SYNAXIS XX/3 - 2002
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
INDICE
Sezione monografica ESISTE UNA SPIRITUALITÀ DEL VATICANO II? (Peter Hünermann) . . . . 1. Introduzione . . . 2. La spiritualità del Vaticano II . 3. Prospettive . . . .
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LE RAGIONI DELL’OPZIONE PASTORALE DEL VATICANO II (Giuseppe Alberigo) . . . . . . 1. Impegno pastorale . . . . . 2. Concilio pastorale . . . . . 3. Le novità del Vaticano II . . . .
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LO SPIRITO E LA SPIRITUALITÀ DEL VATICANO II (Giuseppe Alberigo) . . . . . 1. L’idea del concilio . . . . 2. Nel concilio . . . . 3. Ai margini del concilio . . . 4. Nella ricezione del concilio . .
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Sezione miscellanea IL DESIDERIO NATURALE DI VEDERE DIO NEL PENSIERO DI TOMMASO D’AQUINO (Francesco Ventorino) . . . . 1. Il desiderio naturale di conoscere Dio 2. Conoscenza di Dio e vita presente . 3. Il compimento del desiderio . 4. La fede come inizio della vita eterna 5. L’avvenimento della fede . .
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IL “GIARDINO (kh%pov)” NELLA NARRAZIONE DELLA PASSIONE SECONDO GIOVANNI (Attilio Gangemi) . . . . . . . 1. Gli usi del termine kh%pov nel NT . . . . 2. La posizione degli interpreti . . . . 3. Il termine kh%pov nei LXX . . . . . 4. Il testo di Gv 18,1 . . . . . . 5. Il testo di Gv 18,26 . . . . . 6. Il testo di Gv 18,41-42 . . . . . 7. Conclusioni . . . . . .
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CRITERI DI FORMAZIONE NELL’ORATIO AD ADOLESCENTES DI BASILIO (Rosario Gisana) . . . . . . 1. Ricezione e cultura cristiana nella diversità . 2. Un atto essenziale di discernimento . . 3. Orientamenti formativi dell’Oratio basiliana . 4. Conclusione . . . . .
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GIROLAMO BENIVIENI TRADUTTORE DI GIOVANNI CASSIANO (Ferdinando Raffaele) . . . . . . .
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LA MUSICA SACRA A CATANIA FRA OTTOCENTO E NOVECENTO L’archivio musicale del Seminario Arcivescovile di Catania (Agata Platania) . . . . . . .
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Presentazione
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Recensioni .
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NOTIZIARIO DEL CESIFER .
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Note
NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
Sezione monografica Synaxis XX/3 (2002) 469-487
ESISTE UNA SPIRITUALITÀ DEL CONCILIO VATICANO II?*
PETER HÜNERMANN**
1. Introduzione La questione se si dia una spiritualità del Vaticano II è nuova. È vero che usiamo spesso il termine “spiritualità” e che il significato connesso a questa espressione ci è più o meno chiaro. Tuttavia, in rapporto ad un evento come il Vaticano II, il termine fino ad oggi non è stato impiegato. La domanda allora suona: esiste qualcosa come una spiritualità del Vaticano II? Cosa sta a significare il discorso di una spiritualità del concilio? È quindi necessario che noi determiniamo con esattezza il senso del concetto spiritualità, per poter dire come e in che senso si possa parlare di una spiritualità del concilio e quali siano gli elementi da tenere in considerazione per poter caratterizzare più da vicino questa spiritualità. È dunque necessario che io cominci la mia relazione con una chiarificazione del concetto. Ma occorre anche dire a grandi linee cosa sia un concilio e, in maniera ancora più precisa, il Vaticano II. Solo a partire dal chiarimento, almeno abbozzato, di questi due realtà, possiamo procedere alla ricerca di come e in che senso si possa parlare di una spiritualità del Vaticano II. Da qui risulta l’articolazione della nostra introduzione. Solo la * Prolusione tenuta all’inaugurazione dell’anno accademico 2001-2002 dello Studio Teologico S. Paolo di Catania: 26 ottobre 2001. ** Professore emerito di Teologia sistematica presso la Facoltà di Teologia cattolica nell’Università di Tübingen.
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chiarificazione concettuale possiamo volgerci alle singole ricerche. Tutta la mia prolusione deve intendersi come un tentativo solo iniziale. Debbo perciò limitarmi a sviluppare alcuni primi approcci, bisognosi di approfondimento.
1.1. Note sul concetto di spiritualità Partiamo dalla storia del termine. In Galati 5, 25 Paolo dice: “Se viviamo nello Spirito, dobbiamo anche camminare nello Spirito”. Il dono dello Spirito del Signore crocifisso e risorto costituisce un topos fondamentale della predicazione cristiana. Ma questa vita nello Spirito deve prendere forma nella vita e nel comportamento dei credenti e nelle chiese, nelle comunità. Il termine pneumatikos — conforme allo spirito e tradotto in latino con spiritualis, spirituale — costituisce un neologismo cristiano che accompagna la storia del cristianesimo, acquistando diverse sfumature. Si pensi alla differenziazione medievale tra potestà spirituale e potestà temporale, con la quale viene distinto da una parte il potere del papa e dei vescovi e, dall’altra, il potere dell’imperatore e dei re. Il sostantivo astratto spiritualitas emerge sostanzialmente più tardi del Nuovo Testamento e solo in casi isolati, nella Patristica e nel primo Medioevo. Il suo opposto è la corporalitas nel campo filosofico, la temporalitas nel linguaggio giuridico e la brutalitas, animalitas o carnalitas nell’uso teologico. Il termine viene usato in senso pregnante in francese, soprattutto nel secolo decimottavo. In misura crescente la spiritualité viene intesa per indicare in generale la vita informata dallo spirito cristiano e questuso porta all’ultima fase dell’evoluzione linguistica, nella quale si parla di differenti tipi di spiritualità, dipendentemente dall’orientamento religioso e della rispettiva visione del mondo. L’ultimo mutamento semantico qui accennato ha alla sua radice il cambiamento della società moderna. Nelle società che sorgono dopo la rivoluzione francese, nelle quali ha luogo una differenziazione radicale tra chiesa e stato e vengono proclamati i diritti dell’uomo, e specialmente la libertà religiosa, sorge una situazione di pluralità. Un parallelismo è offerto dai cattolicesimi, cioè da movimenti che non stanno sotto la guida della
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gerarchia, ma garantiscono a partire dalla base una rappresentanza sociale ai bisogni e alle istanze dei cattolici. Spazio e strumenti sono per questo forniti dalle nuove libertà borghesi, dalla libertà di opinione e di associazione e, per ciò stesso, dalla possibilità di costituire libere associazioni dotate di profilo proprio. La posizione giuridica pubblica della chiesa viene invece assicurata mediante concordati che si fanno, non per ultimo, proprio sulla base della presenza sociale e della pressione dei cattolici. I cattolicesimi si distinguono ovviamente dagli altri ambienti. In corrispondenza a questo stato di cose sorgono delle spiritualità in senso generale. Questa situazione caratterizza non solo la Francia, ma tutta l’Europa occidentale e centrale. La spiritualità cristiana sta quindi a significare la conformazione della vita umana allo spirito del vangelo, soprattutto in un ambiente moderno e pluralistico. Solo dopo la II guerra mondiale, cioè attorno alla metà del XX secolo, in questo significato moderno la parola si afferma nell’ambiente linguistico tedesco e inglese. A partire all’incirca dagli anni 80 del XX secolo essa passa nell’uso linguistico comune e viene impiegata nel senso ampio di una religiosità che, pur non essendo istituzionale o dogmatica, nondimeno “invade il mondo delle cose dandogli un senso”. Il presupposto concettuale per il parlare di spiritualità, al singolare e al plurale, è il pensare storico e la capacità, ivi sviluppata, di comprendere e rappresentare rapporti spirituali complessi nel profilo ogni volta loro proprio. Se quindi cerchiamo di formulare, sulla base del dato linguistico presente, un concetto teologico di spiritualità, dobbiamo dire che: La spiritualità, in senso cristiano — sta ad indicare una forma di vita e di comportamento comunitario che per i cristiani risulta – in ragione del loro vivere nello Spirito di Gesù Cristo, – in un contesto sociale determinato – e di fronte ai compiti loro posti. Questa forma di vita e di comportamento abbraccia tutte le dimensioni dell’esistenza umana: – l’orientamento globale della vita (dimensione del senso) – l’ethos (dimensione morale) – La prassi (dimensione poietica). La spiritualità, in quanto forma di vita e di comportamento, ha
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bisogno delle corrispondenti mediazioni strutturali. In queste mediazioni strutturali essa si manifesta e lascia percepire il suo profilo. Risultato: La spiritualità è la prammatica corrispondente alla fede, alla speranza e all’amore. Io spero che questa descrizione concettuale sia sufficientemente plausibile in maniera tale da potermi risparmiare una esplicitazione dei singoli aspetti e da poter restare all’interno dello spazio concessomi.
1.2. Caratteristiche di un concilio, in particolare del Vaticano II Come concetto del concilio — per motivi di tempo — vi sottopongo subito una tesi. Il concilio è la riunione dei rappresentanti della chiesa universale, suscitata da domande e problemi di tale portata, da rendere necessario un nuovo consenso sulla comprensione e sulla prassi della fede. Il Vaticano II acquista il suo profilo specifico nel fatto che la problematica da cui è stato causato non consiste in un’eresia concreta o in un determinato scisma ecclesiale. Il problema fondamentale è piuttosto quello della estraneità e della sfasatura temporale della chiesa da una parte e del mondo e della società contemporanea dall’altra parte, per cui si richiede un “aggiornamento” globale. Un concilio non è quindi una semplice istituzione giuridica ecclesiale. Al concilio appartiene piuttosto il carattere di una istanza di verità, esso testimonia la fede in maniera obbligante. Ogni pretesa di verità implica un consenso e la richiesta di un consenso. Conseguentemente, in direzione inversa, vale che il consenso dei rappresentanti della chiesa universale — e la corrispondente recezione — è un indicatore per la verità di ciò che è in questione. Ovviamente in questa caratterizzazione del concilio il presupposto è che non si tratti di un qualche consenso pigro, ma di un consenso autentico, adeguato alla cosa che viene messa in discussione. Questo sta a significare, nel nostro caso, che deve trattarsi di un consenso nella fede che può essere raggiunto solo attraverso la corrispondente serietà credente del processo di formazione del consenso.
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1.3. Conseguenze sul rapporto spiritualità – Vaticano II Abbiamo cercato di chiarire nei due paragrafi precedenti cosa significhi spiritualità e concilio. A partire da qui possiamo già rispondere a due domande: 1) Ha senso parlare di una spiritualità del Vaticano II? 2) Quali sono i punti da cui bisogna partire per determinare questa spiritualità? Alla prima domanda bisogna dare una risposta positiva. Il concilio che, con la preparazione, la celebrazione, la promulgazione delle sue decisioni e la prima fase di recezione abbraccia un periodo temporale da 10 a 12 anni, costituisce un evento strutturato della vita ecclesiale, dotato di grande significato. Se si intende il concilio in questo senso stretto e concentrato, allora esso consiste nel collegio episcopale, che qui rappresenta il gruppo propriamente agente e decisivo: i vescovi entrano in scena non come singole persone, ma come rappresentanti della chiesa. Essi — in questa veste — vengono invitati ad un rinnovamento spirituale della chiesa che rappresentano. Il contesto sociale specifico nel quale stanno è dato dal fatto che è intervenuto un radicale processo di estraneazione tra chiesa e società. La chiesa si trova in un’epoca di crisi per la quale non sono più sufficienti i normali strumenti che presuppongono ogni volta il consenso esistente. Si rende quindi necessario un nuovo orientamento e ai vescovi incombe il dovere di determinare in maniera nuova la visione che la chiesa ha della rivelazione e dei suoi compiti nella società. Abbiamo così evocato tre punti che stanno all’inizio della nostra tesi sulla spiritualità. Compito della chiesa, attraverso le sue attività conciliari, quello di elaborare una nuova dimensione concreta del senso della fede. L’orientamento globale della vita credente deve essere espresso in una nuova maniera. Si tratta ancora di un ethos corrispondente, della dimensione morale, e si tratta infine di indicare prospettive corrispondenti nella prassi, della dimensione poietica. Proprio perché il concilio è la riunione dei rappresentanti della chiesa universale, nella quale viene formulato in maniera nuova questo consenso fondamentale tridimensionale, grande importanza rivestono le mediazioni
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strutturali dell’evento conciliare: sono queste mediazioni la strada che porta al risultato. A questa strada inoltre appartiene un carattere rappresentativo. Non sono queste mediazioni strutturali segno e forma per la vita ecclesiale del futuro? Quali sono queste mediazioni strutturali? Nella seconda parte occorre analizzare in particolare tre momenti che possono essere così formulati: La convocazione del concilio e il suo inizio: conversione e affermazione di identità in territorio sconosciuto. Aporie nella comprensione di fede, ascolto vicendevole e molteplicità dei carismi. Autenticità della pietà che sorge dalla nuova prassi. Nel primo paragrafo occorre riflettere sulla fase preparatoria e introduttiva del concilio, sotto la prospettiva guida della spiritualità. La prospettiva guida della spiritualità non è tuttavia teoretica, ma pratica. Ci chiediamo quale spiritualità si manifesti nella convocazione e nell’inizio del concilio. Nel secondo momento ci volgeremo al primo periodo conciliare, giacché è qui che emergono momenti aporetici nella comprensione della fede. In che modo affronta il concilio questi momenti e stati di cose aporetici? In che maniera il concilio è venuto a capo di questi conflitti? Quali forme assume qui la spiritualità del concilio? Nel terzo momento ci volgeremo infine alla liturgia e alle forme della preghiera e delle celebrazioni conciliari. Anche qui ci chiederemo quale sia la spiritualità che si manifesta. Dovrebbe essere ovvio che, in questa sede, sui singoli punti possono essere sviluppati soltanto degli schizzi, quasi solo allusivi. Di fronte alla novità della problematica, mi è sembrato sensato di esporre la parte introduttiva in maniera relativamente estesa, così da porre un fondamento solido, per garantirci dal rischio di procedere in maniera arbitraria. Nella terza parte, conclusiva, cercheremo di arrivare infine ad un abbozzo di prospettive per la chiesa postconciliare.
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2. La spiritualità del Vaticano II 2.1. La convocazione del concilio e il suo inizio: conversione e fedeltà alla propria identità Sulla convocazione del concilio, sulla visione grandiosa di Giovanni XXIII, sul necessario aggiornamento della chiesa e sulla nuova Pentecoste da
una parte, come sull’accoglienza quanto mai esitante della curia e sulla lenta recezione di queste incoraggianti idee da parte dell’episcopato dall’altra, su tutti questi eventi tratta una massa di ricerche storiche. A ragione si dice che in un primo momento solo alcuni tra i teologi e i vescovi afferrarono la visione del papa e che nell’opinione pubblica solo lentamente, ma poi con intensità crescente, si creò un orizzonte di attese. Ciò a cui non si riflette allo stesso modo — sebbene anche qui si diano ricerche storiche dettagliate — è l’enorme contrasto che si aprì tra la visione altissima di Giovanni XXIII da un lato e le possibilità di realizzazione e l’attuazione di un siffatto concilio, che debbono essere considerate quasi ingenue dall’altro lato. La curia che parte dal concetto troppo ristretto di una chiesa la quale, grazie all’assistenza divina, deve essere retta e orientata completamente dall’alto e in maniera centralizzata, sviluppa piani per la realizzazione del concilio che appaiono irrealistici, persino assurdi. Si presuppone che i progetti e gli schemi elaborati siano senz’altro accettabili per la maggioranza dei vescovi. Ci si aspetta che i vescovi, sulla base dei documenti loro inviati, possano dalla loro diocesi fare proposte di miglioramento e che quindi la celebrazione del concilio possa svolgersi con un’approvazione quasi aproblematica degli schemi preparatori. Fu in corrispondenza a questa concezione che venne concepito il regolamento conciliare approvato dal papa prima dell’inizio dei lavori. Non appena i primi risultati delle commissioni preparatorie vennero presentati, non mancarono voci critiche. Ma evidentemente Giovanni XXIII non recepii queste critiche che ad esempio gli vennero presentate dal cardinal König, dal cardinal Frings e da altri. Solo a partire dal maggio 1962 riesce a farsi strada il malumore accumulato da una serie di cardinali. Il card. Suenens inizia a lavorare al suo progetto per la strutturazione del concilio, il papa ne viene informato e lo approva. Le contrapposizioni sulla procedura procedure conciliare ripresero
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all’inizio del concilio. Sono ben conosciuti gli interventi dei cardinali Liénart e Frings contro l’elezione immediata delle commissioni conciliari, prima che i singoli vescovi potessero acquisire le informazioni previe. Gli ulteriori passi per stabilire un piano di lavoro adeguato costituiscono le successive grosse imprese. Qui possono bastare questi accenni. In questa situazione iniziale emergono momenti di spiritualità? Tre sono i tratti che la costituiscono: c’è da una parte la visione di Giovanni XXIII che lo porta alla convocazione e che egli esplicita ancora nell’allocuzione di apertura Gaudet mater ecclesia. Questa visione viene progressivamente accolta dai vescovi. La situazione è in secondo luogo caratterizzata da una programmazione insufficiente e dalla carenza degli strumenti capaci di dare concretezza a questa visione. Le insufficienze si manifestano attraverso l’esperienza della complessità della realtà, della varietà delle opinioni, delle differenti prospettive, del tempo necessario etc. Come vivono questa discrepanza i differenti attori? Se si guarda al comportamento di Giovanni XXIII, appare la fiducia. Questa si manifesta dettagliatamente nell’allocuzione di apertura Gaudet mater ecclesia: “ ... com’è nostra ferma fiducia ... con opportuni aggiornamenti e con la saggia organizzazione di mutua collaborazione la Chiesa farà sì che gli uomini, le famiglie, i popoli volgano realmente l’animo alle cose celesti.” A partire da questo centro e dalla serenità che nasce da esso, il papa è in grado di prendere posizione sui molti sconosciuti interventi che incrociano i suoi fini e i suoi programmi. E così il cardinal Liénart riferisce come Giovanni XXIII, dopo il suo discorso contrario all’immediata elezione delle commissioni, gli abbia detto: “Avete fatto bene a dire il vostro pensiero perché è per questo che io ho convocato i vescovi al concilio.” Questo atteggiamento del papa si ritrova fondamentalmente in tutte le questioni conflittuali che sorgono all’inizio del concilio e che in particolare si riferiscono al programma dei lavori conciliari. Un netto contrasto con questo atteggiamento si riscontra ad esempio nel cardinal Siri, arcivescovo di Genova, il quale annota dopo gli interventi di Liénart e Frings: “Che qui ci sia una manovra guidata più oscuramente che coscientemente da una certa antipatia anticuria, mi pare evidente”. Ma l’interpretazione degli eventi che dà Siri, sembra ancora troppo benigna al card. Ottaviani e ad altri uomini del S. Uffizio. Essi pensano invece che
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bisogna prendere una posizione contraria, si preoccupano di formare un’alleanza contro questa invettiva, che tocca il papa e la curia. Se si guarda ai vescovi, si riscontra come l’invito al concilio e la visione di Giovanni XXIII, per essi costituisca in primo luogo un invito ad una effettiva conversione. Essi vengono richiamati ad un atteggiamento critico nei confronti del loro lavoro e alla situazione della chiesa. Al tempo stesso appare come, proprio nell’accaduto del 13 ottobre, questa conversione può essere compiuta con serietà solo se essi prendono sul serio la loro responsabilità e solo se essi affermano se stessi nella propria identità di fronte alle pretese della curia e della burocrazia conciliare — che alla fin fine sono anche pretese che vengono dalla parte del papa. Ma con questo passo essi si inoltrano in un terreno sconosciuto, prima mai calpestato. Guidati dallo Spirito si aprono ad una nuova realtà, quanto mai complessa, che essi non sono in grado di abbracciare con lo sguardo. La costellazione che così viene a formarsi, a me sembra corrispondere a quell’analisi che ha sviluppato Richard Schaeffler nella sua ricerca sulla logica dell’esperienza. Schaeffler ha mostrato come, nel processo dell’esperienza, emerga ogni volta una polarità tra la realtà e la comprensione concettuale della realtà stessa. La tentazione fatale consiste nell’autoimmunizzazione dell’uomo ricorrendo ad una comprensione concettuale della realtà. Il nodo decisivo consiste quindi nel superamento di quest’autoimmunizzazione. Se proviamo quindi, sulla scia delle indicazioni fornite da Schaeffler di determinare con maggior precisione la situazione iniziale del concilio, possiamo affermare: l’appello al rinnovamento dello spirito e della fede, che Giovanni XXIII pronuncia e che i vescovi accolgono, porta da una parte a prendere sul serio la capacità dei soggetti, la libertà e la responsabilità dei vescovi attori, dall’altra parte ad una sospensione del cammino programmato in anticipo e derivato dalla comprensione tradizionale. Questa sospensione, che si esprime in atti concreti, proprio con il differimento dell’elezione delle commissioni, è tuttavia diretta ad una meta: si tratta di riappropriarsi della realtà della fede nella storia concreta. Viene così messo in crisi quel sapere che pretende di disporre già in anticipo della realtà.
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2.2. Le aporie della comprensione di fede, l’ascolto vicendevole e la pluralità dei carismi Dopo questa prima caratterizzazione della spiritualità nel contesto della convocazione e dell’autoaffermazione del concilio, passiamo al momento di conflitto più forte nella prima sessione del concilio, alla settimana che va dal 14 all’11 novembre 1962. Nella pubblicistica sul Vaticano II questa settimana è stata indicata come la settimana decisiva, una settimana nella quale vengono posti gli orientamenti fondamentali del concilio rispetto a tutto il lavoro seguente. Si era già avuto il dibattito sulla liturgia. Sulla base del rinnovamento operato dal movimento liturgico antecedentemente al concilio e a motivo del lavoro oggettivamente accurato della commissione liturgica preparatoria, questo dibattito era stato relativamente facile per i padri conciliari. Essi avevano fatto le loro prime esperienze nell’evento conciliare, erano diventati consapevoli della propria responsabilità e delle possibilità che si aprivano con il concilio e avevano afferrato quale potenziale di rinnovamento per la chiesa venisse aperto attraverso il lavoro conciliare. Quando il 14 novembre comincia in aula la discussione sullo schema preparatorio De fontibus revelationis, la situazione è radicalmente diversa. I cinque capitoli dello schema corrispondevano alle posizioni della teologia cattolica controversista che, nel frattempo, erano state messe in questione da una serie di teologi cattolici e, soprattutto, dai circoli ecumenici. Non solo si erano creati contrasti e tensioni notevoli, già prima della discussione in aula, tra la commissione teologica responsabile dello schema e il Segretariato per l’unità. Questa situazione conflittuale si rifletteva ugualmente nelle innumerevoli prese di posizioni pubbliche e nelle conferenze episcopali, prima dell’apertura della discussione vera e propria. Colpiscono particolarmente le aspre condanne vicendevoli. Il cardinali Siri parla ad esempio di eresia e modernismo. La circolazione delle prese di posizione critica di Rahner, Schillebeeckx e di altri danno l’occasione ad Ottaviani di parlare di comportamenti che vanno contro le prerogative del papa, al quale soltanto compete di stabilire i temi da dibattere in concilio. Dall’altra parte viene fatto valere, contro i padri conciliari e i curiali di tendenza tradizionale, che essi non rispettano le indicazioni date dal papa nella Gaudet mater ecclesia e che essi tradiscono l’orientamento pastorale
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del concilio. Nella discussione in aula il vescovo de Smedt, a nome del Segretariato per l’unità dichiara che “lo schema comporta un regresso, un impedimento, un danno. La pubblicazione degli schemi teologici nella forma dei progetti attuali distruggerebbe la speranza che il concilio possa condurre al riavvicinamento tra i fratelli separati.” La votazione alla fine della settimana viene intrapresa capovolgendo la procedura usuale. Non viene chiesto se lo schema presentato debba essere accolto come base per la discussione ulteriore. In tal caso infatti lo schema avrebbe dovuto ricevere i due terzi dei voti, altrimenti sarebbe stato respinto. Invece di questa domanda viene messo ai voti il quesito se i padri presenti vogliono l’interruzione della discussione o meno. Questo in parole chiare stava a significare: chi è contro lo schema deve rispondere affermativamente; chi invece è a favore deve esprimere un no. Il risultato fu che 1368 erano per l’interruzione della discussione e 822 contro. In questo modo la situazione di stallo era perfetta: non ci sono i due terzi perché la discussione si interrompa, non ci sono i due terzi favorevoli allo schema. L’irritazione era enorme. In questa situazione intervenne Giovanni XXIII, disponendo di togliere lo schema dall’ordine del giorno e istituendo una commissione mista sotto la presidenza dei cardinali Ottaviani e Bea, con segretari Tromp e Willebrands. Fermiamoci per una prima riflessione sulla spiritualità. Qual è la base spirituale per questo tipo di strategia conflittuale? Il papa attribuisce la “buona fede” sia ai rappresentanti della maggioranza che a quelli della minoranza. Questo trova la sua espressione inequivocabile nella formazione della commissione mista. Nello stesso tempo la redazione di un nuovo schema viene affidato ai due gruppi congiunti, confidando nella conduzione dello Spirito. Al presupposto della buona fede dei due gruppi si aggiunge in questo modo la fiducia credente che, nel lavoro e nella fatica onesta degli uni e degli altri, si aprirà la strada per la confessione comune della fede. Un procedimento analogo lo troveremo spesso nel corso del concilio. Ciò vale soprattutto per la redazione della costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo d’oggi. È evidente che questa decisione non porterà ad un “compromesso pigro” solo a condizione che i partecipanti assumano come propri i presupposti e che ambedue i gruppi comincino ad ascoltarsi a vicenda con serietà e a partire da questi presupposti.
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Seguendo il destino ulteriore del lavoro, enormemente carico di tensioni, per la nuova redazione del testo, riscontriamo tre momenti che caratterizzano questo lavoro: 1. Si ripetono sempre attacchi personali e ricadute nel rifiuto di riconoscimento della controparte. Ma è anche vero che sempre nuovamente si alzano voci per riportare alla memoria i presupposti del lavoro e che postulano il reciproco riconoscimento nella buona fede. Sono queste le voci che mantengono unita la commissione e rendono possibile il lavoro. Sono esse quindi ad affermarsi e a farsi valere. 2. Sia il progetto rinnovato che viene inviato ai padri nella primavera del 1963 e sul quale essi possono prendere posizione per iscritto, sia il testo rielaborato ancora una volta, sulla base delle proposte scritte, dopo il dicorso di Paolo VI alla fine del secondo periodo conciliare, hanno guadagnato enormemente grazie al lavoro intenso di numerosi esperti teologici e agli emendamenti pervenuti. È qui che sorgono nuove visioni nella comprensione della fede, della tradizione, della scrittura, degne di attenzione e al tempo stesso capaci di suscitare consenso. 3. Nonostante numerose precisazioni e miglioramenti apportati in comune, sulla questione se la tradizione “si estenda maggiormente” della scrittura, non si perviene ad un accordo. In una drammatica seduta del 23 febbraio 1963, il cardinal Bea riesce ad ottenere la votazione di un punto d’accordo nella commissione mista. Egli sostiene la concezione che il problema tradizione-scrittura “non è ancora maturo”. Il concilio non deve quindi decidere la questione. 29 sono le voci a favore della proposta e 9 quelle contrarie. Le costellazioni che si presentano nel primo periodo conciliare per il testo da rielaborare, si ripetono nella loro struttura nei successivi periodi. Così come Giovanni XXIII, anche Paolo VI si vede costretto ancora una volta nella fase finale a richiedere l’inserimento di alcuni emendamenti, la cui formulazione viene tuttavia affidata da lui alla commissione. Il suo scopo è quello di accogliere le istanze della minoranza e costruire così un ponte per un consenso quanto più vasto possibile. Ma anche alla fine di questo lungo lavoro, lungo il quale i vota dei vescovi e il lavoro teologico aggiunto dei
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periti producono nuovi approfondimenti che risultano evidenti nella loro plausibilità alla stragrande maggioranza dei vescovi, resta il fatto che la questione del “latius patet” resta fra parentesi. Riguardo all’inerranza della Scrittura, grazie alla mediazione del cardinal König, si afferma una formula di consenso che rappresenta un progresso essenziale rispetto al discorso indifferenziato nel primo progetto respinto, ma anche rispetto alle argomentazioni del cardinal Bea. Cosa risulta da questa procedura che alla fine condusse ad una votazione nella quale 2344 padri votarono a favore (placet) e solo 6 espressero voto contrario (non placet)? 1. I padri conciliari — rappresentanti della chiesa — in questo processo drammatico e pieno di tensioni, sperimentano la pluralità delle comprensioni di fede che in maniera più o meno chiara sono presenti nella chiesa. Queste differenti comprensioni della fede sono strettamente legate ai rispettivi contesti vitali e alle problematiche e istanze che sorgono da questi. Si pensi alla differente familiarità con la ricerca esegetica, con i problemi dell’ecumenismo etc. 2. La decisione di Giovanni XXIII presuppone che esista una differenza tra la fede in Gesù Cristo e le formule in cui esprimiamo la comprensione della fede riguardante i singoli contenuti della fede stessa. La decisione presuppone ancora che, nell’ascolto degli argomenti che vengono presentati dalle due parti e con l’aiuto di esperti etc., sia possibile ottenere chiarimenti e avvicinamenti. Questo sta a significare che la fede, nella propria comprensione, può raggiungere un approfondimento essenziale ed una base di consenso più ampia. Il lavoro della commissione mostra chiaramente che siffatti approfondimenti e precisazioni, che al tempo stesso racchiudono dei momenti di innovazione, possono riuscire solo a patto di lavorare nello spirito dei presupposti. 3. Appare con chiarezza come, anche a partire da una comprensione approfondita della fede, le prestazioni del linguaggio e dell’interpretazione non siano capaci di arrivare fino al punto da permettere decisioni e formule su importanti questioni della fede stessa. Anche la comprensione approfondita della fede implica, ancora una volta, che determinate questioni o
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problemi fondamentali debbano essere messi consapevolmente fra parentesi perché — a partire dai modi di approccio dati — non è possibile delineare soluzioni chiaramente plausibili. Ma, senza pregiudizio di queste lacune e di questi limiti, l’accordo è così grande, che si può parlare a buon diritto dell’unità nella fede; e i risultati sono talmente abbondanti, da permettere di affermare l’unanimità nella fede. Quale esperienza ha fatto il concilio in questo caso? Con quale spiritualità, con quali forme di vita spirituale i padri conciliari sono venuti a capo di questa esperienza? Per quanto riguarda l’esperienza fatta dal concilio, occorre dire che, diversamente che al tempo del Vaticano I, l’esperienza dei padri del Vaticano II deve essere caratterizzata come una tipica esperienza postmoderna. Perché? Il postmoderno non significa una dissoluzione del moderno, nel senso di una dissoluzione dell’Illuminismo, ma — per usare un’espressione di Niklas Luhmann — di un “rischiarimento dei Lumi” (Abklärung der Auklärung). Cosa vogliamo dire? Franz Xaver Kaufmann ha descritto nei seguenti termini l’esperienza fondamentale postmoderna: “L’esperienza fondamentale del postmoderno, in opposizione all’Illuminismo, consiste nel fatto che essa ha perduto la fede di poter interpretare il mondo a partire da una prospettiva centrale. Questa visione del centralismo della prospettiva fu l’illusione della modernità, che iniziò con il Rinascimento ... Con la sua fede nella forza di una ragione unificatrice, con la sua convinzione della possibilità di un rapporto immediato ‘dell’uomo’ ‘al mondo’ come rapporto di soggetto e oggetto, l’Illuminismo ha assunto questa prospettiva teologica in forma secolarizzata. Esso pose la ragione umana al posto di Dio”. Kaufmann stabilisce come risultato della conoscenza postmoderna del mondo e della riflessione connessa sulla conoscenza della conoscenza: “Evidente non è la realtà, ma nel caso migliore una determinata prospettiva sulla realtà”. Questa visione pluriforme e sfaccettata della realtà non dispensa tuttavia dalla ricerca dell’unità, sulla base di principi comuni, anche se non si danno soluzioni definitive, ma la ricerca in qualche modo resta aperta. Solo nel rapporto vicendevole di questo duplice movimento, della presa sul serio dei molteplici aspetti e della fatica per l’avvicinamento e il consenso, è possibile raggiungere un orientamento nei confronti della realtà, si delineano forme della convivenza etc.
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A partire dalla fede e dal movimento di conversione dei vescovi, nel testimoniare e annunciare questa fede nel nostro tempo, viene fatta proprio questa esperienza fondamentale postmoderna nel campo della comprensione della fede e della elaborazione di una prassi corrispondente. Mentre nel Vaticano I si pensa e agisce secondo una prospettiva centralistica, questo non è più possibile nel Vaticano II. Ma per ciò stesso ne risulta un approccio sostanzialmente mutato, di un nuovo genere, dell’autorità della chiesa. Nei precedenti paragrafi abbiamo già tratteggiato gli interventi di Giovanni XXIII a partire dalla convocazione del concilio: si tratta del vantaggio di un progetto che ha come contenuto la conversione alla fede, l’approfondimento della fede, la nuova articolazione della fede. Tuttavia le possibilità di realizzazione che Giovanni XXIII immaginava per la realizzazione di un siffatto progetto e quali cercò di formulare nell’Ordo concilii con l’aiuto dei suoi collaboratori, si dimostrarono presto troppo ristrette e impraticabili. Ma egli possiedeva in ogni caso la libertà serena e capace, in seguito alle proteste dei cardinali e dei padri conciliari, di rivedere questi ordinamenti. Il suo secondo essenziale intervento di tipo autoritativo — la messa da parte dello schema preparatorio sulle due fonti della rivelazione e la costituzione di una commissione mista — mostra chiaramente il modo in cui l’autorità deve procedere di fronte a questa nuova complessità: essa deve porre in atto, riconoscendo la buona fede dei grossi raggruppamenti dei padri conciliari che al tempo stesso rappresentano gruppi nella chiesa, processi di formazione del consenso. Una comune testimonianza della fede può aver luogo solo attraverso questo consenso da raggiungere nuovamente. Ma questo presuppone la comunicazione reale tra i rappresentanti delle differenti chiese locali e l’inserimento di periti che ad un tempo abbiano e una familiarità con la Tradizione e la capacità di pensare creativamente. Questa comune testimonianza della fede e la comprensione ivi data è tuttavia ancora una volta limitata in se stessa, aperta al futuro. Sempre restano questioni messe “tra parentesi”. Considerando il decorso degli avvenimenti conciliari, appare chiaramente come grazie all’impulso dello Spirito venga sviluppata una prassi postmoderna corrispondente, della quale la chiesa in questo tempo ha di bisogno. Al tempo stesso appare evidente che i tratti fondamentali della spiritualità che abbiamo caratterizzato come propri del concilio, interessano
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aspetti essenziali di una spiritualità ecclesiale postmoderna. Perché? Si tratta semplicemente di aspetti, non di una spiritualità pienamente articolata, giacché con spiritualità noi intendiamo tutta una forma di vita che deve essere realizzata in una specifica situazione da un determinato gruppo di uomini, per poter venire a capo di questa situazione in maniera corrispondente allo Spirito. Ma nel concilio e nei momenti della sua spiritualità che abbiamo fino adesso mostrato, si tratta solo di una dimensione, anche se essenziale della vita ecclesiale. In questa dimensione ne va della fede, della sua comprensione , della sua testimonianza e del corrispondente accertamento attraverso la mediazione di un lavoro comune in determinate forme, nonché di un determinato esercizio dell’autorità. Prima ancora di volgerci alle prospettive che risultano da quanto abbiamo esaminato, val la pena — come abbiamo annunciato nella introduzione — di gettare uno sguardo sulle forme di pietà del Vaticano II, chiedendoci se esse abbiano un rapporto con i risultati che abbiamo ottenuto su alcuni momenti spirituali del Vaticano II.
2.3. Autenticità delle forme liturgiche? Prima dell’inizio della prima sessione conciliare, e precisamente il 7 giugno 1962, nella “commissione tecnico-organizzativa” vengono tratte le questioni della configurazione liturgica delle sessioni pubbliche e delle congregazioni generali. Sorge un conflitto tra i cardinali di curia e i cerimonieri del papa. Il cardinal Testa propone di aprire la prima sessione con un pontificale solenne, ma di prevedere per le altre sedute solo il canto del Veni creator con la preghiera conclusiva. Il cardinal Montini porta come argomento che “gli oratori del prossimo concilio saranno ben più numerosi di quelli dei precedenti; è importante assicurare ad essi la possibilità di parlare, essendo la parola una espressione essenziale del concilio, il che non sarebbe agevole se si dovesse sottrarre ogni giorno un’ora di tempo per la celebrazione della s. Messa.” Il vescovo Traglia ha paura che il concilio non susciti “una cattiva impressione”, se non si inizia ogni volta con la celebrazione della s. messa come al Vaticano I. Monsignor Dante fa riferimento al una decisione contraria della commissione centrale, ma i cardinali
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presenti si associarono all’opinione espressa dal presidente Testa. Il papa invece alla fine optò per la decisione della commissione centrale. Per quanto possa suonare triste, il comportamento della maggior parte dei vescovi riflette pienamente questa contrapposizione. Hilari Raguer descrive in questo modo la situazione durante il primo periodo: “I prelati più pii dedicavano quel tempo a recitare il breviario, o il santo rosario. Altri conversavano con i vicini seduti alla loro destra o sinistra. Si sentiva un diffuso timore, al quale contribuivano i commessi della segreteria che approfittavano dell’occasione per distribuire la documentazione conciliare ai presenti.” In seguito alle lagnanze dei vescovi la distribuzione dei documenti verrà interrotta, ma la situazione non cambia molto. Alla fine del primo periodo infine un gruppo di vescovi inoltra una domanda al papa, perché invece del canto della cappella Sistina e dell’assistenza muta dei vescovi, nell’ultima seduta venga cantata una messa gregoriana. Il papa aderisce, ma persino alla fine del secondo periodo conciliare non si arriva ancora ad una concelebrazione, che avrà luogo solo alla chiusura del terzo periodo. Frattanto — non ultimo a motivo delle liturgie esemplari degli Orientali, le discussioni sulla liturgia e sull’ecclesiologia — la liturgia conciliare ha raggiunto una forma dignitosa con la celebrazione dell’eucaristia, l’intronizzazione del vangelo e il Veni creator. Ed è questa la forma che ha segnato il concilio nella sua globalità come evento spirituale. Ciò che si riflette in questo sviluppo, a mio avviso, è quanto mai significativo. Il senso per l’autenticità delle forme di pietà e la liturgia si apre pienamente nel momento in cui, attraverso il lavoro conciliare nelle forme spirituali prima descritte, i vescovi prendono coscienza di tutta la loro responsabilità personale e del suo inscindibile legame con questo evento, nonché di tutta la difficoltà del lavoro. Fino a quando verrà a mancare questa esperienza, per essi la liturgia del concilio è qualcosa di esterno, un rito che certamente essi apprezzano molto per se stesso — sta qui la nostra sottolineatura — per i loro compiti a casa. Ma essa non viene considerata ancora un momento costitutivo del concilio in quanto tale. La liturgia non è il luogo al quale bisogna ogni giorno attingere la forza per il lavoro conciliare, e per di più assieme. Come tutta questa trasformazione avvenga e si attui con difficoltà, si può leggere con chiarezza in quel rito che viene praticato fin dall’inizio del concilio. Nel suo diario il padre Congar annota: “Lo so che tra poco si
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istallerà sul trono, perché presieda al concilio, una Bibbia. Ma parlerà? (sottolineatura nell’originale) Le si presterà ascolto? Ci sarà una chance per la parola di Dio?” Non è senza ragione che Congar ha fatto una notazione critica su questo problema. Dà molto da pensare che Paolo VI, alla fine del concilio, nella liturgia comune con gli Osservatori del concilio in San Paolo fuori le Mura, dopo la lettura delle Scritture, non abbia fatto alcun cenno ad esse. Non è la Scrittura, la parola che è stata affidata alla chiesa perché la chiesa la interpreti? La stessa situazione si ripete poco dopo nella grande liturgia conclusiva in Piazza S. Pietro. Anche qui il papa nella sua omelia in nessun modo fa riferimento ai testi del vangelo e delle letture che sono state ascoltate. Un esempio triste che mostra come sia difficile la costruzione di nuovi accenti nella spiritualità.
3. Prospettive In questa breve riflessione finale mi limiterò a riassumere brevemente e a raccogliere soltanto una serie di osservazioni. A me sembra che la chiesa risulti viva in quelle culture e in quelle società dai tratti postmoderni, nella misura in cui essa riesce a prendere sul serio i lineamenti di spiritualità che noi qui abbiamo tratteggiato. Questo vale sia per termini come conversione, fedeltà alla propria identità e coraggio di avviarsi su terreni non ancora battuti, che per forme di comportamento atte a pervenire ad un orientamento comune nella fede. In concreto siffatti processi si svolgono in forme molteplici, soprattutto alla base. In Germania ne abbiamo esempi nel sinodo di Würzburg, come in tutta una serie di sinodi diocesani e cosiddette assemblee diocesane, nelle quali i problemi della fede e della vita della chiesa vengono discussi liberamente e vengono espressi in forme corrispondenti. Le grandi delusioni, che si sono ripetute con tutti questi processi sinodali, sono date dal muro contro cui vanno a sbattere i vota e le formulazioni. Sempre, quando vengono toccati punti decisivi che coinvolgono in profondità le comunità, i vescovi rimandano alle dichiarazioni romane, alle disposizioni del Codice di diritto canonico, ai limiti di competenza che essi hanno in questi problemi. Lo stile con il quale, a partire dalla fine del concilio, il papa e la curia romana decidono su questioni difficili e dibattute nella chiesa, solo in pochi
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casi è determinato dalla spiritualità sopra delineata. Questo inizia già con la decisione di Paolo VI di sottrarre ai padri conciliari la questione del regolamento della gravidanza per investirne una commissione sua. Ma la sua decisione fu contraria alla maggioranza della sua commissione stessa. L’eco di molte conferenze episcopali alla Humanae vitae nel 1968 è corrispondente. Lo stesso dicasi del divieto della discussione in aula conciliare dei problemi legati al celibato del clero. Nel decorso del periodo postconciliare sopravvengono le gravi questioni sull’integrazione e sullo stato delle donne nella chiesa. Accenno qui alla Inter insigniores del 1976, alla Ordinatio sacerdotalis del 1994 e alla dichiarazione della Congregazione della fede del dicembre 1996. La chiesa postconciliare è segnata inoltre dal conflitto sulla teologia della liberazione e dalla pubblicazione di Libertatis nuntius del 1984 e Libertatis conscientia del 1986. In questa linea occorre mettere le contrapposizioni sulla competenza delle conferenze episcopali e l’autonomia delle chiese locali. Rimando per esse alla Communionis notio del 1992. La contrapposizione si prolunga fino ai nostri giorni con l’ultimo dibattito tra il cardinale Ratzinger e il cardinale Kasper. E occorre continuare la lista con Ad tuendam fidem. Un esempio contrario è dato dall’enciclica Ut unum sint. Qui viene proposta la via del dibattito e del consiglio per una questione difficile, anzi apparentemente contradditoria. È ovvio che la conduzione della chiesa e il chiarimento delle questioni di fede, che assillano in ogni epoca, non possano essere risolti attraverso un concilio permanente. Ma è evidente — anche dopo le manifestazioni di malumore in occasione dell’ultimo concistoro — che i problemi della comunicazione nella chiesa rendono necessaria la creazione di nuove forme di consultazione e di partecipazione delle chiese locali al governo della chiesa universale. Quelle forme spirituali praticate nel concilio Vaticano II spingono con urgenza verso una loro traduzione in strutture funzionali della chiesa universale. Lo stesso dicasi per l’ecumenismo e per il dialogo interreligioso. Ma la stessa problematica si ripresenta a livello nazionale, nelle singole diocesi e comunità. È necessario rafforzare le prime realizzazioni già avviate di strutture funzionali alla comune responsabilità della fede.
Synaxis XX/3 (2002) 489-509
LE RAGIONI DELL’OPZIONE PASTORALE DEL VATICANO II*
GIUSEPPE ALBERIGO**
La scelta di caratterizzare il nuovo concilio come pastorale risale innegabilmente a Giovanni XXIII. Tuttavia per afferrare a pieno la portata di questa opzione occorrerebbe ripercorrere tutta la vita e la spiritualità di Angelo Giuseppe Roncalli e, non meno, riandare all’immagine che il cattolicesimo aveva assunto almeno a partire dal XVIII secolo e — in un certo senso — dalla fine del concilio di Trento nel 1563. Infatti è sullo sfondo del cattolicesimo post-tridentino e soprattutto a partire dai pontificati della Restaurazione che la chiesa ha dovuto far fronte a alcuni nodi cruciali: 1. L’avanzato tramonto della cultura borghese e delle sue forme emblematiche coinvolgeva direttamente il modo di concepire il magistero e la prassi del suo esercizio. Era possibile che l’annuncio evangelico ritrovasse forme propositive e di testimonianza, autorevoli ma non autoritarie? 2. Se la fine della cristianità e della cultura cristiana portava in sé la conclusione del modo dogmatizzante di presentare il cristianesimo nella cultura occidentale, esisteva un’alternativa convincente? 3. La concentrazione sempre più grande dell’autorità dottrinale nelle mani delle autorità romane aveva dato al «magistero» della chiesa un carattere lontano e autoritario. Nel medesimo tempo, l’incessante moltiplicazionne dei suoi atti aveva avuto effetti inattesi. Infatti le altre istanze ecclesiali — nazionali, diocesane, locali sino al singolo fedele — si dere-
* Conferenza tenuta nella Cattedrale di Catania per la celebrazione dei 40 anni di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II: 16 ottobre 2002. ** Professore emerito di Storia della Chiesa nell’Università di Bologna.
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sponsabilizzavano e il consenso si atrofizzava, riuscendo a esprimersi solo in passivo disinteresse o in protesta. 4. Una riforma dei modi di proclamazione autorevole e autentica del depositum fidei non richiedeva un abbandono pregiudiziale e radicale della loro strumentalizzazione al buon ordine ecclesiastico? Proprio l’importanza di una trasmissione fedele e pura della rivelazione non imponeva un rispetto cristallino di ogni persona e del suo mistero? L’uscita dal buio tunnel della disciplina ecclesiastica ottenuta a colpi di processi e condanne, seminando timore e incentivando servilismo, appariva vitale perché il cattolicesimo potesse continuare ad avere un futuro. 5. L’esperienza di oltre un secolo di impegno nella lotta non solo all’errore ma anche al semplice dissenso come perno dell’azione del magistero ufficiale della chiesa appariva sempre più sterile. 6. Per cogliere i nodi più profondi di questa problematica era decisivo l’atteggiamento verso la storia umana e il suo rapporto con la comunità dei credenti. Infatti se della storia si dava una lettura negativa a causa dell’accentuato dinamismo che sempre più la caratterizza e del superamento che l’umanità ha consumato di determinati assetti «cristiani», si era anche indotti a vedere la chiesa come cittadella separata e minacciata, impegnata in una guerra di posizione nella quale l’immobilismo poteva anche apparire come la migliore forma di resistenza. Se invece il cristianesimo stesso fosse vissuto come storia, come ricerca del Cristo attraverso e non malgrado gli uomini e i loro eventi, allora anche la chiesa avrebbe svelato la sua natura di comunione in atto col Cristo e con i fratelli in un itinerario lungo il quale tutto, salvo l’Evangelo, è destinato a cambiare. Su questo sfondo epocale si iscrive la scelta «privata» del giovane chierico Roncalli — affascinato negli anni dieci del secolo scorso dall’esempio del vescovo Radini Tedeschi — di divenire prete per essere pastore. Con lo svolgersi della sua vita e con l’accumulo interiore delle esperienze, in Roncalli si sedimenta e cresce una «pastoralità» come impegno centrale e inderogabile dell’essere nella chiesa e per la chiesa al servizio dei fratelli.
1. Impegno pastorale Il suo primo punto di forza è sintetizzabile in un’espressione molto
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cara a Roncalli, che egli usa con grande frequenza e che in quel momento suona in qualche modo alternativa a «teologia», e cioè «pastoralità», impegno pastorale. Non si trattava tuttavia di contrapporre la ‘pastorale’ alla ‘teologia’, ma — come suggeriva l’espressione «magistero pastorale» — di assumere lo stile del buon pastore come criterio informatore di tutta l’attività della chiesa e perciò anche dell’insegnamento. Anche in questo caso papa Giovanni portava avanti una tesi che saldava un’indicazione neotestamentaria di fondo, l’unicità di Gesù buon pastore e la sua esemplarità, con la lettura di uno specifico momento di svolta e di sviluppo dell’umanità, dalla fine del colonialismo alla rivoluzione scientifica e tecnologica. Alla luce di ciò egli riformulava anche le modalità di opposizione della chiesa agli errori, presenti anche in quel momento. Alla pratica della severità, che era stata caratteristica per secoli della chiesa occidentale, Giovanni preferiva la medicina della misericordia, virtù a lui tanto cara. Egli chiamava la chiesa a far fronte «ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina piuttosto che rinnovando condanne». Questo appare il nucleo centrale del suo ministero e del suo magistero. Sembra un’osservazione ovvia e banale parlando di un vescovo, eppure c’è uno spazio di caratterizzazione personale che Roncalli ha utilizzato in misura molto ampia. Se vi è una teologia di Roncalli, essa è proprio questo, come conferma l’attenzione del tutto speciale da lui prestata a Gregorio Magno e alla sua Regola pastorale. D’altronde egli lo dice entrando a Venezia nel 1953: «guardando al vostro patriarca cercate il sacerdote, il ministro della grazia e non altra cosa […] Il pastore quale è dipinto nel cap. X del Vangelo secondo Giovanni», uno dei suoi fondamentali punti di ispirazione. «Non guardate, dunque, al vostro patriarca come ad un politico, come ad un diplomatico: cercate il sacerdote, il pastore di anime»1. Questa era la sua grande passione. Aveva appena concluso un decennio nella più prestigiosa sede diplomatica, Parigi, eppure annotava nel Giornale dell’anima: «È interessante che la Provvidenza mi abbia ricondotto là dove la mia vocazione sacerdotale prese le prime mosse, cioè al servizio pastorale. In verità ho sempre ritenuto che In un ecclesiastico la diplomazia così detta deve essere 1 A.G. RONCALLI (patriarca di Venezia), Scritti e discorsi 1953-1958, Roma 1959-62, 4 voll. [=SD], I, 16-21.
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permeata di spirito pastorale, diversamente non conta nulla; e volge al ridicolo una missione santa. Ora sono posto innanzi ai veri interessi delle anime della chiesa […] Questo mi basta e ne ringrazio il Signore». Anzi dal 1940 aveva preferito parlare invece che di governo pastorale di ‘arte pastorale’, l’arte suprema. Con un ritmo incalzante, negli anni veneziani, chiede di essere «padre e pastore di tutti»2 e poi lo ripete in tante occasioni, perché sentiva il bisogno di farlo sapere sempre veramente a tutti. «Il mio cuore di padre e pastore» — «non già padre e signore: pater et dominus, ma padre e pastore: pater et pastor» afferma3. E di nuovo ricorda, nella prima allocuzione al Sinodo diocesano del 1957, di aver fatto incidere a Costantinopoli sopra la porta della sua casa «pastor et pater», quasi a ricordarlo continuamente a se stesso, oltre che agli altri. Era il desiderio profondo che la pastoralità non fosse un modo elegante per ribattezzare un rapporto di superiorità né un paternalismo camuffato, ma costituisse realmente un superamento del rapporto gerarchico. Non è priva di significato la conoscenza approfondita che Roncalli si procura degli scritti e della figura di Francesco di Sales come santo vescovo nel quale l’itinerario verso la santità si confondeva e diveniva tutt’uno con lo stile di esercizio della responsabilità pastorale4. Forse si forma qui l’istinto pastorale destinato a caratterizzare in misura crescente l’intera personalità di Roncalli, sino a divenire la chiave del suo servizio papale e il suo apporto originale all’evoluzione del cristianesimo contemporaneo5. Roncalli ricorreva agli strumenti pastorali tradizionali ripristinati dal concilio di Trento, ma lo faceva però con un consapevole ripensamento dello spirito e dello stile della tradizione stessa, che sempre più frequentemente aveva sviluppato le componenti giuridiche e disciplinari, lasciando in ombra quelle propriamente pastorali e spirituali. Durante l’episcopato
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Ibid., II, 319. Ibid., III, 319. 4 Si veda ad esempio il testo pubblicato da Roncalli nel 1911 su Vita Diocesana 3 (1911) 286-271. 5 Cfr in proposito le penetranti osservazioni di G. RUGGIERI, Appunti per una teologia in papa Roncalli, in Papa Giovanni, Roma-Bari 1987, 245-271. 3
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veneziano Roncalli condivide l’orientamento in atto presso alcuni vescovi italiani più avvertiti (Dalla Costa a Firenze, Schuster a Milano) a recuperare gli aspetti centrali della riforma tridentina e carolina, ma, forse perché ne conosceva più da vicino le vicende, tende ad animare tale recupero con una sensibilità nuova, giungendo a risultati molto personali proprio nel senso di una consapevolezza pastorale libera da condizionamenti aulici. Per Rocalli il fattore capace di indurlo ad un’attenzione approfondita per i grandi problemi dell’umanità contemporanea era sempre più la rilevanza pastorale. Da questo punto di vista è caratteristico come il problema delle ideologie contemporanee emerga con prepotenza nella sua riflessione solo con l’inizio del servizio patriarcale a Venezia. Infatti nella conclusione della lezione tenuta a Torino nel l953 al congresso eucaristico compare per la prima volta una citazione di Agostino, destinata a ritrovare grande spazio nel magistero cattolico «uccidete l’errore, amate gli erranti». Vi era una ovvia distanza dall’intransigenza di molti atti del governo pacelliano, che proprio pochi anni prima aveva toccato il vertice nella condanna globale annunciata dal S. Ufficio contro i comunisti e i loro fiancheggiatori. Si profilava il seme della distinzione tra ideologia e movimenti storici, sancita nel l963 dalla Pacem in terris. Proprio nella Pacem in terris, i richiami pastorali della quinta parte affrontavano il problema della collaborazione dei cristiani con uomini ispirati da ideologie acristiane o anticristiane. Infatti nella misura in cui il rifiuto della guerra non può più conoscere eccezioni, la pace si presenta come patrimonio indivisibile dell’intera umanità, alla cui costruzione tutti devono concorrere. Ciò richiede una nuova consapevolezza della distinzione — classica nel cristianesimo, ma lasciata sempre più in ombra negli atti del papato contemporaneo — tra errore ed errante, con particolare riguardo a «incontri e intese, nei vari settori dell’ordine temporale, fra credenti e quanti non credono o credono in modo non adeguato». Gli «incontri e intese, nei vari settori dell’ordine temporale, fra credenti e quanti non credono o credono in modo non adeguato», aggiungeva l’enciclica, «possono essere occasione per scoprire la verità e per renderle omaggio». Subito dopo veniva presentato lo sviluppo più nuovo e più interessante della distinzione tradizionale, precisando che «non si possono neppure identificare le false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali,
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culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine». Il motivo è d’ordine storico: le ideologie restano immobili nella loro formulazione, mentre i movimenti si evolvono. Se ne concludeva che «avvicinamenti o incontri di ordine pratico, ieri ritenuti non opportuni o non fecondi, oggi invece lo siano o lo possano divenire domani». C’era, in filigrana, l’intuizione della crisi delle ideologie e il superamento «pastorale» degli steccati tra fratelli. Un criterio ben chiaro, e confortato da tutta la vita precedente, consisteva per Roncalli nel tenere distinto l’impegno e il servizio pastorale dalla politica. Egli avrebbe sentito il bisogno di ribadire questa convinzione subito dopo l’elezione al papato, forse anche per prendere le distanze da alcuni aspetti del pontificato precedente e da pressioni interne ed esterne, intese a far svolgere al papa determinati ruoli politici, soprattutto nel contesto italiano altrimenti assuefatto (il «collateralismo» era di quegli anni…). Il cristiano Roncalli, portato dall’obbedienza sino alla cattedra di Pietro, è rimasto fedele al metodo e allo stile che aveva elaborato in oltre settanta anni di vita, di preghiera, di servizio ecclesiale. Ciò che è risultato dirompente nel suo pontificato è stato proprio il fatto che un papa si sottraesse ai modelli stereotipati e ufficiali, lasciando scoccare le scintille del contatto vivificante tra una lunga e intensa esperienza cristiana cresciuta nel solco della tradizione e le attese latenti per un ritorno all’Evangelo. Roncalli non ha avuto ritegno di lasciare che le proprie virtù private si trasponessero nelle virtù pubbliche del papa; proprio ciò ha prodotto una svolta nella stessa storia secolare del papato romano. Nel medesimo tempo egli ha evitato che le esigenze pubbliche soffocassero o sfigurassero i pilastri evangelici della sua spiritualità. L’ufficio petrino è stato vivificato da una santità autentica e perciò audace e ha ritrovato un volto evangelico e pienamente umano. Di questa consapevolezza egli diede immediata comunicazione nel momento stesso in cui accettava l’elezione e sceglieva il nome. Lo stesso 28 ottobre 1958 Giovanni XXIII sintetizzò lo scopo del proprio pontificato: «faccia Iddio che entrambi i Giovanni [il Battista e l’Evangelista] gridino in tutta la chiesa per l’umilissimo nostro ministero pastorale». E, subito dopo aggiunse «gridi al clero e a tutto il popolo la nostra opera, con la quale desideriamo ‘preparare al Signore un popolo perfetto, raddrizzare i suoi
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sentieri, affinché le vie storte si raddrizzino, e quelle aspre divengano piane, affinché ogni uomo veda la salute di Dio’»6. Prima che si compissero i cento giorni dalla sua elezione, il 25 gennaio 1959, papa Giovanni annuncia di avere deciso la convocazione di un nuovo concilio. Si può dire che la sua attenzione alla storia conciliare non lo portava ad esserne un esperto in senso stretto. Piuttosto va sottolineato come il suo interesse si incentrava soprattutto su ciò che nei concili può predisporre all’unione, privilegiando ciò che unisce piuttosto che ciò che distingue, e sulla loro funzione pastorale. Il fascino che certamente esercita su di lui il periodo di applicazione del Tridentino si spiega proprio in relazione al fatto che in esso Roncalli vede realizzata quella pastoralità, che è uno dei punti più chiari e delle mete più ambite del suo servizio, episcopale prima e petrino poi, ma anche una delle riscoperte più dirompenti a cui egli avrebbe guidato la chiesa nella preparazione al XXI secolo. «Pastorale» è una parola chiave che esprime la dimensione centrale dell’ecclesiologia di Roncalli, il quale infatti volle qualificare il concilio da lui convocato come «concilio pastorale». «Pastorale» e i vocaboli con la stessa radice occupano un posto di grande rilievo nel vocabolario roncalliano. Essi ricorrono lungo tutti i suoi numerosi scritti nel corso della sua lunga esistenza con ben 2000 volte. Forse la densità di questa accezione era sfuggita a mons. Felici, segretario del concilio, il quale in un’intervista del 18 settembre 1961 annunciò la costituzione in seno alla Commissione centrale preparatoria di un organismo deputato a dare unità organica «a quanto sarà progettato […] circa i problemi delle varie tecniche pastorali». Era del tutto remoto dal pensiero di papa Giovanni limitare a un livello «tecnico» l’impostazione pastorale del concilio7. Accanto a questo scopo «eminentemente pastorale» — espressione usata per la vita di Carlo Borromeo e in quella circostanza esplicitamente «distinta dall’attività prevalentemente dottrinale dei dottori»8 —, sin dal
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GIOVANNI XXIII, Discorsi, messaggi, colloqui, Roma 1960-1967, 6 voll. [=DMC], I, 4. G. CAPRILE, Il concilio Vaticano II, Roma 1963, 1/II, 175. 8 Da un appunto del 27 marzo 1962, A.G. RONCALLI, Lettere ai vescovi di Bergamo (1931-61), Bergamo 1973, 530. 7
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gennaio del 1959 il papa sottolinea con particolare impegno che il concilio voleva essere un rinnovato invito ai fedeli «delle Chiese separate a partecipare con noi a questo convito di grazia e di fraternità»9. Pochi giorni più tardi, rivolgendosi ai parroci di Roma egli ribadì, parallelamente alla pastoralità la dimensione ecumenica del concilio10, dimensione che aveva suscitato più di ogni altra l’attenzione dell’opinione pubblica, ma anche allarmi molto vivaci, di cui si sarebbe fatto portavoce ufficiale lo stesso segretario di stato, card. Tardini, nel luglio successivo, quando «accennando al carattere del futuro concilio affermò che un punto è certo: il concilio è un fatto interno in bonum ecclesiae. Non ha per scopo diretto il ritorno dei dissidenti»11. Con grande determinazione il 10 agosto 1962, parlando ai seminaristi romani, ripresentò i vari ambiti ai quali l’opera del concilio doveva essere destinata, indicando una serie di cerchi che si allargavano in orizzonti sempre più vasti. Anzitutto «una più viva penetrazione della grazia del Signore nell’intimo della chiesa cattolica» mediante una «ricostruzione dell’ordinamento pastorale», ma anche attenzione al «desiderio sincero e generoso di udire, di vedere, di sapersi compresi nell’amplesso della carità degli altri cristiani» e, infine, «il progresso della vera civiltà e la concordia delle nazioni […] per la via larga, la via dei popoli e delle genti, le vie intraviste dai profeti e indicate da Cristo»12. È ben percepibile l’impegno a indicare un orizzonte ampio, che superasse le grettezze di una chiesa spesso ripiegata su se stessa e sul proprio passato, incline a sentirsi sopra piuttosto che dentro la storia. L’impegno e l’intuizione primaziale di Giovanni XXIII è consistito proprio, convocando il concilio, ma anche con gli altri atti maggiori del suo pontificato, nel reinserire plenariamente il cattolicesimo nel solco centrale
9 Allocuzione a S. Paolo fuori le mura. Il testo ufficiale recita invece: «… delle Comunità separate a seguirCi anch’esse in questa ricerca di unità e di grazia…», DMC I, 133. 10 Il testo ufficiale (DMC I, 575-578) avrebbe omesso il passo dove il papa aveva parlato del concilio come “concilio d’unione”, cfr G. CAPRILE, Il concilio Vaticano II, cit., 1/I 107 in nota. 11 Il 3 luglio 1959 il card. Tardini ai rettori degli Atenei romani, ibid., 169. 12 DMC IV, 464-465.
