Synaxis 22 2 (2004) - quaderni 17

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QUADERNI DI SYNAXIS 17 SYNAXIS XXII/2 - 2004

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



LA BIBBIA LIBRO DI TUTTI? Atti del Convegno di studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalle Facoltà di Lettere e Filosofia Lingue e Letterature straniere dell’Università di Catania 3-4 aprile 2003

a cura di Giuseppe Ruggieri


La Bibbia libro di tutti? : atti del Convegno di studi organizzato dallo Studio teologico S. Paolo e dalle Facoltà di lettere e filosofia, lingue e letterature straniere dell’Università di Catania, 3-4 aprile 2003 / a cura di Giuseppe Ruggieri. - Catania : Studio teologico S. Paolo ; Firenze : Giunti, 2004. (Quaderni di Synaxis ; 17) ISBN 88-090-3752-9 1. Bibbia – Congressi – 2003. 2. Congressi – Catania – 2003. I. Ruggieri, Giuseppe. 220 CDD-20 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”


INDICE

PREMESSA . (Giuseppe Ruggieri)

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LA Bibbia, un libro aperto o un libro sigillato?. (Jean-Louis Ska) 1. Documento, monumento, avvenimento 2. Lo specchio, la lampada e la finestra 3. Conclusione . . .

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LEGGERE LA Bibbia . (Roberto Antonelli)

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LA Bibbia libro di tutti? (Giuseppe Ruggieri)

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LA BIBBIA LIBRO ESOTERICO? Il punto di vista dell’Ebraismo (Alberto Somekh) IL corano libro esoterico? (Fuad Kabbazi)

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LA BIBBIA LIBRO ESOTERICO? Il punto di vista del Cattolicesimo . . . . (Antonino Minissale) 1. Spinoza (1632-1677) . . . . 2. Lessing (1729-1781) . . . . 3. Herder (1744-1803) . . . . 4. La “nudità” dell’uomo e della donna secondo Gunkel 5. L’interpretazione psicoanalitica di Eugen Drewermann 6. Una lettura “a sfondo sessuale” di Gen 2-3 . . 7. Conclusione . . . . . LA BIBBIA LIBRO ESOTERICO? Il punto di vista del Protestantesimo (Sergio Rostagno)

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1. Limine . . 2. Promessa e compimento 3. La parte e il tutto .

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L’ESEGESI PATRISTICA Un percorso di lettura . . . . . . (Benedetto Clausi) 1. Bibbia e grammatica: il De schematibus et tropis di Beda 2. Bibbia e semiotica: il De doctrina Christiana di Agostino 3. Bibbia e teologia: il De principiis di Origene . 4. L’esegesi patristica. Un’ideologica astrazione? . ALLEGORISMO E SAPERI PROFANI NELL’esegesi esamerale del XII secolo . (Concetto Martello) 1. L’allegorismo monastico . . 2. Il Didascalicon di Ugo di S. Vittore . 3. L’esegesi dei filosofi . .

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APOCALISSE E UTopia nella lirica espressionista tedesca (Grazia Pulvirenti)

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DIRSI NELL’umiltà della Parola . . (Giuseppe Schillaci) 1. Premessa . . . . 2. L’evento della Parola . . 3. Lo scarto tra il detto e il Dire . 4. La dimensione chenotica: il Dire nel detto 5. L’al di là del versetto . . 6. La testimonianza . . .

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INDICE DEI NOMI

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LETTURA dell’«Inno ai Patriarchi» di Giacomo Leopardi (Nicolò Mineo) RIVISITAZIONI BIBLICHE E PRATICA TIPOLOGICA NELLA letteratura vittoriana . . . . (Gemma Persico)

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PREMESSA

I giorni 3-4 aprile del 2003, la Facoltà di Lettere e Filosofia e quella di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Catania, assieme allo Studio Teologico S. Paolo di Catania hanno condotto un colloquio interdisciplinare su “La Bibbia libro di tutti?”. La domanda non era e non è, anche a lettura ultimata dei vari contributi qui raccolti, una domanda retorica. Infatti se è vero che il libro biblico viene letto da tutti, è altrettanto vero, non solo che tutti non lo leggono allo stesso modo, ma che alcuni pretendono anche di possederne la chiave ultima di accesso. Ma è anche vero che, al di là della pretesa da parte di alcuni gruppi e chiese di averne la chiave, le diversità della lettura non riescono a collocarsi secondo una scala gerarchica, secondo una maggiore o minore distanza dal vero messaggio del testo. Il famoso detto di Gregorio, secondo cui la Scrittura cresce con chi la legge, risulta essere storicamente ed ermeneuticamente più fecondo: tutti contribuiscono alla crescita del libro. Il compito che quindi stava davanti ai protagonisti del colloquio non era semplice. Lo Studio Teologico, da parte sua, aveva iniziato una riflessione nel febbraio precedente, con il contributo di un esegeta di professione, Jean Louis Ska, che aveva collocato la problematica all’interno dell’ermeneutica moderna della Bibbia: La Bibbia, un libro aperto o un libro sigillato? La Bibbia, questa è la sua ipotesi, può essere aperta da tutti attraverso l’impiego complementare dei vari approcci che lo studio di essa ha elaborato. Al termine del colloquio stesso, in una prospettiva storica, Roberto Antonelli, sottolineava invece come l’esegesi e le modalità della lettura biblica, dialetticamente esoterica ed essoterica al tempo stesso, permettano di comprendere anche meccanismi e forme generali della storia culturale europea. È sembrato quindi opportuno pubblicarlo come secondo testo, dopo quello di Ska. I due contributi disegnano infatti l’arco


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Premessa

teso tra la disciplina specifica e la storia comune, tra lo scrittoio dello studioso e la piazza della città. Il colloquio vero e proprio fu introdotto dalla comunicazione di Ruggieri che ne riprese formalmente i termini: La Bibbia libro di tutti? Il tentativo era quello di individuare un punto di approdo, nell’evento della comunicazione umana, della parola in quanto tale, che andasse oltre la dialettica tra l’esoterico e l’essoterico, tra il libro “ispirato” e quindi riservato a coloro che ne condividono l’ispirazione e lo leggono “nello Spirito con cui è stato scritto”, e coloro che invece lo leggono come qualsiasi altro libro, ma che si lasciano interpellare da esso leggendolo con tutta la serietà che la comunicazione umana richiede. Questa posizione del problema non voleva tuttavia esaurirne i termini. La Bibbia infatti resta per i credenti un testo sacro che, per definizione, “appartiene” appunto a coloro che condividono la stessa fede e la stessa sensibilità religiosa. Per questo motivo, nonostante qualche riserva (vedi quella espressa da Rostagno nel suo intervento), vennero invitati a riprendere i termini del discorso fin dall’inizio soggetti rappresentanti di diverse tradizioni religiose, senza escludere quella islamica, giacché il Corano resta legato alla Bibbia e, per certi versi ne costituisce una rilettura, così come la Scrittura cristiana è in parte una rilettura della Scrittura ebraica. Né si poteva ignorare come, proprio nella lettura della Bibbia, storicamente ci fosse stato un grosso contenzioso tra cattolici e protestanti. Si comprende così perché si sia voluto dar luogo a dei contributi non solo ebraici (Alberto Somekh) e musulmani (Fuad Kabbazi), ma anche cattolici (Antonino Minissale) e protestanti (Sergio Rostagno). Dopo le “premesse”, il colloquio ha cercato di ripercorrere alcuni percorsi sia dell’esegesi patristica (Benedetto Clausi) che di quella medievale (Concetto Martello). Ma l’esito del colloquio stesso ha voluto essere, per così dire, la verifica in corpore vili. Al di là delle teorizzazioni infatti, resta il dato che la Bibbia è stata effettivamente “di tutti”, anche dopo che la modernità ha cessato di leggerla sul presupposto della sua sacralità: le distinzioni dottrinali restano al di qua dell’uso che concretamente è stato fatto del libro canonico della tradizione ebraico-cristiana. La storia è cioè


Premessa

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più ricca dei suoi interpreti. Oppure, per dire la stessa cosa nei termini del vecchio Aristotele: le cose restano sempre più numerose delle parole che noi abbiamo a disposizione per distinguerle. Per questo motivo il colloquio si è situato in una regione che teologi ed esegeti raramente percorrono, in quella della letteratura: da Leopardi (Nicolò Mineo) alla letteratura dell’epoca vittoriana (Gemma Persico), alla poesia tedesca del primo Novecento (Grazia Pulvirenti). E in quella regione la Bibbia si è manifestata non tanto come libro, ma come momento organico di una storia vissuta, come luogo nel quale viene collocata la propria “religiosità profonda” intesa nei termini che spiega Mineo, cioè come politicità, oppure, con altri termini, come lotta per l’esistenza, come memoria che permette agli uomini e alle donne di venire a capo delle domande che la vita pone loro. Il colloquio si è concluso alla fine con una tavola rotonda. Degli interventi di questa si pubblica solo quello di Giuseppe Schillaci, a guisa quasi di conclusione, giacché prendendo i termini della relazione introduttiva li declina ulteriormente, come inizio di un altro discorso possibile. Giuseppe Ruggieri



LA BIBBIA, UN LIBRO APERTO O UN LIBRO SIGILLATO?*

JEAN-LOUIS SKA**

L’ermeneutica biblica o scienza dell’interpretazione dei testi biblici è antica quanto la Bibbia stessa. La Bibbia è già interprete di se stessa, dicevano i riformatori: Scriptura interpres sui ipsius (“La Scrittura è interprete di se stessa”) o Scriptura Scripturam interpretatur (“Si interpreta la Scrittura per mezzo della Scrittura”). Il detto aveva certo una connotazione polemica contro l’uso che la Chiesa cattolica faceva della Tradizione come altra fonte di “rivelazione” accanto alla Scrittura. In ogni modo, e senza entrare in questa discussione, studi recenti hanno dimostrato l’esistenza di un’esegesi interna alla Bibbia stessa1. Testi antichi sono stati riletti e reinterpretati in situazioni nuove e per corrispondere a mentalità diverse2. Lo stesso modo di leggere continua con l’esegesi rabbinica, quella patristica e quella medioevale; poi cambia in parte corso con il rinascimento e l’epoca moderna, e infine sfocia in un immenso delta di letture diverse nel mondo contemporaneo3. Come allora leggere la Bibbia oggi, in un mondo pluralista e secolarizzato? La Bibbia è un libro aperto o sigillato e quasi incomprensibile? Le riflessioni di quest’articolo vorrebbero fornire alcuni * Testo della relazione tenuta allo Studio Teologico S. Paolo di Catania il 20 febbraio 2003. ** Docente presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma. 1 Il libro fondamentale è quello di M. FISHBANE, Biblical Interpretation in Ancient Israel, Oxford 1985. Per una bibliografia sull’argomento, si veda P. TULL, Intertextuality and the Hebrew Scriptures, in Current Research Biblical Studies 8 (2000) 59-90. 2 Cfr l’articolo seminale di S. SANDMEL, The Haggadah Within Scripture, in JBL 80 (1961) 105-122. 3 Per un’opera recente e di grande qualità sulla storia dell’esegesi, si veda M. SÆBØ (ed.), Hebrew Bible, Old Testament. The History of Its Interpretation. I: From the Beginning to the Middle Ages (Until 1300). Part 1: Antiquity, Göttingen 1996; Part 2: The Middle Ages, Göttingen 1999 (con abbondanti bibliografie).


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punti saldi per orientarsi nell’ermeneutica moderna e le sue immense potenzialità. Non seguirò un ordine cronologico e non cercherò di essere completo, ma userò piuttosto una serie di parole chiave o di metafore che s’incontrano spesso nei manuali di ermeneutica o di critica letteraria, e che hanno il vantaggio di caratterizzare in modo semplice e comodo le principali tendenze della ricerca4. Questo articolo intende pertanto fornire innanzitutto una “tavola di orientamento”.

1. DOCUMENTO, MONUMENTO, AVVENIMENTO 1.1. Documento «Literary study differs from historical study in having to deal not with documents but with monuments»5. Questa frase, spesso citata qualche anno fa in certi ambienti letterari ed esegetici, serviva ad opporre due modi di leggere i testi. Nel mondo dell’esegesi la frase era diventata una sorta di grido di battaglia contro l’esegesi storico-critica e la specie di monopolio che esercitava — o sembrava esercitare — sugli studi biblici. Le due parole chiave che incontriamo in questa frase sono davvero evocatrici di due universi mentali che si definiscono l’uno in opposizione all’altro. Proviamo adesso a definirli meglio per vedere quali sono le caratteristiche di questi due mondi, ma anche i loro limiti. La domanda che sorgerà abbastanza presto sarà di sapere se sono davvero esclusivi l’uno dell’altro. Inizio con gli studi “storici” — in esegesi, gli studi storico-critici — che hanno tre scopi principali6. 4 Per un primo approccio dei problemi di ermeneutica biblica, si vedano L. ALONSO SCHÖKEL – J.M. BRAVO ARAGÓN, Appunti di ermeneutica (Studi biblici 24), Bologna 1994; A.M. ARTOLA ARBIZA – J.M. SÁNCHEZ CARO, Bibbia e parola di Dio (Introduzione allo studio della Bibbia 2), Brescia 1994; P.C. BORI, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni (Saggi 326), Bologna 1987; P. GRECH, Ermeneutica e teologia biblica (Studi e ricerche bibliche), Roma 1986; W.G. JEANROND, L’ermeneutica teologica. Sviluppo e significato, Brescia 1994; V. MANNUCCI, Bibbia come Parola di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura (Strumenti 17), Brescia 1981, 200016; G. STEMBERGER, Ermeneutica ebraica della Bibbia, Brescia 2000. 5 R. WELLEK, Concepts of Criticism, New Haven, CN 1963, 15. 6 Esistono diverse presentazioni del metodo storico-critico. Cfr per esempio


La Bibbia, un libro aperto o un libro sigillato?

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Primo, la spiegazione del testo inizia in genere con lo studio della sua genesi. Troppo spesso, si fa una caricatura di questo genere di studi. Rimane vero, tuttavia, che l’esegesi storico-critica è interessata a stabilire le diverse tappe della formazione del testo. Per quanto riguarda la Bibbia, il postulato di base, confermato poi da tanti studi, è che il testo attuale è irto di difficoltà perché è composito. Non è stato scritto da un solo autore, in un breve periodo di tempo per un ristretto gruppo di lettori. Gli autori sono molti, hanno lavorato in diversi periodi della storia, in diverse circostanze e per diversi tipi di destinatari. Si potrebbe aggiungere che, secondo alcune scuole, i testi attuali sono persino nati nella tradizione orale ben prima di essere messi per iscritto7. Non è necessario dire che questo tipo di studio è, per forza di cose, di natura prettamente diacronica e non sincronica perché la dimensione temporale e l’idea di sviluppo sono essenziali all’analisi dei testi8. Secondo, occorre capire il testo a partire dall’intenzione del suo autore. La cosa richiede poche spiegazioni, almeno di primo acchito, però è di importanza capitale nelle discussioni sull’ermeneutica biblica attuale, come vedremo. Per l’esegesi storico-critica, l’intenzione dell’autore è un criterio di prima importanza. Lo scopo dell’esegesi non è di sapere quello che il testo può significare per me, oggi, o quello che ha significato in P. GUILLEMETTE – M. BRISEBOIS, Introduction aux méthodes historico-critiques (Héritage et Projets 35), Montréal 1987 = Introduzione ai metodi storico-critici. Traduzione italiana di Carlo Valentino, Roma 1990; H. SIMIAN-YOFRE (a cura di), Metodologia dell’Antico Testamento (Studi biblici 25), Bologna 19972, 79-119; O.H. STECK, Exegese des Alten Testaments. Leitfaden der Methodik. Ein Arbeitsbuch für Proseminare, Seminare und Vorlesungen, Neukirchen-Vluyn 198912 = Old Testament Exegesis: A Guide to the Methodology (SBL Resources for Biblical Study 39), Atlanta, GA 19982. 7 Specialmente per la scuola della Formgeschichte, il cui “inventore” è Hermann Gunkel. Sulla tradizione orale, si veda lo studio critico di P.G. KIRKPATRICK, The Old Testament and Folklore Study (JSOTS 62), Sheffield 1988. Sulla Formgeschichte, si veda, fra gli altri, G.M. TUCKER, Form Criticism of the Old Testament (GBS), Philadelphia 1971; M.A. SWEENEY – E. BEN ZVI (a cura di), The Changing Face of Form Criticism for the Twenty-First Century, Grand Rapids, MI – Cambridge, UK, 2003. La presentazione classica della Formgeschichte rimane però quella di K. KOCH, Was ist Formgeschichte? Neue Wege der Bibelexegese, Neukirchen-Vluyn, 1964, 19672 = The Growth of the Biblical Tradition : The Form-Critical Method, London 1969. 8 I termini “sincronico” (senza riferimento allo sviluppo storico) e “diacronico” (secondo lo sviluppo storico) sono stati coniati dal linguista svizzero Ferdinand de Saussure, nel suo Cours de linguistique générale, Paris 19555, 117.


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diverse epoche della storia, ad esempio per sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino o il concilio di Trento9, o ancora meno ciò che potrebbe significare in assoluto per una teologia dogmatica. L’oggetto della ricerca è invece il significato originale, il primo, quello che precede tutti gli altri, “quello che voleva dire” l’autore del testo. Molto spesso, il significato originario ha, nella mente di molti esegeti, un valore superiore. L’anteriorità e l’originalità di un significato equivalgono alla sua superiorità nei confronti di tutti i significati successivi. Per questo motivo, l’esegesi storico-critica cerca di determinare qual è il testo originale e lo distingue accuratamente da tutto quello che è “secondario” in termini di tempo e quindi anche di valore. Non tutti gli esegeti applicano questi principi in modo sistematico e rigido, ma questa scala di valori rimane presente all’orizzonte di ogni ricerca di stampo storico-critico. Terzo, il testo è interpretato in funzione dei suoi primi destinatari. Le reazioni degli esponenti dei metodi storici sono quasi leggendarie. Per esempio, si deve evitare accuratamente di fare riferimento al significato di un testo per il mondo attuale. Occorre anche bandire ogni allusione a quello che “mi piace” o “non mi piace” in un dato testo. L’interpretazione si vuole oggettiva, non soggettiva, e si vuole anche “scientifica”, e non s’interessa della pastorale o dell’omiletica. Occorre quindi rileggere il testo come se fossimo i suoi primi destinatari ed evitare ogni giudizio di valore in conformità a categorie o, peggio ancora, gusti odierni. Un esempio illustrerà meglio questo modo di procedere. Gn 22,1-19, il cosiddetto “Sacrificio di Isacco”, chiamato più esattamente anche “Prova di Abramo”, è stato oggetto di molti studi del genere appena definito10. Prima, gli studiosi di questa scuola hanno mirato a stabilire quali sono le “fonti” del testo. In genere, il brano è attribuito alla fonte detta elohista, scritta nel regno del Nord nell’ottavo secolo a.C., perché vi appare più volte il nome divino ’elohîm che ha dato il nome alla fonte (22,1.3.8.9.12). L’apparizione dell’altro nome divino, yhwh, caratteristico della fonte 9

Questo tipo di ricerca si chiama “storia della ricezione” di un dato testo, in tedesco Wirkungsgeschichte. In italiano, si parla anche di “estetica della ricezione”. 10 Cfr ad esempio il trattamento classico di questo brano nel commentario di C. WESTERMANN, Genesis 12-36 (BK I,2), Neukirchen Vluyn 1981, oppure R. KILIAN, Isaaks Opferung. Zur Überlieferungsgeschichte von Gen 22 (SBS 44), Stuttgart 1970; ID., Isaaks Opferung. Die Sicht der historisch-kritischen Exegese, in Bibel und Kiche 41 (1986) 98-104.


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yahwista (regno del Sud, decimo o nono secolo a.C.), in 22,11.14.15 crea una difficoltà che gli esegeti risolvono in diversi modi. Per molti, si tratta della correzione di uno scriba. Per altri, il fatto obbliga a rivedere l’attribuzione del brano alla fonte elohista o, addirittura, la teoria documentaria classica. Infine, i vv. 15-18, il secondo discorso dell’angelo di Yhwh è considerato dalla stragrande maggioranza degli specialisti come un’aggiunta tardiva che intende chiarire la dimensione teologica del brano11. L’angelo di Yhwh, in effetti, riconferma le sue promesse ad Abramo dopo la prova creando un legame logico stretto fra il gesto del profeta e queste promesse: «Perché tu hai agito così […], ti benedirò…». L’identificazione di diversi strati del testo va di pari passo con quella del luogo e della data di redazione, come visto sopra. Se il testo è, per lo più, un brano elohista, proviene dal regno del Nord ed è stato redatto attorno all’ottavo secolo a.C. Si colloca quindi nell’ambito del profetismo settentrionale e si riallaccia in qualche modo alla predicazione di Elia, Eliseo, Amos ed Osea. Ultimo compito dell’esegesi è di precisare l’intenzione del passo. Si tratta di una polemica contro i sacrifici umani? Di un’illustrazione di un tema caro all’elohista, ossia il “timore di Dio” (22,12)12? Oppure di una legittimazione del culto di Gerusalemme (22,2.14)13? Di un insegnamento sulla provvidenza divina (22,8.14)? Di un racconto che inscena la “prova” d’Israele in periodo postesilico14? Tutte queste domande sono intrecciate poiché la risposta all’una obbliga a cambiare le risposte alle altre. Molto spesso, il ragionamento parte proprio dall’intenzione del testo per poi datarlo.

11 Si veda R.W.L. MOBERLY, The Earliest Commentary on the Akedah, in VT 38 (1988) 302-323. 12 Si veda l’articolo molto sfumato di S.E. MCEVENUE, The Elohist at Work, in ZAW 96 (1984) 315-332. 13 Il monte Moria è identificato con il monte Sion, il monte del tempio di Gerusalemme, in 2 Cr 3,1. Già il celebre rabbino Abraham Ibn Ezra identificava il “monte ove Yhwh si fa vedere” con il monte Sion. Si veda anche K. BALTZER, Jerusalem in den Erzvätergeschichten der Genesis? Traditionsgeschichtliche Erwägungen zu Gen 14 und 22, in Die Hebräische Bibel und ihre zweifache Nachgeschichte. FS. R. Rendtorff, a cura di E. BLUM – C. MACHOLZ – E. W. STEGEMANN, Neukirchen-Vluyn 1990, 3-12. 14 Si veda T. VEIJOLA, Das Opfer des Abraham – Paradigma des Glaubens aus dem nachexilischen Zeitalter, in ZTK 85 (1988) 129-164.


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Le critiche fatte a questo modo di leggere la Bibbia non mancano15. Si deve però concedere che la lettura di testi antichi richiede in ogni modo uno sforzo di traduzione che non è solo linguistico. La distanza culturale che ci separa dalla Bibbia obbliga il lettore moderno a rivedere molte nozioni e rappresentazioni. La cultura era per lo più quella di un popolo di agricoltori e di pastori che vivevano in piccoli villaggi. Inoltre, la politica e l’economia funzionavano in modo ben diverso da quello che conosciamo oggi. Coloro che vogliono fare a meno degli studi storico-critici dimenticano — spesso in modo nascosto e non critico, o inconsapevolmente — che lavorano in ogni modo con una serie di postulati personali sulla cultura del tempo. Bisogna anche ammettere, d’altro canto, che l’esegesi non è un puro gioco intellettuale nel quale l’esegeta atomizza il testo in un’infinità di frammenti appartenenti a decine di fonti o redazioni sparpagliate nel tempo e nello spazio. La cosa sembra del tutto inverosimile dal solo punto di vista pratico16. Nell’antichità, si scriveva su tavolette, su papiri o su cartapecora. Il materiale era costoso e scrivere era un’attività lenta, penosa e molto costosa. Per inserire qualche parola in un testo dato, bisognava riscrivere tutto il documento, sia la tavoletta che il rotolo. La sola idea di una tale operazione doveva scoraggiare più di uno scriba. D’altronde, i manoscritti in nostro possesso non portano tracce di quello che è supposto da diverse teorie sulle fonti o redazioni dei testi biblici. Abbiamo tuttavia diversi esempi di testi compositi, o testi rielaborati più volte nel corso del tempo. Parlo per esempio dell’epopea di Gilgamesh, uno dei testi più famosi della cultura mesopotamica. Alcuni studi nel campo hanno permesso di elaborare modelli interessanti per lo studio della Bibbia17. Aggiungiamo che troppo spesso l’esegesi storico-critica, specialmente in periodi meno ispirati, si è accontentata di classificare i testi

15 Per una serie di articoli sull’argomento, si veda J.C. DE MOOR (a cura di), Synchronic or Diachronic? A Debate on Method in Old Testament Exegesis (OTS 35), Leiden 1995. 16 J.-L. SKA, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per l’interpretazione dei primi cinque libri della Bibbia, Bologna 2000, 197-200. 17 J.H. TIGAY, The Evolution of the Gilgamesh Epic, Philadelphia, PA 1982; ID. (a cura di), Empirical Models for Biblical Criticism, Philadelphia, PA 1985.


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secondo teorie o modelli prestabiliti e non ha cercato abbastanza di “interpretare”, vale a dire “far parlare” i testi18. In medio stat virtus, dicevano gli antichi; ed è forse una delle conclusioni alle quali dovremo arrivare. Ripetiamo che il fine dell’esegesi storico-critica non è certo di scomporre minuziosamente i testi in infimi frammenti, per poi provare ad ipotizzare una data esatta (anno, mese, giorno…) per ciascuno di loro. Essa ha piuttosto come primo e principale scopo di leggere i testi nel loro contesto storico, secondo le convenzioni e le categorie del loro tempo, e non del nostro. Essa parte inoltre da un presupposto inattaccabile, vale a dire che i testi biblici hanno una storia che ha lasciato tracce nella loro stessa stesura e che sono composti secondo codici che appartengono ad una cultura diversa e abbastanza lontana dalla nostra. Voler leggere i testi senza tener conto di questi parametri significa rifiutare di leggerli come si presentano, prout iacent, ed ignorare una delle loro caratteristiche essenziali.

1.2. Monumento Gli studi sincronici che considerano i testi in primo luogo come “monumenti” sono quasi tutti figli della “Nuova Critica” di Ivor Armstrong Richards (1893 – 1979)19. Questa scuola di critica letteraria nata nel mondo 18 Cfr le riflessioni di G. von Rad all’inizio del suo famoso articolo Das formgeschichtliche Problem des Hexateuch (BWANT 78), Stuttgart 1938, ristampato in Gesammelte Studien zum AT (TB 8), München 1958, 9-86; traduzione inglese: “The Form-Critical Problem of the Hexateuch”, in The Form-Critical Problem of the Hexateuch and Other Essays, New York 1966, 1-78. 19 Opere principali: C.K. OGDEN – I.A. RICHARDS, The Meaning of Meaning, London 1923; I.A. RICHARDS, Principles of Literary Criticism, London 1924; ID., Science and Poetry, London 1926; ID., Practical Criticism, London 1929; cfr anche l’opera di un alunno di Richards, W. EMPSON, Seven Types of Ambiguity, London 1930, con un titolo caratteristico di questo metodo. Le parole chiavi della Nuova Critica sono: ambivalenza, ambiguità, tensione, ironia, paradosso. Inoltre, gli esponenti della Nuova Critica vogliono evitare nei loro studi i luoghi comuni (stock responses) e le risposte “personali” (affettive). Cercano l’unità dell’opera letteraria in una complessa rete di opposizioni. L. Alonso Schökel ha introdotto molti elementi della Nuova Critica nel mondo dell’esegesi. Sul metodo, si veda J.-L. SKA, La «nouvelle critique» et l’exégèse anglo-saxonne, in RSR 80 (1992) 29-53.


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anglo-sassone si dava quattro compiti principali. Primo, voleva dimostrare che la critica letteraria è una vera scienza al pari della altre scienze, ed una scienza autonoma che non è assimilabile né alla storia, né alla filosofia, né alla psicologia, né alla sociologia, né ad alcun’altra scienza. La critica letteraria ha i propri metodi che non provengono da altre scienze, per esempio dalle scienze umane o dallo studio della storia20. Secondo, la stessa opera letteraria è autonoma, a se stante, e non dipende, per la sua interpretazione, dal legame con il suo autore, con i suoi primi destinatari o con il mondo che rappresenta. Per questi studiosi, è inutile chiedersi quale fosse l’intenzione dell’autore e guai a chi chiede ad un critico appartenente a questa scuola: “Ma l’autore voleva davvero dire questo?”. Frugare nella corrispondenza di un autore o nella sua biografia per riconoscere alcuni dei personaggi dei suoi romanzi o trovare qualche parentela fra le sue esperienze e quello che descrive nelle sue opere è un lavoro che si deve lasciare allo storico, ma che non ha alcun’incidenza sullo studio proprio dell’opera letteraria21. I.A. Richards, ad esempio, faceva leggere ai suoi studenti di Cambridge poemi senza dire chi ne fosse l’autore, precisamente per evitare di mescolare allo studio dell’opera pregiudizi o nozioni estranee al campo letterario. Terzo, l’analisi letteraria di un testo è oggettiva e scientifica. Non si devono mai mescolare con essa reazioni personali ed affettive (“Quello che mi piace in questo testo…”, “Quello che mi colpisce in questo testo…”, ecc.). L’analisi è basata sul testo, sui fenomeni presenti nel testo e non fa riferimenti ai sentimenti ed emozioni del lettore22. Il compito del critico letterario è di capire e spiegare, non di esprimere le proprie reazioni. Quarto, l’interpretazione di un’opera letteraria non può 20 Per una buona presentazione del metodo, si veda il classico manuale di R. WELLEK – A. WARREN, Theory of Literature, New York 1949 = Teoria della letteratura, Bologna 1956. 21 Cfr l’articolo di W.K. WIMSATT – M.C. BEARDSLEY, The Intentional Fallacy, in The Verbal Icon: Studies in the Meaning of Poetry, Lexington, KY 1954, ristampato in The Critical Tradition: Classic Texts and Contemporary Trends, a cura di David H. Richter, Boston, MA 1998, 748-756. “Intentional Fallacy” descrive l’errore di chi confonde il significato di un testo con la ricerca esclusiva dell’intenzione dell’autore, specialmente a partire da diari, lettere o note personali scritte da quest’ultimo. 22 Nello stesso articolo citato nella nota precedente, Wimsatt e Beardsley parlano anche di Affective Fallacy, ossia di errore che consiste nell’identificare il significato di un testo con il suo effetto sul lettore, specialmente le reazioni emotive (affect, in inglese).


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essere ridotta allo studio della sua genesi. Non basta indagare sui diversi stadi della formazione di un’opera, per esempio raccogliere e confrontare diversi abbozzi, per capire il significato dell’opera finita. Studiare la genesi di un’opera letteraria è uno studio storico, non letterario nel senso proprio della parola. Lo studio letterario si concentra sull’opera finita, nel suo stadio ultimo, e prescinde da ogni riferimento agli stadi anteriori. Il tipo di lettura proposto dalla Nuova Critica porta spesso il nome di close reading (“lettura attenta”, “lettura vicina [al testo ed a niente altro che il testo]”). Nel mondo dell’esegesi, gli studiosi che hanno aderito a questi postulati critici hanno prediletto lo studio del testo prout iacet, nella sua stesura finale, senza cercare più di distinguere fonti, strati, redazioni e aggiunte tardive23. Il testo che dobbiamo interpretare è quello che ci è stato trasmesso dalla sinagoga e dalla chiesa, quello che ha nutrito per secoli la vita spirituale dei fedeli. Quello che conta, insomma, non è l’opinione di un ipotetico Yahwista sui racconti patriarcali o quello che la fonte Q pensa della missione di Cristo. Abbiamo il libro della Genesi, abbiamo i vangeli, e il significato dei testi che ha valore per il mondo di oggi, in particolare per i credenti, è quello del testo finale, così come è stato trasmesso e letto per secoli. Il resto è forse interessante, ma rimane un puro gioco accademico. Inoltre, non importa sapere quando un testo è stato composto. Quello che importa è la composizione stessa, non la sua data. Non si può non riconoscere la validità di molti argomenti addotti dai fautori di questa teoria letteraria. D’altronde, non tutti i presupposti della 23

Cfr per esempio i lavori di Jan Peter Fokkelman, in particolare il più caratteristico ed interessante Narrative Art in Genesis. Specimens of Stylistic and Structural Analysis (Studia Semitica Neerlandica 17), Assen – Amsterdam 1975 = (Biblical Seminar 12), Sheffield 1991. Uno dei precursori di questo tipo di studi, forse malinteso dai suoi sostenitori, è stato James Muilenburg; si veda il suo famoso “discorso programma” “Form Criticism and Beyond”, in JBL 88 (1969) 1-18. Si parla spesso in questo contesto di Rhetorical Criticism, specialmente per quanto riguarda l’analisi dei testi poetici. Cfr S.E. PORTER. – D.L. STAMPS (a cura di), Rhetorical Criticism and the Bible (JSNTS 195), Sheffield 2002, e le diverse opere di R. Meynet, soprattutto R. MEYNET, L’analisi retorica (Biblioteca biblica 8), Brescia 1992. Per una bibliografia sull’argomento, si veda D.F. WATSON – A.J. HAUSER, Rhetorical Criticism of the Bible : A Comprehensive Bibliography with Notes on History and Method (Biblical interpretation series 4), Leiden 1994; per una presentazione di questa corrente, si veda Th.B. DOZEMAN, OT Rhetorical Criticism, in Anchor Bible Dictionary V, 712-715.


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“Nuova Critica” resistono ad un esame critico24. Si discute parecchio oggi in merito all’autonomia o meno dell’opera letteraria, all’intenzione dell’autore immanente al testo (“intenzione del testo”) e, di conseguenza, in merito all’autonomia relativa della critica letteraria. Un’opera letteraria suppone sempre una certa visione del mondo: può rispecchiarla, può servirsene, può anche tradirla o contestarla e cercare di cambiarla. In ogni modo, esiste un “referente”, per parlare il linguaggio tecnico della linguistica, ed è difficile farne a meno nell’interpretazione. Per quanto riguarda l’intenzione dell’autore, essa non è quello che possiamo ricavare da confidenze, corrispondenze o diari personali. Degli autori biblici non sappiamo niente o quasi niente, se non quello che dicono le loro opere. Le loro intenzioni sono quindi incorporate, se si può parlare così, nei loro scritti25. Se fanno parte dei testi, l’esegesi deve per forza tenerne conto. Se non, si trascura un elemento chiave dell’interpretazione, quello che permette di vedere la “linea” del testo o, per usare un altro linguaggio, la sua “tendenza”. Infine, è vero che l’opera letteraria è fino ad un certo punto “autonoma”, ma questa autonomia è però relativa26. La letteratura è uno dei tanti modi di trasmettere un’esperienza umana che è fatta di elementi legati alla storia, alla cultura, alla psicologia, alla sociologia di un momento, di una società, di una regione, di un autore e della sua cerchia di lettori. Che l’opera letteraria sia trattata come opera letteraria e non come documento storico o dossier che deve servire alla diagnosi di uno psichiatra è ben chiaro e non richiede molte spiegazioni. Che d’altronde vi siano in un testo letterario elementi che si spieghino grazie all’aiuto di tecniche come la storia, la psicologia, l’antropologia culturale o la sociologia, è altrettanto chiaro. Quello che richiede forse qualche chiarimento è lo scopo finale dell’indagine perché non tutti sono chiari su questo punto. L’esegesi ha 24

Per più particolari, cfr il mio articolo citato nella nota 19. Per una discussione, cfr anche A.L. NATIONS, Historical Criticism and the Current Methodological Crisis, in SJT 36 (1983) 59-71; M. STERNBERG, Source and Discourse, in The Poetics of Biblical Narrative. Ideological Literature and the Drama of Reading (Indiana Literary Studies), Bloomington, IN 1985, 7-23. 25 Come dice, fra gli altri, M. Sternberg, parliamo solo di “embodied or objectified intentions”, vale a dire di intenzioni incorporate negli stessi testi (Poetics, 9). 26 Cfr E. BLUM, Studien zur Komposition des Pentateuch (BZAW 189), Berlin – New York, 1990, 380-382.


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come primo scopo di spiegare il testo, vale a dire di renderlo più accessibile al lettore moderno27. A questo effetto, la ricerca può utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione e dialogare con altri metodi. Se invece lo scopo primario della ricerca è un altro, per esempio l’elaborazione di un discorso teologico o dogmatico, di un sistema di valori morali, di una teoria sociologica o storica, o di un’applicazione nel mondo della psicologia, le cose cambiano poiché il significato del testo come tale non è più l’ultimo orizzonte della ricerca. Questo orizzonte ultimo è invece la “verità” teologica, morale, sociologica, ecc. che si vuol illustrare. Tutte queste imprese sono davvero legittime. È importante, tuttavia, sapere distinguere l’uno dall’altro e non affermare troppo rapidamente o il monopolio o la superiorità di un accostamento sugli altri. Un’altra differenza essenziale distingue l’impresa esegetica come tale dagli altri “accostamenti”28. L’esegesi intende interpretare il testo secondo la sua grammatica, vale a dire secondo le categorie che sono inerenti al testo stesso. È anche possibile interpretare un testo applicandogli griglie che provengono da altre aree come la sociologia o la psicologia, la filosofia, la dogmatica o la morale. In quest’ultimo caso, l’intenzione della ricerca è diversa ed i suoi risultati ugualmente. La distinzione ha la sua importanza dal punto di vista metodologico perché non si può confondere il “senso del testo” con le sue diverse applicazioni. Vi è una differenza per esempio fra lo studio di un testo letterario e il suo uso come fonte d’ispirazione per un brano musicale, come vi è una differenza fra definire l’utilità di una zappa e dire che può essere trasformata in una spada (cfr Gioele 4,10). Lo scopo primario della zappa non è certo di essere utilizzata come arma, benché sia possibile farlo in certe circostanze. È ancora possibile utilizzare una zappa come ornamento in un ristorante dove si serve cucina tradizionale, o esporla in un museo della vita rurale. Non 27 Cfr O. KAISER, Von Stand und Zukunft der alttestamentlichen Wissenschaft, in M. SÆBØ (a cura di), Congress Volume Oslo 1998 (VTS 80), Leiden 2000, 489-507. 28 Il documento sull’Interpretazione della Scrittura nella Chiesa distingue fra “metodi” e “accostamenti” (o “approcci”) (Introduzione B.). Cfr J.A. FITZMYER, The Biblical Commission’s Document “The Interpretation of the Bible in the Church”. Text and Commentary (SubBib 18), Roma 1995, 24: “By an exegetical “method” we understand a group of scientific procedures employed to explain texts. We speak of an “approach” when it is a question of an enquiry proceeding from a particular point of view.”


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si può però definire la zappa come arma, ornamento o reperto archeologico, bensì come strumento utilizzato per il lavoro del suolo. La stessa differenza esiste fra i diversi modi di leggere e di utilizzare i testi. L’esegesi nel senso proprio della parola cerca di definire lo scopo primario dei testi, quello inteso da coloro che li hanno scritti e quello iscritto nella loro struttura29. La differenza però non è sempre semplice perché alcuni testi sono già stati riutilizzati da redattori posteriori. In questo caso, il compito dell’esegesi è di distinguere fra intenzione originale e intenzione/intenzioni secondaria/secondarie. Le parabole evangeliche, ad esempio, hanno un significato diverso nella predicazione di Gesù, nella vita della chiesa primitiva e nei vangeli canonici. La portata di un oracolo profetico cambia quando è letto nel suo contesto originario (per quanto sia possibile ricostruirlo) o in una collezione di testi attribuiti a questo profeta che ha come scopo di dimostrare a posteriori la validità delle sue opinioni30. Un altro problema, spesso discusso, ma raramente chiarito, è quello della relazione fra studi letterari e studi storici, fra sincronia e diacronia. L’opera letteraria è un monumento, dicono i proponitori dell’esegesi sincronica. Ed è vero. Se siamo fedeli all’immagine, possiamo però aggiungere che il monumento può essere apprezzato se si conosce il suo stile, se si sa in quale epoca è stato costruito e per quale motivo. Ogni tanto, solo la sua storia permette di capire la sua complessità, specialmente quando si tratta di un monumento che è stato riutilizzato o costruito in diverse epoche. Lo stile ellenistico non è lo stile normanno, lo stile gotico non è lo stile barocco. I canoni sono diversi, e per apprezzare l’opera d’arte occorre sapere qualche cosa di questi canoni. La Bibbia è un monumento antico, molto antico, e il suo stile è molto diverso da quelli delle epoche più recenti. Per di più, il monumento è stato modificato, rimaneggiato e rifatto più volte. Testo e storia del testo sono ormai inestricabili e non si può visitare il monumento senza notare le cicatrici della sua travagliata storia. Vi sono perciò buone ragioni per affermare che, negli studi biblici, diacronia e 29 Cfr a questo proposito la distinzione fra “meaning” e “significance” di E.D. HIRSCH, Validity in Interpretation, New Haven, CT 1967) = Teoria dell’interpretazione e critica letteraria, Bologna 1967. 30 Si veda un bell’esempio di questo tipo di esegesi in M.V. FOX, The Redaction of the Books of Esther (SBLMS 40), Atlanta, GA 1991, 142-154.


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sincronia sono indissociabili perché il monumento è nello stesso tempo documento di una storia che fa parte della sua essenza. Non è augurabile, quindi, opporre studi diacronici e studi sincronici per quanto riguarda i testi antichi, specialmente i testi biblici. Aggiungiamo un ultimo elemento importante a proposito del dialogo fra metodi31. I testi biblici, come detto, portano nella loro stesura le tracce della loro genesi. Ma come scoprire questa genesi, se non percorrendo il testo una prima volta nella sua stesura attuale, senza preconcetti sulla sua genesi. Esiste in esegesi come altrove uno “spirito di sistema” che, il più delle volte, semplifica il compito dello studioso (o dello studente…). È più semplice cercare di dimostrare una tesi già conosciuta o teorie “alla moda” che riprendere lo studio da capo ed elaborare una teoria che tenga conto solo dei dati. La tentazione permanente è di ripercorrere sentieri già calpestati da altri. In ogni modo, per evitare questa trappola onnipresente negli studi letterari, è indispensabile cominciare il lavoro con uno studio sincronico del testo prima di ipotizzare qualunque teoria in merito alla sua genesi32. Pure su questo punto, sincronia e diacronia non sono due vie parallele ed alternative, bensì la diacronia non può fare a meno della sincronia se vuol ottenere risultati sufficientemente fondati.

1.3. Avvenimento Un ultimo modo di leggere la Bibbia è nato anch’esso nel mondo della critica letteraria ed è, in gran parte, figlio della “Nuova Critica”. Semplificando leggermente le cose, si potrebbe dire che gli studi letterari storici si interessano specialmente del mondo dell’autore, gli studi prettamente letterari privilegiano l’opera, mentre la terza scuola è più attenta al ruolo imprescindibile del lettore nell’elaborazione del significato dei

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Cfr L. ALONSO SCHÖKEL, Of Methods and Models, Congress Volume Salamanca 1983 (VTS 36), Leiden 1984, 3-13. 32 Sono numerosi gli studiosi che, almeno in teoria, scelgono questa via metodologica. Si veda, fra gli altri, M. THEOBALD, Der Primat der Synchronie vor der Diachronie als Grundaxiom der Literarkritik. Methodische Erwägungen an Hand von Mk 2,13-17/Mt 9,913, in BZ 22 (1978) 161-186.


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testi33. Il testo, per quest’ultima scuola, non è un documento sul passato da interpretare a partire dal suo contesto storico e dal suo ambiente originale. Non è neanche un elemento oggettivo, isolato ed asettico, da studiare come si studiano le molecole in laboratorio. Il testo è vivo, ma la sua vita dipende dal lettore34. Per riprendere un’immagine cara al compianto Luis Alonso Schökel, il testo è uno spartito di musica. La musica esiste, tuttavia, solo se qualcuno la suona o la canta. Lo spartito è musica “morta”. A questo proposito, si è tentato di citare, con le dovute qualificazioni, la parola di Paolo: «La lettera uccide, lo spirito fa vivere» (2 Cor 3,6). Il testo vive solo se il lettore lo interpreta, vive nell’atto della lettura e dell’interpretazione perché il significato del testo sorge proprio in questo momento35. Il significato del testo non è “nascosto” nel testo ed il compito del lettore non è di “scoprire” quello che sta già presente in esso. Il compito del lettore è molto creativo: deve costruire il significato. Certo, come si può ben pensare, esistono forme estreme di questa tendenza, dove si nega ogni forma di oggettività e si lascia una libertà quasi

33 Cfr il sottotitolo dell’opera di M. STERNBERG, The Poetics of Biblical Narrative. Ideological Literature and the Drama of Reading (si veda n. 24). 34 Cfr l’importante contributo di U. ECO, Lector in fabula, Milano 1979, dove l’autore introduce la nozione di “lettore modello” (50-66); si veda anche dello stesso autore Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano 1994. 35 La scuola che difende queste posizioni si chiama Reader-Response Criticism. Su questa scuola di critica letteraria, si vedano T.F. DAVIS – K. WOMACK, Formalist Criticism and Reader-Response Theory, New York 2001; S. SULEIMAN – I. CROSSMAN (a cura di), The Reader and the Text: Essays on Audience and Interpretation, Princeton, NJ 1980; J.P. TOMPKINS (a cura di), Reader-Response Criticism: From Formalism to Post-Structuralism, Baltimore, MD: The Johns Hopkins University Press, 1980. Il pioniere di questo metodo è però il critico letterario tedesco Wolfgang Iser. Le sue opere principali sono Der implizite Leser. Kommunikationsformen des Romans von Bunyan bis Beckett (Uni-Taschenbücher 163), München 1972, 19792 = The Implied Reader: Patterns of Communication in Prose Fiction from Bunyan to Beckett, Baltimore, MD 1974, 19752, paperback: 1978; traduzione italiana in preparazione (Genova, Marietti), e Der Akt des Lesens. Theorie ästhetischer Wirkung (Uni-Taschenbücher 636), München 1976, 19842, 19903, 19944 = The Act of Reading: A Theory of Aesthetic Response, Baltimore, MD 1978, 1980, 19915 = L’atto della lettura: una teoria della risposta estetica (Collezione di testi e di studi. Linguistica e critica letteraria), Bologna 1987. Su questa questione del “lettore”, cfr il saggio di CH. FILLMORE, Ideal Readers and Real Readers (mimeo) = Lettori ideali e lettori reali, Parma 1987.


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totale all’immaginazione del lettore36. Secondo una riflessione maliziosa del critico letterario russo T. Todorov, la lettura diventa in questo caso un picnic nel quale l’autore porta le parole e i lettori il senso37. Non entro in questo dibattito per il momento38. Mi accontento solo di riprendere l’immagine dello spartito di musica per accennare ad una possibile via di soluzione del problema. Esistono evidentemente mille possibilità di interpretare uno spartito di musica. Alcuni lo fanno in modo servile, pedissequo e meccanico. Non sbagliano una nota nell’interpretazione, ma distruggono la musica perché non riescono ad aggiungere quell’elemento d’ispirazione personale che è indispensabile per dare vita allo spartito. D’altronde, lo spartito contiene indicazioni precise che l’interprete è tenuto ad osservare nella sua esecuzione: suona o canta quel brano e nessun altro. Non vi è molto spazio all’improvvisazione e, se vi è spazio, è indicato. Non spetta all’interprete scegliere dove e quando improvvisare. Il buon interprete sa essere personale, ma sa anche rispettare lo spartito. Infine, se la personalità dell’interprete è troppo irruente, non è più fedele al suo ruolo d’interprete e rischia di sovrapporsi all’opera39. A questo proposito, U. Eco distingue fra “interpretazione” e “uso” di un testo. L’interpretazione intende spiegare il testo secondo la propria intenzione che corrisponde, in genere, all’intenzione del suo autore o dei suoi autori. Si parla dell’uso di un testo invece quando l’interprete “si serve” di un testo per costruire una teoria sua. U. Eco sceglie questo esempio: «Proust poteva leggere l’orario ferroviario ritrovando nei nomi di località del Valois echi dolci e labirinti del viaggio nervaliano alla ricerca di Sylvie. Ma non si trattava di interpretazione, bensì di un suo

36 Per una presentazione critica del metodo, specialmente nel mondo dell’esegesi, si veda E.V. MCKNIGHT, The Bible and the Reader: An Introduction to Literary Criticism, Philadelphia 1985; ID., Postmodern Use of the Bible: The Emergence of Reader-Oriented Criticism, Nashville, TN 1988; K.J. VANHOOZER, Is there a Meaning in this Text? The Bible, the Reader, and the Morality of Literary Knowledge, Leicester 1998. 37 T. TODOROV, Viaggio nella critica americana, in Lettera 4 (1987) 12, citato da U. ECO, La falsificazione delle misinterpretazioni, in I limiti dell’interpretazione, Milano 1990, 54. Todorov a sua volta cita un’osservazione altrettanto ironica di Lichtenberg a proposito di Böhme. 38 Per una discussione e confutazione di queste posizioni estreme, si veda ECO, I limiti, cit., 35-37. 39 Si veda ECO, Lector in fabula, 59-60; ID., I limiti, cit., 32-33, 38.


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legittimo uso pressoché psichedelico. Dal canto suo l’orario prevede un solo tipo di Lettore Modello, un operatore cartesiano ortogonale con un senso vigile della invertibilità delle successioni temporali»40. Nel vangelo, per prendere un esempio biblico, la parabola delle dieci vergini, detta anche “parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte” (Mt 25,1-12), insiste sul dovere di essere pronti quando arriva lo sposo (cfr 25,7.10): questa sarebbe una “interpretazione” della parabola. La conclusione, aggiunta dall’evangelista: «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (25,13), è un tipico “uso” della parabola in un contesto diverso: essa serve ora ad esortare i cristiani alla vigilanza perché non sanno quando arriverà la fine dei tempi e quando il Cristo tornerà nella sua gloria (cfr 24,3). La differenza fra interpretazione ed uso è chiara: la parabola come tale non esorta alla vigilanza perché tutte le damigelle si addormentano (25,5). Nel mondo dell’esegesi, per tornare al nostro argomento, occorre distinguere fra interpretare il testo secondo le sue proprie coordinate ed usarlo per ricostruire una storia d’Israele, per suffragare una tesi teologica, per descrivere il funzionamento delle sue istituzioni, ecc. Per tornare all’ermeneutica biblica in genere, le posizioni estreme sono difficilmente difendibili perché sembrano implicare che non sia più necessario leggere il testo per poter interpretarlo. Nessuno arriva a questa posizione insostenibile, però è un pericolo corso da alcune teorie poco bilanciate. Un critico letterario ben consapevole di questo pericolo è Umberto Eco che, specialmente nel suo libro I limiti dell’interpretazione, elenca alcuni punti saldi di una lettura ragionata e ragionevole dei testi41. Nei capoversi seguenti, riprendo alcune idee di Umberto Eco che sviluppo liberamente per poter applicarle all’esegesi biblica. Umberto Eco insiste in primo luogo sul “senso del testo” o “intenzione dell’opera” (sensus operis), vale a dire il senso che l’autore intende dare al testo e che può essere ricavato dagli elementi sparsi in esso42. Ritroviamo la famosa “intenzione dell’autore” (intentio auctoris), con un

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ID., Lector in fabula, 60. ID., I limiti, cit. Si veda anche U. ECO with R. RORTLY, J. CULLER, CH. BROOK-ROSE, Interpretation and Overinterpretation, Cambridge, UK 1992. 42 ECO, I limiti, cit., 22-25, 25-28, 110-113. 41


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correttivo importante: questa intenzione è interna al testo, e non si può definire a partire da elementi che gli sono esterni o estranei43. In secondo luogo, l’interpretazione deve essere basata su elementi oggettivi che fanno parte del testo44. In altre parole, l’interprete deve fornire i suoi argomenti per permettere al lettore di giudicare della validità di quanto asserisce. Una teoria letteraria senza argomenti è come una casa senza fondamenta. Può essere molto bella, ma non regge alla prima scossa o alla prima tempesta. Dare le proprie ragioni apre anche al dialogo con altri ricercatori. Non dare le proprie ragioni, invece, significa lasciare ai suoi interlocutori soltanto due soluzioni: o assentire, approvare ed ammirare, oppure dissentire, disapprovare e rigettare. Possiamo ricavare dallo studio di Umberto Eco un terzo criterio, quello dell’economia45: l’interpretazione migliore è quella che riesce a spiegare i dati del testo in modo più semplice. Il criterio non è sempre facile da applicare, perché testi complessi non possono essere spiegati in modo semplificato. Vale però il criterio come tale. In parole semplici, possiamo enunciarlo nel modo seguente: «Semplificare (o chiarire) quello che è complicato e non complicare quello che è semplice». La formula è vicina al famoso rasoio di Occam secondo il quale fra due interpretazioni è da preferire quella più semplice. Si potrebbe anche richiamare in questo contesto il detto inglese clarity, charity (che si potrebbe tradurre, in un italiano alquanto antiquato: “chiarità, carità”). Traggo dalle riflessioni di Umberto Eco un quarto criterio, molto simile al terzo: il criterio dell’utilità. Una spiegazione vale di più quando permette di capire meglio il testo. Una spiegazione può essere brillante, estrosa ed addirittura geniale, ma se non serve a chiarire il “funzionamento” del testo, è letteralmente “inutile”46. L’erudizione in sé è utile, però dire 43

Sulla distinzione fra intentio auctoris, intentio operis e intentio lectoris, si veda ECO, I limiti, cit., 22-25. 44 Ibid., 32-33, 34, 110-113. 45 Ibid., 103-125. 46 Ibid., 89-95, 113-122; cfr per esempio quanto Eco dice a p. 120: «Piuttosto, possiamo chiederci se l’associazione produca senso»; si vedano anche le riflessioni sull’utilità delle isotopie e delle metafore, pp. 105-106, oppure questa nota: «[…] l’ipotesi che Molly Bloom sia un’allegoria di Giovanna d’Arco non aiuta a trovare qualche cosa di interessante nell’Ulisse [di James Joyce] […]».


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molte cose su un testo non significa ancora averlo spiegato. «Conoscere tutti i dati a proposito di un testo non è ancora capire il testo», come soleva dire Luis Alonso Schökel. Questa differenza è semplice, benché non sia sempre rispettata dagli studiosi. Umberto Eco menziona in altri studi un ultimo criterio: l’opinione degli esperti in materia47. Si tratta di un criterio difficile da apprezzare, perché la “verità” non è certo sempre un problema di maggioranza e l’argomento di “autorità” non ha valore in esegesi o in critica letteraria. Il criterio conserva una sua validità nonostante queste riserve. L’opinione degli specialisti che hanno acquistato una certa fama perché hanno consacrato tempo ed energia allo studio di alcune materie merita più considerazione di lavori intrapresi da persone meno competenti o meno attrezzate per affrontare certi campi di ricerca. In pratica, l’opinio communis non è un criterio di verità o di validità nell’interpretazione dei testi, però è importante discuterla perché il dialogo con grandi specialisti e discutere i loro argomenti è uno dei migliori modi per entrare in una materia e per aguzzare il proprio intelletto. Dire, per tirare le somme, che il testo esiste nell’atto della sua lettura è un modo nuovo e fruttuoso di definire l’interpretazione in genere e l’esegesi biblica in particolare. Esistono però parametri importanti se non si vuol cadere nelle trappole di un discorso ermetico o semplicemente troppo soggettivo perché sia condiviso.

2. LO SPECCHIO, LA LAMPADA E LA FINESTRA48 Vi sono certo molti modi diversi di classificare l’immensa gamma di metodi letterari. Uno fra di essi, che ricopre solo parzialmente quello appena accennato, parte da immagini regolarmente usate dai critici per illustrare i loro metodi. Tre immagini sono più frequenti e serviranno non esattamente 47 Si veda Interpretation and Overinterpretation, 148-151 (“the consensus of a community”). 48 Le prime due immagini provengono dal titolo di un celebre saggio di M.H. ABRAMS, The Mirror and the Lamp. Romantic Theory and the Critical Tradition, London – Oxford – New York 1953, 1971, che a sua volta la riprende da una frase del poeta irlandese


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a classificare le diverse scuole di esegesi, ma piuttosto a definire tre direzioni principali dell’ermeneutica dall’antichità fino ad oggi.

2.1. Lo specchio Platone utilizza l’immagine dello specchio per parlare dell’arte, e quest’immagine predomina nel mondo degli studi letterari fino all’epoca romantica. Platone l’usa nella Repubblica per situare l’arte fra le attività dello spirito49. In cima alla scala della realtà il filosofo colloca, ben evidentemente, le idee pure della sua filosofia. Al piano inferiore troviamo la realtà sensibile. Infine, dice Platone, troviamo un terzo tipo di realtà, che non è proprio “realtà” perché è solo imitazione di una realtà sensibile: l’arte che, secondo Platone, si accontenta, in effetti, di “imitare” la realtà o di rifletterla come in uno specchio50. Questo vale per la pittura, la scultura, il teatro e tutta la letteratura. Certo, Platone non ha grande stima dell’arte e perciò la situa sul gradino inferiore della sua scala ontologica. L’immagine dello specchio avrà molto successo anche se sarà per lo più sbarazzata delle sfumature negative di cui Platone l’aveva rivestita51. La definizione dell’arte come specchio insiste, in genere, sul carattere “realistico” della rappresentazione e l’arte si definisce primariamente in relazione con la realtà o, per usare il linguaggio di Platone e del suo discepolo Aristotele, l’arte è imitazione della realtà52. Nel mondo classico che si rifà all’antichità greca e latina, si parla pertanto di fedeltà alla realtà, di verosimiglianza, di realismo, di naturalismo, come si parlerà più tardi di “verismo”… Molte sono le scuole, infinite sono le sfumature, però il punto William Butler Yeats: It must go further still: that soul must become its own betrayer, its own deliverer, the one activity, the mirror turn lamp. Il terzo termine è più recente, come vedremo in seguito. 49 Repubblica, X, 596. Cfr ABRAMS, Mirror, cit., 30-31; si veda anche U. ECO, Sugli specchi e altri saggi. Il segno, la rappresentazione, l’immagine, Milano 1985, 2001, 9-37. 50 ABRAMS, Mirror, cit., 8-9; cfr Platone, Repubblica, 596-597; Leggi, II, 667-668, VII,814-816. 51 Cfr questa frase tipica del grande critico letterario inglese Samuel Johnson: «This therefore is the praise of Shakespeare, that his drama is the mirror of life» (citato da ABRAMS, Mirror, cit., 30). 52 Aristotele, Poetica, 1.1447a, 1448a. Cfr ABRAMS, Mirror, cit., 9-10.


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di riferimento rimane sempre la realtà, vale a dire il mondo esterno o, per usare il vocabolario della linguistica moderna, il “referente”53. Nel mondo dell’esegesi biblica, il “realismo” ha prevalso per secoli. Nell’epoca patristica, per esempio, sant’Agostino leggeva la Bibbia per trovare nei “segni” (signa), vale a dire le parole della Scrittura, la sola realtà (res) che ha valore assoluto in questo mondo: la Trinità. Partiva quindi dai segni del mondo sensibile fino alla realtà invisibile, secondo un itinerario tipicamente platonico. L’esegesi era pertanto prettamente teologica nella sua intenzionalità54. Una prima rivoluzione inizia alla fine del medioevo e soprattutto durante il Rinascimento. Si insiste di più sul “senso letterale” e si parla sempre più volentieri del senso umano e razionale dei testi. Nel tardo medioevo, ad esempio, l’esegesi parla meno di Dio che della vita cristiana55. L’illuminismo porterà questa tendenza al suo compimento. Il testo non riflette più la faccia di Dio, ma la storia del popolo d’Israele o la storia della chiesa primitiva. Non abbiamo più accesso diretto alle realtà soprannaturali, non abbiamo neanche accesso diretto alla realtà storica che si nasconde dietro ai racconti, abbiamo accesso diretto solo al mondo degli autori biblici56. Per prendere un esempio molto semplice, una frase molto comune nell’Antico Testamento come “Dio disse” non permette al lettore di affermare che le parole riportate siano parole di Dio trasmesse direttamente da uno scrittore ai suoi destinatari. Si tratta piuttosto di un “genere letterario”. Bisognerebbe tradurre questa frase con: «L’autore di questa espressione afferma che le parole seguenti sono considerate suggellate dall’autorità divina, l’autorità suprema nella sua cultura». Questa svolta nel 53

ABRAMS, Mirror, cit., 31-46. De Doctrina Christiana, 1,1-6; si veda SKA, Introduzione, cit., 114. 55 Inizia in Spagna con l’esegesi di Abraham Ibn Ezra. Cfr SKA, Introduzione, cit., 116; su Ibn Ezra, si veda lo studio recente di I. LANCASTER, Deconstructing the Bible. Abraham ibn Ezra’s Introduction to the Torah, London Routledge 2003; U. SIMON, Abraham ibn Ezra, in Hebrew Bible/Old Testament. The History of Its Interpretation, a cura di M. SÆBØ, Göttingen 2000, 377-387. 56 Cfr per esempio quello che dice a proposito dei patriarchi J. WELLHAUSEN, Prolegomena zur Geschichte Israels, Berlin 1899 = 19056, 315: «Non riusciamo a sapere niente sulla storicità dei patriarchi, ma solo sul periodo della storia d’Israele nel quale i racconti patriarcali sono nati» (traduzione mia). A proposito dell’influsso dell’illuminismo sull’esegesi biblica, si veda SKA, Introduzione, cit., 121-122. 54


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modo di guardare nello specchio ha creato subbugli e controversie roventi all’interno delle diverse confessioni cristiane e fra queste confessioni57. Dal punto di vista strettamente teologico, tuttavia, bisogna ammettere che questo modo di vedere le cose è in armonia con l’idea di incarnazione che implica necessariamente quella di mediazione. In questo caso preciso, la mediazione è quella del linguaggio umano. La metafora dello specchio, per tornare al nostro argomento, può servire a caratterizzare l’esegesi patristica, quella medievale o quella del rinascimento ed è anche possibile applicarla all’esegesi storico-critica. La ritroviamo addirittura nel mondo degli studi letterari ispirati dalla “Nuova Critica” che considerano i testi non come delle “finestre” che aprono su un mondo diverso da essi, come ad esempio l’universo della storia o quello della dottrina. I testi sono piuttosto “specchi” che riflettono solo il proprio contenuto perché il significato del testo si trova rinchiuso in se stesso. L’interprete deve pertanto cercare il significato di un testo negli elementi che lo compongono, e non cercare di scoprire un mondo al di là del testo. Un’opera letteraria, in altre parole, è fine dell’interpretazione, non mezzo utilizzato per raggiungere un’altra meta. Il testo è quindi uno specchio nel senso che riflette un mondo letterario o teologico che si costruisce davanti al lettore e nel quale è invitato ad entrare58. Abbiamo parlato di questo modo di leggere la Bibbia nel paragrafo intitolato “Monumento”. L’immagine dello specchio è anche onnipresente nelle letture “ingenue” e “popolari” della Bibbia. In modo per lo più inconscio, molti leggono la Bibbia con la convinzione che vi si trovi una riproduzione esatta della realtà rappresentata. Si legge la Bibbia come si guarda la televisione e si crede che tutto quello che è raccontato sia accaduto proprio così com’è descritto nei testi biblici. Quando gli esegeti affermano invece 57

Nel mondo letterario assistiamo ad una rivoluzione simile. Cfr per esempio questa frase di Oscar Wilde citata da ABRAMS, Mirror, cit., 32: «It is the spectator, and not life, that art really mirrors». 58 Cfr A. CULPEPPER, The Anatomy of the Fourth Gospel, Philadelphia, PA 1983, 3-4; R.E. BROWN – S.M. SCHNEIDERS, «Hermeneutics», in The New Jerome Biblical Commentary, a cura di R.E. BROWN – J.A. FITZMYER – R.E. MURPHY, Englewood Cliffs 1990, 1159; cfr anche il testo della commissione biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Roma 1993, I.B.2. Per il testo, cfr J.A. FITZMYER, The Biblical Commission’s Document, 61. L’immagine della finestra è menzionata anche a p. 51 (I.B.).


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che i testi ci informano meno sul “mondo del testo” che su quello degli autori, molti si ribellano. Per prendere un esempio, il racconto del passaggio del mare (Es 14) non intende descrivere accuratamente come il popolo d’Israele è uscito dall’Egitto sotto la guida di Mosè ed è sfuggito ad un tentativo di accerchiamento da parte dell’esercito egiziano. L’intenzione del testo, per l’esegesi critica, è piuttosto di trasmettere un messaggio di fede in un Dio che fa passare il suo popolo dalla schiavitù alla libertà. Questo messaggio di fede è proposto sotto forma narrativa e non in un trattato teologico. Il lettore è quindi invitato a guardare bene nello “specchio” e ad interpretare il mondo di immagini che passano davanti ai suoi occhi. Deve accorgersi che il racconto non intende essere un resoconto giornalistico o storiografico di un evento del passato. Le immagini veicolano invece un significato “teologico” e trasmettono l’esperienza di fede di coloro che hanno composto e tramandato per generazioni questo racconto59. In conclusione, si deve dire che l’immagine dello specchio è utile fino ad un certo punto per descrivere la lettura e l’interpretazione dei testi biblici. Rimangono però alcune riserve perché non si può fare a meno di uno sforzo di discernimento davanti alle immagini rispecchiate nei testi. Bisogna saper guardare e “leggere” quello che lo specchio riflette perché le immagini sono ogni tanto deformate.

2.2. La lampada e la sorgente L’età romantica che rompe con l’ermeneutica classica, traduce la sua impostazione in una serie di nuove immagini60. Sparisce la metafora dello specchio per lasciare il posto a quella della lampada o della sorgente. La scelta equivale ad una conversione a centottanta gradi dall’interesse classico per l’opera verso l’interesse quasi esclusivo per l’autore. Come visto prima, 59

Si veda J.-L. SKA, La parola di Dio nei racconti degli uomini, Assisi 2000, 57-59; I. FINKELSTEIN – N.A. SILBERMAN, Sulle tracce di Mosè, Roma 2002, 72-73. 60 ABRAMS, Mirror, cit., 47-69; D. PUNTER, Romanticism, in M. COYLE e.a. (a cura di), Encyclopedia of Literature and Criticism, London 1991, 106-118, spec. 107; M. BUTLER, Romantics, Rebels and Reactionaries: English Literature and its Background 1760-1830, Oxford 1981.


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la critica letteraria classica giudicava un’opera letteraria in funzione del suo modo di riprodurre la realtà. L’autore era idealmente un “servitore fedele” della realtà ed è altrettanto un minuzioso osservatore delle regole della scrittura. La visione classica della letteratura domina naturalmente in tutti i manuali di ars poetica dell’antichità, del rinascimento e del “classicismo”. L’epoca romantica, dal canto suo, è segnata da una forte volontà di libertà nata nei movimenti rivoluzionari inglesi del 1699, statunitensi del 1776 e francesi del 1789, il “radicalismo” inglese attorno all’1800. La “realtà” non è più statica come nell’Ancien Régime, non esiste più una “monarchia di diritto divino”, un “potere assoluto” al quale la popolazione deve per forza sottomettersi. Sparisce lo spirito di assoggettamento e nasce lo spirito liberale di trasformazione e di progresso. Con questo sorge anche l’esaltazione di una certa forma di individualismo che caratterizza le forti personalità capaci di imporsi e di imporre la loro volontà al corso degli eventi. Sono ormai alcuni individui energici, per lo più borghesi, che cambiano la storia e non più i sovrani o i membri dell’aristocrazia. Non è più la nascita che determina il potere o il genio, ma le capacità personali. Anche se è molto difficile caratterizzare un movimento molto variegato e libertario come il romanticismo, si può dire che preferisce la sensibilità e l’emotività alla ragione, la libertà ai rigorosi canoni letterari e la “natura” ad una cultura troppo gretta e riservata ad un’élite. Possiamo aggiungere a questi elementi politici gli effetti variegati della nascita di una società urbanizzata ed industriale nella quale appaiono nuove forme di lavoro e di relazioni sociali. Il gusto per l’individualismo e la nostalgia per la “campagna” e la vita “pastorale” è da capire in gran parte come reazione contro la vita caratterizzata sempre di più dalle forti concentrazioni urbane, dalla progressiva trasformazione delle campagne e dall’esodo verso le città61. Altre particolarità del movimento romantico sono da riallacciare al rigetto di quanto aveva “adorato” l’età classica. Per esempio, dal rinascimento in poi, i modelli letterari erano quelli della letteratura greca e latina e l’epoca di riferimento era l’antichità. Come nell’antichità, si insisteva molto sulla distinzione fra stile sublime e stile umile. L’interesse per il popolo e la letteratura popolare era molto limitato. I personaggi del teatro classico sono 61

D. PUNTER, Romanticism, 107.


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quasi tutti membri dell’aristocrazia. Per i romantici, invece, i veri modelli sono piuttosto quelli medioevali, oppure si va a cercare le radici non romane della cultura propria62. È caratteristica del romanticismo, ad esempio, l’esaltazione della cultura celtica nel mondo anglo-sassone63. Parallelamente nasce un forte amore per la natura e un interesse per il folklore, le società primitive, il mondo rurale, il popolo della campagna come per la popolazione operosa delle città64. Basta per convincersi paragonare il teatro classico a quello romantico, o la musica barocca a quella romantica. Mozart scrive musica per i principi della chiesa o per le corti reali. Beethoven inizia a scrivere una musica per il popolo — in realtà per la borghesia. Il movimento romantico è da situare in questo contesto politico e culturale che permette anche di capirne meglio lo spirito. Ad esempio, è naturale per i romantici affermare che un’opera letteraria non rispecchia più la realtà, ma piuttosto il genio del suo ideatore, genio paragonato ad una “lampada” o ad una “fonte”. L’opera letteraria non è più una riproduzione “servile” della realtà, è invece la creazione artistica di una realtà nuova. Da lì nasce l’interesse per le “grandi personalità”, per i “geni letterari”, per le “sorgenti d’ispirazione” e “l’immaginazione creativa”65. L’interesse per la “fonte” dell’ispirazione ha avuto come conseguenza normale una rivalutazione delle origini, dei tempi dove regnava la semplicità priva di regole fisse e rigide, dell’età dell’oro dell’umanità. Come 62

Cfr per esempio Notre-Dame de Paris (1831) di Victor Hugo in Francia. In Germania, le opere sono molte. Segnaliamo per esempio Die Jungfrau von Orleans (1800) e Wilhelm Tell (1803), due tragedie di Friedrich Schiller. In inglese sono celebri i romanzi storici di Walter Scott (1771-1832). Alessandro Manzoni preferisce un periodo più tardivo per ambientare I Promessi Sposi (1825), ma la tendenza è la stessa: non siamo più nell’antichità classica. 63 Cfr i famosi Poemi di Ossian, scritti dal poeta scozzese James McPherson (1760). Il titolo originale in inglese è Fragments of Ancient Poetry collected in the Highlands of Scotland and translated from the Gaelic or Erse language. Ossin oppure Ossian sarebbe il figlio di un bardo e leggendario guerriero celtico dell’antica Scozia, Fingal, vissuto nel terzo secolo d.C. McPherson compose i poemi ossianici appoggiandosi su antiche tradizioni orali scozzesi. I suoi poemi ebbero un immenso influsso sulla letteratura europea. 64 Il mondo romantico è anche quello delle sinfonie pastorali, dei paesaggisti e dell’interesse per le società primitive. Les Misérables di Victor Hugo (1862), invece, inscena alcuni personaggi popolari della “teppa” di Parigi, come per esempio Jean Valjean. Il quadro è la città di Parigi nella prima metà dell’ottocento. 65 ABRAMS, Mirror, cit., 21-26.


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detto prima, i romantici prediligono il medioevo, perché rappresenta per loro un ritorno ad una vita più semplice — più “caotica” e creativa — dopo l’era classica ed ordinata dell’impero romano. Glorificano anche “l’uomo primitivo”, il famoso “buon selvaggio” di Jean-Jacques Rousseau66. Un romantico ha bisogno di un contatto con una realtà incontaminata, “primordiale”, con un mondo forse ancora caotico, selvaggio e violento, ma ricco di potenzialità non ancora attuate. Vuol ritrovare un mondo che nasce, si trasforma, si elabora e si dà le proprie forme di vita, perché vive in un mondo che, in un certo modo, ha provocato il caos rivoluzionario per creare un ordine nuovo. Un mondo è morto e un altro è nato. La letteratura e l’arte hanno partecipato a questo processo di morte e rinascita. In Italia, si parla, e non a caso, di “Risorgimento”. L’influsso del romanticismo sull’esegesi biblica è stato molto forte e se ne ritrovano le tracce fino ad oggi. L’autore che più che altri ha avuto un forte impatto sugli studi biblici è il filosofo, teologo e scrittore tedesco J.G. Herder (1744-1803)67. Gli elementi della sua esegesi che hanno avuto più incidenza sui biblisti del suo tempo, sono la sua insistenza sulla superiorità della sensibilità (Einfühlung) sull’intelletto per capire i testi biblici; l’affermazione che la poesia sia la prima lingua dell’umanità; la convinzione che la natura rivela Dio; una metodologia che fa dell’antropologia una via regale d’accesso alla Scrittura — Herder ripete spesso che bisogna capire la Bibbia “umanamente”, vale a dire come espressione dello spirito umano; infine dobbiamo a Herder il primo saggio moderno sulla poesia ebraica che non

66 Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) sviluppa queste idee in particolare in Julie ou la Nouvelle Héloïse (1761). 67 Su questo autore, si vedano fra gli altri T. WILLI, Herders Beitrag zum Verstehen des Alten Testaments (Beiträge zur Geschichte der biblischen Hermeneutik 8), Tübingen 1971; H.-J. KRAUS, Herders alttestamentliche Forschungen, in Bückeburger Gespräche über J. G. Herder 1971 (a cura di J. G. MALTUSCH), Bückeburg 1973, 59–75; J.D. BAILDAM, Paradisal Love: Johann Gottfried Herder and Song of Songs (JSOTS 298), Sheffield 1999; C. BULTMANN, Die biblische Urgeschichte in der Aufklärung: Johann Gottfried Herders Interpretation des Genesis als Antwort auf die Religionskritik David Humes (Beiträge zur historischen Theologie 110), Tübingen 1999). Si veda anche ABRAMS, Mirror, cit., 82, 204205 e passim; H. REVENTLOW, Epochen der Bibelauslegung. IV. Von der Aufklärung bis zum 20. Jahrhundert, München 2001, 189-200.


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sia un’applicazione dei canoni della poesia classica greco-romana, com’è per esempio il caso negli studi del vescovo anglicano Robert Lowth68. Herder non è stato solo, però, perché molte idee erano nell’aria del tempo. Il forte interesse degli esegeti per “l’età dell’oro” della storia d’Israele o della chiesa primitiva, ad esempio, deriva direttamente dalle idee romantiche e dall’interesse del romanticismo per le “origini”. Questo vale, in particolare, per un’idea che si ritrova fino ad oggi nel mondo dei biblisti, quella dell’ideale nomade d’Israele69. La permanenza d’Israele nel deserto era visto come un’epoca ideale nella storia del popolo eletto, come un esempio di vita sana e semplice in condizioni precarie, però in contatto con Dio e con la natura. Alcuni testi sono stati spesso citati ed interpretati come espressioni di questo “ideale” romantico, ad esempio Ger 2,2-370: Così dice Yhwh: Io ti ricordo dell’affetto che avevi per me quand’eri giovane, del tuo amore da fidanzata, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata. Israele era consacrato a Yhwh, egli era le primizie della sua rendita; tutti quelli che lo divoravano si rendevano colpevoli, e la calamità piombava su di loro, così dice Yhwh.

Un altro testo che illustrava quest’ideale è Os 2,16-18: Perciò, ecco, io [Yhwh] attrarrò [mia moglie adultera Israele], la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Di là le darò le sue vigne e la valle d’Acor come porta di speranza; là mi risponderà come ai giorni della sua gioventù, come ai giorni che uscì dal paese d’Egitto. Quel giorno avverrà, dice Yhwh, che tu mi chiamerai: “Marito mio!” e non mi chiamerai più: “Mio Baal!” 68 Il saggio di Herder si intitola Vom Geist der Ebräischen Poesie (1782-1783). Robert Lowth è lo “scopritore” del parallelismo nella poesia biblica. 69 Sull’ideale nomade d’Israele, si vedano K. BUDDE, Das nomadische Ideal im Alten Testament, in Preußische Jahrbücher 85 (1896) 57-79; J.V. FLIGHT, The Nomadic Idea and Ideal, in JBL 42 (1923) 158-226; M.S. SEALE, The Desert Bible. Nomadic Tribal Culture and Old Testament Interpretation, London 1974; R. DE VAUX, Les institutions de l’Ancien Testament I, Paris 19612, 15-33; per una critica di questa visione idealistica, si veda S. TALMON, The «Desert Motif» in the Bible and in Qumran Literature, in Biblical Motifs: Origins and Transformations, a cura di A. ALTMANN, Cambridge, MA – London 1966, 31-63. 70 Le traduzioni sono riprese alla Nuovissima versione della Bibbia, Roma 1995, con qualche leggera modifica.


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L’esegesi influenzata più o meno consapevolmente dal romanticismo ha trovato in questi testi ed altri simili una prova a favore della sua tesi, ossia che l’età dell’oro per il popolo d’Israele sia stato il periodo della permanenza nel deserto. Per altri, invece, questo periodo ideale è l’epoca patriarcale o ancora il tempo dei giudici o ancora quello di Davide. Fra le fonti del Pentateuco, si preferisce certamente lo Yahwista, più spontaneo e più “pimpante”, perché più antico e più vicino alle “origini” 71. Negli studi sui profeti, si cerca con ansia di individuare gli oracoli “originali” e separarli dalle aggiunte secondarie dei redattori72. Un’altra idea tipicamente “romantica” si trova negli studi di Julius Wellhausen (1844-1918) che descrive lo sviluppo del culto in Israele come una progressiva snaturazione (“Denaturierung”). All’inizio, secondo Wellhausen, si celebravano avvenimenti della vita ordinaria, per esempio la mietitura o la vendemmia, un matrimonio o un lutto, e la liturgia aveva luogo nei santuari locali. Progressivamente si è perso il contatto stretto con la “natura” per introdurre un calendario fisso ed obbligare a celebrare le feste nell’unico tempio di Gerusalemme. L’ultimo passo verso la snaturazione fu l’introduzione di feste a contenuto astratto come il “giorno d’espiazione” (Yom Kippur; cfr Lv 16)73. Wellhausen giudica lo sviluppo del culto secondo criteri romantici quali la spontaneità, la semplicità e il contatto con la “natura” incontaminata. L’astrazione e le regole fisse sono invece viste come sintomi di decadenza culturale. L’idea di un “piccolo credo storico” che si trova all’origine delle tradizioni storiche d’Israele e che forma il nucleo primitivo del Pentateuco, idea cara a Gerhard von Rad (1901-1971), è un’altra manifestazione fra tante altre dello spirito romantico che animava l’esegesi nella prima metà 71

Su questo punto, cfr il nostro saggio The Yahwist, a Hero with a Thousand Faces. A Chapter in the History of Modern Exegesis, in Abschied vom Jahwisten. Die Komposition des Hexateuch in der jüngsten Diskussion, a cura di J.CH. GERTZ – K. SCHMID – M. WITTE, (BZAW 315), Berlin – New York 2002, 1-23. 72 Sarà per esempio una caratteristica dell’esegesi di B. Duhm. Su questo autore, si veda H. REVENTLOW, Epochen, 316-324, con bibliografia (420-412). Cfr per esempio B. DUHM, Das Buch Jesaja, Göttingen 1892, 21922; ID., Das Buch Jeremia, Tübingen – Leipizig 1901; ID., Israels Propheten, Tübingen 1916, 21922. 73 J. WELLHAUSEN, Prolegomena zur Geschichte Israele, Berlin 1883.


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del ventesimo secolo74. Lo Yahwista di G. von Rad, d’altronde, è un bell’esempio di “grande personalità” e di un genio creatore che corrisponde ai canoni romantici dello scrittore ispirato. Hermann Gunkel (1862-1932), creatore della Formgeschichte e “mentore” di G. von Rad, è un altro noto rappresentante del romanticismo nel mondo biblico. I legami di Gunkel con Herder sono conosciuti ed è inutile insistere75. È più interessante menzionare alcuni lati della sua ricerca che sono meno spesso collegati allo spirito romantico. Penso soprattutto al suo spiccato interesse per la letteratura e la poesia popolare (Volksdichtung), per il folklore e la tradizione orale, per le forme più antiche della narrazione e della poesia biblica. In questo contesto, vale la pena menzionare un particolare poco conosciuto a proposito della famosa espressione tecnica coniata da Gunkel, il Sitz-im-Leben. In realtà, Gunkel parlò più esattamente di Sitz im Volksleben, vale a dire di «situazione nella vita del popolo»76. L’uso della parola Volk, “popolo”, è tipica della mentalità romantica e del suo interesse per le forme popolari dell’arte, in letteratura e in musica, in particolare per il mondo rurale e pastorale. Un altro interesse di Gunkel è tipicamente romantico: quello per le Sagen, vale a dire i racconti popolari. La sua famosissima definizione del libro della Genesi: «Genesis ist eine Sammlung von Sagen» — «Il libro della Genesi è una raccolta di racconti popolari» si inserisce nell’interesse del tempo per il folklore77. Non dimentichiamo che, all’inizio dell’ottocento, 74 Nel suo lavoro Das formgeschichtliche Problem des Hexateuch (BWANT 78), Stuttgart 1938 = Gesammelte Studien zum AT (TB 8), München 1958, 9-86; traduzione inglese: “The Form-Critical Problem of the Hexateuch”, in The Form-Critical Problem of the Hexateuch and Other Essays, New York 1966, 1-78. 75 Su H. Gunkel, si vedano W. KLATT, H. Gunkel. Zu seiner Teologie der Religionsgeschichte und zur Entstehung der formgeschichtliche Methode (FRLANT 100), Göttingen 1969; P. GIBERT, Une théorie de la légende: Hermann Gunkel (1862-1932) et les légendes de la Bible, Paris 1979; R. SMEND, “Hermann Gunkel”, in Deutsche Alttestamentler, Göttingen 1989, 160-172; REVENTLOW, Epochen, cit., 327-346. 76 H. GUNKEL, Die israelitische Literatur, in Die Kultur der Gegenwart: die orientalischen Literaturen, a cura di P. HINNEBERG, Berlin – Leipzig 1906, 53; ID., Die Grundprobleme der israelitischen Literaturgeschichte, in Deutsche Literaturzeitung 27 (1906), ristampato in Reden und Aufsätze, Göttingen 1913, 21-38, spec. 33. 77 H. GUNKEL, Genesis übersetzt und erklärt, Göttingen 1901, 19022, 19103. La frase serve da sottotitolo dell’introduzione (p. VII nell’edizione del 1910).


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i fratelli Grimm raccoglievano e pubblicavano in Germania le loro celebri “fiabe”78. Gunkel condivide con i fratelli Grimm l’interesse per la cultura popolare delle campagne che sta sparendo a causa della rapida industrializzazione dell’inizio del diciannovesimo secolo. Per Gunkel, gli autori del libro della Genesi sono un po’ dei fratelli Grimm biblici che hanno raccolto e compilato le fiabe, leggende e racconti popolari del loro tempo. Negli studi neotestamentari, lo spirito romantico si manifesta in diversi modi: nel gusto per quello che è “primitivo”, “genuino”, “spontaneo”, nei giudizi di valore, ma anche in alcune categorie fondamentali dell’esegesi. Si può ad esempio ricondurre allo spirito romantico la ricerca degli ipsissima verba di Gesù, la differenza introdotta fra parabola di Gesù ed interpretazione da parte della chiesa primitiva, la ricerca del kerygma apostolico all’origine dei vangeli79, così come la distinzione ferrea fra lettere autentiche e lettere non autentiche di Paolo, e soprattutto il giudizio di valore a favore delle prime. Menzioniamo anche l’interesse particolare per Marco, il primo vangelo scritto, più spontaneo, più semplice, più pittoresco e meno artefatto degli altri, o per la fonte Q che contiene parole genuine di Gesù Cristo. Oppure il giudizio sul vangelo di Giovanni, considerato come più recente e spesso giudicato come troppo teologico, troppo astratto e quasi gnostico80, ancora il disinteresse per gli ultimi scritti del Nuovo Testamento, le lettere cattoliche e l’Apocalisse. I periodi più tardivi sono in effetti spesso visti dagli esegeti influenzati dal romanticismo come momenti di decadenza e di sfacelo. La religione diventa legalista, ritualista, si perde la spontaneità e la naturalezza dei tempi più antichi che sono sostituiti da regole astratte ed impersonali. Al carisma delle origini si sostituiscono l’organizzazione, le strutture rigide e le pesanti gerarchie delle epoche successive81. Il carisma muore soffocato dal sistema. Questo vale per l’epoca postesilica, per le riforme di Esdra e

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J. GRIMM – W. GRIMM, Kinder- und Hausmärchen, Marburg 1812-1815. Cfr per esempio le ricerche di Joachim Jeremias. 80 Già Herder attribuiva le differenze fra Giovanni e i sinottici alla data di composizione più tardiva del primo. Si veda REVENTLOW, Epochen, cit., 200. 81 Cfr per esempio le opinioni di Wellhausen sul racconto sacerdotale o sulla riforma di Esdra-Neemia nei Prolegomena zur Geschichte Israels, Berlin 1833, 3-4. Si veda SKA, Introduzione, cit., 126-128. 79


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Neemia nell’Antico Testamento e per la seconda generazione dei cristiani, l’epoca delle lettere cattoliche e delle lettere pastorali di Paolo. Il romanticismo ha avuto un influsso duraturo nel mondo dell’esegesi. Come visto, molte tendenze del passato recente dell’esegesi biblica sono riconducibili allo spirito romantico che, per altro, non è certamente morto.

2.3. La finestra82 La terza metafora che incontriamo nel mondo della critica letteraria e nell’esegesi biblica è quella della finestra. È forse più difficile definirla perché è usata da critici ed esegeti di diverse tendenze, e non caratterizza una scuola in particolare come le immagini precedenti. Si parla ad esempio di “finestra” a proposito di studi di tipo storico o sociologico83. D’altronde la polivalenza della metafora stessa spiega in gran parte il suo successo. Fondamentalmente, tuttavia, l’immagine traduce in termini visivi un elemento essenziale del linguaggio, vale a dire la natura di “segno”. Su questo punto, gli specialisti sono in genere d’accordo: parole, frasi, opere letterarie “indicano” qualche cosa che non è solo la parola, la frase o l’opera letteraria: un segno è aliquid quod stat pro aliquo84. Anche gli esponenti della “Nuova Critica” che vedono nell’opera letteraria solo riferimenti a se stessa escludono in pratica unicamente le interpretazioni che non si riferiscono al mondo letterario. Altrimenti, l’interpretazione si limiterebbe ad una pura ripetizione parola per parola dell’opera scritta. Piuttosto che di dare un elenco forse fastidioso di nomi e di teorie, preferisco prendere un esempio concreto e mostrare quali sono le poten-

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Si veda l’opera del critico letterario statunitense M. KRIEGER, A Window to Criticism: Shakespeare’s ‘Sonnets’ and Modern Poetics, Princeton, NJ – Oxford 1964, 1969. 83 L’immagine della finestra è spesso utilizzata da critici che preconizzano metodi storici o sociologici. Cfr edited by V.PH. LONG – D.W. BAKER – G.J. WENHAM, Windows into Old Testament History: Evidence, Argument, and the Crisis of “Biblical Israel”, Grand Rapids, MI 2002; W.J.C. WEREN, Windows on Jesus: Methods in Gospel Exegesis, London, SCM, 1999; B.J. MALINA, Windows on the World of Jesus: Time Travel to Ancient Judea, Louisville, KY 1993. 84 Su questo punto, si veda fra gli altri ECO, Sugli specchi, cit., 22-24.


