Nuova serie - XVII/ 1 - 1999
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO & ISTITUTO PER lA DOCUMENTAZIONE ElA RICERCA S. PAOLO CATANIA
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INDICE
Sezione monografica "lavoro & tempo libero oggi" INTRODUZIONE (Michele Pe1111isi) LAVORO E TEMPO LIBERO NELLA PROSPETTIVA ECONOMICA (luigi Gi11sso del Caldo)
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LAVORO E RIPOSO NELLA BIBBIA (A111011ùw Mi11issale)
Introduzione I. L'esperienza del lavoro nella storia d'Israele 2. Lnvoro e riposo nella storia pri1nordiale biblica ESEMPLARI DELLA CONDIZIONE OPERAIA NELLA LETTERATURA ITALIANA DELL'OTTOCENTO (t Paolo Mario Sipala) LA CULTURA DEL LAVORO NELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA (Se1xio Berna/ Restrepo) Preincssa Il concetto di cultura
La tradizione cristiana li nuigistcro di Giovanni Paolo Il La dignità dcl lavoro Lavoro e solidarietà Conclusione MORALE E LAVORO NELLO SCETTICISMO DI G. RENSI (Giuseppe Pezzino) LAVORO, TEMPO LIBERO E VOLONTARIATO (Mario Casco11e) I. L'uo1no tra lavoro e te1npo libero 2. Il volontariato con1e sintesi di lavoro e tempo libero 3. I valori di fondo del volontariato 4. Le nuove frontiere del volontariato
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IL VALORE DEL LAVORO NELLA SOCIETÀ DELL'INFORMAZIONE
(Francesco Rizzo) I. 2. 3. 4.
Pre1nessa delle pretnesse Signiricazione, inforn1azione, comunicazione e lavoro La natura e la cultura del lavoro Conflitto tra lavoro e capitale S. La società dell'infonnazione 6. Caratteristiche dcll'ccono1nia dell'informazione 7. Produttività del lavoro e del capitale 8. Energia del lavoro o lavoro dell'energia: i tre surplus 9. Per una nuova teoria del valore l O. Lavoro, autoscienza e realtà 11. Co1nunicazione ecologica 12. Co1nunione/con1unicazione umana e divina
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Sezione miscellanea PER UNA CRISTOLOGIA RELAZIONALE. LA FEDE IN GESÙ CRISTO IN UNA SOCIETÀ MULTICULTURALE (Giuseppe Ruggieri) 1. Il mutare delle cristologie e il significato di questo mutamento 2. La necessità di una ricoinprensione de! 1nistcro di Cristo nel nostro ten1ro 3. Alcune indicazioni per una cristologia relazionale 4. Epilogo sulla vita della Chiesa e sul significato cristiano della storia LE SFIDE DELLA TEOLOGIA LETTERARIA (Jeau I. Suoi obiettivi II. Breve riflessione sui suoi fondmnenti III. I! suo ricorso alla scrittura IV. Il suo ricorso alle opere letterarie
Pien~
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Jossua)
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VALORE LINGUISTICO DELLA FORMULA "CORPO DI CRISTO" ALLA LUCE DELLA FENOMENOLOGIA DELLA PERCEZIONE DI MAURICE MERLEAU-PONTY(Carme/o Raspa) Introduzione I. 11 corpo-linguaggio 2. Valore "segnico" del corpo eucaristico e della Chiesa Conclusione
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Recensioni
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G. STRECKER, Theologie des Ne11e11 Testcunents, New York 1996 (Roberto Osculati); J.A. EMERTON, Congress Vohune. Ca111bridge 1995 (YTS 66), Leiclen - New York - KO!n J 997 (Anto11i110 Mù1issa/e); E. ZENGER, // Prin10 Testc1111ento. La Bibbia ebraicCI e i cristiani, Brescia 1997 (A11toni110 Minissa/e); W.J. Wooos, ~Valki11g with Faith. New Perspectives in the Sources and Shaping of Catholic Mora/ Lijè, Collegevillc (Minnesota) J 998 (Maurizio A/iolla); A. FABIHS - M. GRONCHJ, Il p/ura/is1110 religioso. Una prospettiva interdiscip/i11are, Cinisello Balsamo 1998 (MaurizioAlioffa)
Presentazione
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N. CAPIZZJ, L'uso di Fil 2,6-11 nella cristologia co11/e111poranea ( 1965-1993 }, Ron1a 1997 (Michele Pennisi)
NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
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RIVISTE IN CAMBIO CON SYNAXIS
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Sezione teologio-morale "Lavoro & tempo libero oggi"' Synaxis XVII/I (1999) 7-12 INTRODUZIONE li lavoro e il tempo libero, che sono dei nodi nevralgici della società contemporanea che si richiamano a vicenda, sono oggetto di ricerche e di riflessioni di studiosi di varie discipline fra i quali è auspicabile un dialogo. I concetti di lavoro e di tempo libero, considerati sia dal punto di vista sincronico che diacronico, indicano realtà co1nplesse che non si lasciano imprigionare in definizioni univoche o in sintesi schematiche. Rientrano nel concetto di lavoro alcune delle esperienze "non giocose" della persona rivolte alla trasformazione della natura, alla sua umanizzazione, al perfezionamento della stessa persona e dei rapporti fra gli uomini. Al concetto di lavoro si collega quello di "tempo libero", di "riposo", di "gioco", di uozio 11 con1e n1ezzo di autorealizzazione t11nana con1plen1entare al lavoro all'interno di una visione globale a sfondo etico e religioso della vita u1nana. Lo stretto legame fra lavoro e tempo libero è uno dei concetti cardini della moderna sociologia del lavoro, in cui troviamo sia prospettive ottimistiche, che concepiscono il riposo come tempo liberato e gratificante, antitesi creativa di un lavoro parcellizzato ed alienato, sia prospettive pessimistiche secondo le quali il tempo libero è visto come qualcosa di mercificato e altrettanto alienante del lavoro. li rapporto fra lavoro e tempo libero ha anche dei delicati risvolti in campo teologico, morale e pastorale. Gli specialisti nei vari campi propongono analisi e soluzioni complesse che dovrebbero indurre alla modestia quei teologi e pastori che reclamano una teologia del lavoro sistematica e sicura di sé. In questa introduzione 1ni Ii1niterò a presentare lo 11 status quaestionis 11 con una serie di domande, alcune delle quali volutamente provocatorie. Innanzitutto bisogna chiedersi guaii definizioni o descrizioni dare del lavoro e del tempo libero. li valore del lavoro è unicamente connesso alla produzione di un reddito o al fatto di essere attività da cui la persona ricava il suo senso e la sua 1 Questa sezione n1onografica pubblica parte. delle relazioni del convegno di studi "Lavoro e te1npo libero oggi" organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo in collaborazione con l'Università degli Studi e l'Istituto per la Docun1entazionc e la Ricerca S. Paolo, tenutosi a Catania, nei giorni 11 e 12 maggio 1995.
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Michele Pennisi
dignità, manifesta il suo dominio sul mondo e lo trasforma? Se è stata una colossale mistificazione lo slogan riprodotto nei campi di concentramento "il lavoro rende liberi'', si può parlare allora del lavoro unicamente come regno della necessità e del tempo libero unicamente come regno della libertà, della fraternità, dell'uguaglianza? Altre domande si riferiscono alla nuova fisionomia del lavoro nella nostra età tecnologica, planetaria e complessa. Quali sono le interpretazioni del lavoro e del tempo libero nelle varie correnti culturali della società contemporanea e quali le loro radici religiose, filosofiche, storiche, e le loro espressioni artistiche e letterarie? Quale rivoluzione del lavoro si è avviata nella nostra epoca di grandi trasformazioni? Quali mutamenti quantitativi, qualitativi e culturali nel lavoro e nel non lavoro si prefigurano per il futuro in una società caratterizzata
dal crollo di molte professioni e dalla emergenza di nuove, dal passaggio dal 1!Javoro 11 alla 11 galassia dei lavori 11 , dalla crisi della cultura operaia, dal fenomeno della globalizzazione nel quale il lavoro di una persona è concepito solo con1e una frazione irrilevante e anonin1a dell unico sisten1a di produzione mondiale? Si può parlare di un senso unitario del lavoro oppure bisogna riconoscere che è venuta meno la compattezza del senso del lavoro e c'è un diffuso malessere nel vivere il proprio lavoro? E se così fosse come si potrebbe parlare della centralità del lavoro e di un'etica del lavoro? Oggi si è pervenuti ad una situazione in cui si hanno diverse etiche e sensi del lavoro. Cosa può esserci di comune tra un senso del lavoro orientato alle capacità positive e visto come qualcosa di creativo e un senso di lavoro privo di orienta1nento o vissuto cotne prestazione prevalente1nente forzosa? Quali nuovi paradigmi "laici" contrassegnano il lavoro oggi? A quali valori l'uomo di oggi consegna gran parte della sua fatica, del suo tempo della sua intelligenza? Se non si lavora più per la patria, per la famiglia, per la fabbrica, per il pmiito, per la liberazione dell'uomo per che cosa si lavora oggi? Per il proprio successo e benessere materiale? Per la sopravvivenza propria o della specie? Per dominare gli altri? Per essere utili a sé e alla società? Per realizzare se stessi nel libero dono di sé? Per obbedire al comando di Dio e partecipare alla sua opera creatrice? Quale è il significato del lavoro e del tempo libero nella civiltà tecnologica e informatizzata? Quale è la sfida che le nuove tecnologie lanciano all'organizzazione e alla cultura del lavoro nella nostra società? Quali risvolti antropologici comporta l'aumento del periodo del non lavoro nella nostra società? La preannunciata "società del tempo libero" implicherà automaticamente una nuova qualità della vita fondata sulla riconciliazione con se stessi, con gli altri, con la natura? L'accresciuto te111po libero 1
Introduzione
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riesce ad offrire possibilità di recupero nei confronti nelle ore ripetitive del lavoro spesso alienante? Può un lavoratore vivere il tempo libero dal lavoro come tempo dell'autonomia creatrice quando è stato plasmato da una cultura dell'eteronomia, dell'alienazione, della dipendenza? Con1e passare al11esercizio attivo della fantasia quando la 1naggior parte della vita trascorre nell'apatia di un lavoro preordinato e programmato? Se c'è un lavoro alienato e dipendente dalle leggi della produzione non c'è anche una alienazione nel tempo libero regolato dalle leggi del consumo? li limitato spazio disponibile per l'individuo al di fuori dell'orario di lavoro è utilizzabile liberamente e in che termini? Perché le grandi ideologie moderne che avevano esaltato l'homo faber e la "civiltà del lavoro" sono entrate in crisi? Questo vale solo per la concezione hegeliana e marxiana del lavoro o non vale anche per la teologia del lavoro e dell'attività umana formulata che ha avuto nel Vaticano II un punto di arrivo e un punto di partenza? Questa teologia che ha insistito sul lavoro come fattore di umanizzazione e di socializzazione non è forse stata troppo ottimistica e troppo poco critica della apologia e della "mistica" del lavoro allora dominante? Qualcuno ha avanzato maliziosamente il sospetto che una simile teologia sia stata possibile elaborarla da chi non ha avuto un'esperienza diretta di lavoro. Ricordo che un 111io con1pagno di studi n1entre tàceva l'esperienza di
prete-operaio mi scrisse che sperimentava il limite di certe esaltazioni teologiche del lavoro, in quanto non si sentiva di autorealizzarsi e di contribuire
alla liberazione dell'umanità limando otto ore al giorno presso una fabbrica 1netaln1eccanica.
È necessario studiare la concezione biblica del lavoro e del tempo libero superando impostazioni di stampo fondamentalista e riflettere criticamente sulla riflessione teologica e sul magistero sociale sul lavoro, ponendosi una serie di domande.
La concezione biblica di un Dio che in ritJni diversi 11 lavora 11 e si 11 riposa", che contraddice alla visione dei popoli circostanti in cui alcune divinità sono dedite al lavoro e altre al riposo, a quali conseguenze porta a livello etico sia per quanto riguarda il lavoro che l'uso del tempo libero? La convizione teologica che Puon10 è creato ad in1111agine e son1iglianza di Dio della tradizione sacerdotale' quali conseguenze ha sul modo di concepire e vivere il lavoro e il tempo libero? li riposo in quanto partecipazione alla gioia di Dio non manifesta la sua grandezza come il lavoro? La teologia del lavoro e del tempo libero si può solo basare sul testo sacerdotale di Gn 1,28 e può trascurare Gen 3, 17-19? Se nella concezione biblica del lavoro si coglie una dialettica fra appaga111ento e fatica, benedizione e 1naledizione, liberazione e alienazione, biso2
Gen
I,28.
lo
Michele Pennisi
gna chiedersi se il lavoro e il tempo libero, nei vari pensatori cristiani, sono concepiti prevalentemente come imitazione del Dio creatore o come partecipazione alla maledizione di Dio sul peccato di Adamo. La teologia del lavoro che ha puntato o sull'analogia del lavoro concepito come conseguenza del peccato con la sofferenza di Cristo o con la sua visione ottimistica basata sulla partecipazione dell'uomo all'azione creatrice di Dio, non richiede una rilettura globale nella prospettiva del mistero trinitario colta nella sua dinamica storico-salvifica? La teologia cristiana contemporanea (con alcune eccezioni: Rahner, Moltmann, Cox, Auer,) non ha esaltato eccessivamente la dimensione lavorativa dell'uomo a scapito di altre dimensioni della persona: ludiche, sapienziali, contemplative? Fino a che punto valgono le trasfigurazioni teologicoreligiose del lavoro? Come conciliare il diritto-dovere del lavoro col diritto- dovere del giusto riposo, la ferialità con la festa che ci richiama ad un tempo aperto alla trascendenza?
Fa parte dell'annucio cristiano la critica etico-sociale alle forme di tempo libero che obbediscono solo ad una logica di mercato? La cosiddetta "dottrina sociale della Chiesa" sul problema del lavoro e del tempo libero può suggerire soluzioni univoche valide per tutti? Esiste una autonomia e di che tipo dell'economia e della politica rispetto alla morale rispetto ai temi del lavoro e del tempo libero? Quale è il contributo che i cristiani possono dare allo sviluppo di una cultura e di una spiritualità del lavoro e del tempo libero nelle nuove situazioni e fisiono1nie in cui essi oggi si svolgono? I primati che derivano dal profilo personalistico del lavoro enunciato dalla Laborem exercens sono di fatto garantiti a tutti i lavoratori nei moderni sistetni econon1ici nella 111isura in cui essi fanno della 1nassin1ilizzazione del profitto la molla primaria ed esclusiva dell'agire economico? Come aprirsi ad una produttività sociale che socializzi con forme partecipative tempi di lavoro e ten1pi liberi? Co1ne coniugare le esigenze di una 1norale a servizio dell'uomo col realismo della razionalità economica? Come si trasforma nella nostra epoca tecnologica l'idea di solidarietà a partire da una nuova concezione del lavoro? Cosa significano concretamente slogano con1e 11 solidarietà del lavoro, con il lavoro, nel lavoro"? Il restringimento delle ore lavorative è una soluzione al problema della disoccupazione? Lo slogan 1'lavorare di 111eno per lavorare tutti" è solo uno slogan propagandistico o può tradursi in progetto storico concreto? La riflessione teologica non è certo in grado né ha il compito di suggerire soluzioni tecniche, sostituendosi a chi ha il preciso con1pito di 1nisurarsi con questi gravissin1i proble1ni dai tanti risvolti u1nani, sociali, ed etico-
religiosi.
Jntrocfuzione
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I teologi hanno tuttavia il dovere di sottolineare che diagnosi, terapie e proposte vanno sempre offerte in una chiara prospettiva etico-sociale rispettosa della dignità dell'uomo integralmente e universalmente inteso, indicando per quali vie il lavoro e il tempo libero possano diventare attività propriamente umane che gratificchino la persona, salvaguardino l'ambiente e sviluppino la fraternità universale. I contributi che seguono cercano di dare qualche risposta ad alcune delle precedenti domande dal punto di vista biblico, etico-teologico, storicoculturale ed economico. Si tratta di alcune delle relazioni tenute sul tema "Lavoro e tempo libero" nel corso dell'annuale convegno, frutto della collaudata collaborazione fra lo Studio Teologico S. Paolo e l'Ateneo catanese, nel maggio del 1995. Il convegno non si è prefisso di proporre delle soluzioni tecniche immediatamente spendibili o delle ricette miracolose capaci di risolvere problemi complessi, ma quello di avviare una riflessione a carattere multidisciplinare sul significato del lavoro e del tempo libero nella società tecnologica. Nella relazione su "Lavoro e tempo libero nella società postindustriale" il prof. L. Giusso del Galdo, economista dell'Ateneo di Catania, centra la sua attenzione sulla necessità odierna della integrazione fra lavoro e te1npo libero per una co1nprensione più u1nanizzata della vita, sottoponendo ad analisi critica alcune soluzioni tecniche volte a ridurre il feno111eno della disoccupazione.
Il biblista prof. A. Minissale trattando il tema del "Lavoro e riposo nella Bibbia", dopo aver contestualizzato il tema del lavoro all'interno delle varie fasi della storia del popolo d'Israele, affronta i problemi della dialettica fra lavoro come partecipazione all'opera creativa divina e pena causata del peccato, lavoro e riposo, finalità religiosa e umanitaria del riposo sabbatico. Il gesuita colombiano p. S. Berna! Restrepo, Decano della Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana, tratta "La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa", sostenendo che una cultura del lavoro co1ne ele111ento fondante di una con1pagine sociale che garantisca una
convivenza pacifica e fraterna richiede il ripensamento dell'intera struttura sociale don1inante, fondata su!Pindividualisn10 e sul 1naterialisn10 econon1ico. Egli sostiene che se la disoccupazione è da ritenersi con1e la 1nassi111a ingiuria inferta alla persona un1ana, consegue anche che una società finalizzata esclusiva111cnte al lavoro, visto soltanto con1e stru111ento di guadagno, rischia di essere una società inun1ana.
I professori P.M. Sipala analizza il tema del lavoro a partire da alcuni esemplari della condizione operaia nella letteratura dell'Ottocento in cui hanno avuto un ruolo in1portante
in Sicilia alcuni esponenti
del veris1110,
mentre il prof. G. Pezzino presenta l'originale concezione del lavoro in G. Rensi.
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Michele Pennisi
Sul volontariato come sintesi tra i valori del lavoro e del tempo libero si occupa il teologo moralista M. Cascane, che sostiene come il volontariato con le sue funzioni personale, pedagogica e politica, realizza una nuova cul-
tura fondata sui valori cristiani della libertà, della solidarietà e della gratuità. Trattando infine sul "valore del lavoro nella società dell'informazione" il prof. F. Rizzo, ordinario di Economia ambientale nell'Università di Palermo, mette in evidenza come nella società attuale in cui il lavoro si dematerializza, il primo fondamento del valore del lavoro è l'uomo stesso che lavora per gli altri e con gli altri. In un tale tipo di società in cui i processi produttivi e distributivi della ricchezza sono incentrati sulla conoscenza e l1inforn1azione,
le persone che svolgono un'analisi
si1nbolica costituiscono
una superclasse rispetto ai produttori di beni materiali e servizi personali. I cambiamenti epocali della nostra società esigono - secondo il prof. Rizzo una risignificazione dell'econo1nia politica come scienza sociale che non può prescindere dalla morale. Dall'insieme delle relazioni e dagli altri interventi tenutisi nel convegno catanese e111erge la necessità che 11ell'ho1110 SG]Jiens convivano l'hon10 <faber e Pho1110 luclens in una sen1pre più' nuova ed articolata consapevolezza della complessità delle dimensioni attiva e contemplativa dell'esperienza dell\101110, in cui coglie se111pre più la sua originalità e la sua trascendenza,
la
creatività dell'impegno e la gratuità del dono. Un ultima notazione riguarda il fatto che la tematica del lavoro e del tempo libero è stata affrontata in Sicilia, regione nella quale da una parte manca il lavoro e dall'altra parte c'è una specie di condanna a un tempo libero forzato di intere generazioni. Se da una parte in Sicilia riscontriamo una insufficiente cultura del lavoro dovuta ad una serie di -feno1neni negativi che hanno detenninato
uno
sviluppo distorto, che rischia di creare nuove tensioni oltre a rappresentare un terreno di coltura naturale per la 1nafìa e altre attività cri1ninose, dall'altra si presentano occasioni nuove che puntano alla salvaguardia e alla valorizza-
zione dell'ambiente naturale e dei beni culturali, alla promozione di una rete di fonnazione
innovativa
e del volontariato
sociale, alla diffusione di una
cultura imprenditoriale e cooperativistica e di un'etica della responsabilità che possano dare slancio alle potenzialità inespresse e al patrimonio di laboriosità presente nella nostra Isola.
Synaxis XVII/1 (1999) 13-20
LAVORO E TEMPO LIBERO NELLA PROSPETTIVA ECONOMICA LUIGI GIUSSO DEL GJ\LDO'
Possiamo definire una società post-industriale quella in cui le macchine eliminano il lavoro definitivamente; mentre, nella società industriale le nuove macchine tendevano a eliminare lavoro nell'immediato per poi richiederlo nel lungo periodo (per effetto della espansione della domanda di beni e servizi che compensava le riduzioni di impiego di lavoro dovute all'introduzione delle macchine). Nella società post-industriale le nuove tecnologie tendono a eliminare le mansioni medie e medio-basse, mentre sviluppano (ma in misura non compensativa) quelle alte e quelle molto, molto basse. Un esempio piuttosto vistoso: negli Usa la domanda di "segretarie" (o "assistenti amministrative", come lì qualche volta hanno ottenuto di chiamarsi) tende a scendere velocemente (dagli oltre 4 milioni che erano): un pool di segretarie collaboratrici di più managers sostituisce la segretaria di un manager. La domanda per questo tipo di lavoro cade per effetto delle nuove tecnologie e soprattutto per le multiformi applicazioni del computer, come la voice mai, che smista e registra le telefonate, il modem che consente di inviare i fax, dalla workstation, o i programmi di word processing. L'aumento di produttività media del lavoro è dovuto al progresso tecnico-organizzativo, connesso con l'accun1ulazione di capitale, le nuove tecnologie, i nuovi n1etodi gestionali. TI fe110111eno nasce con la pri1na rivoluzione industriale e con la rivoluzione agricola. Oggi esso è assai pili rilevante, perché i suoi effetti si sono cu111ulati nel te1npo e perché c 1è una sua accelerazione a causa della rivoluzione infon11atica. La rivoluzione infonnatica incide sia sull'eliminazione di funzioni lavorative, sia sull'aumento di produttività media (dei lavoratori che restano). Verso l'innovazione (quella che riduce i fabbisogni, di lavoro per unità di prodotto), in astratto potremmo avere una posizione "malthusiana", per così dire: bloccarla. Non credo che sia in pratica possibile, e nemmeno giusto auspicarla: non esiste al riguardo, a 1nio vedere - in contrasto con un certo
"moralismo" che aleggia in qualche posizione tradizionalista - una questione 11
principi 111orali 11 • Esistono altre due soluzioni, due strade, tra cui scegliere; o, forse, pili concreta1nente, una cotnbinazione fra le due. La pri1na: tradurre per intero !1au1nento di produttività in consu111;di
smo, cioè espandere la produzione nella stessa misura dell'aumento della produttività del lavoro. Questo, significherebbe, riguardo ai livelli di impiego del ~ Dell'Universifi1 degli Studi di Catania.
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Luigi Giusso del Galdo
lavoro, n1antenere lo stesso nu1nero di occupati e di ore di lavoro per occupato; o aumentare il ·numero di occupati, riducendo l'orario di lavoro per occupato in proporzione all'aumento di produttività (come vedremo poi a proposito di una proposta del prof. .fossa). Questa, soluzione avrebbe il prezzo, evidente1nente, di spingere la gente 11 a consu1nare se111pre più e se111pre più in fretta beni e servizi"'. La soluzione opposta (estrema) è di ridurre i livelli di impiego del lavoro, non in termini di persone occupate ma cli ore di lavoro per occupato, in proporzione agli aumenti di produttività; ciò vorrebbe dire avere, nella stessa proporzione, un aumento del tempo libero per occupato, e nessun aumento di produzione totale. Storicamente abbiamo avuto, nel tempo, una combinazione fra le due soluzioni, a seguito degli aumenti di produttività: aumenti dei livelli di consumo e riduzione delle ore lavorate (con la diminuzione della giornata lavorativa e, in un secondo 11101nento, della setti1nana lavorativa, nonché con l'aumento dei periodi di ferie pagate, tra l'altro necessarie per effettuare taluni consu111i costosi, in tennini, oltre che di spesa, di te1npo: viaggi, vacanze; oggi, vedremo, potremmo avere anche ferie 11011 pagate). Se rifiutian10 la soluzione della continuazione ed esasperazione del consumismo - aumento senza limiti della domanda di beni di consumo, ciò che appare abbastanza illogico, anche sotto l'aspetto dell'inquinamento ambientale: pensate, avere se1npre più auto1nobili per fa111iglia, se1npre più 111ac-
chine da presa o apparecchi di trasmissione audiovisiva, si tratta di vedere quale forma o impiego dare a un crescente tempo libero per persona occupata. Il riferimento è alle economie sviluppate; prescindiamo inoltre dalle situazioni in cui una riduzione delle ore lavorate comporti livelli di reddito inferiori a quelli ritenuti accettabili. Anche J.M. Keynes, il grande economista del nostro secolo (che peraltro ci è noto soprattutto per la sua teoria delle crisi congiunturali nel capitalismo, cioè delle crisi di disoccupazione dovute a insufficienza della domanda globale nel breve periodo e non a fattori di lungo periodo come il progresso tecnico), anche egli ebbe chiaro il fenomeno dell'aumento della produttività del lavoro nel tempo e dei problemi che esso poneva; e optò, sostanzialmen11
te, per la soluzione 11 1naggior te111po liberon. In uno scritto "profetico del 1930, 11 Prospettive econo1niche per i nostri nipoti" (non per niente incluso
in un libro che in italiano è stato pubblicato con il titolo "Eso1tazioni e Profezien), egli osservava: «L1L1111anità sta procedendo alla soluzione dei suoi
problemi economici» perché nel giro di un secolo il livello di vita dci paesi avanzati aumenterà da 4 a 8 volte, in modo da eliminare la scarsità di beni necessari. Man mano che l'umanità diventerà più ricca, «per la prima volta dalla sua creazione, l'uo1no si troverà dinanzi il suo vero, costante proble111a:
come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza (leggi, progresso tecnico) e l'interesse 1
S. ZAMAGN!, Lavoro ridisegnato dal te111po, in //Sole 24 Ore, 15 febbraio 1995, 5.
Lavoro e te111JJO libero nella prospettiva econo111ica
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composto (l'accumulazione di capitale produttivo a un tasso esponenziale) gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevoln1ente
e con saggezza».
Ma molto tempo libero può essere un problema «perché per molto tempo siamo stati abituati a faticare anziché a gioire». Egli ammise dunque che «per l'uomo comune, privo di particolari talenti, il problema di darsi un'occupazione (nel tempo libero) è pauroso»; ma si mostrò fiducioso - forse troppo fiducioso, a mio vedere - che l'umanità avrebbe saputo risolvere questo problema, meglio di come fanno attualmente i ricchi, che quel problema già hanno. Il prof. Stefano Zamagni, economista dell'università di Bologna, presenta la soluzione per il tempo libero secondo una visione molto innovativa; e non poi così "avveniristica!!
e utopica. Egli dice: «Bisogna rivoluzionare
l'attuale tricotomia studio-lavoro-pensionamento. Cioè non possiamo pii1 concepire la vita di una persona come divisa in queste tre fasi ideai-tipiche: si studia sino a una certa età, poi si entra nel inondo de! lavoro e se ne esce a
65 anni [ ... ] andare in pensione a 65 anni significa in tanti casi ritrovarsi persone abbandonate senza nulla da fare, che non hanno più voglia di vivere (oggi la durata della vita media in Italia è giunta a 79 anni). Studieremo e lavoreren10 per
1
J
intero arco de!l 1esistenza, alternando periodi di fonnazione a
periodi di lavoro, a periodi dedicati al recupero (cioè a soddisfare esigenze in arretrato) e alla vita familiare»; le esigenze di vita familiare possono portare un giovane padre, non solo una giovane 1nadre, ad allontanarsi provvisoria-
mente dal lavoro per dedicarsi figli. L'aiiicolazione di questa visione rispetto alla previsione di Keynes non è solo nell'idea delle fasi alternate in cui dovrebbe scomporsi la vita di un adulto, 1na anche nell'in1portanza che viene attribuita ai periodi di 1!fonnazione11. For111azione per lavorare 111eglio, per 11 riciclarsi 11 o aggiornarsi circa le
innovazioni e magari addirittura per produrre innovazioni. Quindi non solo non lavoro, con1e abbia1110 letto in l(eynes, per "gioire", per apprezzare 1neglio la vita (cultura, viaggi, vita personale), ma anche per essere messi in condizione di lavorare meglio, in un mondo tecnologicamente sempre mutevole; «altrin1enti le in1prese rischiano di regredire», dice Za1nagni, sulla base del presupposto che l'innovazione tecnico-organizzativa sia una condizione
ineludibile della vita produttiva moderna; quasi una condanna, si direbbe. È un presupposto che può essere n1esso in discussione per opposizione ideologica,
non però a livello di singola impresa o settore e nemmeno di singola econo1nia nazionale, bensì eventualn1cnte in base a una nuova concezione generale
dell'economia, diversa da quella oggi dominante, in cui tuttavia potrebbero ritrovarsi anche gli economisti, come ci fanno pensare le parole di Keynes, o la posizione, nell'Ottocento, di un John Stua1i Mili, teorico della bontà dello stato
11
stazionario 11 ,
ossia della non desiderabilità di un illin1itato progresso
produttivo. Esistono sintomi di una evoluzione delle cose nella direzione auspicata e pronosticata da Za111agni. Un esen1pio 1nolto significativo, tradizionale e
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Luigi Giusso del Caldo
consolidato, è l'anno sabbatico di cui i professori universitari possono godere due volte in dieci anni, con esenzione dagli obblighi didattici, per scopi di ricerca, mantenendo lo stipendio. Un altro caso, questo molto nuovo: la Middle Bank, una delle più grandi banche inglesi, ai dipendenti della fascia medio-alta dà la possibilità dì stare via due anni su un arco di cinque, s'intende con decurtazione di paga. In Germania questa opportunità è inclusa nel patto sociale che si va discutendo; molti paesi si muovono in questa direzione. L'assunzione del personale da paite delle imprese, conclude Zamagni, «sarà sempre più giocata sull'offerta di questa flessibilità e non di un percento in più di salarim>, (chissà se in questa articolazione per fasi dell'esitenza non possa trovar posto qualcosa che ci è sempre sembrato mitico, e legato particolarmente all'utopia socialista di Mao, l'alternanza tra fasi di lavoro intellettuale e di lavoro manuale). Fin qui ho considerato le prospettive a più lungo termine del rapporto fra tempo di lavoro e tempo libero ("tempo di vita" o anche "tempo scelto" lo si chiama ora qualche volta, alquanto enfaticamente). Nella prospettiva del periodo lungo, credo, siamo tutti d'accordo che, a meno di non accettare un forse 1!fisica1nente 11 i111possibile consu1nis1110 ad oltranza, il proble111a dell'occupazione di tutti non potrà essere risolto che con la riduzione dell'occupazione di ciascuno (forse anche nel casi - n1a ciò è più proble1natico - in cui non c'è un aumento di produttività del lavoro come quello che ha luogo nella fabbrica e in agricoltura; si pensi ai settori dell'artigianato, di certi servizi, alle attività del professionista, dell'insegnante, del ricercatore, dove gli aumenti di produttività del lavoro sono scarsi o nulli). Ma la riduzione dell'orario di lavoro viene ricorrentemente proposta, pur tra una serie di difficoltà e obiezioni, anche per il breve periodo, e particolarmente per l'Italia, in cui - per quanto si discetti su un certo grado alquanto elevato di disoccupazione volontaria che esisterebbe da noi - il problema della disoccupazione è fra i più gravi dei paesi industrializzati: sia come numeri globali che come disoccupazione di lungo periodo (oltre 12 mesi) e come disoccupazione giovanile e qualificata (diplomati e laureati); oltre che in quanto concentrata, ahin1è, nelle regioni 111eridionali.
Una semplice elaborazione, già ci dice qualcosa. È stato calcolato (Nicola Cacace) che il sistema Italia, per poter funzionare ai livelli attuali, ha bisogno di 32 miliardi di ore di lavoro all'anno, che, suddivise per 24 milioni di persone, che costituiscono la popolazione attiva (occupati più disoccupati che dichiarano di voler lavorare), equivalgono a 26 ore la settimana per persona: «poco più di un robusto part-tìrne» ', infatti al di sotto di 26 ore si è, nella definizione dell'lstat, "sotto-occupati". Abbiamo in Italia (dato del 1986, ma le cose non dovrebbero essere cambiate di molto nel frattempo), su un complesso di 28,6 milioni di 2 D. SPERONI, Palazzo Ch(ri;i Sera, 1° 1naggio 1995.
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sa ,fabbricare posti di lavoro, in C'orriere della
Lavoro e tempo libero nella prwpetliva economica
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"posizioni lavorative" (che corrispondono a 22,9 milioni di "unità di lavo-
ro" standard), oltre 7 111ilioni di "attività secondarie", intese con1e secondi o anche terzi lavori. Quest'ultima cifra (il gran numero di attività secondarie) è un indice della cattiva distribuzione del lavoro fra le persone: si direbbe che c'è chi lavora troppo (quasi ce1iamente per sua scelta) e chi lavora poco (ma non per sua volontà). Di questo squilibrio una riprova è anche l'incidenza dello "straordinario", che insien1e al pa1t-ti1ne volontario, contribuisce al diverso nun1ero 1nedio di ore per occupato; in Italia e in Francia abbian10 una 1 media di 39 ore settimanali per occupato, in Olanda 32 . Nel periodo 1983'91 in Olanda, diversamente che in Italia, il numero degli occupati è aumentato molto più delle ore lavorate 4 li lavoro (volontario) part-time incide ancora pochissimo in Italia (nonostante una legge incentivante del 1983 e un decreto del marzo 1994): 5-6% del totale', contro 34% in Olanda, 17%
in Usa, l 5o/o in Francia6 . Mentre in Italia, si è visto, il lavoro (volontario) pa1t-tin1e è scarso, altri paesi quelli che lavorano 48 ore la settimana (un numero cli ore e quelli che ne lavorano 20-25 (un numero di ore basso) sono quasi stessa proporzione 7 (il part-time peraltro ha un inconveniente anche è diffuso: di solito fa carriera chi lavora a tempo pieno, e tra questi incidono di più i 1naschi; anche per quanto riguarda la forn1azione e i processi di aggiornan1ento, il part-ti111e è svantaggiato). Un ese111pio clan1oroso di riduzione dell 1orarlo si è avuto con il contratto Volkswagen, in Gennania, di due anni fa: con una 111otivazione congiunturale, ma potrebbe trattarsi dcl preludio di un indirizzo strutturale, l'orario è sceso da 36 a 28,8 ore e a 4 giorni la settin1ana, con una di111inuzione del 20% (e una riduzione di retribuzione di solo il 10%, forse scontando un certo aumento compensativo di produttività). Ai tre giorni consecutivi di tempo libero pure previsti nel contratto Volkswagen fa riscontro una analoga previsione in un altro accordo di lavoro 11 epocale 11 , quello che si è avuto in Italia per il nuovo stabilimento Fiat di Melfi in Basilicata, a compenso del lavoro notturno che è stato introdotto per utilizzare al 111assi1110 gli i1npianti (questo accordo è 11 epocale 11 pa1iicolannente per il coinvolgi111ento dei lavoratori negli obiettivi dell1i111presa: "qualità totale", n1igliore organizzazione interna, innovazione). negli alto) nella dove
' B. JOSSA, La riduzione della durata del lavoro co111e in 1\10/e Eco110111iche ( 1995). ~ Piano De!ors è i! docu1nenlo con le proposte Co1111nissionc europea per entrare nel XXI secolo su livelli co111petitività e occupazione. 5 I3. JOSSA, /,a riduzione della durala del lavoro co111e cii. 6 D. SPERONI, Palazzo Ch(e;i 11011 sa .fabbricare posti di 7 8. JOSSA, La riduzione della durata del lavoro co111e ciL
ri111edio alla disocc11pa::ione.
presentate nel 1994 da!la socldisl'accnti di produHività, ri111edio alla disocc11pazione, lavoro, cit. ri111edio alla disoccupazione,
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Luigi Giusso del Galdo
Principale motivo di scontro, a proposito della riduzione dell'orario di lavoro nell'immediato, è che cosa debba avvenire per il salario. I lavoratori si oppongono a una sua riduzione, una posizione con1prensibile, specie per la
sezione del mondo del lavoro con remunerazioni più basse; i datori di lavoro fanno invece della riduzione del salario in proporzione alla riduzione dell'orario una conditio sine qua non, ciò che anche si può con1prendere.
Di recente è stata proposta dal prof Bruno Jossa, economista dell'università di Napoli, un interessante "conciliazione" fì·a i due punti di vista: in presenza di aumenti di produttività media del lavoro, lasciare inalterato il salario totale per lavoratore (non aumentarlo in proporzione all'aumento di produttività), ma ridurre nella stessa proporzione l'orario per lavoratore; così, se le i111prese vogliono au1nentare la produzione, debbono ricorrere a nuo-
vo lavoro; il costo del lavoro per unità di prodotto non aumenterebbe, ciò che corrisponderebbe all'interesse sia delle imprese, sia della collettività. Applicando questa soluzione all'Italia, e assumendo le seguenti tre ipotesi: a) offerta di lavoro costante; b) aumento annuo del Pii del 2%; e) eguale aumento annuo del 2% della produttività media del lavoro, Jossa conclude che «con una disoccupazione attualmente dell' 11 per cento, supponendo che un 3 o 4 per cento sia ineliminabile, in due anni la disoccupazione sarebbe più o 111eno di111ezzata e in 4-5 si avrebbe addirittura la piena occupazione». La conclusione ultima del prof. .!ossa è trionfale ma degna di essere meditata. Adottando continuativamente nel tempo la regola proposta, si ridurrebbe gradualmente per tutti «il peso della giornata lavorativa, in modo da favorire la nascita di una società ove chiunque lo voglia possa realizzarsi sempre più (oltreché con il lavoro) attraverso la cultura, le arti, lo studio, la vita sociale e tutte quelle attività più nobili (supposto, sottolineo io, che ne siamo capaci!), che rendono l'uomo migliore [ ... ] Si ridurrebbe il peso dell'econo1nia con i suoi aspetti oppri1nenti e corruttori». Inoltre, con la riduzio-
ne progressiva dell'orario a 30 ore settimanali e poi a 25, il doppio turno potrebbe diventare la regola (supposto che le condizioni della domanda non ostacolino la produzione del massimo tecnicamente producibile a seguito degli aumenti di produttività) e si avrebbe l'eliminazione del cd. lavoro scoraggiato (lavoratori, pare in gran nu1nero, che desidererebbero lavorare 1na non lo di-
chiarano e quindi non appaiono ufficialmente sul mercato); «tutte le donne che lo volessero potrebbero trovare un lavoro fuori di casa, i vecchi non sa-
rebbero più obbligati ad andare in pensione prima del tempo, la scuola finirebbe di essere un'aria di parcheggio e tutti i giovani potrebbero trovare un
lavoro appena terminati gli studi; chi ama solo il lavoro, inoltre, potrebbe avere un'occupazione al mattino e un'altra il pomeriggio e tutti potrebbero di continuo lasciare un lavoro per cercarne uno diverso». Ma, all'applicazione di una crescente riduzione dell'orario, con1e stru-
mento per aumentare l'occupazione nell'immediato, non c'è solo l'ostacolo relativo al salario (che la proposta di Jossa cerca di eliminare, a condizione di
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un vero e proprio "patto sociale", con una so1ta di solidarietà dei lavoratori occupati verso i disoccupati); vi si oppongono anche altre difficoltà, tutt'altro che sottovalutabili per il breve periodo. I. Una riguarda la concorrenza che l'esistenza dello 11 straordinariou fa all'assunzione di lavoratori aggiuntivi. Spesso si assiste al paradosso che il lavoro straordinario, ancorché formalmente e apparentemente più caro dell'ordinario, in realtà lo è meno per l'impresa in considerazione dei costi connessi all'assunzione di un nuovo dipendente; «[ ... ] la presenza di elevati costi di assunzione e addestramento interno del personale rende i datori di lavoro poco propensi a variare l 1in11ut di lavoro in tennini di nu111ero di occupati, causa del sensibile aggravio di costi che con1po1ta l1 inseri1nento di nuova 1nanodopera e della perdita secca (per l'improduttività residua dei costi di addestramento a suo tempo sostenuti) che comporta l'abbandono dell'impresa da pa1te dcl lavoratore»'. 2. Con le variazioni in diminuzione graduale dell'orario del lavoratore le i1nprcsc debbono continua1nentc riorganizzarsi, ciò i1nplica un costo. 3. Solo le i1nprese di una certa di1nensione, con un volun1e di produzione piuttosto grande, possono organizzare la produzione su due o più turni, occupando più lavoratori; invece le i1nprese 1ninori, con più basse produzioni, a seguito della riduzione dell'orario per lavoratore, rischierebbero di utilizzare meno gli impianti, con conseguente aggravio dei costi. 4. La riduzione dell'orario per lavoratore può aumentare l'offerta di lavoro, con l1eli1ninazione di lavoratori scoraggiati, e quindi la disoccupazione potrebbe non contrarsi, infatti aumentando la domanda di lavoro, con la riduzione dell'orario, chi è fuori dcl mercato del lavoro tende ad entrarci. 5. Un'altra difficoltà grave è che con la riduzione dell'orario del lavoro 11 principale 11 si incentivano i secondi lavori, e per questa via si au1nenta la disoccupazione. Un proble111a 11 concettualer1 alla riduzione dell'orario di lavoro risulta dalla seguente considerazione': «Il pieno impiego è facilissimo da raggiungere, se, dove basterebbe un lavoratore se ne in1piegassero due a salario di1nezzato, senza badare alle libertà sindacali, alla scelta individuale del tipo e della quantità di lavoro e così via (in un'eco110111ia schiavistica gli schiavi non sono mai disoccupati)». Si osserva altresì che è molto difficile che la riduzione dell'orario possa essere imposta dall'alto; in Italia solo il Partito della R.C. ne fa una bandiera. Forse nell'immediato, come strumento per combattere la disoccupazione in Italia, più che alla riduzione generalizzata e concordata tra sindacati dei lavoratori e associazioni imprenditoriali, che sembra piuttosto ardua ad attuarsi (nonostante la ragionevolezza in astratto di una tesi come quella del prof. Jossa), bisogna puntare sull'incentivazione del part-time, quanto meno 8 9
O. CASTELL!NO, Che cosa si produce co111e e per chi, Torino 1983. !bid.
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per portarci alla pari di altri paesi industrializzati. Sull'importanza del parttime sono d'accordo ormai anche i sindacati; il programma presentato dalla Cisl tre mesi fa prevedeva ben 500 mila nuovi posti da ottenere con la diffusione del part-time. L'ex ministro del Lavoro Mastella aveva stimato che nel 1995 almeno 750 mila posti di lavoro potevano crearsi grazie al part-time e al lavoro "interinale" (cd. lavoro in affitto); ma le misure in questa direzione sono rin1aste sulla ca1ia anche se ora il suo successore Tiziano ''freu si appre-
sta a trasformarle in legge. Ritornando, nel concludere, alla pri1na parte di questo esan1e, le pro-
spettive a piĂš luogo termine del rappo1to fra tempo di lavoro e tempo libero o 1'ten1po di vita", 1ni pare indubbio che questo sia destinato ad incidere se111pre di piĂš nell'esistenza di nu1nerosissin1i lavoratori. lJna 11 rivoluzione 11 , que-
sta, i cui benefici vanno confrontati con i problemi dell'uso del tempo libero, sui quali però Pecono1nista con1e tale ha da dire cose certan1ente tneno i111-
portanti del moralista, dello psicologo, del sociologo e di altri studiosi.
Synaxis XVIl/I (1999) 2 I-3 I
LAVORO E RIPOSO NELLA BIBBIA ANTONINO MINISSALE'
Introduzione
li tema del lavoro attraversa implicitamente tutta la Bibbia Ebraica in quanto riguarda la vita quotidiana del popolo che ne è al centro. Ma sono pure molte le occasioni in cui vi si fa riferimento esplicito, per esempio quando si parla delle attività svolte dagli uomini e dalle donne nei diversi settori della società nel contesto delle varie fasi della storia biblica; o quando si accenna agli struinenti usati nei1 1agricoltura) nell'edilizia, e nella vita casalinga, o si fa riferimento ai prodotti della terra. Perciò abbiamo coscienza che affrontando il tema del lavoro tocchiamo il vissuto dell'uomo veterotestamentario nella sua più significativa concretezza, che costituisce pure il contesto nel quale fioriscono 1nan 1nano sia l'esperienza religiosa e sia l'ispirazione letteraria. Del resto, quello che si considerava nella tradizione l'alto di nascita del popolo d'Israele era associato con la trau1natica esperienza di un lavoro i1nposto e non an1ato, la schiavitù in Egitto. Ma per converso, la nuova patria sognata con1e la terra in cui "scorre latte e miele", costituirà l'ambiente nel quale il lavoro agricolo e la pastorizia forniranno i mezzi di sussistenza e costituiranno la base di una società libera e solidale. La mia esposizione si divide in due parti: I. L'esperienza del lavoro nella storia d'Israele; Il. Lavoro e riposo nella storia primordiale biblica. Nella prima parte, più lunga della seconda, sarà data la preferenza alla lettura diretta di alcuni testi significativi, i quali non servono solo a ricordare alcune tappe tOndamentali dell'esperienza del lavoro nella traiettoria storica dell'antico Israele, ma anche a farci cogliere da un lato la sofferenza e dall'altro lo spirito di indomito coraggio, di inesausto adattan1ento e di rinnovata iniziativa che ani1nava i protagonisti di questa grande epopea umai1a e spirituale. Nei passi scelti prevale comunque l'aspetto collettivo e nazionale su quello privato e quotidiano. Invece nella seconda parte 1ni !iiniterò a presentare alcune osservazioni riguardanti soprattutto il tema del riposo del sabato.
1. L 'e5perienza del lavoro nella stor;a d'Israele li tema del lavoro deve essere amontato prima di tutto da un punto di vi*Dello Studio Teologico S. Paolo.
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Antonino Minissale
sta sociologico e storico, considerando i contesti sociali fondamentali che si determinano nei diversi periodi della storia d'Israele. In questo senso si possono distinguere diacronicamente quattro diversi scenari: l. il passaggio dal nomadismo alla sedentarizzazione, 2. le conseguenze sociali dell'introduzione della monarchia, 3. l'esilio, 4. il dopo-esilio. I. 1. li passaggio dal nomadismo alla sedentarizzazione Mentre ri1nane storica1nente oscura la situazione in cui si trovavano le diverse tribù israelitiche prin1a del loro insedia1nento nel territorio cananeo) è certo che solo qui adottano in maniera stabile l'agricoltura. Essa, primo effetto pratico della sedentarizzazione sul piano del lavoro, si affianca ora alla pastorizia, che fino a quel momento era stata l'attività predominante della condizione nomade, o meglio seminomade degli antenati d'Israele. Le tribè1 sono giunte nella Palestina separatamente, e solo qualcuna di esse aveva fatto l'esperienza della schiavitè1 in Egitto e della conseguente fuga dall'oppressione egiziana sotto la guida di Mosè. Esse si infiltrano nelle zone disabitate per lo più in maniera pacifica; qui si determina una forma di proprietà tribale del territorio, di cui viene assegnata ad ogni famiglia una porzione perché la coltivi. Prescindendo dal dettaglio storico che è difficile ricostruire con sicurezza, è importante rilevare la concezione teologica che si sviluppa in seguito sulla terra nella quale si erano poste ormai le radici. li tema della terra è particolarmente sviluppato nella parenesi del Deuteronomio. Qui si sottolinea come la terra è il dono di Dio già promesso ai padri; essa non è solo ricca dei prodotti agricoli tanto apprezzati, ma si presenta anche più evoluta, dal punto di vista della civiltà urbana, rispetto alle precedenti abitudini dei nuovi arrivati. Dt 16,10-12: «10Quando il Signore tuo Dio ti avrà fatto entrare nel paese che ai tuoi padri Aw bran10, Isacco e Giacobbe aveva giurato di darti; quando ti avrà condotto alle città grandi e belle che tu non hai edificate, 11 a!le case piene di ogni bene che tu non hai rie1npite, alle cisterne scavate 111a non da te, alle vigne e agli oliveti che tu non hai piantati, quando avrai mangiato e ti sarai saziato, 12 guardati dal dimenticare il Signore, che li ha fatto uscire dal paese d 1Egitto, dalla condizione servile».
Dt 18,7-10.18: «... 7perché, il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla 1nontagna; ~paese di frun1ento, di orzo, di viti, di fichi e di 1nelograni; paese di ulivi, di olio e di n1iele; ~paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti 1nancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui 1nonti scaverai il ra111e.
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Lavoro e riposo nella Bibbia
nMangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato ... 1 ~Ricordati invece del Signore tuo Dio perché Egli ti dà !a fOrza per acquistare ricchezze, al fine di 1nantenere, co1ne fa oggi, Palleanza che 1
ha giurato ai tuoi padri)),
Dt 11, 14-15: «... 1·1io darò al vostro paese la pioggia al suo te1npo: la pioggia d'autunno e !a pioggia di prin1avera, perché tu possa accogliere il tuo fru1nento, il tuo vino e il tuo olio; 1'farò anche crescere nella tua ca1npagna l'erba per il tuo bestian1e; lu
111angerai e sarai saziato».
In realtà, gli israeliti - giunti dalla steppa nella terra coltivata - per molto tempo ancora si dimostreranno arretrati sul piano tecnico, rispetto agli altri abitanti del paese, specialmente per quanto riguarda la lavorazione del ferro, introdotto da poco nel Canaan. Essi perciò devono ricorrere ai Filistei, approdati anche loro da poco nelle coste mediterranee, che forniscono loro solo gli attrezzi agricoli, 111a non le anni. l Sam 13,19-21: 1
Al!ora 11011 si trovava un fabbro in tutto il paese d'Israele: "Perché- dicevano i rilistei - gli Ebrei non fabbrichino spade o lance". 211 Così gli Israeliti dovevano se1npre scendere dai Filistei per affilare chi il von1ere, chi la zappa, chi [a scure o la falce. 21 L 1affilatura costava due terzi di siclo per i von1eri e !e zappe e un terzo 11affilatura delle scuri e dci pungoli». << 1'
1.2. Le conseguenze sociali dell'introduzione della monarchia Per motivi difensivi, soprattutto per le incursioni dei Filistei, dopo il periodo detto dei Giudici si è dovuto introdurre la monarchia, che dopo Saul, con Davide, tende ad organizzarsi orn1ai secondo un 111odello statale di tipo cananeo. Nel Canaan preisraelitico il sistema politico dominante era caratterizzato dalle città-stato, in ognuna delle quali il re, pur esercitando il dominio su un territorio lilnitatoi aveva al suo interno un potere illi111itato che i111plicava tra l altro !a proprietà della terra, che poteva distribuire tra i suoi collaboratori secondo un sistema di diritto feudale. In questo modo la creazione di una corte attorno al re crea una classe privilegiata, mal tollerata dal popolo. Tutto ciò è bene espresso in questo discorso che si mette in bocca a Samuele in vista della scelta del primo re, ma che è stato composto molto tempo dopo dando voce ad un diffi.1so risentimento che serpeggiava tra il popolo in seguito all'esperienza già fatta: 1
1 Sam 8,ll-17: « 11 Disse loro: "Queste saranno le pretese del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al
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Antonino lv/in issale suo cocchio, 12 Ji farà capi di migliaia e capi di cinquantine; li costringerà ad arare i suoi can1pi, a 1nietere le sue messi, ad apprestargli anni per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. 1JPrenderà anche le vostre figlie per farle sue profu1niere e cuoche e fornaie. 1-1si farà consegnare ancora i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li regalerà ai suoi 1ninistri. 15 Sul!e vostre sen1enti e sulle vostre vigne prenderà le decin1e e le darà ai suoi consiglieri e ai suoi 111inistri. 1r·vi sequestrerà gli schiavi e le schiave, i vostri arn1enti 111ig!iori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. 17 Metterà la decin1a sui vostri greggi e voi stessi diventerete suoi schiavi"».
In questo discorso di Samuele si può intravedere un'allusione alle pesanti tasse e ai lavori forzati imposti da Salomone per il lusso della sua corte e per le grandi costruzioni del suo regno. Allora, infatti, tutto Israele viene diviso in dodici distretti, ciascuno dei quali doveva provvedere per un mese all'anno all'esigente fabbisogno delle derrate della reggia (I Re 4,7; 5,2-3.7), secondo il modello seguito per la corte del faraone in Egitto. Dei lavori forzati (ebr. mas) imposti a tutto Israele, si parla specialmente in occasione della costruzione del tempio. A turno, gli uomini reclutati per questo progetto venivano 1nandati ne! Libano, dove coadiuvavano i lavoratori fenici che tagliavano i cedri occorrenti a Gerusalc1nn1e, secondo l1accordo che Salomone aveva stipulato con Chiram re di Tiro. I Re 5,20.22-25.27-32: «"wOrdina, dunque, che si taglino per n1e cedri de! Libano; i n1iei servi saranno con i tuoi servi; io ti darò co1ne salario per i tuoi servi quanto fisserai. Tu sai bene, infatti, che fra di noi nessuno è capace di tagliare il legnan1e con1e sanno tàre quelli di Sidone" ... 12 Chiram 1nandò a dire a Salon1one: "Ho ascoltato il tuo 1nessaggio; farò quanto desideri riguardo al legna1ne di cedro e al legnan1e di abete. n1 miei servi lo caleranno dal Libano al 111are; io [o metterò in 1nare su zattere fino a! punto che rni indicherai. Là lo scaricherò e tu lo prenderai. Quanto a provvedere al nianlenin1ento della inia fan1iglia, tu soddisferai il n1io desiderio". ~Chiran1 fornì a Salo1none legnan1e di cedro e legnan1e di abete, quanto ne volle. 2 jSalo1none diede a Chirain ventin1ila kor di grano, per il n1antenin1ento della sua fan1iglia, e venti kor di olio d1olivc schiacciate; questo dava Saloinone a Chiran1 ogni anno ... 11 1! re Salo1none reclutò il lavoro forzato da tutto Israele e il lavoro forzato era di trenta1nila uon1ini. 18Ne niandò a turno nel Libano diecin1i!a al 111ese: passavano un mese nel Libano e due inesi nelle loro case. Adoniran1 sovrintendeva al loro lavoro. 19 Salon1one aveva settantan1ila operai addetti al trasporto del n1ateriale e ottanta1nila scalpellini a tagliar pietre sui inanti, ·'0 senza contare gli incaricati dei prefetti, che erano trcrnilatrecento, preposti da Salon1one al co1nando delle persone addette ai lavori. J 1Il re diede ordine di estrarre grandi 1nassi, tra i migliori, perché venissero squadrati per le fondan1enta del ten1pio. i:>Gli operai di Salon1011e, gli operai di Chiran1 e di Biblos li sgrossavano; furono anche preparati il legna1ne e !e pietre per la costruzione de! ten1pio». 2
Lavoro e rij_Joso nella Bibbia
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Questo siste1na dei lavori forzati era stato adottato già sotto Davide, 111a forse solo per gli stranieri. Sembra del resto che anche Salomone ne abbia esentato i membri della tribù di Giuda; sarà questo uno dei motivi della rivolta delle tribù del nord, che alla sua morte si dichiarerani10 indipendenti dal suo figlio e successore Roboamo, dando origine al regno d'Israele ( cfr I Re 12,4- l I).
1.3. L'esilio La prima caduta di Gerusalemme nel 597 comporta da un lato la sostituzione del re loiachìn, portato in esilio, con lo zio Sedecia, che riinarrà sul trono per dieci anni sino alla seconda e definitiva caduta del 587 e, dall'altro, la deportazione nella quale vengono selezionate le categorie più qualificate della città. 2 Re 24, 14-16: « 11 Deportò (il re di Babilonia) tutta Gerusalen1rne, cioè tutti i capi, tutti i prodi, in nu1nero di dieci111ila, tutti i falegnan1i e i fabbri; ri111ase so!o la gente povera dc! paese. 15 0eportò in Babilonia Ioiachìn, la 1nadre del re, !e 111ogli del re, i suoi eunuchi e le guide del paese, conducendoli in esilio da Gerusa!en1n1e in Babilonia. wrutti gli uo1nini di valore, in nun1ero di sette1nila, i fhlegnan1i e i fabbri, in llll111ero di 111ille, e tutti i guerrieri pili prodi furono condotti in esilio a Babilonia dal re di Babilonia>>.
Con questa scelta i vincitori pensavano di in1pedire che i vinti potessero organizzarsi ed insorgere. Invece quanti erano stati deportati speravano di poter tornare al più presto in patria. Ma il profeta Gere111ia, che è rin1asto a Gerusalen11ne, esorta in una lettere agli esuli a non farsi illusioni su una in1111inente fine dell'esilio e li spinge piuttosto a rifarsi lì una vita stabilendo buoni rapporti di convivenza produttiva perfino con gli odiati babilonesi. Ger 29,4-7: «~Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusalen1111e a Babilonia: 'Costruite case e abitatele, piantate orti e 1nangiatcne i frutti; 6 prendete tnog!ie e niettete al 111011do figli e figlie, scegliete n1ogli per i figli e n1aritate le figlie; costoro abbiano figlie e figli. Moltiplicatevi lì e non din1inuite. 7Cercate il benessere (shalo111) del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere».
1.4. li dopo-esilio
Con la fine dell'esilio in seguito all'editto di Ciro del 538, i primi rimpatriati si trovano nella necessità di provvedere alla ricostruzione del tempio, nella
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Antonino Nfinissale
cui area si ripristina il culto ancor priina di iniziare i lavori. Esd 3,6-7.10-12: <('Co1ninciarono a offrire olocausti al Signore dal pri1110 giorno del 111ese settin10, benché, del suo ten1pio non fossero ancora poste le fondan1enta. 1Allora diedero denaro ai tagliapietre e ai fàlegnan1i; e alin1enti, bevande e olio alla gente di Sidòne e di 1'iro, perché trasportassero il legnan1e di cedro dal Libano per 111are fino a Giaffa: ciò secondo la concessione loro fatta da Ciro re di Persia. 11 'Quando i costruttori ebbero gettato le fondan1enta del ten1pio, invitarono a presenziare i sacerdoti con i loro paran1enti e le tron1bc e i leviti, figli di Asaf, con i cen1bali per lodare i! Signore con i canti di Davide re d'Israele. 11 Essi cantavano a cori alterni lodi e ringrazian1enti al Signore perché è buono, perché la sua grazia dura sen1pre verso Israele. ·rutto i! popolo faceva risuonare il grido della grande acc[an1azione, lodando così il Signore perché erano state gettate !e fondan1enta del te111pio. 1"'ruttavia n1olti tra i sacerdoti e i leviti e i capifan1iglia anziani, che avevano visto il ten1pio di prin1a, 1nentre si gettavano le nuove fonda111enta di questo ten1pio sotto i loro occhi piangevano ad alta voce, 111a i più continuavano ad alzare la voce con il grido dell'acclarnazione e del!a gioia».
Ma dopo questo inizio pieno di entusias1no, i lavori si sospendono, e perciò il profeta Aggeo, qualche decennio dopo, si fa promotore della loro ripresa, 111ettendo in contrasto la negligenza 111ostrata per i lavori del ten1pio con l'interesse che ciascuno ha invece per la propria casa.
Ag 1,8-11: «~Salite
su! nionte, portate legnan1e, ricostruite la inia casa. In essa n1i con1piacerò e n1anifesterò la inia gloria - dice i! Signore -. '1Facevate assegnan1ento sul 111o!to e venne il poco: ciò che portavate in casa io lo disperdevo. E perché? - dice il Signore degli eserciti -. Perché [a inia casa è in rovina, nicntre ognuno di voi si dà pren1ura per la propria casa. wPerciò su di voi i cieli hanno chiuso la rugiada e anche la terra ha din1inuito il suo prodotto. 11 Ho chian1ato la siccità sulla terra e sui 111011ti, sul grano e sul vino nuovo, sulPolio e su quanto la terra produce, sugli uon1ini e sugli ani1nali, su ogni prodotto delle 111ani».
Ma di rincalzo, il profeta Zaccaria annuncia la pron1essa divina della riedificazione del ten1pio, vera pren1cssa alla prosperità dei privati.
Zc 1,16-17; 3,10: 16
Perciò dice il Signore: lo di nuovo nii volgo con con1passione a Gerusa[e111111c: la 111ia casa vi sarà riedificata - parola del Signore degli eserciti - e la corda del 111uratore sarà tesa di nuovo sopra Gcrusale1111ne. 17 Fà sapere anche questo: Così dice il Signore degli eserciti: Le n1ie città avranno sovrabbondanza di beni, il Signore avrà ancora co111passione di Sion ed eleggerà di nuovo Gerusalemn1e ... 11Jln quel giorno - oracolo del Signore degli eserciti - ogni uo1110 inviterà il suo vici(<
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no sotto la sua vite e sotto il suo fico».