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della grande Tradizione13. Sostituire all’immagine della chiesa-cittadella e della chiesa-museo quella della chiesa-giardino, passare dalla stagione delle condanne alla medicina della misericordia, mettere al centro della vita ecclesiale il servizio pastorale come elemento unificante di tutte le dimensioni, superando il rischio di una frammentazione particolaristica e angusta, sono tutti aspetti e modalità di quell’unico impegno e dell’intuizione che lo sottendeva. La «pastoralità», assegnata al nuovo concilio dal papa come caratteristica dominante, è stata a lungo banalizzata e intesa nel senso di collocare il concilio a un livello non-teologico e non vinvolante. Tuttavia nell’immediata vigilia del concilio si fa strada l’accezione forte della «pastoralità» come subordinazione di ogni altro aspetto della vita della chiesa all’immagine del Cristo come «buon pastore». Ciò aiuta a comprendere come la Conferenza episcopale del Congo scriva a Roma nell’estate precedente l’apertura del concilio che «occorre auspicare che l’esteriorità del papato sia più conforme alla semplicità evangelica, allo spirito di povertà e di carità che dovrebbe risplendere nella chiesa»14. Da questo punto di vista va letta la tenace insistenza del papa nel ribadire in ogni occasione, dal 25 gennaio 1959 in poi,l’importanza del concilio e nel riproporne la fisionomia pastorale. Vi era in filigrana la preoccupazione di essere frainteso con il rischio di dare vita a un concilio che, invece di aiutare la chiesa a entrare nella nuova epoca storica, frapponesse ostacoli e remore ulteriori, aggravando la strozzatura di cui il cristianesimo contemporaneo soffriva. Non è fuori luogo osservare che tutto il rapporto tra il papa e il concilio sarebbe stato determinato dalla convinzione profonda e irremovibile di Giovanni per un balzo innanzi da un lato e, da un altro lato, dalla sordità o, almeno, dalla miopia iniziale di larga parte dell’episcopato — anche aperto e illuminato — convinto di colmare col concilio il ritardo della chiesa sui tempi moderni, ma distratto e quasi disinteressato verso prospettive più ampie. A ciò si aggiungeva l’allergia istituzionale della curia romana verso il concilio, allergia che la curia parve 13 Cfr G. ALBERIGO, Cristianesimo e storia nel Vaticano II in Cristianesimo nella Storia 5 (1984) 577-592. 14 4 luglio 1962 cfr Acta Synodalia Concilii Oecumenici Vaticani II App., Romae 1985, 340-349; 341s.
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disposta a superare solo per preparare un concilio appendice del Vaticano I e occasione di solenne sanzione dell’onnivoro magistero pacelliano. A quarant’anni dall’apertura del concilio Vaticano II emergono con particolare intensità due aspetti della sua celebrazione, che meritano una riflessione approfondita. Mi sembra cioè che la caratterizzazione del Vaticano II come concilio pastorale e la partecipazione ai suoi lavori degli Osservatori delegati delle Chiese a-cattoliche costituiscano due fatti dotati di uno spessore che trascende la considerazione cronachistica del concilio. I fatti sono noti e possono essere evocati sinteticamente. Già dal primo annuncio del 25 gennaio 1959, papa Giovanni XXIII ha collocato il futuro concilio nella prospettiva della promozione dell’unità dei cristiani e di un ‘aggiornamento’ della chiesa romana. Ancora in occasione della propria incoronazione Giovanni XXIII trovò modo di sottolineare come il nuovo papa «tendesse l’orecchio alle voci della terra» cioè della storia, così che poche settimane più tardi, prendendo possesso della basilica lateranense, potè accennare «ai tempi e alle circostanze migliorate», rispetto a quelle nelle quali si era svolta l’analoga cerimonia nel 1939. Più tardi la bolla di indizione del concilio esordiva evocando «la divina presenza del Cristo, viva e operante in ogni tempo», che «si avverte soprattutto nei periodi più gravi dell’umanità»; richiamato questo criterio di fondo, Giovanni XXIII lo applica all’»oggi» affermando che è «in atto una crisi della società» e che «l’umanità è alla svolta di un’era nuova». Al papa «sembra di scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi non pochi che fanno bene sperare sulle sorti della chiesa e dell’umanità», è cioè in atto un parallelismo tra chiesa e umanità in quanto entrambe hanno in corso grandi mutamenti; su questa base Giovanni XXIII ha «ritenuto essere ormai maturi i tempi per offrire […] un nuovo concilio alla chiesa e al mondo». Malgrado resistenze e contrasti, il papa ha tenuto fermo quelle due intuizioni, tanto più che esse hanno rapidamente ricevuto entrambe consensi molto ampi, sia all’interno che fuori del cattolicesimo. Mediante una pedagogia progressiva, tra il 1959 e il 1962 Giovanni XXIII ha ribadito, precisato e concretizzato tali indicazioni, giungendo infine a enunciarle solennemente nell’allocuzione programmatica di apertura del concilio l’11 ottobre 1962. Essa costituisce una riflessione sulla condizione storica del cristianesimo e sul suo significato emergente. Viene riproposto il rifiuto del pessimismo dei «profeti di sventura», in quanto non vogliono imparare dalla
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storia, facendone un luogo di perdizione, e si sottolinea in positivo l’impegno dei cristiani, che «non è soltanto di custodire un tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo solo dell’antichità, ma di dedicarsi con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige»15. Contestualmente Giovanni XXIII caratterizzava il nuovo concilio come «concilio pastorale». Un cenno impegnativo ricorre già nell’allocuzione del 25 gennaio 1959, quando annunciò la sua convocazione. Allora ne indicò i criteri direttivi nella «prospettiva del bonum animarum e di una corrispondenza ben netta e definita del nuovo pontificato con le spirituali esigenze dell’ora presente». La visione del concilio non come «un’assemblea speculativa», in qualche modo estranea alla vicenda storica, ma come «un organismo vivo e vibrante che nella luce e nell’amore di Cristo vede e abbraccia tutto il mondo» fu ribadita nel giugno 1960, sino a trovare piena espressione nella bolla di indizione del concilio stesso. Il papa respinge il rifiuto pregiudiziale delle «anime sfiduciate che non vedono altro che tenebre gravose sulla faccia della terra». Occorre invece seguire «la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i “segni dei tempi”». Infine, aprendo il concilio egli costata che «lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze…» e sottolinea la necessità di «un magistero a carattere prevalentemente pastorale». E precisa che «il punctum saliens di questo concilio non è dunque una discussione di un articolo o dell’altro della dottrina fondamentale della Chiesa […] per questo non occorreva un concilio». Il Vaticano II era dunque sollecitato a impegnarsi in una riformulazione del rivestimento della fede secondo le esigenze di un magistero prevalentemente pastorale. Il papa offriva così ai lavori conciliari una prospettiva suggestiva, anche se irta di difficoltà, ancora una volta con un interessante equilibrio tra tradizione e rinnovamento in una prospettiva di fedeltà creativa. Non è casuale che proprio a questo proposito l’allocuzione usi l’espressione «magistero a carattere prevalentemente pastorale», con la quale il papa indica il criterio dell’impegno dottrinale del concilio. 15 Le citazioni sono tratte dall’edizione critica, con le redazioni preparatorie in sinossi, curata da A. MELLONI in Fede, Tradizione, Profezia. Studi su Giovanni XXIII e sul Vaticano II, Brescia 1984, 239-283.
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L’accostamento del sostantivo personalizzato «magistero», che invece era venuto assumendo un significato esclusivamente dottrinale, astratto e impersonale, all’aggettivo «pastorale» costituiva una novità sconcertante per quanti ritenevano intangibili e definitive le categorie teologiche moderne. A ben vedere, nell’economia dell’allocuzione inaugurale Gaudet mater Ecclesia — «pastorale» veniva usato nel significato forte, derivato dalla formula «pater et pastor», da lui sostituita — sull’esempio di Carlo Borromeo — a quella di «pastor et dominus». Di conseguenza l’aggettivo aveva il preciso scopo di dare della funzione di magistero un’accezione diversa da quella corrente, correggendone l’esasperazione dottrinale e precettistica. Questa avvertenza va tenuta presente a proposito della qualifica delle «finalità essenzialmente pastorali del concilio»16, frequentemente — allora e ora — ritenuta priva di specificità teologica. È invece necessario rendersi conto che per papa Rocalli quello era un modo sia per prendere le distanze da finalità dottrinali (definizioni) o di condanna o ideologiche, alle quali molti fecero spontaneamente riferimento, che per sottolineare l’urgenza di un impegno per il rinnovamento dello spirito e delle modalità della testimonianza della chiesa e della sua presenza evangelica nella storia. Lo scopo fondamentale che papa Giovanni assegna al concilio è indubbiamente quello di accrescere l’impegno dei cristiani, di «dilatare gli spazi della carità […] con chiarezza di pensiero e con grandezza di cuore». Spesso formulazioni come queste sono state scambiate per espressioni di circostanza, trascurando il criterio ermeneutico fornito dallo stile abituale di Roncalli, il quale evitava la polemica e le frasi taglienti, ma non perciò rinunciava a comunicare i propri punti di vista e a dare valutazioni responsabili e puntuali. La preferenza di Roncalli per ciò che unisce piuttosto che per quanto divide si univa sostanzialmente con il rinnovamento pastorale, come precisò il papa stesso, affermando che «una volta che avremo stabilito, convenuto, indicato le soluzioni migliori, anche in rapporto alle nuove esigenze dei tempi, potremo indicare ai fratelli separati la via sicura per
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Esortazione ai vescovi del 20 maggio 1963, DMC V, 516.
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quella unità alla quale essi stessi anelano». Pertanto l’analisi distinta delle finalità del concilio se è un’esigenza della ricerca, non può indurre a considerarle come isolate e indipendenti le une dalle altre nelle intenzioni del papa. Nel medesimo tempo è, infine, opportuno tenere presente che anche Giovanni XXIII non partorisce il concilio tutto fatto come Giove per Minerva. Gli scopi sono progressivamente approfonditi e messi a fuoco nei loro spessori e nelle loro implicazioni nel corso della riflessione personale del papa e anche a contatto con lo svolgersi della preparazione, con gli echi suscitati nella chiesa e tra i cristiani dall’annuncio della convocazione e, infine, con l’evolversi della situazione mondiale. Il riferimento essenziale resta la «dilatazione delle dimensioni della carità» sempre più sino ai confini dell’umanità, come avrebbe ribadito nel gennaio successivo, sottolineando che «i rappresentanti della chiesa non vogliono rifugiarsi su un’isola, oppure chiudersi in un castello […] Non procederebbe sulla buona strada chi si limitasse a contemplare il cielo luminoso e a custodire, come un tesoro nascosto, la verità trasmessa dagli avi…». Queste erano le «finalità essenzialmente pastorali», ribadite ancora in extremis nella lettera ai vescovi del 20 maggio 1963, due settimane prima della morte del papa.
2. Concilio pastorale Certamente questa caratterizzazione è stata colta molto presto come un sintomo inequivoco di un concilio nuovo. Un concilio che non si opponeva a eresie né a una decadenza disciplinare. Da parte sua il concilio ha ripreso e fatta propria tale caratterizzazione. I primi sintomi si hanno in alcuni momenti del dibattito svoltosi nella Commissione centrale preparatoria e, soprattutto, in parecchie delle risposte inviate nell’estate 1962, ancora prima dell’apertura dei lavori, da vescovi insoddisfatti degli schemi preparatori. In entrambe le occasioni ci si rifà alla natura «eminentemente pastorale» del concilio come a un criterio dettato dal papa per sollecitare la ripresa di un atteggiamento caratteristico della chiesa dei primi secoli. Nella primavera del 1962 la «Nota preliminare» presentata al papa dal card. Suenens era significativamente percorsa dall’istanza della
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«pastoralità» e si concludeva con l’«auspicio che il concilio sia, per eccellenza, un concilio pastorale, cioè apostolico». Pochissimi giorni dopo l’apertura del concilio, il 15 ottobre, il card. Bea chiese al segretario di Stato che fossero precisate «chiaramente le finalità del concilio e il programma da seguire» anche in relazione all’allocuzione dell’11 ottobre e unì un dettagliato dattiloscritto intitolato «De Programmate Concilii relate ad doctrinam pressius discutiendo et definiendo»17. Il cardinale tedesco, disegnando appunto un Programma del concilio, sosteneva che esso non è solo un affare interno della chiesa e pertanto il Vaticano II dovrà affrontare i problemi che impegnano oggi tutta la chiesa e tutta l’umanità. Era pertanto necessario riprendere i punti centrali di Gaudet mater ecclesia: la fede non è solo da custodire, il messaggio va esposto secondo le esigenze dei nostri tempi, distinguendo il depositum fidei dai modi della sua formulazione; occorre rispettare l’indole pastorale del magistero; usare invece delle condanne la medicina della misericordia; servire l’unità del genere umano. Il concilio avrebbe dovuto darsi come norma di lavoro l’allocuzione del papa. Qualche giorno dopo il card. Siri reagì, allarmato, al testo di Bea indirizzando a Giovanni XXIII un commento; secondo il cardinale di Genova il «Programma» supponeva una volontà di cambiare, dato che — secondo lui — il programma del papa erano gli schemi inviati ai Padri. Si può accettare solo che i testi degli schemi siano abbreviati. Siri diffida della «pastoralità»; il papa ha detto che le questioni dottrinali siano trattate pastoralmente, non che non debbano essere trattate; distinguere la forma delle proposizioni dottrinali è giusto ma arduo, soprattutto in concilio. Al contrario al teologo p. Chenu, principale ispiratore del Messaggio del concilio agli uomini, era chiaro che nei testi preparatori «prevale una linea rigida di enunciati astratti e teorici, mentre il concilio ha suscitato la speranza d’una considerazione pastorale»18. In questo modo — osservava Chenu — «il concilio diviene un’operazione di polizia intellettuale, nelle 17
Edito in appendice a G. ALBERIGO, Concilio acefalo? L’evoluzione degli organi direttivi del Vaticano II, in Il Vaticano II tra attese e celebrazione, ed. G. Alberigo, Bologna 1995, 219-224. 18 Lettera a Rahner del 4 settembre 1962, pubblicata da A. DUVAL, Le Message au monde, in Vatican II commence …Approches Francophones, ed. É. Fouilloux, Leuven 1993, 110.
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mura chiuse della Scuola». A sua volta il teologo tedesco Rahner cercava di collegarsi allo spirito delle affermazioni del papa. Secondo lui per un concilio, che il papa voleva «pastorale» e che il messaggio iniziale al mondo dei padri conciliari aveva proclamato essere accessibile alla mentalità degli uomini del nostro tempo, non poteva basarsi sugli schemi preparatori di cui denunciava la carenza di indole pastorale, come appariva già dal linguaggio scolastico. Questo non significava optare per un linguaggio «pio». Tra il linguaggio pio e quello scolastico si apriva infatti un vasto campo nel quale aveva posto un linguaggio che conciliasse la necessità della precisione dottrinale con la preoccupazione pastorale, attenta alla mentalità dell’uomo contemporaneo. Né era sufficiente per raggiungere una dimensione pastorale citare passi della Bibbia. La Scrittura infatti così viene ridotta a supporto di una dottrina già elaborata, «non come la sorgente dalla quale sgorga in primo luogo la verità da enunciare». Il gesuita Tromp fu particolarmente perentorio affermando che si parla di un uomo moderno che non esiste. Si vuole essere «pastorali». Ma il primo dovere pastorale è la «dottrina»19. Marcel Lefèbvre non negava che la caratteristica di questo concilio fosse proprio quella pastorale20. Questa sarà del resto un’idea di cui progressivamente si impadronirà anche la minoranza, ma per negare dignità dottrinale al Vaticano II, interpretando quindi la pastoralità in un senso molto diverso da quello inteso da Giovanni XXIII. Accolte con entusiasmo le indicazioni «pastorali» di Giovanni XXIII, l’assemblea ha incontrato gravi difficoltà per tradurle in prospettive concrete, scoprendosi impreparato a un impegno tanto inatteso. Ma il superamento, ancorché imperfetto e contrastato durante i lavori conciliari, della concezione del cristianesimo come somma — spesso giustapposta — di «dottrina» e di «disciplina» è avvenuto e costituisce un significativo sviluppo nel modo di affrontare il ringiovanimento della chiesa. Il superamento della secolare stagione «costantiniana», durante la quale la chiesa ricorreva frequentemente all’appoggio delle istituzioni sociali e politiche, è avvenuto. Esso è tuttora in atto nella misura in cui «pastoralità» 19 Testimonianza di Garrone a Congar (14 novembre 1962), in Mon Journal du Concile, ed. É. Mahieu, Paris 2002, I, 207. 20 AS I/4, 144.
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e «aggiornamento» si affermano come linee guida sulla base di una visione globalmente unitaria del cristianesimo stesso, comandata dalla comunione tra l’unico Pastore, il Cristo, e i fedeli. Il 4 novembre 1962 il domenicano francese Congar annotava che «il clima generale è decisivo: clima pastorale, clima di libertà, clima di dialogo, clima di apertura. Prima c’era il clima del S. Officio e dei collegi romani»21. La grande maggioranza dei vescovi intervenuti al concilio fece propria sin dalle prime battute dei lavori questa impostazione «pastorale»22. Le critiche e il rifiuto delle formulazioni preparatorie erano imperniate sul loro andamento astratto e dottrinario, contrapposto all’impostazione «pastorale» suggerita dal papa e chiesta insistentemente dai vescovi. Un esempio illuminante di questo atteggiamento è quanto è accaduto durante il dibattito dell’autunno 1962 sullo schema relativo alle Due fonti della Rivelazione. In tale occasione proprio in base a un riferimento incisivo alla pastoralità il testo preparatorio è stato respinto soprattutto perché aveva un’impostazione e un andamento astratto e dogmatizzante23. Quasi inavvertitamente, l’istanza per un «concilio pastorale» acquistava in seno all’assemblea un significato discriminante tra gli orientamenti innovatori e quelli tradizionalisti. Un modesto vescovo siciliano riconosceva che «oggi meglio di ieri conosciamo lo scopo di questo concilio. Non dobbiamo definire verità, ma rendere chiara l’ecumenicità e la pastoralità della fede cattolica, di modo che le nostre conclusioni possano confermare i cattolici nella fede, richiamare all’unità i fratelli separati e indurre alla fede gli infedeli»24. 21
Mon Journal, cit., 4.11.1962, I, 182. Basta evocare le osservazioni scritte a proposito del primo gruppo di “schemi” preparatori, inviate a Roma nell’estate del 1962, e, nell’ottobre-novembre successivo, il dibattito conciliare su “Scrittura e Tradizione” (Le due Fonti), cfr per la discussione sullo schema De fontibus revelationis AS I/2 Romae 1970; per i pareri dell’estate 1962 AS Appendix I, Romae 1985, 29-350. 23 Cfr G. RUGGIERI, La lotta per la pastoralità della dottrina: la recezione della «Gaudet mater ecclesia» nel primo periodo del Concilio Vaticano II, in Zeugnis und Dialog. Die katholische Kirche in der neuzeitlichen Welt und das II. Vatikanische Konzil, hrsg. W.Weiss, Würzburg 1996, 118-137. 24 Mons. C. Canzonieri, vescovo di Caltagirone: «Hodie melius quam heri huius Concilii Vaticani II finem cognoscimus. Nobis non sunt veritates definiendae, sed catholicae 22
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«Il carattere pastorale è diventato il primo criterio della verità da formulare e da proporre e non solo il motivo delle decisioni pratiche da adottare. Dunque, «pastorale» qualifica una teologia — un modo di pensare la teologia e di insegnare la fede, meglio: una visione dell’economia di salvezza»25. Così testimoniava nel 1964 con la consueta lucidità un grande teologo come Marie Dominique Chenu. Era cioè in gioco un atteggiamento nuovo della chiesa romana e la possibilità di realizzare col Vaticano II un tipo inedito di concilio, caratterizzati l’una e l’altro da una visione globale e unitaria dell’annuncio e della testimonianza della fede. Si trattava di superare la formula «fides et mores», che aveva dominato nei secoli tardomedievali e moderni, lasciandosi alle spalle il settorialismo, l’astrattezza e il giuridismo che essa aveva sancito. Mi sembra dunque fecondo formulare alcune domande a proposito di questi aspetti emergenti del Vaticano II. Anzitutto si è trattato di novità effettive? e, in secondo luogo, esse hanno una portata permanente, capace di trascendere l’evento conciliare e di alimentare un approfondimento della comprensione della condizione cristiana e perciò anche una ulteriore evoluzione del faticoso processo di unione delle chiese? La fisionomia dei concili appare flessibile nel lungo periodo in relazione alla funzione storica che ciascuna assemblea adempie. I primi quattro concili ecumenici, che spesso i Padri hanno equiparato ai quattro Evangeli, hanno essenzialmente consolidato e irrobustito la fede della chiesa nascente in un rapporto dialettico con la cultura classica. I concili generali del medioevo si sono invece impegnati nella regolamentazione della «societas christiana» dell’Occidente; Trento e il Vaticano I, infine, hanno scelto di difendere il cattolicesimo romano dalle tesi dei Riformatori e dalle minacce della cultura secolarizzata, generando prevalentemente una teologia «anti». L’evoluzione storica sembra caratterizzata da una progressiva riduzione dell’»ecumenicità» dei concili — da universali a occidentali, da occidentali a romani — e anche del loro orizzonte, per cui fidei oecumenicitas et pastoralitas explanandae sunt, ita ut nostrae propositiones possint catholicos in fidem confirmare, fratres seiunctos ad unitatem revocare et infideles ad fidem allicere», AS, I/4, 431. 25 M.-D. CHENU, Un concile pastorale, in La Parole de Dieu. II L’Evangile dans le temps, Paris 1964, 655-672.
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l’egemonia del servizio alla fede vissuta della comunità sembra via via sostituito dalla difesa dell’istituzione ecclesiale. Di volta in volta varia dunque non solo l’oggetto dei concili, ma il loro stesso approccio al mistero della rivelazione e alla concreta condizione ecclesiale.
3. Le novità del Vaticano II Sia quanto alla fisionomia che quanto alla composizione il Vaticano II presenta caratteristiche proprie e interessanti novità. Infatti il superamento, sia pure imperfetto e contrastato, della concezione del cristianesimo come somma di «dottrina» e di «disciplina» costituisce una novità che merita attenzione. Tale superamento è perseguito con l’istanza di un «concilio pastorale», sulla base di una visione globalmente unitaria del cristianesimo stesso, comandata dalla comunione tra l’unico Pastore, il Cristo, e i fedeli. A lungo il cristianesimo, soprattutto nell’Occidente latino-germanico, ha vissuto e ha presentato il messaggio evangelico secondo modalità concettuali che hanno implicato una frammentazione e una destoricizzazione del messaggio stesso. Infatti lo slittamento dal Cristo come «via, verità, e vita» (Gv 14,6) alla accezione dottrinale e impersonale della «verità» come insieme di astratte proposizioni ha aperto la strada alla «theologia» come elaborazione scolastica e come fattore separato e egemone della vita ecclesiale. Ne è derivata anche una concezione della chiesa come istituzione dottrinale-disciplinare, concezione che tra l’altro ha favorito il consolidamento di un ceto privilegiato di «addetti ai lavori» (il clero), inducendo la comunità dei fedeli a un atteggiamento passivo e, al limite, inerte. In questo contesto prima le divisioni tra le Chiese sono state assunte come un «dato», deplorevole ma immutabile, nella misura in cui ciascuna Chiesa si arrogava la custodia e la difesa della «verità»; in tempi a noi più prossimi il movimento ecumenico, pur problematizzando le divisioni come infedeltà all’unico Evangelo, ha trovato raramente il coraggio e la lucidità per abbandonare l’interpretazione dottrinale delle divisioni. Il Vaticano II si è collocato nel solco di questa ricerca dando un apporto significativo alla ricomposizione di una visione unitaria del messaggio cristiano. Superando le articolazioni settoriali (dogma, morale,
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disciplina ecc.), frutto della stagione «universitaria» della riflessione cristiana, si avvia anche il superamento della riduzione del messaggio evangelico a codice morale, che di quella disarticolazione è l’effetto più vistoso e più allarmante. Ciò non significa cedere a tentazioni integraliste o fondamentaliste, ma invece riguadagnare l’»inconsutile» unità e complessità dell’annuncio evangelico. In questa prospettiva, il Vaticano II ha fatto propria l’indicazione di Giovanni XXIII a non formulare nuove definizioni. Non si è trattato solo di discrezione dettata da riguardo verso le altre Chiese cristiane; infatti il concilio oltre a evitare nuove dogmatizzazioni ha scelto per le proprie conclusioni una forma indicativa e esortativa, prescindendo da condanne e dalla precettività che aveva caratterizzato, ad esempio, le decisioni del Tridentino. Le decisioni del Vaticano II, malgrado la loro prolissità e una certa discontinuità — entrambe effetto della composizione di orientamenti diversi presenti in un’assemblea tanto numerosa —, hanno evitato non solo ogni «definizione», ma anche la formulazione di sanzioni26. La qualifica di «pastorale» è stata utilizzata sia nel contesto del titolo del decreto sull’«ufficio pastorale dei vescovi», con il quale il concilio ha regolato tutto ciò che riguarda l’episcopato, che per la qualificazione della costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno, che riguarda le relazioni tre le società moderne e la chiesa in tutti i loro aspetti. Tuttavia altri documenti hanno ricevuto qualificazioni diverse: costituzione dogmatica sulla chiesa; costituzione dogmatica sulla divina rivelazione. Maldestri tentativi hanno proposto di leggere la «pastoralità» del Vaticano II come un motivo di debolezza e, dunque, di ridurre l’autorevolezza delle sue decisioni. Ma l’intuizione di Giovanni XXIII, fatta propria dalla grande maggioranza del concilio e confortata dal consenso di Paolo VI, costituisce — a quasi quarant’anni dalla sua conclusione — uno degli apporti più significativi del Vaticano II; un’indicazione meritevole di approfondimenti e suscettibile di fecondi sviluppi27. 26
Cfr le precisazioni fatte durante il Vaticano II il 6 marzo e ancora il 16 novembre 1964 sulla qualificazione teologica delle decisioni conciliari. 27 L’intuizione di Giovanni XXIII, se valorizzava alcune timide istanze espresse da ambienti cristiani nella prima metà del XX secolo, non trovava però adeguato riscontro in un rigoroso approfondimento del messaggio biblico e della tradizione, cfr J. O’MALLEY, Tradition and Transition. Historical Perspectives on Vatican II, Wilmington 1989.
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La scelta di Giovanni Paolo II di caratterizzare il proprio pontificato con la mobilità straordinaria dei viaggi pastorali appare strettamente connessa con la centralità della «pastoralità». È un’opzione che, al di là di modalità di realizzazione non sempre convincenti, pone le premesse per una modificazione in profondità della fisionomia del pontificato romano. Non è più la «romanità» la caratteristica dominante del servizio papale, ma — al contrario — sono le esigenze pastorali delle chiese a comandare il servizio di presidenza. Paradossalmente, la conferma di questa svolta è costituita dall’evidente disimpegno di papa Wojtyla — nella scia di quanto aveva iniziato proprio Giovanni XXIII — nei confronti della dimensione curiale e burocratica del papato. Si sono così aperte le prospettive di una transizione a un pontificato «pastorale». Transizione affascinante, ma anche carica di «costi», come indica la crescente e, apparentemente, inarrestabile egemonia esercitata dalla Congregazione per la dottrina della fede nel tentativo di impedire la transizione stessa. La «pastoralità» ha meso in discussione anche l’ecumenismo «dottrinale», sollecitando un’impostazione globale della ricerca dell’unità. È la concezione stessa dell’unità che trova nella visione pastorale del cristianesimo un impulso a disegnarsi in termini articolati e flessibili. Il superamento dell’egemonia della «teologia» appare oggi equivalente al superamento dell’egemonia del «giuridismo», e come quella gravida di complesse e ricche conseguenze. In questo contesto i criteri indicati dal decreto sull’ecumenismo per formulare e esporre la fede e lo stesso riconoscimento di una «gerarchia delle verità» (UR 11) possono essere letti, non solo come l’ammissione di una diversa prossimità al Cristo di singoli aspetti della rivelazione, ma soprattutto come orientamento a cercare modi di espressione della fede meno condizionati dalla stagione della cultura occidentale e aperti ai nuovi modi di sentire e di riflettere dell’umanità contemporanea. Uno dei più avveduti tra gli osservatori a-cattolici al concilio, il luterano Skydsgaard, ha sollecitato a cercare il «concilio segreto» al di là degli aspetti istituzionali o comunque più esterni. Con ciò egli auspicava che si mettesse in luce il concilio come evento di ricerca del Vangelo28. È un’in28
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dicazione preziosa che spinge a evitare di ritenere la partecipazione degli osservatori un fatto episodico, una felice pausa di sollievo nell’aspro itinerario della ricerca del consenso dottrinale. È proprio la natura pastorale del Vaticano II che offre a quella partecipazione un contesto nuovo e consente di scoprire in essa un’esperienza di condivisione totale del concilio-evento. Condivisione totale che è stata possibile forse proprio perché non ci si era proposti scopi di consenso teologico. Nella misura in cui ha fondamento ritenere che tra gli Osservatori acattolici e i membri del Vaticano II si sia realizzata una abituale comunione che ha implicato persino una «communicatio in sacris» sia a livello del contributo per la formazione della volontà del concilio che a livello della preghiera, diventa arduo negare che essi non siano stati in qualche modo membri veri e propri del concilio stesso29. Nella logica di questa riflessione è possibile chiedersi se in questo modo non è emersa — sia pure solo in filigrana — in occasione del Vaticano II una concezione pastorale/sacramentale del cristianesimo e della chiesa che tende a sostituire una precedente concezione dottrinale/disciplinare, che non ha lasciato indenne nessuna tradizione cristiana. È a questo proposito che il riconoscimento di un primato alla dimensione «pastorale» si salda e si feconda reciprocamente con il plenario coinvolgimento degli Osservatori nel Vaticano II. In un concilio ispirato da una concezione rigorosamente «dottrinale» e perciò orientato a essere istanza di «giudizio» della verità la partecipazione di cristiani non romani non avrebbe potuto essere che affettiva e, alla fine, decorativa. Ma è altrettanto vero che il coinvolgimento operante e effettivo di membri cristiani non cattolici ha compiuto e realizzato, come altrimenti non sarebbe stato possibile, l’identità del Vaticano II come evento autorevole nell’itinerario di ricerca evangelica di tutte le chiese. Secondo questa ottica lo spirito e il messaggio del Vaticano II sono contenuti primariamente nella pregnanza dello stesso evento conciliare più che in qualsiasi dei suoi singoli atti o decisioni.
29 Y. Congar in una breve nota (Le rôle des Observateurs, in Le Concile Vatican II, Paris 1984, 91-98) ha formulato interessanti osservazioni che orientate in questa stessa direzione.
Synaxis XX/3 (2002) 511-532
LO SPIRITO E LA SPIRITUALITÀ DEL VATICANO II*
GIUSEPPE ALBERIGO**
1. L’idea del concilio L’attenzione di Roncalli si era rivolta, all’interno della tradizione conciliare, soprattutto ai concili di Nicea e di Efeso — in occasione dei rispettivi centenari — per l’epoca antica, mentre quello di Trento egemonizzava tutte le sue attenzioni per l’epoca moderna. Ciò che egli sottolinea soprattutto di questo concilio è la sua forza rinnovatrice e riformatrice per la vita della chiesa, forza che egli vede esemplarmente incarnata in Carlo Borromeo, il pastore che si impegna per l’applicazione del concilio nella propria chiesa, divenendo il “modello” del vescovo cattolico moderno. Come storico Roncalli lavorerà vent’anni, fino alle soglie del pontificato, per editare una delle testimonianze più importanti del Borromeo, la sua visita apostolica a Bergamo. Si tratta dunque di un “onda lunga” che collega Roncalli all’iniziativa di Giovanni XXIII per il concilio, un’onda che certamente si ingrossa via via, facendo tesoro di tutti gli apporti delle molteplici esperienze del prelato Roncalli. È ovvio il complesso delle sue convinzioni e, insieme il suo istinto di fede non esigevano il concilio, ma lo avevano posto quasi spontaneamente e con convinzione crescente alla ribalta del suo orizzonte. Non vi è affatto nel lungo itinerario della sua esperienza una sorta di determinismo che lo porti al concilio, ma la luce e le prospettive nuove accese dall’essere stato eletto papa, quella che si potrebbe definire la grazia di stato, avrebbero aperto e quasi imposto possibilità operative prima * Lezione tenuta allo Studio Teologico S. Paolo per il seminario interdisciplinare del Collegio dei Docenti su Esiste una spiritualità del Vaticano II?: 18 ottobre 2002. ** Docente emerito di Storia della Chiesa nell’Università di Bologna.
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remote. Possibilità che Roncalli si sentì la responsabilità, in fedeltà al primato di carità che costituisce il nucleo del sommo pontificato, di realizzare. Sbocciava così un concilio come strumento per chiamare la chiesa a farsi idonea a rispondere alla sfida storica di una nuova epoca dell’umanità1. Si può dire che il patriarca Rocalli si sia presentato al conclave del 1958 con il concilio in tasca, come un progetto già chiaro? Nel silenzio delle fonti si può solo presumere che egli avesse una matura e profonda convinzione delle esigenze, delle prospettive e dei ritmi di una grande svolta epocale, alla quale la chiesa era chiamata a rispondere, approfondendo e rinnovando la propria testimonianza evangelica con stile pastorale. Il 20 gennaio 1959 Giovanni XXIII annota nella propria Agenda «come a caso mi accadde di pronunciare il nome concilio, come a dir cosa il nuovo papa potrebbe proporre, come invito ad un movimento vasto di spiritualità per la S. Chiesa e per il mondo intero.»
Cinque giorni più tardi, in S. Paolo fuori le mura si rivolge ai cardinali così «Pronunzio innanzi a voi certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione: di un Sinodo diocesano per l’Urbe e di un concilio generale per la Chiesa universale»2
Il papa annunciava dunque la decisione di convocare un nuovo 1 G.ALBERIGO, L’ispirazione di un concilio ecumenico: le esperienze del Cardinale Roncalli, in Le deuxième concile du Vatican (1959-1965), Roma 1989, 81-99. 2 Per il testo critico dell’allocuzione: A. MELLONI, «Questa festiva ricorrenza». Prodromi e preparazione del discorso di annuncio del Vaticano II (25 gennaio 1959), RSLR 28 (1992) 607-643. Nelle redazioni preparatorie il papa aveva sempre scritto “concilio generale”, mentre nella redazione ufficiale compare “concilio ecumenico”, con una maggiorazione qualitativa, che non poteva non imbarazzare le Chiese non romane. Non si hanno informazioni sulla modifica intervenuta rispetto all’autografo del papa; certo è che il passaggio alla terminologia del Codice di diritto canonico innescava molte delle perplessità e degli equivoci che avrebbero caratterizzato i primi mesi successivi all’annuncio.
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concilio. Anzi papa Giovanni aggiunge che sinodo e concilio «condurranno felicemente all’auspicato e atteso aggiornamento del Codice di diritto canonico». Sono i «punti più luminosi di attività apostolica, che questi tre primi mesi di presenza e di contatto con l’ambiente ecclesiastico romano hanno suggerito» nella «sola prospettiva del bonum animarum, e di una corrispondenza ben netta e definita del nuovo pontificato con le spirituali esigenze dell’ora presente». La decisione era «una risoluzione decisa per il richiamo di alcune forme antiche di affermazione dottrinale e di saggi ordinamenti di ecclesiastica disciplina, che nella storia della Chiesa in epoca di rinnovamento, diedero frutti di straordinaria efficacia per la compattezza della unità religiosa, per la fiamma più viva del fervore cristiano». Verso la fine dell’aprile successivo papa Giovanni formula lo scopo fondamentale del concilio: accrescere l’impegno dei cristiani, «dilatare gli spazi della carità […] con chiarezza di pensiero e con grandezza di cuore»3. Per papa Roncalli qualificare il concilio come “pastorale” era un modo sia per prendere le distanze da finalità dottrinali (definizioni) o di condanna, alle quali molti fecero subito spontaneamente riferimento. Papa Roncalli intende all’opposto sottolineare l’urgenza di un impegno per il rinnovamento dello spirito e delle modalità della testimonianza della chiesa e della sua presenza evangelica nella storia. Questo è il concilio oggetto dello «sprazzo di superna luce» di cui papa Giovanni parlò a più riprese e che, con l’approssimarsi della Pentecoste, prese a indicare come «pentecoste nuova»4. L’immagine di una nuova Pentecoste viene poi abitualmente associata al concilio, sino a trovare sanzione nella preghiera papale per il concilio, nella quale si chiede allo Spirito di rinnovare «nella nostra epoca i prodigi come di una novella Pentecoste»5. Roncalli era ben consapevole della portata teologica e storica della Pentecoste e il fatto di invocarne una ripetizione era un modo preciso 3 Esortazione all’episcopato e al clero veneto del 21(23) aprile 1959, Discorsi Messaggi Colloqui del S. Padre Giovanni XXIII, 6 voll, Città del Vaticano 1960-1967 (=DMC), I, 903. 4 Così al clero delle Tre Venezie il 21 aprile e poi nell’omelia di Pentecoste, Acta et documenta concilio oecumenico Vaticano II apparando, series I (antepraeparatoria), Typis Pol. Vaticanis 1960-1961, I/1, 19, 24. 5 DMC IV, 875.
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e inequivocabile per sottolineare con un linguaggio tipicamente cristiano, l’eccezionalità della congiuntura storica attuale, le prospettive straordinarie che essa apriva. Era dunque necessario che la chiesa vi facesse fronte con un rinnovamento di grande profondità, in modo da potersi presentare al mondo e da indicare agli uomini il messaggio evangelico con la stessa forza ed immediatezza realizzata nella Pentecoste originaria. Il richiamo alla Pentecoste, inoltre, poneva in primo piano l’azione dello Spirito e non quella del papa o della chiesa, come già era stato per gli apostoli e i discepoli, che si erano trovati ad essere oggetto dell’azione prepotente e travolgente dello Spirito.
1.1. L’impatto dell’annuncio del concilio e le proposte dei vescovi6 Coerentemente con questa impostazione il Vaticano II è stato preparato sulla base di una consultazione su scala mondiale. L’episcopato cattolico è raggiunto nel 1959 dall’invito di Giovanni XXIII a inviare in «assoluta libertà e sincerità, pareri, consigli e voti che la sollecitudine pastorale e lo zelo delle anime possano suggerire a Vostra Eccellenza in ordine alle materie e agli argomenti che potranno essere discussi nel prossimo concilio». La lettera del Segretario di Stato teneva a precisare che il papa «annette la più grande importanza ai pareri, ai consigli ed ai voti dei futuri Padri conciliari: ciò sarà utilissimo nella preparazione degli argomenti per il concilio». I vescovi erano chiamati a assumere un ruolo attivo a livello della Chiesa universale. Ma in quei mesi prevale ancora la vischiosità dello stile pacelliano di governo, mentre il passaggio a un atteggiamento di ricerca fatica a affermarsi. Nei successivi dodici mesi sono state inviate oltre duemila risposte7, necessariamente disparate, ma significative per cogliere la connessione lo 6 Per un’analisi generale dei Vota: E. FOUILLOUX, La fase antepreparatoria (19591960), in Storia del Concilio Vaticano II. I Il Cattolicesimo verso una nuova epoca, dir. G. Alberigo, Bologna 1995, 71-176 e anche A. MELLONI, Per un approccio storico-critico ai consilia et vota della fase antepraeparatoria del Vaticano II, in Rivista di Storia e Letteratura religiosa, 36 (1990) 556-576. 7 Edite in otto volumi in 4° degli Acta et documenta Concilio Vaticano II apparando - series antepraeparatoria (=AD).
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spirito con il quale i vescovi vivevano il sorprendente annuncio e le attese che essi esprimevano. L’eventualità di un concilio era tanto inattesa da generare piuttosto sgomento o imbarazzo, che non un attivo coinvolgimento. Sono alcuno Riviste francesi e tedesche, ma anche una italiana — Questitalia —, che alimentano l’attenzione dell’opinione pubblica. Piuttosto che su argomenti particolari, questi interventi insistono sull’importanza del concilio per il rinnovamento ecclesiale, sulla necessità che le riforme siano esplicitamente tematizzate e che si affronti la purificazione del cristianesimo in modo da agevolare un confronto della fede con l’umanesimo contemporaneo. Ovviamente, anche la riscoperta dei laici è auspicata, accanto a una definitiva rinuncia a ogni forma di temporalismo. Sono voci che colgono soprattutto il significato epocale che il concilio potrebbe avere. Che l’attesa del concilio avesse prodotto sensibili cambiamenti nello spirito generale lo rivela la misera sorte del volume Concilio. Per una riforma nella carità8 del p. R. Lombardi: il potentissimo gesuita, che aveva goduto di una quasi illimitata fiducia nello scorcio del pontificato pacelliano, sosteneva la necessità di una decisa azione di rinnovamento delle strutture della chiesa e specialmente della curia romana nel senso di una semplificazione verticistica. Il libro, che irritò vari ambienti, ma anche il papa stesso, venne stroncato sulla prima pagina de L’Osservatore romano9. Il papa vuole che il Vaticano II sia il concilio dei vescovi, ma ciò cosa significa? La distanza tra un piccolo numero di vota che propongono di fondare teologicamente tale rivalutazione e la folla di quelli che si accontentano di rivendicazioni disciplinari marginali, sperando di fare del vescovo un papa nella sua diocesi, è immensa.
1.2. Il papa Papa Giovanni seguiva, in vista del concilio, una pedagogia graduale e carismatica, preoccupandosi di proporre a tutti indicazioni forti e adeguate 8
Roma 1961, 384. Cfr G. ZIZOLA, Roncalli e padre R. Lombardi, in Cristianesimo nella storia, 8 (1987) 73*-93*. 9
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alla congiuntura epocale, con fiducia nell’istinto di fede del corpo ecclesiale e nella capacità creativa dell’assemblea episcopale. Gli scopi del concilio sono progressivamente approfonditi e messi a fuoco nei loro spessori e nelle loro implicazioni nel corso della riflessione personale del papa. Si rafforza e si approfondisce la convinzione che «più che di un punto o dell’altro di dottrina o di disciplina […] trattasi di rimettere in valore e in splendore la sostanza del pensare e del vivere umano e cristiano, di cui la chiesa è depositaria e maestra nei secoli». Il riferimento essenziale resta la «dilatazione delle dimensioni della carità» sino ai confini dell’umanità, sottolineando che «i rappresentanti della chiesa non vogliono rifugiarsi su un’isola, oppure chiudersi in un castello […] Non procederebbe sulla buona strada chi si limitasse a contemplare il cielo luminoso e a custodire, come un tesoro nascosto, la verità trasmessa dagli avi…». In occasione della Pasqua 1962 — sei mesi prima dell’apertura dei lavori conciliari — il papa scrive a tutti i vescovi per sollecitare la loro partecipazione attiva al concilio10. La lettera rompeva l’assoluto segreto che circondava i lavori preparatori con l’affermazione inequivoca che, secondo il papa, il concilio aveva una responsabilità propria e inalienabile, che i vescovi avrebbero dovuto esercitare in modo pieno e con modalità collegiali, non limitandosi all’approvazione passiva dei testi predisposti dalle commissioni preparatorie, come molti avrebbero desiderato. Infine, l’allocuzione di apertura dei lavori conciliari — Gaudet Mater Ecclesia — delineava lo spirito del Vaticano II. Alla luce della congiuntura epocale «il punctum saliens di questo concilio non è dunque una discussione di un articolo o dell’altro della dottrina fondamentale della Chiesa, in ripetizione diffusa dell’insegnamento dei Padri e dei Teologi antichi e moderni, quali si suppone sempre ben presente e familiare allo spirito. Per questo non occorreva un concilio. Ma dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento […] lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso la penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze».
10
GIOVANNI XXIII, Lettere 1958-1963, Roma 1978, n181, 377-383.
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Questo non era il “Programma” per il concilio, ma piuttosto ne metteva a fuoco autorevolmente proprio lo spirito e gli orientamenti generali: dalla fiducia nella storia alla scelta della misericordia, dall’attenzione privilegiata all’umanità povera alla necessità di nuove formulazioni della fede di sempre in un clima di serenità e con uno stile di comunione. Diverso e di ispirazione opposta era il risultato dei lavori preparatori egemonizzati dalla teoplogia “romana”.
2. Nel concilio È esistita una consapevolezza dei Padri di uno spirito del concilio? Il 20 ottobre 1962, pochi giorni dopo l’inizio dei lavori, il concilio approvava un messaggio a tutti gli uomini11. Vi si esprimeva la volontà dell’assemblea di essere attenta al mondo «Rivolgiamo continuamente il nostro animo verso tutte le angosce che affliggono oggi gli uomini; perciò innanzi tutto le nostre premure si volgono verso i più umili, i più poveri, i più deboli; sull’esempio di Cristo sentiamo pietà per la folla che soffre la fame, la miseria e l’ignoranza; costantemente rivolti verso coloro che, sprovvisti degli aiuti necessari, non sono ancora pervenuti ad un modo di vita degno. Per questi motivi nello svolgimento dei nostri lavori terremo in gran conto tutto quello che compete alla dignità dell’uomo e quello che contribuisce alla vera fraternità dei popoli»
Era un messaggio di solidarietà con l’umanità, in particolare su due aspetti: la pace e la giustizia sociale. La conclusione echeggiava la citazione degli Atti degli Apostoli, utilizzata da Giovanni XXIII nell’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia: «Noi non possediamo nè ricchezze né potenza terrena; ma riponiamo la nostra fiducia nella forza dello Spirito…». E proseguiva
11 Acta Synodalia sacrosancti concilii oecumenici Vaticani II, Typis Pol.Vaticanis 1970-2001 (=AS), I/1, 230-232.
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Il messaggio rappresentava l’esigenza di segnare il nuovo spirito di simpatia della Chiesa verso ogni donna e ogni uomo. Era implicitamente anche un tentativo di contrastare gli schemi preparati senza un’attenzione al mondo. Il teologo Chenu nella bozza originaria del documento aveva precisato che esso intendeva fissare «gli scopi e lo spirito» del concilio12. Quasi tutti i vescovi entrano in concilio con un atteggiamento timido. Le ragioni sono diverse: si conosce male la città di Roma, nell’“aula” si siede con vicini sconosciuti (si seguiva l’ordine di nomina)13. In più, si comprende male il latino, soprattutto quello degli “altri”, la conoscenza degli argomenti in discussione è modesta e […] invecchiata, abbastanza presto si ha l’impressione che il dibattito sia una noiosa ripetizione, tanto più che non è agevole discernere tra punti di vista 12 Nelle sue Notes quotidiennes au Concile (ed. A. Melloni, Paris 1995, 6061) M.D. Chenu annotò che nel settembre 1962 «Il m’est venu à l’esprit qu’une déclaration initiale du Concile, un “message” à tous les hommes, chrétiens ou non, énonçant les buts et l’inspiration de l’Assemblée, dans une perspective missionnaire et à la dimension des problèmes de la conjuncture actuelle du monde, répondent efficacement à l’attente sympathique de tous - qui serait décocertès par une mise en route immédiatement commandée par des délibération théoriques et des dénonciations de tendances erronées. Cela dans le style et avec les termes des allocutions de Jean XXIII, en particulier son “message” du 11 septembre. On échappe difficilement, en lisant les schémas dogmatiques, à l’impression qu’il y a deux conceptions parallèles du Concile: l’inspiration du pape, les travaux des doctrinaires de la commission théologique». 13 Così annotava il 16 ottobre 1962 J. C. Heenan, vescovo di Liverpool «This was our first day in our alloted places. Hitherto we had sat where we wished and naturally most bishops sat with colleagues from the same hierarchy. Corresponding with our numbered seats the voting papers would bear a number Mine was S149. Because we were in new places we each felt very isolated. There was no English archbishop anywhere near me. After a few days when we came to know each other I realised that immediately behind me sat the Archbihop of Karachi. He is a highly intelligent and rather young man. We were able to discuss meny propositions. But on that morning we were all strangers to each other», (private notes on the Vatican Council, datt. inedito ISR).
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diversi. Infine, quasi nessuno conosce il “progetto” del concilio e neppure il periodo durante il quale si dovrà restare lontani da casa, con disagi e spese non indifferenti. I Diari, tenuti quotidianamente da molti partecipanti al concilio, testimoniano, soprattutto all’inizio, un’attitudine “scolare”, passiva. Si partecipa a un evento solenne e significativo, ma non se ne coglie con chiarezza il disegno. Tuttavia non si può non riconoscere che il concilio Vaticano II è stato, comunque, il capolavoro dell’episcopato cattolico e dello Spirito santo14. È infatti innegabile che solo la conversione dei vescovi al nuovo clima, sotto l’impulso dello Spirito santo, ha reso possibile il passaggio (ma, forse, si dovrebbe dire “il capovolgimento”) dall’inerte e timida passività delle risposte inviate a Roma nel 1960 da tante centinaia di vescovi al corpus delle decisioni votate dal concilio. È giusto e doveroso rendersi conto dei limiti e delle smagliature delle conclusioni conciliari, ma è impossibile non vedere a occhio nudo il salto qualitativo che intercorre tra i vota con i quali i vescovi hanno risposto all’invito di Giovanni XXIII, perché indicassero i problemi che il concilio avrebbe dovuto affrontare, e l’immagine del Cristianesimo e della Chiesa che il Vaticano II ha espresso, proprio in forza del consenso della quasi totalità di quegli stessi vescovi. Come si spiega questa subitanea quanto profonda modificazione? I fattori più rilevanti di questo imprevedibile rovesciamento possono essere indicati nel coinvolgimento nello spirito conciliare. La conoscenza della storia conciliare aiuta a comprendere come più di una volta i risultati di un’assemblea conciliare non possano essere esaurientemente spiegati senza riconoscere l’azione misteriosa e imprevedibile quanto concreta, dello Spirito santo. È venuto così maturando lentamente e quasi insensibilmente, un clima diffuso, che ha predisposto un gran numero di vescovi, soprattutto dei Paesi della fascia atlantica ma anche altrove, a vedere il Vaticano II come una singolare occasione di rinnovamento della chiesa, nel solco delle istanze formulate nei decenni più recenti dai movimenti liturgico, biblico, 14 «L’influenza dello Spirito Santo avviene ordinariamente non solo salva libertate, ma in modo che non è direttamente concepito dalla coscienza psicologica del soggetto», così annotava nel dicembre 1962 il card. Siri, ed. B. LAI, Bari 1992, 383.
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ecumenico, di ressourcement e sotto l’incalzare della secolarizzazione delle società. Quando nell’estate 1962 è stato possibile conoscere il primo pacchetto di schemi, le reazioni inviate a Roma sono state in grande maggioranza di insoddisfazione, salvo che per lo schema sul rinnovamento liturgico. Questa insoddisfazione non era certo generata dal confronto degli schemi con i pareri formulati due anni prima; al contrario era la prima manifestazione di un modo nuovo di vedere il concilio. Un’esperienza inedita che ha preso di contropiede molti vescovi è quella dei conflitti. Troppi di loro erano abituati a una tranquilla e piatta visione del Cristianesimo e della Chiesa, anzi per parecchi le differenze di punti di vista, e i conflitti relativi, erano un difetto tipico delle società laiche. In ogni caso, si immaginavano il concilio come una ordinata e sbrigativa assemblea, come d’altronde gli ambienti della Curia romana avevano fatto ritenere. Un’occasione non molto diversa dalla grande riunione episcopale che si era raccolta a Roma intorno a Pio XII in occasione della proclamazione dell’assunzione della vergine Maria. Sin dalla prima congregazione generale del 13 ottobre 1962 il Vaticano II si rivela molto meno “tranquillo”: i giochi sono tutti aperti, ogni vescovo è chiamato a farsi un’opinione personale. Anzi, i lavori dell’assemblea, man mano che si entrava nel vivo dei problemi più complessi, si sono complicati non solo dal punto di vista organizzativo e procedurale, ma anche dal punto di vista dottrinale. Era l’occasione di un’iniziazione forse brusca, per parecchi sgradita per altri traumatica, a una visione meno statica e più dinamica della propria fede. Si era costretti a riconoscere che molti argomenti, che sembravano dai lontani anni della formazione in Seminario tranquillamente sistemati, erano invece aperti e dibattuti tra soluzioni talora diametralmente opposte. Era in atto una svolta da uno spirito passivo a una responsabilizzazione, che imponeva scelte.
2.1. La provocazione alla “conversione” La partecipazione al concilio ha fatto maturare un certo numero di “conversioni” abbastanza sorprendenti, ancorchè sia un censimento molto
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arduo15. Si possono ricordare i casi del canadese Léger, degli italiani Lercaro e Motolese, del brasiliano Helder Camara. Ciascuno di loro a modo suo ha vissuto l’esperienza conciliare come un evento spirituale tale da esigere una modificazione radicale del proprio modo di essere vescovo. Ma tutti gli altri16? Alcuni dei Diari redatti durante lo svolgimento del concilio recano interessanti testimonianze sullo spirito conciliare nella misura in cui conservano e ci documentano l’immediatezza dell’esperienza. Verso la fine del novembre 1962 è il p. Congar che annota le preocupazioni che serpeggiavano in concilio in vista della lunga pausa dei lavori, la cosidetta “intersessione”. Si auspicava la creazione di una delegazione di vescovi che rimasse a Roma «per sorvegliare il lavoro della Commissioni e assicurare lo spirito del concilio così come si è manifestato»17. Pochi giorni dopo, il domenicano Chenu annota che «la maggioranza dei Padri teme che le commissioni conciliari non siano penetrate del nuovo spirito del concilio»18. Una nota di vari mesi più tardi dello stesso Congar riferisce una 15 Cfr R. CAPORALE, Les hommes du Concile. Etude sociologique sur Vatican II, Paris 1965, 160-161. 16 L’argentino V. Zazpe annotava il 25.11.1963 «… Pero siguiò el malestar. Amor proprio herido. Sensaciòn de aislamiento despreciativo. Por otra parte no tengo muchas ganas de llegar a la diocesis por los problemas que me esperan. Dios sabrà porquè me ocurren a mi estas cosas. Tengo temor a acostarme por la noche que me espera» e ancora il 24.06.1964 «Hoy meditè sobre mi “perderme” en Cristo. No tengo otra salida a mi vida. No tiene otro objetivo. Ser su voz, su imagen, su oraciòn, su amigo […] “su yo”. Para esto debo cerrar los ojso sobre mi persona. Morir. Vivir como si yo no existiera. Lo mismo en el gobierno de la diocesis. El gobierna […] Entrarme en la intimidad interior del Jesus del Evangelio y tratar de ser lo mismo. Es un Jesus recio, varonil, sin vueltas […] Continuo con la idea de que no me doy como debiera a Dios, en el trabajo de la diocesis y en la vida interior de entrega.…» (Diario conciliare inedito ISR). 17 Y. CONGAR, Mon Journal du Concile, ed. É. Mahieu, Paris 2002 (=Journal), «1962 Mercredi 28 novembre On parle ensuite de l’entre-deux des deux sessions; on voudrait la présence à Rome d’une délégation d’évêques qui surveille le travail des commissions et assure la permanence de l’esprit du concile, tel que celui-ci s’est dégagé. On cherche les voies les meilleures pour réaliser cela», I, 274. 18 M.-D.CHENU, Notes quotidiennes, «Mercredi 5 décembre 1962 la majorité des Pères, redoute que les Commissions du Concile ne soient pas pénétrés par l’esprit nouveau du Concile», 133.
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confidenza del card. Léger su un’udienza da Giovanni XXIII del novembre precedente, quando il cardinale aveva sottolineato al papa «la necessità di creare una commissione che mantenesse lo spirito del concilio nei nove mesi che avrebbero separato i due periodi di lavoro» dell’assemblea19. Dunque vi era chi percepiva distintamente la formazione nell’assemblea di uno spirito del concilio. Uno spirito nettamente diverso da quello prevalente prima, spirito che era prudente custodire durante l’assenza da Roma dell’episcopato. Lungo il 1963, cioé durante la prima intersessione e il secondo periodo di lavori, è ancora Congar a fare esplicito riferimento allo spirito del concilio sia a proposito di un’eventuale nuova professione di fede, che per il lavoro delle commissioni20. Anche un vescovo italiano annota, dopo il superamento della crisi sullo schema sulle «due fonti della Rivelazione», che «lo spirito del concilio si è risollevato»21. È sconcertante che, invece, nel corso del successivo 1964 e durante i primi mesi del 1965 — corrispondenti alla seconda intersessione, al terzo periodo di lavori e alla terza intersessione — Congar non abbia più avuto occasione di fare riferimento allo «spirito del concilio». Era un modo implicito, e presumibilmente inconsapevole, di registrare una flessione di quello spirito con l’allontanarsi del pontificato giovanneo? Solo nelle note del 10 maggio 1965, redatte a Roma durante i lavori del Segretariato per l’unità sullo schema di dichiarazione sulla libertà religiosa, riaffiora l’«esprit du concile», ma per osservare che sarebbe 19
Y. CONGAR, Journal, «1963 Mercredi 6 mars A 9h., visite au cardinal Léger. […] Le 20 novembre [1962], j’ai fait une allocution au Saint-Père pour la réception des évêques canadiens. Cela a impressionné le pape. Il m’a retenu ensuite longuement chez lui. Je lui ai dit: Voulez-vous le concile ou ne le voulez-pas? et j’ai parlé de la nécessité de créer une commission pour maintenir l’esprit du concile dans les 9 mois séparant les deux sessions», I, 342. 20 Y. CONGAR, Journal, «1963 Mardi 19 mars rédaction d’une nouvelle formule de Profession de foi, dans l’esprit et le style du concile», I p. 359; 1963 Jeudi 21 novembre «modifier les commissions dans le sens de l’esprit du concile», I p. 556; «Ier novembre 63: Toussaint Alberigo et Dossetti sont très sévères pour la demi-mesure prise par le pape, en réponse à de très instantes et nombreuses demandes (par exemple de l’épiscopat d’Afrique) pour de nouvelles commissions, répondant à l’esprit du concile», I, 585. 21 Diario di Luigi Carlo Borromeo, vescovo di Pesaro (ed. N. Buonasorte, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia 52 [1998] 111-169): 1962 18 novembre.
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opportuno non promulgare la dichiarazione, che subiva tante amputazioni. Piuttosto era meglio limitarsi a raccomandare che il Segretariato per l’unità e quello per i non cristiani lavorino «nello spirito e nel senso di quel testo»22. Era la reazione a un’elaborazione quanto mai irta di difficoltà: si poteva rinunciare al testo, e far leva sullo «spirito» che era stato affermato. Ci si avvia, infine, alla conclusione del Vaticano II e molti si chiedono, con preoccupazione, come sarà il post-concilio. Ancora una volta è interessante rileggere una annotazione di Congar, il quale ha parlato dell’argomento con Chenu e con il p. Feret. La domanda centrale è «come sarà garantito lo spirito del concilio?», dopo lo scioglimento del concilio23. Anzi i teologi francesi sembrano convinti — con un pizzico di innocente presunzione — che il post-concilio non manterrà lo spirito del concilio se non si valorizzerà il lavoro dei teologi, come è avvenuto in concilio. Più pacatamente il teologo tedesco Semmelroth, concludendo il suo Diario, annotava che «il concilio è alla fine, ma i suoi impulsi determineranno la vita della chiesa. Sono contento che il lavoro sia finito. Ma ringrazio vivamente Dio di esservi stato coinvolto. Ne ho ricavato molto»24. Il coagularsi dello spirito del concilio ha suscitato nondimeno contrasti e opposizioni da parte di chi era convinto della bontà del clima culminato nel lungo pontificato pacelliano e respingeva qualsiasi modificazione e, soprattutto, l’affermarsi di uno spirito profondamente diverso. È opportuno ricordare almeno qualche passaggio maggiore di questo confronto. Un primo momento si è avuto all’inizio del concilio in occasione dell’aspro confronto tra l’arcivescovo di Colonia, card. Frings, e il responsabile del S. Ufficio, card. Ottaviani, a proposito dell’egemonia e dei metodi 22 Y. CONGAR, Journal, «1965 Lundi 10 mai Mais je lui [Bea] réponds que, pour ma part, ayant mieux réfléchi, je pense qu’il vaudrait mieux ajourner la promulgation du texte [De oecumenismo] qui, ayant été voté, exprime ce façon officielle l’esprit du concile, dire franchement pourquoi on ne passe à une promulgation formelle et recommander aux deux secrétariats de travailler dans l’esprit et le sens de ce texte.», II, 377-378. 23 Y. CONGAR, Journal, «1965 Dimanche 7 novembre 65 On parle [con Chenu] du concile et de l’après concile, dont beaucoup se préoccupent. Comment se feront les choses, quelles structures, quelles commissions seront en place? Comment l’esprit du concile se gardera-t-il au sommet et même dans les épiscopats? Le concile a largement été fait par l’apport des théologiens. L’après concile ne gardera l’esprit du concile que s’il assume le travail des théologiens», II, 465. 24 Diario del concilio, inedito, ISR.
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autoritari della congregazione preposta all’ortodossia. Era infatti cruciale l’affermazione della libertà del concilio, sostenuta da Frings, con un consenso ampissimo,di criticare una congregazione curiale, fosse pure la “suprema”. All’inizio del secondo periodo di lavori nell’autunno 1963 un nuovo momento cruciale si è avuto intorno all’autorità e alle responsabilità dei Moderatori, creati da Paolo VI proprio per assicurare la fecondità del nuovo clima conciliare. Protagonista il segretario del concilio, mons. Felici, spalleggiato dal segretario di Stato, card. Cicognani, in un primo momento vi è stata l’opposizione a che i Moderatori avessero come segretario e coordinatore don Giuseppe Dossetti. Poco più tardi lo stesso Felici è stato il regista dell’opposizione agli stessi Moderatori in quanto responsabili dei “voti orientativi” del 30 ottobre. Non meno del contenuto teologico dei voti — la natura sacramentale della consacrazione episcopale — era di eccezionale portata il fatto stesso che il concilio esprimesse con chiarezza un orientamento al rinnovamento, sfuggendo ai condizionamenti della commissione dottrinale. Di qua il tentativo di screditare i Moderatori e il voto da essi proposto. Sono episodi significativi, ma non unici, del tetativo di contrastare l’avanzata dello spirito dell’ “aggiornamento” e della pastoralità. Quando, infine, l’8 dicembre 1965, durante la solenne cerimonia di chiusura, vengono letti una serie di messaggi indirizzati a varie categorie non è senza significato che più volte vi ricorra il riferimento alla Chiesa del concilio. Non sembra solo una formula retorica, ma il riconoscimento che lo stesso Paolo VI fa di quanto la chiesa esca dal Vaticano II cambiata e rinnovata. Sembra un modo sintetico di fare stato che lo spirito del concilio si appresta a divenire lo spirito della chiesa cattolica. In una precedente occasione papa Montini aveva d’altronde riconosciuto l’importanza dello «spirito infuso da Giovanni XXIII alla nostra età e che la morte non può soffocare». Non è doveroso riconoscere che spirito di Giovanni XXIII e spirito del concilio coincidono?
