnunft, das beschwcrlichstc aller ihrer Geschi:iftc, niin1lich clas der Selbsterkcnntnis aufs neue zu iibernch1ncn und cine Gerichtshof einzusetzen, der sie bei ihrcn gcrcchten AnsprOchen sichcrc, dagegen aber alle grundloscn Anhnassungen, nicht durch Machtspriichc, sondern nach ihren ewigcn und unwandclbarcn Gcsctzcn, abferligen kOnne, und dicscr ist kcin andere als elle Kritik der reinen \ler111111ft se!bsl». 25 Cfr. M. M. OLIVETTI, op. cii., 272. L'Autore dell'articolo rin1arca che «nell'uso reiternto dcl concetto di "appercezione trascendentale" come di ciò oltre cui bisogna andare per intendere l'a11tre111e11t del soggetto si riferisce più a Husserl che n Knnt; di quest'ultimo Lévinns ritiene piuttosto, e con favore, l'nspctto etico pratico». 26 E. LÉVINAS, fitique e! iqfini, 81.
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M. M. Olivetti intravvede già nella tradizione filosofica che fa leva sull'appercezione trascendentale il tentativo di trasformazione intersoggettiva. «In Fichte e in Husserl questo è evidente, ma perfino in Kant della Ragion pura si tende oggi - ispirati da vedute come quella di Ape! e di Habermas - a rintracciare i segni di tale intersoggettività» 27 • Questo tentativo spinto fino alle estreme conseguenze conduce, quasi inevitabilmente, alla trasformazione del soggetto stesso 28 • Possian10 ricavare una prnna conclusione da simili considerazioni: la filosofia prima che si sviluppa nel clima della speculazione trascendentale, se non vuole rimanere prigioniera di un certo solipsismo, tende a dischiudersi alle tematiche intersoggettive. L'intento di Lévinas è quello di compiere questo passo oltre, che nell'etica come filosofia prima si caratterizza come passo metafisico. Abbiamo rilevato come sia importante stare attenti ai facili riduzionismi del pensiero di Lévinas, e, per esempio, porlo soltanto al livello di un discorso edificante, o di un discorso che mira a suscitare soltanto dei buoni sentimenti. In tal senso «forse non si è dato il peso che meritano alle rivendicazioni razionalistiche di Lévinas; laddove la sua speculazione non viene considerata sotto singoli aspetti tecnici, ma piuttosto nel suo assieme, nel suo spirito e significato complessivo, si presenta una certa tendenza a pregiarla come filosofia edificante. Mi pare invece che proprio in ciò che propone di epistemologicamente irriducibile, di 1netafisico, questa filosofia mostra di non essere la
27 M. M. 0LIVETrI,
op. cit., 274. Cfr. !.c. Olivetti così insiste; «io credo che si debba rincttcrc su ciò: se si vuole evitare il solipsis1no dcl cogito, la strada non sarà quella di una iterazione dei soggetti definiti dall"'io penso", cioè di una considerazione al plurale del pri1no dei due tennini della struttura soggctto-oggelto. In effetti oggi si è ampiainentc avvertiti, e si è lunga1nente riOcttuto, sui problc1ni con1portati dalla riduzione dell'altro uo1no a oggcl!o quando egli venga considerato all'interno dcl sapere coinunc e/o scientifico (si pensi alla consapevo'lczza co1nporta1nentisLica della psicologia speri1nentalc e ai rapporti problc1natici che, proprio per ciò, questa intrattiene con la psicologia del profondo (si pensi all'inesausto dihattito tra oricnta1nenli co1nprendenti e orienta1ncnti co1nportainenlistici nelle scienze sociali). Assai meno avvertiti, e assai 1ncno si è riflettuto, invece, sul fatto che i vari tentalivi, passati e presenti, di trasfonnare intcrsoggettivaincnte l'appercezione trascendentale, quanto più riescono, tanto più portano ad una trasformazione dello stesso soggetto». 28
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proposta di un moralista, bensì di un pensatore che perviene ali' etica come filosofia prima a partire dall'interno della filosofia trascendentale e per corrispondere alle esigenze di trasformazione protologica che essa mostra in quel sintomo equivoco [ ... ] ma irresistibile che è l'emergere dell'intersoggettività» 29 • La proposta levinassiana si esplica assumendo i tratti di un personalismo che prende sul serio la radice e lo scopo di un'esistenza che non vuol essere travolta dalla banalità o dall'irrazionale. L'etica come filosofia prima, forse, per riprendere l'immagine cartesiana
dell'albero, si colloca alla radice, che non disdegna però di riferirsi all'ultimo grado della saggezza a cui tocca poi dare dei frutti. Questa è una saggezza che tende a coinvolgere l'intera esistenza. L'etica come filosofia prima si pone come «enfasi dell'ontologia»"' e da questo punto di vista essa è alternativa alla filosofia trascendentale. L'etica è prima, anteriore all'ontologia, «è più ontologica che l'ontologia, più sublime che l'ontologia. Da questo deriva un equivoco in cui essa sembra posta sopra, allorquando è prima. È un trascendentalismo che comincia dal!' etica» 11 • Abbandonata la filosofia prima come ontologia, in quanto si riferisce alla teoria fondamentale del!' essere, Lévinas si dirige verso una concezione differente di filosofia prima. Di conseguenza, ci si chiede, perché l'ontologia non è più la filosofia prima nella speculazione levinassiana? Perché Pontologia come teoria generale
dell'essere non è fondamentale? L'essere è, in effetti, nella prospettiva filosofica di Lévinas, da intendere come conatus essendi, cioè sforzo di essere. Il riferitnento di questa nozione è l'esse perseverandi dell'Etica di Spinoza: «ogni cosa, in quanto è in sé, tende a perseverare nel proprio esserc» 32 . Nello
29
Ibid., 279.
30
E. LÉVINAS, /)e J)ieu que vient à !'idée, Vrin, Paris 1982, 143: «i'éthiquc n'est pas du tout une couche qui vient recouvrir I' ontologie, 1nais cc qui est cn quelque façon, plus ontologiquc quc !'ontologie, une cn1phase de !'ontologie». 31
32
L.c.
B. SPINOZA, Etica, III pars, VI prop., in C. GEl3HARDT, Spinoza ()pera, (Vo!. 2), Carl Winters, Heidelberg 1924, 146: «Unaquaeque res quantuin in se est, in suo esse perseverare conatur».
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spinozis1no lesse è inter-esse, cioè tende a mantenersi nel suo essere, il che risponde in fondo ad una minaccia: cadere nel nulla. Perché l'essere e non il nulla? Domanda fondamentale? L'essere, però inteso così nel suo sforzo di essere si contrappone al nulla. Per cui nel panorama della filosofia lcvinassiana, l'ontologia si occuperebbe dell'essere in rapporto al non essere. Il nuovo programma filosofico viene delineandosi nella prospettiva di una filosofia prima che è diversamente da essere: altrimenti che essere è letica.
2.2 La relazione con autrui
Il principio che fonda l'essere è autrement qu'étre. Prima dell'essere vi è l'alterità. La priorità dell'alterità, quasi un nuovo apriori, campeggia attraverso il pensare diversa1nente; o se vogliarno utilizzare il linguaggio kantiano, una rivoluzione copernicana in cui tutto ruota intorno a questo nuovo sole. Questo sistema tuttavia anziché centrare decentra, denuclea il soggetto a partire dall'altro. II soggetto non è più al centro. Lasciare un clima filosofico non vuol dire rinunciare alla filosofia. Lévinas al contrario, non rinunciando al discorso filosofico, «s'impone la scelta d'un luogo greco della filosofia, per lasciar intendere, a tutti, la singolarità d'un soffio che giunge d'altrove, dei principi rimasti inseparabili dalla lingua ebraica, la quale li preserva attraverso i sccoli»D. La relazione con autrui verrebbe emergendo in una fase particolare del pensiero di Lévinas 14 , che veniva elaborando ed
~.>C. CHALJER, Singularité jui\le e! phi!osophie, in AA. Vv., Les Cahiers de la nuit s11n ei!lée: H11u11a1111el Lévinas, Verclier, Paris 1984, 82. ~ 4 Si veda il saggio di U. V ASQUEZ MORO, El discurso sobre Dios en la obra dc E. Lévinas, UPCivl, Madrid 1982. L'Autore dcl saggio distingue tre fasi nel pensiero lcvinassiano: I.ma fase (1929 - 1951) 2.da fase (1952 - 1964) 3.za fase (1965 - 1979). Fasi che!' Autore articola intorno alle opere più significative di Lévinas: la pri1na fase nel confronto con Husserl e Heidcggcr; la seconda fase con Totalité et lnfini; la terza 1
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esponendo in una cerchia ristretta di intellettuali nel dopo-guerra nel Collège philosophique fondato da J. Wahl 35 . In questo luogo preciso va emergendo una ricerca e una speculazione filosofica che si spoglia di una tradizione ancora prigioniera di un conformis1no sonnolento e pusillani1ne, per assumere nuove vesti, 111 vista di una più fondamentale e radicale riconciliazione con il vissuto, e per cui «la realtà umana non era più definita soltanto dalla ragione o dall'intelligenza ma da questi due intrighi fondamentali: l'incontro d' autrui, la relazione con lessere. Intrighi, e non conoscenze: non è il sapere che dà prioritariamente accesso all'essere o ad autrui, ma dei fenomeni anteriori alla riflessione, dei malori impalpabili, degli stati d'animo, per lungo tempo considerati come ciechi o come
sintomatici»J6 •
fase con autre111e11t qu'étre ou au-delù de f'essence. Credo si possa arfern1are che è sc1nprc difficile spezzare un pensiero che conserva una sua unitarietà nonostante l'arco di te1npo non sia ridotto e abbraccia anche 1non1enti storici non trascurabili. Ci soccorre lo stesso Lévi1u1s, il quale ci invita a prendere in considerazione la con1plcssità di un pensiero tra l'evoluzione e la fedeltà. Ecco cosa a tal proposito egli scrive nella ripubblicazione di Le Ten1ps er l'Autre, Quadrige/PUF, Paris 1979, 7: «écrirc une préface pour la réédition de pages qu'on avait publiécs il y a trcntc ans, c'est presque préfacer le livre d'un autre. Sauf qu'on cn voit plus vite et qu'on cn ressent plus douloureun1ent !es insuffisances». Diversaincntc, nella prefazione alla seconda edizione di De /'existence à l'existant, Yrin, Paris, dcl 1978, Lévinas affcnna a p. 13: «On est certes 1na! venu d'entreprendre un discours oi:t un autcur sen1blc décrirc sa proprc évolution. On s'expose au soupçon de Inettre ]es incohérenecs d'une pcnséc sur le con1pte de son devenir. Mais des "1naitrc'' qui, co1nc à l'école, sont pro1npls à vous corriger et à relever des contradictions et des 111aladresses, sont forte1nent aidés dans leur censure par le caractèrc inévitablen1ent successi[ de toute recherche. Celle qui, cn 1947, inscrivait dans son avant-propos l'intention dc portcr sur le Bien cl sur le Ternps et "sur la relation avec autrui co1n1nc 1nouvcn1ent vers le Bicn" et qui prenail pour guide "la forn1ule platonicienne plaçant le Bicn au dclà dc !'étrc", est rcsLée fidèle à sa finalité rnerne si elle a varié dans sa terminologie, ses forrnules, ses concepts opératoires et certaines dc ses thèscs». li proposito resta irn1nutato, che è quello di descrivere la relazione con autrui coinc 1novin1ento verso il Bene. 35 Cfr. A. FlNKLELKRAUT, La sagesse de f'an1011r, Galli1nard, Paris 1984, 14. Nel pri1no capitolo dal titolo La rencontre d'autrui di questo saggio si legge: «au lenden1ain de la Libértation, Jean Wahl fonde, à Paris, rue dc la Montagna-Saintegeneviève, le Collège philosophique. Cctte institution, aujourd'hui co1nplèternent oubliéc, fut, pendant quclques années, le Jieu de la pensée vivante en France. S'y donnaient à entendre, en effct, dcs discours non acadé1niques, des recherches nouvclles, dcs prospcctions risquées qui n'avaient leur piace ni dans l'Université, ni dans le grandes revues de plus en plus rnobilisées par les coinbats du tc1nps» (I.e.). 16 lbid., 16-17.
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In questo ambito il pensiero di Lévinas commciava ad essere apprezzato e assu1neva una sua precisa collocazione che non trovava riscontro negli intellettuali del tempo e di grido che si dividevano il campo nelle conferenze e nei dibattiti. In questo senso «l'opera di Lévinas non era conosciuta e apprezzata che da una cerchia di specialisti: lo si ascoltava al College filosofico, ma le sue parole non incontravano ancora d'eco nei grandi dibattiti del dopo-guerra. Bisognerà aspettare più di trent'anni perché il pubblico di questo filosofo discreto ed esigente oltrepassi il quadro dei tecnici della filosofia, e il suo lavoro riecheggi in ultimo sulla vita intellettuale»". L'incontro con autruì rappresenta un superamento di quella prospettiva filosofica che contemplerebbe soltanto un privilegio della conoscenza, in cui si incontrerebbe autrui soltanto intenzionalmente, secondo cui l'altro attraverso la rappresentazione verrebbe ricondotto inevitabiln1ente alla "presenza" o alla "co-presenza"JH, L'aver posto l'accento sulla relazione con autrui conduce Lévinas a parlare di etica come filosofia pri1na, 1'attenzione nei confronti d' autru i racchiude il proposito di una ridefinizione dei rapporti nozionali e filosofici. E da questo punto di vista, non possiamo non fermarci un istante sul significato terminologico di autrui: «a) la parola "autrui ha sempre un senso indefinito e collettivo. b) non può impiegarsi senza solecismo più che in valore di regime (diretto o indiretto) e mai come soggetto. Per cogliere l'altro al singolare in opposizione "agli altri", la lingua precisa: la persona d' autrui»'". Tuttavia, secondo Derrida, malgrado le apparenze «non c'è concetto d'autrui. Bisognerebbe riflettere in maniera artigianale, nella direzione in cui filosofia e filologia si controllano, uniscono la loro preoccupazione e il loro rigore a questa parola Autrui, posta in silenzio dalla maiuscola che ingrandisce la neutralità del!' altro, e in 11
.n lbid., 17-18. 38
Cfr. E. LÉVINAS, Le te111ps et l'autre, 8-9: l'intenzionalità secondo Lévinas fondan1entalmcntc «recèle la représentation et ran1ène l'autre à la préscnce età la coprésence». 39 F. JACQUES, Dialogiques. Recherches logiques sur le dialogue, P.u.r<., Paris 1979, 16.
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cui noi ci serviamo familiarmente mentre è il disordine stesso della concettualizzazione. È soltanto un nome comune senza concetto? Ma innanzitutto è un nome? Non è un aggettivo, né un pronome, è dunque nn sostantivo - così lo classificano i dizionari - ma un sostantivo che non è, come abituahnente, una specie di nome: né nome comune, poiché non sopporta, come nella categoria dell'altro in generale, del!' eteron, l'articolo definito. Né il plurale»"'· Una tale precisazione terminologica ci permette di stabilire che la nozione di autrui ha come riferimento una singolarità che nel linguaggio comune chiamiamo persona. Una tale precisazione ci permette di affermare storicamente che, sebbene la nozione d' autrui venga ripresa con particolare insistenza dal personalismo filosofico recente, la filosofia classica e moderna già conosceva l'insistenza sulla singolarità dell'esistenza personale". La nozione di aulnti richiama soprattutto la singolarità personale che si trova di fronte ad un'altra singolarità, ad un Io: nell'esperienza esistenziale del dialogo o del saluto emerge la relazione fondamentale dell'essere posti "faccia a faccia". Da tale relazione con autrui, Lévinas coglie quasi l'urgenza della svolta etica della sua speculazione: il modo come autrui entra in questa relazione è decisivo in vista del primato etico della filosofia. Occorre, però secondo Lévinas, considerare che la posizione che occupa «autrui in quanto autrui non è soltanto un alter ego, è ciò che io non sono. Lo è
40 J. DERRIDA, L 'écriture et la dijférence, Seui!, Paris 1967, 154-155. L'Autore continua con questa annotazione: «dans la locution de chanccllerie "l'aufrui'', il ne raut pas prendre le pour l'arlicle d'autrui: il y a sous-entendu bien, droit; le biell, le droit d'autrui, note Littré qui avait cointncncé ainsi: Autrui, de a!ter-huic, cet autre, à un cas régitnc; voilà pourquoi autrui est toujours au régi1ne, et pourquoi autrui est 1noins général que !es autres» (ibùl., 155). '11 Si veda P. P. GILBERT, La se111plicità del principio. Introduzione alla n1etq/isica, Pie1n1ne, Casale Monferrato 1992, 345-356. In particolare i! § b) «il soggetto, l'individuo e la persona», in cui l'Autore distinguendo tra soggetto, individuo e persona, attraverso la tradizione classica e 1noderna fino alla filosofia personalista recente, giunge ad affern1arc che «Se la persona è relazionale (ciò che non vuol dire relativa), non è né indipendente co1ne un individuo con i suoi soli diritti, né dipendente co1ne un soggetto con i suoi soli doveri; è autonoma, responsabile delle sue relazioni» (ibid., 351).
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non a causa del suo carattere, o della sua fisionomia, o della psicologia, ma a causa della sua stessa alterità» 42 . L'etica come filosofia prima nella nozione d'autrui mostra la peculiarità della resistenza: autrui è resistenza etica, infatti «ciò che sfugge al concetto come potere, non è dunque l'esistenza in generale, ma l'esistenza d' autrui» 4 3; in ultima analisi, resistenza significa che autrui, nella concezione levinassiana, riveste il carattere di inafferrabilità per il sapere con-prensivo. Lévinas, mettendo in rilievo la relazione con autrui, m fondo non desidera altro che prendere sul serio la soggettività, e quel che comporta il rapporto con una esistenza singolare. E per far questo occorre riconoscere il ruolo e/o la priorità d'autrui. È l'alterità come tale che non può essere negata e che nel corso della storia della filosofia riveste un significato non indifferente all'interno della speculazione stessa. Il de Finance riscontrando l'importanza di tale priorità filosofica distingue tre tipi di alterità: «I. L'alterità oggetto-oggetto o alterità al di .fìwri. 2. L'alterità soggetto-oggetto o alterità dal di fuori. 3. Un'alterità interiore al soggetto o alterità dell'interno. La prima è percepita, la seconda vissuta, la terza in parte vissuta e in parte conclusa» 44 . Secondo questa triplice distinzione emerge in maniera
inequivocabile che l'alterità affiora dovunque vi sia relazione fra soggetti. L'alterità viene tematizzata da quei filosofi che hanno messo in particolare evidenza la relazione intersoggettiva; e se proviamo per un momento, secondo de Finance, ad oltrepassare «le modalità contingenti, che solo l'esperienza insegna, reperiamo due tipi irriducibili e originali di relazioni: la relazione lo-tu e la relazione loCiò»45. Questi tipi di relazioni sono messi in particolare evidenza da
42
E. LÉVINAS, Le te111ps e! !'a11tre, 75.
4 -'
J. DERRJDA, l 'écriture et la différence, 154. 44 J. ùc FINANCE, [)e l'un et de /'autre. Essai sur l'a!terité, Gregoriana, Ro1na 1993, 3. Precisiarno che questo volume rivisto e corretto riprende il saggio L'affronte111enl de l'autre. 45 Jbid., 9.
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Buber nel suo !eh und Du 46 , testo fondamentale nello sviluppo della filosofia del dialogo. In un senso del tutto differente, sottolinea il de Finance, nella filosofia di J. P. Sartre non vi è posto per l'alterità perché manca la relazione. L'in-sé sartriano rifiuta la relazione: «è ciò che è; questo significa che, da se-stesso, non potrebbe neanche non essere ciò che non è; abbiamo visto in effetti che non circoscriveva alcuna negazione. Egli è piena positività. Non conosce dunque alterità: non si pone 1nai come altro da un altro essere; non può sostenere alcun rapporto con I' altro» 47 . L'altro in quanto autrui è colui che io non sono, è colui con il quale io non posso coincidere. «La psicologia per lungo tempo si è accontentata di opporre la conoscenza dell'oggetto alla conoscenza del soggetto, il Questo è ali' lo sono. Ora c'è un terzo genere di rapporto noetico che è il rapporto intersoggettivo Io-Tu. li Te (o se si preferisce il Tu) si dà al soggetto, all'ego, secondo un modo d'apprensione, irriducibile alla pura oggettività senza che per questo il soggetto resti murato in se stesso e nei suoi stati d'animo soggettivi: al contrario, è allora che si apre vera1nente» 48 . Il rapporto Io-Tu non si presenta come un'astrazione, oppure come una pura ipotesi di lavoro, viene invece consegnandosi ad una situazione esistenziale ben precisa: infatti dal momento in cui noi parliamo a "qualcuno'', ci si apre ad autrui non in termii:i noetici. Nella situazione umanissima dell'incontro, colui al quale si parla si rivela essere «il partenaire di una comunicazione uniana, fJersonale» 49 •
46 M. 13UBER, Das diafogisc/Je PrinzJp, Schncidcr, Grundworte sind nichl Einzclworte, sondcrn WorLpaarc. Wortpaar Ich-Du. Das andere Grundwort ist das Wortpaar an sieh, sondcrn nur das !eh des Grundworts Ich-Du und
Heidelberg 1984, 7-8: «Die Das eine Grundworl ist das !eh-Es.[ ... ]. Es gibt kein Ich das leh des Grundworts Ieh-
47 J. P. SARTRE, l'étre et le néant, Gallin1ard, Paris 1943, 33-34. Testo citato dal de Finance, in !Je l'un et de /'autre, alla pagina 6 nota n° 8. 48 J. de FINANCE, op.ci!., 9. 49 Jbid., 10.
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La relazione ad autrui nel pensiero di Lévinas è pertanto la relazione con una persona singola, la quale anche se intesa come essere, ogni qual volta la si incontra, ci si rivolge ad essa, il che vuol dire che «non penso soltanto ch'essa è, ma le rivolgo la parola»'"· Io mi rivolgo a qualcuno, parlo a qualcuno. La relazione con autrui è il superamento dell'ontologia, il che in sintesi significa che autrui non è più un oggetto di conoscenza ma un soggetto incontrato. Autrui pri1narìamente lo si incontra, l'uomo quindi incontra l'uo1no prima ancora di conoscerlo. Questo incontro si esprime nella parola: io parlo ad un ente particolare, parlo a qualcuno. Lasciata la dimensione ontologica, che porterebbe a parere di Lévinas ad impossessarsi dell'altro e a consumarlo come un oggetto, si tratta di dire altrimenti la relazione con autrui. «Se si vuole - continua Lévinas - comprendo l'essere in autrui, al di là della sua particolarità di ente; la persona con la quale io sono in rapporto la chiamo essere, ma chiamandola essere io la chiamo. [ ... ]. Io le ho parlato, cioè ho trascurato l'essere universale ch'essa incarna per attenermi all'ente particolare ch'essa è»51.
L'incontro prima ancora che diventi resistenza al potere o alla conoscenza si manifesta essenzialmente come atteggiamento insito e specifico dell'essere umano in quanto tale, per cui «l'uomo è l'unico essere che io non posso incontrare senza esprimergli questo stesso incontro»". Autrui, quindi, non è da mettere sullo stesso piano di un oggetto con-prenso, di qualcosa di cui si dispone. Autrui è colui che prima di tutto si incontra e si saluta. In tale prospettiva, precisa ancora Lévinas, «in ogni comportamento umano nei confronti dell'essere umano c'è il saluto persino quando si esprime come rifiuto di salutare» 53 . Ci si avvicina ad autrui non solamente con il preciso intento della conoscenza. Occorre dire piuttosto che non ci si può avvicinare ad autrui senza prima rivolgergli la parola, senza parlargli.
so E. LÉVINAS, 1-!:ntre nous. Essais sur le penser-à-l'autre, Grassct, Paris 1991,
19. si
s2 53
L.c. L.c. L.c.
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Grazie a quest'ultima argomentazione, possiamo affermare ulteriormente che la priorità etica d' autrui si evidenzia innanzitutto come rifiuto della priorità della conoscenza ontologica, che Lévinas traduce con un'espressione quasi lapidaria: «la relazione con autrui non è dunque ontologia» 54 • La resistenza etica alle categorie ontologiche non è nell'intento levinassiano solo un passo negativo. La relazione etica, così come viene intesa dal nostro Autore, presenta invece i tratti di un itinerario positivo, poiché dire relazione con autrui significa in maniera radicale un invito ad uscire da sé.
2.3 Dal medesimo all'altro A questo punto arrivati, ci sembra non trascurabile il posto che nella riflessione levinassiana occupano i grandi generi. Il medesimo e l'altro è il titolo della prima parte di Totalité et ll1fini; titolo che ha un evidente riferimento alle ipotesi del dialogo platonico il Sofista. Il medesimo e l'altro sono due termini insopprimibili, che rivelano in sostanza ciò che già all'alba del pensiero filosofico veniva emergendo come fondamentale per l'articolazione dcl pensiero stesso. Platone in questo dialogo, il Sofista, definito di seconda maniera, introduce tra i generi sommi: il medesimo e l'altro 55 . L'Ospite di scuola eleatica dopo aver proceduto alla formulazione dei generi sommi (l'essere, il moto, la quiete), deduce i generi "medesimo" e "altro" da questi primi tre generi. Ciascuno dei primi generi è altro rispetto agli altri due, medesimo rispetto a se stesso. Da cui la conclusione che il medesimo e l'altro fanno parte dei sommi generi. Il movimento che si approfondisce incessantemente tra il medesimo e laltro fa emergere una distanza tra ciò che è identico a sé, e nient'altro che sé, e l'altro tutt'altro che il sé, poiché non è il sé. C'è comunque continuamente un rinvio dall'uno all'altro, che pone in essere entrambi i generi. In questo movimento che va dall'uno
L.c. Ctì·. PLATONE, Il Sofista, Latcrza, Bari 1982 254c-255e. I tcnnini greci per designare il 1ncdesi1no e l'altro sono: tautòn e éteron, così in Sof. 255a. 54 55
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all'altro si scorge una integrazione dei due generi. Il medesimo è immanente all'altro in quanto altro, il quale per distinguersi deve essere identico a sé; ma c'è una immanenza dell'altro nel medesimo, il che fa sì che il medesimo non sia l'altro. Il movimento che porta dal medesimo all'altro dice nello stesso tempo un'integrazione e un'opposizione. Questo dialogo platonico ci porta, forse, a cogliere meglio ciò che Lévinas chia1na separazione. La separazione è, infatti, secondo rindicazione levinassiana, la condizione perché vi sia relazione tra il
medesimo e laltro. Tutto ciò che si pone come medesimo è se stesso poiché nel momento in cui si pone, si oppone distinguendosi. Niente è se stesso senza essere altro che il resto. Lo Straniero eleate così si esprime: «ora, noi constatiamo assolutamente, tutto ciò che è altro ha come carattere necessario di essere ciò che è relativamente ad altro da sé» 56 . I massimi generi del medesimo e dell'altro vengono a mettere in rilievo, tra i rapporti che si instaurano nella serie dei generi, che ciò che è se stesso è sempre altro in rapporto a tutto il resto. L'alterità sembra, però, mostrarsi nella affermazione dello Straniero eleate relativa, cioè vincolata ad un rapporto. È quanto ribadisce Derrida nella critica a Lévinas: «lo Straniero del Sofista che sembra rompere con l'eleatismo, come Lévinas,. in nome dell'alterità, sa che l'alterità si pensa come negatività, si llice con1e negatività - ciò che Lévinas con1incia con i I rifiutare - e che a differenza dell'essere, l'altro è sempre relativo, si dice pros eteron questo non lo impedisce d'essere un eidos (o un genere in un senso non concettuale), vale a dire d'essere identico a se stesso» 57 . Derrida pensa ad una alterità nel complesso relativa all'identico a cui fondamentalmente appartiene, e in questo senso si chiede: «come pensare o dire autrui senza il riferimento - non diciamo la riduzione
- all'alterità dell'eteron, in generale? Quest'ultima nozione non ha quindi più il senso ristretto che permette di opporla semplicemente a
56
lbid., 255 c.
