SYNAXIS XXI/1 - 2003
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
INDICE
Sezione teologico-morale L’ETICA DEL CONSENSO NELLA SPERIMENTAZIONE CLINICA (Salvatore Consoli) . . . . . . . 1. La sperimentazione: un fatto scientifico bisognoso di confronto con la morale . . . . . . 2. Modelli etici di riferimento . . . . . 3. Principi etici per la sperimentazione clinica . . . 4. Il consenso informato . . . . . 5. Conclusioni . . . . . .
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SONO FORSE IO RESPONSABILE DI MIO FRATELLO? DALLA PAURA ALLA PROSSIMITÀ
(Giuseppe Schillaci) . . . . 1. Premessa . . . . 2. Uscire dalla conflittualità . . 3. L’uno contro l’altro: la vita minacciata 4. L’uno con l’altro: mettersi accanto . 5. L’uno per l’altro: l’essere responsabile 6. Conclusione . . .
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QUESTIONE IDENTITARIA E FIGURE “LIMINALI” ALLE ORIGINI DEL MOVIMENTO CRISTIANO (ATTI 1-15) (Carmelo Raspa) . . . . . . 0. Introduzione . . . . . 1. Dall’idillio all’isteria . . . . 2. Figure “liminali” . . . . .
3. La missione ai gentili 4. Conclusione .
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TRADIZIONE E CULTO DI SANTA LUCIA A SIRACUSA (Sebastiano Amenta) . . . . . . . 1. L’Iscrizione di Euskia . . . . . 2. La leggenda del martirio degli occhi e le sue interpretazioni
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CRISTINA DI LAGOPESOLE: L’EREMITA DEL “DIVIN CROCIFISSO” (Milly Bracciante) . . . . . . . .
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IL TERZO CANTO DEL SERVO DI JAHVÈ (IS 50,4-9) E LE NARRAZIONI EVANGELICHE DELLA PASSIONE DI GESÙ (Anna Pilato) . . . . . . . . 1. Gli scherni di Gesù nel processo davanti al Sinedrio (Mt 26,57-75; Mc 14,53-72; Lc 22, 54-71) . . . . 2. La flagellazione (Mt 27,31; Mc 15,15; Lc 23,24-25; Gv 19,1-3) 3. Gli scherni di Gesù nel processo davanti a Pilato (Mt 27,27-31; Mc 15,16-20a; Gv 19,1-3) . . . . . 4. Lo schema del terzo canto nella narrazione della Passione . 5. Conclusioni . . . . . .
Sezione miscellanea PRETI LOMBARDI VESCOVI A SIRACUSA NEL NOVECENTO (Gaetano Zito) . . . . . . 1. Una questione storiografica e pastorale . . 2. Le nomine . . . . . . 3. Alcuni tratti del governo episcopale . .
Note
TIMOR MUNDI. LA MODERNITÀ CONTRAFFATTA E I TESTIMONI DI GEOVA (Davide Miccione) . . . . . . . . 175
QUALCHE CONSIDERAZIONE SU UNA NUOVA RILETTURA DEI TRATTATI MONASTICI DI GIOVANNI CASSIANO (Ferdinando Raffaele) . . . . . . .
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Presentazione
. . . . . . . . 189 M. TORCIVIA, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Prefazione di E. Bianchi, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2001, pp. 414. (Egidio Palumbo)
Recensioni .
. . . . . . . . 195 M. PAVONE E M. TORRINI (edd.), G.B. Hodierna e il «secolo cristallino». Atti del convegno di Ragusa 22-24 ottobre 1997, Leo S. Olschki, Firenze 2002. (Francesco Conigliaro) A. ARGIROFFI, Identità personale giustizia ed effettività. Martin Heidegger e Paul Ricoeur, G. Giappichelli Ed., Torino 2002. (Francesco Conigliaro) RICORDANDO IL PROF. MONS. VINCENZO MIGLIORISI (Salvatore Consoli) . . . . . .
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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
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Sezione teologico-morale Synaxis XXI/1 (2003) 7-21
L’ETICA DEL CONSENSO NELLA SPERIMENTAZIONE CLINICA
SALVATORE CONSOLI*
1. LA
SPERIMENTAZIONE: UN FATTO SCIENTIFICO BISOGNOSO DI CONFRONTO
CON LA MORALE
Tutti sappiamo come la base del progresso scientifico sia la sperimentazione; i progressi della medicina, con i suoi molteplici benefici per l’umanità, sono legati in grande misura alla sperimentazione. La sperimentazione dalla fase pre-clinica, serie di ricerche ed esperimenti di laboratorio e su animali, passa necessariamente a quella clinica, caratterizzata dagli esperimenti sull’uomo: questo passaggio comporta sempre una quota di rischio, perché l’uomo, nonostante sia simile ad altri viventi, ha una sua specificità organica. La società ha accettato il procedimento sperimentale della biomedicina, addirittura la promuove e la sostiene. L’etica non può non riconoscere il grande valore della ricerca e della sperimentazione, ma ha viva coscienza che «ci sono dei prezzi che non possono essere pagati: sono quelli che riguardano la dignità e la libertà umana»1. Pur riconoscendo l’alto prestigio professionale di tante persone, la società, quando sono in gioco la salute, la libertà e la vita dell’uomo, non può delegare tutto al gruppo di ricercatori e sperimentatori. * 1
Ordinario di Teologia morale nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. S. SPINSANTI, Etica bio-medica, Roma 1987, 147.
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Salvatore Consoli
«Il progresso della medicina e i molti benefici che il genere umano ne ha tratto sono il risultato di ricerche e sperimentazioni. Ma non tutte le sperimentazioni significano un progresso veramente umano»2: i primi seri interrogativi risalgono al trauma subito durante il processo di Norimberga quando l’opinione pubblica è venuta a conoscenza delle sperimentazioni fatte da medici nazisti su prigionieri nei lager. Non si può negare, dicono gli storici della morale, che l’avere usato persone umane come strumenti di ricerca ha portato, da una parte, alla decadenza dell’etica medica3 e, dall’altra, alla sfiducia nell’ethos professionale dei medici4. «Negli anni seguenti, dissipatosi il fantasma dello sperimentatore a servizio di uno Stato totalitario, cominciò a prendere corpo il timore dello scienziato che si serve della tecnologia per un progetto di manipolazione totale dell’uomo. Secondo il termine efficace coniato da G. Leach, si parla dei “biocrati”, ovvero dei tecnocrati della biologia e della medicina, che progettano un miglioramento della realtà umana sacrificando valori che la nostra civiltà ha abitualmente coniugato con il termine “uomo”»5. Per tali motivi si è sentito il bisogno di elaborare dei codici etici con la duplice finalità sia di proteggere la dignità e la libertà di ogni essere umano sia di lasciare il necessario spazio per il progresso della biomedicina a vantaggio delle generazioni presenti e future. Il Codice di Norimberga sulle «sperimentazioni mediche permesse» nel 1964, nei suoi dieci punti, ha cercato di ben limitare le sperimentazioni sui soggetti umani. L’Associazione Medica Mondiale si è occupata, a più riprese, di una «Dichiarazione sulle ricerche bio-mediche»: nel 1964 si ha la cosiddetta Dichiarazione di Helsinki che verrà successivamente rivista. Unitamente alla regola della non nocività, alla preoccupazione cioè che dalla sperimentazione non derivino danni ai soggetti, punto abbastanza evidenziato per le sperimentazioni è il consenso informato dei soggetti sperimentali: se i pazienti infatti nutrissero dubbi sulla natura dei trattamenti e sospettassero 2
B. HÄRING, Etica medica, Roma 1972, 340-341. Cfr l.c. 4 Cfr S. SPINSANTI, Etica bio-medica, cit., 148. 5 L.c. 3
L’etica del consenso nella sperimentazione clinica
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di essere trattati come cavie, sarebbe compromesso il rapporto di fiducia che fonda l’alleanza terapeutica. Non si può negare che questi codici deontologici, per un verso, hanno tutelato l’immagine sociale dei medici e, per l’altro, hanno aiutato la professione medica a sensibilizzare progressivamente la propria coscienza. I Comitati etici, avendo acquistato l’etica quale interlocutore con il quale la biomedicina deve confrontarsi, hanno la potenzialità sia di diventare aiuto per il ricercatore, assistendolo negli immancabili problemi etici che deve affrontare, e sia di dare un volto partecipativo alla medicina: sarà loro compito prioritario l’attenzione a ridurre le possibilità del paziente «cavia» e ad accrescere quelle del paziente «partner».
2. MODELLI ETICI DI RIFERIMENTO La biomedicina in campo di ricerca e di sperimentazione oggi si riferisce a diversi criteri e diversi modelli etici: manca una base di principi etici da tutti accettati come validi e indiscutibili. Mi limito a richiamarne appena tre. 1. L’autonomia e la libertà della scienza: questo modello «rivendica l’esigenza di favorire, per il bene stesso dell’umanità, tutto ciò che attiene al progresso della scienza e la necessità, intrinseca a questo progresso, di praticare la sperimentazione; pertanto si è portati a rifiutare una normativa estrinseca ed eteronoma rispetto alla ricerca stessa e all’autodisciplina dei ricercatori»6. 2. L’utilità sociale: si ritiene che per debellare le malattie e per migliorare le condizioni di salute non va frapposto nessuno ostacolo alla
6 E. SGRECCIA - A.G. SPAGNOLO, Ricerca e sperimentazione biologica, in Nuovo dizionario di teologia morale, Cinisello Balsamo 1990, 1107.
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Salvatore Consoli
sperimentazione. Si tratta di un modello che antepone chiaramente il bene sociale alla intangibilità della singola persona.7 3. Il modello personalista: rivendica il primato della persona sia nei confronti della libertà della ricerca sia nei confronti dell’utilità sociale. La persona, totalità di corpo e spirito, è un valore oggettivo e trascendente: è fondamentale il riconoscimento della dignità del soggetto umano e dell’intangibilità della vita in quanto elemento costitutivo della persona. La persona è il valore fondamentale che va chiaramente anteposto sia alla società che alla ricerca. Su questo modello, proprio della morale cattolica, sembra che si registri una convergenza dei grandi documenti della deontologia medica, particolarmente della Dichiarazione di Helsinki quando chiaramente afferma: «Gli interessi del soggetto devono passare avanti a quelli della scienza o della società»8.
3. PRINCIPI ETICI PER LA SPERIMENTAZIONE CLINICA Le nuove conquiste della medicina, alle quali tutti siamo interessati, dopo la sperimentazione sugli animali hanno quale passo obbligato la sperimentazione sull’uomo: bisogna evitare qualsiasi atteggiamento che possa diventare attentato allo «specifico» dell’uomo, smarrendo così la propria ragion d’essere, il servizio cioè della qualità umana della vita9. Innanzitutto mi piace richiamare due principi, la cui assenza inficerebbe certamente l’eticità della sperimentazione. 7
«Il fatto di liberare il genere umano dalla peste o da altre epidemie è senza dubbio importante, ma non al prezzo del decadimento della professione medica o attraverso la violazione della dignità della persona umana. Lo sfruttamento sperimentale della persona umana non può trovare nessun posto nella storia autentica del progresso per la libertà […] una lotta importante e pressante contro una malattia […] non potrà mai arrivare alla degradazione della persona umana» (B. HÄRING, Etica medica, cit., 346). 8 I, 5. 9 Cfr G. PERICO, La sperimentazione sull’uomo, in Aggiornamenti sociali 34 (1983) 651.
L’etica del consenso nella sperimentazione clinica
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1. Il rischio. Il rischio che la sperimentazione comporta non deve essere tale, né a livello quantitativo né a livello qualitativo, da coinvolgere i valori essenziali dell’uomo: l’etica chiede alla sperimentazione di restare sotto il primato dell’integrità sostanziale dell’uomo. «La ricerca scientifica, infatti, avendo come ragione d’essere il miglioramento e la protezione dell’uomo in tutte le sue espressioni specifiche dell’essere e dell’agire, non può essere di natura sua se non nella linea stessa dell’etica, che dei valori umani è appunto guida e tutela. In altre parole, potremmo dire che la dimensione scientifica, per rimanere autenticamente tale — cioè diretta al maggior bene dell’uomo —, deve necessariamente ricalcarsi sulla dimensione etica»10. Preciso il dettato della Dichiarazione di Helsinki: «L’esperimento non può essere tentato legittimamente se non quando l’importanza dello scopo da raggiungere è proporzionata al rischio che corre il soggetto»11. A tale scopo è doveroso attivare e mettere in correlazione il principio di beneficialità, il dovere cioè di massimilizzare i benefici e di minimizzare i danni e gli errori, e il principio di non-maleficenza, il dovere cioè di non arrecare danno. Oltre che per la biomedicina, lo stesso limite vale anche per il soggetto su cui si compie la sperimentazione: la persona umana non è titolare di un dominio assoluto sul proprio essere, e quindi sul proprio corpo e sulla propria mente, ma, avendo solo la facoltà di usufrutto e di saggia amministrazione, ha una disponibilità limitata che esclude qualsiasi tipo di manipolazione e di distruzione. «Anzi l’eventuale consenso del soggetto a una proposta sperimentale che comprometta la sua esistenza o una sua funzione vitale, non avrebbe alcun valore perché privo di ogni fondamento etico»12.
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Ibid., 658. I, 4. 12 G. PERICO, La sperimentazione sull’uomo, cit., 659. Per il «principio di totalità» un intervento su funzioni importanti è lecito se necessario per salvare tutto l’organismo: sacrificare una «parte» per il «tutto» non ha nulla a che fare con il problema della sperimentazione. 11
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Salvatore Consoli
2. La scientificità. Chiara in tal senso la Dichiarazione di Helsinki: «La ricerca biomedica su esseri umani deve essere conforme ai principi scientifici comunemente riconosciuti e deve essere basata su una sperimentazione realizzata in laboratorio e sopra l’animale eseguita in maniera adeguata, come pure sopra una conoscenza approfondita della letteratura scientifica»13. Non hanno, pertanto, alcun valore etico le sperimentazioni irrilevanti e inutili come quelle condotte per accumulare pubblicazioni ai fini della carriera. A modo di ricapitolazione leggiamo i seguenti brani di un discorso di Giovanni Paolo II indicativi dell’atteggiamento etico: «Certo, la conoscenza scientifica ha proprie leggi, alle quali attenersi. Essa tuttavia deve pure riconoscere, soprattutto in medicina, un limite invalicabile nel rispetto della persona e nella tutela del suo diritto a vivere in modo degno di un essere umano. Se un nuovo metodo di indagine, ad esempio, lede o rischia di ledere questo diritto, non è da considerare lecito solo perché accresce le nostre conoscenze. La scienza, infatti, non è il valore più alto, al quale tutti gli altri debbano essere subordinati. Più in alto, nella graduatoria dei valori, sta appunto il diritto personale dell’individuo alla vita fisica e spirituale, alla sua integrità psichica e funzionale. La persona, infatti, è misura e criterio di bontà o di colpa in ogni manifestazione umana. Il progresso scientifico, pertanto, non può pretendere di situarsi in una sorta di terreno neutro. La norma etica, fondata nel rispetto della dignità della persona, deve illuminare e disciplinare tanto la fase della ricerca quanto quella dell’applicazione dei risultati, in essa raggiunti […] La sperimentazione […] si giustifica in primis con l’interesse del singolo, non con quello della collettività […]»14
4. IL CONSENSO INFORMATO 4.1. Significato e ricchezza del consenso La sperimentazione per essere morale deve riconoscere e salvaguar13
I, 1. Ai partecipanti a due Congressi di medicina e chirurgia, 27 ottobre 1980, in D. TETTAMANZI (a cura), Chiesa e bioetica, Milano 1988, 81, 83. 14
L’etica del consenso nella sperimentazione clinica
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dare la dignità inalienabile della persona: è la considerazione dell’uomo come persona che dà senso ad un esperimento. Il rispetto della persona comporta che «un esperimento non può essere compiuto se la decisione non nasce dalla libera disposizione del soggetto»15: il requisito etico del consenso informato si fonda sulla dignità del paziente come persona. La dignità personale si esplica, infatti, quale capacità di autodeterminarsi nella realizzazione del progetto-vita: «Conviene notare che il destino personale suppone già una certa autonomia, consostanziale all’essere umano, che obbliga gli altri a non disporre mai di lui come semplice mezzo, perché ciascuno ha il proprio fine»16. Tra i requisiti etici per la sperimentazione clinica «va ricordata la indispensabilità del consenso, preceduto da opportuna informazione, o da parte del soggetto direttamente interessato o da parte di chi lo rappresenta giuridicamente. È, questa, una esigenza che discende dalla considerazione precedente: è il soggetto il vero ed esclusivo amministratore della propria vita e di ogni valore che con la vita si accompagna; nessuno può disporre di essi senza che egli sia previamente informato e ne dia facoltà»17. È particolarmente significativo che il Codice di Norimberga si apra affermando che «il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente necessario» e che la Dichiarazione di Helsinki insista che «in ogni caso di ricerca sull’uomo, l’eventuale soggetto verrà informato adeguatamente […] Il medico dovrà ottenere il consenso libero e informato del soggetto, preferibilmente per iscritto»18. «Prima di tutto bisogna ammettere che il medico […] non possa prendere alcuna misura, tentare alcun intervento senza il consenso del paziente»:19 è un’affermazione lapidaria di Pio XII sulla necessità del consenso. Giovanni Paolo II, parlando delle implicazioni della dignità della persona umana nella relazione tra medico e paziente, afferma: «È ovvio […] 15
M. VIDAL, L’atteggiamento morale. 2. Etica della persona, Assisi 1979, 275. M. CUYAS, Il consenso informato in medicina, in La Civiltà Cattolica 1993, II, 62. 17 G. PERICO, La sperimentazione sull’uomo, cit., 660. 18 I, 9. 19 Discorso al I Congresso internazionale di Istopatologia del sistema nervoso su “I limiti morali dei metodi medici di indagine e di cura”, 14 settembre 1952, in F. ANGELINI (a cura), Pio XII: discorsi ai medici, Roma 1960, 197. 16
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che il paziente debba essere informato della sperimentazione, del suo scopo e degli eventuali suoi rischi, in modo che egli possa dare o rifiutare il proprio consenso in piena consapevolezza e libertà. Il medico, infatti, ha sul paziente solo quel potere e quei diritti, che il paziente stesso gli conferisce»20. E, altrove, lo stesso Pontefice ribadisce che il paziente «è una persona responsabile, che deve essere chiamata a farsi compartecipe del miglioramento della propria salute e del raggiungimento della guarigione. Egli deve essere messo nella condizione di poter scegliere personalmente e di non dover subire decisioni e scelte di altri»21. Il Papa, ancora, mette in luce i valori di cui è ricco il consenso quando il paziente si assume la quota di rischio per contribuire al progresso e, quindi, al bene della comunità22 . Bisogna progredire verso una sperimentazione «non nell’uomo ma con l’uomo»23: ciò comporta, necessariamente, che il malato debba «partecipare attivamente, con una scelta responsabile ed autonoma al processo decisionale che il medico gli presenta e gli illustra»24; solo così si potrà realmente passare dalla prassi «paternalistica», che legittima ogni intervento professionale ordinato al bene del paziente, a quella «contrattuale», che privilegia la volontà e le scelte del paziente. Perché il consenso sia informato è necessaria l’offerta di informazioni: «L’informazione dovrà riguardare una breve descrizione della metodica indicata e delle alternative terapeutiche, le finalità, le possibilità di successo, i rischi, gli effetti collaterali»25. Il linguaggio deve essere tale da consentire al paziente di rendersi veramente conto e di poter scegliere: «È difficile esagerare l’importanza che rivestono, a questo fine, le qualità 20 Ai partecipanti a due Congressi di medicina e chirurgia, 27 ottobre 1980, in D. TETTAMANZI (a cura), Chiesa e bioetica, cit., 82-83. 21 Al Congresso mondiale dei medici cattolici, 3 otttobre 1982, in D. TETTAMANZI (a cura), Chiesa e bioetica, cit., 112. 22 Cfr Ai partecipanti a due Congressi di medicina e chirurgia, 27 ottobre 1980, in D. TETTAMANZI (a cura), Chiesa e bioetica, cit., 83. 23 C. GENTILI - G. ALVARO ET AL., Considerazioni etico-giuridiche sulla sperimentazione di farmaci nuovi nell’uomo, in Rassegna clinico-scientifica 48 (1972) 384. 24 A. FASOLI, Considerazioni sul “consenso informato” nella medicina pratica e nella sperimentazione clinica, in Medicina e Morale 35 (1985) 530. 25 G. RUSSO, Le nuove frontiere della bioetica clinica, Leumann (Torino) 1996, 206.
L’etica del consenso nella sperimentazione clinica
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pedagogiche del medico, cioè la sua capacità di servirsi del simbolismo culturale del paziente e di rendersi così capace di comunicargli le conoscenze che lo interessano […] l’informazione gli è dovuta proprio per salvaguardare la sua responsabilità nella decisione, giacché è degno dell’uomo solo ciò che aumenta le sue possibilità di realizzazione personale […]»26. La sostanza del consenso informato va salvaguardata anche nelle seguenti situazioni particolari: «Se il soggetto — per ragioni di diversa natura — non fosse in grado di capire esattamente ciò che gli viene proposto, potrà certamente essere aiutato e consigliato. Se poi è in condizioni di impossibilità totale di intendere e di volere, potrà essere “rappresentato” secondo le norme del diritto. Infine, nel caso di un soggetto malato, che non sia in condizioni di intendere e di volere e non abbia chi lo rappresenti, potrà lo stesso medico presumerne il consenso: purché la progettata sperimentazione sia nel maggior interesse del paziente. Anche in quest’ultimo caso, sarebbe sempre al soggetto, in un certo senso, che verrebbe riferita la decisione»27. Dati il profondo significato e la ricchezza di valori del consenso, il medico deve assolutamente evitare di ridurre ad un fatto semplicemente “burocratico” quello che è un valore antropologico e quindi etico, evitando, a tal fine, il ricorso indiscriminato a “moduli” sia per dare le informazioni sia per raccogliere il consenso.
4.2. Nella sperimentazione terapeutica Per la sperimentazione di nuovi farmaci e di nuove terapie nella cura immediata del paziente, oltre alla salvaguardia del principio supremo di ogni terapia — non danneggiare la salute del paziente —, è necessario che l’interessato dia il suo libero consenso, onde evitare il pericolo che venga usato come oggetto di sperimentazione.
26 27
M. CUYAS, Il consenso informato in medicina, cit., 65. G. PERICO, La sperimentazione sull’uomo, cit., 660.
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Quando i metodi collaudati non risultassero efficaci o si dubita che non lo saranno, il ricorso alla nuova terapia, che dovrà essere condotta da personale competente e coscienzioso, sarà giustificata in base al principio della necessaria proporzione tra risultato sperato e rischio di eventuali conseguenze dannose per il paziente: criterio fondamentale per la valutazione è il «maggior bene» del soggetto nelle condizioni in cui si trova. Il medico deve informare il paziente — o chi per lui — circa le possibilità e i rischi e può agire dietro il suo libero consenso. Alcuni fanno osservare come sia difficile, se non addirittura impossibile, giungere per diversi ostacoli ad un consenso veramente informato e libero di un uomo malato28. È ragionevole e doveroso, tuttavia, tendere al massimo concretamente possibile di volta in volta: il rispetto della dignità della persona del paziente esige che si faccia di tutto per renderlo consapevole e responsabile. In alcuni casi l’interesse stesso del paziente suggerisce un’informazione incompleta: «Ma anche un’informazione non completa può essere moralmente accettabile: purché il paziente sappia che si sta sperimentando un farmaco e che si intende scrupolosamente evitare ogni rischio serio»29. In merito al consenso la letteratura etica prevede una casistica variegata che mi limito a richiamare nei casi emblematici. 1. In assenza di altre alternative più sicure, quando il nuovo trattamento o il nuovo prodotto è quanto resta possibile nella lotta contro la malattia, «per quanto riguarda il consenso del malato, stanti la constatata inutilità di altre terapie e le buone prospettive del trattamento sperimentale, pensiamo che esso non debba ritenersi “necessario”, in quanto appunto è 28 C. GENTILI - G. ALVARO ET AL., Considerazioni etico-giuridiche sulla sperimentazione di farmaci nuovi nell’uomo, cit., fanno vedere come il consenso di un uomo malato «[…] non è né informato, né libero, né spontaneo, essendo questi attributi l’un l’altro interdipendenti e inficiati proprio dalla condizione dell’essere malato» (p. 383): anche se esagerati, gli argomenti evidenziano, tuttavia, la difficoltà per giungere ad un consenso autentico. 29 S. SPINSANTI, Etica bio-medica, cit.,156.
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tutto ciò che di meglio resta da fare nell’interesse del paziente. Potrà peraltro risultare opportuno informare il paziente — o chi per lui — sul nuovo sviluppo della cura»30. La giustificazione proviene dal fatto che si agisce «nell’interesse del paziente»31: mancando questa condizione indispensabile, qualunque sperimentazione non solo sarebbe illecita ma cesserebbe di essere terapeutica. 2. Quanto precede vale, a maggior ragione, nei casi di urgenza e di gravità: «In tal caso gli eventuali rischi della scelta del prodotto o del trattamento o dell’intervento sperimentale risultano certamente minori dei danni che determinerebbe un prolungamento dello stato di attesa. Anche in queste circostanze, dunque, la scelta sarebbe nella linea del maggior interesse del paziente»32. 3. Diverso è il caso in cui il medico o il ricercatore, pur disponendo di buoni farmaci e di buone terapie, sono interessati, a scopo scientifico, a provare su un determinato soggetto sostanze e trattamenti non del tutto conosciuti negli effetti: il paziente viene esposto a rischi non necessari per il piano di cura. A condizione, ovviamente, che il rischio sia di minime proporzioni e privo di incidenza sul decorso della malattia, il consenso in questo caso è obbligatorio: perché sia veramente responsabile, il soggetto deve essere informato sul significato, sul limite e sui rischi della sperimentazione.
4.3. Nella sperimentazione scientifica La sperimentazione non terapeutica su uomini sani o ammalati non viene effettuata nella prospettiva di un beneficio diretto degli interessati ma del progresso della biomedicina e, quindi, del benessere sociale. La giustificazione va cercata nel fatto che persona è un concetto sociale, nella sua definizione cioè entra il rapporto: l’uomo si realizza nell’incontro con gli 30
G. PERICO, La sperimentazione sull’uomo, cit., 661. Dichiarazione di Helsinki, Introduzione. 32 G. PERICO, La sperimentazione sull’uomo, cit., l.c. 31
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altri, nell’interdipendenza reciproca. Tutti gli uomini devono apportare il proprio contributo al bene comune dell’umanità: esiste il dovere di partecipare a lavori di ricerca utili al bene della comunità umana: «[…]il soggetto sano, rispondendo al dovere di collaborare con la comunità alla ricerca del “benessere generale”, può indubbiamente accettare una quota di rischi e di costi personali, purché non siano compromesse la sua vita e la sua integrità personale»33. È bene ribadire che «Finché il rischio rimane entro limiti prudenti, costituisce un importante e genuino servizio all’amore e alla solidarietà umana»34. Oltre alla condizione di non mettere a repentaglio il valore della vita o quello dell’integrità psicosomatica del soggetto e all’altra circa la proporzione tra il possibile danno prodotto dall’esperimento e il bene che se ne intende ricavare, è necessario il libero consenso del soggetto: «Il consenso illuminato da parte di volontari è assolutamente indispensabile. Costoro vanno informati sullo scopo e sul senso della ricerca e su tutti gli inconvenienti e rischi ragionevolmente prevedibili. Il consenso non va mai accettato prima che il volontario si sia consigliato con altri»35. Ampia e problematica la relativa casistica che mi limito a richiamare nei casi essenziali. 1. I ritardati mentali non vanno mai invitati a partecipare, proprio perché non sono in grado di dare il libero consenso. Per quanto riguarda il consenso di tutori o di parenti in caso di incapacità reale prevale la risposta negativa e ciò perché «La sperimentazione non-terapeutica, per definizione, non è nell’interesse del soggetto, ed è per ciò stesso aldilà dei limiti entro i quali tutori e parenti possono e debbono intervenire»36: sono da ritenersi moralmente inammissibili speri33
Ibid., 663. B. HÄRING, Etica medica, cit., 350. 35 B. HÄRING, Liberi e fedeli in Cristo, 3, Roma 1981, 106. Lo stesso Autore dice che «Coloro che si presentano come soggetti volontari dovrebbero essere incoraggiati a consultare prima il proprio medico o il padre spirituale»: Etica medica, cit., 352. 36 L. CICCONE, Salute & malattia. Questioni di morale della vita fisica, II, Milano 1986, 307. 34
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mentazioni non-terapeutiche su soggetti, anche solo di fatto, incapaci di un consenso personale veramente consapevole e libero. 2. Per quanto riguarda i minori il consenso è concepibile tra i 7 e i 12 anni: anche se non del tutto autonomo, è da considerare con quello dei genitori. Dopo i 7 anni va ricercato il consenso del bambino e dei genitori; dopo i 14 anni è prioritario il consenso dell’adolescente37. 3. I prigionieri di guerra e quelli politici non debbono mai diventare oggetto di ricerche non terapeutiche. Alcuni sono perplessi per quanto riguarda i detenuti, dato che la loro libertà è viziata in radice dalla condizione stessa di detenuto: il loro consenso potrebbe essere facilmente influenzato dalla speranza di vantaggi. 4. È illecita la sperimentazione non direttamente terapeutica sugli embrioni e feti umani sia nel seno materno che fuori di esso: «l’uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni persona»38. 5. Ha un grande valore la sperimentazione fatta su sé stessi: nella storia del progresso ha svolto un ruolo importante. Mi sembra molto saggia e illuminante la indicazione che dà il teologo moralista B. Häring: «Si può considerare un valido criterio quello di non invitare gli altri a collaborare, quando il ricercatore stesso non se la sentisse di sottoporsi all’esperimento o non si sognerebbe di esporvi i membri della propria famiglia o amici intimi»39; ci troviamo di fronte alla regola aurea della tradizione giudaicocristiana che prescrive di «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te».
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Cfr G. RUSSO, Le nuove frontiere della bioetica clinica, cit., 209. GIOVANNI PAOLO II, Lettera enc. Evangelium vitae, n. 63. 39 B. HÄRING, Etica medica, cit., 350. 38
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5. CONCLUSIONI 1. «La sperimentazione medica, con la sua inevitabile fascia di rischio, piccolo o grande, è indubbiamente uno degli elementi fondamentali cui la comunità deve ricorrere per riuscire, nelle sue ricerche, a ottenere quegli adeguati soccorsi che la popolazione inferma le chiede. Ne consegue che il cittadino, qualora se ne presenti l’opportunità, è invitato a offrire la propria quota personale di rischio sottoponendosi alla sperimentazione medica»40: la comunità ha bisogno che i singoli l’aiutino in questo compito; così il rischio sperimentale è giustificato e compensato dal vantaggio sociale a motivo della solidarietà che tutti ci lega. Giovanni Paolo II è chiaro: «Dare qualcosa di sé stessi, entro i limiti tracciati dalla norma morale, può costituire una testimonianza di carità altamente meritevole ed un’occasione di crescita spirituale così significativa da poter compensare il rischio di una eventuale minorazione fisica non sostanziale»41. Il consenso a fare da soggetto sperimentale non è, quindi, qualcosa solo da tollerare ma una scelta degna di ammirazione ed una luminosa testimonianza di solidarietà, particolarmente significativa nella nostra società contrassegnata da egoismo42. 2. La coscienza dello sperimentatore è fondamentale: gli interventi sull’uomo attingono il valore etico anche dalla intenzione per cui sono compiuti. La persona, secondo Tommaso d’Aquino, «è quanto di più nobile c’è in tutto l’universo creato»43, mai, quindi potrà essere usata come mezzo qualunque sia il fine che ci si propone: è fondamentale, pertanto, il posto che occupa la persona nella coscienza e, per conseguenza, nella intenzione finalizzante dello sperimentatore. Qualsiasi atteggiamento che offende la dignità umana rientra tra le cose che, secondo la seguente indicazione precisa e grave del Concilio Vaticano II, «[…] mentre guastano la civiltà umana, inquinano coloro che così si comportano ancor più che non quelli che le subiscono; e ledono grandemente l’onore del Creatore»44. 40
G. PERICO, La sperimentazione sull’uomo, cit., 657. Ai partecipanti a due Congressi di medicina e chirurgia, 27 ottobre 1980, in D. TETTAMANZI (a cura), Chiesa e bioetica, cit., 83. 42 Cfr L. CICCONE, Salute & malattia, cit., 301. 43 I, q. 29, a. 3. 44 Gaudium et spes, n. 27. 41
L’etica del consenso nella sperimentazione clinica
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3. Il numero enorme di novità farmaceutiche che invadono il mercato, e di cui solo una piccola parte ha valore di miglioramento terapeutico, pone con una certa urgenza il problema etico di un appello allo Stato perché difenda i cittadini dal rischio di essere sottoposti a sperimentazioni di farmaci inutili ed eviti, così, anche sperperi di denaro e di mezzi45. Lo Stato deve controllare attentamente e rigorosamente la sperimentazione per impedire che diventi fonte di guadagni e di prestigio ed evitare, al contempo, che i pazienti da beneficiari diventino cavie. 4. «La sperimentazione clinica, indiscutibilmente necessaria, deve essere condotta in modo da essere sperimentazione non “sull’uomo” ma “con l’uomo”. Cioè una sperimentazione i cui soggetti siano veri e propri collaboratori del medico ricercatore, con pari dignità e diritti»46: l’etica del consenso informato va capita in questo contesto e intende dare il proprio contributo per un cambiamento culturale in tale direzione.
45 46
Cfr L. CICCONE, Salute & malattia, cit., 289. Ibid., 317.
Synaxis XXI/1 (2003) 23-51
SONO FORSE IO RESPONSABILE DI MIO FRATELLO? DALLA PAURA ALLA PROSSIMITÀ
GIUSEPPE SCHILLACI*
1. PREMESSA L’attenzione che in vari ambiti del pensiero contemporaneo viene rivolta, ormai da tempo, alla tematica dell’alterità per l’eccessiva enfasi cui è sottoposta rischia di essere non solo inflazionata ma anche fraintesa al punto da perdere quella incidenza speculativa e pratica di cui è portatrice. Non è nostro intento fare un’analisi esaustiva sull’argomento, in questo breve contributo, ci siamo limitati soltanto a intendere l’alterità nell’orizzonte della intersoggettività. Il primato dell’altro così come viene fuori, per esempio nel modo di pensare di Levinas, mira a interpellare seriamente la natura e la condizione dell’identità personale. Per cui in questa prospettiva, quando si parla di alterità o di primato dell’altro, più che di una svalutazione dell’io e della sua identità si tratta invece di un tentativo di ri-pensare, di ridire altrimenti, la natura dell’uomo cogliendolo nella sua umanità la più essenziale. La domanda da cui trae origine questa nostra riflessione, pone, appunto per quanto detto, l’accento in modo enfatico sull’io. Domanda che è tratta esplicitamente dal libro della Genesi 4,9: «mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: ‘Dov’è Abele, tuo fratello? Egli rispose non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» Una risposta quella di Caino che mostra la mancanza di un’etica, cioè la mancanza di responsabilità. Levinas *
Docente di Filosofia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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in una intervista precisa che non bisogna prendere la risposta di Caino come se si prendesse gioco di Dio, o come se rispondesse da bambino «non sono io, è l’altro. La risposta di Caino è sincera. In essa manca solo l’etica; vi è solamente ontologia: io sono io e lui è lui. Noi siamo esseri ontologicamente separati»1.
2. USCIRE DALLA CONFLITTUALITÀ Senza voler ridurre il discorso e il problema dell’alterità, qui vogliamo tenere presenti due logiche, due prospettive, che si affrontano nel rapporto con l’altro. Prospettive antitetiche tra di loro. L’una mimeticosacrificale2, che porta a percepire l’altro come un modello o come un rivale, cioè come qualcuno da imitare o da distruggere nello stesso tempo. L’altra conduce, invece, verso l’altro con un atteggiamento di riconoscimento, che scorge l’altro proprio in quanto altro, lasciandolo essere nella sua unicità e nella sua originalità. La prima prospettiva possiamo rintracciarla in tutti quegli atteggiamenti dell’uomo o in tutte quelle culture umane dove la differenza viene compresa all’interno di una logica di violenza. Nella seconda prospettiva, invece, la differenza viene riconosciuta al di fuori di questa logica, cioè al di fuori della uniformità e dell’omologazione. La prima genera paura, la seconda libera dalla paura. Infatti l’uomo intrappolato in una mentalità, in una cultura, in un vissuto conflittuale mimetico viene ridotto a volontà di potenza, in cui il dominio, il possesso, si appropria del suo essere. L’uomo perde se stesso, per lasciar prevalere il puro desiderio di violenza, spesso dissimulato nel ricorso a motivazioni di carattere ideologico, religioso, morale o economico. Ritrovare se stessi, per essere se stessi può aver luogo nella misura in cui si vive oltrepassando la logica del dominio e del possesso, raggiungendo, così, il fine dell’essere non dell’avere. Il riconoscimento dell’altro e della differenza ci indica che il fine è accogliere, crescere e far crescere. Una relazione adulta e matura lascia l’altro essere se stesso. L’io è sempre più se stesso nella misura in cui lascia 1
E. LEVINAS, Tra noi, trad. it., Milano 1998, 145. Si veda in modo particolare su questo argomento il saggio di R. GIRARD, La violence et le sacré, Paris 1971. 2
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gli altri essere se stessi. Questa è la prospettiva del bene, della gratuità e del dono. Assumendo e vivendo questa logica di gratuità, che diventa stile di vita, usciamo dalla conflittualità. La riflessione che caratterizza il pensiero di H. Jonas3 porta l’impronta di una preoccupazione originata dal potere che l’uomo moderno, tecnologico, è venuto man mano acquistando. Il potere dell’uomo si fa sempre più sregolato al punto da minacciare la prosecuzione della vita sulla terra. Di fronte a un tale potere occorre ripensare il senso della responsabilità dell’uomo, oggi: «Al principio speranza contrapponiamo il principio responsabilità e non il principio paura. Ma la paura, ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo in questa sede perorarne ancora la causa, poiché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici»4. Tuttavia l’uomo, nonostante le notevoli potenzialità di cui è in possesso, soprattutto grazie alle conquiste tecniche, rimane pur sempre un essere limitato e mortale: «Ciò che non viene espresso, essendo per quei tempi scontato, è il sapere che l’uomo, malgrado tutta la grandezza della sua sconfinata inventiva, è ancor sempre piccolo se commisurato agli elementi; appunto questa circostanza rende così temerarie le sue irruzioni in essi e consente loro di tollerare la sua insolenza. Tutte le libertà che egli si prende con gli abitanti della terra, del mare e dell’aria lasciano pur sempre immodificata la natura che ingloba queste sfere e non ne intaccano le forze generatrici. Esse non vengono realmente danneggiate se dal loro grande regno egli se ne ritaglia uno piccolo tutto suo; durano da tempo, mentre le sue imprese hanno un corso di breve durata. Per quanto tormentata anno dopo anno dal suo aratro, la terra non ha età e non si lascia fiaccare; nella sua pazienza costante l’uomo può e deve aver fiducia ed è costretto ad adattarsi al suo ciclo. Altrettanto senza età è il mare. Nessuna rapina ai danni della sua prole può esaurirne la fecondità; nessuna traversata di navi può 3 Ci riferiamo, qui, in particolare — della varia produzione del pensatore tedesco — all’opera Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it., Torino 1993. 4 H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., 284. 5 Ibid., 5-6.
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nuocergli, nessuno scarico nelle sue profondità può contaminarlo. E per quanto l’uomo possa trovare rimedio a molte malattie, la mortalità stessa non si piega alla sua astuzia»5. Il principio responsabilità, secondo questa lettura, si delinea essenzialmente soprattutto nei confronti delle generazioni future recuperando una dimensione più umana dell’esistenza e della vita, attraverso la ricerca di una fondazione metafisica6. Ora, per ciò che concerne il nostro discorso, il problema è stabilire, delimitare, gli ambiti della responsabilità. Perché non si resti vincolati ad una sorta di responsabilità astratta, distante, indefinita, assente, bisogna situarla, collocarla. Questa sembra essere, per esempio la preoccupazione di D. Bonhoeffer, il quale con una serie di domande, che estrapoliamo letteralmente dalla sua opera Etica, si muove lungo la linea di una responsabilità concreta: «La responsabilità mi colloca in un campo operativo illimitato o mi vincola saldamente ai limiti posti dai miei concreti compiti quotidiani? Di che mi debbo sentire autenticamente responsabile e di che no? Ha senso considerarmi responsabile di tutto ciò che avviene nel mondo, o posso guardare ai grandi eventi del mondo come spettatore indifferente, solo che il mio angoletto sia in ordine? Devo consumarmi in uno zelo impotente contro tutte le ingiustizie e la miseria esistenti nel mondo, o posso abbandonare il mondo malvagio al suo corso, sicuro e soddisfatto di me, fintanto che non posso operare alcun cambiamento al riguardo e ho fatto la mia parte? Qual è il luogo e quali sono i limiti della mia responsabilità»7.
3. L’UNO CONTRO L’ALTRO: LA VITA MINACCIATA Se rimanessimo nella prospettiva mimetico-sacrificale non ci sarebbe modalità diversa di cogliere e vivere la relazione con l’altro se non in un clima vitale e culturale di contrapposizione: l’uno si definisce contro l’altro. L’altro viene percepito come un nemico, come una minaccia. 6 La fondazione metafisica va intesa, qui, nel senso della ricerca di un principio. Il principio che si evince dalla nota questione leibniziana: perché esiste qualcosa e non il nulla? Da cui scaturisce la priorità dell’essere sul nulla. 7 D. BONHOEFFER, Etica, trad. it., Brescia 1995, 252. 8 H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., 34-35.
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a) La minaccia tuttavia, in una prima accezione, è vista da Jonas come la possibilità di una salvaguardia reale della identità dell’uomo. Per entrare in contatto reale con l’identità dell’uomo abbiamo bisogno della minaccia: «come non conosceremmo la sacralità della vita se non esistesse l’omicidio e se il comandamento ‘Non uccidere!’ non la evidenziasse, o non conosceremmo il valore della veridicità se non ci fosse la menzogna né la libertà se non ci fosse la schiavitù e così via, così anche nel nostro caso riguardante la ricerca di un’etica della responsabilità a lunga portata che nessuna trasgressione attuale ha già evidenziato nella realtà, soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a formulare il relativo concetto di umanità da salvaguardare; abbiamo bisogno della minaccia dell’identità umana — e di forme assolutamente specifiche di minaccia — per accertarci angosciati della reale identità dell’uomo. Finché il pericolo è sconosciuto, non si sa che cosa ci sia da salvaguardare e perché»8. In questo quadro di riferimento si capisce perché Hobbes assuma la minaccia, come principio, come punto di partenza della morale, «anziché l’amore verso un summum bonum, il timore di un summum malum, ossia la paura della morte violenta. Quest’ultima è ben nota, costantemente vicina e suscita il timore estremo come la reazione più incontrollata e ineluttabile dell’istinto di autoconservazione innato nella nostra natura. Il destino previsto di generazioni future, per tacere poi di quello del pianeta, che non riguarda né me né alcun altro che mi sia legato dal vincolo dell’amore o della convivenza diretta, non esercita di per se stesso quell’influenza sul nostro animo; eppure la ‘deve’ esercitare, ovvero noi gliela dobbiamo accordare. Non può trattarsi qui, come per Hobbes, del timore (per dirla con Kant) di tipo ‘patologico’ che ci assale incontrollabilmente dinanzi al suo oggetto, ma di un timore di genere intellettuale che è opera nostra in quanto conseguenza di un atteggiamento»9. Per cui, secondo Jonas, se vogliamo ancora riservare un futuro al pianeta e all’umanità occorre prestare più attenzione alle profezie di sventura che alle profezie di salvezza. In questo orizzonte di senso, la paura è pensata come costitutiva della responsabilità: «Quando parliamo della paura che per natura fa parte della responsabilità, non intendiamo la paura 9
Ibid., 36. Ibid., 285.
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che dissuade dall’azione, ma quella che esorta a compierla; intendiamo la paura per l’oggetto della responsabilità. […]. La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando ‘apprensione’ nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell’essere. Ma la paura è già racchiusa potenzialmente nella questione originaria da cui ci si può immaginare scaturisca ogni responsabilità attiva: che cosa capiterà a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui?»10. Questa paura è intesa come un dovere in vista della responsabilità, quindi, di un’apertura verso l’altro. Questa paura non è lo sgomento, non è la paura per se stessi. La paura come una necessità, così sembra intenderla Jonas, in vista di una tutela dell’integrità dell’uomo: «si dovranno apprendere nuovamente il rispetto e l’orrore per tutelarci dagli sbandamenti del nostro potere (ad esempio dagli esperimenti sulla natura umana). Il paradosso della nostra situazione consiste nella necessità di recuperare dall’orrore il rispetto perduto, dalla previsione del negativo il positivo: il rispetto per ciò che l’uomo era ed è, dall’orrore dinanzi a ciò che potrebbe diventare, dinanzi a quella possibilità che ci si svela inesorabile non appena cerchiamo di prevedere il futuro»11. b) La minaccia, in una seconda accezione, è invece vista come causa scatenante la paura. Dalla minaccia per la mia vita nasce il sentimento della paura. Pensiamo, per esempio alla paura che abbiamo dinanzi ad un qualsiasi evento che mette in pericolo la nostra vita, oppure a quella paura che nasce nei confronti dei diversi, di quelli che ci criticano, di coloro che 11 Ibid., 286. Per tutelare l’integrità dell’uomo, Jonas suggerisce, a conclusione del suo saggio, la previsione del negativo che nutra però un atteggiamento di rispetto per il presente come senso di responsabilità per il futuro dell’uomo: «Un’eredità degradata coinvolgerebbe nel degrado anche gli eredi. La tutela dell’eredità nella pretesa ‘integrità dell’uomo e quindi, in senso negativo, anche la salvaguardia del degrado, deve esser l’impegno di ogni momento: non concedersi nessuna pausa in quest’opera di tutela costituisce la migliore garanzia della stabilità, essendo, se non l’assicurazione, certo il presupposto anche dell’integrità futura dell’identità umana. La sua integrità non è altro che l’apertura verso quella sempre smisurata pretesa — che induce all’umiltà —, rivolta al suo portatore strutturalmente inadeguato. Conservare intatta quell’eredità attraverso i pericoli dei tempi, anzi, contro l’agire stesso dell’uomo, non è un fine utopico, ma il fine, non poi così modesto, della responsabilità per il futuro dell’uomo»: ibid., 286-287. 12 J. VANIER, Abbracciamo la nostra umanità, trad. it., Bologna 1999, 62-63.
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ci mettono in discussione. Quella paura che ci impedisce di crescere, di cambiare, di scoprire cose diverse, di aprirci agli altri. In tal senso, sarebbe, forse, più opportuno parlare di paure piuttosto che di paura. La paura che qui desideriamo evidenziare si dispiega nella relazione intersoggettiva. In ogni modo, parliamo di quella paura che blocca, che paralizza. Quella paura che cerca sempre un colpevole. Poiché manchiamo di sicurezza interiore, poiché siamo incapaci di addossarci e riconoscere i nostri errori, ricerchiamo e troviamo un capro espiatorio per accusarlo del male che ci capita. È il nemico, il malvagio, il cattivo, la causa di tutte le sventure e, di conseguenza, le nostre. Quella paura che provoca odio, che mette in atteggiamento di difesa ed è fonte di conflitti. Quella paura che, per tanto, ci fa pensare e incontrare l’uomo in termini conflittuali. Quella paura che ci fa immaginare l’uomo nella contrapposizione dell’uno contro l’altro. Le immagini che balenano immediatamente sono quelle dei campi di concentramento, dei lager, dei gulag, di ogni tempo: «La paura di chi minaccia l’ordine stabilito è sempre esistita. Le persone che sono al potere, che ne ricevono dei privilegi, che hanno bisogno di controllare tutto e di sentirsi superiori agli altri, sono quelle che temono maggiormente i dissidenti. Dal tempo in cui i capi — quasi sempre i re — erano considerati rappresentanti di Dio sulla terra, garanti della verità, della religione e della morale, chi si ribellava contro di loro veniva bollato come inviato dal diavolo. Se lo status quo era opera di Dio, chiunque si sollevasse contro questo status quo si sollevava contro Dio e l’ordine naturale. L’affermazione ‘Dio è con noi’ è sempre stata usata per giustificare la tortura e i delitti commessi a nome della cosiddetta verità»12. La conseguenza è una concezione distorta dell’autorità non concepita come servizio, non accolta come un compito donato: «Generalmente i capi credono di essere nel giusto. Se sono riusciti a ritrovarsi in cima alla scala, per definizione, secondo la legge della selezione naturale, i comportamenti e le motivazioni che li hanno portati lassù si legalizzano da soli. Ecco perché ai potenti sembra naturale cercare di reprimere e di escludere quelli che si oppongono a loro. Chi critica l’autorità crea disordine e contrasta l’ordine stabilito. È importante per chi occupa un posto di responsabilità o per un capo ascoltare quelli che hanno opinioni diverse, cercare di comprenderli e 13
Ibid., 63-64.
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di cogliere la parte di verità che in essi risiede. La storia ci dimostra almeno una cosa: l’esercizio del potere ci è dato in prestito. Non lo si possiede. Ciò significa che, nelle democrazie occidentali, quelli che sono al potere devono riconoscere la natura temporanea del loro mandato e accettare quanto c’è di valido nel pensiero dei loro oppositori. Questo dimostra l’importanza di esercitare l’autorità con spirito di umiltà, di servizio della giustizia e del bene comune»13. Abitualmente l’uomo preferisce stare con l’altro uomo che ha le sue stesse idee, la sua stessa cultura, gli stessi suoi interessi. Si lavora più facilmente insieme; ci si sente più sicuri. Chi è diverso da fastidio, inquieta. Qualcuno di noi può trovare interessante aprirsi all’altro, anche stimolante, aprisi alla sua cultura, ai suoi usi, alla sua religione, ma aprirci realmente cioè permettergli di diventare nostro amico è altra cosa. «Quando la nostra vita è basata sui valori del sapere, del potere e del riconoscimento sociale, è difficile per noi accettare quelli che hanno valori diversi, perché non ci sentiamo più stabili. Le stimmate sociali impresse sulle persone che hanno un handicap mentale sono profonde. Esiste sempre un interrogativo, anche se implicito: se qualcuno non riesce a raggiungere un’autonomia totale e vivere secondo i valori della società è da considerarsi un essere umano?»14. Noi tendiamo a pensare che essere umani consista nella capacità di acquisire conoscenze, potere e uno stato sociale riconosciuto. Abbiamo dimenticato il cuore, come se fosse soltanto simbolo di debolezza, sede di sentimentalismo e di emozioni soggettive, invece di considerarlo una sorgente di vita, una forza che può infrangere il nostro egocentrismo, aiutarci a crescere, aprirci agli altri e rivelarci la bellezza fondamentale dell’umanità. La paura di sbagliare ci viene inculcata sin da piccoli, con il sentimento di essere incapaci e quindi di non essere apprezzati dagli altri. Dobbiamo avere successo, dimostrare come siamo bravi e soprattutto avere ragione. Il desiderio di avere successo di per sé è valido, come il desiderio di piacere, di essere apprezzati, ma non tutti possono avere successo, non tutti sono apprezzati, non tutti piacciono… «Non tutti possono vincere al 14 15
Ibid., 65. Ibid., 66.
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medesimo concorso; parecchi, spesso i più falliscono. Un fallimento può ferire una persona. Questo bisogno di avere successo, unito alla paura di cadere nel vuoto, nell’angoscia, di essere tagliato fuori dagli altri, può spingerci a cercare unicamente la compagnia di quelli che ci amano, ci ammirano, ci adulano e ci rassicurano. E naturalmente, gli altri fanno lo stesso gioco […]. La paura dell’insuccesso, quella di non poter entrare in relazione con un’altra persona, di non sapere affrontare una situazione insolita, è all’origine di questa paura del ‘diverso’, dello ‘straniero’, di colui che ci fa penetrare in un mondo nuovo»15. L’ingresso in questo nuovo mondo crea nella persona insicurezza, e si scopre vulnerabile. Non siamo noi a controllare, il dover condividere con un altro diverso da noi, ci mette nella condizione di dover perdere qualcosa. «Per vivere serenamente, abbiamo bisogno di una certa sicurezza. La troviamo nel nostro stile di vita, nella presenza e nel conforto della nostra famiglia e di nostri amici, nei nostri luoghi di lavoro e nelle nostre abitudini. Ecco perché l’inatteso provoca la crisi. Ci sentiamo perduti. È difficile abbandonare la propria routine e la propria sicurezza per avventurarsi nell’ignoto e nell’insicurezza. Per poter vivere questa esperienza, occorre una forza nuova. È facile dare da mangiare a un mendicante che bussa alla nostra porta. Ma che fare se egli ritorna regolarmente e noi cominciamo a diventare amici? Che fare se, per di più, porta con sé i suoi amici? Noi ci sentiamo perduti e insicuri. È come se ci avessero mandato a navigare senza bussola o si ci fossimo smarriti in una terra sconosciuta, senza una carta geografica o una mappa! Abbiamo paura, perché il mendicante sembra chiamarci a un cambiamento di vita»16. La paura della diversità, dell’insuccesso, del fallimento, dello scacco e la paura della morte, di ciò che è brutto, hanno origine nella nostra infanzia. La paura del bambino è quella «di essere considerato cattivo, colpevole e di non corrispondere alle aspettative dei nostri genitori. Questi possono far sentire ai loro bambini che essi devono meritare il loro amore, che risulta essere la ricompensa di un buon comportamento. Così i bambini hanno l’impressione di dover obbedire alle norme fissate dai genitori, e meritarne l’amore. Pensano di dover dimostrare quanto valgono; altrimenti 16 17
Ibid., 67. Ibid., 68.
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temono di non esistere»17. Il rapporto genitori figli quanto più si sviluppa in un clima di dialogo intenso e sincero tanto più lascia affiorare il valore unico di ciascuna persona che purtroppo non sempre è riconosciuta nella sua originalità. Il filosofo ebreo Martin Buber, sottolineando l’unicità e l’originalità di ogni uomo, afferma che: «Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di nuovo che non è mai esistito, qualcosa di primo e nuovo. ‘Ciascuno in Israele ha l’obbligo di riconoscere e considerare che lui è unico al mondo nel suo genere, e che al mondo non è mai esistito nessun uomo identico a lui: se infatti fosse già esistito al mondo un uomo identico a lui, egli non avrebbe motivo di essere al mondo. Ogni singolo uomo è una cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura in questo mondo. Perché, in verità, che questo non accada è ciò che ritarda la venuta del Messia’. Ciascuno è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro — fosse pure la persona più grande — ha già realizzato»18. È proprio questa qualità unica ed eccezionale che ciascuno è chiamato a sviluppare e a mettere in pratica. L’essere persona è unicità e irripetibilità: «la persona è ciò che non si ripete, anche se l’aspetto e i gesti degli uomini, ricadendo sempre nel generico, si copiano vicendevolmente e senza posa alla superficie. Ma la ricerca dell’originalità appare sempre come un prodotto secondario, per non dire un sottoprodotto dalla vita personale. L’eroe in piena battaglia, l’amante al momento di concedersi, il creatore ossessionato dalla sua opera, il santo esaltato dall’amore del suo Dio, nei momenti in cui toccano l’acme della vita personale, non cercano di differenziarsi, di singolarizzarsi; il loro sguardo non è volto alla forma del proprio agire, ma tutto intero con loro, proteso fuori da loro stessi, giacché essi sono troppo posseduti da ciò che sono per poter esaminare come sono»19 Il pensiero occidentale ha privilegiato l’identità, l’appropriazione di 18
M. BUBER, Il cammino dell’uomo, trad. it., Magnano 1990, 27. E. MONIER, Il personalismo, trad. it., Roma 1987, 76. L’autore mette in guardia dal porre un’eccessiva fiducia sul carattere eccezionale della persona: «bisogna guardarsi dal ritenere che il culmine della vita personale sia la eccezione che, sola, sa raggiungere, come per bravura, una vetta inaccessibile. Il personalismo non è un’etica per ‘i grandi uomini’, un nuovo tipo di aristocrazia, che sceglierebbe gli individui più eccezionali dal punto di vista psicologico o spirituale, per farne i capi alteri e solitari dell’umanità»: l. c. 20 C. DI SANTE, L’io ospitale, Roma 2001, 17-18. 19
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ciò è che altro, il dominio del se medesimo sull’altro. Un cammino, quello dell’occidente, che ha privilegiato il pensiero della morte in quanto si è definito l’essere umano per la sua condizione di morte. Un io che si impossessa, che si autocostituisce come io, ma che è destinato ad annientarsi, a sparire. Da qui l’angoscia della sparizione nel nulla che genera la paura. «Pensiero della morte, il pensiero occidentale, da Parmenide in poi, è e vuole essere il rimedio all’angoscia della sparizione causata dalla morte, andando alla ricerca di ciò che sempre è e permane e, sottratto a mutamento e alla morte, non genera l’angoscia: l’essere, l’Essenza, la Sostanza, l’Universale, la Verità, il Fondamento, il Tutto»20. Così il pensiero occidentale si costruisce come filosofia della morte; F. Rosenzweig mostra come questo pensiero si afferma come pensiero omologante nel Tutto che mira ad annullare ogni alterità: «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò che è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia. Tutto quanto è mortale vive in questa paura della morte, ogni nuova nascita aggiunge nuovo motivo di paura perché accresce il numero di ciò che deve morire. Senza posa il grembo instancabile della terra partorisce il nuovo e ciascuno è indefettibilmente votato alla morte, ciascuno attende con timore e tremore il giorno del suo viaggio nelle tenebre»21. Bisogna spostare l’attenzione dall’io all’altro, da una logica che privilegia la preoccupazione di sé, della propria morte, ad una logica che privilegia la nascita, la vita, cioè che privilegia l’altro. Si opera uno spostamento dall’io chiuso in se stesso all’altro, dalla paura alla fiducia: «Chi nasce non si mette al mondo da solo ma viene messo al mondo da altri; meglio: da quell’altra unica e irripetibile, con quel nome e cognome, con quella storia di vita nella sua estrema singolarità; e c’è questa prima costitutiva relazione, che è condizione della dicibilità del soggetto nella sua concretezza»22. Tutto questo non ci esime dal constatare che «siamo stati amati tutti in modo imperfetto. È una della cause principali della nostra 21 22
1995, 23.
F. ROSENZWEIG, La stella della redenzione, trad. it., Casale Monferrato 1985, 3. A. CAVARERO, Politica e violenza. La radice greca, in Quaderni di S. Apollinare,
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mancanza di fiducia in noi stessi e negli altri e della nostra tendenza a rimanere in gruppi chiusi ed elitari. Quando scopro di essere amato e accettato in quanto persona, con le mie forze e le mie debolezze, quando scopro di portare dentro di me un segreto, un valore unico, allora posso aprirmi agli altri e rispettare il segreto nascosto dentro di loro. Quando comincio ad accettare quelle parti del mio essere che avevo respinto, la mia paura degli altri diminuisce; a poco a poco, ho il coraggio di accettarla negli amici, nei fratelli, nelle sorelle. Ognuno di noi ha un cuore vulnerabile che chiede soltanto di essere amato e apprezzato. Poiché abbiamo tutti delle ferite, rischiamo di non credere più nel nostro segreto più profondo. Per sviluppare i nostri doni e crescere verso una maggiore libertà interiore, abbiamo tutti bisogno che il nostro valore unico e segreto sia riconosciuto. Ciascun essere umano, per quanto piccolo e fragile sia, ha qualcosa di unico da donare all’umanità. Nel nostro meraviglioso universo ci sono il sole e le stelle, ma esiste anche una moltitudine di minuscoli animali e di piccole piante, importanti per la loro bellezza, le loro proprietà medicinali, la loro capacità di dare vita. Ciascuna parte del nostro corpo, per quanto piccola, ha la sua importanza e compie una funzione per mantenerci in buona salute. Allo stesso modo, ogni persona, grande o piccola, ha un ruolo da svolgere nel nostro mondo. Noi cominciamo a cambiare quando decidiamo di conoscerci l’un l’altro, di ascoltare la storia di ciascuno. Allora, non giudicheremo più l’altro secondo criteri di sapienza o di potere, o secondo al gruppo al quale appartiene, ma in base a questi incontri personali e profondi. Passeremo gradatamente dall’esclusione all’inclusione, dalla paura alla fiducia, dalla chiusura all’apertura, dai pregiudizi e dai giudizi alla comprensione e al perdono. È un moto del cuore. Ci scopriamo fratelli e sorelle in umanità. Non siamo più dominati dalla paura, ma dalla consapevolezza di quanto sia importante e prezioso l’altro, chiunque esso sia»23.