3. Ai margini del concilio Il fervore del clima che si è creato a Roma per la prolungata presenza di oltre duemila vescovi, di altrettanti “periti” — teologi, canonisti,
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storici — e di moltissimi giornalisti in rappresentanza dell’interesse dell’opinione pubblica ha giocato a sua volta in misura crescente un ruolo considerevole nel creare il clima “conciliare”. Se nella sede ufficiale dei lavori — l’ “aula” — la grande maggioranza dell’episcopato non poteva sottrarsi a un ruolo passivo di ascolto (in un’assemblea tanto numerosa erano pochissimi quelli che riuscivano a parlare), “fuori” si sono create molto presto numerose occasioni più interessanti e più accessibili: conferenze, incontri di studio, assemblee delle conferenze episcopali, scambi a tavola o in autobus nel va e vieni da S. Pietro. Sono tutte circostanze nelle quali il vescovo usciva dall’orizzonte limitato — quando non angusto — della gestione della diocesi, si scontrava con i grandi problemi (magari sconosciuti) della chiesa universale, conosceva esperienze spirituali e pastorali diverse dalle proprie, non poteva non confrontarsi con un universo ampio, frastagliato e multiforme. Alcuni hanno reagito con diffidenza o rifiuto, chiudendosi in isolamento, ma la maggioranza, forse anche con ingenuità e sprovvedutezza — almeno inizialmente —, è entrata nel clima conciliare, trovandosi poi a proprio agio25. È questo l’humus — lo “spirito”, appunto — nel quale si alimenta e si sviluppa l’esperienza di responsabilità di tanti vescovi, modificandone profondamente le convinzioni. Alla luce di ciò si può comprendere la costante manifestazione nel Vaticano II di una larghissima maggioranza, che si è manifestata in tutte le votazioni cruciali, da quelle sul carattere sacramentale della consacrazione episcopale e sulla collegialità a quelle sull’attitudine ecumenica del cattolicesimo, da quelle sulla centralità della Bibbia a quelle sulla relazione di amicizia con l’umanità sino a quelle sulla libertà religiosa e sul rapporto con il popolo ebraico. È così che il Vaticano II è andato ben al di là del “completamento” delle decisioni ecclesiologiche del Vaticano I e ha disegnato una fisionomia di vescovo profondamente diversa da quella che si era consolidata — soprattutto nelle aree di antica cristianità — nei secoli più recenti. È una fisionomia in larga parte ricalcata sull’esperienza degli episcopoi dei primi 25 È esemplare l’annotazione di Florit che il 22.11.62 è piacevolmente sorpreso della portata distensiva di un incontro avuto con i vescovi francesi, verso i quali era molto prevenuto (Diario conciliare inedito, ISR).
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secoli del Cristianesimo, tracciata, tuttavia, senza archeologismi ma con l’ansia e il proposito di rispondere alle esigenze culturali delle società contemporanee e delle comunità cristiane che vivono in seno ad esse. Un vescovo che è vicarius Christi e successore degli Apostoli — e non vicario del papa —, liturgo, maestro e guida della comunità affidata alle sue cure e — con l’episcopato in comunione con il vescovo di Roma — è pastore dell’intera chiesa universale in forza dell’istituzione del Cristo, partecipata nel sacramento della consacrazione episcopale. Egli — araldo della fede — ha come precipua responsabilità la predicazione dell’Evangelo; regge nella fede il popolo di Dio come economo della grazia, principio e fondamento di unità; propone la fede cristiana a tutti, e soprattutto ai poveri e ai più deboli, in modo adeguato alle necessità dei tempi in spirito di comunione. La crescente interconnessione dei problemi sollecita ciascun vescovo a farvi fronte solidarmente con i confratelli più vicini in seno alle Conferenze episcopali. L’immagine del vescovo-principe, del vescovo-signore o del vescovo-funzionario, che hanno avuto tanta diffusione per secoli, sono completamente estranee e superate, così come quella del vescovo-politico o, comunque, “maggiorente” nella società. I criteri guida della nuova immagine sono la “pastoralità” e l’ “aggiornamento” vissuti in spirito di servizio e di fraterna condivisione. Riprendendo un’immagine cara a papa Roncalli pater et pastor, il decreto conciliare la propone come caratterizzazione culminante dell’identikit del vescovo che «come buon pastore conosce le sue pecore ed è da esse conosciuto e come vero padre eccelle per lo spirito di carità e di zelo verso tutti». Derivano dal medesimo spirito l’affermazione della centralità della Parola di Dio e della sua normatività anche per il magistero della Chiesa, il riconoscimento che la fede e la chiesa sono nella storia e non fuori da essa, che la comunità cristiana è al servizio dell’umanità in atteggiamento di amicizia. Ancora sia il superamento dell’antisemitismo che l’accettazione della libertà di coscienza e l’ammissione che l’unica Chiesa del Cristo si realizza in diverse tradizioni “sorelle” trovano in questo spirito la loro matrice profonda.
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3.1. Un concilio nuovo La scommessa di Giovanni XXIII per un concilio che si facesse da sé e non fosse “guidato” dall’alto (o dall’apparato curiale) ha dato risultati considerevoli, pur pagando prezzi26. Rileggendo ora il lavoro conciliare e i testi che l’assemblea ha prodotto, emergono alcuni balzi innanzi verso una maggiore penetrazione dottrinale del depositum fidei e una sua formulazione più adeguata alle esigenze pastorali, come anche smagliature e omissioni clamorose. Ma una considerazione globale dei risultati del Vaticano II non può neppure prescindere da alcune acquisizioni di metodo che, senza essere espresse in formulazioni ad hoc, però hanno avuto un peso molto rilevante nei dibattiti conciliari e sorreggono molte delle sue principali conclusioni. Il superamento del tradizionale metodo deduttivo — sia pure in misura incompleta — è innegabile. I passi già compiuti dalla ricerca teologica preconciliare vi hanno avuto un influsso, ma non si deve dimenticare il sospetto di eterodossia nel quale quei tentativi erano incorsi. Il ripetuto ricorso del concilio a questo metodo ha avuto il significato di una svolta, talora contrastata ma ormai irreversibile. Connessa con il ricorso al metodo induttivo è l’accettazione della storia. La storia, sia come passato che come vita presente dell’umanità, è cioè il contesto del disegno divino di salvezza, nel quale — e non malgrado il quale — dall’incarnazione in poi si svolge il fatto cristiano. Pertanto quì si svolge il pellegrinaggio dei cristiani, come ricorda il decreto Ad gentes «Dio decise di entrare in modo [...] definitivo nella storia degli uomini, inviando il figlio suo» (3,1)27. Globalmente il Vaticano II a proposito del rapporto chiesa-storia ha segnato un’indubitabile e macroscopica inversione di tendenza rispetto all’orientamento prevalente nel cattolicesimo da almeno quattro secoli. Esso legittima la possibilità di una lettura del cristianesimo non solo nella prospettiva della salvezza e del disegno prov-
26 Cfr a questo proposito quanto ho scritto in Dalla laguna al Tevere. Angelo Giuseppe Roncalli da San Marco a San Pietro, Bologna 2000, 191-230. 27 Cfr G. ALBERIGO, Cristianesimo, storia, teologia, in Teologia e istanze del sapere oggi in Italia, Padova 1991, 103-127.
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videnziale che vi presiede, ma anche su un piano positivo, mediante l’uso rigoroso del metodo storico-critico. L’assemblea conciliare ha anche trovato il coraggio e la convinzione di trascendere la connotazione eurocentrica, che la caratterizzava all’inizio. Gli episcopati del “terzo mondo” hanno trovato progressivamente spazio, si sono scoperti anch’essi pastori con piena responsabilità e pari diritti, hanno esercitato un influsso crescente sui lavori e sulle decisioni conciliari. Questa de-europeizzazione avrebbe trovato conferma soprattutto nell’impatto che l’evento conciliare ha trovato proprio nei Continenti della “periferia”. Le culture e l’esperienza di cui questi episcopati erano portatori hanno rafforzato in misura determinante anche le istanze per un superamento dell’impostazione giuridica che la concezione della chiesa aveva assimilato in Occidente. Ne è derivato l’impulso del Vaticano II a porre la dimensione istituzionale in posizione subalterna rispetto a quella sacramentale.
4. Nella ricezione del concilio Lo spirito conciliare ha dilagato nel cattolicesimo e ha alimentato nuove ondate di attese anche nella grande opinione pubblica, in seno alla quale il messaggio del papa con l’affermazione che «in faccia ai paesi sottosviluppati la chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la chiesa di tutti, e particolarmente la chiesa dei poveri» e che le «miserie della vita sociale gridano vendetta al cospetto di Dio: tutto deve essere chiaramente richiamato e deplorato», l’intervento del papa nella crisi di Cuba del 1962 e l’enciclica Pacem in terris e, infine, la morte di Giovanni XXIII avevano ottenuto un coinvolgimento di intensità e proporzioni sconosciute. Tuttavia, dopo il Vaticano II non si è formato un “partito del concilio” né il cattolicesimo ha espresso un personaggio equivalente a ciò che è stato — dopo il concilio di Trento — Carlo Borromeo, sia come “modello di pastore” che come guida per l’attuazione dei dettati e dello spirito tridentino. Sin dall’8 dicembre 1962 Giovanni XXIII, nell’omelia conclusiva del primo periodo conciliare, aveva trattato dei «frutti salutari del concilio». Frutti destinati non solo ai cattolici, ma a tutti «i nostri fratelli che si fregiano
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del nome di cristiani», come pure a tutti gli uomini. E aveva aggiunto «attuare con solerzia le leggi del concilio […] sarà veramente la nuova Pentecoste che farà fiorire la Chiesa […] sarà un nuovo balzo in avanti del regno di Cristo». È significativo che il papa caratterizzasse il post-concilio con le stesse immagini che aveva usato per il concilio — «nuova Pentecoste», «balzo innanzi» — e che lo collocasse sull’orizzonte universale dell’intera umanità. Quasi ogni vescovo ha compreso la ricezione del concilio come il dovere di far conoscere i testi delle costituzioni, dei decreti e delle dichiarazioni che il Vaticano II aveva votato. Il decennio successivo alla conclusione del Vaticano II è stato dominato da una visione prevalentemente meccanica della ricezione, analoga a quella che aveva caratterizzato il tempo post-tridentino: conoscenza e commenti ai testi delle decisioni conciliari finali. I volumi che contengono tali commenti — e che cominciarono a essere editi in tutte le principali lingue ancora durante i lavori conciliari — costituiscono una rispettabile biblioteca. Nella maggior parte dei casi i commenti sono stati redatti dagli stessi teologi che avevano direttamente collaborato all’elaborazione dei testi conciliari, di modo che i commenti sono soprattutto un’interpretazione dal punto di vista degli estensori. A quella prima fase post-conciliare, dedicata alla pura lettura delle decisioni, cioè a una pura individuazione dei diversi contenuti, secondo un esame molto oggettivo e quasi letterale, senza ancora pretese di ricomposizione sistematica dei documenti, è seguita una seconda fase, dedicata a una lettura con un carattere più sistematico, che tendeva a estrarre le principali linee di forza dall’insieme dei documenti stessi. Faticava invece a venire alla luce una nuova fase durante la quale si tendesse non solo a cogliere le linee di forza del pensiero e delle indicazioni operative che l’evento conciliare e le sue decisioni contengono, ma a derivarne anche un’indicazione globale sulla base della storicizzazione del concilio. Non era cioé facile andare oltre i singoli atti, e oltre un loro esame analitico, per vederli immersi nella globalità e nello spirito che li collega tutti. È indubbio che l’epicentro del rinnovamento non era a Roma ma nella “periferia”: il popolo di Dio riunito nelle comunità locali. Da un lato la costituzione conciliare sulla liturgia aveva affidato le maggiori respon-
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sabilità della riforma alle Conferenze episcopali, da un altro lato erano i fedeli stessi a impegnarsi a prenderla nelle loro mani in nome della actuosa participatio, che era il motivo centrale di tutta la costituzione. Sia nelle aree dove il movimento liturgico aveva preparato il rinnovamento, che in quelle che ne erano rimaste ai margini, la Sacrosanctum concilium suscitava enorme interesse popolare, suggerendo una miriade di iniziative locali28. Questo dinamismo, almeno in parte imprevisto, testimoniava lo spessore delle attese che circondavano le decisioni conciliari quando offrivano la possibilità di un rinnovamento effettivo e di un coinvolgimento attivo dei comuni cristiani. Si realizzavano istanze a lungo coltivate, ma sempre deluse. La lunga attesa, almeno in qualche caso, spiega perché la ricezione si espresse talora con spontaneità tumultuose, suscitando qualche allarme e dando la possibilità a qualche avversario del rinnovamento di temere e di denunciare una pretesa eversione della tradizione. L’esperienza della riforma liturgica metteva in luce come la ricezione del Vaticano II sarebbe stata differenziata a seconda delle singole situazioni pre-conciliari e della diversità delle condizioni al momento della chiusura del concilio29. Il Vaticano II, d’altronde secondo l’impronta data da Giovanni XXIII, era letto e assimilato come un orientamento autorevolissimo al popolo cristiano a un “aggiornamento” che si operasse nel confronto tra la consapevolezza delle indicazioni evangeliche e le richieste del contesto sociale. Un aggiornamento perseguito con stile “pastorale”, dunque con la ricerca degli elementi comuni, piuttosto che di quelli di divisione, nel rispetto della libertà. Un aggiornamento che avesse il traguardo della koinonia e della testimonianza. La dimensione mondiale, che anche il Vaticano II aveva vissuto sempre più, implicava una ricezione con tempi, stili e impatti diversi. Un coordinamento non avrebbe potuto ambire che a favorire lo scambio delle informazioni e delle esperienze, segnalando gli eccessi che minacciassero
28 Cfr G. DOSSETTI, Per una «Chiesa eucaristica». Rilettura della portata dottrinale della costituzione liturgica del Vaticano II, edd. G. Alberigo-G. Ruggieri, Bologna 2001. 29 G. ALBERIGO, Il rinnovamento liturgico del Vaticano II, in Liturgia e evangelizzazione nell’epoca dei Padri e nella chiesa del Vaticano II, Bologna 1996, 325-335.
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la comunione e mettendo in luce con pazienza il progressivo formarsi del mosaico, della “sinfonia” costituita dalla Chiesa post-conciliare. In quale senso l’interpretazione del Vaticano II poneva problemi? La natura inconsueta delle conclusioni conciliari, ispirate dalla “pastoralità” e finalizzate all’ “aggiornamento” e pertanto senza rigide prescrizioni tassative né condanne, impediva di ricorrere ai precedenti modelli di interpretazione30. Ma il problema era ed è l’interpretazione delle decisioni o piuttosto la ricezione da parte dell’ecclesía della chiamata all’ “aggiornamento”? Un aggiornamento che si prospettava e si prospetta necessariamente frastagliato nelle diverse aree, ciascuna caratterizzata da situazioni spirituali, culturali e sociali differenziate. La stessa “pastoralità” non poteva che avere accentuazioni diverse nelle singole situazioni. In nuce è questo il nodo del postconcilio e della fedeltà allo spirito del concilio.
**** Per concludere, a ben vedere lo spirito del Vaticano II e la spiritualità che esso ha generato possono essere sintetizzati con il Salmo 132 Cosa buona più di ogni altra, più soave di tutte le cose, è di essere tutti insieme e di vivere come fratelli! È rugiada che scende dall’Ermon e imperla i monti di Sion: il Signore ivi dona in pienezza ogni bene e vita per sempre!
Ancora una volta i successori degli Apostoli hanno ripetuto, secondo la testimonianza degli Atti 30 G. ALBERIGO, Fedeltà e creatività nella ricezione del concilio Vaticano II. Criteri ermeneutici, CRST 21 (2000) 383-402.
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Giuseppe Alberigo Abbiamo deciso, lo Spirito santo e noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie
Dopo il Vaticano II, le Chiese sono chiamate a riscoprire questo Spirito e a vivere questa spiritualitĂ .
Sezione miscellanea Synaxis XX/3 (2002) 533-560
IL DESIDERIO NATURALE DI VEDERE DIO NEL PENSIERO DI TOMMASO D’AQUINO*
FRANCESCO VENTORINO**
1. Il desiderio naturale di conoscere Dio L’avvenimento dell’evidenza è il metodo supremo della conoscenza: qualcosa che irrompe nella coscienza e si impone come altro da essa, qualcosa che, a sua volta, è talmente gratuito da costituire, con la sua presenza, la testimonianza di un perenne inizio. L’essere sopravviene, infatti, ad ogni ente come un atto gratuito, cioè come causato da altro rispetto a ciò che gli appartiene per essenza. Per questo la conoscenza stessa è avvenimento, cioè il manifestarsi progressivo del reale come insorgente dal mistero. «Tutti gli esseri che son capaci di conoscere conoscono implicitamente Dio in ogni cosa conosciuta»1.
La ragione dell’uomo è condotta così, come per mano, da ogni cosa conosciuta alla conoscenza della causa prima, senza la quale l’intelletto non si sazia, quella causa dalla quale ogni cosa trae la sua ragione e la sua verità. * Prolusione tenuta all’inaugurazione dell’anno accademico 2002-2003 dello Studio Teologico S. Paolo: 6 novembre 2002. ** Docente emerito di Filosofia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I,86,1,c.
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Francesco Ventorino «È naturale desiderio della creatura ragionevole di conoscere tutto ciò che ha pertinenza con la perfezione dell’intelletto; e perciò le specie e i generi delle cose e le loro ragioni, cose tutte che in Dio vedrà chiunque vedrà la sua essenza divina [...]. Se dunque solo vedesse Dio, che è la fonte e il principio di tutto l’essere e della verità, si compirebbe talmente il suo naturale desiderio di conoscere, che nient’altro cercherebbe e sarebbe beata. Pertanto dice Agostino, V Confess.: ‘Infelice l’uomo che conosce tutte quelle cose [cioè le creature], e non conosce Te: beato invece l’uomo che conosce Te, anche se non conosce quelle. Chi conosce Te e pure quelle, non per quelle è più beato, ma per Te solo è beato’»2.
Il fondamento di questo desiderio è nel rapporto che il nostro intelletto ha con la sua perfezione come ogni essere con la propria forma: «Come, infatti, la cosa naturale ha il suo essere per la propria forma, così l’intelletto è intelligente in atto per la sua forma intellegibile. Ogni cosa naturale, poi, ha rispetto alla sua forma naturale questo rapporto abituale (hanc habitudinem), che, quando non la possiede, tende ad essa e, quando la possiede, in essa riposa. E questo rapporto abituale con il bene, nelle cose carenti di conoscenza, si chiama appetito naturale. Per cui anche la natura intellettuale ha lo stesso rapporto abituale con il bene conosciuto attraverso la forma intellegibile, che cioè quando lo possiede in esso riposa, quando, invece, non lo possiede, lo cerca, e ambedue queste cose riguardano la volontà. Per cui, in chiunque ha l’intelletto c’è la volontà»3, cioè il desiderio naturale di conoscere l’oggetto adeguato dell’intelletto.
Queste dottrine sono state uno spunto ispirativo per la mirabile poesia teologica di Dante nel suo Paradiso, dove così Beatrice spiega al protagonista il loro andare naturale verso il cielo: «[...] Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma che l’universo a Dio fa simigliante.
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ID., Summa Theologiae, I, 12, 8, ad 4. Ibid., I, 19, 1, c.
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Qui veggion l’alte creature l’orma de l’etterno valore, il quale è fine al quale è fatta la toccata norma. Ne l’ordine ch’io dico sono accline tutte nature, per diverse sorti, più al principio loro e men vicine; onde si muovono a diversi porti per lo gran mar de l’essere, e ciascuna con istinto a lei dato che la porti. Questi ne porta il foco inver’ la luna; questi ne’ cor mortali è permotore; questi la terra a sé stringe e aduna: né pur le creature che son fore d’intelligenza quest’arco saetta ma quelle c’hanno intelletto e amore. […] e ora lì, com’a sito decreto, c’en porta la virtù di quella corda che ciò che scocca drizza in segno lieto. […] Non dei più ammirar, se bene stimo, lo tuo salir, se non come d’un rivo se d’alto monte scende giuso ad imo. Maraviglia sarebbe in te se, privo d’impedimento, giù ti fossi assiso, come a terra quiete in foco vivo»4.
E più avanti il poeta dirà: «La concreata e perpetua sete del deiforme regno cen portava veloci quasi come il ciel vedete»5.
4 DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso I, vv 103-131. I testi della Commedia sono tratti da: DANTE ALIGHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, 4 voll, Milano 1966-1967, «seconda ristampa riveduta», Firenze 1994. 5 Ibid., II, vv 19-21.
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Francesco Ventorino «Per l’evidenza di quanto affermato – scrive san Tommaso nella Summa contra Gentiles - vanno fatte due considerazioni. La prima è che l’uomo non è perfettamente beato, nella misura in cui gli resta qualcosa ancora da desiderare e da cercare. La seconda è che la perfezione di qualunque potenza si raggiunge secondo la ragione del suo oggetto. Ora, l’oggetto dell’intelletto è ciò che è (quod quid est), cioè l’essenza delle cose, come si dice nel libro III De anima. Per cui, in tanto progredisce la perfezione dell’intelletto in quanto conosce l’essenza di qualcosa. Se, dunque, un certo intelletto conosce l’essenza di un certo effetto, attraverso la quale non può conoscere l’essenza della sua causa, fino a conoscere della causa che cos’è (quid est), non si può dire che ne abbia avuto una conoscenza vera, anche se attraverso l’effetto può sapere della causa che essa esiste (an sit). E così rimane naturalmente nell’uomo il desiderio, una volta conosciuto l’effetto e saputo che esso deve avere una causa, di conoscere pur di questa causa che cos’è (quid est). E questo desiderio è dalla meraviglia e causa la ricerca, come si dice al principio della Metaphysica [...]. Se pertanto l’intelletto umano, conoscendo l’essenza di qualche effetto creato, non conosce di Dio se non che esiste (nisi an est), non ha raggiunto ancora la sua perfezione nella conoscenza della causa prima, rimane pertanto in lui il naturale desiderio di cercare di conoscere questa causa. E pertanto non è perfettamente beato. Per la perfetta beatitudine pertanto si richiede che l’intelletto raggiunga la stessa essenza della causa prima. E così avrà la sua perfezione per l’unione con Dio, come con l’oggetto in cui soltanto consiste la beatitudine dell’uomo»6.
Noi deduciamo legittimamente dalla disposizione naturale delle nostre facoltà la possibilità di questa beatitudine, cioè l’esistenza della causa oggettiva del nostro desiderio e della sua realizzazione. È tanto ragionevole questa posizione che quella contraria dovrebbe affermare l’inutilità, cioè la non-ragionevolezza di un desiderio naturale, di cui la ragione non saprebbe spiegare la presenza. «Sopra è stato provato che ogni intelletto naturalmente desidera la visione della divina sostanza. Ora il desiderio naturale non può essere inutile (inane). Qualunque intelletto creato, dunque, può pervenire alla visione della divina sostanza, salvato dall’impedimento dell’inferiorità della natura»7. 6 7
S. TOMMASO D’AQUINO, Summa contra Gentiles, I, 3, 48. Ibid., 3, 57.
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Infatti, giacché «a ciascuna potenza attiva corrisponde la possibilità del proprio oggetto, per la stessa ragione di quell’atto su cui è fondata la potenza attiva»8, essa, cioè ogni facoltà, lungi dall’identificarsi con il non essere, designa un’attitudine positiva dell’essere, perché la potentia activa scaturisce da un atto che è già e che ne misura e garantisce la capacità. «Nessuna cosa, infatti, può ordinarsi a un certo fine se non preesiste in essa una certa proporzione a questo fine, dalla quale proporzione proviene in essa il desiderio del fine; e questo dipende dal fatto che in qualche modo in essa c’è già un inizio del fine (aliqua finis inchoatio fit in ipso), perché niente desidera il bene se non in quanto ha in sé di quel bene una qualche somiglianza. E da ciò deriva che nella stessa natura umana vi è un qualche inizio del bene che è a questa natura proporzionato (quaedam inchoatio ipsius boni quod est naturae proportionatum)»9.
Dante ha cantato stupendamente queste cose nel Paradiso della sua Commedia: «Io veggio ben che già mai non si sazia nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra, di fuor dal qual nessun vero si spazia. Posasi in esso come fera in lustra, tosto che giunto l’ha; e giugner puollo: se non, ciascun disio sarebbe frustra. Nasce per quello, a guisa di rampollo, a piè del vero il dubbio; ed è natura ch’ al sommo pinge noi di collo in collo”10.
La presenza, dunque, di un essere dotato di una facoltà naturale che ha come oggetto e fine adeguato la conoscenza sostanziale di Dio, ci conduce legittimamente ad affermare l’esistenza di questa Realtà: altrimenti
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ID., Summa Theologiae, I, 25, 3, c. ID., De Veritate, I, 14, 2, c. 10 DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, IV, vv 124-32. 9
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non ci sarebbe ragione adeguata nell’uomo della presenza e del desiderio dell’Esse subisistens. Su questa certezza, cioè della impossibilità che un desiderio naturale sia inutile, si è fondata tutto l’atteggiamento positivo nei confronti della realtà, che ha caratterizzato una civiltà, quella medievale. Di contro sta il nichilismo della nostra, che ha alla base il rifiuto di questa ragionevole supposizione: l’essere è di troppo a se stesso, cioè una presenza assurda, questo è il tratto caratteristico della nostra civiltà Sartre è uno dei testimoni più appassionati di quest’esito inevitabile: la realtà è un assurdo. La nausea è il sentimento che ci invade quando si scopre l’essenziale contingenza e l’assurdità del reale. «Dunque poco fa ero al giardino pubblico. La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla loro superficie. [...] O piuttosto la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenze, una vernice. Questa vernice s’era dissolta, restavano delle macchie mostruose e molli in disordine, nude, d’una spaventosa e oscena nudità.[...] Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati di noi stessi, non avevano la minima ragione di esser lì, né gli uni né gli altri, ciascuno esistente, confuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo in rapporto con gli altri. Di troppo: era il solo rapporto che io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli»11.
Così il protagonista de La nausea, Antoine Roquentin, descrive il sentimento che illumina la realtà come assoluta contingenza, ma è un’illuminazione che «mozza il fiato»: «Questo momento è stato straordinario. Ero lì immobile e gelato, immerso in un’estasi orribile. Ma nel seno stesso di quest’estasi era nato qualcosa di nuovo e comprendevo la Nausea, ora, la possedevo. [...] L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. 11
J.- P. SARTRE, La nausea, trad. it., Milano 1958, 137-38.
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Esistere è esser lì, semplicemente: gli esseri appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare [...]: ecco la Nausea»12.
La vita di Roquentin versa nell’insignificanza; nessuno scopo riesce più ad orientarla; egli esiste come tutte le cose che, nella loro gratuità e assurdità, emergono nell’esperienza della nausea. Un soggetto senza significato, cui vengono a mancare le istruzioni per l’uso delle cose, cancella di colpo il senso della realtà tutta. Basterebbe, a tal proposito, citare la celeberrima conclusione da L’Essere e il Nulla, dove Sartre così scrive: «Ogni realtà umana è una passione in quanto progetta di perdersi per fondare l’essere e per costituire contemporaneamente l’in-sé che sfugge alla contingenza essendo il proprio fondamento, l’Ens causa sui che le religioni chiamano Dio. Così la passione dell’uomo è l’inverso di quella di Cristo, perché l’uomo si perde in quanto uomo perché Dio nasca. Ma l’idea di Dio è contraddittoria e ci perdiamo inutilmente; l’uomo è una passione inutile»13.
Il nichilismo è l’orizzonte teorico in cui si colloca la “civiltà dei consumi”, perché se la realtà non offre una sua verità e neanche l’uomo possiede un suo destino naturale, il consumare, assecondando l’istinto del benessere, è l’unico rapporto che l’uomo può stabilire con il reale. Oggi si parla di un nichilismo che nascerebbe, più che dalla morte o dalla negazione di Dio, piuttosto da una “ipertrofia di Dio”. Eugenio Scalfari ha scritto dopo il tragico 11 settembre del 2001:
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Ibid., 142. J.- P. SARTRE, L’Essere e il Nulla, trad. it., Milano 1964, 738.
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Francesco Ventorino «Nell’attualità di oggi questo fanatismo è la causa del terrorismo islamico: si uccide e ci si uccide in nome di Allah. Ma nel corso della storia l’ipertrofia di Dio ha pervaso molte religioni, probabilmente tutte, ed è stata causa di guerre, terrori e terrorismi continui, […] un Dio contro l’altro per il mattatoio universale»14.
Per primo Francesco Merlo aveva già scritto sul “massacro di Dio”, di «quella devastazione umana che è inevitabile ogni volta che si cerca di fare entrare l’Infinito nel finito […]. L’irruzione di Dio nella storia è sempre Apocalisse (Rivelazione), come dimostra anche la tragedia di New York»15.
E così si è giunti a pensare alla inutilità e alla nocività della presenza di Dio, per dirla con Filippo Gentiloni: «Gli atei lo avevano detto da tempo e le recenti vicende non fanno che dar loro ragione. Dio inesistente, comunque lo si chiami. Inutile e spesso addirittura dannoso se è vero, come è vero, che nel suo nome ci si arma e si uccide. Soprattutto ci si aliena al punto di morire e di uccidere in vista di qualche paradiso. Meglio, se proprio volete una religione, quelle che non sono monoteiste: più pacifiche, più umane, più innocue per la società»16.
E invece è solo nel riconoscimento del desiderio naturale di conoscere Dio, cioè della capacità di verità assoluta che c’è nella ragione umana, che si trova il fondamento della possibilità della pace. Perché su quanto dalla ragione può essere riconosciuto come universalmente vero gli uomini possono intendersi. Di contro sta quella concezione della ragione che, come ha sostenuto Umberto Galimberti,
14 E. SCALFARI, Si potrà mai arrivare a capire da dove è nato tanto odio?, in Il Venerdì di Repubblica, 12 ottobre 2001. 15 F. MERLO, Il massacro di Dio, in Il Corriere della Sera, 15 settembre 2001. 16 F. GENTILONI, In armi nel nome di Dio, in Il Manifesto, 1 novembre 2001.
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«funziona solo nell’ambito di coloro che condividono la stessa visione del mondo o, come preferisco dire, la stessa simbolica, la quale si costituisce prima dell’uso della ragione e in termini assolutamente pre-razionali […] La ragione umana funziona solo tra chi condivide la stessa simbolica, quindi solo all’interno della stessa visione del mondo. Fuori delle rispettive simboliche, essendo queste pre-razionali, la ragione non funziona ed è subito guerra»17.
Già Martin Heidegger aveva argutamente previsto che in un’epoca in cui la realtà sarebbe stata risolta nella rappresentazione che l’uomo se ne fa, il rapporto fra gli uomini si sarebbe mutato in un confronto fra le diverse visione del mondo e in una lotta per prendere quella posizione in cui essere “regola e canone” per tutto e per tutti18. Eppure anche nel contesto del pensiero moderno si sono collocate delle testimonianze dell’insopprimibile esigenza della ragione di affermare la presenza di un essere che ne giustifichi la domanda, cioè la presenza di un essere la cui struttura naturale è la domanda di ragione e di significato. Pirandello scrive: «Spesso la grandezza mia consiste nel sentirmi infinitamente piccolo: ma piccola anche per me la terra, e oltre i monti, oltre i mari cerco per me qualche cosa che per forza ha da esserci, altrimenti non mi spiegherei quest’ansia che mi tiene, e mi fa sospirar le stelle...»19.
In questa posizione della ragione di fronte all’essere, in questa affermazione di qualcosa che per forza ha da esserci, in questo desiderio di un fondamento della realtà, un desiderio che sostiene ogni altro desiderio, c’è tutto il riconoscimento della positività del reale e della natura stessa della ragione.
17
U. GALIMBERTI, Guerra senza ragione, in Il Venerdì di Repubblica, 6 novembre
2001. 18 Cfr M. HEIDEGGER, L’epoca dell’immagine del mondo, trad. it. in ID, Sentieri interrotti, Firenze 1968, 99. 19 L. Pirandello, Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me, III/2, in ID. Novelle per un anno, Milano 1990, Appendice.
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Francesco Ventorino
Un altro nostro conterraneo, Gesualdo Bufalino, in una sorta di “diario-romanzo”, che ha pubblicato sotto il titolo di Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, fa gridare ad uno dei suoi personaggi, un certo Iaccarino, in un momento di verità che il vino aveva favorito, come suonando «verso i quattro canti del cielo il suo debole corno di postiglione», in una sorta di dialogo con Dio nel quale «supplicava e sacramentava»: «Ehi tu, t’ho visto, non fare il furbo, non fingere di non esistere!, Dio esisti, ti prego! Esisti, te lo ordino!»20.
Anche se fino alla fine si è dichiarato agnostico, questa esigenza che Dio ci sia, è quella che Bufalino ha affermato in ogni sua opera, insieme al desiderio di conoscerne il volto, esigenza legata a quella che l’uomo ha di comprendere se stesso. Ne Le menzogne della notte mette in bocca a Consalvo De Ritis, o “Sparafucile”, il carceriere personaggio-chiave di questo “giallo metafisico”, come egli lo definisce, la domanda fondamentale: «Io, chi sono? Noi, gli uomini, chi siamo? Siamo veri, siamo dipinti? Tropi di carta, simulacri increati, inesistenze parventi sul palcoscenico d’una pantomima di cenere, bolle soffiate dalla cannuccia d’un prestigiatore nemico? Se è così, niente è vero. Peggio: niente è, ogni fatto è uno zero che non può uscire da sé. Apocrifi noi tutti, ma apocrifo anche chi ci dirige o raffrena, chi ci accozza o divide: metafisici niente, noi e lui, mischiati a vanvera da un recidivo disguido; nasi di carnevale su teschi colmi di buchi e d’assenza… Ho visto un quadro a Parigi, or è un anno. Rappresentava una scimmia in un ateliere, con tavolozza e pennelli: saremmo questo noi, creature di lacrime? Gli scarabocchi d’una scimmia pittrice? Se non pure fantocci in piedi, nel mezzo d’una stanza, moltiplicati da due specchi che si fronteggiano?»21.
Anche per Bufalino, dunque, per sapere chi sono io devo sapere chi
20 21
G. BUFALINO, Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, Palermo 1984, 197. ID., Le menzogne della notte, Firenze 1988, 152.
Il desiderio naturale di vedere Dio…
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è Dio: alla sua esistenza e alla sua verità sono legate, infatti, la consistenza e la dignità del mio essere.
2. Conoscenza di Dio e vita presente Giacché è impossibile all’essere umano, nello stato di viator, di vedere Dio, dobbiamo concludere che in questa vita è negata all’uomo la suprema felicità, ed infatti scrive s. Tommaso: «È impossibile che in questa vita ci sia la suprema felicità dell’uomo»22, perché «nella conoscenza naturale che hanno le sostanze separate di Dio, non viene soddisfatto il loro desiderio naturale». «Infatti è da dire che, per il fatto che il nostro intelletto non può abbracciare la divina sostanza, ciò che costituisce proprio la sostanza di Dio rimane eccedente rispetto al nostro intelletto: e così essa è da noi ignorata. E per questo, l’ultima conoscenza che l’uomo ha di Dio è che sa di non conoscere Dio, in quanto conosce che ciò che Dio è, eccede tutto ciò che possiamo comprendere di Lui»23.
Tuttavia non è da dimenticare l’affermazione tomista con la quale abbiamo iniziato questa lezione: «Tutti gli esseri che son capaci di conoscere conoscono implicitamente Dio in ogni cosa conosciuta»24. Una qualche conoscenza di Dio è dunque possibile anche nella nostra condizione storica. Il fondamento della possibilità di tale conoscenza è data da quella partecipazione di ogni cosa all’essere alla perfezione dell’essere di Dio, che è quella analogia entis, che è il cuore della dottrina tomistica e la forma fondamentale del cattolicesimo: «Dalla prima realtà, che è ente e bene per essenza, — scrive san Tommaso — ogni cosa può dirsi buona e ente in quanto partecipa di essa secondo una 22
S. TOMMASO D’AQUINO, Summa contra Gentiles, I, 3, 48. ID., Quaestiones disputatae. De potentia, 7, 5, ad 14. 24 ID., Summa Theologiae, I, 86,1,c. 23
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Francesco Ventorino certa somiglianza, sia pure alla lontana e in misura limitata, come si è detto. Così per conseguenza, ogni cosa si dice buona dalla bontà divina, come da prima causa esemplare, efficiente e finale di ogni bontà. Tuttavia ogni cosa si dice buona per una somiglianza sua propria della divina bontà ad essa inerente che è formalmente la sua bontà, e dalla quale si denomina. E così abbiamo una bontà sola di tutte le cose, e anche molte bontà»25.
Erich Przywara - un noto teologo del secolo scorso - ha paragonato la concezione tomista della partecipazione dell’essere alla formula classica dell’analogia che si trova nel secondo Capitolo del Concilio Laterano IV, dove viene presentata come la vera risposta conciliare alla dottrina trinitaria dell’abate Gioacchino da Fiore: «Non è possibile rilevare tra creatore e creatura una somiglianza tale, per quanto grande essa sia, che tra essi non si debba rilevare una dissomiglianza ogni volta più grande» (Denz., 432).
Ancora Przywara fa notare come s. Tommaso radichi «questo ‘non è possibile’ e questo ‘si debba’ nell’essere in quanto tale. Dio è ‘per essenza’ (ens per essentiam), mentre la creatura solo ‘per partecipazione’ (per partecipationem), e per questo non vi è ‘somiglianza della creatura con Dio per comunanza di forma (convenientiam in forma)’, né rispetto alla forma dell’essenza (come richiederebbe l’identità esemplare che contraddistingue l’identificazione orientale della vita con lo spirito), né rispetto alla forma dell’esistenza (come richiederebbe l’identità ritmica che contraddistingue l’identificazione occidentale dello spirito con la vita), ‘bensì solo per analogia’ (S. Th., I, 4, 3). E ciò significa, traendone le estreme conseguenze, che ‘qualsiasi tipo di somiglianza’ (aliqualem similitudinem) è intersecata da ‘una massima dissomiglianza’ (maxima dissimilitudo) (ID. De veritate., 1, 10, ad 1 in contr.). L’analogia è l’esser-diverso di quel medesimo che viene asserito sia di Dio che della creatura (in quanto proportio proportionalitatis Cfr. ibid., 23, 7, ad 9.) Anzi alla fine la
25
ID., Summa Theologiae, I, 6,4,c. E. PRZYWARA, Analogia entis. Metafisica. La struttura originaria e il ritmo cosmico, trad. it., Milano 1995, 260. 26
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questione addirittura si ribalta. Il rapporto naturale tra il creatore e la creatura è quello della ‘distanza’, mentre l’‘analogia’ ne è l’attenuazione: ‘ la distanza di natura che c’è tra la creatura e Dio non può impedire una comunanza per analogia’ (Ibid., 2, 11 ad 5)»26.
Ecco perché pur essendo riconosciuto che le creature, per la loro partecipazione alla bontà di Dio, possono dirci qualcosa di Lui, tuttavia rimane inesaudito il desiderio naturale di vederLo, perché attraverso queste è impossibile una piena comprensione e un possesso del Mistero. Dante nel Convivio aveva espresso così questa dialettica del desiderio che porta l’uomo continuamente dalla creatura al Creatore: «Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare un augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose [l’anima] trova quella che va cercando, e credela trovare più oltre. Per che vedere si può che l’uno desiderabile sta dinanzi all’altro alli occhi della nostra anima per modo quasi piramidale, che ‘l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta dell’ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di tutti».27
La nostra vita è destinata ad essere segnata dalla tristezza e a non essere mai appagata nella felicità, cioè nel compimento del desiderio che intimamente la costituisce come vita umana.
3. Il compimento del desiderio Da quanto detto deriva che l’uomo tende naturalmente ad un fine che non può conseguire con le sue forze naturali: «La perfetta beatitudine dell’uomo consiste, e lo abbiamo già visto, nella visione dell’essenza divina. Ora, vedere Dio per essenza non è al di sopra 27 DANTE ALIGHIERI, Convivio, IV, XII, 16-17. L’edizione di riferimento è: D.A., Convivio, a cura di F. Brambilla Ageno, 3 voll, Firenze 1995.
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Francesco Ventorino soltanto della natura dell’uomo, ma di qualsiasi creatura come già fu dimostrato nella Prima Parte. Infatti la conoscenza naturale di una qualsiasi creatura segue il modo della sua sostanza [...]. Ora, qualsiasi cognizione che segua il modo di una sostanza creata, è inadeguata per la visione dell’essenza divina, che sorpassa all’infinito ogni sostanza creata. Dunque né l’uomo, né un’altra creatura può conseguire l’ultima beatitudine con le sue capacità naturali»28.
Anche questo è stato detto icasticamente dal poeta della Commedia: «La sete natural che mai non sazia se non con l’acqua onde la femminetta samaritana domandò la grazia»29.
L’uomo è costituito, dunque, dal desiderio naturale di vedere Dio, ma questo desiderio si può adempiere solo per grazia, per un libero e gratuito dono di Dio: «Deus ordinavit humanam naturam ad finem vitae aeternae consequendum non propria virtute, sed per auxilium gratiae»30.
Infatti, l’intelletto creato non può vedere Dio nella sua essenza, «nisi inquantum Deus per suam gratiam se intellectui creato coniungit, ut intelligibile ab ipso»31.
A questo punto della nostra esposizione non si può non far menzione della questione dibattuta in questi ultimi anni sulla gratuità del soprannaturale. L’ammettere che l’uomo abbia come fine naturale la visione di Dio che solo per una grazia soprannaturale può essere raggiunta ha fatto parlare di
28
S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, 5, 5, c. DANTE ALIGHIERI, Commedia, Purgatorio, XXI, vv 1-3. 30 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, 114, 2, ad 1 31 Ibid., I, 12, 4, c. 29
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necessità della grazia e quindi di una contraddizione con la sua intima natura che è pura gratuità. Molti hanno ravvisato una condanna di questa posizione in una affermazione della Humani generis (12 agosto del 1950) di Pio XII che suona così: «Alii veram ‘gratuitatem’ ordinis supernaturalis corrumpunt, cum autument Deum entia intellectu praedita condere non posse, quin eadem ad beatificam visionem ordinet et vocet»32.
P. Henri De Lubac — personalmente coinvolto in questa polemica teologica — ha dato alla questione un notevole contributo. Egli fa notare, commentando una lettera di Gilson indirizzata a lui il 21 giugno del 1965, come già nel suo libro, Surnaturel del 1946 aveva precisato che: «Il rapporto tra l’uomo e Dio non potrebbe mai essere concepito, alla sua base, come retto da una legge naturale o da una necessità qualsiasi, interna o esterna: Nel dono che Dio vuol fare di se stesso e, di conseguenza, nel desiderio che ne risulta nella nostra natura, tutto si spiega attraverso l’Amore. Non è un bene che si diffonda per natura, necessariamente: è un Amore personale, è l’Amore in persona che, liberamente suscita l’essere al quale vuole donarsi: Nulla limita l’indipendenza sovrana del Dio che si dona»33.
Lo stesso autore ha avuto modo di riprendere la questione in molte altre sue pubblicazioni, tra le quali si trova questa mirabile e sintetica risposta: «Lo spirito non desidera Dio come l’animale desidera la preda; lo desidera come un dono. Non cerca affatto di possedere un oggetto infinito: vuole la comunicazione libera e gratuita di un Essere personale. Se dunque, per assurdo, potesse prendere il suo bene supremo, immediatamente, non sarà più il suo bene. Si vuol parlare ancora di esigenza? In questo caso, si dovrà
32 33
DENZ. 3891. Un dialogo fecondo. Lettere di Etienne Gilson a Henri de Lubac, Genova 1990, 63.
548
Francesco Ventorino dire che l’unica esigenza dello spirito è quella di non esigere nulla. Esige che Dio sia libero nella sua offerta, come esige di essere libero esso stesso (in tutt’altro senso) nell’accettazione di questa offerta. Come non vuole una felicità di cui impossessarsi, così non vuole una felicità solamente da ricevere. Così la gratuità assoluta del dono divino appare tanto come una richiesta della creatura per se stessa quanto per la grandezza del suo Dio»34.
Del resto già san Tommaso d’Aquino aveva detto che la visione di Dio nella sua essenza accade quando «la stessa essenza di Dio si fa forma intelligibile di questo intelletto»35, cioè per quel dono assolutamente gratuito e impensabile per il quale l’essenza divina stessa, supplendo all’insufficienza di qualsiasi altra rappresentazione di sé, «poterit esse forma qua intellectus intelligit, et hoc erit visio beatificans»36. Quando Dante in modo unico canterà l’esperienza della visione di Dio, in particolare la comprensione del compenetrarsi delle due nature nella seconda persona trinitaria, dirà: «ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgor in che sua voglia venne»37.
Credo, quindi, che ci si debba almeno attestare su quanto afferma il grande P. De Finance: «Se il desiderio naturale della visione divina non può esigere la realizzazione del suo termine, esige almeno che questo termine possa essere realizzato. Che si pesino bene le espressioni di S. Tommaso, non si potrà farne uscire altro che questa esigenza di possibilità»38.
34
H. DE LUBAC, Spirito e Libertà, Milano 1980, 257. S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q.12, a.5, c 36 ID., In IV Sententiarium, DS 49, q. 2, art. 1, c. 37 DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, XXXIII, vv 139-41. 38 J. DE FINANCE, Être et agir dans la philosophie de Saint Thomas, Roma 1965, 352. 35
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È quanto è stato da noi sostenuto nel primo punto.
4. La fede come inizio della vita eterna La fede è in noi l’inizio della vita eterna, in quanto ci abitua a questa conoscenza di Dio che è frutto della sua grazia, e in essa comincia ad inoltrarci. «Fides est habitus mentis, qua inchoatur vita aeterna in nobis, faciens intellectum assentire non apparentibus»39. Anche altrove la fede viene definita come «praelibatio futurae visionis»40; o «inchoatio quaedam vitae aeternae»41. La fede cristiana viene, dunque, presentata come la grazia che soccorre quella indigenza costitutiva dell’uomo, per la quale egli non riesce da sé a soddisfare l’esigenza più profonda della propria ragione, che è quella di conoscere l’essenza misteriosa della causa ultima di sé e della realtà tutta di cui ha esperienza. In questo senso la fede è l’inizio gratuito (inchoatio vitae aeternae) della risposta al desiderio naturale di vedere Dio, che costituisce nel cuore dell’uomo quell’inizio naturale (aliqua finis inchoatio in ipso), che lo fa a questo fine proporzionato o destinato. Infatti san Tommaso aveva affermato che «proportio ad Deum per naturale similitudinem non est in protestate voluntatis; similiter nec proportio capacitatis gratiae, quia haec ei praeexistunt a creatione; unde relinquitur quod ipsa voluntate sit appropinquare De per affectum et desiderium, et ordinari ad gratiam per remotionem impedimenti, quod quidam impedimentum est peccatum»42.
Da qui per l’uomo storico quella necessità della rivelazione su cui Tommaso pone l’accento fin dal primo articolo della Summa Theologiae:
39
S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, 4, 1, c. ID., In III Sententiarum, 23, 2, 1, ad 4. 41 ID., De Veritate, I, 14, 2, c. 42 ID., In IV Sententiarum, DS 17, q, 1, a. 2, c. 40
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Francesco Ventorino «Era necessario, per la salvezza dell’uomo che, oltre le discipline filosofiche d’indagine razionale, ci fosse un’altra dottrina procedente dalla divina rivelazione. Prima di tutto perché l’uomo è ordinato a Dio come ad un fine che supera la capacità della ragione, secondo il detto d’Isaia: ‘Occhio non vide, eccetto te, o Dio, quello che tu hai preparato a coloro che ti amano’. Ora è necessario che gli uomini conoscano in precedenza questo loro fine, perché vi indirizzino le loro intenzioni e le loro azioni. Cosicché per la salvezza dell’uomo fu necessario che mediante la divina rivelazione gli fossero fatte conoscere delle cose superiori alla ragione umana. Anzi, anche riguardo a quello che intorno a Dio si può indagare con la ragione, fu necessario che l’uomo fosse ammaestrato per divina rivelazione, perché una conoscenza razionale di Dio non sarebbe stata possibile che per parte di pochi, dopo un lungo tempo e con la mescolanza di molti errori; eppure dalla conoscenza di tali verità dipende tutta la salvezza dell’uomo, che è riposta in Dio. Per provvedere alla salvezza degli uomini in modo più conveniente e più certo fu perciò necessario che rispetto alle cose divine fossero istruiti per divina rivelazione»43.
La fede è, dunque, concepita come la conoscenza di una verità rivelata che ci introduce nel cuore della realtà e nel significato profondo di ogni altra verità: in questo senso nella conoscenza della fede si fa l’esperienza della corrispondenza a quell’attesa propria del cuore dell’uomo, che può dirsi il senso religioso dell’esistenza. Ci sembra che qui cadano a proposito le parole di Przywara sull’incontro tra il cristianesimo e l’istanza metafisica: «Rispetto alla teometafisica formale dell’an est Deus, il cristianesimo sembra costiuire l’attesa risposta del quid Deus est. Negli scritti giovannei e in quelli paolini Cristo viene infatti definito come il ‘che cosa’ di un ‘Dio invisibile’: egli è ‘Logos’, ‘icona’, ‘specchio’, ‘riflesso’, ‘impronta’ e ‘irradiazione’ del ‘Dio che nessuno ha mai visto’ (Gv 1, 1; Col 1, 15; Sap 7, 26; Eb 1, 3; Gv 1, 18), fino a tutta la radicalità della stessa parola di Cristo: ‘Chi ha visto me ha visto il Padre’ (Gv 14, 9). La suprema ‘essenza del cristianesimo’ è quindi quest’unico dato ‘teologico’ (in senso stretto): da un lato, che nell’’esservisto del Dio mai visto e invisibile attraverso l’esser-visto di Cristo’ il quid
43
ID., Summa Theologiae, I, 1, 1, c.
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551
est Deus a cui tende l’an est Deus teo-metafisico formale ottiene il proprio equivalente quid est Deus in un ‘asserir-se-stesso’ di Dio che è funzionale all’’illuminar-si del senso di Dio’ (nel duplice significato di lógos come ‘verbo’ e come ‘senso’); dall’altro lato, che ogni teologia umana (quale légein su questo quid est Deus) è in pratica solo un’’interpretazione’ (eségesis) delle auto-espressioni-di-senso di Dio in Cristo, cioè una teologia che comprende e si compie solo in dipendenza dalla ‘teologia di Dio stesso’ nella sua auto-espressione in Cristo, quale ‘teologia cristologica di Dio stesso’. Ma già il termine ‘visto’ ci rende avvertiti che questo Cristo nel cui ‘esser-visto’ avviene l’’esser-visto del Dio invisibile’ va inteso nel modo in cui egli si è mostrato in tutto il Vangelo e che è stato fin dal principio formulato dalla teologia cristiana: come il ‘Logos-carne’ di una umanità piena (Gv 1, 14), e quindi come una ‘vita eterna che era presso il Padre’ e che tuttavia, in quanto vita eterna, ‘si è resa visibile a noi’; a tal punto totalmente uomo, che è ‘ciò che noi abbiamo udito [con le nostre orecchie], ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato [come uno spettacolo] e ciò che le nostre mani hanno toccato’, e che tuttavia proprio in questo è ‘ il Logos della vita’ (1 Gv 1, 1-2). Perciò egli è (come dice Agostino) totus Deus totus homo, totalmente Dio e totalmente uomo, fino ad essere (secondo Gelasio I) totus Deus homo et totus homo Deus, ‘uomo totalmente Dio e Dio totalmente uomo’, sicché ‘il totalmente uomo continua ad essere Dio e il totalmente Dio continua ad essere uomo’». E Przywara aggiunge una ulteriore determinazione, che ci sarà utile per quello che diremo più avanti: «In questo Cristo ‘udito con le orecchie, veduto con gli occhi e toccato con le mani’ tutto e ogni singola cosa è invece totalmente ‘presenza di Dio’, sicché a essere ‘udito, veduto e toccato’ è il Dio ‘invisibile’ ‘che abita in una luce inaccessibile’ (Gv 1, 18; Tm 6, 16)»44.
S. Tommaso afferma esplicitamente che, essendo il mistero dell’incarnazione di Cristo la via attraverso la quale l’uomo può pervenire alla
44
E. PRZYWARA, Analogia entis. Metafisica, cit., 447-48.
552
Francesco Ventorino
beatitudine, cioè alla soddisfazione piena del desiderio che lo costituisce, è necessario che, in una certa misura, tutti gli uomini di questo mistero abbiano una certa conoscenza, senza la quale sarebbe impossibile avere una qualche intelligenza del significato della vita, nonché delle esperienze umane fondamentali, quali l’amore, il peccato, il sacrificio, il dolore e la morte. «Et ideo mysterium incarnationis Christi aliqualiter oportuit omni tempore esse creditum apud omnes; diversimode tamen secundum diversitatem temporum et personarum»45.
Dello stesso Adamo si dice che «si arguisce che prevedeva l’incarnazione di Cristo dalle parole che disse: ‘Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre e si stringerà a sua moglie’, come in Gen. 2, 24; parole che secondo l’Apostolo, Ef. 5, 32, stanno a indicare ‘il grande mistero esistente in Cristo e nella Chiesa’; mistero che non è credibile che il primo uomo abbia ignorato» (L. c.).
Conseguentemente Adamo ha avuto una conoscenza della incarnazione di Cristo, almeno in quanto questa «era ordinata alla pienezza della gloria, ma non in quanto era ordinata a liberare dal peccato con la passione e con la resurrezione; perché l’uomo non prevedeva il suo peccato»46
E degli uomini i quali sotto il peccato moltiplicavano i sacrifici per la propria redenzione si dice che era impossibile che lo facessero senza una qualche conoscenza del mistero della incarnazione, della passione e della resurrezione di Cristo.
45 46
S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, 2, 7, c. L. c.
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553
«Altrimenti non avrebbero prefigurato la passione di Cristo con dei sacrifici, sia prima che dopo la promulgazione della legge. E di questi sacrifici i maggiorenti conoscevano esplicitamente il significato; mentre le persone semplici ne avevano una conoscenza confusa sotto il velo di quei sacrifici, credendo che essi erano disposti per il Cristo venturo»47.
Sicché, prosegue s. Tommaso, «non si salvarono senza la fede nel Mediatore. Perché, anche se non ebbero una fede esplicita, ebbero però una fede implicita nella divina provvidenza, credendo che Dio sarebbe stato il redentore degli uomini nel modo che a Lui sarebbe piaciuto, e secondo la rivelazione da lui fatta a quei pochi sapienti che erano nella verità»48.
È innegabile, dunque, che la fede costituisca la risposta a quell’esigenza che c’è nel cuore dell’uomo, cioè di ricondurla al suo ultimo principio e destino, di cui la fides ci consente una conoscenza certa e sufficiente al nostro cammino umano, anche se ancora enigmatica. «Sic enim fides praesupponit cognitionem naturalem, sicut gratia naturam, et ut perfectio perfectibile»49.
La fede è, dunque, fin da ora, in qualche modo, seppure inchoative, partecipazione della vita eterna, cioè della vita vera e definitiva. In questo senso s. Tommaso commenta l’affermazione della Lettera agli Ebrei, Fides est substantia sperandarum rerum, argumentum non apparentium50. «In codesto modo si dice che la fede è sostanza di cose sperate; poiché il primo inizio in noi delle cose sperate viene dall’assenso della fede, la quale contiene virtualmente tutte le cose sperate. Infatti noi speriamo di conseguire la beatitudine con l’aperta visione della verità cui abbiamo aderito con la
47
L. c. Ibid., II-II, 2, 7, ad 3. 49 Ibid., I, 2, 2, ad 1. 50 Eb 11,1. 48
554
Francesco Ventorino fede, come si disse nel trattato sulla beatitudine. [...] E qui argomento sta per l’effetto dell’argomento. Infatti l’intelletto è indotto dagli argomenti ad accettare qualche verità. Ecco perché qui viene chiamata argomento la stessa ferma adesione dell’intelletto alle verità di fede inevidenti. Cosicché altri testi hanno il termine ‘convincimento’: poiché l’intelletto del credente viene convinto ad accettare le cose che non vede dall’autorità di Dio. Perciò, se uno volesse ridurre le parole suddette in forma di definizione, potrebbe dire che ‘la fede è un abito intellettivo, col quale si inizia in noi la vita eterna, facendo aderire l’intelletto a cose inevidenti’. Così infatti la fede viene distinta da tutte le altre funzioni intellettive. Col termine ‘argomento’ viene distinta dall’opinione, dal sospetto e dal dubbio, nelle quali funzioni l’intelletto non ha un’adesione radicale e ferma a qualche cosa. Con le parole ‘non parventi’ la fede viene distinta dalla scienza e dall’intuizione intellettiva, che rendono evidenti le cose. E con l’espressione ‘sostanza di cosa sperate’ la virtù della fede viene distinta dalla fede in genere, la quale non è ordinata alla beatitudine» 51.
Rousselot ha fatto delle osservazioni preziose in proposito, facendo notare che i segni esteriori che aprono la strada sono molto vari, ma ciascuno di essi è conosciuto «sia come un fatto certo, collocato all’interno dell’esperienza umana, sia come indizio di una nuova verità all’ordine della quale essa appartiene. Lo si conosce dunque sotto un nuovo aspetto, come facente parte di un altro mondo, il mondo soprannaturale»52.
L’oggetto formale nella conoscenza della fede è nuovo. «Così la soave disposizione della divina Provvidenza, senza traumi, senza rotture nella vita cosciente, senza urti, senza irruzioni violente, continua, attraverso l’illuminazione della grazia, le chiarezze della conoscenza naturale, e ci fa vedere, nell’orizzonte stesso degli oggetti ai quali ci inte-
51
S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, 4, 1, c P. ROUSSELOT, Gli occhi della fede, trad. it., Milano 1977, 53. 53 Ibid., 54. 52
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ressiamo, degli indizi del mondo superiore. Riconoscere in essi una nuova natura, significa penetrare più chiaramente più a fondo nella loro realtà»53.
A questo punto Rousselot fa un’affermazione capitale che ci permette di ricongiungerci a quanto abbiamo detto sopra circa il rapporto tra grazia e natura: non solo la grazia suppone la natura, ma si pone come la gratuita, imprevedibile ed unica possibilità di compimento del desiderio della natura, che è la visione di Dio. «Una tale continuità delle due conoscenze è possibile solo a una condizione: occorre che i due oggetti formali, quello naturale e quello soprannaturale, non siano né opposti né disparati, ma che l’uno inglobi e superi l’altro, approfondendolo e perfezionandolo interiormente»54.
E così, in una tale prospettiva, l’atto di fede, che si situa all’interno dell’esperienza umana, elevata dalla grazia a capacità di cogliere i segni della rivelazione soprannaturale di Dio, prelude a quella visione di Dio che è il compimento del senso stesso dell’esperienza dell’uomo, cioè il pieno manifestarsi della realtà nella sua più profonda verità: l’essere stesso di Dio nella sua misteriosa unità e trinità. Ciò nulla toglie, anzi ne esalta le ragioni teoriche e la sofferenza esistenziale, alla “distanza” che resta tra l’esperienza della fede e quella della gloria. L’esperienza della fede, infatti, rimane sempre un’esperienza del Mistero attraverso il paradosso dell’umanità di Cristo e lo scandalo della stoltezza e della follia della croce. Attraverso questa “distanza”, tuttavia, veniamo condotti ad una “prossimità”, che è la familiarità del figlio e dell’amico, per cui già siamo fatti capaci di partecipare, in qualche modo, alla conoscenza e all’amore che il Figlio ha, nello Spirito, del Padre.
54 55
Ibid., 55. Rm 5,5.
556
Francesco Ventorino
5. L’avvenimento della fede La fede, in quanto inizio della vita eterna, si offre a noi come esperienza umana dell’amore di Dio che «è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»55 e, quindi, della presenza efficace dello Spirito di Cristo che inizia il compimento della nostra beatitudine come perfetta comunione con Dio, cioè con il nostro Bene. «Perciò rimane stabilito che la grazia, come precede la virtù, così deve avere una sede che preceda le potenze dell’anima: essa cioè deve risiedere nell’essenza dell’anima. Infatti l’uomo, come partecipa la conoscenza divina con la virtù della fede mediante la facoltà dell’intelletto, e l’amore divino con la virtù della carità mediante la facoltà volitiva; così partecipa la natura divina, secondo una certa somiglianza, con una nuova generazione o creazione, mediante la natura dell’anima»56.
È in forza di questa esperienza che risulta credibile la verità proposta al credente dalla fede. È quanto Gesù intendeva con l’espressione con cui prometteva ai suoi discepoli il “centuplo” su questa terra. Ognuno di noi, anche nel più semplice e contingente istante, cerca proprio quella maggior pienezza che è l’alba della beatitudine perfetta. Il criterio che ci guida è, pertanto, la speranza di una maggiore soddisfazione, di una più intensa corrispondenza al nostro desiderio, vale a dire di un sempre più totale possesso dell’essere. Si può affermare, dunque, che la fede ha qualcosa in comune con la felicità, perché è l’inizio di quella conoscenza del mistero di Dio in cui il desiderio dell’uomo si compie: «In fide est aliquid quod habet commune cum beatitudine, scilicet ipsa cognitio, aliquid autem quod est sibi proprium, scilicet aenigma; est enim fides cognitio aenigmatica»57.
56 57
S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, 110, 4, c. Ibid., I-II, 67, 5, 1.
Il desiderio naturale di vedere Dio…
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Nell’assenso dell’uomo in cui si compie l’atto di fede, secondo s. Tommaso, riscontriamo due cause: «La prima che sollecita dall’esterno, come la constatazione dei miracoli, o l’esortazione di chi induce alla fede, le quali cause sono inadeguate: poiché tra i testimoni di uno stesso miracolo, e tra gli ascoltatori di una stessa predicazione, alcuni credono e altri non credono. Perciò bisogna ammettere una seconda causa che è interiore, la quale muove l’uomo interiormente ad accettare le cose di fede. I Pelagiani ritenevano che codesta causa fosse soltanto il libero arbitrio dell’uomo: e per questo affermavano che l’inizio della fede dipenderebbe da noi, in quanto siamo noi a predisporci ad assentire alle cose di fede; mentre il compimento dipenderebbe da Dio, il quale ci presenta le verità da credere. Ma questo è falso. Perché l’uomo ha bisogno di Dio quale principio soprannaturale che lo muova interiormente, dal momento che nell’aderire alle cose di fede viene elevato al disopra della propria natura. Perciò la fede rispetto all’adesione, che ne è l’atto principale, viene da Dio che muove interiormente con la sua grazia»58.
In questo brano troviamo sinteticamente esposto il pensiero di Tommaso riguardo al nesso esistente tra segno esterno e grazia interiore in ordine all’assenso che l’uomo dà nell’atto di fede. La fede nasce nell’avvenimento di un incontro umanissimo con una presenza eccezionale e quindi in grado di dare da sé la ragioni per cui credere, ma che viene riconosciuta come la presenza di Dio in forza dell’illuminazione della grazia che potenzia ed eleva al di sopra della propria natura l’atto dell’uomo che crede. Ciò rende necessaria la Chiesa come luogo della fede. La confessione della fede è possibile solo dentro la Chiesa: «Confessio fidei traditur in symbolo quasi ex persona totius ecclesiae, quae per fidem unitur»59.
«Come a noi è giunta la fede attraverso gli Apostoli, così nell’Antico 58 59
Ibid., II-II, 6, 1, c. Ibid., II-II, 1, 9, ad 3.
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Francesco Ventorino Testamento era giunta ai posteri dagli antichi Padri, poiché allora fu scritto: ‘Domandalo al padre tuo, e te lo racconterà’. Ora gli Apostoli furono pienamente istruiti sui misteri [cristiani]: poiché come dice la Glossa su quel detto paolino, ‘noi stessi che abbiamo le primizie dello Spirito’, ‘come li ebbero prima del tempo, così li ebbero anche più abbondantemente degli altri’»60.
La fede, dunque, si riceve per la testimonianza degli apostoli e dei loro successori, in genere per quella tradizione, che si vive nella Chiesa, per la quale la verità rivelata viene trasmessa ed accolta proprio in quanto verità divina. Da questa premessa si può trarre la seguente conclusione: «Le persone semplici non hanno una fede implicita nella fede dei maggiorenti, se non in quanto questi ultimi aderiscono all’insegnamento divino; ecco perché l’Apostolo scriveva: ‘Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo’. Infatti non è regola di fede la conoscenza umana, ma la verità divina. E se alcuni dei maggiorenti se ne allontanano, non è pregiudicata la fede dei semplici, i quali ritengono che essi abbiano una fede retta; a meno che non vogliano aderire agli errori di costoro, contro la fede della Chiesa universale, che non può mai venire meno, secondo la promessa del Signore: ‘Io ho pregato per te, o Pietro, affinché la tua fede non venga meno»61.