57
J.
DERRTDA, op. cit., 186.
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quella di autrui, come se essa fosse confinata nella regione dell'oggettività reale o logica. L'eteron apparterrebbe qui ad una zona più profonda e più originaria di quella nella quale si dispiega questa filosofia della soggettività (vale a dire dell'oggettività) ancora i111plicata nella nozione d' autrui» 58 . L' eteron a cui si richiama Derrida apparterrebbe ad un ambito più originario e profondo a cui occorrerebbe far riferimento, il che significa: dentro cui ogni cosa troverebbe la propria spiegazione. La filosofia levinassiana, dispiegandosi all'interno di una filosofia della soggettività, lascia la dimensione del pensiero rappresentativo per cogliere l'uomo in guanto soggetto, cioè come ipseità particolare che, in quanto ipseità, è posta al di fuori di sé da autrui. In contrasto con quanto verrebbe sottolineato da Derrida, che
porrebbe l'esperienza originaria nella relatività dell'alterità all'identità come zona più originaria e più profonda, Lévinas scorge invece che l'esperienza originaria è «il faccia a faccia - relazione ultima e irriducibile che nessun concetto potrebbe circoscrivere senza che il pensatore che pensa questo concetto si trovi subito di fronte ad un nuovo interlocutore - rende possibile il pluralismo della società» 59 . La struttura della realtà stessa che precede la libera iniziativa del soggetto viene emergendo dal fatto che l'io non si sia scelto gli altri, l'io si trova in seno ad una molteplicità: «l'essere si produce come
multiplo e come scisso in Medesimo e Altro. È la sua struttura ultima [ ... ]. Usciamo così dall'essere parmenideo» 611 • La relazione che si stabilisce e si assolve nello stesso tempo tra il medesimo e l'altro è il problema filosofico che nel pensiero di Lévinas si chiama etica. Il medesimo e laltro, che entrano nella suddetta relazione chia1nata da Lévinas etica come filosofia prima, si pongono con1e termini assolutamente separati. La separazione costituisce i ter1nini stessi di tale relazione. La relazione è nella separazione, irrisolta. Dal medesimo all'altro, «la separazione radicale tra il Medesimo e lAltro,
58 59
!bid., 186-187. E. LÉVINAS, Tota!ité et fl\/i'ni. Essais sur /'extériorité, M. Nijhoff, La Hayc
1974, 267. 60
Ibid., 24 7.
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significa precisamente che è impossibile porsi al di fuori della correlazione del Medesimo e dell'Altro per registrare la corrispondenza o la non-corrispondenza di quest'andata e ritorno. Altrimenti, il Medesimo e l'Altro si troverebbero riuniti sotto uno sguardo comune e la distanza assoluta che li separa sarebbe colmata»". Il rifiuto di qualsiasi risoluzione di un termine all'altro immette in una relazione diversa da quella ontologica che nella filosofia occidentale è venuta manifestandosi come riduzione dcli' altro al medesimo. Il tentativo levinassiano mira al superamento di una tale riduzione dell'altro nel medesimo per asserire. una relazione altra. In tale prospettiva, la speculazione del nostro Autore non può non presupporre una separazione originaria, dalla quale emerge in maniera radicale l'alterità d'autrui. «L'assolutamente Altro è Autrui» 62 , il quale entra in relazione con un io separato che si origina coine psichismo. Questa relazione che non si ri-solve, si svela co1ne faccia-a-faccia, delinea una distanza in profondità''. La relazione tanto più si approfondisce quanto più cresce la distanza. Questa relazione rifiuta ogni totalizzazione del medesimo e dell'altro, ogni comprensione in un tutto o in una uniformità comune.
61
lbid., 6. Ibid., 9. 6 :> lbid., 9-10: «une relation dont Ics termes ne fonnent pas une totalité, ne pcut donc se produirc dans l'éconornic généralc dc l'élre que co1nn1e allant dc Moi à [' Aulre, camme face-à-face, co1nn1e dessinant une distancc cn profondcurcelle du discours, de la bonté, du Désir - irréductiblc ~1 celle quc l'activité synthétique de l'entende1nent établit entre le tern1es divers - autres les un.s par rapport aux autres qui s'offrent à son opération synoptiquc. [... ]. L'irrèvcrsihilité du rapport ne pcut se produire que si le rapport est accompli, par l'un des tennes du rapport, co1n1nc le n1ouvcmenl 111e1ne dc la transcendancc, con1n1e le parcours de cettc distance et non con11ne un enrcgistre1nent ou l'invention psychologique ùc ce n1ouvcment. La "pensée", l'intériorité, soni la brisure n1e1ne de l'étre et la production (non pas le reflet) de la transcendance. Nous ne connaissons celte relation - par cela 1néme re1narquablc - que dans la mcsurc oli nous l'cffectuons. L'altérité n'est possible qu'à partir de nuJi>>. Questo lungo testo è la conferma che la relazione si approfondisce quanto più cresce la distanza, cioè la distanza che intercorre tra 1ne e l'altro non è abolita, in questo senso è possibile comprendere l'espressione «l'alterità è possibile solo a partire da 1ne». 62
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Lévinas dichiara che «il faccia a faccia resta la situazione ultima» 64 • In questa situazione si dissolve ogni pretesa totalitaria e si mostra invece un legame che trascina l'uomo ad altro da sé. L'uomo si coglie in una relazione che lo oltrepassa in maniera smisurata. «Questa misura
sarà adesso avvicinata nell'analisi del faccia a faccia come situazione ultima, come testimonianza dell'irriducibilità dell'esteriorità che induce un pensiero dell'attenzione e dell'accoglienza, non della comprensione o tematizzazione. Così si penserà anche positivamente
la separazione nell'accoglienza stessa di ciò da cui essa si separa» 65 . La misura dell'uomo è ciò che è posto dinanzi come infinitamente separato. L'infinito intervallo della separazione che va dal medesimo all'altro rivela sempre una relazione non uniformante, non conprensiva che rinvia l'uno all'altro senza mai totalizzarsi, l'uno e laltro legati da una relazione etica. Secondo Lévinas questa relazione sociale «non è inizialinente una relazione con ciò che oltrepassa l'individuo, con qualcosa di più della somma degli individui e superiore agli individui, nel senso durkheimeniano. La categoria della quantità, come quella della qualità non descrivono l'alterità dell'altro il quale non è semplicemente di un'altra qualità rispetto a me, ma che porta, se lo si può dire, l'alterità come qualità. Ancora meno il sociale consiste nell'imitazione del simile. In queste due concezioni la socialità è cercata come ideale di fusione. Si pensa che la mia relazione con l'altro tende a identificarrni con esso inabissandomi
nella rappresentazione collettiva, in un ideale comune o in gesto comune. È la collettività che dice "noi", che sente l'altro accanto a sé e non di fronte a sé» 66 . Lévinas ci tiene a precisare che la comunità originaria, se così
possiamo dire, è caratterizzata dall'intervallo mai colmato che intercorre tra il medesimo e l'altro. La collettività di compagni che stanno l'uno accanto all'altro nella visione levinassiana è preceduta dalla collettività dell'io-tu, che «non è la partecipazione ad un terzo tern1ine - persona intermediaria, verità, dogma, opera, professione,
64
lbid., 53.
65
C. CHALIER, J11dais111e et a!térité, Verdier, Paris I 982, l 43-144. E. LÉVINAS, De l'existence à l'existant, 161-162.
66
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interesse, abitazione, pranzo - vale a dire non è una comunione. È il faccia-a-faccia temibile di una relazione senza intermediario, senza n1ediazione» 67 . Una relazione che non lascia intravvedere una
opposizione dialettica nella quale il medesimo si oppone all'altro, né una unità sintetica in cui il medesimo e l'altro si conciliano nell'unità. Questa relazione lascia intravvedere un al di là e un al di qua. Vista questa ultima considerazione la speculazione levinassiana non può essere pensata semplicemente come filosofia della differenza tout court o più ancora, come facilmente si riscontra nella stragrande maggioranza degli interpreti del pensiero di Lévinas, come filosofia dell'alterità, che rischia di essere rinchiusa in un anonimo indistinto. È invece all'interno di una eterogeneità e nella relazione tra l'io e autrui che bisogna cercare il significato. «Questa eterogeneità e questa relazione tra i generi a partire dai quali la società e il tempo devono essere compresi - ci conducono alla soglia di un'altra opera. Al cosmos che è il mondo di Platone si oppone il mondo dello spirito, in cui le implicazioni dell'eros non si riducono alla logica del genere, in cui l'io si sostituisce al 111edesilno e autrui all'altro» 68 • Il n1ovin1ento che va dal medesimo all'altro diviene la relazione di apertura che va dall'io ad autrui, un movi1nento di trascendenza, di uscita da sé verso un'altra riva.
3. L'altro nel medesimo
Nell'arco della riflessione levinassiana l'opera che più si presenta, per la sua veste siste1natica, come opera, poiché strutturata e
67
lbid., l 62. Ibid., 164. In un'allro testo il nostro Autore precisn il suo pensiero inostrando coine la relazione etica difficilinente riesca a snodarsi nelle Lrarnc dcl pensiero. Questa relazione etica pur annodandosi nel discorrere del linguaggio si rifiuta nel 1no1ncnto in cui il sapere si mostra co1ne totalizzante e padroneggiante: «nous appcllons éthiquc une relation entre des Lern1es où l'un et l'autre ne sont unis ni par une synthèse de l'entcndement ni par la rclation dc sujet à objct et oi1 ccpendant l'un pèsc ou importe ou est signifiant à l'autre, où ils sont liés par une intrigue quc le savoir ne saurait ni épuiser ni dé1neler» (E. LÉVJNAS, En découvrant /'existence avec Husser{ et Heidegger, Vrin, Paris 1982, 255 nota 1). 68
L'etica -come filosofia prima nel -pensiero di Lévinas -------------
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pensata come tale, è senz'altro Totalità e Infinito, progettata come libro e non come raccolta di articoli come risultano essere, invece, la maggior parte dei contributi della speculazione di Lévinas. Ci chiediamo se questa procedura non risponda, forse, allo spirito del contributo filosofico levinassiano che non vuole lasciarsi imbrigliare nel sistema, per cogliere invece il suono di una voce che proviene d'altrove.
3.1 L'irriducibilità d'autrui In Totalità e Infinito l'espressione che sembra esplicitare la direzione speculativa intrapresa dal nostro Autore è contenuta nello stesso sotto-titolo del libro: Saggio sull'esteriorità. L'esteriorità, come nozione, di primo acchito si contrappone ad interiorità. Lévinas, con questo rilievo, nega forse l'interiorità? Ogni filosofia della soggettività secondo questo saggio verrebbe irrimediabilmente messa da parte? Una analisi in superficie del saggio in questione potrebbe certamente indurre il lettore a simili conclusioni. Da un'analisi più attenta del saggio Totalità e Infinito viene fuori non tanto I' opposizione tra esteriorità e interiorità quanto invece lo spostamento di considerazione dalla "negazione" alla "tnera vi g I i a" 69 • L'opposizione e Ja negazione come si è notato altrove, sono momenti essenziali nella dialettica hegeliana, in cui viene affermata la logica della totalità e quella del sistema. Grazie alla relazione che si stringe con autrui, Lévinas può far venir fuori la reale consistenza del soggetto, la sua stessa nascita"'. Ponendo laccento
69 Cfr. E. LÉVINAS, Tota!ité et !1~fi11i, 269; «L'exlériorité n'cst pas une négation 1nais une 1nerveillc». 7 Cfr. A. FrNKlELKRAUT, La sagesse de /'a111our, 28. La nascita ùci soggetto scaturisce da un intrigo, decisivo per la singolarità del soggetto stesso: «CC qui intércsse Lévinas, co1n1ne Sartre, c'cst la situation par cxcellencc oli l'on n'est pas seul. Et, fidèle cn cela à la leçon hégélicnne, il fait remontcr la naissance du sujet à l'intriguc nouéc avec autrui. Mais cettc intrigue est très singulière: c'cst ni un conflil qu'elle 1nct en scène, ni pour autant, une idylle. Pour décrirc la rencontre del' Autre, Lévinas conteste à la fois le modè!e pastora!, et le 1nodèle co1nbattant. Il renvoic dos à dos la niaiserie dc la réciprocité sans nuagcs et J'i1nage impitoyabvle dc la luttc pour
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sull'esteriorità, il nostro Autore, intende piuttosto rilevare che, la molteplicità nella pluralità dei soggetti non si fonde in unità. L'alterità si manifesta a partire da questa molteplicità: ritroviamo qui la terza della triplice accezione di alterità del de Finance, che ci sembra raggiungere quello che afferma Ricoeur nel suo ultimo contributo speculativo". Il Ricoeur riconduce il problema dell'alterità nel cuore stesso dell'ipseità, il che in altre parole significa, «che l'alterità non si aggiunge dal di fuori all'ipseità, come per prevenirne la deriva solipsista, ma eh' essa appartiene al tenore del senso e alla costituzione ontologica dell'ipseità» 72 • Tale polisemia dell'alterità si manifesta sotto una triplice dimensione esistenziale che, senza dimenticare l'ipseità, (per Ricoeur, l'alterità è unita all'ipseità; da qui il titolo: Se stesso come un altro), dà vita a guanto segue: I. Il corpo proprio o la carne. 2. L'alterità d'autrui. 3. La coscienza7J. La pnma accezione di alterità rinvia ali 'esperienza fondamentale del proprio corpo, secondo la quale esperienza si ravvisa nel proprio corpo lazione di un agente che agisce dal di fuori. Da questo punto di vista occorre, ancora, mettere in evidenza ciò che è proprio dell'interrelazione tra l'agente e il paziente, pur nella varietà di questa interrnlazione. «Il corpo proprio si rivela essere il mediatore tra l'intimità dell'io e l'esteriorità del mondo» 74 . Maine de Biran, Merleau-Ponty, Gabricl Marccl e più recentemente Miche! Henry sono tra gli autori 71 che più si sono occupati di questa fondamentale dimensione della ipseità che si costituisce a partire da la reconnaissance. Sans du tout s'abandonner au charme sirupeux dcs utopics rétrospcctivcs, sans ton1ber dans la nostalgie souriantc et 1nièvrc d'un àge d'or oli !es honl!ncs s 'ain1aient, Lévinas refusc de concéder à la guerre le pri vilège dc ! 'origine)). 71 Cfr. P. RTCOEUR, Soi-111é111e co1111ne un aurre, Seui!, Paris 1990. 72 Ibi d., 367. L'Autore del saggio richimna la polisemia dell'alterità facendo riferin1ento alla prin1a parte dello stesso studio dove invece aveva 1nesso in luce la poliscn1ia dell'ipseità. Pertanto Ricoeur affenna che «la polysémic de l'ipseité la prc1nière re1narquèc, sert en quclque sorte Je révélateur à l'égard de la polysé1nic de l' Autrc, qui fait facc au Memc, au sens de soi-memé (ibid., 368). 73 Cfr. ibid., 369-410. 7
·' 75
lbid., 372.
Cfr. ibid., 371; «il faudrait, dans celte perspcctive, parcourir le travail conceptuel qui s'cst fait depuis !es Traités classiqucs des passions, en passant par l'\1aine de Biran, jusqu'à la 1néditation de Gabricl Marce!, dc Merlcau-Ponty et de Miche! Henry, sur !'incarnation, la chair, l'affectivité et l'autoaffectio1n>.
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un'azione subita76 • Da non dimenticare anche le considerazioni di Husserl nelle Meditazioni cartesiane 71 , che attraverso la distinzione tra Leib e Korper, cerca di cogliere il corpo organico nella sua decisiva distinzione da tutti gli altri perché si affermi la sua particolarità unica, cioè si imponga il corpo vissuto, che non è il corpo fisico che si trova nella sfera della natura pura e semplice: «tra i corpi di questa "Natura", ridotta a ciò che mi appartiene io trovo il mio proprio corpo organico (Leib) distinguendosi da tutti gli altri da una particolarità unica; è, in effetti, il solo corpo che non è soltanto corpo, ma precisamente corpo organico»"- È attraverso il corpo e ciascuno dei suoi sensi che io percepisco; è attraverso il mio corpo che io agisco"L'alterità d' autrui non può non essere considerata che a partire dalla più fondamentale alterità della corporeità. «Senza la prima alterità, quella dei corpi (e autrui è dall'inizio del gioco un corpo), la seconda non potrebbe sorgere. Bisogna pensare insieme il sistema di queste due alterità, l'una inscritta nell'altra»"'. Questa constatazione conduce ali 'affermazione che l'alterità d' autrui si radica in ciò che gli è di più proprio. In questo senso Husserl, secondo Derrida, sottolinea che l'altro è sempre un alter ego, cioè «l'altro come alter ego, questo significa l'altro come altro, irriducibile al mio ego, precisamente perché è ego, perché ha la forma dell'ego. L'egoità 11
11
,
76 Cfc I.e.: «J'ai1ncrais, au début dc cc bref survol, rcndrc justice ~l cclui qui a ouvcrt ce chantier du corps proprc, h savoir Maine de Biran: il a véritable1nent donné une dimention ontologique appropriée à sa découverte phéno1nénologiquc, cn dissociant la notion d'existencc dc celle de subst<lnce, et en la rattachant à celle d'acte».
77 E. HuSSERL, Méditations cartésiennes, 80~82. 78 Jbid., 80. 79 Cfr. ibid., 81. 1n questo senso Husserl confcnna che «c'cst le seul corps don! je dispose d'1111e façon ù11111édiate ainsi que chacun de ses organes. Je perçois avcc Jes n1ains (c'esr par Ics 1nains que j'ai - et que je puis toujours avoir dcs perceptions cinesthésiques et tactiles), avec les yeux (e' est par ]es yeux que je vois), etc.; et ees phénon1ènes cinesthésiques des organes forment un flux de 1nodes d' action et relèvenl de mon "je peux". Je peux ensuite, en inettant en jeu ces phéno1nènes cinesthésiques, hcurter, pousser, etc.; et ainsi agir par 1non corps, i1111nédiatement d'abord, età l'aidc d'autre chosc (médiate1nent) ensuitc. Puis, par rnon activilé perceptive, j'ai l'expérience (ou je peux avoir l'expérience) de toute "nature", y con1pris celle de 111011 propre corps qui par une espèce dc "réflexion" se rapporte ainsi à Jui-rneme» (/.c.). 80 J. DERRIDA, L 'écriture et la dijférence, 183.
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dell'altro gli permette di dire "ego" come me, perciò è autrui e non una pietra o un essere senza parola nella inia econon1ia reale» 81 .
Secondo questa interpretazione autrui non emergerebbe come tale senza lio. Ora, è proprio da questa concezione che Lévinas vuole distanziarsi, per cui non c'è si1nmetria tra l'io e autrui. La priorità di autrui richiama che non c'è comune misura tra l'uno e l'altro; paradossalmente, nel percorso levinassiano proprio questa priorità comporta l'affermazione della soggettività. Con l'affermazione della nozione di esteriorità, l'interiorità che sembrava essere negata viene, invece, ponendosi sempre più cotne interiorità.
3.2 Esteriorità e separazione La nozione di esteriorità in Totalità e Infinito non può essere articolata senza quella di separazione, la quale indica una pluralità che ha come intento preciso quello di sfuggire alla totalizzazione. È infatti all'interno di tale nozione che Lévinas sviluppa la tesi principale del saggio, affermando una infinita distanza che non distrugge la relazione e viceversa. Lévinas per 1nettere in luce tale trascendenza rifiuta una logica di tipo dialettico la quale contemplerebbe nel momento della negatività l'opera di appropriazione del medesimo che si mostra incapace di trascendenza, per cui afferma che «la negatività è incapace di trascendenza. Questa designa una relazione con una realtà infinitamente distante della mia, senza che questa distanza distrugga per tanto questa relazione e senza che questa relazione distrugga questa distanza» 82 . Il saggio Totalità e Infinito rnota, quindi, intorno alla nozione di esteriorità. Questa mette in particolare evidenza il ruolo non di secondo piano della soggettività; che traluce nella relazione tra esseri separati, relazione che si sviluppa tra dipendenza e indipendenza. L'esteriorità si spiega, come abbiamo visto, a partire della nozione di separazione. Lévinas attraverso la nozione di separazione
81
Ibid., 184.
82
E. Ll~VINAS, Totalité et Infini, 12.
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l 8I
disegna l'esteriorità per riproporre una filosofia della soggettività. «L'essere è esteriorità e l'esteriorità si produce nella sua verità in campo soggettivo, per l'essere separato»". La nozione di separazione è quella che meglio definisce la soggettività da cui scaturisce un diverso approccio all'interiorità. È infatti attraverso la nozione di separazione che Lévinas si dirige verso una nuova riscoperta della soggettività e dell'interiorità. La separazione insiste in modo del tutto peculiare sull'indipendenza del soggetto che in quanto autonomo non deve niente ali' altro. La relazione di cui parla Lévinas e che si instaura tra termini separati, che prende le mosse dalla separazione del medesimo e dell'altro, crediamo possa trovare una sua complessa articolazione sul motivo, mai propriamente tematizzato dal nostro Autore, della creazione 1M. L'idea di creazione ex nihilo è presente nelle tre grandi religioni monoteistiche quali sono l'ebraismo, iJ cristianesi1no, l'islamismo"'· Queste religioni affrontano e mettono in rilievo il problema connaturale all'idea stessa di creazione, cioè tentano di
X:\
84
!bid., 275. Si vedano a questo proposito le analisi dettagliate su questo
Le1na
di O.
GAVARIA ALVAREZ, «L'idéc dc création chez Lévinas: une archéologie du sens», in Revue Philosophique de Louvain 72 (1974) 509-538; F. P. CIGLIA, Creazione e differenza 01110/ogica, in Archivio di Filosofia 53 (1985) 217-244; e il più recente S. PETROSJNO, Fonda111ento ed esasperazione, Marictti, Genova 1992, in particolare il capitolo IV «L'idea di creazione: dipendenza ed alterità», 141-140. 85 Lévinas, in Dljji'cile Liberté. Essais sur le judah;111e, Albin Miche], Paris 1976, alle pp. 24-25, considera appunto l'idea di creazione, a cui si associa i1nrnediatan1cntc quella di creatura, propria di queste religioni le quali ne sviluppano tutta la peculiarità: <<on ne Jeur apprendrait rien, si on voulait enseigner que l'ho1n111c occupc dans le monde une position exceplionnelle; qu'il a la situation d'un étrc dépendant; quc cct étrc dépendant est souverain dans sa dépendance n'est pas quclconque, mais celle d'une créaturc; quc la dépcndancc dc la créature n'exclut pas la façon à l'i1nage de Dieu; que l'education doit 111aintcnir ccttc société entre l'hon11ne et Dieu instituéc par leur ressemblance et que, dans un sens très largc du tenne, I' éducation a pour but cettc société et est peut-étrc la définition mème de I' hon1111c. Co1n1ne !es juifs, !es chrétiens et Ics 1nusulinans savent que si !es ètres de ce n1onde ont la condition dc rés11/tals, l'homme cessc son cxistcncc dc si1nplc résultat et reçoit, selon le 11101 dc Thon1as d'Aquin, "une dignité de cause" dans la 1ncsurc où il subit l'action dc la cause, extérieure par excellence, de la cause divine. Nous soutenons tous en effet que !'autono1nie hu111aine repose sur une suprè1ne hétéro1nonic et quc la forcc qui produit de si mervcillcux effcts, la farce qui institue la force, la forcc civilisatricc, s'appelle Dieu».
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conciliare la dipendenza e l'autonomia. «L'idea di creazione fa problema per l'uomo in quanto una dipendenza totale si concilia difficilmente, sembra, con lautonomia che caratterizza il mondo secondo il quale l'uomo prova la sua esistenza. L'idea di creazione sembra prendere di mira piuttosto una negazione della libertà dell'uomo. In effetti, se l'idea di creazione esprime un rapporto eccezionale con l'altro, è perché questo rapporto è talmente immediato, diretto, che esclude ogni mediazione che l'Io potrebbe interporre per mettersi a distanza e al riparo dell'Altro; l'idea di creazione prende di mira un Io consegnato ali' altro da sempre. Il monoteismo non trova, tuttavia, difficoltà ad applicare questa idea all'uomo e, anche, trova che la creazione non soltanto non violenta la libertà dell'uomo ma l'instaura. Tale è questo significato paradossale, completamente differente delle categorie alle quali è abituato il pensiero occidentale: l'uomo è libero perché dipendente»"'. Nell'idea di creazione abbiamo un ulteriore elemento per rilevare come Lévinas nutra particolare interesse alla struttura della soggettività senza per questo rimanere prigioniero in questa struttura. La soggettività viene concepita come la struttura insostituibile della ipseità, definita contro la totalità. La struttura della soggettività rivela un suo doppio movimento, la libertà e la dipendenza. Tale struttura è venuta emergendo nella costituzione del medesimo dal quale è scaturita la relazione a autrui. È, infatti, nella struttura del medesimo che si prepara la relazione a autrui. La creatura risulta essere un JJer sé che nella sua natura si caratterizza nello stesso tempo come essere separato e in relazione ad un altro da sé. La struttura della soggettività, in effetti, è presa in considerazione in modo particolare dal saggio Autrement qu 'etre ou au-delà de l'essence, in cui la soggettività è intesa come unicità la quale sveste ogni confronto e lascia fuori ogni aspetto che possa ricondurla alla circolarità rillessiva del linguaggio ontologico 87 • Non si
86
O. GAY ARIA ALVAREZ, L'idée de créarion chez Lévinas, cit., 513. Nel suo breve scritto autobiografico, Signature, raccolto insieme ad altri scritti in Difficile Liberté, 405-412, Lévinas ripercorre la sua attività attraverso una riconsiderazione dei suoi scritti in cui ha l'opportunità di precisare, in risposta al 87
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tratta dunque di una unicità in riposo, ripiegata su di sé e definitivamente padrona di un luogo, ma al contrario la proposta del pensiero di Lévinas si sviluppa a partire dalla constatazione che soggettività significa innanzitutto «io unicità, al di fuori di ogni paragone perché al di fuori della comunanza del genere e della forma, che non trova riposo neppure in sé, in-quieto, che non coincide con sé. Unicità il cui fuori da sé, la differenza in rapporto a sé, è la nonindifferenza stessa e la straordinaria ricorrenza del pronominale e del riflessivo, il si che tuttavia non sorprende più, essendo entrato nel linguaggio corrente e fluido in cui le cose si mostrano, le valigie si fanno e le idee si comprendono. Unicità senza luogo, senza lidentità ideale che un essere trae dal kerigma che identifica gli aspetti innumerevoli della sua manifestazione, senza l'identità dell'io coincidente con sé - unicità che si ritrae dall'essenza - uo1no» 88 . La creatura, l'uomo, è nel pensiero di Lévinas unicità che viene definendosi come io, come soggettività che non trova in sé riposo. La creatura come soggettività viene definita in stato di fondamentale inquietudine, cioè di non coincidenza del sé con sé: l'altro nel medesimo. Il medesimo è in-quieto perché l'altro lo in-quieta, ciò significa che «la soggettività è l'Altro-nel-Medesimo, secondo un mondo che differisce da quello della presenza degli interlocutori l'uno all'altro, nel dialogo in cui essi sono in pace e in accordo l'uno con l'altro. L'Altro nel Medesimo, è l'inquietudine del Medesimo inquietato dall'Altro»"'· La soggettività viene sollecitata e abitata da un di più che la costituisce e la disturba nello stesso tempo: questo di più è la sua in-quietudine.
saggio qui più volte citato di Dcrrida, che con Autre111ent q11 'è tre 011 au-delà de !'essence, e tutti i lavori successivi a Tota!ité et Jnfini viene onnai evitato il linguaggio ontologico. Perciò Lévinas può dire che in Autre111ent qu'étre «le Jangage ontologiquc dont use encore Tota!ité et lnfini pour exclurc la signification purcn1cnt psychologique des analyses proposées - est désonnais évité» (Difficile liberté, 412).