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zialità di una lettura che vede il testo come “finestra”. L’esempio che ho scelto è un testo molto breve che si trova in 2 Re 4,1-7: 1

Una donna, moglie di uno dei discepoli dei profeti, si rivolse ad Eliseo e disse: “Mio marito, tuo servo, è morto, e tu sai che il tuo servo temeva il Signore. Il suo creditore è venuto per prendersi i miei due figli come schiavi”. 2 Eliseo le disse: “Che posso fare per te? Dimmi, che cosa hai in casa?” La donna rispose: “La tua serva non ha nulla in casa, tranne un vasetto d’olio”. 3 Allora egli disse: “Va’ fuori, chiedi in prestito a tutti i tuoi vicini dei vasi vuoti; e non ne chiedere pochi. 4 Poi torna, chiudi la porta dietro di te e i tuoi figli, e versa olio in tutti quei vasi; e, man mano che saranno pieni, falli mettere da parte. 5 La donna se ne andò e si chiuse in casa con i suoi figli; questi le portavano i vasi, e lei vi versava l’olio. 6 Quando i vasi furono pieni, disse a suo figlio: “Portami ancora un vaso”. Egli le rispose: “Non ci sono più vasi”. E l’olio si fermò. 7 Allora lei andò e riferì tutto all’uomo di Dio, che le disse: “Va’ a vender l’ olio, e paga il tuo debito; e di quel che resta sostentati tu e i tuoi figli”.

2.3.1. Una finestra classica I commentari non dedicano molto spazio a questo breve racconto85. Si accontentano in genere di qualche annotazione sulla schiavitù per debiti. Si tratta quindi solo di informazioni sul testo, e non proprio di un’interpretazione del racconto. La “finestra” si apre sul contesto letterario e giuridico del passo con rimandi ad alcuni testi biblici, ad esempio la legge di Es 21,1-7.811, una legge proprio sui figli “consegnati” o “acquistati” per saldare debiti. Altri testi alludono al fenomeno o lo illustrano, così come Is 50,1; Ne 5,1-13 (cfr in particolare 5,5)86. Alcuni commentatori menzionano anche 85 Si vedano per esempio i commentari classici di J.A. MONTGOMERY, A Critical and Exegetical Commentary on the Books of Kings. Edited by Henry Snyder Gehman (ICC), Edinburgh, 1927, 19512 [1967]; J. GRAY, I & II Kings: A Commentary. Second, fully revised, edition (OTL) London 1970, 491-492; Cfr anche P. BUIS, Le livre des Rois (SB), Paris 1997; M. COGAN – H. TADMOR, II Kings: A New Translation with Introduction and Commentary (AB 11), New York 1988, 55-56. 86 Per più particolari, si veda B. CHILTON, “Debts”, in D.N. FREEDMAN (a cura di), Anchor Bible Dictionary II, 114-116.


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Am 2,6; 8,6, ma i testi del profeta si riferiscono meno chiaramente a questo tipo di schiavitù. Più palese è invece un testo extra-biblico che proviene da un antico codice mesopotamico, il codice del re Hammurapi di Babilonia (1792-1750 a.C.), nel § 117: «Se un uomo libero ha contratto dei debiti e vende sua moglie, suo figlio o sua figlia [come schiavi], o se gli è stato imposto [a lui stesso] la schiavitù, dovranno lavorare nella casa dell’acquirente o del creditore per tre anni, e riotterranno la libertà il quarto anno”. Gli autori notano che nel codice mesopotamico lo schiavo ritrova la libertà nel quarto anno, mentre nei codici biblici prevedono la liberazione solo per il settimo anno (Es 21,2; Dt 15,12). Questo tipo di lettura spiega solo un elemento del racconto, la vendita dei figli, perché si tratta evidentemente dell’elemento che più sorprende un lettore moderno. Per saperne di più, occorre rivolgersi ad altre opere più specializzate sull’argomento, come alcuni studi sulla schiavitù per debiti in Israele e nel Medio Oriente antico87.

2.3.2. La finestra sociologica88 Diversi studi, sulla base delle osservazioni appena fatte, hanno sfruttato le possibilità del testo per aprire una “finestra” sulla condizione della donna, in particolare della vedova, nell’antico Israele. Fra le informazioni più rilevanti, gli autori notano per esempio che la vedova appartiene alla categoria delle personae miserae alla pari degli orfani e degli stranieri89. Le personae miserae sono tutte persone svantaggiate giuridica87 Si vedano soprattutto I. MENDELSOHN, Slavery in the Ancient Near East: A Comparative Study of Slavery in Babylonia, Assyria, Syria, and Palestine from the Middle of the Third Millennium to the end of the First Millennium, New York 1949; I. CARDELLINI, Die biblischen “Sklaven”-Gesetze im Lichte des keilschriftlichen Sklavenrechts. Ein Beitrag zur Tradition, Überlieferung und Redaktion der alttestamentlichen Rechtstexte (BBB 55), Bonn 1981; G.C. CHIRICHIGNO, Debt-Slavery in Israel and the Ancient Near East (JSOTS 141), Sheffield 1993. 88 Cfr T. HOOVER RENTERÍA, The Elijah/Elisha Stories: A Socio-cultural Analysis of Prophets and People in Nine-Century B.C.E. Israel, in R.B. COOTE (a cura di), Elijah and Elisha in Socioliterary Perspective (Semeia Studies), Atlanta, GA 1992, 75-113. 89 Cfr per esempio Dt 10,18; 14,29; 16,11.14; 24,19.20.21; 26,12.13; 27,19; Ger 7,6; 22,3; Ez 22,7; Zc 7,10; Mal 3,5.


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mente, economicamente e socialmente. Spesso si trovano in condizioni disperate se non ottengono aiuto. La donna, per limitarci a questo caso, non ha in realtà “diritti” riconosciuti nella società biblica come in molte altre società antiche. Il suo statuto giuridico e sociale le è dato o dal padre prima del matrimonio o dal marito dopo il matrimonio. La società in effetti non riconosce alla donna uno statuto proprio all’infuori di queste due possibilità90. Nel caso di 1 Re 4,1-7, la vedova non ha alcuna “copertura” giuridica benché diverse leggi cerchino di proteggere queste categorie svantaggiate91. Il testo evidenzia inoltre che la vedova non può risolvere il problema da sola. Né la sua famiglia, né il gruppo dei profeti è in grado di fornirle aiuto oppure non è disposto a farlo per ragioni non esplicitate. Si può notare infine che la vedova non contesta il sistema nel quale si trova e non si ribella contro l’ingiustizia della sua condizione di donna o contro la discriminazione di cui è oggetto92. Essa chiede aiuto, non giustizia, e si rivolge per questo addirittura ad un uomo. Il racconto mette in risalto la bontà del profeta Eliseo perché ascolta la vedova e l’aiuta immediatamente, e la sua capacità di compiere miracoli per risolvere problemi apparentemente impossibili. Il racconto, tuttavia, non va oltre e non contesta un sistema ingiusto. In altre parole, la donna rimane in un rapporto di dipendenza e non sceglie la via della liberazione dalla schiavitù e dell’autosufficienza. Non è lo scopo del brano e non era, forse, neanche pensabile in quel mondo nel quale è stato composto. Due elementi obbligano tuttavia a sfumare questa prima impressione. Da una parte, il profeta dice alla donna di chiedere a tutte le sue vicine di darle vasi in prestito: questo sarebbe un primo passo sulla via della solidarietà. Il miracolo richiede quindi uno sforzo previo di collaborazione. In secondo luogo, la donna riempie i recipienti con l’olio di casa che andrà poi a vendere. Il profeta non le fornisce oro, argento o gioielli e non porta la somma richiesta dal creditore, per esempio, ma trova una soluzione che 90 Si veda R. KALMIN, Levirate Law, in D.N. FREEDMAN (a cura di), Anchor Bible Dictionary 4, 296-297 (spec. 297). 91 Cfr i testi citati sopra nella n. 90. 92 Si veda per esempio W.J. BERGEN, Elisha and the End of Prophetism (JSOTS 286), Sheffield 1999, 83-87; cfr J.A. TODD, The Pre-Deuteronomistic Elijah Cycle, in R.B. COOTE (a cura di), Elijah and Elisha in Socioliterary Perspective (Semeia Studies), Atlanta, GA 1992, 1-35, in particolare 3-11 (“The Socio-Economic Context of the Omrid Dynasty”).


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è per così dire “a portata di mano”. L’olio è una delle merci più ordinarie e più correnti in quel tempo, e la donna ne dispone a casa. Non si tratta di un elemento straordinario e impossibile da trovare. L’unico elemento miracoloso è l’improvvisa abbondanza dell’ingrediente. In conclusione si deve dire che il miracolo giustappone elementi che evidenziano la condizione di soggiogazione della donna con altri che invece mettono in risalto le sue risorse e le sue capacità di collaborare. Il miracolo non si fa senza di lei, ed essa è lungi dal ricevere passivamente un aiuto accordatole in modo paternalistico.

2.3.3. La finestra storica, politica e teologica Un lettore curioso potrebbe chiedersi perché si descrive la condizione di una vedova costretta a vendere i propri figli proprio in un ciclo di storie che hanno come protagonista il profeta Eliseo. Il problema era forse più acuto in questo momento? Alcuni studi storici rispondono con un’affermazione a questa domanda. In questo modo, il testo aprirebbe una “finestra” su un periodo importante della storia d’Israele, quello della dinastia di Omri93. Il re più conosciuto di questa dinastia è Acab, con sua moglie Gezabele, a causa dei numerosi episodi nei quali sono opposti al profeta Elia. Gli appigli della lettura “storica” sono numerosi: testi biblici e testi extra-biblici aiutano ad abbozzare un ritratto abbastanza preciso delle condizioni economiche e culturali di questa epoca di prosperità per il regno del Nord94. D’altronde, l’arricchimento delle classi dirigenti ebbe come conseguenza l’impoverimento e l’asservimento dei più deboli. L’abuso di potere per l’acquisto di nuove terre è illustrato dal famoso episodio della

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I rappresentati di questa casata sono Omri (885-874 a.C.), Acab (874-853 a.C.) Acazia (853-852 a.C.) e Ieoram (852-841 a.C.). La dinastia fu rovesciata da Ieu (841814 a.C.). Cfr 2 Re 9-10. 94 Sulla dinastia di Omri, si vedano S. TIMM, Die Dynastie Omri (FRLANT 124), Göttingen 1981; M. LIVERANI, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Bari 2003, 121-123, 140-142.


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vigna di Nabot (1 Re 21)95 e le conseguenze dell’indebitamento dei più poveri dal nostro episodio96. Il brano, però, non solo dipinge una situazione comune nel Vicino Oriente antico, ma probabilmente aggravata dalla politica degli Omridi, bensì denuncia in modo sottile questa situazione di palese ingiustizia. Secondo le usanze del tempo, difatti, è il re che deve difendere i più deboli come afferma, per esempio, il salmo 72 quando si augura che il re «renda giustizia ai più miseri del popolo, porti salvezza ai figli dei poveri e umiliazione ai loro oppressori» (72,4; cfr 72,12-14). Si è comportato in questo modo, ad esempio, il re Giosia secondo Ger 22,16: «Egli giudicava la causa del povero e del bisognoso, e tutto gli andava bene». La vedova di 2 Re 7,1, si rivolge invece non al re, bensì al profeta che interviene a suo favore. Quest’ultimo non si sostituisce al re e non pretende usurpare il suo potere, ma lascia pensare che esista un mondo diverso per «coloro che temono Yhwh» (1 Re 4,1). Al sistema politico ed economico imposto dalla casata di Omri si oppone il profetismo di Eliseo che viene in aiuto ai più miseri, nell’occorrenza della vedova che certo contava poco agli occhi del re97. Il racconto offre quindi una possibilità di immaginare un mondo diverso da quello dominato dai re, un mondo alternativo, più solidale e più “giusto”, quello dei profeti.

95 Si vedano F.I. ANDERSEN, The Socio-Cultural Background of the Naboth Incident, in JBL 85 (1966) 46-57; S. TIMM, Dynastie Omri, 124-126 (con bibliografia); M. LIVERANI, Oltre la Bibbia, 140-142. 96 Il profeta Amos, che predica un secolo dopo circa, denunzierà con grande vigore l’ingiustizia sociale nel regno d’Israele. Su questo profeta, si veda fra gli altri H. SIMIANYOFRE, Amos. Nuova versione, introduzione e commento (I libri biblici. Primo Testamento 15), Milano 2002. 97 Cfr W.J. BERGEN, The Prophetic Alternative: Elisha and the Israelite Monarchy, in R.B. COOTE (a cura di), Elijah and Elisha in Socioliterary Perspective (Semeia Studies), Atlanta, GA 1992, 127-137.


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2.3.4. La finestra letteraria98 Un’ultima finestra può essere aperta su questo breve passo, quella dello studio letterario che intende soprattutto far entrare il lettore nell’Officina del racconto per utilizzare il linguaggio di Angelo Marchese99. Due autori in particolare ci aiutano a vedere come lavorava l’autore di questo brano: si tratta di Alexander Rofé100 e Uriel Simon101. Rofé mosta che si tratta di una breve “leggenda” perché il racconto dipinge una sola azione miracolosa; il brano è indipendente e non ha legami cronologici con i racconti che precedono e seguono; la trama è semplice e consta in genere di due o tre momenti, non di più; gli attori sono anonimi oppure non hanno tratti individuali ben precisi; lo scopo del racconto è di descrivere un’azione straordinaria compiuta da un personaggio che desta rispetto e ammirazione102. L’autore del racconto ha anche utilizzato uno schema a sua disposizione e ben noto nel mondo biblico, come mostra Robert Culley103. Lo schema comporta tre momenti principali: (1) una persona presenta al profeta un problema da risolvere; (2) il profeta pone una domanda di chiarimento, poi dà istruzioni per una risoluzione del problema; (3) assistiamo infine ad un “miracolo”, poi il profeta spiega cosa fare in seguito per arrivare ad una soluzione definitiva del problema104. Il parallelismo fra il miracolo di Eliseo 98 Si veda in proposito M. ÁLVAREZ BARREDO, Las narraciones sobre Elías y Eliseo en los libros de los Reyes, Murcia 1996, 76-78. 99 A. MARCHESE, L’officina del racconto. Semiotica della narratività (Studio 105), Milano 1983. 100 A. ROFÉ, Storie di profeti. La narrativa sui profeti della Bibbia ebraica: generi letterari e storia, Brescia 1991. 101 U. SIMON, Reading Prophetic Narratives (Indiana Studies in Biblical Literature), Bloomington – Indianapolis, IN 1997. Per un’analisi di 1 Re 4,1-7, cfr pp. 256-258. 102 ROFÉ, Storie, cit., 21-31; cfr SIMON, Reading, cit., 227. 103 R.C. CULLEY, Studies in the Structure of Hebrew Narrative (Semeia Studies), Philadelphia, PA – Missoula, MT 1976, 91-92. 104 Gli altri esempi di questa struttura sono 2 Re 2,19-22: Eliseo rende l’acqua di Gerico potabile; 2 Re 4,38-41: Eliseo rende edibile una minestra avvelenata; Es 15,22-27: Mosè rende potabile le acque amare di Mara; 2 Re 6,1-7: Eliseo ritrova l’ascia caduta nel Giordano; 1 Re 17,17-24: Elia risuscita il figlio della vedova di Sarepta. Si veda CULLEY, Structure, cit., 71-96.


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in 2 Re 4,1-7 e il simile miracolo compiuto da Elia quando arriva dalla vedova di Sarepta (1 Re 17,7-16) è anche stato evidenziato da molti commentatori105. Si tratta, grosso modo, di mostrare quali sono le tecniche letterarie, le convenzioni o generi letterari, utilizzati dai narratori ed autori biblici nella composizione dei loro racconti. Esistono ormai diversi manuali sull’argomento e non è quindi necessario insistere di più su questa possibilità di lettura, una fra tante altre106.

3. CONCLUSIONE Questo breve panorama dell’ermeneutica biblica recente e meno recente può lasciare il lettore alquanto stordito. Alcuni saranno forse addirittura presi da vertigini davanti a questa massa di proposte diverse ed ogni tanto contraddittorie. L’impressione può essere quella di una persona che entra per la prima volta in un immenso supermercato dove trova di tutto, però non sa né come orientarsi né come trovare quello di cui ha realmente bisogno. L’impressione però è falsa. L’ermeneutica biblica attuale fa piuttosto pensare ad un’antica università dove esistono più facoltà, ciascuno con un suo corpo docente, le sue materie e i suoi metodi, ma anche le sue tradizioni e le sue glorie passate. Per di più, chi entra in un’università di grande fama sa che vi troverà maestri reputati che guideranno passo a passo lo studente nel suo cammino e gli permetteranno di acquisire le conoscenze necessarie per poter in seguito esercitare un mestiere e mettersi al servizio 105

Si vedano per esempio CULLEY, Structure, cit., 63-64; SIMON, Reading, cit., 255-258. Si vedano, fra gli altri, R. ALTER, L’arte della narrativa biblica (Biblioteca biblica 4), Brescia 1990; Y. AMIT, Reading Biblical Narratives. Literary Criticism and the Hebrew Bible, Minneapolis, MN 2001; S. BAR-EFRAT, Narrative Art in the Bible (JSOTS 70), Sheffield 1989; A. BERLIN, Poetics and Interpretation of Biblical Narrative (Bible and Literature Series), Sheffield 1983; J.P. FOKKELMAN, Reading Biblical Narrative. An Introductory Guide, Louisville, KY 1999; D.M. GUNN – D.N. FEWELL, Narrative in the Hebrew Bible (OBS), New York 1993; D. MARGUERAT – Y. BOURQUIN – M. DURRER, Per leggere i racconti biblici. La Bibbia si racconta. Iniziazione all’analisi narrativa, Roma 2001 (con bibliografia); J.-L. SKA, “Our Fathers Have Told Us”. Introduction to the Analysis of Hebrew Narratives (SubBib 13), Roma, 1990, 20002 (con bibliografia); M. STERNBERG, The Poetics of Biblical Narrative. Ideological Literature and the Drama of Reading (Indiana Literary Biblical Series), Bloomington, IN 1985. 106


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dei suoi concittadini. L’ermeneutica biblica è simile ad un’università sotto un altro aspetto ancora: vi si crea uno spirito particolare che unisce tutti coloro che vi insegnano e vi studiano. Questo spirito di famiglia è un elemento indispensabile nella formazione di ciascuno perché da esso nascono l’entusiasmo per lo studio, la curiosità per le ricerche nuove, la solidarietà nei momenti difficili e legami duraturi per il futuro. Studenti che hanno fatto le stesse esperienze in un’università di questo tipo possono ritrovarsi dopo anni e riconoscersi subito perché parlano la stessa “lingua”, condividono gli stessi interessi e hanno assimilato modi analoghi di pensare. Lo studio della Bibbia, che apre poco a poco un libro sigillato, crea anch’esso questo spirito che unisce tutti quelli che si sono seduti ai piedi di quest’antica maestra di vita. È in ogni modo l’augurio che formulo alla fine di questo percorso attraverso l’ermeneutica biblica.


LEGGERE LA BIBBIA

ROBERTO ANTONELLI*

La Bibbia cristiana è anche la storia della sua interpretazione, dunque del modo in cui è stata letta, dai Padri a noi. In questo senso la risposta alla domanda posta dal Convegno, “La Bibbia libro di tutti?” è relativamente semplice poiché nella storia la Bibbia è insieme Libro esoterico e Libro di tutti, come spero risulterà dalla relazione: la dialettica anzi fra i due momenti, le due modalità di lettura, sarà, insieme, storia interna alla Chiesa e storia culturale complessiva della società, per il peso che la Bibbia ha avuto nell’acculturazione sia delle popolazioni europee ed extraeuropee, sia dei ceti intellettuali che nella Bibbia hanno avuto il referente fondamentale o comunque uno dei testi fondativi, anche per quanto riguarda le metodologie interpretative della cultura laica e del mondo. Io tenterò di analizzare soprattutto il versante esegetico legato alla storia degli intellettuali, sia chierici che laici, fermo restando che da un certo punto di vista, non solo religioso, la storia moderna è anche la storia della progressiva acquisizione della Bibbia come libro di tutti: un filologo romanzo, da questo punto di vista, sarebbe più naturale che si occupasse della storia dei volgarizzamenti, magari non solo dal punto di vista linguistico ma socioculturale e storico in senso lato. Attraverso l’esegesi e le modalità della lettura biblica è in realtà possibile comprendere non solo aspetti specifici della storia culturale europea ma addirittura meccanismi e forme generali del pensiero e della cultura occidentale, la struttura, per così dire, e le modalità di funzionamento e il senso della tradizione e dell’autoriflessione culturale europea. Dunque un’analisi dedicata esclusivamente al valore esoterico della lettura biblica, quella dei clerici, dei clercs? No, poiché anche in questa prospettiva la doppia valenza organica alla lettura cristiana della *

Ordinario di Filologia romanza presso l’Università La Sapienza di Roma.


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Bibbia, esoterica ed essoterica, credo che risulterà evidente e che anzi proprio in ragione di tale doppia valenza si potranno comprendere le forme generali della storia intellettuale dell’Occidente, le modalità con cui ancor oggi gli intellettuali “leggono” la realtà. Noi siamo abituati a considerare l’allegoria, dal punto di vista dell’autore, dell’emittente, come una riduzione della similitudine, ovvero di un paragone fra un fatto comune della vita della natura o fra un enunciato lineare, dal valore puramente ‘letterale’, e un pensiero: «Se viene omesso il pensiero vero e proprio — ricorda Lausberg negli Elementi di retorica — dalla formulazione lunga nasce l’allegoria, dalla formulazione breve la metafora». Naturalmente, dal punto di vista storico, e non puramente descrittivo, le relazioni metafora-allegoria, e viceversa, sono state più complesse: se si vogliono però fissare i termini-base di riferimento, ci sembra che Lausberg li enunci molto correttamente, tanto che molto spesso il termine similitudo viene a significare nell’esegesi cristiana, quasi sinonimicamente, l’allegoria, essa stessa del resto resa con vari lemmi, anche per definire sfumature d’impiego e di concezioni. Conseguentemente, dal punto di vista del lettore(-interprete), siamo abituati a vedere l’allegoria come una modalità interpretativa volta a ripristinare il nesso fra i due enunciati e a identifcare il termine di paragone omesso. Siamo parimenti abituati a tracciarne o identificarne lo sviluppo storico, dal V-IV secolo a. C. pagano alla tarda Antichità e al ri-uso cristiano; l’identifichiamo e usiamo infine nella critica del testo, intesa come critica letteraria, per estrarre e formulare anche giudizi di valore, in genere negativi. Vorrei provare a investigarla secondo un altra prospettiva: la sua funzione nella lettura della Bibbia e dunque nella costituzione della forma mentale e di alcune categorie concettuali fondative degli intellettuali occidentali, dei clerici (da cui, in significativa concordanza di significante ma divaricazione di significato storico-culturale, l’inglese clerk e il francese clerc) a partire da Agostino, che ne elaborò il sistema teorico, fino a Dante e oltre: in un certo senso fino ai giorni nostri. Spero di dimostrare, da questa prospettiva, che “Leggere la Bibbia” in senso “figurato”, allegorico”, ha comportato, per l’Occidente cristiano, per noi tutti, praticare, a volte senza rendercene conto, una delle due modalità esegetiche fondamentali con cui siamo inevitabilmente costretti a interpretare qualsiasi testo, compresi i giornali o la Tv e i mezzi di comunicazione di massa. Di più: credo che


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attraverso l’acquisizione del concetto di ‘tradizione’, progressivamente ritenuto quasi ‘naturale’, fino alla nascita della critica storica e dello storicismo, si sia formata una vera e propria “forma mentale” dell’intellettuale occidentale che ne ha costituito una caratteristica fondamentale, soprattutto in alcuni paesi europei, fra i quali innanzitutto l’Italia, in ragione di uno sviluppo storico-culturale particolare, che sarò costretto a dare per implicito (assenza di una “Reggia” e di uno Stato unitario, presenza della Chiesa romana, la più grande e continua istituzione e organizzazione intellettuale mai apparsa sulla scena storica, forte presenza e influenza di un ceto intellettuale le cui ragioni si sono continuamente intrecciate con la storia della Chiesa, oltre e prima che con quella “locale”- “nazionale”, fino al nostro presente, come insegna anche la storia di questi giorni). «D’altronde, se coloro che sono chiamati filosofi hanno per caso enunciato idee vere e conformi alla nostra fede, soprattutto i platonici, non solo non dobbiamo temerle ma dobbiamo rivendicarle, come si rivendicano i beni a possessori indebiti, per convertirle al nostro uso. Come gli Egiziani infatti non solo avevano idoli e gravi obblighi, che il popolo ebreo doveva detestare e rifuggire, ma anche possedevano vasi e gioielli d’argento e d’oro e vesti, che quello stesso popolo fuggendo dall’Egitto rivendicò a sé a loro insaputa, non per autorità propria ma per ordine di Dio, nell’intenzione di farne un uso migliore, avendo gli Egiziani affidato loro senza esserne consapevoli quei beni di cui essi facevano un cattivo uso: allo stesso modo [...]».

Così Agostino in un famosissimo passo del De doctrina christiana (II, 60), ad introdurre il primo termine di una similitudo; ma avremmo potuto iniziare anche con Girolamo, nella parimenti famosissima lettera LXX, Ad Magnum, ove si adduce allo stesso scopo un passo del Deuteronomio (XXI, 10-13), citatissimo e commentatissimo, come quello di Agostino, per tutto il Medio Evo e oltre. Potremmo anzi dire, ed è facilmente verificabile nell’Exegèse médiévale di H. De Lubac (al di là dei presupposti ideologici su cui il libro è fondato), che i due passi di Girolamo e Agostino costituiscono quasi gli archetipi che fondano la teoria e le modalità dell’interpretazione allegorica (-figurale) occidentale per l’età successiva. Si noti che per dimostrare la legittimità di quella che risulterà essere la teorizzazione più alta ed estrema nell’utilizzazione della cultura XL,


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pagana da parte dei cristiani, Agostino utilizza una similitudine (“Sicut [...]) che impiega come primo termine di paragone la lettera del testo biblico (il furto operato dagli Ebrei nei confronti degli Egiziani), per introdurre quale secondo termine di paragone (sic [...]) la lettura dei classici da parte dei cristiani: l’interpretazione allegorica vera e propria invece interpreterà la lettera del testo biblico in senso immediatamente allegorico (saltando la similitudine), come poco dopo nello stesso passo di Agostino (“Vestem quoque illorum, id est, hominun quidem instituta”). Dunque: «allo stesso modo tutte le dottrine dei Gentili non presentano soltanto invenzioni menzognere e superstiziose e pesanti obblighi di lavoro inutile che ciascuno di noi, uscendo sotto la guida di Cristo dalla società dei Gentili, deve rifiutare ed evitare; ma contengono anche le arti liberali, molto adatte alla pratica del vero e alcuni utilissimi precetti morali e talune verità riguardanti lo stesso culto dell’unico Dio, il che è come il loro oro e argento».

Già nel primo termine della similitudine è introdotta l’idea che la lettera, ovvero il possesso dell’oro e dell’argento da parte degli Egiziani fosse gestita “inconsapevolmente” (nescienter), affidata com’era a possessori indebiti, ingiusti, e quindi in realtà già destinata provvidenzialmente ad altri, agli Ebrei, nel caso, “figura” dei Cristiani (“non per autorità propria ma per ordine di Dio”); nel secondo termine di paragone la relazione previdenza/provvidenza divina-abuso pagano-ri-uso cristiano (“in usum convertenda christianum”) fin nella società pagana, è espressa ancor più esplicitamente e consequenzialmente, tanto da poter immediatamente essere trasferita nell’allegoria già citata (“Vestem quoque illorum”): «tutto ciò i pagani non l’hanno creato essi stessi ma -per così dire- lo fecero scaturire da certi metalli forniti dalla divina provvidenza che si estende sopra ogni cosa; e da questi beni di cui essi abusano in modo perverso e blasfemo per servire i demoni, il cristiano, quando si separa spiritualmente dalla loro misera società, deve prendere quanto è utile alla predicazione del vangelo. Anche le loro vesti, e cioè le loro istituzioni, pur se stabilite dagli uomini, ma tuttavia appropriate alla società umana, in cui non possiamo non passare questa vita, anche esse sarà lecito prendere e salvaguardare per convertirle all’uso cristiano».


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Si noti che per la conversione all’uso cristiano non sono previste le sole arti liberali (come poi, ad esempio in Gregorio Magno) ma morum praecepta utilissima e perfino deque ipso uno deo colendo nonnulla vera: tutta la cultura e perfino la religione e le istituzioni pagane (hominum quidem instituta) sono reinterpretabili, togliendoli ai loro ingiusti possessori, in usum nostrum, in usum [...] christianum, purché si sappia comprenderne il senso vero, oltre quello puramente storico- letterale (che parla soltanto di oro e argento, di Egiziani ed Ebrei). Ho detto “storicoletterale”, così come avrei potuto dire “analogico-allegorico” (dopo aver detto anche “allegorico-figurale”): sono binomi, fino a Tommaso d’Aquino, su cui si giocheranno anche, come ha mostrato De Lubac, diverse e contradditorie interpretazioni allegoriche. Potremmo soffermarci naruralmente a lungo sul senso storico di queste bellissime proposizioni, ma quel che però a noi interessa in questa sede è un punto di vista più astratto, teoretico: la modalità interpretativa con cui appunto Agostino, e dopo di lui tutto l’Occidente, ha letto per secoli la Bibbia. Attraverso il confronto con la cultura pagana, Agostino imposta un’operazione gigantesca di confronto e appropriazione dell’Altro per fondare una nuova tradizione, un nuovo processo di istituzione e trasmissione della cultura, in cui la tradizione è funzionale all’innovazione e l’innovazione si fonda sulla tradizione. Quindi, vedremo, Agostino propone anche una nuova funzione di quelle figure, gli “intellettuali”, che quel processo debbono compiere. Lo strumento attraverso il quale questa operazione è possibile è quello allegorico: la possibilità cioè di vedere, leggere, nei testi “altro” da quel che vi leggevano gli ebrei o i pagani, posto che “provvidenzialmente” nei testi è previsto anche “altro”: l’ “altro” che si aggiunge attraverso l’interpretazione allegorica è il nuovo, lo spirito; la lettera è il vecchio, la “carne”; il procedimento allegorico (-figurale) è dunque la chiave per poter innovare l’interpretazione, la lettera. Fra carne e spirito, lettera e allegoria, il positivo, il nuovo è chiaramente l’allegoria, ma la base necessaria è la Tradizione, tanto la cultura classica come il Vecchio Testamento. Di più: poiché si tratta di un’operazione necessariamente decontestualizzante e destoricizzzante, essa implica una prevalenza del tempo Presente sul Passato: è il ri-uso nell’interpretazione del Presente che detta le sue regole al Passato, al Testo trasmesso, tanto più nella particolare


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modalità cristiana dell’allegoria, quell’interpretazione “figurale” per cui “le cose dell’Antico Testamento significano quelle del nuovo” (“Secundum ergo quod ea quae sunt veteris legis, significant ea quae sunt novae legis, est sensus allegoricus”), come riassumerà legislativamente Tommaso d’Aquino al termine di un percorso plurisecolare e pur intimamente contradditorio, ma come era già chiaro sin da Agostino: «Né infatti per altro fu scritto tutto ciò che leggiamo nelle sacre Scritture prima dell’avvento del Signore, se non per annunciare il suo avvento e prefigurare la Chiesa a venire, cioè il popolo di Dio attraverso tutte le genti, che è il suo corpo. Esso comprende tutti i giusti che hanno vissuto in questo mondo prima del suo avvento e che hanno creduto che egli sarebbe venuto, così come noi crediamo che sia venuto. [...] Perciò tutte le cose che sono state scritte prima, sono state scritte per il nostro insegnamento e sono state una nostra figura: “Tutte queste cose accadevano loro in figura, sono state dunque scritte per noi, che siamo giunti nella pienezza dei tempo» (De catechizandis rudibus, III, 6 - IV, 7).

Scritte per noi, oggi, nel Presente, nella pienezza dei tempi, come aveva già chiarito l’apostolo Paolo. L’incontro fra una grande cultura egemone, quella greco-latina, “classica” (e cioè basata sul censo, nel senso di Aulo Gellio), e una nuova e diversa cultura aspirante ad una nuova egemonia, crea per la prima volta la possibilità di una vera e propria Tradizione: l’incorporazione della vecchia nella nuova, così come avveniva a livello religioso con l’incorporazione del Vecchio Testamento nel Nuovo (mediante la sacralizzazione del senso letterale e l’interpretazione anticipatrice, profetica, in un vero e proprio sistema di figure e (pre)figurazioni) . L’allegoria, la possibilità di mantenere il significato letterale dell’Antico, re-interpretandolo, aggiornandolo, nel Nuovo, è lo strumento attraverso cui si compie, che rende praticamente possibile l’operazione. Un’ allegoria oggetto essa stessa di revisone e di contraddizioni (così come contradditorio sarà sempre, soggetto a Rinascite e Rinascimenti, il rapporto tra “vecchio” e “nuovo”, tra cultura classica e cristiana): dall’allegoria moraleggiante degli alessandrini e di Origene (sempre recuperabile, e recuperata, se il caso, si veda sempre De Lubac) a quella figurale, paolina,


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dei Padri della Chiesa e della cultura medievale, fino a Dante. È l’incontro fra un antico e un nuovo che percepisce l’Antico come diverso ciò che permette una vera fondazione della Tradizione e impone la necessità di veri e propri specialisti della Tradizione, “clerici”, ovvero intellettuali, capaci di preservare e innovare nella Legge, nel codice. Se infatti è ben vero che l’ allegoria poggia le sue ragioni primarie sul Presente, è d’altra parte fisiologicamente connesso al metodo, e alla forma mentale coseguente, che senza il Passato non è possibile un’adeguata rappresentazione del Presente. La Tradizione, intesa come continuità e ripresa del Passato nel presente, selezione ma anche preservazione, è la Forma, concepita progressivamente come “naturale”, in cui questa operazione si compie e si può continuare a compiere, per tutta la durata della civiltà agricolo-mercantile, cui è strettamente organica. L’esegesi cristiana, e Agostino in particolare, dal confronto con una Tradizione diversa, “altra”, quella classico-pagana, ricavano, intorno al IIIIV secolo d. C., l’opportunità di non rifiutarla in toto, ma di acquisirla al proprio uso, secondo dunque un significato e un tempo “altro” eppure sempre interno alla società umana, “qua in hac vita carere non possumus”; ‘allon agoreuein”, ‘dire altro’, ‘significare altro’: dire qualcosa di nuovo, rispetto al significato letterale, dunque anche rispetto al Passato. Ma cosa e perché si può / si deve rivendicare all’uso cristiano? Risposta (apparentemente semplice): quanto è utile alla predicazione del Vangelo (“ad usum iustum praedicandi evangelii”). L’interpretazione laica consueta, ‘tradizionale’, di questa proposizione metterà in evidenza i limiti che un tale uso può implicare rispetto alla possibile ‘salvezza’ e preservazione del patrimonio classico, apparentemente circoscritto (ed anche in questo senso in realtà, la posizione di Agostino è talmente generale che di fatto non lascia nulla al di fuori di un possibile recupero, posto che ammette la possibilità di verità pagane riguardanti “de ipso uno deo colendo”). Questo è un elemento di grande peso nello sviluppo della forma mentale dell’intellettuale occidentale: è ben vero che la Tradizione si può aggiornare, infatti, ma è sempre attraverso la Struttura, la FormaTradizione, che si dovrà passare: innovazione e tradizione appariranno d’ora in poi connesse in un nodo insolubile, anzi così stretto che praticamente il nesso stesso potrà passare inavvertito nelle sue implicazioni teoretiche e storico-culturali, poiché è su tale nodo che si fonderà


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stabilmente la storia dei colti, chierici o laici: degli intellettuali come gruppo (sociale) specialistico e separato. Proviamo perciò a considerare la questione anche dal punto di vista della funzione intellettuale nel suo complesso: oltre che il recupero, innovativo (e potenzialmente aperto, almeno dal punto di vista teorico: si ricordi, oltre Agostino, anche l’esempio del discorso di Paolo nell’Areopago, citato da Girolamo), oltre che il recupero del Passato, della cultura classica (e dell’Antico Testamento), in una nuova tradizione (classico-cristiana), attraverso la funzionalizzazione di tali acquisizioni alla predicazione (“quanto è utile alla predicazione del Vangelo”), si offre in realtà al colto, “a colui che possiede la scienza”, la possibilità di un ruolo nuovo nel mondo, di una funzione nuova nella società. La Chiesa apre ai colti, in quanto ceto complessivo, e alle loro ragioni di studio e di vita, un orizzonte straordinario, inaudito, fino ad allora, nella società classica. Offre nientemeno che la rifunzionalizzazione del principio paolino della charitas, che sarà anche ragione di contraddizioni profonde fra Chiesa e clerici, lungo tutto il Medio Evo (tanto più acute nel momento in cui i colti si riapproprieranno di una specifica autonomia nelle nuove società mercantili), ma che alle origini rappresenta una straordinaria espansione del loro ruolo e delle loro ragioni di vita, sia pure all’interno di un’istituzione totale. Predicare vuol dire usare la propria sapienza per gli altri, aggiungere al ruolo tradizionale del colto una nuova funzione, quella di interprete, dunque di tramite, fra Dio e i fedeli, la massa dei fedeli (dunque, di nuovo, un colto titolare di una funzione specifica e “speciale”): “Labor meus in familiam Christi proficit, stuprum in alienam auget numerum conservorum [...]” dice chiaramente Girolamo (con modalità per la verità alquanto perturbanti, per noi, oggi), commentando allegoricamente il famoso episodio della schiava prigioniera degli Israeliti (Deuteronomio, XXI, 10-13). I beni rivendicati ad usum christianum, nostrum, non debbono rimanere sterili, debbono essere messi a frutto, valorizzati (si ricordi la grande fortuna della parabola sui talenti, fino a Dante, il terminale laico e tramite in cui tutto precipiterà per riprendere nuovo vigore e nuove conformazioni, pur sempre all’interno delle strutture di cui ci stiamo occupando). Essere altro, dire altro (‘allon agoreuein’), leggere altro, incorporare l’Altro, ma per continuare e chiamare altri ad “essere altro”: la cautela finale con cui Agostino ribadisce che quasi tutto ciò che è espresso


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oscuramente, è chiaramente esposto altrove, nelle stesse sante Scritture, mentre riconosce di fatto un corpo “speciale”, con un compito e bisogni “speciali” all’interno della Chiesa, i clerici, ne definisce i limiti: la necessità di un costante rapporto con il vangelo e la massa dei fedeli, e quindi con la Chiesa. A volerlo definire con termini moderni, è l’atto di nascita dell’ “intellettuale collettivo” di gramsciana memoria, ma è anche la riaffermazione che la Bibbia, prima di essere libro dei pochi, dei clerici, è libro di tutti e che i pochi per essere “scelti” debbono introiettare, accettare, l’idea di un rapporto necessario fra i “pochi “ e i “molti”, fra coloro che “sanno” anche i “misteri” e coloro che non sanno ma a cui in realtà è già tutto, o quasi tutto, spiegato e chiarito. Su questo aspetto si apre però una dialettica, che durerà sempre, fra ragioni della Chiesa in quanto istituzione, il più grande “intellettuale collettivo” della storia umana, e l’intellettuale “critico”, espressione del singolo e delle ragioni autonome di un ceto (e non cambierà nulla quando il colto si troverà a fare i conti con il Potere laico: i termini fondamentali della dialettica fra Ratio e Imperium rimarranno molto simili: la storia del rapporto sempre difficile e reciprocamente recriminatorio fra intellettuali e Partiti ne è una dimostrazione lampante per la storia contemporanea, sp. italiana). Intanto “colui che possiede la scienza” (“eum qui habet scientiam”, Girolamo XXI, Ad Damasum) può ben divenire “clericus”: i suoi strumenti, la sua cultura sono stati coonestati ed addirittura assunti in un sistema strutturale, in una Forma di pensiero, la Tradizione, cui è stato aggiunta una nuova funzione, la trasmissione, provvidenzialmente prevista, della stessa Tradizione a “coloro che non sanno”: e cioè l’“essere pastore”, come dirà Boccaccio del laico Dante, comprendendo il senso ultimo della ricerca culturale dell’Alighieri. La modalità allegorica dell’interpretazione trova in Dante, attento lettore di Agostino e del De doctrina christiana, nella sua concezione dell’intellettuale e nel suo sistema politico-culturale e religioso, la corrispondenza e l’esaltazione massima, fino ad invadere quel terreno in cui per la Chiesa philosophus (moralis, evidentemente) e apostolus tendevano molto pericolosamente a sovrapporsi; come sarà del resto d’allora in poi per l’intera storia dell’intellettuale laico, fino agli Illuministi e a Marx, attento lettore di Dante (“per aiutare l’uomo non a speculare ma ad operare”, paolinamente: per Marx, “i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma occorre cambiarlo”).


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L’interpretazione allegorica è la chiave del sistema-Tradizione in quanto strumento fondamentale dell’esegesi, del tradere, della sua adeguazione al Tempo e di una specificità: ma la charitas dei et proximi, oggi diremmo l’“impegno” nella trasmissione, anch’essa prevista dall’apostolo Paolo, diviene, nel sistema tradizione-interpretazione (allegorica), un corollario necessario senza il quale non avrebbero senso neppure gli altri due termini: purché, beninteso, la charitas, la trasmissione, sia esercitata all’interno delle regole fissate nell’istituzione, la Chiesa, senza dare scandalo. Tra intellettuale impegnato e intellettuale-profeta, sin da Dante, si è visto, c’è un nesso strettissimo e un confine assai labile, facile da oltrepassare. Non per nulla, solo ora che la profezia si è trasferita, consumandosi (col marxismo) o frammentandosi coi vari movimenti millenaristici e new age, su un piano compiutamente storico, la Chiesa guarda con qualche minor sospetto alla possibilità di una profezia “radicalmente presente anche nel Nuovo Testamento” (si veda l’intervista al cardinale Joseph Ratzinger in 30giorni; XVII, 1, gennaio 1999, p. 84). L’interpretazione allegorica e la destoricizzazione assoluta sono possibili in quanto c’è la verità rivelata; sarà la crisi del clericus e l’avvento del philosophe laico a mettere in crisi la destoricizzazione e la riduzione ad unum del modello agostiniano: ma non nelle sue strutture di pensiero, poiché la modalità analogica, erede-sorella di quella allegorica, è ancor oggi una modalità fondativa dell’intepretazione non solo estetica e creativa ma anche letteraria e storica, nell’età post-industriale. Oggi è cambiato ancora il contesto culturale profondo: la nuova relazione dell’uomo e del colto col divino e la secolarizzazione, la cosiddetta “morte di Dio”, l’industrializzazione, hanno proposto un’altra dimensione del rapporto uomo-società-Presente; la visione politica “paolino-agostiniana” è entrata ormai anch’ essa in crisi, pur essendo stata, anche con l’Illuminismo, l’erede diretta delle stutture concettuali del colto nate con l’età tardo-antica e con l’esegesi cristiana. Cos’è dunque per noi oggi quel metodo e quel modello, tanto importante storicamente? Innanzitutto la possibilità, così presente nel metodo strutturalista e semiotico, di leggere l’intero sistema della cultura in modo non storicistico ma “attualizzante”. Quindi la riscoperta in sede storica, “vera”, potremmo dire, perché fattuale, a norma dello stesso storicismo, di


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un metodo interpretativo altrimenti rifiutato dal pensiero laico moderno, sostanzialmente storicistico, almeno fino alla seconda metà del XX secolo. Lo storicismo, d’altra parte, è metodo ormai coonestato anche nella lettura della Bibbia, il metodo storico per eccellenza della modernità, attraverso cui, paradossalmente, abbiamo la possibilità di leggere appunto storicisticamente e storicamente, iuxta propria principia, anche lo stesso metodo allegorico, su un piano di lunga durata. Lo storicismo, nell’accezione comunemente accolta, ha rappresentato un’eccezionale capacità di contestualizzare i testi, Bibbia compresa (come ha dichiarato il Concilio Vaticano II), e di condurre una critica delle fonti (dunque anche degli interessi storico-culturali ed economici delle stesse fonti) penetrante e acuta, capace di comprendere i testi appunto iuxta propria principia, il più possibile senza arbitrii e faziosità non contestabili. Se ogni interprete infatti filtra attraverso la propria posizione nella storia, dunque nel Presente, la propria lettura del Passato e dei testi, è però vero che lo storicismo ha fissato un limite alla procurata o consapevole ricerca e sfruttamento dell’ignoranza e del falso: si pensi per esempio alla falsificazione dei cosiddetti protocolli dei savi di Sion e al loro, tuttora perdurante, uso nella propaganda razzista e antisemita, in un continuo e inevitabile conflitto, deciso infine e peraltro, nei fatti, soltanto dal consenso e dai rapporti di potere; si pensi infatti, e per contro, a come, con le migliori intenzioni, la “falsificazione” dei fatti, usando anche del confronto delle varie posizioni, è moltiplicata e resa possibile dai mezzi di comunicazione di massa, ove è palmare, al di là della buona fede dei singoli operatori, la direzione che il Potere comunque imprime al senso delle notizie, così come avviene per ogni testo, scritto o orale. Ma nella variante accademica italiana, non-crociana, lo storicismo ha però significato non solo l’acquisizione di un metodo e di un abito storico nuovi e positivi. È stato ed è infatti insidiato al proprio interno dall’uso antiquario del metodo stesso, ovvero dalla convinzione, erronea (come dimostrato da Heidegger nelle scienze umane e da Heisenberg in quelle naturali), che l’osservatore, lo scienziato siano sottratti al circolo ermeneutico, possano essere completamente “neutri” o “neutrali” nell’accertamento e nell’interpretazione dei testi; dunque che il Passato e i testi siano conoscibili totalmente iuxta propria principia, prescindendo cioè dalla posizione dell’osservatore-studioso nel processo storico, nel Presente (diceva giustamente Croce che ogni storia è storia contemporanea, dunque,


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ovviamente, politica, nel senso più alto del termine). Di conseguenza ogni conoscenza del Passato e dei testi (tanto più del Testo per eccellenza, il Libro, to Biblìon) sarebbe, in questa variante, per lungo tempo maggioritaria, tanto più veritiera e scientifica quanto più sottratta al Presente, sterilizzata e resa inerte, destinata ai pochi e non a tutti. Opposto l’insegnamento che il metodo di lettura dei Padri ha trasmesso: tutto “attualizzante” e per così dire “politico” (in quanto teso alla salvezza dell’uomo, nel Presente), rischiando di fronte al mondo l’abuso interpretativo (non tale dal proprio punto di vista, essendo per definizione vero e appunto “prefigurato” il senso del Testo) ma aprendo la “lettura” dai pochi ai molti, dichiarando le latenze del testo: nel momento in cui il singolo o il gruppo interpreta e attualizza, in quel momento il testo biblico, qualunque testo, come che sia, riceve nuova vita e diviene potenzialmente, e talvolta fattualmente, nuovamente Libro di tutti, oltre la sua stessa disponibilità ad essere comunque “aperto”. Ma non è proprio questo il modo con cui i grandi Auctores da sempre hanno trattato la Tradizione e il loro rapporto con i testi del passato? Da Virgilio nei confronti di Omero, a Dante nei confronti di Virgilio, a Joyce nei confronti di tutti i suoi predecessori ulissidi (da Omero a Dante), per rimanere all’interno di una figura e di un tema, fondativo per la tradizione occidentale, il Viaggio (da Oriente a Occidente), anche al di fuori del contesto biblico, che pure con l’Esodo e il Vangelo, il ‘messaggio’, ne segna un pilastro e un archetipo. La differenza, trattandosi di testi letterari, dunque “fictivi”, di fiction si direbbe non a caso oggi, è forse la coscienza esegetica del ri-uso; ma fino a che punto e con che differenze rispetto ai lettori? Quando Brecht reinterpreta analogicamente, dunque in modo allegorico, il Coriolano di Shakespeare, sa di ri-usare un altro testo, di riscriverlo ma al contempo è convinto di estrarre, grazie al ri-uso e alla propria diversa posizione di lettore-interprete, qualcosa che in Shakespeare c’era già: aspettava per così dire, di essere riletta, per svelarsi, per porre in nuove “vesti” un problema sempre uguale, un Ritorno. Quando nel 1991 A. Asor Rosa sottoporrà, in Fuori dall’Occidente, ad una lettura del genere, tutta laica, l’Apocalissi di Giovanni, descrivendo e interpretando quasi sinotticamente, grazie al Nuovo Testamento, nel suo testo più profetico, la “Rivelazione”, la prima guerra del Golfo, non farà che leggere analogicamente, forse allegoricamente, la Bibbia: attualizzando, da un punto di vista laico, politico e


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letterario, non solo il testo di Giovanni ma anche il metodo di lettura allegorico. Tanto più oggi quando, alla seconda edizione «aumentata» (La guerra, 2003), può insistentemente richiamare il valore di “rivelazione”, di “profezia” del primo libro, alla luce della seconda Guerra irachena, la “guerra infinita” di Bush, padre e figlio. La Frustrazione e la Solitudine, come in Giovanni di fronte alle persecuzioni e al Potere dell’Impero (romano), ma la convinzione di essere il Vero; la Solitudine di fronte al Potere dell’Impero (americano) nel 1991; la Frustrazione ma la nonSolitudine oggi, grazie ad almeno 110 milioni di pacifisti che hanno manifestato in tutto il mondo, pur se rimane la tremenda sensazione, pericolosa e ingannatrice, soprattutto per i giovani, della Frustrazione e dell’impotenza della Pace di fronte alla Guerra. Per noi in Occidente lo slogan pacifista Not in my name potrebbe significare dunque anche, analogicamente, Non in nome della Bibbia, Non in nome dell’Occidente, come maldestramente Bush e la sua giunta hanno tentato di fare; non in nome di un Occidente inteso come luogo d’Incontro, e di Confronto, di Viaggio, dalle Origini dell’Occidente, inteso non come Tramonto e delirio di miti inventati e falsificanti. Il viaggio della Bibbia da Oriente a Occidente, dei suoi molteplici sensi e delle sue possibilità di lettura, ne è, ancora una volta, un Segno e un esempio di incontro, di lettura attualizzata, il più forte ed emblematico. La Bibbia in quanto Oriente che ha incontrato l’Occidente e il Mondo e che ha continuato ad essere letta e interpretata e, da un punto di vista ancora orientale, “completata”, anche col Corano, in Oriente. Appunto, saper “Leggere la Bibbia”, nelle sue modalità interpretative, nei metodi interpretativi che essa ha prodotto, storicamente e nella contemporaneità, significa anche saper vedere il Senso complessivo del suo viaggio come Libro e come messaggio, del suo Macrotesto, come si direbbe in critica letteraria: dunque il suo rapporto coi lettori, quelli dell’Antico, quelli dell’Antico e del Nuovo Testamento, quelli che comunque sulla Bibbia e sulla sua lettura hanno proposto anche altri Libri, da leggere, magari ad alta voce.



LA BIBBIA LIBRO DI TUTTI?

GIUSEPPE RUGGIERI*

La sacralità di un testo deriva dalla sua capacità non di dire delle cose sacre, ma di permettere all’uomo di dirsi sacralmente, cioè nello spazio di Dio, qualunque sia il nome che un uomo dia a Dio.

1. Potrebbe sembrare un argomento scontato. Già sul piano storico le Scritture ebraiche sono un libro “aperto”, se è vero che le scritture cristiane ne costituiscono un’interpretazione e lo stesso Corano riprende tradizioni che si rifanno sia alle scritture ebraiche che a quelle cristiane. Ma la Bibbia non è di tutti proprio in quanto raccolta di libri? Un libro infatti è per definizione a disposizione di tutti e tutti, per usare l’espressione di Schleiermacher, ispirata ad un passaggio di Kant, hanno la possibilità di «comprendere un testo meglio del suo autore stesso»1. Da questo punto di vista non possono valere nemmeno per la Bibbia preclusioni dogmatiche, con la pretesa di riservare ad una classe di persone soltanto la comprensione effettiva del testo considerato sacro. La Bibbia infatti non appartiene solo ai credenti. Ogni libro, nella misura in cui è scritto, appartiene a tutti ed è, per così dire, sottratto al suo autore. Anzi il lettore entra a costituire il libro, ed ogni libro fa parte, attraverso le letture successive, di un libro più grande, sempre in crescita. Lo affermava, sia pure nel presupposto di una lettura

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Ordinario di Teologia fondamentale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Sulla storia di questa formula cfr O. F. BOLLNOW, Was heisst, Einen Schriftsteller besser verstehen, als er sich selber verstanden hat, in Das Verstehen, Mainz 1949, 7-22. 1


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spirituale della Scrittura, lo stesso Gregorio Magno: le parole divine crescono con chi legge2. E tuttavia, anche così, il problema non è semplice. In epoca romantica Schleiermacher, formulando il problema ermeneutico, distingueva due approcci abbastanza diversi e ugualmente necessari ad un testo. Egli distingueva infatti l’interpretazione che chiamava “psicologica” dall’interpretazione “grammaticale”. Mentre questa considera l’uomo che produce un testo, come “un luogo in cui una data lingua assume una forma peculiare”, l’interpretazione psicologica guarda invece al testo soprattutto come a una delle espressioni che si dà uno spirito in costante evoluzione3. Ora come è possibile comprendere un testo come espressione dello spirito, senza rinnovare in qualche modo, dentro di sé, l’esperienza dello spirito che ha prodotto quel testo stesso? Congenialità e capacità di risperimentare (Erlebnis) l’atto produttore di un testo fanno quindi parte essenziale dell’impresa ermeneutica4. Pier Cesare Bori ha ragione nell’interpretare questa posizione come trasformazione secolarizzata della dottrina patristica e medievale. E appare allora coerente, e non già frutto di un atteggiamento fideistico, se il Vaticano II, esige che «la scrittura sia letta e interpretata nello stesso Spirito con cui è stata scritta»5. Nell’ermeneutica di Schleiermacher e di coloro che a lui si ispirano, il problema risulta tuttavia solo spostato. Giacché, sia pure accettando l’insufficienza di un’analisi puramente “grammaticale” (sia essa nella versione storico-critica che in quella retorica), ed esigendo quindi una congenialità, una capacità soggettiva di riappropriarsi dello spirito dell’autore, dovrebbe valere un’alternativa dalla quale è difficile uscire: o si considera questo “Spirito” romanticamente e secolarmente, come la creatività spirituale che alberga in ogni uomo, e allora vale il principio romantico che la Bibbia è infinita, giacché, come diceva Schlegel, «ogni opera è una Bibbia e ogni pubblico una Chiesa invisibile»6, oppure, ritorniamo alla posizione

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Cfr P.C. BORI, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana e le sue trasformazioni, Bologna 1987. 3 F.D.E. SCHLEIERMACHER, Ermeneutica, a cura di M. Marassi, Milano 1996, 301-305. 4 Cfr per il significato e la funzione dell’Erlebnis G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübingen 19652, 56-66. 5 Dei Verbum 13. 6 Cit. sec. BORI, 138.


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dogmatica e facciamo dello Spirito un dono esclusivo del credente e del libro sacro un libro esoterico, riservato a coloro ai quali per pura grazia è stato donato lo stesso Spirito con cui la Bibbia è stata scritta. La plausibilità secolarizzata della vecchia ermeneutica patristica appare quindi più un escamotage che un’alternativa reale. Il problema è infatti quello dell’irriducibilità della comprensione religiosa alle altre comprensioni. Così come non ci meravigliamo che esista una specificità della produzione artistica, e che l’opera d’arte esiga condizioni soggettive adeguate per essere goduta, non dovremmo meravigliarci più di tanto della specificità della produzione religiosa e delle necessarie condizioni soggettive per afferrarne il senso. Il teologo quindi ha gioco facile nel dire: le scritture sono nate come espressione di un’esperienza credente, di apertura di alcuni uomini ad un’irruzione interpretata come ingresso di Dio stesso nella loro storia. La Bibbia contiene cioè un’interpretazione umana, ma credente, dell’evento della parola, come parola che non appartiene ultimamente all’uomo. I non credenti hanno certamente il diritto di astrarre da questa pretesa; hanno persino il diritto di considerarla un’illusione. Conseguentemente tratteranno la Bibbia come qualsiasi altro documento letterario. Ma come faranno a cogliere l’esperienza originaria senza riviverla, senza rivisitare interiormente l’esperienza che ha permesso la produzione di quel testo particolare? Questa infatti è un’esperienza propria al credente. Non è quindi legittimo dire che le scritture costituiscono un libro sigillato, che solo la fede sperimentata ha la possibilità di aprire? La pretesa dogmatica di fare della scrittura un libro comprensibile solo all’interno della comunità credente non ha quindi nulla di autoritario. Essa traduce semplicemente la logica del testo sacro, nella sua specificità.

2. Resta tuttavia una difficoltà quasi insormontabile per chiunque accetti di rassegnarsi a questa alternativa. Come questo nostro colloquio ritengo mostrerà, resta la fecondità inesausta della Bibbia, sia ebraica che cristiana, che sembra trascendere ogni confine parochial. Ebrei e cristiani, ma non soltanto (basti pensare a Gandhi), credenti e non credenti, provano sempre a ridire qualche pagina della Bibbia a modo loro. Ed è molto difficile affermare che la Bibbia ridetta dai cosiddetti non credenti sia sempre da rifiutare anche dal credente. La Bibbia, ridetta dagli altri, parla anche al


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credente e spesso egli fa sua questa lettura, proprio da credente, accogliendola cioè come effetto consono al testo sacro. In quel ridire la Bibbia da parte degli altri infatti, persino in un Voltaire (si veda soprattutto il tardo Voltaire, della voce “Religione” in Questions sur l’Encyclopédie), se è vero che non c’è alcun riconoscimento formale della Bibbia come parola di Dio, è altrettanto vero che non c’è nemmeno un semplice commento oggettivo (“grammaticale” direbbe Schleiermacher) al testo evangelico. C’è piuttosto un lasciarsi dire dal testo stesso. Questo del lasciarsi dire da un testo, lasciarsi interpretare dalle parole di una qualsiasi opera letteraria o comunque artistica, non è d’altra parte un atteggiamento riservato alla Bibbia. La stessa allusione appena fatta a Voltaire lo dimostra a sufficienza, giacché egli in quello scritto non si fa dire solo dal Gesù dei vangeli, ma anche da altre testimonianze sui grandi spiriti della storia umana. Possiamo quindi riformulare il problema e chiedere in che cosa allora il “lasciarsi dire” dalla parola in quanto tale — qualunque essa sia — differisca dall’atteggiamento del credente che legge la Bibbia in quanto parola di Dio.

3. Vorrei tuttavia, prima di rispondere a questa domanda, fermarmi un attimo per evitare l’impressione che il problema si risolva in quello di una semplice tecnica della lettura o di analisi dell’atto della comprensione. Ritengo infatti che il problema che stiamo agitando sia più vasto, giacché esso è soltanto una delle facce di una crisi che attraversa la nostra epoca, come crisi di un approccio alla realtà che possiamo qualificare come quello della presa e del possesso, del dire denotativo, di quel dire cioè che esaurisce la sua funzione nel rimandare ad un oggetto. Una crisi tanto più sentita in quanto il linguaggio denotativo, soprattutto attraverso la tecnica, celebra trionfi mai visti nella storia. Farsi dire da una parola, invece che “usare” le parole per dire le cose, implica cioè un modo di avvicinarsi alla realtà che è opposto a quella che, con un’espressione ormai quasi démodée, veniva chiamata razionalità borghese. La crisi è di lunga durata e si intreccia con quella della cultura positivistica alla fine dell’Ottocento. Per lo meno possiamo farla iniziare con il Nietzsche dei Frammenti postumi e con la sua impietosa analisi di quella cultura dove la verità è «qualcosa che è da creare e che dà il nome ad un


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processo, anzi ad una volontà di soggiogamento …»7. La verità, nella forma propria della coscienza borghese, soprattutto nella sua versione scientifica (“logicizzazione, razionalizzazione, sistematizzazione”) si ridurrebbe quindi ad una funzione del nostro bisogno di possedere. Non è necessario sposare l’alternativa di Nietzsche (per cui non resta che la “vita”, come “caso singolo”, essenziale aspirazione ad un più di potenza), per condividere la sua analisi. La storia del Novecento avrebbe purtroppo verificato il suo nichilismo che, dobbiamo sempre ricordarlo, non è la causa, ma è solo la logica proporzionata al processo di decadenza dell’uomo contemporaneo. Qui io mi permetto di ricordare, per giustificare la mia affermazione sul nesso stretto che lega il nostro problema a quello delle vicende culturali più vaste della nostra epoca, tre esempi diversi in cui la critica alla razionalità borghese, cioè al monopolio del dire denotativo, ha trovato espressione: ricordo soltanto L’eclisse della ragione di Max Horkeimer nel 1946, i due volumi (1963 e 1980 di L’uomo è antiquato di Günther Anders (vera apocalisse laica, tanto più significativa nella sua critica della cultura della tecnica, quanto duramente polemica con Heidegger) e il più recente (1998) Il Destino della tecnica di Emanuele Severino. Ma soprattutto vorrei sottolineare il carattere drammatico di questa crisi, giacché essa non è affatto il frutto di alcuni spiriti introversi, ma presa d’atto delle grandi tragedie che hanno attraversato il Novecento e di cui Nietzsche fu solo il lucido, pazzo, profeta laico. Non voglio qui sintetizzare la storia del Novecento. Ivan Illich l’ha paragonata ad una cipolla: un avvilupparsi di foglie e basta, per cui se continui a sfogliare arrivi soltanto al nulla del suo centro. Hobsbawm l’ha definito un secolo breve per le sue accelerazioni. Io non ho queste pretese sintetiche e non azzardo giudizi globali. Più modestamente mi limito a scegliere come posto di osservazione quello marginale e limitato del teologo, per dire che, storicamente, una nuova sensibilità di lettura del testo sacro cammina gomito a gomito con gli snodi cruciali del secolo. Come comprendere altrimenti, proprio nel caso della lettura della Bibbia, il significato della II edizione della Lettera ai Romani di Karl Barth, che passò come “angelo sterminatore” lungo le contrade della teologia

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F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, II, Milano 1971, 43.


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occidentale? Leggere la Bibbia non poteva ridursi ad una semplice ricostruzione del testo sacro, ma significava soprattutto accettare il giudizio della Parola, implicava addirittura collocarsi nel vuoto che essa scavava a guisa di meteorite nella storia umana. Accostarsi alla Bibbia significava soprattutto comprendere il peccato del “fratello rosso”, di colui che vuole costruire il mondo nuovo con la rivoluzione, dove è importante ricordare che era lo stesso teologo Barth il fratello rosso che per ben due volte si era iscritto al partito socialista, la II volta in condizioni drammatiche come gesto dimostrativo contro il regime di Hitler. Ora, a monte della lettura che Barth faceva della lettera ai Romani, c’era anche la delusione per i suoi maestri, gli esponenti della teologia liberale che si erano impegnati per quella guerra che doveva segnare ai loro occhi il trionfo del popolo e della nazione tedesca nel mondo8. E così il fango e le trincee di quel primo immane conflitto del Novecento non inghiottirono soltanto il protagonista della Montagna incantata di Thomas Mann, ma un certo modo di leggere e di dire il testo sacro. La grande esegesi storico positiva della Bibbia, la pretesa di declinare l’essenza del cristianesimo nel linguaggio universalmente umano dell’etica della fraternità, si rivelarono vuote. L’entrata prepotente di Kierkegaard nella cultura del primo Novecento prestò a Barth le coordinate per mezzo delle quali era possibile pensare l’evento della lettura/ascolto della Parola, attraverso una lingua, quella di Barth, potente e quasi magica nel suo espressionismo letterario, che in qualche modo la stupenda traduzione del teologo valdese Giovanni Miegge ha reso accessibile anche al pubblico italiano. Il secondo drammatico tornante del Novecento, la II Guerra Mondiale e, al suo centro più incandescente, Auschwitz e la Shoah, determinarono una svolta non meno profonda. Essa tra l’altro coinvolgeva la lettura dell’Antico Testamento per i cristiani: questo non poteva essere più considerato la premessa superata e inghiottita nel Nuovo. L’ideologia dei primi volumi del Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, forse la più grande impresa esegetica di tutto il Novecento, ne veniva minata alla base. L’Antico Testamento cessava di essere appannaggio dei cristiani. Non è un 8 W. J. MOMMSEN, Die nationalgeschichtliche Umdeutung der christlichen Botschaft im Ersten Weltkrieg, in G. KRUMREICH UND H. LEHMANN, Hrg., Nation, Religion und Gewalt im 19. und frühen 20. Jahrhundert, Göttingen 2000, 249-261.


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caso, dopo la II guerra mondiale, la scoperta, comune a protestanti e cattolici, di Bonhoeffer, il parroco luterano impiccato dai nazisti: la sua lettura dell’Antico Testamento, la sua interpretazione non religiosa dei concetti biblici, imposero a tutta la teologia un mescolamento di carte non ancora portato a termine. Egli proponeva ai cristiani la preghiera e la lotta silenziosa per la giustizia, in attesa di un «linguaggio nuovo, forse completamente non-religioso, ma capace di redimere e liberare, come il linguaggio di Gesù ...»9. La new Quest sul Gesù storico più recentemente è da parte sua segnata da un recupero dell’eredità ebraica del messaggio di Gesù. E infine, in questo grossolano indice degli snodi che hanno portato, da parte della storia stessa, alla necessità di una nuova ermeneutica, vanno citati gli anni che hanno segnato la fine dell’equilibrio di Yalta, fino alla caduta del muro nel 1989. La Chiesa cattolica celebra nel contesto della crisi irreversibile della guerra fredda il concilio Vaticano II. Giovanni XXIII ritrova la capacità di un linguaggio accessibile ad ogni uomo, nonostante il carattere arcaicamente ecclesiastico della sua prosa. Nella Pacem in terris si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà sicuro tuttavia che il messaggio sulla pace che egli offre, totalmente umano e razionale, sia baciato in fronte dalla luce della divina rivelazione10. Mi fermo qui in questa rapsodica reminiscenza di alcuni fatti della storia del Novecento. L’intenzione era solo quella di mostrare che il problema del linguaggio biblico e della sua comprensione è vicenda intrecciata ad altre, inseparabile da altre vicende umane che impongono la ricerca di nuovi linguaggi, di nuove universalità, che non possono coincidere con quella che Schleiermacher chiamava analisi grammaticale, terribilmente consona alla razionalità borghese, ma richiedono una riscoperta in profondità di una nuova lettura, di una nuova impresa spirituale dell’umanità.

9

D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, a cura di E. Bethge, Cinisello Balsamo 1988, 370. 10 «Sulla fronte dell’Enciclica batte la luce della divina rivelazione, che dà la sostanza viva del pensiero. Ma le linee dottrinali scaturiscono altresì da esigenze intime della natura umana, e rientrano per lo più nella sfera del diritto naturale»: DMC 5, allocuzione del 9 aprile 1963, subito dopo la firma dell’enciclica.


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4. Il nostro non è un colloquio teologico, ma un colloquio in cui si mescolano razionalità e registri diversi, da quello teologico appunto a quello storico letterario, a quello filosofico, senza pretese totalizzanti, senza affermazioni di egemonie preconcette. Mi si permetta allora di tentare una risposta alla domanda lasciata in sospeso, se esista cioè un comune interrogare la Bibbia che sia comune a credenti e non credenti non limitata all’approccio oggettivo, critico-letterario, ma dove gli uomini si lasciano dire dal testo. Precisavo ancora che questo non è un atteggiamento che possa essere riservato alla Bibbia e per questo portavo l’esempio non discutibile di Voltaire. La risposta alla domanda la vorrei trovare extra moenia, fuori dalle mura del recinto sacro della teologia, analizzando, sia pure con la brevità imposta dal tempo a mia disposizione, due recenti interpretazioni della Bibbia, anzi del messaggio paolino, quella di Alain Badiou11 e quella di Giorgio Agamben12. Badiou è e si professa un ateo militante e ciò che propone è una teoria materialistica della grazia. Ma è un innamorato di Paolo e scorge nella sua conversione, nella sua fede in Gesù risorto, il caso esemplare in cui verificare la sua concezione della verità come evento del soggetto, che grazie alla sua conversione all’evidenza di una verità, diventa capace di un linguaggio universale. Secondo Badiou l’evento della conversione in Paolo scava un discorso differente sia da quello greco, che ricalca la logica inerente al cosmo, che da quello giudeo, che Badiou legge come il discorso dell’eccezione, dell’elezione, del segno e quindi ultimamente relativo al discorso greco della verità, come negazione determinata del discorso greco. Il discorso di Paolo è infatti una dichiarazione che rifiuta ogni fondazione, sia quella dei segni straordinari, sia quella della saggezza del cosmo. Essa è la dichiarazione che Cristo ha vinto la morte e che quindi noi possiamo vincere la morte. Non si equivochi sul senso di questa interpretazione. Il fatto della risurrezione è per Badiou una favola. Ma non è la fatticità della risurrezione che ci deve interessare, ma la convinzione soggettiva di Paolo. 11 A. BADIOU, Saint Paul. La fondation de l’universalisme, Paris 1997 1a ed., 2002 4a ed. Io cito da questa. Esiste una traduzione italiana, presso l’editore Cronopio, 1999. 12 G. AGAMBEN, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Torino 2000.


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Per comprendere cioè la fede di Paolo, che è poi l’evento della verità in quanto tale, quella che costituisce un soggetto libero e capace di superare i particolarismi di ogni genere, occorre partire dalla visione del soggetto diviso tra la carne e lo spirito, che non coincide affatto con quella tra corpo e anima. Ora l’evento della verità è quello che permette, nella divisione, di superare la legge della carne, cioè della morte. «Tutto il problema sta qui: si tratta di sapere se un’esistenza qualunque incontra, rompendo con l’ordinarietà crudele del tempo, la possibilità materiale di servire una verità, e di diventare così, nella divisione soggettiva, al di là degli obblighi di sopravvivenza dell’animale umano, un immortale» (70).

Paolo ha proprio questo merito, di aiutarci a comprendere il legame tra la grazia come evento e l’universalità del vero, in maniera tale che sia possibile strappare il lessico della grazia e dell’incontro alla sua prigionia religiosa. Certo oltre il discorso dell’evento veritativo, si apre in Paolo anche un altro discorso: egli infatti sperimenta il miracolo, è stato rapito in cielo, ha visto e udito cose ineffabili. Ma questo quarto discorso, che è aperto dall’evento della verità, in Paolo resta discorso non utilizzabile nella comunicazione e di fatto non indirizzato a nessuno, taciuto. Egli non si vanterà di queste cose. Così come egli non si serve per la sua dichiarazione di verità del discorso della saggezza greca, né di quello giudeo dei segni, così non si serve nemmeno del discorso dell’ineffabile, non «tollera che il soggetto cristiano fondi il suo discorso sull’indicibile» (55). Per questo il discorso che Paolo indirizza come militante, cioè come apostolo, è solo quello della debolezza e della morte vinte nella risurrezione del Cristo. Ed «è a questo regime del discorso senza prova, senza miracoli, senza segni probanti, a questo linguaggio dell’evento nudo che solo avvince il pensiero, che si accorda la magnifica e celebre metafora che si trova in 2Cor 4,7: Ma noi portiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché una potenza così grande sia attribuita a Dio e non a noi» (56).

Badiou evoca, come lettura di Paolo consona alla sua, quella di Pier Paolo Pasolini, nella sceneggiatura del film mai girato su Paolo, con lo


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scopo di fare di Paolo un contemporaneo, condividendone i punti fondamentali dell’interpretazione. Essi sono tre: «1) Paolo è nostro contemporaneo perché il caso folgorante, l’evento, l’incontro puro, sono sempre all’origine di una santità. Ora la figura del santo oggi ci è necessaria, per quanto i contenuti dell’incontro costitutivo possano cambiare. 2) Se si trasferiscono Paolo e tutte le sue affermazioni nel nostro secolo, si vedrà che vi trovano una società reale altrettanto criminale e corrotta, ma infinitamente più resistente e duttile di quella dell’impero romano. 3) Gli enunciati di Paolo sono legittimi al di là di ogni tempo» (39).

Non voglio qui discutere la plausibilità esegetica dell’interpretazione di Badiou, i dettagli di essa, ad esempio il raffronto tra Paolo e Nietzsche, tra Paolo e Pascal. Ciò che mi preme costatare è il fatto che il discorso biblico sia accolto, in tutta la sua radicalità, come fonte di interpellazione, come luogo in cui scoprirsi, in cui lasciarsi dire la verità. Né si obietti che è una verità imposta al discorso. Perché questa imposizione della nostra verità al testo è rischio sempre presente. Nessuno esce dal circolo ermeneutico dei presupposti soggettivi di ogni lettura e dell’alterità del testo. Ma questo rischio non costituisce un’obiezione se il gioco viene giocato seriamente fino in fondo, se uno accetta effettivamente di giocarsi. L’esito non può mai essere definito, e alla fine è di fatto impossibile discernere quanto resta dell’imposizione soggettiva al testo e quanto invece il testo ha operato in noi. Prima di chiudere però il discorso è opportuno passare all’interpretazione di Giorgio Agamben. Il registro qui è totalmente diverso. Agamben non si dichiara un ateo.13 Egli dichiara piuttosto il suo debito al pensiero

13

Interrogato da me se si considerasse un credente, mi ha risposto in questi termini:

«Come immaginerà, la risposta alla sua domanda dipende dal significato della parola “credente” che rischia di essere qui particolarmente fuorviante. La sesta giornata del mio libro (in particolare pp.118-127) era appunto dedicata a chiarire il significato del termine paolino pistis, che non può significare ciò che spesso oggi si intende per “credente” (il tentativo di articolare nei symbola un contenuto della fede vi è definito una sublime ironia). Ma quella esperienza della parola a cui Paolo allude, credo di poterla condividere» (e-mail del 21.03.2003).


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ebraico e in particolare all’interpretazione paolina di Jacob Taubes in La teologia politica di San Paolo14. Gli strumenti che egli impiega sono molto più raffinati di quelli di Badiou, soprattutto sul piano più strettamente esegetico e in qualche misura anche su quello linguistico. Ciò che egli fa emergere, nella sua interpretazione delle prime dieci parole della Lettera ai Romani, è la concezione messianica del tempo e dell’esistenza in Paolo, come paradigma dell’esistenza stessa. Vi confesso che io l’ho trovato nel senso pieno e letterale del termine, un libro “edificante”. Ancora qui, con un esito diversissimo da quello di Badiou, Agamben si lascia semplicemente interrogare da Paolo, si lascia dire dalle sue parole. Io qui mi limito ad una sintesi della sua esposizione della fede in Paolo. La fede di Paolo si esprime, tranne qualche rara eccezione, non in una formula narrativa, analoga a quella dei sinottici, ma come “credere in/eis Gesù messia”. Tra Gesù e messia non c’è spazio per la copula è. Caratteristico è 1Cor 2,2: non ritenni di sapere altro fra di voi se non Gesù messia. Rifacendosi a Benveniste, Agamben ritiene che la frase nominale (Gesù messia) e la frase che contiene la copula (Gesù è messia) non appartengano allo stesso registro. La prima è un discorso, la seconda è una narrazione. «Che significa, allora, il fatto che in Paolo la fede sia espressa dal sintagma nominale “Gesù messia” e non da quello verbale “Gesù è il messia”? Paolo non crede che Gesù abbia la qualità di essere il messia: crede in “Gesù messia” e basta. Messia non è un predicato che si aggiunge al soggetto Gesù, ma qualcosa che è inscindibile da lui, senza costituire, per questo un nome proprio. E questo è la fede in Paolo: un’esperienza dell’essere al di là tanto dell’esistenza che dell’essenza, così del soggetto come del predicato. Ma non è questo precisamente quanto avviene nell’amore? L’amore non sopporta la predicazione copulativa, non ha mai per oggetto una qualità o un’essenza. Io amo Maria-bella-bruna-tenera, non amo Maria perché è bella, bruna e tenera, in quanto ha questo o quell’attributo. Ogni dire è decade dall’amore» (119-120).

14

Milano 1997 (or. ted. 1993).


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Agamben ritiene cioè che la fede in Paolo sia innanzitutto un’esperienza della parola: «La fede dall’ascolto, l’ascolto attraverso la parola del messia» (Rm 10,17). E chiarisce quest’affermazione con l’analisi di Rm 10,6-10, che a sua volta riprende un passo celebre del Deuteronomio. «Vicina a te è la parola, nella tua bocca e nel tuo cuore, questa è la parola della fede che annunciamo». In Paolo la corrispondenza non corre né tra parole e parole, né tra parole e fatti, ma per così dire, all’interno della parola stessa, tra bocca e cuore. “Vicino-eggys” non significa solo vicinanza nello spazio, ma, innanzi tutto, vicinanza temporale. «L’esperienza della parola della fede è, quindi, esperienza non del carattere denotativo della parola, del suo riferirsi alle cose, ma del suo essere vicina, tesa nella corrispondenza tra la bocca e il cuore e, attraverso questo homologein, operatrice di salvezza» (122).

Sembrerebbe che qui Agamben voglia dire che allora la parola della fede appartiene al linguaggio performativo, allo speech act di Austin: una parola che crea una situazione, non che la denota. Tuttavia non è esattamente così. Basandosi su degli appunti di Michel Foucault dedicati alla natura linguistica della professione di fede, egli ravvisa nel registro della fede una performatività particolare, il performativum fidei. Vi sono due modi di risalire al di là della relazione denotativa verso l’esperienza dell’evento del linguaggio. Il primo, seguendo il paradigma del giuramento, cerca di fondare in questa esperienza soltanto il vincolo e l’obbligazione. In un secondo modo, proprio dell’esperienza di fede, l’esperienza della parola apre lo spazio della gratuità e dell’uso. È questo il modo in cui si esprime la libertà del soggetto: «la nostra libertà noi l’abbiamo dal messia» (cfr 124-125). Esiste cioè una performatività specifica della parola della fede che non può essere confusa né con quella della legge e del dogma, né con quella del sacramento15. 15

Agamben ritrova questa sua interpretazione della parola della fede di Rm 10,9-10, in Origene che «oppone la vicinanza meramente virtuale del verbo di Dio a ciascun uomo a quella che esiste effettivamente (efficacia vel efficientia) in colui che confessa nella sua bocca la parola della fede: “Così anche Cristo, che è il verbo di Dio, secondo la semplice possibilità è vicino a noi, cioè a ogni uomo, come il linguaggio è vicino al bambino; ma secondo l’efficacia si dice essere in me ogni volta ogni volta che io avrò confessato nella mia bocca


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Mi fermo qui. Stranamente, per quanto possano essere diverse le interpretazioni di Badiou e di Agamben, esse si incontrano in questa percezione della natura specifica dell’esperienza della parola rivelativa, ed è questa che permette, ma queste sono ormai parole mie, di “farsi dire” da un testo.

5. Riprendiamo allora la domanda: La Bibbia è di tutti? Ritengo di sì, perché in essa è resa possibile, proprio attraverso il linguaggio rivelativo, quell’esperienza del farsi soggetto che permette la libertà e l’universalità. Non ritengo che questa sia una qualità esclusiva della Bibbia. Essa è propria ad ogni testo “sacro”, sia esso religioso, sia esso profano, persino laico. Ma cosa definisce la sacralità di un testo? Nel rispondere a questa domanda, permettetemi di ricorrere, per finire all’aiuto di due famosi saggi del giovane Benjamin, dove emerge il significato di quella che egli chiama “reine Sprache”, lingua pura16. Del resto è lo stesso Benjamin che cerca di scoprire una verifica della sua interpretazione attraverso una rilettura dei primi capitoli della Genesi. L’essenza del linguaggio è la comunicazione all’altro. L’uomo conosce le cose e se stesso mediante il linguaggio, ma l’uomo è, come comunicazione, solo nel linguaggio, anzi solo nella parola, nel dare un nome. Ogni cosa comunica se stessa e possiede un linguaggio, ma solo l’uomo possiede una benennende Sprache, una lingua che chiama le cose e gli altri per nome. L’uomo ha in comune con ogni essente il linguaggio come espressione e comunicazione, ma egli soltanto chiama per nome. Chiamare per nome appartiene all’essenza dell’essere umano. Ogni cosa si comunica: Gesù Cristo e avrò creduto nel mio cuore che Dio lo ha resuscitato dai morti” (ORIGENE, Commentarii in epistulam ad Romanos, a cura di Theresia Heither, III, Freiburg in Br. 1993, 204). La parola della fede si presenta qui come esperienza effettiva di una pura potenza di dire che, come tale, non coincide con una proposizione denotativa né vol valore performativo di un enunciato, ma si dà come assoluta vicinanza della parola.» Cit., 126. 16 Cfr W. BENJAMIN, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, Gesammelte Schriften II.1, Frankfurt 1977, 140-157; Die Aufgabe des Übersetzers, ivi IV.1, Frankfurt 1981, 9-21 (trad. it. Angelus novus, Torino 1962, pp. 39-70). Un utilissimo strumento per la comprensione del pensiero di Benjamin sulla lingua è costituito dalla tesi di R. KATHER, «Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen» Die Sprachphilosophie Walter Benjamins, Frankfurt a.M. 1989.


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una lampada (un oggetto artificiale), una montagna (una realtà inanimata), una volpe (un essere animato). Ma ogni cosa si comunica all’uomo nel nome che l’uomo dà alle cose. A chi si comunica invece l’uomo? Per rispondere a questa domanda, Benjamin approfondisce il senso del Nennen, del chiamar per nome. Il nome è l’essenza più profonda della lingua. Esso non è “posizione” arbitraria dell’essenza delle cose, ma è inscindibilmente unito alla conoscenza della natura delle cose che si comunicano all’uomo e la cui comunicazione viene “ricevuta” dall’uomo, quando egli le chiama per nome. Il nome è quindi inscindibilmente unito alla conoscenza delle cose. Ma esso non ha solo la funzione di conoscere qualcosa e di comunicare agli altri la cosa conosciuta (questa viene chiamata da Benjamin la concezione borghese della lingua), ma il nome è soprattutto il luogo della comunicazione, espressione dell’uomo che parla. Il chiamar per nome non è cioè solo uno strumento, un mezzo per chiamare le cose, ma è anche una determinazione essenziale dell’uomo stesso, l’uomo in quanto comunicazione, in quanto essenza spirituale. Infatti la lingua, proprio come determinazione essenziale dell’uomo, è il suo volgersi al fondamento dell’uomo. «Con il rifiuto del concetto della lingua come posizione dell’uomo e come strumento, come anche della limitazione dell’estensione della lingua al dominio dell’intesa umana, l’uomo viene collocato, a motivo della sua capacità linguistica, nell’insieme di tutti i rapporti dell’essere, per cui egli nel chiamare per nome non si comunica solo ai suoi simili. La sua lingua lo apre in riferimento a tre relazioni: all’essente non umano, al suo simile, al principio del tutto»17.

Questa relazione al “principio del tutto” non è data dal “principio” come “oggetto” nominato, ma il principio è l’inespresso presente in ogni pura lingua, una volta che questa non sia concepita solo strumentalmente. L’uomo si dice a Dio non perché lo chiama per nome, ma l’uomo si dice a Dio perché chiama per nome, non quindi mediante un nome, ma nel chiamare per nome come tale. Il linguaggio puro è l’essenza spirituale dell’uomo, il suo comunicarsi.

17

KATHER, cit., 60.


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Benjamin ci permette di andare oltre una certa maniera della lettura, che si riscontra non solo in quello che possiamo chiamare pensiero laico, ma anche in una certa apologetica, e che possiamo far risalire a Kant. E dico questo pur dovendo al tempo stesso confessare che è anche grazie alla lettura di Kant che il problema si è andato chiarendo in me. Egli identifica nel cristianesimo — e nella Bibbia in particolare — un’essenza universale, fruibile quindi da tutti. Per intendere questo nucleo universale, occorre aver ben presente il suo concetto di “limite”. Nei suoi Prolegomeni ad ogni futura metafisica, il limite (Grenze) entro cui uno si pone non è una negazione di ciò che sta fuori del limite. Esso non è il confine (Schranke) che pretende invece essere una semplice negazione. Nella Bibbia, come nel cristianesimo, ci sono dei contenuti che stanno al di la del limite della “sola ragione”: la grazia, il carattere personale della preghiera etc. Kant non vuole negare questi elementi per il semplice fatto che essi restano fuori della portata della ragione. Ma la ragione mi dice ciò che del vangelo è accessibile ad ogni uomo, la sua “essenza universale” e, in questo senso, la sua verità. Questa prospettiva ha un suo valore e delle motivazioni di ordine storico culturale molto serie che qui non sto ad affrontare. Ad essere maliziosi si potrebbe anche insinuare che il modello kantiano della comunicazione, nonostante le apparenze, è quello che spesso i cristiani adottano nei confronti dei non credenti. Quando infatti pretendono di stabilire la verità della loro esperienza poggiandola sulla cosiddetta ragione naturale di fatto accettano la normatività di questo modello. Ma oggi questa prospettiva mi sembra insufficiente almeno per due motivi. Il primo è la ristrettezza della concezione del “limite”. Come facciamo a dire che sta al di là del limite razionale quanto è sperimentato all’interno di una determinata cultura, fino a depositarsi in linguaggi, in pratiche, in istituzioni, anche se non può essere razionalmente, nel senso kantiano, fondato? Kant stesso, nella considerazione del giudizio estetico, non è costretto ad adire altri parametri? Ma un giudizio estetico cessa di essere al di qua dei limiti della sola ragione? Perché i diversi registri della ragione che lo stesso Kant riconosce (ragion pura, ragion pratica) debbono introdurre priorità vicendevoli? Il secondo motivo è la concezione stessa della comunicazione in Kant. In qualche modo essa esclude che io possa comunicare all’altro ciò che è mio, che non è comune con l’altro. Qui Kant mi sembra ancora troppo


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debitore del deismo e dell’illuminismo nel privilegio che dà al genere, a ciò che è comune, rispetto alla differenza specifica. La Bibbia non può essere degna di essere ascoltata solo nella misura in cui evoca sentimenti, pensieri, convinzioni, di cui io possa essere capace. Ed è qui che il contributo di Benjamin si sembra illuminante. Ogni parola è un dire e un dirsi. Se il dire può essere misurato, il dirsi può essere solo accolto, solo ascoltato. Ma può essere solo accolto e ascoltato non perché l’altro con il suo dirsi possa travasare in me se stesso, ma perché suscita anche il mio dirmi. Kierkegaard sottolineava l’incomunicabilità della fede e aveva profondamente ragione. Ma l’osservazione può estendersi ad ogni dirsi dell’uomo ad un altro. Il dirsi di un altro mi invita non ad accogliere il suo dire, ma a dirmi nella mia specificità. Il dirsi di ognuno di noi — nel pianto, nel sorriso, nella fede di Dio, nella negazione di Dio, nella speranza di un futuro e nella sua negazione — è un prender posizione. In quanto tale non è esportabile, appartiene solo a me, non può essere travasato. Ma proprio così esso è un invito all’altro a dire se stesso. Noi non comunichiamo solo perché ci scambiamo informazioni sulle cose e sugli altri, ma comunichiamo perché al tempo stesso e nello stesso atto, e non solo quando lo facciamo esplicitamente — ma anche allora, nella confessione esplicita, c’è sempre la duplice dimensione della comunicazione — noi parliamo a quello che i credenti sono abituati a chiamare Dio. Lo stesso vale per l’agiografo, per l’autore di qualsiasi libro sacro. La Scrittura sacra, dico questo da cristiano sapendo che ciò è diverso per il musulmano, come tale non è parola di Dio. “Parola di Dio” vuol dire che Dio parla per davvero, che quindi il genitivo va inteso come soggettivo. Solo nella fede Dio mi parla. Non a caso è la Parola che suscita in me l’ascolto (vedi sopra le osservazioni di Agamben). La Bibbia come parola di Dio può quindi essere comunicata all’altro solo nel dirsi del credente di fronte alla Parola. La Bibbia è di tutti, nel senso vero del termine, solo se l’agiografo o un lettore credente “si dicono”, testimoniano cioè la parola in quanto lingua pura. La prima lettera di Timoteo (6,13) dice che «Gesù testimoniò davanti a Ponzio Pilato la bella confessione (di fede)». L’altro cioè si aspetta che io mi dica e solo in questo modo egli può accostarsi alla Scrittura come essa veramente è: testimonianza della Parola che viene da Dio. Egli per percepire questo, per percepire il dirsi dell’agiografo e il mio dirmi leggendo la


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Bibbia, non ha bisogno di accettare la pretesa della Scrittura e mia. Percepisce il mio dirmi come diverso dal suo dirsi e deve per questo percepire proprio la mia intenzione di dirmi, di testimoniare a lui la mia confessione di fede. Solo così può essere invitato al suo dirsi. Questo dirsi può non essere eguale al mio, anzi di segno contrario, ma resta un dirsi, in cui ognuno gioca se stesso, la propria esistenza, davanti al mistero in cui questa galleggia. Leggere la Bibbia dicendo noi stessi non è un comunicare delle informazioni sul modo in cui ha avuto origine il mondo, sulla data della nascita di Gesù e della sua morte, sui motivi per cui fu condannato, ma dicendo tutte queste cose, è un comunicare — nell’accettazione o nel rifiuto — con il mistero della nostra origine, del nostro peccato, della nostra speranza.