Pertanto la fede è tutta fondata sulla testimonianza: «Fides autem est ex auditu, ut dicitur Rom., 10. Unde oportet aliqua proponi homini ad credendum non sicut visa, sed sicut audita, quibus per fidem assentiat»62.
60
Ibid., II-II, 1, 7, 4. Ibid., II-II, 2, 6, ad 3. 62 Ibid., II-II, 8, 6, c. 63 ID., De Veritate, I, 14, 2, ad 9. 61
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La ragionevolezza dell’assenso della fede, in quanto argumentum non apparentium, è fondata, dunque, sulla fede della Chiesa: «Fides dicitur argumentum non apparentium, in quantum fides fidelium est medium ad probandum non apparentia esse; vel inquantum fides patrum est nobis medium inducens nos ad credendum»63.
E per medio nel testo citato si intende la funzione che ha il termine medio in ogni dimostrazione che è quell’atto discorsivo della ragione che perviene da principi a conclusioni in cui appunto «tota vis argumenti consistit in medio termino»64. Ma c’è di più in questo brano: in esso, infatti, si afferma che l’assenso della fede trova il suo argomento nella stessa fede che è «quaedam praelibatio brevis cognitionis quam in futuro habebimus»65, cioè una qualche esperienza di quella verità cui il cuore dell’uomo anela. Pertanto la fede è un atto razionale. Quando, infatti, si afferma: «Fides esse supra rationem», non si intende dire che «nullus actus rationis sit in fide», ma soltanto che «ratio non potest perducere ad videndum ea quae sunt fidei»66
Bisogna, però, sempre ricordare che «per scientiam gignitur fides et nutritur per modum exterioris persuasionis, quae fit ab aliqua scientia. Sed principalis et propria causa fidei est id quod interius movet ad assentiendum»67.
E così, in una tale prospettiva, l’atto di fede, che si situa all’interno dell’esperienza umana, elevata dalla grazia a capacità di cogliere i segni della rivelazione soprannaturale di Dio, prelude a quella visione di Dio che è il compimento del senso stesso dell’esperienza dell’uomo, cioè il pieno 64
L.c. L.c. 66 L.c. 67 ID., Summa Theologiae, II-II, 6, 1, ad 1. 65
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manifestarsi della realtà nella sua più profonda verità: l’essere stesso di Dio nella sua misteriosa unità e trinità. Quando il volto del Signore Gesù nella pienezza della sua gloria ci introdurrà nella profondità del mistero di Dio e della nostra umanità. Dante nel Paradiso ha riposto nella profondità stessa di Dio il volto dell’umanità di Cristo, cioè il vero volto dell’uomo: «Dentro da sé del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige»68
Da questa coscienza della fede nasce la preghiera più bella di Tommaso d’Aquino, quella che conclude l’Adoro Te devote: «Jesu, quem velatum nunc aspicio, oro, fiat illud, quod tam sitio: ut, te revelata cernens facie, visu sim beatus tuae gloriae».
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DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, XXXIII, vv 130-31.
Synaxis XX/2 (2002) 561-614
IL “GIARDINO (kh%pov)” NELLA NARRAZIONE DELLA PASSIONE SECONDO GIOVANNI
ATTILIO GANGEMI*
Secondo tutte le narrazioni evangeliche, prima della sua passione, Gesù si recò con i discepoli in un luogo campestre dove fu catturato. I tre vangeli sinottici precisano che si recò «al monte degli ulivi». Questo luogo doveva essere noto a tutti1. Luca ci informa anche che Gesù era solito ritirarsi in esso2. Matteo e Marco3 poi narrano che Gesù e i discepoli giunsero in un podere (ei\v cwròon) chiamato “Getsemani (geqshmanò)”4. Tale podere doveva essere una zona più specifica del monte degli ulivi. A riguardo Luca non indica nulla. Giovanni non ha alcuno degli elementi dei vangeli sinottici sopra indicati: non parla infatti né di “Getsemani” né del «monte degli ulivi»5. Al contrario, propone degli elementi assenti nei vangeli sinottici. Ci informa che Gesù attraversò il torrente Kedron e andò al di là, dove era un “giardino (kh%pov)”. Oltre il torrente Kedron, Giovanni introduce la menzione di un “giardino”. Emerge subito la domanda: si tratta di una semplice indicazione topografica oppure con il termine kh%pov l’evangelista vuole richiamare qualcosa? *
Ordinario di Esegesi biblica nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr l’espressione toè o"rov tw%n e\laiw%n (orto degli ulivi); il duplice articolo rivela che quel luogo doveva essere noto a tutti. Come informa Luca. 2 Cfr l’espressione: «secondo l’uso (kataè toè e"qov,)» in Lc 22,39. 3 Cfr Mt 26,36 e Mc 14,32. 4 Tale termine, nel NT, è esclusivo dei due testi sopra citati. 5 In Giovanni l’espressione «monte degli ulivi» si legge soltanto in Gv 8,1, all’inizio dell’episodio della donna adultera. L’autenticità giovannea di questo episodio però è incerta. 1
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Attilio Gangemi
1. Gli usi del termine kh%pov nel NT Il termine kh%pov, nel NT, è tipico giovanneo. Dei suoi cinque usi nel NT ben quattro si leggono nel vangelo di Giovanni (18,1.26; 19,41.42). Il quinto uso si legge solo in Lc 13,19, nel contesto della parabola del granello di senapa6. I quattro usi giovannei poi si leggono, concentrati, nel contesto della narrazione della passione, precisamente all’inizio (18,1), a metà (18,26) e alla fine della narrazione stessa (19,41)7. Tutto ciò lascia pensare che l’evangelista attribuisca a questo termine una particolare importanza in quel contesto. Se poi il termine kh%pov contiene realmente una allusione, esso, per la sua funzione di inclusione a tutta la narrazione della passione e per la sua posizione all’inizio, a metà e alla fine della narrazione stessa, finisce per diventare una delle chiavi di lettura di tutta la narrazione giovannea della passione di Gesù.
2. La posizione degli interpreti Come giustamente hanno rilevato Manns8 ed altri9, l’interpretazione dei Padri e degli antichi scrittori ecclesiastici, benché non universalmente, ha attribuito al termine kh%pov un significato simbolico10.
Cfr l’espressione: «che un uomo gettò (e"balen) nel suo giardino (ei\v kh%pon e|autou%)». 7 In 19,41 il termine si legge due volte. 8 Cfr F. MANNS, le symbolisme du Jardin dans le récit de la passion selon St. Jean, in LA 37 (1987) 53-80: 54-55. 9 Cfr R.E. BROWN, Giovanni, trad. it., Assisi 19793, 985. 10 Dal punto di vista archeologico, il kh%pov, alla luce anche dei documenti di Qumran (cfr 3Q 15, XI, 6) potrebbe sarebbe il cortile dell’ipogeo, in questo caso, di Giuseppe di Arimatea, cfr J.T. MILIK, kh%pov, in DJD 3 (1962) 246, 83. 6
Il “giardino (kh%pov)” nella narrazione della passione…
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Già Cirillo di Gerusalemme, nelle sue catechesi11, stabiliva una relazione tra il giardino dove Gesù fu crocifisso e sepolto e il giardino del Cantico dei Cantici Cirillo Alessandrino poi, nel suo commentario a Giovanni12, nota, a riguardo di 18,1, che il luogo era “un giardino” che aveva la forma dell’antico paradiso; spiega che, come in un giardino ebbe inizio la nostra tristezza, così nel giardino ha inizio la passione di Gesù che deve eliminare tutti i mali causati dal peccato. A proposito di 19,41 inoltre spiega13 che il fatto che nel giardino c’è un sepolcro nuovo, indica che la morte di Gesù permette il ritorno al paradiso. Ai Padri sopra citati si aggiungono altri scrittori ecclesiastici. Così Alcuino stabilisce una relazione antitetica tra il giardino dove il primo uomo peccò e il giardino dove Gesù fu catturato14. Questa stessa antitesi è stabilita pure da Ruperto di Deutz15 e da Strabone16. In epoca più recente la simbologia del giardino è stata ripresa anche da altri interpreti. È sufficiente citare a riguardo soltanto Tommaso
11 Nella catechesi 13,32 Cirillo stabilisce una relazione tra il giardino dove crocifisso Gesù e il giardino di cui parla Ct 5,1, cfr CIRILLO DI GERUSALEMME, In Joannis Evangelium, in PG 33, 813. Nella catechesi 14,5 richiama Ct 4,12; 6,10, cfr ibid., 830. 12 Cfr CIRILLO ALESSANDRINO, In Joannis Evangelium Libri XII, in PG 74, 579. 13 Cfr ibid., 679. 14 Cfr F. ALCUINO, commentariorum in Joannem, in PL 100, 968. A riguardo di Gv 18,1 Alcuino scrive: «bene in horto miseriae nostrae comprehensus est, ut nos in hortum beatitudinis suae induceret. Igitur in horto deliciarum, id est in paradiso, primus [pater] humani generis peccavit, ed ideo ejectus est in hanc vallem lacrymarum. Ideo Christus, secundus Adam, se in horto comprehendi voluit, ut peccatum, quod in horto paradisi primus homo commisit, deleretur». 15 Cfr RUPERTO DI DEUTZ, Commentarius in Joannem, in PL 169, 765. A riguardo di 18,1 Ruperto osserva: «pulchre in horto voluit Adam secundus oboediens inveniri quia videlicet primus Adam in horto, scilicet in paradiso inoboediens inventus, imo a serpente circumventus est». Ruperto continua osservando che, come una volta Satana si servì del serpente per uccidere Adamo, ora si serve di Giuda per uccidere Gesù. 16 Cfr W. STRABONE, Glossa ordinaria. Evangelium secundum Joannem, in PL 114, 418. In Gv 18,1 Strabone scrive: «in horto capitur ut deleret peccatum commissum in horto deliciarum, in quem hujus saeculi torrentem transiens discipulos introduxit».
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d’Aquino17 e Cornelio a Lapide18. In tutti costoro il kh%pov giovanneo nella narrazione della passione si ricollega antiteticamente al giardino genesiaco. Gli interpreti moderni possono essere divisi a riguardo in tre categorie. Alcuni ignorano completamente il problema, limitandosi magari a offrire del giardino soltanto qualche spiegazione topografica, altri accettano il simbolismo del giardino già indicato dai Padri, altri infine positivamente lo escludono. Prescindendo da quelli che ignorano il problema, tra gli interpreti che ripropongono il simbolismo del giardino giovanneo in relazione al giardino genesiaco, possiamo citare Fenton19, Hoskyns-Davey20, Loisy21, Marsh22, Mateos-Barreto23; tra quelli che invece escludono qualsiasi valore
17 A proposito del giardino in Gv 18,1 Tommaso scrive: «ipse (Gesù) satisfaciebat pro peccato primi hominis in horto commisso. Paradisus enim hortus deliciarum interpretatur; item quia per passionem nos in hortum et paradisum coronandos introducit», cfr TOMMASO D’AQUINO, super Evangelium S. Joannis Lectura, a cura di R. CAI, Torino/Roma 19525, 428. A proposito di Gv 19,41 Tommaso continua: «ubi notandum quod Christus in horto captus et in horto passus et in horto sepultus fuit, ad designandum quod per suae passionis virtutem liberamur a peccato quod Adam in horto deliciarum commisit et quod per eum ecclesia consecratur, quae est sicut hortus conclusus, cfr ibid., 457. 18 Cfr CORNELIO A LAPIDE, Commentaria in Joannem, in Commentaria in Sacram Scripturam, VIII, 1. In quatuor evangelia, Melitae 1849, 1138: «quia in horto paradisi peccavit Adam comedens pomun vetitum, hinc peccatum ejus Christus expiare incipit in horto». 19 Cfr J.C. FENTON, The Passion according to John, London 1961, 15, che, a proposito di Gv 19,41, nota che il giardino nel quale Gesù fu crocifisso può richiamare il giardino di Eden in cui cadde il primo uomo. 20 Cfr E.C. HOSKYNS - F.N. DAVEY, The Fourth Gospel, London 19472, 509. Secondo questi autori i commenti dei Padri possono spiegare correttamente il simbolismo: la passione e la resurrezione che operano la salvezza del mondo sono in contrasto con il giardino di Eden. 21 Cfr A. LOISY, LE quatrième évangile, Paris 19212, 453: la menzione del giardino potrebbe essere in rapporto al primo giardino dove il diavolo attendeva gli uomini per perderli. 22 Cfr J. MARSH, The Gospel of St. John, London 19712, 585: osserva che è importante per l’evangelista notare il luogo dell’arresto di Gesù e anche quello della crocifissione e della sepoltura; spiega che è naturale pensare al giardino dell’Eden e alla liberazione dalle sue conseguenze mediante gli eventi di Gesù. 23 Cfr J. MATEOS - J. BARRETO, Il Vangelo di Giovanni, trad. it., Assisi 1982, 695-696: l’orto è il luogo simbolico in cui il chicco di grano, cade, muore e porta molto frutto.
Il “giardino (kh%pov)” nella narrazione della passione…
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simbolico, possiamo citare Beasley-Murray24, Brown25, Dauer26, LeonDufour27, Plummer28, Schnackenburg29, Schanz30, Westcott31. In favore del simbolismo del termine kh%pov possiamo citare ancora alcuni autori particolari. Anzitutto Hoskyns32. Basandosi sul fatto che nei LXX i termini kh%pov e paraédeisov sono sinonimi, egli spiega che Giovanni, usando i termini kh%pov e khpouroév, voglia ricollegarsi al giardino dell’Eden. Gli eventi, che causarono lì la caduta originale, adesso sono ribaltati e il giardino è stato riaperto agli uomini. Il risorto, scambiato da Maria con il khpouroév è il Signore del giardino che può camminare in esso con i redenti33. Inoltre Robinson34. Il giardino del Getsemani per Giovanni non sarebbe il giardino dell’agonia ma “delle delizie” perché contiene in quel
24 Cfr G.R. BEASLEY - MURRAY, Waco (Texas) 1987, 316, secondo cui è difficile ritenere che il legame Eden - Getsemani fosse nella mente dell’evangelista. 25 Cfr R.E. BROWN, Giovanni, cit., 985, secondo cui è arduo giustificare l’esegesi simbolica. 26 Cfr A. DAUER, Die Passiongeschichte im Johannesevangelium, München 1972, 23, secondo cui una tipologia tra Adamo e Gesù e tra l’Eden e il Getsemani non può essere provata. 27 Cfr X. LEON -DUFOUR, Lecture de l’Évangile selon Jean, IV, Paris 1966, 29: contro la lettura simbolica osserva che in Giovanni si legge kh%pov, non paraédeisov. 28 Cfr A. PLUMMER, The Gospel according to St. John, Cambridge 1912 (ultima ristampa), 307, secondo cui in Giovanni non c’è alcun indizio per il confronto tra i due giardini, Eden e Getsemani. 29 Cfr R. SCHNACKENBURG, Il vangelo secondo Giovanni, III, trad. it., 1981, che esclude categoricamente una interpretazione tipologica. 30 Cfr P. SCHANZ, Kommentar über das Evangelium des heiligen Johannes, Tübingen 1885, 531. 31 Cfr B.F. WESTCOTT, The Gospel according to St. John, Gran Rapids 1981 (ristampa dal 1958), 251: il vangelo non offre alcun indizio per un confronto tra l’Eden e il Getsemani. 32 Cfr E.C. HOSKYNS, Genesis I-III and St. John’s Gospel, in JTS 21 (1920) 210-218: 214-215. 33 In questo senso Hoskyns ritiene importante che il tradimento di Giuda sia avvenuto nel giardino: dove il serpente ebbe successo, Giuda fallisce, perché la morte di Gesù che consegue a quel tradimento inaugura una nuova epoca che riapre le porte di Eden, cfr l.c. 34 Cfr B.P. ROBINSON, Gethsemane. The Synoptic and Johannine View-points, in CQR 167-1966 4-11: 5-6.
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momento il Signore della vita. Il Getsemani (18,1) è il nuovo Eden che però è ancora interdetto agli uomini. Lo sarà in 19,4135 dove Gesù vi entra per primo, seguito dai suoi fedeli36. Il tema del giardino riaperto, nota Robinson, compare anche altrove nel NT37 e nello stesso vangelo di Giovanni38. Infine Giblin39, sia in 18,1 sia anche in 19,4140, preferisce considerare il kh%pov giovanneo non come l’antitesi dell’Eden genesiaco ma come un luogo appartato, un luogo dove si attua una stretta intimità tra Gesù e i discepoli o tra Gesù e quelli che, come Nicodemo, lo stimavano. Fuori dal giardino Gesù si incontra con i soldati, ma nel giardino avviene l’incontro con la Maddalena. Recentemente il valore simbolico del giardino giovanneo è stato ribadito con forza da Manns41. Lo studio di Manns è apprezzabile soprattutto per il ricco florilegio di testi rabbinici e apocalittici sul simbolismo del paradiso nel giudaismo palestinese42. Sembra perciò che tra gli interpreti moderni, nonostante quelli che escludono ogni allusione simbolica, si va avanti una nuova tendenza ad attribuire un valore simbolico al kh%pov dove Gesù entrò con i discepoli (18,1) e dove era il sepolcro nuovo in cui Gesù fu deposto (19,41).
35
Robinson accosta l’immagine del sepolcro nuovo dove nessuno ancora era stato posto, cfr l.c. 36 Tra questi bisogna includere la Maddalena e le altre donne. 37 Robinson cita Lc 23.43 e Ap 22,14, cfr l.c. 38 Cita Gv 6, dove il “cibo di vita” richiama i frutti di Gen 2-3. 39 Cfr C.H. GIBLIN, Confrontations in John 18,1-27, in Bib 65 (1984) 210-232: 218. 40 Deve essere attribuita probabilmente ad un errore di stampa la duplice indicazione, nello studio di Giblin, nel contesto di quattro righe, di «Gv 19,21»; si tratta in realtà di Gv 19,41. 41 Cfr F. MANN, le symbolisme du jardin dans le récit de la passion selon St. Jean, in LA 37 (1987) 53-80. 42 Lo Studio tuttavia lascia perplessi per due aspetti. Anzitutto per la struttura letteraria della narrazione giovannea della passione, che ricalca, a quanto pare, quella proposta da A. JANSSENS DE VAREBEKE, La structure des scènes du récit de la passion en Joh 18-19, in ETL 38 (1962) 504-522. Inoltre sembra che Manns applichi di peso, in appena quattro pagine, delle prospettive giudaiche al testo giovanneo che invece esige più ampia e dettagliata analisi.
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3. Il termine kh%pov nei LXX Nei LXX invece il termine kh%pov è relativamente più frequente. Esso si legge 36 volte43 e, dove corrisponde ad un termine ebraico, traduce i termini }"G44, hfNiG45, hfNaG46. Al contrario, non sempre la terminologia ebraica sopra indicata è tradotta con kh%pov. Talora essa è tradotta anche con il termine paraédeisov47. Due termini perciò traducono, nei LXX, la stessa terminologia ebraica. Il termine kh%pov però, oltre che nei LXX, è attestato anche nelle altre versioni greche48. l termine paraédeisov invece si legge 43 volte49. I due termini greci rimandano talora, in contesto narrativo, sia ad un giardino concreto materiale50 sia anche ai luoghi dell’idolatria51. Talora poi i due termini sono introdotti come un paragone che serve ad esprimere lo
43 Cfr Dt 11,10; 1Re 20(21),2.2; 2Re 21,18.18.26; 25,4; Ne 3,15; Est 7,7.8; Qo 2,5; Ct 4,12.12.15.16.16 (TE 5,1); 5,1; 6,1(2).1(2).10(11): 8,13; Sir 24,31; Am 4,9; 9,14; Is 1,29; 58,11; 61,11; 65,3; 66,17; Ger 36(29),28; 52,7; EpGer 15 (A).70; Ez 36,35; Dn (LXX) Su 58. 44 Cfr Dt 11,10; 1Re 20(21),2; 2Re 21,18.18.26; 25,4; Ct 4,12a.15.16; 5,1(4,16).1; 6,1(2).1(2); 8,13; Is 58,11; Ger 52,7; Ez 36,35. 45 Cfr Est 7,7.8; Ct 6,10(11). 46 Cfr Qo 2,5; Am 4,9; 9,14; Is 1,29; 61,11; 65,3; 66,17; Ger 36(29),28. 47 Il termine paraédeisov traduce i termini ebraici: }aG (Gen 2,8.9.10.15.16; 3,1.2.3.8.8.10.23.24; Gl 2,3; Is 51,3; Ger 36(29),5; Ez 28,13); hfNaG (Is 1,30); }ed"( (Ne 2,8; Qo 2,5; Ct 4,13, Is 51,13). 48 Nella versione di Aquila (Gen 2,8; 3,2[1]; Ct 8,13; Is 1,29; 51,3; Ger 31[38],12; Ez 31,8); nella versione di Simmaco (Ct 8,13; Is 1,29, Ger 31[38],12); nella versione di Teodozione (Gen 3,2[1]; Ct 8,13; Is 1,29; 51,3.3; Ger 39[46],4; Ez 28,13; 31,8). 49 Cfr Gen 2,8.9.10.15.16; 3,1.2.3.8.8.10.23.24; 2Cr 33,20; Ne 2,8; Ct 4,13; Qo 2,5; Sir 24,31; 40,17.27; Gl 2,3; Is 1,30; 51,3; Ger 36(29),5; Ez 28,13; 31,8.8.9; Dn Su (LXX): 4.7.36.54; Dn Su (LXX): 4.7.15.17.18.20.25.26.36.36.38. 50 Il termine kh%pov in 1Re 21(LXX: 20), 2.2 si riferisce al giardino di ortaggi in cui Achab intende trasformare la vigna di Nabot. In 2Re 21,18 si parla del «giardino di Uza (e\n khép§ Oza)» dove fu sepolto Manasse, cfr v 26. Inoltre talora si parla del «giardino del re (kh%pov tou% basileéwv)»: evidentemente si tratta del giardino adiacente alla reggia (cfr anche 2Re 25,4; 2Cr 33,20 [paraédeisov]; Ne 2,8 [paraédeisov]; 3,15; Est 7,7.8; Ger 52,7). Inoltre Dt 11,10; Qo2,5; Ger 29 (36),5 (paraédeisov).28 (kh%pov). 51 Cfr Is 1,29 (kh%pov).30 (paraédeisov); 65,3 (kh%pov); 66,17 (kh%pov); EpGer 15 (kh%pov) (A).70(kh%pov).
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splendore e la bellezza di una certa realtà52. In Ezechiele al re di Tiro e ad Assur è assegnato, come loro posto originale, l’Eden, il giardino di Dio53: si tratta evidentemente di una metafora che richiama ancora l’aspetto della bellezza e dello splendore. È difficile ritenere che il nostro evangelista, nei suoi usi del termine kh%pov, possa alludere ad alcuno dei testi sopra indicati. Quelli che rimandano ad un giardino concreto o ai luoghi dell’idolatria non vanno oltre l’aspetto materiale e in nessun modo appaiono aperti a ricevere un significato più profondo; in ogni caso non troviamo nei testi giovannei alcun elemento che in qualche modo possa richiamarli. Nemmeno sembrano essere allusi quelli in cui il termine kh%pov è introdotto come un paragone. In questi testi infatti il soggetto logico non è il kh%pov ma quelle realtà che ad esso sono paragonate: nei testi evangelici il kh%pov appare invece una realtà direttamente intesa dall’evangelista e presentata in se stessa. Possiamo perciò prescindere da questi testi54. 52 Cfr Sir 40,17: «la grazia è come un giardino (w|v paraédeisov) di benedizione», cfr 27: «il timore del Signore è come un giardino (w|v paraédeisov) di benedizione»; Is 51,3: «il Signore ha pietà di Sion […] rende il deserto come l’Eden (nulla nei LXX) e la sua steppa come un giardino del Signore (w|v paraédeison Kuròou)»; 58,11: «ti guiderà il Signore sempre […] sarai come un giardino irrigato (w|v kh%pov mequéwn)», 61,11: «come un giardino seminato germoglia (così il TM: axyim:cat fhye(Ur"z hfNag:kU, LXX: w|v kh%pov taè speérmata au\tou%) così il Signore Dio farà germogliare l’equità». In Ger 31 (38),12: «come un giardino irrigato non languiranno mai», l’espressione ebraica }ag:K è tradotta con il termine xuélov (w$sper xuélon); le versioni di Aquila e Simmaco usano però il termine kh%pov. 53 A riguardo del re di Tiro leggiamo in Ez 28,13: «in Eden, giardino di Dio (TM: {yiholE)-{aG }ed"(:B; LXX: e\n t+% truf+% tou% paradeòsou [TH: kh%pov] tou% qeou%), tu eri coperto di ogni pietra preziosa». A riguardo di Assur poi in Ez 31,7-8 leggiamo: «era bello nella sua altezza […] nel giardino di Dio (TM: {yiholE)-}aG:B; LXX: e\n t§% paradeòs§ tou% qeou%) e ogni albero del giardino di Dio (TM: {yiholE)-}aG:B; LXX: e\n t§% paradeòs§ tou% qeou%) lo pareggiava in bellezza». Ancora in Ez 31,9, sempre in relazione ad Assur. «bello lo avevo fatto nella moltitudine dei suoi rami e tutti gli alberi dell’Eden che nel giardino di Dio (TM: {yiholE)fh }aG:B re$A(-y"cA(-lfK; LXX: tou% paradeòsou [Aquila e Teodozione: kh%pov] th%v trufh%v tou tou% qeou%), ne erano gelosi». 54 Ci chiediamo tuttavia se l’evangelista non possa in qualche modo alludere all’espressione o| kh%pov tou% Basileéwv che leggiamo soprattutto in 2Re 25,4 e in Ger 52,7 e che si riferisce al giardino del palazzo reale menzionato anche in 1Re 20 (21),2; 21,26; 2Cr 33,20; Ne 2,8; 3,15; Ger 39 (46),4. Il kh%pov infatti, in Gv 19,41, è relazionato al luogo dove Gesù fu crocifisso e la crocifissione di Gesù, in Gv 19,17-22, è legata all’aspetto della regalità.
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Alcuni testi però debbono essere considerati in maniera più particolare. Essi sono specificamente tre: alcuni passaggi di Gen 2-3, alcuni passaggi del Cantico dei Cantici e alcuni passaggi del racconto di Susanna nel libro di Daniele.
3.1. Gen 2-3 Il primo testo, o la prima serie di testi, che consideriamo sono i cc 2-3 del libro della Genesi, dove, nel TM, leggiamo, anche con relativa frequenza, il termine }aG. Questo termine perciò è tradotto dai LXX sempre con paraédeisov, ma la versione di Aquila attesta però il termine kh%pov in Gen 2,8 e 3,1; la versione di Simmaco invece soltanto in Gen 3,1. In 2,8 è narrata la creazione di questo giardino; leggiamo nel testo che: «il Signore Dio piantò un giardino (LXX: paraédeison) in Eden a oriente e lì pose l’uomo che formò». Nel v 9 è narrata la formazione della vegetazione: insieme agli alberi belli a vedersi e buoni a mangiarsi, è menzionato, al terzo posto, «l’albero della conoscenza del bene e del male». Al secondo posto, in posizione centrale, è menzionato l’albero della vita: di esso si dice che è «nel mezzo del giardino (TM: }fGah |ow:B; LXX: e\n meés§ t§% paradeòs§)». Nel v 10 si parla di un fiume che usciva da Eden per irrigare il giardino (LXX: toèn paraédeison) e da lì si divideva in quattro rami e il Signore Dio comandò all’uomo di mangiare di ogni albero (LXX: a\poè pantoèv xuélou) del giardino (LXX: tou% e\n t§% paradeòs§) (v 16). Nel c 3 si introduce la figura del serpente il quale, in maniera insinuante, chiede alla donna se Dio ha detto veramente di non mangiare «da ogni albero (LXX: a\poè pantoèv xuélou) del giardino (LXX: tou% e\n t§% paradeòs§)» (v 1). La donna risponde che è possibile mangiare «del frutto dell’albero (LXX: a\poè karpou% xuélou) del giardino (LXX: tou% paradeòsou)» (v 2); precisa anche che Dio ha detto di non mangiare: «del frutto dell’albero (LXX: a\poè karpou% tou% xuélou) che è nel mezzo del giardino (LXX: o$ e\stin e\n meés§ tou% paradeòsou)» (v 3). Nel v 8 il termine }fG, con la sua traduzione paraédeisov, è introdotto due volte. La prima volta, nel v 8a, si dice che Adamo e la sua moglie udirono la voce di Dio «che camminava nel giardino (LXX: e\n t§%
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paradeòs§)» alla brezza del giorno; la seconda volta si dice che l’uomo e la sua moglie, all’udire la voce di Dio, «si nascosero dal cospetto del Signore nel mezzo del giardino (LXX: e\n meés§ tou% xuélou tou% paradeòsou)». Nel v 10 l’uomo giustifica il suo nascondimento: «ho udito la tua voce mentre camminavi (peripatou%ntov) nel giardino (e\n t§% paradeòs§)»; per questo motivo, essendo nudo (gumnoév), l’uomo si nascose. Più importanti al nostro scopo sono, probabilmente, i vv 23 e 24. Nel v 23 leggiamo che «il Signore Dio lo mandò (l’uomo) dal giardino di Eden (LXX: e\k tou% paradeòsou th%v trufh%v) per lavorare la terra dalla quale fu tratto». Infine, nel v 24, il narratore conclude che Dio «cacciò l’uomo e pose davanti al giardino di Eden (LXX: a\peénanti tou% paradeòsou th%v trufh%v) dei cherubini per custodire la strada dell’albero della vita». Il racconto genesiaco si conclude in maniera negativa: l’uomo viene escluso dal giardino dell’Eden.
3.2. Il Cantico dei Cantici Pure importanti al nostro scopo appaiono alcuni passaggi del libro del Cantico dei Cantici. In 4,12 leggiamo una definizione della sposa: «giardino racchiuso, sorella mia sposa, fonte racchiusa, fonte sigillata». Il termine “giardino” corrisponde al termine ebraico }aG, tradotto dai LXX con il termine kh%pov. Il primo dei due termini “fonte” traduce il termine ebraico laG; c’è però la lettura variante }aG, seguita da molti codici e dalle versioni greca (LXX), vetus latina, volgata e siriaca. I LXX infatti traducono kh%pon. In ogni caso il termine kh%pov è una immagine con cui è caratterizzata la sposa. In questa stessa prospettiva si muovono i due usi seguenti nei vv 13 e 15. Nel v 13 continua ancora la caratterizzazione della sposa: «i tuoi germogli (sono) un giardino di melograni, con i frutti più delicati». In questo testo però il termine “giardino” corrisponde al termine ebraico s"D:raP, tradotto, o traslitterato, dai LXX con il termine paraédeisov. La caratterizzazione della sposa, o, più precisamente, dei suoi
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“germogli” (v 13)55, continua ancora nel v 1556: «fonte di giardini, fonte di acqua viva che fluiscono dal Libano». Il termine “giardini” corrisponde qui al termine {yiNaG, tradotto dai LXX ancora con il termine kh%pov (khépwn). In 4,16 sembra che parli la sposa, come appare dal termine maschile yidowd (a\delfidoév moi), dal verbo maschile lak)ooyw: (fageétw) e dal suffisso maschile del termine wyfdfg:m (a\krodruéwn au\tou%),: «destati, aquilone, e vieni, vento orientale; soffia nel mio giardino; fluiscano i suoi balsami, venga il mio amico al suo giardino, mangi il frutto delle sue delizie». Il duplice termine “giardino” corrisponde al termine ebraico }aG, tradotto dai LXX entrambe le volte con il termine kh%pov57. Alla luce dei versi precedenti, dove è paragonata ad un “giardino”, possiamo ritenere che in questo verso la sposa non rimandi, con questo termine, ad un giardino reale ma, metaforicamente, alluda a se stessa. Ella invoca l’aquilone e il vento orientale perché la rendano feconda58, di modo che a lei possa venire il suo amico e possa in lei trovare piacere. Il testo di 5,1 appare come una risposta da parte dello sposo all’anelito della sposa in 4,16. Lo sposo dichiara: «sono venuto nel mio giardino, sorella mia sposa; ho colto la mia mirra (TM: yirowm; LXX: smuérnan mou) con il mio balsamo (TM: yimf&:B-{i(; LXX: metaè a\rwmaétwn mou); ho mangiato il mio favo con il mio miele; ho bevuto il mio vino con il mio latte». Il termine “giardino” corrisponde ancora all’ebraico }aG (yiNag:l) tradotto dai LXX con il termine kh%pov (ei\v kh%poén sou). Il v 1 si conclude con un invito agli amici a mangiare, bere e inebriarsi. Tale invito si lega male con le dichiarazioni precedenti; probabilmente esso vuole esprimere l’abbondanza delle delizie che lo sposo ha trovato nel suo giardino, al punto da restarne metaforicamente in grande quantità anche per gli amici.
Cfr TM: |iyx a l f $ : ; i LXX, in maniera forse più materiale, traducono con paraédeisov. Pure nel v 14 intermedio troviamo simile caratterizzazione: «nardo e croco, cannella e cinnamomo, con ogni specie di alberi da incenso, mirra e aloe con tutti i più preziosi aromi». 57 Cfr v 16a: yiNag (LXX: kh%poén mou); v 16b: owNag:l (LXX: ei\\v kh%pon au\tou%). 58 Cfr l’espressione: «fluiscano i suoi balsami». 55
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Alla luce del testo di 4,16 il termine “giardino” dev’essere ancora una metafora riferita alla sposa. Lo sposo è venuto da lei e in lei ha trovato abbondanti delizie descritte con svariate immagini. Più importante al nostro scopo sembra invece il testo di 6,1-2. Esso però è preceduto dal testo di 5,2-8 dove è introdotta ancora la figura della sposa. Ella sente bussare alla porta: è il suo amato che bussa e chiede che le apra (v 2). Si alza per aprirgli (v 5) ma questi era già partito (v 6). Tale partenza determina una ansiosa ricerca: «l’ho cercato (e\zhéthsa) ma non l’ho trovato (ou\c eu/ron); l’ho chiamato (e\kaélesa) ma non m’ha risposto (u|phékouseén me)». Tale ricerca è così affannosa da sfidare anche l’ostilità delle guardie (v 7). In questa ricerca la sposa coinvolge anche le figlie di Gerusalemme (v 8), alle quali affida un messaggio per il suo amato se mai esse lo trovano: «che cosa gli racconterete? Che malata di amore sono io». Il testo di 5,9 richiama il testo di 6,1: entrambi infatti contengono una domanda delle figlie di Gerusalemme alla sposa. Le due domande però sono differenti. La prima (5,9) riguarda la natura e l’indole dell’amato; essa deve superare quella di qualsiasi altro uomo se la supplica della sposa è così pressante: «che cos’è il tuo amato più di ogni altro amato che tu ci hai così scongiurate?» Segue nei vv 10-16a, da parte della sposa, una lunga descrizione “dell’amato”, ricca di immagini, che si conclude poi nel v 10b: «questo è l’amato mio, questo il mio amato, o figlie di Gerusalemme». Più importante, almeno al nostro scopo, è la seconda domanda delle figlie di Gerusalemme in 6,1. Esse le chiedono dove è andato il suo amato. Per poterlo trovare infatti è importante sapere dove egli è andato: «dove è andato il tuo amato, o bella tra le donne? Dove è andato il tuo amato e noi lo cercheremo con te?». La risposta a questa domanda è contenuta nel v 2: «il mio amato era sceso (TM: daryf ; LXX: kateébh) nel suo giardino, alle aiuole del balsamo (TM: {e&oBah; LXX: ei\v fiaélav tou% a\rwématov), per pascolare (TM: tow(:ril LXX: poimaònein) nei giardini e raccogliere gigli». Troviamo in questo verso due volte il termine }aG59, tradotto dai LXX
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Cfr v 2a: owNag:l; v 2b: {yiNaGaB:.
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sempre con il termine kh%pov60. È difficile però stabilire se in questo testo il termine “giardino” si riferisca ad una realtà materiale distinta dalla sposa oppure non debba essere identificato ancora con essa e, in questo caso, il termine potrebbe essere anche un eufemismo sessuale. Prescindiamo, almeno per ora, da questi problemi. Ci limitiamo soltanto a notare il v 3 dove la sposa esprime il suo rapporto di stretta ed intima appartenenza con il suo sposo: «io (appartengo) al mio amato e il mio amato a me, che pascola tra i gigli»61. Un altro uso del termine kh%pov è in 6,11. Nel v 10 continuano le parole dello sposo introdotte già nei vv 4-9. Nel v 10 egli dice: «chi è costei che avanza come l’aurora, bella come la luna, splendida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati»? Nel v 11 ancora lo sposo continua: «nel giardino di noce (TM: zowgE) taNaG-le); LXX: ei\v kh%pon karuéav) sono sceso (TM: yiT:darfy; LXX: kateébhn) per vedere le erbe verdi del torrente62, per vedere il germe della vita: fioriscono i melograni». Anche per questo testo si pone lo stesso problema di 6,2, se cioè il termine kh%pov, dove è sceso lo sposo, debba distinguersi dalla sposa o non debba identificarsi con lei. Al nostro scopo però interessa il fatto che lo sposo è “sceso” nel giardino. L’ultimo uso del termine kh%pov infine è in Ct 8,1363. Chi parla probabilmente è lo sposo che si rivolge alla sposa64. A lei egli dice: «o tu che abiti nei giardini (TM: {yiN"aGaB tebe$owYah:: LXX: o| kaqhémenov). Il Cantico si conclude nel v 14 dove la sposa esorta lo sposo a
Cfr v 2a: ei\v kh%pon au\tou%; v 2b: e\n khépoiv. Cfr TM: {yiNa$ow<aB he(orfh yil yidowd:w yidod:l yinA); LXX: e\gwè t§% a\delfid§% mou, kaì a\delfidoév mou e\moì, o| poimaònwn e\n to_v krònoiv. 62 Cfr TM: laxfNah; LXX: tou% ceimaérrou. 63 Il termine kh%pov in questo testo è attestato anche nei frammenti di Aquila, Simmaco e Teodozione. 64 Cfr il participio femminile tebe$owYah e il suffisso femminile nell’espressione |"lowq:l. Inoltre il riferimento di queste parole alla sposa è suggerito anche dal contesto: nei vv 10-12 infatti parla la sposa e pure nel v 14. In contesto dialogico le parole del v 13 si possono riferire ragionevolmente alla sposa. I LXX però riferiscono queste parole allo sposo; cfr il participio presente o| kaqhémenov. 60 61
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fuggire: «fuggi (TM: xarB : ; LXX: fuége), amato mio, e renditi simile a gazzella o ad un capriolo sopra i monti degli aromi». La prospettiva pare negativa: la sposa non è riuscita a possedere il suo sposo.
3.3. Il racconto di Susanna Nel racconto di Susanna, nel libro di Daniele, leggiamo pure il termine paraédeisov, meno frequente nel testo dei LXX65 e più frequente nel testo di Teodozione66. In Dn Su 58 leggiamo però anche il termine kh%pov. In questo testo si narra che un certo nobile Joakim che possedeva un giardino (v 4), dove la sua moglie Susanna era solita entrare a passeggiare e a fare il bagno (v 15). Due uomini, ardenti di passione per lei, aspettavano l’occasione per sedurla. Questa si presentò un giorno in cui Susanna, entrata nel giardino per fare il bagno (v 15) e avendo mandato le ancelle a prendere profumi ed aromi (v 17), rimase sola. I due uomini decisero di approfittarne (v 20) e la indussero a unirsi a loro. Susanna gridò (v 25) e i due uomini, sorpresi, ritorsero, mentendo, l’accusa contro di lei. Alcuni passaggi del racconto però debbono essere più specificamente notati: 1. Il v 21 dove leggiamo (LXX): «se no, testimoniamo (i due anziani contro Susanna) contro di te (katamarturhésomeén sou) che c’era con te (metaè sou%) un giovane e per questo hai allontanato le ancelle». 2. Il v 37 dove ancora leggiamo (LXX): «e aggirandoci (parlano i due anziani) per lo stadio (toè stadòon) vedemmo (eùdomen) costei che giaceva (a\napauomeénhn) con un uomo (metaè a\ndroév) e, fermatici, vedevamo (e\qewpou%men) questi mentre conversavano l’un l’altro (o|milou%ntav a\llhéllouv)».
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Solo quattro volte nei vv 4.7.36.54. Undici volte, nei vv 4.7.15.17.18.20.25.26.36.36.38.
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3. v 38 (LXX): «(parlano i due anziani) ed essi non sapevano che stavamo lì; allora convenimmo a vicenda dicendo: impariamo chi sono questi». 4. v 39 (LXX): «e accostatici a loro, conoscemmo lei; il giovane fuggì coperto». 5. v 36 (TH): «dissero gli anziani: mentre noi camminavamo nel giardino (e\n t§% paradeòs§) soli, entrò lei con due ancelle e, chiuse le porte del giardino (tou% paradeòsou), rimandò le ancelle». 6. v 37 (TH): «e venne da lei un giovane che era nascosto e giacque (a\neépesen) con lei (met}au\th%v)». 7. v 38 (TH): «noi, essendo nell’angolo del giardino (tou% paradeòsou), avendo visto (i\doéntev) l’iniquità, corremmo da loro». 8. v 39-40 (TH): «e avendo visto (i\doéntev) essi, mentre si incontravano, quello non potemmo afferrarlo perché era più forte di noi e, avendo aperto le porte, balzò fuori» - (v 40) «e avendo afferrato quella, chiedevamo chi era il giovane, ma quella non volle dirlo». 9. v 54 (LXX): «(Daniele al primo anziano) e ora sotto quale albero e in quale luogo del paradiso (tou% paradeòsou) hai visto (e|wérakav) essi che erano (o$ntav) con se stessi (suèn e|auto_v)? E disse l’empio: sotto un lentischio». 10. v 54 (TH): «(Daniele al primo anziano) e ora se costei (tauéthn) hai visto (eùdev), sotto quale albero hai visto (eùdev) essi che conversavano insieme (o|milou%ntav a\llhélouv)? Quello disse: sotto un lentischio». 11. v 58 (LXX): «(Daniele al secondo anziano) e ora dì a me sotto quale albero e in quale luogo del giardino (tou% khépou) li hai sorpresi (kateélabev au\touév) mentre conversavano a vicenda (o|milou%ntav a\llhélouv)? Quello disse: sotto un leccio». 11. v 58 (TH): «(Daniele al secondo anziano) e ora dì a me sotto quale albero li hai sorpresi (kateélabev au\touév) mentre conversavano a vicenda (o|milou%ntav a\llhélouv)? Quello disse: sotto un leccio». Tutti questi passaggi del racconto di Susanna possono avere ispirato, come discuteremo più avanti, il testo di Gv 18,26, dove uno dei servi, cognato di colui a cui quello aveva reciso l’orecchio, obietta a Pietro: « non io (ou\k e\gwé) te vidi (seè eùdon) nel giardino (e\n t§% khép§) con lui (met}au\tou%)?».
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4. Il testo di Gv 18,1 Tau%ta ei\pwèn }Ihsou%v e\xh%lqen suèn to_v maqhta_v au\tou% peéran tou% ceimaérrou tou% Kedrwèn o$pou h&n kh%pov ei\v o£n ei\sh%lqen au\toèv kaì oi| maqhtaì au\tou%. (avendo detto queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli oltre il torrente Kedron, dove era un giardino, nel quale entrò egli e i suoi discepoli)
4.1. Critica testuale Dal punto di vista della critica testuale il testo di Gv 18,1 non presenta problemi particolari. Prescindendo da quello più marginale se il nome proprio }Ihsou%v debba leggersi con o senza l’articolo67, il problema più rilevante riguarda il termine Kedrwén. Alcuni codici attestano, unito a questo termine, l’articolo plurale tw%n (tw%n Kedrwén)68; altri invece leggono, unito all’articolo singolare, il termine Kedrou% (tou% Kedrou%)69; altri infine, meno numerosi, attestano la lettura tou% Kedrwén70. Nonostante la scarsità delle sue attestazioni, solo quest’ultima lettura sembra essere quella originale. Le altre due infatti sono facilmente spiegabili per reciproca assimilazione: alcuni codici avrebbero assimilato l’articolo singolare al termine Kedrwén ritenuto plurale (tw%n Kedrwén), altri invece avrebbero assimilato il termine Kedrwén all’articolo singolare (tou% Kedrou%).
Così i codici A C D Lc W Q Y, i codici elencati da Lake e da Ferrar, il codice 33 e molti altri della Koinè e probabilmente anche nel P66. Il nome si legge senza articolo nei codici B ) L*. 68 Così i maiuscoli S2 B C L G Q Y, i codici elencati la Lake e da Ferrar, il codice 054, molti codici della tradizione Esichiana e della Koinè, alcuni codici latini, in parte la versione boairica e Origene. 69 Così i codici S* D W , i latini a b r, la versione sahidica e in parte la boairica. 70 Così i codici A S c D 0250, altri pochi, la versione Volgata e le siriache, sinaitica e peshitto. 67
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In realtà il termine Kedrwén sembra essere un nome indeclinabile. Esso nel NT si legge solo in Gv 18,1, ma è attestato anche nei LXX71 e in altre versioni greche72 dove appare come una traslitterazione del termine ebraico }owr:diq73.
4.2. Struttura letteraria Il testo di Gv 18,1 appare strutturato secondo uno schema concentrico. Dopo l’espressione iniziale tau%ta ei\pwén, esso può essere proposto nel seguente modo: 1. }Ihsou%v e\xh%lqen suèn to_v maqhta_v au\tou% 2. peéran tou% ceimaérrou tou% Kedrwèn 3. o$pou h&n kh%pov 4. ei\v o£n 5. ei\sh%lqen au\toèv kaì oi| maqhtaì au\tou%. Il primo e il quinto elemento contengono i due verbi correlativi, e\xh%lqen e ei\sh%lqen, con il soggetto Gesù74 e la menzione dei discepoli75. Il secondo e il quarto elemento sono due complementi di moto a luogo76. Al centro risalta la proposizione relativa o$pou h&n kh%pov. Il termine kh%pov, l’ultimo elemento di questa proposizione, si trova così in posizione
71 Cfr 2Sam 15,23.23; 1Re 15,13; 2Re 2,37; 23,4.6.6.12; 2Cr 15,16; 29,16; 30,14; Ger 38(31),40. 72 Cfr 2Re 23,4 (Aquila, Simmaco, Teodozione). Nella versione di Aquila si legge anche al v 12. 73 In tutti i testi sopra citati, tranne in 1Re 15,13 nel testo tramandato da Luciano dove è aggiunto l’articolo tw%n, il termine Kedrwén è usato senza articolo e in maniera apposizionale; esso si intende meglio come un nome proprio traslitterato e indeclinabile. 74 }Ihsou%v (1) - au\toév (5). 75 suèn to_v maqhta_v au\tou% (1) - oi| maqhtaì au\tou% (5). Prescindiamo dalla diversa posizione strutturale degli elementi e dalla diversa relazione sintattica non essenziali al nostro scopo. 76 peéran tou% ceimaérrou tou% Kedrwén (2) - ei\v o$n (4).
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enfatica. Emerge l’intenzione dell’evangelista di evidenziare in maniera particolare questo termine.
4.3. Confronto con i vangeli sinottici La descrizione giovannea non discorda fondamentalmente da quella dei vangeli sinottici. Matteo e Marco riferiscono alla lettera la stessa espressione kaì u|mnhésantev e\xh%lqon ei\v toè o$rov tw%n e\laòwn (e avendo cantato l’inno, uscirono verso il monte degli ulivi) (Mt 26,30; Mc 14,26). In quest’espressione i due evangelisti concordano con Giovanni nell’uso del verbo e\xeércomai. Le differenze però sono pure evidenti. Giovanni non parla del canto dell’inno né menziona il monte degli ulivi. L’espressione giovannea, rispetto ai vangeli sinottici, per un verso è più precisa per l’altro rimane più vaga. É precisa per la menzione del torrente “Kedron” e per la menzione del giardino; è più vaga, perché non identifica quel giardino con il monte degli ulivi77. Inoltre, mentre Giovanni menziona distintamente sia Gesù che i discepoli, Matteo e Marco invece li accomunano nel plurale e\xh%lqon. Poco dopo, in Mt 26,36 e Mc 14,32, i due evangelisti narrano78 l’arrivo in un podere (cwròon) detto Getsemani79. Pure qui, pur con delle differenze, essi procedono parallelamente80. Stavolta però la differenza con
77 L’espressione o$rov tw%n e\laòwn è molto rara nei LXX: si legge solo in Zc 14,4,4. Nei vangeli è più frequente: si legge in Mt 21,2; 24,3; 26,30; Mc 11,1; 1,3; 14,26. In Giovanni si legge solo in 8,1, un testo probabilmente non giovanneo, l’episodio della donna adultera. 78 Nei versi intermedi (Mt 26,31-35 e Mc 14,27-31) i due evangelisti introducono la parole di Gesù che, citando Zaccaria, preannunzia lo scandalo e poi, all’insistenza di Pietro, anche il suo rinnegamento. Di ciò Giovanni non dice nulla: egli ha già trasferito l’annunzio del rinnegamento in 13,38. 79 Il termine Geqshmanò si legge in tutta la bibbia greca solo in Mt 26,36 e Mc 14,32. Esso è chiaramente una traslitterazione dell’ebraico yinfm:$ t"G. 80 Matteo usa l’espressione più lunga toéte e"rcetai met}au\tw%n o| }Ihsou%v; Marco
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Giovanni è più marcata: i due sinottici usano il verbo e"rcomai (giungere) Giovanni invece usa il verbo composto ei\seércomai (entrare)81. Oltre l’aspetto tematico più generale dell’uscita e dell’ingresso, Giovanni perciò, dal punto di vista letterario, concorda con Matteo e Marco soltanto nel verbo e\xeércomai. Luca, pur concordando ancora nella tematica generale, in 22,39-40 si rivela più autonomo rispetto alla tradizione di Matteo e Marco. Con questi due evangelisti egli specificamente concorda sia nell’uso del verbo e\xeércomai sia anche nell’uso del complemento di moto a luogo ei\v toè o"rov tw%n e\laiw%n. Differisce però da essi in diversi elementi: usa anzitutto il verbo e\poreuéqh, introduce inoltre l’espressione kataè toè e"qov con cui specifica che era nell’uso di Gesù recarsi al monte degli ulivi, precisa ancora il rapporto tra Gesù e i discepoli caratterizzandolo come un rapporto di sequela (h\kolouéqhsan), distingue poi tra Gesù e i discepoli, non usa il verbo e"rcomai ma il verbo gònomai (genoémenov), non parla infine di «un podere chiamato Getsemani», ma usa il termine più generico toépov: «divenuto (genoémenov) nel luogo (e\pì tou% toépou)». Oltre che nel verbo e\xeércomai, comune anche a Matteo e Marco, Giovanni concorda con Luca in diversi elementi: dal punto di vista tematico concorda nella evocazione dell’uso abituale di Gesù di recarsi al monte degli ulivi82; concorda ancora nella distinzione tra Gesù e i discepoli, nell’uso del termine toépov, introdotto però, nel verso seguente (v 2), come oggetto (toèn toépon) della conoscenza di Giuda.
scrive soltanto il verbo e"rcontai. Inoltre, mentre Matteo usa il participio presente legoémenon, Marco introduce la proposizione relativa ou/ toè o"noma. 81 Stavolta la frase giovannea è molto breve: leggiamo l’espressione ei\v o$n, con riferimento al kh%pov. 82 La formulazione giovannea però è diversa. Il nostro evangelista menziona quest’uso di Gesù con l’espressione o$ti pollaèkiv sunhécqh }Ihsou%v e\ke_ (poiché spesso si radunò Gesù lì) introducendolo però come motivazione (cfr la particella o$ti) della conoscenza (+"dei) del luogo (toèn toépon) da parte di Giuda.
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4.4. Peculiarità giovannee Come emerge dal confronto sommario con i sinottici sopra proposto, gli elementi propri giovannei, almeno in 18,1, sono diversi. Anzitutto è propria tutta l’espressione peéran tou% ceimaérrou tou% Keédrwn (al di là del torrente Kedron), inoltre sono propri sia il termine kh%pov sia anche il verbo ei\seércomai. La caratteristica che emerge nel testo giovanneo è quella che possiamo chiamare una “precisione indefinita”. Da una parte infatti il nostro evangelista è più preciso, dall’altra invece rimane vago. Offre con una certa accuratezza una indicazione geografica: «oltre il torrente Kedron (peéran tou% ceimaérrou tou% Keédrwn)», definisce poi la natura del luogo: “un giardino (kh%pov)”, introduce dopo, nel v 2, il termine toépov con l’articolo. Egli però evita di indicare il nome preciso di questo luogo che, secondo i sinottici, è: “monte degli ulivi” oppure “Getsemani”. Queste peculiarità giovannee rivelano che l’evangelista ha nella sua narrazione un preciso punto di vista. A lui interessa non il nome del luogo, ma il fatto che Gesù sia uscito, che sia andato «oltre il torrente Kedron», che lì vi era un giardino, che in quel giardino entrò egli e i suoi discepoli. Si pone perciò il problema di stabilire quale sia concretamente questo suo punto di vista.
4.5. La prospettiva giovannea La specifica menzione del «torrente Kedron», in se stessa, almeno alla prima e immediata lettura, non offre, oltre l’aspetto geografico, alcun’altra indicazione. Questo torrente, che caratterizza la città di Gerusalemme, come abbiamo già notato, è menzionato solo qui nel NT. Nell’AT invece è presente in diversi testi; non pare però che il nostro testo alluda in qualche modo ad alcuno di essi. Possiamo però cogliere la prospettiva giovannea considerando, al di là della precisa indicazione geografica, lo sviluppo schematico del testo. In tale sviluppo sono importanti: il verbo e\xeércomai (uscire), l’indicazione «oltre (peéran) il torrente Kedron», la menzione del kh%pov, il verbo
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ei\seércomai (entrare). Tutti questi elementi, insieme, ci offrono lo schema dell’esodo e ci richiamano anche quell’evento. Notiamo anzitutto i due verbi: “uscire (e\xeércomai)” ed “entrare (ei\seércomai)”. Essi richiamano diverse volte, nell’AT, rispettivamente, l’uscita dall’Egitto83 e l’ingresso nella terra promessa84. L’espressione peéran tou% ceimaérrou tou% Keédrwn poi può richiamare l’altra peéran tou% }Iordaénou85, con cui si designa talora il luogo in cui Israele, uscito dall’Egitto, deve entrare86. Nell’AT la terra verso la quale Israele, uscito dall’Egitto, è orientato, è indicata in diversi modi: la terra che il Signore dà87, la terra di Canaan88, la terra che Dio ha giurato di dare ai padri89, che egli ha promesso90, la terra del Cananeo, Hittita, Amorreo, Perizzita, Eveo, Gebuseo91. Talora è
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Cfr Es 12,41; 13,3; 16,1; 34,18; Nm 1,1; 9,1; 11,20; 22,5.11; 26,4; 33,1; Dt 4,45.46; 6,4 (solo LXX); 9,7; 16,1.3.6; Gs 5,4.6; 2Cr 5,10; 20,10; Is 11,16; Sal 80(81),5. In questi testi il verbo e\xeércomai traduce in genere il verbo )fcfiy alla forma qal, eccetto in Dt 16,1 dove troviamo la forma hiphil: il soggetto è Dio; in 2Cr 20,10 leggiamo il verbo )owb; in Is 11,16 troviamo invece il verbo hflf(. 84 Cfr Es 12,25; Lv 14,34; 19,23; 23,10; 25,2; Nm 14,24.30; 15,2; 20,24; 32,9; Dt 1,37.38.39; 4,1.21; 6,18; 8,1; 9,1; 11,5.8.31; 12,5; 16,20 (solo LXX); 17,14; 18,9; 26,1.3; 27,3; 31,7; Sal 94(95),11; Ez 20,38. In questi testi il verbo ei\seércomai traduce il verbo )owb. 85 La frase traduce espressioni ebraiche simili: }"D:raYal reb"("m (Nm 32,19.19.32; 35,14), }"D:raYah reb"("B (Dt 1,1.5; 3,8.20.25; 4,46.47, Gs 2,10; 5,1; 12,1; 22,4; 24,8), }"D:raYah reb"( (Dt 4,49). 86 Cfr Nm 32,19.19.32; 35,14; Dt 1,1.5; 3,8.20.25; 4,46.47.49; 31,4; Gs 2,10; 5,1; 12,1; 22,4; 24,8. 87 Cfr Lv 23,10; 25,2, Nm 10,30; 15,2; 20,12.24; 32,7; Dt 1,35; 2,29; 4,1.21, 9,23; 15,7; 16,20; 17,14; 18,9; 19,1.8.14; 25,19; 26,1.9.10.15; 27,2.3; 28,8; Gs 1,2.14, 18,3; 24,13; Gdc 6,9; 2Cr 6,25; Ger 32(39),22; Bar 1,20; Ez 20,6.15. 88 Cfr Es 6,4; Lv 14,34; Nm 33,51; 34,2; 35,10; 1Cr 16,18. 89 Cfr Es 6,8; 13,5.11; Nm 11,12; 14,24; 32,11; Dt 1,8.35; 6,10.23; 8,1; 9,5; 10,11, 11,9; 19,8; 26,3.15; 27,3; 31,7.20; Gs 5,6; Gdc 2,1; Ne 9,15,23; Ger 32(39),22; Bar 2,34; Ez 20,42; 47,14. 90 Cfr Es 12,25; Dt 6,18; 9,28; 31,21; Ez 20,28. 91 Cfr Es 3,17; 13,5.
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designata come «la terra che scorre latte e miele»92, terra buona93, buona e spaziosa94. Il testo di Dt 8,7-9 offre una lunga descrizione della bontà della terra che il Signore dà. Essa è definita come «una terra buona, terra di corsi di acqua e di fonti e abissi che escono nella valle e nella montagna; terra di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni, terra di olio di ulivo e di miele, terra dove non si mangia il pane in povertà e dove non manca nulla, terra le cui pietre sono ferro e dai cui monti si estrae il rame». Ez 20,6.15 la definisce «splendore per tutte le terre»95 ed Ez 36,35, riferendosi però al ritorno dall’esilio, annunzia che la terra devastata sarà «come il giardino di Eden»96. Al contrario, la terra che il Signore dà, dove il popolo deve entrare al termine del suo cammino di esodo, mai è presentata come un giardino, né con il termine kh%pov né con il termine paraédeisov. Possiamo allora concludere che, se tutta la descrizione di Gv 18,1 può evocare gli eventi dell’esodo, il termine stesso kh%pov sembra invece contenere altre allusioni.
4.6. Allusione a Gen 3,24? Una possibile allusione del termine kh%pov è al racconto di Gen 2-3 che precedentemente abbiamo già considerato. In particolare possiamo richiamare il testo specifico di Gen 3,24. Leggiamo in Gen 3,24 che Dio «cacciò l’uomo e pose a oriente del
92 Cfr TM: $fb:dU bflfx tabfz jere) (gh% r|eéousa gaéla kaì meéli): Es 3,18.17; 13,5; 33,3; Lv 20,24; Nm 13,28(27), 14,8; 16,3 (espressione riferita dal popolo all’Egitto).14; Dt 6,3; 11,9; 26,9.15; 27,3; 31,20 (TM: hfmAdf)); Gs 5,6; Ger 32(39),22; Bar 1,20 (LXX); Ez 20,6.15. 93 hfbow=ah jere) (LXX: a\gaqhé gh%) (Dt 1,25.35, 3,25; 4,21.22; 6,18; 8,7.10; 9,6; 1Cr 28,8). 94 hfbfx:rU hfbow=ah jere) (LXX: gh% a\gaqh kaì pollhéé) (Es 3,8). 95 Cfr TM: towcfrA)fh-lfk:l yih yib:c; LXX: khròon (miele) e\stìn paraè paésan thèn gh%n (per tutta la terra). 96 Cfr TM: }ed"( }ag:K: LXX: kh%pov trufh%v (giardino di lusso).
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giardino di Eden (TM: }ed( " -}agl : {edQ e m i ; LXX: a\peénanti tou% paradeòsou th%v trugh%v)97 dei cherubini per custodire la strada dell’albero della vita». In questo testo il narratore genesiaco descrive l’esclusione degli uomini dal giardino. In Gv 18,1 invece troviamo un movimento contrario: Gesù entrò in un giardino con i suoi discepoli. Gen 3,24 e Gv 18,1 presentano così due movimenti contrari e complementari: in Genesi è narrata l’uscita dal giardino dei primi uomini, in Gv 18,1 invece è narrato l’ingresso in un giardino di Gesù e dei discepoli. Si può obiettare che in Gen 3,24 non si legge il termine kh%pov bensì il termine paraédeisov. Abbiamo però già notato che il termine kh%pov si legge, nel contesto della narrazione genesiaca, in 3,1 secondo le versioni di Aquila e Simmaco e in 2,8 secondo la versione di Aquila; inoltre entrambi i termini, kh%pov e paraédeisov, traducono lo stesso termine ebraico }"g98. Questa complementarietà di movimento lascia pensare che in Gv 18,1 l’evangelista voglia alludere anche agli avvenimenti originali, descrivendo così tacitamente, dietro i fatti concreti di Gesù, l’ingresso in quel giardino dal quale all’origine l’uomo fu cacciato. Se questa osservazione è esatta, in Gv 18,1 intervengono e, in certo senso, si fondono due prospettive: quella dell’esodo e quella di Genesi. In questo senso l’evangelista alluderebbe ad un cammino di esodo di Gesù con i discepoli che conduce a quel giardino dal quale all’origine l’uomo dovette uscire. Nel giardino però non entra soltanto Gesù ma anche i discepoli. Come abbiamo notato nell’analisi strutturale, il termine maqhthév nel v 1 è ripetuto due volte, all’inizio e alla fine. La prima volta esso si legge nell’espressione suèn to_v maqhta_v che è un complemento di compagnia legato al verbo e\xh%lqen il cui soggetto
97 L’espressione tou% paradeòsou th%v trugh%v (giardino del lusso) richiama Ez 36,35 sopra citato. 98 Il fatto che nei LXX non si legge il termine kh%pov non pregiudica una allusione da parte del nostro evangelista del testo genesiaco: egli avrà potuto seguire qualche versione diversa dai LXX oppure può avere tradotto lui stesso il termine ebraico. In 19,37, per esempio, la citazione di Zc 12,10 rispecchia più la versione di Teodozione che non quella dei LXX. Si può anche pensare che il termine kh%pov sia stato suggerito al nostro evangelista dal suo uso massiccio nel Cantico dei Cantici.
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è Gesù: Gesù compì l’azione di uscire insieme ai discepoli. Gesù e i discepoli sono accomunati nella stessa azione di uscire. La seconda volta invece il termine maqhthév è introdotto come soggetto coordinato al termine precedente }Ihsou%v, entrambi soggetto dell’unico verbo ei\sh%lqen. Stavolta Gesù e i discepoli non sono accomunati ma distinti nella stessa azione di entrare. L’autore sembra così suggerire una certa subordinazione dell’ingresso dei discepoli a quello di Gesù. Egli non precisa però questo tipo di subordinazione, che può essere cronologica, nel senso che i discepoli entrano dopo Gesù, ma che può essere anche di causalità: l’ingresso dei discepoli è possibile in seguito all’ingresso di Gesù.