A proposito della priorilà dcl linguaggio che in ulti1no riduce ogni alterità all'identico si veda J. DERRIDA, F:.:n ce 1110111e11t 111é111e dans cet ouvrage 111e voici, in AA.VV., Textes pour E111111anuef lévinas, J.M. Place, Paris 1980, 21-60. 88 E. LÉVJNAS, A11tren1e11f qu 'Ctre 011 au-delà de {'essence, M. Nijhorf, La Haye 1974, 9~10. 89 lbid., 32.
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La terza forma di alterità, che indicano sia il de Finance che il Ricoeur, si riferisce all'interiorità. Naturalmente senza appiattire e ridurre l'uno autore all'altro. Infatti, il de Finance quando concepisce l'alterità interna pensa all'ambiguità umana, poiché l'uomo è nello stesso tempo natura e soggetto spirituale, il che vuol dire che c'è una dualità propria dell'uomo ed è ineliminabile e con questa, l'alterità"'. L'alterità posta nell'intimo dell'io, colloca l'uomo alla frontiera. Ricoeur d'altra parte vede nella coscienza la terza modalità dell'alterità, che concepisce, distanziandosi sia dall'estraneità di Heidegger che dall'esteriorità di Lévinas, come ingiunzione che è la struttura della stessa ipseità91 • L'altro è in me, nel cuore stesso dell'io. L'altro è nel cuore stesso del medesimo. Lévinas lascia ogni possibile spiegazione dell'alterità che lo porterebbe ancora in una dimensione di ordine conoscitivo che attesterebbe nel complesso un soggetto pacificalo, in quanto padrone dell'oggetto. Affermando, invece, un soggetto che è continuamente 1nesso in questione, senza posa, in-seguito, per-seguito dall'altro, rivisita in modo radicale la soggettività la quale in questo clima non è più intrisa di quella forma di attivismo che mira a modellare il mondo e l'altro da sé. In modo più fondamentale, la soggettività si scopre più soggettività, cioè si riveste di unicità, in quanto passività: cioè nel momento in cui lascia l'iniziativa, scopre tutta la sua ricchezza, tutta la
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9 Cfr. J. de FINANCE, De l'un e! de l'autre, 36. Rigettando ogni forma di riduzionisn10 che condurrebbe alla soppressione o alla negazione di una delle due dirr1ensioni proprie dcll'uo1110, il dc Finance riaffcnna che «la dualité humaine est inéli1ninablc et avec elle l'altctité. Certes, 1non corps et tout cc qu'il y a dans n1on esprit mé1nc de nature, e' est bicn 111oi; je ne puis, en aucune façon, !es regardcr co1nme dcs choscs qui me seraient étrangéres, des obycts extérieurs dont je pourrais disposcr à 111011 gré. C'est 1noi - et cc n'cst pas moi! Le langage, ici cncorc, est un indice. Je dis 111011 corps, 111011 !inne et - con1ble du paradoxe -111011 1noi, comme si ce 1noi n'étail pas tout à fait moi! L'autre est logé au coeur dc l'esprit, co1n1ne il était, chez Piaton, au coeur du n1en1e. le est un Autre [ ... ] Co1nment ne pas, cncore une fois, évoquer Ri1nbaud?» (/.c.). 91 Cfr. P. RrcoEUR, Soi-111è111e co111n1e un autre, 408 - 409: «à ]'alternative: soit l'étrang(èr)eté selon Hcidegger, soit l'cxtériorité selon E. Lévinas, j'opposcrai avec obstination le caractère originale et originaire de cc qui m'apparait constituer la troisiè1ne 1nodalité d'altérité, à savoir !'ètre-enjoint en tant que structure de /'ipséiré».
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sua originalità sempre nuova, lasciando il suo proprio luogo per un non-luogo a cui viene condotta da autrui. La soggettività compresa nella sua immanenza, cioè come un in sé, si mostra fondamentalmente aperta alla trascendenza d' autrui. La soggettività viene messa a nudo nella sua verità perché in-tesa dall'altro - l'altro la informa e la costituisce - in quanto pro-tesa verso un non so dove. La soggettività pertanto viene sempre più strutturandosi come impossibilità di stato, impossibilità del riposo. L'inquietudine è il segno di una presenza, nel cuore stesso della soggettività, di un altro che semina lo scompiglio. L'altro mi sveglia, mi chiama dal sonno alla veglia. La metafora della veglia, più volte utilizzata da Lévinas, rivela che, invece, nel sonno le membra stanche cadono nell'intorpidimento, perdono vigore e forza, non sono più capaci di camminare e dì rialzarsi, si fermano a sostare. Il sonno è l'uniformità, è la ripetizione in cui niente è nuovo. La metafora del risveglio si presenta come «rottura del sonno, trauma del giorno che succede bruscamente alla notte. Tutto ciò in un capovolgimento di senso: il sonno è come se fosse il nostro normale mondo luminoso dell'esperienza, l'insonnia non è più un'anomalia, un patologico non riuscire più a trovare la serenità del sonno, ma è come se fosse una "normalità" al di qua della norma quotidiana» 92 . La soggettività nel pensiero levinassiano va pensata attraverso la nozione di una alterità "altra". Prima ancora che l'altro si presenti dal di fuori di essa, la soggettività già è condotta al di fuori di sé da ciò che la costituisce interiormente. «Il medesimo ha a che fare con Autrui prima ancora che apparisca ad una coscienza. La soggettività è strutturata come l'altro nel Medesimo, ma secondo un modo differente da quello della coscìenza» 91 • Siamo, in questo senso, davanti
92
P. A. ROVATTT,«L'insonnia. Passività e metafora nella "Feno1nenologia" di
Lévinas», in Aut Aut 209-210 (1985) 78. 93
E. LÉVINAS, Autre111ent qu'étre, 31-32.
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ad un a-priori rovesciato 94 , che arriva a delinearsi in quanto «è soltanto l'alterità interna, nel soggetto, condizione di possibilità della conoscenza dell'altro come altro da me e altro di un altro» 95 . La trascendenza nell'immanenza che si scorge già in seno alla coscienza stessa, rivela una lacerazione nel cuore del medesimo, come la possibilità di una apertura e di un incontro che batte nel cuore dell'identità.
3.3 La trascendenza come vita Dall'immanenza, si scorge già ciò che conduce oltre sé. Dal profondo dell'io, si coglie ciò che lo trascende. Questi tratti sull'alterità riveste l'itinerario speculativo di Lévinas. Una vita tesa al risveglio caratterizza ciò che è più propriamente u1nano, anche se la tentazione dell'uomo è quella di ripiegarsi in se stesso in un intorpidimento della vita stessa. «li risveglio è, io credo, proprio dell'uomo. Ricerca, per risvegliarlo da una nuova disubriacatura, più profonda, filosofica. È precisamente l'incontro con l'altro uomo che ci chiama al risveglio»% Il sonno è sempre in agguato e mi porta a ripiegarmi nella dimenticanza, nell'oblio. A questo punto, perché io ritrovi la vita stessa, l'altro viene a strapparmi al sonno e all'oblio in cui mi trovo accoccolato e rinchiuso, avvinghiato in me stesso, per ricondurmi alla realtà, alla vita stessa. La priorità dell'altro uomo, che quasi inevitabilmente viene fuori anche dall'intimo, è un invito incessante e insistente ad alzarsi (se lever). Le membra assopite si irrigidiscono, riprendono forza e vigore. L'altro è sempre precedente, così come la storia precede sempre la prop1ia storia personale; non si tratta, però, soltanto di un prima in prospettiva esclusivamente temporale. Questo prima è anche
94
Cfr. M. M. OLIVETTI, Analogia del soggetto, 93, nota n. 4: «Il privilegiarnento asiminctrico dell'"altro" lascia intravvedere - secondo l'Autore dell'articolo - i tratti di un paradossale trascendentalis1no invertilo». 95 J. de FJNANCE, De !'1111 et de !'atlfre, 38. 96 E. LÉVINAS in La Croix, del mercoledì IO giugno 1987. Intervista apparsa in occasione della prova dì baccalaureato di filosofia in Francia.
un dopo. La precedenza è innanzitutto l'accettazione di una iniziativa. Il prima, di cui parla il nostro Autore, non è di tipo fondativo, ontologico; è invece l'iniziativa etica, cioè di un altro che precedendo mi interpella. L'altro chiama e ri-chiama al risveglio. L'altro mi incalza dall'esterno, è la mia inquietudine e per questo mai totalizzabile. L'altro mi sveglia dal sonno dogmatico a cui tende ogni appropriazione di tipo conoscitivo, che in ultima analisi cerca di definire la relazione come momento di imborghesimento e di quieto vivere, in cui tutto è mio. L'altro uomo mi pone invece in situazione di senza posa, di instabilità; il rapporto che si annoda con l'altro è un rapporto etico, e cioè in questo rapporto l'altro mi sveglia sempre in un altro luogo, in una nuova situazione; mi sveglia dal dormire sonni tranquilli. Questa relazione mi dice che non si è mai arrivati. L'altro viene a disturbare il tentativo di chiusura del medesimo; l'altro è la vita del medesimo. Una vita considerata come rottura dell'opera di identificazione del medesimo, che sfocia in esuberante entusiasmo, che svela la vitalità della vita stessa. Una vita vigilante che si realizza grazie allo sconvolgimento dell'altro. È «la vivacità della vita, incessante rottura dell'identificazione. Come se, abbagliamento o bruciatura, la vita fosse già, oltre il vedere, il dolore dell'occhio trapassato dalla luce; oltre il contatto, già scottatura della pelle che sfiora - ma senza toccarlo - l'intoccabile. Il Medesimo scompigliato dall'altro che lo esalta. Vivere non è mai estasi, è entusiasmo. L'entusiasmo non è ebbrezza, ma disubriacatura» 97 • La vita stessa nel medesimo eccede il medesimo. Dal momento in cui l'altro non lascia tranquillo il medesimo, la trascendenza della vita è la vita stessa nel suo entusiasmo. Il medesimo esaltato dall'altro è ciò che abbiamo chiamato la messa in questione del medesimo da parte dell'altro. È la vita stessa e tutto ciò che i filosofi hanno chiamato, in diversi modi nei loro diversi sistemi, nei secoli, «capacità di oltrepassare il finito» 98 •
97 E. LÉVINAS,
De /Jieu qui vient à l'idée, 57.
98
Cfr. E. LÉVINAS, Entre nous, 105 - 106. In questo studio Lévinas considera il discorso filosofico come ciò che è venuto connotandosi come capacità di oltrepassare: «que celte 1nise en question du Meme par l'Autre, et ce que nous avons appellé éveil ou vie, soit, cn dehors du savoir, le fait de la philosophie, n'est pas
_l8_8_ _ . - . - _ _ Giuseppe_Schillaci _ _ _. _. _ _ _ Dalla vita scaturisce un dinamismo che è inerente ad essa stessa, una tensione immanente alla vita stessa dell'uomo: «Trascendenza o risveglio che è la vita stessa dell'uomo» 99 . Il movimento di trascendenza, che ha nell'etica la sua espressione più adeguata nel pensiero di Lévinas, concerne in ultima analisi la vita stessa. L'evento della trascendenza come vita è in fondo il movimento di rottura dell'etica che eccede, che oltrepassa la vita stessa. La vita dell'uomo è una tensione presente, prossima, condivisibile eppure inaccessibile. «Questa vita da prendere, questa vita da condividere era qui, dietro uno di questi muri, vicinissima e sen1pre inaccessibi1e» 100 . La vita si dice a noi ambiguamente, cioè si rivela a noi attraverso un duplice 1novin1ento: una tensione immanente e una relazione
trascendente. Nella vita stessa dell'uomo si scopre una tensione interna, un sentimento originario che la trascina verso un non so dove,
verso un'altra riva, un non-luogo. Una vita che trabocca fuori di sé, che è tratta fuori di sé, verso un altrove. Nella vita dell'uomo si scopre questo al di là, che ci fa dire che non siamo di noi e da noi stessi. La vita dell'uomo è una interiorità che, proprio in quanto interiorità e in forza della propria interiorità, scopre una esteriorità più originaria che la strappa a se stessa. È allora che la vita dell'uomo si svolge come relazione trascendente, in quanto è tratta fuori da un al di là mai riducibile. È irriducibile, e per questo ti incalza sempre. Nel duplice movimento della tensione immanente e della relazione trascendente, inerenti alla vita stessa dell'uomo, si annoda il discorso cieli' etica come filosofia prima. Da questo e in questo andare oltre trae origine la possibilità stessa del discorso filosofico. È il porsi nella distanza del riconoscimento di una priorità, di un'anteriorità, che seulc1nent attcsté par certain articulation de la pcnséc husserlicnnc que nous venons de 1nontrer, mais apparai't aux sommets des philosophies: est l'au-delà de l'étrc chez
Platon, c'cst l'entrée par la porte dc l'intellcct agent chez Aristate; c'csl l'exaltation de la raison théoriquc en raison pratiquc chcz Kant; c'est la recherche de la reconnaissance par l'Autre chez Hegel lui-mème c'est le renouvellemcnt dc la durée chez Bergson; c'est le dégrisen1cnt de la raison lucide chez Heidcggcr - à qui est en1poruntée la notion me1nc du dégrisement, en1ployée la dans cet exposé». 99 !bid., 106. wo M. HENRY, L'an1our !es yeux fennés, Galli1nard, Paris 1976, 123: «celte vie è prcndre, cctle à partager était là, derriére l'un de ces murs, toute prochc et à ja1nais inaccessible».
mi chiede "rispetto". Il ruolo supremo della filosofia si muove nell'ambito di un riconoscimento della trascendenza"", che promuove il rispetto, contrariamente agli abusi del sospetto che invece condurrebbe ad una semplificazione o ad una riduzione di ciò che è al di là. La trascendenza eccede la nostra capacità di esseri finiti e contingenti. L'etica come filosofia prima assicura questa discrezione nei confronti di una trascendenza che si manifesta sempre incommensurabile, sempre oltre: mai equiparata perché inadeguabile alle mie possibilità. Il discorso etico lascia qualsiasi logica interessata, che mira a spiegare questo al di là dentro un proprio progetto, per porsi al servizio di una possibile irruzione che non dipende da noi.
!Ol Cfr. M. BLONDEL, Aspects actuel du pl'ob/è111e de fa tra11scenda11ce, in AA. Vv., Travaux du IX111e congrès internationaf de phi!osophie (Co11grès Descartes), Hennann, Paris 1937, 10-17. In questo articolo si legge pcrtinentcn1ente al nostro
discorso che: «c'est le rOle suprémc de la philosophie: réagir contrc !es adultérations et le.s abus diversemcnt opposés de ce sens de la transcendancc; l'affranchir des illusions dialcctiques ou des déviations senti1nentales; exa1nin1er Ics formcs aberrantes, afin d'assurer contre !es mépris l'exactc vérité de celte transcendance dont nous ne pouvons ni renier la ccrtitude, ni déterminer la définition intrinsèquc, ni 1ne1ne préciscr Ics exigences à notre égard)> (ibid., 13).
Synaxis XIII/I (1995) 191-226
PSICOLOGIA DELLA RELIGIONE: UNA TEMATICA ATTUALE
FRANCESCO FURNARI'
Pren1essa
Scopo di questo studio è quello di presentare la tematica del rapporto tra psicologia e religione. Un approfondimento di questo rapporto-dialogo risulterà utile - a nostro parere - sia all'esegesi, sia alla pastGrak, sia alla comprensione psico-sociale di atteggiamenti e comportamenti religiosi. Nel presentare la domanda sul dibattito epistemologico circa che cosa sia o non sia la psicologia della religione, i snoi metodi, i suoi limiti, abbiamo attinto a fonti anglosassoni e agli echi che la scuola di Lovanio, con a capo il prof. A. Vergate, ha avuto in tale dibattito così come recepito e divulgato in quel contesto culturale, che ha invece a che fare molto più con studi e ricerche pragmatiche ed empiriche. In questo contesto abbiamo incominciato col fare capolino su cosa si produce in casa nostra in questo campo di ricerca. Cercando di seguire il filo rosso che lega sperimentazione e teoria, eterno problema dell'epistemologia psicologica, si è proceduto, in modo sintetico, a presentare i contributi che la psicanalisi e la psicologia cognitiva possono dare e hanno dato alla ricerca psicologica nel campo della religione.
~ Docente di Psicologia generale nello SLudio Teologico S. Paolo di Catania.
Francesco Fumari
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1. La psicologia della religione in Italia In America o nell'ambiente anglosassone gli studi sulla psicologia della religione hanno già una lunga tradizione, sia socio-culturale che accademica, e si continuano, in riviste specializzate' oltre che in monografie, saggi e manuali, a produrre varie ricerche e studi sul campo, che spaziano dalla rei igione come ricerca di significato' al misticismo', dalla teodicea' all'importanza dell"'eros" nella psicologia della religione', dalla "biologia" di Dio 6 fino alla tematica riguardante l'impegno e il coinvolgimento religioso'. In Italia, invece, questi studi sono relativamente recenti. Ancora oggi, nell'ambiente accademico italiano, pur inostrandosi una certa crescita di interesse per tal soggetto, la psicologia della religione non occupa il posto che potrebbe e dovrebbe occupare. La psicologia della religione è emersa come una disciplina indipendente negli studi universitari ecclesiastici 8 sin dagli anni Cinquanta
1
Cfr. per esempio: Journal for the scient(fic st11dy of re!igion; Review of refigious research; Religion and 1ne111al hea/th; The internationaf journal for the psychofogy of re!igion. lournal of psychology of re!igion. Noi citerc1no principalinentc da questa u!ti1na rivista con IJPR. 2 Cfr. K. J. PERGAMENT, Of 111ea11s and ends: religion and the searc/J /or sign((icance, in IJPR 2 (1992) 201-229. 3 Cfr. B. SPILKA, G. A. BROWN, S. A. CASSIDY, The slructure of re!igious 1nysticaf experience in relation to pre-and post-e.,perience lifestyles, in IJPR 2 (1992) 241-257. 11 Cfr. A. FURNHAM, L. B. BRO\VN, Theodicy: a neg/ected aspect of the psycho/ogy of religion, in IJPR 2 (1992) 37-45. 5 Cfr. R. A. 1-IUTCH, Morta! body, st11dyi11g lives: restoring "Eros" lo the psycho!ogy of religion, in IJPR I (1991) 193-210. li Cfr. D. HA Y, The bio!ogy of God: what is the current status of Hardy's hypothesis?, in lJPR 4 (1994) 1-23. 7 Cfr. M. D. MUMFORD, A. F. SNELL, M. B. HEIN, Varieties of religious experience: continuity and chaoge in re!igious i11volve111ent, in lourna! of personafit.v 2 (1993) 265-297. 8 Sin dal 1954 il Pontificio Ateneo Salesiano di Ro1na ha istituito un corso, tenuto da P. G. Grasso, di psicologia della religione. Nella stessa cattedra si sono succeduti, negli anni, G. C. Milanesi, Godin, A. Ronco, e attualmente E. Fizzotli. Si sono interessati di teoria, cpistcrnologia della religione (Grasso), psicosociologia religiosa (Milanesi), teoria psicologica e religione con ricerche en1pirichc sul cainpo (A. Godin, A. Ronco), psicoterapia, spiritualità, teologia di indirizzo frankliano (Fizzotti). Altri studi iinportanti nel campo educativo, calechetico, tests per la 1nisurazione dcl co1nporta1nento e della conoscenza religiosa, sono stati pubblicati
Psicologia della religione: una tematica attuale
193
ed ha prodotto molti studi empirici sul campo del comportamento religioso e studi teorici, basandosi sulla rivalutazione critica della teoria di Freud 9 . Oltre all'aspetto sociologico, che esula dalla nostra discussione, gli studi e interessi nel campo del religioso da un punto di vista psicologico, nel nostro territorio nazionale, sono nati nell'ambito medicopsichiatrico, mettendo tra parentesi la vecchia e ormai superata idea riduzionistica della religione come manifestazione psicopatologica di stampo positivistico, interessandosi del misticismo e dei relativi stati alterati di coscienza"', dell'estasi 11 , dell'apparizione della Vergine, delle estasi e delle stigmate 12 e dell'esperienza della conversione". Al-
dalla rivista della Facoltà di Scienze dc!i'cducazione, Orie11ta111e111i pedagogici: L. CALONGHI, Conoscenze su/la grazia 12 ( 1965) 1128-1157; R. GIANNATELLI, Prove oggettive di religione per la scuola inedia: presentazione di una esperienza 13 (1966)
96-120. Una cattedra di psicologia clinica, che si occupa - con specifici corsi di fonnazione del religioso, della vocazione è stala istituita alla Pontifica Università Gregoriana di Ro1na. Responsabile prestigioso ne è il prof. L. M. Rulla. Tra i vari studi prodotti: L. M. RULLA, Depth psychology and vocation. A psychosocial perspective, P. u. G., Roina 1971; Io., Psicologia del profondo e vocazione, Picmmc, Casale Monferrato
1989. 9
Cfr. M. ALETTI, The psychology of religion in Jtaly, in JJPR 2 (1992) 171-
189. IO Cfr. V. RAPISAROA, A. V!RZI' (eds.), Misticis1110 e psichiatria, in Fonnazione psichiatrica 2 (1985); P. FURNARl, Religiosità intrinseco-estrinseca e 1n.isticis1110, in Synaxis 2 (1984) 239-247; Io., Struttura .fattoriale e consistenza interna della M. Scafe di Hood, in V. RAPISARDA, A. VIRZI' (eds.), op. cit., 127-135. 11 Cfr. G. GAGLIARDl, M. MARGNELLI, G. MACCARINI, Studio di liii. caso di veggenza: feno1nenologia, co111porta1ne11to e si11to1natologia psicofisiologica s11 quindici trances estatiche in uno stesso soggetto, in Quaderni di parapsicologia 21
( 1990) 54-81. 12
Cfr. G. GAGLJARDI, M. MARGNELL!, Indagini prefin1i11ari s11!f'e;nfania di So.fferetti (Cosenza), in Psicologia religione cultura. Atti del Convegno, 11, Proing, Torino 1989, 31-36; Io., Rilievi psicofisiologici su veggenti durante presunte apparizioni 111aria11e, in op. cit., 37-58. M. MARGNELLI, La droga pe1fe!fa: neurofisiologia de/l'estasi, Riza, Milano 1984; Io., Gente di Dio: s/orie vere di estasi, stig1nate e 111iracoli del venlesùno secolo, Sugarco, i\1ilano ! 988. D Cfr. F. FURNARI, Altribuzione cogniliva ed esperienza 111istica de!la conversione, in AA. Vv., Mistica e scienze i1111ane, Ed. Dchonianc, Napoli 1983, 173111arfrile
187.
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Francesco Furnari
tri studi, poi, si sono interessati a mettere in correlazione la variabile misticismo con altri costrntti psicologici"· Svariati studi empirici hanno messo l'accento sugli aspetti della personalità cosciente, cognitiva e motivazionale. Poca attenzione è stata dedicata agli aspetti emotivi consci ed inconsci, e la religione è stata vista come una risposta alla ricerca di significato in cui la trascendenza è presa come il punto focale e la ragione dell'interesse e della devozione religiosa. Studi generali e interpretazioni sulla religione sono stati basati sulla psicologia del profondo, generalmente quella frendiana anziché junghiana 15 o adleriana"' o su forme di analisi immaginativa 17 • È nata anche un'associazione: ASPER (Associazione di Studio di psicoanalisi e religione}, che ha pubblicato una serie di studi specu1ativi18, che tendono a confennarc, rifiutare o andare oltre l'approccio
H Cfr. ID., Esperienza refigiosa e teoria del "focus of contro/", in Synaxis (1983) 188-205. 15 Cfr. L. FIOR!, Psicologia e religione: sentieri di confine, in Psicologia religione cultura. Atti del Convegno, J, Proing, Torino 1989. Si assiste anche in Italia ad un iniziale interesse per l'approccio junghiano alla religione. Ma gli studi sono ancora pochi, ollre quelli di S. MONTEFOSCHr, ff sisten1a uo1110. Catastrofe e rinnovarnento, Cortina, Milano 1985 e di A. VJTOLO, Un esilio ùnpossibile. Ncun1ann tra Freud e Jung, Boria, Roma 1990. Sono in circolazione, però, buoni libri, che invitano a 111cditare sulla fruttuosità di un incontro tra Jung, Ja religione e l'esegesi biblica: J. REIMER, G. DREJFUSS, Abra1110 1'1101110 e il sùnbolo, La Giuntina, Firenze 1994; S. HURWJTZ, Psiche e redenzione, traci. it., La Giuntina, Firenze 1992; R. SCHARF KLUGER,Psiche e Bibbia, trad. it., La Giuntina, Firenze 1991; E. DREWERMANN, li canunino pericoloso della redenzione, traci. it., Queriniana, Brescia 1993; ID., ff Vangelo di Marco. Inunagini di redenzione, trad. it., Queriniana, Brescia 1994; H. WOLI;F, Gesù, la 111aschilità ese111p/are, trad. il., Qucriniana, Brescia 1988 2 . 16 Cfr. L. G. GRANDI, Psicoterapia e religione, Orgraf, Torino 1986; lo., Vissuti religiosi in psicoterapia: la realtà della religione nella .fonnazione e nella ricerca dello psicologo, in S.1.P., f)ivisione di Psicologia e religione (ed.), la religione in clinico psicologica, Proing, Torino 1991, 53-97. 17 Cfr. M. R. DoMJNICJ BORTOLOTTJ, Dal pasto toten1ico co111e necessaria introiezione psicologica, culturale e religiosa, all'Eucaristia, in Psicologia religione c11/tura, cit., 99-105; M. SARTORI MODENA, Sulla prevalenza 111aschile nella religione cristiana, in L. ANCONA (ed.), Psicoanalisi, bisessualità e sacro, Teda, Castrovillari
1991, 47-51. 18 Cfr. N. SPACCAPELO (ed.), Religione e psicoanalisi. Una ricerca interdisciplinare, Città Nuova, Ron1a 1986, F. MORANO! (ed.), Psicoanalisi e religione. Atti del Convegno dcll'Ass.nc ASPER, .lapadre, Ron1a 1984.
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fondamentale di Freud concentrandosi sull'epistemologia ed esaminando la consistenza interna dei testi freudiani. Hanno avuto poco a che fare con la pratica clinica ed hanno ignorato o escluso !'esperienza religiosa dei loro pazienti in trattamento". È importante ora che la psicoanalisi limiti la sua ricerca alla relazione funzionale che emerge tra analista e paziente nel setting clinico20. La sola religione a cui lo psicoanalista ha accesso è 1' esperienza psichica del soggetto che "parla la sua vita" all'analista. Per l'analisi, dunque, «la fede religiosa è un'esperienza psichica»". Se ciò è vero, la credenza di qualche psicoanalista" che la mente inconscia può in qualche modo essere naturalmente disposta o incline verso l'esperienza religiosa dovrà essere esaminata in dettaglio.
19 Cfr. M. ALETTI, Psicologia, psicoterapia, religione. Un'interazione co1nplessa, in S.!.l'. Divisione Psicologia e religione (cd.), cit., 11-36; L. G. GRANDI, Psicoterapia e religione, ciL.; ID., Psicologh1, religione e cultura: tracce per una discussione, in Psicologia, religione e cultura, cit., 1-15. 2 Cfr. M. ALETTI, Inconscio, psicoanalisi, leologia. Per una deli1nitazione cpiste1nologica, in A. S.P.E.R. (ed.), Sulle spalle di f<'reud. Atti 9° Convegno nazionale di studio, Aspcr, Ro1na 1985, 89-100; ID., Psicologia, psicoanalisi e religiosità. Indicazioni per un dibattito psicologico, in F. MORANDI (ed.), op. cit., 25-37; ID., La religione nel pensiero di Freud. Psicoanalisi e fede, in Religione e scuola 5 (1977) 225-235-; 383-388; 432-438; G. MAGNANI, La religione di Freud: suggestioni per u1u1 let!ura psicol111a!itica, in F. MORANDJ (ed.), op. cit., 7-13; lo., Interpretazione della religione in Freud di fronte alla crisi della 111etapsicologia, in N. SPACCAPELO (ed.), op. cit., 151-165. G. G. Fossi, Miti, religione e psicoanalisi. Una nuova proposta psiocodinainica, Franco Angeli, Milano 1990. 21 Ibid., 210. 22 Cfr. L. ANCONA, Il fe110111e110 dell'areis1110 co11te111pora11eo. Psicologia dcll'atcis1110, in L'esperienza religiosa oggi. Alti del 56° Corso di Aggiorna1ncnto culturale dell'Università Cattolica, Vita e Pensiero, Milano 1986, 72-84; f. MATTE BLANCO, Dio nell'inconscio, in F. MORANO! (cd.), op. cit., 95-98.
