Synaxis 23 1 (2005)

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SYNAXIS XXIII/1 - 2005

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



INDICE

Sezione monografica «Dimensioni della ritualità» INTRODUZIONE (Giuseppe Ruggieri)

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RIFLESSIONI SU STORIA, STRUTTURA E RITO NELLA cultura del secondo Novecento . . (Antonio Coco)

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RITO ED ETICA. PER UNA lettura dell’evangelo di Marco. (Roberto Osculati) 1. La via dell’evangelo . 2. Vegliate! . . . 3. Non è qui . . .

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IL TEMA DEL SACRIFICIO NELLA PRIMA AGIOGRAFIA MARTIRIALE (II-III SEC.). APPUNTI PER UNA STORIA . . . DELLA morte nel cristianesimo antico . (Barbara Fronterré)

RITUALITÀ E DINAMICA DEL POTERE NELLA festa di S. Agata a Catania . . . . . (Adolfo Longhitano) 1. Introduzione . . . . . . 2. I tradizionali festeggiamenti di Catania in onore della Patrona 3. La Santa Patrona nelle lotte baronali del ’300 . . 4. Progetti e realizzazioni di una città divisa nel ’400 . . 5. Conclusioni . . . . . .

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RITUALITÀ E CONFLITTI SOCIALI NELLA festa di S. Agata a Catania dopo l’Unità (Gaetano Zito) 1. L’eredità del Settecento . . 2. Le prime schermaglie nel 1875 . 3. S. Agata senza il municipio . . 4. La festa a spese dei devoti . . 5. Il ritorno del municipio . . 6. Qualche osservazione finale. .

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LA RITUALITÀ DELLA PENITENZA ECCLESIALE. INTRECCI E INTERFERENZE TRA DIMENSIONE RITUALE,

e teologica della esperienza del perdono . . . 117 (Andrea Grillo) 1. Il rapporto tra il “sacramento della penitenza” e la penitenza battesimale-eucaristica . . . . 2. Il IV sacramento è entrato oggi a far parte della iniziazione cristiana: “crisi del sacramento” o “sacramento della crisi”? . 3. Excursus: la confessione e il caso di necessità. A proposito del recente Motu Proprio “Misericordia Dei” . . 4. Il confessionale, la prima penitenza e le forme troppo formali . 5. La riscoperta dell’equilibrio delicato tra diverse esperienze sacramentali GIURIDICA

FEDE E BELLEZZA E LA confessione romantica (Rosa Maria Monastra)

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UN CUORE PENSANTE… BALSAMO PER MOLte ferite . (Arianna Rotondo)

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Sezione miscellanea DIO, LA CHIESA, LA PREGHIERA NELLA CANZONE D’AUTORE DAGLI ANNI ’70 AD OGGI. APPROCCIO teologico alla cultura contemporanea . (Giuseppe Nicolosi) 1. Premessa . . . . .


2. 3. 4. 5.

Le ragioni dello scritto . . . Approccio teologico alla canzone d’autore . Approccio sistematico alla canzone d’autore Conclusioni . . . .

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COMPENDIO DELLA DOTTRINA sociale della Chiesa (Salvatore Latora)

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Presentazione

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Recensioni .

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UN HOMME DE DIEU DI GABRIEL MARCEL (Enrico Piscione)

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Note AGATA SANTA TRA CULTO E SIMBOLO DI LIBERTÀ IN alcuni panegirici del Settecento . . . (Gaetano Zito) 1. La festa nel Settecento . . . 2. Caratteri della predicazione settecentesca . 3. La predicazione su s. Agata . . 4. Visione d’insieme . . . .

NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO



Sezione monografica «Dimensioni della ritualità»

Synaxis XXIII/1 (2005) 7-9

INTRODUZIONE

GIUSEPPE RUGGIERI*

Sono qui raccolti alcuni dei contributi del seminario che il Centro di Studi Interdisciplinari del Fenomeno Religioso (CeSIFeR) ha dedicato alla ritualità durante il 2003 e il 2004. Il rito è certamente una componente essenziale di ogni dimensione religiosa. Ma lo è perché, a livello più profondo, in esso si manifesta una dimensione dell’esistenza umana in quanto tale. Una volta che si tenti tuttavia di definirlo, allora l’impresa risulta alquanto difficile1. Per questo, come punto di partenza della ricerca del seminario si assunse il suo nudo significato etimologico. G. Semerano alla voce ritus ha: “Ciò che avviene in un ordine e in una successione prestabilita. Vi si scorse la base di gr. a\ri-(qmoév) numero, nhé-ri-tov senza numero. Accad. ri¤dum, riddum (successione, esecuzione, buona guida, ‘Nachfolge, gute Führung), con influsso semantico della base corrispondente a accad. redûm (essere conveniente, opportuno, appropriato), ‘taugen, sich eignen, redûm (aver corso)”2. Emerge già, in questa semplice risoluzione etimologica il duplice motivo della ripetizione ordinata e della convenienza di siffatta ripetizione, che costituisce la base per l’assunzione del rito ad espressione privilegiata *

Coordinatore del CeSIFeR. Cfr per uno status quaestionis la voce Rito di V. Valeri in Enciclopedia Einaudi 12, Torino 1981, 210-243. 2 G. SEMERANO, Le origini della cultura europea. Vol. II. Dizionari etimologici, Firenze 1994, 546-547. 1


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Introduzione

del rapporto con il sacro. Comunque una precomprensione non è una tesi da difendere, ma soltanto uno strumento euristico ed ermeneutico al tempo stesso, da rettificare e falsificare attraverso la ricerca stessa. Il seminario non voleva essere innovatore. L’interpretazione del rito del resto è già un campo arato, fin dalla seconda metà dell’Ottocento e, ancora nella seconda metà del secolo passato le interpretazioni del rito oscillano tra la sua riconduzione al bisogno personale e/o a quella di una funzione sociale in cui si traducono i rapporti di potere. Proprio per questo Antonio Coco ha sinteticamente rivisitato l’approccio al rito operato dallo strutturalismo e dall’antropologia culturale. Pur nella consapevolezza delle tante interpretazioni del rito, i lavori del seminario si sono quindi concentrati su testi e vicende che, invece di condurre ad interpretazioni univoche, hanno fissato al contrario un’irriducibile funzione e natura della ritualità, comunque la si voglia comprendere e definire. Forse è proprio questa l’unica conclusione del seminario. Roberto Osculati ha riletto il vangelo di Marco per misurare il tentativo evangelico di ricondurre il rito dentro l’istanza della moralità, quasi a presa d’atto di una ineliminabile dimensione dell’esistenza umana, da dominare tuttavia e quasi da umanizzare, per imprimervi “i tratti di un’umanità vigile, intelligente, operosa e generosa, che supera ogni limite, faziosità e contrasto”. Barbara Fronterrè, analizzando invece le prime agiografie martiriali del II e del III secolo, vi ravvisa il luogo in cui il martirio viene letto in funzione del superamento della pericolosità della morte. La vicenda dei martiri fu letta cioè attraverso il filtro di tradizioni, convinzioni, tratti di mentalità che esprimevano il bisogno di dominare il territorio della morte mediante la sua demonizzazione. La morte risulta essere così un momento agonico e pericoloso, con “un carattere di prova rischiosa che può essere affrontata ed elaborata, anzitutto, nel senso della dissoluzione delle forze sataniche”. Particolare attenzione il seminario ha dedicato alla ritualità della festa di S. Agata, elemento centrale della cultura e della religiosità della città di Catania. Adolfo Longhitano e Gaetano Zito documentano a dovizia come


Introduzione

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questa festa sia diventata parte costitutiva della religiosità popolare e come conseguentemente tutte le lotte di potere che si sono avute lungo i secoli siano state costrette a venire capo di questo dato. Laddove si perviene anche ad una conclusione interessante: la devozione a S. Agata non definisce l’identità di un gruppo soltanto o di una fascia sociale, ma i riti in cui questa devozione si esprime definiscono al tempo stesso l’identità di tutta la città. Questi riti dunque si impongono alla considerazione di tutti, per cui rappresentano una terra di conquista per chiunque voglia affermare alcuni valori (come nella predicazione) o semplicemente affermare la propria egemonia. Analizzando in chiave teologica il rito della penitenza ecclesiale Andrea Grillo vi vede l’espressione del rapporto unitario tra il dono della grazia di Dio e l’accettazione di questo dono da parte dell’uomo, dove la dimensione “giuridica” va subordinata all’esperienza del dono. Ma la “confessione” non è solo quella penitenziale ecclesiale. Essa è per così dire anche un rito letterario. Per Agostino essa era una narrazione della propria vita davanti a Dio perché tutti potessero condividere il cammino di espiazione. Nei moderni tutto questo rivive, ma tra mille contraddizioni, prescindendo a volta da Dio, mantenendo tuttavia come interlocutori i contemporanei. Rosa Maria Monastra analizza in particolare il caso della confessione letteraria romantica, specificamente in Tommaseo, nel quale l’esito risulta essere tuttavia quello di una presa di distanza, di un “sospettoso e rancoroso integralismo”. E l’onnipresenza del rito segna anche l’esito della vicenda esistenziale di una Etty Hillesum, al cui diario è dedicata la breve nota di Arianna Rotondo. Come si può vedere i risultati del seminario non offrono una rinnovata comprensione del rito. Da questo punto di vista possono essere definiti modesti. Ma l’approccio interdisciplinare ha condotto ad un risultato abbastanza univoco: l’imprescindibilità del rito per la comprensione della vicenda umana, nelle sue varie espressioni. E, per quanto riguarda il fenomeno religioso, un altro dato si conferma: il rito non si lascia piegare in una direzione soltanto. Esso può diventare espressione di una compiuta libertà come nel caso di Etty Hillesum, come può essere un condizionamento pesante che occorre dominare e superare, come nel caso della religiosità popolare. In ogni caso si impone la consapevolezza del suo peso.



Synaxis XXIII/1 (2005) 11-18

RIFLESSIONI SU STORIA, STRUTTURA E RITO NELLA CULTURA DEL SECONDO NOVECENTO

ANTONIO COCO*

Il rapporto tra storici e strutturalismo è stato, per tutti gli anni ’60, decisamente virtuale e non ha influenzato la critica. Si porrà invece come passaggio obbligato quando appariranno, alla fine del decennio, i primi lavori di antropologia storica. Essi daranno vita a filoni di ricerca distinti: i più direttamente influenzati dallo strutturalismo si occuperanno soprattutto dell’analisi dei sistemi simbolici e rituali e della struttura della parentela, mentre un altro indirizzo di studi — che per comodità, seguendo Charles Tilly1, indicheremo con il termine di etnografia retrospettiva — avrà un rapporto di maggiore autonomia dalla tradizione lévi-straussiana di quanto ne avesse l’opera febvriana: esso rappresenta un tentativo di sviluppare, anche se in modo non omogeneo, le indicazioni metodologiche di Marc Bloch, in particolare il riconoscimento del rapporto tra campi di relazioni inter-personali e sistemi normativi che il fondatore delle «Annales» aveva indicato come problema centrale della nuova ricerca storica. Questa impressione è suggerita in primo luogo dall’opera pionieristica di Maurice Agulhon, lo studioso transfuga comunista che inaugura questo genere di studi, trovando sul piano della ricerca e non della discussione teorica un rapporto tra storia e antropologia. La sua monumentale thèse sulla Provenza tra Settecento e Ottocento è piuttosto una ricognizione su un tema marginale nella cultura francese degli anni ’60: i comportamenti sociali e la struttura politica. Infatti, per spiegare il rapido mutamento dei comportamenti politici popolari tra la Rivoluzione e il 1848, Agulhon si volge a una dimensione ambigua e mal conosciuta della vita sociale, le forme * 1

Professore Associato di Storia moderna presso l’Università degli Studi di Catania. Cfr Antropology, History and the Annales, in Review of Antropology 1 (1978).


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Antonio Coco

associative: sul piano della sociabilità2, seguito attraverso i meccanismi dell’associazionismo popolare, prima devozionale e poi laico, egli trova un modo di identificare gruppi sociali — e non classi — a partire dall’aggregazione di atteggiamenti politici diffusi, spontanei e capillari. Lo studio, riletto oggi, sconta sul piano del rapporto tra storia e antropologia la marginalità in cui si è sviluppato. Il rapporto tra le due discipline è infatti trovato concretamente sul piano del folklore, che offre materiali molto ricchi sui comportamenti collettivi, ma lo spessore dell’analisi è limitato: i riferimenti sono infatti eruditi locali, storici delle tradizioni popolari del secolo precedente, e colpisce l’assenza di riferimenti a Mauss e a Robert Hertz, insomma all’etnografia durkheimiana. I sostegni teorici sono certamente Gurvitch e soprattutto Gabriel de Tarde, il grande e misconosciuto avversario («sconfitto») di Durkheim, studioso dei comportamenti collettivi ma soprattutto della micro-sociologia dell’imitazione. Infine è fatto richiamo esplicito a Paul Leuillot, che negli anni ’50 aveva proposto, pur senza rilevanti contributi di ricerca, un programma di studio dei regimi agrari e della psicologia popolare espressa dal folklore. Oltre all’analisi della sociabilità, l’etnografia retrospettiva si è volta verso temi più squisitamente sociologici, dall’esplorazione della rilevanza storica della nozione di reciprocità e dall’analisi del dono, allo studio della famiglia e della comunità contadina. Alcuni caratteri di fondo accomunano quest’area di studi, dall’esplicita critica dello strutturalismo lévi-straussiano alla dichiarata identificazione col programma blochiano. Centrale è la discussione sul ruolo della famiglia nella società medievale e moderna, in cui paiono convergere e confondersi interessi metodologici e preoccupazioni ideologiche. Da un lato vi è chi, come l’ultimo Georges Duby, partendo dall’interesse per la storia della famiglia mutuato dall’antropologia sociale inglese, in particolare da Jack Goody, ha invocato la necessità di nuove sintesi della società medievale sulla base dei rapporti inter-personali, delle sfere di scambio e dei gruppi sociali che queste prospettive consentono di individuare. Ma si tratta di uno sguardo che, per ora, pare soprattutto ansioso di ricondurre le manifestazioni culturali di una società alle strutture produttive secondo schemi desunti da una storiografia marxistica che pur si 2 Per questo tema si veda G. GEMELLI - M. MALATESTA, Le avventure della sociabilità nella storiografia francese contemporanea, Milano 1982.


Storia, struttura e rito nella cultura del secondo Novecento

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vorrebbe depurata dal determinismo economicistico. Dall’altro lato non può non colpire, ad esempio, che nel presentare il numero delle «Annales» dedicato a «famiglia e società» André Burguière abbia parlato della famiglia come dell’unità sociale su cui edificare una storiografia alternativa all’histoire historisante e alla storia — etnocentrica — dello stato. Cogliere la dimensione familiare della vita sociale significa per Burguière superare una concezione olistica dell’individuo, e nello stesso tempo individuare un’area di rapporti alternativa a quella del potere formale: famiglia e stato vengono perciò interpretate come due entità concorrenti, cosicché le fortune dell’una coincidono con il declino dell’altra, e viceversa. Quest’affermazione, che richiama la contrapposizione ottocentesca tra Gemeinschaft e Gesellschaft, è tuttavia il segno di una sovra-determinazione ideologica — l’antropologia storica coincide con la storia del «quotidiano» — che finisce per farsi veicolo di interpretazioni riduttive, soprattutto per quanto riguarda la società pre-industriale. Segno di un potere non contrattuale, alternativo a quello delle istituzioni politiche, la famiglia non viene ritenuta una dimensione in cui si elabora e si costruisce il potere: non è, in altri termini, la discriminante intorno alla quale si fonda la stratificazione sociale che sorregge e, in certi limiti, condiziona la formalizzazione istituzionale del potere. Risulta perciò arduo, in questa prospettiva, dar conto delle dinamiche politiche inerente a quell’insieme di famiglie che identifichiamo con la comunità contadina: per lo stesso Burguière3, nella ricerca su Plozevet, lo studio delle politiche matrimoniali e patrimoniali non ha condotto a riconoscere le matrici della stratificazione sociale; l’élite locale è identificata soltanto attraverso la sua capacità di interpretare stimoli esterni, quali ad esempio la politica scolastica e laica della Terza repubblica. Dove però il peso dell’orientamento febvriano e il conseguente appiattimento del problema delle scelte si sono combinati in modo più tenace con l’eredità strutturalistica è negli studi dei sistemi simbolici e rituali, che hanno riproposto il vasto quanto generico ambito della storia delle mentalità, come lettura psicologistica dei rapporti tra individuo e ambiente (ecologico come umano) nel quadro della civilisation. Il tentativo degli anni ’70 è infatti caratterizzato da una lettura funzionalistica dei sistemi simbolici, di cui si accentuerà la natura omeostatica di insiemi 3

Cfr Famille et societé, in Annales E.S.C. 1972 e Bretons de Plozevet, Paris 1975.


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Antonio Coco

coerenti quanto inconsapevoli (e, si sarebbe tentati di dire, coerenti in quanto inconsapevoli) di rappresentazioni mentali collettive. Soltanto in una fase ulteriore vi si cercherà l’espressione di ambiti sociali, ma questi risulteranno tanto vasti quanto vagamente definiti in sede di analisi. Si continuerà così soprattutto a insistere sul carattere coercitivo delle strutture mentali, in parallelo con i vincoli geografici, ecologici e demografici. Oggetto privilegiato di questi studi sono soprattutto il folklore, e in particolare le sue tracce narrative, i miti, le credenze e le ritualità in Europa considerati nel tempo «lungo» che va dal mondo antico alla fine dell’ancien régime. La linguistica strutturale e l’analisi strutturalistica della letteratura forniscono gli strumenti per la connotazione «sociale» delle forme espressive. Due influenze appaiono a questo riguardo rilevanti. Da un lato, a partire dalla riscoperta di Vladimir Propp, il materiale «popolare» delle fiabe viene analizzato per funzioni formali e non per contenuti. È un approccio di chiara ispirazione funzionalistica: pur accentuando giustamente l’autonomia delle forme simboliche dalle relazioni sociali in cui si manifestano, esso tende a trattare quest’ultime come mere varianti empiriche delle funzioni latenti, e si dedica piuttosto a ricostruire le relazioni che intercorrono tra le varie funzioni individuate. Questa impostazione si è saldata con l’insegnamento di Dumézil, traducendosi in proposte più o meno esplicite di ricostruzione di un sistema simbolico della civiltà europea. A partire dall’inventario delle forme simboliche si è cercato di ricostruire l’immaginario collettivo delle popolazioni dell’Europa preindustriale e, subordinatamente, di identificarne le valenze sociali. Lo sviluppo di una cultura delle élites sullo sfondo di una generica cultura popolare costituisce l’indicazione più matura di questa linea di ricerca, ma ne rappresenta al tempo stesso il limite più vistoso, soprattutto per la difficoltà di cogliere le implicazioni in termini di potere delle trasformazioni culturali. D’altra parte l’analisi strutturale della letteratura — Bachtin in particolare — ha permesso di arricchire e constatare questo quadro, facendo della cultura popolare un sistema simbolico specificamente fondato sul codice del bas corporel. Per questa via, che ha ravvivato per un decennio lo studio della cosiddetta cultura popolare, si è giunti invece a rivalutare i processi repressivi e di controllo delle masse popolari, in particolare della Controriforma, di cui si sono così unilateralmente accentuati gli aspetti aggressivi o disgreganti di una presunta omogeneità culturale sottostante.


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Questi due filoni di analisi dei sistemi simbolici e rituali trovano un denominatore comune nella procedura lévi-straussiana di dedurre le funzioni dalle forme. Si tratta, è chiaro, di un espediente che consente di trovare comode scorciatoie nella ricostruzione spesso faticosa dei contesti in cui si manifestano i processi studiati, ma che denuncia pesanti limiti interpretativi. Si prendano oggetti cari alla storiografia degli anni ’70, quali i rituali profani dello charivari: l’analisi delle forme dei comportamenti collettivi è condotta in una prospettiva ambigua, che rischia di attribuire agli stereotipi culturali valenze normative. Ciò è evidente, ad esempio, nell’identificazione del rituale di inversione con codici culturali tipici delle classi popolari, il che a sua volta muove dall’assunto aprioristico secondo il quale in ogni caso un rituale di inversione quale la scampanata assume connotati «popolari» e ha la funzione di sottolineare in forme eversive l’ordine morale. Questo procedimento appare del tutto compatibile con le indicazioni di Lévi-Strauss4, per il quale le norme esprimono valori condivisi coscientemente dagli attori sociali e si situano perciò a un livello qualitativamente inferiore rispetto alla struttura, che esiste indipendentemente dalla coscienza che se ne ha. In questo quadro il procedimento opposto, vale a dire la rinuncia in nome dell’empirismo alla ricerca delle forme (espressive, rituali ecc.) per limitarsi alla descrizione dei comportamenti e delle norme soggiacenti, risulta altrettanto riduttivo. Il problema, forse, sta altrove. Tanto le strutture formali quanto i sistemi normativi presuppongono condizioni di equilibrio delle formazioni sociali studiate, nel senso che entrambi riflettono uno stato, un assetto dato di relazioni tra azioni e linguaggi simbolici. Soltanto l’assunzione del mutamento dei processi storici a base dell’analisi, potrebbe consentire di cogliere nei sistemi di segni linguaggi dissonanti non solo perché capaci di smentire la realtà, quanto perché adattabili dai singoli al mutamento stesso. Nello stesso modo soltanto pazienti inventari delle variazioni di un mito o di qualsiasi forma espressiva in diversi ambiti territoriali, etnici e sociali, così come nelle diverse situazioni all’interno di tali ambiti, paiono in grado di far progredire l’analisi dei sistemi simbolici. Così come nelle diverse situazioni all’interno di tali analisti questo tipo di lettura, tentata da Edmund Leach all’inizio degli 4 Cfr La struttura e le forme. Riflessioni sopra un’opera di V. Propp, in Antropologia strutturale, trad. it., Milano 1978.


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anni ’70, ha il pregio di indicare la gamma delle alternative — mitiche, rituali e normative — presenti in un dato processo, e di ricostruire la logica delle scelte, o delle non-scelte, tra divergenti opzioni culturali che da esse promanano. Ciò presuppone però che sia possibile — in termini teorici e di metodo — un’antropologia storica che non si fondi su modelli di equilibrio. E proprio questo è il tema delle discussioni che, nello stesso arco di tempo, hanno animato il panorama anglosassone. Si è conclusa a Parigi (marzo 2003) la fortunata mostra di testi dedicata a Roland Barthes. Molti visitatori hanno ritrovato un mito di giovinezza, altri un autore più citato che letto. Con l’occasione sono apparsi i primi due dei quattro corsi tenuti al Collège de France (1976 e 1980). Non si tratta, come nel caso di Lacan e Foucault, di ricostruzioni di allievi. Bartes scriveva di tutto e si circondava di scrittura, come amava ripetere. Sono anche due corsi complementari, dedicati a delineare nella parola umana il luogo ove vivere insieme, il luogo del neutro ove si neutralizza ogni pulsione di sopraffazione dell’altro. E tuttavia c’è da considerare con attenzione il Barthes “moralista”; quello che medita intorno ai limiti della esperienza umana non già per ripiegare sulla finitudine, ma al contrario per affermare che la nostra limitazione va interamente assunta sino a saturarne i confini. Il compito che vi è connesso è quello di meditare e di congiungere l’intelletto con l’affetto: non la morale stoica dell’impassibilità, ma un vagliare emotivo che si fa presenza di spirito e capacità di ascolto. Tonalità dunque per il tempo ordinario del lavoro nella vita ‘sola’ del quotidiano, e comunità di forme riuscite del vivere assieme. Così Barthes percorre la storia degli istituti monastici, dai bèguinages al Monte Athos. Barthes aveva fatto del silenzio di quei monasteri, di quella raccolta separatezza, ben più che un ricordo del passato, quasi un progetto: quello di una vita ritmata, dove il rispetto, lo spazio misurato, la giusta distanza, l’esercizio, l’ascesi e la festa, fornivano quell’armonica idioritmia, che è il “ritmo proprio” che appenna “accenna”, che si snoda e alterna, come lo spago che il bimbo fa scorrere lungo un centro accogliente e pacato, ove siede — ad altro intenta eppur vigile — la madre. Così immaginava Barthes nella sua Lezione inaugurale al Collège de France. Di contro si erge l’arroganza, l’elogio della riuscita, del fare vittorioso; questa «vocazione di tutto l’Occidente alla volontà», all’af-


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fermazione di sé. Il regredire della timidezza, del riserbo, della pausa, del raccoglimento, questo è il positivo. La comunità perfetta è dunque quella ove aleggia quest’aura — che a nessuno appartiene e fra tutti circola in una splendida essenzialità — di una “trasparenza sonora assoluta”, rintocco che vibra in nome di tutte le tacite voci di un monastero: «strumento della regola e compimento di un brusìo senza angoscia, quasi metonimia del cielo». Studioso di Fourier, Barthes richiama tutti i “riti di comunione”, la “convivialità come incontro”, la nostalgia di un ritmo scandito secondo un libro d’ore. Il timing monastico è serrato, a un tempo nell’arco dell’anno e delle ventiquattro ore: mattutino al primo albeggiare; lodi al levar del sole; vespri alla fine del giorno; compieta entrando nella notte. La comunità si arma di coraggio per affrontare il silenzio notturno. “Vivere-insieme”, anche da solo, forse, per affrontare insieme la tristezza della sera. Essere estranei, è inevitabile, necessario. Ancora una volta però — sotto altre forme — il rito aiuta a vivere.



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RITO ED ETICA. PER UNA LETTURA DELL’EVANGELO DI MARCO

ROBERTO OSCULATI*

1. LA VIA DELL’EVANGELO Il nesso tra il rito battesimale e la conversione morale è posto emblematicamente all’inizio del racconto evangelico. Il principio storico ed il carattere esistenziale dell’annuncio si sovrappongono, ciò che si verificò alle origini costituisce un carattere perenne della nuova via di giustizia proclamata da Giovanni il battezzatore e percorsa da Gesù di Nazaret fino alle ultime conseguenze. Una duplice citazione biblica riassume e rende attuale la profezia antica: è imminente l’ingresso del Dio d’Israele nella sua dimora, nel tempio di Gerusalemme. Da lì giudicherà il suo popolo e lo libererà dalle sue colpe: offerte sacrificali ipocrite, infedeltà coniugale, violenza, slealtà, ingiustizia, oppressione, superbia, sfiducia, irrisione. Il patto del Sinai dovrà essere rinnovato in tutta la sua concretezza, sacerdozio e riti dovranno esprimere una giustizia che pervade tutti gli aspetti della vita individuale e sociale, pietà religiosa e impegno morale saranno strettamente uniti (Malachia 1,1-4,6). L’ultimo breve volume della profezia ebraica è proposto come l’orizzonte più immediato dell’evangelo di Gesù, come se vi si raccogliesse una sintesi della secolare esperienza religiosa d’Israele. Il tempio, il sacerdozio, i riti non avevano mai potuto garantire la salvezza d’Israele ed erano stati macchiati dall’ingiustizia morale che aveva stravolto gli ideali di una vita semplice, solidale, partecipe, idealmente posta alle origini del popolo eletto. Ci si era illusi molte volte di sostituire l’impegno dell’uguaglianza e della comunione amicale con lo splendore apparente delle cerimonie e delle osservanze. Ma tutto questo apparato *

Ordinario di Storia del cristianesimo presso l’Università degli Studi di Catania.


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Roberto Osculati

imponente si abbatteva in rovina su chi ne faceva uso per nascondere la propria ipocrisia ed infedeltà. La religione dei riti tentava inutilmente di sostituire quella del rapporto umano diretto e capace di affrontare le esigenze più elementari e più comuni. Questo divario, che segnava negativamente la religione d’Israele divenuto simile alle altre genti, sarebbe stato finalmente tolto di mezzo dalla presenza immediata del divino in un momento risolutivo della storia del popolo. Alla sentenza ammonitrice di Malachia si aggiunge quella consolatoria di Isaia: è finito il tempo del castigo comminato attraverso le armi di Babilonia e l’esilio in terra straniera, è giunto il tempo del ritorno in patria, del culto purificato con l’impegno morale. L’antico messaggio di gioia e speranza è di nuovo ed ancor più attuale, quando occorre uscire da un lungo esilio spirituale per accorrere ad un luogo purificato da ogni sventura e miseria (Isaia 40,1-11). La profezia ha sempre sferzato con accenti sarcastici la cieca fiducia nel rito religioso considerato come garanzia di giustizia e salvezza. Gli eventi di una tragica storia che ha visto la corruzione ed il crollo del regno di Davide, diviso in se stesso e schiacciato da forze straniere, hanno mostrato quanto poco l’elezione, la città santa, il tempio, il sacerdozio, i sacrifici tutelino l’incolumità d’Israele. Se il popolo si contamina con quell’ingiustizia che sembra essere normale nella vita delle genti straniere, sarà distrutto come quelle. Violenza, egoismo, arroganza, falsità, indifferenza trovano il loro castigo negli eventi della storia, mentre nessuna garanzia può essere fornita da una religione che non sia pratica di uguaglianza tra gli esseri umani. Il severo messaggio della profezia sorge da una secolare meditazione sulle vicende politiche e militari in cui Israele è coinvolto. Elia ne rappresentava idealmente le esigenze morali, che una lunga tradizione avrebbe continuamente riproposto e interpretato lungo il percorso delle origini e del tramonto della monarchia israelitica, della speranza di una sua rinnovata manifestazione. Giovanni il battezzatore, la prima figura del racconto evangelico, ripresenta i temi della conversione morale, del ritorno alla semplicità ancestrale dei nomadi, dell’attesa di una nuova creazione liberata dagli artifici della storia umana. Il rito dell’immersione nell’acqua è indice di liberazione, di purificazione, di novità dalle scorie di una lunga vicenda di orrori e distruzioni. La nuova creazione apparirà in tutta la sua forza con l’uomo di Nazaret, capace di comunicare direttamente con la forza divina,


Rito ed etica. Per una lettura dell’evangelo di Marco

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dichiarato figlio amatissimo, posto alla prova nel deserto, amico delle creature originarie e compagno degli angeli. Una lunga storia intricata e difficile viene sospesa perché appaia la condizione originaria dell’essere umano, liberato da tutto quanto ne ha deformato la figura plasmata dal divino e posta al centro dell’armonia cosmica. Quando la voce del profeta è soffocata dalla prigionia, Gesù inizia la sua attività in Galilea: il tempo del giudizio è imminente, occorre mutare i criteri della propria esistenza ed affidarsi alla novità dell’evangelo. Nel luogo del culto sinagogale e nella casa degli amici egli compie nei fatti quanto va annunciando a parole: la libertà dell’essere umano dalle sue deformazioni. Esse pesano con il loro carico fisico e morale sulla creatura oppressa dalla malattia e dalla colpa. Ma il figlio prediletto ed esemplare, il nuovo Adamo animato dall’alito divino, vince la follia, la malattia, l’esclusione, la paralisi, l’infedeltà. Alla sua voce e al tocco della sua mano gli spiriti malvagi sono vinti, la donna febbricitante si rialza e diventa operosa, colui che è allontanato dalla vita comune vi è riammesso, chi è disteso e portato da altri impara a camminare. La legge e i suoi riti fissano uomini e donne ad una condizione di schiavitù, di immobilità, di impotenza, di indegnità, ma questa umiliazione è sovvertita da una presenza attiva e benefica (Marco 1,21-2,12). La liberazione dal male morale, oltre che da quello fisico, esige che si violino le regole della diffidenza nei confronti di chi non osserva la legge. Gesù si fa commensale, amico e medico di coloro che vivono al di fuori delle misure devote dei pii: la sua presenza è più forte del male e sa affrontarlo e vincerlo ignorando ogni separazione, paura o difesa. Il male è fragile e provvisorio di fronte alla benevolenza e alla simpatia. Allo stesso modo sono superate le regole del digiuno e del riposo sabbatico per affermare l’universalità e la concretezza del regno imminente, non più ristretto da separazioni, esclusioni e differenze. Il rito che classifica e divide gli esseri umani ha esaurito la sua funzione di riflettere il male e di metterlo in evidenza. Esso appare come il prodotto di una storia ambigua che deve essere ricondotta alle sue origini e deve guardare alla sua fine. La condizione naturale dell’essere umano, quale è indicata nel mito delle origini ed è riproposta nelle azioni taumaturgiche di Gesù, supera tutte le tradizioni e le classificazioni. Se la legge inchioda l’individuo alla sua impotenza, nei due aspetti della colpa e del rigore formale, lo Spirito della nuova creazione lo libera e lo rende attivo


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(Marco 2,13-3,12). Il più grave pericolo morale tuttavia non si manifesta nell’aperta violazione di comandamenti e convenzioni sacrali, ma nel considerare questi come canone supremo dell’etica. Chi confonde le opere della nuova creazione con quelle dello spirito maligno, appellandosi alla legge nella sua presunta giustizia, si fa complice dell’attività di Satana, il distruttore della condizione originaria. Tra lo spirito del male e il rigore legale si genera un’alleanza nascosta che è la fonte della colpa più grave e irrimediabile (Marco 3,22-30). Addirittura la novità evangelica supera il legame familiare e i diritti dei congiunti per costituire una nuova ed universale società (Marco 3,31-34). Di fronte al rivolgimento introdotto dallo Spirito della nuova creazione, i criteri formali ed impersonali della legge e della tradizione religiosa mostrano il loro carattere artificioso e provvisorio: ognuno è richiamato a se stesso, alla sua intelligenza, alle sue scelte. Parole ed azioni che annunciano il regno imminente cadono su terreni spirituali diversi, che condizionano la crescita ed il frutto della nuova semente. Occorre ormai badare al proprio intimo, alle responsabilità individuali, alla necessità di una decisione che è garantita solo dalla capacità di rischiare la propria esistenza (Marco 4,1-34). Oltre i confini della terra promessa dominano la follia, la violenza, l’impurità. È un territorio infestato da una legione di spiriti immondi, ma anch’essi sono vinti ed affogano nelle acque, mentre l’essere umano loro soggetto diventa annunciatore dell’evangelo nonostante la diffidenza e l’ostilità dei più (Marco 5,1-20). Neppure la morte pone ostacolo alle forze della vita, mentre la soffocano le convenzioni di una società abituata all’esclusione, al lutto, ai ruoli fissati per sempre, al sarcasmo (Marco 5,21-6,6). Le regole della purità rituale stravolgono l’ordine primordiale dei valori, poiché la malvagità ha la sua origine all’interno dell’essere umano, non negli oggetti che lo attorniano. Così una donna impura, un sordomuto ed un cieco sono liberati dai loro affanni e folle intere sono sfamate, mentre il formalismo dei riti, dei calcoli, delle garanzie si chiude nella sua acredine sterile (Marco 7,1-8,26). Pure chi vuole restringere le opere del regno imminente nei suoi schemi di successo politico e di glorie monarchiche viene respinto come complice delle opere distruttive di Satana e la croce sarà il segno terribile che si leva tra due mondi spirituali in perenne conflitto (Marco 8,27-9,1).


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Nell’ultimo tratto della narrazione che precede l’ascesa alla città del tempio e della monarchia davidica, Gesù ripetutamente avverte i suoi compagni della sua morte imminente: chi ha violato ripetutamente i canoni sacrali deve cadere sotto il giudizio implacabile della legge. Ma da quell’evento tragico sorgerà una nuova vita oltre ogni condanna ed esclusione. Il comandamento si compirà come strumento dell’ultimo e perfetto sacrificio offerto per una universale salvezza. L’ordinamento rituale d’Israele troverà una definitiva realizzazione, che lo escluderà, per aprire la strada dell’impegno di ogni cuore intelligente e generoso. Nella prospettiva di questa dialettica provocatoria è esposta l’etica della comunità degli ultimi tempi, dominata dalla misericordia e dalla coerenza, dalla fedeltà coniugale e familiare, dal disprezzo delle ricchezze, dall’umiltà e dal dono di sé, dalla rinuncia ad ogni superiorità e privilegio. Un’etica semplice, universale e rigorosa, nata da una libera decisione, rinnova l’itinerario del Figlio dell’uomo tra i suoi simili e ne attende l’imminente ritorno quale giudice e salvatore dell’umanità (Marco 9,2-10,45). Un’ultima immagine dal carattere fortemente simbolico riassume i caratteri dell’evangelo galilaico in procinto di scontrarsi con la religione e la politica della città santa. Gesù ha lasciato la provincia delle sue origini e della sua attività taumaturgica, ha disceso la valle del Giordano, ha superato Gerico e sta per avviarsi lungo la salita che conduce a Gerusalemme. È imminente la festività della Pasqua ed una folla di pellegrini pieni di illusorie speranze si accompagna a lui. Un cieco è seduto accanto alla strada che dovrebbe condurre il nuovo re d’Israele al suo trionfo: egli invoca rumorosamente la pietà dell’erede del trono davidico. Nonostante gli ammonimenti della folla, riesce ad attrarre l’attenzione di Gesù, ad essere chiamato ed interrogato da lui, ad esprimergli il desiderio di essere guarito. La sua fiducia, priva di ogni calcolo e pudore, gli permette di aprire gli occhi e di porsi al seguito del nuovo re che percorre una ripida via (Marco 10,46-52). Il predicatore e taumaturgo passa sempre di nuovo accanto a mendicanti e ciechi che invocano la sua misericordia per poterlo seguire sulla strada che conduce alla vita attraverso la morte. Per capire gli eventi senza illusioni e fantasie, senza preoccupazioni rituali e formali, senza appellarsi a privilegi e diritti, occorre farsi donare nuovi occhi per scorgere una realtà nascosta sotto le ombre dell’incomprensione, dell’insuccesso, dell’assassinio. È la vista del vero discepolo, avvertito della sua miseria, bisognoso di essere guarito, libero da timori, fiducioso nella


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novità, capace di mettersi in cammino. Sta giungendo alla fine un mondo che ha affrontato le contraddizioni degli esseri umani catalogandole ed esasperandole, sta nascendo un universo che riflette l’armonia primordiale e la proietta verso un futuro imminente ed impegnativo. L’evangelo che Gesù ha proclamato con tutto se stesso collega gli inizi con la fine e conclude un lungo periodo intermedio dominato dal conflitto tra dimensioni opposte dell’essere umano, esacerbate dall’imposizione legale e dalla prescrizione rituale.

2. VEGLIATE! Con l’arrivo di Gesù a Gerusalemme lo scenario del racconto evoca continuamente la regalità ed il sacerdozio. La presenza del taumaturgo e maestro che viene dalla Galilea trasforma le due istituzioni tradizionali, le loro memorie ed attese, i riti che le circondano. La monarchia davidica da oltre sei secoli era sospesa, ma rappresentava pur sempre un ideale carico di emozioni. Il sacerdozio ed il tempio erano erano in piena attività e costituivano il centro della vita nazionale d’Israele, ma sempre la profezia antica aveva dubitato della coerenza morale di coloro che gestivano la sacralità dell’istituzione rituale, già un tempo caduta in rovina. Al momento della stesura del testo evangelico forse stava compiendosi o era già stata compiuta la nuova tragedia della ribellione all’autorità romana e il terribile castigo che ne seguì. La profezia di Gesù riprendeva critiche secolari ed era forse confermata dagli eventi recentissimi. L’istituzione monarchica e quella sacerdotale, nelle loro forme storiche, avevano esaurito il loro compito ristretto e provvisorio per tramutarsi in un regno e in un sacerdozio universali, cui tutte le genti potevano essere chiamate. I pochi giorni dell’attività di Gesù nella città santa scandiscono in modo netto queste tematiche ed ancora una volta fanno sentire, nelle sue parole, la voce dei suoi compagni ormai dediti ad un’attività che li ha condotti oltre i confini geografici e rituali d’Israele. Un modesto puledro asinino quale seggio regale, il simbolo del fico privo di frutti, la liberazione del luogo di culto dai traffici che lo deturpano, il primato della fede, della preghiera e del perdono reciproco, la penitenza, la persecuzione, la coerenza morale, l’attesa di una vita oltre la morte, la


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rinuncia ad una religione esibizionista ed egoista, testimoniano i caratteri del nuovo regno inaugurato dal messia provinciale ed ormai diffuso tra le genti. Oltre ogni illusione dei compagni, pronti al tradimento e alla fuga, oltre ogni disputa ed ostilità dei tutori della legge e del culto, due figure anonime delineano l’etica degli ultimi tempi: lo scriba sapiente e la vedova povera (Marco 12, 28-34. 41-44). L’esperto della legge dei padri pone la domanda più esigente: qual è il comandamento davvero essenziale? Gesù cita la preghiera tradizionale dell’israelita, che richiede la dedizione completa al divino e al proprio prossimo. Il saggio approva, ribadisce ed aggiunge la superiorità di un’etica del cuore, della vita, dell’intelligenza e dell’impegno su quella dei riti sacrificali del tempio. Gesù loda l’acutezza del conoscitore delle Scritture, che ha vi ha scoperto la via del regno di Dio. Questa intensa e reciproca simpatia fa convergere la religione della legge, dei profeti e dei salmi in quella dell’evangelo rivolto a tutti gli esseri umani, figli del medesimo Padre ed uguali nelle loro esigenze. Tutto l’apparato liturgico del tempio deve scomparire a vantaggio di un culto universale e concreto reso con la propria esistenza personale in comunione con quella altrui. Tra la folla che getta denaro nel tesoro del tempio, e a differenza di molti ricchi che fanno offerte in apparenza generose, appare una vedova povera che dona due monetine. Ma, oltre ogni misura materiale, ella è stata la più generosa, poiché ha donato quanto le serviva per vivere. Il valore del gesto dipende dalla condizione della persona, non da un presunto criterio obiettivo. Del resto il luogo del culto è destinato alla profanazione e alla distruzione, la vita dei popoli sarà sconvolta, i discepoli saranno perseguitati, le famiglie entreranno in conflitto, la natura perderà il suo ordine normale. Le scelte personali non godranno di alcun appoggio collettivo, ogni individuo risponderà di se stesso in attesa del Figlio dell’uomo che tornerà per raccogliere i suoi (Marco 13). La realtà naturale, civile e sacrale che circonda la vita umana mostrerà tutta la sua inconsistenza. Natura e storia si riveleranno come uno scenario provvisorio e fatiscente, secondo l’insegnamento della profezia e dell’apocalittica. Ogni essere umano dovrà affrontare nella nudità della sua coscienza e della sua responsabilità il crollo della creazione antica e il confronto diretto con colui che ha mostrato i caratteri di quella nuova. L’etica del regno imminente elimina ogni maschera ed ogni puntello per divenire una sapienza concreta ed universale, capace di togliere la sua fiducia a tutto ciò che deforma la vita umana sotto


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le apparenze della sicurezza, del successo, del benessere. L’edificio complicato e tortuoso della storia è destinato a cadere, mentre l’essere umano deve essere ricondotto alla nudità delle origini e della fine.

3. NON È QUI I riti della festività pasquale, l’elevazione al trono regale, il superamento della religione accentrata nel tempio sono le grandi scenografie entro le quali è rappresentato l’apparente fallimento del profeta e taumaturgo di Galilea. La memoria della liberazione dalla schiavitù egiziana, le attese di un’ultima perfetta pace si trasformano in un cupo giorno di congiure, di tradimenti, di infedeltà, di accuse, di sarcasmi, di torture e di morte. La celebrazione pasquale sembra essere totalmente stravolta nelle mani dei custodi della legge e del culto. Ma una donna oppone ai tutori dell’ordine religioso e giuridico l’intelligenza dell’amore che capisce oltre le apparenze e il dono che accomuna. Il profumo sparso con abbondanza sul capo della vittima la prepara al sacrificio e alla dignità regale che ne deriverà. Il gesto dispendioso coglie l’essenza più profonda dell’evangelo nella sua universalità e dedizione. Proprio quando le dimensioni della vita di Gesù si restringono e si oscurano, il gesto amoroso della profezia femminile le aprono a tutto il mondo, quale via di giustizia offerta a chiunque (Marco 14,1-9). La cena festiva è racchiusa tra due annunci di tradimento: Giuda e Pietro sono uniti nella stessa sorte miserevole e l’usuale offerta del pane e del vino diventa segno della morte imminente e dell’attesa del regno. La notte delle memorie si trasforma in quella dell’attesa del sacrificio, del sonno pesante degli amici, di un bacio ingannevole, di un tentativo di lotta armata, di una fuga generale, di una simbolica nudità (Marco 14,10-51). La pretesa di sostituire la sacralità del tempio è l’atto di accusa contro il prigioniero, mentre l’insistenza sul luogo del culto sottolinea ancora i motivi dell’ostilità contro il provinciale messia. Il processo dinnanzi all’autorità romana, le beffe dei soldati, il rito della condanna mostrano le vie paradossali della regalità inaugurata da Gesù. E al momento della sua morte, accompagnata dalla salmodia d’Israele, la dimora sacrale si apre ed un ufficiale romano si fa testimone della nuova fede aperta a chiunque. Un gruppo di figure


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femminili è presente sul luogo del sacrificio e si prepara a congiungere il passato con una nuova vita imminente oltre lo spettacolo della morte (Marco 15,1-41). Passato il giorno del silenzio sabbatico, il luogo dove il corpo è stato rinchiuso in gran fretta diviene punto di incontro con un’apparizione giovanile di vita e inizio di un nuovo percorso. L’itinerario di Gesù e dei suoi riprenderà in Galilea, dove era iniziato ed esigerà una nuova intelligenza oltre le angustie dello spazio e del tempo, delle dispute e dei conflitti, della sofferenza e della morte, dei monopoli e delle paure sacrali. Egli ha mostrato i tratti di un’umanità liberata dalle contraffazioni del male non meno che dai riti e dalle leggi, che pretendono di farvi da argine o correzione. In lui, secondo le immagini delle Scritture, ha operata lo Spirito delle origini e della fine, che restituisce agli esseri umani il loro volto simile a quello del divino (Genesi 1,26-31; Apocalisse 21-22). L’anonimo narratore evangelico scrive probabilmente per una comunità minacciata dalla sofferenza e bisognosa di un esempio scolpito con caratteri aspri ed intensi. Usa il linguaggio della memoria, della leggenda, della parabola, dell’esempio tagliente, del gesto provocatorio. Ha raccolto il messaggio antico della profezia e della salmodia per trarne una visione universale della religiosità d’Israele, forse imitando l’esempio di Gesù stesso e rinnovando le prospettive secolari che soggiacciono al suo evangelo. Ha creato così un testo emblematico, che supera le dimensioni del passato, per proporsi come una sapienza universale e concreta fondata sulle libere scelte di ogni essere umano. Gli eventi della narrazione si rinnovano dovunque rinascano gli stessi conflitti, che sono iscritti nell’animo e nella storia di ognuno. Il racconto inizia sempre di nuovo in chiunque voglia liberarsi da un retaggio di odio e di morte, di esaltazioni e condanne, di classificazioni nutrite di paure e sfiducia, di rigidezze formali che fanno da specchio all’ipocrisia. Come qualche anno prima aveva ricordato Paolo alla comunità romana, forse la stessa cui è dedicato il racconto di Marco, la legge, nella sua maestà e precisione, era diventata pur essa motivo di colpa e di condanna. Solo un gesto di misericordia senza confini avrebbe potuto sconfiggere il destino di morte degli esseri umani. Da lì sarebbe sorta un’etica della comune partecipazione all’universale corpo del messia passato dalla condanna alla vita. Lì si sarebbe creato il nuovo tempio e si sarebbe celebrato il nuovo culto, mentre la legge vi sarebbe stata adempiuta nelle sue istanze più autentiche (Romani 12-13). Tra la disputa dottrinale di


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Paolo ed il racconto immaginoso di Marco si delinea una convergenza che indica le origini ed i caratteri essenziali dell’evangelo cristiano nella sua prima diffusione tra le genti, nel suo dinamismo missionario, nella concretezza morale. Così, accanto ai concetti elaborati dall’esperto teologo, si pongono le figure esemplari proposte dal narratore: la suocera di Pietro, l’esattore Levi, il folle straniero, la donna malata, la madre insistente, il cieco di Gerico, lo scriba sapiente, la vedova povera, la donna profetica, il nuovo Simone, il centurione ammirato, l’aristocratico coraggioso, le donne attente. Esse propongono i tratti di un’umanità vigile, intelligente, operosa e generosa, che supera ogni confine, faziosità e contrasto.


Synaxis XXIII/1 (2005) 29-74

IL TEMA DEL SACRIFICIO NELLA PRIMA AGIOGRAFIA MARTIRIALE (II-III SEC.) APPUNTI PER UNA STORIA DELLA MORTE NEL CRISTIANESIMO ANTICO

BARBARA FRONTERRÉ*

Proporremo nelle pagine seguenti una lettura del tema del sacrificio nelle più antiche fonti agiografiche1, volta ad evidenziare dati storico religiosi e storico culturali riferibili ai processi attraverso cui si delinearono e diffusero, nel cristianesimo del II-III sec., percezioni, relazioni, comunicazioni peculiari rispetto alla morte. L’indagine da noi condotta2, di cui presentiamo qui solo alcuni nuclei tematici, rientra nella ormai amplissimo filone di studi sull’origine della *

Dottore di ricerca in Storia Religiosa, specialista in Storia del Cristianesimo antico. Indichiamo di seguito i testi oggetto d’esame e le principali edizioni su cui si è lavorato: Martyrium Polyc., in A. BASTIAENSEN, Atti e passioni dei martiri, Milano 1987; Martyrium Lugdunensium, ex. Eus. Hist. Eccl. V, 1,3 - V, 2,8, ibid., 59-95; Acta Martyrum Scilitanorum, ibid., 100-105; Acta Iustini, ibid., 47-58; Passio sanctarum Perpetuae et Felicitatis, ibid., 114-147; ed. van Beek, Novomagi 1936; Martyrium Pionii, in A. BASTIAENSEN, cit., 154-191; Martyrium Carpi, Papili et Agatonicae, ibid.; Martyrium Apollonii, in H.A. MUSURILLO, The Acts of the Christian Martyrs, Oxford 1972, 90-105; Passio Cypriani, leggiamo le due recensioni del martirio, che compongono, con la Vita Cypr. attribuita al diacono Ponzio, il dossier relativo alla morte del vescovo di Cartagine, in A. BASTIAENSEN, cit., 207-231; Vita Cypr. in Vite dei santi. Vita di Cipriano, Vita di Ambrogio, Vita di Agostino, a cura di C. Mohrmann, testo critico e commento a cura di A. Bastiaensen, Milano 1972; Acta Maximiliani, in A. BASTIAENSEN, cit., 238-255; Passio Mariani et Iacobi, in H.A. MUSURILLO, cit., 193-213; ed. Actus et Visio martyrum Luci, Montani et ceterum comitum, ed. F. Dolbeau; La Passion des saints Lucius et Montanus. Histoire et édition du texte, in Revue des Études Augustinniennes 29/1-2 (1983) 39-82. 2 Il presente lavoro rappresenta un estratto di parte della tesi di dottorato intitolata Percorsi di rappresentazione della morte nell’antica agiografia martiriale (II-III sec.), da noi discussa nel 2003 presso l’Università di Messina, lavoro svolto con il coordinamento della prof.ssa G. Sfameni Gasparro e con la supervisione della prof.ssa T. Sardella. 1


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santità cristiana: il sorgere di una categoria di morti speciali, infatti, costituisce un osservatorio privilegiato per analizzare l’elaborazione compiuta dal primo cristianesimo, nelle sue molte e diverse articolazioni sociali, culturali, comunitarie, nei confronti dell’esperienza della morte, della sua “lettura”e assimilazione culturale. Oggi tale filone di studi3, ben lungi dall’aver esaurito interrogativi e ridefinizioni metodologiche, appare percorso da nuova vitalità, come 3 La bibliografia sul tema è, naturalmente, sterminata: ci limitiamo a citare alcuni testi di indispensabile consultazione, rimandando, per una bibliografia ricca e aggiornata, all’agile volume di S. BOESCH GAJANO, La santità, Roma-Bari 1999. Per una visione complessiva e ben articolata del tema, si vedano, soprattutto: AA.VV., Hagiographie, culture, societé, Atti del Convegno di Paris-Nanterre, Paris 1981; AA. VV., Les fonctions des Saints dans le monde occidental (IIIe-XIIIe siècle), Actes du colloque organisé par l’École française de Rome avec le concours de l’Université de Rome “La Sapienza”, Rome, 27-29 octobre 1988; AA. VV., Santi e demoni nell’alto medioevo occidentale (secoli V-XI), Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Settimane di Studio XXXVI, Spoleto 1989; AA.VV., Martyrium in multidisciplinary perspective: memorial Louis Reekmans, edited by M. Lamberigts and P. Van Deun. Leuven, Uitgeverij Peeters 1995; AA.VV., Il culto dei santi, in Cassiodorus 2 (1996), Roma 1988; S. BOESCH GAJANO (a cura di), Santità, culti, agiografia. Temi e prospettive, Atti del I Convegno di studio dell’ Associazione italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia, Roma 24-26 ottobre 1996, Roma 1996; P. BROWN, Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità, Torino 1983 (ed. or. The cult of the Saints, Chicago 1981); H. DELEHAYE, Sanctus. Essai sur le culte des saints dans l’antiquité, Subsidia hagiographica 17, Bruxelles 1927; ID., Les origines du culte des martyrs, Subsidia hagiographica 20, Bruxelles 1933; Y. DUVAL, Auprés des saints corps et âme. L’inhumation «ad sanctos» dans la chrètienté d’Orient et d’Occident du IIIe au VII sièclee, in Études Augustinniennes, Paris 1988; G. LANATA, Gli atti dei martiri come documenti processuali, in Studi e Testi per un Corpus Iudiciorum, I, Milano 1973; ID., Confessione o Professione? Il dossier degli atti dei martiri, Collection de l’École française de Rome, Roma 1986; S. PRICOCO, Monaci, filosofi e santi. Saggi di storia della cultura tardoantica, Soveria Mannelli 1992; V. SAXER, Morts, martyrs, reliques en afrique chrétienne aux premiers siècles. Les témoignages de Tertullien, Cyprien et Augustin à la lumière de l’archéologie africaine, in Théologie historique 55, Paris 1980; ID., Santi e culto dei santi nei martirologi, Spoleto 2001; F. SCORZA BARCELLONA – G. BARONE – M. CAFFIERO (a cura di), Modelli di santità e modelli di comportamento. Contrasti, intersezioni e complementarietà, Torino 1994; M. VAN UYTFANGHE, L’essor du culte des saints et la question de l’eschatologie, in AA. VV., Les fonctions des Saints dans le monde occidental (IIIe-XIIIe siècle), Actes du colloque organisé par l'Ecole française de Rome avec le concours de l'Université de Rome “La Sapienza” (Rome, 27-29 octobre 1988), Roma 1988, 91-107; ID., L’origine, l’essor et les fonctions du culte des saints. Quelques repères pour un débat ouvert, in AA. VV., Il culto dei santi, cit., 143-196; ID., La typologie de la sainteté en Occident vers


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attestano importanti saggi di recente pubblicazione4: è anche in dialogo ideale con gli studiosi che, da nuove prospettive, oggi affrontano il tema della santità cristiana, che abbiamo intrapreso e approfondito il nostro percorso di ricerca. Tale percorso si è fondato sull’analisi delle più antiche testimonianze sui martiri, assumendo le fonti agiografiche, pur nelle loro differenze formali e ideologico religiose, come documenti privilegiati non solo di evoluzioni dottrinarie e dogmatiche, ma anche di percezioni, convinzioni, pratiche vive nelle comunità cristiane dei primi secoli. Il radicamento nella vita comunitaria di questa peculiare tipologia di testi, a livello di redazione come di fruizione, ci parso, infatti, un dato unificante, in grado di consentire un’analisi delle fonti, se non come corpus omogeneo, certamente come “luogo” ideale della ricezione di rapporti e processi dialettici ampi e diffusi. L’esame del tema del sacrificio nell’antica agiografia è stato da noi affrontato nell’ambito di un’analisi testuale molto ampia e articolata, di cui ogni momento ed elemento è posto in reciproca relazione problematica: come si vedrà, è possibile accogliere i dati emersi dalla lettura tematica relativa al sacrificio in un quadro comprensivo ricco e stimolante, soprattutto se ad essi affianchiamo altri elementi dell’analisi testuale e, in particolare, i dati, assai rilevanti nei testi, relativi ad una lettura agonica del martirio, diffusamente interpretato come dura e cruenta lotta contro il diavolo. L’interrogativo, allora, che emerge dalla comparazione dei dati testuali, riguarda le ragioni profonde, storico-religiose e storico-culturali, che presiedettero alla selezione di idee e linguaggi operata dagli agiografi nell’organizzazione del racconto di martirio. ***

la fin de l’Antiquité, in G. LUONGO, Scrivere di Santi, Atti del Convegno di studio dell’AISSCA, Napoli 22-25 ottobre 1997, Roma 1998, 17-48. 4 Ci riferiamo, in particolare, agli importanti lavori di L. CANETTI, Culto dei santi e dissezione dei morti tra antichità e medioevo, in RSLR 2 (1998) 241-278; ID., La città dei vivi e la città dei morti. Reliquie, doni e sepolture nell’Alto Medioevo, in Quaderni storici 34/1 (1999) 207-236. Entrambi gli articoli sono preparatori al noto saggio Frammenti di eternità, corpi e reliquie nell’antichità e nel medioevo, Roma 2002.


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L’analisi del tema del sacrificio nell’antica agiografia martiriale necessita di alcune riflessioni preliminari. La prospettiva cronologica adottata, infatti, ci pone davanti al nodo fondamentale rappresentato dall’inedita prassi sacrificale introdotta dal cristianesimo. Com’è noto, la complessa e problematica “rottura” operata dal cristianesimo, in un variegato contesto storico religioso ancora dominato dalle configurazioni rituali del sacrificio, riguarda sia il definirsi della ritualità eucaristica con una spiccata caratterizzazione sacrificale, sia, su un piano di relazione con le coeve esperienze religiose (specie ascrivibili ad alcuni filoni filosofico-religiosi del tardo paganesimo), il ruolo svolto da tale prassi spiritualizzata e incruenta nel proselitismo cristiano5. In questo complesso quadro comparativo, è sopratutto il processo di definizione dell’eucaristia come realtà sacrificale a lasciare emergere aspetti e problemi importanti, a nostro parere, per comprendere i dati sul sacrificio offerti dall’agiografia più antica. Occorrerà, allora, ricordare che sia il costituirsi del rito eucaristico come rito sacrificale, sia la vittoria del sacrificio cristiano sulla cruenta prassi pagana, non sono il risultato di processi sempre lineari e “spontanei”, comprensibili su un piano puramente religioso e/o antropologico.

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La “novità” cristiana non può certo essere ricondotta esclusivamente al carattere incruento e tutto spirituale del culto, quasi che essa segnasse soltanto il trionfo di una “sensibilità estetica” tendente all’occultamento del sangue, poiché correnti antisacrificali percorrono la storia religiosa pagana, ma è piuttosto da ricondursi, come evidenziato da alcune recenti ricerche, sia alle nuove concezioni di comunità-ecclesia, sia all’affermarsi di modalità di relazione con il divino che appaiono meno elitarie ed esclusive rispetto alle soluzioni offerte dal tardo paganesimo. Si vedano, per questo aspetto, le considerazioni di M. CRISTIANI, Tempo rituale e tempo storico in comunione cristiana e sacrificio, in Le controversie eucaristiche nell’Alto Medioevo, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1987, 439-504. Sulle correnti antisacrificali del paganesimo antico e tardo antico cfr soprattutto, G. SFAMENI GASPARRO, Critica del sacrificio cruento e antropologia in Grecia: da Pitagora a Porfirio. I. La tradizione pitagorica, Empedocle e l’orfismo, in F. VATTIONI (a cura di), Atti della V Settimana di Studi “Sangue e Antropologia. Riti e culto”, Roma 26 novembre – 1 dicembre 1984, I, Roma 1987, 107-155; EAD., Critica del sacrificio cruento e antropologia in Grecia: da Pitagora a Porfirio. II. Il De abstinentia porfiriano, in F. VATTIONI (a cura di), Atti della VI Settimana di Studi “Sangue e antropologia nella teologia”, Roma 23-28 novembre 1987, II, Roma 1989, 461-505.


Il tema del sacrificio nella prima agiografia martiriale (II-III sec.)

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In ultima analisi, infatti, se la dissoluzione (almeno formale) del tessuto cultuale del paganesimo si deve all’intervento normativo dell’Impero cristiano ormai divenuto braccio secolare dell’ecclesia e, in particolare, all’intensa attività legislativa di Teodosio6, analogamente, occorre tener presente che ragioni non solo di natura teologica, spirituale, puramente religiosa, ma anche di ordine organizzativo-disciplinare, inerenti la costituzione della gerarchia sacerdotale cristiana, sembrano insistere sull’affermarsi della ritualità eucaristica come sacrificio. A questo proposito, di estremo interesse è l’opinione di B. Studer, il quale osserva: Un altro fattore che ha reso i cristiani più consapevoli dell’eucarestiasacrificio, è ciò che potremmo chiamare la clericalizzazione dei ministeri ecclesiastici. Per intenderci bene, le comunità cristiane sono state sin dall’inizio dirette da fedeli in qualche modo qualificati, da presbiteri o da vescovi. Ma questi non erano ancora così distinti dagli altri fratelli. D’altra parte è vero anche che la distinzione dei dirigenti è stata favorita essa stessa, appunto, dalla consapevolezza del carattere sacrificale della celebrazione eucaristica7.

La prospettiva suggerita da Studer potrebbe, però, essere rivista in senso dialettico, ponendo in stretta correlazione questioni teologiche e questioni organizzative, la definizione dell’identità teologica e cultuale del cristianesimo da una parte e i processi di costituzione della dirigenza ecclesiastica dall’altra. Se, infatti, l’interpretazione sacrificale dell’eucarestia — attestata per la prima volta nella Didaché e sicuramente connessa all’interpretazione 6 Varata nel 380, intensificata, nel marzo del 385, dalla norma che comminava il supplizio della croce a quanti praticassero sacrifici divinatori, la dura legislazione antipagana dell’imperatore Teodosio culmina nel divieto di tutti i sacrifici (391) e nella costituzione, emanata a Costantinopoli l’anno successivo, che vieta ogni culto non cristiano, colpendo anche il culto domestico tributato ai numi familiari, lari, geni, penati. Cfr Codex theodosiano XVI 10,7-12. Per la legislazione antipagana di Teodosio cfr S. PRICOCO, Il cristianesimo dal concilio di Nicea a Gregorio Magno, in G. FILORAMO (a cura di), Storia delle religioni, II, Bari 1995, 233-270. 7 B. STUDER, L’eucaristia nella chiesa dei Padri: sacramento del sacrificio di Cristo e dei cristiani, in S. UBBIALI (a cura di), Il sacrificio: evento e rito, Padova 1998, 129-153: 142.


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sacrificale della morte di Gesù —8 si configura nella chiesa antica, appunto, come un’opzione, poiché è certo che altre forti interpretazioni della morte e della cena del Signore erano presenti nel paleo cristianesimo9, allora occorre chiedersi se la comprensione sacrificale dell’“evento” (la morte di Gesù) e del “rito” (la celebrazione eucaristica) sia stata favorita, sia stata progressivamente e globalmente accolta perché secondava la connotazione in senso sacerdotale delle guide delle comunità, conferiva ad esse carattere e ruolo sacrali. In questo complesso contesto evolutivo, in cui componenti teologiche, liturgiche, socio-ecclesiastiche si intrecciano profondamente, crediamo possa situarsi anche l’analisi del tema sacrificale nel complesso delle fonti agiografiche del II-III secolo, analisi che è stata recentemente condotta da E. Zocca10, i cui risultati abbiamo tenuto presenti nell’esame da noi condotto. La studiosa ha analizzato, infatti, soprattutto il linguaggio sacrificale utilizzato dagli agiografi (soffermandosi su specifiche questioni esegetiche, offerte, in particolare, dagli atti lionesi), per identificare i caratteri peculiari della dimensione sacrificale presente nei testi ed agganciarla alle concezioni del sacrificio sviluppate dal primo cristianesimo. In particolare, dopo aver evidenziato la minima influenza del linguaggio e degli schemi sacrificali sulla rappresentazione del martirio, E. Zocca rileva che, se si assume il sacrificio come azione che realizza una condizione di sacralità o entrata nel sacro, comportando di norma l’uccisione 8

Sull’eucaristia come sacrificio e sul legame tra ritualità sacrificale cristiana e interpretazione sacrificale della morte di Gesù, si vedano le dense valutazioni di C. GROTTANELLI, Il sacrificio, Roma – Bari 1999, in particolare 72-82. 9 L’interpretazione sacrificale della morte di Gesù è, nei testi proto cristiani, un’opzione, cui si affiancano altre letture: di tipo profetico (cfr 1Ts 2,15; Mc 12,1-12; At 7,52), apocalittico (Mc 8,31) o tese a valutare la morte di Gesù in funzione del Patto (1Cor 11,25; Lc 12,35-38.). Cfr M. HENGEL, Crocifissione ed espiazione, Brescia 1988; G. BARTH, Il significato della morte di Gesù. L’interpretazione del Nuovo Testamento, Torino 1995 (ed. or. Der Tod Jesu Christi im Verständnis des Neuen Testaments, Neukirchen-Vluyn 1992). 10 E. ZOCCA, Sacrificio e martirio nella letteratura agiografica del II e III secolo, in ASE, 18/1 (2001) 281-306. Il dossier agiografico esaminato dalla studiosa non coincide esattamente con il nostro, giacché esclude testi di più incerta datazione o che hanno subito consistenti rimaneggiamenti, come Marty. Apoll., Marty. Carpi, Marty. Pion.


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di una vittima, l’antica agiografia non offre elementi significativi; se si accetta, invece, una definizione “minimale” di sacrificio, inteso semplicemente come una delle forme più caratteristiche di contatto e mediazione con Dio, le stesse fonti dischiudono altre possibilità interpretative. Questa peculiare forma di contatto con il divino, infatti, è presente, secondo E. Zocca, anche nei testi esaminati, ove è espressa come adesione al concetto paolino di sacrificio comportamentale (per cui l’intera vita cristiana è intesa quale atto di culto): ciò giustifica l’assenza nei testi di riferimenti cultuali specifici, sostituiti da una diffusa atmosfera liturgica, dalla presenza costante della preghiera e da frequenti rimandi ai sacramenti cristiani, specialmente all’eucarestia. Si affermerebbe così, nell’antica agiografia, la più autentica prospettiva sacrificale cristiana, prospettiva che “paradossalmente afferma ed al tempo stesso dissolve l’idea di sacrificio”11. Ora se accettiamo, secondo la ben nota e condivisa prospettiva maussiana, che l’immaginario legato al corpo della vittima sia centrato sulla sua sacralità12; se accogliamo il dato fondamentale della condivisione di convinzioni e categorie culturali fondamentali da parte di cristiani, pagani, giudei, sia pure nell’ambito di processi tesi ad affermare/difendere ogni specifica identità religiosa, allora nell’orizzonte dei cristiani che si interrogano e riflettono sui propri martiri emerge, come speciale “fonte” di

Ibid., 300. Ci riferiamo al celebre saggio di HUBERT-MAUSS, Essai sur la nature et la fonction du sacrifice, in L’Année Sociologique, II, 1899, 29-138 (trad.it. Saggio sulla natura e la funzione del sacrificio, in ID., L’origine dei poteri magici ed altri saggi di sociologia religiosa, Roma 1977, 40-148), in cui è offerto uno schema topico del rito sacrificale, distinto in tre momenti: l’ingresso “iniziatico”, nella dimensione del sacro, di sacrificante, sacrificatore, luogo e oggetti del sacrificio; riti di consacrazione e uccisione della vittima, che configurano il momento di massima comunicazione tra mondo sacro e profano; uscita dal “cerchio sacrificale”, caratterizzata da riti che consentono il ritorno al profano senza fratture. Per un’interpretazione di Mauss, si veda R. MARCHISIO, Natura e funzione del sacrificio secondo Hubert e Mauss. Ri-lettura contemporanea, in S. UBBIALI (a cura di), Il Sacrificio: evento e rito, cit., 155-175. La vittima, dunque, nella prospettiva maussiana “è lo strumento di concentrazione del religioso, lo esprime, lo incarna, lo porta. L’atto essenziale del sacrificio è compiuto come atto di distruzione: la vittima muta la sua natura. Agendo sulla vittima si agisce sul religioso…”. Ibid., 160. 11

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sacralità del corpo dei martiri, proprio il complesso di concezioni relative all’eccezionalità sacrale della vittima. Tali concezioni, certo, non sparirono improvvisamente dalla mentalità dei primi cristiani per il diffondersi delle interpretazioni spiritualizzanti del sacrificio, ma è anzi presumibile che l’importante frequentazione del testo biblico nella vita cristiana e le idee, sempre meglio precisate, circa il valore espiatorio del sangue di Gesù, rafforzassero la sensibilità verso tematiche sacrificali, realizzando però un transfert fondamentale dal rito all’“immaginario”, dalla prassi cultuale ai linguaggi simbolici. Tenendo presente tale contesto culturale, allora, una lettura come quella proposta da E. Zocca, centrata sulla sostituzione di uno schema sacrificale (cruento) con un altro (spirituale, comportamentale e incruento), cui la prima agiografia avrebbe complessivamente aderito, coglie una componente della complessa rifondazione cristiana dell’ideologia sacrificale, ma non spiega perché alcune antichi racconti di martirio (il martyrion di Policarpo e, in misura minore, gli Atti lionesi) presentino un evidente richiamo o un collegamento profondo alla sfera del sacrificio cruento: tale discrepanza all’interno dell’agiografia rappresenta un fatto importante, poiché rimanda, in ultima analisi, a temi e momenti fondamentali del processo costitutivo dell’identità cristiana. Nelle pagine successive proveremo a gettare qualche luce sui fattori per cui alcuni agiografi, in modo isolato ma significativo, attinsero ampiamente al tema sacrificale, mentre la più gran parte dell’antica agiografia rimase sostanzialmente estranea a tale prospettiva. Il tema del sacrificio è presente nei testi esaminati in due accezioni fondamentali: come rifiuto polemico del culto pagano e come elemento che connota la morte e la figura del martire, rappresentati, rispettivamente, come immolazione e come vittima sacrificale. Approfondiremo in questa sede unicamente il secondo aspetto, cioè l’organizzazione del racconto di martirio secondo categorie sacrificali. Per quanto riguarda il noto topos della polemica antisacrificale, basterà qui segnalare come, dall’ analisi dei testi, essa risulti complessivamente contenuta: in modo sorprendente, dato che la concreta occasione da cui scaturivano persecuzioni ed esecuzioni era proprio il rifiuto di sacrificare opposto dai cristiani.


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Il tema antisacrificale, inoltre, sembra trattato con differenti modalità, riconducibili a contesti cronologici diversi: nei testi sicuramente redatti nel II-III secolo, infatti, la polemica contro il sacrificio pagano o è assente (per esempio negli Atti lionesi, negli acta di Giustino) oppure il dato antisacrificale germina dalla stessa vicenda di sofferenza e morte, è implicito nella confessione dell’essere cristiani, mentre l’accettazione del sacrificio si configura, in alcuni casi, come degradazione, violenza condotta alla volontà ed alla libertà (Acta Scill. P. Perp., Marty. Pion.). Nei testi databili al terzo secolo inoltrato o agli inizi del IV (Passio Mariani, Acta Phileae), oppure in quei documenti il cui nucleo più antico, collocabile al II secolo, sembrerebbe aver subito consistenti rimaneggiamenti, probabilmente proprio a quest’epoca, (Marty. Apollonio, Marty. Carpi, Papili et Agathonicae), al culto idolatra sono, invece, contrapposte argomentazioni più articolate, centrate su temi e terminologia messa a punto dagli apologisti, in particolare sulla demonizzazione del sacrificio pagano e sull’esaltazione del puro sacrificio incruento dei cristiani. Si profila così, dal tardo III secolo, nel quadro del progressivo ampliamento e della diversificazione interna della societas cristiana propri di quest’epoca, uno sviluppo che emergerà con straordinaria evidenza nell’agiografia posteriore: la più articolata polemica contro il sacrificio pagano, presente nelle passiones più recenti tra quelle da noi esaminate, sembra corrispondere ad esigenze di catechesi che cominciano a mutare, non appaiono più esclusivamente centrate sul martirio ma affidano all’agiografia il compito di far circolare “nozioni-base” sull’esclusivismo e le peculiarità del culto cristiano13.

La debolezza della polemica antisacrificale nei testi più antichi, allora, sembra dipendere da una concentrazione del messaggio agiografico su altri temi, sentiti come più urgenti; dalla necessità, cioè, di comprendere e delineare l’identità teologica delle figure dei martiri, la cui morte eccezionale costituiva un potente stimolo alla riflessione sul destino esca-

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In particolare, il martyrion di Apollonio con le sue dotte argomentazioni antisacrificali e anticultuali, con l’ironica polemica contro alcuni specifici culti pagani, e, infine, con l’attestazione di stima e il rispettoso ascolto riservato dal magistrato al martire, sembra riflettere l’intento di rivolgere un preciso messaggio ai simpatizzanti del cristianesimo (o agli stessi cristiani) di condizione più elevata, facendo quasi di Apollonio un martire-exemplum per l’élite.