5. Il testo di Gv 18,26 ouk\ e\gwé se eùdon e\n t§% kh%p§ met}au\tou% (non io te vidi nel giardino con lui)? Il secondo testo del vangelo di Giovanni dove leggiamo il termine kh%pov è ancora nella narrazione della passione, in 18,26.
5.1. Allusione a Gv 18,10 Le parole: «non io te vidi nel giardino con lui» sono pronunziate da «uno dei servi del sacerdote», definito «parente (suggenhèv w!n) di colui a cui (ou&) Pietro recise l’orecchio». L’evangelista allude all’episodio del Getsemani già narrato in 18,10. Allora Pietro, nel tentativo paradossale di difendere Gesù, recise l’orecchio destro «del servo del sacerdote (toèèn tou% a\rciereéwv)»99. Nota Giovanni che quel servo si chiamava Malco. Le parole del v 26 sono molto enfatiche; l’enfasi è determinata dalla
99 Prescindiamo dall’enfasi di questa espressione data dal fatto che l’articolo toén è separato dal suo sostantivo douélon dal genitivo tou% a\rciereéwv.
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posposizione del verbo eàdon rispetto al suo oggetto seé. In questo modo sono strettamente accostati i due pronomi soggetto e\gwé ed oggetto seé100. Pietro e il cognato del servo del sacerdote stanno così a confronto. Appena prima, nel v 25, Pietro aveva rinnegato per la seconda volta; La domanda del servo, chiaramente retorica, mira a mettere Pietro di fronte al suo stesso rinnegamento. Ma anche di fronte all’evidenza, Pietro, nel v 27, persiste nel suo rinnegamento, sancito, in certo senso, dal canto del gallo.
5.2. Allusione al racconto di Susanna A differenza di Gv 18,1, nessun elemento, oltre il termine kh%pov, sembra richiamare in 18,26 il testo genesiaco. È possibile invece accostare questo testo ad alcuni passaggi del racconto di Susanna nel libro di Daniele. Nel v 21 del racconto di Susanna (LXX): i due anziani dichiarano contro di lei «se no, testimoniamo contro di te (katamarturhésomeén sou) che c’era con te (metaè sou%) un giovane e per questo hai allontanato le ancelle». Troviamo in questo testo la stessa particella metaé con il genitivo che caratterizza appunto il nostro testo di Gv 18,26 (met}au\tou%)». Così anche nel v 37: «e venne da lei un giovane che era nascosto e giacque (a\neépesen) con lei (met}au\th%v)». Nel v 38 (TH) leggiamo il verbo eàdon al participio aoristo: «noi, essendo nell’angolo del giardino (tou% paradeòsou), avendo visto (i\doéntev) l’iniquità, corremmo da loro», così pure nel v 39 (TH): «e avendo visto (i\doéntev) essi mentre si incontravano, quello non potemmo afferrarlo perché era più forte di noi e, avendo aperto le porte, balzò fuori». Nel v 54 (LXX) leggiamo il verbo e|wéraka; ma nel v 54 (TH) leggiamo due volte il verbo eàdon: «(Daniele al primo anziano) e ora se costei (tauéthn) hai visto (eùdev), dì sotto quale albero hai visto (eùdev) essi che conversavano insieme (o|milou%ntav a\llhélouv)». Nel v 58 (LXX) leggiamo il termine kh%pov: «(Daniele al secondo anziano) e ora dì a me sotto quale albero e in quale luogo del giardino (tou%
100
Cfr la sequenza: e\gwé (soggetto) seé (oggetto) eùdon (verbo).
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khépou) li hai sorpresi (kateélabev au\touév) mentre conversavano a vicenda (o|milou%ntav a\llhélouv)». Tutti gli elementi dell’espressione di Gv 18,26, il verbo eùdon, il termine kh%pov, la particella metaé con il genitivo, sono così riconducibili al testo di Susanna. Anche dal punto di vista tematico è possibile stabilire una analogia tra i due testi in due aspetti: nel fatto stesso di una testimonianza e nel contenuto della testimonianza. Circa il fatto stesso della testimonianza, possiamo osservare una certa analogia: come i due anziani rendono testimonianza nei confronti di Susanna, così il servo testimonia a riguardo di Pietro. Pure il contenuto della testimonianza è analogo: come i due anziani testimoniano di avere visto (eùdon) Susanna che era stata con (metaé) un giovane, così il servo testimonia di avere visto (eùdon) Pietro che era stato nel giardino con (metaé) Gesù. Non mancano però delle differenze nei due testi; come pure diverse sono anche le rispettive prospettive. Anzitutto nella testimonianza del servo in Gv 18,26 non è sottolineato soltanto il fatto che Pietro è stato “con Gesù” ma anche che è stato “nel giardino”101. Nel racconto di Susanna invece la testimonianza dei due anziani fondamentalmente riguarda il fatto che lei è stata con un giovane. Inoltre la testimonianza del servo non è resa davanti a giudici come nel testo di Susanna ma davanti a Pietro stesso. Infine dal punto di vista letterario il servo non si esprime con una affermazione apodittica ma in forma di interrogativa retorica. Ma la differenza maggiore, che può risolversi anche in opposizione, riguarda il fatto che, mentre nel testo di Susanna gli anziani testimoniano il falso contro una innocente, in Gv 18,26, al contrario, il servo testimonia la verità contro Pietro che persiste nel suo rinnegamento. Quest’ultima osservazione lascia pensare che il nostro evangelista
101 Ciò emerge dalla struttura letteraria di Gv 18,26: e\gwé se eùdon e\n t§% kh%p§ met}au\tou%. Tutta l’espressione comprende cinque elementi, al centro leggiamo il verbo eùdon al quale convergono i due pronomi precedenti e al quale si ricollegano i due complementi seguenti. Il servo ha visto Pietro (seé) con due caratteristiche: era nel giardino (e\n t§% kh%p§) ed era con Gesù (met}au\tou%).
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abbia potuto alludere, in Gv 18,26, al testo di Susanna leggendolo però in prospettiva opposta: non un falso dichiarato contro una verità: gli anziani e Susanna, ma una verità dichiarata contro un falso: il servo e Pietro. Il testo di Gv 18,26 suggerisce però ancora un’ultima osservazione che ci limitiamo adesso soltanto ad indicare. A Pietro che nega di essere discepolo di Gesù, il servo obietta di averlo visto «nel giardino con lui». Ciò significa che Pietro, al momento, non è più in quel giardino. Si direbbe che, rinnegando, egli non è più con Gesù e da quel giardino è uscito. Possiamo pensare che in 18,26 soggiaccia ancora la prospettiva del testo di Genesi. Pietro, rinnegando, ha rivissuto l’esperienza dell’uomo genesiaco che, avendo trasgredito il comandamento di Dio, dovette uscire dal giardino.
6. Gv 19,41-42 h&n deè e\n t§% toép§ o$pou e\staurwéqh kh%pov kaì e\n t§% kh%p§ mnhme_on kainoèn e\n §/ ou\deépw ou\deìv h/n teqeimeénov. e\ke_ ou/n diaè thèn paraskeuhèn tw%n }Ioudaòwn, o$ti e\gguèv h&n toè mnhme_on, e"qhkan toèn }Ihsou%n (era nel luogo dove fu crocifisso un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo nel quale non ancora alcuno era stato posto. Lì dunque, a motivo della parasceve, poiché vicino era il sepolcro, posero Gesù). Infine gli ultimi due usi del termine kh%pov nel vangelo di Giovanni si leggono in 19,41-42, nel contesto del racconto della sepoltura di Gesù.
6.1. Struttura letteraria Dal punto di vista strutturale il v 41, che inizia con l’imperfetto h&n, si articola in tre frasi, che iniziano tutte a loro volta con un complemento di stato in luogo: e\n t§% toép§ - e\n t§% kh%p§ - e\n §/ le prime due espressioni dipendono entrambe dall’imperfetto iniziale
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h&n e presentano analoga struttura letteraria: un complemento di luogo e un soggetto102: e\n t§% toép§
e\n t§% kh%p§
complemento di luogo
mnhme_on
soggetto
o$pou e\staurwésan kh%pov kainoèn La terza espressione e\n §/ ou\deépw ou\deìv h/n teqeimeénov presenta pure analoga struttura: troviamo infatti un complemento di luogo (e\n §/) e un soggetto (ou\deòv). Essa alla fine è completata da una forma verbale perifrastica caratterizzata ancora dall’imperfetto h/n. Mentre le prime due espressioni sono introdotte da un solo verbo iniziale h/n a cui seguono il complemento di luogo e il soggetto, la terza, con il suo complemento di luogo e il suo soggetto, è seguita invece dalla forma verbale h/n teqeimeénov. Si può stabilire così tra le prime due espressioni e la terza una relazione strutturale insieme alternata e concentrica: h&n deè e\n t§% toép§
verbo kaì e\n t§% kh%p§
complemento
mnhme_on kainoèn
soggetto
o$pou e\staurwésan kh%pov e\n §/
complemento
ou\deépw ou\deìv
soggetto
h/n teqeimeénov
verbo
102 La prima espressione amplia il primo elemento mediante la proposizione relativa o$pou e\staurwésan; amplia poi il soggetto mediante l’aggettivo kainoén.
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Queste osservazioni evidenziano due aspetti nel testo che stiamo considerando: da una parte mostrano la sua unità letteraria, dall’altra poi evidenziano una cesura che si determina tra la seconda e la terza frase. Considerando le tre espressioni in maniera unitaria, i tre complementi di luogo esprimono un restringimento a cerchi concentrici. C’è anzitutto l’elemento più ampio del toépov, che è il luogo dove Gesù fu crocifisso (o$pou e\staurwésan) e dove (e\n t§% toép§) c’è un giardino (kh%pov): nel toépov perciò l’evangelista ambienta due realtà: la crocifissione di Gesù e un giardino. L’evangelista poi ferma la sua attenzione sul kh%pov; in esso c’è una nuova realtà, «il sepolcro nuovo (toè mnhme_on kainoén)»; in esso (e\n §/) troviamo ancora una duplice realtà, una negata: nessuno vi era stato ancora deposto, e l’altra affermata nel v 42: il fatto che vi fu deposto Gesù. Abbiamo così, in progressivo restringimento, tre ambiti: il toépov con le sue realtà, la crocifissione e il giardino; il giardino (kh%pov) con la sua unica realtà, il sepolcro; il sepolcro (toè mnhme_on) con il suo specifico contenuto, Gesù. Il toépov così è una realtà molto ampia che abbraccia tutto: il sepolcro con Gesù, il giardino, la croce. Fermando poi specificamente l’attenzione sulle prime due frasi, otteniamo il seguente schema strutturale, insieme alternato e concentrico. Lo schema strutturale alternato è determinato dagli elementi sintattici: essi infatti si susseguono nell’ordine: complemento - soggetto, complemento soggetto: e\n t§% toép§
complemento o$pou e\staurwésan
kh%pov kaì e\n t§% kh%p§ mnhme_on kainoèn
soggetto complemento soggetto
Lo schema strutturale concentrico è determinato invece dagli elementi letterari. Il primo e il quarto elemento sono rispettivamente il toépov e il mnhme_on; al centro troviamo la duplice menzione del kh%pov:
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e\n t§% toép§ o$pou e\staurwésan kh%pov kaì e\n t§% kh%p§ mnhme_on kainoèn Il termine toépov sta all’inizio ed abbraccia praticamente tutta la descrizione seguente. Ciò conferma quanto abbiamo sopra indicato che il toépov è la realtà molto ampia nella quale tutto è contenuto. Il termine kh%pov poi è ripetuto due volte e sta al centro tra la menzione della crocifissione e il sepolcro. Ciò indica che esso ha relazione con entrambe le realtà. Come è suggerito dalla stessa posizione grafica degli elementi103, la crocifissione appare come una realtà che emerge dal giardino, mentre il sepolcro è una realtà che vi sta sotto. Il kh%pov perciò appare come l’elemento di luogo che divide verticalmente le due realtà: il sepolcro che sta sotto il giardino, la croce invece che emerge da esso.
6.2. Il termine toépov A questo punto possiamo considerare il termine toépov. Esso, nel vangelo di Giovanni, si legge 17 volte. Di questi usi ben cinque si leggono nel contesto della narrazione della passione: 18,2; 19,13.17.20.41104. Su di essi fermiamo specificatamente la nostra attenzione105.
103
Cfr lo schema: toépov kh%pov kh%pov
mnhme_on kainoèn. Gli ultimi due usi, più marginali almeno alla prima lettura, sono infine in 20,7.25. 105 Fuori dal contesto della narrazione della passione alcuni usi significativi sono in 4,20; 11,6.30.48; 14,2.3. In 4,20 leggiamo le parole della donna samaritana a Gesù: «voi dite 104
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Notiamo anzitutto i due usi di 19,13.17. In 19,13 leggiamo che «Pilato condusse fuori Gesù e lo fece sedere in un luogo (toépon) detto litostroton, in ebraico Gabbatà»; in 19,17 poi leggiamo che Gesù «uscì in un luogo (toépon) detto del cranio che è detto in ebraico Golgota». I due testi presentano un certo parallelismo106: in entrambi leggiamo l’espressione di moto a luogo ei\v […] toépon che indica appunto il luogo verso dove è orientato Gesù.
che in Gerusalemme è il luogo (o| toépov e\stòn) dove bisogna adorare»; in 11,6 l’evangelista narra che: «quando udì che era infermo (Lazzaro), Gesù rimase nel luogo dove era (e\n §/ h&n toép§) due giorni». In 11,30 l’evangelista parla del «luogo (e\n t§% toép§) dove Marta andò incontro a Gesù», in 11,48 Caifa prevede che, se lasciano così Gesù, «verranno i romani e prenderanno il nostro luogo (toèn toépon) e la nostra gente». Infine in 14,2-3 Gesù annunzia ai discepoli: «vado a preparare a voi un posto (toépon); quando sarò andato e avrò preparato a voi un posto (toépon) di nuovo vengo e vi prenderò con me». Altri usi meno significativi, almeno alla prima lettura, sono in 5,13; 6,10.23; 10,40. 106 Il parallelismo emerge già dal confronto tra i due testi: A B h"gagen e"xw e\xh%lqen toèn }Ihsou%n kaì e\kaéqisen e\pì bhématov ei\v toépon ei\v toèn legoémenon legoémenon kranòou Litoéstrwton toépon e|brai=stì deè e|brai=stì Gabbaqa% Golgoqa% o$pou e$stauérwsan I due testi sono caratterizzati anzitutto da quattro forme verbali parallele, due in ciascun testo: A B h"gagen e\xh%lqen kaì e\kaéqisen e$stauérwsan Inoltre le due espressioni propongono un nome greco di cui è offerta la traduzione ebraica (o aramaica!), introdotta mediante il termine e|brai=stò: A B Litoéstrwton kranòou toépon e|brai=stì deè e|brai=stì Gabbaqa% Golgoqa%
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I tre usi di 19,17.20.41 poi si relazionano per la menzione della crocifissione con il verbo stauroéw: “il luogo” è quello dove Gesù fu crocifisso. L’espressione di 19,17: o$pou e\stauérwsan, prepara così quella del v 20: o$pou e\staurwéqh o| }Ihsou%v e poi anche quella del 19,41. o$pou e\staurwéqh. Possiamo allora stabilire la seguente relazione: 19,17: ei\v […] toépon […]
o$pou e\stauérwsan
19,20: o| toépov […]
o$pou e\staurwéqh o| }Ihsou%v
19,41: e\n t§% toép§
o$pou e\staurwéqh
Il v 17, per la sua relazione sia al precedente v 13 sia ai seguenti vv 20.41, determina un legame tra i quattro usi del termine toépov nei testi di I due termini greci si trovano in una espressione parallela caratterizzata dal verbo leégomai, dal sostantivo toépon e dalla particella di moto a luogo ei\v. A B ei\v ei\v toépon toèn legoémenon legoémenon kranòou Litoéstrwton toépon L’ordine degli elementi è invertito; le due espressioni così, insieme, determinano uno schema concentrico: ei\v toépon legoémenon Litoéstrwton ei\v toèn legoémenon kranòou toépon Emerge, secondo lo stile giovanneo, uno schema insieme alternato e concentrico. Possiamo notare come la descrizione dei luoghi nel primo testo segue il verbo, nella seconda invece lo precede. Si ottiene così il seguente schema: kaì e\kaéqisen e\pì bhématov ei\v toépon legoémenon Litoéstrwton e|brai=stì deè Gabbaqa ei\v toèn legoémenon kranòou toépon e|brai=stì Golgoqa o$pou e$stauérwsan.
Il “giardino (kh%pov)” nella narrazione della passione…
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19,13.17.20.41107. Ciò permette una duplice conclusione: emerge anzitutto una tensione da 19,13 a 19,41; inoltre in ultima analisi il “luogo” in questi testi è quello dove fu crocifisso Gesù. In 19,41 leggiamo i due termini toépov e kh%pov: essi stabiliscono una relazione tra il testo di 19,41-42 e 18,1-2. Possiamo evidenziare infatti il seguente schema: 18,1:
o$pou h/n kh%pov
18,2:
+"dei […] toèn toépon
19,41:
e\n t§% toép§ kh%pov […] e\n t§% kh%p§
Il “luogo” secondo 18,2 è quello dove Gesù «si radunò (sunhécqh)» con i suoi discepoli; il “luogo” secondo 19,41 è quello dove Gesù «fu crocifisso (e\staurwéqh)». La relazione tra 18,1-2 e 19,41 è innegabile. Emerge tuttavia tra i due testi una differenza di prospettiva: secondo 19,41 il kh%pov sembra essere «nel luogo (h/n e\n t§% toép§) dove Gesù fu crocifisso», in 18,1-2 il luogo (toépov) dove «spesso si radunò Gesù con i discepoli» sembra essere, al contrario, nel kh%pov dove Gesù è entrato. Come abbiamo già notato, la duplice menzione del kh%pov, in 19,41, stabilisce una duplice relazione, al luogo dove fu crocifisso Gesù e al sepolcro. Nel kh%pov perciò c’è anche il sepolcro nuovo che, secondo la narrazione di Matteo, Giuseppe di Arimatea si era scavato108. 107 Possiamo stabilire il seguente confronto: 19,13 19,17 19,20 19,41 ei\v ei\v toépon toèn legoémenon legoémenon kranòou e\n t§% toép§ Litoéstrwton toépon o| toépov […] o$pou o$pou o$pou e\stauérwsan e\staurwéqh e\staurwéqh. 108 Cfr Mt 27,60: e\n t§% kain§% au\tou% mnhmeò§ o£ e\latoémhsen e\n t+% peétrç (nel suo sepolcro nuovo che scavò nella pietra).
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6.3. Il termine mnhme_on La connessione più diretta del kh%pov però in 19,41 è al mnhme_on. Ciò emerge soprattutto da due elementi. Anzitutto, dal punto di vista geografico, il mnhme_on è nel kh%pov, mentre «il luogo dove fu crocifisso» e il kh%pov sono accostati ma non identificati. Inoltre il kh%pov è menzionato in vista del mnhme_on: infatti questo è menzionato per ultimo e trova, nel v 42, uno sviluppo narrativo. Il sepolcro perciò si trova nel giardino. Gli usi del termine mnhme_on sono caratteristici nel vangelo di Giovanni. Esso si legge 16 volte ma con precisi raggruppamenti sia strutturali che tematici. Dal punto di vista strutturale possiamo distinguere tre blocchi. Il primo blocco è costituito da un solo uso, in 5,28, che appare così isolato; il termine mnhme_on infatti non si legge più fino a 11,27. Il secondo blocco è contenuto tra 11,27 e 12,17; troviamo infatti in questa sezione una concentrazione di quattro usi. 11,17.31.38; 12,17. Da 12,17 il termine non si legge più fino a 19,41. Il terzo blocco infine è contenuto tra 19,41 e 20,11 dove sono concentrati ben undici usi del termine: 19,41.42; 20,1.1.2.3.4.6.8.11.11. Questa concentrazione strutturale corrisponde ad una precisa distinzione tematica. In 5,28 si parla di «tutti quelli che sono nei sepolcri (e\n to_v mnhmeòoiv)»: di costoro si dice che udranno la voce del figlio di Dio. I quattro usi contenuti tra 11,27 e 12,17 si riferiscono tutti al sepolcro di Lazzaro. Gli undici usi infine, contenuti tra 19,41 e 20,11, sono tutti riferiti al sepolcro di Gesù. All’interno di quest’ultimo blocco di usi, riferiti al sepolcro di Gesù, si può introdurre una distinzione. Gli usi di 19,41.42 menzionano il sepolcro in relazione alla vicenda della sua sepoltura; gli usi di 20,1-11 menzionano invece il sepolcro in relazione alla vicenda di Maria Maddalena. Non c’è dubbio che sia lo stesso elemento letterario, toè mnhme_on, sia il comune aspetto tematico del sepolcro di Gesù, stabiliscono una relazione tra i due episodi: la sepoltura di Gesù e la ricerca della Maddalena. Quest’ultima quindi deve ambientarsi nello sfondo del kh%pov perché lì si trova il sepolcro di Gesù. Maria perciò è andata nel kh%pov.
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6.4. L’allusione al Cantico dei Cantici Nel blocco di 19,41-20,11 emergono così quattro elementi: il sepolcro dove deposero Gesù, lo sfondo geografico del giardino, la figura di Maria e la sua ricerca di Gesù. Tutti questi elementi inducono a rileggere tutta la descrizione alla luce del Cantico dei Cantici109. Abbiamo già indicato i passaggi del libro dei Cantici dove si fa menzione di un giardino. Riprendiamo adesso soltanto quelli riferiti allo sposo. Ci riferiamo anzitutto a Ct 6,1-2, dove il soggetto che parla è la sposa. Questo testo però deve ricollegarsi a 5,5-7 dove si parla della sposa che sente bussare, cerca ansiosamente lo sposo ma non lo trova: «l’ho cercato (e\zhéthsa) ma non l’ho trovato (ou\c eu/ron); l’ho chiamato (e\kaélesa) ma non m’ha risposto (u|phékouseén me)». La prospettiva della ricerca è già presente in 5,7-8. La sposa cerca affannosamente lo sposo sfidando persino l’ostilità delle guardie. In questa ricerca sono coinvolte anche le figlie di Gerusalemme (v 8), alle quali è affidato un messaggio per l’amato. Il testo di 5,9 richiama il testo di 6,1: entrambi infatti contengono, come abbiamo già notato, una domanda delle figlie di Gerusalemme alla sposa. Le figlie di Gerusalemme la interrogano sull’indole dello sposo (5,9) e le chiedono dove egli è andato. La sposa risponde (v 2) che il suo amato «era sceso nel suo giardino (ei\v kh%pon au\tou%)». Lo sposo perciò è sceso nel giardino; di tale discesa si parla pure in 6,11. Stavolta però parla lo sposo che dichiara appunto di essere sceso «nel giardino di noce (ei\v kh%pon karuéav)». Infine in 8,13, rivolgendosi allo sposo, la sposa lo interpella «o tu che abiti nei giardini (o| kaqhémenov e\n khépoiv)». Nei testi del Cantico sopra indicati emergono tre aspetti: la sposa che, non avendo trovato lo sposo, si mette alla sua ricerca; la sposa che
109 Abbiamo già notato in un nostro studio precedente le allusioni al Cantico contenute nell’episodio dell’apparizione di Gesù a Maria Maddalena, cfr A. GANGEMI, I Racconti postpasquali nel Vangelo di San Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena, Acireale 1989, 51-55.
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coinvolge in tale ricerca le figlie di Gerusalemme; lo sposo che è sceso nel giardino. Questi tre aspetti110 sono facilmente riscontrabili anche nella narrazione giovannea. Anzitutto il sepolcro di Gesù è nel kh%pov: essendo seppellito, Gesù è sceso nel kh%pov. Inoltre la Maddalena cerca Gesù ma non lo trova. Infine ella coinvolge nella sua ricerca Pietro e il discepolo. Questo accostamento ci permette di concludere, alla luce della vicenda della Maddalena nel c 20, che il kh%pov di 19,41 rimanda alla prospettiva dei testi del Cantico sopra citati. Tuttavia emerge qualche differenza di prospettiva tra i due testi. Notiamo anzitutto un mutamento di personaggi: nel Cantico sono coinvolte nella ricerca le figlie di Gerusalemme; in Giovanni sono coinvolti invece Pietro e il discepolo. Inoltre è importante notare l’epilogo del Cantico. Come abbiamo già osservato, in quest’ultimo la ricerca della sposa sembra concludersi negativamente: il testo di Ct 8,14 suggerisce che la sposa non ha raggiunto lo sposo. La Maddalena invece trova Gesù, anche se le viene praticamente detto in 20,17 che quello non è ancora il momento dell’incontro definitivo111. Inoltre nel Cantico il motivo per cui lo sposo è sceso nel giardino rimane ancora vago. In Ct in 6,2 leggiamo infatti che lo sposo era sceso «per pascolare il gregge e cogliere gigli»; secondo 6,11 «per vedere le erbe verdi del torrente, per vedere il germe della vite». Il nostro evangelista precisa invece che nel giardino vi era un sepolcro e Gesù vi scese appunto per essere seppellito.
6.5. Gli aromi per la sepoltura e il Cantico dei Cantici Il riferimento al Cantico è confermato anche dalla menzione degli aromi prima della sepoltura. Leggiamo infatti in Gv 19,39 che «venne Nicodemo […] portando una mistura (m_gma) di mirra (smuérnhv) ed aloè
110 Prescindiamo dal testo di Ct 3,14 che l’evangelista sembra avere presente in 20,17. A riguardo cfr A. GANGEMI, ibid., 253-254. 111 Cfr A. GANGEMI, ibid., 226-234.
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(a\loéhv)». Nel v 40 leggiamo ancora che «legarono Gesù con bende insieme agli aromi (metaè tw%n a\rwmaétwn)». L’unzione di Gesù con aromi, prima della sepoltura, è ricordata anche da altri evangelisti. Matteo a riguardo però non dice nulla. In Mc 16,1 leggiamo che: «passato il sabato, Maria Maddalena e Maria di Giacomo e Salomè comprarono aromi (a\rwémata) per ungerlo». Luca parla ancora delle donne che «prepararono (h|toòmasan) aromi (a\rwémata) e unguenti (muéra) (Lc 23,56)»; esse, intervenuto il sabato, rimandarono l’unzione, leggiamo infatti in Lc 24,1: «il primo del sabato vennero al sepolcro portando gli aromi (a\rwémata) che avevano preparato». Troviamo quattro differenze tra la narrazione di Marco e Luca e quella di Giovanni. Anzitutto chi procura gli aromi secondo Giovanni non sono le donne bensì Nicodemo112; inoltre, sempre secondo Giovanni, prima della sepoltura, Gesù ricevette una unzione che dovette essere fatta a regola d’arte, se l’evangelista precisa «come uso è dei giudei seppellire»; ancora l’evangelista omette di menzionare lo scopo per cui Maria, il primo giorno dopo il sabato, va al sepolcro; infine egli specifica che si tratta di mirra ed aloè. Prescindendo dal senso di queste differenze, ci fermiamo soltanto sulla distinzione degli aromi che Mc 16,1 indica soltanto con il termine generico a\rwémata, a cui Lc 23,56 aggiunge anche il termine muéra113. Quanto poi alla terminologia giovannea, possiamo osservare che il termine a\rwémata nel NT si legge solo in Mt 26,7; Mc 14,3.3; Lc 7,37; Gv 19,40; nei LXX si legge 17 volte, di cui ben sette nel Cantico114. Il termine 112
Prescindiamo adesso dal senso di questa differenza. Il termine muéron si legge nell’episodio dell’unzione di Betania. Mt 26,7 parla di un vaso (a\laébastron) di unguento (muérou) preziosissimo (barutòmou), cfr anche v 12: l’unguento. Mc 14,3 parla di un vaso (a\laébastron) di unguento (muérou) di nardo (naérdou) genuino (pistikh%v) prezioso (polutelou%v). Lc 7,37 parla semplicemente di un vaso di unguento (a\laébastron muérou). Gv 12,3 è vicino all’espressione marciana e parla di una libbra (lòtran) di unguento (muérou) genuino (pistikh%v) prezioso (polutòmou). In tutti i vangeli domina così il termine muéron. È invece assente la terminologia giovannea. 114 Cfr Ct 1,3; 4,10.16; 5,1.13; 6,1(2); 8,14. Gli altri usi sono in 2Re 20,13; 1Cr 9,29.30; 2Cr 9,1.9.9; 16,14; 32,27; Est 2,12; Sir 24,15. Altri usi, più rari, sono attestati anche nelle versioni di Aquila, Simmaco e Teodozione. 113
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a\loéh nel NT si legge solo in Gv 19,39, mentre nei LXX si legge soltanto in Ct 4,14, come pure solo in questo testo è attestato nella versione di Aquila115. Anche il termine smuérna, che leggiamo in Gv 19,39 e che altrove è rarissimo nel NT116, rimanda, benché non esclusivamente, al Cantico; infatti nei LXX ben sei dei nove usi117 del termine si leggono appunto nel Cantico118. Pure il termine muéron, più frequente nel NT119 e presente anche in Giovanni120, richiama in qualche modo anche il Cantico; nei LXX infatti sei121 dei sedici usi del termine si leggono concentrati appunto in esso122. Anche il termine naérdon, rarissimo nel NT e comune a Marco e Giovanni nel contesto dell’unzione di Gesù a Betania123, nei LXX è esclusivo del Cantico124. Infine al Cantico può anche rimandare il termine o\smhé (profumo) che, nel contesto dei vangeli125, si legge solo in Gv 12,3 ma che nei LXX è usato con una certa frequenza126. Questa breve rassegna mostra che anche il vocabolario giovanneo degli aromi si ricollega, in maniera più o meno esclusiva, al Cantico. Ciò conferma ancora la relazione tra la descrizione giovannea del kh%pov e il Cantico. Ad esso perciò torniamo ancora per rileggere alla sua luce la descrizione giovannea della sepoltura di Gesù.
115 Il termine però è criticamente incerto. Nel testo di Ct 4,14 troviamo proposto dalle edizioni critiche dei LXX il termine alwq; il termine a\loéh è attestato invece dal codice S e dalla versione di Aquila. 116 Altrove nel NT il termine si legge solo in Mt 2,11. 117 Gli altri usi sono in Es 34,23; Sal 44 (45),8; Sir 24,15. 118 Cfr Ct 3,6; 4,6.14; 5,1.5.13. In Aquila il termine si legge solo in Ct 1,13; 4,6; in Simmaco solo in Ct 1,13. 119 Cfr Mt 26,7.12; Mc 14,3.4.5; Lc 7,37.38.46; 23,5; Ap 18,13. 120 In Giovanni il termine si legge quattro volte, Cfr Gv 11,2; 12,3.3.5. 121 Cfr Ct 1,3,3,4; 2,5; 4,10.14. 122 Gli altri dieci usi sono sparsi qui e lì, cfr Es 30,25; 1Cr 9,30; 2Cr 16,14; Gdt 10,3; Sal 132(133),1; Pr 27,9; Sap 2,7; Am 6,6; Is 25,7; Ez 27,17. 123 Il termine si legge due sole volte nel NT, appunto nei contesti sopra indicati, cfr Mc 14,3; Gv 12,3. 124 Cfr Ct 1,12; 4,13.14. Il termine si legge inoltre Ct 1,12 (Aquila). 125 Altrove, nel NT, è usato in Paolo, cfr 2Cor 2,14.16.16; Ef 5,2; Fil 4,18. 126 Nei LXX è usato 75 volte; nel Cantico si legge otto volte (Ct 1,3.4.12; 2,13; 4,10.11; 7,9.14).
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Degli aromi e dei profumi il Cantico, secondo la versione dei LXX, parla in diversi passaggi: 1,3.4.12.13; 4,6.10.13.14; 5,1.5.13; 6,2. Alcuni di essi si riferiscono alla sposa127; al nostro scopo però interessano quelli che si riferiscono allo sposo. Allo sposo si riferisce il testo di 1,13, dove leggiamo: «sacchetto di mirra (a\poédesmov th%v stakth%v)128 il mio diletto per me: tra le mie mammelle (a\naè meéson tw%n mastw%n mou) si accamperà (au\lisqhésetai)». In 4,6 ancora leggiamo: «prima che svanisca il giorno e si allunghino le ombre, mi recherò al monte della mirra (proèv toè o"rov th%v smuérnhv)129 e al colle dell’incenso (proèv toèn bounoèn tou% libanou%)130». In questo testo parla lo sposo che decide di recarsi al monte della mirra e al colle dell’incenso prima che finisca il giorno e cali la notte. Più significativo è il testo di 5,1 dove leggiamo: «sono venuto nel mio giardino (ei\v kh%poén mou), sorella mia sposa, ho raccolto la mia mirra (smuérnan mou) con i miei aromi (metaè a\rwmaétwn mou), ho mangiato il mio pane con il mio miele, ho bevuto il mio vino con il mio latte». Troviamo qui tre elementi che compaiono nel testo giovanneo: kh%pov, smuérna, a\rwémata. La prospettiva è quella dello sposo che scende nel giardino e lì coglie la sua mirra e i suoi aromi; nella descrizione della sepoltura troviamo invece dinamismo inverso: Gesù prima è unto con gli aromi poi scende nel giardino del sepolcro. In questa stessa prospettiva è l’ultimo testo, riferito allo sposo: «il mio diletto scese nel suo giardino (kateébh ei\v kh%pon au\tou)131, nei vasi dell’aroma (ei\v fiaélav tou% a\rwématov)132 per pascolare nei giardini (poimaònein e\n khépoiv)133 e raccogliere gigli» (Ct 6,2).
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Cfr 1,3.4.12; 4,10.13.14; 5,5.13. Cfr TM: roMah rowr:c. 129 Cfr TM: rowMah rah-le). 130 Cfr TM: hfnow:Lah ta(:biG-le):w. 131 Cfr TM: owNag:l dar"y. 132 Cfr TM: {e&oBah towgUrA(al. 133 Cfr TM: {yiNaGaB tow(:ril. 128
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Pure in questo testo troviamo due termini che possono richiamare la descrizione giovannea, kh%pov e a\rwémata. L’espressione poi «scese nel suo giardino» può riferirsi bene, nel testo di Giovanni, alla sepoltura. Notiamo però ancora una volta una inversione di prospettiva: secondo il Cantico lo sposo scende nel giardino per trovare gli aromi; in Giovanni invece Gesù prima è unto con gli aromi e poi è deposto nel sepolcro. Il termine a\loéh invece, che, come abbiamo notato, si legge solo in Ct 4,14, ma soltanto nel codice S e nella versione di Aquila, è usato per descrivere lo splendore della sposa. Nel codice S leggiamo accostati i due elementi smuérna a\loq; il codice S corretto coordina invece con un kaò, ottenendo così l’espressione smurnhè kaì a\loéh. Ciò però non impedisce che l’evangelista, nel descrivere gli elementi portati da Nicodemo possa essersi ispirato a questi elementi del Cantico dando ad essi diversa applicazione.
6.6. Conclusioni sull’uso del Cantico Tutte le osservazioni proposte portano alla conclusione che nel duplice uso del termine kh%pov in Gv 19,41 il nostro evangelista si ispiri al Cantico dei Cantici. Dai testi del Cantico sopra citati possiamo dedurre tre prospettive 1. lo sposo è sceso nel giardino 2. egli è andato ai suoi aromi 3. la sposa lo cerca. Questi tre aspetti sono presenti ma adattati nel vangelo di Giovanni 1. Gesù fu unto con gli aromi portati da Nicodemo 2. egli fu sepolto in un mnhme_on che era in un giardino 3. la sposa, Maria Maddalena, lo cerca. In questa prospettiva possiamo concludere che il kh%pov di 19,41 richiama gli usi del Cantico. Il riferimento al Cantico dei Cantici nel testo di Gv 19,41-42 tuttavia è valido ma insufficiente. Esso illumina la relazione tra il kh%pov e il mnhme_on dove è sceso Gesù; ma non spiega l’altra relazione, pure importante, tra il kh%pov e il «luogo dove fu crocifisso Gesù».
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6.7. Il testo di Gv 20,15: il khpouroév A risolvere questo problema ci viene probabilmente in aiuto il testo di Gv 20,15 dove l’evangelista introduce un termine unico in tutta la Bibbia greca, khpouroév (custode del giardino). Esso si riferisce ad un personaggio inizialmente anonimo134 che determina, in certo senso, il passaggio della Maddalena dalla non conoscenza alla conoscenza di Gesù135. Nel contesto di Gv 20,15 notiamo un duplice passaggio, introdotto dall’espressione guénai, tò klaòeiv e segnato dal verbo streéfw. Il primo è dalla visione al sepolcro alla visione di Gesù, il secondo è dalla non conoscenza di Gesù al suo riconoscimento. Il termine khpouroév si legge nel secondo passaggio, quello cioè dalla non conoscenza alla conoscenza. Tutta l’espressione dokou%sa o$ti o| khpouroév e\stin del v 15b presenta una relazione con l’espressione strafe_sa del v 16a136. Al di là dell’equivoco della Maddalena, come abbiamo già notato nel nostro studio precedente, sembra che in queste espressioni sia contenuto appunto il passaggio di Maria dalla non conoscenza alla conoscenza. La prima espressione dokou%sa o$ti o| khpouroév e\stin ha un carattere più oggettivo; essa menziona il khpouroév, il custode cioè del 134 Sul senso del termine khpouroév, che sembra contenere una allusione al Padre, rimandiamo al nostro studio precedente A. GANGEMI, I Racconti postpasquali nel Vangelo di San Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena, cit., 210-218. 135 Prescindendo dall’espressione dokou%sa o$ti o| khpouroév e\stin, riferita al khpouroév nel v 15b, possiamo notare nel testo il seguente schema strutturale: 1. (v 13a): guénai, tò klaòeiv; 2. (v 13b): presero (h/ran) il mio Signore e non so (ou\k oùda) dove lo posero (pou% e"qhkan au\toén) 3. (v 14a): e\straéfh 4. (v 14b): vede Gesù stante (e|stw%ta) e non sapeva (ou\k +"dei) che Gesù è (o$ti }Ihsou%v e\stin) 5. (v 15a): guénai, tò klaòeiv; 6. (v 15c): se tu lo hai preso (e\baéstasav) dimmi dove lo hai posto (pou% e"qhkav) ed io lo prenderò (a\rw%) 7. (v 16a): strafe_sa 8. (v 16b): r|abbounò. 136 Possiamo notare che queste due espressioni, in contesto dialogico, sono le due sole di indole narrativa. Sia la prima che la seconda sono contenute tra parole di Gesù e parole di Maria. Ciò emerge più chiaro dal seguente schema:
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giardino; si direbbe che sia proprio lui, il khpouroév, ad aprire le porte perché la donna pervenga alla conoscenza. La seconda espressione strafe_sa ha un carattere più soggettivo; essa descrive l’azione di Maria che, ricevuta una istanza o anche una possibilità, compie il passaggio verso la conoscenza. Possiamo dire che, perché la Maddalena possa pervenire ad una conoscenza, si richiedono due condizioni, che il khpouroév le dia la possibilità e che la donna compia l’azione di voltarsi. Si delinea così un duplice cammino della Maddalena: dall’esperienza al sepolcro all’esperienza di Gesù, e dalla non conoscenza di Gesù alla sua conoscenza. Dal momento che in questo passaggio alla conoscenza il khpouroév sembra avere un ruolo, ci si può chiedere quale esso possa essere. La risposta è contenuta nella stessa parola. Egli è il khpouroév, cioè il custode (ou&rov) del giardino (kh%pov), a lui perciò compete permetterne o impedirne l’accesso. La menzione del khpouroév suggerisce perciò che la conoscenza avviene nel kh%pov e l’ingresso in esso dipende dal custode. Nella figura del khpouroév sembra riecheggiare il testo genesiaco137. Ad esso perciò ci riferiamo ancora una volta. In particolare ci riferiamo a due elementi del racconto di Gen 2-3: l’albero della conoscenza del bene e del male e l’albero della vita.
6.8. l’albero della conoscenza del bene e del male e l’albero della vita Leggiamo in Gen 2,9 che Dio all’origine, tra i vari alberi belli a 1. (v 15a): guénai, tò klaòeiv; (parole di Gesù) narrativo 2. (v 15b): dokou%sa o$ti o| khpouroév e\stin 3. (v 15c): se tu lo hai preso (e\baéstasav) […] (parole di Maria) ed io lo prenderò (a\rw%) (parole di Gesù) 4. (v 16): leégei au\th% }Ihsou%v: mariaém narrativo 5. (v 16a): strafe_sa 6. (v 16b): r|abbounò (parole di Maria). 137 Per la prospettiva genesiaca nel nostro testo di Giovanni, rimandiamo ancora al nostro studio, cfr A. GANGEMI, I Racconti postpasquali nel Vangelo di San Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena, cit., 217-218.
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vedersi e buoni a mangiarsi, fece germogliare anche «l’albero della vita in mezzo al giardino» e «l’albero per conoscere (tou% ei\deénai gnwstoén) il bene e il male (kalou% kaì ponhrou%)». In Gen 2,17 però Dio proibì all’uomo di mangiare (ou\ faégesqe) dell’albero della conoscenza (tou% ginwéskein) del bene e del male, altrimenti sarebbe morto. La tentazione però gli fece credere che, proprio mangiando, sarebbe divenuto (e"sesqe) «come esseri divini (w|v qeoò) conoscenti (ginwéskontev) il bene e il male (3,5)». Narra il testo genesiaco che Adamo ed Eva mangiarono e «si aprirono i loro occhi e conobbero (e"gnwsan) che erano nudi (v 7)». Dopo avere assegnato poi all’uomo e alla donna la loro specifica punizione (Gen 3,16-17) e dopo avere costatato che «l’uomo era divenuto come uno di noi a conoscere (tou% ginwéskein) il bene e il male» (Gen 3,21), Dio volle impedire all’uomo di «stendere (e\kteòn+) la sua mano (thèn ce_ra), prendere dell’albero della vita (laéb+ tou% xuélou th%v zwh%v), mangiare (faég+) e vivere in eterno (zhésetai ei\v toèn ai\w%na)» (v 22). Per questo Dio cacciò l’uomo dal giardino (v 23) e comandò ai cherubini di «custodire (fulaéssein) la via dell’albero della vita (thèn o|doèn tou% xuélou th%v zwh%v)» (v 24). Il racconto genesiaco attesta così la duplice esclusione dell’uomo, sia dall’albero della conoscenza del bene e del male, sia dall’albero della vita. Dall’albero della conoscenza del bene e del male l’uomo è escluso per esplicito comando di Dio, dall’albero della vita egli è escluso come castigo in seguito al suo peccato. L’esclusione dall’albero della vita implica ovviamente l’esclusione dal giardino. Emerge subito un duplice contrasto tra il testo di Genesi e il nostro testo evangelico. All’origine Dio impedì all’uomo di pervenire alla conoscenza del bene e del male e il tentativo di acquisirla provocò la morte; adesso invece una conoscenza acquisita e posseduta diventa un obiettivo da raggiungere: Maria deve pervenire a simile conoscenza138. All’origine poi
138 Ciò è suggerito dall’espressione di 20,14: «non sapeva (ou\k +"dei) che il Signore è».
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Dio cacciò dal giardino e precluse la strada all’albero della vita; adesso invece implicitamente se ne descrive la possibilità di tale accesso139.
6.9. La conoscenza di Gesù Ma qual è l’oggetto della conoscenza che Maria deve acquisire? Esso è indicato dallo stesso evangelista; nota infatti in 20,14 che Maria «non sapeva (ou\k +"dei) che Gesù è (o$ti }Ihsou%v e\stòn)». Maria perciò deve pervenire alla conoscenza che «Gesù è». L’espressione o$ti }Ihsou%v e\stòn, composta soltanto del soggetto e del predicato, usata in maniera assoluta senza alcuna specificazione, si legge, oltre il nostro testo, ancora in 21,4, in forma negativa, riferita stavolta ai discepoli: essi «non sapevano (ou\k +"deisan) che Gesù è (}Ihsou%v e\stin)». Una formula analoga, ma in forma positiva e con il termine Kuériov, si legge tre volte nel c 21. Nel v 7a il discepolo dice a Pietro «che il Signore è»; nel v 7b, avendo udito che «il Signore è», questi si gettò nel mare; nel v 12 l’evangelista sottolinea che i discepoli non osavano interrogare Gesù «sapendo (ei\doétev) che il Signore è». Prescindendo dal senso pregnante dell’espressione }Ihsou%v e\stòndi cui abbiamo già parlato nel nostro studio precedente140 e prescindendo anche dal senso del passaggio dall’espressione }Ihsou%v e\stòn all’espressione o| Kuérioév e\stin, al nostro scopo interessa soltanto notare i suoi usi nel vangelo e quale realtà essa presuppone. L’espressione assoluta }Ihsou%v / o| Kuérioév e\stòn ne richiama un’altra pure assoluta, in bocca a Gesù, costituita cioè soltanto dal soggetto e dalla copula senza ulteriore specificazione, alla prima persona singolare, egwè ei\mò. Simile espressione torna diverse volte nel vangelo di Giovanni.
139
La possibilità dell’accesso è tacitamente contenuta nelle parole stesse di Maria del v 15: «se tu lo hai preso, dimmi dove lo hai posto, ed io lo prenderò». Maria non chiede al custode di darle il Signore ma di indicarle “dove (pou%)” lo ha posto perché lei possa prenderlo. Per poterlo prendere, ella, evidentemente, deve entrare nel giardino. 140 Cfr. A. GANGEMI, I Racconti postpasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena, cit., 199-203.
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Si legge anzitutto in 8,24, dove Gesù dichiara: «se non credete che io sono (o$ti e\gwè ei\mò) morirete nei vostri peccati». In 8,28 poi ancora dichiara: «quando innalzerete il figlio dell’uomo, allora conoscerete che io sono (o$ti e\gwè ei\mò)». Infine in 8,58 leggiamo: «prima che Abramo divenisse, io sono (e\gwè ei\mò)». L’espressione poi torna ancora in 13,19 dove Gesù dichiara ai discepoli: «dico a voi queste cose prima che avvengano perché, quando avvengono, crediate che io sono (o$ti e\gwè ei\mò)». Infine la formula e\gwè ei\mò torna ancora tre volte al Getsemani, due volte in bocca a Gesù, con cui egli si presenta a quelli che erano venuti ad arrestarlo (18,5.8), e una volta nella ripresa narrativa della risposta di Gesù da parte dell’evangelista (18,6). Ma il testo più importante al nostro scopo è 8,28 che fa della formula e\gwè ei\mò l’oggetto di una conoscenza; questa conoscenza poi è legata all’esaltazione. Quando Gesù è innalzato, allora si verifica una conoscenza, precisamente la conoscenza che «egli è». Questa prospettiva appare anche nel nostro testo di 20,14, dove la non conoscenza della Maddalena è menzionata in connessione alla posizione di Gesù caratterizzata con il participio e|stw%ta: ella infatti «vede (qewre_) Gesù che stava (e|stw%ta) ma (kaò) non sapeva (ou\k +"dei) che Gesù è (}Ihsou%v e\stin)». La stessa prospettiva appare anche in 21,4 dove la non conoscenza dei discepoli è menzionata in connessione alla posizione di Gesù caratterizzata dall’aoristo e"sth: narra infatti l’evangelista che «stette (e"sth) Gesù tuttavia (ou\ meéntoi) non sapevano (+"deisan) i discepoli che Gesù è (}Ihsou%v e\stin)». Possiamo così stabilire una relazione tra l’esaltazione di Gesù espressa in 8,28 e i due testi di 20,14 e 21,4 dove a Gesù è riferito, in maniera assoluta, il verbo i"sthmi. Da questo evento di Gesù segue una conoscenza, annunziata in 8,28 e di cui si nota ancora la non realizzazione in 20,14 e 21,4141. 141 Possiamo stabilire tra i tre testi il seguente parallelismo: 8,28 20,14 21,4 o$tan u|ywéshte e\stw%ta e"sth }Ihsou%v toéte gnwésesqe ou\k +"dei ou\ meéntoi +"deisan o$ti e\gwé ei\mi o$ti }Ihsou%v e\stin o$ti }Ihsou%v e\stin.
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L’esaltazione però rimanda alla croce. Ciò emerge da 12,32-34. Nel v 32 Gesù annunzia che quando sarà innalzato da terra (e\aèn u|ywqw% e\k th%v gh%v) attirerà tutti a sé; nel verso seguente l’evangelista commenta che egli disse ciò significando con quale morte (poò§ qanaét§) doveva morire. Pure i giudei intesero l’esaltazione nel senso di una morte e di fatti obiettarono di avere udito dalla legge che il Cristo rimane in eterno. Possiamo allora concludere che Maria deve pervenire alla conoscenza che «Gesù è». Tale conoscenza avviene al momento dell’esaltazione nella croce. A questa esaltazione l’evangelista sembra rimandare in 20,14 e 21,4 dove usa, in maniera assoluta, il verbo i"sthmi142.
6.10. L’albero della vita La prospettiva dell’albero della vita nel racconto giovanneo appare più complessa. Qui non è più sufficiente riferirsi soltanto all’esperienza della Maddalena ma bisogna anche riferirsi a quella dei discepoli, narrata in 21,1-14. Il punto di partenza però è quello stesso che porta alla conoscenza di Gesù: l’esperienza di lui, fatta anche dalla Maddalena, nella quale si percepisce Gesù “che sta (e|stw%ta)”. Lo stesso punto di partenza, con il verbo i$sthmi, è stabilito dal nostro evangelista sia nell’episodio della manifestazione di Gesù ai discepoli e a Tommaso sia anche nell’episodio della manifestazione di Gesù sul lago. In 20,19 infatti leggiamo l’espressione e"sth }Ihsou%v ei\v toè meéson (stette Gesù nel mezzo) (cfr v 26); in 21,4 invece leggiamo e"sth }Ihsou%v ei\v toèn ai\gialoén (stette Gesù verso la riva). Dall’espressione di 20,19 inizia tutto un processo che culmina nella concreta professione di fede di Tommaso (20,28); dall’espressione di 21,4 inizia un processo che passa attraverso la conoscenza acquisita da parte dei discepoli che «il Signore è (21,12)» e culmina nel banchetto con il pane che 142 I due verbi i"sthmi possono includere bene anche la resurrezione; e infatti essa è menzionata sia in 20,9 sia anche in 21,14. Possiamo osservare però che il verbo i"sthmi, in forma assoluta (ei|sthékei), è riferito a Gesù anche in 7,37 che richiama il testo di 19,28-30 e, nei versi seguenti, anche i vv 19,31-37.
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Gesù dona a loro (21,13). La menzione del pane in 21,13 rimanda al c 6143, dove esso, insieme alla fede144, è presentato come fonte di vita eterna. La relazione tra il pane e la vita eterna, che da esso scaturisce, è sottolineata con insistenza nel c 6. In 6,27 Gesù esorta ad operare (e\rgaézesqe) una azione di mangiare (th%n brw%sin) che resti (thèn meénousan) per la vita eterna (ei\v zwhèn ai\wénion)». In 6,51 esplicitamente Gesù dichiara: «se qualcuno mangia (e\aén tiv faég+) di questo pane (e\k touétou tou% a"rtou) vivrà (zhései) in eterno (ei\v toèn ai\w%na)». Ancora nel v 24 Gesù prosegue: «chi mangia (o| trwégwn) la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna (e"cei zwhèn ai\wénion)». La carne di Gesù si identifica con il pane (cfr v 51). Infine nel v 58 leggiamo: «chi mangia (o| trwégwn) di questo pane (tou%ton toèn a"rton) vivrà (zhései) in eterno (ei\v toèn ai\w%na)». Nel v 51 leggiamo il verbo e\sqòw; negli altri due testi l’evangelista usa il verbo trwégw. Prescindendo però da questo mutamento verbale145, notiamo in questi testi la relazione tra il mangiare il pane e avere la vita eterna. Il richiamo sembra essere a Gen 3,22146, dove Dio impedisce all’uomo l’accesso all’albero della vita: «perché non (mhépote) stenda (e\kteòn+) la sua mano (thèn ce_ra) e prenda dell’albero della vita (tou% xuélou th%v zwh%v), mangi (faég+) e vivrà (kaì zhésetai) in eterno (ei\v toèn ai\w%na)»147. 143
Sulla relazione tra il testo di 21,13 e il c 6 rimandiamo ad un nostro studio precedente: A. GANGEMI, I racconti postpasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago, Acireale 1993, 367-370. 144 Per la fede fonte di vita eterna cfr 3,15.16.36; 5,24; 6,40.47; 11,26; 20,31. 145 Il verbo trwégw nel NT è caratteristico di Giovanni; si legge infatti cinque volte nel vangelo, di cui quattro nel nostro contesto: Gv 6,54.56.57.58 e una volta in 13,18. Nel resto del NT si legge solo una volta, in Mt 24,38. Oltre questi testi, il verbo trwégw è assente in tutta la Bibbia greca. Persino nel Sal 40,10, citato da Gv 13,18 con il verbo trwégw (o| trwégwn), si legge il verbo e\sqòw (o| e\sqòwn a"rtouv mou). 146 Non si può escludere però anche una possibile allusione al Sal 21,27: «mangeranno (faégontai) i poveri e saranno saziati e loderanno il Signore quelli che lo cercano, vivranno (zhésontai) i loro cuori per sempre (ei\v ai\w%nav ai\w%nov)». Due elementi fanno però propendere per la priorità del testo genesiaco: la menzione dei cuori nel salmo assente nei testi di Giovanni e la mancanza di un preciso oggetto nel testo del salmo. 147 Possiamo stabilire un confronto tra i testi di Giovanni sopra citati e il testo genesiaco. Dal momento che in 6,51 leggiamo il verbo e\sqòw, stabiliamo il confronto con esso:
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Emergono due differenze tra il testo genesiaco e il testo di Giovanni. In Genesi anzitutto Dio impedisce di mangiare per vivere in eterno; in Giovanni Gesù esorta a mangiare per vivere in eterno e lui stesso, in 21,13, dà il pane: si direbbe che ciò che in Genesi era proibito adesso è comandato e offerto. Inoltre al generico “albero della vita” del testo genesiaco adesso è subentrata la specifica carne di Gesù divenuta pane.
6.11. Osservazioni riassuntive Sembra così che nei racconti dei cc 20-21 convergano le due immagini genesiache dell’albero della conoscenza del bene e del male e dell’albero della vita. Esse si attuano entrambe in Gesù ma in prospettiva opposta rispetto al testo genesiaco. Alla conoscenza del bene e del male che in Genesi era proibita corrisponde adesso la conoscenza che «Gesù è» alla quale invece bisogna tendere; all’albero della vita precluso nel testo genesiaco corrisponde adesso il pane, fonte di vita eterna, che Gesù stesso dona. Gesù esaltato è insieme oggetto di conoscenza e fonte di vita eterna. La tipologia dell’albero della conoscenza del bene e del male sembra soggiacere nell’esperienza della Maddalena, in Gv 20,11-18: essa infatti, partendo dalla posizione di Gesù e|stw%ta, deve pervenire alla conoscenza che «Gesù è». La tipologia dell’albero della vita sembra soggiacere invece nell’esperienza dei discepoli, in Gv 21,1-14: essi, partendo dalla posizione di Gesù (e"sth) (21,4), pervengono al banchetto dove Gesù dona il pane.
Genesi mhépote e\kteòn+ thèn ce_ra laéb+ tou% xuélou th%v zwh%v faég+ kaì zhésetai ei\v toèn ai\w%na
Gv 6,51
e\aén tiv faég+ e\k touétou tou% a"rtou zhései ei\v toèn ai\w%na.
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Tra l’esperienza della Maddalena in 20,11-18 e l’esperienza dei discepoli in 21,1-14 c’è l’esperienza dei discepoli in 20,19-29, che si articola in due parti: l’esperienza diretta dei discepoli (vv 19-23) e quella di Tommaso (vv 24-29). Entrambe le esperienze partono ancora dalla posizione di Gesù (e"sth), in 20,19b e in 20,26. Tutto il brano di 20,19-29 culmina nella professione di fede formulata da Tommaso in 20,28. I tre episodi, l’esperienza della Maddalena (20,11-18), l’esperienza dei discepoli (20,19-29) e l’esperienza dei discepoli (21,1-14), hanno lo stesso punto di partenza: la posizione di Gesù, indicata con una forma del verbo i$sthmi. Essi però hanno diverso epilogo, rispettivamente: la conoscenza di Gesù, la professione di fede, il dono del pane. Possiamo proporre il seguente schema: 20,14-18
20,19-29
21,4-14
e|stw%ta
e"sth
e"sth
professione di fede
dono del pane
conoscenza
Possiamo dire perciò che all’esaltazione di Gesù, espressa con il verbo i$sthmi, sono legati tre aspetti progressivi: la conoscenza di Gesù, la professione di fede, il pane.
6.12. Dal “sepolcro” al “giardino” Alla luce delle osservazioni precedenti, possiamo tornare a rileggere ancora l’episodio della Maddalena, dove, come abbiamo già detto, è delineato un cammino che parte dall’esperienza al sepolcro e culmina nel riconoscimento di Gesù. Tra l’esperienza al sepolcro e il riconoscimento di Gesù troviamo però dei passaggi intermedi. Tra l’esperienza al sepolcro e la percezione di Gesù (e|stw%ta) troviamo, nel v 14, l’azione della Maddalena che si volta (e\straéfh); tra questa prima azione e il riconoscimento di Gesù interviene la figura del khpouroév (v 15) e una nuova azione della Maddalena di voltarsi (strafe_sa) (v 16). Emerge così un cammino della Maddalena che parte dal sepolcro e
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che culmina, attraverso le due azioni di “voltarsi” con la presenza intermedia del khpouroév, nella reciproca conoscenza con Gesù. Si direbbe che Maria ha lasciato il sepolcro ed è risalita nel kh%pov dove ha riconosciuto Gesù e|stw%ta.
6.13. Relazione tra 19,41 e 20,1-18 Possiamo allora stabilire una relazione tra 19,41 e il racconto della Maddalena in 20,1-18. In 19,41 tra la menzione del luogo dove fu crocifisso Gesù e la menzione del sepolcro ci sta la duplice menzione del kh%pov; in 20,1-18 tra l’esperienza al sepolcro e il riconoscimento di Gesù è presente ancora, nella figura del khpouroév, la prospettiva del kh%pov. Emerge allora tra i due testi la seguente relazione: 19,41:
1. e\n t§% toép§ o$pou e\stauérwsan 2. kh%pov […] e\n t§% kh%p§ 3. mnhme_on kainoén
20, 1ss:
4. esperienza al sepolcro 5. il khpouroév 6. conoscenza di Gesù
6.14. Il cammino di Gesù In questa prospettiva possiamo individuare un duplice cammino di Gesù, ascendente e discendente. Il cammino discendente è quello storico e corrisponde alla sequenza: croce, giardino, sepolcro. Gesù crocifisso, deposto dalla croce, fu condotto in un giardino dove c’era un sepolcro e lì fu deposto. Il cammino ascendente invece è quello spirituale ed è inverso a quello storico. Esso corrisponde alla sequenza: sepoltura, giardino, croce dove
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Gesù è esaltato. Gesù esce dal suo sepolcro, entra nel giardino ed è esaltato148. Possiamo allora concludere che il nostro evangelista sembra concepire un dinamismo spirituale inverso a quello storico. In senso storico prima c’è la croce poi la sepoltura; in senso spirituale prima c’è la sepoltura poi l’esaltazione sulla croce. Gesù scende nel giardino dove c’è il sepolcro, ma poi dal sepolcro risale ed è esaltato nel giardino. Questo cammino ascendente è quello seguito dalla Maddalena: ella parte dal sepolcro, risale nel giardino e trova Gesù. Quando sale nel giardino perviene alla conoscenza e all’incontro con lui. La Maddalena ha raggiunto così in Gesù quell’albero della conoscenza del bene e del male il cui accesso all’origine Dio aveva proibito.
6.15. La prospettiva del Cantico o quella di Genesi? Possiamo porre adesso la domanda: a quale prospettiva si ricollega la nozione di kh%pov nel testo di 19,41 e poi nella seguente esperienza della Maddalena (20,11-18)? A quella del Cantico o a quella di Gen 2-3? Alla luce delle osservazioni sopra proposte possiamo dire che intervengono e si intrecciano entrambe le prospettive. Alla prospettiva del Cantico, per continuità, si può ricondurre la sepoltura di Gesù: egli è lo sposo che è sceso nel giardino. Alla prospettiva di Genesi, per opposizione, si può ricondurre l’esperienza della Maddalena dal sepolcro alla conoscenza e all’incontro di Gesù. L’incontro stesso con Gesù, in 20,16-17, come altrove abbiamo già notato149, è pure riconducibile alla prospettiva del Cantico.
148 Questo cammino, inverosimile dal punto di vista storico, è possibile alla luce della resurrezione: il risorto rimane esaltato sulla sua croce. Questa prospettiva trova una conferma nel testo di 12,32, letto alla luce di 12,24. In quest’ultimo testo, nell’espressione peswèn ei\v thèn gh%n, troviamo un movimento discendente che richiama la dinamica discendente della sepoltura; in 12,32 invece, nell’espressione ka\gwè e\aèn u|ywqw% e\k th%v gh%v, troviamo un movimento ascendente che si ricollega all’esaltazione di Gesù sulla croce. 149 cfr A. GANGEMI, I Racconti postpasquali nel Vangelo di San Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena, cit., 212-213.
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Alla prospettiva del Cantico, come abbiamo già notato, è riconducibile pure l’azione di Pietro e del discepolo che, stimolati dalla donna, si mettono alla ricerca di Gesù e vanno al sepolcro. Lo sposo è sceso nel sepolcro e lì si dirigono i due per cercarlo. Ma il kh%pov non è soltanto il luogo della sepoltura: esso ha relazione anche con il «luogo dove fu crocifisso». Gesù è risalito dal suo sepolcro e, nel kh%pov, come in Genesi, egli è diventato oggetto di conoscenza e fonte di vita eterna. Lì lo trova la sposa del Cantico, la Maddalena. Possiamo dire che Gesù è sceso nel kh%pov del Cantico e lì è orientata la ricerca di Pietro e del discepolo che riecheggiano le «figlie di Gerusalemme». Maria però trova Gesù non nel kh%pov del Cantico bensì nel kh%pov genesiaco. La stessa prospettiva del kh%pov genesiaco sembra continuare ancora nell’esperienza dei discepoli in 20,19-29 e in 21,1-14. Ciò è suggerito dalle varie forme del verbo i$sthmi, riferite a Gesù, che costituiscono il punto di partenza dell’esperienza sia della Maddalena sia dei discepoli. Anche i discepoli, sulla scia della Maddalena, pervengono al kh%pov genesiaco. Lì fanno esperienza di Gesù, lì pervengono alla professione di fede e lì ottengono, nel pane, la vita eterna.
