SYNAXIS XXIII/3 - 2005
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
INDICE
Sezione teologico-morale SANTITÀ E MARTYRIA NEL VATICANO II (Mario Torcivia) . . . . 1. Premessa . . . . 2. Santità . . . . 3. Martyria . . . . 4. LG 42b: santità e martyria . .
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IL CORPO DIMORA DELLA “PAROLA” (Maurizio Aliotta) . . . . . 1. Introduzione . . . . 2. La persona umana nella sua realtà corporale 3. Il linguaggio del corpo: eros e malattia . 4. “Maschio e femmina li creò” . .
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IL CONVITTO ECCLESIASTICO DIOCESANO DI TORINO (1817-1871). UN MODELLO DI FORMAZIONE PRESBITERALE NELL’OTTOCENTO ITALIANO (Giuseppe Buccellato SDB) . . . . . . .
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L’ATTIVITÀ EDITORIALE DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO DI CATANIA.PROSPETTIVA MORALE (Lorenzo Alvarez Verdes c.ss.r.) . . . . 1. Il Concilio Vaticano ii o la grande svolta nello studio della morale . . . . 2. Le “chiavi” del rinnovamento morale . . 3. La “via” italiana al discorso morale . . . 4. La via italiana in Sicilia . . . . 5. L’apporto editoriale dello Studio Teologico S. Paolo nel campo della morale . . . .
1. 2. 3. 4. 5.
Introduzione . . . . . . L’idea del Convitto e i protagonisti della nuova fondazione . Il progetto formativo del Convitto . . . . Quale modello di presbitero alla scuola del Convitto . Conclusioni. . . . . . .
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IL CARD. GIUSEPPE SIRI E LA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA DURANTE IL CONCILIO VATICANO II (Paolo Gheda) . . . . . . . 1. Siri al Concilio . . . . . 2. Promotore della CEI . . . . . 3. Siri e i “periti” . . . . . 4. Il declino . . . . . . 5. Fedele alla Santa Sede e alla Chiesa italiana .
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I LUOGHI DI AGGREGAZIONE NELLA SICILIA MODERNA. LE CONFRATERNITE: IL CASO DI S. ORSOLA (Elena Frasca) . . . . . . . 1. Le confraternite in Sicilia (XVIII-xix secolo) . 2. L’associazionismo laicale a Catania . . 3. Euplio Reina . . . . .
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L’OPERA DI GIROLAMO E GIUSEPPE PALAZZOTTO NELLA “CASA” DEI MINORITI A CATANIA (Salvo Calogero) . . . . . . 1. Introduzione . . . . . 2. La costruzione della nuova “casa” dei Minoriti . 3. Il disegno di Giuseppe Palazzotto per la chiesa dei Minoriti 4. Il prospetto prima delle modifiche ottocentesche . 5. La pianta della chiesa . . . . 6. La cupola primitiva e le modifiche ottocentesche . 7. Conclusione . . . . .
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Sezione miscellanea DAVID HARTMAN: UN MAESTRO DA SCOPRIRE (Raniero Fontana) . . . . .
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Appendice documentaria
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RICORDA, RACCONTA, CAMMINA. VERSO VERONA 2006. SINTESI DEI LAVORI (Mario Torcivia) . . . . . .
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Presentazioni
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Recensioni .
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Nota
NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
Sezione teologico-morale Synaxis XXIII/3 (2005) 7-18
SANTITÀ E MARTYRIA NEL VATICANO II
MARIO TORCIVIA*
1. PREMESSA Finalità del presente articolo è analizzare quanto il Concilio Vaticano II ha scritto su queste due dimensioni fondamentali della Chiesa1. Esposto quanto i documenti conciliari affermano dapprima su “santità” e, poi, su “martyria”, concluderemo il nostro studio focalizzando l’unico brano conciliare in cui troviamo insieme i due termini: LG 42b.
2. SANTITÀ Una delle affermazione conciliari centrali inerisce alla tematica della santità — «della quale il Concilio Vaticano II, conformandosi saggiamente agli usi di una lunga prassi conciliare, non ha voluto dare una definizione tecnica, e tanto meno scolastica [… In seguito] si offre una quasidefinizione della santità parlando della “via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità” (Lumen Gentium, 50)»2 — con la sottolineatura *
Docente di Teologia spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Per una presentazione della bibliografia generale su santità e martyria, cfr A. MODA, Testimonianza, martirio e santità. Un percorso bibliografico, in Nicolaus 29/2 (2002) 215255, specialmente le pp 238-239. 2 P. MOLINARI, La santità dei cristiani, in Ecclesia a Spiritu Sancto edotta. Lumen Gentium, 53. Mélanges théologiques. Hommage à Mgr Gérard Philips, Éditions J. Duculot, 1
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che non solo la Chiesa in sé è santa, ma che, al contempo, tutti i suoi membri sono chiamati alla santità. E proprio alla “Universale vocazione alla santità nella Chiesa” LG ha dedicato l’intero capitolo V3, che si presenta così articolato: dopo un primo paragrafo dedicato a “La santità nella Chiesa” (39), si tratta della “Vocazione
Gembloux 1970, 525.530. Il paragrafo II dell’articolo (pp 525-530) costituisce, quasi ad litteram, il paragrafo I (1369-1372) della vc. Santo in Nuovo Dizionario di Spiritualità (a cura di Stefano De Fiores e Tullo Goffi), Cinisello Balsamo 1966, 1369-1386. 3 Per la storia del capitolo — ad es. l’unità originaria tra il cap. V e il cap. VI (quello sui religiosi), le cui tracce più evidenti sono le finali di LG 39 e 42 c-d che trattano dei consigli evangelici, il fatto che «Nel corso dei lavori conciliari il tema ha acquisito progressivamente una sempre maggiore importanza, senza però raggiungere una autonomia tale che gli consentisse di essere sganciato dal contesto originario per essere affrontato tra le questioni ecclesiologiche fondamentali» (C. STERCAL, La «universale vocazione alla santità»: senso e sviluppo di un tema conciliare, in A trent’anni dal Concilio. Memoria e profezia, a cura di Carlo Ghidelli, Roma 1995, 129) — e sulle diverse redazioni e sul commento, oltre a rimandare agli innumerevoli volumi alla Costituzione conciliare sulla Chiesa (due per tutti: M. LABOURDETTE, Universale vocazione alla santità nella Chiesa, in La Chiesa del Vaticano II. Studi e commenti intorno alla Costituzione dogmatica «Lumen Gentium». Opera collettiva diretta da Guilherme Baraúna, o.f.m., Firenze 19673, 1033-1044: 1034-1036) e G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero nel Concilio Vaticano II. Storia, testo e commento della Costituzione Lumen Gentium, Milano 1992 (specialmente le pp 389-435), segnalo tre tesi di dottorato (M.M. ALVAREZ ROBLES, Vocacion universal a la santidad. Genesis y contenido del Cap. V de la Constitucion Dogmatica “Lumen Gentium”, in Studium Legionense 29 (1988) 201-312; ID., Lineas doctrinales del cap. V de la Constitucion dogmatica “Lumen Gentium”, in Studium Legionense 30 (1989) 201-246; ID., Dos tendencias doctrinales en el cap. V de la Constitucion dogmatica “Lumen Gentium”, in Studium Legionense 31 (1990) 129-143; G. BEBY GNEBA, La vocation à la sainteté dans l’Église à la lumière du chapitre V de Lumen Gentium et du magistère de Paul VI et Jean Paul II, Romae 2003; L. RAVETTI, La santità nella “Lumen Gentium”, Roma 1980) e gli articoli di P. COCHOIS, L’insegnamento del Vaticano II sulla santità, in Santi di ieri e santità di oggi, Roma 1968, 109-129; L. GALMÉS La llamada universal a la santidad, in Teología Espiritual 34 (1990) 317-339; P. MOLINARI, La santità dei cristiani, cit., 521-546; il succitato studio di Stercal e G. THILS, La vocazione universale alla santità nella Chiesa, in Communio 114 (1990) 30-38. Per una lettura teologica dello stesso capitolo, rimando alla terza parte della Relatio generalis (nn 170-172) al capitolo VI (allora comprendente anche quello che sarebbe diventato, poi, LG V), riportata in Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, Città del Vaticano 1971, vol III, pars I, 325-327.
Santità e martyria nel Vaticano II
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universale alla santità” (40) e del “Multiforme esercizio dell’unica santità” (41) per giungere, finalmente, a presentare “Via e mezzi della santità” (42)4. LG V si presenta estremamente significativo per la riflessione sulla santità perché è grazie a questo capitolo che «La santità non è più considerata in un’ottica “ascetico-morale”, in quanto legata a uno stato di vita nella chiesa (uno “stato di perfezione”), ma come dimensione di tutta la chiesa, santificata da Cristo e abitata dallo Spirito Santo»5. Scorriamo LG V. In LG 39, vera e propria ouverture di quanto esposto nei numeri seguenti, dopo aver affermato «che la Chiesa […] è indefettibilmente santa», i Padri conciliari non esitano ad affermare che «tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla gerarchia, sia che da essa siano diretti, sono chiamati alla santità […]». Da ciò si evince che «la santità è, ad un tempo un dono che ogni cristiano riceve nel battesimo […] ed è una vocazione sempre esigente, che nessuno progresso può interamente soddisfare»6 e «che l’obbligo morale di tendere alla santità, comune a tutti i membri della Chiesa, viene dedotto precisamente dalla loro ontologica appartenenza ed unione alla Chiesa, la quale viene proclamata indefettibilmente santa»7, perché resa tale dal suo Sposo e Signore. Il numero seguente riflette sul dono della santità dato da Cristo a tutti i battezzati e sulla necessità che questo dono venga da essi mantenuto e perfezionato: «I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi
4 Per fedeltà al contenuto del testo, preferisco scrivere “via” e non “vie” come riporta il titolo redazionale dell’Enchiridion Varticanum delle EDB, perché il paragrafo si sta riferendo alla carità. 5 A. TERRACCIANO, Chi sei tu, Chiesa di Cristo? Rileggiamo la Lumen Gentium, in Asprenas 50/2-4 (2003) 66. 6 M. LABOURDETTE, Universale vocazione alla santità nella Chiesa, cit., 1037. 7 P. MOLINARI, La santità dei cristiani, cit., 527.
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devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta» (LG 40a). Per Luigi Sartori: «L’impostazione del discorso assomiglia a quella di Paolo nelle sue lettere, dove l’imperativo segue e si intreccia in modo stretto con l’indicativo: “diventa ciò che già sei!”, “manifesta con la tua vita il dono che hai ricevuto da Dio!”. Ieri si parlava di “santità ontologica” e “santità morale”»8. Netta è, poi, la consapevolezza nei Padri conciliari della vocazione universale alla santità: «È chiaro dunque a tutti che tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» (LG 40b). L’affermazione iniziale di LG 41a — «Nei vari generi di vita e nelle varie professioni un’unica santità è praticata […]» dai credenti — viene esplicitata nelle righe seguenti in alcuni «itinerari spirituali adeguati ad ogni genere di cristiano in situazione»9 — e non solo al monaco e al religioso — : vescovi (b), presbiteri (c), diaconi, seminaristi e apostoli laici (d), coniugi, genitori cristiani, vedovi/e, celibi/nubili e lavoratori (e) e, infine, sofferenti, oppressi e/o perseguitati (f). Per Zuccaro è importante evidenziare la «rilevanza teologica di questa affermazione che lascia emergere la necessità di una santità incarnata, ancorata cioè alla vicenda esistenziale propria di ciascun fedele. L’identikit del santo, cioè, non può essere valido per tutti indistintamente: più dell’icona o del cliché della santità esiste il santo, con una fisionomia della vita che è sua propria e inconfondibile. Non che sia impossibile ritrovare elementi comuni nella vita dei santi, ma l’invito che possiamo raccogliere dal Vaticano II consiste nel sottolineare la necessità di disegnare i tratti della santità di ciascuno, secondo i lineamenti del proprio volto. La santità, in una parola, non può essere cercata nella fuga dal mondo, intendendo con questo il rifiuto della propria storia, ma, al contrario, essa va vissuta proprio lì dentro nella consapevolezza che come l’offerta della comunione trinitaria, così anche la risposta accogliente dell’uomo passa
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L. SARTORI, La “Lumen Gentium”. Traccia di studio, Padova 1994, 89. Ibid,, 88.
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attraverso la storia. Una santità che non si consuma sui giorni del calendario e non si vive in compagnia non esiste»10.
Sartori fa notare, invece, l’importanza di tre preposizioni presenti nel testo: «c’è un motivo-criterio di fondo che costituisce per così dire la verità-base che accomuna tutta la trama delle esemplificazioni. Esso emerge dal risalto che viene dato nel testo a tre preposizioni al fine di qualificare concretamente l’universalità dell’impegno nella santificazione: in - con - per (specialmente in 41, 396). — In: ci si deve santificare restando dentro la condizione in cui ciascuno si trova posto per vocazione di Dio (non uscendo fuori; a meno che non sia Dio a chiamare fuori). — Con: ci si deve santificare scoprendo, e poi sfruttando, i mezzi che ci offre la stessa condizione di vita in cui ci troviamo (= con essa, quindi, e non contro o attingendo da altrove in prima istanza; quasi solo al di fuori esista il bene, e Dio ci disponga dei doni). — Per: si deve mirare a rendere manifesto davanti agli occhi degli uomini che la condizione di vita in cui viviamo (il ministero pastorale, il matrimonio, la famiglia, il lavoro, la professione, la malattia…) è essa stessa forma e via, “segno e strumento”, di santificazione. Solo così, in ultima analisi, anche la chiesa può splendere nel mondo come “segno (levato in alto) dell’amore di Dio”»11.
Il paragrafo finale (42) presenta la carità come la via per giungere alla santità, ma potremmo anche dire che «la carità appare in ultima istanza come l’essenza stessa della santità»12. Tale carità non è considerata staticamente, bensì come un dono per la cui crescita bisogna adoperarsi continuamente e in modo strenuo: «Ma perché la carità come un buon seme cresca nell’anima e vi fruttifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e, coll’aiuto della sua grazia, 10 C. ZUCCARO, Santità, in Teologia, a cura di Giuseppe Barbaglio – Giampiero Bof – Severino Dianich, Cinisello Balsamo 2002, 1467-1568. 11 L. SARTORI, La “Lumen Gentium”, cit., 90-91. 12 G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, cit., 394.
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compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucarestia e alla santa liturgia; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, al servizio attivo dei fratelli e all’esercizio di ogni virtù» (a). Tra i mezzi che favoriscono la carità — la cui massima testimonianza e manifestazione è data dal martirio (b)13 — il Concilio presenta i consigli evangelici (c-d) per concludere, infine, che «Tutti i fedeli quindi sono invitati e tenuti a tendere alla santità e alla perfezione del proprio stato» (LG 42e). Quest’ultimo paragrafo si presenta “muy reelaborado, ampliado en su contenido, y habiendo ordenado de diversa manera sus varios principos doctrinales, resumiendo algunos de los contenidos en la primera redacción”14.
3. MARTYRIA In questo secondo punto ci soffermeremo sui brani conciliari nei quali si rintraccia la tematica della martyria.
13 Alcuni commentatori di LG V (M.M. ALVAREZ ROBLES, Lineas doctrinales, 234, L. GALMÉS, La llamada universal, 337), definiscono il martirio e i consigli evangelici mezzi straordinari per far crescere la carità. Per G. Thils, in LG 42b «Si tratta […] di forme determinate di amore di Dio e del prossimo: martirio, celibato, obbedienza e povertà» (Universale chiamata alla santità nella Chiesa, in La Chiesa. Costituzione ‘Lumen Gentium’, Brescia 1966, 195). M. Labourdette definisce il martirio e i consigli evangelici «i grandi mezzi della vita santa o anche il suo coronamento» (Universale vocazione, 1043). U. Rocco si situa sulla linea del martirio come manifestazione della carità: «Tra le manifestazioni della carità ce n’è una a cui il Vangelo stesso attribuisce l’assoluta superiorità su tutte le altre: è il dono della vita» (Universale vocazione alla santità nella Chiesa, in La Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Torino-Leumann 1965, 751). Per R. Moretti il martirio scaturisce dalla carità: «È la carità — lo ricorda il Concilio — la sorgente del martirio, cioè della suprema testimonianza di fedeltà e di amicizia, anche oggi così presente nella Chiesa» (Itinerario alla santità, Morcelliana, Brescia 1965, 313). Così, infine, B. Secondin: «Tra le vie e i mezzi il lungo capitolo include alcune figure classiche: il martirio, la pratica dei “molteplici consigli” […]» (Quale santità per il cristiano di oggi. Tra santi di ieri e santità di domani, in Modelli di santità oggi, a cura di Giuseppe Toffanello, Padova, 1997, 30). 14 L. GALMÉS, La llamada universal, cit., 336.
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Presenteremo, così, non tanto i numerosi punti nei quali si parla della “testimonianza” tout court15, quanto quelli che trattano della testimonianza dei credenti fino all’effusione del sangue, consapevole che «il Concilio Vaticano II ha preso a cuore il “martirio” valorizzandolo quanto mai altri concilii nel passato l’abbiano fatto»16, anche se ne ha trattato «cautamente e brevissimamente […] Ben poco […] per poter delineare un’idea conciliare di martirio»17. Già gli Apostoli, nella loro attività evangelizzatrice, pur rispettando le autorità civili, non hanno esitato ad opporsi loro ogniqualvolta queste si mostravano ostili alla volontà divina: «Come il maestro, così pure gli apostoli hanno riconosciuto la legittima autorità civile: “Non vi è infatti potestà se non da Dio” insegna l’apostolo, il quale perciò comanda: “Ogni persona sia soggetta alle potestà superiori… chi si oppone alla potestà, resiste all’ordine di Dio” (Rom 13, 1-2). Nello stesso tempo però non ebbero timore di resistere al pubblico potere che si opponeva alla volontà santa di Dio: “È necessario obbedire a Dio prima che agli uomini” (Atti 5, 29). Innumerevoli martiri fedeli hanno seguito questa via attraverso i secoli e in tutta la terra» (DH 11b).
Sempre nello stesso documento, riguardante la libertà religiosa, parlando della “Missione della Chiesa”, si afferma che «per volontà di Cristo la chiesa cattolica è maestra di verità, e il suo compito è di annunziare e di insegnare in modo autentico la verità che è Cristo, e nello stesso tempo di dichiarare e di confermare con la sua autorità i principi dell’ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana. Inoltre i cristiani, comportandosi sapientemente con coloro che sono fuori, “nello Spirito santo, con la carità non simulata, con la parola di verità” (2 Cor. 6, 6-7), s’adoperino a diffondere la luce della vita con ogni fiducia e con 15
Penso, ad esempio, ad AG 11-12: “La testimonianza cristiana”. A.M. TRIACCA, Martirio: significato salvifico-sacramentario della sua «DUNAMISVIRTUS», in Salesianum 35/2 (1973) 298, n. 93. 17 B. GHERARDINI, Il martirio nella moderna prospettiva teologica, in Divinitas 26/1 (1982) 1.2. 16
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Mario Torcivia fortezza apostolica fino all’effusione del sangue. Infatti il discepolo è tenuto all’obbligo grave verso Cristo maestro di riconoscere sempre meglio la verità da lui ricevuta, di annunciarla fedelmente, di difenderla con fierezza, non utilizzando mai mezzi contrari allo spirito evangelico» (DH 14c).
In GS 21e, descrivendo “L’atteggiamento della Chiesa di fronte all’ateismo”, i Padri conciliari si soffermano a trattare dell’importanza di una chiara testimonianza di vita che i cristiani devono dare, anche quando questo porta al martirio: «Il rimedio all’ateismo lo si deve attendere sia dalla esposizione conveniente della dottrina della chiesa, sia da tutta la vita di essa e dei suoi membri. La chiesa infatti ha il compito di rendere presenti e quasi visibili Dio Padre e il Figlio suo incarnato, rinnovando se stessa e purificandosi senza posa sotto la guida dello Spirito santo. Ciò si otterrà anzitutto con la testimonianza di una fede viva e matura, vale a dire opportunamente educata alla capacità di guardare in faccia con lucidità alle difficoltà per superarle. Di una fede simile hanno dato e danno testimonianza sublime moltissimi martiri. Questa fede deve manifestare la sua fecondità, col penetrare l’intera vita dei credenti, anche quella profana, col muoverli alla giustizia e all’amore specialmente verso i bisognosi».
Anche il missionario, infine, è chiamato a dare la propria bella testimonianza di fede che può condurlo anche al dono della vita: «Vivendo autenticamente il vangelo, con la pazienza, con la longanimità, con la benignità, con la carità sincera egli deve rendere testimonianza al suo Signore fino a spargere, se necessario, il proprio sangue» (AG 24b)18. Per quanto riguarda i martiri, nel II capitolo della LG — quello dedicato al “Popolo di Dio” — parlando de “La Chiesa e i cristiani non cattolici”, i Padri, dopo aver menzionato le motivazioni che legano i membri delle altre confessioni cristiane alla Chiesa cattolica, terminano l’elenca-
18 Da tutte queste citazioni conciliari e dalla stessa esperienza ecclesiale si evince l’importanza della virtù della fortezza per coloro che sono chiamati al martirio, cfr P. MOLINARI, La fortezza dei martiri e dei santi, in Communio 9 (1980) n. 50, 27-36.
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zione riconoscendo la presenza del dono del martirio19 anche in queste chiese: «A questo si aggiunge la comunione di preghiere e di altri benefici spirituali; anzi una certa vera unione nello Spirito santo, poiché anche in loro lo Spirito con la sua virtù santificante opera per mezzo di doni e grazie, e ha fortificati alcuni di loro fino allo spargimento del sangue» (15)20. E ancora la stessa Costituzione dogmatica, trattando delle “Relazioni della chiesa pellegrinante con la chiesa celeste”, così si esprime: «Che gli Apostoli e i martiri di Cristo, i quali con l’effusione del loro sangue avevano dato la suprema testimonianza della fede e della carità, siano con noi strettamente uniti in Cristo, la chiesa lo ha sempre creduto, e li ha con un particolare affetto venerati insieme con la beata vergine Maria e i santi angeli, e ha piamente implorato l’aiuto della loro intercessione» (50a). Tale unione e venerazione si manifesta pienamente nella celebrazione eucaristica: «Perciò quando celebriamo il sacrificio eucaristico ci uniamo in sommo grado al culto della chiesa celeste comunicando con essa e venerando la memoria soprattutto della gloriosa sempre vergine Maria, ma anche del beato Giuseppe e dei beati apostoli e martiri e di tutti i santi» (50d). Sacrosanctum Concilium, infine, parla dei martiri nel capitolo V dedicato a “L’anno liturgico”: «La Chiesa ha inserito inoltre nel ciclo dell’anno anche le memorie dei martiri e degli altri santi che, giunti alla perfezione con l’aiuto della multiforme grazia di Dio e già in possesso della salvezza eterna, in cielo cantano a Dio la lode perfetta e intercedono per noi» (104).
19 Anche se nel testo definitivo troviamo l’espressione “usque ad sanguinis effusionem roboravit” e non “ad martyrium roboravit”, che ritrovavamo in una fase anteriore, cfr P. COCHOIS, L’insegnamento del Vaticano II sulla santità, cit., 114. Fu, forse, per non usare il termine — scelto solitamente dalla Chiesa cattolica per designare i suoi membri uccisi in odium fidei — anche per cristiani appartenenti alle altre chiese? 20 Ricordo che il 18 ottobre 1964, in fase di discussione dello schema definitivo della Costituzione De Ecclesia, Paolo VI, canonizzando i martiri ugandesi, menzionò anche i martiri di fede anglicana morti nella stessa occasione.
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42B: SANTITÀ E MARTYRIA
In questo terzo esamineremo LG 42b. Come scrivevamo all’inizio, tale testo conciliare è il luogo nel quale si ravvisano i due termini, oggetto della disamina finora compiuta. Invero non troviamo santità e martyria menzionati expressis verbis nel De Ecclesia. LG 42b tratta, però, della testimonianza cristiana fino al dono della vita; e questo all’interno del già citato cap. V sulla “Universale vocazione alla santità nella Chiesa” e, precisamente, quando si espongono la via e gli strumenti della santità. Leggiamo LG 42b: «Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la sua vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la sua vita per lui e per i suoi fratelli (cfr 1 Gv. 3, 16; Gv. 15,13). Già fin dai primi tempi, quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e lo saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d’amore davanti a tutti, e specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al maestro che liberamente accetta la morte per la salvezza del mondo, e a lui si conforma nella effusione del sangue, è stimato dalla chiesa come il dono eccezionale e la suprema prova della carità. Che se a pochi è concesso, devono però tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini, e a seguirlo sulla via della croce attraverso le persecuzioni, che non mancano mai alla chiesa».
Riportata la testimonianza neotestamentaria sull’offerta della propria vita da parte di Cristo, il paragrafo evidenzia come, ad imitazione del Signore, vi sono stati, e sempre vi saranno, dei battezzati che daranno «questa massima testimonianza di amore davanti a tutti, e specialmente davanti ai persecutori». Per LG 42b, pertanto: «el martirio no es sólo un acto de heroica fidelidad a Cristo, sino también, y principalmente, una vocación constitutiva de la Iglesia»21. Realmente si può affermare con Labourdette che «Prima realizzazione riconosciuta e pubblicamente venerata della santità eroica, il martirio 21
A. BANDERA, El llamamiento a la santidad, in Teología Espiritual 37/109 (1993) 19.
Santità e martyria nel Vaticano II
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conserva il valore tipico della più alta consacrazione […e che] il martirio non è un privilegio riservato ai primi tempi della Chiesa, ma una testimonianza che è sempre possibile rendere attuale, la testimonianza per eccellenza e per antonomasia. Le persecuzioni non sono mai mancate alla Chiesa e certamente non le mancheranno mai»22. Se ci si interrogasse poi sulla causa del martirio dei cristiani, bisognerebbe rispondere che «Non è la morte che li consacra “martiri”, ma la grazia di una carità totale che Dio accorda a qualcuno in ogni epoca della storia»23. Quattro sono, poi, le definizioni di martirio presenti in questo breve paragrafo: «massima testimonianza di amore» resa coram omnibus; strumento che assimila e conforma il discepolo al Maestro; «il dono eccezionale e la suprema prova della carità». Parlare di assimilazione e conformazione significa affermare che «L’autenticità del cristiano si riconosce nella misura in cui in lui si può riconoscere Cristo. Ora il martirio costituisce l’imitazione più perfetta di lui. Con esso infatti: “Il discepolo è reso simile al maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e a lui si conforma nella effusione del sangue” (LG 42)»24. Descrivere il martirio come «il dono eccezionale e la suprema prova della carità» (LG 42b), per Molinari «non significa però che la personalità umana del martire e la sua più preziosa prerogativa, la libertà, vengano soppresse o diminuite dalla grazia stessa. Al contrario, secondo i principi generali che governano la vita del corpo mistico di Cristo, le possibilità della libertà umana e dell’amore spontaneo vengono arricchite e nobilitate in modo eminente dalla grazia: è proprio nel martirio che la personalità umana attua, sotto l’impulso della grazia, la sua più autentica possibilità di libertà e di amore, in quanto cioè, in un atto unico onnicomprensivo ed irrevocabile, dona a Dio tutta la sua esistenza terrena, 22
M. LABOURDETTE, Universale vocazione alla santità nella Chiesa, cit., 1043. G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, cit., 424. 24 A. CAPPELLETTI – M. CAPRIOLI, Martire, in Dizionario Enciclopedico di Spiritualità/2, a cura di Ermanno Ancilli e del Pontificio Istituto di Spiritualità del Teresianum, Roma 1995, 1522. 23
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Mario Torcivia e in un atto supremo di fede, speranza e carità, si abbandona radicalmente e totalmente nelle mani del suo creatore e redentore. La grandezza unica di questa completa donazione di sé diventa ancora più manifesta se si considera che il martire non solo affronta liberamente la tragica e terrificante esperienza della morte che egli, con una parola o un solo gesto, potrebbe facilmente allontanare rinnegando Cristo, ma anche e ancora di più che egli accetta con tutto il cuore e gioiosamente questa morte come il modo eminente di essere associato, in maniera assoluta e radicale, alla morte sacrificale di Cristo sulla croce»25.
Il fatto che sia dato a pochi, non esime, infine, i cristiani ad essere pronti a confessare Cristo sempre e ovunque e a camminare dietro di lui sulla via crucis delle persecuzioni. Su questa continua prontezza dei credenti in Cristo, per il Cappelletti, dopo i primi secoli di martirio cruento: «Si valorizzò il desiderio del martirio e si arrivò fino a una concezione tutta spirituale di esso. Il desiderio del martirio diede vita a una vera e propria pratica ascetica di esso: i cristiani dovevano coltivare l’interiore disposizione ad accettare il martirio qualora venisse loro richiesto. L’esercizio è quanto mai attuale se il concilio Vaticano II ha creduto opportuno ricordarlo ai fedeli: “Che se a pochi è concesso (il martirio), devono però tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini, e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che mai non mancano alla chiesa (LG 42)”»26.
Il martirio, infine: «se distingue entre entregar la vida en un istante (el martirio de hecho) y entregar la vida cada día (martirio prolongado) en el seguimiento de Cristo con la cruz. Esta ha de ser la disposición del cristiano»27.
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P. MOLINARI, La fortezza, cit., 31-32. C. CAPPELLETTI, Martirio e santità, in RVS 23/6 (1969) 605. M.M. ALVAREZ ROBLES, Lineas doctrinales, cit., 235.
Synaxis XXIII/3 (2005) 19-41
IL CORPO DIMORA DELLA “PAROLA”
MAURIZIO ALIOTTA*
1. INTRODUZIONE Il gran numero di studi sul corpo, considerato sotto molteplici punti di vista, non rende superfluo un ulteriore contributo, che si colloca nella prospettiva di cogliere come nasce uno di questi punti di vista. Non è raro ascoltare, soprattutto nell’attuale contesto di dibattito bioetico, affermazioni che sembrano ignorare totalmente lo sviluppo dell’antropologia cristiana e il suo nucleo fondamentale olistico, fondato sulla rivelazione biblica1. La filosofia contemporanea ha “scoperto” il corpo come fenomeno soggettivo2. Esso non è, dunque, solo oggetto di studio dell’anatomia e della fisiologia. Suppone, naturalmente, l’anatomia e la fisiologia, ma non può ridursi ad esse. Non è semplicemente una macchina vivente, ma un essere senziente. La tradizione ebraico-cristiana, fondandosi sulla rivelazione biblica, aveva ben visto la realtà dell’uomo nella sua unitarietà. L’antropologia biblica ci consegna, infatti, una visione olistica dell’uomo, che ha dovuto sempre fare i conti con molteplici concezioni dualiste. L’uomo è un corpo spirituale, un corpo cioè animato dallo spirito (ruach) del Creatore. Il racconto biblico ci dice che solo sull’uomo Dio alita il suo spirito. Diversamente, avviene per gli altri esseri viventi. Tutte le creature sono esseri viventi, ma solo l’essere umano ha una dimensione *
Ordinario di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Il presente contributo ha costituito il testo base per un seminario di ricerca sul “corpo nella teologia cristiana” tenutosi presso lo Studio Teologico S. Paolo. Il mio cordiale ricordo va agli studenti che vi hanno preso parte. 2 Cfr le lezioni di J. PATOC#KA, Body, Community, Language, World, III, Chicago-La Salle, 1998. 1
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spirituale e può riconoscere una dimensione spirituale nel creato. Per questo, forse, all’uomo è affidata la custodia del mondo. Il corpo umano si presenta, così, fin dall’inizio come depositario di un dono, esso è dimora della ruach di Dio. Questa non si identifica con una dimensione parziale dell’uomo, ne è invece la luce, la possibilità di venire alla luce. Anche i greci sapevano che l’essere umano è abitato da un démone3. Sebbene non si possa stabilire un parallelo tra la concezione greca e quella biblica, se non un parallelismo antitetico, ritorna l’idea che il corpo umano è dimora d’altro dall’uomo stesso. Questo “altro” che inabita l’umano, in un contesto dualista, che separa materia e spirito considerandoli realtà contrapposte, connota di estraneità lo stesso corpo dell’uomo. Il corpo, così, diventa altro rispetto all’essere umano. Il suo linguaggio deve essere tradotto perché straniero. La sessualità e la malattia sono lingue straniere non immediatamente comprensibili senza essere interpretate; non dicono più nulla direttamente, abbisognano di una mediazione. L’io corporeo è altro4 rispetto all’io spirituale, perché separati dall’io personale. Il corpo stesso diventa ospite. Un ospite a volte inatteso a volte poco conosciuto a volte percepito come ostile: «Quanto a me, non so attraverso quali abitudini di vita e quale condotta giungerò ad incatenare questo amico che ho caro, né come lo giudicherò secondo la stessa procedura delle altre passioni. Poiché prima che io possa averlo legato, è fuggito, prima ancora di condannarlo, mi sono riconciliato con lui; prima di poter infierire ne ho avuto pietà. Come vincere chi la natura mi spinge ad amare? Come liberarmi di colui al quale sono legato per l’eternità? Come annientare ciò che deve risuscitare con me? Come rendere incorruttibile ciò che ha ricevuto una natura mortale? Come opporre dei buoni argomenti a colui che ne possiede di propri per natura? Se lo incateno col digiuno, sono portato a giudicare il mio prossimo, e così sono di nuovo consegnato ad esso. E se, rinunciando a giudicare, lo vinco,
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F. FAROS, La natura dell’eros, Milano-Schio (VC) 1993, 119-161. Nella letteratura moderna abbiamo esempi di questa comprensione dell’estraneità dell’io: cfr M. ALIOTTA, L’io estraneo. La “conversazione” di Elio Vittorini sulla malattia, in M. NARO (a cura di), Sub specie Typographica. Domande radicali negli scrittori siciliani del Novecento, Caltanissetta-Roma 2003, 103-114. 4
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l’orgoglio che concepisco nel mio cuore mi rende di nuovo suo schiavo, poiché è contemporaneamente un alleato e un nemico, un aiuto ed un rivale, un difensore e un traditore. Se lo risparmio, mi fa guerra. Se lo sposso, resto senza forze. Quando lo lascio tranquillo, si comporta male. Se lo contristo, sono in pericolo. Se gli do un colpo decisivo, non ho più di che acquistare le virtù. L’abbraccio e lo distolgo allo stesso tempo. Quale mistero dunque in me? Che significa questo miscuglio? Perché sono così amico e nemico di me stesso? Dimmelo tu, mia compagna, mia natura, poiché non interrogherò nessun altro per essere istruito»5.