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Problematica epistemologica: definizione dell'oggetto di ricerca
La prima domanda che il ricercatore si pone è quella di definire il suo specifico oggetto di ricerca: cosa è o cosa non è la psicologia della religione21. È certo che lo studio della religione, come oggetto specifico nel più vasto campo della psicologia generale, non ha certo brillato per una sua definizione chiara e distinta. E questo per vari motivi. Innanzitutto sono state le alterne vicende della psicologia "come scienza", la quale ha avuto, e solo da poco tempo, riconosciuto il suo statuto scientifico. E questa difficoltà la si è potuta condividere nella polisemia del discorso psicologico. Anche se la psicologia usa del metodo scientifico per le sue ricerche, tuttavia non si potrebbe dire a priori una scienza in "senso stretto" 1na in "senso Jargo)', per la mancanza di formalismo che le è propria, visto che l'oggetto è la stessa persona un1ana e i suoi stati psichici. Si può parlare, quindi, di comprensione più che di spiegazione dei fenomeni indagati. Nella comprensione soggetto e oggetto si implicano e si coinvolgono a vicenda. Ogni tentativo di delucidazione di un comportamento dotato di senso, è, per forza di cose, interpretazione del!' altro e interpretazione di sé. Si può, dunque, dire che ogni comprensione i1nplica necessaria1nente un' auto-con1prensione.
Il fatto è, però, che gli adepti della "scienza psicologica" manifestano una certa qual difficoltà a mettersi loro stessi d'accordo sull'oggetto della propria disciplina. E questo vale a maggior ragione, per quegli psicologi che si interessano del campo religioso. Da qui nascono ulteriori difficoltà con le discipline correlate" assieme alla questione del "modello interpretativo" da cui partire. L'esperienza religiosa è, infatti, interpretata in modo diverso e con
metodi e concetti operativi diversi, a seconda delle teorie della
23 Cfr. A. VERGOTE,
!Jf'R
H'hat the Psychology of religion i.1· and what is not, in
3 (1993) 73-86. 24
Cfr. G. C. MILANESI, Prob!e111i episte1110/ogici nella storia della psicologia religiosa, in Orienta111e11ti pedagogici 13 (1966) 233-270; 489-545; A. RONCO, Psicologia della religione: una disciphna in coslruzione, in Ecclesht, LAS, Ro1na t980, 459-467.
_Psicologia della_r_eligione_:_ una tematica attuale_
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personalità seguite. E non solamente. Gli psicologi non vogliono sentirsi teologi, perché non vogliono sentirsi "figli di un dio minore" o dei "sagristi". In questo modo non si calano in quell'atmosfera empatica di comprensione circa la conoscenza reale di quella religione e degli individui che la praticano o ci credono, per timore di perdere in oggettività e validità, in quanto non sarebbero "neutrali", bensì "ideologici" e si lasciano così andare a sogni sperimentali oltre il necessario, scartando tutto ciò che non è sperimentabile. Riemerge sempre l'annoso problema della "soggettività-oggettività" nel rapporto tra ricercatore ed oggetto della sua ricerca. Pensano così di evitare il problema, ed essere "neutrali", affermando che la religione è una visione del mondo e che essere religioso è vivere in accordo a ciò che si è definito essere fede nella propria cultura, senza tenere conto dei fattori psicologici negativi o positivi che soggiacciono a queste concezioni. A nostro avviso, bisogna mettersi dal punto di vista di una "psicologia ermeneutica" o di una psicologia della comprensione storica, giacché ogni sapere presuppone una relazione di appartenenza ed è quindi sostenuto da un interesse, che non può far rompere mai i legami con il suo fondo di appartenenza, cosicché un assunto critico non può mai essere arrogante, n1a umile e paziente, infatti si può se111~ pre iniziare e mai completare 25. Così ci si metterà meglio dal punto di
vista di chi crede e si potranno comprendere in modo ottimale i fattori psicologici soggiacenti al comportamento e all'atteggiamento religioso. Ci si accorgerà allora che tutte le attività umane sono psicologiche ma non tutto è riducibile al "solo psicologico", Ciò che è specificamente psicologico nella relazione sono quei fattori soggettivi, quali desideri, emozioni, esperienze, interpretazioni personalL con cui gli
individui si relazionano a simboli o parole o comportamenti religiosi contestualizzati culturalmente. Ciò significa che c'è una "causalità re-
25 Cfr. P. RICOEUR, Science et idèologie, in Review Phi!osophique de louvai11 14 (1974) 328-355; J. LADRIERE, Les sciences !uonai11es et le problèn1e du fondanient, in Vie sociale et destinèe, J. Duculot, Glenhoux 1973, 198-21 O; A. VERGOTE, La psychanalyse, lùnite interne de la philosophie, in AA. Vv., La lin1ite de la raison, Jf, Pubi. des Facultès Univ. S. Luis, Bruxelles 1976, 479-504.
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ciproca" e interdipendente tra psicologia che spiega soggettivamente la religione e la religione che, come fattore culturale, spiega parzialmente i fattori psicologici di ciò che la religione è. È, inoltre, da precisare che religione cristiana è "rivelata". Ciò la differenzia da una semplice "visione del mondo". Solo in questo modo si possono ottenere dati psicologicamente interessanti e congruenti.
3. Vari approcci nel campo della psicologia della religione Gli studi nel campo della psicologia della religione ci fanno accorti della necessità di studiare e inquadrare la problematica da diversi punti di vista. Abbiamo, così, scelto tre approcci: quello della psicologia del profondo, quello del!' apprendimento sociale e quello cognitivo.
Ciascuno di questi approcci ha alla sua base una concezione antropologica: il primo approccio considera la natura umana come un qualcosa dominato dagli istinti, impulsi inconsci; il secondo poggia su una dottrina della tabula rasa; per il terzo, infine, la natura umana è qualcosa di puro e buono. Questi approcci hanno, poi, una visione e privilegiano un punto di vista particolare nello studiare e presentare il dato psicologico-religioso. La psicoanalisi presenta il dato religioso, la religione effetto del "Super-Io", aperto però al! 'Io; l'apprendimento sociale presenta l'importanza della conformità razionale alle norme e regole sociali; l'approccio cognitivo mette in risalto la capacità ristrutturante della niente umana. I tre approcci affrontano dal loro punto di vista tre dimensioni importanti e compresenti nel fenomeno religioso: la dimensione affettiva, quella comportamentale e quella cognitiva. Nella visione olistica, unitaria della persona umana queste tre dimensioni sono correlate l'una con l'altra. Lo studio della psicologia della religione non può non tenere in debito conto dell'elemento fondamentale dello sviluppo umano, con-
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siderato tale anche nei tre approcci suddetti, cioè del meccanismo dell'identificazione e della conseguente figura del "modello". Per la teoria psicoanalitica in genere, il soggetto spinto dal desiderio di rendersi simile al modello o dal timore di perderlo si identifica col modello stesso e con ciò che esso rappresenta per il bambino. La teoria dell'apprendimento sociale, invece, mette l'attaccamento al modello in relazione alle ricompense e ai rinforzi, dal soggetto usati nell'interazione educativa. Consegue da ciò il desiderio della medesima persona a unifmmare il proprio comportamento a quello del modello, imitandolo e aderendo alle norme e valori religioso-morali presentati. Per la teoria cognitiva, il soggetto si forma una struttura cognitiva nella interazione col modello e tende a comportarsi come il modello. Siccome, poi, sente il bisogno continuo di guida e approvazione da parte del modello stesso, manifesta verso questo un profondo attaccamento.
Possiamo dire, allora, che secondo la teoria del!' apprendimento la religione viene vista come atteggiamento ed esperienza socialmente appresi, secondo l'approccio psicodinamico la religione è vista come un confronto con l'lnconscio; e, infine, secondo l'approccio cognitivo, come costruzione di un mondo interpretato. Se ci mettiamo, come dicevamo prima, dal punto di vista di una psicologia ermeneutica o della comprensione storica, i tre approcci risultano facenti parte di un "circolo ermeneutico". Noi pensiamo che una psicologia della religione possa basarsi sulla modificazione conoscitiva della teoria dell'apprendimento e dei modelli psicodinamici. Cioè noi ristrutturiamo (mente-societàapprendimento) il mondo grazie all'apertura della profonda dimensione di esso nel nostro campo di conoscenza e nel co mp ortamen to.
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3.1. Approccio cognitivo-sociale: studi e ricerche Ciò che unisce le due dimensioni precedenti al cognitivismo è che le varie dimensioni del comportamento sociale correlano più significativamente con lo sviluppo cognitivo che non con qualsiasi altro aspetto della personalità26 . Sin dal lavoro pionieristico dì Baldwin 27 , la maggior parte degli approcci cognitivo-evolutivi alla religiosità attraverso l'arco della vita non sono stati limitati alla sola cognizione, ma indirizzati anche a processi e motivazioni psicologiche più profonde. Ancora, le differenze caratteristiche tra approcci psicodinamici, di apprendimento sociale e quelli evolutivo-cognitivi dipendono da una dimensione cognitiva in generale e da una struttura mentale in particolare 28 • Per un apprezzamento del potenziale e dei limiti delle teorie cognitive - che noi sorvolando presenteremo brevemente - sarebbe necessario rilevare e comprendere la connessione tra struttura e sviluppo individuale e tra lo sviluppo e ì concetti degli stadi evolutivi. Reìch 29 afferma che gli approcci evolutivo-cognitivi alla religiosità possono essere classificati, anche se questo modo non viene accettato da altri'°, secondo il grado di difficoltà, consistenza e robustezza dei rispettivi schemi degli stadi evolutivi. Più è alto il grado dì difficoltà dello schema dello stadio evolutivo, più affidabili sono le predizioni di tipo ideale, ma minore, a sua volta, è il campo di applicazione.
26 Cfr. L. KOHLBERG, Stage and sequence: the cognitive-deFelopn1ental approaclz to socia!ization, in D. GOSLIN (cd.), Handbook of socialization theo1y and research, Rand macNaily, Chicago 1969, 347-480; L. KOHLBERG, D. RICKS, J. SNAREY, Ch;Jdhood develop111e11t as predictor o.f adoption in childhood, in Genetic psycho!ogy n1onograph 110 (1984) 91-172. 27 J. M. BALD\VIN, Socia/ and ethical inte1JJretations in niental devefopnzent: a study ùz socia/ psycho!ogy, MacNally, New York 1897. 28 Cfr. L. KOHLBERG, op. cit. 29 Cfr. K. H. REICH, Cognitive-developnu~nta! approaches to re!igiousness: which versionfor which pe1rose?, in IJPR 3 (1993) 145-171. 3 Cfr. 1. W. FO\VLER, Response to Hebnut Reich: overview or apologetic? in
°
!JPR 3 (1993) 173-179.
Lo stato presente della teoria della religiosità, basata sull'approccio cognitivo-evolutivo, non è certo, ancora, molto chiaro. Ciò dipende principalmente dal fatto che gli stadi evolutivi più alti nel processo di crescita cognitiva dell'individuo non sono stati definiti in modo univoco e operazionale, in quanto molti sono gli esperti sul campo che devono collaborare con gli psicologi. Per quanto riguarda lo sviluppo religioso, i teologi dovrebbero mettersi d'accordo su quali possono essere i problemi di ordine religioso che si possono affrontare e risolvere nello stadio del pensiero cognitivo. Non si è ancora arrivati a un consenso generale 31 • Comunque, i vari schemi degli stadi evolutivo-cognitivi danno indicazioni utili per l'educazione religiosa, per la pastorale e per lo sviluppo del sé". Ed è quindi necessario, come afferma Reich", al presente stadio dello sviluppo della teoria cognitiva, rivolgersi a più teorie, che mettono nel conto aspetti multipli di religiosità. Le teorie di Piaget 14 e di Kohlberg 15 si possono chiamare "interazioniste" e si inseriscono nel complesso quadro delle teorie genetico-costrutti viste. I concetti, infatti, di assimilazione e accomodamento sono riferiti a una continua interazione tra organismo e ambiente. E la struttura della mente umana è il prodotto del modellamento, attraverso il processo psichico dell'imitazione e dell'identificazione,
31 Cfr. J.W. FOWLER, K.E. NIPKOW, F. SCHWEITZER (cds.), Stages offaith and religious deve!op111ent: ùnplications far church, education, and socie!)!, Crossroad
Pubi., New York 1991. 32 Cfr. B. SPTLKA, /111ages of n1an and dùnensions of persona! religion: values far an ernpirical psycho!ogy of refigion, in Review of religious research 11 (1970)
171-182. JJ
Cfr. K. H. REICH, art. cii. J. PJAGET, Les relations entre l'qffectivité et !'intel!igence dans le
34 Cfr.
dévelop1ne111 111e111al de l'enfance, Centre de docu1nentation Univ., Paris 1954; Io., The genera{ probfe111s of lhe psycobiological developn1en1 of the chifd, in J. M. TANNER, B. INHELDER (eds.), Discussions on child devefopn1e11t, IV, Int. Univ. Press, New York 1960, 3-27; ID., Piaget's theory, in P. H. MusSEN (ed.), Handbook of child psychology, I -History, theory and niethods, Wiley, N. Y. 1983, 103-123; J. PIAGET, B. INHELDER, De la {ogique de l'enfa11t à fa logique de l'adolescent, PUF, Paris 1956. 15 L. KOHLBERG, Essays on 111oral develop111e11t. II The psychology of 111oral develop111enf, Harper and Row, S. Francisco 1984.
202
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dell'interazione dell'organismo e dell'ambiente, piuttosto che riflettere direttamente o i modelli innati dell'organismo o quelli dedotti solamente dall'ambiente. Questa interazione porta al concetto degli stadi cognitivi, i quali rappresentano le trasformazioni delle semplici strutture cognitive dei primi anni, riorganizzate, trasformate e adattate nel contatto esperienziale col mondo esterno. Elkind" e Goldman 37 hanno applicato la teoria di Piaget sul ragionamento logico al campo religioso, il primo interessandosi della comprensione religiosa, il secondo del pensiero religioso. Elkind" ha indicato tre stadi evolutivi: nel primo stadio (da 5 a 7 anni), la comprensione del significato della preghiera è vago e indistinto; nel secondo stadio (da 7 a 9 anni) la preghiera è vista come richiesta verbale; nel terzo stadio (da 10 a 12 anni) la preghiera è vista come condivisione intima e confidente con Dio (significato affettivocognitivo). Goldman 39 ha descritto anche lui tre stadi cognitivi: a) pensiero religioso intuitivo; b) pensiero religioso concreto; e) pensiero religioso astratto. Le teorie di Elkind e Goldman sono molto utili per quanto riguarda la costruzione dei testi per l'educazione religiosa. Oser"' e Gmiinder'" hanno messo in atto una teoria evolutiva del giudizio religioso focalizzandosi sulla relazione tra un individuo e quello che lui riconosce cotne essere ultimo.
" 6 Cfr. D. ELKIND, The origin of religion in the child, in Review of religious research 12 (1970) 35~42; lo., The deve/0111pe11t of re!igious understanding in chi!dren and adolescent, in M. P. STROMMEN (ed.), Research on religious develop111e11t: a co111prehensive handbook, Hawthorn, New York I97 l, 655-685. 37 Cfr. R. GOLDMAN, Re!igious thinking fro111 childhood lo ado!escence, Routledge e Kegan Paul, London 1964. 38 Cfr. D. ELKIND, The deFelop111e11t ... , cit. J'J Cfr. R. GoLDMAN, op. cit. 4 Cfr. F. K. 0SER, The deve/opn1ent of religious judgn1ent, in F. K. OsER, W. G. SCARLE1T (cds.), New directions /or chi/d develop111e11t, 52: Religious deve/opn1e11t in chi!dhood and adolescence, Josscy Bass, San Francisco 1992. 41 Cfr. F. K. OSER, P. GMONDER, Re!igious judgen1ent: a develop111e11tal approach, Rcligious Education Press, Binninghain 1991.
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Costoro si rifanno a Piaget e Kohlberg ma, al contrario di quest'ultimo, essi riconoscono l'esistenza di una profonda struttura religiosa, che orienta gli individui lungo tutto l'arco della vita, quando si trovano nella situazione di interpretare il loro rapporto con l'essere ultimo. Fowler 42 mette, invece, l'accento sullo sviluppo della fede come relazionalità e conoscenza e Ja sua connessione con lo sviluppo dell'io. La sua teoria si rifà a Piaget, Kohlberg e ad E. Elikson. Baldwin' 3 è stato il primo che ha prodotto delle sequenze evolutive nel campo della conoscenza e coscienza logica, sociale, morale, religiosa ed estetica e ha suggerito che esse possono relarsi reciprocamente.
Sfortunatamente, in contrasto con Piaget, non ha sviluppato una metodologia appropriata ed ha allontanato generazioni di psicologi dallo studio di questi problemi, per l'avversione che questi ultimi hanno quasi sempre avuto per il misticismo, che è, secondo Baldwin, un aspetto dello stadio più alto di sviluppo religioso. Il tema centrale di Baldwin è quello dello sviluppo e del cambiamento della comprensione di Dio in termini di "dipendenza" e di "mistero". La teoria di Baldwin ha a che fare con i significati soggettivi attribuiti ai simboli esterni. La sua teoria è composta di quattro stadi con quattro caratteristiche corrispondenti: a) l 0 stadio: fisio-spontaneo, dove il sentimento del mistero è creato dalla non predittibilità del carattere; b) 2° stadio: intellettuale, dove il bambino ha fiducia nel padre e nella madre come quelli che sanno spiegare e risolvere i problemi. Così sviluppa un senso di religiosa dipendenza; c) 3° stadio: etico, dove si assiste a uno sviluppo del senso religioso di dipendenza da Dio come colui che guida e stimola verso una morale di perfezione; d) 4° stadio:
42 Cfr. J. W. FOWLER, Faith developnient and pastora! care, Fortress, Philadelphia 1987; Id., Stages in faith consciusness, in F. K. 0SER, W. G. SCARLETT
(cds.), op. cit., 27-45. 43 Cfr. J. M. BALDWIN, op. cit.
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estetico, è un modo di mettersi a contatto con la realtà, prima della mediazione delle idee, degli ideali. Molte ricerche nel campo della psicologia della religione hanno avuto a che fare con la costruzione di tipologie sull'atteggiamento e comportamento religioso. A parte e oltre i primi studi empirici sul campo 44 è stato fatto con difficoltà un uso dell'interpretazione del linguaggio religioso come parametro, malgrado in molti studi filosofici e teologici 45 sia stato suggerito che il linguaggio è un fattore decisivo nell'atteggiamento delle persone verso la religione. Gli psicologi della religione dovrebbero costruire degli strumenti di misura che facilitino il compito di potere investigare l'aspetto linguistico del comportamento religioso e studiare il modo in cui è legato con i fattori psico-sociali. Le scale che attualmente sono in uso, malgrado le critiche di Hunt46 , riproducono affermazioni tratte dalla Bibbia o dalla confessione di fede, orientando le risposte della gente ad un'interpretazione letterale"'. Recentemente, Frye 48 , in un suo studio linguistico sulla Bibbia, ha istituito due modi di interpretare il linguaggio religioso: modo "descrittivo-letterale" e modo "metaforico". Anche se gli Autori della Bibbia intendevano indubbiamente far prendere il loro lingnaggio letteralmente, purtuttavia non intendevano scrivere storie
44 Cfr. 1. H. HOGGE, S. T. FRTEDMAN, T/le scriptural-!itera!is111 scale: a prelùninary reporl, in Journal of Psychofogy 66 (1967) 275-279; R. H. HUNT, Mytho/ogical-sy111bolical religious con11nitn1ent: the L.A.M. sca/es, in lournal [or the scient{fic study of religion 11 (1972) 42-52; C. ORLOWSKl, Linguistic di111e11sio11 of religious 111easure111ent, in Journaf far the scientific study o.f religion 18 (1979) 306-311; N. G. POYTHRESS, Litera/, antiliteral and 111ythological religious orientations, in Journa/ for the scient{fic study of religion 14 ( 1975) 271-284. 45 Cfr. E. Mc CoRMAC, Re!igious 111etaphors: 1nediators between biologica! and cultura/ evolution that generate transcendent 111ea11ing, in Zygon 18 (1983) 4565; P. TlLLlCH, The nature of re/igious !anguage, in R. C. KIMBALL (ed.), Theology of culture, Oxford University Press, Neaw York 1964, 53-67. 46 Cfr. R. H. HUNT, art. cit. 47 Cfr. M. I. DoNAHUE, Intrinsic and extrinsic re!igiousness: revieaw and 111eta-analysis, in Journal of personality and socia! psycho/ogy 48 (1985) 400-419. 48 Cfr. N. FRYE, The great code: the Bible and literature, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1991.
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oggettive. Considerato dal pnnto di vista della storia del lingnaggio, il linguaggio religioso della Bibbia o di altre tradizioni religiose dà l'espressione ad un'esperienza collettiva. Conseguentemente, la metafora è il carattere stilistico p1incipale del linguaggio religioso. La scala LAM di Hunt49 , che misura la dimensione letterale, antiletteralc e mitologica dcl linguaggio religioso, rivista con l'aggiunta della dimensione metaforica, si presenta come uno strumento utile per potere investigare il significato che i soggetti dànno alle affermazioni religiose. Da uno studio di Van der Lans 51 ', che si proponeva di ricercare le relazioni tra la preferenza per le interpretazioni letterali verso quelle metaforiche del linguaggio religioso e i livelli strutturali del pensiero religioso, è risultato che chi preferiva un'interpretazione letterale delle affermazioni religiose ha mostrato un più basso sviluppo della struttura del giudizio religioso. Non è stata verificata la relazione tra preferenza per linterpretazione metaforica e lo stile del pensiero religioso. I partecipanti all'esperimento, poi, che avevano ottenuto alti punteggi sulla scala "letterale" hanno avuto punteggi più bassi snl pensiero immaginativo e hanno fatto un più grande uso del linguaggio religioso in una maniera oggettiva che non i partecipanti che hanno avuto un alto punteggio sulla scala "metaforica". Ciò significa che un pensiero religioso maturo è messo in atto da quelle persone che hanno una più elaborata struttura cognitivo-religiosa. «Per costoro la tradizione religiosa non è un sistema fisso di fatti e regole, non è un'ideologia, 1na \'espressione si1nbolica di una visione del inondo e della vita, considerata come un 'ispirazione invece di una facile soluzione e, ccrtainentc, non
escludente o sollevante dalla responsabilità di pensare con la propria testa» 51 •
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Cfr. R. H. HUNT, art. cif.
°Cfr. J. M. van der LANS, lnterpretation of religious la11g11age and cognitive
style: a pi/or study with the LAM Scale, in lJPR 1 {1991) 107-123. 51 lbid., 122.
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3.2. L'approccio psicoanalitico La psicoanalisi, in questi ultimi anni, ha visto un considerevole sviluppo e una modificazione tanto da poter dire che la comprensione psicoanalitica della religione non è apoditticamente certa. Presentiamo sinteticamente alcuni tra gli approcci psicoanalitici alla religione.
Freud La religione, per Freud, è nella nostra civiltà il più complesso dei fenomeni e non vi è alcuno che Io possa spiegare attraverso un solo fattore. Lui stesso ha proposto due teorie: una trattata in Totem e tabù del 1913, l'altra nel Futuro di un 'illusione del 1927. Nella prima, Freud ha cercato di ricostrnire gli eventi di processi psicologici che potrebbero produrre l'idea di Dio. La religione viene vista come prodotto del complesso di Edipo ed iniziata dal parricidio. In quest'opera, Freud era cosciente che nessun processo psicologico individuale potesse, comunque, produrre l'idea di Dio. Nella seconda, sembra avere dimenticato questa intenzione e passa a ricostruire geneticamente l'idea di un Dio-Padre, sulla base dei desideri individuali della memoria dell'esperienza avuta nell'infanzia di un Dio potente, misericordioso e soccorrevole. Freud sembra così concludere che la religione è ancorata nei desideri umani e che, dunque, la validità della fede religiosa non può essere né sostanziata né rifiutata dal ragionamento scientifico. Vari studi 52 hanno dimostrato la relativa validità della tesi di Freud che la religiosità individuale è derivata da precedenti esperienze dcl padre. Non si può oggi sostenere, però, l'universalità del
52 Cfr. G. ROHEJM, Psychoanalysis and antropology: culture, persona!ity and the unconscious, lnlernational University Prcss, New York 1950; A. VERGOTE, A. TOMA YO (cds.), The parental figures and the rapresentation of God: a psychologicaf and cross-cultura{ study, Mouton, The Haguc 1981.
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complesso di Edipo per le cullure e tradizioni religiose di altri continenti 53 . Usando la scala Likert e il differenziale semantico e l'analisi fattoriale, Ronco e Vincenti" hanno trovato una correlazione positiva tra il comportamento religioso spontaneo negli adolescenti e la percezione degli adolescenti dell'amore del genitore, dell'immagine positiva di Dio, e i livelli di autostima. Cavallotto 55 , proseguendo nella linea di una sua precedente ricerca·" e su qnella di Vergote e Tomayo 57 , preferisce dare una spiegazione dell'influenza genitoriale sulle rappresentazioni di Dio in termini simbolici, anziché in termini di forza attuale della figura genitoriale. Carroll 58 asserisce che l'origine del culto cattolico alla Vergine Maria può essere parzialmente illuminata dalla teoria freudiana classica dcl complesso di Edipo. Secondo Carroll, la dottrina cattolica sulla verginità di Maria è spiegata da tre credenze fondamentali: a) la verginità prima e dopo il parto; b) il culto di Maria è più forte in Spagna e in Italia, dove il "complesso maschile" è più comune, cioè il dominio in tutti i sensi dell'uomo sulla donna è supportato culturalmente; e) nelle aree in cui il culto a Maria è più diffuso, gli uomini provengono da una famiglia in cui il padre è inefficiente. La teoria a cui Carroll si rifà è quella freudiana del complesso di Edipo, che si può sintetizzare in due ipotesi: a) gli uomini attratti più fortemente dalla loro madre, ma con forti repressioni erotiche,
5-' P. PARIN, F. MORGJ-IENTl-lALER, G. PARIN-MATTHEY, Die weisse11 denken zu vie/: psychoanalytische /e11tersuch1111ge11 i11 westaji·ika, At!antis, Zurich 1953. 54 Cfr. A. RONCO, A. VINCENTI, Religiosità adolescenziale, stinut di sé e percezione dei genitori, in Orie11ta111enti Pedagogici 27 (1980) 7-30. 55 Cfì·. G. CAVALLOTTO, In1111agini di /)io e figure pare11ta!i. Teorie e indagini positive, in Orientc1111e11ti Pedagogici 34 (1987) 1024-1056. 56 Cfr. ID., Percezione dei genitori e relazione Ira le in1111agini parentali e quella divina. Una ricerca su un can1pione di studentesse de/l'istituto 111agistra/e, Tesi ùi dottorato, Università Pontificia Salesiana, Ro1na 1984. 57 Cfr. A. VERGOTE, A. TOMA YO (eds.), op. cii. 58 Cfr. M. P. CARROL, Vision oj the Virgin Mary: the ejJèct (~f.fa111i!y slructure 011 n1aria11 apparilions, in Journa/ .for the scientijic study of religion 27 ( 1983) 205221; ID., The cui! of lhe Virgin Mary, Princeton University Prcss, Princeton, New York 1986.