7. Conclusioni Sia la sua posizione, all’inizio, a metà e alla fine del racconto, sia anche l’analisi condotta sui singoli testi mostrano la centralità del termine kh%pov nella narrazione giovannea della passione di Gesù. Bisogna quindi concludere che esso deve conferire una particolare prospettiva a tutta la narrazione. Le nostre conclusioni, dedotte soltanto dall’analisi dei singoli testi, debbono essere perciò necessariamente limitate e parziali. Conclusioni più complete avrebbero richiesto l’analisi di tutta quanta la narrazione della passione. In ciascuno dei tre contesti il termine kh%pov sembra alludere ad un diverso testo dell’AT. In 18,1-2 l’allusione sembra essere, per contrasto, a Gen 2-3: Gesù e
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i discepoli, mediante un cammino di esodo, entrano in quel giardino dal quale all’origine l’uomo fu cacciato. In 18,26 l’allusione invece sembra essere al racconto di Susanna: come i due anziani dichiarano di avere visto Susanna nel giardino con un giovane, così il servo del sacerdote dichiara di avere visto Pietro nel giardino con Gesù. Emerge però una differenza: mentre nel racconto di Susanna i due anziani depongono il falso contro una innocente, il servo nella narrazione della passione dichiara il vero contro un colpevole. Infine in 19,41 l’allusione sembra essere al Cantico dei Cantici. Lo sposo è sceso nel giardino del suo sepolcro e la sposa, la Maddalena, stimola le figlie di Gerusalemme, Pietro e il discepolo, a mettersi nella sua richiesta. Le tre differenti allusioni specifiche possono però essere ricondotte ad una allusione fondamentale unica, al giardino di Gen 2-3. Il testo di Gv 18,1-2 richiama direttamente il giardino genesiaco. Pure nel testo di 19,41 la prospettiva del Cantico, soprattutto nella seguente vicenda della Maddalena, in 20,11-18, caratterizzata dalla presenza del khpouroév, si intreccia con la prospettiva del kh%pov genesiaco: per trovare Gesù Maria deve risalire nel “giardino” dove egli realizza la tipologia dell’albero della conoscenza del bene e del male e anche, nei racconti seguenti, quella dell’albero della vita. Più difficile, ma non impossibile, è ricondurre alla prospettiva genesiaca il testo di 18,26. Il servo obietta a Pietro di averlo visto con Gesù nel giardino; ciò significa che Pietro, al momento del suo rinnegamento, non è più lì con Gesù. Egli è uscito dal giardino, così come uscirono i primi uomini dopo la loro trasgressione. Ma Pietro non è destinato a restare fuori del giardino. In Gen 3,22 Dio delibera che l’uomo non deve stendere più la sua mano (mhépote e\kteòn+ thèn ce_ra), prendere dall’albero della vita, mangiare e vivere in eterno. Per questo egli lo caccia (v 23) dal giardino. Il testo di 18,26 insinua l’esclusione di Pietro dal giardino; ma in 21,18 Gesù stesso, con le parole «stenderai le tue mani (e\ktene_v taèv ce_raév sou)», ne annunzia il ritorno150. Pietro, quando sarà vecchio,
150 Alla nudità genesiaca sembra alludere anche il termine riferito a Pietro in Gv 21,7, cfr il nostro studio A. GANGEMI, I racconti postpasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù
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stenderà la sua mano, un altro lo cingerà e lo condurrà dove egli non vuole, potrà cioè tornare al giardino dal quale uscì a causa del suo rinnegamento151. Concludendo, riteniamo che lo sfondo in cui si colloca il termine kh%pov nella narrazione della passione secondo Giovanni sia appunto il testo di Genesi. Il kh%pov è insieme il luogo della sepoltura e della manifestazione. Gesù. Egli fu crocifisso e scese nel giardino della sepoltura; ma poi da lì è risalito e si è manifestato nel giardino, dove egli, come l’antico albero genesiaco, è oggetto di conoscenza e dove, come l’antico albero della vita, egli è fonte di vita eterna. Nel kh%pov Gesù “sta” glorificato. Per poterlo raggiungere bisogna fare il suo stesso cammino, quello seguito anche dalla Maddalena, e da lì poi risalire nel luogo della sua glorificazione. Con la sua passione Gesù ha inaugurato il ritorno nel kh%pov da cui all’origine l’uomo fu cacciato. Egli entra nel kh%pov, ma non da solo: con lui ci sono anche i discepoli (18,1-2); lì è raggiunto dalla Maddalena, come la sposa del Cantico, che perviene non solo alla conoscenza che «Gesù è» ma anche all’incontro con lui (20,11-18); lì i discepoli pervengono alla professione di fede espressa da Tommaso (20,19-29); lì essi ricevono il pane, fonte di vita eterna (21,1-14). Solo Pietro è uscito; a causa del suo rinnegamento si è ripetuta in lui la situazione degli uomini genesiaci che, per la loro trasgressione, dovettero uscire dal giardino (Gen 3,22). Egli però vi ritornerà, quando, raggiunto dall’amore di Gesù, stenderà le sue mani, un altro lo cingerà e lo condurrà dove egli non vuole (Gv 21,15-19). È la chiesa il kh%pov il giovanneo? Questa è l’impressione che abbiamo riportato nel corso di questo lavoro. Una risposta più sicura potrà venire però dalla considerazione globale della narrazione della passione. Per questo preferiamo lasciare sospesa adesso questa domanda.
si manifesta presso il lago, Acireale 1993, 187, all’annunzio del discepolo che «il Signore è», Pietro però supera quella nudità, cince la veste (toèn e\penduéthn) e si getta in mare. 151 Per il rimando dell’espressione e\ktene_v taèv ce_raév sou di 21,18 a Gen 3,22, cfr la relazione letteraria tra Gen 3,22 e Gv 21,18: Gen 3,22: mhépote e\kteòn+ thèn ce_ra Gv 21,18: e\ktene_v taèv ce_raév sou.
Synaxis XX/3 (2002) 615-634
CRITERI DI FORMAZIONE NELL’ORATIO AD ADOLESCENTES DI BASILIO
GISANA ROSARIO*
1. Ricezione e cultura cristiana nella diversità L’incontro del cristianesimo con la cultura pagana1 è nelle circostanze attuali oggetto di particolare interesse, per il ricupero di quegli elementi metodologici che riguardano il tema dell’inculturazione nel suo processo educativo e culturale. Il duplice modulo che riveste tale relazione si presenta tuttavia ancora controverso: non tutti gli scrittori cristiani antichi possono essere definiti strictu sensu apologeti del cristianesimo né essere annoverati indistintamente tra coloro che si aprirono spontaneamente al dialogo con il mondo pagano. La figura di Basilio si colloca invece all’interno di un crocevia, ove il dialogo si commisura con l’accoglimento della diversità culturale, secondo il criterio della ricezione: un atteggiamento questo difficilmente ravvisabile negli scrittori del IV sec. In Basilio infatti il raffronto con la cultura pagana non rientra nei limiti di una superficiale assuefazione e non sfonda paradossalmente in quel superamento che in Occidente portò ad una
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Docente invitato di Patristica nello Studio Teologigo S. Paolo di Catania. Sul dialogo fra paganesimo e cristianesimo: cfr E. R. DODDS, Pagani e cristiani in un’epoca d’angoscia, trad. it., Bagno a Ripoli (Firenze), 19901, 101-136; A. H. M. JONES, Lo sfondo sociale della lotta tra paganesimo e cristianesimo, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, a cura di A. Momigliano, trad. it., Torino 1968, 23-43; P. DE LABRIOLLE, La réaction paienne, étude sur la polémique antichrétienne du Ier au VIe siècle, Paris 1934. 1
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cultura specificamente cristiana2. Quello che si intravede invece è un fenomeno di estrema attualità riguardante appunto l’armonizzazione dei contrari e la condivisione dei valori propriamente umani nel rispetto della diversità. È questa la singolare apertura del Cesariense, che P. Scazzoso definisce «un possibile e realizzato umanesimo cristiano»3. Tale atteggiamento rimanda probabilmente alla formazione personale di Basilio, il cui eclettismo di stampo enciclopedico si coniuga perfettamente con quella sensibilità cristiana, che nella tensione all’essenziale, favorisce e attua la piena maturazione della vita umana. In lui quest’apertura va’ plasmandosi con l’assimilazione della filosofia platonica e stoica, nel vivace contesto di una Cappadocia cristiana, evangelizzata dall’origeniano Gregorio Taumaturgo4. E, rispetto all’amico Gregorio e al fratello5, Basilio è colui che più di tutti incarna il segno peculiare della genialità del grande alessandrino: l’applicazione cioè del criterio di ricezione di fronte al pensiero classico. Egli non ha disdegnato le forme diatribico-filosofiche del mondo pagano, e mediante esse, ha tentato di stabilire un itinerario di formazione che ha per sfondo una visione specificamente umana e come fine la cura per la vita spirituale. Tale applicazione si scorge in modo preponderante nell’opera, Oratio
2 Cfr E. KEVANE, Paideia and Ant-Paideia: the Proemium of St. Augustine’s De doctrina christiana, in Augustinian Studies 1 (1970)154-180. Inoltre, non è possibile stabilire un confronto tra Agostino, che il Marrou definisce precursore della civiltà medievale, e Basilio. E ciò non soltanto perché l’uno è un padre latino e l’altro appartiene alla grecità cristiana, ma soprattutto perché in Basilio si intravede l’attuazione del criterio di “ricezione”. Pertanto, il giudizio del Marrou, secondo il quale «tutti i padri vivono immersi nella corrente della civiltà antica» e «non pongono con decisione il problema dell’edificazione di una cultura nuova» (H.I. MARROU, S. Agostino e la fine della cultura antica, trad. it., Milano 1987, 296-297) sembra esageratamente riduttivo. 3 P. SCAZZOSO, L’umanesimo di S. Basilio, in Augustinianum 12 (1972) 404. 4 Cfr W. JAEGER, Cristianesimo primitivo e Paideia greca, trad. it., Firenze 19771, 70, ove l’autore definisce il Taumaturgo «l’anello di congiunzione fra Origene e i Padri cappadoci Basilio, Gregorio Nazianzeno e Gregorio Nisseno, tutti lettori e grandi ammiratori di Origene». 5 Aggiunge Simonetti: «Basilio contempera le doti letterarie dell’uno con la preparazione filosofica dell’altro in una sintesi di superiore livello, all’insegna di un senso della misura ch’è la quintissenza del classicismo e fa di lui l’insuperato esemplare di cristiano ellenizzato»: M. SIMONETTI, Cristianesimo antico e cultura greca, Città di Castello 1983, 89.
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ad adolescentes, scritta tra il 370 e il 375 per giovani in età scolare6. Dall’immagine dell’ape, che l’autore utilizza per esortare i giovani al retto discernimento, affiora subito il senso di questa singolare ricezione: «Quelle [le api] infatti non vanno propriamente su tutti i fiori, né su quelli in cui si posano si accingono a portare via tutto, ma traggono da loro quanto è conveniente per la lavorazione e lasciano il resto per essere goduto»7. Per Basilio, il dialogo è soprattutto fruizione rispettosa di ciò che l’altro può offrire, nel perseguimento di un preciso scopo. L’espressione «prÕj t≈n ™rgas…an» (per la lavorazione) indica la motivazione per cui vale la pena compiere quest’opera di setaccio. La convenienza (™pit»deion), poi, non è mero utilitarismo, giacché rimane sullo sfondo il dovere di tale operazione che è appunto la crescita umana. Sintomatica è inoltre l’espressione «tÕ loipÕn ca…rein ¢fÁkan» (lasciano il resto per essere goduto), con la quale l’autore riferisce chiaramente il frutto prelibato della stima: il beneficio di un godimento che raggiunge tutti, in virtù di quella responsabilità che è guida razionale nelle proprie scelte. Un solido basamento che fonda il principio della diversità: da una parte la stima reciproca, il cui vantaggio è proteso a raggiungere il dono prezioso della verità: «Ricuperando da quegli [scritti] quanto è a noi familiare e prossimo alla verità»8; dall’altra la fruizione responsabile di ciò che rimane (tÕ loipÒn), necessario e importante per gli altri. Da un’attenta disamina dell’opera, emerge un altro aspetto che può 6 L’individuazione dei destinatari non è cosa facile. La tradizione ha sempre pensato ad un gruppo di giovani che frequentavano il corso istituzionale di grammatica. Ma, l’espressione che si legge in Or. ad adol. I,3: «tÍ te par⁄ tÁj fÚsewj o„keiÒthti eÙq∂j met⁄ to∂j gon≥aj Øm‹n tugc£nw (per affinità naturale mi trovo vicino a voi subito dopo i genitori)» appare sintomatica, in quanto potrebbe indicare persino i nipoti del Cesariense: cfr E. LAMBERZ, Zum Verständnis von Basileios’ Schrift “Ad adolescentes”, in ZKG 90 (1979) 75-95; M. NALDINI, Sulla “Oratio ad adolescentes” di Basilio Magno, in Prometheus 4 (1978) 36-44. 7 Or. ad adol. IV,9: «'Eke‹na… te g⁄r oÜte ¤pasi to‹j ¥nqesi paraplhs…wj ™p≥rcontai, oÜte m≈n oŒj ¨n ™piptîsin Óla f≥rein ™piceiroàsin, ¢ll' Óson aÙtîn ™pit»deion prÕj t≈n ™rgas…an laboàsai, tÕ loipÕn ca…rein ¢fÁkan». Per quanto concerne la numerazione, seguiamo il testo critico del Naldini: BASILIO DI CESAREA, Discorso ai giovani, a cura di M. Naldini, Firenze 1984. 8 Or. ad adol. IV,9:« Óson o„ke‹on √m‹n kaˆ suggen˛j tÍ ¢lhqe…v par' aÙtîn komis£menoi».
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essere considerato un unicum in tutta l’opera basiliana: citazioni e reminiscenze di autori e proverbi classici che il Cesariense raccoglie in abbondanza, per fondare un preciso metodo educativo. Così Platone, Plutarco, Omero, Esiodo, si susseguono quasi in ogni pagina, offrendo ciascuno il meglio della propria riflessione per una completa formazione al senso della vita. Il segno peculiare dell’Oratio è data proprio dal tentativo di proporre un metodo di formazione, nel quale convergere tutte le forze culturali emergenti. Cristianesimo e filosofia pagana devono unificare i propri interessi per un’adeguata promozione della crescita dei giovani. Il rispetto della diversità è ricezione di ciò che una cultura può esprimere, ma anche attestazione della verità che parzialmente essa contiene. La ricerca del vero costituisce per Basilio il principio unificatore dei due insegnamenti, cristiano e profano. Con l’immagine della pianta che produce il frutto, il cui ornamento è dato dalla necessaria presenza delle foglie, il Cesariense commenta: «Così anche per l’anima il frutto è principalmente la verità, ma non è per niente sgradevole rivestirsi di una sapienza che sta al di fuori, come quelle foglie che offrono riparo al frutto e una visione piacevole»9. Sebbene rimanga sottesa l’idea della superiorità del cristianesimo sul mondo pagano, non manca la stima per l’insegnamento classico, il cui esercizio è indispensabile al pari delle foglie sulla pianta. L’enfasi dell’intuizione basiliana cade infatti sull’aggettivo «¥cari» (sgradevole), che attesta positivamente l’utilità dell’insegnamento profano nella sua diversità, proprio come il frutto che in una pianta si “differenzia” dalle foglie, ma delle quali esso ha assoluta necessità. Sulla base del motivo platonico dell’anima diversa e superiore al corpo, Basilio coglie l’occasione per evidenziare la differenza (di£foro$) che esiste tra la vita terrena e quella celeste: una distinzione che non apporta il disprezzo dell’una a vantaggio dell’altra. Per Basilio, la formazione umana è propedeutica all’accoglimento della vita spirituale; non è possibile comprendere i misteri divini, senza un’adeguata preparazione ad essi, mediante un solido bagaglio umano: «Se si pensa che l’opinione del bene rimanga in noi indelebile, avendo previamente compiuto questi [studi] 9 Or. ad adol. III,2: «oÛtw d≈ kaˆ yucÍ prohgoum≥nwj m˛n karpÕj √ ¢l»qeia, oÙk ¥car… ge m≈n oÙd˛ t≈n qÚraqen sof…an peribeblÁsqai, oŒÒn tina fÚlla sk≥phn te tù karpù kaˆ Ôyin oÙk ¥wron parecÒmena».
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profani, allora capiremo gli insegnamenti sacri e i misteri ineffabili»10. Nel processo educativo, la maturazione del concetto di «bene» (tÕ kalÒn) dischiude la vita umana alle questioni su Dio e ai suoi misteri. Un’esistenza virtuosa, dedita al discernimento del bene, non può che generare la nostalgia delle realtà celesti. Basilio sottolinea che il previo esercizio (protelesq≥ntej) del «tÕ kalÒn» (il bene) è l’unica modalità concreta, capace di suscitare nell’animo un serio desiderio di Dio. L’onestà, la coerenza, la responsabilità, la condivisione rappresentano pertanto quei valori umani che trasfondono nell’uomo una nobile sensibilità spirituale. Per tale motivo, l’autore, nel richiamare i giovani a realizzare con perseveranza tale esercizio, spiega che soltanto la consuetudine del bene apporta la piena visione della luce: «E come abituandosi a vedere il sole nell’acqua, finché getteremo lo sguardo sulla luce stessa»11. L’alta considerazione, che Basilio manifesta nei confronti della cultura classica, scaturisce probabilmente dalla constatazione che i due insegnamenti anelano intrinsecamente alla conoscenza della verità, per cui — ribadisce l’autore — «™n ˜t≥roij oÙ p£ntV diesthkÒsin» (negli altri [scritti] in cui non c’è differenza: II,7). Senza ovviamente sopprimere la diversità che li contraddistingue, rimane in Basilio il tentativo di respingere quelle differenze che conducono all’intolleranza. Il rispetto della diversità, modulato da questo originale criterio di ricezione, si intravede ancora nella capacità di armonizzare motivi profani con temi biblici. Nel cap VII dell’Oratio, l’autore si incarica di mostrare alcuni esempi di personaggi famosi i quali, esercitando nella propria vita il «tÕ kalÒn» (il bene), hanno compiuto «azioni virtuose» (spouda…ai pr£xei$), degne di emulazione. Di fronte alle reazioni di non violenza di Pericle o Euclide e all’esemplare atteggiamento di Socrate che non si oppone al forsennato che lo aveva riempito di lividi, Basilio constata il 10 Or. ad adol. II,9: «e„ m≥llei ¢n≥kplutoj √m‹n √ toà kaloà param≥nein dÒxa, to‹j œxw d≈ toÚtoij protelesq≥ntej, thnikaàta tîn ƒerîn kaˆ ¢porr»twn ™pakousÒmeqa paideum£twn». 11 Or. ad adol. II,10: «kaˆ oŒon ™n Ûdati tÕn Ωlion ≠r©n ™qisq≥ntej oÛtwj aÙtù prosbaloàmen tù fwtˆ t⁄j Ôyeij». La conferma di tale ragionamento prende le mosse dalle esemplificazioni di figure bibliche, quali Mosé e Daniele, i quali hanno dovuto esercitare gli insegnamenti umani per giungere alla comprensione di quelli divini: cfr Or. ad adol. III,3-4.
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perfetto accordo con gli insegnamenti evangelici: «È difficile credere alla casuale combinazione con i nostri [scritti]»12 e postula esplicitamente il principio della gradualità propedeutica: «Chi si è precedentemente formato, non potrà più diffidare di quegli [scritti] come incapaci [a compiere un’adeguata formazione]»13. L’itinerario di formazione necessita di livelli che moderano e accompagnano la crescita. Basilio nell’avvertire quest’esigenza presagisce l’importanza della formazione umana, che rappresenta un livello basilare, indispensabile nella maturazione dei valori spirituali. Tale formazione, oggetto degli insegnamenti profani, è preparatoria, ma non inferiore a quella spirituale: «Questi [insegnamenti profani] conducono quasi a quello che è proprio dei nostri»14. L’enfasi, che l’avverbio «scedÒn» (quasi) dà alla frase, sottintende l’opinione del Cesariense sul nesso dei due insegnamenti. Se da una parte i precetti evangelici superano l’insegnamento umano, dall’altra quest’ultimo emula e prepara l’attuazione di quelle opere virtuose che sono proprie dell’esperienza spirituale. In questo dialogo del cristianesimo con il mondo pagano, rappresentato autorevolmente dall’Oratio, c’è molto più di un semplice e affrettato incontro fra culture differenti. Emerge un singolare rispetto della diversità, il cui motivo è da ricondurre non soltanto alla formazione umana e spirituale di Basilio, ma anche a quella sensibilità istintiva, tipica dell’asceta, che sa «dare ad ogni cosa il giusto valore e sa disporre tutto ciò che di bello e di buono il mondo offre in riferimento alla vita eterna e alla suprema salvezza dell’anima»15. Tale apertura fonda “l’originalità” del metodo educativo basiliano16: una buona formazione prende le mosse da
12 Or. ad adol. VII,12: «calepÕn pisteàsai ¢pÕ taÙtom£tou sumbÁnai to‹j √met≥roij». 13 Or. ad adol. VII,9:«`Wj Ó ge ™n toÚtoij propaideuqeˆj oÙk œt’ ¨n ™ke…noij æj ¢dun£toij diapist»seien». 14 Or. ad adol. VII,7: «Taàta scedÕn e„j taÙtÕn to‹j √met≥roij f≥ronta». 15 P. SCAZZOSO, L’umanesimo, cit., 403. 16 Naldini sostiene che la «fonte più immediata e determinante dell’insegnamento pedagogico basiliano» sia l’Oratio Panegyrica di Gregorio Taumaturgo per Origene: M. NALDINI, Paideia origeniana nella «Oratio ad adolescentes» di Basilio Magno, in Vetera Christianorum 13 (1976) 298. L’evidente dipendenza origeniana non toglie però al Cesariense il merito di aver adeguato un metodo per i giovani del suo tempo.
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quell’equilibrio intellettuale che valorizza elementi umani e non perde di vista la dimensione trascendente.
2. Un atto essenziale di discernimento Nel variegato contesto delle culture cosmopolite del IV sec., la necessità di proposte educative, che sappiano orientare i giovani nella scelta concreta “di ciò che è veramente utile” alla maturazione, costituisce l’oggetto precipuo dell’Oratio. Fin dalle prime battute della sua opera, l’autore avverte l’urgenza di enucleare un adeguato criterio di discernimento che aiuti nell’attento setaccio degli scritti profani: «Quali siano questi [insegnamenti] è il motivo per cui operiamo il discernimento e questo sarà il mio insegnamento facendo delle scelte a partire da questo momento»17. L’intenzione che guida Basilio in questo compito di accompagnamento concerne in primo luogo la comprensione del fine educativo. La formazione umana non è esaustiva di per sé: essa deve sottoporsi ad un dinamismo culturale che nella crescita porta ad un trapasso definitivo. È un anelito di perfezione che sospinge e dà senso alla formazione; e per Basilio esso equivale al motivo platonico della somiglianza divina18, descritto nel cap V come il conseguimento di un premio, ricevuto dopo una faticosa lotta («qlon), frutto però di una scelta doverosa e per niente facile. L’allusione alla vicenda di Eracle diventa così abbastanza significativa. Il giovane eroe, di fronte alle due vie, della virtù (¢ret») e del vizio (kak…a), è costretto a compiere una precisa scelta, lasciando intravedere che a fondamento di una congrua maturazione vi è sempre l’atto sostanziale di un’opzione, da attuare in condizioni fortemente controverse. Le due vie infatti mostrano in modo 17
Or. ad adol. I,7: «T…na oân ™sti taàta kaˆ Ópwj diakrinoàmen, toàto d≈ kaˆ did£xw œnqen ˜lèn». 18 Cfr PLATONE, Teeteto 176B, ove l’espressione «fug? d˛ ≠mo…wsij qeù kat⁄ tÕ dunatÒn ≠mo…wsij d˛ d…kaion kaˆ Ósion met⁄ fron»sewj gen≥sqai (fuga è invece rendersi simile a Dio per quanto è possibile; la somiglianza è diventare giusto e santo con sapienza» sta ad indicare la dottrina morale dell’assimilazione che il Cesariense aveva richiamato nel cap III,3 con la frase «tÍ qewr…v toà Ôntoj (in vista della contemplazione dell’essere)», attribuendola al comportamento di Mosè, il quale, dopo l’esercizio sulle scienze umane, si dedicò pienamente all’approfondimento spirituale.
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lapalissiano gli estremi di un contrasto: l’una, quella del vizio «era infatti ornata da uno stile lezioso in vista di un’avvenente bellezza»19; l’altra quella della virtù «era invece dimessa, sudicia e severa a vedersi»20. Quest’ultima inoltre, a causa delle promesse che preannuncia «innumerevoli sudori, fatiche e pericoli per terra e per mare»21, presenta al giovane una via, ispida e scoscesa (cfr V,3-4). Il fine educativo suppone quindi una scelta, che deve essere compiuta mediante un’avveduta operazione di giudizio: un vero “atto sapienziale” che oltrepassi i limiti dell’apparenza e sappia penetrare il senso arcano del sacrificio. L’attuazione di quest’atto dipende in secondo luogo da una lenta, ma progressiva azione di spogliamento, che fonda nel giovane un atteggiamento di serena e docile apertura. L’impianto della virtù è sottoposto sempre ad un procedimento assimilativo che, nel contemplare il bene (tÕ kalÒn), obbliga ad un generoso smussamento di ciò che intralcia la crescita nella formazione. La figura dell’Ulisse naufrago e nudo, che Basilio raccoglie dallo scrigno delle sue memorie sulla poesia omerica, ha lo scopo di comunicare ai giovani la grande verità sull’assimilazione della virtù. Tutta la poesia del grande aedo è volta a dimostrare l’importanza della virtù nella crescita umana. Persino il distico, che Basilio rammenta, tende a comunicare l’urgenza di tale assimilazione: «O uomini, dovete prendervi cura della virtù ovvero del naufrago che scampa a nuoto e giunto a terra nudo [lo] si indicherà più onorato dei fortunati Feaci»22. Con questo richiamo, non stupisce l’elogio sulla nudità di Ulisse (timièteron---tîn eÙdaimÒnwn Fai£kwn: più onorato…dei fortunati Feaci), la cui immagine riecheggia la condizione propizia che ogni uomo deve ambire per l’acquisizione della virtù. Basilio commenta così il riferimento ad Omero: «Poiché
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Or. ad adol. V,15: « EŒnai g⁄r t≈n m˛n ØpÕ kommwtikÁj dieskeuasm≥nhn e„j
k£lloj». 20 Or. ad adol. V,16: «t≈n d’ ˜t≥ran katesklhk≥nai, kaˆ aÙcme‹n, kaˆ sÚntonon bl≥pein». 21 Idem: « ƒdrîtaj mur…ouj kaˆ pÒnouj kaˆ kindÚnouj, di⁄ p£shj ºpe…rou te kaˆ qal£sshj». 22 Or. ad adol. V,9: «'AretÁj Øm‹n ™pimelht≥on, ï ¥nqrwpoi, À kaˆ nauag»santi sunekn»cetai kaˆ ™pˆ tÁj c≥rsou genÒmenon gumnÕn timièteron ¢pode…xei tîn eÙdaimÒnwn Fai£kwn».
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gli fece con la virtù un ornamento al posto delle vesti»23. Lo spogliamento permette quell’humus favorevole che genera un’esistenza pienamente virtuosa. La scelta del bene nasce quindi da quest’atto di radicale denudamento, lasciando che le variegate esperienze di rigetto del vizio “ricoprino” di virtù l’intera esistenza. La virtù è un bene prezioso, il cui possesso rispetto ai beni temporali è inalienabile (cfr V,10)24. Ma cos’è quest’atto di discernimento che attua la scelta del bene? A tal riguardo Basilio non ha una definizione precisa. Esortando però i giovani ad alimentare il proprio senso critico, egli pone la necessità di recepire un criterio, il «cr»simon» (ciò che è utile). La ricerca dell’utile costituisce un elemento preponderante nella formazione e, giacché non tutto conduce al giovamento, occorre talvolta compiere un opportuno scarto. Per il Cesariense, il discernimento dell’utile obbedisce ad una triplice condizione: a) il consolidamento dell’autonomia responsabile, che genera la capacità di pensare con la propria testa: «Non dovete seguire questi uomini una volta per sempre, ovunque essi vi conducano, quasi consegnando il timone della nave che è la vostra intelligenza»25. Ciò significa che non bisogna accondiscendere ad alcun asservimento soprattutto di carattere intellettuale. L’atto del pensare è la componente più preziosa della libertà umana: esso matura unicamente in coloro che non permettono alcuna dipendenza «una volta per sempre» (e„j ¤pax) della propria «intelligenza» (di£noia) dal giudizio degli altri; b) La ricezione dell’utile che si fonda sulla chiarezza delle priorità e le conseguenti scelte: «Ma accogliendo di loro quanto è utile» (¢ll’ Óson ™stˆ cr»simon aÙtîn decom≥nouj: I,6). Secondo Basilio, un vero itinerario formativo deve risvegliare nel giovane quella coscienza critica che lo accompagni nel discernimento di ciò che è necessario per la 23 Or. ad adol. V,7: «™peid»per aÙtÕn ¢retÍ ¢ntˆ ƒmat…wn kekosmhm≥non ™po…hse». 24 Nell’omelia, De invidia, Basilio aggiunge che la virtù appartiene all’uomo come un bene intrinseco, superiore persino al valore della stima altrui: «`H m˛n g⁄r ¢ret≈ ™f’ ºm‹n, kaˆ dunat≈ kthqÁnai tù filopÒnJ·√ d˛ tîn crhm£twn peribol», kaˆ éra sèmatoj, kaˆ Ôgkoj ¢xiwm£twn, oÙk ™f’ √m‹n (la virtù infatti è dentro di noi, ed è disposta ad essere usata da colui che ama la fatica; il complesso dei beni, la cura del corpo e la dignità delle stime non sono invece dentro di noi)» (PG 31,385A). 25 Or. ad adol. I,6: «tÕ m≈ de‹n e„j ¤pax to‹j ¢ndr£si toÚtoij, ésper plo…ou t⁄ phd£lia tÁj diano…aj Ømîn paradÒntaj, Îper ¨n ¥gwsi, taÚtV sun≥pesqai».
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crescita: una decisione che può avviarsi soltanto se vengono esplicati le motivazioni sulle scelte prioritarie. Al cap VIII, il Cesariense ribadisce: «Non dobbiamo accettare tutto indistintamente, ma quanto è utile», poiché la ricezione senza un oculato vaglio delle realtà fruibili è sintomo di un atteggiamento indolente, che accetta passivamente di essere trascinati dal caso: «essendo sballottati a caso qua e là nella vita»26. Il superamento è possibile grazie soltanto ad una scelta risoluta che ha per oggetto la cura dell’anima27. Un richiamo perentorio che appella l’importanza del primato spirituale su opzioni, commisurate piuttosto dalla necessità dei bisogni. La cura dell’anima è un’espressione che intende richiamare il valore dell’educazione alla “vita interiore”28, alla «contemplazione dell’essere» (tÍ qewr…v toà Ôntoj) – direbbe esplicitamente Basilio nella sua Oratio29. Educare significa orientare i propri interessi in riferimento al fine, lasciando che sia quest’ultimo a determinarne il valore. Il «cr»simon» (ciò che utile) intende quindi realizzare il fine in vista della crescita che si attua nel contesto del primato spirituale. c) Il coraggio dello scarto: «sapere cosa serve e scartare il resto» (e„d≥nai t… cr≈ kaˆ paride‹n: I,6). La consapevolezza del fine impianta nel giovane quell’acume critico che lo sostiene nella scelta: un’intrinseca forza spirituale che lo sospinge a rimuovere ciò che non è utile. La pratica di questa condizione appartiene primariamente a quanti con l’esperienza “esercitano” il proprio senso critico. Per tale motivo, occorre imparare ad accettare che la vita è soprattutto un combattimento, per il quale è necessaria un’adeguata esercitazione. Il termine «mel≥th» (cfr II,7), che 26
Or. ad adol. VIII,1.5: «oÙ p£nta ™fexÁj paradekt≥on √m‹n, ¢ll’ Ósa cr»sima […]. E„kÍ kat⁄ tÕn b…on ¥nw kaˆ k£tw periferÒmenoi». 27 Nell’Oratio, il motivo ritorna a più riprese e diventa lo scopo precipuo della formazione, coincidendo ovviamente con la realizzazione del «tÕ kalÒn»: cfr II,8-9; IV,3.8; VIII,2.5; IX,1-2. 28 A tal proposito, è interessante quello che Heschel asserisce sull’importanza dell’educazione religiosa: «Educare significa coltivare l’anima, non solo la mente. Tu coltivi l’anima, coltivando l’empatia e il rispetto reverenziale per gli altri, incentrando l’attenzione sulla grandezza, sul mistero di tutti gli esseri, sulla dimensione sacra dell’esistenza umana, insegnando come rapportare la realtà quotidiana alla realtà spirituale. L’anima viene scoperta nella risposta, nei gesti coi quali si va oltre l’io, nella consapevolezza degli obiettivi che superano i propri interessi e bisogni»: A.J. HESCHEL, Il canto della libertà, trad. it., Torino 1999, 76. 29 Or. ad adol. III,3.
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Basilio riprende appositamente dal gergo militare con il senso di «esercizo fisico» proprio dei ginnasi, sta ad indicare l’impegno e la fatica che si richiedono nella formazione e cura dell’anima: «È necessario dunque che pensiamo di trovarci di fronte ad un combattimento più grande di tutti, per il quale occorre adoperarsi e affrontare la fatica in vista della forza per la preparazione di questo [combattimento]»30. Il quotidiano confronto con gli autori classici, che Basilio definisce «vivace conversazione» (≠milht≥on: II,8)», l’entusiasmo per l’esercitazione “spirituale”, alla stregua delle grandi fatiche militari, e il desiderio di una profonda vita interiore sostengono quest’opera di epurazione, necessaria per lo sviluppo di quel senso critico che forma nel giovane l’amore alla vita. Il discernimento è dunque un’operazione educativa indispensabile per l’articolazione di un metodo formativo. Non si può educare ed educarsi, senza l’umile esercizio del discernimento. Esso comporta un atto di giudizio e la capacità d’opzione31. Entrambi prendono le mosse dall’assimilazione di un criterio, che nell’Oratio si identifica con la ricerca di ciò che è veramente utile. Un atto essenziale che affida la sua attuazione alla guida razionale dell’anima, la cui privazione o stato d’inerzia non può che destare una seria inquietudine: «Così, non essendo la nostra mente al timone dell’anima, saremo veramente come navi senza zavorra, sballottati a caso qua e là nella vita»32.
3. Orientamenti formativi dell’Oratio basiliana All’interno di una paideia specificamente cristiana, l’opera di Basilio rappresenta un capisaldo della formazione antica33. Il suo interesse precipuo 30
Or. ad adol. II,8: «Kaˆ √m‹n d≈ oân ¢gîna proke‹sqai p£ntwn ¢gènwn m≥giston nom…zein creèn, Øp≥r oá p£nta poiht≥on √m‹n kaˆ ponht˛on e„j dÚnamin ™pˆ t≈n toÚtou paraskeu»n». 31 Cfr R. GISANA, Giudizio e verifica: aspetti biblici del discernimento, in Synaxis XIII/2 (1995) 275-300. 32 Or. ad adol. VIII,5: «À oÛtwj ¨n e‡hmen ¢tecnîj kat⁄ tîn plo…wn t⁄ ¢nerm£tista, oÙdenÕj √m‹n noà ™pˆ tîn tÁj yucÁj o„£kwn kaqezom≥nou, e„kÍ kat⁄ tÕn b…on ¥nw kaˆ k£tw periferÒmenoi». 33 Si discute sul valore pedagogico di quest’opera. Molti studiosi asseriscono che
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riguarda l’educazione dei giovani e la presentazione di alcuni criteri molto pratici, per un’adeguata crescita umana. Sullo sfondo resta però un principio che ne determina lo scopo: il giovane deve essere educato alla ricezione delle realtà ineffabili (cfr II,9), la cui comprensione richiede una previa e diligente esercitazione dei valori propriamente umani che appartengono alla cultura paideutica del suo tempo. Non importa che questi siano di matrice pagana: la verità è sempre una, disseminata tra quelle filosofie che pongono seriamente le domande ultime. Da questa combinazione di elementi culturali pagani con il pensiero cristiano, si evince non soltanto l’originalità dell’opera basiliana, ma anche una possibile fondazione di un metodo educativo. Se nell’esordio dell’opera, il Cesariense avvia la sua riflessione con un’indicazione lapidaria, che sembra dare allo scritto un carattere prettamente esortativo: «Sono molte le cose che mi spingono a darvi dei consigli pratici» (Poll£ me t⁄ parakaloànt£ ™sti sumbouleàsai Øm‹n: I,1), dalla trattazione invece emergono espliciti riferimenti, che fanno pensare ad un progetto sottostante. Colpisce anzitutto la modalità della presentazione. Sulla base della sua lunga esperienza di alterne vicende umane, Basilio reputa di poter assolvere al compito di «indicare con assoluta certezza la via» (≠doà t≈n ¢sfalest£thn ØpodeiknÚnai: I,2) ed enucleare un insegnamento che sappia sostenere l’arduo esercizio del discernimento: «Questo sarà il mio insegnamento facendo delle scelte a partire da questo momento» (toàto d≈ kaˆ did£xw œnqen ˜lèn: I,7). L’espressione mette in evidenza l’impegno responsabile di chi si accinge ad insegnare, sulla base delle scelte che ha cercato di realizzare nella propria vita. L’accorata raccomandazione, che Basilio al cap I,4 rivolge ai suoi giovani, costituisce poi un’ottima conferma sul genere didattico dell’Oratio. Egli chiede infatti d’accogliere le sue l’Oratio tratti della questione riguardante l’incontro del cristianesimo con la cultura pagana, assumendo così una veste specificamente apologetica: cfr S. GIET, Les ideés et les doctrines sociales de Saint Basile, Paris 1941, 217-232; H.I. MARROU, Storia dell’educazione nell’antichità, trad. it. , Roma 1971. Con Jaeger, tuttavia, bisogna ammettere che i Cappadoci, a differenza della scuola alessandrina, tentarono di avviare una paideia cristiana, secondo la quale si doveva «partire dagli elementi e costruirvi sopra l’uomo, sistematicamente»: W. JAEGER, Cristianesimo, cit., 96. È per questo motivo che l’Oratio «nonostante i limiti e il tono familiare, apparve al mondo cristiano una risposta qualificata di cultura e di prassi pedagogica»: M. NALDINI, Introduzione, in Basilio di Cersarea, Discorso, cit., 12.
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riflessioni (t⁄ legÒmena) con zelante prontezza (prÒqumw$), non soltanto per essere annoverati tra coloro che ricevono una meritata lode, ma soprattutto per sfuggire all’insidia della pigrizia (¢cre…a), che soffoca nel suo nascere il dono della saggezza, dono che può essere acquisito soltanto da chi «constata da se stesso i doveri da assolvere» (tÕn par' ˜autoà t⁄ d≥onta sunorînta) oppure da colui che «segue [fiduciosamente] le indicazioni degli altri» (tÕn to‹j par' ˜t≥rwn Øpodeicqe‹sin ˜pÒmenon). Questi preamboli sembrano gettare le basi per un metodo educativo, che intende promuovere la crescita umana nella sua interezza. Basilio è dell’avviso che una buona formazione deve trasfondere nell’animo giovanile la consapevolezza che la vita umana, con la profusione dei suoi valori, è pur sempre un’esperienza limitata34, da completarsi con «la preparazione ad un’altra vita» (prÕj ˜t≥rou b…ou paraskeu»n: II,2), la quale trasferisce nell’uomo una felicità superiore, distante dalla somma dei beni umani, proprio come «ombra e sogno si allontanano dalle realtà vere» (ski⁄ kaˆ Ônar tîn ¢lhqîn ¢pole…petai: II,5), e colmabile soltanto mediante lo sprone delle speranze cristiane: «Procediamo molto lontano mediante le speranze [che sono nostre]» (™pˆ makrÒteron prÒimen ta‹j ™lp…si: II,2).
3.1. Il perseguimento della virtù Un aspetto basilare della formazione riguarda la decisione per una vita pienamente virtuosa. L’immagine di Eracle, che è costretto a scegliere tra il vizio ammaliante (kak…a) e la virtù disadorna (¢ret»), permette a Basilio di insistere sul valore inestimabile di tale opzione. L’assimilazione della virtù infatti è una condizione necessaria per essere introdotti alla vita35 e sperimentarla come parte di se stessi. La percezione consapevole che la vita, dal momento in cui è donata, diventi una realtà intima della persona, è una conquista che si raggiunge solo mediante la virtù. Per tale motivo, il 34 Or. ad adol. II,1: «oÜt' ¢gaqÒn ti nom…zomen Ólwj, oÜt' Ñnom£zomen, Ö t≈n sunt≥leian √m‹n ¥cri toÚtou par≥cetai (non reputiamo totalmente bene né lo definiamo tale quello che ci offre un compimento parziale)». 35 Or. ad adol. V,1: «di’ ¢retÁj ™pˆ tÕn b…on √m‹n kaqe‹nai de‹ tÕn √m≥teron (occorre entrare nella vita che è nostra per mezzo della virtù)».
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Cesariense riconosce che questa iniziazione costituisce per i giovani un grande vantaggio (oÙ mikrÕn g⁄r tÕ Ôfeloj: V,2); ma occorre superare copiose difficoltà che richiedono la scelta del sacrificio. L’opportuna citazione del verso di Esiodo rimarca la natura sostanziale della virtù, rammentata alla maniera di un cammino, ispido e faticoso, che bisogna intraprendere per accogliere il dispiegamento della vita e comprendere i misteri divini36. È un cammino che si colloca all’inizio (prîton) della vita dell’uomo e – sottolinea Basilio – «non sempre è possibile intraprender[lo] a causa della ripidezza, né una volta introdotti giungere facilmente alla vetta»37. La consapevolezza del limite ingiunge forse il principio di spogliamento, quale atteggiamento razionale per la ricezione della virtù, e comunque lascia intendere che essa costituisce un bene pregevole, il cui possesso è destinato a coloro che non disdegnano la lotta. In molte occasioni, Basilio non evita di ravvedere i giovani sul vero pericolo che occlude lo svolgimento di tale cammino. La virtù non è perseguibile da chi cede allo scoraggiamento (katamalakisq≥ntaj: V,5) e conduce la propria vita nell’indolenza (√ ·vqum…a tù b…J: VIII,13). Con la massima di Pittaco, recepita probabilmente come detto proverbiale38, è posta seriamente la questione: «È difficile, come si dice, restare saggio?» (Öj calepÕn œfhsen ™sqlÕn œmmenai: VIII,14). La pienezza della vita è sperimentata soltanto da chi si decide per la saggezza, alternando realisticamente il proprio comportamento tra constatazione del sacrificio e rigetto dell’ozio. Il Cesariense annovera questa riflessione sapienziale tra i doveri cui ogni uomo è chiamato ad assolvere. La violazione, commessa deliberatamente (™xep…thdej), altro non è che un “peccato” d’illusione, che scambia la realtà con l’immagine, la verità con l’ombra. Prosegue infatti Basilio: «Non 36 Riferisce Basilio in V,3: «–H t… pote ¥llo dianohq≥nta tÕn `Hs…odon Øpol£bwmen tautˆ poiÁsai t⁄ œph § p£ntej °dousin, À oÙcˆ protr≥ponta to∂j n≥ouj ™p' ¢ret»n; “Oti trace‹a m≥n prîton kaˆ dÚsbatoj kaˆ ƒdrîtoj sucnoà kaˆ pÒnou pl»rhj √ prÕj ¢ret≈n f≥rousa kaˆ ¢n£nthj ≠dÒj (per quale altra idea dobbiamo pensare che Esiodo componesse questi versi che tutti cantano, se non per convincere i giovani alla virtù? Perché la via che conduce alla virtù è inizialmente aspra, impraticabile, piena di molto sudore, faticosa e ripida)». 37 Or. ad adol. V,4: «oÙ pantÕj oÜte prosbÁnai aÙtÍ di⁄ tÕ Ôrqion, oÜte prosb£nta ·vd…wj ™pˆ tÕ ¥kron ™lqe‹n». 38 M. NALDINI, Commento, in Ibid., 200-201.
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dobbiamo vivere nell’ozio né scambiare le grandi speranze con la bassezza della comodità»39, poiché si compie il giudizio divino che è rifiuto d’ascolto ad ogni invocazione. Non si può quindi, dopo aver sperimentato il valore di tali insegnamenti, perseverare nell’illusione: «La vita prima del combattimento finale altro non è che un’esercitazione dello stesso combattimento» (tÕn prÕ tÁj ¢gwn…aj b…on mel≥thn e˘nai tÁj ¢gwn…aj: VIII,11).
3.2. Il principio della coerenza Strettamente congiunto al motivo della virtù è l’insegnamento sulla necessità di una vita coerente. Basilio sostiene che gli esempi dei grandi maestri devono essere recepiti con senso di umiltà, cercando d’accordare la propria vita con il significato delle loro proposizioni: «Ci si deve affidare ad essi e tentare di mostrare nella vita le parole [assimilate]» (oŒj peist≥on kaˆ peirat≥on ™pˆ toà b…ou deiknÚnai to∂j lÒgouj: VI,1)40. Nel cammino formativo infatti una fiduciosa consegna (peist≥on) costituisce la condizione fondamentale per il raggiungimento della maturazione, il cui esito, essendo carico di esperienze umanamente vantaggiose, conduce alla capacità del discernimento e quindi alla gestione della propria vita, secondo un preciso scopo. Consegnarsi significa pertanto accogliere gli insegnamenti che stimolano il confronto, con vivace senso critico nella chiarezza del fine precipuo della formazione. All’atto della consegna segue un altro orientamento: la vita conforme alle parole (· »mata kaˆ œrga). Evitare di scadere nella bassezza di una vita che è solo proiezione di se stessa, è segno di capacità d’affidamento. L’apparenza infatti costituisce l’estremo limite dell’iniquità41, che nega all’essere la percezione di sé, trasformandolo in un attore che simula un copione. A forza 39 Or. ad adol. VIII,15: «OÙ d≈ oân ·vqumht≥on √m‹n, oÙd˛ tÁj ™n brace‹ ·vstènhj meg£laj ™lp…daj ¢ntallakt≥on». 40 Secondo Naldini il tema della coerenza è «un motivo noto e diffuso nell’antichità pagana […] che dalla teoretica platonica si evolve e si specifica in senso prevalentemente etico nella diatriba cinico-stoica»: Ibid., 183. Aggiunge inoltre lo studioso che la ricezione nel pensiero dei padri sembra dipendere dalla formazione biblica: cfr l.c. 41 Or. ad adol. VI,7: «¢ll’ oátÒj ™stin ≠ œscatoj tÁj ¢dik…aj Óroj (ma questo costituisce l’estremo limite dell’empietà)».
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di rappresentare ciò che non appartiene esistenzialmente alla sua vita reale, egli rischia di smarrire il senso della propria libertà42, incorrendo persino nell’assurda contraddizione delle parole che non esprimono i sentimenti del cuore, secondo il detto di Euripide: «La lingua ha giurato, il cuore si astiene dal giuramento» (√ glîtta m≥n ≠mèmoken, √ d˛ fr≈n ¢nèmoto$: VI,6). La fuga dell’apparenza è dunque un principio necessario per il perseguimento della virtù, ma richiede una seria impostazione della vita, che Basilio colloca nel contesto della purificazione dell’anima (cfr IX,7).
3.3. Una priorità inderogabile L’attenzione alla vita interiore, che Basilio al cap IX definisce «cura dell’anima», pone una risposta metodologica ai progetti educativi coevi. Essa prende le mosse da un’opzione che è anche orientamento nella formazione: occorre cioè evitare l’asservimento al corpo, con le sue pretese che non sempre corrispondono a necessità primarie, ed alimentare piuttosto l’impegno per la formazione dell’anima43. Questo processo equivale a una sorta di liberazione che, da una parte svincola l’anima dai legami delle passioni (p£qh), dall’altra concede al corpo un beneficio superiore ai suoi stessi bisogni44. La libertà “spirituale” permette infatti di comprendere l’arcano segreto dell’esistenza, secondo il quale «l’uomo non è quello che appare» (oÙ tÕ ≠rèmenÒn ™stin ≠ ¥nqrwpoj: IX,6). Mediante quest’insigne occupazione, si perviene quindi alla realizzazione della conoscenza di sé, che nell’insegnamento profano era lo scopo precipuo di ogni formazione. In Basilio, però, la cura dell’anima assume una prerogativa essenzialmente diversa: la conoscenza di sé non è una semplice operazione catartica dell’anima razionale, bensì un processo di conversione che porta al distacco delle realtà terrene in vista di quelle celesti. Tale concezione porta a 42 Or. ad. adol. VI,4: (oÙd˛ m˛n oân tucÕn ™leÚqeroi tÕ par£pan (né forse sono del tutto liberi)». 43 Or. ad adol. IX,1-2: «OÙ d≈ oân tù sèmati douleut?on, Óti m≈ p©sa ¢n£gkh· ¢ll⁄ tÍ yucÍ t⁄ b≥ltista porist≥on (non bisogna essere schiavi del corpo, poiché non tutto è necessario [per la sua formazione]; ma occorre procurare all’anima le cose migliori)». 44 Or. ad adol. IX,2: «tÕ sîma tîn paqîn kre‹tton ¢pergazom≥nouj (procacciando al corpo qualcosa di meglio rispetto alle passioni)».
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considerare il corpo uno strumento prezioso45 che accompagna la formazione spirituale, ma occorre relazionarsi con esso in modo sapiente e non come «quelli che si prendono cura degli strumenti, trascurando persino l’arte che opera per mezzo di essi»46. Se la cura eccessiva del corpo è nociva, costituendo un grave intralcio alla formazione spirituale47, è necessario allora porre delle limitazioni alla manifestazione dei bisogni, proprio come fa il saggio che «tanto più disprezzerà, quanto meno sentirà il bisogno di possedere» (tosoÚtJ pl≥on ¢tim£sei ÓsJper ¨n Âtton prosd≥htai: IX,19). La definizione basiliana, che commenta le azioni virtuose dei maestri pagani, appare come un invito prudenziale a ricercare nella vita quel poco che permette di apprezzare ciò che è veramente utile. La ricchezza come superfluo (tÕ g⁄r tÁj cre…aj perittÒteron [ciò che supera la pura necessità]: IX,19) è sempre un bene eccessivo: essa può generare un’irresistibile tensione «al soddisfacimento dei piaceri» (prÕj t≈n tÁj ™piqum…aj ™kpl»rwsin: IX,20), tralasciando così quella cura spirituale che è oggetto della vera formazione. Nel perseguimento di questo ideale di perfezione, Basilio raccomanda le «provviste del viaggio» (™fÒdion: X,3), sull’esempio di Biante che consiglia al figlio di procurarsi la virtù della saggezza in vista della vecchiaia. L’™fÒdion (provviste del viaggio), cui allude il Cesariense, indica metaforicamente l’approvvigionamento spirituale48 che deve sostenere il giovane nel cammino verso una vita «duratura e immortale» (¢g»rw a„îna: X,4). Nella ricerca di ciò che veramente è utile, occorre «attendere a quella parte migliore» (™gceire‹n to‹j belt…stoij: X,6) che è la cura dell’anima. Per essa non si devono
45 Si tratta di una esplicita reminiscenza platonica del sesto libro della Repubblica, ove il filosofo riconosce che la cura del corpo in età infantile costituisce «Øphres…an filosof…v (un buon aiuto per la filosofia)»: PLATONE, Repubblica, VI,498B; cfr Or. ad adol. IX,12. 46 Or. ad adol. IX,13: «tîn perˆ t⁄ Ôrgana spoudazÒntwn, tÁj d˛ di’ aÙtîn ™nergoÚshj t≥cnhj katameloÚntwn». 47 Or. ad adol. IX,17: «“Ote to…nun √ ¥gan aÛth toà sèmatoj ™pim≥leia aÙtù te ¢lusitel≈j tù sèmati, kaˆ prÕj t≈n yuc≈n ™mpÒdiÒn ™sti, tÒ ge Øpopeptwk≥nai toÚtJ kaˆ qerapeÚein man…a saf»j (poiché dunque una tale cura eccessiva del corpo appare svantaggiosa al corpo stesso, e costituisce un intralcio per l’anima, restare assoggettati e diventare schiavi di esso è un’evidente pazzia)». 48 Cfr M. NALDINI, Paideia origeniana, cit., 306, nota 38.
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temere sacrifici e difficoltà (cfr X,6), e, adempiendo con impegno alle vicende quotidiane (cfr X,7), non si devono allontanare quanti, sotto l’azione della divina sapienza, sono in grado di indicare, il cammino che resta ancora da tracciare: «Non ammalatevi dunque sfuggendo coloro che sono in grado di proporre razionalmente la retta via»49.
4. Conclusione La peculiarità di quest’opera specificamente pedagogica consiste nella sua proposta di metodo, il cui oggetto concerne il ragguaglio di alcuni criteri educativi che intendono indirizzare e accompagnare la crescita. Emerge così la finalità del progetto basiliano: educare la persona ad essere consapevole della sua capacità pensante. Il giovane infatti deve essere iniziato alla vita e accompagnato nell’esprimere la sua personalità. Il problema formativo è una questione vasta e complessa. Interessa tutti, nel contesto di una dilagante crisi che riguarda soprattutto le istituzioni impegnate nella pianificazione degli itinerari educativi. Scoprire criteri nuovi è il senso di questo confronto con l’Oratio. È ovvio che Basilio enucleava tali principi, alla luce delle provocazioni storiche del suo tempo, ma la riflessione che ne scaturisce può addurre proposte significative e vantaggiose. A. Il raffronto con la diversità è un motivo emergente dell’Oratio, il cui interesse non può che attirare l’attenzione dell’uomo post-moderno. Schiacciato dall’ansimante ricerca della propria dignità, l’uomo sembra caduto sotto la tirannia dell’io, che lentamente lo ha impantanato nella palude dell’individualismo. I rapporti appaiono così stravolti. La ricerca dell’autoaffermazione è l’unica regola che guida lo svolgimento delle vicende umane, soffocando l’elemento di originalità che si cela nella manifestazione soggettiva della personalità. Paradossalmente, in una società multietnica, ove le relazioni culturali obbligano all’apertura e allo scambio, l’uomo si scorge paurosamente “solo”, in preda alla sua angoscia e incapace 49 Or. ad adol. X,9: «Ö m≈ p£qhte nàn Øme‹j to∂j Ñrqîj œcontaj tîn logismîn ¢pofeÚgontej».
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di inerire con la diversità. Per tutti egli è un semplice individuo, un numero da censire e un oggetto da temere. La dignità della persona umana deve essere lo scopo primario di ogni progetto educativo, al di là delle cosiddette “differenze culturali”, le quali nell’unica ricerca del senso della vita avallano quell’intuizione biblica, secondo cui l’uomo nella sua entità originaria è icona divina. Il rispetto della diversità è la grande proposta di Basilio. Con il metodo della ricezione egli tenta di dialogare con il mondo pagano, differente, rispettando quella diversità che è manifestazione della verità parziale, insita nella coscienza di ciascuno. Il dialogo deve servire a questo: suscitare impavidamente ciò che differenzia, affinché l’uomo possa incontrare l’altro sulla linea di una fraternità universale che è condivisione solidale della diversità. B. L’interesse per la vita interiore rappresenta una modulazione costante dell’Oratio e nel contesto dei metodi educativi pagani assume il valore di una sfida profetica. La formazione umana ai valori fondamentali, quali la responsabilità, l’agire onesto e secondo virtù, l’interazione rispettosa nella diversità, appare in realtà sufficiente. Ma, secondo Basilio essa non realizza il «kÒsmo$» (cfr IX,25) «l’ornamento ben ordinato» della vita umana. La pienezza della vita è frutto di quell’elemento spirituale che è insito nella coscienza dell’uomo. L’incostanza che il giovane sperimenta nell’attuazione dei valori umani è il segno di questa mancata educazione alla vita interiore. Da qui scaturiscono motivazioni deboli che non hanno la capacità di significare il valore del sacrificio e dell’impegno; da qui la delusione per quelle ideologie religiose e politiche, programmate ex cathedra. La formazione alla vita interiore è un cammino difficile, poiché esso richiede di concepire la vita in senso anche verticale. Con prospettive diverse e alimentate da questa singolare relazione con il divino, la cura per la vita interiore suscita aspetti che la formazione esclusivamente umana non riesce a intravedere. La vita trasmessa come dono, segno di una presenza che non può non generare stupore, la consapevolezza del limite umano che solo il mistero di Dio può infondere, la capacità di percepire nella contemplazione la realtà dell’essere creato e creante, e la concreta possibilità che l’uomo si definisce al di là del suo limite “naturale” costituiscono solo una parte di quell’universo interiore che è la sensibilità spirituale, destata al senso della vita proprio dalla
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compagnia di Dio: «Senza la consapevolezza ultima della dignità della vita – aggiunge A.J. Heschel – della gloria trascendente della giustizia e della compassione, della serietà e significazione ultima della libertà e della responsabilità, noi falliremo»50.
50
A.J. HESCHEL, Il canto, cit., 79.
Note Synaxis XX/2 (2002) 635-648
GIROLAMO BENIVIENI TRADUTTORE DI GIOVANNI CASSIANO*
FERDINANDO RAFFAELE**
La Traductione delli octo libri di Giovanni Cassiano e di quattro sue Conlationi1, ricavata dall’umanista fiorentino Girolamo Benivieni2 dalle Institutiones e dalle Conlationes di Giovanni Cassiano3, costituisce, fra le * Il presente lavoro, lievemente modificato e, com’è ovvio, bibliograficamente aggiornato, è stato oggetto di una mia comunicazione letta in occasione del V Congresso Internazionale della «Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana» (Catania, 1517 ottobre 1998), i cui atti però non sono stati più pubblicati. ** Professore di Lettere nell’Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato «Enrico Fermi» di Catania. 1 Così l’incipit dell’unico manoscritto: «PREFATIONE DI GIROLAMO BENIVIENI CITTADINO FIO/RENTINO NELLA TRADVCTIONE DI LINGVA LATINA IN LIN/GVA TOSCANA DELLI OCTO LIBRI SEGVENTI DI GIOVANNI/CASSIANO DI QVATTRO SVE CONLATIONI ET DVNA EXPO/SITIONE DI IO P. SOPRA IL PATERNOSTER ALLE DIVO/TE SVORE DEL MONASTERIO DI SANGAGGIO DI/FIRENZE», ms. Acq. e Doni 55 della Biblioteca Medicea-Laurenziana di Firenze, c. 1r.; per notizie sul monastero di San Gaggio si consulti O. FANTOZZI MICALI, F. LOMBARDI, P. ROSSELLI, Il Monastero di San Gaggio a Firenze. La storia - Il piano di recupero, Firenze 1996. 2 Su Girolamo Benivieni (Firenze 1453-1542) si vedano C. RE, Girolamo Benivieni fiorentino. Cenni sulla vita e sulle opere, Città di Castello 1906; A. PELLIZZARI, Un asceta del Rinascimento. La vita e le opere di Girolamo Benivieni, in ID. Dal Duecento all’Ottocento. Ricerche e studi letterari, Napoli 1914, 255-369; C. VASOLI, Benivieni Girolamo, in Dizionario biografico degli italiani, 8, Roma 1966, 550-554. 3 Il più ricco profilo della vita e dell’opera di Giovanni Cassiano (360 ca - 435 ca)
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varie trasposizioni e rielaborazioni in italiano dei due trattati, una delle attestazioni che di certo ha meno suscitato riverberi dottrinari e letterari sulla cultura monastica italiana. Indirizzata alle religiose di un monastero fiorentino e portata a termine con tutta probabilità nel 15154, l’opera non ha conosciuto una significativa circolazione, rimanendo circoscritta ad un ambito fruitivo estremamente limitato: se ne conserva, infatti, una sola copia autografa5, della quale non si hanno, stando almeno ai riscontri finora appurati, ulteriori diramazioni manoscritte o estrapolazioni e citazioni presenti in altri testi. La Traductione, che peraltro passa sotto silenzio nelle rassegne bibliografiche che si occupano del Benivieni6, è stata del resto richiamata all’attenzione degli studiosi moderni solo grazie ad una segnalazione di Olga Zorzi Pugliese7. Nonostante tale esigua fortuna, la Traductione merita attenzione perché, a mio avviso, contribuisce a meglio delineare i tratti del profilo intellettuale del Benivieni, il cui ruolo nell’ambiente culturale fiorentino non fu certo irrilevante; illumina alcune espressioni della vita culturale e spirituale delle comunità religiose femminili nella Firenze del XVI secolo; offre, nel contesto del vasto ed intricato panorama delle trasposizioni linguistiche e resta quello di O. CHADWICK, John Cassian, Cambridge 19682, ma si veda anche il recente C. STEWART, Cassian the Monk, New York 1998; cfr inoltre le voci curate da M. CAPPUYNS, Cassien, in Dictionnaire d’historie et de géographie ecclésiastiques, XI, Paris 1949, 13191348: 1319-1328 e M. OLPHE-GALLIARD, Cassien, in Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mistique, doctrine et histoire, II, 1, Paris 1953, 214-277: 214-218. L’unica edizione critica dei due testi è quella di M. Petschenig, in Johannis Cassiani Opera, Vindobonae 1886-1888 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum), lievemente rivista nelle edizioni di J.-C. Guy Institutions cénobitiques, Paris 1965 (Sources Chrétiennes) e E. Pichery, Conférences, 3 voll., Paris 1955-1959 (Sources Chrétiennes). 4 O. ZORZI PUGLIESE, Girolamo Benivieni: umanista riformatore (dalla corrispondenza inedita), in La bibliofilia LXXII (1970) 278, n. 46. 5 Per la descrizione codicologica si rimanda a P.O. KRISTELLER, Iter Italicum, V, London 1990, 566; cfr anche O. ZORZI PUGLIESE, Girolamo Benivieni…, cit., 261, n. 31. 6 G. NEGRI, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, 299-300; F. ARGELATI, Biblioteca degli volgarizzatori, o sia notizie dall’opere volgarizzate d’autori che scrissero in lingue morte prima del sec. XV. Coll’addizioni e correzioni di A.T. Villa, Milano 1767, II, 146-147; C. VASOLI, Benivieni Girolamo… cit., 554. 7 O. ZORZI PUGLIESE, Girolamo Benivieni…, cit., 261 e ss., la quale indica una citazione dell’opera contenuta in una biografia del Benivieni stesa dal pronipote Antonio e conservata manoscritta.
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delle ricomposizioni centonarie dei testi di Cassiano8, un esempio peculiare, ma allo stesso tempo significativo, della versatilità e della fecondità delle sue opere, nonché un utile elemento di riscontro, data per l’appunto l’autorità di Cassiano, circa i rapporti intercorrenti fra tradizione patristica e cultura umanistica9. Occorre inoltre ricordare che la traduzione, concepita per un pubblico certamente noto all’autore, risulta predisposta secondo intenti didascalici e non evidenzia nelle forme della stesura ambizioni di stampa, bensì configura una voluta perifericità fruitiva, ribadita dalla conformazione paratestuale che riproduce quella dell’originale latino, senza realizzare aggiustamenti funzionali alla rielaborazione messa in atto.
1. Destinazione e finalità della traduzione Girolamo Benivieni asserisce di aver intrapreso la stesura della Traductione per ragioni del tutto occasionali. Nella prefazione rammenta come, durante un’estemporanea lettura di Cassiano, gli sia sovvenuta la figura di una monaca a lui diletta, e come siffatta riminiscenza lo abbia indotto a riflettere sui sicuri benefici che verrebbero ad una comunità religiosa dall’intellezione delle parole di Cassiano: ... mi messi per relaxare um poco l’animo a leggere alcune cose in Giovanni Cassiano [...]. Pensai così, dalla memoria et singulare affectione instigato d’una divota suora, di farla commune etiam a quelle persone che, per
8 Per un quadro sommario si rinvia a M. CAPPUYNS, Cassien…, cit., 1333-1334; un prospetto delle traduzioni italiane è riportato in F. RAFFAELE, Tradizioni culturali e spiritualità presso il monastero benedettino di San Martino delle Scale: considerazioni sulla versione siciliana della Conlatio de discretione di Giovanni Cassiano, in Synaxis XVIII (2000) 1, 229-259: 231-234. 9 Sulle problematiche relative alla ricezione della letteratura patristica presso gli ambienti umanistici fiorentini e, più in generale, ai rapporti fra cultura monastica ed Umanesimo si vedano S. GENTILE, Umanesimo fiorentino e riscoperta dei Padri, in Umanesimo e Padri della Chiesa. Manoscritti e incunaboli di testi patristici da Francesco Firenze 1997, 45-62 e R.L. GUIDI, Il Petrarca al primo Cinquecento, a cura di S. Gentile, 2 dibattito sull’uomo nel Quattrocento, Roma 1999 .