Un secolo dopo l'inaugurazione del secondo Tempio che aveva avuto luogo nel 515, Neemia, nel corso della sua lunga missione che si protrae dal 445 al 433, provvede alla ricostruzione delle 1nura esterne di Gerusale1nn1c. Dal suo rapporto emerge con molto pathos l'amore che nutre un esule ebreo, che pme aveva fatto carriera alla corte del re persiano (era coppiere di Artaserse I, 465423), e il fervore collettivo che egli riesce a infondere negli abitanti della città santa, coinvolti in questa grande impresa. Nc2,15-17:
«15 Al!ora risalii di notte la valle, sen1pre osservando !e niura; poi, rientrato per la porta della Valle, tornai a casa. 16 f niagistrati non sapevano né dove io fossi andato né che cosa facessi. Fino a quel n1on1ento non avevo detto nulla né ai Giudei, né ai sacerdoti, né ai notabili, né ai n1agistrati, né ad alcuno di quelli che si occupavano dci lavori. 17 Allora io dissi loro: "Voi vedete la n1iseria nella quale ci trovian10; Gcrusalen1111e è in rovina e le sue porte sono consutnate da! fuoco. Venite, ricostruian10 le n1ura di Gerusalc1nn1e e non sarerno più insultati"».
Di fronte a1Postruzionisn10 e alle niinacce degli avversari occorre anche organizzare una resistenza arn1ata che consentirà la prosecuzione dei lavori. Ne4,7-8.I0-12:
« .. .7io, nelle parti sottostanti a ciascun posto oltre le n1ura, in luoghi scoperti, disposi i! popolo per fan1iglie, con le loro spade, le loro lance, i loro archi. Dopo aver considerato la cosa, nii alzai e dissi ai notabili, ai 111agistrati e a! resto del popolo: "Non li ten1ete! Ricordatevi del Signore grande e tren1endo; con1battetc per i vostri fratelli, per i vostri figli e !e vostre figlie, per le vostre 111ogli e per levostre case!" ... 10 Da quel giorno la 1netà dei n1iei giovani lavorava e l'altra n1età stava arn1ata di lance, di scudi, di archi, di corazze; i capi erano dietro tutta la casa di Giuda. 11 Quelli che costruivano le 1nura e quelli che portavano o caricavano i pesi, con una niano lavoravano e con l'altra tenevano la loro arnia; 12 tutti i costruttori, lavorando, portavano ciascuno la spada cinta ai fianchi. li tron1bettiere stava accanto a ine».
2. Lavoro e riposo nella storia primordiale biblica 2.1. La storia primordiale Nei prin1i undici capitoli della Genesi si cristallizza la rinessione d'Israele sugli aspetti più caratteristici della condizione un1ana, quale si è andata n1aturando nei ten1pi storici rielaborando in parte i racconti niitologici che circolava-
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no nell'ambiente culturale circostante. Si parla perciò a loro riguardo non di storia ina di "storia pri1nordialc 11 (in inglese Prilneval histo1J1; in tedesco Urgeschichte), con più aderenza al carattere pat1icolare di questi testi, di eziologia metastorica, che si apparenta più con la letteratura sapienziale, che non con quel !a storica dell'Antico Testamento. In Gen 1-3 il lavoro è considerato una co1nponente essenziale della condizione un1ana a partire dalla creazione. Jn questi tre cc si trovano giustapposti due distinti racconti della c1·eazione, che presentano una diversa visione dell'attività dell'uomo sulla terra. II secondo racconto, quello Jahvista (~J), che è il piC1 antico, vede nell'uomo il contadino che deve non solo lavorare la terra (2,5. I 5), ma anche custodirla (2, I 5). La disobbedienza provoca la maledizione della terra, che avrebbe dato all'uomo il suo cibo e il suo pane al prezzo di un duro lavoro intriso di dolore e di sudore (3,17.I9). Questa visione cupa e pessimistica della vita si sviluppa in una serie di episodi negativi fra i quali spiccano il diluvio (6,5-8,22: J+P) e, infine, la costruzione della torre di Babele ( 11, I -9). Nel racconto J dopo Adamo incontriamo subito Caino che pratica l'agricoltura ed Abele che è dedito alla pastorizia. Ma già con la prima discendenza di Caino si rileva l'invenzione di altre attività tipiche della civiltà antica (4, I 722): la costruzione della città, il suono della cetra e del fiauto, la lavorazione del rame e del ferro. Sembra che per l'autore J questo sviluppo della civiltà tecnica, che troverà il suo culmine nell'ambizioso progetto della torre di Babele, sia caratterizzato da un concon1itante e progressivo degrado tnorale del1 un1anità (cfr 4,23-24), che prelude per contrasto alla vocazione di Abramo, con il quale soltanto appare nell'orizzonte oscuro finora tracciato l'alba della benedizione di Dio (12,2-3). Nella versione J della storia primordiale si parla, così, molto del lavoro, anche se in una prospettiva alquanto negativa, 111a si ignora co111pleta111ente il sabato. Invece il racconto sacerdotale (=P, da Prieslcrcodcx) della creazione in Gen 1 è in1perniato sulla 111assi1na valorizzazione del sabato) in quanto l'attività creatrice di Dio viene inquadrata nello schen1a convenzionale dei sei giorni, che preludono al suo riposo nei settimo giorno. Si aggiunge in conclusione che Dio «benedisse il settimo giorno e lo consacrò» (2,3). Si noti però che qui non si usa ancora il sostantivo usabato 11 (shabbat), 1na l'espressione più co1nune usettin10 giorno 11 , nientre la radice shabat si usa per ben due volte solo nella forn1a verbale tradotta con "cessare" (vv 2.3). Inoltre, dopo la creazione dell'uomo nel sesto giorno, Dio, con una solenne benedizione) gli ha aftìdato la terra perché in essa si nioltiplichi e la soggioghi do111inando sugli ani1na!i creati prin1a, nel quinto e nel sesto giorno. Così nella visione sacerdotale don1ina una nota di serena annonia che contrasta con la visione più dra111111atica e dolente che pervade il racconto jahvista. Se l'idea del riposo al settimo giorno è collegata dall'autore sacerdotale 1
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con la creazione, si deve notare che con ciò non si ha ancora secondo P la sua vera istituzionalizzazione, che avverrà soltanto nel quadro della rivelazione sinaitica notificata ai figli d1lsraele in concon1itanza con le istruzioni che riguardano l'erezione del santuario e l'organizzazione del culto. Solo ora il sabato diventa legge strettamente vincolante per Israele; e qui il riposo sabbatico viene considerato con1e il 11 seg110 11 che caratterizza l'alleanza eterna che il Signore ha stabilito con il suo popolo. Es 31,12-17: «12 11 Signore disse a Mosè: "Quanto a te, parla agli Israeliti e riferisci loro: In tutto dovrete osservare i n1iei sabati, perché il sabato è un segno tra n1e e voi, per !e vostre generazioni, perché si sappia che io sono il Signore che vi santifica. ~0sservcrete dunque i! sabato, perché lo dovete ritenct·e santo. Chi lo protànerà sarà 1ncsso a n1orte; chiunque in quel giorno farà qualche lavoro, sarà e!in1inato dal suo popolo. 1;Durantc sei giorni si !avori, 111a il settin10 giorno vi sarà riposo assoluto, sacro al Signore. Chiunque farà un lavoro di sabato sarà 111esso a niorte. ir'Gli Israeliti osserveranno il sabato, festeggiando il sabato nelle loro generazioni con1e un'alleanza perenne. 11 Esso è un segno perenne fra tne e gli Israeliti, perché il Signore in sei giorni ha fatto il ciclo e la terra, n1a nel setti1110 ha cessato e si è riposato"». 1
2.2. La doppia versione del decalogo Questa santificazione del sabato con l1astensione dal lavoro è 111eglio specificata nella versione del decalogo che si trova prima nello stesso libro dell'Esodo. Es 20,8-11: «~Ricordati
del giorno di sabato per santificarlo: '1sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; "111a il settin10 giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né !a tua schiava, né il tuo bestia1ne, né i! forestiero che din1ora presso di te. 11 Pcrché in sei giorni i! Signore ha fatto il cielo e la terra e i! 111are e quanto é in essi, 111<1 si è riposato il giorno scttin10. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro». 1
A questo punto ci si può chiedere con1e spiegare l10111issione del sabato nel più antico racconto jahvista della creazione, 1nentre esso è tanto enf-àtizzato nel più recente racconto sacerdotale. Questa divergenza tra i due testi ci consente di gettare uno sguardo sulla storia del sabato. Il periodo storico in cui si redige il documento sacerdotale è quello dell'esilio babilonese (587-538). Sembra allora molto plausibile che il sabato, come scadenza di sette giorni, sia una innovazione recente del tempo dell'esilio, per inllusso del calendario babilonese
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conosciuto nella deportazione. Nei passi in cui si parla del sabato prima dell'esilio (Am 8,5; Os 2, 13; ls I, 13; 2 Re 4,23; 11,5.7.9), sembra che esso sia una ricorrenza n1ensile, che nel calendario lunare allora in uso indicava !a solennità della luna piena, in parallelo con la neon1enia", che celebrava invece la !una nuova (così André Len1aire, Le sabba! a l' époque royale israéUte, in Revue Biblique 80 [1973] 161-185). Questa solennità si doveva celebrare nei diversi santuari locali. li testo del decalogo, nella sua formulazione pili antica doveva limitarsi al precetto iniziale «Ricordati del giorno di sabato», nel senso della ri11
correnza 1nensi!e, che poi sarebbe stato an1pliato e specificato con l'aggiunta sa-
cerdotale dcl riposo dal lavoro ad imitazione di Dio nella creazione. li significato del sabato che così si ricava è che nel riposo l'uomo partecipa alla gioia di Dio per la creazione, quella creazione della quale si è detto piè1 volte che «Dio vide che era cosa buona». li riposo finale di Dio al settimo giorno è come un suo fissarsi nella contemplazione della bontà della creazione totale, già anticipata parzialmente nella conclusione di ognuno dei sei giorni precedenti. Cessando di creare, Dio non interro111pe il suo rapporto con la creazione, ma piuttosto lo intensifica. Così l'uomo nel riposo dopo il lavoro, può godere dell'opera compiuta, scoprendola inserita nel disegno totale della creazione per cui diventa partecipe della creatività di Dio. Perciò il sabato sarà promulgato per l'autore sacerdotale nel contesto delle altre leggi del culto che mirano a santificare Israele: i! sabato istituisce un ten1po sacro accanto al luogo sacro, perché da entra1nbi Israele attinge la benedizione e la santificazione che pron1anano da Dio, che si rende presente con la sua gloria nel santuario (cfr Es 40,34-35). Ma nella più antica formulazione deuteronomica del decalogo (Dt 5, 1315), il con1anda1nento del sabato è niotivato con una considerazione di carattere umanitario, il diritto al riposo per tutti e in particolare per lo schiavo, che Israele deve rispettare a ricordo della propria schiavitù in Egitto. Se nel testo sacerdotale si sottolinea la din1ensione cos1nica e sacrale del riposo sabbatico, nel testo deuteronon1ico si sottolinea la sua funzione un1ana e sociale che vuole ravvivare il senso della dignità e della libertà che i figli d'Israele devono testimoniare con la qualità della vita che si deve instaurare nella terra promessa. Questi due aspetti sono distinti ma complementari, ed entrambi sono fondati nella consapevolezza che sia il mondo come il territorio nazionale sono dono di Dio affidati al! uon10 perché vengano da lui gestiti con i1npegno e responsabilità. Mi piace concludere con una citazione, forse un po arcaica 1na significativa di Aharon David Gordon (1855-1922), che era emigrato dalla Russia in Israele nel 1904 sognando la nascita di una nuova civiltà che si poteva realizzare attraverso il lavoro 111anuale nella terra dei padri. Poi si stabilì a Degania) il primo kibbutz fondato nel 1909 all'estremità sud del lago di Genezareth, avendo modo di elaborare una filosofia mistica del lavoro che ha avuto tanto influsso nelle prime generazioni dei sionisti. Egli scriveva: 1
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«Quel che noi ccrchia1no nella terra d1 lsraele è di fare con le nostre 111ani tutte le cose che costituiscono la vita, di fare con le nostre inani tutti i lavori, dai più
cornplicati, più puliti, più facili, fino ai più rozzi, ripugnanti e difficili, di provare a sentire ed a pensare tutto quel che prova, sente e pensa colui che lavora, di vivere questa vita a 111odo nostro. Quando avre1no raggiunto questo stadio avreino una nostra cultura, perché avremo con1inciato a vivere una nostra vita ... perché la (nostra) terra sia veran1ente redenta, bisogna che essa venga lavorata con le nostre 111ani, bagnata dal nostro sudore, irrorata dal nostro sangue e dalle nostre !a-
crin1e».
Synaxis XVII/l (1999) 33-41 ESEMPLARI DELLA CONDIZIONE OPERAIA NELLA LETTERATURA ITALIANA DELL'OTTOCENTO t PAOLO MARIO S!PALA'
Un'avvertenza preliminare (o una conclusione anticipata) è utile nell'ambito del presente convegno: la rappresentazione della condizione operaia nei testi presentati è lontanissima dalla concezione cristiana del lavoro. Da pa1te padronale si leggerà lo sfruttamento brutale e talvolta cinico del lavoro; dall'altra parte la soggezione operaia a condizioni sub-umane, di sopravvivenza ele1nentare. La letteratura di riferimento non assolve una funzione consolatoria o apologetica o di subli1nazione estetica. Serve coine denuncia e testi111onianza e pertanto gli autori citati: Paolo Valera ( 1850-1926), Enrico Onufrio (1858-1885), Giuseppe Giusti Sinopoli (1866-1923) sono stati relegati ai margini della storia letteraria. Però il verismo della loro rappresentazione si pone come documento storico f01te e crudele, esemplificato nei due poli della società italiana post-unitaria, nella Milano agli esordi dell'industrializzazione e nella Sicilia delle zolfare nella crisi di fine Ottocento. Nella recente Storia del socialismo ilaliano, Ruggero Zangheri registra in nota il no1ne di Paolo Valera appena carne uno degli autori di una vasta letteratura sulla «povera gente» milanese'. Non maggiore fortuna lo scrittore ha avuto nella storia letteraria; Natalino Sapegno, addirittura, lo collocava ai margini o al di fuori di essa2 . Giancarlo Vigorelli, invece, pensa di tirarlo fuori «dalle carte catacombali di una letteratura proletaria e anarchica» sino all'auspicio che nella sua opera sappia trovare radici «quel poco o tanto di letteratura proletaria o populista» che pare ora [1974] annunciarsi 3 • La lunga vita di Paolo Valera ha attraversato varie epoche della storia civile e culturale dell'Italia dal post-risorgimento ai conati autoritari di fine secolo, che egli ha raccontato nelle Terribili giornale del maggio '98 da Giolitti a Mussolini (scrive un libro sul primo nel 1909, sul secondo nel 1924). Resta, dunque, percorribile - specie per quanto riguarda il romanzo La folla, che, edito nel I 90 I, si fa risalire ad una stesura 1883-1884 ' - la via maestra del filone naturalista nella sua 01todossia zoliana.
*Dell'Università degli Studi cli Catania. 1
2 3
4
R. ZANGHERJ, Storia del socialis1no italiano, I, Torino 1993, 135-136. N. SAPEGNO, Co111pendio di Storia de/fa Letteraria Italiana, lfl, Firenze 1989, 235. G. VIGORELLI, I-lei sangue !0111bardo, Samcdan 1974. Cfr P. VALERA, La folla, a cura e con introduzione di E. Ghidetti, Napoli 1973.
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Nel necrologio su Emile Zola egli scrive sulla rivista "La folla" (5 ottobre I 902): «Il re dei naturalisti è morto, viva il naturalismo», firmando la sua adesione entusiastica alla "rivelazione" naturalista per effetto della quale la verità ha distrutto l'idealizzazione della vita e le attificiosità dello stile: «Il ron1anzo non è più un'invenzione. È un lavoro di osservazione. È della esperienza che va nel volu1ne. È un contributo della scienza. È della vita raccolta nel n1i/ieu. li lettore del ron1anzo zoliano si sente in casa propria. Studiando g!i altri 5 studia se stesso e 111odifica gli istinti della bestia u1nana che sono in lui» .
Dunque non solo lo zolis1no o verisn10 o naturalis1110 - tutti sinonin1i per Valera - non sono sconci perché fedeli a un documento umano, che è quello che è; non solo la riproduzione dei vizi non è immorale in sé (che colpa hanno Balzac e Zola, se la natura umana è feroce e lubrica, se nel nostro sangue è il fondo ereditario del gorilla? Si chiede il "follaiuolo", riprendendo 6 la nota immagine naturalista raccolta anche da Federico Dc Roberto) , ma è un errore storico, pensare che la corruzione della società sia da attribuire alla letteratura 11 che raccoglie il 111ateria!e un1ano e sociale con1e Io trova e dove Io trova, non mettendoci di suo che il temperamento dello scrittore": «Non è la letteratura verista che ci deprava. Sono Jlan1bientc e la delinquenza che è in noi che ci bestializzano ... Non credo che la letteratura verista abbia una ten7 denza; n1a se ne ha una è di elevazione» •
li discorso sull'elevazione, insito nella prospettiva verista, non riporta però all'idea/e desanctisiano che era inteso co1nc ideale n1orale, connaturata spinta verso il bene, cioè ad una qualità superiore alla vita reale; n1a può intendersi in senso sociale come persuasione ad una necessità di riscatto collettivo, sentin1cnto di rigenerazione che 11 non pareva ancora gcnnogliato 11 • È una posizione sociologica congeniale ad uno scrittore che, nella rappresentazione del mondo, non lasciava molto spazio alle possibilità individuali sino al punto da definirsi ambientista per contrapporre, ai criteri fisiopatologici dell'antropologia criminale di scuola Iombrosiana, il peso che il 111i!ieu e il 1110111ent storico esercitano sul con1portan1ento un1ano, ancor più delle cellule e della conformazione cranica. Nel romanzo La folla, pubblicato con Io stesso titolo della rivista, l'a111biente è tutto: 111onu1nento fatiscente dell'urbanesi1110 niilanese, enonnc agglomerato in cui 483 famiglie del ceto operaio o del sottoproletariato urbano vivono nel tumulto osceno o patetico delle loro storie. L'autore ne scopre gli interni ed incontra parte degli inquilini 111uovendo dall'occasione 5
6 7
107.
Ora in Antologia della rivista "la folla", Napoli 1973, I 09-11 O. Ctì· l).M. SIPALA, Introduzione a J)e Roberto, Rotna-13ari 1988, passi1n.
P.
VALERA,
la lettera/1//"a verista e le mostruosità
della vita, in Antologia,
cit..
Condizione operaia nella letteratura italiana dell'Ottocento
3S
della presa di possesso del nuovo padrone, Giorgio che lo eredita dal padre Pasquale Introzzi. Ma la rassegna continua per tutto il romanzo, aprendosi alle ali dell'unico asse narrativo in movimento, costituito dalla relazione tra Giorgio e Annunciata e Giuliano Altieri. "L'occhio" del Valera non si limita agli interni del Casone o ai suoi immediati dintorni; tenta altre apetture ambientistiche che rappresentano il prolungamento esterno di alcune storie o la fugace avventura di alcune figure. Si veda la visita all'ospedale, introdotta dalla lunga attesa della folla, impressionata da racconti di operazioni e inalattie, e conclusa con il 1nesto allontanarsi dai letti della povera gente. Oppure il pellegrinaggio alla Madonna del Caravaggio (si ricordi l'interesse di Zola per Lourdes) in cui l'ambientista che studia la moltitudine, che si muove con le proprie malattie e la fede nel miracolo (la guarigione dell'epilettica è il brano più efficace) si scontra con il 11 filosofol!, con il pensatore laico che vorrebbe insorgere contro «un 1 i111postura che dura da secoli» e giunge al riconoscimento che la folla «sporca, ignorante, credente, pusillanime» è ancora al di fuori della storia e del progresso; occorre portarla «nell'orbita della vita evoluzionaria», levandola ed educandola attraverso le scuole pubbliche. Le due descrizioni, seppure in alternativa tra loro, poiché la seconda rappresenta l'ultima speranza degli incurabili per i quali l'ospedale non è più un rin1edio o un rifugio, si 1nuovono se1npre nell'an1bito del Casone e dei suoi 1niserabili abitatori. 11
11
Si tratta di «gente crcditaria1nenie cronica che si tras1netteva, di generazione in generazione, la stessa voluttà di percuotersi e di stracciarsi le carni
coi denti e di rotolarsi sul pavimento abbracciati dalla collera alcoolizzata». Il caso macroscopico è nella vicenda dei Cristaboni, che si conclude nella fel1ercditarietà fruttifica in Giuliano infuso della bontà paterna , trascinato dall'ideologia un1anitaria del padre, presidente di una società di 1nutuo soccorso, ad un'opera di organizzazione sociale. rocia 0111icida del capofa111iglia: 111entre sul versante opposto, 11
11
Giuliano ha le qualità esemplari di Stefano Lantier di Germinai: come lui si eleva con le letture personali, prediligendo d'istinto, sui volumi difficili come quelli del Guerrazzi e sui libri religiosi divenutigli insipidi, i romanzi in cui «le pene dei tribolati della fottuna diventavano le sue pene e lo incitava8 no a dire parole n1aiuscole contro i persecutori» ; un 1nodello di ro1nanzo, cioè, esen1plare di una letteratura proto-sociologica che doveva essere caro
tanto al lettore Giuliano, quanto allo scrittore Paolo Valera. Come il Lantier di Zola, Giuliano è il portavoce di un programma sociale che egli viene accentuando attraverso una fonna di educazione politica
al circolo degli studi sociali ed attraverso un'elaborazione personale. In questo senso, per avere egli un'individualità coerente e chiara, può essere definito un 11 personaggio 11 nel ro111anzo, uno che è e pensa, 111entre tutti gli altri 8 P. VALERA, /,a.folla, cit., 107 e 109.
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potrebbero essere classificati come "aitanti" - secondo la formula di Greimas - cioè per quello che fanno. Le loro storie sono a circuito chiuso, tanto che l'autore può presentarle in concatenazione o successione 1nolecolare, riproducendo uno stereo-
tipo di condizioni sub-umane (disoccupazione, promiscuità, alcolismo, prostituzione, depravazione) sostanzialmente stazionarie. li patetico di alcune situazioni è provocato dalla caduta rispetto a condizioni migliori precedenti ("i decaduti") ovvero dal tentativo, quasi sempre perdente, di risalita. Il racconto delle singole storie può essere decronologizzato o almeno attestato sui cardini di un
1110111e11t
statico.
La storia di Giuliano e di Annunciata, invece, è una storia in 1novi1nento, e per questo i fatti dei due vengono raccontati in alternanza, con interruzioni e riprese che consentono di seguire lo svolgimento parallelo e simultaneo della loro vicenda, sino alla confluenza finale. Il dibattito sulla questione sociale percorre come motivo continuo tutto il ro1nanzo e cerca una risposta di fondo al quesito di estrazione scientista e zoliana: se cioè per l'uo1no e/o per l'u111anità nel suo insien1e è possibile un'evoluzione in senso positivo. Si n1uove dal contrasto tra Martino e Paolino, «il chiavaiuolo che leggeva il "Secolo" (il giornale radicale di Romussi) e che s'ostinava a credere che il progresso di quaranfanni aveva alterato anche
le abitudini del portone del Terraggim>. Per Martino, ostinato negatore del progresso, «ce11a gente 1·i111ane refrattaria a qualsiasi 1nuta1nento sociale». Anche un nligliora1ncnto econo111ico non vale a 1nodificarne le abitudini cli
sudiciume e volgarità. Né le eccezioni e i fatti citati da Paolino (cresce l'uso di fare il bucato: «il bucato costa e, quando la gente lo paga, vuol dire che di progresso ce n'è stato») bastano a fargli cambiare opinione, perché - a suo giudizio - «la vita non deve essere studiata a individui o a gruppi, n1a a 1nolti-
tudini. Perché sono le moltitudini che danno l'assieme, l'idea generale». Ed aggiunge più avanti, «Ì poveri non possono elevarsi, perché la lotta per l'esi-
stenza è più forte di loro». Tra le due concezioni di un progresso ape1io ai singoli, negato alla 111assa, Paolo Valera intende insistere sulla soluzione intern1edia del1 1associazionis1no operaio di stan1po 111azziniano. Una soluzione che, insien1c ai risultati econo111ici, assicura un'elevazione del tono 111oralc e pone il traguardo di una società in cui il lavoro onesto sia il presupposto di una vita onorata. A!
circolo, Giuliano ascolta la predicazione della fratellanza come strumento della forza operaia: «Si, unitevi, unia111oci. Non c'è che questa lega che aiuti i poveri del lavoro a riconquistare un po' del perduto benessere, per vivere onorata111ente
con1e deve vivere la gente che lavora tanto,
e tanto onesta-
mente». Se gli operai devono possedere le "virtù borghesi" dell'onore e dell'onestà (e Giuliano, il materassaio compìto e zelante, le possiede in grado eminente), i "borghesi" da pa1ie loro, devono acquisire e - nella tradizione illun1inata degli Jntrozzi - niostrano di avere acquisito, le
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vi11ù sociali!! cor-
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rispettive, nella scoperta dei valori etici dell'associazione: «I negozianti un1t1 si elevano, perdono la qualità rapace, s'accorgono che il denaro dei compratori ha dei diritti ed innalzano la classe alla rettitudine professionale». Pervengono cosi al ripudio della concezione liberista di una proprietà senza doveri ed esercitano, con sentimento filantropico, i doveri della proprietà, rinunziando allo sfruttamento in favore di condizioni più eque nei rapporti con gli altri. Tuttavia le aporie, en1erse nel dibattito interno a Gerndnal, che può considerarsi il ron1anzo-guida di questo filone letterario, restavano ape1te: quale sarebbe stato il risultato della selezione naturale tra le classi? Avrebbe trionfato veramente il proletariato urbano o industriale sulla borghesia "infrollita"? Un'ipotesi singolare affiora nel romanzo politico di Enrico Onufrio, L'ultimo borghese (1885), un'opera contemporanea al romanzo di Zola con la quale presenta anche un'affinità parziale nella rappresentazione del lavoro in 111iniera. In Ger111i11al la 1niniera di carbone, nell'Ultilno borghese una 111iniera di zolfo in Sicilia; ma in entrambe condizioni di vita estremamente dure, vera1nente inu1nane, rappresentate con crudezza oggettiva. T'ra le fonti della descrizione zoliana sarà stato un testo scientifico sull 1lgiene dei 1ninatori che costituisce una delle poche letture del protagonista; tra le fonti onufriane, ce1tamente, L'Igiene dei zolfa/ai di A. Giordano (Palermo, 1878). L'ipotesi dell'Onufrio è formulata nel discorso che il protagonista Luciano Rambaldi pronuncia alla Camera dei deputati, uscendo da un lungo tor-
pore 1noralc: «"Non tenia il n1io spiritoso interruttore", riprese a dire tra11quilla111ente Luciano "io non farò l1apo!ogia del qua1io stato; è n1io fenno convincin1ento che \'avvenire non appartiene agli operai: essi respirano l'aria viziata e 111alsana delle grandi città; essi non credono in Dio; essi si abbrutiscono coi liquori, bastonano le loro n1ogli e leggono le appendici dei giornali"» 9 . Il discorso sociale, così, 111uovendo da una ragione scientista, è condotto a certe prospettive estranee alla dottrina n1arxista, nia conseguenti ad una interpretazione rigida della teoria darvviniana, oltre che ad una diversa angolazione "territoriale". Nelle pagine dcll'Onufrio, infatti, si potrebbe anche avvertire la diffidenza verso la società industriale del Nord e la polemica del meridione ancorato alle strutture agricole e al mito di una società contadina sana e feconda. Ma la discesa nella n1iniera di zolfo (in occasione di una visita padronale, con1e nel ron1anzo di Valera) è descritta co111e una discesa agli 1nferi: «Discesero ancora per il pendio, e pervennero a una piccola spianata. A sinistra, 9
E. ONUFRJO, L'11!ti1110 borghese (1885), l\llilano 1969, 55-58.
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Paolo Mario Sipala scavata nella roccia, videro una buca larga non più di un 1netro: era !'in1boccatura della n1iniera. A destra fu1nava un calcarone, una specie d'in11nensa caldaia, fatta di pietra, dove cuoceva lo zolfo, che usciva, liquido e giallo, da un pertugio, e, scorrendo nel cavo di una tegola, cadeva in un recipiente cli legno di fonna ret-
tangolare. Due vecchi 1ninatori badavano a quel lavoro: rnan 1nano che ognuno di quei recipienti era colino di zolfo liquefatto, essi ne sostituivano un altro; e così via. [ ... ] Tutt'intorno, su quella 1nontagna desolata, rideva, tiepido e dolce, il sole di gennaio. Davanti, spicgavasi l'i1111nensa distesa del 111are, in1111oto, !in1pido, azzurro, e vi si andava per un ripido sentiero attraverso le rocce. Tn fondo, ne!Porizzonte lin1pidissin10, biancheggiava una vela. Ester conte1nplava con aria pensosa questa 1nalinconica sc111plicità di paesaggio. Ella si sentiva opprin1ere da un senso arcano di tristezza. Quella solitudine, quella desolazione, le cagion<1vano co1nc uno sgo111ento. A un tratto ella fu scossa eia un suono prolungato di ge111iti e di grida. Si volse e vide, fuori la buca della n1iniera) uno dietro all'altro, tre fanciulli ignudi, che trotterellavano, portando sulle spalle dei grossi niacigni di 1nincrale grezzo. lnsien1e a Luciano e a!1 1an1111inistratore, essa si avviò a quella volta. I tre fanciulli andavano sen1prc più innanzi, a passi frettolosi n1a barcollando: !e loro grarne personcine si piegavano, a guisa di canne, sotto il peso dei n1acigni; i lor petti ansavano, e un copioso sudore colava loro per le tc1npie, per le costole, per le anche. Ciascuno di essi teneva legata alla fronte una piccola lucerna di creta: quella luce serviva a guidarli nel buio tetro dei corridoi e delle gallerie, dentro la cava. E continuavano a piangere, a lan1entarsi con lunghi ge1niti che straziavano il cuore; le lacri111e scorrevano loro copiosa111ente dagli occhi, e 111escevansi al sudore delle guance. Poi, giunti in un silo della spianata dov'era a1n1nonticchiata una gran quantità di zolfo grezzo, essi scaricarono in 1-ì'etta i! !oro peso, e allora, i1n111ediata1nente) co1ninciarono a saltare, a ridere, n1andando grida di gioia. Indi voltarono indietro, avviandosi lentan1ente verso la n1iniera. "Ecco 1\ diceva l1ain1ninistratore l!son fatti così questi carusi. Appen<1 alleggeriti del peso, passano subito dalle !acrin1e al riso". • IO 11 E la con1111edia un1ana 11 osservò trista111ente Luciano»
E dopo l'i1npatto sconvolgente con la penosa condizione dei 11 carusi 11 , ecco la visione dell'interno della miniera di zolfo, ancora in contrasto con la solarità del paesaggio siciliano: «I loro occhi erano ancor pieni della luce del sole e dei riflessi del 1narc. Essi trovaronsi tosto nella tenebra fitta, non distinguendo nulla, ca1n111inando tentoni. Poi) a poco a poco, si abituarono a quel buio. TI viottolo, dov 1essi procedevano, era così angusto, che una persona appena poteva passarvi di fronte: bassissin1a la vòlla; uinide e nere le rozze pareti. Tutto quel sotterraneo scavato nella viva roccia si allungava a perdita d'occhio, confondendosi poi nella tenebra. TI terreno era irregolarissi1no, e scendeva se1npre in erto declivio. Ester era coIO
fbid.• 166-168.
Condizione operaia nella /el/eratura italiana de/l'Ottocenlo
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stretta a non lasciare la n1ano dell'a1n1ninìstralore, che procedeva franca111entc, pratico cotn'era del luogo. Ma tanto essa che Luciano a ogni passo trovavano un ostacolo, di cui la loro guida li avvertiva: ora una pozza, ora una gobba di terreno, ora dei n1ucchi di pietre. Spesso dovevano scendere due o tre scaglioni, per i quali s'internavano se1npre più nelle viscere profonde della n1ontagna. Il pendio, talvolta ripidissin10, del sentiero faceva loro accelerare il passo; sicché pareva che in quella oscurità s1inseguissero dci paurosi fantas1ni. li co1Tidoio 1nan n1ano diventava più irregolare: volgeva a destra, volgeva a sinistra, attorcigliandosi con1c un budello. Di tanto in tanto, a !unga distanza, dentro una piccola nicchia, scavata in una parete, ardeva una lan1pada di creta: la scarsa luce del lucignolo spandevasi intorno fìocainente, rendendo più orrido i! tenebrore del sotterraneo. Man 111ano che i tre visitatori procedevano oltre, l'aria diventava più rarefatta. Essi respiravano un 1at111osfera pesante, viziata, 111alsana, gravida delle esalazioni del 1ninerale. Co1ninciarono a sentir caldo, poi a sudare. Luciano s 1era già tolta la spo!verina, s'era sbottonato l'abito, s'era sciolto il nodo della cravatta, e tergevasi col fazzoletto i! sudore, che gli scorreva copiosan1ente per la fronte. [ ... ] In quella tetra galleria, dove I1oscurità era rotta a balze dalle fioche la1npade, in 1nezzo a quell'aria soffocante, nella profondità niisteriosa della terra, quegli uo111ini ignudi, neri, sporchi, orribili, che n1ordevano col tèrro la rocci8, avidi di saccheggiarla, disegnavansi vagan1ente nell'o1nbra con1c figure n1ichela11giolesche, plas1nale da!l'artista in un 1non1ento di passione infernale. Fuori sorrideva il sole: fuori n1on11orava il niare: essi ri1nanevan là, lottando. Quelle gallerie a\largavansi sotto i loro colpi; quella 1nontagna andava versando i suoi tesori; ed essi procedevano oltre, ignudi e arn1ati, dando del capo sulla roccia persistente, con una voglia tùriosa di sventrare, di sventrare sen1pre, di essiccare quelle viscere, di fare il vuoto, di esaurire la terra. Non parevano uon1ini, ina dannati)> 11 • «Tutta cupole, lucida nel cielo 12 fu1na di zolfo la città pietrosa» •
La memoria lirica di Giuseppe Villaroel conserva in un fotogramma dcl
suof/ash-back l'immagine di una Catania, centro delle raffinerie di zolfo, e fa dimenticare le fatiche e gli orrori dell'estrazione. L'ombra dell'industria zolfifera si stendeva però, con le sue crisi di produzione e i suoi conflitti sociali, anche sul teatro siciliano. Una commedia in tre atti, La zolfara ( 1895) di Giuseppe Giusti Sinopoli, per la contiguità storica con il movimento dei Fasci dei lavoratori e per Pesperienza autobiografica dell'autore (un tnaestro ele1ncntare che n1uovendosi tra Agira e Nissoria, sulla strada degli zolfatari, viveva e raccoglieva la loro testimonianza) ne offre lo stereotipo. Anzitutto per la scenografia della Il
12
fbid, 171.
Cì.
VILLAROEL,
Il fOndo a111aro, ora in La bellezza intravista.
1914-/956. a cura di G. Spagnolctti e L. Curci, Firenze 1959, 144.
Antologia poetica
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Paolo Mario Sipala
bettola, dove si realizzano le trame e gli scontri tra i personaggi e dove risalta pesantemente il meccanismo del truck-system, dello strozzinaggio sulle forniture alimentari e del credito ad usura, il «soccorsa>> (si pensi allo zio Crocifisso del Malavoglia). Nel testo di Giusti Sinopoli la prima condizione è colta nel momento più drammatico per il fatto che «da fuori regno si richiede poco zolfo; perciò succede il ribasso: il resto si capisce» D E il resto è la diminuzione del cottimo e la cattiva manutenzione degli impianti per cui la vita dei minatori diviene ancora più stentata e rischiosa, come risalta dall'ambiguo dialogo tra l'ingegnere Amilcare che ispeziona la miniera e il proprietario don Lorenzo che anticipa l'età dei compromessi e delle tangenti: «L 1ingegnere
D. Lorenzo Ainilcare D. Lorenzo
[... ] Occorrono urgenlissi1ne riparazioni. Per ese1npio, qui, in questo -punto bisogna innalzare, e presto, una robusta colonna. Sarebbe una spesaccia enorn1e. È indispensabile, egregio cavaliere [ .. ]. Si', ella ha ragione, ne convengo anch 1io; n1a è ben altro il guaio [... ] Con1e si fa? [... J I lucri cessano, i danni en1ergono [... ] Da!Paltro lato questi cani di picconieri, 111ontati dai sovversivi, con1inciano ad avanzar pretese assurde e addirittura
esiziali [.. .]. A1nilcare
D. Lorenzo
A1nilcare D. Lorenzo Ainilcare
D. Lorenzo
Eppur ci vogliono, cavalier 1nio! [... ] Sono spese di prin1a necessità, e, se non si ripara a ten1po, ci sarà da attendersi, da un n1on1ento all'altro, qualche disastro [... ]. Oh, non ci pensit E no, egregio cavalier! [ ... ] Si tratta della vita di tanti ni1sen lavoratori. Ci sono assuefatti a questa vita, sa [... ]. Ma non assuefatti a 1norir d'accidenti! [ .. ] Senta, caro signore, io rilevo che la sua 1niniera trovasi in uno stato deplorevolissimo. (con ù1tenzione) Ingegnere, lei è un uon10 di dottrina e d 1esperienza [... ] e sa co1ne vanno le cose del 111ondo [... ] Con
ciò (... ] capirà [... ] me ne guarderei bene [ ... ] Per tutti i cortesi riguardi [... ] saprei diinostrarle [ ... ] la inia viva gratitu-
An1ilcare
dine [... ] I tempi sono iniqui. (che capisce l'ant(fona, 1noslrandosi più arrendevole) Vedre1no, cavaliere, Vedren10! [... ] Non vorrò certan1entc rovinarla[ ... ] Procurerò di far le cose con coscienza, non dubi-
ti»
I ·I.
1.1 G. G!USTI SJNOPOLJ, La zolfara, ora in Teatro verista sicilia110, a cura di A. Barbina, Bologna 1970, 342. 14 lbid., 334.
Condizione operaia nella lellera/ura italiana dell'Ollocento
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Nella didascalia, ancora il lavoro e la dra1n111atica condizione dei carusi:
«E alquanti ragazzi chi in 1nutande rivoltate fin sopra le ginocchia, chi con le sole 1nutande e senza can1icia entrano ed escono conlinuan1ente, trasportando fuori il 1ninerale con sacchi e corbelli. I ragazzi portano in capo, a 1110' di berrettino, un fazzoletto al quale assicurano, per n1ezzo di un uncino di fil di ferro una lucerna d'argilla, di cui si servono per rischiarare !e buie e pericolose gallerie da percorrere. Gennaro e Filippo accudiscono all'estrazione dello zolfo per inezzo di picconi: Giaco111ino è intento a spezzare con un palo di ferro i pezzi di n1inerale 15 troppo grossi» •
La ricezione della conflittualità di classe è, però, controversa nella letteratura della zolfara. L'eventualità di un'azione organizzata da parte di agitatori «sovversivi» è prospettata per sollecitare raccordo tra il padrone e l'ingegnere-ispettore minerario, accordo subito dopo rinsaldato dalla corruzioneconcussionc. A chi protesta per il lavoro dei fanciulli (che era stato, tra l'altro, oggetto di un'appendice a/l'inchiesta di Sidney Sonnino, 1876) si fornisce la puntuale replica del capomastro: «Signor ingegnere, per l'ani1na di n1ia 1nadrc, io non ho colpa. I genitori dei piccoli fanciulli voglion così. Io dico loro: i vostri figli sono piccoli, non posso farli lavorare dentro !a cava, perché la legge non !o pennette; devono avere, al-
tneno, dodici anni con1piuti; io non voglio buscarn1i una inulta per voialtri. Ed essi rispondono: se son piccoli, pazienza. Noi non possian10 sostentarli. Se la
legge ha tanta pietà dei nostri piccini, li sfan1i la legge» 16 .
La dura, pole111ica conclusione del personaggio di Giusti Sinopoli ritorce l'accusa di sfruttamento del lavoro minorile contro lo Stato improvvido e assente, né la coscienza di classe, nella condizione storica realistica1nente rappresentata dagli autori citati, è così lucida e forte da imporre una efficace legislazione sociale. Il sole dell'avvenire non sorge ancora né sul casone 1nilanese, né sulle zolfare siciliane.
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16
Jbid., 332. lbid., 336.
Synaxis XVII/I (1999) 43-54
LA CULTURA DEL LAVORO NELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA SERGIO BERNAL RESTREPO S.J
Pre111essa Non è un compito facile parlare della cultura. Basta percorrere sia pure brevemente la letteratura sociologica per farsi un'idea della complessità del concetto stesso. Più strano ancora potrebbe sembrare ad alcuni parlare di cultura nel contesto della chiesa cattolica. La difficoltà, tuttavia, proviene da una errata concezione della dottrina sociale della Chiesa. La cultura, infatti, costituisce un riferimento quasi obbligato nell'attuale discorso sociale cattolico, particolarmente negli ultimi decenni. Cercherò di presentare quegli elementi che possono servire alla co1nprensione cristiana del lavoro e della sua incidenza sui rapporti sociali.
Il concetto cli cultura Sarà utile, dopo una tale pre111essa, avere un concetto di cultura intorno al quale ci sia consentito di elaborare questa presentazione. Tanto più che, secondo il pensiero cattolico attuale, «[l]\101no è con1preso in 1nodo più esauriente, se viene inquadrato nella stèra della cultura attraverso il linguaggio, la storia e le posizioni che egli assu1ne davanti agli eventi fondan1entali dell'esistenza, carne il nascere, Pan1arc, il lavorare,
il 111orire» 1.
Intendo per cultura, assai genericainente, ii n1odo secondo cui un gruppo di persone vive, pensa, sente, organizza se stesso, celebra e condivide la propria vita. Jn ogni cultura vi è un sistema sottostante di valori, di significati e d'interpretazione della realtà che si esprime visibilmente nel linguaggio, nei gesti, nei siinboli e nei riti. Il gruppo assu1ne la cultura con1e espressione della sua realtà u1nana. Possian10 pensare alla cultura come al punto d 1incontro fi·a l1individuo e la società. Va sottolineato infatti il ruolo determinante che la cultura svolge nella
•-Della Pontificia Universilù Gregoriana, Roina. Centesùnus Annus, n 24.
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Sergio BernaI Reslrepo S..J.
formazione del la personalità dei singoli, particolarmente nell'interpretazione della propria realtà e, di conseguenza, nel modo del tutto particolare di reagire dinanzi ad essa, alla sue esigenze, a seconda dei valori ricevuti nel processo di socializzazione, cioè di apprendimento della propria cultura. Sarà dunque la cultura a determinare il tipo di rapporto fra ogni persona ed il suo ambiente. TI concetto di cultura è riferito, necessariamente, al rapporto di un gruppo u1nano con il suo a1nbiente e più concretan1ente, con la natura dalla quale esso deve ricavare la propria sussistenza. Dato che il primo e più elementare rapporto con la natura è la coltivazione, d 1onde il tern1ine stesso, "cultura 11, questa è da intendersi come l'atto di stabilire un rapporto vitale con l'ambiente finalizzato alla sopravvivenza della collettività. Ed è qui, addirittura, che si palesa l'intimo nesso fra i due concetti oggetto di questo intervento: cultura e lavoro. li lavoro diventa così la mediazione di un rappo1io vitale. Il Iavoro 1 dunque, è una realtà inerente a! gruppo u111ano sin dalle sue origini. Mediante il lavoro il gruppo uinano riesce a trasfonnare l'an1biente, creando il proprio "habitat". Pensare al gruppo u111ano, perciò, i1nplica pensare al lavoro.
La traclizione cristiana Non è possibile parlare di una tradizione lineare. li cristianesimo ha dovuto subire influssi diversi provocati dai contesti nei quali si è sviluppato, con1e pure l'assi1nilazione acritica di ele1nenti caratteristici dell 1identità culturale dci diversi popoli che nell'arco della storia si sono sommati al numero dei battezzati. Uno degli elementi più problematici è, precisamente, quella concezione dicotomica che vorrebbe definire la realtà a partire dai principi del bene e del male. Forse dovendo rispondere ad una certa tendenza quasi spontanea della psicologia, una tale concezione è riuscita ad affondare le sue radici nel pensiero cristiano ed il suo totale sradicamento è tuttora difficile. A soffrire parte del torto è stato, precisamente, il modo di concepire il lavoro, che è stato visto per tanti secoli come frutto del peccato originale, non accorgendosi del fatto che una tale concezione rispondeva ad una errata lettura della stessa rivelazione cristiana. Solo per dare un esempio, già nel IV secolo, come sappiamo dalle parole di s. Giovanni Crisosto1no, il lavoro era ritenuto da 1nolti cotne cosa indegna. Nell'omelia su Priscilla ed Aquila' dice Crisostomo che tutti i mali nella vita di molti sono dovuti al làtto di ritenere in massimo onore non fare alcun lavoro. L 1aposto!o Paolo, invece, si vantava, anche davanti ai potenti, del proprio n1e-
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At 18,13.
La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa
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stiere. Noi, prosegue Crisosto1no, ci vergogna1no di ciò che per Paolo era n1oti3 vo di orgoglio . Ma, venendo più concretamente al discorso sociale della Chiesa, ai cosiddetti documenti "sociali" a partire dal magistero di Leone XIII, troviamo che già nella Rerum novarum il lavoro occupava un posto di rilievo il che è perfettamente comprensibile, trattandosi di una Enciclica sulla situazione dei lavoratori, consegnati alla cliszonanUà dei padroni e alla sfrenala cupicligia ciel/a concorrenza./. 11 lavoro, nell 1Enciclica, è considerato con1e 1nezzo dato al1 1operaio per acquisire clei beni in ]Jl'O}Jl'ietà ]Jersonale [... ]per ]Jrocurarsi ;/necessario al suo sostentan1ento 5. Dicia1110 che in questo senso, il lavoro un1ano viene visto con1e la mediazione necessaria fra la società delle persone, ed il proprio ambiente fisico, secondo quanto abbiamo definito in apertura riguardo al rapporto culturalavoro. Tuttavia resta il grave problema che, ai tempi di Leone Xlii, l'ambiente era costituito dalle fabbriche e dalle miniere (tale era il riferimento della riflessione pontificia), proprietà esclusiva dei padroni e che il rapporto era caratterizzato da palese ingiustizia. Era assai evidente l'intenzione del Papa di rendere consapevoli i lavoratori dell'errore nascosto dietro la proposta socialista dell'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. In questo contesto, che va tenuto presente per una corretta lettura dell'Enciclica, si capisce anche la visione forse troppo pragn1atica, troppo econotnica e strun1entale del lavoro inteso come il mezzo per accedere alla stessa proprietà. Ciò non significa, tuttavia, che siano stati ignorati altri elen1enti inerenti a! lavoro, i quali verranno sviluppati successivamente. Questa visione la quale, fra l'altro, era fedele al la tradizione scolastica resterà nei documenti successivi fino al magistero di Pio Xli i 1 quale, già nel Messaggio natalizio del I 942, presentava il lavoro come il mezzo i11di.1pe11sabile al 6 don1h1io del 111ondo, voluto eia Dio JJer la sua gloria • Perciò ogni lavoro possie-
de una clignilà inalienabile, e in JJari ten1po un intin10 legan1e col JJe1feziona111e11/o della persone/. Quest'idea doveva essere sviluppata ulteriormente quando lo stesso papa invitava l'uon10 a considerare il suo lavoro con1e un vero stru111ento della JJrOJJria santificazione, perché lavorando perfeziona in sé l'in11nagine di Dio, aden1pie il dovere e i[ diritto di procurare a sé a ai suoi il necessario sostentan1ento e si rende ele1nento utile alla società 8 . La di1nensione econo111ica 3
Cfr S. GIOVANNI CRISOSTOMO, On1e/in I, M.G. 51,193. Ren1111 1\lovan1111, n 2. 5 lbid, n 4. 6 Pio XII, 1\fessaggio natalizio, n 23 4
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/bici.
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lo., Radio1nessaggio di Natale 1955, in Discorsi e radio111essaggi di S.S. Pio,\'!/, XVII
(1956) 444.
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Sergio Berna! ReslreJJD ,_)..!
delPattività lavorativa viene così integrata con la vocazione un1ana di per1~zio namento dell'immagine in noi del Creatore e di servizio alla società. Coerentemente con la dinamica della rivelazione, il discorso sociale della Chiesa si snoda in un processo di graduale chiarimento in cui, anziché introdurre nuovi concetti, quelli fonda1nentali vengono resi pili precisi, puntualizzando alcuni elementi in qualche modo già presenti nei documenti precedenti. Tuttavia va notato il passaggio da una i1npostazione e1ninente111ente norn1ativa, risultato della Jondazione sul diritto naturale visto troppo staticamente, alla considerazione dell 1uo1no in situazioni storiche concrete, fino al1 1assunzione delle caratteristiche di una vera e propria proposta antropologica. Così, ad esen1pio, Giovanni XXIII nella ~Mater et magistra rende più evidente nel lavoro umano il suo carattere di espress;one ciel/a JJersona un1ana'J. Lasciando trasparire la sua espe-
rienza contadina, il Papa introduce una visione del lavoro agricolo che coincide per tanti versi con la nozione di cultura alla quale ci siamo riferiti in apertura, ovviamente arricchita dalla fede, scoprendo nella fatica del contadino la stupenda nobiltà de! lavoro, sia ]Jerché lo si vive nel te1npio n1aestoso e/ella creazione, sia JJerché lo si svolge spesso sulla vita e/elle ]Jianle e e/egli anilnali; vNa ù1esauribile nelle sue es]Jressioni, h?flessibile nelle :::ue leggi, ricca cli richian1i a Dio Creatore e Provviclo, sia ]Jerché ]Jrocluce la varietà clegli alin1e11ti cli cui si nutre la .fan1iglia un1a11a e .fòrnisce un 11un1ero setnpre n1aggiore cli 1naterie jJl'i111e all'industria10.
Sarà il Concilio, a realizzare una stupenda sintesi di quanto anteccdente111ente elaborato, nella costituzione Gaudh1n1 et S1Jes, che però non può essere vista con1e una sen1plice con1pilazionc letterale bensì con1e una nuova creazione dcl concetto di lavoro nella prospettiva della rivelazione cristiana arricchita dall'incontro-dialogo fra la Chiesa ed il mondo. Il capitolo Ili della detta costituzione è dedicato alla do111anda sul senso e sul valore dell'attività u111ana, ter111inc utilizzato per descrivere il lavoro. È interessante vedere in qual modo venga ripreso l'appena citato passo della Mater et magistra, rendendo molto più espliciti i suoi e!e111enti: Col suo lavoro e col suo ingegno l'uon10 ha cercato se1n1Jre di sviluppare la ]JJ'O]Jf'ia vita,· oggi, JJOi, SJJecia/Jnente col/!aiulo e/ella scienza e ciel/a tecnica, ha dilatato e continuan1ente dilata il suo c/01ninio su tutta intera quasi la natura e, col/1aiulo SO]Jrattutto llegli accresciuti n1ezzi di n1olte ./Orn1e di scan1bio tra le nazioni, la .fG111iglia unzana ]Joco a JJOCO è venuta a riconoscersi e a costituirsi con1e una co1nunità unitaria nel n1onclo in/ero. Ne deriva che 1110/ti beni, che un tenJJJO l'uon10 si as;Jeftava dalle jòrze superiori, oggi orinai se li ]Jrocura con fa sua iniziativa e con le sue.forzeJJ.
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GIOVANNI XXIII, Alater et 1\IaRistra, n 21. fbid., Il 152. Ga11di11111 et Spes, n 33a.
IO 11
La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa
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Resta chiaro quanto già affermato prima, specialmente da Pio Xli, c1oe che l'uomo, mediante il suo lavoro, prolunga l'opera del Creatore. Sin dai primi documenti sociali appare la vocazione del creato allo sviluppo e, di conseguenza, quella dell'uomo e della donna ad impegnarsi, mediante il loro sforzo creativo, il loro lavoro: sviluppo inteso come continua crescita, perfezionamento del creato, per renderlo sempre più adeguato all'umana convivenza. È questo un concetto di grande centralità nel pensiero cristiano che, purtroppo, non è stato se111prc dovutan1ente accettato e, tanto n1eno, n1esso in pratica il che spiega, almeno in parte, il degrado dell'ambiente ecologico anche nei paesi a tradizione cattolica. L\101110 e la donna, nella tradizione cristiana, sono parte del creato, convivono con il n1ondo 111ateriale, (non soltanto sono in esso), hanno il co111pito sacro di sviluppare col proprio ambiente un rapporto di dominio il quale, a sua volta, manifesterebbe lo stesso dominio del Creatore. Troppo facilmente però il significato profondo del dominio è andato sbiadendosi e si è dimenticato che chi pretende di do1ninare il n1ondo circostante, deve, innanzitutto, essere clon1inus sui. Così, questo falso concetto di dominio ha favorito lo sfruttamento incontrollato ed egoistico delle risorse, senza alcun riferimento all'ordinamento voluto dal Creatore. Una parte non trascurabile ha avuto in questo dissesto il concetto liberal-capitalista di proprietà privata, con1e pure una errata concezione dell'autonomia delle realtà terrene. Nel testo conciliare trovian10 un bel riassunto della vocazione un1ana e del rapporto dell'umanità col creato: «Per i credenti una cosa è certa: Pattivilà un1ana individuale e collettiva, ossia quell 1ingente sforzo col quale gli uo1nini nel corso dei secoli cercano di tnig!iorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde alle intenzioni di Dio. L'uon10, infatti, creato ad i1nn1agine di Dio, ha ricevuto il coniando di solton1ettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il niondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riportare a Dio se stesso e !111niverso intero, riconoscendo in Lui il Creatore di tutte le cose; in 1nodo che, nella subordinazione di tutta la realtà all uon10 sia glorificato il non1e di Dio su tutta la terra» 12 • 1
Gli uomini e le donne che lavorano devono considerare che con il loro sforzo prolungano l'opera del Creatore"- li progresso umano dunque, non è contrapposto alla potenza di Dio, anzi è una nianifestazione evidente del suo originale disegno sull'umanità e sul mondo. «Da ciò si vede con1e il 1nessaggio cristiano, !ungi da! distogliere gli uon1ini dal 12 )3
!hid, n 34a. lbid, b.
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Sergio Berna! Restrepo S.J. con1pito di edificare il n1ondo, lungi dall'incitarli a disinteressarsi del bene dei propri sin1ili, li in1pegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più stringente>>
14
.
li rapporto del lavoratore con il mondo possiede una dignità superiore. Come abbiamo visto, il lavoro è il mezzo per creare un tale rapporto. Tuttavia, con la presentazione conciliare viene superato qualsiasi possibile riduzionisn10 del lavoro a mero strumento. Infatti, il lavoro procede immediatamente dalla
persona la quale imprime nella natura quasi il suo sigillo e la sottomel/e alla sua volontà 15 . La dignità del lavoro è stata resa ancora più degna al massimo grado, quando il Cristo ha lavorato con le proprie mani. Anzi, quando l'uomo offre a Dio il suo impegno lavorativo, egli si associa all'opera redentrice di Cristo. Paolo VI ha offerto il suo contributo alla chiarificazione del concetto cristiano del lavoro spiegando in che senso dobbiamo capire il lavoro come mezzo: «Dio, che ha dotato l'uo1110 d'intelligenza, d'ilnn1aginazione e di sensibilità, gli ha
in tal n1odo fornito il 1nczzo onde portare in certo 111odo a con1pin1ento la sua opera: sia egli artista o artigiano, in1prenditore, operaio o contadino, ogni lavoratore è un creatore. Chino su una n1ateria che gli resiste, l'operaio le in1pri111e i! suo segno, sviluppando nel conte1npo la sua tenacia, la sua ingegnosità e il suo spirito inventivo. Diren10 di più: vissuto in con1une, condividendo speranze, sofferenze, an1bizioni e gioie, il lavoro unisce [e volontà, ravvicina gli spiriti e fonde i cuori; nel con1pierlo, gli uo111ini si scoprono fratelli» 16 .
Ecco una meravigliosa espressione del lavoro come fonte di solidarietà fra tutti i lavoratori, anzi fra tutti gli uomini.
Il magistero di Giovanni Paolo Il Dobbiamo riconoscere a Giovanni Paolo Il il merito di aver fatto progre-
dire in tnodo straordinario il pensiero cristiano sul lavoro. Anche se, con1e lui stesso ha ripetuto, la Rerun1 novarun1 fu una Enciclica sul lavoro, è stato Giovanni Paolo Il il primo papa a dedicare una Enciclica esclusivamente al tema del
lavoro, con11ne1norando in questo 111odo il novantesi1110 anniversario della Rerzon novarun1. li magistero sociale di papa Wojtyla si potrebbe descrivere come una stupenda catechesi sulla Gaudium et Spes nella cui stesura ebbe un ruoto impor14 15
16
!bici., c. lbid., n 67b. PAOLO Vl, 27.
La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa
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tante. La continuità con il pensiero dei suoi predecessori è evidente se ricordia1no quanto già detto, cioè, che il documento conciliare costituisce un riassunto del pensiero di Giovanni XXfll, il quale, a sua volta, aveva riassunto il magistero amplissimo di papa Pacelli. La sua Enciclica sul lavoro, la Laboren1 exercens, è un docuinento sorprendente. Innanzitutto il lettore viene colpito dal fatto che, praticamente, tutta l'attività umana viene considerata lavoro. Anzi, l'uomo e la donna vengono definiti dal lavoro, dalla loro attività, passando così dal concetto dell'ens rationale a quello dell'ens laborans. Direi che con questa apertura molti problemi già presenti nei docun1enti precedenti trovano una soluzione, soprattutto una certa a111biguità dovuta in pat1e al contesto in cui furono scritti, fot1emente dominato dalla concezione liberale dell'individuo e della società. Con grande indipendenza e grande libertà di spirito, il papa ci offre il suo pensiero assai originale. Giovanni Paolo II, nel suo 1nagistcro, po1ia alle sue ultin1e conseguenze l in1postazione conciliare, ulterior111ente sviluppata da Paolo VI, e cioè il partire, nella riflessione sul lavoro, dalla persona, dal soggetto che lavora, anziché dalla finalità dell'attività umana. In altre parole, si tratta di un magistero fortemente antropologico. È in esso che possiamo trovare gli elementi più ricchi per capire il nesso profondo fra lavoro e cultura. L'uomo sta al centro della preoccupazione della Chiesa; \ uon10 storico, concreto) ogni uo1110, ogni donna, in tutta la sua irripetibile realtà de/l'essere e dell'agire, dell'intelletto e della volontà, della coscienza e llel cuore 17. Quest uo1no è chian1ato a superare un rapporto con a111biente naturale, finalizzato esclusiva111ente ad un ì1n1nediato uso e consun10. Invece, era volontà llel C'reatore che l'uon10 con1unicasse con la natura con1e "pallrone" e "custode" intel/;gente e nobile, e non conze ".yfi·u!lalore" e "ciistrut/ore" senza alcun riguardo 18 . Lo sviluppo non viene visto soltanto come il disegno di Dio sulla creazione. Orientare tutto lo sviluppo ed il progresso diventa un elen1ento essenziale della missione della Chiesa. Si tratta, evidentemente, dello sviluppo delle persone e non soltanto della moltiplicazione delle cose. Alla Chiesa, infatti, preoccupa il risultato del rapporto dell'uomo lavoratore con la natura. Preoccupa cioè la cultura risultante da questo rappo1io, le strutture econoiniche, politiche e sociali. li lavoro deve essere un mezzo per la liberazione integrale di chi lavora e della intera società. In un mondo dominato dai valori materiali questo rapporto diventa piuttosto schiavizzante. Sottoponendo l'uomo alle tensioni da lui stesso create, clilaJJiclando ad un rNn10 accelerato le risorse n1ateriali ed energetiche, con11Jron1eltenllo l1an1bienle geofisico, queste strutture ,fùnno estendere inces1
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Rede111ptor J-/01ninis, n 14,b. !bid., Il 15,b.
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Sergio Berna! Restrepo S.J.
santen1ente le zone cli n1iseria e, con questa, la angoscia, la ji·ustrazione e l'aIY 1narezza .