LA BIBBIA LIBRO ESOTERICO? IL PUNTO DI VISTA DELL’EBRAISMO

ALBERTO SOMEKH*

Dal TALMUD BABILONESE, TRATTATO CHAGHIGAH (SULL’OFFERTA FESTIVA), f. 14b. MISHNAH Non1 si studiano le relazioni proibite in tre, non l’Opera della Creazione in due e nemmeno il Carro da soli, a meno che non si sia sapienti e dotati d’intuito. Colui che contempla queste quattro cose sarebbe stato meglio se non fosse venuto al mondo: quel che sta sopra, quel che sta sotto, quel che sta davanti, quel che sta dietro. E colui che non ha a cuore la gloria del suo Fattore, sarebbe stato meglio se non fosse venuto al mondo.

GHEMARA’ I nostri Maestri hanno insegnato. Una volta rabban Yochanan ben Zakkay viaggiava per strada sul dorso di un asino e, dietro a lui rabbi El’azar ben ‘Arakh conduceva l’animale; questi disse all’altro: Rabbi, insegnami un capitolo dell’Opera del Carro. Rispose: Non vi ho forse insegnato così: «E nemmeno l’Opera del Carro da soli, a meno che non si sia sapienti e dotati d’intuito?» Allora questi replicò: Rabbi, consentimi di dire al tuo cospetto qualcosa di quel che tu mi hai insegnato. E rabban Yochanan: Dillo. E poi subito smontò dall’asino, si avvolse nello scialle e andò a sedersi su un sasso sotto un albero d’olivo. Rabbi El’azar allora gli chiese: Perché sei smontato dall’asino? E rispose: È ammissibile che tu sia qui a esporre *

Rabbino Capo di Torino. Riportiamo, con qualche lieve variante, la versione italiana di G. BUSI E E. LOEWENTHAL, Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del Giudaismo dal III al XVIII secolo, Torino 1995, 7; 21-22. 1


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Alberto Somekh l’Opera del Carro, la Shekhinah qui con noi e gli angeli officianti che ci accompagnano, e io me ne stia a cavalcioni dell’asino? Poi rabbi El’azar ben ‘Arakh prese a esporre l’Opera del Carro e un fuoco calò dal cielo e attorniò tutti gli alberi del campo. Tutti pronunciarono un cantico. Quale? Lodate il Signore dalla terra, mostri marini e abissi tutti (…) alberi fruttiferi e cedri tutti (…) Alleluia! (Sal 148,7-9 e 14). Un angelo rispose dal fuoco e disse: Ecco, questa è proprio l’Opera del Carro. Yochanan ben Zakkay allora si alzò in piedi, lo baciò sul capo e disse: Benedetto il Signore Dio d’Israele, che ha concesso ad Abramo nostro padre un figlio che sa comprendere, investigare ed esporre l’Opera del Carro; c’è chi predica bene ma non altrettanto opera, c’è chi opera bene ma non altrettanto predica: tu predichi bene e operi bene. Beato te, Abramo nostro padre, frutto dei cui lombi è El’azar ben ‘Arakh.

Una delle caratteristiche della trasmissione delle idee nell’Ebraismo è, per lo più, l’assenza di sistematicità. I Rabbini hanno adottato un metodo molto diverso dai filosofi. Nella cultura ebraica la logica procede per associazione di idee. Non solo: si tende per lo più a rifuggire dalle argomentazioni astratte. I Maestri hanno una passione per tutto ciò che è vita concreta. Anche per comunicarci concetti ed insegnamenti molto elevati, si suppone che un apologo, un racconto di vita vissuta, un Midrash, sia assai più efficace di un ragionamento filosofico. E sull’associazione di idee e le narrazioni concrete è costruito il caposaldo della dottrina religiosa ebraica, il Talmud. È lo stesso testo monumentale dal quale è tratta la pagina che analizzeremo. La stesura del Talmud è durata circa tre secoli, ma il materiale in esso contenuto si rifà a tradizioni orali assai più antiche2. Secondo la Tradizione ebraica, nella grande teofania sul Monte Sinai Dio avrebbe rivelato a Mosè non una sola Torah, bensì due: la Torah scritta e la Torah orale. Perché questa duplice rivelazione? L’Ebraismo postula il principio dell’eternità 2 Sulla Mishnah, il Talmud e la letteratura rabbinica in genere la bibliografia è vasta. A titolo indicativo si vedano H.L. STRACK, Einleitung in Talmud und Midrasch, 1921 (trad. ingl. Filadelfia, 1931) ed il recente AA.VV., The literature of the Sages, in Compendia Rerum Iudaicarum, I, Assen 1987. In italiano si veda: R. TRAVERS HERFORD, I Farisei, Bari 1925, più volte ristampato; F. MANNS, Leggere la Mishnah, Brescia 1987; J. NEUSNER, I fondamenti del giudaismo, Firenze 1992 e gli studi di G. Stemberger, pubblicati in versione italiana dalle Ed. Dehoniane. Sul Midrash si veda anche R. PACIFICI, Midrashim, Casale Monf. 1986 e J. ZEGDUN, Il mondo del Midrash, Assisi/Roma 1980.


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della Torah, riflesso dell’eternità di Dio. Eternità significa essere presenti simultaneamente nel passato, nel presente e nel futuro. L’eternità implica il principio della non contraddizione, e quindi quello dell’immutabilità. Nello stesso tempo, garantire immutabilità alla Legge significa anche renderla operativa in qualsiasi contingenza storica. Se i suoi principi devono rimanere immutati nel tempo, le applicazioni della Legge devono invece saper rispondere alle esigenze di ogni tempo nella loro mutevolezza, fornendo di volta in volta quell’interpretazione dei principi medesimi che consenta ad essi di proporsi continuamente attraverso una lettura fresca e vitale. I principi si trovano affermati nella Torah Scritta, la Bibbia o, più esattamente, i Cinque Libri di Mosè; le loro applicazioni trovano invece espressione nella Torah Orale, frutto di una lunga tradizione esegetica. La Torah Orale si divide a sua volta in due discipline interdipendenti, ma distinte: la Halakhah e la Haggadah. La Halakhah (lett. “procedura”) è essenzialmente il frutto dell’interpretazione dei passi legislativi della Bibbia. Secondo la tradizione ebraica, i Cinque Libri contengono 613 precetti, di cui 248 obblighi e 365 divieti. Attraverso le discussioni sulla Halakhah i Maestri arrivano a determinare qual è il modo corretto di eseguire ciascun precetto, e quindi di osservare la Volontà Divina ogni volta. La Halakhah, una volta stabilita, è obbligatoria per ogni Ebreo. Chi stabilisce la Halakhah? Ogni generazione ha i suoi Decisori. È interessante notare che raramente le discussioni contenute nel Talmud pervengono a definire la norma. Esse vogliono piuttosto fornire i parametri entro cui è tenuto a muoversi ogni Decisore per elaborare una sentenza che consenta l’applicazione della Legge ai suoi tempi. Accanto alla Halakhah vi è la Haggadah (“narrazione”): l’insieme delle interpretazioni dei passi narrativi della Bibbia. Più che chiarire le norme, la Haggadah intende approfondire il significato e il messaggio del Testo, spesso intrattenendoci su affascinanti sfumature lessicali, o amplificando la portata di alcuni racconti. Alla Haggadah appartiene quel filone conosciuto sotto il nome di Midrash (“indagine”). Accanto alla Legge vi è la sua Filosofia, che le fornisce la sua ragion d’essere. Certo, l’Ebraismo si caratterizza per la Halakhah, per il fatto di richiedere il consenso dei propri fedeli su quella che i teologi cristiani chiamerebbero la “teologia morale”, la norma pratica, mentre sul piano della “teologia dottrinale” non si punta, con altrettanta forza, ad uniformare il pensiero. È però vero che senza la


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base dottrinale della Haggadah, la Halakhah non potrebbe riscuotere il consenso che le è necessario. Come siamo giunti noi a conoscenza della Torah Orale? In effetti, essa fu inizialmente tramandata di generazione in generazione per via di insegnamento. C’era un divieto di metterla per iscritto, perché non si voleva che le fosse attribuito il medesimo status sacrale del Testo Biblico. Ma giunse un’epoca in cui i Rabbini intravidero il pericolo di perdere tutto, se non fosse stato messo per iscritto, e preferirono derogare all’antico divieto. Ciò accadde a seguito delle persecuzioni adrianee, che determinarono la Seconda Diaspora del popolo ebraico. La Mishnah fu scritta da Rabbì Giuda il Principe, intorno all’anno 200. Essa si propose di fornire l’epitome delle discussioni sulla Halakhah fino a quel tempo. E così essa costituì il punto di partenza per nuove discussioni interpretative, che ebbero il loro centro non più nella Bibbia, bensì nella Mishnah stessa. Tali discussioni si svilupparono fra i Maestri di Palestina prima (fino al 313 circa) e poi di Babilonia, l’unica terra dell’ecumene antico non conquistata dai Romani. Fu essenzialmente in Babilonia che le Comunità Ebraiche elaborarono quei testi che permisero la loro sopravvivenza spirituale fino ad oggi. Questo ulteriore materiale confluì in effetti nella Ghemarà (lett. “completamento”) che, insieme alla Mishnah, forma il Talmud. La redazione del Talmud babilonese, o Talmud per eccellenza (per distinguerlo dalla redazione parallela del Talmud Gerosolimitano, che non godette della stessa autorità), fu “chiusa” nell’anno 499. In essa entrarono, accanto alle discussioni normative, numerosi Midrashim (plurale di Midrash), come quello che ci accingiamo ad esaminare. Ma prima di passare all’analisi va nuovamente ribadito che dietro alle fonti della Torah Orale si colloca in ogni caso, anche se non sempre richiamata in modo esplicito, l’autorità della Torah Scritta, ovvero della Bibbia. Anche se redatta oltre cento anni dopo la distruzione del Santuario di Gerusalemme, quando ormai la normativa sacrificale poteva dirsi un ricordo, la Mishnah tratta di questa branca della Halakhah con pari dignità rispetto ad ogni altra: è certamente un modo per rivivere e attualizzare in modo virtuale ciò che si era perduto nella realtà storica. Il trattato Chaghigah (“dell’offerta festiva”) appartiene al secondo dei sei Ordini nei quali è ripartita la Mishnah, l’Ordine relativo alle Festività (Seder Mo’èd).


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Esso è dedicato ad approfondire il precetto del pellegrinaggio che secondo la Torah ogni ebreo era tenuto a compiere a Gerusalemme tre volte all’anno, in occasione di Pessach (Pasqua), Shavu’òt (Pentecoste) e Sukkòt (la festa delle Capanne) e quello dei sacrifici particolari che dovevano essere portati in queste ricorrenze, definite nella Tradizione appunto shalòsh regalim, «le tre feste di pellegrinaggio». Va notato che a questo complesso tema la Bibbia dedica soltanto qualche fugace accenno e, per usare una colorita metafora adoperata in questi casi dai Maestri, la trattazione che ne dà il Talmud è come «una montagna appesa ad un filo». Non stupisce pertanto affatto di scoprire che, nell’ambito della trattazione relativa alle regole dei sacrifici festivi, il secondo capitolo del Trattato esordisce con un’ampia digressione sul fatto che determinati argomenti sono affrontati nella Bibbia solo per accenni. Nell’esegesi rabbinica, alcuni di essi sarebbero stati volutamente tenuti “riservati” dall’Autorità Divina per evitare che finissero manipolati da personalità meno che all’altezza, in quanto delicati sul piano morale, ovvero per le loro implicazioni mistiche. In effetti, neppure nel nostro Trattato questi argomenti vengono illustrati nei loro contenuti. Ci si limita per lo più a dare una spiegazione della loro “riservatezza” e a fissarne i parametri. E anche se questi temi hanno scarso legame con la Halakhah intesa come normativa pratica e vincolante, e ancor meno sono connessi con i precetti del sacrificio festivo, pur tuttavia sono affrontati in questo contesto, forse per “creare un’atmosfera” di intensa spiritualità intorno all’esperienza stessa del pellegrinaggio, che la Bibbia chiama «comparizione davanti a Dio» (Es 23,17). Gli argomenti che la Mishnah prescrive di trattare in modo riservato sono tre. Di essi si danno tre livelli diversi di “riservatezza”. Il primo sono le ‘arayòt, ovvero le unioni sessuali che la Bibbia proibisce. È un argomento al quale viene attribuita estrema gravità da un lato, ed estrema pericolosità dall’altro. La Torah commina le pene più severe nei casi di incesto ed adulterio; nello stesso tempo, la natura umana è tale per cui «non esiste tutela per le ‘arayòt» ovvero, nessuno può dirsi immune da debolezze in questo campo. Per questo la Mishnah invita a non parlarne a gruppi di tre o più persone per evitare che, come spesso avviene, durante la lezione uno degli allievi si metta a discutere con il maestro, mentre gli altri due ingaggino fra loro disquisizioni inopportune. Peraltro, davanti a due soli allievi il maestro


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è autorizzato ad esporre questi argomenti, perché se anche uno solo dei due si intrattiene con il maestro, l’altro non può far altro che ascoltare. L’altro tema “difficile” cui accenna la Mishnah è l’Opera della Creazione: come Dio ha creato il mondo in sei giorni. Questo argomento non può essere insegnato neppure a due persone insieme, dice la Mishnah, per il suo contenuto mistico. Esso può essere trasmesso in via riservata ad un solo allievo per volta. In questo caso si teme infatti che anche se il secondo allievo si limita ad ascoltare la discussione del compagno con il maestro, possa trarne conclusioni errate. E ancor più l’Opera del Carro, ovvero la descrizione del Carro Divino nel primo capitolo di Ezechiele, non può essere esposta neppure ad un allievo in assenza di astanti se egli non è giudicato dal maestro sufficientemente dotato per intenderlo. Cosa si intende per dotato? In possesso di due differenti qualità, o livelli di sapienza: la capacità di intendere gli insegnamenti attraverso lo studio dei testi (chakham) e la capacità di elaborare gli argomenti già trattati fino a dedurre conclusioni per quanto concerne casi non ancora trattati (mevìn). L’ultima parte del paragrafo sembra stigmatizzare del tutto qualsiasi interesse mistico. Nell’interrogarsi troppo sui massimi sistemi si intravede il pericolo di fraintenderli, e addirittura di perdere la fede. I commentatori forniscono spiegazioni diverse su come si debbano intendere i termini “sopra” e “sotto”, “davanti” e “dietro”. C’è chi li vede come riferimenti a entità spaziali, mentre altri li interpretano come funzioni temporali. Per alcuni “sopra” indicherebbe l’Esistenza di Dio e “sotto” la Sua Provvidenza. In ogni caso si allude a concetti che vanno aldilà dell’umana comprensione. Il versetto biblico che dice: «Domanda relativamente ai tempi antichi […] (a ciò che si colloca) da un estremo del cielo all’altro estremo» (Dt 4,32) viene qui invocato per insegnare che nell’ambito di ciò che rientra nel cielo è lecito porre domande, mentre ciò che va oltre l’umana percezione non va investigato. La Ghemarà (lett. “compimento”) completa la Mishnah. Ma questa volta, invece di indugiare in discussioni giuridiche, lo fa proponendoci un Midrash. Un exemplum vivente, nel quale vediamo operanti i principi su cui abbiamo discusso esponendo la Mishnah. I protagonisti del racconto sono personaggi del massimo calibro. Rabban Yochanan ben Zakkay, il Maestro, fu il Presidente del Sinedrio di Gerusalemme nel momento in cui Tito


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l’assediava. Discepolo dei grandi Hillel e Shammay, dai quali aveva ereditato la missione di trasmettere la Torah, il suo nomen era a sua volta un omen. Zakkay significa “uomo meritevole”; ben generalmente significa “figlio”, ma talvolta ha il senso di «persona dotata di una certa qualità». Così Yochanan ben Zakkay potrebbe essere tradotto Yochanan il Meritevole. Basti aggiungere che nell’etica ebraica il merito è un motore fondamentale, con un valore non inferiore a quello che ha piuttosto il timore del peccato nella morale cristiana. Una eccellente biografia di Rabban Yochanan ben Zakkay ci fornisce Elie Wiesel in un capitolo della sua “Celebrazione Talmudica”3. Yochanan capiva che la fine era vicina. La perdita del Tempio e della città, e perfino della Terra d’Israele, avrebbe forse significato che al popolo ebraico non sarebbe rimasto più nulla al mondo? Anche la fine della Torah era vicina? Qualunque cosa sarebbe accaduta, Israele avrebbe dovuto mantenere la sua Torah: avrebbe avuto una ragione di vivere e una Torah che gli indicasse come vivere. Decise così di trattare con il nemico. Il Talmud racconta che, per eludere i Romani che assediavano Gerusalemme, si fece trasportare fuori dalla città in una cassa da morto: voleva forse simboleggiare che anche nel momento in cui lo Studio pareva correre il peggior pericolo, sarebbe poi comunque risorto a nuova vita in altra sede. Giunto al cospetto del generale Vespasiano, gli pronosticò che sarebbe diventato imperatore poco prima che la notizia gli venisse comunicata ufficialmente. E quando il capo dei Romani gli domandò come avrebbe potuto sdebitarsi della profezia, Rabban Yochanan gli disse: «Concedimi l’Accademia di Yamnia (una piccola città presso la costa, lontano dalla guerra) e i suoi sapienti». Il suo desiderio fu esaudito. Il suo motto sarebbe stato: siamo stati creati per studiare e per realizzare la Torah, pertanto non possiamo trarne motivo di vanto. Sappiamo dai Pirqè Avòt (Massime dei Padri)4 che Yochanan aveva cinque discepoli affezionati, di cui il Maestro tesseva l’elogio. Così li 3

Milano 2002, 51-82. Cfr anche, dello stesso Autore, Sei riflessioni sul Talmud, Milano 2000, 75-104. 4 Così è denominato un trattato inserito nel quarto ordine della Mishnah, avente un carattere quasi esclusivamente etico-filosofico. Si vedano i commenti di CH. TAYLOR, Sayings of the Fathers, Cambridge 1897; J. ISRAELSTAM, Avòt, nella versione inglese del Talmud Babilonese a cura di I. Epstein, Londra 1988 e il breve saggio di M.B. LERNER, The Tractate


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invitava: «Uscite e vedete: qual è la retta via alla quale l’uomo deve attenersi?» Yochanan non si limita a dire: «Sedete qui, ragazzi, ed ascoltate ciò che vi dico». Dice loro piuttosto: «Uscite e guardatevi attorno. Usate gli occhi. Pensate a ciò che vedete. E poi tornate e ditemi qual è la risposta giusta e quella sbagliata». In altre parole, commenta Neusner, non basta che «ci rivolgiamo ad un libro o a qualche importante personaggio (rabbino, preside, maestro, amico) e diciamo: ‘Che debbo fare’? Dobbiamo decidere da noi. E il modo in cui decidiamo, per cominciare, è quello di apprendere come prendere le decisioni. E ciò significa apprendere ad usare la nostra mente che Dio ha fatto in accordo con la Torah»5. Ciascuno degli allievi diede la sua risposta, ma il Maestro disse di preferire quella di Rabbì El’azar ben ‘Arakh, perché essa comprendeva tutte le altre: «un buon cuore». «Il cuore, ecco cosa conta — osserva Wiesel — . Essere aperti alla sofferenza degli altri. Alleggerire il loro fardello. Cercare di comprendere cosa affligge l’altro, cosa l’opprime»6. Gli fa ancora eco Neusner: «Ogni cosa dipende dal tuo pensiero, dal tuo comportamento, dalla tua intenzione, che sono racchiusi nella parola ‘cuore’»7. Rabban Yochanan paragonava El’azar ad una fonte impetuosa. Non c’è dubbio che l’essenza del rapporto fra maestro e discepolo si concentra nell’approfondimento della Torah e la sua costante realizzazione pratica, attraverso la bontà e la generosità come virtù principali di un uomo. Ma non è tutto. Dal dialogo qui accennato e da altri passi ancora deriviamo seri indizi che la Scuola di Yochanan non si limitasse allo studio della Halakhah. Nonostante l’avversione che i Maestri del Talmud avevano per la filosofia greca, alcune sessioni erano probabilmente dedicate all’approfondimento di queste tematiche. Il Professor Judah Goldin ha messo in luce come particolarmente Rabbì El’azar ben ‘Arakh fosse influenzato dalla dottrina stoica, alla costante ricerca della somma virtù etica su cui impostare

Avòt, in The literature of the Sages, I, 263ss. In italiano: Y. COLOMBO, Pirqè Aboth, Morale di Maestri Ebrei, Assisi/Roma 1977; F. MANNS, Leggere la Mishnah, cit., 179ss. 5 J. NEUSNER, Come si studia la Mishnà, Dip. Assistenza Culturale dell’Unione Comunità Israelitiche Italiane, Roma 1983, 126-127. Cfr anche, dello stesso Autore, il commento alle Massime dei Padri Torah from our Sages, Dallas 1984, 72-82, 186-187. 6 E. WIESEL, Celebrazione Talmudica, cit., 61. 7 J. NEUSNER, Come si studia la Mishnà, cit., 130.


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la vita. Come domandava Diogene Laerzio: tì praétton a"rista biwésetai (che cosa si deve fare per vivere meglio?)8. «I nostri Maestri hanno insegnato». È questo l’incipit di molti passi talmudici. Il testo, per essere degno della tradizione, deve portare una firma autorevole. «Non tutti coloro che vogliano prendersi fama hanno diritto di prendersela», non chiunque ritenga di avere qualcosa da comunicare ha per questo il diritto di farlo. In genere, i Maestri del Talmud sono molto precisi nel registrare le proprie fonti. Talvolta, un insegnamento è introdotto con l’espressione: «disse il tale a nome del tal altro, a nome di tal altro ancora». Per quanto appaia pedante, questa prassi garantisce l’autenticità e l’affidabilità della materia tramandata. Una massima dei Pirqè Avòt riassume il concetto in un modo assai efficace: «Colui che riporta un detto con il nome di chi lo ha affermato, porta la redenzione nel mondo». In mancanza di singoli nominativi, come nel nostro caso, è sempre preferibile introdurre l’argomento come insegnamento dei «nostri Maestri». Dunque, Rabban Yochanan ben Zakkay e Rabbì El’azar ben ‘Arakh, rispettivamente Maestro e discepolo, erano in viaggio insieme. Secondo le abitudini di allora Yochanan, il Maestro cavalcava un asino, mentre El’azar, il discepolo seguiva a piedi. In altri passi del Talmud si chiarisce in cosa consistesse quest’ultima funzione. L’animale trasportava in genere una persona, oppure un basto, e necessitava di essere guidato da dietro perché non perdesse l’equilibrio. L’allievo svolgeva anche un compito di attendente, insomma. Nel leggere questo genere di testi dobbiamo tenere presente una regola importante: nessun dettaglio del racconto è superfluo. Se il Talmud avverte la necessità di riportarci che di asino propriamente si trattava e non di un altro animale, non è per puro vezzo giornalistico o per aggiungere coloriture alla narrazione. Vuole comunicarci un messaggio. Vedremo così che il nostro brano è ricco di simboli. L’asino, in ebraico chamòr, è il primo di questi. Certo, nella Bibbia non è una bestia qualsiasi, e si ha persino l’impressione che nella cultura orientale in genere questa specie sia rivestita di una dignità perlopiù respinta in Occidente9. Si 8 Cit. da A Philosophical Session in a Tannaite Academy, in Studies in Midrash and Related Literature, Philadelphia 1988, 71ss. 9 Sull’argomento si veda: J. HASTINGS, A Dictionary of the Bible, I, Edimburgo 1951,


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pensi al culto egiziano di Seth, piuttosto che a riflessi orientali nella stessa letteratura ellenistica, come l’Asino di Luciano e di Apuleio. In ebraico biblico ci sono almeno sei termini diversi per definire l’animale, e questa è una prova linguistica della particolare considerazione di cui gode, forse come depositario di una sapienza superiore. Ciò forse spiega perché il primogenito dell’asino dovesse essere riscattato al pari dei primogeniti umani e a differenza di quello degli altri animali (Es 13,12-13; 34,19-20), e quale sia la base del celebre episodio dell’asina di Bil’am (Num 24). È verosimile che in questa luce vada letta anche l’affermazione talmudica secondo cui «colui che vede un asino in sogno può sperare nella salvezza» (Berakhòt 56b). A dorso di un asino giungerà, secondo il Profeta Zaccaria (9,9), il Redentore, e questo è certamente il più illustre richiamo del nostro racconto. Nei suoi scritti il famoso Rabbi Loew di Praga metteva in relazione il vocabolo chamòr con chòmer, “materia”, o chomriùt, “materialità”10. Ciò allude a sua volta alla «schiavitù fisica che hanno imposto» al popolo ebraico “i Caldei e i Romani”, culminata nella distruzione del Tempio e dello stato. Rabban Yochanan ne è testimone oculare. Ma come il Messia, egli cavalca la materialità con tutti i mali che essa comporta e così facendo la supera, la trascende. Diversa è invece la posizione del fido discepolo, che deve limitarsi a guidare con le sue scarse forze da terra, e per giunta da dietro, l’animale recalcitrante. Il Midrash riferisce a questo punto di un breve, ma intenso colloquio fra i due. Si trae spunto dalla Mishnah iniziale: il discepolo sollecita dal Maestro una lezione sull’Opera del Carro (quale migliore occasione per studiare del tempo libero concesso dal viaggio!), ma il Maestro gliela nega, sostenendo che l’argomento può essere affrontato solo con un allievo chakham e mevìn. Lungi dal protestare animatamente, R. El’azar ci dà a sua volta lezione di grande umiltà e fermezza nel richiedere semplicemente 173-174; F. VIGOROUX, Dictionnaire de la Bible, I, Parigi 1985, 566-573; Biblical Encyclopaedia (in ebr.), III, Gerusalemme 1958, 166-171; I. GAFNI in Encyclopaedia Judaica, III, 784; M. STERN, Greek and Latin Authors on Jews and Judaism, I, Gerusalemme 1984, spec. 182, 552, 563. 10 Cit. da A. NEHER, Faust e il Golem: Realtà e mito del Doktor Johannes Faustus e del Maharal di Praga, Firenze 1989, 66. Dello stesso Autore si veda: Il Pozzo dell’Esilio, Casale Monf. 1990.


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qualcosa che il Maestro non avrebbe potuto negargli: la possibilità di ripetere una lezione precedente. Una lezione precedente? Ma se il Maestro non ritiene l’allievo all’altezza del tema! R. Samuel Edels11 risolve il problema in modo affascinante. Per non imbarazzare il Maestro, il discepolo fa passare per lezione appresa da lui ciò che in realtà aveva studiato per altre vie. Naturalmente il Maestro intuisce di cosa avrebbe parlato, e in segno di rispetto per il sapiente allievo, scende dall’asino (abbandona del tutto la materia?), si avvolge nello scialle da preghiera, e siede su un sasso sotto un olivo. Altri due simboli importanti. È uso ebraico universale depositare una piccola pietra allorché si visita una tomba. Perché? Si argomenta che la parola ebraica per sasso, èven, è formata dalla crasi di due monosillabi: av, che significa “padre” e ben che indica il “figlio”12. Per sua stessa natura la pietra è simbolo di continuità. E questa è determinata a sua volta da un solido legame generazionale. Nel momento della trasmissione degli insegnamenti da parte del maestro e della “consacrazione” dell’allievo, questa istanza diviene centrale. È giocoforza ricordarsi che la tradizione trova la sua ragion d’essere nel rapporto padre-figlio, maestro-discepolo, pena la propria inevitabile dissoluzione. Anche l’olivo richiama gli stessi concetti. È un albero sempreverde, e come tale simboleggia l’eterna freschezza dei Divini insegnamenti, destinati a non appassire mai. Ma è anche, afferma il Talmud, simbolo dell’eternità di Israele. Peraltro, non è questo l’unico significato che si associa all’olivo. Nei Salmi esso serve da paragone per il Giusto che trova rifugio nella protezione Divina (52, 10), o per i figli che sono come virgulti intorno al tronco dell’olivo, pronti a garantirne la continuità se esso dovesse venir tagliato13. L’olivo, sappiamo bene, forniva l’olio per l’accensione del candelabro, e rappresenta la luce dell’insegnamento della Torah. Ma l’olivo richiama anche l’unzione del Re e del Sommo Sacerdote (Gdc 9,8-9). Ci sono due motivi particolari che la tradizione ebraica riconosce nell’olio. Il primo è che esso non si mescola agli altri liquidi, 11 Autore di importanti annotazioni e novelle ai Midrashim del Talmud, vissuto in Polonia fra il 1555 e il 1631, noto con il suo acronimo Maharshà. 12 Cfr il Targum Onqelos (vers. aramaica) di Gen 49,21. 13 Cfr M.H. FARBRIDGE, Studies in Biblical and Semitic Symbolism, New York 1970, 41.


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bensì galleggia sull’acqua. Il secondo è che mentre lo si travasa, è l’unico liquido a non provocare rumore. Si osserva che sono queste due ragioni sufficienti a fare dell’olio il simbolo della regalità per eccellenza. Chi detiene il potere deve saper volare alto, ma quando ritiene di colpire in basso, deve saperlo fare senza rumore! La lezione del discepolo sull’Opera del Carro provoca un autentico sconvolgimento nella natura circostante. «Un fuoco calò dal cielo e attorniò tutti gli alberi del campo», i quali intonarono una cantica in lode a Dio. I commentatori osservano che nel momento in cui R. El’azar espone l’Opera del Carro, non solo quest’ultima si manifesta, ma anche l’altro grande argomento mistico, l’Opera della Creazione, si muove dinanzi a lui. È segno del massimo gradimento cosmico: El’azar ha colpito nel segno. E il fuoco è in effetti l’elemento altamente simbolico di questa fase. Il fuoco riscalda, il fuoco illumina a sua volta; è fattore di distruzione per eccellenza, ma anche di purificazione allo stesso tempo. La fiamma, comunque la si prende e la si rivolta, tende sempre verso l’alto. Il fuoco si pone in antitesi con i beni materiali. Se si deve dividere una torta fra più persone, quanto maggiore è il numero dei beneficiari, tanto più piccola sarà la fetta che ciascuno riceverà. Ma se si tratta piuttosto di mettere in condivisione una fiamma, accendendo da quella già esistente una nuova fiamma per ciascuno dei partecipanti, tanto maggiore sarà l’illuminazione che ne risulterà senza che la fiamma originaria debba subire riduzione alcuna della propria potenza. Allo stesso modo mentre i beni materiali si riducono in misura inversamente proporzionale al numero degli utenti, nei beni spirituali, simboleggiati dal fuoco, accade invece che aumentano in modo direttamente proporzionale ai beneficiari stessi. La spiritualità ha un senso nella misura in cui cessa di rimanere appannaggio di circoli ristretti e diventa patrimonio comune dei più. Esiste una lettura esoterica della Bibbia ebraica? Dall’analisi del passo talmudico in questione la risposta è certamente affermativa. Tale lettura è certamente antica almeno quanto l’Ebraismo stesso. La tradizione attribuisce ad Abramo, il primo Patriarca, la stesura del Sefer Yetzirah, il “Libro della Creazione” in cui si investigano per la prima volta in modo sistematico i misteri dell’Opera della Creazione14. Non è un caso che 14

Cfr Edels ad loc. Sul Sefer Yetzirah si veda G. TOAFF, Sefer Yezirah, Il libro della


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Rabban Yochanan, nel complimentarsi con il discepolo per la sua brillante esposizione sull’Opera del Carro, lo mette in relazione con Abramo. La domanda è piuttosto un’altra. Che valenza ha, nell’ambito della tradizione ebraica, un simile approccio alla Bibbia rispetto ad altri? Certamente l’osservazione conclusiva del nostro passo ci comunica qualcosa in merito, ma è più difficile da capire. A cosa allude l’asserzione: «C’è chi predica bene ma non altrettanto opera, c’è chi opera bene ma non altrettanto predica: tu predichi bene e operi bene»? Il nostro brano inquadra R. El’azar certamente come un buon “predicatore”, ma a quali opere si riferisce, legate alla sua persona? Se lo domanda Edels, senza fornire una risposta. Forse l’effetto di avere provocato uno sconvolgimento naturale come conseguenza della sua lezione è indice di coerenza negli insegnamenti di questo eccezionale discepolo, in grado di lasciare un segno concreto di tale portata intorno a sé? Goldin, soffermandosi sui presunti legami di R. El’azar ben ‘Arakh con la filosofia greca, nota che la lode di chi pratica ciò che predica è in realtà un topos nella letteratura stoica. Riferisce Diogene Laerzio che quando gli Ateniesi volevano lodare Zenone di Cizio, il fondatore della scuola stoica, ricordavano che «in tutta la sua condotta aveva fornito un modello di imitazione in perfetta coerenza con i suoi insegnamenti»15. E ancora in un passo di Plutarco gli Stoici sono appunto criticati perché non si comportano, nella loro vita, in conformità con i loro stessi insegnamenti16. Ma ho motivo di ritenere che il richiamo alla coerenza qui esca a sua volta dal dominio di una specifica scuola di pensiero per assurgere ad indicazione di condotta valida in qualsiasi luogo e qualsiasi tempo. In qualsiasi comunità religiosa ci sono persone che si accontentano di “predicare bene”. Affermano di dedicarsi soltanto allo studio dei testi, senza dedicarsi in alcun modo alla pratica. Affermano di saper tutto della religione, ma disertano i luoghi di culto. Asseriscono di essere alla ricerca di una risposta personalizzata, individuale ai problemi esistenziali; ma così facendo spesso e volentieri estendono questo tipo di considerazione dal campo rituale a quello più propriamente morale, con le conseguenze che conosciamo. Creazione, Assisi/Roma 1979; G. SCHOLEM, Le grandi correnti della mistica ebraica, Genova 1982, 80ss; G. BUSI, Mistica Ebraica, cit., 31ss. 15 7, 10-11. 16 Moralia 1033°ss; cit. in A Philosophical Session, cit., 63.


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Altri ancora affermano di essere pronti a praticare senza alcun interesse per lo studio dei testi, per la preparazione che deve precedere. Nell’Ebraismo, in cui lo studio è elemento essenziale per accedere alla pratica, questo aspetto del problema è particolarmente sentito. Una pratica religiosa esercitata senza lo spirito critico derivante da un sano approfondimento delle fonti rischia di sconfinare in una ritualità gretta, fondamentalmente priva di quell’autentica spiritualità che sola può assicurare un’esperienza religiosa completa. L’ideale del naeh dorèsh we-naeh meqayyèm, di «colui che predica bene e pratica bene» è a mio avviso il riflesso di un’altra discussione talmudica famosa: è più rilevante lo studio o la pratica? La risposta è fortemente indicativa. È più importante lo studio in quanto porta alla pratica. La Rivelazione Divina è fatta per entrambi gli scopi, in un’armonia coerente. Non c’è spazio nella Torah per scorciatoie, né essa si presta ad essere adoperata per un “pronto soccorso” spirituale. La Torah, afferma una nota personalità rabbinica del Novecento, è più un paradosso che un paradiso: il suo scopo è quello di suscitare in noi problemi, piuttosto che risolverceli. È una sfida che ci richiede di accettare. Per il resto varrà il versetto del Deuteronomio: «Le cose occulte appartengono al Signore Dio nostro, mentre quelle rivelate sono competenza nostra e dei nostri figli in eterno, allo scopo di mettere in pratica tutte le parole di questa Torah»17.

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Dt 29,28.


IL CORANO LIBRO ESOTERICO?

FUAD KABBAZI*

Nel nome di Dio, Clemente, Misericordioso. È mio costume, fin da bimbo, pronunciare la formula islamica dell’Incipit coranico nell’accingermi ad ogni opera di un certo riguardo, a titolo propiziatorio, ed a maggior ragione che la mia comunicazione, oggi, concerne il nostro Libro sacro e su un tema che non ebbi mai l’occasione di svolgere da credente per nascita, oltre che per saldo convincimento dopo, quando intrapresi gli studi per giungere alla massima impresa della mia vita, che è la traduzione — non solo in italiano, bensì nelle altre tre lingue più diffuse nel mondo, — del glorioso Corano stesso. Questo è dovuto all’insolita domanda postami dal reverendo professor Giuseppe Ruggieri di questo Studio Teologico per l’attuale colloquio interreligioso: «Il Corano, libro esoterico?». Ora, se dovessi rispondergli, in un colloquio tra due colleghi, gli direi: «No, altrimenti non ci sarebbe oggi l’Islam, che sarebbe scomparso — contrariamente alla volontà del Suo Impositore, coranicamente parlando (in base al versetto 85 della sura “I resoconti”), rivolta in forma di veritiera promessa e preconizzante anticipazione al nostro Profeta, che recita: «Inver, Colui che ti ha imposto il Corano, ti riporterà certo a Ma’ad», cioè la Mecca —, come altre fantomatiche religioni antiche, che sorsero sì, nel periodo larvale della loro storia, ma, contrariamente all’Islam, perirono del loro esoterismo, perché non rilevate da un Ente supremo ma da sprovveduti mortali ideologici».

*

Ambasciatore della Grande Giamahiria Libica presso la Santa Sede.


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Comunque, il Corano, unico nel suo genere, discese dalla “Tavola arcana” celeste, come libro preannunciato nella sua interezza a Muhammad (Sal’am) e non scritto dai suoi adepti post mortem, cosa che non è nel novero delle facoltà umane dei mortali autori. Ecco un punto a cui mai si è pensato in favore della nostra ferma ed assoluta convinzione, opposta a quella occidentale, secondo cui il Corano sarebbe opera personale — creata o plagiata — del nostro Profeta, a prescindere dalla realtà scientifica con cui sortiremo stasera alla fine da quest’aula, e cioè che Muhammad non è né Nostradamus, per ciò che concerne i presagi terreni ed escatologici del Libro, né Newton, né Eistein “ante litteram”, per parlarci a suo tempo del cosmo e tanto meno della velocità della luce. Inoltre, in senso autentico, un libro messianico non può essere esoterico, perché deve essere diffuso liberamente per il necessario proselitismo ecumenico. Esoterici possono e devono essere i riti ed i simboli della fede in fase fetale, come avvenne per i cristiani fino al miracolo costantiniano, sia per timore che venissero stroncati od annientati da seguaci di un’ideologia avversa, oppure per conservare la propria identità quale minoranza di classe a cui non si può adire se non per specifiche qualifiche, come avvenne per l’ebraismo che si distingue per aver salvaguardato tale classe con la discendenza materna, al pari dei nostri Tuareg, gli uomini velati del deserto, pur dopo aver abbracciato l’Islam. Nella missione muhammedana tale necessità durò pochissimo per il fatto che Allah ha voluto calare la Sua Parola su gente scevra da ideologia, che seguiva il politeismo naturalistico degli avi primitivi, senza essere inquinata dalla mania scismatica che imperversava attorno al suo mondo, essendo stata per millenni priva di profeti o messaggeri divini. Nel Corano Allah lo fece notare loro, tramite il Suo Messaggero, con il versetto 151 della “Giovenca”: «… come abbiamo inviato un messaggero fra voi d’infra voi stessi…», il cui significato è spiegato nel versetto 19 delle “Mense”: «Voi dite: “Non c’è pervenuto né un nunzio, né un avvertitore!” E aggiunge: “Ed ecco che vi è pervenuto un nunzio e avvertitore!”». E nel versetto 46 dei “Racconti”, Egli spiega a Muhammad perché lo inviava: «… per avvertire un popolo cui non giunse un avvertitore alcuno prima di te, acciocchè si avvedano». Ma il nuovo profeta non era di carattere esclusivo e locale, bensì universale, seppur in lingua araba, parlata nella sua città natale come lingua


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franca, per il fatto che la Mecca allora era la capitale del commercio carovaniero tra il Sud ed il Nord della penisola arabica, nonché sede del centro finanziario e culturale degli arabi che si riunivano così annualmente nel mercato internazionale di “Ukdaz”. Il disegno divino dell’universalità della nuova fede è preannunciato nel versetto 1 del “Criterio” (Furqan, dalla radice “furaqa”: separare, distinguere, giudicare, ecc.): «Sia benedetto Colui che ha inviato il Suo servo onde sia un avvertitore per l’umanità» (Al’alamin, i terrestri o popoli del mondo). E l’universalità del Corano è annunciata nel versetto 18 della sura del Kaf: «… egli non proferirà parola che non sia notata da un osservatore attento». La qualifica è ripetuta in forma più marcata nel versetto 52 del “Calamo”: «Esso non è se non ammonimento all’umanità». E ancor più dettagliatamente troviamo l’ecumenismo coranico nel versetto 92 degli “Armenti”: «Questo è un libro che abbiamo rivelato, benedetto, a conferma delle scritture che lo hanno preceduto e per avvertire la “Madre dei borghi” (cioè la Mecca) e coloro che le sono attorno». E in differente forma nel versetto 7 dei “Consulti”: «E parimenti ti abbiamo ispirato un Corano arabo per avvertire “La Madre dei borghi” e chi le sono attorno». Si trattava solo dell’inizio, perché tosto la Madre dei borghi divenne Madre delle contrade e i borghi metropoli, quali Damasco, Bisanzio, il Cairo, Tunisi, Algeri, Fez, ed oltremare, Siviglia, Cordova, Toledo, e nel Mediterraneo, Palermo, indi tutte quelle che si trovano sul cammino di Marco Polo ed oltre, quelle sull’Oceano Indiano, oltre l’orizzonte della luce in Polinesia, e oltre ancora, grazie al più coraggioso navigatore “solitario” del mondo, Reis Mawi, detto “il pescatore di isole”, che raggiunse le coste occidentali del continente americano, dove scoprì che lì il calendario era indietro di un giorno … Questa è la mia epitome geografica della grande ode all’Islam del Goethe, che lo assomigliò ad una novella fede che sgorga da una polla la cui acqua, scorrendo umile a valle, raccolse le altre consimili, fino a diventare un rivolo, e questo poi si trasformò in fiume che ricevette tutti gli affluenti della terra fino a scoprire il mare, ed infine l’oceano. Con questo destino il nostro Libro non poteva essere esoterico. E dovendo divenire universale, doveva essere tradotto, e ciò sarà in eterno, perché il Corano, se non è esoterico, è comprensibile a gradi secondo l’avverarsi delle sue profezie e l’avvento delle sue verità. Queste prima


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devono essere scoperte da “coloro che sanno” e particolarmente dagli scienziati, i quali, man mano che penetrano i misteri del creato, si umiliano e adorano sempre più il Sublime Fattore, pur non andando alla moschea o in chiesa. Di essi Allah ha detto nel versetto 28 di “Fatir” (Il Creatore): «Invero temono Allah d’infra i suoi servi gli scienziati». Ma nella scrittura antica, senza segni diacritici né mozioni, il versetto venne letto all’inverso, cioè «Invero Allah d’infra i suoi servi teme gli scienziati». Ciò che oggi potrebbe essere anche, assurdamente ma praticamente, una versione valida, se pensiamo a quelli che inventano in base alla Sua scienza, i presupposti della fine del mondo. Comunque la correzione non è grammaticale, bensì logica. Se casomai Egli avesse inteso questo, non li avrebbe qualificati “servi”. Non lo sono. I servi siamo noi uomini della strada, ma ormai non più Suoi, bensì degli scienziati … Dopo aver evidenziato il fatto che il Corano non è un libro esoterico, occorre spiegare ciò che effettivamente è, iniziando dall’interrogazione d’Allah, come prospettato nel suo stesso testo. Secondo la vulgata ufficiale e riconosciuta dal tempo del Califfo Othman, in cui le sure sono state ordinate in base alla loro approssimata lunghezza e, nemmeno a farlo apposta, non considerando quella propiziatrice intitolata “L’aprente”, troviamo nella sura della Giovenca, dopo il simbolo alfabetico “Alif-Lam-Mim (lettere A, L, M), la qualifica datale dal Suo sublime Fattore: «Tal è, senza dubbio, il Libro: guida ai devoti, che credono senza vedere, ecc…», sebbene tutti i traduttori fanno recitare, copiandosi l’un l’altro: «Quello è il Libro, scevro di dubbio, guida ai devoti, che credono nell’ignoto, ecc.». Ma l’incidentale araba “la royba fihi” è semplicemente avverbiale, che afferma la verità dell’asserzione e non l’infallibilità del Libro; mentre l’altra: “yu’minuna bil ghaybi”, è un’altra avverbiale che significa “fiduciosi in ciò che Allah afferma” e non sono come S. Tommaso d’evangelica memoria. Infatti anche i beduini allora pretendevano che il fantomatico dio di Muhammad, per crederci, doveva presentarsi. Il fatto è che i lettori sprovveduti del glorioso testo non hanno mai la visione globale del discorso divino che, per grazia di Dio, si spiega da sé, onde basta riandare ad alcuni versetti dove il dubbio della frase incidentale è chiaramente inteso. Ecco quattro esempi: «La rivelazione del Libro è, senza dubbio, da


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parte del Signore del creato» (XXXII, 2) — «… e che l’Ora è, senza dubbio, un prodigio» (XXII, 7) — «… e acché avverti che il Giorno dell’Ammesso è fuori di dubbio». (XLII, 7) — «Dì: Allah vi dà la vita, poi vi fa morire, indi vi farà ammassare al Giorno della Resurrezione che è fuori di dubbio» ecc… Il fatto che il Libro è tutto verità è ribadito in suoi altri versetti di cui basterebbe citarne uno di lapidaria chiarezza che dice: «Ciò perché Allah ha fatto calare il Libro con la verità» (II, 176). Il Corano, menzionato tante volte nel proprio testo in vari modi, la cui lista copre tre pagine dell’indice delle sue parole chiave, ha vari aggettivi di cui ci limitiamo a trattare quelli più insoliti ed intriganti, quali: «Libro codificato (Maraum), Libro calibrato (Mastur), Libro illuminante (Mubim), Libro nobile (Cherim), Libro Glorioso (Megid)». In più è menzionato come “Il Monito”, come in: «E non chiederne loro mercede, giocché non è che un monito per l’umanità» (XII, 104). Di tutti questi aggettivi e qualifiche, i più interessanti sono “Codificato” e “Calibrato”, se presi nel loro senso arcano, fuori dell’accezione pacchiana delle due radici verbali dei vocaboli arabi, intendendo cioè il testo mandato all’uomo in anticipo sulle sue future scoperte ed invenzioni, grazie alle quali i mussulmani dell’ultima generazione gongolano di soddisfazione per il fatto che nel loro Libro (in cui Allah dice esista tutto) si parlava da quindici secoli dell’energia atomica, dello spazio, della relatività, della gravitazione universale, dell’ecologia, e della clonazione. In arabo “maraum” significava solo numerato, ma oggi s’è rivelato codificato in vari modi per varie discipline, fra cui, la più importante è quella telematica delle parole d’ordine, che nel Corano è un numero magico della cabala accadica, il 19. Questo numero, nel sistema sincretico, sfuggito a Pitagora, rappresenta l’inizio e la fine del mondo. E ciò prima che si inventasse l’abaco e la serie delle cifre da uno a nove. L’uno è il “fiat lux” e il nove “l’omega”. Ora, secondo il calcolo numerologico delle “somme” — in arabo “giummal”, — le due cifre sommano a 10, che, sommate le sue cifre, dà 1 che è Dio, principio e sintesi di tutte le cose. Questo è ascoso in un voluto errore grafico della formula propiziatoria a capo dell’intero Corano e d’ogni sura, che grammaticalmente leggendo si pronuncia erratamente «Bismillahi r-Rahmán r-Rahím», mentre si dovrebbe dire: «Bi ismillahi», cioè con la vocale i mancante all’inizio. Come si dovrebbero pronunciare anche le due ultime parole — due attributi


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di Dio, — r-Rahman, r-Rahim”. Invece si leggono come se i due errori non ci fossero, perché il nome di Dio non si storce mai. Un altro segreto che gli arabi non avrebbero mai scoperto — oltre il fatto che così la “basmala” (la formula che significa: Nel nome di Allah, il Clemente, il Misericordioso), risulta di 19 lettere, invece di 22, — è che le sillabe, scandite alla maniera romanza, formano il 9 del numero magico della chiave segreta. L’ignaro lettore occidentale domanderebbe: «E a che cosa serve la chiave?». Lo capirebbe oggi. Tutti gli orientalisti, e fra essi i traduttori, non sanno che le forme delle misteriose lettere, sia singole o in combinazione, che appaiono all’inizio di certe specifiche sure, e che i fedeli chiamano — secondo un’ignota tradizione — “Lettere illuminanti”, anch’esse fanno parte del codice e servono alla integrità del testo sacro sceso sul Profeta Messaggero d’Allah ( i profeti sono molti, ma i messaggeri veritieri sono stati pochi e non ce ne saranno più), giacché alcune di esse appaiono in alcune sure ripetute disparate volte, ma sempre in una cifra divisibile per 19 … E siccome il Corano è opera d’Allah e non di Muhammad, Allah ha voluto creare nelle vicende dei musulmani, dalla prima ora, dei lievi incidenti che son serviti a confermarci — a noi oggi, — che la codificazione della vulgata definitiva era voluta da Lui e Muhammad non lo seppe mai … Nella famosa sura detta “Sad” — la esse palatale degli arabi, che nessuna lingua possiede, — tale lettura doveva ripetersi 57 volte, onde essere divisibile per 19. E mentre gli scribi ricevevano la dettatura dalla bocca del Profeta, lo sentirono pronunciare la parola “stendere”, che in arabo suona “basata” con la esse linguale normale, con la “Sad” palatale. Uno di essi ebbe il coraggio di correggere il Messaggero di Allah sottovoce, nel ripeterla scrivendo (cosa che raramente succede non per vigliaccheria, ma perché la maggioranza dei scribi tiene la lingua morsa fra i denti e la punta fuori dalle labbra); allora il Profeta gli intimò: “Scrivila come l’ho dettata io, perché è così scesa!”. Era l’unica volta che venne scritta com’è oggi e non esiste nei nostri dizionari. Se non fosse stata corretta — o meglio scorretta, — non si poteva applicare alla sura la regola del 19 … Tale regola non è affatto inventata, né scoperta di sana pianta da un individuo di cui è d’obbligo menzionarne il nome, per diritto di autore — almeno ne sentii parlare agli inizi degli anni ottanta da miei vecchi allievi


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emigrati negli Stati Uniti per la loro “super – qualificazione”; — comunque ne ricordo il cognome: Dr. Khalifa, ed era allora “imam” della moschea di Tucson, in Arizona. Si tratta, incredibile dictu d’una scoperta mia fatta durante l’ultima decade del secolo scorso, quando, durante la mia euforica attività divulgativa ed editoriale nel seno del “Gruppo Universitaris Tripolino (G.U.T. per non confonderlo col G.V.F. ostico allora ai libici) ho avuto bisogno di citare dei versetti coranici senza usare le traduzioni allora disponibili nelle librerie della colonia, zeppi di errori — anche voluti, — nonché di madornali sgrammaticature e scivoloni stilistici. Le mie restituzioni vennero tosto evidenziate dagli intellettuali italiani prima a Tripoli, poi qui in Italia, fra i quali c’erano ancora i miei cari maestri delle Scuole Cristiane S. Giovanni Battista De La Salle, e i più eminenti orientalisti dell’epoca, quali i compianti professori: Gabrieli, Rizzitano, Moreno, Strambelli, Della Vida. Inoltre gli accenni mi fecero slittare nel pelago ingrato della critica, onde con l’istituirsi del Centro Culturale Italiano e il Centro Dante Alighieri, mi trovai obbligato a “scendere in campo” alla Farinate, cioè “a viso aperto”, con una memorabile serata in presenza dell’Ambasciatore d’Italia e dell’Arcivescovo di Tripoli. Il destino volle che, fra i pochi italianisti libici — di valore non inferiore di quelli massimi vostri—, ci fosse il rappresentante della Società per l’Appello all’Islam, ex-allievo delle scuole italo-arabe fasciste, che, oltre a capire abbastanza degli errori tabulati di quattro traduzioni, scelte fra quelle fatte “plagiariamente” da tutti cumulativamente, riuscì anche a capire i tonfi linguistici e le sdrucciolature stilistiche inaudite. Fra i quattro Cavalieri dell’Apocalisse “cruschevole”, figurava anche un prelato che ebbe la malaugurata idea di far serializzare la sua traduzione del nostro Libro su Epoca, subito interrotta di fronte alla slavina di rimostranze, provenienti sia da ambienti islamo-cattolici che intellettuali di Libia e d’Italia, dopo la prima puntata. Da quella serata e dal suddetto incidente, la Società Mondiale per l’Appello all’Islam ebbe l’idea di promuovere e sovvenzionare, col ritardo di venti anni (allora, cioè negli anni ’80), la mia opera giovanile per dotare il lettore italiano d’una traduzione del Sacro Corano in forma prosodica che anche i non arabofoni potevano godere al pari del pio musulmano, che di solito impara il Libro a memoria senza capirlo.


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A convincere il “Comitato ad hoc” costituito da teologi ed italianisti libici, invitai tre amici: un lettore di lingua madre italiana, un intellettuale libico bilingue ed un ospite digiuno d’italiano, a dire a quale sura appartenesse ciò che legge il lettore italiano del volumetto delle “Sure brevi” che avevamo pubblicato a Roma, a titolo sperimentale e in proprio. Il membro bilingue doveva fungere da arbitro, essendo un noto memorizzatore del testo sacro. Inutile dire quanto successo ebbe il “quiz”. Al giorno d’oggi, l’ignaro membro cavia avrebbe forse guadagnato 300.000 euro se la prova fosse stata condotta dal simpatico Amedeus. Questa era — ed è per tutto il Corano, ora in fase di stampa, — dovuto al fatto miracoloso che il nostro Libro è disceso dalla sua “tavola arcana”, l’incunabalo celeste, in puri versi liberi secondo la prosodia romanza, rivelata certo anche quella da Dio stesso a quei vaghi menestrelli passati alla storia col nome di “troubadours”, (tradotto pacchianamente “trovatori”, laddove il termine derivava in provenzale dal verbo andaluso “atraba”, cioè dall’arabo “atraba, yutribn” da cui il nostro “mutribin”, cantori). Essendo il fenomeno a tutt’ora allo studio, presso la Cattolica di Milano, del Prof. Paolo Branca, mi fermo qui, dato che l’argomento è di carattere puramente letterario. Per gli ascoltatori impazienti tengo a rimandarli in proposito al mio articolo apparso sulla rivista “Levante” col titolo “Il segreto dell’armonica coranica”. Per gli arabisti offro l’occasione di prendere visione a richiesta in anteprima del mio studio inedito “Il segreto dell’impossessione dei sensi dalla musica dei versetti del “Saggio Monito”, dove è spiegata la sorprendente sintonia dei versetti coranici con la più classica poesia italiana (in altro loco con altre lingue), in più la superiorità prosodica su tutti i più magistrali versi proverbiali preislamici, già apertamente sfidati dal Corano stesso, essendo questi fondati sulla regola quantitativa del mitico Al-Khalil’bun Ahmed, mentre il Corano era stato composto su ben altre regole divine basate sulla sillaba e l’accento tonico, seicento anni prima dei “Troubadours” o trovatori che non hanno, in ultima analisi, trovato niente … A sottolineare l’importanza della musicalità della parola divina, Allah menziona al Suo nobile Profeta, al versetto 87 della Sura XV (Al-Hijr…) di avergli concesso un mezzo di comunicazione melodica col dirgli: «e ti abbiamo concesso sette corde accoppiate ed il Glorioso Corano…», verso che gli esegeti antichi e moderni, arabi ed occidentali, non hanno mai capito


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per l’uso del termine “matham”, plurale di “mathma” nella sua accezione più appropriata e logica, assumendolo per “verso” ed interpretando l’espressione come allusione alla Sura dell’Incipit, tradizionalmente considerato “l’Aprente”, che è in pratica “l’Adito”; ragion per cui tale versetto suonerebbe: «… e ti abbiamo concesso sette versetti ed il Glorioso Corano», come se la suddetta sura d’esordio non fosse parte del Libro. E ciò per aver dimenticato che i “mathani” sono le coppie di corde di cui si compone la scala musicale del liuto… e che il Libro è rivelato in base al segreto della prosodia in cui veniva rivelata la parola divina. Ma il fatto è che gli studiosi d’ermeneutica coranica dicono che il Libro sacro “si spiega da sé” qualora “coloro che sanno” si ricordassero degli appositi “loci” in cui Allah ha posto la Sua interpretazione. Per il versetto 87, della sura XV summenzionata “Al-Hij’r” («E ti abbiamo concesso sette corde accoppiate ed il Glorioso Corano»), la questione è chiarita al versetto 23 della sura “Al-‘Ancabut”, cioè il Ragno, che recita: «Allah ha calato il meglio del discorso in un libro armonioso (mutasciabihan) in note, per il quale si accapponano le pelli di coloro che temono il lor Signore, indi si distendono le loro pelli ed i loro cuori al nomar d’Allah». È risaputo che la recitazione, sia piana o solenne, ha un effetto direi stupefacente sugli animi degli ascoltatori, anche illetterati, che reagiscono all’unisono, alle pause canoniche, con profondi sospiri di approvazione o gaudio o contrizione a seconda della tonalità che obbedisce per arte a tutte le sfumature del senso del “discorso”. Fu questa la chiave magica di molte conversioni miracolose della prima ora, della quale è mitica quella del tremendo personaggio corescita Omar ‘bnul Khattab, futuro secondo Califfo. Non per niente il Creatore ha anche detto nel suo “nobile,” nonché “glorioso” Libro: «… esso vi è pervenuto come predica da parte del vostro Signore e balsamo per ciò ch’è nei petti» (X, 75); ed oltre: «… e calò del Corano ciò che è medicina e grazia per i credenti». Balsamo e medicina sono sinonimi della parola araba “scifà”, che significa in generale guarigione e toccasana. Chi memorizza il Libro d’Allah, non ha bisogno che gli venga inculcato la pietà dal di fuori attraverso le invisibili “doppie corde” che non influiscono né molciscono più la sua pelle, né il cuore”, dato che il suo stesso cuore è cangiato in liuto umano. I primi musulmani che attraversa-


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vano il deserto inospitale tutto l’anno dal sud al nord, e viceversa, non avevano punti di pronto soccorso e guarivano masticando certi appositi versetti, reiterando formule estratte dal Sacro testo, sgranando i loro rosari composti da novantanove granelli, divisi, come la Divina Commedia, in tre gruppi di trentatrè granelli, intercalati da segnadito detti “testimoni” per ricordarsi di affermare l’unicità di Allah e che Muhammad è Suo Messaggero. Prima dell’Islam, i beduini compivano la tradizionale spola carovaniera con la stessa incolumità, non grazie alle giaculatorie, ma per l’innata fede nella provvidenza riposta, sebbene politeisti, nell’Ente Unico dell’Universo che chiamavano già prima di Muhammad: “Il Misericordioso” (Arrahman). Ecco perché il Signore fece scendere la Sua ultima rivelazione nel luogo più impensato del mondo, fra gente che non ebbe mai prima dei messaggeri “d’infra essi stessi”. Ciò che rimane di occulto nel Corano è che, oltre ad essere tutto di cui sopra, compresa la medicina, a dispetto dei suoi ignari detrattori, non più memori dei dodici secoli di civiltà regalati all’umanità, è tuttora “guida ai devoti” e il Verbo più letto o seguito che predica fra la gente la cosa che più le manca oggidì: la pace, che è nel suo saluto e nel suo nome. Ascoltate: «Non entrare in case non vostre senza chiedere prima permesso e salutato i suoi abitanti…» (XXIV “La Luce”, 27); «O credenti, entrate in seno alla pace tutti». (II “La Giovenca”, 208); «Se pendono per la pace, pendici». (VIII “Il Sovrappiù”, 61); «E non dite a chi vi augura la pace, non sei credente». (IV “Le Donne”, 94); «E il loro saluto colà è: Pace!». (X “Giona”, 10); «Egli è Allah, che non v’è altro Dio all’infuori di Lui, il Sovrano, il Santissimo, la Pace!». (LIX “L’Ammasso”, 23).


LA BIBBIA LIBRO ESOTERICO? IL PUNTO DI VISTA DEL CATTOLICESIMO

ANTONINO MINISSALE*

Alla memoria del Prof. Francesco Erasmo Sciuto Il tema di questo convegno, annunziato nei titoli in tono provocatorio con una doppia domanda retorica basata sul presupposto che la Bibbia sia un libro di tutti e che non è perciò un libro esoterico riservato ad una cerchia più o meno larga di iniziati, non è affatto, da un punto di vista cattolico, un dato ovvio e scontato. Infatti, i documenti ecclesiastici attinenti alla Bibbia, a partire dallo stesso Concilio Vaticano II, la considerano da un punto di vista ecclesiale e confessionale, e quindi discriminante, secondo cui essa è vista come punto di riferimento importante per la vita dei credenti e per le elaborazioni dei teologi. Non c’è dubbio che il principio che la Bibbia sia libro di tutti è una conquista della coscienza laica moderna, che si afferma in Europa con l’Illuminismo nel Settecento, il quale per i suoi effetti epocali è diventato da allora una componente caratteristica dell’evoluzione generale della cultura che abbraccia la filosofia, la letteratura, le scienze empiriche e le discipline umanistiche. Come si sa, questo grande movimento culturale e storico si afferma sul piano religioso nella forma di una emancipazione della ragione, quale requisito proprio di ogni uomo, dalla sudditanza della teologia e dei dogmatismi delle diverse Chiese. Infatti, anche l’ortodossia luterana e quella calvinista, dopo l’iniziale rottura libertaria con il cattolicesimo, si erano sclerotizzate in sistemi dogmatici abbastanza rigidi, che vengono presi di mira, insieme alla tradizione cattolica, dalla rivendicazione *

Ordinario di Antico Testamento presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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del diritto che deve avere la ragione di discernere ciò che serve al bene dell’umanità appellandosi alla capacità intellettuale ed etica di cui l’uomo è naturalmente dotato. Possiamo citare a questo proposito la celebre definizione dell’Illuminismo data da E. Kant (1724-1804) nel 1784: «L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria ragione senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria ragione»1.

Dopo che son trascorsi circa tre secoli da quegli inizi, non ci sorprenderà il constatare che tutto questo clima culturale ha avuto le sue immancabili ripercussioni e ricadute nello sviluppo degli studi biblici, sia per l’Antico e sia per il Nuovo Testamento, con effetti molteplici e variegati a seconda delle diverse appartenenze denominazionali e delle diverse aree geografiche e culturali2. 1 «Aufklärung ist der Ausgang des Menschen aus seiner selbstverschuldeten Unmündigkeit. Unmündigkeit ist das Unvermögen, sich seines Verstandes ohne Leitung eines Anderen zu bedienen. Selbstverschuldet ist diese Unmündigkeit, wenn die Ursache derselben nicht am Mangel des Verstandes, sondern der Entschliessung und des Mutes liegt, sich seiner ohne Leitung eines Anderen zu bedienen. Sapere aude! Habe Mut, dich deines eigenen Vestandes zu bedienen! Ist also der Wahlspruch der Aufklärung», cit. in P. HENRICI, Testi – chiave del pensiero moderno, (ad instar manuscripti), Pontificia Università Gregoriana, Roma 1973-74, 332. 2 Con particolare riferimento al Nuovo Testamento, dal quale noi in realtà prescindiamo, è interessante il giudizio che esprime uno storico statunitense (cattolico) sulla positiva “decantazione” delle posizioni dogmatiche delle diverse Chiese, grazie allo studio critico dei testi che così costituisce una base comune per il superamento di certe contrapposizioni confessionali troppo rigide ed unilaterali del passato: «L’esegesi protestante ed anglicana contemporanea è contrassegnata da una vera e propria ritirata di fronte alle posizioni critiche più negative dell’esegesi liberale. Essa risente dei movimenti dottrinali e liturgici che agitano il protestantesimo moderno, e segna un progresso nei confronti dei Riformatori. Infatti, certe posizioni di questi ultimi urtano con l’evidenza storica, come dimostra uno studio oggettivo del NT. Esiste perciò una possibilità di dialogo tra esegeti cattolici e protestanti per una fecondazione reciproca dei loro metodi e delle loro conclusioni scientifiche» (G. H. TAVARD,


La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista del Cattolicesimo

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Tentando ora un bilancio retrospettivo di questo grande processo plurisecolare, vi si possono riscontrare delle vicende alterne ed ambigue, che solo con il passare degli anni si sono rivelate feconde e positive, dopo che si sono decantate dei loro inizi acerbi e dissacranti. Perciò, per quanto riguarda il cattolicesimo, il riconoscimento del principio che la Bibbia è libro di tutti si inquadra nel più ampio contesto storico e teoretico dei rapporti della Chiesa cattolica con il mondo moderno. In questo quadro si deve pure inserire lo sviluppo dei rapporti ecumenici che hanno consentito il passaggio di tante nuove acquisizioni storiche e letterarie dall’esegesi protestante all’esegesi cattolica, di solito incline ad atteggiamenti culturalmente più conservatori. Nel contesto di questa prospettiva generale vogliamo proporre, a titolo esemplificativo, l’interpretazione data all’albero della conoscenza del bene e del male del quale si parla in Gen 2-3, nel commentario di Hermann Gunkel del 1910, ripresa e sviluppata con una documentazione di tipo etnologico e psicoanalitico nella poderosa opera di Eugen Drewermann in tre volumi apparsi dal 1976 al 1978, Strukturen des Bösen. Ma per meglio comprendere la mentalità di Gunkel, che con il suo grande commentario segna una pietra miliare nell’interpretazione della Genesi, occorre risalire al pensatore a cui egli si ispira che è Herder, il quale a sua volta si richiama a Spinoza e si confronta con Lessing. Parleremo perciò, secondo l’ordine cronologico, di Spinoza, Lessing, Herder, Gunkel e Drewermann, dando più spazio soprattutto a quest’ultimo. La svolta fondamentale che si determina con questi autori è che mentre prima nella tradizione patristica e medioevale la Bibbia era considerata principalmente come parola di Dio, ora viene accostata come parola dell’uomo soggetta all’interpretazione propria di ogni opera umana.

1. SPINOZA (1632-1677) La riflessione filosofica di Baruch Spinoza è focalizzata sulla fondazione razionale dell’etica umana che ha il suo modello nell’ordine Esegesi protestante [Principi della] in Enciclopedia della Bibbia, Torino – Leumann, 1970, cc. 71-78, 78).

III,


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stesso di Dio, coincidente per lui con lo stesso ordine della natura. Spinoza proviene da una famiglia che si è trasferita ad Amsterdam in seguito alla cacciata degli ebrei dal Portogallo. Frequenta una scuola rabbinica, ma poi sviluppa il suo pensiero in maniera indipendente dalla sinagoga e anche in opposizione alla maggioranza calvinista che ha un forte peso politico in Olanda. Secondo lui, l’etica razionale deve essere libera dalla paura e dall’ignoranza nella quale si fonda la religione, ridotta a pura superstizione. Questa, a sua volta, serve a rendere il popolo succube del potere, mentre invece esso dovrebbe istruirsi in modo da poter esercitare una libertà sufficientemente illuminata con la quale può contribuire responsabilmente all’assetto della società secondo il parere espresso dalla maggioranza. Il suo Trattato Teologico Politico del 16703, partendo da questi presupposti generali, si interessa in maniera specifica dell’interpretazione della Bibbia, ponendo le basi del metodo storico critico che caratterizzerà l’esegesi biblica in epoca moderna e contemporanea. Egli rivendica il diritto di chiunque a interpretare la Bibbia4, perché essa deve essere esaminata con un procedimento empirico e razionale analogo a quello seguito nell’osservazione dei fenomeni della natura. Perciò si devono interpretare le varie espressioni bibliche confrontandole tra di loro, senza il ricorso a delle autorità esterne alla Bibbia. Come antico allievo della scuola rabbinica sottolinea pure l’importanza dello studio dell’ebraico. Riprendiamo le sue stesse parole con tre citazioni: 1) «Per racchiuderlo qui in poche parole, dico che il metodo di interpretazione della Scrittura non differisce dal metodo di interpretazione della natura, ma concorda del tutto con questo […] in questo modo chiunque […] procederà senza alcun pericolo di errare e potrà discorrere delle cose che superano la nostra capacità con la stessa sicurezza con cui discorriamo delle cose che conosciamo con il lume naturale»5. 2) «… dalle cose sopra dette concludo che bisogna lasciare a ciascuno la libertà di giudizio e la facoltà di interpretare a modo suo i fondamenti della 3 B. SPINOZA, Trattato Teologico-Politico. Testo latino a fronte (a cura di Alessandro Dini), Milano 2001. 4 R. SMEND, Encyclopedia Judaica, XV, Jerusalem 1972, 282. 5 B. SPINOZA, cit., cap. VII, 98, 280-81.


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fede, e che bisogna giudicare la fede, se sia pia o empia, soltanto dalle opere; così tutti potranno obbedire a Dio con animo integro e libero, e soltanto la giustizia e la carità saranno da tutti tenute in pregio»6. 3) «E poiché tutti gli scrittori così dell’Antico come del Nuovo Testamento furono ebrei, è certo che la storia della lingua ebraica è prima di tutto necessaria non solo alla comprensione dei libri dell’Antico Testamento, che furono scritti in questa lingua, ma anche del Nuovo, poiché, sebbene siano stati divulgati in altre lingue, risentono tuttavia dell’ebraico»7.

2. LESSING (1729-1781) Gotthold Ephraim Lessing8 è il principale rappresentante dell’illuminismo tedesco nel sec. XVIII, che lui vuole che sia sganciato dall’influsso di quello francese. Figlio di un parroco luterano, studia per un anno teologia, per passare poi alla filologia e alla storia della letteratura. Conosce bene la Bibbia e sa usarla opportunamente già da quando ha 13 anni. Spirito indipendente e appassionato cultore degli studi storici, difende la Bibbia contro i suoi commentatori che sono dei teologi, e sono perciò troppo preoccupati di questioni dogmatiche. Rinuncia alla carriera accademica per dedicarsi liberamente alle questioni che via via lo interessano. Dice che la ricerca della verità lo interessa più della stessa verità. Si preoccupa della comunicazione con la gente e perciò sceglie il teatro come veicolo più efficace delle sue idee. Dice di sé: “Io non sono un teologo, né un dotto. Mi basta, nel migliore dei casi, aver usato un libro dotto”. È significativo questo consiglio che dà, nel 1754, sulla lettura della Bibbia: «La Bibbia, io ti consiglio di leggerla senza nessun aiuto (da parte di altri). Tuttavia tu non devi occuparti sempre di essa; il tempo più adatto per farlo è quando il cielo è cattivo e melanconico, oppure quando sei stanco del tuo 6

Prefazione, ibid., 55. Cap. VII, 100, ibid., 285. 8 Seguo la conferenza di R. SMEND, Lessing und die Bibelwissenschaft, tenuta a Wolfenbüttel il 24.8.1977, nel quadro del Congresso dell’International Organisation for the Study of the Old Testament tenuto in quei giorni all’Università di Gottinga e pubblicata in SVT 29 (1978) 298-319. 7


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Antonino Minissale lavoro e non sei in grado di occuparti diversamente. Sfuggi tutti i commentatori; poiché, credi a me, nessuno di loro è libero da pregiudizi […] Ma leggi la Bibbia stessa con attenzione e con riflessione; senza quello stupido rispetto che si chiama devozione […] Leggi la Bibbia non altrimenti di come leggi Livio, Froschmäusler o di come leggeresti i poeti bucolici alla contessa di Bernbrock. Qualcosa l’ammiri, qualcosa la salti, qualcosa vorresti che fosse detta altrimenti. Ancora si nasconde molto nella Bibbia, che nessuno ha mai notato o portato alla luce; e ciò attende la tua mano o quella di un altro. Molti passi dovrebbero essere commentati in tutt’altro modo. Molte volte un montone segue l’altro, e così un commentatore ripete l’altro»9.

Ma il testamento spirituale di Lessing è il dramma Natan il saggio, del 1779. È questi un ebreo assai stimato che ha allevato a Gerusalemme, per spirito di carità, una fanciulla cristiana affidatagli dopo la morte della madre. Un templare cristiano che l’ha salvata se ne invaghisce, ma poi si scopre che entrambi erano figli di un musulmano. Così si auspica la tolleranza fra le tre religioni monoteistiche, come ideale etico a cui spingono sia la ragione e sia il sentimento umano, al di là dei pregiudizi e delle loro diffidenze reciproche10.

3. HERDER (1744-1803) A differenza di Lessing, Johann Gottfried Herder è un teologo che Goethe (1749-1832) farà chiamare nel 1776 a Weimar, dove resterà fino alla 9 «Die Bibel rate ich dir, ohne alle Hülfe zu lesen. Doch brauchst du nicht immer darüber zu liegen; aufs höchste bei garstigem und traurigen Wetter, oder wenn du von der Arbeit müde und zu andern Verrichtungen ungeschickt bist. Fliehe alle Ausleger; denn glaube mir, kein einziger ist von Vorurteilen frei […] Die Bibel selbst aber lies mit Sorgfalt und Überlegung; nicht mit jener sinnlosen Ehrfurcht, die man Andacht zu nennen pflegt […] Lies die Bibel nicht anders, als du Livius, Froschmäusler oder der Gräfin von Bembrok (Pembroke) Arkadien liesest. Einiges davon lobst du; einiges übergehst du; von einigem wolltest du, daß es lieber anders, als so heißen möge. Es steckt auch noch vieles in der Bibel, das noch niemand bemerkt oder an den Tag gebracht hat; und das entweder auf deine oder auf eines andern Hand wartet. Viele Stellen sollten ganz anders ausgelegt werden. Bei vielen folgt ein Schöps dem andern, und einAusleger dem andern»» (citazione in R. SMEND, ibid., 306). 10 Dizionario letterario Bompiani. Opere, V, Milano 1951, 15-16.


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morte, come superintendente della chiesa luterana. Herder propugna l’orientamento romantico nello studio della letteratura in genere e della Bibbia in particolare. Ha studiato teologia protestante a Königsberg, dove ha anche frequentato le lezioni di filosofia tenute da Kant, ed è stato anche parroco dal 1771 al 1776. Nella sua riflessione privilegia l’Antico Testamento rispetto al Nuovo, attirato da quello che lo storico Kraus chiama l’umanesimo ebraico11, o forse meglio il senso di umanità della Bibbia Ebraica. Combatte le idee dell’Illuminismo in quanto sottolinea di più l’importanza del sentimento rispetto alla ragione, ma attratto dall’idea dell’immanenza divina nell’animo umano specialmente quando è nello stadio della semplicità primitiva, diventerà uno degli ispiratori della teologia liberale dell’80012. Uomo geniale e di vasti interessi, ha pubblicato nel 1782-83 un’opera intitolata Lo spirito della poesia ebraica, ma poco prima, nel 1780-81, aveva scritto una serie di 50 Lettere sullo studio della teologia13, delle quali mi sembra importante riportare qualche brano che calza di più con l’impostazione del nostro discorso. Lettera I: «Sia ben chiaro, mio caro, che il miglior studio della teologia è lo studio della Bibbia, e che la migliore lettura di questo libro divino deve essere umana. Io intendo questa parola nella sua più ampia accezione e nel suo significato più rigoroso. La Bibbia deve essere letta alla maniera umana (menschlich), poiché essa è un libro scritto dagli uomini per gli uomini: umana è la lingua, umani sono gli strumenti attraverso cui essa è stata scritta

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H.-J. KRAUS, Geschichte der historisch-kritischen Erforschung des Alten Testaments, Neukirchen-Vluyn, 1969, 114-17 (trad. it. L’Antico Testamento nella ricerca storico-critica dalla Riforma ad oggi, Bologna 1975, 183-87). 12 Il significato storico di Herder per l’impulso determinante dato allo studio dell’Antico Testamento va al di là di qualche riserva che è stata espressa nei suoi confronti. Si possono ricordare questi due giudizi: Con «la sua interpretazione del Vecchio Testamento come creazione poetica del genio popolare d’Israele […] Herder rigetta il concetto di soprannaturale» (B. THUM in Enc. Catt., VI, 1951, 1413 e 1415; «Il tragico di Herder consiste nel fatto che egli è diventato vittima della posizione da cui voleva liberarsi, cioè del tentativo di superare l’illuminismo sul suo proprio terreno» (G. ROHRMOSER in LThK, V, 1960, 244). 13 Utilizzo l’edizione, in 18 voll., che si trova nella Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Catania: Johann Gottfried von Herder’s saemtiliche Werke. Zur Religion und Theologie, Stuttgart und Tübingen, in der J. G. Gotta’schen Buchhandlung, 1827-30; le Lettere si trovano nei voll. 13-14, del 1829.


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Antonino Minissale e conservata; umano è infine anche il senso con cui essa può essere compresa, ogni sussidio con cui la si spiega, come pure tutta la finalità e l’uso che se ne deve fare. Voi potete perciò sicuramente credere che quanto più leggete la parola di Dio in maniera umana (nel senso migliore della parola), tanto più vi approssimate alla finalità del suo Autore, il quale ha creato gli uomini a sua immagine e si comporta per noi alla maniera umana, in tutte le opere e i benefici con cui si dimostra come Dio»14. Lettera II: «La storia del paradiso e del primo peccato non deve essere altro, secondo me, che un canto allegorico, una favola morale. Paradiso, albero della tentazione, serpente non sono mai esistiti [...] Questo è stato così immaginato (gedichtet) per mostrare agli uomini sotto il velo della favola un insegnamento attraente su come ha avuto origine il peccato e su come Dio punisce i peccati, rendendolo nello stesso tempo un bel velo. Con un approccio estetico e poetico si dà al testo quanto gli veniva tolto considerandolo storico e reale. Io vi chiedo, o mio caro, se al vostro intuito giovanile ancora non prevenuto non si sia rivelato, come prima impressione, in questo racconto tanto semplice un vero canto, una favola ben immaginata e ben rifinita»15.

14 «Es bleibt dabei, mein Lieber, das beste Studium der Gottesgelehrsamkeit ist Studium der Bibel, und das beste Lesen dieses göttlichen Buchs ist menschlich. Ich nehme dieß Wort im weitesten Umfange und in der andringendsten Bedeutung. Menschlich muß man die Bibel lesen: denn sie ist ein Buch durch Menschen für Menschen geschrieben: menschlich ist die Sprache, menschlich die äußern Hülfsmittel, mit denen sie geschrieben und aufbehalten ist; menschlich endlich ist ja der Sinn, mit dem sie gefaßt werden kann, jedes Hülfsmittel, das sie erläutert, so wie der ganze Zweck und Nutzen, zu dem sie angewandt werden soll. Sie können also sicher glauben, je humaner (im besten Sinne des Worts) Sie das Wort Gottes lesen, desto näher kommen sie dem Zweck seines Urhebers, der Menschen zu seinem Bilde schuf, und in allen Werken und Wohlthaten, wo er sich uns als Gott zeigt, für uns menschlich handelt» (vol. 13, 11; citato anche da KRAUS, cit., 117; trad. it., 187). 15 «Die Geschichte des Paradieses und der ersten Sünde soll z. E. nichts als ein allegorisches Lied, eine moralische Fabel seyn. Paradies, Baum der Versuchung, Schlange habe es nie gegeben; das sey nur so gedichtet, um den Menschen eine schöne Lehre, wie Sünde entstehe? und wie Gott Sünden strafe? unter der Hülle des Mährchens zu zeigen, und natürlich macht man es sodann zur schönen Hülle. Man gibt dem Text ästhetisch und poetisch, was man ihm und dem Zusammenhange historisch, natürlich nahm. – Ich frage Sie, mein Lieber, ob ihrem unverrückten Jugendsinn, dem ersten Eindruck nach, je ein solches Lied, eine schön erdachte, dazu schön vollendete Fabel, in dieser einfältigen Erzählung erschienen ist?» (ibid., 22).


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Lettera III: «È interessante notare come i bambini leggono o ascoltano qualcosa che si presenta con questo stile. Perciò accade che essi leggono volentieri questi racconti e li ricordano. Lutero dice di se stesso che egli da monaco non riusciva a comprendere che cosa Dio intendesse dire nella sua Bibbia con questo chiacchiericcio domestico. Ma quando poi divenne marito e padre lo poté capire, e così si diede a commentare la Genesi fin quasi al giorno della sua morte. Quanti sono funzionari statali, semplici eruditi e rovistatori di libri, o addirittura gente dall’animo terribilmente inaridito, continuano a ingannarsi sempre di nuovo su questo libro ed hanno accumulato in qualche modo molte assurdità; io son contento che voi non siete uno di questi; leggete, perciò, anche questo libro biblico, come tutti gli altri, facendo volentieri a meno dei commentari eruditi, e avvaletevi della loro interpretazione solo nei passi più difficili che non riuscite a comprendere (da solo). Il miglior commento l’avete quando, nei racconti di viaggio in Oriente, venite a contatto con la vita dei Semiti, i loro usi e costumi, e così da essi potete dedurre l’ingenuità e il vigore che li caratterizzavano anche nei tempi più antichi»16. Lettera XII: «Voi vedete, amico mio, come questi libri sono per me sacri e sublimi, e come io mi sento tanto giudeo (per riprendere l’ironia di Voltaire) quando li leggo. Infatti, non dobbiamo essere greci e romani, quando leggiamo autori greci e romani? Ogni libro deve essere letto secondo il suo spirito, e così anche il libro dei libri, la Bibbia; e poiché qui esso è chiaramente lo spirito di Dio, dall’inizio alla fine, che ne determina il tono e il contenuto, spingendoli ora verso l’alto e ora verso il basso, noi non potremo fare niente di peggio che leggere gli Scritti di Dio secondo lo spirito di satana, cioè abbellendo la più antica sapienza con i fronzoli della 16 «Es ist sonderbar, wie gerne Kinder etwas in solchem Tone lesen oder hören, daher sie auch diese Geschichte so gerne lesen und behalten. Luther sagt von sich, er habe als Mönch nicht begreifen können, was Gott mit diesem häuslichen Geschwätz in seiner Bibel wolle und habe? Als er Ehemann und Water wurde, lernte er’s begreifen, und kommentirte das erste Buch Moses fast bis an den Tag seines Todes. Staatsleute, bloße Gelehrte und Bücherkrämer oder gar üppige, verdorbene Gemüther irren sich noch immer an diesem Buch und haben zum Theil vielen Unsinn darauf gehäufet; ich freue mich, daß Sie in dieser Zahl nicht sind: Lesen Sie also auch dieses, wie alle biblishen Bücher, am liebsten ohne gelehrte Kommentare, und suchen nur bei Schwierigkeiten und unverstandenen Stellen Verständniß. Der beste Kommentar ist, wenn Sie in Reisebeschreibungen des Orients das Leben der Sceniten, ihre Sitten und Gebräuche lesen, und von ihnen in diese so ältern Zeiten der Unschuld und Stärke schließen.» (ibid., 48-49).


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Antonino Minissale più recente vanità, una semplicità tutta celestiale con quello che è un offensivo sarcasmo diventato di moda. Si leggono così gli scritti di Omero, di Platone, le tradizioni di Pitagora, lo storico Erotodo e chi altri mai? È questo un abuso che capita solo con questi libri, poiché essi sono i più antichi e i più diversi rispetto agli altri libri, poiché essi parlano la lingua di Dio e non quella degli uomini»17. «Fuggite, amico mio, i capricci e le fantasticherie degli scolastici, la spazzatura delle antiche scuole barbariche che vi offusca spesso la migliore e la più naturale impressione dello spirito di questi Scritti»18. «È cosa che merita di essere sommamente biasimata che noi ci comportiamo con questi Scritti sempre diversamente da come usiamo fare con gli altri scritti buoni, belli ed umani; poiché questi, per quel tanto che dobbiamo leggere e comprendere, sentire ed utilizzare, sono stati scritti in maniera pienamente umana, per occhi, orecchi e capacità del cuore e dell’anima che sono umani. Lo spirito di Orazio, di Omero, di Sofocle, di Platone io lo lascio agire in me a partire dai loro scritti; essi mi parlano, cantano, mi insegnano; io mi occupo di loro, leggo nel loro cuore, nella loro anima; solo così un loro libro mi è comprensibile, solo così io possiedo, oltre alle testimonianze forniteci dalla storia, la migliore garanzia che questi scritti derivano da loro, poiché il loro mondo interiore esercita su di me un’impressione, proprio rendendosi presente e vivo. Non è possibile che io sia

17 «Sie sehen, mein Freund, wie heilig und hehr mir diese Bücher sind, und wie sehr ich (nach Voltaire’s Spott) ein Jude bin, wenn ich sie lese; denn müssen wir nicht Griechen und Römer seyn, wenn wir Griechen und Römer lesen? Jedes Buch muß in seinem geist gelesen werden, und so auch das Buch der Bücher, die Bibel; und da dieser in ihm offenbar Geist Gottes ist, von Anfang bis zum Ende, der seinen Ton und Inhalt von der höchsten Höhe bis zur tiefsten Tiefe stimmet, so können wir wohl nichts Widersinnigeres thun, als Gottes Schriften im Geist des Satans lesen, d.i. die älteste Weisheit mit dem jüngsten Dünkel, himmlische Einfalt mit neckendem Modewitz verbrämen. Lese man so die Schriften Homers, Plato’s, die Traditionen von den Geschichtschreiber Herotod und wen man wolle; es ist der nämliche Mißbrauch, der nur bei diesen Büchern mehr auffällt, weil sie die ältesten und die von allen andern Büchern verschiedensten sind, da sie Sprache Gottes reden und nicht der Menschen» (ibid., 158). 18 «Fliehen Sie, mein Freund, die scholastischen Grillen und Grübeleien hierüber, den Auskehricht alter barbarischen Schulen, der Ihnen oft den besten, natürlichsten Eindruck des Geistes dieser Schriften verdirbt» (ibid., 160).


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riempito da uno spirito ancora più alto proprio di questi scritti sacri e che io sia convinto della loro divinità, se non in questo modo»19. «Quanto più l’opera e la parola di Dio si concepiscono in maniera umana, cioè corrispondente all’intimo dell’uomo, a lui congeniale e naturale, tanto più si può essere certi che l’uomo pensa in una maniera che è autentica, nobile e divina. Tutto ciò che è innaturale non è divino. Ciò che è sommamente soprannaturale e divino diventa massimamente naturale, poiché Dio si adatta a colui al quale parla e per il quale opera. Egli realizza attraverso le più nascoste e più piccole ruote le cose più impressionanti e più grandi»20.