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saranno attratti dal culto della Vergine Maria; b) il contenuto della credenza di questo culto, cioè la verginità perpetua, deriva da questa medesima dinamica. Questi uomini vedranno le donne in termini sessuali come sostituti alla repressione materna ("il complesso maschile"); l'idealizzazione di Maria come madre asessuata non fa altro che celare l'attaccamento erotico represso alla propria madre; il legame del culto di Maria con la passione e la sofferenza di Cristo (flagellazione e crocifissione), è inteso come punizione per l'inconscio senso di colpa; e il legame tra tutto ciò con gli uomini provenienti da una famiglia con un padre inefficiente è dovuto alla forte identificazione con la madre tra i maschi in questo tipo di famiglia". Partendo da queste premesse e ipotesi di Carroll, Hood e altri"' ne affrontano empiricamente la verifica, dimostrando anche che teoria psicoanalitica e misurazione en1pirica non possono continuare a lungo nel divorzio in cui si sono fatti entrare, già a partire dallo stesso Freud nella sua opera Lezioni introduttive sulla psicoanalisi del 1916-1917. Freud intese, infatti, la psicoanalisi non come una "scienza in
senso stretto", che possa essere riducibile solo a un legame causalelineare. La valutazione della teoria psicoanalitica in generale e quella della religione in particolare deve essere basata su rilevanti criteri, sia nel senso stretto che largo della scienza. E i criteri rilevanti si possono così riassumere: la teoria deve essere intellegibile e comprensiva, in grado di legare i fatti apparentemente discrepanti, e di sapere incorporare fenomeni non ancora noti nella teoria in modo costruttivo e creativo 61 .
59 Cfr. A. PARSONS, Be/ief, 111agie and ano111ie: essays in psychological antropo!ogy, Free Press, New York 1969. 6 Cfr. R. Hooo, Jr., R. J. MORRIS, P. J. WATSON, Male co111111itn1ent to the cult of the Virgin Mary and the Passion of Christ as a function (~{ early n1aternal bonding, in IJPR I (1991) 221-231. 61 Cfr. D. CHJDESTER, Michael Foucoult and the study of re/igion, in Religious studies review 12 (1986) l-9; N. CHESIRE, The nature o.f psychodi11a111ic i11te1pretatio11, Wiley, London 1975.
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Comunque, come afferma Hood 62 , la critica di Freud alla religione non può essere compresa nella sua completezza se si dovesse staccare la prospettiva ontogenetica da quella filogenetica. Il processo di formazione del pensiero "illusionistico" deve essere messo in parallelo con la prospettiva psico-sociale. È solo in questa prospettiva (filogenetica) che la religione risulta "delusionale" più che un'illusione. Freud sembra, dunque, del parere che le verità religiose non possano essere viste "con1e se" fossero staccate dalla loro fondazione empirica e sociale.
Erikson Otre H. Hartmann, Erikson6J è senz'altro tra quelli che hanno contribuito alla modificazione della psicoanalisi, da una psicologia dell'Id a quella dell'Ego, considerando in modo preponderante la psicodinamica dell'adattamento. La teoria dello sviluppo dell'identità di Erikson si ricollega alla teoria dello sviluppo psicosessuale descritto da Freud. Il modello epigenetico di Erikson è composto di otto conflitti fondamentali, che si snodano nel ciclo della vita umana e che coprono l'intero arco della vita. Il modello dello sviluppo immaginato dal Nostro è composto di otto stadi evolutivi. Ogni stadio rappresenta un globo, che si gonfia quando certi problemi sono preminenti. Il globo, poi, si trasforma in un tubo sottile che si prolunga per tutta la vita: si tratta di un compito continuo e aperto.
L'individuo in questo sviluppo non è solo ma inserito nel nucleo familiare, che formerebbe la rete del globo. Così, il quadro della vita psicosociale della persona è formato da otto globi. La vita incomincia con il concepi1nento e la nascita, che è un globo completamente aperto e finisce con la morte, che è un altro
62
Cfr. R. W. I-1000, Mysticis111, rea!ity, i!/11sio11 and the freudian critique of religion, in IJPR 2 (1992) 141-159. 63 Cfr. E. H. ERIKSON, The hfe cicfe con1pleted, NorLon, New York 1982.
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globo aperto. Ciò indica la permanenza dei compiti durante tutto l'arco evolutivo. Gli otto globi sono: fiducia vs sfiducia, autostima vs dubbio vergogna, iniziativa vs colpa, industriosità vs inferiorità, identità vs diffusione, intimità vs isolamento, generatività vs stagnazione, integrità vs disperazione. Ognuno di questi globi rappresenta un compito, che si può sintetizzare nel concetto chiave che appare nel globo. Tutti i globi sono in interazione tra loro. Ogni gonfiatura del globo rappresenta il "punto critico" della corrispondente dimensione in un momento specifico e cruciale dell'arco evolutivo, indica cioè la preminenza di un dato compito in quel preciso momento. La parte del tubo sta ad indicare che il compito non finisce nel momento ma è presente in misura minore durante tutta la vita. Questo significa vivere nel momento presente recuperando il passato e tendendo con ottimismo verso il futuro, anche se in molti casi può essere passato il "tempo giusto" di quel periodo critico e, quindi, si sono potute creare difficoltà nell'armonia dello sviluppo del soggetto. Nel processo della formazione dell'identità, la capacità di giocare lega 1' individuo alla specie umana e animale. Attraverso il gioco, che è crescita nell'immaginazione e nella libertà, si possono vedere tangibilmente i cambiamenti nello sviluppo psico-sociale del ban1bino 64 . Anche se Erikson non ha scritto esplicitamente alcunché riguardo la psicologia della religione, tuttavia il suo pensiero ha dato un buon contributo al nostro oggetto di studio, anche se ancora non gli è stato dato il posto che merita 65 •
64 Cfr. lo., !dentity and the !({e cycle, International Universìty Press, New York 1959; ID., Dùnensions of a new identity, New York 1974. 65 Cfr. P. HOMANS, The significance of Erikson's psychology for 111oder11 understandings of refigion, in P. HOMANS (ed.), Childhood an se!fhood: essay.1· 011 tradition, re!igion, and rnodernity in the psycho!ogy of E. fl. Erikson, Bucknell University Prcss, Lev,,isburg PA 1978; H. ZOCK, A psychology of ultùnafe concerning: Erik H. Erikson's contribution 10 the psychology of religion, Rodopi,
Amsterdarn l 990.
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In due circostanze Erìkson entra formalmente a parlare dì religione: quando una condizione particolare del conflitto può essere identificata con l'assenza psicodinamica del simbolo religioso e quando la religione, con i suoi valori e tradizioni, è implicata nello sviluppo dell'identità personale. La prima circostanza può essere illustrata da una comprensione del simbolo giudeo-cristiano del paradiso come una ripetizione degli aspetti della fase orale 66 così come dal legame tra i riti della vita quotidiana e la psicodinamica dci riti religìosi 67 • La seconda circostanza è rappresentata dallo studio di Erikson su Lutero. Alla fine di questo studio sul giovane Lutero", troviamo alcune riflessioni utili al nostro tema: a) un desiderio profondo per un allucinatorio senso di unità col senso materno; b) la nostalgia, la voce paterna della guida della coscienza che mette fine al paradiso della fanciullezza per orientare verso un'azione energetica adulta; c) e, finalmente, lo specchio mostra il puro sé in se stesso, il centro non nato della creazione, cioè Dio come il puro niente. Come si può notare, i terni di psicologia religiosa sono associati con la dinamica dell'autorità e dell'ubbidienza nel contesto del conflitto edipico così come in Freud. In Erikson le fasi in cui entra lesperienza religiosa sono quelle decisive nella formazione dell'identità in senso stretto e sono quelle della fiducia vs sfiducia, dell'identità vs diffusione e dell'integrità vs disperazione69 .
66
Cfr. E. ERJKSON, ldentity, cil. Cfr. Io., Toys and reasons: srages in the ri1uafiz.atio11 of experie11ce, Norlon, New York 1977. 68 Cfr. Io., Yo1111g nu111 L11!er: a study in ps.ychoanalysis and history, Norton, New York 1958, 264. 69 Cfr. D. CAPPS, Erikson 's theory of religious ritual: the case of e),:con11111111icatio11 fo A1111 I-Jibbens, in lournal for the scie11t1fic study of religion 18 (1979) 337-349; L. DRlEDGER, Individuai freedo111 vs co1n111u11ity contro!: an adaption of Erikson 's ontogeny of rit11aliz.atio11, in lo11rna! for the scie11t1fic study of religion 21 (1982) 226-241; H. FAJ3ER, Se(f-psychology and the structure of religio11s experience, in Proceedings o./' the .fòurth sy111posiun1 011 the psychology of religion in Europe, Calholic Univcrsity, Nij1negen 1989, 156-163. 67
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Comunque, pur non togliendo nulla alla critica della religione fatta da Freud, Erikson è più imparziale e differenziato di Freud. Egli libera, per esempio, l'analisi dell'esperienza e dei simboli religiosi dal dominio della fissazione regressiva su fasi infantili non ancora risolti"'· Un altro interessante contributo di Erikson" è tratto da un suo illuminante saggio sull'analisi psicologica della religione specificatamente femminista. Erikson suppone che ci sono differenze sessuali nell'approccio, per quanto riguarda l'esperienza della trascendenza. Erikson ha visto nel tipo "mascolino" una connessione tra a) la conquista tecnologica e del dominio dello spazio e b) l'idea astratta di un Essere trascendente a cui tutti sia1no sotton1essi e nel tipo "fen11ninino" la corrispondenza tra orientan1ento interno ed inti1nità. Questo "continente oscuro" del femminile, messo da parte anche da Freud, anche se nel suo circolo scientifico spiccavano delle donne come sua figlia Anna, Melanie Klein, Lou Andreas-Salomé, Helen Deutsch e altre, è stato fatto riemergere, nel suo contributo a una psicologia femminista della religione, da N. Goldenberg 72 . Già da studi precedenti sul concetto del corpo in psicologia e psicoterapia7l e sul concetto psicologico di separazione di corpo e anima da Platone a Jung" fino al tema dell'aggressione", la Goldenberg ha cercato di fondare una teoria olistica per superare le immagini dualistiche dell'essere umano, il maschio non è lo spirito e
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7 Cfr. H. G. 1-IEIMBROCK, Psychoanalitic 1111dersta11di11g of religio11, in IJPH l (1991) 71-80. 71 Cfr. E. EJ<JKSON, Won1e11hood and the inner space, in ID., fdentity: yo//th and crisis, Norton, Ne\v York 1968, 261-294. 72 Cfr. N. R. GOLDENBERG, Spiritua/itd! u11d theo/ogie, in l\1. KASSEL (ed.), Fenu11inistiche theologie, Kohlain1ner, Stuttgart 1988, 165- l 89. 73 Cfr. N. R. GOLDENOERG, Returning words lo .f/esh: .fen1inis111, psychoana/isis and the resurrection o.f the body, Bcacon, Boston I 990. 74 Cfr. ID., Archetypica/ theory and the separation of the 111i11d and body: rea.1·011 enough fo turn to Freud?, in lourna/ o.ffe111i11ist studies of teligion I ( l 985) 55- 72. 75 Cfr. ID., Anger in the body: fen1i11isn1, re!igion and k/einian psychoana!ytic theory, in lourna/ offe111i11ist studies in re/igion 2 (1986) 39-49.
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la femmina il corpo come elemento distruttivo dello spirito. Infatti, è in tutti gli esseri umani la compresenza di aggressività e amore.
La teoria della relazione oggettuale In concomitanza col prezioso contributo di Erikson, la scuola analitica britannica, che si rifà alla Klein, ha dato un considerevole contributo alla psicologia della religione con la teoria delle relazioni oggettuali. Rifacendosi all'ampio concetto di "gioco" descritto da Erikson, molti autori hanno analizzato i simboli e riti religiosi in termini della loro qualità di "oggetti transizionali". Questi autori riprendono, reinterpretandolo in modo positivo, il concetto di "illusione" descritto da Freud e lo vedono produttivo nel contesto di una psicologia della religione. W inni c o tt 76 ha caratterizzato gli oggetti transizional i principalmente come stadi evolutivi nel contesto della prima infanzia. L'uso degli oggetti transizionali è di fondamentale importanza all'inizio dell'esperienza della differenza "Io-Mondo", così come per la formazione del simbolo. Gli oggetti transizionali rappresentano una prima approssimazione dell'equilibrio tra la percezione della realtà e l'attribuzione di significalo tra soggettivo, creativo e produttivo. Si intravvede qui un'estensione del concetto freudiano di "illusione", che lui associava al pensiero desiderante infantile, 1nentre Winnicott le ha riconosciuto una funzione potenzialmente adattiva. I concetti dell'oggetto Lransizionale e del campo intermedio dell'esperienza non sono solamente fenomeni legati alla prima esperienza infantile, ma continuano nella loro efficacia lungo l'arco della vita.
76
Cfr. D. W. WJNNICOTI, Transilional objects a11d transitiona! phe110111ena, in Pa!ying and reality, Tavistock, London 1971, 1-30 (tr. it., Gioco e realtà, Annanclo, Roma I 986).
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In questo contesto la religione, con i suoi simboli, riti, sacramenti, con lo sviluppo dell'idea di Dio 77 , funge da oggetto transizionale con una finalità terapeutico-educativa fondamentale: l'autonomia dell'Io nell'equilibrio tra mondo soggettivo della fantasia e realtà esterna. Molti ricercatori, basandosi sulla teoria di Winnicott sugli oggetti transizionali, hanno reso accessibile alla comprensione psicoanalitica i simboli religiosi. Rizzuto 78 ha rilevato l'importanza, per la crescita della identità personale, della interiorizzazione-costruzione di un Di o interno, governato dal potere soggettivo dell'immaginazione del bambino. Ha così fatto una sintesi psicodinamica interessante dell'oggetto transizionale Dio nel contesto della teoria dello sviluppo dell'identità di Erikson. Pruiser 79 ed Heimbrock 80 hanno spiegato il comportamento simbolico nel rituale religioso con la teoria dell'oggetto transizionale. Il rituale religioso è una sfera intermedia in cui una persona esperisce la paradossale esperienza di essere un agente attivo che incontra un "non-1ne" in cui si ha fiducia e ci si rasserena. Ciò che avviene nel rito è questa presa di coscienza della differenza tra "Io" e la "realtà" esterna e, quindi, del potere e dello sviluppo in autonomia dell'Io. Bisogna stare, però, attenti alle assolutizzazioni apologetiche" tenendo sempre conto della ambivalenza e della fragilità di questo regno intermedio.
77
Cfr. F. GRUNEWALD, Das gebet a!s spez(fisches ubergangsobjekt in YVege Menschen 34 (1982) 221-228; W.W. MEISSNER, Psychoanalysis and re/igious experience, Yale University Press, New· Haven, CT 1984; J.W. lONES, Conternporary psychoanalysis and re{igion. Transference and transccndcnce, Yalc Univ. Press, New Haven and London 1991. 78 Cfr. A. M. RIZZUTO, La nascita del Dio vivente. Studio psico-analitico, trad. it., Borla, Ro1na 1994. 79 Cfr. P.W. PRUYSER, The play of the i1111naginatio11: toward a psychoanalysis of culture, Intcrnational University Press, New York 1983. 8° Cfr. H.G. HEIMBROCK, Ritual and tran.~fonnation: a psychoanalytical perspectiv(~, in H.G. HETMBROCK, H.B. BOUDEWIJNSE (eds.), Current studies on ritua/: perspectives for the psychology of religion, Rodopi, Amsterdarn 1990, 33-42. 81 M.E. Ross, C.L. Ross, Mothers, infants and the psychoanalytic study of ritual, in Signs: lournal of Won1en in culture and society 9 (1983) 26-39. ZJ/111
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Kohut Il più recente ed ancora inesplorato contributo dell'approccio psicoanalitico alla psicologia della religione è quello della "psicologia del sé" di Kohut e della sua rivisitazione della nozione di "narcisi sino". Freud nella sua opera La civiltà e i suoi malesseri del 1930, aveva già parlato della relazione tra l'esperienza religiosa e quella del narcisistico "sentimento oceanico". Se si rimane in questa direzione, Erikson 82 , come abbiamo già visto nel suo Giovane Lutero, afferma che la formazione dell'identità è a rischio se non ci si richiama alla terza nostalgia della religione, che è un ritorno verso il padre. Dalle opere di Kohut 81 si possono prendere delle suggestioni, delle indicazioni, che sono fruttuose per la psicologia della religione. Quando Kohut parla di narcisismo non si riferisce a quello dipendente dal complesso edipico ma di un maturo narcisismo, che cerca di esprimere le fantasie narcisistiche della prima infanzia. Il narcisismo di cui parla Kohut è quello di individui creativi che hanno un'esperienza di se stessi meno separata dal loro ambiente che non quelle persone non creative. Kohut menziona un elemento familiare tratto da Genesi 2,7. Il respiro diventa una metafora per l'ispirazione che gli individui creativi ricevono dal di fuori: il respiro di Dio diventa datore di vita, atto creativo 84 .
82
Cfr. ERlKSON,
Young
111a11
Luter ... , cit.
Cfr. H. KOHUT, Narcisis1110 e analisi del sé, trad. il., Boringhicri,Torino 1976; ID., La guarigione del sé, trad. it., Boringhieri, Torino 1980; Io., La ricerca del sé, Boringhieri, Torino 1982; ID., La cura psicoanalitica, Boringhicri, Torino 1986; Jo., I Seniinari. Teoria e clinica della psicopatologia giovanile, Ubaldini-Astrolabio, lB
Roma 1989. 84
Cfr. H.G.
zwi.schen theo/ogie
Phantasie und christilicher glaube: zu1n dialog p.sychoanalyse, Kaiscr-Vcrlag, ZUrich 1977.
HEIMBROCK, 1111d
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Francesco Furnari
Bridgman e Carter 85 , in risposta a uno studio di Vitz e Gartner'', propongono la figura di Gesù di Nazaret come non narcisistica per eccellenza. L'idealizzazione del!' altruismo sembra mettere in crisi l'interpretazione del narcisismo così come espressa da Kohut. Però è possibile anche capire la figura di Cristo come quella persona unica che ha incarnato su di sé, nella propria finitudine, empatia, creatività e significato. AI centro della psicologia del sé c'è l'interesse di Kohut per la clinica, cioè per la patologia individuale. Ciò risulta interessante anche per il dato religioso. Kohut propone, infatti, due metafore: "uomo colpevole" e "uomo tragico". L'uomo colpevole è quello che ha problemi riferiti all'area della soddisfazione degli istinti; quello tragico, invece, è quello che ha problemi dipendenti dalle restrizioni nella realizzazione del Sé. Secondo Kohut 87 , che applica queste metafore alla storia della cultura, la crisi degli individui nel medioevo era quella dell'uomo "colpevole", mentre la crisi dell'uomo moderno è quella "tragica", cioè quella dcl vuoto di sé.
La teoria dell'attaccamento J. Bowlby 88 ha introdotto questa teoria come una alternativa a quella psicoanalitica della relazione oggettuale. La teoria dell'attaccamento è quella della prossimità, della vicinanza del bambino alla sua fonte primaria di protezione, da cui
85 Cfr. L.P. BRJDGMAN, J.D. CARTER, Christianity and psychoana/ysis: originai sin-Oedipicaf or preoedipical?, in Journal of psychology and theology 17 (1989) 3- I 5. 6 N Cfr. P.C. YITZ, J. GARTNER, Christianity and psychoanalysis: Part. l. Jesus as the antioedipus, in Journal of psychology and theology 12 (1984) 4-14. 87 Cfr. H. KoHUT, Narcisis1110 ... , cit. xs Cfr. J. B O\VLB Y, A ttacl11ne11t and !oss: attaclunent, I, Basi e, New York 1969; Io., Attac/1111ent and loss: separation, II, Basic, New York 1973; Io., Attaclunen/ and loss: loss, III, Basic, New York 1980.
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egli trae sostegno e sicurezza sviluppando un sistema biosociale e comportamentale costruttivo o meno. Questi schemi di relazione di attaccamento che si sviluppano subito nel piccolo d'uomo rimangono relativamente stabili attraverso il tempo, anche se possono essere modificati da esperienze emozionali significative o da cambiamenti nella situazione di vita. Comunque, questi schemi di relazione primaria ce li portiamo appresso nella vita nelle relazioni più intime". La madre serve, dunque, per il bambino come base sicura e come una salvezza"'· All'attaccamento sicuro seguono due schemi di attaccamento insicuro: il tipo evitante, nel quale il bambino sembra guardare la madre con1e non sicura, e il tipo {11nbivalente/a11sioso, in cui il comportamento di ricerca di prossimità e di conforto si alterna episodicamente con ansia e resistenza. Il bambino ansioso/ambivalente appare generalmente più ansioso e non elicita una confidente esplorazione dell'ambiente alla presenza della madre". Dal lavoro di Weiss 92 sulla solitudine, come isolamento emotivo o sociale, risulta che l'applicazione del concetto di attaccamento è stato esteso, in anni recenti, anche alle relazioni adulte. Per esempio, alcuni autori" hanno trovato delle somiglianze tra l'attaccamento nella pri1na infanzia con l'an1ore romantico adulto, concludendo che I' atnore romantico adulto rappresenta l'integrazione di tre sistemi comportamentali: attaccamento, riproduzione ed avere cura ed attenzione.
89 Cfr. L.A. STROUFE, J. FLEESON, Attacl11nent and the construction of relationships, in W.W. HARTUP, Z. RUBIN (cds.), Refationsl11}1s and develop111e111, Lawrence Erlabau1n Ass., I-lillsdalc NJ. 1986, 51-71. 9° Cfr. I. BRETHERTON, Neiv perspectives on attacl1111e11t relations: sec11rity, co111111unication, and i11ter11af working 111odels, in J.D. 0SOFSKY (ed.), Handbook qf infanr develop1nent, Wiley, New York 1987, 1061-1100. 91 Cfr. M.D.S. AINSWORTH, M.C. BL!ìHAR, E. WATJ'ERS, s. WALL, Patterns (~r a1tac/1111e11t: a psycho/ogica/ study o.f the strange situation, Lawrencc Er!ahau1n Assoc., Hillsdalc NJ. 1978. 92 Cfr. R.S. WEISS, Lone/iness: the experience of e1notio11al and socia! isolation, Mrr Press, Cambridge Ma 1973. 9·1 Cfr. P. SHAVER, C. HAZAN, D. BRADSHAW, Love and attac/1111e11t: the integratinn of three behavioral syste111s, in R.J. STERNBERG, M. BARNES (cds.), The a11ato111y of love, Yale Univ. Press, New Havcn 1988.
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La concettualizzazione della religione come un processo di attaccamento Le persone religiose credono che Dio protegge, conforta, e ci salva dal male. La convinzione della stessa presenza di Dio vicino a noi ci rende forti e capaci di affrontare con fiducia le difficoltà della vita. La religione intesa come una tradizione "difensivo-protettiva", basata sulla paura e sul bisogno di sicurezza e che ci fa creare un'immagine di Dio onnipotente, risale a Freud nella sua opera Il fitturo di una illusione del 1927. I concetti freudiani di regressione, fissazione e dipendenza implicano una decisiva valutazione negativa della credenza e dell'attività religiosa. La teoria dell'attaccamento, viceversa, afferma che la ricerca di protezione e di sicurezza da una figura di attaccamento in circostanze destrutturate, di paura, di necessità è un'azione nor1nale, sana a qualsiasi età. Salvezza Argyle e altri", Spilka e altri95 hanno concluso, dalle loro ricerche, che la religione gioca un importante ruolo in tempi di crisi e che la gente torna specificamente alla preghiera, anziché alla Chiesa, in circostanze stressanti.
Altri 96 affermano che le persone sembrano tornare a Dio più come ad una fonte di supporto durante Io stress che come guida morale o come un antidoto per un mondo ingiusto.
94
Cfr. M. ARGYLE, B. BEJT-1-IALL AHMT, The socia! psycho/ogy of re/igion, Routledgc and Kegan Paul, London 1975. 95 Cfr. B. SPILKA, R. Wooo Jr., R.L. GORSUCH, The psychology of religion: an en1pirical approach, Prentice-Hall, Englewood Cliffs NJ. 1985. 96 Cfr. K. PARGAMENT, J. HAHN, God and the just word: causai and coping attributions to God in health situations, in Journal Jor the scientiftc study of re!igion 25 (I 986) 193-207.
219
Altri studi 97 hanno dimostrato che, in pazienti ammalati di cancro o in emodialisi o ammalati di cuore, la fede religiosa aveva un effetto positivo nell'impegno a lottare e sperare e nel superare sentimenti di fallimento e alienazione. Anche in persone che hanno perso un congiunto, sia genitore sia marito o moglie, si è manifestato un incremento della fede e del comportamento religioso. Dio diviene così, in casi di separazione e di morte, una figura sostitutiva dell'attaccamento, che dà sicurezza, conforto e aiuto98 . Conversione
La conversione improvvisa è spesso preceduta da periodi di stress, depressione, ansietà ed il tornare in se stessi, mettendosi nelle mani di Dio, dà un senso di pace, serenità e spinta verso l'impegno99 • L'adolescenza è un periodo privilegiato per queste conversioni di ritorno a Dio, alla preghiera, dopo periodi di crisi, tormento, lotta, legati anche alla pubertà'°", alla ricerca di significato, di identità'°' e di autorealizzazione 102 • Tutti questi fattori contribuiscono ad elicitare nell'adolescenza quella tempesta e stress che portano a sperimentare la paura e l'incertezza nel fnturo, per la separazione dalle figure di attaccamento primario e, dunque, la spinta possibile a una ricerca di una nuova e onnipotente figura di attaccamento, che può essere Dio o qualche figura caris1natica 103 •
97 Cfr. M.E. O'BRJEN, Religious faith and adjust111e11t to long-tenn hernodialysis, in Journal of religion a11d hea!th 21 ( 1982) 68-80. 98 Cfr. C.M. PARKES, Bereave111ent: studies of grief in adult !ife, Intcrnational University Press, New York 1972. 99 Cfr. M. GALANTER, Cults: faith, healing and conversion, Oxford Univcrsity, New York 1989. ioo Cfr. R.H. THOVLESS, An introduction to the psycho!ogy of religion, MacMillan, New York 1923. 101 Cfr. E.D. STARBUCK, The psychology of religion, Scribner's, New York 1989. 102 Cfr. B. SPJLKA, R.W. Hooo Jr., R.L. GoRSUCH, op. cii. io.i Cfr. R.S. WEISS, Attac/11ne11t in adult /{!'e, in C.M. PARKES, J.S. HINDE (cds.), The piace of aflacl1111ent in ln11nan hehavior, Basic, New York 1982, 171-184.
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Una base sicura Il senso della presenza di un più alto ed amichevole potere dà un senso generalizzato di sicurezza emotiva. Questa base sicura, così come viene chiamata dalla teoria dell'attaccamento, costituisce l'antidoto alla paura e all'ansietà. Sfortunatamente, abbiamo risultati conflittuali a riguardo del rapporto tra religione e salute mentale, che non sostengono in modo definitivo l'ipotesi precedente, sia perché in questo campo non abbia1no ancora strumenti precisi per valutare la dimensione dell'attaccamento, sia perché la religione è una delle molte cose a cui le persone possono ricorrere per appoggiarsi come ad una base sicuraw4 • Anche se la ricerca in questo can1po ha dato risultati a1nbigui 105 , tuttavia una specifica dimensione di religiosità, che metta l'accento su un sicuro attacca1nento a Dio, può provare di essere forten1ente associata con risultati positivi sulia salute mentalew6 • Dio come fonte di attaccamento Quali sono i concetti che la gente si fa di Dio? La sua i1nn1agine è in relazione con quello dei propri genitori o con il concetto di sé? Contrariamente a quanto afferma Freud, Dio è concepito più simile alla propria madre che al proprio padre 1117 o, alternativa1nente ai
104 Cfr. M. POLLNER, Divine re!ations, socia/ re/c1tio11s, and well-being, in Journa! of health and socia/ behavior 30 ( l 989). 105 Cfr. A. E. BERGJN, l?efigiosiry and 111e11ta! heafth: a criticai teevaluation and 111eta-a11alysis, in Professionaf psychology: research and practice J 4 ( 1983) J 70184. 106 Cfr. L. A. KJRKPATRICK, An attac/11ne11t-theory approach to t/Je psychology of re/igion, in IJPR 2(1992) 3-28. w 7 Cfr. A. Goo1N, M. HALLEZ, Parental ùnages and dil'ine paternity, in A. GODIN (ed.), }'ro111 religious e).pe,.;ence to a religious attitude, Loyola Univ. Press, Chicago I 965. 65-96.