Il problema centrale va individuato nel mancato riferimento dell'attività umana ai principi etici, gli unici in grado di metterla a servizio del vero sviluppo e de!l intera u111anità. Se lo sviluppo non è universale e solida!ei clivenla una categoria superiore che suborclina /lh1sie111e della esistenza zunana alle sue esigenze parziali, soffòca l'uomo, dL'ìgrega le società e .finisce per avvUtljJJJarsi 20 nelle ]Jl"O]Jrie tensioni e negli stessi suoi eccessi . Per una coscienza etica OJJprofondita si clelinea quanto segue: inclustria, ]Jroduzione e progresso eco11on1ico sono certa1nente innanzitutto il JJrodotto ciel lavoro e dell'intelligenza un1ana. Ma nessun uon10 da solo può attuare tali rea/;zzazioni. Egli deve r{farsi a quanto g!; è stato llato, utilizzare le leggi della naturo che regnano nella creazione. ~'li serve llella n?ateria che gli viene r~fferta. Non co111i11cia elunque in uno spazio vuoto, in nessun 111odo ]Jlasn1a il suo lavoro dal nulla lna utilizza quanto ' .' 21 e gza stato creato . I valori fanno parte essenziale di ogni cultura. Essi servono ad orientare le scelte individuali e collettive, a dare un senso allo stesso agire. Ora, la persona concreta vive nel mondo dei valori materiali c in quello dei valori spirituali, di fatto, inseparabili. Tuttavia il prin1ato SJJCtta ai valori SJJirituali, JJer riguarclo alla natura stessa di questi valori con1e anche per n1otivi che riguardano il bene dell'uomo. Il primato dei valori dello spirito definisce il significato proprio ed il lnodo di servirsi dei beni terreni e 111ateriali, e si trova per questo s!esso ,fatto alla base llella giusta pace. Tale prilnato dei valori SJJirituali, d'altra JJarte in.fluisce nel ,far sì che lo sv;/UJJJJO 111ateriale, tecnico e di civi/;zzazione serva a ciò che costituisce l'uon10, cioè che renda possibile il ]Jieno accesso alla verità, allo sviluppo morale, alla totale possibilità di godere i beni della cultura di cui sia22 1110 erelli, e a 1110/tiJJlicare tali beni a n1ezzo e/ella nostra creatività . La prospettiva antropologica che trova il suo fondamento nella eminente dignità di ogni persona, con il necessario riferin1ento etico porta al doveroso rispetto dei diritti dell'uomo, principio che tocca profimdamente il settore della giustizia sociale e lhvenla n1e!ro jJer la sua ./Ondan1entale veri.fica nella vi/a e/e23 gli Ol)?;anisn1i ]Jo!itici . L ingiustizia in cainpo econon1ico costituisce una 111inaccia contro i diritti un1ani. Conclusione logica del fatto che i beni 111ateria!i sono il fi·utto dell'attività u111ana è che il lavoro u111ano deve essere organizzato in 111odo tale da assicurare al! uon10 non soltanto la ,rsiusta clistribuzione dei beni 1
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lbid., n 16.c. lbid., n 16,e.
GIOVANNI PAOLO JJ, f)iscorso per il 90° della Ren11111\lovan1111, in !11segna111e111i di vanni Paolo li, I ( 1981) l l 97. 22 ID., Discorso a!/'ONll, ibid., 2 (1979) 532. 23 Rede111ptor Ho111i11is, n 17,e.
Gio-
La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa
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111ateriali indispensabili, n1a anche una partecipazione corrispondente alla sua dignità, all'intero processo di produzione e alla stessa vita sociale che, intorno a questo processo, si viene.forn1ando 24 . Alla base di tutta la riflessione di Giovanni Paolo Il sta il fatto rivelato. li Dio della rivelazione presenta se stesso come lavoratore, creatore del cielo e della terra. Quando poi decide di creare l'uomo e la donna, li plasma a sua immagine e somiglianza affidando loro la cura di quel giardino amorosamente preparato proprio per loro come luogo delizioso in cui vivere in piena armonia con tutta !a natura. L 1in1111agine, bellissin1a, del riposo del Creatore sta a indicare, fra l'altro, l'affidamento che egli fa all'uomo e alla donna della sua opera at~ finché essi, tran1ite il loro lavoro, portino avanti l'opera iniziata da! Creatore stesso. In questo modo, sin dalle prime pagine della rivelazione uomo e donna vengono presentati co1ne lavoratori, creati dal Dio lavoratore, per realizzarsi nel lavoro. Ben diversa è questa visione da quell'altra che, putiroppo si è sviluppata nell'arco del tempo, la quale vide nel lavoro un castigo per il peccato dei progenitori. In realtà, frutto del peccato non è il lavoro, bensì il mutato rapporto dcll'uo1110 e della donna con il loro a1nbiente naturale. Tutto ciò ci viene trasn1esso mediante un linguaggio metaforico nel quale però si nasconde la profonda verità rivelata. Mentre nell'assetto originale ogni erba che produce seme e che è sulla terra e O<f511i alhero in cui è il.fi·utto, che produce sen1e fornivano il cibo necessario25, dopo il regno del peccato, in una specie di nuova creazione dopo il diluvio, Dio decise di can1biare radicahnente il prin10 rapporto: quanto si nnrove e ha vUa vi servirà di cibo: vi do tutto questo, cotne già le verdi erbe 26 . Ma il primitivo dominio pacifico sugli altri esseri diventa un dominio di timore e terrore: Il tilnore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto ;/ besticnne e h1 tutti gli uccelli ciel cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i ]Jesci del n1are so27 no 111essi in vostro potere . Malgrado il cambiato rapporto, il disegno divino originario di affidare il mondo all'uomo e alla donna, resta immutato. Umanità e ambiente ecologico costituiscono un insieme interattivo, le cui componenti sono interdipendenti. li lavoro, anziché una 1nera qualità essenziale per questo con1pito, sarà l1espressione del rapporto dell'uomo e della donna con il loro mondo. Di pili, essi si esprimono come immagine di Dio mediante il proprio lavoro. [... ]da una parte, Dio consegna il 111011do all'uo1110, alla sua iniziativa e res1;onsahilità, ]Jerché lo tra.~forn1i e lo 111igliori sen1;Jre ]Jiù, JJOnendolo al ]Jl'O]Jrio servizio; dall'altra, l 1uon10, così operando, dev'essere consapevole e/ella proJJria nobiltà di collabo-
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GIOVANNI PAOLO li,
Gen 1,29. 26 lbid., 9,3. 27 lbid., 1,2.
Discorso per il 90°della Rerum Novar11111, cit., !4.
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Sel'gio Berna/ Rest!'epo S.J.
ratore alle ù1tenzioni stesse di Dio 28. La 1nateria viene nobilitata dal lavoro un1ano, 1nentre la persona che lavora risulta anch'essa arricchita dalla sua azione.
La dignità del lavoro
Il lavoro possiede una speciale dignità che proviene dal fatto che chi lo co1npie è una persona i111n1agine di Dio, cioè un essere soggettivo capace di agire in tnodo progra1n1nato e razionale, capace di decidere di sé e tendente a realizzare se stesso. Come persona, l'uomo è quindi soggetto del lavoro"- Da questa premessa deriva che il primo fondamento del valore del lavoro è l'uomo stesso e che in ultima analisi, lo scopo del lavoro, di qualunque lavoro eseguito dall'uomo [... ] è l'uomo stesso·10 . Mediante il lavoro il soggetto umano esprime !a sua identità di creatore e "ri-creatore)' del 111ondo di cui fa parte. Anzi) 111cdiante il lavoro l'uomo e la donna esprimono se stessi. In questo modo si esprime e si realizza la fondamentale vocazione al dominio della terra. Visto sotto questa luce, [il] lavoro è un bene dell'uomo - è un bene della sua umanità - perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, 111a anche realizza se stesso co111e uo1110 ed anzi) in un certo sen31 so, "diventa più uon10" • In altre parole, il lavoro è necessario per Puon10 e la 1
donna; senza il lavoro essi non possono realizzare la propria u111anità. Ecco per-
ché il lavoro è un diritto fondamentale della persona.
Lavoro e soliclarietà li papa non si è limitato a lodare i movimenti di solidarietà so11i nel secolo scorso per rivendicare i diritti dei lavoratori, prova questa della grande Iibertà di Giovanni Paolo li, visto che questi movimenti ebbero la loro origine nel socialismo. Anzi, il papa rivendica la necessità di una tale solidarietà qualora i diritti del lavoro e dei lavoratori non vengano rispettati. Ma essi vanno oltre e fondano questa solidarietà. li mondo è il risultato dell'azione creatrice di Dio. Uo1no e donna hanno ricevuto il co1npito di continuare l'opera creatrice, nia applicando la loro operosità, il proprio ingegno, ad una n1ateria preesistente ad essi. Inoltre è evidente che un con1pito così enorn1e non può che essere realizzato collettiva1nente. Il niondo è visto co1ne un banco di lavoro, la cui pri111a origine va rintracciata nella stessa azione divina, 111a il cui stato presente porta in sè i 28
Discorso per il 90° della Ren1111 Novar11111, cit., 1192. Labore111 Exercens, n 6,8. 30 lbid., 6,c. 31 !bici., 9,a. 29
GIOVANNI PAOLO Il,
La cultura del lavoro nella do/Irina sociale della Chiesa
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frutti del lavoro di tutte le generazioni anteriori a chi oggi lavora, il quale deve tener conto, nel compiere il proprio lavoro, di rendere un contributo alle future generazioni. Per ciò, [o]ggi ]Jfù che n1ai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è un.fare qualcosa ]Jer qualcuno 32 . Nel vissuto quotidiano non possiamo quindi ignorare questa specie di presenza degli altri, storicamente e in prospettiva di futuro. Ne risulta un significato necessario, anzi, un i111pegno solidale che conferisce un senso rinnovato alla nostra attività. Qualsiasi concezione di tipo individualista è assolutamente contraria a questa visione. In questo modo la solidarietà fondata sul lavoro va molto oltre la semplice formazione di collettività di lavoratori e incide sull'intera con1pagine sociale.
Conclusione
Nelle riflessioni precedenti possia1110 trovare gli e!e111enti per caratterizzare una cultura del lavoro con1e e\e1nento fondante di una con1pagine sociale, forse ideale, 1na doverosa per la convivenza pacifica e fraterna. Si tratta di una cultura al cui centro devono trovarsi i valori appartenenti ad una retta concezione del lavoro umano. Certo, una tale visione richiede il ripensamento dell'intera struttura sociale don1inante, fondata sull'individualisn10 e sul 1naterialis1110 eco1101nicistico in cui, ignorata la sua vera entità, il lavoro u111a110 entra, cotne 1nerce, a far parte semplicemente dei fattori della produzione. Nella prospettiva cristiana, invece, la società ideale è tutta incentrata sulla persona umana, uomo e donna, i quali sono il fondamento, il soggetto ed il fine di tutte le istituzioni sociali. La persona cioè, vista co111e lavoratore, co1ne nuovo creatore del proprio atnbiente, fisico, sociale, politico, econon1ico. L'intera società, di conseguenza, è orientata al servizio delle persone che espritnono la propria identità mediante la loro attività. Questa attività, vista come lavoro, occupa un posto centrale nell'insieine dei valori, dunque va sti1nolata, rispettata, protetta. Il bene con1Lu1e, sotto questa prospettiva, viene inteso con1e l1 insie1ne delle condizioni che consentono a tutti di esprimersi mediante il proprio impegno di costruttori della realtà. Si tratta, evidenten1ente, di una visione radicahnente opposta rispetto al tipo di società derivante dalla cultura economicistica, materialista, di stampo neoliberale. Una cultura del lavoro che riterrà la disoccupazione come forse la n1assi1na ingiuria inferta alla persona u1nana, in quanto essa viene così privata della propria espressione di sé. Un lavoro realizzato a fine egoistico apparirà con1e una chiara contraddizione, co1ne !a negazione della necessaria solidarietà 32
Ce11tesù1111s A1111us, n
31.
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Sergio Berna/ Restrepo S.J.
che deve caratterizzare !1attività u111ana. Attenzione, però. Da questa concezione deriva pure che una società finalizzata esclusivan1ente al lavoro visto soltanto con1e stru111ento di guadagno, è una società inun1ana. Il necessario ten1po libero deve far parte della stessa attività umana. Quando l'uomo e la donna fanno una sosta nel loro impegno lavorativo, esprimono il dominio di sé, la libertà dinanzi al guadagno visto come massimo valore e, nel contempo recuperano le proprie forze per rispondere più adeguatamente, più responsabilmente, alla loro vocazione di collaboratori di Dio nell'opera della creazione. Una società fondata sul lavoro sarà una società solidale in cui sarà impensabile qualsiasi tipo di conflitto derivante dall'attività umana. Certo, non possiamo dimenticare la tremenda realtà del peccato che rende la realizzazione piena di questo ideale un'utopia, ma che, nel contempo ci spinge ad impegnarci a lottare per la realizzazione di quella parte del Regno possibile storicamente, 1nentre così preparia1110 l1avvento definitivo di quella creazione nuova, libera da! peccato e dalla m01ie. Questa visione cristiana acquista una 111aggiore rilevanza se si pensa alla cultura e111ergente e dominante, frutto della visione neoliberale. Se111pre di più il mondo si divide fra ricchi e poveri, fra forti e deboli, fra paesi alta111ente evoluti tecnologican1ente e paesi quasi sottoposti a processi involutivi. Il 111ondo, 111ai co111e oggi, ha avuto le risorse per risolvere i grandi proble111i dell'u111anità, e, tuttavia, manca la volontà politica, dominata dall'egoismo proprio della nuova ideologia. Una revisione, in base ai criteri proposti, dei modelli dominanti, potrebbe contribuire positivainentc all 1ideazione di nuovi siste1ni caratterizzati dalla solidarietà e dalla responsabilità, a porre insomma, le fonda111enta per una pace solida e durevole. 1
Synaxis XVII/! (1999) 55-70
MORALE E LAVORO NELLO SCETTICISMO DI G. RENSJ GIUSEPPE PEZZ!NO'
Per quel che riguarda l'idea di lavoro, possiamo innanzi tutto affermare che la coscienza moderna ha generalmente considerato sotto una luce positiva ogni attività umana, sia dal punto di vista teoretico sia da quello pratico. Nella modernità, infatti, siamo sicuramente lontani da quel dualismo che attraversava l'antico inondo greco-romano, dove la società conosceva e
riconosceva uo1nini schiavi accanto o di contro a uo1nini liberi, e, per conseguenza, un lavoro vile e servile accanto o di contro ad un'attività conte1nplativa e libera'. Indubbiamente tale dualismo, rappresentato in modo esemplare dalla distinzione ciceroniana fra otiion e negothan (nec-otizon), non setnpre si
traduceva in una netta contrapposizione fra valore e disvalore, oppure fì·a valore in sé e valore strumentale. In altri termini, non sempre l'otium si identificava con il positivo né il negotiu1n se1npre e necessaria1nente con il negativo. Quando ad esen1pio Cicerone, all'inizio del De oratore, sosteneva che i più felici erano stati quelli che «in negotio sine periculo ve! in otio cum 2 dignitate esse possent» , non solo includeva l'azione politica nel termine negotium, ma addirittura sottolineava che entrambe le attività potevano essere caratterizzate positiva niente o negativa1nente, secondo che I' otil/111 fos-
se o no c11111 clignitate ed il negotizon si svolgesse o no sine periculo. D'altronde, anche per il concetto di lavoro occorre non trascurare che fra il mondo classico e quello moderno si colloca, in maniera articolata e feconda, la tradizione cristiana. Quest'ultitna, infatti, attribuisce al lavoro non solo e non tanto il carattere espiatorio di matrice biblica', quanto piuttosto quello della necessità e della catarsi 4 . Insomma, se è vero che dopo il peccato
' Dell'Università degli Studi di Catania. 1 Su ciò cfr J\R!STOTELE, Politica, VII/9, 1328 b 40ss. ~ CICERONE, De oratore, I, I, I. ~ Dopo il peccato originale e la conseguente condanna divina, il lavoro si caratterizza come pena, con1e 111alcdizione: «Quia audisti vocen1 uxoris tuae et co1neclisti dc llgno ex quo praeceperan1 ti bi ne coinederes, 111aledicta terra in opere tuo; in laboribus con1eclcs cmn cunclis cliebus vitae tuae, spinas et tribu!os gcrn1inabit tibi et con1edcs herbas tcrrac; in sudore vultus lui vesceris pane, donec revertaris in terram, de qua sun1ptus es, quia pulvis es et in pulvercn1 reverteris>i (Liber Genesis, 3, 17-19). 4 Il lavoro è necessario, af1ìnché venga potenziata l'opera di Dio, la quale è stata consegnata in custodia all'uo1no: 1<Tu!it ergo Don1inus Dcus hon1inen1 et posuit eun1 in paradiso voluptatis ut opcrarctur et custocliret illurn>> (ibid., 2, 15).
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Giuseppe Pezzino
di Adamo il lavoro p01ta con sé la pena; è anche vero, però, che esso esprime prioritariamente la sua dignità come mezzo di purificazione. Si consideri, inoltre, che la rivalutazione cristiana del lavoro trova in Paolo una valenza di ordine etico-religioso, come rigoroso dovere che il cristiano avverte nei confronti di una co111unità, anche in forza dell'esen1pio fornito dal Figlio di Dio e dai suoi apostoli: «Vi raccon1andia1110 poi, o tì·atelli, in no111e di nostro Signore Gesll Cristo, di tenervi lontani da qualunque fratello che viva oziosa1nente e non secondo le istruzioni che avete ricevute da noi. Voi ben sapete in qual 111odo dovete iinitare noi, perché noi non sia1no vissuti fra voi oziosan1cnte, né abbiaino 1nangiato gratis il pane di nessuno, 1na, con fatica e con stenti, abbia1no lavorato notte e gior-
no, per non essere a carico di nessuno di voi. E ciò, non perché non ne avessin10 il diritto, 1na per darvi, in noi stessi, un 1nodello da iinitare. Difatti, proprio 1nentre eravan10 fra voi, noi vi abbian10 dato quest'ordine: chi 11011 vuol lavorare, 5 11011 1nangi» •
Riabilitazione cristiana, dunque, 111a senza che questa possa con1portare una Weltanschauung in cui il lavoro sia irrazionalistican1ente o 1naterialisticamente innalzato a scopo della vita. Inteso cristianamente come strumento di penitenza, di carità e di merito morale, il lavoro non deve tuttavia perdere i suoi connotati strumentali ed il suo ruolo subordinato ai valori spirituali e religiosi. Si può dire, pertanto, che il lavoro è per la vita, ma la vita e la persona non sono per il lavoro. Si comprende meglio a questo punto il particolare distacco del mondo moderno rispetto a questa concezione del lavoro. Sempre pili libero da vincoli trascendenti e sempre più inebriato del valore autonomo dell'uomo, il pensiero 111oderno non può non conferire un valore in sé al lavoro un1ano. E così, dalla tradizione umanistico-rinascimentale a quella illuministica, dalle grandi sistemazioni filosofiche ottocentesche alle riflessioni di molti pensatori del Novecento, possia1no cogliere una lunga linea che, con accenti diversi e con diversi intenti, ha un con1une deno1ninatore nel riconosci111ento dell'intrinseca ed intangibile dignità del lavoro. A tal riguardo, è interessante riflettere sull'axiologia hobbesiana che, volendo indicare i valori della pace, della società e della sicurezza, in antitesi al disvalore della guerra nella condizione naturale, non può non esaltare il valore del lavoro umano: «Perciò tutto ciò che è conseguente al te1npo di guerra in cui ogni uon10 è 11en1ico ad ogni uon10, è anche conseguente al ten1po in cui gli uornini vivono senz'altra sicurezza di quella che la propria forza e la propria inventiva potrà fornire loro. In tale condizione non c'è posto per !'industria, perché il frutto di css'1 è incerto, e per conseguenza non v'è cultura della terra, né navigazione, né uso 5
2 Ts 3, 6-10.
~Morale
e lavoro nello scetticismo di G. Rensi
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dei prodotti che si possono in1porlare per n1are, né con1odi edifici, né 111acchine per n1uoverc e trasportare cose che richiedono 1nolta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del ten1po, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v'è continuo tin1ore e pericolo di n1orte violenta, e la vita 6 dell'uon10 è solitaria, 1nisera, sgradevole, brutale e breve» .
Beninteso, nessuno intende trascurare che nel XIX secolo, con l'esplosione del capitalismo e delle questioni sociali, con le indagini sociologiche, politiche ed econon1iche, con la denuncia di un lavoro alienante ed alienato, troviamo pensatori come Karl Marx, Auguste Comtc e Giuseppe Mazzini, i tjuali teorizzano, ciascuno con diversi intenti, una nuova società dcl lavoro. Ma in questa sede ci sembra più utile guardare alla prima metà del Novecento, per cogliere l'affermazione della dignità del lavoro entro un orizzonte che non esclude la dimensione della pena. Negli anni venti di questo secolo, il problema della positività del lavoro viene collegato da John De\vey alla "natura" u111ana e alle condizioni so-
ciali: «Il lavoro nella teoria econo1nica significa qualcosa di penoso, qualcosa di così
pcsante111ente spiacevole o "costoso" che ogni individuo se può la evita [ ... ]. Perciò la questione che dobbian10 considerare è quale sia la condizione sociale che rende privo di interesse e faticoso un lavoro produttivo[ ... ]. È "naturale" per l'attività essere piacevole. Essa tende ad aver co1npin1ento e quando trova uno sbocco è essa stessa soddisfacente, in quanto segna una parziale realizzazione. Se l'attività produttiva è divenuta così intrinsecan1entc insoddisfacente[ ... ] questo fatto prova an1pian1ente che le condizioni in cui un lavoro viene svolto ostacolano il co111p!esso delle attività invece di pro111uoverle, irritano e frustrano !e ten7 denze naturali invece di farle procedere verso il pieno appagainentO)) •
Nel 1943, mentre il mondo era messo a ferro e fuoco e pochi osavano contare sui valori della pace e del lavoro, Giovanni Gentile esaltava il nuovo
u1nanesi1no, l1u1nanesin10 del lavoro: «Al! 1u111anesin10 della cultura, che fu pure una tappa gloriosa della liberazione dell'uon10, succede oggi o succederà do1nani l'u1nanesiino dcl lavoro. Perché la creazione della grande industria e l'avanzata del lavoratore nella scena della grande storia, ha 1nodificato profondan1ente il concetto nioderno della cultura. Che era cultura dell'intelligenza soprattutto artistica e letteraria, e trascurava quella vasta zona dell 1un1anità, che non s 1affacciaal più libero orizzonte dell'alta cu!tura 1na lavora alle fonda1nenta della cultura u1nana, là dove l'uon10 è a contatto della natura, e lavora.[ ... ] Bisognava perciò che quella cultura dell uon10, che è propria dell'un1anesilno letterario e filosofico, si slargasse per abbracciare ogni fonna 1
6 T. 1-!0BBES, Leviatano, trad. a cura di G. Micheli, Xlii, Firenze 1976, 120. 7
J. DEWEY, 1\lat11ra e condotta del! fircnze 1968, 131-132.
1
1101110.
trac!. a cura dì G. Preti e A. Visa!berghi,
58
Giuseppe Pezzino di attività onde l'uon10 lavorando crea la sua un1anità. [ ... ] Bisognava che pensatori, scienziati e artisti si abbracciassero coi lavoratori in questa coscienza della u1nana universale dignità. Nessun dubbio che i 1noti sociali e i paralleli n1oti socialistici del secolo XIX abbiano creato questo nuovo u1nanesin10 la cui instaurazione con1e attualità e concretezza politica è l'opera e i! co1npito del nostro secolo. In cui lo Stato non può essere lo Stato del cittadino co1ne quello della Rivoluzione francese; n1a dev'essere, ed è, quello del lavoratore) quale esso è>/.
Senza dubbio, da questo coro si distaccano alcune voci che negano il valore del lavoro o che, come Max Scheler, criticano l'uomo moderno per i I suo pericoloso fanatismo verso il lavoro e verso il guadagno. Fra queste voci del dissenso troviamo, nella prima metà del nostro secolo, quella di Giuseppe Rensi. All'indomani della prima guerra mondiale, Rensi è fra coloro che, scossi e provati dalla tragica esperienza bellica, abbandonano le iniziali posizioni idealistiche ed approdano allo scetticismo e al relativismo. Purtroppo, la dura e nefasta lezione della guerra si può così riassumere: non esistono la Ragione, la Giustizia, la Verità; esistono, invece, tante ragioni, tante giustizie,
tante verità, finché un vincitore non in1pone ten1poranea111ente la sua ragione, la sua giustizia, la sua verità. «Nel!'i1nn1ane crogiuolo di questa guerra - affern1a Rensi nel 1917 - non si fondono solo corone e fors 1anco siste1ni sociali, n1a altresì si volatilizzano le teorie che sono solo conteste di parole decorosatnente equilibrate e di apparenza solenne[ ... ] E il pri1no sistc1na che va in frantu111i sulla acuta si/ex praecisis undique saxis di questa guerra è il borioso e tronfio siste1na della ragione assoluta universale, e, nella sua pretesa universalità e assolutezza, contenente !a realtà totale e pronunciante l'indefettibile vero» 9 .
Sembra trascorso un in Italia, e invece neanche 110 e la crociana Filosofia fiduciosamente Croce, nel
secolo dalla trionfale affermazione dell'idealismo un decennio s'interpone fra lo scetticis1110 rcnsiadello spirito. Ecco, ad esempio, quel che sostiene 1908, sull'infinità e sull'eternità della filosofia:
«L'infinità della filosofia, il suo continuo cangiare, non è un fare e disfare, 111a un continuo superarsi: la nuova proposizione filosofica è possibile solan1ente niercé l'antica, e l'antica vive eterna nella nuova che !a segue e in quella nuova che !a seguirà ancora e che renderà antica l'altra nuova. Ciò basta a rassicurare gli anin1i, facili a s111arrirsi e a piangere sulla vanità delle cose. Dove ogni cosa è vana, niente è vano; la pienezza è costituita appunto da quel perpetuo vanificarsi, che è
1946,
8 G. GENTILE. Genesi e struttura della società. Saggio di j/!osofia pratica, Firenze 111-112. 9 G. RENSI, La guerra, in Bi~vchnis, luglio 1917; poi in !Jnea111enti di fìloso.fia scet-
tica, Bologna 1921, 33-34.
Nforale e lavoro nello scetticismo di G. Rensi
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il nascere perpetuo della realtà, il divenire eterno. Nessuno rinunzia ad amare, perché \'a1nore passa; e nessuno cessa dal pensare) perché il suo pensiero cederà i! luogo ad altri pensieri. [ ... ]Nessun altro significato fuori di questo si può trovare nella celebrata eternità della filosofia, nella sua superiorità al te111po e allo spazio. L'eternità di ogni proposizione filosofica è da affer111arecontro coloro che considerano tutte le proposizioni co1ne prive di valore e fuggevoli senza traccia [ ... ] perché le proposizioni filosofiche, sebbene storicainenlc condizionate, non sono effetti detern1inistica1nente prodotti di tali condizioni, sibbene creazioni del pensiero, che si continua in esse e per esse» JO.
E, distinguendo il ruolo pos1t1vo della scepsi dagli effetti paralizzanti dello scetticismo, nelle stesse pagine della Logica Croce sembra rintuzzare gli argon1enti rensiani: «Alla scepsi totale non si giunge se non attraverso il dualisn10, il quale( ... ] è errore logico generale.[ ... ] Ma la scepsi, che sgo1nbra il terreno da tutte le farnie dell'affern1azionelogica erronea, è negazione dell'errore, negatività della negatività, e la negatività della negatività è affern1azione; sicché la scepsi vera, con1e ogni vera negazione, chiude se1npre nella verbale fonna negativa un contenuto positivo, che si può svolgere co1ne tale anche verba!Jnente. E solo quando questo contenuto positivo, invece di essere svolto, è soffocato in gern1e, solo quando, invece della negazione che è affern1azione,si dà una 1nera negazione, una negazione astratta che distrugge senza costruire, e si pretende di farla passare per verità, solo in questo caso si ottiene l'ulteriore forn1a di errore, che si chian1a, non 11 più scepsi, 1na scetticisino» .
La guerra, con1unque, è la grandiosa e terribile prova del rclstivisn10 scettico, per cui, nel cozzo di mille ragioni e di mille verità, trionfa la verità e la ragione di coloro che vincono 111a non convincono; di coloro che prevalgono sugli altri con srgon1enti extra-razionali, coi fatti, con la forza: «Che cos 1è infatti la guerra? - si chiede Rensi -. È l'inevitabile prodotto e la necessaria espressione sanguinosa dell\nio di due opposti pronunciati della ragione. [... ] Le ragioni che sono infallibil111ente certe fino al sangue ed alla 111ortc delle proprie opposte intuizioni, sono pili. La ragione non è dunque una. Essa non ci dà l'obbiettivo. Non esiste uno spirito assoluto; 1na una niiriade di spiriti diversi ugualn1cnte assoluti [... ]. È, adunque, questo fi·mnn1entarsi della ragione in tanti nuclei inco1npatibi!i che spinge !e cose un1anc in un hnpasse da cui !a ragione potrebbe trarle solo se fosse una, n1a da cui, tale essa non essendo, può toglierle fuori solo alcunché che non è la ragione, cioè la forza bruta e cieca, la 12 guerra»
10
B. CROCE, Loi;;ica conie scienza del concetto puro, Bari 1971. 189. fbicf.. 265-266. 12 G. RENsl, La guerra, cit., 71-72.
II
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Giuseppe Pezzino
L 1esperienza bellica ha infranto Pottin1istico sogno di una ragione universale; ha drammaticamente svelato la conflittualità e la molteplicità dei valori e la "plurivcrsalità" della ragione: «Bisogna andar oltre e riconoscere che esistono più spiriti e non già uno assoluto. Bisogna piegarsi ad ain1nettere che l1univcrsalità dello spirito è un idoht1n theatri, una di quelle 'verità' della scuola, che si ripetono 111eccanican1ente. [... ] Il ciclopico 1nonolite, sotto il cui aspetto ci veniva dai dogn1aticì de!!'asso!utisn10 rappresentato lo spirito, apparisce essere invece un turbine di asteroidi, un
pulviscolo di inondi infinitesin1ali. [... ] E coine il Jan1es opponeva all'universo dei razionalisti il suo radical!nente e1npiristico pluriverso, così noi dobbia1110 [... ]sostituire all'universalità della ragione quella sua pluriversalità di cui i conflitti e le guerre saran sen1prc l'insopprin1ibile prodotto e il testin1onio ineccepibile» n.
Siamo pertanto di fronte ad un "filosofo del dopoguerra", per usare la definizione che Adriano Tilgher utilizzerà nel 1937, indicando se stesso, Giuseppe Rensi, Ernesto Buonaiuti ed altri, come pensatori che nella prima guerra 111ondiale avevano trovato l'evento decisivo per un radicale e definitivo distacco dall'ottimismo idealistico 1'1• E tuttavia occorre ricordare la precisazione di Garin: «In realtà Tilgher con1e Rensì erano figli, e degeneri figli, di quelle dottrine che criticavano, di quell'idealisn10 e storicistno contro cui scagliavano invettive e libelli. [... ] Scopetio che il pensiero critico aveva din1ostralo la u1nanità, e quindi la relatività dei valori, piangevano sugli ancoraggi perduti. Incapaci di affrontare la vita coi 1nezzi dell'uo1110, di costruire con la ragione una din1ora provvisoria n1a ragionevole» 15 •
In ogni caso, occorre sottolineare che questo "filosofo delle cause perdute", con1e lo stesso Rensi a1nava definirsi, scontò con l'isola111ento e l'oblio la sua libertà di pensiero scettico e antidogmatico. Un oblio che ha sempre soffocato qualunque filosofia "negativa" e scomoda, e che, nel 1986, faceva dire ad uno Sciascia indignato: «Posso contare sulle dita di una 1nano, tra quelle che conosco, le persone che sanno qualcosa di Rensi. E che paese è inai questo, in cui un'opera vastissin1a, ricca, lievitante, pienan1ente rispondente all'inquietudine e al dolore dell'oggi
lbid, 83. Sul rapporto Rensi~Tilgher, efr U. SILVA, Una partitura a tre voci: Rensi. Tilgher, Pirandello, in L'inquieto esistere, Atti de! convegno su G. Rcnsi nel cinquantenario della inorte (!941-1991), Genova 1993, 164-177. Su un parallclisn10 fra Rcnsi e Buonaiuti, cfr D. ROLANDO, /Jue eterodossie a conji·onto: Rensi e Buonaiuti, ibid, 152-163. 15 E. GARIN. Cronache di jìlosofìa italiana. Bari 1975, 394. l.ì
l.J
Morale e lavoro nello scetticismo di G. Rensi
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può essere del tutto din1enticata, in cui può essere din1enticato un uo1no che ha
dato un così alto, difficile e raro esen1pio di libe1ià?» li'.
Ma torniamo al Rensi, che afferma la necessità di svelare le illusioni razionalistiche, di denunciarle e respingerle, per prendere coscienza della sostanziale impossibilità di fornire soluzioni razionali ai concreti problemi che assillano gli uomini. Il lavoro costituisce appunto uno dei mille problemi non suscettibili di una soluzione razionale, perché la ragione, posta sul terreno eternamente traballante del relativismo, resta prigioniera delle sue stesse antilogie, senza che essa abbia la capacità di decidere a favore di uno dei tanti ragionan1enti contrapposti. «i! proble111a dcl lavoro, con1e tutti quelli che n1aggionnente interessano l'u1nanilà, è, così dal punto di vista 1norale, con1e dal punto di vista econo111ico-
sociale, insolubile; ossia, per quanto naturaln1ente vi si possa dare e vi si dia in realtà sen1pre una ~ua!unque soluzione di fatto, esso non è suscettibile d'una soluzione razionale>> i .
Se una soluzione razionale è una soluzione universalinente "giusta", allora è facile concludere che l'impotenza della ragione comporta l'impossibilità di una giusta soluzione della questione ciel lavoro. Senza dubbio, esistono tante soluzioni parziali e paitigiane del problema, ma il giusto e l'ingiusto sono sempre da considerare sul piano del relativismo. Sicché la medesima soluzione verrà considerata "giusta" (relativamente giusta) dalla parte vincente, che l'ha in1posta con la forza, ed "ingiusta" (relativa1nente ingiusta) dalla paite soccombente che temporaneamente deve subire. La ragione, dunque, non può 1nai decidere per l'una o per l'altra posizione. Questa è la realtà, nella prospettiva scettica; il resto è retorica della ragione, del diritto, della giustizia: «Ogni soluzione è, dunque, "giusta" soltanto rispetto ad una delle esigenze, "ingiusta" rispetto alle altre; e non può che essere così per la flagrante inco111patibilità delle esigenze stesse. [ ... ]Non v'è nen1n1eno in questo can1po, possibilità di "giustizia'', di "ragione". E tutto si riduce al predo111inare in un senso o nell'altro, del fatto e della forza, che n1on1entanea111ente, nel prin10 istante della vittoriosa sisten1azione, avendo ridotto al silenzio le esigenze contrarie, appare 18 con1e if diritto, fa giustizia, fa ragione» .
Ma cerchian10, piuttosto, di definire il concetto rensiano di lavoro, confrontandolo con quello di gioco. Evidente111ente, tale confronto non è ir, L. SCIASCIA, Giuseppe
Rensi jilost?fo
dùnenticato,
in c:a,.riere della Sera.
5/2/1986.
17
G. RENSI,
Catania I 933, I 09. 18 !bid., 11 O.
Critica del lavoro, in /, 'a111ore e il lavoro nella concezione sce!fica,
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Giuseppe Pezzino
affatto casuale: difatti, cosi operando, Rensi affronta il rapporto lavorogioco in riferin1ento all'antica contrapposizione fra lavoro penoso e lavoro gioioso. Sicché per gioco bisogna intendere un'attività libera e spontanea, che comporta piacere ed interesse, e che soprattutto costituisce un fine in sé. Per lavoro, invece, si deve intendere un'attività necessitata che, in quanto tale, si effettua sforzatamente per un compenso economico, e che rappresenta un !l1ezzo per raggiungere un fine. Beninteso, secondo Rensi il concetto di gioco è tanto vasto da includere non solo il vero e proprio gioco dei bambini, ma, stando alla precedente definizione, anche lo sport, l'a111orc, l'a1te, la scienza, la filosofia ("chiacchiere da salotto") e il giornalismo ("chiacchiere da caffè"). Indubbiamente, non è la fatica che distingue il lavoro dal gioco. In certi casi, infatti, quest'ulti1110 richiede 1nolto più sforzo fisico del lavoro, con1e nel caso di una gara sportiva, in cui i partecipanti affrontano fatiche, superano ostacoli e spandono sudore, senza alcun con1penso eco110111ico, libera111ente e piacevolinente: «ln generale, adunque, va affcnnatoche il lcivoro proprian1ente detto è cilcunché di eseguito contro la voglia spontanea, l'i1npulso istintivo, l'inclinazione che !e nostre tendenze, se lasciate a sé ed obbedite, ci in1prin1erebbero; e eseguito invece 1nedianlc coazione e sforzo esercitati contro tale voglia spontanea, contro questo in1pu!so istintivo, contro la china che la nostra tendenza da sé prenderebbe. È dunque, coine vuole la Bibbia, castigo. Ciò che, invece, è fatto seguendo la china delle nostre tendenze, in conforn1ità alla nostra inclinazione, per i! piacere soltanto di soddisfar questa 1nediante l'attività dispiegata (e quindi i giuochi e le corse de! ban1bino, gli SJJorts del giovane, il .flirt e l'a1nore, la conversazione, ina anche l'attività dell'artista, del poeta, del ron1anziere, dello scicnzicito, del fi19 losofo) tutto questo è, de! pari, giuoco» •
Una volta identificato il lavoro con l'attività penosa e controvoglia, si pone l'interrogativo se esso sia 1norale o in1111orale, 1nentre si co1nprcnde meglio il motivo dell'insolubilità del problema. Ed il motivo sta nel fatto che il lavoro è nel contempo necessario ed impossibile, moralmente doveroso e 1noraln1ente condannato: «Il lavoro [ ... ]ci si presenta sotto la veste dell'obbligo n1orale, coinc una prescrizione e un dovere etico, e insie1ne ingiunzione spirituale alta e pressante e verarnente dovere n1orale ci si presenta il sottrarvisi; che esso, inson11na, è l'irnprescindibile base e presupposizione della vita spirituale dcl!'u1nanità (perché lo è della vita di essa in generale) e conte1nporanean1enteripugna alla vita spirituale 20 n1edcsin1a, è in dian1etra!e contrasto con essa, la rende i1npossibilc» .
l'J 20
fbfd., 122. lbid., 11 !.
A1orale e lavoro nello scetticismo di G. Rensi
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La contraddizione è, dunque, insanabile. E, alla tesi del lavoro apprezzato co111e una virtù, co1ne un'attività etican1ente nobilitante, perché innegabile presupposto della vita spirituale, si contrappone inesorabilmente e perenne111ente l'antitesi del lavoro 1norahnente condannato e respinto, che viene evitato con ogni tnezzo, e di cui si richiede ahneno la riduzione, cer-
cando il suo opposto: l'"in1111orale" ozio. In definitiva, il lavoro non può essere definito né moralmente valido, altrimenti non ci sarebbe motivo di respingerlo; né moralmente nullo, altrimenti non ci sarebbe motivo di pretenderlo dagli altri: «Il contraddittorio aspetto in cui il lavoro apparisce necessaria1nentead una clas-
se, a seconda che essa giustifica il proprio esserne esente [... ] o l'obbligo d'un'altra di soggiacervi[ ... ] tale contraddittorio aspetto è quello che riflettendosi nella teoria, genera quel 111iserando contrasto di villutazioni n1orali circll il lavoro che don1ina nella nostra coscienza e che, se si guarda bene sotto la super2 ficie, regna sovrano[ ... ] in ogni siste1na o dottrina di 1norale» i.
Su questa base di paralizzante contraddizione siamo evidentemente lontani dal tentativo crociano di mediare dialetticamente il momento della pena e quello della gioia nel lavoro. «Il lavoro - sostiene Croce nel 1921 - è essenzialinente gioia, gioia di vivere, e anzi i! vivere e la gioia di vivere non è altro che lavorare. [ ... ] Non lavorare è annoiarsi, languire, n1orire. E, se è così, se il lavoro non è pena, con1e 111ai si è potuto venire al pensiero che sia invece tale?.[ ... ] I! lavoro penoso è quel lavoro che non riusciaino a t:1r nostro, che non si fonde con le nostre disposizioni e tendenze[ ... ] Si può sopprin1ere il lavoro penoso? Radica!111ente nella sua idea, ne! suo universale, no. [ ... ]Ma se è in1possibilc sottrarsi alla legge della vita, se l'utopia di una vita tutta lavoro spontaneo e attrazione naturale, senza costrizione e pena, è propria degli anarchici e di altrettali torbidi o candidi sognatori, se il lavoro penoso non si può abolire co111e 1110111ento della vita, non perciò non bisogna procurar di togliere o di ridurre il lavoro penoso a vantaggio cli quello 22 congeniale, che è perciò pili procluttivo» .
Ma tornian10 al Rensi, per osservare con1e esista uno stretto rapporto fra la considerazione 1norale del lavoro ed il 111odo in cui 1 in sede sociale, si cerca di fornire una soluzione al proble1na del lavoro. rfale connessione in1plica un rapporto inversa111cntc proporzionale fra valutazione 111orale e valutazione eco1101nica: più s'innalza la valutazione 111orale del lavoro, nieno i111portanza riveste la valutazione econon1ica ed il 1niglioran1ento delle condizioni dei lavoratori. 21
lbid, 112. I3. CROCE, lavoro e pena, in La Critica (1921) 62-64; ora in Etica e politica, B8ri 1973, 64-65. 22
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GiusepjJe Pezzino «Sia1no in un an1biente sociale, in cui le condizioni del lavoro sono cosa insignificante, di cui nessuno si cura? Se ne può, in generale, concludere che in quel n101nento storico si vedrà anche il lavoro prospettato quale elen1cnto essenziale della vita 1norale (111agari sotto forn1a di espiazione, esercizio della pazienza o rassegnazione e sin1ili) cd altresì con1e fattore capitale della vita religiosa, rivestito di qualche sanzione dalla religione, veicolo indispensabile di qualche fine da 23 essa additato» •
Viceversa, più il lavoro viene sottovalutato con1e virtù, co111e valore 111 sé, più viene sopravvalutata la rivendicazione econon11ca e la considerazione stru1nentale dell'attività lavorativa: «Quando, con1e ora, grandeggiano scn1prc più ì reclan1i delle classi operaie, quando il lavoro fa udire se1npre più forte la sua voce, quando esso va assun1endo nella società ancora capitalistica, 1na che ha onnai perdute le linee genuine della sua architettura iniziale, un posto pari o superiore a quello del capitale [ ... ] che cosa constatiaino noi? [ ... ] Vedian10 chiara111ente co111e al crescere dell'in1portanza ccono1nica, della considerazione sociale, dell'asccndcnle politico del lavoro, vada, parallelo [ ... ] il fastidio profondo, !'insofferenza, il senso d'insopportabilità, l'odio del lavoro stesso» 24 •
Comunque, l'odio per il lavoro non investe soltanto i lavoratori. Tutti gli uomini odiano il lavoro: le classi non lavoratrici, pur dichiarandolo a parole prezioso fattore religioso e morale, lo tengono lontano; le classi lavoratrici odiano il lavoro e vogliono una sopravvalutazione econon1ica, appunto perché lo odiano. Inso111n1a, quest'odio per il lavoro è, secondo Rensi, universale, 1neritato, necessario e razionale. Esso nasce da u11 1insanabile contraddizione: da un canto, il lavoro pennette il passaggio dalla vita ani111ale a quella u111ana, a quella spirituale; dall'altro, il lavoro impedisce il godimento della vita spirituale. E ancora: se è vero che il lavoro è condizione necessaria per lo sviluppo spirituale, è anche vero però che esso è una palla di piombo che frena ed ostacola lo sviluppo spirituale. Dunque, per la vita dello spirito è necessario il lavoro, 111a è anche necessario il non-lavoro, vale a dire, il lavoro altrui: «Per giungere dalla vita anin1ale alla vita dello spirito u111ano [ ... ) l'u111anità doveva costruire l'ingranaggio scn1pre più vasto, con1plicato, 11101nentoso, de! lavoro; 111a in tal 1nodo essa si iinponeva una can1icia di forza, che, per quelli che ne erano rivestiti, rendeva in1possibile il conseguin1ento di ciò appunto che !'ingranaggio stesso doveva servire a raggiungere, vale a dire di quella vita dello spirito» 2). 23
G.
24
Jbid.. 115.
25
lbid., 117.
RENSI, C'ritica del lavoro, cit., ! 13.
}dorale e lavoro nello scetticismo di G. Re11Si
65
Ne consegue che lo sforzo di una classe di scaricare il lavoro sulle spalle di un'altra è legittimo e giusto, perché mira allo sviluppo spirituale; ma, nel contempo, è illegittimo e ingiusto, perché nega lo sviluppo spirituale alle altre classi. Pertanto, secondo Rensi, è vano e fantasioso ogni tentativo di soluzione definitiva e razionale del problema del lavoro. Restiamo così bloccati ed incerti sul traballante piano del relativismo e delle antilogie. E tuttavia esiste, per Rensi, una ce1tezza nel distinguere la natura del gioco da quella del lavoro: solo nel gioco l'uomo è veramente uomo e 26 raggiunge la sua superiorità e libe1ià spirituale • Il lavoro, invece, è eteronon1ia, schiavitù, negazione della spiritualità. Ma, se il gioco è attività autonoma, libertà, spiritualità, ne consegue allora che l'etica rientra nella categoria rensiana del gioco. Più precisamente: se per gioco s'intende rensianan1ente ogni attività in cui la coazione lascia il posto alla libertù, ovvero ogni attività che noi svolgiamo senza secondi fini né calcoli utilitari, senza guardare tanto alle cose, ai beni 111ateriali, ai guadagni economici, quanto piuttosto alla nostra personalità e al modo in cui ci poniamo di fronte alle cose, allora possiamo ben dire col Rensi che la categoria del gioco fonda e regge la "morale superiore". «La 1noralc superiore - affenna Rensi - non si fOnna e non si regge se non n1cdiantc i! risultare in essa !a vita un puro e se1nplice giuoco. Solo quando si riesce ad ascendere al punto di vista da! quale non si inette pili la decisiva i111portanza sulle cose, sui beni, sul contenuto, sulla niateria, sulle vicende della nostra vita, ina tutto questo ci risulta, per usare l'espressione stoica, in potere d'altri, estraneo a noi; - solo quando l'i111po1ianza capitale si colloca invece sul con1e noi ci con1po1tia1110 in presenza di quelle cose, beni e vicende, indifferenti in sé quali si siano - solo quando così ciò che ci interessa è unicmnente l'attività che spieghiaino per la soddisfazione dello spiegarla, senza calcolo di risultati secondi e ulteriori da ottenere con essa, il far,çioè bene !a nostra parte di re o di schiavo, di ricco o di inendico, con piena indifferenza circa la questione quale di queste parti 27 ci sia toccata, [ ... ] solo così raggiungia1no lo stadio più alto di 111oralità» •
Una 111orale superiore, dunque, che guarda alla niorale stoica di un Epitteto come a modello di affermazione di libertà dai condizionamenti materiali, cli una libertà che privilegia bensì il co111e, la qualità, lafor111a, lo 5pirito, e non già la cosa, la quantità, il contenuto, la 1nateria: «Sappi che sei l'attore di uno spettacolo, scelto dal direttore del teatro, breve, se lo desidera breve, lungo, se lo desidera lungo; e se vuole che tu faccia la parte di un accattone, devi fare bene anche questa pa1te; e lo stesso se si tratta della parte di un zoppo, di un principe o di un privato cittadino. Il tuo co111pito consiste nel 26
Sulla concezione rensiana del gioco, cfr L. L'inquieto esistere, cit., 136-138. 27 G. RENSJ, C'ritica del lavoro, cit., 130.
BATTAGLIA,
Rensi e Sin1111el,
in
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Giuseppe Pezzino sostenere bene la parte che ti è stata assegnata; sceglierla, però, spetta ad un al28 tro» .
Occorre, dunque, giocare con la vita, perché la n1orale superiore è affermazione piena di libertà nella considerazione, appunto, che la vita è gioco e non moralistica e falsa severità. La vita è un gioco, anche nel senso platonico, per cui l'uomo, giocattolo uscito dalle mani degli dèi, dovrebbe saper vivere nel gioco dei canti e delle danze. «Noi dobbian10 occuparci - fa dire Platone ali' Ateniese - cli ciò che ha valore, tralasciare il resto; la divinità è per natura degna di ogni interesse, che sia anche fonte di beatitudine, n1a Jluo1no, Pabbian10 detto prin1a, non è che un giocattolo uscito dalle n1ani degli dèi e ciò che di lui vale di pili è proprio questo, in rea!Ui.
E in n1odo a ciò conseguente ogni uon10 e ogni donna devono anche vivere la loro vita, giocando cioè i giochi 1nigliori, il contrario di quanto si intende oggi da parte loro. [ ... ] Ora si pensa che le occupazioni serie debbono essere in funzione dei divertin1enti; ritengono infatti che le cose della guerra, essendo cose serie, debbono essere ben disposte in funzione del!a pace. Ma invece, per natura e in realtà, nella guerra non c'è diverti111ento, non c'è nulla che abbia valore educativo e sia degno del nostro discorso, noi lo dicevan10, non c'è e non ci sarà 111ai, e questo è invece ciò che noi dician10 degno del 111assin10 interesse: bisogna che ciascuno viva la sua vita in pace i! più a lungo e il n1eg!io possibile. E quale sarà allora per una vita i! niodo di essere corretta, secondo quanto s'è detto? Bisogna passare la propria vita divertendosi con qualche diverti111ento, coi sacrifici, i canti, le danze in n1odo da esser capaci di renderci così favorevoli gli dèi, respin29 gere i nen1ici, e vincerli in battaglia» .
Inoltre, l'idea rensiana di gioco si ispira alla riflessione di Simmel, nel senso che tutte quelle funzioni (gareggiare, lottare, costruire, ecc.) che solita1nente servono ai contenuti, ai fini reali, ora, nella 111orale superiore del gioco, vengono esercitate a prescindere dai contenuti, cioè in 1nodo .fOr111ale e per fini puramente ideali. Pertanto, ci se1nbra da condividere quel che sostiene Luisella Battaglia a tal proposito: «Si tratta del grande rivolgi111ento col quale hanno origine, per riprendere un'espressione si111111eliana, i 'regni dell'idea', quei n1011di che la vita nella sua evoluzione ha creato e che si sono, successivan1ente, posti con1e autonon1i. Nella nozione di 111ondo ideale - che trova, con1'è noto, nella Lebensanschauung la sua forn1u!azione concettuale pili elaborata - appare pienan1ente operante il principio, centrale nella lìlosofia della vita rensiana, del distacco eia/ teleo/ogisn10, quel feno111eno cioè per cui 111o!tc 1nanifestazioni, per quanto sorte teleologica-
28 EPITTETO, // A1anua!e, 15. 29 PLATONE, Leggi, VII, 803 e-e.
A1orale e lavoro nello scetticismo di G. Rensi
67
1nente, giungono a staccarsi dalla finalità originaria, a liberarsi dalla "prassi vita-
le", dal vincolo di 1nczzo a fine» 30 .
Ma c'è un'altra funzione, oltre al gioco 1 che si lega alla n1orale superiore degli spiriti nobili che considerano il lavoro come schiavitù: tale funzione è, per Rensi, la conten1plazione. Evidenten1ente, quesfultin1a funzione non ha nulla a che vedere con il concetto medievale di contemplazione, in quanto che si tratta di quella libera attività che piacevolmente si svolge nella conversazione, nell'assistere ad uno spettacolo, nella lettura di un ro1nanzo, nell'amore per la natura, nella meditazione, e persino nel passeggiare per contemplare le vetrine dei negozi. Senza dubbio, Rensi è ben consapevole che queste due funzioni (il gioco e la contemplazione), legate alla morale superiore, suscitano scandalo e condanna nella morale corrente della società filistea: quella morale, cioè, del lavoro come dovere etico-politico, la quale condanna l'inazione, il gioco, la contemplazione, la fantasticheria oziosa. «Chi si sentisse tentato di obbiettare - affennaRensi - che la conten1plazione è
condannevole e disutile ignavia, il risultato d'una biasi1nevole inclinazione all'inazione[ ... ] chi si sentisse perciò tentato di opporvi, coine sana visuale dell'uon10 fattivo cd energico, il dovere, verso sé e verso la società, del lavoro; 1110strerebbe che non sa profondare uno sguardo critico negli apoftegn1i della tnorale corrente [ ... ] Poiché il dichiarar cosa preferibile e 1noralinente superiore al la facoltà di godere gli spettacoli naturali, di gustare le produzioni dell'arte, di interessarsi alla scienza e ai problen1i speculativi[ ... ] di 1neditare, pensare, lasciar vagare il proprio pensiero, sognare, o sen1p\icc1nente di guardarsi intorno oziando, il dichiarar preferibile e superiore a tutto ciò i! lavoro, i! passare otto o quattordici ore della giornata nella fabbrica o nella bottega[ ... ] rivela una irreparabile distorsione e abbassan1ento 111entali, prodotti dall'intluenza di quelle falsità e contrad31 dizioni in1peranti nella coscienza etica conten1poranea circa il lavoro» .
Rispetto alla negatività del lavoro come schiavitù ed alienazione, Rensi è pronto ad elogiare l'ozio, l'inazione assoluta, il non fare assolutan1ente nulla. Intendiamoci, qui bisogna comprendere il carattere prevalentemente polemico di questo elogio rensiano dell'ozio contro la morale corrente che fa del lavoro-schiavitù un dovere etico-politico. In tal senso, si rivela particolannente significativo l'esen1pio rensiano della conchiglia pensante: l'uon10 è co1ne una conchiglia pensante, che e1nerge alla superficie della vita ed è perfettamente consapevole di dover restare per pochissimo tempo al cospetto dell'universo, per poi scomparire negli abissi 1narini per sen1pre. Razionalità vorrebbe che quest'uon10-conchiglia
30
31
L. BATTAGLIA, Rensi e Sin1111e/, cil., 137. G. RENSJ, Critica del lavoro, cit., 143.
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Giuseppe Pezzino
dedicasse quel suo bagliore di vita alla contemplazione, e non già al lavoro, agli affari, alla schiavitù. «Supponian10 - sostiene Rensi - che dal fondo dell'oceano una conchiglia pensante etnergessc per la prilna volta alla superficie ed aprisse le sue valve alla luce; supponian10 che essa sapesse di poter rin1anere solo per pochi istanti a! cospetto dell'universo in11nenso e variopinto e di dover poscia ritornare negli oscuri e 111istcriosi abissi del 1nare. Co1ne si potrebbe giustificare l'affern1azioneche, non, se n1ai) necessità bruta, 1na dovere n1orale sia per questa conchiglia quel!o di dedicare quei pochi istanti al lavoro?[ ... ] Ma l'uo1110 non è altro appunto che quella conchiglia c1ncrsa un mo1nento sulla superficie della vita e che fra un istante scon1parirà negli abissi. Co111e predicargli che sia per lui cosa 111ora!e e razionale dedicare principaln1ente quel rapido 1no111ento alla schiavitù del lavoro, e con1e non vedere che la razionalità, la spiritualità, la sua stessa essenza, il cò111pito e i! destino che questa gli assegna, esigono, invece, che egli eserciti verso le cose e 32 sé stesso la funzione conteinplatrice?» •
A questo punto, può apparire facile la soluzione del proble111a: rifiutare la schiavitù del lavoro e dedicarsi piacevolmente e spontaneamente alle attività del gioco e della contemplazione. Tutto ciò sarebbe una triste illusione, perché il problema del lavoro nasconde un'insanabile antitesi fra lo sviluppo spirituale-n1orale e lo sviluppo econo111ico-sociale. In altri tennini, uno sviluppo spirituale-morale si fonda su una società evoluta, complessa, ramificata, che permette benessere e possibilità di gioco; di contro, una società evoluta e complessa richiede un lavoro costante, disciplinato, penoso, che è appunto la negazione dello sviluppo spirituale e morale. Sicché riemerge inesorabile l'irresolubilità del problema del lavoro. A tal riguardo, ecco per Rensi una delle più gigantesche illusioni: credere cioè che, mutando l'assetto sociale, sostituendo al sistema borghese quello socialista, con1unista, sindacalista soreliano, le cose ca111biera11110 radical111ente e il lavoro acquisterà valore spirituale e giustificazione razionale. Questa è una gigantesca illusione, perché, se è vero che il carattere negativo del lavoro è dato soprattutto dal fatto che il lavoratore non sente più il lavoro come proprio, è anche vero, però, che il lavoro alienato persisterebbe in una società n1oderna e alta111cnte burocratizzata, a prescindere dall'econon1ia privata o collettivistica: «La con1p!icazione e !'intensificazione sociale ha prodotto eserciti di iinpiegati e di operai che devono lavorare ad un'opera co111une. [ ... ] Essi si sentono con1e ruote in una 1nacchina, trattano il loro lavoro con1e cosa che non li riguarda o li 33 riguarda solo a 1netà, non possono più lavorare che di 1na!avogli'1» .
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Jbid., 145 .
.n lbid, 175-176.
lv/orale e lavoro nello scet1icisn10 di G. Rensi
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In queste pagine rensiane sembra riecheggiare la tesi di Max Weber sul socialismo e sul mito della dittatura del proletariato che, nella realtà di questo secolo, si traduce nella dittatura dell'impiegato: «È un grave errore considerare questa "separazione" del lavoratore dal n1ezzo di produzione co1ne qualcosa di peculiare all'econon1ia, e in specie all'economia privata. Infatti non ca1nbia assolutan1cntc nulla se si 1nuta il padrone di quell'apparato, se lo presiede il capo dello stato o un ministro, invece di un industriale. La 'separazione' dal niezzo di produzione continua in ogni caso a sussistere»3~.
E pili innanzi: «Nelle aziende pubbliche e in quelle di tipo consorziale don1ina in n1aniera assoluta non il lavoratore, 1na l'ilnpicgato, il quale in questo ainbito con uno sciopero arreca un danno assai 111aggiore di quello prodotto contro un i1nprenditore privato. È la dittatura dell'i111piegato non quella dell'operaio che per il 111on1ento, 35 in ogni caso, si trova in fase ascensionale>> ,
In ogni caso, secondo Rensi, il socialisn10 o il con1un1sn10 non ca1nbiano la sostanza coatta cd alienante del lavoro nei confronti del singolo lavoratore: «Socializzate, con1unizzate. Che cosa avrete ottenuto? Ecco treinila operni 1n una fabbrica. Oggi sono salariati. Don1ani siano padroni. Che differenza?L 1individuo 36 lavorerà ancor sen1pre non d'un lavoro proprio, non per sé, 111a per i tren1ila» .
Anche se consideria1no i tre1nila operai con1c padroni, il singolo operaio è tanto proprietario quanto lo sono io del giardino pubblico (che è mio, perché è di tutti) dove vado a passeggiare. In verità, l'individuo lavoratore sentirà sempre sopra e contro di sé un padrone: oggi, egli va oggettivando e contrapponendo a sé l'idea di padrone nella persona del capitalista; domani, oggettiverà e contrapporrà a sé l'idea di padrone nei tre1nila operai dell 1offìc1na. «Si parla ora assai - sostiene Rcnsi - di padronanza, o n1eglio ancora "dittatura", dei lavoratori. Ma sono vuotissiine ciancie. Quella dittatura è possibile solo sulla carta o nelle tanto eloquenti quanto superficiali decla111azioni dei den1agoghi. Un accenno di quella padronanza, se 111ai, esiste solo (e con effetti che tutti videro) in regi1ne borghese, quando questo diventa debole e tren1ebon~ do, e, per la paura di passare per tiranno, lascia che ogni turbolenza e indisciplina nel catnpo del lavoro i1npunen1ente si sfreni, dagli scioperi degli nddetti ai 34
M. \VF:BEH., 11 socialismo, in Scritti politici, Catania 1970, 257.
35
/bici., 274.
36
G.
RENSI,
Critica del lavoro, cit., ! 76.
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Giuseppe Pezzino servizi pubblici, alle squadre di sorveglianza ufficial1nente e ape1tan1entc costituite per costringere a scioperare chi non vorrebbe, alle rappresaglie !asciate libera1nente esercitare contro chi non ha scioperato. Ma appena un forte governo pur così detto proletario sia giunto al potere, ogni 01nbra di padronanza dei lavoratori cessa, e anzi (con1e provano i casi russi) viene sostituita da una fonna di 37 schiavitù più esplicita di quella don1inante in regin1e borghese» .
Vani cd utopistici si rivelano, dunque, gli sforzi di ogni rivoluzione. Lo stesso Manifesto di Marx ed Engels, ad esempio, denuncia bensì il lavoro alienato, per cui l'operaio è diventato un accessorio della 111acchina; 111a, anche ad essere padrone della macchina, il lavoro resterebbe ugualmente alienato e coatto: «Ma la verità è che la razionalità e la spiritualità un1ana esigono che l'uon10 non lavori o lavori quando ne ha voglia e con1e gli piace, a capriccio, sen1pre quasi giocando. Questo è ciò che l'uo1110, con tutto il suo slancio più profondo, vera1nente, se1npre e soltanto vuole. [ ... ] Finché ciò non sarà raggiunto - e non lo sarà natura!n1ente 1nai - tutto i! resto, g!i ordinan1enti socialisti e con1unisti, d'altronde 1nille volte invano provati e riprovati lungo la storia, saranno piccoli, secondari, ingiustificati palliativi ed acco1nodamenti, e vcran1ente il voltarsi e ri38 voltarsi sul letto di dolore del lavoro dcll\1n1anità» •
Pertanto, secondo Rensi, la società futura sarà con1e la presente, divisa in due classi: coloro che lavorano e coloro che giocano; coloro che subiscono la schiavitù del lavoro e tentano di liberarsene, addossandola agli altri; ecoloro che svolgono un lavoro-gioco, grazie al lavoro penoso di altri. L,a fuga dal lavoro seinbra un'insurrezione contro un detenninato sistcn1a di lavoro, ed invece è un'insurrezione contro l'assurdità del lavoro. Insurrezione razionaln1ente giusta, 111a in1possibile. In questa insurrezione contro il lavoro, lo spirito u111ano cozza contro una realtà cieca, negativa, insopprimibile. E, come nella biblica torre di Babele, esso vuole scalare il cielo, vuole vivere nella beata condizione divina del gioco, dell'ozio, della contemplazione. Ma, invano. Invano perché, ad ogni tentativo di scalata, Io spirito umano verrà respinto e ributtato giù.