4. L’UNO CON L’ALTRO: METTERSI ACCANTO Da una prospettiva in cui si vede l’altro come una minaccia, che porta l’uomo a definirsi contro, cioè nella contrapposizione, passiamo alla 23
J. VANIER, Abbracciamo la nostra umanità, cit., 69-70.
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prospettiva che conduce l’uomo ad avvicinarsi all’altro, in cui l’altro non fa più paura, per cui non ci si sente più minacciati, giudicati. Pertanto vogliamo, adesso, prendere in considerazione la comunione con l’altro, la compagnia con l’altro. Si può stare accanto all’altro, vivere accanto, assumendo una prospettiva e un atteggiamento nei confronti dell’altro non conflittuali. Prospettiva e atteggiamento che vedono nell’altro una risorsa, un amico, un maestro. Viviamo e lavoriamo in mezzo agli altri, ma non sempre ci accorgiamo di quanta ricchezza c’è negli altri, di quanto forza evocatrice emerge dalla loro vita. Pensiamo, per un istante ai discepoli di Emmaus, così come ce li presenta il Vangelo di Luca nell’ultimo capitolo (Lc 24,13-35). Costoro erano in viaggio verso il villaggio di Emmaus, a un certo punto gli si accosta, facendosi vicino, interrogandoli, in questo viaggio, qualcuno: da essi considerato un forestiero. Infatti uno dei due gli si rivolge così: «Tu solo sei cosi forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?» (Lc 24, 18). Possiamo vivere la nostra esistenza come un pellegrinaggio che lungo il cammino riesce a scorgere e a riconoscere la presenza degli altri, oppure vivere lasciandoci dominare dalla preoccupazione per noi stessi: angosciati, tristi, chiusi in noi stessi. La delusione può, per le circostanze che attanagliano la nostra vita, impedire di accorgerci degli altri che ci stanno accanto. Così preoccupati di noi stessi, che non riusciamo più a vedere oltre, fino al punto da non riuscire più a nutrire alcuna speranza. I discepoli in questione, non riconoscono questa presenza, questo compagno di strada per loro è un estraneo, un forestiero. «Questo ci rimanda a qualcosa di più sconcertante ancora, ma di fondamentale per la fede cristiana: Dio resta lo sconosciuto, colui che non conosciamo, pur credendo in lui; egli rimane l’estraneo per noi, nello spessore dell’esperienza umana e delle nostre relazioni. Ma egli è altresì misconosciuto, colui che non vogliamo riconoscere e che, come dice Giovanni, non è ‘accolto’ in casa propria, dai suoi (cfr Gv 1,11). Ed è su questo, alla fine, che saremo giudicati, questo è l’esame definitivo della vera vita cristiana: abbiamo accolto l’estraneo, frequentato il prigioniero, dato ospitalità all’altro (cfr Mt 25,3536)? Bisogna essere realisti. La chiesa è una società. Ora, ogni società si definisce per ciò che esclude. Si costituisce differenziandosi. Formare un gruppo significa creare degli estranei. C’è qui una struttura bipolare,
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essenziale a ogni società: essa pone un ‘di fuori’ perché esista un ‘fra noi’, delle frontiere perché si delinei un paese interno, degli ‘altri’ perché prende corpo un ‘noi’. Questa legge è anche un principio di eliminazione e di intolleranza. Essa porta a dominare, in nome di una verità definita dal gruppo. Per difendersi dall’estraneo, lo si assorbe oppure lo si isola. Conquistar y pacificar: due termini identici per gli antichi conquistadores spagnoli. Ma noi non facciamo forse altrettanto, sia pure con la pretesa di comprendere gli altri e, nel campo dell’etnologia per esempio, di identificarli con ciò che sappiamo di loro e (pensiamo) meglio di loro? […] È possibile una società che testimoni Dio e non si limiti a fare di Dio il proprio possesso?»24. Il cristiano, come apostolo e missionario se vive con verità queste dimensioni, non ha lo scopo di conquistare, di dominare e di controllare, «bensì di riconoscere Dio là dove, finora non era percepito. Il partire per il deserto, o verso terre straniere era, un tempo, un fuggire dalle città cristiane dove la fede rischiava di rinchiudersi su se stessa, comodamente seduta su certi poteri e certi sistemi; è l’inizio di un viaggio verso paesi, linguaggi e culture in cui Dio parla una lingua non ancora decodificata e non registrata. Il partire destina il pellegrino alla sorpresa. Traduce, geograficamente e socialmente, la certezza che Dio è l’incomprensibile senza il quale, tuttavia, è impossibile essere cristiani e uomini. Una solidarietà della fede lega a questo sconosciuto. Questo estraneo non cessa di essere (nel senso amoroso del termine) colui che manca ai cristiani. Lo stesso avviene per l’esperienza spirituale. Una tradizione, fra le tante, lo mostra: la xeniteìa, ‘lo sradicamento’. Questo movimento che consiste nel partire per altrove, come Abramo, ‘senza sapere dove (Eb 11,8), per udire in terra sconosciuta la parola umana di Dio, oppure nello sperare da altrove il suo volto d’uomo in una storia sempre sorprendente, è anche il movimento interno all’avventura religiosa. È il modo dell’incontro»25. L’incontro autentico dell’io con un tu, con l’altro, non limita l’uomo oppure lo minaccia, ma lo espande. L’uomo è condotto a conoscere meglio se stesso incontrando veramente gli altri. Il mio essere è un essere con: «Secondo l’esperienza interiore, la persona ci appare poi come una presenza volta al mondo e alle altre persone, senza limiti, confusa con loro in una 24 25
M. DE CERTEAU, Mai senza l’altro, trad. it., Magnano, 1993, 12-13. Ibid., 14-15.
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prospettiva di universalità. Le altre persone non la limitano, ma anzi le permettono di essere e di svilupparsi; essa non esiste se non in quanto diretta verso gli altri, non si conosce che attraverso gli altri, si ritrova soltanto negli altri. La prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona: il tu, e quindi il noi, viene prima dell’io, o per lo meno l’accompagna. È nella natura materiale (alla quale parzialmente noi siamo sottomessi) che regna l’esclusione, in quanto uno spazio non può essere occupato due volte; la persona, invece, attraverso il movimento che la fa esistere, si espone, cosicché è per natura comunicabile, ed anzi la sola ad esserlo. È da questo fatto primitivo che bisogna partire: come il filosofo che si chiude nel pensiero non troverà mai un’apertura verso l’essere, così colui che si rinchiude nell’io non troverà mai una via verso gli altri. Quando la comunicazione si allenta o si corrompe, io perdo profondamente me stesso: ogni follia è uno scacco al rapporto con gli altri: l’alter diventa alienus, ed io a mia volta divento estraneo a me stesso, alienato. Si potrebbe quasi dire che io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri, e, al limite, che essere significa amare»26. L’incontro originario essenziale, fondante, potremmo dire archetipo, avviene in Gesù Cristo. In lui avviene l’incontro tra Dio e l’uomo. L’incontro autentico, implicitamente o esplicitamente, con l’uomo e con Dio accade in Gesù Cristo. Gesù Cristo è la chiave di comprensione di ogni incontro. Egli è l’ermeneuta che ci introduce a un riconoscimento autentico di chi ci sta accanto: «In lui si verifica l’incontro originario e essenziale con l’uomo e con Dio. D’ora in poi l’uomo non può più essere pensato e riconosciuto se non in Gesù Cristo e Dio non lo può se non nella figura umana di Gesù Cristo. In lui vediamo l’umanità come assunta, sostenuta, amata e riconciliata con Dio. In lui vediamo Dio nella figura del più povero dei nostri fratelli. Non esiste un uomo in sé, così come non esiste un Dio in sé; l’uno e l’altro sono astrazioni vuote. L’uomo è assunto nell’essersi fatto uomo [di Dio], è amato, giudicato e riconciliato in Cristo; Dio è colui che si è fatto uomo. Né esiste alcun rapporto con l’uomo senza rapporto con Dio e viceversa. Ancora una volta solo il rapporto con Gesù Cristo fonda il nostro rapporto con gli uomini e con Dio. Come Gesù Cristo è la nostra vita, così ora — in virtù sua! — possiamo anche dire che l’altro uomo e che Dio 26
E. MONIER, Il personalismo, cit., 46-47.
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sono la nostra vita, e questo significa che il nostro incontro con l’altro uomo così come il nostro incontro con Dio stanno sotto il medesimo sì e no, sotto cui sta il nostro incontro con Gesù. Noi ‘viviamo’ in quanto nel nostro incontro con gli uomini e con Dio il sì e il no si congiungono in una unità contraddittoria, in un’affermazione di sé, libera dal proprio sé nell’affermazione di sé fatta del dono di sé a Dio e agli uomini»27. Gesù in persona si mette accanto all’uomo. Il dinamismo dell’incarnazione ci rivela cosa significhi mettersi accanto: l’Emmanuele è il Dio con noi. In Gesù Cristo Dio si fa compagno di strada dell’uomo, di ogni uomo. Da questo fondamento scaturisce la possibilità di non vedere l’altro come una minaccia, come un nemico, ma come un compagno di strada. Ci si accorge della presenza degli altri nella prospettiva della condivisione e della responsabilità. L’incarnazione ci pone nella condizione di essere con. Questa è la realtà — «la realtà più originaria» secondo Bonhoeffer — da cui scaturisce il bene: «è la realtà del Dio fatto uomo. Tutto il fattuale trova in questa realtà il suo ultimo fondamento e il suo ultimo superamento, ha in essa la sua ultima giustificazione e la sua ultima confutazione. Perché Dio diventa uomo e solo per questo l’uomo e il suo mondo sono assunti e approvati. L’approvazione dell’uomo avviene sulla base della sua assunzione e non viceversa. In questo modo però essa avviene realmente. Dio non ha assunto l’uomo e non è divenuto uomo perché questi fosse 27
D. BONHOEFFER, Etica, cit., 221. Bonhoeffer iscrive queste riflessioni in senso alla questione della natura del Bene, che non si preoccupa di definire con una serie di concetti, relegandolo in una astrazione, ma scorgendolo come essenzialmente legato alla vita, anzi come la vita stessa: «non si tratta in ogni caso di una astrazione della vita, quindi ad esempio della realizzazione di determinati valori o ideali indipendenti della vita, bensì della vita stessa. La vita buona per quel che essa è in realtà, cioè nella sua origine, nella sua essenza e nel suo fine, cioè come vita nel senso delle parole: Cristo è la mia vita. Buona non è una qualità della vita, ma la ‘vita’ stessa. Essere buoni significa ‘vivere’»: ibid., 220. Cosa significa vivere per Bonhoeffer? «Noi viviamo in quanto diamo una risposta alla parola di Dio indirizzataci in Gesù Cristo. Poiché essa è una parola indirizzata a tutta la nostra vita, anche la risposta data può essere solo una risposta totale, con tutta la vita, così come essa si realizza via via agendo. La vita, che ci viene incontro in Gesù Cristo come sì e no alla nostra vita, vuole ricevere una risposta da parte di una vita che accoglie e unisce questo sì e no. Tale vita come risposta alla vita di Gesù Cristo (quale sì e no pronunciato sulla nostra vita) noi la chiamiamo ‘responsabilità’»: ibid., 221. La risposta la diamo con la vita. La risposta, la responsabilità, è Cristo. Avendo come misura fondamentale Cristo, l’uomo è definito in termini di responsabilità.
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degno della sua approvazione divina, ma lo ha assunto e approvato perché era degno del suo no, facendosi egli stesso uomo, prendendo su di sé e sopportando la maledizione del no divino sull’essere umano. Voler comprendere la realtà senza questo agire divino in seno ad essa e verso di essa significa vivere in una astrazione, non cogliere la realtà, oscillare fra gli estremi del servilismo verso il fattuale e l’opposizione di principio nei suoi confronti. Solo l’incarnazione di Dio permette di agire in maniera autenticamente adeguata alla realtà. Il mondo rimane mondo, ma lo rimane appunto solo perché Dio se ne è preso cura e ha proclamato la sua signoria sopra di esso»28. In Gesù Cristo l’intera realtà umana è assunta. L’evento che permette di conoscere la struttura del reale è l’incarnazione di Dio, cioè l’entrata di Dio nella storia. Questa assunzione del reale si esprime nel mettersi accanto facendosi compagno dell’altro, ma anche nell’essere responsabile, nel prendersi cura dell’altro.
5. L’UNO PER L’ALTRO: L’ESSERE RESPONSABILE Prendersi cura dell’altro… essere responsabile… farsi prossimo: questo è l’orizzonte della gratuità e del dono. Levinas nel pensare altrimenti l’alterità radicale ci offre un percorso, da esplorare sempre con nuova attenzione, da cui viene alla luce progressivamente l’umano dell’uomo. Levinas prende le dovute distanze dal pensiero occidentale come pensiero omologante e totalitario lasciando tutte quelle categorie che riducono l’altro ad una mera dimensione formale per assumere la dimensione relazionale in cui l’altro è un volto, una unicità. Ci si rapporta all’altro come volto, cioè come essere unico «spogliato di ogni ruolo sociale e che, così, nella sua nudità — la sua indigenza, la sua mortalità s’impone di primo acchito alla mia responsabilità — bontà misericordia o carità»29. Il volto dell’altro si
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Ibid., 194-195: «In Cristo è assunta l’intera realtà umana, per cui in fondo solo in lui e partendo da lui è possibile agire in maniera adeguata alla realtà. Né il Cristo pseudoluterano, che esiste solo per sanzionare il fattuale, né il Cristo radicalmente rivoluzionario di ogni sorta di fanatismo, destinato a benedire tutte le rivoluzioni, bensì il Dio divenuto uomo Gesù Cristo, che ha amato, giudicato e riconciliato gli uomini con Dio, è l’origine dell’agire adeguato alla realtà»: ibid., 195.
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offre a me nella sua nudità, assolutamente unico e incomparabile, di cui divento responsabile immediatamente; prima ancora che io inizi la riflessione l’altro mi concerne e mi riguarda. La prossimità del prossimo è l’alterità non formale quindi non equiparabile: «La prossimità non si risolve nella coscienza che un essere prenderebbe di un altro essere ritenuto vicino in quanto sotto i suoi occhi o alla sua portata e di cui sarebbe possibile appropriarsi, essere che potrebbe essere tenuto o con ci si potrebbe intrattenere nella reciprocità della stretta di mano, della carezza, della lotta, della collaborazione, del commercio, della conversazione. La coscienza — coscienza di un possibile, potere, libertà — avrà così già perso la prossimità propriamente detta, superata e tematizzata, come avrà già rimosso in se stessa una soggettività più antica del sapere e del potere»30. Levinas nella nozione di prossimità mira a mostrare la soggettività nella sua autenticità: una soggettività più originaria. Un io che si afferma nella sua docilità, nella sua passività assoluta: io non sono più io, ma eccomi. «Essere io — secondo Levinas — significa non potersi sottrarre alla responsabilità, come se tutto l’edificio della creazione posasse sulle mie spalle, ma la responsabilità che priva l’Io del suo imperialismo e del suo egoismo — anche se fosse egoismo della salvezza — non per questo lo riduce a momento dell’ordine universale, anzi conferma l’unicità dell’Io. L’unicità dell’Io è il fatto che nessuno possa rispondere in vece mia»31. L’altro nel cuore stesso della medesimezza dell’io è la nuova definizione della soggettività di cui struttura essenziale è la responsabilità. La relazione con l’altro secondo questa struttura costituisce la stessa soggettività. «Il prossimo mi concerne prima di ogni assunzione, prima di ogni 29
AA.VV., Répondre d’autrui. Emmanuel Levinas, Neuchâtel, 1989, 9. E. LEVINAS, Altrimenti che essere, trad. it., Milano 1991, 103. 31 E. LEVINAS, Umanesimo dell’altro uomo, trad. it., Genova 1985, 73. In questo passo Levinas cita Isaia 53: il canto del servo e giusto sofferente: «egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. […] al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore»: Is 53,4-6; 10. 30
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impegno consentito o rifiutato. Sono legato ad esso — che tuttavia è il primo venuto, senza connotati, diviso, prima di ogni legame contratto. Mi ordina prima di essere riconosciuto. Relazione di parentela al di fuori di ogni biologia, ‘contro ogni logica’. Il prossimo mi concerne non in quanto appartenente al mio stesso genere. Esso è precisamente altro. La comunità con il prossimo comincia nel mio obbligo nei suoi riguardi. Il prossimo è fratello. Fraternità irrescindibile, con-vocazione irrecusabile, la prossimità è un’impossibilità di allontanarsi senza la torsione del complesso, senza alienazione o senza colpa, insonnia o psichismo»32. La prossimità non è intesa da Levinas come un essere vicino nello spazio, nel senso di qualcuno che mi sta accanto oppure che mi è parente, ma nel senso che io sono strutturalmente responsabile di un altro, sono un essere per altro: «Il legame con altri si stringe soltanto come responsabilità, che questo peraltro sia accettata o rifiutata, che si sappia o no come assumerla, che si possa o no fare qualcosa di concreto per altri. Dire: eccomi. Fare qualcosa per un altro. Donare. Essere spirito umano significa questo. L’incarnazione della soggettività umana garantisce la sua spiritualità (non vedo cosa potrebbero donare gli angeli o come potrebbero aiutarsi reciprocamente), Dia-conia, prima ancora di ogni dialogo»33. Il senso della soggettività si manifesta in tutta la sua ricchezza nella relazione con l’altro, che si sviluppa nella prospettiva e nella logica della responsabilità34. Il non potersi sottrarre alla responsabilità è vista come una ineluttabilità, una ossessione, il prossimo mi riguarda; io sono soggezione ad altri, servitore del prossimo: «Il prossimo mi convoca prima che lo 32 E. LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., 108: [«È forse in rapporto a questa irremissibilità che si comprende il posto insolito dell’illusione, dell’ebbrezza, dei paradisi artificiali. Il rilassamento dell’ebbrezza è il sembiante dell’allontanamento e della irresponsabilità; soppressione della fraternità o assassinio del fratello (sono forse io responsabile di mio fratello?). La possibilità dell’allontanamento misura la distanza tra il sogno e la veglia. Il sogno e l’illusione — è il gioco di una coscienza nata dall’ossessione, che tocca l’altro senza essere convocato per esso. Gioco della coscienza — sembianza»]: ibid., 108, nota 21. 33 E. LEVINAS, Etica e infinito, Roma, 1984, 110-111. 34 Il tema della responsabilità nel pensiero di Levinas costituisce una linea di forza, un tema che nelle diverse fasi del suo percorso speculativo è così presente da essere «onnipresente» secondo l’espressione di S. PLOUDRE, Emmanuel Levinas. Altérité et responsabilité, Paris 1996. Si veda, ancora, sul tema della responsabilità il saggio di F. ROSSI, Figure della “responsabilità per altri” in Emmanuel Levinas, in Hermeneutica ns (2001) 153-181.
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designi — che non è una modalità di un sapere, ma di una ossessione e, in rapporto al conoscere, un fremito dell’umano completamento altro. Il conoscere è sempre convertibile in creazione e in annientamento, l’oggetto che si presta al concetto, in risultato. Attraverso la soppressione del singolare, attraverso la generalizzazione, il conoscere è idealismo. Nell’approssimarsi io sono di colpo servitore del prossimo, già in ritardo e colpevole di ritardo. Sono stato ordinato dal di fuori — traumaticamente comandato — senza interiorizzare attraverso la rappresentazione e il concetto l’autorità che mi comanda. Senza chiedermi: che cosa mi è dunque? Da dove viene il suo diritto di comandare? Che cosa ho fatto per esser di colpo debitore?»35. L’io è sempre in debito, sopporta tutto, la relazione che instaura con l’altro lo coglie sempre in ritardo. Il senso della responsabilità si mostra pertanto come passività; io sono responsabile dell’altro, questo comporta il pensarmi responsabile della sua colpa, della colpa di tutti gli altri. Sono io che sopporto tutto: in questa direzione, Levinas, pensa la responsabilità come sostituzione36. Io mi sostituisco all’altro fino a divenirne ostaggio, porto la miseria e il fallimento dell’altro: «Essere-sé, altrimenti che essere, 35
E. LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., 108. Il capitolo IV dell’opera Altrimenti che essere porta questo titolo: La Substituition. Questo capitolo costituisce, tra l’altro, quella parte che precedette la pubblicazione degli altri capitoli che costituiscono l’insieme del volume. Ci sembra particolarmente significativo un passo contenuto in una conferenza tenuta agli intellettuali francesi nel 1968 Un Dio uomo? in cui la nozione di sostituzione lascia intravedere il segreto della soggettività: «La nozione di Dio — uomo, nella transustanziazione del Creatore in creatura, afferma l’idea della sostituzione. Questo attacco portato al principio d’identità non ha forse in una certa misura — ma bisogna vedere quale — espresso il segreto della soggettività? In una filosofia che ai giorni nostri non riconosce allo spirito altra pratica che la teoria e che riconduce al puro rispecchiamento delle strutture oggettive — l’umanità dell’uomo ridotta a coscienza —, l’idea della sostituzione non permette una riabilitazione del soggetto di cui non sempre fu capace l’umanesimo naturalista perdendo subito nel naturalismo i privilegi dell’umano?» Tra noi, 90. E nella nozione di Dio - uomo che si svuota di sé ci pare di poter scorgere la figura di Gesù Cristo, come colui che prende su di sé il peccato del mondo, cioè colui che si sostituisce, prende il posto dell’altro, nel senso di una «passività assoluta che si muta in assoluta indeclinabilità: accusata al di là della libertà, ma proprio per questo votata all’iniziativa della risposta. C’è qui un insolito rovesciamento della pazienza in attività e del singolare in universale, e l’abbozzo di un ordine e di un senso nell’essere che non dipende né da un’opera culturale, né da una semplice strutturazione. […]. L’infinita passività o 36
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dis-interessarsi è portare la miseria e il fallimento dell’altro e anche la responsabilità che l’altro può avere di me, essere sé — condizione di ostaggio — è sempre avere un grado di responsabilità in più, la responsabilità per la responsabilità dell’altro»37. La relazione con l’altro giunge fino a questo punto, la condizione di ostaggio è il presupposto perché sulla terra vi sia la religione, cioè la pietà, il perdono, la prossimità: «Perché Altri mi riguarda? Che è Ecuba per me? Sono io il custode di mio fratello? — Queste domande non hanno senso se si è già presupposto che l’Io ha cura solo di Sé, se è solo cura di sé. In questa ipotesi, in effetti, resta incomprensibile come il fuori dall’Io assoluto — Altri . mi riguardi. Ora, nella ‘preistoria’ dell’Io posto per sé, parla una responsabilità. Il sé è da cima a fondo ostaggio, più anticamente dell’Ego, prima dei principi. Non si tratta per il Sé, nel suo essere, di essere. Al di la dell’egoismo e dell’altruismo c’è la religiosità del sé. È a causa della condizione di ostaggio che nel mondo ci
passione o pazienza dell’Io — il suo sé — l’unicità eccezionale alla quale egli è ricondotto che è questo incessante evento di sostituzione, per l’essere il fatto di svuotarsi del suo essere»: ibid., 91-92. Arturo Paoli commentando questo testo vede nella sostituzione una nozione che interpella la fede e la spiritualità cristiana: «non voglio abbozzare qui una cristologia, non è il luogo e non ne ho le competenze, credo nel Cristo redentore, vero Dio e vero uomo. Mi interessa invece chiarire il concetto di sostituzione come mia identità perché, quando ho letto i vari testi di Levinas, ho capito di più la mia vita. […] il seguire il Cristo non solo come uscire dalla propria famiglia, ma come una sostituzione, non vorrebbe dire vedere la scelta religiosa, non solo come punto di partenza, come una decisione di seguire un Maestro di spiritualità, ma come un rivestirsi, un indossare un’identità nuova non immaginata che si può definire come sostituirsi? […] Per la mia esperienza il disinteresse assoluto, perdere la propria vita senza ritorni, non è possibile alla persona umana. Intendendo, per perdere, rinunciare totalmente a conoscere il destino, la finalità di questa perdita. L’orrore che prova Gesù nell’imminenza della sua esecuzione, che viene descritta dettagliatamente nei Vangeli è, secondo me, il segno di dare l’ultimo passo perché la sostituzione sia completa, al di là dell’umano veramente, per parafrasare Levinas, cioè l’accettare l’inutilità completa, la perdita totale […] l’accettazione dell’impotenza fa parte di quella sostituzione»: Quel che muore, quel che nasce, Piacenza 2001, 32-33; 35-36. 37 Ibid., 146-147. Così si esprime in un altro passo sulla responsabilità: «ostaggio di tutti — e cioè sostituito a tutti in nome della sua stessa non-permutabilità — ostaggio di tutti gli altri che appunto perché altri non appartengono allo stesso genere dell’io, perché di loro io sono responsabile senza curarmi delle loro responsabilità verso di me, perché anche di questa io sono, in fin dei conti e sin dal principio, responsabile, — l’io, anzi io, sono uno che regge l’universo ‘pieno di tutte le cose’»: Umanesimo dell’altro uomo, cit., 114.
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può essere pietà, compassione, perdono e prossimità. Anche la più piccola cosa, anche il semplice ‘dopo - di - voi - Signore’»38. La solidarietà scaturisce dalla condizione di ostaggio, da un io chiamato a diventare sempre più unico. L’altro lo porto dentro per cui sono sempre più soggetto in quanto capace di prendere il posto dell’altro malgrado me, nella misura in cui rispondo mi espongo, divento vulnerabile, non coincido con me stesso. Il cammino che abbiamo fatto fino a qui ci ha portato a lasciare la contrapposizione, la paura, nella ricerca di una identità per lasciarci condurre da una prospettiva non conflittuale nei confronti dell’altro. L’altro, l’estraneo, è il mio prossimo: «Nella prossimità, l’assolutamente altro, l’Estraneo che non ho né concepito né partorito, l’ho già in braccio, già lo porto, secondo la formula biblica, ‘al collo come una balia porta un bambino lattante’ (Numeri, 11,12). Egli non ha un altro luogo, non autoctono, sradicato, apolide, non-abilitante, esposto al freddo e al caldo delle stagioni»39. Il mio essere responsabile, il mio essere per, non ha origine in me, è più antico di me: «È l’ossessione per l’altro, mio prossimo, che, accusandomi di una colpa che non ho commesso liberamente, riconduce l’Io a sé al di qua della mia identità, ancor prima di ogni coscienza di sé, e mi spoglia assolutamente. Bisogna forse chiamare creaturalità questa ‘al di qua’ di cui l’essere non conserva traccia, ‘al di qua’ più antico dell’intrigo dell’egoismo annodato nel canutas dell’essere? Ritornare a sé non significa istallarsi presso di sé, quand’anche il sé fosse privo di ogni attributo; significa, come un estraneo, essere inseguiti fino a casa propria, essere contestato nella propria identità e nella propria povertà stessa che, come una pelle, rinchiuderebbe ancora il sé, lo porrebbe così in un’interiorità già raccolta su di sé, già sostanza; significa svuotarsi continuamente di sé»40. L’uomo come un essere per ci lascia intendere questa prospettiva non conflittuale che mira a cogliere il senso della umanità. Il per dell’uno per l’altro è una significazione al di fuori di ogni correlazione — relazione senza relazione41 — di ogni corrispettivo o di ogni finalità, «è un per di gratuità 38
Ibid., 147-148. Ibid., 114. 40 Ibid., 115. 41 Su questo tema si veda il nostro saggio Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Levinas, Acireale, 1996. 39
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totale che rompe con l’interessamento: per della fraternità umana al di fuori di ogni sistema prestabilito. Spiritualità, cioè senso e senso che non è semplice penuria di essere. Spiritualità che non si comprende più a partire dal conoscere»42. La spiritualità è intesa come non indifferenza, cioè come fraternità, per cui l’essere uno per l’altro richiama a un surplus di responsabilità. Il sé come creatura è pensato in una passività più passiva della passività della materia, l’ipseità è ostaggio. Soggettività come ostaggio “La parola Io significa eccomi, rispondente di tutto e di tutti”. L’altro nel medesimo, come incarnazione, come essere nella propria pelle, come avere l’altro nella propria pelle. L’impossibilità di sfuggire a Dio abita in fondo al cuore dell’io come sé, come passività assoluta. L’identità dell’io si rivela in questa passività più passiva di ogni passività che giunge fino a sostituirsi a prendere il posto dell’altro. Una identità che ha nel dinamismo e nell’eccedenza del Bene la propria misura: «L’intrigo della bontà e del Bene — al di fuori della coscienza, al di fuori dell’essenza — è l’intrigo eccezionale della sostituzione che il Detto, nelle sue verità dissimulate, tradisce ma traduce davanti a noi. L’io accostato a partire dalla responsabilità è per l’altro è denudazione, esposizione all’affezione, pura susceptio. Esso non si pone possedendosi e riconoscendosi, si consuma e si lascia andare, si desitua, perde il suo posto, si esilia, si rilega in sé, ma, come se la sua pelle fosse ancora un modo di mettersi al riparo nell’essere, esposto alle ferite e all’oltraggio, svuotandosi in un non-luogo, al punto da sostituirsi all’altro, non trattenendosi in sé che come nella traccia del suo esilio. […]. In sé come nella traccia del suo esilio — vale a dire come puro sradicamento da sé. In ciò interiorità. Interiorità che non assomiglia in niente ad un modo di disporre di affari privati. Interiorità senza segreto, pura testimonianza della dismisura che già mi comanda e che è un donare all’altro strappando il pane dalla propria bocca e facendo dono della propria pelle»43. L’io per l’altro costituisce dunque l’essere responsabile. L’io che diventa sempre più io quanto più responsabile, quanto più capace di sostituirsi, di prendere il posto dell’altro. Un soggetto è tanto più responsabile quanto più rispondente, la distanza tra l’io e l’altro si accresce man 42 43
E. LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., 121. Ibid., 173-174.
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mano che l’altro diventa sempre più prossimo. Nell’essere per l’altro viene fuori l’immediatezza della prossimità. La soggettività è interpellata dall’altro in una relazione a senso unico che non ritorna al suo punto di partenza: «La prossimità non è uno stato, una quiete, ma precisamente, inquietudine, non luogo, fuori luogo della quiete che sconvolge la calma della non ubiquità dell’essere che divine quiete in un luogo, sempre, di conseguenza, insufficientemente prossimità, come un abbraccio. ‘Mai abbastanza prossima, la prossimità non si irrigidisce in struttura, se non quando, rappresentata nell’esigenza di giustizia, reversibile, essa ricade in semplice relazione. La prossimità, come ‘il sempre più prossimo’, diviene soggetto. Essa raggiunge il suo superlativo come mia inquietudine inalienabile; diviene unica, da quel momento uno, dimentica la reciprocità come in un amore che non si aspetta parità. La prossimità è il soggetto che si approssima e che, di conseguenza, costituisce una relazione alla quale io partecipo come termine, ma in cui sono più — o meno — di un termine. Questo sovrappiù o questa mancanza mi getta fuori dall’oggettività della relazione. La relazione diviene religione?»44. Questa nozione di essere responsabile che sfocia, come abbiamo visto nel pensiero di un filosofo ebreo come Levinas, in quella di sostituzione, di ostaggio, trova una mirabile corrispondenza nel pensiero del teologo cristiano D. Bonhoeffer. L’uomo che per eccellenza è un essere per gli altri — quindi responsabile — nel percorso teologico di quest’ultimo, viene identificato nella persona di Cristo: «Gesù Cristo è per eccellenza colui che vive in maniera responsabile. Egli non è il singolo, che vuole pervenire alla propria perfezione etica, bensì vive solo come colui che ha assunto e porta in sé l’io di tutti gli uomini. Tutta la sua vita, il suo agire e patire è sostituzione vicaria. Come colui che è divenuto uomo egli sta realmente al posto di tutti gli uomini. Quanto gli uomini dovrebbero vivere, fare e soffrire lo riguarda. In questa sua reale sostituzione vicaria, che costituisce la sua esistenza umana, egli è il responsabile per eccellenza. Nella reale sostituzione vicaria di Gesù Cristo in favore di tutti gli uomini sta la radice di ogni responsabilità umana»45. Ogni responsabilità umana si radica nella responsabilità di Gesù Cristo. 44 45
Ibid., 102. D. BONHOEFFER, Etica, cit., 201-202.
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La responsabilità non è una tensione a vuoto, ma ha un contenuto. È un dinamismo che mira a realizzarsi. È il dinamismo stesso della vita, della realtà secondo Bonhoeffer: «Il contenuto della responsabilità di Gesù Cristo in favore degli uomini è l’amore, la sua forma è la libertà. L’amore, di cui qui si tratta, è l’amore realizzato di Dio per gli uomini e l’amore degli uomini per dio. Gesù Cristo è l’amore fattosi uomo di dio per gli uomini, per cui egli non è il predicatore di ideologie etiche astratte, bensì l’esecutore concreto dell’amore di Dio. L’uomo non è chiamato a realizzare ideali etici, bensì ad entrare in una vita nell’amore di Dio e cioè ad entrare nella realtà»46. La responsabilità archetipa è quella di Cristo che è il primogenito di ogni creatura: «l’amore per l’uomo reale porta alla comunione della colpa umana. Egli non vuole assolversi dalla colpa in cui gli uomini da lui amati vivono. Un amore che lasciasse l’uomo solo nella sua colpa non avrebbe per oggetto l’uomo reale. Così Gesù, nella sua responsabilità vicaria in favore degli uomini, nel suo amore per l’uomo reale, si carica della colpa, anzi diventa colui sul quale cade in ultima analisi tutta la colpa degli uomini, colui che non la allontana da sé ma la porta con umiltà e con un amore infinito. Egli diventa colpevole come colui che agisce responsabilmente nell’esserci storico dell’uomo, come uomo che è entrato nella realtà. Ma poiché la sua esistenza storica, al sua venuta nella carne ha il suo unico fondamento nell’amore di Dio per gli uomini, è l’amore di Dio a farlo divenire colpevole. Mosso dall’amore disinteressato per l’uomo e a patire dalla propria mancanza di peccato, Gesù entra nella colpa degli uomini e la prende su di sé. Essere senza peccato e portare la colpa sono cose in lui indissolubilmente unite […]. Poiché Gesù prese su sé la colpa di tutti gli uomini, ognuno che agisce responsabilmente diventa colpevole. Chi nella sua responsabilità, vuole sottrarsi alla colpa, si separa dalla realtà ultima della storia, dal mistero redentore costituito dal fatto che Gesù Cristo porta la colpa, e non ha parta alla giustificazione divina che aleggia su tal evento»47. La responsabilità è un’autentica espropriazione di sé, cioè un donare la propria vita, senza ricercare il contraccambio, per l’altro, per ogni altro: 46 47
Ibid., 202. Ibid., 203-204.
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«Che la responsabilità poggia sulla sostituzione vicaria, risulta nella maniera più chiara da quelle situazioni in cui l’uomo è direttamente costretto ad agire al posto di altri uomini, ad esempio come padre, uomo di stato, maestro. Il padre agisce al posto dei figli lavorando per essi, prendendosene cura, difendendoli, lottando e soffrendo per essi, prendendosene cura, difendendoli, lottando e soffrendo per loro. In tal modo egli prende realmente il loro posto. Non è un singolo isolato, ma unisce in sé l’io di più persone. […]. Si ha sostituzione vicaria e quindi responsabilità solo nella dedizione piena della propria vita all’altro uomo. Solo chi non è legato al proprio sé vive responsabilmente e, cioè, solo chi non è legato al proprio sé vive»48 . Il culmine di questa responsabilità che giunge fino alla sostituzione vicaria cioè fino alla disponibilità (passività), a prendere il posto dell’altro, a prendere su di sé la colpa di tutti gli altri49, di tutti gli uomini, si incarna quindi in Gesù Cristo. Ora, secondo Bonhoeffer, a Gesù Cristo «l’unica cosa che gli sta a cuore è l’amore per l’uomo reale, e per questo può entrare in comunione con la loro colpa lasciandosi gravare da essa. Egli non vuole essere considerato l’unico perfetto a spese degli uomini, non vuole guardare dall’alto in basso, quale unico senza colpa, l’umanità condannata alla rovina sotto la propria colpa, non vuol far trionfare sulle rovine di una umanità per la propria colpa una qualche idea di un uomo nuovo. Non vuole assolversi dalla colpa sotto cui gli uomini muoiono. Un amore che lasciasse l’uomo solo nella sua colpa non avrebbe per oggetto l’uomo reale. Gesù diventa colpevole come colui che agisce responsabilmente nell’esistenza storica 48
Ibid., 224-225. Nel pensiero di Levinas sono io che assumo la condizione di ostaggio: «sono io che sopporto altri, che ne sono responsabile. Si vede così che nel soggetto umano, insieme a una soggezione totale, si manifesta la mia primo-genitura. La mia responsabilità è inalienabile, nessuno potrebbe sostituirmi. Di fatto, si tratta di dire l’identità stessa dell’io a partire dalla responsabilità, cioè a partire da questa posizione o da questa deposizione dell’io sovrano nella coscienza di sé; deposizione che è appunto la sua responsabilità per altri. La responsabilità è ciò che mi incombe in modo esclusivo e che, umanamente, io non posso rifiutare. Questo peso è una suprema dignità dell’unico. Io non inter-cambiabile, sono io nella misura in cui sono responsabile. Io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me. Questa è la mia inalienabile identità di soggetto. È in questo senso preciso che Dostoevskij dice: ‘Noi siamo tutti responsabili di tutto e di tutti, davanti a tutti ed io più di tutti gli altri’»: E. Levinas, Etica e infinito, cit., 115. 49
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dell’uomo. E’ solo il suo amore, intendiamoci bene, a farlo diventare colpevole. Mosso dal proprio amore, libero dal proprio sé, e dalla propria mancanza di peccato, entra nella colpa degli uomini e la prende su di sé. Assenza di peccato e il portare la colpa sono i lui indissolubilmente uniti»50
6. CONCLUSIONE La responsabilità viene fuori come dimensione ineluttabile, come una forza invincibile da cui non ci si può sottrae. La responsabilità è la suprema dignità che rende l’uomo sempre più unico e irripetibile umanamente parlando. Ora, questo non potersi sottrarre alla responsabilità, non è inteso come una schiavitù. Alla radice, al fondamento della responsabilità vi è il Bene. Il Bene che secondo Levinas «non è oggetto di scelta, perché esso si è impadronito del soggetto prima che il soggetto abbia avuto tempo — ossia la distanza — necessaria alla scelta. Non c’è assoggettamento più completo di questo brivido che il Bene incute all’improvviso, un’elezione certo. Ma il carattere oppressivo della responsabilità che oltrepassa la scelta — dell’ubbidienza anteriore alla presentazione o alla rappresentazione del comandamento che fa obbligo della responsabilità si annulla per la bontà del Bene, cui appartiene il comandamento. Colui che ubbidisce ritrova, al di qua della soggezione, la sua integrità. La responsabilità indeclinabile eppur non mai liberamente assunta — è bene. L’abbrividire per opera del bene, la passività che è nel subire il bene è una
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D. BONHOEFFER, Etica, cit., 240. E. LEVINAS, Umanesimo dell’altro uomo, cit., 107. Levinas ha nominato la responsabilità indeclinabile Bene. Il luogo del Bene è la passività: «Ora, essere dominato dal Bene, è appunto escludersi dalla stessa possibilità della scelta, dalla coesistenza nel presente. L’impossibilità della scelta, qui, non è effetto della violenza — fatalità o determinismo — ma dell’elezione irrecusabile da parte del Bene, che, per l’eletto, è sempre e sin d’ora come già avvenuta. Elezione da parte del Bene che, per l’appunto, non è azione, ma la nonviolenza stessa. Elezione, vale a dire investitura del non-permutabile. Quindi passività più passiva di qualunque passività: filiale; ma soggezione pre-liminare, pre-logica; soggezione a senso unico, che si farebbe torto a interpretare movendo dal dialogo. La passività, inconvertibile in presente, non è semplicemente effetto di un Bene, che sarebbe così ricostruito a titolo di causa di tal effetto; proprio in questa passività è il Bene, esso che, propriamente 51
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contrazione più profonda di quella che si richiede nel movimento delle labbra che imitano, quando articolano il sì»51. Si è scelti dal Bene oppure si sceglie il Bene? Il luogo del Bene è la passività. La spiritualità è responsabilità, intesa in questo quadro di riferimento, non più una sorta di fuga nella propria interiorità quasi a voler fuggire la complessità e le contraddizioni che la post-modernità presenta all’uomo di oggi, ma una nuova e più radicale modalità di relazione con il reale: con Dio, l’uomo e il mondo. Io sono responsabile è il Bene52. La responsabilità è la scoperta del fondo della nostra umanità per cui io sono chiamato a scoprire sempre più la mia unicità e irripetibilità lasciandomi strappare alle mie sicurezze dall’attrattiva del Bene53. In questa prospettiva ci sembra particolarmente significativa la questione che J. Derrida pone: a quale condizione ci può essere responsabilità?. Attorno a tale questione egli costruisce il suo saggio Donare la morte: «A quale condizione può esserci responsabilità? A condizione che il Bene non sia più una trascendenza oggettiva, ma il rapporto all’altro, una risposta all’altro: esperienza della bontà personale e movimento intenzionale […] A quale condizione c’è parlando, non ha bisogno di essere e non è, se non per la bontà. La passività è l’essere dell’al di la dell’essere, del Bene, che il linguaggio ha tutte le ragioni di circoscrivere — tradendo, naturalmente, come sempre — in queste due parole: non-essere; la passività è il luogo — o più precisamente, il non luogo — del Bene»: ibid., 108. 52 Cfr F. POIRIÉ, Emmanuel Levinas. Qui êtes-vous?, Lyon 1987. In questa intervista alla domanda, Come uscire da sé, Levinas risponde in questi termini: «Sortir de soi, c’est occuper de l’autre, et de sa souffrance et de sa mort, avant de s’occuper de sa propre mort. Je ne dis pas du tout que cela se fait de gaieté, de coeur, que ce n’est rien, ni surtout que serait là une cure contre l’horreur ou la lassitude d’être ou centre l’effort d’être, une façon de se distraire de soi. Je pense que c’est la découverte du fond de notre humanité, la découverte meme du bien dans la rencontre d’autrui - je n’ai pas peur du mot ‘bien’; la responsabilité pour l’autre est le bien. C’est ne pas agréable, c’est bien»: ibid., 92. 53 Nel nostro saggio Relazione senza relazione, sul pensiero di Levinas così pensiamo questa irruzione del Bene nel rapporto con l’altro: «la soggettività come responsabilità è strappata alle sue sicurezze dall’irruzione del Bene che la sceglie: la soggettività in questo dinamismo di ulteriorità viene come afferrata dal Bene. Il Bene è un appello per la soggettività alla bontà e al sacrificio. L’ingresso del Bene ci induce a pensare che la soggettività non viene a definirsi come attività, come affermazione di sé, ma piuttosto ce la fa pensare come passività. La soggettività non si dà a se stessa, si riceve come soggettività in quanto acconsente alla precedenza del Bene al di là dell’essere. Una precedenza che vota il soggetto alla bontà del dono»: cit. 285.
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bontà, al di là del calcolo? A condizione che la bontà dimentichi sé, che il movimento sia un movimento di dono che rinunci a sé, dunque un movimento di amore infinito. C’è bisogno di un amore infinito per rinunciare a sé e per divenire finito , incarnarsi per amare così l’altro, e l’altro come altro definito. Questo dono d’amore viene da qualcuno e si indirizza a qualcuno. La responsabilità esige la singolarità insostituibile. Solo a partire dall’insostituibilità si può parlare di soggetto responsabile, di anima come coscienza di sé, di me»54. La vita spirituale in questo senso si presenta come estenuante, altro che ripiego o fuga, perché occorre operare sempre di più. C’è sempre un oltre. Il desiderio ci conduce incessantemente più lontano. Questo significa che la vita spirituale non è padrona di se stessa, subisce l’attrattiva di un Bene che non eguaglia mai. Una vita tanto più diventa spirituale quanto più essa si spossessa di se stessa. La spiritualità è infatti dono di sé. La vita spirituale viene colta e si esprime nella relazione con gli altri. Nel rapporto con gli altri è in debito di se stessa, questa è la passività originaria. Questa passività corregge la violenza, il rapporto con colui che non può far niente, che non conta: la vedova, l’orfano, il profugo, l’abbandonato, mi chiamano dalla loro altezza, per tanto sono loro i miei insegnanti. La vita spirituale autentica è spoliazione; è impotenza; è umiltà. C’è un capovolgimento dei rapporti interpersonali con l’altro, non è tanto la generosità di chi può, ma l’inverso, è l’impotenza di colui che non conta nulla, che non può nulla, a interpellarmi. Mi chiama alla generosità, al disinteresse, al dono di sé. È il movimento della carità a mettere in circolo quanto si è ricevuto. Siamo beneficiari di un dono di cui non siamo padroni che bisogna far passare lasciandolo fluire.
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E. DERRIDA, Donare la morte, trad. it., Milano 2002, 87.
Synaxis XXI/1 (2003) 53-86
QUESTIONE IDENTITARIA E FIGURE “LIMINALI” ALLE ORIGINI DEL MOVIMENTO CRISTIANO (ATTI 1-15)
CARMELO RASPA*
0. INTRODUZIONE La figura di Luca come storico, oltre che come teologo, è stata recentemente riabilitata: dopo le dure critiche di astoricità, alle quali la sua opera in due volumi, Vangelo e Atti, era stata sottoposta, si riconosce oggi al contrario la maestria dell’autore nel comporre un piano narrativo che coniuga in modo magistrale vicende umane ed irruzione del divino, il tutto descritto secondo i canoni della storiografia classica1. Luca ha, dunque, una storia da raccontare: quella di Gesù nel Vangelo e poi, negli Atti, che saranno l’oggetto del nostro studio, i primi passi del movimento cristiano. Ma la storia non è uniforme e le premesse *
Docente di Lingua ebraica nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr D. MARGUERAT, La prima storia del cristianesimo. Gli Atti degli Apostoli (trad. it.), Cinisello Balsamo 2002, 9-37, dove l’A. fa il punto della questione sulla storicità o meno dell’opera lucana, riconoscendo infine a Luca la qualifica di storico: «Luca si colloca esattamente alla confluenza delle correnti storiografiche giudaica e greca. I suoi procedimenti narrativi sono largamente derivati da quello che era lo standard culturale dell’Impero romano, in altre parole la storia come la scrivevano i Greci. Ma al contrario dell’ideale di obiettività della storiografia di Erodoto e Tucidide, Luca racconta una storia confessante» (37). Lo studio di Marguerat prende l’avvio da un articolo di J. DUPONT, La question du plan des Actes des Apôtres à la lumière d’un texte de Lucien de Samosate, in ID., Nouvelles Études sur les Actes des Apôtres, Paris 1984, 24-36, il quale conclude circa il piano narrativo di At: «Nous avons l’impression que Luc applique la règle dont nous trouvons l’énoncé chez Lucien: l’historien doit lier entre elles et mêler par leurs extrémités les differents parties de son récit, évitant de faire de celui-ci la simple juxtaposition de plusieurs récits partiels» (p. 36). 1
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non sono sempre verificate dagli esiti. Luca registra, infatti, un’inversione all’interno dei fatti così come si sono svolti. Il popolo ebraico, al quale per primo era rivolto il messaggio di Gesù, dopo un’adesione iniziale, oppone in seguito un netto rifiuto, ciò che non produce però la sua esclusione: esso rimane sempre il primo destinatario cui si rivolge il movimento cristiano lungo tutta la storia narrata, sino alla fine. Di contro, il mondo della gentilità passa dall’avversione degli inizi all’entusiasmo della fine. Come raccontare allora questa storia? Luca mette allora in campo delle figure “liminali”, cioè senza un’identità ben definita, che gli offrono lo strumento per narrare questa inversione secondo l’ottica del passaggio2. La messa in campo di queste figure è inserita e preannunciata nel programma missionario che Luca pone in bocca a Gesù Risorto in At 1,8 per i suoi discepoli: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra»3. Con 2 Cfr R. FONTANA, L’“Opera” di Luca. Storia dello Spirito e alchimia dell’umano (At 1-15), in Bibbia e Oriente 4 (2001) 234: «La storia che Luca ci racconta è estremamente complessa. La ragione di questo è nel fatto che le risposte degli ebrei e dei gentili alle “novità di Dio” siano in via generale non solo opposte tra loro, ma bensì capovolte rispetto agli inizi della storia narrata e alla sua stessa fine, secondo uno schema che diremmo chiastico. Per raccontarla, è con abilità che Luca utilizza dunque caratteri ambivalenti. È infatti attraverso una serie di “identità liminali” che egli si apre per così dire il passaggio che conduce senza soluzioni di continuità dall’ebreo al goy e viceversa. E proprio in questo modo Luca ci fa infine scoprire verità per noi importanti. Ebrei e samaritani, proseliti e timorati di Dio, noachidi e gentili: lo spazio che si interpone tra ebrei e gentili è uno spazio che da sempre è stato intensamente abitato da innumerevoli creature»; D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 129-157 affronta il problema di questa inversione storica e narrativa, concludendo, contro le deduzioni unilaterali di alcuni esegeti, che vedevano nell’opera lucana o il rifiuto dell’ebraismo o la sua permanenza accanto alla gentilità per ciò che concerne la Chiesa, «che ambedue le letture sono sostenibili […] perché esse segnalano che il volto del giudaismo nell’opera di Luca non si riduce a una equazione semplice» (p. 134). Anche R. FABRIS, Atti degli Apostoli, Roma 19842, 51, individua il problema e lo descrive in questi termini: «È uno scandalo il rifiuto di Gesù e del vangelo da parte dei giudei i quali hanno conservato per secoli la fede nel Dio unico e le promesse messianiche. Come mai un movimento religioso sorto all’interno del giudaismo in Palestina è diventato patrimonio di un mondo estraneo e lontano come quello dei pagani? Luca che sente questi interrogativi dei suoi cristiani ricostruisce la continuità non solo sul piano storico nella successione delle varie tappe, ma una continuità all’interno dell’unico progetto salvifico di Dio». 3 Così D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 64: «Il libro degli Atti si apre con una
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queste passaggio geografico può avviarsi il racconto di quello teologico: in tal modo Luca, ponendo il cristianesimo nell’interstizio tra ebraismo e gentilità4, può rispondere, scrivendo5, alla sua preoccupazione di fornire uno strumento di autocomprensione della propria identità al nascente movimento cristiano6. È ,infatti, sull’identità che si gioca il resto7: non rimane altro, allora, che lasciarsi guidare dal racconto. gigantesca prolessi rappresentata dalla promessa del Risorto agli Undici […]. Il posto di questa enunciazione, sulla soglia degli Atti, le conferisce un valore di programma narrativo, che va al di là anche di At 28». D. P. BECHARD, Paul outside the Walls: a Study of Luke’s socio-geographical Universalism in Acts 14:8-20, Roma 2000, 89 riconosce in At 1,8 «the sequential stages of the expansion, as narrated in Acts», ma non concorda con quanti, in base a questo programma, suddividono il racconto di Atti in sei pannelli narrativi, giacché si hanno zone geografiche, quali ad es. Damasco (9,10), Efeso (18,19), Pozzuoli (28,13), Roma (28,15), Alessandria (18,24), la cui evangelizzazione è presupposta, ma non raccontata (p. 89, nota 4). M. HENGEL, The Geography of Palestine in Acts, in R. BAUCKHAM, The Book of Acts in its Palestinian Setting. The Book of Acts in its First Century Setting, IV, Michigan 1985, 35 riconosce che «Acts 1:8, which has been much discussed, describes this developpement, so we can see it as the program for the second volume», ma nota allo stesso tempo che «the fulfilment of Acts 1:8 is not described completely in the ‘second volume’, which contains, rather, what Luke thought to be most significant events leading to this goal» (p. 36). A parere di R. FABRIS, Atti, cit., 73, in At 1,8: «la forza dello Spirito, la testimonianza, l’apertura universalistica sono le tre componenti essenziali dell’esperienza ideale di chiesa che Luca si presta a delineare». 4 Situando la cristianità «all’intersezione della continuità e della rottura con Israele»: D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 154. 5 Lo stile lucano, l’utilizzo di alcune figure retoriche, il ricorso a vari espedienti letterari permettono bene di narrare questa storia “ambigua”, fatta di identità non definite e di continui travalicamenti di confini: cfr D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 86-94 per ciò che concerne l’ambivalenza semantica di situazione e termini, cioè l’anfibologia; per una presentazione dell’arte narrativa lucana si possono consultare J. N. ALETTI, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del vangelo di Luca, Brescia 1991; ID., Il racconto come teologia. Studio narrativo del terzo Vangelo e del libro degli Atti degli Apostoli, Roma 1996. 6 D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 44: «Scrivendo il suo dittico, Luca vuole indicare alla comunità dei suoi lettori cos’è, di dove viene, cosa l’ha costruita. Egli scrive per permettere loro di capirsi e di dirsi (agli altri, ai giudei, ai pagani) [...]. Luca ha riconosciuto il bisogno di dotare la cristianità del suo tempo di uno strumento di autocomprensione, non solo mediante una storia del fondatore (il vangelo), ma anche una storia di fondazione». 7 Così R. FONTANA, “L’Opera”, cit., 215: «E dunque: Chi è chi? Riteniamo sia proprio questo l’interrogativo sotteso al lavoro di Luca come storico e come teologo, ciò che gli ha offerto la materia sulla quale operare».
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1. DALL’IDILLIO ALL’ISTERIA8 1.1. La prima pentecoste Dopo aver ripristinato il numero di Dodici (At 1,15-26), gli Apostoli, e forse non soltanto loro9, possono vedere compiersi la promessa del Padre10, udita e realizzata attraverso Gesù, per la quale erano rimasti in Gerusalemme in preghiera: «voi sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni» (1,5)11. L’evento si compie durante la Pentecoste ebraica, come era chiamata nella diaspora la festa di Shabuot, una delle tre feste di pellegrinaggio12 che attiravano a Gerusalemme migliaia di ebrei provenienti dalla 8 Il titolo è preso in prestito da D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 147, giacchè ci sembra il solo puntuale. 9 At 1,15 fornisce la cifra di circa 120 persone. Il racconto della Pentecoste di At parla di «tutti insieme» (2,1), il che non è da intendersi necessariamente come limitato ai Dodici, anche se spetterà loro per primi annunciare il messaggio evangelico. Non così D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 113. 10 Lo Spirito è promesso dal Padre attraverso Gesù in Lc 24,49 e At 1,4. 11 Da rilevare il fatto che i Dodici sono battezzati nello Spirito e che questo tipo di battesimo è contrapposto a quello di Giovanni. Questo potrebbe aiutare a chiarire, e forse a semplificare, il discorso lungo, complesso e vario sulla prassi battesimale in At, così inficiato dalla preoccupazione dogmatica di trovare un fondamento scritturistico all’attuale rito battesimale. Stesso discorso da farsi per il dono stesso dello Spirito, a volte legato, come in At 8, all’imposizione delle mani: ma questo non significa di per sé un rituale istituzionalizzato, data anche la “libertà” dello Spirito stesso nell’opera lucana. Uno studio sul problema, che peraltro esula dall’interesse di questo lavoro e che dunque non sarà trattato, è fornito da M. QUESNEL, Baptisés dans l’Esprit. Baptême et Esprit Saint dans les Actes des Apôtres, Paris 1985, il quale però distingue tra due tipi di rito battesimale, uno dato “nel (e\n o e\pié) nome di Gesù Cristo” (At 2,38; 10,48), di derivazione giudeo-cristiana, che conferirebbe il perdono dei peccati e il dono dello Spirito, l’altro dato “nel (ei\v) nome del Signore Gesù” (8,16; 19,15), di origine pagano-cristiana, che avrebbe un valore iniziatico. D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 126 nota 42 giustamente non ritiene valida l’ipotesi di Quesnel in quanto «mai Luca attira l’attenzione sui termini di una confessione di fede né sulla modalità del rito battesimale; la ritualità o la dottrina del battesimo lo interessano meno dell’accesso al battesimo (tié kwluéei: 8,37; 11,17) e dell’approvazione divina manifestata dall’irruzione dello Spirito; solo essa (e non il rito) comanda la discesa dello pneuma secondo Luca (2,38s; 9,17s; 10,44; 19,6)». 12 Le altre due sono PesahÉ e Sukkot: per una loro presentazione si può cfr A. C. AVRIL - D. DE LA MAISONNEUVE, Les fêtes juives, Supplément au Cahiers Évangile 86, Saint Étienne 1993.
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Terra di Israele e dalla diaspora. Bisogna rilevare che la festa è in stretto legame con quella di PesaÉh e che nella narrazione lucana tutto sembra svolgersi come un continuum: per cui il katoikou%ntev di 2,5 potrebbe riferirsi allo stesso tempo sia agli ebrei della diaspora residenti ormai stabilmente a Gerusalemme sia agli ebrei, sempre della diaspora, che trascorrevano lì il tempo delle feste e anche al di là di questo13 e che potevano trovare accoglienza proprio tra coloro che avevano residenza stabile a Gerusalemme14. L’uditorio è pertanto composto da ebrei, della 13 Normalmente gli esegeti riferiscono il participio ai soli residenti stabili a Gerusalemme: così J. TAYLOR, The List of the Nations in Acts 2,9-11, in Revue Biblique 106/3 (1999) 408: «The feast was an occasion of pilgrimage, when Jews from the Diaspora would be found in the city (cfr Acts 20,16); but the participle katoikountev may imply rather that those in question here had made their home in Jerusalem», evitando perciò di prendere in considerazione i pellegrini comne soggetto del participio; stesso avviso in J. DUPONT, La Nouvelle Pentecôte (Ac 2, 1-11), in ID., Nouvelles Études, cit., 196, che intende gli abitanti di Gerusalemme, anche perché a questi si rivolge Pietro nel suo primo discorso (2,14-36). Ma lo stesso Dupont è poi costretto a chiedersi: «Mais alors, s’il ne s’agit que de Jerusalémites, pourquoi tant d’insistance sur l’extrême diversité de leurs langages maternels (vv.6-8 et 11)? Pourquoi souligner qu’ils proviennent de “toutes les nations qui sont sous le ciel” (v.5)?». Ritengo che il participio debba riferirsi ad entrambi, pellegrini e residenti; S. SAFRAI, Relations between the Diaspora and the Land of Israel, in S. SAFRAI-M. STERN, The Jewish People in the First Century, I, Assen 19742, 194 ammette le due possibilità a causa della difficoltà di distinguere tra i due: «It may be supposed that the distinction between festal pilgrims who prolonged their stay and Diaspora Jews who settled down definitely was not always clearly». Pietro nel suo discorso li ingloba giacché parla a tutti e lo scopo del suo dire è la persuasione di tutti, non l’accusa di una fazione, in questo caso i residenti, attribuendo esclusivamente a loro la colpa per la morte di Gesù. Se avesse usato quest’ultimo espediente retorico, l’effetto sarebbe stato quello di una disputa, non di un discorso missionario teso all’annuncio e alla conversione. Inoltre, Pietro rivolgendosi agli uditori, li chiama: «Uomini di Giudea e tutti voi che vi trovate a Gerusalemme» (2,14), distinguendo così gli ebrei della regione della Giudea, quindi anche di Gerusalemme, da quelli che risiedevano temporaneamente a Gerusalemme per le feste. Il participio qui usato è lo stesso che in 2,5: così pure V. FUSCO, Effusione dello Spirito e raduno dell’Israele disperso. Gerusalemme nell’episodio di Pentecoste, in Gerusalemme. Atti della XXVI settimana biblica in onore di Carlo Maria Martini, Brescia 1982, 204 nota 16: «A nostro avviso l’appellativo di cui sopra (ci si riferisce a 2,14) intende piuttosto distinguere i Giudei residenti in Palestina da quelli arrivati come pellegrini per la festività». 14 S. SAFRAI, Relations between, cit., 193 a proposito dei pellegrini nota che «their pilgrimage was not limited to at short stay at Jerusalem, and they did not stay just for the duration of the feast, as will be explained later in the section on the Temple. The pilgrimages
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Terra e della diaspora: lo dimostrano bene i toni con i quali è narrata l’effusione dello Spirito15, improntata ad Es.1916, nel contesto appunto della festa di Shabuot, e la stessa designazione dell’uditorio, non soltanto qui, ma anche nel seguito, all’interno dei diversi discorsi petrini che a loro saranno rivolti17. La lista delle nazioni, come è definita dagli studiosi, modellata su altre riscontrabili nelle opere dei geografi classici e nelle tavole dei popoli dei regni vicini, tratteggia la presenza ebraica nell’Impero18: in tal senso, se to the feasts served as occasions for the study of the Torah under the Sages […]. The existence of the synagogues mentioned above (cfr At 6, 9) and the hostels beside them not merely lightened the expenses of pilgrims to the feast, but also helped them in arranging to settle down in the country. There they could meet people who spoke the special dialect of the region they came from, they could get good advice and so on. Further, these synagogues certainly served as centres where contacts were made between the Diaspora communities and Jerusalem». 15 Lo Spirito sta alla nascita della Chiesa e dona il potere di testimoniare, così come dimostra il parlare altre lingue (2,4): cfr D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 112-113. 16 Es. 19, il racconto dell’epifania sinaitica e del dono della Legge, è legato alla festa di Shabuot, originariamente festa della mietitura (Es 23,16). Non ci soffermiamo a descrivere in dettaglio la natura ed i contenuti della festa ebraica di Pentecoste: una buona, anche se sommaria, presentazione corredata da ampia bibliografia è fornita da P. BOSSUYT J. RADERMAKERS, Lettura Pastorale degli Atti degli Apostoli, trad. it., Bologna 1996, 222-226. Studi più puntuali sono quelli di J. POTIN, La Fête juive de la Pentecôte, in Lectio Divina 65, 2 voll, Paris 1971; M. WEINFELD, Pentecost as Festival of the Giving of the Law, in Immanuel 8 (1978) 7-18, il quale rileva che molto probabilmente il dono dell’alleanza fu associato alla festa di Shabuot prima del 70 d. C., come Potin, e che la festa richiamava a Gerusalemme migliaia di pellegrini, come attesta, oltre ad At, anche Flavio Giuseppe in BJ I, 253 (parr. Ant. XIV, 337); II, 43 (parr. Ant. XVII, 254). Per Filone la festa di Shabuot è più grande di quella di PesaÉh) ed ha un carattere spiccatamente nazionalistico (De Spec. Leg. I, 183: dhmoteleéstath e|orthé). 17 Cfr R. FONTANA, L’“Opera”, cit., 226: «l’uditorio giudaico è peraltro indicato dallo stesso contesto (At 2, 22.29.36-37) e confermato con la distinzione interna tra ebrei della Palestina (2,14) ed ebrei della Diaspora, comunemente designati secondo il nome della regione di provenienza (4,36; 6,9; 11;20)». 18 Sulla lista dei popoli di At 2 cfr D. P. BECHARD, Paul outside the Walls: a Study of Luke’s socio-geographical Universalism in Acts 14:8-20, Roma 2000, 173-231, che ne offre una dettagliata analisi sulla scia degli scritti veterotestamentari e degli apocrifi ebraici; J. TAYLOR, The List, cit., 420 così conclude: «An assembly of Jews in Jerusalem regarded as representing “every nation under heaven”, but named for the dominions of the King of Persia, would therefore represent, not the Dispersion, but the Return of the scattered people of God». L’accenno al re di Persia, Ciro (cfr 2Cr 36,23), è motivato dal fatto che Taylor accosta la lista di At 2 a quella di Beisto, essendo le due molto simili.