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genitori preferiti 108 • Questi risultati rinforzano positivamente la teoria dell'attaccamento. Le persone che hanno un buon concetto di sé, in genere, hanno avuto dei buoni modelli di attaccamento"'"Le persone che vedono Dio misericordioso e come amore tendono ad avere una più alta stima e un concetto di sé positivo 110 Studi fattoriali sulle immagini di Dio hanno anche confermato la validità dell'ipotesi dell'attaccamento, Dio visto cioè come non distante, soccorrevole, amichevole, amorevole, etc., che è sentito come un punto centrale nella fede delle persone"'· Comportamento religioso I comportamenti di attaccamento si riferiscono ad azioni designate ad incrementare la prossimità bambino-madre. Questi comportamenti possono essere divisi in: a) comportamenti-segnale (protendere le mani, piangere, ecc;) b) comportamenti-approccio (stringere al seno, muoversi fisicamente) 112 • La Ainsworth 11 ' ha affermato che questi comportamenti prossimali sono indici utili di attaccan1ento fino alPetà di sei 1nesi, quando inco1ninciano ad essere soppiantati da comportainenti più distali. Una volta cresciuti, i bambini sono più facilmente soddisfatti da contatti verbali o visivi con la figura di attaccamento eccetto in momenti di particolare stress.
Hl& Cfr. M.O. NELSON, The concept of God und feeli11gs roward parents, in lournal of ;ndividu{/I psychology 27( 197 I) 46-49. 1119 Cfr. J. BOWL13Y, Attac/11nenl and foss: separatio11, li, cit. llO Cfr. P. BENSON, B. SP!LKA, God i111age as a .f1111ctio11 o.f se~f-csfee111 and I ocus of controf, in Journaf .for the scientific s/l1dy of refigion 12 ( l 973) 297-31 O; B. SPJLKA, J. ADDISON, M. ROSENSOHN, Pare11ts, se/f and God: a test of co111peti11g i11divid11al re!igion re!ationships, in Review r~f re!igio11s researc!i 16 (1975) 154l65. 111 Cfr. A. TOMA YO, L. DESJARDINS, Belief systen1s and co11cept11af ùnages (~{ parents and God, in Journa! of psychology 92 ( 1976) 131-140. 112 Cfr. J. BoWLBY, Attac/1111ent and !oss: af/ac/1111ent, I, ciL 113 Cfr. M.D.S. AINS\VORTH, At!ac/1111e11t: retrospect and prospecl, in C.M. PARKES, J.S. l-lJNDE (eds.), op. cii., 3-30.
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Per gli adulti è sufficiente sapere già della presenza di una persona che è disposta e possa prendersi cura di loro. Questo decrescere della dipendenza dal contatto fisico e dalla prossimità rende possibile un'estensione del modello di attaccamento a figure di attaccamento non corporee o i1n1naginarie. Il contatto oculare, sollevare le mani, parlare il linguaggio dei bambini, sono comportamenti simili a quelli elicitati dai bambini per mantenere il contatto con la figura di attaccamento che dà sentimenti di sicurezza e confidenza. In questo modo Kildahl'" spiega l'esperienza del parlare le lingue (glossolalia), e cioè come prova che queste persone sono amate da Dio. Reed'" ha trovalo uno stretto parallelo tra la preghiera di supplica e il piangere o il chiamare del bambino nei confronti della figura preminente di attaccamento. Riferendoci a Dio nella preghiera, cerchiamo, oltre al confarlo, quella umana riassicurazione che Dio resta per noi una base sicura 116 ,
Un'ipotesi compensativa: figure di attaccamento sostitutivo La teoria dell'attaccamento mette anche in evidenza il problema della sostituzione o dei surrogati delle figure di attaccamento, quando questo non ha attecchito o non si è sviluppato in modo positivo"'·
114
Cfr. J.P. K!LDAHL, The psychology of speaking in tongues, Harper and
Row, New York 1972 115 Cfr. B. REED, The dyna111ics of re/igion: process and 111ove111e111 in christian churches, Darton, Longn1an, Todcl, London 1978. 116 Cfr. J.J. CAJ\1POS, C. STENRERG, Petception, apptahìal and e111otio11al: the onset o.f socia! referencing, in M.E. LAMB, L.R. SHERROD (eds.), h1fant socia! cognìtion: e111pirical and theoretical considerations, Lawrcncc Erlbau1n, Hillsdalc N.1. 1981, 273-314. l l? Cfr. M. D. S. AINS\VORTH, Attac/1111e11ts across the l~fe span, in Bu//eti11 of the New York acaden1y of111edicine 61 (1985) 792-812.
Ullman"", Kirkpatrick e Shaver' 19 hanno trovato che l'incidenza di conversioni religiose improvvise è molto più grande per quelle persone che hanno attaccamenti di rifiuto e non positivi con la madre che non per quelle che hanno riportato attaccamenti ansiosi I ambivalenti o sicuri. Tutto ciò si verifica, però, anche per quelle persone la cui madre non è religiosa. Ipotesi corrispondenza: la continuità dei modelli mentali Durante lintero arco della vita i modelli mentali hanno una relativa costanza, cosicché le credenze delle persone sulle figure di attaccamento dovrebbero riflettere direttamente le precedenti esperienze relazionali. Cioè la sicurezza/insicurezza delle relazioni di attaccamento di una persona con i suoi genitori dovrebbero predire direttamente, anziché inversamente, le proprie inclinazioni religiose. Si può così supporre che una perdita di fede è associata con relazioni genitoriali povere e che l'ateismo o l'agnosticismo può essere una applicazione diretta di un modello di attaccamento di evita1nento o rifiuto 120 .
Da queste ricerche, si può anche supporre che quando ci sono delle trasformazioni radicali dei modelli mentali di attaccamento da insicuro a sicuro sono, di conseguenza, affette tutte le relazioni di attaccamento, inclusa quella con Dio. Un altro campo di indagine affascinante, come supporto alla suddetta ipotesi, ci viene da ricerche sullo stile genitoriale in rapporto alle credenze religiose. Esistono buone correlazioni tra uno stile genitoriale culturaln1entc dominante, misurato sulla dimensione accettazionerifiuto, e la credenza della società circa il soprannaturale. Le culture in
Cfr. C. ULLMAN, The trasfonned seZf: the psychology oj religious conversion, Plenu1n, New York 1989. 119 Cfr. L.A. l(IRKPATRICK, P.R. SHAVER, Atlac/11nent theory a11d refigion: childhood aflach111ents, religious be!iefs, and co11versio11, in lourna! far the scient~fic study ~f religio11 29 (1990) 315-334. 12 Cfr. D. CAPLOVlTZ, F. SHERRO\V, The re!igious dropouts, Sagc, Bevcrly Hills CA l 977. 118
°
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224
cui predomina, per esempio, uno stile genitoriale "accettante" (amorevole) abbracciano e accettano divinità benevolenti, mentre quelle in cui predomina uno stile "rifiutante" tendono ad adottare divinità malvagie 121 • Genitori e religione Ciò che produce maggiormente la religiosità dei bambini è quella dei loro genitori'"· Questo riflette presumibilmente, e almeno in parte, il processo di socializzazione religiosa. La qualità della relazione genitore-figlio può spiegare abbastanza bene lo sviluppo religioso. Se i bambini provengono da una famiglia stabile, caratterizzata da sincerità e buona comunicazione, questi sono più disposti ad accettare la visione reJigiosa dei loro genitori 123 • I bambini con attaccamento genitoriale sicuro sono più disposti ad essere maggiormente influenzati dalle credenze religiose dei loro genitori che non quèlli cÒn un àltaccamenfo deboko ii;sic~ro. Sia Kagan'" che Minsky' 25 hanno trovato che il principale ruolo dell'attaccamento è quello di stabilire un contesto per l'apprendimento e modellamento dei valori. La qualità degli attaccamenti nell'infanzia, dunque, può giocare un ruolo importante nel moderare la correlazione tra la religiosità dei genitori e quella dei loro figli'"· Concludendo su tale argomento, si può dire che il modello "attaccaincnto-religione" cerca di spiegare 1nolto e, a volte, non abbastanza. Certo la vita dice di più che non il semplice modello dell'attaccamento. Chiaramente, la religione serve molte funzioni
121 Cfr. W.W, LAMBERT, L. M. TRIANDIS, M. WOLF, S(nlle correlafes o_f be!ief1· in rhe 111a/eFo/e11ce and henevolence of supernatural beings: a cross-societal study, in Journa/ of abnonnal and socia/ psychology 58 (1959) 162-169. 122 Cfr. M. ARGYLE, B. BEJT-I-lALLAHM!, op. cit. 12 ·1 Cfr. B. SPILKA, R.W. IIOOD Jr., R.L. GORSUCH, op. cii. 124 Cfr. J. KAGAN, The nature ofthe child,, Basic, New York 1984. 125 Cfr. M. ~1INSKY, The society o.f 111ind, Sin1on anù Schuster, New York
1985. 126
Cfr. L. A.
KIRKPATRICK,
P. R.
SHAVER,
art. cii.
psico-sociali: sul senso del significato, controllo, autostima, valori e direzione morale attraverso cui noi organizziamo la nostra vita. E la sicurezza e la protezione rappresentano, tra gli altri, dei motivi umani importanti. Bisogna riconoscere, però, che c'è molto di più nella teoria dell'attaccamento che non nella esperienza immediata della sicurezza o ansietà. Essa rappresenta su larga scala una teoria dello sviluppo della personalità, che mette l'accento sul grado in cui relazioni significative ed esperienze emozionali incidono sulla fede di ciascuno verso il mondo e la propria posizione in esso.
Conclusione
Certamente, il rapporto tra psicologia e teologia, tra psicologia e religione così come si evince dalle ricerche sul campo presentate alla luce degli approcci cognitivo-sociale e psico-dinamico, sembrerebbe un rapporto pacifico e fruttuoso. Sono finiti, ormai si spera, i tempi dei due mondi chiusi, psicoanalisi e religione, mondi contrapposti, che hanno creato nelle loro rispettive istituzioni un "mondo dell'interno" con il conseguente estrancamcnto del soggetto dalla vita del di fuori, chiudendosi in un con1plesso di "cerimonie istituzionali" 127 • Da questo "mondo dell'interno" sono nati solo dei sospetti e diffidenze e, a volte, condanne e scomuniche per quei soggetti che volevano fare uno sforzo pionieristico di sintesi dei due mondi vivendo nella fede del loro proprio e rispettivo rnondo 128 .
A nostro avviso, una sintesi del rapporto, che si vuole fruttuoso, tra psicologia e religione passa attraverso il detto evangelico che se non si diventa bambini, addirittura se non si ritorna nel seno n1aterno,
non si è degni del regno dei cieli. Questo lo hanno ben capito un
127 128
Cfr. E. GOFFMANN, Asy/u111s, trad. il., Einaudi, Torino 1968.
Cfr. L. ANCONA, Psicoanalisi e religione: una possibile perl'ersione ?, in Psicoterapia e scienze 111nane I (1990) 3-19.
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Francesco Furnari
Francesco d'Assisi, giullare di Dio, e una Teresa di Lisieux, "giocattolo" - come lei si definiva - nelle mani di Dio. E' attraverso il gioco (play), l'esperienza ludica, che non è per gioco (game), che le due istituzioni finiranno col non demonizzarsi a vicenda e ad aprirsi, dunque, a quel "futuro di un'amicizia" auspicato da Matte Bianco"'· Nell'approfondire questo dialogo è risultata degna di nota la teoria psicoanalitica di Winnicott sullo spazio e gli oggetti transizionali, come area intermedia in cui il bambino, giocando, sviluppa la sua capacità di immaginare e di rapportarsi a Dio, capacità indispensabile per la maturazione adulta del soggetto il quale, tra un attaccamento e l'altro, si accorgerà che la sua esperienza onnipotente ha dell'illusorio. Però, come per magia, quando avrà proceduto al disillusionamento, quindi al superamento di un arido e chiuso narcisismo edipico, si accorgerà che potrà costrnire un Sé e una realtà creativa su qualità, anch'esse narcisistiche, ma positive, quali gli ideali e i valori di solidarietà, dell'altruismo, della cooperazione, che saranno la base per la crescita e l'autoaffermazione della persona ma al servizio degli altri. Nel contesto del religioso può così essere ripristinata e valutata la teoria dcl narcisismo di Kohut.
129
Cfr.
I. MATI'E BLANCO, Ps;coanafisi e religione. !/futuro di 11n'rl!11icizia,
Congrés International A.LE.M.P.R., Barcclona 1986.
Note e commenti
Synaxis XIII/I (1995) 227-240 MEMORIA E FELICITÀ NEL X LIBRO DELLE CONFESSIONI DI AGOSTINO ENRICO PISCIONE'
I. L'orizzante teoretico del problema
Il tema della memoria non è certo una scoperta di Agostino d 'lppona, ma in lui acquista un taglio esistenziale ed un significato teologico sconosciuti a Platone e a Plotino, tanto per citare i cosiddetti "maestri" pagani del nostro Autore. Se è vero che il santo Dottore ha accolto in alcune opere giovanili, soprattutto nei Soliloquia e nel De quantitate animae, l'innatismo di Platone, è fu or di dubbio, però, che non ha mai accettato la teoria dell'anima preesistente al corpo, anzi in un suggestivo passo del libro XII del De Trinitate confuta apertamente anche la dottrina della reminiscenza. Osserva il Nostro, a proposito del Menane platonico, che l'esempio di quel «giovane schiavo che, interrogato su argomenti geometrici, rispose come un n1aestro in quella materia»' non può assumere un valore paradigmatico, data la scarsità dei geometri. Essi anzi «sono - nota con la solita arguzia lAutore - talmente rari fra gli uomini che è assai difficile trovarne qualcuno» 2 .
* Docente di Filosofia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 AGOSTINO, /)e Trinitate, XII, XV, XXIV, trad. it., Edizioni Paoline, Alba
1977, 466. 2
lbid., 467.
228
Enrico Piscione
Pure i racconti di Pitagora, con i quali il mitico filosofo di Samo pretendeva di ricordare perfettamente «alcune cose dette di cui avrebbe fatto esperienza in un precedente soggiorno su questa terra», vanno presi, secondo la prudente valutazione agostiniana, per quello che sono: «false reminiscenze paragonabili a quelle che proviamo sovente nel sonno quando ci sembra di ricordare, come se le avessimo fatte o viste, cose che jn realtà non abbiamo né mai fatte né viste»]. Anche da Plotino, il quale nell'Enneade IV afferma che la «memoria appartiene all'immaginazione, e il ricordo è il ricordo di immagini»·', l'Ipponate dissente, e il motivo di un tale dissenso lo chiarisce bene Solignac. «Agostino - scrive lo studioso francese contrariamente a Plotino non riduce la memoria all'immaginazione, 1na le riconosce un autentico valore spirituale, essa si esplica più profondamente per il fatto che Agostino non considera lanima come un'ipostasi inferiore all'intelligenza, ma come un soggetto spirituale di cui la intelligenza, la mens è la facoltà più alta»'. Situata così, a grandi linee, la dottrina agostiniana della memoria nel suo contesto teoretico, ci accorgeremo ben presto, man mano che andremo esponendo questo tema, che esso è così centrale in Agostino da richiamare le posizioni più tipiche del pensiero del santo Dottore relative all'interiorità e alla felicità. Si potrebbe forse sostenere sinteticamente che il problema della memoria costituisca una sorta di affascinante pendant fra la pura esistcnzialità e il recupero della razionalità riflessiva. È noto che il problema della memoria trova la sua più ampia e articolata trattazione nel libro X del capolavoro agostiniano. Essa, cioè, rinviene il suo "luogo naturale" in quel punto focale del!' opera che, come ha osservato Nicola Abbagnano, segna «il trapasso tra la prima e la seconda parte delle Confessioni: tra la confessione dell'errore, determinata dalla prima e generica rivelazione interiore della Verità e Ja confessione della Verità, determinata dalla
4
lhid., 468. PLOTINO, E1111eadi, IV, 9, 29, a cura di G. Faggio, Rusconi, Milano 1992,
.'i
A. SDLIGNAC, Les Confessions, in Bib!. Aug., voi. 14, 561, n. 14.
J
609.
Memoria e -felicità nel X libro delle Confessioni ,[i Agostino 229 -- ---- ---- - --- - - --- - -
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convinzione speculativamente acquisita in via definitiva che la Verità agisce dentro di lni ed è disposta a rivelargli il suo volt0>> 6 • Ma acribia filologica ci spinge a sostenere che, in un bel passo del VI libro delle Confessioni, è possibile intravedere, se non un 'anticipazione in senso stretto del tema della memoria, quanto meno la presa di coscienza, che è propria del Nostro, della decisiva importanza di un tale problema per il suo itinerario spirituale. Prendiamo le mosse proprio da questo testo che si apre appunto con la trepidante dichiarazione da parte dell'Autore del desiderio di riuscire a pervenire almeno ad un primo chiarimento sul modo in cui l'uomo può attingere la presenza di Dio dentro di sé e con la scoperta, destinata ad essere ampiamente ripresa, che la strada percorribile per raggiungere una tale mèta è costituita dal superamento della sfera sensibile. Superamento che non può non sfociare nell'arduo tentativo di esperire il misterioso mondo dell'umana interiorità, dove la memoria, per così dire, costituisce (lo capiremo meglio più avanti) il tessuto connettivo. Data limpostazione del problema, è quasi superfluo osservare che per Agostino il passaggio dall'esteriorità del mondo delle cose alla profondità della dimensione interiore, prima di essere un intricato nodo teoretico da sciogliere, è un'esigenza vitale dell'anima. Ne fa fede appunto proprio l'incipit del libro VI ove l'Autore, esprimendosi col caldo linguaggio dell'interlocuzione diretta, così esclama: «0 speranza mia fin dalla mia gioventù, dov)eri tu mai? Dove ti eri nascosta? Non mi avevi tu creato differenziandomi dai quadrupedi e dagli uccelli dell'aria? Mi avevi fatto più sapiente e 10 camn1inavo fra le tenebre in un sentiero fangoso; ti cercavo fuori di me e non riuscivo a trovare il Dio del n1io cuore» 7 . Non ci sfugga che anche l'indagine sulla memoria condotta dal libro X s'avvale di una metodologia di ricerca caratterizzata più da un continuo caldo interrogare, accompagnato - co1n'è naturale che sia -
6 N. ABBAGNANO, Introduzione a Sant'Agostino, Confessioni, Lrad. il., Paravia, Torino 1950, 10. 7 AGOSTINO, Le Confessioni, VI, 1, trad. it., Edizioni Paoline, Alba 1967, 201.
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da un pathos esistenziale che dalla sicurezza di un procedere rigorosamente dimostrativo, tale da approdare ad una serie di affermazioni di carattere apodittico. L'argomentare di Agostino direbbe l'Aristotele del Peri ermeneias - è più vicino al "discorso semantico'', proprio della preghiera, che non a quello "apofantico", tipico del sapere scientifico. Da ultimo, prima di entrare nel vivo dell'argomento, vorremmo fare, seppure in maniera fugace, una notazione etico-teologica: l'indagine sulla memoria non nasce nel Nostro da un desiderio di regressione o, come egli preferirebbe dire, dalla cupiditas, cioè da un tipo di curiosità viziosa, ma dalla caritas, ossia dal tentativo di servirsi del passato per fruire di quella Bellezza "antica e tanto nuova" che il santo Dottore si ramn1arica di aver conosciuto tardi e con la cui esaltazione lirica non a caso, a nostro avviso, si chiude l'impareggiabile fenomenologia agostiniana delle memoria.
2. "Me1noria continens"
Agli occhi commossi di Agostino, ad un primo livello di ricerca, la memoria si presenta col duplice carattere che forse, a ben vedere, permette anche una reductio ad unum di una realtà, ad un tempo, spaziale e recettiva. L'Autore, pervenuto «ai campi e alle spaziose sedi della [ ... ] memoria», s'imbatte nei tesori di «innumerevoli immagini tratte da ogni cosa sentita» 8 • E per non essere sommerso da questi dati, che giustamente ricordano a Romano Guardini la psicologia del profondo con la sua «architettura di strati e di strutture»', Agostino tenta di dare un ordine alla materia memoriale che ha una sua natura magmatica. Egli si accorge subito, infatti, che alcuni ricordi «si fanno cercare più a lungo e tirar fuori come da segreti ripostigli», mentre altri, con una sorta di "prosopopea" che il "retore" Agostino sa
24.
8
!bid., X, Vili, 354.
9
R. GUARDINI, La conversione di Sant'Agostino, Morcelliana, Brescia 1957,
rendere con magistrale incisività, «balzano nel mezzo quasi per dire: Siamo forse noi quelli che tu cerchi?»'"· Se è proprio vero che, ad un primo approccio con la realtà misteriosa del ricordo, essa dà l'impressione di un serbatoio o, come preferisce dire con parola più realistica il Nostro, di un ventre che trattiene in sé nozioni intellettuali di vario tipo e contiene anche i calcoli e le regole aritmetiche e geometriche, è anche innegabile che nella memoria rinveniamo pure il ricordo delle passioni. "La passione" ricordata perde il suo "sapore" di dolcezza o di amarezza.
S'impone adesso (prima di soffermarsi sul capitolo XI, dove l'Autore propone un elenco quasi completo di tutti quei contenuti intellettuali di cui l'organo memorativo può riempirsi) fare una precisazione di notevole rilievo speculativo per una corretta iutelligenza della successiva indagine agostiniana sulla memoria. Potremmo forse così esprimerci: se non si procedesse con un certo rigore intellettuale nei confronti dei ricordi che man mano affiorano, essi di nuovo affonderebbero «in più lontani penetrali, tanto che bisogna con il pensiero tirarli fuori una seconda volta»". Si può però evitare, per dir così, un processo ali 'infinito dell'emergere dei ricordi solo se essi vengono sottratti alla loro naturale dispersione, tramite il cogitare, verbo di cui Agostino fornisce un originale etimo. Secondo il suo modo di vedere, il termine starebbe ad indicare «ciò che nel proprio animo, e non altrove, si raccoglie e si aduna» 12 .
Una tale acquisizione merita un commento: la n1emoria, proposta dal santo Dottore, ha inverato, superandolo, l'innatismo platonico, sia perché, come già si accennava, Agostino non è stato mai vincolato alla teoria della preesistenza dell'anima e sia perché egli, a giudizio di alcuni studiosi, ha filtrato l'influsso platonico attraverso la tradizione retorica e ciceroniana, di quel Cicerone a cui l'Ipponate è stato sempre, in qualche modo, legato, a partire dell'entusiasmante
IO AGOSTINO, Le 11 Jbid., X, VIII,
12
L.c.
Confessioni, 360.
X,
VIII,
354.
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lettura giovanile dell'Ortensius. Il brano dell'Arpinate a cui Agostino farebbe riferimento si trova nel De Oratore. In esso si ribadisce che la memoria non ha platonicamente un'origine misteriosa e divina e che le impressioni che più profondamente si fissano nel nostro spirito sono soprattutto quelle quae essent a sensu tradita atque impressa 13 • In altri termini possiamo asserire che la memoria è essa stessa, in qualche modo, pensiero. Il mettere, infatti, insieme i ricordi, allontanandoli dalla dispersione dell'oblio, ha una sua valenza squisitamente gnoseologica, come, d'altra parte, allargando il discorso, non si è lontani dal vero se si sostiene che non si darebbe pensiero se non ci fosse, quasi come necessaria conditio de1 processo conoscitivo, quell'immancabile elemento di recettività e di connessione che è la 1nemoria.
A noi pare che tutta la fenomenologia della memoria, di cui è ricchissimo il libro X, indichi per l'appunto un essenziale convergere fra l'atto memorativo e il pensiero sorpreso nella sua vivace attività, si direbbe come pensare in actu exercito. È bene chiarire, alla fine della trattazione di ciò che gli studiosi chiainano la n1en1oria continens, che essa ha però un suo intimo telos che le fa vincere (quasi con uno scatto dialettico rivolto al tUturo) la sua tendenza, per dirla con un'espressione che Ricoeur usa per indicare il subconscio freudiano, ad essere una sorta di "archeologia del soggetto", e le fa superare il livello di "ventre dell'anima" dove si cristallizzano le immagini percepite dai sensi. È stato giustamente notato che «memoria non è [ ... ] una scatola di oggetti desueti o un mare senza sponde sulla cui superfice galleggiano casualmente i relitti del passato. Non è, in altri termini, una facoltà antiquaria il cui scopo principale è quello di immagazzinare ricordi. Essa si trasforma con il nostro stesso modificarci e si articola con il nostro stesso concatenarci secondo schemi riformulabili, riferiti simultaneamente a noi stessi, quali fummo, siamo e progettiamo di essere» 14 •
13 1
~
CTCÉRON, De /'orateu1~ livrc II, «Le Bciles Lettrcs», Paris 1959, l 14.
R. BODEI, Orda conoris. Conf/iffi terreni e felicità celeste, Il Mulino, Bologna 1991, 114.
Ci tocca ora analizzare il passaggio dalla memoria continens alla memoria intesa come elemento spirituale, fonte di autocoscienza e luogo, in qualche modo, "capace" di contenere Dio. Il trait d 'union fra i due livelli della memoria ci è offerto, a nostro avviso, dal paragrafo XVI, quando Agostino s'imbatte nel difficile problema del ricordo dell'oblio. Esso, a rigor di termini, è fenomenologicamente indescrivibile perché non si può esporre con espressioni chiare ciò che appare per sua natura contraddittorio. Infatti la presenza dell'oblio, non mettendo in moto la facoltà del ricordo, ci costringerebbe piuttosto ad approdare alla conclusione paradossale che nella memoria si conserva la dimenticanza. Lo stesso Autore è consapevole di non essere capace di dare una soluzione, speculativamente convincente, al problema e, perciò, non può fare a meno di chiedersi, coll'umiltà dei grandi spiriti: «Chi mai indagherà ciò? Chi potrà comprendere come stia la questione? Certo è, o Signore, che io qui lavoro e lavoro intorno a me stesso; e sono divenuto per me stesso un campo di difficoltà, dove abbondantemente sudo» 15 • Il santo Dottore, però, non si ferma a questa constatazione di impotenza teoretica, perché riesce alla fine a pervenire, se non ad una soluzione definitiva del problema esaminato, per lo meno ad una grande certezza etico-esistenziale: si tratta della scoperta dell'identità del proprio io, senza la quale nemmeno la memoria potrebbe avere un senso. La risposta, che libera l'Autore del suo grande rovello intellettuale, è di una semplicità disarmante: «Sono io che ricordo, io anima» 16 o come, in maniera più pregnante si esprime l'originale latino: Ego suni, qui 111e111ini, ego aninius.
La memoria è dunque il punto sorgivo del!' autocoscienza o, come ben osserva Michele Federico Sciacca, essa è «l'identità dello spirito con se stesso nel tempo»"Intravista tale soluzione alla magna quaestio della presenza dell'oblio, Agostino può porre fine a queste tormentatissime pagine
15 AGOSTINO, 16 17
le Confessioni,
X,
XVI,
366.
L.c.
M. F. SCJACCA, S. Agostino, Marzorati, Brescia 1949, 250.
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con una frase che val la pena di riportare perché costituisce il suggello speculativo alla difficile ricerca condotta. «lo sono certo - scrive il vescovo di Ippona - di ricordarmi quella stessa dimenticanza che seppellisce i nostri ricordi nell'oblio» 18 •
3. Dalla memoria alla ricerca della felicità
Ci proponiamo ora di sottoporre ad attenta analisi le pagine, sempre più teoreticamente impegnative, in cui il santo Dottore va individuando nella memoria, se così è lecito esprimersi, il luogo non più spaziale, ma metafisico-spirituale della felicità. Possiamo dire di trovarci di fronte ad un processo asceticoconoscitivo che, prendendo le mosse dal!' «anamnesi di Dio da parte di un io, di un individuo perduto e "schiantato"», conduce l'uomo «all'agnizione finale, in cui il misterioso nucleo di alterità racchiuso in lui si dischiuderà improvvisamente nel fulgore di una rivelazione»". Ed ecco riproporsi la cruciale domanda: dove si può riconoscere Dio? Agostino sembra ancora una volta chiudersi nell'impasse di un problematicismo, a prima vista privo di qualsiasi sbocco positivo. «Che farò dunque, o mio Dio, mia vera vita? Sorpasserò anche questa mia facoltà che si chiama memoria per possederti, o dolce lume, per stringerti in quella via onde è possibile possederti e stringerti». Ed ancora lAutore drammaticamente si chiede: «Sorpassata la memoria dove ti troverò, o mia vita eternamente buona e sicura? Dove ti potrò trovare? Se ti trovo fuori della mia n1en1oria, non sono 1nemore di te. E se non sono n1emore di te, co1ne allora farò per trovarti?» 20 .