4. LA “NUDITÀ” DELL’UOMO E DELLA DONNA SECONDO GUNKEL Dopo aver ricordato le posizioni di Spinoza, Lessing ed Herder, si può meglio inquadrare nelle sue giuste coordinate culturali l’interpretazione di un noto passo della Bibbia proposta dal Gunkel21 e più recentemente dal Drewermann. 19 «Sonderbar und äußerst zu bedauern ist’s, daß wir bei diesen Schriften immer anders verfahren, als bei allen andern guten, schönen, menschlichen Schriften; da diese doch auch, so fern wir sie lesen, und verstehen, und empfinden, und anwenden sollen, völlig menschlich, für menschliche Augen, Ohren, Herzens- und Seelenkräfte geschrieben sind. Den Geist Horaz, Homers, Sophokles, Plato’s lasse ich aus ihren Schriften auf mich wirken: sie sprechen zu mir, sie singen, sie lehren mich: ich bin um sie, lese in ihr Herz, in ihre Seele; so allein wird mir ihr Buch verständlich, so allein habe ich auch, mit den Zeugnissen der Geschichte, das beste Siegel, daß diese Schriften von ihnen sind, weil ihr inneres Bild nämlich, ihr mir gegenwärtiger, lebendiger Eindruck auf mich wirket. Unmöglich kann ich von dieser heiligen Schriften eigenem und höherem Geist erfüllt, und von ihrer Göttlichkeit überzeugt werden, als auf diese nämliche Weise» (ibid., 161). 20 «Je menschlicher, d.i. menscheninniger, vertrauter, natürlicher man sich also Werk und Wort Gottes denkt, je gewisser kann man seyn, daß man sich’s ursprünglich, edel und göttlich denke. Alles Unnatürliche ist ungöttlich; das übernatürlich Göttlichste wird am meisten natürlich; denn Gott bequemet sich dem, zu dem er spricht, und für den er handelt. Er wirkt durch die geheimsten, kleinsten Räder das Augenscheinlichste, das Größeste» (ibid., 163). 21 Hermann Gunkel (1862-1932) è stato successivamente professore di Antico Testamento nella Facoltà di Teologia evangelica di Gottinga, Berlino, Giessen e Halle. La sua esegesi, che ha lasciato un segno notevole nello studio della Genesi e dei Salmi, fu


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Herman Gunkel22 applica a livello specialistico dell’esegesi l’approccio romantico all’AT proposto da Herder23 arricchendolo con numerose testimonianze ricavate dai miti degli altri popoli dell’antichità, con i quali Israele condivide tanti spunti e simboli tradizionali che gli forniscono materiali da assimilare ed integrare nella sua riflessione teologica. Il modo di raffigurare la condizione ideale del primo uomo, ponendolo in un giardino meraviglioso chiamato paradiso terrestre, costituisce lo sfondo di cui si serve il narratore biblico in Gen 2-3 per abbozzare una lettura emblematica della condizione umana, vista da lui come segnata da una contraddizione, quella di stare vicino a Dio e nello stesso tempo di voler sfuggire dalla sua presenza che risulta imbarazzante perché portatrice di un comando. Questo comando divino qui si concretizza nella proibizione di mangiare il frutto del cosiddetto albero della conoscenza del bene e del male, la cui infrazione porta alla scoperta della nudità dell’uomo e della donna nel loro stare insieme. L’esegesi di Gunkel a questo racconto è attenta a tutti i particolari che ai suoi occhi acquistano rilievo e verosimiglianza se il testo vien letto con quella ingenuità e meraviglia con cui lo ascoltavano i primi destinatari. In questa scena, se l’albero è certamente una figura simbolica che rimanda ad altro, l’esperienza della nudità deve essere presa non più in senso metaforico ma reale, è un particolare che ci induce a intravedere nel frutto proibito un’azione che riguarda l’esperienza sessuale della donna e dell’uomo considerati nella loro reciprocità. Da parte sua il Gunkel, accettando questa linea interpretativa già adombrata nei miti di altri popoli, la specifica nel senso che si può addirittura pensare che si rispecchi qui confusamente la prima conturbante esperienza sessuale di due bambini o adolescenti, in seguito alla quale i loro occhi si aprono nel senso che

considerata all’inizio anche nell’ambiente dei teologi luterani come contraria ai principi della Riforma. «Dans leur grande majorité les theologiens protestants de vieille école s’elevèrent avec force contre les théories de Gunkel. Ils lui reprochaint avec raison de laïciser la Bible (sottolineatura d. r.), de la vider de son contenu religieux et de saper par la base les fondaments même des croyances de la Reforme» (L. HENNEQUIN, Gunkel, SDB, III, 1938, cc. 1374-1377, 1376). 22 HERMANN GUNKEL, Genesis, Göttingen, 19646 (=19103; 19022, 19011). 23 Gunkel dichiara di voler tenere conto nel suo commento del “testamento del grande Herder” che riguarda l’importanza del “racconto” (Erzählung), ibid., V-VI.


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prendono una nuova consapevolezza del proprio corpo scoprendo nello stesso tempo il senso del pudore e della riservatezza. «Il conoscere o il non conoscere, che qui si deve prendere in considerazione riguarda in primo luogo la differenza dei sessi. Il modello da cui sono stati ripresi questi tratti è chiaramente la condizione dei bambini (Kinder) che ancora non hanno il senso della vergogna; una circostanza questa, che in Oriente, dove i bambini vanno in giro nudi, si può osservare in ogni vicolo. Questo non conoscere uomo e donna non è però il tutto nel racconto del paradiso, ma solo un esempio particolarmente significativo: il narratore vuole mostrare plasticamente attraverso questo particolare l’intera condizione spirituale dei bambini»24.

Il narratore «vuol indicare con la conoscenza ciò che i grandi hanno più dei bambini, la consapevolezza, la ragione, di cui fa parte anche la conoscenza dei sessi»25. «Ammetto che qui secondo l’opinione del narratore (finale) si commette un peccato, ed egli descrive in maniera magistrale come dai primi impulsi del dubbio e del desiderio si sia giunti all’atto peccaminoso, in maniera tanto esemplare che il peccato qui descritto può essere compreso come tipo di ogni peccato; ma il mito (originario) è molto lontano dal voler dare una dottrina sul ‘peccato’. Simili considerazioni teologiche di principio distruggono l’ingenua bellezza dell’antico racconto»26.

24 «Das Wissen oder nicht-Wissen, das hier in Betracht kommt, ist also in erster Linie das um den Unterschied der Geschlechter. Das Vorbild, aus dem diese Züge genommen sind, ist deutlich der Zustand der Kinder, die sich noch nicht schämen: ein Zustand, den man im Morgenland, wo die Kinder nackend gehen, auf jeder Gasse beobachten kann. Dies Nichtwissen um Mann und Weib ist aber in der Paradiesesgeschichte nicht das Ganze, sondern nur ein besonders hervortretendes Beispiel: der Erzähler will den ganzen geistigen Zustand der Kinder an diesem einen Zuge veranschaulichen». 25 «Er versteht also unter der ‘Erkenntnis’ das, was die Erwachsenen mehr haben als die Kinder, die Einsicht, die Vernunft, zu der auch das Wissen um den Unterschied der Geschlechter gehört» (ibid., 14). 26 «Allerdings wird hier nach Meinung des Erzählers eine Sünde begangen, und meisterhaft beschreibt er, wie es dazu gekommen ist, ‘von den ersten Regungen des Zweifels,


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5. L’INTERPRETAZIONE PSICOANALITICA DI EUGEN DREWERMANN Il Derwermann27, che realizza la sua analisi 70 anni dopo quella di Gunkel, ne riprende i punti di vista più caratteristici, ma li integra con quelli degli altri commentatori tedeschi più recenti, specialmente von Rad e Westermann28. In realtà, la trattazione esegetica del I vol. gli serve come premessa all’analisi psicoanalitica del II vol., e filosofica del vol. III, nella quale si confronta con le posizioni di E. Kant, G. W. Hegel, J. P. Sartre e S. Kierkegaard. Ma la parte più originale della sua opera è costituita dal vol. II, nella quale egli presenta un approfondito esame della parte jahvista di Gen 2-11 alla luce della psicoanalisi, elaborata da Freud e da Jung, ma anche da K. Abraham e O. Rank. Drewermann prende così decisamente posizione contro i limiti dell’esegesi storico-critica, in quanto si prefigge di evidenziare il senso che il testo aveva secondo l’intenzione del suo autore nel passato, mentre lui vuole indagare con l’aiuto della psicologia del profondo il senso che il testo ha ora per l’uomo considerato nell’immutabilità della sua psiche. In particolare egli si basa sull’interpretazione psicoanalitica dei miti dei popoli primitivi a noi contemporanei, che vivono ancora in Africa, India, Malesia, America centro – meridionale. I loro miti ci rivelano una sensibilità più vicina all’uomo di sempre che non le culture antiche più avanzate di Egitto, Mesopotamia e Canaan, alle quali di solito ricorrono i biblisti per uno studio comparato. der Begierde bis zur sündigen Tat’ (Meinhold 80), so meisterhaft, daß diese geschilderte Sünde als Typus der Sünde verstanden werden kann; aber der Mythus ist davon entfernt, eine Lehre über ‘die Sünde’ geben zu wollen. Dergleichen prinzipielle theologische Betrachtungen zerstören die naive Schönheit der alten geschichte» (ibid., 18). 27 EUGEN DREWERMANN, Strukturen des Bösen (Paderborner Theologische Studien), Ferdnand Schöningh, Paderborn – München – Wien - Zürich, I: Die jahwistische Urgeschichte in exegetischer Sicht, 19845, pp. 413 (19761); II: Die jahwistische Urgeschichte in psychoanalytischer Sicht 19855, pp. 680 (19771); III: Die jahwistische Urgeschichte in philosophischer Sicht 19834, pp. 656 (19781). Nel II vol. l’autore tratta la questione su “Il serpente e la problematica sessuale” (69-124), da cui prendiamo le citazioni riportate in seguito. 28 Nella premessa si dice che l’interpretazione globale della “Urgeschichte” da parte di Westermann che vi vede soprattutto la progressiva manifestazione delle abilità dell’uomo, risulta eccessivamente ottimistica rispetto alla più drammatica propria di J, che è stata meglio recepita da von Rad (I, 5).


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Si deve ancora sottolineare che per Drewermann i tre volumi della sua opera sono complementari e convergenti in un progetto di teologia sistematica, nel quale le intenzioni teologiche dell’autore Jahvista vengono attualizzate alla luce delle scienze umane del nostro tempo. L’idea base che ispira il suo saggio è che la defezione da Dio produce nell’uomo una paura o angoscia (Angst), i cui connotati corrispondono a quelli rilevati dalla psicanalisi ed approfonditi esistenzialmente in modo speciale da Kierkegaard. Per rimanere nell’ambito dell’interpretazione sessuale della “colpa originale” già riscontrata in Gunkel, ci soffermiamo in particolare sulla II parte dell’opera di Drewermann, dedicata alla dimensione psicoanalitica di Gen 2-3, che si condensa in modo speciale in Gen 3,1-5(6-7). L’intuizione della perdita dell’ingenuità sessuale dei bambini avanzata da Gunkel, che però la vedeva come un fatto ordinario e per nulla drammatico, trova ora uno sviluppo teologicamente molto più profondo, dominato dall’idea dell’angoscia che noi possiamo sintetizzare, citando le stesse parole dell’A., in questi sei punti: dopo una sintesi introduttiva (a), vedremo i richiami agli archetipi infantili (b), al complesso di Edipo (c) e alla regressione della sessualità alla fase orale (d), la particolare attenzione riservata al simbolo del serpente (e) e, infine, un’importante osservazione generale sulla eterogeneità dei diversi motivi mitici utilizzati e reinterpretati dallo Jahvista (f). a) Ecco una sintesi della sua interpretazione presentata dallo stesso Drewermann: «Cogliendo il senso del simbolo noi possiamo dire che qui (in Gen 3,1-5, ndr) si tratta di una tentazione di tipo sessuale, che viene fatta alla donna da parte del desiderio del maschio (il serpente). La donna reagisce alla tentazione, come abbiamo già osservato nell’analisi esegetica, con angoscia (Angst). Questa si esprime simbolicamente nel fatto che il tema genitale viene sostituito con quello orale. Riguardo al mangiare dall’albero noi abbiamo originalmente a che fare con un concetto che ci fornisce l’esplorazione della sessualità infantile, ma ancor di più, con una regressione, nella fantasia, della sessualità al livello orale. Per la paura (Angst) provata di fronte alla sessualità maschile si ritorna regressivamente alla oralità. In questo modo noi comprendiamo il serpente, l’albero, i frutti, il trovarsi insieme del serpente con l’albero, il mangiare dei frutti, come anche il comportamento della donna che rivela simultaneamente di aver paura e di


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Antonino Minissale essere affascinata, e infine anche il motivo del sapere o del conoscere: tutti questi motivi si lasciano comprendere come simboli sessuali, che in forza di una regressione dovuta alla paura, fanno rivivere le immaginazioni sessuali infantili in corrispondenza con gli impulsi paleoantropologici»29.

b) Il richiamo dell’età infantile è importante per Drewermann sotto diversi aspetti: «Congiuntamente alla tematica sessuale si trova il motivo del conoscere […] quello che è sicuro è che nell’età tra i 3 e i 5 anni, la cosiddetta età delle domande, i bambini, per un senso di incertezza sulla loro stessa esistenza, cominciano, spesso anche a causa della nascita di un fratellino o sorellina, a richiamare l’attenzione su di sé ponendo tutte le possibili e in parte simboliche domande, per assicurarsi così dell’amore dei genitori come pure della loro stessa origine, con la speranza di impedire l’arrivo di un nuovo fratellino e di raggiungere di nuovo il momento della loro nascita. È questa la prima grande “attività intellettuale” dei bambini al “servizio dell’esplorazione sessuale”»30. 29

«Entsymbolisiert können wir sagen, daß es hier um eine sexuelle Versuchung geht, die der Frau von seiten des männlichen Verlangens (der Schlange) angetragen wird. Die Frau reagiert, wie wir bereits in der exegetischen Untersuchung herausgearbeitet haben, mit Angst auf die Versuchung. Diese drückt sich symbolisch darin aus, daß das genitale Thema durch das orale ersetzt wird. Wir haben es ursprünglich bei dem Essen vom Baum zwar mit einer Vorstellung der infantilen sexualforschung zu tun, aber, wesentlicher noch, mit einer Regression der Sexualtät auf die Stufe der oralen Konzeptionsphantasie. Aus Angst vor der männlichen Sexualität wird regressiv die Oralität wiederbelegt. Auf diese Weise verstehen wir die Schlange, den Baum, die Früchte, das Nebeneinander von Schlange und Baum, das Essen von Früchten sowie das gleichermaßen angstvolle wie faszinierte Verhalten der Frau und schließlich auch das Motiv des Wissens bzw. des Erkennens: all diese Motive geben sich als sexuelle Symbole zu verstehen, die auf dem Wege einer angstbesetzten Regression infantile Sexualvorstellungen entsprechend den paläoanthropologischen Bahnungen wiederbeleben» (II, 115). 30 «Mit der sexuellen Thematik in Verbindung steht das Motiv des Erkennens […] sicher ist, daß im Alter zwischen 3-5 Jahren, dem sog. Fragealter, die Kinder beginnen, in einem Gefühl der Unsicherheit ihrer eigenen Existenz, oft auch wegen der Ankunft eines neuen Geschwisterchens, mit allen möglichen z.T symbolischen Fragen auf sich aufmerksam zu machen, um sich der Liebe der Eltern ebenso wie ihrer eigenen Herkunft zu versichern und um die Geburt eines neuen Geschwisterchens zu verhindern bzw. die eigene rückgängig zu machen. Es ist dies die erste groß angelegte ‘intellektuelle Tätigkeit’ der Kinder im ‘Dienst der Sexualforschung’» (II, 103).


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«Il mangiare dall’albero a cui il serpente spinge è chiaramente da intendere, nei miti di questo tipo, come immagine del rapporto sessuale. La questione che sorge è solo di stabilire dove la formazione di un tale simbolo ha il suo fondamento. La sostituzione della sessualità con un’immagine di tipo orale, che dal punto di vista psicoanalitico costituisce il vero problema, sembra che si rifaccia al livello dello studio della sessualità infantile. Secondo Freud si deve includere tra le tre più tipiche teorie sessuali (accanto alla teoria della nascita vista come una cloaca e della concezione sadica del coito) anche la supposizione che i bambini attraverso il mangiare, quindi per via orale, approderebbero nel grembo materno»31.

c) La problematica della sessualità infantile viene identificata in particolare con il complesso edipico: «La proibizione che “Dio” ha dato è, intesa così, una proibizione edipica dell’incesto. Se noi teniamo conto del fatto che il mito è sognato dal punto di vista della ragazza, allora si tratta del desiderio nostalgico della bambina di ricevere un figlio dal padre e di diventare come la madre. Ciò è proibito. E in questa proibizione si infrange il rapporto della bambina con i suoi genitori. Lei si deve separare da loro come oggetti originari della libido. Proibizione e cacciata troverebbero così la loro spiegazione. Sono entrambe inevitabili. Così il simbolo fallico del serpente e dell’albero dovrebbe identificarsi alla fine con il padre […] La tentazione della donna da parte del serpente consisterebbe in questo modo nella spinta ad avere un rapporto incestuoso con il padre»32. 31 «Das Essen von dem Baum, zu dem die Schlange auffordet, ist in Mythen dieser Art offenkundig als ein Bild für den sexuellen Verkehr zu verstehen. Die Frage ist nur, worin eine solche Symbolbildung ihren Grund hat. Die Ersetzung der Sexualität durch ein orales Bild, die psa das eigentliche Problem darstellt, scheint auf die Stufe der infantilen Sexualforschung zurückzugreifen. Nach Freud zählt zu den drei typischen Sexualtheorien (neben der Kloakentheorie von der Geburt und der sadistischen Auffassung vom Koitus) auch die Annahme, daß die Kinder durch Essen, also durch orale Konzeption, in den Mutterleib gelangt seien» (II, 108). 32 «Das Verbot, das “Gott” erlassen hat, ist, so verstanden, ein ödipales Inzestverbot. Gehen wir davon aus, daß der Mythos aus der Sicht des Mädschens geträumt ist, so handelt es sich um den sehnlichen Wunsch des kleinen Mädchens, vom Vater ein Kind zu bekommen und es der Mutter gleichzutun. Dies ist verboten. Und an diesem Verbot zerbricht die Beziehung des Kindes zu seinen Eltern. Es muß sich von ihnen als ursprünglichen


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Antonino Minissale «La cosa più importante è chiaramente la polivalenza dei simboli. L’albero da cui la donna mangia, può essere inteso come simbolo fallico (del padre); i frutti, che la donna passa dallo stesso albero all’uomo, possono valere come immagine dell’albero materno della vita, quindi come rappresentazione del lato maschile del complesso di Edipo […] La valenza simbolica maschile e quella femminile dell’albero si presentano perciò l’una accanto all’altra, e permettono così una confluenza della prospettiva sessuale dell’uomo come di quella della donna in un racconto riguardante l’unico e medesimo oggetto del desiderio umano»33. «Ciò a cui il serpente spinge l’uomo come la donna è l’albero, che nel linguaggio sessuale del simbolo può significare in senso edipico per l’uomo la madre e per la donna il padre, ma per entrambi rappresenta (oralmente) l’albero materno della vita»34.

d) La regressione alla fase orale viene sottolineata ripetutamente dall’A.: «Il serpente, cioè il trasporto verso il fallo dell’uomo, induce la donna alla tentazione di mangiare dall’albero; questo, al di là del simbolo, starebbe prima di tutto come segno dell’organo genitale maschile; i frutti dell’albero potrebbero apparire come il regalo promesso dal serpente o come i testicoli. La domanda che quindi sorge, è soltanto di vedere come potremmo pensare unite nell’immagine del mangiare dall’albero l’oralità e la

Libidoobjekten trennen. Verbot und Ausweisung fänden somit ihre Erklärung. Beide sind unvermeidbar. So müßte das phallische Symbol der Schlange und des Baumes letztlich mit dem Vater identifiziert werden […] Die Verführung der Frau durch die Schlange bestünde demnach in der Aufforderung zum inzestuösen Verkehr mit dem Vater» (II, 116). 33 «Das wichtigste ist offenbar die Polivalenz der Symbole. Der Baum, von dem die Frau ißt, kann als phallisches Symbol (des Vaters) verstanden werden; die Früchte, die die Frau von demselben Baum dem Manne reicht, dürfen als Bild des mütterlichen Lebensbaumes, also als Darstellung der männlichen Seite des Ödipuskomplexes gelten […] Die männliche und die weibliche Symbolik des Baumes kommen also nebeneinander vor und erlauben daher eine Verzahnung der sexuellen Perspektive des Mannes wie der Frau zu einer Erzählung über ein und dasselbe Objekt des menschlichen Begehrens» (II, 117). 34 «Das, worauf die Schlange Mann wie Frau verweist, ist der Baum, der in der sexuellen Symbolsprache ödipal für den Mann die Mutter, für die Frau den Vater bedeuten kann, für beide aber (oral) den mütterlichen Lebensbaum darstellt» (II, 118).


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sessualità, cioè dobbiamo intendere la concomitanza stessa del simbolismo orale e sessuale»35. «Il simbolo orale del mangiare dell’albero si potrebbe comprendere come un meccanismo di difesa e una regressione dal campo genitale dello sviluppo sessuale alla fase orale. Così noi possiamo concordare in sintesi con F. Riklin, quando egli riconosce, a proposito di Gen 3,1-7, nel serpente, nel frutto, nell’albero e nel mangiare una accumulazione del simbolismo della fecondazione»36.

e) Già all’inizio Drewermann si sofferma in particolare sul simbolo del serpente: «La considerazione del serpente nella mitologia della natura mostra che una molteplicità di fenomeni naturali sono posti in collegamento con il serpente, o meglio, che vengono percepiti come serpentini, per il fatto che presentano una posizione incurvata (l’arcobaleno, la via lattea), o dei movimenti serpentiformi (lampi, addensamenti di nembi, polvere portata dal vento, corsi d’acqua), o il venire inghiottiti (del sole, della luna) nelle immense fauci (della notte, del mare, dei precipizi della terra, del caos primordiale)»37.

35 «Die Schlange, d. h., das phallische Streben des Mannes, führt die Frau in der Versuchung, von dem Baum zu essen; dieser stünde zunächst entsymbolisiert als Zeichen für das männliche Genitale; die Baumfrüchte könnten als das verheißene Geschenk der Schlange bzw. als die Hoden erscheinen. Die Frage, die sich dann ergibt, ist nur, wie wir uns in dem Bild vom Essen des Baumes die Oralität und Sexualität vereinigt denken können, wie wir also das Zusammentreten von oraler und sexueller Symbolik selbst verstehen sollen» (II, 107). 36 «Das orale Symbol vom Essen des Baumes gäbe sich mithin als ein Abwehrvorgang und eine Regression aus dem genitalen Bereich der Sexualentwicklung auf die orale Stufe zu verstehen. So können wir zusammenfassend F. Riklin zustimmen, wenn er in Gn 3,1-7 in Schlange, Frucht, Baum und Essen eine “Kumulation” der “Befruchtungsymbolik” (F. RIKLIN: Wunscherfüllung und Symbolik im Märchen, Lepzig – Wien 1908, 72) erkennt» (II, 113). 37 «Die Betrachtung der Schlange in der Naturmythologie zeigt, daß eine Vielzahl von Naturphänomenen mit der Schlange in Verbindung gebracht oder, besser, als schlagenhaft apperzipiert wird, in denen eine gekrümmte Stellung (der Regenbogen, die Milchstraße), schlängelnde Bewegungen (Blitze, Regensäulen, Windstaub, Flußläufe) oder das Verschlungenwerden (der Sonne, des Mondes) im weitgeöffneten Rachen (der Nacht, des Meeres, der Erdschluchten, des Urzeitchaos) eine Rolle spielen» (II, 88).


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Antonino Minissale «Il potere che per es. la tenebra esercita sull’uomo, deriva non dalla notte come tale, ma dalla notte considerata come dotata di psiche umana; l’immaginazione della lotta tra il dio sole e il serpente della pioggia proviene non dalla considerazione dei fatti naturali in se stessi, ma deriva dalla proiezione di una lotta interiore tra la luce e l’oscurità dell’animo umano e si basa sulle corrispondenti personificazioni di fenomeni umani che si osservano all’esterno»38. «Quando il pensiero mitico intravede nel serpente una analogia con l’organo della fecondità proprio di ogni corpo umano, cioè con il fallo, allora verrebbe più facile credere che nella natura il serpente appare come un organo della fecondità cosmica, e perciò costituisce un ponte, una rappresentazione concreta, che congiunge insieme la fecondità dell’uomo e quella della natura; ed anche la singolare posizione del serpente fra tutti gli animali troverebbe una certa spiegazione se si suppone che l’organo maschile della fecondazione come fonte e sede di particolari sensazioni di piacere susciti a priori un interesse molto forte. In modo speciale la connessione del serpente con l’acqua della fertilità sembra totalmente pensata in analogia con la procreazione umana, e precisamente nel senso che l’acqua non era propriamente percepita come un simbolo, ma come l’equivalente dello sperma o delle urine. L’acqua è considerata nel mito non come simbolo dello sperma, ma è lo sperma del cielo»39.

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«Die Macht, die z.B. das Dunkel auf den Menshen ausübt, geht nicht vom Nachthimmel als solchem, sondern von der Nacht in der menschilichen Psyche aus; die Vorstellung des Kampfes zwischen dem Sonnengott und der Regenschlange leitet sich nicht von der Betrachtung der Naturgegebenheiten an sich her, sondern entstammt der Projektion eines inneren Kampfes zwischen dem Licht und dem Dunkel der menschlichen Seele und basiert auf den entsprechenden Personificationen der angeschauten Naturphänomene» (II, 89). 39 «Wenn aber in der Schlange das mythische Denken eine Analogie zum körpereigenen Organ der Fruchtbarkeit, zum Phallus, erblickt, so fiele es schon wesentlich leichter zu glauben, daß in der Natur die Schlange als ein Organ kosmischer Fruchtbarkeit auftritt und also eine Brücke, eine anschauliche Formel bildet, welche die Fruchtbarkeit des Menshen und die Fruchtbarkeit der Natur miteinander veknüpft; und auch die herausragende Sonderstellung der Schlange unter allen anderen Lebewesen fände damit eine gewisse Erklärung, darf man doch annehmen, daß das männliche Zeugungsorgan als Quelle und Sitz besonderer Lustempfindungen apriori ein höchstes Interesse auf sich vereinigt. Insbesondere die Verbindung der Schlange mit dem Wasser der Fruchtbarkeit scheint ganz und gar in Analogie zur menschlichen Zeugung gedacht zu sein, und zwar so, daß das Wasser nicht eigentlich als Symbol, wohl aber als Äquivalent des Spermas bzw. des Urins apperzipiert


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f) Un richiamo finale sottolinea il carattere eterogeneo dei diversi motivi mitici ripresi dallo Jahvista: «Perciò è certamente possibile riconoscere motivi “incestuosi” nel comportamento di Adamo e di sua moglie, ma non è possibile vedervi in maniera assoluta il motivo dell’incesto e a partire da esso interpretare tutte le altre immagini del “racconto J della caduta” o, viceversa, trascurarle completamente. Specialmente la intercambiabilità dell’azione della donna (Gen 3,15) e di Adamo (Gen 3,6-7) e la componente specificamente orale del racconto perderebbero il loro valore se ci attenessimo ad una pura interpretazione edipica. Il problema dell’interpretazione psicoanalitica di Gen 2-3 consiste precisamente nel fatto che J non ha ripreso o rielaborato una visione mitica in sé conclusa, ma ha messo insieme dei motivi mitici ripresi in forma frammentaria per farli confluire nel mosaico del tutto singolare e nuovo che esprime una concezione teologica che si pone al di là dei miti […] In ordine di principio lo scopo dei nostri tentativi d’interpretazione psicoanalitica non è quello di voler ricostruire un unico tipo originario del mito che sta dietro ai racconti dello Jahvista»40.

6. UNA LETTURA “A SFONDO SESSUALE” DI GEN 2-3 Ci siamo dilungati su Drewermann perché rappresenta un caso emblematico ed attuale, anche se problematico e controverso, del principio che “la Bibbia è libro di tutti”, nel senso che può essere interpretato secondo wurde. Das Wasser gilt mythisch nicht als Symbol des menschlichen Spermas, sondern es ist das Sperma des Himmels» (II, 91). 40 «Es ist also wohl möglich, in dem Tun Adams und seiner Frau “inzestuöse” Motive wiederzuerkennen, aber es ist nicht möglich, das Inzestmotiv absolut zu setzen und von ihm her alle anderen Bilder der J “Sündenfallerzählung” umzudeuten oder völlig zu vernachlässigen. Insbesondere die Wechselseitigkeit des Tuns der Frau (Gn 3,1-5) und Adams (Gn 3,67) und die spezifisch orale Komponente der Erzählung ginge bei einer reinen “Ödipus – Deutung” unter. Das Problem der psa Auslegung von Gn 2-3 liegt gerade darin, daß J nicht eine in sich geschlossene mythische Anschauung übernimmt oder umformt, sondern mythische Motive in fragmentierter Form zu dem völlig singulären und neuartigen Mosaik einer theologischen Aussage jenseits der Mythen zusammengesetzt hat […] Prinzipiell ist es nicht das Bemühen unserer psa Deutungsversuche, einen ursprünglichen Mythentyp hinter den j Erzählungen rekonstruiren zu wollen» (II, 120-21).


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punti di vista differenti, facendovi emergere delle verità che riguardano l’umanità di tutti, inclusa pure la sessualità che deve essere considerata una componente importante dell’identità più profonda dell’uomo e della donna di ogni tempo. Da parte nostra senza volerci identificare con la posizione di Drewermann41, che è probabilmente eccessiva, siamo convinti che il nucleo tradizionale che sta alla base del racconto elaborato poi in senso più “teologico” (come disobbedienza) dall’autore Javista in Gen 2-3 contenga, come filo conduttore che lo attraversa in filigrana dall’inizio alla fine, il tema della sessualità considerata nei suoi diversi aspetti, senza che si voglia incriminare il suo esercizio che assolve la funzione fondamentale della trasmissione della vita42. La visione della condizione umana tratteggiata dallo Jahvista è drammatica perché segnata da contraddizioni e sofferenze, dai dolori del parto per la donna alla sofferenza connessa con il lavoro dei campi per l’uomo, alla stessa morte. Ma al di là di questi limiti biologici e fisici c’è anche la realtà psicologica che viene intravista con tanta profondità dallo Jahvista: il bisogno che l’uomo ha della donna per colmare la sua iniziale solitudine e l’attrazione che la donna sente verso l’uomo, dando origine ad un rapporto del quale si può abusare giacché esso può sfociare nel domino dell’uno sull’altro, esemplificato qui in quello dell’uomo sulla donna. L’uomo e la donna sono destinati a diventare “una sola carne” (2,24). Se il racconto nel suo insieme presenta un tono amaro per l’incoscienza dei due protagonisti e le ambiguità del loro rapporto, ciò nonostante finisce con un inno alla vita e alla donna, quando si osserva che «l’uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi» (3,20)43, parole che fanno eco a quelle rivolte prima alla donna: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli» (3,16). In coerenza con queste allusioni al tema della sessualità, che lo Jahvista subordina allo schema 41

La posizione di Drewermann è spiegata e approvata da B. LANG, Die Bibel neu entdecken: Drewermann als Leser der Bibel, Kösel Verlag, München 1995 (= Eugen Drewermann, interprète de la Bible, Cerf, Paris 1994), ma è contestata decisamente da P. GRELOT, Réponse à Eugen Drewermann, Cerf, Paris 1994, soprattutto per le applicazioni fatte al NT, che noi non abbiamo considerato. 42 A. MINISSALE, Alle origini dell’universo e dell’uomo (Genesi 1-11). Interrogativi esistenziali dell’antico Israele, Cinisello Balsamo 2002, 74-77. 43 In questa affermazione di tipo eziologico si gioca sull’assonanza che si ha tra il nome Eva (ebr. h¢awwa¤h) e “vivente” (h¢a¤y).


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teologico del “trasgressione”, si deve riconoscere che i frutti dell’albero sono una metafora dell’amore che la donna offre all’uomo come in Ct 4,12-13; 5,1, e che viceversa la “nudità” (Gen 3,7) non vuole essere intesa metaforicamente ma in senso realistico, come conseguenza psicologica dell’intimità sessuale. Si deve aggiungere che il senso del “conoscere” a cui si richiama l’albero della conoscenza (2,17), deve intendersi alla luce del significato sessuale che questo verbo riveste nell’immediato contesto (cfr 4,1 e 4,17).

7. CONCLUSIONE L’itinerario percorso nella storia dell’interpretazione dell’Antico Testamento, ci ha mostrato come in forza di alcune premesse poste nell’Illuminismo44 e nel Romanticismo si è potuto giungere ad una lettura molto umana di Gen 2-3, nella quale si vede emergere un’esperienza che più o meno è comune a tutti gli uomini. Quindi la Bibbia è libro di tutti perché vi si trova di volta in volta un riflesso della condizione umana. Di fatto le Chiese non sono giunte a questa ammissione da sé, ma in quanto provocate dall’esterno, con una rivendicazione di libertà da parte della ragione umana che, secondo un certo paradigma teologico allora imperante, era da contrapporre alla fede. Provvidenzialmente, il cammino faticoso ed incerto della cultura si è trovato un varco nelle coscienze tra le diffidenze iniziali suggerite dalle concezioni più tradizionali che sembravano immutabili ed assolute. Per quanto riguarda il risvolto cattolico di tutto questo enorme processo anche negli studi biblici, più che riferirci ai documenti che riguardono direttamente lo studio della Bibbia, mi sembra più pertinente accogliere l’indicazione di metodo che ci viene indirettamente e analogicamente da altri due documenti. a) Parlando della questione politica Giovanni XXIII nella Pacem in terris fa questa osservazione: «Pertanto, può verificarsi che un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non opportuno o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa diventare domani» (n. 85). Per quanto 44 Si può sottoscrivere l’osservazione di R. OSCULATI, La teologia cristiana nel suo sviluppo storico, II, Cinisello Balsamo 1997, 425: «Quel movimento culturale che si sarebbe chiamato illuminismo aveva pure una forte componente teologica e cristiana».


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ci riguarda, se il filone esegetico proposto poteva essere inficiato all’origine di un certo panteismo (Spinoza ed Herder) e razionalismo (Lessing e Gunkel), le acquisizioni raggiunte nell’interpretazione concreta e positiva dei testi possono essere valide indipendentemente da queste premesse generali di tipo filosofico. b) Da parte sua il Vaticano II, dopo aver rilevato nella Gaudium et spes che «i più recenti studi di psicologia spiegano con maggiore profondità l’attività umana» e che «le scienze storiche giovano assai a far considerare le cose sotto l’aspetto della loro mutabilità ed evoluzione» (n. 54), esorta a che «I fedeli dunque vivano in strettissima unione con gli uomini del loro tempo, e si sforzino di penetrare perfettamente il loro modo di pensare e di sentire, di cui la cultura è espressione» (n. 62). Se si accetta il principio che la Bibbia è libro di tutti, si deve accettare come conseguenza che essa sia aperta alle diverse letture che se ne possono fare partendo da nuove domande che sono suggerite all’interprete dagli sviluppi delle scienze umane e dalle nuove condizioni storiche. Credo che si deve arrischiare su questo fronte, in un confronto che fa paura solo quando lo si vede dall’esterno e da lontano, come se appartenesse ad una sfera profana della società e del mondo che deve essere più esorcizzata che assimilata. Ma se si ama l’uomo e tutto ciò che costituisce la sua vita in questa terra, questi esperimenti di studio ci aiutano a scoprire, al di là di qualche possibile esagerazione, i molteplici ed imprevedibili segni della presenza di Dio nelle più recondite pieghe del suo cuore.


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SERGIO ROSTAGNO*

1. LIMINE Mi permetto un rilievo amichevole prima di iniziare. Alcuni interventi di questo convegno sono posti sotto l’etichetta della diversità delle confessioni, il che si comprende, ma può essere discutibile. Specie in sede universitaria è certo opportuno invitare persone di diverso orientamento, ma sarebbe meglio affidare loro temi specifici, in modo che tale orientamento, cui nessuno può sfuggire in toto, resti per così dire in secondo piano. Il rispetto delle diversità rischia infatti di diventare un’etichetta preventiva. Per quanto mi riguarda cercherò di non confessionalizzare il mio intervento, anche perché non ritengo possibile che si possa al di fuori di una enciclopedia compendiare il punto di vista protestante. Mi esprimerò dunque nella sola maniera a me nota e consentita di teologo cristiano sulla questione posta, pur ammettendo in anticipo i limiti che come individuo non posso non ammettere. Saranno limiti miei e non quelli imposti preventivamente alla trattazione. Gli antichi greci distinguevano quattro generi di discorso: deliberativo, giudiziario, esortativo e infine epidittico o elogiativo. Mi sono chiesto a quale di questi generi avrei potuto avvicinarmi. Escludo il genere deliberativo, perché non intendo portare l’uditorio a nessuna decisione; escludo il genere giudiziario, perché non dobbiamo emettere alcuna sentenza; escludo il genere parenetico, perché il mio dire non tende a esortare; esito infine ad assumere il genere epidittico o elogiativo, per la sua ambiguità o piuttosto per il conflitto che mi pare di scorgere tra un fine meramente indicativo e *

Docente emerito di Teologia sistematica presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma.


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informativo, e un fine laudativo o elogiativo. Mi domando se a conti fatti non dobbiamo inventare un quinto genere di discorso, che sarebbe quello critico costruttivo, cioè quello che mediante una serie di indicazioni valide mira a porre una domanda e a lasciare all’ascoltatore la libertà della risposta. Vengo al tema e alla domanda data come titolo di questo convegno rispondo subito: la Bibbia non è un libro esoterico. Perché il suo contenuto consiste nella proclamazione della misericordia di Dio, senza limiti predisposti. Tutti sono invitati a lasciare i loro dei (nella misura in cui sono espressione di una loro ambigua sudditanza) e volgersi all’unico Dio. Questa è la tesi che fa della Bibbia un libro non esoterico. Nello stesso tempo questa è la tesi che dobbiamo sottoporre a critica costruttiva, spiegando ciò che essa contiene e significa. Pur proclamando l’universalità della benedizione, la Bibbia conserva il senso sacro come qualche cosa di specifico. Tenere presente e illustrare tale paradosso è appunto l’ambizione di queste pagine. Il problema non è tanto sapere come si distingue il credente dal non credente, ma quello di conservare la soglia della decisione, la soglia che, mentre si offre come universale e incondizionata salvezza, non può essere varcata senza che si percepisca il suo carattere straordinario. Dovendo fare frequenti riferimenti storici ai testi del Nuovo Testamento, devo scusarmi in anticipo con chi sentirà fare affermazioni che gli parranno contestabili e anche sbagliate dal suo punto di vista, oppure, all’opposto, troppo compiacenti e apologetiche. Non cerco nessuna apologetica né polemica; voglio soltanto riuscire a esprimere in maniera obbiettiva quello che mi pare essere il senso cui gli scritti stessi si appellano.

2. PROMESSA E COMPIMENTO 2.1. Antico e Nuovo Testamento Non mi occupo dell’AT perché ritengo che altri lo possa fare meglio di me. Devo però dire subito che il Nuovo Testamento (o l’insieme di scritti protocristiani che sono raccolti sotto questo nome) consiste in gran parte in una discussione condotta sulla base delle Scritture sacre, che in quel tempo sono rappresentate da una delle traduzioni greche del cosiddetto Antico Testamento, traduzioni correnti nelle sinagoghe e abitualmente lette e


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commentate nelle chiese cristiane. Il Nuovo Testamento si costituisce proprio come una delle letture possibili delle Scritture (ovvero dell’AT, secondo la terminologia corrente). Ed è su questa lettura possibile (ma certo non esclusiva) che vorrei attirare l’attenzione dell’uditorio. Do per scontato il fatto che questa lettura si afferma nella discussione e questa discussione ha lati sgradevoli. Dobbiamo però ammettere che la lettura biblica, entro la quale si viene elaborando l’identità cristiana, deve per forza distinguersi rispetto ad altre possibili letture. La novità della lettura, nella misura in cui si presenta come tale, non può che delimitarsi, con tutta la nettezza possibile, rispetto ad un patrimonio di riferimenti comuni. Ripeto che le forme di questo sforzo di differenziazione sono storicamente determinate e quindi possono oggi essere consegnate agli archivi della storia. Facciamo ammenda per le espressioni polemiche (anche se l’ammenda non basta, viste le spaventose conseguenze pratiche che talvolta hanno moltiplicato il senso di quelle espressioni). Quel che ci interessa si situa, come vedremo, su un piano molto diverso. Si tratta infatti proprio del nostro tema, cioè di capire fino a che punto la Bibbia è o non è un libro esoterico. La questione è proprio al centro del Nuovo Testamento. L’analisi potrebbe partire dal capitolo 3 della II Epistola ai Corinzi, il testo in cui si trova per la prima volta l’espressione “antico testamento”. Da esso è poi stato tratto anche il termine di “nuovo testamento” per designare una autentica raccolta di scritti cristiani. In questo passo l’apostolo Paolo in realtà non dice per nulla che il complesso degli scritti ebraici sia l’antico testamento. Egli afferma proprio il contrario, cioè che l’intera scrittura non è antico testamento, ma semmai nuovo testamento. L’intera scrittura, cioè quel che abitualmente si legge nella Chiesa (la Bibbia greca, poiché il NT ovviamente non esiste ancora), quella appunto è da leggere come evangelo. Qui troviamo anche uno schema di pensiero convergente da tre parti, soprattutto se leghiamo questo passo al testo in qualche modo parallelo di Rm 15,14-19. Il riferimento al Dio misericordioso e benedicente verso ogni popolo sta in primo luogo; il riferimento a Gesù Cristo viene in secondo luogo, e ne vedremo più in là il senso; infine troviamo il riferimento allo Spirito, decisivo per il quadro nel suo complesso1. La benedizione divina è radice di tutto il discorso, eppure si 1

Lo stesso schema (solo invertito: Spirito, Signore, Dio) si trova in 1Cor 12,4-6. Su


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lega a Gesù, quasi a sottolineare che essa non ha nulla di automatico e di naturale. Nello stesso tempo i suoi effetti restano nelle potenti mani dello Spirito. Se la Bibbia intera è “nuovo testamento”, questo non può essere considerato un risultato ottenibile mediante un metodo; tale lettura deve essere data dall’alto mediante lo Spirito. È lo Spirito che garantisce la regola dell’interpretazione, la lettura “canonica”. Lo Spirito è proprio quello dell’apertura, dell’incontro, che a sua volta si ancora nella storia di Gesù di Nazareth e nella misericordia del Padre, come ci conferma appunto il parallelo di Rm 15, dove l’apertura e l’accoglienza reciproca è ancorata nella misericordia di Dio: Accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore della veracità di Dio, per compiere le promesse dei padri; le nazioni pagane invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: Per questo ti celebrerò tra le nazioni pagane, e canterò inni al tuo nome. E ancora: Rallegratevi, o nazioni, insieme al suo popolo. E di nuovo: Lodate, nazioni tutte, il Signore; i popoli tutti lo esaltino. E a sua volta Isaia dice: Spunterà il rampollo di Iesse, colui che sorgerà a giudicare le nazioni: in lui le nazioni spereranno. Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo. (Rm 15,7ss, versione CEI).

e dove il riferimento a Dio, Gesù Cristo e allo Spirito ritorna in modo significativo nei versetti 14-19: [...] a causa della grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere un ministro di Gesù Cristo tra i pagani, esercitando l’ufficio sacro del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo. Questo è in realtà il mio vanto in Gesù Cristo di fronte a Dio; non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse operato per mezzo mio per condurre i pagani all’obbedienza, con parole e opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito. (Versione CEI).

Accanto a passi come questi, pieni di belle parole, ne troviamo certo altri, dove ci colpisce l’uso di un linguaggio fortemente polemico. passi come questi si fonda la dottrina cristiana della «Trinità», un solo Dio nella molteplicità dei riferimenti che lo rendono interpretabile per noi.


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Sappiamo le conseguenze di simili espressioni polemiche nella storia della Chiesa. La Chiesa medievale ha riferito a sé ogni espressione positiva, mentre quelle negative le ha rese presenti e attuali applicandole alle sinagoghe ebraiche e agli ebrei stessi. Questo tipo di lettura è oggi fortunatamente superato. Restano tuttavia nei testi che abbiamo citato le formule polemiche proprie del loro tempo. Le espressioni polemiche in questi contesti sono certamente dialettiche; esse fanno cioè parte della disputa: noi le interpretiamo correttamente se le riferiamo a noi stessi, al nostro non sapere cogliere la novità dello Spirito.

2.2. La promessa Tenendo presente i tre riferimenti di Paolo, a Dio, a Gesù Cristo e allo Spirito (a Dio per la benedizione, a Gesù Cristo per il motivo del mediatore e allo Spirito per la libertà), torniamo al tema dell’incontro: la Bibbia ci appare allora come libro aperto a tutti, ma anche libro di credenti. Vedremo questi due momenti nel loro differenziarsi e nel loro legarsi l’uno con l’altro. La regola di lettura canonica è in verità quella di una apertura, di una accoglienza. La misericordia se è di Dio è erga omnes. Se si vuole parlare di Dio in modo appropriato occorre dire che la sua misericordia abbraccia le generazioni. Nel riprendere la Scrittura esistente, il Nuovo Testamento si chiede chi sia il destinatario della promessa. Il Dio d’Israele esaudisce le promesse fatte ad Abramo e alla sua progenie, ma la progenie è infinita. Nel Magnificat si legge: suscepit Israel puerum suum recordatus misericordiae suae Sicut locutus est ad patres nostros Abraham et semini eius in saecula. (Lc 1,54-55).

Chi ascolta queste parole, specie nella suggestiva illustrazione data loro dalla musica di Bach, non può fare a meno di domandarsi: chi è il seme di Abramo? Il seme di Abramo può essere Israele o la Chiesa stessa. Ma l’idea che se ne fa il Nuovo Testamento è piuttosto un’altra: l’espressione ha una prospettiva più vasta e include fin dall’inizio tutte le genti della terra. In te Abramo saranno benedette tutte le genti (Gal 3,8-9 nella particolare


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interpretazione estensiva che Paolo dà al testo greco di Gen 12,3). Il cristianesimo prende sul serio, attualmente, senza aspettare oltre, senza rinvii a tempi escatologici, finali, futuri, questa grande realtà di Dio. Ora è il tempo della salvezza (cfr 2Cor 6,1-2; 1Pt 2,10). Vi è una specie di immediatezza senza rinvii. Occorre riconoscere che è necessario un certo coraggio per affermare questo elemento di attualità. La Chiesa non può rendere questa testimonianza se non con grande circospezione, ma nello stesso tempo noi dobbiamo riconoscere che la Chiesa stessa non si è tirata indietro, non ha avuto timore di dare questo annuncio e di situarsi per così dire direttamente sotto la verticale di Dio. Se avesse avuto timore di farlo, se, presa da scrupolo, si fosse detta insufficiente e indegna, non avrebbe colto il punto essenziale. Per timore di non essere essa stessa all’altezza di così grave annuncio, ne avrebbe privato anche gli altri. Avrebbe commesso l’errore madornale di guardare a sé invece che a Dio. Essa però, con quella che può sembrare temerarietà, non ha commesso questo errore e ha preso tutti i rischi di annunciare ora il tempo della salvezza. Può darsi che qualcuno pensi che in tal modo la Chiesa si è appropriata della salvezza. Ma questa deduzione non è necessaria. La prospettiva è invece universale. Se si adotta questa prospettiva, la Bibbia appare quale libro della promessa e della relazione tra il Dio d’Israele, Padre di tutti, e il genere umano. La Bibbia conserva in se stessa la prospettiva dell’evento di portata universale. Prima di essere riversato all’interno di nuove regole e norme, questo annuncio è percepito come un lieto annuncio che si rivolge a tutti. Diventa tale oggi, senza dilazioni di nessun tipo. Più questa prospettiva diventa vera, più la sua portata è universale; più si rende attuale, più riguarda ognuno. In un Salmo si pone Gerusalemme all’incrocio di paesi situati all’incirca ai quattro punti cardinali e si proclama che tutti questi paesi sono nati in Sion (Gerusalemme). Sentiamo il Salmo (87,4): Ricorderò Raab [Egitto] e Babilonia fra quelli che mi conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. (Versione CEI).

Sion è centro geografico e spirituale: i paesi trovano in qualche modo in Sion, Gerusalemme, il loro luogo di nascita. Ma occorre forse precisare


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con Paolo (Gal 4,26): la Gerusalemme superiore, che sta in alto, è libera: quella è la nostra madre. La libertà è conferita ai pagani nella misura in cui il richiamo alla nascita diventa una nuova nascita; per raggiungere questo fine occorre però che la “vera” Gerusalemme sia di ordine diverso da quella terrena, storica. Tutto qui viene elevato. Qualche critico potrebbe ritenere che l’elevazione di Sion al cielo abbia una componente di orgoglio nazionalistico ed etnocentrico. Invece si vuole sostenere proprio il contrario: occorre che la centralità sia situata fuori della propria identità, e fuori può soltanto esserci il cielo e Dio stesso. Pertanto Paolo non intende divinizzare o esaltare Gerusalemme, ma intende sostenere che soltanto quando il riferimento trascende ogni confine umano esso è anche fonte di libertà. Si può obbiettare che tutto ciò è ingiustificato e gratuito. Si può però anche assumere che tutto ciò esprima, sia pure mediante metafore, il cuore di ogni problema metafisico. Proseguendo il nostro discorso, non possiamo evitare di osservare che il Nuovo Testamento lega alla figura di Gesù Cristo proprio questo aspetto decisivo e prioritario della benedizione per tutte le genti. Perché? La domanda è imbarazzante. Essa appare tuttavia inaggirabile, almeno finché restiamo sul terreno del Nuovo Testamento. La prospettiva della benedizione rivolta ad ogni gente non ha nulla di automatico o di formale. Essa non sembra essere un dato ricavabile dalla natura umana, ma un evento decisivo che per l’essere umano ha la forza di una buona notizia inaspettata. L’identità nella non identità richiede un prezzo per la sua non ovvietà. Resta dunque lo scandalo, quasi a proteggere la novità come novità. La lettura non è mai ovvia. La contraddizione va mantenuta e per questo l’azione di Gesù va portata fino alla croce. Il testimone della verità è martire in modo tale che in lui si dimostri la forza della resurrezione. Il Magnificat o i passi connessi (1Cor 1,26ss o le Beatitudini, Mt 5) ricordano il rapporto tra l’essere abbassati e l’essere risollevati dalla forza misericordiosa di Dio. Ma qualcuno deve pur attestare questa legge intima della misericordia. Israele può essere questa figura ideale, così come può esserlo Gesù. Il significato non cambia: Gesù è visto anzi come colui che realizza il Salmo 22 e insieme tutta quella tradizione biblica dove la misericordia di Dio risolleva Israele, proprio mentre Israele soffre una sofferenza che sarà sinteticamente rievocata nella crocifissione. L’universalità della promessa è il lato luminoso di una realtà più complessa,


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che include la testimonianza, affinché la misericordia non abbia nulla di ovvio e di scontato. La verità per tutti è insieme una verità che richiede di essere attestata nella sua inevidenza. Viceversa, colui che muore, muore per tutti, anche se è lui solo a morire. La croce resta quindi “segno della contraddizione”2, dell’accettazione di un passaggio non spiegabile, o non raziocinabile, non riducibile, il cui esito però lungi dall’essere disperato, è invece positivo. E di nuovo i testimoni più credibili di tale positività sono coloro che immeritatamente ne beneficiano e che non trasformano il dono ricevuto in ipocrita esibizione del proprio io. Nell’Epistola agli Efesini la croce è messa in rapporto all’annullamento della separazione tra Ebrei e Pagani (Ef 2,16). Sarebbe tuttavia la croce stessa a dover essere richiamata, quando dall’evento stesso della negazione della separazione si passasse in buona o mala fede a una nuova separazione, a una nuova discriminante. Occorre che si resti sulla linea di confine dove la linea stessa è annullata. Nel quadro mentale e storico del NT questa situazione è evocata mediante la dialettica tra ebrei e pagani, mentre il suo senso più profondo illumina ogni secolo. La riduzione di questa dialettica alla cosiddetta conversione dei pagani o addirittura alla conversione degli Ebrei stessi è sintomo di incomprensione se non di degrado della teologia cristiana nelle epoche successive. Mettendo l’accento sul compimento della promessa (di cui legittimamente si era orgogliosi), si è scivolati, senza forse saperlo, nella prospettiva del dominio e dell’egemonia. L’unione dei popoli si collocava in una dimensione storica di tipo imperialistico, invece di restare fondata nella reciprocità e nella pace. L’identità di cui qui si parla può e deve essere fatta propria e riconosciuta come propria nella sua realtà in modo da non ledere la sua universalità. Essa appartiene alle realtà verso le quali si può esprimere soltanto riconoscenza, rendimento di grazie o, in senso liturgico, adorazione. Il culto è essenzialmente riconoscimento o rendimento di grazie. È sempre l’io non sono (nel senso di 1Cor 1,28) quello che può dire «io sono». Essere e non essere sono dialetticamente legati e intrecciati. Entrambe le cose sono vere: così come è vero l’uno è vero anche l’altro; colui che «non è» può dire ad

2 «Semèion antilegomenon» Lc 2,34. Si mantiene il segreto al fine di permettere il salto della fede. È per tutti — a condizione di restare una scoperta.


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alta voce «io sono», senza dimenticare che chi parla qui è pur sempre un «non essere» che parla nella sua nuova identità e soltanto in questa sua nuova identità può parlare con piena convinzione. Per questa ragione i non ebrei sono presi ad esempio nelle lettere paoline così come retrospettivamente le persone non qualificate dalle regole di appartenenza religiosa, anzi qualificate proprio dall’antitesi a queste regole, come meretrici e pubblicani, e umili e malati di ogni genere, nelle narrazioni evangeliche hanno la funzione di essere i soggetti (anche inconsapevoli) della misericordia del Signore. Essi rappresentano e incarnano la misericordia divina. Le regole discriminatorie sono spezzate in modo volutamente provocatorio, non per amore della provocazione, ma per sottolineare che la discriminante in sé è problematica. Si è giunti a un momento in cui la discriminante deve dare il suo frutto, lo scopo segreto dell’elezione di Abramo deve diventare palese nell’invito rivolto a tutti i popoli. Si è giunti al momento di mostrare le carte, al momento dello svelamento. È un fatto metastorico. È contraddittoria con questo momento di svelamento l’identità cristiana intesa come una qualifica storica. La qualifica è già contenuta nell’AT. La qualifica è nel seme che porta frutto. A rigore non c’è altra qualifica. Il Nuovo Testamento non vuole succedere all’Antico Testamento, vuole semplicemente indicare il luogo in cui la Scrittura porta il suo frutto. Esso indica che la Scrittura ora sta portando il suo frutto e al di fuori di questo è pallida e inutile. Non vi è nuova qualificazione o identità assumibile al di fuori del seme che porta frutto. Il Nuovo Testamento si colloca interamente all’interno del miracolo dell’Antico Testamento, se così vogliamo chiamarlo, e questa è la realtà che esso assume e proclama. Il frutto del seme altro non può essere che il seme portante frutto. È per mantenere aperta questa possibilità del seme di portare frutto che il Nuovo Testamento prende qualche precauzione collocando la sua identità in Dio e non nell’uomo o nella storia, nella Gerusalemme celeste e non in quella terrena. Anche nell’evangelo secondo Giovanni — forse il più esclusivo e particolare, in quanto la cerchia dei discepoli amati da Gesù sembra costituire un gruppo coeso e delimitato — l’accento è posto su quel che costituisce il gruppo, che lo regge e lo alimenta. «Io sono la vite voi siete i tralci» (Gv 15,5). Il richiamo all’identità forte ha la forma di un annuncio, di un lieto messaggio, nel quale ci si può identificare certo, ma che permane nella sua struttura di antecedenza logica e primaria.


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2.3. La nuova identità tra la promessa e la norma Quale è il rapporto tra la promessa e la regola? La promessa conferisce identità al popolo Israele che ne è per così dire testimone e depositario; la regola che gli viene data (il comandamento) qualifica l’identità del popolo dandole contorni precisi e definiti. Quale reazione ha il NT di fronte a questo fatto? Ponendo questa domanda non stiamo affatto chiedendo al NT una risposta che non sarebbe la sua. È piuttosto tutto il NT a essere intriso della risposta e della elaborazione, certo non facile e immediata, di una nuova interrogazione rispetto a quanto la Bibbia greca già conteneva. Il Nuovo Testamento discute l’intima essenza della regola. La regola implica la manifestazione della volontà di Dio, ma la volontà di Dio è prioritaria rispetto alla regola che ne è applicazione. Occorre interpretare la regola a partire dall’intenzione del legislatore. C’è una quintessenza della regola. La quintessenza della regola è l’agape. Tutte le regole si riassumono nell’amore di Dio e del prossimo. Questa visione non è particolarmente originale; la si trova infatti nell’ebraismo come nel cristianesimo. Il termine agape può riferirsi a Dio come al prossimo. Nel primo caso equivale alla misericordia di cui abbiamo già più volte parlato. Nel secondo invece esprime il legame per così dire orizzontale tra uomo e uomo. Il nesso tra le due facce del termine agape richiede qualche chiarimento. Dietro la regola c’è Dio stesso. Molte religioni affermano che dietro la regola c’è Dio stesso (per questo motivo l’obbedienza alla regola – anche senza comprenderne il senso – talvolta si dà come massima espressione religiosa). Nel Nuovo Testamento questo fatto non è invocato per attribuire alla regola un senso letterale assoluto. Viene invece invocato in qualche modo contro la regola stessa. La regola è già secondaria rispetto all’intenzione di Dio che nella regola esprime la sua volontà di misericordia per tutti. Per questa ragione spesso l’attività di Dio dietro la regola è invocata per legittimare un comportamento che trasgredisce la regola stessa. La regola serve ancora nella misura in cui manifesta la presenza di Dio3. La presenza di Dio è però per tutti e concerne tutti: ha rinchiuso tutti nell’illegalità per fare misericordia a tutti perché questa misericordia è il senso ultimo e

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Interpreto in questo senso le polemiche del cap. 7 dell’Evangelo secondo Marco.


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prossimo della legalità4. La quintessenza della regola non è la buona intenzione di chi agisce, ma — una volta ancora — la volontà di Dio, che si identifica con la misericordia o l’agape di Dio. L’evangelo viene in ogni senso prima della legge. Nessuna legge o regolamento deve tradurlo in atto o metterlo in vigore. L’evangelo contiene da sé il proprio vigore fino in fondo. Nessun rigore gli darà vigore. Anzi il radicalismo si applica solo alla croce o alla grazia (Rm 1-8). Alla vita cristiana si applica l’agape, l’accoglienza reciproca, il comportamento centrato sul prossimo (Rm 12-15). A chi appartiene all’Israele ‘vero’, storico o spirituale, questo punto va chiarito in modo particolare (Rm 9-11). Il riflettersi della croce sul mondo è rappresentato non da assoluti, ma dal sostegno dato al relativo in ogni circostanza. Tutte le regole hanno come denominatore comune il rapporto che esse istituiscono a livello umano tra ogni essere umano e il suo concreto compagno di umanità. La regola non è più regola di identità, ma regola di nuova identità nell’agape. Pertanto non è più patrimonio di una Chiesa o setta; è universale perché è di Dio. E forse in questo suo non appartenere a una specifica identità (per esempio cristiana) sta il suo massimo valore ecumenico. Ecumenico sarebbe quindi qualche cosa che nessuno può rivendicare come proprio o che tutti potrebbero a buon diritto rivendicare come proprio. Ogni identità si troverebbe così ad essere relativizzata rispetto a quell’evento, di cui Dio solo può essere proprietario e autore. Dio infatti, mentre mi dà identità, è irrepresentabile mediante la mia identità, l’identità che io acquisto. Dio resta al di sopra di ogni identità acquisita. Il nocciolo della Scrittura è la testimonianza della preventiva apertura di Dio ad ogni gente. Non ci sono custodi di questo evento. C’è l’evento in se stesso, presente a se stesso e sufficiente a se stesso. Il resto è solo contorno contraddittorio umano di pensieri che incespicano l’uno nell’altro. Ogni regola non può che essere mediazione provvisoria, per quanto si pensi possa essere necessaria. Ogni regola non può che soffrire della propria incongruenza. Questo non esclude l’etica; soltanto, l’etica assume anch’essa un nuovo volto. Invece che esprimere identità particolare, è potenzialmente rivolta a quel che mette in relazione e reciprocità. L’agape trova la sua concrezione nella reciprocità. Esisterà dunque un risvolto etico molto chiaro, nel quale non 4

Questo è un pensiero proprio a Paolo: cfr Rm 11,32.


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possiamo addentrarci, ma che non possiamo tacere: le morali sono universali così come Dio è universale. Quel che voi dovete fare è quello che tutti devono fare. Con tale generalizzazione non si appiattisce tuttavia il senso dei richiami etici propri della Bibbia. Vari termini e concetti etici vengono dalla tradizione biblica e in essa ricevono un rilievo molto forte, come per esempio i concetti di giustizia, di equità, umanità e così via, nelle loro varie accezioni e contestualizzazioni. Vari studi recenti hanno rilevato il fatto che l’intera legislazione contenuta nelle Scritture (la Bibbia ebraica, per intenderci) rispecchia fedelmente una concezione profonda di umanesimo solidale, rispettoso del bisogno, tendente ad aiutare chi richiede di essere aiutato. Anche a questo proposito non ha più senso la contrapposizione tra Antico e Nuovo Testamento. Il fondo della concezione ellenistico universalistica adottata quasi ovunque dal Nuovo Testamento è interamente biblico. La pratica dell’agape nelle chiese cristiane del I secolo non è esclusiva. Sul piano dei concetti vale lo steso umanesimo etico, salve restando le diversità dovute a contesti storici diversi e a correnti di pensiero più o meno largheggianti. Nella maggioranza dei casi si permette la trasgressione della regola fatta in omaggio a una regola più intima, che esprime la misericordia divina verso ogni gente. Eppure proprio in questo campo la differenza del Nuovo Testamento sembra più percepibile e accentuata. Ne tentiamo una spiegazione plausibile. La tradizione rabbinica, se non erriamo, oscilla tra un’ermeneutica interrogativa, opinabile, dialettica, e la regola obbligatoria, che contraddistingue il credente in quanto tale. Sulla relazione tra questi due aspetti della tradizione esplicativa e applicativa della Torà il cristiano non riceve molte delucidazioni, mentre questa distinzione per i cristiani diventa basilare. L’idea di identità non è finalmente trasmessa dalla regola, ma dalla benedizione rivolta ad ogni gente. La regola è ancora interessante in quanto partecipe e portatrice della promessa che si compie; e la promessa si compie quando si allarga al genere umano non con l’imposizione di una legge, ma nella trasmissione di un invito. Il compiersi della promessa trasformerà la regola da modello di identità in norma di apertura. Dunque due visioni, si dirà, opposte: e due regole di identità. Ma l’obiezione non regge, se si considera che le due forme potrebbero essere entrambe legittime. Occorre in definitiva riconoscere che l’atteggiamento della tradizione ebraica, che tende a preservare l’appartenenza e l’identità,


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è altrettanto legittimo dell’atteggiamento cristiano, dove invece si sottolinea la provenienza “da ogni gente”. Perché si dovrebbe necessariamente dichiarare che una lettura è antica e l’altra nuova, che una appartiene al passato e l’altra al futuro, che una è esclusiva e l’altra inclusiva, una è giusta mentre l’altra non lo è, o lo è meno? Perché mai questi due atteggiamenti non sarebbero equivalenti sotto lo sguardo di Dio? Perché mai proprio Dio dovrebbe impedirci di dichiararli equivalenti? Sia lecito qui un breve accenno alla Riforma, perché essa si è richiamata alle discussioni del I secolo, in modo particolare quelle tra Paolo e il suoi avversari. Anche se in forme storicamente determinate, la Riforma ha ripreso il problema del Nuovo Testamento. Essa ha in qualche modo risuscitato il problema e ne ha fatto un punto dirimente, una questione aperta e da usare come criterio ermeneutico. La Riforma ha compendiato la sua dottrina nella formula della cosiddetta “giustificazione per fede”. Il senso di tale formula riassume la visuale che la Riforma intende usare come criterio di lettura biblica. Il problema del credente nel chiedersi se sia giusto o meno l’atto che compie, già proviene dal riconoscere la precedenza assoluta della divina misericordia. Solo successivamente ci si potrà chiedere che cosa sia praticamente meglio fare, che cosa debba essere veramente compiuto, in omaggio alla misericordia di Dio. Tuttavia l’atto in sé non è mai giustificato o giustificabile, non è mai dichiarato intrinsecamente giusto. È dichiarata “giusta” invece la fede, quale espressione di un rapporto con Dio di tipo speciale, del tutto gratuito e libero, e unicamente funzione della misericordia. L’io credente è necessariamente un io operante, ma la sua “giustizia” — su questo insiste la Riforma — è in Dio ed egli non è “giusto” in questo suo operare. Dicendo questo la Riforma intendeva compendiare il Nuovo Testamento e non andare oltre. Il suo richiamo conserva, pensiamo, una sua importanza.

3. LA PARTE E IL TUTTO 3.1. Bibbia e identità credente Fin qui abbiamo detto perché e in che senso il Nuovo Testamento intende presentare la Bibbia (il patrimonio degli scritti sacri letti nella


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sinagoga e nella Chiesa) come libro non esoterico. La riflessione sulla Chiesa riceve questa lettura e deve trarne le conseguenze. La Chiesa cristiana si è legata molto strettamente al compimento delle promesse. Interpretando la Bibbia come libro delle promesse e delle profezie, si è dichiarata senza pudore luogo del compimento della promessa attribuendo a sé, come si è già visto, il senso pregnante del testo biblico. La Chiesa è luogo che corrisponde all’ora (adesso!) ove le promesse sono sostanziate dal loro compimento. La Chiesa assiste attonita a questo fatto, ma non può fare a meno di attestarlo: essa è il popolo della salvaguardia (laos tes peripoiesis, 1Pt 2,19) e lo è con giubilo e sinceramente. La Chiesa si dà come il luogo effettivo della realizzazione della profezia. Essa ne è la prova evidente in se stessa. Nello stesso tempo, ma proprio nello stesso tempo, essa attesta una realtà di cui non dispone, che essa può soltanto attestare, che la regge, ma che non dipende dalla sua empirica realizzazione, e che non può essere contenuta in essa come un dato di fatto. Controriforma e Pietismo (al di qua e al di là dello iato confessionale) vivono nella contrizione di chi non si sente all’altezza di un simile annuncio. Non hanno strumenti adeguati per capire la sua dialettica. In questa realtà si può solo stare con giubilo e rendimento di grazie. Nello stesso tempo, occorre conservare il suo lato dialettico e non proclamarsene possessori esclusivi. In modo interessante il testo di 1Pt 2,1-10 riprende l’espressione popolo-non popolo come base per il suo ragionamento. Il credente o il gruppo di credenti, che voglia trovare qui la propria identità, la propria vocazione, il senso pregnante della propria esistenza, deve riflettere molto profondamente sul modo in cui lo può fare, per non tradire nei fatti il senso della confessione di fede in base alla quale appunto si sta costituendo. Non può perdere di vista che quel che lo sostiene, nell’identità che pretende avere, sta decisamente fuori di lui e non gli appartiene, se non nello stesso senso in cui appartiene anche ad altri destinatari; e ad essi in primo luogo. Il confine qui non è né posto per essere superato immediatamente, né cancellato o ritenuto inutile. Nessuno dice che il confine non debba essere mantenuto. Si discute in che senso vada mantenuto e se esso debba essere mantenuto in un senso discriminatorio o in un altro senso decisamente diverso. Il senso del confine non è quello di delimitare o dichiarare un’identità, ma quello di invitare alla conversione a Dio. Questo è tuttavia possibile soltanto se nessun gruppo si arroga in proprio e con esclusività il


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diritto di rappresentare in sé, come realizzazione concreta, quel che deve restare un annuncio aperto a tutti. La Chiesa può trasferire su di sé la promessa soltanto con qualche precauzione. Non può appropriarsene; può soltanto essere il luogo della promessa esaudita e rinnovata. Quel che nasce dalla promessa non può essere descritto se non rinnovando la promessa. La descrizione dell’evento non può essere riferita al fatto compiuto di una nuova organizzazione storica, che ricadrebbe fatalmente nella categoria della Gerusalemme ‘terrena’; tale descrizione deve essere legata alla promessa. La promessa si compie sempre e non si esaurisce mai. Questa è la dialettica incessante con cui noi possiamo descriverla. Ma dialettica qui non significa unità di opposti, bensì ricorsività: bisogno di ricorrere a un termine per definire l’altro termine, senza che si possa acchiappare il filo del discorso se non rincorrendolo. La Bibbia conferisce identità soltanto in modo apertamente dialettico. Essa perciò non può diventare un libro esoterico. L’accaparramento della Bibbia alla Chiesa cristiana, ai popoli cosiddetti cristiani, agli Occidentali se si vuole, è un atto mancato, un tragico equivoco. La decisione di diffondere la Bibbia ha qualche cosa di proselitistico da cui dovrebbe essere esente. La Bibbia può essere diffusa soltanto se mediante la sua lettura si vuole diffondere il concetto di libertà e autonomia che essa porta con sé. Il riconoscimento del canone biblico (in specie neotestamentario) compiuto dalla Chiesa ha un’importanza speciale. «In questo riconoscimento del canone — ci ricorda Ruggieri — c’è la consapevolezza ecclesiale di costituire, pur come mediazione necessaria […] un luogo di obbedienza diverso da quello cristologico: dalla storia di Dio compiutasi in Gesù Cristo occorre ricevere il senso della propria storia». Per tale ragione, aggiunge sempre Ruggieri, «il contenuto della pretesa ecclesiale espressa nella decisione sul canone è solo l’obbedienza e viene esemplarmente fissato il senso di ogni ulteriore pretesa e decisione della Chiesa che non può giustificarsi se non come fedeltà a Qualcuno più grande della Chiesa»5. Come ricorda Ruggieri, esiste una mediazione diversa dalla mediazione cristologia, ed è la Chiesa; ma la Chiesa deve secondo Ruggieri nello stesso tempo riconoscere una grandezza maggiore della Chiesa stessa. La Chiesa incanala la salvezza oppure la invoca e ne trasmette la 5

G. RUGGIERI, La compagnia della fede, Torino 1980, 107. Corsivi in originale.


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realtà in una forma evocativa e invocativa, dipendente dalla promessa divina e non sostitutiva di essa? La Chiesa è il luogo del miracolo puro e semplice, oppure del miracolo istituzionalizzato e realizzato? È nel potere della Chiesa realizzare il miracolo oppure essa vive nell’attesa riconoscente della sua realizzazione? Le domande in questa sede possono restare aperte come promemoria. La Chiesa è certo un luogo della non indifferenza, luogo di un partito preso e di un impegno. La Bibbia stessa ce lo ricorda, anche se libro non esoterico. Essa contiene un appello e un discrimine6. Bisogna però intendersi sulla natura di questo discrimine. Molti protestanti hanno sottolineato l’importanza della dottrina della predestinazione in funzione del rilievo da dare al discrimine. Essi hanno per così dire ufficializzato e reso rigido (almeno come principio) il discrimine, invece di lasciarlo fluido. Ma se alla fin dei conti si deve riconoscere un discrimine, allora occorre precisare che esso non può essere rappresentato da una regola di appartenenza rigorosa o lassista ch’essa sia. La decisione riguarda ciascun essere umano interpellato e che si lasci interpellare dal messaggio della benedizione e della misericordia. Occorre separare nettamente questa decisione per così dire esistenziale, per quanto possa essere profondamente religiosa, dal fatto di considerarla assoluta. La sua assolutezza va riferita al suo aspetto di legame con Dio misericordioso; mentre non può essere identificata con un preciso discrimine tra persona e persona, figuriamoci poi tra popolo e popolo, etnia ed etnia. Riferire a Dio e a Dio soltanto, in una specie di esclusività che ricorda il primo comandamento, la decisione e quindi il discrimine, significa nello stesso tempo essere in grado di legarsi ad altri. Mentre il separarsi dagli altri esseri umani potrebbe essere avanzato, come risulta dalla storia delle religioni, come riflesso legittimo e comandato del rapporto esclusivo con Dio, qui (nel Nuovo Testamento) invece sembra che si imbocchi la strada opposta, in quanto l’esclusività di Dio viene a riflettersi in un rapporto di fraternità umana. Proprio quando si afferma che l’essere umano è chiamato alla conversione e alla decisione, è indispensa6 La perla non può essere data ai porci (Mt 7,6). Il sale non deve perdere il suo sapore (Mt 5,13). Non si possono servire due padroni (Mt 6,24). Il gruppo deve mantenere un’identità precisa (2Cor 6,14-18); questo brano forse è spurio e contraddice quanto l’apostolo sta argomentando.


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bile ricordare l’esclusività di Dio, in modo da non tradurre l’esclusività divina in esclusività umana. In funzione di questa primaria esclusività la Bibbia è libro non esoterico eppure libro della decisione tutto in uno e contemporaneamente. Il linguaggio sottolinea uno alla volta aspetti distinti e dà evidenza a polarità che possono trovarsi congiunte in Dio soltanto. Nel tessuto linguistico (nelle parole e nei fatti) la contraddizione resta. Se ci si debba spaventare di essa oppure se ne debba trarre motivo di riconoscente rendimento di grazie, se la si debba annullare o ammorbidire, oppure conservare religiosamente, questo lo lascio decidere a ciascuno. Vorrei però sottolineare che l’accettazione della contraddizione come tale non è un atto irreligioso, ma potrebbe essere invece l’atto più rispettoso che ci sia del mistero divino. Abbiamo visto che ci troviamo in piena contraddizione. Ci si confronta sull’apertura e questo confronto diventa inesorabilmente una delimitazione, una chiusura. È nostro dovere confessare questa incongruenza e non trasformarla in una trincea. Essa è segno del nostro limite. È segno del nostro essere quali siamo. Identità e differenza sono reciprocamente connesse e noi possiamo soltanto lasciare aperta la dialettica reciproca. Noi siamo noi stessi parte della questione e coinvolti in essa. Ogni lettura biblica seria ci mette nella condizione di insoddisfazione rispetto a noi stessi. Tutte le volte che affermiamo la nostra identità stiamo in realtà chiudendo delle porte che, nella nostra identità vera, noi proclamiamo aperte a tutti. L’identità è quella di un invito rivolto senza condizioni preventive. Noi non possiamo dire: diventa cristiano (identità) a queste e queste condizioni, noi possiamo soltanto dire: diventa cristiano (identità) senza nessuna condizione. L’identità cristiana è la confessione del proprio non essere. Non possiamo che portare la contraddizione e rispettarla. Quale può essere allora la disciplina per i credenti? Ogni tradizione religiosa contiene regole più o meno discriminanti. La religione stessa si pone come ordine rispetto a un disordine. E ogni tradizione esige il rispetto di regole in qualche modo esoteriche, regole di cui solo l’iniziato comprende il senso. La definizione di una disciplina in campo cristiano costituisce un problema sempre aperto: non può mancare, altrimenti si vanifica ogni pretesa di identità; viceversa non può rinchiudersi in regola d’identità, per non contraddire le sue premesse. Forse per questo, ancor prima di parlare di disciplina, occorrerebbe parlare di segni distintivi. Non è un caso se nella Chiesa cristiana questi segni sono semplificati e rappre-


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sentati da battesimo ed eucaristia (o Cena del Signore, secondo la terminologia più usata in ambiente protestante). Questi segni, sotto il profilo sociologico, chiariscono e rendono manifesta l’appartenenza al cristianesimo. La teologia cristiana dovrebbe però sottolineare non questo aspetto che tali cerimonie sotto il profilo sociologico inevitabilmente hanno, ma l’aspetto opposto. Battesimo ed eucaristia possono soltanto essere le regole di appartenenza all’umanità cui Dio ha fatto misericordia. Non sono né regole morali o etiche, né regole rituali. Il sacramento cristiano non appartiene all’area dell’etica o del rito, benché ne abbia l’apparenza. Esso non vuole essere discriminante, ma accessione al vero rapporto con Dio, confessione della propria riconoscenza. Che esso comporti anche un impegno è cosa del tutto accessoria. Può essere importante, ma non è il punto cruciale. Il gesto distintivo dei cristiani è un gesto aperto, un gesto di invito (parabola degli invitati sostituiti all’ultimo momento, Luca 14). Nessuno vi è costretto. Quando accade, non è un gesto di appartenenza religiosa, ma riconoscimento della misericordia di Dio erga omnes. Compito della teologia è tenere aperto il riferimento a questa realtà più grande della Chiesa, nel senso richiamato dalle espressioni di Ruggieri sopra citate. Anche la confessione di fede altro non può che confessare l’incongruenza stessa. È vero che la fede richiede impegno e identità. L’identità però è sempre ulteriore. Non sei mai tu il testimone dell’identità, ma «colui che viene nel nome del Signore» (Sal 118,25-26 ripreso in Gv 12,13 e altrove). L’impegno non è attestazione esclusiva della propria identità, ma attestazione del Signore, di Colui che viene, di Colui che sta più in alto di te e di tutti, e poi, in secondo luogo, traduzione di questa attestazione in un etica praticabile da parte di tutti, e misurata sui bisogni umani universali e non su regole religiose particolari, la cui soddisfazione astratta sia di per sé prova di dedizione religiosa. Questa tesi, che Kant ha avvalorato con ogni convinzione, sembra del tutto congrua con quanto abbiamo sostenuto. La tentazione del discepolo consiste nel tradurre il radicalismo della grazia in un nuovo radicalismo di cui egli stesso è interprete e rappresentante. Questa è la quintessenza del religioso, in vari orizzonti. L’ipocrisia religiosa è risultato di questo modo di ragionare e può applicarsi equamente ad ogni confessione o religione. A tale tentazione occorre resistere. Non vi è radicalismo corrispondente e analogo al radicalismo che solo appartiene al


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cielo, al Signore, all’evangelo. Questo stesso radicalismo è a se stante e si può tradurre soltanto nel non radicalismo dell’accoglienza e diluire nel tempo della sequela. Chi ha posto la mano all’aratro non deve guardare indietro (Lc 9,62): non deve cioè fare della propria identità un traguardo raggiunto. Lo sguardo verso un traguardo ulteriore qualifica il credente. Il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo (Lc 9,58); né può avere il discepolo un’identità fissa.

3.2. Bibbia e autonomia A questo punto forse potrei aggiungere qualche altra considerazione sulla lettura biblica tipica del protestantesimo. La Bibbia è il libro dell’autonomia. La interpreta bene chi mediante questo libro accede alla sua maturità e alla sua libertà. Dove c’è lo Spirito c’è libertà (2Cor 3,17). Questa libertà esiste solo nella polarità con l’essere umano. Senza il lettore la Bibbia non è pensabile. Il lettore risponde a quanto legge e qui ritrova se stesso in una forma nuova. Può esistere una lettura biblica che non sia fatta nello Spirito? Vi sono state nei secoli passati molte polemiche riguardo alla libertà d’interpretazione e alla coerenza tra Scrittura e Tradizione. La Controriforma ha obbiettato ai protestanti che mediante la lettura biblica libera si aprirebbe la porta a ogni soggettivismo e a ogni arbitrio (la Bibbia come nasus cereus). La controtesi riformata era contenuta nell’espressione secondo cui la Scrittura è prima di tutto coerente con se stessa (sui ipsius interpres) e questo basta a fare di essa la regola di ogni successiva interpretazione. Tuttavia anche per la Riforma la lettura biblica in qualche modo avviene entro l’ambito della regula fidei7. Solo il protestantesimo liberale 7 Per “regula fidei” il cristianesimo, dal II secolo in poi, intende il compendio delle principali verità di tipo dogmatico, sostanzialmente quanto si trova nel Credo più usuale. L’intima adesione del Protestantesimo a questi principi dogmatici è stata sottolineata nel XVI secolo ed è stata ribadita, in particolare anche con i caratteri di una riscoperta, nella teologia del XX secolo. Il rapporto che si può avere con tali principi può ovviamente essere precisato in vari modi. Si rifiuta per esempio l’adesione meccanica e automatica a enunciazioni formali, se non si percepisce la forza del loro contenuto, che ultimamente deve rispecchiare il patto di Dio con l’essere umano.


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dei secoli successivi ha contrapposto libertà d’interpretazione e regula fidei. Comunque stiano le cose storicamente, l’una cosa è vera quanto l’altra. La teologia del Novecento ha certo riscoperto la regula fidei in modo convincente. Per questo vorrei qui spezzare una lancia in favore del polo opposto di questa dialettica, mettendo in evidenza il carattere della lettura biblica personale legata alla scoperta della libertà. Certo non parliamo della libertà estrinseca di trarre dallo Scritto Sacro ogni qualsiasi cosa, ma della libertà dello Spirito. La ragione per cui la lettura biblica è libera non è desunta dall’umanesimo libertario; né deriva dal fatto che ciascuno, secondo Lutero, è sacerdote e re8. Sta piuttosto nel fatto che la chiamata alla decisione, anche mediata da una Chiesa, non può essere trasmessa come già presa, come già saputa da qualchedun’altro. Leggere la Bibbia aiuta a pensare con la propria testa. C’è sicuramente in ogni lettura il rischio della parzialità, ma forse è un rischio che bisogna correre e che si può anche affrontare. Questo ci permette di legare l’origine della libertà in qualche modo alla scoperta che ogni testo suscita. Ricordo come illustrazione storica del mio assunto, quanto avrebbe potuto essere giovevole alla vita sociale della Sicilia quella lettura biblica spontanea e per certi aspetti ingenua, che era praticata da tanti appartenenti alle chiese pentecostali durante il fascismo e dopo la fine della guerra. In quella lettura c’era forse il segreto di una rinascita molto più che altrove, proprio perché tale lettura, per quanto il suo livello culturale fosse modesto — modesto nei riferimenti però non vuol dire modesto anche nella profondità — conservava il segreto dell’autonomia, dell’autoconsapevolezza, della franchezza e della libertà. Era così errato pensare che il tessuto sociale siciliano avesse bisogno anche di questo? Era così pericolosa quella lettura biblica, da doverla contrastare con ogni mezzo, carabinieri compresi9? È proprio ben ispirato il cinema, italiano e americano, che ci 8 De libertate christiana, 15: «Hinc omnes in Christo sumus sacerdotes et reges», in riferimento a 1Pt 2,9 (WA 7,56). 9 È suggestiva una lettera indirizzata nel 1952 a Giorgio Spini e da questi riprodotta in un suo articolo. Il corrispondente di Spini lo informa dei suoi problemi con i carabinieri: «XY, 1° marzo 1952. Caro fratello, riguardo alla diffida della legge contro i pentecostali, è giusto che t’informo di ogni particolare. In primo tempo, cioè il 13 febbraio, sono stato diffidato a chiudere dal commissario di XY: il giorno 18 sono stato chiamato dal maresciallo


La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista del Protestantesimo

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subissa di pellicole sulla mafia, senza mai opporre, neanche di sfuggita, magari come bizzarra alternativa, il diverso discorso che centinaia di contadini e operai siciliani facevano negli Stati Uniti e in Sicilia con la loro scoperta della Bibbia? Oggi ci si lamenta molto della mafia, cercando cause dirette e indirette: chi è causa del suo mal pianga se stesso. Questo mi pare di dover ripetere, ogni volta che ne ho l’occasione, come esempio storico, a illustrazione della dottrina protestante della libertà della lettura biblica. Non ho certo risposto con questo a ogni problema e certo la lettura spontanea non rende superflua la lettura che avviene all’interno della regula fidei. Sono tuttavia entrambe degne di essere ricordate (e del resto esse non sono necessariamente contrapposte). Nella luce della gratuità della misericordia, del non essere che riceve l’essere, dell’ultimo che diventa primo, dello schiavo che accede alla libertà, l’essere umano intende in definitiva la sua vita come un riconoscimento. L’essere umano non può riconoscere direttamente se stesso in se stesso. Si riconosce attraverso Dio ed è in questo riconoscersi che la salvezza risiede. Non è un procedimento riflessivo. È un procedimento di estraniazione e di riconoscimento attraverso il quale si costruisce l’immagine vera di sé. Ma questa immagine vera è sempre ricevuta come grazia, altrimenti accederemmo alla sua assolutezza. È nel riconoscerci che siamo veramente liberi. Mi interpreto a partire dal mio battesimo e a partire dalla comunione con altre persone come me. Ho sempre bisogno di riconoscere quel che sono. L’identità non mi è data se non mediante riconoscimento e riconodel paese di WZ, dove io risiedo. E fattami pure la medesima diffida, finì che Cristo lo evangelizzò per la mia bocca, e rimase contento e più che contento, tanto che mi disse: “signor L., mentre io mi credevo diffidare lei, lei diffidò me, secondo verità: vada in pace e servi il Signore”. Gloria a Dio anche per WZ. Mentre giorno 20, sono stato chiamato dal maresciallo di XY, e trovato un brigadiere, che il maresciallo era fuori caserma, che mi presentò pure la diffida, e avendomi fatto tante domande, restò meravigliato delle cose come stanno, lui con altri che stavano in ufficio. Mi disse che deve venire al culto, per vedere e sentire di più: mi chiese un Nuovo Testamento, che io promise che sarebbe subito portato, e invitandolo al culto di sabato, che stasera l’aspetto. Perciò Iddio sia lodato anche nei carabinieri di XY. Credimi tuo e vostro fratello in Cristo, L.L. Pace del Signore a tutti, Amen.» (Da: G. SPINI, Le persecuzioni contro gli evangelici in Italia, in Il Ponte 9 (1953) 1-14, ora in ID. Studi sull’evangelismo italiano tra Otto e Novecento, Torino 1994, 250. Lo stile è evidentemente quello del libro degli Atti (nelle vecchie traduzioni); da tutta la lettera traspare una amabile libertà evangelica.


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scenza (in greco eucharistein). Il pensiero di Dio diventa necessario in quanto permette all’identità di restare aperta e di essere qualificante nello stesso tempo. La contraddizione dalla quale siamo partiti, tra apertura verso ogni gente e identità credente, trova infine la sua spiegazione logica. Si è conservata una soglia di decisione: essa non può essere varcata senza che si percepisca il suo carattere straordinario, che è la sua contemporanea apertura. Il libro è sacro, perché questa soglia è sacra; ma essa lo è anche perché contemporaneamente aperta a tutti. E in qualche modo dovrà pur essere libero anche il modo di accedere a questa dialettica immensa. Nel senso precedentemente illustrato, e contro ogni tentazione rigorista, la Bibbia resta libro non esoterico, libro aperto e disponibile, in quanto libro della promessa, e\paggelòa, evangelo. Da parte sua la Chiesa conserva la incredibile possibilità del nuovo e della conversione, se, nello stesso tempo, da tale possibilità è essa stessa conservata. Proprio qui sta anche la radice della reciproca apertura, e infine dell’accordo, almeno su temi limitati e legati ai grandi bisogni dell’umanità.