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tologico individuale, e le cui vicende e personalità ponevano fondamentali questioni legate alla definizione dell’auctoritas. Non appare paradossale, dunque, che la più tarda agiografia martiriale — in epoche in cui, pure, il culto pagano è ormai ufficialmente scomparso — sviluppi a dismisura e dettagli con scoperta arte retorica il contraddittorio tra martiri e persecutori, affidando ai primi violente e ampie requisitorie contro gli dei-demoni del culto pagano e contro l’empietà del sacrificio, spesso condite di lunghe esposizioni dottrinali14. Se ci volgiamo al sacrificio come elemento interpretativo della morte e della persona del martire, il dato fondamentale offerto dall’agiografia più antica è che le immagini, il lessico, gli schemi rituali propri della sfera sacrificale non vi rivestono, complessivamente, che un ruolo molto marginale: importante eccezione, però, è il martyrion di Policarpo (cap. 1416), ove la morte del vescovo è rappresentata come immolazione, mentre l’ultima preghiera di Policarpo prima di essere posto sul rogo, appare come preghiera di “offerta” sacrificale dagli spiccati riferimenti eucaristici. Prima di centrare l’attenzione su questi fondamentali capitoli del martyrion di Policarpo, sarà opportuno indicare i riferimenti al sacrificio del martire rilevati nel complesso delle fonti analizzate. A) Negli Atti lionesi il verbo usato per indicare l’uccisione dei martiri è quéw:

14 In un’epoca in cui è ormai superato dalla chiesa istituzionale il problema di delineare, a livello teologico e cultuale, l’identità del martire, l’agiografia post costantiniana riflette il concentrarsi degli sforzi ecclesiastici contro le radicate persistenze pagane, vero bersaglio della scontata polemica agiografica contro un paganesimo “ufficiale” in realtà ormai morto. Ciò che del paganesimo ormai sopravviveva, era, piuttosto, una miriade di culti, pratiche, esperienze religiose a carattere locale, frammenti di un pantheon politeista estremamente variegato e complesso, articolato in numerosissime realtà locali, le cui varie espressioni furono protagoniste, com’è noto, di un sempre più imponente processo di demonizzazione dell’alterità religiosa, di cui anche la topica agiografica è documento. Per una valutazione dei caratteri peculiari dell’agiografia post costantiniana, si vedano: S. BOESCH GAJANO, Le metamorfosi del racconto, in G. CAVALLO – P. FEDELI – A. GIARDINA (a cura di), Lo spazio letterario di Roma antica, III, La ricezione del testo, Salerno-Roma 1990, 217243; C. LEONARDI, I modelli dell’agiografia latina dall’epoca antica al medioevo in Passaggio dal mondo antico al medioevo. Da Teodosio a Gregorio Magno (Roma 25-28 maggio 1977), Roma 1980.


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Costoro dunque, dopo che il loro spirito ebbe resistito a lungo nell’immane duello, infine furono sacrificati (eètuéqhsan) (ibid., I, 40). E dopo essere passati (scil. Attalo e Santo) nell’anfiteatro per tutti gli strumenti di tortura trovati per punirli e aver sostenuto una lotta durissima, infine furono sacrificati (eètuéqhsan) anch’essi (ibid., I, 51). E anch’ella (scil. Blandina) fu sacrificata (eètuéqh) e gli stessi gentili confessarono che mai tra loro una donna aveva patito simili sofferenze (ibid., I, 56).

Al significativo impiego del verbo thuo, occorre aggiungere, a nostro parere, il chiaro riferimento sacrificale con cui l’agiografo introduce, dopo la descrizione delle torture e dei primi interrogatori, il racconto della morte dei martiri: Dopo ciò, furono molto diverse, quanto al modo, le testimonianze delle loro morti. Una sola corona, intrecciata di fiori d’ogni specie e colore, offrirono al Padre (ibid., I, 36)15.

Anche il termine euodia, come si è avuto modo di evidenziare precedentemente,utilizzato per indicare il “buon profumo” dei martiri, contiene una suggestione sacrificale. B) Nella Passio di Montano e Lucio, quando i martiri sono condotti al supplizio è affermato: interim ceteri ducebantur ad victimae locum laeti16 (13,1). C) Nella vita Cypriani, Ponzio descrive l’attesa dell’arresto imminente di Cipriano (giacché è chiaro, dalla morte di Sisto a Roma, che una nuova persecuzione sta per scatenarsi) in questi termini: Si aspettava di momento in momento che arrivasse il carnefice, a colpire il collo devoto della santissima vittima17. 15

Trad. it. S. Ronchey in A. BASTIAENSEN, cit. Cfr E. ZOCCA, Sacrificio e martirio nella letteratura agiografica del II e III secolo, cit., 295, per altri rilievi su questo testo. 17 Vita Cypr. 14,2: Sperabatur iam iamque carnifex veniens, qui devota sanctissimae victimae colla percuteret. 16


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Nel capitolo successivo, dopo aver descritto l’atteggiamento ormai disinteressato al mondo con cui Cipriano attende la morte, Ponzio commenta: e queste erano la azioni quotidiane del vescovo destinato ad essere vittima gradita a Dio18.

Ora, per intendere sia i riferimenti sacrificali rilevati nei testi, sia il dato globale di un uso assai limitato del sacrificio, occorre, in primo luogo, esaminare il contesto ideologico religioso e le finalità sottesi alle spiccate valenze sacrificali del martyrion di Policarpo, così da fissare un termine di comparazione chiaro per la successiva analisi dei testi. I capitoli del martyrion (14; 15; 16,1) ove è narrata la morte e inserita l’ultima preghiera del vescovo martire, sono stati oggetto di approfondite letture, tra le quali il commento, ormai classico, del Camelot19, ha ben posto in rilievo i riferimenti scritturali e liturgici, tracciando un quadro accurato delle referenze scritturali e patristiche proprie del lessico teologico utilizzato dall’agiografo. La lettura qui offerta, dunque, più che citare e ripercorrere dati esegetici ben noti, è rivolta ad individuare il “progetto” religioso a cui può riferirsi la peculiare rappresentazione sacrificale della morte di Policarpo, attraverso l’aggancio dei capitolo citati al messaggio complessivamente tracciato dal testo e, dunque, al suo referente ideologico religioso più immediato, costituito, a nostro parere, dalle concezioni spirituali ed ecclesiali di Ignazio di Antiochia. Riportiamo di seguito i capitoli in cui è descritta l’esecuzione del vescovo: Cap.14. Pur senza inchiodarlo, lo legarono. Ed egli legato, con le braccia dietro la schiena, come montone scelto da gran gregge per il sacrificio, (w$sper krioèv e\k megaélou poimnòou eìv prosforaén), approntato quale olocausto gradito a Dio (o|lokauétwma dektoèn t§% qewé) levati gli occhi al cielo 18 Ibid., 15,1: Et hi erant cotidiani actus destianti ad placentem Dei hostiam sacerdotis. 19 PH. CAMELOT, Ignace d’Antiochie. Polycarpe de Smyrne. Lettres. Martyre de Polycarpe, SC X, Paris 1950, 1-225.


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disse: — Signore Dio onnipotente, padre del diletto e benedetto tuo figlio Gesù Cristo, per mezzo del quale abbiamo ricevuto la conoscenza di te, Dio degli angeli e delle potenze e di tutta la creazione e di tutta la stirpe dei giusti, ti benedico poiché mi hai ritenuto degno di questo giorno e di quest’ora e di prendere parte al novero dei martiri (eu\logw% se o$ti h\zòwsaév me th%v h|meérav kaì w$rav tauéqhv, tou% labe_n meérov eèn a\riqm§%tw%n martuérwn),

nel calice del tuo Cristo (e\n t§% pothrò§ tou% Cristou%) per la resurrezione della vita eterna, dell’anima e del copro, nell’incorruttibilità dello Spirito Santo: tra quelli io sia accolto oggi in tua presenza, in qualità di sacrificio pingue e ben accetto, (eèn oàv prosdecqeòhn e\nwépioén sou shmeron e\n qusòa/ pòoni kaì prosdekt+%) così come hai predisposto e mostrato e compiuto, Dio senza menzogna e veritiero. Per questo, sopra ogni cosa ti lodo, ti benedico, ti glorifico, per tramite del tuo eterno e celeste sommo sacerdote e figlio diletto Gesù cristo, mediante il quale sia gloria a te con Lui e con lo Spirito Santo, ora e nei secoli a venire. Amen

È dunque acceso il rogo e avviene un fatto meraviglioso: le fiamme si dispongono intorno al corpo come una nicchia, come una vela gonfiata dal vento (15,1). Il corpo di Policarpo è nel fuoco 15. 2 Non come carne che brucia, ma come pane che cuoce o come oro o argento che si purifica nel crogiolo (a\ll} w|v a$rtov o\ptwémenov h" w|v kaì a"rgurov e\v kamòn§ purouémenov) e ed eravamo investiti da un tale odore soave (eu\wdòav)), come spirasse incenso del libano o altri aromi preziosi (w|v libanwtou%w pneéontov h$ a"llou tinoèv tw%n timòwn a\rmaétwn). Cap.16,1 Infine, vedendo gli empi (oi| a"nomoi) che il suo corpo non poteva essere consumato dal fuoco, ordinarono al carnefice di conficcargli la spada in petto. E , ciò fatto, sgorgò tanto sangue che si spense il fuoco e si meravigliò tutta la folla (xh%lqen plh%qov ai$matov, w$ste katasbeésai toè pur kaì qaumaésai paénta toèn o"clon).

Cap. 13 della versione latina, edita da Ruinart20 Appena fu eseguito l’ordine, dal sangue che sgorgava copiosamente s’innalzò al volo una colomba: subito si estinse l’incendio, spento dal sangue. 20

E. RUINART, Acta Martyrum, 77-82.


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Nell’incipit del racconto Policarpo è dunque indicato come vittima sacrificale, o|lokauétwma, pronta per il sacrificio (ei\v prosforaén) nella conclusione diventa pane che cuoce e spande odore soave e prezioso; nell’ultima preghiera, inserita tra i due momenti, lo stesso Policarpo chiede di essere accolto come sacrificio (e\n qusia/). È evidente che, da un punto di vista lessicale ed anche per le immagini evocate, i riferimenti sacrificali presenti nell’incipit della narrazione, nulla hanno in comune con il sacrificio puro e incruento specificatamente cristiano, con l’idea paolina del sacrificio comportamentale: siamo in presenza, piuttosto, di una ricca e densa atmosfera sacrificale di forte coloritura veterotestamentaria, come evidente nei termini. Il primo, infatti, è termine caratteristico della Settanta per indicare l’offerta sacrificale, mentre olokauétwma è utilizzato, ancora dalla Settanta, per tradurre esclusivamente olah e isseh21,che designano, in ebraico, le offerte interamente bruciate sull’altare. Nella scelta del lessico utilizzato per indicare Policarpo condotto alla morte, dunque, l’agiografo seleziona quei termini che esprimono l’idea della combustione totale, della vittima interamente votata a Dio, intensificando, attraverso il lessico biblico, quel tema del fuoco che corre sottilmente per tutto il racconto, fin dall’esordio,ove il martirio è preannunciato, dalla visione, concessa a Policarpo, del cuscino che arde. Ma, soprattutto, è altamente probabile che l’agiografo avesse ben presente, nella scelta dei termini più opportuni a descrivere la morte imminente di Policarpo, il senso di sacrificio “totale”, di dono irrevocabile espresso dal rito di 'olah-olokauthoma, che, inoltre, attraverso la distruzione totale del corpo della vittima, sembra segnare “il completo passaggio (salita, 'olah, o accostamento, qorban) della vittima stessa alla sfera del divino”22. D’altra parte l’ordito veterotestamentario che emerge, in questi capitoli, da citazioni scritturistiche ed emergenze lessicali, si intreccia alla tessitura cristologica che, propria di tutto il testo, si configura qui come 21 Su 146 ricorrenze nel Pentateuco, olah è tradotto 95 volte con olokautoma; isseh, su 57 ricorrenze, 10 volte. Cfr G. DORIVAL, Le sacrifice dans la traduction grecque de la Septante, in ASE 18/1 (2001) 61-79. 22 C. MARTONE, Sacrificio e rito sacrificale nell’Antico Testamento, in S. UBBIALI (a cura di), Il Sacrificio: evento e rito, cit., 111-128: 124.


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intenso “contrappunto”, poiché ad ogni immagine e riferimento sacrificale di tipo veterotestamentario è affiancata l’evocazione della realtà liturgica e del sacrificio cristiani. Così il capitolo 14, in cui forte è la raffigurazione iniziale di Policarpo legato con le mani dietro la schiena come montone scelto per il sacrificio, contiene la preghiera in cui compare la menzione del “calice di Cristo”, simbolo evocativo della passione, della compartecipazione alla sofferenza di Gesù, ma anche del concreto rituale eucaristico del bere al calice23. Policarpo sul rogo, nel cap. 15, è assimilato a pane che cuoce, con ulteriore rimando all’eucarestia, mentre l’immagine della morte provocata da un colpo di spada (cap. 16,1), cui segue una straordinaria effusione di sangue, appare come il momento della somma identificazione a Cristo, attraverso il riferimento evidente a Iov. 19,34. Se poi integriamo al passo, come autorevolmente proposto da R. Cacitti24, il racconto, espunto dall’epitome eusebiana ma presente in tutta la tradizione codicologica, del miracolo della colomba che spicca il volo dal sangue del vescovo, il riferimento cristologico si amplia in una evidente simbologia eucaristica, che unisce alla menzione del sangue la simbolica della colomba-spirito-acqua, con chiara evocazione delle specie eucaristiche dell’acqua e del vino25.

23 Sul rito del bere al calice cfr M. LESSI ARIOSTO, Il significato del rito del bere al calice a partire dai testi e riti, fin dai primi secoli, in F. VATTIONI (a cura di), Sangue e antropologia nella liturgia, III, 1295-1317. Sull’ interpretazione liturgico eucaristica dei passi qui analizzati, non tutti gli studioso convergono. Si limita a segnalare come fortemente attendibile tale eventualità il commento di Bastianesen, mentre chiaramente contrario a rintracciare nel testo la precisa volontà di utilizzare simboli eucaristici è V. SAXER, Bible et hagiographie textes et thèmes bibliques dans les Actes des martyres authentiques des premiers siecles, Berne – Francforts – Main – New York 1986, 216. 24 R. CACITTI, To kata tov evanghelion marturion. Narrazione storica e struttura liturgica nel ciclo agiografico smirneo, in La narrativa cristiana antica. Codici narrativi, strutture formali, schemi retorici. XXIII Incontro di Studiosi d’antichità cristiana (Roma, 57 maggio 1994), SEA 50, Roma 1995. 25 La strettissima unità del sangue e dell’acqua nel citato passo giovanneo è un dato evidenziato dall’esegesi, cfr ad es. I. DE LA POTTERIE, Il costato trafitto di Gesù (Gv 19,34): senso rivelatorio e senso sacrificale del suo sangue, in F. VATTIONI (a cura di), Sangue e antropologia nella liturgia, I, 625-649: 634 ss.


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È dunque presente nel testo un effetto di “dissolvenza”, per cui alla vigorosa rappresentazione iniziale della vittima legata e condotta al sacrificio, si sovrappongo i simboli del calice, del pane, fino alla focalizzazione finale sull’immagine di Policarpo, figura christi nell’istante supremo della morte. Si realizza così, nel racconto della morte di Policarpo, attraverso opportune scelte lessicali e mediante l’evocazione di simboli e immagini peculiari, attinenti alla sfere del sacrificio cruento e del rito eucaristico, un triplice movimento: verso un vertice di identificazione tra il martire e Cristo; verso un passaggio dell’immaginario sacrificale dall’immolazione veterotestamentaria alla ritualità eucaristica, incruenta ma fondata sull’effusione del sangue di Cristo, come suggerisce la conclusione della “sequenza eucaristica” individuata nel testo (calice-pane-sangue/acqua); e infine, (poiché occorre tener costantemente presente che il racconto riguarda un vescovo autorevole e carismatico), verso l’intima associazione tra sacerdozio e ritualità sacramentale. Nel momento della morte, infatti, le parole di preghiera, l’atmosfera liturgica, i simboli evocati, lo stesso corpo del vescovo-martire, rimandano intensamente alla concretezza — il pane, il calice, l’acqua, il vino — della celebrazione liturgica che del ministero vescovile di Policarpo ha costituito, secondo l’agiografo, la trama quotidiana e la “funzione” essenziale. Emerge dunque, dal racconto della morte di Policarpo, un’assimilazione importante tra eucaristia e martirio, per la quale il riferimento extra agiografico più immediato è nell’epistolario di Ignazio, in particolare in un celebre passo dell’Epistola ai Romani. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia il pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono il frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io, morto, non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima di Dio26.

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Rom. IV, 1-2. Trad. it. A. QUACQUARELLI, I Padri Apostolici, Roma 19989, 123.


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Ora il riferimento del nostro martyrion ai temi forti di Ignazio è stato ben posto in luce in relazione ai passi citati27, ma, in realtà, tale collegamento appare costante in tutto il testo, fino a configurare una sorta di dipendenza del messaggio agiografico dalle concezioni ecclesiali di Ignazio e, in particolare, da quella peculiare costruzione della figura vescovile che caratterizza il progetto ignaziano di fondazione dell’identità teologica, organizzativo-disciplinare, spirituale del cristianesimo. Il raffronto, schematicamente proposto nella tabella sottostante, tra alcuni temi fondamentali dell’epistolario ignaziano e gli elementi essenziali dell’ideologia religiosa del martyrion, emersi nel corso dell’analisi finora condotta, chiarisce l’importanza del pensiero di Ignazio per la definizione dell’ideologia religiosa del testo, e consente di dare concreta evidenza al dato storico che indica nella ecclesia di Smirne, insieme a quella di Filadelfia28, una comunità intensamente influenzata dal magistero di Ignazio. Lo stesso rapporto tra il vescovo di Antiochia e Policarpo, pastore attivo e autorevole, ma non “dottore” come evidenzia il Camelot29, e, dunque, tanto più incline ad accogliere le forti indicazioni dottrinali e teologiche provenienti da Ignazio, giustifica che, per tramite dell’episcopato di Policarpo, la comunità smirniota, e i dirigenti ecclesiastici in particolare, si formassero alle idee ignaziane. Non sorprende, allora, ritrovare nel martyrion del vescovo, scritto, probabilmente, proprio da un esponente della dirigenza ecclesiastica di Smirne, temi, simboli, concezioni che caratterizzano il “progetto” ecclesiale e il pensiero teologico di Ignazio, così come emerge dal suo epistolario.

27 Cfr E. ZOCCA, Sacrificio e martirio nella letteratura agiografica del II e III secolo, cit., 293. 28 A Filadelfia ed a Smirne Ignazio sostò nel suo viaggio verso Roma. L’epistolario conferma che egli sostenne il processo di consolidamento delle monarchie episcopali in tutte le chiese d’Asia minore. Si veda sul tema E. NORELLI, Ignazio di Antiochia combatte veramente dei cristiani giudaizzanti?, in G. FILORAMO – C. GIANNOTTO (a cura di), Verus Israel. Nuove prospettive sul giudeocristianesimo, Atti del colloquio di Torino, 4-5 novembre 1999, Brescia 2000, 220-264: 262 ss. 29 Cfr PH. CAMELOT, Ignace d’Antiochie. Polycarpe de Smyrne, cit., 185-201, specialmente 197-198.


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Tabella di sintesi: definizione della linea teologica e socio ecclesiastica del Marty. Polic. Ignazio di Antiochia Philadelph. IV,1

Tema Marty. Polic. Unicità dell’eucarestia; il 14,10: evocazione del calice di calice e il sangue come “catal- Cristo in riferimento a martrio izzatori e veicoli per l’unità” ed eucarestia

Eph. VIII,1;Rom. II,2; IV

Martirio come sacrificio. IV: 14,1; 14,10-13; 15,6; 16,3 connotazione eucaristica del martirio-sacrificio

Trall. XIII,3 Magn. III,12

Sacrificio dello spirito Vescovo visibile tipo del 14: richiamo alla mediazione di Cristo Sommo Sacerdote, vescovo invisibile (vittima e officiante secondo Ep. Eb.)

Magn. VI,1; Trall. VII,1-2

Valore e necessità delle gerar- Deferenza verso Policarpo e chie della chiesa unità nel rispetto del vescovo

Trall. III,1 Smyrn. 8,2

Vescovo Tupos tou patros Vescovo come sommo officiante liturgico

Trall. V,1

Connotazione carismatica della 5,7-10 figura vescovile

Il “progetto”, dunque, che emerge dall’epistolario ignaziano, quando lo si consideri più che un insieme di scritti occasionali, un corpus dal valore in qualche misura programmatico30, appare centrato su alcuni punti essenziali, cosicché il vescovo antiocheno sembra essere il portavoce di una corrente antidoceta, presente sia in Siria che in Asia Minore, che intende legittimarsi come unica forma corretta di cristianesimo e la cui forza consiste nella leadership di episcopi individuali: essa si sforza di mantenere nel proprio ambito quei membri delle comunità che, in nome del principio profetico-carismatico tradizionale, forte in Siria

30 Come invita a fare, ad esempio, l’autorevole lettura di E. NORELLI, Ignazio di Antiochia combatte veramente dei cristiani giudaizzanti?, cit.


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come in Asia minore,resistono contro la concentrazione dell’autorità nelle mani degli episcopi, risentita come una indebita innovazione31.

L’esaltazione della realtà della morte e resurrezione di Gesù, e, dunque, il forte accento sulla dimensione materiale, fisica delle esperienze religiose connesse a quell’evento fondante, cioè martirio ed eucaristia; il rafforzamento dell’autorità episcopale e della gerarchia ecclesiastica in genere; la partecipazione all’eucarestia celebrata dal vescovo come criterio di appartenenza alla chiesa; una peculiare esegesi delle Scritture, in particolare dei testi profetici, sono, allora, i temi forti del progetto ignaziano, costruito in forte opposizione a gruppi carismatici, portatori di una cristologia “alta” e di conoscenze extra ordinarie dei misteri celesti32. Ora, nel martyrion di Policarpo ritroviamo un melange di temi ignaziani utilizzati, evidentemente, contro vecchie e nuove concezioni extra gerarchiche dell’ecclesia, progressivamente configurate quali elementi estranei all’“ortodossia”: l’insistita attribuzione della dimensione carismatica profetica al vescovo Policarpo; l’esaltazione del martirio nella carne, rimando alla realtà carnale della Passione; l’evocazione della liturgia eucaristica come elemento forte dell’identità episcopale. L’idea del vescovo come sommo officiante liturgico giustifica, così, l’opzione precisa per una rappresentazione del martirio strutturata sul tema del sacrificio: ciò sembra dimostrato indirettamente dal raffronto tra i passi relativi alla morte di Policarpo e il secondo capitolo del martyrion, “manifesto” dell’ideologia martiriale sostenuta dal nostro testo, in cui

31

Ibid., 262. L’identificazione degli avversari di Ignazio e del tipo di cristianesimo di cui essi appaiono fautori, è oggetto del citato saggio di E. Norelli, centrato, in particolare sull’accusa di giudaismo, rivolta a tali gruppi da Ignazio: l’analisi dei testi evidenzia, secondo Norelli, come il termine giudaismo non si riferisca a preoccupazioni legalistiche degli avversari, ma sia il perno di una strategia retorica volta ad escludere, dall’area in via di delimitazione del cristianesimo, quanti non accettano l’idea ignaziana di cristianesimo, fondata sull’accettazione della realtà di Cristo e sul rispetto dell’autorità monarchica del vescovo. In Ignazio il termine giudaizzare identifica, allora una sfera negativa, di contrapposizione al cristianesimo, ma priva, nei fatti, secondo Norelli ,di reali nessi alle osservanza delle prescrizioni giudaiche. 32


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compaiono martiri “laici”, senza, però, che alla loro morte sia attribuita la minima valenza sacrificale. La dimensione sacrificale-liturgica del sacerdozio, inoltre, è richiamata esplicitamente, nella preghiera di Policarpo, dalla menzione di Cristo quale Sommo Sacerdote, propria dell’Epistola agli Ebrei, l’unico testo del Nuovo Testamento in cui l’interpretazione sacrificale della morte di Gesù è espressa in termini spiccatamente cultuali: Gesù, infatti, è presentato al tempo stesso come sacerdote e vittima di un sacrificio cruento, celebrato nel Tempio celeste33. La densa dimensione sacrificale del martyrion di Policarpo, in definitiva, sembra sottendere — come evidenzia il collegamento alla cristologia di Ep. Eb. — un quadro di referenze teologiche centrato sull’interpretazione sacrificale della morte di Gesù, dalla quale scaturiva quella concezione sacrificale dell’eucarestia che rende possibile rappresentare la morte del martire, sommo momento di identificazione con Cristo, con un intreccio di riferimenti al sacrificio cruento ed alla ritualità eucaristica, all’olocausto biblico ed al sangue di Cristo: è questo sostrato di opzioni teologiche che si intuisce dietro il testo, in definitiva, a sostanziare un messaggio agiografico fortemente diretto a confermare il carattere sacrale-liturgico del sacerdozio. Tuttavia, non si vuole qui sostenere che il tema sacrificale sia esclusivamente connesso al sacerdozio: ciò può essere vero per il martyrion di Policarpo e per le parche espressioni sacrificali della Vita Cypriani, ma non lo è, evidentemente, per gli altri testi in cui compaiono riferimenti, pure assai sobri, al sacrificio, e in particolare per gli Atti lionesi, (ove l’uccisione dei martiri è chiaramente indicata con il verbo thuo) fonti in cui, però, non si narra la vicenda di martiri sacerdoti. Se, dunque, si può affermare che il tema del sacrificio tende ad essere utilizzato dagli agiografi con più sicurezza in contesti “protetti”, in cui il racconto riguarda esponenti della gerarchia, la minima influenza della sfera sacrificale sul complesso dell’antica agiografia non sembra dipendere da una 33 Per la concezione sacrificale della morte di Gesù e l’idea del Sacerdozio celeste in Ep. Eb., cfr C. GIANNOTTO, Il sacrificio nell’Epistola agli Ebrei, in ASE 18/1 (2001) 169-179, che contiene anche un’interessante analisi del retroterra qumranico sotteso alle idee espresse dall’Epistola.


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coincidenza esclusiva tra sacrificio e sacerdozio, ma dalle difficoltà sollevate dal tema sacrificale, a livello delle premesse teologiche come delle conseguenze ideologico religiose. Occorre appena ricordare, infatti, che nella fase della storia cristiana in cui anche i nostri testi si inseriscono, aspetti fondamentali della dottrina sono ancora in via di definizione: permane, soprattutto la tensione interpretativa intorno alla morte di Gesù, questione fondamentale per il discorso agiografico, che guarda e giudica i suoi protagonisti in costante riferimento al modello di Cristo. Una vera e propria dottrina della redenzione, come si sa, fondata paolinamente sul valore salvifico della morte di Gesù, intesa come espiazione attraverso il sangue dei peccati umani, appare solo con Origene: è il grande teologo a riprendere ed approfondire temi paolini e concezioni proprie dell’Epistola agli Ebrei, a saldarli in un ricchissimo e organico contesto scritturistico, elaborando una vertiginosa dottrina della salvezza, che travalica i limiti dell’umanità per abbracciare l’intero universo delle creature razionali (angeli e demoni)34. Nel contesto cronologico proprio dell’antica agiografia, dunque, l’interpretazione sacrificale della morte di Cristo si configura come un’opzione che, in ambito agiografico, sembra chiaramente sottesa al martyrion di Policarpo, come ampio campo che, comprendendo tradizioni come quella del Sommo Sacerdozio di Cristo e accentuando il carattere sacrificale dell’eucarestia, offriva precisi puntelli teologici alla configurazione sacrale del sacerdozio (e specialmente del ministero episcopale).

34 Uno studio fondamentale sulla dottrina della redenzione elaborata da Origene è quello di M. SIMONETTI, Studi sulla cristologia del II e III secolo, Studia Ephemeridis Augustinianum 44, Roma 1993, (in particolare, si vedano le pagine 145-182); studio rivolto contro le tendenze interpretative che vedono in Origene il teologo del Cristo Logos, Maestro e divino Pedagogo, più che redentore che salva gli uomini con la sua morte. L’analisi di alcuni contesti dell’opera origeniana particolarmente impegnati sul tema della redenzione (Com. Io. 6,53-58, 273-300; Hom. Lev. 3,1; 9,5; Hom. Num. 24,1; Hom. Ios. 3,5) consente a Simonetti di evidenziare, invece, l’organica complessità della dottrina origeniana, che, portando a compimento spunti anche molto profondi della precedente riflessione teologica, appare articolata sui tre temi, fondamentali e strettamente connessi, dell’espiazione, del riscatto e della vittoria sul demonio. Per l’interpretazione della morte di Gesù come sacrificio nei primi Padri, cfr anche GIUSTINO, Dial. 13,1 ss; 40 ss; Apol. 1,32,7; TERTULLIANO, Pud. 22.


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Proprio l’adesione alle idee circa la morte sacrificale di Gesù, potrebbe essere sottesa all’uso del lessico sacrificale negli atti lionesi, in cui la morte dei martiri è indicata con il verbo thuo. Seppure espressa con sobrietà, una valenza sacrificale del martirio è certo presente alla coscienza dell’agiografo lionese, anche se le interpretazioni offerte dagli studiosi all’uso di thuo, tendono a negare il senso sacrificale del termine35 o ad intenderlo come sopravvivenza di un lessico rituale pagano. Ci sembra plausibile, invece, che l’agiografo abbia voluto usare thuo, nel suo significato corrente e più ovvio, anche perché tale senso sacrificale è quasi preannunciato e rafforzato dall’affermazione, precedente il racconto dell’esecuzione, che i martiri offrono a Dio, con la loro morte, “una corona intrecciata di fiori di vari colori e qualità”, immagine di evidente pregnanza sacrificale. Quest’indicazione della morte dei martiri come sacrificio può essere accolta senza eccessive difficoltà, a nostro parere, se si considerano le scelte lessicali dell’agiografo alla luce dell’ideologia religiosa globalmente espressa dal testo: se tutto il racconto dell’agiografo, infatti, è imperniato sull’identificazione profonda tra martire e Cristo, se tale relazione è rappresentata al massimo grado, attraverso i riferimenti alla sospensione mistica del dolore, al grande tema della sofferenza vicaria, non sorprende che la morte dei martiri sia indicata con il termine più evocativo della morte di Cristo (sacrificio), almeno nella tradizione inter-

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Una sintesi delle principali interpretazioni esegetiche, con riferimenti alla bibliografia anteriore, è offerta da E. ZOCCA, Sacrificio e martirio nella letteratura agiografica del II e III secolo, cit., 290-291, nota 26: la studiosa esamina due ipotesi, la prima centrata sull’interpretazione di Thuo come “fossile linguistico” collegato al carattere sacrificale dei munera, originariamente un rito a carattere funebre, ipotesi che contrasta però con gli usi lessicali dell’epoca, che non utilizzano mai Thuo per indicare i sacrifici funebri. La seconda interpretazione, presentata da G.W Lampe (A patristic Greek lexicon, Oxford, 1961,661), intende Thuein come “uccidere”, uso che sarebbe attestato solo negli atti lionesi ed in un’orazione del Crisostomo (Ad Populum Antiochenum de statuis, 15,5, PG 49,160). La distanza cronologica tra i due testi e l’impossibilità di radicare l’espressione del Crisostomo in un peculiare processo di evoluzione semantica, lasciano, secondo E. Zocca, aperta la questione.


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pretativa che risale a Paolo, ed è centrale in Ireneo, figura profondamente influente, in questi anni, sulla comunità lionese36. In conclusione del nostro esame, è possibile sostenere che, se tra i cristiani dei primi secoli fu in qualche misura viva la percezione che i martiri fossero “immolati” e, dunque, che i loro corpi partecipassero di una peculiare condizione di sacralità (secondo gli schemi concettuali propri del mondo cui pure i cristiani appartenevano), tale percezione appare sottoposta alle maglie strettissime di un’elaborazione agiografica che, da una parte, non può ancora riferirsi ad un inquadramento teologico robusto e definitivo della morte sacrificale di Cristo, mentre, d’altra parte, ha ben chiare le conseguenze di una connessione tra martirio e sacrificio. Tali condizionamenti appaiono più agevolmente superati quando la rappresentazione agiografica viene a toccare il tema del sacerdozio, ma, complessivamente, il sacrificio è evocato con una sobrietà e/o con precisazioni tali da suggerire che fosse intenzione degli agiografi evitare l’apertura di un “fronte caldo”, teologico e ideologico religioso. La più ampia e libera utilizzazione del tema sacrificale da parte dell’agiografia più tarda, sembra confermare la lettura proposta in queste pagine: solo quando una riflessione sul sacrificio di Cristo appare pienamente definita e globalmente accolta e solo con la compiuta identificazione teologica e cultuale dei martiri, le definizioni sacrificali del martirio affiorano nell’agiografia in modo ben più rilevante rispetto alla fase delle origini. 36

Che la concezione peculiare del rapporto martire-Cristo, propria degli atti lionesi, sia la chiave per intendere la peculiare indicazione dell’esecuzione dei martiri come sacrificio, sembra indirettamente confermato dalla precisazione presentata dall’agiografo, il quale, nel descrivere Blandina che esposta alle fiere assume la figura del Crocefisso, sente l’esigenza di distinguere tra il sacrificio di Cristo e la compartecipazione mistica del cristiano a quello stesso sacrificio; “la sua figura sospesa sembrava allo sguardo avere la forma della croce ed ella inoltre col suo pregare vibrante ispirava grande esaltazione nei compagni di martirio, che durante l’agone scorgevano anche con gli occhi del corpo nella figura della consorella , quella di colui che era stato crocefisso per loro, per convincere quanti hanno fede in lui che chi soffre per la gloria di Cristo ha per sempre comunanza con il Dio Vivente”. Marty. lugd. I, 41.La sottile distinzione presente negli atti lionesi evidenzia come l’uso del tema sacrificale, potesse essere percepito quale fonte di difficoltà perché — evocativo della morte di Cristo — poteva ingenerare pericolose sovrapposizioni tra martiri e Cristo, tra “sacrificio” dei martiri e l’unico, risolutore sacrificio di Gesù.


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Nell’agiografia più antica, l’applicazione di schemi sacrificali al martirio appare assente o “tradotta” in termini profondamente cristiani attraverso il riferimento a Cristo ed alla ritualità eucaristica. Restano però ulteriori interrogativi. Anzitutto: la minima influenza degli schemi sacrificali nell’intendere e rappresentare la vicenda dei martiri, può intendersi esclusivamente come conseguenza della selezione tematica operata dagli agiografi? La domanda è lecita, in quanto un procedimento proprio delle nostre fonti, da noi evidenziato, per esempio, nella trattazione della tematica escatologica e della relazione tra Cristo e il martire37, sembra consistere 37

Nella tesi di dottorato da cui questo lavoro è tratto si è dedicata una parte considerevole dell’indagine all’approfondimento della tematica escatologica presente nelle fonti. Da tale esame, è emerso che sono soprattutto le visioni dei martiri a mediare un insegnamento escatologico, con l’importante conseguenza di tracciare e fissare l’identità teologica dei martiri, recependo i nuclei essenziali della coeva percezione collettiva dei martiri come “morti eccezionali” e anticipando, in buona misura, assunti teologici fissati con sicurezza solo in epoca successiva. Il messaggio escatologico dell’antica agiografia si condensa nel noto repertorio simbolico che intesse il racconto, specie nella narrazione delle visioni: luce e calici colmi di “bevande d’eternità”(acqua, latte); palme verdeggianti e rose; la corona trionfale e la scala di Giacobbe; le vesti bianche e il banchetto nuziale; tutti questi simboli rimandano al paradiso, al premio celeste del martire. Questa convinzione circa l’immediata ricompensa ultraterrena dei martiri, tuttavia, non appare elaborata con uguale e uniforme sicurezza in ambito teologico (si vedano i fondamentali contributi di M. VAN UYTFANGHE, L’essor du culte des saints et la question de l’ eschatologie, in Le fonctions des saints, cit., 91-107; ID., Platonisme et eschatologie chrétienne: leur symbiose graduelle dans les Passions et les panégyriques des martyrs et dans les biographies spirituelles (IIe-VIe siècle). Première partie: les Actes et Passions «sincères», in Fructus centesimus Mélanges, Steenbrugge-Etdordrecht 1989). Prima di Origene, la troviamo formulata con chiarezza solo in Tertulliano (cfr De anima 55,3-5; Scorpiace 1210; Apologeticum, 47,12-13; De resurrectione 43,4. Sulle posizioni di Tertulliano vd J. ALEXANDRE, Une chair pour le gloire. L’anthropologie réaliste et mystique de Tertullien, in Théologie historique 115, Paris 2001), secondo il quale tutti i defunti attendono la resurrezione in un luogo specificato come “seno di Abramo”, ma non i martiri, per i quali le porte del paradiso si dischiudono immediatamente. Ancora nel II secolo, Ireneo taccia di eresia chi afferma che i cristiani salgano al Padre immediatamente dopo la morte (cioè gli gnostici, cfr Adversus haereses V, 31,1-2;), sebbene sembri accettare l’idea di una prerogativa martirii (ibid., IV,33,9). A livello teologico, la definizione della “ricompensa” dei martiri apriva questioni estremamente complesse, giacché costringeva ad affrontare il problema della sorte dell’anima nella fase intermedia tra morte e resurrezione, problema alla cui risoluzione il Nuovo Testamento non offriva che pochi spunti accidentali e che


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nella ricezione di convinzioni (e, verosimilmente, di tradizioni orali) diffuse tra i fedeli, modellate dagli agiografi secondo precisi schemi narrativi e kerygmatici38. prevedeva , oltre allo sforzo di “organizzare” la topografia ultraterrena, anche quello di stabilire con sicurezza i criteri di distinzione tra giusti e reprobi. A fronte di tutte le immense questioni che si aprivano alla speculazione teologica, l’agiografia adotta un criterio di estrema semplificazione, definendo con sicurezza il destino ultraterreno dei martiri: in ciò, questa peculiare tipologia di fonti mostra, a nostro parere, di aver recepito le idee diffuse tra le comunità cristiane, che da subito intesero i propri martiri come “morti eccezionali”, anche a partire dal loro sicuro “approdo” paradisiaco. Se tale percezione fosse plasmata da un “platonismo popolare” che voleva l’anima immediatamente ascesa al cielo o da un’identificazione appassionata tra la vicenda dei martiri e il paradigma di morte- resurrezione -ascensione al cielo di Cristo, è difficile dirlo: ciò che qui ci interessa rilevare è che, recependo le idee diffuse tra i fedeli, più che le caute concezioni dei teologi, l’agiografia più antica conferì ad esse l’autorità del documento scritto e, in alcuni casi, della lettura liturgica (sulla lettura liturgica delle passiones, cfr B. DE GAIFFIER, La lecture des Actes de Martyrs dans la prière liturgique en Occident. A propos du passionnaire hispanique, in AB 72 (1954) 134-165; ID., Un prologue hagiographique hostile au décret de Gélase?, in AB 82 (1964) 341-353; ID., La lecture des passions des martyrs a Rome avant le IXe siècle, in AB 87 (1969) 63-78). 38 Per la metodologia di analisi del testo agiografico, tra i tanti studi, esemplari, a nostro parere (anche quando pertinenti a contesti cronologici diversi da quello qui considerato): M. SIMONETTI, Studi agiografici, Roma 1955; ID., Qualche osservazione sui luoghi comuni negli Atti dei Martiri, in Giornale Italiano di filologia X (1957) 147-155; E. PATLAGEAN, A Byzance.Ancienne hagiographie et histoire sociale, in Annales E.S.C. (1968) 780-791; S. BOESCH GAJANO, “Narratio” e “expositio” nei Dialoghi di Gregorio Magno, in Bollettino dell’ Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano 88 (1979); EAD., Demoni e miracoli nei “Dialogi” di Gregorio Magno, in Hagiographie, culture, societé, cit., Atti del convegno di Paris-Nanterre, Paris 1981; S. PRICOCO, Un esempio di agiografia regionale:la Sicilia, in Santi e demoni nell’Alto Medioevo occidentale (secoli VXI), Spoleto 1989, 319-376; M. VAN UYTFANGHE, Stylisation biblique et condition humaine dans l’hagiographie mérovingienne, Bruxelles 1987; ID., L’hagiographie: un ‘genre’ chrétien ou antique tardif ?, in AB 111 (1993) 135-188; M. ALEXANDRE, La construction d’ un modèle de sainteté dans la Vie d’Antoine par Athanase d’Alexandrie, in Saint Antoine entre myte et légende. Textes réunis et présentés par Philippe Walter, Grenoble 1996; F.E. CONSOLINO, La santità femminile fra IV e V secolo: norme, esempi, comportamenti, in F. SCORZA BARCELLONA – G. BARONE – M. CAFFIERO (a cura di), Modelli di santità, cit., 1942; T. SARDELLA, Visioni oniriche e immagini di santità nel martirio di S. Lucia, in Storia della Sicilia e tradizione agiografica nella tarda antichità, a cura di S. Pricoco, Soveria Mannelli 1988, 127-154. Per l’inquadramento della problematica agiografica si vedano, inoltre: R. AIGRAIN, L’hagiographie. Ses sources, ses méthodes, son histoire, Paris 1953; P. GOLINELLI, Agiografia e storia in studi recenti: appunti e note per una discussione, in


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Se questo rapporto dialettico tra redattori e fruitori dei testi agiografici, dunque, è in questi secoli particolarmente vivace e importante, si può supporre che la rappresentazione del martirio propria dell’antica agiografia, centrata, più che sul sacrificio, sull’interpretazione del martire quale atleta, quale combattente impegnato nel duello contro Satana, risponda a concezioni radicate e diffuse, meglio confacenti, con la focalizzazione sul demonio, a idee e bisogni ampiamente condivisi, alla visione del mondo globale che emergeva dalla ideologia religiosa cristiana. Pur differenziandosi, infatti, per molteplici aspetti, i vari settori della cristianità che si riconoscevano nell’“ortodossia”, furono concordi nell’intendere il mondo come pervaso dalla presenza perniciosa del demonio, investendo una parte sempre maggiore di energie spirituali ed intellettuali a comprenderne ed osteggiarne l’azione: la vicenda del martire, così, andò trasformandosi in specimen di un’esperienza del mondo dominata dalla presenza del male “che c’è sempre ed è sempre, per così dire, fuori posto, perché è quella forza che si oppone all’ordine e non si può, in nessun modo, far rientrare in nessuna rassicurante struttura dell’essere”39. Ecco dunque, emergere, da una lettura complessiva dei testi, la necessità di comprendere la vistosa contrapposizione tra la debolezza degli schemi sacrificali da una parte e la diffusa interpretazione del martirio come agone contro il diavolo dall’altra. Certamente nell’antica agiografia martiriale non ritroviamo la ricchezza narrativa che — componendo materiali della più vasta ed eterogenea provenienza — caratterizza la trattazione del demoniaco nei successivi filoni agiografici, ove il tema compare come caso particolare di una peculiare dilatazione del meraviglioso; né la trattazione del demonio SocStor 19 (1983) 109-120; AA.VV., Hagiographie, culture, societé, Atti del Convegno di Paris-Nanterre, Paris 1981; S. BOESCH GAJANO (a cura di), Santità, culti, agiografia. Temi e prospettive, Atti del I Convegno di studio dell’ Associazione italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia, Roma 24-26 ottobre 1996, Roma 1996; EAD., Agiografia, in Morfologie sociali e culturali in Europa tra tarda antichità e alto medioevo, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Settimane di Studio XLV, Spoleto 1998, 797-843; con particolare riferimento ai testi qui analizzati, S. RONCHEY, Gli Atti dei martiri tra politica e letteratura, in A. SCHIAVONE (a cura di), Storia di Roma, III, L’età tardo-antica, 2. I luoghi e le culture, Torino 1993, 781-825. 39 P. SACCHI, Il diavolo nelle tradizioni giudaiche del secondo Tempio (500 a.C. – 100 d.C.), in E. CORSINI – E. COSTA (edd.), L’autunno del diavolo, I, Milano 1990, 107-128, 416.


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vi configura il campo d’espressione, attraverso il linguaggio della possessione, di paure, speranze e necessità legate alla materialità dell’esistenza, al piano del contingente. Il dato essenziale, piuttosto, offerto da tutti i testi in cui lo schema processuale è sostituito da una più ampia prospettiva di narrazione, è la lettura del martirio come agone vittorioso contro il diavolo, come lotta durissima, colma di estrema sofferenza fisica, il cui esito è sempre l’immediato accesso del martire al Paradiso. Questa interpretazione essenziale e costante del martirio ha estese fondamenta, che possono essere meglio illuminate collegando i dati della rappresentazione (lessico, immagini, concezioni del demoniaco; analisi narrativa dello schema agonico) al complesso delle concezioni e degli interessi demonologici coevi, ma anche, più estesamente, ai temi essenziali intorno ai quali si organizza l’elaborazione e il vissuto religioso dei cristiani in questi secoli: la riflessione cristologica, cioè, (che non configura solo un piano teologico “alto”, ma è al centro della spiritualità vissuta e dell’esperienza di fede quotidiana); la necessità dei cristiani di definire l’altro da sé; la costituzione di un’organizzazione gerarchica delle comunità che le protegga dai rischi di disgregazione. In questi complessi e articolati processi di definizione dell’identità religiosa e teologica, di auto comprensione, di costruzione della leadership sacerdotale, il diavolo è una presenza basilare40: egli ha ruolo nella fonda40 Per la ricostruzione del “paradigma demonologico” elaborato dalla Chiesa dei primi secoli, in modo sostanzialmente coeso, ma non senza divergenze rispetto a temi specifici come la potenza del diavolo o la responsabilità umana nel dispiegarsi del male terreno, abbiamo soprattutto utilizzato gli studi di A. Monaci Castagno: Il diavolo e i suoi antenati: a proposito di alcuni studi sulla demonologia giudaica e cristiana antica, in RSRL 29 (1993) 383-413; Il diavolo e le sue metamorfosi: spunti esegetici negli Atti di Pietro, in ASE 11/2 (1994) 419-432; La demonologia cristiana fra secondo e terzo secolo, in Il demonio e i suoi complici, cit., 111-150; Il diavolo e i suoi angeli: testi e tradizioni (sec I-III), Fiesole 1996. Per alcuni temi, relativamente ai Padri del II sec., resta valido il classico contributo di J. RUSSEL, Il diavolo. Percezioni del diavolo dall’antichità al cristianesimo primitivo, Bari 1989 (si veda anche ID., Satana. Il diavolo e l’inferno tra il primo e il quinto secolo, Milano 1986 (ed. or. Satan. The Early Christian Tradition, Ithaca-London 1981). I limiti epistemologici delle opere di Russel sul diavolo sono ben posti in luce dalla discussione analitica di A. MONACI CASTAGNO, in Il diavolo e i suoi antenati, cit., 383-413. Alcune opere miscellanee, la cui consultazione c sembra indispensabile allo studioso interessato al tema,


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mentale riflessione cristologica, laddove la morte di Gesù è intesa come prezzo di riscatto, che libera definitivamente l’uomo dall’asservimento alle potenze demoniache; ancora, il diavolo (o meglio la comprensione della sua natura e della sua azione sul mondo) è ampiamente utilizzato per tracciare un netto confine tra i cristiani e il mondo pagano, inteso come campo privilegiato dell’opera demoniaca41; infine l’appartenenza al campo delle tenebre di quanti si pongono fuori della chiesa istituzionale diventa argomento essenziale per la repressione del dissenso religioso, e per il rafforzamento delle nascenti gerarchie42. Per quanto riguarda le testimonianze letterarie, non solo agiografiche, offerte dalla prima cristianità, si può generalmente affermare che, tra II e III secolo, il discorso sul diavolo, nelle testimonianze riferibili a posizioni “ortodosse”, prende le forme, soprattutto, dell’esposizione dottrinale e dell’argomentum apologetico, mentre la drammatizzazione del diabolico sembra caratterizzare specialmente gli scritti apocrifi.

sono i volumi curati da E. CORSINI – E. COSTA (edd.), L’autunno del diavolo, I, Milano 1990; S. PRICOCO (a cura di), Il demonio e i suoi complici. Dottrine e credenze demonologiche nella Tarda Antichità, Soveria Mannelli 1995, e AA. VV., Il diavolo e suoi antenati: rassegna di alcuni studi sulla demonologia giudaica e cristiana antica, in RSLR 29 (1993) 383-414. 41 L’elaborazione “culta” del diabolico compiuta dalle gerarchie in questi secoli aveva precise risonanze nel quotidiano dei fedeli. Tale elaborazione, infatti, si addentrava in complesse mitologie per ricostruire la genealogia del male, offrendo interpretazioni diverse della caduta angelica; comprendeva momenti “alti” di riflessione teologica, ma, soprattutto, si traduceva in concrete indicazioni di comportamento, rivolte a tutti i cristiani affinché riconoscessero ed evitassero le insidie del demonio, di cui le città pagane pullulavano. I luoghi in cui cristiani e pagani vivevano fianco a fianco ad esempio, furono rappresentati dai primi Padri, e, tra tutti, soprattutto da Tertulliano, come campi d’azione di Satana: le statue e le effigi degli dei che adornavano le città, i riti che vi si svolgevano, i luoghi dello scambio sociale, bagni e teatri in primo luogo, furono indicati senza equivoco come ricettacoli di demoni. Fu segnalato, con cupa insistenza, il pericolo di prestare inavvertitamente un atto di adorazione al demonio insito in gesti consueti e apparentemente innocenti, come, ad esempio, deporre sulla soglia una ghirlanda o una lucerna. Esemplare di tali atteggiamenti TERTULLIANO, De Idol. 15, 4-5. 42 Tale atteggiamento è esplicito in Ignazio di Antiochia, ove gli eterodossi, definiti senza mezzi termini “erba del diavolo”, “bestie feroci” (cfr Ign., Eph. X, 3; Eph. VII, 1) e “cani idrofobi” (Eph. VII, 1) sono coloro che non accettano la sottomissione al vescovo: È bello riconoscere Dio e il vescovo. Chi onora il vescovo viene onorato da Dio. Chi compie qualche cosa di nascosto dal vescovo, serve il diavolo (ID., Smirn. X, 2).


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Basta, infatti, una lettura anche superficiale degli Atti apocrifi degli Apostoli43, ad accorgersi che è qui posto in scena un vero e proprio teatro del diabolico, in cui gli apostoli — rappresentati come potenti esorcisti e taumaturghi — agiscono per sventare le mille nocendi artes del diavolo, in una costante alternanza di invenzione narrativa ed esposizione dottrinale (riferibile ai vari contesti teologico dottrinari di cui gli apocrifi sono complessa espressione44), che conferisce al racconto la capacità di essere godibile e fruibile a livelli culturali diversi. Ora a fronte della articolata ricchezza narrativa che distingue gli scritti confinati dalla chiesa istituzionale tra gli apocrifi, i nostri testi non presentano, come si è detto, una dimensione narrativa paragonabile per ampiezza, articolazione tematica e ricchezza di invenzione, alle coeve testimonianze apocrife (ma anche ad importanti tradizioni agiografiche successive), senza che, tuttavia, il discorso sul diavolo sia espresso unicamente attraverso l’esposizione dottrinale ed apologetica. L’interpretazione agonistica del martirio, infatti, assicura anche dinamiche narrative, modellando il racconto come successione e intreccio di tre momenti fondamentali: l’aggressione diabolica, la lotta di resistenza opposta dal martire, la vittoria finale dell’eroe cristiano. I significati del discorso sul diavolo svolto dai nostri testi, dunque, corrispondono in alcuni casi ad azioni ben isolabili, legate da nessi di successione o causalità. Spiccano, invece, tra le nostre fonti, quei testi che, pur riservando al diavolo spazio ed importanza molto ampi, trattano il tema in una dimensione esclusivamente “informativa”, come mera expositio di dottrine e convinzioni demonologiche desunte dalla trattatistica e dall’apologetica: così il Martyrion di Carpo, Papilo e Agatonice, ove è palese l’interpretazione agonistica del martirio, (come si evince dai rapidi e convenzionali 43 Leggiamo i testi in M. ERBETTA (a cura di), Gli apocrifi del Nuovo Testamento, II, Atti degli Apostoli, Casale Monferrato 1969. 44 Per un inquadramento dei molti temi e problemi connessi agli Atti apocrifi si vedano: AA.VV., Les actes apocryphes des apôtres. Christianisme et monde païen, (Publ. de la Facultè de Theologie de l’ Université de Genève, IV), Genova 1981; AA.VV., Gli apocrifi cristiani e cristianizzati, in Augustinianum XXIII, Roma 1983. Per il tema del diabolico: A. MONACI CASTAGNO, Il diavolo e le sue metamorfosi: spunti esegetici negli Atti di Pietro, in ASE 11/2 (1994) 419-432.


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accenni alla upomone dei martiri e dalla collocazione dell’attacco più grave del diavolo nell’ora delle torture e della prova fisica, da cui i cristiani escono vittoriosi), ma in cui la presenza rilevante di Satana, lungi dal germinare da meccanismi squisitamente narrativi, è assicurata da un elenco di topoi demonologici di chiara derivazione apologetica45. Sono i testi chiave della antica martiriologia (Atti lionesi; Martytion di Policarpo) e la letteratura agiografica africana, dalla Passione di Perpetua alle passiones ciprianee, a presentare, invece, una vera articolazione narrativa del diabolico: il diavolo, cioè, vi appare quale motore di eventi e azioni, seppure in una dimensione sostanzialmente contratta, poco sviluppata dal punto di vista dell’inventiva, come evidenziano alcuni 45 Cfr Marty. Carpi, 5.7.8.15.17-19. Compaiono in questo testo la topica identificazione dei pagani-demoni e la conseguente condanna del sacrificio pagano in chiave demonizzante; la polemica contro gli dei intesi come assemblaggio di materiali inerti e corruttibili plasmati da mano umana; nonché interessanti digressioni dottrinali, centrate su due temi demonologici fondamentali: la caduta angelica e la preveggenza del diavolo (aspetto della più generale problematica legata alla veridicità/liceità del soprannaturale pagano).In particolare, il nostro agiografo aderisce alla ben nota teoria — dominante fino al IV secolo — secondo cui il diavolo sarebbe caduto per invidia e gelosia dell’uomo, creatura prediletta da Dio, e continuerebbe per tanto a subornarlo e sviarlo. Le teorie sulla caduta centrate sul motivo dell’invidia del diavolo saranno gradualmente sostituite, dal IV secolo (pur senza scomparire definitivamente), dalla tesi della caduta per orgoglio. Una rassegna delle principali interpretazioni patristiche è in E. MANGENOT, Demon d’après les Pères, in Dictionnaire de théologie catholique, IV, I, col. 339-384, specialmente col. 340-76. Inserito ex abrupto, è poi un consistente passo sulla capacità divinatoria dimostrata dal diavolo (per bocca di divinità oracolari e operatori mantici pagani) in cui tale dote è presentata come frutto dell’antica conoscenza dell’uomo da parte di Satana e come ovvia capacità di annunciare quei mali che egli stesso compirà contro l’uomo: questa capacità di Satana è comunque subordinata a Dio e ricondotta ai piani divini sull’uomo. Il martyrion costituisce dunque un interessante collage di temi e argomenti demonologici che ben poco hanno in comune con la tematica martiriologica, ma che illustrano molto bene le finalità catechetico pedagogiche — cui l’agiografia tendenzialmente risponde. Anche il martryion di Pionio riserva ampio spazio ed importanza all’elemento demoniaco, sebbene ancora in lunghi passi espositivi, di tipo polemico e dottrinale, e non mediante invenzioni narrative e fantastiche. Il testo contiene un lungo excursus che, motivato dall’esigenza di confutare una delle accuse correnti rivolte ai cristiani, (che essi siano seguaci di un mago, Cristo, evocato dopo la morte dai discepoli con pratiche negromantiche), si trasforma in un ampio discorso adversus iudaeos, considerati i principali artefici di tale calunnia. È qui evidente un’utilizzazione del diabolico, tipica degli apologisti, rivolta a screditare e condannare idee e pratiche dei gruppi religiosi concorrenti, finalità che si avvale in questo caso, insolitamente per l’agiografia, dello strumento esegetico.


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elementi della trattazione demonologica ricorrenti in tutti i testi (con la parziale eccezione rappresentata del diario di Perpetua). Anzitutto, la presenza del diavolo è sempre evocata all’interno di uno schema agonistico che riguarda esclusivamente la vicenda di persecuzione e martirio; manca, cioè, il riferimento alle manifestazioni sataniche che ostacolano e affliggono l’esistenza umana, e la conseguente menzione di un intervento risolutivo affidato ai martiri. L’azione di Satana si dispiega esclusivamente nel territorio della morte e della sofferenza fisica, e riguarda la sola persona dei martiri. Secondo, fondamentale elemento: l’azione di Satana, più che rappresentata, è segnalata, indicata ed anche commentata dagli agiografi. La radice diabolica degli eventi, cioè, non è espressa da linguaggi immaginifici, dalla spettacolarizzazione delle azioni potenti di Satana, ma è evidenziata da passi ed espressioni interpretativi, che collocano la vicenda entro un peculiare modello esplicativo. Un ulteriore dato comune agli antichi testi martiriali è nel fatto che la presenza di Satana è sostanzialmente aniconica, priva di concreti riferimenti morfologici: il diavolo è evocato come presenza insidiosa e costante, ispiratore di tutte le violenze e i soprusi contro i cristiani, ma non è mai visto o descritto. Soltanto nel diario di Perpetua il diavolo appare morfologicamente caratterizzato, nelle celebri raffigurazioni di Satana come serpente ed Egizio, contro cui la martire combatte in visione: si tratta di rappresentazioni piuttosto convenzionali, che hanno una lunga storia precedente al cristianesimo e che domineranno per secoli l’immaginario cristiano del diabolico46, ma la cui singolare presenza nel contesto aniconico dell’anti46 Nella prima visione Perpetua combatte contro un’immane serpente, figura diaboli; nella IV, è un colossale Egizio ad incarnare Satana. La raffigurazione del diavolo come dragone o serpente ha una complessa genealogia, con antecedenti mesopotamici ed ebraici. Nell’AT la mostruosità e ferinità diabolica appartengono soprattutto al mondo acquatico: Is 27,1 parla del Leviathan, mostro marino, mentre in Dn 7 i mostri diabolici sorgono dalle acque per la battaglia finale contro il Figlio dell’Uomo. Fondamentale anche il riferimento genesiaco al serpente (Gen 3,1). L’elemento acquatico è superato, per così dire, dall’immaginario cristiano, in favore di un’interpretazione “terrestre”, perché la Settanta traduce il termine ebraico tannin, che indica malefici esseri marini, con draékwn. Nell’Apocalisse, molto influente sulla P. Perp., Satana è l’antico serpente (Ap 20,2) ed è raffigurato nella celeberrima immagine del drago rosso fuoco con sette teste e dieci corna (Ap 12,9).


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ca agiografia può stimolare ulteriori riflessioni sulla trattazione del diabolico che vi si rileva. Appare, inoltre, di estremo interesse il fatto che, nella passio di Perpetua, il consueto schema interpretativo del martirio come agone contro il diavolo sia tradotto nella rappresentazione di uno scontro fisico violento e diretto, tra la martire e un vigoroso diavolo dotato di corpo e immagine. Seppure condotta unicamente sul piano visionario, la dimensione corporea e diretta della lotta presente nella Passio rappresenta, anch’essa, un’eccezione nella prima agiografia, poiché in tutti i testi lo scontro del martire con il diavolo appare sempre mediato e indiretto: a “scendere in campo” sono, infatti i pagani (coadiuvati in alcuni casi dai giudei)47. E evidente che l’immaginario diabolico si sviluppa con assai maggiore intensità nella letteratura apocrifa e nella agiografia post costantiniana: e ciò perché, a nostro parere, gli episodi diabolici della più tarda Altrettanto frequente nelle testimonianze cristiana, su un ampio arco cronologico, è l’identificazione del diavolo con uomini dalla pelle scura: la caratterizzazione etnica come egizio, sembra radicarsi nell’idea, attestata negli scritti cristiani (cfr Apoc. 11.8; Apt VIII) dell’Egitto come simbolo del male e del peccato. Gi Atti petrini distinguono tra diavoli dall’aspetto di egizi e quelli di etiopi (Atti di Pietro 22,18-26): alla vigilia dell’eccezionale gara che vedrà Pietro e il mago Simone sfidarsi per conquistare le folle romane, Marcello, senatore e protettore della chiesa di Roma, ha una visione, in cui il diavolo gli appare nelle spoglie di una donna sudicia e nera, un’etiope, con una catena di ferro al collo, che danza davanti a Marcello. Comprendendo la natura diabolica dell’apparizione, Pietro invita il senatore cristiano a tagliarle la testa: è evidente e significativo come il maligno sia identificato nell’alterità del sesso e della razza. L’episodio degli acta petrini è stato acutamente analizzato da A. MONACI CASTAGNO, Il diavolo e le sue metamorfosi, cit. L’idea della negritudine del diavolo è molto antica: già Barnaba definisce satana o melas, il Nero. Per altri esempi agiografici del diavolo egizio, etiope o mauro, cfr Passio di S. Alessandro di Baccano (BHL 273, AASS Stt. T.6 p.230D); GREGORIO MAGNO, Dial. IV, 193 (ed. De Vogue, SC 265, 14). 47 Le cose cambiano notevolmente nei testi agiografici più tardi, che introducono la rappresentazione di vigorosi corpo a corpo tra santi e diavoli: basti qui ricordare, per limitarci alle testimonianze martiriali, i casi, finemente analizzati da P.Boulhol, delle passiones bizantine di Marina e Giuliana di Nicomedia, ove diavoli mostruosi e ingannatori, apparsi in prigione alle martiri per recar loro nuovi tormenti, sono domati e messi in fuga dalle vergini eroine con vigorose legnate. Il tema dello scontro satanico appare, in questi testi, trattato perfino con toni ed elementi della commedia, evidenziando l’ampiezza e intensità delle contaminazioni culturali e letterarie di cui l’agiografia è ormai luogo privilegiato. Vd P. BOULHOL, Hagiographie antique et démonologie. Notes sur quelques passions greques, in AB 112 (1994) 255-302.


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agiografia riflettono la storia ormai “rodata” di una santità immessa nel vivo delle sofferenze quotidiane dei fedeli, la cui opera di liberazione dai mali dell’esistenza si presta ad essere concepita e rappresentata nei termini iperrealistici e forse semplificanti dello scontro fisico, del corpo a corpo vittorioso. Alla pericolosa materialità corporea dei demoni si contrappone la concretezza dell’azione di santi e sante, in racconti in cui si esprime l’eco simbolica di consolidate prassi terapeutiche ed esorcistiche. Analogamente, gli Atti apocrifi dei primi secoli, scaturiscono da un interesse rilevante per il tema del theios aner, cosicché l’evidenza data alle capacità di azione e trasformazione di Satana è in relazione con l’interesse a far risaltare il potere e gli strepitosi carismi dell’uomo divino cristiano, incarnato paradigmaticamente dagli apostoli. Il differente quadro narrativo e, dunque, ideologico religioso, offerto dalla più antica agiografia, allora, va in parte ricondotto al prevalere, nelle nostre fonti, delle ragioni del controllo istituzionale, ma anche agli interessi di segno diverso addensati nella rielaborazione delle vicende dei martiri. Se, come si è detto, il nucleo vitale degli Atti apocrifi può considerarsi la figura dell’uomo divino, cui si collega l’articolata rappresentazione di un mondo vessato dal demonio, i primi racconti di martirio — prodotti entro il medesimo contesto cronologico — sorgono piuttosto dall’esigenza di comprendere la morte eccezionale del martire, in un senso che si costruisce come testimoniale e fondante al tempo stesso. La vicenda del martire, infatti, è plasmata dall’agiografia come attualizzazione, nella storia delle comunità, del paradigma salvifico di Cristo trionfante sulla morte. Essa può leggersi come esemplare non solo perché presenta un modello di comportamento cristiano di fronte alla prova del dolore e della morte, ma, soprattutto, perché sintetizza, in un canovaccio essenziale, i nuovi modi di percepire e superare il rischio della morte, “sperimentati” ed espressi nel caso limite del martirio, evento in cui la crisi della morte giunge alla massima evidenza e drammaticità, e sulla cui valutazione si misuravano l’atteggiamento dei cristiani e le ancora persistenti concezioni pagane della mala morte48. 48 Per il fondamentale passaggio dal biothanatos al martire cfr L. CANETTI, vd nota 4. Per le credenze, ampiamente attestate nella cultura antica, sui morti eccezionali (morti di morte violenta, o prematuramente o insepolti), per le pratiche magiche ad essi inerenti e la


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Il senso fondante e “risolutivo” del racconto di martirio è, dunque, nella trasformazione che esso attua della morte violenta e infamante in morte positivamente eccezionale, mutamento che non avviene tanto sul piano della comunicazione, cioè delle accorte tecniche retoriche con cui si esaltava il trionfo del martire, quanto su quello della compartecipazione ai processi di ricomposizione avviati dal costituirsi della cristologia e della soteriologia cristiane. Sul piano formale, la partecipazione tali processi è espressa mediante un aggancio costante al paradigma cristologico, ma in un senso che va oltre i riferimenti ai Vangeli, e, dunque, al significato del martirio quale imitatio Christi. Un approfondito esame degli episodi soprannaturali presenti nei testi, in cui già si delinea una percezione del corpo del martire come corpo eccezionale, infatti, lascia emergere la tessitura cristologica del racconto agiografico non solo come collegamento esplicito a luoghi della Scrittura, ma anche come espressione di un’esperienza religiosa che conosce, immagina e ricerca momenti forti, extra ordinari, di comunicazione con il divino, collocandone le più intense espressioni nei momenti estremi dell’incontro con il dolore e con la morte. Imitazione e comunione (koinonia) emergono, così, come i due diversi aspetti della relazione con Cristo, entrambi utilizzati, in misura e relazione variabili, dalla prima agiografia. Questo duplice livello di riferimento dei testi — da una parte l’aggancio costante alla Scrittura, dall’altra il radicamento nel vissuto comunitario, con le sue pratiche e credenze — ci sembra agire anche nell’interpretazione agonica del martirio. Tale lettura ha, infatti, un profondo legame con il modello di Cristo impegnato, nei Vangeli, in un costante raffronto con Satana, ma si collega, conseguente, aspra polemica condotta dai Padri, si veda soprattutto J. B. CLERC, Homines magici. Etude sur la sorcellerie dans la société romaine impériale, Berne – NewYork 1995, in particolare 258 ss. Tra le fonti più interessanti su questo consolidato e duraturo complesso di convinzioni e pratiche relative ai morti negativamente eccezionali, sono i papiri magici greci, che documentano dettagliate formule basate sui resti dei biothanatoi: cfr PGM II, v. 425; PGM IV, v.1874-1885; PGM V, v. 304 ss. Si vedano anche: PLINIO, Naturalis historia 28, 1-5; MINUCIO FELICE, Octavius 30, 4-5; TERTULLIANO, Apologeticum 9,10. Per l’uso di sangue umano nei riti magici cfr APULEIO, Metam. 1, 12-19.


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soprattutto, ad una realtà fluida e dilatata di convinzioni cristologiche, ampiamente attestate nella Chiesa antica, in cui la morte di Cristo è intesa come sconfitta delle potenze infernali e come liberazione dell’uomo dall’asservimento al diavolo. Si tratta, come si sa, di coordinate teologiche presenti già in Paolo49, il cui presupposto necessario è l’opzione per l’interpretazione sacrificale della morte di Gesù: il sacrificio in croce di Cristo è infatti inteso come prezzo di riscatto, necessario alla liberazione dell’uomo dal diavolo. Non è qui possibile evocare, anche sommariamente, la storia delle formulazioni teologiche attraverso cui, tra I e III sec., fu affrontato il tema immenso della redenzione, né segnalare le spinose questioni suscitate a livello teologico dal tema della vittoria sul diavolo, affrontato per la prima volta, con una certa sistematicità e in un ricco quadro esegetico, da Origene. Quel che qui vorremmo evidenziare è il fatto che la comprensione della morte di Cristo come vittoria sul diavolo, ricevette, al di là dei diffi49 Cfr Col 2,12-15; Ef 2,1-7; 1Cor 20-25. La comprensione della morte sacrificale di Gesù, è presente in Paolo (ma non con carattere esclusivo: i testi paolini applicano vari modelli interpretativi, allora correnti tra le comunità. Approfondimenti in: G. BARTH, Il significato della morte di Gesù, cit.; E.P. SANDER, S. Paolo, Genova 1997, 86-89) in Giovanni, e, con accezione spiccatamente cultuale, nell’Epistola agli Ebrei: il sacrificio è inteso come riconciliazione, che ha l’esito di stabilire una nuova alleanza tra Dio e l’umanità. Accanto a questa comprensione del sacrificio di Gesù fu, però, espressa una concezione in cui la morte di Cristo appare come riscatto, prezzo pagato per ottenere la liberazione dagli uomini dall’asservimento alle potenze demoniache. La concezione della morte sacrificale di Gesù e quella della vittoria sul diavolo appaiono così, anche collegati dall’idea di una “transazione”, sebbene in Paolo, ad esempio, i tre elementi chiave – sacrifico – vittoria delle potenze – riscatto – siano presenti, ma in modo non sistematicamente saldato. La dottrina della redenzione centrata sul tema della vittoria sul demonio è sviluppata, nel II secolo, soprattutto da Ireneo: ma le spinose questioni sollevate da tale interpretazione della morte di Gesù -relative al “beneficiario” della transazione in favore degli uomini, alla persistenza dell’azione del demonio nel mondo nonostante la sua sconfitta ad opera di Cristo, al prezzo del riscatto- sono coerentemente affrontate, in un quadro esegetico ricchissimo, da Origene. Nella dottrina della redenzione elaborata da Origene, infatti, il tema tradizionale della morte di Gesù, vista come riscatto per i peccati degli uomini, è connesso con quello della vittoria sul demonio fino a costituirne parte integrante. Fondandosi sull’esegesi di 1Pt 1,18, e su Ap 5,9, Origene afferma che il prezzo del riscatto è stato pagato al diavolo, e che il sangue prezioso di Gesù ha cancellato la vilis merces del peccato umano (cfr Or. Hom. Ex. 6,9). Sulle difficoltà interpretative suscitate dalla dottrina della redenzione di Origene, vd M. SIMONETTI, Studi sulla cristologia del II e III secolo, Studia Ephemeridis Augustinianum 44, Roma 1993.


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coltosi processi di elaborazione delle formulazioni teologiche e dogmatiche, anche una densa espressione mitica, sviluppando una tradizione, ampiamente diffusa e documentata nella chiesa antica, in cui l’evento decisivo di lotta e trionfo sul diavolo era localizzato negli inferi nel tempo intercorso tra la morte e la resurrezione. È la tradizione del descensus ad inferos, secondo cui Gesù, al momento della morte, era disceso nell’Ades e aveva sconfitto in combattimento i principi dell’inferno, liberando i prigionieri del regno dei morti50. 50 La credenza nella discesa di Cristo agli inferi — che salda in un’inseparabile rapporto reciproco diavolo, morte e Ades, vittoria sul diavolo e liberazione dell’uomo dalla morte — è lungamente attestata fin da epoca molto antica, se è vero che Mt 12,39-40, attribuisce a Gesù una profezia sulla discesa agli inferi (come tale il passo fu, comunque, inteso dai Padri, ad esempio da Ireneo ed Ambrogio. Cfr IRENEO, Adv. Haer. I, V, CXXI; AMBROGIO, In Epist. ad Eph. CIV, 9). I testi fondamentali del Nuovo Testamento relativi al descensus sono: At 2,24 e 2,27-31, passi che sembrano presupporre per certa la credenza nel descensus, e, soprattutto, 1Pt 3,19 (“E in spirito andò ad annunziare la salvezza agli spiriti che attendevano in prigione”) ed Eb 2,14. Molteplici sono le attestazioni della credenza nel descensus nei padri del II secolo, da Ignazio (cfr Ign., Magn. IX, 2) a Giustino (Giust., Dial. cum Triph. 72, PG t. VI, col. 645. ove è menzionata la discesa di Cristo agli inferi, in riferimento ad un apocrifo giudaico, la cosiddetta “Profezia di Geremia”), a Ireneo, che offre una testimonianza di estremo interesse sulla vivissima trasmissione e circolazione di tradizioni relative a Gesù nel primo cristianesimo. Ireneo afferma, infatti, di aver udito da un presbitero, che a sua volta dichiarava di averlo appreso da testimoni diretti della predicazione degli apostoli, l’insegnamento secondo cui il Signore era disceso negli inferi e qui aveva predicato ai morti la buona novella della salvezza.(cfr Advers. Haer. IV, XXVII, 1-2). In un altro luogo dell’Adversus Haereses Ireneo indica compiutamente i punti fondamentali di una dottrina della redenzione che comprende la concezione della sconfitta del demonio e della liberazione dei morti (vd Adv. Haer. IV, 33,1). Si noti, però che la menzione del descensus non compare nella regula fidei espressa in Adv Haer. I, 1: è questo un dato molto importante che illustra un atteggiamento ambiguo nei confronti della tradizione del discensus. Da una parte, infatti, vi sono molteplici attestazioni della credenza, sparse in una documentazione eterogenea e diffusa nei primi secoli, sia nella tradizione canonica che tra gli scritti apocrifi; dall’altra, sta il lungo silenzio delle proclamazioni di fede ufficiali. La prima menzione dell’articolo descendit ad inferos è infatti in Rufino (fine IV sec.) che riporta il simbolo battesimale della Chiesa di Aquileia (Ruf., Comment. in Symbol. 14) La rappresentazione narrativa della discesa agli inferi esplode, invece, nella letteratura apocrifa. Le Odi di Salomone, raccolta pervenutaci solo in siriaco, ma forse scritta originariamente in greco, datata alla prima metà del II secolo, contiene un testo (Ode 42) che, pur non offrendo una narrazione del descensus, esprime con intensità il tema dogmatico nella tessitura dei suoi simboli essenziali: la morte che inghiotte e vomita


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Ora questo quadro di convinzioni cristologiche costituisce, a nostro parere, l’ampio e denso sfondo in cui si colloca la visione agonistica del martirio presente nei nostri testi. Il legame con la tradizione del descensus è talvolta esplicito: essa ci sembra presupposta in un notevole passo degli Atti lionesi ed in alcune affermazioni della Passione di Montano e, come proponeva E. Corsini51, nella Passione di Perpetua. Negli Atti lionesi gli apostati sono rappresentati con tratti diabolici, avvolti in un fetore satanico, immersi in una lordura quasi materiale, di contro allo splendore ed al profumo dei martiri: essi sono indicati come realmente morti, inghiottiti e digeriti da Satana52. Il loro recupero da parte dei martiri è inteso nei termini di una vivificazione, ottenuta grazie alle preghiere, ad una vera e propria funzione intercessoria, ed è risultato di una guerra condotta, con l’“arma” dell’amore, contro la Bestia satanica53. Ora, il tema del diavolo divoratore ha il suo ascendente scritturale più prossimo nella raffigurazione di Satana come leone affamato di carne umana, presente nella prima Epistola petrina54; intensa è anche l’evocazione, in tale immagine diabolica, dell’episodio biblico di Giona divorato dalla balena, motivo iconografico ricorrente nell’arte paleocristiana, ove il mostro marino, chiara figura diaboli, è anche rappresentato come dragone. Nel repertorio funebre protocristiano le raffigurazioni di Giona sono tra le più antiche e numerose55, come chiaro simbolo di morte e resurre(caratterizzazione che ne rivela l’appartenenza satanica); le tenebre dissolte; le porte dell’inferno spalancate. Vd Ode 42, 14-21 leggiamo la traduzione italiana in J. Quasten (1971) 145 ss. Altre Odi in cui è sviluppato il tema del descensus: 17 (8.11.14); 22, 4-8; 15; 24. Lo scritto, però, che più di ogni altro presenta una ricca e favolosa congerie di narrazioni relative alla discesa di Cristo agli inferi, in cui il tema della lotta è trattato con spiccata evidenza “bellica”, è il Vangelo di Nicodemo, probabilmente composto nel IV-V secolo, riferendosi a tradizioni più antiche. Altre testimonianze apocrife del II-III secolo: negli Atti apocrifi di Tommaso, allocuzione a Gesù, in cui la discesa agli inferi di Cristo Crocefisso e la conseguente sconfitta del diavolo, appaiono come garanzia di protezione dall’aggressione delle potenze oscure che minacciano il viaggio della morte. Vd M. ERBETTA, Atti di Tommaso, trad. it., cit., 156. Cfr anche Atti di Giovanni, ibid., 65. 51 Cfr infra. 52 Marty. Lugd. (V) 1,33-35; 1, 25. 53 Ibid., (V) 2,6. 54 1Pt 5,8. 55 Si vedano sul tema: R. CALVINO – N. DIAVOLINO, La raffigurazione di Giona nella primitiva arte cristiana, in Asprenas 31 (1984) 525- 538; S. MAGGIO, Il mistero


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zione, secondo la prospettiva affermata in Matteo 12,40: era diffusa convinzione, nella chiesa antica, che, attraverso il simbolo di Giona, Gesù avesse prefigurato non solo la propria morte e resurrezione, ma la discesa agli inferi e la sconfitta delle potenze56. Se a questi elementi aggiungiamo il fatto che i più antichi riferimenti al descensus introducevano l’immagine di Cristo che costringe Inferno a vomitare, a “sputare fuori” i morti inghiottiti, emerge una rete di associazioni immaginifiche e tradizioni di antica matrice, in cui la morte è rappresentata come belva vorace, che acquisisce nel cristianesimo inequivocabili tratti satanici, rete in cui si inserisce l’immaginario del descensus. Nel medesimo reticolo possono situarsi raffigurazioni come quella degli Atti lionesi, in cui i martiri spalancano le fauci del diavolomorte per liberarne le prede. Nella Passione di Perpetua il riferimento al descensus è forse più sottile e profondo: la salvezza che Perpetua ottiene per il fratello Dinocrate è stata interpretata da E.Corsini, autore di una fondamentale lettura analitica di questo celebre testo, come espressione delle idee, di marca paolina, propugnate dalla passio circa il significato della iniziazione cristiana e dell’unione tra Cristo e il suo martire. Questa unione, di carattere intensamente mistico, ha tra le sue conseguenze, per il martire, una conoscenza extra ordinaria della condizione dei morti ed un’inedita capacità di intervenire su di essa57, quasi ripercorrendo le orme di Cristo disceso agli inferi. Rileggiamo le eloquenti conclusioni di Corsini: (Perpetua) morta e sepolta misticamente con Cristo morto e risorto, parteciperà in modo più concreto ancora alla sua passione mediante il

della morte e dell’ immortalità nell’archeologia cristiana in S. FELICI (a cura di), Morte e immortalità nella catechesi dei padri del IV-V sec., Biblioteca di scienze religiose, Roma 1985, 197-205, 240 ss. 56 Vd supra n. 50. 57 Cfr P. Perp. 7, ss. La martire vede in visione il fratello Dinocrate, morto a sette anni per un tumore al viso, soggiornare in un luogo oltremondano dai tratti imprecisati, ma sicuramente identificabile come luogo di pena. In seguito all’intercessione di Perpetua, una nuova visione conferma il carattere salvifico dell’intervento della martire, poiché Dinocrate vi appare risanato nelle piaghe e in una condizione di raggiunta felicità oltre mondana.