2. LA PERSONA UMANA NELLA SUA REALTÀ CORPORALE L’ambivalenza antropologica che riscontriamo nella tradizione cristiana ha una duplice causa. La prima ha carattere teologico. Il “peccato originale” pone un prima e un dopo: prima il corpo è “assistente”, amico; dopo è “oppositore”. La seconda causa è di carattere storico: la doppia eredità del pensiero cristiano antico, costituita dall’antropologia biblica e dalla filosofia greca (soprattutto neoplatonica)6. Mentre la prima è decisamente olistica, la seconda, anche quando non è dualista in senso stretto, sottolinea la netta distinzione tra anima e corpo. L’influenza platonica ha generato nei testi cristiani antichi una tensione irrisolta, che segna l’insegnamento sul corpo e la sessualità. Consideriamo brevemente l’antropologia biblica nella sua diversità rispetto alla concezione greca.
2.1. La tradizione biblica e il pensiero greco Per le Scritture ebraiche la persona umana non è una combinazione di due parti separate, corpo e anima, ma una singola unità indivisibile. La concezione ebraica della persona è incarnata e fisica: Io non ho un corpo, 5
G. CLIMACO, La scala santa, 15, 88. Per l’influsso del paltonismo sui Padri della Chiesa, cfr il sempre valido R. ARNOU, Platonisme des Pères, in DTC 12, 2294-2393 e il classico E. VON IVANKA, Plato Christianus. Übernahme und Umgestaltung des Platonismus durch die Väter, Einsiedeln 1964. 6
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Io sono il mio corpo. Così quando si comincia a prospettare una vita dopo la morte, non si parla di immortalità dell’anima, ma di risurrezione del corpo (Is 26, 19; Dn 12, 2). Non c’è spazio per dottrine del tipo “preesistenza” dell’anima, metempsicosi o simili. La concezione platonica della persona è espressa con categorie che separano “anima” e “corpo”. «L’anima è uomo»7 — afferma un testo platonico — e all’interno dell’anima solo la più elevata delle sue tre parti, l’intelligenza (o parte intellettuale), possiede l’immortalità. Nella vita presente è vero che l’anima ha bisogno di far uso del corpo, con i suoi diversi istinti e desideri, incluso il desiderio sessuale. Il corpo e i suoi impulsi non sono cattivi, ma devono essere tenuti sotto controllo8. Sebbene non cattivi, tuttavia questi impulsi sono estrinseci alla vera natura della persona. Quella vera, infatti, si deve individuare in un intelletto o pensiero/mente, temporaneamente imprigionato in un corpo materiale e che aspira alla libertà: il corpo (so@ma) è una tomba (re@ma). Solo l’intelletto è eterno, preesiste al corpo e sopravviverà alla dissoluzione del corpo. La nostra futura speranza ultima, secondo il platonismo è un’esistenza “liberata” da ogni fisicità. Mentre Aristotele modifica in parte l’insegnamento di Platone e gli stoici si avvicinano alla concezione olistica anticotestamentaria, il tardo platonismo conserva una concezione pessimistica del corpo. Plotino (20569/70 d. C.), considerato uno dei padri fondatori del neoplatonismo — che tanta parte ha avuto nello sviluppo della teologica cristiana dell’antichità e del Medioevo — secondo il suo biografo Porfirio, “sembrava vergognarsi di esistere in un corpo”. Non desiderava farsi ritrarre, considerando l’aspetto fisico cosa di poca importanza; rifiutava di rivelare la data della sua nascita, perché essa ricordava l’entrata nel corpo e questo non era certo un motivo da celebrare9. Il giudeo ellenizzante Filone (45 d. C. ca.) si spinge oltre e non solo definisce il corpo «una casa prigione disgustosa»10, ma anche lo
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Alcibiade I, 130 c. Cfr la nota analogia platonica dell’auriga, in Fedro 246 ab, 253 c-254 b; 255.161s. PORFIRIO, Vita di Plotino, 1-2. La migrazione di Abramo, 9.
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condanna — in un modo che Platone e Plotino non avrebbero fatto — come «cattivo per natura»11. Il punto di vista unitario delle Scritture ebraiche continua a prevalere nel Nuovo Testamento. In particolare, il valore spirituale del corpo umano è fortemente sottolineato nell’incarnazione: «La parola divenne carne» (Gv 1,14). Per salvare gli uomini, Dio non solo appare sulla terra ma assume la carne dell’uomo. La natura umana nella sua interezza, corpo e anima, è assunta dal Verbo. «Ciò che abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che abbiamo visto e toccato con le nostre mani […] questo è quello che vi annunciamo» (1Gv 1,1-3). La salvezza è visibile, palpabile, incarnata. Gesù il salvatore è nato corporalmente da una donna (Gal 4,4). Si trasfigurerà nel suo corpo fisico (Mt 17,1-8), soffrì nel suo corpo sulla croce e risuscitò il terzo giorno dalla morte. I Vangeli insistono sulla corporeità del Risorto: «Toccami e guardami» (cfr Lc 24, 39)12. L’Apostolo Paolo esprime la medesima concezione utilizzando due coppie di termini: sarx- pneuma e soma-psyche. Dove sarx (carne) non si riferisce all’aspetto fisico, ma all’intera persona separata da Dio e in rivolta contro di Lui. Pneuma (spirito) non è l’anima (separata dal corpo), ma l’intera persona che vive in comunione con Dio nella sua obbedienza. I due termini, dunque, sono contrapposti non della contrapposizione materiaspirito, ma della contrapposizione pro o contro Dio. Carne e spirito non indicano, in questo modo, componenti delle persona, ma relazioni che abbracciano la persona nella sua totalità. L’apprezzamento di Paolo sul corpo è altamente positivo: «Offri il tuo corpo come un sacrificio vivente a Dio» (Rm 12,1). «Il tuo corpo è un tempio dello Spirito Santo […] Glorifica Dio nel tuo corpo» (1Cor 6,1920)13. Questa distinzione vitale tra sarx e soma sfortunatamente è stata
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Interpretazione allegorica della legge, III, 71. La tradizione cristiana patristica ha sottolineato la centralità della dimensione corporea nella salvezza con la formula caro salutis est cardo (Tertulliano), vale a dire che la carne è cardine della salvezza. Origene ricorda che «l’intera persona umana non sarebbe stata salvata se il Signore non avesse assunto la persona umana intera» (Dialogo con Eraclito). 13 Per questo si condanna la promiscuità sessuale: non perché il corpo e il sesso siano impuri, ma perché sono potenzialmente santi, «i vostri corpi sono membra di Cristo» (1Cor 6,15). 12
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misconosciuta dai predicatori e dai moralisti cristiani, applicando al corpo ciò che Paolo diceva della “carne”.
2.2. La cristianità greca La società in cui vivevano i cristiani di lingua e cultura greca era caratterizzata da una struttura gerarchica sempre più rigida e da una sempre più grande differenziazione dei ruoli sociali. Nel periodo dall’imperatore Diocleziano (284-305) a Giustiniano (527-565), il sistema ereditario della “servitù della gleba” si estende, con i contadini sempre più servi del suolo, mentre nelle città i figli erano spesso costretti a seguire l’occupazione dei loro padri. Alla relazione esistente tra concezione di corpo sociale e di corpo fisico corrisponde una rigidità nella concezione della corporeità (fisica) soprattutto in campo sessuale. L’Impero Romano del I e II secolo fu caratterizzato da una crescente rigidità morale, definita da qualche storico la “sconfitta del corpo”14. Questa crescente rigidità è indipendente dall’influenza del cristianesimo perché lo precede. Senza dubbio però l’esaltazione della verginità fatta da alcuni cristiani e la condanna del matrimonio fatta da altri (eretici) contribuì a quello sviluppo. Complessivamente il cristianesimo orientale ebbe un atteggiamento più positivo di quello occidentale verso il corpo e il sesso. Ireneo sostiene che l’intera persona umana — corpo e anima — è fatta ad immagine di Dio. Giunge a dire che «la carne [non in senso paolino] è compenetrata dal potere dello spirito, in modo che non è semplicemente carnale, ma diventa veramente spirituale attraverso la comunione con lo spirito […] E come è soggetta alla corruzione, così è pure capace di giungere all’incorruttibilità»15. La cristianità greca antica deve fare i conti con la doppia eredità, quella biblica e quella della filosofia greca. La complessità del suo pensiero emerge con evidenza se si confronta Origene col suo predecessore nella scuola di Alessandria, Clemente (215 d.C). Ambedue platonizzanti, sebbene 14 Cfr P. BROWN, Body and Society. Men, Women and Sexual Renunciation in Early Christianity, London-Boston 1988. 15 Frammento, 6.
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Clemente includa nel suo pensiero anche idee stoiche sulla natura umana. Origene definisce la persona umana in un modo tipicamente platonico: «un’anima che usa un corpo»16. Il corpo non è più che uno strumento dell’anima e l’immagine di Dio è riflessa solo in essa. L’anima esiste prima del corpo ed entra in essa solo dopo la “caduta”. È «legata al corpo come una punizione»17. Tutto questo non vuol dire, però, che il corpo sia considerato come cattivo. Nel sistema origeniano, infatti, la punizione è sempre medicinale, non retributiva e perciò Dio ci ha dato un corpo in ordine alla salvezza dell’anima e porta alla sua redenzione. Il peccato non nasce dal corpo o dalla materia in genere, ma dalla nostra volontà libera18. Resta vero, comunque, che per Origene il corpo non è parte essenziale della personalità; fummo creati originariamente da Dio come intelletti senza corpo. Clemente vede il corpo sotto una luce più positiva. Esso è “consorte e alleato dell’anima” e solamente “mediante il corpo” possiamo giungere al nostro fine19. Diversamente da Origene, non considera l’anima preesistente al corpo20; di più, associa anche al corpo e al corpo sessuato l’essere dell’uomo ad “immagine di Dio”: «La persona umana è l’immagine di Dio in virtù del fatto che siamo pensiero e cooperiamo con Dio alla nascita di altri esseri umani»21. Formati ad immagine divina, gli uomini sono concreatori e la sessualità è una delle espressioni della creatività donataci da Dio. «Tra le cose che ci santificano anche la discendenza è santa»22. Bisogna riconoscere, tuttavia, che in linea generale i padri greci antichi tendono ad avere un atteggiamento meno favorevole di Clemente verso la sessualità23. Da ciò non deriva, però, che la sessualità come tale sia peccato; al contrario è qualcosa di ordinato da Dio, anche se non 16
Contro Celso, VII, 38. Peri Archon, I, VIII, I. 18 Contro Celso, IV, 65-66. 19 Il pedagogo, I, 13. 20 L’insegnamento di Origene fu condannato dal V Concilio Ecumenico di Costantinopoli nel 553. 21 Il pedagogo, II, 10. 22 Stromata, II, 6. 23 Negli scritti di Atanasio, Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore ritroviamo la convinzione che l’unione coniugale sia stata approvata da Dio solo a causa della caduta. Se Adamo e Eva non fossero caduti nel peccato avrebbero continuato a vivere in Paradiso senza avere relazioni sessuali. 17
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appartiene al piano primario e originale del Creatore, ma a quello previsto a causa del peccato di origine. C’è anche chi rifiuta questa concezione “derogatoria”, per es. Ireneo di Lione e, sorprendentemente, Agostino d’Ippona. Ambedue affermano che Adamo ed Eva erano sessuati anche prima del peccato d’origine. Ireneo vede Adamo ed Eva come esseri sessuati anche prima della caduta. Inizialmente non vi erano stati rapporti sessuali tra i due perché erano ancora come “bambini”. Cresciuti avrebbero raggiunto la maturità sessuale e avrebbero avuto in ogni caso rapporti sessuali e generato dei figli24. Per Ireneo ed Agostino l’unione fisica del matrimonio e l’ordine sociale della famiglia avevano le loro radici nello stato originario dell’umanità25. Considerando complessivamente la tradizione greca antica vediamo una ambivalenza: mentre è affermata la bontà fondamentale del corpo, in pratica esso è visto sotto una luce negativa, forse per l’influenza, contestata ma a volte inconsapevolmente subita, dell’ellenismo e dello gnosticismo in particolare. Inoltre, nei primi tre secolo troviamo la trasposizione in contesto cristiano delle norme di purità legale di Lv 15,19-24. Nella prassi della tradizione cristiana antica, oltre la dimensione sessuale, il corpo è stato oggetto di cura: si pensi all’attenzione al corpo dei malati e dei poveri. Nella Vita Antonii26 abbiamo un esempio di concezione positiva del corpo, senza tracce di dualismo. Le austerità fisiche non distruggono il corpo di Antonio, ma lo restituiscono ad uno stato naturale e di salute. L’ascetismo, rettamente inteso, non è una lotta contro il corpo, ma per il corpo. Sulla scia di questa visione ascetica (per il corpo, non contro), il teologo e filosofo ortodosso russo S. Bulgakov (1871-1944) scrive: «Uccidi la carne per poter acquistare un corpo». In comune con la gran parte delle fonti cristiane greche, la Vita Antonii mostra un timore del corpo nudo. Invece Simeone il Nuovo Teologo (949-1022) ricorda l’atteggiamento del suo maestro Simeone Studita, senza disapprovarlo: «Non era spaventato delle membra di nessuno o di vedere qualcuno o se stesso nudo. Perché possedeva il Cristo intero ed era lui stesso interamente Cristo. Sempre guardava le sue membra e le membra altrui, individualmente e collettiva24 25 26
AH III,
22,4. In questa direzione va pure la benedizione della liturgia nuziale romana. Attribuita ad Atanasio † 373.
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mente, come se fossero Cristo stesso». Simeone il Nuovo Teologo sviluppa questo punto di vista nei dettagli senza falsi pudori: «La mia mano è Cristo, il mio piede è Cristo, anche il mio pene è Cristo». A chi si scandalizzava delle sue parole dice: «Non accusarmi di blasfemia, ma accetta queste cose e loda Cristo che ti ha fatto come sei»27. Questo riferimento esplicito alle singole parti del corpo è comunque un caso eccezionale nel cristianesimo antico, ma Simeone non è poi così lontano dalla concezione di Ireneo sulla coppia umana in paradiso. L’unione indissolubile dell’anima e del corpo è — come sosteneva E. Mounier — l’asse del pensiero cristiano. Il pensiero (nous), l’anima (psyche@) e il soffio vitale si fondono insieme nell’esistenza col corpo28. La concezione olistica della persona, così presente nel personalismo cristiano si ritrova nell’ultimo concilio ecumenico. La Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II assume l’antropologia olistica della tradizione biblica e patristica compendiandole nella formula corpore et anima unus homo (GS 14). Dall’unità fondamentale della natura umana la Costituzione fa discendere sia la bontà della realtà corporale della persona sia la bontà delle realtà terrestri. Già nelle sue premesse la Gaudium et spes chiarisce che il suo destinatario è l’uomo integrale, nell’unità di corpo e anima, di cuore e di coscienza, di intelletto e di volontà29. Non si tratta, tuttavia, di una concezione ingenua della condizione umana, ma che tiene conto sia del peccato sia della peculiarità dell’uomo nel creato e della sua trascendenza rispetto alla realtà materiale.
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Inni, XV, 141-211. «L’uomo è un corpo allo stesso titolo che è spirito, tutto intero “corpo” e tutt’intero “spirito”. Dei suoi istinti più primari: mangiare, riprodursi, ha fatto delle arti sottili: la cucina, l’arte di amare. Ma un mal di testa ferma il grande filosofo e s. Giovanni della Croce, nelle sue estasi, vomitava […]. L’unione indissolubile dell’anima e del corpo è l’asse del pensiero cristiano. Esso non oppone lo “spirito” e il “corpo” o la “materia” nella loro accezione moderna. Per esso, lo “spirito” nel senso composito dello spiritualismo moderno, che designa contemporaneamente il pensiero (nou%v), l’anima (yu%ché) e il soffio di vita, si fondono nell’esistenza con il corpo» (E. MOUNIER, Le personnalisme, in Oeuvres *** 1944-1950, Paris 1962, 441-442). 29 «Homo igitur, et quidam unus ac totus, cum corpore et anima, corde et conscientia, mente et voluntate, totius nostrae explanationis cardo erit» (GS 3). 28
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3. IL LINGUAGGIO DEL CORPO: EROS E MALATTIA L’eros è la parola creativa del corpo umano. Il sesso, nella persona umana, slegato dall’estro si manifesta oltre l’istinto, a cui peraltro in qualche modo soggiace. È un’energia che spinge, tende a manifestarsi e, se repressa, esplode in ogni caso. Come la parola/dabar che dall’interno spinge in avanti, così il sesso è una forza che spinge in avanti sotto la forma dell’eros. L’erotismo è il linguaggio originario del corpo e mediante di esso comunica le intenzioni, le sensazioni, i sentimenti, le emozioni. L’eros mascherato mostra a volte il suo volto deformato e parla con una voce alterata, come da dietro una maschera; altre volte l’eros è privo di parola, quando è ridotto a impulso meramente biologico, identificandolo riduttivamente col sesso. L’eros invece è il dinamismo proprio del corpo, il suo linguaggio complesso, articolato nella grammatica della comunione e della conoscenza e nella sintassi della relazione. Il falso volto dell’eros è muto, senza parola, come mostra il quadro di Magritte, Le viol30. Qui la donna è ridotta a mero oggetto d’uso e non ha diritto alla parola. L’eros, nella sua vera natura, è volto che dialoga. Come nel volto si incontrano sguardo (vedere ed essere veduto) e parola (detta e ascoltata)31, così nell’eros si incontrano dono e accoglienza. Nella reciprocità tra donna e uomo si coniugano “dare” e “accogliere”: la donna accoglie l’uomo e nella sua azione di accogliere dona se stessa, l’uomo penetra nella donna e così è accolto da essa dando se stesso. Questa 30
Magritte dipinge un volto di donna la cui bocca non è altro che una vagina e gli occhi il seno: il volto, la donna, è ridotto ad un mero corpo-strumento, come osserva acutamente M.M. MARZANO PARISOLI, Penser le corps, Paris 2002, 106-107. In ambito letterario, cfr C. SCORDATO, Marianna, un corpo senza parola. L’amata scrittura di Dacia Maraini, in M. NARO (a cura di), Sub specie Typographica, cit., 287-317. 31 Ispirandosi a E. Levinas, B. Chenu afferma: «Il volto umano articola dunque una parola e uno sguardo. È il nodo carnale del dire e del vedere del discorso e della visione. La sua espressività viene da questa congiunzione dello sguardo con la voce, dalla loro reciprocità. Come dire che si deve coniugare il greco con il latino. In greco, infatti, “persona” si dice prosopon, che significa “sguardo verso”. In latino “persona” si dice per-sona, che significa “parola verso”. È risaputo: i greci contemplavano e i latini conversavano. Ma il volto è la proiezione di sé verso l’esterno mediante la voce, l’ascolto e la vista. Gli occhi, la bocca e gli orecchi sono aperture complementari dell’essere umano» (B. CHENU, Tracce del volto, Magnano [BI] 1996, 30).
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reciprocità asimmetrica ci dice che sia la donna sia l’uomo sono contemporaneamente attivi e passivi. Solo nel dominio e nella violenza non c’è questa reciprocità32. Il corpo oggetto è muto, il corpo soggetto è portatore di una parola che instaura un dialogo personale. L’eros allora spinge all’abbraccio di due esseri, nell’amplesso si manifestano le varie componenti della comunicazione personale: l’incontro, lo scambio, il ritorno (piacere). In questo incontro nella reciprocità si realizza quell’unione che nasce dalla diversità. Dalla differenza, infatti, nasce il desiderio dell’incontro/unione e dal compimento dell’unione nasce una nuova consapevolezza di sé. Le contrapposizioni tra biologico e spirituale nascono da un dualismo fondamentale che regge la Weltanschauung della cultura eurocentrica, che considera la mente separata dal corpo. La mente superiore che usa il corpo, la mente vera patria dell’uomo. Vige la logica del dominio e della superiorità, la logica del padrone e del servo. Questa persistente dicotomia dell’antropologia contemporanea emerge chiaramente in alcuni testi di anni recenti33. Assistiamo alla ripresa della dicotomia espressa in termini classici da Platone. Una sua prima conseguenza è la “plasticità” delle concezioni del corpo, perché esso non è pensato legato a una natura data, ma alla cultura. In secondo luogo, si afferma una sorta di indifferenziazione della corporeità; la differenza sessuale perde di significato e il sesso è solo “forma” del piacere. Infine, vi è una forte strumentalità: il corpo è strumento guidato dalla mente (fantasie, immaginazione, …) per una pura gratificazione. Questi tre caratteri del corpo duale, separato dalla psiche sono tre aspetti della stessa realtà: l’individuo come frammento di una “unità” ormai perduta. Il frammento resta frammento e l’unità non è ricostituibile. Gli individui hanno in comune solo l’uso della ragione, la mente, con le sue funzioni, resta come unica cornice di riferimento. Ciò significa che la ragione funziona all’interno del frammento, non costituisce un comune denominatore. I frammenti possono incrociarsi, incontrarsi, scontrarsi in un 32 Ne è un esempio proprio il volto di donna dipinto da Magritte nel quadro prima menzionato. 33 Cfr, per es. A. GIDDENS, La trasformazione dell’intimità, Bologna 1995; U. GALIMBERTI, Vizi capitali e i nuovi vizi, Milano 2003.
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gioco determinato dalla ragione. Il corpo è solo la sede formale e strumentale di questo gioco34. Seguendo la logica del “gioco formale” il corpo, mero luogo del gioco individuale, non distingue più tra reale e virtuale; la distinzione tra naturale e artificiale scompare. In questa trasformazione sono coinvolti tutti gli ambiti della corporeità, innanzi tutto il sesso e il suo esercizio. Ciò che guida l’esercizio della sessualità non è la natura, né con la finalità della procreazione né con quella dell’unione tra uomo e donna, ma la ragione strumentale che determina l’orientamento sessuale del soggetto e, conseguentemente, dell’oggetto (soggetto che desidera e oggetto desiderato). Si ha una erotizzazione della realtà come operazione mentale35. La ragione individuale stabilisce ciò che è oggetto del desiderio: l’altro sesso, lo stesso sesso, l’adulto, il bambino, una parte o più parti del corpo, proprio o altrui, l’animale, una cosa inanimata. Il mercato della pornografia raccoglie e moltiplica tutti questi oggetti del desiderio sessuale. Li cataloga, li indicizza, li sistematizza e li offre con enormi margini di profitto sul mercato mass-mediatico e, soprattutto, su internet. Come si giunge a ciò, come è possibile arrivare ad eliminare ogni criterio oggettivo/naturale per definire la sessualità e il suo esercizio? La tecnica ha consentito di sganciare totalmente (vale a dire efficacemente) la sessualità dalla procreazione. Si è operato così un mutamento antropologico, perché l’uomo desiderante non conosce più la radice del suo desiderio, se non lui stesso. In realtà non è lui, ma finge di esserlo. Abolita la distinzione tra normale e anormale, il mutamento delle categorie etiche è conseguenza logica. 34
Cfr la teoria dei giochi formali. Forse una esasperazione di ciò che osservava Merlau-Ponty: «La percezione erotica non è una cogitatio che guarda un cogitatum, attraverso un corpo guarda un altro corpo, si fa nel mondo e non in una coscienza. Uno spettacolo ha per me un significato sessuale, non quando mi rappresento, anche confusamente, il suo possibile rapporto agli organi sessuali o agli stati di piacere, ma quando esiste per il mio corpo, per questa potenza sempre pronta ad allacciare gli stimoli dati ad una situazione erotica e ad applicarvi una condotta sessuale. Vi è una “comprensione” erotica che non è dell’ordine dell’intelletto perché l’intelletto comprende percependo un’esperienza sotto la forma di idea, mentre il desiderio comprende ciecamente legando un corpo ad un corpo. Anche con la sessualità, che è nondimeno da tempo considerata il tipo della funzione corporale, noi abbiamo a che fare non con un automatismo periferico, ma con una intenzionalità che segue il movimento generale dell’esistenza e che cede con essa» (Phénoménologie de la perception, Paris 1945, 183). 35
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Il corpo diventa lo strumento attraverso cui direttamente o con l’ausilio di “protesi”, che può esser anche un altro corpo, l’individuo può procurarsi piacere, come autoaffermazione di sé (alienandosi nel contempo dalla realtà). Lo sfruttamento economico-commerciale del corpo (sesso e altro) esige la negazione della natura, dei suoi limiti, con la necessità della plasticità e dell’indifferenziazione. Esige altresì lo sfruttamento pubblicitario di tutti i dinamismi naturali che consentono di giocare con gli istinti36. Il corpo conosce pure il linguaggio della malattia e del dolore. Dolore e malattia sono una parola che il corpo dice per esprimere il messaggio di un disagio grave. L’evangelista Marco riferisce di una donna che soffriva di perdite continue di sangue: «Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando,_udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti:_“Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita”._E all’istante le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male._Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi mi ha toccato il mantello?”._I discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?”._Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo._E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità._Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”» (Mc 5,24-34).
Nel vangelo secondo Marco fino al cap. 5 vi sono racconti di guarigione in termini generali e per la maggior parte si tratta di uomini. Gli altri racconti riguardano principalmente donne e persone che vivono in territorio pagano. In particolare 5,21-43 presenta un intreccio di due racconti con la guarigione di due donne: una malata di dodici anni ed una ammalata da dodici anni. Entrambe vengono guarite con un semplice tocco; in entrambi i casi la guarigione è attribuita alla fede.
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U. GALIMBERTI, cit., indica i vizi come motore dell’azione umana.
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In questi casi la condizione della malattia è aggravata dal fatto che il corpo malato è un corpo femminile. Nel caso della donna ammalata da dodici anni, la perdita di sangue la rendeva impura. Gesù supera il tabù dell’impurità femminile, pur senza indulgere in atteggiamenti provocatori. Le guarisce con un semplice tocco. Quello che è utile rilevare nel nostro contesto non è tanto l’analisi delle somiglianze e delle dissomiglianze dei due racconti, quanto l’atteggiamento di Gesù nei confronti del corpo e del corpo femminile in particolare. Non rifugge il suo contatto, ma ne rispetta l’alterità. Il corpo femminile — nel nostro caso, in particolare quello malato — è causa di separazione e di relazione. Non vi è disprezzo o negazione in Gesù, ma accoglienza e rispetto. Nella malattia si possono manifestare i due atteggiamenti antitetici: • disprezzo e negazione: il corpo malato è fuori uso, non serve più. • rispetto e relazione: il corpo oggetto di cura. Il racconto evangelico presenta una presa di distanza del corpo nei confronti della realtà personale (dimensione psicologica e spirituale della libertà) e della realtà oggettiva materiale (dimensione materiale e della necessità). Tre elementi lo caratterizzano: la malattia (la perdita di sangue), il contatto con Gesù, la guarigione. La perdita di sangue è come una perdita dell’integrità della donna, una parte di sé è perduta37. Il contatto con Gesù non è un toccare qualsiasi, né è un possedere, vi è infatti un’energia che passa da Lui alla donna. La guarigione è, dunque, una guarigione “profonda” perché vi è una relazione che ricostituisce l’integrità della donna. La narrazione evangelica è emblematica di una condizione di sofferenza espressa attraverso il sangue, che diventa il mezzo utilizzato dal corpo della donna per dar voce alla sua sofferenza e trovare il modo per dirlo. Qui il corpo è lo spazio per “dar voce”, “dar corpo” si potrebbe dire in italiano. Sappiamo che molte malattie hanno un’origine psicosomatica, una violenza psicologica si esprime così con un sintomo fisico; 37 Ciò è evidente nella concezione semitica che vede nel sangue la sede della vita. Una perdita di sangue è, dunque, perdita di vita. La perdita naturale del sangue mestruale rende la donna “impura” non per una ragione etica, ma solamente rituale: siamo nella sfera del simbolico. Il bagno di purificazione della donna dopo le mestruazione è simbolo della rinascita (spirituale), di una nuova vita dopo la morte spirituale, rappresentata simbolicamente dalla perdita del sangue. I riti di purificazione diventano perciò un itinerario di purificazione e rinascita spirituale.
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anche la violenza fisica fa lo stesso attraverso l’elaborazione di tanti livelli simbolici e fisici38. Occorre qui ricordare che nella tradizione cristiana la sofferenza è stata vista come un beneficio provvidenziale, teso a purificare l’uomo da tutto ciò che potrebbe impedire di orientare la propria vita a Dio. Questa convinzione non degenera in dolorismo, che si può considerare una ideologia disumanizzante, solo nel contesto del valore redentivo della croce di Gesù39. Secondo l’insegnamento dei testi neotestamentari, la sofferenza e la morte di Gesù non hanno, però, un valore in sé e per sé, ma in quanto yper, vale a dire una sofferenza ed una morte per e per questo sono una sofferenza ed una morte salvifiche. La Lettera agli Ebrei afferma che era conveniente che la «guida della nostra salvezza», Gesù, «fosse reso perfetto mediante la sofferenza» (cfr 2,10). La convenienza è spiegata come partecipazione solidale alla condizione umana: «Infatti, in quanto egli stesso ha sofferto essendo stato messo alla prova, può venire in aiuto a coloro che subiscono prove» (2,28). Nella grande tradizione patristica, la cornice che spiega il rapporto tra sofferenza nel corpo della persona umana e la sofferenza di Gesù Cristo è l’incarnazione. Secondo Sant’Atanasio, per es., poiché «la corruzione, che era sopraggiunta, non era rimasta fuori del corpo ma lo aveva penetrato, ed era perciò necessario che al posto della corruzione vi si attaccasse la vita affinché la vita fosse nel corpo come nel corpo era stata la morte»40, il Logos non poteva salvarci se non nel nostro corpo; «fuori dal corpo» non c’è salvezza perché la morte si era associata al corpo e quindi andava vinta nel corpo. Il dolore e la malattia si possono a buon diritto considerare un linguaggio del corpo in quanto rimandano ad una patologia fisica o psichica. Esprimono finitudine e ricchezza e l’anima si rivela a se
38 Cfr la tragica esperienza di una bambina violentata che non “va di corpo” perché ha deciso che nulla sarebbe più entrato o uscito dal suo corpo. 39 Per un quadro complessivo, cfr M. FLICK – Z. ALSZEGHY, Il mistero della croce, Brescia 1978 e i saggi raccolti in G. MACCA (a cura di), La redenzione nella morte di Gesù, Cinisello Balsamo 2001. 40 ATANASIO, L’incarnazione del Verbo, (trad. introd. e note a cura di E. Bellini) Roma 1976, 115 [ed. cr. ATANASIO, Contra gentes – De incarnatione, 44, 4, SC 199, Paris 1973].
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stessa41, infatti attraverso il linguaggio del dolore e della malattia, lo spirito umano prende coscienza della sua identità di spirito incarnato, con tutte le sue conseguenze. Affermare che il corpo umano è il luogo dove si manifestano dolore e malattia significa, in realtà, riferirsi a tutta la persona. A causa dell’inscindibile unità di spirito e corpo, la malattia fisica non riguarda solo il soma, ma anche la psiche. Ciò comporta, praticamente, che il dolore legato all’infermità può far maturare la persona, ma anche impedire di essere quello che si è. Non vi è altro pensiero che la sofferenza che scava dentro e logora. Sorge un desiderio di solitudine e isolamento, per l’assenza di forze. In questo caso la sofferenza origina una frattura tra soma e psiche, carne e spirito, che si sperimenta depotenziato, sminuito, privo di quel sostegno materiale che gli permette di essere se stesso nel suo significato pieno. La carne nella sofferenza della malattia può perdere la sua forza e diventare ombra di se stessa42. La sofferenza, dunque, è conseguenza dell’impossibilità di accogliere il dolore come linguaggio del corpo. La persona che soffre, ordinariamente, vuole soffrire di meno o non soffrire affatto. Tuttavia la malattia può trasformare e far maturare la persona. Ci obbliga, infatti, a prendere contatto con la materialità e i limiti della nostra esistenza umana e talvolta può avere un contenuto di verità sul senso della vita, visto che l’uomo è una creatura mortale. «È attraverso il dolore e la malattia, infatti, che il nostro corpo può talvolta parlarci, manifestando la nostra finitudine e la nostra 41
Per queste riflessioni, cfr M. M. MARZANO PARISOLI, Penser le corps, cit. Negare la malattia e il dolore è negare la realtà stessa del corpo. Questa tendenza è teorizzata da chi «considera il corpo come spettacolo. Spettacolo da far vedere ed ammirare, quindi da abbellire con cosmetici, diete, sport […] Spettacolo, soprattutto di salute. “Star bene” è il primo imperativo categorico del seguace di questa teoria. Una minima disfunzione e … subito nella sala di attesa del medico per correre poi in farmacia a sovraccaricarsi di medicine. La teoria del corpo-spettacolo ha creato il popolo di coloro che considerano la salute come l’assoluto, per cui, pur di star bene, si dimenticano di vivere: non escono di casa per paura del raffreddore, non si avvicinano ad alcuno per timore dell’infezione, non pensano e non parlano d’altro che di calorie, di macrobiotica, di training, di distensione muscolare […] Il “salutismo” è una vera e propria malattia mentale che nasce da un assurdo equivoco: per adorare la salute si mortifica la vita che proprio la salute dovrebbe potenziare e far godere!» (G. PELLEGRINO Uomo per il 2000, Cantalupa (TO) 1996, 27-28. 42
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ricchezza, poiché non vi è che un solo libro in cui l’anima può spesso rivelarsi a se stessa: il corpo umano e la sua parola nella sofferenza»43.