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di universalismo si può parlare per At 2, esso va inteso come ricostituzione dell’unità del popolo di Israele e per nulla come apertura al mondo gentile19. Luca procede per tappe e non è ancora il tempo dei pagani. La lista testimonia, invece, della presenza ebraica nell’Impero, una presenza talmente forte e ben radicata al punto che gli ebrei di At 2 si definiscono secondo il loro luogo di provenienza, del quale si riconoscono cittadini20. L’ebraicità della folla di Pentecoste è data anche dalla menzione dei proseliti accanto agli ebrei di nascita21. A questa folla esclusivamente ebraica, costituita da vicini e lontani, cioè da residenti nella Terra e nella diaspora (cfr 2,39), si rivolge Pietro (2,14-36) a nome dei Dodici22: il primo frutto della Pentecoste sarà l’adesione di circa tremila persone (2,41).
19 Ciò è espresso in maniera chiara da V. FUSCO, Effusione dello Spirito, cit., 205: «L’“universalismo” di questa pericope non coincide con quello dell’opera lucana: riflette infatti il modulo “centripeto” veterotestamentario del raduno sul monte Sion […]; per Luca invece l’universalità della salvezza si attua secondo un modulo “centrifugo”, missionario, attraverso l’evangelizzazione dei vari popoli nei loro rispettivi territori; come tale, essa non si realizza col primo inizio della chiesa, ma soltanto attraverso un processo lento e faticoso che avrà le sue tappe salienti nel primo battesimo di un circonciso, Cornelio (10,1-11,18), nella prima evangelizzazione dei pagani ad Antiochia (11,19-26), nell’opera missionaria di Paolo (13,1ss) e nelle decisioni dell’assemblea di Gerusalemme». 20 Il che corrisponde alla premessa che li mette in scena: «Giudei osservanti di ogni nazione (e\éjnov) che è sotto il cielo» (2,5). 21 Così R. FONTANA, L’“Opera”, cit., 226-227. Il problema della menzione dei proseliti si accompagna a quello circa la presenza del termine Giudea: cfr J. TAYLOR, The list, cit. 410 nota 4; P. BOSSUYT - J. RADERMAKERS, Lettura, cit., 228 notano che «la Giudea, stranamente citata al quarto posto, non gode di nessuna priorità […]. Luca conclude la lista delle nazioni sottolineando la situazione religiosa dei loro rappresentanti: giudei e ‘proseliti’, ovvero pagani convertiti al giudaismo e alle sue pratiche. Mette infine l’accento sull’universalità della loro provenienza: i cretesi sono gli abitanti delle isole situate a ovest, gli arabi sono i nomadi del deserto situato a est». 22 Sui discorsi di Pietro in Atti cfr J. DUPONT, Les discours de Pierre, in ID., Nouvelles Études, cit., 58-111. A p. 63 Dupont giustamente nota che il primo discorso di Pietro nella Pentecoste prende le mosse dall’accusa di ubriacatura mossa da alcuni della folla ai Dodici. Prima di questo, tutti ammettono di sentire da questi ultimi l’annuncio delle grandi opere di Dio (2,11), un discorso che Luca a ragione tace.
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1.2. La folla La folla di ebrei che si incontra nelle Pentecoste accoglie benevolmente anche in seguito il movimento di Gesù. Luca non cessa di ripeterlo, in un ritornello che abbraccia per lo meno i primi 6 capitoli iniziali. I sommari lucani presentano sempre la simpatia che i discepoli di Gesù godono presso il popolo (2,47; 4,33; 5,13). In fondo, si ripete per At lo stesso schema del Vangelo: inizialmente la folla acclama Gesù, come adesso i suoi discepoli. Ad un tratto, però, interviene un cambiamento nel sentimento popolare: alla venerazione subentra l’avversione, ciò che condurrà Gesù a morte23 e i discepoli alla persecuzione. Luca non spiega il perché, ma registra un mutamento terminologico per ciò che concerne Atti: si passa infatti da un abbondanza dei termini laoév e o\éclov nei primissimi capitoli alla loro disparizione in quelli di centro e negli ultimi24, dove il loro posto è occupato dal termine \Ioudaiéoi, quest’ultimo utilizzato sino alla fine del libro per designare l’opposizione di Israele al messaggio dei discepoli di Gesù. Un’opposizione che comincia al tempo della predicazione di Stefano e che diviene manifesta con Paolo a Damasco25, per poi aumentare d’intensità.
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Sul ruolo della folla durante il processo a Gesù e la sua morte cfr R. J. CASSIDY, Luke’s Audience, the Chief Priests and the Motive for Jesus’ Death, in R. J. CASSIDY - P. J. SCHARPER (a cura di), Political Issues in Luke Acts, New York 1983, 146-167, in particolare 150-152. 24 D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 146 nota 50: «Laoév compare 29 volte tra At 2 e At 12; 7 volte tra i capitoli 13 e 19; 11 volte nel resto degli Atti. Troviamo 5 occorrenze di o\éclov tra At 1 e At 11; 12 occorrenze tra At 13 e At 19 e 5 per la fine del testo». 25 J. B. TYSON, Images of Judaism in Luke-Acts, South Carolina 1992, 119: «For the first time in Luke-Acts we encounter the use of the general term “the Jews” (9:22) to designate opponents of Jesus and his followers. Prior to this occurence, the opponents have been either individuals or specific groups of Jews, such as Pharisees, Sadducees, chief priests, elders, or scribes. In 9:22, the specific denotation is the Jews of Damascus, but this passage marks the beginning of a tendency to designate opponents not by any specific name but rather as the “Jews”».
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1.3. Farisei e sadducei a) nel Vangelo. La posizione che farisei e sadducei assumono nei confronti dei discepoli di Gesù in Atti prolunga quella stessa evidenziata nel Vangelo. In quest’ultimo, infatti, i farisei appaiono soltanto in Galilea, mentre sono assenti da Gerusalemme: compaiono soltanto al momento dell'ingresso di Gesù nella Città Santa (Lc 19,39) e dalle loro parole si comprende che probabilmente avevano infine accettato Gesù stesso come un maestro26. Precedentemente, i farisei erano stati impegnati, infatti, in alcune dispute di natura halakhica27 contro Gesù, dal quale erano sempre stati sconfitti28. Lo stesso Gesù, nella descrizione, a volte caricaturale29 che da dei farisei, non sembra manifestare odio verso di loro30: al contrario, è spesso ospite di riguardo ai loro banchetti (7,36;14,1), dove appunto si svolgono le discussioni sulla halakhah. L’unica paura di questi capi della Galilea, alcuni dei quali benestanti, era quella di perdere l’influenza sul popolo a causa di Gesù, un’influenza insieme religiosa e politica31: ma non
26 Così infatti si rivolgono a Gesù: «Maestro (didaéskale), rimprovera i tuoi discepoli» (Lc 19,39). Di opinione contraria J. T. CARROLL, Luke’s Portrayal of the Pharisees, in The Catholical Biblical Quaterly 50/1 (1988) 611: «Further, the culmination of the travel narrative reveals that, finally, the Pharisees reject Jesus (19:37-40)». 27 R. FONTANA, L’“Opera”, cit., 219: «Le controversie coi farisei che riempiono il racconto di Luca sembrano piuttosto controversie di scuola, secondo il costume rabbinico per il quale intorno alla Torah si combatte, si vince e si perde, come in tutte le guerre, pur trattandosi però della “guerra della Torah”, milhamah shel torah, che consiste nel sapere argomentare e controbattere gli argomenti dell’altro. Lo scontro tra i farisei e il gruppo di Gesù si colloca così sul piano del loro insegnamento». 28 Sui conflitti tra farisei e Gesù cfr S. MASON, Chief Priests, Sadducees, Pharisees and Sanhedrin in Acts, in R. BAUCKHAM, The Book, cit., 134-142. 29 A parere di F. W. DANKER, Reciprocity in the Ancient World and in Acts 15:23-29, in R. J. CASSIDY-P. J. SCHARPER (a cura di), Political Issues, cit., 57 nota 26: «A goodly number of Pharisees probably did not fit the caricature that is often ascribed to them». 30 S. MASON, Chief Priests, cit., 134: «Jesus does not yet condemn the Pharisees, but clearly distinguishes his aims from theirs». 31 I farisei avevano esteso la loro halakhah sul popolo ed anche sulla classe sacerdotale e sui sadducei, al punto che questi ultimi, se volevano essere aprezzati dalla folla, dovevano condursi nella cosa pubblica secondo i dettami della tradizione farisaica: così secondo Flavio Giuseppe, Ant. XVIII, 17.
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si astengono per questo dall’informare Gesù del fatto che Erode lo cerca per metterlo a morte (Lc 13,31). I sadducei, di contro, sono presenti nel Vangelo soltanto a Gerusalemme: come entourage del sommo sacerdote e classe aristocratica non possono che non risiedere nella Città Santa, dove conducono i loro affari politici ed economici in relazione all’autorità romana32. Il gesto di Gesù che scaccia i venditori dal Tempio era una chiara accusa degli interessi economici di sadducei e sacerdoti; allo stesso tempo, esso costituiva una minaccia al mantenimento dello status quo. Le autorità romane prendevano pretesto da figure di visionari, che promettevano liberazioni apocalittiche dagli stranieri, per far strage di ebrei, ciò soprattutto in occasione delle feste, così come racconta Flavio Giuseppe nei suoi scritti. Non che i sadducei fossero contrari ad una rivolta armata a Roma, ma essa sarebbe avvenuta con loro al comando e nei tempi e modi che essi avrebbero stabilito, come in effetti la storia ha dimostrato in seguito. Inoltre, ciò che suscita l’ostilità acerba dei sadducei è il fatto che Gesù insegni nel Tempio: l’insegnamento nel Tempio è infatti loro esclusivo privilegio. Ed anche se, nell’unico momento in cui entrano in scena personalmente, e non attraverso emissari, riconoscono a Gesù la giustezza del suo argomentare, tuttavia rifiutano il contenuto della sua predicazione, cioè la risurrezione, la quale invece era parte predominante ed innovativa dell’insegnamento farisaico33. b) in Atti. Il libro degli At riapre la scena proprio dal Tempio34: lì i discepoli di Gesù, come il loro maestro, continuano ad insegnare la dottrina della risurrezione, confermata peraltro dallo stesso Gesù, ed ottengono un 32 S. MASON, Chief Priests, cit., 143: «Jerusalem is different because it represents the seat of power in Jewish life, the home of central Jewish government (even the Roman governor and Galilean tetrarch are there), and the economic heart of Jewish society. Whereas Jesus has been bringing good news to the deprived, he will now confront the powerful with bad news (cf. Lk. 6:20-26)»; così pure R. J. CASSIDY, Luke’s Audience, cit., 154: «the priests of these families possessed considerable economic as well as religious influence. In addition, since the reigning high priest was the president and convener of the Sanhedrin, and since former high priests and other prominent temple officials held seats on this body, these priestly family also possessed a high degree of political influence». 33 Ibid.,144-145. 34 M. HENGEL, The Geography, cit., 35 nota: «The first seven chapters of Acts are exclusively limited to Jerusalem» e, all’interno della città, nel Tempio (p. 37ss).
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buon successo tra la folla35. Come nel caso di Gesù, anche adesso con i suoi discepoli i sadducei, e accanto a loro il sommo sacerdote e le altre famiglie dell’aristocrazia sacerdotale36, non possono tollerare che costoro continuino a diffondere questa dottrina37. Ecco allora che Luca disegna una serie di scene simili tra loro, costruite sul medesimo canovaccio38: i discepoli insegnano nel Tempio, vengono quindi arrestati, si difendono con franchezza39 asserendo che obbediscono alla volontà di Dio, vengono fustigati e rilasciati. È la paura della folla che non permette ai sadducei e a chi con loro di emettere una sentenza capitale sui seguaci di Gesù40. A sorpresa entra poi in scena Gamaliele41, un fariseo dottore della legge, che,
35 D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 165: «la comunità dei credenti cresce numericamente (2,41; 4,4; 5,14) e l’attività degli apostoli aumenta di intensità (2,43; 3,7s.; 4,33; 5,12-16)». 36 In At 4,6 vengono finalmente forniti alcuni nomi: il sommo sacerdote Anna, Caifa, Giovanni, Alessandro e quanti appartenevano a famiglie di sommi sacerdoti. 37 S. MASON, Chief Priests, cit., 148. 38 D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 163: «Tra il primo sommario 2,42-47 e la conclusione 5,42, si vede che la narrazione è non solo ritmata dai sommari, ma anche retta da uno schema ricorrente che presenta in successione i seguenti elementi: sommario – evento (scena) – interpretazione (discorso) – effetto contrastato. Questo schema, con qualche variante, si ripete quattro volte nel corso del racconto». 39 È un tema caro a S. MASON, Chief Priests, cit. 149, per il quale il termine parrhsiéa individuerebbe i discepoli come un gruppo filosofico nella narrazione lucana (cfr anche p. 130). In tal modo il movimento di Gesù poteva ben presentarsi agli occhi del lettore gentile, che considerava l’ebraismo come una filosofia. Forse, in questo Luca segue Flavio Giuseppe, che presentava le quattro scuole interne alla società ebraica come ai|éresiv, termine che ricorre in At per farisei, sadducei e discepoli di Gesù (5,17; 15,5; 24,5.14; 26,5; 28,22). Da rilevare, dunque, che il movimento di Gesù agli inizi è soltanto un gruppo accanto ad altri all’interno della tradizione religiosa ebraica. Sulla narrazione lucana redatta secondo gli stilemi grecoromani in modo da captare la benevolenza dei gentili cfr D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 94-101. 40 Il tema della paura della folla è ricorrente nel Vangelo e in Atti: Lc 20,19; At 4,21; 5,26. 41 L’espressione tendente a sottolineare l’effetto sorpresa è di S. MASON, Chief Priests, cit., 150 che osserva: «The Pharisees’ presence in the council will become increasingly important as the narrative of Acts proceeds. It seems doubtful that Luke means to highlight the tension; rather, he is quietly introducing Pharisees in the council for a new retorical situation. This can only mean that he has always known about their presence, but suppressed that information when discussing the events related to Jesu’s death. And this
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con ragioni dettate dalla prudenza42, invita i sadducei nel Sinedrio a desistere dalla loro intenzione di condanna. Gamaliele qui esprime la volontà della folla, ma non necessariamente la simpatia del gruppo farisaico verso il movimento di Gesù. A questo punto tutti i personaggi del mondo ebraico, sadducei e sacerdoti, farisei, la folla sono stati messi in scena nel loro differente rapporto con il nascente movimento di Gesù, il quale appare come un nuovo gruppo sorto all’interno del mondo ebraico e come tale esposto a critiche o ad accoglienze. Ma il ritmo del racconto, reso statico dai racconti, è cresciuto, specialmente nell’ultima sequenza (5,17-42): il detto di Gamaliele crea una sorta di suspense, che spinge a procedere nella lettura per verificare se veramente questo movimento intra-ebraico dei seguaci di Gesù venga da Dio (5,38-40)43.
1.4. Il punto di rottura L’uccisione di Stefano rappresenta il punto di rottura e la fine della “primavera della Chiesa”44. Il sinedrio intero condanna e lapida questo ebreo
implies that he has a specific role for the Pharisees in his narrative, wich he does not wish to confuse with the Sadducean chief priests’ role». 42 Ibid., 151; R. FONTANA, L’ “Opera”, cit., 221. 43 D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 166: «Il narratore si adopera a opporre una comunità cristiana unanime (2,42-47; 4,23-35; 5,12b) ad autorità giudaiche ostili (4,1-3.17; 5,17s. e 33.40), disorientate (4,13-17.21) o divise (5,21b-26.33-39); da una parte l’armonia, dall’altra la divisione, l’odio. In questo faccia a faccia, ad essere in gioco non è la necessità di assicurare una gestione adeguata della comunità, ma il fatto di sapere — per riprendere i termini di Gamaliele — se la Chiesa è “da Dio” (e\k jeou% 5,39). Il lettore lo sa fin dalla Pentecoste, ma nel piano del racconto Israele deve ancora venirne a conoscenza». Marguerat pone la conferma storica nel sempre crescente numero di credenti e nella comunione dei beni che caratterizza i discepoli di Gesù. Noi riteniamo, seguendo l’ordine della narrazione, che una prova dell’ “origine divina” del movimento di Gesù si giochi nei capitoli successivi, quando i discepoli si troveranno a dover definire la loro identità come seguaci di Gesù nell’impatto che essi, ebrei, avranno con i primi credenti gentili. 44 Si tratta di un punto condiviso da tutti gli studiosi: cfr D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 147; J. B. TYSON, Images, cit., 116; P. BOSSUYT - J. RADERMAKERS, Lettura, cit., 312; S. MASON, Chief Priests, cit., 151.
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cristiano di lingua greca: e nel sinedrio, come già avvertiti dal capitolo precedente, non siedono più soltanto il sommo sacerdote con i sadducei, ma anche i farisei, i quali a loro volta si fanno portavoce della volontà del popolo. Il fronte del no dell’ebraismo si fa più compatto, anche se le posizioni non saranno mai del tutto unanimi45. Su che basi la condanna? Sulla base di un accusa avanzata dalle sinagoghe di lingua greca: «quella dei liberti comprendente anche i Cirenei, gli Alessandrini e altri della Cilicia e dell’Asia» (6,9). Costoro denunciano Stefano «di pronunziare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio» (6,11), cioè, per essere più chiari, «di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la Legge» (6,13). Non sembrano poi così false queste accuse46 se poste in relazione al lungo ed articolato discorso di Stefano dinanzi al Sinedrio47. Egli stesso, difatti, afferma, in una miscellanea di testi biblici da lui interpretati, che «l’Altissimo non abita in costruzioni fatte da mano d’uomo» (7,48). L’attacco è chiaramente rivolto contro il Tempio; per quello contro la Legge, non gli viene dato neppure il tempo di svilupparlo e Stefano può soltanto accusare a sua volta i membri del Sinedrio di non aver rispettato la legge (7,53). Viene così trascinato fuori e lapidato, mentre egli ripercorre le tappe della morte del suo Signore, Gesù48. In questo contesto
45 Su questo cfr D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 137-157 che, rileggendo i capitoli 6 e 13 di Atti a partire da At 28, nota come l’opposizione ebraica al movimento di Gesù non sia mai stata in realtà un fronte unico. 46 B. WITHERINGTON, The Acts of the Apostles. A Socio-Rethorical Commentary, Carlisle 1998, 243, riportando l’opinione di alcuni studiosi: «One of the more amazing parts of the argument of Baur and others who have followed him is that they insist that the false witnesses referred to in Acts 6:11-14 are in fact telling the truth about what Stephen’s views are». Riteniamo che Baur e gli altri che lo seguono abbiano qui ragione. 47 Discorso analizzato a livello della tradizione e della redazione da S. LÉGASSE, Sthephanos. Histoire et Discours d’Étienne dans les Actes des Apôtres, in Lectio Divina 147, Paris 1992, che a proposito delle accuse rivolte a Stefano osserva: «En somme, au sujet du rapport du discours avec les accusations, le texte suggère un jugement nuancé. Sans aucun doute, Luc a pour but premier de convaincre son lecteur non de la fausseté des accusations portées contre Étienne, mais de la justesse des idées et des critiques que lui, auteur chrétien, expose dans cette simili-apologie» (p. 92); cfr anche J. KILGALLEN, The Stephen Speach. A Literary and Redactional Study of Acts 7,2-53, Roma 1976. 48 Redazionalmente, il racconto della morte di Stefano richiama in maniera esplicita quello di Gesù.
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viene inserito Saulo49, che inizia a perseguitare la Chiesa con ferocia; e Luca informa che «tutti, ad eccezione degli apostoli, furono dispersi nelle regioni della Samaria e della Giudea» (8,1). La notizia incuriosisce: come mai gli apostoli non sono oggetto di persecuzione? Una risposta può essere fornita dall’incipit del cap. 6, che testimonia di conflitti interni alla comunità cristiana proprio in ciò che Luca aveva tratteggiato come la caratteristica peculiare dei discepoli di Gesù: la comunione dei beni50. E invece, da 6,1ss., si viene a sapere che non vi era equità nella ripartizione dei viveri, in questo caso alle vedove degli Ellenisti. È proprio questo il punto: non si è più in presenza soltanto di cristiani di lingua ebraica, adesso entrano in scena anche quelli di lingua greca51, appartenenti a coloro che provengono dalla diaspora e che si sono stabiliti a Gerusalemme, dove posseggono delle sinagoghe loro proprie, come prova già anticipatamente il racconto di Pentecoste. Costoro reclamano un’organizzazione in certo senso autonoma che viene loro concessa52: vengono designati 7 uomini53, saggi e pieni di Spirito (6,3), ai quali è affidato il servizio delle mense, mentre i Dodici si dedicherano così alla diffusione della parola di Dio. Il motivo del servizio delle mense affidato ai 7 contrasta con il seguito della narrazione: i Dodici, infatti, non predicano affatto. Sono invece questi sette, che posseggono tutti
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La presenza di Saulo, oltre che preparare alla narrazione della sua conversione al cap. 9, può anche significare una sua appartenenza, in quanto ebreo di Tarso e dunque della diaspora, alle sinagoghe che erano insorte contro Stefano. Il che significa che Paolo e Stefano appartengono allo stesso milieu: cfr M. HENGEL, Il Paolo precristiano, Brescia 1992. In 9,29 Paolo discute a Gerusalemme con gli ebrei di lingua greca. 50 D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 167. 51 Dopo aver analizzato l’occorrenza del termine \Ellhnisthév in 6,1; 9,29; 11,20, B. WITHERINGTON, The Acts, cit., può concludere che «in Acts 6 and 9 Luke uses the term “Hellenist” to refer to Diaspora Jews living in or around Jerusalem (or their descendants) for whom Greek is their spoken language, and who attended synagogues where Greek was the language of worship (e. g., the synagogue of the Freedman–6:9)» (p. 242). 52 Cfr J. DUPONT, Les ministères de l’Église naissante d’aprés les Actes des Apôtres, in ID., Nouvelles Études, cit., 154: «Pourvu d’une direction collégiale, ce groupe devient une communauté autonome par rapport à la communauté des Hébreux». 53 Il numero di sette uomini fa pensare alle amministrazioni autonome locali ebraiche: cfr S. SAFRAI, Jewish Self-governement, in S. SAFRAI - M. STERN, The Jewish People, cit., 414.
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nomi greci, in particolar modo due di loro, Stefano e Filippo, a darsi alla predicazione54. Cosa suscita l’avversione all’annuncio di Stefano e dunque alla sua persona? Il radicalismo del suo messaggio: di Stefano, infatti, rispetto ai Dodici e ai discepoli, non è detto che egli insegnasse nel Tempio. Anzi si afferma chiaramente che Stefano parla contro di esso e contro la Legge di Mosè. Si tratta di un primo travalicamento di confini, che riesce intollerabile a tutti: non è più in gioco, infatti, l’autorità di insegnare nel Tempio, ma si dichiara decaduto il luogo stesso di esercizio di questa autorità. E allora ecco che gli ebrei della diaspora, residenti a Gerusalemme, insorgono contro uno dei loro membri, gelosi tra l’altro del successo che egli riscuoteva tra la folla55. La cosa, probabilmente, non piace neppure ai Dodici e ai discepoli di lingua ebraica, loro che continuano a frequentare il Tempio per la preghiera56. E non si dimentichi che in 6,8 si narra anche della conversione di un gran numero di sacerdoti, legati pertanto al Tempio, il che contribuì o a sollevare la questione o a inasprire l’animosità nei confronti di Stefano. Le parole di Gamaliele ritornano allora a questo punto del racconto: se il movimento di Gesù esce fuori dal Tempio e da Israele, può dirsi ancora da Dio? Il problema, avvertito chiaramente dagli ellenisti, come era naturale d’altronde, è l’apertura del movimento “cristiano” ai non ebrei57. 54
Come rileva J. DUPONT, Les ministères, cit., 152-153. In 6,8 di Stefano è detto che “faceva grandi prodigi e miracoli tra il popolo”. 56 At 2,46; 3,1; 5,12.42. Da notare che Pietro, dopo l’incontro con Cornelio, riproporrà al Concilio di Gerusalemme le ultime parole di Stefano circa l’incapacità di osservare la Legge: infatti, l’espressione di Pietro in 15,10 è simile a quella di Stefano in 7,53, la quale è ripresa anche da Paolo ad Antiochia di Pisidia in 13,38-39: cfr J. DUPONT, Les discours, cit., 105. 57 Il problema non emerge nei capitoli precedenti: le varie citazioni vetero-testamentarie dei primi cinque capitoli delineano, come già rilevato, un movimento centripeto per gli ebrei della diaspora verso Gerusalemme. Qualora si volesse addurre Is 57,19 citato in 2,39 per vedere qui una prima apertura al mondo gentile, bisogna ricordare che l’appello isaiano alle genti si configura come un pellegrinaggio di queste ultime verso Gerusalemme e il suo Tempio, non senza l’osservanza della tradizione ebraica: esplicito in tal senso è Is 56,1-6, dove gli stranieri sono invitati a non profanare il sabato e a restare fermi all’alleanza. Per uno studio delle citazioni isaiane nel libro degli Atti cfr D. W. PAO, Acts and the Isaianic New Exodus, Tübingen 2000. Su questo affermano bene M. E. BOISMARD - A. LAMOUILLE, Les Actes des deux apôtres, II, Paris 1990, 170: «le récit du choix de Sept […] posait le problème 55
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Ma questo mette in crisi la stessa identità dei seguaci della Via58, che per il momento rinviano la domanda sul chi essi siano. Sarà l’opera dello Spirito a far avanzare, in maniera incalzante, la coscienza del problema59.
2. FIGURE “LIMINALI” 2.1. I samaritani La persecuzione degli ellenisti cristiani permette la diffusione della Parola (8,4). Come Luca ha già preannunciato (8,1), il messaggio evangelico raggiunge la Samaria60 ad opera di Filippo, uno dei Sette. Il piano geografico della missione delineato in 1,8 si sviluppa61. La Samaria, secondo Flavio Giuseppe, era un luogo di rifugio per quanti a Gerusalemme avevano problemi con l’autorità religiosa62; e Filippo, in questo momento, era uno di questi. In Samaria Filippo inizia la sua predicazione, contrastando un certo Simone, detto “il mago”, al quale ruba consensi e popolarità. Alla
de l’ouverture du christianisme aux non –Juifs; le group des Hellénistes en était partisan, tandis que le group des Hébreux n’en voyait pas la nécessité, s’appuyant sur telle ou telle parole attribuée à Jésus (cf. Mt 10, 5-6). D’où une certaine tension au sein de l’Église primitive». 58 Come sono definiti i discepoli di Gesù in 9,2. 59 Stefano ha posto il problema di un’apertura al mondo gentile, ma non si afferma esplicitamente che egli abbia predicato a dei pagani; la missione di Filippo si svolge in Samaria. La prima apparizione di un pagano convertito sarà, nel racconto e nell’intenzione di Luca, con Pietro al capitolo 10. Stefano e Filippo funzionano allora come figure di passaggio: cfr B. WITHERINGTON, The Acts, cit., 251 che parla appunto di “bridge figures”. 60 Sulla questione se Filippo predichi nella regione o nella città di Samaria cfr M. HENGEL, The Geography, cit., 70-76; B. WHITERINGTON, The Acts, cit., 282. Noi riteniamo con quest’ultimo che a Luca non interessi specificare la città, ma la regione. 61 Così J. B. TYSON, Images, cit., 116: «After the death of Stephen there is a scattering of the Christian believers, although the apostles remain in Jerusalem. This scattering results in an enlargement not only of the geographical setting in Acts 8-12 but also of the ethnic diversity among believers». Lo stesso afferma che i samaritani, dal punto di vista degli ebrei di Gerusalemme, erano consideranti come viventi alla periferia dell’ebraismo. 62 Ant. XI, 346.
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fine anche Simone si metterà alla scuola di Filippo, attratto più dai suoi prodigi che dal suo messaggio63. Spingendosi in Samaria, Luca offre al suo lettore un quadro nuovo64, caratterizzato dalla conversione di un e\éjnov65 non ben definito agli occhi degli ebrei e in perenne conflitto con questi ultimi66. Già dal Vangelo è noto come i samaritani non vollero accogliere Gesù per il fatto che stava dirigendosi a Gerusalemme: nonostante il tempio sul Garizim fosse stato distrutto sotto il regno di Giovanni Ircano, i samaritani rifiutavano di recarsi a quello di Gerusalemme e impedivano di farlo ai pellegrini provenienti dalla Galilea67. Gesù comunque non nutre odio per questa popolazione: e in molti casi l’esempio dei “buoni” samaritani è contrapposto a quello non sempre perfetto degli ebrei68. Un parossismo che denuncia come i samaritani fossero considerati dalla società ebraica: non certo dei gentili tout-court, anche se le loro origini, seguendo il racconto di 2Re 17, erano dubbie69, ma neppure degli ebrei a tutti gli effetti. Lo spiega bene Witherington: 63
Uno studio esauriente sulla figura di Simone il mago è offerto da F. HEINZ, Simon “le magicien”. Actes 8, 5-25 et l’accusation de magie contre les prophètes thaumaturges dans l’antiquité, in Cahiers de la Revue Biblique, Paris 1997. 64 L’espressione meèn ou&n in Lc apre sempre un nuovo discorso (1,6.18; 5,41; 8,25; 9,31, ecc.). 65 A parere di B. WITHERINGTON, The Acts, cit., 282 nota 13 l’impiego di questo termine in 8,9 vuole indicare che «the Samaritans can be distinguished as a people or nation who are not entirely Jews in the usual or most familiar sense, but neither are they Gentiles». 66 Come anche testimonia la letteratura rabbinica: cfr m.Qiddushin 4,1-3. 67 Lc 9,51-56: cfr M. HENGEL, The Geography, cit., 68: «We may probably understand the reason he gives for the rejection of Jesus and his disciples ‘because he was on the way up to Jerusalem’ (Lk 9:53) as an indication that he was also aware of the tension or clashes between Galilean pilgrims going up for festivals and the Samaritans. Presumably he was also aware of the Samaritan rejection of the Jerusalem cult». Per ciò che concerne il rifiuto del Tempio gerosolimitano, come anche per la concezione che si aveva dell’identità dei samaritani, Luca fornirebbe in tal modo una testimonianza che conferma quelle più tardive di Gv 4 e della letteratura rabbinica, quale m.Nedarim 3,10. Sugli assalti ai pellegrini di Galilea da parte samaritana cfr Ant. XX, 105-136. 68 Lc 10,29-37 (il buon Samaritano); 17,11-19 (il Samaritano lebbroso che ritorna a ringraziare Gesù). 69 Dal brano di 2Re 17 deriva ai samaritani l’appellativo di Cuti nella letteratura rabbinica.
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Carmelo Raspa «Luca chiaramente non vede i Samaritani solo come Ebrei giudei o galilei. Egli inoltre sa bene che la maggior parte degli Ebrei giudei e galilei vede i Samaritani come una razza mista o al peggio come estranei(cfr Lc 17,18a\llogenhév, “di un'altra razza/specie”). Essi erano visti come ambigui dal punto di vista etnico e eterodossi sotto il profilo religioso, ma non semplicemente come pagani o Gentili (cfr, ad es., Giuseppe Flavio, Ant. 11.340-341)»70.
Filippo, recandosi dai samaritani, rompe dunque alcuni limiti della tradizione, in ciò seguendo perfettmente la linea di Stefano. Ai samaritani convertiti amministra il battesimo nel nome (ei\v) del Signore Gesù. Stranamente, l’effusione dello Spirito è data da Pietro e Giovanni, inviati dalla chiesa di Gerusalemme che era venuta a conoscenza della cosa71: il cerchio si stava allargando e quelli rimasti nella Città Santa senza essere perseguitati non potevano più non interessarsi della questione. Giocavano in questo due fattori: da un lato, il controllo su questa prima missione operata dagli ellenisti cristiani, dall’altro la domanda sulla reale conversione dei samaritani, dei quali — lo ribadiamo — non si aveva una buona opinione72. 70
B. WITHERINGTON, The Acts, cit., 280: «Luke clearly does not see Samaritan as just like Judean or Galilean Jews. He is well aware that most Galilean and Judean Jews viewed Samaritans as at best half-breeds and at worst foreigners (cf. Luke 17:18-a\llogenhév, “of another race/kind”). They are viewed as ethnically strange and religiously rather heterodox, but not simply as pagans or Gentiles (cf., e. g., Josephus, Ant. 11.340-341)». Sull’eterodossia religiosa dei samaritani i testi rabbinici sono più espliciti di Luca. 71 Stesso atteggiamento della chiesa di Gerusalemme circa la missione ai gentili ad Antiochia: 11,19-21. 72 Ci distacchiamo qui dall’opinione di J. DUPONT, L’union entre les premiers chrétiens dans les Actes des Apôtres, in ID., Nouvelles Études, cit., 312: «Ne cherchons pas trop vite dans cette initiative Dieu sait quel désir d’affirmer son autorité ou de contrôler le travail missionaire de Philippe», seguito da D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 125: «L’azione di Pietro e Giovanni non manifesta dunque alcuna sfiducia nei confronti della missione di Filippo». A noi pare, al contrario, che senza questo controllo non si possa spiegare l’azione dello Spirito che conferma, dinanzi a Pietro e Giovanni, la giustezza della missione ai samaritani. Lo stesso sarà per Cornelio. Seguiamo in questo M. GOURGUES, Esprit des commencements et Esprit des prolongements dans les Actes. Notes sur la «Pentecôte des Samaritains» (Act., VIII, 5-25), in Revue Biblique 93/3 (1986) 379: «Le passage de VIII, 14, cité plus haut, laisse entendre que la venue des Samaritains à la foi chrétienne comporte, aux yeux des apôtres, quelque chose d’irrégulier ou d’anormal. On délègue Pierre et Jean comme si quelque chose était à vérifier, à mettre en ordre ou, au moins, à reconnaître»; e ancora M. QUESNEL, Baptisés, cit., 61: «L’intervention des apôtres
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Ed è su questi calcoli umani che si impianta l’opera dello Spirito: scendendo sui samaritani, lo Spirito dimostra l’assenso divino sia alla missione presso le genti di Samaria sia ad un’apertura del messaggio evangelico in generale, ricordando così agli apostoli il mandato di Gesù di essere testimoni sino agli estremi confini della terra (1,8)73.
2.2. L’etiope Lo Sprito opera l’incontro di Filippo con l’etiope e la conversione di quest’ultimo. Si è sulla strada74 del mezzogiorno75 verso Gaza76. L’etiope è descritto da Luca come «un eunuco, un funzionario di Candace, regina di Etiopia, sovrintendente a tutti i suoi tesori, venuto per il culto a Gerusalemme» (8,27). La presentazione di questo nuovo personaggio
exprime sans doute l’acceptation de l’entreprise de Philippe par les autorités de l’Eglise. Sans être aussi importante que l’accueil des premiers païens dans la communauté chrétienne, l’évangélisation de la Samarie est néanmoins l’une des grandes étapes de la diffusion du message chrétien (cf. Ac 1, 8). Il est normal que l’oeuvre commencée par Philippe presque par hasard reçoive, de la part de l’Église de Jérusalem, une sorte de certificat de garantie, un sceau qui en exprime la légitimité». 73 Ancora M. GOURGUES, Esprit, cit., 383 seguito da D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 125. Esplicito su questo punto B. WITHERINGTON, The Acts, cit., 289 in risposta alla questione sul perché nel racconto della conversione dei samaritani lo Spirito discenda solo in presenza di Pietro e Giovanni, afferma: «The answer to this question would seem to be because of the long-standing antipathy and hostilities between Jews and Samaritans (cf., e.g., John 4:9). Confirmation of true conversion would be needed by the mother church if Judean and Galilean Jews were to believe in the salvation of Samaritains. That confirmation comes in the form of the Samaritans receiving the Holy Spirit when the apostles laid hands on them, the same sort of infallible confirmation that Peter later remarks on as proof that God also accept Gentiles among his people (cf. 11:15-17)». 74 Il termine o\doév che ricorre ai vv. 26.36.39 è posto in relazione con il bisogno dell’eunuco di qualcuno che lo guidi sulle vie della Scrittura (31: o\dhgeéw): cfr P. LENHARDT - A. C. AVRIL, Trois Chemins: Emmaus, Gaza et Damas, in Cahiers Ratisbonne 4 (1998) 35; P. BOSSUYT - J. RADERMAKERS, Lettura, cit., 344. 75 La costruzione greca kataè meshmbriéan può indicare sia la direzione (verso sud) sia il tempo (mezzogiorno). 76 L’espressione “che è deserta” deve probabilmente fare allusione alla distruzione di Gaza ad opera di Alessandro Ianneo nel 96 a. C.
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conduce il lettore già fuori dallaTerra di Israele, nel regno della Nubia77, con capitale Meroe, nel quale le regine madri portavano il titolo di Candace e svolgevano un ruolo politico di primo piano. L’etiope è un uomo importante, giacchè preposto all’amministrazione dei beni reali, e molto facoltoso, potendo affrontare un viaggio a Gerusalemme per il culto78. Trattandosi però di un eunuco, non si comprende bene a quale rito religioso ebraico abbia potuto prendere parte: la legislazione deuteronomica, infatti, interdisce all’eunuco l’ingresso nella comunità di Israele (Dt 23,1). Di lui Luca, pertanto, non dice la condizione: non lo definisce né un proselito, né un timorato di Dio né un simpatizzante. Filippo gli si accosta su ordine dello Spirito, capisce che l’etiope sta leggendo il rotolo di Isaia79, gli chiede se comprende ciò che legge: alla risposta negativa dell’etiope, Filippo si propone come sua guida nei testi scritturistici e così giunge a parlargli di Gesù80. La presenza di un’oasi favorisce il battesimo dell’etiope che riprende il suo cammino pieno di gioia81. 77 L’Etiopia dai geografi dell’antichità era definita come il “confine della terra”. Se Luca ha inteso così in 1,8 ciò significa che, nella trama del racconto, a partire dal cap. 10 si apre davvero qualcosa di nuovo e di inaspettato per il lettore, nonché per gli stessi protagonisti del libro: cfr B. WITHERINGTON, The Acts, cit., 290; M. HENGEL, Acts and the History of Earliest Christianity, London 1980, 80. 78 Cfr P. BOSSUYT - J. RADERMAKERS, Lettura, cit., 344; B. WITHERINGTON, The Acts, cit., 295. 79 Il passo letto dall’etiope è Is 53,7-8 nella versione dei LXX: J. N. ALETTI, Il racconto, cit., 41 a tal proposito ricorda che «gli esegeti hanno già suggerito che il contenuto del passo viene notificato al lettore perché possa individuarvi i tratti che l’eunuco ha in comune con l’uomo sofferente di Is 53: essere umiliato e senza discendenza. Infatti il testo di Isaia ha senso solo se si tiene conto dell’insistenza con la quale il narratore ripete il qualificativo “eunuco”: in tutto cinque volte, ai vv. 27.34.36.38 e 39, e ciò a vantaggio del lettore». Il testo di Is 53 è da leggersi insieme a quello di Is 56, 4-5 per ciò che concerne la sorte dell’eunuco e con quello di Is 18,7; 45,14 per ciò che riguarda l’afflusso degli Etiopi a Gerusalemme (cfr anche Sal 68,32; 87,4). 80 Si riconosce dagli studiosi che il racconto della conversione dell’etiope è modellato su Lc 24: cfr P. LENHARDT - A. C. AVRIL, Trois Chemins, cit., 38; B. WITHERINGTON, The Acts, cit., 292; P. BOSSUYT - J. RADERMAKERS, Lettura, cit., 350. 81 Gli esegeti ritengono che il brano presenti delle allusioni a 2Re 5 (la guarigione del lebbroso Naaman il siro) e a 2Re 2,11-12 (il rapimento di Elia), evidenziando tuttavia le differenze che corrono tra essi. Sulla presenza o meno del v. 37 al momento del battesimo dell’etiope cfr J. HEIMERDINGER, La foi de l’eunuque éthiopien. Le problème textuel d’Actes 8/37, in Études Théologiques et Religieuses 63 (1988) 521-528.
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Si gioca qui l’universalismo lucano82 in un duplice senso: geografico e religioso. La parola di Gesù si estende così oltre i confini della Terra di Israele, raggiungendo quanti dalla comunità ebraica erano esclusi. Ma la conversione dell’etiope avviene in territorio ebraico: e l’etiope discendeva da Gerusalemme. Non è ancora il tempo per una missione allargata ai gentili. Luca, infatti, fa condurre Filippo dallo Spirito a Cesarea: da qui, dopo l’intermezzo necessario della narrazione della conversione di Saulo83, riprenderà al cap. 10 il racconto con l’ingresso in scena del primo pagano, Cornelio. La vicenda dell’eunuco, legata alla conversione dei samaritani, costituisce dunque una premessa allo sconfinamento del movimento di Gesù nell’alveo della gentilità84. Si tratta di figure di passaggio85, che rivelano 82 Così B. WITHERINGTON, The Acts, cit., 293: «One of the major theme throughout Luke-Acts is the universalization of the gospel». 83 Necessario perché segna l’avvicinamento immediato al mondo della gentilità in una figura che possedeva tutte le caratteristiche per far avanzare la trama narrativa in questo senso: Paolo è, infatti, un ebreo della diaspora, venuto a Gerusalemme, e appartiene alle sinagoghe di lingua greca, le stesse da cui proveniva Stefano. La sua conversione si pone fuori da Gerusalemme, sulla via per Damasco, dunque nella diaspora stessa (cap. 9). Un ruolo decisivo per il suo ingresso nel movimento di Gesù giocò dunque l’aver assistito al processo ed alla morte di Stefano, nonché la stessa comunità della capitale siriana. Da notare che Paolo a Damasco discute con i Giudei (9,22) e, ritornato a Gerusalemme, con gli ebrei di lingua greca (9,29), ricalcando così le orme di Stefano. Il racconto si appresta, dopo la conversione di Cornelio, a configurarlo come missionario tra i pagani insieme a Barnaba, senza che egli perda però la coscienza del primato dei Giudei ai quali per primi deve essere rivolto il messaggio di Gesù: la sua predicazione descritta in At 13-14 ricalca dunque il cammino da Damasco a Gerusalemme. Inoltre, la sua conversione libera il racconto dall’aria cupa e colma di paura che avvolge la comunità dei discepoli di Gesù a causa di Saulo persecutore: infatti, in 9,31 Luca può infine ritrarre la Chiesa immersa in un’aurea di pace in Giudea, Galilea e Samaria, vale a dire in tutta la Terra di Israele, raggiunta dal vangelo. Mancano soltanto le città costiere, abitate dai pagani. 84 In questo concordano tutti gli studiosi: M. QUESNEL, Baptisés, cit., 56: «Cependant, pour les Samaritains comme pour les païens, Philippe n’est qu’à l’origine de l’éclatement. L’eunuque baptisé en Ac 8,38 ne reparaîtra pas et on ne pourra parler d’ouverture reconnue de l’Église aux païens qu’après les événements de Césarée où Pierre devient l’acteur principal»; J. HEIMERDINGER, La foi, cit., 524: «Cet événement (dell’eunuco) lie, évidemment, notre récit à celui où les Samaritains reçoivent l’évangile. Les deux épisodes font suite à la mort d’Étienne (7/51-53), qui marque l’entrée en scène de Paul, comme persécuter de l’Eglise. Or celui-ci reparaît juste après le baptême de l’eunuque, cette fois pour se convertir et devenir l’apôtre des Gentils. La conversion de l’eunuque éthiopien est ainsi
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però quanto era ravvisato già da Gamaliele: il movimento di Gesù è davvero voluto da Dio. Allo stesso tempo, i discepoli della Via cominciano a porsi adesso il problema della loro identità, messa in crisi dalla presenza di queste figure, ambigue o esterne alla loro ebraicità, che entrano a far parte del loro gruppo con il consenso divino.
2.3. I proseliti La menzione di proseliti negli Atti si ha soltanto in tre occorrenze: 2,11 (proseliti accostato a Giudei); 6,5 (Nicola, proselito di Antiochia, uno dei Sette); 13,43 (proseliti credenti). La loro presenza, dal punto di vista narrativo, registra un’espansione geografica e teologica insieme: a Pentecoste essi si trovano insieme agli ebrei di nascita a Gerusalemme, con i quali condividono la realizzata promessa del raduno d’Israele. Con Nicola essi sono collocati in un ambito che è loro più naturale, quello degli ebrei di lingua greca provenienti dalla diaspora. Nicola stesso proviene da Antiochia ed entra a far parte del collegio dei sette, insieme a Stefano e Filippo: il cerchio, dunque si allarga, uscendo fuori da un ambiente strettamente e solamente ebraico. Si giunge così ad Antiochia di Pisidia, in piena diaspora, fuori dalla Terra. Qui i proseliti stanno tra i timorati di Dio, dai quali sono distinti86, e i Giudei. comme la préfiguration de l’entrée dans le Peuple de Dieu des croyants non juifs»; B. WITHERINGTON, The Acts, cit., 280: «The Samaritan mission does not lead to the Gentile mission. We are at that intermediate stage between the period of the mission only to ordinary Jews and the mission to Gentiles»; D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 125: «L’evangelizzazione della Samaria è il primo sconfinamento del Vangelo fuori Gerusalemme e dal suo ambiente legato alla Giudea. L’estensione geografica promessa dal Risorto (1,8) comincia a realizzarsi, ma il passaggio deve ancora essere espressamente notificato: è il compito dello Spirito». 85 R. FONTANA, L’“Opera”, cit., 230 a proposito del modo in cui Luca tratteggia queste figure: «Si direbbe che Luca operi coi suoi caratteri seguendo un’alchimia dell’umano che “scioglie” e “coagula” la loro sostanza onde avanzare nel racconto». 86 Contrariamente a ciò che ritiene N. J. MCELENEY, Conversion, Circumcision and the Law, in New Testament Studies 20 (1974) 327, il quale, per giustificare la sua ipotesi circa l’esistenza di proseliti incirconcisi, li assimila ai timorati di Dio ai quali Paolo si rivolge aprendo il proprio discorso (13,16) ad Antiochia. Paolo, infatti, non crediamo consideri i timorati di Dio alla stessa stregua dei proseliti. Ciò è giustificato proprio dal fatto che il
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Luca, in tal modo, oltre a fornire un’ulteriore testimonianza, accanto ad altre, della presenza di convertiti nell’Impero, utilizza queste figure dall’identità ambigua87 per narrare di una presenza pagana all’interno dell’ebraismo, anche se si tratta di convertiti. I proseliti, difatti, nonostante fossero stati circoncisi, potevano essere forse visti da alcuni ebrei di nascita sempre come dei gentili venuti alla fede; allostesso modo, alcuni tra i gentili potevano considerarli oramai come ebrei. Ai proseliti la legislazione ebraica vietava alcune cose, come il matrimonio con membri della classe sacerdotale, il che indica come il loro status all’interno della società ebraica non fosse per nulla pari a quello degli ebrei per nascita88. La loro comparsa nel racconto contribuisce, pertanto, a porre la domanda sull’apertura del movimento di Gesù ai gentili, e ciò proprio a partire da Stefano per proseguire sino alla fine della narrazione, cosa che non mancherà di suscitare l’opposizione di alcuni dei Giudei89; e, cosa ancor più importante, i proseliti sollevarono il problema, proprio in quanto tali, della circoncisione o meno dei gentili che avevano aderito al vangelo, offrendo così ai discepoli di Gesù l’occasione di interrogarsi sulla loro identità90. termine fobouémenoi o seboémenoi non ha un senso tecnico, per cui può essere utilizzato anche in forma aggettivale, come è appunto in 13,43, senza per questo negare l’esistenza dei timorati di Dio o ridurla ad una mera invenzione lucana: su questo cfr pure J. J. COLLINS, A Symbol of Otherness, in J. NEUSNER - E. FRERICHS (a cura di), “To see ourselves as others see us”. Christians, Jews, “Others” in Late Antiquity, Chico 1985, 180; B. WANDER, Timorati di Dio e simpatizzanti. Studio sull’ambiente pagano delle sinagoghe della diaspora, Cinisello Balsamo 2000, 225. 87 J. J. COLLINS, A Symbol of Otherness, cit., 175; fu soltanto l’istituzione di un rituale comprendente circoncisione e battesimo, in un’età più tarda, a dissipare ogni dubbio circa l’ebraicità piena dei proseliti: cfr b.Yebamot 47ab. 88 S. J. D. COHEN, Crossing the boundary and becoming a Jew, in Harvard Theological Review 82/1 (1989) 30. 89 A proposito del discorso di Paolo ad Antiochia di Pisidia e delle conseguenze che esso produce (13,16-52) P. BOSSUYT - J. RADERMAKERS, Lettura, cit., 437 notano infatti che «la predicazione di Paolo sembra mettere in discussione le prerogative del popolo giudaico stesso, la sua specificità in mezzo alle nazioni»: il principio è valido per l’intera trama narrativa di At a cominciare da Stefano. 90 R. FONTANA, L’“Opera”, cit., 232: «Per quanto essa (la circoncisione) non fosse praticata unicamente dagli ebrei, in epoca romana la circoncisione costituiva il simbolo della loro alterità. Eppure, pur essendo da annoverare tra i simboli forti dell’identità ebraica, esistevano voci interne al mondo ebraico della Diaspora restie alla sua imposizione ai convertiti di origine pagana»; cfr ancora J. J. COLLINS, A Symbol of Otherness, cit., 164.
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2.4. I timorati di Dio Il primo pagano ad entrare sulla scena del libro di Atti, dopo ben nove capitoli91, è Cornelio, «centurione della coorte italica, uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia» (10,1-2), che risiede a Cesarea92. La narrazione riprende dal punto in cui era rimasta sospesa con Filippo, che proprio in questa città della costa si era arrestato (8,40). Cornelio è descritto come un fobouémenov toèn jeoèn, un gentile dunque vicino all’ebraismo, di cui osserva alcune pratiche. Queste ultime sono individuate da Luca nell’elemosina (poiw%n e\lehmosuénav) e nella preghiera (deoémenov tou% Jeou%), aspetti che sono ripresi nel discorso dell’angelo che gli appare, mentre egli recita la preghiera delle tre del pomeriggio, e che gli meritano di incontrare Pietro (vv. 4-6). Di Cornelio non è detto che si rechi in sinagoga o che partecipi a rinunioni pubbliche di preghiera; è un ufficiale romano93, attratto, come del resto molti dei gentili del suo tempo, dalla filosofia del giudaismo94. Mosso dalla visione avuta, Cornelio va in cerca di Pietro: è il movimento di un pagano verso l’ebraismo95. 91 R. FONTANA, L’“Opera”, cit., 224: «È solo al capitolo 10 del libro degli Atti che dei non ebrei entrano per la prima volta nell’Alleanza»; lo stesso nota però che una prima menzione dei gentili si ha in 4,25-26, la preghiera della nascente comunità di Gesù dopo la scarcerazione di Pietro e Giovanni. L’interpretazione midrashica del Sal 2 mette insieme infatti nemici interni, cioè Erode e i popoli di Israele, e nemici esterni, cioè Pilato e le genti, questi ultimi identificati dal termine roznim (pp. 227-229): Fontana qui pensa diversamente da D. FLUSSER, Judaism and the Origins of Christianity, Jerusalem 1988. 92 Circa la presenza di una coorte a Cesarea prima del 70 d. C. afferma B. WANDER, Timorati, cit., 220: «La presenza di questa coorte in quel luogo può essere documentata in modo certo solo dopo il 70 d. C., ma ciò non vuol dire che già in precedenza non abbia potuto essere di stanza in quella città. In ogni caso, i prefetti o procuratori responsabili della Giudea e di Gerusalemme avevano a Cesarea Marittima la sede del loro ufficio. La località era stata scelta sia per le migliori condizioni climatiche sia per la presenza del porto». 93 M. HENGEL, The Geography, cit., 62 parlando della città di Cesarea in relazione a Cornelio così afferma: «His name and the mention of the ‘Italian cohort’ characterise the hero of the stiry as a foreigner, as a Roman». 94 In questa attrazione, la quale tuttavia non raggiunge la piena conversione, si colloca la presenza dei timorati di Dio, gentili che stanno a cavallo tra il mondo gentile e quello ebraico, del quale ultimo recepiscono e pratico alcuni precetti, secondo la scelta personale di ciascuno. Luca si colloca tra le testimonianze sulla loro esistenza accanto a quelle degli autori classici e delle iscrizioni, mantenendo il senso non tecnico del termine (cfr
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Pietro, intanto, secondo lo sviluppo narrativo, si era recato nelle città ebraiche della costa per poi soggiornare a Giaffa (9,32-43)96. Qui anche lui, come Cornelio, a mezzogiorno, durante la preghiera, riceve una visione, della quale non afferra subito il significato: sarà lo Spirito a mostrargliene il senso. Le visioni di Pietro e di Cornelio sono poste in parallelo, per sottolineare l’azione divina che prepara l’incontro97. Avvertito dallo Spirito, Pietro va incontro agli uomini di Cornelio e si reca con loro a Cesarea: un ebreo quale Pietro fa il suo ingresso in una città pagana. Il centurione stesso, alla vista di Pietro, tradisce la sua appartenenza al mondo gentile, prostrandosi dinanzi ad un uomo98. È il suo entrare in una città e in una casa di pagani a far comprendere a Pietro la sua visione della tovaglia con i cibi immondi: Dio gli ha mostrato che nessun uomo è impuro (v. 28)99. Questo basta per affermare la dignità di ogni uomo al cospetto di Dio, ma non è sufficiente per conoscere se un gentile possa essere ammesso alla salvezza il problema dei proseliti credenti di 13,43), e questo contro A. T. KRAABEL, The Disapperance of God-fearers, in Numen XXVIII/2 (1981) 113-123. R. FONTANA, “L’Opera”, cit., 230-231 afferma: «Oltre a Luca, anche Filone e Flavio Giuseppe, la letteratura rabbinica e la letteratura classica testimoniano l’esistenza di tali simpatizzanti. Luca non avrebbe perciò inventato niente. Se finzione può esservi nel racconto di Luca circa la realtà che concerne i timorati di Dio, essa non consiste affatto nell’avergli dato esistenza, ma piuttosto nell’avere loro attribuito la scelta di un “immediato e totale abbandono del giudaismo per il cristianesimo”». 95 Così B. WANDER, Timorati, cit., 220: «In questo modo è documentato l’andamento storicamente corretto e incontrovertibile, secondo cui sono i pagani a orientarsi verso il Giudaismo e sono loro a prendere l’iniziativa». 96 M. HENGEL, The Geography, cit., 61: «Peter’s journey to the coast and so to the boundary of territory of Judah, i. e. Judaea according to Acts 1:8, is thus simply geographical preparation for the conversion of the first Gentile, the centurion Cornelius, in Cesarea». 97 Così P. BOSSUYT - J. RADERMAKERS, Lettura, cit., 367: «Come aveva già fatto a proposito di Saulo e di Anania, l’autore riprende il procedimento ellenistico delle “visioni parallele”». 98 R. FONTANA, “L’Opera”, cit., 230 nota come il gesto di Cornelio nei confronti di Pietro tradisca un retaggio pagano, il che conferma l’idea dei timorati di Dio come di coloro che stanno a metà tra il paganesimo e l’ebraismo. 99 Gli animali presenti sulla tovaglia, quelli terrestri e quelli del cielo, sembrano disegnati sul modello di quelli presenti nel racconto di Noè: a tal proposito P. BOSSUYT - J. RADERMAKERS, Lettura, cit., 368 nota 89: «Queste due categorie di animali ospitati nell’arca di Noè (Gen 7,1-16) rimandano ad un “principio” anteriore alla distinzione “Israelenazioni”».
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alla stessa stregua di un ebreo. Per questo Pietro chiede il perché del loro appello e, solo dopo che Cornelio narra per intero di nuovo la sua visione, può rendersi conto che «Dio non fa preferenza di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (v. 34)100. Il suo discorso ricalca gli annunci precedenti101: ma non gli è dato di finire, perché lo Spirito scende su Cornelio e i suoi come era sceso a Pentecoste sugli apostoli102. È Pietro stesso a rendersi conto della somiglianza (10,47 come 11,15.17). Ed è la discesa dello Spirito, preceduta da tutti gli altri abbondanti segni divini103, a confermare la legittimità della missione ai pagani104. È questa la seconda pentecoste. L’incontro tra Pietro e Cornelio, che costituisce il vertice della narrazione lucana in Atti105, segna il passaggio del limite, tanto che Pietro dovrà poi giustificarsi, rientrato a Gerusalemme, di fronte ai circoncisi, raccontando loro nuovamente tutto l’accaduto e interpretandolo per essi 100
D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 114 parla di una conversione di Pietro piuttosto che di Cornelio e alla stessa pagina nota 20 spiega: «Cornelio è esaudito (10,4), ma nulla nel racconto indica un cambiamento da parte sua. In questo incontro tra due mondi, il personaggio centrale è Pietro, di cui Dio forza progressivamente la resistenza (10,9-33.4448), per condurlo ad abbandonare la Torah rituale che stabiliva il confine tra il puro e l’impuro». 101 J. DUPONT, Dieu l’a oint d’Esprit Saint, in ID., Nouvelles Études, cit., 325, a proposito del discorso di Pietro di fronte a Cornelio nota: «s’adressant à des Gentils, Pierre ne craint pas de leur rappeler d’abord le privilège d’Israël: c’est en faveur de son peuple que Dieu a accompli les promesses qu’il lui avai faites (cf. 2, 39; 3, 25; 13, 26.33), bien que cette réalisation doive profiter à toutes les nations […]. Il tient cependant à ajouter tout de suite une mise au point qui anticipe sur les événements; après avoir nommé Jésus-Christ, il précise: “C’est lui le Seigneur de tous”. “De tous”, c’est-à-dire ici, sans hésitation possible: des Gentils aussi bien que des Juifs». 102 ID., Les discours, cit.,102 afferma: «Cette dernière intervention constitue le signe décisif […]. La prédiction se rapportait clairement à l’événement de la Pentecôte. La venue de l’Esprit Saint sur la famille de Corneille apparaît ainsi comme le nouvel accomplissement d’une parole du Seigneur qui s’était déjà réalisée en faveur du groupe apostolique le jour de la Pentecôte». 103 D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 148: «In nessun’altra parte del libro degli Atti troviamo una tale concentrazione di soprannaturale su di un evento. Il racconto tocca un punto particolarmente sensibile per Luca». 104 Ibid., 124: «Lo Spirito precede i credenti e provoca degli eventi attraverso i quali Dio fa conoscere il suo progetto». 105 Ibid., 148.
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(11,1-17). Il cammino della Parola, sotto l’impulso dello Spirito, si è allargato passando dal Tempio di Gerusalemme, attraverso la Samaria, l’eunuco e la conversione di Paolo, sino ai pagani, attratti verso il Dio di Israele. Lo Spirito conferma adesso chiaramente che questo movimento viene da Dio. Ma se il “miracolo” della conversione di un timorato di Dio con la sua famiglia e i suoi amici viene accolto dai credenti circoncisi con gioia, ciò non toglie comunque il problema identitario, che adesso non può più essere ignorato. Esso si riproporrà con forza in occasione della missione ai gentili tout-court (capp. 11; 13-14), della quale l’annuncio ai timorati di Dio rappresenta il punto d’aggancio106. A quel punto, una buona parte tra gli ebrei si opporrà decisamente a questo allargamento della santità di Israele, anche se l’intenzione lucana, espressa attraverso il seguito del racconto sino alla fine, sarà quella di rassicurare i Giudei della loro peculiarità in quanto tali107. Allo stesso tempo, i discepoli di Gesù si troverranno a fronteggiare al loro interno la stessa questione circa la loro identità, trovandosi ormai a convivere gentili e circoncisi.
3. LA MISSIONE AI GENTILI 3.1. L’ingresso dei pagani L’ingesso di pagani tout court nel libro degli Atti si ha soltanto al cap. 11108, grazie all’intraprendenza dei cristiani ellenisti appartenenti alla cerchia di Stefano (11,19): sono loro ad Antiochia a parlare ai Greci (v. 20). Anche questa volta l’iniziativa è voluta da Dio (v. 21); ma anche questa volta, come nel caso dei samaritani o di Cornelio, la Chiesa di Gerusalemme 106
Purchè non si faccia della Chiesa una sinagoga allargata: è l’osservazione di D. Marguerat, giustificata dal fatto che i timorati di Dio saranno presenti anche nei luoghi e nei momenti in cui entrano in scena i gentili. 107 Bisogna notare, inoltre, che la missione di Pietro presso Cornelio e la conversione di quest’ultimo non seguono ad un rifiuto da parte ebraica: cfr E. NODET - J. TAYLOR, Essai sur les origines du Christianisme, Paris 1998, 43. 108 R. FONTANA, L’ “Opera”, cit., 232: «Ci sono voluti a Luca circa undici capitoli per potere insomma raccontare la storia dell’apertura dell’alleanza ai gentili e i prodromi di un movimento religioso diverso dalla Sinagoga».