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martirio: unita a Cristo così intimamente da formare con lui, per così dire, un solo corpo, ella opera la salvezza del fratello insiemem con Cristo e per mezzo di Cristo, che dopo la sua morte era disceso, appunto, a predicare ai morti che sono nel carcere dell’Ade la buona novella58.

Infine, un ulteriore, esplicito riferimento al descensus compare nella Passione di Montano, in un passo di carattere pedagogico-dottrinale sul significato della morte per i cristiani, passo che illustra bene il quadro di convinzioni cristologiche che è sullo sfondo del racconto di martirio: cosa lieve è il morire per i servi di Dio e la morte stessa è niente, perché il Signore, strappandone gli artigli e debellando i suoi assalti, trionfò di essa con il trofeo della croce59.

Ora, al di là di riferimenti testuali precisi offerti da alcuni dei nostri testi, è la stessa interpretazione agonica del martirio, a nostro parere, ad inserirsi nel medesimo territorio di rielaborazione culturale profonda, relativa alla morte, avviata dal cristianesimo, e in cui si innesta la tradizione del descensus, tradizione che esprime un tassello indispensabile del paradigma salvifico fissato con la morte e resurrezione di Gesù, e che propone, in un netto contesto agonico, l’insopprimibile saldatura tra il diavolo, la morte, la carne. Se, infatti, la risoluzione culturale della morte elaborata dal cristianesimo (e in particolare dal movimento di Gesù, costretto ad affrontare la crisi aperta dalla sua uccisione), passa per la formulazione di un paradigma di morte e resurrezione il cui senso è la trasformazione del “morto” che ritorna “in risorto”, per riprendere le tesi demartiniane60, tale elaborazione introduce, allora, gradualmente, un momento agonico, indispensabile a trasporre il significato della vicenda di Gesù dal piano 58 E. CORSINI, Proposte per una lettura della Passio Perpetuae, in Forma futuri. Studi in onore del cardinale Michele Pellegrino, Torino 1975, 481-541: 504. 59 P. Mont. IV, 5: Nam et occidi seruos Dei leue est, nec ideo mors nihil est, cuius aculeos vonminuens contentionemque deuincens Dominus per trophaeum trumphauit. 60 La suggestione qui sviluppata è dal saggio di E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino 1977. Si vedano soprattutto p. 249 e ss.


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storico, in cui si presentava Gesù operante nella piccola comunità palestinese per liberarla da sofferenze e bisogno, al piano risolutivo, mitico (e mitopoietico), universalmente valido ed efficace, del trionfo divino sulle leggi e le creature dell’inferno. È questa complessa percezione ed elaborazione del significato salvifico della morte di Gesù, con le sue implicazioni demonologiche, a far emergere, come nucleo essenziale del “sistema” cristiano della morte (su cui si innestano gli elementi provenienti da credenze, miti, concezioni di antica matrice61), il processo di oggettivazione della morte in senso diabolico, processo che avrà fondamentali esiti di lungo periodo su pratiche e concezioni della morte. Basti pensare alla trasformazione assoluta dell’evento-morte in agonia, in lotta estrema contro le potenze del male62; alla progressiva 61 Il tema del descensus conduce a considerare la tipologia, di complessa definizione, delle divinità morenti e risorgenti, che affrontano una battaglia nelle sedi infere, tipologia attestata in testi e tradizioni vicino-orientali. Non si vuole qui soffermarsi su questo capitolo fondamentale degli studi storico religiosi, ma solo evocare il fittissimo tessuto che costituisce lo sfondo lontano dell’elaborazione cristiana. Il testo accadico sulla discesa di Ishtar, ove è narrata la discesa e il ritorno ella dea dagli inferi; il frammentario e misterioso ciclo di Baal e Anat contro Mot; l’epopea di Gilgamesh, ove la dea Inanna (nome sumero di Ishtar) è uccisa dai demoni nell’oltretomba, ma può tornare in vita se trova chi la sostituisca agli inferi: la trama di suggestioni è intensa quanto lacunosa, di difficile ricostruzione e valutazione. Si vedano, per una panoramca del tema, la voce Divinità morenti e risorgenti, curata da J. Z. Smith in Enciclopedia delle religioni, diretta da Micea Elide; P. SCARPI, Le religioni del mondo antico: i politeismi in G. FILORAMO – M. MASSENZIO – M. RAVERI – P. SCARPI, Manuale di storia delle religioni, Roma-Bari 1998, 5-160: 20 ss. 62 La lettura della morte divenne agonica a causa dell’ineliminabile presenza di Satana nella comprensione dell’evento morte. I primi cristiani non possedevano un’idea troppo chiara ed uniforme del loro destino ultraterreno. Speravano e credevano che sarebbero stati salvati in un luogo di luce e ristoro, temevano l’inferno e non immaginavano ancora la possibilità di potersi liberare, anche dopo la morte, dei detriti peccaminosi della vita terrena (cosa che avverrà, come ha dimostrato Le Goff, solo quando, nel XII sec. una borghesia dall’ormai indiscussa forza economica, politica e culturale,, potrà incidere su una riorganizzazione dell’aldilà che riflette aspirazioni e posizioni. V.J. LE GOFF, La naissance du Purgatoire, Paris 1982 (trad. it. La nascita del Purgatorio, Torino 1982). Accanto a questi processi di lungo periodo relativi alla definizione dell’aldilà, si colloca, fin dalle origini, quella demonizzazione del territorio dela morte che si espresse anche nella traduzione dell’angoscia del trapasso in termini diabolici. È un percorso che accoglie e assorbe nella visone cristiana i temi antichi e diffusi della contesa per l’anima e del viaggio pericoloso


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definizione dello statuto rischioso del cadavere e della tomba in rapporto alla presenza/assenza di Satana; allo strutturarsi, infine, della liturgia del morente mediante l’uso di quei paradigmi di liberazione che costituiscono il repertorio biblico comune all’esorcismo ed al rituale dei morenti63. Se il diavolo esprime, nell’antica agiografia, i peculiari processi di oggettivazione del rischio, e del rischio della morte specialmente, compiuti dal cristianesimo nel suo processo di costituzione culturale (e non solo teologico dottrinale), la rappresentazione dell’agone diabolico esplicita anche gli elementi di un modello di superamento del pericolo; palesa meccanismi risolutivi specificatamente cristiani di fronte al rischio oggettivato, collocato nel punto originario di un aggressivo disegno diabolico e inteso come disgregazione di un’appartenenza che tocca e colpisce il corpo con le torture, gli smembramenti e le esecuzioni ispirate da Satana. nell’aldilà, attestati in molteplici contesti storico religiosi dell’ antichità (ampia rassegna in A. DI NOLA, La Nera Signora. Antropologia della morte e del lutto, Roma 1995, 292337).Una testimonianza notevole del radicamento di queste tradizione nel proto cristianesimo è negli atti apocrifi di Giovanni, in cui la preghiera in punto di morte dell’apostolo ha il carattere di “un reiterato esorcismo” in cui è offerto lo scenario pauroso del viaggio dell’anima dopo la morte nei suoi incontri inquietanti. A. Giov. 114, trad. e commento in A. MONACI CASTAGNO (a cura di), Il diavolo e i suoi angeli: testi e tradizioni (sec I-III), Fiesole 1996. Nella documentazione più tarda (IV sec.) questi temi sono attestati anche in relazione alla morte dei santi: esemplare il racconto della morte di martino di Turs nell’Ep. 3 di Sulpicio Severo (SC 133), in cui il diavolo appare sul letto di morte del santo: “— lasciate fratelli, lasciate che io guardi il cielo piuttosto che la terra, perché il mio spirito, che sta per salire al Signore, si trovi già sul retto cammino.— detto questo si accorse che il diavolo gli stava vicino. Gli disse allora: — che fai qui, bestia sanguinaria? Non troverai niente in me, sciagurato. Il seno di Abramo mi accoglie. — Nel dire queste parole rese l’anima a Dio” (nostra traduzione). Si vedano anche: le formule esorcistiche nella preghiera pronunciata in punto di morte da Macrina (Greg. Nyss., Vita Macrinae, 24- 40, SC 178) e la preghiera di Agostino per la madre Monica (Conf. IX, 13,36, CSEL 33, 224-25). 63 Cfr J. NTEDIKA, L’évocation de l’au-delà dans la prière pour les morts. Etudes de patristique et de liturgie latines (IVe-VIIIe), Louvain 1971. Sulla liturgia del morente si vedano anche gli importanti studi di E. REBILLARD, La naissance du viatique: se préparer à mourir en Italie et in Gaule au V siécle, in Mediévales 20 (1991) 98-108; ID., In Hora Mortis. Évolution de la pastorale chrétienne de la mort aux IVe et Ve siècles, Roma 1994; ID., Récits de mort et pastorale des mourants: l’ exemple des premiéres hagiographies latines, in La narrativa cristiana antica. Codici narrativi, strutture formali, schemi retorici. XXIII Incontro di Studiosi d’Antichità Cristiana, Roma 5-7 Maggio 1994, SEA 50, Roma 1995, 581-596.


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Il centro propulsivo del racconto di martirio può, allora, indicarsi nella riproposta di uno schema di lotta e trionfo su cui superfluo è l’innesto di invenzioni fantastiche, schema che esprime i fondamenti di una nuova acculturazione della morte, fondata sulla sua oggettivazione in senso diabolico. È qui impossibile, per ragioni di sintesi, soffermarci sui momenti costitutivi dello schema agonico presente nei testi: ci limitiamo ad evidenziare due aspetti. In primo luogo, il culmine dell’attacco diabolico è sempre diretto al corpo dei cristiani, si situa nei momenti culminanti della tortura, della prova fisica più atroce, oppure ispira ai pagani, per ottenere l’estrema dissoluzione del corpo dei martiri, di lasciare i cadaveri dei cristiani insepolti, esposti agli animali ed alle intemperie, o di distruggerli con il fuoco64. L’insistenza degli agiografi sul concentrarsi dell’aggressione diabolica nel corpo dei martiri non vale soltanto ad indicare il rischio di abiura che si annida entro le spire di un insopportabile dolore fisico, rivolgendo ai cristiani un monito di resistenza alla più grave delle tentazioni sataniche, ma esprime quella che è sentita come l’essenza più autentica e pericolosa di Satana: in perfetta corrispondenza con l’etimologia della sua più diffusa designazione, diabolus (da diaballo, “colui che divide), il diavolo persegue l’annientamento, la dissoluzione dell’identità, anche corporea della persona (dunque realizzata nella aggregazione fisiologica del corpo). Il secondo aspetto di estremo interesse è che, all’aggressione satanica, con la sua pregnante dimensione corporea, si oppone una capacità di resistenza del martire, che non può intendersi sul piano del puro eroismo umano, della forza spirituale derivante da fede e virtù eccezionali (cosa che avrebbe fatto dei martiri cristiani l’equivalente dei valorosi cives greci e romani, o degli eroici giudei uccisi per non contravvenire alla legge dei padri65): i fattori in gioco sono qui, altri, e il piano dell’eroismo, pur evocato dall’interpretazione agiografica del martirio, è superato da una più complessa realtà religiosa e culturale.

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Cfr Marty. Polyc. 17,1; Marty. Lugd. (V) I, 27; 38; 41-42. Sulla morte per la città del cives, e sulla morte per la verità e la legge del filosofo, cfr M. HENGEL, Crocifissione ed espiazione, cit., 139-177, con ricchi riferimenti documentari. 65


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Dal punto di vista storico religioso, infatti, è chiaro che il nucleo propulsivo della resistenza vittoriosa dei martiri, è la convinzione che essi partecipino di una condizione di superiorità sul nemico garantita dalla reale sconfitta delle potenze ad opera di Cristo. Infatti, ciò che appare rilevante in quasi in tutti i testi, è che il superamento del dolore fisico, dell’angoscia e del carico di sofferenze legati alla morte, avviene mediante momenti extra ordinari di comunicazione con il divino, espressa da fenomeni mistico estatici presentati come conseguenza di un’intensa concentrazione nella preghiera. La diversa rappresentazione, nei nostri testi, di fenomeni e condizioni extra ordinari dipende dalla posizione degli agiografi, dal loro grado di condivisione di un progetto ecclesiale teso a marginalizzare i fenomeni carismatici: ma, al di là di queste divergenze, i martiri sono sempre rappresentati come partecipi di una condizione di eccezionalità, che consente loro di accedere a forme di conoscenza soprannaturale (visioni e sogni profetici) e, soprattutto, di attraversare la prova fisica in una condizione straordinaria di insensibilità al dolore. Ora, l’ottenimento di questo stato di eccezionalità sembra preparato solo in rari casi mediante pratiche peculiari — digiuni, la partecipazione all’eucarestia — dirette ad alimentare la forza che, nella prova, i martiri dispiegheranno66; l’elemento, invece, che — presente nei testi in modo ricorrente — può rimandare a precise “tecniche” di straniamento ed a “strategie” di protezione/liberazione dal diavolo, è la preghiera. Il riferimento alla preghiera sembra dischiudere una realtà di pratiche rituali, di cui i testi agiografici rappresentano un frammento testimoniale, in cui la preghiera è intesa quale veicolo di una partecipazione extra ordinaria al divino, di un potenziamento estremo delle facoltà umane; ma, soprattutto, il contrapporre l’intenso pregare dei martiri (anche con esiti prodigiosi sulla percezione della realtà da parte del copro vessato) all’attacco di Satana al corpo ed all’unità della persona, contiene un “nocciolo” esorcistico, che rimanda al semplice e potente esorcismo del Nome. Sono, certo, rare nei testi le formulazioni precise di questo nocciolo esorcistico (per esempio, la confessio nominis schianta il demonio durante 66 I riferimenti sono scarni e frammentari e compaiono solo nei testi del pieno secolo. Digiuno: P. Mont. 22; P. Mar. et Iac. 8,1. Eucarestia: ibid., 9,2.

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la confessione pubblica dei martiri nella Passio di Montano67, mentre il diario di Perpetua conserva una sinettica formula di esorcismo — non me nocebit, in nomine Iesu Christi —68 pronunciata contro il diavolo-serpente della prima visione), così come i richiami alla gestualità, ma possiamo forse intendere questo elemento come segno dell’estrema sobrietà con cui l’esorcismo è inteso (soprattutto nelle direttive gerarchiche), in esplicito riferimento al modello rappresentato dalle formule laconiche, assolute e autoritarie degli esorcismi di Gesù69. In definitiva, nella rappresentazione agiografica la condizione del corpo martire è duplice: violentemente toccato da Satana, attraverso le sevizie e lo scempio di brutali esecuzioni ispirate dal diavolo,il corpo del martire è anche “luogo” della più intensa resistenza ed opposizione, pervaso di una dynamis di origine divina, materialmente rivestito di un’invisibile protezione. Repletus di forza divina, congiunto a Cristo da una condizione di speciale ed intima koinonia con lui, e, comunque, in grado di estraniarsi dalla percezione materiale della realtà grazie alla preghiera, il martire “capovolge” la morte, che, da evento associato alla aggressione satanica, diventa momento sommo di imitazione/partecipazione a Cristo, ingresso nella nuova e felice realtà escatologica. La risemantizzazione della morte, allora, presente nelle trionfalistiche affermazioni dell’agiografia, non può intendersi solo sul piano delle tecniche retoriche, ma esprime il collegamento dei nostri testi ad esperienze e concezioni in cui il rischio della morte è affrontato anche “tecnicamente”, nel senso del dissolvimento esorcistico delle forze del male. In conclusione, la condizione eccezionale che garantisce al martire la vittoria, non è semplicemente collegabile alla nozione di imitatio Christi che intesse l’antica agiografia: essa deriva da un complesso di pratiche ed esperienze religiose — centrate sul corpo e diffuse presso le

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P. Mont. 6,4-5: unde prostrato diabolo victores sumus in carcerem riversi… Hoc itaque parelio victus diabolus ad alteras se astutias vertit. 68 P. Perp. IV, 6. 69 Sull’esorcismo nel protocristianesimo, cfr A. DESTRO – M. PESCE, Antropologia delle origini cristiane, Roma-Bari 1995, in particolare 103-106; A. MONACI CASTAGNO, (a cura di), Il diavolo e i suoi angeli, cit., 91 ss.


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prime comunità (anche e soprattutto quelle da cui i martiri provenivano) — pervase dall’esigenza di un contatto intimo e profondo con il divino. Nel definirsi di una lettura della realtà dominata dal “paradigma demonologico”, tali pratiche e convinzioni assunsero anche spiccate valenze esorcistiche, così come “autorizzava” a fare l’opzione cristologia che, nell’interpretazione della morte di Gesù, definiva un fondamentale momento “cosmico” di sconfitta delle Potenze. Si afferma così, progressivamente (e in tempi piuttosto rapidi), una comprensione del corpo del martire come repletus di forza divina e dunque sottratto all’invasiva, disgregante minaccia di Satana, grazie ad una condizione di peculiare ed intima koinonia con Cristo, che configura anche la morte “speciale” come dissolvimento esorcistico delle forze del male; comprensione che rappresenta il risultato di un “corto circuito” tra il piano storico religioso — dominato da una cristologia “popolare”, intensamente diffusa nella prima chiesa, dalle forti implicazioni demonologiche — e il piano antropologico, in cui centrale appare il processo di oggettivazione della morte (del rischio esistenziale in genere) attraverso l’uso del diabolico. Il debole appeal esercitato dai codici sacrificali sui primi agiografi (se si escludono i casi eccezionali, di cui si è cercato di offrire l’opportuna contestualizzazione), appare, in definitiva, motivato dalla forza preminente assunta, nel contesto cronologico qui considerato, dal processo di demonizzazione della lettura della realtà e del territorio della morte, processo di cui la dominante interpretazione della morte del martire sotto il segno del diabolico è parte integrante e qualificante. Entro il quadro complesso della definizione identitaria del primo cristianesimo, infatti, la vicenda dei martiri fu letta attraverso il filtro di tradizioni, convinzioni, bisogni, tratti di mentalità che esprimevano questo fondamentale, irreversibile processo di demonizzazione del territorio della morte. Anche il racconto di martirio, anzi, contribuì a fissare nelle convinzioni e nell’immaginario dei cristiani, la percezione della morte come momento agonico e pericoloso, con un carattere di prova rischiosa, che può essere affrontata ed elaborata, anzitutto, nel senso della dissoluzione delle forze sataniche. Si avvia, dunque, a quest’epoca, il percorso che condurrà a sviluppi liturgici e funerari fortemente incentrati su modalità e funzioni esorcistiche (basti pensare all’originarsi della sepoltura ad sanctos, che ha, tra le sue più


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concrete motivazioni, come ha mostrato Y. Duval70, quella di difendere la tomba ed il cadavere dall’estremo agguato diabolico); ma è anche plasmata ed espressa quella percezione del martire come morto eccezionale su cui si basano i successivi, straordinari sviluppi del culto reliquiario, percezione in cui tanta parte ha il ruolo del diavolo. Il corpo del martire è rappresentato dall’agiografia come segnato da una duplice condizione: pervaso della forza divina, materialmente cosparso dell’“essenza” di Cristo, conosce nella carne l’aggressione più feroce di Satana, sempre espressa come aggressione all’identità, anche corporea, della persona, come violenta disgregazione fisica. La sua morte possiede, dunque, tutte le valenze, se non le parole e i gesti, di un esorcismo, ed ha come risultato la fissazione perpetua della condizione di eccezionalità, corporea, oltre spirituale, conquistata e vissuta nel martirio: eccezionalità che doveva essere intesa, nella percezione delle comunità cristiane, come emancipazione totale e definitiva dal peso e dalla minaccia diabolica che grava sui vivi e sui morti, e dalle leggi brutali della materia e del disfacimento, segno della presenza satanica nel mondo. I resti dei martiri, allora, gli unici cristiani di cui, a livello comune, era posto come certo l’ingresso immediato nella corte celeste (convinzione che fu assunta e mediata dall’agiografia con precoce sicurezza rispetto alle formulazioni teologiche coeve)71, furono percepiti come elementi intessuti (e non metaforicamente) di luce e profumo, fonte di sacralizzazione (in primo luogo delle loro stesse tombe), in grado di emanare e diffondere, in spazi e tempi vessati dai demoni, benefiche forze di pace e protezione.

70 Y. DUVAL, Auprés des saints corps et âme. L’inhumation «ad sanctos» dans la chrètienté d’Orient et d’Occident du IIIe au VII sièclee , in Études Augustinniennes, Paris 1988. 71 Vd supra n. 37.


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RITUALITÀ E DINAMICA DEL POTERE NELLA FESTA DI S. AGATA A CATANIA

ADOLFO LONGHITANO*

1. INTRODUZIONE La descrizione più antica e più completa delle celebrazioni che la città di Catania tributava alla sua patrona S. Agata è contenuta nel cosiddetto “cerimoniale” di Alvaro Paternò (1522)1. Altre due cronache dettagliate sono del secolo successivo: quella di Pietro Carrera (1641)2 e quella di G.B. Guarneri (1651)3. Anche se non si hanno prove documentali, sembra attendibile l’ipotesi che colloca in epoca medievale l’introduzione dei riti descritti dagli autori sopra citati4. Non sappiamo se e come Catania festeggiasse la sua Patrona prima della dominazione islamica (902-1071). Nell’ipotesi che al culto in chiesa, attestato in epoca romana e bizantina, sia stata aggiunta una ritualità esterna, i centosettanta anni di presenza musulmana furono sufficienti per cancellare ogni cosa. Catania, in quanto capoluogo di circoscrizione amministrativa, non aveva tardato ad islamizzarsi nell’ordinamento civico, nella popolazione e nelle vita sociale. La popolazione cristiana superstite, sicuramente minoritaria, non poteva contare sul supporto dell’ordinamento ecclesiastico e non si trovava nelle condizioni di prestare culto pubblico ai suoi santi5. *

Ordinario di Diritto canonico presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. R. DI LIBERTO, La festa di S. Agata a Catania nel «cerimoniale» di Alvaro Paternò, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale (=ASSO) 48 (1952) 18-27. 2 P. CARRERA, Memorie historiche della città di Catania, II, Catania 1641, 507-524. 3 G. B. GUARNERI, Le zolle historiche catanee, Catania 1651. 4 Sul tema si veda il nostro studio: A. LONGHITANO, Il culto di S. Agata, in Agata, la santa di Catania, a cura di V. Peri, Bergamo 1996, 67-125. 5 Ibid.,74-77. 1


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La conquista normanna avviò l’attuazione del progetto di riportare la Sicilia e Catania al cristianesimo e alla cultura occidentale. Si trattava di dar vita a iniziative atte a far sorgere una nuova coscienza civica e religiosa e a porre le condizioni per il ripristino delle strutture ecclesiastiche. Solo a distanza di venti anni si istituì l’abbazia benedettina di Sant’Agata e fu possibile procedere alla rifondazione della diocesi6. Il compito di creare una nuova identità civica e cristiana, che si assunsero i vescovi e i monaci benedettini di Sant’Agata, non era di facile attuazione. Dopo la conquista normanna la Sicilia e Catania erano diventate un crogiuolo di razze, di culture e di religioni. Agli arabi e alla residua popolazione cristiana di lingua greca si aggiunsero i conquistatori che provenivano da diverse regioni d’Europa e d’Italia: francesi, tedeschi, piemontesi, lombardi, cittadini delle repubbliche marinare, pugliesi, calabresi, ecc. Questo mosaico di popoli, di lingue e di culture cercò di costituirsi in unità attorno a s. Agata7. Nel 1126 furono riportate a Catania le reliquie della Santa Patrona, trafugate in epoca bizantina o durante la dominazione islamica. Il fatto fu descritto dal vescovo Maurizio come un evento straordinario8 e proprio nel suo racconto troviamo in embrione il culto esteriore celebrato dal clero e dai cittadini attorno alle reliquie di S. Agata, che descriveranno dettagliatamente i cronisti del periodo rinascimentale e barocco9. 6

A. LONGHITANO, La parrocchia nella diocesi di Catania prima e dopo il Concilio di Trento, Palermo 1977, 7-40; H. ENZENSBERGER, Fondazione o «rifondazione»? Alcune osservazioni sulla politica ecclesiastica del conte Ruggero, in Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna, a cura di G. Zito, Torino 1995, 21-49. 7 S. TRAMONTANA, Sant’Agata e la religiosità di Catania normanna, ibid., 189-202. 8 Per il testo latino vedi: CATANIA. ARCHIVIO DEL CAPITOLO CATTEDRALE, De traslatione divae Agathae et alia, 1-18. Il volume è anche indicato col nome Libro degli uffici. Una versione del documento è riportata da G. CONSOLI, S. Agata vergine e martire catanese, II, Catania 1951, 125-145. 9 Anche se mancano descrizioni delle celebrazioni che la città di Catania faceva alla sua Patrona in epoca medievale , diverse testimonianze ci permettono di affermare che la festa descritta nel periodo rinascimentale o barocco affondava le sue radici nei secoli precedenti. La lettera del vescovo Maurizio con il racconto del ritorno delle reliquie da Costantinopoli così descrive la prima processione che si svolse fra Acicastello e Catania: «A questo insolito e veramente segnalato spettacolo si adunò gran folla di popolo di ambo i sessi, di ogni condizione, età e religione, cosicché andando e venendo ci impedivano di camminare, e colla ressa si pigiavano straordinariamente: or avvenne una cosa molto degna di essere


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2. I TRADIZIONALI FESTEGGIAMENTI DI CATANIA IN ONORE DELLA PATRONA Le feste che Catania tradizionalmente celebrava in onore di S. Agata erano tre: la più antica ricordava il suo martirio (quella di febbraio), la seconda la traslazione delle sue reliquie da Costantinopoli a Catania (17 agosto), la terza il patrocinio della Santa dopo la cessazione della peste del 1576 (17 giugno)10. La festa di febbraio iniziava giorno 1, raggiungeva il massimo della solennità dal 3 al 5, per concludersi il 12, giorno dell’ottava. Nel corso dei secoli ha subìto diversi cambiamenti. Il 1° febbraio aveva inizio la fiera franca, tradizionale appuntamento fra commercianti e consumatori della Sicilia. Dopo una «messa grande» nella cattedrale, le autorità cittadine con le mazze in mano, seguiti da altri officiali, gentiluomini e cavalieri e dalla banda facevano collocare nella piazza principale e nei luoghi consueti i vessilli e le bandiere. Si trattava di una ritualità di introduzione. Il 2 febbraio mattina le autorità cittadine dalla loggia (il palazzo comunale) si recavano in episcopio per accompagnare il vescovo in cattedrale, dove partecipavano alla benedizione delle candele, alla processione e alla messa solenne della Purificazione di Maria. Anche se questa celebrazione non riguardava direttamente la Santa, tuttavia veniva fatta con particolare solennità a motivo dei festeggiamenti per la Patrona. Nel pomeriggio c’era la corsa dei cavalli detta “dei palii” che si correva fuori le mura, lungo la strada che dalla porta dei canali si dirigeva verso il castello Ursino. Le autorità si godevano lo spettacolo dalla loggetta riferita e narrata a lode della beatissima vergine. Dal predetto castello fino a Catania, per lo spazio di 38 stadi di strada sassosa, due fanciulli portavano, avanti le reliquie del santo corpo, ceri accesi, che né per il soffio dei venti, né — come avviene — per la vivacità e leggerezza dei piccoli, mai si spensero, ma sempre splendettero luminosamente» (ibid., 134). Lo storico siciliano Michele da Piazza nella sua Cronaca, intorno al 1359, accenna ad un grande afflusso di siciliani nella città di Catania per festeggiare S. Agata (MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, a cura di A. Giuffrida, Palermo 1980, 402). Alcuni anni più tardi (1373) il vescovo Marziale, recandosi a Limoges, commissionò a Giovanni Di Bartolo il prezioso reliquiario da esporre al culto dei fedeli e da portare in processione (S. ROMEO, S. Agata V. M. e il suo culto, Catania 1922, 220-224). 10 Una esposizione più dettagliata dei festeggiamenti della città di Catania alla Santa Patrona si trova nel saggio: A. LONGHITANO, Il culto di S. Agata, cit., 82-107.


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posta sulle mura, davanti alla chiesa dell’Indirizzo e al convento dei carmelitani. Terminata la gara, le autorità si avviavano verso la loggia per consegnare i premi ai vincitori. Il 3 febbraio era la giornata in cui si teneva la processione “della Luminaria”, cioè l’offerta della cera che tutta la città faceva alla Patrona in segno di omaggio e di devozione. Contrariamente a quanto potrebbe suggerire il più comune significato del termine, la processione veniva chiamata “della Luminaria” non perché i ceri accesi dei partecipanti offrivano uno spettacolo suggestivo di luce in onore di S. Agata; infatti la processione si faceva in pieno giorno e i ceri votivi che venivano offerti alla Patrona erano rigorosamente spenti. Il termine fa invece riferimento alla tassa che nel medioevo ogni maestro immatricolato e ogni garzone versavano annualmente alla propria corporazione per il mantenimento del collegio e per l’illuminazione della chiesa o dell’altare del patrono. Se si considera che nella processione la componente più appariscente era costituita dai circa trenta ceri votivi delle corporazioni di arti e mestieri, il termine “luminaria” si riferiva all’offerta in cera che tutti i rappresentanti della città facevano per illuminare l’altare di S. Agata. Secondo l’ordine descritto dal Carrera, aprivano la processione gli orfanelli vestiti di bianco, seguivano i rappresentanti dei diversi ordini religiosi, il clero secolare, i canonici della collegiata e della cattedrale, il vescovo. Subito dopo venivano i ceri votivi delle corporazioni di arti e mestieri. Non doveva confondersi con i ceri delle corporazioni di arti e mestieri quello del vice ammiraglio, che era presente con tutti i suoi ufficiali e i marinai. Ai rappresentanti del mondo agricolo e artigiano seguivano quelli del mondo della cultura e delle professioni. In primo luogo i rappresentanti dell’università degli studi: gli studenti col rettore loro capo, i riformatori, dieci consiglieri, il mastro notaro e il tesoriere. Chiudevano la processione le magistrature cittadine e i rappresentanti del potere centrale. Il 4 febbraio era consacrato alla processione delle reliquie della Santa sulla bara o fèrcolo attorno alle mura della città. Era l’unico giorno in cui i catanesi potevano vedere da vicino il simulacro della Santa. Abbiamo adoperato il termine “processione”, che forse è improprio e che comunque va spiegato. Contrariamente a quanto era avvenuto il giorno precedente, non c’era un corteo ordinato con la rappresentanza delle diverse categorie di


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fedeli: clero secolare e regolare, confraternite, autorità... In pratica assoluti protagonisti di questa processione erano “i devoti” che portavano la bara o fèrcolo. Tuttavia era assicurata la presenza delle autorità civili ed ecclesiastiche che vigilavano per mantenere l’ordine e far rispettare la prassi consueta, quando passava vicino ai conventi, gruppi di religiosi, dopo aver prestato omaggio, si univano con la croce ai fedeli e accompagnavano la Santa fino alla tappa successiva. I devoti che portavano la bara erano chiamati “ignudi”, anche se nel tempo termine ebbe significati diversi. Inizialmente erano uomini «fasciati nel mezzo della persona solamente d’una avvolta tovaglia»11. Nella prima metà del secolo XVI questa usanza incominciava a non essere più osservata: i devoti, pur camminando a piedi nudi, indossavano una veste bianca (l’abito votivo oggi chiamato “sacco”). Alla fine dell’800 solo in pochi andavano a piedi scalzi. La bara era formata da sei colonne che poggiavano su grosse travi chiamate “braccioli”. I devoti, in numero di centottanta, portavano la bara a spalla. Si trattava di persone appartenenti a tutti i ceti sociali, che intendevano manifestare la propria devozione alla Patrona o sciogliere un voto per qualche grazia ricevuta. La processione si snodava attorno alle mura della città. In un secondo momento la bara o fèrcolo, invece di essere portato a spalla fu poggiato su delle mezze lune e trascinato dai devoti; fino a quando la migliore agibilità delle strade permise il traino su ruote, che dura fino ad oggi. Il 5 febbraio era riservato esclusivamente alla festa in chiesa. All’ora stabilita, le autorità cittadine si recavano in cattedrale per assistere all’esposizione del busto e delle reliquie sull’altare maggiore, che venivano prelevate dal sacrario. Dopo l’esposizione, il capitolo e le autorità andavano in episcopio a rilevare il vescovo per la celebrazione della messa solenne pontificale in onore della Patrona. La cattedrale rimaneva aperta tutto il giorno per consentire ai fedeli di venerare la Santa e di baciare le reliquie. L’unica funzione prevista per il pomeriggio era il canto dei vespri presieduto dal vescovo. La festa continuava per tutta l’ottava con la celebrazione di riti liturgici in chiesa. Solo nel 1846 si introdusse la seconda processione del fèrcolo con le reliquie. 11

P. CARRERA, Memorie historiche, cit., 515.


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Catania, come ogni altra città, ha attraversato periodi di pace, di turbolenze sociali e di guerre intestine. Il culto e la festa alla Patrona di volta in volta potevano diventare o momento di aggregazione e di unità, pur nella diversità delle posizioni e degli interessi dei vari gruppi sociali, o un potente strumento di pressione di una fazione contro le altre.

3. LA SANTA PATRONA NELLE LOTTE BARONALI DEL ’300 Durante le lotte baronali del ’300, Catania divenne una signoria degli Alagona, schierati dalla parte della fragile monarchia aragonese12. Leggendo la Cronaca di Michele da Piazza13, si ha l’impressione che tutta la città fosse unita a fianco di Blasco Alagona e del figlio Artale. Il cronista siciliano, nel descrivere le guerre che spesso ebbero come epicentro Catania, considera fra i protagonisti S. Agata, che difende la sua città e combatte a fianco degli Alagona. In un immaginario dialogo fra S. Agata e i baroni ribelli, Michele da Piazza mette in bocca alla santa questa esortazione: voi tutti baroni, che nei momenti di bisogno dovreste difendere al prezzo del sangue il vostro re e signore, come mai siete sempre in discordia? Forse per scusarvi potete affermare che manca un re forte e non avete autorità qualificate alle quali obbedire. Tuttavia non potete considerarvi esenti da colpa se, pur essendo a conoscenza di ciò che serve al bene di tutti, vi rifiutate di attuarlo. Infatti il re di Sicilia ha molto poco per provvedere alle proprie necessità e può essere sostenuto nella sua amarezza solo se fate venir meno le cause che la provocano ed evitate di cercare il vostro tornaconto personale. Adoperatevi per il vostro re combattendo contro i suoi e i vostri nemici; non permettete 12 Le vicende della famiglia Alagona nel quadro storico di questo periodo sono descritte da F. GIUNTA, Aragonesi e catalani nel Mediterraneo, 2 voll., Palermo 1953; V. D’ALESSANDRO, Politica e società nella Sicilia aragonese, Palermo 1963; ID., La Sicilia dal Vespro a Ferdinando il Cattolico, in Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, XVI, Torino 1989, 3-95; S. FODALE, Scisma ecclesiastico e potere regio in Sicilia, I, Il duca di Montblanc e l’episcopato tra Roma e Avignone (1392-1396), Palermo 1979; ID., Il clero siciliano tra ribellione e fedeltà ai Martini (1392-1398), Palermo 1983; P. SARDINA, Tra l’Etna e il mare. Vita cittadina e mondo rurale a Catania dal Vespro ai Martini (1282-1410), Messina 1995; B. SAITTA, Catania medievale, Catania 1996. 13 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cit.


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che un re giovane sia costretto a vivere fra tante tribolazioni e sia considerato alla stregua di uno dei tanti baroni del Regno. Abbiate come modello la città di Catania che si è sempre mantenuta fedele al re, nonostante i danni e le devastazioni che è stata costretta a subire14. In previsione della battaglia decisiva, la città di Catania — sempre secondo il racconto dello storico siciliano — si rivolse a S. Agata per chiedere il suo aiuto. La santa non negò il proprio sostegno alla sua città stremata. Notando che era come prostrata al suolo le porse la mano per farla risollevare e le disse a bassa voce: non temere! Colei che invochi è accanto a te. I tuoi sospiri, i tuoi lamenti, le tue lacrime mi hanno indotto a soccorrerti. Invierò un aiuto immediato per liberare dai nemici la città che ho conquistato al prezzo del mio sangue. Catania nell’udire queste parole si rianimò, ma fece notare alla sua Patrona che a fronte dei tanti nemici c’era un solo angelo a difenderla: Artale Alagona. S. Agata la rassicurò: nessuno dei nemici che vedi attorno a te avrà il trofeo della vittoria. Il difensore che tu stessa hai nominato metterà in fuga i tuoi avversari e infliggerà loro una sconfitta così cocente da farli piangere per sempre. A queste parole la città riprese animo e da scura si fece luminosa, da smorta divenne colorita, da debilitata prosperosa, da triste lieta, da pavida coraggiosa, da morta risuscitata15. 14 «Sed o vos universi barones qui proprio sanguine regem vestrum et dominum redimere in necessitate deberetis quare tanta diversitas regnat in vobis forte vestra sit excusacio quod regem maiorem non habetis nec prepositos quibus suis parere mandatis valeatis et propterea non estis iam a culpa alieni quia non est eius culpa penitus alienus qui licet prepositus non sit et multa facienda novit et negligit. Nam siculus rex modico sibi habet qui sue concordet necessitati et dolori dolente namque non potest consolari nihis [=nisi] concordat dolori quod ipso quod amerentis afflicione discrepat minus ab illo recipitur cui mentis qualitate separatus quare labore evitatis si gloriam mundialem queritis. Nam laborem non recusat resurgit qui virtutis gloriam concupiscit laborate igitur pro rege vestro ad suos et vestros debellandos hostes si ad gloriam optatam cuptis pervenire et non permittatis iuvenculum regem sic laboriose vivere qui huc usque non ut rex sed tamquam unus ex suis baronis in penuria vixit et vivit qui posset dicere erga vos laboravi clamans omnes vos et propterea rauce facte sunt fauces mee nam speculum vobis debet esse omnibus et universis Catanie civitas que semper fuit cum rege indubitata fidelis plura damna et incendia ab hostibus continue tollerans et de hiis omnibus fidelitas sua in aliquo non retorsit» (ibid., 325-326). 15 «Cathanie civitas, licet extrinsecus luminosam omnibus se preberet ad hoc, quod suis amicis gaudium, et tristitiam inimicis tota generaret, tamen intrinsecus tota plena


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Il 27 maggio 1357, giorno di Pentecoste, Artale Alagona pensò di sferrare l’attacco decisivo e, non avendo le forze sufficienti per contrastare un nemico molto più forte, pensò di giocare di astuzia. Poteva disporre solo di due navi ed avere il sostegno di quattro galere catalane che sostavano nel porto di Ognina. Per far credere al nemico di disporre di una flotta ingente, fece costruire su alcune barche un piccolo castello di legno e sulla sommità ordinò di accendere le lanterne16. Sulle navi della sua piccola flotta Artale fece issare le insegne di re Federico IV e di S. Agata. Poco prima dell’alba salpò dal porto di Ognina e, dopo essersi fatto il segno della croce con l’acqua del mare17, si avviò verso la baia di Aci, dove abbordò amaritudine, et tenebris existebat, atque suspiriis, beatam virginem Agatham in sui adiutorium advocans diu noctuque non desinebat; cui Agatha virgo presens civitati prefate, quasi humo iacenti et extenuate, dexteram porrexit, et ab ea parte, in qua erat strata, eam in altum deduxit, et summissa voce ait. En adsum, quam cotidie invocas: tua suspiria, et lamenta, tueque lacrime a superna mansione me huc usque pervenire fecerunt: noli, inquit, timere; mittam tibi ab arce sublimi subsidium repentinum, quod patria mea Cathanie civitas, quam sanguine proprio acquisivi, erit ad omnibus hostium congressione penitus liberata. Que verbis predictis nimium exilarata, o domina, inquit, nonne vides, quod tota gens, que in mei ambitu est inclusa, quam credebam in mei subsidium advenisse, est remissa, et in mei adiutorium effecta nimium tediosa? Unum tantum Christi angelum habeo, qui in mei defensione semper conatus fuit, et est suo proprio sanguine ultra posse me redimere, scilicet don Artalem. Ad que virgo: hec gens predicta nullum de hostibus habebit tropheum, et solus ille tuus defensor, quam nominasti, tuos hostes conteret, et dissipabit, et taliter, quod de tali victoria regnum tui hostis ingemisset perpetuo. Hec audiens civitas, suas vires resumpsit, et de tenebrosa effecta fuit limpida, de squalida rubicunda, de extenuata pinguis effecta, de trista letificata, de timorosa animum resumpsit, de mortua vivificata» (ibid., 326-327). 16 «Don Artalis [...] duo ligna, que erant in terra, fecit eo die armare, et ipsis armatis, et in eis necessariis intromissis, ipse personaliter ascendit. Postquam [...] a portu civitatis predicte in hora primi crepusculi recesserunt et ad portum Ongine pervenerunt [...]. Quare erectis decem lucernis in summitatibus galearum, ut ampliorem ostenderent esse earum numerum, repente don Artalis primus inter ceteros cum galea sua irruit in eosdem, relique alie eum sequte sunt, alta voce clamantes “Aragona et Sancta Agathi” et taliter cum prora ipsius aliam investivit hostium predictorum galeam, quod eam conquassavit, et disrupit in partes [...]. Hostes vero predicti ab ea parte recesserunt, et per viam, unde venerant, ad propria redire festinabant; quare omnes ad flomariam Rigitane iterando pervenerunt et deinde recto tramite in contrata dicta l’Aquilea pergentes, in introitum nemoris Jacii eorum exercitus totus applicuit, ibique suas acies statuerunt» (ibid., 327-328). 17 «Declarat quod ea hora qua dictus dopnus Artalis vel in vicesima secunda hora assedit super galeis seu galea sua et fecit sibi signum Crucis in fronte sua cum aqua maris» (I. LA LUMIA, Estratto di un processo per lite feudale del sec. XV concernenti gli ultimi anni


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di sorpresa le navi nemiche al grido di «Aragona e S. Agata». Gli angioini in preda al panico abbandonarono le navi e fuggirono sulla terra ferma, lasciando nelle mani dei soldati di Artale un ingente bottino. L’esercito angioino, prima si riunì sulla collina di Mompileri, poi si diresse verso la contrada di Aquilia e la terra di Mascali alla ricerca della strada di ritorno per Messina. Furono intercettati, depredati e decimati dai contadini di Taormina, Castiglione, Francavilla, Calatabiano e dei villaggi vicini18. Artale in segno di gratitudine a S. Agata fece esporre in cattedrale i vessilli degli angioini conquistati nella battaglia19. Se assieme al racconto di Michele da Piazza leggiamo gli atti del processo Statella, avviato intorno al 1419 da Maria Alagona — figlia di Artale — e dal marito Giovanni Cruyllas nel tentativo di recuperare il feudo di Mongialino sequestrato dopo l’avvento dei Martini20, ci accorgiamo che la guerra baronale del secolo precedente aveva diviso anche la città di Catania, che non si era schierata interamente a fianco degli Alagona. Nel processo il numero maggiore di testi fu prodotto dall’erede di Artale; ma se dalle deposizioni si può dedurre prevalentemente una “verità processuale”, non si può sottovalutare l’importanza dei tanti episodi vissuti in prima persona e i “sentimenti forti” che la figura di Artale era ancora in grado di suscitare a distanza di circa trent’anni dalla sua morte (febbraio 1389). I testi che deponevano a favore dei coniugi Cruyllas dovevano dimostrare che Artale Alagona era l’eroe indiscusso, votato alla causa del re Federico IV, che più volte aveva messo a repentaglio la propria vita per difendere i suoi diritti21, e allo stesso tempo dovevano smentire le del regno di Federico III e la minorità della regina Maria, in Documenti per servire alla storia di Sicilia, serie I diplomatica, III, Palermo 1878, 124). 18 MICHELE DA PIAZZA, Cronaca, cit., 330. 19 «In ecclesia beate Agate mayoris inverecundiam lilii arma dicti lilii fuerunt suspensa in quodam baculu ut memoriam testificarent de dicta victoria» (I. LA LUMIA, Estratto di un processo, cit., 96). 20 L.c. 21 «[...] cui domino regi ipse dompnus Artalis faciebat magnam reverenciam semper loquendo sibi cum caputheo in manu et cum magna reverencia capite inclinato et ipse dominus rex gratanter recipiebat ipsum dominum Artalem et quando ipse dominus rex equitabat per civitatem caput equi ipsius domni Artalis tangebat gruppas equi ipsius domini regis quia parebat et obediebat eidem domino regi cum reverencia qui dominus rex multum diligebat eundem dominum Artalem» (ibid., 17). «Erat comunis opinio gentium [...] quod


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calunnie messe in giro sul suo conto dai nemici. Al contrario, i testi invitati da Enrico Statella sostenevano che Artale Alagona era un uomo ambizioso e violento, sospettato di aver avvelenato i re Ludovico e Federico IV22, che era riuscito a carpire la buona fede dei sovrani per accrescere il suo patrimonio e il suo potere23. Dall’una e dall’altra parte troviamo personaggi appartenenti a tutti i ceti sociali della città, che avevano tante volte festeggiato insieme la loro Patrona. Se è immaginabile che tutti, al passaggio delle reliquie, avessero unanimamente acclamato la Santa col grido tradizionale allora in uso, non tutti si saranno sentiti coinvolti nel grido di battaglia delle truppe di Artale: «Aragona e Sant’Agata». Il rilievo appare più evidente se diamo una scorsa anche agli atti del processo per fellonia al vescovo Simone del Pozzo24, una creatura degli Alagona25. Durante la guerra di resistenza ai Martini fomentata da Artale II Algona — nipote di Artale I — mentre i ribelli prendevano d’assalto il castello Ursino, il vescovo, per incitare i combattenti e facilitare la vittoria, aveva fatto portare in processione intorno della cattedrale le reliquie di

ipse dopnus Artalis conservavit partem cathalanam in regno Sicilie et quod domus aragonum est domina dicti regni operante ipso (ibid., 78). 22 «Item dixit quod condam dominus rex Ludovicus, condam Dolthinus filius dicti ducis Iohannis, dompnus Blascus de Alagona [...] et condam dominus Iohannes de Luna episcopus cathaniensis et tunc cathalanus fuerunt mortui uno eodemque tempore et tempore mortis eorum dicebatur puplice quod mortui fuerunt ex febre pestilenciali» (ibid., 61-62). «Mortuo dicto condam domino rege Friderico aliqui dicebant quod ipse dominus mortuus fuerat ex infirmitate bisinterii vel cancri [...] ipse testis indubitanter credit quod dictus dominus Artalis minime eundem dominum regem tossicari fecit» (ibid., 12). 23 «Mortuo dicto condam rege Friderico prefatus condam dopnus Artalis sibi recepit et recipiebat per officiales suos omnes reditus et proventus regii demanii nonnullarum civitatum terrarum et locorum et portuum dicti regii demanii faciendo de iis velle suum et in sui comodum [...]» (ibid., 171), «Dictus condam dopnus Artalis tenuit et tenebat magnificum et grandem statum ac etiam emit quoddam castrum et hedificari fecit monasterium Novelucis ipsumque dotavit [...] credit et tenet quod ex redditibus regii demanii ex eo quia per officiales suos recipiebat redditus et proventus regii demanii» (ibid., 173-174). 24 R. STARRABBA, Processo di fellonia contro frate Simone Del Pozzo vescovo di Catania (1392), in Archivio Storico Siciliano 1 (1873) 174-200; 399-442. 25 S. FODALE, Del Pozzo Simone, DBI, 38, Roma 1990, 249-251.


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S. Agata26. In queste condizioni, il culto alla Santa Patrona da momento di aggregazione era diventato strumento di lotta di una fazione contro le altre.

4. PROGETTI E REALIZZAZIONI DI UNA CITTÀ DIVISA NEL ’400 Del tutto diversa è la situazione che troviamo nella seconda metà del ’400, quando Catania, dopo la pacificazione seguita all’avvento dei Martini e gli interventi sull’ordinamento della città di Alfonso d’Aragona, attraversò uno dei periodi più felici della sua storia, ritrovando una relativa armonia e dimostrandosi capace di saper progettare il proprio futuro27. Sono gli anni della creazione della mastra nobiliare, delle statuti delle corporazioni di arti e mestieri e del loro inserimento nell’ordinamento della città, della fondazione dello Studium, della istituzione della collegiata Santa Maria dell’Elemosina e della scuola per i chierici28. In tutte queste vicende troviamo di volta in volta il sorgere di occasionali convergenze e di contrasti insanabili fra i diversi gruppi sociali che costituivano la società catanese, in relazione ai diversi problemi da risolvere o progetti da attuare. Cerchiamo di individuare gli attori principali. Il mondo religioso era costituito dal vescovo Giovanni Pesce e dagli ordini religiosi, fra i quali spiccavano i benedettini di Sant’Agata, di Santa Maria di Nuovaluce e di San Nicola l’Arena (in quegli anni avevano la sede a Nicolosi), e i domenicani di Santa Maria la Grande, da poco passati all’os26

«In vigilia sanctorum Petri et Pauli, dum castrum expugnabatur predictum, dictus episcopus [...] volebat portare velum beate Agathe cum aliis reliquiis ad tectum ecclesie [...]; ultimo ipse accepit velum beate Agathe et brachium eius [...] et cum processione omnium clericorum circuivit totam ecclesiam, et predicavit dicendo: “omnes qui volunt destruere istam civitatem destruantur et interficiantur immaniter”» (ibid., 187). 27 M. GAUDIOSO, Genesi ed aspetti della «Nobiltà Civica» in Catania nel secolo XV, in ASSO 37 (1941) 29-67; D. LIGRESTI, Patriziati urbani di Sicilia: Catania nel Quattrocento, in Il governo della città. Patriziati e politica nella Sicilia moderna, Catania 1990, 17-70; C. DOLLO, Cultura del Quattrocento in Sicilia. Alle origini del «Siculorum Gymnasium», in Rinascimento 39 (1999) 227-292. 28 A. LONGHITANO, Oligarchie familiari ed ecclesiastiche nella controversia parrocchiale di Catania (secc. XV-XVI), in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XII-XVI, cit., 293-322; ID., Eugenio IV e la bolla di fondazione della «Scuola per i chierici» in Sant’Agata la Vetere a Catania, in Synaxis 19 (2001) 137-164.


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servanza ad opera del palermitano Pietro Geremia. C’era poi un’aristocrazia gelosa dei propri privilegi, alla quale era stato assegnato il compito di amministrare la città. Le corporazioni di arti e mestieri non erano meno attente alla difesa dei propri diritti, che da poco erano stati riconosciuti e codificati da Alfonso d’Aragona29. Infine c’era il popolo che non poteva vantare particolari privilegi. Il vescovo Giovanni Pesce fin dall’inizio del suo governo aveva assunto un atteggiamento intransigente in difesa di quelli che egli riteneva propri diritti irrinunciabili ed era riuscito ad inimicarsi tutte le componenti della società catanese30. Fra il vescovo e la città era rimasto irrisolto l’annoso problema degli antichi usi feudali — risalenti al periodo in cui Catania era governata dal vescovo — e dell’amministrazione dei beni che costituivano il demanio comunale, considerati dal vescovo patrimonio della mensa vescovile. Con i benedettini dell’abbazia di Sant’Agata non era riuscito a trovare un’intesa sul finanziamento dei lavori di manutenzione e di restauro della cattedrale. Nel 1372 era stata istituita la fabbriceria, ma il vescovo non intendeva versare la quota annuale stabilita per statuto31. Nella quaresima del 1443 era venuto a predicare a Catania il domenicano Pietro Geremia, coinvolto da Eugenio IV nel suo progetto di riforma degli ordini religiosi e delle Chiese di Sicilia32. Le magistrature 29

F. MARLETTA, La costituzione e le prime vicende delle maestranze di Catania, in ASSO 1 (1904) 354-358. 30 A. LONGHITANO, Eugenio IV e la bolla, cit., 142-146. 31 Nella quinta delle tredici supplicationes inviate dalla città di Catania il 19 ottobre 1434 ad Alfonso il Magnanimo, si legge: «Quod placeat providere quod episcopus ipsius civitatis effective solvat uncias quinquaginta annuatim pro opere et reparatione ecclesie maioris prout sui predecessores fecerunt vel quartam partem redditorum secundum iuris formam, actento maxime quia ecclesia patitur ruina». Il documento è trascritto da M. BELLOMO, Modelli di università in trasformazione: lo «Studium Siciliae Generale» di Catania tra medioevo ed età moderna, in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XII-XVI, cit., 103-121: 116. 32 Sulla figura di Pietro Geremia si vedano: A.M. CONIGLIONE, Pietro Geremia O.P. Santo, apostolo, scrittore, inauguratore della r. università catanese, Catania 1952; A. SILLI, Geremia Pietro, in Bibliotheca Sanctorum, VI, Roma 1965, 212-215; A. BARILARO O.P., Pietro Geremia. Importante documento su gli anni giovanili, Palermo 1992; S. GIORDANO, Geremia Pietro, in DBI, LIII, Roma 1999, 407-410; V. ROMANO, Il domenicano palermitano Pietro Geremia (1399-1452) nello sviluppo della cultura euroepa del XV secolo, Palermo


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catanesi ritennero che fosse l’interlocutore ideale, in alternativa al vescovo, per risolvere i numerosi problemi della città. In attuazione di un progetto di rilancio della città, nel 1434 si era avuto da Alfonso il placet per istituire a Catania lo Studium Siciliae generale33; ma non era stato possibile portare a compimento l’iniziativa per i contrasti esistenti fra il re e il papa. Nel 1444 con la mediazione di Pietro Geremia e del benedettino catanese Giovanni de Primis si riuscì ad ottenere da Eugenio IV la bolla che lo erigeva formalmente e ne consentiva l’apertura34. Tuttavia quando il vescovo si rese conto che al finanziamento dello Studium erano destinate le tratte del porto sulle quali egli aveva dei diritti, si oppose a questa iniziativa, creando un ulteriore motivo di contrasto con la città35. Sempre con la mediazione di Pietro Geremia la città aveva ottenuto da Eugenio IV nel 1446 la bolla di erezione della collegiata Santa Maria dell’Elemosina36 e della scuola per i chierici nella chiesa di Sant’Agata la Vetere37. Con l’istituzione della collegiata si venne a costituire un nuovo soggetto di azione nella società catanese. Il nuovo capitolo, nato per dar voce al clero diocesano, che si vedeva preclusa la strada alle prebende e alle insegne canonicali dai benedettini di Sant’Agata, assunse fin dalla sua fondazione un atteggiamento di confronto e di contrasto con i canonici della cattedrale, che sarebbe durato nei secoli seguenti, anche dopo la soppressione dell’abbazia di Sant’Agata38. La bolla di erezione della scuola per i 2002 e il volume degli atti del convegno La memoria ritrovata: Pietro Geremia e le carte della storia, Catania 28-29 aprile 2003, di prossima pubblicazione. 33 È la decima delle tredici supplicationes delle quali alla nota 31 (BELLOMO, Modelli di Università, cit., 117). 34 G. NICOLOSI GRASSI – A. LONGHITANO, Catania e la sua università nei secoli XVXVII. Il Codice «Studiorum constitutiones ac privilegia» del capitolo cattedrale, Roma 20022, 79-80. 35 A. LONGHITANO, Eugenio IV e la bolla di fondazione, cit., 146-149. 36 Il testo della bolla si trova nell’ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Reg. Vat. 378, 99r101r; è anche riportato, con diversi errori di trascrizione, da I.B. DE GROSSIS, Catanense Decachordum, I, Catanae 1642, 108-112; V.M. AMICO, Catana illustrata, II, Catanae 1746, 317-325; V. MESSINA, Monografia della regia insigne parrocchiale chiesa collegiata di Catania, Catania 1898, 26-37. 37 A. LONGHITANO, Eugenio IV e la bolla di fondazione, cit. 38 ID., Oligarchie familiari ed ecclesiastiche, cit., 294-298.


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chierici non fu neppure spedita da Roma per il sopravvenire di difficoltà che ne impedivano l’apertura39. La strategia seguita dalle diverse componenti la società catanese per risolvere le numerose controversie con il vescovo e attuare le iniziative di rilancio della città fu molto semplice: creare di volta in volta accordi parziali. Le autorità cittadine erano d’accordo con i benedettini di Sant’Agata nel chiedere di processare il vescovo per il mancato restauro della cattedrale, per gli abusi commessi nel governo della città e per l’erezione della collegiata40, ma erano in contrasto con loro nell’istituzione della scuola per i chierici41. Se per un verso avevano chiesto e ottenuto il sostegno delle corporazioni di arti e mestieri nella richiesta di erezione dello Studium42 e della scuola per i chierici43, per un altro verso si erano rivolti ad Alfonso per fargli revocare gli statuti concessi nel 1435 che prevedevano il coinvolgimento delle corporazioni nel governo della città44. Gli stessi benedettini erano divisi: in alcune 39

ID., Eugenio IV e la bolla di fondazione, cit. In una delle supplicationes le magistrature cittadine chiedevano al re Alfonso: «In primis supplica a la vostra Maiestati chi sia sua mercé di non voliri consintiri chi sia exequta una bulla apostolica per la quali si dona auctoritate et licentia ad certi previti seculari di putiri ordinari unu colegiu appartatu in la dicta chitati di Cathania in la ecclesia di Sancta Maria di la Elemosina danduchi potestati di eligiri officiali intra di loru videlicet chantru, prepositum et thesaureri cum potestati etiam di potiri conferri beneficium l’unu all’autru post eorum mortem et potirsi etiam congregari pro modu chi si exequissi unu grandi scandalu in la dicta chitati et etiam in lu brachiu ecclesiasticu videlicet intra quisti novi canonichi et capitulu antiquissimu di venerabili monachi di la mayuri ecclesia di Cathania» (ARCHIVIO DI STATO. PALERMO, Protonotaro del Regno 38, fol. 196v). 41 I benedettini della cattedrale si opponevano alla fondazione della scuola per i chierici, perché il patrimonio della nuova istituzione era costituito dal beneficio di Sant’Agata la Vetere, che veniva conferito ai monaci di Sant’Agata (A. LONGHITANO, Eugenio IV e la bolla di fondazione, cit.). 42 Nella bolla con la quale Eugenio IV erigeva lo Studium Siciliae generale di Catania la città, in tutte le sue componenti, appare compatta nel chiedere questa istituzione che avrebbe contribuito a sollevare le sue sorti, dopo la decadenza provocata dal ritorno della corte a Palermo (G. NICOLOSI GRASSI – A. LONGHITANO, Catania e la sua università, cit., 79-80). 43 Nella bolla di erezione si legge: «pro parte dilectorum filiorum iuratorum, consulum ac civium cathaniensium nobis nuper exhibita» (A. LONGHITANO, Eugenio IV e la bolla di fondazione, cit., 161). 44 In una serie di richieste rivolte dalla città al re Alfonso si legge a proposito dei consoli delle corporazioni di arti e mestieri: «Item perochì olim certi ministrali di la ditta 40


Ritualità e dinamica del potere nella festa di S. Agata a Catania

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iniziative furono coinvolti quelli di San Nicola la Rena ed esclusi quelli di Sant’Agata e di Santa Maria di Nuovaluce45. In una situazione così articolata e complessa, la ritualità della festa di S. Agata ci presenta una città unita e concorde nel celebrare la Santa Patrona, ma profondamente lacerata nella formulazione e nell’attuazione dei suoi progetti. Gli stessi personaggi che assieme al vescovo celebravano la Santa Patrona riuscirono ad ottenere dal papa nel 1447 la sua destituzione46. chitati di Catania si impetranu di la ditta Maiestati di lu Signuri Re privilegiu di putiri haviri di fari consuli ad casum et ad effectu di fari certi atti li quali redundanu in beneficiu di la re puplica di la ditta chitati di Catania et inter alia per capituli li quali fichiru si obligaru et promisiru di non discrepari et contraveniri a la voluntati di la ditta universitati et obligarsi di fari certi erogationi a la luminaria di Sant’Agata et multa alia li quali su contenuti in certi loru capituli preditti li quali in totum oy in parte hannu pretermisu neque aliquando observatu oy quod peius est sub quodam color boni si sforzanu et interpretanu usurpando et ad si appropriarisi di lu statu et gubernio di la ditta chitati in grandissimu dampnu et dispictu di la ditta vostra Maestati et pertubacioni di lu statu pacificu di quella repuplica usandu multi conventiculi et congregationi alloru non necessari et altri multi cosi non liciti inhonisti con grandi preiudiciu di la ditta università dundi su comparuti multi inconvenienti si non sinchi providi; pertantu supplicamu a la vostra Maiestati chi sia sua mercé considerandu maxime chi li ditti consuli catanisi non hannu observatu li capituli preditti in totum vel in parte et aliis occasionibus predictis distrugiri et anichiliri li consuli preditti et loru potestati per evitari li inconvenienti grandissimi li quali porriano sequiri in la ditta chitati et levari tanta loru confusioni chi li hannu aminazatu taglari tutti a peczi» (ARCHIVIO DI STATO. PALERMO, Protonotaro del Regno 38, fol. 196v-198r). 45 L’erezione della collegiata nella chiesa Santa Maria dell’Elemosina fu fatta da Eugenio IV motu proprio, non a richiesta della città di Catania o di alcune sue componenti. A questa iniziativa, che sminuiva il prestigio del capitolo della cattedrale costituito dai benedettini di Sant’Agata, furono certamente contrarie le tre istituzioni monastiche: Sant’Agata, Santa Maria di Nuovaluce e San Nicola l’Arena (A. LONGHITANO, Oligarchie familiari ed ecclesiastiche, cit., 294-298). Nella direzione della scuola per i chierici, che avrebbe dovuto essere istituita a Catania nei locali della chiesa di Sant’Agata la Vetere, erano coinvolti i benedettini di San Nicola l’Arena e Santa Maria di Nuovaluce ed esclusi quelli di Sant’Agata (A. LONGHITANO, Eugenio IV e la bolla di fondazione, cit., 154). 46 In seguito alle denunzie dei giurati e dei benedettini di Sant’Agata fu avviato un processo contro il vescovo Giovanni Pesce, che si concluse con la sua rimozione. Eugenio IV, nel concistoro del 3 febbraio 1447, lo trasferì alla sede titolare di Filippopoli e gli riservò una pensione annua di 200 fiorini (C. EUBEL, Hierarchia Catholica Medii Aevi, II, Monasterii 1914, 215). In attesa che il vescovo destituito e i suoi sostenitori accettassero la decisione del papa, la diocesi di Catania fu affidata in titolo al benedettino Giovanni De Primo (I. TASSI, Un collaboratore dell’opera riformatrice di Eugenio IV: Giovanni de Primis, in Benedictina 2 [1948] 3-26). Dopo la morte di Eugenio IV, le magistrature catanesi inviarono in missione


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Nei secoli seguenti i riti della festa patronale si sarebbero ripetuti sostanzialmente identici, ma in una realtà sociale profondamente mutata. Basti pensare ai problemi affrontati con l’eruzione dell’Etna del 1669, dopo il terremoto del 1693 e la successiva opera di ricostruzione, alla situazione creatasi con la fine della feudalità: venuto meno il diritto dei nobili a governare la città, fu necessario cercare equilibri diversi per dar voce ai nuovi soggetti sociali47. Sapendo che il passaggio da un modello all’altro non è indolore, comprendiamo la difficile situazione creatasi durante il periodo borbonico e dopo l’unità d’Italia48

5. CONCLUSIONI I soggetti che oggi celebrano la festa di S. Agata sono gli stessi e immutata sembra anche la dinamica di potere che ognuno di questi soggetti esprime. Non rientra nei limiti del nostro studio analizzare il rapporto che il clero, le autorità cittadine, gli eredi delle corporazioni di arti e mestieri, il popolo e i cosiddetti “devoti” instaurano con la ritualità tradizionale. È tuttavia fuori discussione che solo attraverso un attento esame di questi rapporti passa un qualsiasi progetto di valorizzazione di un così ricco patrimonio della religiosità popolare.

a Napoli e a Roma il dottore in diritto canonico Giovanni Massari e il rappresentante delle corporazioni di arti e mestieri Angelo Campochiaro. I due dovevano presentare un memoriale nel quale si illustrava «la vita detestabili, lu malu et pessimo regimento» dell’ex vescovo, «zoè fratri Iohanni Pixitellu» e si chiedeva al re Alfonso di mettere i suoi buoni uffici perché si desse al più presto il possesso canonico della diocesi al nuovo vescovo Giovanni de Primis, verso il quale davano un attestato di stima (R. SABBADINI, Storia documentata della R. Università di Catania, Catania 1898, doc. n. 74, 71-72). 47 Per i cambiamenti introdotti in seguito a questi avvenimenti si veda A. LONGHITANO, Il culto di S. Agata, cit., 120-124. 48 Su questo periodo si veda in questo stesso numero il saggio di Gaetano Zito.


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RITUALITÀ E CONFLITTI SOCIALI NELLA FESTA DI S. AGATA A CATANIA DOPO L’UNITÀ

GAETANO ZITO*

1. L’EREDITÀ DEL SETTECENTO L’11 gennaio 1749 il viceré El Duque Eustachio de la Viefuille (17471754), con un mese circa di anticipo rispetto alla festa di S. Agata, esprime tutta la sua preoccupazione per i soliti disordini che si verificavano a Catania nei giorni delle celebrazioni agatine e rimette al vescovo Pietro Galletti (1729-1757) e al capitano di giustizia di Catania il dovere di eliminare ogni abuso, garantire un carattere prettamente religioso alla festa e tutelare l’ordine pubblico: «Restando inteso che nel Giorno della Festa della Gloriosa santa Agata, che si sollennizza con Sacre funzioni, vi si mescolano anche le Profani, pelle quali sogliono succedere de disordini, ho risolto impertanto prevenire a V. S. Ill.ma (siccome pure prevengo a codesto Capitano di Giustizia) procuri col suo Zelo Pastorale, e per la Gloria di Dio, dar tutte quelle provvidenze che convengono, acciò si solennizzasse il Giorno della santa Verginella, con vera devozione e che sia totalmente scostata la detta funzione d’ogni Vizio e Peccato»1.

L’intervento del viceré riconsegna diversi tratti delle celebrazioni catanese in onore di S. Agata. «Vizio e Peccato» in occasione dell’annuale festa sembrano essere retaggio antico e usuale, cui né l’autorità ecclesiastica *

Ordinario di Storia della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. CATANIA. ARCHIVIO STORICO DIOCESANO (= ASD), Fondo Feste, esequie e sepolture, fasc. S. Agata 1575-1894. 1


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né quella civile era riuscita a porre un serio argine e dare alla ricorrenza un’impronta esclusivamente, o almeno in prevalenza, religiosa. Protagonista della festa, sebbene esplicitamente non dichiarato, è evidente che era il popolo dei devoti, il quale gestiva quei giorni in assoluta autonomia dalle autorità costituite. Il provvedimento del viceré rientra, d’altronde, nel clima particolare di quel tempo. Appena due anni prima, nel 1747, era stato pubblicato il testo che costituisce il manifesto dell’illuminismo cattolico proprio intorno alle devozioni popolari. Ludovico Antonio Muratori, nella sua Della regolata devozione de’ cristiani, auspicava la purificazione delle molteplici forme di pietà e sollecitava il passaggio da una pietà barocca ad una pietà illuminata. Ma nella Catania settecentesca la festa di S. Agata, la sua ritualità e le sue espressioni devozionali, rimangono indenni da queste prospettive. Come restano integri i ruoli dei protagonisti: il vescovo con il capitolo della cattedrale, il senato della città, il popolo. Nel suo momento apice la festa riconsegna una costante: Catania riconosce la propria identità urbana nel riferimento ai riti in onore della sua patrona. Nel duplice senso di attribuzione ad essa e di derivazione da essa di tale identità. Una identità che neanche la messa in crisi dal tentativo di appropriazione della patria perpetrato da Palermo, nel corso del Seicento con strascichi ancora nel Settecento, ha potuto incrinare2. Piuttosto la polemica si è rivelata funzionale ad amplificare identificazione cittadina, espressione devozionale e ruolo protettivo. In Agata, resa libera dalla consacrazione a Cristo e dal martirio, Catania possiede la fonte irrinunciabile della propria dignità e libertà. Anche i predicatori chiamati a tenere panegirici su S. Agata hanno recepito e sviluppato questo ruolo, sviluppandolo con un’arte omiletica propria del tempo, sia nei contenuti che nella forma, che si snodava tra polemica antirazionalista e devozione calda, appassionata, emotiva3. Il tono apologetico misto ad espressività sentimentale si armonizzava con l’esigenza di rendere accessibile ai fedeli che ascoltavano una concettualizzazione e un linguaggio aulici e baroccheggianti. Testi di predicazione 2 Si veda C. CRIMI, Neophytos Rhodinòs e la ‘querelle’ sulla patria di S. Agata. Nota biografica, in Synaxis 4 (1986) 343-350. 3 Su questo aspetto rinvio al mio Agata, tra culto e simbolo di libertà nei panegirici del Settecento (edito in questo stesso numero di Synaxis alle pp. 231-244).


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che registravano la passione catanese per la propria concittadina e patrona e, al contempo, contribuivano ad alimentarla. D’altronde, i predicatori come potevano non tenere conto di questa intima commistione tra la città e la sua patrona, se il committente era di volta in volta il senato catanese, il vescovo o il capitolo della cattedrale o della collegiata? Di fatto, questa predicazione d’occasione ha sviluppato tematiche religiose, spirituali e devozionali, mantenendo però un costante riferimento alla peculiarità del rapporto tra Catania e S. Agata. Dal racconto della passio i predicatori hanno desunto gli elementi simbolici per veicolare aspetti di un percorso che riconsegnava Agata come l’eroina alla quale volgere lo sguardo per trovare in lei tutte le energie di liberazione, per le vicende quotidiane e per la salvezza eterna. Nel culto e nelle forme devozionali la città veniva invitata, così, ad individuare l’anelito alla libertà. Un anelito che si muove su un duplice livello. Quello del popolo, per il quale la festa era la opportunità, più che una opportunità, per esprimere uno spazio di libertà dal potere costituito — si pensi all’intervento del viceré — e che si esprimeva, e si esprime, nell’appropriarsi del corpo della martire nei giorni di festa. Oltre che per riconoscere ed impetrare la libertà dalle angosce e dalle sofferenze personali e familiari del vivere quotidiano, divenendo per la gente il momento culminante della propria identità di popolo e di cittadino. Quello delle autorità che commissionavano la predica per le quali Agata assurgeva a forza di libertà dai pericoli della natura e dai nemici della città, quasi delegando ad essa responsabilità che a loro primariamente appartenevano. Entrambi questi due livelli, nondimeno, trovavano il loro terreno di incontro nella rilettura degli atti del martirio: da essi, a dire dei predicatori, si deduceva tutta la forza simbolica di anelito alla libertà, che poi nelle forme cultuali doveva riuscire a conciliare ruoli diversi e ad accomunare, a mettere insieme tutti i catanesi per un’unica identità cristiana e civica.