4. “MASCHIO E FEMMINA LI CREÒ” Il compendio della fede cristiana che va sotto il nome di Simbolo, meglio noto come Credo, proclamato ogni domenica nella liturgia eucaristica, nella sua affermazione iniziale esprime la fede in Dio creatore. “Creazione, creato, creature” sono termini che rimandano alla relazione tra l’uomo e Dio. Nell’atto creatore di Dio si pone una relazione costitutiva dell’essere umano. Dio crea l’umanità nella differenza sessuale: «maschio e femmina li creò» (Gn 1,27)44. Sennonché la rivelazione biblica ci dice pure che Dio creò l’umanità a sua immagine e somiglianza (Gn 1,27). Ciò significa che nella relazione con Dio e nelle relazioni interpersonali, quella tra donna e uomo è centrale45. La relazione è talmente essenziale alla persona che l’identità del soggetto si trova in essa e non in lui stesso46. La natura di questa relazione e quella tra donna e uomo in particolare deve essere investigata nelle sue dimensioni e spirituale e corporea. Nei racconti di creazione offertici da Genesi 1 e 2 la relazione tra maschio e femmina è vista come un “aiuto simile”. L’espressione italiana non riesce ad esprime pienamente il significato originario ebraico: aiuto 43
M.M. MARZANO PARISOLI, Penser le corps, cit., 71 Il contesto letterario e teologico del v. 27 del cap. 1 di Genesi presenta un mondo creato in un ordine di armonia e di perfezione. Frutto di una lenta evoluzione, la teologia di Gen 1, elaborata nell’ambiente sacerdotale del Tempio di Gerusalemme, tende ad affermare sia il ruolo di Gerusalemme, sede dell’unico Tempio che aveva soppiantato tutti gli altri luoghi di culto, sia la natura sociale dell’uomo e della donna. L’esegesi moderna è concorde nell’individuare due elementi caratterizzanti il testo: l’appartenenza della differenza sessuale al progetto originario di Dio (contro le tante forme di dualismo del tempo del testo biblico) e, come conseguenza, l’uguale dignità dei due sessi. Per una visione d’insieme molto accessibile, cfr A. MINISSALE, Alle origini dell’universo e dell’uomo (Genesi 1-11). Interrogativi esistenziali dell’antico Israele, Cinisello Balsamo 2002. 45 Cfr il commento al testo biblico di E. BIANCHI, Adamo dove sei?, Bose 1994. 46 Questa è la tesi del filosofo tedesco M. Heidegger. 44
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simile è quello che sta di fronte, “che gli corrisponde” come un “dirimpetto”,47. Simile non è l’identico, ma ciò che può star di fronte, l’altro volto, il femminile differente dal maschile. Simile è colei o colui che ha un volto da poter contemplare perché “di fronte”, non semplicemente a fianco o sopra o sotto. Solo se vi è la reciprocità nello sguardo potrà esserci una sintonia dello sguardo e quindi guardare insieme oltre il proprio volto48. Anche la relazione con Dio, talvolta, nella Bibbia è espressa in termini di “volto di Dio”49. L’essere un aiuto simile perché “di fronte” esprime la natura della reciprocità nella differenza sessuale e la realtà stessa concreata dell’essere umano: «L’uomo in quanto tale non esiste affatto»50. Confrontata con l’antropologia moderna quella biblica non è scontata. Si pensi, ad esempio, ad una certa tensione dialettica che attraversa le lezioni sulla sessualità nell’etica kantiana. Il grande filosofo di Koenigsberg vede nel matrimonio la possibilità di vivere rettamente la sessualità, perché evita in certo modo la strumentalizzazione dell’altro o evita, per lo meno, una strumentalizzazione unilaterale. Il matrimonio pensato come contratto, infatti, stabilisce le condizioni perché il coniuge non sia solo uno strumento, ma fine. In caso contrario contraddirebbe la norma morale fondamentale di non considerare mai l’altro un mezzo ma sempre un fine. Il ragionamento di Kant si fonda, in realtà, sull’affermazione che il desiderio sessuale porta la persona ad uno spossessamento della sua umanità, in quanto volere una relazione sessuale significa desiderare l’altro per il suo sesso non per se stesso51. La persona non può essere ridotta ad oggetto che si può possedere, 47
Genesi 1-11, (a cura di A. SOGGIN), Genova 1991, 69. Solo in questa prospettiva acquista un senso forte l’affermazione di Agostino che «la prima unione naturale della società umana è quella fra uomo e donna […] Fianco a fianco infatti si uniscono coloro che camminano insieme e che insieme guardano alla stessa meta» (AUGUSTINUS HIPPONENSIS, De bono coniugali , cap. 1, par. 1: prima itaque naturalis humanae societatis copula uir et uxor est. […] lateribus enim sibi iunguntur, qui pariter ambulant et pariter quo ambulant intuentur). 49 Cfr Giona 1,3.10 e Genesi 4,13-16. 50 E. BIANCHI, Adamo dove sei?, cit., 142. 51 «Poiché la sessualità non costituisce un’inclinazione che un essere provi verso l’altro in quanto uomo, ma un’inclinazione verso il sesso, essa rappresenta un principio di degradazione della natura umana, un motivo per preferire un sesso all’altro e per disonorarlo procurando soddisfazione all’impulso» (I. KANT, Lezioni di etica, Bari 1971, 188). 48
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perciò «l’uomo non può disporre di se stesso, poiché non è una cosa; egli non è una proprietà di se stesso, poiché ciò sarebbe contraddittorio. Nella misura, infatti, in cui è una persona, egli è un soggetto, cui può spettare la proprietà di altre cose. Se, invece, fosse una proprietà di se stesso, egli sarebbe una cosa, di cui potrebbe rivendicare il possesso. Ora, però, egli è una persona, il che differisce da una proprietà; perciò egli non è una cosa, di cui possa rivendicare il possesso, perché è impossibile essere insieme una cosa e una persona, facendo coincidere il proprietario con la proprietà»52. Sulla base di questo argomento e dell’essenziale unità della persona umana, Kant nega la liceità di ogni forma di mercificazione sessuale proprio perché «l’uomo non ha un possesso di sé e non può fare del suo corpo ciò che vuole. In quanto parte del proprio sé, è con il corpo che l’uomo costituisce una persona»53. Se da una parte Kant sostiene che il corpo è parte del sé54 — e in ciò risiede la ragione della sua indisponibilità da parte dell’uomo — , dall’altra la sessualità ne è separata, come se essa stessa non fosse “corpo”. È possibile pensare in questi termini perché si separa l’esser persona dalla differenza sessuale. La relazione sessuale è talmente tipica che nella nostra lingua la “relazione” in assoluto è per antonomasia la relazione sessuale. In questo senso il corpo è veramente simbolo della persona, come K. Rahner ha spiegato esemplarmente in un suo noto saggio55. Nel senso etimologico di simbolo (gettare insieme), il corpo rinvia all’essere profondo della persona, ma nella sua differenza sessuale, perché esso è sempre caratterizzato dalla sua corporeità e, dunque, sessualmente. Il 52
Ibid., 189. Ibid., 190. Corsivo mio. 54 Lo afferma in modo quasi assiomatico all’inizio della lezione sui doveri del corpo, sebbene esso sia subordinato chiaramente allo spirito: «Il nostro corpo concorre alla nostra identità e partecipa delle leggi generali della libertà, secondo cui sono assegnati dei doveri. Il corpo ci è stato affidato e, nei suoi confronti, è nostro dovere che lo spirito [Gemüt] in primo luogo lo disciplini e quindi si prenda cura di esso. Il corpo deve essere per prima cosa disciplinato, perché contiene principi da cui lo spirito è affetto e modificato nella sua condizione e perciò lo spirito deve badare a mantenere la sua autocrazia sul corpo, affinché questo non ne alteri lo stato» (ibid., 180). 55 K. RAHNER, Sulla teologia del simbolo, in Saggi sui sacramenti e sulla escatologia, ROMA 19692, 51-107. 53
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corpo è così rimando alla differenza e alla relazione che sulla differenza può stabilirsi. Proprio la differenza sessuale determina la natura della relazione interpersonale. Innanzi tutto è una relazione che sta tra il desiderio e la necessità naturale. In secondo luogo è una relazione che può andare oltre il desiderio giungendo al riconoscimento (riconoscere l’altro come altro). Il corpo vive la dinamica di due poli: la necessità di compiere il proprio essere parziale, nella complementarità, e l’oltrepassamento della necessità nella donazione di sé all’altro nella reciprocità56. Ogni incontro umano — e in maniera speciale l’incontro tra donna e uomo — «si compie per mezzo della corporeità. Ogni influenza spirituale di un uomo su un altro implica per sua natura un incontro per mezzo del corpo. La vita interiore dell’uomo si manifesta come una realtà che è in questo mondo per mezzo della corporeità e in essa. Per mezzo del corpo e nel corpo un uomo si apre verso l’esterno, si rende presente al suo simile. L’incontro umano si compie dunque per mezzo della presenza visibile del corpo, che è un segno che al tempo stesso nasconde e svela l’interiorità umana»57. Queste parole di Schillebeeckx suonano oggi, per certi versi, inattuali di fronte alle tendenze ad abolire la corporeità, meglio a dissolverla nel “virtuale”. In realtà il corpo resta l’epicentro, ma appunto solo epicentro, soggetto a forze centripete. Attraverso il corpo individuale si costruisce un mondo artificiale. L’identificazione della differenza sessuale con la sola differenza morfologica porta a conseguenze paradossali. Se l’identità e la relazione risiedono nel sesso (che si riduce ai genitali), la percezione di sé dipende dalla percezione del proprio sesso con la conseguenza che una percezione debole di esso mette in crisi la propria identità58. Ci si può domandare a questo punto se i rapporti fra i sessi formano l’identità o nascono dall’identità. 56 Mi permetto rinviare a M. ALIOTTA, Subordinazione e reciprocità nella relazione tra donna e uomo, in Synaxis 1 (2004) 7-18. 57 E. SCHILLEBEECKX, Cristo sacramento dell’incontro con Dio, Roma 19747, 30. 58 «È quasi indubbio che si stanno formando nuovi antagonismi emotivi fra i sessi. Le origini della rabbia sia maschile che femminile sono più profonde di quanto lascino intendere i resoconti precedenti. Il fallo è soltanto il pene. È sconcertante per entrambi i sessi scoprire che le rivendicazioni del potere maschile sono legate ad un pezzo di carne ciondolante che ha perduto persino ogni attinenza specifica con la riproduzione. Questa è veramente una
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La complementarità dei corpi può diventare un uso strumentale dell’altro se non si inserisce nella relazione di reciprocità tra persone. L’antropologia biblica e la tradizione cristiana suggeriscono che «l’uomo e la donna [sono] complementari non come due funzioni ma nella complessa totalità della loro esistenza personale»59. La dimensione corporea del maschile e del femminile, dunque, è determinante per la comprensione della realtà dell’essere umano. Non si tratta di ripercorrere logori stereotipi di modelli della femminilità e della mascolinità, piuttosto di cogliere il valore simbolico dell’una e dell’altra60. Nell’orizzonte della fede cristiana, l’antropologia dei sessi si riveste di un senso nuovo, si compie nella sua distinzione e reciprocità, infatti è «in Cristo, nel misterioso rapporto che lo unisce alla chiesa, che il cristiano cerca la riconciliazione dell’uomo e della donna, del maschile e del femminile, dell’eros e della persona. Il cristianesimo, anche se certi contesti culturali lo hanno talvolta deformato, ha posto definitivamente la trascendenza della persona stabilendo dunque che l’uomo e la donna sono entrambi delle persone, molto più che eguali, assolute. È per questo che san Paolo ha potuto scrivere: “In Cristo, non vi è più uomo né donna” (Gal 3,28); vi sono, fondamentalmente, delle persone»61. Se la cristologia fonda la dimensione nuziale dell’esistenza cristiana, contemporaneamente la supera. Il corpo — e con esso in modo specifico il sesso — non è più barriera o strumento, ma offerta e ponte62. Nell’unione nuova castrazione. Adesso le donne percepiscono gli uomini, almeno a livello inconscio, come un’appendice priva di ruolo esattamente come il loro organo sessuale» (A. GIDDENS, La trasformazione, cit., 166). 59 O. CLEMENT, Riflessioni sull’uomo, Milano 19913, 81. 60 «Il movimento mascolino, nella sessualità come nel modo di incedere — incedere fisico ma anche intellettuale – è allo stesso tempo lineare e irregolare mentre il movimento femminile sembra fatto di irradiazione e di continuità. Allo stesso modo, la geometria angolosa del corpo dell’uomo si oppone alla continuità armoniosa del corpo della donna. L’uomo agisce come arciere e mira diritto al bersaglio e la sua volontà si tende per superare l’ostacolo. La donna reagisce con un’azione di presenza in cui una vibrazione di tutto l’essere ha più importanza della volontà astratta. Essa cerca — essa trova, piuttosto — meno efficacia che espressività. Se un bambino attacca, sua sorella si travestirà» (ibid., 79). 61 L. c. 62 Si può affrontare e risolvere in questa prospettiva anche la possibile aporia tra corpo-soggetto e corpo-oggetto. Nella misura in cui si sottolinea l’oggettività, il corpo si
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dei corpi non si sopprime la distinzione della donna e dell’uomo, al contrario “la celebra esaltandola”63. La “sola carne” di Gen 2, di cui parla Gesù, «come ellisse simbolica nuziale, esige, e ne vive, la piena specificazione del maschile e femminile; e questi, nel tendersi e nell’attendersi tra loro, avverano la comune pro/tensione verso quella, verso l’una caro»64. Il nostro corpo, indissolubilmente associato al nostro io identitario, costituisce un limite ed una risorsa. Come nella danza il limite fisico diventa la possibilità espressiva, così nell’esistenza quotidiana il corpo-limite è il corpo-possibilità. Il nostro stesso pensiero e le sue espressioni creative passano attraverso questo limite/possibilità, perché esso si struttura, si sviluppa e si esprime proprio a partire dal nostro essere collocati nel mondo. Limite e possibilità sono in continuo superamento reciproco e ultimamente si possono distinguere solo concettualmente. Nella relazione sessuale questo continuo oltrepassamento di limite e possibilità acquista un significato particolare. La corporeità dell’altro è “possibilità” perché compie la mia parzialità, le dà pienezza, che si manifesta nel piacere e nella gioia dell’incontro. Ne rivela il limite, soprattutto con la sua assenza. È possibile procurare piacere al proprio corpo anche in assenza dell’altro, ma non si compie la parzialità. Così come il corpo dell’altro può essere usato come mero strumento per procurarsi piacere, ma non si compie la parzialità. Solo nell’incontro concreto, nella relazione cioè, il limite e la possibilità coincidono. L’eros che spinge all’incontro supera i confini del puramente fisico o del puramente psichico. Esso produce un dinamismo interiore da cui nasce il desiderio dell’incontro profondo unitivo con l’altro nella sua differenzaidentità. Così nell’incontro di amore tra donna e uomo l’attrazione fisica non è riducibile ad un semplice processo biochimico, ma rivela il senso profondo del desiderio e del superamento del limite, nella possibilità del compimento del desiderio. iscrive in un quadro di “natura data”; nel caso si sottolinei la soggettività, invece, la corporeità è puro strumento intenzionale. Solo nella composizione di oggettività e soggettività la persona umana vive armonicamente nella sua dimensione corporea. 63 Cfr a le riflessioni a tal proposito di G. MAZZANTI, Teologia sponsale e sacramento delle nozze, Bologna 2001, 178-186. 64 Ibid., 180.
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Per questo non esiste un modello unico di bellezza: non è la bellezza che genera l’attrazione, ma l’essere attratti fa vedere la bellezza della persona. Non ogni corpo attrae, non un corpo in astratto, ma quel determinato corpo è oggetto del desiderio adulto. L’amore trasfigura la bellezza del corpo, così come cantano gli amanti del Cantico.
Synaxis XXIII/3 (2005) 43-59
L’ATTIVITÀ EDITORIALE DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO DI CATANIA. PROSPETTIVA MORALE*
LORENZO ALVAREZ VERDES C.SS.R.**
Prima di tutto vorrei ringraziare la Direzione per l’invito a partecipare a quest’incontro, invito che ho accettato con piacere per la speciale simpatia che io, personalmente e in nome dell’Accademia Alfonsiana, nutro nei riguardi dello Studio Teologico S. Paolo. Vorrei rilevare qui che tra gli illustri promotori e realizzatori della grande impresa scientifica dello Studio Teologico S. Paolo figura sin dall’inizio il prof. Salvatore Consoli, che ha conseguito la propria specializzazione in morale presso l’Accademia Alfonsiana, mantenendo sempre cordiali rapporti con il nostro Centro sia a livello personale che istituzionale. In questa linea devo ricordare l’invito che nel 1992 mi fu rivolto dallo Studio S. Paolo a tenervi la prolusione di quell’Anno accademico. Queste sono alcune delle ragioni che mi hanno spinto a partecipare al presente atto. Entro i limiti di tempo a me consentiti, il mio intervento si svolgerà attorno ai seguenti punti: 1) il Concilio Vaticano II o la grande svolta nello studio della morale; 2) le “chiavi” del rinnovamento morale; 3) la “via” italiana e la “via” siciliana al discorso morale; 4) l’apporto concreto dello Studio Teologico S. Paolo specialmente a livello editoriale. I tre primi punti serviranno ad inquadrare il quarto punto che è centrale nel mio intervento.
* Relazione tenuta a Roma il 28 aprile 2005 nella presentazione dell’attività editoriale dello Studio Teologico S. Paolo. ** Ordinario di Morale Biblica presso l’Accademia Alfonsiana di Roma.
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Lorenzo Alvarez Verdes C.SS.R.
1. IL CONCILIO VATICANO
II O LA GRANDE SVOLTA NELLO STUDIO DELLA
MORALE
È generale la convinzione che nel campo della morale il Concilio Vaticano II abbia chiuso una tradizione e ne abbia aperto una nuova: ha chiuso la tradizione morale riportata dai manuali sin dal secolo XVI, una tradizione incentrata prevalentemente sulla “obbligatorietà” (“cosa dobbiamo o non dobbiamo fare”, tralasciando il “perché la dobbiamo fare”), una tradizione morale fondata in definitiva sulla legge piuttosto che sull’indicativo cristiano dell’essere in Cristo e del pertinente imperativo di “diventare quello che siamo” non solo a livello individuale e privatistico, ma anche come soggetti responsabili nel campo pubblico dell’economia, della politica, della cultura ecc. Mi sembra opportuno ricordare qui la descrizione che A. Plé, con accenti critici, faceva qualche tempo fa della morale tradizionale: «una morale “cristiana” non cristiana; una morale mutilante; una morale che favorisce l’infantilismo; una morale asservita all’autorità politica; una ideologia di classe; una morale sacralizzata; una morale legalistica e casistica; una morale aprioristica; una morale depauperatrice di energie»1. Di fronte a questa tradizione si era fatta sentire la necessità e l’urgenza di ripensare il metodo e il contenuto della morale. Tutti erano ormai convinti che la morale elaborata dal Concilio di Trento in poi non reggesse più di fronte ai profondi cambiamenti teoretici e storici degli ultimi secoli. Con amaro realismo il card. Garrone, prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, nella sua allocuzione al III Congresso nazionale dei teologi moralisti italiani, riconosceva questa realtà quando ricordava i secoli di pigrizia dei teologi moralisti che si limitavano a passare le medesime tesi da un manuale ad un altro, nonostante i profondi cambiamenti socio-culturali intervenuti in tema di matrimonio e di famiglia, per cui lo stesso magistero andava ripetendosi con monotonia e astoricità2. 1 A. PLÉ, Per dovere o per piacere? Da una morale colpevolizzante a una morale liberatrice, Torino 1967, 93-112. 2 Testo riportato da L. LORENZETTI, Il rinnovamento della teologia morale in Italia, in C. BRESCIANI (ed.), Tulio Goffi, Brescia 2001, 29-54. La pubblicazione degli Atti del III Congresso (Magistero e Morale, 1970) originò certe polemiche (G. MATTAI, RTM 1989, 46).
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Il Concilio Vaticano II veniva quindi incontro ad una grande insoddisfazione e ad un profondo desiderio di cambiamento. In che grado questi desideri e speranze trovarono sbocco in realizzazioni e cambiamenti concreti? A distanza di trenta anni dal Concilio Vaticano II, l’enc. Veritatis Splendor ci offriva una valutazione globale della nuova teologia morale in termini fondamentalmente positivi, riconoscendo che essa, in quanto disciplina teologica, si fosse profondamente rinnovata (n. 29): «Lo sforzo di molti teologi, sostenuti dall’incoraggiamento del concilio, ha già dato i suoi frutti con interessanti e utili riflessioni intorno alle verità della fede da credere e da applicare nella vita, presentate in forma più corrispondente alla sensibilità e agli interrogativi degli uomini del nostro tempo. La chiesa e, in particolare, i vescovi, ai quali Gesù Cristo ha affidato innanzitutto il servizio dell’insegnamento, accolgono con gratitudine tale sforzo e incoraggiano i teologi a un ulteriore lavoro, animato da un profondo e autentico timore del Signore, che è il principio della sapienza» (cfr Pr 1,7).
La stessa enciclica ricordava come il Concilio avesse invitato i teologi moralisti non a un semplice “aggiustamento” o aggiornamento dei contenuti ma a mettere in gioco tutta la loro capacità immaginativa per scoprire nuovi metodi in grado di integrare in maniera effettiva la luce del vangelo e la necessaria attenzione ai problemi concreti degli uomini del nostro tempo: «nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, [i teologi devono] ricercare i modi sempre più adatti di comunicare la dottrina agli uomini della loro epoca, perché altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono enunciate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo» (VS 29). Oggi, a distanza di quarant’anni, possiamo confermare che la fecondità del Concilio nel campo della morale è stata possibile grazie allo sforzo coraggioso — alle volte non senza rischi — di numerosi teologi moralisti impegnati a insegnare la sintesi vangelo-realtà nei seminari, nelle università pontificie e nelle scuole di formazione teologica. Sono scomparsi i manuali tradizionali mentre ne sono apparsi di nuovi, più aperti ad accogliere la problematica reale del nostro tempo e i risultati delle scienze umane. Questa sintesi teologico-scientifica a livello di manuali è stata resa
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possibile attraverso un serio lavoro di ricerca individuale e collettiva, che ha trovato spazio in numerose riviste specializzate, nella creazione di associazioni, di gruppi di lavoro e nella celebrazione periodica di congressi e convegni sui temi morali.
2. LE “CHIAVI” DEL RINNOVAMENTO MORALE Due sono state, a mio avviso, le “chiavi” principali del rinnovamento della morale che felicemente si è venuto operando nella Chiesa: la ricerca di un’etica più biblica, e il ricorso ad un’ermeneutica moderna ed impegnativa che pone al centro l’humanum.
a) Un’etica più biblica Tutti sappiamo che l’eticità appartiene alla struttura formale della persona3. Questa struttura sarà poi riempita di contenuto attraverso i diversi ethos che con i suoi contenuti vengono a riempire la struttura formale. È a questo livello che entrano in gioco i contenuti della fede, i quali rappresentano gli strumenti concreti per raggiungere il “desiderabile umano”4 che, per i cristiani, coincide con il progetto-uomo ideato da Dio e plasmato in Cristo. Cristo, infatti, manifesta l’uomo al proprio uomo dischiudendogli la sublimità della sua vocazione5. Cristo è quindi la sorgente di vita che dovrà “informare” l’etica cristiana. E, dato che Cristo-Parola di Dio, per la consacrazione6 operata dallo Spirito Santo mediante l’ispirazione, c’è stato 3 J. L. ARANGUREN, Moral como estructura, como contenido y como actitud, in D. GRACIA (ed.), Ètica y Estética en Xavier Zubiri, Madrid 1996, 21-24. 4 P. RICOEUR, Tâches de l’éducateur politique, in Esprit 33 (1965) 78. Egli adopera i termini di “le souhaitable humain”. 5 J .G. ZIEGLER, Christus der neue Adam (GS 22). Eine anthropologisch integrierte christozentrische Moraltheologie. Die Vision des Vatikans II. Zum Erntwurf einer Gnadenmoral, in StMor 24 (1986) 41-70. 6 Il termine “consacrazione” è stato applicato all’ispirazione da Mons. NEÓPHYTOS EDELBY, arc. tit. di Edessa, nel suo intervento al Concilio (5 Ott. 1964). Egli parla di due consacrazioni inseparabili: quella del Corpo di Cristo sotto le specie del pane e quella della storia della salvezza sotto le specie della parola (AS III.3, 306-309).
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consegnato nelle Sacre Scritture, dobbiamo dire che c’è un’identità di concetti quando diciamo che la morale deve essere cristocentrica e biblica o che il discorso morale deve essere “informato” dalla Bibbia. La cost. Dei Verbum (n. 24) ha espresso quest’idea adoperando il sintagma: la Sacra Scrittura deve essere “come l’anima della teologia”. I concetti “informare” ed “essere anima”, attribuiti alla Sacra Scrittura, non si corrispondono secondo un uso letteralista della Bibbia (visione fondamentalistica), né secondo la mera giustapposizione, né con il semplice uso probatorio dei testi biblici, né in genere con nessun tipo d’uso che parta da una comprensione riduzionistica della Bibbia a formulazioni meramente “proposizionali”, perché la rivelazione non è solo “locutio” ma “gesta et verba”7. La funzione di “anima” applicata alla Sacra Scrittura in rapporto alla teologia morale rappresenta qualcosa di organico e vitale, come indicano le numerose immagini adoperate dal Concilio: essere fondamento, consolidare, ringiovanire, essere pane di vita, nutrirsi ecc. (DV 21.24; OT 16). L’essere “biblica” significa quindi che la Parola di Dio è non solo punto di partenza e orizzonte della morale, ma soprattutto «vivificazione continua che rende costantemente fresco, nuovo, coinvolgente il teologare»8.
b) Un’etica aperta ad un’ermeneutica incentrata sull’humanum Cioè un’ermeneutica moderna ed impegnativa, che riesca a integrare gli orizzonti simbolici del testo rivelato con quelli dell’uomo d’oggi. L’espressione “teologia morale” fa riferimento a due fonti. In quanto teologia si ricollega alla sorgente della rivelazione, fonte eteronoma. In quanto morale, essa si rifà all’“humanum”, alla ragione. Nell’uso di queste fonti c’è stata una progressiva evoluzione. All’inizio del cristianesimo c’era di fatto una morale cristiana con delle peculiari novità (verginità, umiltà, 7
La DV dice con chiarezza che ci sono dei fatti “rivelatori”, anzi più rivelatori delle parole, perciò ha “anteposto” i fatti alle parole nell’espressione “gestis verbisque” (n. 2). Cfr L. ALVAREZ VERDES, La “Dei Verbum”, una constitución clave para la comprensión del Concilio Vaticano II, in StMor 41 (2003) 211-242. 8 L. PACOMIO, Dei Verbum. Per il 40º anniversario del Concilio Vaticano II, Casale Monferrato 2002, 137.
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penitenza, povertà, fiducia in Dio). Tali comportamenti però venivano collocati non nel quadro di una vera e propria riflessione morale ma in quello della parenesi, quasi che l’agire morale andasse da sé9. Nel mondo pagano invece c’era già una scienza morale ben elaborata. La soluzione per i cristiani che volevano rendere ragione del proprio ethos fu quella di prendere dal tesoro della morale pagana, secondo il principio paolino “tutto quello che trovate di giusto, di buono ecc. fatelo vostro” (cfr Fil 4,8), naturalmente previo il discernimento (dokimázein) del noûs rinnovato (cfr Rm 12,2). Ci ritroviamo davanti all’affermazione più netta del ruolo essenziale della ragione nell’identificazione delle vie concrete, atte a tradurre in prassi l’ethos cristiano. Dall’indicativo cristiano, infatti, nasce come rovescio necessario l’imperativo fontale di dover agire in modo coerente con l’essere in Cristo, senza indicare però quali debbano essere gli imperativi concreti per la sua attuazione. Questo sarà compito della mediazione della ragione (cfr Rm 12,2). Il necessario ricorso alla ragione pone però numerosi interrogativi al teologo moralista su come combinare in modo adeguato i dati della fede e quelli della ragione. La fede e la ragione offrono dei contenuti diversi, o la diversità deve essere piuttosto limitata al livello formale? Nel rapporto tra i contenuti di ambedue le fonti, si deve parlare in termini di prevalenzasottomissione o piuttosto d’integrazione? E in questo caso, secondo quali criteri dovrà realizzarsi una tale integrazione? Eccoci davanti al problema centrale della morale attuale: il problema ermeneutico. Solo un’ermeneutica corretta potrà, infatti, aprire la via a quel rinnovamento fecondo della morale che postulava il Vat. II. A nostro avviso, solo prendendo sul serio l’humanum potrà essere presa sul serio l’efficacia trascendente del divinum. Il divinum non è venuto a disciogliere (lösen) l’humanum ma a redimerlo (erlösen). È quindi dall’humanum che si deve cominciare, cercando di individuare l’uomo e il mondo dell’uomo, secondo la definizione di J. Ortega y Gasset: «Io sono Io e la mia circostanza»10. Da qui l’importanza che la nuova morale deve porre nella conoscenza dell’uomo-in-circostanza. E la 9 E. HAMEL, La legge morale e i problemi che pone al biblista, in Fondamenti biblici della teologia morale, Brescia 1973, 24s. 10 J. ORTEGA Y GASSET, “Yo soy yo y mi circunstancia, y si no la salvo a ella no me salvo yo”, Meditaciones del Quijote, in Obras completas, I, Madrid 1983, 322.
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“circostanza” è per natura storica nel tempo, nella geografia, nella società, nella persona stessa. Parallelamente deve essere approfondito l’altro polo d’integrazione: la parola rivelata, nella convinzione che, come scrive s. Girolamo, «ignorare le Scritture è ignorare Cristo»11. Il processo ermeneutico dovrà quindi partire da una vera rivalutazione dei due poli (uomo-Cristo), ferma restando sempre la priorità a livello gnoseologico dell’humanum. È alla luce di questo principio fondamentale che dovranno legittimarsi sia i modelli generali che reggono l’organizzazione del materiale morale (trattati, manuali) sia i modelli particolari da adoperare nello studio delle problematiche concrete, privilegiando in linea di massima quelli religioso-personalistici fondati nella responsabilità di fronte a quelli ontologico-legalistici fondati sull’oggettività dell’atto e sulla priorità della legge12. La centralità della persona e del “vissuto” umano sono premessa irrinunciabile per qualunque scuola che abbia la pretesa di instaurare un discorso morale in linea col pensiero del Vat. II. Ci sono evidentemente metodi e modelli d’approccio diversi. In questo senso possiamo parlare anche di diversità di “scuole” nella riflessione morale. Non ritengo però che, in riferimento al periodo post-conciliare, si possa parlare propriamente di diversità di “tradizioni”, in quanto la “tradizione” suppone uno spazio temporale di diverse generazioni nel quale si esercita l’attività “tradente”.
3. LA “VIA” ITALIANA AL DISCORSO MORALE13 La mancanza di una vera scuola italiana si faceva sentire da lungo tempo. Basti ricordare che Leone XIII per l’elaborazione della sua enciclica rinnovatrice Rerum Novarum dovette varcare le frontiere dell’Italia per 11
S. GIROLAMO, Comm. In Is. Prolog., PL 24,17. Cfr Cost. DV 25. CfR L. ALVAREZ VERDES, La centralidad de la Sagrada Escritura en la reflexión teológico-moral postconciliar. Criterios hermenéuticos, in La recezione del Concilio Vaticano II nella teologia morale. Atti del convegno. Supplemento al n. 42/2 di Studia Moralia, Roma 2004, 63-98. 13 Così viene “intitolato” da L. LORENZETTI il secondo periodo della storia recente della morale in Italia. Il primo periodo (1946-1968) viene messo sotto l’epigrafe: dal diritto alla morale. È il momento del passaggio da una morale fortemente ancorata nel Diritto alla 12
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trovare “fuori” dei veri rappresentati del cattolicesimo sociale, come L. Harmel e L. Deon. D’altra parte, il pensiero italiano non poteva sentirsi rappresentato dalla cosiddetta “scuola romana” come neppure poteva continuare a dipendere dalle scuole francesi o tedesche che fino allora avevano esercitato un ruolo direttivo nel pensiero europeo. Si capisce così il desiderio di aprire una via autenticamente italiana al discorso morale e che essa sia stata caratterizzata sin dall’inizio da un marcato senso d’indipendenza e di ricerca della propria identità. Questo desiderio d’italianità si concretizzerà nella scelta preferenziale di teologi moralisti italiani per la conduzione dei progetti importanti in campo morale. A venti anni dalla pubblicazione del primo numero della Rivista di Teologia Morale (RTM), il nuovo direttore della Rivista, L. Lorenzetti, poteva notare con soddisfazione in riferimento ai collaboratori: «Gli autori sono tutti, con delle rare eccezioni, italiani. Si è voluto che la RTM fosse espressione, per il bene e per il male, della cultura teologica italiana»14. I criteri fondamentali di questa scuola vengono descritti da L. Lorenzetti all’inizio del Trattato di etica teologica: «La scelta fondamentale non passa più tra la conservazione o l’innovazione, bensì tra il fatto di muoversi fuori o sopra la storia, e quella di voler essere contemporanei ed eticamente responsabili delle vicende e delle sorti della nostra epoca»15. Viene quindi riconosciuta l’essenzialità della storia nella scelta dei contenuti: «La scelta del contenuto e l’articolazione delle diverse tematiche è stata dettata dalla viva preoccupazione di evitare il peccato di astoricità»16. È stata appunto la “storicità” a portare i rappresentanti di questa scuola ad una proposta dell’etica cristiana profondamente inserita nel sociale. Si cercava, infatti, «di elaborare ‘una morale nella storia’ per la formazione del cristiano impegnato a dare frutti di carità per la vita del mondo»17. Prendeva così corpo non un semplice rinnovamento delle subcategorie del cattolicesimo sociale dei sec. XIX-XX, ma una vera ricostruzione di esse in base ai profondi cambiamenti epistemologici che seguirono morale propriamente detta. È opportuno ricordare che fino allora il docente di teologia morale proveniva dalla specializzazione in diritto. 14 L. LORENZETTI, Presentazione, in Rivista di Teologia Morale 20 (1989) 10. 15 L. LORENZETTI (ed.), Trattato di etica teologica, I, Bologna 1981 (19922) 6. 16 L. c. 17 L. c.