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si rifiuta di credere immediatamente all’incredibile109, per cui invia Barnaba a verificare il fatto (v. 22)110. Con Barnaba il centro dell’azione missionaria si sposta da Gerusalemme ad Antiochia: Barnaba infatti non fa ritorno nella Città Santa, ma parte alla ricerca di Paolo, lasciato a Tarso dalla narrazione in 9,30. I due rimangono insieme un anno intero nella capitale siriana, dove per la prima volta i discepoli di Gesù ricevono l’appellativo di cristiani (26)111. È Antiochia il nuovo centro propulsore della missione ai pagani, proprio perché fuori dalla Terra di Israele; Gerusalemme ritornerà al cap. 15 e in quest’intervallo la figura di Pietro viene messa fuori scena, mentre si preannuncia l’entrata in campo di Giacomo, il fratello del Signore (12,17). Da Antiochia, per iniziativa divina, parte l’opera missionaria di Barnaba e Paolo nelle città della diaspora (13,2-3). Una missione descritta secondo uno schema che si ripete a Iconio (14,1-7) e a Listra (14,8-20): i due predicano dapprima nelle sinagoghe senza problemi, al contrario suscitando molti consensi e forse anche delle conversioni (13,42-43); quindi, al rifiuto dei Giudei di vedere i pagani coinvolti in questa predicazione112, i due decidono di rivolgersi proprio ai gentili, che accolgono il vangelo. L’inversione della storia rispetto agli inizi è qui esplicita, come dimostrano le parole di Paolo e Barnaba ad Antiochia di Pisidia: «Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani» (13,46), inserendosi a questo punto la citazione di Is 49,6, la quale indica che l’universalità della salvezza era già preannunciata dalla Scrittura113. Una nota strana nel racconto è costituita dal fatto che i due
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D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 114. J. DUPONT, L’union entre, cit., 312. 111 Un appellativo che sembra provenire dall’ambiente greco, e non da quello ebraico: cfr P. BOSSUYT - J. RADERMAKERS, Lettura, cit., 410. 112 D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 139: «È la diffusione della “parola del Signore” alla folla pagana che sembra intollerabile ai giudei di Antiochia». 113 L.c.; J. DUPONT, Je t’ai établi lumière des Nations (Ac 13, 14. 43-52), in ID. Nouvelles Études, cit., 346: «Si l’évangélisation des païens a été ordonnée par Dieu dans un oracle prophétique, comment peut-on la faire dépendre du refus opposé par les Juifs au message du salut? […] Annoncée par l’Écriture, l’extension du salut aux nations païennes ne peut pas trouver sa raison d’être simplement dans l’échec de la mission auprès des Juifs». 110
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ritornano negli stessi luoghi nei quali erano stati avversati violentemente da alcuni della parte ebraica della popolazione, per esortare i credenti114. Il medesimo schema si ha alla fine del libro degli Atti, al cap. 28: Paolo a Roma si rivolge dapprima ai Giudei, i quali si dividono all’ascolto delle sue parole, e quindi ai pagani115. Ma se è questa la conclusione, allora il problema non è stato archiviato né risolto: esso continua anche al tempo di Luca, che cerca una soluzione proprio attraverso la narrazione116. L’intenzione lucana è, infatti, quella di rassicurare il popolo ebraico circa la validità perenne della sua identità in quanto tale, in un tempo in cui la parola di salvezza si estendeva alle nazioni. Così afferma Marguerat: «Alla crisi suscitata dalla sua missione ai non-ebrei, Paolo reagisce da una parte rivendicando per la sua azione l’appoggio delle Scritture, dall’altra rifiutando di adeguarsi a una rottura di cui non si assume la responsabilità. La rottura voluta dalla Sinagoga conduce Luca a rinforzare gli indicatori di continuità teologica: la concessione della salvezza ai pagani non opera contro Israele; essa non sostituisce le promesse fatte a Israele. L’universalità della salvezza nasce dalla storia stessa d’Israele, dove essa trova la sua fonte e la sua legittimità (13,32-39); ma quest’apertura è paradossalmente messa in atto nella storia dal rifiuto giudaico della missione cristiana»117.
Accanto alla questione della particolarità di Israele di fronte ai pagani, Luca, e con lui i cristiani delle origini, debbono adesso dar soluzione all’altro problema, strettamente legato al primo: quello dell’identità cristiana, composta da ebrei e gentili.
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J. DUPONT, La première organisation des Églises (Ac 14, 21-27), in ID., Nouvelles Études, cit., 350. 115 Un’anticipazione, come hanno dimostrato i commentatori, è invece fornita nel vangelo: cfr Lc 4. Su questo cfr P. BOSSUYT - J. RADERNAKERS, Lettura, cit., 437-438. 116 D. MARGUERAT, La prima storia, cit., 130. 117 Ibid., 142.
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3.2. Il concilio di Gerusalemme L’arrivo ad Antiochia di alcuni cristiani circoncisi provenienti dalla Giudea solleva infine il problema dell’identità cristiana. A parere di costoro, infatti, i gentili, se volevano davvero esser salvi, dovevano farsi circoncidere. Circoncisione e salvezza sono intenzionalmente giustrapposti118: ciò che sta a cuore dei circoncisi cristiani è, infatti, l’incorporazione dei pagani al popolo d’Israele attraverso la berit milah, il che sollevava loro da qualsiasi scrupolo rituale e li rassicurava dal punto di vista identitario. Paolo e Barnaba oppongono loro resistenza. La questione si trasferisce da Antiochia a Gerusalemme, la “chiesa madre”. Qui i circoncisi incontrano l’adesione di alcuni farisei credenti, i quali affermano la necessità della circoncisione e dell’osservanza della Legge di Mosè. In seno all’assemblea è Pietro a prendere la parola per primo119, rimettendo in campo la conversione di Cornelio, il timorato di Dio per eccellenza120, pur sempre un pagano, come è descritto dallo stesso Pietro (15,7). Implicitamente, Pietro sta di nuovo spiegando e soprattutto difendendo la sua condotta di fronte ai cristiani circoncisi. In ciò trova il sostegno di Paolo e Barnaba, che narrano della loro missione presso i pagani. Per Pietro, Paolo e Barnaba i gentili hanno già ottenuto la salvezza. Ma la questione è altra e di un’importanza capitale: bisogna che i gentili che hanno creduto al vangelo siano incorporati al popolo ebraico? Se la risposta è sì, Barnaba si è pertanto ingannato121; se è no, l’identità ebraica, segnata dalla circoncisione, viene meno. È Giacomo, presentato come capo della Chiesa di Gerusalemme (l’ “io” di 15,19), a dirimere la questione: partendo dalla Scrittura, con una citazione di Am 9,11-12, identifica la comunità dei credenti in Gesù con la tenda di Davide rialzata. L’ingresso delle nazioni, nella profezia di Amos, è l’effetto della 118
R. FONTANA, Noachismo. I «Timorati di Dio» ieri e oggi, in Cahiers Ratisbonne 6 (1999) 37: «Questa (la salvezza) la si sapeva infatti alla portata di chiunque fosse stato riconosciuto come un giusto delle nazioni. La necessità della circoncisione ai fini della salvezza fu pertanto un argomento usato»; per la salvezza dei giusti delle nazioni l’A. rimanda a t.Sanhedrin 13,1. 119 Un’analisi del discorso di Pietro al concilio di Gerusalemme è fornita da J. DUPONT, Les discours, cit., 103-105. 120 R. FONTANA, Noachismo. I «Timorati», cit., 39. 121 Così P. BOSSUYT - J. RADERMAKERS, Lettura, cit., 450.
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ricostituzione della tenda davidica stessa. Per cui, a parere di Giacomo, i gentili cristiani non devono essere circoncisi, ma neppure assimilati agli ebrei per il fatto di condividere con questi ultimi la stessa fede in Gesù122. Giacomo, difatti, rivolge così un implicito rimprovero a Pietro circa la sua condotta123. Alla fine, tra la linea abramitica, che sarà quella seguita da Paolo, e la linea mosaica, propugnata dai cristiani circoncisi, Giacomo opta per un’altra possibilità: il riferimento a Noè e alle leggi noachidi, come le disposizioni da lui stesso ordinate ed il decreto conciliare inviato alle Chiese testimoniano (vv. 19-29)124. Le leggi noachidi125 pongono in tal modo, all’interno dello stesso ambiente cristiano, delle distinzioni identitarie tra gentili ed ebrei: i primi, attraverso Noè, sono collocati sul terreno della Torah, senza però farli entrare nell’alleanza di Mosè, che è prerogativa degli ebrei. Oltretutto, la prospettiva noachide non proibisce la circoncisione, che rimane una possibilità aperta: lo illustra chiaramente il caso di Timoteo (16,1-3).
122 R. FONTANA, Noachismo. I «Timorati», cit., 40: «La citazione di Amos 9,11-12 identifica la comunità dei credenti in Gesù, il messia di Israele, con l’Israele ristabilito, la tenda di Davide da lui riedificata, evento di richiamo per coloro, fra le genti, che cercano il Signore. Questa loro attrazione sarebbe di un tale evento l’effetto concomitante». 123 Così rilevano E. NODET - J. TAYLOR, Essai sur, cit., 210. 124 Esiste ormai un accordo generale su questo punto: cfr M. BOCKMUEL, The Noachide Commandments and New Testament Ethics with Special Reference to Acts 15 and Pauline Halakhah, in Revue Biblique 102/1 (1995) 72-101, il quale tra l’altro nota a proposito delle leggi noachidi: «They served as an internal point of reference for Jewish self-undestanding for vis-à-vis the Gentile world»; P. BOSSUYT - J. RADERMAKERS, Lettura, cit., 457; E. NODET-J. TAYLOR, Essai sur, cit., 217-218. Accanto a questa posizione, altri giudicano che il decreto gerosolimitano sui gentili sia fondato su Lv 17-18: cfr T. CALLAN, The Background of the Apostolic Decree (Acts 15:20,29; 21:25), in The Catholical Biblical Quaterly 55 (1995) 284-297. A tal proposito è interessante notare il dibattito tra D. FLUSSER, Theses on the Emergence of Christianity from Judaism, in Immanuel 5 (1975) 77, il quale ritiene che al Concilio di Gerusalemme venne assegnato ai timorati di Dio lo statuto noachide, e R. FONTANA, Noachismo. I «Timorati», cit., 37, secondo cui il profilo dei timorati di Dio nel libro degli Atti non è un profilo noachide, che è proprio dei gentili tout-court: i timorati di Dio sono, infatti, assenti ad Antiochia. 125 Sul noachismo e le leggi noachidi cfr R. FONTANA, I precetti di Noè, in Bibbia e Oriente 212 (2002) 65-87.
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4. CONCLUSIONE La lettura del racconto lucano di Atti rileva con chiarezza quanto il problema dell’identità fosse avvertito all’interno del mondo ebraico, in un’età quale quella imperiale romana del I sec. d. C. caratterizzata da una fluttuazione dei confini identitari e religiosi. Nel tentativo di dare una risposta alla questione e soprattutto di fornire la comunità cristiana del suo tempo, composta da ebrei e gentili, di uno strumento di autocomprensione, Luca pone in atto una strategia narrativa che mette in campo, soprattutto nei primi 15 capitoli del racconto, una serie di figure “liminali”, cioè dall’identità non ben definita. Attraverso queste ultime viene scritta una storia, che di per sé si presenta problematica, registrando un’inversione di tendenza della fine rispetto agli inizi. La questione dell’identità è, infatti, strettamente legata al “no” che il mondo ebraico, dopo un entusiasmo iniziale, oppone al movimento di Gesù, proprio quando quest’ultimo allarga il suo raggio missionario dapprima alle frange periferiche dell’ebraismo e poi ai gentili, i quali ultimi accolgono con gioia la buona notizia del vangelo, superando l’ostilità del principio. Le figure liminali permettono di comprendere il senso degli eventi così come si sono sviluppati e, in questo, di rispondere alla domanda su chi sia il discepolo di Gesù. Utilizzando tutte queste figure, così ambigue dal punto di vista dell’identità, Luca, paradossalmente, cerca di fissare l’identità del “cristiano” e con essa dell’ebreo e del gentile. Anzitutto appare chiaro che il movimento di Gesù è un fatto intra-ebraico e tale rimarrà sino alla fine della narrazione. I discepoli di Gesù, nell’evento occorso a Pentecoste del dono dello Spirito, partecipano infatti al raduno dell’Israele disperso in Gerusalemme, secondo un movimento centripeto che era il leit-motiv della predicazione profetica post-esilica. Essi rimangono ad insegnare e a pregare nel tempio, suscitando per questo l’opposizione dei sadducei e della classe sacerdotale, come era stato per Gesù. Ma la folla è loro favorevole ed i farisei, rappresentati da Gamaliele che entra in scena improvvisamente come membro del sinedrio, si mantegono nella linea della prudenza, volendo accertarsi se davvero questo movimento è da Dio. Il punto di rottura si ha quando, con l’ingresso degli ebrei cristiana di lingua greca, il movimento gesuano preme per uscire fuori dal Tempio. Il fronte del “no” da parte ebraica si fa più compatto: la lapidazione di Stefano lo prova. Gli stessi cristiani si dividono:
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quelli di lingua ebraica possono restare tranquillamente a Gerusalemme, quelli di lingua greca sono costretti a fuggire. Filippo, uno dei Sette che erano stati preposti alla comunità cristiana grecofona, si rifugia in Samaria, dove inizia la predicazione del vangelo. I samaritani aderiscono, ma la chiesa di Gerusalemme dubita di questa estensione della santità di Israele ad un popolo che non era quasi considerato di filiazione ebraica. È l’opera dello Spirito a confermare dinanzi a Pietro e a Giovanni la giustezza della missione ai samaritani. Lo stesso accadrà con l’etiope e poi con Cornelio, il primo pagano ad entrare in scena dopo ben nove capitoli che hanno preparato all’incontro con il mondo gentile. È sempre lo Spirito a dare l’assenso a questa espansione della Parola. Eppure, questo movimento centrifugo non tradisce quello centripeto, ma lo favorisce: è infatti Cornelio che va in cerca di Pietro, sono cioè i gentili a volgersi verso il popolo ebraico, come era annunciato anche dalle Scritture. Le stesse missioni di Paolo e Barnaba si rivolgono dapprima agli ebrei e poi ai gentili, per significare la priorità di Israele e la salvaguardia dei suoi privilegi. La missione ai gentili non nasce, infatti, da un rifiuto da parte ebraica, anche se storicamente così si configura, ma è contenuta nelle promesse stesse fatte da Dio ad Israele. Lo afferma chiaramente Giacomo al concilio di Gerusalemme con la ben nota citazione di Am 9,11-12, che può essere considerata a ragione la sintesi dei primi 15 capitoli di Atti: la tenda di Davide è stata restaurata da Dio stesso con il dono dello Spirito a Pentecoste. L’effetto di questa restaurazione è l’ingresso dei gentili, che partecipano, in grado diverso, alla santità di Israele. A questo punto la distinzione tra ebrei e gentili, all’interno della comunità cristiana, è d’obbligo per salvaguardare l’unicità di Israele. Tra la linea mosaica, sostenuta dagli ebrei e dai farisei cristiani, i quali richiedevano l’incorporazione dei gentili a Israele mediante la circoncisione, e la linea abramitica, propugnata da Pietro, Paolo e Barnaba, che al contrario rifiutavano di imporre la circoncisione ai gentili perché essi conservassero questo loro status, Giacomo opta per la linea noachide: i gentili, all’interno della stessa comunità cristiana, non possono essere eguagliti a Israele, la cui posizione rimane unica, ma sono riportati sul terreno della Torah proprio attraverso le prescrizioni fatte derivare dal tempo di Noè e che erano applicate dalla tradizione ebraica ai goym. L’annoso problema dell’identità viene così affrontato ed in certo qual modo risolto per la comunità cristiana dalla
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narrazione lucana. La storia che segue vedrà prevalere altre linee, segno che la risposta alla questione identitaria non venne da tutti accolta. Ma la lettura della storia narrata da Luca propone ogni volta al cristiano, che «partecipa dell’eredità di Israele e dell’eredità dei gentili», di interrogarsi sulla sua identità: la risposta potrà forse venire da un’esistenza che sul problema identitario si gioca per intero e rischia il tutto, come è accaduto per i protagonisti del libro di Atti.
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IL TERZO CANTO DEL SERVO DI JAHVÈ (IS 50,4-9) E LE NARRAZIONI EVANGELICHE DELLA PASSIONE DI GESÙ*
ANNA PILATO**
In 1Cor 15,3-5, dopo avere dichiarato di avere trasmesso quello che a sua volta egli ha ricevuto Paolo introduce uno schema di professione di fede in quattro punti: Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto, é risorto il terzo giorno secondo le Scritture, apparve a Kepha. Il primo e il terzo punto, specificamente la morte e la resurrezione di Gesù, sono ricollegati alle Scritture, che in essi perciò sono state portate a compimento. La primitiva professione di fede rivela così la preoccupazione di stabilire una stretta relazione tra gli eventi di Gesù e le Scritture. Gesù stesso nei vangeli appare profondamente consapevole che la sua Passione e morte erano già previste, e perciò anche rese necessarie, dalle Scritture1. La convinzione poi che Gesù morì secondo le Scritture pare soffusa in tutta la narrazione della Passione secondo tutti i vangeli. La tradizione primitiva, che narrò quegli eventi, ebbe cura di riferire soprattutto quei fatti che maggiormente stabilivano un legame con le Scritture, utilizzandone talora anche il linguaggio2. In questo sfondo si colloca come una piccola isola in un grande oceano questo lavoro sulla ripresa del terzo canto del servo di Is 50,4-9 nella narrazione della Passione. *
Estratto della tesi di baccalaureato in Teologia, discussa il 4 ottobre 2002 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, relatore prof. Attilio Gangemi. ** Baccelliere in Teologia. 1 Tale coscienza appare soprattutto nell’uso del verbo de_ con cui è introdotta la prima predizione della sua Passione (cfr Mt 16,21; Mc 8,31; Lc 9,22). Inoltre essa appare anche in altri testi, cfr Mt 26,54; Lc 18,31; 24,26.27; Gv 3,14. 2 Pensiamo soltanto ad un episodio: la spartizione delle vesti riferito da tutti gli evangelisti. Questo episodio, in se stesso marginale, avrebbe potuto essere forse anche trascurato se di esso non avesse parlato il Sal 21.
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In tale ripresa consideriamo soltanto tre aspetti: gli scherni subiti da Gesù nel processo davanti al Sinedrio, la flagellazione, gli scherni subiti nel processo davanti a Pilato. Il testo del terzo canto a cui direttamente ci riferiamo è Is 50,6, secondo la versione dei LXX: toèn nw%toén mou deédwka ei\v maéstigav taèv deè siagoénav mou ei\v r|apòsmata toè deè proéswpoén mou ou\k apeéstreya a\poè ai\scuénhv e\mptusmaétwn
Tre elementi emergono in questo testo: i flagelli (maéstigav), che richiamano la flagellazione, gli schiaffi (r|apòsmata) e gli sputi (e\mptusmaétwn).I vangeli sinottici menzionano soltanto gli schiaffi e gli sputi; Giovanni invece, il solo che menziona lo schiaffo da parte di un servo (Gv 18,22) davanti al sacerdote Anania o Anna, accenna appena agli scherni, in Gv 19,3.
1. GLI SCHERNI DI GESÙ NEL PROCESSO DAVANTI AL SINEDRIO (MT 26,57-75; MC 14,53-72; LC 22, 54-71) A riguardo di questi scherni distinguiamo tre aspetti. La sequenza degli eventi, la terminologia, lo sviluppo strutturale dei racconti evangelici
1.1. La sequenza degli eventi La sequenza degli eventi in cui sono collocati gli scherni di Gesù in Matteo e Marco coincide3. Luca invece, pur concordando negli eventi, 3 Troviamo nei due evangelisti il seguente ordine di eventi: la conduzione di Gesù da Caifa (Mt 26,57; Mc 14,53), la sequela di Pietro (Mt 26,58; Mc 14,54), il processo notturno davanti al Sinedrio (Mt 26,59-66; Mc 14,55-64), gli scherni (Mt 26,67-68; Mc 14,65), i tre rinnegamenti di Pietro (Mt 26,69-75; Mc 14,66-72), il secondo raduno del sinedrio al mattino (Mt 27,1; Mc 15,1), la consegna di Gesù a Pilato (Mt 27,2; Mc 15,2).
Il terzo canto del servo di Jahvè e le narrazioni della Passione di Gesù
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discorda nel loro ordine4. In Matteo e Marco gli scherni precedono i tre rinnegamenti, in Luca invece essi seguono. Inoltre, mentre in Matteo e Marco scherni e rinnegamenti seguono al processo davanti al Sinedrio, in Luca essi invece lo precedono5. Per quel che riguarda il nostro scopo, notiamo soltanto tre aspetti. Anzitutto nei vangeli sinottici gli scherni contro Gesù hanno un posto nello svolgimento degli avvenimenti; inoltre essi si verificano nel contesto del processo davanti ai giudei, infine in Matteo e Marco essi seguono il processo davanti al Sinedrio conclusosi con la condanna di Gesù, in Luca invece lo precedono. In Matteo e Marco perciò gli scherni seguono direttamente alla dichiarazione del Sinedrio che Gesù è reo di morte. Nel confronto con il terzo canto del servo, notiamo anzitutto i singoli elementi che caratterizzano gli scherni di Gesù nelle narrazioni evangeliche.
1.2. La terminologia Consideriamo adesso i singoli elementi dei racconti evangelici che possono essere ricondotti a Is 50,4-9
1.2.1. Il verbo e\mptuéw Il verbo e\mptuéw (sputare) richiama il testo di Is 50,6, dove, nella versione dei LXX, leggiamo l’espressione: toè deè proéswpoén mou ou\k 4 In Luca troviamo il seguente ordine: la conduzione di Gesù dal sommo sacerdote (22,54a), la sequela di Pietro (22,54b), i tre rinnegamenti (22,55-62), gli scherni (22,63-65), il processo al mattino davanti al sinedrio (22,66-71). 5 Questa trasposizione nel vangelo di Luca è stata notata dagli interpreti. Essa induce Fitzmyer a concludere che Luca segue una fonte indipendente, cfr J.A. FITZMYER, The Gospel According to Luke, II, Garden City, New York 1981-1985, 1458; cfr in questo senso anche V. TAYLOR, The Passion Narrative of St Luke: a Critical and Historical Investigation, Cambridge 1972, 79-80 e J.H. MARSHALL, The Gospel of Luke, Exeter 1978, 845. Questa trasposizione fa poi concludere a Plummer che è impossibile stabilire quando avvennero gli scherni, cfr A. PLUMMER, The Gospel according to S. Luke, Edinbourgh 19225, 517. Wellhausen poi conclude che Gesù fu schernito prima e dopo il processo. Cfr J. WELLHAUSEN, Das Evangelium Lucae übersetzt und erklärt, Berlin 1904, 129.
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a\peéstreya a\poè ai\scuénhv e\mptusmaétwn (la mia faccia non allontanai dalla
vergogna degli sputi). Emerge subito una differenza tra il testo del canto e le narrazioni evangeliche di Matteo e Marco. I due evangelisti non usano il sostantivo e"mptusma (sputo) bensì il verbo e\mptuéw (sputare). Ciò però è dovuto ad esigenze narrative. Nel terzo canto gli “sputi” sono legati alla menzione del volto (proéswpon): leggiamo infatti le parole del servo: «non ho allontanato il mio volto dagli sputi». Il diretto legame tra “volto” e “sputi”, con il verbo e\mptuéw, è espresso in Matteo; leggiamo infatti in Mt 26,67 l’espressione toéte e\neéptusan ei\v toè proéswpon au\tou% (allora sputarono sul suo volto). Matteo fa seguire direttamente l’espressione ei\v toè proéswpon al verbo e\neéptusan. Marco invece, in 14,65, non lega il verbo e\mptuéw all’espressione ei\v toè proéswpon. Tuttavia il termine toè proéswpon non è assente nel contesto, ma è legato al verbo e\mptuéw solo indirettamente. Direttamente invece esso è legato al verbo perikaluéptein (nascondere)6, che, a sua volta, è coordinato al verbo e\mptuéw7. In Marco perciò il verbo e\mptuéw è separato dall’espressione toè proéswpon mediante il verbo perikaluéptw8.
6 A riguardo del verbo perikaluéptw in Luca, Morris nota che bendarono Gesù supponendo che fosse un profeta per provare così la sua profezia, cfr L. MORRIS, Luke, Grand Rapids 19892, 345. 7 Cfr Mc 14,65: kaì h"rxantoé tinev e\mptuéein au\t§% kaì perikaluéptein au\tou% toè proéswpon (e cominciarono alcuni a sputare a lui e a nascondere il suo volto). 8 Circa il verbo perikaluéptw è difficile stabilire se esso era presente nella fonte seguita dai primi due evangelisti e Matteo lo avrebbe eliminato, o se, essendo assente nella fonte, Marco lo avrebbe aggiunto. In questo caso lo avrebbe aggiunto forse sotto l’influsso di Lc 22,64. La seconda ipotesi è suggerita da qualche particolare osservazione. Anzitutto l’espressione di Matteo appare già completa e non rivela alcun vuoto. Inoltre il testo di Marco rivela, al contrario, una incongruenza: l’espressione perikaluéptein au\tou% toè proéswpon, si trova al centro di tre azioni coordinate: e\mptuéw – perikaluéptw - kolafòzw; in tale connessione l’azione di coprire il volto appare come la seconda di una serie di azioni successive e distinte senza alcuna diretta finalizzazione ad un’altra azione, come invece sarebbe più naturale. Si aggiunge ancora che il verbo perikaluéptw si pone al centro e separa due verbi di analoga indole: e\mptuéw (sputare) e kolafòzw (schiaffeggiare): sarebbe stato più opportuno anteporlo al verbo e\mptuéw oppure legarlo, in forma participiale, al verbo kolafòzw. Infine in Luca, dove il verbo perikaluéptw sembra originale, sono assenti diversi
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Abbiamo detto che il verbo e\mptuéw nel contesto della Passione è assente in Luca. Tuttavia questo evangelista lo introduce nella terza predizione della Passione, in Lc 18,32, nel contesto dell’elenco delle vessazioni che Gesù predice essergli inflitte dai pagani9. In ciò questo evangelista concorda con Marco che, in 10,34, menziona pure gli sputi nel contesto della terza predizione della Passione e nello stesso contesto dell’elenco delle vessazioni inflitte a Gesù dai pagani10. Matteo invece non menziona gli sputi nel contesto della terza predizione della Passione. In Matteo e Marco gli sputi sono menzionati ancora una volta nel contesto della narrazione della Passione, specificatamente nel contesto del processo davanti a Pilato11. In Giovanni infine mai sono menzionati gli sputi contro Gesù. Si può notare che in questo evangelista non si legge nemmeno il verbo e\mptuéw12. È importante osservare la peculiarità degli usi di questo verbo nel NT. Esso si legge sei volte in tutto, solo nei vangeli sinottici e solo in relazione agli eventi della Passione di Gesù, sia nel contesto della narrazione della Passione stessa13, sia anche nel contesto della terza predizione della Passione14.
elementi che invece troviamo nel testo di Marco. Riteniamo allora che Marco riprese e smembrò l’espressione originale conservata da Matteo, emptuéw ei\v toè proéswpon, introdusse sotto l’influsso di Lc 22,64 il verbo perikaluéptw e legò ad esso, come oggetto, il termine proéswpon. 9 In Lc 18,32 gli sputi, con il verbo al futuro passivo e\mptusqhésetai, sono menzionati tra il verbo u|brisqhésetai e il verbo a\poktenou%sin, preceduto dal participio aoristo mastigwésantev. 10 In Mc 10,34 il verbo e\mptuéw (e\mptuésousin: sputeranno) è inserito tra il verbo e\mpaòxousin (scherniranno) e il verbo mastigwséousin (flagelleranno). 11 Leggiamo in Mt 27,30: «(i soldati) avendo sputato in lui (e\mptuésantev ei\v au\toén), presero la canna e colpivano sul suo capo»; in Mc 15,19 troviamo una espressione un po’ diversa: «e colpivano il suo capo con la canna e sputavano a lui (e\neéptuon au\t§%)». 12 In Gv 9,6 però leggiamo il verbo semplice ptuéw, ma con altro uso. 13 Cfr Mt 26,67; 27,30; Mc 14,65; 15,19. 14 Cfr Mc 10,34; Lc 18,32.
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1.2.2. Il verbo kolafòzw Un altro verbo comune soltanto a Matteo e Marco è il verbo kolafòzw che possiamo tradurre “colpire con pugni”. Esso deriva infatti dal termine koélafov (pugno). In Matteo il verbo è usato all’aoristo, e\kolaéfisan, ed è coordinato al verbo precedente e\neéptusan. In Marco invece è all’infinito presente kolafòzein ed è coordinato al precedente verbo infinito perikaluéptein e, prima ancora, all’infinito e\mptuéein. Tutti questi infiniti, in Marco, dipendono dall’indicativo aoristo iniziale h"rxanto. Il verbo kolafòzw è un verbo tipicamente neotestamentario. Esso non si legge mai né in alcuna versione greca della Bibbia né nella letteratura greca prima del NT15. Esso così non sembra rimandare al terzo canto del servo16.
1.2.3. Il verbo r|apòzw Infine in Matteo il terzo verbo è e\raépisan (da r|apòzw) che, alla lettera, si dovrebbe tradurre “colpire con bastone (r|apòv)”, ma può essere anche tradotto “colpire con la palma della mano”17. Marco, come abbiamo già costatato, non usa questo verbo, ma il sostantivo corrispondente r|aépisma nell’espressione r|apòsmasin au\toèn e"labon. L’espressione può intendersi che presero Gesù a colpi di bastone o anche che lo presero a colpi con la palma della mano. Sia il verbo r|apòzw sia anche il sostantivo r|aépisma nel NT sono assai rari. Complessivamente si leggono cinque volte18, riferiti quattro volte su
15 Oltre i due usi in Matteo e Marco, esso si legge nel NT ancora altre tre volte: in 1Cor 4,11; 2Cor 12,7; 1Pt 2,20, dove però può avere non il senso specifico di “colpire con pugni”, ma quello più generale di “maltrattare”. 16 Nota tuttavia Evans che esso allude pure a Is 50,6, benché non si legga nella versione greca, cfr C.F. EVANS, Saint Luke, London-Philadelphia 1990, 829. 17 Cfr F. ZORELL, Lexicon Graecum Novi Testamenti, Parisiis 19613, sub r|apòzw. 18 Il verbo r|apòzw si legge solo due volte e sempre in Matteo (5,39; 26,67); il termine r|aépisma invece si legge tre volte: nel nostro testo di Marco e in Gv 18,22 e 19,3.
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cinque alla Passione di Gesù19. Possiamo dire che anche questo termine caratterizza nel NT la Passione di Gesù. Nei vangeli sinottici tale terminologia si legge solo in Matteo e Marco; Luca infatti non parla di schiaffi. In Giovanni il sostantivo r|aépisma è usato due volte, in due testi che si rivelano centrali: in 18,22 e 19,3. In Gv 18,22 il termine indica lo schiaffo (r|aépisma) che il servo diede a Gesù, nel contesto del dialogo con il sacerdote Anania, in seguito alla sua risposta; in Gv 19,3 l’evangelista ci informa che «diedero a Gesù schiaffi (r|apòsmata)».
1.2.4. Osservazioni riassuntive Come abbiamo potuto costatare, la terminologia che rimanda al terzo canto del servo: il verbo e\mptuéw, il termine proéswpon, un termine dalla radice r|apòv, verbo o sostantivo, si legge soltanto nei vangeli di Matteo e Marco. Questi due evangelisti però usano anche il verbo kolafòzw che, come abbiamo già osservato, non solo non si legge nel terzo canto del servo, ma nemmeno in tutta la Bibbia greca. Luca non ha nessuno di questi elementi. Suo proprio è il verbo e\mpaòzw, all’imperfetto e\neépaizon, ripreso poi poco dopo, nel verso seguente, nella forma semplice paòzw20. Proprio lucano21 è anche il verbo deérw (percuotere)22, come pure suo proprio è il verbo blasfhmeéw23
19 L’uso non riferito alla Passione di Gesù è in Mt 5,39, nel detto di Gesù: «chiunque ti colpisce (r|apòzei) nella guancia destra, porgi anche la sinistra». 20 Cfr l’espressione o| paòsav. La relazione al precedente verbo e\neépaizon (v 63) suggerisce che il participio aoristo paòsav (v 65) sia una forma semplice dello stesso verbo. 21 Cfr deérontev: Lc 22,63. Nota Legasse che in questo verbo Luca riassume in maniera discreta tutti i maltrattamenti, cfr S. LÉGASSE, Le procès de Jésus. La passion dans le quatre Évangiles, Paris 1995, 347. 22 Il verbo deérw, almeno nel contesto della narrazione della Passione, non si legge mai né in Matteo né in Marco. In Giovanni si legge in 18,23, nella risposta di Gesù al servo che lo ha percosso: «perché mi percuoti (deéreiv)»? 23 Ancora secondo Legasse con il verbo blasfhmeéw si esprime un oltraggio rivolto indirettamente a Dio essendo rivolto al suo figlio, cfr S. LÉGASSE, ibid., 348.
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(bestemmiare)24. Luca concorda perciò con gli altri due evangelisti nell’aspetto tematico degli scherni, ma non concorda negli elementi letterari. Tuttavia non possiamo trascurare un elemento comune nei tre evangelisti, si tratta del verbo profhteéuw espresso in tutti e tre gli evangelisti25 nella forma di imperativo aoristo (profhéteuson), seguito in Matteo e Luca dalla domanda tòv e\stin, con l’ampliamento in Matteo del vocativo Cròste26.
1.2.5. Conclusioni sulla teminologia Tutte queste riflessioni ci permettono di formulare alcune conclusioni. I tre evangelisti dipendono da un racconto comune che parlava di scherni e di maltrattamenti fisici che i giudei avevano inflitto a Gesù nel luogo del Sinedrio, dove avvenne anche il processo. Sorprende la loro concordanza nel gioco crudele di colpire Gesù e chiedergli di indovinare chi lo ha percosso. Soprattutto sorprende la concordanza nell’uso del verbo profhteuéw. Evidentemente sia l’azione sia anche il verbo dovevano essere già presenti nella fonte. L’uso del verbo profhteuéw può ricollegarsi alla convinzione popolare che riteneva Gesù come profeta27. Ci possiamo anche chiedere se questa scena non possa essere stata suggerita all’evangelista dal Targum del terzo canto del servo28. 24 Cfr blasfhmou%ntev: Lc 22,65. Esso però è usato da tutti e tre i sinottici nel contesto della crocifissione (Mt 27,39; Mc 15,29; Lc 23,39). 25 Cfr Mt 26,68; Mc 14,65; Lc 22,64. In Giovanni, almeno nel contesto della narrazione della Passione, tale verbo è assente. 26 A riguardo del verbo profhteéuw Harrington cita il Salmo di Salomone 17,33, secondo cui il Messia è potente in Spirito, fortezza, consiglio, comprensione, forza e giustizia, cfr D.J. HARRINGTON, The Gospel of Matthew¸ Collegeville (Minnesota) 1991, 380. L’aspetto profetico del Messia è sottolineato anche da R.H. GUNDRY, Matthew, Grand Rapids 1982, 547 e da D. HILL, The Gospel of Matthew, Grand Rapids-London 1972, 347. Van Unnick invece, in maniera più semplice, ricollega il verbo al giuoco di indovinare chi ha percosso, cfr W.C. VAN UNNICK, Jesu Verhöhnung vor dem Synedrium (Mc 14,63 par), in ZNW 29 (1930) 310-311: 311. 27 Sulla convinzione popolare di Gesù profeta possiamo citare la professione di fede a Cesarea di Filippo in Mt 16,14 e Mc 8,21, inoltre Mt 21,11; Lc 7,16; Gv 9,17. 28 Secondo il Targum di Is 50,4 l’azione che Dio compie fin dal mattino non è quella di aprire l’orecchio al servo (TM: }ezo) yil ryi(fy) ma di mandare i profeti (hwybn )xl$l).
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A riguardo degli scherni fisici, il racconto originale doveva restare vago. A questo racconto originale dovette ricollegarsi Luca, precisando autonomamente quello che nella tradizione restava vago. Matteo e Marco invece, come rivelano delle somiglianze e delle differenze, dovettero riprendere e dipendere da un racconto più elaborato che precisava quali fossero gli scherni, che li esprimeva con un linguaggio vicino a quello del terzo canto del servo e li ricollegava alla sentenza di morte.
1.3. Sviluppo strutturale dei tre racconti evangelici Dopo avere considerato la terminologia degli scherni, riteniamo utile adesso considerare anche lo sviluppo strutturale di ciascuno dei tre racconti evangelici.
1.3.1. Il racconto lucano Partiamo dal racconto lucano perché si rivela più autonomo rispetto a quello di Matteo e Marco. Esso poggia su tre verbi fondamentali coordinati: e\neépaizon (v 63), e\phrwétwn (v 64), e"legon (v 65). Tutti e tre i verbi dipendono da un solo soggetto: oi| a"ndrev oi| suneécontev au\toén (gli uomini che lo avevano in custodia). Il verbo e\mpaòzw è molto generico. Fitzmyer29 ricollega questo verbo a diversi testi dell’AT30. Secondo Lagrange31 Luca avrebbe racchiuso in questo verbo tutti gli scherni che concretamente evita di menzionare. Marshall32 ritiene che Luca prese questo verbo dalla tradizione e Marco poi Evidentemente la parafrasi targumica colloca il profeta sulla linea di quei profeti che Dio invia con solerzia. Il v 5 infatti si colloca, nel Targum, nella stessa prospettiva del v 4: secondo il v 5 il servo è mandato a profetare (h)bnt)l ynxl$); egli è appunto uno di quei profeti che il Signore manda con solerzia. 29 Cfr J.A. FITZMYER, The Gospel According to Luke, II, cit., 1465. 30 Cfr Is 50,5-6; 53,3-5 (LXX); 2Mc 7,1-2.12; 4Mc 6,3-30; 8,12-14. 31 Cfr M.J. LAGRANGE, Évangile selon Saint Luc, Paris 19488, 570-571. 32 Cfr J.H. MARSHALL, The Gospel of Luke, cit., 846.
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lo avrebbe sostituito con il verbo e\mptuéw. Tiede33 si ricollega a Is 50,6, ma nota che il richiamo è debole. Il secondo verbo e\phrwétwn, sia per la sua posizione centrale, sia per la sua inclusione tra due participi, sia infine per il lungo sviluppo che esso introduce mediante l’espressione profhéteuson, tòv e\stin o| paòsav se, si rivela invece centrale nella narrazione lucana. Si direbbe che a Luca interessi di più la parodia profetica, alla quale sia i colpi menzionati prima sia le bestemmie, menzionate dopo, fanno da cornice. Chi siano gli autori degli scherni nel racconto lucano è facile stabilirlo. In Lc 22,63 l’evangelista esplicitamente nota che si tratta di quelli «che avevano in custodia Gesù». Giustamente Klostermann nota che in Luca, a differenza di Matteo e Marco, come vedremo, negli scherni entrano in scena i servi34.
1.3.2. Il racconto di Matteo e Marco Per quanto riguarda Matteo e Marco, dobbiamo distinguere tra il racconto comune che soggiace ai due evangelisti e il racconto proprio di ciascun singolo evangelista. Il racconto comune doveva prevedere gli scherni dopo la sentenza. In questo modo essi appaiono una conseguenza di quella. Si direbbe che la sentenza legittimi gli scherni. Dal momento che il Sinedrio si è pronunziato in favore della condanna a morte, tutti sono autorizzati a maltrattare e schernire il prigioniero. Gli scherni stessi poi, come abbiamo già osservato, dovevano essere già caratterizzati nel racconto comune da tre elementi precisi: gli sputi (e\mptuéw) a cui si aggiunge l’elemento della faccia (toè proéswpon), i colpi di pugni (kolafòzw), i colpi di bastone o semplicemente gli schiaffi (r|apòzw o r|aépisma), a cui si aggiungeva il comando di profetare (profhéteuson). Come abbiamo già osservato, almeno tre di questi elementi, gli sputi, la faccia, gli schiaffi, possono ricondursi al terzo canto del servo35. 33
Cfr D.L. TIEDE, Luke, Minneapolis (Minnesota) 1988, 398. Cfr W. KLOSTERMANN, Das Lukasevangelium, Tübingen 19753, 220. 35 Il richiamo al terzo canto del servo, specificamente a Is 50,6, è notato da DaviesAllison e Lagrange, cfr W.D. DAVIES – D.C. ALLISON, The Gospel according to Saint 34
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Passando poi alla struttura specifica di ciascun evangelista, in Matteo notiamo anzitutto la particella toéte, che stabilisce un legame più stretto tra la dichiarazione di morte dei sinedriti e gli scherni seguenti. Osserviamo poi l’assenza di soggetto nel verbo e\neéptusan36. La forma al plurale può rimandare certo ad un soggetto indefinito; ma appena quattro parole prima leggiamo un’altra forma all’aoristo plurale (eùpan) il cui soggetto sono precisamente quelli che Caifa ha interrogato (oi| deé) e che adesso gli rispondono (a\pokriqeéntev). Si direbbe che, almeno su un piano letterario, il soggetto degli scherni siano le stesse persone che poco prima dichiararono che Gesù è reo di morte. Quanto poi alla descrizione degli scherni, l’evangelista, come abbiamo già notato, costruisce tutto il suo racconto su tre verbi diretti: e\neéptusan, e\kolaéfisan, e\raépisan. Quest’ultimo è legato al participio circostanziale leégontev che introduce il comando di profetizzare, alquanto enfatizzato in Matteo37. L’impressione che gli scherni siano strettamente relazionati alla dichiarazione dei sinedriti che Gesù è reo di morte appare ancora di più nel
Matthew, III, Edinburgh 1997, 535.603; M.J. LAGRANGE, Évangile selon Saint Matthieu, Paris 19488; 509. 36 Ciò pone la domanda chi sono gli autori di questi scherni. La forma al plurale indefinito ha suggerito agli interpreti diverse risposte. Secondo Gächter si tratta delle guardie deputate al maltrattamento, cfr P. GÄCHTER, Das Matthäus-evangelium, Innsbruck 1962, 889. Lagrange distingue due categorie: i membri del Sinedrio (tònev) ed un’altra categoria (oi| deé), cfr M.J. LAGRANGE, Évangile selon Saint Matthieu, cit., 509 ; così anche E. KLOSTERMANN, Das Matthäus-evangelium, Tübingen 19714, 214. Secondo Schweizer in Matteo non è chiaro chi ha schernito Gesù, in Mc 14,65 invece sono i servi che colpiscono, cfr E. SCHWEIZER, Das Evangelium nach Matthäus, Göttingen 197614, 327. Wiefel, pensa ai servi presenti, cfr W. WIEFEL, Das Evangelium nach Matthäus, Leipzig 1998, 462. Ai sinedriti pensano ancora Gnilka, Harrington e Hill, cfr J. GNILKA, Il vangelo di Matteo, II, trad. it., Brescia 1991, 628, secondo cui il racconto insinua che siano stati gli stessi membri del sinedrio; cfr inoltre D.J. HARRINGTON, The Gospel of Matthew¸ cit., 380, che però spiega che ciò è solo in Matteo; Mc 14,65 è ambiguo; in Lc 22,63 invece sembrano essere quelli che erano venuti ad arrestare Gesù; cfr anche D. HILL, The Gospel of Matthew ,Grand Rapids-London 1972, 328. 37 L’enfasi in Matteo è determinata sia dal pronome h|m_n sia dal vocativo Cristeé, che mancano sia in Marco sia in Luca. In questo modo Matteo sembra conferire al comando di profetare anche il carattere di una sfida. Appena sopra infatti Caifa aveva chiesto a Gesù se non fosse lui il Cristo. Il giudizio di tutti ha smentito tale prerogativa e i sinedriti sfidano Gesù a manifestare (h|m_n) davanti a loro la sua messianicità (Cristeé).
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racconto di Marco.38 Anche in Marco tuttavia emerge il problema chi siano stati quelli che hanno schernito Gesù39. Osserviamo però che il soggetto è costituito dal pronome indefinito tònev (alcuni); ciò lascia pensare ancora che gli autori degli scherni siano quelli stessi che professarono che Gesù è reo di morte. Tutto il racconto è imperniato attorno a due soggetti: il pronome indefinito tònev e il termine u|phreétai. Entrambi i soggetti reggono un verbo all’aoristo: h"rxanto ed e"labon. Il verbo h"rxanto è seguito e regge quattro infiniti coordinati: e\mptuéein (sputare), perikaluéptein (nascondere), kolafòzei (colpire con pugni), leégein (dire). Il quarto infinito introduce l’imperativo profhéteuson che nel racconto di Marco, a differenza di quello di Matteo, non pare abbia particolare enfasi40. Lo schema marciano appare più unitario e anche più elaborato. Possiamo schematizzare tutto il v 65 nel seguente modo: h"rxanto e\mptuéein perikaluéptein au\tou% kolafòzein au\toén leégein aut§%: profhéteuson oi| u|phreétai r|apòsmasin au\toèn e"labon
La prima e la quinta frase riprendono gli elementi del terzo canto; tra questi due elementi l’evangelista introduce tre espressioni all’infinito che non dipendono dal terzo canto. 38 In Marco emerge ancora la relazione tra la dichiarazione di morte e gli scherni. Notiamo però una differenza tra Matteo e Marco: mentre la particella toéte stabilisce la stretta concomitanza tra le azioni, in Marco la particella kaò suggerisce ancora di più una identità di soggetti. 39 Grundmann e Pesch pensano ai sinedriti e ai servi, cfr W. GRUNDMANN, Das Evangelium nach Markus, Berlin 198910, 415; R. PESCH, Il Vangelo di Marco, II. trad. it., Brescia 1980-1982, 646. Hooker, pur ammettendo che questo può essere il suggerimento del testo, osserva tuttavia che ciò è improbabile e pensa che Marco voglia soltanto dire che i sinedriti sono capaci anche di questo, cfr M.D. HOOKER, The Gospel according to St. Mark, London 1991, 370. 40 Si può notare l’unico termine profhéteuson. Alcuni codici, soprattutto minuscoli, e alcune versioni ampliano l’imperativo riprendendo qui l’espressione di Matteo; ma l’unicità del termine è attestata soprattutto dai codici maiuscoli ) A B C D L.
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Troviamo nello schema marciano la stessa preoccupazione dello schema di Matteo, esprimere al primo e all’ultimo posto della propria descrizione due elementi che si leggono nel terzo canto del servo: sia Matteo sia anche Marco inseriscono degli elementi tra la menzione degli sputi e quella degli schiaffi. Gli elementi inseriti da Matteo sono meno numerosi rispetto a quelli inseriti da Marco. Notiamo però una inversione tra i due evangelisti. Matteo introduce il comando di profetare dopo la menzione degli schiaffi; Marco invece la menziona prima.
1.4. Conclusioni
Queste conclusioni, che riguardano l’uso del terzo canto nei racconti evangelici degli scherni di Gesù, si riferiscono principalmente alle narrazioni di Matteo e Marco. Nella narrazione lucana infatti i termini che possono richiamare il terzo canto del servo, cioè il verbo e\mptuéw e un termine, verbo o sostantivo, dalla radice r|apòv, sono assenti. Due elementi soprattutto inducono a ritenere che, nella loro descrizione degli scherni di Gesù, i due evangelisti dipendano dal terzo canto del servo. Anzitutto i termini stessi che vengono usati: gli sputi (e\mptuésmata) e gli schiaffi (r|apòsmata) sono due dei tre elementi menzionati dal canto per descrivere i maltrattamenti del servo; a questi si aggiunge anche il termine proéswpon che si legge sia nel canto sia, benché in maniera diversa nei due evangelisti, in Matteo e Marco. Inoltre nella narrazione di Matteo e di Marco essi sono introdotti in posizione privilegiata: in Matteo includono il verbo kolafòzw e preparano il comando di profetare introdotto da questo evangelista con molta enfasi; in Marco la menzione degli sputi e degli schiaffi sta in assoluto all’inizio e alla fine di tutta la descrizione degli scherni di Gesù. A questi due elementi possiamo aggiungerne anche altri: il legame con il processo davanti al Sinedrio, in cui Gesù uscì dichiarato “reo di morte”41.
41 A riguardo è importante il verbo katakrònw che richiama il duplice uso del participio sostantivato o| krinoémenov in Is 50,8 (cfr Mt 27,3; Mc 14,64; Lc 24,20).
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Inoltre è importante il verbo profhteuéw, all’imperativo aoristo (profhéteuson), con cui Gesù è comandato di profetare. Tale verbo è centrale in Luca; meno centrale, ma pur carico di enfasi, in Matteo. Marco invece si limita a riferire soltanto l’imperativo . Infine non possiamo non richiamare qui le tre predizioni della Passione, soprattutto la terza, dove troviamo degli elementi che concordano con la narrazione della Passione e che richiamano il terzo canto del servo42. Ma possiamo ulteriormente ampliare le nostre conclusioni, magari in forma di ipotesi o di domanda, estendendole anche alla storia della tradizione a riguardo degli scherni di Gesù. Abbiamo notato come la narrazione lucana punta la sua attenzione sullo scherno riguardante la prerogativa profetica di Gesù.43. Matteo e Marco concordano negli elementi menzionando anche gli sputi, il volto e gli schiaffi44.
2. LA FLAGELLAZIONE (MT 27,31; MC 15,15; LC 23,24-25; GV 19,1-3) La considerazione della flagellazione di Gesù, quale è narrata dai vangeli, è richiesta ancora dal terzo canto che, in Is 50,6, riferisce le parole 42 Ci limitiamo soltanto ad indicare questi elementi senza approfondire il rapporto tra le predizioni della Passione e la narrazione stessa. A riguardo rimandiamo allo studio di A. GANGEMI, «Dovrà patire molte cose». Un possibile sviluppo dalla professione di fede alla narrazione della Passione, in Synaxis 18 (2000) 7-50 (I); 19 (2001) 25-77. Nella terza predizione della Passione i tre vangeli sinottici (Mt 20,19; Mc 10,33; Lc 18,32-33) concordano su due verbi: e\mpaòzw e mastigoéw. Marco e Luca hanno pure il verbo e\mptuéw. 43 Il confronto tra i vari evangelisti suggerisce che Luca riprenda e sviluppi una tradizione più antica che accennava in maniera più generica agli scherni di Gesù, sottolineando invece di più lo scherno sulla prerogativa profetica di Gesù. Ci chiediamo perciò se il testo di Luca non ci riporti più da vicino ad una antica tradizione aramaica, influenzata dal Targum del terzo canto del servo, che vide in Gesù il profeta inviato da Dio e che lesse il processo davanti al Sinedrio come il rifiuto di questo profeta da parte di “giusti” che non osservano la legge, così come dice ancora il Targum. Riteniamo tuttavia difficile dare una risposta certa a simile domanda. 44 Questi due evangelisti dovettero conoscere una tradizione più ampliata, che precisava, magari sotto l’influsso della versione greca del terzo canto, gli scherni di Gesù, menzionando gli sputi, il volto e gli schiaffi. In questa tradizione si volle sottolineare che Gesù non solo fu schernito come profeta, ma fu anche fisicamente maltrattato, realizzando quello che le Scritture avevano previsto per il servo. Matteo e Marco avrebbero ripreso
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del servo: toèn nw%toén mou deédwka ei\v maéstigav (il mio dorso ho dato ai flagelli). Nel testo di Is 50,4-9 la flagellazione è il primo dei tormenti ad essere menzionato; essa riguarda il dorso del servo (toèn nw%toén mou); il secondo tormento riguarda la faccia e consiste nella depilazione45, il testo greco invece preferisce parlare di “schiaffi (r|apòsmata)”. La flagellazione, essendo una pena praticata prima della crocifissione, ci riporta ovviamente non più al processo davanti al Sinedrio bensì al processo davanti a Pilato. Dal punto di vista storico essa era praticata come preparazione alla croce46. Nella considerazione della flagellazione, dobbiamo distinguere tra i vari evangelisti, soprattutto tra Matteo-Marco, Luca e Giovanni.
2.1. La flagellazione in Matteo e Marco Matteo e Marco procedono parallelamente nel loro racconto: prima riferiscono la decisione di Pilato a riguardo di Gesù (Mt 27,26; Mc 15,15), poi introducono gli scherni dei soldati (Mt 27,27-31; Mc 15,16-20). A riguardo della decisione di Pilato, Matteo e Marco procedono parallelamente. Marco però amplia, introducendo la proposizione circostanziale: bouloémenov t§% o"cl§ toè i|kanoèn poih%sai (volendo al popolo fare soddisfazione). In questo modo egli sottolinea che,pur condizionata, è la questa tradizione più ampliata, che forse era già legata al processo davanti al Sinedrio, e l’avrebbero inserita, magari personalizzandola, come appare in Marco, ciascuno nel proprio contesto. 45 Emerge una differenza tra il testo greco e il testo ebraico e aramaico: questi ultimi parlano non di “schiaffi” ma di “depilatori” (Cfr TM: {yi+:rom:l; TARGUM: }y$rml). 46 Ciò è sottolineato da diversi autori: cfr W.D. DAVIES – D.C. ALLISON, The Gospel according to Saint Matthew, III, cit., 539, che cita diversi autori latini e greci; P. GÄCHTER, Das Matthäusevangelium, cit., 915; R.H. GUNDRY, Matthew, cit., 565; M.D. HOOKER, The Gospel according to St. Mark, cit., 369; D.H. JUEL, Mark, Augsburg, Minneapolis 1990, 217; M.J. LAGRANGE, Évangile selon Saint Marc, Paris 19294, 418. Lagrange cita a riguardo Tito Livio (33,36 : «alios verberatos crucibus adfixit»), Giuseppe Flavio (Bel Jud. II, 14.9; V, 11.1), S. Girolamo (in Mt 27,26: «ut qui crucifigitur prius flagellis verberetur»); L. MORRIS, The Gospel according to Matthew, Grand Rapids 1992, 708. Altri autori pensano che essa serviva a indebolire la resistenza del condannato: cfr H. ANDERSON, The Gospel of Mark, Grand Rapids, London 1976, 338, W. HARRINGTON, Mark, Wilmington, Delaware 1979, 390; D. HILL, The Gospel of Matthew,cit., 331.
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volontà del procuratore a deliberare47. Matteo e Marco sembrano seguire e riprendere una fonte che già conteneva fissati in forma scritta questi eventi. Soprattutto doveva essere già fissata l’espressione quasi identica nei due evangelisti a\peélusen au\to_v toèn Baraébban toèn deè }Ihsou%n fragellwésav pareédwken i$na staurwq+%. A riguardo della flagellazione, notiamo in questi due evangelisti due peculiarità: essa è menzionata in forma di participio circostanziale (fragellwésav) rispetto al verbo principale pareédwken48 ed è espressa non con il verbo mastigoéw ma con il verbo fragelloéw.49. Quanto poi all’uso del verbo fragelloéw e alla sua forma attiva fragellwésav, con diretto soggetto Pilato, osserviamo che per la crocifissione si legge invece l’espressione passiva i$na staurwq+%. È chiaro che 47
Notiamo però un diverso inizio nei due evangelisti: Matteo introduce la particella
toéte, che sottolinea il momento presente, e omette il soggetto; Marco invece menziona il soggetto (o| deè Pilaétov), introdotto dalla particella deé. Questa differenza si può spiegare bene
alla luce del contesto. Entrambi gli evangelisti riferiscono la domanda di Pilato ai giudei: «che cosa fece di male?», seguita dalla loro richiesta, ancora più incalzante, che fosse crocifisso (Mt 27,23; Mc 15,14). Mentre però in Marco la richiesta dei giudei è seguita subito, nel v 15, dalla decisione di Pilato, in Matteo invece essa è separata da quella decisione dai vv 24-25, dove l’evangelista narra l’azione simbolica di Pilato di lavarsi le mani, con la dichiarazione della sua innocenza (v 24) e la seguente imprecazione dei giudei che invocano il sangue di Gesù su di loro e sui loro figli (v 24). Matteo stabilisce così una strettissima relazione tra l’imprecazione dei giudei e la decisione di Pilato. Questi decide quando ha visto che i giudei, invocando su di loro il sangue di Gesù, si sono assunti totalmente la responsabilità: la vera causa degli eventi deliberati da Pilato appare così la richiesta dei giudei. In diversa prospettiva invece si muove Marco; menzionando il soggetto con la particella deé, egli introduce un’azione nuova di Pilato che però non è staccata dalla richiesta precedente dei giudei. 48 Morris nota che Matteo dedica una sola parola alla flagellazione per occultare l’orrore della pena, cfr L. MORRIS, The Gospel according to Matthew, cit., 708. 49 Il verbo fragelloéw è unico dei nostri due testi in tutta la grecità, sia biblica che profana, prima del NT; come anche unico è l’uso del sostantivo frageéllion in Gv 2,15. Questi due termini appaiono così una grecizzazione dei termini latini “flagello (verbo)” e “flagellum (sostantivo)”. Sul carattere del verbo fragelloéw come grecizzazione di un termine latino, cfr W. HENDRIKSEN, The Gospel of Mark, Edinburgh 1987, 640 nota 806; M.J. LAGRANGE, Évangile selon Saint Marc, cit., 417; D. LÜHRMANN, Das Markus Evangelium, Tübingen 1987, 256. Emerge il problema, al quale non possiamo dare risposta, perché si preferì un termine del tutto estraneo alla grecità, evitando il temine greco mastigoéw che, fra l’altro avrebbe potuto essere suggerito dal terzo canto.
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Pilato personalmente non praticò nemmeno la flagellazione. Forse in questo modo si volevano scindere le responsabilità: i romani sono direttamente responsabili soltanto della flagellazione e non della crocifissione di Gesù. Questo potrebbe essere anche il motivo per cui la fonte di Matteo e Marco usò il verbo latino traslitterato in greco fragelloéw e non mastigoéw.
2.2. La flagellazione in Luca Luca esplicitamente non parla della flagellazione. Tuttavia, benché in maniera implicita, non possiamo dire che la sua menzione sia del tutto assente. L’evangelista infatti riferisce l’intenzione di Pilato di liberare Gesù dopo «averlo castigato (paideuésav)». Leggiamo ben due volte, sia nel v 16 sia nel v 22, l’espressione paideuésav a\poluésw (avendo castigato rimanderò). Nel castigo che Pilato vorrebbe infliggere a Gesù prima di liberarlo si può scorgere una allusione alla flagellazione. Infatti, come apparirà anche dal racconto di Giovanni, la flagellazione dovette essere stata inflitta a Gesù come pena a se stante e non come preparazione alla croce. Due elementi sorprendono nel racconto lucano: anzitutto l’assenza della diretta menzione della flagellazione che, come sappiamo da Matteo e Marco, e soprattutto da Giovanni, storicamente avvenne; inoltre il duplice uso del participio aoristo paideuésav che, dal verbo paideuéw, richiama il duplice uso del termine paideòa nel testo greco di Is 50,4-5. Non possiamo dare una precisa risposta alla domanda perché Luca abbia omesso la flagellazione50. Si possono avanzare soltanto delle congetture51. Ricollegandoci ancora al terzo canto del servo, leggiamo in Is 50
Prescindiamo dal problema se il termine richiami o meno la flagellazione. Legasse ritiene che Luca avrebbe minimizzato il fragelloéw di Marco, cfr S. LÉGASSE, Le procès de Jésus. La passion dans le quatre Évangiles, cit., 376. Walaskay pensa che Luca avrebbe omesso di parlare di flagellazione perché, secondo lui, non si trattava di un vero processo romano, cfr P.W. WALASKAY, The Trial and Death of Jesus in the Gospel of Luke, in JTS 94 (1975) 81-93: 90ss. 51 Forse l’evangelista non la trovò menzionata nella sua fonte; forse anche la omise per non disturbare la sensibilità dei suoi lettori non ignari della sua crudeltà; o forse anche per un motivo analogo a quello per cui mise due volte in bocca a Pilato il verbo paideuéw.
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50,5: kaì h| paideòa Kuròou a\noògei mou taè w&ta e\gwè deè ou\k a\peiqw% ou\deè a\ntileégw (e la pedagogia del Signore apre di me le orecchie e io non disobbedisco né contraddico). Nel v 6 poi si parla dei tormenti del servo, primo tra i quali il fatto di avere dato le spalle ai flagelli (ei\v maéstigav). Nella versione dei LXX i tormenti di cui si parla nel v 5 sembrano rientrare nella paideòa di Dio, davanti ai quali il servo né disobbedisce né contraddice. Se Luca avesse narrato la flagellazione, essa probabilmente sarebbe apparsa come la paideòa di Pilato; nel canto invece la flagellazione appare come la paideòa del Signore. Forse per evitare quest’equivoco Luca preferì omettere la flagellazione. All’evangelista non importa sottolineare il fatto che Gesù l’abbia positivamente subita, ma importa negativamente non avallare la convinzione che sia stato Pilato ad infliggerla. In realtà Gesù subì la flagellazione, ma questa non fu una paideòa di Pilato bensì la paideòa del Signore.