2. LE PRIME SCHERMAGLIE NEL 1875 Negli anni Settanta dell’Ottocento si acuisce a Catania il conflitto tra liberali e clericali che trova motivo di accese polemiche anche nella festa di S. Agata. Alla travolgente affermazione politica della sinistra negli


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anni 1874-1876, segue un’amministrazione dei cattolici per gli anni 18761878. Lo scontro si consuma su un progetto di città, in cui è parte integrante e, per certi versi determinate, proprio la festa della patrona4. Tanto nei giorni di febbraio che in quelli di agosto si acuiscono polemiche che si snodano lungo tutto l’anno. La gestione era in mano al Municipio che, autonomamente, decideva i giorni della festa, modificandoli qualora vi fossero delle coincidenze, come in occasione del carnevale; emanava il relativo programma e invitava a partecipare ai riti tanto l’arcivescovo che il clero della città. Tuttavia, proprio la giunta municipale non si sentiva in obbligo di partecipare alle celebrazioni in onore della patrona e più volte, dopo l’Unità, si esime dal prendervi parte. Cosicché, la festa si impregna di ritualità cittadina e di conflitti di giurisdizione tra l’autorità civile e l’autorità ecclesiastica ed entrambe cercano di tirare dalla propria parte i cittadini devoti. Il 28 gennaio 1875 l’assessore delegato dal Sindaco, Enrico di Serravalle, invita l’arcivescovo Dusmet a voler disporre, per le sere dall’1 al 5 febbraio successivo, l’illuminazione del prospetto della cattedrale con fanaletti di cristallo5. E con altra lettera dello stesso giorno comunica l’assenza della giunta municipale alla processione del 3 febbraio per l’offerta della cera da parte della città alla patrona, non tralasciando però di sollecitare l’arcivescovo a fare in modo che vi prendessero parte clero e aggregazioni ecclesiastiche per solennizzare opportunamente quel rito: «Con vero dispiacere il sottoscritto deve comunicarle che atteso lo scarso numero dei componenti la Giunta, essa non può intervenire nella processione per l’offerta del cereo alla Gloriosa Vergine S. Agata, che avrà luogo il mattino del prossimo 3 mese Febbraio, ed è perciò che si permette pregare alla E. V. Ill.ma di voler invitare il Clero e quanti altri Corpi morali crederà conveniente ad intervenire, di che le esterna con anticipazione le

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Sulla città dei decenni postunitari, si veda G. GIARRIZZO, Catania, Bari 1986 (Storia delle città italiane). Mentre per il rapporto tra chiesa e società, G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Acireale 1987 (Documenti e studi di Synaxis, 1). 5 Laddove non è diversamente indicato, la documentazione è tratta da ASD, Fondo Feste, esequie e sepolture, fasc. S. Agata 1575-1894.


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grazie più singolari. Non tralascia intanto farle conoscere aver disposto il servizio della Banda municipale e tutt’altro occorrente per la detta processione, giusta il consueto».

A conclusione della festa, il 10 febbraio 1875, perviene all’arcivescovo il sentito ringraziamento dell’amministrazione municipale: «Il sottoscritto sente il dovere di porgere alla S. V. Rev.ma i più sentiti ringraziamenti per essersi piaciuta di accettare gl’inviti fattele dal Comune, nella ricorrenza della processione del cereo e di essersi tanto gentilmente cooperato alla buona riuscita della festa della concittadina S. Agata». È evidente che la festa è appannaggio del Municipio che gestisce gli onori alla propria concittadina, al punto da considerare l’autorità ecclesiastica funzionale a quanto da esso viene annualmente disposto. Prima che fatto religioso la festa è un peculiare evento civico: a S. Agata non è riconosciuta un’appartenenza ecclesiale, bensì le viene attribuita la connotazione di cittadina eroica della quale annualmente celebrare le gesta. Per tale ragione, è anche superfluo, se non disonorevole per la cultura liberale, che gli amministratori partecipino alle manifestazioni prettamente religiose. Importa loro, però, che la chiesa garantisca la solennità della festa a favore del popolo devoto, in modo da convalidare la percezione che il nuovo corso delle cose non è pregiudizialmente contrario al sentimento religioso dei cittadini, argomento questo cardine nella polemica con i clericali. Ma quale era stata la valutazione della festa di quell’anno da parte clericale? Se ne prese cura l’organo ufficiale della curia catanese, La Campana. Va ricordato che essa si era assunto il compito di difendere i diritti della chiesa locale ed universale, la fede e la moralità del popolo dai pericoli che potevano provenire dalla cultura liberale e massonica, con la quale non disdegnava di scendere in aspre polemiche. Sintomatico è, in tal senso, il cambio di testata per coglierne la mutata prospettiva ideologica: nel 1872, al suo nascere, si chiamava Il Buon Seme, quasi a voler esprimere il mandato evangelico di seminare il bene ad opera dei circoli cattolici, di cui è portavoce ufficiale; nel 1875 passa su posizioni battagliere e intransigenti, da campana che fa echeggiare i suoi rintocchi per far sentire i principi cattolici ad una società considerata sempre più in balia della massoneria. Missione emblematicamente espressa con una frase desunta dal rituale romano per la benedizione delle campane e posta ad esplicitazione della


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testata: «Ante sonitum illius fugiat bonorum inimicus». Instancabile redattore, dall’inizio alla sua chiusura (1896), ne è stato il segretario del Dusmet, Luigi Taddeo Della Marra, benedettino pure lui. Nella cronaca della festa del 3-5 febbraio 1875 La Campana annota, seppure in modo formalmente rispettoso, l’assenza della giunta municipale tanto alla processione dell’offerta della cera che al solenne pontificale di giorno 5, per la ricorrenza liturgica della santa patrona. Assenza delle autorità civili che, per quanto lodevoli per aver permesso «il libero sfogo della manifestazione dei suoi sentimenti religiosi ad una città di centomila anime», viene messa polemicamente in contrapposizione alla partecipazione del popolo: ha dato alla città un aspetto unico nel corso dell’anno, ha reso insufficiente la cattedrale per la messa pontificale ed è stato osservante delle norme per l’ordine pubblico, al punto che in quei giorni non si è registrato alcun disordine. Il commento al resoconto della festa suona anche come risposta alle polemiche che si erano avute nelle settimane precedenti intorno al soggetto che meglio rappresentava gli interessi della città e dei suoi abitanti e che avevano indotto La Campana a raccogliere la sfida dello scontro culturale. La festa diviene così occasione per esprimere un giudizio preoccupato sulla laicizzazione in corso, giudicata avulsa dalle effettive esigenze del popolo e ad esso piuttosto imposta. E se il commento non nasconde una certa preoccupazione per espressioni devozionali bisognose di purificazione e di riti festosi più sobri, si sottolinea nondimeno il dovere di mantenere un atteggiamento né denigratorio né strumentalizzante bensì rispettoso dei sentimenti popolari, in special modo di quello religioso. Il 31 gennaio, infatti, La Campana aveva scritto: «Senza inquietarci del disprezzo, più o meno aperto, che taluni professano per il culto che Catania rende sentitamente a S. Agata, senza turbarci della crudele indifferenza, direm pure ingratitudine, che altri pochi ostentano verso la più bella gloria della Patria nostra, noi, che guardandoci attorno non vediamo nelle grandezze del nostro secolo che miseria, e vizio, e lordura, noi viventi in un progresso che non adora che la materia e la borsa, noi non troviamo altro che ci conforti tanto, quanto il gridare: Viva S. Agata! Non è al grido di una turba ignorante e corrotta, che noi facciamo eco ripetendo quell’evviva. Ma godiamo che ogni turba gridi concorde: Viva S. Agata!


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Eh, quante volte un’accozzaglia di gente, o prezzolata o spinta, va imprecando e gridando altri Evviva ed altri nomi, spesso mal compresi e storpiati, allora è popolo, son cittadini, è il paese; e quando poi i popolani non dimentichi delle pie tradizioni e delle più care credenze, a schiere a schiere, numerosi e compatti salutano e festeggiano S. Agata, allora son fanatici, sono oziosi, son plebaglia. Vorremmo anche noi, e lo diciamo non per ipocrisia, non per derisione, ma per convinzione e sentimento, vorremmo anche noi che all’entusiasmo popolare s’unisse sempre quella sobrietà, che deve caratterizzare le feste cristiane. Ma l’entusiasmo non si modifica disprezzandola come cosa da Carnevale, e lavorando ad impedire le feste religiose. È quello uno zelo che sente da mille miglia l’indifferentismo, e la miscredenza. E in faccia a tali consiglieri noi non possiamo far meglio che unirci al popolo e gridare noi pure: Viva S. Agata!».

Di ben altra natura è invece il commento alla festa apparso il 10 febbraio 1875 sul giornale La Gazzetta di Catania, di stampo liberale e repubblicano. L’assenza della giunta municipale alle funzioni religiose è considerata ben poca cosa rispetto alle decisioni che avrebbe dovuto assumere un’amministrazione municipale illuminata e moderna: «riproviamo il sussidio dato dal Municipio ai cantanti, programmi e inviti per la festa emanati dall’autorità comunale, edifici pubblici e di associazioni civili illuminati e parati a festa, spari e canti smodati permessi dalla Questura, e cose simili che indicano come fra noi i pregiudizi siano ancora vivi, si abbia molta condiscendenza pel clericalismo, si ami accendere un moccolo al diavolo ed altro a S. Antonio, conciliare il progresso colle più ridicole usanze, si facci un mostruoso pasticcio di civiltà e regresso».

Anche la Gazzetta del Circolo di Cittadini, organo dei circoli massonici catanesi, non manca di alimentare la polemica intorno alla devozione e alla festa agatina. Era già intervenuta il 6 dicembre 1874 attaccando la presenza di uno «sciocco monumento di superstizione; scevro d’ogni valore storico e artistico». Si riferiva al simulacro di S. Agata collocato dalla città sulla colonna posta a piazza dei Martiri: all’intercessione della patrona si era attribuita la salvaguardia dalla peste del 1743. A conclusione della festa, il 7 febbraio 1875, esulta perché «finalmente è


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terminata, nientemeno dopo cinque giorni» e loda l’assenza della giunta municipale ai festeggiamenti. Ma, al contempo, biasima il questore per aver permesso «fino alla licenza gli spari e gli scomposti chiassi dei giovani cantanti per tutta un’intera notte, turbando il riposo dei cittadini». La Campana, nello stesso numero del 31 gennaio 1875, non aveva mancato di intervenire nella polemica a proposito della statua a piazza dei Martiri. Pone in contrapposizione la grandezza e il coraggio del senato cittadino del 1743, che aveva saputo manifestare pubblicamente riconoscente gratitudine alla patrona, con la pusillanimità e la miscredenza dell’attuale giunta municipale, che teme anche di prendere parte alle manifestazioni pubbliche del popolo devoto. Insieme ad un pesante giudizio sul presente, proprio della polemica clericale, nella statua è colta la memoria della fede dei padri, fondamento del buon governo cittadino e del reciproco sostegno nelle necessità: «Quel monumento ci ricorda che nel secolo scorso i catanesi credevano. Non credevano ai prodigi delle sonnambule; ma alla protezione dei santi; non credevano alle potenze dello spiritismo, ma alla onnipotenza di Dio. Non era fede morta. Aiutavano, soccorrevano, e pregavano, e credevano. […] Quel monumento ci dice, che è cosa ben facile il non credere a nulla e il dare dello sciocco a chi crede, ma è ben difficile sostituire alle grandezze della religione, e alle credenze dei padri nostri qualche cosa di serio». All’attacco massonico alla statua e alla festa di febbraio si incarica di rispondere pure Un cittadino che il 16 febbraio 1875 pubblica un manifesto a stampa: in considerazione del linguaggio del tutto simile a quello dell’organo ufficiale della curia, è probabile che il manifesto sia opera diretta o indiretta dello stesso Della Marra, non nuovo a simili forme di intervento. La storia di Catania è intrisa della testimonianza e dell’eroismo di S. Agata e non vi è alcuno a lei superiore verso cui la città possa sentirsi debitrice di protezione e di benefici. La devozione alla patrona è, quindi, intimamente intrisa di sincero amor di patria; di conseguenza, si può fare appello «alla coscienza d’ogni assennato catanese, il cui cuore al solo nome di Agata palpita di affetto, di gratitudine, di venerazione, ed alla vista dell’immagine di Lei sentesi ispirare a virtù a grandezza e ad eroismo veraci». Clericali e liberali, in sintonia con la generale polemica postunitaria tra Chiesa e cultura moderna, a Catania si scontrano così sul significato da


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attribuire ai termini nodali del conflitto in occasione della festa di S. Agata: religione e patria. Ma è proprio nel nome della santa patrona che alla città viene attribuita l’identità religiosa e civica: «Non è dessa martire e martire per la religione e per la patria?» Come può, pertanto, la giunta municipale assentarsi dai festeggiamenti religiosi in suo onore? Essa, che attribuisce la sovranità al popolo e di fatto lo rappresenta, non può mancare di rendersi presente quando questo solennizza la festa della patrona; in caso contrario, vuol dire che «la sovranità del popolo è una tremenda ironia». Il manifesto confuta pure le accuse al questore per aver permesso i fuochi d’artificio e si chiede: perché altrettanta critica non è stata mossa in occasione di avvenimenti politici e civili? e perché non si avanza alcuna critica per gli schiamazzi notturni dei giorni di carnevale, «che straziano l’anima ed il cuore d’ogni cittadino assennato?» Questi sì che vengono giudicati espressioni di paganesimo indegne del tempo moderno, non «gli affetti ed i sentimenti più sacri, quali sono i religiosi», che non nuocciono all’ordine pubblico: nel secolo in cui si esalta la libertà si stigmatizza la presunzione di vietare la libera manifestazione nell’ambito religioso. Il 12 febbraio 1875, frattanto, si consuma un passaggio di rilevante portata per le successive feste di S. Agata e per la ritualità cittadina ad essa correlata: viene approvato lo statuto del Circolo catanese di S. Agata. È il secondo dei circoli cattolici, dopo quello di S. Euplo fondato il 17 agosto 1872, promossi in particolare dal vicario generale Giuseppe Coco Zanchì, con scopo di aggregare e coordinare il laicato cattolico e garantire un’effettiva incidenza della Chiesa nella società catanese, secondo gli orientamenti intransigenti del movimento cattolico nazionale. La Campana del 15 agosto 1875, pubblicando lo statuto, riprende i termini delle polemiche intorno ai riti che accompagnano le celebrazioni in onore della patrona. Chi ritiene che esse siano «sacro baccano» non s’intende «di fisiologia sociale» e non riesce a cogliere che nella vita di un popolo, attraverso i secoli, «nonostante la miscela di qualche eccentricità volgare, fa uopo vedervi giù qualche cosa di costante, razionale e imperiosa». Senza negare, quindi, la necessità di purificare la festa, l’organo della curia sottolinea la possibilità di interventi educativi evidenziando con fiducia come proprio nella sfera del sacro l’uomo non è ineducabile, «anzi l’uomo vuol esser tutto rimodellato sul tipo religioso-civile del santissimo


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Nazzareno, e coloro che vi si accingono con la parola e con l’esempio, sono certamente benemeriti dell’umanità e della religione, informando a gentilezze la prima ed illustrando la seconda». Tra costoro La Campana invita ad annoverare i promotori e gli iscritti del Circolo S. Agata, sorto con lo scopo di contribuire a purificare, solennizzare e garantire l’ordinato svolgimento delle feste agatine, oltre ad impegnarsi nel traino del fercolo con vera devozione e condotta esemplare, moderando tutti coloro partecipavano alla processione chiassosamente. Ne possono far parte «persone civili e buoni cittadini, dell’età non meno di anni ventuno, ed il loro numero può essere illimitato». Presidente ne è Paolo Cordaro, rettore dell’Ospedale S. Marta, e assistente ecclesiastico il priore della Cattedrale, Giuseppe Coco Zanghy, vicario generale del Dusmet e tra gli esponenti di maggior prestigio del clero catanese. Lo scontro tra clericali e liberali sulla festa di S. Agata si è reso ormai così acuto che i cattolici catanesi si coalizzano e danno vita ad una struttura associativa, il Circolo S. Agata, immettendo così un nuovo soggetto nella ritualità della festa, finalizzato alla gestione e al controllo di essa. Il Circolo, però, serve pure al mondo ecclesiastico catanese per esibire alla massoneria locale una robusta presenza in città, evidenziando come il paese reale è cattolico e saldamente legato alle tradizioni religiose dei padri, specialmente nella devozione alla patrona. Mentre il paese che le logge presumono di rappresentare, «in nome della civiltà, dell’economia politica, del progresso e di tante altre cose simili, delle quali siam da più tempo ben satolli» (La Campana 29 agosto 1875), non solo è composto da una sparuta minoranza di cittadini ma non rispecchia l’identità del popolo e la sua anima più vera, riassunta nel binomio religione e patria.

3. S. AGATA SENZA IL MUNICIPIO Le tensioni accumulatesi lungo il 1875 sfociano nello scontro tra arcivescovo e Municipio. Dusmet decide di non avallare più la gestione municipale del rito della festa di S. Agata e in special modo si oppone alla consuetudine che sia il sindaco ad invitarlo a presenziare anche ai riti religiosi dei festeggiamenti. A maggior ragione che l’amministrazione municipale è in mano alla sinistra.


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Il 27 gennaio 1876 il programma per le prossime festività, seppure concordato con il sindaco, per la prima volta esce a firma dell’arcivescovo e del suo segretario Della Marra. L’articolazione dei festeggiamenti è sottolineata da una ragione prettamente religiosa e non più civica: non è la «fausta ricorrenza della festività dedicata» alla gloriosa concittadina, come negli anni precedenti veniva sottolineato nei programmi editi dal municipio, bensì «alla invitta Vergine e Protomartire Catanese S. Agata». Subito dalla curia si provvede a renderlo noto a 150 sindaci di altrettanti comuni della provincia di Catania e della Sicilia, compreso il sindaco della città, al quale Dusmet il 28 gennaio lo accompagna con un suo biglietto: «Mi onoro rimetterle talune copie del programma per la festa di S. Agata compilato dietro gli accordi presi ieri colla S. V. Ill.ma». L’indomani scrive ancora al sindaco per invitarlo a disporre l’illuminazione del palazzo municipale per i giorni della festa di S. Agata, oltre a «favorirci il consueto servizio delle Guardie Municipali» per la processione del 3 febbraio e le varie funzioni dei giorni 4 e 5. Il Sindaco, 31 gennaio 1876, «sentitamente» ringrazia l’arcivescovo «dei programmi per la prossima festa di S. Agata inviatimi» e assicura di aver disposto quanto da Dusmet chiestogli. Il programma della festa prevede un triduo di preparazione, in cattedrale, nei pomeriggi del 31 gennaio, 1 e 2 febbraio; il giorno 3 la consueta processione per l’offerta della cera alla patrona e la stessa sera l’esecuzione dei canti popolari in suo onore; giorno 4 la processione con le reliquie lungo le vie perimetrali della città, con la solita sosta nelle chiese del Carmine e di S. Agata la Vetere, e conclusione in cattedrale con la celebrazione dei primi vespri della solennità; giorno 5 febbraio, al mattino il solenne pontificale con canto del Te Deum e concessione dell’indulgenza plenaria, al pomeriggio processione lungo un percorso interno della città. D’accordo con il sindaco viene pure deciso il percorso delle due processioni, atteso che alcune vie abituali erano impraticabili per i lavori in corso. Un duplice pressante invito, infine, al clero e al popolo, segnala la volontà di Dusmet di rendere la festa di S. Agata di quell’anno occasione eloquente per mostrare ai denigratori e all’amministrazione quanto essa sia supportata da forti ragioni di devozione religiosa e da inscindibile attaccamento popolare. Il 31 gennaio 1876 invita a partecipare alla processione del 3 febbraio anche «i singoli Sacerdoti del clero secolare, che non fan


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parte dei due Capitoli della Cattedrale e della Collegiata […] e prenderanno posto immediatamente dopo i chierici del Seminario». Mentre, nel programma, si dice certo che i catanesi accorreranno numerosi alla processione dei giorni 4 e 5 febbraio, con la tradizionale veste bianca: « Il loro sacro tripudio accompagnato da quella sentita devozione, onde tanto si segnala il nostro popolo, renderà sempre la bella festa che celebriamo degna della gloriosa Patrona». Il resoconto della festa è affidato a La Campana del 13 febbraio 1876. Dopo aver ricordato i vari momenti e l’esigenza di trasferire al 6 febbraio la processione del giorno precedente a causa della pioggia, si premura a sottolineare quanto determinante sia stata la presenza del Circolo S. Agata per dare compostezza alla festa: «Frammisti al solito stuolo di popolani, esso pure in veste bianca, ma distinti per l’abitino sul petto, i 400 del Circolo senza toglier nulla al solito brio ed al patrio entusiasmo vi aggiunsero quella sobrietà, e quella dignità, che nobilita e il brio e l’entusiasmo». In effetti, a questo scopo il 16 gennaio si era tenuta un’assemblea del Circolo, alla quale avevano partecipato 350 soci sui 470 iscritti: era stata istituita una apposita commissione per vigilare «gli uomini mercenari addetti al Ferculo in cui si porteranno in giro trionfale le Sacre reliquie della nostra concittadina S. Agata» (La Campana del 23 gennaio 1876). La ritualità cittadina in occasione della festa della patrona vede protagonisti, quindi, anche i portatori del fercolo: non catanesi che trasportano le reliquie per devozione ma catanesi remunerati per quel “lavoro” e che, stando all’esigenza di controllarli, esercitano un protagonismo causa di disordini e di irriverenza, ulteriore pretesto per le aspre critiche degli anticlericali. Ma proprio su questo versante la devozione espressa dai catanesi nei festeggiamenti di febbraio 1876 sono per La Campana del 13 febbraio argomento per mostrare la falsità dei pregiudizi avanzati dai liberali: «I pregiudizi! Sarebbe stato mestieri esser presenti a varie scene verificatesi lungo il giro trionfale di S. Agata, per comprendere che significhi pregiudizio. A vedere, a mo’ di esempio, distintissima Signora e madre affettuosa presentarsi coi piedi scalzi fra gli evviva di tutto un popolo, ed offrire i suoi doni per la salute del suo unigenito, già gravemente minacciata, e il popolo commosso pregare con colei, non sarebbe stata cosa agevole ad uomini di mente e di cuore il poter dire: pregiudizio!» A liberali e massoni


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l’organo della curia rimprovera la faziosità nel giudizio sulle espressioni popolari in onore della patrona mentre le manifestazioni di entusiasmo per politici e sovrani vengono considerati atti di civiltà e modernità: «quando poi un popolo intiero, amante delle sue tradizioni, onora la Sua Santa con simili dimostrazioni di gioia, ah son cose da trivio, son mascherate, son pregiudizi, in una parola, qui sta male!». I termini usati dal periodico non sono ingenui. Lo scontro tra clericali e liberali in quei giorni è alimentato pure dalla destinazione dei contributi del municipio: i finanziamenti vanno concessi per la festa di S. Agata, oppure per gli spettacoli del carnevale? Per gli uni, il denaro pubblico deve servire a sostenere l’industria, la civiltà e il progresso, non certo le manifestazioni religiose. Per gli altri, non solo le promesse di benessere economico e le teorie moderne sono causa di un maggiore impoverimento della popolazione, ma tale orientamento cela una sostanziale ostilità alla religione e ai sentimenti del popolo. Eppure, «le feste presenti della gloriosa S. Agata non sono solamente una dimostrazione di zelo religioso, non sono solamente un attestato di riconoscenza e d’affetto alla grande Concittadina; sono ancora un aiuto al commercio, sono vita all’industria, sono sollievo alla miseria» (La Campana 30 gennaio 1876). Ma allora, quale è il significato autentico della festa di S. Agata e in che modo essa registra ed esprime l’identità religiosa e civica del popolo catanese? Perché la sua ritualità, nel clima culturale e sociale del secondo Ottocento, a Catania assume il valore di svelamento del protagonismo dei diversi soggetti cittadini? Nel giorno della solennità della patrona, il 5 febbraio 1876, La Campana sottolinea come il tempo della festa è tempo per respirare aria libera, «non infetta dalle spiacevoli esalazioni che respiriamo ogni giorno», è tempo di gioia, di fraternità e di solidarietà. Pertanto, solo chi non comprende questi aspetti si permette di deriderla e non comprende che, nonostante il mutare dei tempi, delle culture e degli ordinamenti governativi, nonostante la non partecipazione dei rappresentanti del popolo e il venir meno dei provvedimenti a favore della festa, non muta mai tra i catanesi la devozione alla loro patrona: «È un culto che racchiude elementi indistruttibili; elemento di amor patrio, cotanto oggidì decantato e non compreso, e vilipeso cotanto; elemento di gratitudine, per i benefici ricevuti la cui dimenticanza non è cosa onorevole;


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Gaetano Zito elemento di fede, che resiste a tutte prove, e prende negli urti che riceve forza e vita maggiore; elemento di fiducia per i futuri bisogni crescenti sempre e accompagnati da pericoli più o meno palesi; elemento di affetto, affetto grande purissimo, che potrà essere dileggiato da chi non ama che il fango e la borsa, ma che invece di affievolirsi a fronte di qualsiasi impedimento cresce invece, e s’accende».

Sono evidenti così non solo gli elementi della polemica ma anche i soggetti protagonisti della ritualità cittadina nel suo momento apice, la festa di S. Agata: autorità municipali, accusate di dimenticare i benefici ottenuti dalla città grazie alla martire concittadina; popolo cristiano, elogiato perché conserva la fede nelle difficoltà della vita, la fiducia in ogni pericolo e accresce sempre più il suo affetto per la patrona; liberali e massoni, additati come ingrati, biasimevoli e avidi di denaro. In fondo, per l’autore del testo permane integra la prospettiva della prima lettera pastorale di Dusmet: «Alla classe elevata del nostro gregge, alla classe soprattutto che discute, e scrive, e cammina sempre e non arriva mai a quel meglio dietro cui s’infiamma e si precipita capofitto, facciamo un solo invito: Venite ad me omnes. […] L’altra classe di popolo più numerosa che non discute, non scrive, non comprende le teorie del giorno, ma domanda pane e fede, oh si affidi pure tutta intiera al nostro amore di padre»6. Nello scontro intorno alla festa del febbraio 1876 i liberali ottengono un risultato a loro favore: l’amministrazione cittadina decide di abolire ogni forma di finanziamento per le manifestazioni pubbliche delle feste religiose, fatta eccezione per i festeggiamenti agatini di febbraio (La Campana, 27 febbraio 1876). E per i festeggianti di agosto? Chi avrebbe ora garantito sufficienti risorse finanziare per solennizzare la ricorrenza? Preoccupazioni in curia già affrontate e si era convinti che il municipio avrebbe fatto marcia indietro: non poteva non finanziare i festeggiamenti in onore delle due glorie cittadine, S. Agata e Vincenzo Bellini, per quanto di ineguale grandezza a vantaggio ovviamente della prima: «Il Municipio catanese e S. Agata non possono stare disgiunti. Una momentanea separazione non può essere che

6 G.B. DUSMET, Lettera pastorale al clero e al popolo dell’arcidiocesi di Catania, Roma 1867, 9-10.


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violenta. Una posizione violenta non dura mai. Si uniranno nuovamente» (La Campana, 5 febbraio 1876).

4. LA FESTA A SPESE DEI DEVOTI L’auspicio dei clericali ci si avvede subito che non è per risultati favorevoli a breve scadenza e, di conseguenza, si conviene sulla necessità di avviare una procedura che dia sicurezza finanziaria per i festeggiamenti estivi. Il 5 marzo 1876 si tiene una riunione del Circolo S. Agata con la partecipazione dell’arcivescovo Dusmet, che non manca di riconosce ai soci il merito di aver dato un determinante apporto per rendere ordinata e solenne la festa del febbraio precedente. Ma oggetto principale della riunione è l’avvio del percorso di preparazione della festa di agosto successivo: la gran parte dei cittadini la chiede per esternare il loro sentimento religioso e per mantenere quei vantaggi economici che ne derivano a tutta la città. La decisione, ovviamente, è favorevole e si dà mandato al consiglio del Circolo di eleggere diverse commissioni finalizzate alla raccolta di fondi per coprire le spese delle celebrazioni (La Campana, 12 marzo 1876). La decisione di una raccolta popolare di fondi, accompagnata dalla richiesta di contributi finanziari al municipio, fa reagire duramente l’ambiente liberale catanese. A raccogliere gli umori è ancora una volta la Gazzetta del circolo di cittadini che critica aspramente gli amministratori della città di non avere il coraggio di impedire le feste pubbliche, fino ad accusarli di tradimento degli ideali liberali. In special modo, destinatario dell’addebito è l’assessore alla pubblica istruzione di Catania, Antonino di Sangiuliano, amico e sostenitore della linea politica e culturale del giornale. Con lettera al giornale, 5 giugno 1876, l’assessore giustifica il suo operato attribuendo al ruolo istituzionale, all’imparzialità chiesta agli amministratori, al principio liberale di netta separazione tra società civile e società religiosa e all’assenza di forti ragioni di ordine pubblico, il dovere di non poter impedire la festa e l’operazione promossa dal Circolo S. Agata. Ciò non significa venir meno al giudizio politico che considera «baccanali» i festeggiamenti in onore della patrona. Piuttosto, è necessario tener presente una regola generale: «noi liberali, mi permetta di dirlo, dobbiamo andar cauti nell’invocare restrizioni di libertà, sia pure contro i nostri nemici.


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Lasciamo che si screditino viè maggiormente colle loro buffonate; sarà tanto di guadagnato per la causa che propugniamo». L’11 giugno 1876 la Gazzetta commenta l’intervento di Sangiuliano e denunzia con forza l’uso strumentale da parte dei clericali delle feste religiose, e di quella di S. Agata in special modo, finalizzate a sovvertire l’ordinamento politico postunitario, a negare la modernità e a sobillare la popolazione per un ritorno al passato regime. Atteggiamenti che nulla hanno a che vedere con la fede, con il rispetto della chiesa e con il corretto esercizio della libertà: «Se i clericali dello affare della festa […] ne facessero una questione puramente religiosa e fossero di buona fede, e noi ammetteremmo forse in loro la libertà di farci assistere a certe sceniche rappresentazioni, che non sono la fede né fatte per la fede. Ma quando del sentimento religioso vogliono servirsi come di arma ad attizzare nell’animo delle moltitudini l’odio del presente e dell’avvenire e lo amore del passato, e nel tempo istesso ad abbrutirle nella materialità di certe baroccate, che fanno disonore alla chiesa, ai credenti ed al paese che le tollera, non potremo giammai consentire nella opinione che cotesta arma, sebbene in apparenza innocua, venisse a ferirci in un modo o nell’altro; perché la libertà può e deve essere l’atmosfera di tutti, ma non mai di coloro che ne vilipendono il nome e se ne giovano come di una meretrice, alla quale daranno un calcio il giorno in cui ne avranno ricavato l’ultimo servizio. La società pei delinquenti comuni ha la prigione. La libertà, per coloro che sopr’essa volessero e vogliono delinquere, dovrebbe e debbe avere la proibizione».

La Gazzetta torna sull’argomento nello stesso numero con due articoli di cronaca locale. Nel primo si rammarica dell’autorizzazione concessa dal prefetto per la festa nel successivo mese di agosto, nonostante le proteste avanzate, e per la questua in corso in città organizzata dal Circolo S. Agata. Questua che offende la maggioranza dei cittadini intelligenti, «opposta anzi oppostissima a tutte le feste in genere, specialmente coi tempi che corrono», e contravviene al regolamento di polizia urbana che proibisce le questue di qualsivoglia genere. Nel descrivere il metodo di raccolta di fondi, affidata a delle commissioni presiedute ognuna da un cappellano, viene stigmatizzato il metodo adottato per cui si chiede l’intervento dell’autorità pubblica: «vanno di porta in porta a domandare l’elemosina con un’ar-


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roganza tutta propria e quel cinismo che tanto distingue la falange pretina, e, guai a quei cittadini che oserebbero negare il loro obolo, allora insulti, minacce, dichiarati ipso fatto protestanti, eretici, ecc. fatti segno al fanatismo della plebe ignorante e superstiziosa». Nel secondo articolo il giornale torna ad attaccare il prefetto per il contributo personale alla questua di cento lire: «sarà un buon cattolico, apostolico, romano; ma se egli mostra di sconoscere lo spirito che informa i festaiuoli della città nostra, sino al segno d’incoraggiarne col danaro le prave mire e gl’illiberali intendimenti, a senso nostro, non è soltanto cattolico; è clericale». La diatriba sui riti pubblici delle feste religiose non riguardava soltanto Catania ma si inseriva in un più generale clima di scontro tra mondo cattolico e politica nazionale, soprattutto dopo l’avvento al governo della sinistra storica il 25 marzo 1876, con Agostino Depretis. Il 28 luglio di quell’anno dal ministero dell’Interno, guidato da Giovanni Nicotera, garibaldino della prima ora, viene diramata ai prefetti una circolare che, per motivi di ordine pubblico e di igiene, proibisce le manifestazioni religiose fuori delle chiese, lasciando tuttavia ad essi una certa discrezionalità a consentirle: circostanze di tempo e di luogo, oltre alla formale richiesta di autorizzazione presentata dal clero almeno 15 giorni prima della festa7. La circolare sembra, comunque, orientata più a sottomettere le feste al controllo dell’autorità pubblica che a vietarle del tutto. In agosto i festeggiamenti per la patrona si tengono nei giorni 19-21. La Campana del 20 agosto 1876 commenta in termini lusinghieri il loro inizio. Torna ancora una volta ad esaltare i sentimenti del popolo verso S. Agata, che risaltano ancor più nei giorni della festa di quest’anno in antitesi ai tentativi di opposizione, palesi ed occulti. I costi di essa, in nessun modo favorita ufficialmente, vengono coperti esclusivamente da contributi privati e dalla questua effettuata tra i cittadini. Ed «è forse la prima volta che il nostro popolo festeggia da se, senza veruno intervento dei suoi rappresentanti, le sue glorie cittadine». Dal resoconto apparso il 27 agosto successivo su La Campana sappiamo che la processione, in ossequio alla circolare ministeriale sulle feste, si tiene «dentro la clausura», cioè dentro la chiesa cattedrale, e malgrado il grande afflusso di catanesi e di forestieri non si è avuto alcun 7

Il testo è pubblicato da La Campana del 13 agosto 1876.


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disordine e tutto si è svolto con pacatezza. È ovvia, di conseguenza, la domanda: come si può affermare la libertà e il rispetto della Chiesa quando invece vengono offese le coscienze e le tradizioni della maggioranza della popolazione di sicuro cristiana? A distanza di circa un mese, il 20 settembre, dopo aver saldato tutti i costi dei festeggiamenti, la curia catanese fa circolare appositi manifesti a stampa per portare a conoscenza della città il resoconto finanziario, a firma della commissione appositamente istituita e composta da: Paolo Cordaro, Eligio Sciuto, Gaspare Recupero, Pietro Caruso Lazzaro e Vincenzo Ravesi Cesareo. Dal contributo di circa 2000 fedeli, dei quali è fornito l’elenco alfabetico e ripartiti per chiesa sacramentale, tra i soci del Circolo S. Agata, dalla Società dei macellai, dei cocchieri da nolo e dei cocchieri privati è stata raccolta la somma di £. 7362,66. Sono state spese £. 7294,21 per il palco e l’oratorio sacro in piazza Università (soprano, contralto, tenore, direttore d’orchestra e direttore del coro, 36 maestri d’orchestra), cera, banda musicale, fuochi d’artificio, illuminazione di strade, di piazze e della villa Bellini, consumo di gas e relativi candelabri, arredo della cattedrale, a Carmelo Bellini per la musica della messa pontificale in duomo, per carta e stampa dei programmi e di altri fogli, per gestione dei conti, ed altre «ispese minute ed imprevedute». Il saldo finale è in attivo di £. 68,45. Malgrado si tratti della festa secondaria di S. Agata e non di quella di febbraio, la ritualità che attorno ad essa ruota favorisce questa volta un indubbio successo del mondo cattolico catanese sulla giunta municipale e sulle istanze critiche, in verità non sempre peregrine, avanzate dai liberali. Successo determinato in larga misura dal ruolo assegnato al Circolo S. Agata per coinvolgere e gestire il maggior numero di fedeli in questa peculiare espressione di ritualità cittadina.

5. IL RITORNO DEL MUNICIPIO L’alternarsi di posizioni dominanti tra cattolici e liberali nelle festività agatine si riflette pure sul governo della città e al contempo lo determina. Nel 1876 e fino al 1878 l’amministrazione municipale passa dalla sinistra ai cattolici. Mutamento amministrativo cui non è per nulla estraneo il clima conflittuale causato dai due appuntamenti cittadini per i festeggiamenti della


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patrona. Di fatto, lungo tutto l’anno, con modalità alterne e contenuti polemici ricorrenti, la città si muove, discute, si aggrega e si scontra attorno alla festa. E la stampa cittadina di segno opposto ne riporta traccia anche nelle settimane distanti dai riti prescritti per i giorni di festa. L’atteggiamento dei nuovi amministratori si dà ora per scontato in vista della festa di S. Agata del febbraio 1877. Tanto nella stesura del programma che nella partecipazione ai riti da parte della giunta municipale si torna, infatti, alla tradizione. Il 25 gennaio 1877 La Campana pubblica il programma dei festeggiamenti a firma di Enrico Grimaldi di Serravalle, delegato straordinario per il municipio in attesa dell’elezione del sindaco, e del segretario generale Lombardo Fiorentino. Per il solenne pontificale del giorno della solennità i clericali esultano perché, «dopo alcuni anni di assenza, la Giunta Municipale è riapparsa in Chiesa per S. Agata. Dicano quel che vogliono i pochi dissidenti. S’è notato nella grandissima folla di fedeli un generale compiacimento, una universale approvazione. La rappresentanza di un paese cattolico non può tenersi estranea nelle grandi occorrenze in cui è il paese che fa festa. L’astensione pretesa dai pochissimi potrebbe avere un tantino di logica, quando fosse preceduta dall’astensione del paese in simili ricorrenze» (La Campana, 8 febbraio 1877: con dettagliata cronaca dei giorni della festa). Forti della nuova posizione che li vede per la prima volta dopo l’Unità al governo della città, i clericali accentuano i toni polemici e rimettono sul tappeto della diatriba con i liberali la più generale questione delle feste religiose e in special modo, ovviamente, quella di S. Agata. Ancora una volta il raffronto è con i giorni del carnevale (La Campana, 11 febbraio 1877). Quanto accade per S. Agata è giudicato espressione di devozione e di fede di un popolo che con serietà contribuisce a solennizzare la propria patrona. I diversi momenti della partecipazione popolare vengono così annodati attorno ad alcuni aspetti propri della vita sociale e della religiosità popolare: la gioia con i fuochi d’artificio, la spontanea adesione con l’illuminazione del prospetto delle abitazioni e indossando il tradizionale abito bianco dei devoti. Ma soprattutto la devozione, desumibile dall’offerta di cerei e altri doni, dalla partecipazione al solenne pontificale in cattedrale, dall’insistente inno di evviva a S. Agata, dall’affollarsi intorno alle reliquie poste sul fercolo per condurle lungo le vie della città.


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Ed è proprio al fercolo che si chiede ai catanesi di guardare come al «vero palladio della patria nostra». In questa prospettiva, pertanto, per i clericali la posizione di S. Agata, inserita a pieno nella ritualità della città e nell’attribuzione dei ruoli ai soggetti che in essa si muovono, non è desumibile da un’ottica di fede quanto piuttosto dalla mitologia greca per quanto assunta all’interno di un rilettura cristiana: la martire catanese è la pallade protettrice, il presidio, la garanzia della salvezza delle case e della città. Tant’è che in una delle raffigurazione che se ne fanno S. Agata permane pure come la mitologica Pallade Atena: collocata in piedi sopra un elefante, emblema ben noto della città, armata con lo scudo e la lancia, con l’aggiunta della prima lettera dell’alfabeto in carattere maiuscolo, che richiama Agata, posta sulla testa o nel capo dello scudo. Unificazione di ruolo civico e religioso fuso saldamente in una lettura rigida da societas christiana di eventi e situazioni. Al contrario, la festa del carnevale sovrabbonda di grida assordanti, schiamazzi e urla che scompigliano la città. Una folla euforica e sbronza, «vera orda di matti», si aggira per vie e piazze con atteggiamenti esaltati e vestita in modo stravagante: «Dappertutto i vivissimi diletti del ventre e di Bacco si mescolano ai più vili diletti dei sensi e di Venere». E allora, si chiede La Campana, dove risiede la ragione per cui entrambe le ricorrenze ricevono dai liberali una valutazione di segno opposto: le feste religiose considerate baccanali da estirpare, le feste profane sempre più solennizzate e da incrementare? «A quanto ci pare la risposta non può essere altra che questa, cioè che essi avversano appunto le feste religiose perché amano puramente le feste profane». Avversione non finalizzata a «toglier di mezzo, come essi dicono, un avanzo del medio evo; ma è perché sentono, che ogni festa religiosa è una tacita protesta contro il brutto materialismo teoretico e pratico professato da loro. Ogni festa religiosa infatti con implicito ma eloquente linguaggio grida a tutti, che Dio c’è». Ai liberali viene pertanto imputato di fidarsi di un presupposto che chiamano scienza, dalla quale deriva la riduzione della teologia ad ateismo, della filosofia a naturalismo, della politica a statolatria e a socialismo: «così in pratica si riduce a far carnevale tutti i giorni dell’anno e mangiar di grasso allegramente anche il venerdì santo».


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La considerazione finale, riassuntiva della posizione dell’organo della curia, ricalcava il postulato classico dell’intransigentismo cattolico arroccatosi negli anni del pontificato di Gregorio XVI (1831-1846) e che Giacomo Martina riassume così: «Ogni novità in politica è rivoluzione, in filosofia è errore, in teologia eresia»8. Ormai, comunque, cattolici e governo della città si muovono in sintonia e, di conseguenza, le critiche mosse dai liberali e dagli anticlericali vengono trattate con sufficienza, se non proprio del tutto con l’atteggiamento di chi ha conquistato una posizione di superiorità e commisera gli avversari. Un’ulteriore impronta al nuovo corso dell’amministrazione municipale si ha per i festeggiamenti agatini di agosto di quell’anno. Un lungo articolo pubblicato l’11 luglio 1877 da Il Patriota, settimanale antiliberale e filoclericale, invoca il principio democratico di maggioranza e minoranza e sostiene che il municipio non può negarsi di solennizzare la festa, voluta dalla gran parte dei cittadini. Nei confronti, poi, di chi la ritiene anacronistica, inutile e improduttiva, dimostra come essa racchiude valori morali e civili; è espressione dei sentimenti religiosi del popolo; nelle espressioni devozionali fa sperimentare il vero concetto di libertà e di uguaglianza tra i cittadini; è un’opportunità di incontro, conoscenza e amicizia tra coloro che vi prendono parte; favorisce il commercio e gli introiti anche per le casse comunali; è motivo per gioire onestamente. Di conseguenza, per tutti i vantaggi sociali, religiosi ed economici derivanti dalle feste religiose in genere e di quelle di S. Agata in particolare, «non si comprende da noi come vi sieno uomini, i quali, per antifrasi dicendosi liberali osteggiano ciò che d’altronde è richiesto dalla pubblica opinione, manifestata nel modo più chiaro e solenne, colla petizione di tre mila cittadini nell’anno 1871, con una seconda petizione di 2400 cittadini nell’anno corrente, col concorso del denaro privato di 2000 catanesi appartenenti a tutte le classi sociali nella festa di Agosto dell’anno scorso, e finalmente colla scelta dei consiglieri comunali nelle elezioni amministrative del passato anno».

8 G. MARTINA, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni. liberalismo, Brescia 1995, 160.

III:

L’età del


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Alcuni giorni prima della ricorrenza, il 13 agosto 1877, Dusmet scrive al sindaco: «Interesso la S. V. Ill.ma perché voglia farmi conoscere le sue disposizioni sul solito concorso di codesto Municipio alla solennità anzidetta, concorso prestato sempre sino al 1875 dietro mia richiesta, e sospeso solo l’anno scorso poiché la festa ebbe luogo con contribuzioni dei fedeli». Non pare però che l’arcivescovo ottiene particolari risultati a questa richiesta di contributi finanziari per la festa. Se ne rallegra la Gazzetta di Catania del 21 agosto 1877 che comunica alla città la cronaca della riunione della giunta municipale. A maggioranza, tre favorevoli e due contrari, respinge la concessione del sussidio di 250 lire chiesto per la festa in chiesa: «Mentre facciamo le nostre congratulazioni ai primi per la indipendenza mostrata, deploriamo la più che condiscendenza degli altri ai desideri dell’arcivescovo». Di ben diverso taglio la lettura che della identica festa riporta La Campana del 23 agosto successivo: «La festa di S. Agata al Duomo riuscì domenica scorsa molto animata e devota. Il Circolo di S. Agata supplì colle oblazioni sue e con quelle dei fedeli al rifiuto del Municipio per la solita contribuzione». L’esperienza della festa di agosto 1876, in effetti, per quanti risultati abbia potuto dare, secondo la lettura dei clericali catanesi, sul piano dell’efficienza ma soprattutto del loro ruolo di autorevoli rappresentanti e di veritieri interpreti dei sentimenti e delle aspettative del popolo, andava considerata irripetibile. E le ragioni non attengono a questioni di idealità, oppure a motivazioni interne alla vita della chiesa catanese. Bensì all’impossibilità di garantire per il futuro la copertura finanziaria delle spese. Palese conferma viene da una nota redatta dal segretario di Dusmet, Della Marra, che riassume tutte le polemiche di questi anni e mette sulla scena le questioni ma anche i protagonisti di questa insolita, ma in verità forse non tanto, ritualità cittadina: «L’abuso che per S. Agata di febbraio il Municipio fa tutti gl’inviti è antichissimo. Spesso lo stesso Sindaco invita l’Arcivescovo di andare alla Processione del 3. Tale abuso risulta e deriva dallo stesso Programma che esce sempre colla formola “Presi gli accordi colla Autorità ecclesiastica”. In quel Programma è il Sindaco che dispone tutto.


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Una volta si cercò disporre diversamente e il Sindaco Tenerelli lasciò che l’Arcivescovo facesse egli il Programma. Fuvvi una grande confusione. E tutti, artisti, fuochisti, guardie, Questura, tutti assediarono l’Arcivescovado per i pagamenti, e per tutto il servizio. Fu un anno solo e non si ripeté. Ordinariamente il Municipio fa gl’inviti e non interviene. Ed è assurdo. Quest’anno pare che intervenga; c’è sempre la posizione strana, ma meno del solito. Si è giudicato sempre di non farsi opposizione. La vorrebbero come pretesto a non pagare, aderirebbero, ma chi pagherebbe?»

6. QUALCHE OSSERVAZIONE FINALE La rilettura dei fatti intrecciatisi attorno alla devozione e ai festeggiamenti in onore di S. Agata a Catania nel triennio 1875-1877 riconsegnano lo spaccato di una ritualità municipale che vede sulla scena tutti i soggetti della vita cittadina: il sindaco e il municipio, l’arcivescovo e la curia, gli intellettuali di stampo liberale e massone, ma anche quelli di matrice cattolica, i cittadini e i devoti associati. Una ritualità che a Catania esprime il rito per eccellenza e si sostanzia di una duplice rappresentazione, espressa però in una modulazione assolutamente intrecciata: festa religiosa ed elezioni amministrative. Cosicché, questa ritualità diventa luogo in cui si esprime e a cui si alimenta la conflittualità municipale, in cui si svela e si autocelebra una ritualità socio-culturale che assume in modo strumentale il rito religioso, rendendolo rito di relazioni, di conflitti, dell’esserci, del muoversi e dell’affermarsi nella città. Riflesso di una conflittualità e di una ritualità di ben più ampio respiro, quale quella che vede coinvolta la società, la cultura e la politica nazionale del secondo decennio postunitario. Prima ancora che dalla festa, lo scontro è dettato da ideali e da un progetto della città di segno opposto che, in entrambe le posizioni, è detenuto sostanzialmente da una ristretta cerchia di catanesi, soggetti principali di quel rito che si consuma nell’esercizio del potere culturale, amministrativo e religioso. E gli uni e gli altri, nondimeno, si assumono il ruolo di rappresentanti ufficiali del popolo. Mentre la stampa liberale esalta quella parte di popolo che, intelligente e moderno, considera «baroccate» le


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Gaetano Zito

feste religiose e ritiene gli avversari schiavi della superstizione e dell’oscurantismo ecclesiastico. Per la stampa clericale soltanto al popolo dei devoti a S. Agata può attribuirsi la titolarità della cittadinanza, a coloro cioè che rispettano le tradizioni, e nella memoria delle radici, cristiane e civiche ricapitolate nella concittadina martire, esprimono l’identità catanese. Posizione, questa, che riflette pure quella corrente di cristianesimo municipale del secondo Ottocento, attraverso il quale anche in Sicilia la chiesa individua una modalità privilegiata per mantenere e garantirsi l’accreditamento nel territorio. Mentre i liberali ritengono di poter assolvere al ruolo di rappresentanza tanto della città legale, fondata sull’irreversibile assetto politico nazionale, quanto della città reale, di cui hanno coscienza però di dover acquisire un ben più vasto consenso. Al contrario, i cattolici presumono di detenere ben saldo il compito di unici rappresentanti della città reale, dove non riconoscono altra possibilità se non la visione unitaria e inscindibile secondo cui solo chi è cristiano è cittadino, e viceversa; a fronte di una città legale, della quale si stenta ad accettarne la irreversibilità e se ne rifiuta il ruolo di interprete dei sentimenti e delle reali esigenze del popolo. In tutto questo, il protagonista principale, il popolo, al quale importa essenzialmente che la festa si faccia, sembra trovarsi nella condizione di dover subire la conflittualità tra clericali e liberali, tra autorità ecclesiastica e autorità municipale. Salvo a recuperare una soggettualità all’interno della diatriba sulla festa al momento delle elezioni amministrative, almeno attraverso coloro che sono ammessi al voto, che determina la consegna del municipio ai clericali. L’altro elemento che si impone all’attenzione è relativo al rito stesso della festa. Se è vero che permangono problemi di gestione dei festeggiamenti, anche dopo la nascita del Circolo S. Agata, quanto accaduto nel triennio esaminato dimostra che vi si possono inserire dei mutamenti. In questo caso sono determinati da un contesto conflittuale, che non favorisce però la disponibilità ad accettare le rimostranze e le motivazioni addotte dagli avversari, inducendoli a rimanere ingabbiati nelle personali posizioni ideologiche. Dai clericali non viene colto nella sostanza l’appello di moralizzare la festa, riconducibile almeno in parte alla tradizione di quel giansenismo toscano anima del cattolicesimo liberale: non si tratta di abolire la festa e le espressioni di religiosità popolare, quanto piuttosto di


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purificarle da «baccanali» e «scene del paganesimo» che nulla hanno a che vedere con la fede e la chiesa. A loro volta i liberali mostrano propensione a riconoscere valide le manifestazioni popolari verso loro esponenti e a stigmatizzare quelle verso i santi; come pure, appellandosi alla separazione degli affari ecclesiastici da quelli municipali, propendono a limitare la libertà nei confronti dei loro «nemici». Condizioni sufficienti a scatenare polemiche e conflitti sociali. Va detto, infine, che il tentativo messo in atto da Dusmet di assurgere a soggetto preminente della ritualità cittadina, sganciando la festa della patrona dai finanziamenti del municipio, in buona sostanza viene giudicato fallimentare. Ma non si è ancora nelle condizioni di comprendere come per quella via sia possibile ottenere una identità rituale a sostengo dell’autonomia nella gestione della festa, libertà effettiva di giudizio critico sul municipio, tangibile corresponsabilità del popolo. Nonostante Dusmet propendesse per posizioni moderate, le categorie culturali di fatto permangono di natura intransigente e da societas christiana. Eppure, attraverso la polemica sulla festa di S. Agata si è innestato ormai nel tessuto delle consuetudini e della ritualità della società catanese un processo di cui, grazie anche alla vittoria elettorale dei clericali nel 1876, non viene colta la irreversibilità.



Synaxis XXIII/1 (2005) 117-134

LA RITUALITÀ DELLA PENITENZA ECCLESIALE. INTRECCI E INTERFERENZE TRA DIMENSIONE RITUALE, GIURIDICA E TEOLOGICA DELLA ESPERIENZA DEL PERDONO

ANDREA GRILLO*

Cominciamo da alcuni chiarimenti fondamentali, che ci permettano di comprendere appieno di che cosa parliamo quando parliamo, più o meno a proposito, di una «penitenza ecclesiale».

1. IL

RAPPORTO TRA IL

“SACRAMENTO

DELLA PENITENZA” E LA PENITENZA

BATTESIMALE-EUCARISTICA

Il IV sacramento è l’unico sacramento ad aver ricevuto tradizionalmente il nome di una virtù, anzi di un atto centrale della vita cristiana come la “penitenza”. Il concetto di penitenza — dicendosi in molti modi — comporta una sorta di imbarazzo e oggi non può non lasciarci perplessi. La prima cosa che dobbiamo maturare è che il “fare penitenza” all’interno della vita cristiana è assicurato ordinariamente dal battesimo e dalla eucaristia, non dal IV sacramento! In altri termini, la “virtù” della penitenza è (o dovrebbe essere) inscritta nella biografia battesimaleeucaristica del cristiano. Cerchiamo allora di capire bene il rapporto della virtù di penitenza con il sacramento della penitenza.

*

Docente di Teologia sacramentaria presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma.


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Andrea Grillo

1.1. Quattro affermazioni-chiave per una visione sintetica Il discorso che vorrei proporre a questo punto sul IV sacramento prende la forma di una piccola riflessione in quattro punti: essa vorrebbe mettere in luce, attraverso l’esame delle ragioni teologiche del sacramento, il motivo specifico che giustifica l’esistenza di tale rito sacramentale specifico, diverso da battesimo/eucaristia. Si tratta dunque di un ragionamento strettamente sistematico, di cui ha bisogno ogni seria teologia liturgica, la cui verità non può mai essere desunta semplicemente dalle fonti documentarie1: a) Il IV sacramento annuncia e realizza nuovamente il riconciliarsi di Dio con l’uomo avvenuto in Cristo. La grazia di Dio incontra “di nuovo” e “qui ed ora” la libertà dell’uomo e la libera. È dunque legittimo aver denominato comunemente tale sacramento come “della riconciliazione”, purché si tenga presente quanto viene precisato già nella seconda affermazione; b) Questo incontro, però, non è mai primario, ma sempre secondario, cioè dipende essenzialmente da altri incontri già avvenuti, in cui questa riconciliazione si è già realizzata: in particolare dipende dal battesimo, dalla cresima/confermazione e (soprattutto) dalla eucaristia. Quest’ultima, infatti, con la sua continuità e ripetizione ordinaria, assicura una esperienza ricca e duratura, simbolizzata e ritualizzata, della riconciliazione assicurata da Dio e vissuta dall’uomo. c) La ragione specifica del sacramento è perciò di offrire nuovamente questo rapporto con la misericordia di Dio in Cristo a chi, 1

Potremmo dire che il “sistema” è sempre una “fonte” della teologia sacramentale, anche quando lo si vuole ignorare o negare addirittura. Una troppo alta conflittualità tra approccio “storico” e approccio sistematico, rischia di assumere un concetto troppo ingenuo di “fonte”. Cfr E. MAZZA, Liturgia e metodo storico. Un esempio significativo: il caso dell’epiclesi eucaristica, in Rivista Liturgica 88 (2001) 419-438. Per un concetto più ampio di “fonte” cfr A. GRILLO, Il «Ressourcement» e la questione liturgica. La riscoperta delle fonti e le fonti della riscoperta nella teologia dei sacramenti del XIX e XX secolo, in M. BIELAWSKI – M. SHERIDAN (edd.), Storia e teologia all’incrocio. Orizzonti e percorsi di una disciplina, Roma 2002, 239-275.


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dopo averla conosciuta, se ne sia allontanato. Questa specificità di funzione — ossia di essere “rimedio” alla perduta capacità di fare esperienza della penitenza battesimale-eucaristica — non sopporta troppo a lungo una sua indebita contrazione e/o espansione, ossia non può non esserci più, ma neppure può esserci troppo2. d) Per questo nel sacramento non è centrale semplicemente l’offerta della grazia, ma anche la capacità di rispondere adeguatamente a quella grazia. Anzi, potremmo dire addirittura così: il sacramento riprende l’offerta della grazia tipica dei sacramenti della iniziazione, ma ha come specificità di prendersi cura della libera risposta dell’uomo a tale grazia perdonante. Perciò, se collochiamo il sacramento della penitenza nella cornice ad esso adeguata di una effettiva iniziazione cristiana già avvenuta e di una virtù di penitenza effettivamente presente nel soggetto cristiano — come acquisita coscienza della offerta di grazia che il cristiano vive nella dimensione battesimale-eucaristica — allora non si manifestano vere difficoltà né teologiche né pastorali. Le difficoltà sorgono dall’uso esteso, e talora distorto (perché impropriamente sostitutivo della iniziazione), che il IV sacramento ha subito nel tempo. Altro infatti è parlare di una ripetitività della penitenza come penitenza di devozione, altro è la sua ripetizione a fronte di una iniziazione mancata. La continua ripetizione della iniziazione cristiana (come perdono del peccato e nuova offerta della grazia) si sposa troppo frequentemente con la mancanza di una iniziazione strutturale, come ha sottolineato con grande lucidità un autore contemporaneo, quanto ha fotografato bene la situazione attuale con le seguenti parole: “O l’iniziazione è marginale, nel senso che non si fa l’iniziazione, oppure diviene permanente e quindi rende marginali”3. 2 Alla domanda spontanea, che potrebbe sorgere: “ma allora, la penitenza sacramentale deve essere rara?”, si può rispondere sottolineando che il rapporto con la iniziazione cristiana dovrebbe consigliare che il IV sacramento sia almeno più raro della frequenza alla eucaristia. Molto interessanti restano a questo proposito le classiche riflessioni di K. RAHNER, Significato della confessione frequente di devozione, in ID., La penitenza della chiesa, Roma 1964, 129-146. 3 G. BUSANI, La rilettura del ‘Rito di iniziazione cristiana degli adulti’ a confronto con il postmoderno, in AA.VV., Iniziazione cristiana degli adulti oggi, Roma 1998, 213235, qui 216.


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1.2. Alcune conseguenze teologico-pastorali di queste affermazioni- chiave Alla luce di questo ragionamento sistematico in quattro punti, possiamo desumere una serie di interessanti conseguenze di carattere teologico-pastorale: a) Annunziare la misericordia e il perdono di Dio non può dunque partire strutturalmente dal sacramento della penitenza. Si noti bene, questo non significa diminuire l’importanza del sacramento, ma vuol dire soltanto non farne qualcosa di esageratamente importante. Si fa torto ai sacramenti non soltanto quando vengono tralasciati o trascurati, ma anche quando se ne fa ricorso in modo sovrabbondante o improprio. Per chi ha la cura pastorale di una parrocchia questa avvertenza dovrebbe oggi risultare molto importante: la penitenza è luogo di annuncio e di efficacia della misericordia di Dio in un modo che deve risultare secondario, cioè che deve rinviare ai luoghi primari della esperienza del peccato e del perdono, ossia il battesimo e l’eucaristia. b) Qui occorre essere molto chiari, per evitare equivoci o fraintendimenti anche più gravi: mentre la riconciliazione, il perdono reciproco è aspetto primario e irrinunciabile della vita cristiana (è “virtus”), il sacramento della riconciliazione e del perdono, cioè la celebrazione della nuova possibilità di vivere la riconciliazione, non può essere primario, ma è strumento per quelli. Noi impariamo ordinariamente (dovremmo imparare ordinariamente) la riconciliazione nel battesimo-cresima-eucaristia. L’eucaristia è il luogo vitale del nostro rapporto con il perdono. Il IV sacramento può (e deve) intervenire solo in seconda battutta. c) Non a caso la riconciliazione è stata detta — anche dal CCC — “sacramento di guarigione”. Si faccia bene attenzione, però. Qui guarigione non significa “guarigione dell’uomo”, ma “guarigione del cristiano”: tra le due cose vi sono notevoli differenze, poiché la guarigione dell’uomo non avviene nella penitenza ma nel battesimo-eucaristia, mentre quella del cristiano ha bisogno di una verifica “esterna” al battesimo, quasi di una rinnovazione di esso.


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d) Lo spazio della “misericordia” è lo spazio della libertà: per questo nel sacramento della riconciliazione troviamo una strettissima correlazione tra pentimento-accusa, riconciliazione-assoluzione, penitenza-soddisfazione. Una ricomprensione della indissolubilità di questo legame tra momenti essenziali del sacramento ci invita a riconsiderare l’impatto di ognuno di essi anzitutto sulla nostra celebrazione, riscoprendo che soltanto nella celebrazione il sacramento trova il suo luogo proprio e la pienezza del suo significato.

1.3. La Penitenza tra battesimo e eucaristia Consideriamo di nuovo la seguente espressione di Paolo: “L’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2Cor 5,14-15) Non vivere più per se stessi: ecco il punto, a cui deve poter rispondere una adeguata comprensione dei rapporti della penitenza con il battesimo e con la eucaristia. Vi sono qui due eccessi da evitare: a) la strutturale anticipazione della confessione alla eucaristia; b) l’assorbimento della penitenza sacramentale da parte della eucaristia. Entrambi questi eccessi dicono qualcosa di vero, ma lo esasperano fino a renderlo quasi irriconoscibile, fino ad alterare, con esso, tutta la verità: a) il non poter fare la comunione senza essersi confessati smentisce la ordinarietà del rapporto del cristiano con il Corpo di Cristo. Però nello stesso tempo garantisce che il cristiano non possa essere se stesso senza l’esercizio incessante della penitenza. Aver mostrato più esplicitamente la dimensione penitenziale della eucaristia garantisce oggi di poter porre rimedio a questo difetto.


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b) l’altro eccesso mostra invece il rischio di rinunciare ad una zona inevitabile dell’esperienza cristiana. Ossia alla possibilità che la eucaristia non sia più direttamente accessibile. Questa, che resta una esperienza eccezionale, è pur sempre una possibilità aperta davanti alla libertà del cristiano. C’è poi una zona intermedia, dove la non necessità del sacramento lo assimila alle forme dell’incontro interpersonale, all’ascolto della difficoltà del’altro, al consiglio umano e al discernimento dialogico. Oggi occorre maturare una consapevolezza nuova del fatto che la riconciliazione sacramentale non è prima di tutto uno strumento del rapporto con il peccato all’interno della Chiesa, ma la via con cui rientrare nella comunione ecclesiale dall’esterno di essa! Probabilmente uno dei motivi della moltiplicazione delle penitenze nella vita degli uomini cristiani è dovuto ad un progressivo venir meno del senso della conversione/sofferenza/pena. Oggi quasi si arrossisce a parlarne. Così non capiamo più il senso della “indulgenza” così diffusa nel Medioevo e traccia di una comprensione “integrale” del “fare penitenza”4.

2. IL

IV SACRAMENTO È ENTRATO OGGI A FAR PARTE DELLA INIZIAZIONE

CRISTIANA: “CRISI DEL SACRAMENTO” O “SACRAMENTO DELLA CRISI”?

Si apre così una prima questione intorno al senso del IV sacramento rispetto alla vita cristiana: la attuale crisi del sacramento in quale modo “corrisponde” o comunque “risponde” alla sua natura di “sacramento della crisi”? In altri termini, dovremo chiederci se sia possibile trascurare il fatto che il sacramento non appartiene — di per sé — alla fisiologia, ma alla patologia della vita cristiana, di cui inaugura una “cura” e una “guarigione” che poi si perfezione su un “altro” terreno. Così occorre guardarsi da una facile nostalgia per tempi — non troppo lontani — nei quali pareva che la 4 Contro la nostra percezione diffusa, il concetto di “indulgenza” può essere compreso nella sua verità soltanto sulla base di una visione ampia e dinamica del “fare penitenza” della chiesa: cfr A. CATELLA – A. GRILLO, Indulgenza. Storia e significato, Cinisello Balsamo 1999.


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“frequenza al confessionale” assicurasse una larga presenza della “penitenza” all’interno del corpo ecclesiale, magari sempre o prevalentemente sulla soglia della eucaristia. In realtà tale prassi, pur avendo storicamente meriti indiscutibili, di fatto ha contribuito alla attuale condizione di “ripensamento” del IV sacramento. Qui il Concilio e la Riforma — vale la pena ribadirlo contro ogni falso avviso — non sono la causa del disagio attuale, ma un primo effetto di un disagio che ha attraversato tutta la prima metà del XX secolo e già trapelava nel secolo XIX. Se il IV sacramento ha la funzione strutturale che abbiamo riconosciuto ad esso — ossia riabilitare il cristiano all’esercizio della penitenza battesimale ed eucaristica — allora è forse necessario precisare ancora la sua esteriorità rispetto ai sacramenti della iniziazione, dai quali dipende e con i quali non può essere confuso. Questa chiarezza deve essere estremamente attenta a non perdere di vista l’importanza che il IV sacramento può rappresentare — e di fatto oggi largamente rappresenta — come nuova soglia nei confronti della iniziazione. Ma questo aspetto deve essere calibrato insieme alla sua strutturale e insuperabile povertà, che è segno del giusto ed invincibile bisogno di rimando alla ricchezza battesimale-eucaristica. La differenza dei primi 3 sacramenti rappresenta per la riconciliazione sacramentale anche una sfida e una minaccia, ma è anzitutto una risorsa importante e inaggirabile, perché non vada perso il senso di questo “sacramento minore” rispetto ai “sacramenti maggiori”.

3. EXCURSUS: LA CONFESSIONE E IL CASO DI NECESSITÀ. A RECENTE MOTU PROPRIO “MISERICORDIA DEI”

PROPOSITO DEL

Cogliamo l’occasione della pubblicazione del recente Motu Proprio Misericordia Dei (=MD) — che costituisce un autorevole intervento in materia di riconciliazione sacramentale, destinato a rimediare giuridicamente ad alcune interpretazioni troppo ampie circa i casi di applicabilità della cosiddetta “terza forma” di celebrazione del sacramento — per fare alcune considerazioni in merito, visto che vanno ad incidere direttamente sulla “visione sistematica” che abbiamo proposto.


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In effetti, la recezione del documento potrebbe essere molto facile e potrebbe rappresentare soltanto una precisazione del profilo strettamente giuridico della forma ordinaria del sacramento, con relativa definizione dei casi in cui la “terza forma” può essere celebrata o meno. Ma è proprio sul piano della receptio del documento che occorre procedere ad alcune necessarie chiarificazioni, onde evitare letture inadeguate o addirittura illegittime del suo contenuto. Per orientare la lettura del testo nel senso più corretto bisogna cominciare anzitutto con una serie di precisazioni: a) MD non pretende di essere una esposizione completa né della struttura né del senso teologico del sacramento della penitenza, ma opera semplicemente una precisazione — limitata quasi soltanto «al piano giuridico» — circa un solo elemento del sacramento, ossia la «confessione», considerata in rapporto con un altro elemento-chiave, la «assoluzione». Di fatto MD non prende in considerazione né la contrizione (o pentimento) né la soddisfazione (o penitenza in senzo stretto), né più in generale la celebrazione come aspetti problematici del sacramento. b) questo significa che MD non può essere pienamente compreso al di fuori del senso complessivo della riforma del Rito della penitenza, che ha caratterizzato la teologia e la pastorale degli ultimi 40 anni e dal quale scaturiscono anche i problemi che ora vengono affrontati. c) la recezione di MD deve pertanto distinguere bene il motivo contingente e particolare che ha suscitato l’intervento e il contesto complessivo entro cui l’intervento stesso si colloca: MD non ha la pretesa di introdurre una «riforma della riforma» — come alcuni temono e altri sembrano auspicare —, ma vuole soltanto precisare il senso di alcuni aspetti particolari della riforma stessa, del suo senso e della sua applicabilità concreta, proprio perché il nuovo rito e il suo spirito pastorale e teologico possano pienamente affermarsi. d) infine, l’ottica quasi esclusivamente giuridica, di per sé del tutto legittima ed anche inevitabile, coglie della riconciliazione cristiana soltanto le soglie sacramentali più puntuali, non la struttura ordinaria e l’esercizio


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continuo. Ciò significa che della penitenza cristiana MD tende a portare alla luce il valore del battesimo come prima soglia e della penitenza come soglia ulteriore, ma di fatto non può considerare il valore continuo e vitale del rapporto con la penitenza nell’eucaristia, che è il vero fine del battesimo e la nuova possibilità che il sacramento della penitenza sa aprire. Per questa sua particolare angolazione formale, MD parla solo della I e della III forma del sacramento, senza alcun riferimento a quella II forma di celebrazione, che giuridicamente è certo del tutto riconducibile alla prima, ma che liturgicamente e pastoralmente costituisce una preziosa forma di riqualificazione teologica del IV sacramento, quasi a stabilire un “ponte” tra IV e III sacramento, tra la essenzialità della penitenza e la ricchezza della eucaristia.

3.1. Confessione, assoluzione e due diversi «casi di necessità» Le precisazioni che MD richiama sono pressoché tutte riferite alla definizione del «caso di necessità» che giustifica la applicazione della III forma del sacramento della penitenza, quella cosiddetta con «confessione e assoluzione in forma generale». Dal punto di vista disciplinare è ovvio che un ampliamento inadeguato della nozione di «caso di necessità» porta ad uno sfiguramento del senso stesso del sacramento. Ma vi è un secondo problema, cui MD non si riferisce, ma che, se non considerato, rischia di compromettere la comprensione del lettore poco attento. Ed è la questione per cui, proprio per evitare di cadere in una indebita estensione del «caso si necessità» riferito alla III forma, talora si pensa di poter tranquillamente ammettere il «caso di necessità» (diverso) applicato alla I forma. In questo caso di tratta della necessità per cui si può (eventualmente) rinunciare alla ricca forma celebrativa che il Rito della penitenza stabilisce per la I forma, e limitarsi al suo minimo necessario. Non sarà forse che, per sfuggire alle indebite esagerazioni circa la III forma, ci si possa rifugiare in una indebita estensione di questa eccezione, fino a capovolgere la logica chiarissima del nuovo rituale del 1973, che prevede come ordinaria la forma più complessa e ricca, più profonda e più lunga di celebrazione? Non vi è, proprio qui, un pericolo almeno altrettanto grande, e forse più grande, proprio perché più antico e radicato, anche se non mette mai in questione il «minimo necessario» contemplato dal diritto?


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confessione (sulla bocca) e penitenza o soddisfazione (nelle opere) portano a espressione e a esperienza quella conversione e quel pentimento (del cuore) che è il centro inaggirabile del sacramento. La visibilità confessante e penitenziale di questa invisibilità del cuore contrito è la logica sacramentale di questo sacramento. b) La riforma del Vaticano II ha profondamente modificato la prima forma celebrativa del sacramento: la ricchezza celebrativa, il riferimento strutturale alla parola di Dio, il riacquisito ambito battesimale ed eucaristico, hanno di fatto riportato a caso eccezionale quella formalità e quella fretta che spesso ancora oggi pensiamo come caso normale. In altri termini, se è vero che il santuario non è la parrocchia, altrettanto vero è che la parrocchia non è il santuario e che le forme di celebrazione del sacramento della penitenza debbono tener conto del diverso regime sacramentale che questi luoghi comportano. Trattare i parrocchiani come “estranei di passaggio” non è meno grave che trattare i pellegrini come “parrocchiani residenti”. c) Lo stesso Concilio tridentino, cui si riferisce anche MD, ci ricorda un criterio fondamentale di comprensione del IV sacramento. Il sacramento della penitenza prende luce dai due sacramenti maggiori, ossia dal battesimo e dalla eucaristia, che sono i due luoghi di esperienza ordinaria della riconciliazione e della penitenza cristiana. Saremmo troppo lontani dal vero spirito del Vaticano II (e persino da quello del Concilio di Trento) se volessimo dimenticare che la Chiesa conosce difficoltà (o “infarti”) non solo quando nella sua pratica tralascia elementi importanti della vita sacramentale, ma anche quando altera gli equilibri tra i sacramenti e fa dei sacramenti “minori” dei sacramenti maggiori, o viceversa. I sacramenti sono sette, ma tra loro non sono tutti uguali. La attenta e preoccupata valutazione della crisi del sacramento della penitenza non deve far dimenticare che questo è il sacramento della “crisi della vita cristiana” e non della sua pienezza, che solo altri sacramenti (battesimo e eucaristia) sanno dare e dire in modo ricco e articolato: in altri terimini, occorre ricordare che attraverso il sacramento della penitenza “si passa”, mentre nel battesimo e nella eucaristia “si resta”. Distinguere dunque la necessaria ricchezza della penitenza cristiana (con tutta la sua articolazione battesimale-eucaristica) dalla confessione per


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Forse il dibattito lungo e complesso intorno al sacramento della penitenza ha voluto sottolineare — talvolta anche in modo eccessivo — il ruolo della terza forma rispetto alla prima, spesso dimenticando che la riforma scaturita dal Vaticano II ha modificato anzitutto la prima forma della celebrazione del sacramento, cioè quella con confessione e assoluzione individuale. In effetti, se da un lato occorre riconoscere che l’abuso della terza forma può svuotare l’elemento personale del rapporto tra confessione e assoluzione, d’altro lato occorre ammettere con franchezza che è altrettanto pericoloso voler dedurre da questo pericolo una presunta ordinarietà o normalità sia di una confessione rapida e formale, sia del diritto ad essere confessati singolarmente, sempre e ovunque, persino durante la celebrazione dell’eucaristia. Il collettivismo come esagerazione dell’autentico spirito comunitario e relazionale non è più rischioso dell’individualismo, del particolarismo e del formalismo, come esagerazione della singolarità e della dimensione personale di ogni penitente, fino ad una visione «privatistica» della confessione. Se per una prospettiva giuridica, come quella assunta da MD, si può dire che ogni cristiano battezzato “ha diritto al dono sacramentale”, dal punto di vista pastorale e teologico resta estremamente problematico configurare significativamente e generalmente il diritto ad un dono. Per il lettore del Motu proprio resta indispensabile una forte coscienza della delimitazione giuridica del linguaggio e dell’intento di MD, se non vuole leggervi erroneamente alcune affermazioni paradossali.