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al Vat. II18. Si avverte qui una perfetta sintonia percettiva e proiettiva tra gli autori del Trattato e i fondatori della Rivista di Teologia Morale19, che dovrebbe portarli alla creazione di strumenti adatti per la formazione di una nuova scuola teologica italiana con diverse espressioni “matriciali”. «È forse una presunzione — si domandava L. Lorenzetti — riconoscere che la RTM ha contribuito alla formazione di una nuova scuola teologica?»20. Al raggiungimento di questo scopo contribuì in forma particolare l’istituzione dell’Associazione Italiana dei teologi moralisti (AITM), costituita a Napoli nel 1966, alla fine del I Congresso nazionale di etica teologica21. Nel II Congresso, avutosi ad Assisi nel 1968, l’Associazione propose al Centro Editoriale Dehoniano un accordo di stretta collaborazione nella pubblicazione della RTM come organo ufficiale dell’Associazione, accordo che diventerà realtà con la pubblicazione del primo numero nel 1969. Alla RTM seguirà come frutto della medesima scuola (collegata alla città di Bologna) il Trattato di etica teologica, diretto da. L. Lorenzetti (1981). Il Trattato, con le successive edizioni, è espressione dell’evoluzione della ricerca morale della scuola Bolognese a partire dal Concilio. La rappresentatività degli autori copre tutto il territorio dell’Italia. Il Sud è rappresentato da G. Mattai, A. Autiero e D. Pizzuti (Napoli) e da G. Rossi (Cagliari). La Sicilia è rappresentata da S. Privitera (Palermo). Il Trattato, scrive V. Gómez Mier22, può essere considerato «come un libro di testo d’etica cristiana, in cui è dominante la riformulazione di un cattolicesimo sociale dell’inizio degli anni ’80 in Italia». Il Trattato sarà ben presto seguito dal Corso di Morale (5 voll), curato da T. Goffi e G. Piana23. 18 V. GÓMEZ MIER, La refundación de la moral catolica. El cambio de matriz disciplinar después del Concilio Vaticano II, Estella 1995, 464; trad.it. La rifondazione della morale cattolica. Il cambiamento della “matrice disciplinare” dopo il concilio Vaticano II, Bologna 2002. 19 T. GOFFI nella presentazione del primo numero della Rivista di Teologia Morale (RTM) nel 1969 riconosceva apertamente la mancanza di impegno storico-sociale della morale tradizionale: «Il popolo di Dio riscontra difficoltà non tanto nello schiarire le proprie situazioni alla luce dei principi già conosciuti, quanto nel percepire la morale corrente forse non del tutto conforme al messaggio evangelico e alle esigenze nuove della attuale società». 20 L. LORENZETTI, in Rivista di Teologia Morale 20 (1989) 10. 21 D. MONGILLO, in Rivista di Teologia Morale 20 (1989) 25. 22 V. GÓMEZ MIER, cit., 429. 23 T. GOFFI – G. PIANA (edd.), Corso di Morale, 5 voll, Brescia 1984.
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4. LA VIA ITALIANA IN SICILIA Se Bologna, attraverso l’attività della AITM e della RTM, rappresenta in un certo modo il centro di convergenza delle aspirazioni dei teologi moralisti italiani di dare vita ad una “scuola” veramente attuale e rappresentativa delle richieste etiche dell’Italia, non si può dire che la Sicilia sia rimasta sola a contemplare quello che facevano gli altri. Coscienti delle esigenze morali, sociali e culturali dell’Isola, sia i teologi che i Vescovi si sono adoperati per superare quella situazione definita nel 1974 dal card. Pappalardo sulla rivista Ho Theólogos come una situazione da “terzo mondo”: «Per noi che da più di cinque secoli degradiamo puntualmente in un ‘terzo mondo’ della cultura cristiana, potrebbe trattarsi di una nuova alba d’una giornata siciliana: lunga e chiara; ma dovremmo riuscire a fare pazientemente, nelle urgenze dolorosissime della nostra questione meridionale, un’esperienza ecclesiale del Messaggio e della Salvezza cristiani, massimamente aderente alle autenticità dall’alto e alle autenticità dal basso»24. L’autenticità “dal basso” è elemento comune a tutta la nuova scuola italiana, ma le parole del card. Pappalardo mi sembrano postulare per la Sicilia una “sotto-teoria” morale specifica, data la peculiarità dei reclami morali, sociali e culturali dell’Isola e quella delle “urgenze dolorosissime della nostra questione meridionale”. A questo punto ci sembra opportuno ricordare che la storia teologicomorale della Sicilia porta in sé uno speciale spessore culturale (storico, artistico, letterario), che in certo modo ha preceduto la stessa riflessione morale tramandata nei documenti scritti, e nel quale si avverte in forma molto forte la presenza del fattore sociale e politico, come ha messo in rilievo in un recente articolo il prof. Francesco Conigliaro. Ciò nonostante, l’eredità di pensiero, a livello di riflessione scientifica e teologico-morale, con cui inizia il XX secolo, può essere giustamente descritta dal prof. Conigliaro nei seguenti termini: «All’inizio del secolo troviamo una teologia impaurita e silenziosa di fronte all’antimodernismo; una teologia, che, quando è riuscita a superare la tentazione del silenzio, si è rivelata episodica sotto ogni aspetto e priva di grandi orizzonti e di prospettive siste24 F. CONIGLIARO, La ricerca teologica in Sicilia e lo Studio Teologico S. Paolo, in Synaxis 18 (2000) 51-72.
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matiche, che poi sono quelli che fanno grande la teologia; una teologia, che dovendo proporre delle impostazioni sistematiche, prova a ripetere i manuali; una teologia che è vittima di un tomismo mediato dai manuali scolastici e determinato in senso razionalistico; una teologia che avverte il disagio del rapporto asimmetrico con la filosofia». È negli anni ’60 che, secondo F. Conigliaro, si realizza il giro di vite verso una “scuola siciliana”: «Nel corso degli anni ’60 a Messina, durante l’episcopato del metropolita Fasola, a Catania, durante l’episcopato dell’arcivescovo G. Bentivoglio, all’inizio degli anni ’70, a Palermo, durante l’episcopato del metropolita Pappalardo, ha avuto inizio l’attuazione di progetti che avrebbero modificato radicalmente l’assetto degli studi ecclesiastici in Sicilia. Per chi parla e per chi ascolta, è ovvio pensare all’istituzione della Facoltà Teologica di Sicilia, preceduta a Messina dal S. Tommaso, a Catania dal S. Paolo ed a Palermo dal S. Giovanni»25. Così arriviamo all’Istituto per la Documentazione e la Ricerca S. Paolo, sorto nel dicembre 1982 con la volontà di incrementare la cultura in Sicilia. Come scrive il prof. Salvatore Consoli, questo Istituto è «un’associazione che si prefigge di promuovere la ricerca scientifica; svolgere studi e indagini; istituire un centro di documentazione per conservare e valorizzare il patrimonio storico, culturale e religioso dell’isola»26. Questo è l’obiettivo che si è prefisso in modo particolare con la pubblicazione della Rivista Synaxis e poi con i Quaderni di Synaxis e gli Studi di Synaxis. È appunto su questi due blocchi di pubblicazioni che noi vorremmo centrare la nostra attenzione nel rapido sguardo che faremo di seguito, dopo una breve nota informativa sulla natura e la storia di Synaxis. La scelta del nome della rivista, “Synaxis” (syn-ágein = convergere, radunare), sta a significare la volontà di collaborazione e di dialogo nella ricerca e tra i ricercatori. L’uomo come persona, e logicamente come
25
Ibid., 62. S. CONSOLI, Presentazione, in Synaxis 1 (1983) 5. L’Istituto per la Documentazione e la Ricerca S. Paolo, sorto nel dicembre 1982 per volontà di alcuni desiderosi di incrementare la cultura in Sicilia, è un’associazione che si pre-figge di promuovere la ricerca scientifica; svolgere studi e indagini; istituire un centro di documentazione per conservare e valorizzare il patrimonio storico, culturale e religioso dell’isola. 26
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soggetto morale, è in definitiva un concentrato “sinaxico” diacronicamente e sincronicamente27. Per quanto riguarda i contenuti — sempre nella linea della concretezza storica del soggetto morale —, appare chiara la centralità dei temi riguardanti la cultura dell’isola: Synaxis, continua ancora Consoli, «contiene ricerche di natura teologico-culturale ma privilegia gli studi riguardanti persone e fatti della Sicilia orientale come pure la documentazione che mira a conservare e a valorizzare il ricco patrimonio della tradizione storicoteologica della nostra isola»28. La “storicità” viene vista quindi a partire dalla sub-categoria di “storicità siciliana”. Al momento d’iniziare la Nuova Serie (1993) della rivista, la Redazione riconosce con soddisfazione — guardando al decennio trascorso — il fatto che sono stati raggiunti gli obiettivi prefissi: «Synaxis nei dieci anni di intensa attività che ha finora svolto ha ‘messo insieme’, come il suo nome indica, studiosi di provenienza ed interessi vari, suscitando l’attenzione del mondo scientifico, in particolare nel campo della cultura filosofico-teologica e della ricerca storica». Nella nuova condizione di pubblicazione periodica a cura dello Studio Teologico S. Paolo, edita in cogestione con l’Istituto per la Documentazione e la Ricerca, Synaxis acquisterà una strutturazione più organica, con sezioni fisse e ben determinate, tra le quali occupa il primo posto la sezione teologico-morale. Ciò non vuol dire però che nel decennio precedente la tematica morale fosse assente o in qualche modo trascurata; anzi una tale tematica fu sin dall’inizio ampiamente trattata. Al momento quindi di fare una valutazione della produzione morale di Synaxis non ritengo rilevante fare distinzione tra i due periodi (1983-1992 e 1993-2004).
27 Questa volontà di dialogo è stata rilevata dal prof. S. CONSOLI nella presentazione del secondo numero nel 1984: «Synaxis, grazie anche ai suoi ‘Quaderni’ di cui è già apparso il n. 1, sta diventando uno strumento di comunione e di dialogo. Si stabilisce infatti comunione e dialogo tra i vari studiosi che vi pubblicano le loro ricerche, tra loro e quanti si interessano ad esse; comunione e dialogo con la nostra tradizione — di cui ogni volume si prefigge di mettere in luce degli aspetti —, e con le sessanta Riviste con le quali in questo primo anno si è stabilito regolare rapporto di cambio». 28 L. c.
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5. L’APPORTO
EDITORIALE DELLO
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NEL CAMPO
DELLA MORALE
Nell’impossibilità di prendere in considerazione la vastissima tematica affrontata dalle pubblicazioni delle quali ci occupiamo, cercherò d’incentrare lo sguardo su alcuni settori che ritengo particolarmente interessanti e rappresentativi. Costatiamo, in primo luogo, con grande soddisfazione l’ampio spazio che la Rivista Synaxis e i suoi Quaderni hanno concesso alla “storia” del pensiero etico. Le problematiche e le risposte date nel passato dai filosofi, dagli scienziati e dai teologi non solo sono entrate a formare parte del contenuto (traditum) della tradizione, ma sono anche criterio ermeneutico per quanti oggi e nelle generazioni successive dovranno formulare in modo “aggiornato” le opportune risposte. In questa linea, accanto ai preziosi studi del prof. Attilio Gangemi sul pensiero etico-teologico di s. Giovanni e a quelli del prof. Rosario Gisana sugli aspetti biblici del discernimento, troviamo eccellenti studi sul pensiero classico greco (Platone, Aristotele), sugli autori antichi (J. Cassiano, s. Agostino), sul pensiero medievale (focalizzato specialmente su s. Tommaso), sul periodo delle dispute tra rigorismo e lassismo (B. Pascal, D. Concina), sul razionalismo (J.W. Leibniz, E. Kant, G. Hegel, J.G. Fichte) e sul pensiero contemporaneo (A. Gatry, H. Newman, J.A. Rosmini, Maritain, G. La Pira, M.D. Chenu, E. Husserl, M. Heidegger, G. Marcel, Edit Stein, Simone Weil, B. Croce, E. Berti, I. Mancini, E. Lévinas, H.J. Gadamer, P.K. Feyerabend, D. Halévy, G. Coco Zanghy, E. Juvalta, G. Vailati ecc.). Dobbiamo far notare che la prospettiva storica è presente non solo negli studi direttamente incentrati nel pensiero di un autore, ma anche in quelli che intendono offrire un’esposizione sintetica dell’argomento29. 29 Cfr A. GIACONA, Filosofia dell’essere e norma etica: la lezione di E. Kant, in Synaxis 1 (1983) 152-176; E. PISCIONE, Il tema della giustizia in Sant’Agostino fra «Saeculum» «Eschaton», in Synaxis 10 (1992) 101-124; ID., La fondazione metafisica dell’etica nella Summa Teologica di S. Tommaso di Aquino, in Synaxis 9 (1991) 25-54; A. CRIMALDI, Le sorprese dell’umanamente possibile: Juvalta e la giustificazio razionale dell’etica, in Synaxis 10 (1992) 153-181; M. ALIOTTA, Prima philosophiae pars. Temi etici nelle «Conferenze» di Giovanni Cassiano, in Synaxis 8 (1990) 37-51; S. CONSOLI,
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Dal punto di vista “tematico”, vorrei rilevare l’accento speciale posto sui temi che fanno riferimento al senso della vita, all’aspirazione dell’uomo verso Dio, e al modo in cui questa aspirazione si manifesta nelle diverse tradizioni religiose (giudaismo, cristianesimo, islamismo) con il loro spessore di esoterismo e magia. Questi studi li troviamo concentrati in modo particolare nei Quaderni 16 (Magia, superstizione e cristianesimo) e 17 (La Bibbia, libro di tutti). Alla vita, in quanto tale, fanno riferimento anche i numerosi studi sul diritto alla vita e sul rifiuto della pena di morte30, e sui problemi attualmente assegnati alla bioetica (primi ed ultimi momenti della vita). Sui problemi bioetici, che interessano ugualmente a moralisti, giuristi e politici, possiamo citare, al di là degli studi sparsi nei diversi numeri di Synaxis, i contributi di Quaderni 4 (Manipolazione in biologia e problemi etico-giuridici), che raccoglie gli Atti del Convegno tenutosi a Catania nel 1987, e nel quale vengono trattati temi come la fecondazione artificiale, l’eutanasia, le cellule staminali, l’ingegneria genetica (metodologie e tecniche), la tutela giuridica dell’embrione. Non sono studiati, logicamente, i temi che si sono proposti più tardi, come la clonazione. Altro settore che io ritengo fondamentale per la morale è quello riguardante “il linguaggio e l’ermeneutica”. L’uomo si apre alla vita come essere relazionale. Questa relazione si esprime innanzitutto attraverso il linguaggio (nella sua svariata pluralità di codici). Con il linguaggio arriva necessariamente l’ermeneutica, l’interpretazione cioè dei codici attraverso i quali è stato introiettato nell’uomo un determinato universo simbolico che egli cerca poi di trasmettere agli altri. Di questa tematica si occupano in modo particolare: Quaderni 8 e il 13. Nel primo (Oltre la crisi della ragione), che raccoglie gli Atti del Convegno organizzato dallo Studio Antropologia e morale. Il pensiero e le esperienze di Daniele Concina o.p., in Synaxis 7 (1989) 139-170; M. CASCONE, Il ministero della carità politica, in Synaxis 8 (1990) 29-36; I. PERI, L’insegnamento della teologia morale nel postconcilio, in Synaxis 9 (1991) 7-24; R. CAMBARERI, La «prassi storica» dei Cristiani nel Concilio Vaticano II, in Synaxis 8 (1990) 7-28; S. CONSOLI, La morale nel pensiero del catanese G. Coco Zanghy. Alcuni tratti della sua concezione teologica, in Synaxis 4 (1986) 123-152; A. CRIMALDI, Vailati, Juvalta e il problema dei fondamenti della morale, in Synaxis 9 (1991) 77-96. 30 Come esempio possiamo citare l’articolo di S. CONSOLI, Cristianesimo e pena di morte. Attualità del pensiero del catanese Coco Zanghy, in Synaxis 3 (1985) 33-65.
L’attività editoriale dello Studio Teologico S. Paolo di Catania
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Teologico S. Paolo nel 1990, sono presentati i grandi itinerari della filosofia contemporanea fino al suo approdo al post-modernismo. Il secondo ((Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto) contiene gli Atti del Convegno del 1997 su questo argomento. Il problema ermeneutico è stato affrontato anche in diversi studi pubblicati da Synaxis sugli autori più rappresentativi nel campo dell’ermeneutica moderna (cfr gli studi di Francesco Ventorino su H.G. Gadamer e P. Ricoeur). Altro nucleo tematico eticamente significativo per la sua particolare incidenza in Sicilia è quello che si occupa dell’impegno politico e sociale. In questo settore è da rilevare la “corposa” produzione di Synaxis sui fratelli caltagironesi Luigi e Mario Sturzo, ad opera di Michele Pennisi31, Giuseppe Scarvaglieri32, Pasquale Buscemi33, Alfio Spampinato34 e Salvatore Latora35. Quest’ultimo ha prestato particolare attenzione allo studio del “neo-sintetismo” di Mons. Mario Sturzo. Ciò è servito a evidenziare lo stretto legame del pensiero dei due fratelli Sturzo. Di fatto 31
M. PENNISI, Fede e impegno politico in Luigi Sturzo, in Synaxis 1 (1983) 101-116. G. SCARVAGLIERI, Sturzo e Bascetta: motivazioni e metodo della loro azione sociale, in Synaxis 6 (1988) 63-96 33 P. BUSCEMI, Conoscenza di Dio e vita in Dio nelle lettere pastorali di Mario Sturzo, in Synaxis (1990) 191-261; ID., Presupposti teologici e antropologici per una educazione cristiana in Mario Sturzo, in Synaxis 12 (1994) 325-350. 34 A. SPAMPINATO, L’etica dell’economia in Luigi Sturzo, in Synaxis 11 (1993) 71-112. 35 S. LATORA, Il neo-sintetismo di Mario Sturzo come possibile rinnovamento della filosofia scolastica, in Synaxis 1 (1983) 117-149; ID., Una lettera inedita di don Luigi Sturzo al fratello Mario Vescovo di Piazza Armerina (9-10 gennaio 1926), in Synaxis 2 (1984) 129150; ID., Un dibattito epistolare sul principio del neo-sintetismo. Corrispondenza tra M. Sturzo e A. Faggiotto (1930-1931), in Synaxis 3 (1985); 219-256; ID., Il neo-sintetismo e la sua dialettica nel pensiero dei fratelli monsignor Mario e don Luigi Sturzo, in Synaxis 4 (1986) 235-268; ID., Il neo-sintetismo di mons. Mario esposto e interpretato in un articolo del fratello don Luigi Sturzo, in Synaxis 5 (1987) 169-203; ID., Primo congresso della parrocchialità, organizzato dal Vescovo Mario Sturzo nel 1937, in Synaxis 6 (1988) 97-137; ID., Un dialogo filosofico di Mario Sturzo: “La filosofia in azione”, in Synaxis 7 (1989) 563509; ID., Mons. Mario Sturzo: uno studio sulla conversione di Leone Tolstoj, in Synaxis 8 (1990) 263-287; ID., Mario e Luigi Sturzo: due vite complementari per la rinascita del Movimento Cattolico in Sicilia, in Synaxis 9 (1992) 565-608, ID., Il problema educativo e scolastico nei fratelli Sturzo, in Synaxis 11 (1993) 249-284; ID., Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo, in Synaxis 16 (1998) 459-47. 32
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Luigi, il più conosciuto per la sua attività politica, deve molto al fratello Mario nella configurazione del suo pensiero fino al punto di costituire per lui un punto di riferimento imprescindibile, aspetto questo frequentemente ignorato dai biografi. Personalmente devo riconoscere che, leggendo l’esposizione che il prof. Salvatore Latora fa del neo-sintetismo di Mons. Mario Sturzo — riassunto nelle seguenti parole: «solo l’uomo è il conoscente sintetico e dialettico: l’uomo è sintesi, cioè unità attiva e rapportuale di fisiologicità, sensitività e intellettività»36 — ho provato l’improvvisa sensazione di ritrovarmi con il “realismo” gnoseologico del filosofo spagnolo Xavier Zubiri, che contempla tutto l’iter del conoscere umano come sintesi “intelligente” (intelligenza senziente, intelligenza e logos, intelligenza e ragione) che si muove nell’ambito del reale, perché, secondo Zubiri, «la verità veriteggia sul reale»37. L’ampiezza della ricerca sui fratelli Sturzo è un segno evidente della predilezione di Synaxis per la cultura ancorata nel “reale”, che, nel nostro caso, è sempre un “reale” con delle note specificamente siciliane. Nell’area della preoccupazione per il sociale nella Sicilia non poteva mancare uno spazio di particolare rilievo per quei fenomeni che determinano quello che il card. Pappalardo denominava le “urgenze dolorosissime della nostra questione meridionale”, in particolare i fenomeni della Mafia. Dell’argomento si occupa il numero completo di Synaxis 14 (1996), nel quale vengono studiati aspetti importanti, come cattolicesimo siciliano e mafia, inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale, la disciplina ecclesiastica contro la mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II, chiesa e mafia per quale comunità?, la mafia interpella la chiesa, la liturgia per i morti di mafia. Connotati particolari di questo argomento appaiono anche in numerosi altri articoli, come, La mafia come negazione della pace in Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia (A. Neglia), in Synaxis 18 (2000) 344345; Vittime necessarie: mafia e democrazia, in La teologia tra vangelo della nonviolenza e cedimento alle istituzioni di violenza (S. Consoli), in Synaxis 20 (2002) 100-104.
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S. LATORA, Neo-sintetismo di Mario Sturzo, in Synaxis 3 (1985) 234. X. ZUBIRI, Inteligencia y Logos, Madrid 1982, 48.298.
L’attività editoriale dello Studio Teologico S. Paolo di Catania
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Molti altri dati potremmo apportare sulla fecondità editoriale dello Studio Teologico S. Paolo di Catania nell’ampio campo della morale, che, in quanto tale, raggiunge tutta la sfera del vissuto e dell’agire umani, con tutti i fattori che possono incidere su di essi. In questo senso sarebbero pertinenti gli studi di Synaxis sulla religiosità, sulla spiritualità monastica e sui monumenti che la esprimono, nonché la “corposa e privilegiata” presenza delle relazioni ad limina. Ma l’analisi di tutto questo materiale comporterebbe uno spazio molto superiore a quello concesso al mio intervento. Mi sia permesso soltanto aggiungere, come riassunto finale, che il mondo della teologia, particolarmente della teologia morale, deve essere riconoscente allo Studio Teologico S. Paolo per il coraggioso impegno di creare un centro di ricerca che è riuscito a mettere assieme l’attività accademica e quella editoriale, una vera opera di creatività “synaxica”, e per averci dimostrato nel contempo come sia possibile una ricerca morale che prenda sul serio “l’uomo in situazione”, instaurando un discorso morale a misura dell’uomo della Sicilia. Ciò ci permette contemplare il lavoro scientifico di questo Centro in chiave d’apertura verso una nuova “subcategoria” all’interno della “scuola morale italiana”.
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IL CONVITTO ECCLESIASTICO DIOCESANO DI TORINO (18171871) UN MODELLO DI FORMAZIONE PRESBITERALE NELL’OTTOCENTO ITALIANO*
GIUSEPPE BUCCELLATO SDB**
Il Convitto Ecclesiastico si può chiamare un complemento dello studio teologico, perciocchè ne’ nostri seminarii si studia soltanto la dommatica, la speculativa. Di morale si studiano soltanto le proposizioni controverse. Qui si impara ad essere preti. Meditazione, lettura, due conferenze al giorno, lezioni di predicazione, vita ritirata, ogni comodità di studiare, leggere buoni autori, erano le cose intorno a cui ognuno deve applicare la sua sollecitudine [Don Bosco]1.
1. INTRODUZIONE Il Convitto Ecclesiastico Diocesano di Torino sorge nel 18172, su ispirazione del Venerabile Pio Brunone Lanteri e per iniziativa del Teologo Luigi Fortunato Guala, nei locali annessi alla chiesa di San Francesco a Torino, sulla via che porta, ancora oggi, il nome del * Prolusione tenuta all’inaugurazione dell’Anno accademico 2004-05 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania: 29 ottobre 2004. ** Docente di Teologia spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 G. BOSCO, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, Introduzione, note e testo critico a cura di A. Da Silva Ferreira, Roma 1991, 116. 2 Il decreto ufficiale di approvazione di Mons. Chiaverotti porta comunque la data del 23 febbraio 1821.
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poverello di Assisi. L’insieme della chiesa e degli edifici circostanti aveva fatto parte di un grande convento francescano, sorto nel XIII secolo e poi espropriato, all’inizio del XIX, per essere utilizzato, almeno in parte, come alloggio militare. L’apertura del Convitto fu un avvenimento denso di conseguenze per la chiesa piemontese3; con il Convitto, infatti, nasceva a Torino una nuova «scuola spirituale» di sacerdoti con una chiara identità, che li distingueva da quelli formati nella Regia Università di Teologia. Al rigorismo mitigato in morale e al gallicanesimo in ecclesiologia, si contrapponevano il desiderio di disperdere gli ultimi residui di giansenismo (o di ciò che a torto o a ragione era chiamato tale)4 e una difesa senza riserve dell’autorità del papa. Il Convitto Ecclesiastico, divenuto poi «della Consolata» a partire dal 1871, in seguito al suo trasferimento nel convento della Consolata5, deve il suo prestigio al ruolo esercitato in Piemonte ed anche oltre6 nella diffusione della teologia morale di sant’Alfonso e ad alcune eminenti figure di rettori, come san Giuseppe Cafasso e suo nipote, il beato Giuseppe Allamano, o di alunni, come san Giovanni Bosco, san Leonardo Murialdo, il beato Clemente Marchisio. «Quanto al Piemonte dove secondo Doubet esisteva «il popolo dal cattolicesimo più serio d’Italia» — è il giudizio di Roger Aubert e di Rudolf Lill espresso nella Storia della Chiesa diretta du Hubert Jedin —, apostoli come don Bosco, Cafasso, Murialdo non sono che i più importanti di un grande 3 Per un approfondimento sulla storia e sul ruolo esercitato dal Convitto e, più in particolare, dal Cafasso nella chiesa piemontese si veda la ricca bibliografia riportata da G. TUNINETTI, San Giuseppe Cafasso. Nota storico-biografica, in G. CAFASSO, Esercizi Spirituali al clero, a cura di L. Casto, Torino 2003, 28-33. 4 Cfr G. PENCO, Storia della Chiesa in Italia, II, Milano 1977, 266. 5 I locali annessi al chiesa di San Francesco furono poi permutati, in accordo con il Municipio di Torino, con quelli del Convento della Consolata il 18 gennaio del 1872 (cfr Archivio del Santuario della Consolata, Convitto Ecclesiastico II). In questo nostro studio, comunque, faremo riferimento unicamente al primo periodo della storia del Convitto, che va quindi dal 1817 al 1871. Dal 1871 il Convitto sarà più comunemente chiamato «Convitto della Consolata». 6 Cfr J. GUERBER, Le ralliement du clergè français à la morale liguorienne, Rome 1973.
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stuolo di preti pii e zelanti che spiccano nettamente sulla massa del clero italiano (compreso anche quello dello stato pontificio) per merito della formazione che veniva impartita dal convitto ecclesiastico di Torino»7.
Lo scopo dichiarato del Convitto era quello di radunare per due o tre anni dei giovani sacerdoti, da poco ordinati, per una preparazione più prossima al ministero presbiterale, in particolare in vista della predicazione e della «abilitazione» al ministero delle confessioni. Una incisiva espressione del Colombero, ex alunno del Convitto e biografo del Cafasso, lo descrive come «un’accolta di sacerdoti che richiedono l’ultima mano per rassodarsi nella virtù, rivestirsi dello spirito ecclesiastico ed uscire preparati all’esercizio del sacro ministero»8. L’esperienza del Convitto, tra alterne vicende e differenti modalità, proseguirà sin oltre il Vaticano II. Questo nostro studio, comunque, intende fare riferimento solo alla fondazione e al primo periodo della sua storia, più in particolare sino alla morte del Cafasso, avvenuta il 23 giugno del 18609. Al Cafasso succederà, per un breve periodo di quattro anni, il canonico Eugenio Galletti, poi vescovo di Alba, e a lui, sino al 1873, il Teologo Felice Golzio10. Nel frattempo, nel 1871, il Convitto si era trasferito nei locali attigui del Santuario della Consolata; poi, nel 1878, verrà chiuso dall’Arcivescovo di Torino, monsignor Gastaldi, per essere riaperto dal nipote del Cafasso, il canonico Giuseppe Allamano, nel 188211. 7 R. AUBERT – R. LILL, I contrasti tra il cattolicesimo e il liberalismo, in Storia della Chiesa a cura di H. Jedin, VIII/2, Milano 1977, 405. 8 G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, con cenni storici sul Convitto ecclesiastico di Torino, Torino 1895, 79-80. 9 Il compito del Convitto in questo periodo, sottolinea Padre Giuseppe Tuninetti, archivista della Curia Metropolitana di Torino, «era anche facilitato da due fatti: la chiusura del seminario di Torino e la crisi della facoltà teologica dopo la legge Boncompagni del 4 ottobre del 1848, che di fatto la sottraeva alla giurisdizione del Vescovo» (G.TUNINETTI, Don Clemente Marchisio [1833-1903], Torino 19862, 20). 10 Felice Golzio (1807-1873) fu direttore spirituale al Convitto, dove era stato alunno del Cafasso, di cui poi divenne confessore (cfr L. NICOLIS DI ROBILANT, Vita del Venerabile Giuseppe Cafasso confondatore del Convitto ecclesiastico di Torino, II, Torino 1912, 196). Dopo la morte del Cafasso, avvenuta nel 1860, fu confessore di Don Bosco sino al 1873, anno della sua morte. 11 Per un approfondimento sui motivi che portarono alla crisi e alla chiusura del Convitto si veda G. TUNINETTI, Lorenzo Gastaldi 1815-1883, II, Roma 1988,165-184.
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2. L’IDEA DEL CONVITTO E I PROTAGONISTI DELLA NUOVA FONDAZIONE L’idea di istituire un Convitto nei locali annessi alla chiesa di San Francesco d’Assisi, alla luce dei documenti che ne accompagnano la fondazione, è di origine lanteriana. Un memoriale redatto da Pio Brunone Lanteri12 tra il novembre e il dicembre del 181613, conservato a Pinerolo nell’Archivio Generale degli Oblati di Maria Vergine e indirizzato al Vicario Capitolare Monsignor Gonetti14, fa luce sulle intenzioni del fondatore di impiantare a Torino una comunità di Oblati, cui affidare, oltre alla predicazione di Esercizi Spirituali, alle confessioni e alla assistenza agli infermi, la gestione di un Convitto per giovani ecclesiastici15. «Lo stabilimento di detta Congregazione — afferma il Lanteri in questo memoriale — presenterebbe ai novelli sacerdoti tenuti tuttora allo studio della morale pratica e costretti a dimorare in case secolari con pregiudizio dello spirito ecclesiastico […], il comodo di una modica pensione a norma del seminario, che la congregazione erigerebbe a propria industria»16. «Senza [un Convitto] — aggiunge più avanti — svaniscono le speranze dei superiori, e inutili si rendono le spese fatte in un quinquennio per la gioventù»17.
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Il testo integrale di questo memoriale viene riportato da Mario Rossino in appendice al suo articolo Il Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d’Assisi. La sua fondazione, in Archivio Teologico Torinese, I (1995) 473-475. 13 Questa datazione può essere determinata con argomenti di critica interna. Nel memoriale, infatti, si fa riferimento alla «Congregazione degli Oblati di Maria», la cui erezione avvenne con decreto del Vicario Capitolare Mons. Gonetti il 13 novembre del 1816; inoltre, verso la fine dello stesso, si chiede di ottenere i locali annessi alla chiesa di San Francesco «onde potersi fin dal principio del prossimo 1817 organizzare la suddetta Congregazione e Convitto». Pertanto la data di stesura è antecedente al gennaio del 1817 ma susseguente al 13 novembre del 1816. 14 Mons. Emanuele Gonetti era stato Vicario Capitolare della diocesi di Torino nel periodo che va dalla morte di Mons. Giacinto della Torre (1814) alla nomina di Mons. Colombano Chiaverotti. 15 Cfr G. USSEGLIO, Il Teologo Guala e il convitto ecclesiastico di Torino, Torino 1948, 11. 16 Archivio degli Oblati di Maria Vergine, S. I, vol. VII, fasc. 3, doc. 289. 17 L. c.