"lbid., 197. 38 lbid., 178-179.
Synaxis XVII/I (1999) 71-78
LAVORO, TEMPO LIBERO E VOLONTARJATO MARIO CASCONE*
1. L'uon10 tra lavoro e ten1po libero L'uomo vive nel tempo, anzi si può dire in modo p1u proprio che l'uo1no "è" te1npo, nel senso che il te111po non è qualcosa di estrinseco a lui, 1 n1a una di111ensione costitutiva del suo essere . Ogni uo1no percepisce il ten1po in una duplice maniera: oggettiva e soggettiva. li tempo "oggettivo" è lo scorrere cronologico degli eventi e delle ore, quello che avviene in qualche modo al di fuori dell'uomo e indipendentemente da lui. In esso l'uomo non può intervenire, perché questo tempo non può essere fermato da una sua detenninazione, essendo segnato dall'ineluttabilità: scorre e non torna più, inesorabilmente' li tempo "soggettivo" è invece quello vissuto dall'uomo nel quadro delle sue scelte libere e consapevoli, il tempo che ognuno gestisce attraverso le sue determinazioni personali, quindi il tempo personalizzato dall'"io", il "111io" te1npo. Questo è il ten1po u1nanizzato, del quale la persona diventa causa, centro, 111isura e fine e nel quale l'uo1no dispiega le sue energie, le sue qualità, le sue conoscenze. È in questo an1bito che !'1101110 vive in prospettiva il suo sogno, che è anche un desiderio connaturato col suo essere: uscire fuori del tempo, sconfinando nell'eternità. Ogni uomo avverte i limiti del tempo, il senso della contingenza, che stride con la vocazione all'assoluto e all'infinito. Sente di essere nel tempo quasi come nn prigioniero, perché altre sono le sue aspirazioni e altra è la sua appartenenza naturale: l'eternità. Nella luce della fede cristiana questa nostalgia di eternità, presente nel cuore dell'uo1no, trova attuazione nel 1nistero dell'Incarnazione: Dio stesso è entrato nel ten1po, l'Eterno si è ten1poralizzato, perché ciò che è temporale possa eternizzarsi. Il Dio, venuto nel tempo, ci indica che tutto il tempo dell'uomo è il tempo di Dio, ossia è il tempo che Dio offre all'uomo per realizzarsi come essere eterno. È ten1po donato gratuita1nente, è "grazia", "I(airòs'', te1npo favorevole in ordine alla salvezza, opportunità unica e insostituibile, che va a1111ninistrata con sapienza e vigilanza, discernendo tutto ciò che è utile e ciò 2 che invece è dannoso per la salvezza eterna • Alla luce di questa dimensione teologica e soteriologica del tempo possiamo anche comprendere che il tempo è consegnato da Dio alla libertà dell'uomo. In questo senso tutto il tempo dell'uomo è un tempo libero, dato
*1 Dello
Studio Teologico S. Paolo di Catania. Ctì· G. GEVAERT, Il Proble111a de//'1101110, Torino 1974. 2 Cfr B. liii.RING, liberi ejèdeh in Crìsto, 2, Ron1a 1980, 130~189.
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Mario C'ascone
a lui senza riserve e condiziona1nenti. Per questo 111otivo l'uon10 non accetta di essere prigioniero del tempo, ma se ne serve in funzione del suo progetto 3 di vita. Egli è «Signore del giorno e della notte, dell'oggi e dcll'ora» . In questo tempo affidato alla sua libeità l'uomo pone la sua azione lavorativa e le sue attività ricreative, vivendole entrambe nell'unico progetto dcl suo essere, che lo chiama a gestire il tempo con responsabilità, al fine di proiettarlo nell'eternità. Il lavoro è un modo di impiegare il tempo per modificare la realtà e ridurla al servizio dell'uo1110, 1na è anche una 111aniera con cui l'uon10 perfeziona se stesso, sviluppando le sue capacità e le sue conoscenze. Il ten1po libero è invece quello non impiegato nelle attività professionali, quello che la persona può riservare alle occupazioni di libera elezione. Nel tempo lavorativo l'uomo vive nel segno della necessità, della fatica, della ferialità; nel tempo libero invece vive nel segno del riposo, della distensione e della festa4. Certamente il lavoro fa risplendere la dignità della persona umana, chian1ata a cooperare col Creatore per trasfonnare il inondo e un1anizzarlo. Ma l'attività lavorativa può talmente assorbire l'uomo da non concedergli la possibilità di espri1nere pienan1ente se stesso. Dedicarsi eccessivan1cntc alla propria professione lavorativa può condurre la persona ad accomodarsi in un tipo di vita schematica, dalla quale si fa fatica ad uscire e nella quale non si esprimono tutte le potenzialità della persona. Ecco perché l'uomo ha bisogno di "devertere", cioè di volgersi altrove, di fare qualcosa di diverso rispetto al fare abituale. I-la ragione P. Ricoeur quando sostiene che una civiltà non può chia1narsi tale se non è ad un ten1po il regno del lavoro e della "parola", intendendo quest'ultin1a con1e libertà, contcn1plazione e a1te. Da questo punto di vista il problema della civiltà sarà sempre più quello di capire come lavoro e tempo libero debbano situarsi nel progetto esistenziale di realizzazione dell'uomo'. Il comune denominatore del lavoro e del tempo libero è l'uomo, che vive nel tempo e lo gestisce con responsabilità. Se il lavoro e le attività ricreative si sganciano da questo riferi1nento all'uo1no, rischiano di passare dall'ordine dei mezzi a quello dei fini, cioè si autoassolutizzano, finendo col diventare alienanti. li lavoro si trasfonna così in dura necessità, segnata da meccanismi efficientistici e utilitaristici; il tempo libero finisce di essere
3 13. BÉNNASSAR, 7ìiris1110 y pastora!. Sintesis de Teologia para las vacaciones, Barcclona 1966, 11. 4 Cfr M. CASCONE, li tempo libero al servizio di un 'educazione alla pace, Modica 1988; 8. BÉNNASSAR, T11ris1110 y pastora/. Sintesis de Teologia para fas vacaciones, cit.; P. V1orro, Pedagogia e politica del tempo libero, Brescia 1973; J. MOLTMANN, Sul gioco, Brescia 1971; J. J-IUIZJNGA, limno !udens, Roina 1979. 5 P. RICOEUR, Jì·avail et parole, in Esprit 198 (I 953) 96-117.
Lavoro, /en1po libero e volontaria/o
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libero e s1 trasforma in evasione stordente e omologante". C'è perciò l'urgenza di ridefinire il rapporto tra lavoro e tempo libero non solo nel quadro del nuovo assetto socio-econon1ico, 1na anche in quello antropologico e culturale. Ciò al fine di capire come queste attività dell'uomo possano sfuggire al loro potenziale alienante e possano invece mettersi al servizio della realizzazione dell 1uon10. La sola lettura socio-econo1nica della relazione tra lavoro e tempo libero non dice tutta la portata di questo fenon1eno, che oggi investe in 1nodo sen1pre pili rilevante la cultura, ossia i 1nodi di pensare, di percepire e di con1portarsi dell'uo1no conteinporaneo. Occorre ripensare la relazione tra l'"hon10 faber'' e l'"hon10 ludens" sfuggendo a facili e riduttive catalogazioni, che nel passato sono state presenti anche nella riflessione teologica. Era facile, per esempio, pensare che il vero uomo fosse quello che lavora, mentre quello che si dedica allo svago era visto in qualche· 111odo con1e un uon10 inferiore. In questa direzione anche la teologia morale si occupava delle attività del tempo libero nel quadro delle "occasioni prossin1e del peccato": un rifcrin1ento sicuran1ente riduttivo di un'attività nella quale invece la persona espri111e la sua creatività, la sua voglia di relazione interpersonale, il suo bisogno di contemplazione di distensione. Il ripensamento del rapporto tra lavoro e tempo libero deve avvenire alla luce del fallo che il referente unico di questa attività è e deve rin1anere l'uo1no. Il lavoro, lo svago, la preghiera non sono attività che esistono a prescindere dall'uomo. Al contrario esse hanno come protagonista la persona u111ana, che esprin1e in 111odalità diverse la ricchezza del suo essere. Nella situazione attuale l'uo1110 va sen1prc più co111preso con1e "ho1110 sapiens", il quale cerca un difficile equilibrio fra il lavoro, che si riduce sempre di più e a volte manca del tutto, e il tempo libero, che si amplia sempre di più e a volte rischia di travolgere la "sapienza" dell'uomo, non essendo vissuto come tempo della libertà, ma esso stesso come tempo della "necessità": quasi che fossin10 condannati ad avere un grande nun1ero di ore libere, senza sapere come e perché gestirle.
2. Il volontariato co1ne sintesi di lavoro e ten7JJO libero li volontariato è probabiln1ente uno dci 111odi più significativi per dare risposta a questa proble111atica 7 . Esso si attua certa1nente nell'a111bito del 6
Si parla oggi, a questo riguardo, di "spirito cli gregge", che colpisce soprattutto le giovani generazioni, special111e11te nella scelta del tipo di diverti1nento eia vivere. Esistono 1naniere otnologate, vere e proprie "n1ocle", ne! vestire, nel parlare, nell'atteggiarsi. nel frequentare gli stessi luoghi di svago. 7 Crr A. MASTANTUONO, Volontariato, Casale Monferrato 1994 (Biblioteca della solidarietà - Caritas, 26); P.L. GU!DUCCI, Rapporto sul volontariato, Torino !988; R.tvl. K_RJ\MER, Volontariato e stato sociale, Ron1a 1987; G. MATTEUZZI, li volontariato. 1\!11ove
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Mario Cascane
tempo libero, ma partecipa anche delle caratteristiche del lavoro umano. In qualche modo si può affermare che il volontariato è una mediazione antropologicamente molto feconda tra lavoro e tempo libero. Sicuramente il volontariato fa pa1te delle attività di libera elezione della persona, ossia di quelle azioni che l'uomo svolge dopo aver espletato i suoi doveri nell'ambito professionale e familiare 8 . Ma altrettanto sicuramente il volontariato si avvale di alcune modalità che caratterizzano il lavoro: l'impegno, la costanza, la fatica, la competenza. Dunque si può affermare che il volontariato è un "segno dei te111pi", che ci aiuta a leggere in una prospettiva carica di speranza il futuro della nostra civiltà. Esso è l'alternativa meravigliosa ad una cultura generalmente orientata al profitto, all'interesse e all'efficientismo, una cultura nella quale l'"homo faber" spesso si presenta co1nc un essere incapace di don1inare le cose e di conten1plarle, perché facilinente si lascia asservire da esse, quando addirittura non si lascia assorbire 9 da esse, diventando egli stesso cosa, oggetto • li volontariato può rappresentare il recupero dell'u1nanità dell'uon10, attraverso la gestione autenticamente libera del tempo non impiegato nel lavoro e messo a frutto nell'a1nore. Esso rappresenta una sintesi tra l'uo1110 che lavora e 1'1101110 che si diverte, ossia tra le capacità produttive e le potenzialità ricreative della persona. Infatti il volontariato è attività impegnativa, che coinvolge lo sforzo e la dedizione della persona, 111a è anche attività gratificante, nella quale la persona vive con gioia la fatica del donarsi, perché sente realizzarsi il suo essere nella logica dell'amore. li volontariato perciò può dirsi il terreno del riscatto dalle potenzialità alienanti del lavoro e del tempo libero nell'attuale sistema socio-economico post-industriale. Mentre rischiano di prevalere gli oggetti sui soggetti, le attività sugli attori, il volontariato aiuta a ri111ettere al centro della questione sociale ed econo1nica la persona un1ana. li volontariato è infatti primariamente un impegno della persona per la pcrsonai ossia è un servizio n1otivato dall'incontro valorialc tra due persone: 10 colui che serve e colui che viene servito . Un incontro così ricco di un1anità da arrivare spesso a far confondere il servitore e il servito. Il volontario è colui che ha preso coscienza del valore della sua umanità proprio perché prosettive, Mil<lno 1982; L. TAVAZZA, Verso uno statuto del volontal'iato. 1\111ove politic/Je sociali, Bologna I 982. 8 «Volonlario è il citt<ldino che liberamente, non in esecuzione di specilìci obblighi 1nor8li o doveri giuridici, ispir<l 18 su<l vila - nel pubblico e nel priv<llo - a fini di solid<lrictò. Perlanto, 8dc1npiuti i suoi doveri civili e di stalo, si pone a disintcrcss<lt<l disposizione dcll<l con1unitù, pron1uovendo una rispost<l crc<ltiv<l <li bisogni e1nergenti cl<ll territorio con 81tenzione prioril<lria per i poveri, gli en1arginali, i "senza potere''» (1\. ELl.ENA. Volontaria/o, in 1\111ovo Dizionario di sociologia, Ron18 1987). 9 La vecchia rcgol<l benedettina (''ora et l<lbora") nell'epoca posl-illurninistic<l è s1<:1ta scarnbiata nell'ordine dci tern1ini ("!abora et ora"), 1nenlre nell'era produttivistica conte1nporm1ca rischia di vedere scon1p<lrire uno dei due terrnini, clivcnt<lndo solo: ·'Jabora et bbora ... " 1 Cfr A. MAST/\NTUONO, Volontariato, cii., 49-55.
°
Lavoro, te111110 J;bero e
volontcu~;ato
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guarda il valore dì colui che gli sta dì fronte, il quale lo interpella col suo bisogno. Nel volontariato non si tratta di dare cose o soldi, 111a dì donare la propria persona e dì incontrare l'altro in quanto persona.
3. I valori di fondo del volontariato In questo quadro concettuale cerchiamo ora di vedere quali sono le motivazioni profonde, le radici e i principi ispiratori di questo fenomeno oggi così diffuso''. a) Il primo valore su cui si fonda il volontariato è la libe1tà. La parola "volontariato" dice riferi111ento ad una scelta volontaria, cosciente, libera. La libertà è vissuta dal volontario co111e il presupposto essenziale dell'amore e con1e l'espressione autentica della persona che a1na. Si an1a infatti solo nella libe1tà e la libc1tà cresce nell'amore. Da un lato I'a111ore richiede la libertà, dall'altro la libertà richiede l'amore per poter essere fortificata e consolidata. È questa la prospettiva del Concilio: «La libertà umana s1 degrada quando l'uomo, cedendo alle troppe facilità della vita, si chiude 111 una specie di aurea solitudine. Al contrario acquista forza, quando l'uon10 accetta le inevitabili difficoltà della vita sociale, assume le molteplici esigenze de!Pu1nana convivenza e si i1npegna al servizio della con1unità un1ana» 12 . È sicuran1ente questa l'ottica in cui il volontario colloca la sua azione libera, la quale non è sen1plice1nente una scelta singola, 111a un'opzione di fondo, che pone la sua persona al servizio di chi è nel bisogno. Oggi il rischio è quello di ridurre la libertà fondamentale dell'uomo ad una 111odalità di scelta, ad una serie di scelte individuali, che non si sostanziano della verità della persona, ma cedono alla lusinga dell'opinione corrente. Il volontariato aiuta invece a capire la libertà come verità dell'uomo, che realizza il suo essere nell'an1ore, in1pegnandosi in un servizio continuativo, robusto e non 111era111ente en1ozionale. Una caratteristica del volontariato è infatti la perseveranza, la continuità del servizio. Un servizio che va reso con creatività, lasciandosi interpellare dai bisogni della gente, 111a anche con con1petenza e con idonea preparazione, sfuggendo quindi all'i111provv1saz1one e all'occasionalità 13 11
Le statistiche più recenti dicono che !e persone in1pcgn<1tc in attività di volontnriato in Italia si aggirano a\lorno ai 7 rnilioni, 111entre sono circa I 0.000 g!i orgrn1is1ni, che si occup<1no di v<1ri c<1111pi dcl disagio soci<1lc: disabili, 1ninori, r<1gazzc 1nadri, Lossicodipcndcnti, alcolisti, anziani, inalati, ecc. 12 Gaudi11111 et 5'pes, n 31. 13 f.; avvertita orn1ai da tutti g!i organisini di volontariato l'esigenz<1 di oilì·ire ai propri aderenti non solo una preparazione di base, 111a anche una fonnazionc continua. Volontario non è sinonin10 di approssiinazione e cli prcssapochisn10, specie quando si vuole offrire un servizio in cmnpi 1nolto delic<1ti, con1c quelli del dis<1gio 1ninorilc o della devianza giovanile.
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A1àrio Cascane
b) Un secondo valore su cui s1 basa il volontariato è la solidarietà, la quale si fonda sulla coscienza dell'interdipendenza che lega gli uomini tra di loro. Il volontario vive il senso della comune umanità, della socialità e della comunione, avvertendo dentro di sé un appello ad uscire dal privatismo e dal disimpegno, proprio mentre questi disvalori sembrano prevalere nell'attuale siste1na culturale. Nel volontariato la solidarietà viene intesa nella giusta prospettiva 111 cui l'ha collocata la "Sollicitudo rei socialis": essa non è un sentin1ento di
vaga co1npassione o di inteneri111ento
per i 111ali delle persone, 1na è la
decisione ferma e perseverante di operare per il bene comune, ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siarno veran1ente responsabili di tutti I •I. Da questo punto di vista l'azione dei volontariato si pone anche come una lotta per la giustizia passando da forme di "solidarietà corta" a forme di "solidarietà lunga" 15 . Le prin1e sono le 111aniere tradizionali di intendere l'azione caritativa, vedendola co111e una serie di interventi urgenti, di pri111a necessità, volti solo a ta111ponare le situazioni di disagio e non a risolverle. ln coincidenza con la crisi dello Stato sociale (Welfarc State), il volontariato ha co111inciato a porsi sulla linea della "solidarietà lunga", ossia di risposte più globali, miranti a progettare la risoluzione di fondo dei problemi del disagio sociale, nel quadro della giustizia. ln questo senso si può affermare che il volontariato illun1ina in 1nodo nuovo il raJJJJOrto tra carità e giustizia. Certa111entc non ci può esser carità senza giustizia, perché non succeda che si conceda sotto forma di favore o di privilegio ciò che invece si deve dare per diritto. Però si deve anche dire che ci sono tante situazioni in cui la giustizia da sola non basta, perché solo una giustizia acco1npagnata e vivificata dalla carità può rendere un autentico servizio all'uo1no 16 . La carità vivifica la giustizia, facendole superare i pericoli dei burocraticisn10, dell'anonimato e dcl legalismo. Inoltre la carità sa individuare i nuovi bisogni e si i1npegna a far sì che essi piano piano possano essere riconosciuti con1c 1 diritti • li volontario si pone oggi nella società come segno di questa giustizia an1orosa e 1nisericordiosa, che non consiste solo nel rispetto formale delle leggi, ma si traduce nell'autentica difesa dei diritti dell'uomo. li I·! GIOVANNI PAOLO li, Snllicit11do rei socialis, Il 38. Cfr L. TAVAZZA, C'risi e tra.sjòr111azio11e radicale dei volontariato Guida al volontariato italiano, !, Torino 1990, 4 J. 15
italiano,
in
16 «L.'csperienza del passato e del nostro tcn1po dimostra che !a giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all'annienta1ncnto di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l'amore, di p!as1nare la vita u1nana nelle sue varie di1nensioni. È stata appunto !'esperienza storica che, fra l'altro, ha portato a fonnare l'asserzione: s1111111111111 ius, s11111111a infuria. Tale a!Tennazionenon svaluta la giustizia e non attenua il significalo dell'ordine che su di essa si instaura; 1na indica solaincnle, sollo al!To aspetto, la necessità di attingere alle /Orze dello spirito, ancor più profonde, che condizionano l'ordine stesso della giustizia» (GIOVANNI PAOLO il, Dive.1· in 111isericnrdiosa, n 12). 17 Cfr CEI, Evangelizzazione e testi111011ianza della carità, n 38.
Lavoro, te1111Jo libero e volontariato
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volontariato contribuisce a fon11are una n1entalità di giustizia che, non cadendo nel formalismo burocratico e legalistico, attinge le sue risorse pili profonde alla fonte della carità. Al di là dei risultati concreti ottenuti, il servizio dei volontari è oggi uno degli stru111enti educativi più validi per formare al senso della giustizia sociale e del bene comune. c) Inoltre il volontariato è contrassegnato dalla gratuità. Oggi viviamo in un mondo che «ci può apparire soltanto come il luogo di una specie di immensa e inflessibile contabilità» 18 , un mondo contrassegnato dalla ricerca dell'utile e dalla logica del profitto. In questo clima culturale il volontario, che presta gratuitan1ente il suo servizio, ci aiuta a recuperare il vero senso del nostro essere, che si riconosce nell'interpretare la vita con1e un dono. I! no111e teologico della gratuità è la grazia, che illun1ina l'esistenza u111ana come un costante e immeritato dono dell'amore di Dio e la proietta nella logica de\Pa111ore gratuito per i fratelli. Ogni azione di vero ainorc è atto gratuito e, in questo senso, è anche atto teologico, perché dice riferi111ento a Dio, che è l'amore gratuito per eccellenza. E difficile scorgere nel volontariato un segno eloquente di questa presenza an1orosa e gratuita di Dio nella storia. Ciò vale ovvia1nente per ogni tipo di servizio volontario, anche per quello che esplicitamente non si fonda su un'ispirazione cristiana. La gratuità è il non1c nuovo della speranza, segno di una strategia a lungo tennine, che potrà aiutarci a vivere in 1noclo nuovo anche il nostro rapporto con la natura, e quindi con la scienza e con la tecnica. La gratuità, nota caratteristica del volontariato, può fornire nuovi 111odelli culturali per farci sfuggire alla logica dello sfruttamento indebito delle risorse naturali e delle tnanipolazioni indiscrin1inate, che oggi toccano anche la vita dell'uomo.
4. Le nuove ji·ontiere del volontariato
Da quanto abbiamo visto emerge che il volontariato è chiamato pri111arian1ente a produrre una nuova cultura, più che a produrre nuovi servizi. Relegare il volontariato nella logica del "buon sa111aritano" significa non riconoscerne il valore pedagogico che è invece quello prevalente. li rischio infatti è quello di interpretare il volontariato come una serie di servizi a basso costo, di cui il potere politico si serve per coprire le proprie inefficienze. Le istituzioni tendono a sfruttare il volontariato, facendogli perdere la sua funzione di stimolo critico-protètico e integrandolo sempre più spesso nella loro logica. È chiaro invece che le opere del volontariato non possono supplire gli interventi dei pubblici poteri né tanto meno sostituirli. Il volontariato è soprattutto un fenoineno pedagogico, volto a creare una nuova cultura della 18
G.
MARSEL,
Essere o
(IVCl'C,
in A. MASTANTUONO, Volontariato, cii., 66.
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klario Cascane
solidarietà, e quindi dell'umanità. li rapporto CENSJS dcl 1991 sulla situazione sociale del Paese definisce il volontariato come il «nuovo polmone della solidarietà», capace di dare risposte personali e soggettive ai bisogni della gente, contro le vecchie risposte omogenee e burocratiche del tradizionale Stato assistenziale. Risposte elastiche, flessibili, innovative e anche sperimentali, che possono aiutare lo Stato a trovare le soluzioni più idonee per fronteggiare la marginalità sociale. In questo senso il volontariato ha un'indubbia.fimzione politica, perché traccia la nuova mappa dei bisogni sociali e nuovi percorsi di risposta ad essi, proponendo al pubblico potere i generi di intervento pili efficaci 19 . Ma quel che più conta è che il volontariato, facendo questo, alimenta una cultura della de111ocrazia perché, in una società povera della di1nensionc relazionale, ri1nette in circolazione la condivisione, la reciprocità, la partecipazione. Il volontariato perciò può servire a fOnnare le coscienze civili e a creare nuove identità collettive e sociali, proprio nel segno della partecipazione democratica alla formazione del bene comune.
Infine il volontariato
influisce anche sull'econ(JJJJia, contribuendo n
stin1olarla in senso n1aggionnente personalistico, 1na anche aprendole nuove prospettive. Nel 1110111ento in cui continuano sterihnente a fì·onteggiarsi un'econo111ia statalista e un'ccono1nia privatistica, il volontariato s1 pone quasi co1ne un'area 111ediana fra i settori di co111pctenza pubblica e quelli privati, generando quell'area, che è stata chian1ata del "privato sociale" e che risponde benissimo al principio di sussidiarietà, che è uno dei pilastri della dottrina sociale cristiana. In forza di questo principio lo Stato è chian1ato a non soffocare lioriginalità creativa dei cittadini e degli organis111i intennedi della società, 111a anzi a stin1olarne la pa11ecipazione autono111a al fine di costruire, con le risorse di ognuno, il bene comune. In questo quadro il volontariato può anche contribuire alla risoluzione di alcuni problemi del inondo del lavoro, aiutando per escn1pio a delineare nuove fanne di professionalità e nuove aree di i111pegno in settori finora sconosciuti. In una parola la funzione prevalente del volontariato è quella di umanizzare il mondo e il tempo, in cui l'uomo vive. Umanizzare nel segno di un'affermazione della libe1tà dell'uomo, che si incarna nell'amore gratuito e nell'i111pegno per la giustizia. Lavoro e ten1po libero nel volontariato s1 incontrano proprio in questo sforzo di un1anizzazione del inondo.
19
Cfr L. TAVJ\ZZA. Di111ensione politica. L'i111pegno per la qualità della vita, in Rivista del volonlariato 3 (1992) 33-34; A. MASTANTUONO, Vo/011/ariato, cit., 88-98.
Synaxis XVfl/l (1999) 79-120
IL VALORE DEL LAVORO NELLA SOCIETÀ DELL'INFORMAZIONE FRANCESCO RIZZO'
1. Premessa delle premesse La sapienza e la conoscenza u111ana sono relative, inco1nplete, fran11nen-
tarie e precarie. Nel vano tentativo di superare questi lin1iti o "finitudini" naturali e culturali gli uomini si rivolgono e richiedono la parola: dialogano, comunicano, si fanno tante domande. Tra queste la più decisiva è la seguente: perché sia1no stati creati? Risposta catechistica: per conoscere, a111are e quest'unico fine, qualunque altra cosa dell'universo e della storia degli uomini ha carattere strumentale, serve solo se aiuta a servire Dio in questa vita, per poi godere della sua presenza ne\1 altra, in paradiso. Noi sian10 venuti a questo n1ondo per raggiungere realizzare questo disegno o progetto. Il lavoro, in questa logica, continua l'attività di creazione della natura e della società perché per una scelta d a111ore gratuito l'uon10 è stato creato ad in1111agine e son1iglianza di Dio. L uo1no, cioè, sin dal1 inizio della sua esistenza, è stato chian1ato a collaborare o lavorare con Dio fino al con1piinento della sua storia terrena. La rottura dell'armonia o dell'unità tra l'essere immagine (sapienza o contemplazione) e l'essere somiglianza (azione creativa) di Dio, a causa della colpa originale, non condanna \ uon10 a passare da uno stato di ozio o inattività ad uno stato di lavoro, 1na lo costringe a lavorare con fatica, sacrificio, sofferenza. Avviene cioè una trasforn1azione esistenziale, un passaggio da un lavoro con-creativo o ricreativo svolto con gioia e senza rischi ad un lavoro, ancora con-creativo, 111a pesante, pericoloso e carico di difficoltà'. Quindi non è molto ragionevole quella concezione che vede nel peccato originale il passaggio da una situazione di non lavoro ad una situazione di lavoro. Altrin1enti, paradossa!tnente, si potrebbe interpretare il tempo di non lavoro o il tempo libero come un segno della riconquista di quello stato ideale andato perduto, cosa che non mi sembra coerente con la struttura della società post-n1oderna in cui vivian10. D'altra parte, se lo stato di lavoro fosse una conseguenza del peccato originale, l incarnazione di 1
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Dell'Un1ve1 s1tà degli Studi di Paleuno «Poi, rivolto alla donna, !e disse: "Molliplicherò assai le tue pene c le doglie della tua gravidanza; avrai i figli nel dolore". Infine pronunziò contro Admno questa sentenza:"[ ... ] la terra sarà 1naledetta per cagione tua; con lavoro faticoso riceverai da quella il tuo nulriinento [... ] essa ti produrrà spine e triboli[ ... ] ca! sudar di tua fronte 111angerai il pane[ ... ]"» (Gen J, 16-19). Le parole chiave per giustificare la tesi che sostengo sono 1110/tip/icherò le tue pene e lavoro fc1ticoso. Ciò significa che pri1na del peccato originale la donna partoriva con n1inori pene e l'uo1no lavorava in 111aniera 111cno faticosa. 1
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Cristo per la salvezza degli uomini avrebbe dovuto rimuoverlo, riportando le condizioni dell'umanità allo stato di non lavoro precedente la raccolta della mela dall'albero per «avere la conoscenza del bene e del male»-.' La chiave di volta di tutto il ragionamento è nella risposta alla domanda richiatnata all'inizio di questa pren1essa. Noi dobbia1no conoscere, an1are, servire, godere Dio. La conoscenza di Dio avviene attraverso 11azione esistenziale, estetica e cognitiva. La scienza è con1e un don1inio pa1iicolare di coordinazioni consensuali delle azioni degli scienziati o "osservatori standard". A parte gli aspetti esistenziali ed estetici della conoscenza, che esulano dai fini che mi pongo in questa co111unicazione, perché l econo1nia politica sia utile per aun1entare la conoscenza di Dio bisogna ricomprenderla e risignificarla alla luce della fede nclJlan1ore della co111unione-co111unicazione trinitaria della Bibbia e della dottrina sociale cristiana, senza co1npro1nettere, 1na esaltando la sua autonon1ia scientifica3. L econon1ia politica tradizionale o neoclassica aiuta ad aun1entare !a conoscenza di Dio nel senso anzidetto? La risposta è negativa. Allora è dovere degli econo1nisti cristiani diventare obiettori di coscienza contro l insegna1nento della "scienzan econon1ica attuale perché spesso è contro Dio e contro gli uon1ini. L'amore di Dio per gli uomini dà valore alla loro esistenza. Gli uomini cunano Dio servendosi o servono Dio a1nandosi. L a1nore di Dio per gli uon1ini o degli uo1nini per Dio si traduce nella carità o nel silenzio. Dio a1na e serve (salva) gli uon1ini. Gli uo1nini ainano e servono Dio. Gli uo1nini si a1nano e si servono reciprocainente. Questa triade non può e non deve essere distrutta, pena 1
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Gen 3,6. ~ «Con il tenninc generico cli cultura si vogliono indicare tutti quei tnczzi con i qu;_ili l'uon10 nfTina e sviluppa !e molteplici capacità clel!a sua anin1a e del suo corpo; procura cli ridurre in suo potere il cosn10 stesso con la conoscenzn cd il lavoro; l ... ] !a cultura presenta ncccssarian1enle un aspetto storico e sociale e la voce cultura assu1nc spesso un signi!ìcato sociologico cd etnologico. In questo senso si parla di pluralitù delle culture. Infr1tti cl<il diverso n1odo di fare uso delle cose, di lavonirc, cli esprin1ersi, di praticare la religione e di fOnnarc i costu1ni, cli sviluppare le scienze e le arti e cli coltivare il bello, hanno origine i diversi stili cli vitn e !e diverse scale di valori [... ]. Per ciò è necessario coltivare lo spirito in inodo che si sviluppino le facollà cle!l'an1n1irazionc, dell'intuizione, de!!a conte1nplazione ]» (Ga11di11111 et Spes nn 53 e 59). Coltivare il senso religioso della propria esistenza o tendere ad uno stretio legaine tra attivitil un1ane e religiose non intacca la capacità conoscitiva e l'autonoinin degli uornini, della societù e delle scienze. La cultura scaturisce dalla capacità cli ragionare, dalla natura sociale e dalla !ibcrtil di giudizio clcll'uo1no e quindi non può non essere autonon1a nel senso che <de cose creale e !e stesse società, hanno leggi e valori propri che l'uomo gradatainentc deve scoprire, usare e ordinarcll (Ga11di11111 et Spes n 36). È un'esigenza cl'autonon1ia legitli1na e confonnc alla volontà del creatore e riconosciuta dalla Chiesa quando insegna che esistono due ordini di conoscenza: quello della fede e quello della ragione - distinti rna non contrnpposti - convergenti e riconducibili al n1cdcsin10 Dio. Perciò se la ricerca viene condotta con 1netodi scientifici rispettosi delle norn1e n1ora!i non sarà mai in reale contrasto con !a Jède. Cfr F. Rrzzo. J,inee storiche d'espansione urbana ed analisi delle teorie della cillà, Catania 1979, 96-97.
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la perdita di senso della storia. li fondamento di questa trinità di amore si evince in maniera mirabile dal capitolo 17 del vangelo secondo s. Giovanni e dal salmo 136 (135). 4 Gesù nel capitolo 17 prega il Padre affinché «egli doni la vita eterna» a tutti gli uo1nini: «Ora la vita eterna è questa che conoscano te, solo vero Dio» 5 «Ho manifestato il tuo nome agli uomini, che mi hai dati. .. le parole che desti a me, le ho date a loro ... custodiscili nel nome tuo che mi hai dato, affinché siano una cosa sola co1ne noi ... Io ho con1unicato loro la tua parola ... Santificali per la verilà. La tua ]Jarola è verità ... prego ... affinché tutti siano una cosa sola, con1e tu sei in 111e, o Padre, ed io in te; che siano anch essi una sola co:.;a in noi ... E la gloria che tu mi desti, io l'ho data loro, affinché siano una cosa sola, come noi sia1no una cosa sola, io in essi e tu in 1ne; affinché siano perfetti nell'unità, ed il inondo conosca che tu 1ni hai n1andato, e li hai ainati, co1ne hai a1nato n1c ... Padre giusto il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno riconosciuto che tu 1ni hai n1andato. Ed ho fatto conoscere a loro il tuo no111e, e lo farò conoscere ancora, affinché l'an1ore col quale hai a111ato 111e) sia in essi ed io in loro» 6• La verità o la vita eterna coincide con l an1ore o la parola di Dio, 111anifestata e co111unicata da Cristo per annunciare la buona novella che egli è una cosa sola con il Padre. Gli uon1ini che accolgono e riconoscono questa Parola fonnano una sola cosa, cioè, unità con Cristo, con il Padre e, quindi, tra di !oro. La coscienza (o istanza etica), l'arte (o istanza estetica) e la scienza (o istanza cognitiva) non possono avere altro fine che quello della conoscenza della verità che è \ A111ore: «Co1ne il Padre ha a1nato 111c, cosi io ho a1nato voi, Vi coniando d1a1narvi scan1bievoln1ente)) 7. Gli uon1ini durante la loro vita devono perseguire la conoscenza del bene e del male, del bello e del brutto e della verità e della falsità scientifica, senza dimenticare, però, la loro umiltà o relatività e senza saltare le fatiche della storia. li salmo 136, costituito da 22 distici e scandito dall'antifona «eterno è il suo an1ore», appartiene alla teologia dell 1al!eanza ed unifica !e due rivelazioni: quella cosn1ica e quella storica. La creazione, considerata con1c il pri1no atto d an1ore divino nei confronti del1 uo1110, diventa parte dell'azione salvifica che Jahweh dispiega nella storia. L'alleanza tra la storia della creazione e la storia della salvezza è la premessa fondamentale della Nuova Alleanza 8 che si deve stabilire tra le scienze della natura e le scienze dell'uomo. La duplice alleanza teologica e scientifica, ha una doppia conseguenza: 1
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Gv 17,2. /bid., 17,3. 1 ' Jbid., 17, 6-26, il corsivo è 1nio. 7 Jbid., 15. 9-17. 8 I. PR!GOCìlNE, La !/uova Alleanza. Uo1110 e natura in una scienza 1111ifìcata, Milano 1981. 5
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a. l'uomo diventa collaboratore di Dio e continuatore della sua azione creativa; b. il suo lavoro realizza o idealizza questa sua attività ricreativa, svolge una funzione tra-s-in-formativa nel senso che dà (toglie e cambia la) forma alle idee e alle cose e la trasn1ette, tra1nanda e con1unica ai suoi si1nili secondo processi spazio-temporali. In questo contesto cosmico e storico, il valore del lavoro nella società dell'infimnazione tocca la vetta più alta possibile. L'eterno amore di Dio mette nel cuore e nella mente dell'uomo una vocazione alla perfezione che assume a modello quella trinitaria.
2. Signifìcazione, infi:Jr111azione, conrunicazione e lavoro I. Il tema che affronterò in questa relazione attraversa ed è attraversato (dal)la terna: significazione, informazione, comunicazione. Beninteso, in riferimento ai complessi sistemi funzionai-strutturali sociali e naturali. La società post-moderna ha una forte valenza semiotica o semiologica. Essa ricopre, sempre di più, l'importanza dei processi di significazione e/o co1nunicazione. La se1niotica della significazione viene svolta dalla teoria dei codici, mentre la semiotica della comunicazione riguarda la teoria della produzione segnica. La prima si avvale del carattere arbitrario, non razionale, cioè convenzionale, sociale e culturale dei segni, definibili a partire dalla tricotomia perciana (simboli, indici, icone). La seconda sfrutta le possibilità provviste da un sistema di significazione per produrrefìsicamenle delle espressioni per fini pratici. In un processo di con1unicazione o di tras1nissione tra 1nacchine si ha il passaggio di segnali che non hanno alcun potere significante, anche se si può dire che avviene passaggio di informazione. Quando la comunicazione avviene tra esseri umani nasce un processo di significazione che presuppone !1esistcnza di uno o più codici cioè di uno o più sisten1i di significazione. La co1nunicazione non con1porta necessaria1nente la significazione. L 1inforn1azione può assumere due significati fondamentali: quantità di informazione che può essere 1ras111essa; quantità di inforn1azione che è stata di ,fGtlo lrasn1essa e ricevuta. Si può parlare, rispettivamente, di informazione statistica o equiprobabile alla 9 fonte (n1isurata in bit d 1entropia) e di infonnazione se1nantica di un s-codice • I messaggi significanti si traducono in messaggi significati mediante la "cooperazione interpretativa') dei loro recettori o uso-fruitori che in tal n1odo creano un "surplus" culturale o informativo in relazione alla ambiguilà o potenzialità dell'interazione con1unicativa.
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U. Eco, La struttura assente, Milano 1994.
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Non si devono confondere le espressioni "socictà' dell infonnazione e "società dell 1infonnatica" o dell 1"infonnatizzazione". La pri1na si riferisce alla produzione ed alla 11 trasmissione 11 di infonnazione (sia in senso maten1atico sia in senso semantico). La seconda riguarda tutte le infra-strutture tecnologiche che dovrebbero facilitare la comunicazione, senza necessariamente implicare la produzione di informazione semantica o di sistemi significanti. Anzi può accadere che la società "cablata" o multimediale segni un aumento della confusione, dei rumori che perturbano le diverse forme di linguaggio, e quindi una diminuzione dell'informazione personale e sociale. Il lavoro dell'uomo nella società post-industriale si svolge in un ambiente culturale aggrovigliato di messaggi, segnali, codici, segni, intenzionalità comunicative, stru1nenti tecnologici, run1ori pet1urbatori, ecc. Ciò può provocare un grande caos o disordine esistenziale e cotnunicativo che è necessario superare n1ettendo ordine nei nostri discorsi o ragionan1enti, cioè creando inforn1azionc (nel senso di dare forma o organizzazione alle idee e alle cose). 2. Anche la natura, sia in senso ftsico-chin1ico che biologico, è caratterizzala da processi di informazione e comunicazione, soprattutto quando dà luogo a sisten1i con1plessi, non lineari e lontani dal1 1equilibrio. In questa situazione la natura diventa o appare intelligente, artistica, storica. Le più piccole particelle della materia, le cellule di un essere vivente, gli elementi che costituiscono un organisn10 sociale si scan1biano infonnazioni dotate di senso e interagiscono in 1naniera co1nunicativa. La separazione, la contrapposizione delle "due" culture hanno fatto sorgere l'errata convinzione d'una materia priva di vita\ ità e sottoposta a leggi eterne, i1n1nutabili, universali, 111eccanicistiche e detenninistiche. Le recenti scoperte fatte nel campo della chimico-fisica, della neuro-biologia, dell'evoluzione, ccc., costringono a can1biare il punto di vista. La natura è un'opera d 1a11e creativa, imprevedibile e sconvolgente. Essa non finisce di stupire e di meravigliare cd è caratterizzata da un insieme di fatti o eventi unici e irripetibili che aspettano di essere interpretatati mediante processi selettivi e di decodificazione, mai completi, definitivi, statici. Anche le leggi della fisica sono il risultato di sistemi significanti o s-codici che possono cambiare facendo diventare messaggi significanti quelli che erano considerati rumori, e rumori quelli che erano considerati messaggi significanti. Tra i messaggi più significativi e mirabili si situano le informazioni genetiche che vengono trasmesse e comunicate ereditariamente mediante il DNA del patrin1onio cro1noso1nico di ogni specie. Ma dato che niente è i111111utabile, anche i messaggi ereditari possono subire cambiamenti più o meno bruschi e traumatici in seguito al verificarsi di quei fenomeni genotipici che si definiscono mutazioni genetiche. Le mutazioni sono il segno della vitale creatività della
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natura e sono responsabili di quei salti evolutivi o genealogici (informazionali) che assieme alla esperienza economica (approvvigionamento di materia ed energia) dell'esistenza detenninano un evoluzione senza ,fò11dan1enti delle diverse specie viventi. Per poter affrontare anche i cambiamenti qualitativi, le discontinuità, le instabilità, le singolarità, le probabilità, le irreversibilità, le novità, le emergenze la scienza formula le leggi del caos. li "reale" e il "possibile" non sono domini im111utabili, 111a processi in continuo divenire. Ciò pone le pre111esse per fondare una scienza delle qualità. La concezione evoluzionistica ha portato ad un capovolgimento ontologico nel modo di concepire il rapporto tra forme e storia: il progetto dell'universo non è dato in anticipo, ma è un progetto che si formula n1an 1nano che si realizza, e quindi diviene costante1nente 1nesco!ando regolarità e singolarità, necessità e caso. L1esito di un processo evolutivo non è prevedibile, i suoi risultati finali non possono essere predetti fin dall'inizio. Allora bisogna pensare insie111e le forn1e ed i processi, ricercare una definizione processuale delle forn1c. In altri tennini, co111e anche Lorenz affern1a, è necessario studiare i processi di trasinfonnazione dell universo. A questo proposito bisogna dis-1nettere una nientalità che porta alla decontestualizzazione spazio-tcn1pora!e de! sapere e apprendere ]"'arte del viandante" che col suo stesso passo produce i can1n1ini sui quali posa i piedi, o dcl decifratore di indizi che si sprofonda nel contesto e interroga qualunque cosa o persona che incontra per decidere quale sia il punto di vista piè1 adeguato alle indagini, in quel particolare momento storico10. La scoperta-invenzione delle "strutture dissipative,' (che creano ordine dal disordine mediante fluttuazione) nel campo della termodinamica ad opera di flya Prigoginc e dei suoi collaboratori, ha confennato la tesi secondo cui la vita divora neg-entropia o energia-inforn1azione strutturale anabolica anche per l'apporto dell'ambiente circostante in cui essa si svolge. li pluriverso (come oggi si preferisce chian1are l'universo) non è condannato alla 111orte tennica o al declino inarrestabile. In esso coesistono due tendenze: quella che porta alla produzione di disordine, degradazione o dissipazione energetica (entropia), dissolvimento, destrutturazione, caduta o distruzione d1infonnazione ecc.; e quella che dcter111ina !a creazione di ordine, farnia, struttura, organizzazione, energia utilizzabile (rinnovabile e non rinnovabile), cioè neg-entropia o informazione. 1
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3. In questo scenario cosmico e storico è possibile spiegare tutti i processi vitali con "'l'eorie del Tutto,, che 1nirano alla ricerca della spiegazione u!ti111a sulla base dei tre surplusn o capisaldi seguenti: 11
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l'd.
CERUTJ,
Fvo/11zio11e se11za.fonda111enti, Ron1a-Bari 1995.
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a. il surplus fisico o materiale basato sul rapporto massa, energia, entropia, neg-entropia (o informazione naturale); b. il surplus biologico-evolutivo o pluralismo evolutivo basato sulla componente gerarchica genealogica (informazionale) e sulla componente ecologica o ecosiste1nica (econon1ica); c. il surplus storico-culturale o semiotico basato sulla significazione, infonnazione (1naten1atica e se1nantica), con1unicazione. Questa nuova impostazione paradigmatica ed epistemologica di tutte le scienze (naturali ed u1nane) segna anche una decisiva svolta esistenziale, enneneutica e feno111enologica. lncon1incia a delinearsi una concezione scientifica dell'esistenza o esistenziale della scienza fondata sull'energia o infonnazione fisica, bio-ccologica, se1niologica, econon1ica) ecc. È necessario scoprire un qualche principio organizzativo genernle che governi lo sviluppo globale della complessità organizzata dell'intero multiverso che è legato alla capacità di elaborazione e alla "n1isura'' dell'infonnazione prodotta. Con l'aumentare dell'informazione disponibile e con l'evoluzione della complessità computazionale degli elaboratori di informazione naturali, cambierà il concetto di causalità e con esso, il valore del lavoro. L1aun1ento della capacità 1 d infonnazione della natura e della società non si traduce auto1natican1ente in un n1iglioran1ento del\!azione con1unicativa perché tra l1inlànnazione e !a con1unicazione si stabilisce una con1plessa relazione inversa. Co1nunicare con facilità può, spesso, significare inforn1are poco o niente) e viceversa. D 1altra parte la con1unicazione è indispensabile per creare e n1antenere l'aggregazione sociale o per intraprendere un'attività produttiva a!1 1interno di un'organizzazione, 1na per creare valore aggiunto, bisogna essere creativi o tras-infànnativi. Questo vizioso ragionamento in circolo deve essere spezzato, per non cadere nel tranello pubblicitario o nieccanicistico di considerare l'infonnazione co1ne una cosa semplicemente trasmissibile. Due o più uomini che comunicano non si tras111ettono, 1na creano infonnazione grazie alla loro natura e cultura. L'attività u111ana, a tal fine, non deve essere ripetitiva, equivalente, inerte, burocratica, n1a progettuale, innovativa, inventiva al pari della natura. Ma ciò non basta; è la società che deve essere riorganizzata ed in-centrata sull'interazione inforn1ativa degli uomini che, a tale scopo, debbono riappropiarsi della loro natura o cultura e(ste)rica. In questa prospettiva, cioè, affinché abbia senso parlare di riscopc1ta del valore del lavoro in una società dell'infonnazione, è necessario puntare alla riabilitazione della di111ensione etica dei valori socio-econon1ici 1nediantc una critica profonda, consapevole e serrata della "ragione utilitaristical\ 1l.
11 Cfr A. CAJLLÈ, Critica della ragione //filitaria, Torino 1988; r. RIZZO, Valori econo111ici e valori etici, co1nunicazione al convegno regionale dc! Movi1nento Ecc!esia!c di irnpegno culturale del!a Sicilia, Marina di Ragusa 29 aprile-I 111aggio 1995 (in corso di stainpa).
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3. La natura e la cultura del lavoro
li lavoro, sia per ragioni intellettuali che per motivi di fede, a partire dal la Genesi costituisce una fondamentale dimensione dell'esistenza umana sul la terra. L'uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio, è chiamato al lavoro di con-creazione, di trasfonnazione-1noltiplicazione, di custodia-sotto1nissione, di giardiniere e utilizzatore del creato. Lavoro è ogni opera compiuta dall'uomo per procurarsi i beni di sussistenza, contribuire al progresso della scienza e della tecnica, e alPincessante elevazione culturale e morale della società. li lavoro distingue l'uomo dal resto della creazione; il lavoro è il segno dell'umanità. L'uomo come persona è soggetto del lavoro; il lavoro umano ha un valore etico prima ancora che economico. li valore del lavoro umano non dipende (solo) dal genere di lavoro ma (anche e soprattutto) dal fatto che lo compie una persona. Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella sua dimensione oggettiva, 1na nella sua dimensione soggettiva. Giovanni Paolo Il distingue il lavoro in senso oggettivo (la tecnica) dal lavoro in senso soggettivo (l'uomo-soggetto del lavoro)"- Le principali affermazioni su questo tema si trovano nel capitolo 1 della Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano 11, dedicato alla vocazione dell'uomo. Il lavoro umano dal punto di vista oggettivo può essere valorizzato e qualificato, ma non bisogna din1enticare che il ]Jrin10 foncla111ento del valore del lavoro è ruo1110 stes-
so. Se l'uomo è autore, centro e fine della vita economica, il capitale è per il lavoro, i I lavoro è per !1uomo, e non viceversa. Se Io scopo del lavoro è l1uon10 stesso, bisogna creare una (nuova) cultura del lavoro, a partire dal vangelo del lavoro, contro le correnti del pensiero n1aterialisNco ed econo111icistico che considerano il lavoro con1e una 1nerce o uno struinento di produzione (forzalavoro), in contrasto con il Libro della Genesi che assegna all'uomo la funzione di soggetto efficiente, vero artefice e creatore, cioè il vero scopo di tutto il processo produttivo. Il compito di "dominare" la terra che la Genesi attribuisce all'uomo dovrebbe portare ad una revisione della problematica etico-sociale al fine di riordinare la politica sociale cd economica. Il lavoro è un bene dell'uomo, esso è non solo un bene utile o dafi'uire ma un bene degno, cioè corrispondente alla dignità dell'uomo. li lavoro è un bene dell'uomo, è un bene della sua umanità, perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso co111e uo1no ed anzi) in un certo senso, "diventa (più) uon10".
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Labore111 Exercens, nn 5 e 6.
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In conclusione gli elementi per una spiritualità del lavoro possono cosi riassumersi: l'uomo mediante il lavoro partecipa all'opera del creatore, anche nelle ordinarie attività quotidiane; il primo capitolo del Libro della Genesi è il priino vangelo del lavoro; 11uo1no deve ùnitare Dio sia lavorando sia riposando. «L attività u1nana, invero, con1e deriva dal\'uon10, cosi è ordinata all'uoino. L 1uon10, infatti, quando lavorn, non soltanto 111odifica !e cose e la società, 111a perfeziona anche se stesso. Apprende molte cose, sviluppa le sue facoltà, è portato ad uscire da sé ed a superarsi. Tale sviluppo, se è ben con1preso, vale di pili delle ricchezze esteriori che si possono accumulare ... Pertanto, questa è la nor111a dell attività uinana: che secondo il disegno e la volontà di Dio essa corrisponda al vero bene dell'umanità e permetta all'uomo singolo o come membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione» 13 . Nel contesto di una tale visione dei valori ciel lavoro tunano si spiega perché l'uomo vale pili per quello che è che per quello che ha. 1
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4. Conflillo lm lavoro e capila/e li conflitto ideologico tra il liberalismo, inteso come ideologia del capitalis1110, ed il 111arxis1no, inteso con1e ideologia del socialis1110 scientifico e del con1unisn10, ha una din1cnsione scientifica e politica che non approfondisco in questa occasione. Le città, soprattutto quelle pili grandi, cd i processi insediativi urbano-industriali in genere, sono dci luoghi fisici ed econon1ici privilegiati in cui la ricchezza continuan1entc si accresce e si distribuisce. E la ricchezza può au1ncntare solo se riinanc, dopo avere adeguatan1entc reinuncrato tutte le persone che partecipano al processo produttivo, in "sovrappiù" che ha naturale residuale (spesso conflittuale) ed è indispensabile per ali111entarc, qualsiasi siste111a socio-eco110111ico, i processi di accuinulazione e di riproduzione del capitale per rinnovare gli i1npianti e per eseguire nuovi investi111enti in funzione dcll 1allarga111ento della base produttiva. Un sisteina econon1ico che si li1nitasse a 111antenerc le posizioni non sarebbe utile a nessuno e, pri1na o poi, sarebbe costretto all'autodistruzione. Non è normale (o morale) che l'uomo pensi e tenti di stare 111eglio, di rrogrcdire, di 1nigliorarc il suo tenore di vita, di au111entare il suo grado di civiltà? Allora non ci si deve stupire se il capitalisn10 (inteso con1e sisten1a che si autoincre1nenta e si autoesalta) n1ira a produrre sen1pre 111aggior ricchezza. Ci si dovrebbe meravigliare del contrario. Ciò non significa che i I prnfitto deve essere considerato il centro o l1obiettivo più in1portante della vita, quanto una 1nolla in1portante e naturale (non l'unica) di progresso econon1ico o di sviluppo socia-
Lì
Ga1tdi11111 et SiJes, n 35.
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le. Affinché quest'ultimo sia al servizio dell'uomo - autore, centro e fine cli tutta la vita sociale ed cconornica ~bisogna 111odificare il n1eccanis1110 di IOrn1azione, di distribuzione e di uso dc! "plusvaloren. Pertanto ! attività econon1ica deve essere coerente con le leggi della scienza economica, ma nell'ambito dell'ordine n1orale. Non è questa la sede opportuna per soffermarsi ad approfondire gli aspetti 1
antropologici di un "ta!e argon1ento' 1 • Il rapporto antagonistico capitale-lavoro
ha fatto versare fiumi di sangue e di inchiostro. Non è arrivato il momento cli invertire il corso della storia (questo l'uomo può farlo se vuole) sostituendo il rapporto di gerarchia tra il capitale e il lavoro a favore di quest'ultimo? Non è pili naturale assoggettare il capitale al lavoro piuttosto che fare doininare il capitale sul lavoro? Oggi non si tratta cli annullare il progresso economico o tecnologico, quanto cli concepirlo in funzione dell'uomo: questo è il principio della priorità del lavoro nei confronli del l!capilale «Il lavoro u111a110, con cui si producono e si scan1biano beni o si prestano servizi cco110111ici, è di valore superiore agli altri elementi della vita economica poiché questi hanno solo valore cli 11
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•
strun1enti» H.
Il lavoro non è una 111erce con1e le altre nia l'atto pili intelligente e creativo dell'uomo. Lo sviluppo economico deve rimanere sotto il controllo dell'uomo. Non deve essere abbandonato all'arbitrio di pochi uomini o gruppi di potere. Altrin1enti l'uon10 «si trova iinprigionato nella 111orsa della sua razionalità» 15 • R.iguardo al processo di produzione il lavoro è sen1pre una causa e.ffìciente prin1aria) 1nentrc il capitale, essendo l insie111e dci 111ezzi di produzione, (dovrebbe) rimane(re) solo uno strumento o la causa strumentale. li primato dell'uomo rispetto alle cose va sottolineato con forza, altrimenti il capitale diventa il soggettou anonin10 che renlle dijJenden/e l uon10 e il suo lavoro. L econon1isn10 e i! 1naterialisn10 hanno portato al capovolgin1ento della corretta relazione tra il lavoro e il capitale, sia nella vita pratica sia nel pensiero u111ano. Questo sovvertin1ento fa diventare l\101110 oggetto di 111anipolazioni che influenzano i suoi desideri e i suoi bisogni, che dctcnninano i suoi co111porta111enti e il suo nsisten1a di va!ori non solo per l alienazione delle ideologie che invece di liberarlo lo osservano, 1na anche per la «tecnica generalizzata con1e farnia do111inante di attività, co111e n1odo assorbente di esistere e n1agari con1e linguaggio, senza che la questione del suo significato sia rcaln1ente posta» 16 . La stessa proprietà privata, in un contesto culturale e sociale in cui viene riconosciuto il pritnato del lavoro, deve essere subordinata al diritlo de1l\1so co111une alla destinazione universale dei beni. In conclusione, i beni capitali non possono essere 1
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Jbid., Il 67. PAOLO VI, Octogesi111a Adveniens, Il 38. 16 Jbid., Il 29. l
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posseduti contro il lavoro, non devono essere neppure posseduti per possedere al fine di evitare o ridurre ogni "pulsione di accu1nulazione,, o "prodigalità narcisistica''.
5. La società dell'informazione I. Negli anni sessanta e settanta inizia la crisi del capitalismo industriale e l'avvio di una società "dei servizi' 1 o "del te1npo libero''. La società post-
industriale o post-moderna sbocca nella società dell'informazione sia per ragioni di carattere culturale e filosofico (l'affermazione del "pensiero debole") sia per ragioni di carattere economico e tecnologico (l'avvio dei processi di trattamento, trasn1issione, n1e1norizzazione tipici di una società fondata sul ! elettronica o sulla ricchezza dell'informazione). li nuovo sistema sociale ed economico (economia dell'informazione) si fonda su un nuovo principio fondamentale: i I ruolo centrale del la conoscenza teorica. Secondo Beli la conoscenza e l'informazione prendono il posto del lavoro e del capitale in quanto «variabili centrali del sistema economico»". Egli propone di dividere i settori economici in attività estrattive, di fabbricazione e di infonnazione. A questo punto sorge una domanda: la società dell'informazione o della comunicazione consente di superare le lotte di classe e i problemi ambientali ed ecologici causati dal! industrializzazione? La tendenza è a rispondere positivamente dato che la struttura portante della nuova società non è rappresentata dalla produzione di beni materiali; ma di informazione. Questa motivazione vale di piè1 per la questione ecologica e di meno per la questione sociale. Nell'era dei con1puters gli esseri un1ani considerano se stessi con1e "elaboratori di infonnazionP' e pensano alla natura con1e ad un insieinc di "infonnazioni da claborarei'. Ciò favorisce una n1igliore conoscenza e una efficace salvaguardia della natura. Ma la conflittualità sociale potrebbe aumentare perché all'antagonismo classico-marxiano capitale/lavoro si sostituisce quello tra chi ha e chi subisce il potere dell'informazione. La società dell'informazione, dunque, continua ad essere una realtà complessa e problematica. Bisogna definire cosa s'intende per inforn1azione al fine di sapere cosa s intcnde per lavoratori dell'informazione. Inoltre non si deve trascurare il fatto che nella società dell'informazione aumenta l'interdipendenza tra la politica e l'economia perché la cultura informatica è basata sulla realizzazione e l'esaltazione del sé. Un'altra questione fondamentale è il rapporto che passa tra l'innovazione tecnologica e il mutamento sociale. La diffusione dei computers e dei nuovi si1
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D. BELL, The socia/ fi·a111e111ork of' the i11fon11atio11 society. in The microefectrò11is revo/11tio11, a cura di T. Forcstcr, Oxford 1980.
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ste111i di comunicazione ha prodotto il denaro di plastica sotto tOnna di carta di credito. La moneta elettronica o immaginaria, la xenomoneta, ha aumentato il carattere sen1iotico dclPattività econo1nica di produzione e di consun10. 2. Già Saint-Simon affermava: «Gli uomini che hanno provocato la Rivoluzione [ ... ] hanno commesso un grande errore politico. Avrebbero dovuto [... ] rendersi conto del fatto che l'opera degli scienziati, degli a11isti e degli industriali è quella che piC1 contribuisce alla ricchezza nazionale, nelle scoperte come nelle applicazioni pratiche [ ... ] è a loro che avrebbero dovuto affidare il potere a1n111inistrativo» 18. È questa la causa che nell 1era delPinfonnazione detern1ina un radicale mutamento della società e dell'economia: le categorie analitiche ed esistenziali tradizionali, con1e capitale, lavoro e classe sociale, lasciano il posto all'informazione (e a quelli che la "trattano") in quanto nuova fonte di conoscenza scientifica e di potere economico e politico. Questo processo è reso più facile e credibile dallo sviluppo delle tecnologie informatiche. Via via che l'informazione diventa una fonte decisiva di valore aggiunto, la teoria classico-111arxiana del valore appare sempre meno sostenibile ed aumenta la crisi dei valori di scambio ad essa collegati. Anche secondo Habermas l'aumento del ruolo della. scienza e della tecnologia nel processo produttivo indebolisce la teoria marxiana della formazione del valore.
L1infonnazione e\i111ina l1incertezza, co111e la 111oneta, e riduce la possibilità di inquinamento ed esaurimento delle risorse, favorendo la formazione delle città cablate o di "cottage elettronico,,. In una società dell'infonnazione la 111aggior parte delle persone lavora per codificare, raccogliere, immagazzinare, ricercare e diffondere informazioni. David Lyon nell'analizzare la profonda trasformazione culturale che è in corso si pone "tre differenti questionii': a. l'impatto delle nuove tecnologie sugli svaghi e le attività del tempo libero; b. gli effetti dell'interazione tra persone e computer; c. l'emergenza di nuovi stili di vita come effetto della rivoluzione infor111atica19. Se è vero che Puo1no 11011 vive di solo pane bisogna considerare anche il mondo simbolico della cultura, nella sua interazione dinamica con quello materiale. Le società odierne si caratterizzano per la produzione di simboli - linguaggio, immagini, informazioni - piuttosto che per quella di prodotti materiali. In questo contesto aumenta la potenzialità comunicativa che è una sintesi di tre 18
Lu citazione è riportata anche da D. LYON, La società dell'infonnazione, Bologna 1991.