3.2. La decisiva differenza tra sacramenti maggiori e sacramenti minori Infine, vorrei indicare alcune delle prospettive che MD non tocca, ma che risultano essenziali per comprenderne il senso complessivo: a) Il sacramento della penitenza non è costituito soltanto dalla relazione tra confessione e assoluzione: questo oggi significa essenzialmente il recupero sia del senso ampio di «confessione» (che è sempre confessione di lode, di fede e dei peccati, in modo inseparabile), ma anche la ricomprensione della unità profonda degli «atti del penitente», dove


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necessità (con tutto il suo possibile «minimalismo sacramentale») è la grande sapienza che MD contribuisce ad approfondire, purché i cristiani sappiano leggerlo come documento dagli obiettivi limitati, inserito nel grande contesto di una ricca e articolata pastorale della penitenza. Tale pastorale non può mai rinunciare a tutto l’entusiasmo e alla creatività cui MD può solo accennare: solo così potrà far uscire gli uomini e le donne dalla pericolosa tentazione di limitarsi a quel «minimo necessario» che giustamente soddisfa sempre la forma giuridica, ma che strutturalmente è incapace di restare fedele non solo a tutto il gusto esistenziale e pastorale, ma anche a tutto lo spessore teologico e storico del dono di grazia e di misericordia che Dio ha comunicato definitivamente in Cristo. Di fronte alla misericordia di Dio non abbiamo anzitutto diritti o doveri, ma facciamo esperienza di doni: questa è la prima verità che anima e giustifica la dimensione penitenziale della vita cristiana ed ecclesiale, anche nel suo importante aspetto giuridico.

4. IL CONFESSIONALE, LA PRIMA PENITENZA E LE FORME TROPPO FORMALI Possiamo ora considerare alcune conseguenze delle riflessioni fatte su tre problemi “classici” del dibattito sul IV sacramento: il tema del confessionale e della la grata fissa, il tema della “prima confessione” e della sua ambigua priorità sulla I comunione, ed infine i rischi della confessione “collettiva” e di una conseguente perdita della esperienza di riconciliazione. Passiamoli brevemente in rassegna.

4.1. Il confessionale e la penitenza “ridotta” La ricchezza del IV sacramento non sta e non può stare tutta nel confessionale: la «grata fissa» è una necessità della chiesa — e qui MD si limita a ricordare ciò che già prevedeva e prevede anche il nuovo rituale — ma essa è solo punto di partenza per un “lavoro penitenziale” che sta sempre aldiqua e aldilà delle grate. Le grate fisse creano uno spazio possibile per l’esercizio di quella libertà (o diritto) al perdono del cristiano battezzato, che si realizza però soltanto nel lasciarsi donare la grazia nella ricchezza della


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esperienza battesimale ed eucaristica, nella pienezza di riferimento alla parola e al sacramento di cui vivono i sacramenti cristiani maggiori. La penitenza ha il suo segreto primo e ultimo non nella necessità delle grate, ma nella gratuità del dono di grazia, che battesimo e eucaristia celebrano nella rottura e nella continuità e che può e deve visibilizzarsi anche nei luoghi con “grate fisse”.

4.2. Il problema della “prima penitenza” per i bambini Possiamo fare solo un accenno alla questione delicata (e troppo semplicisticamente risolta) di come far entrare i bambini nell’ambito della piena vita eucaristica, senza prima costringerli ad uscirne o considerando addirittura il battesimo come implicitamente inefficace. Almeno la prima comunione per i bambini dovrebbe restare III sacramento e non diventare IV sacramento della iniziazione: si può accedere al IV sacramento solo quando l’iniziazione cristiana sia perfezionata, e non prima. Si ha ragione di rilevare che questo principio teologico non è pressoché entrato nel dibattito che negli ultimi 40 anni ha attraversato la chiesa5. Ma anche pedagogicamente questa prassi è fonte di troppi equivoci, poiché introduce stabilmente, fin dal principio, l’idea che alla comunione si giunga soltanto attraverso la penitenza sacramentale. Questa è una vera e propria alterazione della fisiologia esistenziale cristiana. Ma, come vedremo meglio nel prossimo passaggio, quasi tutto il dibattito a questo proposito si è lasciato guidare (e sequestrare) da una impostazione solo giudica e perciò anche inevitabilmente di corto respiro.

4.3. Riscoperta della forma e nuove figure di formalismo Il IV sacramento è «celebrazione rituale» prima che «atto giudiziale». Se è vero che può esservi sempre il caso (caso-limite, s’intende) in cui, durante una celebrazione eucaristica, un cristiano voglia

5

Cfr R. TONONI, L’iniziazione cristiana e il sacramento della riconciliazione, 149.


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e possa essere riconciliato sacramentalmente, non dovremmo dimenticare che per i cristiani dovrebbe essere sempre molto difficile celebrare diversi sacramenti contemporaneamente. Se il diritto prevede giustamente il caso limite della contemporaneità, al contrario la lode e l’adorazione, la preghiera e l’incontro sacramentale non sopportano mai del tutto queste concomitanze. Rispettare la natura celebrativa e rituale del sacramento della penitenza significa riscoprirne la dignità e così saper prudentemente evitare queste forme pericolose e riduttive di “parallelismo sacramentale”. A questo scopo persino delle “celebrazioni non sacramentali” — da non confondersi mai con il sacramento — possono contribuire altamente a ristabilire il giusto rapporto con la Parola di Dio, con la ecclesialità e con la distensione temporale necessaria alla verità prima e ultima dello stesso sacramento celebrato.

5. LA

RISCOPERTA DELL’EQUILIBRIO DELICATO TRA DIVERSE ESPERIENZE

SACRAMENTALI

Alla fine di questo nostro itinerario, possiamo individuare alcuni “fronti” per una nuova pratica ecclesiale del sacramento della penitenza, che sappia tener conto di tutte le evidenze che abbiamo cercato di considerare. Proviamo a definirli con cinque priorità che formuliamo all’imperativo, ma che dovrebbero suonare per noi all’indicativo.

5.1. Liberarsi dalla nostalgia Per (re-)stare nella tradizione, il cristiano deve guardarsi dalla nostalgia. Anche soltanto “traducendo” ciò che accadeva 50 anni fa, noi perdiamo il senso vero della tradizione, nella quale lo Spirito soffia dove vuole e come vuole, spesso contro le nostre stesse attese. Liberarsi dalla nostalgia significa cogliere nella condizione attuale una possibilità — assente per i nostri nonni e bisnonni — di scoprire un volto nascosto e decisivo del IV sacramento. Lo ripeto ancora una volta: quando ci stracciamo le vesti per la “crisi del IV sacramento” spesso dimentichiamo che il IV sacramento — essendo “sacramento della crisi” (ossia della


La ritualità della penitenza ecclesiale

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patologia, non della fisiologia cristiana) — non è per la normalità della vita cristiana, ma è essenzialmente rimedio ad una distorsione di rapporto con il battesimo e con l’eucaristia. Pensare che il IV sacramento possa stare stabilmente “prima della comunione” — come quasi tutti i nostri nonni (laici, preti o monaci) hanno creduto — è anche una forma di perdita di autenticità della vita cristiana. Resteremo all’altezza di questa grande tradizione solo se (e nella misura in cui) sapremo ripensarla e rinnovarla!

5.2. Riscoprire l’unità del IV sacramento Il perdono di Dio (non dell’uomo, ma del battezzato) comporta una risposta dell’uomo. Solo nella unità di questa relazione tra dono da parte della grazia di Dio e accettazione/risposta da parte della libertà dell’uomo si dà sacramento. Questa verità comporta una nuova attenzione agli aspetti più trascurati di questa risposta dell’uomo alla grazia: in particolare il senso stesso (non univoco, ma triplice) di penitenza. Ossia il “pentirsi” della “contritio/paenitentia”, il guarire/soffrire del “far penitenza” e infine l’acquisizione di una “virtù di penitenza”, legata strutturalmente al battesimo e alla eucaristia. Per questo, l’incontro sacramentale, nella sua unità, ha un impatto ampio, spazialmente e temporalmente esteso sulla vita del penitente. Questo è il motivo per cui lascia perplessi una sacramento che si ripete troppo frequentemente e in luoghi/tempi troppo angusti. Inavvertitamente, esso finisce per essere “altro”, ma non quel sacramento che si prende cura della dinamica dono/accettazione/controdono, di cui vive la esperienza della rivelazione creduta e della fede nel Dio che si manifesta.

5.3. Tornare coscienti del primato della iniziazione cristiana: il sacramento come “passaggio” e “ritorno” al I-III sacramento

IV

La maturazione delle prime due evidenze comporta la riscrittura del rapporto del battezzato con la riconciliazione, che deve recuperare la centralità del sacramento che ordinariamente si ripete (l’eucaristia) e la relativa marginalità del sacramento che solo eccezionalmente si ripete (il IV sacramento). L’ideale di una “ripetizione parallela” del III e del IV


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sacramento — che spesso ripetiamo senza pensare — è in realtà un ideale falso e pericoloso. Il passaggio attraverso il IV sacramento abilita ad un rapporto nuovo con la riconciliazione in Cristo, a “non vivere più per se stessi” e perciò a testimoniare la misericordia di Dio, a lodare Dio e a rendere grazie per questo a Dio, cosa che è l’unico vero “miracolo” che interessa ed entusiasma il cristiano. Alla domanda se, alla luce di quanto abbiamo detto, il IV sacramento debba essere “raro” nella vita del cristiano, possiamo rispondere nel modo seguente: non si tratta di stabilire una “frequenza” del sacramento, ma di riflettere sulla essenziale “non rarità” della eucaristia. Potremmo allora dire che dovrebbe diventare normale per il cristiano che il IV sacramento sia meno frequente (o “più raro”) della eucaristia. Se non scopriamo e promuoviamo questa differenza, qualcosa non funziona nella appartenenza e nella esperienza cristiana del singolo e delle comunità.

5.4. Fare e offrire esperienza di una “chiesa in penitenza” Il IV sacramento non è anzitutto il sacramento di “individui”, ma è esperienza comunitaria. Anzitutto perché l’uomo non può “superare la propria colpa” soltanto con il suo pentimento, con la sua penitenza, ma con la riconciliazione che Dio e il popolo, Cristo e la Chiesa gli riservano. Ma per questo occorre che il IV sacramento non sia “circoscritto ad un luogo/uomo/tempo separato”, ma coinvolga tutta la ricca ministerialità e tutti i carismi da cui ogni comunità è attraversata. Se è vero che il ministro ordinato ha una funzione ufficiale che non è surrogabile, soprattutto nel mediare la parola assoluta — e non consensuale — del perdono, è altrettanto vero che il solo ministro ordinato non può — né temporalmente né spazialmente — curare tutte le esperienze penitenziali, spirituali, oranti e confindenziali di cui ogni penitente ha bisogno. L’idea che il confessionale sia il luogo della riconciliazione è una idea troppo ristretta, dal fiato corto e soprattutto teoricamente astratta e praticamente molto povera. Lo ripeto, nel confessionale sta solo una parte del sacramento, mentre un’altra sta solo fuori: se vale l’idea di “unità” che ho prima sottolineato, noi troppo spesso ci accontentiamo di sacramenti incompiuti (e per questo sempre ripetuti). Per usare le parole di Tommaso, dobbiamo ricordare che il sacramento è


La ritualità della penitenza ecclesiale

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compiuto non subito, ma alla fine di tutti gli atti di penitenza: «non statim… sed completis omnibus poenitentiae actibus»6.

5.5. Accentuare la differenza tra esperienza etica e rituale della penitenza Per finire, un’ultima prospettiva ha bisogno urgente di essere approfondita oggi e domani, e cioè il fatto che il IV sacramento non fa parte anzitutto delle “azioni dovute dal cristiano” (cioè non è anzitutto un atto etico), ma fa parte di quelle esperienze “sacramentali” che fondano tutto ciò che è doveroso o proibito7. Non è prima di tutto un atto giuridico, ma una nuova esperienza del primato del “dono” sul “compito”, del gratuito sull’oneroso, dell’ “indebito” sul debito”, dell’indicativo sull’imperativo. Proprio questo è l’aspetto più “terapeutico” del IV sacramento: di reintrodurre la chiesa e i cristiani in una vita donata e graziata, anche contro tutte le evidenze contrarie di cui la vita sembra sempre così generosa. Se abbiamo molto giuridicizzato il sacramento, se lo abbiamo fatto cominciare non dalla parola di Dio, ma dall’”elenco dei peccati” e dallo scrupolo personale, questo per gli antichi era certo sopportabile, ma per noi è divenuto il pericoloso principio di una perdita dell’esperienza stessa della riconciliazione. Per noi vale il principio della “norma ad una dimensione”, mentre gli antichi avevano la percezione dei diversi livelli di giudizio. Ad esempio, se per loro un condannato a morte poteva essere un santo, ciò significava che il giudizio etico-politico (provvisorio) non si identificava con quello religioso-credente (definitivo). Per noi una tale eventualità è subito sospetta di ipocrisia, poiché abbiamo appiattito ogni valutazione sulla evidenza del diritto, che — solo per noi — ha assunto un ruolo “sacrale”. E questa è la peggiore malattia (per dirla con Rahner, è il peccato peggiore, quello di essere disperati e di non riconoscere di esserlo) da cui il IV sacramento (sporgendo sul I e sul III) è capace di guarirci. 6

TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, III, 86, 4, ad 3. Anche questa confusione, si noti, dipende dalla scarsa coscienza della differenza tra “virtù di penitenza” (che è sempre anzitutto atto etico) e “sacramento della penitenza” (che non può essere mai anzitutto un atto etico). Se esiste un “uso virtuoso del sacramento”, esso consiste prima di tutto nel marcare la differenza tra etica e sacramento e non nel favorirne la confusione. 7


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Insomma — e per portare fino in fondo quel proposito di “iniziare davvero dall’inizio” che avevamo delineato nelle prime battute della nostra ricerca — dobbiamo onestamente riconoscere che l’esperienza della riconciliazione mediata anche dal IV sacramento (nelle forme e nei limiti indicati rispetto ai sacramenti maggiori) è essenzialmente esperienza di una nuova identità donata, quella che Paolo definisce «non vivere più per se stessi»,

che Bernanos ha delineato in modo così potente dicendo: «Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Cristo»8,

e che Kierkegaard, alla fine della Malattia mortale, esprime in modo così breve e così toccante: «Nel rapportarsi a se stesso e volendo essere se stesso l’io si fonda, trasparente, nella potenza che lo ha posto»9.

8

G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Milano 1946, 242. S. KIERKEGAARD, La malattia mortale, in ID. Il concetto dell’angoscia. La malattia mortale, Firenze 1965, 203-366, qui 366. 9


Synaxis XXIII/1 (2005) 135-158

FEDE E BELLEZZA E LA CONFESSIONE ROMANTICA

ROSA MARIA MONASTRA*

Il genere (o meglio sottogenere) letterario della confessione, per consenso pressoché unanime degli studiosi, si è costituito attraverso una tradizione alle cui origini stanno le Confessiones di Agostino: una tradizione, dunque, sbocciata all’incrocio tra retorica pagana e edificazione cristiana, con finalità insieme di chiarificazione personale e di persuasione universale. Secondo María Zambrano, la grande pensatrice spagnola esiliata dal regime franchista, si tratta di «un genere di crisi» sorto per «riempire il vuoto, l’abisso terribile […] dell’inimicizia tra la ragione e la vita», e Agostino deve esserne considerato l’iniziatore in quanto la sua opera ha dato una risposta alla disperazione «dell’uomo antico, abbandonato e senza fratelli», fornendo un nuovo modello di umanità riconciliata: Quest’uomo rinnovato non era certo quello che andava nudo, smarrito o ripiegato in se stesso. Anima pura è colui che riflette un’immagine grazie alla sua trasparenza, colui il cui essere è impresso, suggellato; ha una figura. Lo specchio della vita riflette nelle sue acque quiete il mistero più alto, il mistero della Trinità. Nel cap. 26 del Libro XI della Civitas Dei, Sant’Agostino parla dell’imagine della Trinità nell’uomo, e senza perdere il suo carattere di mistero, essa plasma parte di quell’istante di evidenza da cui parte l’intera sua opera1.

Ma questa ritrovata armonia tra la verità e la vita non durerà per sempre. Con Cartesio, la ragione riformata lascerà l’uomo solo con se stesso: * Professore associato di Sociologia della letteratura presso la Facoltà di Lingue dell'Università di Catania. 1 Cfr M. ZAMBRANO, La confessione come genere letterario [1943], trad. di E. Nobili, Milano 1997, 39, 65, 75.


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Rosa Maria Monastra Se l’evidenza di Sant’Agostino scoprì l’immagine della Trinità disegnata in un’anima trasparente, in questo nuovo incontro dell’uomo con se stesso si annullerà ciò che è copia, riflesso, immagine; rimarrà la nudità umana. La solitudine non è un punto di partenza ma di arrivo. La solitudine è, in realtà, la nuova evidenza o la novità di quest’evidenza. Della mia esistenza ero già a conoscenza, e così della mia coscienza, ma le due cose — una sola — si erano vissute legate a qualcos’altro. La rivelazione che esisto e penso era stata presentata in relazione a qualcosa. Il “cogito” è la proclamazione della solitudine umana che si conferma a se stessa2.

Cartesio, continua la Zambrano, «ha trovato il punto d’innesto della ragione nella vita, e da essa l’ha liberata»3: ossia a partire da lui il processo di secolarizzazione non subirà arresti, la conoscenza andrà sempre più avanti lasciando «la vita nella sua dispersione e oscurità»4. E la vita si ribellerà, esprimendosi attraverso una nuova confessione, quella di Rousseau — ma si tratta ora di una confessione ambigua, dettata in nome della naturalità e tuttavia distorta dal narcisismo: Vita romanzata, immagine del paradiso perduto, nostalgia terribile di una vita in cui la realtà corrisponda esattamente al desiderio […]. “Estasi” continue e inebrianti, prodotte dall’eccesso del suo cuore, che nella frenesia arrivava a cibarsi di se stesso, prendendo come oggetto il disegno della propria nostalgia. Nasce la vita romanzata, la vita letteraria. Vita che nella propria espressione trova il suo oggetto. «L’uccello che si squarcia il petto / e offre in pasto le sue viscere per amore» della poesia medievale, si è trasformato nell’uccello che si ciba delle proprie viscere. Ben presto si formerà quel dolce filtro che è la letteratura della semiconfessione, poesia diventata letteratura, poesia romanzata, storicizzata, in cui la vita segreta del cuore si offre per essere bevuta, consumata da un’avidità sempre maggiore. Sarà il Romanticismo. Ma finché questo tipo di confessione non sarà sostituito da un altro, la letteratura vivrà, continuerà a vivere del romanticismo, continuerà ad essere la ricerca, sempre più esasperata, di un paradiso artificiale5. 2 3 4 5

Ibid., 79. L. c. Ibid., 82. Ibid., 92.


Fede e Bellezza e la confessione romantica

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Da tale lacerazione, che per la Zambrano ha generato «la spaventosa faccia dell’attualità», ci si potrà salvare solo attraverso una nuova, «vera e inesorabile confessione»: è questo l’appello finale, e altresì la motivazione profonda della sua palpitante inchiesta, dolorosamente segnata dalle terribili vicende del tempo. Ma quali che siano i condizionamenti storico-politici e intellettuali che hanno determinato la fisionomia del saggio La Confesión: Género literario, esso appare ancora estremamente produttivo ai fini di un discorso sulla confessione romantica. Ci fornisce infatti delle precise coordinate in base alle quali possiamo cogliere le affinità e il divario tra le Confessiones agostiniane e le confessioni moderne: le affinità concernono il disagio di una vita nuda, fragile e priva di senso; il divario sta nel fatto che laddove le Confessiones potevano prospettare una nuova unità, stringendo in indissolubile nodo la confessio peccati alla confessio fidei e alla confessio laudis, a partire dalle Confessions di Rousseau invece non appare più possibile ricomporre l’infranto. E anche chi tenta di farlo, come appunto il nostro Tommaseo, può proporre soltanto soluzioni poco convincenti: rischiosamente contaminatorie, piuttosto che di autentica pacificazione. Agostino narrava la propria vita davanti a Dio, perché tutti potessero condividerne il cammino di espiazione («Neque enim tibi, deus meus, sed apud te narro haec generi meo, generi humano […]. Ut uidelicet ego et quisquis haec legit cogitemus, de quam profundo clamandum sit ad te»)6. La condanna del peccato non poteva non essere chiara e netta: nessuna giustificazione per sé, ma solo la ricerca del lento progredire della grazia dentro la propria anima. L’itinerario «ab aegritudine ad sanitatem»7 era presentato come uno svolgimento lineare: pur tra resistenze e difficoltà, infatti, l’io delle Confessiones appare in continua marcia, dalle tenebre della materia verso la luce dello spirito. Ben diversa la prospettiva della confessione moderna. Laica, cattolica o protestante che sia, essa comunque si dibatte tra mille contraddizioni: tra autoaccusa e autoapologia, tra rimorso e ricerca di attenuanti, tra disprezzo di sé e senso di superiorità. Vuole essere uno scandaglio sincero nel 6 SANCTI AUGUSTINI, Confessionum libri XIII, quos iterum edidit L. Verheijen, Turnholti, Brepols, MCMLXXXI, (Corpus Christianorum. Series Latina, XXVII), 19-20 (II, III, 5). 7 Ibid., 74 (VI, I, 1).


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profondo del proprio cuore, ma si avvale di molteplici infingimenti ed astuzie letterarie (e precipuamente del filtro romanzesco, attraverso cui, come scrive la Zambrano, «la vita segreta del cuore si offre per essere bevuta, consumata da un’avidità sempre maggiore»). Si porge come un esempio negativo ai lettori, ma ne sollecita la complicità e addirittura l’ammirazione. Di fronte a chi, tutto questo, e a quale scopo? La confessione e il romanzo confessionale di età romantica offrono una vasta gamma di atteggiamenti e proponimenti, ma sostanzialmente si muovono entro un unico confine di irresolutezza, di sfiducia. Talora Dio è del tutto assente dal testo, e addirittura può accadere che alla lode di Lui si sostituisca un encomio blasfemo (come quello dell’oppio in Thomas De Quincey)8. Più spesso, è vero, Egli viene invocato nei momenti critici; in qualche caso (come in Volupté di Sainte-Beuve e soprattutto in Arthur di Guttinguer) la motivazione religiosa appare notevolmente accentuata: ma questo non basta a orientare il testo in senso escatologico, in funzione di uno sguardo oltremondano. Se Amaury, il protagonista-narrante di Volupté, parla del suo racconto come di una confessione rivolta a un doppio destinatario, Dio e un amico in pericolo9, ciò significa che non c’è disparità tra l’uno e l’altro: Dio sta sullo stesso piano degli uomini, non ha più quella centralità che induceva Agostino a cercarsi in Lui («me ipsum mihi indica»)10. Quanto all’Arthur di Guttinguer, nonostante il marcato (e direi smaccato) agostinismo del romanzo, che si spinge fino a una divisione netta tra i capitoli della passione colpevole (Mémoires) e quelli della rigenerazione e della meditazione (Religion et solitude), il tutto si risolve in un’unzione esclamativa ed estetizzante, oltre che incorreggibilmente mondana. Basti vedere il modo in cui Guttinguer/Arthur commenta il cruciale episodio del tolle lege: O saintes lumières de la première église, et vous, ô Fénelon, Bossuet, Turenne, Racine, Bourdaloue, de Maistre, La Mennais, Lamartine, qu’il est glorieux d’être des vôtres par la pensée et la foi! C’est à vos exemples et à vos paroles que je veux emprunter de nouvelles 8 TH. DE QUINCEY, Confessions of an English Opium-Eater, London 1960, 194: «thou hast the keys of Paradise, O just, subtle, and mighty opium!». 9 SAINTE-BEUVE, Volupté, introduction et notes par M. Allem, Paris 1934, 132: «Ces pages ne sont qu’une confession de moi à Dieu, et de moi à vous». 10 SANCTI AUGUSTINI, Confessionum libri XIII, cit., 189 (X, XXXVII, 62).


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consolations, de nouveaux encouragements, pour les répandre dans un plus grand nombre d’âmes; car, qui sait ce que peut produire de bien une pensée saine, belle, tendre, vraie, éloquente, rencontrée à l’improviste par un coeur fatigué, malade, et qui n’attendait que ce secours pour commencer une vie meilleure, pour s’arrêter dans le mal, pour entrer dans la voie du bien! — C’est le livre entr’ouvert devant saint Augustin; c’est cette voix qui lui criait: “Prends et lis!” voix qui, une fois écoutée, l’a mené à la gloire humaine et à la félicité du ciel11.

Eliminato o banalizzato il ruolo divino, ad ascoltare e a giudicare restano solo gli uomini, lettori reali e lettori inscritti nel testo (o “narratari”): cui capita, sì, che l’io narrante si rivolga dichiarando un intento edificante, ma che in fin dei conti fungono piuttosto da specchio per il narcisismo maladif e/o polemico di colui che osa esporre i propri «errors and infirmities»12. Senza dire che, in un sistema letterario sempre più chiaramente indirizzato verso il mercato, non può non cominciare ad emergere un’istanza del tutto pratica, volta alla monetizzazione della capacità attrattiva inerente al testo stesso, per quanto autenticamente intriso di lacrime e sangue esso sia (o voglia apparire). Magari, per il momento, senza una coscienza precisa del cambiamento in corso; oppure con l’illusione di poter distinguere nettamente tra legittimo desiderio di fama e bassa organizzazione mercantile: non è senza interesse il fatto che il primo tentativo di determinare il confine tra buona letteratura e littérature industrielle sia venuto proprio da Sainte-Beuve13, questo «Tartuffe romantique» (come acutamente lo ha definito Courcelle)14, autore di un romanzoconfessione la cui enfasi giansenisteggiante male nasconde una vistosa ambizione al successo (e quindi allo smercio). Secolarizzato l’ambito della confessione, la pubblicazione può trovare solo giustificazioni ambigue. De Quincey dapprima formula la speranza che il suo racconto giovi al lettore, distogliendolo dal commettere 11

U. GUTTINGUER, Arthur, avec une introduction de H. Bremond, Paris 1925, 123-24. TH. DE QUINCEY, Confessions of an English Opium-Eater, cit., 2. 13 SAINTE-BEUVE, De la littérature industrielle [1839], in Portraits contemporains, II, Paris 1869, 444 ss. 14 P. COURCELLE, Les Confessions de saint Augustin dans la tradition littéraire. Antécédents et Postérité, Paris 1963, 489. 12


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gli stessi errori; ma subito dopo rifiuta di riconoscersi colpevole, e addirittura esalta «the divine luxuries of opium»15. Sainte-Beuve, travestito da editore, ostenta una delicata riluttanza riguardo all’opportunità di pubblicare la presunta confessione del suo Amaury16, ma gli basta uno sguardo alla contemporaneità perché i suoi scrupoli vengano subito meno: […]quand j’ai reporté les yeux sur les temps où nous vivons, sur cette confusion de systèmes, de désirs, de sentiments éperdus, de confessions et de nudités de toutes sortes, j’ai fini par croire que la publication d’un livre aurait peine à être un mal de plus, et qu’il en pourrait même sortir çà et là quelque bien pour quelques-uns17.

Più drasticamente ancora, Alfred de Musset non solo elimina ogni filtro o mediazione, ma subito accantona lo stesso escamotage filantropico facendo così esordire il suo Octave: Ayant été atteint, jeune encore, d’une maladie morale abominable, je raconte ce qui m’est arrivé pendant trois ans. Si j’étais seul malade, je n’en dirais rien; mais, comme il y en a beaucoup d’autres que moi qui souffrent du même mal, j’écris pour ceux-là; sans trop savoir s’ils y feront attention; 15 TH. DE QUINCEY, Confessions of an English Opium-Eater, cit., 6. In Suspiria de profundis, del resto, «l’auteur n’insiste plus pour nous persuader que les Confessions avaient été écrites, en partie du moins, dans un but de santé publique. Elles se donnaient pour objet, nous dit-il plus franchement, de montrer quelle puissance a l’opium pour augmenter la facolté naturelle de rêverie» (CH. BAUDELAIRE, Les Paradis artificiels, in Oeuvres complètes, I, texte établi, présenté et annoté par C. Pichois, Paris 1975, 497). 16 Confessione che di per sé si presenta come un tentativo di cura omeopatica nei confronti di un giovane amico anch’egli malato di volupté. Cfr SAINTE-BEUVE, Volupté, cit., 2-3: «Le dépositaire, l’éditeur, et, s’il m’est permis de le dire, le rapsode à quelques égards, mais le rapsode toujours fidèle et respectueux de ces pages, a été retenu, avant de les livrer au public, par des circostances autres encore que des soins de forme et d’arrangement. Au nombre des questions de conscience qu’il s’est lomguement posées, il faut mettre celle-ci: une telle pensée décrite, détaillée à bon fin, mais toute confidentielle, une sorte de confession générale sur un point si chatouilleux de l’âme, et dans laquelle le grave et tendre personnage s’accuse si souvent lui-même de dévier de la sévérité du but, n’ira-t-elle pas contre les intentions du chrétien, en sortant ainsi inconsidérément du sein malade où il l’avait déposée, et qu’il voulait par là guérir?». 17 Cfr ibid., 2.


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car, dans le cas où personne n’y prendrait garde, j’aurai encore retiré ce fruit de mes paroles, de m’être mieux guéri moi-même […]18.

La parola (la scrittura) come terapia, dunque: non c’è ancora la psicoanalisi, ma le si prepara il terreno. Del resto, il male di cui ora si discorre, nonostante certe consonanze appariscenti (la malattia morale, la vacillante volontà, la voluttà), in effetti è assai diverso da quello che affliggeva Agostino: la dispersione del soggetto non si offre più in rapporto a una metastorica retta via, bensì su uno sfondo concreto che in qualche modo lo giustifica, sia che si tratti di un milieu solo privato (come nel caso di De Quincey), sia che invece si tratti (come più spesso accade tra gli scrittori francesi) di un contesto politico-sociale, di un vero e proprio trapasso epocale. Il reazionario Chateaubriand fa dire al suo René che mai si è verificato presso un popolo un cambiamento così sbalorditivo e improvviso come quello avvenuto a fine Settecento: De la hauteur du génie, du respect pour la religion, de la gravité des moeurs, tout était subitement descendu à la souplesse de l’esprit, à l’impiété, à la corruption19.

L’Amaury di Sainte-Beuve confida alla gentile Amélie il suo malessere facendone il malessere di un’intera generazione, quella venuta su in età napoleonica 20: Nos pères, qui devaient nous conseiller, nous ont tous manqué en un même jour et n’ont pas de tombe. L’oubli à notre égard a remplacé la haine, et ce 18 A. DE MUSSET, La Confession d’un enfant du siècle, in Oeuvres complètes. Romans, nouvelles, contes, mélanges, texte, introduction, chronologie, notes, variantes, bibliographie, établis par M. Allem, Paris 1951, 81. Per il testo della prima edizione, cfr ibid., 1030-31, nota 2. 19 Cfr CHATEAUBRIAND, René, in Oeuvres romanesques et voyages, texte établi, présenté et annoté par M. Regard, I, Paris 1969, 126. 20 È la generazione antecedente a quella dell’autore stesso: il nucleo principale dell’azione si svolge infatti nel 1804/1805 (Volupté, cit., 256), cioè all’altezza della data di nascita di Sainte-Beuve. Diciamo che quest’ultimo ha cercato di oggettivare, proiettandoli un po’ indietro, sentimenti e emozioni (e personaggi) della propria giovinezza.


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Rosa Maria Monastra n’est pas la hache, mais le dédain qui nous retranche. Au tonnerre roulant des batailles nous opposons ici des trames d’araignée et des chuchoteries de complots. Oh! mademoiselle Amélie, dites, n’y a-t-il pas de honte de vivre sous ce doux ciel quand, investis de spectacles gigantesques, on ne peut exhaler sa part d’âme et de génie, dans aucune mêlée, pour aucune cause, ni par sa parole ni par son sang?21.

L’Octave di Musset descrive la desolazione dei «fils de l’Empire» («et petit-fils de la Révolution»), segnati per sempre da un tracollo che ha tolto senso alla loro vita: Napoléon despote fut la dernière lueur de la lampe du despotisme; il détruisit et parodia les rois, comme Voltaire les livres saints. Et après lui on entendit un grand bruit: c’était la pierre de Sainte-Hélène qui venait de tomber sur l’ancien monde. Aussitôt parut dans le ciel l’astre glacial de la raison, et ses rayons, pareils à ceux de la froide déesse des nuits, versant de la lumière sans chaleur, enveloppèrent le monde d’un suaire livide22.

Enfatizzata come mal du siècle, la dissipazione individuale diviene qualcosa di sfuggente: stigma elettivo e insieme tara comune, indizio di eccellenza spirituale eppure anche mortificante condanna all’inazione. L’eredità del romanzo epistolare settecentesco affascina ma non convince fino in fondo: Saint-Preux e soprattutto Werther vengono spesso menzionati come fratelli maggiori, come primi testimoni di un’infelicità e di un tormento in cui il nuovo eroe romantico continua in qualche modo a riconoscersi; e tuttavia quest’ultimo si ritiene tanto più sofferente in quanto appunto è ossessionato dai sensi di colpa, dal dubbio che la passione non sia sempre il contrassegno delle anime grandi, ma anche e soprattutto il risultato di un contagio dell’anima, di una degradazione morale. Tale ambivalenza appare già genialmente tematizzata in René mediante l’iscrizione — nel testo — di un doppio destinatario: René infatti “si confessa” a due interlocutori, il vecchio indiano Chactas, che gli fa da padre e che, al termine del suo patetico racconto, lo abbraccia e lo 21 22

Cfr SAINTE-BEUVE, Volupté, cit., 25. Cfr A. DE MUSSET, La Confession d’un enfant du siècle, cit., 86-87.


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compiange, e il missionario Souël, che invece lo redarguisce duramente («Je vois un jeune homme entêté de chimères, à qui tout déplait, et qui s’est soustrait aux charges de la société pour se livrer à d’inutiles rêveries»)23. Con una finalità sostanzialmente analoga, Constant chiosa anch’egli la confessione di Adolphe con un duplice, divergente giudizio: da una parte quello dell’amico, incline a scaricare la colpa sulla società, dall’altra quello dell’editore, perentorio nel condannare chi «s’analyse au lieu de se repentir»24. Altri tentano, in verità con scarsa capacità di persuasione, di indirizzare la confessione, o il romanzo/confessione, verso la meta di un cambiamento, di una svolta di vita. Ecco ad esempio De Quincey che, dopo avere indugiato sui piaceri (pleasures) dell’oppio fino a metterne esplicitamente in dubbio l’illiceità («why confess it at all?»)25, finalmente si decide a parlare delle pene (pains) della droga assumendo la visuale di chi ne è uscito fuori: ma poi si capisce che le cose non stanno affatto così, che si è trattato di un tentativo di breve durata e che al più si può sperare in una riduzione di dose (e di debiti). Ecco Musset concludere la confessione del suo Octave passando all’improvviso al racconto in terza persona per presentarci il bel gesto di una rinuncia generosa alla donna amata in pro’ del rivale: ma in verità mille indizi ci inducono a vedervi solo l’ennesima, raffinata conferma di un’inclinazione sadomasochistica. Ecco Sainte-Beuve incorniciare la volupté del suo Amaury alla luce di una radicale conversione: si è fatto prete, e viaggia verso il Nuovo Mondo (dove dalla prefazione sappiamo che troverà la morte); ma perché allora insistere con tanto compiacimento sulle miserie del passato? L’unico, forse, a perseguire con tenacia un programma di integrale trasformazione del suo personaggio/controfigura è Guttinguer; ma è lui stesso, d’altra parte, a metterne in dubbio l’efficacia: Werther, Saint-Preux, René, Obermann, sont des types sublimes, mais dangereux, de l’homme sensible. Leur exemple a fait du mal, tout en intéressant vivement et noblement les coeurs. […] 23

CHATEAUBRIAND, René, cit., 144. B. CONSTANT, Adolphe, in Oeuvres, texte presenté et annoté par A. Roulin, Paris 1957, 83. 25 TH. DE QUINCEY, Confessions of an English Opium-Eater, cit., 209. 24


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Rosa Maria Monastra Werther, c’est le suicide; Saint-Preux, c’est la philosophie; René, le vague, l’abandon; Obermann, le découragement. Quel secours en avons-nous tiré? quelle résolution salutaire? quel espoir? Arthur voudrait être la religion. Mais le génie des créations que je viens de citer lui manquera. Qui donc fera assez sublime cette histoire de l’homme passionné de nos temps, sauvé de tout, guéri de tout, et jusqu’au fond, par la vertu chrétienne?26.

Il vague des passions27, del resto, coinvolge la figura stessa di Agostino, sovente romanticizzato — in questo primo Ottocento — proprio da alcuni autori di romanzi-confessione, come Chateaubriand, Guttinguer, Sainte-Beuve, e da intellettuali come Lamennais e Villemain28. In siffatta atmosfera di agostinismo passionné prendeva a muoversi nel ’34 il nostro Tommaseo, che aveva conosciuto e stretto amicizia con Lamennais fin dal dicembre 1831 e che presto stabilì rapporti cordiali con l’autore di Volupté. Il suo interesse per i Padri della Chiesa, già forte e radicato grazie anche all’influsso di Rosmini, non poteva non esserne ravvivato e in certo senso modernizzato, come documenta l’antologia di scrittori cristiani che egli dedicò nel ’38 ai suoi ex-allievi di Nantes con le seguenti motivazioni: Le chrétien qui ne connaît pas les écrits des Pères, ne sait au juste ni l’histoire ni les raisons de sa foi: le littérateur qui néglige ce que les travaux de ces hauts esprits renferment de vrai et de fécond, se prive d’un grand nombre de connaissances nécessaires et d’exquises jouissances. Aussi, l’oubli dans lequel nous laissons l’éloquence et le savoir d’hommes tels qu’Augustin, Chrysostóme et Léon, est-il, à mes yeux (même indépendamment de toute considération religieuse), un signe d’affaiblissement et de décadence. Il est douloureux de voir que l’instruction classique dans toute l’Europe, renonce à une inspiration si puissante. […] Nous savons bien que le langage des écrivains sacrés est généralement moins correct et moins pur: mais que de force dans le sentiment! que de

26

U. GUTTINGUER, Arthur, cit., 243. È il sintagma che fa da titolo al capitolo di Génie du christianisme in cui dapprima apparve la storia di René. 28 Cfr P. COURCELLE, Les Confessions de saint Augustin dans la tradition littéraire, cit., 461 ss. 27


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richesse dans les images! que de hauteur dans les vues! […] La langue dépérit, mais le style renaît: on sent sous la vieille écorce couler une sève toute nouvelle; ces voix rudes ont pourtant de l’attraît, ces visage sévères ont pourtant de la grâce: c’est une décadence, en quelque façon, verte et jeune; c’est un couchant radieux qui promet une aurore éclatante. En effet, tout ce que le monde moderne a de neuf, il le doit à l’esprit chrétien29.

Pur proponendosi con maggiore austerità, e direi anche con maggiore serietà, quest’elogio tommaseiano dei Padri non è tuttavia dissonante da quello che si può trovare, poniamo, nell’Arthur di Guttinguer30. Quanto in particolare ad Agostino, va osservato che se in quest’antologia i brani tratti dalle sue opere non sono molto numerosi, sono però assai significativi: su quattro, ben tre vengono dalle Confessiones, tra cui il finale del IX libro, in cui Agostino narra l’estremo colloquio con la madre e la morte di lei (e non c’è dubbio, come vedremo meglio più avanti, che un’eco di esso risuoni a chiusura di Fede e Bellezza). Un Agostino romantico, intinto di cristianizzato foscolismo, sarà ancora quello apostrofato da Tommaseo nella lirica I Santi: […] E tu che tanto di concetti, Agostino, e di desii cammin coll’infiammata alma corresti, prega dal ciel con noi. […]31.

Nel contesto di questo discorso è inoltre opportuno ricordare che Tommaseo, al momento di intraprendere la sua difficile ma anche galvanizzante esperienza di intellettuale in esilio, aveva alle spalle una giovanile, travolgente lettura delle Confessions di Rousseau:

29 N. TOMMASEO, Au lecteur, in Selecta e christianis scriptoribus, Nannetis, ex typographia Hérault, MDCCCXXXVIII, VII-IX. 30 Pur chiosando entusiasticamente le Vitae Patrum (cfr P. COURCELLE, Les Confessions de Saint Augustin…, cit., 503), Guttinguer mostrava più snobistica resistenza di fronte a certe rudezze dei Padri, ritenendo che il loro zelo eccessivo a tratti riuscisse addirittura comico 31 ID., Poesie, in Opere, a cura di M. Puppo, I, Firenze 1968, 304.


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Rosa Maria Monastra Conobbi allora le opere del Rousseau. Come potessero sull’animo mio gl’impeti passionati, la semplicità esageratrice, gli sdegni affettuosi, l’orgoglio addolorato dell’uomo, non saprei dire. Le Confessioni mi vinsero, come da donna artifiziosa ed ardente è vinto amante generoso e inesperto. Non mi potevo staccare dalla lettura, leggevo fino a tavola; rileggevo; il libro reso richiedevo in prestito: ebbrezza come di fanciulla che per la prima volta ravvisi in ispecchio le proprie fattezze. Quelle umiliazioni, quelle ire, quelle lacrime, quella timidità, quelle ignoranze, quella superba povertà, quegli amori: ci sentivo me stesso passato e avvenire. E non all’anima di lui aggiustavo per imitazione la mia: ma provavo spontanea la dolcezza dell’aver trovata un’anima che alla mia somigliasse, che le mie piaghe coprisse di velo sì lavorato, che le confuse parole dello spirito mio con sì netto accento esponesse. Sentivo me simile e differente: e le differenze non avrei voluto, potend’anco, cancellare. Rousseau m’era scusa, non guida; interprete, non modello32.

Dal Diario intimo, dall’epistolario, dalla produzione giornalistica sappiamo che negli anni Trenta Tommaseo leggeva Chateaubriand, Senancour, la Sand, Musset, Vigny, Sainte-Beuve, Balzac: ossia si aggirava continuamente, con arcigno o pettegolo moralismo ma anche con sensibile orecchio, tra le più significative testimonianze delle lacerazioni romantiche. Come l’attenzione ai Padri (e in specie ad Agostino), così anche il suo imprinting russoviano non poteva non uscirne alimentato e rinnovato (capita una volta di trovare Tommaseo con le Confessions in mano addirittura a teatro)33, mentre a contatto con una società più dinamica ed evoluta, ma anche più dura e difficile, la sua riflessione politico-culturale si arricchiva di umori contrastanti. Con la mente suggestionata dall’utopismo del tempo, egli tentò allora di conciliare l’inconciliabile: non solo, per dirla malignamente alla Manzoni, venerdì santo e sabato grasso34, ma anche, in una prospettiva di ben più largo respiro, motivazioni filo e antifrancesi, intransigenza cattolica e liberalismo, individualismo romantico e socialismo sansimoniano, nostalgie arcaizzanti e modernità. 32 ID., Dell’animo e dell’ingegno di Antonio Marinovich [1840], in Studi critici, II, Venezia 1843, 254-55. 33 ID., Diario intimo, a cura di R. Ciampini, Torino 19463, 299. 34 Cfr C. CANTÙ, Alessandro Manzoni. Reminiscenze, II, Milano 1882, 63.


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Fede e Bellezza è il risultato straordinario di questo tentativo. Quando lo scrisse, Tommaseo era ormai al termine del suo esilio francese: più vicino all’Italia, in Corsica. Tormentato dalla lue, amareggiato di tutto: e però tanto più bisognoso di sperare in una rigenerazione, tanto più preso dalla storia dei suoi Giovanni e Maria, peccatori pentiti e purificati35. Per raccontarla, egli scelse il classico impianto con narratore etero-extradiegetico, un impianto che, mentre si apre facilmente agli assolo dei due protagonisti, consente d’altra parte un gioco di avvicinamento e distanziamento, di armonizzazione e di fughe. Luogo e tempo sono quelli dell’esperienza tommaseiana, pertanto fertili di annotazioni e spunti che di essa hanno il sentore e lo spessore. E la divisione è in libri, come nel modello confessionale agostiniano-russoviano: per l’esattezza sei36, proprio quanti sono quelli della prima parte delle Confessions. Si sa che tra i primi a subodorare la matrice autobiografica di Fede e Bellezza fu Carlo Cattaneo37: e lo disse in una recensione sul «Politecnico» la cui sferzante ostilità avrebbe lasciato il segno nel nostro Tommaseo. Già nel ’41, pubblicando Scintille, questi reagiva piccato diffidando chiunque dall’addossargli «i mali o i beni di quel detestato Giovanni»: e ciò sebbene d’altra parte non potesse non ammettere il fondamento personale di «alcune pagine». Pur riconoscendo «quanto sia grave difetto confondere l’imaginato col vero», egli concludeva seccamente: Quanto ivi entro sia il vero reale, quanto l’ideato, e trasfuso dai casi simili; quali le confessioni del male, quali i desiderii, soddisfatti o non soddisfatti, del meglio, io non dirò. Lascio arbitrio all’anime buone sentenziare che tutte le buone qualità sien nel libro, e le triste nell’uomo38.

35

Su questo sfondo biografico di sofferenza insiste opportunamente G. TELLINI (Introduzione a N. Tommaseo, Fede e Bellezza, Milano 1992, XXIV-XXVII). 36 Diverranno quattro nell’edizione del ’52, dove l’impulso confessionale sarà del resto notevolmente ridimensionato. 37 «Le cose che Nicolò racconta di Giovanni si assomigliano a quelle che Nicolò venne altre volte qua e là narrando di sé medesimo» (cito da C. CATTANEO, «Il Politecnico» 1839-1844, a cura di L. Ambrosoli, Torino 1989, 463). 38 N. TOMMASEO, Scintille, Venezia 1841, 160 (poi, con qualche ritocco, in coda a Fede e Bellezza: cfr l’ed. critica a cura di F. Danelon, Alessandria 1996, 241).


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Non lo seguiremo certo su questa strada; e nemmeno tenteremo di inventariare tutte le componenti personali del romanzo, «buone» o «triste» che siano. Quel che conta è l’articolazione complessiva dell’opera, gli assi ideali lungo i quali tali elementi vengono reinterpretati come una possibile parabola esistenziale: la parabola di un credente peccatore, di un intellettuale credente e peccatore, quale appunto era (o si riteneva) lo stesso Tommaseo. Infaticabile esegeta della Commedia (ricordiamo che la prima edizione del suo commento è del ’37), è probabile che egli perseguisse una analoga molteplicità di livelli narrativi: intendesse cioè intrecciare col livello letterale un più complesso livello etico-simbolico, per il quale la vicenda di due giovani che si piacciono, si scambiano confidenze intime, si promettono e si sposano, può sostanziarsi — senza timore di scandalo — di riferimenti all’iconografia e ai testi sacri. Certo non è casuale il fatto che il primo incontro di Giovanni e Maria venga siglato da una citazione dantesca (a Quimper Giovanni, trasportato dalla bellezza del luogo, recita «ad alta voce» gli ultimi due versi del quinto canto del Purgatorio, suscitando la sorpresa e l’interesse di Maria), e questo mentre sullo sfondo la particolare configurazione della cattedrale viene evocata come immagine di «Gesù in agonia»39. L’interferenza del modello biblico è quasi canonica nella tradizione letteraria occidentale. Nei generi autobiografici, in particolare, appare frequentissima la tendenza a cercare nell’Antico e/o nel Nuovo Testamento l’orizzonte di eventi e “figure” a cui commisurare il presente per fornirlo di un senso40. Sennonché Tommaseo introduce in questa consuetudine un’oltranza sistematica, e insieme un azzardo di corrispondenze tali che per un verso egli sembra proiettarsi all’indietro, verso il sistema tipologico medievale (dantesco), e per l’altro al contrario in avanti, verso certe 39

ID., Fede e Bellezza, a cura di F. Danelon, cit., 117. Il fatto poi che sia proprio il canto di Pia de’ Tolomei a fare da testo galeotto è da intendere anzitutto in relazione all’aura senese di Maria; ma vi si può vedere anche un’indiretta allusione mariana. Nel suo commento al Purgatorio, infatti, Tommaseo scriveva: «Così nel Vangelo Maria ci si presenta disposata ad un uomo che aveva nome Giuseppe; così nel quadro di Raffaello il sacerdote avvicina la destra di Giuseppe per inanellare Maria» (DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, con le note di N. Tommaseo ed introd. di U. Cosmo, II, Torino 1927, 61). 40 Cfr F. D’INTINO, L’autobiografia moderna. Storia forme problemi, Roma 1998, 172 ss.


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imminenti, e sconvolgenti, commistioni di sacro e profano. È la sua risposta ai nuovi orientamenti della letteratura di Francia: una letteratura la quale, a suo parere, cerca spasmodicamente il nuovo, e non si accorge che per cambiare il mondo bisogna anzitutto cambiare se stessi; una letteratura che non riesce a liberarsi dal materialismo, e ha perso il vero ideale, quello «qui trouve dans soi-même un type de beauté et de bonheur, que dans nulle apparence extérieure il ne saurait atteindre»41. L’ennui domina il presente, penosamente contrastato solo da forme di volgare intrattenimento; pure, ammette Tommaseo, in tutto ciò già fermenta una nuova vita: Tout mal cependant est gros du bien contraire: et de l’ennui jaillira un jour le plaisir et la volupté, du doute la foi, des apparences la réalité, de l’indifférence l’amour. Il est des époques où la sphère des jouissances et des forces de l’humanité est naturellement portée à s’élargir: alors il y a un moment terrible, de désordre, d’incertitude et d’angoisse; il y a un intervalle, où les biens d’autrefois nous manquent sous le pied, où les biens à venir ne sont pas encore atteints; en sorte que l’esprit humain se trouve comme suspendu sur l’abîme. […] Mais peu-à-peu la jonction du passé avec l’avenir s’opère, le terrain prend de la consistance, la création nouvelle est accomplie, les esprits recommencent à croire, l’humanité se repose. […] Nous sommes à peine au commencement de la palingénésie; et deux siècles se couleront peut-être avant qu’elle soit achevée42.

Per gettare un ponte sull’abîme, la «Fede» e la «Bellezza». Il binomio del titolo, estratto da una variegata filigrana poetica43, sembra acquistare il valore di un’endiadi: la bellezza, fondamento dell’educazione e della civiltà, può nascere solo dalla fede. In questa luce la vicenda di due peccatori redenti si profila come immagine dell’incipiente palingénésie, assimilandoli all’ambito delle figurae Christi: con quegli esiti di inedita

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N. TOMMASEO, L’art [1835], in Della Bellezza educatrice. Pensieri (= Nuovi scritti, II), Venezia 1838, 372-73. 42 Ibid., 373-74. Più tardi la volupté sarà eliminata dal testo. 43 A monte c’è l’«infinita bellezza et poca fede» di Petrarca (Canzoniere, CCIII, 5), riecheggiato anche da Ariosto (Rime, LXXXV, 12); ma semanticamente l’esempio più vicino sembrerebbe Tasso con la serie «fede e bellezza e castitade» (Rime, MDCXXVI, 11).


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mescolanza e sovrapposizione che per un verso avrebbero irritato i laici alla Cattaneo e per l’altro lasciato perplessi i cattolici alla Capponi44. Certamente il fondamento autobiografico del romanzo si coglie principalmente nel protagonista maschile, nel «detestato Giovanni». A parte le coincidenze di vita, di carattere e di idee, basterebbe da sola a metterci sull’avviso una singolare smagliatura narrativa: quando nel libro quinto si racconta di un incontro, in Corsica, tra Giovanni e «un buon vecchio» il cui padre ha combattuto al Pontenuovo con Pasquale Paoli, all’improvviso il dialogo sfocia in un raccordo con un duplice pronome di prima persona («Si rasserenò di gioia affettuosa in vedermi informato delle cose del suo paese, e mi disse»)45. Altrettanto essenziale, comunque, è la presenza di Maria: senza di lei infatti Giovanni non potrebbe compiere il suo cammino di espiazione. Un po’ Virgilio, un po’ Beatrice, Maria d’altra parte ha bisogno anche lei di un sostegno: anche lei ha attraversato il suo inferno, anche lei deve ora purificarsi (ed ecco perché l’incontro è contrassegnato purgatorialmente). Certo però il suo ruolo appare in qualche modo subordinato, funzionale a quello del compagno: esaurito il proprio compito, Virgilio scompare, Beatrice torna a unirsi agli altri beati, Maria muore. Ma qui non c’è paradiso, se non nella fede dell’attesa; e l’ultima immagine non è un trionfo di luce, bensì un albeggiare «torbido» nel gelo dell’inverno. Non si può che accettare il dolore come mezzo di redenzione («senza piangere») e continuare a pregare46. Vien fatto di pensare alla morte di Monica, nel IX libro delle Confessiones: anche lì, per ben tre volte, si sottolineava l’assenza di lacrime47, ma per evidenziare poi il catartico pianto «de illa et pro illa, de 44 In data 30 agosto 1840 Tommaseo scriveva a Capponi: «Il poco che dite voi di Fede e Bellezza, m’è più caro di lodi e severo di critiche molte» (N. TOMMASEO – G. CAPPONI, Carteggio inedito dal 1833 al 1874, per cura di I. Del Lungo e P. Prunas, II, Bologna 1914, 164). 45 N. TOMMASEO, Fede e Bellezza, cit., 175 (i corsivi sono miei). La cosa più sorprendente è che tale svista sia passata indenne attraverso le puntigliose revisioni del ’40 e del ’52: tanto più sorprendente in quanto l’autore ha ritoccato il passo in questione, lasciando però invariati i due pronomi (nell’edizione definitiva: «Brillò di gioia confidente in vedermi informato delle cose del paese, e mi disse»). 46 Ibid., 218. 47 SANCTI AUGUSTINI, Confessionum libri XIII, cit., 149 (IX, XI, 27): «ego silebam et fletum frenabam»; 150 (IX, XII, 29): «Premebam oculos eius, et confluebat in praecordia mea


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me et pro me»48; qui invece volutamente il testo si chiude sull’aridità, sulla siccitas, a marcare la distanza dal tempo della pace e della riconciliazione. Chi è e com’è Maria? Sappiamo dell’inclinazione tommaseiana verso le vedove (nel ’51 finirà con lo sposarne una). Un che di vedovile, per l’appunto, connota anche il nuovo personaggio, punto di convergenza e di snodo di tutte le fantasticherie e riflessioni del primo Tommaseo in tema di femminilità. Bimba cresciuta all’ombra protettrice della «pia mestizia mansueta» materna49, poi fanciulla traviata dal cattivo esempio mondano ma sostanzialmente fedele all’educazione ricevuta dalla madre, quindi donna dai mille antonimi — severa e languida, verginale e seducente, fragile e guerriera, limpida e misteriosa —, Maria ha anche qualche tratto psicologico dello stesso Tommaseo (nei termini almeno in cui questi soleva vedersi e ritrarsi): Neri il vestito, il cappello, lo scialle; neri i lunghi capelli, e gli occhi intenti e modesti; pallido e mesto il viso, bianca la fronte verginalmente serena; la statura alta, le forme snelle, ma non senza rilievo; languida la mossa del capo sovente dimesso, l’andare agile ma composto, gli atti in sé raccolti e severi; esile la voce dedotta dal petto profondo; raro e visibile appena il sorriso; frequente ma mansueto il cipiglio. Varia d’umore, e ne’ giorni neri tremenda; ombrosa, delicata fino all’orgoglio; non sensuale, ma sensibile men delle fibre che della fantasia: impaziente de’ tedii, paziente de’ dolori; ignara del mentire sia con parole sia col silenzio; dell’ammirare lieta, bramosa e timida dell’amare50.

maestitudo ingens et transfluebat in lacrimas, ibidemque oculi mei uiolento animi imperio resorbebant fontem suum usque ad siccitatem»; 151 (IX, XII, 32): «Cum ecce corpus elatum est, imus, redimus sine lacrimis». L’unico a scoppiare in pianto al momento del trapasso è il giovinetto Adeodato, subito ripreso da tutti. 48 Ibid., 152 (IX, XII, 33). 49 N. TOMMASEO, Fede e Bellezza, cit., 69. Il termine “mestizia” e i correlati “mesto” e “mestamente” sono termini-chiave dell’atteggiamento psicologico caro a Tommaseo, che nelle Memorie poetiche ricorda la «serena mestizia» della sorella (cfr l’ed. a cura di M. Pecoraro, Bari 1964, 15) e in Un affetto il «mesto […] e mansueto sorriso» della madre (ed. critica a cura di M. Cataudella, Roma 1974, 22). Il collegamento con la “mansuetudine” («virtù» eminentemente «cristiana»: cfr Dizionario dei sinonimi, a cura di P. Ghiglieri, I, Firenze 1973, 282) sigla il romanticismo religioso dello scrittore dalmata. 50 Ibid., 117.


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Alla base di questa tipologia femminile complessa, contraddittoria, sta certamente l’influsso di George Sand. Dapprima sprezzante nei suoi confronti51, Tommaseo in Francia cambia radicalmente opinione. Indiana, Valentine, e soprattutto Lélia suscitano in lui un entusiasmo che può sembrarci sproporzionato (e che egli stesso presto ridimensionerà): addirittura la Sand viene da lui definita «il primo scrittore di Francia»52. Il fatto è che la lutulenta narrativa sandiana gli offre la possibilità di approfondire il punto di vista femminile, e così di ampliare il quadro di sollecitazioni offerto dalle confessioni al maschile. In queste ultime le ambivalenze e i chiaroscuri riguardano di solito soltanto il protagonista-uomo, mentre le donne, defilate in secondo piano, appaiono monocromatiche (basti pensare a Volupté, dove il protagonista Amaury è «monstrueusement contradictoire»53, racchiude in sé tutte le potenzialità; in ambito femminile invece ogni inclinazione dà vita a una figura diversa: la verginale Amélie, la casta e tormentata Mme de Couaën, la voluttuosa Mme R…). Con la Sand la duplicità, la compresenza di sfumature contrastanti, la commistione di male e bene investono una protagonista donna, ne fanno un’eroina in proprio: e questo, secondo Tommaseo, senza alcun pericolo per la morale: Eh quels désirs lubriques craignez-vous que vous inspire une nudité, non pas embellie et tempérée par des voiles voluptueux, mais saignante, mais portant l’empreinte profonde d’une douleur incurable? Il y a, au contraire, une haute moralité dans ces plaies mises à nu avec tant de naïveté et de courage; ce sont des précieux documents pour l’histoire immense de ce monde intérieur dont Dieu seul pourra mesurer les hauteurs et sonder les abîmes54.

51 Al primo approccio, nell’aprile del ’33, Lélia gli appare «robaccia» (cfr Diario intimo, cit., 116). 52 N. TOMMASEO – G. CAPPONI, Carteggio inedito dal 1833 al 1874, cit., I, Bologna 1911, 206. E cfr Memorie poetiche, cit., 284, dove, dopo aver lanciato una frecciata contro la poesia senza affetto «della quale son pieni i Francesi ed il Byron», Tommaseo soggiunge: «E mi perdoni il Byron poeta, s’io lo metto a mazzo coi verseggiatori parigini; da’ quali non è necessario eccettuare la Sand, l’unico poeta vero ch’abbia sinora avuto la Francia». 53 SAINTE-BEUVE, Volupté, cit., 15. 54 N. TOMMASEO, La littérature facile. George Sand. L’Italie [1834], in Della Bellezza educatrice, cit., 377.


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La duplicità, anzi addirittura la molteplicità, connota Maria fin dal nome. Maria è anzitutto una fille de joie, come la Marie del mussettiano Rolla: una — dirà lo stesso Tommaseo — «di quelle che non vendono sé, ma sono vendute, inconsapevoli»55. Come peccatrice pentita, è Maria di Magdala, colei che si prosterna umilmente ai piedi di Cristo e glieli asciuga coi propri capelli. E infatti Maria è «docile» e «amante», pronta alle incombenze più umili: Le cure, a lui nuove, della casa gli erano alleggerite e dall’esperienza di Maria, e dal contento d’avere a compagna donna sì intelligente, sì docile, e, nell’impazienza stessa, sì sofferente di lui. E siccome il nuovo stato non lo distoglieva dagli studi, (ch’anzi le comodità che prepara la cura quieta e continua di donna amante con senno, gli risparmiavano e tempo e noie); così né gli studii lo facevano men riconoscente alla pietà di Maria56.

Come casta sposa, è Maria Vergine, e svolge un ruolo materno nei confronti di Giovanni: Egli cadeva abbattuto sopra una seggiola; e Maria l’abbracciava sollecita, come fa madre a figliuolo pericolante. Giovanni non osava rispondere: ella, quasi madre sollecita di far cuore a bambino che si périta, lo prese per mano e s’alzò57.

Sovradeterminato è, ovviamente, anche il nome del protagonista. Esso evoca anzitutto il famoso Don Juan, di cui il personaggio tommaseiano ripete la sensualità, ma in chiave di pentimento, di lotta contro la tentazione: 55 ID., Osservazione dell’Autore, cit., 243. La Marie di Musset si prostituisce per istigazione della madre (a sua volta spinta dalla povertà, che le suggerisce: «Ta fille est belle et vierge, et tout cela se vend!»: A. DE MUSSET, Rolla, in Poésies complétes, Paris 1957, 282); nel caso della Maria di Tommaseo la responsabilità va a una pseudocugina, Madama Blandin, lasciando intatta l’immagine materna. 56 N. TOMMASEO, Fede e Bellezza, cit., 171 e 172. 57 Ibid., 184 e 204.


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non ne ha certo la protervia blasfema, anzi probabilmente tra le intenzioni dell’autore c’è proprio quella di contrapporsi al sulfureo mito libertino/romantico. Sul piano della simbologia sacra è il «banditore degno del nuovo amore»58 «l’Apostolo della carità»59 cui Cristo dalla croce affida la Vergine (qui è Giovanni che, al momento di compiere il suo «sacrifizio», si rivolge alla Vergine dicendo: «a voi […] la raccomando»)60. Ed è altresì il Battista, colui che annuncia il vero all’umanità renitente, e per questo è disposto anche a morire: Giovanni scrisse intanto le cose che seguono: «Quel ch’altri fa per rancore, mi si perdoni s’io fo per amore; quel ch’altri per servire al pregiudizio, s’io per vincerlo. Potessi spegnerlo col mio sangue! […] O Italiani, mostrate in degni atti il coraggio; sappiate vivere a tempo, a tempo morire. Con questa intenzione io vo’ spontaneo al duello come a pensato sacrifizio. […]»61.

Il Battista è figura centrale nella ricerca esemplare tommaseiana: una scintilla del ’40 ne celebra, con l’austerità, la magnanimità e la forza vittoriosa («Viss’egli con miele selvatico, visse abbastanza da mettere vergogna e spavento nell’immondo re, da vedere l’agnello di Dio, da annunziarlo al mondo, e il proprio nome mandare con quello di Gesù Cristo giù per gl’imperi e pe’ secoli»)62; negli Esempi di generosità sarà a lui dedicato il lungo capitolo La povertà dignitosa, dove tra l’altro si metterà in risalto il carattere nobilmente ispirato della sua parola («non di vile adulazione, ma alta e severa», non ricercata o accattata ma che «gli viene e lo ispira; e esso ispira altri di lei»)63. È la faccia eroica, luminosa, di un 58 Ibid., 162. Nell’edizione del ’52 (cfr ibid., 220) Giovanni parla della «buona novella dell’universale amore» del quale egli vorrebbe «essere e banditore e martire». 59 ID., Antonio Rosmini [1855], in Carteggio Tommaseo – Pp. Rosminiani. Commemorazioni, a cura di V. Missori, Milano 1969, 180. 60 ID., Fede e Bellezza, cit., 197. Sui riferimenti a Giovanni apostolo e a Maria Vergine insiste A. BERTINO, Il “sacerdozio del vero” e la dissoluzione del romanzo in «Fede e Bellezza» di Niccolò Tommaseo, «Le forme e la storia», V-VIII, 1984-87, 161-82. 61 N. TOMMASEO, Fede e Bellezza, cit., 194-95. 62 ID., Scritti editi e inediti sulla Dalmazia e sui popoli slavi, a cura di R. Ciampini, I, Firenze 1943, 41. 63 ID., Racconti biblici e meditazioni sui Vangeli, a cura di G. Gambarin, Firenze 1970, 205.


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ruolo che la modernità facilmente degrada, avvilisce: il ruolo profetico, il ruolo dell’intellettuale. Tommaseo, che vive tutte le difficoltà del “mestiere”, si ostina tuttavia a considerarlo una missione64. La vita del suo Giovanni è «sacra al vero», egli ignora «i modi di far bottega dell’ingegno» (anche se, proprio come Tommaseo confessa di sé nelle opere autobiografiche, «in sua gioventù vi si trovò di quando in quando condotto») 65. Se tradizionalmente il Battista, in quanto precursore e nunzio di Gesù, è “figura” di Lui anche il Giovanni tommaseiano in qualche modo si pone come immagine cristica. In questa direzione c’è una pagina particolarmente significativa del suo diario, datata «1835, 8 ottobre»: Compiti i trentadue anni della mia languida vita. L’ingegno si schiara in lume più nobile, più sicuro; ma forse più ardente a’ miei danni. Sento di salire; ma veggo insieme spazio immenso ch’è tra’ miei passi e la meta. L’ingegno sale; ma l’anima? Aleggia a momenti, poi s’accascia, e grufola più bestialmente che mai. Quante volte sorto, e quante caduto! Che vergogna dell’essere sì fiacco e sì spensierato! Che gioia dell’essere sì caro a Dio! Sono io degno d’annunziare agli uomini il vero? O anni avvenire, rispondete al desiderio della umiliata, e pur balda, anima mia66.

Nel marzo del ’36, quando conoscerà Maria e, sposandola, “sorgerà” definitivamente a una nuova vita senza più “cadute”, egli dunque avrà trentatré anni: appunto come il Cristo morto e risorto. La palingénesie cristologica tommaseiana ha qui valore fondante; ed è in evidente collegamento con la persona dell’autore, tant’è che Giovanni ha gli stessi dati anagrafici di quest’ultimo (o meglio, i dati che Tommaseo riteneva più

64 Scriveva Tommaseo a proposito della proprietà letteraria: «essa proprietà in tanto è diritto, in quanto che, nello scrivere, la legge deve supporre ch’io adempia un dovere, il dover di dire, com’io so meglio, l’utile verità, o d’ingentilire con le immagini del bello decente gli animi de’ miei fratelli» (ID., Dell’Italia. Libri cinque, introd. e note di G. Balsamo-Crivelli, I, Torino 1926, 210). 65 ID., Fede e Bellezza, cit., 144. E cfr anche 114: «Me se non lieta la vita mia, passi almeno non vile. Il vero al quale ella è sacra, esca franco e vestito di nette parole». 66 Ibid., 113.


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attendibili al momento in cui scriveva il romanzo)67. Compare qui, inoltre, la già rimarcata concezione del ruolo intellettuale come annuncio del «vero»: e se Giovanni si interroga sulla sua idoneità a tale ruolo, il dubbio è più retorico che effettivo68, in quanto, proprio perché Giovanni (dantescamente Domini gratia), egli è un eletto, uno che è «caro a Dio». Entrando in relazione tra loro, queste diverse implicazioni dei protagonisti sviluppano una gamma di possibilità differenti: ora infatti è Maria la figura forte, colei che prende in mano la situazione, ora invece è Giovanni a sorreggerla e a decidere. E soprattutto ora è Giovanni a correre al «sacrifizio» per il bene dell’umanità, ora — da ultimo — è invece Maria a morire dopo una lunga agonia dalle spiccate connotazioni cristiche («Il suo sudore come goccie di sangue grondante in terra»)69. Il piano cristologico si esplicita anche attraverso le specificazioni temporali: Maria e Giovanni si sposano il ventisei dicembre, cioè il giorno successivo al Natale; Maria muore all’alba del ventiquattro dicembre, cioè all’inizio del giorno al termine del quale si festeggia la nascita di Gesù. Fuori da questo matrimonio di espiazione restano dunque i due giorni a cavallo dei quali si situa il grande evento della venuta in terra del Redentore: con ciò volendo l’autore sottolineare che «nous sommes à peine au commencement de la palingénésie», che la buona novella non si è ancora rinnovata e che la povera imitatio Christi degli uomini può solo servire a prepararla. Il vuoto dell’attesa è 67 Nel Diario intimo (ed. cit., 317 e 319), in data 8 ottobre 1839 Tommaseo registra il proprio compleanno, e il 18 delle stesso mese si dice convinto di avere non trentasette anni ma trentasei. In realtà, com’è noto, era nato il 9 ottobre 1802 (il documento parrocchiale che lo attesta si può leggere in R. CIAMPINI, Vita di Niccolò Tommaseo, Firenze 1945, 25: dove però curiosamente le due annotazioni sopra menzionate del Diario vengono ridotte a una sola). Visto l’amore profondo che Tommaseo nutriva nei confronti di Dante e Petrarca, non escluderei che a far slittare il trentatreesimo compleanno di Giovanni (e proprio) al 1836 abbia contribuito il gusto del simbolismo numerico: questa cifra infatti si può scomporre in due coppie di numeri la cui somma è nove, e ancora nove è la cifra che si ricava dalla somma finale, diciotto, cioè 1 + 8. 68 E infatti verrà cassato già nella seconda edizione del ’40. 69 N. TOMMASEO, Fede e Bellezza, cit., 218. Ricordiamo che il romanzo nasce a ridosso di un lutto personale: la morte della madre, di cui Tommaseo ebbe notizia l’8 settembre 1838 (cfr Un affetto, cit., 23: «e il giorno della Natività di Tua madre, o Gesù, leggo che a Te chiamasti la mia!»). La presenza amorosa di Giovanni al capezzale di Maria agonizzante parrebbe dunque proiezione compensativa di una lontananza dolorosa, forse di un rimorso.


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marcato dall’accentuazione dei riferimenti alla Vergine e a san Giovanni apostolo (al punto, per quest’ultimo, da forzare il calendario anticipandone di un giorno la commemorazione festiva) proprio in corrispondenza delle due date cruciali, la data del matrimonio e quella della morte di Maria: in entrambi i casi, l’Atteso non viene invocato direttamente, ma evocato indirettamente, come ancora irraggiungibile, sebbene imminente. È come una pala d’altare in cui, tra le immagini interamente dipinte della Vergine e di san Giovanni, sia appena delineata quella della «gran Vittima», di Colui che — come narra appunto il vangelo giovanneo (17, 1) — nell’ultima cena con i suoi apostoli «sublevatis oculis in caelum dixit: Pater, venit hora»: Fu posto al matrimonio il dì vensei di dicembre, la festa di san Giovanni […]. Il dì vensei al medesimo altare Giovanni e Maria ricevettero e il corpo del lor Redentore e il titolo di consorte, senz’esultazione di gioia, tementi del mondo e di sé, speranti in Dio, rassegnati a nuovi dolori. La sera, inginocchiati alla sponda del letto, pregarono alla madre della gran Vittima, all’apostolo amico di Gesù, banditore degno del nuovo amore. Non morrò ma vivrò, per narrare le maraviglie del Signore. Interceda per me la madre di Lui che nella notte di domani nacque povero di povera; interceda Giovanni al qual furono rivelati i secreti del cielo. Levati gli occhi, disse: «Padre mio, è giunta l’ora»70.

Questo ordito sacro fornisce alla vicenda una profondità inconsueta: Tommaseo, che aveva polemizzato contro la voga doloristica della letteratura francese contemporanea («Oh se chiunque, a trastullarsi, s’annoia, diventasse il Cristo? Vi pesa la croce? Buttatela via! Quanti Cristi, Dio buono, e di quanti calibri! E come arcadicamente innamorati! E come avvocatescamente facondi!») 71, ha inteso fornire col suo 70 Ibid., 162 e 217-18 (e si noti che in riferimento al matrimonio Giovanni è indicato come il «banditore degno del nuovo amore», in riferimento alla morte di Maria come l’autore dell’Apocalisse). 71 Si tratta della famosa replica a un articolo di Sainte-Beuve, apparsa su «L’Italiano» del 31 luglio 1836, e poi ristampata, con traduzione italiana (Des juges compétents en fait d’art. Dei diritti della critica straniera), in Della bellezza educatrice, cit., 380-89 (da cui cito). Ecco il corrispondente passo in francese: «Je le répète: si vos amusements vous


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romanzo un’interpretazione seriamente religiosa degli umani sbandamenti — dei propri sbandamenti — in «un moment terrible, de désordre, d’incertitude et d’angoisse». Che poi tale risultato etico-letterario, oltre a prestare il fianco (come abbiamo visto) a molteplici obiezioni e illazioni, sia stato anche di corto respiro, è un altro discorso: un discorso che probabilmente ha a che fare con la rigidezza del cattolicesimo tommaseiano, refrattario alla problematicità e al dialogo, e ancorato piuttosto al rito, al dogma. Non potendo armonizzare questo versante della propria personalità con le sollecitazioni della cultura romantica, lo scrittore finirà col distanziarsi da esse, accentuando sempre più, per forza di volontà, la propria immagine di austero uomo di Dio, il proprio sospettoso e rancoroso integralismo: a discapito, alla fine, di un possibile rapporto dialettico con la realtà del proprio tempo.

ennuient, ce n’est pas une raison de vous comparer au Christ; jetez votre Croix et sauvezvous. On n’a jamais vu jusqu’ici une si forte quantité de christs; des christs de tout sexe et de toute dimension, des christs amoureux comme des bergers, éloquents (Dieu me pardonne) comme des avocats».