La ricerca del luogo in cui Dio si trova sembra, man mano che l'indagine si approfondisce, far tutt'uno con la felicità o, per dirla col titolo di un'opera giovanile dello stesso Agostino che egli avrà tenuto presente in queste pagine, con la "vita beata". Da qui l'esplicita
18 19
AGOSTINO, Le Confessioni, X, XVI, 367-368. R. BoDEI, op. cit., 176.
20
AGOSTINO, le Confessioni, X, XVII, 368.
Memoria e felicità nel X libro delle Confessioni di Agostino
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dichiarazione del!' Autore: «Quando io cerco te che sei il mio Dio, cerco nello stesso tempo la felicità» e «io ti cercherò - continua il vescovo di Ippona - affinché l'anima mia possa vivere [ ... ]. Perché, dunque, cerco la felicità della vita? Poiché non la potrò possedere fino a che non potrò dire: "Va bene; è là"» 21 . Le osservazioni del Nostro si allargano, guadagnando orizzonti sempre più ampi, che lo portano alla constatazione che la felicità è un bene talmente universale che ogni uomo la desidera, anche se talora crede d'averla dimenticata. Noi uomini non potremmo cercarla, «non l'ameremmo nemmeno, se non lo conoscessimo». Successivamente, e quasi per un naturale passaggio logico, Agostino si chiede dove gli uomini hanno conosciuta la felicità, se è vero che l'amano a tal punto che sembra quasi che l'abbiano, in qualche modo, già posseduta. Pervenuto, si direbbe per via empirica, ad una tale acquisizione, al vescovo di Ippona interessa poco condurre una ricerca propriamente teologica che, alla luce della storia della salvezza, sappia rispondere se ci sia stato un tempo nel quale il genere umano fu felice. «Non voglio indagare - egli confessa candidamente - se tutti individualmente lo fummo (felici) o in quell'uomo che fu il primo a peccare nel quale tutti morimmo e dal quale tutti siamo nati nell' infelicità» 22 . Tuttavia la prospettiva teologica qui appena accennata sarà espressa dal nostro Autore, ma si direbbe quasi en passant, in un passo del capitolo XXIII in cui Agostino lega la conoscenza della felicità a quella della verità. Gli uomini infatti «dove - osserva il santo Dottore - conobbero questa felicità se non dove conobbero pure la verità 7»". Con tale frase il Nostro probabilmente ha in mente la comune derivazione degli uomini da Adamo che ebbe, prima della sua disubbidienza, il privilegio di una profonda visione della verità divina. Ma giacché non ci pare metodologicamente corretto sviluppare quanto Agostino lascia a livello di semplice, seppure interessante,
21 22 2
·'
Ibid., X, XX, 370-371. Ibid., 372. Ibid., X, XXIII, 376.
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spunto, riprendiamo il filo conduttore della nostra esposizione limitandoci ad osservare che lAutore si occupa del tema della felicità più con l'abito di chi vuol studiare i dinamismi dello spirito umano che non con quello del teologo nel senso stretto del termine. Il vescovo di Ippona, proseguendo la sua indagine con una osservazione si direbbe di psicologia linguistica, sottolinea che la felicità si mantiene nella memoria del genere umano, a prescindere dallo spessore semantico contenuto nella parola in questione. Cediamogli la parola, per essere ancora una volta confortati da una citazione testuale. «Non è, infatti, il solo suono che ci fa piacere, poiché quando un greco sente nominar la felicità in latino non ne ha la gioia, perché non ne capisce il significato. Noi, invece, ne proviamo piacere, come ne proverebbe colui se l'avesse sentita (la parola felicità) in greco, poiché la cosa al cui possesso aspirano greci, latini, e gli uomini di tutti gli altri linguaggi, non è in realtà né greca, né 1atina» 24 . Da ciò si deduce che la felicità ha un richiamo concreto e genera un riscontro esistenziale in tutta l'umanità tanto forte che Agostino, facendo ricorso - da buon retore - alla figura dell' adynaton, può scrivere che se noi interrogassimo tutti gli uomini «Se vogliono essere felici, senza alcuna esitazione ed a una sola voce risponderebbero di sì» 25 • In che modo un uomo può avere memoria della felicità? L'Ipponate esclude due possibilità, sia la maniera con cui un suo contemporaneo potrebbe avere in mente Cartagine, che rimane una realtà puramente fisica, sia anche la moda! ità con cui si possono ricordare i numeri. Infatti chi ha conoscenza di essi ~<non ne cerca il possesso» a differenza della felicità che noi uomini più conosciamo più amiamo «e, tuttavia, desideriamo ancora di possederla per essere felici» 26 . L'unica esperienza umana confrontabile, in qualche misura, col ricordo della felicità è la gioia, in quanto il gioire presenta un aspetto
24 25 26
!bid., X, XX, 372. L.c. !bid., X, XXI, 373.
Memoria e felicità nel X libro delle Confessioni di Agostino
23 7
eminentemente spirituale. Ma anche rispetto a quest'ultimo la felicità contiene una nota ulteriore e qualitativamente più significativa: la consapevolezza di una realtà perenne che, sul piano etico, genera nell'uomo la salda volontà di un'ulteriore ricerca, che non avrà fine finché non si acquieterà nella pienezza della verità. Agostino chiarisce questo punto della sua trattazione che poi, a ben vedere, ha un suo innegabile sottofondo metafisico, non servendosi di una argomentazione filosofica, ma di una vivace esemplificazione tratta dalla vita di ogni giorno. «Come va, infatti, - egli sì chiede - che se si domanda a due individui se vogliono fare il militare può darsi che l'uno risponda di sì e l'altro dì no; se invece si domanda loro se vogliono essere felici, tutti e due, senza esitazione, diranno che lo bramano? L'uno, infatti, vuol fare il soldato, l'altro no, appunto perché vogliono essere felicì»"Ci pare, se non andiamo errati, che tale brillante exemplum fictum possa essere una presentazione di quella grande verità evangelica che l'uomo è chiamato ad amare Dio in ogni cosa e sopra ogni cosa. Per stare all'esempio fornitoci da Agostino, si potrà dire che chi sceglie di fare il soldato potrà essere veramente felice se, in quella particolare situazione di vita, amerà Dio sopra ogni cosa. La digressione fatta consente al santo Dottore di precisare meglio il nesso fra godimento e felicità e di definire quest'ultima con una delle sue formule indimenticabili per la loro densa sinteticità. La vera felicità - proclama il santo Dottore rivolgendosi direttamente a Dio - è un «godere in te, di te, per te» 28 . In termini più squisitamente filosofici - e il testo latino è sicuramente più pregnante - la vita beata si può connotare come un gaudiuni de veritate.
Empiricamente a volte si dà il caso che taluni provino odio per la verità, ma ciò dipende dal fatto che hanno rinunciato alla beatitudine che deriva dalla verità «poiché si occupano maggiormente di altre gioie che li rendono più infelici di quanto possa renderli felici
27
Jbid., 374.
'" lbid., X, XXII, 375.
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quel leggero ricordo che hanno della felicità» 29 . Si potrebbe affermare, con altra terminologia agostiniana, che talora le creature non riescono a «superare le istanze dispersive della distensio» 30 . Il non riconoscere il gaudium de veritate comporta una punizione che è, però, tutta interiore, in quanto coloro che si mettono in un simile atteggiamento spirituale sono ugualmente giudicati dalla verità, anche se resta loro nascosta. La ricerca agostiniana sulla memoria, avviandosi alla sua conclusione, come ormai dovrebbe apparire chiaro, si è venuta legando in un modo, ad un tempo, naturale ed indissolubile ad altre due grandi tematiche filosofiche, ossia la felicità e la verità. Cade opportuna, a questo punto, l'osservazione acuta di Romano Guardini, secondo cui «noi comprenderemo rettamente Agostino, se scorgeremo, nell'idea di vita beata, l'idea dell'uomo, quale lo intende Dio, idea che prende rilievo nella rivelazione». Prosegue poi con un linguaggio vagatamente neokantiano, ma con un contenuto perfettamente condivisibile, il grande studioso italo-tedesco che, nelle pagine agostiniane citate per ultime, il santo Dottore ci fa intravvedere da vicino «la categoria dell'esistenza della grazia; l'apriori, se così si può dire, della ragione soprannaturale" e del cuore toccato da Dio» 31 . Se volessimo di nuovo dare la parola ad Agostino, potremmo sostenere che certamente Dio abita nella memoria. «Tu - leggiamo infatti alla fine del capitolo XXIV - dimori nella mia memoria da quando ti ho conosciuto e lì ti trovo quando di te mi ricordo e di te godo»"- Ma il quaerere del filosofo si fa ancora più stringente e radicale puntualizzandosi nella domanda: «Ma, o Signore, in qual punto della mia memoria tu stai? Dove abiti? Quali dimore ti sei edificate? Quale santuario ti sei costruito?»' 1 . Il vescovo di Ippona 11
29 10
lbid.. X, XXXIII, 377.
A. RIGOBELLO, !ntentio-extensio-distensio, n1ode//o enneneutico 11e/l'antropologia agostiniana, in Scritti in onore di C. Giacon, Antenore, Padova 1972, 143. JI R. GUARDINJ, op. cii., 101-102. 32 AGOSTINO, op. cit., X, XXIV, 378. 33 lbid., X, XXV, 379.
passa in rassegna invano tutti i luoghi fisici e metafisici in cui il Creatore può dimorare nella creatura e conclude che l'Onnipotente non si identifica con l'anima perché è «il Signore Dio dell'anima». Il carattere indefinibile e quasi paradossale della presenza divina può essere ben sintetizzato dalla celeberrima espressione delle Confessioni che è divenuta quasi il punto focale e sintetico dell'"interiorità oggettiva" agostiniana: tu aute111, eras interior intin10 1neo et superior sununo n1eo. Ma l'ultima parola che all'uomo è concesso dire sul tema della felicità è solo una preghiera, che sa contemporaneamente di rimpianto e di ringraziamento. Naturalmente alludiamo allo stupendo capitolo XXVII che citeremo per intero, data la sua toccante liricità. «Tardi ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanlo nuova, tardi ti ho ainaLo! Tu cri dentro di 1nc ed io fuori; ivi ti cercavo gettandomi, defonnc, su queste belle
cose da te falte. Tu cri con n1c, 1na io non ero con te, perché 1ni tenevano lontano quelle creature che, se non esistessero in te, non avrebbero esistenza. Tu 1ni hai chiarnato, hai gridato, hai vinto la n1ia sordità. Tu hai balenato, hai brillato, dissipato la Inia cecità. Hai sparso il tuo profumo, io l'ho respirato ed ora a te anelo. Ti ho gustato cd ora ho fan1c e sete. Mi hai toccato cd ardo dal desiderio della pace tlla»3·1 .
Fra i tanti insegnamenti che possiamo trarre da questi affascinanti testi agostiniani, uno è, forse, dominante rispetto agli altri. A noi pare che sia importante, come ci ha insegnato Von Balthasar, che i cristiani recuperino la bellezza, «l'ultima parola che l'intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene ed il loro insostituibile rapporto»". L'uomo nel ritrovare in se stesso la felicità, tramite la memoria, comprende che tutto i I suo essere è una immagine pallida, ma significativa) del n1istero trinitario.
34
Jbid., X, XXVII, 380-381. 35 J·L U. VoN BALTHASAR, Gloria, I. La percezione della fonna, trad. it., Jaca Book, Milano 1975, 10.
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Qui davvero la ricerca umana della felicità ha termine e si tramuta nella fiduciosa attesa di un dono, secondo quanto troviamo scritto nella prefazione del libro IV del De Civitate Dei. «Poiché - vi leggiamo - è certo che la felicità consiste nella piena soddisfazione dei nostri desideri e non è una dea, ma un dono di Dio, gli uomini non debbono adorare altro Dio se non quello che può rendere felici» 36 .
J(,
267.
AGOSTINO, Ciucì di Dio, V, pref., trad. it., Edizioni Paoline, Alba 1973,
Recensioni
Synaxis XIJI/l (1995) 241-262
R. GUARDINI, Ethik. Vorlesungen an der Universitiit Miinchen, 2 Bd., Griinewald-Schbningh, Mainz-Paderbon 1993 [pp. XLIV+ 1319].
I)er una coincidenza provvidenziale, quanto non ricercata, nell'anno della pubblicazione della Veritoti.1· Splendor, vedono la luce due eleganti volumi presso gli editori Griinewald e Schbningh, che raccolgono le lezioni di etica tenute da R. Guardini all'Università di Monaco tra il 1950 e il 1962. Questa edizione critica, che vede ora la luce per merito di Mercker, con la collaborazione di Martin Marschall, utilizza i materiali disponibili grazie all'opera di preservazione dell'eredità spirituale di Guardini messa in atto dalla Accademia cattolica di Baviera (Katholische Akademie in Bayern). I volumi vanno ad arricchire la Romano Guardini Werke, cominciata nel 1986. Questi materiali costituiscono il manoscritto più ampio e significativo della produzione inedita di Guardini. Le lezioni abbracciano l'ampio spettro di tutta la problematica etica, della distinzione dell'etica naturale e dcli' etica della Rivelazione, ai problemi della Persona, della Società e dello Stato. Esse rappresentano una riflessione compiuta, maturata nell'arco di una vita di ricerca. I molti temi svolti trovano, infatti, un riscontro nelle singole opere del!' A. Egli stesso le definiva una sintesi di tutto il suo lavoro (cfr. lBd., XXII). Il metodo fenomenologico che egli applica nell'ambito dell'etica è ancora attuale. Non si propone solo una ricerca del dovere
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e del non-dovere, ma soprattutto di un significato del!' esistenza umana. Il piano della ricerca è tracciato dallo stesso A. in modo chiaro e semplice (cfr. Zum Beginn der Vorlesungen, I Bd, 1-2). Nella prima parte egli tratta dell'etica "naturale", cioè di quel fenomeno che risulta dall'immediata coscienza morale, dall'essenza dell'uomo che si incontra nell'esperienza, dalla relazione con gli altri uomini. Nella seconda parte tratta della Rivelazione e del problema dell'etica cristiana in senso stretto (Zum Beginn .. ., 2). Il piano della prima parte sulla morale "naturale" viene sviluppato in quattro sezioni: I - Il fenomeno fondamentale. II - Condizioni per la possibilità dei fenomeni etici. III - Realizzazione etica. IV - La varietà dell'impegno etico (Il mondo dei valori morali). L'analisi dei singoli capitoli, che compongono le quattro sezioni, spiega perché Guardini considerava queste lezioni una sintesi di tutta la sua opera. Vi sono ripresi, infatti, temi che egli ha ampiamente trattato altrove. Nella prima sezione della prima parte per es., si va dall'analisi dell'essere e del valore (cap. I sul bene, 13 ss.) e della felicità (ibid., 23 ss.) a quella del fenomeno della coscienza (Gewissen), con una grande preoccupazione pedagogica, tipica di Guardini (cap. III sulla coscienza, 97 ss.). È opportuno qui ricordare che, per R. Guardini, fenomeno non è ciò che appare ma è illusorio. Piuttosto è ciò che è e si 1nostra. La seconda sezione della prima parte, sulle Condizioni per la possibilità dei fenomeni etici, sebbene sia carente rispetto al piano previsto dall'A. (manca il capitolo sulle condizioni della relazione), riveste una particolare importanza trattando delle condizioni antropologiche. Vi si affrontano temi quali la conoscenza ( 134 ss.), la libertà (139 ss. Anche questo tema presenta degli appunti in sospeso), il fare (145 ss.), il sentimento (153 ss.), memoria e previsione (159 ss.), corpo (Korper) e spirito, corpo (Leib) e anima (175 ss.), la persona (187 ss.), l'incontro (240 ss.), il disordine nell'essere umano (254 ss), la morte (quest'ultimo tema è solo enuncialo). La terza sezione, quella sulla "realizzazione etica", descrive la condotta morale come una ellisse, i cui fuochi sono il bene e la
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coscienza (280). Attraverso questa immagine, I' A. riprende cd elabora originalmente la tradizione che distingue, pur senza opporli, l'oggettività dell'azione e la responsabilità soggettiva. Si riprendono, altresì, alcune tematiche della prima e fondamentale sezione, innanzitutto co1ne è ovvio i concetti di bene e di coscienza. La quarta sezione costituisce un trattato di morale speciale, con un insieme di temi legati alla vita fisica personale e alla vita sociale (la famiglia, per es., la sessualità, la salute, l'amicizia e, poi, l'arte, la comunità, la proprietà e l'ordine della proprietà, il lavoro femminile). Il solo indice dei temi affrontati ci fa apprezzare la "modernità" del lavoro di Guardini. La seconda parte, su Etica e Rivelazione, è più breve della prima (occupa solo un terzo dell'opera), ma indubbiamente ha una grande rilevanza teologica perché affronta il problema dell'ethos cristiano. Una riflessione, questa, da comprendere alla luce della convinzione di Guardini che «la verità della fede e la realtà del mondo si incontrano vicendevolmente» (1275). Questa seconda parte ha una divisione diversa dalla prima. Si compone di due capitoli; il primo è diviso, poi, in due sezioni. Il cap. I tratta dell'Elemento religioso generale nel morale (9791096); il cap. II della Rivelazione ed etica della rivelazione (1097 1277). Le due sezioni del I capitolo sono: 1. La situazione storica (in sei paragrafi) (980 - I 080) e cerca di rispondere alla domanda: quale significato ha l'elemento religioso nella vita etica? 2. La verità dell'essere: teonomia (1081 - 1096). L'analisi della I sez. del cap. I parte dalla constatazione della situazione di pluralismo religioso delle società moderne. Si pone così la questione del rapporto tra il religioso e l'etico. La risposta ripercorre lo sviluppo storico dalla coscienza mitica ai tempi moderni. Si propone quindi una riflessione che partendo dalla coscienza mitica (981) giunge alla rivelazione (986 ss). Qui 1' A. mostra la radicale peculiarità della rivelazione biblica, partendo dal concetto di creazione, che dice l'assoluta volontà di Dio, non dipendente da altri elementi (987) e quindi l'assoluta sacralità di Dio. Da questo dato della rivelazione biblica, Guardini deriva la struttura dialogica dell'uomo: Dio chiama, l'uomo risponde.
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L'abbandono di questo contesto religioso nel mondo moderno crea una distanza tra l'uomo e il mondo (993), crea una nuova condizione esistenziale entro la quale collocare la riflessione etica, precisamente l'autonomia dell'uomo e del mondo. In questo quadro l 'A. esamina le tre categorie fondamentali della crisi etica contemporanea: natura, soggetto, cultura (1011 ss.). La Il sez. riprende le domande fornendone la risposta e delineando la struttura fondamentale della vita etica (1088 - I 096). L'ultima parte delle lezioni, il cap. II della II parte, vuole rispondere alla domanda: il fenomeno etico si autofonda ed è chiuso in se stesso o ha una relazione con altre esperienze fondamentali? ( l 11 O). In relazione alla rivelazione, I' A. precisa che essa è la Parola di Dio vivente, che è sovrano nel mondo ( 1103). Si tratta di una parola
assoluta che parla in ogni situazione (ibid.). Guardini si rifà esplicitamente alla verità, in essa contenuta, e che libera e obbliga allo stesso tempo (1104). I due volumi si chiudono con lo schema del Progetto per l'ultima parte dell'etica (1240 - 1243), che prevedeva questi punti: l'esistenza cristiana e i suoi compiti, I'a111ore co1ne istanza fondan1entale per il cristiano, la speranza con1e impegno morale, la grazia, il compimento dell'essere creato, la rivelazione del peccato, la redenzione, la persona di Cristo, il concetto del santo, il prossimo, la provvidenza, la Chiesa, il mistero e il cullo, gli atti religiosi individuali, l'eschaton. Infine tre appendici e gli indici delle persone e degli argomenti, che facilita non poco la consultazione dell'opera. In un momento in cui, anche in campo cattolico, il dibattito etico rischia di essere separato dalle sue radici antropologiche e teologiche e non dire più nulla alle donne e agli uomini di oggi, l'opera di Romano Guardini può contribuire a ritrovare il senso dell'etica, come «tentativo di comprendere teoreticamente questo compito [dell'impegno morale] e di spiegare pure il suo fondamento e consegnenze» (1088). La riflessione sul fondamento dell'etica è quanto mai attuale e l'insegnamento del Nostro offre un importante contributo per evitare il rischio di un duplice riduzionisrno: la riduzione della fede ad etica, la riduzione dell'etica a pura co_nvenzione sociale. Il rischio è sotto gli occhi di tutti perché se c'è
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una forte tendenza a far prevalere una dimensione etica dell'Evangelo, e. g. riducendo la fede ad impegno sociale, è anche vero che e' è una tendenza altrettanto forte che vede nell'etica solo una convenzione per il vivere comune, senza riferimento alcuno ad un sistema di valori che vada oltre la ferialità e loccasionalità. In un momento tragico della storia europea, il 1945, Guardini scriveva, a proposito del contributo del cristiano nel campo etico: «Ha perfettamente ragione Kierkegaard quando dice che l'antichità, nonostante il suo genio, ha se1npre conservato una certa ingenuità e che solo il cristianesimo ha dato all'uomo la sua piena maggiorità nel campo del bene e del male. Potremmo dire che bisognò attendere il cristianesimo perché il male si scatenasse in tutto il suo orrore» (Der Heilbri11ger in Mythos, Offenharung und Politik, Stuttgart 1945, 33). Queste lezioni di etica sembrano svolgere proprio questo programma che l'Autore affidava ai cristiani dinanzi alla barbarie nazista. Nonostante molte questioni siano affrontate in 1nodo datato, e non potrebbe essere diversan1ente, esse offrono ancora al suo lettore una occasione stimolante di riflessione. Si può, perciò, formulare lauspicio che, disponendo ora di queste lezioni, ad un decennio dalla celebrazione del primo centenario della nascita del loro Autore ( 17 febbraio 1885) possano costituire oggetto di riflessione di tutti gli studiosi per apprezzare compiutamente il contributo di Guardini alla comprensione del cristianesi1no nel nostro secolo. Maurizio A/iolla
C. DAU NOVELLI, Famiglia e modernizzazione in Italia tra le due guerre, prefazione di P. Scoppola, Edizioni Studium, Roma 1994.
Questo volume di Cecilia Dau Novelli, una studiosa già impegnata in ricerche sull'associazionismo cattolico femminile, presenta un'attenta analisi delle trasformazioni subìte dalla famiglia italiana all'interno dei processi sociali e politici, che caratterizzarono quel periodo della nostra storia in gran parte coincidente col ventennio fascista. E ci pare da accogliere con compiacimento questo lavoro, perché si colloca seriamente fra i più recenti tentativi - si pensi, ad esempio, ai contributi di Renzo De Felice - di fornire un panorama più complesso ed articolato dell'Italia degli anni Venti e Trenta. Se è vero, infatti, che è molto ricca e approfondita la ricerca sull'ideologia del fascismo, sul rapporto fra cultura e regime, sul partito e sul sindacalismo fascisti; è altrettanto vero, purtroppo, che le questioni intorno alla società e alla famiglia del ventennio appaiono ancora alquanto trascurate, se non proprio appesantite da antiche remore ideologiche. In questo caso, invece, la Novelli indirizza la sua scelta metodologica sulla centralità della famiglia, non già per indulgere ad un semplicistico "familismo", ma perché considera la famiglia «come chiave di lettura della società italiana degli anni fra le due guerre, come lente d'ingrandimento per capire i modelli di identificazione collettiva, i comportamenti, i miti e gli ideali degli italiani e delle italiane nel periodo fascista» (p. 13). L'opera si articola sostanzialmente in due parti: nella prima, si analizzano gli interessi della Chiesa cattolica per la famiglia; interessi che nascono dal bisogno di ricristianizzare una società che andava perdendo il senso del sacro e dei valori tradizionali. Insomma, si tratta della Chiesa che guarda alla famiglia, ispirandosi all'enciclica di Leone XIII, Arcanum divinae sapientiae (IO febbraio 1880), e
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Gabriella Scribano
soprattutto all'enciclica di Pio XI, Casti connubi i (31 dicembre 1930). Compito indubbiamente delicatissimo ed importante, quello della Chiesa, perché essa intendeva fronteggiare la diffusa coscienza di una "crisi di civiltà" che andava emergendo sia dal processo di secolarizzazione che investiva il tessuto sociale, sia dalle dinamiche della modernizzazione del mondo occidentale appena uscito dalla prima guerra mondiale. Una crisi di valori, dunque, che riveste un'importanza non secondaria per la spiegazione dell'avvento dei regimi totalitari del nostro secolo. Quei regimi, infatti, si presentavano come fattore di ordine e come unico strumento in grado di garantire un mondo di certezze e di sicurezze, pretendendo in cambio non solo di controllare e dirigere la vita dei cittadini, ma addirittura di possedere e riplasmare il cervello e la coscienza del singolo. Sicché coglieva nel vero Luigi Sturzo, quando denunciava l'opera di massificazione e di militarizzazione degli Stati totalitari, al fine di creare una disciplina dell'intelletto, della volontà e del corpo. Nella seconda parte del libro si affronta l'interesse del fascismo per l'istituto familiare, mediante i vari provvedimenti idonei a trasformare la famiglia in un'istituzione statale. A tal riguardo, lAutrice evidenzia come i due poteri, quello politico e quello religioso, convergessero inizialmente sul comune obiettivo di restaurare la famiglia, riconducendola al modello familiare di una società preindustriale. Ma l'accordo si rivelerà mon1cntaneo e superficiale: la Chiesa, infatti, concepiva la famiglia come la cellula prima della società, come il luogo dove si debbono esercitare e conservare le virtù ed i valori tradizionali; il fascis1no, invece, guardava alla famiglia come allo strumento più adatto per attuare il suo disegno politico. «Se per i regimi totalitari - sostiene la Novelli - la famiglia diviene una delle pietre basilari su cui fondare la costruzione dello Stato, per la Chiesa diventa un baluardo attraverso cui arginare la secolarizzazione e, nello stesso tempo, il luogo in cui contendere allo Stato quel! 'influenza sulle coscienze che vedeva sempre più affievolirsi» (p.7). La famiglia, insomma, divenne m quegli anni il momento di confronto fra la Chiesa e lo Stato. E quest'ultimo, non avendo
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all'inizio un organico e consolidato modello di famiglia (si pensi alla sostanziale indifferenza dello Stato liberale e prefascista nei confronti dell'istituto familiare), inevitabilmente si appoggiò al modello offerto dalla Chiesa. Per conseguenza, la convergenza del fascismo con la Chiesa cattolica si fondò di fatto sul tentativo comune di rianimare e restaurare la famiglia, guardando a modelli e valori preindustriali. Di qui l'esaltazione della famiglia come grande struttura che trova il suo fondamento nel principio di autorità e di gerarchia, nel primato maschile e nella prolificità femminile. Proprio negli anni Venti, la letteratura specifica andò man mano arricchendosi di immagini che tendevano a mitizzare quel modello preindustriale: ad esempio, la figura femminile di moglie e di madre divenne quella del!' "angelo del focolare", figura buona e sorridente che doveva infondere serenità ed armonia. Corrispettivo a questa immagine della "donna angelica" si proponeva il modello dell'uomo virile, dotato di forza d'animo, di ferma volontà e, col fascismo, di valore militare. D'altra parte, quella convergenza cominciò ad entrare in crisi, allorquando il· fascismo. contrappose un suo modello di famiglia come garanzia dell'ordine e della sicurezza sociale, su cui basare il nuovo Stato totalitario. A metà degli anni Trenta, infatti, la dittatura non si accontentava più di un'adesione superficiale all'ideologia, ma pretendeva °di penetrare nella coscienza dei singoli individui. Addirittura il primo segnale di divergenza si ebbe già alla fine degli anni Venti, e prima ancora del Concordato: infatti, con il "Discorso del!' Ascensione" del 26 maggio 1927, Mussolini stabilì il dirittodovere dello Stato fascista di intervenire nella questione della popolazione con leggi sulla maternità e tasse sul celibato. Sicché la questione della natalità, che lo Stato liberale aveva considerato come fenomeno ricadente nella sfera del privato, divenne allora un problema politico. Col fascismo, insomma, la famiglia diventava un soggetto politico nell'ambito di un disegno nazionale, e la sua funzione di generare la prole assumeva una valenza politica. Complesso era, dunque, il rapporto tra la Chiesa e il fascismo; rapporto che trovò la sua più alta convergenza nel Concordato, ma che fu costantemente percorso da sotterranee tensioni e uscì segnato da
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incontri e scontri fra due modelli familiari sostanzialmente irriducibili ed incompatibili. Quale dei due modelli ebbe il sopravvento? Nessuno dei due, secondo ]'autrice, perché già agli inizi degli anni Trenta si fece strada un terzo fattore: il processo di modernizzazione che, lento 1na decisivo, produrrà una trasformazione di mentalitù e di
comportamenti. La nostra società, malgrado la sostanziale arretratezza dell'Italia rispetto ai Paesi più industrializzati e sia pure con forti disuguaglianze al suo interno, risentì dello sviluppo tecnico, economico e sociale che investiva il mondo occidentale. Sorsero così nuove mode che, specialmente nelle aree più ricche ed avanzate, videro la famiglia in genere e la donna in particolare emanciparsi rispetto ai modelli del fascismo o della Chiesa. La radio, il ballo, il cinematografo, lo sport, furono fattori decisivi per nuovi comportamenti collettivi e nuove 1node che cominciavano a guardare al 1nito ainericano. Si scopriva quindi il "piacere della vita" e, con esso, s'accendevano un desiderio di divertimento, una voglia di consumo ed una richiesta di protagonismo femminile, che andavano oggettivamente contro i modelli del regime e della Chiesa. Senza dubbio, tale processo di modernizzazione della società e della famiglia non può essere riportato tutto in direzione opposta al fascismo, perché, come giustamente osserva la Novelli, «Se da un lato è indubbia la matrice ruralista e antindustriale del fascismo, dall'altra non si può negare la contemporanea presenza di elementi contrari quali la scolarizzazione e l'educazione di massa, o la preparazione delle donne alla professione di casalinghe» (p. 254). In ogni caso, col miglioramento del livello di vita, la famiglia italiana diventerà un innegabile fattore di modernizzazione e, uscendo dal privato, si farà "soggetto politico" socialmente autonomo e poco omologabile al regime fascista. L'indagine della Novelli si ferma alla vigilia del secondo conflitto mondiale; tuttavia, bisogna sottolineare l'interesse che questo suo lavoro può assumere per la stessa comprensione di un frammento di storia italiana del secondo dopoguerra, di un passato, cioè, ancor più vicino alla nostra coscienza morale e politica: in questi ultimi anni i cattolici ed i laici, nuovi protagonisti di uno scontro sulla famiglia,
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sul divorzio e sull'aborto, hanno schierato in campo vari modelli e filosofie, ma hanno dovuto fare i conti con un processo di secolarizzazione e di modernizzazione della societĂ , che non sempre li ha trovati preparati e che in qualche misura affonda le sue radici negli anni fra le due guerre, ossia nelle vicende analizzate da questo libro.