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Ferdinando Raffaele manchare della lingua latina, non possono dal proprio fonte per sé medesime attignere i salutiferi suoi moniti, precepti et consigli (c. 1v)10.
Alla conseguente decisione di volgere dal latino una parte del quarto libro delle Institutiones fa poi seguito un avvenimento familiare che determina la dilatazione del proposito iniziale. Si tratta della monacazione di una pronipote, alla quale il Benivieni ritiene di non poter fare migliore dono augurale della traduzione di Cassiano: Alla quale traductione, sendo poi per divina vocatione seguito il felicissimo sponsalitio intra la mia più che figliuola da me dilecta pronepote, suora in questo veramente felice, et il suo et vostro sposo celeste, et richiedendo l’obligo mio di honorare le sue future noze con qualche debito et a tale sponsalitio accommodato presente, pensai meco medesimo che né più utile, né più alla sua professione conveniente dono dareseli poteva, che farla partecipe della sopradecta traductione... (cc. 1v-2r).
Aggiunge così, alla sezione originaria, excerpta ben più corposi, preferiti in ordine ad una casuale disposizione: ... pensai di accompagniarlo con la interpretatione di tucto el restante della opera predecta [...]. A’ quali [...] m’è piaciuto agiugnere anchora, con simile traductione, le quatro sequenti Conlationi del medesimo authore […]. Non perché in queste quattro sia maggiore o più efficace doctrina che nelle altre [...], ma perché così m’è venuto a proposito per qualche particular persona et rispecto (cc. 2r-2v).
Sono dunque l’apprezzamento dell’utilità pratica dei testi di Cassiano e la non ponderata intenzionalità dei criteri di selezione i due connotati che caratterizzerebbero il profilo della traduzione, cui il Benivieni accompagna il proposito di pervenire ad un testo perfettamente accessibile, all’intelle-
10 Il testo riprodotto è trascritto dal ms. Acq. e Doni 55 della Biblioteca MediceaLaurenziana di Firenze. Sono state sciolte le abbreviature e separate le parole; si è, inoltre, adoperata una forma moderna di punteggiatura e distinta <v> da <u>.
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gibilità del quale, reso «senso per senso», egli mira secondo le seguenti premesse: ... se in tale traductione io havessi come semplice interprete seguito l’ordine, il contexto et la propietà delle parole latine, et non mi fussi ingegniato di adaptarle a l’uso del parlare nostro vulgare, sarebbe certo epsa nostra interpretatione mancata di ogni gratia et d’ogni venustà. [...] priego hora chi legge, che non voglia cercare di pascere gli orechi in questa nostra traductione di quello suono di parole, che io non ho potuto in lei transferire, ma più presto di satiare l’animo della pura et nuda doctrina, che sotto tali parole quantunque roze et incomposte assaj, come io credo, fedelmente in questa nostra lingua si representa (c. 2v).
Il traduttore, ribadendo l’adesione al livello culturale di chi è destinato a beneficiare del testo, sulla base di ben consolidati luoghi comuni, persegue un didatticismo non estraneo alla sua scrittura, visto che anche altrove si dimostra incline a ricercare approcci comunicativi commisurati alla ricettività dei destinatari11. Sull’argomento egli ha, comunque, ancora modo di precisare: La qual cosa poi che noi hareno exequita mi parrà havere interamente pagato il debito della mia promissione. Di haverlo pagato et se non con oro et argento, come noi habiamo ricevuto dallo autore proprio, con giusta però et di pari prezo extimata moneta. Potendo con questa etiam quelli poveri di Christo che non hanno oro o argento, cioè che manchono del thesoro et della elegantia della lingua latina, parimenti comperare il regno di vita eterna ... (c. 107v)12.
È questa la certificazione di un procedimento, in precedenza giusti-
11 Se ne ha, ad esempio, riscontro nelle egloghe, cfr F. BATTERA, Le egloghe di Girolamo Benivieni, in Interpres. Rivista di studi quattrocenteschi X (1990) 172 e ss. 12 In altro luogo afferma di aver condotto a termine la traduzione «per comune utilità di quelli che, per non havere, come è decto, notitia della lingua latina, mancono d’uno tanto bene» (c. 2r).
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ficato attraverso ripetute professioni di modestia13, sul quale influiscono le ragioni dell’opzione per la «pura e nuda doctrina», piuttosto che per il «suono di parole», ed alle cui fondamenta sta una concezione della scrittura ampiamente condivisa dagli umanisti14. Per altro verso, contro le dichiarazioni esordiali del traduttore, l’episodicità cui sarebbe ispirata la composizione della silloge15 risulta smentita già ad un sommario esame contenutistico. Benivieni, infatti, non traduce i primi quattro libri delle Institutiones, dedicati alla descrizione delle regole monastiche e dunque di taglio più prescrittivo, bensì i restanti otto, incentrati sulla trattazione del combattimento spirituale fra vizi e virtù; integrandoli con i capitoli finali del quarto libro, inizialmente destinati ad esaurire il lavoro e significativamente rivolti al tema della libera accettazione della vita monastica16, e con l’ultimo capitolo della Conlatio XVIII, 13 Si rientra nella tipologia di caratteri, propria del sermo humilis, descritta in E. , Lingua letteraria e pubblico nella tarda Antichità latina e nel Medioevo, Milano AUERBACH 2 1970 (trad. it. di Literatursprache und Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter, Bern 1958) 31-67; su tale procedimento retorico in Benivieni si veda E. GARIN, Marsilio Ficino, Girolamo Benivieni, Giovanni Pico, in Giornale critico della filosofia italiana XXIII (1942) 1-2, 93-99: 94. 14 Che Benivieni esplica anche in componimenti poetici profani, cfr F. BATTERA, Le egloghe…, cit., 179. Emblematico, a riguardo, è il richiamarsi di Giovanni Pico della Mirandola4 alla superiorità delle res sui verba, cfr E. GARIN, L’Umanesimo italiano, RomaBari 1994 , 121. 15 I testi tradotti, secondo la disposizione del ms., sono: 1) i libri V-XII delle Institutiones, cc. 3r-107v; 2) il cap. XVII della Conlatio XVIII, cc. 108r-109v; 3) i capp. XXXIIXLIII, del libro IV delle Institutiones, cc. 109v-115r; 4) il trattato di Giovanni Pico della Mirandola In orationem Dominicam expositio, cc. 115v-122v; 5) le Conlationes I, IX, X, XVI, cc. 125r-219r. Ad essi si aggiungono due interventi esplicativi: 1) Prefatione, seguita da alcuni versi (Che col suo sempre vivo et puro foco,/Ardendo in me, m’ha sott’un tanto peso/Condocto ...), cc. 1r-3r; 2) Al lettore, c. 107v. 16 È, in proposito, utile notare come il libro IV delle Institutiones sia tradotto, qualche decennio più in là, da Serafino Razzi — autore di dichiarata ispirazione savonaroliana, nonché autore di una biografia del frate — che lo include in una raccolta di testi aventi finalità di pedagogia monastica: S. RAZZI, Il quarto libro de’ sermoni di S. Cipriano, di S. Bernardo, di S. Anselmo, et d’altri Santi e Dottori Cattolici. Tradotti in lingua toscana per don Serafino fiorentino, monaco della Badia di Firenze et Congregazione Casinese, Firenze 1572, 260-266. 17 Sul tema, si veda l’introduzione di F. Comello a EVAGRIO PONTICO, Gli otto spiriti malvagi, trad. it., Parma 1990, 13-14.
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aggiunto per completare, dato che vi si tratta il vizio dell’invidia, il quadro dottrinario di riferimento17. Nulla è, a riguardo, più chiaro della giustificazione addotta: Perché lo Autore [...] non fa mai mentione, o sì poca che non cade sotto alcuna extimatione, del vitio della invidia, vitio nientedimeno gravissimo, et come lui medesimo in altro luogo dice, sopra tutti li altri vitii difficile a curarlo, m’è parso cosa non solo congrua et ragionevole, ma debita di agiugnere a questa nostra presente traductione delli octo libri predecti, quella anchora dello ultimo capitolo della decima ottava collatione del medesimo autore (c. 107v).
Con analogo criterio di scelta, Benivieni, fra le ventiquattro Conlationes che compongono il trattato, ne preferisce quattro, accomunate, rispetto alle altre, da un maggior grado di riflessione circa i fondamenti della vita interiore. Si tratta della prima, che affronta il tema della vocazione alla vita monastica e della sua perfezione18; della nona e della decima, dedicate alla preghiera19; della sedicesima, rivolta alla trattazione del tema dell’amicizia, molto caro alla cultura umanistica, ma anche funzionale alla proposizione di un elevato modello di vita comunitaria20. Sono invece tralasciate le Conlationes nelle quali è manifesta una più accentuata prescrittività
18 Per una disamina del quadro tematico delineato da Cassiano nelle Conlationes, si veda A. DE VOGÜÉ, Pour comprendre Cassien: un survol des Conférences, in Collectanea Cistercensia 39 (1977) 250-272, ora in ID., De saint Pachôme a Jean Cassien. Études littéraires et doctrinales sur le monachisme égyptien à ses débuts, Roma 1996, 303-329. 19 Per un esame dei contenuti delle due conlationes si vedano M.S. LAIRD, Cassian’s Conferences Nine and Ten: Some Observations Regarding Contemplation and Hermeneutics, in Recherches de théologie ancienne et médiévale 62 (1995) 145-156 e l’introduzione di M. Degli Innocenti a GIOVANNI CASSIANO, Abba cos’è la preghiera?, trad. it., Magnano [BI] 2000. 20 A. FISKE, Cassian and Monastic Friendship, in American Benedictine Review 35 (1961) 190-205. 21 Cfr C. LEONARDI, Alle origini della Cristianità medievale. Giovanni Cassiano e Salviano di Marsiglia, in Studi Medievali XVIII (1977) 1057-1174: 1093-1108.
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normativa, come le XVIII-XXIV21, e quelle di più complessa problematicità dottrinaria, ad esempio le XI-XV22. La silloge cassianea risulta inoltre, nell’unico codice che la conserva, inframezzata dalla traduzione di un breve trattato di Giovanni Pico della Mirandola, l’Expositione sopra il Pater Noster. L’Expositione, della quale si dà menzione nell’incipit del manoscritto, ma non nelle premesse introduttive, è un’esegesi del Pater Noster rivolta alla valorizzazione della preghiera, la cui interpolazione risponde verosimilmente, dal momento che alla stesura del codice ha atteso lo stesso Benivieni, alle medesime ragioni che informano il resto dell’opera. Il fatto che Benivieni ritorni più volte su tale tema e approfondisca quelli relativi alla lotta contro i vizi, all’amicizia ed alla purezza vocazionale, conduce, al di là delle retoricamente ovvie petizioni d’intenti, all’allestimento di una composizione contenutisticamente ponderata. Infatti, nonostante la frammentarietà dell’insieme, l’accostamento, secondo me, configura un disegno che veicola un’articolata proposta didattica, il cui fulcro dottrinario consiste nella ricerca di un solido ancoraggio interiore per la professione monastica, piuttosto che nell’elaborazione di un percorso normativo.
2. La silloge cassianea e il mondo monastico femminile della Firenze primo-cinquecentesca Scrutando i tratti del profilo biografico di Girolamo Benivieni, non sfugge la sollecitudine con la quale il dotto uomo di lettere vive le complesse vicende storiche della propria città, partecipando attivamente a momenti in cui fatti politici si legano ad esperienze di grande rilevanza religiosa, con lo spirito di chi auspica un profondo rinnovamento della Chiesa e, allo stesso tempo, della società23. Tale anelito, che è con chiarezza individuabile nella sua prima produzione poetica nell’ambito 22
Cfr ID., 1086-1087. I caratteri del riformismo ecclesiale del Benivieni sono illustrati in O. ZORZI PUGLIESE, Girolamo Benivieni…, cit. 24 C. VASOLI, Movimenti religiosi e crisi politiche dalla Signoria al Principato, in Idee, istituzioni, scienza ed arti nella Firenze dei Medici, a cura di C. Vasoli, Firenze 1980, 23
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dell’Accademia ficiniana24, registra l’impulso verso un ulteriore grado di maturazione dagli incontri con Giovanni Pico della Mirandola e Girolamo Savonarola. A seguito di tali frequentazioni, il Benivieni si orienta verso una spiritualità più accentuatamente rivolta al rigore morale ed all’ascesi interiore, sicché la revisione «moralizzata» del proprio corpus lirico25, la scelta politica di parte «piagnona»26 e la più generale attività sociale assolta a partire dall’ultimo decennio del XV secolo sono da reputarsi come le manifestazioni di una rinsaldata consapevolezza dottrinaria. Anche la composizione della Traductione si pone all’interno di siffatto orizzonte ideale: Benivieni ha presente lo stato delle numerose realtà conventuali femminili di Firenze27 e ne conosce gli esempi di fulgida spiritualità, ma anche le vistose contraddizioni. Fra queste ultime, non passa sicuramente in secondo piano l’eccessivo affollamento di molti monasteri, conseguenza di discutibili politiche familiari, il cui risvolto più deleterio è
47-82: 57-58 e O. ZORZI PUGLIESE, Benivieni’s Commento and Bonaventure’s Itinerarium: Autobiography and Ideology, in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa XXX (1994) 2, 347362: 347 e ss.; peraltro, come pone in evidenza C. VASOLI, Savonarola e la cultura filosofica fiorentina, in Studi savonaroliani. Verso il V Centenario. Atti del primo seminario di studi (Firenze, 14-15 gennaio 1995), a cura di G.C., Garfagnini, Firenze 1996, 107-126: 110: «… il Ficino non fu soltanto promotore della “renascentia” platonica, perseguita in tutta la sua opera davvero monumentale, ma pure un “dotto” convinto di proporre un grande progetto di rinnovamento religioso di cui si doveva considerare l’interprete predestinato e provvidenziale». 25 G. BENIVIENI, Commento di Hieronymo Benivieni sopra a più sue canzone et sonetti dello Amore e della Bellezza divina, Firenze 1500 e Opere di Hieronymo Benivieni, Firenze 1519; cfr C. RE, Girolamo Benivieni …, cit., 103 e ss. e G. RIDOLFI, Girolamo Benivieni e una sconosciuta revisione del suo Canzoniere, in La bibliofilia LXVI (1964) 213234: 215-216. 26 Per informazioni sul ruolo rivestito dal Benivieni nel movimento savonaroliano, si veda L. POLIZZOTTO, The Elect Nation. The Savonarolan Movement in Florence 14941545, Oxford 1994. 27 L’attenzione di Gerolamo Benivieni verso le comunità religiose femminili è attestata, oltre che da un cospicuo numero di lettere, dalla traduzione dei Salmi penitenziali approntata per le monache del convento fiorentino delle Murate; quest’ultima è esaminata in O. ZORZI PUGLIESE, Il commento di Girolamo Benivieni ai salmi penitenziali, in Vivens homo 5 (1994) 2, 475-494: 478-479. 28 Si rimanda ai rilevamenti di R.C. TREXLER, Le célibat à la fin du Moyen âge: les religieuses de Florence, in Annales. Économies Sociétés Civilisations 27 (1972) 6, 1329-
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rappresentato dalla spinta alla vocazione forzata28. L’inautenticità della scelta di vita sta, in parecchi casi, alla radice dei molteplici malesseri annidati nel mondo monastico femminile fiorentino, a motivo del fatto che «non mancano scandali talvolta abbastanza clamorosi, che anche nei chiostri vigono i privilegi di nascita e di casta, che vi domina spesso un’inquietudine profonda e vi serpeggiano, più che nei conventi maschili, ribellioni latenti e suggestioni che gli uomini del tempo giudicano ereticali e diaboliche»29. Si tratta di fenomeni di decadimento morale e spirituale che certo non lasciano indifferente il Benivieni, sovente rivolto alle religiose per coadiuvarle spiritualmente, come documentano alcuni dei passi in precedenza citati ed un abbondante campionario di lettere, poesie e traduzioni30. Non è, dunque, da ritenersi casuale il ruolo preminente che egli assegna, nel comporre la Traductione, al tema della purezza vocazionale, richiamato da un monito posto agli inizi del passo estrapolato dal IV libro delle Institutiones, laddove si ribadisce l’invito a non «facilmente ricevere ciascuno nel monasterio» (c. 110r). Vi si estrinseca quell’aspirazione alla renovatio che, attraverso ripetute sollecitazioni alla restaurazione 1350: 1333 e 1337-1341, che mostrano, attraverso un puntuale accertamento statistico, la progressiva crescita delle comunità religiose fiorentine dal XIV al XVI secolo; per una loro collocazione in ambito italiano ed europeo, utili informazioni si ricavano da G. ZARRI, Monasteri femminili e città (secoli XVI - XVIII), in Storia d’Italia. Annali, IX. La Chiesa ed il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino 1986, 357-429: 361-398; A. BENVENUTI PAPI, «In castro poenitentiae». Santità e società femminile nell’Italia medievale, Roma 1990; E. SCHULTE VAN KESSEL, Vergini e madri tra cielo e terra. Le cristiane nella prima età moderna, in Storia delle donne in Occidente, a cura di G. Duby e M. Perrot, III, Dal Rinascimento all’età moderna, a cura di N. Zemon Davis e A. Farge, trad. it., Roma-Bari 1991, 156-200: 176-178. 29 C. VASOLI, Movimenti religiosi e crisi politiche…, cit., 51; cfr con P. MOSCHETTI - B. SECONDIN, Maddalena de’ Pazzi mistica dell’amore, Milano 1992, 161-165. 30 Cfr infra n. 27. Al Benivieni è inoltre presente la cura dedicata dal Savonarola alle comunità religiose femminili, alcune delle quali sono attratte dalla sua azione riformista, cfr C. RE, Girolamo Benivieni…, cit., 52; sul ruolo assegnato alle donne nella prospettiva riformistica del Savonarola si vedano F.W. KENT, A Proposal by Savonarola for the Self-Reform of Florentine Women (March 1496), in Memorie Domenicane n. s. 14 (1983) 335-341; L. POLIZZOTTO, When Saints Fall Out: Women and the Savonarolan Reform in Early SixteenthCentury Florence, in Renaissance Quarterly 46 (1993) 486-525; ID., Savonarola, savonaroliani e la riforma della donna, in Studi savonaroliani…, cit., 229-244; A. VALERIO, Il libro
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vocazionale, fa delle traduzioni un consapevole strumento di direzione spirituale31. La costituzione del florilegio cassianeo, pensato — secondo quanto sostenuto dallo stesso Benivieni — come un mezzo di azione parenetica32, si dimostra in ciò funzionale all’individuazione di un punto d’incontro tra vita di fede, morale e pratica religiosa, e suggerisce, senza che con questo si vogliano ipotizzare semplicistici automatismi, un’efficace, seppur sommessa, risposta alle forme di mondanità perniciosamente diffuse nella vita conventuale del tempo.
3. Presupposti culturali della traduzione Eugenio Garin, in più di un intervento, ha avuto modo di sottolineare, fra i caratteri distintivi del pensiero del Benivieni, una certa refrattarietà alla speculazione filosofica, alla quale si accompagnano, a seguito della «conversione» alle dottrine savonaroliane, atteggiamenti di bigottismo morale33. Tale giudizio è rappresentativo dell’approccio riservato dagli
di Ruth, la donna, la riforma dei semplici, in Una città e il suo profeta. Firenze di fronte al Savonarola. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Firenze 10-13 dicembre 1998), a cura di G.C. Garfagnini, Firenze 2001. 31 Conferma quanto asserito da O. ZORZI PUGLIESE, Il commento di Girolamo Benivieni…, cit., 479, la quale rileva come il Benivieni, a proposito della traduzione e del commento ai Salmi penitenziali, produca «non solo opere di erudizione ma scritti devozionali che offrono delle norme pratiche del ben vivere». 32 Molte delle traduzioni approntate dal Benivieni sono di taglio didattico: vanno citate quelle relative ad alcuni testi del Savonarola — si veda C. VASOLI, Benivieni Girolamo…, cit., 552 — ed al De compunctione Spiritus di S. Giovanni Crisostomo, oggi non reperibile, una cui copia è stata tuttavia presente, secondo F. ARGELATI, Biblioteca degli volgarizzatori…, cit., II, 165, presso il monastero fiorentino di S. Lucia. Inoltre, sull’attenzione dedicata dal Savonarola alle traduzioni e sulla collaborazione da lui richiesta al Benivieni e ad altri dotti si veda G.C. GARFAGNINI, La memoria dei Padri in Girolamo Savonarola, in Tradizioni patristiche nell’Umanesimo. Atti del Convegno (Firenze, 6-8 febbraio 1997) a cura di M. Cortesi e C. Leonardi, Firenze 2000, 159-173, ora in ID.,«Questa è la terra tua». Savonarola a Firenze, Firenze 2000, 371-384, soprattutto 378-379. 33 E. GARIN Filosofi italiani del Quattrocento. Pagine scelte tradotte e illustrate, Firenze 1942, 65; ID., Marsilio Ficino, Girolamo Benivieni…, cit., 97. 34 O. ZORZI PUGLIESE, Girolamo Benivieni seguace e difensore del Savonarola.
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studiosi moderni alle opere del Benivieni, che peraltro vengono sommariamente inscritte ora nel solco del magistero intellettuale di Pico ora in quello del Savonarola34 ed alternativamente classificate come neoplatoniche o «piagnone», di rado, comunque, apprezzate per originalità di caratteri35. Anche accettando siffatta prospettiva, tuttavia gli scritti del Benivieni presentano, a mio avviso, aspetti certamente meritevoli di una seria riflessione, soprattutto allorché interpretano istanze religiose di sicuro spessore, vivamente sollecitate dalla società fiorentina del tempo36 e riflesse in vari ambiti letterari37. Ora, nel tirare le somme del presente intervento, appare legittimo individuare nell’opzione di Benivieni per Cassiano il naturale punto di convergenza di due distinte sensibilità spirituali. Infatti Cassiano è, per un verso, tenuto in particolare considerazione dai Domenicani, dal Benivieni assiduamente frequentati, specie a seguito dell’incontro con il Savonarola38; per altro verso, la sua dottrina collima in più punti con quella di Origene, ben recepita a Firenze e convintamente Considerazioni sul problema testuale dell’epistola a Clemente VII (1530), in Studi savonaroliani…, cit., 309-318: 309-313. 35 Le due posizioni, ovviamente, non si escludono: sui rapporti umani e le corrispondenze intellettuali e spirituali fra il Pico ed il Savonarola, si veda G.C. Garfagnini, Savonarola tra Giovanni e Giovanfrancesco Pico, in Giovanni Pico della Mirandola. Convegno internazionale di Studi nel cinquecentesimo anniversario della morte, 1494-1994 (Mirandola, 4-8 ottobre 1994), a cura di G.C. Garfagnini, Firenze 1997, 237-279: 244-261, ora in Id., «Questa è la terra tua»…, cit., 251-291. 36 Cfr la documentazione epistolare riportata in O. ZORZI PUGLIESE, Girolamo Benivieni…, cit. 37 Sull’esperienza religiosa quale «motivo unificatore» della vita culturale fiorentina si sofferma M. MARTELLI, Firenze, in Letteratura italiana. Storia e geografia, diretta da A. Asor Rosa, II, Le letterature delle città-stato e la civiltà dell’umanesimo, Torino 1988, 25201: 117. 38 Cfr C. RE, Girolamo Benivieni…, cit., 93-94, 100 e ss.; il convento domenicano di San Marco — del quale Benivieni è assiduo frequentatore e presso cui verrà, per suo volere, anche sepolto — è, com’è noto, il centro di maggior rilievo del movimento savonaroliano, pure dopo la morte del fondatore (cfr A. VERDE, Il movimento savonaroliano della Congregazione di S. Marco nella prima metà del Cinquecento attraverso alcuni suoi rappresentanti, in Studi savonaroliani…, cit., 245-256); esso peraltro disponeva nella sua biblioteca di vari codici contenenti le opere di Cassiano, si veda B.L. ULLMAN - PH.A. STADTER, The Public Library of Renaissance Florence. Niccolò Niccoli, Cosimo de’Medici and the Library of San Marco, Padova 1972, ad indices, cfr E. GARIN, La biblioteca di S. Marco, in La chiesa e il convento di San Marco a Firenze, I, Firenze 1989, 79-112, soprattutto 104-110. Del resto,
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accolta dal Pico e presso i circoli neoplatonici39. Sicché tale preferenza risulta organica all’orizzonte culturale condiviso dal Benivieni, rispondendo ad una visione antropologica tipicamente umanistica, in ordine alla quale l’agire umano si fonda sulla sinergia fra grazia e volontà ed è attivamente cooperante al piano salvifico di Dio40. La selezione tematica attuata con la Traductione, peraltro, accentua siffatti aneliti spirituali, privilegiando, come s’è scritto prima, l’interiorità vocazionale, rispetto a manifestazioni di religiosità eminentemente esteriori, e riproponendo diffusamente quegli accenti volontaristici che così suonano nella traduzione di Benivieni dell’esordio dell’Expositione pichiana: «Orare non è altro che demonstrare a Dio i suoi desideri mediante la elevatione della mente, et la excitatione della volontà» (c. 115v)41. Benivieni non tralascia, presentando la traduzione, di ricordare come quella di Cassiano fosse una delle letture predilette da S. Domenico: «... del beato Domenico, uno de’ quatro lumi della Chiesa militante di Christo, si legga lui essere in virtù della assidua et frequente lectione d’epse Conlationi agiunto al sommo della vita spirituale» (cc. 2r-2v), mentre è nota l’importanza della ricezione del modello monastico dei «Padri del deserto» da parte dei Domenicani, cfr C. DELCORNO, Le “Vitae patrum” nella letteratura religiosa medievale , Vitae fratrum, Vitae (secc. XIII-XIV), in Lettere Italiane XLIII (1991) 2, 187-207 e A. BOUREAU e patrum. L’ordre dominicain et le modèle des Pères du désert au XIII siècle, in Mélanges de l’École française de Rome. Moyen âge - Temps modernes XCIX (1987) 79-100. Inoltre, va menzionato il ricorso da parte del Savonarola per le sue prediche ai testi di Cassiano, si veda in proposito A. VERDE, La presenza della cultura scolastica nelle opere di fra Girolamo, in Girolamo Savonarola. L’uomo e il frate. Atti del XXV Convegno storico internazionale (Todi, 11-14 ottobre 1998), Spoleto 1999, 11-42: 26-27. 39 Sulla presenza di contenuti origeniani in Cassiano cfr M. CAPPUYNS, Cassien…, cit., 1335; M. OLPHE-GALLIARD, Cassien…, cit., 229-230; C. LEONARDI, L’esperienza di Dio in Giovanni Cassiano, in Renovatio XIII (1978) 2, 198-219: 210-211. La ricezione umanistica del pensiero di Origene si presenta complessa, ciò per le profonde influenze platoniche e per le controverse valutazioni dottrinarie; notevole è la difesa della sua ortodossia fattane dal Pico nell’Apologia, cfr E. GARIN, Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, Firenze 1937, 33-34. 40 C. LEONARDI, L’esperienza di Dio…, cit., 212, pone in evidenza come in Cassiano ciò si manifesti peculiarmente nella lotta contro i vizi; sull’argomento si veda anche C. TIBILETTI, Giovanni Cassiano. Formazione e dottrina, in Augustinianum XVII (1977) 355380: 376-380. 41 Vanno ricordate le corrispondenze con l’esegesi origeniana del Pater Noster, per un succinto prospetto tematico si veda l’introduzione di N. Antoniono a ORIGENE, La preghiera, trad. it., Roma 1997, 20-26. Peraltro la Conlatio IX, che Benivieni per l’appunto traduce, contiene una spiegazione delle parole del Pater Noster. Non va inoltre tralasciato
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Risulta, alla fine, così predisposto, per le destinatarie ufficiali della Traductione, un coeso prospetto dottrinario, che propone un rimarchevole esempio di saldatura fra esigenze religiose e filosofiche, collimante con tanta parte della speculazione umanistica e con i dettami del magistero del Savonarola. In ciò la Traductione, sebbene si circoscriva ad una funzione divulgativa, lascia intravedere un retroterra culturale di sicura ricchezza e problematicità, che ripropone, rispetto ad altre versioni e riscritture, l’opera di Cassiano secondo canoni fruitivi affatto peculiari, l’originalità dei quali risulterebbe meglio apprezzata qualora venisse esaustivamente indagata la storia della ricezione di Cassiano presso la cultura monastica latina42. In questo lavoro di adattamento Benivieni si mostra, nel complesso, un apprezzabile rifacitore, attento e solerte interprete delle istanze provenienti da quel mondo conventuale femminile fiorentino, che, pur nelle sue incoerenze, continuerà ad essere per tutto il XVI secolo estremamente fecondo di fioriture religiose43.
il fatto che anche Girolamo Savonarola è autore di un’esposizione del Pater Noster (si può consultare l’edizione Expositio orationis dominicae, in Operette Spirituali, a cura di M. Ferrara, I, Roma 1976). 42 Sull’importanza di un esame esauriente della fortuna medievale di Cassiano si esprime C. LEONARDI, Alle origini…, cit., 1108-1109. 43 Ad esempio, nell’ambito della spiritualità savonaroliana è significativo il caso della predicazione di Domenica del Paradiso, in proposito si veda A. VALERIO, Il profeta e la parola: la predicazione di Domenica del Paradiso nella Firenze post-savonaroliana, in Studi savonaroliani…, cit., 299-307.
Synaxis XX/3 (2002) 649-674
LA MUSICA SACRA A CATANIA TRA OTTTOCENTO E NOVECENTO L’ARCHIVIO MUSICALE DEL SEMINARIO ARCIVESCOVILE DI CATANIA*
AGATA PLATANIA**
Introduzione È nota la frase di S. Agostino «è proprio di chi ama cantare» e il cantare non solo è effetto dell’amore, ma accresce l’amore stesso. Così pure, S. Ambrogio proclamava: «È volontà del Signore che la tua vita sia un salmo […], poiché il salmo è la benedizione del popolo, la lode di Dio, l’elogio delle genti, l’applauso di tutti, il linguaggio generale, la voce della Chiesa, la canora confessione di fede, la piena devozione all’autorità, la gioia della libertà, il grido di giocondità, l’eco della letizia»1.
Sia Agostino che Ambrogio nel canto esaltano l’espressione più gioconda dell’amore e con queste loro parole proclamano il carattere universale della musica, la quale, poiché è manifestazione di lode al Creatore, non può non riecheggiare in tutte le creature. In questo lavoro l’attenzione è posta sugli elementi essenziali che hanno caratterizzato questo genere musicale nei secoli XIX-XX, con
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Estratto della tesi di baccalaureato in Teologia, discussa il 5 ottobre 2001 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, relatore prof. Gaetano Zito. ** Baccelliere in teologia. 1 AMBROSIUS, Enarrationes in Psalmis 1, 49, cit. da G. CICOGNANI, Visione universale della musica, in L’Enciclica «Musicae Sacrae Disciplina» di Sua Santità Pio XII. Testo e commento, a cura dell’Associazione Italiana S. Cecilia, Roma 1957, 57.
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particolare attenzione alla riforma liturgico-musicale di Pio X, che vede il suo momento culminante nel motu proprio Inter sollicitudines del 22 novembre 1903. Eletto papa il 4 agosto 1903, con il nome di Pio x, Giuseppe Sarto consacrò alla musica sacra il primo intervento del suo pontificato pubblicando il 22 novembre 1903 – festa di S. Cecilia – il motu proprio Inter sollicitudines. La riforma della musica sacra in esso annunciata rispondeva ad un motu proprio suggerito dallo stesso Sarto nel 1893 alla Congregazione dei Riti2. Nel motu proprio Inter sollicitudines il papa propone l’essenza della musica sacra, nella sua ispirazione ed esecuzione. Il valore che esso rappresenta è illimitato sia per la semplicità linguistica, come pure per la forza di legge che ebbe come codice giuridico della musica sacra. Nella prima metà del Novecento il motu proprio rappresenta il punto di riferimento circa la riflessione e l’esecuzione della musica sacra, potremmo dire, la magna charta «espressa nella e dalla chiesa dopo tante lunghe attese e faticose battaglie di riformatori»3. Pio X mette in luce della musica sacra tre qualità, che di per sé appartengono alla liturgia ma spettano alla musica dal momento che essa per sua natura si pone a servizio della liturgia. Si tratta di tre caratteristiche distintive che vengono espresse in termini di 2 Il «13 giugno 1893, la Sacra Congregazione dei Riti manda ai responsabili regionali dell’Episcopato lo schema delle modifiche del Regolamento sulla musica sacra. Prima aveva consultato parecchi maestri, anche non aderenti alle idee ceciliane, italiani ed esteri. In seguito il papa stesso aveva stabilito che si consultassero i vescovi della Lombardia. Ma in realtà il cardinale Alosi-Masella finì coll’interpellare tutti gli arcivescovi italiani, per raccogliere, e non necessariamente per accogliere, i loro desiderata […]. Monsignor Giuseppe Sarto, nell’agosto, invia alla Sacra Congregazione dei Riti la sua risposta: sono ben 43 pagine, che De Santi, pregato con lettera del 9 luglio, mette a punto utilizzando il materiale che aveva già pronto: piena conferma delle idee già espresse a Soave, e ormai pubblicizzate su La Civiltà Cattolica. Il nuovo cardinale-patriarca è entusiasta del lavoro di De Santi e gli scrive la sua gratitudine, dopo aver fatto proprio il testo, che inoltra come “Votum” a Roma. Tale “Votum”, composto di una memoria sulla riforma della musica sacra e di un progetto per un nuovo regolamento, finirà nelle mani del cardinale Alosi-Masella, il quale, fiutata la manovra, prima si sbarazzerà del suo segretario monsignor Vincenzo Nussi, alleato di De Santi, e poi concorrerà all’allontanamento da Roma del padre De Santi stesso»: F. RAINOLDI, Sentieri della musica sacra. Dall’Ottocento al Concilio Vaticano II. Documentazione su ideologia e prassi, Roma 1996, 257-258. 3 ID, Traditio canendi. Appunti per una storia dei riti cristiani, Roma 2000, 513.
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«santità», «bontà delle forme» e «universalità». Scrive Pio X nel motu proprio: «Itaque musica sacra proprias Liturgiae qualitates possideat necesse est, in primisque sanctitatem ac bonitatem formae; unde alia nota suapte exoritur, univeritas»4. Era intenzione del pontefice restituire alla musica sacra il suo significato originario, cioè «parte integrante della solenne liturgia» della quale è resa partecipe del fine essenziale «che è la gloria di Dio e la santificazione ed edificazione dei fedeli»5, pertanto – continua il motu proprio –, «è da condannare come abuso gravissimo che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella»6. Pio X promulga il motu proprio con il preciso scopo di porre fine ai numerosissimi abusi contro i quali si erano battuti nel secolo precedente i riformatori ceciliani. In primo luogo era necessario rinnovare il modo di pensare la musica in quel preciso momento storico, in cui essa era vista come «esteriore decoro del rito, capace di commuovere nel migliore dei casi, ma più spesso destinata ad ottenere l’effetto di dissipazione e di minaccia della interiorità della preghiera»7. Ecco che viene introdotto il concetto di «santità» applicato ad un genere musicale scevro da ogni contaminazione teatrale e pratiche profane. Lo stile che meglio rispondeva alle intenzioni del papa veniva incarnato nel canto gregoriano, modello supremo del canto ecclesiale e della necessità di conformare ogni composizione ad esso al fine di renderla più consona alla natura della liturgia stessa. Il papa chiede il rinnovo di un genere canoro in prospettiva popolare8 che si ispira al gregoriano nella sua forma, facendone emergere la ricchezza della struttura metrica e allo stesso tempo tale da poter essere eseguito con facilità. Ecco che il canto gregoriano, così come veniva presentato nei vecchi manoscritti liturgici, doveva ritornare ad essere il canto liturgico per eccellenza proprio della Chiesa romana. 4
PIO X, Motu proprio Inter sollicitudines (=IS), 22 novembre 1903, 2, in Codicis iuris canonici fontes, cura Emi Petri card. Gasparri, III, Città del Vaticano 1933. 5 IS 1. 6 IS 23. 7 F. RAINOLDI, Traditio canendi, cit., 514. 8 Cfr IS 3.
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Accanto al gregoriano si dette spazio anche alla polifonia classica, in particolar modo a quella forma che trovava la sua esecuzione più sublime nella Scuola Romana, specie in Pierluigi da Palestrina (sec. XVI) che fu il massimo perfezionatore. La polifonia sacra così rinnovata venne segnalata come particolarmente adatta alle funzioni liturgiche, consona al modello per eccellenza che era il gregoriano e «per questa ragione meritò di essere accolta […] nelle funzioni più solenni della Chiesa, quali sono quelle della Cappella Pontificia»9. Canto gregoriano e polifonia classica divennero i due modelli ispiratori del genere musicale riformato in un contesto in cui si era ormai stanchi delle esecuzioni marcatamente teatrali, spesso di indole atea e anticlericale. Purtroppo, nel periodo in cui Pio X promulga il motu proprio non esisteva ancora un appurato studio delle forme liturgico-musicali, eccetto il modello gregoriano sempre più approfondito, nella sua struttura, da parte del movimento che fa capo ai monaci benedettini di Solesmes. Liturgia e musica devono fondersi in un connubio armonico dove la musica, che si esprime attraverso una bontà e una bellezza di forme sia il sostegno di un’azione liturgica capace di esprimere in modo autentico la preghiera che la comunità cristiana eleva a Dio. In questo studio l’attenzione è posta sulla applicazione che il motu proprio ha avuto nell’ambito dell’arcidiocesi di Catania, nell’epoca compresa fra gli episcopati Dusmet (1867-1894) e Bentivoglio (1952-1974), tenendo conto che l’acme di tutto il periodo è rappresentato dall’episcopato Francica Nava (1895-1928). Buona parte delle notizie, documentate e orali, sono state elaborate a partire dall’Archivio musicale del Seminario Arcivescovile di Catania, nella sezione manoscritti. Il materiale cartaceo in esso conservato, risalente ad una periodo storico alquanto breve — poco più di mezzo secolo — è testimone di una fiorente attività musicale che ha visto l’impegno nel campo della musica di gran parte del clero catanese. I manoscritti rivelano non solo l’abilità di questi sacerdoti, del loro cimentarsi nell’arte musicale in genere — non si tratta solo di musica sacra — ma ogni partitura racchiude in sé una piccola storia, documentata dalle notizie che gli stessi autori erano soliti apporre a margine di ogni composizione. 9
IS
4.
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1. La musica sacra a Catania fra Ottocento e Novecento 1.1. L’episcopato Dusmet (1867-1894)
«Nel periodo aureo del convento dei Benedettini nella Chiesa di San Nicolò all’Arena, chiesa che si impone per grandiosità e maestosità, sotto la volta del vasto tempio, dal grandioso organo echeggiavano le note della musica eseguita con molta maestria dal monaco Vincenzo Cordaro. Questi usciva, dal silenzio e dalla meditazione della sua cella in un’onda melodiosa e le sue sonate all’organo erano una preghiera ed una elevazione […]. Così ancora il monaco Agostino Cerami, della nobile famiglia dei principi di Cerami, insigne suonatore di organo e compositore, suonava all’organo dei Benedettini. Di lui ci resta una raccolta di Sonate, che passarono poi nel repertorio della Cattedrale di Catania»10.
In quel cenacolo di studi, che allora era il convento dei benedettini, la musica sacra era uno degli interessi principali. Ma, a seguito della soppressione di ordini, corporazioni e congregazioni religiose regolari e secolari (1866), l’organo fu ridotto al silenzio e alla decadenza11. Negli anni successivi, durante l’episcopato Dusmet, a Catania assistiamo ad un rifiorire dell’arte musicale, con riguardo alla musica sacra, per la quale l’interesse nell’arcidiocesi fu apprezzabile. Da parte di Dusmet fu prestata attenzione all’applicazione di alcune disposizioni dettate nel primo Regolamento per la musica sacra approvato da Leone XIII e pubblicato dalla sacra Congregazione dei Riti con circolare del 24 settembre 1884 agli ordinari delle diocesi d’Italia12. Il testo mette il luce — anche se in modo critico — il costume musicale dell’epoca, sia vocale che strumentale, caratteristico dei corpi bandistici. La presenza delle bande musicali era frequente durante le funzioni in chiesa, e il più delle volte non 10
G. BORZÌ, La musica sacra a Catania, in Bollettino Ecclesiatico 59 (1955) 168-
169. 11 Su quest’ultimo periodo della presenza benedettina a Catania, cfr G. ZITO, La vita del monastero catanese S. Nicola l’Arena dalle inedite disposizioni dell’abate Dusmet (18581866), in Synaxis 4 (1986) 477-534. 12 Cfr F. RAINOLDI, Traditio canendi, cit., 495-498.
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si trattava di interventi professionali né tanto meno liturgici. Proprio per questo motivo — e questo è oggetto del Regolamento — i vescovi ne vietarono l’accompagnamento durante le solenni celebrazioni liturgiche. Però, se da una parte le prescrizioni del Regolamento miravano a realizzare un’opera di ripulitura degli eccessivi abusi, da un’altra parte davano l’impressione di essere alquanto restrittive oltre che fortemente legate al passato. La scelta delle musiche da eseguirsi durante le celebrazioni doveva estendersi unicamente al gregoriano e al canto polifonico, che divennero gli unici modelli di riferimento. Non si dette spazio ad altri generi musicali che se ben interpretati sarebbero stati in ogni caso degni della liturgia e del suo fine. In applicazione di tale Regolamento, Dusmet istituisce nell’arcidiocesi di Catania il comitato S. Cecilia composto dai maestri Rosario Spitaleri, Concetto Vezzosi, Martino Frontini, Mario Distefano, Filippo Tarallo, e dai sacerdoti Luigi Raddusa, Salvatore Nicosia, can. Pasquale Castorina, Antonino Rosso Cerami, Agatino Chines, Giuseppe Chiarenza13. Scopo del comitato fu quello di esaminare la musica, sia antica che attuale, da eseguire durante le celebrazioni liturgiche, rilevandone la conformità o meno al Regolamento. Tale compito il comitato poté adempierlo grazie alla costituzione di un’apposita commissione composta dai maestri Spitaleri, Frontini, Vezzosi, Distefano e Tarallo, quest’ultimo con il ruolo di segretario. In applicazione delle disposizioni del comitato dalle chiese fu bandita ogni esecuzione di pezzi teatrali; agli organisti, abituati a suonare Arie, fu fatta esplicita proibizione di eseguire composizioni la cui indole non era rispondente alle norme previste dal Regolamento; si dette spazio soprattutto al canto gregoriano che fu ritenuto il più conveniente da cantarsi in chiesa. Proibita la musica profana — come scrive Dusmet al card. Alosi-Masella prefetto della sacra Congregazione dei Riti – «il passaggio alla vera musica sacra dovrà essere graduale, per quanto sia possibile, e si abbia riguardo anzitutto alla grande deficienza di buoni
13 Cfr Lettera circolare ai RR. Cappellani Curati, Vicari Foranei, Rettori di Chiesa e Prefetti di Sagrestia di tutta la diocesi, oggetto Riforma della Musica in Chiesa, in CATANIA. ARCHIVIO STORICO DIOCESANO (=ASD), fondo Episcopati, Beato card. Giuseppe Benedetto Dusmet (1867-1894), carp. 10, fasc. 11: Musica sacra in chiesa.
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maestri di vera musica sacra e alla grande difficoltà di formarli per la miseria delle Chiese»14. Altra questione di cui si occupò Dusmet, sempre in merito alla musica sacra, riguardò l’esecuzione del canto popolare delle donne in Chiesa. L’arcivescovo dette disposizioni in merito in una circolare del 1879 indirizzata ai rettori delle chiese dell’arcidiocesi catanese. È interessante conoscere talune disposizioni: • alle donne in Chiesa è permessa la recita in comune, con canto, del SS. Rosario durante e fuori dalla Messa, tenendo conto delle varie consuetudini e delle disposizioni dell’autorità ecclesiastica locale; • alle donne è concesso il canto delle litanie lauretane e delle canzoncine intermedie alle varie coroncine, purché le une e le altre si cantino sempre a coro, senza voci soliste e senza concerti musicali a due o più voci, e purché le cantanti rimangano sempre nel luogo destinato ai fedeli, senza occupare posti distinti, e senza mai salire per qualunque motivo sull’organo; • alle donne è proibito, specie se di giovane età, il canto del Gloria e del Credo durante la celebrazione della Messa, proibizione che vige anche per l’esecuzione in coro15. Da parte del card. Dusmet l’attenzione fu quella di fare in modo che il canto in chiesa, a prescindere se eseguito dalle donne, coinvolgesse l’intero popolo e non fosse ristretto ad una cerchia di persone; di questo faceva attenta raccomandazione sia ai vicari foranei che ai rettori delle chiese. Del card. Dusmet ricordiamo, infine, la costruzione dell’organo della cattedrale di Catania, opera magnifica della fabbrica francese di Jaquot, appagando così il desiderio rimasto insoddisfatto da molti secoli16.
14 Minuta della lettera del card. Dusmet al card. Alosi-Masella prefetto della sacra Congregazione dei Riti, Catania 10 agosto 1893: ibid. 15 Cfr Circolare Canti popolari delle donne nelle Chiese, Catania, Domenica 1a dell’Avvento 1879: ibid. 16 Cfr ibid, carp. 9, fasc. 5: Costruzione dell’organo.
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1.2. L’episcopato Francica Nava (1895-1928) L’impegno per la musica sacra, ancor di più, suscitò l’interesse del clero secolare catanese e fu disciplina di studio nella formazione dei futuri presbiteri durante l’episcopato del card. Giuseppe Francica Nava . Ne è testimonianza l’interessante patrimonio musicale custodito nell’Archivio Musicale del Seminario Arcivescovile di Catania, che conserva importanti composizioni di autori locali — appartenenti nella massima parte al clero catanese —, a suo tempo eseguite con decoro e splendore non solo durante le funzioni liturgiche, ma anche in occasione di varie ricorrenze diocesane. Nell’arcidiocesi di Catania la riforma della musica sacra proposta dal motu proprio Inter sollicitudines fu uno dei primi impegni del cardinale, che si distinse per metodo e costanza. Il cardinale Francica Nava ritenne opportuno che per una efficace applicazione dei principi della riforma dettata da Pio X, fosse necessaria dapprima la formazione accurata di maestri di musica, attraverso i quali, in un secondo tempo, arrivare ad una preparazione del popolo. Istituì una commissione diocesana per la musica sacra per adempiere alle disposizioni dettate dal motu proprio, affidando la presidenza al cantore Rosario Riccioli, allora vicario generale. La commissione, nella seduta del 13 marzo 1905, stabilì quanto segue: istruire i rettori delle chiese della diocesi circa il rispetto delle prescrizioni previste dal Pontefice; attraverso i rettori, gli organisti della diocesi venivano invitati a presentare alla commissione l’elenco delle musiche da eseguirsi durante le celebrazioni liturgiche; far conoscere ai rettori delle chiese i cataloghi di musica sacra approvati17. Come per gli altri rami della dottrina, Francica Nava inviò a Roma e a Padova i giovani sacerdoti dotati di eccellenti capacità musicali, fra i quali si distinse Salvatore Sciuto Nicolosi, Pietro Branchina e Carmelo Sangiorgio. Quest’ultimo, alcuni anni dopo, in una lettera indirizzata all’arcivescovo coadiutore Guido Luigi Bentivoglio, datata Biancavilla 27 novembre 1949, scriverà parole di elogio nei confronti del card. Francica Nava esaltandone il sentimento artistico e liturgico e il merito di avere 17 Cfr Lettera circolare indirizzata al rettore della chiesa S. Tommaso in Adernò (Adrano), Catania 28 marzo 1905, in ASD, fondo Episcopati, card. Giuseppe Francica Nava (1895-1928), carp. 47, fasc. V.V.2: Musica sacra.
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eliminato, prima ancora dell’entrata in vigore del motu proprio di Pio X, tutto ciò che era motivo di distrazione per i fedeli. Sangiorgio nella lettera riporta un episodio che a suo parere onora molto Francica Nava: «Era in uso in Cattedrale (e in qualche altra chiesa: ai Minoriti) che il Passio per la Domenica delle palme e per il Venerdì santo, si cantasse in musica. Specialmente quello della Domenica durava circa 3 ore. Il Cardinale Dusmet al soglio e i Capitolari ai loro stalli tutti si sedevano. Inoltre la parte del Cronista e Sinagoga erano eseguite da due sacerdoti. Invece la parte del Cristo da un chierico dotato di buona voce. Tra questi, forse per l’ultima volta, la parte del Cristo fu eseguita dal Can. Mons. Giovanni Maugeri. Il Cardinale Nava, la prima volta che funzionò per la Settimana santa (non posso precisare se fu per la Pasqua del 1900 o del 1901) conoscendo tale canto del Passio e la lunga durata, stando al soglio, sin dal principio si mise all’impiedi fino alla fine. Io ero presente. Finita la funzione diede ordine che per il prossimo Venerdì santo il Passio si eseguisse in gregoriano e da tre sacerdoti. Così fu fatto e per sempre»18.
Nel programma di formazione del futuro clero, per tutti i 12 anni, era previsto l’obbligo di frequentare la scuola di canto gregoriano, e la musica venne imposta come disciplina d’esami. Addirittura, era lo stesso Francica Nava a volere esaminare i candidati. Dalle partiture conservate nell’Archivio Musicale è possibile individuare delle indicazioni scritte al margine dagli autori stessi, i quali erano soliti comporre in occasione di varie ricorrenze. Queste indicazione testimoniano come ogni anno nella diocesi si tenevano saggi solenni, accademie musicali, concerti di pianoforte e in ogni pontificale il cardinale attendeva sempre i Mottetti polifonici eseguiti dai suoi chierici, manifestando lui personalmente un giudizio di esecuzione. Stando all’attestazione della cronaca diocesana del tempo e alla portata delle composizioni musicali esistenti e ben conservate, assai complesse nell’esecuzione corale, è possibile affermare che il Seminario Arcivescovile di Catania ebbe una Schola cantorum che pare sia stata l’invidia e l’ammirazione degli altri vescovi. La Schola cantorum venne 18 CATANIA. fasc. 60: Clero.
ASD,
fondo Episcopati, Guido Luigi Bentivoglio (1952-1974), carp. 9,
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costituita nel 1905 su richiesta degli stessi cantori ecclesiastici con vivo desiderio di obbedire alle disposizioni previste dal motu proprio Inter sollicitudines. Gli stessi cantori fecero richiesta al cardinale di dare lui stesso un giusto criterio riguardo la costituzione di una Schola cantorum, manifestando l’intenzione di unirsi «in un sodalizio che pigli il nome di Schola cantorum “S. Agata” sotto la dipendenza dell’autorità ecclesiastica diocesana e la direzione della Commissione nominata per l’esecuzione del detto Decreto […]. Vorremmo finalmente che l’Em. Vostra intenda bene che per il vero controllo dell’esecuzione del decreto pontificio possiamo essere, almeno nella nostra città, praticamente noi che essendo in immediata relazione co’ signori Maestri organisti, potremmo fare il più valido appoggio agli ordini della commissione»19.
Le richieste presentate dai cantori al card. Francica Nava fondamentalmente furono tre: un direttore della Schola scelto fra i membri della Commissione; che si dia la facoltà di eleggere come presidente della Schola Matteo Adernò, perché disciplini la condotta professionale; avere come «patrono del nostro sodalizio» il vicario generale Rosario Riccioli. Il card. Francica Nava risponderà il 12 giugno 1905, dando disposizioni circa la costituzione nella città di Catania della Schola Cantorum “S. Agata”, costituzione possibile solo a condizione che — scrive Francica Nava — «i componenti della medesima mettano sempre in pratica i lodevoli e doverosi propositi di attenersi in tutto alle sapienti prescrizioni del venerato motu proprio di Sua Santità Pio X sulla musica sacra»20. Il compianto maestro Luigi Bottazzo e l’illustre maestro Dino Sincero espressero il loro compiacimento quando intesero un piccolo saggio della Schola cantorum “S. Agata”. Diversi vescovi la richiesero in solenni occasioni perché cantasse nelle loro cattedrali. Il dottissimo A. 19 Lettera a Giuseppe Francica Nava, arcivescovo di Catania, datata 21 maggio 1905, di M. Adernò, C. Tudisco, S. Sanfilippo, Giuffrida, O. Addario, A. Viola, A. Scalia, in ASD, fondo Episcopati, card. Giuseppe Francica Nava (1895-1928), carp. 47, fasc. V.V.2: Musica sacra. 20 Lettera del card. Francica Nava, datata 12 giugno 1905: ibid.
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Couturier, maestro di cappella della cattedrale di Langres, scrisse apposta per la Schola una magnifica Messa e Mottetti che si conservano con altre opere inedite nell’Archivio Musicale21. In poco tempo, grazie all’insistenza e alla tenacia del card. Francica Nava, il Seminario di Catania divenne centro propulsore di musica. Si formarono scuole di canto in città e in ogni paese. Scrive L’eco del seminario, in occasione della scomparsa del card. Giuseppe Francica Nava, (1928) riguardo ai suoi meriti nella promozione della musica sacra a Catania secondo le direttive di Pio X: «Lo stesso compianto padre De Santi fondatore della Pontificia Scuola di Musica Sacra ne riconobbe pubblicamente il merito e nel penultimo Congresso Ceciliano si parlò del cardinale come di un Apostolo della Musica Sacra. Certo ci resta ancora altra via da fare e noi andremo sempre avanti sotto l’impulso della sua memoria».
1.3. Pietro Branchina (1876-1953) Pioniere della musica sacra nella arcidiocesi di Catania fu il prevosto don Pietro Branchina. Nato in Adrano il 26 maggio 1876 il Branchina fu un compositore di fama nazionale, autore di una notevole quantità di musica sacra, Mottetti, Litanie, Messe, e composizioni varie. Dopo gli anni di formazione nel seminario catanese, dal card. Francica Nava fu inviato a Roma a perfezionare gli studi musicali presso l’Accademia Santa Cecilia. Il 19 dicembre 1903 nella cappelletta del palazzo episcopale di Narni dal vescovo Cesare Boccanera riceve l’ordinazione sacerdotale; contemporaneamente prosegue gli studi musicali conseguendo il diploma di magistero in canto gregoriano e musica nel 1904, studi perfezionati a Padova sotto la guida del maestro Luigi Bottazzo. Nel periodo trascorso a Padova — appena due anni, intervallati da brevi soggiorni ad Adrano — Branchina dà inizio alla pubblicazione delle sue opere, fra le quali ricordiamo il Te Deum op. 6 e la Missa brevis op. 12. 21
Cfr Il canto gregoriano e la musica sacra, in L’eco del seminario 2 (1928) 8.
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Nel suo ministero si dedicò principalmente alla promozione della musica sacra, seguendo minuziosamente le direttive promosse da Pio X nel motu proprio Inter sollicitudines del 22 novembre 1903. L’impegno del Branchina quale promotore della riforma musicale fu rilevante soprattutto nella diocesi di Siracusa. A Ragusa, elevata a sede diocesana nel 1950, di fatti, fu direttore della cappella musicale di S. Giovanni Battista dove «fece sì che quella schola cantasse in autentico canto gregoriano ed eseguisse in canto figurato musiche veramente liturgiche […]. Con quella schola cantorum percorse tutta la diocesi per diffondere, in mezzo a notevoli difficoltà, la riforma della musica sacra mostrando così come andava praticamente applicata»22.
Su invito del vescovo di Siracusa Bignami, Branchina partecipa alla conferenza episcopale siciliana riunita a Tindari nei giorni 18-24 dell’aprile del 1910 coadiuvando il vescovo nel commento del motu proprio di Pio X. In quel periodo Pietro Branchina ricopriva l’incarico di delegato regionale dell’Associazione Santa Cecilia23, il cui scopo era quello di dare un vivo impulso all’arte musicale sacra, ricongiungendola con il passato glorioso del canto gregoriano e della scuola classica e mantenendola entro i limiti imposti dalla sua natura sacra, cioè di arte destinata al culto liturgico come espressione della preghiera della Chiesa e quindi necessariamente lontana da ogni leggerezza e profanità. L’Associazione fu mossa, peraltro, dallo spirito di obbedienza alla parola del papa che ha annunziato solennemente di volere questa restaurazione, dichiarandola legge della Chiesa, ed imponendola a tutti indistintamente. Per ultimo essa scorge in questa sua attività una partecipazione all’opera che Pio X si è proposto sin da principio «di restaurare ogni cosa in Cristo». Da quel momento il Bignami chiederà la presenza ufficiale del Branchina a Siracusa dove, a partire dal 1911, gli sarà affidato l’incarico di organista nella cattedrale, oltre che il delicato incarico di direttore spirituale dei seminaristi. 22 23
S. LA SPINA, Il prevosto Pietro Branchina musicista, in Synaxis 9 (1991) 325-326. Cfr O. GARANA, I vescovi di Siracusa, Siracusa 1969, 261.
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Nel 1914 Branchina, oltre a moltissimi mottetti e pezzi per organo e armonium, eseguiti con finissimo gusto e conformi in tutto al motu proprio, pubblica una Messa in onore a Sant’Agata op. 40. Leggiamo le parole di elogio pronunciate riguardo la Messa in onore a Sant’Agata riportate nel Bollettino ecclesiastico dell’arcidiocesi di Catania dell’anno 1914: «La Messa in onore di Sant’Agata — egli dice — per tre voci di uomini con accompagnamento di organo di Pietro Branchina è una composizione meravigliosa. L’opera è ben condotta per eccellenza di spirito liturgico, come prescrive il motu proprio di Pio X del 22 novembre 1903 con tutte le esigenze dell’arte moderna»24.
Fu prevosto alla matrice di Adrano dal 1920 al 1937, fino alla sua entrata nella Congregazione dell’Oratorio dei padri filippini in Acireale. Nel 1945 Branchina farà ritorno ad Adrano, rioccupando nuovamente l’ufficio di prevosto che manterrà fino alla morte avvenuta l’11 febbraio del 1953.
1.4. Carmelo Sangiorgio (1878-1964) Altro noto musicista fu il maestro sac. Carmelo Sangiorgio, nato a Biancavilla il 13 dicembre 1878. Formatosi in seminario durante il rettorato di Rosario Riccioli, fu spinto allo studio della musica sin da ragazzo. Inizia gli studi di armonia sotto la guida del maestro della banda di Adernò, Barbabietola, studi ritenuti a parere dello stesso Sangiorgio discreti. È questo il motivo per cui si rivolge al card. Francica Nava manifestando il vivo desiderio di potere studiare fuori dal paese. Propone di andare a Palermo, sede di un rinomato conservatorio, che godeva della presenza di ottimi maestri. A Palermo era suo desiderio approfondire lo studio dell’organo, al quale avrebbe voluto dedicarsi. Palermo, oltretutto, era una sede che gli avrebbe permesso di non allontanarsi troppo dalla famiglia. Da Francica Nava non desiderava altro che il suo beneplacito. Il cardinale manderà Sangiorgio a studiare a Padova — allora uno dei centri
24
Can. Pietro Branchina, in Bollettino Ecclesiatico 18 (1914) 23.
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rinomati per la formazione musicale — dove in breve tempo raggiungerà ottimi risultati. A Padova, nell’aprile del 1907, alcuni giorni dopo il suo arrivo, Sangiorgio, esaminato dal maestro Luigi Bottazzo, ormai cieco, presenterà alla presidenza dell’istituto musicale — ottenendo un ottimo esito — la domanda di ammissione per scuola di organo. Il 27 luglio successivo — a soli tre mesi dall’ammissione — presso l’istituto musicale il Sangiorgio conseguirà gli esami di licenza di armonia, con votazione 9/10, e di organo, con votazione 8/10. Ottenne, dunque, un felicissimo risultato in entrambi gli esami, considerando che fece in pochi mesi ciò che gli altri erano soliti compiere in 9. Negli esami di organo — come lui stesso scrive al card. Francica Nava — «fui elogiato dalla Commissione esaminatrice perché sebbene cominciai a frequentare la scuola al 2° semestre tuttavia ho espletato tutto il programma»25. Nei seguenti mesi estivi, sotto la guida del maestro Bottazzo, studierà a fondo il contrappunto. Dopo il soggiorno padovano, Sangiorgio torna in Sicilia e dal 1914 ricopre il posto di organista a Ragusa nella chiesa di S. Giovanni, incarico che lascerà nel 1916 per l’imminente ritorno del sac. Pietro Branchina, direttore della cappella musicale. Comunque, non fu per niente dispiaciuto di tale perdita dal momento che l’organo della chiesa — a suo dire — «era all’antica» e non rispondeva alle sue capacità e alla formazione finora avuta. Ottenuto il permesso dal suo arcivescovo di operare fuori diocesi, fino al 1920 sarà organista della cattedrale di Mazara del Vallo su incarico del vescovo Audino. Ma, l’insufficiente retribuzione e l’eccessivo lavoro, dovendo contemporaneamente insegnare nelle classi ginnasiali del seminario, dove alloggiava, furono i motivi per cui lascia il posto. Si trasferisce a Bronte dove si dedica all’insegnamento di pianoforte presso il Real Collegio Capizzi. Nel dicembre del 1926 Sangiorgio si presenta al concorso di organista per esami e titoli al Reale Conservatorio di Palermo, concorso indetto per la chiesa di Enna, dove avrebbero preferito che il posto di organista venisse assegnato ad un sacerdote. Di fatti, le cose andarono diversamente; seppur 25 Lettera di Carmelo Sangiorgio al card. Giuseppe Francica Nava, Padova 27 luglio 1907, in ASD, fondo Episcopati, card. Giuseppe Francica Nava (1895-1928), carp. 22, fasc. 16: Biancavilla: clero.
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ottenne il posto di organista, ma non subito, il maestro fu vittima di uno spiacente episodio. Leggiamo in una biografia dallo stesso compilata: «È stato giudicato a parità di merito con punti 9 su dieci, insieme ad una signorina anch’essa concorrente (signorina Giuseppina Tindaro). Eppure — incredibile! — al sacerdote fu preferita la signorina; et quidem col placet di Mons. Sturzo, Vescovo di Piazza Armerina. È stato fatto ricorso a Roma. La signorina dopo pochi mesi fu licenziata per ragioni di moralità»26.