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selezioni, come unità formata dall'informazione, dall'atto del comunicare e dalla comprensione (accettazione, rifiuto di una comunicazione). Per spiegare il successo della comunicazione oltre allo sviluppo della tecnica del linguaggio e della diffusione della comunicazione bisogna considerare i mezzi di comunicazione generalizzati ad alto livello shnbolico: - verità, amore, proprietà/denaro, potere/diritto, fede religiosa, arte, altri valori fondamentali (ecologia, ambiente, cultura, ecc.)' 0 .
6. Caratteristiche del! 'economia del! 'informazione 1. Il Papa affenna che «l'uo1110 è con1preso in n1odo pili esauriente, se viene inquadrato nella sfera della cultura attraverso il linguaggio, la storia e le posizioni che egli assume davanti agli eventi fondamentali dell'esistenza come il nascere, l'amare, il lavorare, il 1norire» 21 . La dimensione culturale simbolica dell'esistenza umana attraversa gli ordinamenti sociali, giuridici ed economici modificandone il linguaggio e i contenuti: «un 1altra farnia di proprietà esiste, in particolare ne! nostro ten1po e riveste un'importanza non inferiore a quella della terra: è la proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere»"- Oggi il fattore decisivo della produzione non è tanto la terra o il capitale, ma soprattutto l'uomo stesso e cioè la sua «capacità di conoscenza che viene in luce 1nediante il sapere scientifico, la sua capacita di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare il bisogno dell'altro»"- La società o l'economia è sempre più contrassegnata dal desiderio dcl desiderio dell 1altro. Ciò con1porta il passaggio da un'econon1ia quantitativa ad un'economia qualitativa che dovrebbe portare al primato dell'essere sull'avere. «È necessario, perciò, adoperarsi per costruire stili di vita nei quali la ricerca dcl vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini [ ... ] siano gli eleinenti che detenninano le scelte dei consun1i, dei rispanni e degli investi111enti»24. A tal fine bisogna reincantare la vita che è stata disincantata e spoetizzata dal modernismo, ristabilendo una Nuova Alleanza tra Dio e l'uomo, tra le scienze dell'uomo e le scienze della natura: l'uomo che si ribella a Dio è «privo di quello atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l'essere e per la bellezza» 25 .
°Cfr N. LUHMANN, Sistemi sociali, Bologna 1990.
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C'entesin111s A111111s, n 24. lbid., n 32.
Le. lbid., n 36. Jbid., Il 37.
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In questa logica i Vescovi italiani evidenziano che la «produzione tende sen1pre di più ad incorporare infonnazione e servizio: in un certo senso si "dematerializza". La fecondità della produzione è racchiusa più negli aspetti invisibili che in quelli visibili. Questo processo di "dematerializzazione" della produzione è piena1nentc percepito dal C'entes;111us Annus. Queste risorse in1mettono nella logica economica tradizionale delle novità i cui sviluppi sono imprevedibili, perché esse non si esauriscono con l1uso 1na si 1noltiplicano, e sono con1uni alla conoscenza, all infonnazionc, alla fonnazione, alla creatività e alla relazionalità intersoggettiva» 26 . La cosiddetta società occidentale alla pover!à dei .fìni cerca di supplire con la ricchezza cli strun1enti. La scienza eco1101nica risente di questa carenza di valore e appare sempre più insensata o priva di senso. Per ridare senso estetico ed etico all'econon1ia bisogna che fìnaln1enten esca «dai condizionan1enti dell'hon10 oeconon1icus, dai suoi presupposti di individua!isn10, di consu111isn10 e di edonisn10» 27 . L1econo1nia deve aprirsi e trascendere in no1ne dell'etica i propri Ii111iti in 111odo da riappropriarsi della sua "valenza un1ana e con1unitaria". In Den1ocrazh1 econo111ica, svilzqJpo e bene co111une, i Vescovi ritornano a racco111andare il reczqJero della din1ensione etica a livello individuale e sociale, politico ed econo111ico. Ma di particolare interesse è) aln1eno per 111e, l'insistente richian10 alla necessità di rinnovare le scienze econotniche. Essi fanno appello agli studiosi cattolici «affinché rifondino sull'etica il discorso econon1ico, ne riconsiderino i presupposti di conoscenza e di metodo e ne rivedano le prospettive di interpretazione esclusivamente utilitaristiche ereditate da più di due secoli di scienza econo1nica» 28 . Essi prendono posizione, sia contro l'approccio individualistico (di tipo weberiano), sia contro l'approccio macrosistemico (di tipo luhmanniano) ed esortano i credenti e tutti gli uomini di buona volontà ad «abbattere i si111ulacri - l1oro, il ce1nento e la carta n1oneta - de1! ho1110 oeconon1i1
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Queste lunghe e ripetute citazioni del pensiero del Papa e dei Vescovi italiani confennano autorevolinente !a inderogabile urgenza di rico1nprendere e risignificare l'econoinia politica tenendo conto che vivian10 in un 'era postindustriale, post-moderna o post-materialistica. Tutta la mia attività di studio e di ricerca è protesa al raggiungimento di questo obiettivo strategico. 2. Il processo di dematerializzazione o post-modernizzazione dell'econo1111a ridin1ensiona ! ilnportanza delle cose a vantaggio dei servizi JJer.s·onali e so1
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CE!, Evangelizzare il sociale, n 42. lbid., 11 47. !bid., n 67. //Jid.,n71.
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prattutto dei simboli. Robert Reich classifica le funzioni sociali in base alla produzione di cose, servizi o shnbo!i30 • Le categorie di lavoratori che producono cose svolgono un compito ripetitivo, di routine, standardizzato, inerte, equivalente, fungibile. A causa della meccanizzazione e dell'automazione la produzione di cose diventa sempre più surrogabile. I lavoratori che producono cose troveranno sempre meno possibilità di impiegare il loro lavoro e saranno quindi sottoposti alla disoccupazione. I produttori di servizi personali, compresi quelli più sgradevoli e grossolani, lavoreranno più facilmente e con maggiore soddisfazione in relazione alla qualifica professionale richiesta dallo svolgimento delle loro mansioni. Ma la categoria che tende a svilupparsi sempre di più è quella degli "analizzatori sin1bolici" il cui 1nercato asson1iglia a quello dei titoli finanziari che possono godere di una inaggiore o n1inore rendita di posizione, di abilità, endogena, ecc. I "sin1bolici" si suddividono a loro volta in: consulenti, creativi, infonnativi. Essi danno luogo ad una "iperc!asse" sociale che è destinata ad aun1entare il suo potere, nella 111isura in cui le altre categorie lo perderanno. Per questo motivo non ha più senso continuare a parlare di lotta di classe secondo la tradizionale irnpostazione classico-111arxiana. Gli analizzatori sin1bolici hanno una potenzialità o capacità trasinfonnativa che contrasta con quella, debole o quasi inesistente, delle altre categorie. li conflitto quindi si svolgerà tra quelli che hanno un elevato potere informativo-comunicativo e quelli che ne sono privi per n1ancanza di creatività e capacità di fonnare di va!ore aggiunto. L eco110111ia è ancora basata sulla classica funzione della produzione aggregata neoclassica che distingue i fattori produttivi in terra, lavoro e capitale. Questa distinzione si riflette sulla classificazione, superata dal tempo ma non dalla tradizionale scienza eco110111ica, dei settori produttivi in: agricoltura, industria) terziario. Mentre oggi l'attività econon1ica di produzione o di consu1110 può distinguersi più efficacemente in attività che impiega e/o produce molta o poca energia- i nfonnazi one. 1
7. Produttività del lavoro e del capitale Il prologq della Ricchezza delle nazioni di A. Smith è la nota di Diapason dell eco110111ia politica classica e (successivan1ente) niarxiana: «li lavoro annuale di ogni nazione è il fondo da cui originaria111ente provengono tutti i n1ezzi di sussistenza e di comodo [... ] che sempre consistono del prodotto diretto del lavoro o di ciò che con esso viene acquistato da altre nazioni» 31 . 1
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R. REIC!I, The 1Vorkqf/\ra1io11s, Ne\vYork 1991. ~ 1 A. SMJTH, La ricchezza delle nazioni, Torino 1975, 73.
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Questa affermazione di principio posta a preambolo dell'opera è stata interpretata dagli autori classico-marxiani a loro uso e consumo scorgendovi le origini e le fondamenta della teoria del valore-lavoro. lo ritengo, invece, che sia più corretto e coerente con 1intenzione clelflautore intenderla co1ne una reazione forte e programmatica alle due asimmetriche concezioni della economia precedenti quella classica, La ricchezza delle nazioni non dipende dalla forza della moneta (mercantilismo), né dalla forza della natura (fisiocrazia), ma dall'attività di lavoro in senso lato. Smith però è responsabile di quella classificazionedistinzione tra il «numero di coloro che sono occupati in un lavoro utile e quello di coloro che non lo sono» 32 che costituisce il prnsupposto dell'altra e più significativa contrapposizione tra lavoro produttivo e improduttivo. Ì: chiaro che questa diversificazione del lavoro è storicamente condizionata dalla convinzione, ancora di intonazione fisiocratica, che la vera ricchezza si ottiene dalla trnsformazione materiale delle risorse naturali e umane, mentre qualunque altra forma di impiego del lavoro non dà luogo alla produzione di ricchezza reale ed è resa possibile unicamente dall'uso più o meno razionale ed equo del "fondo" ottenuto dall'impiego del lavoro produttivo. Questa differenza strutturale dell'economia capitalistica in Ricardo troverà un altra espressione nell antagonis1no tra coloro che in1piegano il loro lavoro nell'attività agricola (fonte di rendita) e quelli che lo impiegano nell'attività industriale (fonte di profitto). Egli, come è noto, prende posizione a favore degli industriali o dci loro profitti, contro gli agricoltori o le loro rendite. Si deve a questa visione sociale e politica o concezione pre-analitica la pubblicazione dcl famoso Saggio su/l'influenza di un basso prezzo del grano sui pmfìtti del capitale ( 1815) che successivamente viene sviluppato, ampi iato e completato nel la sua opera fondan1entale ,__)ui princi]Ji delfleconon1ia pohtica e llella tassazione 33 (1817) . Per Marx, invece, il conflitto nella società capitalistica avviene tra i lavoratori (operai) detentori della forza-lavoro che conferma il "capitale costante" (le macchine), riproduce il capitale variabile (forza viva del lavoro) e produce il plusvalore, e i capitalisti che se ne appropriano indebita1nente, generandosi la triade, ancora valida, della separazione, alienazione e astrazione 3'1. Nasce così il mito della teoria del valore-lavoro che è responsabile, nella buona e nella cattiva sorte, dell 1 indottrinamento o proselitis1no n1arxista. Marx afferma, dunque, che è produttivo quel lavoro che produce plusvalore. Egli deriva questo concetto da Smith per cui è produttivo quel lavoro che produce prodotto netto. Marx, però, sembra respingere un'altra definizione di Smith secondo 1
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L.c.
D. RJCARDO, Sui principi de!/'eco110111ia politica e della tassa:zio11e, l\11 il ano 1979. 34 K. MARX, li capitale, Ron1a 1964; ID., Li11ea111e11fi .fonda111e11tali della critica def/'eco110111ia politica, rircnze l 968. JJ
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cui è produttivo quel lavoro il cui prodotto s'incorpora in un oggetto materiale. Cioè non è la caratteristica (immateriale o materiale) o il valore d'uso della cosa prodotta a determinare la produttività del lavoro quanto il fatto che il lavoro venga impiegato o meno dal capitale al fine di ricavare o meno sovrappiù. Tuttavia Marx non 111antiene questa posizione e ritiene i1nproduttivo, ad es., il lavoro applicato dal capitale commerciale. «Qui chiaramente il valore d'uso si ripresenta come criterio della distinzione: la fabbricazione dell'oggetto dà luogo a produttività, mentre la fornitura del servizio della commercializzazione non dà .. ' 15 Iuogo a pro dutt1V1ta»· . li lavoro (astratto) produce valore in forza della sua "sussunzione al capitale". Capitale che svolge la sua funzione in vista dei fini che persegue la produzione capitalistica) cioè i valori di sca1nbio. Questa "sussunzione reale', del lavoro al capitale porta nella società moderna al rovesciamento del rapporto lavoratore-strumento. Non è più la macchina a mediare il rapporto tra l'uomo e la natura, ma è l'attività del lavoratore a mediare il lavoro della macchina con la n1ateria lavorata. La rnacchina incorpora una conoscenza che è "esterna ed estranea all'operaio"; è il lavoro dell'operaio ad essere funzione dello "stru1nento)' e non viceversa. In questa 1naniera nel processo produttivo si ha, anche, una sottomissione materiale del lavoro al capitale. Si completa così la categoria della separazione: il lavoratore salariato è separato dal proprio lavoro perché non possiede le condizioni oggettive della produzione; il lavoro è, a sua volta, separato dalla conoscenza, dall'applicazione della scienza e dall'organizzazione produttiva, quando le condizioni oggettive della produzione assumono la forma della "111acchi na L'eccedenza o surplus è causato dalla produttività dcl capitale e non dalla produttività del lavoro, il cui salario o consumo non è collegato alla capacità di produrre prodotto netto. Se questa nozione del sovrappiù si ricava dal complessivo i111pianto teorico di Marx è al suo interno che deve essere anche possibile mettere in discussione il concetto (tradizionale) di sfruttamento legato alla teoria del valore-lavoro 36 . li fatto cioè che la teoria dcl valore-lavoro, entrata in crisi, non sia una spiegazione del valore di scambio, significa che quel concetto di sfruttamento non è più sostenibile e bisogna rifondarlo su basi più solide. Il carattere distintivo dello sfruttamento capitalistico è che l'uomo, il "soggetto", è dominato dal proprio lavoro in quanto l'attività produttiva si risol1
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ve nella creazione di valore, cioè di una ricchezza astratta che, attraverso il
meccanismo impersonale del mercato, domina ii produttore stesso. Sono i prodotti a dominare gli uomini produttori di cose alle quali restano subordinati. Gli uon1ini, lavoratori e capitalisti, sono don1inati dal valore o dalla ricchezza a15 · C. NAPOLEONI, Discorso s11//'eco110111ia politica, Torino 1985, 67.
36 L.c., cfr inoltre F. RIZZO, //valore dei valori, rvtilano 1990.
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stratta, cioè dal denaro che essi creano. Gli uni e gli altri consumano ed accumulano non per scelte completamente consapevoli o soggettive, ma per obbedire alle intrinseche leggi del capitalismo, sistema socio-economico basata sui processi di moltiplicazione e di intensificazione della ricchezza materiale. Se i consumatori sono condannati a spendere interamente il loro reddito per procurarsi beni 1nateriali, anche a causa di "persuasioni occu[tei' e di n1anipolazioni consu1nistiche, e se i capitalisti, in quanto "funzionari del capitale)\ sono costretti a dedicarsi all'accumulazione della ricchezza (materiale) in modo irresistibile e irrefrenabile, non restano che due strade per far si che la capacità di differimento del consumo si traduca nella riappropriazione della dignità o soggettività (da non confondere con il soggettivismo) umana e nella conservazione e valorizzazione del patrimonio architettonico-ambientale. La pri111a co1nporta il superan1ento dei feno1neni, tipici di una società n1aterialista) di riduzione dei soggetti a prodotto o di "cosificazione" dei rapporti umani, al fine di (ri)acquistare la libertà di scegliere in modo consapevole come distribuire la ricchezza prodotta tra consumi e investimenti, privilegiando sen1pre pili i consun1i liberi o servizi i1nn1ateriali e gli investin1enti atti a garantirne la disponibilità. La seconda consiste nel dimostrare che una società capitalistica post-111oderna può e deve avere convenienza a conservare i beni culturali e/o a1nbientali non solo per esigenze di civiltà, 111a anche per continuare a garantire l'accu111ulazione di capita!e 37 . In conclusione, partendo da Marx e andando oltre Marx, è possibile attribuire al capitale la qualifica di produttivo: «Poiché il lavoro vivo - mediante lo sca111bio tra capitale e operai - è incorporato al capitale e appare co111e una attività che appartiene a questo, tutte le forze produttive del lavoro sociale [... ] si presentano come forze produttive del capitale, esattamente nello stesso modo in cui la forma generalmente sociale del lavoro appare nel denaro come qualità di una cosa» 38 . li capitale, al pari del denaro, incorpora e rende sociale il valore del lavoro 1nanua!e e intellettuale (fino a cotnprendere ! organizzazione, la scienza, la tecnologia) e diventa produttivo in quanto "costringe" a fornire pluslavoro. li capitalisn10 è un sistcn1a socio-econo1nico caratterizzato dal seguente circuito: 1
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Dìscorso s11/! eco110111ia politica, cii., 67. 1
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È l'intero processo economico rappresentato dal circuito suddetto ad essere produttivo di plusvalore e non il lavoro vivo o il denaro o il capitale da solo. Se «la capacità lavorativa è produttiva a causa della differenza tra il suo valore e la sua valorizzazione» (proprietà del capitale) e non a causa della differenza tra il "lavoro con1plessivo', e il "lavoro necessario" 39 , il proble111a non è quello di stabilire (o di chiedersi, come fa Marx) se e in che modo è produttivo il lavoro o il capitale - anche per evitare di contare due volte la stessa forza produttiva, una volta come forza produttiva del lavoro e una volta come forza produttiva del capitale - ma di prendere atto che è produttivo l'intero processo cconon1ico capitalistico. Nelle fanne più avanzate di capitalis1110 non è pili la 1nacchina a n1ediare il lavoro dell'uomo e la natura, ma è il lavoro dell'uomo, "ridotto a una semplice astrazione di attività", a mediare il rapporto delle macchine (incorporanti la scienza e [1organizzazione) con la natura. In forza di questo rovescia1nento «la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro o dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro [... ] (in ragione dello) stato generale della scienza e (del) progresso della tecnologia o (dell') applicazione di questa 40 . . scienza a Il a pro d uz1one» . Quindi in una società capitalistica avanzata si è costretti ad attribuire la produttività al capitale, non è più il tempo di lavoro (o la teoria del valorelavoro) a regolare e misurare la produzione della ricchezza, dato che quest'ultima dipende dalla scienza e dall'organizzazione. li capitale non è più il risultato del valore di scambio connesso al tempo di lavoro, quanto essenzialmente l'effetto della scienza e dell'organizzazione che assieme alla neg-entropia (energia 41 disponibile) danno luogo ad una nuova teoria del valore • Entra in crisi, cioè, la produzione basata sui comuni valori di scambio per lasciare il posto ad un'attività socio-econon1ica fondata sui valori d1uso soci al i. «li lavoro produttivo di merci è duplice: esso è, ad un tempo, lavoro concreto e lavoro astratto. In quanto lavoro concreto esso produce valori d'uso; in quanto lavoro astratto, esso produce valori (di scambio); [ ... ]. Ma se si rompe il !ega1ne tra i! valore d'uso e il lavoro concreto, perché il valore d 1uso viene a dipendere da altro, allora lo stesso lavoro astratto cessa di essere rilevante e il valore di sca1nbio viene privato della sua base necessaria»'12 .
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K. l'vlARX, Teorie del plusvalore, I, Ron1a 1971, 585ss. !D., Linea111e11ti fo11da111e11ta/i della critica de!/ 'econon1ia politica, cit., II, 400-403. 41 F. RIZZO, Economia del patrimonio arc/Jitettonico-ambienta!e, Milano 1989. 42 C. NAPOLEONI, Discorso s11/l'eco110111ia politica, cit., 77. J
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8. Energia ciel lavoro o lavoro cieli 'energia: i Ire surplus
I. Dal concetto di produttività (fisiocratico-smithiano) come capacità di produrre prodotto netto o co1ne valore d'uso incorporato in beni n1ateriali si è passati al concetto-funzione di produttività come proprietà che l'intero sistema socio-economico capitalistico ha di creare surplus o valore aggiunto. E nonostante lo schematismo del ragionamento seguito nel paragrafo precedente (per ovvie esigenze di spazio) credo che non sfugga a nessuno l'importanza che ha (avuto) il pensiero economico classico-marxiano e di Marx in particolare per il raggiungimento del suddetto risultato. Certo, la concezione del lavoro dei vari econoinisti della scuola classica e 1narxiana passati in rassegna non è stata 111ai compiuta o completa. Di volta in volta essi hanno sottolineato uno o più aspetti fondan1entali dc! lavoro, lasciandone in 01nbra altri. Sicché non sono stati 111ai in grado di analizzare la complessa funzione creativa di ricchezza svolta dal lavoro in modo sistematico, organico e globale. Tuttavia i sostenitori del paradigma
classico-1narxiano hanno il inerito di avere intuito che il lavoro è una o l'unica fonte dcl valore, non un semplice strumento di produzione al pari della terra e del capitale. Quindi, per quanto la loro analisi economica abbia fatto registrare una serie ininterrotta di insuccessi tcorico-fonnali, ad essi spetta il n1erito di non avere 111ai trascurato o sottovalutato la funzione creativa e soggettiva del lavoro. Al contrario gli cconon1isti neoclassici o n1arginalisti o utilitaristi considerano il lavoro un fattore produttivo compreso nella fonzione aggregata e tecnologica della produzione, cioè: q=f (L, T, K) in cui q=quantità di bene prodotto; L=lavoro; T=terra; K=capita!e. Per questo n1otivo, a 111io avviso, la teoria neoclassica del lavoro resta esclusa dal precedente conf'ronlo o dibattito, riducendo la sua capacità investigativa dei sistetni econotnici ed ogni possibilità evolutiva in direzione di una loro n1igliore con1prensione. Ciò detto, col senno di poi, risulta semplice risalire alle motivazioni profonde dei limiti e delle contraddizioni, analitiche ed esistenziali, dell'approccio classico-marxiano al (valore dcl) lavoro. li lavoro non è solo o tanto energia fisica) 111uscolare, quantitativa, operativa (cotne spesso i classici e !o stesso Marx hanno indotto a ritenere) 111a consiste in una attività che produce i tre tipi di surplus precedentemente richiamati: il surplus naturale o materiale energetico, entropico, neg-entropico; il surplus biologico-evolutivo genealogico (informazionale) ed ecologico o ecosistemico (econo1nico); il surplus infonnativo-coinunicativo (infonnazione 1naten1atica e con1unicazionc sen1antica). In altri tennini, la vita (esistenziale e/o cognitiva) dell 1uon10 non è altro che una attività di lavoro (in cui ogni conoscenza è azione ed ogni azione è conoscenza) basata sulla produzione dei tre surplus anzidetti. Quindi per comprendere e valutare il valore del lavoro bisogna conoscere i processi trasinformativi che portano alla creazione di ogni tipo di surplus. Inoltre è
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opportuno ricordare che anche la natura è essenzialmente caratterizzata da processi energetico-informati vo-cotnunicati vi 43 • 2. La scuola energetica dimostra che la natura è un insieme di processi di produzione, trasferi1nento, trasfonnazione e scarto delPenergia. La stessa storia della civiltà è influenzata fortemente dalla utilizzazione sempre più economica ed efficace dell'energia bruta della natura. L'energia è un equivalente generale di tutte le trasformazioni dei fenomeni fisici. L'equivalenza energia-materia consente la riduzione del diverso a una identità più fondamentale, del cambiamento, e una pennanenza più profonda. Risalta subito l'analogia con l'energia economica, cioè la 111oneta, che è un equivalente generale degli sca111bi e consente di ridurre beni diversi in una identità più generale e astratta, la ricchezza sociale, avente una pern1anenza profonda. La stessa libido sessuale costituisce una sorta di equivalenza generale di tutte le manifestazioni della vita psichica. Nel 1847 Joule conferisce un contenuto quantitativo al principio di conservazione dell'energia 111isurando il lavoro n1eccanico necessario per innalzare di un grado la temperatura di una certa quantità di acqua, e operando così la conversione tra energia tneccanica e tennica. Nasce così la scienza dell'energia necessaria per esplorare la traina intricata dei fenon1eni chin1ico-fisici e biologici. I fcno111eni naturali, sia 1neccanici che chi1nici o vitali, consistono quasi 10tahnente in una conversione continua tra forza di attrazione, forza viva e calore. Ciò n1antiene l'ordine dell'universo che è un n1acchinario che lavora dolce1nente e arn1oniosan1ente. Mentre il lavoro si trasforn1a in energia senza perdite, l'energia si trasfor111a in lavoro dissipandosi e degradandosi in entropia. Questa dissipazione può dare luogo a delle strutture che creano ordine dal disordine mediante fluttuazioni. Si passa così dal tempo-degradazione (entropico) al tempo-costruzione (neg-entropico ). L'universo lontano dall'equilibrio, attraverso la forn1azione di "strutture dissipative", diventa pili coerente, sensibile, aperto, intellegibile, trasformativo e con1unicativo. Svolge, cioè, un lavoro creativo che è responsabile del sorgere del !'organizzazione biologica funzionai-strutturale, asi1nn1etrica in senso spaziotemporale, sottoposta al dis-corso irreversibile del tempo. li lavoro svolto dalla natura è finalizzato alla creazione delle forme organizzative del multiuniverso. Ciò conferisce alla natura una sorta di fina!isn10 entropico o sinentropico che si 1nanifesta nella sua n1assin1a intensità nei feno111eni vitali. La vita - dice Schrodingcr - divora neg-entropia strutturale o anabolica. Vi è un uso vitale e un uso 11
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~ 3 Ciò ha indollo Ilya Prigogine a suggerire la necessità di unificare le scienze dell'uon10 e le scienze della natura ristabilendo una fluova Alleanza. Per un approJOndi1nento di questo argon1cnto a/'E1scinante e decisivo per le so11i clcll'uon10 e dc! 1nultivcrso cosnlico, cfr anche f. Rizzo, La scienza delle va/11tazio11i (in corso di stan1pa). 1
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lavorativo dell'energia. L'uso vitale o endosomatico è quello degli animali o delle piante, mentre quello lavorativo o esosomatico si riferisce all'uomo. L'energetica ecologica o economica ha trovato in Georgescu-Roegen 4'1 il sistematore geniale, ma ha illustri sostenitori e precursori negli energetisti che a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, senza tanta fortuna, hanno tentato di produrre una teoria del valore-energia in grado di sostituire quella classica del valore-lavoro e quella neoclassica del valore-utilità o produttività marginale. 3. L uso vitale o endoso111atico dell energia e l\1so lavorativo o esoso111atico dell'energia dipendono dalla costituzione biologica degli esseri viventi e della loro capacità di "ad-attamento" o di "ex-attamento" all'ambiente. 11 lavoro vitale o la vita lavorativa degli uomini consiste nel!a tra-s-in-forn1azione interna ed esterna dell'energia. L'intero processo è di tipo funzionai-strutturale o dissipativo ed evolutivo. Si tratta, cioè, di un attività che divora energia per costruire incessantemente le forme organizzative di cui ha bisogno. E nel dare forma agli assetti o presidi organizzativi ha un ruolo inforn1ativo-co1nunicativo filo e ontogenetico. Nell av-venire o nel di-venire della vita si f-attua l evoluzione esistenziale. Si è visto che quest'ultima può essere di tipo genealogico (o informazionale) e di tipo ecologico o ecosistemico (economico). L'evoluzione genealogica si basa essenzialmente sulla tìmzione di riproduzione che a sua volta dipende dal DNA (acido desossiribonucleico) e dal RNA (acido ribonucleico simile). La prima molecola codifica, la seconda trascrive il codice e lo riproduce. Quindi il patrimonio cromosomico delle cellule contiene una specie di "codice cifrato o i! "testo di un codice" indispensabile per la trasn1issione o comunicazione ereditaria dei caratteri di una specie. Schrodinger applicando i metodi della meccanica quantitativa dimostra nel 1944 come la cellula sia governata da un codice inscritto nei genil! le cui 1nolecole sono costituite da un cristallo aperiodico for111ato da una sequenza di elen1enti iso111erici che danno luogo al codice ereditario. Tale codice contiene il piano di sviluppo dell'organis111045. In base a questo processo meccanico è possibile perpetuare la vita degli organisn1i che traggono dall an1biente energia libera o entropia negativa che è una n1isura dell 1ordine. ln conclusione !a 1neravigliosa capacità che ha un organis1no di concentrare un flusso di ordincn o di divorare entropia negativa fornita da un an1biente adatto, è connessa con la presenza del "solido aperiodico", le molecole del cromosoma che rappresentano il pili complesso tipo di associazione atomica ben 1
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'lìie Entropy law and The Econo111ic Process, 1-Iarvard 1971. Che cos'è la vita, Milano 1995.
GEOROESCU-ROEGEN, E. SCJJRODINOER,
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ordinata conosciuto. In altri termini l'organismo è una struttura dissipativa o neg-entropica grazie ai suoi processi infonnativi e co1nunicativi regolati dal codice genetico o di tras1nissione ereditaria. L'evoluzione genealogica si riferisce alla conservazione, ricon1binazione e alla variazione delle informazioni presenti nel genoma attraverso la riproduzione degli individui e il succedersi delle generazioni. Ma gli individui di una specie interagiscono con gli individui di altre specie per procurarsi il cibo e l'energia (finalità economiche) in determinati contesti ecosistemici o ecologici. L'evoluzione è il risultato dell'intreccio delle due dimensioni o gerarchie: genealogica ed ecologica. 4. L'ultimo tipo di surplus riguarda l'attività semiotica di significazione, inforn1azione e coinunicazione degli esseri u111ani che for111ano co111unità sociali. L'interazione sociale ha una natura o cultura flessibile, plastica e creativa che è legata a!l attività con1unicativa) estetico-sitnbolica, critica, letteraria, narrativa, poetica, etica, etc., degli uo111ini. L'uomo è un organismo biologico che si alimenta di entropia negativa o energia libera non solo per soddisfare esigenze fisico-chimiche (o naturali) c bio-ecologiche, ma anche spirituali e immateriali (o culturali). Il linguaggio è la din1ora dell essere, è il luogo dove l'essere realizza o idealizza la sua autocoscienza e inventa la realtà. Senza il dialogo o la discussione, l'uomo non potrebbe prendere coscienza del la sua essenza ontologica e quindi non sarebbe in condizione di svolgere alcuna attività cognitiva. li surplus culturale, come gli altri surplus, è contemporanea1nente niatcriale e i1nn1ateria!e, in quanto è il prodotto di processi segnici che comprendono una componente razionale o logico-referenziale (rapporto significato/referente fisico) ed una componente irrazionale o arbitraria (rapporto si gn ifi cato/s ign ili cante). La produzione segnica, cioè l'as-segnazione di significati, concetti, funzioni ai segni, precede ! infor111azione che può essere di due tipi: l inforn1azione matematica alla fonte avente carattere statistico (equiprobabile) e misurabile in bit d entropia; Pinforn1azione semantica tras1nessa e assi1nilata sovrapponendo alle possibilità comunicative di una fonte un codice o un'enciclopedia interpretativa che ne riduca e selezioni le potenzialità. La trasn1issione tra gli esseri u1nani avviene in universi di-segni che infonnano o danno fonna alle idee e alle cose per fini con1unicativi. Tra l'informazione e la con1unicazione vi è una relazione inversa o indetern1inistica. La con1unicazione se111plice inforn1a poco o niente, e viceversa. li surplus o valore dell'informazione è correlato all'ambiguità o potenzialità comunicativa. Quando si applicano le regole delle diverse grammatiche esistenziali e cognitive in 111aniera ordinata) norn1ale, scontata, pacifica, cioè senza 1
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porre alcun problema interpretativo, si è ripetitivi, ridondanti, inerti. Per aggiungere valore all'informazione posseduta inizialmente è necessario sconvolgere, sorprendere, cambiare le carte in tavola, introducendo un qualche disordine ordinato (e in qualche modo decodificabile) nell'ordine precedente o già decodificato. Per questo motivo gli scienziati o gli artisti sono creativi di valore aggiunto, 1nentre !a stragrande n1aggioranza degli uo111ini è burocratica o i111produttiva. Si può riassumere questa parte affermando che il valore del lavoro dipende dalla sua capacità di valorizzare o creare neg-entropia termodinamica, biologica (genetica ed economica) e culturale (informativo-comunicativa). Ciò è sempre il risultato della combinazione dell'energia e dell'informazione.
9. Per una nuova teoria c1el valore I. Le considerazioni e le riflessioni svolte a proposito dei tre surplus aiutano a comprendere le ragioni del fallimento dei vari tentativi fatti (o non fatti) di elaborare la teoria del valore e quindi la scienza del valore e delle valutazioni che è l'economia politica. Vi sono due modi di intendere la teoria del valore: uno forte e uno debole. In senso forte la teoria del valore serve a stabilire le ragioni di scambio tra i beni. A tal fine è necessario conoscere la fonte o la causa del valore, da non confondere con la ricerca dell'unità di misura, possibilmente "invaribile", del valore, come spesso è stato usato il lavoro (a partire da Smith fino a Keyncs). In senso debole la teoria del valore si intende, in senso più generale o generico, come la scoperta della sostanza valorizzata della ricchezza economica di un paese. In questa accezione la teoria de! valore sfu1na i suoi contorni e diventa una ragionevole 111otivazione del benessere sociale ed eco110111ico di una nazione: niente di più. 1
2. L equazione ricchezza=1noneta rappresenta la prassi o credenza 1nercantilistica, ripresa da Malthus e riabilitata da Keynes. È una delle due teorie del valore in senso debole. La "forza del denaro" è fondamentale per conoscere le leggi di n1ovi111ento del capita!isn10, 1na non basta. La nioneta è uno stru1nento progettuale al pari di qualunque forma di linguaggio, un anello di congiunzione del presente al futuro, un assicurazione contro i rischi e le incertezze, un equivalente generale degli scan1bi. Inso1n1na la 1noneta è un segno del valore che svolge un ruolo strategico nella ncre1natistica o scienza della ricchezza, 111a trascura o lascia fuori dal suo campo di azione le proprietà fisico-chimiche, biologiche ed etico-estetiche dell'attività economica di produzione e di consumo. Beninteso, il paradigma speculativo (monetario e finanziario) è indispensabile per 1
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la reinterpretazione in tennini post-keynesiani della teoria classica e n1arxiana
della produzione, dell'appropriazione, dell'accumulazione, dello scambio e del consumo della ricchezza. Ma bisogna andare oltre, altrimenti la scienza econo111ica trascura il rapporto uon10-natura e cosifica o 1nonetizza le relazioni sociali attraverso la riduzione dell'essere in valore di scambio. Sebbene la rivoluzione keynesiana, che prende le mosse dagli "elementi di verifica scientifica 11 contenuti nel 1nercantilis1no, condivida con 11analisi 111arxiana il merito di avere approfondito la struttura del capitalismo e la sua genetica tendenza alla crisi) quest approccio all'econon1ia è riduttivo: perché alin1cnta l'idea (post-keynesiana) fallace di una crescita senza limiti e non si pone quindi alcun proble111a di esaurilnento e inquinan1ento delle risorse naturali; non considera lo slancio creativo dc!l 1uo1110 o la sua attività lavorativa ncg-entropica tendente a forn1are !!ordine da! disordine" (con1e avviene statistican1ente in ogni !!struttura dissipativa e ordine dal! ordine (co1ne avviene nelle leggi dinan1iche della vita o della sostanza vivente). Le stesse "Note conclusive sulla lìlosofia sociale" che Kcynes es-pone nell'ultimo capitolo della Teoria Generale non perseguono il fine di rendere 1econo111ia più coerente con i bi-sogni e le esigenze degli uo111ini, quanto di rendere più nrazionale 11 cd efficiente il capitalis1110. Di fatti "l incapacità a provvedere la piena occupazione e !a distribuzione ordinaria ed iniqua delle ricchezze e dei redditi'', quando non s è in una situazione di piena occupazione, possono superarsi 1ncdiante lo sviluppo ciel capitale ottenuto che presuppone un'elevata e crescente propensione a! consu1110 e, quindi, una più equa redistribuzione dei redditi. La di1ninuzione della disoccupazione, l'au111ento dei consuini e la redistribuzione della ricchezza sono "favorevoli a!Paumento del capitale". ln questo senso egli era un vero liberale che non concedeva al di là di qualche uscita stravagante e geniale, spazio all'etica e/o all'estetica econon11ca. ln questa prospettiva Keynes non avrebbe potuto dedicare alla teoria del valore "quei venti 111inuti necessari per co111prcnderla". Certa, è un'affennazione sprezzante, condivisa ma non pronunciata dallo stesso Keynes, che documenta la scelta epistemologica e teorica di chi non vuole avere niente a che fare con le questioni fondan1entali de\! esistenza un1ana e della natura. Tuttavia, non si può ritenere che Keyncs non abbia avuto di fatto un qualche approccio al valore senza il quale difficilmente sarebbe diventato quel conoscitore o interprete raffinato dell'economia monetaria della produzione capitalistica. lnfatti, vi è nelle sue opere fondamentali una teoria del valore del capitale basata sull'inlluenza che le previsioni tì.1ture esercitano sul valore attuale dei beni capitali e sui comportan1enti consequenziali degli operatori econo111ici'16 . 1
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'16 Per un approfondin1ento di questo argo111cnto cfr F. Rrzzo. La di11a111ica dei capitali. Catania 1984.
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La forza-lavoro in questo quadro paradigmatico è una "merce" (Marx) co1ne le altre, cioè uno struinento che non dev 1essere nprodotto 11 in eccesso e non deve subire crisi di sottoccupazione. Quando il mercato non è in grado di
evitare le crisi di sotto utilizzazione del lavoro (come di qualunque altra risorsa strumentale) deve intervenire la spesa pubblica della Stato ad elevare il livello della domanda effettiva, senza curarsi del la qualità e della direzione d'impiego della capacità di lavoro umana. In una società siffatta, il lavoro non ha alcun valore finalistico 1na è solatnente uno stru1nento e una 1nerce. 1
3. L equazione ricchezza=terra è l'altra teoria in senso debole e viene affennata dagli neconon1isti 11 fisiocratici. Essi hanno il 111erito di avere ancorato la ricchezza alla "forza della natura" e di avere in1postato l'intera econo111ia co111c un processo stazionario coerente con la produzione di neg-entropia e basato sul-
l'interdipendenza o sulla correlazione tra le varie classi sociali. La corrente (neo)fisiocratica dell econo111ia intuisce che le risorse naturali sono basilari per la creazione bio-fisica di prodotto netto ed è correttamente considerata l'antesignana dell'economia ecologica o meglio dell'eco-economia. Ma sottovaluta la funzione del lavoro o dell'uso lavorativo o esosomatico dell'e1
nergia u1nana.
I fisiocratici avrebbero dovuto ricordare quello che affermò William Petty e fu ripreso da Marx: la ricchezza materiale o i valori d'uso hanno la terra come madre e il lavoro come padre47 • Ad essi non si poteva richiedere, a quel tempo, di considerare anche il carattere estetico-qualitativo dei processi econon1ici, 111a, avendo intuito l'importanza strategica dell'energia naturale avrebbero potuto ritenere quella forn1a di energia che è i! lavoro, alineno, altrettanto decisiva per la produzione della ricchezza li Tableau èconomique di Quesnay assumerà la forma analitica del modello input/output di W. Leontief che correttamente coglie l'interdipendenza economica dei diversi settori produttivi, senza privilegiarne alcuno, e consente, fra l'altro, di determinare i prezzi impliciti o di interdipendenza contabile anche dei beni o dei servizi che non hanno mercato. Ma l'uso più classico del modello di Leontief (aperto o chiuso) è nella programmazione economica e nella pianificazione urbana e regionale. Ben inteso, l'interazione tra le in1111issioni e le cn1issioni dell attività econo1nica presuppone l'adozione di una in1postazione cibernetica di prin10 grado, dato che la struttura siste1nica o !a farnia di correlazioni 1
ordinate non produce alcuna eccedenza o surplus.
In conclusione si può dire che l'approccio fisiocratico ha indubbie benemerenze nel prendere le distanze dalla concezione cre1natistica della ricchezza economica e nel sottolineare gli aspetti tisici e biologici (il che spiega la sua 11
~ 7 K. MARX, Il capitale, Ili, Roma 1974, capitolo I, 35.
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valenza ecologica precorritrice delle istanze ecosistemiche moderne e postmoderne), ma perde la possibilità di potere coniugare insieme la teoria del valore (energia naturale) dei fisiocratici e la teoria del valore-lavoro di Marx. Obiettivo, per la verità, che sarà trascurato anche da Marx e verrà riproposto dagli economisti energetisti che si svilupperanno a partire dalla seconda metà dell'Ottocento in avanti. 4. La teoria del valore-lavoro dei classico-marxiani è il primo vero tentativo di formulare un approccio al valore forte, in quanto il lavoro viene considerato l'unica causa del valore dei beni i cui prezzi stanno tra !oro in un rapporto che è pari alle quantità di lavoro rispettivamente impiegate per produrli. Come ho scritto pili volte, A. Smith non ha mai pensato di definire un vera teoria del valore-lavoro. Ne La ricchezza rie/le nazioni egli reagisce e prende posizione contro i n1ercantilisti e i fisiocratici e arriva a sostenere che i! lavoro in senso lato è la fonte della ricchezza sociale. Ma in Smith il lavoro non è un semplice fattore della produzione, né una merce come le altre, ma una specie di energia vitale e lavorativa avente una potenzialità neg-entropica. Il fondatore della scuola econon1ica classica e dell 1econon1ia politica in quanto scienza, spesso usa il lavoro, con1e successivan1ente farà Keynes, co111e unità di 1nisura del valore. Inoltre egli è consapevole che solo nello «stato primitivo e incivile della società che precede l'accumulazione del capitale e l'appropriazione della terra, la proporzione tra le quantità di lavoro necessario per ottenere diversi oggetti se1nbra sia !a sola circostanza che possa offrire qualche regola per sca111-
biarli l'uno con l'altro,,'18 . Poi aggiunge nello stesso capitolo sesto che ha il significativo titolo le parli componenti del prezzo delle merci: «Non appena il capitale si è accumulato nelle mani di determinate persone [.. .]. Non appena la terra di un paese diventerà tutta proprietà privata [... ]. Salari, profitto e rendita sono le tre fonti originarie di tutto il reddito come pure di tutto il valore di scambio,,'19 . Quindi anche se Smith usa spesso l'ambigua espressione "prodotto annuale del lavoro 11 egli sa che «in un paese civile ci sono soltanto poche 111erci il cui valore
di scambio provenga unicamente dal lavoro, poiché la rendita e il profitto contribuiscono largamente al valore della stragrande maggioranza di esse, il prodotto annuale del lavoro sarà sempre sufficiente ad acquistare o disporre di una quantità maggiore di lavoro di quella che è stata impiegata per coltivare, prepa50
rare e portare quel prodotto al 1nercato» . I beni, cioè) "co1nandano 11 una quantità di lavoro n1aggiore di quella in1picgata o incorporata in essi a causa della
partecipazione della terra e del capitale nella produzione del loro valore. Quindi, a parte alcune contraddizioni di tipo terminologico, è una forzatura ideologica
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A. SMITIJ, La ricchezza delle nazioni, cit., 132. Jbid., 135-138. so lhid, 140. 19 '
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ritenere A. Smith il fondatore della teoria del valore-lavoro in senso analitico e formale. Un ragionamento analogo, seppure con qualche differenza nelle motivazioni, si può fare per D. Ricardo. L'agente di borsa o lo speculatore finanziario Ricardo, la cui attività scientifica è mossa dalla ferma difesa del profitto dci capitalisti industriali contro la rendita dei proprietari terrieri, solo indirettamente si imbatte nella questione del valore. Egli va alla ricerca disperata di una unità di 1nisura 11 invariabile 11 per di111ostrare che variazioni nella distribuzione de!la ricchezza e dei prezzi non influiscono sul saggio del profitto. La teoria del valorelavoro pura risolve il problema posto da Ricardo solo quando la produzione si svolge in presenza di un rapporto capitale/lavoro uniforme. In tutte le allre circostanze1 il lavoro non basta a giustificare il valore se non in rnaniera più o 1ncno approssin1ata. R_icardo è costretto a prendere atto del diverso valore o qualitil del lavoro introducendo nell'analisi economica il fattore tempo, tanlo da essere considerato un precursore della teoria austriaca del capitale. In sintesi questo è il risultato della sua opera fondamentale". L\111ico econon1ista che punta decisan1ente sulla validità della teoria del valore-lavoro è K. Marx. li suo socialismo scientifico non ne può(?) fare a meno. Il capitalisn10 è un sisteina sociale cd econo111ico contraddittorio e distorto perché i capitalisti si fànno la concorrenza in tennini di saggi di profitto e non, come dovrebbero, in base ai saggi di plusvalore. Inoltre essi tengono conto dci prezzi e non dei valori(-lavoro). Ma Marx vuole din1ostrare con1plcssivan1e11te che la somma dei plusvalori (e dci valori) è uguale alla somma dci profitti (e dei prezzi). li maggior guadagno di alcuni viene compensato dal minor guadagno di altri e i beni, i cui prezzi sono niaggiori dei valori, sono con1pcnsati dai beni i cui prezzi sono 1ninori dei valori. Ma la din1ostrazione non riesce perché l'operazione scientifica di "trasfonnazione del valore in prezzo attraverso cui Marx tenta di giustificare la teoria del valore-lavoro, fallisce a causa di alcuni difetti fonna!i. Quando la trasforn1azione viene in1postata corretta1nente, elin1inando le in1perfezioni dell analìsi di Marx, la letteratura econon1ica successiva e soprattutto Procluzione di n1erci a n1ezzo di 111erci di P. Sraffa 52 , si incaricano di din10strare l inutilità o l erroneità di qualsiasi teoria del valore tradizionale, con1presa quella fondata sul lavoro. I motivi del fallimento della teoria valore-lavoro di Marx sono parecchi. Egli non tiene nella dovuta considerazione l'affermazione di W. Pctty richiamata e condivisa nel primo capitolo del primo libro del Capitale secondo cui il valore ha la terra come madre e il lavoro come padre. Né vale precisare che Marx quando cita positivamente Pctty si riferisce al valore della ricchezza so11
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51 D. RICARDO, Sui pri11c1jJi de// 'economia politica e della tassazione. cit. 52 P. SRAFFA, Produzione di merci a 111ezzo di merci, Torino 1960.
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ciale, mentre quando tenta di dimostrare la teoria del valore-lavoro si pone l'obiettivo di spiegare i valori di scambio dei beni. Questa distinzione, infatti, ricondurrebbe Marx alle stesse conclusioni a cui erano pervenuti Smith e Ricardo, senza evitare le antinomie e le imperfezioni teoriche. Piuttosto è utile rilevare i li1niti di una teoria econon1ica, co1npresa quella classico-111arxiana, detenninistica e assolutistica. Jn questo contesto la trasfonnazione del valore in prezzo non
avviene, come sarebbe stato coerente, secondo la mediazione del saggio del profitto, 1na in base ad un 1neccanicisn10 111aten1atico che annulla il carattere pro-
cessuale e probabilistico dell'attività economica. Jn altri termini, il socialismo scientifico esige il livellamento delle capacità di lavoro degli uomini che perdono la loro soggettività o creatività ed assun1ono una funzione o din1ensionc
strumentale. Nelle società socialiste (ma anche in quelle capitaliste) il lavoro inteso in senso oggettivo, riduttivo e limitato non può spiegare i valori di scambio (carenza scientifica), nia soprattutto non serve a recuperare la dignità o la soggettività degli uoinini (carenza etica). Gli econoinisti classici-n1arxiani hanno grandi bene1nerenze analitiche n1a i loro n1odclli risultano inadeguati perché sono sottoposti a crisi di sovraccarico ideologico e politico. 5. Gli econon1isti neoclassici o 1narginalisti adottano una teoria del valore incon1pleta, ingannevole e incurante della funzione pri1naria e fondan1entale del lavoro. Essi sostengono che in condizioni di razionalità di con1portan1ento indi-
viduale si verifica il livellamento delle utilità o produttività marginali ponderate, cioè il rapporto tra i prezzi dei beni di consumo (o di produzione) è uguale al rapporto delle loro utilità (o produttività) marginali. li valore non dipende sola dalla utilità marginale dei beni, ma anche dalla loro bellezza estetica, natura etica, valenza ecologica, proprietà energetica, ecc. Mentre la produttività intesa in senso tecnologico, tnateria!e, quantitativo e te111-
poralc è responsabile degli elevati saggi di preferenza del presente rispetto al futuro e quindi dei processi di esaurin1ento e inquinan1ento delle risorse naturali.
Jnoltre l'accento posto sul grado finale di utilità o produttività decrescente, pit1 per il rispetto della "condizione di secondo ordine" imposta dal calcolo differenziale per l1otti111izzazione 1naten1atica che per ragioni di rispondenza alla realtà dei processi di produzione e di consun10, se è coerente con le proprietà dei beni 111ateria!i e di prin1a necessità, non si addice ai beni in1111ateriali, culturali, artisticii architettonici 1 ecc. lnson11na il concetto di utilità o di produttività 1nar-
ginale decrescente limita la validità della scienza economica e la condanna ad occuparsi essenzialmente della soddisfazione dei bisogni naturali, fisiologici e bestiali din1enticando che "l 1uo1no 11on vive di solo pane 11 • Sicché 11on ci si deve stupire se l'econon1ia 1narginalistica nata per valorizzare !a variabile soggettiva e psicologica dell\1tilità, scade in un nieccanicisino 1naten1atico estren11st1co e
livellatore. Jnoltre la definizione-quantificazione di utilità marginale come la
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derivata parziale della funzione di utilità rispetto al bene considerato comporta la misura cardinale di una variabile qual è l'utilità che ha carattere ordinale, mentre la definizione-quantificazione della produttività marginale come la derivata parziale della funzione di produzione rispetto al fattore produttivo considerato fa incorrere nel vizio tautologico o del ragionamento in circolo quando si riferisce al capitale: per determinare la produttività marginale del capitale (uguale al saggio di profitto o di capitalizzazione) bisogna conoscere il valore del capitale, ma per determinare il valore del capitale, bisogna conoscere il saggio del profitto. Questa è una vecchia storia mai risolta. Infine la perfetta divisibilità o surrogabilità dei fattori produttivi, richiesta dall'analisi economica neoclassica, po1ia a considerare la sostituibilità del lavoro con qualsiasi altro fàttore e viceversa, inediante la detcnninazione 1nate1natica dei saggi 111arginali di sostituzione tra i fattori produttivi. Il che è una ulteriore conferma del fatto che il lavoro per gli economisti neoclassici è uno strumento di produzione come gli altri che finisce con l'essere impiegato in quantità relativamente piccole rispetto al capitale o alla terra, proprio per aumentare la sua produttività. In questo modo, si ottengono elevate produttività marginali del lavoro e basse produttività marginali del capitale e della terra a causa del principio dei rendin1enti decrescenti. Ciò co111plcta il quadro: il lavoro è considerato
uno strun1cnto con1e gli altri fattori produttivi e deve essere in1piegato in 111isura 1ninore rispetto ad essi, di qui la disoccupazione o l'inoccupazione. Seppure in modo schematico o letterario credo di avere fornito una serie di elementi di giu-
dizio critico che invalidano la teoria del valore elaborata dai neoclassici per spiegare contemporaneamente la produzione e la distribuzione della ricchezza,
anche per il ruolo stru111entale, subalterno e inun1ano assegnato in questo contesto analitico al lavoro. A questo proposito è utile ricordare che nel modello teorico neoclassico
la ri111unerazione de! lavoro non avviene in base alle capacità creative e soggettive dci lavoratori, 111a secondo la n111etafora della produttività 111arginale. I! che significa che in un processo produttivo il deci1110 lavoratore i111piegato, ad es., ha un salario più elevato de! ventesi1110 lavoratore, in quanto 111an n1ano che au11
mentano i lavoratori occupati in un impresa diminuisce la loro produttività. Sicché se si cambia il posto dci lavoratori, quello che era al ventesimo posto passando al decimo posto diventa più produttivo e quello che era al decimo posto passando al ventesimo posto diventa meno produttivo. Ciò appare assurdo perché lo stesso lavoratore ha un rendimento diverso in ragione del posto occupato.
Per non dire che continuando ad au111entare il nu1nero dci lavoratori occupati si può abbassare la loro produttività marginale fino ad annullarla o a farla diventa-
re negativa, con la conseguenza i !logica e irragionevole di dovere teorica1nentc co1npensaren (si fa per dire) i lavoratori ag-giunti al1 ulti111a ora" con salari uguali a zero o negativi. 0
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La tecno-logica disumana dell'economia neoclassica non tiene conto della logica umana del Vangelo così come è rappresentata dalla parabola degli operai53. «"Dopo aver fissato con i lavoratori il salario di un denaro a! giorno il padrone li n1anda nella sua vigna Poi, in ore successive, invita altri lavoratori impegnandosi a dare loro "quel che sarà giusto": una paga uguale per tutti. Venuta la sera ai lavoratori viene pagata la "loro n1ercede con1inciando dagli ulti1ni sino ai primi". Nascono le proteste. Il padrone risponde che ad ogni lavoratore dà quello che aveva promesso e vuole dare a tutti la stessa paga. Che colpa hanno gli ultiini lavoratori se non c è stato nessuno che li ha presi a giornata sin dalla prima ora? Forse, per questo, non hanno tutti gli stessi bisogni? Certo, se chia1nati bisogna lavorare fedeln1ente per rendere un servizio agli uon1ini e collaborare all'opera creativa di Dio, oltre che per procurare il sostentamento proprio e dei propri familiari» 54 . A parte l'opportunità di richiamare in questo caso i principi di responsabilità, sussidiarietà e solidarietà che debbono contribuire ad ammortizzare le crisi e !e tensioni sociali conseguenti alla disoccupazione, quello che qui 111i interessa fare rilevare è la radicale contrapposizione che vi è tra la tecno-logica della scienza econo111ica neoclassica e la logica u111ana del Vangelo del lavoro: secondo la scienza economica uguali quantità di lavoro prestato devono o possono essere (teorica1nente) con1pensate con salari diversi, secondo il Vangelo del lavoro diverse quantità di lavoro prestato devono o possono essere compensate con salari uguali. Beninteso, sono consapevole di avere fatto un ragionamento paradossale, ma non vedo altra strada per risolvere i problemi del mondo che non sia quella dell'utopia (non solo evangelica). Certo, non sarà la disumana, de1noralizzata e devitalizzata econon1ia neoclassica a trarci dagli iinpicci. Quindi non ci si deve stupire se, a proposito dell'ottimo paretiano che costituisce la n1agna caria dell econo1nia neoclassica del benessere, capita di leggere arfern1azioni con1e questa: «Il criterio (di Pareto) non definisce un unico n1assin10 di benessere, n1a solo un insie1ne di posizioni otti111e possibili, ognuna delle quali rappresenta una diversa distribuzione di benessere (e di reddito e di risorse) tra la popolazione. La scelta tra i diversi otti111i paretiani diventa quindi un problema di equità, in quanto è di fatto la scelte tra diverse distribuzioni di benessere. Benché gJ; econrJ1nisli la con.s·ic!erino a volte un JJroblen1a econrJ111ico di 11
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Mt 20, 1SS. F. Rizzo, Linee storiche d'espansione urbana ed analisi delle teorie delle città, cit.. 3637. Ciò è 111irabiln1ente espresso e attualizzato nella (Ja11di11111 et Spes, quando allern1a che «il lavoro va rc1nuncrato in 1noclo tale da garantire i niczzi sullicicnti per permettere al singolo e alla sua ran1iglia una vita dignitosa su un piano 1nateriale, sociale, culturale e spirituale, lenendo conto dcl tipo cli aUivitù e grado di rendi1nento econonlico di ciascuno, nonché delle condizioni clc!l'in1presa e del bene con1une» (Gaudium et SjJes, n 67). 54
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n1assh11izzazione del benessere sociale, si tratta in realtà cli una scelta eh carat55 tere non puran1ente econon1ico n1a.fOndca11entabnen/e JJolitico» .
In sintesi si può affermare che: a. il benessere economico paretiano o neoclassico è parziale perché si limita a considerare gli aspetti materiali della vita; b. non esiste un solo otti1no paretiano tna una serie di otti111i paretiani in ragione delle diverse distribuzioni della ricchezza; c. la scienza economica in-centrata sulla teoria del valore-utilità (marginale) non possiede in se stessa i criteri di giudizio e di orientamento per individuare il 111assin10 benessere; d. la scelta del massimo benessere sociale dipende dal rapporto dialettico che passa tra l'equità e l'effìcienza ed è di tipo fondamentalmente politico; e. l'indetenninazione del benessere cconon1ico paretiano è causa ed effetto della crisi della scienza economica tradizionale; f. per potere superare questa crisi è necessario ricon1prendere e risignificare l econon1ia politica secondo un approccio che rende 111assin10 il valore ciel lavoro, obiettivo che non ha niente a che vedere con la classica teoria 111arxiana 1
che ha reso n1inilno il valore del lavoro; g. affinché ciò sia possibile nella società n1oderna in cui vivia1110, è necessario unificare 11econon1ia del! 1inforn1azione con l1econon1ia ecologica esaltando la dignità (del lavoro) degli uomini e i loro imprescindibili bi-sogni etici
ed estetici. 6. La nuova econon1ia presuppone una diversa teoria del valore fondata
sulla combinazione creativa dell'energia (vitale e lavorativa) e dell'infonnazione (genetica e creativa) del! 1uo1110 e della natura che condividono l'unica storia
della Nuova Alleanza. Una conseguenza di questa Alleanza tra la storia del1
l1uon10 e la storia del cosino, realizzata dall incarnazione-salvezza di Gesù Cristo, è la riunificazione delle scienze u1nane e naturali. Ciò non con1porta nccessaria1nente la forn1azione di una sola scienza onnico111prensiva nia la rifondazione onto-episten10-logica delle diverse scienze) con1presa quella econo1nica,
sulla base del rapporto inscindibile tra l'uomo e la natura. Sebbene in una prospettiva teorica e sociale diversa da quella marxiana, la reinterpretazione della natura, della fì.1nzionc e del fine del lavoro consente di considerare quest'ultimo come la fonte del valore e del plus-valore. La teoria del (plus-)valore coincide con la teoria dcl (plus-)lavoro. Difatti il valore è funzione del lavoro o capacità di creare neg-entropia tcnnodinan1ica) biologica (genetica
ed economica) e semiologica (informativo-comunicativa). Mentre il plusvalore o valore di piè1 dipende dai tre surplus o valori aggiunti dal lavoro, inteso in scn55 A.'Y./. EVANS, 1~·co110111ia urbana, Bologna 1988, 281-282. li corsivo è mio.