L’ESEGESI PATRISTICA Un percorso di lettura

BENEDETTO CLAUSI*

Modus autem ipse dicendi, quo sancta Scriptura contexitur, quam omnibus accessibilis, quamvis paucissimis penetrabilis! Ea quae aperta continet, quasi amicus familiaris, sine fuco ad cor loquitur indoctorum atque doctorum, ea vero quae in mysteriis occultat, nec ipsa eloquio superbo erigit, quo non audeat accedere mens tardiuscula et inerudita, quasi pauper ad divitem; sed invitat omnes humili sermone, quos non solum manifesta pascat, sed etiam secreta exerceat veritate, hoc in promptis quod in reconditis habens. Aug. epist. 137,18

«La Bibbia libro di tutti?». È la domanda, capitale, alla quale dovrei provare a dare una qualche risposta a partire dall’enorme massa dei testi costitutivi di quella che una consolidata tradizione definisce ‘esegesi patristica’. Pretesa non tanto ambiziosa e perfino arrogante quanto decisamente impossibile, sia per la mole appunto del lascito dei primi scrittori cristiani sia per l’entità delle questioni che quel lascito solleva: teologiche, ermeneutiche, teoretiche, storico-letterarie. Un discorso che, nello spazio a mia disposizione, avesse pretese anche minime di esaustività formale e concettuale sarebbe impensabile. Ma sarebbe altresì inutile, perché la riscoperta dell’antica esegesi cristiana, o comunque il rinnovato interesse per essa, che dura ininterrotto da oltre mezzo secolo almeno1, ha *

Docente di Letteratura cristiana antica presso l’Università della Calabria. M. SIMONETTI – G.M. VIAN, L’esegesi patristica nella ricerca contemporanea, in Anuario de Historia de la Iglesia 6 (1997) 241-267. Un bilancio storiografico emerge anche 1


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già prodotto fra i suoi cospicui frutti alcune impegnative ricostruzioni — di diverso orientamento e calibro — della storia dell’esegesi patristica2; né mancano sintesi efficaci, accessibili a un pubblico più ampio, mentre si moltiplicano gli studi sugli usi della Bibbia nell’antico cristianesimo3. E tuttavia, la preziosa opportunità che l’occasione di questo Convegno ci offre di un reale confronto interdisciplinare, addirittura interculturale e interreligioso, mi stimola ad accettare la sfida e a cercare comunque risposte a quella difficile domanda. Sono numerosi i percorsi che sarebbe possibile seguire e diversi gli ambiti che potrebbero fornire spunti di indubbio interesse. Ne ho privilegiato uno, e con esso una linea di lettura, ovviamente con le inevitabili semplificazioni e le drastiche selezioni che ogni scelta comporta. Vi propongo di rivisitare alcuni testi-cardine, i momenti forse più alti della speculazione patristica intorno alla Bibbia. Non dalla riflessione metodologica e teoretica di B. STUDER, Die patristische Exegese, eine Aktualisierung der Heiligen Schrift (Zur hermeneutischen Problematik der frühchristlichen Bibelauslegung), in Revue des Études Augustiniennes 42 (1996) 71-95. 2 Apologetico e dichiaratamente teologico il taglio dell’opera, piuttosto modesta, di B. DE MARGERIE, Introduzione alla storia dell’esegesi, 3 voll., trad. it., Roma 1983-1986 (= Introduction à l’histoire de l’exégèse, 4 voll., Paris 1980-1990: il IV vol., sull’Occidente latino da Leone Magno a Bernardo di Chiaravalle, non è stato ancora tradotto in italiano, a quanto io ne sappia); rigorosamente storico-filologica invece la prospettiva di M. SIMONETTI, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Roma 1985, segnata nei suoi presupposti ermeneutici dall’influsso di de Lubac, su cui tornerò. Più attento alla dimensione ermeneutica, infine, piuttosto che a quella propriamente esegetica, l’ambizioso progetto di H. REVENTLOW, Storia dell’interpretazione biblica, 4 voll., trad. it., Casale Monferrato 1999-2004 (= Epochen der Bibelauslegung, 4 voll., München 1990-2001), che oltrepassa i confini cronologici della patristica, arrivando fino al XX sec. Merita inoltre di essere ricordata la rivista, ormai più che ventennale, Annali di Storia dell’Esegesi, diretta da M. Pesce, espressione per molti anni di un gruppo interuniversitario di ricerca sulla storia dell’esegesi giudaica e cristiana antica. 3 L’esempio di una sintesi insieme agile e consapevole fornisce M. MARIN, Orientamenti di esegesi biblica dei Padri, in Complementi interdisciplinari di patrologia, Roma 1989, 273-317. Per quanto riguarda gli usi della Bibbia, ricordo solo la collana «Bible de Tous les Temps» dell’editore parigino Beauchesne, i cui primi tre voll. riguardano l’antichità cristiana: Le monde grec ancien et la Bible (1984); Le monde latin antique et la Bible (1985); Saint Augustin et la Bible (1986). Meno sistematica e definita nella sua identità la ‘gemella’ italiana «La Bibbia nella Storia» delle Edizioni Dehoniane, nella quale è compreso il vol. miscellaneo La Bibbia nell’antichità cristiana: 1. Da Gesù a Origene (Bologna 1993).


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l’esegesi in senso proprio, bensì l’ermeneutica, che i Padri comunque concepirono sempre in stretta connessione con la pratica esegetica, quasi al margine di essa. In buona misura soggettiva, infine, — e quindi discutibile — la duplice opzione di non procedere secondo un ordine cronologico progressivo e di prendere le mosse da un autore e da un’epoca di solito esclusi dai confini della patristica: Beda e l’VIII sec., da cui risalire fino a Origene, sfiorando Agostino. L’effetto ‘straniante’ di un percorso à rebours dovrebbe rimuovere l’idea di una dimensione lineare ed evolutiva del pensiero patristico e contribuire a non alimentare illusorie aspettative di completezza diacronica. Quanto a Beda, infine, la sua inclusione nasce dal convincimento che egli abbia in fondo scritto l’ultimo capitolo del grande libro della patristica occidentale4 e che la sua opera trascenda la dimensione compilativa (già ‘medievale’), per sostanziarsi al contrario di una circoscritta ma consapevole diversità di orientamenti rispetto al passato. Lo scrittore anglosassone, uno dei grandi protagonisti della cultura del suo tempo, offre in questo senso la testimonianza di un pensiero vivo, non ancora fissato nella forma di un metastorico paradigma autoritativo5.

1. BIBBIA E GRAMMATICA: IL DE SCHEMATIBUS ET TROPIS DI BEDA Affinché tu sappia, dilettissimo figlio, e sappiano tutti coloro che vogliano leggere le mie parole, che la sacra scrittura ha la preminenza su tutte le altre scritture, non solo per la sua autorevolezza, perché è divina, o per la sua utilità, perché conduce alla vita eterna, ma anche per l’antichità e per la sua realtà espressiva (positione dicendi)6, ho deciso di raccogliere un certo 4 Proprio con Beda si conclude il IV vol., l’ultimo per l’Occidente, della Patrologia dell’Institutum Patristicum Augustinianum (cur. A. Di Berardino): Dal Concilio di Calcedonia (451) a Beda. I Padri latini, Genova 1996. 5 Dire ciò non comporta ovviamente un giudizio di qualità sull’ermeneutica medievale, che seppe creare le straordinarie architetture del senso di cui ha raccolto significative testimonianze Y. DELÈGUE, Les machines du sens. Fragments d’une sémiologie médiévale, Paris 1987. All’interno di quelle «cattedrali del senso», però, i Padri restano il più delle volte come auctoritates, relitti spesso inerti, formule ‘di verità’. 6 «Its very use of rhetoric»: Bede, Libri II De Arte Metrica et De Schematibus et Tropis. The Art of Poetry and Rhetoric, ed. C.B. Kendall, Saarbrücken 1991, 169. Kendall aveva già


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Benedetto Clausi numero di esempi da essa per dimostrare che nessuna figura retorica, nessun tropo i maestri della letteratura profana possono citare che in essa non sia stato anticipato7.

Con queste parole, il Venerabile Beda introduce, in qualche modo giustificandolo, il suo De schematibus et tropis, un manualetto che porta a compimento il lungo processo di cristianizzazione della grammatica avviato nel V sec.8. Nello scritto, infatti, destinato alla scuola monastica, se le definizioni continuano ad essere desunte dalle tradizionali artes dei pagani, quella di Donato in primo luogo, gli esempi — fondamentali per la stessa comprensione della teoria — sono invece ricavati in gran parte dalla Bibbia, anziché da Virgilio o da altri autori classici. Il fondamento epistemologico di una tale opzione risiede proprio nelle parole appena riportate, che si muovono nel solco di Cassiodoro9, ma edito l’operetta di Beda per il CChL. Poiché i suoi interventi testuali (in questa seconda edizione) sono in gran parte limitati a questioni ortografiche e comunque non significativi per i passi che ci interessano, continuerò a citare dal Corpus, sicuramente più accessibile. 7 Sed ut cognoscas, dilectissime fili, cognoscant omnes qui haec legere voluerint quia sancta Scriptura ceteris omnibus scripturis non solum auctoritate, quia divina est, vel utilitate, quia ad vitam ducit aeternam, sed et antiquitate et ipsa praeeminet positione dicendi, placuit mihi collectis de ipsa exemplis ostendere quia nihil huiusmodi schematum sive troporum valent praetendere saecularis eloquentiae magistri, quod non in illa praecesserit: CChL 123 (1975) 142s. Per la datazione dello scritto, vd. ora C. VIRCILLO FRANKLIN, The Date of Composition of Bede’s «De schematibus et tropis» and «De arte metrica», in Revue Bénédictine 110 (2000) 199-203, che lo pone negli anni dopo il 709. 8 U. SCHINDEL, Die lateinischen Figurenlehren des 5. bis 7. Jahrhunderts und Donats Vergilkommentar (mit zwei Editionen), Göttingen 1975. Cfr anche E. PÉREZ RODRÍGUEZ, La cristianización de la gramática latina (ss. V-IX), in Actas del Congreso Internacional «Cristianismo y Tradición Latina». Málaga, 25 a 28 de abril de 2000, Madrid 2001, 49-74. 9 Il Cassiodoro delle Institutiones, certo, ma altresì quello del Commento ai Salmi, da cui Beda trae definizioni di figure e tropi. Ha relazione col nostro testo di apertura quanto si legge nel commento al salmo 23: Cognoscite, magistri saecularium litterarum, hinc [scil. dalla Bibbia] schemata, hinc diversi generis argumenta, hinc definitiones, hinc disciplinarum omnium profluxisse doctrinas, quando in his litteris posita cognoscitis quae ante scholas vestras longe prius dicta fuisse sentitis: in Ps. 23,10, CChL 97 (1958). Qualche consonanza con Beda, ma all’interno di un sistema di riferimento affatto diverso, mostra anche il celeberrimo cap. XX 1 dei Moralia in Iob di Gregorio Magno, pagina agostiniana quanto poche altre del Pontefice: Quamvis omnem scientiam atque doctrinam scriptura sacra sine aliqua comparatione transcendat, ut taceam quod vera praedicat, quod ad caelestem


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soprattutto, ideologicamente, dell’Agostino del De doctrina Christiana10. Mentre però il Vescovo di Ippona afferma la superiorità della Bibbia in relazione al più generale orizzonte delle conoscenze11, Beda circoscrive la sua attenzione al linguaggio della Scrittura, della quale sancisce la valenza archetipale rispetto a tutte le altre scritture (ceteris omnibus scripturis). Di queste essa è il modello, ancorché superiore (praeeminet), per lo specifico teologico (l’auctoritas e l’utilitas), per l’antiquitas, per la positio dicendi. Divinamente ispirata e fonte di salvezza, la Bibbia è pur sempre un libro costruito con le parole degli uomini, con le stesse figure che caratterizzano il linguaggio degli uomini, quello ordinario non meno di quello letterario. Il contesto grammaticale ha un suo ovvio peso nella concezione sottesa al trattato di Beda. Per lui, ma in generale nell’ottica monastica, la patriam vocat; quod a terrenis desideriis ad superna amplectenda cor legentis immutat; quod dictis obscurioribus exercet fortes et parvulis humili sermone blanditur, quod nec sic clausa est ut pavesci debeat, nec sic patet ut vilescat, quod usu fastidium tollit, et tanto amplius diligitur quanto amplius meditatur; quod legentis animum humilibus verbis adiuvat, sublimibus sensibus levat, quod aliquo modo cum legentibus crescit, quod a rudibus lectoribus quasi recognoscitur, et tamen doctis semper nova reperitur; ut ergo de rerum pondere taceam, scientias tamen omnes atque doctrinas ipso etiam locutionis suae more transcendit, quia uno eodemque sermone dum narrat textum, prodit mysterium, et sic scit praeterita dicere, ut eo ipso noverit futura praedicare, et non immutato dicendi ordine, eisdem ipsis sermonibus novit et acta describere et agenda nuntiare: CChL 143A (1980). 10 A. ISOLA, Il De schematibus et tropis di Beda in rapporto al De doctrina Christiana di Agostino, in Romanobarbarica 1 (1976) 71-82. Cfr tuttavia R.D. RAY, Bede, the Exegete, as Historian, in Famulus Christi. Essays in Commemoration of the Thirteenth Centenary of the Birth of the Venerable Bede, London 1976, 127, per il quale nel processo di «biblicization of literacy and learning Bede outdoes even Augustine». Il riconoscimento di un forte influsso, ideologicamente caratterizzato, di Agostino su Beda non annulla le diversità altrettanto sostanziali fra i due scrittori. Mi permetto in proposito di rimandare al mio Elementi di ermeneutica monastica nel «De schematibus et tropis» di Beda, in Orpheus, N.S. 11 (1990) 277-307. 11 Cfr, ad es., doctr. Christ. II 42,63: Quantum autem minor est auri argenti vestisque copia, quam de Aegypto secum ille populus abstulit, in comparatione divitiarum quas postea Hierosolymae consecutus est, […] tanta fit cuncta scientia, quae quidem est utilis collecta de libris gentium, si divinarum scripturarum scientiae comparetur. Nam quidquid homo extra didicerit, si noxium est, ibi damnatur; si utile est, ibi invenitur. Et cum ibi quisque invenerit omnia quae utiliter alibi didicit, multo abudantius ibi inveniet ea quae nusquam omnino alibi, sed in illarum tantummodo scripturarum mirabili altitudine et mirabili humilitate discuntur: Sant’Agostino, L’istruzione cristiana, ed. e trad. M. Simonetti, Coll. Lorenzo Valla (1994), da cui sempre cito testo e traduzione italiana.


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grammatica ha definita valenza esegetica, traendo e sviluppando dalla funzione tradizionale dell’enarratio la propria specializzazione come strumento per l’interpretazione del testo sacro12. A un tale uso è in ultima analisi finalizzato il De schematibus, un asciutto elenco di figure e tropi che, senza avere espresse finalità ermeneutiche, fornisce all’esegeta un essenziale outil de travail. Ma per questa via è di fatto esaltata la polivalenza espressiva della parola sacra, di cui si valorizza la dimensione linguistica. Schemata e tropi non sono, come per Agostino, il contrassegno dei soli passi oscuri, ma caratterizzano nel suo complesso l’espressione biblica13: gli schemata obbedendo a prevalenti finalità estetiche14; i tropi operando sul piano del senso, ossia producendo uno spostamento di significato che investe i singoli termini e gli enunciati complessi della biblica locutio15. Questa pertanto è per sua stessa natura una tropica locutio, in tutto l’ampio repertorio delle sue forme: storica, profetica, poetica, sapienziale. Un universo di segni, che il lettore può e deve imparare a decifrare col sussidio dell’ars grammatica: «Every grammatical entity […] is capable of yielding meaning, and should be treated as Truth»16. Il discorso di Beda, in conclusione, presuppone e insieme rafforza l’idea di un approccio al testo sacro che privilegi la lettera e tenga conto 12 «What is fascinating about Bede’s treatment of allegoria [...] is the inclusion of explicitly theological principles for exegesis under the heading of the grammatical trope. Enarratio, for the Christian grammarian, embraces both what is signified and the manner of signification. In short, enarratio is the study of textual meaning»: M. IRVINE, Bede the Grammarian and the Scope of Grammatical Studies in Eighth-Century Northumbria, in Anglo-Saxon England 15 (1986) 36. Specificamente dedicato al rapporto fra esegesi e grammatica nel De schematibus C. VIRCILLO FRANKLIN, Grammar and Exegesis: Bede’s Liber de schematibus et tropis, in Latin Grammar and Rhetoric: From Classical Theory to Medieval Practice, London – New York 2002, 63-91. 13 Cfr Beda hist. eccl. V 24: ...de figuris modisque locutionum, quibus Scriptura sancta contexta est. 14 Solet aliquoties in Scripturis ordo verborum causa decoris aliter quam vulgaris via dicendi habet figuratus inveniri: 142. Con riferimento alla Bibbia, la dimensione estetica assume ovviamente un’accezione particolare in quanto la bellezza della forma linguistica diventa segno di una bellezza superiore, che va oltre i verba, per arrivare al cuore delle res. 15 Solet iterum tropica locutio reperiri, quae fit translata dictione a propria significatione ad non propriam similitudinem necessitatis aut ornatus gratia: 142. 16 CH.W. JONES, Some Introductory Remarks on Bede’s Commentary on Genesis, in Sacris Erudiri 19 (1969-1970) 157.


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della presenza, in essa, di figure e tropi. La consapevolezza degli scarti che questi operano, di parola o di pensiero, basta, da sola, per decifrare i sensi nascosti, mentre per altri versi l’aggancio che lega il figurato al proprio, cioè il possibile vincolo della similitudo o del contrarium, determina un contenimento sostanziale del ruolo dell’interprete, chiamato soltanto in definitiva a decifrare le direzioni degli scarti. Il senso letterale, insomma, è portatore di significati che non sono tout court quelli della lettera17 e presuppone in ogni caso il superamento della semplice funzione denotativa. Più o meno quel che succede col linguaggio poetico. Guardata dall’angolo di osservazione del grammatico-Beda, la Bibbia sembra proprio essere un libro di tutti e per tutti. Senza nulla togliere, s’intende, al suo specifico teologico e ai peculiari sistemi d’interpretazione che il versante teologico del suo linguaggio richiede e attiva.

2. BIBBIA E SEMIOTICA: IL DE DOCTRINA CHRISTIANA DI AGOSTINO Il nesso essenziale fra l’aspetto linguistico della parola sacra, l’atto ermeneutico e la dimensione soteriologica, enunciato appena da Beda senza approfondimenti e sviluppi, ha il suo grande codificatore, per l’Occidente, in Agostino e nel De doctrina Christiana. Le vicende dell’opera sono complesse: dopo aver redatto il prologo (forse), i primi due libri e parte del terzo, fra il 395 e il 397, Agostino interruppe il lavoro, riprendendolo trent’anni dopo, nel 426-42718.

17 La predilezione per il senso letterale emerge anche dai commentari esegetici di Beda. Senso letterale è qui quello che l’autore umano intende e che le sue parole comunicano. Esso comprende dunque tanto la semplice dimensione denotativa della lettera quanto il cosiddetto senso figurato. 18 Dell’interruzione redazionale ci informa lo stesso Agostino nelle Retractationes (II 4,1), fornendo anche una chiave di lettura dell’opera: Libros De doctrina christiana, cum inperfectos conperissem, perficere malui quam eis sic relictis ad alia retractanda transire. Conplevi ergo tertium, qui scriptus fuerat usque ad eum locum, ubi commemoratum est ex evangelio testimonium de muliere quae abscondit fermentum in tribus mensuris farinae, donec totum fermentaretur [III 25,35: cfr Lc 13,21]. Addidi etiam novissimum librum, et quattuor libris opus illud implevi, quorum primi tres adiuvant ut scripturae intellegantur, quartus autem quomodo quae intellegimus proferenda sint.


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Nell’appassionato e documentatissimo volume L’altro Agostino19, Gaetano Lettieri individua il motivo dell’interruzione nella scoperta della grazia indebita e predestinata in Ad Simplicianum I 2. Non è questa la sede per entrare nel merito delle innovative tesi di Lettieri, delle quali va in ogni caso detto che, rispetto ad altre interpretazioni del trattato agostiniano, hanno di sicuro il merito di dare forza al nesso fra ermeneutica e soteriologia, che in quest’opera assume tinte drammatiche proprio in relazione alla dottrina agostiniana della grazia. Significativo già il sostenuto prologo20, dove leggiamo fra l’altro che intento dell’autore è fornire praecepta utili per l’interpretazione del testo sacro, praecepta tractandarum scripturarum, destinati a quanti si dedicano allo studio delle divinae litterae. Fra i referenti dell’impresa c’è un gruppo di probabili reprehensores, i quali poiché vedono o credono di aver ricevuto la capacità di spiegare i libri sacri senza aver mai letto osservazioni del tipo di quelle che io intendo ora pubblicare, protesteranno che queste norme non sono necessarie a nessuno, perché tutto ciò che delle oscurità di quei testi si riesce a interpretare in modo plausibile, lo si può ottenere per dono di Dio: prooem. 221.

Alle potenziali obiezioni di costoro Agostino oppone la profonda tensione didattica che anima e giustifica il suo officiosus labor, magnum 19 L’altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del De doctrina christiana, Brescia 2001. Il volume è stato preceduto da una serie di saggi preparatori, fra i quali va ricordato il corposo articolo La crisi del De doctrina christiana di Agostino, in Cristianesimo nella Storia 18 (1997) 1-60. Non stupisce certo che le ipotesi interpretative di Gaetano Lettieri, sicuramente nuove e originali, abbiano già in poco tempo suscitato vivaci discussioni fra gli specialisti. Basterà qui richiamare i due lunghi interventi di N. CIPRIANI, L’altro Agostino di G. Lettieri, in Revue des Études Augustiniennes 48 (2002) 249-265, e di B. STUDER, Ein «anderer Augustinus». Überlegungen zu einem bemerkenswerten Buch, in Cristianesimo nella Storia 24 (2003) 115-133. 20 G. LETTIERI, L’altro Agostino, cit., 69ss, ritiene che esso sia stato redatto insieme col primo blocco dell’opera, ma non mancano ipotesi diverse, da lui stesso citate. Una puntuale analisi del prologo, con riferimento alle tematiche al centro di questo Convegno in L. PERRONE, Iniziazione alla Bibbia nella letteratura patristica, in Cristianesimo nella Storia 12 (1991) 13ss. 21 Per l’identificazione di tali reprehensores, vd. L. PERRONE, Iniziazione alla Bibbia, cit., 13, e M. SIMONETTI, ediz. cit., 369s.


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opus et arduum (I 1), trovando negli esempi e nelle parole della Bibbia la ragione e la giustificazione della spinta a trasmettere quanto ha a sua volta ricevuto. Poiché nessuno deve tenere per sé quanto possiede, così come nessuno può vantare a proprio merito qualcosa che invece ha ricevuto, egli non ha esitato — dice — ad assumere le vesti del precettore per insegnare alcune regulae, «quasi fossero lettere dell’alfabeto» (velut litterae): chi avrà appreso le norme che io cerco di trasmettere, quando incontrerà nei libri sacri qualche punto oscuro, trovandosi in possesso di alcune regole quasi fossero lettere dell’alfabeto, non cercherà un altro competente che gli chiarisca ciò che gli riesce oscuro, ma, trovate alcune tracce, potrà arrivare egli stesso al significato nascosto senza alcun errore, o almeno non incorrerà nella sconvenienza di un’interpretazione sbagliata: prooem. 9.

Chiunque ha la possibilità di accedere alla parola biblica, alla cui intelligenza aiutano non poco le regulae che governano i rapporti fra i signa e le res. I signa linguistici, in primo luogo, e fra essi soprattutto quelli traslati: Chi s’intende di lettere — leggiamo nel terzo libro, nella parte redatta dopo il trentennio di sosta — sappia anche che i nostri autori hanno fatto uso di tutti quei modi di espressione che i grammatici con termine greco definiscono tropi, con maggiore abbondanza e varietà di quanto potrebbe giudicare o credere chi non conosce tali autori e ha imparato in altri testi tali modi: III 29,40.

I tropi fanno parte del linguaggio ordinario, quasi elementi di una retorica naturale. La loro conoscenza consente di schivare il pericolo di intendere come proprie le espressioni figurate e risolve quindi parte delle multae et multiplices «oscurità e ambiguità» disseminate nel tessuto espressivo della Scrittura per volere di Dio (divinitus). È Lui che ha voluto «domare la superbia con la faticosa applicazione e rinfrancare la mente da quel senso di fastidio che solitamente fa deprezzare ciò che è di facile comprensione» (II 6,7). Quanti faticano a trovare quel che cercano, infatti, fame laborant; coloro che invece rinunciano a cercare perché hanno già a portata di mano fastidio...marcescunt. In entrambi i casi bisogna evitare il rischio di lasciarsi andare: in utroque autem languor cavendus est (II 6,8),


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dove languor esprime assai più che un malessere intellettuale. La ‘soluzione’ provvidenziale dello Spirito è stata quindi inserire i loci apertiores per evitare il rischio della fames; allontanare invece il fastidium mediante quelli obscuriores. La conclusione attribuisce efficacia ermeneutica all’alternanza di passi chiari e oscuri nella Scrittura, giacché i secondi possono essere chiariti col sussidio dei primi: nihil enim fere de illis obscuritatibus eruitur, quod non planissime dictum alibi reperiatur (II 6,8)22. Si sancisce per questa via l’idea, ben più antica di Agostino, che la Scrittura si interpreta con la stessa Scrittura. Ma la presenza di «oscurità e ambiguità» non ha sempre e comunque carattere provvidenziale; in qualche caso dipende soltanto dall’azione dei tropi23. Allora, la corretta decodifica delle strutture del linguaggio biblico aiuta a dissolvere la caligine semantica. Ben vengano, in siffatta prospettiva, sussidi ‘tecnici’ in grado di dissipare «oscurità e ambiguità», comprese le Regulae del donatista Ticonio24, quibus quasi clavibus divinarum scriptu-

22 Secondo G. GAETA, Le Regole per l’interpretazione della Scrittura da Ticonio ad Agostino, in Annali di Storia dell’Esegesi 4 (1987) 112 e n. 17, una tale affermazione «suona come un ridimensionamento drastico dell’allegorismo, ma di fatto è più un’affermazione di principio che un’indicazione di metodo», sùbito contraddetta peraltro dall’interpretazione, «di un allegorismo quanto mai sofisticato e fantasioso», di Ct 4,2 citato dallo stesso Agostino. Ciò nulla toglie, però, alla forza teoretica di una proposizione che fra l’altro mi sembra perfettamente coerente con le propensioni letteraliste dell’intero trattato. Anche Simonetti attenua la valenza antiallegorista di II 6,7-8, quando afferma la coincidenza «per larga parte» dell’impostazione che Agostino e gli Alessandrini danno al problema delle oscurità bibliche (ediz. cit., 422). Eppure, egli stesso riconosce che mentre per gli Alessandrini le oscurità bibliche contribuiscono a tenere lontani «gli indegni e i non preparati» (e quindi, aggiungo io, rafforzano una certa dimensione esoterica del libro sacro), Agostino «insiste piuttosto sull’esigenza, da una parte di deprimere l’orgoglio dell’uomo e, dall’altra, di stimolarlo alla ricerca» (ibid.). La differenza mi pare sostanziale ed è rafforzata dalle parole finali di II 6,8, che sanciscono una prospettiva ermeneutica profondamente diversa da quella degli Alessandrini. Sicuramente di stampo origeniano è la tensione forte alla ricerca individuabile nel De doctrina Christiana. 23 Quorum [scil. troporum] cognitio propterea scripturarum ambiguitatibus dissolvendis est necessaria, quia cum sensus, ad proprietatem verborum si accipiatur, absurdus est, quaerendum est utique ne forte illo vel illo tropo dictum sit quod non intellegimus; et sic pleraque inventa sunt quae latebant: III 29,41. 24 Il donatismo di Ticonio non preclude l’apprezzamento complessivo di cui lo scismatico è oggetto da parte di Agostino, ma ha un suo peso nella cautela che egli


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rarum aperirentur occulta (III 30,42)25. L’esegeta africano aveva sostenuto l’esistenza e la presenza attiva nel tessuto teologico della parola rivelata, di regulae mysticae, che «tengono serrati i recessi di tutta la legge e rendono invisibili ad alcuni i tesori della verità» (quae universae legis recessus obtinent et veritatis thesauros aliquibus invisibiles visibiles faciunt: III 30,43). Grazie alla loro conoscenza, clausa quaeque patefient et oscura dilucidabuntur (ibid.)26. Agostino sposta il piano di azione di quelle regulae, che trasferisce dai contenuti teologici alle forme linguistiche e retoriche, modificandone quindi funzione e natura: per Ticonio le regole interpretative degli uomini sono una necessaria conseguenza delle misteriose regole divine immanenti nel libro sigillato della Scrittura; Agostino le identifica invece in buona sostanza nei praecepta di cui parla nel prologo del De doctrina Christiana e le applica alla comprensione di alcuni punti oscuri della lettera. Nel momento stesso in cui apre ad una loro utilizzazione pratica, insomma, Agostino chiude in modo deciso alla visione del testo sacro che esse implicano nel contesto originario, affermando implicitamente che nonostante la presenza in essa di «oscurità», la Bibbia non è un libro «oscuro» e non contiene al suo interno le regulae mysticae di cui parla Ticonio. Depotenzia così la vis salvifica di quelle regole, privando di qualsiasi forza soteriologica il paradigma ermeneutico cui rimandano: nessuna regola basterà mai a svelare tutti i recessi della Scrittura, così come nessuna scienza profana basterà da sola a spalancare le porte della piena comprensione. Non si chieda al libro di Ticonio quel che esso non può dare: non de illo speretur tantum quantum non habet (III 30,43).

raccomanda ai lettori delle Regulae: Caute sane legendus est...maxime propter illa quae sicut donatista haereticus loquitur: III 31,43. 25 Sulle quali cfr P. CAMASTRA, Il Liber Regularum di Ticonio. Contributo alla lettura, Roma 1998 (per ciò che concerne in particolare la visione agostiniana delle sette regulae, 283ss.). Vd. anche G. GAETA, Le Regole, cit., 113ss, e ID., Il Liber Regularum di Ticonio. Studio sull’ermeneutica scritturistica, in Annali di Storia dell’Esegesi 5 (1988) 103-124, e, recentissimo, CH. KANNENGIESSER, Tyconius of Carthage, the Earliest Latin Theoretician of Biblical Hermeneutics. The Current Debate, in Historiam perscrutari. Miscellanea di studi offerti al prof. Ottorino Pasquato, Roma 2002, 297-311. 26 Sono, come le precedenti, parole di Ticonio, riportate da Agostino.


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Da una tale consapevolezza scaturisce la conclusione del discorso, apposta a sigillo del terzo libro, e certamente in linea con un atteggiamento più pensoso e prudente: … bisogna rammentare agli studiosi [ma lo studiosi del testo latino non rimanda alla realtà circoscritta degli specialisti] delle sacre lettere che non solo essi debbono conoscere i modi di dire che si trovano nella Scrittura, e osservare attentamente e ritenere a memoria in che modo essa sia solita esprimere una data cosa, ma debbono anche capire che è soprattutto e massimamente necessario pregare per potere comprendere. Proprio in questi libri, di cui sono studiosi, leggono: «Il Signore dà la sapienza e dal suo volto provengono scienza e intelligenza», da colui cioè da cui hanno ricevuto in dono la loro stessa propensione a studiare, purché si alimenti alla pietà: III 37,56.

Lo spazio potenzialmente senza confini delle risorse insite nella polisemia della lettera appare in realtà chiuso da un muro, contro cui si infrangono qualsiasi facile ottimismo ermeneutico e qualsiasi pretesa di tradurre in termini banalmente cognitivi il legame fra retorica, ermeneutica e salvezza27. Rimossa l’illusione di un’esegesi passe-partout, il libro aperto torna così, con apparente paradosso, un libro sigillato, rispetto al quale nessun sistema interpretativo, letteralistico o allegoristico28, appare adeguato (e del resto nessun sistema è in sé autosufficiente). La presenza di quel muro fa altresì risaltare le forti linee di tensione esistenti nella riflessione agostiniana fra la densità teologica della nozione di intepretatio e la strumentalità intellettualistica del cognoscere, con la netta, conseguente separazione degli ambiti dell’interpretare e del conoscere. Sancita la natura 27

G. LETTIERI, L’altro Agostino, cit., 435s. La contrapposizione fra la prospettiva ermeneutica «tesa alla monosemia» di Ticonio e quella «aperta alla polisemicità» di Agostino (P.C. BORI, La ricezione delle Regole di Ticonio, da Agostino a Erasmo, in Annali di Storia dell’Esegesi 5 [1988] 141) non esaurisce le ragioni di una distanza che investe la concezione del testo sacro e delle regole, il cui recupero, da parte di Agostino, Bori ritiene sia legato alla volontà di valorizzare il senso letterale. La visione che ho provato a sintetizzare, però, investe alla fine la stessa positiva considerazione della lettera, travolta dalla percezione dell’inadeguatezza sostanziale dell’atto ermeneutico privo del sussidio della grazia divina. 28


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strumentale del cognoscere e di tutte le dottrine, Agostino pone rigidi contenimenti anche a un intellectus che si collochi fuori della lex caritatis: Quisquis...scripturas divinas vel quamlibet earum partem intellexisse sibi videtur ita ut eo intellectu non aedificet istam geminam caritatem Dei et proximi, nondum intellexit (I 36,40) 29.

3. BIBBIA E TEOLOGIA: IL DE PRINCIPIIS DI ORIGENE Redatto prima della partenza di Origene da Alessandria, e quindi anteriore al 231, il De principiis rappresenta, come si sa, il primo tentativo di sistematizzare la teologia fondamentale del cristianesimo, organizzandola attorno a precisi nuclei tematici, ai quali sono dedicati gli attuali primi tre libri dell’opera30. Il quarto pone invece l’accento in modo pressoché esclusivo sulla sacra scrittura, sulla sua ispirazione (I), su come bisogna leggerla e interpretarla (II), sul significato dei passi oscuri (III)31. La Scrittura

29 Cfr A. FORTIN – A. PÉNICAUD, Augustin lecteur des Écritures, in Sémiotique et Bible 104 (2001) 7: «…en ordonnant la compréhension à l’édification de l’amour [cfr I 35,39 40,44] il a fait entrer le ver dans le fruit... Il a redéfini le savoir en le mettant au service d’une interprétation qui ne saurait être comme lui l’objet d’une possession ou d’une quelconque maîtrise». La «perspective de l’interprétation» sovverte la stessa ricerca di regole per meglio leggere la Scrittura e la trasforma «en une interaction de sujets animés par la visée du double amour, l’amour pour la Trinité “dont nous devons jouir” et pour le prochain, “celui qui doit en jouir avec nous” [...]. Le texte d’Augustin pourrait donc bien avoir un effet analogue à celui d’une révolution copernicienne: la lecture des Écritures était une recherche de savoir? Re-nommée “interprétation des Écritures”, elle devient une position d’amour». 30 Restano ancora aperte molte delle questioni relative alla struttura e alle stesse funzioni di questa undogmatische Dogmatik (L. LIES, Origenes’«Peri Archon». Eine undogmatische Dogmatik. Einführung und Erläuterung, Darmstadt 1992). Rapida messa a punto delle questioni relative, in M. SIMONETTI, (I) Principi, in Origene. Dizionario. La cultura, il pensiero, le opere, Roma 2000, 371-376. La divisione in quattro libri sembra comunque dovuta a ragioni accidentali. 31 Studi recenti specificamente dedicati a questo fondamentale testo: L. PERRONE, L’argomentazione di Origene nel trattato di ermeneutica biblica. Note di lettura su Perì Archôn IV 1-3, in Studi Classici e Orientali 40 (1990) 161-203; ID., La legge spirituale. L’interpretazione della Scrittura secondo Origene («I Principi», IV 1-3), in Rivista di


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è fonte privilegiata e insieme orizzonte di riferimento delle conoscenze sul divino e sul rapporto fra il divino e l’umano, in connessione con l’intero edificio dell’opera. Cosa di cui bisogna tener conto quando si valuta l’indirizzo ermeneutico qui espresso e i suoi più o meno evidenti scarti rispetto alla concreta prassi esegetica32, senza nulla togliere all’importanza di quella che è per noi la più antica trattazione teoretica cristiana sull’interpretazione della Bibbia33. Punto di partenza è l’affermazione della natura ispirata delle Scritture, comprovata dal successo del cristianesimo e dal compiersi in Cristo delle profezie veterotestamentarie. In polemica con Marcione e con gli gnostici, Origene sancisce così l’unità essenziale dei due Testamenti e la necessità della ‘realizzazione’ del Nuovo per affermare la verità del Vecchio: Dimostrando brevemente la divinità di Gesù e adducendo le profezie su di lui, noi insieme dimostriamo che sono ispirate da Dio le scritture che profetizzano di lui, le parole che annunciano la sua venuta e il suo insegnamento, pronunciate con potenza e autorità e che per questo hanno conquistato il fior fiore delle genti. Bisogna però riconoscere che il carattere divino degli scritti profetici e il significato spirituale della legge di Mosè si sono rivelati con la venuta di Cristo: IV 1,6.

Ascetica e Mistica 17 (1992) 338-363, e E.A. DIVELY LAURO, Reconsidering Origen’s Two Higher Senses of Scriptural Meaning: Identifying the Psychic and Pneumatic Senses, in Studia Patristica, XXXIV, Leuven 2001, 306-317. Molti spunti anche nei voll. rispettivamente di K. JO TORJESEN, Hermeneutical Procedure and Theological Method in Origen’s Exegesis, Berlin – New York 1986, 35ss. e passim, di H.J. VOGT, Origenes als Exeget, Paderborn 1999, e in quello, recentissimo, di M. SIMONETTI, Origene esegeta e la sua tradizione, Brescia 2004, che raccoglie scritti precedenti dello studioso, editore, traduttore e profondo conoscitore dell’opera origeniana. Dello stesso sono preziose, nella loro essenzialità, le note di commento alla trad. it. del De principiis (Torino 1989 [rist. dell’ediz. del 1968], da cui traggo le citazioni riportate nel testo). 32 La cautela degli studiosi di fronte alle dichiarazioni ermeneutiche dei Padri, troppo spesso sfocia in un sostanziale atteggiamento svalutativo, che ritengo vada sostanzialmente corretto. 33 Di una tale importanza è segno l’attenzione dei cosiddetti «filocalisti», che hanno conservato il testo greco dei primi due capitoli e di parte del terzo del IV libro del De principiis.


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Cristo costituisce la «chiave»34 grazie alla quale è ormai possibile penetrare l’intima natura — tutta spirituale (cfr Rm 7,1435) — della Legge: E la luce contenuta nella legge di Mosè — afferma Origene riprendendo Paolo —, coperta da un velo, risplendette alla venuta di Gesù, poiché fu tolto il velo, e sùbito si è potuta avere conoscenza dei beni di cui l’espressione letterale conteneva l’ombra: IV 1,6 (cfr 2Cor 3,15s; Eb 10,1).

È questa la base dell’ermeneutica origeniana, di cui appare evidente, proprio a partire da tali presupposti, l’intrinseca natura teologica, sostenuta per altri versi da ragioni apologetiche e dalla polemica nei confronti di marcioniti, gnostici e giudei36; un’ermeneutica ontologicamente cristologica, caricata di complesse istanze soteriologiche. Procedere fra le pagine della Bibbia significa seguire un lungo e faticoso percorso, che è insieme approfondimento personale e atto di fede. La ricerca del senso è inseparabile dalla ricerca di Cristo; è tensione ad aderire con tutto l’essere a Cristo, autore e senso della Scrittura, egli stesso fonte delle sue oscurità37. La ricompensa ultima è la salvezza, col conseguente definitivo svelamento del mistero, le cui tracce il racconto biblico dissemina fra i simboli del linguaggio umano. Proprio dalla natura provvidenziale del testo biblico e delle sue oscurità scaturiscono le modalità dell’interpretazione e, insieme, il ruolo dell’esegeta, reso partecipe dallo Spirito del carattere ispirato del testo sacro. 34

IV 2,3. Nei Selecta in Psalmos (PG 12, col. 1079), Origene accenna a una tradizione ebraica secondo la quale la Scrittura con le sue oscurità è simile a un edificio con molti appartamenti chiusi, per ognuno dei quali esiste una chiave, ma inadatta alla serratura. Occorre pertanto un lavoro lungo e difficile per ritrovare le chiavi giuste. Così per la Scrittura, le cui parole divine possono essere aperte solo grazie all’opera dello Spirito, da parte di chi è in grado di comparare cose spirituali con cose spirituali. È la sola «chiave» giusta. 35 Il versetto paolino è espressamente citato nella prefazione al I libro del De principiis (I praef., 8), altra pagina fondamentale per intendere la concezione origeniana della Scrittura. La stessa trattazione di IV 1-3 appare sviluppo di quanto lì scritto. 36 Il nesso fra componente polemica, spirito apologetico e riflessioni ermeneutiche è evidenziato da L. PERRONE, La legge spirituale, cit., 349. 37 Sul carattere provvidenziale delle oscurità resta fondamentale M. HARL, Origène et les interprétations patristiques grecques de l’«obscurité» biblique, in Vigiliae Christianae 36 (1982) 334-371.


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È lo Spirito a illuminare la fatica degli interpreti come illuminò quella dei profeti e degli apostoli, «ministri della verità» (IV 2,7); è Lui a fecondare coi suoi doni la specializzazione tecnica del filologo, trasformandola nella forza carismatica e vitale del profeta. Gli strumenti della sapienza degli uomini del resto mostrano tutta la loro inadeguatezza di fronte a «cose» di cui bisogna parlare «non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali», come recita 1Cor 2,13, un versetto che diventa in Origene vera e propria norma esegetica. Paolo è il grande ispiratore dell’ermeneutica origeniana, il maestro dell’interpretazione spirituale38, lui che per primo aveva saldato in maniera essenziale teologia ed ermeneutica, dischiudendo a quest’ultima inediti orizzonti, entro cui comprendere le relazioni fra antica e nuova economia39. Basta leggere Rm 5,14ss e valutare la natura e gli effetti della relazione tipologica fra Adamo e Cristo ivi istituita, per entrare nel vivo del nesso fra teologia ed ermeneutica. Sottraendo la Scrittura ebraica alle sue originarie direzioni di senso, Paolo rivoluziona il rapporto di significanza fra verba e res, postulando che le res, ossia le singole realtà della storia sacra, senza perdere consistenza reale, possano essere, come i verba, significanti di altre res, entro il progetto dell’economia salvifica40. Ma torniamo a Origene, il quale nel secondo capitolo del quarto libro indica la «strada»41 — non regole, si badi, ma un indirizzo — per l’interpretazione delle Scritture, applicando al metodo di lettura della Bibbia le parole di Pr 22,20s («Nota questi concetti tre volte nel tuo animo e nella tua mente, per rispondere parole di verità a quelli che ti pongono questioni»): Perciò tre volte bisogna notare nella propria anima i concetti delle sacre scritture: così il semplice trova edificazione, per così dire, nella carne della 38

F. COCCHINI, Il Paolo di Origene. Contributo alla storia della recezione delle epistole paoline nel III secolo, Roma 1992, 117ss. 39 L’impotenza della lettera a salvare, senza l’intervento dello Spirito, si identifica di fatto nell’impotenza della Legge. 40 Cfr A. STRUBEL, «Allegoria in factis» et «allegoria in verbis», in Poétique 23 (1975) 349ss. 41 Tradurre con «criterio», come fa Simonetti, il greco hodos (viam: Rufino) di princ. IV 2,4, significa di fatto irrigidire in una dimensione ‘normativa’ il testo origeniano. Non migliore la trad. «méthode» di H. CROUZEL in SCh 268 (1980) 311.


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scrittura — indichiamo così il senso che è più alla mano —; colui che ha un poco progredito trova edificazione nell’anima della scrittura; il perfetto […] nella legge spirituale, che contiene l’ombra dei beni futuri. Come infatti l’uomo è formato da corpo anima e spirito, lo stesso dobbiamo pensare della scrittura che Dio ha stabilito di dare per salvezza degli uomini: IV 2,4.

Si tende di solito a vedere qui la teorizzazione di un triplice senso della Scrittura, tre sensi distinti, gerarchicamente ordinati, collegati per un verso con la tripartizione antropologica (corpo, anima, spirito) e per un altro con i potenziali fruitori della parola divina (simpliciores, progredientes, perfecti)42. Una suddivisione meramente teoretica, che nella prassi dell’esegeta si ridurrebbe alla contrapposizione fra lettera e allegoria, con il senso morale fatto rientrare all’interno dell’allegoria. Non mi sembra, però, che Origene si riferisca ad autonomi sensi scritturistici gerarchicamente disposti, bensì a diversi aspetti o meglio livelli di un unico senso, ciascuno dei quali (aspetti o livelli) in sé completo e completamente ripieno del significato autentico della Scrittura. Sono progressive tappe di un inesauribile vitale processo, nel quale è la disposizione interiore dell’interprete a potenziarsi e ad evolvere, adattandosi al dinamismo intrinseco della Scrittura. In ogni caso, quale che sia la lettura del nostro testo, esso non comporta certo una svalutazione della lettera, improbabile peraltro da parte 42

Di segno affatto diverso le parole K. JO TORJESEN, Hermeneutical Procedure, cit., 40: «Origen has organized the congregation of all believers into three groups which simply represent the three distinct phases through which a soul passes on its way to perfection. Origen’s principle of interpretation is that there are three levels of meaning (or doctrine) in Scripture which correspond with the differing spiritual capabilities of each of these three groups. We do not as yet have a principle which says that each verse must be interpreted on these three different levels, a principle which would be parallel to the medieval four-fold sense of Scripture. The three different ways of reading the text can be described as three different levels of teaching». E ancora, alla n. 51 della medesima pagina: «The body, soul, and spirit of Scripture in this passage have always been understood to mean the literal, moral, and mystical senses of Scripture. Therefore each of these meanings should be developed for each verse, however this rarely occurs in Origen’s practice of exegesis. The conclusion of most scholars is simply that Origen is unsystematic, that his theory and practice fail to coincide». La tradizionale identificazione, conclude l’A., di corpo, anima e spirito della Scrittura «with three separate and self-contained senses of the same text...cannot be supported from specific textual arguments» (41). Mi ritrovo perfettamente, come si vede anche da quanto scrivo nel testo, in questa lettura.


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di chi proprio ai segni verbali, ai verba quali segni, volge costantemente la sua attenzione prioritaria, convinto che proprio da essi parta la «strada» che conduce al mistero43. Basta scorrere le opere di Origene esegeta (predicatore-esegeta, maestro-esegeta, grammatico-esegeta), per avere innumerevoli attestazioni dello spazio da lui riconosciuto alla lettera e alla sua sfera di senso. Tale doverosa puntualizzazione, ormai ricorrente del resto negli studi sull’esegesi origeniana, nulla toglie però al carattere certo non autosufficiente della lettera e alla necessità di cercare al di là di essa il mistero delle Scritture: oltre la lettera, ma non in contraddizione con essa, si spalanca all’interprete l’abisso profondissimo del senso spirituale, nozione tutt’altro che facile da definire, nella quale è riassorbito, diciamo, l’allegorismo filoniano, ovviamente reinterpretato in chiave cristologica. Pericolosamente limitrofa all’arbitrio del simbolo, la densa nozione origeniana di allegoria (nella duplice articolazione del senso morale e spirituale, o anagogico, come pure egli lo chiama), ha valenze complesse, di fronte alle quali le categorie della grammatica e della retorica, così pregnanti, come abbiamo visto, in Beda e in Agostino, mostrano tutta la loro inadeguatezza: è illusorio e fuorviante pensare che la semplice conoscenza dei tropi basti a eliminare, anche solo in parte, oscurità che sono intrinseche alle res, non certo ai verba.

4. L’ESEGESI PATRISTICA. UN’IDEOLOGICA ASTRAZIONE? Eccoci giunti, dunque, al termine del nostro percorso, nel quale siamo entrati in contatto con visioni così sostanzialmente diverse che mi chiedo se abbia senso parlare di una «esegesi patristica», formula che nella realtà rimanda a un referente unitario soltanto in senso cronologico: l’interpretazione della Bibbia elaborata nei primi secoli della storia del cristianesimo. 43 Per l’analisi della lettera Origene realizzò fra l’altro, com’è noto, il complesso dispositivo degli Hexapla, avvalendosi, per la decifrazione dei misteri della Scrittura, degli strumenti elaborati dagli antichi grammatici alessandrini. Misteri provvidenzialmente nascosti nelle ‘oscurità’ bibliche e altrettanto provvidenzialmente trasferitisi nella traduzione dei LXX, la cui inaffidabilità filologica — comprovata proprio dagli Hexapla — nulla toglie alla sua sacralità. Sull’approccio filologico al testo sacro da parte di Origene B. NEUSCHÄFER, Origenes als Philologe, Basel 1987.


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Tutto il resto con notevoli forzature può essere ricondotto a denominatori comuni. E non solo perché diverse sono le lingue usate dai vari esegeti, diversi le finalità e i contesti (liturgico, scolastico, omiletico, controversiale, catechetico…), ma perché diverse sono la ratio ermeneutica e in fondo, come s’è intravisto, la concezione stessa del testo sacro. Da qui la difficoltà di fornire risposte a tutto tondo alla questione da cui siamo partiti. Ogni pretesa di attenuare o addirittura di annullare le differenze, identificando nel senso spirituale il denominatore comune dell’esegesi dei Padri — fortemente carato sul piano ideologico44 — obbedisce a ragioni ideologiche, appunto, non certo storiche45. Esemplari, in proposito, i quattro volumi della fondamentale Exégèse médiévale di Henri de Lubac (Paris 1954-1964), in buona parte responsabili, oserei dire, della diffusa percezione unitaria di una realtà che unitaria non fu affatto46. Espressione di un sapere straordinario, frutto del lavoro di spoglio di una mole davvero impressionante di scritti, l’opera scaturì — è noto — dal dibattito sulla cosiddetta nouvelle théologie, che impegnò attivamente il futuro cardinale 44 In una direzione teologica ed ecclesiale assai ben definita, come evidenzia la capillare analisi di U. KUTHER, Kirchliche Tradition als geistliche Schriftauslegung. Zum theologischen Schriftgebrauch in Henri de Lubacs Die Kirche. Eine Betrachtung, Münster – Hamburg – London 2001, che offre assai più di una disamina dell’opera di de Lubac (Méditation sur l’Église, Paris 1953) cui si fa riferimento nel titolo. 45 «...se si voleva perseguire non solo un rinnovamento degli studi teologici, ma un rilancio dell’annuncio evangelico in un mondo sempre più secolare, occorreva ribadire che il senso allegorico-spirituale era per eccellenza il senso dogmatico, quello del “credendum”, radicato e manifestato dalla storia»: F. BOLGIANI, Henri de Lubac e l’esegesi spirituale, in Annali di Storia dell’Esegesi 10 (1993) 293. È nel VI cap. di Catholicisme (Paris 1938) che un tale punto di vista emerge per la prima volta: poiché Dio agisce e si rivela nella storia, scrive de Lubac, «Les réalités historiques ont donc une profondeur, elles sont à comprendre spirituellement [...] sont en devenir, elles sont à comprendre historiquement. L’histoire tout entière devient, entre Dieu et chacun de nous, le truchement obligé». La citazione è riportata da A. RUSSO, Henri de Lubac: teologia e dogma nella storia. L’influsso di Blondel, Roma 1990, 217. È questo il principio che de Lubac mette alla base di tutta l’esegesi dei Padri. 46 Exégèse médiévale e gli altri scritti ‘esegetici’ di de Lubac sono al centro della poderosa tesi di M.G. D’AMBROSIO, Henri de Lubac and the Recovery of the Traditional Hermeneutic, Washington, D.C., 1991, che parla di «reappropriation» dell’ermeneutica tradizionale da parte del gesuita, i cui intenti l’A. analizza tenendo presenti anche le obiezioni degli oppositori (220ss). Cfr infine R. VODERHOLZER, Die Einheit der Schrift und ihr geistiger Sinn. Der Beitrag Henri de Lubacs zur Erforschung von Geschichte und Systematik christlicher Bibelhermeneutik, Einsiedeln – Freiburg 1998.


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de Lubac insieme coi gesuiti della facoltà teologica di Lyon-Fourvière, laboratorio della nouvelle théologie47. Quel quadro (nel quale vanno inserite anche le profonde divergenze teologiche ed ermeneutiche col neotomista Ceslas Spicq48) è l’inamovibile fondale che sta alle spalle di questo libro, tanto capitale quanto, mi si consenta, pericoloso, se si dimentica che esso nacque all’interno di un preciso progetto di recupero attualizzante dell’esegesi patristica49, di fatto identificata col senso spirituale50. Benché lo stesso autore riconosca che Exégèse médiévale è «Beaucoup moins une contribution à l’histoire de l’exégèse proprement dite qu’à l’histoire de la théologie, ou plûtot de la pensée et de la spiritualité chrétienne en général» (I,1, 11), essa è invece diventata punto di riferimento, troppo spesso l’unico, ancora oggi, per la conoscenza della storia dell’esegesi patristica e medievale. Patristica e medievale, sì, perché sempre per de Lubac (e non solo per lui, purtroppo) un’unica grande linea parte dai Padri 47

Evidenzia le connessioni profonde fra la concezione delubachiana dell’esegesi spirituale e i princìpi della nouvelle théologie (espressione usata da de Lubac in Surnaturel) S.K. WOOD, Spiritual Exegesis and the Church in the Theology of Henri de Lubac, Grand Rapids – Edinburgh 1998, 17ss. Cfr anche A. RUSSO, Henri de Lubac, cit., 319ss, e M.G. D’AMBROSIO, Henri de Lubac, cit., 1s. Si ricordi che nell’agosto del 1950 Pio XII firmò l’enciclica Humani generis, prendendo decisamente posizione contro la nouvelle théologie. 48 Alle quali dà giusto rilievo M. PESCE, Un «bruit absurde»? Henri de Lubac di fronte alla distinzione tra esegesi storica e esegesi spirituale, in Annali di Storia dell’Esegesi 10 (1993) 323ss. Sostenitore del metodo storico-critico, Spicq aveva duramente attaccato i fautori del senso spirituale e quanti in generale vedevano «dans chaque verset et chaque mot de l’Ecriture un enseignement spirituel, une source d’édification. C’est la source de tous les contresens»: Bulletin de théologie biblique. B. Nouveau Testament, in Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques 36 (1949) 88 (questo testo fondamentale è stato opportunamente ristampato da Pesce in appendice all’art. Un «bruit absurde»?, cit., 344-353). Spicq tradusse le sue convinzioni teoretiche nella Esquisse d’une histoire de l’exégèse latine au moyen âge, Paris 1944, alla quale Exégèse médievale si può in qualche modo considerare una risposta (Pesce, Un «bruit absurde»?, cit., 327s). 49 Fra gli strumenti essenziali di tale progetto (per noi forse il suo esito più apprezzabile) fu la fondazione, nel 1942, della collana Sources Chrétiennes. È la «pertinence actuelle» dei Padri, che interessa e affascina de Lubac secondo D. BERTRAND, Patristique et apologétique:«Catholicisme», in Bulletin de l’Institut Catholique de Lyon 116 (1997) 23. 50 Cfr I. DE LA POTTERIE, Le sens spirituel de l’Écriture, in Gregorianum 78 (1997) 627-645 (= Colloque Henri de Lubac à l’occasion du centenaire de sa naissance [18961996]). Al senso spirituale de Lubac dedicò fra l’altro l’art. Sens spirituel, in Recherches de Science Religieuse 36 (1949) 542-576.


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e perviene all’umanesimo e alla Riforma51. Una sola linea, un solo paradigma interpretativo, formalmente articolato nello schema dei quattro sensi così caro agli interpreti medievali, evoluzione per lui della tripartizione origeniana. Una sorta di immenso libro, somma dei tanti, tantissimi libri che de Lubac — storico dell’esegesi malgré lui — legge e da cui estrapola, indifferente ai loro contesti originari, una miriade di proposizioni con le quali costruisce il suo discorso. Basterebbero i pochi passi richiamati nelle pagine precedenti, invece, a mostrare l’orientata parzialità di una visione la cui forza e il cui fascino risiedono nel carattere illusoriamente totalizzante con cui si presenta e che nasce da un’indebita estensione, semantica e cronologica, del paradigma ermeneutico origeniano: è l’altra faccia di quell’apologia appassionata di Origene di cui è testimonianza Histoire et esprit, che aveva visto la luce qualche anno prima52. Schemi interpretativi come quelli adottati da de Lubac non danno però ragione della realtà, problematica e variegata, dell’esegesi dei Padri, a partire proprio da Origene. Non rendono nemmeno giustizia alla stessa nozione di senso spirituale, che de Lubac e i suoi numerosi e autorevoli seguaci identificano esclusivamente con quella che oggi chiamiamo «tipologia», nella quale fanno rientrare ogni forma di allegoria53. Problema 51 La linea di continuità fra esegesi patristica e medievale, sotto il segno unificante dell’esegesi spirituale, è stata ribadita da de Lubac nel volumetto L’Écriture dans la tradition, Paris 1966. 52 Histoire et esprit. L’intelligence de l’Écriture d’après Origène, Paris 1950. Di «dévotion exemplaire» di de Lubac nei confronti di Origene parla J. GUILLET, Le sens de l’Écriture. Exégèses d’autrefois, recherches d’aujourd’hui, in Recherches de Science Religieuse 80 (1992) 361. In pochissimi tratti rende con efficacia il senso dell’appassionata apologia di Origene F. BOLGIANI, Henri de Lubac, cit., 293s. 53 «… bien qu’il ait parfaitement perçu l’originalité de l’exégèse que l’on appelle aujourd’hui typologique, le christianisme patristique et médiéval ne l’a pas affectée d’une dénomination particulière; la regardant, avec raison, comme une subdivision de l’exégèse allégorique entendue dans son sens le plus large, il l’a nommée elle aussi allégorie, quitte à spécifier parfois ce mot trop général au moyen de diverses distinctions»: J. PÉPIN, La tradition de l’allégorie de Philon d’Alexandrie à Dante. Études historiques, Paris 1987, 270. Più sfumata e complessa, ma altrettanto riduttiva nella sostanza, la posizione espressa a riguardo da un maestro come M. Simonetti in tanti suoi articoli, di cui non posso qui render conto, e nel vol. Lettera e/o allegoria, cit. Lo studioso respinge distinzioni [dei nomi? dei procedimenti? delle funzioni?] che ritiene estranee all’esperienza storica e alla coscienza


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enorme, storico e storiografico, quello del rapporto fra tipologia e allegoria, impossibile anche solo da accennare qui. Storico, in quanto già sollevato dai più consapevoli esponenti della cosiddetta scuola di Antiochia, decisi avversari dell’allegorismo alessandrino, ma non restii ad accogliere e ad applicare il criterio tipologico. Storiografico, con riferimento al dibattito che ancor oggi coinvolge, forse senza più passione ormai, teologi e storici ‘culturale’ dei Padri. Cfr, ad es., Ancora su allegoria e termini affini in alcuni scrittori greci, in Annali di Storia dell’Esegesi 8 (1991) 380, n. 78: «… procedimento che i moderni definiscono tipologia, ma che […] gli antichi, a cominciare da Paolo, non hanno distinto, a livello teorico, dall’allegoria». Più di recente però il rapporto tra tipologia e allegoria è stato da lui definito in termini di «complementarità»: «non è di opposizione, ma di complementarità, in quanto la tipologia è un modo di atteggiarsi dell’allegoria» (La teologia dei Padri, in La Teologia del XX secolo: un bilancio. 1. Prospettive storiche, Roma 2003, 376, n. 72). Significativo, infine, anche per intendere il carattere e le ragioni stesse della riflessione, quanto Simonetti scrisse parecchi anni or sono, prima dei contributi cui ho appena fatto riferimento: dall’«approccio rigidamente letterale e storico al testo sacro» comune ai giorni nostri deriverebbe «una generalizzata valutazione largamente, se non totalmente, negativa per l’allegorizzazione della parola sacra, che è l’aspetto più vistoso e caratterizzante dell’esegesi patristica e medievale: essa agli occhi dello studioso moderno si presenta ormai come arbitrio e violenza al testo... Anche studiosi ben addentro nella conoscenza di questa materia non si sono affrancati da siffatta valutazione (si pensi, solo per fare un nome, all’ultimo Daniélou), e la corrente distinzione fra tipologia e allegoria, tanto tenacemente e universalmente perseguita, in definitiva traduce la preoccupazione e la finalità apologetica di salvare almeno qualcosa di quell’esegesi, abbandonando tutto il resto»: «Scripturarum clavis notitia Christi». Proposta per una discussione sulla specificità dell’esegesi patristica, in Annali di Storia dell’Esegesi 4 (1987) 7. L’insistenza su quella distinzione nascerebbe dunque dalla sostanziale estraneità, perfino ostilità, della cultura contemporanea, scientista, filologica e letteralista, nei confronti dell’allegorismo «patristico e medievale». Il dibattito dei tempi di de Lubac, la cui presenza aleggia qui attraverso il continuum fra esegesi patristica e medievale, il nome di Daniélou e soprattutto una certa idea dell’allegoria (= senso spirituale = senso dei Padri), come si vede prosegue ancora ai giorni nostri, così come continua la riduzione dell’allegoria a una sorta di categoria atemporale, caricata di valenze ideologiche. Forse è tempo di fare un passo avanti e attrezzarsi di quelle chiavi di lettura che consentano di ancorare a dati più oggettivi la differenza, a mio avviso sostanziale, fra le due nozioni di ‘allegoria’ e ‘tipologia’ e soprattutto fra i procedimenti che esse rispettivamente attivano. Felici, in questo senso, gli esiti delle letture semiotiche: cfr, ad es., A. STRUBEL, «Allegoria in factis», cit., (specialmente 344 e 349-351), oppure M. IRVINE, Interpretation and the Semiotcs of Allegory in Clement of Alexandria, Origen, and Augustine, in Semiotica 63 (1987) 57ss. Di abbandonare in ogni caso qualsiasi approccio di tipo apologetico — quale ne sia il segno — e forse anche quelle visioni storico-culturali di lunga durata che comportano inevitabili approssimazioni.


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dell’esegesi. Un dibattito che all’origine vide de Lubac in prima linea, nel rifiutarsi di riconoscere carattere essenziale alla distinzione sopra richiamata: allegoria è per lui sinonimo di tipologia, entrambe designanti un unico procedimento ermeneutico volto a far emergere dalla Scrittura i «sacramenta Christi et Ecclesiae»54. Una convinzione che ha un preciso referente polemico nel confratello Jean Daniélou55. Lungi dall’essere dominato dal «préjugé courant touchant un ésotérisme d’Origène»56 che de Lubac gli rimprovera, Daniélou ha in realtà ragione, a mio avviso, e le sue rigorose puntualizzazioni, al di là delle specifiche questioni cui si riferiscono, restano autorevole richiamo contro tentazioni semplificatrici e destoricizzanti. Ci obbligano a riconoscere che i primi esegeti cristiani elaborarono modelli differenziati, riconducibili a opzioni ermeneutiche diverse e a diverse concezioni della stessa natura del testo sacro, fatta ovviamente salva la sua realtà condivisa da tutti di scrittura divinamente ispirata. Quanto appena detto non esclude tuttavia la possibilità di individuare linee di convergenza e mi pare opportuno, in conclusione, riprenderne schematicamente alcune — poche tra le tante possibili —, a partire dagli spunti forniti dai testi su cui ci siamo soffermati: a. ai Padri è certamente estranea l’idea di una fruizione del testo sacro al di fuori dall’orizzonte — individuale e comunitario — della fede e della pietà, barriere che si oppongono a qualsiasi lettura univocamente letteraria della Bibbia (ed anche, ai giorni nostri, ad approcci che perdano 54 «Typologie» et «allégorisme», in Recherches de Science Religieuse 34 (1947) 193. In A propos de l’allégorie chrétienne, in Recherches de Science Religieuse 47 (1959) 5-43, de Lubac torna oltre dieci anni dopo sul tema dell’allegoria cristiana, della quale afferma con vigore la novità sostanziale, in polemica con J. PÉPIN, Mythe et allégorie. Les origines grecques et les contestations judéo-chrétiennes, Paris 1958. 55 Traversée de la mer Rouge et baptême aux premiers siècles, in Recherches de Science Religieuse 33 (1946) 402-430. L’idea di una distinzione fra tipologia e «allégorisme» (quest’ultimo proprio, ad es., degli Alessandrini) sarà ripresa e ribadita dallo stesso Daniélou nel fondamentale Sacramentum futuri. Études sur les origines de la typologie biblique, Paris 1950. «L’“allégorisme” dont parle le R. P. Daniélou» — gli risponde de Lubac — «reste […] souvent en dépendance directe de la typologie; à vrai dire, il en fait encore partie»: «Typologie», cit., 220. 56 Ibid., 221.


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di vista lo specifico ‘sacrale’ del libro rivelato57). L’inizio del De schematibus è chiarissimo in tal senso: la Bibbia non è un libro come gli altri (ceteris omnibus scripturis praeeminet), benché sia un libro di tutti e per tutti, costruito con parole umane e figure del linguaggio umano. Nel contempo però non è neppure, per la stragrande maggioranza dei Padri, un libro iniziatico, esoterico nel senso proprio del termine: non lo è per Origene, che in ciò si oppone in modo mirato alla visione degli gnostici; non lo è, in riferimento ai reprehensores e al donatista Ticonio, per Agostino. L’iniziazione alla Bibbia, testo misterioso e non misterico, non si traduce quindi in una sorta di «disciplina dell’arcano», ma consiste nella capacità di adattamento dei tempi di crescita interiore del lettore e dell’interprete all’intimo dinamismo della parola biblica58. b. L’idea di una tensione dinamica intrinseca al testo sacro è un altro degli elementi comuni rilevabili nella tradizione patristica, al di là dei differenti approcci esegetici. La parola biblica è, per sua conformazione naturale, caratterizzata da un movimento che da essa passa poi, come si è accennato, all’interprete e al lettore: nessuna passività è consentita in questo gioco di molteplici interazioni fra testo e lettori. Un complesso dinamismo presiede anche l’atto interpretativo, che in ogni caso, quale che sia l’indirizzo esegetico, si configura come processo, coinvolgente percorso di ricerca, quête, anche esistenziale, il cui effetto è la circolarità ermeneutica 57 Basterebbe in proposito ricordare l’approccio ‘letterario’ di un grande come Frye, su cui cfr R. ALTER, Northrop Frye, entre archétype et typologie, in Recherches de Science Religieuse 89 (2001) 403-417. Le riserve espresse da Alter in parte coincidono con quelle di C. Hamlin, La Bibbia come letteratura, in Intersezioni 12 (1992) 207-233 (il testo inglese dell’art. è apparso in Annali di Storia dell’Esegesi 9 [1992] 163-190), il quale denuncia con forza il pericolo di una «spietata secolarizzazione» nell’approccio alla Scrittura, benché riconosca, su un altro piano, che «la critica letteraria necessita di riconsiderare i suoi debiti nascosti verso la tradizione della Bibbia nella nostra cultura. L’importanza della Bibbia per l’interpretazione costituisce il fuoco centrale e dominante dello sforzo ermeneutico durante una lunga storia di interpretazioni. Lo sviluppo del pensiero critico moderno e postmoderno può essere debitore molto di più a questa storia di quanto sia attualmente conosciuto e acquisito» (218). 58 L. PERRONE, Iniziazione alla Bibbia, cit., 4; e P.C. BORI, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Bologna 1987, 43ss. L’immagine della ruota, tante volte evocata dagli esegeti antichi e medievali, rende bene questo senso di movimento.


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cui s’è accennato fra il soggetto che interpreta il testo sacro e da questo è a sua volta ‘interpretato’ (l’«ermeneutica ontologica» di Ricoeur59). c. Diversa è però la valutazione della natura e delle finalità di una tale dynamis, pur nella concorde valorizzazione dei suoi effetti soteriologici: la dinamica dei sistemi ermeneutici letteralisti appare piuttosto interna alla Scrittura e legata al rapporto fra la lettera e i significati che essa sottende; nella visione degli allegoristi invece le spinte vitali fuoriescono dalle pagine del Libro, producendo come effetto una trasformazione interiore dell’interprete, incorporato nel testo biblico, proprio nel momento in cui di questo è messo in evidenza il senso spirituale. La definizione delle caratteristiche e del ruolo dell’interprete varia considerevolmente, in dipendenza del modello prescelto, con un’oscillazione di funzioni che riempie tutto lo spazio fra i due poli dell’esegeta-profeta (Origene) e dell’esegetagrammatico (Beda). Specificamente agostiniana, infine, la forma di dinamismo che risiede nell’amore, così come esso è concepito in relazione alla struttura stessa del processo interpretativo, opposto in questo al mero processo cognitivo60. d. «La littérature patristique peut […] être décrite comme une herméneutique, comprise indissociablement comme une activité où il est question du sens et comme une réflexion sur le sens»61. Le suggestive parole di Gilles Dorival rendono bene, mi pare, la centralità della Bibbia nella cultura e nella letteratura cristiana antica, una centralità che identifica questa specifica fase dello sviluppo del cristianesimo. Ma rilevano soprattutto il ruolo particolare assunto da un’ermeneutica di fatto ipostatizzata, la quale, travalicando l’ambito conchiuso dell’atto interpretativo e della riflessione ad esso correlata, pervade tutti gli altri aspetti e le realtà del cristianesimo antico, a partire appunto dalla letteratura. Viene in mente la definizione geronimiana degli scriptores Christiani come coloro che de scripturis sanctis memoriae aliquid prodiderunt (vir. ill., praef.). Questa espressione 59 Cfr D. SIMON, Ad Regnum Caritatis. The Finality of Biblical Interpretation in Augustine and Ricoeur, in Augustinian Studies 30 (1999) 105-127. 60 Cfr M. BRITO MARTINS, Le projet herméneutique augustinien. II. Herméneutique et existence, in Augustiniana 49 (1999) 17ss. 61 Le sens de l’Écriture chez les Pères. 1. Les Pères grecs, DBSuppl 67 (1992), 426.


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configura la letteratura cristiana antica come una sorta di metaletteratura, i cui rappresentanti esprimono tutti, in modi e con finalità diverse, una comune vocazione ermeneutica. Rielaborando forme proprie delle culture giudaica ed ellenistico-romana, essi edificarono la strategia interpretativa «più a lungo di ogni altra dominante nel mondo occidentale»62, nella quale è anche il nucleo originario della moderna teoria della letteratura. e. Pur considerando il fondamentale interscambio fra le dimensioni letteraria ed ermeneutica e tenendo conto degli esiti letterari del sistema ermeneutico edificato dai Padri, è tuttavia improponibile l’idea che l’atto interpretativo fosse da loro interamente ricondotto all’interno della sfera letteraria o linguistica. È idea che vale la pena di ribadire. Anche per gli esegeti che maggiormente ne valorizzano lo spessore e le risorse, la lettera è solo un punto di partenza per giungere a un senso che in ogni caso la eccede, sia esso il senso figurato di Beda e in parte di Agostino sia quello spirituale di Origene. L’atto interpretativo, però, non può nemmeno tradursi — è quanto sembra dire soprattutto Agostino — nella vertiginosa profondità del simbolo, in una ricerca che dà evidenza quasi esclusiva alle oscurità bibliche e insieme all’arbitrio dell’esegeta. La formulazione di precise norme (col ricorso alle discipline profane) per risolvere le difficoltà sollevate dalla parola biblica diventa in questo senso un tentativo di contenere l’arbitrio dell’interprete, e insieme un mezzo per valorizzare — entro i limiti che abbiamo visto — la dimensione linguistica e retorica della parola sacra.

Ringrazio il prof. Don Pino Ruggieri per avermi invitato a partecipare a questo Convegno e per la sua aperta e cordiale disponibilità. Non avendo fatto in tempo ad offrire un mio contributo per la miscellanea di studi in onore del professore Salvatore Pricoco, mi è gradito dedicare a lui questo saggio. Un segno di affetto e di riconoscenza per un Maestro che come pochi sa coniugare la generosità intellettuale con quella umana.

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T. TODOROV, Simbolismo e interpretazione, trad. it., Napoli 1986, 87ss.


ALLEGORISMO E SAPERI PROFANI NELL’ESEGESI ESAMERALE DEL XII SECOLO

CONCETTO MARTELLO*

1. L’ALLEGORISMO MONASTICO 1.1. La tipologia biblica Nella prima metà del XII secolo, l’esegesi biblica s’incontra col sapere “scolastico”, suffragando la crescita delle competenze filosofiche dei teologi. Tale incontro infatti contribuisce a suscitare, e accompagna, un marcato incremento della letteratura esamerale, possibile campo di applicazione delle arti, in particolare della grammatica e della dialettica, e addirittura terreno di verifica delle teorie fisico-cosmologiche. In altri termini, il racconto dei sei giorni della creazione, che per l’esegesi cristiana di lingua latina, da Agostino in poi, è occasione privilegiata per definire e affinare i criteri d’interpretazione del testo sacro, si rivela terreno di riflessione sulla “ragionevolezza” del dettato scritturale1. In generale, si può dire che la cultura di lingua latina ha messo a punto, tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII, una concezione dell’esegesi biblica organica e largamente condivisa, caratterizzata dalla centralità dell’allegoria intesa come figura della profezia e quindi come principale strumento espressivo dei significati spirituali. Essa riproduce, sotto l’aspetto meramente retorico, le forme della tipologia classica, e tuttavia è percepita come manifestazione dei misteri scritturali e, in quanto tale, come peculiare

*

Docente di Storia della filosofia medievale presso l’Università di Catania. Cfr A. TARABOCCHIA CANAVERO, Esegesi biblica e cosmologia. Note sull’interpretazione patristica e medievale di Genesi 1,2, Milano 1981. 1


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Concetto Martello

veicolo di comunicazione di contenuti sacri2. Intendo dire che, se l’allegoria già nel mondo pagano, sia greco sia latino, trova le sue fondamentali coordinate teoriche, configurandosi come linguaggio figurato attraverso cui attingere a significati più profondi, di natura teoretica o pratica, nell’esegesi cristiana essa va assumendo connotati specifici; e i significati nascosti dietro le figure attengono al nucleo veritativo delle profezie contenute nella Scrittura, riguardanti l’incarnazione del Cristo come fondamentale chiave interpretativa dell’Antico Testamento nella sua interezza. Da tutto ciò consegue una possibile distinzione tra allegoria pagana e allegoria cristiana, basata tuttavia non sull’aspetto formale e di natura retorica, che non è per nulla diverso3, ma sui contenuti: la prima rappresenta un significato veritiero, di carattere sacro o filosofico, all’interno di un racconto non necessariamente vero; la seconda, in quanto “modo” della profezia, si situa in un contesto globalmente vero e non aggiunge verità al racconto biblico ma ne approfondisce il significato spirituale. È stato altresì notato che anche l’allegoria pagana “si nutre” di realtà e di storia, nel senso che esige un significato letterale accettato come credibile, trova la sua piena legittimazione nella descrizione di una realtà concreta o nel racconto verosimile; non per nulla Porfirio nel Contra christianos, critica il versetto 6,53 del vangelo di Giovanni, in cui Gesù incoraggia i Giudei a mangiare della sua carne e a bere del suo sangue, in quanto nessun senso spirituale e misterioso può essere sovrapposto a un significato letterale inverosimile e ripugnante4. E tuttavia la distinzione 2

Cfr C. SPICQ, Esquisse d’une histoire de l’exégèse latine au moyen âge, Paris 1944; J. DANIÉLOU, Sacramentum futuri. Études sur les origines de la typologie biblique, Paris 1950; H. DE LUBAC, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’Écriture, 4 voll., Paris 1959-1964; J. PÉPIN, Mythe et allégorie. Les origines grecques et les contestations judéo-chétiennes, Paris 1976; La tradition de l’allégorie. De Philon d’Alexandrie a Dante, Paris 1987. 3 Cfr R. HAHN, Die Allegorie in der antiken Rhetorik, Tübingen 1967; PH. ROLLISON, Classical Theories of Allegory and Christian Culture, Pittsburh-Brighton 1981; M. IRVINE, Interpretation and the Semiotics of Allegory in Clement of Alexandria, Origen and Augustin, in Semiotica 63 (1987), 33-71; B. CLAUSI, Elementi di ermeneutica monastica nel “De schematibus et tropis” di Beda, in Orpheus NS 11 (1990), 277-307. 4 Cfr PORPHYRIUS, «Gegen die Christen», 15 Bücher Zeugnisse, Fragmente und Referate, hrsg. A. von Harnack, Leipzig 1980, fr. 69, 88, 19-22; cfr M.V. ANASTOS, Porphyry’s Attack on the Bible, in The Classical Tradition. Studies in Honor of H. Caplan, ed. L. Wallach, Ithaca 1966, 421-50; G. BINDER, Eine Polemik des Porphyrios Gegen die


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sopra delineata appare in linea di principio valida: l’allegoria pagana rimane ancorata a una dimensione meramente letteraria, sebbene plausibile, l’allegoria cristiana è percepita come parte di un discorso vero, e non soltanto verosimile, a prescindere da essa. L’allegoria è dunque il centro nevralgico dell’esegesi altomedievale, così come del processo attraverso cui sono enucleati e chiariti i quattro fondamentali sensi della sacra scrittura e i loro reciproci rapporti, in quanto comprende il significato anagogico e contribuisce a fondare, insieme al letterale, il senso tropologico. In altri termini, l’anagogia è percepita come una particolare forma di linguaggio figurato, attinente ai misteri cristiani e ai dogmi della Chiesa5; a sua volta il significato morale, che insieme all’allegorico e all’anagogico costituisce la complessa stratificazione del senso spirituale della sacra scrittura, si ricava dalla littera nella sua integralità, proprio in quanto profezia, cioè esprime il carattere edificante del testo, sia nel suo significato superficiale sia in quelli più profondi e nascosti6. L’allegoria si configura in definitiva come strumento retorico idoneo a fare emergere da un lato il significato squisitamente cristiano dalla fabula biblica, dall’altro lato l’intreccio inscindibile dei diversi piani semantici della sacra scrittura.

Allegorische Auslegung des Alten Testaments durch die Christen, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphic 3 (1968), 81-95; W. DEN BOER, Allegory and History, in Romanitas et Christianitas. Studia I.H. Waszink oblata, ed. W den Boer, Amsterdam – London 1973, 1527; J. PÉPIN, La tradition de l’allégorie. De Philon d’Alexandrie a Dante, cit., 59-63. 5 Cfr Hugonis de S. Vict. De Scripturis et Scriptoribus sacris, PL 175, III 12 B: «Dicitur allegoria quasi alieniloquium, quia aliud dicitur et aliud significatur, quae subdividitur in simplicem allegoriam et anagogen. Et est simplex allegoria, cum per visibile factum aliud invisibile factum significatur. Anagoge id est sursum ductio, cum per visibile invisibile factum declaratur»; Clarembaldi Atrebatensis Tractatulus super librum Genesis, ed. C. Martello [Tractatulus] in ID., Fisica della creazione. La cosmologia di Clarembaldo di Arras, Catania 1998, 17, 242, 5-6: «anagogica que est de uita celestium ad allegoriam pertinet». 6 Cfr Tractatulus 4, 223, 3-9: «Igitur ut sancti perhibent doctores tribus modis exponendus est id est historialiter, allegorice, moraliter. Historialiter hoc modo ut exponantur res geste iuxta littere sonum et significationem. Allegorice ita ut in rebus narratis aliud figuretur quod uel ad Christum respiciat, uel ad ecclesiam. Vnde allegoria grece alieniloquium latine interpretatur. Moraliter uero sic, ut per ea que narrantur ad bonam uitam informemur».


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Concetto Martello

1.2. Allegoria in factis E gli esiti dell’esegesi altomedievale nel XII secolo sono caratterizzati anche dal prevalere dell’idea, risalente ad Agostino ma corroborata dagli sviluppi razionalizzanti dei saperi in atto, secondo cui a fondamento del senso allegorico sono i facta, comprendenti i dicta. Si tratta del privilegiamento dell’allegoria in factis (o facti) rispetto all’allegoria in verbis (o dicti), secondo la distinzione stabilita nel De Trinitate e nel De vera religione agostiniani e illustrata nel De schematibus et tropis di Beda7, cioè della concezione dell’allegoria come strato semantico che, lungi dall’essere esclusiva espressione delle metafore e dei simboli enucleabili nella Scrittura, “riposa” primariamente sulla storia in essa narrata. Questo carattere di fondo dell’esegesi allegorica si manifesta in numerose opere di argomento esamerale della prima metà del XII secolo, dal commento al Genesi di Bruno di Segni a quello del De sancta Trinitate et operibus eius di Ruperto di Deutz, al Tractatus in Hexaemeron di Ugo di Rouen, all’Hexaemeron di Onorio di Autun e al Tractatus de operibus sex dierum di Arnaldo di Bonneval, per citare i più noti. Tra tutte, è soprattutto il De sancta Trinitate di Ruperto che esprime, per l’ampiezza e l’esaustività della trattazione e la statura dell’Autore, la consapevolezza, da parte della cultura monastica, del riconoscimento del significato allegorico, la cui intelligenza è considerata il fondamentale compito degli interpreti, nella verità storica della sacra scrittura. L’emblematicità e la complessità dell’esegesi di Ruperto si manifestano nelle diverse prospettive interpretative di cui essa è stata fatta oggetto dagli studiosi. Il De sancta Trinitate, infatti, è stato visto ora come un commento che apre nuove vie all’esegesi e alla stessa teologia per la prevalenza che in esso verrebbe accordata al significato letterale della Scrittura8, ora come il testo che rappresenta più di ogni altro l’allegorismo del XII secolo9. In realtà nell’ampia opera del Tuitiese si può riconoscere 7

Cfr Aug. De Trinitate 15, 9, 15; Aug. De vera relig. 50; Bedae Ven. De schematibus et tropis, PL 90, 184 D - 185 A; A. STRUBEL, “Allegoria in factis” et “allegoria in verbis”, in Poétique 23 (1975), 342-57. 8 Cfr C. SPICQ, Esquisse d’une histoire de l’exégèse latine au moyen âge, Paris 1944, 117-140. 9 Cfr HAURÉAU, Histoire de la philosophie scholastique, I, Paris 1872, 317-9;


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l’espressione più matura dell’allegorismo monastico, pressoché esclusivo orizzonte esegetico delle prime due generazioni di teologi “fioriti” dopo il 1100, oltre che modello teorico risalente quanto meno a Gregorio Magno; e tuttavia da essa si può ricavare l’idea, altrettanto condivisa e tradizionale, secondo cui i significati spirituali del testo sacro sono contenuti e radicati nel senso letterale. In particolare, nella prima parte del De sancta Trinitate, i Commentarii in Genesim, l’espressione in principio creavit Deus caelum et terram di Gen. 1,1 è intesa nel senso che Dio ha creato tutte le cose, sia le realtà invisibili sia le visibili, con i loro ornamenti, che sono rispettivamente gli angeli e gli esseri sensibili. Ma il cardine semantico del racconto biblico della creazione, che dà un senso all’intera opera di Ruperto e ne giustifica il titolo, è reso esplicito poco più avanti. Infatti il Tuitiese, a proposito dell’espressione et spiritus Dei ferebatur super aquas di Gen. 1,2, afferma che i due versetti iniziali esprimono il contenuto dell’intera sacra scrittura, la Trinità e le sue opere; e ancora lo Spirito, di cui la Scrittura dice che aleggia sulle acque, è identificabile con la bontà e l’amore di Dio, cioè con lo Spirito santo, amore e vita del Padre e del Figlio, che da essi procede ed è consustanziale alla loro natura: Quid autem putamus esse hunc spiritum nisi bonitatem amoremque Dei, amorem non affectiuum sed substantialem, amorem, inquam, et uitam, uirtutem uiuam in Filio et Patre manentem uel ab utroque procedentem Patri Filioque consubstantialem. Hic nempe ferebatur super aquas, nihilominus et super aridam quae super aquis latebat, quia uidelicet magno super creaturam suam affectu creator ducebatur, ut quia non poterat esse quod ipse qui creaverat, tale ex ea facerat formas, in quibus creatori iungeretur, conuiueret atque conregnaret creatura. Hic amor, haec bonitas creatoris Spiritus sanctus est […] Etenim in nomine Dei Pater, in nomine principii Filius intelligitur, et qui super aquas fertur, ipse erat Spiritus sanctus10. CAUCHIE, Rupert, in Bibliographie Nationale de Belgique, Bruxelles 1910, 434-35; Séjourné, Rupert de Deutz, in Dictionnaire de Théologie Catholique, XIV, Paris 1950, 169-205; DE MOREAU, Histoire de l’Église en Belgique, 2 voll., Bruxelles 1945, 189; DE LUBAC, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l’Écriture, 4 voll., Paris, 1959-1964, trad. it., III, Milano 1996, 299-324. 10 In Genesim. De sancta Trinitate et operibus eius libri I-IX, ed. H. Haacke, CCh Cont. Med., 21, Turnhout 1971, 135, 230 - 136, 272.


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Inoltre Ruperto ribadisce il discrimine, tipico della cultura religiosa di estrazione “monastica”, tra scientia e sapientia, cioè tra la “filosofia” intesa come disciplina integralmente profana, che per ciò stesso perde di vista Dio come “forma” e fine di ogni conoscenza, e la competenza filosofica del cristiano; egli si rifà all’Epistola ai Colossesi di Paolo nello stigmatizzare l’attitudine ad approfondire il sapere filosofico secundum traditionem hominum, secundum elementa mundi, et non secundum Christum11, ma nel contempo afferma che esso fa parte pleno iure della cultura cristiana. Intesa nel primo modo, la filosofia è vana, se non fallace; se intesa nel secondo modo, essa si ispira ai dati e ai valori della fede e contribuisce a una ragionevole consapevolezza di Dio12. Nella distinzione di scientia e sapientia, si può intravedere il “riverbero” di quella, posta dai cosiddetti “antidialettici” della generazione che ha preceduto Anselmo, tra ragione dialettica e ragionevolezza della fede: la scienza, i cui modelli supremi sono costituiti dalle opere di Agostino e Girolamo, è conoscenza ottenuta in virtù delle arti, che di per sé sono lecite; la sapienza è conoscenza di Dio. Poiché quest’ultima è superiore alla scienza, come l’uomo è superiore all’animale, il sapiente è anche necessariamente uomo di scienza ma questi non è, in quanto uomo di scienza, sapiente, così come ogni uomo è animale ma non ogni animale è uomo. E allo stesso modo in cui, se si elimina la razionalità dall’animale razionale, non rimane che l’animale, se si elimina la teologia dalla scienza, rimane un sapere irragionevole13. 11

Col 2,8. De operibus Spiritus sancti. De sancta Trinitate et operibus eius libri XXXIV-XLII, ed. H. Haacke, CCh Cont. Med., 24, Turnhout 1972, 2041, 88-93: «Erit igitur philosophia, id est litteralis et liberalis scientia, aliter quidem secundum elementa mundi uel traditionem hominum, et aliter secundum Christum. Iuxta modum illum inanis siue fallax philosophia recte dicitur, iuxta modum istum puro nomine scientia uel philosophia siue cum adiectione philosophia sana uel scientia Dei nominatur». 13 De operibus Spiritus sancti, cit., 2039, 26 - 2040, 49: «Hic iam clare distinguendum est quid scientia, et quid sit sapientia […] Dicimus ergo quia scientia omnium bonarum et licitarum artium est notitia, sapientia uero unius tantum rei, id est Dei […] Quapropter homo, si est sapiens, est et sciens, sed non conuertitur, ut dicas: Si est sciens, est et sapiens, quemadmodum si est rationale, est et animal, sed non conuertitur ut dicas: Si est animal, est et rationale. Nam reuera, quemadmodum ab animali remoto rationali, quidquid relinquitur brutum est, sic a scientia, remota sapientia quae est Dei notitia, quidquid relinquitur stultum est». 12


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Conseguentemente la scienza partecipa all’indagine razionale sulla parola di Dio, e a partire da questa sulla sua natura, in quanto culmina nella sapienza ed è parte integrante di essa; e la sapienza riguarda anche la comprensione razionale delle opere della Trinità in quanto prende le mosse dalla scienza ed è essa stessa, in qualche modo, scienza.