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Osserva Mario Rossino, uno dei principali conoscitori della storia del Convitto18: «Forse non privo di relazione all’idea originaria di fondare il Convitto è il fatto che la regola degli O.M.V. (Oblati di Maria Vergine) contempli anche la presenza di «convittori» nella comunità, cioè sacerdoti o chierici che vorranno ritirarsi in Case di Oblati per darsi allo studio, per prepararsi un corso di esercizi, per perfezionarsi negli studi ecclesiastici»19. Questo primo progetto del Lanteri, comunque, non riceve la necessaria approvazione, non sappiamo se per l’opposizione dell’autorità ecclesiastica o di quella civile20. L’ipotesi di Usseglio, accreditata anche dalla stessa positio Lanteri, è che «il progetto sia andato a monte perchè avversato dall’autorità civile, la quale non vedeva di buon occhio l’introduzione di nuove famiglie religiose nella Capitale»21. In ogni caso, a questo punto entra in gioco il Guala, amico del Lanteri, e presenta al regio economo dei beni ecclesiastici Andrea Palazzi un nuovo memoriale, che porta la data dell’8 agosto 181722. Divenuto rettore della Chiesa di S. Francesco nel 1808 all’età di trentatré anni, Luigi Maria Fortunato Guala aveva iniziato ad accogliere già da alcuni anni, nel piccolo alloggio di cui disponeva, una decina di giovani sacerdoti, con lo scopo di integrare la formazione ricevuta in seminario con delle conferenze quotidiane di teologia morale «pratica»23. A partire dal 18 Lo studio più completo su questo primo periodo della Storia del Convitto è una tesi dattiloscritta di Padre Mario Rossino, dal titolo Gli inizi del Convitto ecclesiastico di S. Francesco d’Assisi. Si tratta di una ricerca, mai pubblicata, che tenta di ricostruire la storia dei primi trent’anni di vita di questa istituzione. Una copia dei capitolo IV e V di questo studio, in particolare, che trattano della vita e dell’ideale sacerdotale del Convitto, ci sono stati cortesemente messi a disposizione dall’autore per la consultazione; poiché questa copia non riporta i numeri di pagina citeremo, all’occorrenza, menzionando il capitolo e il paragrafo. Il Rossino utilizza spesso, nel suo studio, le testimonianze di alcuni alunni del Convitto e i documenti della causa di beatificazione del Lanteri e del Cafasso. 19 M. ROSSINO, Il Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d’Assisi, cit., 470. 20 Sulla questione si veda, per un approfondimento, il contributo di Mario Rossino già citato, in particolare alle pagine 458-461. 21 G. USSEGLIO, Il teologo Guala e il Convitto Ecclesiastico di Torino, cit., 13. 22 A.P. FRUTAZ, Beatificationis et canonizationisservi Dei Pii Brunonis Lanteri, fundatoris Congregationis Oblatorum M.V. positio super introductione causae et super virtutibus ex officio compilata, Roma 1945, 213. 23 Cfr G. USSEGLIO, Il teologo Guala e il Convitto Ecclesiastico di Torino, cit., 14. Le «Conferenze di Teologia Morale» erano state introdotte nella diocesi di Torino sin dal 1738
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1814, poi, il Guala, con il permesso dell’allora arcivescovo Mons. Della Torre, aveva ottenuto dal re Vittorio Emanuele I il riconoscimento legale delle sue conferenze ed uno stipendio annuo di 500 lire24. Questa, dunque, era la situazione personale del Guala quando, tre anni dopo questo riconoscimento che testimonia la stima e la approvazione delle autorità civili ed ecclesiastiche, presenta ad Andrea Palazzi una richiesta per ottenere l’affido dei locali per il Convitto. Questo nuovo documento non fa alcun cenno alla congregazione degli Oblati; è un documento drammatico, per certi versi appassionato. Il Guala riferisce che il giovane clero, senza un’adeguata assistenza, nei primi anni dopo l’ordinazione corre il rischio di «perdere lo spirito ecclesiastico». «Moltissime di quelle piante — scrive il Guala — che nel quinquennio davano speranza di ottima riuscita, diventano sterili per mancanza dell’ultima coltura […]. Quale danno ne derivi alle anime, e quanto sia da compiangersi in circostanze di tanta penuria di ministri, non abbastanza potrebbe spiegarsi, e pure troppo tutto dì si tocca con mano»25. La risposta del Palazzi, che porta la medesima data, è positiva. Il terzo piano del Convento di San Francesco d’Assisi viene dunque concesso per l’uso proposto, «a vantaggio della religione»26. L’idea del Convitto, promossa dal Lanteri e condivisa dal Guala, che è di circa sedici anni più giovane di lui, da questo momento ha un solo protagonista e promotore, il Guala27. Il Lanteri, pur restando in ottime dall’allora arcivescovo Mons. Francesco Arborio Gattinara e poi fatte oggetto di particolare attenzione anche dai suoi successori. Esse erano dirette ai nuovi ordinati e avevano lo scopo di «addestrare i giovani alla soluzione dei casi di coscienza» (cfr T. VALLAURI, Storia delle Università degli Studi del Piemonte, III, Torino 1846, 112-113). 24 Cfr G. USSEGLIO, Il teologo Guala e il Convitto Ecclesiastico di Torino, cit., 15. A Torino in quegli anni, oltre alla conferenza del Guala, si tenevano altri due analoghe esperienze, una all’Università e l’altra al Seminario. 25 A.P. FRUTAZ, Beatificationis et canonizationisservi Dei Pii Brunonis Lanteri, cit., 213. 26 Cfr A.P. FRUTAZ, Beatificationis et canonizationisservi Dei Pii Brunonis Lanteri, cit., 215. Il decreto ufficiale di approvazione ecclesiastica porta comunque la data del 23 febbraio 1821 ed è firmato da Mons. Colombano Chiaverotti; due anni prima il Vicario Gonetti aveva approvato la prima stesura del Regolamento. 27 La controversa questione sulla «paternità» del Convitto, che ha animato per anni il dibattito tra i sostenitori del Guala e quelli del Lanteri, dopo la lettura di questi documenti,
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relazioni28 con il suo amico e discepolo, si dedicherà alle sorti della nascente congregazione degli Oblati. È possibile anche, come sostiene il Calliari, che alcuni motivi di prudenza impedirono al Lanteri di esporsi «in prima persona» nella fondazione, di cui, probabilmente, era il vero ideatore e ispiratore; il Guala era, piuttosto, un discepolo del Lanteri, così come questi lo era, come diremo, del Diessbach29. Rimane il fatto che l’ideale a cui il Convitto si ispira e che anima il Guala è il medesimo del Lanteri ed è certamente derivato dal programma dell’Amicizia Sacerdotale30, l’associazione di sacerdoti fondata intorno al 1783 da Nicolaus von Diessbach, associazione di sui sia il Lanteri che il Guala avevano fatto parte31. Per comprendere meglio questo importante particolare proviamo a delineare, anche se in modo essenziale, la vita e la personalità dei due protagonisti della fondazione del Convitto e anche quella di Giuseppe Cafasso, primo successore del Guala. ci sembra definitivamente risolta. Si veda comunque, su questo tema, l’articolo già citato di Don Mario Rossino Il Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d’Assisi, in particolare alle pagine 470-471. 28 Si vedano, a comprova di questa affermazione, le lettere che il Guala e il Lanteri continueranno a scambiarsi, molte delle quali sono conservate nella positio Lanteri. Nel testamento di Lanteri, poi, il Convitto, nella persona del Guala, viene nominato erede universale, nel caso che la congregazione degli Oblati risultasse nel frattempo estinta (Cfr Carteggio del Venerabile Pio Brunone Lanteri (1759-1830) fondatore della Congregazione degli Oblati di Maria Vergine, a cura di P. Calliari, V, Torino 1976, 413. 29 Di questo avviso è Paolo Calliari quando scrive: «Ecco un punto di riferimento certo a cui sempre bisogna tornare tutte le volte che si cercano le vere origini del Convitto Ecclesiastico: il trinomio Diessbach-Lanteri-Guala» (P. CALLIARI, Gli Oblati di Maria. Fondazione a Carignano. Primi quattro anni di vita. 1816-1820, San Vittorino 1980, 123). E più avanti: «(Il Lanteri) uomo di punta che affronta con coraggio le situazioni più ardue e intricate quando si tratta di un bene da compiere o di un male da impedire sa eclissarsi a tempo per non apparire davanti al pubblico» (163). La trattazione del Calliari sul Convitto è ricca e documentata (cfr in particolare le pagine 118-174). 30 Gli statuti della Amicizia sacerdotale sono riportati in C. BONA, Le “Amicizie”. Società segrete e rinascita religiosa (1770-1830), Torino 1962, 503-511. 31 L’Usseglio ci informa che, a partire dal 1815, gli incontri della Amicizia Sacerdotale si tennero presso il Convitto ed ebbero come animatore lo stesso Teologo Guala. Cfr G. USSEGLIO, Il teologo Guala e il Convitto Ecclesiastico di Torino, cit., 17.
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2.1. Il Venerabile Pio Brunone Lanteri Pio Brunone Lanteri era nato a Cuneo il 12 maggio del 1759. Settimo figlio di un medico, noto per alcune sue pubblicazioni di medicina ma anche per la sua cristiana bontà verso i poveri, era entrato da giovane nell’Ordine dei Certosini, forse preoccupato dal tema della salvezza eterna, così caro ai predicatori del tempo; non reggendo all’austerità della regola era dovuto uscirne poco tempo dopo. Stabilitosi a Torino, dove frequentò la facoltà di Teologia della Regia Università, ebbe come maestro Joseph Albert Nicolaus von Diessbach. Il Diessbach, era nato nel 1732 a Berna. Dopo essere rimasto vedovo, era entrato nel 1759 nella Compagnia di Gesù nella città di Torino; in questa città continuò ad operare anche dopo la soppressione della Compagnia del 1773. Amico del redentorista ceco Clément-Marie Hofbauer, aveva conosciuto Alfonso Maria de’ Liguori ed era un «liguoriano» entusiasta. Tra il 1778 e il 1780 aveva fondato a Torino l’Amicizia Cristiana, un’associazione segreta di chierici e laici che, legandosi con dei voti e avendo come scopo la perfezione cristiana, promuoveva la diffusione della buona stampa, la lotta contro il giansenismo e il regalismo o giurisdizionalismo e una convinta adesione al papa nel contesto dell’ultramontanismo32. Lo stesso Diessbach aveva fondato nel 1783, l’Amicizia Sacerdotale, una scuola di perfezione evangelica e di preparazione all’apostolato mediante la predicazione, la teologia morale pratica e la diffusione della buona stampa. Le avvisaglie del cambiamento epocale provocato dalla rivoluzione francese avevano avuto dei riflessi anche in Italia, in seguito all’invasione del Piemonte da parte delle truppe francesi nel 1794 e, soprattutto, al Triennio 32 Cfr G. DE ROSA, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Bari 19882, 3-4. L’opera più completa sul tema delle Amicizie rimane ancora quella già citata del Padre Candido Bona. Si vedano anche le pagine 12-37 del testo di De Rosa, citato in questa nota e A. BRUSTOLON, Alle origini della Congregazione degli Oblati di Maria Vergine. Punti chiari e punti oscuri, Torino 1995, 75-90. La Amicizia Cristiana venne sciolta durante l’occupazione francese, ma riprese vita nel 1817 con il nuovo nome di Amicizia Cattolica e con un programma, non più segreto, di azione apostolica, in particolare in relazione alla diffusione della buona stampa.
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Giacobino (1796-1799), che inaugurava la dominazione napoleonica della penisola, protrattasi fino alla Restaurazione del 1814. Pio Brunone Lanteri, allievo entusiasta e collaboratore del Diessebach dal 1781, intuisce la portata e le caratteristiche dello scontro culturale in atto. Egli comprende che la Rivoluzione francese è la conseguenza di una lunga azione culturale, protrattasi per tutto il Settecento, a opera del movimento illuminista, che cambia tendenze e idee di una parte consistente della popolazione. La rivoluzione ha trovato poi, in Francia, una Chiesa ferita e indebolita dalle divisioni e dai dubbi, in seguito alla diffusione dell’eresia giansenista, con il suo rigorismo morale e sacramentale, che si accompagna ora al gallicanesimo, ora al giurisdizionalismo. L’intenzione di Brunone è quella di coinvolgere anche i laici nell’azione di «riconquista culturale» della società33, utilizzando come strumento privilegiato di apostolato la diffusione del libro in ogni ambiente, attraverso la lettura, lo studio e l’esame delle singole opere, e la loro diffusione nelle diverse classi sociali; in particolare l’opposizione al dilagare di idee e atteggiamenti giansenisti in seno al mondo cattolico, trovava la sua arma migliore nella diffusione delle opere di sant’Alfonso Maria de’ Liguori34. Coinvolto nelle tragiche vicende dei rapporti tra Napoleone e Pio VII, ribadì con forza l’autorità e il primato pontificio e fu per questo sottoposto 33 Può essere interessante sottolineare che, nelle costituzioni della nascente congregazione Lanteri prevede la adesione dei cosiddetti «soci esterni» (cfr Costituzioni e regole della Congregazione degli Oblati di Maria V., Tip. Eredi Botta, Torino 1851). Questo concetto e questa terminologia saranno ripresi da Don Bosco che utilizzerà ampiamente, nella redazione delle costituzioni della Società di S. Francesco di Sales, il dettato costituzionale degli Oblati. Sulla stesura delle prime regole dei salesiani e sull’utilizzo delle costituzioni degli Oblati si veda quanto afferma Don Angelo Amadei in G.B. LEMOYNE – A. AMADEI – E. CERIA, Memorie biografiche di San Giovanni Bosco, X, San Benigno Canavese (Torino) 1948, 662-668. 34 Pio Brunone Lanteri aveva contribuito non poco alla diffusione, attraverso il Piemonte, delle opere di sant’Alfonso e, in particolare, della traduzione latina di una sorta di manuale per i confessori, dal titolo Homo apostlicus instructus in sua vocatione ad audiendas confessiones sive Praxis et instructio confessariorum, edita da Giacinto Marietti a Torino nel 1844 (cfr F. DESRAMAUT, Don Bosco en son temps (1815-1888) ,Torino 1996, 148). Sulla influenza del pensiero di sant’Alfonso sulla dottrina e sull’opera del Lanteri si veda A. BRUSTOLON, Alle origini della Congregazione degli Oblati, cit., 107-127.
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a sorveglianza dalla polizia francese35. Dopo il 1814 riprese il suo apostolato riorganizzando l’Amicizia cristiana in due differenti associazioni, l’Amicizia cattolica, riservata ai laici, e l’Amicizia sacerdotale. In questo contesto sociale e religioso, maturerà l’idea della fondazione degli Oblati di Maria Vegine. Nel 1816 Lanteri, attento ai segni dei tempi ed in continuità con il programma dell’Amicizia Sacerdotale, fonda a Carignano una congregazione che ha lo scopo di diffondere la buona stampa, di lottare contro gli errori più comuni, soprattutto quelli contro il papa e la Santa Sede, di formare buoni ecclesiastici ed efficaci predicatori. Strumento apostolico privilegiato è la predicazione degli esercizi spirituali con il metodo di sant’Ignazio36. La congregazione, disciolta quattro anni per alcune incomprensioni con l’allora Arcivescovo Mons. Chiaverotti, fu ricostituita nel 1826 con l’approvazione del pontefice37. Lanteri morirà a Pinerolo, in Piemonte, nel 183038.
35 Cfr G. DE ROSA, Il movimento cattolico in Italia, cit., 6-7. Si veda anche il capitolo 27, dal titolo Un prete temuto da Napoleone, di P. CALLIARI, Servire la Chiesa. Il Venerabile Pio Brunone Lanteri (1759-1830), Caltanissetta 1989, 120-124. 36 Il Padre Timoteo Gallagher ha ampiamente dimostrato la centralità degli esercizi di sant’Ignazio nella spiritualità e nel carisma del fondatore degli Oblati; essi, ancor più dei Gesuiti, che il Lanteri vedeva impegnati in altre opere educative, si consacravano alla predicazione degli esercizi secondo il metodo di sant’Ignazio, a beneficio di preti e di laici di qualunque categoria o ceto (Cfr T. GALLAGHER, Gli Esercizi di S. Ignazio nella spiritualità e carisma di fondatore di Pio Brunone Lanteri, Roma 1983, 37-47). 37 In stretti rapporti con molti ex-gesuiti nel periodo della soppressione della Compagnia, il Lanteri, in seguito allo scioglimento degli Oblati, aveva chiesto egli stesso di divenire gesuita nel 1824, ma era stato sconsigliato di entrare nell’ordine anche dall’amico Guala (cfr G. TUNINETTI, Mons. Lorenzo Gastaldi, vescovo di Saluzzo [18671871] ed arcivescovo di Torino [1871-1883] tra rosminianesimo ed ultramontanesimo, in F.N. APPENDINO, Chiesa e società nella II metà del XIX secolo in Piemonte, Casale Monferrato 1982, 35). 38 Sulla spiritualità del Lanteri e sui suoi rapporti con il Diessbach si veda anche A. BRUSTOLON, Alle origini della Congregazione degli Oblati, cit., in particolare alle pagine 82-90.
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2.2. Il Teologo Luigi Maria Guala Luigi Maria Fortunato Guala, nato a Torino nel 1775, era stato ordinato sacerdote nel 1799. Amico del Lanteri, ottenne nel 1807 la riapertura del Santuario di Sant’Ignazio sopra Lanzo, dove iniziò, con lo stesso Lanteri, la predicazione di esercizi spirituali al clero e a laici. Nel 1808 divenne Rettore della chiesa di S. Francesco di Assisi, secondo lo spirito dell’Amicizia Sacerdotale, e qualche anno più tardi amministratore del Santuario di Sant’Ignazio. Di lui lo stesso Lanteri ha lasciato una descrizione: «piuttosto piccolo di statura, cosa che lo faceva sembrare ancora più giovane, di carattere gaio, di zelo non comune, molto attento e prudente, fornito di dottrina, prudenza ed esperienza necessaria per la direzione delle anime»39. Dal 1814, come già ricordato, iniziò l’esperienza delle pubbliche Conferenze di Morale, che già da alcuni anni aveva intrapreso con alcuni giovani sacerdoti; il suo obiettivo era quello «non solo di educare il giovane clero ad una morale più benigna ma anche alla pratica delle virtù sacerdotali»40. Al principio dell’anno scolastico 1843-1844 le sue condizioni di salute non gli permisero più di continuare queste conferenze pubbliche. Gli succedette in questo impegno Don Giuseppe Cafasso, che dal 1834 era stato prima alunno e poi ripetitore al Convitto. Morendo nel 1848, il Guala lasciò erede del suo patrimonio materiale e spirituale il Cafasso41.
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Il giudizio, tratto da una lettera del Lanteri, è riportato da Francis Desramaut in Don Bosco en son temps, cit., 142 [nostra trad.]. Questa recente biografia di Don Giovanni Bosco è una delle più scientifiche e documentate che siano mai state scritte. 40 G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso con cenni storici sul Convitto ecclesiastico di Torino, Torino 1895, 46. 41 Cfr G. USSEGLIO, Il Teologo Guala e il convitto ecclesiastico di Torino, Torino 1948. Sulla figura e sull’opera di questo protagonista della formazione sacerdotale in Piemonte si vedano in particolare le pagine 273-283 del testo di C. BONA, Le «Amicizie». Società segrete e rinascita religiosa (1770-1830), Torino 1962.
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2.3. San Giuseppe Cafasso Una particolare attenzione merita la figura del Cafasso e la sua dottrina spirituale42 per il ruolo che questo santo ebbe per più di venticinque anni nella vita del Convitto. Giuseppe Cafasso nasce a Castelnuovo d’Asti, lo stesso comune che darà i natali a Don Bosco, l’11 gennaio del 1811. Fisicamente poco dotato, «piccolo nella persona, occhi scintillanti, aria affabile, volto angelico»43, il Cafasso nel 1833, subito dopo l’ordinazione presbiterale, entrò al Convitto Ecclesiastico di Torino dove rimase prima come studente, poi come ripetitore e docente di teologia morale e, infine, come rettore alcuni mesi dopo la morte del Teologo Guala, nel 1849; mantenne questo incarico sino alla sua morte, avvenuta prematuramente il 22 giugno del 1860. In quegli anni sarà egli stesso a curare le conferenze di morale pratica e le lezioni di sacra eloquenza. Oltre all’insegnamento della morale, si dedicò in modo particolare alla pastorale dei carcerati e dei condannati a morte e alla predicazione di esercizi spirituali al clero e a laici. Raccolse minuziosamente gli appunti delle sue meditazioni e istruzioni in numerosi quaderni, ma non pubblicò nulla; suo nipote, il canonico Giuseppe Allamano44, ha edito per la prima
42 Per uno studio documentato sulla dottrina spirituale del Cafasso si veda F. ACCORNERO, La dottrina spirituale di san Giuseppe Cafasso, Torino 1958. L’Accornero si servì, in questo studio, dei numerosi manoscritti del Cafasso, che si conservano attualmente nell’Archivio del Santuario del Santuario e Convitto della Consolata, e delle testimonianze della causa di beatificazione. 43 La descrizione è di Don Bosco in Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, cit., 51. 44 Il Beato Giuseppe Allamano, che fu Rettore del Santuario della Consolata a Torino e del Convitto Ecclesiastico e Fondatore delle Missioni Estere della Consolata, era figlio di una sorella del Cafasso. Come testimoniò egli stesso durante la causa di beatificazione, vide lo zio una sola volta, all’età di sei anni. La sua testimonianza, oltre che sulle notizie raccolte in famiglia, si fondò anche sulle prediche e sulle confidenze di Don Bosco che egli conobbe durante la sua permanenza di quattro anni all’Oratorio di San Francesco di Sales, dove compì i suoi studi ginnasiali (cfr Taurinen. Beatificationis et canonizationis Servi Dei Josephi Cafasso…, Positio super introductione causae, 9-10). Sulla figura del Beato Allamano si veda I. TUBALDO, Giuseppe Allamano, Il suo tempo, la sua opera, Torino 1982.
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volta, tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, alcuni volumi di meditazioni e istruzioni al popolo e al clero45. Scrive Don Eugenio Valentini, che ha curato la voce «Joseph Cafasso» nel Dictionnaire de Spiritualité: «Giuseppe Cafasso fu, nel medesimo tempo, un maestro di teologia morale e di teologia spirituale. La sua spiritualità, del tutto tradizionale, è profondamente pastorale. È per questo che la sua influenza sul clero e sui suoi diretti fu straordinaria»46. L’influenza esercitata dalla dottrina e dallo zelo pastorale del Cafasso sul clero torinese fu veramente profonda. Nonostante il suo raggio di azione possa sembrare limitato agli alunni del Convitto, egli, come afferma Don Flavio Accornero, fu maestro di sacerdoti e, dunque, «moltiplicò» il suo influsso sulla Chiesa piemontese ed anche oltre: «Fu un uomo capace di opporsi al male — scrive l’Accornero — e di condurre la battaglia del Signore svolgendo con zelo indicibile la sua attività a favore delle anime, come sacerdote e come maestro di sacerdoti. Proprio l’aver lavorato in un campo ristretto e chiuso, quali sono quelli del confessionale, del pulpito e della scuola di un convitto, riesce per il Cafasso un titolo di indiscussa penetrazione, poiché egli ha lavorato su dei moltiplicatori: tutto il clero del Piemonte, si può affermare, lo ebbe ispiratore ed animatore per le nuove vie, tutti i direttori di anime lo ebbero direttore. E le sue dottrine, le sue parole, le sue idee passarono da sacerdote a sacerdote, da parrocchia a parrocchia, da anima ad anima […]. Si può raccogliere, quindi, una fioritura di alunni, di fondatori di istituzioni religiose, di indirizzi ascetici e morali tracciati, di santità iniziate. Quanto vi è del Cafasso nella loro attività e santità? Certo, molti elementi sgorgati dalla sorgente del Nostro si sono inalveati nella vita di questi uomini che rappresentano le personalità più spiritualmente note del secolo piemontese e che
45 Cfr G. CAFASSO, Meditazioni per esercizi spirituali al clero. Pubblicate per cura del Can. Giuseppe Allamano, Torino1892; ID., Istruzioni per esercizi spirituali al clero. Pubblicate per cura del can. Giuseppe Allamano, Torino 1893; ID., Sacre missioni al popolo, Torino 1923. Questi scritti fanno parte della raccolta in cinque volumi delle Opere complete edite a Torino dall’Istituto-Collegio Internazionale della Consolata per le Missioni Estere dal 1923 al 1925. 46 E. VALENTINI, «Joseph Cafasso (saint)» in Dictionnaire de Spiritualitè, VIII, c. 1330 [nostra trad.].
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Giuseppe Buccellato SDB nella loro gigantesca statura spirituale provano la bontà e la forza del seme da cui ebbero origine»47.
Uno strumento molto utile per comprendere quale tipo di prete il Cafasso si proponeva di formare, è la analisi attenta delle sue meditazioni e istruzioni nei vari corsi di esercizi al clero. «Qui più che mai — sottolineava Don Lucio Casto, presidente della commissione scientifica che dal 2003 ha iniziato a curare la Edizione Nazionale delle opere di San Giuseppe Cafasso — emerge chiaramente il pensiero del Cafasso sul prete, circa il suo essere e il suo agire, e insieme, in trasparenza, una sottile critica verso altri modelli o stili di vita sacerdotale non soltanto immaginati dal Cafasso, ma vivi e reali nel suo tempo»48.
3. IL PROGETTO FORMATIVO DEL CONVITTO Questi dunque i principali protagonisti della fondazione e del consolidamento del Convitto Ecclesiastico Diocesano di Torino. Cerchiamo adesso di tracciare le linee portanti del suo «progetto formativo», così come emergono dai suoi primi Regolamenti, composti dal Lanteri e dal Guala, e dalle testimonianze di alcuni suoi convittori. Il primo di questi regolamenti, redatto anteriormente alla fondazione del Convitto, è di origine lanteriana, e contiene per lo più elementi di economia e norme pratiche; probabilmente non fu mai applicato49. Il secondo e il terzo sono da attribuirsi al Guala50; il secondo, in particolare, 47
F. ACCORNERO, La dottrina spirituale di S. Giuseppe Cafasso, cit., 155. 157. L. CASTO, Gli Esercizi Spirituali al clero di San Giuseppe Cafasso, in Archivio Teologico Torinese, I (1995) 483. In questo articolo il Casto mette in evidenza, coerentemente con questa premessa, alcune immagini negative del sacerdote così come le ha stigmatizzate il Cafasso, come quella del prete ozioso, esempio di inattività e di vita comoda, del prete superficiale e frettoloso, o quella del prete anfibio, cioè di quel prete che passa disinvoltamente da impegni di ministero a occupazioni secolari o mondane. Ricca di amara ironia è poi la sequenza in cui Cafasso descrive la malattia e la morte del sacerdote mediocre (cfr 490-493). 49 Può essere reperito in Archivio degli Oblati di Maria Vergine, S. II, 255. 50 L’originale di questa seconda versione del Regolamento si trova in Archivio degli Oblati di Maria Vergine, S. I, vol. VII, fasc. 3.; il terzo è reperibile in appendice alla biografia del Cafasso scritta dal Colombero, alle pagine 357-363. 48
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porta in calce la approvazione di Mons. Gonetti, datata 7 gennaio 1819, e quella di Mons. Chiaverotti del 28 febbraio 1821. Quanto alla datazione del terzo, da cui emergono alcune utili indicazioni sul consolidamento dell’esperienza, l’argomentata opinione di Mario Rossino è che sia stata redatto intorno al 183951. Da questi primi Regolamenti scaturisce, in modo evidente, l’istanza stessa che è alla base della fondazione e, di conseguenza, i destinatari dell’opera. Leggiamo, passim, alcuni significativi frammenti: «La tanta penuria ogni dì crescente di zelanti ministri deriva non solo da mancanza di mezzi di sussistenza per essi, ma purtroppo anche da mancanza di zelo in alcuni di loro. Infatti il numero di zelanti Operai non è proporzionato al numero delli annualmente ordinati, né alla cultura e spese che per essi si fanno nei Seminari. Anzi parecchi di quelli stessi che per talenti, pietà e virtù davano speranze di riuscire zelanti operai, ordinati poi sacerdoti, nell’interstizio fatale tra l’ordinazione e la destinazione ad occupazione fissa, perdono il fervore e lo zelo e diventono inutili» [II Reg.]52. «Si osserva che anche dopo lo studio delle scienze dogmatiche e speculative per un cinquennio nei Seminari, li giovani, quando vengono ordinati sacerdoti, poco o nulla conoscono la pratica del confessionale, la scienza del pulpito, la maniera di comportarsi salutevolmente nel mondo, massime nelle moderne difficoltà sopravvenute nell’esercizio del ministero, in cui è d’uopo di molto maggiore scienza e prudenza» [II Reg.]53. «Molti di essi al fine del corso di Teologia si trovano in un momento sprovvisti di mezzi salvo quelli delle pubbliche Conferenze; vengono perciò indotti a procacciarsi il vitto con occupazioni estranee al ministero ecclesiastico […]; altri finalmente, scoraggiati dalle difficoltà che s’incontrano nella lunghezza del tempo che devesi impiegare in tali studi, li tralasciano affatto, e ne deriva poi necessariamente: 1° Scarsità di confessori massime che siano abili per ogni sorta di persone, e di qui maggior difficoltà nei fedeli di accostarsi ai SS. Sacramenti.
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Cfr M. ROSSINO, Gli inizi del Convitto, cit., cap. IV, I, 3. Archivio degli Oblati, S. II, 255. L. c.
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Giuseppe Buccellato SDB 2° Perdita di spirito ecclesiastico per cui moltissime di quelle piante coltivate con gran fatica e spesa, che nel quinquennio di Teologia davano speranza di ottima riuscita, diventano sterili per mancanza di ultima coltura. Le quali cose quanto danno arrechino, quanto sieno da compiangersi in circostanze di tanto bisogno di buoni operai, non può abbastanza spiegarsi. Si pensò pertanto a rimediare in parte a si gran male con erigere un Convitto nel locale di S. Francesco destinato per accogliervi Ecclesiastici, nel quale possano applicarsi a detti studi e rendersi abili all’esercizio del santo ministero» [III Reg.]54.
Qualche osservazione su questi testi: • il periodo ritenuto più pericoloso per la riuscita di «zelanti ministri» è quell’interstizio fatale che separa l’ordinazione dal primo impegno stabile; • un altro tema significativo riguarda il giudizio di inadeguatezza del quinquennio di studi teologici, in relazione ad una effettiva preparazione alla vita pastorale, cioè alla predicazione, al ministero delle confessioni, alla «maniera di comportarsi salutevolmente nel mondo»; • il fallimento di molte vocazioni presbiterali viene attribuito alla mancanza di un ambiente adatto per l’accompagnamento dei giovani in questo difficile periodo. Tracciata la motivazione che sta alla base dell’esistenza stessa del Convitto, questi ultimi due regolamenti si fermano a descrivere l’orario della giornata, le regole di convivenza, le pratiche di pietà, gli aspetti economici, il comportamento in caso di malattia o di mancanze55. «Nel Convitto — commenta opportunamente il Colombero — le regole erano poche e portavano l’impronta di una grande moderazione sia nella sostanza che nella forma. Regolamento ed orario erano redatti in modo che ne fosse possibile l’osservanza anche fuori di comunità, 54
G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 357-358. Lo studio del Rossino sviluppa anche una comparazione con l’analogo regolamento del Seminario di Torino, giungendo alla conclusione che «al confronto si può davvero dire che il regolamento del Convitto è “tenue”, caratterizzato esclusivamente da alcune regole essenziali, che lasciano largo spazio al senso di responsabilità dei convittori e alla fiducia dei superiori» (M. ROSSINO, Gli inizi del Convitto, cit., cap. IV, I, 3). 55
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acciocché i sacerdoti fossero allettati a continuarla in mezzo al mondo quando sarebbero liberi di sé»56. Un’esortazione finale del terzo Regolamento ci restituisce il senso di responsabilità e il «clima» umano e spirituale che si desiderava regnasse tra i convittori: «Essendo la pensione modica a segno che ognuno vede essere indispensabile di aggiungervi ragguardevole somma, si spera che ogni convittore si farà impegno di corrispondere colla maggiore applicazione allo studio, con la pietà di mantenere coi compagni la più cordiale unione e carità, avendo presente l’esempio degli Apostoli che prima di dividersi e predicare per il mondo, come i Convittori un giorno si divideranno per le funzioni ecclesiastiche, erano tra di loro santamente uniti con vincoli della più perfetta carità, animandosi a vicenda con santi discorsi e progetti per l’apostolato»57.