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so lato, che si svolge nei sistemi sociali e naturali complessi, lontani dall'equilibrio, instabili e creatori di ordine dal disordine mediante fluttuazioni o perturbazioni. È la vita lavorativa o il lavoro della vita a creare continua111cnte plusvalore. A! contrario di quanto ritengono Marx e i suoi seguaci, esso non viene creato (solo) dalla forza-lavoro prodotta dai lavoratori in eccesso rispetto alle loro necessità di sopravvivenza e di mantenimento delle loro capacità bio-fisiche. Quindi il plusvalore non è necessariamente il risultalo dello scambio equivalente, per un verso, e non equivalente, per un altro verso, che si verifica tra capitalisti e lavoratori durante lo svolgimento del processo produttivo. Il plusvalore è l'effetto dello slancio creativo o vitale dcl lavoro naturale cd umano, è la conseguenza di un 1attività di espansione o di valorizzazione universale della natura e della società, è una potenzialità dei beni co111uni fìsici, biologici, culturali, storici che continuamente la natura e l'uomo producono. In questa nuova din1ensione naturale e un1ana dei processi produttivi e distributivi della ricchezza può avvenire e purtroppo avviene che le classi, le categorie, i ceti pili potentin si approprino di una quota di plusvalore eccessiva rispetto alle loro esigenze e ai loro meriti, e a danno dei più "deboli" e indifesi. Questa appropriazione non è causata (solo) dai rapporti di produzione, anche se il sisten1a econon1ico capitalistico incontrollato é tcndenzialn1ente e intrinsecamente iniquo e sperequato: troppi posseggono poco e sono al di sotto dei limiti esistenziali, troppo pochi posseggono molto e sono superconsumisti, sperperatori e inquinatori. Per rivedere il rappo11o tra uo1110 e natura, per uno sviluppo sostenibile, non è sufficiente la nuova disciplina del1 econon1ia ecologica o, ancora peggio, dell'economia ambientale. Il rapporto tra l'uomo e la natura può essere cotnpreso analizzando la ecodinatnica ca-evolutiva dei tre surplus precedenten1ente richia1nati, a!trin1enti si rischia di avere una concezione riduttiva dell'attività o della scienza econo1nica. 11
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7. Alla luce di queste considerazioni si possono comprendere le ragioni del mancato successo degli energetisti ecologisti del secolo scorso e della prima n1età di questo secolo, precursori di Georgescu-Roegcn, che hanno tentato di elaborare una teoria del valore-energia capace di sostituire dapprima quella classico-n1arxiana del valore-lavoro e successiva111ente quella neoclassica basata sul concetto di utilità marginale. La scarsa influenza degli energetici ecologisti sul pensiero della propria epoca non si spiega solo col fatto che, in quanto pl'ecursori, hanno anticipato la coscienza e la scienza del loro teinpo, 1na anche a causa della loro concezione riduzionistica dell econon1ia. Beninteso, tranne qualche eccezione. Non si può sostituire il lavoro o l utilità con l'energia libera e la stessa distinzione strategica tra uso vitale o endoson1atico e uso lavorativo o esosomatieo dell'energia non è stata adeguatamente sviluppata. Questa poten1
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zialità inespressa spiega più di ogni altra causa i limiti dell'approccio tradizionale alla questione ambientale. L'economia ecologica supera solo in parte questi limiti perché insiste essenzialmente sulla necessità di ricostruire il substrato fisico del ragiona1nento econo1nico e di reinserire l econo1nia un1ana nella più generale "econoinia del vivente", trascurando gli aspetti estetici, culturali, storici della vita dell'uomo. Secondo Martinez-Alier 11approccio ecologico «non dà una nuova teoria del valore, anzi, esso distrugge le teorie del valore» 56 sia per l'allocazione intergenerazionale delle risorse esauribili sia per i bisogni culturali degli uomini. Questa asserzione è e1nble1natica di una concezione ecologica energeticoriduzionistica e di una visione feticistica de\! 1econon1ia di 1nercato. Certo) la scienza economica tradizionale ha tante responsabilità da farsi perdonare se favorisce simili interpretazioni dell'attività economica creando l'illusione che il funziona1ncnto razionale del 111ercato possa esorcizzare o ipostatizzare qualsiasi teoria del valore. Qualunque scan1bio intra e intergenerazionale con1porta una scelta etica ed estetica che la scienza (econo1nica) non deve trascurare, pena la sua sterilizzazione o neutralizzazione. L"' ingegneria sociale" (Hayek)o "ingegneria sociale utopica" (K. Popper) richiede la «costruzione di utopie su realtà possibili (che) negli anni a venire potrebbe dare un grande contributo allo sviluppo di una teoria generale della felicità»57. Affinché l econon1ia contribuisca ad au111entare il godin1ento della vita, deve passare dalla sfora dell'essere a quella del "ben-essere". Claudio Napoleoni, in una lettera scritta ad Augusto Dcl Noce nel 1988 poco prin1a di n1orire affer111a che, per uscire dall eclisse dei valori detenninata dalla società tecnocratica, bisogna «ripensare il rapporto tra politica e religione", dato che !a via d uscita proposta da Marx è in1praticabile perché è sfondata (dalla o) sulla "teoria del valore-lavoro (che) è falsa» 58 • La constatazione sofferta dell'impotenza della scienza (marxiana) da parte di Napoleoni non è una fuga o evasione dalla realtà, quanto una scelta consapevole, lucida e lungitnirante. Se non si dà uno sbocco utopico alla scienza, se non si reincantano 1econon1ia, la natura, la città, la cultura, ecc., aun1enterà il n1al-essere piuttosto che il ben-essere. Passare 'dalla scienza all'utopia') non significa annullare il progresso intellettuale e cognitivo degli uomini a vantaggio di una concezione del sapere e dell'esistenza caratterizzata dall'utopismo irrazionalistico e decadente, bensì ricercare una scienza nuova che ristabilisca l arn1onia tra l'uon10 e la natura. 1
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56 .I. MART!NEZ-J\LIEI{, Eco110111ia ecologica, Milano 1991, 313. 57 O. NEURATH, /Vissensc/Jafiliche TYe/ta11j]Gss1111g, Sozia/is11111s
1111d Logischer E111piris11111s, a cura di R. 1-fegseltnan, Frankfurt 1979, 239. 58 C. NAPOLEONI, Dalla scienza all'utopia, Saggi scelti 1961-1988, a cura di G.L. Vaccarini, Torino 1992, 224-225.
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P. Geddes, E. Sacher, F. Soddy non sostengono una concezione economica riduzionistica che considera solo gli aspetti energetici, fisici, biologici dei processi produttivi. Essi anticipano i concetti fondamentali su cui si basano le strutture dissipative capaci di auto-organizzarsi e di riprodursi autopoieticamente. Quindi considerano anche gli aspetti estetico-qualitativi della vita, tanto da rigettare i vari tentativi fatti dai loro colleghi encrgetisti di elaborare una teoria del valore-energia. La stessa alimentazione non può essere considerata come un semplice processo basato sul rapporto input/output energetico. Si mangia per ragioni fisiologiche, sociali e simboliche. Nasce quindi l'esigenza di un'antropologia biologico-economico-culturale delle abitudini alimentari umane. «L'econo1nia non dovrebbe essere ridotta ad ecologia u1nana. La teoria econo1nica intesa co1ne teoria dell'allocazione u111ana tra risorse scarse tra fini alternativi, dovrebbe essere ecologia umana ma anche studio delle influenze culturali, so59 ciali ed etiche sulla produzione e sul consun10» . Per questo n1otivo, ad es., Geddes, era convinto che solo una parte del consumo potesse essere spiegata dalla biologia, ma non fu assolutamente un riduzionista: il suo econon1ista preferito era John Ruskin che aveva esaltato i valori estetici sopra ogni altra cosa 60 . Egli era un pianificatore urbano critico della teoria economica walrasiana fondata sulla legge dell'utilità, tautologica e astratta. La sua critica alla ragione utilitaristica" è di grande interesse e precede il dibattito sull'utilitarismo come poi si è sviluppato ai nostri giorni. 11
8. La valorizzazione della concezione economica di .I. Ruskin è utile per con1prendere la strada che devono intraprendere gli econon1isti per rinnovare la loro scienza. Io desidero, a conclusione di questo punto, sofTennarn1i sulla definizione di econon1ia e sulla classificazione dei beni econotnici di quello scrittore e critico d'arte che fu J. Ruskin. Egli afferma che «possiamo definire l'economia - quelli degli Stati non meno della gestione familiare o individuale - come l'arte di organizzare il lavoro» e aggiunge che «"il lavoro di un uon10, se bene iinpiegato'' oltre che i beni di pri1na necessità, fornisce "nun1erosi gradevoli beni voluttuari", "salutari riposi", "giovevoli svaghi", "buona istruzione", "oggetti di lusso e tesori artistici"»Gl, Poi nelle Appendici, partendo dalla distinzione tra lavoro improduttivo e lavoro produttivo, classifica i beni in due categorie: quelli che producono la vita e quelli che producono gli oggetti della vita. I primi sono "giustamente definiti utili". I beni che producono gli oggetti della vita consistono in tutto ciò che dà «piacere o stin1ola e tiene in esercizio !'intelletto: cibo, 111obi!i e terra in quanto 59 60
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J. MARTlNEZ-ALIER, Eco110111ia ecologica, cii., 28 l. P. Gt::ODES, John Nuskin. Economist, Edinburgh 1884. J. RUSKIN, Eco11on1iapoliticade!l'arte, Torino 1991, IO.
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capaci di sollecitare piacevolmente l'appetito o l'occhio; abiti lussuosi e ogni al62 tro genere di beni voluttuari; libri, quadri e opere architettoniche» . Questa divisione risente della distinzione tra l\1so vitale o endoso1natico e l1uso lavorativo o esoson1atico dell'energia, precedente1nente richian1ata. L'accostan1ento tra !e 11 due 11 classificazioni acquista un particolare interesse a causa della definizione di economia di Ruskin come organizzazione del lavoro. Difatti lo stesso autore chiarisce che dati i «nessi tra ce1ie specie di beni n1inori e il lavoro utnano» è preferibile classificare i beni in cinque gruppi. I. Beni necessari alla vita, non producibili attraverso il lavoro dell'uon10, 111a 1nessi a sua disposizione dal lavoro della natura in quanto patrin1onio co111une inalienabile: aria, acqua, terra. 2. Beni necessari alla vita, producibili solamente attraverso il lavoro del!1uo1no in relazione alle risorse n1esse a disposizione dalla natura. 3. Beni che assicurano i piaceri e le comodità della vita, detti anche beni voluttuari o di lusso che, se producono «un effetto di reale bellezza, possono spesso considerarsi un canale di spesa altruistico anziché egoistico. Essi presuppongono [... ] una certa creatività atiistica, quindi vanno a collocarsi in una categoria pili elevata di quella del puro lusso» 63 . La maggior parte di tali beni si logora con l'uso ed è sottoposta al regin1e dell utilità 111arginale decrescente. 4. Beni che producono piacere intellettuale o emotivo: sono costituiti dalla terra riservata a svaghi, dai libri, dalle opere d'arte e dagli oggetti di storia naturale. «Le cose che danno gioia intellettuale o einotiva possono essere, invece, accu111ulate senza che si deteriorino con l'uso, in quanto forniscono continuan1ente nuovi piaceri e nuove occasioni di co111unicare piacere agli altri. Sono esse solei perciò, che potrcn11110 a buon diritto considerare fonti di ricchezza o di "benessere". li cibo pertiene solo alla srera dell"'essere", esse a quella del ben-essere »64 • La 1naggior parte di esse non si logora con l uso e sono caratterizzate da un regime ad utilità marginale crescente, quindi sfuggono alla teoria econo111ica neoclassica. Inoltre il loro uso consiste nell essere valore di scan1bio o interazione co111unicativa. Ruskin arriva ad affcnnare che avere o non avere questi beni significa rispettiva111ente appartenere alla classe di uoinini superiori o alla classe di uon1ini inferiori. Purtroppo l'econo111ia fino ad ora ha rivolto il suo prevalente interesse alla studio e alla conoscenza dei beni che soddisj:1110 bisogni di classe inreriore. 5. Beni si1nbolici che consistono in docu111enti e 111oneta. «L uso con1e 111oneta di beni dotati di reale o presunto valore, quali oro, gioielli, ecc., è barbaro; e immancabilmente esprime il grado di sfiducia nella società da parte del suo 1
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!bid., 136.
(,) Jbid., 140. 6 ~/hid., 140-141.
Jl valore del lavoro nella società dell'informazione
IIS
stesso governo, oppure la percentuale di nazioni diffidenti o barbare con cui es65
sa abbia a trattare» . Si tratta di una concezione 1nonetaria n1o!to 111oderna o
postmoderna che conferma l'importanza del pensiero scientifico di questo "strano(! econo111ista, al fine di costruire una nuova econo1nia basata sul valore (organizzativo) del lavoro.
i O. Lavoro, autoscienza e realtà
L'uso (vitale e lavorativo) dell'energia è fondamentale per prendere coscienza di sé (autocoscienza) e per conoscere la realtà, soprattutto in una società
dell'informazione. Per sviluppare brevemente questo aspetto dell'argomento richiamo i principi essenziali della neuro-biologia di H. Maturana e r. Varela. La conoscenza è un fenon1cno biologico) ! autocoscienza nasce nel linguaggio, che non è solo stru1nento di co111unicazione. Esso infatti consente all\101110 di avere coscienza di sé e delle sue esperienze, di pensarle, organizzarle e con1unicarlc. Gli uoinini in quanto esseri un1ani esistia1no nel linguaggio. Per potere spiegare conoscenza e linguaggio dobbia1no usare conoscenza e linguaggio: da qui la conoscenza della conoscenza e il linguaggio del linguaggio. La condizione uinana di esistenza nel linguaggio consente di din1ostrare che il don1inio di esistenza fisico, che è un don1inio cognitivo, sorge nel linguaggio. Come esseri umani ci troviamo qui ed ora nella prassi del vivere, nell1i1nn1ediatezza dell'essere uinani, nel linguaggio e nell'agire linguistico in una situazione en1pirica in cui tutto ciò che è, tutto ciò che avviene è ed avviene dentro di noi come parte della nostra prassi. li criterio di validità delle asserzioni scientifiche è Io stesso criterio operativo di validità delle azioni e delle osservazioni che utilizzian10 nella vita di tutti i giorni. I siste111i viventi sono sisten1i cognitivi e vivere è conoscere: ogni azione è conoscenza e ogni conoscenza è azione; ogni cosa detta (o fatta) è detta (o fatta) da qualcuno 66 L'agire linguistico nasce con1e una tOnna di coesistenza tra sisterni viventi. Se è così il linguaggio si attua co111e effetto di una deriva strutturale coontogenetica in cui si verificano interazioni consensuali ricorrenti in un do111inio di accoppiamento strutturale. Le interazioni linguistiche non avvengono quindi in un do1ninio di astrazioni; a! contrario avvengono nella corporeità dei partecipanti: sono cioè interazioni strutturali. «Concetti con1e trasn1issione di infonna1
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Jbid., 144. Nella nota 7 dcl!a stessa pagina Ruskin afferma: «Una nazione fondata sul lavoro, e che abbia cura dei frutti del proprio lavoro, sarebbe prospera e felice anche se in tutto l'universo non vi fosse un solo grarnn10 d'oro. E una nazione oziosa e incline a dissipare il prodotto elci proprio lavoro, qualunque esso sia, sarebbe povera e 111iscrcvolc anche se le sue 1nontagne rossero d'oro n1assiccio, le sue conche ricolrnc di dian1anti anziché di ghiaccio». 66 !!. MATURANA - F. VARELA, L'albero della conoscenza. lfn 1111ovo 111ecca11ismo per spiegare le radici biologiche della co11osce11za umana, Milano 1992.
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Francesco Rizzo
zione, si1nbolizzazione, denotazione, significato o sintassi sono secondari ri-
spetto alla costruzione del fenomeno del linguaggio nella vita dei sistemi viventi che lo vivono» 67 . Simili concetti nascono come riflessioni, all'interno del linguaggio, su quello che avviene nell'agire linguistico: quello che avviene nel linguaggio produce conseguenze sulla nostra corporeità; le nostre descrizioni o
spiegazioni entrano a far parte del nostro dominio di esistenza. L esistcnza dei siste111i viventi i111plica la conoscenza co1ne 111odo di realizzarsi del vivente, non co1ne caratterizzazione o co111e rappresentazione, e neppure come scoperta di qualcosa che è indipendente da essi. Un sistema vivente può funzionare in tanti "do1nini cognitivi 11 diversi quante sono !e di1nensioni diverse che il suo "accoppiamento strutturale" gli permette di realizzare. Gli esseri u111ani sono siste1ni viventi che operano nel linguaggio in un do1ninio di 11 reciproche perturbazioni consensuali ricorsive". Gli esseri un1ani esistono in un dominio di oggetti realizzali attraverso l'agire linguistico. Gli oggetti sono relazioni operative nell'agire linguistico. «Quindi operare nel linguaggio non è co1ne si pensa sola1nente, un attività astratta. Agire linguisticamente significa interagire dal punto di vista strutturale [... ] sebbene l'agire linguistico avvenga nel dominio sociale [... ] le interazioni nel linguaggio, essendo interazioni strutturali [... ] innescano nella corporeità dei partecipanti nuovi ca111biamenti slrutturali» 68 • Con il cambiare del corpo, cambia l'agire linguistico, e con il cambiare dell'agire linguistico cambia il corpo. Qui risiede il potere delle parole. L'individuo esiste solan1ente nel linguaggio e l autocoscienza, co111e tènon1eno di distinzioni autoriferite'\ ha luogo anch'essa sola1nente nel linguaggio. «Inoltre, dal momento che il linguaggio come dominio di coordinazioni co1nporta1nentali consensuali è un fenon1eno sociale, anche ! autocoscienza è un feno1neno sociale» 69 . Le funzioni un1ane pili elevate sono fcnon1eni sociostorici. Il linguaggio o l'agire co1nunicativo esiste solo se vi è accoglienza reciproca e paritaria, cioè amore. Questo è il fondamento biologico o naturale del1
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l'etica.
In questo con-testo di episte1nologia genetica o speri111entale) il lavoro è con1unic-azione, serve per co111unicare, si svolge nella co1nunicazione, non esiste al di fuori della comunicazione. Attraverso questo itinerario si individuano le basi cognitive di un'etica della i·esponsabilità che valorizza al 1nassin10 il potenziale creativo di ogni azione umana. Dal nion1ento che il linguaggio è agire in un doininio di coordinazioni ricorsive consensuali di azioni consensuali nel do111inio en1pirico degli osservaton, con1e esseri u1nani, tutte le dilnensioni dei don1ini en1pirici degli osservatori 67 68
Il.
rYlATURANA,
Ibid., 92. 69 lbid., 95.
A11rocoscie11za e realtà, rvtilano !993,
84.
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Il valore ciel lavoro nella società delflh1forn1azione
esistono linguistican1ente con1e coordinazioni con1portan1enta!i tra osservatori. «La fisica, la biologia, la matematica, la filosofia, la cucina, la politica, ecc., sono tutti do111ini di attività linguistica ... ciò non significa che tutti i do111ini cognitivi siano uguali, significa solamente che domini cognitivi" diversi esistono soltanto fino a che sono realizzati nel linguaggio, ed è l'attività linguistica a 70 fondarli» . Noi non esistia1110 in un do111inio di esistenza fisico pre-esistente, ina lo costruia1110 e lo definian10 attraverso il nostro esistere co111e osservatori. «L'esperienza del fisico, che si occupi di fisica classica, relativistica o quantistica, non riflette la natura clell1universo 111a riflette ! ontologia del! osservatore co1nc sisten1a vivente, in quanto egli opera linguistican1ente 111entre realizza le entità fisiche e le coerenze operative dei loro domini di esistenza. Come affer111ava Einstein le teorie (spiegazioni) scientifiche sono libere creazioni della 111ente un1ana"» 71 • È grazie alla co111unione-co111unicazione che il linguaggio consente di creare la nostra realtà continuando incessante111ente l operazione o la lavorazione creativa di Dio. Le spiegazioni scientifiche non servono per conoscere una natura o società indipendente, ma spiegano il dominio empirico dell'osservatore, in quanto utilizzano le stesse coerenze operative che lo costituiscono nell'agire linguistico. «È qui che la scienza diventa poesia» 72 . 11
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1 I. C'onurnicazione ecologica J_,.a con1unità sociale fonna un'unità-differenza con l a111biente naturale, un1ano e costruito. La società è l intero sistcn1a di con1unicazioni significative. È sociale tutto ciò che costituisce oggetto di interazione co111unicativa, non esistono, quindi, gli eventi o i fatti sociali al di fuori di tutte le comunicazioni riferentesi reciprocainente. La società funziona e si struttura in tanti sub-sistcn1i (politici, econo111ici, scientifici, artistici, etici, religiosi, ecc.) autopoietici o autorefcrenzial i. Ognuno di questi sub-sistemi è caratterizzato da un codice o pro gramma che è indispensabile per comprenderne il funzionamento e le difficoltà di con1unicazione interna (alla comunità sociale) e con l an1biente. La 111inaccia ecologica si può intendere come ogni comunicazione sull'ambiente che tenti di produrre un cambiamento delle strutture di un sistema di comunicazione della 73 società . Si tratta di una potenzialità al ca111bia111ento che riguarda esclusivamente la società e non i fatti oggettivi collegati all'esaurimento o all'inquinamento effettivo delle risorse. «Che tutto ciò avvenga o non avvenga, in quanto stato di fatto solo lìsico chin1ico o biologico, non produce alcuna risonanza so1
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fbid., l I l-l !2. lbid., l 14. Tl Jbid., J 15. 73 N. LUHMANN, Co111unicazione ecologica, Milano J 989, 96. 71
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ciale fino a quando non si comunichi su di esso. Potrebbero morire pesci o uo111ini, il bagno nei 1nari e nei fiun1i potrebbe causare n1alattie, potrebbe non esserci più benzina nei distributori e la temperatura media potrebbe crescere o calare fino a che su di questo non si comunica, ciò non ha alcun effetto sociale. La società è certo un sisten1a sensibile, 1na operativan1ente chiuso. Osserva solo attraverso comunicazioni. Non può in altro 1nodo con1unicare signifìcativan1ente e regolare questa comunicazione che attraverso la comunicazione. Si può quindi solo n1z'nacciare lla sola» 7' 1 • La chiusura autopoietica dci vari sub-sistemi sociali è responsabile delle difficoltà di comunicazioni sociali e tra la società e l'ambiente. Ciò dipende dal fatto che i più in1po1ianti siste111i funzionali strutturano !a loro con1unicazione mediante un codice binario, bivalente, che esclude terze possibilità. Sicché ad es., il codice della politica è avere o non avere potere, quello dell econo1nia è avere o non avere denaro (essere o non essere solvibili), quello del diritto è es. sere dentro o fuori la legge, quello dell'arte è legato alla bellezza o alla bruttezza, quello della religione è salvarsi o dannarsi, quello della scienza è conoscere o meno la verità scientifica, ecc. I I rapporto tra la co1nunità sociale e 1a1nbiente può essere caratterizzato da "troppa o da troppa poca" risonanza. In entran1bi i casi la società non può con1unicare con il proprio ainbiente, se non nella 111isura in cui è capace di elaborare infonnazioni, co1nunicare sul proprio an1biente. Le difficoltà di comunicazione tra i vari sub-sistemi autopoietici non hanno niente a che fare con l inco1nunicabilità o la 111ancata interazione società/ambiente. Quindi affrontare il tema della comunicazione ecologica nella speranza di risolvere i problemi ecosistemici posti dallo spartiacque entropico è una pratica illusoria e deludente. Altrettanto problematica è la nascita di una coscienza o etica ambientale. La morale può intendersi come la codificazione della comunicazione attraverso lo schema binario di bene e di male (o di buono e cattivo). Non si può formulare un giudizio morale sulla morale così intesa. «In altre parole: tutto è morale, però la morale in sé non è morale!» 75 . Solo l'etica (in quanto teoria riflessiva della morale) può esprimere un giudizio morale sulla tnorale. Nel contesto della co1nunicazione ecologica, l etica an1bientale può svolgere la funzione di richia111are l attenzione sui rapporti con la 111orale. Diventa quindi i1nportante evidenziare l insufficienza dei siste111i educativi, religiosi e scientifici, rispetto all'economia e alla politica. Le considerazioni appena svolte su questo punto della relazione devono 111olto a!1 opera e al pensiero di N. Luh111ann, 111a bisogna superare le sue frontiere se si vuole mettere a frutto un modello investigativo più coerente e propositi1
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R.
96-97.
MUSIL, L'uo1no
senza qualità, Torino 1965.
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Il valore ciel lavoro nella società dell'infor111azione
vo. Luhmann ha esteso il concetto di autopoiesi di Maturana e Valera anche ai siste1ni non viventi che consistono di 1neri significati cotnunicazionali con1e sono i sistemi sociali, ma ha cancellato (a parte qualche debole richiamo al concetto leggermente affine di risonanza) il concetto fondamentale di dominio consensuale linguistico. Invece bisogna inantenerlo e fondarlo su una nuova teoria del valore risultante dalla combinazione creativa delle "tre" neg-entropie: quella termodinamica, quella biologico-evolutiva (genealogica o informazionale) e quella semiotica (informazione e comunicazione semantica). A partire da Luhmann bisogna andare oltre Luhmann, altrimenti le interazioni sub-sistemiche all'interno della società e l'interazione tra la società e l'atnbiente naturale continueranno a verificarsi con difficoltà o non si verificheranno per niente. A tal fine il ri1111ova111ento delle scienze (con1presa l'eco110111ia) è necessario 111a non sufficiente, necessita una rifondazione inorale del rapporto tra uon10, società e natura 76 . Per allentare o ridurre le chiusure delle unità autopoietiche tì.mzionalstrutturali della società e affinché si verifichi una n1aggiore inter-azione con1unicativa, è necessario riunificare l'attività lavorativa e l'attività cognitiva nell'unica din1ensione esistenziale de!l uon10. Questa conclusione rafforza l'in1portanza della relazione tra i! lavoro, 11autocoscienza e la realtà posta nel paragrafo precedente. 1
12. Con1unione/co11n111icazione u111ana e clivina
La con1unione e il progresso della società un1ana sono i fini pri111ari della co1nunicazione sociale e dei suoi stru111enti 77 . La società del!'infonnazionc non coincide auto1natica1nente con la società del la con1unicazione. La relazione tra informazione e comunicazione è complementare perché legata ad un principio d'indeterminazione analogo a quello della fisica. Spesso una maggiore (e piC1 facile) informazione comporta una minore (e più diffìcile) comunicazione. Pari111enti un 1econon1ia de1naterializzata e basata sull 1inforn1azione invece di ridurre la disoccupazione può auinentar!a. Non ci si deve stupire se in queste condizioni crescono !'alienazione, la solitudine, l egois1110 individualistico o l'oppressione dei n1ass-n1edia. Più di un quarto di secolo dopo la promulgazione del decreto del Concilio Vaticano Il sulle con1unicazioni sociali Inter 1nirifica e due decenni dopo l istruzione pastorale Communio et progressio è stata pubblicata Aetatis novac (I 992) la quale ribadisce che comunicare comporta qualcosa di più della semplice espressione di idee e di senti111enti. Infatti la con1unicazionc è piena quando realizza la donazione di se stessi ncll'a1nore. 1
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Crr F. RIZZO, \la/ori eco110111ici e valori etici, ciL. (~01111111111io et Progressio. 1972.
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In "Efjàtà, apriti" (I 990) il card. Martini si pone l'interrogativo universale sulla possibilità di incontrarsi a Babele. Prima tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole 78 • Poi «la si chiamò Babele perché il Signore confuse la lingua di tutta la terra»"- Babele è il simbolo della non-comunicazione e dell'ambiguità a cui è soggetto il comunicare sulla terra. Effatà, apriti: «Ha fallo bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti» 80 . La guarigione del sordo muto è emblematica: ascoltare e parlare sono i due verbi fondamentali della comunicazione. È difficile avere capacità di ascolto e di parola. Il card. Martini, a questo proposito, evidenzia la fatica del comunicare: a) dentro di noi; b) nelle famiglie; e) nella società; d) nella Chiesa; e) nella comunicazione di massa. Alle radici dell inco1nunicabilità vi è la falsa idea del co1nunicarc un1ano: si vuole tutto e subito, cioè il dominio e il possesso dell'altro. La violenza o il dominio dell'uomo sull'uomo (incomunicabilità umana) e dell'uomo sulla natura (incomunicabilità ecologica) produce una deviazione del vero concetto del comunicare: un voler possedere, don1inare, sfruttare, identificare con sé. Si tratta di scimmiottature della vera comunicazione. Tutto ciò ha una causa profonda nel 1neccanis1no di produzione, appropriazione, accun1ulazione, circolazione, sca111bio e consumo della ricchezza nella società capitai istica. Bisogna quindi fare profitto del vangelo della comunicazione o della buona novella, ascoltandola e contemplandola: comunicandosi Dio ci rende capaci di co1nunicarc. Il vento e le "lingue di fuoco sono l'icona della co1nunicazione dello Spirito Santo nella Pentecoste. L'Alleanza è l'evento del comunicare di Dio con l'uomo. All'origine del dono la Trinità come rappresentazione insuperabile della comunicazione di Dio. li mistero pasquale è il vertice della comunicazione. Dio è in sé co111unicazione e coinunicatore. La co111unione/con1unicazione trinitaria è 1nodello della co111unione/comunicazione un1ana. Il verbo incarnato è co111unione degli uomini con Dio: Gesù quindi è un comunicatore perfetto. Le persone della Trinità fanno comunione e comunicano tra loro. Gli uomini fanno comunione (nella società) e comunicano tra loro. Dio ascolta la parola dell'uomo. L'uomo ascolta la parola di Dio. La comunione e la comunicazione esigono An1ore, cioè, proprio quella cosa che, secondo Robertson, gli econo111isti econo1nizzano: dal fare econon1ia di ainore a! fare econo1nia di lavoro nei processi produttivi, talvolta, il passo è breve. 1
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Gen 11. I. !bid., 11, 9. 80 Mc 7, 35-37. 79
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Sezione miscellanea Synaxis XVII/1 (1999) 121-13 5
PER UNA CRISTOLOGIA RELAZIONALE LA FEDE IN GESÙ CRISTO IN UNA SOCIETÀ MUL TrCUL TURALE 1 GIUSEPPE RUGGIERI
I. Il mutare delle cristologie e il significato di questo mutamento
L'esegesi ci ha da tempo sensibilizzato al fatto che all'interno dcl NT non si dà una cristologia unica. La concezione di Gesù Cristo che sviluppa Paolo non è riducibile a quella di Giovanni e tanto meno a quella dei singoli evangeli sinottici. L'in1111agine di "una" cristologia del Nuovo Testa1nento è falsa e presuppone una concezione storicistica dello sviluppo della teologia cristiana primitiva elle partirebbe da una visione rudimentale del Cristo per concludersi in quella più elaborata del IV vangelo. Questo non vuol dire che le molteplici interpretazioni cristologiche del NT siano contraddittorie l'una con l'altra, ma che sono se111plicen1ente diverse, sviluppate all'interno di con1unità diverse, in dipendenza delle rappresentazioni di varia origine (giudaismo ed ellenismo coevi) che in quella comunità si adattavano a veicolare il significato dell'evento di Gesù di Nazaret. Accadeva cioè allora quello che al fondo dovrebbe accadere ancora oggi in ogni omelia, quando il parroco, conoscitore della mentalità delle persone, traduce in un linguaggio e in rappresentazioni idonee la parola del vangelo, in 111aniera tale che il Cristo possa continuare ancora a giudicare •Ordinario di Teologia fondamentale nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Qucsta prolusione raccoglie sintctican1entc solo alcune lince di una rillessione che ha giù lrovato espressione in alcuni saggi. Si rimanda quindi ad essi per una con1prensionc ed una fondazione pili adeguata: Analogia e cattolicità, in Fides quaerens i11tellect11111. Beitràge z11r F1111da111enta/theologie, a cura di M. I(cssler, W. Pannenberg, I-I . .f. Pottrncyer, Tnbingen !992, 223-236; i\4olteplicità delle culture: ca111bia111e11lo di paradigma in teologia?, in Vita 111011astica 48 ( 1994) 51-80; Pour une logique de la particularité chrétienne, in Cultures et lhéologies e11 l:'urope, Jalons pour 1111 dia!ogue, a cura di J. Vcrn1eylen, Paris 1995, 77-108; La verità croc[{ìssaji·a lì·inità e storia. Per una detenninazione del rapporto Ira verità e co1111111ione, in C'ristianesimo nella Storia 16 (1995) 383-406; Gol! - ein Fì·emder in der Kirche?, in Gott - ein Fremder ili 1111sere111 Haus? /)ie Z11k1111ft des G!aubens in 1~·11ropa, a cura di P. 1-IOnennann, Frciburg - Basel - \Vien 1996 (=/)io straniero nella chiesa?, in Protestanlesi1110 52 (1997) 99-117); La traducihilità del linguaggio di fede. Appunti sulla natura della r(/lessione teologico-fo11da111entale, in La Scuola Cattolica 125 (1997) 437-455; Teologia e filosofie nel contesto culturale conte111pora11eo, in Studia Patavina (di prossin1él pubblicazione).
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Giuseppe Ruggieri
l'esistenza concreta dei credenti che partecipano all'eucaristia. Il discorso non può essere limitato al NT, giacché è legittimo parlare anche di un diverso equilibrio della cristologia calcedonese delle due nature rispetto a quelle neotestamentarie, ma altresì di quella alessandrina, tendente a esaltare la divinità del Cristo, rispetto a quella antiochena, più attenta alla concretezza della sua umanità. Nel Medioevo latino, la prima grande sintesi cristologica, quella di Anselmo d'Aosta, in cui il Cristo appariva come il restauratore della bellezza e dell'honor di una creazione specchio della società feudale, visione questa spesso inco1npresa e interpretata con categorie estranee al suo contesto culturale, non è identica a quella di Tommaso, tutta protesa a interpretare il Cristo come centro di un orda metafisico universale, tuttavia plurale al suo interno e nel quale si rifletteva la societas christiana del secolo XIII. La cristologia come theologia cmcis di Lutero non è quella di Calvino, tutta centrata sulla difesa della trascendenza della rivelazione di Dio. Ma anche la cristologia sacerdotale e vittimale della scuola francese, che ha alimentato la spiritualità di tanto clero cattolico lìno al Vaticano Il, non può essere ridotta a quella neoscolastica. E - per citare cscn1pi a noi conte1nporanei - le cristologie cattoliche che si svilupparono prima del Vaticano Il, dominate dal problema della coscienza utnana di Cristo, indizio di una diversa attenzione al problen1a de!l'u1nano, non sono uguali alle attuali cristologie latino-americane della liberazione, a quelle asiatiche don1inate dal confronto interre!igioso, a quelle africane don1inate da una cultura in cui la 1ne1noria e la presenza degli antenati riflette una esperienza originale dcl tempo e della natura. Nel passato i cristiani hanno vissuto queste differenze in 111aniera traun1atica, soprattutto quando !a diversità era acuita dalla conteinporaneità e dal confronto diretto. Cirillo riteneva incompatibile con la lede la cristologia di Nestorio, ma anche i calcedonesi ritenevano incompatibile con la fede il cosiddetto monofisismo copto. E ancora oggi si accendono conflitti di fronte alle nuove sintesi. Si tratta di conflitti sani, che impongono la necessità di supernre ingenuità, errori persino, nia anche di penetrare il linguaggio dell'altro. Sono inevitabili dcl resto le intemperanze e le carenze nella fase giovane di ogni esperienza un1ana, ivi co1npresa quella teologica. Ma una visione pili tranquilla e niatura e la distanza culturale e te1npora!e ci fanno cogliere con1e, nell'inevitabile e di per sé fecondo conflitto, spesso si sia arrivati a ostracisn1i indebiti, che non rendevano conto della purezza della fede dell'altro e della legittimità di una diversa espressione. Per usare le parole sottoscritte da Giovanni Paolo Il assieme al patriarca della Chiesa assira nestoriana, anche noi di tradizione calcedonese sia1110 consapevoli e procla1nian10 !!davanti al inondo!! la fede co1nune con le Chiese nestoriane nel 1nistero dell'incarnazione del Verbo di Dio vero Dio e vero uo1110. La sua divinità e la sua un1anità sono unite in una persona, senza confusione o niutazione, senza divisione o separazione.
Per una cr;stologia relazionale
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«L 1un1anità che !a benedetta vergine Maria partorì fu se1nprc quella dello stesso Figlio di Dio. Questo è il 1notivo per cui !a Chiesa assira del!'oriente prega la vergine Maria con1c "la rnadrc di Cristo nostro Dio e Salvatore". Alla luce della stessa fede !a tradizione cattolica si rivolge a Maria con1e "1nadre di Dio" e quindi con1e "n1adrc di Cristo". Noi due riconoscia1no la legitti1nità e [a correttezza (rightness) di queste espressioni della n1edesi1na fede e rispettian10 !a preferenza di ogni chiesa nella sua vita e nella sua pietà liturgica. Questa è l'unica fede che noi prQfessian10 nel n1istero di Cristo. le controversie del passato hanno portato ad anate111i riguardanti persone e for111u/e. Lo Spiri lo del Signore ci pern1elle oggi di co1nprendere 111eglio co111e le divisioni, sorte in 2 questo 111odo, in gran parte.fi1ro110 dovute a il1co111prensionh> .
Questa nuova consapevolezza - perfettan1ente espressa nella dichiarazione con1une de! vescovo di Ron1a e de! patriarca assiro - ci pern1ctte di con1prendere anche il significato profondo della diversità e dcl mutare delle cristologie. Una sintesi cristologica, se è autentica, non è altro che il riflesso della Signoria del Cristo che, n1ediante il suo Spirito, continua a unire a sé gli uon1ini di ogni epoca e di ogni cultura. Giacché mutano le culture e i linguaggi degli uomini, è lo stesso Cristo che, mediante il suo Spirito che opera nella Chiesa, prende per così dire possesso di queste culture e di questi linguaggi e quindi viene confessato in 111aniera se111pre diversa. Credo che Peter Hi.inern1ann sia profondamente nel giusto, dal punto di vista metodologico, quando interpreta in senso storico salvifico il n1utare delle cristologie 3 • L elaborazione di una particolare comprensione del Cristo, nella storia della Chiesa, riflette la storia di Dio, il suo agire nel tempo degli uomini, il rapporto che il Dio di Gesù Cristo intesse con 1u111anità 111ediante il suo Spirito. In questo senso, senza ignorarle e continuando ad apprendere da esse per n1antcnere l'equilibrio sostanziale, noi non possia1no restare fenni alle cristologie classiche. La nostra cultura vive una nuova stagione e anche all'interno di questa nuova stagione noi dobbia1110 continuare a confessare Gesù di Nazareth come il Cristo di Dio, mediatore della salvezza per ogni uomo e ogni donna. 11 pluralismo delle cristologie del NT resta normativo per noi proprio in questo suo pluralismo: come ogni Chiesa, della quale abbia1110 testi111onianza nel NT, visse in 1naniera originale e profondamente consona alla propria cultura la sua obbedienza a Cristo, altrettanto siamo chia111ati a fare noi. 1
1
2 L 'Osservatore Ron1a110, 12 noveinbre 1994, il corsivo è inio. 3 Clr P. 1-fONERMANN, Go!!es Sohn in der Zeit, in Gr1111dji·age11
der Christo/ogie lieute, a cura di L. Schcffczyk, Prciburg-Basc!-Wien 1975; Geschichte der Christo/ogie - Geschichte .Jesu Christi 111it den 1\le11schen?, in lllQ 164 (1984) 102-120;.Jesus Christus Gaffes /Vort i11 der Zeit. l:"ine syste111atische C/1ristologie, Mlinster 1994.
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2. I.. a necessità d; una rico1nprensione ciel 111istero di Cristo nel nostro ten1po Senza aderire a parole facili sul mutamento del nostro tempo, non possiamo tuttavia chiudere i nostri occhi davanti al processo in atto. Basterebbe fare un indice dei nomi del mutamento: la nuova coscienza delle donne, il ruolo del corpo, la nuova sensibilità verso la terra con la crisi della visione antropocentrica, la globalizzazione dei processi econo1nici e della con1unicazione, lo svilupparsi planetario di processi migratori dell'umanità che hanno una lontana analogia solo nelle migrazioni dei popoli germanici della tarda antichità e sconvolgono l'equilibrio culturale del vecchio continente, le possibilità di manipolazione del codice genetico dei viventi ecc. Tuttavia, se ci collochiamo nel centro della coscienza umana, là dove si gioca il destino di ogni esistenza, in quello che la Bibbia chiama il cuore, un mutamento culturale sembra più incisivo degli altri: quello della nuova cultura del pluralismo come principio o, se si vuole, della nuova cultura dell'alterità. Non sono un sociologo e quello che mi accingo ad esprilnere costituisce solo una somma di opinioni condivise oggi abbastanza largamente. Ad es. mons. Karl Lehmann ne ha fatto la base della sua relazione d'apertura dell'assemblea autunnale della conferenza episcopale tedesca il 25 4 settembre I 995 • Non intendo tuttavia seguire la sua analisi, ma brevemente accennare ai nodi principali dell'attuale congiuntura culturale, cercando di contestualizzarli nella storia più ampia della coscienza occidentale. Noi oggi ci troviamo di fronte ad un policentrismo culturale, nel mo111ento stesso in cui il siste1na de!Pinforn1azione e delle con1unicazioni ha creato quello che viene chiamato un villaggio globale. Due fenomeni appaiono cioè in apparente contraddizione. È vero infatti che stiaino ca1nn1inando verso una o111ogeneizzazione crescente del 111edhon della co1nunicazione planetaria, se1npre più strutturato secondo i canoni del linguaggio informatico. Ma è altrettanto vero che, nonostante alcune previsioni catastrofiche, questa 01nogeneizzazione non sembra portare ad un annullamento dei diversi mondi vitali, della loro autonon1ia e plausibilità. Questo avviene perché il 111ecliu111 della co1nunicazione planetaria non è il sostituto della ragione "1noderna 11 • La ragione 11 1nodernal!, figlia ribelle della natura razionale scolastica, possedeva infatti, con1e quella, la pretesa di offrire a tutti gli uomini i criteri comuni della conoscenza e della condotta etica. II villaggio globale delle società contemporanee invece è policentrico, non conosce 11 una 11 ragione, n1a solo l'universalità del n1ediu111 della co111unicazione. La conseguenza più rilevante mi sembra essere quella di una nuova configurazione storica del problen1a etico. È inevitabile, cioè) in questa crisi de!Punica ragione, la distinzione di mondi diversi, dove ogni volta agiscono paradigmi diversi e quindi) inevitabihnente, etiche diverse. L 1unico esito possibile sen1bra Conosco i! testo nella traduzione che ne ha dato La doc11111entatio11 catholique dc! 4 fcb~ braio 1996, 121-128. 4
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essere quello di un'etica dell'intesa (Habermas) che viene a sostituire l'etica del5 Pinfluenza e del don1inio esercitato dall'unica ragione universale . Tuttavia, con lo sposta1nento dell'asse etico dalla coscienza alla con1unicazione, dall 1 in1n1cdiatezza soggettiva della percezione dei valori alla comune verifica dei presupposti ancorati ai differenti mondi vitali, l'etica dell'intesa non viene a costituire tanto un'etica comune, quanto il campo di gioco di etiche diverse. Oggi si afferma cioè una cultura dell'alterità che è un fatto indiscutibile, anche se non ne abbiamo ancora compreso tutti i risvolti. Questo implica che anche noi cristiani poniamo adesso già dei gesti in quella direzione, che sono diversi e a volte contrari ad altri gesti che invece ancora non ritengono accettabile la nuova siwazione. 11 discernimento degli spiriti non è facile e a volte solo con il tempo è possibile separare il grano dalla zizzania. Per molto tempo, dalla rivoluzione francese fino ai primi decenni del nostro secolo, la voce ufficiale della Chiesa e la niaggioranza dei cattolici, nonostante alcune significative voci profetiche, non ha accolto il principio democratico. Adesso siamo in grado di discernere dove avrebbe dovuto portare l'obbedienza allo Spirito. Ma lo possiamo fare perché abbiamo compreso tutte le implicazioni dcl gesto, in un senso o nell'altro. Esiste in questo senso una teologia del gesto che precorre la teolo6 gia del concetto . Se ad esempio il papa prega ad Assisi con gli esponenti delle varie religioni e delle varie confessioni cristiane, che nel passato ogni cattolico considerava opera del demonio, questo sta a significare che il vescovo di Roma considera !'alterità religiosa in nianiera non conflittuale, tale cioè che le religioni non si debbano escludere a vicenda. Mi piace pensare che il Cusano, che scrisse il suo De pace fìdei con il pianto ancora in gola per la caduta di Costantinopoli, per auspicare una pace fì·a le religioni, quel giorno abbia cessato di piangere. Qui la teologia concettuale è in ritardo rispetto alla teologia incorporata nei gesti. Esiste una teologia del gesto di Assisi che attende ancora di essere formulata'. E il fatto della preghiera comune tra il vescovo di Roma e gli espo5
J. l-l/\!3ERMAS, Teoria dell'ogire co1111111icativo, !rad. it., Bologna 1986. La distinzione qui no1ninaia lra teologia dcl gesto e teologia concettuale si ispirn a Congar che, a pili riprese, nel suo diario conciliare inedito, ritorna su questo punto. Si veda ad csen1pio la nota relativa al 111 sette1nbre 1965: <<. .. Je vois un instanl le P. Duprcy. Il 1ne dit que !es contacts pris en Russie on! été extn1orclinaires. I! 1ne parie clcs n1essages quc le Papc envoie et jc lui redis quc le problè1nc, pour n1oi, est quc le Pape ail la théologic dc ses gestcs et dc ses 1nessages. M<iis Duprcy n1c répond quclquc chose que je crois intércssanl et vrni. Il raut, diL~il laisscr le Pape et Ron1c E1ire des gcstcs et adresser clcs 111essages, n1en1e si la pensée 11 1cst pas encore ù leur nive<iu. Carelle suivra un jour. Si onfori1111/ait nu,iourd'hui les i111plieatìons de ces gcstes et 1nessngcs, i! est probable que Rornc rccu!erait devant une tcllc !Onnulation cl'idécs. Les ges!es créeront une accoutun1ancc <Ili iern1e dc laqucllc, un jour, !es fonnu!cs pourront etre acccpiées. Et ceci ne vaut pas pour Ron1c sculeinent. Chcz !es Orthodoxes, !es théologiens sont en rctnrd sur la conjoncturc cccun1énique récl!e. Chez eux aussi, une période d'accoutu1nancc à parlir dc faits concrcts est souhaitablc». 7 Cfr J\. MELLONI, La re11co11tre d'Assise et ses déve/oppemcnts dans la dy11a111iq11e d11 6
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nenti delle altre confessioni cristiane e delle altre religioni non cade dal cielo, 1na è anche di natura culturale, prin1a ancora che teologica; o, se si vuole, è un segno dei tempi nel senso roncalliano del termine. Nella cultura comune, nella sensibilità condivisa, la figura dell'altro e il ruolo della diversità, cioè, stanno assumendo una nuova configurazione. Nella vecchia formulazione scolastica, la differenza specifica costituiva l'individualizzazione del genere, di ciò che era comune ai vari individui. Questi comunicavano quindi nel genere, in ciò che è universale. L'ontologia che ha costituito il fondamento della società che possiamo chiamare occidentale, dalle sue matrici greche fino alla modernità illuministica, ha sempre esaltato questa concezione della diversità. Il riconoscimento della diversità così intesa, mediata sempre da ciò che è comune e ontologicamente regolata secondo un principio dell'analogia declinato nel senso della continuità e della convergenza, è stato quindi pratica8 mente sempre identico, anche nel Medioevo, al principio della tolleranza. Ma questa tolleranza, nonostante il fortissimo radicarsi del cristianesimo all'interno di questa cultura, per lo meno in Occidente, ha dato diritto di cittadinanza al diverso solo grazie a ciò che restava in comune con gli altri. La cultura della modernità modificò questa concezione, già ben presente nella decretalistica medievale, introducendo, grazie ai politiques del XVI e XVII secolo una distinzione fondamentale, quella tra pubblico e privato. Non tutto ciò che è un diritto dell'individuo può giocare un ruolo nella sfera pubblica, ma solo ciò che resta in comune con gli altri. La diversità inconciliabile (ad es. quella religiosa) ha
quindi uno statuto "privato
11 •
Da qui la grande cultura della tolleranza 111oderna,
che non implica accoglimento, ma solo riconoscimento del diritto ad esistere per la diversità (questo ancora nella dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa). Oggi tuttavia è proprio questa cultura che è in crisi. Sempre più le diversità tendono infatti non già a condurre un 1esistenza ai 1nargini) 111a a porsi al centro. Da questo punto di vista si sbaglierebbe chi vedesse le contemporanee caiie dei diritti come un prolungamento semplice di quelle settecentesche. li diverso infatti Conci/e Valica11 li, in Le christianisme vis-à-vis des re/igions, sous la dir. de J. Doré, Paris 1997.
99- 130. 8
1:: interessante notare, a tal proposito, che anche i! significato "inoderno" dcl sostantivo "tolleranza", nonostante quanto pensi J. LECLER, 1-fisfoire de la to/érance au sièc/e de la R~fo!'l11e, 1, Paris 1955, 9, risale in qualche 1nodo alla discussione 1ncdicvalc sui diritti degli infedeli. Bisogna in ogni caso sl'un1arc la sua affcnnazione che «nel senso di un pcnncsso, di una concessione che tocca la sfera religiosa», il termine appaia solo nc!!n seconda 1netù del XVI secolo. Cfr Bel es. l-IOSTIENSlS, Lectura q11inq11e Decreta/i11111, 2 voli, Paris 1512, 3.34.8., 101. 125r. Gli infedeli che riconoscono i! "don1inirnn ccclcsic" possono possedere e governarsi "cx tolerantia ecclesie", cii. secondo J. MULDOON, I'opes, /awyers and infìdels. The church and the non-Christian l!'orld, Liverpool 1979, 167. Su questa problcn1atica cfr G. RUGGIERI, La storia della tolleranza e del! 'intolleranza cristiana co111e problen1a teologico, in Cristia11esi1110 nel/a storia 17 ( 1996) 463484 (=in Perspectives actue!les sur la tolérance, sous la direction dc J. Doré, Nainur 1997, 2546).
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pretende oggi di avere riconosciuta la propria diversità, non solo perché essa poggia su una base comune, ma proprio in quanto tale, in quanto diversità del bambino, della donna, ma anche della religione, della lingua, della cultura. La Chiesa cattolica, almeno a partire dal Vaticano 11, superando condanne passate, ha cercato di reagire creativamente a questo nuovo orizzonte culturale. Non sempre il cammino percorso è facilmente individuabile. Ma, almeno nel campo del confronto fra le religioni, è venuta a cadere la visione esclusivista, quella, per intenderei, secondo cui fuori della Chiesa non c'è salvezza. Non con1e se1nplice reazione o adattan1ento, 111a ripensando in 1naggiore profondità la ricchezza del 1nistero cristiano, la Chiesa cattolica è pervenuta a un riconoscimento positivo della diversità religiosa. Se vogliamo ad esempio fissare le posizioni ufficiali del 111agistero ro111ano, possia1110 forse ridurle a due affennazioni complementari: a) lo Spirito opera anche nelle altre religioni e mediante esse; b) occorre tuttavia affermare il legame tra questa presenza esterna e il Cristo e la sua Chiesa 9• Questo tuttavia rappresenta solo un punto di partenza e non di arrivo. Occorre infatti non solo affermare il nesso; occorre altresi comprenderlo. Di che natura è il rapprnio che lega il mistero di Cristo, che noi proclamiamo come Signore e Salvatore di tutti gli uomini e di tutta la storia, con le altre religioni, ma anche con ogni altra visione culturale che non si !ascia influenzare da! cristianesimo? Il rapporto stabilito infatti con la diversità religiosa diventa paradigmatico per ogni rapporto cristiano con l'alterità. Cosa significa che il Cristo è l'unico salvatore quando la stragrande maggioranza dell'umanità attinge ad altre fonti l'alimento della propria vita spirituale e di obbedienza al mistero di Dio, sia esso professato esplicitamente, sia esso vissuto implicitamente? La risposta alla domanda è, nella storia della tradizione cristiana, in.fieri. La teoria patristica dei sen1ina T/erhi, pur elaborata nel contesto di una visione cristocentrica esclusivista, era già un prin10 tentativo di affrontare la questione ed essa ha una sua fortuna fino ai nostri giorni. Essa tuttavia parte sempre dal comune e non ha spazio per una comprensione della diversità in quanto tale. Nella teologia attuale vengono a tastoni elaborate altre soluzioni: quella per cui il riferimento è al Cristo glorioso o al Verbo e non a Gesù: sarebbe il Verbo o il Cristo glorioso l'unico mediatore della salvezza. Ma si può separare il Verbo dalla carne, dall'individualità precisa e irriducibile del figlio di Maria? Oppure, in una fuga quasi disperata, si ricorre al futuro, al con1pin1ento escatologico - sia esso individuale che collettivo - in cui apparirà ciò che è nascosto, in cui ogni carne vedrà la gloria di Dio rifì.ilgere sul volto del Cristo. 9Cfr !'interpretazione che del 111agistcro postconciliare ha dato la Co111111issione teologico internazionale nel suo docun1cnto: Christio11is11111s et re!igiones, in Gregoria1111111 7913 ( 1998) 427-472.
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Si tratta di tentativi generosi che non reggono tuttavia di fronte ad una analisi rigorosa e soprattutto non dicono molto per la concretezza del problema. Giacché questo problema consiste proprio nella necessità che il riconoscimento dell'alterità, la contemplazione della bellezza che rifulge anche sul volto dell'altro, nei suoi lineamenti che non sono i miei, nell'accoglimento della sua diversità, non può vanificare, n1a deve anzi n1ostrare che Gesù Crocifisso e risorto è attualmente colui che mi permette questo accoglimento, che l'alterità dell'altro è accolta proprio salvificamcnte dallo stesso Gesù che io proclamo co1ne Signore. Prin1a ancora di pensarla e di riuscire a pensarla, l'alterità accolta in una preghiera con1une, è per il cristiano un'alterità che, senza cessare di essere tale - per cui il buddista, anche se prega con me per lo stesso scopo, non è diventato un cristiano - è tuttavia parte viva del mistero di Cristo, nel quale l'altro è già accolto. Se ciò non fosse vero, se nel Cristo non ci fosse intin1amcntc posto per l'altro nella sua stessa alterità, allora o la nostra fede, quale si esprime nella preghiera comune, sarebbe monca di qualcosa di essenziale o la nostra preghiera equivarrebbe a un tentare il Dio di Gesù Cristo. Non sto qui ad analizzare ulterior111ente i n1otivi per cui noi oggi ritenian10 di avere un atteggiamento positivo verso l'alterità religiosa. Voglio solo dire che possiamo coerentcn1ente avere da cristiani questo atteggia1nento, solo se non pensian10 che Voltaire avesse visto giusto, solo cioè se non pensiamo come lui che le diversità dogn1atiche siano irrilevanti e quel che invece conta sia la religione universale di tutti, la religione della natura, lasciando poi tranquillamente discutere alle varie caste sacerdotali le sottigliezze dogmatiche, irrilevanti per la gente comune. Ma questo richiede appunto da noi una ricornprensione del mistero di Gesù di Nazaret, nato da donna ed esaltato nel la gloria di Dio. Occorre quindi che interroghiamo le narrazioni fondamentali della nostra fede per scoprire quale posto avesse in lui la diversità. Occorre che con occhi nuovi) con una vista resa piè1 acuta proprio dal groviglio dei rami della nostra giungla culturale, sappiamo scorgere quella luce che pure brilla da sempre nell'evento narrato, anche se i filtri culturali del passato ci hanno impedito di scorgerla in tutto il suo fulgore. Occorre cioè vedere se la relazione all'altro sia posta già nell'evento cristologico e di che genere sia questa relazione. li tern1ine un poi esoterico di cristologia relazionale vuole dire solo questo: una visione del Cristo in cui sia evidenziato il rapporto con !'altro che Cristo ha vissuto e che è costitutivo della sua stessa vicenda umana. Un rapporto con l'altro che, nella fede, noi professiamo essere la manifestazione del rapporto con l'altro che è proprio del Dio trinitario e che proprio per questo è stato esaltato dal Padre, per cui noi professian10 !a divinità di Gesù Crocifisso.
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3. Alcune indicazioni per una cristologia relazionale
Se noi rileggiamo le narrazioni fondamentali del NT, ci accorgiamo che esse contengono elementi che sono per un verso centrali e nient'affatto periferici e per altro verso estremamente fecondi ai fini di una cristologia relazionale. È sufficiente, per rendersi conto di questo fatto, partire dalle stesse parole eucaristiche, nelle quali Gesù definisce, secondo la tradizione lucana e paolina, il suo corpo come lo hyper hymwn (l Cor l l ,24), lo hyper hymwn didomenon (Le 22, 19). Il significato del corpo eucaristico di Cristo è cioè racchiuso in una relazione, in un "essere-per-voi',. Questo "voi" non è costituito proprian1ente dai discepoli. La tradizione delle parole eucaristiche in Marco e Matteo, che esprimono la relazione non in riferimento al corpo ma al sangue, sottolineano infatti corne questo "voi" siano in realtà i "1nolti", cioè se1nitican1ente tutti, 1na, nella specificazione ulteriore di Mt 26,28, tutti coloro che sono gravati dal peso del peccato: "per il perdono dei peccati". li corpo del Cristo è cioè un essere per tutti gli uomini perché siano perdonati i loro peccati. Sta in questo linguaggio semplice della fede il fondamento di ogni relazione con l'altro. Val la pena quindi approfondire il significato di questo linguaggio. L'altro del quale si parla in questa narrazione è tutta l'umanità in quanto peccatrice. Ciò che contraddistingue l'alterità di questo altro, rispetto al Cristo, è il peccato, cioè l'estrema lontananza da Dio. Questa alterità - proprio perché essa designa il limite estremo e impraticabile rispetto all'identità divina - è per ciò stesso onnicon1prensiva. In essa sono racchiuse diversità nieno significative, meno estreme. li rapporto con l'altro non è limitato ai discepoli e tanto meno ai giusti. GesC1 non è venuto per i giusti. L'alterità in forza della quale si definisce Gesù è quindi non solo la creaturalità dell'uomo, della quale lui partecipa, e nemmeno quella che noi oggi chiamiamo la cultura. La diversità culturale appare irrisoria di fronte a questa più terribile diversità, cioè alla diversità dell,uon10 che si costruisce sulla negazione e sulla n1isconoscenza dell,an1ore divino. Alla luce di tutto ciò, quanto vi è di più intimo nel mistero cristiano, coincide con l'estrema apertura. E così, per quanto l'eucaristia sia la celebrazione più intima della chiesa, essa resta la più aperta, quella da cui nessun uomo è escluso, perché ogni uomo è invece li abbracciato, ed è abbracciato nel suo stato di peccato. E questo proprio perché l'eucaristia è la rappresentazione massima del mistero di Cristo, quella nella quale quindi, secondo l'affermazione del Tridentino (Sessio XXII, e 2), il Signore ci concede il dono e la grazia della penitenza e "criinina et peccata etian1 ingentia di1nittit". È nell'eucaristia infatti che noi annunciamo !a n1orte di Gesli fino al suo ritorno, e in essa faccia1110 nostra quella relazione con il peccatore che Cristo ha stabilito versando il suo sangue. È una relazione all'altro che è anteriore alla sua risposta e, in questo senso, è un
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rapporto assoluto con l'altro, senza condizioni che possano da parte sua diminuirne l'intensità, fossero pure il suo rifiuto del rapporto che gli viene offerto. L'altro può esistere senza di n1e, n1a io non posso esistere senza l'altro. È in questi termini infatti, come rapporto incondizionato all'altro, che il NT detennina la natura della relazione cristologica. Quest'altro, nell'evento cristologico, cioè nell'evento di Gesù di Nazaret quale è compreso nella fede e che si estende dalla sua nascita alla sua esaltazione nella gloria, è già accolto, prima ancora di ogni sua decisione, di ogni accettazione del rapporto di accoglimento stesso. Con le parole di Rm 5,8, infatti noi dobbiamo affermare che la dimostrazione dell'amore di Dio si ha per il fatto che noi siamo stati amati mentre eravamo ancora peccatori. li peccatore è già in Cristo, è già nella sua 1norte per lui, an1ato per sempre, con un sì irrevocabile, come precisa la 2Cor 1, 19-20. L'altro peccatore, e a jòrtiori ogni altra alterità, è quindi accolto in Gesè1 Cristo proprio in questa sua alterità, in forza della natura stessa dell'amore di Dio che non può che essere incondizionato. L'altro è già sempre dentro il Cristo, indipendentemente dal fatto che Cristo sia nell'altro. Che egli sia nell'altro, che sia possibile il cammino dell'accoglienza di Cristo da parte dell'altro, è qualcosa di lotaltnente diverso, anzi cronologica111ente oltre che logica1nente successivo all'accoglimento del peccatore nel Cristo, all'essere dell'altro nel Cristo. Questo essere nel Cristo dell'altro è il fondamento, il pri11111111, che rende possibile l'accoglimento soggettivo dell'uomo, quell'accoglimento che nel linguaggio neotcstan1entario è reso con la parola della n1elanoia. Le carenze di tante cristologie, persino di quella neoscolastica della salisfactio che presumeva di appoggiarsi alla tradizione anselmiana, consistevano in primo luogo nel non dare il peso giusto, nel non sviluppare tutte le conseguenze implicite del "perdono" costitutivo dell'evento cristologico. Ed è ancora la carenza di tanta teologia contemporanea quella di non mettere al proprio centro le parole del perdono e della riconciliazione per la stessa comprensione di Dio e del Cristo, confinandole tutt'al piè1 nella teologia e nella liturgia della penitenza o, ancor peggio, nel campo della riflessione morale. li perdono e la riconciliazione (lo "scambio" tra la realtà di Dio e la realtà dell'uomo, come 2Cor 5, 1721 concepisce il rapporto tra Dio e l'uomo in Cristo), descrivono infatti l'ontologia del Cristo. Colui che non conosceva peccalo, Dio lo "ha fatto peccato", secondo !a plastica espressione paolina. L'essere per i peccatori non è cioè un aspetto secondario dell'essere di Cristo, la conseguenza della sua bontà, ma la finalità stessa della sua missione. ln quanto inviato dal Padre egli è per i peccatori. Gesù non è concepibile teologicamente senza l'alterità del peccato un1ano. L'altro lo con-costituisce. Gesù è, con1e egli stesso si definisce a proposito del corpo eucaristico, un essere-per. La relazione, I' esse-aci, non sopraggiunge in un secondo te111po al suo esse-in, 111a coincide con esso. L'esse-in e l'esse-ad in Cristo sono identici e non è possibile una loro distinzione reale. Di-
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re cristologia relazionale al fondo è una tautologia, giacché la relazione ali 'altro non qualifica successivamente la persona del Cristo ma la con-costituisce. La prima conclusione che bisogna trarre da questa considerazione dell'evento cristologico e del posto che l'altro ha in esso, verte sulla natura della verità cristiana. Il pensiero occidentale mediante la categoria della verità ha sostanzia/niente espresso, sia pure attraverso innun1erevoli varianti, il rapporto di omogeneità tra la realtà esterna e l'intelligenza: ciò che esiste è conforme e quindi accessibile all'intelletto. Giacché ciò che esiste è conforme all'intelletto, questo è in grado di 11 riprodurren !a realtà e di en1etterc quindi affern1azioni 11 vere". Oppure, nella tendenza "idealista", la realtà è accessibile perché lo spirito umano 11 i1npone 11 ad essa la propria struUura e uorganizza 11 quindi la realtà in n1aniera confon11e a se stesso. Sta qui la fondatezza di una tesi, espressa ancora di recente, io secondo cui alla base delle varie concezioni della verità esiste, come nocciolo duro, la teoria della corrispondenza: la verità è data dalla corrispondenza di ciò che viene detto con ciò su cui qualcosa viene detto. La teoria della corrispondenza non riesce a esprimere tuttavia compiutamente il senso della verità. Al nesso tra realtà e linguaggio, tra essere e spirito, gli uomini hanno infatti, più o meno, sempre attribuito un carattere normativo per il loro comportamento, sia nel senso che questo deve corrispondere alla realtà delle cose, sia nel senso che le cose debbono essere adeguate alle esigenze dello spirito. Per gli antichi il legame tra verità e nonna era garantito dal carattere divino del 11 cosn10 11 • li cosn10 rappresentava \1an11onia e la bellezza che sono riprese nella vi11ù dell'uomo, nell'adeguamento al mondo intelligibile e nel disprezzo della storia vista con1e decadi111ento, lontananza dalla verità, 11 caduta". Per i moderni la subordinazione della realtà alle esigenze dello spirito è un fenomeno piè1 complesso e oppostamente interpretato: come risultato di una svolta antropocentrica che è essa stessa un effetto de! cristiancsi1110, oppure all 1opposto, con1e 11 ribellione 11 de1! 1uon10 111oderno all\1niverso religioso cristiano. Teologicamente tuttavia il problema della verità assume una connotazio-
IO A. KREJNER, Ende der /Vahrlieit? /,11111 /Vahrheitsverstii11d11is. in Philosophie 1111d Theologie, Frciburg-Bascl-\Vien 1992. Tuttavia ci se1nbra che in questo libro non venga colta <1ppicno la problen1aticn "teologica" della verità. Non si tratta infatti di sapere se anche nella detennin8-
zionc teologica della verilù sia presupposta la "corrispondenza" trn enunciato e oggetto. Questa
"riduzione" dc! problema non coglie un altro aspello, non 1ncno essenl'.ialc. Questo è dalo clnl fatto che gli uo1nini al problcnw della verità hanno dato da scn1prc un rilievo centrale perché ad essa hanno collegato la ricerca della "norn1a" e della "legge" dei n1pporli un1ani. Ora nella dclern1inazione del concclto "teologico" di verilù, è proprio la qualitù dell'oggetto dell'enunci8zione (il signilìcato della storia di Gesù), di ciò che viene dello, che 1nodiliea il 1nodo in cui viene detto e si costituisce co1ne "nonna" interna di ogni enunciato. Per altro verso meraviglia che, nel libro di J(reiner, siano assenti problen1atiche storico teologiche sulla verità quali e1nergono invece da uno studio con1c quello di J. Z!Z!OULAS, Verité et co1111111111io11. Fondements potrisliques et i111p/icotio11s exilentielles de l'ecc/ésio!ogie eucharistique, adesso in ID., L'étre ecclésia/, Gcnève 198 I, 57-110.