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UN CUORE PENSANTE… BALSAMO PER MOLTE FERITE

ARIANNA ROTONDO*

Nessuno aveva voluto inizialmente pubblicare gli otto quaderni costituenti il diario di Etty Hillesum1. I suoi amici, un trentennio dopo la sua morte ad Auschwitz, nel novembre del 1943, lo proposero a vari editori, che, per quanto impossibile a credersi, rimasero indifferenti all’uragano che, negli occhi e nel cuore di un lettore con un minimo di sensibilità, scatena la scrittura e la testimonianza di Etty Hillesum. J.G. Gaarlandt, autore dell’introduzione olandese e inglese del diario, racconta del suo innamoramento dinanzi alle emozionanti pagine di questa ebrea, dalla scrittura fitta e dura da decifrare. Si diffonde così in Europa, tradotta in molte lingue, l’esperienza di Etty, giovane olandese, che , sulla soglia dei trent’anni, si apre un sentiero nella buia foresta del suo tempo, raccontando una storia interiore, testimonianza di un’altra storia più grande, quella di un’umanità in guerra, pronta a distruggersi, incapace di riconoscersi nelle sue aberrazioni più inspiegabili. Non è la cronaca dell’olocausto, non è una minuziosa descrizione di deportazioni e violenze subite. Insomma non è una vittima che ci racconta dei suoi carnefici e di un popolo, quello tedesco, che ha preteso di stabilire nuove regole per stare al mondo, arrogandosi il potere di concedere o meno il diritto alla vita. Etty ci racconta di se stessa, certo in un preciso momento storico, ma di se stessa, della sua carne e della sua anima, così come si sono confrontate e riconciliate dinanzi alle prove della vita. La sua esistenza è spiegata passaggio dopo passaggio, crisi dopo crisi, senza riserve, con una sincerità disarmante, dominata da una straordinaria

* Dottoranda di Ricerca in Storia del Cristianesimo e delle Chiese presso l'Università degli Studi di Padova. 1 E. HILLESUM, Diario 1941-1943, Milano 1985.


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capacità di autoanalisi e dalla curiosità urgente di capire l’uomo come creatura alla ricerca di Dio, suo creatore. Le pagine di questo diario trasudano lacrime, sorrisi, sangue, smarrimento, silenzi, follia, misticismo, coraggio, paure, visioni, dubbi e quant’altro fa parte della vicenda personale di una donna, decisa a divorare la sua unica chance di essere nel mondo, in mezzo ad altri uomini. È un’assetata di vita, Etty, una cocciuta divoratrice di esperienze, un’affamata di emozioni, un’archeologa dell’anima, alla ricerca di un fondo in un pozzo senza fondo, alla scoperta di un mistero che risulta alla fine così facile da decifrare. Walt Withman sarebbe stato orgoglioso di lei, considerandola la più autentica interprete del suo carpe diem, urlato in versi concitati, martellanti come i rintocchi di un orologio implacabile, il tempo. Bisogna “succhiare il midollo della vita” per scoprirne l’essenza, per dire di non essere vissuti invano o non abbastanza. Per dirlo o urlarlo a chi? A se stessi direbbe il poeta, alla propria anima e a Dio, direbbe Etty. Il diario della Hillesum è un lungo colloquio con se stessa e con Dio, che è come dire la medesima cosa, perchè il divino di questa tormentata donna coincide con la parte più profonda di sè. Questo viaggio dell’anima comincia il 9 marzo, domenica. Etty descrive il suo stato d’animo, parla della sua spigliatezza nelle relazioni con gli uomini. Sa di essere una buona amante, conosce questo lato di sè caratterizzato da un’estroversa spontaneità, da un istinto che nella sua facile manifestazione rivela però un blocco, un irrisolto dissidio interiore. Si analizza anche dal punto di vista intellettuale, considerando la sua capacità di sapere esprimere in modo chiaro ogni pensiero. Ma pagina dopo pagina si legge esattamente il contrario: tutte queste certezze si rivelano uno specchio per le allodole, anzi un ostacolo insidioso verso un’autentica consapevolezza e accettazione di sè. Etty lotterà nel corso di questi anni relazionati nel suo diario contro il bisogno di possedere un uomo, di vedere in un “lui” la piena realizzazione di se stessa. Divorare e non amare, questa è l’unica attitudine che con fatica ella si riconosce. L’attrazione fisica è un segnale di questo bisogno vorace che le fa accumulare un gran numero di esperienze aride e inutili, insieme ad un senso progressivo di vuoto e di ansia. Il punto finale di questa parabola coinciderà con il superamento dell’amore individuale ed egoistico a favore di un amore universale, più appagante, verso ogni uomo. Anche la presunta coincidenza tra pensiero e parola si rivelano una falsa certezza. Oltre all’amore per la lettura, ma soprattutto per


Un cuore pensante… balsamo per molte ferite

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la scrittura, Etty riscontra in se stessa una difficoltà a comunicare ciò che accade dentro la sua anima. Non si sente capace di scrivere bene della sua vita interiore, che più conta, rimandando ad un futuro momento di maturità personale e letteraria la certezza di raccontare bene e con le giuste parole le sue conquiste, la sua comprensione dell’animo umano. È un’anima in movimento, che ci sa far leggere, anche se credeva di non averne il giusto talento, ciò che accade dentro la sua difficile persona: le sue parole sono giorni di vita, istanti di smarrimento, minuti di sconforto, attimi di folgorazione, dolori fisici e sofferenze di uno spirito che ha saputo aleggiare al di là degli astratti (perchè artificiali) confini della storia umana. La fisicità di Etty è una componente essenziale per capire la sua storia: è lei stessa che ce ne spiega le dinamiche, i limiti e le conseguenze. Racconta dei suoi numerosi amanti, racconta della sua ingombrante sensualità. Provare un desiderio fisico per le cose che la attraggono coincide con il possederle. Tuttavia questo impulso che si conclude nell’avere un’intimità con l’altro non genera un totale appagamento, anzi rimpingua il bisogno, accentua la carenza, e bisogna cercare e andare oltre. Un uomo tuttavia si oppone a questa sua sensualità prorompente, insegnandole che il corpo e l’anima sono una sola cosa. È Julius Spier, psicochirologo, ammaliatore di donne, dalla personalità magica. Un uomo che nelle linee di una mano sapeva sondare, come leggendo una carta geografica, i territori dell’animo umano. Nessuno sfuggiva alla sua analisi; ognuno dei suoi pazienti era stato costretto a venire a confronto con una parte di sé aggrovigliata da nodi all’apparenza insolubili. Corpo e anima sono una cosa sola: Etty fantastica su di lui, ma non è il suo corpo che l’attrae. Tant’è vero che i loro contatti, mascherati dal pretesto della lotta terapeutica per dimostrare la forza fisica e l’aggressività della paziente, mettono Etty di fronte alla delusione delle sue fantasie. Spier è un uomo solido nel fisico, imponente e maestoso, ma vecchio e imbruttito. Il solito urgente bisogno di possedere un che di tangibile viene deluso e rivela la sua insufficienza. Dirà in più luoghi del suo diario che mai avrebbe sposato quell’uomo, amico insostituibile e maestro di vita: la sorgente di tutto non stava in lui e in nessun altro, ma nella vita stessa. Non si può poggiare sugli altri per andare avanti: questa sarà una conquista che riguarderà non solo la sfera degli affetti privati, ma anche i rapporti sociali in generale. La repressione nazista aveva scatenato odio,


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Arianna Rotondo

disperazione, frustrazione negli ebrei perseguitati, ragionevolmente da un punto di vista istintivo, ma inutilmente in vista di una migliore sopravvivenza prima della fine. Era un’umanità che rinnegando se stessa dimostrava la volontà di autodistruggersi, erano uomini contro altri uomini. C’era da biasimare solo la follia umana, senza deprecare un’assenza divina. Dio non c’entra con il massacro nazista, scrive Etty, è l’altro volto dell’umanità, che la storia ha messo in luce, a meritare ogni condanna. Tuttavia nemmeno questo è utile e giusto: la Hillesum sostiene un’opera di sradicamento dell’odio dal cuore di ogni uomo. L’odio è una radice dannosa per l’anima: la stritola, la rende sterile, la disumanizza. L’odio partorisce altro odio, negando il valore della vita e la bellezza del cosmo. Un uomo può privare un altro uomo dei suoi beni materiali, di un confortevole stile di vita, ma non del cielo che sta sopra la sua testa, della natura che lo circonda, della sua anima in cui abita Dio. Etty non ha paura, non per incoscienza, ma perchè cominciano a spiegarsi in lei le ali della libertà. Sentirsi pieni, avere un diretto contatto con se stessi, non farsi vincere da passioni negative, la rende capace di sopportare la grande sofferenza inflittale da altri uomini e di opporre alla violenza il coraggio della libertà e la voglia di essere vivi. Anche se sopraffatti non ci si può sentire soli se si condivide il destino di milioni di altri uomini. La paura annulla la vita stessa, rende la morte l’unica via d’uscita. Ma la morte è una tappa del cammino di ogni uomo, non azzera niente di ciò che si è conquistato e capito, pur violenta e improvvisa che sia. Il campo di concentramento non cambia la visione della vita che Etty aveva maturato nei due anni di cui ci dà testimonianza. Anzi la rafforza. Ogni ebreo è spogliato della propria dignità, diventa un numero e subisce ogni sorta di sopraffazioni: ma questo sebbene somigli all’inferno non lo è, almeno quanto l’abisso in cui può sprofondare l’anima smarrita di un uomo che non sa accettare la propria esistenza. Non si può cambiare il mondo se non si cambia prima se stessi: questa è la grande trasformazione. La voracità del possesso, il bisogno di colmare un vuoto devono diventare allora una spinta verso l’altro, verso l’umanità tutta, oggetto d’amore e comprensione, osservata, analizzata e perdonata grazie ad una totale riconciliazione con se stessi. Non si può perdonare agli altri se non si sanno accettare le proprie debolezze e gli errori. Dietro ogni rivoluzione capace di cambiare il volto del mondo se ne cela una interiore e personale, più dura d’ogni battaglia, più importante di ogni altra impresa.


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Il corpo è tutt’uno con l’anima: l’insegnamento di Spier si rivela un terribile banco di prova di fronte alla sofferenza fisica; i dolori di un corpo debole e malconcio possono adombrare la serenità dell’anima. Così è per Etty costretta a letto, stanca per le lunghe camminate, per la carenza di cibo, per l’anemia e le vesciche. Tutto questo non piega la forza di un cuore che sa volare oltre le pareti di una stanza, ricordando volti, infondendo speranza con le parole, vincendo l’orrore con la tenerezza di un gesto. La storia saprà rendere conto di tanta atrocità, ma è ancora più importante che abbia saputo comunicare anche quella straordinaria energia che l’amore per la vita di una donna ha emanato, quel disumano coraggio di ammettere la propria fragilità e di trovare in essa i puntelli per innalzare un animo forte e generoso. Gli aguzzini piegano i corpi, ma l’anima di ogni uomo si inginocchia solo per pregare il suo Dio, in silenzio, nel deserto arido dello smarrimento, alla ricerca di una traccia per ritrovare la strada e non fermare invano il cammino. Nemmeno la persecuzione nazista e lo sterminio di massa costituiscono un buon motivo per interrompere la ricerca che vale una vita stessa. Etty è per questo, da sola e per tutti, un balsamo per curare le ferite di un’umanità che non riconosce più il suo vero volto. Amare ogni uomo deve essere pari ad amare Dio: allora Spier non è più un uomo, un viso, delle labbra da ricordare, ma solo un sentimento grande che spinge avanti la vita, sconfinato e senza nome come il cielo. Siamo noi a dover aiutare Dio ad esserci, anche se le uniche risorse che mai possono esaurirsi sono due mani giunte e un ginocchio piegato. La preghiera è il canto che deve intonare l’umanità sofferente: bisogna essere preghiera, per esserci al cento per cento. Così Etty diventa il cuore pensante delle baracche di Westerbork, il sorriso che vince le miserie umane, lo sguardo che va oltre ogni filo spinato e la brughiera, per respirare un’aria profumata di speranza e di amore. Amare l’altro libera, scioglie ogni nodo, spezza ogni catena. Come in un atto di tenerezza gli amanti si accarezzano e si toccano le ciglia così le dita di Etty Hillesum hanno toccato i contorni del suo tempo, come lei sperava, per aver saputo prima sfiorare le pieghe della sua anima. Il Gesù dei cristiani aveva parlato di un regno che si sarebbe compiuto: un regno che non appartiene ad una realtà ultraterrena ma ad una altrettanto sconosciuta e spesso ignorata, l’anima di ogni uomo. È lì che quel regno si compie e si è sempre compiuto, come questo diario ci dimostra. La donna che sale sul treno verso la morte racconta di cantare, accettando il suo


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destino, perchè ha vinto il suo inferno e ha portato conforto in quello degli altri. In lei terra e cielo si sono toccati, da sola, col suo Dio a fianco, ha vinto la battaglia più importante della sua vita, contro se stessa, diventando tutti, un corpo come pane spezzato. La sua eucaristia ancora oggi offre al lettore un invito a partecipare, insegnandone i grandi gesti, ad un rito, quello della vita, sempre bella e affascinante, indipendentemente dalle mostruosità di cui l’uomo è impastato: «Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità» (Westerbork, 2 settembre 1943).


Sezione miscellanea Synaxis XXIII/1 (2005) 165-220

DIO, LA CHIESA, LA PREGHIERA NELLA CANZONE D’AUTORE DAGLI ANNI ’70 AD OGGI. APPROCCIO TEOLOGICO ALLA CULTURA CONTEMPORANEA*

GIUSEPPE NICOLOSI**

1. PREMESSA Alla fine degli anni Sessanta, in coincidenza e in parte in conseguenza dei fermenti del ’68, la canzone d’autore italiana porta se stessa sul tema di Dio, la Chiesa, la Preghiera, ovvero sul rapporto tra l’uomo e il Soprannaturale. Non è un caso: un gran desiderio di emancipazione, urgenti domande di “senso” corrono per il mondo, affamano gli animi. Canzoni quali Dio è morto (Guccini, 1966) o Preghiera in gennaio (De André, 1967) diventano in Italia l’emblema di questo periodo di significativi cambiamenti: la prima, riprendendo la famosa affermazione di Nietzsche, annuncia “la morte Dio”1 come conseguenza della crisi dei valori umani; la seconda, dedicata dall’Autore all’amico Luigi Tenco, dice d’uno “scandaloso” Dio che nella sua misericordia apre l’abbraccio ai suicidi. In * Estratto della tesi di Baccalaureato in Teologia, discussa il 16 gennaio 2004 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, relatore prof. Giuseppe Schillaci. ** Baccelliere in Teologia. 1 F. NIETZSCHE, La gaia scienza, a cura di F. Desideri – F. Ricci, trad. it., Roma 1996. «Che ne è di Dio? Io ve lo dirò. L’abbiamo ucciso noi – voi e io!», 134; «Dio è morto, ma visto come è fatto il genere umano, dureranno forse ancora per millenni le caverne in cui si indica la sua ombra. E noi, noi dobbiamo sconfiggere anche la sua ombra», 125.


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Giuseppe Nicolosi

entrambi i casi si verifica una singolare reazione: la Radio Vaticana li trasmette2.

RAI

censura i brani,

Questo lavoro tende a documentare come, nell’ambito della canzone d’autore italiana3, si sia affrontato il rapporto uomo-Dio-Chiesa: paradossalmente, questo particolare rapporto è un rapporto non-religioso, se è vero che ogni realtà religiosa inizia con ciò che la religione biblica chiama il timor di Dio. Il timor di Dio è negli Autori qui “invitati” quasi assente. Infatti se JHWH, il nome del Dio ebraico-cristiano, significa “Colui che è”, il Dio intuito, narrato dai cantautori è spesso “Colui che non è”. È un Dio che “non” appartiene ai consueti stereotipi, lontano dalla figura del Punitore, del Giudice. È un Dio di pietas, pronto non solo ad accogliere i deboli e gli sconfitti, ma addirittura a chiedere perdono per tutte le sofferenze loro inflitte dalla vita. È un Dio che prende le distanze da tutti i visionari, gli esaltati profeti, i capipopolo sempre pronti a farneticare in nome suo… Il Dio di pietas dei cantautori è un’irrinunciabile necessità per un uomo consapevole delle proprie debolezze, dei propri limiti, eppur sempre teso al compimento della esistenza. Il Dio di cui i cantautori parlano potrebbe non esistere se non nel bisogno, connaturato all’uomo, della sua esistenza: il bisogno di Dio è l’antidoto al cinismo e alla dissoluzione. Accanto a questa comprensione “laica”, trova posto, nella canzone d’autore, una sensibilità più vicina alla “cultura” cristiana: non per questo, però, le composizioni che la mediano hanno un aspetto necessariamente religioso. Va ricordato, infine, come alla riflessione esplicitata dal cantautore nella sua opera è necessario aggiungere il mistero del non-detto, dell’accennato, tipico dell’arte, e soprattutto di quella in cui più linguaggi (nel ns. caso, letterario e musicale) si compenetrano. Per cui ogni opera possiede svariati livelli di lettura e comprensione: e così, chi fruisce della canzone d’autore è sempre libero di intravederne significati propri e impropri e di

2 3

Cfr Guccini, a cura di M. Bernardini, Padova 1987, 83. D’ora in poi: canzone d’autore.


Dio, la Chiesa, la preghiera nella canzone d’autore dagli anni ’70 ad oggi

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mettere sul piatto della bilancia ogni possibile emozione che gli venga suggerita dall’ascolto della stessa.

2. LE RAGIONI DELLO SCRITTO 2.1. La canzone d’autore come locus theologicus? Scelgo, dunque, di portare la mia riflessione sul tema, della presenza di un certo sentire religioso o irreligioso nella canzone d’autore, intesa quale espressione viva della cultura4 contemporanea e, volendo, dell’esperienza di fede oggi: credo che un’arte così largamente fruita (la canzone) sappia onestamente mediare le attese, le ansie, le domande, le risposte e le nonrisposte dell’uomo d’oggi, «l’uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l’uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà […]»5. In verità, accanto alla riflessione, per così dire, ufficiale su Dio e la Chiesa (quelle teologica, per intenderci), ve ne sono delle altre, quelle “quotidiane”, quelle dei “non addetti ai lavori”, spesso non ortodosse rispetto alla fede della Chiesa, e perciò marginali rispetto al sapere teologico, ma capaci di comunicare/rimandare ad una genuina esperienza personale e di risvegliare nell’altro (l’ascoltatore) il proprio senso critico ponendolo di fronte ad interrogativi, o affermazioni, o negazioni struggenti. Il compito prefissomi è quello di visitare queste “riflessioni quotidiane” per decifrare, a partire da esse, la sensibilità religiosa dei tempi moderni (cfr Gaudet Mater Ecclesia): ravvisarne quale pietà, o non fede li segni, questo è lo scopo! Del resto, insegna ancora il Vaticano II, per svolgere il compito dell’Evangelizzazione (diaconia costitutiva per la Chiesa) «è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso 4 GS 53: «[…] Con il termine generico di “cultura” si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina e sviluppa le molteplici capacità della sua anima e del suo corpo […]; esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali […]». 5 GS 3.


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Giuseppe Nicolosi della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico […]»6.

È possibile pensare alla canzone d’autore quale locus theologicus? Vedremo!

2.2. La teologia si “sposta” Questo lavoro trae ispirazione da alcune, oggi non più insolite, esperienze maturate in campo teologico7: quelle che, già alla metà degli anni Settanta, venivano percepite come “spostamenti” della teologia. Scrive Jean-Pierre Jossua8: «Parlare di “spostamento” della teologia significa richiamare […] qualcosa di ben più sostanziale e diverso da un qualsiasi approfondimento, dalla scoperta di nuove implicazioni di una ricerca, e perfino dal cambiamento dei centri d’interesse, i quali non costituiscono alla fin fine se non dei momenti attraverso cui ogni vita intellettuale finisce prima o poi per passare [..]. Il cambiamento di terreno cui alludiamo riguarda in realtà la natura stessa dell’attività teologica e coinvolge perciò ad un tempo problematiche di

6

4. Ne segnalo alcune: La figura di Cristo nella Filosofia contemporanea, a cura di S. Zucal, Cinisello Balsamo 1993. Volti di Cristo nella letteratura moderna, 3 voll., a cura di F. Castelli, Cinisello Balsamo 19913. Teologia e letteratura, trad. it., in Concilium 12 (1976) 13-164; tra questi in particolare: J.P. JOSSUA – J.B. METZ, Editoriale, 13-17; H. ROUSSEAU, La letteratura: qual è il suo potere teologico?, 23-35; J.C. RENARD, Poesia, fede e teologia, 36-61. E ancora: J.P. JOSSUA, Le sfide della teologia letteraria, trad. it., in Synaxis 17 (1999) 137-148. Infine, si vedano gli atti di Il Cristo siciliano nella letteratura contemporanea, Convegno di Studi organizzato dallo Studio Teologico “S. Paolo” in collaborazione con l’Istituto di Letteratura Italiana dell’Università di Catania e l’Istituto per la Documentazione e la Ricerca “S. Paolo” (Catania, 22-23 aprile 1999). 8 Jean Pierre Jossua o.p.: teologo di fama internazionale, già rettore dell’Ateneo Domenicano di Le Saulchoir di Parigi e membro del Comitato internazionale di direzione della rivista Concilium. 7

GS


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metodi di lavoro, sistemi dei punti di riferimento, condizioni di vita e d’esperienza umana globale di teologi […]»9.

In verità la teologia si sposta quando i teologi si spostano: cioè spostano, o se si vuole, allargano la prospettiva della propria riflessione, passando da una teologia indefettibilmente organizzata e sistematizzata (quella dei trattati e della manualistica) «ad una maggiore attenzione per l’esperienza, l’inventario e la critica della fede “vissuta”, per l’esistenza cristiana comune»10. «Cosa capita in vero quando la teologia nasce da un confronto, intimizzato nel teologo stesso, fra la fede e la tradizione cristiana da una parte e la psicanalisi (o magari solo la psicologia), la sociologia, la linguistica (e l’attuale riflessione sul linguaggio e sulla scrittura), l’etnologia, la scienza della religione dall’altra? Quando cioè il teologo è figlio a un tempo dell’una e delle altre? O quando la teologia nasce nel vivo della pratica politica, della creazione artistica? […]»11.

Credo possa capitare, tra l’altro, che un apprendista teologo e più sperimentato “ascoltatore” pensi di scrivere quanto qui scrivo: credo possa capitare che venga intravisto un nuovo ambito di indagine teologico-esperienziale.

3. APPROCCIO TEOLOGICO ALLA CANZONE D’AUTORE 3.1. Dio e la Chiesa nella canzone d’autore Benché il titolo del lavoro preveda la sequenza Dio, la Chiesa, la Preghiera, vorrò invertire i primi due ambiti d’indagine. Darò luogo ad una riflessione “circolare” che, partendo dalla 9 J.P. JOSSUA, Gli spostamenti attuali della teologia, trad. it., in Concilium 14 (1978) 161-177: 163. 10 Ibid., 169. 11 Ibid., 167-168.


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comprensione del dato storico Chiesa, possa condurre lo sguardo sull’oggetto della fede, cioè Dio — vedremo cosa possa essere questa fede —, per poi rilevare quale relazione uomo-Dio emerga dalla Preghiera, e ciò proprio in riferimento alla mediazione ecclesiale.

3.1.1. La Chiesa nella canzone d’autore Dicendo della Chiesa e della vocazione dell’uomo, tra le altre domande, il Vaticano II chiede ai suoi Padri: «Che pensa la Chiesa dell’uomo?»12. I lavori che qui prenderò in esame introdurranno ad una tematica specifica e largamente sentita del pensiero contemporaneo: il rapporto uomo-Chiesa. La domanda è così riformulata: che pensa l’uomo della Chiesa?

3.1.1.1. Chiesa, Chiesa13 Chiesa, Chiesa m’hai creato e m’hai distrutto / ma Dio, io non l’ho raggiunto. / Piazzata tra me e lui come una pietra tombale, / mi tratti da morta per potermi un giorno resuscitare. / Sono nata cattolica e, cattolica credente, / ho solo un pensiero fisso nella mente / distruggere la Chiesa. / Andavo a scuola, a scuola dalle suore / e a messa portavo al posto del messale / le piccole edizioni foderate uguale / con Ippolito Nievo, Pirandello, Pavese, / Gli amanti di Lady Chatterley scritto in inglese, / per non accettare, tranquilla di fare, / quello che vuole la Chiesa nostra madre, / non per Dio, non per noi, ma per la propria sopravvivenza. / Chiesa, Chiesa… / Non si scappa dalla Chiesa: / corri forte come il vento, ma la trovi lì in attesa, / indulgentissima ventosa; / scoprirai che non c’è offesa che la possa 12

GS11.

13

G. MARINI, Chiesa, Chiesa, Ala Bianca 1967: G. MARINI.


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disarmare / sempre pronta a contrattare perdonare, riassorbire. Dici: / “ecco, guarda ho peccato e non mi importa, / stando alle tue regole, l’anima mia è morta / lasciamela in pace come una defunta; / ma ci sarà il prete illuminato / dice: “hai fatto bene a peccare se hai peccato” / e ti ritrovi con questo Cristo risorto / ma non era meglio se restava morto! / Fingi di non vedere le infinite vie d’uscita che non sono compromesso / anzi, ti spiegano, grandezza della Chiesa: / sono le chiavi per aprire le porte / che ti accolgono cattolico fino alla morte; / fingi di non vederle, fai l’ottuso, il cristallino; / esigi pane per il pane, vino per il vino; / dopodiché t’accorgi che così sei più cattolico di prima / anzi il meglio, il fior fiore, la crema… / Chiesa, Chiesa… Guardi ai cattolici con scherno e disprezzo / quelli San Vincenzo e dieta il venerdì / che leggono L’Osservatore Romano / e rubano senza che gli tremi la mano / fanno la comunione onestamente / sentendosi gli eletti tra tutta la gente / gridano alla scandalo se due innamorati / fanno l’amore senza essere sposati / associano il concetto di peccato e di offesa / solo con quelli di carne lesa / usano a sangue freddo un sacramento / pur d’avere un appalto o una poltrona in Parlamento; / gridi: “farisei, impostori”, / poi ti accorgi che questo / lo gridava anche Cristo / morto e risorto per ritrovarsi solo cattolico di sinistra. / Ma allora, come ne usciremo noi / come faremo a distruggere la tomba / che sapientemente la Chiesa dopo secoli di governo / ha imparato a forza di dogmi a costruirci attorno? / Poi, ho conosciuto / lui, l’abbate, un povero vecchio prete da tutti scartato / perché era un prete spretato. /È venuta persino la polizia / a chiedere perché / lo ospitavo a casa mia / lui che era prete spretato. / Papa Pacelli lo aveva esiliato, / papa Giovanni lo aveva richiamato / e lui tra papa e papa sballottato / sperava, cercava, soffriva. / Così mi ha insegnato, / il prete spretato, / ad amare di essere viva e con la vita la verità / cercarla senza viltà. / Mi spiava con un sorriso curioso, / stupiva che credessi all’inferno / “se ami Dio non puoi accettare / che viva il suo vuoto in eterno”. / “Se ami Dio… / Prete spretato da quando ti ho incontrato / sento così vivo il mio corpo forte / come se avesse vinto persino la morte. / Perché dovrei tremare, perché avere paura / quando siamo tanti da un solo blocco solo / cresciuti, perfezionati, / mai morti e mai nati. / Sarebbe bello sapere / su quale strada andare, / sicura sin da prima, invece di cercare, / giorno dopo giorno, e scegliere magari / quella che pare a tutti


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Giuseppe Nicolosi la peggiore. / Vorrei sentirmi dire: / “in quella casa è Dio”, / senza ogni volta tremare / un io più grande; / perché dovrei tremare… / è meglio non sapere / su quale strada andare, / sicuri sin da prima; / è meglio cercare, / giorno dopo giorno, / e scegliere magari / quella che pare a tutti la peggiore; / perché dovrei tremare… / Prete spretato… / Certamente conosciamo il cattolico romano, / quello col naso aquilino e lunghe bianche ossa, / quello con l’assicurazione ereditaria alla vita eterna ereditaria come le tare della sua famiglia nera, / quello che della salvezza è certo, non spera / ben sapendo che gli spetta per rango e per onore, / quello che disprezza chi vive sempre sull’orlo di perdere l’anima / e sta aggrappato alla sua e non sa che lui l’anima non ce l’ha. Quello che dice che pratica la carità cristiana / e che grida all’infamia se un povero disoccupato / si è comprato un bel vestito o rifiuta un pacco dono, / quello che vicino a sé non ha proprio nessuno / circondato com’è da uno spessore di due metri almeno, / tutto pieno di virtù, dogmi, crismi e catechismi. / Quello che dice che Cristo era il primo socialista, / che si accosta alla Samaritana e una sera si è chinato e ha lavato i piedi a Pietro / ma Cristo è la Samaritana, / è Pietro, è te, è me, è solo vita è noi / che siamo nati eterni e andiamo a morire; / Cristo e Antigone, è Giocasta, è Bruto, è Caligola, è il bandito Giuliano, / è Leonardo Cimino. / Chiesa, Chiesa… / Chiesa, Chiesa come hai potuto / cambiare l’amore in colonne di potere; / i tuoi progressi da alunno intelligente / tutto sommato non mi dicono niente, / spero che un giorno tu voglia capire / se vuoi salvare Dio devi scomparire / se vuoi… //

Nella comprensione della Marini, la Chiesa è una realtà di potere dalla natura omicida: forte d’una secolare autorità guadagnatasi a mezzo della sistematica strumentalizzazione delle verità rivelate, la Chiesa viene ad esigere la morte dell’arbitrio dei singoli, della loro intelligenza; la morte dell’io in nome dell’annuncio reso ad un Dio lontano, autoritario, spietato. Da qui, l’imperativo morale di “distruggere la Chiesa”: distruggere la Chiesa in favore di Dio e dell’uomo.


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Innanzi a tanta veemenza e franchezza, le reazioni possono essere di ilarità, di compiacimento, di indignazione, di sbigottimento e anche di costernazione; ma rimane, al di là del rifiuto o dell’assenso ideologico, l’impressione di non aver colto il senso più vero di questo indefinibile discorso, che non è un canto, che non è una protesta melanconica o provocatoria, e non è riflessione filosofica e neppure sofferta confessione. Eppure, proprio il “non senso” di questo insolito messaggio, che sollecita emozioni profonde, ci fa pensare che questa parola spregiudicata e ironica, triste e poetica, ha afferrato e ci rinfaccia qualcosa che è anche dentro di noi, e ci inquieta. Ed in questo modo il linguaggio della Marini non è puro pensiero concettuale ma arte, espressione di uno spirito arricchito e vivificato dalle intuizioni, dalle esperienze teoretiche e dalla prassi. Rimane così escluso, dal dialogo che qui si instaura, sia il non credente che raccoglie la proposta a livello superficiale e si compiace di quanto è detto, sia il credente che inorridisce. L’uno e l’altro si lasciano ingannare dal tessuto esteriore del discorso, che in effetti non ha la pretesa di costituire una critica impegnata e consistente alla teologia cattolica. Un argomento non solo di carattere metafisico emerge carico di potenza espressiva: “Se ami Dio non puoi accettare che viva il suo vuoto in eterno”. Ed è un argomento che angoscia la coscienza del credente, e che nei primi secoli della Chiesa ha portato alcuni Padri a formulare l’ipotesi di una “apocatastasi” finale, di un ritorno a Dio di tutti gli esseri, in un modo che non contraddica la Parola evangelica. La fede è una possibilità offerta all’uomo, è una risposta alle insicurezze dell’esistenza umana; e, riflettendo profondamente, può in qualche modo paradossalmente essere grato alla Marini, che ci parla così cantando nel su dramma, anche il cattolico sensibile ad ogni esperienza autenticamente umana, e che rinnova nelle sue lotte quotidiane un angoscioso e sofferto atto di fede.


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3.1.1.2. La Chiesa si rinnova14 Il mondo ha fretta, continua a cambiare, / chi vuol restare a galla si deve aggiornare. / Anche la Chiesa vuol sempre far meglio, / ogni tanto si riunisce per fare un Concilio: / giungono a Roma con gran convinzione / venticinquemila preti da ogni nazione. / E la Chiesa si rinnova per la nuova società, / e la Chiesa si rinnova per salvare l’umanità! / Bisogna dare atto a questi signori: / le cose più urgenti li han resi migliori. E dopo tanti anni che aspettavano invano / la messa, finalmente, si dice in italiano. / E se al venerdì mangiare il pesce ti secca, / non fare complimenti, puoi farti una bistecca! / E si è stabilito, dopo mille discussioni, / che il prete, essendo uomo, può portare i pantaloni. / E la Chiesa si rinnova… / Si sa, ai giorni nostri i problemi son tanti / ma la Chiesa non molla, va sempre più avanti. / E se il divorzio est smaccum tremendum / la lotta continua: c’è ancora il Referendum. / E se in qualche parte del mondo c’è un dramma, / il papa è sempre pronto e manda un telegramma: / nel testo si commuove, depreca, è solidale, / insomma, gli dispiace come a uno normale. / Del resto, a causa di una famosa intervista, / si dice sotto sotto che il papa è comunis... / E la Chiesa si rinnova… //

3.1.1.3. La Chiesa si rinnova15 Il mondo ha fretta, continua a cambiare, / chi vuol restare a galla si deve aggiornare. / Anche la Chiesa che sembra non si muova / ogni tanto ci ripensa e ne inventa una nuova. / E dimostrando un notevole tempismo / ha già tirato fuori un nuovo catechismo, / dove tutto è più aggiornato, dove tutto è più moderno, / e anche a vincere un appalto si rischia l’inferno; / dov’è condannata ogni forma di magia, / ma è una grave peccato anche l’astrologia. / Dove il senso di giustizia è ancora più forte, / e talvolta è anche gradita la pena di morte. / 14 15

G. GABER, I Borghesi, Carosello Records 1971: G. GABER. ID., E pensare che c’era il pensiero, PolyGram 1995: G. GABER.


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E la Chiesa si rinnova per la nuova società, / e la Chiesa si rinnova per salvare l’umanità! / In questo clima di sgomento per il popolo italiano / viene fuori l’acutezza del pensiero Vaticano. / E tutti hanno capito che il papa era un genio / quando ha detto che la mafia è figlia del demonio. / Ma quello che spaventa è il coraggio della CEI / che ha già riabilitato Galileo Galilei. / E adesso se divorzi ti puoi anche risposare / a patto che stai buono e non ti metti a scopare. / Ma il nuovo sacramento per essere senza macchia / va fatto di nascosto e in un’altra parrocchia. / E la Chiesa si rinnova…/ Da oggi il praticante ha un’altra prospettiva / più allegra e disinvolta, direi quasi alternativa: / la pillola per ora non può essere accettata, / ma è ammessa se prevedi di esser violentata. / E piuttosto che far uso dei preservativi / è meglio diventare tutti sieropositivi. / E van bene i militari, e van bene i dottori, / ma adesso abbiamo anche i farmacisti obiettori! / D’altronde per la Chiesa, l’ideale è l’astinenza / che è un po’ come l’invito all’autosufficienza. / E la Chiesa si rinnova… / Da Roma il Santo Padre ci invia il suo messaggio, / è lì ogni domenica, a parte quando è in viaggio. / Lui voleva andare in Bosnia, l’aveva straannunciato / ma all’ultimo momento c’ha un po’ ripensato: / perché l’uomo è santo e pio ma è anche molto scaltro, / lui lo sa che morto un papa se ne fa subito un altro. / E allora ha scritto un libro che è diventato un grosso evento: / sarà anche un po’ acciaccato, ma non sta fermo un momento! / Per il suo decisionismo si può dire senza offesa / che papa Wojtyla è il Berlusconi della Chiesa. / Una Chiesa sempre allerta, che combatte e fa scintille / e per questo è giusto darle un bell’ottopermille. / Anche se i traffici loschi della Santa Sede / sono parte integrante dei misteri della fede. / E la Chiesa si rinnova… //

Scritte a distanza di un trentennio le une dalle altre, le parole di Gaber offrono una sorta di “monitoraggio” e di interpretazione laica del vissuto della Chiesa tra gli anni ’60 e ’90: l’Autore dice dei punti salienti e delle questioni più scottanti per la vita della “cattolicità” (in particolar modo, per la Chiesa in Italia), registrando i cambiamenti della stessa in un arco di tempo relativamente breve ma indubbiamente cruciale. Numerosi sono i riferimenti storico-magisteriali: il Concilio Vaticano II, le innovazioni liturgiche, la questione del divorzio, dell’aborto,


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della contraccezione e del controllo delle nascite, del matrimonio per i preti, delle pratiche di pietà; e poi, ancora, del nuovo Catechismo (si noti l’accento posto sugli articoli 2266-2267)16, della condanna alla mafia, il riferimento all’Aids, etc… A tutto ciò fa da motivo conduttore il ritornello e la Chiesa si rinnova per la nuova società, e la Chiesa si rinnova per salvare l’umanità! Il tono ironico, ma non per questo gratuitamente canzonatorio, nasconde/rivela una riflessione ampia sull’oggetto stesso del discorso, mediando un vivo disagio nei confronti di una realtà che “annunciata” in taluna maniera, la si incontra (anche?) di altro aspetto: un tradimento è stato avvisato! Allora, quel ritornello è come un meccanismo compensatorio, per il quale si vorrebbe dire: sì, la Chiesa dovrebbe essere e vivere in altra maniera (magari, evangelicamente “incarnata” nella vicenda umana), e invece spesso vive di compromessi e di cecità, di ambizioni e ricchezze, di servilismi e iracondia, di autoritarismo e sordità (alle istanze più urgenti che ancora l’umanità le rivolge). Tuttavia, le va riconosciuto un merito: la fatica spesa nell’intento di recuperare/accrescersi in integrità; la carità impegnata nel rinnovarsi di continuo per il bene dell’umanità. Il tono della riflessione permette, in verità, un’opposta lettura, un’ulteriore provocazione: ma la Chiesa si rinnova veramente per il bene dell’umanità, o piuttosto per il solo bene della Chiesa?17 La Chiesa si rinnova invita ad altre riflessioni. Ne colgo l’ultima a far da chiusa a questo commento: a me pare che, in fondo, nel discorso di Gaber risieda un’intuizione ecclesiologica di notevole spessore, e con questo: il rinnovamento nella Chiesa è un procedimento costante, un fattore costitutivo (ecclesia semper reformanda)18.

16

Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, trad. it., Città del Vaticano 1992, 557-558. Ritroviamo qui il motivo di fondo della riflessione della Marini. 18 LG 8: «[…] la Chiesa […] sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento». 17


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3.1.2. Dio nella canzone d’autore Quale presente accoglie Dio? Quale destino attende Dio negli anni che verranno? In questo secondo momento, fermerò l’attenzione su alcune comprensioni o, se si vuole, intuizioni della cultura contemporanea circa l’identità — passato, presente e futuro — di Dio. Di “quale” Dio si tratta? Del Dio per l’uomo d’oggi! In realtà il nocciolo della questione non è la comprensione del “quale” — Dio è Dio! — ma delle modalità, degli accenti e/o delle atonie poste sul mistero d’una realtà Altra rispetto a quella umana, eppure a questa così intimamente legata. Altri interrogativi correranno per il nervo del discorso: cosa “arriva” al mondo contemporaneo della fede biblica? In che modo essa sa consegnarsi all’oggi della storia? Infine, chi ha “incastrato” Dio? Ma, poi, è stato incastrato?

3.1.2.1. Cristo tra i chitarristi19 È un uomo che vive di foreste, / d’aria piena di voli d’aquile, / conquista vette e tocca il sole, / lui beve la neve, parla alle stelle / e spazia il tempo. / Corre, anela, sta. / Devia i ruscelli, / veglia e sonno è tutto un sogno. / È un uomo solo e senz’armi. / Un pomeriggio su una salita perse la vita. / Più niente in quel lungo silenzio / turbava la sua anima esperta. / Un coro di chitarre infelici / cantava per disperdere l’odio. / Sopra una collina era il più alto, / il più bello, irraggiungibile, / ai suoi piedi c’era il deserto, / ormai la folla s’era saziata con le preghiere. / Là c’è sempre un Uomo in verticale / che non tocca mai la terra, / talvolta scende da una croce, / ma poco dopo su una salita sconosciuta / perde la vita. /

19

CIAMPI.

P. CIAMPI, Andare, camminare, lavorare e altri discorsi, BMG Ricordi 1975: P.


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Giuseppe Nicolosi Un concerto di chitarre arriva e suona / molto amaro. / Anche stasera da qualche parte / c’è qualche Cristo / che sale stanco / e senza scampo / una salita. //

Cristo tra i chitarristi è un esempio franco di quanto la sensibilità artistica a volte crea. In esso il linguaggio, le immagini, la pacatezza, concorrono alla comunicazione di un’eco interiore; la mediazione soggettiva si fonde con i velati richiami biblici; i temi e le emozioni si dispiegano sobri, con profondo, dignitoso rispetto. E così, tra i versi della canzone (che è, va ricordato, poesia e musica), l’ispirazione dell’artista si traduce in contemplazione, in meditazione, quasi in preghiera. Con un approccio certamente più esistenziale che teologico, l’Autore delinea i tratti ed i chiaroscuri di un uomo straordinario, ora solo e sofferente, ritratto negli ultimi istanti di una vita vissuta senz’armi: Cristo. Un uomo in verticale di cui Ciampi non dà ragione (cfr invece Gv 8,28; 12,32), non dice il futuro: perché quel pomeriggio, su una salita, perse la vita? E dopo, cosa accadde dopo? Questi interrogativi restano irrisolti, anzi, a dire il vero, qui non sono stati neanche posti: questo conferma l’intento non primariamente teologico di Cristo tra i chitarristi. La lettura a ritroso del brano consegna con più generosità altre suggestioni: il dolore appartiene alle salite di questo mondo, ai momenti di prova, di verifica di se stessi, di quanto s’è creduto e operato; momenti nei quali ciascuno è solo con il proprio presente, il proprio passato, il proprio futuro. Solamente un nuovo modo di viversi e percepire la realtà può esorcizzare la disperazione: ed è questo il compito ed il merito dell’arte, disperdere l’odio in un tempo in cui (ad es., dopo le vicende naziste) è difficile affidarsi a virtù quali la carità o la speranza cristiane; in un tempo in cui è difficile credere che quel Cristo sia sopravvissuto ed intenda far ritorno da quella collina. Infine, va colta una nota che, se non espressamente teologica, è sicuramente cristiana: come attestano gli ultimi versi, l’espressione “qualche Cristo” con la quale qui (come nel linguaggio comune) si dice del sofferente o del disgraziato, non è solo un’antonomasia, ma atto di fede, testimonianza di avvisata “consanguineità” al Cristo della croce e, ancora, all’altro.


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3.1.2.2. Dio è morto20 Ho visto / la gente della mia età andare via / lungo le strade che non portano mai a niente / cercare il sogno che conduce alla pazzia / nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo che hanno già / lungo le notti che dal vino son bagnate / dentro alle stanze da pastiglie trasformate / lungo le nuvole di fumo, nel mondo fatto di città / essere contro od ingoiare la nostra stanca civiltà / e un Dio che è morto / ai bordi della strade Dio è morto / nelle auto prese a rate Dio è morto / nei miti dell’estate Dio è morto. / Mi han detto / che questa mia generazione ormai non crede / in ciò che spesso han mascherato con la fede / nei miti eterni della patria o dell’eroe / perché è venuto ormai il momento di negare tutto ciò che è falsità / le fedi fatte di abitudini e paura / una politica che è solo far carriera / il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto / l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto / e un Dio che è morto / nei campi di sterminio Dio è morto / coi miti della razza Dio è morto / con gli odi di partito Dio è morto. / Ma penso / Che questa mia generazione è preparata / a un mondo nuovo e a una speranza appena nata / ad un futuro che ha già in mano, a una rivolta senza armi / Perché noi tutti ormai sappiamo che se Di muore è per tre giorni e poi risorge. / In ciò che noi crediamo Dio è risorto / in ciò che noi vogliamo Dio è risorto / nel mondo che faremo Dio è risorto / Dio è risorto. //

Un uomo folle, all’alba si recò al mercato, e qui prese a gridare: cerco Dio! Cerco Dio! I presenti, a sentirlo, scoppiarono in una gran risata, beffeggiandolo per la frenesia dei modi. Il folle allora li ammonì dicendo: Gott ist tot, e l’abbiamo ucciso noi!21. Qualche anno più tardi, un homo cantans racconta come si svolsero i fatti del deicidio.

20 F. GUCCINI, Francesco Guccini & I Nomadi in Concerto, EMI 1979: F. GUCCINI. La canzone è stata precedentemente incisa da I NOMADI: I NOMADI, Per quando noi non ci saremo, EMI 1967. 21 Cfr F. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., 134.


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Francesco Guccini canta le inquietudini di un mondo che sta, alla fine degli anni Sessanta, vorticosamente mutando i propri assetti politici e sociali, il paradigma culturale, l’impianto assiologico. Ed è proprio alla crisi dei valori tradizionali che egli lega la morte di Dio. Dio è rimasto, ancora una volta, vittima dell’odio dell’uomo all’uomo; vittima dell’indifferenza per il dolore altrui; vittima dell’ipocrisia e della menzogna. Eppure, una nuova generazione di uomini e donne sorge in quegli anni: una generazione non più disposta a credere, per abitudini e paura, in ciò che spesso [altri] han mascherato con la fede; una generazione, spiega Guccini, non più disposta a cedere a quel sogno che conduce alla pazzia, all’abominio dell’umanicidio. Come è possibile che l’umano sia risorto da un così tragico fallimento, e continui a risorgere da tutti i fallimenti che appartengono alla propria storia? E qui che si innesta il “fatto cristiano”: la resurrezione di Dio è causa efficiente e finale della resurrezione, già oggi, dell’umanità!

3.1.2.3. Si chiamava Gesù22 Venuto da molto lontano / a convertire bestie e gente, / non si può dire non sia servito a niente / perché prese la terra per mano, / vestito di sabbia e di bianco / alcuni lo dissero santo, / per altri ebbe meno virtù / si faceva chiamare Gesù. / Non intendo cantare la gloria / né invocare la grazia e il perdono / di chi penso non fu altri che un uomo, / come dio passato alla storia, / ma inumano è pur sempre l’amore / di chi rantola senza rancore, / perdonando con l’ultima voce / chi lo uccide tra le braccia di una croce. / E per quelli che l’ebbero odiato, / nel Getsemani pianse l’addio, / come per chi lo adorò come dio, / che gli disse “sii sempre lodato”, / per chi gli portò in dono alla fine / una lacrima o una treccia di spine / accettando, ad estremo saluto, / la preghiera l’insulto e lo sputo. / 22

F. DE ANDRÉ, Vol. 1, Ricordi 1970: F. DE ANDRÉ.


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E morì come tutti si muore, / come tutti cambiando colore / non si può dire sia servito a molto / perché il male dalla terra non fu tolto, / ebbe forse un po’ troppe virtù, / ebbe un volto ed un nome: “Gesù”. / Di Maria dicono fosse il figlio, / sulla croce sbiancò come un giglio. //

Si chiamava Gesù segna l’inizio della riflessione “in vinile” del Cantautore genovese sulla persona e le vicende di Gesù (ampiamente sviluppata, in seguito, nell’album La Buona Novella23 – 1971). Nel brano si incrociano due direttrici fondamentali: l’una evoca il vissuto di un uomo (Gesù, appunto) certamente compreso come personaggio sui generis; l’altra rende l’ascoltatore partecipe della fatica spesa dall’Autore stesso nell’intento di interpretare quest’uomo che si faceva chiamare Gesù. De André ritrae una vita, il senso di un’esistenza: un uomo venne a compiere una “missione”; per ciò che disse e fece, alcuni lo amarono, altri lo odiarono, altri ancora lo adorarono; il disprezzo dei più lo portò alla morte per assassinio. L’occasione e la modalità della morte di questo uomo portano l’Autore ad una considerazione (parafraso): non posso pensarlo (l’uomo Gesù) come dio, tuttavia riconosco che il suo comportamento sia estraneo agli uomini, anzi che è decisamente inumano (perdonare chi ti uccide!). Allora? La riflessione dell’Autore si inceppa sull’inafferrabile “scandalo della croce”: De André rimane come sulla soglia del riconoscimento di un “qualcosa” che in qualche modo lo/ci afferra, ma che non si lascia mai del tutto afferrare. A ben pensarci, egli rivive sulla propria pelle la cogenza del dibattito cristologico, poco confortato da quanto realizzò a suo tempo il Concilio di Calcedonia24. Gesù, figlio di Maria, chi sei? Uomo? Dio? Entrambi? L’ossimoro Calcedonese non è comprensibile in un tempo in cui la 23

Cfr 40 e ss. «Seguendo i santi padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo […]»: in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo - G.L. Rossetti - P.P. Joannu - C. Leopardi - P. Prodi -, trad. it., Bologna 19962, 86. In greco si legge: «[…] Qeoèn a\lhqw%v kaò a\énqwrwn a\lhqw%v toèn a\utoèn […]». 24


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ragione “deve” gestire tutto (anche la fede); e così il Nostro, svincola dall’empasse ritornando alla narrazione biografica: il figlio di Maria muore. Il male dalla terra non fu tolto: vita sprecata! vita sprecata?

3.2. La preghiera nella canzone d’autore Accanto al tentativo d’una comprensione “laica” della possibile identità di Dio e del suo “destino”, trovano posto nella canzone d’autore espressioni di una sensibilità, in certo modo, “orante”: la canzone d’autore può essere un luogo ove rintracciare un uomo in preghiera? Vedremo! Resta da comprendere cosa sia preghiera, e quali siano le modalità della stessa. Condurrò questa riflessione articolandola secondo uno schema tipologico di matrice “sapienziale”, distinguendo in preghiera di lamentazione, preghiera di petizione e preghiera di lode.

3.2.1. La preghiera di lamentazione Raccolgo qui alcuni esempi di quel particolare “dialogo” con la divinità nel quale confluiscono e si esprimono i disagi, le fatiche della esistenza umana: l’orante si rivolge a Dio con un tono spesso duro, quasi rabbioso; come a rinfacciarGli un doloso disinteresse alle vicende umane, una dormienza25, o peggio, una disperante cattiveria.

25 Mi permetto una digressione. Si legge nel Talmud Gerosolimitano: «Ma forse che vi è sonno al cospetto del Luogo? Non è stato forse detto: Ecco, non si assopisce e non dorme il custode d’Israele? Come può dunque dire la Legge: Il Signore si svegliò come se stesse dormendo? Ma è come se vi fosse sonno al suo cospetto nell’ora nella quale Israele si trova nella tribolazione, mentre le altre nazioni del mondo sono nell’agio» in I Salmi del Pellegrinaggio, Shirei ha-Ma’alot (canti dei gradini) a cura di G. Lenzi, Roma 2000, 85. Il punto è la perdita della coscienza e della consapevolezza del peccato.


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I contenuti sono perlopiù comuni (poiché tutti si partecipa della stessa umanità): la ragione del dolore e della malattia (fisica, intellettuale, morale, spirituale), dei fallimenti e della morte…

3.2.1.1. Spiritual26 Dio del cielo se mi vorrai / in mezzo agli altri uomini mi cercherai / e Dio del cielo se mi cercherai / nei campi di granturco mi troverai. / Dio del cielo se mi vorrai amare / scendi dalle stelle e vienimi a cercare. / La chiave del cielo non ti voglio rubare / ma un attimo di gioia me lo puoi regalare. / Dio del cielo se mi vorrai amare… / Senza di te non so più dove andare / Come una mosca cieca che non sa più volare. / E se ci hai regalato il pianto ed il riso / Noi qui sulla terra non l’abbiamo diviso. / Dio del cielo se mi vorrai amare… / Dio del cielo se mi vorrai / in mezzo agli altri uomini mi cercherai / e Dio del cielo se mi cercherai / nei campi di granturco mi troverai. / Dio del cielo se mi vorrai amare… / Dio del cielo io ti aspetterò / nel cielo e sulla terra io ti cercherò. //

Appartiene alla cultura contemporanea pensare Dio come “assente” dalle vicende umane, lontano dai risvolti della vita quotidiana. Un invito è il centro della lamentazione: in nome di una umanità ferita, l’Autore invita Dio alla “prossimità”: lo si invita ad una nuova venuta, che sia ricerca di tutti e ciascuno; e gli si chiede ristoro — troppo ci prende questo campo di granturco! —, dalla fatica della vita; gli si chiede l’istruzione alla equità, alla benevolenza, alla giustizia, alla carità. E così: Dio del cielo io ti aspetterò nel cielo e sulla terra io ti cercherò.

26 F. DE ANDRÉ, Vol. 1, cit.: F. DE ANDRÉ. Nota: questa canzone è diffusamente conosciuta come Dio del cielo.


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Ciò ha come un sapore biblico: un gusto in cui riecheggia un vitale appello: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!»27. Ho voluto qui accostare questo passo di Isaia per introdurre una riflessione: è vivo ancor oggi il desiderio/bisogno di un incontro con la divinità, un incontro che sia una disvelazione. De André dà voce ad un’inquietudine, un’urgenza imperativante: porre vera attenzione alla cultura contemporanea, vuol dire così riscoprire quella materna accoglienza che sola farà della Chiesa fedele compagna dell’uomo di oggi, risposta alla sua domanda di senso, testimone dell’amore misericordioso di Dio.

3.2.1.2. Preghiera – recitativo28 Signore delle domeniche / prova ad esserlo anche dei lunedì / e di tutti quei giorni tristi che ci capitano sulla terra. / Signore dei ricchi e dei fortunati / prova ad esserlo, se puoi, / anche di quelli che non hanno niente, / anche di chi ha paura e soffre, / anche di chi pena e soffre, / anche di chi lavora, e lavora, e lavora, / e soffre, e soffre, e soffre. / Signore dei gentili e dei buoni / prova ad esserlo, se vuoi, / anche di quelli che sono cattivi e violenti / perché non sanno come difendersi in questo nostro mondo. / Signore delle chiese e dei santi, / Signore delle suore e dei preti / prova ad esserlo, se credi, / anche dei cortili, delle fabbriche, / delle puttane, dei ladri. / Signore dei vincitori, / prova ad esserlo, se ci sei, / anche dei vinti. / Amen. // «Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»29.

27

Is 63,19. G. GABER, Anni affollati, Carosello Records 1982: G. GABER. Il testo è tratto dallo spettacolo teatrale Il signor G, 1970. 29 Mc 15,33-34. 28


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Lucidamente appassionato all’umana vicenda — una vicenda arrivata già alle tre del pomeriggio —, l’autore ne raccoglie le innumerevoli, lacerate voci; le mette in ordine, e chiede. Chiede a Dio la fatica della comprensione, dell’immedesimazione; Gli chiede un esodo da se stesso, dalla consuetudine del suo agire, e di mettersi dalla parte di coloro che il dolore vessa, piega, annienta. È quasi una sfida all’ultima stilla di compassione. Preghiera è dura, cruda, viva, è vera. È come la vita! È anche la vita! È il livido che esonda dal mondo pestato dalla furia del mondo. È l’umano grido rivolto all’Onnipotente, Signore del cielo e della terra. Allora, è rabbia questa? È fede, questa? È la vita! È la vita che chiede pienezza di vita, chiede memoria, riscatto. È il dolore che chiede la ragione della propria ragione. È l’irrompente, amaro se ci sei, così “vicino” all’oltraggio della croce — se sei veramente Dio, scendi giù!30 —, eppure rispettoso dell’alterità divina — gli si dice prova, non devi —, eppure ancor più severo. In ultimo, è l’uomo che chiede a Dio la ragione dell’abbandono degli ultimi, dei brutti, dei cattivi, dei diseredati, dei traviati, in favore dei primi, dei belli, dei buoni, degli affermati, dei morigerati… Dove sta l’inghippo? Il cristiano sa bene che Dio ha mandato il Figlio suo, Cristo Gesù, affinché ai poveri fosse annunziato un lieto messaggio, ai prigionieri fosse proclamata la liberazione, ai ciechi fosse donata la vista, e gli oppressi avessero la libertà, e vi fosse data a tutti la grazia del Signore31! Un alto tradimento è stato avvisato. Ma che accade a noi-Chiesa? Così edotti nell’istruzione della carità, così lontani — più che a volte! — dalla fedele unione all’uomo, alla storia! A Dio? Com’è possibile che anche un solo uomo, pensi di Dio quanto il

30 31

Cfr Mc 15,30. Cfr Lc 4,18-19.


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nostro Autore? Come è possibile una tanto distorta comprensione di Dio, dell’amore che lo “lega” all’uomo? Ecco, Lo si ode ancora nella domanda: «Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi!»32. E ancora: «Saulo, Saulo perché mi perseguiti?»33. Lasciamoci interrogare: la cultura contemporanea è un grazioso luogo, tempo di conversione.

3.2.1.3. Il volo di Volodja34 Signore, quando a te arriveranno gli ultimi, / scordati pure dai crisantemi, / arriveranno con passo celere / perché a crepare sono sempre i primi; / e quando arriveranno gli inutili / tagliando finalmente un traguardo; / e quando arriveranno i timidi / uccisi da un sorriso o da uno sguardo; / e quando arriveranno le lucciole / con i calli sui tacchi e sul cuore, / e chissà con quale animo saprai parlare loro d’amore; / e quando arriveranno i fradici / vomitando grappe da due lire / e ti offriranno gli ultimi spiccioli / per un penultimo bicchiere, / allora tu Signore, tu chiederai pietà, / allora tu, Signore, tu chiederai pietà, / tu chiederai pietà, tu chiederai… / E quando arriveranno i fossili / che, non è per dire, ma han lavorato tutta una vita, / riguarderanno intorno attoniti / perché, vacca miseria, è già finita; / e quando arriveranno i fragili / con ancora in bocca il sapore del gas; / e quando arriveranno i semplici con il loro fustino del Dash, / e quando arriveranno i musici / prigionieri delle loro chitarre / e solo allora capiranno increduli / che quelle corde son le loro sbarre; / e quando passeranno i secoli / e da te non verrà più nessuno / perché di tutti quegli scrupoli / sapranno fare pure a meno, / allora tu Signore, tu chiederai pietà… //

32 33 34

Mi 6,3. At 9,4. S.S. SACCHI, Il volo di Volodja, Ala Bianca 1993: A. MINGARDI.


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Vicino ai contenuti ed ai toni del brano precedente, Il volo di Volodja sembra esserne il proseguo: se prima si chiedeva a Dio un esodo da se stesso e dall’agire a lui consueto, adesso lo si invita alla conversione. Un paradosso — blasfemo? — corre infelice tra le strofe e i ritornelli: quando arriveranno a Dio coloro ai quali egli ha negato la sua benevolenza, non gli resterà che ravvedersi e implorare pietà. Non dirò nulla di più: rimando a quanto già argomentato nel paragrafo precedente. C’è una ragione per la quale ho proposto e correlo questi ultimi due brani: sottolineare un dato cruciale della cultura contemporanea. L’uomo contemporaneo — quello che si dice sia nichilista, consumista, spregiudicato, etc. —, è più che consapevole della propria caducità; avverte una vivida urgenza di spiritualità autentica, di dialogo autentico con la divinità. Innanzi all’esperienza del proprio limite, l’umanum (il sentire, il volere, il pensare…) non può che dibattersi tra l’accoglienza di una divina rivelazione35 che sappia consolarlo dischiudendogli il senso del presente, e l’impulso istintivo ad esorcizzare Dio stesso in nome dell’umanum. Credo che qui si giochi l’esserci della Chiesa, quell’esserci per il quale il Concilio Vaticano II dice la stessa «[…] il segno e lo strumento dell’intima unione [dell’uomo] con Dio […]»36. Ecco, a Dio andrebbero pensieri più sereni se noi fossimo capaci di annunciare, testimoniare al mondo con quale tenerezza Dio sta abbracciandolo. Ancora una volta il confronto con la cultura contemporanea, a mezzo di questa sublime arte, può essere per la Chiesa un prezioso invito alla conversione.

35 Insegna il Filosofo: «Infatti, o Socrate, io la penso come te, che, cioè, avere una chiara conoscenza di tale questione in questa vita, o è impossibile o è molto difficile, ma che, d’altra parte, il non mettere a prova in tutte le cose che si dicono al riguardo e il desistere prima che sia esaurito l’esame sotto ogni rispetto, è da uomo veramente vile. [Giacché è sempre possibile] fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, cioè affidandosi ad una rivelazione divina» in PLATONE, Fedone, a cura di G. Reale, trad. it., Brescia 199216, 85 c-d, 125. 36 LG 1.


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3.2.2. La preghiera di petizione In questa seconda sezione vorrò vagliare alcuni esempi di preghiera di petizione nella canzone d’autore: preghiere di richiesta a Dio. L’oggetto della petizione commuove: è una preghiera non a proprio vantaggio ma di solidarietà all’uomo. L’invocazione di pietà si estende universalmente, abbracciando tutti e ciascuno, e in particolare i fragili, gli ultimi, i desolati, gli sconfitti, fin anche coloro che all’odio altrui, alla dolosa ignoranza hanno preferito la morte.

3.2.2.1. Preghiera in gennaio37 Lascia che sia fiorito Signore, il suo sentiero / quando a te la sua anima e al mondo la sua pelle / dovrà a riconsegnare quando verrà al tuo cielo / là dove in pieno giorno fioriscono le stelle. / Quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte / ai suicidi dirà baciandoli alla fronte: / “venite in Paradiso là dove vado anch’io / perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”. / Fate che giunga a Voi con le sue ossa stanche / seguito da migliaia di quelle facce bianche, / fate che a Voi ritorni tra i morti per oltraggio / che al cielo ed alla terra mostrarono il coraggio. / Signori benpensanti spero non vi dispiaccia / se in cielo, in mezzo ai Santi Dio, fra le sue braccia / soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte / che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte. / Dio di misericordia il tuo bel Paradiso / lo hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso / per quelli che han vissuto con la coscienza pura / l’inferno esiste solo per chi ne ha paura. / Meglio di lui nessuno mai ti potrà indicare / gli errori di noi tutti che puoi e vuoi salvare, / ascolta la sua voce che ormai canta nel vento / Dio di misericordi vedrai sarai contento. / Dio di misericordia…//

Dedicata dall’Autore alla morte dell’amico Luigi (Tenco), Preghiera in gennaio è una pura invocazione di pietà: con un umiltà De Andrè chiede al Dio di misericordia di aprire il proprio abbraccio all’anima dell’amico estinto, sebbene questi abbia volutamente scelto la morte. 37

F. DE ANDRÉ, Vol. 1, cit.: F. DE ANDRÉ.


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Su questo motivo si innestano due alte riflessioni: l’una circa l’amore divino, e in particolar modo in riferimento al destino ultimo delle umane creature; l’altra sull’amore umano, in merito alla condizione del presente vivere ed esperire. Di rilievo è così la questione escatologica38. Scrive l’Autore: non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio, ed ancora, l’inferno esiste solo per chi ne ha paura. Al contrario, v’è la certezza che il Paradiso sia per tutti, e in particolare per coloro i quali hanno più sofferto nella propria vita: Dio di misericordia il tuo bel Paradiso lo hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso per quelli che han vissuto con la coscienza pura. «Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra […]. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio […]»39.

L’altro sguardo dell’Autore va, come dicevo, all’umano vivere ed esperire. A suo avviso, il suicidio dell’amico non è un atto di vigliaccheria alla vita, ma un trabocco di coraggio nella denuncia della viltà dei più: per questo chiede che Dio lo accolga tra i morti per oltraggio. Ed ecco la scandalosa invocazione finale: la richiesta a Dio di consolare tra le sue braccia il pianto del suicida, la cui sola colpa/grandemerito è il non aver ceduto all’odio e all’ignoranza. Questa conclusione fa problema: blocca il valore o lo ridefinisce? L’Autore ci spiazza. Ma il suo intento ha una prospettiva meno concettuale, più empatica, sola soluzione all’empasse: dire dell’uomo l’altezza nella fragilità, la fragilità nella altezza. «Nonostante queste miserie, egli [l’uomo grande e misero di cui si dice altrove] vuol essere felice, e non vuol essere che felice, e non può non voler

38 Riprenderò questa riflessione nel capitolo VI: Approccio sistematico alla canzone d’autore italiana. 39 Mt 5,4 ss.


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Giuseppe Nicolosi esserlo; ma come vi riuscirà? Bisognerebbe, per riuscirvi, che egli si facesse immortale […]»40.

3.2.2.2. La disperazione della pietà41 Signore, abbiate pietà di quelli che vanno in tram / e nel lungo tragitto sognano automobili, appartamenti, / ma abbiate anche pietà di quelli che guidano l’automobile, / sfidano la città gremita, semovente di sonnambuli / Abbiate molta pietà del ragazzo mingherlino e poeta / che di suo ha solo le costole e l’innamorata bassina, / ma abbiate maggior pietà dello sportivo, colosso impavido e forte / e che si avvia lottando, remando, nuotando alla morte. / Signore abbiate pietà, pietà, pietà, pietà, Signore. / Abbiate immensa pietà dei musicanti da caffè / che sono i virtuosi della propria tristezza e solitudine, / ma abbiatene ancor di più di quelli che cercano il silenzio / e subito su di loro cade la romanza della Tosca. / Nella vostra pietà non dimenticate i poveri che arricchirono, / per i quali il suicidio resta la soluzione più dolce, / ma abbiate vera pietà dei ricchi che impoverirono, / che diventano eroi e alla santa povertà danno un’aria grande. / Signore abbiate pietà, pietà, pietà, pietà, Signore. / Abbiate pietà dei barbieri in genere e dei parrucchieri / effeminati dal mestiere, ma umili nelle carezze, / ma abbiate ancor più pietà di quelli che si tagliano i capelli: / che attesa, che angoscia, che cosa avvilente, mio Dio! / Abbiate pietà degli uomini umili, dei dentisti / che soffrono di utilità e vivono per far soffrire, / ma abbiate grande pietà dei veterinari e dei farmacisti / che molto bramerebbero essere medici. / Signore abbiate pietà, pietà, pietà, pietà, Signore. Abbiate pietà delle donne separate legalmente / e in esse misteriosamente si riforma la verginità, / ma abbiate più pietà delle donne cosiddette sposate / 40

B. PASCAL, Pensieri, a cura di B. Segre, trad. it., Milano 1995, 64. Il risvolto sarà però diverso: in De André quell’uomo sceglie la morte, in Pascal la esorcizza prendendo «partito di impedirsi di pensare alla morte». 41 V. DE MORAES – R. IACOBBI – E. JANNACCI, Vengo anch’io no tu no, BMG Ricordi 1969: E. JANNACCI. Il testo è tratto dalla poesia di V. DE MORAES O desespero da pietade (1969), per la traduzione di R. IACOBBI.


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che si sacrificano e si semplificano per niente. / Abbiate immensa pietà degli uomini pubblici, specialmente dei politici / dalla loquela facile, l’occhio lucido e la sicurezza del gesto, / ma abbiate profonda pietà dei loro servi, umili e parenti, / fate, Signore, che da essi non nascano altri fonometri. / Signore abbiate pietà, pietà, pietà, pietà, Signore. // «Ma tu, Signore, sei mia difesa, tu sei mia gloria e sollevi il mio capo […] Sorgi Signore, salvami, Dio mio»42. «Quando ti invoco, rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato; pietà di me, ascolta la mia preghiera»43.

Come il Salmista, Jannacci si rivolge a Dio chiedendo pietà, salvezza. Nessuno è escluso: quelli che vanno in tram, quelli che guidano l’automobile, il ragazzo mingherlino e poeta, lo sportivo, i musicanti da caffè, quelli che cercano il silenzio, i poveri che arricchirono, i ricchi che impoverirono, i barbieri ed i parrucchieri, quelli che si tagliano i capelli, gli uomini umili, i dentisti, i veterinari ed i farmacisti, le donne separate legalmente, le donne cosiddette sposate, gli uomini pubblici, i politici ed i loro servi. Nessuno è considerato astrattamente: si chiede pietà di tutti e ciascuno; come a dire, del genere umano e di ogni singolo uomo, calato nella realtà che gli appartiene o, suo malgrado, a cui appartiene — com’è tenera, sincera, infinitamente triste l’invocazione per le donne cosiddette sposate! —. Pietà di questa umanità, è il senso ultimo dell’invocazione. Jannacci non addebita a Dio l’onere della presente realtà, né l’addebita all’uomo44: rileva un dato e chiede rimedio, null’altro.

42 43 44

Sal 3,4-8. Sal 4,2. Cfr, invece, Dio del cielo.


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3.2.2.3. La preghiera di François Villon45 Finché questa terra palpita / e il sole luce ci dà / Signore, ogni uomo accoglilo / per dargli ciò che non ha, / regala un cavallo al pavido / e offri un motivo al perché, / dai del denaro al prodigo / e poi non scordarti di me. / Finché questa terra circola / Signore, è in tua facoltà, / dai all’ambizioso il suo carico / di forza e di autorità, / lascia il respiro al magnanimo, / lasciagli l’alba che c’è, / dona a Caino il rammarico / e poi non scordarti di me. Per te che ogni cosa è facile, / io credo alla tua verità / come il soldato esanime / crede nell’Aldilà, / come ogni orecchio docile / crede a ogni cosa di te, / come crediamo nel prossimo / senza sapere il perché. / Signore, ti prego, guardaci / col verde sguardo che hai, / finché questa terra circola / senza adattarsi mai / finché ancora le bastano / tempo e fuoco che ha in sé, / dai a ciascuno il suo obolo / e non scordarti di me. //

Per te che ogni cosa è facile, io credo alla tua verità: l’Autore consegna la propria professione di fede nella onnipotente misericordia di Dio, chiedendo a Colui al quale ogni cosa è facile, accoglienza, sostegno materiale e morale per tutti gli uomini e per se stesso. L’abbandono docile del fedele in Dio è il motivo conduttore del brano: l’abbandono del cuore e della mente, di ogni pretesa presente e futura, in Colui a cui si può credere senza sapere il perché, perché Lui solo può sempre dare un motivo al perché. Questa opera ci aiuta nella comprensione di un altro aspetto della cultura contemporanea: in essa troviamo uno schietto io credo, da cui sgorga una speranza più grande di quanto la vita spesso sappia farci intuire; quella speranza che, fuggendo dal fatalismo e dal nichilismo, s’apre all’attesa di compimento nell’Aldilà. Molte suggestioni andrebbero focalizzate; ne colgo ancora una. Tra le invocazioni innalzate a Dio in favore dell’umanità, una giunge diretta al cuore dell’uomo: dona a Caino il rammarico, ovvero, dona a ciascuno la consapevolezza del proprio agire, rendilo responsabile, donagli la capacità di ravvedersi nell’errore, di coltivare l’umanità che gli è propria.

45 B. OKUDZ#AVA – S.S. SACCHI, Lettere Celesti, a cura di S.S. Sacchi, E. FINARDI. Il brano è stato già inciso in lingua madre a Parigi nel 1967.

EMI

2001:


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È una dichiarazione d’amore all’uomo; è una attestazione di fiducia nell’amore dell’uomo all’uomo. Allo stesso tempo è ancora professione di fede nella onnipotente misericordia di Dio, perché, non si chiede una punizione adeguata ad una grave colpa ma, pur non giustificando la stessa, si chiede a Dio quell’ennesimo, mirabile atto d’amore.

3.2.2.4. Libera nos Domine46 Da morte nera e secca, da morte innaturale, / da morte prematura, da morte industriale, / per mano poliziotta di pazzo generale, / diossina o colorante, da incidente stradale, / dalle palle vaganti di ogni tipo e ideale, / da tutti questi insieme e da ogni altro male / libera nos Domine. / Da tutti gli imbecilli di ogni razza e colore, / dai sacri sanfedisti e da quel loro odore, / dai pazzi giacobini e dal loro bruciore, / dai visionari e martiri dell’odio e del terrore, / da chi paradisa dicendo: “È per amore”, / dai manichei che urlano : “O con noi o traditore” / libera nos Domine. / Dai poveri di spirito e dagli intolleranti, / dai falsi intellettuali, giornalisti ignoranti, / da eroi, navigatori, profeti, vati, santi, / dai sicuri di sé, presuntuosi e arroganti, / dal cinismo di molti, dalle voglie di tanti, / dall’egoismo sdrucciolo che abbiamo tutti quanti / libera nos Domine. / Da Te, dalle tue immagini, e dalla tua paura, / dai preti di ogni credo, da ogni loro impostura, / dai inferni e paradisi, / da una vita futura, da utopie per lenire questa morte sicura, / da crociati e crociate, da ogni sacra scrittura, / dai fedeli invasati di ogni tipo e cultura / libera nos Domine. //

Scrive Guccini: «La canzone nasce, come idea, dalle rogazioni della liturgia dei morti e da quelle che si cantavano in campagna per stornare la minaccia di un temporale incombente. Vuol essere usa sorta di preghiera laica, più ironica che dogmatica, perché vuol essere proprio antidogmatica ed è in senso negativo per potersi aprire a tante altre eventuali possibilità»47.