Il periodo di permanenza dei giovani sacerdoti al Convitto era, ordinariamente, di due anni. Il Colombero, comunque, ci testimonia che «ai giovani più segnalati per pietà e per studio» si concedeva di rimanere anche per un terzo anno58. I Convittori superarono anche il numero di sessanta59. Dopo aver messo a fuoco lo scopo e le istanze che sono alla base dell’esistenza del Convitto, proviamo, adesso, a sintetizzare le linee portanti del suo «progetto educativo». Ci sembra di poter «isolare» almeno cinque principali ingredienti di questo composto: • lo studio della morale pratica; • le esercitazioni di sacra eloquenza; • le esercitazioni apostoliche; • gli esercizi spirituali; • la ascesi e la vita di preghiera. Esaminiamoli uno per uno, cercando di far emergere, in modo analitico, la metodologia adottata e i contenuti mediati. 56
G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 82. Ibid., 362. 58 Cfr ibid., 190. Giovanni Bosco sarà uno di questi convittori «modello». Egli trascorrerà al Convitto tre anni scolastici, dal 1841 al 1844. 59 Cfr G. USSEGLIO, Il Teologo Guala e il convitto ecclesiastico di Torino, cit., 19. 57
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3.1. Lo studio della morale pratica L’obiettivo più immediato delle conferenze di morale era la preparazione all’esercizio del ministero delle confessioni; durante la permanenza al Convitto, i giovani presbiteri sostenevano un solo esame, quello per ottenere la facoltà di confessare. Facendo fede al terzo Regolamento e alle testimonianze dei convittori, possiamo affermare che le conferenze di morale erano ordinariamente due, una al mattino, intorno alle 11, ed una al pomeriggio alle 19, che si concludeva con una «confessione pratica»60. La conferenza del mattino era riservata ai soli convittori e tenuta dal ripetitore; la conferenza del pomeriggio era pubblica e condotta dal Guala (fino al 1844) mentre il Cafasso, che prima di succedere al Guala era stato ripetitore di morale, alla fine della conferenza pomeridiana, generalmente faceva il penitente nella simulazione di una confessione 61. Il testo ufficiale adottato o, dovremmo dire, imposto nelle conferenze torinesi era il Commentaria theologiae moralis di Antonio Giuseppe Alasia62, di orientamento probabiliorista, o un suo compendio in quattro volumi, curato dal torinese Angelo Stuardi, dal titolo Theologia Moralis breviori ac faciliori methodo in quatuor tomos distributa63, detto familiarmente Alasiotto; ma il testo dell’Alasia veniva, al Convitto, ripresentato e spiegato in senso alfonsiano. Già dal 1828, infatti, il teologo Guala aveva spedito a Roma una supplica per tentare di ottenere una risposta ufficiale dalla Santa Sede, dichiarando sicura e conveniente la dottrina di Alfonso de’ Liguori, che, peraltro, era già stato beatificato nel 1816; la sua istanza, però, non ricevette alcuna risposta64.
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G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 359. Cfr M. ROSSINO, Gli inizi del Convitto, cit., cap. IV, B, 1, b. 62 Antonio Giuseppe Alasia (1731-1812) era stato Capo delle Conferenze di Teologia Morale a Torino dal 1871. Nel 1783 aveva dato inizio ad un dettagliato trattato di Teologia Morale in 10 volumi, opera conclusasi più di vent’anni più tardi. 63 Il testo venne edito, per la prima volta, negli anni 1826-1827 a Torino con i tipi della Alliana e Paravia. 64 Cfr F. DESRAMAUT, Don Bosco en son temps, cit., 148. 61
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Sul contenuto «innovativo» di quelle prime conferenze ci informa il Colombero, ex allievo del Convitto, nella sua Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso: «Appena eletto Rettore della Chiesa di S. Francesco nel 1808, il Teol. Guala ne gettò subito le prime basi attuando un’idea da qualche tempo vagheggiata. Prese seco alcuni sacerdoti perché lo aiutassero ad uffiziare la chiesa, e quando potè averne sette o otto, parte dozzinanti, parte esteri, cominciò a far loro ogni giorno una breve conferenza, leggendo l’Alasia che era il testo delle nostre scuole e consultando S. Alfonso, che egli chiamava il NOSTRO SANTO. La cosa si faceva alla chetichella, in silenzio, prudenza richiesta dalla condizione dei tempi in cui il voler mettere dei punti sugli i alle Alasiane opinioni era cosa pericolosa. Era, questo del Guala, un indirizzo affatto nuovo ed inaudito tra noi, che non avrebbe certamente mancato di suscitare animosità ed ostacoli quando la cosa fosse passata nel dominio del pubblico, e pervenuta all’orecchio dei Direttori dell’istituzione dell’Archidiocesi»65.
Lo spirito dell’opera Alfonsiana non aveva avuto grande seguito tra i moralisti piemontesi. «La prevalenza del rigorismo morale in Piemonte — è l’opinione di Francis Desramaut, biografo e studioso del convittore Giovanni Bosco — si spiega in parte, noi crediamo, senza che ci sia bisogno di invocare delle derivazioni gianseniste, ma a partire dalla riforma degli studi in favore del tomismo e dell’agostinismo, riforma che conduceva all’affermazione di un probabiliorismo esigente»66. L’opera di Alfonso che maggiormente si sarebbe prestata ad un corso di preparazione al ministero della confessiore era, probabilmente, proprio quell’Homo apostolicus che lo stesso Pio Brunone Lanteri aveva diffuso nel Piemonte67, con un grosso impiego di energie e di denaro68. 65
G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 44-45. F. DESRAMAUT, Don Bosco en son temps, cit., 148 [nostra trad.]. 67 Secondo Giuseppe Cacciatore «il calcolo, anche approssimativo, degli esemplari di opere di s. Alfonso che (il Lanteri) diffuse, soprattutto dell’Homo apostolicus, si rivela impossibile. Si può dire che tutte le edizioni particolari di questa opera e di altre opere ascetiche e polemiche del Liguori, uscite in Piemonte tra il 1790 e il 1830, sono state fatte sotto l’impulso e con il concorso finanziario di Lanteri e delle sue tre amicizie» (G. CACCIATORE, S. Alfonso de’ Liguori e il giansenismo, Firenze 1942, 430). 68 Cfr F. DESRAMAUT, Don Bosco en son temps, cit., 174. 66
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In ogni caso l’impostazione del Convitto tendeva a formare un pastore di anime «benigno nella dottrina e amorevole nel tratto»69. L’obiettivo fondamentale, che scaturisce dal pensiero teologico morale di Alfonso70, infatti, è di non scoraggiare mai il penitente, pur senza rinunciare ad «interpretare» il ruolo di giudice71. «Riguardo poi al sistema teologico — attesta Don Reviglio al processo del Cafasso — se professasse piuttosto il probabilismo o il probabiliorismo, è certo che egli adottava quello che nelle circostanze promuoveva meglio la Gloria di Dio, la conversione dei peccatori, la perfezione delle anime devote; sicché senza esser tenace di un’opinione, dichiarava che egli avrebbe cambiato ad ogni momento la sua maniera di vedere, purché avesse procurato il bene dei suoi penitenti»72. «Noi andiamo la dentro per assolvere — sintetizza il Di Robilant — e dinanzi a noi sta una serie di opinioni teologiche, come tanti strumenti da essere adoperati in questo grande lavoro. Nello scegliere, non guardiamo già l’autore che la insegna o quella che a noi piaccia maggiormente: miriamo e scegliamo piuttosto quella che nelle circostanze della persona crediamo più adatta per salvarla. Noi ascoltiamo le confessioni per impedire il peccato: ebbene, fissiamo l’occhio su quell’opinione che nel caso pratico ci può maggiormente assicurare della perseveranza del nostro penitente nei
69 P. BRAIDO, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, I, Roma 2003, 163. Il Gioberti nel Gesuita moderno accuserà il Convitto di lassismo oltre che di gesuitismo (cfr V. GIOBERTI, Il gesuita moderno, IV, Napoli 1848, 279-281). In realtà la posizione del Convitto, e del Cafasso in particolare, si presenta moderata e se, a tratti, sembra essere incline più al probabilismo che al probabiliorismo è solo per contrasto con la posizione rigoristica dominante. 70 Si può far risalire questa prospettiva alla stessa spiritualità di sant’Ignazio. «Non fate andar via nessuno col cuore amareggiato» scriveva già sant’Ignazio a Simone Rodriguez. Nella seconda regola sul discernimento degli spiriti della prima settimana degli Esercizi leggiamo poi: «È proprio dello spirito buono dare coraggio ed energie, consolazioni e lacrime, ispirazioni e serenità, diminuendo e rimovendo ogni difficoltà, per andare avanti nella via del bene». 71 Secondo sant’Alfonso «i doveri che deve ottemperare un buon confessore sono in numero di quattro: sono quelli del padre, quelli del medico, quelli del dottore e quelli del giudice» (citato in F. DESRAMAUT, Don Bosco en son temps, cit., 149). 72 La testimonianza è riportata in M. ROSSINO, Gli inizi del Convitto, cit., cap. V, 5, b.
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propositi. Questa è la vera maniera di fare gli interessi del nostro padrone e di usare la maggior carità possibile alle anime dei nostri prossimi»73.
Se al teologo Guala «le incessanti e molteplici occupazioni a cui si dedicò appena ordinato sacerdote — secondo il Colombero — non permisero molta applicazione allo studio»74, più dotte e documentate dovettero essere le conferenze del suo successore, il Cafasso, come affermano le numerose testimonianze nei processi canonici. «Quale fosse la diligenza con cui il Ven. (Cafasso) — afferma ad esempio il nipote Giuseppe Allamano — si preparava all’insegnamento della morale, ne sono prova i quattro volumi in foglio della Teologia Morale dell’Alasia, intercalati da fogli bianchi e ridotti in undici volumi […]. Su questi fogli il Ven. scrisse molte note ed appunti ricavati dai migliori autori di Morale, cioè: S. Alfonso per primo, Suarez, De Lugo, Lessio, Saimanticesi, Sporer, Reuter, Billuart, Sanchez, Vasquez, Tournelly, tutti nomi che vidi citati in calce alle annotazioni. Dall’esame che feci di questi scritti, ricavai che il Ven. prese nei sopradetti autori il meglio e ciò che era più pratico, seguendo l’uso praticato da S. Alfonso nella sua Teologia Morale»75.
Sul piano metodologico ordinariamente la conferenza si svolgeva, rifacendosi allo studio del Rossino, secondo uno schema prefissato. «Fatta la preghiera, si iniziava con la lettura del testo dell’Alasia o del compendio curato dallo Stuardi; sembra che la lettura del testo fosse affidata ad uno dei convittori. Si spiegava poi il testo letto, senza peraltro dilungarsi troppo. Si proponevano uno o più casi. Si sollecitavano le opinioni dei presenti. Interveniva il docente per i chiarimenti e la soluzione finale. Almeno ogni quindici giorni si proponeva un caso da risolversi per iscritto […]. La conferenza pubblica ha almeno una particolarità in più ed è l’esercizio pratico di confessione»76. 73
L. NICOLIS DI ROBILANT, Vita del venerabile Giuseppe Cafasso, I, cit., 106. G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 42. 75 Questa testimonianza è riportata in M. ROSSINO, Gli inizi del Convitto, cit., cap. V, 5, c. 76 M. ROSSINO, Gli inizi del Convitto, cit., cap. IV, B, 1, d. 74
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Un’ultima curiosità: alcuni testimoni affermano che il Cafasso, nelle conferenze pubbliche, non disdegnava di ricorrere al dialetto piemontese per farsi comprendere meglio dai suoi uditori77.
3.2. Le esercitazioni di Sacra eloquenza È questo un altro degli elementi cardine del progetto formativo del Convitto, nel cui Regolamento si dichiara l’«essersi sempre ritenuto necessario qualche esercizio e preparazione per il pulpito nei giovani Ecclesiastici prima che vi si trovino obbligati per ragioni di impiego; epperciò furono già emanati dai nostri Reverendissimi Arcivescovi provvidenze a questo riguardo»78. Anche il regolamento del Seminario di Torino prevedeva, affidandolo al Direttore Spirituale, l’insegnamento della eloquenza e «di fare per torno li seminaristi un sermoncino al sabato»79. Pur non essendo una sua prerogativa assoluta, la scuola di eloquenza rientra in modo vitale nel progetto formativo del Convitto, soprattutto in relazione alla importanza che, come vedremo, veniva data alla predicazione e, in particolare, agli esercizi ignaziani.
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Cfr ibid., cap. IV, B, 1, e. G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 357. Il primo dei decreti a cui si fa qui riferimento è, probabilmente, una lettera di Mons. Della Torre del 26 novembre 1811, ripubblicata, come ci informa il salesiano Don Pietro Stella, l’anno successivo con alcune precisazioni (P. STELLA, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, II, Zurigo 1969, 26). Nelle pagine precedenti Don Pietro Stella ci informa anche della istituzione, nel 1816, di una cattedra di Eloquenza presso l’Università di Torino. La lettera è dedicata quasi esclusivamente alla predicazione, «la cui importanza — afferma il Tuninetti — veniva sottolineata dalla istituzione nel seminario di un triennio di teologia morale pratica e di eloquenza, obbligatorio per il clero dopo il quinquennio di teologia» (G. TUNINETTI, Predicazione nell’Otto-Novecento, in Dizionario di Omiletica a cura di M. Sodi – A.M. Triacca, Leumann-Gorgle 2002, 1240). 79 Cfr P. STELLA, Don Bosco nella storia, I, cit., 47-49. 78
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Non ci sorprende, dunque, trovare i nomi dei gesuiti Minini80, Grossi, Sagrini tra i docenti di eloquenza al Convitto, in particolare negli anni che precedono il rettorato del Cafasso81. Dalle testimonianze di alcuni ex convittori, poi, è possibile dedurre che non si trattasse soltanto di lezioni teoriche, ma anche di «esercizi dal pulpito», caratterizzati dalla proposta di una traccia che veniva poi svolta per iscritto e sottoposta al giudizio dei docenti e, talvolta, anche dei compagni82. «Soleva assegnare un tema di predica — scrive il Colombero — o parte di predica da comporsi nello spazio di quindici giorni e leggersi in pubblico nella Conferenza, se non erro, del sabato»83. Per comprendere, poi, l’importanza data al ministero della predicazione dal Cafasso, che gradualmente assunse la responsabilità anche della scuola di eloquenza, e i contenuti del suo insegnamento abbiamo a disposizione una istruzione da lui preparata per un corso di esercizi spirituali al clero, interamente dedicata a questo tema. Lontano dal privilegiare la forma sul contenuto84 o dal considerare l’eloquenza sacra come pura arte oratoria, il Cafasso vuole che le prediche non siano astratte, ma pratiche e vicine alla realtà di chi le ascolta. «Lasciamo stare ciò che mai o ben di rado può capitare al nostro popolo — scrive nella suddetta istruzione — ed appigliamoci più soventi che possiamo alle virtù, ai peccati e ai difetti domestici e di tutti i giorni, la preghiera, i sacramenti, la pace, le sofferenze in famiglia […]; e questi punti trattarli in modo adatto e pratico, sicchè ognuno possa vedere in se stesso il quadro che
80 Il Padre Ferdinando Minini predicò le istruzioni nei primi esercizi spirituali a cui prese parte nel 1842 il giovane sacerdote Giovanni Bosco, alla conclusione del suo primo anno al Convitto (cfr G.B. LEMOYNE – A. AMADEI – E. CERIA, Memorie biografiche di San Giovanni Bosco, II, cit., 122. 81 Cfr M. ROSSINO, Gli inizi del Convitto, cit., cap. IV, II, B, 2, b. 82 L. c. Si conservano nell’Archivio della Casa Generalizia dei Salesiani alcune esercitazioni di Don Giovanni Bosco compilate negli anno che trascorse al convitto (1841-1844). Molti dei temi trattati sono di evidente derivazione ignaziana (Introduzione agli Esercizi Spirituali, la morte, il peccato, fine dell’uomo, i due Stendardi, la comunione frequente…). Cfr Archivio della Casa Generalizia SDB, scatola A 225. 83 G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 89. 84 Cfr G. TUNINETTI, Predicazione nell’Otto-Novecento, cit., 1241.
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Giuseppe Buccellato SDB sta facendo il predicatore, facendo conoscere ove sta il male ed imparare il modo di rimediarvi»85.
Pur essendo manifesta l’intonazione moraleggiante, risulta altresì evidente la preoccupazione di evitare un certo tipo di predicazione intellettuale, speculativa, povera di accostamenti con la vita dell’uditorio. Nel medesimo tempo, non manca, in questa istruzione del Cafasso, un certo ottimismo bonario, e l’esortazione ad incoraggiare l’uditorio, più che inquietarlo presentando la virtù e la santità come irraggiungibili. «Non so da qual cosa provenga — scrive il Cafasso — ma noi predicatori siamo soliti e propendiamo a parlare più soventi e volentieri della parte difficoltosa che può presentare la legge del Signore e far spiccare l’arduità nell’osservarla, piuttosto che cercar di spianare (le difficoltà) che vi si incontrano […] epperciò difficile osservare i comandamenti, difficile fare una buona confessione, difficile ricever bene la santa Comunione, difficile persino sentire una messa con divozione, difficile il pregare come si deve, difficile soprattutto arrivare a salvarsi, ed essere ben pochi quelli che si salvano; e che ne avviene da tante difficoltà, se non esagerate, ampliate, soventi almeno ripetute? I buoni si inquietano e si scoraggiano, i cattivi ne perdono la speranza e ci pensano quasi nemmen più»86.
Un’ultima considerazione, in relazione alla formazione al ministero della predicazione, può essere fatta a partire da una indicazione dei regolamenti. «Acciò i Signori Convittori — si specifica nel terzo regolamento — abbiano il comodo di ascoltare la parola di Dio87, nei giorni di Domenica, alle ore 10 e 3/4 è permesso di uscire accompagnati tra di loro per udirla»88. Anche questa attenzione rivela intento di offrire un’opportunità di ascolto e di confronto a partire dalla omelia domenicale.
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Il testo è riportato da Lucio Casto in Gli Esercizi Spirituali al clero di San Giuseppe Cafasso, cit., 496. 86 In L. CASTO, Gli Esercizi Spirituali al clero di San Giuseppe Cafasso, cit., 496-497. 87 L’espressione “parola di Dio” va intesa qui in senso lato; in questo caso si riferisce anche alla omelia. 88 G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 361.
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3.3. Le esercitazioni apostoliche Un altro degli elementi formativi del Convitto Ecclesiastico Diocesano di Torino è costituito dalle opportunità offerte ai giovani sacerdoti di vivere delle esperienze apostoliche «guidate» in ambienti particolarmente difficili, esperienze che permettevano loro di aumentare il bagaglio umano e spirituale e, nel medesimo tempo, di orientarsi nella scelta dell’apostolato a loro più consono, in vista di un impegno definitivo. Già nel primo memoriale, di origine lanteriana, questa prospettiva è ben evidenziata. A proposito degli scopi della nascente congregazione degli Oblati, si dice: «assistere gli infermi negli ospedali, ed i carcerati, il basso popolo, cioè li servi, garzoni-artisti (artigiani), eccetera, che circa 5 mila annualmente escono guariti dagli ospedali, avendo ricevuto in essi coltura d’animo colla impressione delle massime eterne, e coltivandosi poscia in dette massime per mezzo delle confessioni, diverrebbero buoni cristiani e utili cittadini»89. Questa attenzione ai «carcerati e al basso popolo» caratterizza, in continuità con il progetto lanteriano, le esperienze apostoliche del Convitto. Il secondo regolamento prevede espressamente la possibilità che, alla domenica, il Rettore possa occupare i giovani sacerdoti nelle carceri o negli ospedali90. Testimonia Nicolis Di Robilant: «Il teologo Guala si occupava anche del ministero delle prigioni dove, pur non recandosi personalmente, inviava per mezzo dei suoi convittori tutte le settimane pane, denaro e tabacco. Assistette anche qualche volta i condannati alla fucilazione»91. Più conosciuta sarà l’attività del Cafasso nella assistenza ai giovani carcerati e ai condannati a morte. Racconta Don Bosco: «Per prima cosa (Don Cafasso) prese a condurmi nelle carceri, dove imparai tosto a conoscere quanto sia grande la malizia e la miseria degli uomini. Vedere turbe di giovanetti, sull’età dai 12 ai 18 anni; tutti sani, robusti, d’ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire. L’obbrobrio della
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L. c. Cfr Archivio degli Oblati, S. II, 257. L. NICOLIS DI ROBILANT, Vita del venerabile Giuseppe Cafasso, I, cit., XXXII.
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patria, il disonore delle famiglie, l’infamia di se stesso erano personificati in quegli infelici»92. L’obiettivo del Cafasso era duplice. «Oltre l’educare i suoi discepoli alla vita sacerdotale — chiarisce il Colombero — ad un altro oggetto importante applicava la sua industria nella direzione del Convitto il nostro saggio precettore, ed era lo studio dei medesimi, del loro carattere, delle loro disposizioni, delle loro tendenze a fine di poter assegnar loro un conveniente collocamento dopo i due anni di conferenza. E questo studio lo faceva sia nelle conversazioni in privato, sia nel quarto d’ora di ricreazione che passava con noi, sia collocandosi a tavola or qua or là nel corso dell’anno»93. La migliore risorsa per la conoscenza, la guida e il discernimento di questi giovani, dunque, era la semplice condivisione della loro vita quotidiana. Un’altra iniziativa promossa o sostenuta dal Convitto è l’attività catechistica e di «animazione» di fanciulli e adolescenti. Il Di Robilant, raccogliendo numerose testimonianze, afferma «con assoluta certezza che (i catechismi) cominciarono assai prima del 1841»94 e, dunque, prima di quell’8 dicembre che i figli di Don Bosco hanno sempre considerato come l’ideale inizio dell’opera dell’oratorio95. Nota è anche l’attività del Cafasso a favore degli spazzacamini valdostani96.
3.4. Ascesi e vita di preghiera In campo ascetico al Convitto si proponeva una vita austera e «ritirata». «Si osserverà il silenzio in tutte le ore — afferma il Regolamento — a riserva del tempo di ricreazione, nel quale però non si alzerà di troppo 92
G. BOSCO, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, cit., 119. G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 93-94. 94 L. NICOLIS DI ROBILANT, Vita del venerabile Giuseppe Cafasso, II, cit., 8. 95 Conclude pertanto lo Stella: «Il catechismo che Don Bosco fece a Bartolomeo Garelli nel dicembre 1841, non molte settimane dopo il suo arrivo a Torino, fu decisivo per lui, giovane sacerdote, ma non fu il primo tenuto al Convitto ecclesiastico torinese. Infatti, a quanto pare, l’insegnamento della Dottrina ai giovani entrava nel programma di formazione pastorale dei sacerdoti convittori» (P. STELLA, Don Bosco nella storia, I, cit. 95). 96 Cfr L. NICOLIS DI ROBILANT, Vita del venerabile Giuseppe Cafasso, I, cit., 445-446. 93
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la voce, attendendo a non fare rumore nei corridoi, per le scale, nell’entrare o uscire di camera e principalmente nello studio, dove il silenzio dovrà osservarsi con tutto il rigore»97. Distacco dal «mondo», fuga dei luoghi troppo frequentati, proibizione di partecipare a spettacoli o di recarsi in locali pubblici: questi elementi erano ritenuti indispensabili per non perdere lo «spirito ecclesiastico». Rivelatrici, poi, sono le meditazioni e le istruzioni del Cafasso al clero sul tema della solitudine. Scrive Flavio Accornero: «La solitudine — accanto a quello di ritiro — è il termine che viene ripetuto quasi all’indefinito dal nostro autore, e l’amore alla solitudine è una pratica che viene raccomandata, con un accento di indispensabilità, al clero come al popolo, non più semplicemente come fuga ed assenza al mondo, ma come esercizio di presenza a Dio ed alla propria coscienza»98. Il Cafasso considera la pratica della solitudine come una «risorsa» indispensabile per la vita del presbitero. «L’unione con Dio — afferma egli stesso — la purità di coscienza, l’esemplarità della vita, che sono così proprie del sacerdote, è inutile sperarle, cercarle fuori del ritiro e della solitudine»99. Nessuna occupazione materiale e neanche il lavoro apostolico possono essere motivo sufficiente per dispensarsi da questa ricerca di un tempo personale per lo studio e la preghiera «Fratelli miei — leggiamo in una delle sue meditazioni al clero — dimentichiamoci mai che la nostra vita consiste più nello spirito, che nelle opere; le opere valgono secondo lo spirito; togliete diminuite in un Ecclesiastico lo spirito interno e proprio del suo stato, e voi togliete, diminuite a proporzione il valore delle opere: che se vogliamo che regni in noi cotesto spirito, non si intiepidisca, anzi s’aumenti, si infiammi, è necessaria, è indispensabile una continua e costante vigilanza sopra di noi, e di tutta necessità un luogo, un tempo di ritiro, di studio, di esame nella nostra giornata, altrimenti come 97
G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 359. F. ACCORNERO, La dottrina spirituale di S. Giuseppe Cafasso, cit., 79. 99 G. CAFASSO, Manoscritti, [Copia Corgiatti], V, 2028-2029. Si tratta di una copia degli scritti del Cafasso, fatta in occasione della causa di beatificazione e con il vidimus dell’autorità ecclesiastica, realizzata in ottima calligrafia dal teologo Pietro Corgiatti (18711924). I volumi, da noi consultati, si trovano presso la biblioteca del Centro Studi Don Bosco della Università Pontificia Salesiana di Roma. 98
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Giuseppe Buccellato SDB capita, e che ne viene? Si studia, si predica, si confessa, si intraprendono mille faccende, e per questo e per quello, mai alle volte un momento da mattina a sera, e tutto anche con buon fine se volete, ma frattanto come va l’interno, che profitto sì fa, e come stanno i conti del cuore?»100.
E il primo, il principale «luogo» che il Cafasso indica per questo quotidiano «ritiro» è la camera. «Nella camera solo troveremo quella quiete — afferma — quella tranquillità, quella calma così necessaria per formare un buon sacerdote»101. È questa «cella» che il sacerdote deve imparare ad amare: «Amore alla cella dove l’aria è più pura per l’anima, il cielo più aperto, il Signore più vicino e familiare»102.
3.5. Gli esercizi spirituali e il Santuario di Sant’Ignazio sopra Lanzo Un altro elemento indispensabile per comprendere l’identità formativa del Convitto è il suo collegamento con il Santuario di Sant’Ignazio, sopra il comune di Lanzo Torinese. Una premessa è indispensabile. La pratica degli esercizi spirituali periodici è una delle caratteristiche più interessanti della spiritualità del secolo XIX. Pur essendo già presente, in Europa, nei due secoli precedenti, essa viene diffusa e quasi generalizzata, in questo secolo, non soltanto per gli ordini religiosi, ma anche per il clero «secolare», per i laici devoti, per gli alunni delle scuole103. 100
G. CAFASSO, Manoscritti, [Copia Corgiatti], V, 1874-1875. ID., Manoscritti, V, 2085 B [85]. Per questa citazione e per quella successiva, ci siamo serviti del lavoro di Flavio Accornero, riportando la citazione così come è segnalata dall’autore, e, tra parentesi quadre, la pagina del testo dove abbiamo riscontrato la citazione. Le notazioni A e B si riferiscono al fatto che le pagine del manoscritto spesso presentano due differenti testi, separati da una linea orizzontale. 102 G. CAFASSO, Manoscritti, V, 1951 A [85]. 103 Cfr J. DE GUIBERT, La spiritualità della Compagnia di Gesù. Saggio storico, Roma 1992, 386-387. Il Regolamento Organico del 1822 prescrive, che tutti gli studenti, ad eccezione degli universitari, facciano gli esercizi spirituali ogni anno in occasione della Pasqua, dalla sera del venerdì di passione alla mattina del mercoledì santo (cfr Raccolta degli Atti del governo di S.M. il re di Sardegna dall’anno 1814 a tutto il 1822, vol. XII, nn. 12701427, Torino 1822). 101
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La pietà dei laici, più in particolare, è sostenuta ed animata dalle missioni popolari104, che possono essere considerate un particolare adattamento degli esercizi105; i ritiri annuali, chiusi o aperti, sono invece praticati obbligatoriamente nelle case religiose e nei seminari a partire dalla fine del secolo XVII, per disposizione di Clemente XI e Benedetto XIV106. In Piemonte, a Restaurazione avvenuta, l’opera degli esercizi venne diffusa grazie ad alcuni entusiasti propagatori del metodo di Ignazio. Tra questi è da citare innanzi tutto il P. Roothaan S.I., rettore del collegio della provincia di Torino e poi, per trent’anni, generale della Compagnia107. Un altro fondamentale riferimento sarà costituito proprio dalla congregazione degli Oblati di Maria Vergine di Pio Brunone Lanteri, il cui carisma era proprio la predicazione degli esercizi spirituali secondo il metodo di sant’Ignazio108. A tale opera il Lanteri era stato iniziato dal Diessbach109. 104 Don Bosco stesso ci racconta nelle Memorie dell’Oratorio di «una solenne missione che ebbe luogo nel paese di Buttigliera» nell’anno 1826. «La rinomanza dei predicatori traeva gente da tutte le parti. Io pure ci andava con molti altri. Fatta una istruzione ed una meditazione in sulla sera, lasciavansi liberi gli uditori di recarsi alle case loro» (Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, cit., 44). Tra i predicatori la cui fama «traeva gente da tutte le parti» vi fu anche il Cafasso. Di lui conserviamo, oltre alla raccolta di meditazioni e di istruzioni per esercizi spirituali al clero a cui abbiamo già fatto riferimento, anche un volume che raccoglie le sue meditazioni dettate in occasione di missioni popolari (cfr G. CAFASSO, Sacre Missioni al popolo, Scuola Tipografica Missionaria, Torino 1923). 105 Sui «predicabili» in questo periodo della storia della spiritualità italiana si veda G. TUNINETTI, Predicazione nell’Otto-Novecento, cit., 1172-1177. 106 Cfr Enchiridion clericorum nn. 139ss; G. NICOLAI, Il buon rettore del seminario, Torino 1863. 107 Il Padre Jan Philip Roothaan, nato ad Amsterdam nel 1785, venne eletto Generale della Compagnia il 27 gennaio del 1829 e ne rimase alla guida sino alla morte, avvenuta l’8 maggio del 1853. Fu il terzo Generale della Compagnia dopo il ristabilimento della stessa per opera di Pio VII (1814). La sua azione in favore di una autentica riscoperta della spiritualità e della prassi degli esercizi, nella fedeltà al fondatore, fu costante e incisiva. Per incoraggiare e aiutare tale studio il Roothaan pubblicò anche nel 1835 una nuova traduzione latina del testo degli Esercizi spirituali più fedele al testo spagnolo e corredata di note e chiarimenti (Cfr J. DE GUIBERT, La spiritualità della Compagnia di Gesù, cit., 363-367). 108 Cfr C. BONA, Le «Amicizie», cit., 278. 109 Cfr ibid., 283.
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L’opera del Lanteri a favore degli esercizi ebbe in qualche modo il suo «crisma ufficiale» nella diocesi di Torino già dal 1807 quando, insieme al Teologo Luigi Guala, fu incaricato di predicare ai sacerdoti della diocesi. Il Guala e il Lanteri decisero di restaurare e di adibire a questo scopo i locali attigui ad un antico santuario che, dopo la soppressione della Compagnia di Gesù nel 1773, era stato annesso alla curia arcivescovile di Torino ed era caduto in stato di quasi completo abbandono. La costruzione del santuario di Sant’Ignazio110 a circa 920 metri di altezza poco distante dal paese di Lanzo, ad una quarantina di chilometri a nord-ovest di Torino, era stata completata nel 1727 dai Gesuiti, che fin dal 1677 erano divenuti proprietari di una cappelletta dove si venerava il Santo111 e dei terreni circostanti. Per i primi anni le esperienze fatte non furono prive di disagi e di difficoltà materiali, ma già nel 1808 la casa venne ufficialmente aperta. Nel 1814, poi, il Teologo Luigi Guala, che alcuni anni prima era stato nominato Rettore della chiesa di San Francesco di Assisi, divenne amministratore del santuario su nomina dell’arcivescovo di Torino, monsignor Giacinto della Torre112; nomina che verrà poi confermata nel 1836 da Mons. Fransoni. Questa particolare circostanza lega le sorti del santuario a quelle del Convitto Ecclesiastico e arricchisce il progetto formativo del Convitto di grande concretezza. L’apostolato degli esercizi rimane come un orizzonte 110 Per queste ed altre notizie storiche sul santuario si vedano: G. TUNINETTI, Il Santuario di Sant’Ignazio presso Lanzo. Religiosità, vita ecclesiale e devozione (1622 1991),Pinerolo 1992; F. DESRAMAUT, Don Bosco en son temps, cit., 160-163; Storia del Santuario di Sant’Ignazio di Loiola presso Lanzo Torinese, Torino 1894; L. NICOLIS DI ROBILANT, Vita del Venerabile Giuseppe Cafasso, cit., 2, 265-273; 111 Nel 1622 Ignazio di Loyola era stato proclamato santo. Sei anni più tardi nel villaggio di Mezzenile in Val di Lanzo una novena al santo aveva posto fine ad una pericolosa invasione di lupi; l’anno successivo una donna di una borgata vicina aveva avuto, nel luogo dove poi sorgerà il santuario di Sant’Ignazio sopra Lanzo, una misteriosa apparizione, poi ripetutasi. Su quel luogo la devozione popolare volle erigere una cappelletta dedicata a sant’Ignazio, che fu teatro di numerosi pellegrinaggi e fatti prodigiosi attribuiti alla intercessione del santo (cfr L. NICOLIS DI ROBILANT, Vita del Venerabile Giuseppe Cafasso, II, cit., 264-268). 112 In appendice al testo di Giacomo Colombero, più volte citato, è possibile reperire anche le Norme per la direzione degli Esercizi Spirituali nel santuario di Sant’Ignazio, compilate dallo stesso teologo Guala (367-379).
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costantemente presente e una «proposta-sintesi» che raccoglie gli sforzi legati al percorso formativo del Convitto e, come diremo, al modello di presbitero che il progetto del Convitto lascia in sottofondo. Il regolamento del Convitto, poi, prevede che ogni anno scolastico termini cogli Esercizi al Santuario di Sant’Ignazio113. Convitto e Santuario di Sant’Ignazio acquistarono così un ruolo centrale nella formazione teologica e nella vita spirituale del clero piemontese dell’ottocento. Sant’Ignazio, in particolare, fu un po’ il cuore pulsante di tutta la diocesi di Torino durante i difficili anni del Risorgimento italiano. Alla morte del Guala fu il Cafasso, che già da parecchi anni aveva iniziato il suo apostolato dettando gli esercizi al santuario, che ne assunse anche la amministrazione. «Il successo che riscuotevano le sue prediche — così ci informa Don Lucio Casto — è comunemente attestato da moltissime testimonianze: il più delle volte a Sant’Ignazio non c’era posto per tutti coloro che chiedevano di fare gli Esercizi spirituali con lui»114.