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ne specifica. Questa connotazione è data non solo dalla esigenza di interpretare corretta111ente la rivelazione cristiana (verità con1e corrispondenza), e non soltanto dalla ovvia identificazione della norma con la rivelazione di Dio genericamente intesa (verità come norma), ma altresì dal fatto che questa rivelazione 11 identifica la verità con Cristo stesso . Nessun teologo ovviamente ha mai messo in discussione questa identificazione. Essa appartiene al con1une sentire cristiano, espresso non solo nel famoso detto del IV evangelo in cui è Gesù stesso 12 a definire se stesso con1e 11 via, verità e vita 11 (Gv 14,6) , 1na nel linguaggio tradizionale, per cui 11 Veritasu è sinonin10 di Cristo. Ma spesso non ci si rende perfettamente conto dello sconvolgimento che questa identificazione comporta per il comune concetto di verità e si continua a presupporre, anche nel linguaggio 13 cristiano e nello stesso linguaggio teologico, !a comune nozione di verità . L'identificazione tra Cristo e la verità infatti può essere afferrata, nella sua valenza propria, solo a partire dal significato fondan1enta!e della vicenda stessa di Cristo quale emerge dalla testimonianza neotestamentaria. Se il Nuovo 11 Testa1nento assegna un 11 luogo 11 alla verità ' , e se questo luogo è la vicenda umana di Gesù (Ef 4,21: la verità è in Gesù), allora noi siamo obbligati non tanto a interpretare Gesù a partire da una verità con1unque intesa, n1a a co111prenderc il contenuto e le dimensioni della verità a pa11ire da questo luogo. Questo non con1porta una distruzione di qualsiasi concezione della verità che non sia quella cristiana, 1na se1nplicen1ente la consistenza di un luogo a partire dal quale con1prcndere ogni altra verità. 15 L'evento cristologico è verità in quanto rivela Dio stesso • La vicenda del suo esistere per gli altri, che culmina nell'abbandono della croce, può essere 16 cioè co1npresa teologica111entc solo coine azione del Dio trini1ario . È infatti il 111istero della comunione eterna che si n1anifesta in Gesù, in quanto egli si fa solidale con il destino di coloro che sono lontani da Dio, viene cioè fatto pec11 Cfr soprattutto, dal punto di vista esegetico, l'opera di I. DE LA POTTERIE, La vél'ifé da11s Saint .fea11, 2 voi!, Ron1a !977. 12 Cfr Gv l,14.17; 18,37. Ma vedi l'a1Tennazionc plastica di Er4,2 I: la veri!~ è in Gesl1. 13 Cfr invece l'ese1nplarc studio di .1. ZIZlOULAS, Verité et co1111111117io11. Fo11de111e11ts patristiques et ì111p/ìcafions e.xitentiel/es de /'ecc!ésio/ogie e11charistiq11e, cit. Come esen1pio elci inoclo "tranquillo" in cui i teologi spesso coniugano il concetto filosofico di verilù con la connotazione cristologica della verità si possono vedere di recente due saggi per altro aspetto n1olto validi: \V. KASPER, /Jie Kirche a/s Ort del' 1Yahrheit, in 711eo/ogie 1111d Kirche, l\1ainz 1987, 255-271; \V. BEINERT, 1Vahrheil - Dogma - Konfèssionen. Ein Vers11ch z11r ()rthesti1111111111g 1111serer Verkii11digi1111g, in Vom Finde11 1111d Verkiindcn der 1Vahrheil in der Kirche. a cura di G. Kraus, Frciburg 1993. 9-26. - H Cfr I. DE LA POTTERJE, Storìa e verità, in R. LATOURELLE - G. O'COU.!NS, Prob!e111ì e prospe/five di teo/ogiafo11da111e11ta/e, Brescia 1980, 1I5-139. 15 Co1ne ha n1ostrato il giù citalo I. dc la Potterie, sla proprio qui, in quanto rivc[nzione di Dio, il significato cli Cristo come verità. 16 I-J.U. Von Ballhasar, Teologia dei tre giorni, Brescia 1990, 126-130.
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cato e n1aledizione. Ed è ancora e al te1npo stesso questa n1anifestazione di Dio in GesC1 di Nazaret che ci offre il concetto specifico della verità cristiana. Ma questo vuol dire che a Dio "corrisponde" nella storia un rapporto con l'altro che non imputa a lui le sue colpe e porta alla partecipazione al suo destino: in questa partecipazione, in questo farsi sin1ile all altro in questa forma dello schiavo'\ come la chiama Paolo nella lettera ai Filippesi, si manifesta nella storia l'essere eterno di Dio 17 . In Dio c'è quindi con1e 1novin1ento sostanziale, l'ekstasis, l essere nell'altro. La verità dell'evento cristologico, riassunto nella croce, consiste nella rivelazione che \ alterità fa parte necessaria della sostanza di Dio. Solo che nella vita trinitaria questa ekstasis coincide con la pericoresi, con !a 111utua inabitazione delle persone divine. In Cristo, la pericoresi eterna, per cui il Figlio è nel Padre e nello Spirito e il Padre e lo Spirito sono in lui, "produce" la relazione costitutiva della persona del Verbo Crocifisso, come accoglienza dell'altro u111a110 e peccatore. In Cristo cioè, l'un1anità assunta, viene assunta in questa detenninazione all'altro 18 • Nella storia di Cristo viene quindi posto un rapporto con l'altro, che è rivelativo (=verità) del rapporto intradivino. Se la vicenda di Cristo, a partire dalla sua morte, viene nel Nuovo Testamento letta come assimilazione del Figlio di Dio alla condizione di chi è lontano da Dio, allora non solo in lui l'altro è accolto nella sua diversità, ma questa accoglienza della diversità non è un cedimento, che anzi risulta coerente all'essere di Dio. Cristo è verità proprio perché non !!adatta'' Dio al inondo del! uon10 e non aggiunge qualcosa a Dio venendo a patti con la verità degli uomini, ma perché manifesta semplicemente Dio. In quanto tale, in quanto manifestazione di Dio (e cioè, nel senso del IV vangelo, in quanto verità), la co111unione che Gesù pone con l altro è nonna di ogni verità. 11
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Per un'altra strnda da que!ln evidenzinta da Zizioulas per la tradizione greca, si arriva qui nlln stessa conclusione: «Se per nntura l'essere di Dio è relazionale, e se questo essere può essere indicnto con il tennine di "sostanza", allora occorre concludere quasi incvitabi!Jnente che, essendo l'essere dì Dio rìJerin1ento ulti1no di ogni ontologia, la sostanza, in quanto indicativa dcl carallere u!tirno dell'essere, non può essere concepita che con1e con1unionei>, (J. Z1z10ULAS, Fel'ité
et co1111111111io11. Fo11deme11ts patristiques et ilnp/ications exitentie/les de !'ecclésiologie e11charisliq11e, cit.. 73). Solo che nella nostra concezione questa connotazione intrinseca dell'essere con1c co1nunionc è postn "in atto" da!!a 1norte di Cristo e la sun verilù consiste proprio nel nesso rivelalivo tra !'azione dc! Cristo e l'essere di Dio. is Dove resta da approfondire co1nc l'umanità assunta dal Verbo, nclln sua specifica relazionalità all'altro che viene nlnnifestata nel Crocifisso, sia al le1npo stesso il co111pi1nento di ogni personalità u1nana, per cui in Cristo e in un'ultin1n prolOnclilà l'uon10 viene rivelato n se stesso con1e relazione all'altro, con1e volto (nel suo signitìcato letterale di "essere-volto-a un nitro"). /\ifa così dovrebbe altresì risullare i1nplicito che ogni co1npi111ento della personalità umana avviene solo in rapporto a un altro, ncll'an1orc che i111ita l'arnorc crocifisso.
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4. Epilogo sulla vita e/ella
Giuseppe Ruggieri C~hiesa
e sul sign(ficato cristiano ciella slorfr1
A partire da queste riflessioni dovrebbe essere possibile trarre conclusioni che, co111e in ogni grande trapasso culturale, sconvolgono alcuni tratti recepiti della prassi ecclesiale, per adeguarla sempre maggiormente all'immagine di Cristo, per farla crescere verso l'età dell'uomo perfetto. In primo luogo occorrerebbe modificare l'equilibrio del diritto ecclesiale. È infatti funzione precipua del diritto quella di delimitare confini, stabilire lo spazio di compatibilità del diverso all'interno di una comunità. Il codice dcl 1917, già in quanto codice unitario, impostato sul modello del codice napoleonico, modificò a suo tempo un equilibrio secolare e ridusse gli spazi della diversità, sminuendo soprattutto il diritto consuetudinario a favore della legge. Non sen1bra che il nuovo codice abbia riconquistato tutta !a 1nagnani1nità dell'antica tradizione canonica del!a Chiesa, restando, da questo punto di vista, ancora sulla scia del codice di Gasparri. Ma, al di là della problematica giuridica, sorge un altro problema che in qualche 111odo è più urgente. Se la verità cristiana si annuncia nell'accoglienza dell'altro, quale deve essere lo stile della testimonianza cristiana? A partire dagli anni '40 (si può ricordare come emblematico, nell'anno 1943, France pays de mission di Godin-Daniel), la Chiesa cattolica ha iniziato un processo di revisione del proprio stile missionario che non può considerarsi concluso. li decreto conciliare Ad gente.1· ha già profondamente rinnovato la teologia della missione, mettendone in rilievo le radici trinitarie e la necessità della incarnazione nelle culture dei popoli. Sulla sua scia si in1pone allora di analizzare adesso l'urgenza della situazione culturale, per capire i tern1ini nuovi di una evangelizzazione nelle società multiculturali, dove non è possibile il privilegio di una sola culturn, per quanto alta. L'esempio che ho già citato della Confercuza Episcopale tedesca costituisce certamente un passo nel senso giusto. Infine, per accennare solo al problen1a che è forse più urgente ancora degli altri, si tratta di riformulare un nuovo equilibrio della spiritualità. Se noi pensiamo alla devo/io moderna per un verso e alla spiritualità della cosiddetta scuola francese per altro verso, abbiamo l'immagine concreta di due stili forti di vita cristiana che hanno a!i1nentato innu111erevoli generazioni di cristiani con1uni e di preti. Per quanto riguarda in particolare la formazione del clero, il Concilio di Trento produsse - si pensi qui al nome di Carlo Borromeo, ma che non ru i I solo - una spiritualità che tracciò il volto del clero cattolico per diversi secoli. Il Vaticano II non ha ancora visto, come suo effetto, qualcosa di analogo. Ritengo che questo sia uno dei punti più delicati per una effettiva ricezione dcl concilio. Tuttavia questa è non un'i1npresa da tavolino, 111a frutto di un'attenzione all'opera dello Spirito che non ci fa mancare oggi i suoi santi. Esistono nel nostro secolo grandi figure che profeticamente hanno saputo anticipare modelli
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nuovi di santità, caratterizzati dall'accoglienza dcl diverso. Così come la Chiesa ha avuto i suoi santi inflessibili nemici dell'alterità (da Bernardo a Giuseppe Calasanzio, per tacere di quelli più vicini a noi come il controverso beato Stepinac ), altrettanto continua ad avere un de Foucauld, un Massignon, un Monchanin, un La Pira, un Giovanni XXIII. La nuova spiritualità non può che essere delineata sulla loro scia. li discorso delle nuove forme di santità e dei nuovi santi non è un discorso ozioso) 111a, se sviluppato ne!Pascolto di quanto lo Spirito oggi opera nelle Chiese, forse quello di cui esse hanno maggior bisogno. Potren11no continuare ancora per 1nolto nella cnu1nerazione delle conseguenze concrete di una visione che sappia cogliere il posto dell'altro e del diverso nel mistero del Cristo. Qui basti ricordare, per finire, alcuni grandi tratti del volto di una chiesa che nella sequela del Cristo si apre a ciò che nella storia un1ana etnergc co1ne altro rispetto a se stessa. La chiesa è lo spazio umano in cui la memoria di Cristo, nella forza dello Spirito, rende conformi altri uomini alla verità di Cristo. Non a caso negli scritti di Paolo i gesti fondamentali della vita del cristiano, dal battesimo all'eucaristia, sono descritti nei tennini di un essere con il Cristo: n1orti con lui, risuscitati con lui, partecipi dell unico pane ecc. Questo con1porta che la co1nunione ecclesiale, ne! n10111ento stesso in cui realizza la conforn1ità con Cristo e, n1ediante lui con il Padre, cleve necessaria1nente aprirsi all'altro. Se fosse solo centripeta infatti non sarebbe contònnazionc" al Cristo e non 111anifesterebbe la verità di Dio. Va co1npreso qui il n1otivo giovanneo della insufficienza delle parole dette da Gesù e della necessità che sia lo Spirito di verità a introdurre a tutta la verità. L,a con1unione ecclesiale i1nplica infatti la necessità di un continuo andare all'altro, di una continua assimilazione, di un continuo accoglimento dell'alterità, di un continuo scan1bio La verità del Cristo può essere quindi solo in avanti. Ed è i!lu1ninante i! fatto che le Chiese cristiane, dopo aver 1nesso al centro della loro attenzione il n1otivo della con1111unio, abbiano con1inciato a ripensare i I loro rapporto con le grandi rei igioni dell'umanità. Si comprende ancora qui, sia a partire dalla pneumatologia paolina che da quella giovannea, la dimensione escatologica della verità. Se cioè essa nella storia è verità che va con1piuta in quanto accoglin1ento del1 alterità ad i1nitazione di Cristo, è chiaro che adesso essa è opera dello Spirito dcl Cristo che permette in noi una continua assunzione dell'alterità, una continua ekstas;s, !a cui forn1a compiuta può essere solo la ricapitolazione finale di tutte le cose in Cristo. In questo senso lo Spirito, ricevendo da Cristo, ci dice però cose che Cristo non ha detto e ci introduce a tutta la verità (cfr Gv 16, 12-15). La storia della Chiesa è allora non solo il dono della con1unione ricevuta, 111a anche fatica e con1pito della con1unione, coine accoglin1cnto di alterità in coerenza con l'accogli1ncnto operato dal Cristo. 1
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LE SFIDE DELLA TEOLOGIA LETTERARIA JEAN PIERRE JOSSUA.
l. Suor OBIETTIVI In Francia, quella che io chian10 11 teologia letterarian è nata dalla necessità di dare risalto ad un certo numero di sfide, nella situazione della teologia, verso la fine del mio insegnamento a Saulchoir, cioè all'inizio degli anni 70. Gettando uno sguardo retrospettivo sul periodo accennato, e distinguendo degli obiettivi che in realtà vi erano mischiati, si potrebbero presentare questi nel modo seguente.
1. Ur;cire da un vicolo cieco A mio modo di vedere, la ricerca e l'insegnamento della teologia dogmatica
e n1orale si trovavano, allora, in una situazione di crisi. Noi eravan10, in pri1no luogo, in un 1110111ento in cui le discipline della nuova stagione, che avevano prodotto non pochi risultati positivi - rinnovamento biblico, patristico, liturgico, ecu1nenico, 1nissiologico, ecc. - varcavano la soglia critica. Per esen1pio, era il momento in cui la teologia biblica diveniva veramente una esegesi, guidata dall'obiettività dei ricercatori indipendenti dalle 01todossie ecclesiastiche. I fondan1enti della elaborazione teorica, per ese1npio cristologica, si trovavano rimessi in questione. In secondo luogo, con l'entrata in teologia delle "scienze u1naneu - storia, linguistica e soprattutto sociologia e psicologia - veniva varcata una soglia critica ancora più temibile, poiché lì si usciva dal campo delle discipline religiose, introducendo nelle nostre elaborazioni ciò che si è convenuto chiatnarc un 11 sospetto 11 , vale a dire una presa in considerazione delle funzioni incoscienti o politiche del discorso religioso. Ecco ciò che rendeva difficile una teologia del matrimonio, per esempio, o della Chiesa. In ultimo, finivano per sprofondare gli utensili intellettuali della costruzione speculativa, usciti dalla razionalità greca cristianizzata. Questo, senza che fosse possibile sostituirli, a prezzo di gravi inconvenienti, con degli elementi provenienti dalla filosofia moderna, in generale post-cristiana. Al di là di qualche prestito settoriale, non se1nbrava possibile sognare una nuova sintesi, salvo bricolage senza vera serietà. Ecco cosa conduceva molti a lasciare la teologia per le scienze religiose, anzi le scienze umane della religione.
~Già Direttore dci Scn1inari di Le Sau!choir di Parigi.
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2. Trovare un altro si aiuto per la teologia 2. I. Superare l'intellettualismo scolastico Ciò che ho appena ricordato prendeva posizione in favore della ricerca di un nuovo statuto della teologia, verso il quale potevano anche spingerci altri tipi di interrogativi. Brevemente, qui ne indicherò quattro. Avve1iivamo imbarazzo davanti alla modalità esclusiva dell'intelligenza della fede, che era quella della scolastica, per intenderci quella costruttivista e sistematica. Non esistevano altre possibilità: dialettica (socratica), agonica (combattimento della ragione nella fede, a favore e contro essa), per esempio? È una diffidenza nata dalla riflessione filosofica (Nietzsche, Kierkegaard) e soprattutto dalle scienze umane che conduceva a questo interrogativo, 1na anche due altri 1notivi che 1ni per111etto indicare. lnnanzitutto quello di una insoddisfazione davanti al fatto che la teologia, elaborazione speculativa del dato di fede o dei costumi morali, non raggiungeva mai l'esperienza della fede e della vita, cioè il vissuto o l'esistenza riflessa. Altre categorie di pensiero, un rapporto differente, e soprattutto non deduttivo con le fonti bibliche, lo avrebbero permesso? Poi, la tonalità razionale della teologia, esclusiva dopo il medioevo, che non faceva giustizia al simbolo e al racconto - tuttavia essenziale nella Bibbia, la liturgia, la tradizione antica della Chiesa - non rappresentava un i1npoveri1nento disastroso? Sia1no giunti così vicino al nostro tenia. Infine, questione un po' diversa n1a legata alle precedenti, fare teologia alla luce non soltanto della fede ma anche di tale disciplina della 1nodernità, non supponeva un dialogo interno alle due, dunque un i1npegno in uno studio che è anche una prassi, e finaln1ente un can1bian1ento di luogo o di statuto sociale del teologo? 2.2. Rinnovare il linguaggio della fede li rinnovamento del discorso teologico, appena preso in questione, è inseparabile da un'inquietudine n1olto pili a1npia: quella dell'invecchian1ento o, se si vuole, della perdita di senso del linguaggio cristiano nel suo insieme - quello della confessione di fede, della catechesi, della liturgia, ecc. - nella misura in cui questo è stato modellato dalle culture sommerse. Preoccupazione autenticamente teologica, in quanto la teologia non si definisce in riferi111ento a una elaborazione universitaria, ma alla riflessione della fede dei credenti e delle comunità, al servizio della quale la prima si trova posta, così come il carisma teologico degli individui. Un linguaggio cristiano rinnovato nella 1nodernità, senza entrare in contraddizione con la tradizione della fede, capace di rendere conto dell'esperienza, attingendo alle risorse del simbolo e della narrazione, non poteva essere reinventato? Tale è stata in gran parte la preoccupazione delle teologie 11
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Le sfide della teologia letteraria
narrative" tedesche (è vero, soprattutto teoriche) e nord-americane (talora più pratiche), come di certi saggi in Francia e Italia. Ma anche di tutta una ricerca pastorale e catecheti ca, ecc. 2.3. Rendere possibile una testimonianza La difficoltà d'interpretare nell'esistenza attuale il linguaggio della fede è nulla nei confronti di quella che incontra la persona che, estranea al cristianesimo, scopre quest'ultimo. È un mondo di rappresentazioni, di concetti, di regole, di costumi, di preghiere e di riti, di articoli di diritto, ecc. totalmente anacronistici e che sembrano privati di credibilità e anche di significato. Così nel momento in cui un credente, in una condivisione di esistenza, ha fatto scoprire a un non-cristiano il prezzo del Vangelo - primo elemento della testimonianza-, il quale deve in avvenire, per rispondere al la domanda dell'altro, dire ciò in cui crede - secondo
ele1nento della testin1onianza - la con1unicazione, agevole quanto ai valori comuni, rischia di bloccarsi senza appello. Non potremmo aspettarci nulla da una
parola o da una scrittura che prima descrive \ esperienza cristiana, con la sua 1
fecondità, in un linguaggio aperto, poi lascia presentire il Mistero che la fonda, attraverso dei simboli e dei racconti che fanno problema oggi? Non è forse così che si potrà poco a poco reinventare un nuovo linguaggio di confessione della fede che, trasn1ettendosi con 11antico, renda questo significativo? 2.4. Stabilire delle relazioni nella cultura 11
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Al di qua della testi111011ianza, è in gioco nella teologia letteraria una delle forme possibili del ristabilimento di un dialogo autentico, nella cultura attuale, come nel lo sforzo tedesco parallelo di un Karl-Joseph Kuschel (Jm Spiegel der Dich!er Dusseldmf 1977). La liquidazione completa della "cristianità" - simbiosi tra cristianesi1110 e cultura o società - è una sfida da rilevare oggi, 111a anche
un 1opportunità da cogliere. È l1autono1nia accettata, in 1nodo intcra1nente leale, della razionalità scientifica, della storia e delle scienze umane, della filosofia, della politica, dell'etica, della creazione artistica e letteraria, che costituisce la sola base possibile di un dialogo tra credenti e non credenti nella cultura presa nel senso a1npio, attuale, della parola. I prirni hanno da partecipare ad una ricerca
apet1a, piuttosto che costruire una sotto-cultura o una contro-cultura, elaborare una apologetica e una dicentesi piattaforma comune difensiva - religiosa o etica -, trincerarsi su delle posizioni di autorità senza fondamento oggettivo, senza credibilità e senza successo. In un tale contesto, l'accettazione degli altri nella loro differenza, con il massimo di comprensione e di rispetto possibile, senza giudicarli alla luce dei nostri principi (come se questi principi fossero padroni dcl terreno) né tentare delle sintesi inglobanti che non rispettano la specificità degli
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uni né quella degli altri, rappresenta uno dei momenti essenziali di un cambiamento di atteggiamento dei cristiani. Un cambiamento radicale se lo si rapporta a cinquant'anni indietro. Tra i settori più fortemente colpiti dalla difficile liquidazione della cristianità, bisogna porre quello della cultura, nel senso stretto, antico, del tern1ine, vale a dire la letteratura e l1arte. Nei paesi latini, in ogni caso, è una vera soluzione di continuità che si è instaurata tra !a cultura cristiana, teologica e ecclesiastica, e la cultura se1nplice1nente, cioè 11 laica 11 • I cristiani 11 colti 11 erano chia1nati a vivere una vera schizofrenia. Con la rara eccezione di qualche a11ista o scrittore cristiano largamente riconosciuto; sospetto a suo tempo, ma che in seguito lo si è messo in particolare evidenza. Conosciamo le ragioni d'essere di questo fossato: la cultura "laica" di reazione, di fronte al clericalismo e il rifiuto ecclesiale della secolarizzazione, da una parte; il carattere strettamente
confessionale della sotto-cultura ecclesiastica e 11ossessione concettuale della teologia dall'altra parte. Dopo 1-fenri Bremond, qualche critico letterario chierico ha tentato un ravvicinamento; l'interesse dei teologi e degli esegeti per le problematiche moderne del linguaggio - esistenziale, ermeneutico, linguistico ha costituito più tardi un ponte. A mio modo di vedere, la teologia letteraria può 111ostrarsi paradign1atica così co1ne il consenso all 1autono1nia della creazione e all'accettazione degli altri, e un diverso rapporto con il linguaggio. Bisogna adesso scoprirlo.
Il. BREVE RIFLESSIONE SUI SUOI FONDAMENTI
1. Scrittura e parola Se un cristiano, un teologo, aspira a trovare, ne\! 1atto di scrivere e di leggere, la possibilità di un rinnovamento per esprin1ere l'esperienza cristiana, la fede e l'intelligenza credente, una questione prioritaria si impone: la scrittura, la lettura possono veramente costituire un modo di condivisione dell'esistenza? Ora, ci sono due ragioni per dubitarne. La pri1na si trova dal lato della cotnunicazione dell'esistenza: quando diviene possibile? Emmanuel Lévinas afferma che la testin1onianza di una convinzione non può aver luogo se non quando un essere un1ano parla ad un altro e, attraverso la sua presenza, 11 assiste 11 la sua parola. Kierkegaard sapeva anche lui la distanza che lo scritto impone e pensava, nondi1neno, attraverso una pritna "reduplicazione" o incorporazione di una fède nell'esistenza - senza la quale questa fede non è che una rappresentazione vuota -, che nella scrittura, in certi casi, è possibile una seconda 11 reduplicazionet!. In questo senso citava Agostino. Alla qualità eccezionale dell'esistenza che egli indica con1e condizione, bisogna aggiungerne un'altra: che lo scrittore possieda
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una genialità, poiché ogni comunicazione che è nell'ordine dell'at1e suppone che si accetti il suo rigore proprio e che se ne abbia ricevuto il dono.
2. Scrittura ed esistenza Questa obiezione non è dunque nuova, n1a è rilanciata da un'altra, proveniente dalle teorie della letteratura, uscite dalla linguistica, e sistematizzate da ciò che si è chia1nato 11 strutturalis1no 11 e 11 nuova critica!!. Secondo questo n1odo di pensare, lo scritto letterario è segnato da una chiusura rigorosa: è produttore di senso, 111a senza alcun riferitnento esterno allo scritto, sia nel inondo sia in ciò che è vissuto da un soggetto. Solo, in questo ultin10 caso, l1affiora111ento n1ascherato dell'incosciente può venire alla luce nel testo. L'assoluto, in un tale sistema, non può apparire che come un punto di fuga nel gioco interno del linguaggio. Senza pretendere di discutere queste concezioni, è sufficiente dire che ci sono altre comprensioni possibili della scrittura, che possono permettere di stabilire la legittimità della nostra ricerca, quelle secondo le quali la scrittura può farsi parola. 11 che vale a dire indirizzarsi ad un lettore, che la interpreta e che essa ca111bia, riferirsi ad un 1nondo che essa vuole spesso celebrare - o denunciare - e rinnovare se1npre, preservare la traccia di un io che ha attinto in sé e portato al di là di sé questa scrittura, rischiare una ricerca di assoluto, orientare verso Dio che la parola ricerca o accoglie. Tutto questo, ben inteso, secondo la sua distanza propria in rapporto agli usi correnti del linguaggio e ai modi diretti di riferimento, sul quale dovremo ritornare.
3. Bibbia e letteratura Avendo preso in considerazione queste difficoltà, veniamo ai fondamenti di un lavoro con e sulla letteratura. fn questa, il credente della tradizione biblica dovrebbe sentirsi su un terreno familiare. In effetti, esiste una affinità originaria tra la sua fede e lo scritto. La fede passa certo da persona a persona attraverso una tras1nissione viva, n1a essa si consegna anche attraverso questo testi1none privilegiato che è la Scrittura. Nella Bibbia, agli occhi del credente, sono consegnate delle parole d'uomo nelle quali si è inteso una Parola altra, e questa parola può venir foori o nel momento della lettura personale o in quello della proclamazione pubblica. Ora, la Bibbia non è un serbatoio di proposizioni nozionali. È una vera e co1nplessa raccolta letteraria dai generi diversi: i! poen1a elegiaco e /1inno, l1epopea, la cronaca storica, la fàvola o il racconto 111itico, la meditazione del saggio trasmessa secondo delle forme codificate, l'oracolo profetico, il ro1nanzo d 1i1n111aginazione. In ciascuno di questi generi, J!elen1ento
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simbolico c l'elemento narrativo giocano entrambi un ruolo essenziale, traducendo la bipolarità della fode biblica: orientamento religioso, servendosi come ogni altro del registro si111bolico, e testi1nonianza storica inscritta nella narrazione. Aggiungiamo che l'antropomorfismo, costante da un capo all'altro della Bibbia per parlare di Dio e indispensabile per situarlo come un interlocutore dell'uomo, dipende da un registro di linguaggio metaforico ben lontano dalle astrazioni della teologia classica.
4. lnnnagine e icona li carattere di opera d'arte che lascia supporre ogni scrittura del l'esistenza, che segnalavo poco sopra, e la presente insistenza sul carattere letterario del la Bibbia avrebbero senza dubbio inquietato Kierkegaard. Poiché egli temeva, su questo punto, il travcstin1ento "estetico 11, sen1pre pericoloso per Pesperienza religiosa - un modo di mimarla con i registri del gioco e del sentimento, invece di viverla realmente-, sia che si tratti dell'ordine intellettuale, della liturgia o della mistica, e sia più ancora dell'at1e. È capace di estetizzare tutto, a con1inciare dall'amore (la passione assoluta del romanticismo tedesco). Deteneva Kierkegaard stesso la chiave di questa difficoltà, come l'attesta una nota del suo diario. Dice che così non è di Gesù come di Socrate, poiché il rnaestro in etica deve essere semplicemente irnitato, senza che si perda del tempo a soffermarsi sulla sua persona; invece, per Gesù, un 1no1nento di an1111irazione precede necessarian1ente quello in cui ci si permette di seguirlo. Questo stupore - sacro e estetico suscitato dal Cristo è decisivo per il nostro proposito. E ciò che si chian1a 11 incarnazione 11 ~ che è fondata sulla creazione: quella di un n1ondo bello, in cui Dio sopraggiunge nella sua propria dimora - fonda a sua volta non solo l'agape questo carattere sacro del volto del prossirno - ma anche l'icona. È la riabilitazione dell'immagine, sempre produttrice di estetismo e sospetta di evasione fuori dal reale. Così l1adesione di fede con1porta una 11 cstetica seconda 1' scn1plice1nente costitutiva, come "l'etica seconda" affermata da Kierkegaard, al di là della rottura instaurata dal rischio radicale del credere. E la bellezza della Bibbia si situa nello stesso ordine di mediazione.
5. L 'arie e la fede Allargando la riflessione, ciò che precede spiega e giustifica come il cristianesin10 abbia dovuto ricorrere in ogni te1npo all'a1ie, in particolare nella sfera del culto, e che vi sia sempre ritornato, anche se in maniera indiretta, al di là delle diverse crisi iconoclaste. L'architettura cistercense, dopo le sculture di
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Cluny, giudicata pagana; le cattedrali risuonano di cantate e passioni, dopo il rifiuto protestante dell'arte plastica tradizionale. E ancora più ampiamente di ciò che si chia1na 11 arte sacra 11 , è ogni bellezza che può divenire per noi azione di grazie e offe11a, quali che siano le credenze del suo autore. Così ogni creatore può ricevere da un credente la stima e la gratitudine dovuta a chi offre un frammento di salvezza - come Jean-Paul Sartre scrive del sassofonista in "La Nausea" -, anche se questa salvezza non appare co1ne ulti1na a colui che si vuole uditore di una Parola che lo oltrepassa.
lii. IL SUO RICORSO ALLA SCRITTURA
1. Le due jàcce cli una ricerca li primo impegno di questa forma di teologia è stato quello di ricorrere a una scrittura letteraria, grazie alla quale ci si proponeva di riflettere la propria fede, di pervenire a una 111utua co1nprensione tra le persone che operano in questo campo, e anche di procedere nel compito propriamente teologico, con degli stru1nenti rinnovati, in rapporto ai ca111bian1enti sopraggiunti nella cultura. Certa1nente, un tale lavoro non 11 proveràu niente. Ma si tratta di questo? Non è piuttosto questione di nn1ostrare 11 , di far scoprire ciò che è offe1io? Di inventare un nuovo linguaggio per tradurre una confessione e una esperienza di fede, che non rimarranno identiche se non accettando di divenire altre? Questo ricorso alla scrittura è inseparabile da una seconda operazione: frequentare e studiare le opere letterarie. Un compito di lettore appassionato, alla luce dell'adesione credente e della competenza teologica, e nello stesso tempo un compito di critico e di storico. Si tratta di appartenere a due 111ondi, di lasciarli risuonare e incontrare in se stesso, lungan1ente, liberan1ente, senza giudizio preconcetto. Questo - ci ritorneremo - sia che si tratti di scritti di credenti che hanno fatto opera letteraria, sia che si tratti di scrittori non-religiosi, nel senso abituale del tcrn1ine. È tuttavia capitale non pretendere di 11 ricuperare 11 questi !!altri differenti'\ 1na accettare di 111ettersi alla loro scuola al fine di creare se stessi. Evochian10 adesso le condizioni di ciò che ho chiamato il primo ricorso: la teologia come scrittura.
2. Tre condizioni JJer la scrittura stessa La prima è che questa si mostri autenticamente mediatrice. Si può mettere, per iscritto, dei pensieri che sono stati già concepiti, con tutto il loro dispiegamento concettuale; si può stendere sulla carta una parola completamente formata con la retorica propria del discorso orale. Altra è l'apertura - o il rischio e
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la possibilità- di una scrittura letteraria: giunge alla penna ciò che non giunge al pensiero, ciò che è attinto 11 alle sue profondità in cui l1im1nagine e l'idea sono congiunti ancora da un lega1ne esso stesso carnale e non ancora risolto 11 , secondo la bella formula di Péguy. Certamente non si tratta di coprire le pagine di chiacchiere o di sen1plici associazioni: sono presenti, in partenza, queste intuizioni originali di cui Kant parla nella Critica del giudizio che possono avere tanta chiarezza quanto gli sviluppi teorici. Ma il progresso del pensiero, la messa in luce dell'intuizione, condotti in modo giusto e possibile, si fanno nel lavoro stesso di scrivere. La seconda condizione è quella del rigore. Scrivere rappresenta senza dubbio, a sua volta, un dono e il risultato di qualche investimento psichico molto antico, 1na è anche un 1nestiere. Non scrive chi lo desidera, o decide i111provvisamente di farlo. Rileviamo, come esigenze, lo sforzo di rispettare la purezza e la proprietà del la Iingua, usando di tutte le risorse del vocabolario; l'ascesi di 1nantenersi a!Pessenziale, e di sacrificare ciò che non è significativo per l'altro; la scelta di pervenire ad una comunicazione con il lettore, non esclude la polivalenza del senso e talora una certa oscurità, soprattutto in poesia, n1a piuttosto !e allusioni personali indecifrabili e la dissimulazione volontaria; la decisione di non fermare il lavoro se non quando si è pervenuto a stringare il più possibile ciò che sale, in se stesso, in ricerca di parole. La terza condizione è quella di raccogliere, di condensare le intuizioni e le esperienze che si vuole tradurre. Non si tratta di tagliar corto, 1na, invece di spiegare questo nucleo originale su un certo spazio concettuale per chiarirlo e a1ticolarlo, si cercherà delle parole piene, delle espressioni o figure belle, fo11i, che fanno pensare il lettore, interpretare, creare il suo proprio discorso.
3. La condizione di una luch!ità Per chi si i1npegna in una tale scrittura, è necessario, infine, che distingua in modo chiaro tra i diversi generi letterari, avendo coscienza delle soglie che li separano, di stare a ciò che uno è veramente capace di praticare. Una persona sarà capace di scrivere un saggio, con quanto questo tipo di scritto può comportare di autentican1entc letterario - per il suo stile, la sua apertura, la sua incon1piutezza, !a traccia che conserva della ricerca che vi ha condotto -, n1a non potrà esporsi fino a varcare la soglia della letteratura autobiografica. Questa esige, in effetti, una capacità di esposizione personale e un buon uso dell'io, lontano dall'aneddoto e dal pathos. Un'altra persona potrà produrre dei diari, n1en1orie, autobiografie, corrispondenze, emergendo da questa autobiografia o nel senso largo del termine, n1a conoscerà una litnitazione de!l 1i1nn1aginario: i personaggi, le situazioni. Ora questa incapacità gli impedirà un accesso fecondo al romanzo, al teatro, e forse ad ogni forma di racconto scritto, per i I quale non è più sufficiente essere un buon
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Le sjìde della /eologia letteraria
narratore. Infine, presupponendo una libertà nella scaturigine del linguaggio, a partire dalle sue profonde risorse, la soglia del poema apre, verso la rarità del suono, verso l'ambito più ricco, giacché l'oscurità della poesia non nasce dalla povertà di senso, ma dalla sua sovrabbondanza. È l'ambito più fragile, anche, per il rischio di divenire enigmatico o, almeno, per la pluralità delle interpretazioni possibili. Poiché queste lo renderebbero improprio, per esempio, nel farsi carico, da solo, dell'espressione di una confessione di fede, se tale ambito dovesse rimanere quello di una poesia autentica. Veniamo adesso al nostro secondo ricorso, implicato dal primo, ai suoi caratteri, alle sue condizioni.
IV. IL SUO RICORSO ALLE OPERE LETTERARIE
l. Che cos'è la letteratura? Una prima riflessione, che comanderà il seguito del lavoro, ci permetterà, di primo acchito, di evitare uno scoglio e di esigere un difficile discernimento. Un reale misconoscimento di ciò che è la letteratura si manifesta nella domanda che ci è spesso rivolta, negli ambienti religiosi, di evocare tale idea, tale sentimento, secondo il romanzo di una data epoca, o di presentare tale tema nella poesia. Questo significa ignorare lo scarto, in relazione ad ogni riferimento diretto, che costituisce propriamente la letteratura. Questa non ha altro fine che se stessa, benché raggiunga talora lo scopo che non prende di mira: essa può cambiare la vita, aprendo su dei possibili inediti. Ora è questo carattere essenziale che esigerà la delimitazione del campo preso in considerazione dagli studi fondamentali o dal lavoro critico nell'attualità, i quali costituiscono le due forme di una tale ricerca (studi riuniti, nel 111io caso, nei quattro volu1ni Pour une histoire religieuse e/e l'expérience lit!éraire, ( 1985-1998); lavoro critico del Bulletins de théologie littéraire, della Revue des sciences philosophiques e/ théologiques, dal 1987). In effetti è a partire da questo lavoro che si mettono in evidenza tre criteri. Il primo è immediato: la letteratura che si ha modo di studiare è quella in cui si consente uno sposta1nento, un disorientatncnto, una cleviazione. Intento e riferi1nento extra letterari diretti sono spariti, e correlativamente, i I linguaggio si stacca dal suo impiego pratico o scientifico, cifrato dall'uso o dall'intelletto. Descrivere una società, promuovere una forma di impegno o di fede, manifestare la bellezza di un paesaggio o esprimere i suoi sentimenti non possono rappresentare delle finalità dirette per una produzione letteraria. Si crea perché si deve creare, e si crea un testo. Il secondo ne viene fuori: questo testo è letto e deve essere interpretato. Chi si interessa al lo scritto deve accettare che la le/tura divenga parte integrante del processo creatore. Il terzo criterio, più difficile da far cogliere, è la regola del l'innovazione, comune ad ogni attività artistica. Non si tratta di un progresso 11
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o di una sorta di privilegio della sola ricerca di punta. Ma un'opera letteraria è se1npre, a qualsiasi livello, innovatrice. Sia che essa introduca un reale spostamento, sia che essa metta a frutto le vittualità ancora inedite delle creazioni anteriori. Tutto questo, nell'uso della lingua, nelle forme (romanzesche, teatrali, poetiche), e nell'elemento personale che si può chiamare stile o voce propria. Questo tratto è dovuto soprattutto al carattere metaforico del linguaggio letterario cosi come alla creazione delle forme. Qui e là, l'usura indebolisce lo scarto e annulla la potenza di suggerire il senso.
2.
~'lcrillori
credenti e non cristiani
Non è 1ncno in1po1iante stabilire con precisione i diversi generi di autori che prenderemo in considerazione e di giustificarne alcuni di cui potrebbe sen1brare che non vanno da sé. J_,a prin1a sorpresa verrà forse da una preferenza inattesa tra gli scrittori che confessano la loro fede cristiana. In effetti, si può tcn1ere che una letteratura che io no111inerei 11 confessionale 11 , che traduce in ro1nanzo o poesia il dogn1a, la vita della Chiesa o la pietà, non pecchi nei confronti della deviazione che dicevo costitutiva della letteratura, e nello stesso tempo nei confronti della potenza della suggestione religiosa. Anche una letteratura "confessante", più libera, che dà il proprio posto alle contraddizioni intime, alle discordanze, ai dubbi, creando le sue proprie parole, rischia, talora, di rendere sterile tale suggestione religiosa attraverso il peso troppo gravoso dci termini che preesistono, o attraverso la proporzione tra la parte di innovazione e la vita spirituale già formata che essa vuole tradurre. Qualche volta è un modo di scrivere "indiretto 11 , che espri111e una esperienza u111ana o una vita spirituale non repertoriata, n1a orientata e guidata, dalPinterno, da una fede che si rivela la più feconda. La seconda sorpresa nascerà dall 1in1po1tanza assegnata, daila teologia letteraria, alle opere uscite da scrittori non credenti, 1na orientati verso ciò che trascende, o piuttosto che csprin10110 un "trascendere!! nel senso più aperto del termine. Queste sono spesso le più preziose per noi. Sicché ogni creazione di questo tipo, quale che sia la modalità propria della tensione verso l'assoluto, n1etterà necessarian1ente in opera e contribuirà a rinnovare un vocabolario e una grammatica specifici, che andranno arricchendosi di sfumature secondo il proprio orientamento particolare. Di colpo, le diverse famiglie spirituali - a seconda che ci si riferisce al reale vero all'infinito o all assoluto, al sacro, a Dio, o a questo nome proprio, Dio, al quale si ricollega la fède dei credenti monoteisti - potranno dialogare insie1ne e arricchirsi 111utuamente sul fondan1ento di questa creazione che è per una parte comune. Bisogna aggiungere che la comunicazione e l'apporto reciproco possono anche essere stabiliti su un terreno etico, costituito, per 1
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Le sfide della teologia letteraria esempio, da un certo numero di quelle scelte fondamentali che
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chia1nano Beatitudinin. 11
3. Condizione del ricorso alla letteratura Dopo questi caratteri essenziali, rileviamo rapidamente tre condizioni di questo lavoro. La prima, già evocata di sfuggita, è quella di rinunciare ad ogni atteggiamento apologetico. Si tratta di evitare non soltanto di ricondurre a sé i creatori (manifestando una logica che li avvicinerebbe al cristianesimo), o di condannarli (dal momento che non si sono definiti in rapporto alla fede), ma anche di situarli, di primo acchito, nei confronti di una ortodossia o di una appartenenza. Soltanto dopo averli lungamente ascoltati nelle loro opere, ricollocati nel loro contesto e orizzonte proprio, si può e si deve tentare di discernere affinità e differenze. Giudizio certo necessario, ma ricordandosi che l'atteggiamento spirituale è spesso più decisivo che i contenuti di fode. Uno scrittore agnostico, che testimonia nello stesso tempo una pura visione dell'assoluto e il senso acuto dell'incarnazione, potrà rivelarsi più vicino al Vangelo di un altro di cui l'opera è ripiena di temi cristiani. La seconda condizione è una coscienza fern1a di una d;stinzione spesso 111altrattata nei cristiani. Ogni esperienza spirituale autentica - dell'amore, della lotta per la giustizia, della creazione artistica, della ricerca scientifica, ecc. - non è necessariamente orientata verso l'assoluto. Ogni ricerca e ogni presentimento dell'assoluto, che è oggetto di esperienza aln1eno soggettiva, non sono necessarian1ente d'ordine religioso, nel senso in cui questa parola dice rapporto, relazione al divino o ad una salvezza reahnentc esistente. Infine, ogni esperienza religiosa non è uscita dalla corrente biblica e non ne possiede i caratteri propri. È riconoscendo le cose per quelle che sono e la gente per quella che vuole essere che una co1nunicazione diventa possibile. Infine, terza condizione, è studiando le _j'orn1e stesse, e non le rappresentazioni, che si va all'essenziale e che ci si apre sui loro intenti extra-letterari possibili: altra conseguenza del postulato fondamentale concernente la letteratura. Sono le parole, i inetri, le figure che costituiscono una poetica che pennettono di conoscere la teologia che essi incorporano; sono le fanne ron1anzesche e la scrittura stessa che daranno le più sicure indicazioni sull 1universo verso il quale 11opera apre. Per ese1npio, una poesia niistica è caratterizzata dalle sue metafore negative (silenzio, tenebre), dalle sue negazioni esplicite (senza nome, senza volto), dalle sue figure liminari (vegliare, spiare, soglia, porta, frontiera), come una poesia che celebra il presentimento dell'assoluto nel mondo lo è per delle analogie positive (l'altezza, la luce, lo sguardo, il pastore) o delle immagini epifaniche (i segni dell'illimitato offerti dalla bellezza e l'insolito delle stagioni). Infine una poesia dell'assoluto che diffida del
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linguaggio e dei suoi tranelli, usa delle possibilità offerte dal suono, il ritmo, la coloritura delle parole, per trasgredire il linguaggio e raggiungere, nel reale ritrovato nella sua immediatezza, l'unità di ogni cosa.
Al termine di questo breve percorso, mi sia permesso dire che, se si pensa al vuoto che ho descritto all'inizio e all'indifferenza con la quale tale ricerca fu accolta vent'anni fa, le cose sono sensibilmente cambiate. Certo, tale dizionario di teologia appare senza alcuna allusione a tutto questo, così come senza una sola notizia su uno scrittore; tale repertorio degli scrittori del secolo, non ha una parola su questa problematica e non presta alcuna attenzione alla dimensione religiosa delle opere. Ma un certo interesse per la cultura si è manifestato, nelle sfere istituzionali, accademiche o teologiche del cattolicesimo. Nel campo culturale, uno sblocco delle irritazioni "laiche" è venuto alla luce da pa1te degli universitari, con Paugurio di una partecipazione teologica in vista di esplorare la 111istica. Dei centri di ricerca sono stati creati su questa frontiera. Dal Iato degli scrittori, il lavoro sulla loro opera è stato occasione di incontri, di corrispondenze, di collaborazioni, talora di profonda amicizia. E non siamo che all'inizio di una tale esplorazione.
(Traduzione dalfi'ancese di Giuseppe Schillaci)
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V ALO RE LINGUISTICO DELLA FORMULA "CORPO DI CRISTO" ALLA LUCE DELLA FENOMENOLOGIA DELLA PERCEZIONE DI MAURICE MERLEAU-PONTY
CARMELO RASPA'
Introduzione TI nostro studio vorrebbe proporre un'ipotesi di ridefinizione del senso della corporeità, intesa come luogo esistenziale dello svelamento di Dio. Riaggangiandoci alla Fenomenologia della percezione del filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, il cui pensiero, pur così poco conosciuto, è tuttavia uno dei più pervasivi del mondo speculativo odierno, individuiamo nella struttura relazionale, e dunque comunicativa, dell'essere-corpo il segno di un vissuto, quello di Dio, che seinpre si attua. li corpo, configurandosi co1ne espressione linguistica, realizza l'identità del soggetto nel punto massimo della sua espropriazione, permettendo così di far risaltare dal fondo comune della relazione gli angoli prospettici di individualità propri di ogni soggetto comunicante, senza peraltro esplicitarli tutti, ma lasciando al gioco dell'inerenza vissuta, che si attua nel tempo e nello spazio, il con1pito di rivelarli, se non nella loro originalità) ahneno in un orizzonte di senso equivalente, secondo l'adeguazione della coscienza stessa e delle prospettive individuali. Questa struttura costituisce il campo di incarnazione dell'eterno e costitutivo vissuto relazionale di Dio, che si espri1ne nel "corpo di Cristo", nella sua triplice accezione di corpo storico di Cristo, corpo eucaristico e Chiesa. Considerando che gli ultimi due hanno perso molto della loro ricchezza espressiva e segnica a seguito dell'applicazione indifferenziata ad entrambi della medesima formula, nondimeno ne rileviamo la specificità di luoghi, puramente materiali e umani, che il senso di Dio investe perché ne rivelino la presenza operante e il
•Baccelliere in Teologia. Estrallo della tesi di Baccalaureato presentata nello Studio Teologico S. Paolo di Catania nell'anno accadc1nico 1997-98, sotto la direzione dcl prof. Maurizio Aliotta: pubblicato con il Pre111io «Mons. Prof. Santi Pesce».
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Carmelo Raspa
volto. Da qui scaturisce il fatto della loro compresenza ed implicanza, perciò bisogna prendere come oggetto della nostra riflessione entrambi.
1. li corpo-linguaggio Lo spazio corporeo, nella sua singolarità, diviene un frammento dello spazio oggettivo solo se contiene il fermento dialettico che lo trasformerà in spazio universale: questa integrazione, che ha luogo nel corpo, è analizzata da Merleau-Ponty sollo il profilo del linguaggio. li corpo è una struttura di comunicazione, dove «tutto avviene co111e se l'intenzione dell'altro abitasse il 111io corpo o come se le mie intenzioni abitassero il suo [ .. .]. li gesto è di fronte a me come un quesito, 1ni indica certi punti del 1nondo ove rni invita a raggiungerlo. La con1unicazionc si co1npie quando la n1ia condotta trova in questo ca111111ino il suo proprio ca111111ino. Così, io confenno l'altro e Paltro confenna 111e» 1• Qui è l'espressione a coniugare i due versanti opposti che costituiscono l'Essere e in pari te1npo la comunicazione intercorporea: il "A6yoç ÈvBto:TET6ç (articolazione muta dell'Essere, che precede e sollecita tutti i modi dell'espressione) e il 1'oyoç npo<j>opt1<oç (linguaggio proferito, sciolto dall'immanenza primordiale e divenuto simbolo)'. L'espressione pennette di recuperare il significato del Leib, del mondo fenomenico, dove incontro le cose e l'altro; e lo fa mediante il trascenditnento de! segno verso il significato, che è contenuto nel segno in n1aniera così intima e materiale da sottolinearne la potenza rivelativa e trasparente. È così che la parola rende il soggetto incarnato esposto all'altro, rivolgendosi alla persona posta di fronte, alla quale si adegua attraverso una comunanza di significato che l'espressione dona alla parola 1nedesi111a attraverso una potenzialità prospettica di significazione. Ogni parola è adeguata dal soggetto incarnato all'altro, il quale sospinge verso tale adeguazione attuandola a sua volta da sé: ecco perché l'espressione è sempre prossimità mai raggiunta, alla stessa stregua del corpo dice e si ritrae, inverando così il 1niracolo di una perenne innovazione di scnsoJ. La parola dà al soggetto incarnato quello che si definisce lo stile, ovvero delle fessure, dei vuoti, degli alti, dei bassi e delle profondi-
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Feno111e11o!ogia della percezione, traci. i!., Milano J 980-', 256. Vd. A. SORDINI, I sùnboli e i! co1po. J\!Jer!eau- Ponty.fllo.w~{o de!!' espressione, in Fe1101ne11o!ogia e società 7 ( 1985) 7 ! . -' M. MERLEAU-PONTY, Feno111enologia della J'ercez.ione, cit., 59. 2
M. MERLEAU-PONTY,
Valore linguistico della formula "corpo di Cristo"
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tà, in rapporto alle quali dimensioni si misura e si colloca tutto il resto'. Lo stile permette la 111etan101fosi, una continua creazione di nuovi significati insiti nei precedenti, proprio come il presente è implicato nel passato e implica Pavvenire: la tradizione non consiste in «una sopravvivenza che è la forn1a ipocrita dell'oblio», n1a in un'efficace ripresa o "ripetizione" «che è la forn1a nobile della memoria»'. E nella Fenomenologia della percezione leggiamo: «E se si può con1prendere la 111e111oria solo co111e un possesso diretto del passato senza interposizioni di contenuti, così si può comprendere la percezione della distanza solo come un inerire al lontano che lo raggiunge là dove esso appare»''. Nella distanza, che misura l'ampiezza della vita, il corpo parlante esplora il senso che ogni cosa e ogni soggetto incarnato narra, non attraverso una speculazione, 111a 111ediante un'esperienza espressiva che riceve il contenuto pri1na che questo sia sussunto dalla fonna, la cui pregnanza è nel contenuto stesso, come la parola ha già in sé il mondo che dirà, il corpo il soggetto spirituale che incarna, il pane consacrato la presenza reale di Dio 7• E con1e «il proprio di ogni parola è di non essere solo espressione di "questo", n1a di darsi a! prin10 approccio con1e fra1nn1ento di un discorso universale, di annunciare un sisten1a d,interpretazione» 8 , così ogni apparire dell'altro a! soggetto incarnato e ogni incontro di quest'ultimo con il primo diviene il luogo di un accadimento relazionale perennen1ente nuovo e creativo: ogni uon10 è nella solitudine al di qua di ciò che appare allo sguardo altrui e di fronte a quest'ultimo trascende sempre il n101nento attuale dell'incontro, verso un evento e un senso già presenti e intuiti che si configurano secondo l'intreccio delle prospettive di percezione dei due. L'apparire di un corpo è sen1pre l'accadin1ento di una nuova creazione, di un 1nistero che svolgerà la sua storia. Il corpo attraversa lo spazio e il tempo e, grazie alla memoria plastica, raccoglie, conserva e proietta eventi e luoghi secondo delle potenzialità prospettiche che l'inerenza del corpo medesimo ad essi rivela propno nell'incontrarli. Si genera così una tradizione 9 ed il corpo in1pri1ne un senso agli
·1ID., La prosa del 111011do, a cura di C. Sini, trad. it., Rc)lna J 984, 78. 5 Jbid., 84. 6 ID., Fe110111enologio della percezione, cii., 352. 7 lbid., 289, 381. 8 Jo, La prosa del 111011do, cii., 146. 9 Così scriveva D. BONHOEFFER nella lettera dcl 1° febbraio ! 944 a E. Bethge in Resistenza e Resa, !rad. il., Cinisello Balsaino 1989 2 , 275: «Dov'è oggi questa "n1cmoria"'? Ln perditi:! di questa "rnen1oria n1orale" - orribile parola! - non è forse il 111otivo dello .sfaldar.si di tulli i vincoli,
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oggetti e alle persone che ad esso sono correlati, un senso che è insito nelle diverse prospettive, che contribuiscono a formare l'unità dell'oggetto (e della persona), e nei diversi angoli di percezione, in cui si pone il corpo, nonché entro i! chiasma dei diversi punti di vista. La verità non è data una volta per tulle, ma sorge all'interno di una relazionalità di fondo, dove i fran11nenti si staccano dall'orizzonte sintetico per dipingere un panorama di possibili che ad esso guida la riflessione. Il corpo, quindi, recepisce gli eventi, gli oggetti, l'altro con il loro visibile e il loro invisibile, ne ascolta le parole e le ristruttura secondo il proprio schen1a co1poreo. E, tuttavia, queste strutturazioni non sono co1npiute né sono assolute, giacché inserite in un contesto strutturale che le apre sempre a modificazioni prospettiche e ad allargamenti di orizzonti: per cui, «non abbiamo solo
la sostituzione di un senso con un altro) 1na la sostituzione di sensi equivalenti; la nuova struttura ci appare già presente nell'antica, o l'antica ancora presente nella nuova, e i [ passato non è seinpl icetnente superato, è con1preso: ciò si e-
sprime dicendo che c'è unità e che qui e1nerge lo spirito» 10 . Dietro ciò che appare c'è sempre una profondità altrettanto reale e percepibile, che una progettualità interna può far emergere e che, per «appartenenza come ad un unico ordine istituito»", è sempre significante per l'altro. In tal senso, l'individuale si congiunge all'universale e non bisogna più scegliere tra il per sé e per l 'a/tro, giacché l'altro è legato a me, è mio pari, le sue potenzialità sono le mie, l'azione che egli esercita su di 1ne è la stessa che io esercito su di lui, un'azione culturale che confronta e rende compossibili le vite, all'interno delle quali essa s'insedia, facendosi responsabile di tutte, creando così una vita universale. Un'azione che passa per il corpo, luogo di una "strutturazione universale di senso" che annulla le distanze e spiega la co1npresenza di una trascendenza or;zzontale della storia e di una trascendenza verticale di Dio. Il corpo appare così il campo di preparazione dell'intervento di Dio nella storia dell'uomo, la materia della sua incarnazione. «Il Cristianesimo è in buona parte il riconoscimento di un mistero nel rapporto tra l'uomo e Dio: proprio il Dio cristiano non è disposto ad accettare un rapporto verticale di subordinazione [... ]. Nessuna filosofia è mai consistita nello scegliere tra le trascendenze, per esemdell'amore, del 1natri1nonio, dell';:unicizia, della fedelti'l? Niente resta, niente si radica. Tutto è a breve tcrrninc, tullo ha breve respiro. Ma beni con1e la giustizia, la verità, la bellezza, e in generale tutte le grandi prestazioni, richiedono tempo, stabilità, "1ne1noria", altrirnenti degenerano. Chi non è disposto a portare la responsabilità di un passato e a dare fonna a un futuro, costui è uno "smernorato", e io non so con1e si possa colpire, affrontare, far riflettere una persona siinilc». Hl M. MERLEAU-PONTY, la prosa del 111011do, cit., 114. 11 fbid., 98.
Valore linguistico dellaformula "corpo di Cristo"
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pio tra quella di Dio e quella dell'avvenire umano; esse sono invece occupate a 1nediarle, a co1nprendere coine Dio si fa uo1no e co111e J'uon10 si fa Dio ... »12 .
2. Valore "segnico" del corpo eucaristico e della Chiesa La struttura "segno11 è una struttura di ri111ando nella presenza e di svela111ento nell'assenza, dove !a preposizione "in,, (I1Èv paolino e giovanneo) fa esplodere tutto il carattere drammatico" della tensione tra visibile e invisibile inscritto nella stessa realtà segnica. Del resto, il gesto di Gesi1 l'ultima sera della sua esistenza terrena ha valore segnico: esso ri1nanda al di là di ciò che si con1pie e tuttavia, nella contemporaneità dell'evento, esprime attualmente la realtà che dice". li segno si colloca in quell'implicazione temporale di passato, presente e futuro) che l'analisi 1nerleau-pontiana ha rilevato, per cui esso a111p!ia il proprio limite ed abbraccia realtà intenzionali colte secondo la prospettiva della coscienza che di iì·onte ad esso si pone. li segno si configura come orizzonte prismatico da cui emergono diverse possibilità ermeneutiche; queste ultime, non sono, però, discordanti tra loro, piuttosto si itnplicano, con1e lati o angoli dì visione di una 111edesin1a struttura. L'evidenziazione dell'una cela l'altra, n1a non la annulla, pennettendone cosl il recupero in una nuova visione che non e!in1ina nessuna delle possibilità proposte, ma le accosta secondo i loro sensi equivalenti, le rivela nella loro ambiguità di correlazione, con la conseguente percezione di quei 1nedesin1i sensi equivalenti all'interno di una nuova fonnula linguistica, un "nuovo" dire, nuovo non perché sorto ex 11;/1ilo, nia perché chia1nato all'esistenza dalle orme visibili e caotiche in cui risiedeva, sotto la visibilità del primo dire. La formula "corpo di Cristo" applicata al corpo eucaristico ed alla Chiesa ci sen1bra possieda questa forte connotazione segnica, sia in riferin1ento ai singoli due corpi sia in relazione ad entrambi. Tenteremo di esplicitarla partendo proprio dal corpo eucaristico.