46 47

F. GUCCINI, Amerigo, EMI 1978: F. GUCCINI. Dalla presentazione dell’album Amerigo.


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Il contenuto del brano è di immediata comprensione: si chiede a Dio di liberare l’uomo da tutti i mali che lo vessano; liberazione da quelli voluti e perpetrati dai violenti sui deboli, da quelli fortuiti; da quelli fisici, morali, intellettuali, spirituali; liberazione dai cinismi, gli egoismi, i protagonismi, finanche gli eroismi; in altri termini, liberazione dall’uomo stesso, d’ogni stampo, levatura, credo, ingegno, etnia, ignoranza o sapienza di cui goda. Da ultimo, si chiede a Dio la liberazione da Dio. Se il contenuto è di così “morbido” impatto cognitivo, meno intuitiva è la comprensione del senso dell’impianto discorsivo. È quell’ironia, di cui dice l’Autore stesso, il grande ostacolo da superare: Libera nos Domine è il manifesto della resa? È il piano d’appiattimento in toto di ogni umano slancio e d’ogni intervento divino? È l’inno all’estraniazione dal mondo e, quindi, ad un’incomunicabile solitudine? È l’uomo pronto a rinunciarsi, a lanciarsi nella propria kenosi — estremo atto d’amore all’uomo e a Dio —, in nome della coerenza, dell’onestà intellettuale e morale; pronto a rinunciare a Dio stesso in nome di Dio. Il metodo: fuggire dall’ipocrisia e dal compromesso! L’intolleranza è il fulcro di questa sofferta petizione. Non si dovrà mai più tollerare che Dio sia ridotto ad una muta immagine manipolata da impostori (una immagine plumbea, che si vuole non comunichi altro che paura). Non si dovrà mai più tollerare che preti di qualsiasi credo propinino false. Non si dovrà mai più tollerare alcuna crociata — l’idea che la pace si edifichi con la violenza —. Non si dovrà mai più tollerare alcuna sacra scrittura, se questi ne sono i frutti; non si dovranno mai più tollerare invasati, visionari e martiri dell’odio e del terrore. Occorre un riscatto, ma come operarlo? Libera nos Domine! Prega il cristiano: Pater nóster […] líbera nos a málo48. Altrove: «Líbera nos, quaésumus Dómine, ad ómnibus malis […]»49. 48 49

Mt, 6,9-23. Liber usualis Missae et Officii pro dominicis et festis, Roma 1954, 5.


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La cultura contemporanea, nella fatica della propria auto-comprensione, giunge al riconoscimento della “necessaria” misericordia liberante di Dio, e quindi al riconoscimento della sua “necessaria” esistenza, e ciò a mezzo della preghiera che Cristo ha insegnato. È il riconoscimento, sofferto, paradossale, di chi avvisando il bisogno di sottrarsi alla realtà tutta e a quella meta-realtà (Dio) che si comprende ne sia il fondamento, sostegno e destino, a questa è necessitato a ricorrere per il raggiungimento dello scopo. Dando nuova voce alle sorelle di Betània, Guccini canta «Signore, ecco, il tuo amico è malato»50, liberalo: questo, credo sia il senso ultimo di Libera nos Domine. L’Autore consegna a Dio una realtà malata, implorandone l’intervento sanatorio. Tuttavia, un alone di fatalismo appanna questa verticale apertura: dov’è la consapevolezza della vita eterna51? Per questa ragione dico intervento sanatorio e non salvifico.

3.2.2.5. Una supplica marina52 Per i moli dell’attesa costruiti col pensiero / e i pontili della resa demoliti per davvero / con leggi e capitolati insegnati l’altroieri / ad architetti sgozzati sull’ara degli ingegneri, / e per quei gerani rossi crocefissi ai balconi / e i fiori oscuri affissi a notturne sensazioni, / quando labbra e rossetti non rinunciano all’addio / e ai poeti maledetti non rimane che l’oblio. Signore, se ci toglierai la colpa non lasciarci la vergogna, / non lasciarcela, Signore, / ma se resta la vergogna allontanaci il dolore. / E per quel nodo nascosto sconosciuto ai marinai, / e per quelle barche d’agosto che non salperanno mai, / per quel riccio troppo grande che t’infilzi nelle mani / e la burrasca di domande sui naufragi quotidiani. / Per il porto senza uscita sull’oceano che hai di fronte / e per la vela smarrita che ogni notte è più distante / sulla rotta sottovento dell’inganno e dell’azzardo / per quei figli sempre accanto e abbracciati con lo sguardo. /

50

51 52

Gv 11,3. Cfr Cristo tra i chitarristi, Si chiamava Gesù. J. ISAAC - S.S. SACCHI, in Lettere Celesti, EMI 2001: JOAN ISAAC.


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Giuseppe Nicolosi Signore, se ci toglierai la colpa… / Per ogni luna finita nell’indugio dell’assenzio / E per l’anima ferita dall’oltraggio del silenzio. //

Nota introduttiva: il mistero del non detto, dell’accennato53, conferisce a quest’opera un’indole particolarmente sfuggevole: come vedremo, molte sono le intuizioni generosamente suggerite, pochi i punti d’approdo. Un placido ritornello è il centro di questa tutta placida invocazione: su di esso voglio fermarmi e, considerandolo a tappe per le sue parti costitutive, riflettere; mi aiuterà il richiamo agli insegnamenti della Teologia Dogmatica e, quindi, della Scrittura circa il perdono, la colpa, la vergogna a seguito del peccato. In verità, l’Autore non ricorre esplicitamente al termine peccato come cagione di ogni colpa e vergogna; del resto, non invoca la liberazione di Dio dal peccato, ma gli rivolge come un’esortazione — l’espressione ha inizio con un “se” —. Resta così da definire, in una comprensione previa, quale sia la ragione dell’invocazione, la tensione antropo-teologica qui espressa, mediata. Di quale colpa si tratta? Il desistere dall’attesa, la resa, l’oblio, l’inezia, il dubbio, lo smarrimento, l’inganno, l’azzardo, l’attaccamento affettivo, l’indugio, il silenzio: sono i termini chiave di questa Supplica; a questi fa sempre seguito il nostro ritornello; questi sono i costitutivi della riconosciuta colpa. Mi permetto di riassumere questi costitutivi in un sol termine: il rifiuto. Il rifiuto della realtà nel suo essere e darsi all’uomo; il disimpegno dal presente — la dimenticanza —: questa è la colpa? Può darsi! Mi sembra ch’io non riesca ancora a cogliere il nervus rerum del discorso. La Teologia dogmatica insegna che: «Dio ha manifestato la sua volontà concreta riguardo a un comportamento dell’uomo conforme al suo desiderio [salvifico]; gli uomini […] hanno

53

Cfr la Premessa allo scritto.


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abbastanza libertà per rifiutarsi alla volontà di Dio. Questo rifiuto nel linguaggio biblico-ecclesiastico si chiama ‘peccato’»54.

Posso porre in equazione il rifiuto prima individuato con quanto appena riportato? Lo faccio, e poiché la volontà di Dio e che l’uomo amando Dio e l’uomo si realizzi in una piena esistenza comunionale — questo è il senso dell’Incarnazione del Verbo —, ne ricavo che il rifiuto è rifiuto d’amore pieno, vero, gratuito. Signore, se ci toglierai la colpa […]. «Chi nella consapevolezza della sua colpa cerca fiduciosamente rifugio in Gesù, è già afferrato da una dinamica prodotta dallo Spirito santo, la quale lo assicura del perdono presso il “Padre della misericordia e Dio di ogni consolazione (2 Cor 1,3). Questa è la fede comune di tutti i cristiani. La divisione comincia già però con la questione di cosa precisamente venga perdonato. Il peccato è una corruzione comune a tutta l’umanità, che attraverso il perdono divino non viene realmente eliminata ma, grazie alla croce di Gesù, solo non imputata, così che dopo il perdono un uomo sarebbe insieme peccatore e giusto? Oppure il peccato è un modo concreto di comportamento che nasce da una decisione di fondo sbagliata e viene perdonato insieme con questa da Dio, nel senso che dopo il perdono entrambi sono realmente eliminati, così che dopo il perdono ci sarebbero comunque ancora una cattiva inclinazione e delle conseguenze del peccato ma non più la corruzione stessa?»55.

Questa divisione circa il contenuto del perdono divino sembra portare l’urgenza della petizione: […] non lasciarci la vergogna, non lasciarcela, Signore […].

Di quale vergogna si tratta?

54 55

H. VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, trad. it., Brescia 1992, 269. Ibid., 271.


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Giuseppe Nicolosi «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo e sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. Rispose: “ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”»56.

Se la mia prima ipotesi è esatta, allora la vergogna è vergogna per la nudità dell’uomo innanzi a Dio: vergogna per il rifiuto per il quale l’uomo si sottrae all’amore di Dio, se ne sveste. […] ma se resta la vergogna allontanaci il dolore. «Ho allontanato da te il male, perché tu non abbia a subirne la vergogna»57.

Non saprei dire se l’Autore avesse notizia del citato passo biblico; un singolare rapporto, però, corre tra i due “pensieri”: sembra che il primo — che è, in verità, il secondo in ordine al tempo storico di composizione — trovi consolazione nel secondo — che affonda le proprie radici direttamente nell’AT (tra il 640-609: regno di Giosia) —. Comunque sia, ne posso ricavare un’ulteriore sottolineatura circa la dinamica della relazione tra l’uomo e Dio: l’uomo tenta ancora il dialogo con Dio — dal canto suo, Dio continua a precederci! —.

3.2.3. La preghiera di lode e il dialogo col divino Dedico quest’ultimo paragrafo alla preghiera di lode e al dialogo col divino. La preghiera di lode è quella “pratica di fede” per la quale l’orante si rivolge a Dio con gratitudine e stupore, meraviglia e tenerezza per le opere da Lui compiute, per l’amore a l’uomo riservato.

56 57

Gn 3,7-10. Sof 3,18.


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È, forse, l’unica tipologia di preghiera nella quale l’uomo “ascolta” il suo creatore (nella denuncia così come nella richiesta si parla, non si ascolta; quando l’animo s’accende di rabbia e desiderio, v’è monologo non dialogo): Lo si ascolta nella bellezza della sua opera, e a Lui si innalza la lode; per questo la definisco anche dialogo col divino, proprio perché il dialogo esige un reciproco dire ed ascoltare, annunciarsi e riconoscere una presenza Altra. Una presenza ravvisata, eppure ineffabile: cristianamente creduta come Persona che invita ad una nuova e finalmente autentica relazione; laicamente intuita come anima mundi, spirito indefinito e onnipresente, datore-sostenitore-raccolgitore di vita.

3.2.3.1. E ti vengo a cercare58 E ti vengo a cercare / anche solo per vederti o parlare / perché ho bisogno della tua presenza / per capire meglio la mia essenza. / Questo sentimento popolare / nasce da meccaniche divine, / un rapimento mistico e sensuale mi imprigiona a te. Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri, / non accontentarmi di piccole gioie quotidiane, / fare come un eremita / che rinuncia a sé. E ti vengo a cercare / con la scusa di doverti parlare / perché mi piace ciò che pensi e che dici / perché in te vedo le mie radici. / Questo secolo ormai alla fine, / saturo di parassiti senza dignità / mi spinge solo ad essere migliore, / con più volontà, / emanciparmi dall’incubo delle mie passioni, / cercare l’Uno al si sopra del Bene e del Male, / essere un’immagine divina / di questa realtà. //

Talvolta nella cultura contemporanea, per la canzone d’autore, si esprime quella tensione verso l’Uno al si sopra del Bene e del Male, che sola apre l’uomo alla propria auto-comprensione e al proprio compimento. È quanto attesta il brano di Battiato: la ricerca di Dio è ricerca di una Presenza, è ricerca del Tu — ti vengo… — da cui si intuisce di dipendere

58

F. BATTIATO, Fisiognomica, EMI 1988: F. BATTIATO.


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costitutivamente; la ricerca di Dio è il viaggio verso il Luogo in cui il bisogno è soddisfatto, la fame saziata, la sete estinta, il dubbio risolto, la consapevolezza acquisita. Soffermandomi su queste indicazioni introduttive, vorrò meglio precisarle accostando alle intuizioni del Cantautore siciliano alcuni insegnamenti di s. Tommaso d’Aquino: l’intento è ancora quello di leggere in chiave teologica alcuni “dati” propri all’uomo e alla cultura contemporanei. Farò dunque riferimento al Doctor angelicus come ad un qualificato “perito”, già consapevole della delicatezza dell’operazione59. E ti vengo a cercare anche solo per vederti o parlare […].

Secondo Tommaso l’uomo è costituito in quanto uomo — cioè, in quanto creatura ragionevole — dal suo desiderio naturale di vedere Dio. È su questo desiderio che si fonda l’esperienza della fede [cristiana]. Scrive: «il desiderio naturale di conoscere insito in ogni creatura ha per oggetto tutte quelle cose che sono necessarie alla sua perfezione intellettuale […]. Del resto se uno conoscesse soltanto Dio, fonte e principio di tutto l’essere e di ogni verità, appagherebbe talmente l’innato desiderio di sapere, che nient’altro più cercherebbe e sarebbe beato»60.

Ma perché questo desiderio? È iane questo desiderio? «[…] il desiderio naturale non può essere inutile»61.

59 È inteso: non voglio ridurre il pensiero dell’uno a quello dell’altro né viceversa: è un accostamento finalizzato, in sé, a comprendere l’Istanza che muove, oggi come in altre epoche, l’uomo alla ricerca di Dio. 60 «[…] naturale desiderium rationalis creaturae est ad sciendum omnia illa quae pertinent ad perfectionem intellectus […]. Si tamen solus Deus videretur, qui est fons et principium totius esse et veritatis, ita repleret naturale desiderium sciendi, quod nihil aliud quaereretur, et beatus esset»: TOMMASO D’AQUINO, Summae Theologiae, a cura di A. Balducci – M. Daffara, I, Firenze 1949, p. I., q. 12, art. 8, 274. 61 «Naturae autem desiderium non potest esse inane»: ID., Summae contra Gentiles, III, Roma 1894, c. 57, 366. La traduzione in italiano è mia.


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[…] perché ho bisogno della tua presenza […]: è il bisogno che muove l’uomo alla ricerca di Dio — superfluo precisarne il perché! —; il bisogno di felicità62, di pienezza di senso.

Dunque, questo desiderio è utile poiché soddisfa un bisogno; il bisogno di quella felicità che solo una intelligenza perfezionata può raggiungere. […] per capire meglio la mia essenza.

In generale, l’uomo procedendo nell’acquisizione di conoscenza avanza vieppiù nella coscienza di se stesso: per la capacità d’azione riflessa egli sa cogliersi nell’agire e da qui ricavarsi, riconoscersi. Più ancora, la consapevolezza del bisogno/desiderio di cui ho appena detto, dischiude l’uomo alla comprensione della propria natura: egli è il qualcheduno dipendente dal Qualchedun’altro — non ha dato la vita a se stesso, non la custodisce da sé, non ne dispone il destino —; egli è creatura. Da dove nasce il desiderio naturale? Da dove, il bisogno di Dio? Questo sentimento popolare / nasce da meccaniche divine, / un rapimento mistico e sensualemi imprigiona a te.

Ora, l’uomo non può da se vedere Dio: «nessuna intelligenza creata […] può comprendere totalmente di Dio»63; essa, infatti, «[…] è al di sopra […] di qualsiasi creatura»64. Così, conclude il Doctor angelicus: «È necessario che la fede venga da Dio»65. 62 «Tutti gli uomini desiderano naturalmente di sapere», per la gioia che da questa deriva: ARISTOTELE, Metafisica, a cura di A. Carlini, i, trad. it., Bari 1959, 980a, 1. 63 «Nullus autem intellectus creatus totaliter Deum comprehendere potest […]»: TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, cit., 273-274. 64 «[…] supra naturam omnis creaturae»: ID., Summae Theologiae, a cura di M. Boccanegra – T.S. Centi, VIII, Firenze 1949, p. I-II, q. 5, art. 5, 150. 65 «[…] necesse est quod fides sit a Deo»: ID., Summae Theologiae, a cura di T.S. Centi – D. Mongillo, XIV, Firenze 1949, p. II-II, q. 6, art. 1, 158.


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Sembra che anche qui il pensiero del Teologo e l’intuizione dell’Artista convergano: il desiderio naturale di vedere Dio, ovvero, l’istinto alla fede — l’impulso alla ricerca di Dio —, viene da Dio stesso. Grato a s. Tommaso per l’indiretto aiuto offerto alla mia comprensione, salutandolo, faccio un passo indietro. Dicevo pocanzi che solo una intelligenza perfezionata può raggiungere la felicità naturalmente desiderata e perseguita nella ricerca di Dio. Per questo il Nostro scrive: Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri,/ non accontentarmi di piccole gioie quotidiane, / fare come un eremita / che rinuncia a sé.

Si aprirebbe a tal proposito un’articolatissima argomentazione. Per ovvie ragioni, preferisco non avventurarmi anche in essa, limitandomi a ricavarne le indicazioni più salienti66. Secondo Battiato, l’incontro con il divino è il punto di arrivo di un itinerario di conversione: per soddisfare quel desiderio/bisogno occorre in primo luogo ripensare la sfera dei valori; ridefinire il bene appetibile, il veramente utile; riuscire a comprendere la vanità delle ambizioni quotidiane67, riuscire nella rinuncia di se stessi68. Ecco: la cultura contemporanea, aprendosi al riconoscimento del mistico e del divino, tra gli innumerevole slanci, incoraggia se stessa al cammino spirituale. È un incoraggiamento alla ricerca delle proprie radici — perché in te vedo le mie radici! —, della propria appartenenza; è l’invito a non cedere alla mediocrità, a riscoprire la propria dignità, ad essere migliore, con più volontà; ancora, è l’appello a se stessa rivolto ad emanciparsi dall’incubo delle passioni e, finalmente, a cercare l’Uno al si sopra del Bene e del Male: solo attraverso questo itinerario spirituale — annuncia Battiato — l’uomo saprà riscoprirsi come immagine divina. 66 Diversamente, dovrei fare dovizioso riferimento alla bi-millenaria cristiana tradizione mistica e ascetica, al manicheismo, alla fuga mundi… 67 Cfr Qo 1,2-11. 68 Questo è un tema assai scottante: potrebbe aprirsi alla prospettiva del manicheismo.


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«Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»69.

3.2.3.2. Il Cantico delle creature70 A Te solo Buon Signore / si confano gloria e onore, / a Te ogni laude et benedizione, / a Te solo si confano / che l’altissimo tu sei / e null’omo degno è / Te mentovare. / Si laudato mio Signore / con le Tue creature, / specialmente frate Sole / e la sua luce. / Tu ci illumini di lui / che è bellezza e splendore / di Te Altissimo Signore / porta il segno. / Si laudato mio Signore / per sorelle Luna e Stelle / che Tu in cielo le hai formate / chiare è belle. Si laudato per frate Vento / aria, nuvole e maltempo / che alle Tue creature / dan sostentamento. Si laudato mio Signore / per sorella nostra Acqua, / ella è casta, molto utile / e preziosa. / Si laudato per frate Foco / che ci illumina la notte / ed è bello, giocondo e robusto e forte. / Si laudato mio Signore / per la nostra madre Terra / ella è che ci sostenta / e ci governa. / Si laudato mio Signore, / vari frutti lei produce / molti fiori coloriti / e verde l’erba. / Si laudato per coloro / che per donano per il Tuo amore / sopportando infermità / e tribolazione, / e beati sian coloro / che cammineranno in pace / che da Te Buon Signore / avran corona. / Si laudato mio Signore / per la Morte Corporale / ché da lei nessun che vive / può scappare, / e beati saran quelli / nella Tua volontà / che sorella Morte non gli farà male. //

A distanza di circa ottocento anni dalla sua composizione71, 69

Gen 1,27. A. BRANDUARDI, L’Infinitamente piccolo, EMI 2000: A. BRANDUARDI. 71 Superfluo specificare chi ne sia l’autore. Chi volesse, può trovare la Laudes Creaturarum in La produzione letteraria in Italia, storia, testi, contesti, a cura di G. Petronio – V. Masiello, I, Firenze 1993, 78. 70


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Branduardi ripropone la Laudes creaturarum del santo di Assisi, testimoniando come, nonostante tutto, nella cultura contemporanea ancor viva sia la consapevolezza della umana creaturalità, viva sia la gratitudine amorosa per l’opera della Creazione e, dunque, vivo l’amore per l’Iddio-Creatore. Per il Cantico di Francesco-Branduardi, la grandezza e la bellezza delle creature sono l’occasione per conoscere e lodare l’Altissimu, onnipotente, bon Signore, a cui solo spettano gloria e onore, ogni laude et benedizione. Si traduce così quanto insegna la Scrittura: «[…] dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore»72. Ecco: dalla lode per il creato — per Francesco, tutto il creato, poiché anche nelle realtà più dolorose si vela e, d’un tempo, si svela il mistero dell’amore di Dio — s’innalza la lode per il Divino Autore. Il Cantico delle creature è, allora, il “luogo” della riscoperta e accolta creaturalità; è il “tempo” del dialogo con Dio; è il “linguaggio” dell’abbandono in Lui, nella memoria della propria origine e nell’attesa del proprio destino; in ultimo, il Cantico è quella lode — sola via — per la quale sarà sempre possibile all’uomo “intuire” il proprio Creatore e, anche a prescindere dalla mediazione biblica ed ecclesiale, benedirlo.

3.3. “Luoghi” biblici nella canzone d’autore In taluni casi, la canzone d’autore ha portato se stessa su espliciti temi biblici: passi piuttosto che “sezioni” intere. Si tratta, è ovvio, di letture laiche di alcuni momenti/eventi inerenti la divina rivelazione: da queste nascono domande, ne vengono intuizioni — sull’uomo e su Dio —; esse sono anche il tentativo di rileggere e ridire la storia di un dialogo antico e sempre vivo tra due parteners così lontani eppur così vicini per natura73, sensibilità, attitudini. Sono amabili esempi della costante fatica ermeneutica spesa dall’uomo in favore dell’uomo, alla ricerca di un appartenenza “altra”, un destino altro, un esistenza altra. In breve, essi sono apografie moderne. 72 73

Sap 13,5. Cfr Gen 1,27 e ss.


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3.3.1. La Buona Novella74 Impostata come una sorta di sacra rappresentazione, La Buona Novella di Fabrizio De Andrè75 racconta le “vicende evangeliche” a partire dall’Infanzia di Maria giungendo, attraverso la Via della croce, alla scena della morte di tre uomini: il figlio di Maria e i due ladroni, Tito e Dimaco. Alla narrazione apografa segue un’appassionante riflessione “teologica”. Nota distintiva del Lavoro è la capacità dell’Autore di cogliere e descrivere il dato umano dei suoi personaggi, e in particolare i loro pensieri, i loro sentimenti. L’album raccoglie dieci brani. Decido di prenderne in esame solamente due; degli altri indico (a malincuore) soltanto i titoli. Eccoli: Laudate Dominum, L’infanzia di Maria, Il ritorno di Giuseppe, Il sogno di Maria, Ave Maria, Maria nella bottega di un falegname, Via della croce, Tre madri, Il testamento di Tito, Laudate hominem.

3.3.1.1. Il testamento di Tito “Non avrai altro dio all’infuori di me” / spesso mi ha fatto pensare: / genti diverse venute dall’Est / dicevan che in fondo era uguale. / Credevano a un altro diverso da te / e non mi hanno fatto del male. / Credevano a un altro diverso da te / e non mi hanno fatto del male. / “Non nominare il nome di Dio”, / non nominarlo invano: / con un coltello piantato nel fianco / gridai la mia pena e il suo nome; / ma forse era stanco, forse troppo occupato, / e non ascoltò il mio dolore. / Ma forse era stanco, forse troppo lontano, / davvero lo nominai invano. / “Onora il padre, onora la madre”: / e onora anche il loro bastone, / bacia la mano che ruppe il tuo naso / perché le chiedevi un boccone. / Quando a mio

74

F. DE ANDRÉ, La Buona Novella, Ricordi 1970: F. DE ANDRÉ. Per i testi delle canzoni, De André fa riferimento al Protovangelo di Giacomo e ad altri scritti apocrifi: questi, databili tra il I e il IV secolo d.C., pur non essendo stati riconosciuti dalla Chiesa cattolica, ricalcano in larga misura quelli canonici e con un tono, forse, ingenuamente fiabesco, fantasioso, li completano con bellissimi, articolati e immaginifici racconti, in particolare sull’infanzia di Maria e di Gesù. 75


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Giuseppe Nicolosi padre si fermò il cuore / non ho provato dolore. / Quando a mio padre si fermò il cuore / non ho provato dolore. / “Ricorda di santificare le feste”: / facile per noi ladroni / entrare nei templi che rigurgitan salmi / di schiavi e dei loro padroni, / senza finire legati agli altari / sgozzati come animali. / Senza finire legati agli altari / sgozzati come animali. Il quinto dice “non devi rubare”: / e forse io l’ho rispettato / vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie / di quelli che avevan rubato. / Ma io, senza legge, rubai in nome mio, / quegli altri nel nome di Dio. / Ma io, senza legge, rubai in nome mio, / quegli altri nel nome di Dio. / “Non commettere atti che non siano puri” / cioè non disperdere il seme. / Feconda una donna ogni volta che l’ami / così sarai uomo di fede. / Poi la voglia svanisce e il figlio rimane / e tanti ne uccide la fame. / Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore, / ma non ho creato dolore. / Il settimo dice “non ammazzare se del cielo vuoi essere degno”: / guardatela oggi, questa legge di Dio, / tre volte inchiodata nel legno. / Guardate la fine di quel nazareno, / e un ladro non muore di meno; / Guardate la fine di quel nazareno, /e un ladro non muore di meno. “Non dire falsa testimonianza” e aiutali a uccidere un uomo. / Lo sanno a memoria il diritto divino, / e scordano sempre il perdono. / Ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, / non ne provo dolore. / Ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, / non ne provo dolore. / “Non desiderare la roba degli altri”, / non desiderarne la sposa. / Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi / che hanno una donna e qualcosa: / nei letti degli altri già caldi d’amore / non ho provato dolore. / L’invidia di ieri non è già finita: / stasera vi invidio la vita. / Ma adesso che viene la sera ed il buio / mi toglie il dolore dagli occhi / e scivola il sole al di là della dune / a violentare altre notti: / io, nel vedere quest’uomo che muore, / madre, io provo dolore. / Nella pietà che non cede al rancore, / madre, ho imparato l’amore. //

Per la bocca del ladrone Tito, De André impianta una lettura provocatoria dei dieci comandamenti “ridefinendoli” uno ad uno: l’intento è quello di smascherare l’ipocrisia moralistica della società dei “potenti”; rivendicare la dignità degli ultimi. «[Questo] antidecalogo […] rappresenta l’espressione radicale di una contestazione dello schematismo precettistico che pareva discendere diret-


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tamente dal rigore veterotestamentario fino al catechismo di Pio X. Il decalogo era in fondo il residuato di una dottrina che era stata superata dal “comandamento nuovo” di Gesù: l’amore per i propri fratelli76»77.

Il centro di Il Testamento di Tito è dunque la denuncia dell’ennesimo tradimento: l’uso della Parola di Dio come strumento di repressione a vantaggio del sistema di potere contro l’uomo, a sacrificio dell’uomo. A tal proposito, è stato scritto: «L’artista — disinteressato alla genesi “divina” del decalogo — lo ribalta [il decalogo] radicalmente in nome della dignità calpestata dell’uomo, evidenziando con una durezza programmatica e consequenziale il rovescio della medaglia insito in ogni comandamento»78.

Primo comandamento “Non avrai altro Dio all’infuori di me” / spesso mi ha fatto pensare: / genti diverse venute dall’Est / dicevan che in fondo era uguale. / Credevano a un altro diverso da te / e non mi hanno fatto del male. «Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai»79.

De André esordisce riproponendo il primo dei comandamenti mosaici e subito contestando l’affermazione dell’unicità esclusiva del Dio biblico: in verità, il suo non è il diniego a-priori della divinità di Jahvè; piuttosto, vuol provocare ad una previa considerazione circa la necessità della tolleranza tra le genti diverse, specie quando l’incontro tra diverse culture segna l’incontro tra credi diversi. L’idea centrale potrebbe essere così sintetizzata: non è possibile che per il nome di Dio l’uomo possa usare violenza all’uomo. 76 77 78 79

Gv 13,34-35: questa nota è a mio carico. P. GHEZZI, Il Vangelo secondo De André, Milano 2003, 33. Ibid., 34. Es 20,3-5.


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Secondo comandamento “Non nominare il nome di Dio, non nominarlo invano”: / con un coltello piantato nel fianco / gridai la mia pena e il suo nome. / Ma forse era stanco, forse troppo occupato, / e non ascoltò il mio dolore. / Ma forse era stanco, forse troppo lontano, / davvero lo nominai invano. / «Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano»80.

L’Autore non è interessato all’abuso del nome di Dio come, ad esempio, avviene nello spergiuro, o in altre circostanze della quotidianità. Gli preme dar voce all’uomo vessato dall’odio dell’uomo: nella sua comprensione, non è bestemmia la bestemmia dell’uomo, ma la sordità di Dio; infatti, anche quando l’uomo impreca o sfida Dio, gli si sta rivolgendo, e ciò perché in Lui riconosce l’onnipotenza dell’aiuto. Non trovando risposta, l’uomo non può che concludere tre cose: o Dio non c’è; o se c’è e non agisce, non è onnipotente; o se c’è e non agisce è assente, ha abbandonato l’uomo. L’assenza di Dio dai travagli della quotidianità è, a suo avviso, la sola/vera bestemmia: bestemmia contro l’umanità! È questa assenza/abbandono che, secondo Tito, per De André, rende vano nominare il nome di Dio: è quella stessa assenza che rende disperata la preghiera di Giobbe81; è quello stesso abbandono sperimentato dal Crocefisso: «Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato?»82. È possibile giustificare Dio? È possibile comprendere la ragione della sua inoperosità? Intanto rimane: forse era stanco, forse troppo occupato […].

80

Es 20,7. Gb 19,6-7: «Sappiate dunque che Dio mi ha piegato e mi ha avviluppato nella sua rete. Ecco, grido contro la violenza, ma non ho risposta, chiedo aiuto, ma non c’è giustizia». Attenzione: si legga però anche il resto del capitolo; meglio, si legga tutto il libro di Giobbe. 82 Mc 15,34: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». 81


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Terzo comandamento83 “Onora il padre, onora la madre” / e onora anche il loro bastone, / bacia la mano che ruppe il tuo naso / perché le chiedevi un boccone: / quando a mio padre si fermò il cuore / non ho provato dolore. / «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio»84.

Scrive Ghezzi: «È uno dei versi più duri del testo: il rispetto dei genitori non può essere richiesto a chi ha vissuto, anche dentro la famiglia, la violenza e la negazione dello status di figlio. Se il padre è l’immagine di un dio violento e vendicativo, e non di un Dio di misericordia, allora addirittura non si prova dolore per la sua morte, che diventa una liberazione. È evidente anche in questo caso la rilettura intenzionalmente estrema del comandamento, il suo ribaltamento programmatico, la contestazione feroce dell’ipocrisia che si può nascondere dentro un rapporto padre-figlio. Se non si è vissuta — come spesso accade ai ladroni di ieri e a quelli di oggi — l’esperienza dell’amore paterno e materno, è difficile credere alla bontà di Dio»85.

Quarto comandamento “Ricorda di santificare le feste”. / Facile per noi ladroni / entrare nei templi che rigurgitan salmi / di schiavi e dei loro padroni / senza finire legati agli altari sgozzati come animali. / «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo […]»86.

83 De André cambia qui la sequenza dei comandamenti: il quarto diviene terzo, il terzo prende il posto del quarto. 84 Es 20,12. 85 P. GHEZZI, Il Vangelo, cit., 37-38. 86 Es 20,8-11.


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L’attenzione di Tito si sposta sulle pratiche religiose ebraiche: ai suoi occhi sono ridotte a ritualità formali, estranee al fatto della fede87; inoltre, sono discriminanti, poiché non è permesso officiarle a coloro che stanno ai margini della società come, ad esempio, gli schiavi e i criminali. La strofa si conclude con l’accostamento del sacrificio cruento in uso presso il popolo ebraico e al sacrificio di Abramo, con un velato rimando al sacrificio dei crocifissi. Quinto comandamento88 Il quinto dice “Non devi rubare” / e forse io l’ho rispettato vuotando, in silenzio, / le tasche già gonfie di quelli che avevan rubato: / ma io, senza legge, rubai in nome mio, / quegli altri, nel nome di Dio. / «Non rubare»89.

Qui la contestazione si porta su un delicato tema d’ordine giuridicoetico: al furto “legale” operato dai potenti, e talvolta giustificato nel nome di Dio — si pensi, ad esempio, agli innumerevoli privilegi e benefici concessi alla Chiesa, e auto-concessisi dalla Chiesa, lungo questi duemila anni —, l’Autore contrappone il latrocinio senza legge di Tito, quello mosso dall’indigenza, dal desiderio di riscatto. De André giustifica, dunque, il dolo perpetrato da Tito, in nome di un criterio di equa distribuzione dei beni, per il quale è dovuto il furto che svuotando «le tasche già gonfie», vuol riempire quelle vuote — per intenderci: il furto alla Robin Hood —. Sesto comandamento “Non commettere atti che non siano puri” / cioè non disperdere il seme. / Feconda una donna ogni volta che l’ami / così sarai uomo di fede: / poi la

87 Mi sembra esserci un riferimento all’irruzione di Gesù nel Tempio. Cfr Mt 21,12-17. 88 Settimo nel testo biblico. 89 Es 20,15.


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voglia svanisce e il figlio rimane / e tanti ne uccide la fame / io, forse, ho confuso il piacere e l’amore / ma non ho creato dolore. / «Non commettere adulterio»90.

Qui il Nostro rilegge e vaglia la dottrina sulla morale sessuale della Chiesa, e più in particolare critica il divieto della contraccezione “artificiale” e l’assunzione dell’imprescindibile legame tra atto sessuale e finalità procreativa91. Mettere al mondo dei figli destinati ad un avvenire difficile e certamente travagliato, secondo De André/Tito, è il vero peccato: creare, nel dolore, figli del dolore è la vera colpa. Certo, l’onestà porta Tito ad ammettere anche la possibilità che quest’ultima sia un’affermazione ipocrita ed egoistica; resta il fatto che la libertà sessuale gli pare noccia meno che l’imposizione di una sessualità finalizzata alla sola procreazione. Sembra quasi un appello alla paternità responsabile: non è possibile dare la vita nell’incertezza che la voglia possa subitaneamente sparire, abbandonando poi il proprio frutto alle ingiurie della quotidianità e alla fame. Settimo comandamento92 Il settimo dice “Non ammazzare / se del cielo vuoi essere degno”. / Guardatela oggi, questa legge di Dio, / tre volte inchiodata nel legno: / guardate la fine di quel Nazareno, / e un ladro non muore di meno. / «Non uccidere»93.

Qui, Tito ci spiazza: diversamente che per gli altri comandamenti, il ladrone non nega l’eticità e la pretesa universale della legge divina; ma con maggior asprezza, eccolo denunciare l’ipocrisia degli uomini di Dio. 90

Es 20,14. Osservazione storica: quando De André scrisse la sua La Buona Novella, gli insegnamenti conciliari (in particolare: GS 49-52) erano ancora molto giovani, e quindi non ancora mediati e recepiti alla/dalla cultura contemporanea. 92 È il quinto nel testo biblico. 93 Es 20,13. 91


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Come può convivere il non uccidere con la pratica della pena di morte? E come è possibile che la stessa autorità religiosa la avalli94? Il più grave dei tradimenti è stato avvisato! Ottavo comandamento “Non dire falsa testimonianza” / e aiutali a uccidere un uomo. / Lo sanno a memoria il diritto divino / e scordano sempre il perdono: / ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, / non ne provo dolore. «Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo»95.

L’Autore lega il senso profondo del precetto al contenuto del secondo comandamento — Non nominare il nome di Dio invano —, quasi a rivendicare il diritto allo spergiuro in contrapposizione all’ipocrita legalismo di coloro che, forse, non pronunciano il falso ma sanno ben condannare a morte. Di questi dice apertamente sanno a memoria il diritto divino, e scordano sempre il perdono: «è un po’ la traduzione poetica della condanna che lo stesso Cristo ha pronunciato nei confronti dell’ipocrisia degli osservanti farisei, «sepolcri imbiancati»; è anche un riflesso della teologia contemporanea che ha messo in ombra il Dio giudice e legislatore per valorizzarne proprio la natura misericordiosa e l’attitudine a un perdono illimitato»96.

Nono e decimo comandamento “Non desiderare la roba degli altri, / non desiderarne la sposa”. / Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi / che hanno una donna e qualcosa: / nei letti degli

94 Purtroppo, è ancora ammessa dalla Chiesa Cattolica come estremo rimedio. Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, cit., 557-558. Si confronti anche la rispettiva Corrigenda di Contenuti (Libreria Editrice Vaticana). 95 Es 20,16. 96 P. GHEZZI, Il Vangelo, cit., 41. È quanto ci comanda il Maestro: cfr Mt 18,21-22.


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altri già caldi d’amore / non ho provato dolore. / L’invidia di ieri non è già finita, / stasera vi invidio la vita. «Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo»97.

Tito non accetta il precetto contro l’adulterio; non è disposto a tacersi il desiderio nei confronti d’una donna d’altri: esprime il non pentimento per aver giaciuto negli altrui letti. La sua appassionata rivendicazione ha anche uno spessore sociale: vuol riequilibrare il godimento dei privilegi; recrimina la possibilità che tutti possano, volendo, avere «una donna e qualcosa». Ed ecco che il ladrone cede allo sfogo: confessa di non poter non invidiare la vita di chi sta per togliergli la sua in nome d’una distorta comprensione della legge divina. De André, così, dà voce al grido lacerato di chi chiede di esistere in un modo dignitoso. Tito non conosce il pentimento per i propri peccati: peccare è il solo modo avuto per rivendicare la propria dignità; il solo modo avuto per vivere. Epilogo Ma adesso che viene la sera ed il buio / mi toglie il dolore dagli occhi / e scivola il sole al di là delle dune / a violentare altre notti: / io, nel vedere quest’uomo che muore, / madre, io provo dolore. / Nella pietà che non cede al rancore, / madre, ho imparato l’amore. /

Se da sempre sentimenti forti e accesi — rabbia, rimpianto, invidia — hanno dominato il cuore di Tito, conducendolo come reietto per le strade del mondo, negli ultimi attimi della sua vita accade un vero miracolo di conversione: il ladrone conosce la pacifica rassegnazione, l’abbandono all’amore ora finalmente scoperto sul volto di un uomo, anch’egli, morente. 97

Es 20,17.


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Così, quando il giorno è ormai alla fine e anche le forze si avviano al tramonto, poco prima che la morte venga a vincerlo, e ancor mentre la vita continua nel suo corso implacabile, il dolore cresce facendosi inaspettatamente senso della vita: Tito ha innanzi il proprio riscatto, lo sceglie, lo vive: è il dolore per la sorte dell’uomo l’unico rimedio al dolore dell’uomo. Vedendo «quest’uomo che muore», Tito per la prima volta si apre alla vita: si commuove; e rivolgendosi alla madre, confessa: ho imparato l’amore, nella pietà che non cede al rancore. «nell’incontro, nel saper guardare negli occhi degli altri, nel dimenticare le convenienze rassicuranti per se stessi, sta il segreto dell’amore […]. Penso al buon ladrone Tito, che nel vedere quest’uomo che muore prova dolore, […] nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore… Qui De André evoca, forse involontariamente la teologia del Levinas: il rapporto con gli altri è un gioco di volti; la verità dell’altro è un volto nudo. Non è il muso dell’animale, non è la faccia umana contrapposta al grugno del cane, non è la maschera che nasconde l’umanità: è il volto che si illumina, nel mistero, quando incontro un altro volto»98. «Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto”; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto»99.

3.3.1.2. Laudate hominem Laudate Dominum. / Laudate Dominum. / Il potere che cercava il nostro umore / mentre uccideva nel nome d’un dio, / nel nome d’un dio uccideva un uomo: / nel nome di quel dio si assolse. / poi chiamò dio, poi chiamò dio quell’uomo / e nel suo nome, nuovo nome, / altri uomini, altri uomini uccise. / Non voglio pensarti figlio di Dio / ma figlio dell’uomo, fratello anche mio. / Laudate Dominum… / Ancora una volta abbracciamo la fede / che insegna ad avere, / avere il

98 99

P. GHEZZI, Il Vangelo, cit., 24. Sal 27,8-9.


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diritto al perdono, al perdono / sul male commesso nel nome d’un dio / che il male non volle, il male non volle, / finché, finché restò uomo, uomo. / Non posso pensarti figlio di Dio / ma figlio dell’uomo, fratello anche mio. / Laudate / Qualcuno, qualcuno / tentò d’imitarlo, se non ci riuscì / fu scusato, anche lui perdonato / perché non s’imita, imita un dio, / un dio va temuto e lodato, lodato. / Laudate hominem. / no, non devo pensarti figlio di Dio / ma figlio dell’uomo, fratello anche mio, / ma figlio dell’uomo, fratello anche mio. / Laudate hominem. //

Sul finire della Buona Novella, De André ci consegna la sintesi della propria riflessione sulla “vicenda” del Figlio di Dio, e con essa confessa quanta fatica abbia dovuto spendervi. Già, è difficile pensare che Dio possa essere nato da una donna per poi morire assassinato in croce100. Ma è ancor più difficile comprendere quell’Uomo se si guarda alla realtà oggi voluta da questi uomini, coloro i quali della sua amicizia han fatto uno strumento di potere101. Non resta che arrovellarsi tra un non posso e un non devo pensarti figlio di Dio ma figlio dell’uomo, fratello anche mio: è quel bisogno di prossimità di cui si diceva altrove102 la pietra di inciampo. L’Autore “sceglie” il non devo e lo trattiene a sé come programmatico per la propria esistenza: mai pensare Dio lontano, assente; mai pensare l’uomo reietto, vinto, solo. C’è un alternativa; e questa risiede nel pensarlo fratello anche mio. La Buona Novella è, così, un itinerario di conversione — uno dei tanti, nella cultura contemporanea —: un percorso che, da una lode a Dio quasi priva di adesione personale, conduce alla lode all’uomo che ha saputo scegliere una logica diversa, un istinto diverso, quello dell’amore. E in tutto ciò, da tutto ciò, ecco aprirsi la possibilità del riconoscimento di un evento unico: l’ingresso, in Gesù, di Dio nella storia degli uomini. Eppure De Andrè non professa la divinità di Gesù — la sua Buona Novella taglia fuori la resurrezione! —, rimane come sulla soglia del rico100 101 102

Cfr Si chiamava Gesù, 36-39. Cfr Chiesa, Chiesa, 15. Cfr Spiritual, 42.


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noscimento di “qualcosa”, di “Qualcuno” che sa abbracciare le più nobili istanze e risorse dell’uomo, e le supera, le sublima.

4. APPROCCIO SISTEMATICO ALLA CANZONE D’AUTORE Tenterò quì, brevemente, un approccio sistematico alla canzone d’autore: un momento comparativo attraverso il quale evidenziare alcuni temi comuni a più Autori103. Sarebbero possibili diversi percorsi di studio, e in particolare due: l’analisi del linguaggio teologico o non teologico delle opere già citate, l’analisi dei contenuti teologici o non teologici delle stesse. Tralascio il primo percorso in favore del secondo104, limitando il confronto a due opere soltanto: Preghiera in gennaio e Chiesa, Chiesa. Un ulteriore piano di confronto nascerà accostando, via via, i dati emersi agli insegnamenti del Magistero della Chiesa Cattolica.

4.1. Contenuti teologici o non teologici della canzone d’autore: il destino dell’uomo (per una comprensione laica dell’escatologica cattolica) Preghiera in gennaio a. […] non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”.[…] che viva il suo vuoto in eterno”. b. Dio di misericordia il tuo bel Paradiso lo hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso,

Chiesa, Chiesa a. “se ami Dio non puoi accettare

b. “in quella casa è dio”, senza ogni volta tremare un io più grande; perché dovrei tremare,

103 È chiaro, temi teologici. Preciso ciò perché altre potrebbero essere le comparazioni. Una per tutte: il significato e la dignità della donna (cfr Ave Maria-De André, La disperazione della pietà-Jannacci [: penultima strofa]). 104 Credo che del primo, in qualche modo ho già potuto dire, specie nel paragrafo sulla Preghiera.


Dio, la Chiesa, la preghiera nella canzone d’autore dagli anni ’70 ad oggi per quelli che han vissuto l’inferno esiste solo per chi ne ha paura.

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perché aver paura, da un solo blocco solo […]

Dall’accostamento appena proposto si possono ricavare alcune considerazioni: L’inferno escatologico è l’eterno vuoto di Dio (Marini), per questo motivo esso non può esistere nel Suo mondo (De André)105. L’inferno appartiene ad un’altra logica, quella dell’Assenza di Dio, ovvero, alla logica della paura (De André - Marini ). Ma paura di cosa? È la paura di chi s’aggrappa visceralmente al proprio io per non abdicare ad un io più grande (Marini): paura di affidare a Qualcheduno il proprio destino; paura di non poter più bastare a se stessi; in ultimo, paura della Misericordia di Dio (De André)106. Insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Morire […] senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con lui e i beati che viene designato con la parola “inferno”»107.

In altri termini, è paura di un duplice riconoscimento: paura del riconoscimento della propria, non meno che comune, origine (Marini) e del proprio, non meno che comune, destino (De André); è paura del riconoscimento di un’identità che è al contempo un’appartenenza: la creaturalità, direbbe il teologo. È possibile il rimedio ad una tale “distorsione cognitiva” (la paura)? Tenendo ancora in conto lo schema precedente, sembrerebbe di sì: vivere nella consapevolezza d’essere tanti da un solo blocco solo (Marini), tutti d’egual dignità, tesi alla stessa compiuta felicità, soggetti alla

105 106 107

Applico il principio di non-contraddizione della logica aristotelica. Sembra esserci un richiamo all’Adamo genesiaco. Catechismo della Chiesa Cattolica, cit., 274.


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medesima fatica nel vivere109; tutto ciò equivale al vivere con la coscienza pura, solo pegno per una futura esistenza paradisiaca (De André). Si confronti questo con: «Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l’inferno sono un appello alla responsabilità con la quale l’uomo deve usare la propria libertà in vista del proprio destino eterno»110.

La canzone d’autore ha qui un intento così diverso dagli insegnamenti, dapprima, biblici, poi, magisteriali?

5. CONCLUSIONI Concludo questo viaggio alla ricerca del sentire religioso dell’uomo contemporaneo raccogliendo alcuni dati e consegnando alcune mie considerazioni. La canzone d’autore s’è fatta, a mio vantaggio, luogo dove rinvenire il rapporto uomo-Dio-Chiesa-Preghiera: è stata molto generosa in questo. Ho portato la mia attenzione su talune opere e tralasciate altre (primo limite del presente lavoro), tuttavia posso dirmi soddisfatto di quanto è venuto. Alcuni dati sono emersi con più vigore. Li elenco in sintesi: — È vivo oggi un appassionato istinto alla fede: un senso religioso111 spesso in rottura con la fede della Chiesa, ma sempre alimentato dal bisogno di autentica spiritualità; sempre onesto con l’uomo, con la Chiesa, con Dio; — È sicuramente combattuta oggi l’identificazione del rapporto uomo-Dio: talora sofferto, altre volte pacifico, pluriforme; così che l’intuizione Dio — cioè, la comprensione non ispirata alla divina rivelazione — varia dal Suo riconoscimento come Entità personale all’idea d’una Realtà sublime a-personale: un Dio 109 110 111

Cfr Gen 3,14 e ss. Catechismo della Chiesa Cattolica, cit., 274. Direbbe il caro don Giussani (cfr L. GIUSSANNI, Il senso religioso, Milano 1997).


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avvisato come presente nella quotidianità degli uomini piuttosto che da questa colposamente, dolosamente lontana; — Dibattuta e cruciale è la comprensione della Chiesa, del suo significato storico e meta-storico: aiuto all’uomo o insormontabile pietra tombale? Forse è questo l’aspetto più delicato della spiritualità della cultura contemporanea: delle volte ho persino parlato di tradimenti avvisati — e ne ho sofferto —; — L’uomo contemporaneo è un uomo in preghiera; — Per la cultura contemporanea non si dà slancio alla fede prescindendo dallo slancio all’uomo: la dialettica tra il dialogo e il conflitto è così il segno d’ogni relazione all’altro da sé, all’Altro da sé. La cultura contemporanea ci consegna uomini provati dalla fatica d’un inapprodabile viaggio, la ricerca di Dio: spesso essi si dicono — e lo sono — non credenti rispetto al Dio delle Chiese e alle Chiese di Dio, pur coltivando una sincera e profonda fede, pur allenandosi allo scatto della domanda circa la sua esistenza e i suoi “gusti”; sempre, sono i protagonisti di percorsi esistenziali individuali e, d’un sol tempo, trans-personali. Molte le domande, molti i dubbi, molte le risposte, molti i sospesi: eppure restano vitali il problema di Dio, il mistero di Gesù, il rapporto tra la coscienza e la fede e la non fede. Adesso, posso tornare all’interrogativo che ha sostenuto questo scritto: È possibile pensare alla canzone d’autore quale “locus theologicus”? Credo, e a buon ragione, di poter rispondere affermativamente. La canzone d’autore è anche un luogo teologico. Mi spiego meglio: se la Teologia è il tentativo di una riflessione critica sulla proposta e il vissuto di fede, e certa canzone d’autore è l’occasione — prima per l’Autore, poi per il fruitore — di una tematizzazione intellettuale/artistica d’un anelito spirituale, d’un faticoso rapporto con un faticoso Qualcuno, le due cose possono essere di certo eguagliate: l’equazione è posta! La canzone d’autore ha sicuramente una influenza teologica sulla cultura contemporanea dell’ultimo trentennio del secolo scorso: chissà quante generazioni — e generazioni di cattolici — ha incontrato, appassionato, provocato alla riscoperta delle proprie radici e all’evangelica adesione alle stesse. In verità, la cultura è sempre un luogo teologico, anche quando


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negasse ogni realtà divina, e ciò proprio perché essa è il luogo e il tempo d’un confronto con se stessi e l’Altro da sé. La cultura è luogo teologico poiché è l’oggi in cui la Chiesa misura se stessa nell’adesione costitutiva al mandato evangelico e si apre al dialogo col mondo. Si capirà — spero — ch’io non abbia voluto “battezzare” i cantautori invitati, né innalzarli su alcun piedistallo, né precipitarli per alcun baratro: ho tentato di mediare un sereno incontro tra la Teologia e un certo, e certamente poliedrico, sentire religioso, rivendicando accoratamente l’autonomia e la dignità della riflessione laica — quella che inizialmente dicevo dei non addetti ai lavori —, anche di quella meno compassata. La canzone d’autore, e con ciò dunque la cultura contemporanea, merita il nostro rispetto — ha già il mio — e un attento “ascolto”.


Synaxis XXIII/1 (2005) 222-229

UN HOMME DE DIEU DI GABRIEL MARCEL

ENRICO PISCIONE*

Nel presente lavoro ci serviremo come criterio interpretativo dell’opera tetrale di Marcel della distinzione tra pièces nocturnes e pièces illuminés. Osserviamo innanzitutto che sebbene la conversione del Nostro al cristianesimo sia avvenuta, come è noto, nel 1929, non senza ragione, Sottiaux definisce Un homme de Dieu, che è del 1925, un “dramma cattolico”. In esso, avverte lo stesso autore, egli vuol presentare allo spettatore «come uno specchio magico nel quale sappia scoprire i propri problemi, le proprie difficoltà, in modo che venga sollecitato in lui attraverso il dramma, la coscienza di sé che per lo più in ciascuno “resta quasi soffocata e inespressa”»1. Non c’è dubbio che Un homme de Dieu è il dramma dell’ambiguità, del conflitto intersoggettivo che rivela un conflitto intimo più lacerante e , perciò, come giustamente sottolinea ancora Sottiaux, è una delle pièces marceliane «des plus âpres, des plus denses, des plus tendues»2. L’opera è talmente importante che, prima di addentrarci nel commento critico, ci pare utile riassumerne brevemente la trama. Un homme de Dieu è un dramma in quattro atti. Il personaggio principale è Claude Lemoine, un pastore calvinista, divenuto tale non per vocazione, ma per tradizione familiare. Vent’anni prima, quando abitavano in un villaggio dell’Ardèche, la moglie Edmée ha confessato a Claude di averlo tradito con un certo Michel Sandier, vero padre di Osmonde, che *

Docente di Logica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. G. MARCEL, La dignità umana, trad. it di Z. Trenti, Torino 1983 (La dignité humaine, Paris 1964). Data la trattazione unitaria dell’opera non riteniamo opportuno frammentarla in paragrafi. 2 E. SOTTIAUX, Gabriel Marcel, philosophe et dramaturge, Paris 1956, 134. 1


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Claude riteneva sua figlia legittima. Claude ha perdonato e la vita ha proseguito il suo corso normale, un po’ monotono, prima in una città industriale e al nord della Francia, quindi a Parigi. Una circostanza inattesa rimette tutto in discussione. Michel Sandier, con cui i Lemoine avevano perduto ogni contatto, colpito da una malattia incurabile, tramite il medico che è fratello di Claude, chiede di rivedere, prima di morire, la propria figlia. La sensazione immediata e irrazionale di Edmée è che bisogna rifiutare (va da sé che Osmonde non conosce la verità), Claude, al contrario, pensa che vi sia qualcosa di riprovevole nell’opporsi ad un desiderio dopo tutto legittimo: non sarebbe come mostrare che il passato non è stato del tutto superato? Edmée è ferita nella sua femminilità da questo scrupolo al punto che rimette in questione il valore di quel perdono sotto cui le sembra che Claude l’abbia in qualche modo oppressa. Così, mettendo in discussione se stessi, il loro passato e il presente, finiscono col distruggersi. Quando, dopo l’arrivo di Michel, il pastore Claude sarà costretto a dire la verità ad Osmonde, anche questa entrerà in crisi esistenziale. Il pastore e la moglie comprendono e riconoscono i loro errori, dettati da vigliaccheria e conformismo, si rifugiano nella preghiera e continuano il loro ménage. «Se il matrimonio non è un patto nuziale fondato sull’amore, ma convivenza di due persone irriducibilmente isolate e definitivamente virtuose per mancanza di impulsi e passioni, non resta che la sconsolata accettazione della propria funzione, del proprio ruolo etico e sociale»3. Con questa lezione termina il dramma. Ma ora i due restano soli perché la figlia, dopo un breve travaglio, rompendo con tutti i compromessi del conformismo, parte per fare l’istitutrice a due bambine che hanno la mamma degente in una clinica per malattie mentali, finendo col diventare l’amante del loro padre. Il critico osserva innanzitutto che il tema fondamentale della pièce è «la tragedie d’un être torturè par son impuissance à se connaître et qui finalement ne sait plus quelle foi accorder à tous les jugements humains qui

3 V. PASSERI PIGNONE, Presentazione a: Gabriel Marcel, Teatro, a cura di V. Passeri Pignone, Roma 1975, 19.


Un homme de Dieu di Gabriel Marcel

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s’appliquent du dehors à la caractèriser: ceux de sa mère, de sa femme, de sa fille, de son frère, de ses ouailles»4. Nell’atto primo predomina il cosiddetto “processo del perdono”. Tale perdono accordato da Claude e Edmée sta a significare che il pastore vive nei confronti della moglie una sorta di atteggiamento di superiore moralità e la protegge come se fosse un oggetto. In questo senso sono davvero significative le parole che Claude pronuncia: «C’était comme si j’aidais quelque chose à vivre […] Quelque chose de si fragile […] quelque chose qui avait tant de chances de mourir»5. L’ultima scena dell’atto primo vede Claude ed Edmée impegnati a “spiegarsi” il comportamento avuto da ciascuno di loro nel lungo ménage coniugale. La donna comprende chiaramente che il marito è un idealista, tutto teso al proprio perfezionamento etico e che ha trattato il tradimento della moglie come un “caso” a cui applicare la propria saggezza apostolica, onde trarne una specie di successo professionale. Come ben osserva Sottiaux, «Claude a transposè le “mystère” de l’amour conjugal en un “probléme” à resoudre par des techiniques»6. Nel secondo atto assistiamo a ciò che si può chiamare il “processo della confessione”, che porta con sé inevitabilmente una sorta di contagio del dubbio. Dalle prime scene dell’atto viene delineata la personalità di Osmonde, una ragazza acuta, lucida nelle sue indagini ed irrequieta nel comportamento. Ella è il frutto di una rigorosa disciplina familiare piena di formalismi ed improntata ad una spiritualità “calvinista”. La giovane donna è una ribelle sul piano delle idee, però il suo comportamento nasce da una profonda sofferenza affettiva. Il cuore dell’atto II è dato dalla confessione di Edmée, la quale comprende che il suo è un falso matrimonio e che ella si è sentita sempre oppressa dal perdòno che a Claude non è costato proprio nulla.

4 5 6

E. SOTTIAUX, Gabriel Marcel, cit., 135. G. MARCEL, Un homme de Dieu, Paris 1925, 30. E. SOTTIAUX, Gabriel Marcel, cit., 141.


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Le parole di Edmée, che intravede nel suo ménage coniugale una sorta di commedia inconsapevole, spingono Claude a rientrare sempre più in se stesso e ad incominciare a comprendere qualcosa della sua personalità. Il pastore, che avverte nella moglie un essere che lo giudica ma che non lo perdona, chiude la scena VI dell’atto II con un’espressione di cupa tristessa: «Tais-toi; tu me détruis»7. L’atto III si può definire come un serrato dialogo che Claude ha con tutti i suoi familiari nel tentativo di scoprire, attraverso il confronto con gli altri, la sua identità. Egli diviene oggetto della sua stessa analisi. Il primo dialogo ha luogo col fratello François, al quale Claude in un momento di sincera lucidità, confessa, sia pure in forma impersonale, che «On a vècu des annés sur une certaine idée de soi-même, on a cru puiser de la force dans cette idée, et l’on s’aperçoit qu’on s’est peut-être indignement trompè»8. In termini più personali, il pastore ammette, poi, di non aver «le courage de lire en soi»9. Di certo, il confronto più drammatico il protagonista della pièce lo ha con Edmée, la quale gli rimprovera che egli l’ha trattata come una figlia e non certamente con amore autenticamente coniugale, tutto preso com’era dalla preoccupazione della salvezza dell’anima della moglie. Ella, a questo punto del colloquio, pronuncia una battuta ad un tempo chiarificatrice e terribile: «La femme en moi, tu ne l’as pas satisfaite, tu ne l’as même pas soupçonnée»10. Il sacrificio della sua femminilità Edmée lo interpreta come un prezzo da pagare alle cosiddette virtù del marito. Commenta acutamente Sottiaux: «En raison de sa formation calviniste, de sa conception “angliste” des rapports avec sa femme, Claude a scindè la tendresse charnelle de l’amour spirituel»11. In questo colloquio i due raggiungono il massimo della lucidità possibile sulla loro situazione coniugale, ma la lucidità di per sé non porta alla comunione. 7 8 9 10 11

G. MARCEL, Un homme de Dieu, cit., 111. Ibid., 115. Ibid., 116. Ibid., 124. E. SOTTIAUX, Gabriel Marcel, cit., 148.


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Passando ora ad esaminare il dialogo tra Claude e Osmonde, osserviamo che esso dà a quest’ultima la possibilità di esprimere fino in fondo il suo carattere. La giovane si sfoga con una lunga battuta che è una messa in discussione dei metodi educativi del padre, che non sono mai cambiati, e che ella, ormai ventenne, rifiuta considerandoli come la conseguenza inevitabile di una morale ipocrita e centrata sul dovere fine a se stesso. Dunque, Osmonde, facendo un bilancio dell’educazione ricevuta dal padre, osserva spietatamente: «Tous les sacrifices qu’on m’a demandés jusqu’a présent m’ont semblè dérisoires, humiliants. Rien, rien n’a changé depuis le temps où l’on m’exhortait à donner aux petits pauvres de la paroisseceux de mes cadeaux de fête auxquels je tenais le plus. Et la bonne action quotidienne dont la mention devait figurer sur le petit carnet de moleskine. Cette morale-là me répugne»12. Durante il confronto con la propria madre, il duro processo istruttorio che Claude ha intentato a se stesso avrà fine. A Madame Lemoine egli rimprovera di non averlo aiutato a divenire un buon pastore e, alle risposte confortanti della donna la quale gli replica che egli ha «semé le bon grain à pleines poignèes» ed ha «mené la vie d’un grand chrétien», Claude ribatte che «Il aurait fallu d’abord mener celle d’un homme», e che egli non è un uomo e che non ha neanche «su aimer comme un homme – hair comme un homme»13. Con l’atto IV, infine, assistiamo alla “rivincita del noi”. Tale rivincita passa attraverso delle scoperte ancor più dure che Claude fa su se stesso. Egli, infatti, prende coscienza che tutta la storia vissuta in comune con Edmée è stata una promessa misteriosa, non mantenuta; e poi, confessa alla moglie di avvertire la stessa sensazione quando pensa a Dio. Ed ecco nella battuta seguente condensato tutto il dramma esistenziale di Claude: «J’ai cru quelque fois qu’il me parlait, et ce n’etait peut-être qu’une exaltation menteuse. Qui suis-je? Quand je cerche à me saisir, je m’échappe à moi-même»14.

12 13 14

G. MARCEL, Un homme de Dieu, cit., 138. Ibid., 155. Ibid., 191.


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La storia fra Claude ed Edmée non sembra concludersi con una soluzione positiva tale da rimettere in moto il loro ménage coniugale, ma soltanto con la battuta finale del protagonista della pièce, il quale comprende che, d’ora in avanti, il problema della sua vita sarà quello di « être connu tel qu’on est»15; si può, tuttavia, affermare che l’opera apre uno spiraglio alla speranza. Dalle ceneri del rapporto fra Claude ed Edmée sembra quasi che un nuovo “noi” fiorisca, esattamente quello di Osmonde e di Mégal. Il drammaturgo, da fine psicologo, non aggiunge altro. All’esame attento di Sottiaux, la pièce sembra presentare non solo un carattere genericamente religioso, ma più precisamente cattolico. Prima di dar ragione di questa tesi, vorremmo sottolineare che ci troviamo di fronte ad un dramma veramente moderno, non un dramma edificante che manicheisticamente distingue, sin dalle prime battute, i buoni dai cattivi, perché, come è stato osservato, lo spettatore «ne supporte plus ce simplisime théologique»16. Né tanto meno Un homme de Dieu è una pièces a tesi che si propone di dimostrare che la cosiddetta soluzione cristiana è la panacea per tutti i problemi, riducendo la misteriosa azione della grazia all’espediente pagano del «deus ex machina». Marcel mostra degli uomini e delle donne alla continua ricerca di se stessi, che finiscono per comprendere che, per convivere veramente, bisogna innanzitutto prendere in seria considerazione lo spirito e il cuore delle persone cui si vorrebbe indirizzare la proposta cristiana di salvezza, poiché l’ “io” non ha esistenza e valore che nella sua coesistenza con un “tu”. Marcel, fedele a queste convinzioni, non farà calare il sipario sulla morte di Claude né su quella di sua moglie, né sulla ricomposizione di un ménage familiare arrugginito da vent’anni di incomprensioni. Osmonde, però, sembra procedere verso un futuro positivo imbroccando la strada di un mistero che l’autore rispetta profondamente. In tal modo la giovane è sfuggita dalle mani di Marcel, che, da grande drammaturgo, tratta i personaggi che egli stesso ha creato non come marionette, ma come esseri autonomi la cui realtà si sviluppa di per sé e non 15 16

Ibid., 199. E. SOTTIAUX, Gabriel Marcel, cit., 159.


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grazie ad un meccanismo montato dall’autore. Come già si è accennato per Sottiaux, «le drame Un homme de Dieu, écrit par Marcel avant sa conversione au catholicisme, et dont le héros principal est un pasteur protesiant, est un drame incontestablemente catholique»17. Lungi dall’assumere un atteggiamento di critica nei confronti della religione riformata la cui eco è arrivata a Marcel prima attraverso la figura della madre adottiva e poi attraverso quella della sua sposa, il critico ci fa intravedere come questa piéce metta in luce una sensibilità squisitamente cattolica. Edmée è pervasa dalla nostalgia profonda di poter vivere la spiritualità coniugale propria del cattolicesimo. Claude non ha saputo conciliare la sua vocazione religiosa con il suo status di coniugato. C’è in lui una frattura, di sapore protestante, fra la dimensione ideale e quella carnale del cristianesimo, quel senso carnale del cristianesimo di cui Péguy è stato un insuperabile cantore. La vita di Claude non è riuscita a fare una sintesi personale fra la natura e la grazia. Egli, in fondo, in contrasto con la sua situazione di uomo sposato, ha cercato di incarnare l’ideale cattolico del celibato per il regno dei cieli e, proprio per questo, le esigenze tipicamente femminili di Edmée costituivano per lui un grave problema che debordava dal suo ministero apostolico e lo costringeva a guardare la sua sposa attraverso il “vetro colorato” della sua missione di pastore. Prima di chiudere il nostro discorso su Un homme de Dieu, vorremmo accennare all’elevato livello estetico raggiunto da Marcel in questa pièce che, fra l’altro, si caratterizza anche per il raro equilibrio della composizione e per la vivacità dei caratteri dei personaggi. La qualità artistica del dramma sta nella eccezionale capacità con cui l’autore sa descrivere il “malessere” dei vari personaggi, malessere che va inteso non come un dato intrinseco proveniente da una volontà diversa da quella delle “dramatis personae”, ma come un elemento che emerge proprio dalla loro inquieta coscienza. Potremmo dire con una formula sintetica mutuata dalla Poetica di Aristotele che i personaggi di Un homme de Dieu sono vittime non di una

17

Ibid., 163.


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fatalità esteriore, ma di una fatalità del carattere, proprio quella che, per dirla ancora con lo Stagirita, ispira nello spettatore paura e pietà. La più grande vittima del proprio carattere è certamente Claude, che si è imposto un rigoroso schema di vita dove non c’è spazio per il dialogo con Edmée e Osmonde, cioè con gli esseri a lui più vicini. Egli, pastore protestante, si è votato a un’esistenza senza mistero. Anche Edmée, in qualche modo, è vittima del suo carattere perché non riesce a percorrere una strada che la porti a un dialogo vero col marito. Ci troviamo di fronte, perciò, a personaggi a tutto tondo: nessuno di loro è un mediocre. Ognuno è concentrato nel suo progetto di vita con una grande passione, ma tale passione non consente, però, un intrecciarsi dei loro itinerari esistenziali, perché ciascuno è chiuso nella solitudine del suo dramma interiore. La pièce presenta una sua compattezza di composizione che si esprime nel parallelismo morale dei due drammi, quello di Osmonde e quello dei suoi genitori. E certamente non è un caso che l’opera si apra e si chiuda con la narrazione della vicenda di Osmonde, che forse è la figura più positiva di tutta la pièce. Questa è pure costellata di personaggi minori il cui apporto, spesso moderatamente comico, si presenta quanto mai opportuno per rallentare, almeno per un attimo, l’intensità emotiva dell’azione. Il personaggio che appare meglio messo in rilievo, anche se non è il protagonista della pièce, pare quindi a noi essere proprio quello di Osmonde. Certo, non si può dare molto credito alla problematica teorica di questo personaggio marceliano perché la filosofia di vita della ragazza, come abbiamo già avuto modo di osservare, nasce, più che da una riflessa teoresi, da un sofferto dramma affettivo. Osmonde si ribella contro tutto ciò che ostacola la sua realizzazione umana non, appunto, in nome di un chiaro progetto razionale, ma in base alla sua sensibilità. Assetata d’affetto, la giovane è capace di negare anche i dati più evidenti della realtà qualora essi contraddicano le ragioni del suo cuore. Ma, nonostante questi limiti caratteriali e le continue proteste contro l’ingiustizia della sua sorte e gli sterili discorsi in cui spesso si ingolfa, Osmonde è, si potrebbe dire ancora con Sottiaux, una simpatia vivente, perché portatrice, anche se in modo inconsapevole, di un’autentica istanza di comunione.


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Nella pièce, infine, i dialoghi tra i vari personaggi si segnalano per sobrietà e intensità ad un tempo. E il drammaturgo sa esprimere con durezza ciò che va detto con brutalità, e senza enfasi ciò che va suggerito con discrezione.



NOTE Synaxis XXIII/1 (2005) 231-244

AGATA SANTA TRA CULTO E SIMBOLO DI LIBERTÀ IN ALCUNI PANEGIRICI DEL SETTECENTO

GAETANO ZITO*

La relazione tra la santità della martire catanese, il culto a lei prestato dai devoti e l’attribuzione del ruolo di liberatrice da parte della sua città, sono temi che si prestano a letture multiple tanto degli atti del martirio, che della tradizione devozionale e della festa nelle modalità come essa si è espressa nel passato e si svolge nel presente. Che vi era e vi sia una connessione intima tra culto e popolare attribuzione simbolica alla devozione ai santi e alle relative feste è ben noto ed è attestato dalla stessa storia della religiosità o religione popolare. E che lo sia anche per la festa di S. Agata è ampiamente documentato per i secoli precedenti ma anche per il nostro tempo1. Un momento particolare è stato il sec. XVIII. Il Settecento è un periodo di rilevante significato per la città di Catania, uscita e risorta da due eventi drammatici e fortemente rappresentativi: 1669 la colata lavica che la copre in parte, 1693 il terremoto che la rade al suolo. Ma anche la cacciata del vescovo della ricostruzione post terremoto, Andrea Riggio, a causa del conflitto tra autorità civili e autorità ecclesiastiche determinatosi per tutta l’isola dalla controversia liparitana: Riggio morirà in esilio a Roma nel 1717. *

Ordinario di Storia della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Dalla copiosa letteratura su S. Agata, a dominante carattere devozionale, si salvano: Agata, la santa di Catania, a cura di Vittorio Peri, Gorle (BG) 1996, con contributi di Gaetano Zito, Adolfo Longhitano, Salvatore Consoli, Antonio Marcellino e Angiolo Bella; di cui si veda la presentazione di R. GRÉGOIRE, in Synaxis 16 (1998) 326-333; G. ZITO, S. Agata da Catania, Gorle (BG) 2004. 1


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Gaetano Zito

Va pure ricordata l’aspra polemica che nel corso del Seicento aveva visto in conflitto Catania e Palermo, con l’intervento dei migliori cultori di cose patrie di ambedue le città, sull’attribuzione reciproca della patria di Agata2. Risoltasi a favore di Catania, non mancò di avere strascichi polemici ancora per molto tempo. Al punto che nel 1747 e nel 1760 vengono pubblicate due memorie che ripercorrono ancora una volta la contesa tra le due città siciliane3. In che modo il culto a S. Agata in occasione della sua festa può riconsegnare un valore simbolico di libertà soprattutto nel Settecento? Un secolo che vede un acceso dibattito proprio attorno alla devozione ai santi provocato dal pensiero illuminista in connessione con la posizione giansenista, finalizzato a purificare da abusi e deformazioni le espressioni religiose tradizionali. Che, oltre a creare scontri, dà vita ad una seria riflessione interna alla stesa Chiesa sulla necessità di rifondare culto e devozioni su basi scritturistiche e patristiche, liberandosi per quanto possibile da riferimenti paganeggianti e devozionistici. Si conosce bene quella corrente interna alla Chiesa del sec. XVIII denominata illuminismo cattolico e che ha avuto in Ludovico Antonio Muratori e nella sua Della regolata devozione de’ cristiani (1747) il passaggio centrale per scrollarsi una pietà barocca a favore di una pietà illuminata. A lui sant’Alfonso Maria de’ Liguori, preoccupato del rischio che la pietà cristiana divenisse sterile e asettica, contrappose quella che Roger Aubert individua come pietà di stampo mediterraneo. Momento di particolare valenza simbolica, in tale clima, assumeva la predicazione e, nel nostro caso, i panegirici sulla martire catanese. Questi si inserivano nei ritmi della vita cittadina, veicolavano messaggi religiosi e sociali, e marcavano annualmente i ritmi della festa.

2 C. CRIMI, Neophytos Rhodinòs e la ‘querelle’ sulla patria di S. Agata. Nota biografica, in Synaxis 4 (1986) 343-350. 3 L’ardenza e tenacità nell’impegno di Palermo nel contendere a Catania … la regina delle vergini e martiri siciliani Sant’Agata, Catania 1747; Il disimpegno delle ragioni a pro dell’opera sulla patria di sant’Agata intitolata L’ardenza e tenacità, Catania 1760.


Agata in alcuni panegirici del Settecento

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1. LA FESTA NEL SETTECENTO Il culto pubblico e solenne in onore di S. Agata viene ripreso in città dopo un ventennio almeno di interruzione, seguita al terremoto del 1693. Nel nuovo assetto urbanistico dato dalla ricostruzione trovò spazio la collaudata scenografia delle festività agatine, nel senso di valorizzazione delle nuove piazze e ampie e lunghe strade, mantenendo comunque il tradizionale programma della festa. Il 2 febbraio le autorità cittadine accompagnavano il vescovo dall’episcopio in cattedrale, dove si teneva la solenne celebrazione con la benedizione delle candele: la festa liturgica della purificazione della Vergine Maria veniva così strumentalizzata in funzione di una maggiore solennità da ascrivere alle festività agatine. Il 3 febbraio si teneva la processione della Luminaria, con l’offerta della cera da parte di tutte le autorità civili ed ecclesiastiche cittadine, per ringraziare e impetrare protezione. Il 4 febbraio era dedicato alla processione delle reliquie della santa, sul fercolo, lungo la parte interna delle mura della città. In effetti, più che processione nel senso classico si trattava di un corteo gestito esclusivamente dal popolo in festa per la sua patrona. Alle autorità civili e religiose competeva vigilare sul buon andamento. Unica presenza significativa, dal punto di vista ecclesiastico, le comunità religiose maschili che in forma processionale si univano ai devoti e si consegnavano il fercolo da un convento all’altro. Ovvia la funzione protettiva di liberazione della città che veniva attribuita a questa processione: Agata assumeva il ruolo dell’eroina che, percorrendo le mura dalla parte interna della sua città, la difende da ogni pericolo. Il 5 febbraio la festa era esclusivamente in chiesa. Messa solenne presieduta dal vescovo con la partecipazione delle autorità cittadine e del mondo ecclesiastico catanese. Finita la celebrazione, la cattedrale rimaneva aperta tutto il giorno in modo che il popolo potesse venerare la patrona e baciare le reliquie. Solo dal 1846 si iniziò a tenere la processione anche il giorno 5 febbraio, assegnandole un percorso all’interno della stessa città, ovviamente diverso da quello del giorno prima. Il 4 febbraio era di tipo circolare, di periplo interno delle mura; il 5 febbraio seguiva l’asse sud-


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nord-sud della città, di attraversamento verticale. In tal modo si determinava una presenza in grado di liberare tutta la città, sia da nemici esterni che da pericoli e difficoltà che potevano annidarsi al suo interno. Un momento particolare diventava così il passaggio ai “quattro canti”: i classici quattro angoli della struttura urbana, dettata dall’intersezione di due delle principali vie cittadine. Così, la protezione della patrona veniva assicurata a tutto il territorio cittadino. Che la festa aveva bisogno di un maggiore controllo da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche è testimoniato da un preoccupato intervento del viceré che dovette intervenire per moderarla: segno che le autorità ecclesiastiche e civili locali avevano mostrato in precedenza delle difficoltà ad evitare abusi. Al vescovo di Catania, Pietro Galletti (1729-1757) scrive il viceré El Duque Eustachio de la Viefuille (1747-1754) l’11 gennaio 1749, circa un mese prima della festa in modo che avesse il tempo sufficiente a provvedere: «Restando inteso che nel Giorno della Festa della Gloriosa santa Agata, che si sollennizza con Sacre funzioni, vi si mescolano anche le Profani, pelle quali sogliono succedere de disordini, ho risolto impertanto prevenire a V. S. Ill.ma (siccome pure prevengo a codesto Capitano di Giustizia) procuri col suo Zelo Pastorale, e per la Gloria di Dio, dar tutte quelle provvidenze che convengono, acciò si solennizzasse il Giorno della santa Verginella, con vera devozione e che sia totalmente scostata la detta funzione d’ogni Vizio e Peccato»4.