2. IL DIDASCALICON DI UGO DI S. VITTORE Attraverso la riflessione sull’esegesi condotta da Ugo di S. Vittore nella seconda parte del Didascalicon si consolidano le posizioni della ratio e dei saperi profani all’interno della cultura “monastica”. Secondo la teorizzazione del Vittorino, la comprensione della sacra pagina è possibile non solo in virtù dello strumentario tradizionale della sua lectio, cioè del discernimento e della chiarificazione dei suoi quattro sensi, lo storico-letterale, l’allegorico, comprendente anche l’anagogico, e il tropologico14, ma anche dell’applicazione all’analisi del testo sacro delle arti liberali, e in particolare della grammatica, necessaria per lo studio della struttura del sistema linguistico, e della dialettica, tramite cui verificare la validità formale delle affermazioni e delle loro conseguenze15. In altri termini, è possibile rispondere in modo soddisfacente alle domande che la pratica esegetica pone solo grazie al riconoscimento delle condizioni di verità e necessità, di probabilità e possibilità espresse dal testo, che evidentemente Ugo considera vie di accesso privilegiate ai sensi della Scrittura, palesati in modo più diretto e attendibile dall’analisi grammaticale e logica della littera. 14 Nel Didascalicon. De studio legendi, ed. B.C.H. Buttimer [Didascalicon], sembra che Ugo proponga una tripartizione del significato della sacra scrittura: «Primo omnium sciendum est, quod divina scriptura triplicem habet modum intellegendi, id est, historiam, allegoriam, tropologiam» (V, II 95, 15-7); tuttavia nelle De scripturis et scriptoribus sacris praenotatiuncolae, PL 175, III 12 B, tale apparente tripartizione è decodificata come una quadripartizione, in quanto l’allegoria comprende l’anagogia, cioè il significato più squisitamente spirituale: «Dicitur allegoria quasi alieniloquium, quia aliud dicitur et aliud significatur, quae subdividitur in simplicem allegoriam et anagogen. Et est simplex allegoria, cum per visibile factum aliud invisibile factum significatur. Anagoge id est sursum ductio, cum per visibile invisibile factum declaratur». 15 Didascalicon VI, VIII 125, 19 - XIII 130, 14.


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Un chiarimento delle coordinate teoriche di questa seconda parte dell’opera, dedicata all’esegesi biblica, oltre a una soddisfacente spiegazione della sua complessità “ideologica”, sulla base della quale l’innovazione dottrinale che caratterizza i fenomeni culturali più rilevanti della prima metà del XII secolo si mescola alla tradizione esegetica, ci è fornito da Ugo nel VI e ultimo libro. Qui, in controtendenza rispetto alla tradizione, storia, allegoria e tropologia non sono concepite come settori disciplinari radicalmente distinti ma come “momenti” dell’unitaria “visione” interpretativa della Scrittura, culmine dell’analisi dei tre oggetti dell’esegesi: la lettera, il significato e il pensiero: Expositio tria continet: litteram, sensum, sententiam. in omni narratione littera est, nam ipse voces etiam litterae sunt, sed sensus et sententia non in omni narratione simul inveniuntur. quaedam habet litteram et sensum tantum, quaedam litteram et sententiam tantum, quaedam omnia haec tria simul continet. omnis autem narratio ad minus duo habere debet16.

In conseguenza di ciò risulta, in modo implicito ma evidente, che le discipline attraverso cui deve essere studiata la sacra scrittura sono le arti del “trivio”, la grammatica, che ne consente l’analisi del testo, la retorica, attraverso cui è approfondita l’efficacia persuasiva dei significati, e la dialettica, che permette di cogliere nel linguaggio scritturale le necessità e le impossibilità naturali. In altri termini, i saperi profani sono applicati all’esegesi: se grammatica e retorica sono gli strumenti attraverso cui il lettore si accosta all’analisi della struttura, alla correttezza e alla chiarezza del testo17, la dialettica è il mezzo più idoneo a studiarne gli aspetti logico-semantici:

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Didascalicon VI, VIII 125, 20-5. Didascalicon VI, IX 126, 5-14: «Littera aliquando perfecta est, quando ad significandum id quod dicitur nihil praeter ea quae posita sunt vel addere vel minuere oportet, ut, omnis sapientia a Domino Deo est; aliquando imminuta, quando subaudiendum aliquid relinquitur, ut, senior electae dominae; aliquando superflua, quando vel propter inculcationem vel longam interpositionem idem repetitur vel aliud non necessarium adiungitur, ut Paulus in fine Epistulae ad Romanos dicit: Ei autem, et postea multis interpositis infert: Cui est honor et gloria. aliud hic superfluum esse videtur». 17


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Sensus, alius congruus, alius incongruus. incongruus, alius incredibilis, alius impossibilis, alius absurdus, alius falsus. multa huiusmodi invenis in scripturis, ut illud: Comederunt Iacob. et illud: Sub quo curvantur hi qui portant orbem. et illud: Elegit suspendium anima mea, et multa alia. sunt loca quaedam in divina scriptura, ubi, licet sit aperta verborum significatio, nullus tamen sensus esse videtur, vel propter inusitatum modum loquendi, sive propter aliquam circumstantiam quae legentis intelligentiam impedit18.

La terminologia usata qui da Ugo è inequivocabilmente riconducibile alle competenze dialettiche; ma è soprattutto rilevante, in ordine al riconoscimento della complessità teorica del Didascalicon e alla possibilità di considerarlo come una sorta di “ricettacolo” di esperienze intellettuali non omogenee, che in esso trovano tuttavia un’occasione di sintesi, e quindi come espressione di un allargamento degli interessi intellettuali dei lettori della Bibbia, che l’applicazione delle arti del “trivio” all’esegesi non riguarda solo il senso letterale della sacra scrittura ma anche quelli spirituali. Se infatti la grammatica prende in esame la lettera, cioè la struttura del testo, la retorica e la dialettica riguardano i suoi significati, che possono essere superficiali o profondi e nascosti, e in conseguenza di ciò, l’una e le altre si riferiscono a una pluralità di campi semantici e littera e allegoria non sono da prendere in considerazione solo in quanto manifestazioni della profezia, secondo un loro significato limitato alla sacra scrittura, ma anche in quanto rispettivamente “testo” e “figura”, per ciò stesso appartenenti all’ambito, ben più vasto, della narrazione letteraria, sia sacra sia profana. In questo senso il Didascalicon può essere considerato parte integrante del processo culturale che determina la nascita di un’esegesi dei testi dei poeti e dei filosofi, accanto a quella sacra, e che vede coinvolti alcuni tra gli esponenti più “avanzati” della vivacissima “scolastica” pre-universitaria gravitante intorno a Parigi, da Pietro Abelardo ai maestri di Chartres19. 18

Didascalicon VI, X 126, 26 - 127, 7. Di Abelardo cfr la Theologia “Summi boni”, ed. E.M. BUYTAERT – C.J. MEWS, in Opera theologica III, CCh Cont. Med. 13, Turnhout 1987, I, V. 43, 101, 428 - 44, 103, 470: «Ex hac itaque Macrobii traditione clarum est ea que a philosophis de anima mundi dicuntur, per inuolucrum accipienda esse […] Quid enim magis ridiculosum quam mundum totum arbitrari unum esse animal rationale, nisi hoc per integumentum sit prolatum? […] Quod si ad inuolucrum deflectamus ea que de anima mundi magnus philosophorum astruit, facile est 19


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Va inoltre rilevato lo stretto rapporto tra il significato storico-letterale e i sensi spirituali, lex e gratia secondo la terminologia del Didascalicon20. La lectio del testo sacro, pur mantenendo per Ugo una precipua e preponrationabiliter cuncta accipi nec a sacre fidei tenore exorbitare»; per quanto riguarda gli Chartriani, basti qui citare GUILLAUME DE CONCHES, Glosae super Platonem, ed. É. Jeauneau, Paris 1965, XXVIII 93-4: «Huius integumentis talis est veritas. Vulcanus aliquando dicitur ignis […] Aliquando dicitur vulcanus fervor ingenii […] Hic Palladi se commiscere desiderat quando ex fervore ingenii aliquis perfecte sapientie aspirat. Sed Pallas reluctatur quia nullus in hac vita perfectam potest habere sapientiam. Sed […] semen tamen elicit quia, etsi pergectam non habeat sapientiam, aliquam tamen adquirit […] Inde nascitur Erictonius, in superiori parte homo, in inferiori draco quia ex sapientia predicta nascitur et cura celestium que rationalis est et cura temporalium que utilis est et astuta ut draco»; LXXIV 150: «Deinde subiungit qualiter, more suo per integumenta loquens»; LXXVI 153: «Postquam ostendit ex quibus anima mundi excogitata sit, subiungit et qualiter, integumentum non deserens»; LXXIX 156: «Exposita igitur summa integumenti ad literam veniamus»; LXXX 158: «Adhuc Plato integumento suo deservit dicens quod, divisa substantia anime in partes, in uno latere duplas, in altero triplas, quia nimis hiabant spacia illa et ampla erant, implevit unumquodque duobus mediis»; LXXXVII 167: «Ostensa causa et modo excogitationis anime, subiungit qualiter coniuncta sit mundo et quid in digniori parte illius, id est in celestibus, operetur, more suo deserviens integumento»; XCVIII 181: «Ostensa causa creationis planetarum, subiungit de qualitatibus corporum illorum et de motu […] id est motibus per integumentum superius descriptis qui dicuntur vitales vel quia ab anima habent esse vel quia sunt perpetui»; CXIII 203: «Finito tractatu de creatione celestis animalis tam visibilis quam invisibilis, transit ad creationem ceterorum animalium, more suo ad integumentum se transferens quod tale est quod, creatis stellis et spiritibus, convocavit eos Deus in uno conventu habitaque oratione iniunxit eis officium formandi corpora ceterorum animalium, et maxime hominis, coniungendique animam corpori et conservandi eam cum corpore, dandi cibi incrementa et dissolvendi»; CXVIII 209: «Sed quia non est Creatoris promittere et non exequi, ostendit Plato qualiter executus sit promissum, id est creationem humane anime, more suo deserviens integumento»; CXIX 210-1: «Ostensa creatione humane anime, dicit Deum delegisse animas pares numero stellarum et singulas singulis imposuisse et inde naturam universe rei spectare iussisse. Quod quidam, ad literam exponentes, dicunt hic Platonem heresim docuisse, quia divina pagina dicit: cotidie creat Deus novas animas. Sed quid mirum si achademicus alicubi achademice loquatur? Si enim ubique bene diceret, achademicus non esset. Si quis tamen non verba tantum sed sensum Platonis cognoscat, non tantum non inveniet heresim sed profundissimam philosophiam integumentis verborum tectam»; cfr É. JEAUNEAU, Lectio philosophorum, Amsterdam 1973, 127-92. 20 Didascalicon V, IV 99, 6-13: «Tertia regula est de littera et spiritu, id est, de lege et gratia: lege per quam praecepta facienda admonentur, gratia per quam ut operemur iuvamur, vel quod lex non tantum historice, sed etiam spiritualiter sentienda sit. namque et historice oportet fidem tenere, et spiritualiter legem intelligere».


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derante finalità mistica, si discosta quindi dal precedente allegorismo, aprendosi a esigenze, per così dire, più “critiche”. Tali esigenze sono indubbiamente il segno della dipendenza dall’esegesi di Agostino, che è il punto di riferimento privilegiato e la principale fonte d’ispirazione del Vittorino, alla luce dell’opera di Gerolamo, ma anche qualificano, nel contesto della cultura prodotta nella Francia centro-settentrionale nella prima metà del XII secolo, il progetto scolastico di S. Vittore, che si manifesta anche nella successiva opera di Riccardo e Andrea, punto di mediazione tra la valenza spirituale degli “echi” della riforma ecclesiastica e le forti spinte innovative che il processo di “modernizzazione” in atto determina.

3. L’ESEGESI DEI FILOSOFI 3.1. Ugo e Abelardo Allargando lo sguardo alle opere esegetiche di Ugo riguardanti il Genesi e le sue implicazioni fisico-cosmologiche, le Adnotationes elucidatoriae in Pentateuchon21, il Dialogus de sacramentis legis naturalis et scriptae22 e la più matura summa nota col titolo De sacramentis christianae fidei23, possiamo verificare il fecondo rapporto che, per il Vittorino, intercorre tra i quattro sensi della Scrittura. La concezione dell’ermeneutica scritturale che da tali opere emerge conferma infatti pienamente le impressioni ricavate dal Didascalicon: essa tende al misticismo ma valorizza il senso letterale e l’apporto che alla sua spiegazione fornisce la ratio. La lectio della sacra pagina risulta quindi ricca di elementi ascrivibili ai saperi profani e conseguenti alla crescita delle competenze filosofiche dei ceti colti e all’acquisizione di nuovi strumenti per l’espletamento del lavoro intellettuale nelle scuole, come le arti e la conoscenza del greco e dell’arabo. Un esempio significativo dell’attenzione prestata da parte di Ugo al processo di razionalizzazione dei saperi espressa nelle sue opere esegetiche, seppure nel contesto di un metodo allegorizzante, è costituito dalla 21 22 23

PL 175 [Adnotationes], 29 A - 86 D. PL 176 [Dialogus], 17 C - 42 B. PL 176 [De sacramentis], 183 A - 618 B.


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trattazione del tema delle acque sopracelesti nel Dialogus, da cui si può ricavare un modello esegetico secondo il quale l’interpretazione spirituale del Genesi scaturisce dalla piena consapevolezza delle sue valenze fisicocosmologiche. Il Vittorino infatti spiega la presenza reale, attestata dalla Scrittura e confermata da Agostino, seppure come ragionevole supposizione24, di acque al di sopra del firmamento, del quale peraltro non sarebbe possibile determinare la natura25, formulando alcune ipotesi alternative, come quella secondo cui tali acque si troverebbero in forma di ghiaccio ovvero in uno stato simile al caos primordiale, sospese sopra il firmamento con l’aspetto di una nebbia leggera: Firmamentum factum est secunda die, quod quidem et prius ipsum materialiter creatum fuerat; sed huc usque indiscretum et in illa universali confusione permistum manebat. Nunc autem, id est secunda die, erutum a permistione et in formam redactum positum est, ut inter aquas superiores et 24

De Gen. ad Litt. 2, 4, 8; 5, 9. De sacramentis I, I, XVIII 200 B-C: «Multa quidem sunt quae de firmamenti natura animum quaestione pulsare possent, si haec humana investigatio reliquenda potius quam discutienda non videret. Nam utrum ex puro igne factum sit, sive ex aere; aut etiam ex aqua; vel postremo ex duobus aut tribus horum commistis, et an substantiam solidam naturaque palpabilem habeat, quantave credenda spissitudo ejus, et utrum ipsum calidum an frigidum; aut cujus alterius qualitatis existat merito quaereretur: si inde aliquid certum sciri potuisset. Nunc autem in quaestionibus harum rerum non mihi multum laborandum videtur, quas nec ratio ulla comprehendit nec auctoritas (cui fides adhibenda sit) probat. Solum hoc quod legimus credimus sine dubitatione debemus, quod factum est firmamentum ut diivideret aquas ab aquis»; nelle Adnotationes (35 A) Ugo aveva già espresso tale incertezza: «Beda dicit quod firmamentus sit de aquis solidatis quasi crystallinus lapis, quod verisimile videtur […] Alii dicunt quod igne natutae sit»; Successivamente si è espresso più nettamente a favore dell’ipotesi secondo cui il firmamento è solido, e precisamente costituito di acqua solidificata sia nel VII libro dell’Eruditio didascalica (De tribus diebus, PL 176, 815 D: «Ecce caeli […] quomodo solidi sunt et quasi ex aere fusiles desuper circumquaque oppansi») sia nelle Sententiae in divinitate (Oxford Bodl. Laud. 344, f. 49v: «Quaeritur de qua materia factum sit firmamentum. Dicimus quod ex aqua, substantia ibi ex remotione caloris consolidata et in maximam duritiam redacta, ita ut sit corpus firmissimum et solidissimum»); La contraddizione tra questi testi mi sembra solo apparente in quanto l’affermazione della presenza nel firmamento di acqua, secondo quanto afferma la Scrittura, non esclude sul piano logico che esso sia costituito anche di altri elementi mescolati all’acqua ovvero che quest’ultima sia, seppure indubitabilmente presente, esterna, per così dire, alla natura del supremo confine del cielo; le differenze di questi testi quindi non possono essere assunte per dimostrare un’evoluzione o una sorta di oscillazione del pensiero di Ugo su questa questione. 25


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aquas inferiores divideret; sic scilicet ut illi confusioni in modum nebulae circa terram pendenti medium veniens quodammodo illam intersecaret, et ambitu suo circumquaque complectens partem infra se clauderet, partem extrinsecus separaret, id est ut ab ipsis aquis quae in divisione extrinsecus sive superius remanserunt, firmamentum medium inter aquas et aquas totum circumquaque ambiretur, atque autem, quae intrinsecus sive inferius relictae sunt, totae ab ipso firmamento ex omni parte clauderentur […] D. Estne credendum adhuc esse aquas super firmamentum? M. Sic putatur […] D. Quomodo possunt aquae super caelum consistere? M. Glacialiter vel (quod magis credibile est) ad similitudinem illius primi chaos firmiter ibi suspenduntur pendulae ad modum nebulae levi26.

In linea con questa lectio, nel De sacramentis vengono delineati i significati spirituali delle acque sopracelesti, assunte quindi come “figura”. Infatti, dopo aver negato la possibilità di determinare razionalmente la natura fisica del firmamento, Ugo si sofferma sul significato allegorico e sull’insegnamento morale che scaturiscono dal racconto della sua formazione e della sua collocazione tra le acque, autentici sacramenta, cioè “segni sacri” secondo la definizione agostiniana del De civitate Dei27. In questo senso, egli intende la divisione delle acque da parte del firmamento come l’immagine dell’uomo stesso, microcosmo nel quale sono compresenti due distinte nature, quella spirituale e immortale da un lato e quella materiale e finita dall’altro lato, rese tuttavia omogenee e in equilibrio dalla ratio, che rappresentata proprio il firmamento: Duas vero istas tam dissimiles in uno homine naturas, magna quaedam desideriorum moles hinc inde fluctuantium, et in contraria saepe motu alterno tendentium oberrat; quia et aliud est quod subtus caro ex infirmitate pressa appetit, et aliud quod spiritus sursum per contemplationem veritatis elevatus intendit […] ipsa ratio fortiter judicii censura quasi firmamentum quoddam in medio sese collocat28.

Il rapporto tra lettera e spirito sta quindi alla base di un modello ermeneutico che trova il suo fondamento nella lex storico-naturale contenuta 26 27 28

Dialogus 19 C - 20 A; cfr Psal. 148, 4-5. Aug. De civ. Dei 10, 5. De sacramentis I, I, XIX 200 D - 201 A.


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nel significato letterale del testo ma che culmina e si compie nella gratia che i sensi spirituali di tale testo esprimono, evidenziando la pregnanza allegorica e la valenza morale della sacra scrittura. In altri termini, i significati fisico-cosmologici di Genesi 1 sono per Ugo di S. Vittore il tessuto connettivo che collega e amalgama tra loro i diversi “terreni” semantici della cosmogonia biblica. Tali significati razionali e naturali infatti sono rintracciabili alla luce della lettera ma appaiono precipuamente funzionali alla rilevazione dei sensi profetici. Ho già ricordato che l’esegesi fisica del maestro vittorino è in gran parte ricavata dalle interpretazioni del Genesi di Agostino, che nel De Genesi ad litteram, nel De Genesi contra manichaeos, nel Liber imperfectus e nelle Confessiones fissa, ricorrendo anche a spiegazioni ipotetiche, modello teorico e significati fisico-cosmologici del racconto biblico riguardante la creazione del mondo, che mantengono un’effettiva funzione euristica fino al Tractatus de sex dierum operibus di Teodorico di Chartres, e tuttavia non rinuncia ad andare al di là del senso letterale per accedere alla via della salvezza indicata nel testo sacro. Dall’esegesi agostiniana del primo capitolo del Genesi, Ugo ricava un metodo meramente descrittivo consistente nella subordinazione della ratio alla storia e all’allegoria; da un lato alla lex, cioè all’ordine del cosmo e dei tempi nel corso dei quali esso è stato creato, e dall’altro lato alla gratia, cioè alla manifestazione del suo principio spirituale. La spiegazione razionale del racconto riguardante la creazione del cosmo risulta così fondamento del suo significato allegorico. Alla luce di tutto ciò, si può parlare di una certa affinità tra l’esegesi di Genesi 1 elaborata da Ugo e quella dell’Expositio in Hexaëmeron di Pietro Abelardo29, che è da ritenere successiva agli scritti esegetici del Vittorino sopra menzionati, nonostante il Palatino sia di oltre tre lustri più vecchio dell’autore del Didascalicon. Nell’Expositio abelardiana è avvertibile una cosmologia di origine aristotelica, ma diffusa dalle fonti neoplatonizzanti del pensiero medievale, di cui sono parte integrante la traduzione e il commento al Timeo di Calcidio, basata sulla teoria dei luoghi e dei movimenti naturali e su quella dei quattro elementi semplici. Sulla base di tale cosmologia, Abelardo, a proposito delle acque sopracelesti, dopo aver elencato le diverse interpretazioni proposte 29

PL 178 [Expositio], 731 A - 784 A.


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dagli interpreti della sacra pagina, ritiene la loro esistenza possibile in quanto esse sarebbero pensabili come più rarefatte di quelle “basse” e quindi più leggere degli elementi inferiori, come il legno e la pietra possono esserlo rispetto all’acqua e galleggiare30, ma aggiunge che si tratta di un tema difficile da definire nei particolari, e sulla cui natura quindi si possono elaborare solo ipotesi probabili31, tra le quali quella secondo cui le acque superiori al firmamento potrebbero trovarsi sotto forma di ghiaccio, in modo da temperare il calore che scaturirebbe dal moto dei corpi celesti luminosi. Nonnulli autem aquas illas superiores glaciali concretione soliditas atque in crystallum induruisse astruxerunt. Quod quidem si ita est, quanto magis sunt solidae, tanto vehementius conclusum ignem et aerem cohibent ne aliquo abscendant et tanto fortius ab ipsis sustentantur; imo fortassis nec jam ab eis sustentari eas necesse est, quae jam fluidae non sunt, sed in cristallum solidae32.

L’ipotesi dello stato ghiacciato delle acque sopracelesti risale alla tradizione esegetica dei secoli precedenti33 ed è presente anche in opere rela30 Expositio 742 B: «Quaeritur autem quomodo ignis et aer aquae substantiam quae ponderosior est sustentare valeant. Sed profecto tanta potest esse raritas atque subtilitas illarum aquarum, et tanta ignis et aeris massa quae ei subjacet, quod ab istis illae sustentari queant sicut ligna et nonnulli lapides ab aquis, quamvis ipsa terrenae sintet graviores naturae». 31 Cfr Expositio 743 B - 747 B. 32 Expositio 743 B. 33 Cfr Aug. De Genesi ad litteram, 2, 5, 9: «His quidam nostri coniecturis agunt adversos eos, qui nolunt aquas super caelum credere, et volunt eam stellam esse frigidam, quae iuxta summum caelum circuit, ut ex hoc cogantur aquarum naturam iam non illic vaporali tebuitate, sed glaciali soliditate pendere»; Ambrosii Exameron, ed. C. Schenkl (CSEL 32), Wien 1955, 2, 3, 4, 16; Isidori De natura rerum, ed. J. Fontaine, Bordeaux 1960, XIII 2, 224; Bedae Venerabilis Opera, CCh S.L. 118 A, Libri quatuor in principio Genesis usque ad natiuitatem Isaac et eiectionem Ismahelis adnotationum, ed. Ch.W. Jones, Turnholti 1967, II, 6-8, 11, 263-8: «Et intelligat quia qui infra caelum ligat aquas ad tempus cum uult ut non pariter decidant, nulla firmioris substantiae crepidine sustentatas sed uaporibus solummodo nubium retentas, ipse etiam potuit aquas super rotundam caelispheram ne umquam delabantur, non uaporali tenuitate sed solidate suspendere glaciali»; CCh S.L. 123 A, De natura rerum libri, ed. CH.W. Jones, VII (De Caelo Superiore) - VIII (De Aquis Caelestibus), 198, 6 - 199, 5: «Hoc Deus glacialibus temperauit ne inferiora succederent elementa […] Aquas super firmamentus positas, caelis quidem spiritalibus humiliores sed


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tivamente recenti come il Tractatus theologicus attribuito a Ildeberto di Lavardin e il De sancta Trinitate di Ruperto di Deutz34. È tuttavia assente nelle interpretazioni più autorevoli e note di inizio secolo, mentre si ritrova, seppure come mera ipotesi in alternativa ad altre, in quella “moderna” di Ugo. È ragionevole pensare, sulla base di ciò, che Abelardo conoscesse gli scritti esegetici del Vittorino? Certo solo questa “concordanza” non potrebbe bastare, ma entrambi, seppure ciascuno secondo la propria sensibilità culturale, più razionalizzante quella del maestro palatino, più incline all’esperienza spirituale quella di Ugo, evitano di commentare la creazione solamente sulla base del rimando alle auctoritates scritturali o patristiche, e fanno ricorso a ipotesi compatibili con le proprietà oggettive degli elementi fisici, ricavabili da organiche visioni fisico-cosmologiche, integrando tali ipotesi con i sensi spirituali del testo. Anche la loro spiegazione della collocazione delle acque al di sopra del cielo è quindi meditata e attenta alle interferenze del testo sacro con il sapere fisico e il metodo dialettico. L’Expositio e la lettura di Ugo del capitolo cosmogonico del primo libro biblico si possono legittimamente accostare in quanto, anche se quest’ultima non è mai citata nell’opera abelardiana, sono riscontrabili tra esse precise convergenze tematiche e di sensibilità, che si manifestano nell’utilizzazione del patrimonio culturale e spirituale ecclesiastico, alla luce del parallelismo di origine agostiniana tra creazione e rivelazione, senza tuttavia rinunciare al contributo dei saperi profani. Ugo utilizza le fonti profane con grande cautela ed esprime dubbi sulle opinioni teologiche di Abelardo nel carteggio con Bernardo di Claivaux tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta35; non mancano tamen omni creatura corporali superiores, quidam ad inundationem diluuii seruatas, alii uero rectius ad ignem siderum temperandum suspensas adfirmant». 34 Cfr Tractatus theologicus, PL 171, XXIII 1116 D; Rup. In Genesim, cit., 152, 895-7. 35 Cfr Bern. Claraevall., Ad Hugonem de Sancto-Victorem epistola seu tractatus de baptismo aliisque quaestionibus ab ipso propositis, PL 182, 1036-41; né Ugo nella prima lettera né Bernardo nella risposta citano esplicitamente Abelardo, ma il riferimento è inequivocabile; cfr a questo proposito i classici studi di S.M. DEUTSCH, Peter Abälard, ein kritisher Theologe des 12. Jahrhunderts, Leipzig 1883 e L. OTT, Untersuchungen zur theologischen Briefliteratur der Früscholastik unter besonderer Berücksichtigung des Viktorinerkreises (Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters), Münster i W. 1935.


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tuttavia punti di contatto tra le Theologiae abelardiane e le opee del maestro vittorino e di autori appartenenti ad ambienti culturali a lui vicini “ideologicamente”. È il caso dell’identificazione delle tre persone della Trinità, Padre, Figlio e Spirito, rispettivamente con potentia, capacità di creare, sapientia, capacità di governare, e benignitas, capacità di conservare, riproponendo il linguaggio, se non la soluzione, di Abelardo, ricavato da Ugo, nel De tribus diebus, dal tema agostiniano della tripartizione dell’anima come riflesso della divinità. È anche il caso delle influenze abelardiane sui brevi scritti conosciuti sotto il titolo Quare damnentur qui non peccaverunt e Quare crucierunt qui culpam non habent, di cui non si conosce l’autore ma che sono riconducibili al magistero di Ugo, e sulla Summa Sententiarum di Ottone di Lucques, che dipende dal De sacramentis christianae fidei36. Insomma, nell’opera di Ugo e Abelardo si possono cogliere, seppure con diverse sfumature, i segni del passaggio dall’esegesi meramente agostiniana a una lectio che consideri le arti come strumento necessario alla piena intelligenza della sacra scrittura.

3.2. Teodorico di Chartres e Clarembaldo di Arras È comunque il Tractatus de sex dierum operibus di Teodorico di Chartres che costituisce un vero e proprio salto di qualità nel modo di interpretare il Genesi, in quanto ne privilegia il senso letterale e lo identifica con l’interpretazione fisico-cosmologica37. La spiegazione razionale è per lo Chartriano parte integrante dell’esegesi letterale, non una sua mera appendice; e la spiegazione della creazione nel Tractatus è inequivovabilmente razionale, in virtù di una visione essenzialmente meccanica dei

36 Cfr D. VAN DEN EYNDE, Essai sur la succession et la date des écrits de Hugues de Saint-Victor, Roma 1960, 202-4. 37 Tractatus de sex dierum operibus, in Commentaries on Boethius by Thierry of Chartres and his School, ed. N.M. Häring [Tractatus], 1, 555, 1-6: «De septem diebus et sex operum distintionibus primam geneseos partem secundum phisicam et ad litteram ego expositurus, inprimis de intentione auctoris et de libri utilitate pauca premittam. Postea uero ad sensum littere hystorialem exponendum ueniam ut et allegoricam et morale lectionem que a sanctis doctoribus aperte execute sunt ex toto pretermittam».


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fenomeni naturali, ricondotti tutti al riscaldamento degli elementi corporei inferiori prodotto dal fuoco: In ipsa uero prima conuersione celi superius elementum i.e. ignis illuminauit superiora inferioris elementi i.e. aeris. Nam hec natura est celestis ignis ut sua conuersione illuminet aera: mediante uero aere calefaciat aquea atque terrena. Due etenim, ut aiunt philosophi, sunt uirtutes ignis: altera splendor, altera uero calor. Splendorem in aere naturaliter ignis efficit. Calorem uero in aqueis atque terrenis exercet. Nam calor uirtus est ignid diuisiua solidorum. Si uero calor in aere sentitur hoc contingit ex eo quod est ipse aer ex inferioribus elementis spissatus38.

Dio ha creato dunque la materia, luminosa nella sua parte superiore. E la luce ha successivamente e autonomamente determinato, tramite l’azione del calore a contatto dei corpi sottostanti, l’attuale articolazione di tale materia. Accade quindi che, attraverso la mediazione dell’aria, il fuoco riscaldi l’acqua e ne determini l’evaporazione al di sopra dell’aria stessa, come è provato dal formarsi delle nubi. Questo fenomeno corrisponde alla lettera del testo sacro, secondo il quale il creatore posuit firmamentum in medio aquarum, conferma cioè in modo razionale ed esauriente il tema biblico delle acque sopracelesti: Magnitudo igitur aquarum labilium que nimirum usque ad regionem lune in principio ascendebat ita per calorem super summum etheris suspensa est ut statim in secunda celi conuersione ita contingeret quod secundum elementum i.e. aer esset medium inter aquam labilem et aquam uaporaliter suspensam. Et hoc est quod dicit auctor: et posuit firmamentum in medio aquarum […] Uel potius firmamentum dicitur aer eo quod terram leuitate sua ex omni parte firme coherceat et in hanc duriciam conglobet39.

Tra gli effetti del calore dell’atmosfera sulla terra umida dopo l’evaporazione delle acque, c’è perfino la vita, sia vegetale, prodotta in modo naturale e immediato, sia animale, venutasi a determinare nel corso del 38 39

Tractatus 6, 557, 73 - 558, 81. Tractatus 8, 558, 97-9; 1-8.


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quinto e del sesto giorno per l’aumento del calore dovuto alla costituzione del sole e degli altri corpi celesti luminosi. Il calore, infatti, man mano che aumenta, diviene condizione della vita e produce in un primo tempo gli animali acquatici e i volatili e successivamente gli animali terrestri, anche in questo caso trovando una condizione favorevole nell’umidità e sempre in modo naturale, cioè senza l’intervento diretto del Creatore ma per opera delle cause seconde, i princìpi costitutivi dell’ornamento e dell’uniformità della natura40. L’impostazione del Tractatus è ribadita nel Tractatulus super librum Genesis di Clarembaldo di Arras, allievo di Teodorico e Ugo di S. Vittore, per il quale teologia e filosofia della natura trovano fondamento e verifica comuni nei significati del testo sacro, in quanto da un lato la Rivelazione e la fede sono considerate la fonte di ogni sapere, dall’altro lato le scienze profane sono in grado di spiegare gran parte dei loro contenuti. In altri termini, nel Tractatulus, sulla scia del Tractatus di Teodorico, ma anche del Didascalicon e delle Praenotatiuncolae de Scripturis et Scriptoribus sacris di Ugo di S. Vittore, riscontriamo l’applicazione dei saperi profani all’esegesi. Seguendo i suoi referenti, Clarembaldo colloca la tradizionale articolazione dei sensi della Scrittura nel quadro di un’esegesi recepita come frutto dei processi di razionalizzazione in atto. E il carattere razionalizzante dell’esegesi di Clarembaldo rafforza l’identificazione del senso storico-letterale del Genesi con i suoi significati fisico-cosmologici, suscitando due conseguenze di carattere teorico: in primo luogo infatti l’Atrebatese ribadisce il privilegiamento, sebbene relativo e meramente metodologico, della “lettera” sullo “spirito” della sacra scrittura, in quanto quest’ultimo si àncora sulla prima e si palesa in successione rispetto a essa; in secondo luogo egli riconosce nella “scienza” un utile strumento di chiarificazione, e perfino di integrazione, dei contenuti della Rivelazione. In ogni caso, nel Tractatulus è confermata la teoria “meccanica” della disposizione della materia nell’universo risalente a 40 Tractatus 14, 561, 74-80: «Stellis autem creatis et motum in firmamento facientibus, ex earum motu calor adauctus et ad uitalem usque calorem procedens aquis in primo incubuit: elemento uidelicet terra superiori. Et inde animalia atque et uolatilia creata sunt. Et spacium huius quinte conuersionis quinta dies appellatum est. Mediante uero humore uitalis ille calor naturaliter usque ad terrena peruenit et inde animalia terre creata sunt».


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Teodorico e in virtù della quale sono spiegati sia i fenomeni naturali sia il dettato scritturale: Quo illuminato, calore inmixto ei et incumbente per lucem quoniam ex luce que prima uis ignis est calor procedit; eo, inquam, illuminato quoniam erat uicinior igni, calor ei incumbens et inmixtus, aquas subiacentes ad se traxit, et super aera qui ether uocatur et factus est firmamentum uaporaliter suspensas statuit aquas. Est etenim caloris natura aere mediante aquas subiacentes attrahere et in aere siue super aera uaporaliter suspensas statuere, sicut cotidie nobis apparet, quod calor solis aere mediante incumbit aquis, et eas uaporaliter suspensas in aere constituit. Vnde et nubes sunt41.

Perfino i miracoli, dentro l’ordine razionale governato da Dio attraverso le cause seconde, pure identificati con principi estranei al mondo sensibile e inconoscibili, in linea di principio fanno parte della struttura universale e necessaria dell’essere42. E a proposito dei fenomeni vitali, anche Clarembaldo afferma che l’acqua, fecondata dal calore, in modo conforme alle leggi di natura ha concepito e prodotto i suoi animali, cioè i pesci e gli uccelli, che vivono in essa o nell’atmosfera umida, e la terra, fecondata a sua volta dal calore e dall’acqua, ha prodotto le piante e gli animali terrestri: Aqua calore immixto, natura rerum hoc exigente, concepit et produxit animalia sua, pisces scilicet et uolatilia. Volatilia quidem quibus sedes est

41

Tractatulus super librum Genesis, ed. [Tractatulus] in C. Martello, Fisica della creazione. La cosmologia di Clarembaldo di Arras, cit., 12, 239, 3-12. 42 Tractatulus 8, 234, 36-51: «Sunt enim duo causarum genera. Vnum genus causarum est que inserte sunt elementis, ex quibus alia ex aliis suo queque tempore consuete producuntur. Alie uero cause sunt in mente creatoris ab eterno abscondite quas ipse rebus conditis non inseruit, ex quibus miracula ad ostensionem sue gratie quando uult depromit; propterea misterium nostre salutis apostolus absconditum dixit non in mundo, in quo sunt abscondite seminales rationes omnium rerum naturaliter oriturarum, sicut absconditus erat Leui in lumbis Abrahe quando et ipse decimatus est, sed in Deo qui uniuersa creauit. Nemo itaque impie cogitet sicut quidam impii cogitauerunt nichil contra naturam scilicet contra solitum nature cursum prouenire posse, cum ex quibusdam causis occultis que in mente creatoris ab eterno sunt abscondite ad ostensionem gratie Dei multa contra solitum nature cursum proueniant, non contra naturam que est uoluntas Dei, quia contra eam nichil in mundo potest euenire».


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hec humecta substantia; quia hec humecta substantia ex aqua facta est ut ostendimus, animalia aque reputantur. Vnde dicitur in himno: “Magne Deus potentie qui ex aquis ortum genus partim remittis gurgiti partim leuas in aera”. Hoc dicitur loquendo de animalibus aque. Quinto itaque die aqua concepit et produxit animalia sua. Sexto denique die post recessionem aquarum calore incumbente terre, terra produxit herbas, et arbores et sua animalia43.

Attraverso questi esempi, pochi ma rappresentativi delle esperienze spirituali collegate allo sviluppo delle attività intellettuali nell’Occidente latino, si può cogliere la crescente attenzione rivolta ai saperi profani da parte dei teologi, fino all’accoglimento, all’interno della pratica esegetica, di un modello fisico-cosmologico costituito dalla postulazione di un rapporto di dipendenza scalare intercorrente tra gli elementi semplici e determinato dal riscaldamento da parte del fuoco, elemento superiore e più leggero, dell’acqua e della terra sottostanti, per contatto e attraverso la mediazione dell’aria, che del fuoco potenzia l’effetto.

43

Tractatulus 15, 241, 2 - 16, 242, 2.



LETTURA DELL’«INNO AI PATRIARCHI» DI GIACOMO LEOPARDI

NICOLÒ MINEO*

Fondamentale punto di riferimento, negli ultimi anni, per ogni nuova analisi dell’Inno ai Patriarchi ritengo una lettura di Giorgio Barberi Squarotti del 19901. L’interpretazione vi è strettamente e convincentemente connessa alla spiegazione del senso. La mia lettura si giustifica come riflessione ulteriore sul «significato» di questo difficile componimento. Qualche osservazione altresì andrà fatta sulle più importanti costanti formali della verseggiatura, per definire alcune delle condizioni che mediano la prospettiva, il punto di vista, l’investimento emotivo e spirituale. L’inno fu scritto nel luglio del 1822, quando il pensiero di Leopardi non si era ancora volto verso posizioni più rigorosamente materialistiche e veniva da lui presentato come non contrastante col Cristianesimo2. Prima di intraprendere l’analisi del testo bisognerà sinteticamente ridisegnare il quadro delle convinzioni di Leopardi nei primi anni Venti su certi temi chiave, come la natura, la ragione, la società, la civiltà, la religione, il cristianesimo. Possiamo chiamarlo il suo primo sistema (il pessimismo storico di zumbiniana memoria). I riferimenti saranno tutti a pensieri dello Zibaldone3. E saranno presi in considerazione solo quelli che siano rapportabili alla tematica dell’inno. Naturalmente una particolare attenzione sarà prestata * Ordinario di Letteratura italiana e Preside della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Catania. 1 L’inno ai Patriarchi, in Le forme e la storia, n. s., II (1990) 1. Cito i versi dell’inno da G. LEOPARDI, Tutte le opere, a cura di F. Flora, I, Milano 19586. 2 Vd. S. TIMPANARO, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 1977 (2ª ed., 3ª ristampa), 165ss, 189. 3 Tengo presente sia l’ediz. a cura di G. Pacella, Milano 1991 sia l’ediz. a cura di R. Damiani, Milano 1997. L’indicazione delle pagine si riferisce alla numerazione dell’autore.


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alle convinzioni espresse dal giovane Leopardi in rapporto alle narrazioni bibliche e al Cristianesimo. Possiamo dire sin da ora che egli vedeva il Cristianesimo come religione fortemente legata al precedente giudaico4. Partiamo da certe basilari considerazioni discendenti dalla sua idea di natura, improntata in buona misura al pensiero di Rousseau5, ma fondata alla radice sull’esaltazione della positività della natura affermatasi dal Rinascimento in poi. La natura, egli dice sinteticamente in pensieri del gennaio e dell’agosto 1821 (pp. 470, 1571), «è grande, e fonte di grandezza» e «ha fatto ogni cosa perfetta». Molteplici sono le sue dichiarazioni sulla benevolenza della natura nei confronti dell’uomo. Particolarmente significative certe affermazioni: che la natura saggia e benevola non è responsabile dell’infelicità dell’uomo e ha dato agli uomini le illusioni (giugno e luglio del 1820, pp. 141, 167-89. Vd. anche p. 327); che gli uomini più vicini alla natura sono «più disposti a godere che a soffrire» (settembre del 1821, p. 1678). E si ricordi che nel 1819 aveva affermato che le illusioni, essendo naturali, sono in qualche modo reali (p. 51. Cfr p. 99). Problema centrale è la definizione del rapporto con la ragione. L’opposizione di natura e ragione è ben presto stabilita nella sua prospettiva e la sua idea della civiltà e della filosofia della politica è che si debba il più possibile recuperare la condizione naturale, come dice in pensieri del giugno 1820: «La civiltà delle nazioni consiste in un temperamento della natura colla ragione, dove quella, cioè la natura abbia la maggior parte. […] Perciò la nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura. E questo dovrebb’essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo» (pp. 114-5. Vd. anche p. 375). Decise sono le dichiarazioni relative alla maggior forza della natura rispetto alla ragione — pensieri dell’agosto 1820, dell’ottobre 1820, del luglio e dell’ottobre del 1821 (pp. 215, 269, 1377, 1858-9) —. Quanto all’opposizione di natura e ragione assai netta è una riflessione del novembre 1820: 4

Basti citare Zibaldone, 1061. Per Rousseau e Leopardi basti ricordare C. LUPORINI, Leopardi progressivo, Roma 1993 (nuova ediz.), 37ss, 47ss. Per Leopardi e la cultura del Settecento è indispensabile AA. VV., Leopardi e il Settecento. Atti del Convegno del 13-16 settembre 1962, Centro nazionale di studi leopardiani, Firenze 1964. 5


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Una grandissima e universalissima fonte di errori, controsensi, oscurità, sviste, contraddizioni, dubbi, confusioni ec. negli scrittori e filosofi tanto antichi che modernissimi, è il non aver considerata, e definita, e posta nelle basi del sistema dell’uomo, la nemicizia scambievole della ragione e della natura. Posta la quale, che è tanto evidente, e universale, si rischiarano, e determinano, e risolvono infiniti misteri e problemi nell’ordine e composto delle cose umane. Ma confondendo la ragione colla natura, il vero col bello, i progressi dell’intelligenza coi progressi della felicità e col perfezionamento dell’uomo le nozioni e la natura dell’utile, il fine o scopo dell’intelligenza (ch’è la verità) col fine e scopo vero dell’uomo e della natura sua ec. non si viene mai a capo di diciferare il mistero dell’uomo, e di accordare le infinite contraddizioni che par che s’incontrino in questa principalissima parte del sistema universale, cioè in quella che riguarda la nostra specie. Il combattimento della carne e dello spirito, dei sensi e della mente, notato già dagli scrittori, massimam. religiosi, o non è sufficiente, o non è stato bene inteso ed applicato, ed esteso quanto doveva; o è stato torto in senso contrario al giusto, e dedottene conseguenze della stessa specie. ec. ec. ec. (pp. 341-2).

La stessa «saviezza» appartiene più alla natura che alla ragione, afferma in un pensiero del gennaio 1820 (p. 194). Non la natura6, sosterrà in contrasto coi pensatori cristiani e coi filosofi «gentili», in un pensiero del novembre 1821, è fonte di corruzione, ma la ragione: Tutte queste autorità favoriscono dunque il mio sistema, colla differenza che laddove coloro credevano corrotta e corruttrice la natura, io credo la ragione; laddove essi l’uomo, io gli uomini; laddove essi credevano sostanzialmente imperfetta cioè composta di elementi contraddittorii l’opera di Dio, io credo tale l’opera dell’uomo, e a causa della sola opera dell’uomo, credo non sostanzialmente, ma solo accidentalmente imperfetta l’opera di Dio, e composta non di elementi contraddittorii, ma di qualità acquisite ripugnanti alle naturali, o di qualità naturali corrotte, ripugnanti fra loro, solo in quanto corrotte. Insomma laddove essi vedevano un’immensa imperfezione nel sistema e nell’ordine primitivo dell’uomo, io la vedo in questo sistema, in quanto e perchè s’è allontanato dal primitivo; e laddove essi 6 È pur vero che si possono riscontrare sentori di una concezione diversa della natura, di una natura matrigna, in poesie e abbozzi di poesie dei primi anni. Vd. S. TIMPANARO, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, cit., 153ss.


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Nicolò Mineo venivano a porre l’uomo quasi fuori della natura, dove tutto è sì perfetto nel suo genere; io ve lo ripongo, e dico ch’egli n’è fuori solamente perchè ha abbandonato il suo essere primitivo (pp. 2115-6).

La ragione, afferma in un pensiero del novembre 1820, prendendo spunto dal Lamennais dell’Essai sur l’indifférence en matière de religion, cominciò la sua opera distruttrice in Germania, applicandosi prima alla religione: «i capi della Riforma […] cominciavano a sentire e prevedere la febbre divorante e consuntiva della ragione, e della filosofia; la distruzione di tutto il bello il buono il grande, e di tutta la vita; l’opera micidiale e le stragi di quella ragione e filosofia che aveva avuto il primo impulso, e cominciò la sua trista devastazione in Germania, patria del pensiero, […] non inducendo gli uomini da principio se non ad esaminar la religione, e negarne alcuni punti, per poi condurli alla scoperta di tutte le verità più dannose, e all’abbandono di tutti gli errori più vitali e necessari» (pp. 349-50). Vera nemica della natura, egli chiarisce però in un pensiero del 22 dicembre 1820, non è la ragione; sue nemiche in ogni senso invece sono la scienza e l’esperienza, che compaiono e si sviluppano nella società (pp. 4467). Bisogna in effetti ricordarsi della distinzione presente nel pensiero del Leopardi tra una ragione naturale e una ragione storica: «Nemico della natura — scriveva nel dicembre del 1820 — è quell’uso della ragione che non è naturale, quell’uso eccessivo ch’è proprio solamente dell’uomo, e dell’uomo corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è naturale, nè proprio dell’uomo primitivo» (p. 375)7. Per quanto riguarda il rapporto tra natura e civiltà, alla base è la convinzione, più volte espressa, dell’opposizione tra natura e civilizzazione — pensieri dell’aprile, dell’agosto, dell’agosto-settembre del 1821 (pp. 93940, 1570-2, 1597-1602) —. Nella natura, dice negli stessi pensieri — agosto-settembre (p. 1697) — non esiste contraddizione, contrariamente a quel che avviene nello «stato di civiltà». Ma già prima, nel luglio del 1820, aveva detto che solo l’uomo è responsabile della sua infelicità, perché certe sue qualità non provengono dalla natura (pp. 178-9). La natura infatti non 7 Vd. al riguardo C. LUPORINI, Leopardi progressivo, cit., 44. Importante, e direi inoppugnabile, l’analisi dell’idea leopardiana di ragione sviluppata da F. BRIOSCHI, Critica della ragion poetica e altri saggi di letteratura e filosofia, Torino 2002, 102ss, 133ss.


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voleva l’infelicità dell’uomo, scriveva nel 1819 (p. 66). Si tenga presente in proposito anche il pensiero sopra citato del novembre 1821 e un altro dell’ottobre del 1821 (pp. 1907-11). Il male infatti non deriva «necessariamente dall’ordine delle cose», non è «inerente al sistema delle cose», ma è un «errore accidentale» nel sistema (dicembre 1820, p. 365). La natura in effetti non aveva voluto che l’uomo si costruisse una sua erronea idea di perfettibilità, che lo ha portato a crearsi una serie infinita di bisogni — pensieri del marzo 1821 (pp. 830 sgg.) —. Il costituirsi della civiltà, di conseguenza — asserisce nelle notazioni dell’agosto 1821 —, è un fatto casuale: «La nostra civiltà, che noi chiamiamo perfezione essenzialmente dovuta all’uomo, è manifestamente accidentale, sì nel modo con cui s’è conseguita, sì nella sua qualità. […] Dunque è manifesto che la nostra civiltà, che si crede essenzialmente appartenerci, non è stata opera della natura, non conseguenza necessaria e primordialmente preveduta delle disposizioni da lei prese circa la specie umana […], ma del caso» (pp. 15701. Cfr pp. 2602-6). Punto fermo del suo pensiero è la convinzione che l’uomo sia l’unico responsabile dell’alienazione dalla natura, e quindi dell’infelicità che ne è la conseguenza. E in quest’ordine di idee si manifesta la diversità, nella somiglianza, della sua posizione rispetto a quella di Rousseau. Egli è soprattutto preoccupato degli esiti soggettivi ed esistenziali della distanza dell’uomo dalla natura, mentre il ginevrino argomenta soprattutto in termini socio-economici ed etico-politici. In pagine già del 1819 leggiamo: Com’è costantissimo e indivisibile istinto di tutti esseri la cura di conservare la propria esistenza, così non è dubbio che quasi il compimento di questa non sia l’esserne contento, e l’odiarla o non soddisfarsene non sia un principio contraddittorio il quale non può stare in natura e molto meno in quell’essere il quale senza entrare nella teologia, è chiaro ch’essendo l’ordine animale il primo in questo globo e probabilmente tutta la natura cioè in tutti i globi, ed egli essendo evidentemente il sommo grado di quest’ordine, viene a essere il primo di tutti gli esseri nel nostro globo. Ora vediamo che in questo è tanta la scontentezza dell’esistenza, che non solo si oppone all’istinto della conservazione di lei, ma giunge a troncarla volontariamente, cosa diametralmente contraria al costume di tutti gli altri esseri, e che non può stare in natura se non corrotta totalmente. Ma pur vediamo che chiunque in questa nostra età sia di qualche ingegno deve necessariamente


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Nicolò Mineo dopo poco tempo cadere in preda a questa scontentezza. Io credo che nell’ordine naturale l’uomo possa anche in questo mondo esser felice, vivendo naturalmente, e come le bestie, cioè senza grandi nè singolari e vivi piaceri, ma con una felicità e contentezza sempre più o meno uguale e temperata — eccetto gl’infortuni che possono essere nella sua vita. come gli aborti le tempeste e tanti altri disordini (accidentali. ma non sostanziali) in natura — insomma come sono felici le bestie quando non hanno sventure accidentali ec. Ma non già credo che noi siamo più capaci di questa felicità da che abbiamo conosciuto il voto delle cose e le illusioni e il niente di questi stessi piaceri naturali del che non dovevamo neppur sospettare: tout homme qui pense est un être corrompu, dice il Rousseau, e noi siamo già tali. E pure vediamo che questi piccoli diletti non ostante che noi siamo già guasti pur ci appagano meglio che qualunque altro come dice Verter ec. e vediamo il minore scontento dei contadini. ignoranti ec. (quantunque essi pure assai lontani dallo stato naturale), che dei culti, e dei fanciulli massimamente, che dei grandi. E l’esser l’uomo buono per natura, e guastarsi necessariamente nella società, può servir di prova a questo sistema, e il veder che le bestie non hanno tra loro altra società che per certi bisogni, del resto vivono insieme senza pensar l’una all’altra, e che l’istinto si vien perdendo a proporzione che la natura è alterata dall’arte onde è grande nelle bestie e nei fanciulli, piccolo negli uomini fatti, ma ciò non prova che l’uomo sia fatto per l’arte ec. giacchè la natura gli aveva dato quegl’istinti ch’egli perde poi ec. Sì che si potrebbe pensare che la differenza di vita fra le bestie e l’uomo sia nata da circostanze accidentali e dalla diversa conformazione dei corpo umano più atta alla società ec. (p. 56).

La condizione presente di «incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti» — osserva in un pensiero dell’agosto 1820 — porta a un allontanamento dalla natura il cui esito non può non essere esiziale: «[…] Di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come di altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi» (p. 216-7. Cfr pp. 306, 340). L’uomo, argomenta poi in un pensiero dell’agosto 1821, ed è un punto decisivo, si è allontanato dalla natura cercando una forma di perfezione che si dimostra falsa ed erronea, perché la sua vera perfezione consiste nella condizione primitiva:


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L’uomo alterandosi, ha trovato la natura imperfetta per lui. Ciò vuol dire ch’egli non s’è dunque perfezionato, ma corrotto; ciò vuol dire che egli non corrisponde più al sistema delle cose, e per conseguenza egli è in uno stato vizioso. L’imperfezione dell’uomo, che non ha niente d’assurdo, perchè vien da lui, noi l’ascriviamo alla natura, il che è assurdissimo in sì perfetta maestra, e poi in quella che è la sola norma e ragione del perchè una cosa sia perfetta o no; giacchè fuor di lei, e della sua libera disposizione, non esiste altra ragione di perfezione o imperfezione. Dopo che l’uomo s’è cambiato, ha dovuto cambiar la natura. Ciò prova c’egli non doveva cambiarsi. Se la sua nuova condizione fosse stata voluta e ordinata dalla natura, ella avrebbe disposte e ordinate le altre cose in modo che corrispondessero e servissero perfettamente a questa nuova condizione. E non dopo il cambiamento, ma prima di esso, l’uomo si sarebbe trovato in opposizione colla natura, (come oggi si trova tutto giorno) se il cambiamento fosse stato primordialmente ed essenzialmente ordinato dalla natura, cioè dalla ragion delle cose. Tutti gli esseri nel loro stato relativo di perfezione, trovano la natura perfettamente corrispondente ai loro fini, al loro bene, ec. e si trovano in perfetta armonia con tutte le cose che hanno relazione naturale ed essenziale (non accidentale) con loro. Solamente l’uomo in quello stato ch’egli chiama di perfezione, trova la natura renitente, ripugnante, mal disposta a’ suoi vantaggi, a’ suoi piaceri, a’ suoi desiderii, a’ suoi fini e gli conviene rifabbricarla. Quanto più egli s’avanza verso la sognata perfezione del suo essere tanto meno si trova in armonia colle cose quali elle sono, e gli conviene, raddoppiando proporzionatamente l’arte, e vincendo sempre maggiori difficoltà, cambiar le cose, e farle essere diversamente. Quanto più l’uomo è perfetto, cioè in armonia col sistema delle cose esistenti, e di se stesso, tanto più gli è difficile e faticoso il vivere, e l’esser felice. Che strana assurdità sarebbe questa nella natura? che strana contraddizione con tutto le altre anche menome parti del suo sistema?

Se dunque l’arte è necessaria oggi all’uomo, e se la natura bruta gli è incompatibile, ciò vuol dire ch’egli non e qual dovrebbe, e che il suo vero stato di perfezione è il primitivo, come quello di tutte le altre cose (pp. 1560-2). Un insieme di idee che necessariamente si collega al tema del rapporto tra natura e società. Un rapporto anche questo di opposizione, in corrispondenza al dominio che nella società ha la ragione. Così sin dal maggio 1820 (p. 112). Leopardi, antiaristotelicamente (ma forse anche in


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opposizione al postulato della voce Societé dell’Encyclopédie) e radicalizzando il pensiero di Rousseau, nega che l’uomo sia per natura destinato a vivere in società: la «pretesa necessità o naturale o primordiale e sostanziale disposizione dell’uomo alla società». La società e la ragione allo stato attuale hanno accresciuto in modo eccessivo i bisogni, e il lavoro perciò è divenuto fatica e condanna (dicembre 1820, pp. 400, 401-2). È molto importante per la comprensione del nostro canto tener presente quanto afferma nel luglio del 1820 relativamente all’origine della società. Non esita a riconoscerla come effetto e conseguenza del primo delitto: «Il primo autore delle città vale a dire della società, secondo la Scrittura, fu il primo riprovato, cioè Caino, e questo dopo la colpa la disperazione e la riprovazione. Ed è bello il credere che la corruttrice della natura umana e la sorgente della massima parte de’ nostri vizi e scelleraggini sia stata in certo modo effetto e figlia e consolazione della colpa. E come il primo riprovato fu il primo fondatore della società, così il primo che definitivamente la combattè e maledisse, fu il redentore della colpa, cioè Gesù Cristo […]» (p. 191). Il Genesi appunto dice che Caino fondò una città che chiamò, col nome del figlio, Enoch. La colpa di Caino, dirà nel giugno del 1821, fu determinata dall’invidia, che è «l’odio naturale dell’uomo verso l’uomo nella società» (p. 1164). Un’altra via sceglie però poco dopo — è la lunga riflessione del dicembre del 1820 — riguardo alla natura della colpa (pp. 393ss Vd. anche pp. 420, 434-436, 1004). Proprio questa, egli afferma, come vuole anche il racconto biblico, fu la «causa originaria» dell’infelicità dell’uomo: «Io ammetto anzi sostengo la corruzione dell’uomo, e il suo decadimento dallo stato primitivo, stato di felicità; come appunto fa il Cristianesimo. S’io dico che l’uomo fu corrotto dall’abuso della ragione, dal sapere e dalla società, questi sono i mezzi, o le cagioni secondarie della corruzione, e non tolgono che la causa originale non sia stata il peccato». Il peccato dell’uomo. E questo consiste proprio, e Leopardi lo sostiene come suo assunto in contrasto col pensiero dei teologi, nell’aver voluto un livello di scienza e conoscenza che Dio non gli aveva destinato per il suo stesso bene, e quindi nell’aver alterato il rapporto tra natura e ragione a tutto scapito della prima. E da allora ha inizio l’opposizione natura/ragione: «È vero, e dico anch’io, che allora incominciò quella nemicizia della ragione e della natura ch’io sempre predico» (p. 434). Della ragione, spiegherà poi, non come


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«raziocinio», ma come strumento di scienza e conoscenza (pp. 447-8). Una colpa radicale, causa fondamentale dell’infelicità degli uomini. Questo, egli aggiunge, è il vero significato del racconto biblico: la colpa e la degradazione come effetto del prevalere della volontà di conoscenza sulla natura e non come effetto — ancora secondo i teologi — della ribellione della natura alla ragione. Così concludeva la prima parte della sua riflessione: È egli assurdo o cattivo per sua natura il desiderio di conoscere e discernere il bene ed il male? (che insomma è quanto dire la cognizione) Secondo voi altri apologisti della Religione, non è. Ma all’autor della Religione parve che fosse, perché l’uomo già sapeva abbastanza per natura, cioè per opera propria, immediata e primitiva di Dio, tutto ciò che gli conveniva sapere. La colpa dell’uomo fu volerlo sapere per opera sua, cioè non più per natura, ma per ragione, e conseguentemente saper più di quello che gli conveniva, cioè entrare colle sue proprie facoltà nei campi dello scibile, e quindi non dipendendo più dalle leggi della sua natura nella cognizione, scoprir quello, che alle leggi della sua natura, era contrario che si scoprisse. Questo e non altro fu il peccato di superbia che gli scrittori sacri rimproverano ai nostri primi padri; peccato di superbia nell’aver voluto sapere quello che non dovevano, e impiegare alla cognizione, un mezzo e un’opera propria, cioè la ragione, in luogo dell istinto, ch’era un mezzo e un’azione immediata di Dio: peccato di superbia che a me pare che sia rinnuovato precisamente da chi sostiene la perfettibilità dell’uomo. I primi padri finalmente peccarono appunto per aver sognata questa perfettibilità, e cercata questa perfezione fattizia, ossia derivata da essi. Il loro peccato, la loro superbia, non consiste in altro che nella ragione: ragione assoluta: ragione, parlando assolutamente, non male adoperata, giacché non cercava se non la scienza del bene e del male. Or questo appunto fu peccato e superbia. Condannato ch’ebbe la donna e l’uomo, disse Iddio: Ecce Adam quasi unus ex nobis factus est, sciens bonum et malum. (Gen., 3, 22.) E non aggiunse altro in questo proposito. Dunque egli non tolse alla ragione umana quell’incremento che l’uomo indebitamente gli aveva proccurato. Dunque l’uomo restò veramente simile a Dio per la ragione, restò più sapiente assai di quando era stato creato. Dunque il decadimento dell’uomo, non consistè nel decadimento della ragione, anzi nell’incremento. E sebben l’uomo ottenne precisamente quello che il serpente aveva promesso ad Eva, cioè la scienza del bene e del male, non pero questa accrebbe la sua felicità, anzi la distrusse. Questi mi paiono discorsi concludenti, e raziocini non istiracchiati ma solidi, e dedotti naturalmente e da dedursi dalle parole e dallo spirito bene inteso della narrazione


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Nicolò Mineo Mosaica, e se ne può efficacemente concludere che lo spirito di questa narrazione, è di attribuire formalmente la corruzione e decadenza dell’uomo all’aumento della sua ragione, e all’acquisto della sapienza; considerar come corruttrice dell’uomo la ragione e il sapere: cioè come mezzi espressi di corruzione, perché la causa primaria fu la disubbidienza, ma la disubbidienza a un divieto che proibiva appunto all’uomo di proccurarsi e di rendere efficaci questi mezzi di corruzione e d’infelicità (pp. 396-8).

In effetti sono due percorsi per vari aspetti diversi, anche se non contrastanti. Il primo, il riferimento alla colpa di Caino, mette a fuoco soprattutto il tema della società come frutto nefasto di un agire perverso. Il secondo, il riferimento alla superbia, mette a fuoco soprattutto il tema del rapporto di causa ed effetto tra eccesso di conoscenza e decadimento e infelicità. L’uno e l’altro contenevano in sé difficoltà e germi di contraddizione, di cui Leopardi si rendeva forse conto, se pure in forme non testimoniate. La malvagità dell’uomo, incarnata in Caino, si manifesterebbe prima della costituzione della società, e perciò si dovrebbe considerare naturale. E non potrebbe essere altrettanto naturale quella superbia che si manifestò come volontà di conoscenza? La natura in realtà, chiarisce in pagine del marzo-aprile del 1821, aveva previsto per l’uomo una forma di società «accidentale» e «larga»: «Così che la natura non può nel suo primitivo disegno aver considerata, nè ordinata altra società nella specie umana, se non simile più o meno a quella che ha posta in altre specie, vale a dire una società accidentale, e nata e formata dalla passeggera identità d’interessi, e sciolta col mancare di questa; ovvero durevole, ma lassa o vogliamo dire larga e poco ristretta, cioè di tal natura che giovando agli interessi di ciascuno individuo in quello che hanno tutti di comune, non pregiudichi agl’interessi o inclinaz. particolari in quello che si oppongono ai generali» (p. 873. Cfr pp. 937-8, 1952-3). E ciò perché, come leggiamo poco prima (p. 872), l’uomo essenzialmente ama solo se stesso e quindi odia gli altri (cfr pp. 173-4, 2644). Ma, spiegherà nello stesso passo e anche in un altro luogo dell’aprile 1821 (p. 937), la natura si oppone anche all’eccessivo ampliamento della società, che voleva ristretta «quanto all’estensione». Contraria alla natura, argomenterà in pagine dell’ottobre 1823 (pp. 3649-57), è anche l’eccessiva espansione degli uomini nel pianeta, legata all’eccessivo espandersi della società stessa:


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Io dico dunque per fermo, che la specie umana per sua natura, secondo le intenzioni della natura, volendo poter conservare il suo ben essere, non doveva propagarsi più che tanto, e non era destinata se non a certi paesi e certe qualità di paesi, de’ limiti de’ quali non doveva naturalm. uscire, e non uscì che contro natura. Ma come contro natura ella giunse a un grado di società fra se stessa, ch’è fuor d’ogni proporzione con quella che hanno l’altre specie, e che in mille luoghi s’è dimostrato esser causa del suo mal essere e corruzione ecc., così contro natura si moltiplicò e propagò strabocchevolmente; perocchè questa moltiplicazione, come poi contribuì sommamente ad accelerare, cagionare, accrescere i progressi della società, cioè della corruzione umana, così dapprincipio non ebbe origine se non dal soverchio e innaturale progresso d’essa società (pp. 3654-5).

Qualche mese dopo la composizione dell’inno, in un pensiero dell’aprile 1823, Leopardi avrebbe più ampiamente articolato il suo discorso utilizzando il tema delle illusioni. È un brano da aver presente interamente: L’uomo sarebbe felice se le sue illusioni giovanili (e fanciullesche) fossero realtà. Queste sarebbero realtà, se tutti gli uomini le avessero, e durassero sempre ad averle: perciocchè il giovane d’immaginazione e di sentimento, entrando nel mondo, non si troverebbe ingannato della sua aspettativa, nè del concetto che aveva fatto degli uomini, ma li troverebbe e sperimenterebbe quali gli aveva immaginati. Tutti gli uomini più o meno (secondo la differenza dei caratteri), e massime in gioventù, provano queste tali illusioni felicitanti: è la sola società, e la conversazione scambievole, che civilizzando e istruendo l’uomo, e assuefacendolo a riflettere sopra se stesso, a comparare, a ragionare, disperde immancabilmente queste illusioni, come negl’individui, così ne’ popoli, e come ne’ popoli, così nel genere umano ridotto allo stato sociale. L’uomo isolato non le avrebbe mai perdute; ed elle son proprie del giovane in particolare non tanto a causa del calore immaginativo, naturale a quell’età, quanto della inesperienza, e del vivere isolato che fanno i giovani. Dunque se l’uomo avesse continuato a vivere isolato, non avrebbe mai perdute le sue illusioni giovanili, e tutti gli uomini le avrebbero e le conserverebbero per tutta la vita loro. Dunque esse sarebbero realtà. Dunque l’uomo sarebbe felice. Dunque la causa originaria e continua della infelicità umana è la società. L’uomo, secondo la natura sarebbe vissuto isolato e fuor della società. Dunque se l’uomo vivesse secondo natura, sarebbe felice (pp. 2684-5).


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Il problema è posto in termini simili per quel che riguarda la società come tale in rapporto alla natura, cioè per quel che riguarda la non-naturalità della società come si è determinata nel tempo. Molte pagine dedica Leopardi nel gennaio del 1821 al rapporto natura-società-forme di governo (pp. 543ss). La società, dice ancora in pagine del gennaio 1821, essendo lontana dalla natura, non può garantire sistemi politici che assicurino la felicità (pp. 561-2). E prima, nel luglio del 1820, aveva detto che una politica ispirata solo dalla ragione porta al dispotismo (p. 160-1. Cfr p. 252). Successivamente denuncia — in un pensiero dell’ottobre 1821 — la contraddizione interna alla società, che non può a lungo mantenere la sua perfezione, e quella tra società e civiltà: «[…] la stessa assoluta essenza della società porta in se i germi della corruzione, e distrugge immancabilm. e prestiss. questa perfezione, quest’armonia ec. ne’ suoi principii costitutivi; non è ella una prova bastante che l’uomo non è fatto per la società, o almeno per una società stretta, e d’uomini inciviliti, e che questa è incompatibile con la natura umana, e contraddittoria nei suoi principii? Una tal società da un lato abbisogna, dall’altro produce immancabilm. la civiltà; e la civiltà distrugge la perfez. E l’armonia di qualunque siffatta società» (p. 1952-3. Cfr pp. 1594-6). Più ampiamente Leopardi sarebbe tornato su questi punti nell’agosto 1823 (pp. 3082-6). È utile a questo punto ricordare la nozione di «civiltà media» cui Leopardi ricorre per individuare un tipo di condizione dell’uomo nella società che sia compatibile con la destinazione naturale: Quindi è che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita, è quello di una civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la natura, una certa mezzana ignoranza, mantengano quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino gli errori artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti. Tale appunto era lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perché tanto più vicini alla natura, e alla felicità naturale. […] Tra la barbarie e la civiltà eccessiva non è dubbio che quella non sia più conforme alla natura, e meno infelice, quando non per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità (pp. 421-2).

Basilare diviene ora definire il problema della concezione leopardiana della religione e del cristianesimo. Nel 1818 asseriva che solo


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la religione ha potuto conciliare natura e ragione (p. 37. Cfr p. 45). In un pensiero del giugno 1820 afferma che la filosofia ha bisogno della religione per garantirsi una sua moralità (p. 125). Per altro verso, nel dicembre 1820 affermava che la religione sarebbe essenzialmente necessaria solo se fosse stato nell’ordine delle cose il destino di infelicità dell’uomo (p. 364. Cfr p. 370). La religione, osserva più tardi, potrebbe essere il «più gran male dell’uomo», se non fosse vera, perché, una volta conosciuta, è il maggior impedimento al suicidio, unica possibilità di riscatto per l’uomo moderno (marzo 1821, p. 814-18). La religione addirittura, è un’altra acuta osservazione del maggio 1821, può essere causa dell’irreligione. Abituando a guardare oltre la superficie delle cose, può ribaltarsi nel suo contrario. E ciò è soprattutto proprio della religione giudaica e cristiana (pp. 1059-61). Fondamentale e chiarificatrice è l’asserzione di un pensiero del dicembre 1820, tutto interno alla tradizione di pensiero del naturalismo vitalistico dell’età moderna — ma già l’alto Medioevo post-agostiniano per un processo inverso aveva divinizzato la natura — : «La natura è lo stesso che Dio. Quanto più attribuisco alla natura, tanto più a Dio […] Quanto più esalto e predico la natura, tanto più Dio. Stimando perfetta l’opera della natura, stimo perfetta quella di Dio» (pp. 393-4. Cfr p. 1638). La natura di cui parla è evidentemente natura naturans. Per quel che riguarda l’idea di Dio in rapporto all’insieme delle convinzioni leopardiane è essenziale ricordarsi della sua affermazione della possibilità dell’esistenza di un «Essere onnipotente»: E quindi neghiamo che il mondo possa essere, ed esser qual è, senza una cagione posta fuori di lui. Sin qui nella materia. Usciti della materia ogni facoltà dell’intelletto si spegne. Noi vediamo solamente che nulla è assoluto nè quindi necessario. Ma appunto perché nulla è assoluto, chi ci ha detto che le cose fuor della materia non possano esser senza ragion sufficiente? Che quindi un Essere onnipotente non possa sussister da se ab eterno, ed aver fatto tutte le cose, bench’egli assolutamente parlando non sia necessario? Appunto perché nulla è vero nè falso assolutamente, non è egli tutto possibile, come abbiamo provato altrove? Io considero dunque Iddio, non come il migliore di tutti gli esseri possibili, giacchè non si dà migliore nè peggiore assoluto, ma come racchiudente in se stesso tutte le possibilità, ed esistente in tutti i modi possibili. Questo è possibile (pp. 1620-21).


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Però è anche in rapporto all’idea di Dio che cominciano ad affermarsi il punto di vista relativistico e la teoria del nulla: «In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacchè nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta prerch’ella non possa essere, o non essere in quel tal modo» (luglio 1821, p. 1341). Non posso seguire gli sviluppi di questo nucleo di pensiero, perché mi porterebbe lontano dal tema8. Non posso non ricordare però la riflessione del dicembre 1826, che dà significato a tante delle posizioni leopardiane, quella che spiega con l’umano bisogno di rassicurazione e conforto l’dea di un Dio «provvidente» — l’analogo soprannaturale del padre e, in guerra, del capo — (p. 4429-31). Importante poi per la sua concezione della religione e del cristianesimo quanto afferma in alcuni pensieri del 1820. Nel maggio riconduce a Cristo l’identificazione di male e società: «Gesù Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse e definisse e stabilisse l’idea del perpetuo nemico della virtù dell’innocenza dell’eroismo della sensibilità vera, d’ogni singolarità dell’animo della vita e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire la società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici dell’uomo, essendo pur troppo vero che come l’individuo p. natura è buono e felice, così la moltitudine (e l’individuo in essa) è malvagia e infelice» (p. 112; vd. anche pp. 284, 611 e Pensieri, LXXXIV e LXXXV); nel novembre pone il rapporto tra cristianesimo e illusioni: «Quello che uccideva il mondo, era la mancanza delle illusioni; il Cristianesimo lo salvò non come verità, ma come una nuova illusione» (p. 335. Vd. anche pp. 408ss, 427 sgg., 1637ss). Anche se, egli aggiunge, il cristianesimo in sé era una forza «effimera […] e produttrice di maggior debolezza» (p. 337). E in effetti la sua azione positiva si è ormai esaurita (pp. 336-7). Ma prima, nell’agosto del 1820, aveva decisamente affermato che «l’uomo non vive d’altro che di religione o d’illusioni. […] Tolta la religione e le illusioni radicalmente, ogni uomo, anzi ogni fanciullo alla prima facoltà di ragionare […] si ucciderebbe infallibilmente di propria mano» (p. 216. Vd. anche p. 223). E prima ancora, nel gennaio del 1820, aveva scritto che proprio il cristianesimo aveva prodotto, o comunque diffuso, la «rivoluzione del cuore», determinata dalla convinzione «solennemente dichiarata e stabilita e per così dire attivata 8

Si veda Zibaldone alle pp. 1613-15, 1619ss.


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della massima della certa infelicità e nullità della vita umana» (p. 105). Del resto solo la religione riconosceva legittimata a suggerire la speranza, e il cristianesimo giudicava per vari punti più vicino alla natura che alla ragione (luglio 1820, pp. 183, 194). La religione, egli sostiene anche nella già ricordata lunga riflessione del dicembre 1820, «è il migliore stato dell’uomo corrotto […] l’uomo corrotto non poteva esser perfezionato nè felicitato se non dalla rivelazione, ossia dalla Religione», e il Cristianesimo, afferma nelle stesse pagine, si adatta, anzi per certi versi coincide con la condizione di «civiltà media» (pp. 403ss). Un punto questo che Leopardi tratta a lungo. Cito un passaggio decisivo: Se la Religione ha poi divinizzato la ragione e il sapere; dato la preferenza allo spirito sopra i sensi; fatto consistere la perfezione dell’uomo nella ragione a differenza dei bruti; e in somma dato alla ragione il primato nell’uomo sopra la natura: tutto ciò non si oppone al mio sistema. L’uomo era corrotto, cioè, come ho dimostrato, la ragione aveva preso il disopra sulla natura: e quindi l’uomo era divenuto sociale: quindi l’uomo era divenuto infelice, perchè prevalendo la ragione, la sua natura primitiva era alterata e guasta, ed egli era decaduto dalla sua perfezione primigenia, la quale non consisteva in altro che nella sua essenza o condizione propria e primordiale. Da questo stato di corruzione, l’esperienza prova che l’uomo non può tornare indietro senza un miracolo: lo prova anche la ragione, perchè quello che si è imparato non si dimentica. In fatti la storia dell’uomo noti presenta altro che un passaggio continuo da un grado di civiltà ad un altro, poi all’eccesso di civiltà, e finalmente alla barbarie, e poi da capo. Barbarie, s’intende, di corruzione, non già stato primitivo assolutam. e naturale, giacchè questo non sarebbe barbarie. Ma la storia non ci presenta mai l’uomo in questo stato preciso. Bensì ci dimostra che l’uomo tal quale è ridotto, non può godere maggior felicità che in uno stato di civiltà media, dove prevalga la natura, quanto è compatibile colla sua ragione già radicata in un posto più alto del primitivo. Questo stato non è il naturale assoluto, ma è quello stabilito appresso a poco dalla religione, come dirò poi. Lo stato naturale assoluto non poteva dunque tornare senza un miracolo. Il discorso de’ miracoli, è sopraumano, e non entra in filosofia. Perchè dunque l’uomo corrotto com’è, non abbia mai ricuperato nè sia per ricuperare lo stato puram. naturale, e la felicità di cui godono tutti gli altri esseri, rimane, colla detta ragione, spiegato in filosofia. In religione anche meglio; perchè Dio in pena del peccato, avendo condannato l’uomo all’infelicità della corruzione


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Nicolò Mineo derivata da esso peccato, non voleva nè doveva fare questo miracolo. Volendo mostrargli la sua misericordia, e dare al suo stato una perfezione compatibile colla sua condanna, cioè colla sua infelicità, non restava altro che perfezionare la sua ragione, cioè quella parte che aveva prevaluto immutabilmente nell’uomo per la sua disubbidienza, e con ciò causata la sua corruzione. La perfezion della ragione non è la perfezione dell’uomo assolutamente, ma bensì dell’uomo tal qual è dopo la corruzione. Perchè la perfezione di un essere non è altro che l’intiera conformità colla sua essenza primigenia. Ora l’essenza primigenia dell’uomo supponeva e conteneva l’ubbidienza della ragione, in somma tutto l’opposto della perfezion della ragione. Questa perfezione dunque non poteva essere la sua felicità in questa vita, non essendo la perfezione dell’ente. Non poteva dunque se non formare la sua felicità in un’altra vita, dove la natura dell’ente in certo modo si cambiasse. La ragione (massime relativamente all’altra vita) non può essere perfezionata se non dalla rivelazione. Fu dunque necessario che Dio rivelasse all’uomo la sua origine, e i suoi destini; quei destini che avrebbe conseguiti rimanendo nello stato naturale, e gli avrebbe conseguiti insieme colla felicità terrena. Laddove il Cristianesimo chiama beato chi piange, predica i patimenti, li rende utili e necessari; in una parola suppone essenzialmente l’infelicità di questa vita, per conseguenza naturale degli addotti principj. Ma da questi segue ancora che la maggior felicità possibile del1’uomo in questa vita, ossia il maggior conforto possibile, e il più vero ed intero, all’infelicità naturale, è la religione. Perchè (riassumendo il discorso) la perfezione primitiva o umana assolutamente, e quindi la felicità naturale, e quindi la felicità temporale, è impossibile all’uomo dopo la corruzione. La ragione autrice di essa corruzione, avendo prevaluto per sempre, il miglior grado dell’uomo corrotto è la perfezione di essa ragione, che forma oggi la sua parte principale. La perfezion della ragione non può condurre se non alla felicità di un’altra vita. Quindi, e anche senza ciò, la perfezion della ragione e della cognizione, non stare senza la rivelazione. Dunque il migliore stato dell’uomo corrotto, è la Religione, e siccome è il migliore, cioè quello che più gli conviene, perciò, sebben suppone l’infelicità di questa vita, contiene però il maggior conforto, e quindi la maggior felicità, e quindi la maggior perfezione possibile dell’uomo in questa vita. Ecco come la Religione si accorda mirabilmente col mio sistema, e quasi ne riceve una nuova prova (pp- 403-6).

E continua col dire che la religione in profondo si accorda con la natura:


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Ed ecco che la Religione favorisce infinitamente la natura, come ho detto in parecchi altri luoghi, stabilisce moltissime di quelle qualità ch’eran proprie degli uomini antichi o più vicini alla natura, appaga la nostra immaginazione coll’idea dell’infinito, predica l’eroismo, dà vita, corpo, ragione e fondamento a mille di quelle illusioni che costituiscono lo stato di civiltà media, il più felice stato dell’uomo sociale e corrotto insanabilmente, stato dove si concede tanto alla natura, quanto è compatibile colla società. Osservate infatti che lo stato di un popolo Cristiano, è precisamente lo stato di un popolo mezzanamente civile. Vita, attività piaceri della vita domestica, eroismo, sacrifizi, amor Pubblico, fedeltà privata e pubblica degl’individui e delle nazioni, virtù pubbliche e private, importanza data alle cose, compassione e carità ec. ec. Tutte le illusioni che sublimavano gli antichi popoli, e sublimano il fanciullo e il giovane, acquistano vita e forza nel Cristianesimo (p. 407-8).

Le illusioni, aggiunge, sono vere solo se legate a una religione vera. È la ragione che deve persuadercene, e può farlo solo legandole ad una religione. Ma le illusioni garantite dalla religione «non sono vere se non rispetto a Dio e a un’altra vita» (pp. 412, 414, 410). «Dunque la perfezion della ragione — dichiara — […] consiste formalmente nella cognizione di un altro mondo. In questa cognizione dunque consiste la perfezione, e quindi la felicità dell’uomo corrotto. Dunque l’uomo corrotto non poteva esser perfezionato nè felicitato se non dalla rivelazione, ossia dalla Religione» (p. 410). È vero però che le «le Religioni antiche […] conferivano senza dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa fare il Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze naturali, fondate sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l’uomo più vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor parte davano alla ragione» (p. 422). Il fatto è che l’affermarsi della religione cristiana ebbe una ragione storica. Nella condizione di piena affermazione della ragione, non poteva avere successo una religione che non fosse, come è quella cristiana, «ammissibile dalla ragione, anzi prodotta in certo modo da essa, e molto più ragionevole delle antiche». In conclusione: «Del resto sebbene io dico che la civiltà media è il migliore stato dell’uomo corrotto e sociale, e che il Cristianesimo lo mette nè più nè meno in questo stato […] Ma oggidì non essendo più possibile tornare allo stato di civiltà antica, pel maggiore


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incremento della ragione, sostengo che il più felice possibile in questa vita, è lo stato di vero e puro Cristianesimo» (pp. 423ss). Il che non implica che la religione sia assolutamente necessaria nel processo della storia dell’uomo (dicembre 1820, p. 370). Così come, si è visto, aveva detto che non lo era in termini ontologici. Nell’agosto del 1821 osservava però che il dominio culturale esercitato nei secoli dal cristianesimo era stato «quasi un impero della filosofia, una superiorità generale acquistata nel mondo dalla ragione sulla natura» e che questo dominio è stato soppiantato al presente da un altro dominio: «Oggi questo smisurato colosso d’impero filosofico, è stato distrutto da quello di un’altra filosofia; nuovo impero conveniente al secolo che l’ha stabilito e prodotto» (p. 1460-1). Non si possono ignorare d’altra parte le riserve ben pesanti, in relazione alla funzione socio-culturale del cristianesimo, di alcuni pensieri del marzo e del settembre del 1820: E una delle gran cagioni del cangiamento nella natura del dolore antico messo col moderno, è il Cristianesimo, che ha solennemente dichiarata e stabilita e per così dire attivata la massima della certa infelicità e nullità della vita umana, laddove gli antichi come non doveano considerarla come cosa degna delle loro cure, se gli stessi Dei secondo la loro mitologia s’interessavano sì grandemente alle cose umane per se stesse (e non in relazione a un avvenire), erano animati dalle stesse passioni nostre, esercitavano particolarmente le nostre stesse arti (la musica, la poesia ec.), e in somma si occupavano intieramente delle stesse cose di cui noi ci occupiamo? Non è però ch’io consideri intieram. il cristianes. come cagion prima di questo cangiamento, potendo anzi esserne stato in parte prodotto esso stesso […] ma solamente come propagatore principale di tale rivoluzione del cuore (p. 105). […] inferite come […] il Cristianesimo debba aver reso l’uomo inattivo e ridottolo invece ad esser contemplativo, e per conseguenza com’egli sia favorevole al dispotismo, non per principio (perchè il cristianesimo nè loda la tirannia, nè vieta di combatterla, o di fuggirla, o d’impedirla), ma per conseguenza materiale, perchè se l’uomo considera questa terra come un esilio, e non ha cura se non di una patria situata nell’altro mondo, che gl’importa della tirannia? Ed i popoli abituati (massime il volgo) alla speranza di beni d’un’altra vita, divengono inetti per questa, o se non altro, incapaci di quei grandi stimoli che producono le grandi azioni. Laonde si può dire generalmente anche astraendo dal dispotismo, che il cristianesimo


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ha contribuito non poco a distruggere il bello il grande il vivo il vario di questo mondo, riducendo gli uomini dall’operare al pensare e al pregare, o vero all’operar solamente cose dirette alla propria santificazione ec. sopra la quale specie di uomini è impossibile che non sorga immediatamente un padrone. […]. In secondo luogo, parendo che il cristianesimo faccia consistere la perfezione piuttosto nell’oscurità nel silenzio, e in somma nella totale dimenticanza di quanto appartiene a questo esilio, […] è certo che lo spirito del Cristianesimo in genere portando gli uomini, come ho detto, alla noncuranza di questa terra, se essi sono conseguenti, debbono tendere necessariamente ad essere inattivi in tutto ciò che spetta a questa vita, e così il mondo divenir monotono e morto. Paragonate ora queste conseguenze, a quelle della religione antica, secondo cui questa era la patria, e l’altro mondo l’esilio (p. 253).

In riferimento al medioevo asseriva, nel giugno del 1820, che la barbarie era resa ancora più «tenebrosa» dalla religione cristiana (pp. 1323). E sa anche che la religione cristiana può essere contraria alla natura, quando è vissuta in termini esclusivamente e rigidamente razionali (novembre 1820, p. 353). In una riflessione del luglio del 1821 avrebbe individuato addirittura la condizione di contraddizione tra cristianesimo e realtà umana. Egli lo dichiarava «incompatibile non solo coi progressi della civiltà, ma colla sussistenza del mondo e della vita umana». E continuava: Com’è possibile che duri quello che tien se stesso per un nulla ec. ec. e che anela al suo proprio discioglimento? L’uomo non doveva intendere dalla ragione che le cose non valessero a nulla, e fossero infelicissime. Egli era pur fatto per esse. Così dunque non doveva impararlo dalla Religione. L’averlo imparato distruggerebbe la vita, se l’uomo seguisse fedelmente e precisamente i dettami e lo spirito della Religione. […] Il mondo non può sussistere s’egli non ha se stesso per fine. Tutte le cose sono così disposte, che in quanto a se, non mirino ad altro che a se stesse. L’uomo solamente dovrebbe mirare non solo a tutt’altri che a se in questo mondo, ma ad un tutt’altro mondo, e considerarsi come fuori di questo. Come dunque potrebbe durare la specie e la vita umana, contro gl’insegnamenti e l’essenza della natura, e l’ordine generale e particolare di tutti gli altri esseri? (pp. 1426-27).