2.3. La flagellazione in Giovanni Della flagellazione parla anche Giovanni; leggiamo infatti in Gv 19,1: toéte ou&n e"laben o| Pilaétov toèn }Ihsou%n kaì e\mastògwsen (allora prese Pilato
Gesù e lo fece flagellare)52. La frase giovannea, dal punto di vista letterario, è ben costruita. Essa presenta uno schema concentrico53 dove, tra due verbi, sono inclusi il soggetto e l’oggetto:
52 Brown nota che i romani applicavano tre tipi di pene corporali, di progressiva severità: fustigatio, flagellatio, verberatio. Cfr R.E. BROWN, Giovanni, trad. it., Assisi 19995, 1081. 53 De La Potterie propone la seguente struttura concentrica, cfr I. DE LA POTTERIE, La Passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, trad. it., Cinisello Balsamo 1988, 88: 1. oltraggi flagellazione 2. gesti incoronazione di spine 3. insegne regali vesti di porpora 4. parole ave, re dei Giudei 5. oltraggi schiaffi
Il terzo canto del servo di Jahvè e le narrazioni della Passione di Gesù 105 e"laben o| Pilaétov toèn }Ihsou%n kaì e\mastògwsen
prese Pilato Gesù e fece flagellare
Sia la sua posizione finale, sia anche il fatto che non ha un oggetto proprio, ma condivide l’unico oggetto toèn }Ihsou%n con il verbo e"laben, conferiscono al verbo e\mastògwsen una particolare enfasi. Possiamo subito notare una triplice differenza tra la menzione della flagellazione in Matteo e Marco e quella in Giovanni. Anzitutto, sul piano letterario, Giovanni, più in sintonia con la terza predizione nei vangeli sinottici54, usa il verbo mastigoéw55, Matteo e Marco invece usano il verbo fragelloéw56. Il verbo mastigoéw richiama il termine maéstigav del terzo canto del servo57. Inoltre, sul piano della prospettiva, in Giovanni il verbo mastigoéw, in sintonia con gli usi della terza predizione, è espresso all’indicativo aoristo e descrive perciò un’azione diretta; in Matteo e Marco invece il verbo fragelloéw è introdotto come participio circostanziale del verbo pareédwken e perciò non esprime un’azione diretta in se stessa. Infine Giovanni stacca la flagellazione dalla crocifissione, mentre Matteo e Marco la menzionano in stretta concomitanza con essa58. Tale struttura è ripresa da Y. SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e una interpretazione, trad.it., Bologna 2000, 724. Concordiamo con De La Potterie nella composizione concentrica del testo; divergiamo però nella sistematizzazione degli elementi. I tre elementi centrali, incoronazione, insegne regali e saluto, debbono essere letti, come vedremo, in maniera progressiva, non concentrica. 54 Cfr Mt 20,19; Mc 10,34; Lc 18,32. 55 Il verbo mastigoéw è più frequente nel NT. Esso si legge complessivamente sette volte. Oltre l’uso di Giovanni e quello della terza predizione della Passione nei tre vangeli sinottici, si legge anche in Mt 10,17; 23,34; Eb 12,6. 56 Nota Leon-Dufour che alcuni autori mettono in discussione la differenza tra mastigoéw e fragelloéw; cfr X. LEON-DUFOUR, Lecture de l’Évangile selon Jean, IV, Paris 1998, 122. 57 Cfr in questo senso anche l.c. 122. 58 Bauer nota che Giovanni descrive ciò che Pilato, secondo Luca, aveva intenzione di fare per liberare Gesù. Egli però si chiede se era lecito ad un giudice romano far flagellare senza un regolare giudizio e solo per un esperimento, cfr W. BAUER, Das Johannesevangelium, Tübingen 19333, 217. Nota Blinzler che la flagellazione fu applicata come pena indipendente, cfr J. BLINZLER, Il processo di Gesù, trad. it., Brescia 1966, 295.
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A queste tre differenze possiamo anche aggiungerne una quarta. In Matteo e Marco il verbo centrale non è il participio fragellwésav ma l’indicativo pareédwken; in Giovanni invece il verbo centrale è e\mastògwsen: il quarto evangelista introdurrà il verbo pareédwken soltanto in 19,16, cioè ben sedici versi dopo la menzione della flagellazione. Benché la flagellazione sia menzionata da Giovanni in se stessa, tuttavia essa non può essere separata dal contesto dei vv 1-3, la cui peculiarità, nel contesto della narrazione giovannea, sta nel fatto che essi sono totalmente narrativi, in un contesto fondamentalmente dialogico59. I vv 1-3 gravitano attorno a due soggetti fondamentali: Pilato e i soldati. Ai soldati l’evangelista attribuisce la parodia regale fino, all’ultima del v 3: «davano schiaffi»60; a Pilato attribuisce invece una sola azione, la flagellazione (e\mastògwsen). In tutto il brano abbiamo complessivamente sette verbi diretti: e"laben - e\mastògwsen - e\peéqhkan - perieébalon - h"rconto - e"legon e\dòdosan61. I primi due verbi hanno come soggetto Pilato; gli altri cinque verbi hanno come soggetto i soldati. Il terzo e il quarto verbo, e\peéqhkan e perieébalon, si relazionano per tre elementi convergenti: il comune soggetto, i soldati, la stessa forma all’aoristo, una particolare struttura letteraria che li lega62. Pure il quinto e sesto verbo, h"rconto ed e"legon, si relazionano per Spiega Morris che Giovanni concorda con Luca e mette la flagellazione al momento giusto, cfr L. MORRIS, The Gospel according to John, Grand Rapids 1971, 790. 59 Nei precedenti vv 38b-40 Pilato dialoga con i giudei che chiedono la liberazione di Barabba; nei seguenti vv 4-7 Pilato ancora dialoga con i giudei: questi esplicitamente dichiarano che Gesù deve morire perché si è fatto figlio di Dio. 60 A riguardo dei soldati Leon-Dufour nota che i loro gesti corrispondono alle pantomime satiriche che si recitavano nei circhi romani, cfr X. LEON-DUFOUR, Lecture de l’Évangile selon Jean, IV, cit., 124. 61 La forma e\dòdosan è una forma di imperfetto. Nota Bernard che tale forma, attestata dai codd ) B L N W, è da preferire, dal punto di vista testuale, alla forma e\dòdoun attestata dai codd A D G D Q, cfr J.H. BERNARD, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II, Edinbourgh 1928, 615. 62 La struttura sembra concentrica: steéfanon e\x a\kanqw%n complemento e\peéqhkan verbo au\tou% t+% kefal+% complemento kaì i|maétion porforou%n complemento perieébalon verbo au\toén complemento
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tre elementi convergenti: il comune soggetto, i soldati, la stessa forma all’imperfetto63, una complementarietà tematica: il verbo h"rconto infatti rimarrebbe privo di uno scopo senza l’espressione seguente introdotta dal verbo e"legon. Possiamo così stabilire i seguenti accostamenti verbali: il primo con il secondo; il terzo con il quarto; il quinto con il sesto. Rimane da solo il settimo verbo: e"laben e\peéqhkan h"rconto
– e\mastògwsen – perieébalon – e"legon e\dòdosan
Se poi consideriamo gli oggetti logici, questi sono: la flagellazione, l’incoronazione di spine, il rivestimento con il mantello di porpora, il saluto regale: «ave, re dei giudei», gli schiaffi. Essi sono diversi; per la loro indole però possono essere raggruppati in due categorie. Il secondo, il terzo e il quarto sono chiaramente di indole regale e presentano un progresso: incoronazione64, rivestimento65, acclamazione o saluto. Il primo e quinto sono invece di diversa indole: e si riconducono all’aspetto del maltrattamento e dello scherno.
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Nota Morris che questi imperfetti esprimono azione iterata, cfr L. MORRIS, The Gospel according to John,cit., 791; cfr anche Cfr R.E. BROWN, Giovanni, cit., 1081. 64 Gli autori notano il carattere di parodia dell’incoronazione di spine. Secondo Beasley-Murray si tratta più di una caricatura che non di uno strumento di tortura, cfr G.R. BEASLEY-MURRAY, John, Waco (Texas) 1987, 336; Brown ritiene che la corona di spine voglia imitare la corona a raggi che serviva da ornamento a molti sovrani, cfr R.E. BROWN, Giovanni, cit., 1081, così anche W.D. DAVIES – D.C. ALLISON, The Gospel according to Saint Matthew, III, cit., 602-603 e W. GRUNDMANN, Das Evangelium nach Matthäus, cit., 556. Morris ritiene che il termine designi più una corona di vittoria che non una corona di regalità (diaédema), cfr L. MORRIS, The Gospel according to John, cit., 790. Tale carattere di parodia emerge non solo in Giovanni ma anche negli altri evangelisti, cfr D.J. HARRINGTON, The Gospel of Matthew¸cit., 394; D. HILL, The Gospel of Matthew, cit., 352. 65 Nota Brown che nell’espressione i|maétion porfurou%n il termine porfurou%n esprime il colore imperiale, cfr R.E. BROWN, Giovanni, cit., 1081.
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Tenendo conto delle varie relazioni verbali e della diversa indole degli oggetti, possiamo proporre cinque punti. Il primo e quinto, esprimono dei tormenti, il secondo, il terzo e il quarto sono invece di indole regale: flagellazione: incoronazione: rivestimento: saluto: schiaffi:
tormento - scherno indole regale indole regale indole regale tormento - scherno
Tra due elementi di tormento sono così inseriti tre elementi regali. Fermando la nostra attenzione sugli elementi di tormento, questi corrispondono a quelli indicati in Is 50,6 (LXX), come possiamo costatare dal seguente confronto66: Gv 19,1-3
Is 50,6
e\mastògwsen
maéstigav
incoronazione rivestimento saluto e\dòdosan r|apòsmata
r|apòsmata
L’autore del quarto vangelo inserisce così una parodia di regalità nello sfondo di elementi ripresi dal terzo canto del servo. Possiamo perciò concludere che Giovanni, più chiaramente di Matteo e Marco e più ancora di Luca, allude terminologicamente, nella menzione della flagellazione e degli schiaffi, al terzo canto del servo. Ciò induce a ritenere che Giovanni,
66 Secondo Schnackenburg la scelta delle parole può riflettere Is 50,6, cfr R. SCHNACKENBURG, Il vangelo secondo Giovanni, III., trad. it., Brescia 1981; così anche cfr R.E. BROWN, Giovanni, cit., 1081.
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così facendo voglia, dire che Gesù abbia raggiunto la sua regalità attraverso la condizione del servo.
2.4. La flagellazione nella terza predizione della Passione La flagellazione di Gesù, come già abbiamo osservato, è menzionata anche nella terza predizione della Passione nei vangeli sinottici (Mt 20,19; Mc 10,33; Lc 18,32-33)67. Essa è menzionata nel contesto della serie dei verbi che descrivono le vessazioni che “le genti (taè e"qnh)”, nel caso concreto i romani, infliggeranno al Figlio dell’Uomo. Sul numero delle vessazioni gli evangelisti discordano. Matteo ne introduce soltanto tre, corrispondenti a tre verbi diversi: e\mpaòzw - mastigoéw - stauroéw. Marco invece ne menziona quattro, con quattro verbi68. Luca infine arriva addirittura a cinque, aggiungendo ai quattro di Marco il verbo u|bròzw. Possiamo proporre il seguente schema sinottico: Matteo
Marco
Luca
e\mpaòzw
e\mpaòzw
mastigoéw stauroéw
e\mptuéw mastigoéw a\pokteònw
e\mpaòzw u|bròzw e\mptuéw mastigoéw a\pokteònw
Questo schema mostra che gli elementi costanti nella tradizione
67 Ci limitiamo soltanto a notare la menzione della flagellazione nella terza predizione della Passione. Prescindiamo dal problema sulla sua relazione con la narrazione della Passione; a riguardo rimandiamo allo studio del nostro relatore, cfr A. GANGEMI, «Dovrà patire molte cose». Un possibile sviluppo dalla professione di fede alla narrazione della Passione, I, cit., 30. 68 Aggiunge ai tre di Matteo il verbo e\mptuéw e sostituisce il verbo stauroéw con il verbo a\pokteònw. Probabilmente però è Matteo che muta il verbo tradizionale e generico a\pokteònw nel verbo più specifico stauroéw. 69 Cfr ancora A. GANGEMI, «Dovrà patire molte cose». Un possibile sviluppo dalla professione di fede alla narrazione della Passione, I, cit., 30.
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soggiacente alla terza predizione della Passione, oltre la menzione della morte, erano due: il verbo e\mpaòzw e il verbo mastigoéw. La terza predizione della Passione, più precisa e dettagliata rispetto alle prime due, può ritenersi verosimilmente una profezia ex eventu69. La tradizione fece dire a Gesù quello che in realtà si era verificato. Ma perché mise tutto ciò in bocca a Gesù? Perché specificamente usò i verbi e\mpaòzw e mastigoéw? L’unica risposta, verosimilmente, viene appunto dal terzo canto del servo70. Nella Passione Gesù realizzò la figura del servo e la tradizione primitiva esplicitò la sua coscienza di essere il servo e rivelò l’animo, quello appunto del servo, con cui egli affrontò quegli avvenimenti. In questa prospettiva possiamo capire la ripresa del verbo mastigoéw che richiama il termine maéstigav di Is 50,6. Sappiamo dalle testimonianze antiche che la flagellazione era un procedimento crudelissimo al quale un condannato guardava con orrore. Nulla però nella terza predizione della Passione rivela simile orrore in Gesù. Anzi, lo sviluppo seguente, proposto da Matteo e Marco71, mostra che Gesù guardò alla sua Passione come al suo scopo da realizzare. Se egli la annunzia come qualcosa che gli compete, vuol dire che in essa vide realizzato su di sé quello che la Scrittura diceva a riguardo del servo72.
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Anche il verbo e\mpaòzw può essere ricondotto al terzo canto del servo attraverso la stessa radice paid da cui deriva poi il termine paideòa usato due volte nel terzo canto. Otteniamo la seguente relazione terzo canto terza predizione paideòa maéstigav 71
e\mpaòzw mastigoéw
Cfr Mt 20,20-28; Mc 10,35-45. L’allusione al terzo canto nella terza predizione della Passione è confermata, in Matteo e Marco, dalle sue stesse parole conclusive (cfr Mt 20,28; Mc 10, 45), in cui propone l’esempio del Figlio dell’Uomo venuto non per essere servito ma per servire e dare la sua vita per molti. Qui però è chiara l’allusione al quarto canto del servo (cfr Is 53,11-12.) 73 Si può notare in Matteo e Marco un certo parallelismo con il processo davanti al Sinedrio. In entrambi gli scherni seguono alla conclusione del processo sia davanti al Sinedrio sia anche davanti a Pilato. Il primo si conclude con la dichiarazione che Gesù è reo 72
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3. GLI SCHERNI DI GESÙ NEL PROCESSO DAVANTI A PILATO (MT 27,27-31; MC 15,16-20A; GV 19,1-3) Secondo Matteo e Marco, la consegna di Gesù (pareédwken), dopo la flagellazione (fragellwésav), perché fosse crocifisso (i$na staurwq+%), conclude il processo davanti a Pilato. Segue poi, in questi due evangelisti una lunga narrazione degli scherni subiti da Gesù73. Luca, oltre la flagellazione, omette in questo contesto anche la narrazione degli scherni74, limitandosi a menzionarli, in un solo verso (v 11), nel contesto dell’episodio suo proprio dell’invio di Gesù ad Erode da parte di Pilato (Lc 23,6-12)75. Egli conclude il processo limitandosi a dire (Lc 23,24), che Pilato accolse la richiesta dei giudei, prosciolse quello che era stato messo in carcere per sedizione e omicidio, e diede (pareédwken) Gesù alla volontà dei giudei.
3.1. La sequenza degli avvenimenti È utile considerare nei singoli evangelisti la sequenza degli avvenimenti dove gli scherni sono inseriti. Nella narrazione di Matteo possiamo elencare i seguenti avvenimenti: raduno della coorte (v 27), lo spogliamento di Gesù dalle sue vesti (v 28a), il rivestimento di una clamide (v 28b), l’incoronazione di spine (v 29a), la canna posta nelle mani di Gesù (v 29b), la genuflessione (v 29c), lo scherno e il saluto: «ave, re dei giudei» (v 29d), gli sputi (v 30a), i colpi di canna (v 30b), azioni finali (v 31): la cessazione degli scherni, lo spogliamento della clamide, il rivestimento con le proprie vesti, la conduzione alla crocifissione. di morte e allora seguono gli scherni da parte, verosimilmente, degli stessi sinedriti; il secondo si conclude con la consegna per la crocifissione e allora seguono gli scherni da parte dei soldati. 74 Evans però nota che Luca ha una forma più abbreviata degli scherni e della parodia burlesca della regalità davanti a Pilato, cfr C.F. EVANS, Saint Luke, cit., 852. Marshall invece osserva che la scena è ricordata con pochi dettagli ed è difficile supporre che Luca abbia abbreviato una descrizione più colorita, cfr J.H. MARSHALL, The Gospel of Luke, cit., 857. 75 Ellis nota che Gesù, davanti ad Erode, appare come il profeta rifiutato, cfr E.E. ELLIS, The Gospel of Luke, Grand Rapids 19742, 261.
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Nella narrazione di Marco possiamo poi elencare i seguenti avvenimenti: raduno della coorte (v 16), il rivestimento di una porpora (17a), l’incoronazione di spine (v 17b), il saluto: «ave, re dei giudei» (v 17c), i colpi con una canna (v 19a), gli sputi (v 19b), la genuflessione (v 19c), le azioni finali (v 20): la cessazione degli scherni, lo spogliamento della porpora, il rivestimento con le proprie vesti, la conduzione alla crocifissione. Nella narrazione di Giovanni, possiamo infine elencare, inclusi tra la flagellazione e gli schiaffi, i seguenti avvenimenti: l’incoronazione di spine (v 2a), la veste di porpora (v 2b), il saluto: «ave, re dei giudei». Luca, nell’incontro di Gesù con Erode, in 23,11, parla genericamente di scherni76 e del rivestimento di una veste splendente: Erode, «avendolo rivestito di una veste splendente (e\sqh%ta lampraén)», rimandò Gesù da Pilato. L’elemento comune a tutti e quattro gli evangelisti, è il fatto della veste con cui Gesù fu rivestito77. L’ordine di alcuni elementi però in Matteo e Marco è diverso. In Matteo si susseguono nell’ordine: genuflessione, saluto, sputi, colpi di canna; in Marco invece si susseguono nell’ordine: saluto, colpi di canna, sputi, genuflessione. Tranne gli sputi, nessun altro di questi elementi sembra, almeno direttamente, essere ispirato dal terzo canto del servo di Jahvé: né il rivestimento di una veste rossa, né l’incoronazione di spine, né il saluto: «ave, re dei giudei», né l’adorazione con la genuflessione. Tuttavia essi globalmente costituiscono gli scherni subiti da Gesù e vengono riassunti, sia da Matteo che da Marco, nel verbo e\mpaòzw (Mt 27,31; Mc 15,20), che si legge anche in Lc 23,11, nel racconto di Erode.
76 Notiamo i due verbi e\xouqenhésav (avendo disprezzato) e e\mpaòxav (avendo schernito) 77 Pur concordando nel fatto, Luca discorda dagli altri evangelisti sia nella terminologia, sia anche nel contesto ambientale. Probabilmente egli trasferì all’episodio dell’incontro con Erode quello che la tradizione attribuiva al contesto del pretorio di Pilato.
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3.2. L’indole regale della sezione Notiamo anzitutto l’indole regale di questi scherni sia in Matteo, sia in Marco che in Giovanni. Essa è determinata dal rivestimento con la veste di porpora, dall’incoronazione di spine, dal saluto: «ave, re dei giudei», dalla adorazione. A riguardo della veste di porpora Marco e Giovanni sono più vicini: Marco, in maniera più generale, parla di un indumento di porpora (porfuéran); Giovanni specifica che si tratta di un mantello di porpora (i|maétion porfurou%n). Matteo è ancora più preciso e appare anche più vicino ai reali fatti storici78: egli parla di una clamide rossa (clamuéda kokkònon), del mantello cioè che usavano i soldati79, oppure del mantello che portavano i littori fuori Roma80. É verosimile infatti, che in quel contesto, Gesù sia stato rivestito di un mantello rosso militare preso in prestito da qualcuno dei soldati lì presenti.
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Così si esprime anche M.J. LAGRANGE, Évangile selon Saint Matthieu, cit., 525. Cfr J.H. BERNARD, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to St. John, II. cit., 401; W.D. DAVIES – D.C. ALLISON, The Gospel according to Saint Matthew, III, cit., 601. Nota Cole che il mantello scarlatto era un indumento appartenente ad un cavaliere romano, cfr R.A. COLE, Mark, Grand Rapids 19892, 314; così anche Hendriksen, cfr W. HENDRIKSEN, The Gospel of Mark, cit., 643. Grundmann pensa ad un mantello regale per onorare Gesù come stratega trionfatore, cfr W. GRUNDMANN, Das Evangelium nach Markus, cit., 425-426; secondo Juel Marco è meno preciso di Matteo: forse vorrebbe indicare un simbolo regale, cfr D.H. JUEL, Mark, cit., 217. 80 Cfr W.F. ALBRIGHT - C.S. MANN, Matthew, Garden City 1971, 346; J. GNILKA, Il vangelo di Matteo, II, trad. it., Brescia 1991, 678; cfr S. LÉGASSE, Le procès de Jésus. La passion dans le quatre Évangiles, cit., 266 ; E. SCHWEIZER, Das Evangelium nach Matthäus, cit., 334. 81 Cfr C.F. EVANS, Saint Luke, cit., 853; cosi anche P. JOÜON, Luc 23,11: Estheta Lampran, in RSR 26 (1936) 80-85: 83-84. 82 Cfr W. KLOSTERMANN, Das Lukasevangelium, cit., 233, cfr anche E. OSTY, L'évangile selon Saint Luc, Paris 1972, 158; W. WIEFEL, Das Evangelium nach Lukas, Berlin 1987, 390. 83 Cfr L. MORRIS, Luke, cit.,351. 84 Cfr E. SCHWEIZER, Das Evangelium nach Lukas, cit., 234. 85 Cfr A. PLUMMER, The Gospel according to S. Luke, cit., 523. 86 Cfr J.H. MARSHALL, The Gospel of Luke, cit., 857. 79
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Luca parla non di veste di porpora bensì di una veste splendente (e\sqh%ta lampraén). Sul significato di questa veste splendente gli interpreti hanno discusso. Evans81 intende il termine splendente nel senso di bianco e la veste può essere simbolo dell’innocenza. Secondo Klostermann82 si tratta ancora di uno scherno di regalità e di messianicità. Morris83 ritiene che in questo modo Erode non prese sul serio Gesù. Secondo Schweizer84 si tratta ancora delle vesti regali. Plummer85 pensa che il termine lamproév non indica il colore ma la sfarzosità. Nota Marshall86 che il termine lamproév significa “splendente” ed è usato del vestito dell’angelo in At 10,30. L’aspetto regale tuttavia potrebbe anche non essere insito in questa scena; essa però lo acquista alla luce degli altri elementi: l’incoronazione di spine e soprattutto il saluto e l’adorazione.
3.3. L’incoronazione di spine, l’adorazione e il saluto Nella narrazione dell’incoronazione di spine, Matteo e Giovanni concordano quasi alla lettera. Marco ci offre una descrizione più succinta87. Tale episodio assume più chiaramente l’aspetto di una atroce parodia della regalità. Matteo e Marco menzionano prima la vestizione poi l’incorona-
87 L’evangelista trasferisce all’incoronazione di spine il verbo peritòqhmi che Matteo invece riserva alla vestizione della clamide. Lagrange nota che l’espressione steéfanon periqe_nai è una espressione classica, cfr M.J. LAGRANGE, Évangile selon Saint Marc, cit., 419. 88 Hooker osserva che tale saluto riecheggia il saluto imperiale «ave, Cesare», cfr M.D. HOOKER, The Gospel according to St. Mark, cit., 370; così anche cfr J. BLINZLER, Il processo di Gesù, cit., 299. 89 L’azione dell’adorazione è espressa però diversamente. Marco usa una espressione più lunga: tiqeéntev taè goénata prosekuénoun au\t§% (avendo posto le ginocchia, adoravano); Matteo non usa il verbo proskuneéw, usa invece un termine molto lungo gonupethésantev per indicare il piegamento delle ginocchia, e introduce l’espressione e"mprosqen au\tou% (davanti a lui).
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zione; Giovanni, al contrario, prima parla dell’incoronazione di spine poi del rivestimento di un mantello di porpora. Nell’adorazione e nel saluto Giovanni concorda con Matteo e Marco per le parole: «ave, re dei giudei». A differenza però di questi due evangelisti, egli non parla dell’atto di adorazione mediante il piegamento delle ginocchia, ma si limita soltanto a notare che «venivano da lui». Tutto l’accento perciò nella narrazione giovannea sta sulle parole di saluto88. Matteo e Marco invece procedono quasi parallelamente. Entrambi gli evangelisti riferiscono sia l’azione dell’adorazione sia anche le parole di saluto89. L’ordine però è diverso: Matteo introduce l’azione di adorare a cui seguono subito le parole di saluto, Marco invece introduce prima le parole di saluto, separandole però dall’azione di adorazione mediante la menzione dei colpi di canna e degli sputi90. Matteo e Marco coincidono alla lettera nell’espressione ca_re, basileu% tw%n }Ioudaòwn; in entrambi gli evangelisti il termine basileu% è un vocativo. Giovanni introduce una sola mutazione: a posto del vocativo basileu%, introduce in nominativo o| basileuév con valore di vocativo.
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Troviamo così nei due evangelisti il seguente ordine: Matteo: adorazione saluto Marco: saluto - colpi di canna - sputi - adorazione. 91 Cfr in entrambi gli evangelisti l’uso del verbo tuéptw (colpire, battere). all’imperfetto iterativo (e"tupton). 92 In Marco il dativo strumentale kalaém§ è senza articolo; si tratta di una canna qualsiasi presa da qualsiasi posto. 93 L’accusativo kaélamon dipende dal precedente verbo e\peéqhkan riferito alla corona di spine sul capo. L’evangelista crea così due frasi legate, oltre che dal comune verbo, anche da una particolare struttura letteraria: steéfanon e\x a\kanqw%n e\peéqhkan e\pì th%v kefalh%v au\tou%
kaélamon e\n t+% dexiç% au\tou%
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3.4. La menzione della canna e gli scherni La menzione della canna (kaélamov) è presente sia in Matteo sia anche in Marco. In entrambi essa è menzionata come uno strumento con cui venivano inflitte continue91 sofferenze. Ma, mentre in Marco è menzionata solo come strumento di tortura92, Matteo invece la menziona anche come un oggetto posto in mano a Gesù: kaì kaélamon e\n t+% dexiç% au\tou% (e una canna nella sua destra)93. In Matteo la menzione della canna posta in mano a Gesù è il quarto dei sei elementi che compongono una paradossale scena regale: lo spogliamento delle proprie vesti, il rivestimento di una clamide, la corona di spine, la canna nella destra, la genuflessione, il saluto. In questo contesto, dopo l’incoronazione di spine, la canna nella destra94 equivale alla consegna dello scettro regale95. Il carattere di parodia e di scherno di tutta la scena, oltre che dal contesto più ampio, emerge dai due elementi degli sputi e dei colpi di canna menzionati sia da Matteo che da Marco. I due evangelisti concordano negli elementi fondamentali; discordano però nell’ordine con cui le due azioni sono introdotte. Matteo menziona prima gli sputi e poi i colpi di canna, Marco, al contrario, prima i colpi di canna poi gli sputi. Giovanni invece non menziona né gli sputi né i colpi di canna; soltanto introduce le tre azioni regali: incoronazione di spine, vestizione e saluto, tra la menzione della flagellazione e degli schiaffi.
3.5. Le allusioni al canto del servo Quanto alle allusioni degli scherni nel processo davanti a Pilato al 94 Possiamo notare la specificazione di Matteo e\n t+% dexiç% (nella destra) che si addice appunto all’immagine dello scettro regale. 95 Il rimando simbolico della canna ad uno scettro regale è sottolineato da diversi interpreti; cfr W.D. DAVIES – D.C. ALLISON, The Gospel according to Saint Matthew, III, cit., 603; W. GRUNDMANN, Das Evangelium nach Matthäus, cit., 557; M.J. LAGRANGE, Évangile selon Saint Matthieu, cit., 527; L. MORRIS, The Gospel according to Matthew, cit., 712. 96 Cfr l’espressione identica nei due evangelisti: o$te e\neépaixan au\t§% (Mt 27,30b; Mc 15,20).
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terzo canto del servo, distinguiamo tra i vangeli sinottici e Giovanni. Nei vangeli sinottici, specificamente Matteo e Marco, l’unico elemento esplicito di allusione è costituito dagli sputi. Il verbo e\mptuéw infatti, usato sia da Matteo che da Marco, può facilmente richiamare il termine e\mptuésmata di Is 50,6. In maniera più implicita, la menzione dei colpi di canna sulla “testa”, può avere sostituito la menzione degli schiaffi sulle “guance” in Is 50,6, secondo la versione greca, o dei “depilatori”, secondo il testo ebraico. Possiamo osservare ancora l’uso ripetuto del verbo e\mpaòzw. Con questo verbo sia Matteo che Marco riassumono tutti gli scherni descritti prima in maniera dettagliata96. Con esso Matteo caratterizza pure il saluto: «ave, re dei giudei» (Mt 27,29b). In Lc 23,11 descrive l’atteggiamento di Erode verso Gesù. Infine in tutti e tre i sinottici esso tornerà nella scena della crocifissione97 e caratterizzerà l’atteggiamento dei giudei e dei soldati verso Gesù98. L’uso massiccio di questo verbo sembra confermare l’ipotesi che esso cioè possa essere stato suggerito dal duplice uso del termine paideòa, nel terzo canto del servo (Is 50,4.5), che condivide con il verbo e|mpaòzw la stessa radice paid. In questo senso tutta la parodia della regalità narrata dai vangeli, fortemente verosimile dal punto di vista storico, dovrebbe essere ricondotta alla paideòa del Signore di cui parla il terzo canto. Se ciò è vero, dovremmo tirare una conclusione molto importante: in tutti quegli scherni Gesù non fu in balia degli uomini, ma in lui si stava compiendo quanto le Scritture avevano detto a suo riguardo. In Giovanni l’allusione al terzo canto, in Gv 19,2-3, appare più chiara. Gli elementi stessi dell’incoronazione, della vestizione e del saluto non provengono dal canto. Ma essi, collocati nello sfondo di due elementi riconducibili al canto, flagellazione e schiaffi, debbono essere letti alla sua luce.
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Cfr. Mt 27,41; Mc 15,31; Lc 23,36. Questo verbo si legge pure nella terza predizione della Passione, cfr Mt 20,19; Mc 10,34: Lc 18,32. 98
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3.6. La prospettiva dei singoli evangelisti Dopo avere considerato le possibili allusioni al terzo canto del servo, è utile adesso tentare di cogliere la prospettiva di ciascun evangelista. Nella descrizione di Matteo possiamo distinguere due parti, ciascuna di quattro elementi, culminanti entrambe in una azione con la canna. Gli elementi della prima parte: lo spogliamento, il rivestimento di una clamide, l’incoronazione di spine, la posizione della canna nella destra possono essere caratterizzati come azioni oggettive, come parodia cioè di una intronizzazione regale; quelli della seconda parte, la genuflessione, lo scherno e il saluto: «ave, re dei giudei», gli sputi, i colpi con la canna come atteggiamenti soggettivi, come la reazione dei presenti verso quella intronizzazione o verso il re intronizzato. Nella prima parte l’episodio della canna rappresenta un progresso di intronizzazione regale: il re, spogliato delle sue vesti, è rivestito delle vesti regali, è incoronato e riceve lo scettro. Nella seconda parte invece i colpi di canna segnano il culmine del disprezzo. Diversa appare invece la prospettiva dei sei elementi99 che costituiscono la descrizione marciana. In Marco, più chiaramente che non in Matteo, possiamo cogliere una particolare distinzione verbale. Le prime tre azioni, rivestimento, incoronazione di spine, saluto, presentano la seguente successione verbale: un presente (e\ndiduéskousin), un presente (peritiqeéasin), un aoristo (h"rxanto). Le altre tre azioni invece, i colpi di canna, gli sputi, la genuflessione e adorazione, sono caratterizzati da tre forme all’imperfetto: e"tupton - e\neéptuon - prosekuénoun. Anche la descrizione di Marco deve essere così divisa in due parti, che culminano rispettivamente nel saluto: «ave, re dei giudei», e nella genuflessione che appare così un vero e proprio atto di adorazione100. Sorprende il fatto che i vangeli insistano con realismo, anche crudo, su questi scherni che forse potevano suonare male alle orecchie dei cristiani provenienti dal paganesimo e che perciò era più utile minimizzare. Ma essi, alla luce del terzo canto, sono la paideòa del Signore riservata al servo, e 99 Abbiamo già notato che Marco omette sia lo spogliamento, sia la posizione della canna nella destra. 100 Cfr l’imperfetto prosekuénoun. 101 Cfr l’imperfetto iterativo e\dòdosan.
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perciò non debbono essere né omessi né minimizzati. Accettandoli, Gesù rivela di essere appunto quel servo che va incontro alla paideòa del Signore senza rifiutarsi né tirarsi indietro. Essa si attua in un aspetto preciso di Gesù, la sua regalità, che troverà la sua massima proclamazione nel titolo della croce. Giovanni, come abbiamo già notato, concorda con la narrazione di Matteo e Marco nella menzione delle tre azioni fondamentali: l’incoronazione, il rivestimento, il saluto. Inverte però l’ordine: non parla prima di rivestimento e poi di incoronazione ma, al contrario, prima di incoronazione e poi di rivestimento. Giovanni soprattutto dà maggiore enfasi alla flagellazione e agli schiaffi (r|apòsmata) che i soldati ripetutamente davano a Gesù101, di cui nei vangeli sinottici, almeno nel contesto del processo davanti a Pilato, non si dice nulla. Questi due elementi direttamente provengono dal terzo canto del servo; sembra che il quarto evangelista abbia voluto dire che Gesù perviene alla regalità attraverso la via di quella sofferenza prevista dalle Scritture. La scena giovannea di 19,1-3 perciò non ha nulla del carattere parodiaco che troviamo invece nei vangeli di Matteo e Marco, ma assume un carattere simbolico che mira ad evidenziare il senso della regalità di Gesù102, alla quale Gesù perviene attraverso la via dell’obbedienza, evocata in Is 50,4-6 dalla menzione delle orecchie, che si attua nell’accettazione degli scherni e nei tormenti. Il vero culmine dell’obbedienza del servo è così la sua regalità, quella riconosciuta dai soldati (19,3), proclamata da Pilato (19,14), dichiarata sulla croce (19,19).
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Secondo Leon-Dufour tutta la scena esprime l’abbassamento del Figlio di Dio; tuttavia, attraverso l’accento posto sulla pantomima dell’intronizzazione, si mantiene fisso lo sguardo sulla regalità di Gesù, cfr X. LEON-DUFOUR, Lecture de l’Évangile selon Jean, IV, cit., 125. Secondo Wilckens poi tutta la scena di Gv 19,1-3 prepara quella di 19,4-7, cfr U. WILCKENS, Das Evangelium nach Johannes, Göttingen 199817, 282. 103 Prescindiamo in questo capitolo da tutte le osservazioni critiche che abbiamo proposto nella prima parte di questo studio. Rileggiamo il canto nel modo come poté averlo letto la tradizione neotestamentaria, che non si poneva certo i problemi critici propri dell’esegesi moderna.
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4. LO SCHEMA DEL TERZO CANTO NELLA NARRAZIONE DELLA PASSIONE La considerazione delle allusioni relativamente più chiare del terzo canto del servo di Jahvè alle narrazioni evangeliche della Passione di Gesù suggeriscono un confronto più globale tra i due testi, considerando i vari aspetti secondo l’ordine di chiarezza con cui essi sono presenti nelle narrazione evangeliche.
4.1. La menzione delle orecchie Nel canto del servo, è menzionata per ben due volte una azione di Dio sull’orecchio del servo103. La prima menzione è nel v 4: il Signore al mattino (reqoBaB) incita (riy(fy yil) al servo un orecchio (}ezo)) per ascoltare (a(om:$il) come iniziati. La seconda menzione poi è nel v 5 dove il servo dichiara che il Signore gli ha aperto (yil-xatP f ) l’orecchio (}ezo)) e lui non si è ribellato né si è tirato indietro. Questa duplice menzione si trova al centro di due azioni, rispettivamente di Dio, che ha dato al servo una lingua da iniziati, e del servo che non si è ribellato né si è tirato indietro104. In relazione al dono della lingua da iniziati, il servo può essere abile parlatore in quanto Dio ha raffinato la sua capacità di ascolto. Possiamo dire che Dio gli ha fatto sentire qualcosa di fronte alla quale il servo né si è ribellato, né si è tirato indietro. Tutti e tre i vangeli sinottici riferiscono la preghiera di Gesù al Getsemani, nella quale egli chiese al Padre che passasse il calice, ma poi si 104
Emerge così uno schema tematicamente concentrico: 1. La lingua da iniziati 2. L’incitamento dell’orecchio 3. L’apertura dell’orecchio 4. La non ribellione del servo. 105 Cfr Gv 6,38-40; 12,27-28a; 14,31; 16,32; 18,11. 106 Tra la preghiera di Gesù e il canto del servo bisogna presupporre un passaggio intermedio, suggerito dal Sal 39,7(LXX): «sacrificio e offerta non hai gradito, le orecchie mi hai aperto; olocausto e vittima per il peccato non hai voluto, allora ho detto: ecco io vengo; sul rotolo del libro di me è stato scritto di fare la tua volontà». Dopo la prima menzione di due sacrifici, il salmo introduce la menzione dell’azione di Dio sulle orecchie; dopo l’altra menzione di due sacrifici, il salmo presenta la decisione del salmista di compiere la volontà di Dio. Dal punto di vista dell’azione di Dio sulle orecchie, il Sal 39 richiama il terzo canto
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conformò pienamente alla sua volontà. Giovanni non narra la preghiera di Gesù, ma non pare che egli la ignori105. Poniamo allora la domanda: l’adesione di Gesù alla volontà del Padre al Getsemani è riconducibile alla duplice azione di Dio sulle orecchie del servo, soprattutto la seconda, davanti alla quale egli né si ribella né si tira indietro? Riteniamo di potere rispondere positivamente, benché il riferimento sia indiretto106.
4.2. L’adesione del servo e di Gesù agli eventi La risposta del servo all’azione di Dio, nel terzo canto, è stata quella della docilità. Questa è espressa con due formule negative: il servo non si è ribellato (yityirm f )ol yikon) f w: ) e indietro non si è tirato (yitogUS:n )ol rowxf)). All’atteggiamento negativo del servo, che non si è ribellato all’azione di Dio, corrisponde l’atteggiamento positivo di Gesù che ha aderito pienamente alla volontà di Dio accettando di bere il calice della Passione. L’atteggiamento negativo del servo di non voltarsi indietro, può corrispondere al particolare di Matteo e Marco dove Gesù tornando la terza volta dai discepoli e avendoli trovati addormentati, li esorta, forse in maniera ironica, a dormire e riposare. Poi, quasi interrompendo il loro riposo, li esorta ad alzarsi e ad andare107. Con queste parole Gesù esorta se stesso e i discepoli ad andare incontro al traditore, davanti al quale egli non fugge né si sottrae.
del servo; dal punto di vista del compimento della volontà di Dio il salmo richiama la preghiera di Gesù al Getsemani Possiamo notare tra i due testi una certa relazione letteraria: Canto del servo Sal 39 -xatfP yil }ezo)
a\noògei mou taè w&ta
{iyan:zf) ftyirfK yil
w\tòa kathrtòsw moi Alcuni codici dei LXX (B S A) leggono non w\tòa ma sw%ma; ma, come osserva la
stessa edizione critica del Rahlfs (cfr A. RAHLFS, Septuaginta, II, cit., ad locum), si tratta probabilmente di un influsso determinato dal mutamento introdotto da Eb 10,5. Notiamo nei due testi delle diversità letterarie; la prospettiva però è analoga e il soggetto in entrambi è Dio. 107 Cfr Mt 26,46 e Mc 14,42. 108 Mt 26,56b; Mc 14,50. 109 Cfr Gv 18,4 e anche 14,31.
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Ciò in contrasto con l’atteggiamento dei discepoli i quali invece «avendolo lasciato, fuggirono tutti»108. Né Luca né Giovanni riferiscono quest’ultimo elemento che tuttavia Giovanni sembra non ignorare: anche in questo evangelista Gesù appare come colui che non solo non si sottrae agli eventi, ma va incontro ad essi109.
4.3. Il giudizio Dopo avere descritto i tormenti a cui è andato incontro (v 6) e dopo avere espresso la sua fiducia nella presenza del Signore (v 7), in Is 50,8 il servo lancia quasi una sfida: forte del fatto che il Signore lo dichiara giusto, il servo si chiede chi può altercare con lui o chi può emettere contro di lui un giudizio di condanna. Questa sfida, dopo la descrizione dei tormenti, sorprende: se il servo è stato flagellato, percosso e sputato, vuol dire che contro di lui è stato emesso un giudizio di condanna. Questa almeno sembra essere la lettura dei LXX110. Il TM invece sembra presupporre due momenti progressivi111: prima gli uomini lo hanno maltrattato e poi, forse, avrebbero voluto trascinarlo in giudizio per farlo condannare. Qui il servo lancia la sua sfida: gli uomini non possono condannarlo perché con lui c’è il Signore che lo giustifica. In ogni caso sembra che il servo eviti un giudizio di condanna. Emerge subito la somiglianza e la differenza con le narrazioni evangeliche. Ben lungi dall’eludere il giudizio, Gesù ne ha subiti addirittura
110 Cfr le due espressioni con il verbo all’aoristo nel v 7 (Kaì Kuériov bohqoév mou e\genhéqh: Il Signore aiuto di me divenne) e nel v 8 (o$ti e\ggòzei o| dikaiwésav me: si avvicina
colui che mi ha giustificato). I due aoristi presuppongono che un processo sia già avvenuto e che i tormenti descritti nel v 6 siano l’esecuzione di una sentenza di condanna. 111 Ciò è suggerito dall’espressione all’imperfetto yil-rfzA(ay (mi aiuta) nel v 7 e dal participio hiphil yiqyiD:cam (colui che mi giustifica) nel v 8 che rimandano entrambe ad un futuro imminente. 112 L’aspetto del giudizio si apre anche al quarto canto, legato però non agli scherni ma alla morte. In Is 53,8(LXX) infatti leggiamo: «in umiliazione (e\n tapeinwései) il suo giudizio (h| kròsiv au\tou%) fu preso [...] poiché è tolta dalla terra la sua vita; per le iniquità del mio popolo fu condotto a morte». 113 Cfr Gv 19,1-3.
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due. Nel primo, davanti al Sinedrio, egli è stato giudicato degno di morte, nel secondo, davanti a Pilato, gli è stata decretata la morte in croce. Sia nel canto sia nei vangeli si stabilisce una relazione tra i tormenti e il giudizio benché in ordine diverso. Nel canto prima si menzionano i tormenti e poi si accenna al giudizio112; Matteo e Marco prima descrivono i due processi e poi narrano gli scherni e i tormenti. In Luca invece gli scherni precedono il processo davanti al Sinedrio. Giovanni, pur senza ignorare questi eventi, segue un suo particolare sviluppo113.
4.4. La fiducia in Dio Il terzo canto aiuta anche a comprendere l’anima di Gesù nel cammino della sua Passione. Riteniamo infatti che gli evangelisti, riferendo a Gesù alcuni testi delle Scritture, abbiano voluto riferire a lui anche i sentimenti dell’animo che caratterizzano i protagonisti dei testi citati. Nel canto di Isaia il servo, in mezzo alle molteplici tribolazioni che deve subire, ha una luce: la presenza del Signore che lo aiuta e lo sostiene114. Forte di tale presenza, il servo affronta con coraggio e durezza ogni avversità, sicuro che il Signore non lo deluderà. Sull’aspetto della presenza del Signore il servo tornerà ancora nei vv 8-9115. A riguardo di Gesù possiamo dire, alla luce del canto del servo, che l’animo con cui egli affrontò la sua Passione non fu né di passiva rassegnazione né di tacita e impotente ribellione, ma di profonda fiducia e di totale abbandono a Dio, nella certezza che Dio non lo avrebbe abbandonato. Sul modo poi come Dio aiuterà il servo il canto non dice nulla. Possiamo pensare che egli, forte dell’aiuto del Signore, uscirà indenne dal giudizio di condanna che gli uomini vogliono intentare contro di lui. Ciò 114
Cfr Is 50,7. Il tema della fiducia in Dio non è esclusivo del terzo canto del servo, ma si trova in altri testi, più o meno presenti nella narrazione della Passione, che ci limitiamo solo ad indicare: Salmi 41-42; Sal 39; Sal 21; Sal 68; Sal 15. 116 L’espressione {yidUMil }ow$il richiama la «lingua di iniziati», la lingua cioè di coloro che, essendo stati istruiti ({yidUMil) sono diventati capaci di parlare (}ow$il). 117 Gesù parla infatti al Getsemani, parla davanti al Sinedrio, parlerà anche, secondo la narrazione giovannea, sia davanti al sacerdote Anania, sia anche davanti a Pilato. 115
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però non si può dire per Gesù che dai vari processi uscì invece giudicato e condannato. Ma nemmeno la fiducia di Gesù fu delusa: la fede neotestamentaria professa infatti che egli non eluse la morte, ma la superò nella resurrezione il terzo giorno.
4.5. «Una lingua di iniziati» Un ultimo elemento da considerare è il fatto che il Signore ha dato al servo una lingua di iniziati, capace di parlare116. É difficile riscontrare o comunque riferire questo elemento a qualche aspetto della narrazione della Passione. In essa Gesù non sempre tace117, ma i suoi interventi sono più la risposta dell’interrogato con parole sagaci che non la parola del profeta o del maestro, come suggerisce appunto l’espressione: «lingua di iniziati». Escluso qualsiasi riferimento alla narrazione della Passione, ci chiediamo tuttavia se la figura del servo, dotato di una «lingua di iniziati» non possa richiamare qualche altro momento che precede la Passione. Ci riferiamo soprattutto all’ultima parte dell’attività pubblica di Gesù, quella che va dal suo ingresso a Gerusalemme fino alla narrazione della Passione, caratterizzata dal suo violento scontro con i giudei che determinò la congiura e che culminò poi nella croce. Benché nessun elemento permetta una conclusione certa, in tale scontro con i giudei a Gesù può essere riferita bene la prerogativa del servo profeta dotato di «una lingua di iniziati» 118. Se l’allusione delle dispute di Gesù con i giudei alla «lingua di iniziati» su indicata è vera, avremmo allora il seguente sviluppo tematico: Gesù ebbe una «lingua di iniziati» e con essa smascherò l’ipocrisia dei 118 Così in tutti e tre i vangeli sinottici troviamo gli episodi della purificazione del tempio, della maledizione del fico del rifiuto di Gesù di rivelare l’origine del suo potere, la parabola dei cattivi vignaioli, i vari tentativi di prendere Gesù con l’inganno fatti dai discepoli dei farisei e dagli erodiani, dai sadducei, seguiti dalla domanda di Gesù sulla paternità del Messia, le invettive di Gesù contro i farisei del c 23 del vangelo di Matteo. 119 Ci chiediamo se i diversi passaggi giovannei dove Gesù dichiara che egli parla come ha udito dal Padre, non possano richiamare la “lingua di iniziati” che poggia sul fatto che Dio ha dato un “orecchio come di iniziati”. Possiamo citare qualche testo: 8,26: «ciò che ho udito da lui questo io dico al mondo»; 15,15: «ciò che ho udito dal Padre ho reso noto a voi»; cfr anche 3,32; 5,30; 8,28.38; 12,50; 14,10.31.
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giudei; ciò lo portò alla Passione e alla croce, alla quale egli non si sottrasse e che accettò in atteggiamento di profonda obbedienza, perché questa era la volontà del Padre alla quale egli aderì, avendogli lui aperto l’orecchio119.
4.6. Confronto schematico Possiamo allora proporre, in maniera schematica, un confronto tra il canto del servo e la narrazione della Passione: vangeli 1. Dispute con i giudei 2. L’obbedienza di Gesù 3. Gesù va incontro alla Passione 4. Gesù subisce i processi 5. Gesù subisce la flagellazione 6. Gesù è schernito, sputato e schiaffeggiato 7. Gesù si affida a Dio 8. Gesù risorge
canto del servo “lingua di iniziati (?)” l’orecchio “come di iniziati” il servo non si sottrae il servo sfida chi vuol giudicarlo e condannarlo il servo non ha sottratto le sue spalle ai flagelli il servo ha dato la guancia ai depilatori e agli sputi il servo confida nell’aiuto di Dio il servo non rimarrà confuso
5. CONCLUSIONI Proponiamo alcuni punti conclusivi di questo lavoro. Nel descrivere anzitutto gli eventi della Passione di Gesù la tradizione primitiva ebbe presente il terzo canto del servo. In esso trovò la luce per comprendere il senso profondo di quegli eventi traumatici e scandalosi. In particolare essa comprese che Gesù, nella sua Passione, ben lungi dall’essere vittima di congiure umane, era colui che, in atteggiamento di profonda e totale
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Anna Pilato
adesione alla volontà di Dio, stava realizzando una delle figure più sconcertanti dell’AT, quella del servo del Signore. Ovviamente la fede primitiva non lesse soltanto il terzo canto del servo ma anche il quarto canto, Is 52,13-53,12, che però abbiamo dovuto escludere dalla nostra ricerca. I due canti, come suggerivano gli eventi, furono accostati e letti insieme dalla riflessione primitiva. Le ostilità contro Gesù infatti non furono limitate soltanto ai maltrattamenti e agli scherni, ma continuarono fino ad un giudizio di condanna e fino alla sua esecuzione sulla croce. Il Gesù della Passione appare così l’uomo che, per obbedienza a Dio, si era caricato ed aveva espiato con la sua morte i peccati degli uomini. In particolare la narrazione evangelica si riferisce esplicitamente al terzo canto nella menzione degli sputi, degli schiaffi, della flagellazione. Per altri elementi invece la sua allusione è implicita: l’azione di Dio sulle orecchie e all’atteggiamento fondamentale di Gesù di fiducia in Dio. Tutte le allusioni, sia esplicite che implicite, che sono state considerate permettono anche di concludere che nella narrazione della Passione si videro realizzati non soltanto dei singoli elementi, ma in parte anche la stessa successione degli avvenimenti. In questo senso si può dire che lo schema narrativo della Passione segue certo la reale successione storica degli eventi, ma corrisponde anche allo schema narrativo del terzo canto del servo. Dal punto di vista letterario, le allusioni esplicite richiamano meglio il testo dei LXX; non manca però, come abbiamo già notato, anche qualche reminiscenza del Targum. Questo lavoro conferma così la verità della professione di fede trasmessaci dalla chiesa primitiva: «Cristo è morto secondo le Scritture». Nella sua Passione Gesù realizzò, tra le altre figure, anche quella del servo che ha reso il grande servizio agli uomini di caricarsi dei loro peccati e che Dio aveva preannunziato delineandone la figura nel terzo e poi nel quanto canto del servo contenuti nel libro di Isaia.
Sezione miscellanea Synaxis XXI/1 (2003) 127-148
PRETI LOMBARDI VESCOVI A SIRACUSA NEL NOVECENTO
GAETANO ZITO*
1. UNA QUESTIONE STORIOGRAFICA E PASTORALE La fisionomia della chiesa siracusana, consolidatasi lungo i secoli dopo la rifondazione normanna (1093), viene radicalmente stravolta nella prima metà dell’Ottocento, a causa della contrazione territoriale subita, a seguito della generale riforma della struttura ecclesiastica della Sicilia. In meno di trenta anni, infatti, alle nove diocesi dell’isola, immutate per circa sette secoli e tutte con capo-diocesi lungo la costa, ne vennero aggiunte altre sette, dislocate ora quasi tutte nell’interno dell’isola. Siracusa è tra le diocesi maggiormente penalizzate. Nel 1816 dovette accettare la fondazione di Caltagirone, nonostante le rimostranze presentate insieme alle altre sedi vescovili costrette a cedere parte di territorio. A causa dei moti rivoluzionari del 1837, nel 1844 subì una doppia punizione a vantaggio di Noto, mostratasi fedele alla corona. I netini ottennero la promozione a capo-valle e l’accoglienza della loro secolare istanza (i primi tentativi sono del sec. XV) di ottenere la sede episcopale. In compenso dei territori ceduti per le nuove diocesi, Siracusa venne promossa a sede arcivescovile e metropolitana, con suffraganee Caltagirone, Noto e Piazza Armerina1. * 1
Ordinario di Storia della Chiesa nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Dopo Caltagirone, nel 1817 vennero erette le diocesi di Piazza Armerina e Nicosia;
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Le osservazioni presentate il 18 marzo 1843 dal capitolo cattedrale di Siracusa, per impedire la fondazione della nuova diocesi di Noto, permettono di cogliere la grave mutazione subita dalla diocesi aretusea in quei decenni. Prima di erigere Caltagirone, Siracusa contava: 51 paesi, 306.000 abitanti, 68 parrocchie, 22 collegiate, quattro comunie, 1898 preti, 60 monasteri, 17 collegi di Maria e reclusori, 198 alunni in seminario2. All’indomani dell’Unità, la diocesi aretusea aveva il 50% in meno di abitanti, 150.264, distribuiti in 21 comuni (il 59% in meno); di essi, il più popolato non era la sede della diocesi, Siracusa con 19.264 abitanti, bensì Ragusa con 23.480. E poi, 29 parrocchie (in media 5.181 abitanti per parrocchia), sette delle quali nella città di Siracusa; sei collegiate (Augusta, due a Comiso, Francofonte, Lentini e Ragusa: una nuova collegiata sarà costituita a Sortino nel 1894); una comunia, a Carlentini; 261 chiese aperte al culto (in media una chiesa ogni 575 abitanti); 46 comunità religiose maschili, ed una di padri filippini, una di vincenziani ed un’altra di gesuiti; 19 monasteri femminili e una comunità di suore Figlie della Carità a Siracusa, alle quali nel 1870 viene affidata la ruota dei trovatelli3; 40 seminaristi, dal 1848 ospiti nel palazzo arcivescovile dopo la requisizione del seminario da parte dell’esercito; l’assistenza sociale assicurata da 6 ospedali, altrettanti collegi di Maria per l’educazione delle ragazze, e 3 conservatori femminili; un numero imprecisato di confraternite (ma ne sono registrate 71 nel 1874 e 76 nel 19004) e un monte di pietà a Siracusa5. nel 1844, invece, quelle di Acireale (che avviò la sua vita autonoma solo nel 1872), Caltanissetta e Trapani. Sull’erezione delle nuove diocesi del 1816-1817, cfr A. SINDONI, Dal riformismo assolutistico al cattolicesimo sociale, Roma 1984, 172-181. Per quelle del 1844, G. ZITO, La fondazione della diocesi di Caltanissetta, in Synaxis 15 (1997) 311-352; ID., Nascita di una diocesi: Noto (1778-1844), in Synaxis 16 (1998) 565-621. È in corso uno studio unitario sulle diocesi erette nel 1844. 2 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO (=ASV), Arch. Concist., Acta Congr. Consist., 1844, t. 2, ff. 336-357 e 383-385. 3 P. MAGNANO, Memorie siracusane. Cronaca e memorie inedite dei fratelli A. e S. Privitera con l’aggiunta di una officiatura in onore di S. Lucia (1854) e di altri documenti, Siracusa 1980, 166. 4 ASV, Congr. Concilio, Relat. Dioc., 775: Syracusan. (=Limina), 1874 e 1900. 5 Limina 1862, ff. 218-220. Per i collegi di Maria e i conservatori: Limina 1858, f. 210. Purtroppo in queste relazioni non è indicata la consistenza del clero. Per un raffronto con altre diocesi dell’isola nel secondo Ottocento, si possono vedere gli studi di Contarino
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La condizione strutturale della diocesi resta ormai sostanzialmente immutata. Le variazioni del secondo Ottocento riguardano soprattutto i religiosi e le religiose. La legge di soppressione, come ormai ampiamente dimostrato a livello generale, non sopprime la loro presenza, bensì viene da loro soppressa con un insieme di stratagemmi e soprattutto con l’impianto di nuove forme di consacrazione specialmente femminili. Anche l’applicazione della cosiddetta legge Crispi (1890) darà un duro colpo al reticolo assistenziale della Chiesa con la laicizzazione delle opere pie. Il numero complessivo dei seminaristi all’inizio degli anni ’90 supera le cento unità e all’indomani del nuovo secolo registra un andamento altalenante ben al di sotto di tale cifra, con un picco minimo di appena 30 nel 1909. La ripresa si stabilizza solo dopo la prima guerra mondiale e si avrà un crescendo più o meno progressivo, fino a 145 seminaristi del minore e del maggiore nel 1950, anno in cui chiude il suo quarantennale rettorato Cosimo Lanza6. In tale contesto viene innestata la nomina del primo vescovo non siciliano della diocesi di Siracusa. Non che tutti i vescovi della diocesi fossero stati scelti sempre tra il clero dell’isola. Nel corso dei secoli, dai normanni all’Unità, non erano certo mancati vescovi stranieri ma costoro, con qualche eccezione registrata fino al sec. XV, sono sempre stati sudditi della corona che di volta in volta ha cinto il capo dei sovrani di Sicilia. Tant’è che al momento della scelta del nuovo arcivescovo di Catania, tra la fine del 1866 e l’inizio del 1867, il segretario di Stato di Pio IX, Giacomo Antonelli, faceva osservare al rappresentante del governo italiano, Tonello, che «non era mai stato possibile fare accogliere in Sicilia Vescovi non Siciliani, ed erasi talvolta dovuto addivenire perfino a revoca di nomine già fatte per non altro motivo che quello»7. Ora, se si esclude la nomina di Bignami, non è ancora possibile per Acireale, De Gregorio per Agrigento, Naro per Caltanissetta, Stabile per Palermo, Zito per Catania. Per un panorama globale della condizione ecclesiastica dell’isola cfr La Chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, a cura di F. Flores d’Arcais, Caltanissetta-Roma 1994. 6 A. LI NOCE, Il seminario arcivescovile di Siracusa dal 1881 al 1950. Tesi di Baccalaureato, relatore prof. Gaetano Zito, Studio Teologico S. Paolo di Catania, anno accademico 1995-96. 7 G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (18671894), Acireale 1987, 60.
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ricostruire con dati sicuri la nomina degli altri due vescovi lombardi nella diocesi aretusea. Inoltre, non rientra tra le finalità di questo intervento ricostruire la fisionomia dei tre episcopati lombardi e delinearne la valenza. Intento che, d’altronde, anche a volerlo, ancora per diversi anni non è dato perseguire: sia perché richiede una dettagliata analisi dei loro interventi, che ponga a confronto la cultura ecclesiastica e religiosa di appartenenza, con quella siracusana; sia per l’impossibilità ad utilizzare la documentazione indispensabile a compiere tale operazione storiografica che, in particolar modo, permetta di sapere se, fino a che punto e perché vi sia stata accettazione o resistenza alle direttive dei vescovi. Tuttavia, per la prima volta, mi pare, si possono mettere insieme alcuni elementi per cogliere i primi risultati relativi a questa presenza pastorale. Si tratta, dunque, di un contributo teso ad avviare ulteriori più approfondite ricerche, che permettano un’articolata comprensione del periodo più recente della diocesi siracusana. Ci è possibile, intanto, ricostruire il percorso compiuto da Pio X per giungere alla nomina del primo vescovo lombardo, Luigi Bignami. Come pure, alcuni tratti del governo episcopale di questi presuli sono rintracciabili all’interno della documentazione fruibile e tra le pieghe di altri studi. Al presente, dunque, si è in grado, essenzialmente, di porre i termini di una questione storiografica, che al contempo, perché no, è anche pastorale: vi è una peculiarità della diocesi aretusea, riconducibile all’esperienza ecclesiale lombarda, importata e imposta a Siracusa dalla sequenza ininterrotta di tre vescovi milanesi? E ciò, a maggiora ragione, se si considera che si susseguono tra il 1905 e il 1968. Un sessantennio denso di travagliati e ben noti eventi sociali ed ecclesiali, di cui in certo qual modo si è eredi e debitori. Per Siracusa, in particolare, un periodo segnato dalla lacrimazione della “Madonnina”. Avvenimento che, dalla fine di agosto del 1953 in poi, marcherà in modo sostanziale il cammino della diocesi ma che valica gli intenti della presente relazione.
2. LE NOMINE Ho già avuto modo di ricostruire le vicende che portarono l’arcivescovo Giuseppe Fiorenza (1896-1905, †1924) a presentare ripetutamente le
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sue dimissioni a Pio X, già dall’estate del 1904, pochi anni dopo il suo arrivo in diocesi8. Con la nomina di arcivescovo titolare di Claudiopoli di Onoriade (Eskisehir, in Turchia), a 53 anni, età nella quale altri al contrario avviavano il loro ministero episcopale, scoraggiato ed estenuato dai dieci difficili anni siracusani, l’11 dicembre 1905 si ritirava a vita privata e morirà a Monreale il 27 gennaio 1924. Alla luce della documentazione conservata presso l’archivio storico della Congregazione della Dottrina della Fede — per più ragioni la competenza sulle nomine episcopali era stata affidata da Pio X al Sant’Officio — è possibile affermare con sicurezza che Fiorenza non è stato deposto da arcivescovo di Siracusa, bensì è stato proprio lui a chiedere insistentemente che gli fosse accordato di lasciare il governo pastorale dell’arcidiocesi. Al successore non lasciava una situazione tranquilla e un clero sereno e unito. Soprattutto la scelta di avvalersi di collaboratore non del clero siracusano ma fatti venire da altre diocesi, aveva prodotto resistenze, malessere e scissioni tra i preti. Come si pervenne alla scelta e nomina del nuovo arcivescovo, il milanese Luigi Bignami? Il primo dei tre vescovi lombardi che per 63 anni sono stati alla guida della diocesi siracusana. Ma il secondo vescovo non siciliano chiamato alla guida di una diocesi dell’isola, dopo la nomina di un altro milanese, Alessandro Lualdi, arcivescovo di Palermo dal 1904. La scelta del successore di Fiorenza non si presentava agevole per la difficoltà di trovare “soggetti idonei all’Episcopato attivo”. Per Pio X, inoltre, era eccessivo il numero delle diocesi nell’isola, e fece studiare la possibilità di unificare le due sedi di Noto e Siracusa. L’arcivescovo di Siracusa avrebbe assunto anche il titolo di vescovo amministratore perpetuo di Noto9. L’urgenza di inviare un nuovo pastore all’arcidiocesi aretusea, 8 Rinvio alla ricostruzione delle vicende in ID., La chiesa siracusana tra l’Unità e l’età giolittiana, in Siracusa. Identità e storia 1861-1915, a cura di S. Adorno, Lombardi, Siracusa 1998, 79-114. Si vedano pure le notizie riportate in G. VIAN, La riforma della chiesa per la restaurazione cristiana della società. Le visite apostoliche delle diocesi e dei seminari d’Italia promosse durante il pontificato di Pio X (1903-1914), Roma 1998, 427-428, 433. 9 CITTÀ DEL VATICANO. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Archivio della Suprema Sacra Congregazione del S. Offizio, Sezione “de eligendis episcopis”: Siracusa 1905 (=S. Offizio), 9 maggio 1905.