Gabriella Scribano
Il servo di Dio A. Ildefonso card. Schuster o.s.b. nel quarantesimo della morte ( 1954-1994), a cura di L. Crippa o.s.b., Benedictina, Roma 1994 (Sezione monastica, 8).
Tra le figure del mondo monastico benedettino italiano di questo secolo, senza alcun dubbio, quella del card. Schuster è stata oggetto di molteplici indagini storiografiche, sia per quanto riguarda il suo ruolo nell'ambito della congregazione benedettina, sia per il governo episcopale della diocesi di Milano. Potrebbe, dunque, sembrare superfluo un volume di contributi che ne rilegga i tratti salienti, a maggior ragione se curato da suoi confratelli benedettini e, per di più, nella prestigiosa edizione propria dei benedettini italiani. Quasi in contemporanea, la rivista teologica del seminario arcivescovile di Milano, La Scuola Cattolica 122 (1994) 331-362, pubblicava un saggio bibliografico su Schuster di mons. Antonio Rimoldi che ne ha ripercorso i saggi editi dalla morte de]]' arcivescovo di Milano al 1993. Pur avendo raccolto cronologicamente ben 212 titoli di storiografia nell'arco di 40 anni, esclusivamente per i 25 anni di episcopato milanese Rimoldi segnala la necessità di ampliare ancora le indagini su specifici aspetti del ministero pastorale dello Schuster. Il volume, edito da Benedictina, si prefigge piuttosto di far riemergere alcuni tratti propri della figura di Schuster: della sua vita monastica e della sua attività culturale. I primi due saggi sono di natura bio-bibliografica. Il primo è di L. Crippa che, molto opportunamente, suddivide la bibliografia schusteriana in cinque sezioni: raccolte bibliografiche, biografie, scritti monastici, epistolario e studi su Schuster. «Benché non completo», lelenco raccoglie ben 258 titoli, e ha il pregio delle citazioni bibliografiche controllate "personalmente" dal curatore. Il secondo contributo è di M. Dell'Omo: in verità si tratta di note inedite desunte dalle memorie di don Anselmo Lentini ( 1901-
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1989), per il periodo del suo noviziato a S. Paolo fuori le mura, tra il 1919 e il 1920, anni in cui vi era abate lo Schuster. Dell'Orno ha il merito di aver saputo apprezzare la memoria di Lentini per far luce su un periodo poco studiato della vita di Schuster. Va notato, tuttavia, che Lentini ha redatto la sua memoria molto più tardi rispetto al tempo del noviziato, tra il I 984 e il I 985, e potrebbe quindi risentire di una rilettura "condizionata" dal processo di beatificazione che già in quegli anni era in fase avanzata. Il ruolo di Schuster educatore emerge pure dal contributo dato al volume da A. Oberti. Se le memorie del Lentini permettono di ripensare al formatore di monaci, il saggio di Oberti ricostruisce invece il rilevante apporto dato dall'arcivescovo Schuster per la formazione cristiana del laicato milanese, e di Giuseppe Lazzati in modo del tutto particolare. I momenti più significativi della vita di Lazzati e le sue scelte più impegnative furono segnate dal rapporto con iJ cardinale-arcivescovo, che egli sentì con1e "padre", in particolare negli anni di prigionia nel lager nazista. Nel ricordo di Lazzati, soprattutto, si impone però lo spessore spirituale di Schuster: «Non si troverà espressione adeguata a dire il senso [ ... ] e il rispetto della libertà spirituale che egli possedeva e ne faceva un vero aristocratico dello spirito» (p. 67). Centrale, sia per i contenuti che per lo spazio occupato nel volume (pp. 69-162), è il saggio di G. Anelli che ricostruisce la figura monastica di Ildefonso Schuster attraverso lepistolario giovanile. La rilettura delle lettere inviate al confratello Giuseppe Piccinino, già edite nel 1965 a cura di U. Frasnelli, permettono di arricchire la conoscenza della vita spirituale del giovane monaco Schuster e, al contempo, la storia della spiritualità monastico-benedettina dei primi anni del sec. XIX. I terni del!' epistolario spaziano dai contenuti dell'esperienza a1nicale - amicizia come carità, evento n1onastico, fiducia e stin1a, presenza - alla comunicazione fraterna della vita monastica vissuta
nell'anelito di una esatta osservanza della Regola e nella immissione all'interno del "mistero monastico" che colloca il monaco, come "uomo di Dio", nella pienezza del dinamismo pasquale del Cristo. Il saggio di Anelli, quanto mai ricco di suggestioni per chi lo legge,
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tuttavia, risente di «Un'ammirata simpatia per questo uomo semplice e retto» (p. 69), per altro avvertita dallo stesso Autore fin dall'inizio. Un rilievo del tutto particolare ebbe nella vita di Schuster l'attenzione alla Parola di Dio. Le sue quotidiane riflessioni sui testi proposti dalla liturgia, sempre attente ad un radicamento della Regola benedettina al testo scritturistico, sono state edite, negli anni 1950-51, in ben otto volumi. A. Ranzato, nel contributo offerto in questo volume, analizza esemplificativamente l'uso e il ruolo della Scrittura nelle duemilasettantasette pagine del!' opera di Schuster, allegando in appendice un utile indice tematico per ulteriori approfondimenti. Sia la metodologia biblica di Schuster, quanto il ruolo che egli attribuiva alla Bibbia nella vita del monaco, sono chiaramente orientati ad un cammino di perfezione che non si può limitare al "Cristo imparato" ma che mira a raggiungere il "Cristo vissuto". Singolare è il contributo di A. Valli, monaca benedettina del!' Adorazione Perpetua dcl SS. Sacramento della Federazione cli Milano. Nella storia di questa Federazione Schuster ebbe un ruolo non indifferente sia da abate di S. Paolo fuori le mura, favorendone l'impianto in alcuni monasteri femminili italiani, sia da arcivescovo di Milano per l'attenzione che volle riservare alle sue consorelle cli via Bellotti n. I O. L'Autrice ciel saggio, però, ha voluto delimitare il suo contributo prendendo in esame gli autografi delle omelie per la ptima (I 929) e la seconda dedicazione (1953) clclla chiesa del monastero, ricostruita dopo la distruzione causata dai bombardamenti su Milano del 13 agosto 1943. Il pregio dell'apporto della Valli è di aver colto e presentato la doppia dedicazione della chiesa quale momento privilegiato dell'esperienza spirituale dello Schuster e della sua premura pedagogica per aiutare la comunità delle benedettine a vivere il loro carisma. Sulla attualità del pensiero di Schuster circa la vita monastica, e il ruolo dello studio e del lavoro nell'ambito del monastero, si sofferma M. Lapponi. Emergono i capisaldi del monachesimo, sempre stabili nonostante il mutare delle condizioni sociali ed ecclesiastiche: tradizione liturgica, equilibrato attivismo fuori dei monasteri senza perdere lo specifico di «cittadelle del soprannaturale, delle roccheforti dell'orazione» (p. 247), lavoro e studio.
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Al contributo di Schuster nel campo degli studi storici sul monachesimo dedica il suo saggio G. Penco colJocandolo nel più ampio quadro della cultura monastica del '900. Schuster, fin da giovane monaco, si occupò di ricordi farfensi, di archeologia monastica della provincia di Roma, dei primordi del monachesimo: e in questi suoi studi ebbe a maestro di metodo storico e di paleografia il confratello don Gregorio Palmieri ( 1828-1918), viceprefetto dell'Archivio Segreto Vaticano. Collaborò con la Rivista storica benedettina e dagli studi storici approdò presto agli studi liturgici, e il movimento liturgico italiano lo ebbe tra i suoi principali esponenti. «Sua mira costante rimase però sempre la ricerca di una sintesi (a volte esplicita, a volte solo sottintesa) tra erudizione ed edificazione» (p. 272). Dell'apporto storiografico di Schuster su Farfa e la Sabina monastica si occupa il contributo di T. Leggio. L'essere storico non si disgiungeva per Schuster dall'essere monaco; pertanto i suoi studi, al di là dei risultati pur validi sia per metodo che per contenuti, hanno contribuito in modo significativo ad amalgamare in lui la struttura culturale con l'itinerario spirituale, «le certezze del 1nonaco con i dubbi dello storico» (p. 294). Sulla linea del precedente contributo si muove, infine, quello di G. Crocetti: dall'opera di Schuster sull'abbazia di Farfa hanno preso le mosse le ricerche e gli studi di diversi storici e cultori della presenza benedettina nel piceno. Il volume, in conclusione, sebbene in alcuni punti risenta della appartenenza benedettina, ha certamente un doppio merito: offrire una più ampia conoscenza dell'itinerario spirituale e culturale del n1onaco Schuster, pre1nessa necessaria per una 1nigliore e più corretta
comprensione anche del suo ministero episcopale nella diocesi di Milano; e dare un valido apporto alla storia della spiritualità monastica italiana del sec. XIX.
Gaetano Zito
G. THEISSEN, La porta aperta. Variazioni bibliche, trad. it., Claudiana,
Torino 1993. G. THEISSEN, Psychological aspects of pauline theology, lrad. ingl., T. and T. Clark, Edinburgh 1987.
K. BERGER, Psicologia storica del Nuovo Testamento, trad. it., Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo l 994.
Il primo volume del Theissen è una "porta aperta" tra la Scrittura, nelle sue polivalenti dimensioni, e l'ascolto del credente o dell'uomo di oggi, inserito nelle sue trame-relazioni sociali, politiche, esistenziali della vila. Tra Scrittura e vita, rilevato e mediato da una predicazione attenta e congruente, corre un ponte che ci fa mettere in
dialogo con Dio. «Predicare significa entrare in questo dialogo, illuminarlo, trasformarlo; è a partire da questo dialogo, infatti, che si definisce, in modo rinnovato, quel dialogo che ha trovato la sua espressione nella Bibbia» (p.9). Questi sermoni, tenuti a Copenaghen e ad Heidelberg fra il l 979 e il l 989 ed indirizzati a con1unità universitarie, in particolare a quella della Peterskirche di Heidelberg, fanno veramente riflettere perché, tra il messaggio biblico e il lettore, attraverso l'esperienza del noslro proprio vissuto, stabiliscono un rapporto vivo e creativo.
L'omiletica è l'applicazione pastorale di quella che è la teoria dell'Autore, così come si evince dall'altro volume Psychological aspects ofpauline theology. Questo volume è l'espressione dell'intento del l'Autore di descrivere una "esegesi psicologica", che possa dare un contributo
ali' intellezione della religione cristiana, ma che non ci si può illudere né pretendere che questo metodo possa essere esaustivo.
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J?rancesco Furnar;
Il Theissen cerca di considerare i fattori e gli aspetti psichici che possano chiarire il contesto vitale dei testi, e ciò in continuità e 111 contrasto con l'esegesi storico-critica. Questo metodo di esegesi psicologica si basa su tre approcci: la teoria dell'apprendimento, il modello psicodinamico, e il modello conoscitivo. Affrontando ed esaminando poi questi tre metodi, l'Autore cerca di costruire una "psicologia ermeneutica" della religione, che si potrà appoggiare specialmente sulla modificazione conoscitiva della teoria dell'apprendimento, dove la religione viene vista come atteggia1nento ed esperienza appresi sociahncnte, e degli approcci psicodina1nici, dove la stessa viene vista carne un confronto con l'inconscio. Il Cap. 3° è tutto devoluto alla costruzione "cognitiva" di questa "psicologia enneneutica'', in cui si dovrebbe potere vedere la religione· come un contributo per la costruzione del "inondo interpretato", attraverso la strutturazione topica del inondo della vita e attraverso la regolazione dinamica di questo stesso inondo. La religiosità, vista così da questo punto di vista, non è altro che la coscienza della profonda diincnsione vita-inondo. E la religione non è altro che ristrutturazione del n1ondo-vita un1ana grazie all'apertura della profonda dimensione di esso. Questa dimensione può essere collocata o fuori, nella realtà esternaj e allora la religione è dentro e dietro i fotti di ogni giorno, o dentro, e allora la religione è un confronto col nostro inconscio. L'Autore esarnrna, poi, le tecniche individuali dell'interpretazione co1ne il confronto attivo con l'arnbicnte che si effettua nelle strategie interpretative: attribuzione causaJe, anticipazione, autovalutazione, assunzione dei ruoli, modelli di comportamento. La seconda parte, che è la parte preponderante, cerca di dimostrare, attraverso l'analisi psicologica della prima e seconda leuera ai Colossesi e di quella ai I~o1nani, coine l'idea di inconscio -anche se differente dalla concezione inoderna - sia già presente nei testi paolini in quanto al contenuto. Negli uomini ci sono degli impulsi inconsci e Paolo, per articolarli, si rivolge ad elementi della tradizione biblico-ebraica: a) la
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fede in Dio che conosce e sa tutto, anche motivi e 1 più riposti pensieri e desideri (divina conoscenza dcl cuore); b) la convinzione dei limiti dell'umana intuizione nei riguardi di se stesso: l'uomo non penetra pienamente neanche nel proprio essere; c) il riconoscimento di una realtà interiore autonoma nella quale, in aggiunta al ricordo delle azioni passate motivi ed impulsi sono reali e significativi. Nel libro del Theissen, la persona umana sembra essere il vero luogo di destinazione della Parola. Dio parla, l'uomo ascolta? Nell'ascoltare - ancor prima di risultati visibili e tangibili nel comportamento - un qualcosa succede, accade nelle strutture più profonde del nostro essere e dcl dinamismo interiore. Attraverso questo studio del Theissen, san Paolo ci è fatto conoscere come un acuto osservatore e buon conoscitore del mondo profondo della persona umana. Il Berger, nella sua Psicologia storica del N.T., vede nell'opera e nel pensiero del Theissen un pericolo incombente come quello in cui è incorso Bultmann nei confronti dell'esistenzialismo di Heideggcr, cioè «di fatto si fa troppo frettolosamente affidamento su qualità ed esperienze costanti, vale a dire su un'antropologia (e corrispondente psicologia) più o meno uguale per tutti i tempi (p. l O). È vero che il Theissen non identifica Nuovo Testamento ed esperienza moderna e si accontenta di un "anche", stabilendo un paragone, però dimostra che due mondi sono tra loro com1nensurabili. Il libro del Berger fa sprigionare tutto il fascino dell'esperienza umana, nella sua globalità, che emana dal testo biblico, criticando ed evitando di prospettare in esso teorie moderne preconcette, che non ci fanno "ricostruire" 1nodelli antichi, bensì ci costringono ad «applicare uno schema moderno» (p.31). Questo calarsi nel Sitz im Le ben così come ci parla ed interpella ... la lettura stessa del NT, ci fa ripercorrere empaticamente affetti, en1ozioni, percezioni, esperienza del corpo, sofferenza, religione e azione di cui è intriso l'ambiente umano-psicologico del NT. Il Bergcr si propone di chiarire in questo modo lattuale questione sul rapporto tra psicologia e ricerca storica ed esegesi:
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«a) Esistono nella ricerca psicologica spunti per una considerazione storica e per introdurre dimensioni temporali. Così si parla dello sviluppo storico della consapevolezza: si distingue ora preistoria e tempo moderno e si conoscono tendenze regressive. b) Una via per avvicinare le due discipline è costituita, secondo C. Colpe, da raffronti tra archetipo ("quanto è intimamente tipico") e prototipo ("l'esterno inizialmente esistente nella storia"). Ciò che lo storico può individuare come prototipo, lo psicologo potrebbe interpretarlo come archetipo, cosicché qui diventerebbe possibile gettare un ponte. Al riguardo bisogna osservare che già la prototipizzazione è un processo di interpretazione. c) In ogni caso potrebbe essere conveniente perlomeno una cooperazione. li lavoro dello storico dovrebbe venire prima, di modo che lo psicologo non sia costretto a fare affermazioni prive di fondamento storico. Una opportunità per lo psicologo potrebbe essere quella di interpretare dati storici» (p.35). Francesco Furnari
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A.M. RIZZUTO, La nascita del Dio vivente. Studio Psicoanalitico, trad. it., Boria, Roma 1994.
È uno studio clinico sulle origrni delle personali rappresentazioni di Dio e sulle loro successive rielaborazioni. L'Autrice è analista didatta al Psychoanalitic Institute di New England negli Stati Uniti e docente di Psichiatria alla Tufts University of medicine di Boston. Questa ricerca è stata avviata come progetto pilota al Boston State Hospital dove lAutrice lavorava come psichiatra, e poi compiuta attraverso una lunga esperienza clinica su pazienti di un ospedale psichiatrico privato. Quest'opera è stata pubblicata in America nel 1979. Seguendo il pensiero psicoanalitico di Winnicott sulla rielaborazione del concetto di "illusione", la Rizzuto, aiutandosi con 1 casi clinici, ha illustrato la formazione e la trasformazione delle rappresentazioni di Dio come un caso speciale di "oggetto transizionale". Gli "oggetti transizionali" rappresentano una prima approssimazione dell'equilibrio tra la percezione della realtà e l'attribuzione di significato soggettivo, creativo, produttivo. In questo contesto, la Religione con le sue immagini simboliche, i suoi riti e sacramenti non è un'illusione, al contrario di come ha sostenuto sempre Freud, ma un modo di mettersi in contatto con la realtà. Nel nostro mondo occidentale, Dio rappresenta per i bambini un pezzo della realtà esterna, a cui gli altri significativi per lui attribuiscono lo statuto di una realtà oggettiva. Anche se tutto ciò contribuisce alla costruzione di una rappresentazione interna di Dio, questo processo è largamente dominato dal soggettivo potere di immaginazione del bambino.
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Francesco Furnari
La Rizzuto ha collocato la psicodinamica di questo oggettotransizionale Dio nel contesto della teoria di Erikson snllo sviluppo dell'identitĂ dell'Io, che passa attraverso la differenziazione dell'esperienza. Francesco Furnari
Synaxis XIII/I (1995) 263-267
NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
1. Disputatio e Lectio communis del II semestre
Il 23 marzo 1995 si è tenuta la seconda Disputatio, dopo la positiva esperienza della prima tenutasi lo scorso anno accademico. Il tema: Teologia e preghiera.
Si è svolta in due momenti: approfondimento personale e in gruppi di studio, pilotato dalla lettura di una essenziale quanto completa bibliografia sul terna; confronto globale sul terna con relazione del lavoro dei grnppi di studio e lezione del prof. G. Lafont o.s.b. del Pontificio Ateneo S. Anselmo e della Pontificia Università Gregoriana. Il prof. Lafont, dopo una introduzione circa lo status quaestionis, un breve cenno storico e di metodo, ha articolato il suo intervento su tre punti: scala theologiae, ardo theologiae, tempus theologiae. Il lavoro in gruppi di studio e il dibattito seguito hanno ulteriormente permesso di approfondire alcune questioni quali: il "dire la teologia" e lo spazio della preghiera. Anche al II semestre si è tenuta la lectio communis per singoli corsi: al I Propedeutico, Il principio dell'incarnazione nella società contemporanea; al II Propedeutico, Fede ed e.1perienza; al Triennio teologico, L'enciclica "Don1inu111 et viv(ficante1nH.
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Notiziario dello Studio S. Paolo
2. Master in Teologia della vita consacrata
Per gli alunni del Master in Teologia della vita consacrata, e per membri delle comunità di loro appartenenza, nel pomeriggio del 22 marzo, il prof. G. Lafont ha tenuto un seminario su: Carisma e diritto nella vita religiosa. 1
3. Incontri pastorali con i vescovi
Per favorire un rapporto più vivo degli alunni dello Studio Teologico con i vescovi e le Chiese locali a cui il S. Paolo appartiene, si è concordato di tenere annualmente due incontri, uno al primo semestre e uno al secondo. In ogni incontro, uno dei vescovi, a turno,
espone un argomento a prevalente carattere teologico-pastorale. Gli incontri sono stati iniziati dal vescovo Pio Vigo, della diocesi di Nicosia, giorno 8 marzo J 995, sul tema: La cura pastorale oggi. Urgenza e modalità.
4. Salone dell'Editoria Mediterranea
Su invito del!' Assessorato ai Beni Culturali del Comune di Catania, il S. Paolo ha partecipato, con le proprie pubblicazioni, alla seconda edizione dcl salone dell'editoria siciliana, nei giorni 22-25 aprile 1995, organizzato dall'Ente Fiera di Messina. Da parte dei responsabili del Salone e dei visitatori sono stati molto apprezzati, per la scientificità dei contributi e lattualità dei temi in connessione con la storia e la cultura siciliana, i volumi di Synaxis, e quelli delle due collane Quaderni di Synaxis, giunti ormai al decimo volume, e Documenti e studi di Synaxis, giunti al quinto volume.
5. Convegno
Nei giorni 11-12 maggio 1995, presso lAula Magna della Facoltà di Giurisprudenza, si è tenuto l'annuale convegno di studi
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promosso dallo Studio Teologico S. Paolo e organizzato ms1eme con l'Università degli Studi di Catania e l'Istituto per la Documentazione e la Ricerca S. Paolo, sul tema: Lavoro & tempo libero oggi. Il convegno, divenuto ormai tradizionale confronto fra cultura cattolica e cultura laica, ha inteso rispondere ad una serie di interrogativi circa le interpretazioni e il significato del lavoro e del tempo libero nelle varie coITcnti culturali della società contemporanea, evidenziandone le radici religiose, filosofiche, storiche e letterarie. Le relazioni sono state affidate a professori di particolare competenza sui te1ni: M. PENNISI, dello Studio Teologico S. Paolo, Introduzione ai lavori riel convegno; B. KUPPLER, della Pontificia Università Gregoriana, Il lavoro: valori eri interpretazioni nella cultura conte1nporanea; L. GIUSSO DEL GALDO, dell'Università di Catania, Lavoro e tempo libero nella società post-industrio/e; A. MINISSALE, dello Studio Teologico S. Paolo, Lavoro e riposo nello Bibbia; S. BERNAL RESTREPO, della Pontificia Università Gregoriana, Lo cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa; P. M. SIPALA, dell'Università di Catania, Esemplari della condizione operaia nello letteratura dell'Ottocento; G. PEZZINO, dell'Università di Catania, La concezione del lavoro in G. Rensi; A. SPAMPINATO, dello Studio Teologico S. Paolo, Devianze e valore rerlentivo ciel lavoro; G. MONTEMAGNO, dell'Università di Catania, Beni culturali e ambiente: prospettive per il lavoro e il tempo libero; M. CASCONE, dello Studio Teologico S. Paolo, Lavoro, tempo libero e volontariato; F. RIZZO, dell'Università di Palermo, Il valore del lavoro nella società tlell'infor1nazion.e;
G. SCHILLACI, dello Studio Teologico S. Paolo, Conclusioni del Convegno.
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Gli atti del convegno, di cui è facile evincere il significativo apporto nel panorama culturale odierno, saranno pubblicati nei primi mesi del 1996 per le Edizioni San Paolo.
6. Co!!aborazioni scientifiche
Su richiesta del vescovo Emanuele Catarinicchia, di Mazara del Vallo, il S. Paolo ha tenuto un corso di aggiornamento al giovane clero della diocesi per presentare le coordinate teologiche e le implicanze pastorali dell'enciclica Veritatis Splendor. Altro corso di aggiornamento, per invito del vescovo Pio Vigo, è stato tenuto dal S. Paolo al clero della diocesi di Nicosia con un ciclo di lezioni su Matrimo11io e famiglia: dime11sioni bUJ!iche, teologiche, spirituali e pastorali.
7. Settima11a di studio per il clero
Il S. Paolo ha organizzato, per i giorni 19-23 giugno presso "La Cittadella dell'Oasi" di Troina (EN), una settimana di studio per il clero delle diocesi cui appartiene lo Studio Teologico. L'iniziativa, concordata con i vescovi e gli incaricati per la forn1azione pern1anente del clero delle nostre diocesi, ha i seguenti caratteri: scientificità, per dare un sussidio alla formazione permanente del clero, non
intaccando quindi le iniziative proprie di ogni diocesi; residenzialità, per garantire lo studio e la fraternità; frequenza, avrà cadenza annuale e si terrà nella terza o quarta settimana di giugno. Il tema, Prospettive teologiche per un'etica de!!a famiglia, comprende le seguenti relazioni: S. DELL' AGLI, La famiglia oggi: dinamiche psicologiche; S. MANFREDI, L'amore nel Cantico dei Cantici; A. GANGEMI, La simbologia coniugale 11el NT; S. DI CRISTINA, Matrimonio e famiglia nel pensiero dei Padri; G.B. RAPISARDA, Origi11i del matrimonio cristia110: la benellizione SJJonsale;
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M. ALIOTTA, La socramenlalità del matrimonio alla luce del
Vaticano Il; A. NEGLI/\,
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111otrù11011io: una vocazione;
M. CASCO NE, Senso e valori della sessualità nella vi/a coniugale.
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