E ancora, nel settembre del 1821, sosteneva: «il Cristianesimo non ha trovato altro mezzo di corregger la vita che distruggerla, facendola riguardar


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come un nulla anzi un male, e indirizzando la mira dell’uomo perfetto, fuori di essa, ad un tipo di perfezione indipendente da lei, a cose di natura affatto diversa da quella delle cose nostre e dell’uomo» (pp. 1687-8. Cfr pp. 898900, 1685-7, 1824-5, 1882, 2384). Ma tutto ciò non inficia la forza delle sue convinzioni per quanto riguarda la verità reale della religione e della rivelazione all’interno del suo «sistema» assolutamente relativistico. Egli definisce il rapporto tra il suo pensiero e il Cristianesimo nelle stesse pagine del dicembre 1820: «Il mio sistema non si fonda sul Cristianesimo, ma si accorda con lui, sicchè tutto il fin qui detto suppone essenzialmente la verità reale del Cristianesimo: ma tolta questa supposizione il mio sistema resta intatto. Frattanto osserverò che il Cristianesimo legandosi col mio sistema può supplire a spiegare quella parte della natura delle cose che nel mio sistema resta intatta, ovvero oscura e difficile». Dirà poi in un pensiero del settembre del 1821: «Il mio sistema abbracciando e ammettendo quasi tutto il sist. dell’ateismo, negando tutti i sistemi ec. E pur facendone risaltare l’idea costante di Dio, religione, morale ec. mi par l’ultima e decisiva prova della religione; o se non altro che non può per ragioni essere dimostrata falsa quella rivelazione, che d’altronde avendo prove di fatto, si deve tenere per vera, perché il fatto nel mio sistema decide, e la ragione non se gli può mai opporre (p. 1643)». Leopardi operava così il più strenuo tentativo di integrare nel sistema che andava elaborando il valore conoscitivo ed etico ed il significato storico del cristianesimo e insieme di affermarne e preservarne quel ruolo di consolazione e rassicurazione che le riconosceva. Possiamo comprendere a questo punto le ragioni che lo inducevano a pensare un inno ai patriarchi. Egli ritiene, come si è detto, che il racconto biblico del peccato originale rispecchi proprio il tempo e il modo dell’opposizione tra natura e ragione. Mi sembra indubbio infatti che egli accogliesse in qualche modo l’impostazione data da Bossuet al problema della storia universale e delle epoche storiche. Ben lontane infatti sono le posizioni critiche e contestative dei sociniani, degli spinoziani e dei liberi pensatori sei-settecenteschi relativamente al valore storico e teologico delle scritture. Si può supporre però che Leopardi annettesse a quel racconto anche una valenza simbolica, se si ha in mente il futuro racconto della millenaria vicenda dell’uomo della Storia del genere umano, tutto svolto in termini metastorici e metafisici. Non è senza significato appunto che nel


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luglio del 1823 riconduca il racconto della «corruzione e decadenza del genere umano» non più soltanto alla Bibbia, ma alla generale testimonianza di una «remotissima, universale, costante e continua tradizione» (p. 2939). Anche la storia delle grandi figure veterotestamentarie può assumere quindi una grande rilevanza sul piano della significazione simbolica. Ma l’inno segnerà, come vedremo pure, uno spostamento nell’individuazione di quel tempo e di quel modo di cui si diceva, in direzione di quella che ho chiamato prima via dell’interpretazione della causa dell’alienazione dalla natura, senza che un tale spostamento metta in discussione la storicità e insieme la simbolicità della storia veterotestamentaria. Il sistema di pensiero che si è qui sintetizzato è a fondamento dell’impostazione dell’inno, che è tutto una riflessione, variata stanza per stanza, sulla separazione tra natura e civiltà, sull’esclusiva responsabilità dell’uomo in questo processo, sul dolore, l’infelicità e la degradazione che ne sono derivati, ma anche sulla proponibilità di modelli positivi. Nell’analisi del testo riferimento implicito per i contenuti di ordine concettuale sono i luoghi citati dello Zibaldone. °°°°° Il tema fondamentale dell’intero inno è la contrapposizione tra gli uomini del tempo presente e gli antichi padri, che, come si capirà sempre meglio a partire dalla seconda stanza, sono i patriarchi del Vecchio Testamento. Una contrapposizione che, sul terreno del pensiero, pone da una parte l’integrazione, dall’altra la dissociazione tra uomo e natura. E in questa si riconosce la contraddizione fondamentale della vita dell’uomo: la tensione alla felicità e l’azione che la rende impossibile. Sul terreno espressivo, si alternano nostalgica e accorata contemplazione di un tempo di serenità e pace e angosciata rappresentazione della tragicità dell’esistenza. Un che di corale però costituisce l’impianto dell’inno, di corale nel senso che il punto di vista è collettivo, e la forma ne deriva una sua unità nel segno della solennità e meditatività sapienziale. Che trovano anche i toni di un’alta e, nel senso più ampio, religiosa commozione che connota i momenti sia riflessivi che rappresentativi dell’inno. Caratteri pertinenti alla contemplazione di una realtà sentita e pensata come la ragione profonda della condizione umana, scommessa tra due possibilità, quella concretatasi


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nel corso della storia universale e quella affidata alla destinazione naturale. Una realtà come fuori del tempo e staccata da uno spazio concreto, una realtà ancestrale e archetipica. O, si potrebbe dire con lo stesso Leopardi, indeterminata. Assai indicativa una considerazione dell’agosto 1821, che mette in rapporto antichità e indeterminato, associando però a questa la categoria, assai affine, di «indefinito»: «L’antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il concepire che fa l’anima uno spazio di molti secoli, produce una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima si perde, e sebben sa che vi sono confini, non li discerne, e non sa quali sieno» (p. 1429). In questa prospettiva va tenuto nel dovuto conto come fatto culturale e ideale il costituirsi nella nostra letteratura di una linea di continuità nel senso della poesia di alta ispirazione religiosa, da Foscolo a Manzoni e Leopardi. Il tema è svolto in sei stanze di diversa misura. Chiamerò «sottotemi» tutte le articolazioni interne al tema fondamentale sopra definito. Nella successione delle stanze si possono distinguere due momenti, e quindi due parti. La prima, le prime due stanze, soprattutto concentrata sul sottotema della responsabilità dell’uomo nel processo storico che lo ha portato alla catastrofe, la seconda, le altre quattro, più attenta ad approfondire il tema generale, cioè il contrasto tra tempo primigenio e realtà della condizione umana delle epoche successive, realtà definita però anche in sé con insistenti variazioni, che definiscono il sottotema della deviazione. Il sistema dei versi risponde a una logica di discorso sintatticamente ampio e complesso, che si avvale di una quasi continua catena di spezzature. Ne deriva — adottando tipizzazioni tradizionali — un’andatura più tendente al discorso ampio e continuato della prosa che alla ritmica marcatura del discorso verseggiato. E l’insieme è tenuto da un insistente tessuto di polisindeti, che instaura un certo sentore di stile biblico. La scelta lessicale, caratterizzata da termini di derivazione dal latino e dalla tradizione letteraria italiana — gli «studiati e begli ed espressivi arcaismi» (Zibaldone, p. 1244, giugno 1821) —, in un siffatto contesto è funzionale alla determinazione di campi denotativi e connotativi che producono appunto l’atmosfera di extratemporalità. Secondo un rapporto quasi necessario, inversioni e iperbati, più o meno estesi, costituiscono il fondamento della struttura retorica dei versi. Che pure, a parte la loro riconosciuta funzione evidenziante. contribuiscono alla creazione di quell’atmosfera, in quanto essi


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stessi, sul piano della sintassi, sono della natura dei latinismi — e dei grecismi — e degli arcaismi. A questo insieme espressivo-formale sono funzionali le aperture con apostrofe di quattro stanze sul modello degli inni pseudo-omerici e callimachei9. Insomma il confluire e fondersi — e si pensi al riguardo alle osservazioni del settembre, ottobre, novembre 1823 (pp. 3405-9, 3738-41, 3866-7) — di forme appartenenti a modelli linguisticoletterari diversi, italiano, latino, greco, biblico, costituisce la specifica densità e polivalenza di significati dell’inno, la sua espressività. È opportuno ricordare qui il giudizio di Leopardi del giugno 1821 sulla lingua latina, anche se riferito alla sua precisione: «[…] la sottigliezza, e la squisita perfezione della lingua latina, che forse non ha l’eguale in simili prerogative e facoltà» (p. 1162). Assai più interessanti le osservazioni del 14 luglio e del 14 ottobre 1821: «Per noi italiani è grandissima fonte di eleganza l’uso di voci o modi latini, presi nuovamente da quella lingua, in modo che sieno pellegrini»; «Molte parole che in una lingua sono triviali e volgari, molte applicazioni o di parole o di frasi che in quel tal senso sono ordinarissime nella lingua da cui si prendono, riescono elegantissime e nobilissime ec. trasportandole in un’altra lingua, a causa del pellegrino. Questo è ciò che accade a noi spessissimo trasportando nell’italiano, voci o frasi latine» (pp. 1324, 1916. Vd. anche pp. 2639-40). Il discorso appunto va allargato alle idee di Leopardi sullo stile poetico in generale. Attenzione va rivolta anzitutto alle sue ben note considerazioni sugli effetti stilistici prodotti dal «pellegrino» del linguaggio. Coincidenti questi proprio con quelli prodotti dai latinismi — come è naturale, essendo questi stessi una forma del pellegrino —10. Suo effetto principale appunto — scriveva nell’ottobre 1821 — è l’«eleganza», un’eleganza che è «nobiltà» (pp. 1919-20). Ma già prima, nel luglio del 1821, aveva definito la natura del pellegrino in rapporto all’eleganza e, anche, all’irregolare: «[…] l’eleganza propriamente detta deriva sempre dal pellegrino e diviso dal comun favellare, il che per un verso o per un altro è sempre qualcosa d’irregolare, sia perché quella parola è forestiera, e quindi è, non dirò contro le regole, ma irregolare, o fuor delle regole l’usarla; sia 9

L. BLASUCCI, I tempi dei «Canti». Nuovi studi leopardiani, Torino 1996, 36. Sui latinismi e il peregrino nei versi dell’inno vd. G. BLASUCCI, I tempi dei «Canti», cit., 36-8. 10


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perché quel modo è nuovamente fabricato comunque si voglia ec.» (p. 1337). Più tardi, in riflessioni del giugno 1822, proprio alla vigilia della composizione dell’inno dunque, tornerà sul punto relativo al rapporto tra pellegrino, eleganza e purezza della lingua. Leggiamo una nuova definizione del pellegrino: «[…] non solo il pellegrino giova all’eleganza, ma questa non ne può fare a meno, e non viene da altro se non da un parlare ritirato alquanto (più o meno) all’uso ordinario, sia nelle parole, sia ne’ loro significati, sia ne’ loro accoppiamenti, nelle metafore, negli aggiunti, nelle frasi, nelle costruzioni, nella forma intera del discorso ec.» (pp. 2502-3). L’elegante alla fine coincide con la stessa «purità» della lingua, e ciò proprio per il suo essere pellegrino: «[…] fra noi, chi scrive con purità, scrive elegante, perché chi scrive italiano in Italia scrive pellegrino» (p. 2512). E avrebbe detto addirittura che «il poetico della lingua […] è quasi il medesimo che il pellegrino» (p. 2518). E si sarebbe anche interrogato sul concetto di purità linguistica e avrebbe concluso che «per lingua pura s’intenda come suo preciso sinonimo la lingua antica di una nazione, cioè quella lingua composta per la più parte di modi e voci venuti di fuori, che degli antichi fu parlata e scritta» (p. 2531). Non si può infine ignorare il giudizio, pure del giugno, sulla lingua italiana contemporanea: «povera, monotona, impotente, fredda, inefficace, smorta, inespressiva, impoetica, inarmonica ec. ec.» (p. 2517). È utile però ricordare altre considerazioni, parallele e concomitanti, del Leopardi relative all’idea di eleganza. Già nel luglio del 1821 egli riferiva a questa anche le categorie dell’indeterminatezza e dell’irregolarità: «Se attentamente riguarderemo in che soglia consistere l’eleganza delle parole, dei modi, delle forme, dello stile, vedremo quanto sovente anzi sempre ella consista nell’indeterminato […] o in qualcosa d’irregolare» (p. 1312). Su questa via si muoveva ancora il mese dopo: «Se osserveremo bene in che cosa consista l’eleganza delle scritture, l’eleganza di una parola, di un modo ec., vedremo ch’ella sempre consiste in un piccolo irregolare, o in un piccolo straordinario o nuovo, che non distrugge punto il regolare e il conveniente dello stile o della lingua, anzi gli dà risalto, e risalta esso stesso […]» (p. 1323. Vd. anche le pp. 1336-7, 1481, 1917-20). Importantissima però la definizione, del giugno 1821, della natura dell’indeterminato, riferito alla teoria generale delle idee elaborata dagli ideologi: «Quindi la secchezza che risulta dall’uso de’ termini, i quali ci destano


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un’idea quanto più si possa scompagnata, solitaria e circoscritta; laddove la bellezza del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni e nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto. Il che si ottiene colle parole proprie, ch’esprimono un’idea composta di molte parti, e legata con molte idee concomitanti» (pp. 1235-6). La sua poetica, è evidente, come già quella foscoliana, è fondata su una consapevole e matura idea della poesia come polisemia. La densità espressiva dell’inno — di questo componimento in particolare rispetto agli altri canti leopardiani — è certamente da spiegare in rapporto a queste convinzioni. La prima stanza, di ventuno versi, è tutta incentrata sul tema fondamentale. È organizzata secondo uno schema tripartito. Il primo sottotema (vv. 1-6) è quello della differenza tra i padri e i figli, subito supportato dall’assunto fondamentale, il secondo sottotema, che il destino di infelicità non è connaturato alla realtà dell’uomo (vv. 6-11). E segue subito dopo il terzo sottotema (vv. 11-21), sviluppo dell’assunto del secondo, quello della colpa e della responsabilità dell’uomo: E voi de’ figli dolorosi il canto, Voi dell’umana prole íncliti padri, Lodando ridirà; molto all’eterno Degli astri agitator piú cari, e molto Di noi men lacrimabili nell’alma Luce prodotti. Immedicati affanni Al misero mortal, nascere al pianto, E dell’etereo lume assai piú dolci Sortir l’opaca tomba e il fato estremo, Non la pietà, non la diritta impose Legge del cielo. E se di vostro antico Error che l’uman seme alla tiranna Possa de’ morbi e di sciagura offerse, Grido antico ragiona, altre piú dire Colpe de’ figli, e irrequieto ingegno, E demenza maggior l’offeso Olimpo N’armaro incontra, e la negletta mano Dell’altrice natura; onde la viva Fiamma n’increbbe, e detestato il parto


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Nicolò Mineo Fu del grembo materno, e violento Emerse il disperato Erebo in terra.

Un primo commento può fornire lo stesso Leopardi, con una sua considerazione dello Zibaldone, del novembre 1820: Nominando i nostri antenati, sogliamo dire, i buoni antichi, i nostri buoni antichi. Tutto il mondo ha opinione che gli antichi fossero migliori di noi, tanto i vecchi che perciò gli lodano, quanto i giovani che perciò li disprezzano. Il certo è che il mondo in questo non s’inganna: il certo è che, senza pero pensarvi, egli riconosce e confessa tutto giorno il suo deterioramento. E ciò non solamente con questa frase, in cento altri modi; e tuttavia neppur gli viene in pensiero di tornare indietro, anzi non crede onorevole se non l’andare sempre più avanti, e per una delle solite contraddizioni, si persuade e tiene per indubitato, che avanzando migliorerà, e non potrà migliorare se non avanzando; e stimerebbe di esser perduto retrocedendo (pp. 352-3).

In termini di immagini simboliche la contrapposizione è segnata dall’evocazione dell’«alma luce» dei vv. 5-6 e dall’inquietante emergenza delle tenebre dell’anima e della disperazione rappresentati dall’espressione «disperato Èrebo». I tre sottotemi sono sapientemente distribuiti secondo un rapporto che vede lo svolgimento dei primi due nella prima metà della stanza, ugualmente disposti in uno spazio di versi quasi identico, il terzo nella seconda metà, quindi con uno sviluppo più ampio e articolato. Più incalzanti però le sequenze dei versi dedicati a questo, risultandone così ampiamente mediata la drammaticità. Che culmina nell’immagine che conclude la stanza, tutta marcata dalla successione delle allitterazioni. Il primo verso contiene nuclei di significato assolutamente fondamentali. Definisce la posizione del soggetto poetante. Il poeta è la voce degli uomini e del loro dolore, e si confonde con l’umanità che nel «canto» esprime il proprio lutto. La coralità appunto che costituisce la tonalità dell’inno. E unitamente definisce la condizione attuale dell’uomo come sofferenza e dolore. Dolorosi, aggettivo caro a Leopardi, non è qui solo dolenti, ma anche «che producono dolore». Mi sembra si dia qui una polivalenza data dal convergere di un significato di base e di un significato di tipo metonimico. Lo confermerebbero certe significative occorrenze in


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testi di sicura suggestione sul poeta e che costituiscono certamente col verso leopardiano un autentico tessuto intertestuale. Ricordo i precedenti cesarottiani dei Canti di Ossian: «Voi d’Inisfela i dolorosi figli» del terzo canto del poemetto Fingal (v. 209); «Allor dei vati il doloroso canto / Circondava le tombe» del secondo canto del poemetto Temora (vv. 95-6). Ricordo Foscolo dell’Ortis: «il mio spirito doloroso sarà confortato da’ sospiri di quella celeste fanciulla» (P. II, lettera 19). Ricordo Monti del primo canto del Prometeo e del ventiduesimo libro della traduzione dell’Iliade: «E doloroso di lasciar l’antico / Dolce ricetto» (vv. 850-1); «Questi preghi di lagrime interrotti / Porgono al figlio i dolorosi». Può essere invece una curiosità che nello stesso anno dell’Inno ai Patriarchi Manzoni, in tutt’altra temperie culturale e sentimentale, scrivesse nella Pentecoste: «voi già vicine a sciogliere / il grembo doloroso» (vv. 60-1). A partire da dolorosi sull’asse della selezione si colloca l’isotopia lacrimabili, immedicati affanni, pianto. La linea si protende nelle altre stanze: macere cure, disperato pentimento, egro, anelante, imbelli umane vite, seguaci ambasce, la sciagura e il pianto, affanni suoi, pallida cura, peregrino affanno. Sul piano del pensiero, un dato di forte significato è contenuto nel terzo sottotema, quello dedicato al peccato originale. Sembra che il poeta ne voglia limitare di molto la portata epocale, come già nell’abbozzo in prosa11: «E se di vostro antico / Error che l’uman seme alla tiranna / Possa de’ morbi e di sciagura offerse, / Grido antico ragiona, altre piú dire / Colpe de’ figli, e irrequieto ingegno, / E demenza maggior […]». L’errore, stando ai versi, ha l’effetto di consegnare il genere umano alla malattia, al dolore, alla sventura. Ma non alla disperazione, come è spiegato nello stesso abbozzo in prosa: «E sebbene la fama ricorda un antico nostro fallo cagione delle nostre calamità, pur la clemenza divina non vi tolse che la vita non fosse un bene». Ma egli aveva anche sostenuto con insistenza, come si è detto, che il peccato originale dell’uomo era consistito in un atto di superbia, nell’aver voluto un livello di scienza e conoscenza che Dio non gli aveva destinato per il suo stesso bene, e quindi nell’aver alterato il rapporto tra natura e ragione a tutto scapito della prima. Si deve pensare dunque che 11 G. Leopardi, Tutte le opere, I, cit., 429-33. Sul tempo di composizione di questo rispetto ai versi penso abbia ragione M. Santagata, che ritiene non siano strettamente contigui (Quella celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, Bologna 1994, 36-7).


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egli non parli nei versi di quest’aspetto della colpa per più ragioni. Intanto perché non avrebbe potuto presentarla come un fatto meno grave rispetto ad altre colpe dell’uomo. Un secondo, forse più importante, motivo credo si possa riconoscere in base ad un altro passo di luoghi dello Zibaldone dello stesso dicembre 1820 a cui appartengono le asserzioni or ora ricordate: Ed è ben conforme alla ragione e ben verisimile il supporre che Dio volendo manifestare la sua misericordia e tutta la sua gloria alla terra, e avendo scelto di farlo, com’era naturale, nella più nobile delle creature terrestri, abbia voluto assoggettarla ad una prova, e permettere la sua corruzione e infelicità temporale, la quale ha dato luogo a tutta quella manifestazion di Dio, ch’è seguita dall’incremento della ragione umana, alla Redenzione ec. Manifestazione che non avrebbe avuto luogo se l’uomo avesse conservato il suo grado e felicità naturale, ancorchè più perfetto, relativamente alla sua natura. Questa supposizione è conforme non solo alla ragione, ma espressamente al Cristianesimo, il quale insegna (e non può altrimenti) che Dio permise il peccato dell’uomo per sua maggior gloria. Ora, secondo lo stesso Cristianesimo, era certam. meglio che l’uomo non peccasse: ed egli sarebbe rimasto più perfetto e più buono non peccando, e non corrompendosi, e questo gli era destinato primordialmente. Eppure Iddio permise che peccasse. Dunque, secondo lo stesso Cristianesimo, Dio permise un effettivo male, per un bene: permise una cosa contraria alla destinazione dell’uomo. Dunque questa destinazione era meno atta alla gloria di Dio, secondo i suoi misteriosi giudizi. Altrimenti Dio avrebbe permesso un male (e sommo male qual è il peccato) senza motivo: avrebbe lasciato violare e guastare l’ordine da lui stabilito senza motivo; e non avrebbe fatto il meglio ma il peggio (pp. 419-20).

Se per Leopardi all’origine vera origine del peccato originale è in qualche modo la volontà divina, abbiamo acquisito una seconda ragione della sua scelta nei versi della stanza dedicati all’argomento. L’orientamento generale del suo pensiero nella stanza e nell’intero inno mira a stabilire la responsabilità dell’uomo — nel senso che vedremo — nella determinazione del suo destino. Questo sarebbe stato fortemente contraddetto dalla scelta di una rappresentazione più complessa e radicale della natura e degli effetti del peccato originale. Il poeta perciò vuole assegnare al delitto di Caino un maggior peso nella determinazione del destino del genere umano, perché


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così può confermare, e confermarsi, la sua idea della responsabilità dell’uomo in tale determinazione. Cercheremo di capire alla fine la ragione profonda di un tale orientamento di pensiero. La seconda stanza, la più lunga del componimento, constando di trentacinque versi, incentrata sulla figura del capostipite, Adamo, sviluppa ampiamente il sottotema della colpa dell’uomo, il delitto di Caino, assunto a designare simbolicamente il distacco dell’uomo dalla natura. E propone perciò in una forma più concretamente specificata la stessa tematica della prima stanza. Ma anch’essa è costruita su un’opposizione, quella tra l’innocenza e la pace primitive e la disperazione e l’angoscia e la degradazione susseguenti al delitto. Opposizione frontalmente marcata dall’immediato succedersi di due periodi esclamativi: Tu primo il giorno, e le purpuree faci Delle rotanti sfere, e la novella Prole de’ campi, o duce antico e padre Dell’umana famiglia, e tu l’errante Per li giovani prati aura contempli: Quando le rupi e le deserte valli precipite l’alpina onda fería D’inudito fragor; quando gli ameni Futuri seggi di lodate genti E di cittadi romorose, ignota Pace regnava; e gl’inarati colli Solo e muto ascendea l’aprico raggio Di Febo e l’aurea luna. Oh fortunata, Di colpe ignara e di lugúbri eventi, Erma terrena sede! Oh quanto affanno Al gener tuo, padre infelice, e quale D’amarissimi casi ordine immenso Preparano i destini! Ecco di sangue Gli avari cólti e di fraterno scempio Furor novello incesta, e le nefande Ali di morte il divo etere impara. Trepido errante il fratricida, e l’ombre Solitarie fuggendo e la secreta Nelle profonde selve ira de’ vènti, Primo i civili tetti, albergo e regno


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Nicolò Mineo Alle macere cure, innalza; e primo Il disperato pentimento i ciechi Mortali egro, anelante, aduna e stringe Ne’ consorti ricetti: onde negata L’improba mano al curvo aratro, e vili Fur gli agresti sudori; ozio le soglie Scellerate occupò; ne’ corpi inerti Domo il vigor natío, languide, ignave Giacquer le menti; e servitù le imbelli Umane vite, ultimo danno, accolse.

In quattordici versi e mezzo si svolge il sottotema dell’innocenza e della pace primitive. La conclusione esclamativa si ripete in una susseguente nuova sequenza esclamativa, con cui si apre la seconda parte della stanza, di venti versi e mezzo, tutta dedicata alla colpa di Caino. Ma è possibile coglierne una tripartizione: il preannuncio esclamativo della futura infelicità del genere umano, in una successione di un emistichio, due versi interi e un emistichio conclusivo; la registrazione in tre versi e mezzo dell’atto decisivo, il fratricidio; la descrizione, in quattordici versi degli atti determinati, anzi necessitati, dalla colpa. Ancora una distribuzione equilibrata nelle sue grandi componenti dunque. Di forte suggestione l’incantata contemplazione della prima parte, in cui si esprime quel sogno edenico che negli anni giovanili il poeta si era illuso di poter riferire a un tempo reale. Il sogno di una condizione in qualche modo anteriore all’inizio della vera storia dell’uomo. E l’evocazione di un tale stato è ottenuta attraverso un succedersi sintatticamente rallentato dei versi e da una rappresentazione fatta esclusivamente di immagini. Immagini però non viste, ma pensate. Immagini cioè frutto di un’astrazione concettuale, e si pensi soprattutto a quella del regno universale della «pace». Si potrebbe dire che sia una delle forme possibili della poetica dell’indeterminato e dell’indefinito. Secondo lo stesso procedimento della prima stanza, la seconda parte, preparata in questo senso dal succedersi delle due strutture esclamative, si svolge nelle forme di una rappresentazione assai più mossa e incalzante. Si rivela una realtà di errore, dolore e decadenza, che il poeta vede e vive nei termini di una sofferta contemplazione. Ne è segno il fronteggiarsi e intrecciarsi di due linee isotopiche,


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costituite da una parte dalla serie di parole chiave di contenuto semantico tragico-catastrofico — amarissimi casi, sangue, fraterno scempio, furor, nefande, morte, fratricida, ombre, ira, improba mano, vili, ozio, scellerate, servitù, danno —, dall’altra da quella di significato patetico-luttuoso — affanno, infelice, amarissimi, trepido, macere cure, disperato, ciechi, egro, anelante, inerti, languide, ignave, imbelli —. Non deve sfuggire la posizione di rilievo, all’inizio del verso e in un verso non spezzato, di «trepido», l’aggettivo che definisce la condizione di colui che ha rotto l’equilibrio e la legge voluti dalla natura. Sul piano del pensiero, Leopardi segue la sua teoria — sopra riassunta — sull’origine della società e i suoi effetti sulla condizione umana. Bisogna aggiungere, come già avvertito sopra, qualche osservazione sul quadro che conclude la rappresentazione della degradazione dell’uomo. In alcune pagine dello Zibaldone sui «governi», del gennaio del 1821 (pp. 543ss), il poeta, in contrasto con Rousseau, affermava che, una volta costituitasi la società e avvenuta la rottura con la natura, l’unico esito possibile sul piano istituzionale era la monarchia assoluta, la sola forma di governo atta a garantire il fine del bene universale. La repubblica è certo il miglior sistema, ma può esistere solo finché rimane nel popolo un minimo «di natura». Avviene però, è detto nello svolgimento ulteriore del tema, che il monarca assoluto non abbia più le qualità per assolvere a un tal compito, cosa inevitabile col procedere della «depravazione», e allora gli uomini sono condannati all’infelicità: Se il principe non è tale, siamo da capo. Siccome egli è divenuto l’anima e la testa, e in somma la forza movente della società, anzi si può dire che la forza attiva e negativa della società sia tutta riposta e rinchiusa in lui; così quanto egli non mira al ben comune (o per difetto di giudizio, o di volontà), tanto la società manca di nuovo della sua ragione, si allontana dal suo fine, e diventa di nuovo inutile e dannosa. E tanto più dannosa, quanto maggiori sono i mali che derivano dalla servitù, dall’esser tutti destinati al bene di un solo, dall’impiegare le loro forze non più pel loro bene, nè pubblico, nè pure individuale, ma per li capricci, e le soddisfazioni di un solo, il quale può anche volere, e spesso vuole il danno comune, e così tutti sono obbligati non solo a non proccurare il loro bene, ma il loro male. In somma tutte le calamità che derivano dalla tirannia, stato direttamente contrario alla natura di tutti i viventi d’ogni specie, e quindi certa sorgente d’infelicità. Così la


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Nicolò Mineo società diviene un male infinito, diviene formalmente l’infelicità degli uomini che la compongono: infelicità maggiore o minore, in proporzione che il principe, il quale viene a racchiudere in se stesso la società, si allontana per qualunque motivo dal di lei fine, ch’è divenuto in diritto e in dovere il suo proprio fine (pp. 551-2).

Sembra di poter leggere nei versi un riferimento a questa condizione. Basterà tener conto dell’adozione di un termine come «servitù». Le successive forme di governo avranno sempre esito nefasto per l’uomo a causa del progressivo allontanamento dalla natura. Così il poeta indicava l’estremo di male in cui l’uomo è caduto dopo il suo distacco da questa. Il tempo presente — afferma nel febbraio del 1821 — «è propriamente barbarie, o vicino alla barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società dominata dall’egoismo individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie» (p. 674). Le quattro stanze successive, tutte più brevi rispetto alle prime due, per la consistenza tematica possono essere considerate, come già detto, la seconda parte dell’inno. Sviluppano infatti unitariamente il tema generale, il contrasto tra condizione primigenia e condizione nella società, dando anche grande rilievo autonomamente sia al sottotema della deviazione del genere umano come a quello della condizione primigenia. E costituiscono un blocco estremamente bilanciato, in cui la prima e la quarta, in un rapporto chiastico nel gioco dell’opposizione generale passato/presente, natura/società, sono funzionali allo svolgimento di motivi riconducibili al primo termine dell’opposizione e la seconda e la terza al secondo. L’equilibrio è dato anche dalla distribuzione chiastica delle stanze dal punto di vista della loro misura, essendo la prima e la quarta di quattordici versi, la seconda e la terza di sedici e diciassette. La prima stanza però ha anche una funzione di passaggio dalla prima parte alla seconda, in quanto mantiene il riferimento a uno svolgimento storico, come la seconda stanza della prima parte dell’inno. E l’ultima ha anche funzione di conclusione e chiusura dell’intero inno. La prima stanza di questa seconda parte, terza dell’inno, di quattordici versi, è dedicata ai sottotemi, che appaiono in successione, del diluvio universale e del ritorno alla vita, che, nel contesto dell’inno, diventano i sottotemi della punizione della colpa primigenia del genere


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umano, della possibilità di un suo ritorno alle origini e della sua quasi coatta ricaduta nell’errore e nell’autodistruzione. È la seconda grande epoca della storia dell’uomo. Una successione tematica che si struttura ancora come opposizione, in questo caso tra una potenzialità di rigenerazione e la ripetizione del tradimento della destinazione naturale. Per questo esiste tra i due tempi un legame organico che ne fa un blocco fortemente unitario: E tu dall’etra infesto e dal mugghiante Su i nubiferi gioghi equoreo flutto Scampi l’iniquo germe, o tu cui prima Dall’aer cieco e da’ natanti poggi Segno arrecò d’instaurata spene La candida colomba, e delle antiche Nubi l’occiduo Sol naufrago uscendo, L’atro polo di vaga iri dipinse. Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi Studi rinnova e le seguaci ambasce La riparata gente. Agl’inaccessi Regni del mar vendicatore illude Profana destra, e la sciagura e il pianto A novi liti e nove stelle insegna.

Il primo sottotema occupa otto versi, il secondo sei. Si modifica perciò, per una sorta di riequilibrio chiastico, lo schema delle prime due stanze, in quanto ha più spazio lo svolgimento dell’argomento della prima metà. Ma è differenza di modesta dimensione. In effetti la stanza è caratterizzata dall’armonica corrispondenza delle sue parti, rispondente alla sua strutturazione come contemplazione ormai più rassegnata rispetto a quella delle prime due stanze. È l’andatura a darne segno, caratterizzata da una presenza meno continua e da un carattere meno marcato, specie nella prima parte, delle spezzature dei versi e delle inversioni e degli iperbati e da una ridotta insistenza del legamento polisindetico. Le linee isotopiche nella prima parte si concentrano su parole chiave come spene, candida, Sol, vaga iri, cui è consegnata la funzione di alludere alla potenzialità di rinascita. Ma la speranza è strutturalmente contraddetta da un altro sintagma chiave, come iniquo germe. Il senso della seconda parte è chiaramente definito dalle parole chiave del penultimo verso: sciagura e pianto. I due termini


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erano già apparsi con funzione segnica di rilievo nella prima stanza, al verso 7 e al verso 13 rispettivamente. E costituiscono una catena significante di intensa espressività. La stanza successiva, quarta dell’inno, di sedici versi, consolidando l’impostazione della precedente, ruota intorno a un unico sottotema e vede un’armonica distribuzione dei versi, sette e mezzo dedicati all’evocazione di Abramo, otto e mezzo a quella di Giacobbe. Due medaglioni di profonda funzione simbolica. I due personaggi infatti rappresentano l’uno i valori pietà e giustizia, premiati dalla comunanza col divino, il secondo il valore amore, premiato più che dall’appagamento — di cui qui non si dice —, dalla sua stessa possibilità di esistere, di esser vissuto come sentimento immutabile e sovrano: Or te, padre de’ pii, te giusto e forte, E di tuo seme i generosi alunni Medita il petto mio. Dirò siccome Sedente, oscuro, in sul meriggio all’ombre Del riposato albergo, appo le molli Rive del gregge tuo nutrici e sedi, Te de’ celesti peregrini occulte Beâr l’eteree menti; e quale, o figlio Della saggia Rebecca, in su la sera, Presso al rustico pozzo e nella dolce Di pastori e di lieti ozî frequente Aranítica valle, amor ti punse Della vezzosa Labaníde: invitto Amor, ch’a lunghi esigli e lunghi affanni E di servaggio all’odiata soma Volenteroso il prode animo addisse.

La nostalgia del primigenio si volge al commosso e struggente idillismo delle rappresentazioni con cui si chiude il primo medaglione e si apre il secondo. Questi sono racchiusi, all’inizio e alla fine della stanza, da momenti a carattere più decisamente meditativo. Ancora una struttura — microstruttura in questo caso — chiastica. Una meditazione però è l’insieme della stanza, come annuncia quel medita del terzo verso. Una meditazione che si colora di tonalità ed espressività più intime di quanto non avvenga nel


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resto del componimento. Non è caso che il poeta si proponga ora in prima persona come autore. E l’idillismo ne è la connotazione più propria. Domina di conseguenza una catena isotopica unica, fatta di parole tutte riferibili a valori: pii, giusto, forte, generosi, celesti, eterei, saggia, dolce, invitto, prode. E non è caso ancora che l’impianto stilistico, metrico-retorico, sia omogeneo a quello della stanza precedente. Bisogna soffermarsi però su un aspetto, di non lieve momento, del contenuto di pensiero di questi versi. Potrebbe apparire contraddittorio che Leopardi riconoscesse ancora un tempo edenico in un’epoca successiva sia alla colpa di Caino come al ritorno all’errore dopo il diluvio12. Ma già Barberi Squarotti spiegava, e la spiegazione mi trova concorde, che Abramo e Giacobbe sono esempi della possibile prosecuzione, anche dopo la colpa, di una vita autentica13. Posizione del resto ampiamente svolta dal Leopardi nelle importanti pagine di storia delle istituzioni, sempre dello Zibaldone, del gennaio del 1821 (pp. 543ss). Altro su ciò dirò alla fine. La quinta stanza, terza della seconda parte, di diciassette versi, è la più distesa e commossa celebrazione del tempo originario e della condizione primigenia, evocata come un’età dell’oro non mitica e favolosa, ma reale e storica. La particolarità della stanza è data proprio dalla sua impostazione ancor più decisamente monotematica rispetto alle due precedenti: Fu certo, fu (né d’error vano e d’ombra L’aonio canto e della fama il grido Pasce l’avida plebe) amica un tempo Al sangue nostro e dilettosa e cara Questa misera piaggia, ed aurea córse Nostra caduca età. Non che di latte Onda rigasse intemerata il fianco Delle balze materne, o con le greggi Mista la tigre ai consueti ovili Né guidasse per gioco i lupi al fonte Il pastorel; ma di suo fato ignara E degli affanni suoi, vòta d’affanno Visse l’umana stirpe; alle secrete 12 13

Così M. SANTAGATA, Quella celeste naturalezza, cit., 40-1. Ibid., 21.


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Nicolò Mineo Leggi del cielo e di natura indutto Valse l’ameno error, le fraudi, il molle Prístino velo; e di sperar contenta Nostra placida nave in porto ascese.

Malinconia e nostalgia e insieme sollievo, consolazione e rassicurazione sono le componenti tonali ed espressive dei versi. L’apertura ne è tratto simbolicamente definitorio. La ripetizione di «fu», rinforzato da «certo», comunica sia la certezza rassicurante che una certa condizione abbia avuto una sua realtà nella storia dell’uomo come la delusione che questa stessa realtà sia un di un tempo perduto. E un suo forte significato ha anche la conclusione. La morte è vista come un’ascesa che si realizza al culmine di un tempo umano fatto di speranza, appagamento («contenta») e pacificazione («placida»). Non è illegittimo vedere una profonda polivalenza nell’espressione, l’allusione cioè sia alla serenità di una vita sintonizzata alla legge di natura sia alla fiduciosa attesa di una persistenza oltremondana14. La catena isotopica che percorre dominante da un capo all’altro la stanza è assolutamente omogenea alle ricordate espressioni chiave: amica, dilettosa, cara, aurea, ameno error, molle. La malinconia trova il suo luogo nel pietoso e turbato affiorare del ricordo realistico della situazione presente: misera piaggia, nostra caduca età. Di forte densità semantica, ancora, con l’accentuazione e l’evidenziazione della ripetizione, è la definizione della condizione nelle prime età, in cui la realtà effettiva dell’essenza umana è negata per il prevalere dell’ignoranza naturale: «di suo fato ignara / E degli affanni suoi, vòta d’affanno». Il carattere di meditazione commossa e pietosa è reso anche dall’onda lunga dello scorrere dei versi, spezzato, ma insieme fluente perché fatto di costrutti stilistico-sintattici continui, come dall’evidenziazione dei significanti data dall’arditezza e insistenza degli iperbati. Nell’ultima stanza, quarta della seconda parte, di quattordici versi, cambia ancora l’impostazione. Si riproduce quella della terza, in quanto ripropone la forma oppositiva, l’opposizione passato/presente cioè. Infatti è costruita secondo un sistema oppositivo che ripresenta, in obbedienza alla legge dell’equivalenza, il paradigma in riferimento a cui, come si è visto, si 14

Cfr in proposito G. BARBERI SQUAROTTI, L’inno ai Patriarchi, cit., 13.


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organizza l’intero inno. Così l’ultima stanza ripete l’impostazione delle prime due. Ancora lo schema chiastico. Ritorna anche il procedimento adottato nella seconda stanza, l’espressione esclamativa al centro, che separa i due sottotemi, la vita secondo natura e la colpa dell’uomo civilizzato. La prima però non viene più riconosciuta nel mondo dei patriarchi, ma nella realtà contemporanea della vita delle popolazioni primitive: Tal fra le vaste californie selve Nasce beata prole, a cui non sugge Pallida cura il petto, a cui le membra Fera tabe non doma; e vitto il bosco, Nidi l’íntima rupe, onde ministra L’irrigua valle, inopinato il giorno Dell’atra morte incombe. Oh contra il nostro Scellerato ardimento inermi regni Della saggia natura! I lidi e gli antri E le quiete selve apre l’invitto Nostro furor; le violate genti Al peregrino affanno, agl’ignorati Desiri edúca; e la fugace, ignuda Felicità per l’imo Sole incalza.

Il primo sottotema è collegato esplicitamente — in quanto sintatticamente seconda parte di un paragone — alla stanza precedente. E ne mantiene la linea tematica e l’impostazione formale nel sistema e nei rapporti delle isotopie. L’esclamazione riporta alla cruda realtà del mondo presente. La constatazione dell’impotenza della natura si propone emblematicamente nei toni di quell’alta e religiosa commozione che, come si è detto, sottende l’inno. Che travalicano nei versi conclusivi. La colpa dell’uomo — «scellerato ardimento», «nostro furor» — investe tutto l’universo, rendendo universale l’«affanno», quella condizione da cui nell’età aurea — mi riferisco alla stanza precedente — la natura aveva voluto preservare i suoi figli. E impedisce, per l’assurda contraddizione che ha segnato la storia degli uomini, la possibilità di realizzazione dell’unico desiderio naturale che essi possano nutrire: la «felicità». La parola risuona all’inizio dell’ultimo verso dell’inno. Ed ha la forza di un grido e di un pianto. Ma anche di una nostalgia e di un appello.


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Riconosco un densissimo valore semantico nel termine. Proprio in funzione del senso dell’inno. La felicità appunto, cioè un vivere secondo natura, è l’esplicito vagheggiamento e la segreta proposta del componimento. La dolente riflessione sull’errore dell’uomo contiene una finalità implicita, una, sia pure inconsapevole, invocazione: l’auspicio di un ritorno palingenetico. In ciò la funzionalità delle dimostrazioni della non irreversibilità del processo di deviazione che il poeta aveva già abbondantemente dato nei versi, dall’allusione alla possibilità di riscatto dopo il diluvio alla proposta esemplare di Abramo e Giacobbe, che vivono secondo natura anche dopo la ripetizione della colpa. Ma l’idea della non irreversibilità poteva esser fondata solo sul presupposto che la responsabilità della deviazione fosse dell’uomo e non di una forza o di una legge genetica superiore o invincibile. In qualcosa di più di un’«ammonizione»15 riconoscerei perciò il senso profondo dell’inno. Quando poi Leopardi maturerà la teoria della neutralità della natura nei confronti dell’uomo, sulla via di una proposta positiva potrà solo auspicare l’alleanza degli uomini contro la natura. E in ciò si può riconoscere la religiosità profonda del componimento. In senso naturalmente non confessionale. Religiosità infatti che è anche politicità profonda. Una sostanza spirituale che si esprime come intensamente commossa ma padroneggiata e ferma contemplazione. E l’equilibrio compositivo dell’inno, di cui è segno ricorrente il chiasmo, macrostrutturale e microstrutturale, e la costanza quasi rituale della ripetizione ne sono la forma.

15 Ibid., 32. La sua interpretazione complessiva in quest’ambito è senz’altro da condividere.


RIVISITAZIONI BIBLICHE E PRATICA TIPOLOGICA NELLA LETTERATURA VITTORIANA

GEMMA PERSICO*

L’influsso determinante e pervasivo della Bibbia sulla lingua e sulla letteratura inglesi è stato nel corso dei secoli fecondo di esiti straordinari. Per citare solo alcuni dei casi più eclatanti, si pensi ad esempio alla ricca tradizione del teatro inglese medievale, alla poesia metafisica di Herbert e di Donne, all’epica religiosa del Paradise Lost e del Samson Agonistes di Milton, al viaggio allegorico del Pilgrim’s Progress di Bunyan, o ancora ai cosiddetti “Prophetic Books”, apocalittici e visionari, di Blake, ai monologhi drammatici di Browning o ai versi dei fratelli Rossetti. Un ruolo fondamentale per il radicamento e lo sviluppo di quest’influsso vitale sulla lingua e sulla letteratura inglesi è stato ovviamente giocato in primo luogo dalle numerose traduzioni del dettato vetero e nuovo testamentario susseguitesi in Inghilterra a partire dalla prima versione completa dal latino a opera di Wyclif e dei suoi seguaci lollardi intorno alla fine del ’3001, fino alla

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Docente di Letteratura inglese presso l’Università di Catania. Più esattamente, tra il 1390 e il 1407. Tra le principali traduzioni che seguirono quella di Wyclif fino all’inizio del ’600, vanno ricordate almeno quelle cinquecentesche di Tyndale (ca. 1523-35, dal greco) e di Coverdale (1535), a cui si aggiunsero la Matthew’s Bible (pubblicata nel 1537 e la prima ad essere ufficialmente autorizzata), la Taverner’s Bible e la Great Bible o Crammer’s Bible (quest’ultima pubblicata nel 1539 e realizzata sotto la supervisione di Coverdale). E poi ancora la Geneva Bible o Breeches’ Bible (pubblicata nel 1560), d’ispirazione calvinista e con commenti marginali graditi ai Puritani, così chiamata in allusione alla versione del Genesi “They sewed fig leaves together, and made themselves breeches”); la Bishops’ Bible (1568), nata con l’intento di contrastare appunto la popolarità della Bibbia di Ginevra; e infine la Douai and Rheims Bible, di parte cattolica e pubblicata tra il 1582 e il 1610 a opera di esuli britannici. 1


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secentesca King James’Authorized Version2 e alla tardo-ottocentesca Revised Version3, per finire con la recente New English Bible, una nuova traduzione in inglese moderno frutto del lavoro congiunto di una commissione di tutte le chiese delle British Isles, a eccezione di quella cattolica4. Di queste traduzioni — e delle molte altre di cui ho taciuto — non è certo compito mio dar conto in questa sede, così come non è compito mio ripercorrere la storia delle complesse vicende e dei delicati problemi filologico-interpretativi, dottrinari e d’altro genere che esse hanno posto nelle diverse epoche5. Tuttavia, vorrei sottolineare come, oltre a consentire un accesso più immediato e diretto al Verbo divino, proprio queste traduzioni e in particolare la King James’ Bible siano state per secoli “il” testo per eccellenza — quando non addirittura l’unico testo — alla base dell’istruzione, non solo religiosa, di larghe fasce della popolazione inglese, e come queste traduzioni abbiano influenzato la qualità del linguaggio letterario, fornendo altresì uno straordinario patrimonio di storie e di modelli narrativi universalmente condivisi a cui i singoli autori potevano attingere e riferirsi nella certezza che le loro rivisitazioni, i loro riferimenti, o anche semplicemente le loro allusioni non sarebbero andati perduti per il loro pubblico. Questo è particolarmente vero in ambito vittoriano, un periodo in cui l’evangelicalismo in senso lato (non solo dunque quello degli Anglican, o Church, Evangelicals, ma più in generale quello dell’ampio spettro di sette dissidenti capeggiate dai wesleyani), sembra aver dettato il tono morale e culturale della vita della nazione. Se come influsso speci2 Pubblicata nel 1611, la King James’ Bible è costituita in buona sostanza dalla collazione della traduzione di Tyndale e di parti della versione di Wyclif e gode ancora oggi di ampia circolazione. 3 Oggetto di numerose critiche per quelle che furono ritenute modifiche non del tutto giustificate alle versioni già note di passi del Nuovo Testamento e seguita da numerose versioni di minore importanza, la Revised Version fu pubblicata nel 1881 (NT) e nel 1885 (AT). 4 La commissione, istituita nel 1947, concluse i lavori nel 1970 con la pubblicazione del Vecchio Testamento. La traduzione modernizzata del Nuovo Testamento era stata invece edita nel 1961. 5 La bibliografia al riguardo è — ovviamente — sterminata. Per un’informazione rapida ed essenziale sulle principali traduzioni inglesi della Bibbia può tuttavia essere utile consultare l’agile volumetto pubblicato per conto del British Council: D. COGGAN, The English Bible, Longmans, Harlow 1968.


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ficamente religioso l’evangelicalismo, con i suoi costanti richiami alla verità ‘letterale’ delle Scritture, ebbe un ruolo di grande importanza tra la fine degli anni ’90 del ’700 e gli anni ’30 dell’800 — e dunque ‘prima’ dell’avvento del vittorianesimo —, fu infatti proprio durante il regno della regina Vittoria che esso assunse un ruolo centrale nella storia della cultura inglese, sia per il tono morale che conferì alla società fino all’ultimo quarto di secolo, sia per l’impulso fornito alla diffusione della lettura e, indirettamente, alla letteratura6. Se le letture degli evangelici in genere non andavano al di là dell’ambito didattico in senso religioso e devozionale, spingendosi al massimo fino ad opere sì letterarie, ma di contenuto marcatamente religioso come il Pilgrim’s Progress di Bunyan o il Paradise Lost di Milton, è pur vero che essi non solo erano lettori accaniti, ma si prodigavano anche in vari modi per allargare il pubblico dei lettori, al punto che la loro potrebbe quasi essere definita un’autentica ‘religione della stampa’, basata sulla Bibbia come parola infallibile di Dio. La comunione quotidiana con il Verbo Sacro era ritenuta necessaria per la salvezza, perché senza la sua ispirazione non sarebbe stato possibile ottenere la fede richiesta per la grazia divina. L’abilità di lettura era pertanto molto apprezzata e oggetto di particolare cura nelle attività educative degli evangelici, senza contare che il vasto mercato alimentato dalla loro costante richiesta di “tracts”, di opuscoli con i sermoni dei predicatori più famosi, e di altro ancora, incoraggiò lo

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Per una prima informazione sul ruolo dell’evangelicalismo, e più in generale della religione, nella società e nella cultura vittoriane, può essere utile consultare: R.D. ALTICK, Victorian People and Ideas. A companion for the modern reader of Victorian literature, New York-London 1973, in particolare i cc. V, “The evangelical temper”, e VI, “Religious movements and crises”; R.L. WOLFF, Gains and Losses. Novels of Faith and Doubt in Victorian England, New York 1977, che fornisce un’ampia rassegna di opere in cui trovano spazio figure e tematiche ascrivibili alle diverse confessioni, nonché una efficace sinossi delle dottrina e dei contrasti religiosi nell’Inghilterra vittoriana (in particolare nelle parti I, II, III); J.B. SCHNEEWIND, Backgrounds of English Victorian Literature, New York 1970; J.W. BURROW, Faith, doubt and unbelief, in L. Lerner ed., The Context of English Literature. The Victorians, London 1978, 153-73. Più ampi e specifici, gli ancora insuperati volumi: O. CHADWICK, The Victorian Church, London 1966, e A.R. VIDLER, The Church in an Age of Revolution: 1789 to the Present Day, vol. V di The Pelican History of the Church, Harmondsworth 1961.


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sviluppo di un’editoria a basso costo e di tecniche di distribuzione che rivoluzionarono il commercio librario vittoriano. Un altro effetto fondamentale di quella che Altick definisce la “bibliolatria” degli evangelici fu di influenzare profondamente la qualità della prosa vittoriana, giacché il contatto con il linguaggio biblico che era una consuetudine quotidiana nelle loro case (proprio le preghiere familiari e la lettura ad alta voce della Bibbia furono i principali contributi dell’evangelicalismo alla routine domestica dei vittoriani), riceveva un feed-back e un arricchimento costanti dalle citazioni bibliche che percorrevano come un filo rosso i sermoni nelle chiese e nelle cappelle, dalle lezioni delle Sunday Schools, dai servizi religiosi e di preghiera dei giorni feriali e dai cosiddetti “revival meetings”. Del linguaggio della religione — esso pure in buona misura mediato dalla Bibbia — era poi intriso il discorso anche a scuola, giacché non solo l’educazione popolare vittoriana si svolgeva per lo più sotto l’egida diretta di gruppi religiosi (sia dissidenti sia anglicani), ma persino la maggior parte delle scuole che provvedevano all’istruzione della borghesia e della gentry era in realtà assoggettata all’influenza della religione in quanto gli insegnanti erano in genere ecclesiastici. Sia in famiglia sia a scuola, i Vittoriani di ogni livello sociale erano dunque esposti e avvezzi al linguaggio e alla storia biblici dalla più tenera infanzia e in misura oggi quasi inconcepibile. Una conseguenza tutt’altro che trascurabile di questa familiarità con il linguaggio e il dettato biblici fu quella di offrire agli autori del tempo uno strumento straordinario per ottenere il massimo effetto sul loro pubblico impiegando una scrittura ridondante di espressioni e di stili tratti dalla Bibbia e densa di allusioni alle Sacre Scritture. E questo indipendentemente dalla (in)crollabilità della loro fede religiosa, come dimostra il fatto che vi fecero ampio ricorso anche scrittori secolari quali Carlyle e Ruskin, nonché gli innumerevoli propagandisti popolari di cause economiche e politiche. Retorica e ritmi modellati sulle Scritture furono insomma la base di molta prosa argomentativa vittoriana, proprio come figure, espedienti e modalità della letteratura classica lo erano stati dell’arte letteraria del 18° secolo. Ma con una differenza fondamentale: il ricorso alla retorica e ai ritmi delle Scritture metteva gli autori vittoriani in condizione di comunicare, in termini immediatamente accessibili e persuasivi, con un pubblico ricettivo di gran lunga più vasto di quello certamente più colto, ma anche più ristretto che, nel


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periodo augusteo, era in grado di recepire un discorso inquadrato in termini neo-classici. In aggiunta a un lessico letterario e argomentativo comune, la Bibbia forniva inoltre al vittoriano di ogni classe sociale la cosmogonia accettata, una parte considerevole della storia antica com’era all’epoca conosciuta, e — come già detto — le basi della morale7. In questo contesto, al di là delle divisioni, dottrinarie e d’altro genere, è interessante notare come la tipologia biblica — che George Landow definisce “a Christian form of biblical interpretation that proceeds on the assumption that God placed anticipations of Christ in the laws, events, and people of the Old Testament8” — rivesta un ruolo particolare e per molti aspetti ‘trasversale’. Questo perché sia la High Church (nota anche come High Anglicanism, Puseyism, Newmanism e Tractarianism) e la Low Church (che raggruppava gli Anglican Evangelicals), come pure la Broad Church (alla quale si applicò anche l’etichetta di Latitudinarian) e la galassia della Dissidenza, mostrano tutte una straordinaria convergenza nell’atteggiamento verso la Bibbia, e in particolare nel ricorso all’esegesi tipologica9. 7

Cfr R.D. ALTICK, cit., 190-3. G.P. LANDOW, Victorian Types Victorian Shadows. Biblical Typology in Victorian Literature, Art, and Thought, Boston, London, and Henley 1980, 3. 9 Pur senza alcuna pretesa di addentrarmi nelle straordinarie complessità — e non di rado raffinate sottigliezze — dell’esegesi tipologica, ritengo utile richiamare qui la definizione e la classificazione dei tipi biblici contenute in quello che era uno dei principali testi base per gli studenti di teologia nell’Inghilterra vittoriana: T.H. HORNE, An Introduction to the Critical Study and Knowledge of the Holy Scriptures, 4 voll., London 18347. Per Horne: «A type, in its primary and literal meaning, simply denotes a rough draught, or less accurate model, from which a more perfect image is made; but, in the sacred or theological sense of the term, a type may be defined to be a symbol of something future and distant, or an example prepared and evidently designed by God to prefigure that future thing. What is thus prefigured is called the antitype». Egli inoltre distingue i tipi biblici in storici, legali e profetici, che definisce in questi termini. I tipi storici, quali quelli costituiti da Mosè, Davide, Sansone e Melchisedec, «are the characters, actions, and fortunes of some eminent persons recorded in the Old Testament, so ordered by Divine Providence as to be exact prefigurations of the characters, actions, and fortunes of future persons which should arise under the Gospel dispensation». I tipi legali (noti anche come rituali, cerimoniali e Levitici) sono quelli contenuti nella legge mosaica dell’osservanza rituale — a sua volta «typical of the Messiah and the Gospel blessings» — e «the entire constitution, and offerings of the Levitical priesthood, typically prefigured Christ the great high priest (Heb. V. VII. VIII.); and especially the ceremonies observed on the great day of atonement (Lec. XVI. with Heb. IX. throughout, and X. 1-22.) So, the passover and the paschal lamb typified the sacrifice of Jesus Christ 8


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Sicché, paradossalmente, non solo l’elaborata interpretazione tipologica di High Churchmen come Keble e Newman (teologo e raffinato scrittore, poi convertitosi al cattolicesimo) non differisce molto da quella dell’evangelico Melvill, ma persino un Broad Churchman come il sacerdote e romanziere Charles Kingsley — sostenitore insieme al critico e scrittore Matthew Arnold10 e a F.D. Maurice dell’umanità di Cristo e di una interpretazione della Bibbia come testo ispirato sì da Dio, ma in modo alquanto libero e figurativo — Kingsley, dicevo, continua a utilizzare nei suoi sermoni e nei suoi romanzi versioni ‘allargate’ della tipologia biblica, per la semplice ragione che è quello il genere di linguaggio e di immagini al quale il suo pubblico è avvezzo e di cui può cogliere le implicazioni. E anche una scrittrice come Elizabeth Gaskell, moglie del pastore della più importante congregazione unitariana di Manchester, ad esempio, in North and South, dà forza e significato al sacrificio della sua protagonista, durante la scena dell’assalto alla fabbrica di Thornton, raffigurandola esplicitamente come un tipo del Cristo vittima sacrificale e volontaria per colpe non sue. Inoltre, se come pratica ermeneutica rigidamente fondata a) sulla verità letterale della Bibbia, b) sulla convinzione che la storia degli ebrei registrata nel Vecchio Testamento è designata da Dio a servire come immagine anticipatoria di epoche future; e c) che sia il tipo sia il suo antitipo sono assolutamente reali e storicamente determinati11, la tipologia biblica era destinata a perdere credibilità e autorevolezza ben prima della fine del vittorianesimo, il ricorso a versioni meno ortodosse e rigide della tipologia, o l’applicazione di procedure e modalità caratteristiche della tipologia biblica a situazioni, figure e contesti decisamente secolarizzati, sembra perdurare come caratteristica costante e significativa di gran parte della tradizione letteraria vittoriana. Questo persino in relazione ad autori dichiaratamente laici come Dickens e Thackeray, le cui rivisitazioni di storie e figure bibliche possono (Exod. XII. et sequ. with John XIX. 36 and 1Cor. v. 7)». Infine, i tipi profetici sono quelli tramite cui «the divinely inspired prophets prefigured or signified things either present or future, by means of external symbols». Tutte le citazioni da Horne sono tratte dal vol. 2, pp. 258-9, passim, e sono contenute nel già citato saggio di Landow, pp. 22-31, passim. 10 Autore tra l’altro di uno studio sull’interpretazione della Bibbia, Literature and Dogma, 1873. 11 Questo, anche se non mancano tipi che devono trovare il loro antitipo pure nella vita dei singoli fedeli e che non potranno quindi realizzarsi pienamente fino alla fine dei tempi.


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essere più proficuamente considerate — per usare la definizione di John R. Reed — “filiazioni secolari” della tipologia. Così ad esempio The Old Curiosity Shop, di Dickens è modellato sul Pilgrim’s Progress; la storia dell’esperienza di Giacobbe con Lea e Rachele funge grosso modo da parallelo per la situazione di Stephen Blackpool in Hard Times, sempre di Dickens; mentre Thackeray intitola uno dei suoi romanzi The Adventures of Philip on His Way Through the World Showing Who Robbed Him, Who Helped Him and Who Passed Him By, realizzando così nel titolo una perfetta sinossi della parabola del Buon Samaritano, alla quale peraltro ripetutamente allude e che illustra nell’opera12. Anche tramite queste rivisitazioni e filiazioni secolari, la letteratura vittoriana attinge dunque a piene mani a quello che definirei il ‘patrimonio condiviso’ della tradizione biblica; mentre per quanto riguarda più specificamente la tipologia, va detto che, se da una parte la poesia ne trae soprattutto imagery e temi, dall’altra il romanzo, la poesia narrativa e le forme ad essa collegate, come ad es. il monologo drammatico, non di rado se ne servono come di una forma di simbolismo e come espediente per creare e definire il personaggio, rendendone ‘immediatamente’ evidenti al loro pubblico caratteristiche, peculiarità e valenza morale. Un esempio particolarmente calzante al riguardo è fornito da Landow, il quale, analizzando Jane Eyre di Charlotte Brontë, evidenzia nel testo due usi contrastanti di tipi scritturali. Il primo si ha quando Jane, dopo la rivelazione che la moglie dell’uomo che si apprestava a sposare è ancora viva, si ritrova privata di ogni speranza e fede e paragona il suo amore per Rochester ai primogeniti degli egiziani sterminati dalla decima piaga («My hopes were all dead-struck with a subtle doom, such as, in one night, fell on all the firstborn in the land of Egypt») riconoscendo al contempo che il suo amore appartiene interamente a Rochester: «I looked at my love: that feeling which was my master’s — which he had created; it shivered in my heart, like a suffering child in a cold cradle»13. Con questo paragone — sottolinea Landow — Jane pone il proprio amore all’interno di un contesto spirituale 12

Cfr J.R. REED, Victorian Conventions, Athens, Ohio, 1975, 20-1. Collocandosi nel romanzo subito dopo la scena climatica della rivelazione e del successivo incontro con la moglie di Rochester — la folle Bertha Mason — la riflessione di Jane costituisce una sorta di tragico anti-climax. Ecco le sue parole: «I was in my own room as usual — just myself, without obvious change: nothing had smitten me, or scathed me, or 13


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preesistente e implicitamente riconosce sia di essere stata punita perché non ha obbedito ai precetti del vero Dio, adorando invece come un idolo il futuro marito14, sia perché, come gli egiziani, ha creduto che i poteri di Dio fossero limitati e di poterne evadere la legge (Rochester ha una moglie folle e segreta). Allo stesso tempo, questa citazione del tipo dell’Esodo per descrivere il proprio errore e la propria debolezza spirituale e la conseguente punizione pone il suo personaggio e le sue azioni entro uno schema di valori ben definito e, dato che Jane applica a se stessa il tipo in maniera corretta, è funzionale a drammatizzare la nuova auto-consapevolezza della protagonista e la sua ammissione di colpa. Nel secondo caso invece Rochester, per convincere Jane a fuggire con lui anche dopo la scoperta che rinchiusa nelle soffitte di Thornfield Hall vive la sua prima moglie, definisce la dimora «this tent of Achan […] — this narrow stone hell, with its one real fiend, worse than a legion of such as we imagine15». Ma Achan, (in Giosuè) è l’israelita che, contravvenendo all’ordine di Dio di non toccare le spoglie della distrutta Gerico, attira la rovina sul suo popolo, e che, una volta scoperto, viene lapidato insieme alla sua famiglia. Per cui, il fatto che Rochester applichi a sé stesso il tipo in maimed me. And yet where was the Jane Eyre of yesterday? — where was her life? — where were her prospects? Jane Eyre, who had been an ardent expectant woman — almost a bride — was a cold, solitary girl again: her life was pale; her prospects were desolate. A Christmas frost had come at midsummer; a white December storm had whirled over June; ice glazed the ripe apples, drifts crushed the blowing roses; on hayfield and cornfield lay a frozen shroud: lanes which last night blushed full of flowers, to-day were pathless with untrodden snow; and the woods, which twelve hours since waved leafy and fragrant as groves between the tropics, now spread, waste, wild, and white as pine-forests in wintry Norway. My hopes were all dead — struck with a subtle doom, such as, in one night, fell on the first born in the land of Egypt. I looked on my cherished wishes, yesterday so blooming and glowing; they lay stark, chill, livid corpses that could never revive. I looked at my love: that feeling which was my master’s — which he had created; it shivered in my heart, like a suffering child in a cold cradle: sickness and anguish had seized it; it could not seek Mr Rochester’s arms — it could not derive warmth from his breast» (C. BRONTË, Jane Eyre, 1847; Harmondsworth 1981, 323-4). 14 Due capitoli prima aveva detto di lui: «My future husband was becoming to me my whole world, and more than the world: almost my hope of heaven. He stood between me and every thought of religion, as an eclipse intervenes between man and the broad sun. I could not, in those days, see God for His creature: of whom I had made an idol» (ibid., 302). 15 Ibid., 328.


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maniera scorretta, non comprendendo come la severa punizione riservata ad Achan dimostri in realtà che i comandi di Dio non possono essere ignorati e continuando a pensare di poter evitare le conseguenze delle proprie azioni, è una riprova della gravità dei suoi limiti morali e caratteriali e del difficile cammino che deve ancora percorrere per essere degno di Jane16. Al di là del ricorso alle modalità della tipologia biblica e degli abiti mentali che questa incoraggia — i quali, a loro volta, sono alla base delle tecniche di costruzione del personaggio —, va detto comunque che proprio la ricchezza delle rivisitazioni e dei richiami più o meno espliciti alla Bibbia contribuisce non di rado a dare vitalità, sostanza e significato alla produzione di molti narratori vittoriani. Si pensi, per es., ad Elizabeth Gaskell — una scrittrice profondamente impegnata nel sociale e ingiustamente poco conosciuta e ancor meno tradotta in Italia — la cui narrativa maggiore e minore è indelebilmente segnata da un sostrato, suggestioni e riferimenti biblici ricchissimi e sempre pertinenti. Così, nel suo primo romanzo, Mary Barton. A Tale of Manchester Life, non solo organicamente incastonati nel narrato si ritrovano citazioni dai Vangeli di Luca e di Matteo e riferimenti espliciti o indiretti alla Genesi, al Libro delle Rivelazioni, a quello dei Giudici (Dalila), di Saul e al libro di Ruth, ma la parabola del Ricco Epulone tratta dal Vangelo di Luca, con la sua esplicita denuncia dell’incapacità dei ricchi di comprendere o di mostrarsi sensibili alle sofferenze dei poveri e dei diseredati, costituisce il fulcro del tema sociale al centro dell’opera, e conferisce il crisma della volontà e dell’insegnamento divini alla necessità di una riconciliazione tra le classi sociali basata sulla reciproca comprensione che l’autrice intende promuovere con la sua opera. Proprio l’abisso che separa Epulone e Lazzaro e l’insensibilità del primo alle sofferenze del secondo segna anzi fin dalle prime battute il percorso e la ribellione dell’eroe operaio, da quando, discutendo con l’amico Wilson, chiede: «If I am sick, do they come and nurse me? If my child lies dying (as poor Tom lay, with his white wan lips quivering, for want of better food than I could give him), does the rich man bring the wine or broth that might save his life? If I am out of work for weeks in the bad times, and winter comes, with black frost, and keen east wind, and there is no coal for the grate, and no clothes for the bed, and the thin bones are seen through the ragged 16

Cfr G. LANDOW, cit., 97-9.


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Gemma Persico clothes, does the rich man share his plenty with me, as he ought to do, if his religion wasn’t a humbug? […] Don’t think to come over me with the old tale, that the rich know nothing of the trials of the poor; I say, if they don’t know, they ought to know. We’re their slaves as long as we can work; we pile up their fortunes with the sweat of our brows, and yet we are to live as separate as if we were in two worlds; ay, as separate as Dives and Lazarus, with a great gulf betwixt us: but I know who was best off then»17,

fino a quando, sul letto di morte, divorato dal rimorso per essersi macchiato di un omicidio, Barton rilegge la propria storia e i propri errori come conseguenza dell’impossibilità di conciliare l’insegnamento divino che vorrebbe sforzarsi di seguire con i comportamenti dei ricchi di questo mondo18. Oppure si pensi ancora a Ruth, il terzo romanzo della Gaskell, fitto di rimandi alle Scritture — e in particolare al libro dei Proverbi —, in cui il rinvio esplicito a Rizpah, la concubina di Saul che (nel libro di Samuele) veglia con amore infinito i corpi dei figli impiccati dai Gibeoniti impedendo agli uccelli e agli animali selvatici di farne scempio, definisce l’immensità dell’amore dell’eroina eponima per il piccolo Leonard19 e ne fa lo strumento 17

E. GASKELL, Mary Barton, 1848; Oxford-New York 1987, 8. Cfr: «[…] only I heard say the Bible was a good book. So when I grew thoughtful, and puzzled, I took to it. But you’d never believe black was black, or night was white, and night was day. It’s not much I can say for myself in t’other world. God forgive me; but I can say this, I would fain have gone after the Bible rules if I’d seen folk credit it; they all spoke up for it, and went and did clean contrary. In those days I would ha’ gone about wi’ my Bible, like a little child, my finger in th’ place, and asking the meaning of this or that text, and no one told me. Then I took out two or three texts as clear as glass, and I tried to do what they bid me do. But I don’t know how it was, masters and men, all alike cared no more for minding those texts, than I did for th’ Lord Mayor of London […] I think one time I could e’en have loved the masters if they ha’ letten me; that was in my gospel-days, afore my child died of hunger. I was tore in two oftentimes, between my sorrow for poor suffering folk, and my trying to love them as caused their sufferings […]. At last I gave it up in despair, trying to make folks’ actions square wi’ th’ Bible; and I thought I’d no longer labour at following the Bible mysel’ […]. But from that time I’ve dropped down, down, down» (ibid., 437-8). 19 Cfr: «Her whole heart was in her boy. She often feared that she loved him too much — more than God Himself — yet she could not bear to pray to have her love for her child lessened. But she would kneel down by his little bed at night — at the deep, still midnight — with the stars that kept watch over Rizpah shining down upon her, and tell God what I 18


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della sua rigenerazione, giacché «unconsciously, her love for her child led her up to love to God, to the All-knowing, who read her heart»20. E sempre in Ruth, appare evidente come il racconto del perdono e della salvezza elargiti senza riserve da Cristo alla Maddalena nel Vangelo di Luca (Luca 7), è alla base non solo dell’atteggiamento del reverendo Benson — autentico centro morale dell’opera e portavoce dell’autrice — ma diviene il modello di riferimento ‘alto’ e il perno strutturale su cui l’autrice esempla il proprio coraggioso (e per l’epoca assolutamente rivoluzionario) tentativo di veicolare nel pubblico vittoriano l’idea che anche la fallen woman possa essere salvata e riaccolta nella comunità sociale oltre che religiosa. E infine, non è un caso che gli espliciti riferimenti alle Scritture — in particolare ai Salmi e al racconto dell’agonia di Cristo nel Getsemani (Matteo)21 — siano quantitativamente più frequenti nelle pagine in cui la protagonista trova la forza di affrontare la prova che l’attende e di compiere la volontà di Dio identificandosi con un doccione della navata della chiesa nel cui sguardo rivolto alle “Hills from whence cometh our help” (Salmi 121, 1) un ignoto artista di tanti secoli prima sembra avere fissato l’esperienza di un dolore infinito capace tuttavia di trovare pace e sollievo nella fede22. have now told you, that she feared she loved her child too much, yet could not, would not, love him less; and speak to Him of her one treasure as she could speak to no earthly friend» (E. GASKELL, Ruth, 1853; Oxford-New York 1985, 209). 20 L. c. 21 Cfr ad es.: «[…] But of one thing she was clear, and to one thing she would hold fast; that was, that, come what might, she would obey God’s law, and, be the end of all what it might, she would say ‘Thy will be done!’ She only asked for strength enough to do this when the time came. How the time would come — what speech or action would be requisite on her part, she did not know — she did not even try to conjecture. She left that in His hands» (ibid., 276). 22 Cfr «[…] in this extreme tension of mind to hold in her bewildered agony, it so happened that one of her senses was preternaturally acute. While all the church and the people swam in misty haze, one point in a dark corner grew clearer and clearer till she saw […] a face — a gargoyle I think they call it — at the end of the arch next to the narrowing of the nave into the chancel, and in the shadow of that contraction. The face was beautiful in feature […], but it was not the features that were the most striking part. There was a half-open mouth, not in any way distorted out of its exquisite beauty by the intense expression of suffering it conveyed. Any distortion of the face by mental agony, implies that a struggle with circumstance is going on. But in this face, if such struggle had been, it was over now. Circumstance had conquered; and there was no hope from mortal endeavour, or help from mortal creature


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Un altro esempio significativo di rivisitazione di temi e personaggi della Bibbia è fornito da Daniel Deronda, l’ultimo e forse il più sperimentale dei romanzi di George Eliot, una scrittrice che in tutto il suo travagliato percorso spirituale ed esistenziale dalla fede all’agnosticismo, dalla cristianità a una religione dell’umanità, rimane comunque ancorata alle storie della Bibbia sulle quali si è formata, pur spesso decostruendole e ricollocandole. Con il risultato che i numerosi echi di figure e miti biblici che risuonano in questo romanzo non sono semplicemente allusivi o tipologici. Forse più ancora che nelle opere precedenti, essi sono piuttosto un esperimento nella secolarizzazione delle storie religiose, e, al contempo, una rilettura e una decostruzione di queste storie funzionale ai suoi scopi etici e tematici23; una rilettura e una decostruzione per le quali la Eliot mette to be had. But the eyes looked onward and upward to the “Hills from whence cometh our help”. And though the parted lips seemed ready to quiver with agony, yet the expression of the whole face, owing to these strange, stony, and yet spiritual eyes, was high and consoling. If mortal gaze had never sought its meaning before, in the deep shadow where it had been placed long centuries ago, yet Ruth’s did now. Who could have imagined such a look? Who could have witnessed — perhaps felt — such infinite sorrow, and yet dared to lift it up by Faith into a peace so pure? Or was it a mere conception? If so, what a soul the unknown carver must have had! for creator and handicraftsman must have been one; no two minds could have been in such perfect harmony. Whatever it was — however it came there — imaginer, carver, sufferer, all were long passed away. Human art was ended — human life done — human suffering over; but this remained; it stilled Ruth’s beating heart to look on it. She grew still enough to hear words, which have come to many in their time of need, and awed them in the presence of the extremest suffering that the hushed world has ever heard of. The second lesson for the morning of the 25th of September, is the 26th chapter of St Matthew’s Gospel. And when they prayed again, Ruth’s tongue was unloosed, and she also could pray, in His name, who underwent the agony in the garden.» E poco più avanti: «[…] Whatever trials, woes, measureless pangs, God might see fit to chastise her with, she would not shrink […]. His laws once broken, His justice and the very nature of those laws bring the immutable retribution; but if we turn penitently to Him, He enables us to bear our punishment with a meek and docile heart, ‘for His mercy endureth for ever’ [Salmi, 136, 1]’» (ibid., 282-6, passim). 23 Riprendo qui, condividendola appieno, la tesi esposta da B. LAW-VILJOEN, Midrash, Myth, and Prophecy: George Eliot’s Reinterpretation of Biblical Stories, in Literature and Theology. An International Journal of Theory, Criticism and Culture XI/1 (1997) 84. Nel suo saggio, Law-Viljoen sottolinea tra l’altro il ruolo della Cabala, della storia ebraica e dell’ermeneutica nella rilettura eliotiana delle storie e delle figure bibliche.


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a frutto gli insegnamenti dello Higher Criticism tedesco di Strauss, Feuerbach e Renan «nell’esaminare la natura del tempo e dell’evento storico, e nell’indagare le forme dell’immaginazione profetica e poetica»24. E infine, una rilettura e una decostruzione tramite le quali l’autrice esplora i modi in cui la mitologia e la storia ebraiche hanno dato forma a una versione occidentale, cristiana, della storia. Come afferma Bronwyn LawViljoen, il racconto della Eliot registra così un debito alla mitologia biblica, ma allo stesso tempo si discosta da questa mitologia, re-interpretandola in quella che Handelman definisce una «ermeneutica eretica […] una complessa dialettica di identificazione e dislocazione»25 centrata in primo luogo sul tema veterotestamentario dell’esilio — tutti i personaggi principali del romanzo sono in un senso o nell’altro degli esiliati — e sulla scoperta da parte del protagonista del proprio ruolo come interprete di sogni e di visioni — in analogia al suo precursore biblico che interpreta i sogni del re Nabucodonosor — e come nuovo, riluttante, Messia. Vi sono innumerevoli esempi che, sia in Daniel Deronda, sia in altre opere della Eliot — e penso soprattutto a Romola, ambientato nella Firenze del Savanarola, e ad Adam Bede —, potrebbero meglio illustrare le modalità articolate e complesse, ma anche generatrici di senso e di nuovo significato, delle rivisitazioni bibliche di George Eliot. In questa sede preferisco tuttavia impiegare lo spazio che mi rimane per vedere rapidamente come opere di generi e intenti molto diversi tra loro mettano a frutto la familiarità di autori e pubblico con la Bibbia e con le procedure e le tecniche della tipologia biblica. Mi riferisco in particolare alle opere di Ruskin, e ad un poema narrativo di Elizabeth Barrett Browning che potremmo definire d’ispirazione femminista. Nel primo caso, va detto subito che il genere di produzione non narrativa che ha i suoi massimi rappresentanti in Ruskin, Carlyle e Matthew Arnold è forse il prodotto più caratteristico e peculiare della letteratura vittoriana, e combina variamente gli attributi del sermone, delle geremiadi e della satira neo-classica, provandosi a interpretare i fenomeni contempo24 Cfr E.S. SHAFFER, ‘Kubla Khan’ and ‘The Fall of Jerusalem’: The Mythological School in Biblical Criticism and Secular Literature 1770-1880, Cambridge 1975, 233, cit. in ibid., 84. 25 Cfr S.A. HANDELMAN, The Slayers of Moses. The emergence of rabbinic interpretation in modern literary theory, Albany 1892, 137, cit. in ibid.


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ranei con modalità analoghe a quelle con cui i sermoni dei grandi tipologisti dell’epoca — Spurgeon, Melvill e Newman — interpretano il fatto e l’evento scritturale. La natura di quest’impresa richiede — come sottolinea George Landow nel già citato Victorian Types, Victorian Shadows — che non solo l’autore che si assume il ruolo di interprete privilegiato, ma anche il suo pubblico, ne concepisca il ruolo come speciale, ossia come quello di un individuo che si distingue per la sua superiore comprensione del significato dei fenomeni transitori e del loro rapporto con le leggi e i principi eterni, avallandone dunque il ruolo di leader proprio in virtù di quella superiore conoscenza26. In particolare, Modern Painters (1843-60), The Seven Lamps of Architecture (1848) e The Stones of Venice (1851-2) di Ruskin — incentrate, come indicano gli stessi titoli, su questioni squisitamente artistiche — impiegano un gran numero di argomentazioni supportate tipologicamente, finendo non di rado col suonare come sermoni sul rapporto tra quelle che potremmo definire “preoccupazioni estetiche” e il fatto biblico. Così, ad es., quando nel V volume di Modern Painters Ruskin si oppone all’idea che il colore sia relativamente poco importante nella grande arte, egli sostiene quest’aspetto della sua teoria romantica dell’arte rifacendosi esplicitamente al nono capitolo del Genesi — in cui si racconta come Dio creò l’arcobaleno in segno della nuova alleanza con gli uomini — con un sermone sul significato tipologico dell’arcobaleno. Ed emblematicamente supporta le sue tesi riguardo a quello che è per lui il valore “spirituale” del colore27 ricorrendo alle norme del Levitico sull’uso dei colori e alla presunzione della loro verità letterale e sanzione divina anche ben dopo avere perduto la fede della sua fanciullezza, facendo altresì sua l’idea che il mondo fisico reca un’impronta divina che l’occhio sensibile può leggere in termini di tipo e simbolo. Ecco allora che nella sua rilettura del Genesi, pur essendo un fenomeno naturale e non un evento unico o una persona che prefigura Cristo28, l’arcobaleno è il tipo della “saggezza di Dio che si fa santificazione 26

Cfr G. LANDOW, cit., 110. Nel volume conclusivo di Modern Painters, ad es., definisce il colore “the purifying or sanctifying element of material beauty” (J. RUSKIN, The Works, ‘The Library Edition’ in 39 voll., VII, London 1903-12, 417 n.). 28 Anche se a rigor di termini solo l’arcobaleno apparso a Noè dopo il diluvio può 27


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e redenzione” — e dunque implicitamente un tipo del Cristo portatore del nuovo patto salvifico ed Egli stesso emblema di quel patto: «The cloud, or firmament […] signifies the ministration of the heavens to man. That ministration may be in judgement or mercy — in the lightning, or the dew. But the bow, or colour of the cloud, signifies always mercy, the sparing of life; such ministry of the heaven as shall feed and prolong life. And as the sunlight, undivided, is the type of the wisdom and righteousness of God, so divided, and softened into colour by means of the firmamental ministry, fitted to every need of man, as to every delight, and becoming one chief source of human beuaty, by being made part of the flesh of man; — thus divided, the sunlight is the type of the wisdom of God, becoming sanctifycation and redemption. Various in work — various in beauty — various in power»29.

Come altri esegeti cristiani, Ruskin non limita il significato tipologico all’arcobaleno che appare a Noè nel Genesi, usando piuttosto l’arco di luce iridata come qualcosa che funziona tipologicamente in entrambi i libri divini: la Bibbia e il Libro della Natura. Ruskin però si spinge ancora oltre nella sua interpretazione, stabilendo tra fenomeni naturali e fatto teologico un’elaborata analogia fondata sia sull’applicazione diretta di tipi comuni, sia sulla sua personale estensione della tipologia biblica fino ad includere forme più libere di simbolismo30. Quest’uso altamente suggestivo, ma in genere poco ortodosso o comunque ‘allargato’, della pratica tipologica da parte di Ruskin lo ritroviamo — per citare uno solo tra i tanti possibili esempi — quando, riferendosi alla veste multicolore donata da Giacobbe al figlio prediletto Giuseppe31, sostiene che i colori vivaci simbolizzano l’amore divino applicando alla sua argomentazione dettagli associati a un tipo di Cristo. In questo caso, il nocciolo del suo argomentare sembra essere che, dato che Giacobbe diede al figlio un abito a colori vivaci perché lo amava molto, l’esegeta, sapendo che Giuseppe è un tipo di Cristo, è legittimato ad essere considerato un tipo in ragione della sua caratteristica unicità, gli esegeti vittoriani sembrano per lo più inclini a considerare un tipo l’arcobaleno in quanto tale. 29 J. RUSKIN, The Works, VII, 418, cit. in G. LANDOW, cit., 112. 30 Ancora G. Landow dedica alla questione ampia attenzione in The Aesthetic and Critical Theories of John Ruskin, Princeton 1971, 370-442. 31 Gen 37, 3.


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intendere Giacobbe come Dio Padre. Quindi, dato che sia Dio sia Giacobbe hanno riversato colori vivaci su quelli che amavano (Dio con l’arcobaleno, che è anche Cristo, Giacobbe con la veste di Giuseppe) il colore sta a significare l’elemento santificante nel divino amore. Questo citare prove scritturali nel bel mezzo di un discorso in apparenza secolare, era funzionale a diversi scopi retorici, non ultimo quello di trasferire i termini della discussione in un contesto universale. Ma soprattutto, l’uso di argomentazioni supportate tipologicamente gli consentiva di fare appello ai molti evangelici del suo pubblico, dimostrando, in termini e con ragionamenti per loro immediatamente accessibili, che le questioni estetiche avevano grande importanza spirituale. In altri termini, per Ruskin, che stava tentando di aprire gli occhi degli evangelici agli splendori dell’arte e dell’architettura, questo genere di argomentazioni era anche il mezzo per convincere il suo pubblico dell’autentico valore religioso dell’architettura gotica, della pittura religiosa e di altre fonti di bellezza che quello stesso pubblico riteneva ‘contaminate’ dalla loro lunga connessione con la chiesa cattolica32. L’ultimo esempio che vorrei fare si riferisce invece ad Aurora Leigh (1857), un lungo e apprezzato poema narrativo in cui Elizabeth Barrett Browning si serve della materia biblica, in parte modificandone e sovvertendone l’interpretazione tipologica standard, per dar voce alle proprie riflessioni sulle responsabilità e l’agenzia femminili, e per sostenere con un precedente biblico riconosciuto il diritto della protagonista — e implicitamente il proprio — a ricoprire il ruolo e la missione del poeta/ profeta a dispetto del suo essere — o meglio anche in quanto — donna. Nella poesia femminile vittoriana, la prassi ricorrente dell’adozione di una voce cristiana offriva alle donne la possibilità di affermare una voce poetica ‘trascendente’, una voce che non richiamasse l’attenzione sulle differenze di genere ma piuttosto ne enfatizzasse la capacità di parlare della esperienza cristiana universale. Questa prassi poneva però problemi apparentemente insormontabili quando una poetessa voleva trovare un modo per 32 Cfr G. LANDOW, cit., 114. Per il critico, l’esempio più significativo di questo genere di argomentazione tipologica a servizio delle arti è “The Lamp of Sacrifice”, il capitolo iniziale di The Seven Lamps of Architecture (1849), che assume la forma di un vero e proprio sermone evangelico sulla tipologia e non solo di una sua applicazione a un soggetto più vasto.


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esprimere la propria peculiare differenza. Questo perché una voce così trascendente, nella sua costruzione convenzionale, cancella la differenza sessuale33. L’operazione portata avanti dalla Barrett Browning in Aurora Leigh mira invece proprio a trovare il difficile punto d’equilibrio tra la sua posizione (una posizione peraltro già affermata sin dalle prime poesie, come “A Drama of Exile” e “The Seraphim”) in quanto voce poetica dotata di autorità cristiana e il suo rivendicare il diritto a parlare ‘anche’ in quanto donna. A questo scopo, la Barrett Browning individua nella Miriam34 del Vecchio Testamento, profetessa e cantatrice del popolo ebraico, nonché sorella di Mosè, un precedente biblico legittimo per la sua Aurora35, poetessa devota alla propria missione artistica e che rifiuta la teoria delle 33 Cfr C. SCHEINBERG, Elizabeth Barrett Browning’s Hebraic Conversions: Feminism and Christian Typology in Aurora Leigh, Victorian Culture, 22, 1994, 57. Ampio spazio alla questione è riservato in D. MERMIN, Elizabeth Barrett Browning: The Origins of a New Poetry, Chicago 1989, e H. COOPER, Elizabeth Barrett Browning, Woman and Artist, Chapel Hill, U. of North Carolina P., 1988. 34 In un testo di consultazione popolare come The Treasury of Bible Knowledge del Rev. J. Ayre (London 1866), la storia di Miriam è epitomizzata, e commentata, come segue: «Miriam, called a prophetess, appears after the passage of the Red sea as heading the women of Israel in that responsive song in which the glorious deliverance was celebrated (Exodus xv. 20, 21). The next occasion in which she is mentioned presents a dark contrast to that earlier day of joy; Miriam, by whom the Lord had spoken, and whom he had sent before his people unites with Aaron in jealous murmuring against Moses. Her sin is immediately visited with frightful punishment. She is struck with leprosy; and Aaron as the priest has to look on his accomplice, and officially pronounce her unclean; and consequently for seven days, till healed and cleansed by the mercy of God, she is excluded from the campo (Numbers XII; Deut. XXIV. 9). It must have read an impressive lesson to Israel that God will by no means spare the guilty». 35 Nel poema narrativo eponimo, Aurora Leigh è una giovane donna dotata di talento e aspirazioni artistiche che respinge la corte e la protezione del cugino Romney — che l’ama e l’ha chiesta in sposa — per seguire la propria vocazione. Nel corso del suo peregrinare, Aurora ritrova e salva Marian Erle — vittima della crudeltà di un sistema che l’ha relegata ai margini della società — dimostrando la propria anticonvenzionalità anche nel suo offrire alla fallen woman Marian e al suo piccino — frutto di una brutale violenza — di condividere la propria casa. In seguito, Aurora accetterà di sposare Romney, ma non prima che il giovane, maturato dalla sofferenza e ormai consapevole dei propri errori, abbia imparato a riconoscere e ad accettare le doti intellettuali e artistiche di Aurora senza più pretendere di confinarla entro i ruoli femminili tradizionali che aveva precedentemente indicato come segue: «Women as you are,/ Mere women, personal and passionate,/ You give us doting mothers and chaste wives./ Sublime Madonnas, and enduring saints!/ We get no Christ from you, — and


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sfere separate per uomini e donne e la tradizionale concezione vittoriana della donna come angelo domestico, affermando così la propria identità e realizzando in concreto la missione rigeneratrice dell’arte. Mentre è funzionale ad affermare il discorso della differenza sessuale, immaginare Aurora come la Miriam che «clashed her cymbals to surprise/ The sun between her white arms flung apart/ With new glad golden sounds»36 al fine di stabilire un antecedente autorevole per la sua sfida al patriarcato cristiano, pone però problemi che l’autrice risolve in parte elidendo dal suo poema il finale della storia della profetessa (punita da Dio con la lebbra per avere complottato contro Mosè, e poi perdonata e riaccolta in seno alla comunità) e revisionandola per contenere la minaccia che essa rappresenta per il patriarcato. Ma soprattutto risolve questi problemi mettendo in atto una ‘conversione’ finale che, da una parte, consente al protagonista maschile di liberarsi del ruolo di “misguided typologist”37 e di sfuggire con l’aiuto di Aurora ai clichés di una cultura che minimizza il ruolo di Miriam38 — e implicitamente di una agenzia femminile autonoma —; mentre dall’altra porta la stessa Aurora ad accettare l’idea di una ‘nuova’ unione cristiana eterosessuale, in cui lei — divenuta alfine per l’amato “my Miriam”39 — e Romney possano entrambi unire le loro ‘voci’, senza che questo implichi per Aurora la rinuncia a un’identità femminile ‘eroica’. verily/ We shall not get a poet, in my mind» (E. BARRETT BROWNING, Aurora Leigh, 1857, 2, vv. 220-25; Oxford-New York 1998, 44). 36 E. BARRETT BROWNING, Casa Guidi Windows, 1851, 1, vv. 14-6, cit. in C. SCHEINBERG, cit., 60. 37 La definizione è di C. Scheinberg, la quale sottolinea come Romney si richiami ripetutamente a Mosè implicitamente rivelando la propria aspirazione a incarnarne l’antitipo per la sua propensione verso un’azione sociale esplicita (cfr C. SCHEINBERG, cit., 61-3). 38 Metaforicamente, il “fragore” dei cimbali tra le braccia spalancate con forza di Miriam in “Casa Guidi Windows” è ridotto da Romney — portavoce nella prima parte del poema della visione cristiana patriarcale della profetessa ebraica — a un semplice “tinkle in white hands” (Aurora Leigh, 2, v. 170, cit., 43). 39 Cfr le parole con cui un Romney ormai convertito alla consapevolezza del valore di Aurora e del suo lavoro riconosce l’errore di avere respinto «[…] with male ferocious impudence/ The world’s Aurora who had conned her part/ On the other side the leaf!», definendola infine «[…] a woman and a queen,/ […] My teacher, who has taught me with a book,/ My Miriam, whose sweet mouth, when nearly drowned/ I still heard singing on the shore!» (ibid., 8, vv. 328-34, cit., 271).