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come pure le prevedibili reazioni dei netini, se fossero stati privati della sede episcopale agognata dal sec. XIV, ad appena 60 anni dalla sua fondazione, indussero il papa ad accantonare sul nascere il progetto di unificazione delle due sedi. Dispose subito, invece, che la Sezione De eligendis episcopis della Suprema Sacra Congregazione del S. Offizio avviasse l’iter per la scelta del successore di Fiorenza. Ne seguì personalmente le varie fasi fino alla conclusione, secondo la prassi da lui istituita nei rapporti con i dicasteri della Curia10. In un primo momento si pensava di nominare Blandini amministratore apostolico della diocesi siracusana, ma l’anziano vescovo di Noto chiese di esserne esonerato perché «la matassa è così arruffata laggiù da esigere, non solamente prudenza grande col corredo delle altre virtù apostoliche che a me fan difetto, ma pure robustezza di salute e vigore di gioventù, a dipanarla convenientemente»11. In risposta Pio X scrisse all’assessore del S. Offizio di comunicare a Blandini che lo esimeva dall’incarico ma che contava sulla sua collaborazione, al fine di pervenire alla soluzione più idonea per il provvisorio governo pastorale di Siracusa. Le indicazioni inviate da Blandini si rivelarono determinanti per la scelta del successore di Fiorenza. Il nuovo arcivescovo doveva essere buono e prudente, «non di Sicilia ove sventuratamente vi è penuria di soggetti in tutto idonei all’alto e scabro ufficio di reggere un illustre e sconquassata Archidiocesi. I popoli di queste contrade han bisogno di governo forte sì ma nello stesso tempo soave e accorto. Sono nella maggioranza di cuore sensibile, e vogliono essere portati a Gesù Cristo con un filo d’oro». E pertanto, anche nel caso in cui si fosse inviato come arcivescovo un ecclesiastico non siciliano, anche i più retrivi si sarebbero certamente entusiasmati12. 10 Il 17 dicembre 1903 Pio X aveva trasferito alla Congregazione dell’Inquisizione il compito di istruire il processo per la provvista anche delle sedi vescovili italiane che, dal 21 settembre 1878, Leone XIII aveva assegnato all’Uditore del Papa, in qualità di segretario della apposita Congregazione per l’elezione dei vescovi italiani. Con la riforma della Curia del 1908 la competenza passò alla Congregazione Concistoriale: N. DEL RE, La Curia Romana. Lineamenti storico-giuridici, Roma 1970, 403-404. Per i criteri di scelta dei vescovi da parte di Pio X e per i suoi rapporti con la Curia, cfr L. BEDESCHI, La Curia Romana durante la crisi modernista. Episodi e metodi di governo, Parma 1968. 11 Lettera dell’11 maggio 1905: S. Offizio. 12 Lettera del 18 maggio 1905: ibid. Questi sentimenti di sfiducia sembrano riecheg-
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Le affermazioni di Blandini non erano nuove. Già dalla fine dell’Ottocento autorevoli vescovi siciliani, come il card. Guarino di Messina, esprimevano alla Santa Sede valutazioni negative sul clero dell’isola e, in particolar modo, sulla difficoltà di trovare “soggetti idonei” da proporre e promuovere all’episcopato. In tal senso, di conseguenza, invitavano i dicasteri vaticani a non fidarsi facilmente delle informazioni che giungevano dalla Sicilia al momento della scelta dei nuovi vescovi. È in tale contesto, avvalorato ulteriormente dalla esplicita richiesta di Blandini e di Francica Nava, arcivescovo di Catania, che matura la decisione di Pio X nel 1904 di nominare un milanese quale arcivescovo della sede principale dell’isola, Palermo13. Nel caso di Siracusa, per la seconda volta, sembra doversi attribuire proprio alla risposta di Blandini la risoluzione di Pio X di interpellare il card. Andrea Ferrari, arcivescovo di Milano, sulla idoneità del prevosto Luigi Bignami per la sede aretusea. Non avrebbe posto più alcuna difficoltà la nomina di un altro milanese. Alla notizia dell’invio a Palermo di Alessandro Lualdi, l’anno precedente, si era avuta una reazione positiva proprio da parte dell’episcopato dell’isola, ed egli aveva già iniziato a dare “buona prova di sé”. Proprio Giovanni Blandini si era premurato di inviare il suo personale ringraziamento a Pio X “per il gran dono” della elezione ad arcivescovo della prestigiosa sede di «un esimio Prelato del Continente Italico, il quale ho viva fiducia apporterà lo spirito Ambrosiano appo noi, cotanto scaduti da quel fervore di soda pietà e di zelo Apostolico, onde la Sicilia andò gloriosa appo le altre regioni d’Italia e di fuori»14. Grazie a questa documentazione, pertanto, pare possibile sfatare in modo definitivo le preconcette affermazioni sulla presunta colonizzazione episcopale dell’isola decisa da Pio X. In realtà furono vescovi siciliani di grande autorevolezza, come Giovanni Blandini e Francica Nava, ad indirizzare il papa verso candidati del continente da inviare in Sicilia, giare alcuni passaggi del Gattopardo di Tommasi di Lampedusa, e in particolare il colloquio tra don Fabrizio e il piemontese cavaliere Chevalley. 13 Sulla nomina di Lualdi a Palermo, cfr G. ZITO, L’episcopato urbano della Sicilia dall’Unità alla crisi Modernista, in Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920). Atti del Convegno di studi, Catania 18-20 Maggio 1989, Acireale 1990 (Quaderni di Synaxis, 6), 67133. 14 ASV, Segr. Stato, 1904, rubr. 3, fasc. 4, f. 95r.
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favorendo in tal modo un generale orientamento del pontefice. Il loro desolato e sommario giudizio sul clero e sulla vita cristiana dell’isola denunciava, nondimeno, una valutazione non del tutto positiva anche sul governo pastorale delle diocesi negli ultimi decenni. In controluce, in effetti risultava che proprio i vescovi non erano stati in grado di valorizzare e rendere idonei all’episcopato un sufficiente numero di preti, al fine di garantire un fisiologico ricambio segnalandoli alla Santa Sede. Era ovvio, pertanto, che si sentisse l’urgenza di una rinnovata vitalità per le diocesi siciliane, e si ammettesse che non si era in grado di generare nell’isola nuovi modelli pastorali15. La generalizzata sfiducia espressa nei confronti del clero, al punto da avvertire la Santa Sede sull’assenza di possibili candidati per l’episcopato, non dava ragione, tuttavia, della presenza di preti esemplari, alcuni dei quali si rivelarono vescovi zelanti, sia nell’isola che in diocesi della penisola, ma inviati nella parte centromeridionale16. Nel caso di Bignami, comunque, non era la prima volta che si pensava di promuoverlo all’episcopato. Già il 9 ottobre 1900 il card. Ferrari lo aveva proposto per Modena: «è di carattere fermo, qualche volta forse un 15 Questa esigenza di importare nuovi modelli pastorali era condivisa pure da Luigi Sturzo che manifestava sentimenti di ammirazione per l’organizzazione delle parrocchie in Lombardia e Piemonte e per la loro vitalità pastorale, rammaricandosi della scarsa attenzione prestata nel passato dalla Chiesa siciliana alla struttura parrocchiale. Sturzo ne scrisse in un articolo del 1906 dal titolo “La Conferenza episcopale a Palermo”: ai vescovi, riunitisi per il periodico incontro, veniva così segnalata una particolare urgenza pastorale e la possibile soluzione. Ma nessuna determinazione in proposito venne assunta in quella sede. Il testo in L. STURZO, La battaglia meridionalista, a cura di G. De Rosa, Bari 1979, 86; riedito in: ID., Mezzogiorno e classe dirigente. Scritti sulla questione meridionale dalle prime battaglie politiche siciliane al ritorno dall’esilio, a cura di G. De Rosa, Roma 1986, 197. Una contestualizzazione di questo pensiero di Sturzo, in: G. ALIBERTI, Economia e politica nel meridionalismo di Sturzo, in Luigi Sturzo meridionalista. Atti del Secondo Corso della Cattedra Sturzo (1982), Caltagirone 1988, 90. 16 Valgano come esempio alcuni promossi all’episcopato proprio da Pio X e inviati in altre regioni: Eugenio Giambro di Caltanissetta a Sarsina, in Emilia; Salvatore Bella di Acireale a Foggia; Giuseppe Scarlata di Caltanissetta a Muro Lucano; Giovanni Pulvirenti di Acireale ad Anglona e Tursi. E poi, Alberto Vassallo Torregrossa, di S. Cataldo, arcivescovo titolare di Emesa, nella diplomazia pontificia. Sull’argomento mi permetto rimandare a G. ZITO, L’episcopato urbano, cit., 67-133: 107-122, che va rivisto per Fiorenza e Bignami grazie alle nuove fonti archivistiche utilizzate per la loro nomina.
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po’ ardente, ma è d’indole mite e piuttosto dolce»17. Anche ora, interpellato per Siracusa, l’arcivescovo di Milano affermò che Bignami «ha tali doti di mente e di cuore da tener dietro e molto da vicino (quando non gli andasse del pari) a Mons. Lualdi nella buona riuscita del ministero Pastorale. [...] Credo poi di poter soggiungere che la sua promozione qui sarebbe accolta da un lato con vivo plauso, dall’altro con rincrescimento, specie de’ parrocchiani di S. Lorenzo, ne’ quali lascerebbe di sé vivissimo desiderio»18. Pio X, che da patriarca di Venezia presiedendo il XIII congresso eucaristico, celebrato a Milano nel 1895, aveva avuto modo di apprezzare le qualità del Bignami, segretario del congresso, sciolse ogni indugio e ordinò che si compilasse il processo canonico formale per la promozione di Bignami ad arcivescovo di Siracusa. Il 27 luglio si ebbe pure l’approvazione dei cardinali membri della commissione per la elezione dei vescovi. Il 14 agosto successivo, trasmettendo al S. Offizio l’accettazione del Bignami, il card. Ferrari annotava che «il sacrifizio per lui è grande, e altrettanto generoso il suo cuore quando si tratta di obbedire e di lavorare per la salvezza delle anime»19. Nelle informazioni raccolte dalle autorità civili il Bignami «non viene segnalato per un fanatico ed intransigente» in politica, ma come prete che «gode ottima fama non solo per integrità di costumi, ma ancora per ardente e insieme a prudente zelo nel disimpegno dei varii offici [...]. Egli è d’ingegno robusto e di non comune coltura, e gode ben meritata stima di valente e sodo predicatore [...]. Egli è d’indole mitissima e quanto mai deferente, solo desideroso del bene, alieno da lotta e spiccatamente caritatevole, amatissimo dal suo popolo di S. Lorenzo, altamente stimato da’ suoi colleghi, i parroci della città»20. 17
Uditore Sua Santità, Pro eligendis Episcopis Italiae A-D. Dai “cuori schiettamenti ambrosiani”, legati “da fraterna ed antica amicizia”, Bignami e Lualdi si differenziavano perché “più popolare, più intraprendente, più parroco” il primo; “più intellettuale” il secondo: G. ANICHINI, Il card. Alessandro Lualdi arcivescovo di Palermo. Ricordi biografici, Milano 1928, 140. Su Bignami: A. LONGONE, In memoria di Mons. Luigi Bignami arcivescovo di Siracusa, Milano 1920; V. MARASCHI, Un vescovo milanese siciliano: Monsignor Luigi Bignami, arcivescovo di Siracusa, Milano 1942; O. GARANA, I vescovi di Siracusa, Siracusa 1969, 256-268. 19 La documentazione in S. Offizio. 20 Il Procuratore del Re al Procuratore Generale di Milano: 17 ottobre 1905; infor18
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Il profilo del nuovo arcivescovo sembra così rispondere al modello delineato al S. Offizio dal sacerdote siracusano Immondini: «Soprattutto poi il Vescovo sia fornito di quel tatto pratico che non si apprende nei libri, né nelle scuole, ma che si porta dalla nascita, e che può essere anche frutto d’esperienza, che abbia ingegno pronto ad accentrare le questioni e risolverle, energia di spirito, animo tollerante e coraggio». La nomina di Bignami, oltre ad aver immesso un secondo continentale nell’episcopato dell’isola, dopo la nomina dell’altro milanese Alessandro Lualdi ad arcivescovo di Palermo (1904-1927), ha avuto un riflesso determinante per la diocesi aretusea: segna l’avvio di un caso pastorale unico nell’isola, al punto da poter parlare in tal senso di un “caso Siracusa”. Dal 1905 e fino al 1968 si susseguono vescovi lombardi: a Bignami succede Carabelli (1921-1932), suo segretario, e a questi Baranzini (1933-1968), già segretario di Lualdi, che avrà il milanese Costantino Caminada (1960-1962) come ausiliare e il comasco Clemente Gaddi (1962-1963) coadiutore. Ma sul percorso della nomina di Carabelli21 e Baranzini22, al presente, è dato conoscere soltanto pochi elementi nuovi rispetto a quanto è ben noto e a cui sostanzialmente si rimanda23. Di Carabelli, eletto arcivescovo a 35 anni di età pare su richiesta del Capitolo e dei parroci della diocesi, già in diocesi dal 1910 in qualità di mazioni favorevoli e laudative vennero fornite anche dal Prefetto di Milano al Procuratore Generale di Catania il 10 ottobre 1905: ROMA. ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO , Ministero dell’Interno. Direzione generale, Affari di culto, serie IV, Vescovi, busta 125 Siracusa (=ACS, Vescovi). 21 Nato a Carnago (Varese) diocesi di Milano nel 1886; studia a Roma: alunno del Lombardo con rettore Lualdi, consegue la laurea in filosofia e teologia; ordinato sacerdote nel 1910, lo stesso anno si trasferisce a Siracusa perché Bignami lo volle suo segretario e professore in seminario; ebbe la responsabilità della pastorale giovanile, fu parroco in Cattedrale, e nel 1918 vicario generale; il Capitolo e i parroci lo chiesero come successore di Bignami e nel 1921 fu promosso arcivescovo di Siracusa: Per la consacrazione dell’arcivescovo Carabelli, numero unico, Siracusa 22 maggio 1921; In memoria di S. E. Rev.ma Mons. Giacomo Carabelli arcivescovo di Siracusa, Siracusa 1933. 22 Nato ad Angera (Varese) Milano nel 1881; ordinato sacerdote nel 1904; studia a Roma e consegue la laurea in filosofia e teologia, e la licenza in diritto canonico; si trasferì a Palermo perché il card. Lualdi lo volle suo segretario; fu rettore del Collegio Lombardo; eletto all’episcopato all’età di 52 anni: O. GARANA, I vescovi di Siracusa, cit., 285. 23 Cfr ibid., 269-284, 285-319.
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segretario di Bignami, sappiamo che il prefetto di Siracusa ha espresso parere favorevole perché «così lodevoli i suoi precedenti anche in rapporto all’opera altamente patriottica da lui spiegata in collaborazione al compianto Monsignor Bignami». Mentre, per il procuratore generale del re di Catania aveva «meriti eminenti di coltura e di patriottismo, e virtù impareggiabili di umanità e di garbo congiunte a grandezza ed a serenità di animo»24. Del terzo lombardo a guidare la diocesi di Siracusa, Baranzini, sia nelle informazioni ufficiali, quanto in quelle della polizia fascista, non si rilevava l’atteggiamento politico nei confronti del regime: «nessuna ragione di carattere politico osta nomina». Si faceva presente, nondimeno, che dalla cerchia degli ecclesiastici vicini al Vaticano era ritenuto «piuttosto liberale, ed anzi nell’ambiente romano non gode molte simpatie». Vi erano delle lamentele, infatti, sulla nomina di “un altro … milanese”, e si aveva notizia che fosse «veramente annoiato di questa continua predilezione papale per gli elementi milanesi o comunque lombardi»25.
3. ALCUNI TRATTI DEL GOVERNO EPISCOPALE Un primo aspetto da tenere necessariamente in conto, prioritario forse rispetto ad altri, attiene alla comunicazione e alla comprensione, vista la disparità dei parametri linguistici e culturali di riferimento tra vescovo milanese e clero e popolo siracusani. Indicativo può ritenersi quanto, dopo ben sette anni circa di episcopato, Bignami osservava: «Me cominciano a comprendermi a furia di sentirmi: il siciliano è già un italiano, e vero italiano, almeno come costrutto e intonazione generale; noi milanesi, volere o no, quando parliamo in italiano, parliamo milanese tradotto in italiano, che è tutt’altra cosa dal vero italiano. Insomma quando predico mi capiscono tutti, almeno lo dicono; nella conversazione familiare capisco che non capiscono, o ben poco, incominciando dai preti che mi guardano come i sordi...»26. 24
Vescovi, busta 125 fasc. 304, Siracusa. Ministero dell’Interno. Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisione Polizia Politica, busta 71. 26 Lettera del 12 giugno 1912 a Giulia Vismara, in A. A. INTRECCIALAGLI, Lettere a 25
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Nell’episcopato di Bignami un’applicazione del modello ambrosiano può essere colto, esemplificativamente, nel suo atteggiamento verso la vita consacrata femminile. Le nuove e molteplici forme di consacrazione, avviate lungo il sec. XIX, in Sicilia avevano messo definitivamente in crisi l’antico e diffuso modello delle monache di casa, o bizzocche. A Siracusa, in particolare, è proprio Bignami che avvia un orientamento pastorale diverso, alla luce del modello mericiano, a lui ben noto, e in considerazione dei frequenti disordini provocati dalle bizzocche nelle parrocchie: «La Diocesi, come quasi tutte quelle della Sicilia, è piena arcipiena delle così dette “Monache di casa”, che, fatte rare eccezioni, sono una delle piaghe religiose di questa povera Isola. Farle diventar tutte Orsoline di famiglia, dacché sono già monache di casa, non sarebbe una rigenerazione del concetto, bello da sé ma degenerato oramai? Altro che, e così ci riuscissi! Anime non ne mancherebbero, e generose, nonostante tutti i difetti della razza […] ben guidate farebbero prodigii. […] Comunque, ormai Santa Angela entrò in Sicilia; speriamo che la povera Siracusa non sia esclusa dal suo apostolato»27.
Certo, un rilevante interesse avrebbe assunto l’esplicitazione di Bignami relativa ai difetti dei siciliani, a cui allude: se si tratta di un giudizio registrato in modo oggettivo, oppure determinato dalla diversa matrice culturale e religiosa. Uno spiraglio può cogliersi, comunque, nella stessa lettera: «In queste mie parti anche le signore della più alta aristocrazia, baronesse, duchesse e che so io, e ce n’è un sine fine, non parlano che il siciliano, quelle dei monti poi così sguaiato, che non si sa proprio combinarlo coi milioni — non esagero — che possiedono e il relativo lusso dei loro appartamenti e
Giulia Vismara e a Marianna Amico Roxas (1904-1924), a cura di C. Naro, San Cataldo 1981, 79-80. 27 L. c. Una sintesi della situazione isolana in G. ROCCA, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma 1992, 218-220.
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delle loro mode: un vero controsenso, come del resto tutto e tutti in Sicilia…»28.
La vitalità spirituale e l’impegno apostolico delle orsoline secolari lombardi induce, così, Bignami a chiedere a Giulia Vismara, superiora a Milano, di non ritardare oltre l’impianto della Compagnia di Sant’Orsola anche in Sicilia29. Nel caso specifico, da tempo Bignami mostrava molta attenzione verso l’ideale e l’opera di un gruppo di donne di Monterosso Almo che, con Rosa Roccuzzo e Arcangela Salerno, daranno vita alle Orsoline della Scara Famiglia. In particolar modo, non manca di notarle quando la Salerno e le compagne, per offrire solidarietà e servizio ai superstiti del terremoto di Messina del 1908, si recano a Siracusa dove molti avevano trovato ospitalità. A loro desidera assicurare, però, una robusta spiritualità che sia di solido supporto all’attività apostolica e ne garantisca la stabilità e lo sviluppo. Coglie, in tal senso, l’opportunità di un corso di esercizi spirituali per la Compagnia di Sant’Orsola a Palermo, con la presenza di Giulia Vismara, per sollecitare la partecipazione di almeno due di loro, Arcangela Salerno e Giuseppa Inzinga. In Sant’Angela Merici la Salerno e le altre compagne trovano la compiutezza del loro ideale e decidono, pertanto, di assumere la spiritualità mericiana. Nonostante, però, l’orientamento verso la secolarità che lo stesso Bignami pensa di dare al gruppo, ritengono irrinunciabile tenere conto del loro contesto culturale ed ecclesiale, oltre che dell’ispirazione originaria: 28 Lettera a Giulia Vismara: 12 giugno 1912, in A. A. INTRECCIALAGLI, Lettere a Giulia Vismara, cit., 80. 29 Delle favorevoli prospettive per la Compagnia in Sicilia, Intreccialagli rassicurava la Vismara alla vigilia della sua venuta nell’isola: «Spero che possa venire in Sicilia quanto prima […]. In Palermo il terreno è molto buono per la Compagnia; e lo stesso dicasi per tutta la Sicilia. Quando sarà conosciuta, sarà stimata e abbracciata da moltissime anime religiose». Lettera del 12 febbraio 1912, in A. A. INTRECCIALAGLI, Lettere a Giulia Vismara, cit., 34. Per lo sviluppo della Compagnia in Sicilia, in special modo per le suore orsoline, cfr G. ZITO, Altri sentieri del cammino della spiritualità mericiana in età contemporanea: le congregazioni orsoline, relazione tenuta al Convegno internazionale di studi su: Il cammino della Compagnia di Sant’Orsola in età contemporanea: una fedeltà creativa, Collevalenza 28-30 luglio 1999; organizzato da Federazione “Compagnia di Sant’Orsola” e Istituto Secolare di Sant’Angela Merici (in corso di pubblicazione).
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optano, pertanto, di vivere in comunità nello spirito della Famiglia di Nazareth. La loro identità carismatica viene chiaramente espressa e ratificata dal Bignami, il 10 novembre 1915, nella denominazione che assumono al momento del riconoscimento canonico da parte dell’arcivescovo e della professione dei voti: Congregazione delle Suore Orsoline della Sacra Famiglia. Altro passaggio di rilievo circa la vita consacrata femminile, legato alla provenienza lombarda di Bignami e Carabelli, riguarda il persistere delle monache di clausura e la volontà di garantirne la presenza in diocesi. A Siracusa, come a Catania, dopo la soppressione del 1866 in alcuni monasteri benedettini vivevano ancora alcune monache molto anziane, ormai in via di estinzione. Grazie a Vizzini, visitatore apostolico anche per le religiose, l’arcivescovo di Catania, il card. Giuseppe Francica Nava (1896-1928), nel 1910 aveva ottenuto l’invio di due monache Benedettine dell’Adorazione Perpetua del SS. Sacramento per rivitalizzare il monastero di S. Benedetto a Catania30. A questo, su richiesta di Bignami fece seguito, nel 1913, l’introduzione della riforma nel monastero cistercense di Montevergine nel comune di Sortino, anticipando il monastero di Modica che già aveva presentato. Per entrambi — Bignami era in quel momento amministratore apostolico di Noto, diocesi di cui fa parte Modica — il 16 maggio 1913 ottenne da Pio X la necessaria autorizzazione ad aggregarli a quello di Ronco di Ghiffa, che fungeva da casa-madre, e ad inviarvi alcune monache per una loro formazione “in un ambiente tutto ad hoc”. Affidandole a madre Caterina Lavizzari, priora di Ghiffa, scriveva: «eccole Sr. Scolastica [Rinaldi di Sortino] che affido a Lei, ripetendo con la Principessa del Faraone alla madre di Mosè: accipe et nutri mihi... Ne spero bene, essendo buona stoffa e animata delle migliori intenzioni. Le raccomando tanto anche le modicane, massime sr. Beatrice dovesse ritornare a Sortino; e anche nel caso contrario, dovrò sempre rispondere della Riforma al nuovo vescovo che verrà a Noto»31. Sarà Baranzini, l’8 30 Su tutta la vicenda, cfr ID., Le benedettine dell’adorazione perpetua in Italia (1880-1960), in Il monachesimo in Italia tra Vaticano I e Vaticano II. Atti del III Convegno di studi storici sull’Italia Benedettina, Badia di Cava dei Tirreni (Salerno) 3-5 settembre 1992, a cura di F.G.B. Trolese, Cesena 1995, 331-371. 31 Cfr l. c.
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settembre 1937, a decretare l’autonomia da Ronco di Ghiffa del monastero di Sortino, composto da 47 monache. Da qui, nel 1924, si era avviata l’aggregazione del monastero S. Giuseppe di Ragusa Ibla (allora diocesi di Siracusa). Ancora una volta era stato Bignami ad alimentare la speranza di una nuova rinascita: la comunità era composta da anziane monache che vivevano fra stenti e privazioni, in un monastero dalle fabbriche fatiscenti. La priora di Sortino, la lombarda madre Ida Valli, rispose alle loro insistenti richieste inviandovi suor Scolastica Rinaldi. Anche in questo caso la rivitalizzazione diede i suoi frutti e nel 1936 Baranzini gli accordava l’autonomia monastica. Un altro ambito di intervento ambrosiano di Bignami, in modo esplicito, può cogliersi nell’impostazione data al seminario. Lui stesso dichiarava: «Figlio di San Carlo, so che cos’è il seminario e potrei dire di averne fatto come la piattaforma del mio … apostolato, perché è l’unica cosa a cui abbia potuto accingermi con qualche fiducia di riuscita e l’unica via che mi darà di rispondere meno indegnamente alle ragioni per le quali la Santa Sede credette di mandarmi a Siracusa»32. Tuttavia, però, ritenne che nessuno dei preti della diocesi siracusana fosse in grado di poter assolvere al compito di rettore del seminario. A questo delicato e rilevante ruolo chiamò un sacerdote della diocesi di Caltanissetta, che su invito dell’arcivescovo Fiorenza era già da alcuni professore nel seminario siracusano, Cosimo Lanza, che mantenne il rettorato per ben 40 anni, dal 1910 al 1950. Sulla scia di una visione lombarda del seminario si muove pure Carabelli. Sotto la protezione di San Carlo Borromeo istituisce, il 15 luglio 1931, la Pia opera delle Vocazioni ecclesiastiche33. Ma soprattutto Baranzini marca nuovamente l’impronta lombarda del seminario, fin dalla prima lettera pastorale, collocandosi in piena sintonia con i suoi predecessori: «Io vi amerò col cuore di Mons. Bignami e di Mons. Carabelli; vorrei poter aggiungere: col cuore del grande Borromeo»34. E ancora: 32 L’opera di mons. Bignami per il seminario, in Vita nostra, supplemento mensile per la Pia Opera delle vocazioni ecclesiastiche, 5 (gennaio 1940) 2. 33 Foglio ufficiale dell’archidiocesi di Siracusa 24 (1935) 5. 34 E. BARANZINI, Prima lettera pastorale, in Foglio ufficiale dell’archidiocesi di Siracusa 22 (1933) 66.
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Un ulteriore passaggio, in questa prospettiva lombarda della formazione dei seminaristi, può considerarsi anche la decisione di garantire un posto nel Pontificio Seminario Lombardo di Roma per un chierico siracusano. Tale orientamento, ovviamente, lascia trasparire pure la valutazione di questi vescovi sul clero che trovano in diocesi. Sebbene non si è in condizione, al presente, di poter mettere insieme dati che permettano di registrarne la valutazione complessiva, tuttavia, è possibile evidenziare qualche indizio. Per compiti di rilevante responsabilità e incidenza sulla vita della diocesi, sia Bignami che Carabelli e Baranzini, per periodi più o meno brevi, si sono fidati di preti non siracusani. Abbiamo citato già il caso del rettore del seminario, il nisseno Cosimo Lanza, anche se considerato siracusano d’adozione. All’ufficio di segretario del vescovo e di vicario generale, in particolare, vennero chiamati preti di altra diocesi, proprio milanesi in alcuni casi. Carabelli fu segretario e vicario generale di Bignami e, a sua volta, volle: nel 1923 Luigi Bernasconi, di Lodi, assistente diocesano della gioventù cattolica e segretario arcivescovile36; nel 1925 il milanese Antonio Simbardi pro-vicario generale, vicario generale nel 1928, e assistente ecclesiastico dell’Azione Cattolica diocesana, e ben sappiamo quanto peso avesse nella vita della diocesi tale incarico; nel 1930 è nominato vicario generale un prete della diocesi di Acireale, Giovanni Musumeci; confermato da Baranzini, mantenne la carica fino al 30 gennaio 193737.
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Ibid., 68. GARANA, I vescovi di Siracusa, cit., 271 n. 7. 37 Ibid., 275, 278, 281, 288. 36
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Carabelli, inoltre, nel 1928 affida la predicazione della missione popolare ai padri milanesi della Compagnia di S. Paolo dell’Opera del card. Ferrari38. In tal modo, al clero della diocesi viene offerto un contenuto e un metodo di predicazione, mentre al popolo vengono proposti argomenti di riflessione e modelli devozionali, certo non meridionali. In sostanza, per lo stile e le peculiarità di una missione popolare, la sfera religiosa e la quotidianità dei siracusani divengono oggetto di esame da parte del modello pastorale milanese. Solo ulteriori ricerche potranno chiarire se si è trattato di difficoltà oggettiva ad individuare tra il clero della diocesi, tutte le volte che era necessario, collaboratori che fossero pienamente in sintonia con i vescovi. Oppure, se sia stata una loro esplicita opzione, dettata da una valutazione d’insieme non del tutto positiva nei confronti dei preti trovati. Sembra, tuttavia, che si possa prediligere la prima ipotesi, atteso che la scelta di collaboratori fatti venire da fuori diocesi si è avuta per periodi circoscritti e non in modo persistente. Non sono mancati, infatti, preti siracusani chiamati ad assumere anche l’ufficio di vicario generale, come Salvatore Santangelo, Giuseppe Caracciolo, Salvatore Cilìa e Salvatore Gozzo39. E non è da escludere che, nel far venire preti milanesi come collaboratori, sentano l’esigenza di avere accanto qualcuno con cui intendersi facilmente e potersi confrontare, grazie all’identica matrice culturale ed ecclesiale. In occasione del sinodo diocesano, Baranzini punta l’attenzione su alcuni aspetti della vita dei preti, e li esorta ad essere «sacerdoti di vita interiore, perché questa è l’anima dell’apostolato; sacerdoti di vita operosa, perché laboriosi apostoli attendono le vostre popolazioni; sacerdoti di vita ubbidiente, perché è coll’immolazione che si salvano le anime; sacerdoti santamente uniti fra loro, […] ricchi di quella carità che addolcirà la nostra vita presente, ci renderà veri discepoli di quel Cuore a cui ci consacreremo stasera, ci terrà sempre uniti a Dio»40. Stigmatizza, in particolare, la consuetudine della gran parte dei preti di sindacare la decisione del vescovo, qualora questi decidesse di trasferire 38
Ibid., 279. Ibid., 278, 280, 300, 307. 40 E. BARANZINI, Carità sacerdotale, in appendice a Synodus Dioecesana Syracusis diebus VI-VII-VIII junii MCMXXXVIII ab Excellentissimo Domino D. Hectore Baranzini Archiepiscopo Syracusano celebrata, Siracusa 1939, 205. 39
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qualcuno di loro ad incarichi diversi da quelli in corso, specialmente se al prete veniva chiesto per obbedienza di svolgere il suo ministero in un paese povero, oppure di ricoprire incarichi umili: «costoro dimenticano che il sacerdote viene ordinato pro necessitate aut utilitate dioecesis, e che il Vescovo deve tener presenti non le comodità del prete e della famiglia, ma le necessità di tutta la Diocesi»41. Un simile atteggiamento, sia a Siracusa che nelle altre diocesi dell’isola, a fronte di chi si rendeva immediatamente disponibile alla volontà del vescovo, in verità sembra massimamente dettato dalla precaria condizione economica del clero siciliano, non solo di quello siracusano, ulteriormente impoveritosi a seguito alle leggi eversive. La carenza, poi, di una capillare struttura parrocchiale, presente invece nelle regioni centrosettentrionali della penisola, non permise il rientro in Sicilia di quelle somme previste dalla stessa legge sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico42. Inoltre, la conseguente assenza di case canoniche obbligava di fatto i preti a rimanere nel paese di origine e a risiedere nella casa paterna. Condizione che comportava il prendere parte attiva a tutte le vicende e le beghe municipali e familiari43. Non stupisce, allora, se dal secondo Ottocento si avvia una questione meridionale del clero e diversi preti, all’inizio del Novecento, si videro costretti ad emigrare. 41
Ibid., 187. Sulla condizione economica del clero siciliano cfr G. ZITO, Clero e religiosi nell’evoluzione della società siciliana, in La Chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, cit., 248270. 43 L’abitare del clero nel comune di provenienza e nella casa paterna aveva fatto sorgere il sospetto, alla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari, di inveterata disobbedienza al proprio vescovo. Il card. Francica Nava, arcivescovo di Catania e presidente delle conferenze episcopali siciliane, a cui la congregazione nel 1906 si era rivolta, attribuiva il fenomeno a «scarsezza di sussistenze che si troverebbe stando lontani dalla propria famiglia [...], perché il servizio del ministero in quest’isola non é sufficientemente retribuito, mancando generalmente la elemosina delle messe. Per questa ragione non si osa dai Vescovi mandare giovani sacerdoti fuori del luogo natio per esercitarvi permanentemente il ministero; giacché sarebbe lo stesso obbligarli a cosa impossibile»: cit. da F. M. STABILE, L’azione pastorale dei vescovi siciliani tra il primo e il secondo concilio plenario siculo (1920-1952), in Chiesa e società a Caltanissetta all’indomani della seconda guerra mondiale. Atti del convegno di studi organizzato dall’Istituto teologico-pastorale “Mons. G. Guttadauro”, Caltanissetta (24-26 aprile 1984), a cura di P. Borzomati, Caltanissetta 1984, 79. 42
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Per la formazione permanente del laicato, Baranzini chiede che ogni parrocchia abbia il proprio Sodalizio della Dottrina cristiana, posto sotto la protezione di S. Carlo Borromeo e del santo patrono del luogo44. E a garanzia di un modo lombardo di impostare e svolgere la catechesi in diocesi, in occasione del congresso catechistico diocesano affida al milanese Bargiggia, vescovo di Caltagirone, la relazione d’apertura, presentandolo come «genuino figlio di S. Carlo Borromeo e del Cardinal Ferrari, due nomi di santi pastori che sintetizzano il più instancabile apostolato per la dottrina cristiana e dei quali egli ha procurato di imitare lo zelo colla celebrazione di un riuscitissimo congresso eucaristico nella sua diocesi»45. Un ambito nel quale Baranzini, in particolar modo, tenterà di imporre il modello pastorale ambrosiano attiene alla religione popolare. Senza dubbio le due aeree geografiche esprimono modalità devozionali tra loro lontane nella forma, anche se identiche nell’oggetto. Facendo appello alla lezione del suo arcivescovo di Milano, si rivolgeva anzitutto al clero: «In genere — dirò coll’autorevole monito del Card. Schuster — si tenga presente che per essere a Dio gradito il nostro culto, dev’essere assolutamente compiuto nelle forme stabilite dalla Chiesa cattolica; tutto quello che prescinde da queste forme non solo offende l’autorità della Chiesa ordinante, ma dispiace altresì alla Maestà divina e reca danno alle anime»46. Le sue direttive47 riflettevano un retroterra di storia e cultura religiosa imperniato sulla liturgia, i sacramenti, la catechesi, dove anche le modalità esteriori della pietà erano molto misurate. Per cui, non gli era agevole la comprensione di una devozione che, al contrario, nell’esteriorità e nella magnificenza delle forme, con aspetti limitrofi alla superstizione, esprimeva la propria percezione della fede e dell’identità cristiana48. 44 Statuto-tipo per ogni parrocchia in Foglio ufficiale dell’archidiocesi di Siracusa 25 (1936) 24; e in appendice a Synodus Dioecesana Syracusis, cit., 226-228. 45 Foglio ufficiale dell’archidiocesi di Siracusa 25 (1936) 90-91. 46 E. BARANZINI, Richiami dopo la prima visita pastorale. Lettera pastorale per la S. Quaresima, in ibid., 12. 47 A più riprese torna sull’argomento nelle lettere e nelle visite pastorali e vi insiste pure nel sinodo diocesano, allegandovi in appendice le istruzioni dell’episcopato siciliano emanate nel 1935: Synodus Dioecesana Syracusis, cit., 129-131, 282-287. 48 Sull’esperienza religiosa del popolo siciliano, si vedano i contributi al seminario su Religione popolare e fede cristiana in Sicilia, in Synaxis 16 (1998) 353-564.
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I parroci, pertanto, vennero invitati ad adoperarsi per «educare il nostro popolo alla vita liturgica con opportune istruzioni, principalmente nel senso delle nostre associazioni cattoliche; […] Ma perché la vita cristiana vigoreggi nella sua pienezza è necessario che fra le pratiche religiose primeggi l’uso della preghiera e dei sacramenti […]. Non dobbiamo illuderci di essere veri cristiani per le sole apparenze di una vita esteriore religiosa; questa non basta; ma è necessario che l’anima nostra viva di quella vita soprannaturale che si chiama la grazia e che ha formato lo scopo precipuo della venuta del redentore Divino»49.
Altro risvolto della presenza di arcivescovi lombardi a Siracusa può considerarsi anche la nomina di uno dei vescovi di Caltagirone, diocesi suffraganea della metropolia aretusea. Accolte le dimissioni di De Bono, la S. Sede affidò l’incarico di Amministratore Apostolico a Giacomo Carabelli. Nuovo vescovo, il 14 marzo 1927, pare su segnalazione proprio di Carabelli, venne nominato un milanese: il cinquantenne Giovanni Bargiggia, primo vescovo non siciliano della diocesi (lo seguirà Francesco Fasola), che a Milano era stato rettore di una chiesa nella periferia povera della città, direttore spirituale del Regio Collegio Rotondi e parroco. Lascerà Caltagirone dopo dieci anni, il 6 luglio 1937, per tornare al Nord, trasferito alla sede vescovile di Vigevano, dove morì l’11 aprile 194650. Dai dati qui raccolti emerge con evidenza la modulazione di un modello pastorale importato da Milano a Siracusa. D’altra parte, non poteva essere diversamente: Bignami, Carabelli e Baranzini sono figli della chiesa ambrosiana, di ciò hanno chiara coscienza ed è per loro indiscutibile motivo di vanto. Come, altrettanto viva coscienza hanno dell’intreccio tra il senso della responsabilità, per il ministero episcopale, e del disagio per la mediazione culturale, non ultima di tipo linguistico, a cui sono costretti. 49 E. BARANZINI, I ricordi della seconda visita pastorale. Lettera pastorale per la S. Quaresima 1942, in ibid. 31 (1942) 10. 50 Cfr G. ZITO, La pastorale dei vescovi calatini, in Visitare et pascere: inizio del ministero episcopale di Mons. Vincenzo Manzella, numero speciale del Foglio Ecclesiastico. Bollettino ufficiale della diocesi di Caltagirone, 21 luglio 1991, 14-29.
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Sostanzialmente pare si possa affermare che l’impostazione data alla diocesi da Bignami viene fedelmente seguita dai due successori milanesi. Il costante appello all’esemplarità di Carlo Borromeo, il modello classico di vescovo impostosi con la controriforma e ampiamente diffuso ancora nei primi decenni del Novecento, in loro assume una tonalità particolare. Per Baranzini rimane «modello di pastore infaticabile, a cui debbo ispirarmi io per il primo per ricopiare la sua piena dedizione al gregge, e dovete ispirarvi anche voi, o cari sacerdoti, per non risparmiarvi nel lavoro»51. Le direttive pastorali dei vescovi milanesi non si esprimono con un’imposizione diretta e alternativa alla tradizione propria della diocesi aretusea, quanto piuttosto con delle direttive tese a far lievitare lo zelo pastorale del clero, la dimensione spirituale, il ruolo della parrocchia, la formazione cristiana del popolo, purificando le devozioni popolari e veicolando una riferimento essenziale alla liturgia, ai sacramenti, alla catechesi. Come ho già avuto modo di evidenziare52, nell’insieme l’immissione in Sicilia di vescovi provenienti da altre regioni è vero che ha posto questioni di ordine ecclesiologico e pastorale molto complessi. L’opzione della Santa Sede si è mossa prevalentemente all’interno di una visione monolitica e piramidale della Chiesa, saldata da un indiscutibile ossequio alla virtù dell’obbedienza, sia in chi veniva inviato come vescovo, quanto in chi doveva riceverlo. Un’ecclesiologia che sosteneva, ovviamente, un modello pastorale altrettanto monolitico, quello romano, da imporre a tutela dell’ortodossia negli anni della la crisi modernista e nel periodo successivo, a maggior ragione là dove non fosse pienamente allineato o, peggio, fosse sostanzialmente distante. Tale opzione, di conseguenza, non è certo stata indolore ed ha comportato pure dei risvolti in qualche caso spiacevoli. Nondimeno, bisogna riconoscere parimenti che ha prodotto indubbi benefici. In special modo, ha favorito la sprovincializzazione dell’episcopato siciliano e l’apertura della chiesa dell’isola al più ampio circuito della 51
E. BARANZINI, Operosità sacerdotale, in Synodus Dioecesana Syracusis, cit., 187
e 191. 52 G. ZITO, Vescovi, politica e fascismo in Sicilia, in Cristianesimo e democrazia nel pensiero dei cattolici siciliani del Novecento. Atti del Convegno di studi nel 90° della lettera pastorale dei vescovi siciliani La Democrazia Cristiana del 1903 – Palermo, 1994, introduzione di Franco Bruno, a cura di C. Naro, Palermo 1994, 215-275: 215-226.
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chiesa italiana. Ha contribuito in modo notevole al definitivo impianto di modelli pastorali, sanciti dal Concilio di Trento e consolidatisi nel lungo periodo della controriforma, ormai da tempo altrove recepiti. Si pensi, soprattutto, alla parrocchia, sia come struttura giuridica, che ambito peculiare della vita pastorale, in special modo per la formazione dei laici e, dal secondo Ottocento, per l’organizzazione del movimento cattolico e dell’architettura dell’azione cattolica. Alla luce di quanto è stato possibile assemblare in questo intervento è chiaro che, rispetto alle cose dette, è di gran lunga prevalente quanto resta ancora da sapere. Importante, mi pare di poter affermare senza alcuna presunzione, è aver tematizzato e avviato il percorso.
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TRADIZIONE E CULTO DI SANTA LUCIA A SIRACUSA*
SEBASTIANO AMENTA**
Le notizie delle quali disponiamo circa la vergine e martire Lucia ed il suo culto a Siracusa sono in gran parte espressione della tradizione popolare, essendo pochissimi i riscontri archeologici e storici a lei direttamente riferibili. La stessa liturgia, che il 13 dicembre classifica la memoria liturgica di Lucia come obbligatoria, annota in apertura dell’Ufficio delle Letture del giorno «Morì probabilmente a Siracusa durante la persecuzione di Diocleziano»1. Una serie di libretti devozionali e la carenza di studi scientifici sul suo martirio e sulla storia del suo culto, fatta eccezione per un testo di Ottavio Garana2, hanno confuso leggende diverse — non sempre di origine cristiana — riferendole a Lucia. Tutto ciò ha contribuito ad offuscare il culto e l’immagine della Santa con la coltre della leggenda, tanto da far discutere della sua origine siracusana, delle modalità del suo martirio e dello sviluppo del culto. Un tentativo volto a cogliere il fondamento storico della tradizione popolare e del culto a S. Lucia nell’ambito siracusano può muovere dalla considerazione del dato archeologico e dal rapporto tra il martirio di S. Lucia e la devozione popolare.
* Estratto della tesi di baccalaureato in Teologia, discussa il 28 giugno 2002 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, relatore prof. Salvatore Marino. ** Baccelliere in Teologia. 1 Liturgia delle ore secondo il rito romano, I, Città del Vaticano 19912, 1102. 2 O. GARANA, S. Lucia Vergine e Martire siracusana, Siracusa 1968. Trattasi di uno studio che, pur partendo dall’archeologia paleocristiana e dal dato storico, non sempre è esente da una certa caratterizzazione devozionale.
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1. L’ISCRIZIONE DI EUSKIA Un dato incontrovertibile circa il culto di Lucia a Siracusa è fornito dalla archeologia cristiana del IV-V secolo. Al di fuori della città aretusea non si registrano testimonianze più antiche o almeno contemporanee. Le catacombe siracusane dette di San Giovanni hanno restituito quella che l’archeologo Paolo Orsi definì «un prezioso documento anche del culto antichissimo prestato a Lucia in Siracusa»3: si tratta della cosiddetta Iscrizione di Euskia da lui scoperta il 22 giugno 1894. La lapidetta marmorea, dalle dimensioni di cm 24x22x3, fu rinvenuta in una sepoltura realizzata nella Rotonda di Eusebio o della S. Ampolla e contiene l’epitaffio in lingua greca dettato, probabilmente, dal marito di una tal Euskia morta in giovane età. Scrive l’Orsi: «L’iscrizione è delineata a fitte e minute lettere, non belle, con frequenti legamenti […] la lettura ne è in alcuni punti difficile»4. La traduzione che lo stesso Orsi propone, dopo un attento studio, è a tuttoggi quella comunemente accettata: «Euschia, la irreprensibile, vissuta buona e pura per anni circa 25, morì nella festa della mia Santa Lucia, per la quale non vi ha elogio condegno; (fu) cristiana, fedele, perfetta, grata al suo marito di molta gratitudine (molto)[meritevole al suo marito]»5.
L’importanza del rinvenimento è data dal fatto che la lapidetta ha fornito la prima prova documentaria del culto che i siracusani hanno tributato a Lucia già negli anni immediatamente successivi alla data del suo martirio. 3 Cfr P. ORSI, Insigne epigrafe del Cimitero di S. Giovanni in Siracusa, in Roemische Quartalschrift für Kirchengeschichte 9 (1895) 299-308. 4 Ibid., 302. 5 L.c.
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La datazione fornita da Orsi la fa risalire al secolo v, circa un secolo dopo il martirio, ma altri come Biagio Pace ritengono che essa vada retrodatata addirittura al «cadere del medesimo secolo quarto in cui la tradizione colloca Lucia»6. Si può affermare con Pace che l’Iscrizione di Euskia «non solo convalida la personalità storica della Vergine siracusana, ma anche la bontà della tradizione cronologica, relativa al suo martirio»7 ed anche la popolarità di cui da sempre ha goduto la martire. L’epigrafe, nella parte centrale, quasi annota quella che pur nella triste circostanza della perdita di una persona cara appare alla luce della fede come una felice coincidenza: la morte cioè avvenuta nel giorno della mia santa Lucia, quasi un pegno dell’introduzione nella beatitudine eterna ottenuta per intercessione di S. Lucia. La santa, sembra qui venir detto, non ha certamente abbandonato Euskia che, distintasi in vita per la propria fede, è morta nella ricorrenza del dies natalis di Lucia. Ciò che colpisce è l’uso che vien fatto dell’aggettivo mia (mou nel testo originale) espressione di grande familiarità e devozione, un uso che pare echeggiare l’invocazione Santa Lucia mia! ancora molto diffusa specie tra le donne anziane di Siracusa. Già l’Orsi nell’analizzare il testo dell’iscrizione si soffermò sull’appellativo kur…aj mou, una formula che, annota, «stona con l’andatura normale del periodo, e si riferisce ad una terza persona, la quale altri non può essere che la dedicante del titolo, probabilmente il marito […] nessuno metterà in dubbio che l’allusione non sia diretta alla Santa, perché kurioj, come il dominus dei titoli cristiani latini, vale appunto agioj sanctus; l’aggettivo è di uso così letterario come epigrafico, e nello stesso modo che dominus data dal secondo secolo e prende l’uso del sanctus, così il kurioj che ne è la traduzione letterale è più antico di agioj»8.
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B. PACE, Arte e civiltà della Sicilia antica, IV, Firenze 1949, 16. L.c. 8 P. ORSI, Insigne epigrafe del Cimitero di S. Giovanni in Siracusa, cit., 300. 7
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Non tutti però concordano con l’interpretazione data dall’Orsi all’espressione kur…aj mou. L’archeologa Mariarita Sgarlata, attuale ispettore della Pontificia Commissione di Archeologia Cristiana per le Catacombe di Siracusa, avanza il dubbio che tale appellativo sia da tradurre semplicemente come signora9, come cioè semplice titolo onorifico, cosa questa che escluderebbe ogni forma di culto. La Sgarlata non spiega però come l’uso di questo termine di riguardo si armonizzerebbe con la circostanza della festa (eort»): esclusa la venerazione di Lucia come santa e quindi la ricorrenza del suo dies natalis, a quale festa si riferirebbe chi ha dettato l’epitaffio? La stessa archeologa poi, sempre in merito all’uso del termine kur…a, avanza l’ipotesi che questo attesterebbe un culto popolare, una devozione spontanea e non ancora una “santità ufficiale” che invece sarebbe stata attestata dall’uso del titolo di ag…a. Di seguito, e non senza contraddizione, riprende Orsi ed altri affermando che l’epigrafe parla proprio della eort» di S. Lucia per concludere che «siamo in presenza dunque della prima attestazione del culto di S. Lucia»10. Occorre rilevare che l’ipotesi formulata da Sgarlata era già stata espressa dal prof. Santi Luigi Agnello in Silloge di iscrizioni paleocristiane della Sicilia pubblicata nel 1953: «Questo titolo, il più insigne fra quanti rinvenuti nelle catacombe siracusane, fu scoperto nel giugno del 1894 nella rotonda di Eusebio, posta nella regione meridionale del cimitero di S. Giovanni. La sua importanza è tanto più notevole in quanto esso costituisce il più antico documento del culto relativo alla Santa, essendo posteriore di poco più di un secolo dal martirio della nimica di ciascun crudele (Inf. II,100), avvenuto nel 304 […]. La eorth è il dies natalis della Santa e nel suo ricordo traspare la speranza che la defunta abbia la protezione della Martire (cfr GROSSI GONDI, p. 200) durante la cui festa si è spenta Euschia. […]. Analogamente si trova in un titolo di Ustica,
9 M. SGARLATA, Et lux fuit, Siracusa 1998, 54: «[…] l’unico dubbio di questa ricostruzione si annida nel termine riferito a Lucia nell’epigrafe; è da intendere come sinonimo di haghia (santa), cosa che garantirebbe l’ufficialità del culto, o come semplice titolo onorifico? Quale che sia la risposta, l’importanza dell’iscrizione di Euskia rimane intatta perché attesta comunque, se non ancora la santità di Lucia, la devozione locale e il culto di cui la donna era oggetto nel V secolo a Siracusa». 10 L.c.
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oggi disperso, nel quale è segnato il giorno natalizio di un’altra illustre martire siciliana, Agata […]. Come Lucia, così pure Agata è appellata con l’onorevole epiteto di kuria. Che per l’Orsi come il dominus dei titoli cristiani latini vale agioj = sanctus: affermazione inesatta questa, poiché kurioj deve solo intendersi quale semplice titolo di onore e di affetto, come è chiaramente documentato dai due titoli catanesi di Agatone e di Teodulo: quale titolo d’onore esso è attribuito altresì al nome dei consoli nelle iscrizioni datate»11.
Tenuto conto delle osservazioni già fatte a proposito da Sgarlata, la posizione espressa da Agnello non appare meno contraddittoria. Anche Giuseppe Agnello, padre di Santi Luigi, sostiene l’ipotesi contraria scrivendo in un suo studio che alla patrona S. Lucia «la città ha tributato, sin dagli inizi del IV secolo, un entusiastico culto»12. A partire dall’ipotesi avanzata da Agnello e ripresa da Sgarlata ci si può chiedere se la formulazione dell’iscrizione e l’interpretazione datane dall’Orsi facciano porre l’epigrafe di Euskia in coerenza con il contesto culturale del IV e V secolo e, soprattutto, la sua attendibilità in rapporto al culto di S. Lucia. L’uso del titolo dominus, domina riferito ai martiri era tutt’altro che raro nelle catacombe cristiane. Orazio Marucchi ne cataloga alcune provenienti dalle catacombe romane, citandole a proposito di sepolture iuxta martyrem13 e riporta proprio l’iscrizione di Euskia come esempio di iscrizione greca che parla di una defunta sepolta «il giorno della festa di santa Lucia»14. Anche De Rossi, nella sua opera Iscrizioni cristiane della città di Roma nota che l’epiteto domna – domnus era usato nell’epigrafia romana, come titolo che contraddistingueva i martiri dei primi secoli e che solo più 11
S. L. AGNELLO, Silloge di iscrizioni paleocristiane della Sicilia, Roma 1953, 65-
66. 12
G. AGNELLO, Le arti figurative nella Sicilia bizantina, Palermo 1962, 166. Cfr O. MARUCCHI, Manuale di archeologia cristiana, Roma 1933, 225. A proposito dell’uso di essere seppelliti nelle adiacenze della tomba di un martire cfr G.B. DE ROSSI, Inscriptiones christianae Urbis Romae, I, Roma 1861, 319 che riporta il testo di un’iscrizione del IV secolo che recita Merita accepit sepulchrum intra limina Sanctorum quod multi cupiunt et rari accipiunt. 14 Cfr ibid., 228. 13
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tardi ebbe il significato di signora per appartenenza ad un casato. A tal proposito Barreca riporta un’epigrafe latina delle catacombe di San Giovanni in Siracusa datata al secolo V o VI dove il termine domina è associato a quello di femina (sic): «DOMNA FIDELISSIMA FEM(INA) MARINA SAP… PATRICI TEODULI IN PACE DIE MART(IAS) X»15.
V KAL(ENDAS)
In un caso come questo, stando a ciò che scrive Barreca, ci troveremmo dinanzi ad una non semplice interpretazione. L’uso infatti che qui si fa dell’epiteto domna, escluderebbe il culto, perché «il sostantivo FEMINA, che d’ordinario nell’epigrafia romana va sempre accompagnato dagli aggettivi: CLARISSIMA, INLUSTRIS, LAVDABILIS, FIDELISSIMA, qui invece è accompagnato da DOMNA, forse in riguardo alle virtù religiose della defunta»16. L’espressione kur…a mou ricorre anche nell’epigrafe riferita ad una tal Eutichia scoperta nelle catacombe di S. Giovanni in Siracusa sempre dall’Orsi17. Anche in questo caso, però, il testo dell’iscrizione escluderebbe ogni riferimento ad una cristiana venerata come santa, mancando ogni tipo invocazione o elogio. Con ogni probabilità ci troviamo, afferma Barreca, dinanzi ad un epitaffio dettato dal servo o dalla serva di una defunta di nome Eutichia che a lei si riferisce usando le parole kur…a mou da tradursi in mia padrona18.
15 C. BARRECA, Le catacombe di Siracusa alla luce degli ultimi scavi e recenti scoperte, Roma 19342 ,118. 16 L.c. Un esempio di quanto affermato da Barreca ci viene fornito dalle stesse catacombe siracusane di S. Giovanni. Il cosiddetto sarcofago di Adelfia, datato al secolo IVV, reca l’iscrizione «(H)IC ADELFIA C(LARISSIMA) F(EMINA)/ POSITA CONPAR/ BALERI COMITIS». Cfr O. GARANA, Le catacombe siciliane e i loro martiri, Palermo 1961, 301 e M. SGARLATA Et lux fuit, cit., 28. 17 C. BARRECA, Le catacombe di Siracusa alla luce degli ultimi scavi e recenti scoperte, cit., 92 cita il testo traducendolo: Si è consumata la mia signora Eutichia il giorno prima delle calende di ottobre. 18 Cfr l. c.
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Dove invece si riscontra un uso analogo a quello dell’epitaffio di Euskia è nell’iscrizione di Policronio e Serapia, un’altra epigrafe proveniente dalle catacombe di San Giovanni in Siracusa19. L’iscrizione di Policronio e Serapia ci fornisce diversi elementi utili per lo studio di quella di Euskia: 1. l’esempio di una sepoltura che attesta la pia devozione esistente anche a Siracusa di seppellire i propri cari iuxta martyrem, nella prossimità cioè di sepolture di santi. È da ricordare qui che tutta la complessa struttura delle catacombe di S. Lucia colloca il sepolcro attribuito alla Martire nell’area centrale dele catacombe stesse; 2. l’uso dell’espressione kur…w mou (santo mio) riferita a Siracosio. L’epiteto è interpretato nel senso di mio santo oltre che dall’Orsi20, anche dal Garana21, da Narciso22, da Amore23, da Barreca24. La venerazione del vescovo Siracosio è confermata anche dall’esame della sepoltura che si presenta decorata con simboli eucaristici, un monogramma cruciforme, barche a forme di pesce richiamanti il Cristo e numerose croci graffite dai devoti che presso il sepolcro sostavano in preghiera. Il sepolcro inoltre presenta tracce di una transenna che lo separava dalle contigue sepolture; 3. l’epigrafe viene datata al secolo IV. Essa è, se non coeva, addirittura precedente a quella di Euskia e quindi ancor più vicina di questa all’epoca
19 Il testo è riportato, tra gli altri, dallo storico siracusano O. GARANA, I vescovi di Siracusa, Siracusa 1969, 64. La traduzione che lo stesso autore propone così recita: Qui giacciono Policronio e Serapia. Al tempo [della morte] di Policronio, Serapia acquistò [il sepolcro] presso quello]del mio santo vescovo Siracosio. 20 Cfr P. ORSI, Nuove esplorazioni nelle catacombe di S. Giovanni, in Notizie degli Scavi, Roma 1907, 768. 21 Cfr O. GARANA, I vescovi di Siracusa, cit., 64. 22 Cfr L. NARCISO, La personalità storica del vescovo Siracosio, in Atti del I Congresso nazionale di Archeologia Cristiana, Roma 1952, 217-223. 23 Cfr A. AMORE, Appunti sopra un’iscrizione di Siracusa, Città del Vaticano, 1954, 309-320. 24 Cfr C. BARRECA, Le catacombe di Siracusa alla luce degli ultimi scavi e recenti scoperte, cit., 25-26.
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del martirio di Lucia. Ciò permette di dare maggior forza alla lettura di kur…aj mou Louc…a dell’iscrizione di Euskia nel senso di mia santa Lucia. L’uso del vocabolo kur…a usato nel culto non è comunque una novità del cristianesimo, ma è documentato ampiamente in ambiente pagano25. Nel suo complesso la formulazione dell’iscrizione di Euskia presenta caratteristiche comuni nell’epigrafia cristiana di Siracusa, ma essa acquista un valore assolutamente unico per il riferimento a quella festa (eort») alla quale allude e che fa della lapidetta un documento di importanza fondamentale per il culto della martire. La festa cui accenna l’iscrizione di Euskia può essere posta in riferimento a Lucia solo nel senso di ricorrenza liturgica che celebra il dies natalis della martire. Al di fuori di questo contesto, infatti, non se ne coglierebbe il senso. D’altro canto, l’anonimo estensore dell’epitaffio non avrebbe ragionevolmente sottolineato la coincidenza della morte di Euskia con la festa di Lucia se non fosse stato sicuro che chiunque l’avesse letto ne avrebbe compreso il senso e quindi il riferimento in essa contenuto. L’antichità dell’Iscrizione di Euskia e la sua attendibilità in rapporto al culto di S. Lucia, unitamente alle catacombe a lei dedicate il cui nucleo originario è precedente al secolo IV e che tradizionalmente sono ritenute come quelle che accolsero il corpo della martire, i codici contenenti la sua
25
In Siria sono così invocate Artemide ed Atena; in Italia è chiamata kur…a l’Artemide Efesia. Plutarco chiama Iside √ kur…a, ma è specialmente in Egitto che kÚrioj/kur…a sono usati verso le divinità, senza distinzione tra dei superiori o subordinati, o verso divinità locali poco importanti. Con questi termini si esprime soprattutto il rapporto personale del singolo con una divinità, come nel caso di kÚrioj usato nelle preghiere, o nel caso, sempre in Egitto, dell’unione con il suffisso della prima persona come vocativo (signore mio, signora mia) che rappresenta un uso normale presente in ogni epoca. Simile a kÚrioj è despÒthj, ma mentre il primo epiteto indica colui che può disporre di qualcosa o di qualcuno, il delegato o la persona autorizzata a disporre, il secondo indica chi possiede qualcosa o qualcuno con carattere diretto ed illimitato. Quest’ultimo prevarrà nell’uso a partire dall’età bizantina. In Ap Giovanni chiama kur…a la comunità perché è un’espressione allora usuale di rispetto usata da chi pone la persona alla quale si rivolge più in alto di sé stesso. Cfr W. FOERSTER alla voce kÚrioj in Grande Lessico del Nuovo Testamento, V, Brescia 1969, 13411464.
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passio risalenti all’epoca bizantina sono altri elementi che indubbiamente attestano come l’intera vicenda di Lucia si sia svolta a Siracusa.