3.6. Alcuni altri elementi del progetto In campo ecclesiologico le idee del Convitto si muovevano sul solco dell’ultramontanismo che aveva caratterizzato la nascita delle Amicizie. L’autorità e il prestigio del papa venivano difesi contro i «nemici del primato» e le dottrine fuorvianti, ma anche, di conseguenza, contro ogni possibile apertura alla «modernità». A creare questo clima di fervore nei riguardi del Papa avevano contribuito alcuni fattori concomitanti con l’evento della Rivoluzione francese. Innanzi tutto il gallicanesimo che, avendo sottolineato la peculiarità della chiesa francese in antagonismo a quella romana, aveva raffreddato i reciproci rapporti; in secondo luogo lo stesso giansenismo, dimostratosi polemico con il centralismo della curia romana. Già il Diessbach, prendendo le distanze da questi atteggiamenti, aveva fondato le Amicizie su
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G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 361. G. CAFASSO, Esercizi spirituali al clero di San Giuseppe Cafasso, cit., 36.
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un programma di «adesione senza riserve» alla «Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana»115. La situazione sociale italiana e l’anticlericalismo, favorito, nella seconda meta dell’ottocento, dal ruolo giocato dallo Stato Pontificio nelle delicate fasi della vita politica italiana, divideranno anche le posizioni del clero italiano. Un altro dei riferimenti contenuti nel terzo Regolamento riguarda la liturgia. «Il tempo dello studio — dichiara il regolamento al n. 13 — sarà diviso parte per la Morale pratica, parte a comporre per esercizio di sacra eloquenza e liturgia in quel modo che verrà relativamente assegnato»116. Probabilmente si tratta qui di «lezioni di rubrica». Su questo aspetto della vita del Convitto, comunque, non sono a disposizione notizie più diffuse117. Un’altra risorsa per la formazione e la crescita è la vita comune. «Trovandosi prossimi ad avere impieghi — afferma il regolamento — resta di somma importanza la assuefazione a convivere con ogni sorta di temperamenti, il che si ottiene più facilmente adattandosi agli altri che cercando negli altri virtù»118.
4. QUALE MODELLO DI PRESBITERO ALLA SCUOLA DEL CONVITTO Dopo aver cercato di considerare, in modo analitico, gli elementi principali del progetto educativo, vogliamo adesso tentare di tracciare alcune linee di sintesi, che ci consentano di ricostruire, almeno nelle linee portanti, il «tipo» di prete formato, in questo primo periodo, dal Convitto e, in particolare, dal Cafasso119. 115
Cfr P. ZOVATTO, La spiritualità dell’ottocento italiano, in Storia della spiritualità italiana a cura di P. Zovatto, Roma 2002, 508-511. 116 G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 361. 117 Cfr M. ROSSINO Gli inizi del Convitto, cit., cap. IV, 2, B, 3.. 118 G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 360. 119 Osserva a questo proposito Don Lucio Casto: «Riguardo alla figura del prete, come del resto anche per gran parte dei suoi scritti di morale, non assistiamo nel Cafasso ad una apprezzabile evoluzione di pensiero. Al termine della sua vita il suo modo di delineare la figura e il ministero del sacrdote non è sostanzialmente diverso dalla presentazione che ne
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Ci sembra di poter affermare che, globalmente, il modello proposto è ancora quello che emergeva alla fine del Concilio di Trento, anche se con delle caratteristiche e originali sottolineature; lo conferma implicitamente anche il secondo regolamento quando «affida questo Convitto alla speciale protezione di S. Francesco di Sales e di S. Carlo che diversi simili ne stabilirono e promossero»120. I regolamenti da noi esaminati tendono, sostanzialmente, a formare un ecclesiastico riservato, per certi versi austero e distaccato dal mondo, anche se benigno ed amabile in confessionale. «È sommamente conveniente — afferma il terzo regolamento del Convitto, citando proprio un documento della XXII sessione del Concilio del 17 settembre 1562 — che gli ecclesiastici, chiamati a condividere la causa del Signore, ordinino la loro vita e i loro costumi, in modo che nell’abito, nel portamento, nel camminare, nel parlare e in tutte le altre cose nulla manifestino che non sia grave, misurato e religioso»121. Il presbitero è visto, innanzi tutto come un uomo di Dio. Il Convitto e, più in particolare, il Cafasso tendono a dare ai giovani presbiteri una grande consapevolezza della loro «dignità» ma, nel medesimo tempo, anche della loro «diversità» dagli altri uomini. In questa prospettiva, modello e tipo del sacerdote è lo stesso Gesù. «Se i miei pensieri — afferma Don Cafasso in una sua meditazione al clero —, i miei affetti, le mie opere non sono quelle di questo Divin Redentore, debbo disingannarmi: avrò il nome, il titolo, il carattere di sacerdote, ma in realtà non lo sono; sarò sacerdote sì, ma disgiunto, separato dal principio che mi deve animare; sacerdote, ma copia difforme, degenere dal tipo e dal modello»122. Sarebbe, probabilmente, anacronistico immaginare, nel faceva nei suoi primi corsi di Esercizi» (L. CASTO, Gli Esercizi Spirituali al clero di San Giuseppe Cafasso, cit., 485). 120 Archivio degli Oblati, S. II, 255. Il vero artefice dell’applicazione del Concilio tridentino, com’è noto, sarà il giovane Cardinale di Milano, Carlo Borromeo. Tra i suoi scritti numerosi sono i regolamenti di vita per i seminari (cfr Chiesa Chierici Sacerdoti. Clero e seminari in Italia tra XVI e XX secolo, a cura di M. Sangalli, Roma 2000, 27). 121 G. COLOMBERO, Vita del servo di Dio D. Giuseppe Cafasso, cit., 360. 122 G. CAFASSO, Manoscritti [Copia Camisassa], Medit. X, f. 1, La citazione è riportata da L. Casto in Gli Esercizi Spirituali al clero di San Giuseppe Cafasso alla pagina 489. Si
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progetto del Convitto, una riflessione teologica sul sacerdozio comune, o una fondazione del sacerdozio ministeriale a partire da quello di Cristo. Analogamente, così come Gesù è il modello del prete, anche il prete deve divenire un modello per il gregge; se egli è santo la sua stessa vita diviene il più efficace strumento di predicazione. «Nulla dispone con più efficacia gli altri alla pietà e all’assiduo culto di Dio — aveva affermato il Concilio di Trento — che la vita e l’esempio di coloro che si sono dedicati al ministero divino»123. Il Convitto, comunque, come osserva bene Don Lucio Casto, non intendeva proporre un irraggiungibile ideale di prete eroe, bensì quello di un uomo fedele quotidianamente alla propria missione e al proprio stato di vita124. Dalla identità del prete scaturisce il suo compito nel mondo. L’immagine che più emerge è quella del prete-pastore, che fa le veci di Gesù Cristo sulla terra, dedito alla predicazione e al confessionale, tutto preso da un ardente zelo per le anime. «Un apporto qualificato alla formazione del prete-pastore — scrive a questo proposito il Tuninetti — venne indubbiamente dal Convitto Ecclesiastico di San Francesco d’Assisi, prima sotto la direzione del teologo Luigi Guala e poi soprattutto sotto la guida e dietro l’esempio di don Giuseppe Cafasso, e poi dal Convitto Ecclesiastico della Consolata, sotto la guida di Don Giuseppe Allamano. L’uno e l’altro furono scuole di pastorale, i cui responsabili seppero anche intuire e proporre strade nuove e orizzonti più vasti di fronte ai bisogni imprevisti che la pastorale parrocchiale non sembrava in grado di soddisfare: ecco allora Don Cafasso, vice del Guala, di fronte alla immigrazione di tanta gioventù, che restava abbandonata, suggerire ad un gruppo di giovani preti del Convitto, tra cui Don Bosco, la via nuova degli oratori festivi e l’opera degli spazzacamini»125. tratta, anche in questo caso, di una copia degli originali, che presentano notevoli difficoltà di lettura, fatta dal canonico Giacomo Camisassa, braccio destro dell’Allamano alla riapertura del Convitto. 123 SS. Conc. Tridentini decreta, sess. XXII, 17 sept. 1562. 124 L. CASTO, Gli Esercizi Spirituali al clero di San Giuseppe Cafasso, cit., 494. 125 G. TUNINETTI, Il prete e i preti nell’ottocento piemontese, in Rivista Diocesana Torinese 74 (1997) 572.
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Questo fervore missionario, dunque, valorizza in modo creativo tutti i mezzi tradizionali di apostolato, a partire dalla ottimistica convinzione di una santità possibile, confortata dalla dottrina ascetica di Alfonso e di Francesco di Sales. La vera santità consiste, infatti, per sant’Alfonso nella pratica di amare Gesù Cristo: «Tutta la santità e la perfezione di un’anima — scrive — consiste nell’amar Gesù Cristo nostro Dio, nostro sommo bene e nostro Salvatore. La carità è quella che unisce e conserva tutte le virtù che rendono l’uomo perfetto»126. Ciò che bisogna insegnare a tutti predicando, quindi, è «l’arte di amare Dio». «Dovremmo salire il pergamo — scrive con passione il Frassinetti127, amico del Guala — compresi dell’importanza somma delle materie che trattiamo e predicare sul serio. Sono gli interessi del sangue di Gesù Cristo che noi dobbiamo promuovere: come si potrà tollerare nelle nostre prediche la leggerezza, la vanità? O miei fratelli riconosciamo e confessiamo che in questo punto si manca molto. Si cerca il bello, il leggiadro, la moda per piacere, si vuole la bella corteccia, e frattanto si spargono al vento vane parole e i popoli restano digiuni, mentre vengono per satollarsi del Pane di Vita. Di tal pane non è che ci sia scarsezza fra noi, ma gli si toglie la sostanza e il vigore. Oh, se i nostri nemici potessero adunare i popoli ed esortarli all’empietà, vedremmo con quale impegno e forza di dire predicherebbero! Noi, alle volte, pare che burliamo»128.
«Il principale ufficio che competa e tocchi all’ecclesiastico — scrive poi esplicitamente il Cafasso — è quello di predicare […]. In capo a tutte le funzioni che il divin Redentore esercitava in terra, stava la predicazione. Tutto il rimanente era come in appoggio e sostegno a questo incarico, il predicare»129.
126
ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI, Pratica di amare Gesù Cristo 1, 1. Il Servo di Dio Giuseppe Frassinetti (1804-1868), fondatore delle Figlie e dei Figli di Maria Immacolata fu anche amico di Don Bosco (cfr G.B. LEMOYNE – A. AMADEI – E. CERIA, Memorie biografiche di San Giovanni Bosco, V, cit., 605). 128 G. FRASSINETTI, Riflessioni proposte agli ecclesiastici, Genova 1838, 70-71. 129 La citazione è tratta da F. ACCORNERO, La dottrina spirituale di S. Giuseppe Cafasso, cit., 197. 127
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Accanto a questo ufficio, già il memoriale di Lanteri accostava «l’attendere assiduamente e con carità al confessionale». «Si offre con questo mezzo il comodo per confessarsi in qualunque ora alli cittadini d’ogni condizione, ed impiego […] essendo purtroppo pochi pel motivo sopra indicato i confessori veramente assidui a tale ministero in proporzione del gran bisogno»130. «Si resta abbastanza stupiti — osserva Don Lucio Casto — nel constatare attraverso la predicazione del Cafasso che non pochi sacerdoti di allora si sottraevano facilmente a questo ministero […]. Il concetto che il Cafasso vuole inculcare circa questo ministero è molto alto. Pur concedendo il primato di importanza alla predicazione, come “l’arma più forte e più potente” che il Signore abbia messo in mano ai sacerdoti, non teme di dire che il confessare “è un ufficio non meno grande, non meno utile, non meno importante del predicare”, perché i cristiani hanno bisogno che il predicatore “discenda a far loro da direttore, cioè a dire a dar loro la mano, li sorregga, li conduca, li regoli”»131. Ciò che deve caratterizzare l’anima del vero confessore è la santità di vita, la carità verso i penitenti e una adeguata competenza nella scienza morale. E la santità che deve caratterizzare il confessore non può essere austera e intrisa di durezza, ma piuttosto una santità condita di dolcezza e di bontà. «Con brevità, sempre; con fermezza irremovibile molte volte, con durezza mai»132. Il prete formato dal Convitto è, in conseguenza di tutto questo, uomo di preghiera. La preghiera, per il Cafasso, è da considerarsi un dovere fondamentale per un ecclesiastico: «Tra i doveri e gli uffizi del sacerdote può dirsi francamente che il primo è quello di pregare: omnis pontifex pro hominibus constituitur in iis quae sunt ad Deum. Il mezzo principale, anzi solo che Egli ha di tenere aperta questa via, questa relazione, codesta comunicazione con Dio, il modo con cui ha da compiere questa grande missione ed ambasceria, è la preghiera: 130
Archivio degli Oblati di Maria Vergine, S. I, vol. VII, fasc. 3, doc. 289. L. CASTO, Gli Esercizi Spirituali al clero di San Giuseppe Cafasso, cit., 498. 132 G. CAFASSO, Manoscritti [Copia Camisassa] , Istruz. 15, f. 9. La citazione è riportata da L. Casto in Gli Esercizi Spirituali al clero di San Giuseppe Cafasso alla pagina 499. 131
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toglietemi la preghiera, e voi torrete nello stesso tempo ogni commercio tra il Cielo e la terra, tra Dio e l’uomo»133.
In secondo luogo egli, per sua «professione», deve essere un maestro «di questa grand’arte di pregare»: «E come vi riuscirà, quando non la sappia compitamente e non la eserciti Egli stesso? Avete mai osservato come fa un maestro qualunque ad insegnar una professione, un’arte qualunque al suo scolaro e discepolo: comincia spiegargli ben bene i principii e la teoria; dargli il perché, la ragione d’ogni cosa, perché ne conosca il valore e la forza; ma ciò non basta e non è contento: si mette egli stesso il primo a lavorare come fosse un principiante sotto gli occhi del suo allievo, quindi glielo rimette e vuol che lavori alla sua presenza, perché Egli possa avvisarlo, aiutarlo, avvalorarlo e così pezzo per pezzo, parte per parte, tra due, ma quasi fossero un solo, si proseguisce e si termina il lavoro con soddisfazione, e piacere comune; del maestro, che gode del profitto del suo allievo, e dell’allievo, che s’avanza per bontà del suo padrone. Ecco quello che deve fare il sacerdote nei popoli, nella predicazione, nel Confessionale, ne’ catechismi, ne’ discorsi domestici e famigliari, insegnare questa grand’arte di pregare»134.
Anche lo studio deve essere considerato «uno dei doveri specifici della vocazione ecclesiastica»135. «La sola scienza della morale — afferma a questo proposito il Cafasso — e la preparazione del pulpito bastano da sé sole ad occupare tutto il tempo che può aver libero un sacerdote dalle opere del suo ministero, e chi se ne sbriga facilmente, e chi crede che basti uno studio fatto una volta per tutte […] non sa che cosa si faccia, non conosce né l’importanza né la delicatezza di quello che tratta. Io dico che tutto questo non è un affare di un momento, e non d’un giorno o d’una volta, ma giornaliera e continua»136.
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G. CAFASSO, Manoscritti, [Copia Corgiatti] VII, 2679. Ibid., 2681. F. ACCORNERO, La dottrina spirituale di S. Giuseppe Cafasso, cit., 90. Ibid., 91.
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Il sacerdote formato al Convitto Ecclesiastico di Torino è un zelante operaio della carità, sensibile e attento ai bisogni del «basso popolo», agli artigiani, ai giovani immigrati, ai carcerati, ma anche a loro offre il tesoro della Parola di Dio e dei sacramenti. Per lui la carità non è solo assistenza, ma promozione umana e cristiana e formazione morale. Egli è capace di sentire cum ecclesia; anzi, è marcatamente filoromano in tutte le questioni non solo religiose ma anche politiche, in atteggiamento critico nei confronti di tutte le tensioni sociali che vedono, in quegli anni, il papa come un possibile antagonista. Il sacerdote del Convitto, infine, è consapevole di vivere in un mondo che ha bisogno di essere riportato al Vangelo e che risente dell’anticlericalismo risorgimentale e liberale. Per raggiungere questo obiettivo, però, non combatte con le armi della politica, non tende a formare un prete «patriota», ma un prete che sia un appassionato annunciatore e un diffusore della buona stampa.
5. CONCLUSIONI Il modello di prete delineato dal Convitto Ecclesiastico Diocesano di Torino ebbe una notevole influenza nell’ottocento italiano137. Con esso si inaugura una vera scuola di spiritualità sacerdotale e di vita pastorale. È appena il caso di sottolineare che questo ideale di prete è stato pensato in un tempo profondamente diverso dal nostro. Il desiderato «distacco dal mondo» non è più proponibile in un tempo di nuova evangelizzazione che richiede la capacità di conoscere e valorizzare alcuni spazi socialmente rilevanti; l’identità del presbitero viene colta, oggi, a partire dalla dimensione ministeriale che si differenzia in una pluralità di ruoli; la stessa disponibilità al ministero delle confessioni è sottomessa alla legge della domanda e dell’offerta. Una «pastorale della conservazione», poi, non 137 Sulla identità del prete nell’ottocento piemontese si veda P. STELLA, Il prete piemontese dell’ottocento: tra la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale, in Atti del Convegno del Centro di studi sulla storia e sociologia religiosa del Piemonte, 1972, 8ss.
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può essere riproposta nella moderna società postcristiana e secolarizzata; in ogni caso c’è da chiedersi se lo stile serra dei seminari post-tridentini, in parte ancora in voga oggi, sia adeguato per formare delle personalità robuste e dei pastori coraggiosi138. Questo vuol dire, per noi, che il modello del Convitto va storicizzato e valutato in funzione della risposta, certamente efficace, che seppe dare al contesto religioso e sociale in cui nacque, ma che, nel medesimo tempo, non può essere riproposto sic et simpliciter nel contesto attuale. Riamane il fatto che alcuni elementi formativi ed alcune intuizioni possano essere per noi motivo di riflessione, pur se con i necessari rilievi. La percezione dell’importanza di essere dei comunicatori efficaci, ad esempio, è certamente ancora oggi di grande attualità e può arricchirsi dei contributi delle moderne scienze della comunicazione. La considerazione della particolare cura che necessitano gli anni immediatamente successivi all’ordinazione presbiterale e la inadeguatezza di esperienze formative occasionali e frammentarie; la necessità di integrare i percorsi teorici delle scienze teologiche con la vita reale e il servizio ai poveri, e con la graduale acquisizione di una esperienza pastorale; l’efficacia di un modello di formazione svincolato da esami e verifiche istituzionali, e centrato sul ruolo di guide esperte e credibili; una «passione per il Regno» che non conosce misura e che si confronta, oggi, con le tiepidezza del pensiero debole e con una religione a volte priva di slanci di autentica religiosità. Questo e, probabilmente, molto altro ancora può insegnarci la scuola del Convitto.
138 Quest’ultima osservazione è di Giuseppe Tuninetti (cfr G. TUNINETTI, Don Clemente Marchisio, cit., 26).
Sezione miscellanea Synaxis XXIII/3 (2005) 101-107
DAVID HARTMAN: UN MAESTRO DA SCOPRIRE
RANIERO FONTANA*
David Hartman, rabbino ortodosso e professore universitario, specialista di Maimonide e teologo dell’ebraismo, è oggi una tra le voci ebraiche più originali e creative che ci sia dato ascoltare. A distanza di circa 30 anni dalla fondazione dell’Istituto Shalom Hartman che tuttora dirige a Gerusalemme, chi volesse tentare un bilancio della sua attività nel mondo intellettuale ebraico (ma non solo), israeliano e diasporico, troverebbe più che giustificato parlare ormai di una vera e propria scuola. Da sempre Hartman interpreta con passione il proprio impegno e la propria responsabilità educativa verso il singolo e la comunità. Il singolo deve essere educato innanzitutto all’esercizio critico e responsabile della sua intelligenza. La comunità dovrà essere a sua volta educata a esprimersi in una dimensione essenzialmente ermeneutica prima ancora che religiosa. Hartman persegue l’ideale di una religiosità matura. Egli lo sottolinea con forza quando, scandalizzando i teologi, ci dice come lo stesso Dio sia tenuto a crescere, e non solo l’uomo. Egli contrappone un Dio adulto e maturo, che accetta l’uomo quale è, come partner di una conversazione comune, a un Dio lunatico e infantile, che lo distrugge perché non risponde ai suoi sogni1. Per Hartman, non è il Dio di Noè ma piuttosto il Dio del Sinai a cui si deve insomma guardare. È infatti nel quadro dell’alleanza sinaitica che egli elabora e propone una visione dell’uomo ispirata dal senso della sua * Docente di Letteratura rabbinica presso l’Institut Français Albert-Decourtray d’Etudes Juives à Jérusalem. 1 Cfr Gen 6-9.
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fondamentale adeguatezza e dignità, celebrato nella sua realtà finita e temporale. Da notare come questa sua antropologia d’alleanza sia lontana dalla preferenza accordata da tanta parte dell’esegesi e della teologia cristiana ad altre alleanze ritenute più sicure di quella sinaitica, perché unilaterali, cioè fondate interamente su Dio e non sull’uomo2. Hartman, per contro, non sottrae mai la storia alla responsabilità di un uomo costantemente esposto al rischio della libertà che lo caratterizza. È il momento sinaitico, così centrale nella sua teologia, che dignifica l’uomo, lo potenzia. “Poiché i figli di Israele sono miei servi; miei servi, che ho fatto uscire dal paese d’Egitto” (Lev 25,55), non è il tipo di versetto che può incontrare le sue simpatie. Se accade che Hartman lo citi, è per contrapporgli la propria interpretazione del Sinai. Ora, è ovviamente ai piedi del Sinai la comunità ermeneutica che Hartman spera di vedere un giorno realizzata. Su queste basi non stupisce che il suo sia un giudaismo che argomenta. Egli difende una parola che cerca il confronto critico e la verifica continua, che ha bisogno di essere contestata e provata, priva di quel tipo di tutela divina di cui gode il profeta biblico. La prospettiva spirituale e intellettuale di Hartman è in questo senso rabbinica e non biblica. Egli opta talmudicamente per una cultura dell’interpretazione e non del testo sacro. Tutti quei testi della letteratura rabbinica che introducono alla complessità delle regole e dei meccanismi di funzionamento di una vera e propria cultura della discussione, che oggi potremmo anche dire democratica per certi elementi comuni a entrambe, hanno perciò attirato la sua attenzione. Tra essi, uno di quelli più amati da Hartman, che ha anche ispirato il titolo di uno dei suoi libri: A Heart of Many Rooms [un cuore dalle molte stanze]3, è senza dubbio il seguente: «Fai del tuo cuore una cella segreta e introduci in essa le parole della scuola di Shammai e le parole della scuola di Hillel, le parole di chi dichiara impuro e le parole di chi dichiara puro» (t.Sotah 7,12).
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Per esempio, con Abramo (Gen 17) e con David (2Sam 7). Jewish Lights Publishing 1999. Parte dei testi che compongono questo libro sono stati tradotti da me in italiano. Cfr D. HARTMAN, Sub specie humanitatis. Elogio della diversità religiosa, Reggio Emilia 2004. 3
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Sia per tradizione storica sia per formazione personale, in Hartman la dimensione intellettuale è preponderante. Essa domina la sua visione delle cose. Il valore e la pratica dello studio della Torah, che caratterizzano e differenziano il mondo rabbinico da quello biblico, occupano coerentemente una posizione centrale nel suo stesso progetto educativo e culturale. L’originale iniziativa di un bet midrash aperto all’esterno, e perciò concepito a questo scopo come un luogo più formativo che normativo, è stata recepita con un certo successo in Israele e a volte riproposta anche come cosa da imitare. Sono soprattutto questi gli strumenti coi quali egli spera di vincere la difficile sfida che consiste nell’articolare tra loro tradizione e modernità. Ma non è solo contro la parola profetica che Hartman esercita la sua verve polemica. Essa non risparmia neppure un codice giuridico autorevole come lo Shulhan Arukh. In via di principio egli contesta che d’autorità, sia essa profetica o giuridica, si possa imporre la verità di un ragionamento o di un comportamento. Poiché Hartman non vuole sottomissione, cieca obbedienza, passività. La sua stessa concezione della Torah come conversazione comune che ha avuto origine al Sinai suppone e incoraggia una partecipazione attiva alla sua conduzione. Hartman ama ripetere che la Torah è più ampia della legge religiosa. La sua attenzione ai valori sottesi alla legge privilegia uno spazio critico e creativo di confronto che eccede i tradizionali quattro cubiti della halakhah ed è aperto al mondo. Egli chiede con forza quale sia il telos della legge, poiché l’osservanza scrupolosa delle regole ancora non certifica il carattere morale del comportamento di un uomo. Hartman si rivolge specialmente ai giovani, provocati a comportarsi da persone moralmente adulte, consapevoli del valore che ha l’intuizione morale personale. Egli propone loro l’esempio di Abramo che contrappose la sua comprensione umana del bene e del male al senso ineffabile e misterioso della giustizia divina4. Ma è tipico dell’insegnamento di Hartman sottolineare, anziché neutralizzare, le contraddizioni contenute nella letteratura biblica, rabbinica5 e post-rabbinica6. Lo stesso Abramo è infatti il 4
Cfr Gen 18. Per esempio, b.Baba Metzia 59b e b.Menahot 29b. Cfr D. HARTMAN, A Living Covenant. The Innovative Spirit in Traditional Judaism, Free Press1985, in part. pp. 46-49. 6 La contrapposizione di Maimonide a Nachmanide operata da Hartman ha un interesse tutt’altro che puramente scolastico. Cfr D. HARTMAN, Israelis and the Jews Tradition. An Ancient People Debating Its Future, Yale University Press 200O. 5
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protagonista di un altro celebre episodio criticato e denunciato da Hartman per la sua totale mancanza di sensibilità morale7. L’eroismo di chi tutto sacrifica per cieca obbedienza a un comando divino non può essere indicato come paradigma del comportamento religioso. L’annullamento di sè davanti alla volontà di Dio è tutt’altro che un ideale a cui aspirare. Hartman non rinuncia alla sua umanità. Su questo punto egli si distanzia volutamente e criticamente dal suo celebre maestro Rabbi Joseph B. Soloveitchik. Si può essere in profondo disaccordo con l’insegnamento dei propri maestri senza compromettere per questo le relazioni fondamentali che strutturano la tradizione ebraica. Hartman concepisce e vive l’ebraismo come tradizione interpretativa. Egli può contare su un vasto repertorio tradizionale di aggadot che mostrano come una verità che necessita di interpretazione sia una in cielo e molteplice in terra. È insomma dal conflitto di interpretazioni che la verità emerge più chiara. Penso sia a questo punto legittimo caratterizzare il pensiero di Hartman come essenzialmente dialogico. Questa sua dimensione dialogica consiste nel pensare la verità come un dono del presente che emerge attraverso un dialogo che non esclude il passato ed è aperto al futuro. È questa una trasposizione moderna dell’idea rabbinica secondo la quale la rivelazione coincide con la conversazione ininterrotta delle generazioni tra loro, passate presenti e future. Hartman non rompe con la tradizione. Questa infatti vive nel presente e partecipa di esso attraverso la sua continua reinterpretazione e ricreazione. Non vi è conferenza o lezione al suo Istituto gerosolimitano che non preveda la distribuzione ai partecipanti delle fonti a cui verrà fatto riferimento. Questo è più che un costume. Nella prospettiva di Hartman, infatti, è fondamentale che i testi della tradizione siano immancabilmente presenti e sempre aperti. Essi sono l’ggetto di una lettura intelligente, critica, persino spregiudicata. La preoccupazione apologetica è stata volutamente bandita così che tutto appaia negoziabile nel corso della discussione. Sempre importante è ovviamente il riconoscimento del debito reciproco da parte dei partecipanti a tale discussione comune. Ciò che rappresenta la sua dimensione morale. Hartman è un pensatore aperto e vivace che non ama i sistemi. Il suo è un pensiero che di continuo interagisce dialogicamente con quello che ha intorno. L’America, paese nativo, ha contribuito alla sua evoluzione con la 7
Cfr Gen 22.
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ricchezza della sua tradizione democratica e liberale. In Israele, paese in cui vive, Hartman è da sempre impegnato a presentare la tradizione ebraica come il “contesto naturale” di espressione degli stessi valori coi quali è cresciuto. Valori cari alla modernità. Si tratta, in realtà, di una difficilissima battaglia. Sono molti, infatti, a contestare la modernità per la sua presunta incompatibilità coi valori ebraici e tradizionali, come la Torah e la Terra di Israele. Limitandoci al contesto israeliano, due sono i principali campi ideologici che si vogliono a difesa dell’una e dell’altra: 1) il campo ultraortodosso 2) il campo ultra-nazionalista. L’espressione più estrema del primo considera il sionismo un’eresia e diabolizza lo Stato di Israele. L’espressione più estrema del secondo attribuisce invece a quest’ultimo e alle sue istituzioni, esercito compreso, un significato messianico, mistico, sacrale. Ma tante sono le combinazioni e le alleanze possibili tra le loro espressioni meno estreme. La cronaca del paese abbonda di esempi. Ora, alle visioni mistiche e agli entusiasmi messianici di coloro che antepongono il valore della Terra, Eretz Israel, a qualsiasi altra cosa, prontissimi perciò a sacrificarle tutto, Hartman contrappone il razionalismo laconico di stampo maimonideo e il suo personale buon senso. Egli irride la pretesa umana di guardare alla storia con gli occhi di Dio, sub specie aeternitatis. La pretesa di indicarci con certezza sia la tappa raggiunta nel processo di redenzione sia quella che sarà la tappa successiva. Egli teme soprattutto il pericolo di un trionfalismo religioso e politico veicolato dallo stesso messianismo. Mentre a coloro che antepongono a ogni altro valore la Torah, torat Israel, Hartman rimprovera la mentalità d’esilio e la conseguente insularità spirituale che la caratterizza. Se la “benedizione” di Balaam fosse infatti un incubo anziché un sogno8? La domanda è provocatoria. In ogni caso, ciò che per Hartman il sionismo rappresenta è esattamente l’opposto, è l’uscita dal ghetto. In esso si esprime la volontà di avere infine il proprio posto nella società delle nazioni. La mancata integrazione di tradizione e modernità è letale per lo Stato di Israele. Da parte religiosa, essa produce opportunismo politico e disinteresse per il bene comune. Essa genera un nazionalismo fiero che ignora però tutto di quel che un cittadino moderno è supposto sapere. Essa
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Cfr Nm 23,9.
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suscita il timore di uno Stato “come gli altri”, effetto perdurante dell’esilio9. Ecco perché tra le nuove sfide poste dall’attuale esistenza dello Stato di Israele, Hartman considera prioritario il superamento di un secolare complesso nei confronti del potere. Per motivi storici legati soprattutto all’esilio, il potere è stato visto dagli ebrei come il business dei goyim, i Gentili. Per Hartman, è proprio questo tipo di sguardo ereditato dal passato a costituire ancora oggi un impedimento serio alla sua piena assunzione. Provocando danni sul piano di una gestione responsabile e moderna del potere di cui Israele attualmente dispone. Ma anche la percezione dell’“altro”, il timore, l’ostilità e la chiusura nei suoi confronti, le politiche che lo concernono, sono in parte la conseguenza di una pesante eredità trasmessa al giovane Stato dal passato. Per Hartman, è questa un’ulteriore sfida da vincere. Sarebbe certamente perduta, per esempio, se l’altro venisse lasciato in balia di una sprezzante retorica che volentieri lo avvilisce non appena l’occasione si presenta10. Hartman insomma si batte per una società aperta, pluralista, che accetta l’altro e lo considera una benedizione. Per le stesse ragioni Hartman non promuove un giudaismo centrato sulla crisi e sulla sofferenza. Egli denuncia l’arroganza morale di chi, specialmente in Israele, si sente sempre nel giusto, per le molte persecuzioni subite. Per Hartman, infatti, lungi dall’essere auto-referenziale, la sofferenza patita sensibilizza a quella altrui: “Amate dunque il forestiero perché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto” (Dt 10,19). Ma soprattutto, egli non si sente né si vuole l’eterna vittima della storia. L’esistenza stessa dello Stato di Israele è perciò da lui compresa alla luce del Sinai e non all’ombra di Auschwitz. Egli vuole celebrare la vita. Memoria e vigilanza, ovviamente, sono doveri perenni. Per sè e per tutti. Ma, egli insiste, non è sul senso di colpa che si può fondare positivamente la propria partecipazione a una storia comune. Da parte laica, le nuove sfide da affrontare non sono minori. Di fatto, anche se in versione secolare, le tentazioni sono le stesse, i pregiudizi pure, come le colpe, distribuite tra idolatria e discriminazione. Ma Hartman
9 Cfr M. WALZER, “Zionism and Judaism”, in JONATHAN W. MALINO (ed.), Judaism and Modernity: The Religious Philosophy of David Hartman, Ashgate 2004. 10 È quanto è accaduto nella campagna elettorale del 2003 condotta dal partito ultraortodosso Shas. Ma non è che un esempio.