Il I° dicembre 1928 fu nominato organista della cattedrale di Messina, dove, oltretutto, aveva curato il progetto di costruzione del grande organo a 5 tastiere, distrutto completamente in seguito ai bombardamenti del ’44. Negli anni successivi, dal 1931 al 1934, fu organista presso il Santuario di Pompei, periodo durante il quale Sangiorgio scrisse molte composizioni. Eccellente organista il Sangiorgio fu relatore su temi di organaria al Congresso Nazionale di Vicenza del 1922, di Trento nel 1930 e a Roma nel 1950. Dal preside della Scuola pontificia di musica sacra, padre Anglés, fu invitato a collaborare con la rivista redatta dalla stessa scuola, Amici del Pontificio Istituto di musica. In tema di organaria Sangiorgio approfondì alcune tematiche specifiche nei volumi Liturgia dell’organista27 e Il posto dell’organo, quest’ultimo, testo di carattere polemico pubblicato prima che iniziassero i lavori della «infelice ubicazione» — così ritenuta dal maestro — dell’organo della cattedrale di Catania. In una lettera indirizza a Guido Luigi Bentivoglio, arcivescovo coadiutore di Catania, datata Biancavilla 27 novembre 1949, Sangiorgio seppur riconosce i meriti di Francica Nava assume un tono polemico contro il cardinale artefice di tale spostamento. Così scrive: «Il solo torto che si può fare al Card. Nava è di aver tolto l’organo [fatto costruire da Dusmet nel 1877 e collocato nel coro] dal suo posto naturale: 26 CATANIA. ASD, fondo Episcopati, Guido Luigi Bentivoglio (1952-1974), carp. 9, fasc. 60: Clero. 27 C. SANGIORGIO, Liturgia dell’organista, Torino 1939.
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Agata Platania dal coro, e trasportarlo sulla porta d’ingresso, a circa 95 metri di distanza. Ma… humanum est errare. Egli diceva che in fondo all’abside deve emergere il Titolare della propria chiesa; ma di fatto si può conciliare l’uno e l’altro. Liturgicamente non è vietato collocare l’organo in fondo all’abside, anche in alto. Anche Pio X fece collocare un organo in tale sito. È solamente difettoso per l’acustica tale sito. Più basso si colloca l’organo e più dà rendimento sonoro…»28.
Testo di interesse musicale sono Fonica e Registrazione dell’organo. Quest’ultimo è un volume di formazione ed informazione per la professionalità dell’organista di chiesa. Si tratta di una guida attraverso i riti ed i tempi della liturgia. Va, inoltre, ricordata «la traduzione italiana del Regolamento generale internazionale per la costruzione degli organi, curata da Carmelo Sangiorgio. Tale Regolamento era stato compilato al III Congresso della Società Internazionale di Musica, tenuto a Vienna dal 25 al 29 maggio 1909, a cura della sezione “Fabbrica d’organi”, e presentato dal grande organista Alberto Schweitzer»29. Il Regolamento, pubblicato nel 1914, è una traduzione — come afferma lo stesso Sangiorgio — del Réglement Génèral International pour la facture d’orgues. Sotto il consiglio di alcuni suoi amici, lo tradusse e allo stesso tempo lo arricchì di ulteriori spiegazioni, note e schemi, tale da renderlo chiaro nell’esposizione anche alle persone inesperte di musica e di organo30. Gli ultimi anni della sua vita — trascorsi a Biancavilla — non furono fra i più felici: «disoccupato artisticamente» oltre che «circondato da diffidenza», come lo stesso Sangiorgio dichiara in una lettera indirizzata a Bentivoglio datata 14 dicembre 1949. Era suo desiderio potere ritornare ad esercitare il servizio di organista, possibilmente presso la cattedrale di Catania, anche gratuitamente: «Deus provvidebit». Pietro Branchina, che nutriva una grande stima nei confronti di Sangiorgio, il 16 dicembre 1949
28
CATANIA. ASD, fondo Episcopati, Guido Luigi Bentivoglio (1952-1974), cit. F. RAINOLDI, Sentieri della musica sacra, cit., 327. 30 Cfr Regolamento generale internazionale per la costruzione degli organi, a cura di C. Sangiorgio, Bronte 1914. 29
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scriverà a Bentivoglio mettendo in luce le doti di organista del Sangiorgio. Così scrive: «Egli è veramente un abile organista. Conosce a fondo la fisiologia, per così dire, del sacro strumento ed ha sviluppata la tecnica nelle esecuzioni. Ha pubblicato lavori apprezzatissimi in merito. Sicché l’organo monumentale della nostra Cattedrale merita un simile organista»31.
Sangiorgio morirà a Biancavilla il 19 marzo 1964, all’età di 86 anni.
1.5. Salvatore Nicolosi Sciuto (1885-1977) Nato a Catania il 15 giugno 1885, fu ordinato sacerdote il 28 ottobre 1910. Svolse la sua attività di insegnante di musica, oltre che presso il Seminario Arcivescovile, nell’ospizio dei ciechi e di beneficenza. Fu anche mansionario e organista della basilica collegiata di Catania, nonché rettore delle chiese S. Agata al carcere e monastero di S. Agata a Catania. La sua fama di musicista, compositore e direttore di orchestra era spesso oggetto di attenzione ed elogio nella cronaca diocesana. A lui sono dedicate diverse pagine del Bollettino Ecclesiatico, nel quale spesso si sottolinea la sua bravura nel tramutare semplici melodie in grandi capolavori; come, infatti, testimonia il notiziario dell’epoca, Nicolosi ebbe un’anima di artista e con rara maestria suonava l’organo e l’armonio. «I sentimenti espressi con tanta efficacia dai vari oratori sembravano pigliare calore smagliante e vita possente per il programma musicale che quasi avvolgeva in una trama delicata di suoni le anime. Merito indiscusso dei professori d’orchestra sotto la direzione del Maetsro Sac. S. Nicolosi, che afferma sempre più la nota fama del suo valore musicale. Mirabile la Lirica da lui composta e dedicata con squisito pensiero all’Ecc.mo Arcivescovo, in cui è la delicatezza, il sogno e quasi il tormento di un’anima di artista»32.
31 32
CATANIA. ASD, fondo Episcopati, Guido Luigi Bentivoglio, cit. La festa dell’Arcivescovo, in Bollettino Ecclesiastico 38 (1934) 133-134.
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Nel progetto del card. Francica Nava, di riformare in diocesi il canto sacro secondo le direttive di Pio X, il giovane Salvatore Nicolosi fu mandato a studiare canto gregoriano e musica sacra prima a Roma e poi a Padova, dove perfezionò gli studi musicali presso la scuola di Bottazzo e Ravanello. Durante il soggiorno a Roma, Nicolosi mantenne una fitta corrispondenza con il suo arcivescovo per informarlo circa i suoi studi di perfezionamento, grato di potere finalmente lasciare le vecchie teorie delle scuole da lui finora frequentate per potere ricevere una dottrina più solida e sicura. La Pontificia scuola di musica sacra fondata dal padre De Santi, presso cui Nicolosi era stato inviato, essendo in via di formazione, non poteva rispondere pienamente alle esigenze formative del giovane musicista. Infatti, Nicolosi aveva già compiuto degli studi musicali, quindi, frequentare determinati corsi presso la scuola pontificia avrebbe comportato quasi una perdita di tempo, di cui lui non disponeva, oltre che un dispendio economico. L’ideale sarebbe stato potere frequentare una scuola privata, sotto la guida di un maestro, in modo da potere semplicemente riordinare gli studi fatti e proseguire in quelli che restavano ancora. In una lettera indirizzata a card. Franciva Nava nel marzo del 1912, il giovane Nicolosi, consigliato dal Branchina, anche lui studente in Roma, e dagli stessi professori della scuola, manifestò questa sua necessità all’arcivescovo. Così scrive: «Quantunque con il M° Tarallo abbia lavorato assai in armonia, pure il suo indirizzo negli studi sia ordinato ed accurato. E così che l’altro giorno un Maestro della scuola rivedendo i miei lavori fatti con Tarallo, ha notato anche nelle correzioni del M° degli errori che per i loro vecchi sistemi forse andrebbero, ma per noi sono errori grossolani. Ecco quindi la ragione perché anche i Professori di questa scuola si son trovati un po’ impacciati nel determinarmi una scuola. Il 1° corso; e per me sarebbe stato insufficiente possedendo io degli studi non solo del 2° corso, ma anche preparatori a quello del contrappunto; mentre poi per la vecchia parola seguita io mi trovavo in certe cose deficiente. Quindi non potendo così determinare il da fare, i Professori stessi dissero al padre De Santi che: – o mi fossi messo privatamente con un Maestro e così andare avanti, o, pazienza seguire l’ordinamento della scuola. Come Vostra Eminenza vede, io non posso sia per gli studi fatti, sia per le finanze di famiglia permettendomi sì lunga assenza, potendo io riordinare
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in breve con scuola privata di perfezionamento gli studi disordinati avuti dal Tarallo…»33.
Di fatti, Nicolosi continuerà i suoi studi privatamente a Roma sotto la guida del maestro Luigi Bottazzo. Oltre che brillante esecutore, fu apprezzato compositore, noto anche al di fuori dei confini diocesani. Il 15 gennaio 1947 il maestro di banda Giovanni Pennacchio indirizza una lettera al sindaco di Catania con oggetto Lettura di una nuova composizione del M° Nicolosi, chiedendo al Sindaco delle sovvenzioni al fine di potere procedere al lavoro di trascrizione per banda dell’Ouverture in omaggio a Sant’Agata del maestro, un opera che a dire del Pennacchio era di eccellente fattura, ma della quale purtroppo non si ha più traccia. Scrive il maestro Pennacchio: «Ho letto con compiacimento la composizione del M° Nicolosi Ouverture in omaggio a S. Agata apprezzando la fattura strumentale del pezzo che certamente il Maestro avrà concepito per orchestra. Questo pezzo potrà efficacemente essere trascritto per Banda sulla scorta della partitura originale per orchestra o su appunti strumentali che il M° Nicolosi vorrà fornire per la buona riuscita del lavoro di trascrizione. E data la mole della composizione stessa ritengo che per eseguire una partitura a grande Banda, di oltre 30 righe per pagina, ci vorrà un paio di mesi di lavoro più una trentina di giorni per la copiatura delle parti, con una notevole spesa di carta e copiatura. È dunque impossibile poter mettersi subito al lavoro per eseguire l’Ouverture nelle prossime feste di S. Agata. Ma avendo tutto il materiale a disposizione si potrebbe contare su una sicura esecuzione per le feste d’Agosto. Anzi poiché questo pezzo sinfonico ha il carattere d’introduzione potrebbe essere seguito da altra composizione corale-strumentale di carattere religioso per completare il programma»34.
33
Lettera di Salvatore Nicolosi inviata all’arcivescovo Giuseppe Francica Nava, Roma 7 marzo 1912, in ASD, fondo Episcopati, card. Giuseppe Francica Nava (1895-1928), carp. 35, fasc. 13/e: Preti studenti in Roma. 34 Minuta della lettera del maestro di banda Giovanni Pennacchio indirizza al sindaco di Catania, del 15 gennaio 1947, con oggetto Lettura di una nuova composizione del maestro Nicolosi, in CATANIA. ARCHIVIO MUSICALE DEL SEMINARIO, Miscellanea.
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Fino alla vecchiaia Nicolosi continuò a dare lezioni di musica e canto e, insegnando nel Seminario Arcivescovile di Catania, formò un’élite di giovani sacerdoti allo studio dell’arte musicale, che per lungo tempo hanno suonato e coltivato la musica nelle chiese dell’arcidiocesi. Valente maestro di musica, desideroso e lieto di mettere la sua cultura musicale a disposizione dei seminaristi, Nicolosi li coadiuvò nell’arricchire di maggiore solennità i riti sacri, a rendere manifeste le loro attitudini musicali durante i saggi musicali, che ogni anno si tenevano in Seminario, soprattutto in occasione della festa dell’Arcivescovo. «Nel pomeriggio ebbe luogo la solenne Accademia, in onore dell’Ecc.mo Arcivescovo, che, diciamolo subito, esce fuori dalle solite tornate rettoriche, ma è un’affermazione di unità di anime, di vita soprannaturale, di efficaci propositi di apostolato. La splendida musica diretta dalla indiscussa competenza del Maestro Sac. Nicolosi, la forma letteraria, l’apparato solenne sono la cornice, dentro la quale palpita, per così dire, un’idea di madre, cioè la fusione delle anime per l’unico ideale della missione sacerdotale attorno al centro diocesano, al Vescovo, che ci congiunge alla cattedra di Pietro […]. La musica, scelta con fine gusto ed eseguita con arte, aveva gemiti, sospiri, slanci, che trascinavano le anime negli orizzonti di un mondo sovrasensibile, come i Salmi terzo e ottavo di Benedetto Marcello e altre delicatissime melodie»35.
Ogni anno nel mese di maggio — scrive il Borzì — il maestro Nicolosi si recava presso la chiesa dei Minoriti per suonare l’organo, accompagnando scelti canti mariani36. Presso il Seminario Nicolosi curò anche la pubblicazione di un periodico di musica sacra Quaderni musicali, allegato alla rivista mensile L’eco del seminario, edita dallo stesso e interrotta a seguito della guerra37. Per inaugurare questa nuova pubblicazione Nicolosi scrisse Messis quidem multa, mottetto a 4 voci miste o organo. Nella partitura è allegato un piccolo commento per l’occasione dove si scrive: 35
La solenne manifestazione, in Bollettino Ecclesiastico 41 (1937) 119. Cfr G. BORZÌ, La musica sacra, cit., 168. 37 Cfr A. DEODATO TOSCANO, Il cardinale Francica Nava, arcivescovo di Catania, Milano 1962, 206-212. 36
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«Il mottetto è breve, nondimeno è molto ben condotto ed ispirato: ciò prova come anche nelle piccole cose si possa dimostrare di avere della buona tecnica e delle idee nobili da esprimere. Ciò riferiamo anche a riguardo di questo breve componimento che si annunzia primo di un nuovo periodico musicale: i Quaderni musicali. Seminario Arcivescovile di Catania»38.
1.6. Altri compositori A dar prestigio all’arcidiocesi catanese non furono solo Branchina, Nicolosi e Sangiorgio. Altri compositori, seppur non dello stesso livello, si distinsero. Di loro faccio un breve cenno, sulla base delle poche notizie che ho avuto modo di reperire. Il sacerdote Giuseppe Chines (1850-1923) maestro di gusto, di eleganza e padrone della tecnica, oltre che competente in materia di opere teatrali. Ricordiamo di lui la canzone Fortunati questi colli, canto che fino a poco più di un decennio risuonava ancora durante le celebrazioni del Santo Natale. Ma, nonostante la sua vocazione musicale, non fu mai valorizzato dall’arcivescovo Dusmet — come avrebbe desiderato —, motivo per cui si limitò ad impartire lezioni private ai coristi del teatro Massimo Bellini di Catania, incarico per il quale fu duramente criticato39. Leggiamo a proposito in una lettera di Chines al segretario di Dusmet, Luigi Taddeo Della Marra: «Mi si adddebbita a colpa l’insegnamento musicale privato da me impartito nel teatro ai coristi. A tale incarico fui replicate volte pregato e pressato da amici e senza mai ombra di disonorare la veste talare, come V. S. Rev.ma scrisse nella carta. Debbo soggiungere che detto insegnamento gratuito non fu per operette, ma per opere serie e niente scandalose. A giustificar ciò Le dico che quando parlasi o trattasi di Musica, com’Ella e tutti sanno, io esco dai gangheri e non guardo mica al color nero del mio abito. E poi, non sono stato io il dimenticato ed anche il disprezzato da questa Curia in fatto di Musica? Non sono stato, non dico da questi pochi anni, ma da lunga data proposto sempre ad altri?. Dovrò forse vivere di
38
Estratto dalla rivista L’eco del seminario 33 (1937) 3-4. Cfr G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (18671894), Acireale 1987, 363-364. 39
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Agata Platania limosina? … L’arte, per chi sente, è molto gelosa; e l’artista avvilito e bastantemente umiliato o muore di doglia o dà sulle furie!…»40.
Il sac. Giuseppe Maugeri (1874-1949), che per tanti anni insegnò con pazienza e ottimi risultati musica e canto gregoriano presso il Seminario Arcivescovile di Catania. Il maestro Maugeri suonava con sentimento e si meritò la lode come insigne organista dal fratello di Lorenzo Perosi, Marziano Perosi, venuto ad inaugurare l’organo della Cattedrale nel 1925. Del Maugeri sono apprezzate una Salve Regina e un mottetto Sit nomen Domini benedictum. Nei primissimi decenni del Novecento (intorno al 1918) Maugeri suppliva in cattedrale il maestro Distefano e alla sua morte ne prenderà il posto ufficialmente, che occuperà per il resto della sua vita. Muore a Catania il 27 giugno 1949. Maugeri fu maestro del sac. Rosario Licciardello (1897-1964), che, dopo essersi diplomato in organo e composizione all’Accademia di S. Cecilia a Roma, si era dedicato alla costruzione della chiesa di S. Giuseppe in Ognina, che resse fino a quando non fu eretta la parrocchia. Organista della cattedrale, compose la musica dell’inno a S. Agata Inneggiamo alla martire invitta e una Messa in onore di S. Giuseppe. Alunno di Giuseppe Maugeri fu anche il sac. Antonino Allegra (1903-1969), che subentrò nel posto di organista nella Cattedrale dopo il maestro Filippo Tarallo. Si distinse per la sua grande tecnica e il virtuosismo artistico. Fu un buon compositore e di lui sono rimasti i Canti al Sacro Cuore di Gesù, Tantum Ergo. Il sac. Allegra si diplomò all’Accademia di S. Cecilia e fu Organista in S. Pietro. Un ricordo va anche al maestro Mario Distefano (1841-1923), un laico cultore di musica sacra che con soavità e dolcezza improvvisava all’organo preludi e interludi ed accompagnava il canto gregoriano in Cattedrale. Avviato allo studio della musica fin da fanciullo di lui fu apprezzata soprattutto la straordinaria voce di soprano. In una lettera a Bentivoglio del 1949, Carmelo Sangiorgio riporta un breve episodio che vede Distefano come protagonista alla giovane età di 11 anni. Nel 1852, durante una visita a Catania, Ferdinando II re delle due Sicilie recatosi in 40 Lettera del sac. Giuseppe Chines, maestro di musica, al segretario del Dusmet, p. Luigi Taddeo Della Marra, 5 marzo 1894, cit. da ibid, 551.
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cattedrale — come era consuetudine per un sovrano — viene accolto dall’arcivescovo dell’epoca, Felice Regano. È in questa occasione che Distefano esegue alla presenza del re un melodioso Tantum ergo. Nel 1856 Distefano fu nominato organista del capitolo, la cui mansione fu quella di accompagnare all’organo i canonici e i beneficiati nelle messe e nei vespri capitolari. Alla Morte di Carmelo Bellini — fratello di Vincenzo —, che era allora direttore della cappella della cattedrale formata da un gruppo di laici, il Distefano ne prenderà il posto, pur mantenendo contemporaneamente l’incarico di organista del capitolo fino al 1923 anno della sua morte. Dal 1860 al 1888 fu anche direttore dei cori del teatro Massimo Bellini. Di lui ci resta un canto al Sacro Cuore di Gesù Si accesero i cuori di immenso fervore. Coltivò la musica sacra, sollevandosi dalla cerchia di semplice dilettante, il Priore della Cattedrale can. Salvatore Romeo (1862-1947), autore di un canto per implorare la pace, più volte eseguito negli anni della guerra 1915-1918. Infine, un ricordo va al maestro Agatino Nicola Couturier, maestro di cappella della cattedrale di Langres. Di lui si conservano delle opere, alcune delle quali inedite. Ricordiamo la messa Ingenua sum, a quattro voci, in onore a S. Agata vergine martire catanese, composta nel 1905 e dedicata all’arcivescovo Francica Nava; sempre alla Vergine catanese Couturier dedica Paganorum multitudo, antifona a 5 voci; altre composizioni: O salutaris; Tantum ergo; Fecit me Dominus in onore a S. Giuseppe. Dal card. Dusmet riceverà il mandato di stendere un resoconto ufficiale in merito all’organo della cattedrale fatto costruire dallo stesso arcivescovo41. Più tardi, dal Francica Nava riceverà la nomina di membro onorario della Commissione di musica dell’arcidiocesi di Catania, incarico che Couturier accetterà come segno di stima e di affetto e con il vivo desiderio «di veder il canto gregoriano e la vera musica religiosa, in conformità alla voglia del SS. Padre Pio X, ripigliar dappertutto il loro posto nelle funzioni 41 Cfr Resoconto ufficiale del risultato dell’esame dell’organo costruito per il duomo di Catania da Jaquot di Rambervillers, 30 luglio 1877, in ASD, fondo Episcopati, Beato card. Giuseppe Benedetto Dusmet (1867-1894), carp. 9, fasc. 5: Costruzione dell’organo.
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Agata Platania religiose. Ma questo desiderio lo provo massimamente per quanto spetta alla città e diocesi di Catania, a me tanto cara. E siccome dal martirio dell’inclita Vergine S. Agata la citta Catanese divenne sublime per la grazia di Gesù Cristo, così io bramerei di vederla divenuta anche sublime nella pratica dell’arte musicale veramente religioso. Ora se i miei poveretti studi musicali potessero nell’occorrenza recar aiuto alla ristorazione della musica sacra in Catania e nella sua bella arcidiocesi, mi compiacerei di stare alla disposizione di Sua Eminenza»42.
L’arcidiocesi di Catania ha avuto un passato ed una tradizione illustre per la musica sacra grazie all’esperienza di questi maestri nel campo religioso. Di essi vanno apprezzate le opere, oltre che32 l’amore e la dedizione che li hanno portati a coltivare, sulle orme del motu proprio di S. Pio X, il canto e la musica sacra.
2. L’Archivio musicale del Seminario Arcivescovile di Catania 2.1. Cenni sulla costituzione dell’Archivio Le origini dell’Archivio e la sua precedente esistenza sono facilmente attestabili dai timbri che si trovano nella maggior parte delle partiture. Stando alle notizie orali raccolte, in passato l’Archivio si trovava disordinatamente allogato in un armadio ligneo in una delle stanze a pianterreno del seminario. Per una più idonea e sicura conservazione, all’inizio degli anno ‘80 il prof. don Gaetano Zito, in qualità di direttore della Biblioteca Agatina e dell’Archivio Storico del Seminario — ad essi era stato affiancato l’Archivio Musicale – aveva provveduto a trasferirlo nella direzione della stessa biblioteca in armadi metallici. Un primo tentativo di ordinamento era stato avviato dal prof. Giuseppe Mazzaglia, fine musicologo e conoscitore dell’Archivio. L’inventario contiene circa 1500 partiture manoscritte, fra originali e 42 Lettera di Agatino Nicola Couturier all’arcivescovo Giuseppe Francica Nava, datata 27 febbraio 1904, in ASD, fondo Episcopati, card. Giuseppe Francica Nava (18951928), carp. 47, fasc. V.V.2: Musica sacra.
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non; circa 2000 partiture in stampa le quali, seppure sono testi facilmente rintracciabili in commercio, storicamente sono importanti poiché testimonianza di una cultura abbastanza ampia nel campo della musica da parte dei chierici catanesi. Questi erano soliti passare con facilità dall’interpretazione di opere di grandi maestri, a composizioni sia per pianoforte che per coro e orchestra, fino ad arrivare, addirittura, all’esecuzione di un genere più leggero quale l’operetta e le canzoni popolari. Nell’Archivio si conservano, inoltre, numerose partiture e raccolte di musica sacra, vocale e strumentale, oltre che un cospicuo numero di riviste, alcune delle quali ormai rare. Annesso all’Archivio — con un collocazione e un numero di inventario a se stante — troviamo il fondo Nicolosi, che raggruppa gran parte delle composizioni originali e autografe, nonché le partiture e i libri di musica (a stampa) del maestro Salvatore Sciuto Nicolosi. Le carte di Nicolisi, salvate in un primo momento, dopo la sua morte, nei locali parrocchiali di S. Maria della Consolazione, alcuni anni fa vennero consegnate all’Archivio Musicale del Seminario dal parroco Antonio D’Emanuele. Il fondo Nicolosi offre, insieme a quanto già si trovava nell’Archivio Musicale, un quadro generale delle opere da lui composte: messe, inni, cantate nella maggior parte scritte in onore di S. Agata, oltre che numerose armonizzazioni, sia per orchestra che per quintetto d’archi, di celebri opere. Inoltre, gran parte delle partiture arrecano note a margine, spesso firmate, nelle quali Nicolosi era solito annotare l’occasione per la quale componeva: anniversari di sacerdozio dei preti della diocesi, feste dell’arcivescovo e dei rettori del seminario e particolari eventi dell’arcidiocesi catanese. Infine, è interessante notare l’estro musicale di quest’uomo e la grande capacità nel comporre anche nelle ore più impensate, annotate a margine dei testi. Valgano come esempio: il Coro d’introduzione tratto dalla Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni fu scritto dal Nicolosi all’età di 62 anni, dalle 23.30 alle 6.15 dell’indomani; nella composizione — datata San Giovanni la Punta 24 febbraio 1946 — annota il maestro: «Coraggio!! Guardando i miei futuri 99 anni mi sento ancora giovane!»; oppure, una Lauda, le cui parti orchestrali furono scritte dalle 17.00 alle 2.15 dell’indomani, il 3 luglio 1950. Di questi esempi l’Archivio ne contiene numerosi. Il primo momento che ha contrassegnato questo lavoro è stato l’opera di riordino delle partiture, di alcune delle quali si è riusciti a ripristinarne le parti mancanti con spezzoni di fogli sparsi, appartenenti in
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origine al testo. Altre opere invece sono rimaste incomplete. Man mano si è proceduto alla selezione: manoscritti — originali e copie — ciclostilati, partiture in stampa, riviste, volumi in stampa. Ultimato il riordino del materiale cartaceo in appositi raccoglitori — ad eccezione dei volumi — in un secondo momento si è passati alla stesura dell’inventario ponendo su ciascuna partitura una sigla di collocazione — per sezione — un numero d’inventario progressivo ed un timbro che contrassegna l’appartenenza della partitura all’Archivio. L’Archivio è strutturato nelle seguenti sezioni: • Sezione manoscritti: questa sezione comprende, oltre a composizioni di autori vari, 3 gruppi di carte: carte Branchina — carte Nicolosi — carte Sangiorgio che si è ritenuto opportuno separare dalla sezione miscellanea, data la cospicua quantità di materiale musicale loro appartenente ed anche perché più di tutti si distinsero. • Sezione partiture ciclostilate: si tratta di partiture per le varie voci del coro, ciascuna delle quali destinate ad ogni cantore. • Sezione partiture in stampa: prevalentemente si tratta di composizioni per pianoforte, violino, canto e pianoforte. • Sezione riviste: questa sezione comprende note riviste pubblicate nella prima metà del Novecento. • Sezione volumi in stampa: prevalentemente questa sezione comprende partiture per canto e pianoforte di note opere ottocentesche. • Materiale miscellaneo: la sezione comprende dischi e volumi vari. Il definitivo riordinamento dell’Archivio musicale, ormai in fase conclusiva, le presenti note e la progettata pubblicazione dell’archivio possono contribuire a tenere deste la memoria su persone e momenti che hanno segnato la storia dell’arte musicale a Catania.
Presentazione Synaxis XX/3 (2002) 675-681
A. MINISSALE, Alle origini dell’universo e dell’uomo (Genesi 1-11). Interrogativi esistenziali dell’antico Israele, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2002, collana “La Bibbia nelle nostre mani”, n. 36, pp. 92, € 5,00. Il libro di A. Minissale, nonostante le dimensioni — si tratta di un piccolo libro — e la sinteticità — richiesta dalla collana cui appartiene —, riesce a far penetrare in modo efficace all’interno dell’esperienza dell’antico Israele, fino a farne gustare lo spessore della cultura e le tensioni più vere e profonde della fede. E ciò è possibile perché l’Autore è un esperto biblista ed un profondo conoscitore dell’Antico Testamento. La struttura del volume è semplice: nella I parte si trova la lettura comparata delle tradizioni P (Codice sacerdotale) e J (Codice jahvista), di ciascuna delle quali vengono messe in luce la coerenza interna e la peculiarità dello stile e della visione della realtà sia divina che creaturale; nella II parte, svolta in prospettiva ermeneutica, viene analizzato il messaggio dei racconti di Gn 1-11, secondo una doppia lettura: quella che risale all’epoca della loro stesura e quella dei nostri giorni. Nella prima parte l’Autore segue lo schema di Gn 1-11. Si tratta di uno schema simmetrico in cui si trovano due unità tematiche fondamentali, la creazione (cc. 1-3; P e J) ed il diluvio (cc. 4-5; P e J) ciascuna delle quali è seguita da una genealogia: da Adamo a Noè (cc. 4-5; J e P) e da Noè ad Abramo (cc. 10-11; P e J). I quattro episodi negativi esclusivi di J, l’uccisione fratricida di Abele (4,1-16), l’origine dei giganti (6,1-4), la scorrettezza di Canaan (9,18-27) e la storia di Babele (11,1-9), vengono esaminati come dei veri e propri inserti. Ci fermeremo a raccogliere solo pochi dati. Nel trattare della creazione l’Autore distingue le due tradizioni P e J. Secondo la tradizione P (1,1-2,4a), in principio Dio crea, con la potenza della sua parola, tutte le cose fino all’uomo, che fa a sua immagine e
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somiglianza e pone al vertice di tutte le cose. Lo sviluppo del racconto è sostenuto da una ispirazione grandiosa, piena di stupore e di ammirazione, che raggiunge l’acme nella benedizione conclusiva che Dio dà al settimo giorno e che implica indirettamente la responsabilità che gli uomini debbono sentire davanti al creato e soprattutto davanti a Dio. Secondo la tradizione J (2,4b-3.24), l’uomo viene posto al centro del mondo, che viene creato proprio per lui, ma viene travolto dall’inganno del tentatore, viene messo ai margini di tutto ed è costretto ad assumersi le sue responsabilità davanti a Dio e nei confronti della sua maledizione. I due racconti della creazione differiscano notevolmente, soprattutto nella sensibilità, che è pessimistica in J, in quanto tematizza in modo particolare la trasgressione, ed ottimistica in P, in quanto ignora la trasgressione, e nella concezione di Dio, che in P opera dall’alto della maestà della sua trascendenza con l’efficacia istantanea della sua parola, mentre in J scende tra le creature, forgiando gli esseri umani con le sue stesse mani e dialogando con essi sia per stabilire delle regole per la loro vita libera sia per formulare la condanna in seguito alla trasgressione. Ma, a parte queste differenze, convergono nella concezione antropologica, perché presentano coerentemente l’uomo come il fulcro del creato, sia ponendolo al vertice (P), sia ponendolo al centro (J). Il diluvio è la conseguenza di una escalation di violenza e di male. J sviluppa il suo racconto mettendo in luce i risvolti psicologici dell’esistenza dell’uomo, il cui cuore non concepisce se non il male, e dell’agire di Dio, che si pente di aver creato l’uomo. P prende nota della corruzione del genere umano, ma apre subito il tema dell’alleanza, che Dio stabilisce con Noè. Il diluvio è caos, ma non quello delle origini, da cui Dio fa sgorgare le cose con la sua parola creatrice, bensì il rischio in cui il creato è incorso a causa del male commesso dall’uomo; ma anche da questo caos Dio fa uscire un nuovo ordine di creazione, alla quale, come già in Gn 1,28; cfr. 9,7), dà il comando della fecondità e con cui stabilisce un’alleanza universale significata dall’arcobaleno, che congiunge cielo e terra. Dio s’impegna unilateralmente e misericordiosamente a non distruggere più il creato, ma le conseguenze del mutamento causato dal male, ormai ineliminabile dalla faccia della terra, resteranno per sempre e si renderanno evidenti nel fatto che all’uomo, fino ad allora vegetariano, viene concesso di mangiare anche gli animali uccisi.
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Gli episodi negativi, che J presenta dopo la iniziale vicenda peccaminosa di Adamo ed Eva, sono quattro: l’uccisione di Abele da parte di Caino, un fratricidio emblematico, che fornisce una spiegazione eziologica delle caratteristiche etnico-culturali dei cainiti che abitano la regione di Not e dà indicazioni precise non solo sulla malvagità degli uomini, capaci di compiere azioni terrificanti già con la comparsa della seconda generazione, ma anche sulla misericordia di Dio, che non abbandona Caino; l’origine dei giganti, dovuta all’unione dei figli degli dei con le figlie degli uomini, unione che, da un lato, attesta l’espansione dell’umanità sulla terra e, dall’altro, essendo presentata secondo una visione aberrante e blasfema e, per di più, fortemente mitica, urta le esigenze etiche di Jahwé; la colpa commessa da Canaan/Cam, il quale fa cadere in ridicolo, davanti ai fratelli Sem e Iafet, il padre Noé, che aveva bevuto molto vino e si era accasciato a terra ubriaco e scomposto; la confusione delle lingue come conseguenza di un atto d’orgoglio, che, lungi dal fare attraversare all’umanità la porta di Dio (bab ilu – babel), ne mette in evidenza la vanità ed il limite. La competenza biblico-veterotestamentaria dell’Autore si rivela pienamente nel rapporto di identità-differenza che scorge tra i racconti di Gn 1-11 e cinque miti mesopotamici delle origini: Atrahasis, Gilgamesh, Enuma Elish, Adapa ed Erra. Nel porre a confronto i racconti biblici delle origini con i miti mesopotamici l’Autore mette in luce i diversi punti di contatto che li uniscono, a partire dagli interrogativi fondamentali sulla vita e sulla morte. Gli agiografi sono stati sollecitati dai miti mesopotamici, ne hanno preso i motivi narrativi, li hanno smontati, al fine di liberarli dalle motivazioni religiose prettamente mesopotamiche, e li hanno ricostruiti all’interno della propria visione di Dio e del mondo. È così che i motivi narrativi, ormai convenzionali, della creazione dell’uomo, del diluvio, della pianta della vita, del corruccio delle divinità, del serpente insidiatore, della condanna dell’uomo alla fatica ed alla morte, liberati dai fattori tipicamente mitici, rivivono in un contesto culturale e religioso, in cui c’è un solo Dio, trascendente e creatore del mondo e dell’uomo. L’uomo non lavora per la divinità ma per se stesso, è libero e responsabile della sua vita, del mondo e della storia e deve rendere conto a Dio. Dio è buono e crea solo cose buone. Di conseguenza, il male non può avere origine in lui, ma solo nella libera
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volontà umana. Il diluvio ha motivazioni etiche. La sessualità è considerata all’interno di una fine concezione antropologica, come risulta dal suo rapporto con l’essere dell’uomo ad immagine di Dio, con la percezione della nudità e con il senso della vergogna, che hanno fatto seguito alla trasgressione. Tra i dati peculiari del testo biblico l’Autore mette in evidenza l’albero della conoscenza del bene e del male. Nella seconda parte del volume A. Minissale si impegna a presentare la sua interpretazione di Gn 1-11 scandendola in tre approcci: letterario, storico e teologico. Nell’approccio letterario l’Autore si pone innanzitutto i problemi del tempo e del modo in cui sono sorti i racconti biblici delle origini e trova le soluzioni nelle fonti J e P, risalenti entrambi ad età esilica e post-esilica, almeno nella redazione definitiva, ma è certo che in essi sono stati accolti materiali tradizionali più antichi. L’Autore si ferma ancora su Gn 1-11, osservandone i generi letterari delle etimologie, delle invenzioni e delle eziologie. Quanto alle eziologie, l’Autore si ferma ad analizzarne tre presenti in P: il sabato, che scandisce in ritmi settimanali la vita religiosa d’Israele, ha la sua causa nei primordi e, addirittura, nel risposo dello stesso Dio dopo la creazione compiuta in sei giorni; l’ordinamento alimentare, che passa dalla dieta rigorosamente vegetariana dell’epoca precedente il diluvio ad una dieta che include anche la carne, purché non contenga sangue, dell’epoca seguente il diluvio, e che è segno dell’economia di tolleranza a cui conduce la diffusione della violenza sulla terra; l’arcobaleno, che, da dato naturale, qual è, passa ad indicare l’alleanza che Dio stabilisce con l’intero mondo creato. A conclusione delle sue considerazioni sulle eziologie, A. Minissale menziona l’eziologia più importante, e cioè l’eziologia della morte, presente esclusivamente in J. Nell’approccio storico l’Autore dice chiaramente che gli studiosi stabiliscono un vero e proprio contatto storico con Israele a partire dall’età dei giudici (sec. XII) e, ancora meglio, dall’età della monarchia. Tutto ciò che precede fino ad Abramo è costituito da una serie di rivoli narrativi della tradizione orale che confluiscono nei testi che si sono formati gradualmente in età pre-esilica ed in età post-esilica (587-538). Gn 1-11 ha la sua origine in questo contesto culturale e religioso. Gli avvenimenti delle origini sono irraggiungibili sulla base delle ricostruzioni delle fonti, che sono inesistenti, sia per il carattere ancestrale degli eventi ai quali si riferisce, sia perché i
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testi hanno un tale spessore metaforico e simbolico che il modo del narrare è mitico e la realtà indicata ha consistenza soltanto nelle verità teologiche formulate per rispondere agli interrogativi esistenziali dell’antico Israele. Ad esempio, il diluvio non è che la jahvizzazione e l’universalizzazione di una inondazione particolarmente catastrofica verificatasi in Mesopotamia. Ne è la jahvizzazione per la ragione che viene trovata particolarmente adatta per fare risplendere la potenza, la giustizia e la misericordia di Jahwé. Ne è l’universalizzazione in quanto ciò che ha a che fare con il piccolo mondo d’Israele, che viene percepito come l’intero mondo, acquisisce una dimensione cosmica e, quindi, viene visto in rapporto diretto con tutta la creazione. Nell’approccio teologico l’Autore tenta una sua interpretazione di Gn 2-3 all’interno della generale struttura simbolica di Gn 1-11, di cui è parte integrante. I capitoli 1-11 di Gn non contengono un resoconto storico di eventi, per altro inconoscibili come tali, ma le risposte date, mediante la forma simbolica del racconto e sulla base della fede matura d’Israele, agli interrogativi più brucianti che concernono la condizione umana e che sono percepiti come tali al tempo degli agiografi. A. Minissale s’interroga sulla natura del peccato di cui si parla in Gn 2-3. Il bandolo della matassa viene visto dall’Autore nel significato più plausibile nascosto nelle parole del tentatore “diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male”. Il significato più plausibile che esse possono avere per la donna e per l’uomo non può non condensarsi in una esperienza totalizzante e pienamente gratificante, come risulta dalle caratteristiche del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male: “era buono da mangiare, seducente per gli occhi e attraente per acquistare l’intelligenza”. A. Minissale procede considerando una parentela tematica tra Gn ed il Cantico dei cantici, in cui i frutti sono una metafora di ciò che la donna offre al suo amato (Ct 4,12 s; 5,1). Se a questi dati si aggiunge la descrizione che Gn 3 fa degli effetti del frutto proibito (“si aprirono allora gli occhi di ambedue e conobbero che erano nudi”), ci si rende conto di quale può essere l’ambito in cui ricercare la natura del peccato. Si tratta dell’esperienza della nudità, ma in senso reale e fisico, legata all’affermazione della sessualità ed alla carica emotiva che essa possiede. Tale esperienza è una esemplificazione tipica del superamento del limite; ed avendo a che fare con la trasmissione della vita, introduce l’uomo all’euforia della rioriginazione ed alla consapevolezza di
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potere, quasi, strappare a Dio il privilegio della originazione, che gli compete come creatore e garante della vita. Tra l’altro, rileva l’Autore, tre dei cinque peccati raccontati nella storia delle origini sono a sfondo più o meno marcatamente sessuale: quello della prima coppia, le unioni tra i figli di dei e le figlie degli uomini, la colpa di Canaan/Cam. J attinge tutti questi dati dalle tradizioni popolari che arrivano fino a lui, ma non deflette minimamente dalla sue seguenti tesi teologiche fondamentali: il male è dovuto alla malizia degli uomini, che è la causa vera del fatto che la storia si è configurata come storia del peccato e della maledizione; ma sulla storia Dio con Abramo pronunzierà la sua benedizione e finalmente avrà inizio la storia della salvezza. Le condanne pronunziate da Dio nei confronti del serpente, della donna e dell’uomo rispondono ad esigenze eziologiche e, rispetto a ciò a cui fanno riferimento, hanno un rapporto esemplare e non causale. E, come è possibile notare soprattutto nell’espulsione degli uomini dall’Eden, i segni di una parentela narrativa con i miti mesopotamici sono evidenti: una volta fuori, l’uomo e la donna non potranno più accedere all’albero della vita e non potranno più mangiarne i frutti che danno l’immortalità. L’Autore mette a confronto i codici J e P e rileva alcune differenze notevoli. La più significativa differenza tra i due codici concerne la questione del peccato: mentre J parla del primo peccato e dei primi peccatori, P non ne parla nel contesto del racconto della creazione, ma introduce il tema del male come preambolo al racconto del diluvio, precisando che la terra è oscurata dalla corruzione e dalla violenza. Un’altra notevole differenza consiste nella prospettiva secondo la quale viene osservata la storia umana: mentre J la osserva alla luce della maledizione, che la percorre fin dall’inizio e sarà superata solo con Abramo, nel quale Dio benedice l’umanità, P, dal suo punto di osservazione, pone il culmine della creazione nel sabato, la fa ricominciare con l’alleanza universale che fa seguito al diluvio e polarizza la storia verso il culto del Sinai. In realtà J e P, con le loro differenti prospettive, recano all’evidenza un fatto significativo: la storia umana è ambivalente e, pertanto, la si può osservare sotto profili differenti, e quelli della maledizione e della benedizione sono determinanti. Alla conclusione del suo lavoro, l’Autore sente il bisogno di fermarsi a considerare le conseguenze che la lettura di Gn 2-3 fatta da Rm 5 ha avuto
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circa la concezione tradizionale del male nel mondo: si è ridotta alla questione del peccato originale. Il Nuovo Testamento, ad eccezione di Rm 5,12-19 che parla del peccato di Adamo e delle sue conseguenze, considera il male nel mondo come una storia di male che si rende evidente esclusivamente nei peccati personali, dalle cui conseguenze Cristo salva l’uomo. Se si legge con attenzione Rm, si ha l’opportunità di rendersi conto che il suo messaggio centrale consiste nella tesi cristologica che presenta Cristo quale salvatore unico, assoluto ed universale. Per dare forza a questa tesi, s. Paolo in Rm 1,18-3,20 parla del peccato dei pagani e dei giudei, e non sente il bisogno di fare alcun riferimento ad Adamo; in Rm 5 fa riferimento all’umanità vecchia, che nel primo Adamo ha l’origine, il principio di unità ed il rappresentante, ma solo per dare forza alla prospettiva cristologica, che pone in Cristo, nuovo Adamo, l’origine, il principio di unità ed il rappresentante dell’umanità nuova. Il senso del riferimento al peccato di Adamo presente in Rm 5 deve essere colto alla luce di Gn 2-3, di cui l’Autore ha proposto una interpretazione simbolica. Siamo grati ad A. Minissale che con un volume agile ci ha dato la possibilità di entrare in un universo culturale e teologico dalle dimensioni immense, destando in noi la suggestione di essere coinvolti totalmente nelle forme e nelle figure che in forza dello stile creativo ed evocativo dell’Autore si stagliano davanti ai nostri occhi. La sua lettura di Gn 1-11 ci sembra convincente. La Bibbia non va considerata come un sorta di telegramma proveniente dal cielo, ma ha una storia redazionale lunga e complessa, nel corso della quale il linguaggio e l’esperienza dell’antico Israele, letti in profondità da una sapienza sostenuta dall’ispirazione, si trascendono e si transignificano in rivelazione ed in storia di salvezza. In fondo, Minissale ci ha spiegato che gli autori di Gn 1-11, pressati dai grandi interrogativi della loro epoca, hanno cercato di trovare delle risposte nelle origini e, di conseguenza, hanno dato vita a dei racconti eziologici. Mancando di informazioni su eventi accaduti in un’epoca tanto remota, hanno attinto a piene mani alle tradizioni mesopotamiche, che custodivano gli stessi interrogativi e che contenevano risposte mitiche, ma, guidati dall’ispirazione, hanno reimpostato radicalmente il loro discorso sulla base della loro fede nel Dio uno ed unico, buono e creatore, misericordioso e salvatore. Franco Conigliaro
Recensioni Synaxis XX/3 (2002) 683-687
A. BLANCO - A. CIRILLO, Cultura e teologia. La teologia come mediazione specifica tra fede e cultura, Edizioni Ares, Milano 2001, pp. 256, € 19,00. Il volume di Arturo Blanco e Antonio Cirillo è il 9° della collana “manuali” ed è dedicato al rapporto fra la cultura e la teologia, nel contesto più ampio del rapporto fra la fede e la cultura. Blanco è professore straordinario di teologia fondamentale, nella Pontificia Università della Santa Croce in Roma, e Cirillo è dottore in filosofia e teologia. Nei suoi quattro capitoli, il libro si propone di riflettere sulla teologia, sul suo metodo e sul suo rapporto con le scienze e la filosofia, collocandosi nella prospettiva della teologia quale «atto e frutto di mediazione tra fede e cultura» (9). Nel primo capitolo, gli autori richiamano alcuni elementi fondamentali sulla cultura e sulla fede e descrivono la relazione che corre tra le due. Riguardo alla cultura, giustamente, viene notato che essa non può essere considerata soltanto in alcuni suoi aspetti (es.: le espressioni letterarie o artistiche) o come una realtà statica, fissata nel tempo e nello spazio, ma nella sua globalità e nel suo dinamismo, e senza prescindere da quel suo significativo elemento strutturale che è la religione. Anche la fede viene presentata nel suo dinamismo che include l’approfondimento della conoscenza dei suoi contenuti e l’influsso sul vissuto delle persone e sulle culture dei popoli. Nell’orizzonte della relazione tra la fede e la cultura, viene considerato il posto di rilievo occupato dalla teologia «espressione più profonda e compiuta dei rapporti tra fede cristiana e sapere umano, tra messaggio evangelico e cultura» (38). La riflessione teologica, quale espressione del rapporto tra la fede cristiana e la cultura, è poi studiata nella sua evoluzione storica, da tre punti di vista differenti: come confronto in generale con la cultura (aspetto apologetico), come confronto specifico sui
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Recensioni
temi della fede (aspetto dogmatico) e sul vissuto pratico del cristiano (aspetto morale). Oltre che espressione del rapporto tra la fede e la cultura, la teologia viene presentata anche quale sapienza, acquisita con lo studio, finalizzata alla formazione culturale dei cristiani e alla loro personale maturazione umana e cristiana. Il secondo capitolo si occupa della struttura e delle caratteristiche della riflessione teologica. Premesso che questa ha come oggetto il mistero di Dio, viene anzitutto sottolineato il suo carattere teocentrico e cristocentrico. Successivamente, viene approfondita l’ecclesialità della teologia. Il tema è trattato ampiamente, dal momento che «essendo ecclesiale la fede, lo è pure la teologia che su di essa si costruisce» (92). Precisamente, l’ecclesialità è presentata in quattro aspetti. Il primo concerne la chiesa come oggetto della teologia, per il duplice motivo che (a) nella chiesa viene conservata e trasmessa la Parola di Dio e (b) la chiesa è sacramento di salvezza. In secondo luogo, la chiesa è presentata come soggetto della teologia, con la preoccupazione di riaffermare i legami del teologo con la vivente Tradizione della chiesa e, soprattutto, con il Magistero. Il terzo aspetto mette a fuoco il charisma theologicum in ordine all’edificazione della chiesa e tocca il problema della creatività responsabile del teologo. Infine, nel quarto aspetto, viene affrontata la questione del linguaggio teologico e della perenne validità del linguaggio concettuale usato nelle definizioni conciliari. Chiudono il capitolo le questioni della scientificità della teologia, della sua unità dovuta al suo oggetto e al suo metodo caratterizzato dalla compresenza di fede e ragione e, infine, del suo pluralismo. Nel terzo capitolo vengono trattate alcune questioni concernenti il metodo teologico. La prima riguarda i due momenti complementari del lavoro del teologo: l’auditus fidei e l’intellectus fidei. Per questo secondo momento, in particolare, oltre alla fedeltà al magistero, è richiesto «un principio ermeneutico, ossia una prospettiva strutturante con la quale il teologo cerca d’interpretare ogni aspetto della rivelazione, il quale si aggiunge al principio architettonico, ossia un mistero fondamentale della nostra fede che nella sintesi teologica accentra le spiegazioni proposte sui vari aspetti del depositum» (148). La seconda questione concerne l’impor-
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tanza, per la riflessione teologica, dell’esperienza di fede personale del teologo, vissuta all’interno dell’esperienza di fede della chiesa. Molto spazio è riservato alla terza questione, sulle funzioni della ragione per il lavoro teologico: una ragione non limitata al solo ruolo logicoconcettuale, ma aperta al mistero della realtà metastorica e metatemporale. Una quarta questione è costituita dal ricorso all’autorità nel discorso teologico: per gli autori, il discorso di fede su Dio deve fondarsi su testimonianze che, agli occhi del credente, siano rivestite di un’autorità tale che permetta di aderire in modo assoluto a ciò che viene detto su Dio. Pertanto, viene trattato a lungo il tema dell’adesione alle auctoritates (Scrittura, Tradizione, Magistero). Adesione connessa a un certo uso critico della ragione. Alcune pagine chiudono il capitolo, illustrando, in una prospettiva sintetica, la concatenazione del riferimento all’autorità, alla ragione e all’esperienza nel discorso teologico. Il quarto, e ultimo capitolo, primariamente, concerne il dialogo della teologia con le scienze umane e con la filosofia. Le scienze umane, con i loro contributi, in una prospettiva di interdisciplinarità, permettono un inserimento della Parola di Dio nella cultura e un confronto dialogico tra fede e cultura. Gli autori, poi, parlano della necessità della filosofia per la teologia – motivandola anche con l’aiuto che la filosofia dà per la comprensione del contenuto della fede – e della necessità della teologia per la filosofia. Nello studio della filosofia, il teologo dovrebbe lasciarsi guidare da un criterio preciso: studiare i problemi attuali alla luce del patrimonio filosofico comunemente usato dai cristiani – riferendosi specialmente a S. Tommaso – e non chiudersi alle correnti filosofiche contemporanee, pur mantenendo verso di esse un atteggiamento critico. In secondo luogo, gli autori mostrano come la teologia contribuisca a dare senso e coerenza all’intero sapere umano: si tratta di un «ruolo di perfezionamento sapienziale […] simile a quello svolto dall’intellectus fidei nella formazione umana e cristiana della singola persona […]. Questo ruolo le appartiene in proprio perché essa è, nel coro dei saperi umani, quella che meglio raggiunge le ragioni più profonde dell’essere e della vita, della storia e del mondo, appunto perché scientia fidei» (228). Due compiti sapienziali vengono segnalati come particolarmente urgenti per la teologia contempo-
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ranea: il recupero dell’unità tra la teologia dogmatica e la teologia morale e l’apprezzamento nei confronti della metafisica. Il manuale di Blanco e Cirillo si presenta solidamente fondato sui documenti del Magistero e, particolarmente, sull’enciclica Fides et ratio. Sarebbe stato auspicabile un dialogo più aperto con i teologi contemporanei, oltre che un maggiore approfondimento di qualche questione quale, ad esempio, quella concernente la “teologia delle religioni” (141-144). Infatti, la dichiarazione Dominus Iesus, nel paragrafo 21, ha incoraggiato il lavoro teologico orientato ad approfondire il rapporto della chiesa e delle religioni con la salvezza. Nunzio Capizzi
ROBERTO OSCULATI, L’Evangelo di Giovanni, IPL, Milano 2000, pp. 218. Ecco un commento al Vangelo di Giovanni che non vuol essere strettamente esegetico, ma che presupponendo alcune opzioni fondamentali derivanti dallo studio storico - critico del IV Vangelo come anche da un approccio filosofico di tipo esistenziale, ne mette a fuoco una attualizzazione che parte dal principio che la parola evangelica continua a rivolgere un appello alla decisione di ogni singolo credente. Tutto il testo di Giovanni è diviso in 25 pericopi che sono riportate all’inizio degli altrettanti capitoli che costituiscono l’impianto del libro oltre l’introduzione. Di fatto ogni capitolo non commenta in maniera continua il testo preso in esame, ma vi si focalizza un aspetto del Cristo indicato ogni volta da un titolo emblematico, che coglie il messaggio fondamentale del brano trattato, come per esempio: l’agnello, lo sposo, il salvatore del mondo, il profeta, il Figlio, il pane vivo, il pastore, l’amato, il servo, il vincitore, il sacerdote, l’amico, ecc. Già nella prima battuta dell’introduzione si può intravedere l’approccio ermeneutico privilegiato dall’Autore che afferma: «L’evangelo di Giovanni rappresenta il culmine della teologia neotestamentaria. La vita di Gesù di Nazaret viene interpretata come rivelazione definitiva della parola divina nella carne umana» (5). Seguendo questa traccia, in una serie di quadri successivi si
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vuole provocare ogni volta un incontro credente tra l’uomo e la rivelazione portata da Gesù. In realtà, il vero luogo di questa rivelazione, pur facendo riferimento alla storia biblica come ambiente in cui si elaborano i vari simboli che vengono applicati dall’evangelista alla figura di Gesù, è focalizzato nel cuore dell’uomo di ogni tempo, come si sottolinea più volte: «Si trova quello che già si possiede, la novità deve nascere dall’intimo, da un cuore mutato, non si presenta dall’esterno» (33); «La scelta da fare, come sempre, riguarda il proprio io, la sua natura morale, il suo modo di vedere il mondo, le azioni che ne nascono» (113). E ancora: «Come sempre i discepoli esprimono le ragioni della religiosità intesa come obbiettività, adesione ad una realtà definitiva, che si impone per la sua evidenza ed è indipendente dalla soggettività intellettuale e morale. Gesù rappresenta ed esige un altro tipo di adesione a lui: capisce solo chi ama, chi segue, chi è coinvolto. Non è possibile conoscere una verità cui non si diviene affini nell’amore e nella dedizione» (146). Mi è sembrato importante citare le stesse parole dell’Autore, perché si possa capire l’originalità del suo linguaggio e l’insistenza con cui egli cerca di concentrare il messaggio nella relazione che esso stabilisce con ogni uomo che l’accoglie. Questo libro è nato dalle lezioni universitarie che l’Autore, ordinario di storia del cristianesimo all’Università di Catania e professore invitato nello Studio S. Paolo, tiene con notevoli risultati nella Facoltà di lettere, e perciò presuppone la verifica fattane presso gli studenti. Anzi, si riconosce pure un loro apporto nella stessa elaborazione di questo singolare commento: «Quanto infine ha trovato qui una stesura compendiaria è frutto di un intenso lavoro di ricerca. Molte intelligenze e sensibilità diverse hanno contribuito a formulare questo tentativo di interpretazione della parola evangelica e molte voci vive e giovani risuonano nella composizione unitaria, frutto spesso di una scoperta personale e di un dialogo appassionato» (9). A conferma di questo contesto accademico chiude il volume una concordanza italiana e greca di 87 vocaboli caratteristici del linguaggio giovanneo. In conclusione, un libro denso e limpido che sa parlare del Vangelo con una sensibilità laica e senz’altro accattivante. Antonino Minissale
Synaxis XX/3 (2002) 689-691
NOTIZIARIO DEL CESIFER
Durante il 2001-2002 due sono stati i filoni principali dell’attività; un’indagine interdisciplinare sulla portata dell’agnosticismo in età moderna e contemporanea e un’indagine sociologica sulla consistenza del fenomeno religioso non cattolico presente nel territorio metropolitano di Catania. L’indagine sull’agnosticismo è stata condotta nello stile di un seminario aperto. Il seminario ha voluto essere aperto in un duplice significato. Per un verso si è avvalso della partecipazione di studiosi esterni e interessati al tema, capaci di dare un contributo all’approfondimento del discorso. Per altro verso esso è stato articolato in cinque mezze giornate e con una scadenza mensile, onde permettere eventuali aggiustamenti e complementi. La formulazione esatta del seminario era: “Quale Dio? L’agnosticismo nell’esperienza moderna e contemporanea”. L’interrogativo che apre la dicitura del tema voleva insinuare una ipotesi: che ogni affermazione o negazione di Dio sia sempre correlata ad una particolare concezione di Dio. Il contenuto della parola “dio” infatti muta all’interno dei
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Ospitiamo, a partire da questo numero, il bollettino annuale del CeSIFeR. Nato da una convenzione tra l’Arcivescovo di Catania, rappresentato dal rettore pro tempore della chiesa di S. Nicolò l’Arena, l’Università del Studi di Catania e lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, il “Centro di Studi Interdisciplinari del Fenomeno Religioso” ha sede presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università. Esso ha come scopo quello di ricercare, secondo i metodi recepiti nelle varie comunità scientifiche che in esso sono rappresentate, i vari aspetti storico-culturali delle manifestazioni religiose che sono presenti nella società siciliana. Il CeSIFeR, sempre allo scopo della ricerca conoscitiva, darà voce agli esponenti delle varie esperienze religiose e segnatamente, non solo di quelle che si riconoscono nel cristianesimo, ma anche dell’islamismo, delle religioni orientali, dell’ebraismo e di quelle che godano di una presenza consistente nella realtà siciliana. Questo coinvolgimento delle varie esperienze religiose non si prefigge scopi di dialogo ecumenico o interreligioso, ma vuole soltanto rendere fruttuosa sul piano della indagine conoscitiva la pluralità dei soggetti e delle esperienze.
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Notiziario del CESIFER
vari contesti storici, religiosi, culturali. O quindi necessario evidenziare ogni volta i contorni della figura. Privilegiando l’età moderna e contemporanea si è altresì fatta la scelta di limitare il discorso al costituirsi e al dipanarsi della vicenda storica che va sotto il nome di modernità occidentale. Non che in questo modo si volesse già predeterminare una precisa interpretazione della modernità. In che misura ad esempio essa sia intrinsecamente connessa all’eredità cristiana, se sia dia una distinzione tra “Moderne” e “Neuzeit” (Koselleck), o altro ancora, questa è una scelta di cui ogni relatore e partecipante al colloquio si è fatto carico. Comunque il significato dell’agnosticismo in altri contesti religioso-culturali (ad es. il buddismo) non è stato preso in considerazione. Ciò che si è voluto mettere a fuoco è stato, per usare termini bonhoefferiani, il fatto che “l’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l’ausilio dell’«ipotesi di lavoro: Dio»”, e non solo nella scienza, l’arte, l’etica, la filosofia, ma anche nelle questioni religiose (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, 1988, 398-402). Ma questo può essere fatto con rigore solo esaminando alcuni luoghi esemplari della modernità stessa. Né il discorso può avere un minimo grado di sufficienza se non si prendono in considerazione anche alcune risposte che la riflessione teologica dei cristiani ha dato e continua dare al problema. I seminari svolti sono stati i seguenti: Il razionalismo del Seicento: Marilena Modica David Hume: Giuseppe Giarrizzo La letteratura dell’Ottocento e la crisi dell’idea di progresso: Gaetano Compagnino La contestazione del sacro nella letteratura del Novecento: la divinità assente e presente di Savinio: Rosa Maria Monastra Il diritto moderno: Rileggendo Francisco Suárez: Francesco Migliorino La ‘città futura’: immagini dell’ordine e del mutamento: Pietro Costa C’era una volta l’Europa moderna: Bruno Montanari La fisica contemporanea: Renato Potenza Le matematiche: Giulio Giorello
Notiziario del CESIFER
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Le teologie davanti all’agnosticismo. Il caso Overbeck: Giuseppe Ruggieri Coscienza umana e metamorfosi del divino: Roberto Osculati. L’indagine sul fenomeno religioso non cattolico, così come si rende presente nel territorio metropolitano di Catania è stata condotta con la collaborazione di un’équipe coordinata dal prof. Renato D’Amico della Facoltà di Scienze Politiche. L’obiettivo è quello di costruire una mappa di tutti i gruppi e movimenti religiosi/spirituali diversi da quelli cattolici presenti nella città di Catania e nel suo hinterland. Si è trattato di una ricerca articolata sul campo, con caratteristiche strettamente sociologiche e tale da consentire di andare oltre un semplice censimento dei gruppi e movimenti medesimi, nel tentativo di ricostruire alcuni dei temi oggi maggiormente dibattuti soprattutto dalle scienze sociali relativamente alle ragioni che possono aver portato alla nascita e alla diffusione di questi gruppi in un contesto tradizionalmente a larga predominanza della religione cattolica, e all’impatto di questa stessa presenza nel contesto medesimo. La ricerca, sostanzialmente completata, ha bisogno di qualche perfezionamento ulteriore per essere pubblicata. Giuseppe Ruggieri
Synaxis XX/2 (2002) 693-694
NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
1. Baccellieri in Teologia Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia, il 4 ottobre 2002: CALORO ARTURO, Senso comune e rivelazione cristiana in Antonio Livi (relatore prof. Giuseppe Schillaci) GRUGNO MAURO, Volto umano ed esperienza religiosa a partire da Levinas (relatore prof. Giuseppe Schillaci) DI MARTINO GIOVANNI, La traduzione del nuovo mondo delle Sacre Scritture e l’ermeneutica biblica geovista (relatore prof. Giuseppe Ruggieri) FELICI SALVATORE, Relazione io tu e Sostituzione vicaria nel pensiero di Dietrich Bonhoeffer (relatore Giuseppe Schillaci) PILATO ANNA, Il terzo canto del servo di Jahvè (Is 50, 4-9) e la sua ripresa nelle narrazioni evangeliche della passione di Gesù (relatore prof. Attilio Gangemi) RUBULOTTA FILIPPO, La potestas delle conferenze episcopali nel motu proprio apostolos suos. Considerazioni storico –teologiche – giuridiche (relatore prof. Adolfo Longhitano) SINOPOLI VITTORIO, Padre Francesco Spoto: una santità ed un martirio da leggere nella ricompressone del Vaticano II. Linee per un tentativo (relatore prof. Salvatore Consoli)
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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo
2. Nomine In data 7 giugno 2002, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha nominato arcivescovo di Catania S.E. mons. Salvatore Gristina. In data 15 ottobre 2002, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha nominato vescovo di Acireale S.E. mons. Pio Vigo. 3. Inaugurazione anno accademico L’8 novembre 2002 si è tenuta l’inaugurazione del 34° anno accademico del S. Paolo. La concelebrazione è stata presieduta da S.E. Mons. Salvatore Gristina nuovo Moderatore dello Studio Teologico. Dopo la relazione del Preside, il prof. Francesco Ventorino, ha tenuto la prolusione accademica sul tema: Il desiderio naturale di vedere Dio in San Tommaso d’Aquino. 4. Convegno con l’Università Si terrà il 3 e il 4 aprile il tradizionale convegno con l’Università degli Studi di Catania sul tema: La Bibbia libro per tutti? 5. Seminario interdisciplinare È stato avviato l’iter per il seminario interdisciplinare su Magia, superstizione, cristianesimo, coordinato dal prof. Salvatore Consoli, docente ordinario di Teologia morale, i cui risultati verranno pubblicati sul numero monografico di Synaxis 2003.
Collane di Synaxis «NUMERI MONOGRAFICI DI SYNAXIS» Synaxis XIII/1 - 1995
«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 Synaxis XIV/1 - 1996
«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgico-celebrative S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa Synaxis XV/2 - 1997
«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento
A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale Synaxis XVI/2 - 1998
«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare
Synaxis XVII/1 - 1999
«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione Synaxis XVII/2 - 1999
«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna Synaxis XVIII/2 - 2000
«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo)
N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia Synaxis XIX/2 - 2001
«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La chiesa e gli infedeli
«QUADERNI DI SYNAXIS» AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito) AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190 AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427
AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240 «DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS» G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288 P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,19-31), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524 G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418 A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244 G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere (in corso di pubblicazione)
A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19) (in corso di pubblicazione)