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Tutte operazioni — come spero sia possibile intuire anche da questa mia sinossi, affrettata e parziale — certamente complesse e per taluni aspetti contraddittorie. Operazioni che evidenziano oltretutto precise differenze tra l’ermeneutica tipologica ‘al femminile’ messa in atto da Aurora e quella ‘al maschile’ di Romney, ma per le quali, non a caso, anche la Barrett Browning attinge a piene mani alla sua conoscenza della Bibbia e dell’esegesi tipologica, facendone il perno strutturale di un discorso che si sforza di conciliare antiche e nuove istanze e tradizioni, nonché il mezzo per far comprendere al pubblico il suo messaggio, dimostrando una volta di più la straordinaria vitalità e risonanza del testo biblico nella letteratura vittoriana.



APOCALISSE E UTOPIA NELLA LIRICA ESPRESSIONISTA TEDESCA

GRAZIA PULVIRENTI*

La funzione di palinsesto assunta dalle Sacre Scritture nella cultura letteraria di ogni paese è nota e, per quanto riguarda l’ambito di lingua tedesca, particolarmente significativa, data l’incisiva presenza della lettura del testo biblico propugnata dal protestantesimo nelle sue diverse varianti. Non c’è periodo nella tradizione letteraria che non annoveri un grande capolavoro ispirato ad episodi o elementi tratti dalla Bibbia: a prescindere dalla grande tradizione barocca — Bach, Händel, etc. — si pensi solo alla prima opera della letteratura tedesca ‘moderna’, il Messias (1748-1773) di Klopstock, al Prolog im Himmel (Prologo in Cielo) che fa da cornice metafisica con le sue schiere di cherubini e arcangeli alla vicenda di Faust, al Leben Jesus (La vita di Cristo), opera di divulgazione di Friedrich Leopold Graf zu Stolberg, realizzata in clima di propaganda antiprotestante e al fine di fornire una visione della figura cristica a partire da una prospettiva cattolica. La centralità assunta dall’iconografia biblica in clima romantico è un dato noto, e i testi sacri assurgono per Novalis a pietra di paragone di ogni creazione poetica: «La massima sfida di ogni attività di scrittura è riuscire ad essere una Bibbia»1. Comprendiamo meglio l’ellittico pensiero qui formulato, se lo integriamo con un brano più esteso, sempre formulato in merito al testo biblico: «La Bibbia incomincia splendidamente con il Paradiso, il simbolo della giovinezza e si conclude con il regno eterno — la città santa […] Ogni storia dell’uomo dovrebbe essere una Bibbia, sarà * Docente di Letteratura tedesca presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Catania. 1 F. VON HARDENBERG, Werke, a cura di Gerhard Schultz, München 1969, 468. [«Eine Bibel ist die höchste Aufgabe der Schriftstellerei»].


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una Bibbia»2. Il soggetto biblico diventa protagonista nella discussione che ha luogo intorno a opere d’arte figurative a carattere religioso e il cristianesimo riappare nella sua luce primigenia e arcaica, spesso filtrato attraverso un idealizzato medioevo. Si ricordano a tal proposito due opere particolarmente significative del periodo, antitetiche nei loro esiti, la Rede des toten Christus vom Weltgebäude herab, daß kein Gott sei (Discorso del Cristo morto dall’alto dell’edificio del mondo sulla non esistenza di Dio) di Jean Paul, con le sue cosmiche visioni nichiliste e di fine dei tempi, e, per contro, la Christenheit oder Europa (La Cristianità o l’Europa), opera del poeta per antonomasia del romanticismo tedesco, Novalis, che individua nella forza del messaggio cristico delle origini quella fiamma che avrebbe nutrito, per lo meno nel medioevo, l’unità dei popoli. Il consumo di santi e martiri avviato in epoca barocca si protrae fino al simbolismo decadente, con il trionfo erotico della figura di Salomè. Fra i capolavori del Novecento come non ricordare la grande epopea di Thomas Mann dedicata alla figura di Giuseppe, Joseph und seine Brüder (Giuseppe e i suoi fratelli)? Purtroppo la storia del Novecento è segnata dal ricorso ad una terribile attualizzazione dell’Apocalissi di San Giovanni da parte del nazismo: si progettava una distruzione apocalittica, appunto, del male impersonato dall’ebreo, l’anticristo, ad opera degli emissari di Dio, «strumenti della volontà divina della storia»3, come i nazisti, o almeno alcuni fanatici ideologi, si consideravano. Ma, tornando indietro all’inizio del Novecento, l’uso più vasto, interessante e contraddittorio dell’iconografia biblica credo, a differenza di Gerhard Kaiser4, sia da rinvenire in ambito espressionista, lì dove essa riesce a veicolare una trasformazione di significati, facendosi carico di una istanza utopica che sopravvive allo sfacelo successivo alla Grande Guerra. Nell’iconografia biblica e nello slancio religioso che anima molta della poesia espressionista si realizza il capovolgimento del polo negativo 2 L. c. [«Die Bibel fängt herrlich mit dem Paradies, dem Symbol der Jugend an und schließt mit dem ewigen Reiche — mit der heiligen Stadt. […] Jedes Menschen Geschichte soll eine Bibel sein — wird eine Bibel sein»]. 3 Cit. in G. R. KAISER, Apokalypsedrohung, Apokalypsegerede. Literatur und Apokalypse, in Poesie der Apokalypse, a cura di G. Kaiser, Würzburg 1991, 7-32, qui p. 10. [«Instrumente des göttlichen Willens der Geschichte»]. 4 Ibid., 18.


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e oscuro, dimissionario e rassegnato, nichilista e lacerato della poesia espressionista nel suo contrario: la percezione del limite e della fine, della miseria creaturale diviene tensione verso la salvezza e il riscatto terreno dal male; la solitudine dell’uomo crocifisso in una terra desolata e inospitale si empie di una istanza di fraternità e collettività; la paralisi dell’impotenza viene sciolta dalla speranza messianica di una rinascita, rinascita nello spirito del pensiero rivoluzionario e anarchico. Nei motivi ispiratori di natura biblica si può rinvenire quella collisione fra pensiero filosofico e riflessione politica che consente la risoluzione di una delle innumerevoli contraddizioni dell’espressionismo: la visione apocalittica della fine del mondo, il «Weltende» di cui scrive Van Hoddis, con toni profetici condivisi da numerosi altri poeti, in una percezione esasperata della dissoluzione dei tempi, si lacera facendo affiorare una luce di salvezza, accesa dai fuochi delle barricate: nel progetto anarchico-socialista e nel socialismo ‘dei profeti’ si attua il capovolgimento dell’apocalisse in apocatastasi finale. In ambito poetico, temi e motivi biblici, a volte l’uso di lessemi e stilemi, contribuiscono al superamento della soglia dell’indicibile, alla verbalizzazione di quanto esula la sfera della parola, quel che, secondo il noto aforisma di Wittgenstein, si manifesta, ma non si può dire: «Quel che si riesce a dire, lo si può dire in maniera chiara; e di ciò che non si può dire bisogna tacere. E comunque c’è qualcosa di indicibile. Esso si mostra, è ciò che è mistico»5. L’Unaussprechliches costituisce la sfera di quel che non si può verbalizzare nei termini delle strutture logico-razionali del linguaggio: l’indicibile può affiorare, per virtù d’artista, fra le pieghe di segni assemblati secondo ‘altri’ inediti principi associativi, di natura prelogica, visionaria, onirica, nell’evocazione di suoni e immagini e nei rimandi fra essi in grado di far accedere a zone profonde e recondite dell’essere, irrompendo oltre la cortina degli abituali nessi referenziali del linguaggio.

5 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, London 1922, 2. [ «Was sich überhaupt sagen läßt, läßt sich klar sagen; und wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen. Es gibt allerdings Unaussprechiches. Dies zeigt sich, es ist das Mysthische»].


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La Bibbia diviene referente privilegiato della evocazione di una realtà ‘altra’ che trapela oltre la percezione del male e della morte, della dissoluzione della carne e della fine dei tempi. Esempio significativo è fornito dalla lirica di un grandissimo poeta austriaco, che pur inscrivendosi nella koiné espressionista, ne rimase per molti versi estraneo per le peculiarità della sua originalissima scrittura e per l’assenza di ogni sentimento di impegno in un progetto collettivo e comunitario. La lirica di Georg Trakl (1887-1914), poeta fra i più raffinati e grandi del Novecento, tormentato dall’ossessiva esperienza di una vita sofferta come male ineluttabile, malattia cosmica, morte, è in grado di spingersi verso regioni di incontaminata purezza e luminosità, un ‘altrove’, intuito — più che effettivamente circoscritto — in «struggenti squarci di luce» (Magris). La sua poesia, pur nel più totale disincanto novecentesco e nel naufragio di senso di un linguaggio deflagrato nella sua struttura, riesce, per la complessa e inesauribile profondità del suo cosmo cifrato, a far emergere barlumi di luce dal viaggio nella tenebra, dalle pieghe più recondite di un’immanenza negativa. E tale viaggio, cui qui si può solo e brevemente alludere avviene, tra l’altro, nel segno del ricorso a motivi e temi biblici. Il linguaggio biblico adoperato da Trakl crea una sensibile cesura rispetto a quello referenziale, carico di sofferenza, malattia e morte con cui il poeta, nella struttura densa di contraddizioni del suo universo poetico, ‘dice’ la miseria dei corpi e della terra. Il linguaggio biblico opera uno sfondamento di senso catalizzando i nodi cruciali dell’immaginario trakliano. In primo luogo il motivo della colpa, imperniato intorno alla figura della sorella, che assume su di sé il mistero di un destino di espiazione e sacrificio. Nell’immagine della sorella, alla quale il poeta era legato per via di un legame probabilmente incestuoso, converge quell’antinomia che è forse il passo cruciale della poesia di Trakl: la nostalgia di una purezza delle origini, smarrita dall’uomo, esiliato su una terra di dolore e corruzione per una “colpa indicibile”, colpa ancestrale e storica6, cui egli non è più in grado di sottrarsi se non tramite l’espiazione nel dolore e nella morte, in un rinnovamento del sacrificio di Cristo. In tal senso altre figure 6 In un laconico aforisma si legge: «Al risveglio avverti l’amaro dolore del mondo: in esso la tua colpa intera, irrisolta; la tua poesia un’espiazione imperfetta.» (Aforisma n. 2). [«Erwachend fühlst du die Bitternis der Welt; darin ist alle deine ungelöste Schuld; dein Gedicht eine unvollkommene Sühne»].


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del mondo poetico trakliano, Elis, Helian e Kaspar Hauser sono creature accomunate da un’innocenza preesistenziale e dal destino di morte che, sottraendole alla corruzione della vita, ne serba intatta la purezza originaria. A tale angoscioso complesso etico-esistenziale e all’ansia di espiazione si possono ricondurre la predilezione per le tematiche della religione cristiana connesse al sacrificio di Cristo e per figure quali il buon pastore, la Maddalena, Rachele e simboli biblici, come la croce, l’ulivo, il roveto, gli occhi rotondi, il Golgota, l’aquila, l’agnello, la spada ardente, poetizzati in un cifrario assolutamente inedito e carico di sensi nuovi. Questo è il caso del motivo del «pane e vino», simbolo di rigenerazione e rinascita, ricostituzione della totalità perduta, poeticamente elaborato da Hölderlin nell’elegia Brot und Wein (Pane e vino) del 1801 in una sincretica coincidenza di cristianesimo e paganesimo e nell’utopia di un ribaltamento dell’età di privazione in un’età di rivelazione. Nella poesia trakliana il simbolo della salvezza, collocato in posizione dominante (quasi sempre o nell’ultimo verso o in punta di verso), spesso collegato all’immagine del «viandante» che torna da lungo cammino o del «dipartito», appare muto, lontano e, privato così delle sue valenze puramente religiose, divenendo veicolo di un’idea di grazia ottenuta nell’ascesi individuale, nella privazione, in una condizione di perdita, in «un cammino di spine» (Gesang des Abgeschiedenen / Canto del solitario). Alla sfera della purezza prenatale allude il motivo degli «occhi rotondi», nell’Antico Testamento segno di bellezza, in Trakl prevalentemente, anche se non esclusivamente7 di una rassegnata remissione al tempo della vita pur nel desiderio di sconfinamento: I suoi occhi vagano tondi e dorati nel tramonto8 E tondi occhi seguono il volo degli uccelli9.

Sempre alla sfera della purezza dell’anima allude il verso iniziale della lirica Kaspar Hausers Lied (Canzone di Kaspar Hauser), in cui la 7 Cfr in merito ad un caso antitetico G. TRAKL, Dichtungen und Briefe, a cura di W. Killy e H. Szklenar, 2 voll., I, Salzburg 1969, 148. 8 Ibid., 46. [«Ihre Augen weiden rund und goldig in der Dämmerung»]. 9 Ibid., 69. [«Und die runden Augen folgen dem Flug der Vögel»].


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natura incontaminata del giovinetto sottratto al destino degli uomini dal suo precoce assassinio, è circoscritta in quel verso d’incipit che recita secondo una cadenza biblica: «Er wahrlich liebte die Sonne» («In verità egli amava il sole»). Non ci si può qui soffermare sull’indagine di quelle poesie che nella loro densità polisemica rimandano a un’elaborazione di temi e complessi cristiani, come nel caso dei testi più ermetici: Helian, con il suo riferimento alla figura del Salvatore (un celebre poema in antico sassone s’intitola Heliand); Sebastian im Traum (Sebastian in sogno), in cui il poeta dà vita ad una creatura dai contorni evanescenti, partecipe di una sfera di spirituale purezza, elaborando dati attinenti alla figura del santo, fatto martirizzare da Diocleziano nel 288, con più palesi rimandi alla figura di Cristo, nella rievocazione di nascita, morte e resurrezione e nella fusione di tali motivi con allusioni alla propria vicenda biografica; Passion (Passione), in cui Orfeo appare, in una lettura attraverso le varianti, come figura cristica, secondo una tradizione che dalle Metamorfosi conduce a fonti letterarie paleocristiane, cantore del dolore cosmico, della precarietà, della fine; De profundis che riprende l’incipit del Salmo 130 (secondo la Bibbia ebraica, corrispondente al 129 della tradizione cattolica), usualmente recitato nelle celebrazioni funebri; il già citato Kaspar Hausers Lied (Canzone di Kaspar Hauser), con l’elaborazione del motivo cristico dell’assassinio di un innocente; Menschheit (Umanità), suggellata dal simbolo di pane e vino; Offenbarung und Untergang (Rivelazione e tramonto) che, sin nel titolo, esprime l’insolubile contrasto della lirica traklaina; Psalm (Salmo), poesia di denuncia del male di vivere, dedicata a Karl Kraus, sulle cui immagini di morte e disfacimento si leva la promessa di una speranza di salvezza consegnata agli occhi dorati di Dio: Muti sul Golgota si aprono dorati gli occhi di Dio.10

È nell’inquietante figura dell’angelo, come anche per altri aspetti in quella della sorella, che converge l’anfibologia della lirica trakliana. L’angelo trakliano, lungi dall’essere ipostasi di irraggiungibili spazi 10 Ibid., 57. [«Schweigsam über der Schädelstette öffnen sich Gottes goldene Augen»].


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metafisici, come l’angelo di Rilke, è nella sua partecipazione allo spazio terreno e a quello ultraterreno, creatura del trapasso, dello spostamento, dello sconfinamento, annunciatore della parola divina, ma anche vittima del male che pervade la vita. In quest’ultimo aspetto assume le caratteristiche del dolore e della disperazione umana, è angelo caduto, corroso dal disfacimento e dalla cancrena che divora il mondo trakliano: Da grigie stanze avanzano angeli con ali lordate di fango Vermi gocciano dalle loro ciglia ingiallite.11

L’angelo come emissario del divino non è figura di redenzione, ma manifestazione del tremendo, ipostasi di isolamento e solitudine, Ma fra questi angeli «dannati», angeli «foschi», «angeli spenti» si insinuano gli angeli di luce, gli angeli «bianchi»12, gli «angeli di cristallo» di De profundis: Di notte mi trovai su una landa Ricoperto di sporco e polvere di stelle. Tra i noccioli Risuonavano angeli di cristallo.13

O ancora: Oh gli angeli radiosi, che il purpureo vento della notte disperse. La notte la passò nella caverna cristallina e la lebbra gli crebbe argentea sulla fronte.14

Nelle ultime liriche si assiste alla evocazione di una moderna apocalissi che si consuma sugli altari della Grande Guerra, con il sole che si oscura, come in San Giovanni, e i corpi morenti dei guerrieri, con il 11 Ibid., 56. [«Aus grauen Zimmern treten Engeln mit kotgefleckten Flügeln / Würmer tropfen von ihren vergilbten Lidern»]. 12 Ibid., 120. 13 L. c. [«Nachts fand ich mich auf einer Heide, / Starrend von Unrat und Staub der Sterne. / Im Haselgebüsch / Klangen wieder kristallne Engel»]. 14 Ibid., 82. [«O die strahlenden Engel, die der purpurne Nachtwind zerstreute. Nachtlang wohnte er in kristallener Höhle und der Aussatz wuchs silbern auf seiner Stirne.» (Traum und Umnachtung / Sogno e ottenebramento)].


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«tremendo lamento / delle loro bocche dilaniate» («die wilde Klage/ Ihrer zerbrochenen Münder»). Contemporaneamente, sempre nelle ultime liriche si profila, nella dimensione del sacrificio, una visione di apocatastasi, nell’utopia di una rigenerazione della «stirpe maledetta», quel ritorno alla purezza delle origini che si era profilato sull’orizzonte utopico della lirica Abendländisches Lied15: Oh, l’ora amara del declino, Nelle acque nere di nuovo contempliamo un volto di pietra, Ma luminosi sollevano gli amanti ciglia argentee: Una stirpe sola. Incenso effonde da cuscini di rosa E s’ode il dolce canto dei risorti.16

La sorella, tramite l’espiazione compiuta nel suo destino di dolore, da demone notturno e peccaminoso assurge a creatura salvifica, divenendo essa stessa quel «giovinetto splendente» (Ruh und Schweigen / Pace e silenzio), cifra di una speranza di rinascita che si staglia nello spazio della poesia: «… e quando guardandolo [il cielo] morii, morirono paura e dei dolori il più profondo in me; e l’ombra azzurra del fanciullo si levò raggiante nel buio, mite canto; s’alzò su ali lunari sulle cime verdeggianti, scogli di cristallo, il volto bianco della sorella»17.

Più specificamente in ambito espressionista il riferimento al testo biblico è veicolo di una trasformazione della visione terribile del presente nella ricerca di ciò che Ernst Bloch definisce nel suo memorabile scritto Der 15 In Offenbarung und Untergang (Rivelazione e tramonto) si legge: «un giovinetto morente - la bellezza di una stirpe al suo ritorno» [«… ein sterbender Jüngling - die Schönheit eines heimkehrenden Geschlechts»]. 16 Ibid., 66. [«O, die bittere Stunde des Untergangs, / Da wir ein steinernes Antlitz in schwarzen Wassern beschaun. / Aber strahlend heben die silbernen Lider die Liebenden: / Ein Geschlecht. Weihrauch strömt von rosigen Kissen / Und der süße Gesang der Auferstandenen»]. 17 Ibid., 97. [«… und da ich anschauend hinstarb, starben Angst und der Schmerzen tiefster in mir; und es hob sich auf mondenen Flügeln über die grünenden Wipfel, kristallene Klippen das weiße Antlitz der Schwester»].


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Geist der Utopie (Lo Spirito dell’utopia) «la terza via». All’origine è la confluenza del pessimismo filosofico, che aveva già alimentato la cultura della decadenza, con una critica decisa e radicale alle forme della società capitalistica. In tale complesso il ricorso a figure e motivi biblici, il recupero dell’antico patrimonio iconografico e simbolico ebraico si combina con l’apertura a forme di spiritualità pagana, soprattutto di provenienza orientale, e si profila sia come espressione di una ricerca spirituale di vasta gittata (si pensi alle correnti misticheggianti, ai tratti gnostici o pantesitici di molti autori), e soprattutto come veicolo privilegiato per la tematizzazione di una antitesi fra i poli della luce e della tenebra, della prigionia dello spirito nella materia e del suo contrario, la liberazione dai corpi, di apocalissi e redenzione. La sfera fisica, della terrestrità, della corporalità appare corrosa dal male e dal disfacimento, la terra viene apostrofata come «Unterwelt»18 («mondo infero»), «Hölle auf Erden»19 («inferno in terra» — si pensi al titolo di un dramma di Georg Kaiser20 Hölle Weg Erde (Inferno Cammino Terra) — popolato da ragni e ratti21, folli e dannati di trakliana memoria. La visione del male che come un’esotica divinità si erge a simbolo della moderna realtà metropolitana, luogo del caos per antonomasia — Der Gott der Stadt (Il dio della città) è il titolo di una emblematica lirica di Georg Heym — culmina in immagini di fine dei tempi che assumono i tratti di una moderna apocalisse. Nella distruzione della città si celebra il disfacimento di quel mondo borghese che ha provocato con il suo progresso la perdita dei più elementari valori umani, determinando il fallimento del progetto divino. Nel Dio, evocato con tratti aconfessionali, al tempo stesso cristiano e pagano, confluisce la disperazione dell’uomo moderno che ha subito l’esperienza della morte di Dio come smacco di ogni messianica speranza di senso e di attesa. Di Dio si piange la morte, si accusa l’assenza colpevole, «il suo orrendo silenzio» («Gottes entsetzliches Schweigen»)

18 19 20 21

I. GOLL, Die Unterwelt. Gedichte, Berlin 1918. A. EHRENSTEIN, Gedichte und Prosa, a cura di K. Otten, Neuwied 1961, 214. G. KAISER, Hölle Weg Erde, Potsdam 1919. Cfr G. TRAKL, Dichtungen und Briefe, cit., 29.


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(Anton Wildgans). Nel primo caso ricordiamo l’incipit di Weltende (1905) di Else Lasker-Schüler: Piange il mondo come se il buon Dio fosse morto e la sua ombra plumbea ha il peso di una pietra di sepolcro.22

Per contro il divino assurge a istanza di salvezza, a personificazione di ogni speranza di lotta contro il male e di riscatto dalla tenebra. Come scrive Rudolf Kayser, Dio è colui che «… volte le spalle a inferni e paradisi di ogni genere, promette salvezza e redenzione»23. Si cristallizzano in Dio le tensioni di superamento del limite e di percezione della miseria esistenziale, l’aspirazione all’«assoluto»24 di Buber, quel principio di utopia che Barlach definisce «das ganz Andere». Ciò accade, secondo le teorie di Paul Tillich, nello «spirito profetico» in cui si canalizzano le forze antagoniste al mondo borghese: con piglio radicale di stampo prettamente espressionista e distante da ogni forma di teologia liberale, Tillich riconosce nello «spirito profetico» ciò che è in grado di operare radicali cambiamenti, come hanno fatto ciascuno per propria parte Marx, definito «lo spirito dell’antica profezia giudaica in parola e spirito» e Nietzsche, «lo spirito di Lutero in parola e azione», entrambi in lotta «contro il dio della società borghese»25. Le accuse rivolte dal socialista Tillich al mondo della borghesia non sono solo di natura sociale, ma anche, e più specificamente spirituale, giacché essa impedisce al singolo individuo il contatto con le profondità metafisiche del reale, emarginandolo ai confini del mondo il divino. Il rinnovamento spirituale è possibile per Tillich non mediante l’intervento di una chiesa, prigioniera comunque delle ipocrisie e del male del mondo capitalista, ma nell’arte 22 E. LASKER-SCHÜLER, Sämtliche Gedichte, München 1966, 88. [«Es ist ein Weinen in der Welt, / Als ob der liebe Gott gestorben wär, / Und der bleierne Schatten, der niederfällt, / lastet grabesschwer»]. 23 Verkündigung. Anthologie junger Lyrik, a cura di R. Kayser, München 1921, VII. [«… allen Höllen und Paradiesen zugekehrt, doch Rettung und Erlösung verspricht»]. 24 M. BUBER, Vom Geist des Judentums, Leipzig 1916, 51. 25 P. TILLICH, Kairos, Darmstadt 1926, 5.


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espressionista che, nella sua tensione antirealistica e simbolica, consente alla realtà mediante la sua raffigurazione apocalittica di squarciare quella parete che immette nella dimensione della profezia, della mistica e dell’utopia. Lo «spirito profetico» provoca grandi trasformazioni, poiché è, come auspicato dai poeti espressionisti, spirito di rivoluzione e radicale sconvolgimento, e crea una sorta di cortocircuito con il pensiero anarchico che auspicava lo scardinamento di tutto ciò che appariva come stabile e consolidato: «tutto ciò che sembra solido e immobile è sconvolto da forti sommovimenti»26. Soprattutto nell’immediato dopoguerra si realizza il nesso fra rivoluzione e religione, nella confluenza fra pensiero apocalittico e messianico che ritroviamo in molti testi sia di natura politica che poetica. Così scrive Gustav Landauer nella premessa del 1919 al manifesto Aufruf zum Sozialismus (Appello al socialismo): «che dalla rivoluzione giunga a noi la religione, una religione dell’azione, dell’amore, della vita, una religione che innalzi, redima, superi ogni limite»27. Nello stesso anno in cui appaiono le parole di Landauer precedentemente citate, viene pubblicata una poesia in sei canti che traduce in versi visionari ed estatici, nutriti da una simbologia apocalittica, i progetti rivoluzionari di quegli anni, Himmlisches Manifest. Ein Gesicht (Manifesto celeste. Una visione) di Franz Weinrich: Vedete, popoli! Ovunque sotto il cielo divampano rivoluzioni. Il fiato di Dio sputa tiranni e solleva dal tormento milioni di uomini. Oceani e fiumi si alzano fino ai confini delle terre ingoiano negli abissi le mostruosità dell’umanità.

26 27

G. LANDAUER, Aufruf zum Sozialismus (1908, 1911), Frankfurt am Main 1967, 49. Ibid., 55.


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Grazia Pulvirenti Le viscere della terra si spalancano. L’ardore divampa e accende la fiamma: Pallide figure galoppano sulle fiamme per tutto il mondo — i morti di tutta Europa, messaggeri divini! Occhi lacerati, petti dilaniati risuonano come tube nel giorno del giudizio! Per strade e piazze mari e monti, nelle sale dei palazzi di governo, nei bugigattoli delle fabbriche, nelle strade, ovunque vivano uomini. Giudizio! È incominciato il Giudizio! I cavalieri di fuoco vanno a caccia, incendiano tutto quello che trovano! Già ardono le fiaccole del Giudizio nell’ultimo dei giorni già si affollano in carovane genti d’ogni paese. L’oceano sputa i morti. uomini irrompono dalle fabbriche. grandi masse di despoti si accalcano in file indicibili. Mendicanti s’aggirano adesso arroganti. peccatori si fustigano. Penitenti sopportano il giogo della pena per prepararsi al Giudizio… Un uomo è in attesa per accoglierli, un uomo che si dice santo.


Apocalisse e utopia nella lirica espressionista tedesca

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capo del suo regno dove nessuno è mai entrato darà inizio a una nuova umanità. Sulle spade, sulle carceri sulla follia di assassini di fratelli irrompe il nuovo giorno il giorno di una nuova umanità.28

Questo ultimo esempio, come tanti altri forniti da innumerevoli liriche, da quelle di Becher a quelle di Werfel, rivela a chiare lettere come negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra l’apocalissi venisse intesa nel suo significato originario: il termine deriva dal greco apokalypto che vuol dire svelo, da kalypto, cioè copro e apo via da). Nel suo significato etimologico il termine è da intendere come rivelazione, e l’apocalissi si profila, nei giorni dell’epilogo della guerra, come apocatastasi, assurgendo a strumento di un’estrema utopia che annuncia l’avvento di una nuova umanità.

28 F. WEINRICH, Himmlisches Manifest. Ein Gesicht, Hannover 1919. [«Sehet Völker! Revolutionen / tosen unterm Himmel hin. / Gottes Atem speit Tyrannen aus, / hebt gewaltig Millionen / aus dem Chaos Qual empor. // Ozeane, Ströme steigen / an den Rand der Menschenlande, schlucken, was an Ungeheurem / je der Menschheit Bande, / in den Grund vergehender Zeiten. // Fleisch der Erde tut sich auf. / Enggepresste Glut kann sich nicht halten, / rast zur Flamme auf: / bleiche singende Gestalten / reiten auf den Flammen in die Welt - / Europas Tote, göttliche Gesandte! // Stirnen, die zerschossen, / Brüste, die durchstoßen, / dröhnen wie Gerichtstag-Tuben - // ob Straßen und Plätzen, / ob Bergen und Meeren, / in Ministersälen und Arbeiterstuben, / in allen Gassen, in allen Zonen, / wo Menschen - Menschen wohnen: / Signal! Signal! / Gericht! Gericht bricht an! / Die Flammenreiter jagen, zünden Fundamente an. // Schon glühn die Fackeln des Gerichtes / im jüngsten aller Tage - schon drängen sich in Karawanen / Völker um die Länderfahnen. // Ozean speit aus die Toten. / Menschen quellen aus Fabriken. Große Scharen von Despoten / schleppen sich in ungeheuren Zug. // Bettler gehen kühn und hoch, / Sünder geißeln sich im Schreiten. / Büßer stöhnen schwer im Joch - / aufs Gericht sich zu bereiten … // Einer steht - sie zu erwarten. / Einer wird sich heilig künden. / Er, Verwalter seines nie betretnen Reiches, / wird die neue Menschheit gründen. // Über Schwerter, über Kerker, / über Brüdermorde Wahnsinn, / bricht der neue Tag an, / erster Tag im Menschentum»].



DIRSI NELL’UMILTÀ DELLA PAROLA

GIUSEPPE SCHILLACI*

1. PREMESSA Prendere come oggetto di riflessione la Bibbia significa confrontarsi con un testo che ha inciso notevolmente nella storia, nella letteratura, nella coscienza dell’uomo, non solo occidentale. Quando si parla della Bibbia, si parla del libro per eccellenza. Siamo davanti al libro per antonomasia1. Ora, se è vero che, secondo l’espressione di Novalis, la sfida letteraria per un testo è poter diventare una Bibbia, cioè avere quell’autorevolezza che per un testo significa diventare normativo per la vita, perché la orienta, la guida e la sostiene; è anche vero che, avvicinare un qualsiasi testo significa avvicinare un mondo, una comprensione del mondo; vuol dire avvicinare un dinamismo e un orizzonte di senso. Incontrare un testo è come incontrare qualcuno, quindi incontrare una visione del mondo; incontrare qualcuno che ha dato un senso alla vita. Se, da una parte, quando si incontra veramente la persona, questa si presenta nella sua immediatezza, quindi senza mediazioni, dall’altra la persona incontrata ha un retroterra che bisogna saper dirimere, interpretare, poiché essa si offre anche nella sua articolata complessità, il che esige sempre un ascolto attento e discreto. Analogamente *

Docente di Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr X. TILLIETTE, I filosofi leggono la Bibbia. Una lezione introduttiva, in Rassegna di teologia 36 (1995) 41: «Il Cristianesimo è una religione storicamente rivelata, basata su libri sacri, ispirati. È una ‘religione del Libro’, almeno in parte, e più per i Protestanti che per i Cattolici, ma meno che per gli Ebrei e ovviamente per i Musulmani. Il Libro per antonomasia, la Bibbia, è dotato di un’autorità singolare: è parola di Dio, lo Spirito Santo ne è l’autore, il suggeritore di tutti gli autori anonimi. Leggendo la Bibbia si entra nel ‘paese della verità’, la terra della promessa della filosofia. Così pensa il credente sincero, l’idiota, e nessuno glielo può rimproverare». 1


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possiamo dire tutto questo per ogni testo scritto. Pertanto leggere, avvicinare, la Bibbia non è affatto semplice e immediato come potrebbe apparentemente sembrare: «le cose sono più complesse, poiché la Bibbia è anche un libro sigillato, se non ermetico. La parola di Dio, ascoltata comunque nella fede e rivolta all’intuizione del cuore, si è fatta parola umana, assoggettata alla comprensione. Non c’è un accesso diretto alla Bibbia, ci vuole sempre una mediazione più o meno tacita: traduzione, esegesi, ermeneutica, storia, generi letterari o Formgeschichte, studio degli stili, tipologia, poi lo studio dell’ampio ambiente della Tradizione e della Chiesa. La Bibbia è un prodotto polimorfo ed arborescente, che si presta ad una molteplicità di letture. Anzitutto l’idea che ci si fa del libro stesso, ossia del Libro, Libro dei libri, essendo anche un libro di libri, libro unico, destinato ai credenti, oppure libro come gli altri, ma anche un capolavoro dell’umanità, venerabile e patinato dal tempo, esige l’uso del testo, il modo di avviare la lettura»2.

Il testo scritto si tesse secondo una struttura essenzialmente relazionale, perché ogni pensare umano è nella sua scaturigine relazionale. Questo a conferma che il testo scritto affonda le sue radici nel vissuto della coscienza umana, nel vissuto dell’esperienza umana, nel vissuto dei rapporti interpersonali. Sono proprio questi vissuti a manifestare una struttura e un dinamismo di natura essenzialmente relazionali. Tutto ciò che si esprime infatti, sia esso scritto o orale, rivela sempre un senso. E il senso si dispiega, scaturisce sempre da una relazione, cioè da un incontro. Ora, quando incontriamo qualcuno, e lo incontriamo veramente, entriamo in relazione con lui, dialoghiamo, e dialogando lo accogliamo, lo comprendiamo. Il senso richiama infatti la comprensione, l’intelligibilità: «Il senso è l’intelligibilità. Ciò che non ha senso non ha alcuna intelligibilità. Scoprire il senso di qualcosa, è comprenderla»3. Secondo questa accezione, da non ricondurre 2

Ibid., 41-42. P. GILBERT, La crise du sens, in Nouvelle Revue Théologique 126 (1994) 81. L’autore dell’articolo cerca di cogliere questa crisi all’interno di una triplice dimensione: l’idea di intelligibilità, la distinzione tra senso e significazione e l’ottica contemporanea del nichilismo. Conclude il suo contributo asserendo che in ultima analisi: «La crise du sens naît en effet d’une tension immanente à l’être de l’homme, plus profonde que nos états intérieurs en conflit, d’une tension primordiale entre la signification et le sens, entre l’essence 3


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soltanto a visione intellettualistica, razionalistica o a mera analisi linguistica, il senso ha come riferimento essenziale la complessità della realtà e in modo particolare la complessità della vita di una persona o di una comunità di persone4. Una intelligibilità da non ridurre pertanto a coerenza logica, a discorso formale, ma una intelligibilità che è relazione di interlocuzione. Il senso si offre sempre in un rapporto umano intersoggettivo. Il rapporto paradigmatico di qualcuno che parla e di un altro che ascolta. Tutto questo in una reciprocità circolare aperta che tende a non arrestarsi.

2. L’EVENTO DELLA PAROLA In principio era la parola, era la comunicazione, era il dialogo. Qui, il principio è inteso come evento di interlocuzione in cui avviene uno scambio. Lo scambio archetipo — fondamentale — da cui trae origine e senso ogni altro scambio. È dentro lo spazio dell’interlocuzione che scaturisce e si capisce la parola. Infatti, è dentro una relazione che la parola viene accolta: è dentro un rapporto che essa ha senso. Così, la parola nasce da un evento: l’evento dell’interlocuzione; anche quando questa si dispiega nella sfera interiore, è pur sempre interlocuzione. Dentro un rapporto ha infatti senso parlare. L’uomo parla relazionandosi; anche quando parla a se stesso e con se stesso. Se, da una parte, la parola scaturisce dalla relazione intersoggettiva e ha senso in questa relazione, dall’altra, senza la parola non si dà relazione intersoggettiva. Non si dà neanche capacità intersoggettiva, non si dà dialogo, senza il fondamentale rapporto dentro cui si annodano il domandare e il rispondere; il nostro io si scopre come io nel gioco — nel rapporto — del pensiero che domanda e risponde:

et l’existence. Cette tension n’attend pas sa résolution. Tant que le sens est en crise, pourraiton dire paradoxalement, il garde sa transcendance» (ibid., 92-93). 4 Cfr M. DE CERTEAU, La faiblesse de croire, Paris 1987, 187 n. 1: «Par sens, j’entends non l’un des ‘sémèmes’ dont le repérage et l’organisation font l’objet d’une analyse sémiotique, mais la signification globale qu’un sujet individuel ou collectif peut donner à sa praxis, son discours ou sa situation».


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Giuseppe Schillaci «il nostro io l’abbiamo scoperto nel gioco di domanda risposta — sottolinea Rosenzweig — proprio del pensiero, come singola risposta ad una singola domanda. Ed anche procedendo oltre non passeremo, come nella creazione, da genere linguistico a genere linguistico bensì, con il realissimo essere parlato del linguaggio al quale qui, nel punto centrale di tutta l’opera, ci atteniamo, procederemo da parola reale a parola reale. Solo con la riflessione noi possiamo (e dobbiamo) riconoscere la parola reale anche come rappresentante del genere linguistico cui appartiene. Ma non la incontriamo così, come l’esponente di un genere linguistico, bensì direttamente, come parola [Wort] e parola in risposta [Ant-wort]»5.

La parola umana si capisce e si articola in questa relazione interpellante; parola che invoca una risposta. In questo senso la prima parola umana si configura come risposta ad una chiamata. La prima parola umana non è dunque domanda, ma risposta. L’uomo risponde ad una iniziativa. Cosicché l’uomo è e diventa uomo nella sua capacità di rispondere alla parola. All’attitudine fondamentale del domandare, così come si esplicita nel pensiero speculativo contemporaneo, gli succede la radicale docilità e disponibilità all’ascolto e all’accoglienza di una parola costitutiva. Dalla capacità propria del pensiero umano di interrogare si passa alla disponibilità ad essere interrogato. Secondo la tradizione del pensiero filosofico occidentale il domandare costituisce l’uomo nel suo essere uomo; domandare che si esprime, nella sua essenzialità, con la vitalità stessa, con la necessità, del pensiero interrogante6. Quindi non un domandare qualsiasi, ma il domandare che cerca il perché, la ragione, il fondamento, il senso. Il pensiero occidentale si presenta con questo tratto fondamentale che è appunto l’interrogare, il porre la domanda. L’uomo da interrogante per eccellenza, che pone la domanda fondamentale, si scorge anche interrogato. L’uomo è pertanto non solo colui che pone domande, ma anche colui che

5

F. ROSENZWEIG, La stella della redenzione, trad. it., Genova 1998, 186. Cfr M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica, trad. it. Milano 1979, 13: «‘Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?’. Capita a molti di non imbattersi addirittura mai in una simile domanda, né di chiedersene mai il significato: dato che non si tratta di fermarsi alla pura e semplice enunciazione, sentita o letta, della frase interrogativa, ma di formulare la domanda, di farla sorgere, di porla, di immettersi nella necessità di questo domandare». 6


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si lascia domandare: questo è quello che accade — secondo Heidegger — nel linguaggio: «Il linguaggio parla in quanto dice, cioè mostra. Il suo dire scaturisce dal Dire originario, sia per quanto s’è fatto parola sia per quanto è rimasto ancora inespresso, da quel Dire originario che trapassa il profilo del linguaggio. Il linguaggio parla nell’atto che, come mostrare, raggiungendo tutte le contrade di ciò che può farsi presente, fa che da esse appaia o dispaia quel che di volta in volta si fa presente. Di conseguenza noi porgiamo ascolto al linguaggio in modo da lasciarci dire da esso il suo Dire. Quale che sia il modo con cui ascoltiamo, ogni qual volta ascoltiamo qualcosa, sempre l’ascoltare è quel lasciarsi dire che già racchiude ogni percepire e rappresentare. In quanto il parlare è ascolto del linguaggio, parlando, noi ridiciamo il Dire che abbiamo ascoltato»7.

Alla domanda succede la risposta, dunque, l’ascolto. La famosa ‘svolta’ nel pensiero heideggeriano opera proprio questa sostituzione nel pensare. È nella relazione interlocutiva, nel linguaggio, che si manifesta questa attitudine fondamentale dell’ascolto: «Il tratto fondamentale del pensiero non è l’interrogare, bensì l’ascoltare quel che viene suggerito da ciò che deve farsi problema»8. L’uomo interrogato è l’uomo che ascolta; è l’uomo chiamato, interpellato, con il suo nome proprio; appello a cui non può sottrarsi, che non può fare a meno di ascoltare: «Il nome proprio, il quale però non è un nome in proprio, un nome che l’uomo si sia dato arbitrariamente, bensì il nome che Dio stesso gli ha creato e che solo per questo, come creazione da parte del creatore, gli è proprio ed è il nome a lui proprio. L’uomo, il quale al ‘dove sei tu?’ di Dio aveva ancora taciuto, come un ‘sé’ caparbio ed ostinato, ora, chiamato con il suo nome, due volte, con la grande determinazione, quella che non si può fare a meno di ascoltare, risponde totalmente aperto, totalmente dispiegato, tutto pronto tutto […] anima: ‘sono qui?. Ecco qui l’”io”. L’io umano singolo. Ancora totalmente recettivo, ancora soltanto aperto, ancora vuoto, senza contenuto, privo di essenza, pura disponibilità, pura obbedienza, tutt’orecchi»9. 7 8 9

M. HEIDEGGER, In cammino verso il Linguaggio, trad. it., Milano 1984, 200. Ibid., 139. F. ROSENZWEIG, La stella della redenzione, cit., 188.


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L’uomo tutto orecchi, aperto, disponibile, proteso nella pura recettività dell’obbedienza e dell’ascolto, è chiamato a rispondere. La risposta dell’uomo si fa parola. È infatti la capacità di parlare che fa l’uomo uomo, cioè che lo porta ad oggettivare e quindi a pensare: «senza la facoltà della parola l’uomo non può pensare, cioè non è uomo»10. Così, la parola si fa evento, si fa storia; così, la parola lascia delle tracce; si fa scrittura. Queste tracce, questi segni, che si lasciano rimandano ad una esperienza di comunicazione. Il segno rimanda sempre ad altro da sé, non siamo dinanzi ad un significato autoreferenziale. Il segno significa oltrepassandosi. Il segno rinvia sempre […] Il parlare che fa l’uomo uomo si esplica nella capacità di nominare, cioè nell’imporre nomi alle cose. L’uomo è infatti l’essere capace di imporre nomi a tutte le cose11. È questo atto fondamentale del parlare, cioè dell’imporre nomi, che pone l’uomo nella sua soggettività relazionale: «la possibilità di porre un atto di parlare è fondata in questo modo nella ‘impositio nominis’, che per questo è il primo e fondamentale atto linguistico umano, proprio perché non una reazione naturalistica animalesca o un’applicazione delle regole di un codice socio-culturale, appreso in un puro addestramento socio-linguistico in una società che in tal modo ancora neanche esiste, in quanto una società umana non pre-esiste al linguaggio umano»12.

Di conseguenza, è dentro questo dinamismo essenzialmente relazionale che si capisce la parola. Il principio relazione costituisce la capacità stessa del nominare, cioè il linguaggio stesso: «nell’atto completo del parlare si realizza e si concretizza ‘l’uscita’ dall’immediatezza — fittizia! — ed il soggetto costituisce l’oggetto come altro di

10

C. HUBER, Critica del sapere, Roma 1988, 149. Cfr Gen 2,18-20: «E il Signore Dio disse: ‘Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile’. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vederli come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma non trovò un aiuto che gli fosse simile». 12 C. HUBER, Vegliate dunque! La costituzione della realtà. Introduzione al pensiero trascendentale, Assisi 1999, 135. 11


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sé e autocostituisce se stesso come soggetto non solo contro l’oggetto, ma già opposto a se stesso in se stesso»13.

3. LO SCARTO TRA IL DETTO E IL DIRE L’uomo da una parte dice se stesso, capisce se stesso, relazionandosi simmetricamente con l’altro da sé che relazionandosi ugualmente si dice, dall’altra parte l’uomo dice se stesso asimmetricamente dinanzi all’indicibile, che sfugge alle categorie del linguaggio, che non può essere detto. Dalla relazione con l’indicibile la parola che ne viene fuori non esaurisce la ricchezza del discorso che si dispiega; è un detto che si manifesta come inadeguato. Il detto non esaurisce il dire. C’è sempre un al di là del detto, c’è sempre un oltre. Bisogna andare più lontano…; è l’eccedenza del dire che aiuta l’uomo a dirsi. Proprio dinanzi a ciò che mi oltrepassa si apre ancora lo spazio dell’interlocuzione. Tra il detto e il dire viene fuori una distanza, uno scarto. Il detto non riesce mai ad equiparare il dire. Lo scarto che si dischiude tra il Dire e il detto rivela più che un’opposizione dialettica o una contrapposizione antinomica, mostra la modalità «di uno iato, secondo una struttura più complessa fatta di scambi e di chiasmi che descrivono forse la respirazione stessa del discorso»14. Il discorso dentro cui si capisce la parola — il detto — mostra la dismisura del senso, manifesta il sovrappiù, l’eccedenza. Questo sovrappiù, questa eccedenza, si esprime nel linguaggio, nella parola; il Dire si consegna nel detto. L’indicibile si dice nelle categorie della logica formale, si dice in una parola. La parola è il luogo in cui si manifesta l’altrimenti che essere. L’altrimenti non resta muto ma si consegna alla parola che si esprime, che «è tradita nel detto dominante il dire che lo enuncia. Qui si pone un problema metodologico. Esso consiste nel chiedersi se il pre-originale del Dire (se l’anarchico, o come lo chiamiamo, il non originale) può essere indotto a tradirsi mostrandosi in un tema (se un’an-archeologia è possibile), e se questo tradimento può ridursi; se si può nello stesso tempo sapere e 13

Ibid., 144-145. E. FERON, De l’idée de transcendance à la question du langage. L’itinéraire philosophique d’Emmanuel Levinas, Grenoble 1992, 121. 14


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Giuseppe Schillaci liberare il saputo dai segni che la tematizzazione gli imprime subordinandolo all’ontologia. Tradimento al cui prezzo tutto si mostra, perfino l’indicibile, e grazie al quale è possibile l’indiscrezione riguardo all’indicibile che è probabilmente il lavoro stesso della filosofia»15.

La parola di Dio, la Bibbia, in questo contesto sarebbe il Dire inesauribile che si offre, si consegna nel detto. Per cui ogni detto del linguaggio, della parola umana, non ha la pretesa di possedere o di esaurire questo dire pre-originale. La distanza tra il Dire pre-originale e il detto resta tale, non viene annullata. Quanto più il dire si dice nel detto tanto più lo scarto si approfondisce; sempre inaccessibile, sempre oltre: trascendente. Il pensiero occidentale secondo Levinas si è affermato come confutazione della trascendenza: «Il logos dice, ha l’ultima parola che domina ogni senso, la parola della fine, la possibilità stessa dell’ultimo e del risultato. Niente può interromperlo. Ogni contestazione e interruzione di questo potere del discorso è immediatamente citata e rovesciata dal discorso. Esso ricomincia dunque non appena lo si interrompe. Nel logos detto — scritto — il logos sopravvive alla morte degli interlocutori che l’enunciano, garantendo la continuità della cultura»16.

Il Dire inaccessibile che si racconta nel detto mostra tutta la sua inenarrabilità, la sua non dicibilità, la sua non riducibilità. Il Dire non si esaurisce nel detto: «questo racconto è esso stesso senza fine e senza continuità, cioè va dall’uno all’altro — è tradizione. Ma per questo si rinnova. Nuovi sensi emergono nel suo senso di cui l’esegesi è il dispiegamento o la Storia prima di ogni storio15

E. LEVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. it., Milano 1983, 10. Ibid., 210. L’Occidente sa sempre ritrovare il filo del discorso, la coerenza, riconducendo la discontinuità alla continuità, l’interruzione alla prosecuzione: «il discorso filosofico dell’Occidente sa ritrovare, sotto i ruderi o nei geroglifici, i discorsi interrotti di ogni civiltà e della pre-istoria delle civiltà che si porrebbero separate. Questo discorso si affermerebbe coerente e uno. Riferendo l’interruzione del discorso o la mia estasi al discorso io ne riannodo il filo. Il discorso è pronto a dire in sé tutte le rotture, a consumarle come origine silenziosa o come escatologia» (l. c.). 16


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grafia. In tal modo significa l’equivoco indemagliabile che tesse il linguaggio. Non è forse da allora aberrazione o distorsione dell’essere che si tematizza, distorsione dell’identità? Impossibile simultaneità di senso, il non raccoglibile ma anche inseparabile l’uno-per-l’altro, terzo escluso che significa come equivoco o enigma — e tuttavia possibilità per questo al di là stesso di farsi notizia disfacendosi? Il linguaggio accederebbe i limiti del pensiero suggerendo, lasciando sottointendere, senza mai farsi intendere — implicazione di un senso distinto da quello che giunge al segno della simultaneità del sistema o della definizione logica del concetto»17.

La parola, il discorso come Dire pre-originale, si dice altrimenti, si dice all’infinito. È il Dire che non si equipara, che non si chiude in se stesso nella totalità omologante ed ermetica di una Ragione onnicomprensiva. Il discorso, anche quello silenzioso, si apre alla distanza, alla trascendenza, smentisce la pretesa totalizzante per consegnarsi come segno agli altri e farsi prossimità: «Ogni discorso, anche detto interiormente, è nella prossimità e non abbraccia la totalità»18. Un discorso, è questo Dire, che si apre continuamente, che non esclude, non reprime, non emargina, ma si dona come segno che rinvia sempre nell’ulteriorità dell’oltre.

4. LA DIMENSIONE CHENOTICA: IL DIRE NEL DETTO Il Dire nella sua eccedenza tuttavia si dice continuamente in un detto. L’indicibile si consegna nelle categorie della logica formale. È una discesa, nel linguaggio della Bibbia è una kenosi, del Dire nel detto. Il Dire quasi si 17

Ibid., 210-211. Ibid., 212. Il riferimento all’altro nell’interlocuzione rompe con la totalità: «l’ultimo discorso in cui si enunciano tutti i discorsi, io lo interrompo ancora dicendolo a colui che l’ascolta e che si situa fuori dal Detto che dice il discorso, fuori da tutto ciò che esso abbraccia. Ciò è vero anche del discorso che sto tenendo in questo momento. Questo riferimento all’interlocutore trafigge in modo permanente il testo che il discorso pretende organizzare tematizzando e avviluppando ogni cosa. […] Il discorso interrotto che recupera le sue proprie rotture è il libro. Ma i libri hanno il loro destino, appartengono ad un mondo che non racchiudono, ma che riconoscono scrivendosi e stampandosi e facendosi scrivere una pre-fazione e facendosi precedere da un’introduzione. Si interrompono e si richiamano ad altri libri e si interpretano in fin dei conti in un dire distinto dal detto» (l. c.). 18


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annulla nel detto, che tuttavia continua a dirsi nel detto. Proprio dalla distanza che si apre, tra il Dire e il detto, si manifesta la parola. Il dire non smette di dirsi, ha bisogno di dirsi come una esigenza insopprimibile, e tuttavia è come se il dire si subordinasse, come se si ritirasse: «La correlazione del dire e del detto, vale a dire la subordinazione del dire al detto, al sistema linguistico e all’ontologia è il prezzo che esige la manifestazione. Nel linguaggio come detto, anche se a costo di un tradimento, tutto si traduce davanti a noi»19.

La subordinazione del Dire al detto, dell’indicibile al dicibile, è contemporaneamente un mostrasi. Un mostrarsi che è un ritrarsi. L’indicibile si tradisce ritraendosi. Lascia delle tracce che però non si riconducono al segno cui rimandano. L’incircoscrivibile consegnandosi alla parola lascia delle tracce enigmatiche; la parola in questa prospettiva non è soltanto un medium che comunica l’altrimenti che essere, ma è lo stesso altrimenti. La parola, come segno che significa altro da sé, che nello stesso tempo segnala e dissimula, riveste un carattere di umiltà20. L’umiltà del segno ha la sua manifestazione concreta nella Sacra Scrittura: «L’umiltà del segno si articola nella Scrittura cristiana come sollecitazione cristologica dell’Umiltà di Dio-kenosi di un Dio iscritto nella sua Parola»21. La Parola di Dio rivela la sua natura chenotica dicendosi, lasciando delle tracce nella scrittura. L’altrimenti si dice nel detto, si dice quindi quasi nascondendosi. Un più nel meno. Questa discesa della trascendenza nell’immanenza, dell’infinito nel finito, non è intesa tuttavia come una diminuzione, ma piuttosto è da intendere come una contrazione. L’infinito si ritrae per fare spazio al finito lasciandolo essere. Il più che non schiaccia il meno, ma al contrario lo lascia venire fuori, lo lascia venire alla luce: la creazione. L’infinito non sminuisce, ma promuove il finito. Una parola che non si autoafferma, non si impone con la forza. Non è la forza autoreferenziale di una parola che non ha alcun riferimento oltre sé: solipsismo, dominio, controllo. Ma la parola 19

Ibid., 9. Cfr M. FAESSLER, Humilité du signe et kénose de Dieu, in AA.VV., Emmanuel Levinas. L’éthique come philosophie première, Paris 1993. 21 Ibid., 244. 20


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invece si esprime, si dice disdicendosi. «L’altrimenti che essere si enuncia in un dire che deve anche disdirsi per strappare così l’altrimenti che essere al detto in cui l’altrimenti che essere si mette già a significare un essere altrimenti»22 Il disdirsi come condizione, o meglio come in-condizione, del Dire originario. La parola primordiale lascia l’iniziativa all’altro; una parola che lascia l’altro dirsi. Senza ricondurre questo dirsi a sé. La parola che lascia la parola all’altro, lasciandolo dirsi. La parola lascia liberi. È la radice della libertà. La parola che non omologa, che non riduce l’altro da sé a sé. La Parola non è univoca, ma analoga, cioè plurale. La Parola si dice nella molteplicità, nella pluralità. È la Parola che si dice moltiplicandosi, sempre aperta: «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite» (Sal 61,12). Siamo dinanzi ad una parola che si espande, in una ermeneutica infinita. La Parola che si consegna al senso in una dilatazione infinita che non si lascia imbrigliare in uno schema predefinito, nell’identità omologante. La Parola, come Scrittura Sacra, è una parola aperta che non si lascia rinchiudere nella ripetizione dell’uguale; è una parola che si apre alla relazione, che interpella, che si dischiude alla dimensione intersoggettiva. La contrazione dell’infinito nella Scrittura è la condizione perché la lettura ricominci sempre daccapo: «Contrazione dell’Infinito nella Scrittura a meno che — e non vi sarebbe in ciò nessun impoverimento dell’idea cartesiana, né della gloria di Dio, né della sua prossimità religiosa —, a meno che non si tratti della dignità profetica del linguaggio, capace di significare oltre il detto, meraviglia dell’ispirazione nella quale l’uomo ascolta, sbalordito, quel egli stesso enuncia, nella quale legge già l’enunciato e l’interpreta, e nella quale la parola umana è scrittura. La scrittura comincerebbe con il rigo che, in qualche modo, si delinea, e si condensa o si libera come un versetto nel fluire della lingua — di ogni lingua, indubbiamente — per tramutarsi in testo, come proverbio o come favola o come poema o come leggenda prima che lo stile o la penna lo fissino sotto forma di lettere su tavolette, su pergamena o su carta. Letteratura ante-litteram!»23.

22 23

E. LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., 10-11. ID., Al di là del versetto, trad. it., Napoli 1986, 59-60.


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5. L’AL DI LÀ DEL VERSETTO Nella scrittura, nella Bibbia, la parola di Dio si fa parola umana. Parola di Dio che rinvia a un al di là del versetto, a un non detto. È Parola contenuta nelle parole di cui si serve l’uomo: «Il Talmud insegna — e ripete diciotto volte lungo i suoi trattati — un principio di Rabbì Jischmael: ‘La Toràh parla il linguaggio degli uomini’. Questo principio, certo, è sempre citato per non costringere l’esegeta a cercare un senso metafisico dietro tutti i termini del discorso biblico. Ma questa limitazione dell’interpretazione è sempre relativa e i confini qui segnati sono sempre dislocabili. Il grande pensiero racchiuso nel principio consiste nell’ammettere che la Parola di Dio può essere contenuta nelle parole di cui si servono tra loro gli esseri creati. Mirabile contrazione dell’Infinito, il ‘più’ abitante nel ‘meno’, l’Infinito nel Finito proprio come accade nel caso dell’idea di Dio secondo Descartes. Donde precisamente l’enigmatico surplus del senso per il lettore, donde l’esegesi implicita — e il richiamo all’esegesi — già nella lettura»24.

La Parola di Dio significa oltre sé, significa come discorso che si rivolge all’altro cui parla. È il linguaggio per eccellenza: «Il linguaggio che si è fatto Sacre Scritture e che conserva la sua essenza profetica — probabilmente linguaggio per eccellenza —, la parola di Dio già udibile o ancora rintronante in ogni parlare, non unicamente dall’impegno degli esseri comunicanti tra loro nel tessuto del mondo e della Storia, dove essi sono preoccupati solo di se stessi, e cioè della propria persistenza nell’essere. Nel linguaggio non significa soltanto un significato deducibile dalle parole che, congiunzioni di segni, si orientano verso questo significato. Al di là di ciò che vuol farmi sapere, esso mi coordina con l’altro al quale parlo; significa a partire dal volto d’altri, offuscato, ma inobliabile in ogni discorso»25.

La Parola di Dio si manifesta come evento che interpella, non come se fosse un evento determinato una volta per tutte, ma come se si realizzasse 24 25

Ibid., 59. Ibid., 61.


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ininterrottamente attraverso la capacità, la fantasia interpretativa di ogni uomo, che è in grado di arricchirla. Si passa dal testo al lettore. Un testo che mi interpella nella mia unicità di lettore. Il senso della parola scritta eccede il contenuto letterale, in quanto contiene più di quello che contiene. L’enunciato della scrittura «commentato eccede il voler dire donde proviene, che il suo poter dire supera il suo voler dire, che esso contiene più di quanto contenga, che un surplus di senso, forse inesauribile, resta chiuso nelle strutture sintattiche della frase, nei suoi gruppi di parole, nei suoi fonemi e lettere, in tutta questa materialità del dire, virtualmente sempre significante. L’esegesi verrebbe a liberare in questi segni un significato incantato che cova sotto i caratteri o che si annida in tutta questa letteratura di lettere»26.

Una parola che contiene più di quanto contiene. Questa è la parola ispirata; questa è la parola profetica, cioè non riconducibile soltanto alla correlazione del significante al significato. È la parola che significa in modo altro; risuona in essa una voce altra che aspira a prendere vita nell’esistenza personale del lettore — uditore. Questa parola sollecitando i lettori, gli uditori, quindi la pluralità delle persone, si consegna a un senso ulteriore: perciò «si deve comprendere la pluralità stessa delle persone come un’istanza ineludibile della significazione del senso, giustificata in qualche modo dal destino della parola ispirata, affinché possa esser detta l’infinita ricchezza del suo non-detto o affinché il senso del suo dire possa, secondo l’espressione tecnica dei rabbini, ‘rinnovarsi’»27. 26

Ibid., 189. Ibid., 190. Secondo Levinas se il linguaggio contiene più di quanto contiene non si riduce a strumento di pensieri e di informazione: «Ci si può chiedere se l’uomo, animale dotato di parola, non è, prima di tutto, animale capace di ispirazione, animale profetico. Ci si può chiedere se il libro, in quanto libro, prima di trasformarsi in documento, non è la modalità attraverso la quale il detto si espone all’esegesi e la richiama e nella quale il senso, immobilizzato nei caratteri, lacera già l’ordito che lo trattiene. In proposizioni che non sono ancora - o che già non sono più - versetti e che sono spesso versi o semplicemente belle lettere, risuona in mezzo a noi una voce altra, una sonorità seconda che copra o lacera la prima. Vita innumerevole di testi viventi attraverso la vita degli uomini che li comprendono» (l. c.). 27


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6. LA TESTIMONIANZA In conclusione ci chiediamo, cosa fa essere questo libro, la Bibbia, il Libro dei libri? È l’eccedenza del senso che si dà, che si consegna, a fare di questo libro, il libro per eccellenza, il libro dei libri. Dalla Bibbia viene fuori infatti un senso altro che sta sotto il senso immediato del detto, che conduce oltre il detto. La parola della Bibbia interpella il lettore alla prossimità. Si passa così dal testo al lettore, dal lettore al gesto, alla vita. La Parola si fa udibile e lascia intendere una voce altra: «senso altro che fa capolino sotto il senso immediato del voler dire, senso altro che fa segno a un intelletto teso ad ascoltare al di là di ciò che è intesto, alla coscienza estrema, alla coscienza risvegliata. Questa voce altra che risuona nella prima assume la configurazione del messaggio in forza di questa risonanza proveniente da dietro alla prima. Nella sua purezza di messaggio, essa non è soltanto una certa forma del dire, ne ordina il contenuto. Il messaggio come messaggio risveglia l’ascolto rivolto all’intelligibile-irrecusabile, al senso dei sensi, al volto dell’altro uomo»28.

Il senso del Libro si consegna come segno autentico nella prossimità dell’altro uomo. La Parola si fa udibile non nell’irruenza dell’uragano, non nella potenza del terremoto, non nella minaccia del fuoco, ma nella brezza leggera, nella voce del fine silenzio29. La Parola, di cui stiamo dicendo, si consegna nel silenzio, nella discrezione. Una Parola che si fa udibile e perciò comunicabile, non nella prevaricazione della forza, non nella irrazionalità del conflitto, ma nella pacatezza del dialogo la quale più che gridare, sussurra. Parola che si consegna nell’umiltà dell’ascolto. 28

Ibid., 191. Questa è, secondo Levinas, l’ispirazione. Cfr 1Re 19,11-13: «Gli fu detto: ‘Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore’. Ecco il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco sentì una voce che gli diceva: ‘Che fai qui, Elia?’». 29


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In principio è la Parola, in principio è Colui che non ha principio da cui nasce ogni interlocuzione, ogni conoscenza e sapienza. Se alle cose l’uomo può dare un nome, a Dio invece mai; Egli è sempre oltre; a Lui si presta attenzione e ascolto: «Non di Lui ma a Lui possiamo parlare; Egli, il ‘Tu’ interiore con cui discorrere! O anche Verbo, sostanza di ogni parola. Non dire altro dunque, o dire all’infinito. Dire appena che è, perché è inevitabile, Verbo, o Logos, o anche Amore creante: è già tanto. Dire: è l’ ‘Io-sono’ che parla dal rovo in fiamme, Voce che suona attraverso l’incandescente colata delle creature, è già tanto, è già piena rivelazione. Tuttavia di Lui non sappiamo se non quello che Egli non è. Dunque: più che dire di Lui, mettiamoci in ascolto: ‘Se tu mi ascoltassi, Israele!’…»30.

Egli non ha niente a che fare con certe nostre convinzioni; Egli è l’Oltre; Egli è Altro; Egli è l’Altro; Egli è nell’altro. Dinanzi a Dio occorre mettersi in atteggiamento di ascolto, vale a dire porsi in quel colloquio senza fine che si nutre di silenzio. Tacere è parlare! «Direi — sottolinea Turoldo — che è sapienza non meravigliarci più dei ‘silenzi di Dio’. Io consiglierei piuttosto il ‘silenzio su Dio’. Pare che Dio sia una consonante e neppure quale tu sai […] Ma ho dell’altro da dire. Perché non si disturbano questi documenti eterni impunemente. Qui si bruciano anche le ali del Serafino, qui si rischia di incenerire. E tuttavia questa è la fonte del Grande Fiume, l’acqua che disseta e purifica, e io credo che ognuno deve partire da là. Il libro è di tutti. In principio sta questa Parola. È lo scrigno da cui attingere cose vecchie e cose nuove, nascoste fin dall’origine del mondo. Certo che bisogna chiedere perdono solo nell’osare di accostarsi. E poi mettersi ad ascoltare più che a dire, in timore e tremore. Che dunque ognuno si apra e lasci che la stessa parola risuoni nella conchiglia del proprio cuore. Credo che sia un dovere di tutti: è questa la prima fonte della Catechesi universale, cui accostarsi con fiducia come al trono della Parola»31

30 31

D. M. TUROLDO, Il dramma è Dio. Il divino, la fede, la poesia, Milano 1992, 36. Ibid., 16-17. Il corsivo è nostro.


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È l’ascolto attento e discreto di questa Parola che apre lo spazio per una testimonianza autentica, che dia gloria a Dio. La parola udita e accolta invoca, interpella, la vita; è la parola che si fa gesto, quando questa viene accolta e messa in pratica; la parola si incarna nell’agape. Una parola che ha dunque nell’agape la sua massima espressione. La parola trova nel dono il senso pregnante. La Bibbia libro di tutti? La parola agape riassume la Bibbia, la sintetizza. Agostino ci dimostra — commentando la prima lettera di Giovanni — che nella Scrittura non si poteva dire di più: «Se per quanto riguarda la lode dell’amore non venisse detto nient’altro nel corso di tutte le pagine di questa Lettera, e se non venisse detto più nulla nel corso di tutte quante le altre pagine della Scrittura, e se dalla bocca dello Spirito di Dio noi sentissimo dire questa sola cosa, ossia che Dio è amore, noi non dovremmo domandare di più»32.

Se dovessero sparire non solo i libri, le pagine della Bibbia, ma anche le tracce della Bibbia, dalla faccia della terra e di questa dovesse rimanere soltanto l’espressione: Dio è amore, la Bibbia non cesserebbe di parlare, sarebbe contenuta tutta nella parola agape. Parola che non solo contiene la Bibbia ma la dice, la attualizza e la porta a perfezione. Se l’agape è la parola che contiene, esprime e attualizza la Bibbia, questa Parola è di tutti.

32

AGOSTINO, Commento alla prima Lettera di Giovanni, VII/4, Roma 1968.


INDICE DEI NOMI Abelardo, P. 185, 187, 190, 192, 193 Abraham Ibn Ezra 15, 30 Abraham, K. 118 Abramo 14, 82, 92, 93, 133, 137, 232, 233, 236 Abrams, M.H. 28, 29, 30, 31, 32, 34, 35 Acab 44 Acazia 44 Adamo 125, 166, 207, 227 Agamben, G. 70, 72, 73, 74, 75, 78 Agostino 14, 30, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 151, 152, 153, 155, 156, 157, 158, 160, 161, 162, 163, 168, 174, 176, 177, 180, 182, 187, 188, 189, 190, 191, 286 Al-Khalil’bun Ahmed 102 Alighieri, D. 55, 56, 57, 58, 60 Alonso Schökel, L. 12, 17, 23, 24, 28 Alter, R. 47, 174 Altick, R.D. 239, 240, 241 Altmann, A. 36 Álvarez Barredo, M. 46 Amit, Y. 47 Amos 15, 45 Anastos, M.V. 178 Anders, G. 67 Andersen, F.I. 45 Andrea da S. Vittore187 Anselmo d’Aosta 182 Antonelli, R. 7, 49 Apuleio di Madaura 90 Aristotele 9, 29 Arnaldo di Bonneval 180 Arnold, M. 242, 249 Artola Arbiza, A.M. 12

Asor Rosa, A. 60 Aulo Gellio 54 Austin, J. 74

Bach, J.S. 133, 257 Badiou, A. 70, 71, 72, 73, 75 Baildam, J.D. 35 Baker, D.W. 40 Baltzer, K. 15 Bar-Efrat, S. 47 Barberi Squarotti, G. 199, 233, 234 Barrett Browning, E. 249, 252, 253, 254, 255 Barth, K. 67, 68 Beardsley, M.C. 18 Becher, J. R. 269 Beda 153, 154, 155, 156, 157, 168, 175, 176, 178, 180, 191 Beethoven, L. van 34 Ben Zvi, E. 13 Benjamin, W. 75, 76, 77, 78 Benveniste, E. 73 Bergen, W.J. 43, 45 Berlin, A. 47 Bernardo di Chiaravalle 152, 192 Bernardo di Claivaux 192 Bertrand, D. 170 Bethge, E. 69 Binder, G. 178 Blake, W. 237 Blasucci, L. 221 Bloch, E. 264 Bloom, M. 27 Blum, E. 15, 20


288 Boccaccio, G. 57 Bolgiani, F. 169, 171 Bollnow, O. F. 63 Bonhoeffer, D. 69 Bori, P.C. 12, 64, 162, 174 Bossuet, J. B. 218 Bourquin, Y. 47 Branca, P. 102 Bravo Aragón, J.M. 12 Brecht, B. 60 Brioschi, F. 202 Brisebois, M. 13 Brito Martins, M. 175 Brontë, C. 243, 244 Brook-Rose, Ch. 26 Brown, R.E. 31 Browning, R. 237 Bruno di Segni 180 Buber, M. 266 Budde, K. 36 Buis, P. 41 Bultmann, Ch. 35 Burrow, J.W. 239 Bush, G.W. 61 Busi, G. 81, 93 Butler Yeats, W. 29 Butler, M. 32 Buttimer, B.C.H. 183 Buytaert, E.M. 185

Caino 206, 208, 226, 227, 228 Calcidio 190 Califfo Othman 98 Camastra, P. 161 Cardellini, I. 42 Carlyle, Th. 240, 249 Cassiodoro 154, 176 Cauchie, A. 181 Chadwick, O. 239 Chilton, B. 41

Indice dei nomi Chirichigno, G.C. 42 Cipriani, N. 158 Clarembaldo di Arras 193, 195, 196 Clausi, B. 8, 151, 178 Cocchini, F. 166 Cogan, M. 41 Coggan, D. 238 Colombo, Y. 88 Cooper, H. 253 Coote, R.B. 42, 43, 45 Coverdale, M. 237 Coyle, M. 32 Crossman, I. 24 Crouzel, H. 166 Culler, J. 26 Culley, R.C. 46, 47 Culpepper, A. 31

D’Ambrosio, M.G. 169, 170 Dalila 245 Damiani, R. 199 Daniélou, J. 172, 173, 178 Davide 37, 241 Davis, T.F. 24 De Certeau, M. 273 De la Potterie, I. 170 De Lubac, H. 51, 53, 54, 169, 170, 171, 172, 173, 178, 181 De Margerie, B. 152 De Moor, J.C. 16 De Moreau, E. 181 De Vaux, R. 36 Delègue, Y. 153 Den Boer, W. 179 Deutsch, S.M. 192 Di Berardino, A. 153 Dickens, Ch. 242, 243 Dini, A. 108 Diocleziano 262 Diogene Laerzio 89, 93


Indice dei nomi Dively Lauro, E.A. 164 Donato 154 Donne, J. 237 Dorival, G. 175 Dozeman, Th.B. 19 Drewermann, E. 107, 115, 118, 119, 123, 125, 126 Duhm, B. 37 Durrer, M. 47

Eco, U. 24, 25, 26, 27, 28, 29, 40 Edels, R.S. 91, 92, 93 Edipo 122 Ehrenstein, A. 265 Eistein, A. 96 Elia 15, 44, 46, 47, 284 Eliot, G. 248, 249 Eliseo 15, 41, 44, 45, 46 Empson, W. 17 Enoch 206 Epstein, I. 87 Erasmo da Rotterdam 162 Erotodo 114 Esdra 39 Eva 126, 207

Faessler, M. 280 Farbridge, M.H. 91 Feron, E. 277 Feuerbach, L.A. 249 Fewell, D.N. 47 Fillmore, Ch. 24 Finkelstein, I. 32 Fishbane, M. 11 Fitzmyer, J.A. 21, 31 Flight, J.V. 36 Flora, F. 199 Fokkelman, J.P. 19, 47 Fontaine, J. 191

289

Fortin, A. 163 Foscolo, U. 220, 225 Foucault, M. 74 Fox, M.V. 22 Freedman, D.N. 41, 43 Freud, S. 118, 121 Frye, H.N. 174

Gabrieli, F. 101 Gadamer, G. 64 Gaeta, G. 160, 161 Gafni, I. 90 Gandhi, M.K. 65 Gaskell, E. 242, 245, 246, 247 Gerolamo vd Girolamo Gertz, J.Ch. 37 Gezabele 44 Giacobbe 232, 233, 236, 243, 251, 252 Gibert, P. 38 Gilbert, P. 272 Giosia 45 Giovanna d’Arco 27 Giovanni XXIII 69, 127 Giovanni, evangelista 39, 60, 61, 137, 178, 258, 263, 286 Girolamo 51, 56, 57, 182, 187 Giuseppe 251, 252, 258 Goldin, J. 88 Goll, I. 265 Gray, J. 41 Grech, P. 12 Gregorio Magno 7, 53, 64, 154, 181 Grelot, P. 126 Grimm, J. 39 Grimm, W. 39 Guillaume de Conches 186 Guillemette, P. 13 Guillet, J. 171 Gunkel, H. 13, 38, 39, 107, 115, 116, 118, 128


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Indice dei nomi

Gunn, D.M. 47

Haacke, H. 181, 182 Hahn, R. 178 Hamlin, C. 174 Hammurapi 42 Händel, G.F. 257 Handelman, S.A. 249 Hardenberg, F.von 257 Häring, N.M. 193 Harl, M. 165 Harnack, A.von 178 Hastings, J. 89 Hauréau, B. 180 Hauser,A.J. 19 Hegel, G.W. 118 Heidegger, M. 59, 67, 274, 275 Heisenberg, W. 59 Heither, Th. 75 Hennequin, L. 116 Henrici, P. 106 Herbert, G. 237 Herder, J.G. 35, 36, 38, 39, 107, 110, 111, 115, 116, 128 Heym, G. 265 Hinneberg, P. 38 Hirsch, E.D. 22 Hitler, A. 68 Hobsbawm, E.J. 67 Hoddis, J. van 259 Hölderlin, F. 261 Hoover Rentería, T. 42 Horkeimer, M. 67 Horne, T.H. 241 Huber, C. 276 Hugo, V. 34

Ieoram 44 Iesse 132

Ieu 44 Ildeberto di Lavardin 192 Illich, I. 67 Irvine, M. 156, 172, 178 Isacco 14 Isaia 132 Isola, A. 155 Israelstam, J. 87

James, king 238 Jeanrond, W.G. 12 Jeauneau, É. 186 Jo Torjesen, K. 164, 167 Jones, Ch.W. 156, 191 Joyce, J. 27, 60 Jung, C.G. 118

Kabbazi, F. 8, 95 Kaiser, G. 265 Kaiser, G.R. 258 Kaiser, O. 21 Kalmin, R. 43 Kannengiesser, Ch. 161 Kant, E. 63, 77, 106, 111, 118, 146 Kather, R. 75 Kayser, R. 266 Keble, J. 242 Kendall, C.B. 153 Khalifa 101 Kierkegaard, S. 68, 78, 118, 119 Kilian, R. 14 Kingsley, C. 242 Kirkpatrick, P.G. 13 Klatt, W. 38 Klopstock, F.G. 257 Koch, K. 13 Kraus, H.-J. 35, 111, 112 Kraus, K. 262 Krieger, M. 40


Indice dei nomi Krumreich, G. 68 Kuther, U. 169

Lancaster, I. 30 Landauer, G. 267 Landow, G.P. 241, 242, 243, 245, 250, 251, 252 Lang, B. 126 Lasker-Schüler, E. 266 Lausberg, H. 50 Law-Viljoen, B. 248, 249 Lea 243 Lehmann, H. 68 Leone Magno 152 Leopardi, G. 9, 199, 200, 202, 205, 208, 209, 210, 213, 218, 220, 221, 222, 224, 225, 226, 229, 233, 236 Lerner, L. 239 Lerner, M.B. 87 Lessing, G.E. 107, 109, 110, 115, 128 Lettieri, G. 158, 162 Levi Della Vida, G. 101 Levinas, E. 278, 280, 281, 283 Lies, L. 163 Liverani, M. 44, 45 Loewenthal, E. 81 Long, V.Ph. 40 Lowth, R. 36 Luciano di Samosata 90 Luporini, C. 200, 202 Lutero, M. 148, 266

Macholz, C. 15 Maddalena 247, 261 Malina, B.J. 40 Maltusch, J.G. 35 Mann, Th. 258 Manns, F. 82, 88 Mannucci, V. 12

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Manzoni, A. 34, 220, 225 Marchese, A. 46 Marcione 164 Marguerat, D. 47 Marin, M. 152 Martello, C. 8, 177, 179, 196 Marx, C. 57, 266 Maurice, F.D. 242 Mawi, R. 97 McEvenue, S.E. 15 McKnight, E.V. 25 McPherson, J. 34 Melchisedec 241 Mendelsohn, I. 42 Mermin, D. 253 Mews, C.J. 185 Meynet, R. 19 Miegge, G. 68 Milton, J. 237 Mineo, N. 9, 199 Minissale, A. 8, 105, 126 Miriam 253, 254 Moberly, R.W.L. 15 Mommsen, W.J. 68 Montgomery, J.A. 41 Monti, V. 225 Moreno, M.M. 101 Mosè 32, 46, 82, 83, 164, 165, 241, 253, 254 Mozart, W.A. 34 Muhammad 96, 98, 100, 104 Muilenburg, J. 19 Murphy, R.E. 31

Nabot 45 Nations, A.L. 20 Neemia 39, 40 Neher, A. 90 Neuschäfer, B. 168 Neusner, J. 82, 88


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Indice dei nomi

Newman, J.H. 242, 250 Newton, I. 96 Nietzsche, F. 66, 67, 72, 266 Noè 250, 251 Nostradamus 96 Novalis (F. von Hardenberg) 257, 271

Ogden, C.K. 17 Omar ‘bnul Khattab 103 Omero 60, 114 Omri 44, 45 Onorio di Autun 180 Orazio 114 Origene 74, 75, 152, 153, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 171, 174, 175, 176 Osculati, R. 127 Osea 15 Ott, L. 192

Pacella, G. 199 Pacifici, R. 82 Paolo, apostolo 24, 39, 40, 54, 56, 58, 70, 71, 72, 73, 74, 131, 133, 134, 135, 139, 141, 165, 166, 172, 182, 184 Pascal, B. 72 Pasolini, P.P. 71 Pasquato, O. 161 Pénicaud, A. 163 Pépin, J. 171, 173, 178, 179 Pérez Rodríguez, E. 154 Perrone, L. 158, 163, 165, 174 Persico, G. 9, 237 Pesce, M. 152, 170 Pio XII 170 Pitagora 99, 114 Platone 29, 114, 186 Plutarco 93 Ponzio Pilato 78 Porfirio 178

Porter, S.E. 19 Pulvirenti, G. 9, 257 Punter, D. 32, 33

Rabban Yochanan ben Zakkay 81, 82, 86, 87, 88, 89, 90, 93 Rabbì El’azar ben ‘Arakh 81, 82, 88, 89, 90, 92, 93 Rabbì Giuda 84 Rabbi Hillel 87 Rabbì Jischmael 282 Rabbi Loew 90 Rabbi Shammay 87 Rachele 243, 261 Rad, G.von 17, 37, 38, 118 Rank, O. 118 Ratzinger, J. 58 Ray, R.D. 155 Reed, J.R. 243 Renan, J.E. 249 Rendtorff, FS. R. 15 Reventlow, H. 35, 37, 38, 39, 152 Riccardo da S. Vittore 187 Richards, I.A. 17, 18 Richter, D. H. 18 Ricoeur, P. 175 Riklin, F. 123 Rilke, R.M. 263 Rizpah 246 Rizzitano, U. 101 Rofé, A. 46 Rohrmoser, G. 111 Rollison, Ph. 178 Rortly, R. 26 Rosenzweig, F. 274, 275 Rossetti, fratelli 237 Rostagno, S. 8, 129 Rousseau, J.-J. 35, 200, 203, 204, 206, 229 Rufino d’Aquilea 166


Indice dei nomi Ruggieri, G. 8, 63, 95, 143, 146 Ruperto di Deutz 180, 181, 182, 192 Ruskin, J. 240, 249, 250, 251, 252 Russo, A. 169, 170

Sæbø, M. 11, 30 Sánchez Caro, J.M. 12 Sandmel, S. 11 Sansone 241 Santagata, M. 225, 233 Sartre, J.P. 118 Saul 245, 246 Savanarola, G. 249 Scheinberg, C. 253, 254 Schenkl, C. 191 Schillaci, G. 9, 271 Schiller, F. 34 Schindel, U. 154 Schlegel, F. von 64 Schleiermacher, F.D.E. 63, 64, 66, 69 Schmid, K. 37 Schneewind, J.B. 239 Schneiders, S.M. 31 Schultz, G. 257 Sciuto, F.E. 105 Scott, W. 34 Seale, M.S. 36 Seth 90 Severino, E. 67 Shaffer, E.S. 249 Shakespeare, W. 60 Silberman, N.A. 32 Simian-Yofre, H. 13, 45 Simon, D. 175 Simon, U. 30, 46, 47 Simonetti, M. 151, 152, 155, 158, 163, 164, 166, 171 Ska, J.-L. 7, 11, 16, 17, 30, 32, 39, 47 Smend, R. 38, 108, 109, 110 Sofocle 114

293

Somekh, A. 8, 81 Spicq, C. 170, 178, 180 Spini, G. 148, 149 Spinoza, B. 107, 108, 115, 128 Spurgeon, C.H. 250 Stamps, D.L. 19 Steck, O.H. 13 Stegemann, E.W. 15 Stemberger, G. 12, 82 Stern, M. 90 Sternberg, M. 20, 24, 47 Stolberg, F.L. 257 Strack, H.L. 82 Strambelli 101 Strauss, D.F. 249 Strubel, A. 166, 172, 180 Studer, B. 152, 158 Suleiman, S. 24 Sweeney, M.A. 13

Tadmor, H. 41 Talmon, S. 36 Tarabocchia Canavero, A. 177 Taubes, J. 73 Tavard, G.H. 106 Taylor, Ch. 87 Teodorico di Chartres 190, 193, 195, 196 Thackeray, W.M. 242, 243 Theobald, M. 23 Thum, B. 111 Ticonio 160, 161, 162, 174 Tigay, J.H. 16 Tillich, P. 266 Tilliette, X. 271 Timm, S. 44, 45 Timpanaro, S. 199, 201 Tito 86 Toaff, G. 92 Todd, J.A. 43 Todorov, T. 25, 176


294

Indice dei nomi

Tommaso d’Aquino 14, 53, 54, 98 Tompkins, J.P. 24 Trakl, G. 260, 261, 265 Travers Herford, R. 82 Tucker, G.M. 13 Tull, P. 11 Turoldo, D.M. 285 Tyndale, W. 237, 238

Ugo di Rouen 180 Ugo di S. Vittore 179, 183, 184, 185, 186, 188, 189, 190, 192, 193, 195

Valentino, C. 13 Valjean, J. 34 Valla, L. 155 Van Den Eynde, D. 193 Vanhoozer, K.J. 25 Veijola, T. 15 Vespasiano 87 Vian, G.M. 151 Vidler, A.R. 239 Vigoroux, F. 90 Vircillo Franklin, C. 154, 156 Virgilio 60, 154 Vittoria, regina 239 Voderholzer, R. 169 Vogt, H.J. 164 Voltaire (F.M. Arouet) 66, 70

Warren, A. 18 Watson, D.F. 19 Weinrich, F. 267, 269 Wellek, R. 12, 18 Wellhausen, J. 30, 37, 39 Wenham, G.J. 40 Weren, W.J.C. 40 Werfel, F. 269

Westermann, C. 14, 118 Wiesel, E. 87, 88 Wilde, O. 31 Wildgans, A. 266 Willi, T. 35 Wimsatt, W.K. 18 Witte, M. 37 Wittgenstein, L. 259 Wolff, R.L. 239 Womack, K. 24 Wood, S.K. 170 Wyclif, J. 237, 238

Zegdun, J. 82 Zenone di Cizio 93





QUADERNI DI SYNAXIS 15

Cultura della vita e della morte nel ’900 Atti del Convegno di studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania (4-5 aprile 2001) a cura di

Salvatore Consoli e Maurizio Aliotta ATTILIO GANGEMI MAURIZIO ALIOTTA

La morte e il dono della vita nelle Scritture Teologia della vita e teologia della morte

SALVATORE CONSOLI

La teologia tra vangelo della nonviolenza e cedimento alle istituzioni di violenza

SALVATORE AMATO

Il sacrificio della vita all’origine dell’esperienza giuridica

TOMMASO AULETTA FRANCESCO FURNARI GIACOMO PACE COSIMO SCORDATO

L’evoluzione nel contenuto dei rapporti giuridici familiari del ’900 Eros e thanatos nelle dipendenze da droghe La violenza dei minori Sopravvivenza quotidiana: osservazioni sulla vita di un quartiere popolare

FRANCESCO MIGLIORINO Bonifica umana: il manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto GIUSEPPE SPECIALE ANGELO PLUMARI

L’identità violata: gli ebrei in Sicilia Per grazia ricevuta: vita e morte negli ex voto siciliani


QUADERNI DI SYNAXIS 16

Magia, superstizione e cristianesimo Seminario interdisciplinare dei docenti dello Studio Teologico S. Paolo per l’anno accademico 2002-2003 a cura di

Salvatore Consoli – Egidio Palumbo – Mario Torcivia GIOVANNI MAMMINO SALVATORE MARINO F. SAMBATARO - F. FURNARI GIUSEPPE RANIOLO ROSARIO GISANA PASQUALE BUSCEMI FRANCESCO FURNARI ATTILIO GANGEMI MAURIZIO ALIOTTA GIANBATTISTA RAPISARDA

CORRADO LOREFICE ALBERTO NEGLIA EGIDIO PALUMBO

Magia e superstizione in Sicilia al tempo di Gregorio Magno Superstizione e magia nelle preghiere siciliane del siracusano La superstizione e le patologie psichiche Superstizione e magia Dio e i maghi: quale sovranità? Pietà popolare: domanda religiosa ed istanze morali nella cultura siciliana Fiducia nel Dio di Gesù Cristo e modelli di attaccamento Alleanza Magia, superstizione e Cristianesimo. Punto di vista dogmatico Magia, superstizione e cristianesimo. Indicazione del Magistero e della liturgia del Vaticano II Ripensare il significato della vita: dalla propiziazione all’invocazione, dal possesso al dono Itinerario di fede che aiuta a riscoprire il senso del dono Nel segno umile della bellezza di Dio. Per una rilettura della devozione dello Scapolare del Carmine


Collane di Synaxis

«NUMERI MONOGRAFICI DI SYNAXIS»

Synaxis XIII/1 - 1995

«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgicocelebrative S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVI/2 - 1998

«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVII/1 - 1999

«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna AA. VV., Sezione teologico-morale AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia


Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli


«QUADERNI DI SYNAXIS»

AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito) AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190


AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427 AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240 AA. VV., Magia, superstizione e cristianesimo, Giunti, Firenze 2004, pp. 240

«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS»

G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288


P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158 A. G ANGEMI , I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524 G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418 A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19) G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere (in corso di pubblicazione)




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