2. CARATTERI DELLA PREDICAZIONE SETTECENTESCA Contenuti e metodi della predicazione religiosa sono in sintonia con i connotati essenziali della cultura teologica, della spiritualità e dell’arte oratoria del Settecento italiano, impregnata di polemica antiprotestante, antigiansenista e antilluminista. Eppure, sul piano spirituale il secolo dei lumi ci consegna una notevole vivacità, alimentata dalle pratiche di pietà sul mistero di Cristo semplice, povero e crocifisso, e dalla necessità di garantirsi 4 CATANIA. ARCHIVIO STORICO DIOCESANO, Fondo Feste, esequie e sepolture, fasc. S. Agata 1575-1894.


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la salvezza che, sebbene eterna, deve essere sperimentabile già nel quotidiano. Il Settecento è il secolo in cui si incrociano politica della ragione e religione del cuore5. All’inizio del secolo la predicazione risente ancora di preoccupazioni dottrinali ma si avvia decisamente verso l’assunzione di tematiche razionali e morali, dai forti toni apologetici, in correlazione con il diffondersi di un’etica laica fondata sulla ragione, corollario dell’autonomia dalla religione. Ultimo e decisivo obbiettivo della predicazione contro gli “spiriti forti”, in difesa del popolo cristiano, diventa la retta edificazione dei fedeli, da preservare e far crescere nello spirito di fede, da condurre con guida sicura alle vie della salvezza eterna. Il Settecento si presenta come il secolo della predicazione popolare. Il predicatore assurge al ruolo di personaggio popolare, dalla forte incidenza sociale oltre che religiosa, da prenotare per tempo al fine di assicurarsene uno tra i più famosi, e il suo nome spesso diviene di gran lunga più noto di quello dei teologi. Il quaresimale e le missioni popolari si rivelano, senza alcun dubbio, le occasioni principali della predicazione settecentesca. I quaresimalisti del primo Settecento, per dare vigore alla predica, indulgevano nella ricerca dell’effetto che, nella percezione popolare, lasciava un’impronta di gran lunga superiore ai contenuti enunciati. Nella seconda metà del secolo, invece, prevalse soprattutto una vivacità razionale che coniugava filosofia e religione a vantaggio di posizioni apologetiche; spesso, però, contribuendo a rendere più difficile l’acquisizione dei contenuti da parte degli ascoltatori. Alle missioni popolari si deve, piuttosto, quel «cambiamento profondo — che avvenne a poco a poco in ogni individuo — dell’idea stessa di religione» e che, per Louis Châtellier, ebbe a costituirne l’effetto principale a livello europeo6. Nonostante ciò, «è soprattutto attraverso i predicatori dei diversi Ordini religiosi che venne esercitata, ed ancora per tutto il secolo XVIII, una

5 M. ROSA, Settecento religioso. Politica della Ragione e religione del cuore, Venezia 1999. 6 L. CHÂTELLIER, La religione dei poveri. Le missioni rurali in Europa dal XVI al XIX secolo e la costruzione del cattolicesimo moderno, Milano 1994.


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profonda influenza da parte delle istituzioni ecclesiastiche nelle aree rurali della penisola italiana, ed anche in quelle urbane»7. In Sicilia, in particolare, agli ordini religiosi più che al clero secolare è da ricondurre una capillare attività di evangelizzazione dell’isola, e non solo per il Seicento e il Settecento. La loro opera si delinea come uno dei fili rossi che attraversano la storia socio-religiosa della Sicilia: dall’età normanna in poi è possibile notare un solido legame tra popolazione e religiosi, legame non intaccato nemmeno dalla soppressione del 1866. Tant’è che il successivo avvio della ricostituzione di comunità religiose sarà possibile appena a distanza di un decennio e grazie pure a forme di complicità popolare, spintasi persino a contributi finanziari per favorire l’acquisto dal demanio di conventi incamerati.

3. LA PREDICAZIONE SU S. AGATA In tale contesto si innesta la predicazione finalizzata a veicolare culto e devozione, ma anche valori da attribuire ad essi. E a Catania una predica su S. Agata non poteva mancare soprattutto nel corso del tradizionale quaresimale, assegnato di volta in volta ai migliori predicatori delle diverse famiglie religiose. Committente poteva essere il vescovo, il capitolo della cattedrale o della collegiata, ma anche il senato cittadino. Ne prendiamo in esame quattro. 3.1. Pier Antonio de Capitani, agostiniano scalzo, è incaricato dal senato di Catania di recitare il quaresimale nel 17398. Agata è la novella Giuditta che libera il suo popolo: Mentem Sanctam Spontaneam Honorem Deo Et Patriae Liberationem. Il panegirico si sviluppa poi attraverso un parallelismo tra la storia dei personaggi del vangelo e la storia di Agata. Cosicché, come Giovanni il Battista anche 7

R. RUSCONI, Gli ordini religiosi maschili dalla controriforma alle soppressioni settecentesche: cultura, predicazione, missioni, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Roma-Bari 1992, 274. 8 P. A. DE CAPITANI, Panegirico della gloriosissima Vergine e Martire S. Agata, Cittadina e Protettrice della Chiarissima e Fedelissima Città di Catania, Catania 1739, il testo è dedicato al senato della città.


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Agata esulta della sua dignità fin dall’infanzia; come il vangelo non parla dei genitori di Maria, così la storia di Agata non parla dei suoi genitori … perché maggiormente rifulga l’opera di Dio in entrambe. Il valore di Agata è superiore a quello dei santi Antonio, Benedetto e Francesco: questi, secondo il modello religioso di vita cristiana, vinsero perché fuggirono il nemico; lei vinse perché seppe affrontarlo e resistere «per aver guarnita sua mente con una Santità e fortezza tutta divina; onde si ammiri in Victoria Dei Mentem Sanctam Spontaneam» (p. 12). Per il padre agostiniano, pertanto, c’è una preoccupazione di presentare in Agata un modello cristiano di vita laicale superiore a quello religioso: il cristiano conquista la propria libertà non fuggendo ma affrontando le avversità, tanto personali che sociali e naturali, con mentem sanctam. Sta qui, quindi, la sede della vera libertà non nell’allontanarsi, ammaliati da novità dottrinali e culturali, dalla vera fede testimoniata dalla martire con la propria vita. Ed in effetti, la gloria di Agata e la sua protezione hanno reso gloriosa e libera la città di Catania, della quale il de Capitani tesse gli elogi: «Patria cui tanto apportan di lustro e la fondazione si antica, e la Religione si pura, e la Nobiltà si distinta, e l’Erudizione si colta» (p. 20). Al punto che «un sol divario passa tra la Redenzione del Mondo e la liberazione di Catania, ed è divario oh quanto glorioso per la gran Martire!». Il vangelo di Giovanni dice che il Verbo venne tra la sua gente ma i suoi non l’hanno accolto (Gv 1,11). Per Agata, invece, i suoi non solo l’hanno accolta ma subito di lei e a lei si sono affidati come liberatrice, come ragione di libertà. Di tale condizione Catania va fiera e la festa è motivo per ricordarlo, per tramandarlo, per celebrarlo, per farlo conoscere anche a nazioni lontane in un tempo, quale quello del primo Settecento, che viene giudicato orrido: «Si istituiscono, anche in tempi sì orridi, s’istituiscono ad onore di Agata tanto magnifiche e trionfali Processioni, e le Feste, che sparsane la gran fama, e nelle vicine, e nelle rimote Nazioni, Festivitatis gloria invitante come parlan gli Annali, chiamansi in Catania a mille a mille li Forastieri per renderne, e il culto più celebre, ed il trionfo più maestoso. Che bella gloria e di Agata e di questa Patria» (p. 21-22). Agata è la liberatrice della sua patria: dal fuoco dell’Etna, dalla peste, da sovrani che volevano distruggere la città, da feroci corsari, dai saraceni, ecc. «Or mi si dica: A quale de Santi fu dato un sì glorioso alternare di


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continuate innumerabili liberazioni!» (24). Non solo liberatrice della sua patria, Agata è anche capace «di farla risorgere più maestosa dalle stesse rovine di già succedute» (24). Cosicché, non si può dire che Agata abbia mai lasciato Catania senza la sua protezione, o che lei sia stata incapace a difenderla. Per meglio veicolare ciò, il predicatore fa riferimento alla morte e risurrezione di Lazzaro operata da Gesù: solo apparentemente Gesù ha fatto vincere la morte nell’amico Lazzaro; ciò accadde «per abbattere con più potere per sino una morte, che si gloriava di aver già vinto […]. Questo è un vincere alla Divina: lasciar che il nemico pensi di aver trionfato, per poi sconfiggerlo con maggior prodigio nel più grand’auge de suoi trionfi. Or questo fu pure il vincer di Agata» (p. 24-25). Ed infatti, cosa è accaduto con il terremoto del 1693? dov’era la protettrice della città? «Ecco Catania che è risorta altrettanto più ammirabile, quanto già si piangeva più desolata. E chi richiamolla a rivivere si magnifica e bella? Chi se non la Gran Martire» (p. 25). Nessun altra città ha mai goduto di patroni e santi protettori così potenti come Agata per Catania: «Questa a voi sola fu riserbata dal Cielo, affinché nelle vostre risorte felicità fosse poi sempre acclamata qual Liberatrice tanto degli altri più grande, quanto la vostra Liberazione fu d’ogni altra la più singolare. Che impegno dell’Onnipotenza per render Agata distintamente Gloriosa!» (p. 25). Conclude il panegirico con una supplica ad Agata perché continui la sua protezione, un’invocazione a Dio perché glielo continui a permettere, e con un appello alla città di Catania: «Spera e spera per sempre. La tua Gran Figlia e Protettrice, come singolarissima in ogni pregio, sarà singolare anche nella continuazione del proteggerti, e non durerà men del Mondo la Gloriosissima Protezione» (p. 26). 3.2. Lodovico Lione, palermitano, dottore e maestro in sacra teologia del Terz’Ordine Francescano, tiene il quaresimale alla collegiata di Catania nel 1756 e dedica al capitolo della collegiata il suo panegirico9. Dichiara all’inizio il riferimento della sua predica: Mentem Sanctam Spontaneam Honorem Deo Et Patriae Liberationem (MSSHDEPL). Tema sviluppato attraverso la rilettura degli atti del martirio, in special modo dello 9 L. LIONE, Discorso encomiastico per le glorie dell’Invittissima Vergine, Protomartire Siciliana Amazone Catanese e Protettrice S. Agata, Catania 1756.


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scontro tra Agata, la donna libera e nobile perché cristiana, e Quinziano, il potere idolatra e schiavo che si oppone a Dio e ne esce sconfitto. Il risvolto politico e culturale, come monito, per quanto non dichiarato è però evidente. La gloria principale di Catania è Agata, «la quale debole perché Donna, più debole perché Fanciulla, pur non dimeno de’ suoi possenti nemici coraggiosa trionfa» (p. 10). E sviluppa questa asserzione in tre punti: «nel più candido della sua Santità, ecco il Mentem Sanctam Spontaneam; nel più forte della sua fede, ecco l’Honorem Deo; nel più utile di Catania, ecco il Patriae Liberationem (p. 11). Per il popolo catanese e per tutta la cristianità Agata è modello a tutti coloro che hanno a cuore la vera libertà, per sé e per la propria patria, quella libertà eroica che è data dalla fedeltà a Cristo, senza cedere ad alcuna lusinga, prediligendo la signoria liberante di Cristo alla sottomissione al potere umano che invece rende schiavi in nome di una libertà che è soltanto apparente: «Agata alle lusinghe di Quinziano, all’orrida, spaventevole prospettiva di tante pene, coraggiosa sorride, e con eroica libertà le risponde: Son nobile è vero nel Sangue e la mia discendenza l’attesta, ma la mia nobiltà viene pur troppo onorata, ed ingrandita dall’essere di Gesù Cristo serva fedele, e seguace» (p. 18). La dichiarazione dell’angelo apposta sulla tavoletta votiva, Patriae Liberationem, «non intese far plauso alla vostra Eroina per quello havea fatto alla vostra, e sua Patria, ma di quanto mercé la protezione di Agata goder dovea per l’appresso felicemente Catania» (p. 21). Proprio per tale ragione, ad Agata è assegnata una gloria particolare, di cui beneficia la sua città: «Dicchè adunque temer potrai fortunata Catania? Quantunque congiurato vedessi contro di te cogli elementi l’Inferno, Agata tutta occhi non solo a tua difesa, ma tutta mammelle a lattarti, […] tiene mammelle da Donna, e mammelle virili, saprà colle prime nutrirti e soccorrerti, colle seconde preservarti e difenderti» (p. 22). Armonizza, così, quella emblematicità di Agata donna virile che la riconsegna alla città come l’unica in grado di assommare in sé, in perfetta simbiosi, la duplice dimensione di donna e di uomo: modello di libertà e di coraggio per l’una e per l’altro. Anche questo predicatore si pone la domanda: ma dov’era l’Agata Patriae Liberationem l’11 gennaio 1693? «Cadde, sì, cadde la vostra Città di Catania» ma rimase in piedi la parte più nobile della cattedrale, quella dove il corpo di Agata è conservato, come l’arca che ha salvato Noè e come


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Noè anche lei dopo il diluvio del terremoto, «se vogliamo con pietà ragionare, fu da Cristo affidata di non gastigar con tremuoti Catania a destruzion di Catania […] Fu adunque segno della futura vostra liberazione, e della perpetua protezion della Patria quel vedersi in mezzo alle rovine intatta con poche fabbriche la sola Chiesa della vostra grand’Agata, in signum futurae liberationis» (p. 24). Ed infatti, dichiara il predicatore, né colate laviche, né pestilenze, né terremoti, che dopo il 1693 hanno provocato distruzioni in altre città vicine e lontane, hanno toccato Catania che è rimasta illesa ed esente: in signum futurae liberationis. Per questa ragione, in conclusione rivolge un’esortazione alla città: «Spera, anzi resta felice, e sicura Chiarissima sempre Fedele Catania», per la tua eroica concittadina, per la liberazione che ella garantisce alla sua amatissima patria. Auspicio simile espresso pure da Giovanni Paolo II nella sua omelia alla città il 5 novembre 1994: «Sii felice, Catania, patria di sant’Agata». Soltanto lei, per il francescano Lione, Catania avrà sempre dalla sua parte, fedele in ogni esigenza e situazione e, pertanto, solo di lei i catanesi possono e devono fidarsi, nel tempo e per la salvezza eterna: «Agata, che ne’ vostri vantaggi sarà sempre per voi tutta mani, con cui vi regge qui in Terra; un’Agata, che nelle vostre occorrenze sarà sempre per voi tutta occhi, con cui vi guarda dal Cielo, a quel Cielo, dove amorosa v’invita, ed ansiosa vi aspetta, per mai separarsi da voi, onde potesse una volta tutta lieta, e giuliva dir festante allo Sposo: Signore, ecco i miei cari Catanesi, i miei dilettissimi Concittadini da voi dalla vostra provvidenza alla mia cura commessi; ecco Signore, senza che alcuno da voi si smarrisca, a voi fedelmente li rendo, perché degna mi avete di tutti custodire, e difendere: Quos dedisti mihi non perdidi ex eis quemquam» (p. 27). 3.3. Prospero Laurenso, agostiniano, tiene il quaresimale in cattedrale nel 1758 e dedica al vescovo Salvatore Ventimiglia (1757-1771) la sua predica su S. Agata10. Per il predicatore, in ogni circostanza della vita personale dei catanesi e della storia della città Agata è liberazione sicura: nelle pestilenze, 10 P. LAURENSO, Orazione Panegirica in Lode della Gloriosa Vergine e Martire Catanese S. Agata, Catania 1758, stampata a richiesta del capitolo della cattedrale.


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nelle carestie, nelle scorrerie dei pirati, quando i sovrani volevano offenderla, in special modo Federico II, nelle colate laviche. La liberazione di cui Catania gode lo deve alle due braccia di Agata: «Si vide rivelato di Santità il divin braccio, nell’aver’Ella impreso a praticare le più eroiche, cristiane virtù, Brachium Sanctum eius. Si vide rivelato il braccio di sovraumana possanza nell’avere impreso il sostegno di questa, per lei fortunatissima Patria: Fecit potentiam in brachio suo. […] Si vide rivelato di possanza il divin braccio in favore e sostegno di questa sua nobilissima Patria , e nel sublimarla e nel difenderla» (p. 6-7). Braccio di santità, dunque, per aver incarnato in modo eroico le virtù cristiane, in special modo l’innocenza e la fortezza. Braccio di potenza a favore della sua patria «facendo sempre a’ diletti Cittadini sperimentare gli effetti di un valevole patrocinio, e così è motivo di gloria distintissima per Catania» (p. 7). 3.4. Baldassare Todaro, di Naro, degli eremiti agostiniani, tiene il quaresimale del 1758 su incarico del senato della città e il 25 febbraio pronunzia il suo panegirico in onore della martire catanese11. Avvia la sua predica con la citazione del Salmo 16: «Domine probasti cor meum, visitasti nocte, igne me esaminasti». Testo che commenta in accordo con gli atti del martirio di Agata. Ne espone, quindi, la vicenda martiriale sotto tre aspetti: la consacrazione a Cristo, fin dall’infanzia, che «la sublimò sopra tutti gli Ordini degli Angeli, sin sopra de’ stessi Serafini»; il trionfo nella prova fino alla tortura delle mammelle, che l’ha resa «porzione delle medesime onoranze di Maria»; la costante perseveranza nella prova del fuoco e dei cavalletti di tortura, che l’hanno resa partecipe «delle glorie di Cristo» (p. 12-13). Agata è donna libera perché sciolta dall’amore del mondo, consacrata a Cristo e, a lui fedele. Da lui, pertanto, viene resa capace di vincere la tentazione, i pericoli, la sofferenza, e quindi è abilitata a intercedere la libertà per gli altri (p. 27). I miracoli operati da Agata a favore della sua città, 11 B. TODARO, Orazione panegirica sulle glorie, a cui per il suo eccelso merito elevata fu la Mobilissima, ed Invittissima V. e M. S. Agata Cittadina e Protettrice della Chiarissima e Fedelissima Città di Catania, Catania 1758, dedicata al senato cittadino e stampata «d’Ordine e nel Palazzo dell’Illustrissimo Senato».


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riproposti dal Todaro secondo le modalità e i contenuti ricevuti dalla tradizione, fino al più recente intervento di liberazione dalla peste (1743), mirano a far comprendere pienamente l’intervento di liberazione da lei compiuto a favore di singoli cittadini e di tutta Catania. Ma il dono più grande, il miracolo principale, la libertà più vera che è data ai catanesi grazie alla loro concittadina e patrona, per il predicatore è aver accolto e mantenuto la fede cristiana: «Unicamente vi priego a notare però con particolare riconoscimento di devozione, il massimo fra tutti i miracoli, che l’è quello della conversione vostra all’adorazione del vero Dio, e venerazione della Legge santa di Gesù Cristo; e fermi sempre stati siete nella credenza vostra in tal guisa, per cui si è resa di tal carato la vostra fedeltà, che giunta è a distinguersi anche presso i Principi della Terra, come quelli, ne’ quali Voi in partecipazione osservate, e contemplate l’autorità Suprema del Divino Monarca; e però il Carattere di Chiarissima e Fedelissima alla Patria vostra donassi» (p. 53). Per tutto ciò, Agata è per i catanesi madre nella fede: «via dunque che l’è impossibile da una Madre a cui tanto costò, e con tanta gloria accompì l’aumentare, e produrre in Voi la Fede; l’è impossibile, che Voi ora da Essa, come dicevo, traendo il generoso sangue della virtù, e del credere, da Essa riconoscendo la liberazione vostra, non vi diportiate verso di Lei, e dell’Altissimo Signore con grata corrispondenza regolata dallo Spirito Profetico, che richiede rettitudine di coscienza nelle prove del cuore, generosità d’intenzioni nel virtuoso operare fra le contraddizioni del Mondo, e costanza invitta nel punto di vostra morte; onde vi rendiate gradevoli a Dio, ad Agata, al Paradiso tutto e di nuovi benefici, e di nuove grazie meritevoli» (p. 54-55).

4. VISIONE D’INSIEME Nel corso del Settecento il culto a S. Agata, nel suo momento culminante di festa e di predicazione, riconsegna una costante: Catania riconosce la propria identità urbana nel riferimento alla sua patrona12. 12 Ancor più significativo lo sarà a fine secolo: E. BONINCONTRO, Il “festino straordinario” di Sant’Agata del 1799. Politica e devozione nell’anno della Repubblica Partenopea. Appendici di documenti inediti e rari, Catania 2001.


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Nel duplice senso di attribuzione ad essa dell’identità e di derivazione di questa da essa. Una identità che neanche la messa in crisi dal tentativo di appropriazione della patria perpetrato da Palermo, nel corso del Seicento con residui ancora nel Settecento, ha potuto incrinare. Piuttosto, la polemica si è rivelata funzionale ad amplificare e saldare: identificazione cittadina, espressione devozionale e ruolo protettivo. In Agata, resa libera dalla consacrazione a Cristo e dal martirio, Catania possiede la fonte irrinunciabile della propria dignità e libertà. Anche i predicatori chiamati a tenere panegirici su S. Agata hanno recepito e potenziato questo ruolo, sviluppandolo con un’arte omiletica propria del tempo, sia nei contenuti che nella forma, che si snodava tra polemica antirazionalista e devozione calda, appassionata, emotiva. Il tono apologetico misto ad espressività sentimentale si armonizzava con l’esigenza di rendere accessibile ai fedeli che ascoltavano una concettualizzazione e un linguaggio aulici e baroccheggianti. Questi panegirici registravano la passione catanese per la propria concittadina e patrona e, al contempo, contribuivano ad alimentarla. D’altronde, come potevano non tenere conto di questa intima commistione tra la città e la sua patrona se il committente era di volta in volta il senato catanese, il vescovo o il capitolo della cattedrale o della collegiata? E di fatto, questa predicazione d’occasione ha sviluppato tematiche religiose, spirituali e devozionali, mantenendo però un costante riferimento alla peculiarità del rapporto tra Catania e S. Agata. Dal racconto della passio hanno desunto gli elementi simbolici per veicolare aspetti di un percorso che riconsegnava Agata come l’eroina alla quale volgere lo sguardo, per trovare in lei tutte le energie di liberazione, per le vicende quotidiane e per la salvezza eterna. Nel culto e nelle forme devozionali la città veniva invitata, così, ad individuare l’anelito alla libertà. Un anelito che si muove su un duplice livello. Quello del popolo, per il quale la festa era la opportunità, più che una opportunità, per marcare uno spazio di libertà dal potere costituito — si pensi all’intervento del viceré — e che si esprimeva, e si esprime ancora oggi, nell’appropriarsi del corpo della martire nei giorni di festa. Oltre che per riconoscere ed impetrare la libertà dalle angosce e dalle sofferenze


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personali e familiari del vivere quotidiano, è per la gente il momento culminante della propria identità di popolo e di cittadini. Quello delle autorità che commissionavano la predica, per le quali Agata assurgeva a forza di libertà dai pericoli della natura e dai nemici della città, pervenendo quasi ad una delega ad essa di responsabilità che a loro primariamente appartenevano. Entrambi questi due livelli, nondimeno, trovavano il loro terreno di incontro nella rilettura degli atti del martirio: da essi, a dire dei predicatori, si deduceva tutta la forza simbolica di anelito alla libertà, che poi nelle forme cultuali doveva riuscire ad accomunare, a mettere insieme tutti i catanesi, senza alcuna distinzione di classe sociale, per un’unica identità cristiana e civica.


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COMPENDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

SALVATORE LATORA*

È stato pubblicato il 25 ottobre del 2004, dopo una elaborazione durata cinque anni, il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, che può considerarsi una completa e sistematica sintesi dell’insegnamento sociale della Chiesa, dalla Rerum novarum (1891) di Leone XIII alle più recenti encicliche di Giovanni Paolo II, Laborem exercens (1981), Sollecitudo rei socialis (1987), Centesimus annus (1991).1 Come ha scritto il cardinale Renato Raffaele Martino, il documento è stato «elaborato, su incarico del Santo Padre e a lui dedicato, dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (di cui egli è presidente) e ora messo a disposizione di quanti — cattolici, altri cristiani e persone di buona volontà — cercano sicure indicazioni di verità per meglio promuovere il bene sociale delle persone e della società» . Le finalità e gli obiettivi vengono esplicitati nel n. 10 del testo: «Il documento si propone come uno strumento per il discernimento morale e pastorale dei complessi eventi che caratterizzano i nostri tempi; come una guida per ispirare, a livello individuale e collettivo, comportamenti e scelte tali da permettere di guardare al futuro con fiducia e speranza; come un sussidio per i fedeli sull’insegnamento della morale sociale… perché “tutti i membri della Chiesa sono partecipi della sua dimensione secolare” (Christifideles laici, 15). Il testo viene proposto, infine, come motivo di dialogo con tutti coloro che desiderano sinceramente il bene dell’uomo». *

Professore emerito di Storia della Filosofia presso lo Studio Teologico di Catania. Altri importanti documenti dopo la Rerum Novarum sono stati: Quadragesimo anno di Pio XI (1931); Messaggio radiofonico di Pio XII (1941); Mater et Magistra (1961) e Pacem in terris (1963) di Giovanni XXIII; Gaudium et spes (1965) del Concilio Vaticano II; Populorum progressio (1967) e Octogesima adveniens (1971) di Paolo VI. 1


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Con questa prospettiva di fondo, ha precisato il card. Martino, il Compendio si propone di dare un aiuto al discernimento, perché si possano affrontare quelle che sono le sfide decisive del nostro tempo; ed egli ne indica tre. a) La prima sfida è quella culturale, che la dottrina sociale affronta facendo tesoro della sua costitutiva dimensione interdisciplinare. Nel magistero di Giovanni Paolo II troviamo delle indicazioni significative in tal senso, quando egli afferma che mediante la dottrina sociale la Chiesa «proclama la verità su Cristo, su se stessa e sul mondo applicandola ad una situazione concreta» (Sollecitudo rei socialis,1987, n. 41). E inoltre: «La dottrina sociale… ha un’importante dimensione interdisciplinare. Per incarnare meglio in contesti sociali, economici e politici diversi e continuamente cangianti l’unica verità sull’uomo, tale dottrina entra in dialogo con le varie discipline che si occupano dell’uomo, ne integra in sé gli apporti e le aiuta ad aprirsi verso un orizzonte più ampio al servizio della singola persona, conosciuta e amata nella pienezza della sua vocazione» (Centesimus annus, 1991, n. 72). b) La seconda sfida è quella che proviene dalla situazione di indifferenza etica e religiosa e dalla necessità di una rinnovata collaborazione interreligiosa. Da tale indifferenza deriva la separazione tra etica e politica, estesa anche ai rapporti tra politica e religione, relegata ad affare privato. Il Santo Padre ha sottolineato più volte come il dialogo interreligioso abbia come ambito prioritario le tematiche sociali come i temi dei diritti umani, della pace, della giustizia sociale ed economica, dello sviluppo. «Le confessioni cristiane e le grandi religioni dell’umanità devono collaborare tra loro per eliminare le cause sociali e culturali del terrorismo, insegnando la grandezza e la dignità della persona e diffondendo una maggiore consapevolezza dell’unità del genere umano. Si tratta di un preciso campo del dialogo e della collaborazione ecumenica ed interreligiosa, per un urgente servizio delle religioni alla pace dei popoli» (Messaggio per la Giornata mondiale della Pace, 2002: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”). c) La terza sfida è propriamente pastorale. La dottrina sociale della


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Chiesa fa parte essenziale del messaggio cristiano, è connessa al servizio della Chiesa al mondo; e come tale deve essere conosciuta, diffusa e testimoniata. Qual è la struttura di questo Compendio? Dopo l’Introduzione: Un umanesimo integrale e solidale, il volume si articola in tre parti. Parte prima: Cap. I - Il disegno di amore di Dio per l’umanità. Cap. II – Missione della Chiesa e Dottrina Sociale. Cap. III – La persona umana e i suoi diritti. Cap. IV – I principi della dottrina sociale della Chiesa. Parte seconda: Cap. V – La famiglia cellula vitale della società. Cap. VI – Il lavoro umano. Cap. VII – La vita economica. Cap. VIII – La comunità politica Cap. IX – La comunità internazionale. Cap. X – Salvaguardare l’ambiente. Cap. XI – La promozione della pace. Parte terza: Cap. XII – Dottrina sociale e azione ecclesiale Conclusione: Per una civiltà dell’amore: a) L’aiuto della Chiesa all’uomo contemporaneo. b) Ripartire dalla fede in Cristo. c) Una salda speranza. d) Costruire la «civiltà dell’amore». Riteniamo utile sottolineare, in questa sede, almeno due settori importanti di questo Compendio, anche parafrasando i titoli. In primo luogo, dopo avere ripercorso il cammino storico, dalla Rerum Novarum ai nostri giorni, occorre indagare la natura della Dottrina sociale2, che consiste, in un conoscere illuminato dalla fede, in dialogo cordiale con ogni sapere, per una società riconciliata nella giustizia e nell’amore. Tale Dottrina non è nata già strutturata fin dall’inizio, una specie di sistema organico, come farebbe pensare anche il titolo, ma si è andata costruendo attraverso numerosi interventi de Magistero sui temi sociali (72).

2 La locuzione Dottrina Sociale risale alla Quadragesimo anno (1931) di Pio (cfr n. 87).

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La DSC non appartiene al campo della ideologia, ma a quello della teologia e specialmente della teologia morale (ibid.). Le sue fonti sono: la Rivelazione biblica e la Tradizione della Chiesa Cattolica, e più in particolare: i Documenti del Vaticano II – le Encicliche sociali dei Papi – il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) etc. Da chi è stata elaborato la DSC? Dalla intera comunità ecclesiale: sacerdoti, religiosi e laici, secondo la diversità di compiti, carismi, ministeri. Il Magistero, però, compete a coloro che hanno il munus docendi (79). Essa fa parte dell’insegnamento morale della Chiesa e perciò è magistero autentico ed esige l’accettazione e l’adesione dei fedeli (80). Questo è dunque il suo cammino storico3. In secondo luogo, bisogna chiedersi quali indicazioni può dare la Dottrina sociale, per quanto riguarda l’impegno dei fedeli laici. Essa orienta il fedele laico circa il servizio che egli può rendere nei diversi ambiti della vita sociale, che sono: il servizio alla persona; il servizio alla cultura; il servizio all’economia e il servizio alla politica. Il Compendio ritiene (71), che bisogna valorizzare il ruolo dei laici e ciò in perfetta adesione con il ConcilioVaticano II che fonda l’opera dei laici sulla teologia delle realtà terrestri (GS 36: afferma la legittima autonomia della realtà terrene). La Dottrina persegue fini di sollecitazione, indirizzo e formazione delle coscienze (80), perciò vi si leggono anche precise

3 «Lasciando cadere l’espressione “dottrina sociale”, i Padri conciliari erano coscienti di operare una innovazione, se non una rottura, nei confronti della tradizione precedente, pur nella continuità dell’insegnamento, Infatti, da Leone XIII a Pio XII, la dottrina sociale era stata presentata come una “terza via”, dedotta dai principi immutabili della rivelazione e del diritto naturale, posta in mezzo tra le due vie opposte del capitalismo e del socialismo. In pratica, superando questa concezione, il Concilio portava a compimento la svolta iniziata da Giovanni XXIII (seguito dai Papi successivi) il quale per primo introdusse un “metodo nuovo” induttivo nel Magistero sociale, attraverso tre momenti: rilevazione delle situazioni; valutazione di esse nella luce di quei principi e di quelle direttive; ricerca e determinazione di quello che si può e si deve fare… secondo modi e gradi che le stesse situazioni consentono o reclamano, “ lettura dei segni dei tempi”» (B. SORGE, in Aggiornamenti sociali 1 [2005] 7,8). Sta in ciò l’opera insostituibile dei laici!


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affermazioni che riguardano i fedeli laici circa la scelta di un partito o di uno schieramento politico (573-574). Si sottolinea l’agire con prudenza dei fedeli laici, che comporta tre momenti: vedere, giudicare, agire (547; 568, 569, 570) Ci sembra, pertanto, che questo Compendio sia un utilissimo strumento per riorentare gli uomini d’oggi nel generale smarrimento della società in cui siamo stati chiamati a vivere. «In quest’alba del terzo millennio, la Chiesa non si stanca di annunciare il Vangelo che dona salvezza e autentica libertà anche nelle cose temporali, ricordando la solenne raccomandazione rivolta da San Paolo al discepolo Timoteo: “ Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero”» (Introduzione, n. 2) In questo Compendio arricchito da un vasto e utilissimo repertorio di indici: Indice dei riferimenti – Indice Analitico – Indice analitico – Indice Generale (da pag. 323 a pag. 520 in tutto pp. 197!) non troviamo nessun riferimento a coloro che hanno precorso, o contribuito a costruire e, soprattutto, a realizzare tale dottrina, come Sturzo, De Gasperi, La Pira, Dossetti, Lazzati, oppure Rosmini, Mounier, Maritain etc. che pure sono punte di riferimento, avendo lottato per affermare i principi fondamentali della DSC, come: la centralità della persona, il primato della famiglia, l’equa ripartizione delle risorse, la giustizia sociale, la tutela delle autonomie locali, lo spirito europeista e mondiale, anzi planetario. Certamente si è voluti mantenere al di sopra delle parti; ma allora avrebbero dovuto intitolarlo più correttamente: Compendio dell’insegnamento sociale secondo il Magistero della Chiesa. Altrimenti, come giustificare l’affermazione che tale Dottrina è frutto di tutte le componenti della Chiesa, sacerdoti, religiosi e laici (n. 79), se nessun laico viene citato, anche se sulla via del riconoscimento della santità! Che vale allora appellarsi continuamente al Vaticano II?


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Tali domande però sorgono spontanee solo se si tiene presente la distinzione, che non è separazione (distinguere per unire!), tra Magistero e Chiesa come popolo di Dio e pluralità di carismi.


PRESENTAZIONE Synaxis XXIII/1 (2005) 251-255

G. MAMMINO, Gregorio Magno e la riforma della Chiesa in Sicilia, Documenti e Studi di Synaxis, Edizioni Arca, Catania 2004, pp. 240. Il volume di Giovanni Mammino, pubblicato dalle Edizioni ARCA, 2004, per conto di “Synaxis”, dello Studio Teologico S. Paolo, come si legge nella introduzione, è frutto di una «ricerca finalizzata alla conoscenza dei principali interventi che caratterizzarono l’azione pastorale del Papa Gregorio Magno nell’affrontare alcuni dei problemi che travagliavano nel suo tempo la Chiesa di Sicilia; pertanto, l’ambito cronologico sarà limitato agli anni di pontificato di Gregorio Magno (590-604)» (Introduzione, p.7). La fonte principale della quale l’Autore si serve principalmente è il Registrum epistolarum che consta di 847 lettere (+10 appendici), di cui 217 riguardano la Sicilia; studiato nella edizione di D. Norberg, 2 voll., 1982, tenendo presente anche le Opere di Gregorio Magno, a cura di V. Recchia, 4 voll., Roma 1996-1999. Il volume è articolato in cinque capitoli, ciascuno dei quali è seguito da una sintesi che conferisce alla ricerca anche un valore opportunamente didattico. Il primo capitolo: La riforma dell’episcopato siculo, tratta la riforma del Papa Gregorio Magno sull’azione pastorale dell’episcopato, la quale portò alla destituzione dei vescovi lapsi e all’elezione di persone degne. Il secondo capitolo riguarda: L’opera di sostegno a favore dei vescovi. Per realizzare l’opera di rinnovamento della Chiesa di Sicilia, il papa appoggia i vescovi nel contrasto quasi frequente con il potere politico; nella lotta contro le eresie, l’idolatria e la magia. Per la presenza di giudei e samaritani consiglia di favorire la conversione con mezzi pacifici; inoltre appoggia l’esercizio del potere giudiziario dei vescovi e prende a cuore i problemi del clero. Il capitolo terzo: Il rinnovamento della vita monastica, descrive come


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il pontefice, che ha vissuto anche lui la vita monacale, cerca di favorire nei monaci un serio impegno di vita e il rispetto della disciplina come si può leggere nelle lettere dirette ai vescovi e ai funzionari del patrimonio della chiesa ai quali raccomanda una particolare cura per i monasteri. Per gli sconvolgimenti della fine del VI sec. anche i monaci erano in fermento e perciò il pontefice richiama abati e monaci all’ideale monastico che deve essere alimentato dalla preghiera e dalla costante meditazione della parola di Dio. Importante ricordare l’istituzione degli xenodochia, case di accoglienza per forestieri e per poveri, che sorgevano accanto ad alcuni monasteri. Nel capitolo quarto: La difesa dei poveri e degli oppressi, il papa richiama alla responsabilità i vescovi, quando si tratta di denunciare i soprusi dei funzionari pubblici. Allora si entrava spesso in contrasto con i potenti, ma non sempre per difendere i poveri e gli oppressi, e perciò erano proprio le categorie più deboli a pagare per tutti, pertanto diffusa era la fuga degli schiavi e il fenomeno dell’usura. Significativo è il fatto che i vescovi, su sollecitazione del papa difendessero anche i funzionari dello stato, inquisiti dall’ex console Leonzio, giustizialista principalmente per ingraziarsi l’imperatore. Capitolo quinto: La cura per i beni ecclesiastici e i luoghi di culto. Uno dei motivi validi che spingono Gregorio Magno a seguire con attenzione le vicende dalla Sicilia è stato quello della cura del patrimonio ecclesiastico, con al primo posto l’attenzione per il Patrimonium Petri, adoperandosi per una retta amministrazione di quel patrimonio e dei beni ecclesiastici dei monasteri. Sollevò spesso dall’incarico contabile abati inesperti di amministrazione, mediante l’invio di funzionari della Chiesa di Roma, lasciandoli così liberi per attendere meglio alle proprie incombenze monacali. Pieno sostegno fu dato alle opere di carità, senza trascurare l’attenzione per gli edifici sacri. Il volume è arricchito da alcune utilissime “Appendici”, nove, per la precisione. Nella prima si dà la cronologia degli avvenimenti dal 590 al 604, riguardanti le cariche istituzionali e, in corrispondenza, i fatti che riguardano la Chiesa in Sicilia. Nella seconda Appendice contiene le Lettere di Gregorio Magno


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inviate in Sicilia o che si riferiscono alla Sicilia, mentre le Appendici: III – IV – V presentano il rapporto statistico tra il totale delle lettere, scritte da Gregorio Magno e quelle destinate alla Sicilia. Appendici: VI – VII – VIII enumerano le Lettere inviate a vari destinatari, ai singoli vescovi, e ai Rettori del patrimonio della Chiesa di Roma in Sicilia, distinte in: Parte Siracusana, che comprende, Siracusa, Lentini, Catania, Taormina, Messina, Malta e Agrigento. Parte Palermitana, che comprende, Palermo, Lilibeo e Triocala. Infine, nell’Appendice IX si indicano i nomi dei destinatari e dei vari latori. Segue una ricca e ragionata bibliografia divisa secondo: Fonti e Studi, in cui si riportano le numerose opere, i risultati dei Convegni e dei Colloqui nazionali e internazionali sull’opera di questo grande papa, utilizzando anche gli studi di Autori siciliani come S. Pricoco, G. Putrino, F.P. Rizzo, a cui aggiungeremmo due opere utili per il nostro caso: “Chiesa e società in Sicilia”, I – II – III, a cura di G. Zito, SEI, Torino 1995; e “Storia del cristianesimo”, a cura di Filoramo e Menozzi, Laterza, Bari 1997. A questo punto ci chiediamo, perché Gregorio Magno ritiene così importante la Sicilia e manifesta tanto interesse profondendo il suo impegno e la sua autorità per i problemi economici, sociali ed ecclesiali dell’isola? Viene opportunamente ricordato, nel volume, che Gregorio Magno era nato nel 540 da una delle più ricche famiglie di Roma, quella degli Anici, che aveva grandi possedimenti anche in Sicilia, dove fondò, come si sa, ben sei conventi, e quindi, il futuro papa conosceva personalmente la nostra isola. Dal punto di vista politico la Sicilia dipende dai Bizantini, mentre da quello ecclesiastico tutto il patrimonio delle diocesi fa parte della Chiesa di Roma (si tratta, infatti, di chiese suffraganee), che in quel periodo, in particolare, ha bisogno di rifornirsi al fiorente granaio isolano, anche perché il nord e la parte centrale della penisola sono invasi dai Longobardi. In Gregorio Magno si assommano sia grandi abilità politico-amministrative che una profonda spiritualità ecclesiale, perché prima della conversio alla vita monastica (un palazzo ereditato dal padre in Roma, sul monte Celio è stato trasformato in monastero, dove egli visse in comunità, adottando in parte la regola di S. Benedetto) egli ha esercitato la carica di Praefectus Urbis e poi anche quella di apocrisario, cioè di segretarioconsigliere, di Pelagio II alla corte di Costantinopoli. Tali molteplici competenze trovano la loro sintesi, e questa è la tesi


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sviluppata nell’opera di Mammino, nel riordino e nella riforma della vita ecclesiale a cominciare dai vescovi «mediante la convocazione del concilio provinciale e intervenendo attraverso i suoi rappresentanti per deporre vescovi indegni e garantire l’elezione di persone idonee e capaci di essere vere guide per le comunità loro affidate» (p. 17). Per questa opera di rigenerazione ecclesiale ben gli compete il titolo di Magno! Alla luce di quanto sopra, potrebbe assumersi come criterio interpretativo di tutta l’opera di Gregorio Magno il Principio di Papa Gelasio I (494) che riguarda l’unità nella distinzione dei due poteri, il civile e il religioso, come poi sarà ripreso da Luigi Sturzo nella sua opera Chiesa e Stato con il concetto di Diarchia? Mi parrebbe di si, perché il principio ispiratore del Cristianesimo sta nel detto evangelico: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mc 12,13-17; Mt 22, 15-22; Lc 20,20-26), ripreso dal principio gelasiano e seguito da tutta una linea di sviluppo (anche Dante sostiene la teoria sei Due soli !). È il principio della laicità che va sempre più affermandosi lungo la storia della cristianità, anche se non senza contrasti. Ma è importante rilevare, che i due momenti, quello ecclesiale e quello laicale si vanno precisando come reciproci e interdipendenti: la loro vera sintesi avviene, in realtà, nella coscienza del credente maturo e responsabile, come accade nel papa Gregorio Magno. Cosa che è assente nell’Islam, la cui natura e storia i credenti-seguaci considerano come integrati, cioè uniti ma non distinti: religione, società e stato! Illuminante perciò potrebbe essere il concetto di Diarchia, di cui tratta Luigi Sturzo in La società sua natura e leggi, e in Chiesa e stato, intendendo per “ diarchia” (anche se ha avuto meno fortuna dei termini come “monarchia”, “aristocrazia”, “democrazia”), il concorso di due poteri distinti e diversi al reggimento della società; la forma politica e quella religiosa della socialità tendono all’autonomia ma si limitano a vicenda nel loro gerarchizzarsi. Nel Cristianesimo la «Diarchia è permanente per l’elemento soprannaturale organico che storicamente si è inserito nella società con la formazione della Chiesa» (Lettera n. 1348 di Luigi al fratello Mario, in Categgio, vol. III, Roma, 1985). Si potrebbe dire che con questi ragionamenti si cade in un hysteronproteron, anche perché in quel momento storico particolare Gregorio Magno dovette sostituire il potere politico indebolito o assente.


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Ma piuttosto si è voluto richiamare, malgrado le imprescindibili diversità storiche, verità originarie e primigenie che scorrono nel fiume sempre vivo del Cristianesimo. Salvatore Latora



RECENSIONI Synaxis XXIII/1 (2005) 257-267

G. FERRETTI, Filosofia e teologia cristiana, Saggi di epistemologia ermeneutica, vol. I: Questioni, vol. II: Figure, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2002. Nel vasto e spesso caotico panorama dell’editoria italiana leggere un’opera ben strutturata e su problemi di notevole rilevanza filosofica e teologica, come questa di Giovanni Ferretti, non è evento da trascurare. L’A., per la sua doppia formazione e per il suo esistenziale impegno di sacerdote e di filosofo, si dimostra, certo, il più adatto ad affrontare tale tema. Egli, infatti, è professore di filosofia teoretica nelle università statali, ma ha insegnato anche nella Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. È tra i soci fondatori dell’ATI (Associazione teologi italiani), del Centro studi filosofico-religiosi Luigi Pareyson di Torino, della Rivista Filosofia e teologia ed è stato membro della Direzione del Centro di studi filosofici di Gallarate. In questa raccolta di saggi, divisi per Questioni (vol. I, pp. 258) e Figure (vol. II, pp. 358) l’A. affronta il tema del rapporto tra filosofia e teologia cristiana con l’intento di superare quella separazione o frattura tra le due discipline, esito della modernità, che è stata deleteria per entrambe, perché arroccandosi ciascuna in sé, in maniera egemone, ha portato la prima su posizioni ideologiche e la seconda su vedute fondamentaliste. L’immagine emblematica, additata dalla Fides et ratio, è quella delle due ali, necessarie entrambe, per una sintesi vitale. Si avverte ormai da parte dei cultori delle due discipline la necessità di un approfondito dialogo. Ma come? L’originalità dell’opera sta tutta nella risposta a questa domanda. Infatti, l’intento che unifica e ispira questi saggi, scrive l’A., è quello di: «mettere alla prova la fecondità della riflessione filosofico-ermeneutica contemporanea, per l’individuazione di una nuova forma di rapporto e di


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collaborazione tra le due discipline. Intento che abbiamo espresso col sottotitolo dell’opera, Saggi di epistemologia ermeneutica,… che ben esprime la convinzione che anima i saggi che lo compongono: il procedere ermeneutico, lungi dal contrapporsi ad un procedimento metodico scientificamente rigoroso di ricerca della verità, per la sua presunta “debolezza”, “soggettiva opinabilità”, “semplice allusività poetica”, è la via più adeguata per la ricerca sia della verità filosofica sia della verità teologica, come pure per l’individuazione del corretto rapporto reciproco tra filosofia e teologia. Come si vedrà, tale rapporto si configura, a nostro avviso, secondo il modulo della circolarità ermeneutica» (p. 7). La filosofia ermeneutica, secondo l’A. sarebbe l’anello di congiunzione tra le due discipline permettendo di superare ormai le due tradizioni che hanno caratterizzato il pensiero dell’occidente. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si può fare iniziare il distacco della teologia dalla filosofia, a cominciare dalla pubblicazione della enciclica Aeterni Patris (1879) di Leone XIII che, invitando a ritornare al tomismo come prevalente filosofia capace di far da supporto alla teologia, segnava non solo la rottura tra la teologia cattolica e il pensiero moderno, ma anche con buona parte della stessa tradizione del pensiero cristiano, che annovera oltre alla linea aristotelica-averroista-tomista anche l’altra platonica-agostiniana-francescana, dall’età dei Padri fino a Rosmini (e a Mario Sturzo, aggiungiamo!).1 Malgrado l’opera preziosa di mediazione compiuta dai filosofi neoscolastici della Scuola Milanese, come Chiocchetti, Masnovo, Olgiati, Bontadini, Vanni Rovighi etc., che mostravano come fosse possibile 1 Cfr l’interessante volume di O. TODISCO, Lo stupore della ragione- Il pensare francescano e la filosofia moderna, Padova 2003, in cui si opera un’esplorazione sullo sfondo del medioevo attraversato da due traettorie: «l’una costituita dal primato della razionalità (aristotelico-averroista-tomista), l’altra dal primato della volontà (agostiniana-bonaventuriana-scotista occamiana); l’una dal primato del vero, oggettivo e invariabile, l’altra dal primato del bene, gratuito e diffusivo. Ora, ciò che occorre dir subito è che l’angolazione dell’indagine è rappresentata dalla Scuola francescana e che questa privilegia la volontà rispetto all’intelletto, il bene rispetto al vero, non però la volontà e il bene in alternativa all’intelletto e al vero, persuasa piuttosto che il bene sia l’anima segreta del vero e le volontà il trascendimento dell’intelletto, nel senso della comunione auspicata da Lévinas tra “la Bibbia (il bene) e i greci (il vero)” nella storia moderna per molti versi dissociate e ora, per evitare nuove Auschwitz, da coniugare con maggior forza e profondità» (p.10).


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elaborare su basi tomistiche puramente razionali una filosofia aperta alla religione, «la separazione dei due piani rimaneva, perché il confronto non avveniva tra cristianesimo e filosofie moderne, ma tra filosofia tomista e pensiero moderno» (II, p.12). Ma, quando si matura il cambiamento tanto auspicato per quel dialogo fruttuoso tra pensiero teologico e filosofia? L’A. si limita ad indicare tre svolte, che ci aiutano a comprendere le principali coordinate di fondo della situazione contemporanea: 1 – La svolta spiritualistica che risale a Blondel (Cfr. la filosofia de l’Action e la Lettera sull’apologetica, ma anche l’opera degli italiani, Carlini, Sciacca e altri; né va dimenticato il tomismo trascendentale di Joseph Maréchal, di Pierre Rousselot, o l’opera di teologi cattolici come Henri De Lubac, Karl Rahner, Henri Bouillard, Yves Congar, Romano Guardini, che daranno un apporto decisivo al Vaticano II). 2 – La svolta fenomenologica, che ha avuto, per quanto riguarda il nostro tema, come antesignano, Max Scheler (proprio in riferimento a questo autore Karol Wojtyla si abilitò nel 1953 con un lavoro sull’etica cristiana! E occorre inoltre ricordare che è stata discepola di Husserl, anche Edith Stein). 3 – La svolta ermeneutica: alla scuola di Heidegger e delle filosofie ermeneutiche. «La teologia, che già in se stessa non è altro che interpretazione della parola di Dio, non può quindi fare a meno di entrare in “circolo ermeneutico” con la filosofia, il problema è quello di entrarvi in modo corretto» (p.32). L’A. riferisce come ci siano state delle critiche, anche feroci, da parte di teologi cattolici sull’assunzione del modulo ermeneutico nell’epistemologia teologica, perché si riteneva che rivolgendo una prevalente attenzione al problema del “senso”, si mettesse da parte quello della “verità”. L’equivoco nasce, secondo l’A., dalla mancata considerazione che nel pensiero filosofico odierno vigono almeno due indirizzi di filosofie ermeneutiche. «Il primo, di derivazione heideggeriano-gadameriana (sviluppato soprattutto da Derrida in Francia e da Vattimo in Italia), sembra volgersi verso una forma di storicismo relativistico e/o di pensiero debole… Ma vi è un secondo indirizzo nelle odierne filosofie ermeneutiche, quello ontologico di derivazione fenomenologico-esistenzialista, che ha i suoi rappresentanti in Ricoeur e Pareyson (di cui è stato discepolo l’A.).


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Pur condividendo con il primo indirizzo la critica alla metafisica razionalista, questo secondo indirizzo propone un’originale congiunzione tra il momento della recettività della ragione nei confronti della originaria verità dell’essere, e il momento della libera e creativa appropriazione di tale verità da parte della persona, nell’opera di interpretazione» (II, pp.38-39). Non c’è interpretazione senza verità, come non c’è verità senza interpretazione, ripete l’A. con il suo maestro Pareyson. Il Ferretti, pertanto, propone in campo teologico un lavoro di interpretazione a più stadi: esegetico – teologico e Kerigmatico. Notiamo, per conto nostro, che nel documento della Pontificia Commissione biblica: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, viene dedicato tutto un capitolo alle ermeneutiche filosofiche: «Il cammino dell’esegesi è chiamato a essere ripensato tenendo conto dell’ermeneutica filosofica contemporanea, che ha messo in evidenza l’implicazione della soggettività nella conoscenza, specialmente nella conoscenza storica»2. In conclusione, scrive Giovanni Ferretti: «Nell’odierno contesto culturale, che ha colto il valore dei principi del pluralismo e della tolleranza, e quindi del dialogo e della comunicazione, del rispetto della diversità e della originalità di tutti, una teologia cristiana che si lasci interpretare da tale contesto e si ripensi epistemologicamente in chiave ermeneutica, lungi dal perdere la sua specificità forse potrà meglio testimoniare ed annunciare il Dio di Gesù Cristo, che non ha manifestato la sua trascendenza come forza egemonizzante, bensì come autodonazione per tutti, come lógos che scende dall’alto proprio per essere accolto e tradotto nel linguaggio di ogni popolo e nazione, anzi, nel linguaggio personalissimo di ogni uomo» (II, p.41). La proposta dell’A. e cioè quella di una circolarità ermeneutica fra filosofia e teologia cristiana oggi deve maturarsi attraverso una presa di coscienza di un dato di fatto, quello di un profondo mutuo influsso storico 2 PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano 1993, p. 66. «L’ermeneutica della parola sviluppata da Gerhard Ebeling ed Ernest Fuchs parte da un altro approccio e appartiene a un altro campo di pensiero. Si tratta di una teologia ermeneutica. Ebeling concorda tuttavia con autori come Bultmann e Ricoeur nell’affermare che la Parola di Dio trova il suo pieno significato solo congiungendosi con coloro ai quali essa si rivolge » (nota 3 della stessa p. 66). Cfr anche B. MONDIN (a cura di), Ermeneutica e Metafisica. Possibilità di un dialogo, Roma 1996.


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tra le due discipline e di assumere come compito per il futuro temi di riflessione comune di fronte ad alcune sfide come quelle indicate nel cap. VI, che provengono dalla cultura contemporanea: tematiche divenute attuali ormai dopo la pubblicazione della Fides et ratio, di Giovanni Paolo II. D’altra parte già Dante privilegiava poeticamente un sapere teologico su base filosofica Mi pare opportuno perciò che si continui a coniugare: Atene con Gerusalemme, la saggezza filosofica e la sapienza teologica! Salvatore Latora

N. BENAZZI (a cura di), Arte e teologia. Dire e fare la bellezza nella chiesa. Un’antologia su estetica, architettura, arti figurative, musica e arredo sacro, EDB, Bologna 2003, pp. 843. La raccolta di testi antologici curata da Natale Benazzi e che le Dehoniane di Bologna pubblicano nell’ambito di un progetto che include l’uscita di altri volumi su altri temi (basta solo pensare al testo: Arte e spiritualità), è un’opera che ha lo scopo di aiutare a comprendere principalmente il pensiero della riflessione credente sul valore e il significato dell’arte, intesa qui nel suo senso più ampio: dall’estetica, colta come indagine teoretica sul bello e sulla bellezza, alle arti figurative in genere; dalla musica sino addirittura all’arredo sacro e alla sua importanza per la chiesa, la sua liturgia e la sua catechesi. L’opera raccoglie 228 testi che affrontano queste tematiche; testi del secondo millennio cristiano organizzati in modo cronologico e per autore e suddivisi in cinque parti fondamentali in cui si tenta di dare ragione sia delle principali riflessioni di natura teoretica (estetica teologica), sia delle maggiori disposizioni pratico-normative prodotte da concili, dal magistero centrale, da sinodi, o semplicemente da vescovi o singoli esperti. Il testo comprende una brevissima presentazione da parte del curatore e quindi una modesta introduzione fatta da Natale Benazzi in collaborazione con Franco Brovelli (pp. 7-11). Ogni sezione speciale è preceduta da una succinta introduzione che


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ha lo scopo, per alcuni versi disperato, sia a motivo della brevità che per la difficoltà di ricondurre ad unità l’ingovernabile pluralità ed eterogeneità dei contributi offerti e presentati, di cogliere le idee portanti e le linee-guida del tema e del periodo storico preso in considerazione. Risultano invece di grande utilità le brevi introduzioni ai singoli brani proposti, in cui si precisa il tema affrontato e si forniscono le necessarie indicazioni per eventuali approfondimenti attraverso letture più puntuali, soprattutto inquadrando nella sua cornice storico-teologico o storico-filosofica il brano stralciato dal suo naturale contesto. La prima parte dell’opera tratta del delicato rapporto tra teologia e bellezza, e in particolare delle ragioni dell’estetica dal Medioevo all’epoca moderna (p. 15), e dell’estetica cristiana nell’epoca contemporanea (p. 59), in cui si sottolinea come il problema estetico non sia propriamente una “faccenda” moderna e contemporanea, ma abbia le sue radici proprio nella filosofia e nella teologia medievali che coglievano la centralità del tema “bellezza” nel complesso legame stabilito tra la creatura e il Creatore e nel suo imprescindibile riferimento al vero e al buono (p 15). L’epoca contemporanea, invece, ha assistito al progressivo, sebbene non del tutto lineare, allontanamento dei due termini del rapporto, teologia e bellezza, anche a motivo della mutazione del concetto di “bello” e della sua separazione dal buono e dal vero, sino allo sviluppo di un individualismo esasperato che ha segnato la cosiddetta “religione dell’arte” viva soprattutto nell’epoca romantica, che ha nutrito la speranza di sostituirsi alla religione classica e ai suoi ingombranti dogmi (p. 59). La seconda parte affronta il rapporto tra teologia e architettura (l’architettura sacra dal Medioevo all’epoca moderna e nell’epoca contemporanea, pp. 207; 247). In questa sezione si sottolinea come la «costruzione delle chiese fu, nel medioevo, uno dei “collanti” della stessa religione cristiana» (p. 207) e lo strumento attraverso cui esprimere il profondo e originario collegamento tra il cosmo, l’uomo e Dio. Proprio in questo periodo la chiesa-edificio viene compresa, infatti, come metafora della vita ecclesiale e spirituale, nonché della Gerusalemme celeste di cui il cristiano già nel tempo storico si sente cittadino nello spazio e nel tempo sacri, nell’edificio di culto e nella liturgia. L’epoca contemporanea si trova ad affrontare ancora una domanda cruciale che era stata posta dai Riformatori: che senso ha il “tempio” per


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un cristianesimo che significa fine del tempio inteso in senso classico, perché cosciente che il luogo di culto è stato sostituito dal Corpo glorificato di Cristo e quindi dalla sua comunità di salvezza, ovvero dalla Chiesa? A questa questione fondamentale e al problema dell’incontro che si deve stabilire tra le esigenze della liturgia e quelle proprie dei progettisti, i teologi contemporanei hanno tentato di dare una risposta attraverso un rinnovato riferimento alla comunità delle origini che li ha condotti a riscoprire la “funzionalità pastorale” e la “dinamica di servizio” del luogo sacro come campo propizio per parlare della relazione tra artista e committente (p. 247). La terza parte studia invece il nesso tra teologia e arti figurative, secondo la stessa suddivisione proposta nella parte precedente (le arti figurative dal Medioevo all’epoca moderna e contemporanea, pp. 387; 435). I temi attorno a cui si raccolgono i contributi del periodo medievale e moderno su questo punto, sono essenzialmente quattro. Innanzitutto la considerazione del valore grande delle immagini sacre che vanno a comporre quella che la tradizione ama chiamare la biblia pauperum, indispensabile per lo stesso annuncio del vangelo e per un’efficace catechesi per immagini. Quindi lo sviluppo dell’allegoria e il problema del culto dovuto alle immagini (problematiche legate a tutte le forme di iconoclastia e iconofilia), e infine il problema della moralità dell’arte e dell’artista, sino alle prese di posizione proprie del periodo controriformista (p. 387). L’epoca moderna registra inoltre la radicalizzazione della pretesa di autonomia e libertà dell’artista nell’ambito propriamente sacro; rivendicazione che non ha mancato di produrre una vera e propria crisi nel legame tra teologia e arte e in particolare tra Chiesa e artisti. Sono distintive di questo periodo questioni quali: rapporto tra dogma e libertà dell’artista, tra morale ed estetica, tra liturgia e arte sacra. In questo ambito si è ribadita la centralità della Parola al cui servizio l’arte deve essere posta, nonché la subordinazione dell’arte sacra alla liturgia, alla sua natura e alla sua finalità (p. 435). La quarta parte, poi, propone prevalentemente la riflessione della teologia sulla musica sacra, presentando i più significativi contributi derivanti dal Medioevo all’epoca contemporanea, passando attraverso l’importante riflessione dell’epoca moderna (p. 515-589). Si evidenzia come già nell’epoca di mezzo, a differenza delle altre


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“arti sacre”, il tema della musica per la liturgia abbia vissuto un momento di crisi legata agli interrogativi sul suo “decoro” e sulla sua “opportunità”: la domanda costante che anima il dibattito in questo tempo è il limite imposto alla musica perché possa rendere un qualificato servizio alla Parola e alla preghiera liturgica e così non scadere in un qualcosa che soffoca il valore stesso del testo sacro (in particolare il Salterio) e della preghiera della Chiesa. Queste legittime preoccupazioni in alcuni casi hanno lentamente e risolutamente condotto al tentativo di forgiare una autentica “musica per la preghiera” (p. 515). Nell’epoca contemporanea si assiste sempre più allo sviluppo considerevole di una musica che si è resa autonoma dal mondo propriamente sacro e che perciò ha intrapreso una strada che l’ha condotta fuori dall’ambito ecclesiale e che vuole esprimere un “sacro” che non sia necessariamente quello cristiano. A partire da questo stato di cose, la teologia ha riflettuto intorno a una grande questione posta più che mai dal tema “musica” allo stesso pensiero credente e concernente la relazione tra estetica e ministero liturgico, e da questo tema si è lasciata ampiamente assorbire (p. 589). La quinta ed ultima parte, infine, affronta la controversa questione dell’arredo sacro, del suo significato e valore per la liturgia e la catechesi, e quindi della sua importanza per la stessa teologia (Teologia e arredo sacro: dal Medioevo all’epoca moderna e contemporanea, pp. 691; 731). Quest’ultima sezione, che apparentemente sembra essere giustapposta a quelle precedenti, in quanto affronta un tema per molti versi estraneo alla teologia, come nota lo stesso curatore (p. 691), in verità — fa notare ancora Benazzi — soprattutto nel Medioevo e certamente fino alla riforma cattolica «è parte costitutiva della teologia del rito e così viene inteso, fino a divenire elemento catechetico per i “rudi”» (p. 691). La profonda mentalità simbolica propria del Medioevo, infatti, operò una specie di trasformazione in “parola” di tutto ciò che in vario modo partecipava al rito liturgico, non presagendo ancora la deriva dell’oggetto verso la sua semplice “funzionalità”. L’epoca contemporanea ha recuperato tuttavia il significato positivo del concetto di “funzionalità” dell’oggetto in quanto ha riletto tutti gli elementi dell’arredo sacro come posti a servizio della liturgia, della sua natura e della sua finalità, non ignorando la profonda valenza simbolica delle “cose per la celebrazione” e perciò la loro intrinseca dignità.


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Le cose, in tal modo, hanno un valore in sé, ma soprattutto hanno un significato ulteriore in quanto sono poste al servizio della fede che celebra e della comunità radunata (p. 731). Una notevole lacuna dell’opera è costituita dalla mancanza di tavole cronologiche o tematiche che avrebbero favorito una lettura trasversale dei testi antologici presentati, nonché l’assenza di un seppur breve e succinto lessico dei concetti e termini principali concernenti gli argomenti presentati, al fine di favorire una più corretta e accurata comprensione degli apporti dei vari autori. Infatti, la proposta dei brani secondo la cronologia e l’autore è un criterio possibile, ma in questo caso non sempre appare il più adatto e appropriato, sia per la varietà e la vastità dei temi affrontati, sia per il lungo arco di tempo preso in considerazione, un intero millennio, se l’opera non viene corredata da opportuni apparati critici. Tuttavia, come ha modo di affermare lo stesso curatore già nella presentazione della raccolta antologica, l’opera non ha la pretesa di essere conclusiva, ma intende fornire un punto di partenza che «offre un servizio a tutti coloro che di arte “sacra”, “liturgica”, “cristiana”, vogliono occuparsi» (p. 5) mettendo in evidenza un assunto fondamentale, ovvero che «esiste una tradizione di riflessione teologica su questo tema complesso e tanto importante nella storia del cristianesimo» (p. 5). Intesa in questo modo la raccolta si presenta come uno strumento utile non solo per l’approfondimento della relazione esistente tra la teologia e l’arte, ma anche per favorire l’accostamento diretto alle fonti e ai principali testi e documenti che di questo argomento si sono occupati nel corso dei secoli. Uno strumento valido per conoscere ancora meglio il pensiero di autori tra i più disparati: da Tommaso d’Aquino a Jacques Maritain, da Antonio Rosmini ad Hans Urs von Balthasar, da Romano Guardini a Pierangelo Sequeri, da Guglielmo Durando a Giacomo Lercaro e Crispino Valenziano, ecc. Autori, teologi, filosofi che hanno dato, o continuano a dare, a diverso titolo il loro prezioso apporto per lo studio dell’arte, dell’estetica, e soprattutto della teologia intesa anche come riflessione privilegiata sulla bellezza, e ancora di più sul Bello, e sul suo significato per l’essere e la vita della Chiesa. Francesco Brancato


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M. MARLETTA, Navigando nel mare della Vita. Scritti autobiografici, Suore Serve della Divina Provvidenza, Catania 2004, pp. 94. La storia della santità si arricchisce di un altro piccolo, ma significativo, tassello. Questa “piccola biografia” si iscrive nel genere letterario dei pensieri autobiografici, senza pretese di narrare la propria vita, ma di rendere testimonianza. Scritti per obbedienza al confessore, dicono di un Tu più che un io, come ha mostrato S. Consoli nella sua bella presentazione. In realtà, i ricordi sono frammisti ai dialoghi con Gesù, che emerge come una figura familiare. I pensieri non seguono una rigorosa cronologia, sono piuttosto l’itinerario spirituale dell’autrice. Denotano un’esperienza spirituale concreta, attenta alle piccole cose quotidiane e molto… buon senso. Questa forma di concretezza storica mostra pure i suoi “limiti”. La Marletta respira la cultura religiosa del suo tempo, subisce, a volte acriticamente, i condizionamenti culturali. Possiamo, così, leggere come diventa inconsapevolmente strumento di controllo e disciplinamento sociale attraverso la religione. Scrive, infatti, a proposito della sua esperienza di lavoro in un’azienda tessile catanese: «Fortunatamente la signora [proprietaria dell’impresa] e le signorine sue figlie mi diedero pieni poteri, anche di licenziare, se occorreva, pur di tenere religione e disciplina»[p. 36]. Stupisce pure, per la nostra sensibilità, l’accenno al battesimo conferito ad una giovane protestante: «ieri abbiamo avuto la gioia di mettere in grazia, per mezzo del Santo Battesimo, una giovane tedesca diciannovenne, la cui vita dopo tante peripezie sofferte a causa della guerra, e rimasta sola al mondo, non scorreva serena. […] Intanto la Provvidenza l’ha messa un po’ vicino alle Serve della Divina Provvidenza, e sentendo che la sua religione era il protestantesimo, abbiamo cercato di portarla alla vera Chiesa, quella cattolica; essa (povera figlia sola al mondo) cercò docilmente di istruirsi e, fatta l’abiura, ricevette il S. Battesimo e la prima comunione» [p. 70]. D’altra parte manifesta un’indipendenza di giudizio e un’intuizione profetica. Non voleva fondare un Istituto, ma una casa famiglia, per vivere una maternità estesa senza i limiti del sangue [p. 38]. Le difficoltà iniziali furono superate con l’aiuto e il consiglio di Mons. Calcagna. La Marletta lo incontra in occasione della settimana sociale, organizzata in città e di cui “aveva sentito parlare”. In realtà ella è figlia della tradizione sociale


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della Chiesa catanese, così come si forma e si consolida con l’episcopato di Dusmet e del suo successore Francia Nava [Cfr. G. ZITO, Una scommessa della Provvidenza. Maria Marletta nella Chiesa di Catania, Ed. Arca, Catania 2001]. L’esperienza spirituale della Marletta è segnata fortemente da tre momenti fondamentali: la sofferenza, fisica e spirituale, come purificazione delle intenzioni, la fiducia nella provvidenza, la centralità dell’eucaristia. La malattia, le incomprensioni con il vescovo, le difficoltà con i laici che dapprima si mostrano favorevoli alle sue iniziative e poi la lasciano sola, vengono vissute dalla Marletta nello spirito dell’obbedienza alla volontà di Dio. Questo abbandono non è, però, mai vissuto fatalisticamente, ma con combattiva accettazione. Ogni fatto, anche piccolo, viene compreso come segno della provvidenza. Tutta la sua vita, così, è vista come avvolta nell’abbraccio provvidente del Padre. Il desiderio dell’adorazione perpetua si accompagna all’esperienza del sentirsi amata personalmente da Dio. Ne vien fuori il quadro di una persona profondamente permeata di gioia, capace di leggere nelle pieghe della sua storia la presenza costante di Gesù come compagno di strada e, soprattutto, come amante fedele. L’amore per gli emarginati, per i soggetti abbandonati e più deboli, come erano i bambini dell’inizio del secolo XX, sembrano premessa e conseguenza insieme di un atteggiamento di compassione verso la marginalità spirituale, quasi sulla lunghezza d’onda della tradizione che attraversa la storia della Chiesa, di condivisione radicale fino a quella con i peccatori — Simeone il Nuovo Teologo, i folli in Cristo, S. Teresa di Gesù Bambino —. Così la nostra manifesta di desiderare il bene per i persecutori: «Gesù mio quando sarò in cielo (per tua infinita misericordia) desidero che siano tutti con me, tutti quelli che mi hanno voluto bene e quelli che hanno torturato!» [p. 79]. Nella loro semplicità questi “fioretti” sono la testimonianza di come la santità sia sempre attuale, vale a dire incarnata nella storia di ciascuno, anche nella storia più umile di una ragazza, prima, e di una donna, poi, che si fa guidare dalla Spirito e trova nella fraternità e nella dedizione l’attuazione di questa chiamata. Maurizio Aliotta



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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO SAN PAOLO

1. Licenziato in Teologia morale Ha conseguito la Licenza in Teologia morale, il 21 gennaio 2005: CALABRÒ GIUSEPPE, Le ragioni dell’opzione preferenziale per i metodi naturali in Giovanni Paolo II. Analisi del suo Magistero. (relatore prof. Salvatore Consoli)

2. Baccellieri in Teologia Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia, il 21 gennaio 2005: CONSOLI SALVATORE, Antonio Saverio De Luca e la cultura ecclesiastica dell’Ottocento. (relatore prof. Gaetano Zito) CRISPI FRANCESCA, L’atto coniugale: dignità e contesto. (relatore prof. Salvatore Consoli) MASSARA GIUSEPPINA, L’aborto: problema morale e supporto antropologico. (relatore prof. Salvatore Consoli) PRIVITERA MARIA GRAZIA, “Così infatti Dio ha amato il mondo, da donare il suo [Figlio] Unigenito”. L’amore di Dio per il mondo e il dono dell’Unigenito. Analisi esegetica di Gv 3,16. (relatore prof. Attilio Gangemi)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

GIURATO PAOLO, La genealogia della morale di Nietzsche. Una lettura filosofico-cristiana. (relatore prof. Giuseppe Schillaci) RANNO SALVATORE, La vita teologale in S. Teresa di Lisieux. Cenni a partire dagli scritti autobiografici. (relatore prof. Salvatore Consoli) SAPIA SALVATORE, La questione ermeneutica ne “Il conflitto delle interpretazioni” di Paul Ricoeur. (relatore prof. Giuseppe Schillaci)

3. Colloquio di Sacra Scrittura I professori di Sacra Scrittura dello Studio Teologico S. Paolo, il 1 dicembre 2004, hanno organizzato un colloquio di Esegesi biblica: L’alterità nella Bibbia. Hanno partecipato come relatori A. Minissale e A. Gangemi. Ha introdotto il colloquio C. Raspa, lo ha concluso D. Candido.

4. Dalmazio Mongillo incontra i seminaristi dello Studio Il 4 marzo 2005, padre Dalmazio Mongillo O.P. ha incontrato i seminaristi dello Studio Teologico, raccontando la sua esperienza sulla Ricerca teologica come occasione di testimonianza evangelica.

5. Incontro con un Vescovo dello Studio Il vescovo di Caltagirone, già Moderatore dello Studio Teologico S. Paolo, mons. Vincenzo Manzella, il 10 aprile 2005, ha tenuto agli alunni dello Studio Teologico S. Paolo una lezione a partire dall’esperienza del suo ministero episcopale.


Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

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6. Ritiro spirituale Lo Studio Teologico S. Paolo, il 7 marzo presso le Suore domenicane di via S. Nullo, ha tenuto un ritiro spirituale di quaresima che ha visto la partecipazione e il coinvolgimento di docenti e studenti.



Collane di Synaxis

«NUMERI MONOGRAFICI DI SYNAXIS»

Synaxis XIII/1 - 1995

«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900


Synaxis XIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgicocelebrative S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa


Synaxis XV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale


Synaxis XVI/2 - 1998

«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare


Synaxis XVII/1 - 1999

«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione


Synaxis XVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna


Synaxis XVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia


Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli


«QUADERNI DI SYNAXIS»

AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito) AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190


AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità , Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427 AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240 AA. VV., Magia, superstizione e cristianesimo, Giunti, Firenze 2004, pp. 240 AA. VV., La Bibbia libro di tutti?, Giunti, Firenze 2004, pp. 312


«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS»

G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288 P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158 A. G ANGEMI , I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524 G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418 A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244


A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Edizioni Arca, Catania 2003, pp. 1032

G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere, Edizioni Arca, Catania 2004, pp. 240.






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