2. LA LEGGENDA DEL MARTIRIO DEGLI OCCHI E LE SUE INTERPRETAZIONI S. Lucia è universalmente invocata come protettrice della vista. L’origine di tale invocazione viene popolarmente ricondotta al martirio della santa che sarebbe avvenuto mediante il cavamento dei globi oculari dalla loro sede. Il martirio che avrebbe così subìto è all’origine dell’iconografia devozionale che raffigura Lucia recante la palma del martirio al braccio sinistro e una patena alla mano destra contenente due occhi umani. In realtà Lucia non è mai stata sottoposta a tale supplizio. Ci troviamo dinanzi ad una leggenda che — diffusa anche in ambito non cristiano riferita a divinità femminili — non corrisponde nè alla modalità del martirio da lei realmente subito né, tanto meno, al modo di effigiarla almeno fino al secolo XVI circa26. La più antica immagine a noi pervenuta raffigurante S. Lucia si trova nella Chiesa di S. Apollinare Nuovo in Ravenna, chiesa che — secondo la tradizione — si vuole costruita dall’Imperatore Teodorico. Al tempo del vescovo Agnello (560) Lucia fu raffigurata nella lunga teoria delle vergini sante rivolte verso Maria ed il Bambino Gesù. La santa regge in mano una corona di fiori, presenta il capo nimbato con i capelli raccolti da una fascia nera, indossa la dalmatica ricamata di gemme e il chitone. La raffigurazione è compresa tra quelle di Cecilia e di Crispina e non presenta alcun particolare emblema che permetta di caratterizzarla come la vergine e martire Lucia. La sua identificazione è tuttavia permessa dalla legenda onomastica associata alla figura. Altre immagini di Lucia, anteriori al sec. XII, sono la miniatura contenuta nel Menologio di Basilio II (sec. X), conservato nella Biblioteca 26 Altra leggenda molto diffusa vuole che sia stata lei stessa ad estrarseli per donarli ad un suo spasimante che, innamoratisi dei suoi occhi, non accettava il rifiuto che gli opponeva Lucia perché consacrata a Cristo. Di certo si può ritenere, anche mediante il semplice esame del suo corpo che ora riposa a Venezia nella Chiesa dei SS. Geremia e Lucia, che il martirio sia avvenuto mediante decapitazione.
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Vaticana, nella quale la martire viene raffigurata nel momento del martirio già decapitata e gli affreschi di Nepi (sec. XI) nei quali è vestita alla maniera bizantina27. La più antica immagine di Lucia custodita a Siracusa si trova nella Cripta di S. Marciano, nelle catacombe di S. Giovanni, e viene datata al secolo XII. Non c’è dubbio che il soggetto sia Lucia perché è tuttora visibile l’iscrizione con il nome. La santa è raffigurata con la mano destra alzata ed il palmo rivolto verso l’alto, a voler esprimere la totale accettazione della volontà di Dio, mentre nella mano sinistra regge la croce a due braccia transverse. Una raffigurazione molto simile si trova a Lentini nell’Oratorio del Tirone. Si può così rilevare come nelle immagini più antiche non ci sia riferimento alcuno al particolare degli occhi cavati dalle orbite e dalla santa mostrati su di una coppa a chi guarda oppure adagiati su di una patena in atto di offerta a Dio. Il trittico di scuola antonelliana del secolo XV, custodito nel tesoro della Chiesa di S. Nicolò in Randazzo, presenta Lucia con quegli emblemi con i quali di solito veniva raffigurata: il libro delle Scritture, la ferita sanguinante al collo, il pugnale e un calice che raccoglie il sangue sgorgante dalla ferita. Mancano qui oltre alla palma, simbolo del martirio, anche gli occhi sul piatto che appariranno successivamente. In un bassorilievo del secolo XV custodito al Museo Bellomo di Siracusa, Lucia regge in mano la spada, a ricordo della decapitazione, e un profondo calice dal quale si leva una fiamma, forse in riferimento alla parabola evangelica delle vergini sagge che attendono il ritorno dello sposo con le lampade accese28. Qui il particolare della palma del martirio appare posto nella mano dell’angelo di destra, mentre quello di sinistra porge alla martire un cespo di fiori. Anche qui si nota l’assenza di ogni riferimento agli occhi. Sempre al Museo Bellomo è custodito un polittico del secolo XV, proveniente da un monastero siracusano, raffigurante la Madonna tra Santi. Lucia, effigiata a destra dell’immagine centrale regge un pugnale ed un vaso, presumibilmente contenente l’olio per la lampada evangelica. 27 C. AMATO, Nuove scoperte intorno al sepolcro di S. Lucia, dattiloscritto del 1971, archivio della famiglia Amato Carruba, 146. 28 Cfr Mt 25, 1-31.
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Il particolare della lampada dalla quale si innalza una fiamma ritorna nel quadro di Filippino Lippi (sec. XV) custodito nel Museo dell’Opera del Duomo di Pisa. La Santa regge sulla mano sinistra una piccola palma, mentre la destra tiene sollevata una lucerna. Conficcato nel lato destro del collo è un grosso pugnale che lascia cadere diversi rivoli di sangue. Altra opera del secolo XV che va ricordata è quella del cosiddetto Maestro di S. Martino di Siracusa. Anche qui la santa regge un pugnale e il vaso dell’olio. È a partire dal secolo XVI circa che il particolare degli occhi appare e viene sempre più evidenziato sino a diventare il simbolo della santa. Lucia li mostra recandoli su un supporto che varia con la sensibilità dell’artista e con quella dei devoti alla cui venerazione l’immagine è destinata. Ma anche qui sembra ci sia stata quasi un’evoluzione: dapprima gli occhi sono un elemento tra gli altri e vengono presentati infilzati sul pugnale o su di uno stiletto o posti su di un germoglio come fossero fiori, poi sono posti sempre più in primo piano, dapprima alla sommità di un calice ed infine su di un piatto o addirittura un vassoio. Il simulacro argenteo venerato nelle festività di dicembre e di maggio a Siracusa, realizzato a Palermo nel 1599, regge con la mano destra una tazza con i due occhi e al centro una fiamma29. La tazza fu realizzata nel XVIII secolo insieme alla corona ed al pugnale (il tutto in oro) quale ex voto della cittadinanza per la cessazione di un’epidemia, ma non abbiamo una descrizione dell’oggetto che la stessa tazza andò a sostituire30. La posa della mano del simulacro lascia chiaramente intendere che Pietro Rizzo, l’orefice che la realizzò, la concepì affinchè reggesse qualcosa, un quid che non poteva che essere un preciso emblema della martire così come essa la si raffigurava. Ciò fa ritenere verosimile che nel secolo XVIII 29
L. LOMBARDO, L’occhio della siracusana, in Le paladine della fede, Siracusa 2000, 30. Albert Jouvin di Rochefort, tesoriere di Francia presso Limoges e cartografo, nel diario del suo viaggio in Italia, a proposito della sosta a Siracusa, scrive: «Nella piazza grande è la chiesa vescovile di Santa Lucia con la sua alta torre quadrata, chiesa in cui come di consueto il servizio viene accompagnato da musiche; in una delle cappelle si vede il simulacro d’argento a grandezza naturale della Santa, che porta in una coppa gli occhi che le sono stati strappati durante il martirio». A. JOUVIN,Voyage d’Italie et de Malte, citato da L. RAIMONDI E D. SCIRPO, Albert Jouvin e la Siracusa del Seicento, in I Siracusani Jouvin riferisce solo degli occhi: evidentemente la fiamma fu aggiunta nel secolo XVIII. 30
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ci si limitò a sostituire con delle copie preziose oggetti che già erano a corredo della stessa statua, ritenuto anche che l’accesa devozione popolare non avrebbe di certo permesso che si alterasse l’aspetto di quella che ormai era diventata — e lo è tuttora — quasi l’immagine autentica di S. Lucia. Un’interpretazione dei simboli dell’occhio e della fiamma e del loro accostamento a Lucia è stata offerta da Luigi Lombardo, antropologo, in un suo studio pubblicato in occasione della mostra Le paladine della fede tenutasi a Siracusa dal 28 maggio al 18 giugno 2000 a cura della Provincia Regionale di Siracusa con la collaborazione di alcuni esponenti rappresentativi della locale Soprintendenza e dell’ambiente culturale siracusano. Il Lombardo, volendo dimostrare la continuità tra i culti greci di Demetra, Kore ed Athena con quello di Lucia scrive: «L’iconografia più comune della santa la ritrae (vedi fercolo) con una tazza in mano sulla cui coppa stanno gli occhi e la fiamma. Si tratta di un unico simbolo: l’occhio appunto in quanto sede della “luce degli occhi”. La fiamma, oltre che a consimili immagini di Demetra, ci porta alla considerazione circa il ruolo della santa nei riti legati all’oltretomba, al mondo dei morti. Il legame, fra Lucia e Demetra, c’è senz’altro. Ci vogliamo partire (sic) per dimostrarlo dalla credenza, propria delle genti venete e di altri popoli europei, secondo cui Santa Lucia porta i doni ai bambini. La Santa cioè svolgerebbe la funzione che in altri contesti è propria di “Santa Klaus”, Babbo Natale, Gesù Bambino, la Befana e, in Sicilia, le anime dei Morti. Lucia come S. Nicola, come la Befana e come le squadre dei bambini questuanti che girano nei giorni di Natale alla ricerca di doni, sarebbe una vicaria delle anime dei morti, che tornano sulla terra nei giorni del solstizio d’inverno. Essi, per il tramite della santa, riannodano il rapporto vita morte, vivi morti, ristabilendo la continuità vitale nella comunità. Lo stesso abbigliamento delle Lucie di Svezia (lungo camicione bianco) ci sembra poter essere una dimostrazione che trattasi di figure appartenenti all’al di là , le anime dei morti che tornano fra i vivi e portano in dono la luce. E il viaggio che la santa compie equivale al viaggio di Demetra per liberare Kore, è il ritorno di Kore medesima, è il viaggio iniziatico dei devoti di Demetra nel corso dei Misteri Eleusini: in poche parole l’eterna vicenda di vita e di morte[…]»31. 31 L. LOMBARDO, L’occhio della siracusana, cit., 31. Il fercolo al quale si fa riferimento è da intendersi come il simulacro argenteo. Quanto scritto dal Lombardo è
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Lombardo parte dall’osservazione del simulacro di S. Lucia venerato a Siracusa per poi mettere insieme tradizioni di popolazioni diverse, distanti per cultura e storia, ritenendo così di dimostrare l’origine pagana di molti elementi caratteristici del culto a Lucia. Non si vuole qui negare l’attendibilità di questa ipotesi, ma non si può non osservare che è proprio il presupposto dal quale il Lombardo fa discendere tutto a sembrare debole: la sola immagine in cui il simbolo dell’occhio è associato a quello della fiamma, in un’unica coppa, è proprio quella del simulacro di Siracusa. Tanto l’occhio quanto la fiamma, come sopra detto, non rappresentano gli emblemi che hanno caratterizzato le raffigurazioni di Lucia nel corso dei diciassette secoli che ci separano dal suo martirio, ma cominciano ad apparire verso il XVI secolo32. A proposito del parallelo che egli compie tra Lucia e le anime dei morti che portano regali ai bambini e riannodano il legame con i viventi, va osservato che mai la devozione e le tradizioni popolari siracusane hanno creato un qualche collegamento del genere. Per il popolo siracusano il culto dei morti con l’uso di donare giocattoli ai bambini nella ricorrenza della loro commemorazione annuale, è assolutamente autonomo da quello di Lucia così come mai, a differenza dell’area lombardo-veneta, la ricorrenza di S. Lucia è stata associata ad una festa caratterizzata da regali per i piccoli. Circa l’interpretazione poi del valore simbolico del lungo camicione bianco delle lucie di Svezia, quest’uso della lontanissima Svezia resta tuttora estraneo alla cultura siracusana33. largamente condiviso nell’ambiente culturale siracusano attuale ed è emerso in un convegno della Società Siracusana di Storia Patria. Di questo convegno si attende ancora la pubblicazione degli Atti. 32 Di questa stessa opinione è F. RIZZO NERVO, Lucia tra Sicilia, Roma e Bisanzio: itinerario di un culto (IV-IX secolo) in Atti del Convegno di Studi su Storia della Sicilia e tradizione agiografica nella tarda antichità, 20-22 maggio 1986, a cura di S. Pricoco, Catania 1988, 110: «Solo dal secolo XIV in poi inoltre l’iconografia riflette la ben nota leggenda dell’accecamento di Lucia, aggiungendo al pugnale, simbolo tradizionale del suo martirio, la tazza o il piatto con gli occhi. Il nesso Lucia-occhi è probabilmente di epoca medievale e derivò forse anche dall’accostamento paraetimologico del nome greco Lucia con il latino lux». 33 Cfr L. KRETZENBACHER, Santa Lucia und die Lutzelfrau, München 1959, 9-11. Il Kretzenbacher nel libro citato (S. Lucia e la donna della luce) si diffonde sulle credenze popolari e religiose nell’Europa centro-meridionale. A proposito della Lucia di Svezia scrive
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Ci si chiede come sia possibile condurre un’analisi sulle origini e lo sviluppo di un culto cristiano secondo il metodo di Lombardo. Non sembra sufficiente infatti partire dal solo dato comune della fede cristiana — ignorando le radici storiche e culturali del singolo popolo — per giungere alla conclusione che il cristianesimo dopo aver fatto proprie, a qualsiasi livello e in qualsiasi contesto geografico, le più diverse mitologie le ha risolte «“una tantum” con la “storia” paradigmatica della “passio” del Diouomo»34. Ancora, lo stesso studioso scrive: «Il motivo dell’occhio, in quanto isomorfo di luce, e questa di visione e di trascendenza, è motivo antichissimo, che per intero confluisce nel culto di Santa Lucia. Vi confluisce per il tramite del culto della greca Demetra, e della figlia Kore, il cui nome non a caso significa “pupilla”. Ma si dà luce solo in rapporto con l’ombra. Ritorna la coppia oppositiva che si legge nella iscrizione di Euskia: l’ombrosa che muore il giorno della sua patrona Lucia, la piena di Luce […]. La santa si lega intrinsecamente al simbolo che più la denotava sin dalle origini del culto: l’occhio, la luce, lo sguardo. Ella sostituisce certamente la greca Kore, la pupilla, nella devozione dei greci pagani, a tal punto che degli occhi ella è protettrice. Non a caso un episodio del suo martirio prevede l’espianto degli occhi: ella diviene così la cieca, “Luskia” (cioè non vedente), colei che vive l’oscurità per vincerla, colei che compie il percorso iniziatico dalla luce al buio alla luce»35.
«Ogni anno alcuni giornali sia illustrati che periodici nell’edizione del 13 dicembre riportano il grazioso viso di una giovane in abito bianco lungo, che porta sui biondi capelli sciolti una corona sempre verde o un diadema con quattro o più candele bianche come se fosse una corona di luce. È la svedese “sposa Lucia”. […] La stessa, portatrice di luce, porta nelle mani un dolce per la festa e lo offre nei salotti, nelle sale in occasione di un ricevimento, nelle stanze delle case anche le più umili. La festa, celebrata gioiosamente nella Svezia protestante il 13 dicembre, è una tradizione seguita anche nelle colonie svedesi. Essa non è legata alla contemporanea festa in memoria della Santa cristiana che tutti gli anni si celebra in tutt’Italia, specie nel Sud, in Sicilia, dove il popolo venera l’immagine di una giovane martire che porta un piatto su una mano, su cui giacciono due occhi umani. […] La tradizione, ben lontana dai culti cristiani, sta sempre più diffondendosi». La traduzione in italiano mi è stata gentilmente approntata dalla sig.ra Barbara Mica, di origine siracusana, che vive a Vienna dove insegna nei licei. 34 L. LOMBARDO, L’occhio della siracusana, cit., 31. 35 L.c.
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Tradizione e culto di Santa Lucia a Siracusa
L’analisi che conduce il Lombardo continua sulla direttrice della continuità con il paganesimo del culto luciano, dimostrando di non conoscere gli Atti di Lucia che ignorano l’episodio — che la religiosità popolare farà proprio molto tardi — dell’orbamento della santa né la stessa leggenda dell’accecamento che vede l’immediato riacquisto della vista da parte di Lucia con due nuovi occhi più belli dei primi. Afferma poi, dopo aver tanto parlato di luce, che il nome Lucia non deriva dal latino lux, ma dal greco louein36 cioè lavare per poi diventare Loukia quando la figura della martire viene associata a quella della pagana Lucina37. Non si comprende perché vada scartata l’etimologia latina. La presenza del nome Lucia in ambiente cristiano-latino può essere attestata da una iscrizione tombale conservata al Museo del Laterano di Roma sulla quale è scritto: BE[ATA] LUCIA FEDELISSIMA VIRGO IM PACE QUAE VIXIT ANNOS XVIII
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IIIIX
CALENDAS BENTURAS SEPTEMBRES38
Un altro aspetto del suo studio può esser qui considerato e cioè lo stretto legame che egli individua tra il culto di “Athena Oftalmide” e quello di Lucia:
36
Circa la derivazione del nome di Lucia dal greco, il Lombardo evidentemente trascura che S. Metodio, di cultura greca, in un canone da lui composto lo spiega invece con il senso latino di lux, luce: L. BERNARDINI, Metodio I, patriarca di Costantinopoli (843-847), vincitore del II iconoclasmo, in Oriente Cristiano 19 (1979) 40-57: «O vergine martire di Cristo, assisti come interceditrice i bisognosi e con le tue preghiere illumina i ciechi, o tu che hai il nome della luce, nome a te esattamente corrispondente. Cfr F. RIZZO NERVO, Lucia tra Sicilia, Roma e Bisanzio: itinerario di un culto (IV-IX secolo), cit., 108 alla nota 61, citando altri, scrive: «G. ALESSIO (in Kokalos, 10-11, 1964-65, Atti del I Congresso internazionaledi Studi sulla Sicilia antica, Palermo, p. 284) osserva che l’accostamento del nome Louk…a, nome greco, sulla base dell’accento a lux, da cui fu ispirata la leggenda secondo la quale a Lucia furono strappati gli occhi, è paretimologico, simile a quello del latino lucerna che, come è noto, deriva dal greco lÚcnoj. Nel martyrion di Lucia, infatti, scritto a Siracusa intorno al IX secolo […] Lucia è lamp£j, lampada, della madre Eutichia». 37 Siracusa cade sotto l’assedio del Console Marcello nell’anno 212 a.C. Lucia muore nell’anno 304. La lingua ormai ufficiale — dopo cinque secoli di presenza romana — è il latino che coesiste però con quella greca della koiné. 38 A. FLICHE - V. MARTIN, Storia della chiesa, I, Parigi 19723, 586.
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Sebastiano Amenta «Come si poteva d’un colpo gettare via divinità che avevano per secoli aiutato uomini e donne siracusani: come si poteva ad esempio abbandonare “ex abrupto” un culto come quello di Athena, la più importante delle divinità siracusane, che dall’acroterio del suo tempio (attuale Duomo) “guardava” la città e il mare di Siracusa? E infatti ad Athena glaucopide “vedente”, il cui simbolo è la civetta dall’occhio lucente, si sostituisce la siracusana Lucia, che nello stesso tempio della dea greca continuerà ad illuminare i Siracusani, stendendo su di loro la luce della protezione magico-religiosa: la Lucia siracusana diverrà vieppiù santa “Oftalmide”, guaritrice delle malattie degli occhi»39.
Neanche in questo si intende negare valore all’ipotesi che nel culto di Lucia siano presenti elementi provenienti dal paganesimo, fenomeno realmente presente nella storia del cristianesimo, ma è la modalità con la quale Lombardo mette insieme credenze, usi e tradizioni diverse a sembrare poco convincente. Circa la sostituzione della figura di Athena con quella di Lucia nel culto esercitato nel Duomo di Siracusa, ex tempio dedicato alla dea guerriera, si deve rilevare che il culto a Lucia si sviluppò da subito sul suo sepolcro e non nel tempio di Athena, che sarà trasformato in chiesa cristiana dedicata alla Vergine Maria e non a Lucia nel secolo V e in cattedrale dal vescovo Zosimo nel secolo VII. Nessun riferimento alla sua venerazione nel Duomo di Siracusa inoltre ci è attestata prima del secolo XVII. La cronaca della festa fatta da Pietro della Valle40 dimostra che le funzioni religiose in onore della Santa, nel 1625, si svolgevano nella basilica del Sepolcro restando la cattedrale quasi come il luogo della sola custodia del prezioso simulacro, considerato anche il fatto che la basilica predetta sorgeva extra moenia, in aperta campagna. Le stesse reliquie — prima di allora — in possesso della Chiesa di Siracusa, le cosiddette sacre vesticciuole, furono custodite dalla nobile famiglia siracusana Piedilepre fino al 39
L. LOMBARDO, L’occhio della siracusana, cit., 32. Cfr Viaggi di Pietro della Valle il pellegrino, Venezia 1681. Vissuto nel secolo XVII (Roma 1586 - 1652) Pietro della Valle fu un misto di soldato, pellegrino, archeologo, filologo e poeta. Viaggiò in Asia Minore, Egitto, India ed Europa (cfr ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA, Lessico Universale Italiano, VI, Roma 1970, 148). Cfr anche N. AMENTA, Il dies natalis di S. Lucia celebrato nel 1625, in Con Lucia a Cristo, numero unico nella festa di dicembre 1986, Siracusa 1986, 6. 40
Tradizione e culto di Santa Lucia a Siracusa
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1571 e poi dalle monache del monastero di S. Maria della Concezione41 in Siracusa da dove, per la festa, venivano portate processionalmente in cattedrale. Una continuità tra Athena Oftalmide e Lucia potrebbe anche esistere, ma pensare di dimostrarla sul fatto che il rispettivo culto sia stato esercitato nello stesso tempio — ignorando gli almeno dodici secoli dalla scomparsa in esso del culto pagano di Athena — sembra insufficiente. Dal secolo XVI circa in poi, certamente a Siracusa, si osservò un cambiamento nel modo di effigiare la santa patrona, un mutamento che probabilmente è legato alla sempre maggior devozione da parte del popolo verso Lucia come protettrice della vista. Ormai Lucia sarà sempre rappresentata con gli occhi posti sul piatto e la palma in mano. Il motivo ricorrente degli occhi trova fondamento allora solo nella devozione popolare e nell’invocazione della santa per le malattie oculari, ma — come già detto — non ha riscontro alcuno in nessuno dei codici contenenti i cosiddetti Atti di S. Lucia. Il suo insorgere a Siracusa, che può essere sufficientemente spiegato con l’etimologia del nome Lucia, è attestato dal dato fornito dall’arte e sembra coincidere con il forte impulso alla devozione a Lucia42, specie nei luoghi della Basilica e del Sepolcro, che si osservò a partire dal secolo XVI. Il rinnovato fervore devozionale vide la sua più alta espressione nella realizzazione del simulacro argenteo in sostituzione di una più antica statua lignea ritenuta abbastanza misera. In effetti, con il nuovo simulacro argenteo anche la festa di S. Lucia a Siracusa sembra aver ricevuto un notevole sviluppo, considerato anche il clima culturale dell’epoca segnato dal barocco e dalla controriforma. A tal proposito scrive lo storico Privitera: «Il Senato sin dal 1590 avea deliberato di far costruire una statua nuova di S. Lucia, tutta di argento, intera e grande quanto il naturale. Passati alquanti 41
N. AGNELLO, Il Monachismo in Siracusa, Siracusa 1891, 69. In questo senso molto si adoperarono i gesuiti con P. Bartolomeo Petracci che promosse l’iniziativa della realizzazione del simulacro argenteo (N. AGNELLO, Il monachismo in Siracusa, cit., 11). Va ricordato anche il Vescovo Gilberto Isfar et Corillos che indisse numerosi pellegrinaggi al sepolcro di S. Lucia per impetrare la cessazione della peste. Nel 1575, per la grazia così ricevuta, il Senato restaurò i luoghi della sepoltura della Santa (ibid. 59). 42
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Sebastiano Amenta anni, ne fu commessa l’opera all’egregio artefice Pietro Rizio in Palermo. E il simulacro riuscì perfetto e bellissimo. Vi s’impiegarono cento novanta libbre di argento, e costò in tutto cinquemila scudi. Fu esposto per la prima volta nel 1620; e d’allora il fervore religioso si accrebbe in guisa, che sembrò talvolta cangiarsi in un delirio […] E quindi fu stabilito di celebrarsi la solennità del 13 dicembre con otto giorni di pubblico festino: portarsi in grande processione il simulacro ivi alla chiesa del sepolcro»43.
Del periodo precedente la realizzazione del simulacro argenteo non ci è pervenuto nulla circa la festa popolare di S. Lucia a Siracusa. Unica eccezione sono due notizie relative, una alla fiera che si teneva a Siracusa nella ricorrenza della festa annuale di dicembre44, l’altra alla vecchia statua di legno indorato45 che si portava in processione e della quale si son perse le tracce.
43
S. PRIVITERA, Storia di Siracusa Antica e Moderna, II, Napoli 1878/9, 192-193. Cfr Privilegium de celebrandis nundinis in festo Sanctae Luciae del 11 aprile 1334 riportato in copia autentica nella raccolta seicentesca dei Privilegi di Siracusa, manoscritto custodito nella Biblioteca Alagoniana di Siracusa. 45 Cfr SIRACUSA ARCHIVIO DELL’UFFICIO AMMINISTRATIVO DIOCESANO, fascicolo dell’ex Chiesa di S. Teresa in Siracusa. Dall’esame del carteggio si evince che negli anni ’50 la statua consegnata dalla Curia di Siracusa alla Parrocchia S. Maria della Consolazione in Belvedere di Siracusa era ritenuta l’antico simulacro. La notizia però è destituita di fondamento. È probabile, invece, che la statua di Belvedere sia quella che veniva collocata sul carro trionfale. 44
Note Synaxis XXI/1 (2003) 167-174
CRISTINA DI LAGOPESOLE: L’EREMITA DEL “DIVIN CROCIFISSO”
MILLY BRACCIANTE*
Apprendere che una donna del duemila, una mistica, una studiosa, raffinata poetessa, abbia deciso di vivere nella solitudine di un eremo fatto costruire con pietra viva a forma di cuba, per assimilarlo nella struttura e nell’estetica architettonica al vicino castello federiciano di Lagopesole in Basilicata, a 18 Km da Potenza, anzitutto desta grande curiosità. E alla curiosità spinge il luogo di elezione, da cui Cristina ha tratto il suo nome distintivo, Lagopesole dove, accanto all’ermo, ai piedi del Sacro Monte del Carmelo, sorge oggi anche la chiesa del Divin Crocifisso tra bianchi roseti e ciliegi, la cui fioritura in Primavera crea un suggestiva cornice. Mentre interessante è conoscere la sua singolare scelta di vita, una vita che predilige il silenzio, il raccoglimento ,la preghiera, lo studio profondo, la ricerca di antichi testi sacri, la solitudine che non è chiusura ed arido misantropismo, bensì intento pastorale di comunicare agli altri con la parola e la poesia, il frutto creativo dei suoi studi e della sua meditazione. Poetessa del sacro innografico, omileta, scrittrice di filotee, socia onoraria della “Fondazione Federico II” di Jesi , Cristina di Lagopesole ,che assomma in sé le virtù della “vita contemplativa” e della “vita attiva”, conduce studi biblici, patristici, teologici, innografici ed iconografici ,collaborando con le Università di Monaco ed Helsinki. Ha prodotto più di venti pubblicazioni (tra saggi e libri di poesia oltre ad articoli su riviste nazionali
*
Professoressa di Lettere.
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Milly Bracciante
ed estere) delle quali vari e prestigiosi premi letterari hanno riconosciuto il merito e la profondità di pensiero. Vincitrice della “Targa Giovanna Finocchiaro Chimirri” in occasione del Premio Nazionale di Poesia “Natale 2002” indetto dalla Parrocchia “Madonna della Pace” e patrocinato dal Comune di Tremestieri Etneo, la cosi detta “poetessa di Dio” ha particolarmente arricchito con la luce dei suoi versi la XIV edizione della manifestazione poetica etnea curata dal dott. Vincenzo Caruso e che ha visto come Ospite d’onore, nell’anno della Montagna, il sacerdote alpinista Luigi Bianchi autore del Breviario dell’alpinista, Ed. San Paolo. Eremita del duemila, Cristina, a Lagopesole, vive immersa nella bellezza della natura mentre la sua anima ed il suo intelletto, in continuo esercizio speculativo, sono impegnati nella riflessione esistenziale e nella ricerca della verità. Anzitutto mistica, vede la vita come inesausta ricerca nel dialogo con l’Oltre, come frequentazione del dolore dei vissuti umani nella coscienza della morte che ricongiunge all’Eterno e come immensa gratificazione data all’uomo dal Creatore nella possibilità di poter fruire del meraviglioso della natura, laddove il silenzio ed il raccoglimento sono elemento essenziale di elevazione dello spirito. Allora la sua parola, la sua poesia, le sue silenti pause, diventano preghiera nella dimensione delle Beatitudini, dove l’Amore divino parla al cuore dell’uomo, nella visione di una speculazione filosofica volta al sapere ed alla conoscenza come fonte di verità. Dove la poesia è vissuta come voce salvifica dell’esistenza, nel dialogo sublime con la pura bellezza della natura che è immagine di Dio. Ne danno testimonianza l’eremo ed il tempio del Divin Crocifisso che l’eremita ha voluto costruire con i proventi delle sue fatiche letterarie riproponendo con la perfezione geometrica, il simbolo e l’allegoria, la Bellezza che è Dio. «Nella navicella dell’anima cerco la Via della Rosa,/ il numero magico della Porta/ gli otto petali dello Splendore./ Sull’infinito mi abbandono e ti cerco»1. Similmente, la poetessa ha curato che nei suoi libri Il libro del Pellegrino e ad Crucem (Piero Lacaita Editore Manduria, Bari, Roma), nell’attenzione alla raffinata veste tipografica, nella scelta di preziose e splendide iconografie e nello snodarsi melodioso di un canto 1
Canto dell’otto, in Il libro del Pellegrino, 140.
Cristina di Lagopesole: l’eremita del “Divin Crocifisso”
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poetico, impregnato della migliore tradizione innografica delle Chiese d’Oriente e d’Occidente, ed al tempo stesso rilucente di personale impronta creativa cadenzata dalla cifra otto, fossero simbolicamente legate all’infinita perfezione divina e rispecchiassero il Suo infinito Amore. «Cerco tuo Figlio e l’Origine/ il Verbo luminoso, il fiore e l’aroma./ Scrivo per te otto versi/ per sentirli cantare nel silenzio»2. Si tratta di un Hymnarium — come sottolinea Enzo Bianchi, priore di Bose, nella sua prefazione a Il libro del Pellegrino — «capace anche in un mondo efficientista e distrutto, di suscitare la gratuità della bellezza, di destare la lode che da ogni creatura, anche dal più piccolo fiore, sale al creatore». E «siano questi inni, rotolo dolce nella vostra bocca» augura Cristina di Lagopesole ai suoi lettori e specifica in versi: «Nell’anima, dove miele d’Imetto/ è la Parola, versi liquido dolce,/ scorri in musica, sbocci bianco/ screziato di rosso, luminoso trascorri/ Non c’è dolcezza più grande/ della tua Parola, Signore!»3. Una poesia, quella della poetessa lucana, che accompagna la salita di ciascun pellegrino, di ciascun essere vivente della terra, verso il Monte Sion, meta del pellegrinaggio ebraico al Dio di Abramo. Pellegrinaggio che è anzitutto “viaggio interiore” di ciascun uomo alla ricerca di se stesso e della verità; cammino che si avvia dal buio del silenzio che è lode a Dio, spazio in cui può manifestarsi la sua Gloria alla luce del Cristo. «È nel silenzio — commenta Jorge Luis Borges — che è possibile sentire i passi di Dio». Similmente la parola poetica di Cristina di Lagopesole, come voce d’angelo venuta dal cielo accompagna il lettore di ad Crucem dalle tenebre dello spirito, dal “kaos” quotidiano, “ad lucem per crucem”, aiutandolo ad assaporare in un cammino che parte dai Vespri e termina alle Lodi, in unità di stadi, di vie, di gradi, di ore, di sensi e di virtù che conducono all’estasi attraverso la fede, la gioia della pace che viene da Cristo attraverso la Grazia e la Carità. «Giunge nelle mani un filo santo/ su cui, liquida scende la carità/ È un filo immacolato che allaccia l’uomo,/su cui passa una musica soave/ uguale a nessun’altra./ Nel cammino ascolta gli Angeli,/ la musica del cosmo,/ il canto dei Luminari, il Soffio celeste,/ la gioia dell’unità:/ è 2 3
L.c. Ibid., 141.
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sostanza di Dio»4. Partendo da una posizione squisitamente mistica che si richiama alla “scura notte” di Giovanni della Croce, al “castello interiore” di Santa Teresa D’Avila, Cristina di Lagopesole dimostra che la vita in tutti i suoi momenti, in tutte le sue stagioni è una liturgia da celebrare, essa riflette le Beatitudini del “Discorso della Montagna” che riguardano soprattutto la coscienza ed il cuore dell’uomo. E come i mistici medioevali orientali e come Rabibdranath Tagore, che afferma «che la gioia dell’arte consiste nella libertà di volare lontano a piacere della fantasia, poi anche dopo ritornati entro la prigione del mondo, un’eco permane nell’aria, un’esaltazione nella mente; che la natura diviene realmente e sicuramente intima nei luoghi ignoti e solitari; che l’individuo solo e l’infinito sono in termini uguali degni di guardarsi a vicenda ciascuno dal proprio trono»5, anche la poetessa lucana sembra convenire sullo stesso tono, nel Canto della parola6: «Nell’anima, dove miele d’Imetto/ è la Parola, versi liquido dolce/ scorri in musica, sbocci bianco/screziato di rosso, luminoso trascorri./ Non c’è dolcezza più grande/ della tua Parola, Signore!». Ed ammettere nel Canto di meraviglia7: « Ho cercato Dio che era in me/ fuori di me, e in tutto l’ho trovato./ Egli, che la mia anima aveva, in ogni luogo/ si manifestava./ Quel che più mi soggiogava/ mi teneva e gioia mi dava,/ era l’armonia incredibile che tutto/ allacciava e, in tutto, a lui rassomigliava/ Principio e Forma, in forma moltiplicata». Nella visione cristiana della vita è evidente come la poetessa sottolinei, nei suoi versi, la possibilità data all’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, di rispecchiarsi totalmente ed immergersi nell’infinita bellezza della Luce del Creatore: «Ad Isopata e vicino a Cnosso/ tra due mari, uomo e Dio/ si guardano e si riconoscono./ La Bellezza è con loro/ l’essenza del cielo e della terra/ un canto alternato»8. Ringraziando i suoi maestri, da Angelus Silesius a Romano il Melode, Gregorio di Nazianzo, Cosma di Gerusalemme, da Andrea di Creta a Efrem il Siro, Eucherio di Lione, Callisto Xanthopouli, da Gregorio Magno a Guglielmo di Saint-Thierry, a Giovanni della Croce, da Climaco 4
Jugum suave caritatis, in ad Crucem, 42. R. TAGORE, Visioni Bengalesi, La Spezia 1992, 81,67,72. 6 Da Il libro del Pellegrino, 141. 7 Ibid., 144. 8 Canto di Letizia, in ibid., 159. 5
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a San Bonaventura, l’autrice dimostra di possedere e padroneggiare le strategie per diffondere la parola di Dio che nel biblico “Cantico dei Cantici” e nel francescano “Cantico delle Creature” trova l’exemplum per eccellenza dell’eloquenza sublime ed umile nella sua ricca povertà, a testimonianza diretta della sapienza di Dio, laddove l’allegoresi teologica riesce ad individuare dietro la realtà del senso immediato della scrittura gli archetipi di una verità di grado superiore e riesce ad operare una esegesi analogica per rappresentare verità astratte, con immagini paraboliche che si dispiegano contemporaneamente in una trama di sensi letterali, allegorici, morali ed anagogici. È così che lo stile apparentemente umile, semplice nella scelta semantica, proprio perché portatore di verità somme, risulta essere il più sublime. Fu proprio Dio il primo retore ad avere usato nei Salmi l’elegante “transuptio” “ex omni ligno paradisi comede”. E la sineddoche rivolta ad Adamo ed Eva diventa significativo esempio di figura poetica. Il convento, l’eremo, luogo deputato alla meditazione, protegge dalla sonorità della parola imponendo il silenzio nella “custodia oris” e nella “disciplina oris”. Ma l’individualità e la creatività dell’anima umana invitano al ritorno alla retorica classica dove il “citaredo” era capace di fare risuonare le corde del suo strumento “dissimiliter”, con piacevole “modulatio”. In equilibrio tra il silenzio e la musica, la poesia di Cristina di Lagopesole, nella solitudine dell’eremo immerso nella natura tra bianchi roseti e ciliegi, trasforma il silenzio, il raccoglimento dell’anima in armonie del verso, denso di metafore ed allegorie, figure poetiche ed enjambement in un susseguirsi ritmico gustoso e ricercato nella proprietà lessicale dai richiami teologici e letterari. Una poesia “culta”, dunque che pur nella scelta del verso libero che vibra di un ritmo interno, non viene meno ai canoni della tradizione classica nel richiamo alla poesia greca del verso alessandrino ed a quella poesia quantitativa dei ritmi dell’esametro mediolatino su cui i “clerici” della Gallia medioevale sperimentarono la possibilità espressiva del volgare, creando il metro di un poetare sillabico computativo–accentuativo, rimato, cesurato. Ed in effetti la “poetessa di Dio”, con l’eleganza di stile composito della sua produzione, sembrerebbe confermare l’intuizione critica del D’Ovidio per cui la ritma volgare e la latina «sono come due strisce di cui l’una scende dall’antichità verso di noi, l’altra sale da noi verso l’antichità, ma le loro estremità non s’incontrano così bene da combaciare in tutto», mentre «I versi corti sono in fondo
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membri o frammenti di un ritmo lungo, divenuti apparentemente autonomi o riusciti da ultimo ad una vera autonomia»9. Autonomia che, ad esempio, nel verso libero delle ottave di Cristina di Lagopesole ne Il libro del Pellegrino, deve leggersi come armonia che si dipana come canto, come alchimia della parola che, nell’intrecciarsi nascosto di endecasillabi e settenari, quinari e novenari, decasillabi sdruccioli e piani, spezzati e fusi, ricorre alla magia dei numeri per entrare con una sequenza di segmenti metrici ben orchestrati, nei misteri dell’Universo e per rispondere alle esigenze dell’animo. «Endecasillabi e settenari, — ad esempio, avverte Giuseppe Conte in Manuale di Poesia10 — contengono un segmento formato dalle prime tre sillabe, su una delle quali cade il primo accento; e poi, un segmento di quattro, il settenario, e due segmenti di quattro, l’endecasillabo. Il tre ed il quattro, sono dunque in questi, più che in tutti gli altri versi, perfettamente avvicinati e sintetizzanti il processo ed il cerchio, il divenire ed il cosmo… nelle unità di misura della poesia, canto dell’universo, sembra sintetizzarsi la materia di cui sono fatti gli astri, gli alberi, i sogni a pulsare». E il verso libero di Cristina canta «Come pioggia bianca scende la Parola:/ bianca stella dell’Ottavo Cielo, bianca nota./ La mia veste è tutta bianca sul petto fiorito/ di rosso. Sono luce i giorni. Luce spiegata/ tra stella e stella con al centro il sole,/ improvviso scampanio nella notte, smeraldo/violamaranto lillà, olio di papavero,mantello/ di Frisia, rossogiallo d’argilla, terra ruggine/»11. Ed ancora «Il mio Coppiere ha coppe di zaffiro fuso/ dove versa balsami d’iris e di aloe./ Con delicato passo a sé conduce/ l’alto e il lontano, lo specchio e la luce»12. Dove il “topos” della materia descritta risponde a due ordini di motivazioni, da una parte all’idea del bello legata all’armonia ed all’ordine, dall’altra all’assunto che l’essenza della bellezza derivi dalla luce divina.
9
F. D’OVIDIO, Sull’origine dei versi italiani, in Versificazione romanza, Napoli 1932,
221-223. 10
Quaderni della Fenice, 1995, 113. Canto dell’Ottavo Cielo, in Il libro del Pellegrino, 33. 12 Canto estatico, in ibid., 31. 11
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Tutte le metafore adoperate dall’autrice, allora si rifanno al principio della luce e tutte le descrizioni estetiche ricalcano il concetto di proporzionalità. «Fu usata come pietra di confine ma lei ne fece/la pietra di Giacobbe e su di essa innalzò la sua Beth-el./ Incise un mandala nel mezzo, con otto raggi, bianco/ Poi affrescò le camere segrete. Piantò orti di parole e alberi/ con frutti e foglie. Di notte disegnò cerchi tra ramo e ramo»13. Principi orientativi, questi, costanti, che nascono dalle strutture psichiche prelogiche del profondo e dalla multiforme e ricercata sovrastruttura culturale dell’autrice. Ma soprattutto derivano dall’idea teologica che la produzione della materia da parte di Dio Creatore sia stata un atto di Parola, laddove Rivelazione e Creazione si fondono in un unicum. La Parola, allora, anagogicamente è qualsiasi oggetto della Creazione divina e, inversamente, qualsiasi oggetto creato richiama alla Parola: «Sacro il cuore dove tu entri/e spargi la parola antica/ Gode di te, quel cuore: è in te, con te/ sa di te. Congiunge mandorla e scorza/ albero e casa, terra rotonda e Sfera celeste/ ciò che nella mente si forma»14. Data l’equazione cosmoscrittura, la scrittura può essere un inno, un poema,una musica, come vuole la tradizione patristica e come dimostra il parallelismo fra Bibbia e Natura «Gode di te quel cuore: è in te, con te/ sa di te. Congiunge mandorla e scorza»15. Stabilito il rapporto causa-effetto, creatore-creatura, autore-libro, poeta-verso, anche la pagina miniata può essere pittura di Dio ed è Verbo fatto carne a rappresentarne la magnificenza: «In una icona, un pittore cretese, un giorno/ chiuse la gioia e la custodì nel tempo./ Dall’Eternità sgorgarono ruscelli di grazia./ L’eco della Luce giunse su un foglio esatto./ Un uomo la trasformò in esatta simmetria, in ruscelli/ di note che si sparsero sulla terra, con frutti e foglie»16. Con un sapiente giuoco di allargamento semantico, la poetessa, poi, opera un processo di contiguità e dettagliamento delle figure analogiche, che non è semplice uso di metafora continuata, ma segue la via di estendere la motivazione che lega il figurante ed il figurato a tutte le possibili proprietà 13
Canto della pietra di confine, in ibid., 42. Canto apofatico, in ibid., 151. 15 Canto Apofatico, in ibid., 151. 16 Canto della gioia fondamentale, in ibid., 162. 14
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del sema, ad esempio “mani-festazione”, “rosaceleste”, “spittinio”, oltre a richiamarsi a significanze teologiche, esoteriche, mitologiche. Una produzione letteraria, quella di Cristina di Lagopesole, che potrebbe sembrare, a prima vista, soprattutto finalizzata al bello ed alla sua fruizione edonistica, rivolta ad una società culturalmente elitaria, attraverso un dialogo le cui retoriche presentano un codice ermeneutico per iniziati, abilmente strutturato in un neosofistico gioco intellettuale che richiede al lettore un ruolo attivo di comprensioni e collegamenti, in una stesura dei testi che risulta costellata di simboli speculari di una realtà ultraterrena il cui ordito metafisico è da ricostruire con l’allegoresi teologica. Viceversa, a ben osservare, la tessitura delle opere creative della poetessa lucana, realizzate sull’asse paradigmatico con l”ornatus difficilis” e sull’asse sintagmatico con l”ornatus facilis”, espandendosi e contraendosi orizzontalmente con operazioni di “amplificatio” e “breviatio”, così come , architettonicamente, similmente si sviluppa , una cattedrale gotica nell’arditezza di guglie e pinnacoli e grande numero di fregi ornamentali decorativi come libro aperto di simboli liturgici, risulta essere struttura di eleganti equilibri e di trasparenti chiarezze. Ed è soprattutto il “sermo umilis” dell’“ornatus facilis” che Cristina di Lagopesole adopera prendendo a modello i Padri della Chiesa, linguaggio biblico semplice, rivolto a tutti, persuasivo, accessibile e piano, come pietra dura delle cattedrali, parola nel tempo che si fa pietra viva nel Tempio da lei costruito accanto all’eremo, che affascina e trascina a testimonianza di un Dio che si è fatto uomo tra gli uomini, per diventare ecumenico messaggio cristiano, Luce di significativa pregnanza, specie perchè a formularne lo splendore è un’anima femminile che traduce in parola il silenzio e la solitudine e non fa mistero della sua scelta di vita: «Non so, Dio, quanto miele tu mi donasti:/ certo,dalla coppa,tutto lo bevvi./ Quando ogni goccia era finita/ sentii che un’ape m’era entrata in petto./ Da quel giorno mi colorai, mi spuntarono ali:/ divenni aria. Mi accordai col vento, le note,/ gli Splendenti. Punti luminosi e brillanti/ diventarono musica, corpo inebriato, canto»17.
17
Canto della metamorfosi, in ibid., 27.
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TIMOR MUNDI LA MODERNITÀ CONTRAFFATTA E I TESTIMONI DI GEOVA
DAVIDE MICCIONE*
Nessun filosofo sa bene cos’è il banale, nessuno c’è mai caduto dentro abbastanza a fondo. Il problema dell’esperienza umana banale è il problema principale dei secoli moderni. S. Bellow
Ogni setta offre uno spazio privilegiato per cogliere i contorcimenti del moderno. Selezionate da una feroce concorrenza, queste nuove religioni, per quanto portatrici, a volte, di idee apparentemente peregrine o folli e con una conduzione spesso apertamente incentrata sul profitto, rivelano, con i loro successi e fallimenti, le tendenze della modernità, gli spostamenti delle nostre tavole di valori, ma soprattutto i tentativi dell’individuo di reagire alle mancanze o agli eccessi della nostra epoca. Un sguardo filosofico può cogliere in esse una chiara dimostrazione di come la gente comune legga il proprio tempo. In questo senso, per numero, continuità, e caratteristiche che vedremo più avanti, i testimoni di Geova rappresentano un fenomeno ricco di insegnamenti. Tutti abbiamo letto sui giornali le ricorrenti polemiche sulle donazioni di sangue o sulla loro indisponibilità a qualsiasi servizio militare o civile. Non meno evidente è la loro presenza nel tessuto cittadino: li vediamo girare per le case, suonare ai citofoni, offrire le loro riviste; oppure *
Dottorando di ricerca in Filosofia e Storia delle idee presso l’Università di Catania.
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vediamo le sale del regno, i loro luoghi di culto, presenti anche nei piccoli centri, dove a volte la Chiesa cattolica non ha un numero sufficiente di sacerdoti per tenere aperte le chiese. Insomma difficile pensarli come un fenomeno transitorio, più facile che essi, ormai la seconda religione italiana, siano un fatto con cui la società italiana e soprattutto la chiesa sarà costretta a confrontarsi per lungo tempo. I testimoni di Geova prosperano nonostante tutto. Perché nonostante? Perché, apparentemente, il loro successo rappresenta un fenomeno, ad una prima analisi, del tutto insolito. I t.d.G. hanno pessima stampa, vanno sui giornali solo e sempre per fatti negativi; hanno convinzioni scientifiche risibili per un adulto europeo (l’inesistenza della evoluzione, la postdatazione della creazione del mondo). In genere non hanno alcuno spessore culturale (è quasi impossibile incontrare un testimone colto, che abbia una qualche familiarità con “l’universo libro”) la loro teologia è molto rozza e il fallimento delle loro previsioni sulla fine del mondo, inizialmente assai precise fino ad indicare l’anno dell’Evento (1914 ecc. ecc.), avrebbero dovuto ricoprirli di ridicolo. I Testimoni sono asociali, estranei a ogni forma di partecipazione alla sfera sociale o statale ( feste religiose e laiche, servizio militare, elezioni) con un concetto di solidarietà tribale, da religione monolatrica. Essi pretendono di determinare la vita dei loro fedeli nei più minimi particolari: il vizio del fumo, le amicizie, le modalità del leggere, del vestire e del fare sport. Eppure prosperano, perché? Quali sono i motivi del loro successo? In linea generale esso può essere messo in relazione con la profonda difficoltà che l’occidentale medio incontra nell’adattarsi alla modernità. Più localmente, in Italia, non può che essere messo in rapporto con la crisi, le mancanze, o semplicemente le caratteristiche della odierna Chiesa cattolica, cioè della confessione dominante in questo paese. La domanda allora diventa duplice: cosa cercano nei t.d.G. coloro che vi entrano e, soprattutto, perché questo qualcosa non riescono a trovarlo nel cattolicesimo? Non ci interessa qui condurre né un’analisi né una critica della loro dottrina, quanto provare ad indagare quale filosofia generale stia alla base della loro teologia come della loro concreta prassi e in che misura essa incontri l’esigenze della modernità. La chiesa prescrittiva, minuziosamente intenta a regolare la vita dei
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suoi membri, è una presenza sempre più sfumata. Con il padre-padrone, con la società autoritaria, è tramontata anche la figura di Jahvè padre severo, che si esprime per regole e divieti. Ma ogni padre che abdica al proprio ruolo lascia degli orfani. Forse la storia del nostro secolo potrebbe essere letta anche come una continua e a volte cruenta ricerca del padre: Stalin (non a caso “il piccolo padre”) o Mussolini che, nello slogan di Longanesi, come un papà per il suo bambino, “ha sempre ragione”. I t.d.G. forniscono al bisognoso un pacchetto esaustivo di regole (si arriva a contemplare se il testimone possa o meno soffiare sulle candele di una torta di compleanno) affidandone il rispetto e la sanzione terrena alla forza coercitiva del gruppo. Su questo punto non credo che la Chiesa possa né debba fare molto: ridare peso all’aspetto prescrittivo-regolativo, a un’esistenza che si sfarini in una minuziosa casistica, le farebbe perdere a sinistra molto più di ciò che riguadagnerebbe a destra (uso qui in modo volutamente rozzo e arbitrario queste due categorie). Inoltre andrebbe contro l’essenza del messaggio cristiano che ha la propria unicità nel suo aspetto liberatorio rispetto a quei vincoli formalistici posti ad essenza in religioni ad esso precedenti (ebraismo farisaico) o posteriori (Islam). Insomma coi porterebbe a dimenticare, per dirla con Guardini che «il cristianesimo non è una teoria della verità, o una interpretazione della vita. Esso è anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo è costituito da Gesù di Nazareth, dalla sua concreta esistenza, dalla sua opera, dal suo destino cioè da una personalità storica»1. Del resto proprio Introvigne, forse il massimo esperto di nuove religioni, spiegava, qualche anno fa, questa rigidità mentale come una reazione abbastanza ovvia di fronte al relativismo e al pluralismo. È normale ci sia chi tenti «la fuga […] rifugiandosi in piccoli mondi […] dove la pluralità di messaggi contraddittori viene ridotta all’ascolto selettivo di un solo messaggio»2. Questa separazione, quindi, è già stata contemplata, ma il più delle volte come reazione di piccole cerchie esoteriche, come salvezza elitaria. Il filosofo MacIntyre auspicava, ad esempio, di fronte alla babele sociale, la creazione di comunità dove coltivare l’etica, i valori condivisi, in attesa di tempi migliori. Insomma una sorta di nuovo 1 2
R. GUARDINI, L’essenza del Cristianesimo, Brescia 1968, 12. M. INTROVIGNE, La massoneria, Torino 1997, 6.
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monachesimo3. Non si è pensato ad una comunità che proponesse alla massa la ricetta della separazione dal mondo non proponendosi il raggiungimento di valori elitari. La loro chiusura al mondo, cercata, coltivata nei figli fin dall’infanzia, li pone di fronte a una realtà falsa ma tenace, semplificata in tutti i suoi aspetti: intellettuali, sentimentali, etici, sociali. Di fronte alla tanto sbandierata complessità i testimoni non producono un pensiero complesso ma tagliano fuori fette di realtà fino a trovarsi a proprio agio. La necessità di non agganciare teoricamente le regole attraverso un’eliminazione dello spirito critico, permette loro di assicurare vigenza a disposizioni in fatto di sesso, comportamento, finanche vestiario, decedute ormai da alcune generazioni. Il loro sanzionare in modo deciso, spesso con espulsioni più o meno temporanee, i comportamenti difformi (ad esempio il fumare, irrigidimento caratteristico di una religione nata nei salutisti Stati Uniti) non è semplicemente una forma d’ottusità, di chiusura mentale. Quest’ultima rappresenta più che altro lo strumento attraverso cui i quadri intermedi mettono in atto la filosofia generale della setta. Questa facilità d’espulsione sembrerebbe in contrasto apparente con la forsennata ricerca di nuovi adepti. In realtà la durezza degli anziani serve a rendere appetibile la setta. Forse è il caso di soffermarsi sull’analisi di questa appetibilità. Alcuni decenni fa, Julius Evola, in un libro affascinante e discutibile, sosteneva come fosse del tutto inutile fare figli giacché la modernità rendeva ormai impossibile ogni trasmissione di valori, ogni eredità spirituale4. È probabile che nei prossimi anni questa constatazione diventi ancora più diffusa. La chiusura intergenerazionale colloca spesso i genitori nel ruolo di recalcitranti novelli antropologi di fronte a culture aliene ed ermeticamente conchiuse. Restano i legami di sangue, di affetto, ma sempre più di rado vi è una minima comunanza etica, intellettuale, comportamentale. Di fronte a questo fenomeno nuovo i geovisti offrono una soluzione radicale. La loro società chiusa assicura, con ragionevole certezza, che i figli saranno più o meno uguali ai genitori, controllabili intellettualmente, socialmente e sessualmente. Questo controllo è assicurato appunto dalle sanzioni ma la loro efficacia si radica attraverso un isolamento coltivato 3 4
Cfr R. BODEI, La filosofia moderna, Roma 1997, 163. Cfr J. EVOLA, Cavalcare la tigre, Roma 19955, 158-166.
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accuratamente, un culto della separazione sostanziato di diffidenza verso il “mondo”, satanico per antonomasia, da rifiutare globalmente. Entro questa cornice si spiega anche il poco amore dei testimoni per l’arte, la cultura, la scienza. Queste sarebbero finestre pericolose sul mondo che la loro prudenza ritiene sia il caso di chiudere ermeticamente. L’apparato prescrittivo non avrebbe quindi alcuna efficacia se non vi si accompagnasse alcuna sanzione per la sua eventuale trasgressione. Una sanzione per così dire verticale, teandrica (la dannazione, l’esclusione dal preciso numero degli eletti) ma anche e soprattutto orizzontale e sociale (l’espulsione o comunque l’emarginazione del soggetto che erra). Per comprendere quale dramma possa costituire per un testimone la sua defenestrazione bisogna ricordare che egli, se convertito, è stato spinto a rompere i ponti con i pagani (cioè con tutti gli altri esseri umani che non siano testimoni), a volte con i suoi stessi familiari. Quindi è un soggetto estremamente fragile, che non possiede più alcuna sfera di relazioni oltre i confini di Geova. Se nato testimone, a questa situazione si aggiunge una conoscenza della società esterna alla sua quasi nulla e sempre velata da una profonda diffidenza. Questa è pero soltanto l’angolazione prospettica negativa di un fenomeno che è il vero punto di forza dei t.d.G.: l’enorme coesione interna. Nel mondo contemporaneo in cui è precipua caratteristica l’isolamento e la fisiologica debolezza delle relazioni sociali, con famiglie sempre più ridotte numericamente, strutture urbane che spingono all’isolamento, la solitudine diventa un male assai difficile da debellare. Nella biografia di molti testimoni la conversione coincide con un lutto, con una lunga malattia, con un rovescio economico. Insomma in uno di quei momenti in cui si liquefanno velocemente quei legami che di solito intratteniamo con gli altri: il vicinato, i parenti non stretti, i compagni di sport, di lavoro o di divertimento. Come resistere alla tentazione di chi, addirittura a domicilio, ti offre solidarietà: un vero e proprio patto d’acciaio sotto la garanzia di Geova. Questo è sicuramente l’aspetto che più fa spiccare le colpe della Chiesa cattolica, congelata a volte in una posa anacronistica da Ecclesia triumphans, mentre i suoi templi si svuotano. Chi ha mai sentito il proprio parroco o i suoi più vicini collaboratori suonare al proprio citofono? Il neofita, non solo nei testimoni di Geova, ma un po’ in tutte queste
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nuove religioni, si sofferma, nel raccontare la propria esperienza di conversione, su un aspetto a mio parere fortemente rivelatore: l’accoglienza festosa riservatagli dai suoi nuovi confratelli la prima volta che mette piede in uno dei loro luoghi di culto, le profferte d’amicizia, fino ad arrivare a veri e propri festeggiamenti. Qualcuno ricorda un fatto simile in una chiesa cattolica? Entrando in chiesa e assistendo a una funzione è estremamente probabile che se ne esca indisturbati come vi si è entrati. Ogni religione o setta ha in sé implicito un modello di fedele, che dà il timbro al modo in cui essa si presenta al mondo e viene indicato, più o meno esplicitamente come stato mediamente ideale al credente, come obbiettivo da raggiungere. Scandagliare quale esso sia può spesso rivelarsi estremamente fruttuoso e interessante (e del resto non è in fondo quel che ha fatto Weber nel suo lavoro sulla genesi del protestantesimo, o Aranguren nella sua teoria del talante?). Ha ragione Saverio Vertone quando fa notare come «nessun rappresentante della gnosi contemporanea (dove si è rifugiato il misticismo colto), si è mai degnato di gettare una sguardo sull’attuale religiosità delle religioni. Capire che cosa sia la fede nella media mediocre degli spiriti e delle istituzioni»5. Se ogni fede postula un archetipo umano verso cui il fedele tende, la realtà sociale si trova a fare necessariamente i conti con questo individuo. In questo sta la geniale intuizione dei geovisti. Infatti l’archetipo di fedele perfetto coincide con il massimo di utilità per la crescita della setta. È come se il geovismo avesse copiato l’idea del martire guerriero della fede islamica, adatto a una politica espansionistica, ma lo abbia reso adeguato a tempi di capitalismo, in una struttura da impresa commerciale con rappresentanti di zona e controllo qualità. In qualche modo è come se si fosse realizzato il rovesciamento dei modelli weberiani cui accennavamo sopra i quali prevedevano il trasferimento della mentalità religiosa in campo economico. Il geovismo ha trasferito modelli di comportamento tipici delle reti di vendita porta a porta nella religione. Il venditore si ritrasforma in uomo religioso. Il cerchio si chiude. Il vero baricentro esistenziale del geovista non coincide infatti né con la preghiera, né con la perfezione etica, bensì con il predicare, cioè con il 5
S.VERTONE, La trascendenza dell’ombelico, Milano 1994, 34.
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cercare nuovi adepti. È questo il nucleo della religione, semplice e geniale, esso infatti coincide con il quotidiano lavoro per la sua espansione6. Potrà sembrare paradossale per chi conosca la levatura culturale dei t.d.G ma il loro successo ha anche una componente teoretica e intellettuale. Spesso si dimentica che non solo i simpatizzanti delle scienze (umane e non) ma anche l’uomo di media, poca e pochissima cultura ha mutato il proprio bagaglio di conoscenze. Egli non possiede più una formazione costituita dalla ricezione di una “metafisica popolare”, ma da cascami di cultura scientifica spesso trasformati sino a essere resi irriconoscibili. La scienza, come ha ben compreso Severino, si presenta all’uomo comune con la sua faccia più violenta, una tecne sempre più sacralizzata ma sempre meno compresa. Partendo da questi presupposti, non poche sono le difficoltà a sintonizzarsi con un linguaggio metafisico sempre più estraneo. Ho conosciuto una donna di modesta cultura (nell’accezione contemporanea, quindi in possesso di diploma dell’obbligo e divoratrice di romanzi rosa e riviste femminili) che, pur colpita dalla figura di Gesù e della Madonna, trovava grosse difficoltà a credere, perché non riusciva a figurarsi struttura materiale e ubicazione del paradiso. Voleva che qualcuno le spiegasse, astronomicamente, dove si trovasse: sopra, sotto, su Sirio, su Andromeda. Questa donna era tornata senza saperlo ai problemi dei primi Greci nel concepire un agente non sostanziale e quindi la metafisica. Essa ha bisogno allora di una dottrina materialista che si ammanti di scientificità e al contempo prospetti una conciliazione con aspetti della S. Scrittura visti ancora in modo sacrale Bisogna aggiungere che nei ceti non colti ma cristianizzati può riscontrarsi una conoscenza della liturgia e della agiografia ma molto di rado della Bibbia, verso cui il cattolico ha un rispetto fatto di distanza e di ignoranza. È questa ignoranza la strada prediletta che i testimoni usano per avvicinare i cattolici. Essi collocano la discussione sul piano dell’interpretazione della Bibbia, a cui il cattolico è di solito poco interessato, in cui è poco ferrato, ma che considera indiscutibilmente la fonte della sua religione, 6 Per una incisiva rappresentazione di questo nucleo della prassi geovista si veda ad esempio il vecchio ma ancora significativo G. PAPE, Io ero testimone di Geova, Brescia 1974, 40-47.