12 lbid .. 97. nPcr il carattere dratnn1atico dell'inclusione in Cristo cfr H. U. YON BALTHASAR, Teodra11u11atica. Le persone de! dra111111a: I '1101110 in Cristo, 111, !rad. it., Milano 1983, 33-39. 14 Così scrive R. TUJ~A, Eucaristia, in l)TJ, Il, Torino 1977, 150: «il gesto cucarislico, compiuto eia Gesù l'ulti1na sera dell'esistenza terrena, risulta così seinp!ice e ricchissiino i11sie1ne, in un ventaglio di accenti salvifici che le varie co1nunità cristiane lenleranno di rivivere anche riltrnl1nentc lungo i secoli)>.
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La Chiesa primitiva non ha nessuna difficoltà nel ritenere che il pane e il vino sui quali si pronuncia la parola consacratoria, quella stessa di Gesl1, e santificati dall'azione dello Spirito siano il corpo e il sangue di Cristo. Il pane e il vino sono già in se stessi segni: essi sono il pasto co111une di tutti e di ciascuno, scandiscono la sosta degli uon1ini in ca1nn1ino nella storia, generando così una sorta di "compagnia"". Agli apostoli e a Gesù, come membri del popolo ebraico, il pane ricorda la manna, il cibo del "pellegrinaggio" nel deserto, il segno della bontà di Dio. Questa medesima bontà travalica i suoi stessi limiti, anzi non se li impone, e si effonde così nel dono del vino, che allieta il cuore. Essi portano inscritto nella loro struttura e nel loro "esserci-così", nudi ali111enti, l'amarezza dell'esilio e la gioia della libertà, celebrando così l'intervento salvifico di Dio in favore del popolo che Egli si è eletto come suo popolo, per amarlo e fargli dono della sua legge. Mangiare il pane e bere il vino in un giorno particolare dell'anno, il giorno di Pesach, secondo l'ordine del Signore, e il prendere
questi pasti in co111une, fa sì che 111ediante essi il passato inerisca al presente e si riattualizzi, mentre il futuro entra come appello carico di speranza a Dio perché si ricordi del suo popolo, continuando ad amarlo e a liberarlo: è questo il memo-
riale, il ricordo a Dio nel ricordo di Dio, dentro una struttura pienan1ente u111ana che si esprime necessariamente con i segni. Ed il segno parla se gli si dà voce: l'haggadah, il racconto pasquale del padre al tiglio che l'interroga, permette al pane e al vino di raccontare la storia. Perché è l'uomo che dà voce al messaggio narrato dal segno, chiainando!o, proprio con1e Dio chia1nò le cose all'esistenza nominandole e affidando all'uomo il compito di far sorgere questo nome
dall'aureo silenzio dcll'intitnità divina in cui giacevano. Perché anche la Parola di Dio è segno che realizza i! contenuto della sua pro1nessa; n1a se l 'uon10 non le dà un non1e, la sua azione è destinata a rin1anerc n1uta, a 111orire 16 • All'interno del contesto anamnetico-liturgico, dove la lede nasce ed assun1e i suoi contenuti, essendo non un assenso intellettuale a delle verità ogget-
15 Sul pane coine "segno" di con1pagnia e sui risvolti teologici di questn deduzione cfr G. COll/j)(/gl/i{/ della fede. Linee di teologia fo11do111e11tale. Casale rvtonfcrrato 1980, 155-157. 16 Ancora R. TURA, Eucliristia, cit., 160, scrive: «La pnrola di Dio non è la traduzione di
RuGGJElU, La
un concetto nell'ordine della conoscenza, 1na un segno che 1nanifesla il volere salvifico di Dio in eventi storici coinvolgenti persone e coinunità: è un dialogo sn!vifico proposto dn accettarsi nella fede. Si tratta se1nprc di una pnro!a sti1nolantc che Dio proferisce di nuovo nella chiesa, per significnrc e donare ln nuova alleanza all'u1nanità: Dio non rive!a notizie, 1na Se stesso in una gradunlità progressiva rispettosa de!l'uon10».
Valore linguistico della.formula "corpo di Cristo"
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tive rivelate, n1a pri1naria1nente l'esperienza di un incontro, «l'orizzonte aperto dall'eucaristia spazia così dalla creazione al ritorno glorioso di Cristo», in una contemporaneità che abbraccia tutta la storia della salvezza. Il memoriale permette di recuperare tutta la pregnanza sacramentale della presenza reale e del sacrificio eucaristico: questi sono dati che i Padri non n1ettono in discussione, se non in delle precisazioni a livello cristologico e soteriologico, ma nessuno di loro si chiede sul modo della presenza. Sono, infatti, ben convinti che è l'opera dello Spirito Santo a determinare l'unione del pane e del vino con il Logos, il quale li sussume non annullandone la forma, ma ponendosi esso stesso contemporaneamente cotne loro contenuto e f'onna, secondo la ben nota equivalenza
dei sensi, per cui ciascuno vede nel pane e nel vino, i pasti della con1pagnia e del rinvigorimento, pure il corpo e il sangue di Cristo, segni della sua presenza e sostegno nella lotta della fede, donati per la costituzione della comunità, realizzata 1nediante la partecipazione, o 111eg!io, la co1nunione ad essi 17 . E qui possia1no ora discutere sulla realtà segnica che investe la Chiesa come corpo di Cristo e che è strettamente dipendente da quella del corpo eucaristico. Anzitutto, perché il segno del pane e de! vino, sotto Fottica pura1nente u1nana, esprin1e con1unione e unità: essi, con1e notavano già giusta111ente i Padri18, sono co1nposti da ele1nenti sparsi e poi fusi insie1ne. Così, i cristiani dispersi sono uniti dall'unica fede, quella ricevuta e professata con il Battesimo, vincolati dalla comunione allo stesso pane e allo stesso calice, strettamente legati dall'amore. L'amore è la chiave per comprendere il gesto di Gesù durante Pulti1na sua cena, nonché il tratto distintivo del suo corpo che è !a Chiesa, costruita e fondata proprio sull'amore. Sappiamo che il vangelo di Gv non contiene la narrazione della cena pasquale di Gesù prima della sua morte l'evangelista la colloca, secondo l'interpretazione "tradizionale'', al cap. 6 -, 111a ne racconta il n1otivo ispiratore e l'effetto, che vengono a coincidere nel Ka8t,5s-: l'an1ore. Gesù lava i piedi agli apostoli per esprin1ere che in lui l'an1ore, con1ponente essenziale della sua personalità, è co1npiuto piena1nente (Elç TÉÀo:;): questo stesso amore devono coltivare gli apostoli. Questo amore è ciò che rivela al mondo la loro appatienenza a Cristo e, dunque, Cristo medesimo. L'Eucaristia fa la Chiesa, allora, quando è segno di questa cotnunione de! e nell'a1nore: Cristo si dona per essere assunto, tnangiato, e lo fa perché a111a.
17 Riassu1ni<11no qui quan!o R. TURA, Eucaristia, cit., ilnillizza ne! suo articolo. IH Cfr G.B. MONDJN, La chiesa prilnizia del Regno. Trattato di ecclesiologia, Bologna 1989', 63-109.
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Carmelo Raspa
Quanti di lui si nutrono, in virtù della stessa potenza segnica, sono costituiti e abilitali a fare lo stesso: «Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto»". La
con1unione con Cristo attraverso il segno del suo corpo e del suo sangue, presenti nel pane e nel vino, avviene sì a livello personale, 1na in un contesto comunitario. Da sempre la cena è un fatto di molti, non del singolo: possiamo affermare che dimensione costitutiva della cena è la comunità. Se si cena con Cristo, cioè se si prende lo stesso pane (cun1-panis, da cui co111pag110), si entra in un intimo legame con lui e con quanti partecipano a questa medesima cena. Ed è i1npossibile, pertanto, essere presenti ad un'altra cena. Vi è sin1ultaneità, in quanto, co1nunicando con Cristo, si con1unica allo stesso te1npo con quanti pure co111unicano con lui: si ritnane, cioè, l'uno nell'altro, volendo usare un'espressione giovannea. L'inerenza corporea raggiunge qui la sua più alta espressione chias1nica: e ciò grazie a!l'atnore (àydTn1) 20 • La Chiesa assume, dunque, la forma della relazionalità umana in tutte le sue espressioni, 1na le interpreta alla luce della cotnunione avviata e realizzata da Cristo nell'hic et mmc del suo Mistero Pasquale e nella "distensione" temporale che la separa dalla sua manifestazione ultima nel compimento escatologico. Non v'è perciò alcun dubbio che la Chiesa si manifesta come comunità escatologica corporea proprio nella celebrazione dell'eucaristia. In quest'ultima, che «è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui pron1ana tutta la sua energia» (SC 10), l'identità con1unionale-universale della Chiesa si costituisce e si rivela nella sua intitna essenza: pensata e voluta da Dio, essa stessa è segno di una presenza che fa del desiderio u1nano dell'unione e della complementarietà una realtà oggettiva di unità inserita nel circuito dell'a1nore che accoglie pure la lontananza, senza annullare le diversità, riunendo, in uno stesso corpo, espressioni possibili e visioni prospettiche, staccate dall'orizzonte con1une dell'un1anità, secondo una congiunzione chias111ica che i111plica le differenze in una correlazione unitaria, dove l'unità è data dal medesimo referente che è pure il fondante.
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Gv 15,16.
211 Riferendo al tennine "atnore" quello greco e biblico di ò:yò'.n11 non vogliaino escludere
quello di Ètlpwç, che già i Padri vedono come tensione e desiderio di pienezza e di cotnunione da parte dell'uo1110 e che in Dio diventa spinta per la creazione. Su questa oscillazione linguistica tra clyò'.n11 e è0r1;lç e sul loro valore sen1antico cfr M. ALlOTTA, Chierici ed eros nel J\;Jedioe1 0 /arino. Eros ed agape nelle traduzioni latine dello Pseudo-Dionigi, in Sy11axis 14 ( 1996) 2, 121-147. 1
Valore linguistico della.formula "corpo di Cristo"
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Conclusione L'indirizzo feno111eno!ogico non ci abilita ad una conclusione, n1a ad una
problematizzazione del tema, sottolineando subito che la correlazione tra corpo eucaristico e Chiesa non è data semplicemente da un'unica formula. In tal senso, occorre forse ridirsi le parole della propria fede, liberandole dal logorio della ripetitività stanca e priva di creatività, ed insieme ridare pienezza di espressione segnica alle celebrazioni eucaristiche, permettendo così a quanti le vivono un pieno ed attivo coinvolgimento al dramma che essi svolgono. Ciò permetterebbe, forse, ai credenti di comprendere meglio la realtà del mistero che celebrano e che vivono, cioè quello dell'amore di Dio nel corpo di carne
di Cristo, spingendoli ad un ca1n111ino insien1e ai non credenti, sulla base
dell'esperienza di un incontro, quello con Dio in Cristo, reso oggettivabile ed evidente razionalmente proprio dalla perdita di Dio nella carne dell'uomo. Valore linguistico della formula "corpo di Cristo" alla luce della Fenomenologia della percezione di Maurice Merleau-Ponty.
Recensioni Synaxis XVII/I (1999) I 59-169
G. STRECKER, Theologie des Neuen Testamenls, Walter de Gruyter, Berlin New York 1996, pp XlV+74l. Questa Teologia del Nuovo Testamento è frutto di un lungo lavoro che non poté essere portato a termine dall'autore. F.W. Horn lo ha ripreso, completato ed edito dopo la morte di Strecker. L'intento dell'esposizione molto dettagliata è di mostrare la pluralità delle opzioni teologiche manifestate dalla raccolta degli scritti canonici propriamente cristiani. Non esiste un pensiero teologico uniforme nel Nuovo Testamento. Si tratta piuttosto di una raccolta di opuscoli che interpretano gli eventi relativi a Gesù di Nazarct in modo molto differenziato. Secondo l'autore questa multiformità è un dato originario della fede cristiana e deve sen1pre di nuovo essere tenuta presente non solo nell'esan1e storico di essa, ma anche nella sua presentazione attuale. Una prima e vasta parte dell'opera è dedicata alla teologia di Paolo, quale risulta dalle lettere a lui generalmente attribuite dalla critica moderna. Tema dominante ne è la redenzione dal male e dalla morte attraverso gli eventi messianici. Ne consegue una giustizia quale fiducia nell'opera divina n1anifestatasi nel Cristo. Apostolato, battesi1110 e cena del Signore sono partecipazione alla sua 111orte e risurrezione e formano la Chiesa, che attende il ritorno del Cristo e il compimento delle opere divine. Un secondo strato storico-letterario è fornito dalla tradizione cristiana anteriore agli evangeli scritti. La figura di Giovanni il Battista e la predicazione del regno compiuta da Gesù ne sono i caratteri principali. Ne sarebbe sorta la duplice corrente della Chiesa palestinese e di quella ellenistica. Queste tradizioni hanno trovato la loro stesura canonica nei tre sinottici, di cui !,autore espone in modo particolareggiato la visione caratteristica. Un terzo strato è fornito dalla scuola giovannea, alla ricerca della verità e dell'amore rivelatisi in Cristo. Segue l'esame della letteratura deuteropaolina, rappresentata da Colossesi, Efesini e lettere pastorali. L'ultimo strato è quello delle lettere agli ebrei, Prima e Seconda di Pietro, Giuda, Giacomo. Qui l'evangelo si fa dottrina e prassi di una Chiesa che percorre le vie del mondo ed è preoccupata di definire esattan1ente se stessa. L'autore procede nella sua trattazione in modo molto preciso e didatticamente semplice. Rifugge da prese di posizioni geniali e da interpretazioni origi-
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nali. Vuole piuttosto portare il lettore ad un esame circostanziato, prudente ed organico di tutti i testi, senza privilegiarne alcuni e dimenticarne altri. Dopo le notizie storico-letterarie viene messa in luce la dottrina dei singoli scritti, soprattutto per quanto concerne la figura di Cristo e la prassi ecclesiastica. Viene pure analizzata e discussa la letteratura critica degli ultimi anni. Pai1icolarmente curata è l'ambientazione storica e culturale dei testi, in modo che se ne percepisca concretamente il messaggio. L'esigenza fondamentale, pienamente raggiunta, è l'informazione precisa e circostanziata, dalla quale poi possa partire un lavoro personale, conscio della difficoltà, della varietà, della ricchezza e dell'attualità del Nuovo Testamento. L'esposizione può essere considerata un'ottima sintesi dell'attività critica svolta nell'ultimo secolo dal protestantesi1110 e dal cattolicesimo sui testi canonici.
Roberto Osculati
J.A. EMERTON (ed.), Congress Volume. Cambridge 1955 (VTS 66), Brill, Leiden-New York-Koln 1997, pp 419. Come al solito, gli Atti dei congressi dell'International Organisalion fiJr the Study of the Old Testament sono pubblicati con il ritardo di qualche anno dalla celebrazione stessa del congresso. J.A. Emerton, per tanti anni editore di Velus Testamentum (=V'l) e degli atti dei congressi pubblicati nella collana affiancata alla stessa rivista (Supplements lo VT=VTS), questa volta è stato pure il presidente del congresso del 1995, celebrato nell'Università di Cambridge, e perciò l'artefice principale del programma, che è ora rispecchiato nelle 20 relazioni qui pubblicate. Possiamo ora passarle in rassegna raggruppandole secondo un criterio logico. Alla filologia, nel suo aspetto particolare della lessicografia ebraica, Emerton ha dedicato il Presidential Address, nel quale difende - sulla scia di Driver - il ricorso alle diverse lingue semitiche (arabo, accadico, ugaritico), per spiegare anche i vocaboli ebraici, pur rifiutando alcuni ecces~i con1paratistici; non appare giustificato perciò l'abbandono di tale uso nel recente Dictionmy of Classica! Hebrew di D.J.A. Clines (ed.), 1993ss (Comparative Semitic Philology and Hebrew lexicography). J.-L. Cunchillos dopo aver descritto il progetto di raccolta e di elaborazione dei testi ugaritici (BDFSN=Banque de données philologiques sémitiques nord-occidentals), finanziato dal Ministero dell'educazione e della scienza della Spagna, disponibile su Internet nel programma S!AMTU Il, presenta la sua teoria dell'"enneneu111atica", cioè l'infor111atica per
(Des outils pour I 'herméneumatique sémitique nord-occidentale). l'analisi
semantica
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testi
le
développement
de
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L'analisi letteraria del testo biblico è affrontata da due diverse angolazioni. Adele Berlin, sottolinea, alla luce di alcuni esempi (Sai I 9,5b-6; 42,2-3; I 19,5b-6; Gb 6,15), l'importanza della metafora (si esamina in particolare quella del "cielo", usata con diverse valenze) che, insieme al parallelismo, qualifica la poesia biblica ("On reading biblica! poetry: the role of metaphor"). lda Willi-Plein analizza dal punto di vista narratologico (non storico!) la storia di Mica!, la figlia di Saul data in sposa a Davide e poi da lui separatasi. Nel racconto pre-Dt. l'autore intende evidenziare iI contrasto che si era determinato tra il sistema monarchico impersonato da Saul e quello che era stato instaurato da Davide ("Michal und die Anfànge des K6nigtums in lsrael"). La storia delle istituzioni viene esaminata dal punto di vista terminologico. Phyllis A. Bird sulla base di un suo precedente studio riguardante la prostituzione nell'AT, contesta l'esistenza di una prostituzione sacra 111aschile (da intendere eventuahnente cotne rivolta ad 01nosessuali), che sarebbe stata indicata nel termine (sing.-plur.) qades-qèdesim. La ricorrenza fondamentale la si ha in Dt 23, 18-19, dove i vv I 8.19b - una creazione letteraria deuteronomi(sti)ca che incornicia il più antico v I 9a - parlano del qades solo per controbilanciare la menzione della qedescì equiparata alla z6nd del v 19a. Le altre menzioni al sing. (I Re 14,24; 22,47) o al plur. (15,12; 2 Re 23,7), omesse dal Cronista, stanno all'interno dell'opera Dt. e derivano da Dt 23,18; perciò non hanno un valore storico proprio ("The end of the male cult prostitute: a literary-historical and sociologica! analysis of Hebrew qades-qedesim"). Judith M. Hadley esamina il significato del tern1ine' aserà per notare in esso una evoluzione di significato: la dea Ashera, accettata nel culto di Jsraele e di Giuda come paredra di JHWH (K. Ajrud, K. el-Qom), nel tempo dell'esilio è stata ridotta a semplice denominazione di un oggetto di culto. È interessante il modo come il cronista rende le menzioni che se ne fanno in 1-2 Re. li vuoto lasciato da questa divinità fe1nn1inile, per il bisogno di una con1pensazione, viene recuperato con la personificazione della Sapienza in Pr 8 (Chasing shadoivs? The questfor the historica/ goddess). L'approccio storico-letterario caratterizza ben quattro interventi. M. Vervenne - correggendo una tesi di J.L. Ska secondo la quale non si tratta qui di guerra santa e perciò non si ha una redazione Dt. - esamina Es 13, 17-14,31 sostenendo che vi si deve riconoscere una redazione pre-dt., proponendo così l'ipotesi di diversi strati provenienti dal movimento deut. (pre-, proto-dt., dt./dtr., tardo-, post-dtr.); per questo si appella all'uso delle formule (yhivh) hlk lpny (Es 13,21; 14,19) e ylmh nljm (14,14.25) (Le récil de la mer [Exode xiii 17-xiv 31] reflète-t-il une rédaction de type deutéronomique? Quelques remarques sur le problème de / 'identifìcation e/es é/émenls deutéronmniques dans le Tétrateuque). H.-C. Schmitt postula una comune redazione finale per il Tetrateuco e Dt., da identificare nello strato più recente proveniente dal movimento deutcronomista e posteriore alla stessa opera sacerdotale (P e suppi); esso corri-
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spnde a DtN di Smend, ma è più ampio perché vi si devono includere oltre alla polemica contro i popoli, anche i temi della fede e del pentimento di JIIKH. Con questa opera unitaria, che va da Gen a 2 Re Mosè, diventa il rappresentante della legge e dei profeti (Das .\}Jiitde11tero110111istische Geschichtswerk Genesis i2 Regum xxv und seine theologische Intention). Dopo una dettagliata presentazione della problematica riguardante in teoria il rapporto tra la critica letteraria (suo oggetto: la formazione del libro) e la critica testuale (suo oggetto: la trasmissione del testo), A. van der Kooij esamina tre casi in cui il TM è più lungo della LXX: in TMGs 20, 1-6 i v 4.5.6* provengono da scribi che hanno introdotto 4-5 da Dt 19,4-6.l l-12 e il v 6 da Nm 35.25.28(P); invece in I Sam 17 (TM 58 vv, LXX 32 vv) e in Ger 33,14-26 (il plus più lungo che si ha in Ger; i vv 15-16 derivano da 23,5-6; il tutto è stato tralasciato dalla LXX per motivi ideologici) è piè1 originario il TM (Z11m Verhiiltnis von Textkritik 1111d Literarkritik: Uberlegungen anhand einiger Beispiele). A. Rofé rileva come nel TM si trovano delle interpolazioni 111idrascichc che intendono vivacizzare o rendere più logico o edificante il testo, il cui contenuto è pure attestato nella letteratura rabbinica; così capita che si confondono dei personaggi o, viceversa, altre volte
si moltiplicano. Fenomeni analoghi si riscontrano a volte nella LXX rispetto al TM (Fron1 lraclition lo criNcis111: ,felPish sourccs as an ahi lo the crificol study of'the Hebrew Bihle ). Aspetto storico-teologico. Katharine J. Del!, richiamando gli studi più recenti sulla sapienza (contesto sociale, fase orale/scritta), per l'aspetto teologico insiste sulla necessità di superare quella concezione, do111inantc negli studi fino a qualche decennio fa, che postulava uno sviluppo lineare dalla storia della salvezza (esodo) alla creazione, nel cui quadro si dovrebbe riportare con1e appendice la letteratura sapienziale. I due poli coesistono fin dall'origine, però la loro tensione interna riceve una nuova contestualizzazione nel te111po dell'esilio con un più esplicito riferimento a .IHWll (On the deve/opment oj' Wisdom in !srae/). M. V. Fox propone una lettura sincronica del lib1"0 dei Proverbi, che deve essere interpretato a partire dai cc 1-9. Qui si parla in 1nodo diretto della sapienza, insistendo su!l'in1portanza della sua conoscenza con1e 111assin10 valore etico, a prescindere dalla pratica; così si propone un valore giudaico equivalente alla filosolìa greca. La personificazione della sapienza in Pr 8 non si ispira alla figura della dea Maat (Whal the book of Proverbs i.1· about). A. Marx, analizzando i testi narrativi (specialn1ente in Gdc e San1) in cui si parla dei sacrifici, riva!uta il loro significato in contrasto con la tendenza negativa don1inante negli studi al seguito di \\fellhausen. In annonia con Es 20i23-26 nel sacrificio si ha una 111anifestazione di .JHWH che viene per soccorrere il suo popolo e associarlo alla sua gioia (La piace du sacrifìce dans l 'ancien Israel). H. Spieckermann, dopo aver precisato che l'idea più caratteristica di ls 53 sta nel fatto che l'innocente si impegna volontarian1ente a favore dei peccatori, 111ostra con1e dal punto di vista della storia della tradizione si debbano riconoscere nell'intercessione e nella
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sofferenza dei profeti del VII e VI sec., da una parte, e nell'espiazione ricercata nel culto, dall'altra, i due modelli precedenti; ls 53 però rimane doppiamente singolare nell'AT, sia perché supera i modelli precedenti e sia perché non ha un seguito (Konzeplion und Vorgeschich!e des Stellver!relu11gsgedanke11s im Alten Test ameni). Studio storico-comparato. Secondo .l. Day il linguaggio simbolico della risurrezione attestato prima in Os 5-6 e I 3-l 4, che influenza ls 26, 19 ed è approfondito in Dn 12,2, che dipende anche da ls 52-53, all'origine deriva dal 111ito cananaico del dio Baal, oppo1iuna1nente den1itizzato; perciò non c'è n1otivo di postulare un influsso dello zoroastris1110 su On 12,2 (Resurreclion irnagefJJ /ì-0111 Baal lo the book of Daniel). Secondo T.N.D. Mettinger l'aniconismo della religione d'Israele prescritto in Es 20,4, comandamento che risale a dopo il 722, deriva dalPuso delle stele aniconiche che erano una caratteristica con1une dei culti semitico-occidentali, dai quali dipende pure l'analoga prassi dell'Islam. L'uso del trono vuoto (della divinità) rappresenta una fase intermedia verso !'aniconis1no progra1nn1atico (The roots o,f aniconisnJ: an Israelite ]Jhenon1eno11 in con1JJCf!'O/ive persjJective). A questo punto si può ricordare il contributo di Ida Zatelli, che non è stato incluso negli Atti ma pubblicato a parte (The origin o{ the hiblical scapegoa/ rilual: the evidenee oflwo Eblaile lexls, in 17'48 (1998) 254-63): in due testi di Ebla si trova una testimonianza significativa sul rito del capro espiatorio di Lv 16. C. Uehlinger evidenzia, attraverso l'csa1ne del 111ateriale iconografico, l'ideologia imperiale che si intendeva propagandare in Palestina da parte degli Assiri nel Ferro III (sec. VII-VI), con particolare riferie111ento al dio-luna di Harran nel sec. VII, e poi nel primo periodo degli Achemcnidi. Una versione nazionale di questa ideologia !a si ritrova nelle visioni di Zc centrate sul progetto della ricostruzione di Gerusalemme da pa11e di Zorobabele. La "donna seduta" (5,7) deve corrispondere alla "regina del cielo", Ishtar, identificata poi con l'antica Ashera ("Figurative policy, Propaganda und Prophetie"). Storia degli studi. K.J. Cathcart, ricorda l'attività pioneristica dell'irlandese E. 1-lincks (1792-1866), basandosi sulla sua vasta corrispondenza conservata ad Oxford: decifrazione dell'antico persiano, dell'accadico (Obelisco nero di Salmanasar Ili con la menzione di "Jehu figlio di 0111ri", identificazione dei no111i degli animali), interesse per l'egittologia, ecc. (The age of' decipher111e11/: !hc O/d Teslan1ent ancl 1he ancient Near Easl in the nincteenth cenfuJJJ). 1-lcdwige Rouillard-Bonraisin, traccia un quadro complessivo degli studi della botanica nell'antico Vicino Oriente ricordando i lavori, diversi nell'approccio e nel metodo, di E. Boissier (1867-88), I. Uiw (1924-38), G. Dalman (1928-37), e indicando le nuove prospettive della ricerca. La dendrocronologia studiata a Porsuk/Uluki_ta (Turchia). Jmportanza di questo studio per l'interpretazione dei miti (Ce11/ c111s de botanique au Proche-Orien! ancient). Archeologia e Versioni antiche. D. Ussishkin presenta i nuovi scavi effettuati a .lezrecl (I 990-96) e a Megiddo, 111ettendoli a confronto con i prece-
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denti scavi di Samaria, in modo che dal loro confronto si possono stabi Iire le loro rispettive funzioni amministrative e militari sotto Omri e Acab (Jezreel, Samaria and Megiddo: royal centres of Omri and Ahab). M. Weitzman mette a confronto, attraverso un'ampia esemplificazione, il TM di Gb con la Peshitta, per spiegare in n1aniera siste111atica i casi di differenza se1nantica tra i due testi
(The l-lebrew and Syriac texts ofthe book o(Job). Come accade sempre nei congressi dell'JOSOT, anche questa volta vi troviamo una significativa panoramica degli studi attuali condotti a livello accademico. Sono da segnalare i contributi riguardanti il Pentateuco, su cui attual1nente si tentano nuovi approcci dal punto di vista storico-letterario. Si può anche segnalare il fatto che sette relazioni su ventuno sono state scritte da donne. Nell'indice del volume i nomi delle donne sono scritti per intero, per distinguerli dai nomi degli altri che sono abbreviati. Ad alcuni questa proporzione può se1nbrare ancora "ingiusta", 1na in ogni caso si ha già in questo un significativo segno dei tempi.
Antonino A1inissa!e
E. ZENGER, li Primo Testamento. La Bibbia ebraica e i cristiani, Giornale di teologia 248, Queriniana, Brescia 1997, pp 237. Questo piccolo libro, che già nel titolo sintetizza bene il suo contenuto, presenta le caratteristiche di un bilancio storico e di un manifesto teologico. In esso l'autore, ordinario di AT all'Università di Mlinstcr, intende ripensare) in maniera decisamente nuova, il rapporto teologico che intercorre tra l'Antico e il Nuovo Testamento; questo ripensamento si concretizza alla fine con la proposta di sostituire "Primo" ad "Antico". In questo 1nodo si inette in evidenza il fatto che il Nuovo (o Secondo) Testamento non rappresenta un evento che invalida e sostituisce il precedente, ma semplicemente la continuazione della precedente ed unica alleanza che in Cristo viene ape1ia da Dio anche ai gentili. Questo cambio di prospettiva consente ai cristiani di prendere sul serio l'AT, che se invece viene subordinato al NT, finisce con l'essere arbitraria1nente utilizzato solo in alcune parti staccate dalla dina1nica con1plessiva del suo insien1e. L'originale tedesco è del 1991; dopo la 5" edizione del 1995 è uscito in I" edizione paperbak nel 1998. Ciò significa che ha trovato un largo consenso. li libro contiene otto capitoli ben concatenati tra di loro. Nel c I, di carattere introduttivo, si rivela quale sia la spinta iniziale per la nuova proposta: dopo Auschwitz devono cambiare per i cristiani i paradigmi della lettura dell' AT, poiché "la sho 'éi è il segno dei tempi che impone alla nostra teologia cristiana un rinnovamento radicale, la radicalità che riguarda la radice ebraica del cristiane-
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simo" (20). Nel c Il si passano in rassegna le posizioni di alcuni significativi autori (F. Schleiermacher, E. Hirsch, A. 1-Tarnack, la psicologa I-I. Wolff), i quali, radicalizzando in vario n1odo la novità dell'insegna1nento di Gesù, giungono ad un esplicito deprezzamento di principio del!' AT. Ad essi si aggiungono anche dci neotestamentaristi (E. Griisscr, P. Knauer, J. Jeremias), e anche degli esegeti del!' AT, che trovano troppo insufficiente dal punto di vista cristiano l'insegnamento sapienziale in genere (H.D. Preuss), e in particolare Qohelet, Giobbe e i Salmi imprecatori, che sono stati esclusi dalla Liturgia delle ore. Nel c lii si affronta la questione, di solito tanto cruciale, su Jahvè come Dio della vendetta e della violenza, rilevando con1e essa non è un fine, 111a un 111ezzo per ristabilire la giustizia a favore degli oppressi, come si vede esemplarmente già nell'esodo. In ogni caso, non si deve din1enticare che nel NT il prob!e111a si acutizza, dal 1110mento che si parla di una giustizia di Dio che punisce nell'aldilà. Secondo Os 11, T-11, in Dio, che riunisce in sé le prerogative dcl padre e della madre, è l'an1orc che prevale sulla giustizia, con1e si vede pure nella conclusione della Storia delle origini, in Gen 9, 13-15. L'idea dell'alleanza (c IV) già nello stesso AT si presenta diversificata, per cui il rigido principio della retribuzione:\ che si concretizza nel castigo, è controbilanciato con quello che fa leva sulla promessa e sul perdono (cfr Ts 51,7; Sai 51 e 103). Infine, la "nuova alleanza" di Ger 31,31-34, basata sul perdono, non si realizza per la prima volta nel NT, mariguarda già lo stesso Israele del dopo esilio, nel senso che la stessa alleanza precedente viene da Dio "rinnovata'' dopo che era stata infranta dal popolo. Un altro modo, abbastanza tradizionale, di appropriarsi dell'AT da parte dei cristiani, e così di snaturarlo, è quello dell'interpretazione tipologica, che lo considera con1e se111plice "preistoria') e "preparazione" del NT; in questo 1nodo esso non ha in sé il proprio senso, se questo deve essere detern1inato a partire dal NT. Un'i111postazione così riduttiva la si trova ancora nella Dei Verbun1 dc! Vaticano Il. Questa critica vale anche contro chi applica al rapporto delle due parti della Bibbia lo schen1a "pro111essa-con1pi1nento'', o chi parla di una loro "unità organica" (I-I. Gesc; e V). A questa prima parte di carattere negativo segue ora quella positiva. Prendendo atto del fatto che l'AT ha due diverse prosecuzioni, l'una nel Talmud ebraico e l'altra nel NT, sarebbe più opportuno chiamarlo "Primo" Testamento (e VI). Nel e VII si parla in modo dettagliato del canone ebraico dell'AT per mostrare con1e esso costituisca nella sua stessa strutturazione una unità organica, che ha in sé un suo senso compiuto. li c 16 di Lv (il Dio santo in mezzo al suo popolo per santificarlo) sta al centro del Pentateuco, a cui sono ordinati sia i Profeti e sia gli Scritti, mentre Ml 3,22-24 costituisce, con il suo richiamo alla legge di Mosè e al futuro giorno di Jahvè, la conclusione programmatica di tutto l'AT. li capitolo finale (VIII) contiene la chiave di tutto il discorso finora svolto: l'AT, recuperato ad una lettura più diretta e più concreta, offre molti spunti per apprezzare in n1odo positivo la condizione u1nana nei suoi aspetti più /erren; e
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più universali: «Con gli accenti più diversi esso (l'AT) propone continuamente il tema di una creazione e di una vita che, visti alla luce di Dio, appaiono sempre buone e belle. Ed invita la creatura umana a gioire del dono della vita. Gioia per una vita concreta, per la vita terrena: teinatica che rappresenta un apporto integrativo importante per il Secondo Testamento» (222). Perciò «il Primo Testa-
111ento suona co111e una protesta contro ogni n1odo privatistico, individualistico e spiritualistico di vivere la fede cristiana» (219). li discorso verte, come si vede, sull'ermeneutica teologica di fondo che si applica al!' J\ T da parte cristiana. Rivendicando una certa autonomia del!' AT dal NT, che lo libera da una facile e pre111atura "spiritualizzazione", essa ci consente di leggerlo più in sintonia con la tradizione ebraica antica e moderna. Questa ern1cneutica rappresenta da un lato il risultato dello studio storico-critico finora fatto, e dall'altro anche un suo supera111ento, dal n10111ento che si privilegia l'approccio sincronico e canonico rispetto a quello diacronico. Per quanto riguarda poi il NT, si ribadisce giustamente che esso «in ultima analisi, [ ... ]nella sua co1nplessità, non è "cristocentrico" tna "teocentrico"» (212). Ciò consente di apprezzare nieglio Pebraicità di Gesù nella sua vita terrena e nella coerenza interiore che la ispira. La redenzione stessa non può essere considerata so!o con1e una realtà "già" con1piuta, dal n10111ento che le condizioni di vita in questo mondo non sono cambiate. Ed è proprio la passione per la vita di questo mondo la lezione più in1portante che l'AT otTrc sen1pre di nuovo ai cristiani, e che costituisce la forza e la bellezza della sua attualità.
Antonino Ji1inissale
W.J. WOODS, Walking with Failh. New Perspectives in lhe Sources and Shaping Mora/ L1fe, The Liturgica! Press, Collegeville (Minnesota) 1998.
'!f Catho/ic
L'autore, prete dell'arcidiocesi di Boston luogo dove attuahncnte esercita il suo ministero pastorale, è stato per diciotto anni professore di teologia morale al St. John's Seminary, Brighton, Massachusetts. Riesce perciò ad esprimere con un linguaggio piano e non strettan1ente tecnico il rigore della ricerca scientifica in questo libro, che in maniera atipica può definirsi di storia della teologia 111orale cattolica. I_,a confessionalità della ricerca è 1nessa in prin10 piano fin dal sottotitolo e ritorna nel corso della ricerca, 1na in 111odo assolu1a1nente non apologetico. Si tratta nient'altro che dell'esplicitazione onesta del punto di vista dell'autore, della tradizione ecclesiale entro cui si colloca la descrizione che ci offre dello sviluppo storico della riflessione teologica sulla vita di fede e morale dei cristiani. Si potrebbe discutere preliminarmente anche la scelta terminologica dell'autore nell'indicare l'oggetto formale del suo studio: la "vita morale
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cattolica". Probabilmente uno studioso cattolico europeo avrebbe scritto semplicen1ente "teologia rnorale)'. La particolare sensibilità accadeinica e pastorale di Woods lo spingono ad una concretezza che si esplicita concettualmente nell'individuare con1e oggetto della sua analisi storica non tanto le "idee'' teologiche che espri1110110 un orienta111ento e una presa di posizione, quanto piuttosto i soggetti che queste idee esprimono, cioè i credenti, da qui lo stesso titolo e il sottotitolo; quest'ulti1110 richian1a l'itinerario seguito dall'autore. Il libro considera) infatti, quattro fonti da cui sorge e si sviluppa !a "vita morale" del credente e che hanno determinato l'attuale configurazione della teologia morale cattolica: I) la Sacra Scrittura, 2) la storia, 3) la prassi sacramentale, 4) le varie correnti intellettuali che si sono susseguite nel tempo. La ricerca si sviluppa, lungo 11 capitoli, a partire dalla Sacra Scrittura fino al Concilio Ecumenico Vaticano Il. I primi tre capitoli sono dedicati alla Scrittura (capitolo I e 2) e alla Chiesa subapostolica (capitolo 3), da dove vengono ricavati gli aspetti fondativi e normativi della fede e si esplorano le sue din1ensioni tnora!i. L'analisi storica coglie i 111on1enti veran1ente significativi dello sviluppo della riflessione teologica: Agostino di lppona (capitolo 4), la formazione della nuova Europa col monachesimo celtico e benedettino (capitolo 5), lo sviluppo dcl cristianesimo occidentale nella società feudale (capitolo 6), la nascita delle grandi università e la sintesi tra fede e ragione (capitolo 7), i! travaglio dcl n1utan1ento dci vecchi sisten1i e !a nascita dcl "nuovo" (Scoto, 0ckham, la Riforma protestante) (capitolo 8), la formazione dcl moderno Occidente (capitolo 9), Trento e la formazione della teologia morale moderna (capitolo IO), la Chiesa nel mondo moderno (capitolo 11). L'attenzione al contesto storico sociale del pensiero teologico è sempre presente. Woods considera la storia co111e "l'arena nella quale !e tradizioni pastorali, dottrinali, spirituali e liturgiche si sviluppano e diventano normative" (p XIV). È pure viva l'attenzione al contesto ecc!esiologico e all'influenza della prassi sacran1entale sulla riflessione teologica. Così con1c vi è la consapevolezza di quanto particolari interpretazioni della vita possano influire sulla fede e i! con1porta111ento dci credenti, perciò l'attenzione alle correnti culturali che attraversano le varie epoche della storia della Chiesa. Filosofia e teologia danno un contributo i111portante alla vita della Chiesa e configurano il pensiero dci credenti circa la lede e la morale. L'apprezzabile sforzo complessivo dell'autore è quello di superare un 111odo legalistico di concepire la teologia 111oralc. Ponendo l'accento sulla "vita cristiana'~ pri1na ancora che sulla vita 111orale, Woods ha cercato di superare lo sbilancia111ento derivato dal legatne che storican1ente si è dato tra riflessione teologico-morale e sacramento del la penitenza. Questo rapporto stretto ha comportato appunto uno sbilancia1nento sul con1portan1e11to e sulla norn1e da osservare a scapito dell'azione della grazia e dell'in1portanza della conversione dell'uomo. La prevalenza di teorie legali e lilosofiche in cui predomina la preoccupazione di detenninare il co1nportan1ento un1ano ha prodotto presso il po-
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polo cristiano la convinzione che la vita morale consista nell'osservanza delle leggi e nella fuga dei peccati e non la preghiera a Dio per la sua azione di grazia e la risposta ad essa. Un correttivo a questo sbilanciamento è venuto dal Concilio Vaticano II, col noto testo di OT 16. Da qui il compito di riscoprire le fonti e ristabilire metodo e priorità della teologia morale e per questo compito è essenziale l'opera dello storico. Woods, da questo punto di vista, si mostra storico "militate" offrendoci un'opera agile, ma non superficiale, con lo scopo dichiarato di «illuminare le fonti della vita morale nella fede, mostrare come la vita morale si è sviluppata nella Chiesa lungo i secoli e incoraggiare una comprensione più integrale, comprensiva» (p XV). Maurizio Aùotta
A. FABRIS - M. GRONCHI (edd.), Il pluralismo religioso. Una prospeltiva interdisciplinare, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, pp 231. 11 volume raccoglie i contributi presentati in occasione di un Convegno sul terna Religione e religioni, organizzato a Pisa il 19 e 20 dicembre 1996 dalla sezione dell'Italia Centrale dell'Associazione Teologica Italiana, in collaborazione con il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Pisa, con lo Studio Teologico Interdiocesana di Camaiore (Lucca) e con l'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Pisa. li convegno rientrava nel più ampio progetto perseguito tra i I 1996 e il 1997 dall'Associazione Teologica Italiana di un approfondimento interdisciplinare sul pluralis1no religioso condotto in vari centri accaden1ici italia-
ni. La ricerca è poi sfociata nel Congresso nazionale dcli' Associazione teologica italiana, tenutosi a Traina (EN) nel settembre '97 sul tema Cristianesimo, religione e religioni e i cui Atti sono disponibili per i tipi delle edizioni San Paolo. Tra gli studi recenti che si sono occupati del pluralismo religioso, questo testo offre un contributo proprio perché, pur non essendo una ricerca siste1nati-
ca, offre la possibilità di cogliere una risposta coerente alla domanda se il pluralismo delle religioni sia solo un fenomeno di fatto o anche di principio. I contributi, pur nella loro specificità disciplinare e diversità di impostazione, mostrano che i! pluralisn10 delle religioni esige una rifiessione non tanto per una contin-
genza che richiede qualche aggiustamento teorico e/o qualche compromesso per una convivenza di buon vicinato. Si tratta invece di una esigenza interna
all'esperienza religiosa per comprendersi nel conteslo pluralista, che pone la domanda della pretesa di ogni singola religione di possedere la verità e offrire una via di salvezza.
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I contributi non seguono un taglio "generalista,\ 111a considerano il pluralismo delle religioni paitendo dalla teologia cristiana o confrontando I 'esperienza religiosa in quanto tale con la tradizione cristiana. L'approccio è veramente interdisciplinare. Infatti i contributi si possono raggruppare attorno ad alcuni poli. Quello storico, con i contributi di P. Stefani (Le visioni ebraiche del pluralismo religioso), che indaga come Israele ha vissuto in momenti storici lontani tra di loro le relazioni tra la rivendicazione della propria unicità e assolutezza e l'esistenza di una evidente pluralità di popoli, culture e religioni, e di L. Perone (La via e le vie: ;/ cristianesin10 antico cli .fi·onte al ]Jluralisn10 religioso), che mostra il disagio e le difficoltà del cristianesimo antico dinanzi al pluralismo, sebbene a volte vi siano delle aperture. Vi è poi il polo filosofico, che in qualche modo ruota attorno al contributo di V. Sainati (Cristianesimo e pluralismo religioso), che parte dalla domanda cruciale se l'assolutezza dogmatica del cristianesi1110 possa evolversi verso una più avanzata concezione "critica" del la pretesa assolutistica. ln tennini filosofici, la risposta a questa don1anda viene sviluppata anche dai contributi di A. Fabris (Il pluralismo religioso: da un punto di vista fìlosofìco) e di P. Ci ardei la (Verità e dialogo interreligioso. Alcune considerazioni fìlosofìche ); mentre dal punto di vista della psicologia della religione se ne assume il compito M. Aletti (La religione come vissuto psichico) e dal punto di vista etico i I ben documentato contributo di C. Bertolozzi (Pluralismo nell'etica, pluralismo nella religione). M. Granchi (li pluralismo religioso e la teologia) traccia in nianiera an1pia e puntuale il can1n1ino percorso dalla recente ricerca teologica in Italia e individua nel cuore stesso del la fede cristiana !a legittimità e il senso del dialogo interreligioso, infatti è nell'esperienza relazionale di Gesù con il Padre, in forza dello Spirito Santo che si vede un punto germinale di snodo per affrontare il pluralismo religioso. li volume si chiude con una utile appendice bibliografica curata da F. Gaiffi (Il pluralismo religioso nella riflessione teologica recente: appendice bibliografica). Si tratta di una bibliogralìa ragionata preceduta da una presentazione e divisa per correnti cd autori. Di grande utilità per chi voglia iniziare un approfondin1ento della ten1atica esa1ninata nei contributi qui raccolti, perché) con1c è inevitabile in opere dcl genere, nei singoli contributi 111o!ti problen1i sono accennati e i rin1andi agli autori significativi sono fatti per sen1p!ici allusioni. Per questo un rin1ando puntuale è quanto 111ai opportuno per chi vuole continuare lo studio che certan1cnte un tale libro invoglia a intraprendere.
Maurizio A/iolla
Presentazione
Synaxis XVII/I (1999) 170-172
NUNZIO CAPIZZI,
(1965-1993),
L'uso di Fil 2, 6-11 nella cristologia contemporanea
Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1997,
pp
528. Il tema del rappo1to tra esegesi e teologia dogmatica, di fondamentale importanza sopra!tutto dopo che il Vaticano Il nella Dei Verbum ha parlato dello «studio delle Sacre Pagine come l'anima della Sacra Teologia» (24), è affrontato in quest'opera a partire dall'uso che alcuni teologi cattolici europei, che hanno pubblicato le loro opere di cristologia dopo il Concilio, hanno fatto di un luogo classico della cristologia: l'inno della lettera ai Filippesi. L'equivocità del tennine "uso", che trovian10 nella Proviclentis.-,·iJ11us Deu.1· di Leone Xlll citata nel n 24 della Dei Verbum, e il "cambiamento so-
stanziale" dell'espressione "studio", introdotto dal Vaticano II, sono ben presenti all'autore che è cosciente che per fare della buona teologia non basta usare la Scrittura citando dei passi biblici, ma bisogna studiarla dal punto di vista esegetican1ente corretto.
Nell'opera, che coniuga bene una precisa delimitazione del tema con un'a111piezza di respiro teologico, vengono analizzate undici cristologie sisten1atiche conten1poranee appartenenti a tre aree linguistiche (italiana,
francofona e tedesca), dal punto di vista dell'uso e dello studio esegetico dell'inno cristologico della lettera ai Filippesi e del suo ruolo svolto nella cristologia sistematica. Agli autori vengono poste sia domande di carattere esegetico, fondate su un'analisi critica dcl testo stesso, che di carattere teologico basate sulla rilettura degli ele1nenti e1nersi nell'analisi esegetica nella loro relazione con la sisten1atizzazione cristologica. Nel primo capitolo l'autore, mettendosi alla scuola di alcuni esegeti, offre una sua esegesi di Fil 2,6-11. Per farci intendere il senso del testo originale vengono affrontati sia il problema del genere letterario, dell'autore, delle strutture come delle questioni specifiche delle due parti del testo paolino. Nello scegliere gli esegeti cui fa riferimento l'autore parla di "centro esegetico" (p 19) intendendo con questo termine «il consenso o la maggioranza
]JresentazùJne
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degli esegeti, oppure esegeti eminenti» (come per es. J. Fitzmyer, J. Gnilka, R. Schnackemburg). Secondo il consenso ricavato dagli esegeti presi in considerazione dall'autore Fil 2,6-11 è una composizione poetica che può essere chiamato inno. Secondo l'opinione comune degli esegeti è di origine pre-paolina, anche se non si esclude da parte di alcuni esegeti la possibilità di glosse paoline al testo ongmario. Viene poi esaminato il consenso degli esegeti sull'abbassamento di Gesù (Fil 2,6-8) e sulla sua esaltazione (Fil 2,9-11) e vengono presentate alcune aperture verso un'elaborazione cristologica che includa sia la divinità sia l'un1anità di Gesù Cristo e viene affennata una certa soteriologia implicita. Riguardo al soggetto dei versetti 6-7 dell'inno Capizzi, pur mostrandosi ape1to all'interpretazione più recente che vede come soggetto il Cristo già incarnato, sembra favorevole a preferire con la maggioranza degli esegeti per il Cristo preesistente all'incarnazione. Questa scelta, secondo quanto sostiene Capizzi nella conclusione, farebbe cogliere meglio la portata teologica della testimonianza patristica la quale ha letto la kenosi dell'incarnazione ordinata all'annientamento della croce (p 467). L'autore studia nei successivi capitoli la fecondità dell'inno cristologico oggi presentando la recesione del testo di Fil 2 da parte di alcuni autori che hanno scritto opere di cristologia nell'ultimo trentennio. li secondo capitolo prende in esame alcuni autori italiani di cristologia: Bruno Forte docente alla Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale, Mario Serenthà docente nel Seminario milanese di Venegono e poi parroco, Marcello Bordoni ordinario di cristologia alla Pontificia Università Lateranense e il salesiano Angelo Amato docente della Pontificia Università Salesiana. li terzo capitolo analizza quattro autori di lingua francese: il teologo domenicano Christian Duquoc docente emerito nella Facoltà Teologica di Lione, il gesuita belga Jean Gaio! già docente di cristologia alla Pontificia Università Gregoriana, il gesuita di origine belga Jaques Dupuis che dopo un lungo periodo di insegnamento in India insegna alla Pontificia Università Gregoriana, il gesuita bretone Joseph Moingt che ha insegnato in vari istituti teologici della capitale francese. Il quarto analizza le opere cristologiche di alcuni teologi tedeschi: Walter Kasper docente di teologia in alcune università tedesche e vescovo di Rottenburg-Stuttgard, Johann Auer che ha insegnato in varie università tedesche, Hans Kessler professore di teologia nel rachbereich Katholische Theologie dell'università Frankfurt am Main. Ogni capitolo ha una valutazione delle varie interpretazioni dell'inno cristologico della lettera ai Filippesi tenendo presente sia l'impegno dimostrato dai singoli teologi a cogliere ciò che l'autore dell'inno voleva dire, sia l'incidenza degli studi esegetici per lo studio del testo sia la relazione sia i
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l 1 resentazione
singoli cristologi introducono tra il significato dell'inno per gli uon11111 oggi e quello che il testo biblico voleva comunicare. Il quinto capitolo presenta alcune valutazioni conclusive sia dal punto di vista esegetico che dal punto di vista teologico sul ruolo dell'inno nella e per la cristologia sistematica di oggi e si danno alcune indicazioni sul rapporto fra esegesi, cristologia e teologia sisten1atica. Nella conclusione l'autore nota che nelle cristologie esa111inate la Sacra Scrittura ha un posto decisivo, anche se non tutte considerano esplicitamente il problema della relazione fra lo studio esegetico della Scrittura e l'elaborazione di una cristologia. Egli inoltre fa una puntigliosa analisi critica dei sussidi di carattere esegetico utilizzati dalle cristologie prese in esame arrivando alla conclusione che spesso c'è una separazione fra lo studio esegetico e la sisten1atizzazione cristologica e che in alcuni casi ci sono da parte cli alcuni dei cristologi alcune interpretazioni forzate che derivavano non da uno studio attento del testo dell'inno cristologico, 111a da esigenze di natura siste1natica o da preoccupazioni filosofiche. Capizzi arriva alla conclusione che le cristologie prese in esan1e appartenenti all'area europea non presentano differenze rilevanti detenninate dal contesto culturale e sociale delle rispettive aree linguistiche. Nel tentativo di valutazione degli elementi dell'inno cristologico della lettera ai Filippesi che i vari autori riprendono nella loro relazione con la cristologia si suggeriscono alcuni spunti che chiedono di essere niaggionnente considerati cd approfonditi dai cristologi nella loro interpretazione dell'inno della lettera ai Filippesi quali l'umanità di Cristo, la soteriologia implicita, l'universalità della salvezza, il rapporto fì·a cristoccntrisn10 e teocentrisn10 che i1nplica il superan1ento di un certo cristo111onis1110 e la necessità che la teologia cristiana tnantenga insien1e la prospettiva cristocentrica e quella teocentrica. Un'appendice offre uno schen1a ed alcune osservazioni per un a futura ricerca sull'uso dell'inno paolino nella tradizione della Chiesa. Questa tesi per il conseguimento del dottorato in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana da parte di Nunzio Capizzi, docente di teologia dogmatica allo Studio Teologico S. Paolo di Catania, è un lavoro accurato condotto con chiarezza di metoç!o ed equilibro di giudizio che offre degli interessanti spunti n1etodologici cd apre un vasto ca111po di ricerca che, a partire dall'uso e dallo studio dei principali brani cristologici della Gibbia aiuti ad incren1cntare il dialogo tì·a esegeti e teologi, evitando di separare esegesi critica e lettura teologica perché non si possono opporre il "Gesti storico" dal "Cristo della fede".
A1ichele Pennisi
Synaxis XVII/I (1999) 173-176
NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO 1. No111ina Il 23 gennaio 1999 Giovanni Paolo Il ha nominato Salvatore Gristina, vescovo ausiliare e vicario generale dell'arcidiocesi di Palermo, vescovo di Acireale. Con tale nomina egli entra a far parte dei vescovi responsabili dello Studio S. Paolo. 2. Gradi accademici Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia, i I 15 gennaio 1999: BELLA LUCIANO GIUSEPPE, L'oratorio secolare di San Filippo Neri. Una }Jtoposta per vivere la santità nel secolo (relatore prof. Salvatore Consoli) LAURETTA GIOVANNI, La forza risanante del Vangelo della pace e la missione della Chiesa nella proposta teologico-morale di Bernhard Hciring (relatore prof. Corrado Lorefìce) SCREPIS ALESSANDRO, La diaconia di Gesù. Analisi redazionale di Ml 20,17-28 e Mc 10,32-45. Analisi esegetica di Ml 20,28 e Mc 10,45 (relatore prof. Attilio Gangemi) SPINOLA CINZIA "C'hi ci separerà clall'arnore e/; Cristo?". Anah.~;; esegetico-teologica di Rm 8,35-39 (relatore prof. Attilio Gangemi) i
3. Premi Per le migliori tesi di Baccalaureato in Teologia, i premi "Mons. ProL Santi Pesce 11 e l!Mons. Prof. Rocco Rapisarda" sono stati assegnati a Caterina
Vecchio della diocesi di Acireale e ad Adriano Minardo della diocesi di Noto. Per tenere vivo il ricordo di Andrea Paolo Sgroi, dell'Oratorio e alunno del S. Paolo, i Padri Filippini hanno istituito un'omonima borsa di studio. Per la prima volta è stata assegnata a Carmelo Sciuto, della diocesi di Acireale.
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Notiziario dello Studio S. Paolo
4. Lectio con1n1unis
Per offrire agli alunni la possibilità di cogliere la diversità di metodo e la interdisciplinarietà, anche in questo semestre diversi professori hanno invitato un collega per apportare un contributo su un terna di specifica pertinenza. Di seguito vengono indicati gli incontri interdisciplinari tenutisi al 1! 0 Propedeutico: F. Ventorino - A. Gangerni: L'incidenza della .fìlosofìa moderna nell'interpretazione della Scrittura; F. Ventorino - G. Schillaci: Sulla fimdazione metafisica de Il 'etica; S. Latora - C. Cri mi: Differenza del linguaggio latino nei Padri e nei fìlosojì del '600; S. Latora - P. Buscemi: Aspellijìlosofìci ed etici della Fides et Ratio; S. Latora - G. Schi llaci: Lèvinas: aspetti.fìlosofìci ed etici.
5. Disputa/io La tradizionale disputatio di quest'anno ha visto impegnati studenti e docenti nella conoscenza della "teologia letteraria", argomento strettamente connesso anche con il Convegno di studi sul Cristo Siciliano, cui era propedeutica. li lavoro seminariale di docenti e studenti, su bibliografia per tempo indicata e coordinato dal prof. Giuseppe Ruggieri, è stato portato a compimento il 26 febbraio 1999 con l'incontro finale dirello dal padre domenicano Jean Picrre Jossua, considerato iniziatore di questo percorso teologico e che di recente ha portato a compimento la pubblicazione di tre volumi Pour une histoire religieuse del 'expérience littéraire ( 1985-1998). 6. ,__)en1inari interdisciplinari
Dopo la pubblicazione nel precedente numero di Synaxis del seminario interdisciplinare su "Religione popolare e fede cristiana in Sicilia: storia e teologia", da alcuni n1esi si è avviato il lavoro del nuovo sen1inario su
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Il laicato
cristiano in Sicilia alla luce dell'esperienza confratcrnale". Responsabile è il prof Adolfo Longhitano e hanno aderito all'iniziatica docenti del S. Paolo, della Facoltà Teologica di Palermo e dell'Università degli Studi di Catania. I risultati saranno pubblicati su Synaxis XVl1/2. 7. Convegno con l'Università
Su iniziativa dello Studio Teologico S. Paolo e dell'omonimo Istituto per la Ricerca e la Documentazione, in collaborazione con l'Istituto di Letteratura Italiana della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università degli Studi di Catania, il periodico convegno si è svolto il 22 e il 23 aprile 1999, nell'Aula
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Magna della Facoltà, su «Il Cristo Siciliano». Coordinatori scientifici dell'iter di preparazione sono stati i proff Savoca dell'Università e Ruggieri del S. Paolo. Attraverso un percorso che ha abbracciato la letteratura, la predicazione, la teologia e la pietà popolare, il convegno ha offerto materiali per capire se è possibile parlare di un Cristo Siciliano senza pretesa di esclusività; se si dà una cristologia ufficiale e una cristologia non-ecclesiale desunta dall'esperienza esistenziale del l'uomo. 8. Ce.S.I.Fe.R.
È stata firmata il 26 aprile 1999, nei locali dell'Arcivescovado di Catania la convenzione tra Università di Catania, Arcivescovo e Studio Teologico S. Paolo per la nascita di un «Centro studi interdisciplinari del fenomeno religioso» (Cc.Sl.Fe.R.), con sede presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. 11 suo scopo è quel lo di ricercare, secondo i metodi recepiti nel le varie con1unità scientifiche che in esso sono rappresentate, e di in1111etterc successivamente nel circuito culturale del territorio, i vari aspetti storico-culturali delle
111anifestazioni religiose che sono presenti nella società siciliana. 9. Pubblicazioni
È stato pubblicato il volume: Inizio e .fì1turo del cosmo: linguaggi a con/i-on/o (Quaderni di Synaxis 13), San Paolo, Cinisello Balsamo 1999. Contiene gli Atti del convegno che lo Studio Teologico ha celebrato insieme al Dipartimento di Fisica dell'Università degli Studi di Catania nei giorni 17-18 aprile 1997. 1O. Synaxis al/a.fiera del libro di Torino Apprezzando l'iniziativa pro1nossa dalla rivista C'on1111unio e accogliendo l'invito a parteciparvi, il S. Paolo ha inviato alla Fiera, tenutasi a Torino nei giorni 12-16 maggio 1999, copie delle proprie pubblicazioni - Synaxis e sue collane - allo Stand delle riviste di teologia e cultura, realizzato in collaborazione con il Servizio Nazionale della CE! per il Progetto Culturale. 11. Necrologio li 27 marzo 1999 si è addormentato nel Signore Alfi'edo Avola, diacono dell'arcidiocesi di Catania. In questi ulti1ni anni aveva prestato una preziosa collaborazione alla Segreteria del S. Paolo, vivendola come espressione della sua diaconia nella Chiesa.
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l 2. Cappella
li 20 aprile 1999, il Moderatore mons. Vincenzo Manzella ha benedetto la nuova cappella dello Studio Teologico S. Paolo, dedicata a Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein). Voluta con impegno dagli studenti, ha visto la collaborazione anche finanziaria di non pochi an1ici. 13. Visita
li 14 maggio ì 999 il nuovo vescovo cli Acireale Salvatore Gristina, nel suo primo incontro con le varie realtà diocesane, ha visitato anche lo Studio S. Paolo che, co111e ente intcrdiocesano, appartiene pure alla l)iocesi di Acireale.
1--Ia incontrato la presidenza, i professori, gli alunni nelle varie classi e, infine, ha visitato i locali dello Studio. 14. Rustica/io Mercoledì 19 maggio 1999 si è tenuta la tradizionale rustica/io che ha avuto con1e 1neta l'Etna e, precisa1nente, la Valle del Bove) a111111irata a conclusione del percorso che conduce alla Schiena dell'asino. Si è conclusa con la celebrazione eucaristica nel Santuario Madonna della Sciara a Mon1pilcri.