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il fondamento, per lui invisibile, su cui si fondano usi, credenze, storie e figure queste a lui familiari. In poche battute questo pseudocristiano vede il suo implicito fondamento traballare mutarsi sotto i suoi occhi in qualcosa di ben diverso da ciò che credeva, potrebbe controbattere con il buon senso, con il raziocinio, ma essi sono su un piano diverso e per lui ormai inattingibile. Sottolineare che, in questo senso, la catechesi e l’insegnamento della religione a scuola, così umanitario, sociale, mimetico nei confronti della società, favoriscano soltanto il lavoro dei geovisti mi sembra quasi superfluo. Insomma, i testimoni offrono una visione del mondo parascientifica, completa in ogni sua parte, apparentemente fondata sulla Bibbia. Non tendono a sopravvalutare l’interlocutore, non danno per scontato il possesso di alcuni requisiti concettuali. I t.d.G. sono la specchio deformante della modernità, la simia dei della ragione illuminista; offrono oppio dogmatico al posto della chiarezza razionale, biblicismo ottuso invece che filosofia della religione, felice oppressione totalitaria piuttosto che individualismo. Come ogni specchio deformante, nel rimandare indietro l’immagine sembrano irridere, forse mandare definitivamente in pezzi quello che per Enzensberger è soltanto un pregiudizio illuministico, cioè che in ogni uomo si celi un Diderot o un Voltaire potenziale impaziente che qualcuno gli mostri i piaceri della ragione e della chiarezza. Il testimone invece si dirige con passo svelto e sicuro dentro il baratro della minorità e, diversamente dalla moglie di Lot, volgersi indietro non sembra per lui una tentazione degna di nota.
Synaxis XXI/1 (2003) 183-188
QUALCHE CONSIDERAZIONE SU UNA NUOVA RILETTURA DEI TRATTATI MONASTICI DI GIOVANNI CASSIANO
FERDINANDO RAFFAELE*
Crescente attenzione negli ultimi anni è stata prestata, nel quadro di una più generale rifioritura degli studi patristici, ai trattati monastici di Giovanni Cassiano. La pubblicazione di nuove traduzioni in varie lingue, di profili biografici e dottrinari dell’autore, di saggi su specifici aspetti delle sue opere testimonia tale rinvigorito interesse1. In questo contesto si inscrive il volume dedicato alla spiritualità di Cassiano della domenicana suor MarieAncilla2. Si tratta di uno studio, come già si evince dalle prime pagine del libro, rivolto principalmente alla fruizione di religiosi o di laici interessati alla spiritualità monastica, ma che è anche indicato per la lettura di chiunque voglia acquisire una prima informazione contenutistica sul De institutis Coenobiorum (o Institutiones) e sulle Conlationes Patrum, le due opere di materia monastica di Cassiano. A questo fine l’autrice ha predisposto un articolato piano di lettura, presentando innanzi tutto un essenziale ragguaglio biografico di Cassiano (pp. 11-26) e uno relativo ai due trattati (pp. 29-37), dei quali successivamente illustra i più rilevanti aspetti dottrinari. In particolare, si sofferma sul tema della ricerca della perfezione (pp. 43-58); * Professore di Lettere nell’Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato “Enrico Fermi” di Catania. 1 Cfr il mio A proposito di una recente traduzione delle Conlationes di Giovanni Cassiano, in Synaxis XIX (2001) 187-194: 188-189. 2 SŒUR MARIE-ANCILLA, o. p., Saint Jean Cassien. Sa doctrine spirituelle, La Thune, Marseille 2002, pp. 148. L’autrice — è ricordato sul risvolto di copertina — svolge la sua professione religiosa a Lourdes, si è già occupata di Cassiano e ha dedicato due libri alla spiritualità dei Padri del deserto. Appare inconsueto l’uso della parola «santo», per via delle controversie dottrinarie cui Cassiano — che mai peraltro nelle pagine del libro viene così indicato — è stato oggetto, cfr s. v. «Cassiano Giovanni, santo», a cura di G. Zannoni, Biblioteca Sanctorum, III, Roma 1963, 917-920.
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sui concetti di sanità e malattia spirituali (pp. 59-78); sulle idee di ascesi e contemplazione o, per adoperare il lessico dello stesso Cassiano, di practikè e theoretikè (pp. 78-118 e 119-128); ed infine sulla preghiera (pp. 129-137). Dei due testi, così scomposti e riordinati in un articolato mosaico, è offerta al lettore una peculiare prospettiva dalla quale risultano privilegiati la valenza didattica e l’approccio psicologico, come suor Marie-Ancilla non manca di evidenziare nelle conclusioni (pp. 139-140). La finalità del volume è dichiaratamente divulgativa. Vi sono esposte le parti ritenute fondamentali del pensiero di Cassiano e tradotti numerosi ed ampi passi delle Institutiones e delle Conlationes, con i quali l’autrice predispone il florilegio che sostiene la trama interpretativa da lei delineata. La trattazione, poi, va apprezzata per la chiarezza e l’efficacia della sintesi, ma non offre alcun nuovo contributo critico e tiene conto in maniera soltanto occasionale degli studi prodotti su Cassiano. Tenute presenti tali riserve, a mio avviso, il libro di suor MarieAncilla merita comunque di esser letto anche da parte degli specialisti, soprattutto perché, suggerendo vari spunti di approfondimento, rappresenta un’interessante forma di attualizzazione di un “classico” della letteratura monastica cristiana. L’autrice, infatti, sviluppa la sua trattazione soffermandosi sul tema dell’inculturazione della fede cristiana e ponendo in evidenza il ruolo di “ponte” fra monachesimo orientale e occidentale svolto dalle opere di Cassiano. Com’è ampiamente noto, il monachesimo latino, che giungerà a piena maturazione con l’opera di S. Benedetto, deve i suoi fondamenti alla tradizione orientale, anche grazie alla mediazione di Cassiano3. Egli, di famiglia latina, visse l’adolescenza e la giovinezza fra la Palestina e l’Egitto, ove venne introdotto alla vita monastica; fu successivamente a Costantinopoli, a Roma ed infine in Gallia meridionale, nei pressi di Marsiglia4. Qui, su sollecitazione di alcuni esponenti del clero locale e per rispondere alle richieste di formazione di coloro i quali avevano abbracciato 3
Sul fondamentale ruolo storico avuto da Cassiano, cfr almeno O. CHADWICK, John Cassian, Cambridge 19682, 1-36. 4 Si rimanda al profilo biografico-intellettuale contenuto in J.C. GUY, Jean Cassian. Vie et doctrine spirituelle, Paris 1961 oppure, per maggiore sinteticità, alla voce Cassien, di M. CAPPUYNS in Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, XI, Paris 1949, 1319-1348: 1319-1328. Sul dibattuto problema della patria di Cassiano si veda K. ZELZER,
Una nuova rilettura dei trattati monastici di Giovanni Cassiano
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— o aspiravano a farlo — la vita monastica, provvide alla stesura delle Institutiones e delle Conlationes. La sua fondamentale importanza nel costituirsi della tradizione monastica latina — di lui si è scritto che fu discepolo in Oriente e maestro in Occidente e che fu un orientale che scriveva in latino5 — viene così messa a fuoco dall’autrice: «Cassien hérita donc d’une double culture. Ceci est important pour comprendre l’influence qu’il exercera sur la tradition monastique, tant d’Orient que d’Occident. Il pourra faire passer en Gaule tout l’héritage monastique reçu en Orient — lié jusque-là à la culture greque —, en trouvant le vocabulaire approprié pour le dire, même s’il manquait au latin parlé dans son pays la pureté de la langue (pp. 11-12)»6.
Sotto quest’aspetto, Cassiano rappresenta oggi un importante intermediario nel dialogo ecumenico tra il mondo cattolico e quello ortodosso, vista la non trascurabile notorietà che gode presso quest’ultimo7: «Un premier aspect de l’actualité de Cassien est son importance au plan œcuménique. Il est reconnu comme un maître spirituel tant par les orthodoxes que par les catholiques (p. 139)».
Cassianus natione Scytha, ein Südgallier, in Wiener Studien. Zeitschrift fürKlassische Philologie und Patristik, 104 (1991) 161-168. 5 Si rimanda ai riferimenti contenuti in L. DATTRINO, Introduzione a GIOVANNI CASSIANO, Le istituzioni cenobitiche, Bresseo di Teolo (PD) 1989, 46 e alla voce Giovanni Cassiano, in G. BOSIO, E. DAL COVOLO, M. MARITANO, Introduzione ai Padri della Chiesa, IV, Secoli IV e V, Torino 1995, 191-222: 196. 6 Inoltre, l’autrice aggiunge : «Cette brève étude nous permet de mesurer l’importance de Cassien pour la spiritualité occidentale. Par lui, toute une recherche contemplative qui avait lentement vu le jour en Orient, a été introduite en Occident», 58; «Cassien apparaît comme un témoin de la tradition spirituelle, juive et patristique, dont il rassemble et organise plusieurs éléments. Il a introduit la liste des vices en Occident, et une doctrine du combat spirituel», 84. 7 Cfr O. CHADWICK, John Cassian, cit., 157-160; sull’argomento è imminente la pubblicazione del volume a cura dell’Institut für Religionsfragen der Europäischen Integration, Jean Cassien entre Orient et Occident, Frankfurt 2003. A questo proposito, vanno inoltre ricordate due significative menzioni di papa Giovanni Paolo II, nel discorso di saluto pronunziato all’ aeroporto di Bucarest il 7 maggio 1999 e nella Lettera apostolica In
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Peraltro, da questo punto di vista, la rilettura di Cassiano operata da suor Marie-Ancilla risponde alle odierne sollecitazioni del Magistero cattolico, particolarmente sensibile ai temi del confronto fra culture diverse e dell’inculturazione della fede8. In correlazione a ciò, l’autrice nella sua esposizione rimanda — sebbene poi non le dia significativa prosecuzione — a un’altra possibilità d’indagine: quella sulle influenze esercitate nel tempo da Cassiano su vari autori cristiani e pratiche di vita religiosa. Sull’argomento, nonostante esistano apprezzabili studi circa i rapporti che intercorrono fra i trattati cassianei e la Regola benedettina9, resta ancora moltissimo da fare10. Appare tuttavia chiaro che da una ricognizione condotta ad ampio raggio si ricaverebbero preziose acquisizioni per la storia della letteratura religiosa, così come potrebbero essere ricostruite, anche se in questo caso l’esplorazione si presenta più problematica, alcune irradiazioni nella letteratura laica, specie quelle presenti in età medievale nei generi letterari del racconto esemplare e della disputa morale fra virtù e vizi. L’autrice segnala — com’è ovvio, vista la sua appartenenza — il recepimento di Cassiano presso alcuni fra i massimi esponenti dell’Ordine Domenicano (san Domenico11, san Tommaso d’Aquino e Umberto da occasione del terzo centenario dell’unione della Chiesa Greco-Cattolica di Romania con la Chiesa di Roma, del 7 maggio 2000; i testi sono reperibili sul sito <www.vatican.va>. 8 Cfr almeno di GIOVANNI PAOLO II la lettera enciclica Fides et Ratio, Città del Vaticano 1998, 93-96 (§§ 70-71) e la lettera apostolica Novo millennio ineunte, Città del Vaticano 2000, 46-47 (§ 40); e poi il documento del Pontificio Consiglio della Cultura, Per una pastorale della cultura, Torino 1999, 3-22 (§§ 1-6); cfr G. WEIGEL, Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, protagonista del secolo (titolo originale, Witness to Hope, 1999), Milano 1999, specialmente 1068-1073. 9 Si veda almeno A. DE VOGÜÉ, Les mentions des œuvres de Cassien chez Saint Benoît et ses contemporains, in Studia monastica 20 (1978) 275-285, ora in ID., De Saint Pachôme à Jean Cassien. Études littéraires et doctrinales sur le monachisme égyptien à ses débuts, Roma 1996, 345-357. 10 Lo segnala, considerandone la fortuna durante il medioevo, C. LEONARDI, Alle origini della cristianità medievale. Giovanni Cassiano e Salviano di Marsiglia, in Studi medievali 18 (1977) 1057-1174: 1108-1109. 11 Sul ricorso al pensiero di Cassiano da parte di s. Domenico, si veda Legenda Sancti Dominici (ed. H. Scheeben), in Monumenta Ordinis Fratrum Praedicatorum, XVI, Roma 1935, 32-33; cfr L. CANETTI, L’invenzione della memoria. Il culto e l’immagine di Domenico nella storia dei primi frati Predicatori, Spoleto 1996, 190, 206, 456, 460, 467.
Una nuova rilettura dei trattati monastici di Giovanni Cassiano
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Romans, quest’ultimo maestro generale dell’Ordine dal 1254 al 1263) e rileva come sia stato da loro specialmente apprezzato per la valenza formativa12. Tuttavia, molti altri autori domenicani, trascurati da suor Marie-Ancilla, hanno fatto ricorso, sull’esempio del Fondatore, ai testi di Cassiano, per riproporne, nel contesto dei loro scritti, taluni contenuti oppure, più semplicemente, per citarne qualche passo13. Ben si comprende, allora, quanto potrebbe risultare fruttuoso uno studio diacronico della ricezione di Cassiano — anche solamente circoscritto ad una raccolta di menzioni — nella cultura domenicana, dalla fondazione dell’Ordine fino ai nostri giorni. Un ulteriore spunto di riflessione viene, infine, dal tipo di inquadramento dei passi di Cassiano operato da suor Marie-Ancilla, che richiama alcune recenti pubblicazioni di testi dei Padri del deserto14. Tra queste hanno riscosso un cospicuo successo di pubblico, talvolta non direttamente legato al mondo religioso, le raccolte di «fatti e detti»15. Tali opere, fra l’altro, hanno esercitato importanti riflessi anche sulla recente fioritura di testi 12 Scrive l’autrice: «Cassien formait les consciences, et faisait progresser dans la vie spirituelle», 7. Uno dei pregi dell’opera di Cassiano, inoltre, consiste nella varietà degli esiti che ha ispirato: «Son enseignement servit de base à la formation spirituelle de religieux enracinés dans un monachisme qui ne se rattachait pas directement aux Pères du desert», 41. 13 Sulla ricezione dei testi dei Padri del deserto presso i primi autori domenicani cfr A. Boureau, Vitae fratrum, Vitae patrum. L’ordre dominicani et le modale des Pères du désert au XIIIe siècle, in Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge – Temps modernes XCIX (1987) 79-100 e C. DELCORNO, Le “Vitae patrum” nella letteratura religiosa medievale (secc. XIII-XIV), in Lettere Italiane XLIII (1991) 2, 187-207. Per qualche altro riscontro in ambito italiano: sul Cavalca, M. CICCUTO, Tradizione delle opere di Domenico Cavalca. Gli esempi dei trattati morali, in Italianistica, XX (1991) 281-310 e XXIII (1994) 417-454; su fra’ Simone Berti, Z. ZAFARANA, Per la storia religiosa di Firenze nel Quattrocento, in Studi medievali, III serie, 9 (1968) 1017-1113: 1056; sul Savonarola, A. VERDE, La presenza della cultura scolastica nelle opere di fra Girolamo, in Girolamo Savonarola. L’uomo e il frate. Atti del XXV Convegno storico internazionale (Todi, 11-14 ottobre 1998), Spoleto 1999, 1142: 26-27; cfr con quanto riportato in R. ANTONELLI, L’Ordine domenicano e la letteratura nell’Italia pretridentina, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, I, Il letterato e le istituzioni, Torino 1982, 681-728. 14 In Italia si segnalano le collane pubblicate dagli editori «Città Nuova» e «Qiqajon – Comunità di Bose», in Francia quelle delle «Éditions du Cerf». 15 Com’è noto, passi delle opere di Cassiano sono contenuti negli Apophtegmata Patrum, cfr l’apposita voce curata da M. van Esbroeck in Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, diretto da A. Di Berardino, I, Casale Monferrato [AL] 1983, 291-292.
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gnomici che trattano in una prospettiva religiosa e culturale chiaramente sincretistica soprattutto materia sapienziale, mistica e morale. La fortuna di un autore come Kahlil Gibran, per indicare solo un noto esempio, è anche dovuta alla trasposizione in un contesto letterario multiculturale di alcuni temi ricorrenti negli scritti dei Padri del deserto16. L’autrice, in vero, ristrutturando tematicamente l’opera di Cassiano la predispone anche per una fruizione meditativa. Le varie parti del libro sono cioè pensate per la sensibilità del lettore moderno, come si ribadisce nella pagina finale: «Dans un monde où la technique, le faire, ont occulté le chemin de l’interiorité, Cassien permet de retrouver le chemin du cœur, pour y mener un combat qui conduit à la rencontre de Dieu. [...] Pour lui comme pour les Pères de l’Église, théologie, morale, spiritualité, ne sont pas dissociées. La morale est donc intégrée dans une expérience globale de la vie chrétienne (p. 140)».
In particolare, l’autrice, soffermandosi soprattutto sulla dissociazione fra vita interiore e comportamenti esterni, riespone alcune considerazioni di Cassiano sull’unità della vita cristiana — problema intensamente avvertito nella mentalità e nella cultura moderne — secondo una prospettiva che, com’è ovvio, risulta inconsueta all’autore, del cui pensiero in questo modo conferma il valore non contingente17. 16 Cfr R. WATERFIELD, Profeta. Vita di Kahlil Gibran, trad. it., Parma 2000. Un esempio eccentrico, ma comunque significativo, di fruizione culturalmente sincretistica dei testi dei Padri del deserto è dato dall’opera del cantautore Franco Battiato; in merito si veda L. COZZARI, Franco Battiato. Pronipote dei Padri del deserto, Rapallo [GE] 2000. Il riutilizzo di testi religiosi antichi e medievali, con riferimento anche a quelli dei Padri del deserto, nella letteratura francese otto-novecentesca, con attribuzioni di significato diverso da quello originario, è stato studiato in B. DUNN LARDEAU, Le saint fictif. L’hagiographie médiévale dans la littérature contemporaine, Paris 1999, lavoro importante poiché predispone ad ulteriori ricerche. 17 Rimando al paragrafo Perché studiare i Padri contenuto nel documento della Congragazione per l’Educazione cattolica Istruzione sullo studio dei Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale, in G. BOSIO, E. DAL COVOLO, M. MARITANO, Introduzione ai Padri della Chiesa, I, Secoli I e II, Torino 19952, 13-26, soprattutto 18-20, ove si individua, fra l’altro, nei testi dei Padri un esempio di inculturazione della fede cristiana che il tempo ha dimostrato fecondo, cfr Gaudium et spes § 44.
Presentazione Synaxis XXI/1 (2003) 189-193
M. TORCIVIA, Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Prefazione di E. Bianchi, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2001, pp. 414.
Nei momenti più significati della sua storia, la Chiesa ha sempre conosciuto al suo interno il fiorire di varie forme di vita monastica, caratterizzate dalla vita anacoretica o dalla vita cenobitica o da forme “miste” che mantengono in tensione feconda la vita eremitica e la vita cenobitica. Anche la Chiesa del nostro tempo, a partire dal Concilio Vaticano II fino ai nostri giorni, ha conosciuto la nascita e il fiorire di numerose nuove comunità monastiche. Il volume di M. Torcivia, docente di teologia spirituale allo Studio Teologico S. Paolo di Catania, in maniera puntuale e documentata ci rende noto di questa ricca fioritura avvenuta nel contesto della chiesa italiana. L’opera, frutto della tesi di Dottorato in Teologia Spirituale conseguito alla Pontificia Università Gregoriana, si suddivide in sei capitoli; alcuni più ampi e articolati, altri più brevi e schematici, a seconda degli influssi che queste nuove comunità hanno avuto nel suscitarne altre sintonizzate sulla stessa tipologia o accomunate dallo stesso spirito o da qualche aspetto dello stile di vita. In cinque capitoli l’A. presenta in maniera approfondita e documentata diciotto nuove comunità, conosciute da lui direttamente per aver sostato alcuni giorni presso di loro, per aver studiato le regole e gli scritti dei loro fondatori e l’ampia bibliografia che li riguarda. Nell’ultimo capitolo, il sesto, si fa cenno su altre nuove comunità, sedici in tutto, le quali non vengono prese in esame a motivo delle seguenti caratteristiche che l’A. elenca schematicamente: «a) accentuazione eremitca; b) assenza di vita comune; c) taglio contemplativo/mariano; d) somiglianza ad istituti secolari; e) non presenza di terminologia monastica
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nella regola; f) mancanza di approvazioni ufficiali di regole e costituzioni; g) giovanissima età» (p. 343). Con l’espressione Nuove Comunità l’A. intende innanzitutto quelle comunità «nate già tali e non come evoluzioni di gruppi e movimenti ecclesiali già esistenti» (p. 13). Inoltre, intende — ed è la motivazione fondamentale — quelle comunità «accomunate tutte dalla precisa scelta di non appartenere all’Ordo monasticus tradizionale, pur ispirandosi e mutuandone i tratti caratterisici e distintivi, per la realizzazione di un monachesimo nella Chiesa locale, senza alcuna esenzione canonica dall’autorità episcopale» (l. c.). Le diciotto Nuove Comunità prese in esame vengono classificate in cinque categorie: le comunità che adottano la Regola di Bose, quelle che si ispirano al carisma di don Giuseppe Dossetti, quelle fondate da don Divo Barsotti, le fraternità, ovvero comunità «composte da pochi elementi e caratterizzat da uno stile di vita oltremodo semplice» (p. 236), infine le comunità che seguono la Regola di S. Benedetto. La classificazione in cinque categorie corrisponde ai cinque capitoli che costituiscono l’impianto principale del volume. Diamo una sintesi. Nel primo capitolo (pp. 19-106) l’A. presenta in maniera ampia e articolata la Comunità Monastica di Bose, iniziata da Enzo Bianchi l’8 dicembre 1965 — data in cui si chiudeva il Concilio Vaticano II — a Magnano, una località del biellese. Le pagine ripercorrono l’evoluzione storica della comunità (formata da uomini e donne), ne evidenziano l’identità carismatica e la tipologia monastica, offrono una sintesi della riflessione sul monachesimo maturata in questi anni da E. Bianchi. Chiude il capitolo la descrizione della Comunità di Cumiana (TO), piccola comunità di donne, fraternamente legata a Bose, della quale segue la Regola e ne condivide il cammino spirituale. Il secondo capitolo, anch’esso ampio e articolato (pp. 107-210) — presenta la Piccola Famiglia dell’Annunziata (meglio conosciuta come “Comunità di Monteveglio”), fondata da don Giuseppe Dossetti a Bologna il giorno dell’Epifania del 1956. Seguendo lo schema del capitolo precedente, l’A. traccia l’evoluzione storica della comunità fino alla morte di Dossetti (15 dicembre 1996), ne mette in risalto l’identità carismatica, lo stile di vita e la tipologia monastica, e accompagna il lettore nella concezione dossettiana del monachesimo. Al carisma di Dossetti si sono
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ispirate altre comunità: la Piccola Famiglia della Risurrezione, le Famiglie della Visitazione, la Piccola Famiglia dell’Assunta, la Piccola Famiglia della Resurrezione. Di ognuna si descrive il tipo di legame con Dossetti, l’identità carismatica e lo stile di vita. Il terzo capitolo (pp. 211-236) presenta la Comunità dei Figli di Dio, fondata a Firenze da don Divo Barsotti nel settembre del 1947. Viene tratteggiato lo sviuppo storico della comunità, l’identità carismatica, il carattere monastico, lo stile di vita; in particolare viene descritto il cosiddetto “IV Ramo/Vita Comune”, che costituisce la forma vitae monastica vera e propria della comunità (la Comunità dei Figli di Dio, infatti, è riconosciuta come associazione pubblica di fedeli, uomini e donne). Il quarto capitolo (pp. 237-289) è dedicato alle fraternità, ovvero alle piccole comunità monastiche, caratterizzate da una vita molto semplice e sobria. L’A. ne descrive sei, fondate tra il 1970 e il 1990: i Fratelli Contemplativi di Gesù in diocesi di Alessandria, la Fraternità Monstica “S. Maria delle Grazie” in Rossano Calabro (CS), la Fraternità Monastica di Montecroce in San Valeriano di Cumiana (TO), la Fraternità di Nazareth in Bairo (TO), la Fraternità di San Lorenzo in Località Pomaio (AR), la Fraternità Monastica Apostolica in Torino. Il quinto capitolo (pp. 291-340) analizza lo stile di vita di quelle nuove comunità che vivono secondo la Regola di S. Benedetto. Sono comunità formate «da monaci staccatisi da comunità tradizionali o, nel caso di una, aggregata ad una congregazione monastica tradizionale, perché fondata da un presbitero diocesano oblato camaldolese» (p. 291). L’A. descrive quattro comunità fondate tra il 1971 e il 1997: la Comunità Monastica Benedettina dei SS. Pietro e Paolo in Buccinasco (MI), la Comunità Monastica SS. Trinità in Vertemate con Minoprio (CO), la Comunità Monastica Camaldolese “S. Maria in Colle” in Montebelluna (TV), la Comunità Monastica di Siloe in Sasso D’Ombrone-Cinigiano (GR). Del sesto e ultimo capitolo (pp. 341-349), che riguarda altre nuove comunità non prese in esame dall’A., abbiamo già riferito all’inizio. Qui non rimane che citarle semplicemente: la Tenda del Magnificat, la Fraternità Monastica di Emmaus, le Piccole Sorelle di Maria Madre della Chiesa, la Comunità mariana “Oasi della Pace”, la Fraternità Monastica Missionaria, la Fraternità di Gesù, l’Abbazia Nostra Signora della Trinità, la Fraternità Monastica della Trinità, la Comunità Monastica di Pulsano,
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il Monastero della Risurrezione, la Comunità dei discepoli del Signore, la Fraternità benedettina santa Maria dell’Annunciazione, la Comunità Brasiliana, la Comunità di via Sambuco, “Monaci ambrosiani”. Il volume, già corredato all’interno di schede informative (anche siti internet) su ogni singola comunità, viene arricchito ulteriormente alla fine con sei Appendici (pp. 355-366) che riguardano la localizzazione geografica della comunità, la catalogazione attinente la configurazione canonica, il genere (miste, maschili, femminili), l’anno di fondazione, la tipologia dei fondatori (laici, presbiteri diocesani, religiosi/e), una tabella riassuntiva dei dati cronologici e onomastici essenziali, l’elenco completo degli indirizzi e dei numeri telefonici. Chiude il volume un’ampia e ricca bibliografia (pp. 367-410) su ogni singola comunità: strumento bibliografico indispensabile per chi vuole conoscere le fonti e procedere ad ulteriori approfondimenti e ricerche. Il volume porta il titolo Guida alle nuove comunità monastiche italiane. Certo, formalmente è impostato come una “guida” finalizzata a far accostare più da vicino e a far conoscere il vissuto spirituale di queste comunità, magari accendendo nel lettore il desiderio di visitarle (a questo sono anche finalizzate le varie informazioni) per una esperienza più diretta, così come l’ha vissuta lo stesso A. Ma noi vorremmo leggerlo come se fosse molto di più di una semplice “guida”. Esso — questa mi sembra l’intenzione primaria dell’A. — è una piccola teologia narrativa del rinnovamento post-conciliare del carisma monastico in ambito italiano. Infatti, attraverso la “narrazione” dello stile di vita delle comunità — ora ripercorrendo l’evoluzione storica, ora attingendo dalle fonti scritte, ora facendo parlare i fondatori e qualche fratello o sorella — veniamo a conoscere i valori costanti che le attraversano tutte: il primato della Parola di Dio e dell’Eucaristia, la vita comune più fraterna, lo studio, il lavoro, la povertà e sobrietà di vita, la laicità della vita monastica, la piena appartenenza alla Chiesa locale senza esenzioni, l’inserimento nel territorio, il ministero della Parola e dell’ospitalità, la fatica della rilettura delle fonti monastiche, l’obbedienza alla storia. Sono valori che mostrano la vocazione profetica della vita consacrata, chiamata ad offrirsi come luogo dell’esperienza di Dio, dopo aver rinunciato, senza nostalgie e tristezza, ad ogni prospettiva funzionalistica e utilitaristica. Con l’esortazione apostolica Vita Consecrata Giovanni Paolo II ha rilanciato tale
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visione teologale: «Nella vita di comunità — egli scrive — […] deve farsi in qualche modo tangibile che la comunione fraterna, prima d’essere strumento per una determinata missione, è spazio teologale, in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore Risorto (cfr Mt 18,20). […] Al di là delle superficiali valutazioni di funzionalità, la vita consacrata è importante proprio nel suo essere sovrabbondanza di gratuità e di amore, e ciò tanto più in un mondo che rischia di essere soffocato nel vortice dell’effimero» (nn. 42 e 105). Anche la missione viene qualificata in modo “peculiare e proprio” dalla vita fraterna, superando così una certa visione individualistica; scrive ancora il Papa: «La vita religiosa, inoltre, partecipa alla missione di Cristo con un altro elemento peculiare e proprio: la vita fraterna in comunità per la missione. La vita religiosa sarà perciò tanto più apostolica quanto più intima ne sarà la dedizione al Signore Gesù, più fraterna la forma comunitaria di esistenza, più ardente il coinvolgimento nella missione specifica dell’Istituto» (n. 72). Dal volume del Torcivia ci saremmo aspettati anche una valutazione finale sulle nuove comunità monastiche, come pure una lettura critica su alcune posizioni teologico-spirituali e di prassi monastica che oggi andrebbero sicuramente abbandonate dopo il vento rinnovatore del Concilio e dopo talune acquisizioni teologiche fondamentali maturate nel postconcilio: mi riferisco ad un certo clericalismo di ritorno, a certe forme di autoritarismo e di onnipresenzialismo, a certi “archeologismi” teologici sulla superiorità del celibato e sul cambio del nome di battesimo, ad una maldestra e a volte riduttiva teologia del carisma del fondatore, ecc. presenti in alcune di queste nuove comunità e che evidenti affiorano dalla descrizione fenomenologica del presente studio. L’aver pensato il volume (forse da parte dell’editore?) semplicemente come una “guida fruibile” per gli utenti, ha dispensato l’A. dal proporre una valutazione critica globale, che invece ha puntualmente pubblicato in alcune riviste, a cui rimanda in note a piè di pagina. Queste nostre osservazioni, comunque, non scalfiscono la validità dell’opera di M. Torcivia, che anzi — va detto con chiarezza e a merito dell’A. — si attesta come unica nel suo genere nel panorama editoriale italiano. Egidio Palumbo
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M. PAVONE E M. TORRINI (edd.), G.B. Hodierna e il «secolo cristallino». Atti del convegno di Ragusa 22-24 ottobre 1997, Leo S. Olschki, Firenze 2002.
Il volume, che presentiamo, raccoglie gli atti di un convegno tenuto a Ragusa in occasione del IV centenario della nascita di G.B. Hodierna (1597-1660), arciprete di Palma (Agrigento) e scienziato di notevole statura. Le relazioni mettono in luce il valore dell’uomo di scienza e danno indicazioni preziose per vedere la sua collocazione nelle coordinate della ricerca scientifica della sua epoca. Per rendersene conto, basta fermarsi per un momento a considerarne i titoli: G. Giarrizzo, Nuovi orientamenti della storiografia sul Seicento in Sicilia; C. Dollo, Il pensiero di G.B. Hodierna nella storia della scienza e della cultura siciliana; A. Ottaviani, Hodierna e l’ambiente scientifico messinese; S. Serrapica, G.B. Hodierna e la cultura scientifica napoletana del XVII secolo; D. Sabbino, J. Caramuel Lobrowitz, enciclopedista, scienziato e corrispondente di G.B. Hodierna; F. D’Orsi Meli, La società palmese all’epoca di G.B. Hodierna; O. Trabucco, Ricerca anatomica e Repubblica delle lettere: i rapporti tra G.B. Hodierna e M.A. Severino; M. Torrini, La scuola galileiana e G. B. Hodierna; M. Pavone, Fisica, astronomia e astrologia in G.B. Hodierna. G.B. Hodierna fu uomo di scienza ed uomo di chiesa. La sua vita e la sua opera furono feconde in entrambi i campi. Nonostante la perifericità geografica della Sicilia e della cittadina di Palma, ebbe rapporti culturali con notevoli figure di scienziati del suo tempo, che aveva conosciuto nel corso dei suoi viaggi a Roma, a Napoli ed a Messina, o che contattava anche solo mediante rapporti epistolari. Tra questi illustri cultori di astronomia, chimica, zoologia, botanica, anatomia, medicina, ecc…, ricordiamo J. Karamuel, A. Rondinini, G. Fabris, P. Castelli, T. Aldini, E. Corvini, M.A.
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Severino, ed esponenti di spicco dell’accademia dei Lincei e della scuola galileiana. Con queste illustri personalità il nostro arciprete ebbe uno scambio significativo di conoscenze e di stimoli. La fine di G. B Hodierna fu tragica, anche se non si è in possesso di elementi sufficienti per adottare la tesi del suicidio piuttosto che quella dell’omicidio e l’altra tesi inquietante dell’implicazione della Santa Inquisizione in una fine in ogni caso tragica e violenta. L’opera di G.B. Hodierna è quella di un indagatore della natura, un indagatore intelligente, curioso ed insaziabile. I suoi scritti di contenuto scientifico sono numerosi e le sue indagini applicate nei vari campi scientifici di competenza sono innumerevoli. In qualche settore ha operato da vero pioniere. Il suo fondamentale campo d’impegno è la ricerca ottica, che diventa anche il suo punto di osservazione privilegiato. Da tale punto di osservazione, egli studia sia il macrocosmo dell’astronomia che il microcosmo dell’anatomia umana ed animale. Lo strumento principale della sua ricerca è il cannocchiale. La predilezione per tale strumento rivela in modo sempre più chiaro una peculiarità metodologica del nostro scienziato, e cioè la prevalenza dell’interesse per l’indagine empirica rispetto all’interesse per l’impegno teorico. Lo studio dell’astronomia, che porta G.B. Hodierna da posizioni filoaristoteliche a posizioni sempre più moderne, è caratterizzato da alcune tesi. Una, acquisita già in età giovanile e proposta nel Nunzio del Secolo cristallino, riguarda le stelle che si trovano nella volta del cielo: oltre le stelle visibili, ve ne sono molte altre invisibili. Una seconda tesi, precisata in età più matura ed in sintonia con Galilei nel trattato della Sfera, concerne i vari centri gravitazionali che interessano i movimenti degli astri, dei pianeti e dei satelliti. All’interno di tali movimenti la terra, come tutti gli altri corpi celesti, è sospesa nella profondità di una sostanza fluida e molto più “delicata” dell’aria. In campo astronomico lo scienziato di Palma si occupa di questioni particolari come le macchie lunari, le macchie solari, le macchie di altri corpi celesti e lo scintillio delle stelle. G.B. Hodierna rimane fedele al suo strumento di ricerca principale e prediletto, e cioè al cannocchiale, e, trasferendo la sua attenzione dal cielo alla terra, sposta anche la direzione di tale fondamentale strumento verso la terra: osserva anche il microcosmo con l’ausilio dello specchio e della lente. È così che si occupa della natura e della classificazione dei colori, della “bianchezza” e della “nerezza”, della diafanità e della opacità, del carattere
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soggettivo ed oggettivo dei colori; fa studi approfonditi sull’iride, sull’occhio della mosca e sul dente della vipera. In fisica il prete-scienziato segue la teoria corpuscolare. A G.B. Hodierna non sono estranei gli interessi per l’astrologia e, quindi, per gli influssi delle confluenze e delle rivoluzioni dei pianeti. In conseguenza di questo fatto, talora si dedica per motivi di cortesia alla composizione di calendari astrologici. Ciò, però, non toglie che egli sia convinto che l’astrologia sia inferiore alla scienza e sia, comunque, subordinata all’astronomia. G.B. Hodierna ci offre dei contributi anche in campo filosofico, come in quella sua certa visione utopica del cosmo, legata certamente all’uso metodico del cannocchiale ed alla costante e lunga osservazione del cielo ma anche ad aspettative di tipo più che strettamente scientifico: il sistema del mondo è volto verso un tempo più felice, quello dei posteri, in cui sarà svelato agli uomini il “verissimo sistema del mondo”; si tratta del secolo cristallino, di cui il prete-scienziato si sente il “nunzio”. Le relazioni del convegno di Ragusa, raccolte nel volume in esame, se, per un verso, ci propongono dati più che sufficienti per conoscere lo scienziato Hodierna ed il suo tempo, per un altro verso, non prestano alcuna attenzione, e non si può non notarlo, all’uomo di chiesa ed al pastore di anime. Certo, il tema generale del convegno, G.B. Hodierna e il «secolo cristallino», concerne la ricerca scientifica dello Hodierna ed implica in modo abbastanza esplicito la prospettiva utopica che vi è implicata, ma sarebbe stato interessante vedere emergere da una tale prospettiva anche la componente religioso-teologica. Il volume in esame s’inserisce nel contesto della riscoperta del pensiero di G.B. Hodierna e dà ad essa un contributo importante. L’esito è che lo scienziato di Palma risulta notevole non soltanto per i suoi contributi a vari settori della scienza, ma anche per il significato che la sua opera, nel suo complesso, assume per la sua terra. Sicché, il volume è importante non soltanto sul fronte della conoscenza del pensiero hodierniano, ma anche perché dà un apporto notevole al superamento di un tradizionale pregiudizio concernente la cultura siciliana: si tratterebbe di una “landa deserta” e di un “contenitore vuoto”, in cui varie forme di sapere filosofico, scientifico, morale, teologico, ecc., provenienti dall’esterno, sarebbero penetrate ed avrebbero trovato accoglienza; la rielaborazione, inevitabile, non avrebbe
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prodotto che “sistemi ripetitivi”. Il volume costituisce appena un frammento, in quanto si occupa soltanto della scienza siciliana del secolo XVII, ma evitando i limiti di altri autori che si sono occupati della cultura siciliana del medesimo secolo, quali l’enfasi retorica di A. Mongitore, uno storico erudito del secolo XVIII, e l’attenzione esclusiva alla filosofia di V. Di Giovanni, storico della filosofia vissuto a nella seconda metà del secolo XIX, contribuisce ad arricchire, ed in modo vigoroso, la conoscenza della cultura siciliana. Si tratta appena di un’altra tessera situata in un mosaico ancora quasi informe, ma concorre alla formazione dell’idea che la Sicilia sia, anche nel settore della scienza, ben altro che il “regno del silenzio”. Francesco Conigliaro
A. ARGIROFFI, Identità personale giustizia ed effettività. Martin Heidegger e Paul Ricoeur, G. Giappichelli Ed., Torino 2002.
Il volume di A. Argiroffi, che presentiamo, mette in tensione due prospettive ermeneutiche, quella heideggeriana e quella ricoeriana, universalmente ritenute determinanti nel corso del secolo XX. L’opera, che è guidata da istanze esegetiche e critiche ed anche teoretiche, tenta di penetrare nelle due ermeneutiche sviluppando, in dialogo con esse ed a partire da esse, tematiche filosofiche, etiche, giuridiche, politiche e teologiche, che non possono non attirare l’attenzione dei cultori delle discipline interessate. Ci sembra che l’Autore riesca felicemente nel suo intento, dimostrando non solo una fine capacità di lettura e di interpretazione ma anche la più ampia conoscenza dei testi degli autori studiati. Le tematiche fondamentali sono certamente quelle filosofiche. Nel campo filosofico si trova in primo piano il problema dell’identità personale, che non è un fatto compiuto né per M. Heidegger né per P. Ricoeur. In Ricoeur l’identità-idem e l’identità-ipse, pur rapportandosi entrambe alla temporalità, entrano in tensione per la ragione che, mentre la prima descrive il che cosa? del chi?, e cioè il tessuto permanente che consente di
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identificare una persona, la seconda forma di identità è totalmente concentrata sul chi?, che è più una promessa che un dato di fatto ed esprime la responsabilità nei confronti dell’altro, che è talmente intimo al sé da indicare l’alterità nel cuore del medesimo, ma un’alterità che è come l’aspettativa che l’ipse custodisce in sé e che lo mette in cammino verso una sorpresa. L’ermeneutica del sé pone P. Ricoeur ad uguale distanza da R. Cartesio, che nel cogito pone il punto di partenza della sua riflessione, e da F. Nietzsche, che lo pone, invece, nell’anti-cogito. Questa via intermedia, che il filosofo francese chiama attestazione, salvaguarda la questione del chi? sia dalla fallacia dell’enfasi retorica, e difatti la pone sempre sotto la spada di Damocle del sospetto, sia dai rischi della rivincita della questione del che cosa?, pressata dal pregiudizio dell’anti-cogito. Il Ricoeur, nella riflessione sviluppata per rispondere alla fondamentale domanda sul chi?, fa riferimento ad Heidegger, ma le due ermeneutiche, ancorché abbiano molti punti di contatto, non sembrano trattare il chi? all’interno dello stesso orizzonte problematico. Il percorso del confronto tra le ermeneutiche dei due pensatori viene precisato dal Ricoeur, il quale è seguito in ciò da A. Argiroffi con l’analisi della Herméneutique du soi di P. Ricoeur e dell’Hermeneutik der Faktizität di M. Heidegger. Argiroffi annota tutta una serie di differenze tra le due ermeneutiche e dice che la differenza fondamentale è una contrapposizione di prospettive: quella ricoeuriana intende l’esistenza come compito, mentre quella heideggeriana la intende come compimento. Intendere l’esistenza come compito significa che il sé si sente convocato e chiamato a dare una risposta. Questa non può essere data che lungo una linea tensionale e, dunque, è essa stessa compito. Intendere l’esistenza come compimento è assolutizzare la convocazione ed escludere completamente la risposta e, quindi, il compito. Le tematiche filosofiche, e ci siamo limiti a recare all’evidenza quella che ci sembra più rilevante, sono quelle portanti in quanto tutte le altre non fanno che aprire ambiti particolari all’interno dei quali i temi filosofici, e segnatamente quello dell’identità, hanno la possibilità di esprimere la loro fecondità e di mostrare la loro effettività. Le varie tematiche, etiche, giuridiche e politiche si trovano intrecciate insieme, e si mostrano come livelli diversi o come campi applicativi di un unico discorso. L’ipseità, secondo P. Ricoeur, si dispiega, in prospettiva teleologica,
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come stima di sé e, in prospettiva deontologica, come rispetto di sé. Ma teleologia e deontologia non esauriscono la riflessione ricoeuriana sul problema morale, in quanto costituiscono solo la preparazione al confronto con ciò che viene chiamato il “tragico dell’azione”. Si tratta di questo: il sé incontra l’altro come una reduplicazione di sé nello spazio pubblico. L’etica, la “piccola etica” ricoeuriana, impegna l’ipseità in prospettiva eticoteleologica nel senso di un impegno razionale ad “una vita buona con e per l’altro all’interno di istituzioni giuste” (116). Ma l’etica teleologica non basta in quanto la realtà del male provoca il transito alla morale deontologica, nel senso dell’imperativo che prescrive di non volere ciò che non dovrebbe essere. L’effettività concreta dell’agire umano normato dall’imperativo si ha in campo politico, giuridico ed etico-morale. Il sé incontra l’altro nello spazio pubblico e lo riconosce degno di stima per le sue capacità. A questo punto si fa una scoperta: la stima dell’altro come se stesso e di se stesso come un altro si equivalgono. È Una convinzione del Ricoeur, ma A. Argiroffi ci tiene a sottolinearla (120). Non appena è chiaro che l’aspirazione ad una vita buona con e per l’altro può essere attuata solo “all’interno di istituzioni giuste”, si verifica il transito dal livello antropologico del discorso a quello istituzionale, in cui le istituzioni sono giuste se sono caratterizzate dalla giustizia distributiva e dall’uguaglianza. Se questo accade, allora il vivere insieme è qualificato dal primato dell’etica. Tutto questo implica, come afferma H. Arendt e come il Ricoeur ripete, l’esercizio del potere-in-comune. La politica è, secondo il Ricoeur, l’insieme delle regole e delle pratiche volte a distribuire equamente il potere politico. Approfondendo la tensione (rapporto e contrapposizione) che intercorre tra la prospettiva ricoeuriana, che è volta alla giustizia, e la prospettiva heideggeriana, che è volta all’effettività, A. Argiroffi cerca di chiarire le somiglianze e le differenze che intercorrono tra la teleologia dell’azione ed il senso dell’agire. Le differenze si notano subito, in quanto la teleologia dell’azione implica l’ipseità come compito sorretto dalla convinzione ed il senso dell’agire implica il portare a compimento. A. Argiroffi perviene al convincimento che la prospettiva teleologica e la prospettiva del senso dell’agire siano incompatibili, e proprio per la ragione che la prospettiva heideggeriana del senso dell’agire è ateleologica. Per recuperare una misura terrena dell’agire, rimanendo vicini alla
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prospettiva heideggeriana, A. Argiroffi si accosta alla posizione di W. Marx, il quale con la sua etica non-metafisica conduce la sua riflessione con ed oltre Heidegger. Lo scopo dell’etica non-metafisica è dare origine al vivere insieme in modo autentico (Miteinandersein, Mitmenschen), ma ad un livello totalmente laico. La base è data dall’esperienza generale dell’autenticità dell’essere mortali. Una tale esperienza consente agli uomini di cogliere la verità del loro essere, li fa vivere in solidarietà, dà loro la capacità di distinguere tra bene e male e fa cogliere nella loro realtà il bisogno del dono della salvezza. Dalla sympatheia e dalla capacità di con-dividere sgorgano la giustizia e l’amore del prossimo. L’etica della solidarietà non si ferma alle relazioni interpersonali, ma traccia le linee di una vera e propria etica sociale, ovviamente anch’essa non metafisica, volta alla realizzazione di forme sociali di giustizia e di sympatheia. La forma di stato che ne deriva è quello che consente uno spazio pubblico libero, in cui ogni singolo è persona di diritto e lo stato è stato di diritto. Chi è il soggetto del diritto? Nel dare la risposta, A. Argiroffi fa un transito, insieme a P. Ricoeur (Le Juste), dalla struttura dialogica a quella istituzionale del soggetto di diritto, in cui si ha lo statuto specifico del giuridico. Ciò accade perché si istituisce una relazione con il terzo, che diviene ciascuno e, in quanto tale, è soggetto reale del diritto. Il terzo è necessario, secondo il Ricoeur, per passare dalla capacità alla effettuazione. Nel terzo si raccolgono le linee delle mediazioni istituzionali che consentono il fenomeno politico del vivere insieme. Gli ambiti giuridico ed etico hanno la loro effettività in tali coordinate, e ce l’hanno sul fronte della responsabilità, purché un tale concetto sia fatto transitare dall’uso legato all’obbligo di riparare il danno da noi fatto a quello molto più ampio di responsabilità non solo delle proprie azioni ma anche degli altri che dipendono in qualche modo da noi. La responsabilità si estende tanto quanto i nostri poteri sono in grado di incidere secondo le due dimensioni dello spazio e del tempo. Ma la giustizia è sufficiente? Ancora una volta A. Argiroffi procede insieme A P. Ricoeur. Questi nello scritto Liebe und Gerechtigkeit/Amour et Justice studia la dialettica tra amore e giustizia, tra la dialettica a sintesi differita tra due logiche diverse, la logica della sovrabbondanza e quella dell’equivalenza. Amore e giustizia sono due sistemi, e trovare una mediazione tra essi è una fatica ardua. Nel Nuovo Testamento si trova
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l’amore nella forma imperativa del comandamento, ma si tratta di una forma che non ha niente a che fare con l’imperativo kantiano, in quanto in esso l’amore è oggetto e, nel contempo, soggetto. Ciò significa che nel Nuovo Testamento l’imperativo è usato poeticamente. Quanto alla giustizia, essa è caratterizzata dal formalismo, che consiste sia nella pratica giudiziaria che nella giustizia distributiva. Il tentativo di trovare la mediazione detta è arduo ma non disperato. Può essere trovata nell’azione, se è vero che amore e giustizia, anche se in modo diverso, tendono allo stesso scopo. La regola aurea è sorretta dalla logica dell’equivalenza e non della sovrabbondanza. Il comandamento dell’amore per i nemici, invece, è nella logica della sovrabbondanza e del dono, sicché è etico ed anche sovra-etico. Senza il correttivo del comandamento dell’amore, la regola aurea potrebbe essere interpretata come una massima utilitaristica. Il correttivo del comandamento dell’amore può consentire una interpretazione disinteressata della regola aurea. Due logiche eterogenee possono essere avvicinate in virtù della “dialettica a sintesi differita”. A. Argiroffi mette a confronto, sul tema del rapporto tra giustizia ed amore, P. Ricoeur con N. Hartmann. Quest’ultimo se ne occupa nella seconda parte dell’opera Etica e, a differenza del Ricoeur, tratta separatamente giustizia ed amore e non ha alcuna intenzione di metterli in tensione. La giustizia è un valore di mezzo per altri valori e, in quanto tale, costituisce il minimo di moralità. La giustizia, ricercando l’uguaglianza ed il bene, dà vita ad una forma di solidarietà, che consente di ridurre la distinzione tra legalità e moralità. La solidarietà è il momento primario della dimensione etica del singolo e dei popoli e consegue un livello superiore nella corresponsabilità. Nella corresponsabilità c’è l’amore del prossimo, che è superiore alla solidarietà della giustizia. La giustizia ricerca la simmetria, l’amore, invece, ricerca il prossimo, realizzando anche forme di asimmetria. L’amore abbraccia la giustizia, ma la supera, anche perché orienta l’uomo in ogni direzione. P. Ricoeur va oltre sia la dicotomia che la confusione tra amore e giustizia e sceglie la via della tensione tra di essi, una tensione volta a risolversi, ma mediante la logica della sovrabbondanza. L’economia del dono, che regola la logica della sovrabbondanza, dà il vero equilibrio alla vita umana. Questo equlibrio è un compito, ed in esso si manifesta la struttura ontologico-assiologica dell’ipseità ricoeuriana. Per Ricoeur, a differenza che per N. Hartmann, c’è sinergia tra amore e
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giustizia. A. Argiroffi ritiene che non sia speculativamente conveniente considerare una proposta più obiettiva di un’altra. La proposta si inscrive nella prospettiva assunta. Se si assume, ad esempio, la prospettiva ebraica, giustizia ed amore, soprattutto l’amore per i nemici, sono come due vasi non comunicanti; se, invece, si assume la prospettiva cristiana, e precisamente quella luterana, allora giustizia ed amore possono operare in sinergia. Il teologo può essere interessato alla lettura del libro di A. Argiroffi per diverse ragioni: per la tensione escatologica che si viene a porre nella ricerca del senso della ipseità dell’uomo; per la dimensione kairotica della temporalità; per la parousía intesa non tanto come attesa di un evento futuro, ma come compimento dell’esistenza; per il rapporto tra temporalità ed eternità; per il ruolo esercitato dalla agostiniana fruitio Dei nella concezione del Brauch heidegeriano; per la concezione del male in Ricoeur ed in Heidegger; per la giustizia heideggeriana legata alla concezione luterana, almeno secondo l’intepretazione classica, della giustizia aliena; per il rapporto tra regola aurea e amore del prossimo in P. Ricoeur ed in N. Hartmann. Francesco Conigliaro
Synaxis XXI/1 (2003) 205-206
RICORDANDO IL PROF. MONS. VINCENZO MIGLIORISI
Quasi all'inizio del nuovo anno accademico, il 22 settembre, è giunta notizia della improvvisa morte di mons. Vincenzo Mígliorísi, professore emerito del nostro Studio Teologico. La morte, avvenuta in seguito ad ictus cerebrale, ha lasciato sorpresi e attoniti sia la diocesi di Siracusa che lo Studio Teologico, perché niente faceva presagire una così rapida ed imprevista fme. Nato a Ragusa il 2/6/1928, ordinato presbitero il 29/6/1951, ha vissuto il suo presbiterato sempre nella diocesi di Siracusa, in cui aveva deciso di rimanere anche dopo la costituzione della diocesi di Ragusa. Lo Studio S. Paolo è una istituzione “interdiocesana”, voluta e creata dalle diocesi della Sicilia sud-orientale; è una istituzione “viva”, perché le basi oggettive poste fin dall’inizio sono state messe con cura e in senso dinamico; il tutto lo si deve ovviamente alle Chiese e alle persone che ne sono state protagoniste: Siracusa ha dato un apporto determinante oltre che tramite l’arcivescovo Giuseppe Bonfiglioli anche mediante mons. Vincenzo Migliorisi. Fin dalla ideazione dello Studio S. Paolo Vincenzo Migliorisi ne è stato un convinto sostenitore: innanzitutto perché l’iniziativa era rispondente alle precise indicazioni di gesti di effettiva comunione tra le Chiese locali voluti dal Concilio Vaticano II; poi perché la sua profonda esperienza ecclesiale, anche a livello regionale, lo aveva reso cosciente che le Chiese di Sicilia non avrebbero potuto dare nuove risposte all’uomo d’oggi senza una preparazione più adeguata dei presbiteri: le singole Chiese difficilmente avrebbero avute le risorse sufficienti per elevare la qualità degli studi nei propri seminari. L’apporto del prof. Migliorisi è stato veramente costruttivo: ha messo a servizio dello Studio Teologico S. Paolo la sua intelligenza e la sua esperienza nella non facile fatica di mettere su le varie strutture (piani di studio, statuti…); la sua saggezza è stata determinante negli immancabili
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Salvatore Consoli
momenti difficili che il giovane Studio ha dovuto attraversare. Ha sempre assolto con acume e stile i compiti, spesso delicati, che l’Assemblea o il Consiglio erano soliti affidargli. Mons. Migliorisi è stato sempre disponibile; non ha mai lesinato il tempo che gli è stato richiesto le varie volte che è stato eletto a far parte del Consiglio di Presidenza e delle varie Commissioni di studio: o faceva subito entrare nella sua agenda gli impegni dello Studio S. Paolo o si adoperava a creare degli spazi. Agli inizi diverse riunioni organizzative si sono tenute presso la Casa dello studente prima e presso il Centro Emmaus poi, messi a disposizione da lui; la sua generosità non lo ha fatto mai badare a spese. Le sue amicizie romane hanno affrettato i tempi perché fossero riconosciute le qualità accademiche dello Studio con l’«Affiliazione» alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. Lo stile di Migliorisi è stato veramente disinteressato: non ha messo al centro se stesso ma lo Studio S. Paolo; segno n’è anche il fatto che man mano, con garbo e senza reticenze, si è progressivamente ritirato cedendo ad altri gli insegnamenti. Con la sua presenza sempre serena e rasserenante come pure speranzosa Migliorisi ha gettato dei semi che hanno reso più vivo ed ecclesiale il campo che è lo Studio S. Paolo. Gli alunni lo ricordano, innanzitutto, per la chiarezza nell’esposizione dell’esegesi, per l’atteggiamento veramente rispettoso della loro persona e per la generosità nella valutazione; e poi, per gli insegnamenti di vita con cui animava le lezioni ricavandoli dalla sua forte esperienza cristiana ed ecclesiale. A titolo personale lo ringrazio di cuore per il sostegno saggio e fraterno che sempre mi ha dato, anche quand’ero giovane preside. Tra le opere che costellano l’attività di mons. Migliorisi ritengo che si debba annoverare lo Studio S. Paolo, che unisce la propria voce alle altre per esprimere profonda gratitudine. Salvatore Consoli
Synaxis XXI/1 (2003) 207-208
NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
1. Licenziati in Teologia morale Ha conseguito la Licenza in Teologia morale, il 24 gennaio 2003: SARABIA PUENTES GERMAN DE JESUS, Matrimonio e Famiglia in America Latina alla luce del Concilio Vaticano II (relatore prof. Mario Cascone) 2. Baccellieri in Teologia Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia, il 24 gennaio 2003: BANNÒ DOMENICO, Le tradizioni veterotestamentarie in Fil 2,6-7 (relatore prof. Attilio Gangemi) CIURCA MAURO, Liturgia e pietà popolare tra anamnesi e mimesi. L’espressione di pietà popolare del Triduo Pasquale a Raddusa (relatore prof. Giuseppe Federico) DIERNA ALDA, L’accompagnamento spirituale nell’epistolario della beata Elisabetta della Trinità a Francesca de Sourdon (relatore prof. Alberto Neglia) DI VITA GIORGIO, Il Sal 117 e la sua utilizzazione nella parabola evangelica dei cattivi vignaioli e nel racconto dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme (relatore prof. Attilio Gangemi) LEONARDI FRANCESCO, Don Tonino Bello: innamorato dell’uomo e profeta della pace (relatore prof. Giuseppe Schillaci)
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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo
NIYONKURU GEROGES, “Beati gli operatori di pace” (Mt 5,9). Proposte e impegni per la pace e la non violenza della Chiesa del Burundi, oggi (relatore prof. Salvatore Consoli) PARASILITI CAPRINO CRISTINA, La redazione del capitolo V della “Lumen Gentium” e la spiritualità del Movimento Pro Sanctitate (relatore prof. Gaetano Zito) PUGLISI GIUSEPPE, Per una ricomprensione della famiglia. Alcune linee conciliare e postconciliari (relatore prof. Salvatore Consoli) REINA SALVATORE, La spiritualità della croce in Lucia Mangano (relatore prof. Alberto Neglia)
3. La disputatio In vista del convegno — La Bibbia libro di tutti?, con l’Università di Catania — presso lo Studio Teologico S. Paolo il 20 febbraio 2003 si è tenuto l’atto conclusivo della disputatio sul tema L’ermeneutica biblica. Ha guidato questo momento il prof. J.L. Ska docente di Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico di Roma.
4. Il convegno con l’Università Nei giorni 3 e 4 aprile 2003 si è tenuto presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Catania, il convegno di studi La Bibbia libro di tutti?. Il convegno caratterizzato da un taglio interdisciplinare si inserisce nell’ormai tradizionale collaborazione biennale dello Studio Teologico S. Paolo con l’Università di Catania.
Collane di Synaxis «NUMERI MONOGRAFICI DI SYNAXIS» Synaxis Synaxis Synaxis Synaxis
XIII/1 - 1995: «La fuitina» XIV/1 - 1996: «Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) XV/2 - 1997: «La cultura del clero siciliano» XVI/2 - 1998: «Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» Synaxis XVII/1 - 1999: «Lavoro e tempo libero oggi» Synaxis XVII/2 - 1999: «Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» Synaxis XVIII/2 - 2000: «Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» Synaxis XIX/2 - 2001: «I sinodi diocesani siciliani del ’500»
«QUADERNI DI SYNAXIS» AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito)
AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190
AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427 AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240
«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS» G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288 P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,19-31), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524 G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418 A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Edizioni Arca, Catania 2003, pp. 1032 G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere (in corso di pubblicazione)
Indice Itinerarium, anno 11, n. 23, gennaio - aprile 2003 Editoriale: Perché la filosofia? SEZIONE MONOGRAFICA Cristo Signore Risorto amato e celebrato In memoria del prof. Tommaso Luigi Federici (1927-2002) a cura di Nunzio CONTE Profilo biografico e Bibliografia di Tommaso Federici, a cura di Antonio FALCONE Nunzio CONTE CONTE Nunzio, La “teologia simbolica” e la mistagogia nella visione di Tommaso Federici. Note metodologiche FALCONE Antonio, Il metodo della “lettura Omega” negli scritti biblici, patristici e liturgici e teologici di Tommaso Federici ROMANO Antonino, L’“omelia divina” nell’innovativa riscoperta teologicopastorale di Tommaso Federici LABORATORIO DI BIOETICA Essere credenti e divorziati Contributi al Simposio Ecclesiale di Messina, 5 aprile 2002 a cura di Giovanni RUSSO MARRA Mons. Giovanni, Essere credenti e divorziati. Introduzione FRATTALLONE Raimondo, La Bibbia e l’insegnamento della Chiesa sul divorzio SCUDERI Maria Gabriella, Il legame coniugale frantumato. Dimensioni psicologico–educative ALIQUÒ Pietro, Pastorale dei divorziati risposati. Quali itinerari di fede nella comunità cristiana?
MISCELLANEA PREZIOSI Ernesto, Il confronto tra Chiesa, Aziona Cattolica e Fascismo ZOCCALI Vincenzo, La “Redenzione” nella cristologia post-conciliare DISCUSSIONI AMATO Carmelo, Sul rapporto uomo-animale a partire da alcune considerazioni rosminiane RUTA Giuseppe, L’Istituto Teologico “S. Tommaso” in proiezione, tra quello che è e quello che dovrebbe essere DOCUMENTI “De parvulis ad Christum trahendis” di Jean Gerson (1363-1429), a cura di Luigi LA ROSA Biblioteca Libri pervenuti Collaboratori
Indice Itinerarium, anno 11 (2003) 24, maggio-agosto 2003 Editoriale: La teologia: a che serve? SEZIONE MONOGRAFICA Contardo Ferrini (1859-1902) scienziato, maestro e beato a cura di Giuseppe RUTA METRO Antonino, La personalità scienti-fica di Contardo Ferrini ed il suo insegnamento con particolare riguardo al periodo messinese RUTA Giuseppe, Contardo Ferrini: apertura all’infinito.
Contardo Ferrini (1859-1902). Rassegna bibliografica a cura di Giuseppe RUTA BUCCELLATO Giuseppe, Agiografia, dogmatica e teologia spirituale, secondo l’intuizione di H.U. von Balthasar. Riflessioni e contributi verso una nuova sintesi LABORATORIO DI BIOETICA Clonare l’uomo. Dalla fantasia alla realtà? Atti del Simposio dell’Associazione per l’Ingegneria Genetica “M.G.M. Modaffari”, 14 maggio 2002 a cura di Giovanni RUSSO DALLAPICCOLA Bruno, Sulla clonazione. Riflessioni di un genetista BILLÈ Patrizia, La vita in provetta nel “Mondo nuovo” di Huxley SIGNORINO Guido, La clonazione in borsa. Nota sugli aspetti economici della manipolazione genetica RUSSO Giovanni, Dalla fantasia alla realtà? Riflessioni bioetiche sulla clonazione MISCELLANEA SPADARO Antonio, La letteratura dei giovani alla ricerca di modelli, linguaggi, significati VACCARI Valentina, Joseph Priestley: l’etica della responsabilità individuale DISCUSSIONI CASELLA Francesco, La lettera di Don Bosco da Roma (10 maggio 1884) è ancora valida? Un invito alla lettura e all’approfondimento. SAVAGNONE Giuseppe, Il declino dei “Maestri” nella scuola italiana. DOCUMENTI Una lettera di Don Bosco in due versioni (Roma, 10 maggio 1884), a cura di Giuseppe RUTA In memoriam – Vittorio Lo Paro Biblioteca Libri pervenuti Collaboratori