David Hartman: un maestro da scoprire
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riconosce anche apertamente che l’esistenza dello Stato di Israele è un dono venuto dagli ebrei laici e secolari. E per questo la sua gratitudine è sincera. Vorrei concludere questo breve profilo di Hartman richiamando un testo talmudico a cui spesso egli fa riferimento: «Rav Avira commentò a volte a nome di Rav Ami e a volte a nome di Rav Asi: Gli angeli del servizio dissero davanti al Santo benedetto Egli sia: È scritto nella tua Torah: “Colui che non alza il volto e non prende regalo” (Dt 10,17), ma tu sei parziale con Israele, come è scritto: “YHWH alzerà il volto verso di te” (Nm 6,26). Egli rispose loro: E non dovrei essere parziale con Israele, Io che ho prescritto loro nella Torah: “E mangerai e ti sazierai e benedirai YHWH tuo Dio” (Dt 8,10), e loro si mostrano così stretti [nell’osservanza della prescrizione tanto da benedirmi anche per una quantità di cibo grande] come un’oliva o come un uovo?» (b.Berakhot 20b).
Israele esprime la sua gratitudine a Dio per una quantità di cibo grande come un’oliva o come un uovo. Se Dio ingiunge di benedire dopo un pasto pieno e soddisfacente, Israele ha sviluppato la capacità di benedire anche sopra dei piccoli pasti incompleti. Per i rabbini si deve essere grati pure in presenza di una soddisfazione incompleta e parziale. Ma questo è il motivo che attraversa tutta l’opera di Hartman. Egli ama tanto questo testo proprio per il senso dell’umano che lo ispira. Sempre in virtù di questo realismo talmudico Hartman si oppone al sogno biblico di un sionismo oltranzista ed esclusivista. Poiché benedire per un pasto frugale comporta non soltanto il riconoscimento della necessità del compromesso ma l’apprezzamento della sua bontà.
Synaxis XXIII/3 (2005) 109-144
IL CARD. GIUSEPPE SIRI E LA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA DURANTE IL CONCILIO VATICANO II
PAOLO GHEDA*
1. SIRI AL CONCILIO Il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989)1 partecipò al Concilio Vaticano II nella doppia veste di arcivescovo di Genova e di presidente della Conferenza Episcopale Italiana2. A titolo personale, per il Concilio, Siri pubblicò due Lettere pastorali3, una Omelia per la Pasqua 19624 e ne pronunziò altre di cui restano appunti5; tenne, inoltre, una conferenza *
Ricercatore di Storia contemporanea all'Università della Valle d'Aosta – Université de la Vallée d'Aoste. 1 Su Siri manca a tutt’oggi — come ha notato Andrea Riccardi (Vescovi d’Italia. Storie e profili del Novecento, Cinisello Balsamo 2000, p. 42, n. 42) uno studio complessivo; per alcuni aspetti, cfr (oltre al volume di B. Lai citato a nota 8), D. VENERUSO, Il Cardinale Giuseppe Siri, Arcivescovo di Genova, in Sovrano Militare Ordine di Malta, Atti del Convegno Internazionale, 19 settembre 1998, a cura di D. Veneruso – L. Tacchella – F.V. Lobstein – G. Scarabelli, Pietrabessara (Ge) 1999, 17-34; M. GRONE, Accanto al “mio” Cardinale Giuseppe Siri, Genova 1999; G.B. VARNIER, La Chiesa a Genova negli anni della ricostruzione, in AA.VV., Le Chiese di Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1986, 191-225. 2 Sebbene concludesse il suo mandato come presidente della CEI prima del termine del Concilio, con la nomina da parte di papa Montini del card. Luigi Traglia (pro-vicario generale di Roma) alla carica di pro-presidente della Conferenza medesima, avvenuta il 12 agosto 1964. 3 Si apre il Concilio Vaticano II, del 29 agosto 1962, in Rivista Diocesana Genovese (1962) 185-186; La costituzione conciliare sulla liturgia, del 2 febbraio 1964, in Rivista Diocesana Genovese (1964) 14-16. 4 Il Concilio, 7 pp., pubblicata per la Grafica Bi-Esse di Genova. Dopo averlo definito come «una delle maggiori manifestazioni» della vita della Chiesa (p. [3]), Siri argomentò sul Vaticano II dalla prospettiva del «perché non è superfluo», data l’autorità del papa. 5 Cfr Arch. Personale card. Giuseppe Siri — Genova (ora in avanti APGS — la collocazione qui adottata dei documenti è provvisoria, deve essere preparato un inventario
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all’U.C.I.D. di Milano — invitato da don Luigi Belloli, con la mediazione del card. Montini6 — nonché numerosi interventi, discorsi, precisazioni nella diocesi ligure che presiedeva pastoralmente7. Il documento più significativo della partecipazione di Siri al Vaticano II è senza dubbio il suo Diario8, che si estende temporalmente dal 10 ottobre 1962 al 20 novembre 1964. Esso sistematico), fald. Appunti Prediche 1960-1986, 3 prediche sul Concilio (1962). In un suo schema dattiloscritto per la giornata sacerdotale del 7 febbraio 1962, Siri fece questa riflessione: «Il Concilio […] non è cosa facile ed occorre la preghiera» (l. c.). In un altro schema appuntava: «[nel Concilio] il protagonista è lo Spirito Santo» (foglio «I Sacerdoti prima del Concilio» — Carpi, 5 Novembre 1962, in APGS, fald. Appunti Prediche 19601986). In un ultimo appunto annotò: «Molto frutto del Concilio sta nella preparazione. Infatti, in quella — si conoscono i Padri — per decidere si fa prima la grande informativa e il vero bilancio del mondo» (foglietto senza data in l. c.). 6 «Il Concilio Ecumenico. Significato teologico e funzione storica», ora in Opere del cardinale Giuseppe Siri, I., parte I: Opere teologiche, La giovinezza della Chiesa. Testimonianze, documenti e studi sul Concilio Vaticano II, Pisa 1983, 35-42. Cfr la lettera di Montini a Siri da Milano del 18 gennaio 1960 (in APGS, fald. Corrispondenza con Casa Pontificia): «Eminenza Reverendissima, a Milano Le vogliono bene! Ed io non so trattenermi dal raccomandare a Vostra Eminenza Reverendissima il desiderio che, a nome dell’U.C.I.D. milanese, l’ottimo Prof. D. Luigi Belloli Le ha presentato, quello cioè di una Sua conferenza sul Concilio. La cosa è importante, Vostra Eminenza ben lo sa: tanto che Padre Zucca, che deve averLe rivolto simile domanda per il suo ‘Angelicum’, cede gentilmente il passo all’UCID, comprendendo come una parola di Vostra Eminenza al ceto industriale milanese possa essere ascoltata e salutare, più che ad altro uditorio. Così che anch’io, una volta di più, Le sarò obbligato se l’Eminenza Vostra accoglierà l’invito…». 7 Conferenze pubblicate, quindi, in La giovinezza della Chiesa, cit.: Il Concilio Ecumenico dal piano della teologia della storia, tenuta al teatro Duse di Genova il 25 gennaio 1961 (ibid., 43-50); Il Concilio Ecumenico: aggiornamento della Chiesa, ancora al teatro Duse il 15 dicembre 1961 (ibid., 51-60); Fusione delle culture e delle civiltà nel Concilio, tenuta al Centro Giovanile Universitario «Convegno» di Genova il 21 dicembre 1962 (ibid., 70-84); Ecumenismo cattolico, tenuta al Centro Culturale «Didascaleion» di Genova il 16 gennaio 1964 (ibid., 101-108); Il Concilio e l’avvenire, sempre al Centro Culturale «Didascaleion» il 28 gennaio 1966 (ibid., 147-154); L’ecclesiologia nel catechismo tridentino ai parroci e nel Vaticano II, tenuta al Convegno del clero di Mondovì, il 27 maggio 1966 (ibid., 155-164); inoltre, una conferenza tenuta a Cannes ad una équipe dirigenziale internazionale il 27 settembre 1969: Il post-Concilio dal punto di vista storico, dal punto di vista della Provvidenza (ibid., 175-197). Nel medesimo tomo sono raccolti anche gli altri interventi (discorsi, precisazioni dottrinali, circolari), di argomento conciliare, al cui dettaglio si rimanda. 8 Il diario conciliare del card. Giuseppe Siri è un documento prezioso ai fini della comprensione delle posizioni e dei movimenti seguiti dall’episcopato italiano durante il Vaticano II. Un testo “classico”, già utilizzato e citato ampiamente in varie ricerche dedicate
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non fu composto dal cardinale quotidianamente: dalle correzioni apposte alle date si desume che sovente egli si dovette sedere a tavolino per annotare una sintesi di più giornate trascorse; in effetti, sono riscontrabili parecchi salti cronologici, ma i momenti segnalati sono significativi e mettono in luce i più importanti avvenimenti che videro Siri coinvolto a Roma in quegli anni decisivi per la Chiesa universale e, in particolare, quella italiana. L’immagine del cardinale di Genova al Concilio, che risulta dall’insieme delle fonti a tutt’oggi disponibili, appare “bifronte”: una prima fase di intensa partecipazione all’evento, una seconda di stanchezza e maggiore distacco, per quanto sempre caratterizzata dagli impulsi di un carattere incisivo. Per quanto concerne la prima fase (che si può considerare conclusa alla data del 7 dicembre 1962 del Diario), ad emergere è il Siri protagonista dell’episcopato italiano, nonché esponente di spicco anche tra i prelati delle altre nazioni, costantemente teso a radunare i vescovi della Conferenza peninsulare che presiedeva, a conferire loro un’autorità dottrinale e “politica” anche a livello internazionale, e soprattutto un’unità di posizioni ben definita. Sin dall’inizio del suo mandato di presidente della CEI, Siri pose le basi per quella maturazione di identità e di senso unitario dell’episcopato italiano che doveva portare a fine Concilio alla nascita della Conferenza come oggi è conosciuta. Già nella relazione del comitato direttivo durante l’Assemblea Generale CEI dell’ottobre 1959, il neoeletto presidente aveva richiamato «il fatto nuovo dell’organizzazione da dare alla C.E.I. Il Santo Padre ha manifestato il Suo pensiero, senza alcuna diminuzione di competenze della Curia romana, gli affari di indole pastorale siano esaminati e discussi dalla C.E.I. Si allargano perciò il al Concilio, esso è comparso per la prima volta nel 1993, in appendice al volume biografico di BENNY LAI, Il Papa non eletto. Giuseppe Siri cardinale di Santa Romana Chiesa, RomaBari 1993, il giornalista che dal ’56 in poi ebbe frequenti colloqui con il prelato ligure. A lui sono grato per la testimonianza offertami su Siri, che mi ha permesso di meglio precisare il carattere dell’uomo e del pastore). Il testo del Diario viene qui citato nella sua versione autografa, conservata tra le carte dell’Archivio personale del card. Giuseppe Siri, che chi scrive ha potuto personalmente fotocopiare («Al Concilio Ecumenico Vaticano II», manoscritto in apgs, fald. Conc. Vat. II, xv, cart. Diaria et Acta; ora in avanti Diario). Per la consultazione dell’Archivio Siri sono particolarmente grato al card. Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, a mons. Giuseppe Betori, segretario generale della CEI, e a mons. Mario Grone, ultimo segretario del card. Siri).
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compito e la responsabilità della C.E.I. — aggiungendo — Bisogna pensare a creare gli organi necessari…»9. In seguito, Siri disegnò anche di costituire una “squadra” di fedelissimi attraverso cui agire nel consesso conciliare. In una lettera confidenziale inviata a Castelli il 29 dicembre 1962, scriveva: «Credo che la via più spiccia [per intraprendere relazioni con gli altri gruppi episcopali] sia quella di creare un piccolo Comitato composto di mons. Carraro, di mons. Carli e di mons. Calabria. Potranno aggiungersi alcuni altri. Bisognerebbe avvertirli subito. Progettino ed eseguiscano»10. Il 22 gennaio 1963 i tre prelati si incontrarono a Roma11 e stesero una sorta di piattaforma programmatica per la CEI nell’imminenza della seconda sessione del Concilio (confrontandosi con le iniziative prese nell’occasione dall’episcopato francese). Pur ritenendo prematuro «formulare giudizi sugli schemi già distribuiti ai vescovi, non sapendosi quanto di essi rimarrà dopo le decisioni della speciale Commissione nominata da S.S. Giovanni XXIII»12, i tre prelati italiani richiesero una celere riunione delle Conferenze Episcopali Regionali per esprimere una valutazione sulla prima sessione in base ad un questionario indicativo da essi suggerito. Il questionario riguardava la valutazione dell’organizzazione tecnica del Concilio, le procedure di votazione, il numero e la qualità degli interventi in assise, lo spirito generale in Aula conciliare, i vantaggi e i pericoli della presenza dei periti teologi13 e, infine, i riflessi sino a quel punto verificabili del Vaticano II a livello delle diocesi e delle parrocchie14. I risultati di tale inchiesta, una volta raccolti e sintetizzati, avrebbero di seguito giovato alla CEI nel prendere una sua posizione ufficiale nel prosieguo dell’assise. Nella sua risposta a Calabria del 5 febbraio successivo, Siri espresse la personale soddisfazione per il progetto, ma anche la preoccupazione di presentarlo alla riunione del 19 febbraio seguente, data la presenza di «due figure» (forse Guano e Montini?) 9
Testo in APGS, fald. CEI – Ass. Gen. 1959-1960, fasc. 1, Ass. Gen. del 13-15 ottobre
1959. 10
Minuta in APGS, fald. CEI – Corrispondenza 1961-1962. Cfr lettera accompagnatoria di mons. Raffaele Calabria a Siri del 2 febbraio 1963, con relativo resoconto della riunione [2 ff.] in APGS, fald. CEI, Corrispondenza 1963. 12 Cfr resoconto cit., f. [1]. 13 Cfr infra. 14 Cfr l. c. 11
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«certamente schierate su linee favorevoli a tutti i postulati che ci hanno lasciati perplessi». A rallegrare il prelato ligure vi fu però la concordia espressa dalla Santa Sede relativamente al suo discorso del 4 dicembre 1962 in Assemblea Plenaria della CEI15. L’entità e la complessità dell’impegno sostenuto da Siri nei confronti della CEI in questa prima fase del Vaticano II sono confermate da quanto egli stesso scrisse a padre Cocchi da Genova il 16 dicembre 1963: «La ringrazio anche dell’incoraggiamento che mi dà riportandomi taluni punti di vista espressi da Vescovi, di passaggio costì. In verità è stata una battaglia grossa al Concilio, perché troppa gente ci era venuta con troppo poca teologia. [...] Sono tornato un po’ stanco, perché mentre io avevo il lavoro del Concilio (dovevo guidare la azione collettiva dello Episcopato Italiano), dovevo agire fortemente su di un secondo fronte, siccome mi veniva imposto dal mio ufficio di Presidente CEI…»16. La consapevolezza dell’importanza del proprio mandato, non un impeto di protagonismo che alcuni accenti passionali del carattere potevano anche lasciare equivocare, spinse il cardinale di Genova a prendere in mano con decisione le sorti dell’episcopato italiano in Concilio17; una passione e un alto senso di responsabilità per l’avvenimento conciliare che non impedirono a Siri — uomo dell’ordine con una solida formazione dottrinale — di lamentare sovente una certa difficoltà nella macchina organizzativa 15
Copia in APGS, fald. CEI, Corrispondenza 1963. Lettera a padre Cocchi da Genova del 16 dicembre 1963, in APGS, fald. Conc. Vat. II, 1963 – VIII; i corsivi sono miei. 17 Scriveva Siri a don Brusadelli: «Esiste una sola “linea” e questa è la linea della CEI. La linea della CEI non è la “linea” del suo presidente, affatto; è la linea della assemblea ed il suo Presidente non imporrà mai a nessuno la propria linea…» (APGS, fald. CEI, Corrispondenza 1961-1962, lettera del 4 ottobre 1961, «confidenziale»). In seguito, confermò il suo punto di vista a mons. Petroni: «Mi consenta la amabilità di Vostra Eccellenza di esprimere un mio umile, ma fermo parere. V.E. parla di attribuire poteri a Conferenze Episcopali. Ciò potrebbe sembrare appetitoso per un Presidente di Conferenza Episcopale, perché sarebbe indubbiamente in suo favore. Pertanto Vostra Eccellenza mi crederà e crederà alla mia sincerità se dico che io sono contrario. Perché? Perché questo è il modo migliore di diminuire il potere dei singoli Vescovi. La storia indica come vanno le cose: nelle conferenze può accadere che alcuni prevalgano e che gli altri ritengano faticoso o rischioso opporsi» (lettera di Siri a Petroni del 25 febbraio 1963, in APGS, fald. CEI e Concilio, Pres. Siri). 16
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del Vaticano II. In realtà, lo stimolo concreto che mosse Siri alla volontà di interagire con forza sull’andamento dell’assise attraverso l’episcopato da lui condotto risiedeva in motivazioni di espresso carattere teologico e pastorale18. Già durante la fase preparatoria del Vaticano II l’arcivescovo di Genova aveva messo in luce la montante pressione degli episcopati centroeuropei (francese e tedesco in particolare) che sull’onda della nouvelle theologie tendevano a caratterizzare l’evento secondo uno spirito di “novità”, a livello esegetico (si veda la nota polemica sulle fonti tra il Laterano e Istituto Biblico19) e liturgico20, ma anche a livello teologico con una emergente tendenza episcopalista (che preludeva alla grande disputa sulla collegialità, approdata quindi alla promulgazione della Nota Praevia
18 Al caro amico padre Anselmo Fellman, il 16 dicembre 1963, scrisse: «in Concilio si agisce “teologicamente”, ossia si pongono questioni in modo teologico e cioè secondo è consentito dalle “fonti”, si trattano in modo “teologico”, si dimostrano (soprattutto) con metodo esclusivamente teologico» (in APGS, fald. CEI e Concilio, Pres. Siri). 19 Sulla complessa questione sollevatasi all’inizio del Concilio relativa al De Fontibus Revelationis, cfr R. BURIGANA, La querelle tra il Laterano e l’Istituto Biblico, in PH. CHENAUX (a cura), L’università del Laterano e la preparazione del Concilio Vaticano II, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Città del Vaticano, 27 gennaio 2000, PUL-Mursia 2001, 51-66. 20 In occasione dell’apertura della discussione in assise sullo schema De Liturgia, Siri commentò: «I soliti chiacchieroni della Commissione centrale sono saltati fuori a dire cose poco interessanti. Uno nuovo, estero, ha detto delle vere sciocchezze: nuovi riti etc.» (Diario, sub data 22 Ottobre 1962, f. 17). Le prudenze di Siri sul tema dovevano essere note; ricevette il giorno successivo (23 ottobre) una lettera di Montini esplicita e quasi esortatoria sul tema: «E ascolti, Eminenza, anche la mia umile e fraterna preghiera: veda di sostenere lo Schema sulla sacra Liturgia e non permetta che l’Episcopato italiano, per qualche debita correzione che vi possa essere introdotta, figuri come diffidente o contrario a movimento di tanta autenticità religiosa e di tanta speranza pastorale. La prego, per l’amore a Cristo e alla Santa Chiesa!» (APGS, fald. CEI e Concilio, Presidenza Siri 1962 – XIV): emerge qui chiaramente la diversa posizione tra i due prelati verso le scuole teologiche innovative (specie francese e tedesca). E ancora nel ’64, quando presentò la Costituzione sulla Liturgia, Siri avrebbe ricordato che essa «non significa affatto una rivoluzione di quello che è stato fin qui. In verità le mutazioni sono marginali, sono semplificatrici, sono di adattamento (soprattutto per quanto concerne la lingua latina) alla migliore comprensione dei fedeli sotto i diversi climi», concludendo, «come tutti possono facilmente vedere non si tratta di una rivoluzione. La Chiesa non è usa ai terremoti» (Lettera pastorale cit. del 2 febbraio 1964, in La giovinezza della Chiesa, cit., p. 110).
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da parte di papa Paolo VI)21. Un appunto inedito, relativo alla sessione del 7-17 novembre 1961 della Commissione Centrale Preparatoria, è prezioso per chiarire la limpidezza del punto di vista di Siri sulle pressioni operate verso un decentramento dalla Santa Sede: «Sono affiorati motivi “antiCuria” e persino il voto circa la definizione di una “cogubernatio Pontificia et Episcoporum in Ecclesia”. Taluni, a proposito delle “riserve dei Benefici” e d’altro hanno spinto la discussione verso una maggiore libertà dei Vescovi. È sembrata evidente da parte di taluno la dimenticanza di quanto definito già dal Concilio Vaticano I e meno evidente un certo desiderio episcopalista, che qua e là affiora. Si è delineata un’area di qualche “fermento”, la quale va dalla Francia alla Olanda, alla Germania. Lo stesso deve dirsi per la delicatissima materia della esegesi biblica. Si ritiene che una chiarezza su questi pericoli ed una tempestiva opportuna attività della Pontificia Commissione Biblica possano sistemare le questioni, che, delicate certo in se stesse, non si presentano però in forma grave. Un paragone colla preparazione del Concilio Vaticano i dimostra la molto migliore situazione in prossimità del Concilio Vaticano II»22. Il giudizio provvisorio di Siri sull’evento conciliare permaneva nella sostanza positivo, eppure proprio quelle linee di critica che trapelano in queste affermazioni si sarebbero col tempo consolidate23 — come il Diario testimonia
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Siri additò soprattutto quelle che riteneva ritornanti tendenze “scismatiche”: cfr Diario, f. 1: «In secondo luogo la croce — se così si può dire — verrà, come di solito dalle aree francesi-tedesche e rispettivo sottobosco, perché non hanno mai eliminato del tutto la pressione protestantica e la prammatica sanzione», facendo riferimento particolare alla Chiesa francese, che riunita a Bourges nel 1438 rivendicava con quel documento l’autonomia gallicana da Roma. Il problema di fondo che emergeva era costituito dal laicismo; già nella riunione della CEI a Roma dell’11 giugno 1957, aveva puntato l’indice sulle correnti di pensiero che più erano dipendenti dalle idee dei seguaci di Mounier e dal modo di intendere il rapporto tra Chiesa e mondo che l’Action Francaise aveva propugnato. 22 APGS, fald. Conc. Vat. II, Preparazione, I, Appunto dattiloscritto di Siri del 17 novembre 1961, f. [1]. 23 Nello stesso testo, al punto 2, Siri sottolineò la “macchinosità” dell’organizzazione conciliare: «Il fatto che tutti gli schemi presentati alla Sessione della Commissione Centrale sono stati più o meno rimandati alle competenti Commissioni Preparatorie per emendamenti o riduzioni indica, anche [sic] le future Sessioni, la possibilità di una certa lentezza e la conseguente esigenza di un certo sveltimento sia quanto al numero dei partecipanti, sia quanto alla organizzazione» (ibid., f. 2).
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chiaramente24 — , spingendo in fine il prelato ligure a invocare una rapida conclusione dell’assise25.
2. PROMOTORE DELLA CEI Constatati i limiti e i rischi insiti nel Concilio — oltre che il contributo positivo di questo alla Chiesa —26, Siri, uomo d’azione, passò immediatamente a coinvolgere la Conferenza da lui presieduta, che nel periodo preparatorio aveva ancora stentato a trovare un pieno senso di unità27, muovendosi secondo due direttive: la prima, ottenere un riconosci-
24 Anche se una glossa marginale di Siri, apposta sulla prima pagina dell’autografo del Diario (molto probabilmente posteriore) riporta generalmente: «Qualche giudizio qui e nelle pagine seguenti è forse non sicuro e non obbiettivo» (f. 1). 25 Solo due anni più tardi Siri fu molto più duro nel denunciare i pericoli di una lettura egemonica della collegialità episcopale, scrivendone a mons. Domenico Petroni, vescovo di Melfi: «Ho tenuto il discorso, al quale V.E. ha la bontà di alludere — riferendosi alla lettera inviatagli da Petroni del 22 febbraio precedente —, perché esiste purtroppo una tendenza “episcopalista”, la quale mira o scopertamente o sensim sine sensu a restringere la interpretazione del Primato a favore dei Vescovi. Tale tendenza è un errore manifesto, sia perché non nella giusta interpretazione della volontà di Cristo, sia perché qualunque soluzione di dipendenza verso il Romano Pontefice, diventerà ineluttabilmente e in breve volgere di tempo soluzione di dipendenza del Clero e del Laicato nei confronti dei Vescovi. Del che qua e là si ha taluna dimostrazione» (lettera di Siri a Petroni del 25 febbraio 1963, cit.). 26 Scriveva Siri nel suo Diario (f. 2): «Ho capito poco del discorso del Papa: in quel poco ho subito avuto modo di fare un grande atto di obbedienza mentale. Credo ci sia stata abbondante disorganizzazione a quel che ho visto e a quello che ho sentito dai miei segretari»). Con questo secco giudizio, Siri condivideva indirettamente la preoccupazione del card. Montini, che pochi giorni dopo avrebbe scritto al Segretario di Stato, card. Cicognani: «mi permetto richiamare la Sua attenzione sul fatto, che a me e ad altri Padri del Concilio sembra molto grave, della mancata, o almeno della non annunciata esistenza d’un disegno organico, ideale e logico, del Concilio» — sottolineando il proprio «timore che il Concilio non abbia un piano di lavori prestabilito…» (copia della lettera di Montini a Cicognani del 18 ottobre 1962 dal Vaticano in APGS, fald. Conc. Vat. II, VII, Corrispondenza). 27 Sulla vicenda e la partecipazione dell’Episcopato italiano nel periodo preparatorio del Vaticano II, cfr G. BATTELLI, Alcune considerazioni introduttive per uno studio sui vescovi italiani al Concilio Vaticano II, in Le Deuxièma Concile du Vatican (1959-1965), Actes du colloque organisé par l’école francaise de Rome, Roma 28-30 maggio 1986, Roma 1989, in
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mento dell’autorevolezza della CEI da parte della Santa Sede, appoggio giudicato “politicamente” ineludibile per poter approdare alla seconda fase, ovvero un’azione congiunta dell’episcopato italiano volta a contrapporsi efficacemente in Aula conciliare a idee e gruppi ritenuti non giovevoli alla causa della Chiesa. In una lettera-promemoria a Castelli del 29 dicembre 1962 (appuntata come “confidenziale”), Siri confermò questa sua idea circa il ruolo equilibratore a cui la CEI era chiamata nel consesso degli episcopati internazionali: «Occorre iniziare subito il lavoro di preparazione del Concilio. Noi dobbiamo partire dal criterio che tocca agli italiani far da equilibratori. Questo non ha bisogno di venire dimostrato»28. Per quanto concerne il primo punto, Siri si adoperò per ottenere dalla Segreteria di Stato un formale riconoscimento della dignità ecclesiastica della Conferenza da lui presieduta, in occasione della Assemblea generale CEI del 5 novembre 1961; cosa che gli riuscì — presumibilmente esercitando qualche pressione sui suoi contatti diplomatici (forse tramite l’interessamento del card. Ottaviani)29. Così il card. Amleto Cicognani il 18 ottobre part. pp. 272 e ss.; inoltre, P. GHEDA, La CEI e la preparazione del Concilio, in L’università del Laterano e la preparazione del Concilio Vaticano II, cit., 99-119. 28 Minuta della lettera in APGS, fald. CEI – Corrispondenza 1961-1962). Siri, al proposito, pensava anche ad un lavoro di coordinamento tra le segreterie delle varie Conferenze episcopali condotto da quella della CEI; a tal fine ipotizzò una lettera di Castelli da dirigersi a tutti i segretari «dicendo che amiamo essere in contatto con moro [sic. loro] per preparare la più svelta e serena discussione e conclusione del concilio e che amiamo a tale effetto sentire — per tenerne conto — le loro proposte» (l. c.). A breve giro di posta, Castelli suggerì al presidente della CEI di «attendere l’invio dei primi documenti da parte della Segreteria Generale del Concilio Ecumenico» per la trasmissione di tale missiva (lettera del 2 gennaio 1963 in APGS, fald. CEI – Corrispondenza 1961-1962), spostando l’accento nella strategia di coinvolgimento degli episcopati esteri dal lato prettamente politico (qui un po’ frettolosamente anticipato da Siri) a quello di un confronto sui contenuti teologici (la disanima dei documenti preparatori del Concilio); Siri, del resto, appariva al momento del tutto coinvolto nel disegno di porre la CEI in posizione egemonica: già il «tenere conto» delle proposte altrui sottintendeva un’inclinazione a voler subordinare le altre Conferenze a quella italiana. 29 Così ne scriveva al segretario Castelli: «Ne ringrazio Dio, l’avevo chiesta, facendo notare che con un pezzo di carta in mano mi riusciva più facile ottenere quello che da quasi tutti si desidera. Avevo suggerito io la formula […] che fosse tale da non compromettere la Santa Sede e tale allo steso tempo da costituire sufficiente indicazione…» (lettera di Siri a Castelli del 19 ottobre 1961 in APGS, fald. CEI, Ass. Gen. 1961-1963).
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1961 gli scrisse: «La prossima Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana mi offre propizia l’occasione per pregare l’Eminenza Vostra Reverendissima di volersi cortesemente compiacere di presentare a così alto consesso il mio devoto fervido saluto e di esprimere vivo augurio di sempre fecondo lavoro. Nel nuovo officio, che la benevola fiducia del Santo Padre ha voluto commettermi, ho già avuto modo di rilevare l’efficacia di tali periodiche riunioni, nelle quali eletti membri dell’episcopato italiano procedono ad un fraterno scambio di vedute, si comunicano esperienze, studiano i problemi pastorali, formulano proposte e suggeriscono iniziative per la loro soluzione. La funzione dell’Assemblea della C.E.I. è stata particolarmente utile in questi anni, perché ha dato modo agli Eminentissimi ed agli Eccellentissimi Presuli, che ne fanno parte, di manifestare il loro saggio giudizio sui più ardui problemi del momento. Tale funzione non ha perduto della sua importanza; ché, anzi, la delicatezza delle questioni, che tuttora si presentano, conferiscono ai degnissimi Membri dell’Assemblea maggiore responsabilità. La loro esperienza, dottrina e sollecitudine pastorale, sono la più sicura garanzia che l’Assemblea, mantenendosi compatta nella chiara linea finora seguita, in armonia con le sue nobili tradizioni, sarà pari — come lo è stata — a quelle che sono le più gravi esigenze della presente situazione»30. Siri commentò, in seguito, con Castelli: «Questa lettera è di una importanza estrema. È la prima volta che riesco ad avere una lettera in cui mi si dica su argomenti spinosi qualcosa di chiaro»31. Se il presidente della CEI aveva voluto ottenere un riconoscimento ufficiale da parte della Santa Sede che attribuisse dignità e autorevolezza all’assemblea dei vescovi italiani, ciò non era stato per un discorso di mero prestigio esteriore, ma — come detto — mirava soprattutto a porre le basi per un intervento efficace della Conferenza in sede conciliare, attraverso le necessarie approvazioni e la maturazione di una coscienza collettiva
30 Lettera di Cicognani dalla Segreteria di Stato (prot. 9624/61) a Siri del 18 ottobre 1961, in APGS, fald. CEI, Ass. Gen. 1961-1963. Siri accusò ricevuta il giorno immediatamente successivo, commentando: «La autorevole parola della Eminenza Vostra sarà di grande conforto per i Padri della Conferenza e sarà — non ne dubito — incoraggiamento a proseguire con saggia fermezza nell’opera loro» (minuta di Siri a Cicognani del 19 ottobre 1961, in APGS, fald. CEI, Ass. Gen. 1961-1963). 31 Lettera di Siri a Castelli del 19 ottobre 1961, cit.
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all’interno della stessa32. Il confronto con le altre conferenze denunciava un indiscutibile ritardo in questo senso e Siri temeva che ciò si sarebbe inevitabilmente tradotto in una prova di debolezza da parte dell’episcopato italiano anche nel confronto in Concilio, con grave detrimento per la causa da lui sostenuta in difesa del “depositum fidei’33. Già nel suo discorso d’apertura all’Assemblea Generale del 5 novembre 1961, Siri aveva spronato apertamente i membri della CEI: «È stato da più parti fatto giungere il lamento che la Conferenza Episcopale d’Italia lascia mancare delle linee direttive per le quali può rendersi concorde, forte ed efficace l’azione dei Vescovi. Tali lamentele sono venute anche da Persone autorevolissime. I Membri di questa Alta Assemblea sanno che le direttive non sono mancate e che di esse le più gravi od urgenti sono state nella loro 32 Il lavoro di Siri fu agli inizi dell’assise di natura prevalentemente “elettorale”: «La mattina del 21 mi piazzo per tempo nell’ufficio CEI e comincio collo stabilire le “carature” ossia i centosessantesimi da attribuire nelle candidature di nostra lista ai candidati degli altri gruppi. Con tali «carature» si ottiene di essere equi nella distribuzione dei posti e di essere cattolici. Linearità e giustizia anzitutto. Comincia ad arrivare qualcuno e quanti si affacciano al mio ufficio io fermo e prego di restare. In tal modo non sono solo, altri sono testimoni di quello che si fa, evito le scelte e le preferenze (la venuta è casuale per tutti eccettuato Mons. Nicodemo), ho collaboratori (Diario, ff. 10s.); in particolare su mons. Enrico Nicodemo si veda A. RICCARDI (a cura), Un vescovo meridionale tra modernizzazione e Concilio. Enrico Nicodemo a Bari (1953-1973), Bari 1989; in part. ID., Nicodemo, «Consul Dei»?, ora anche in Vescovi d’Italia, cit., 120-154; A. D’ANGELO, Vescovi Mezzogiorno e Vaticano II. L’Episcopato meridionale da Pio XII a Paolo VI, Roma 1998, 136-137 e passim. 33 Che l’atteggiamento complessivo di Siri in Concilio fosse di natura difensiva, dettato soprattutto dal timore che il patrimonio della fede potesse venirne intaccato per mano di astruse speculazioni, lo dimostra un risvolto psicologico rilevato bene dal card. Montini in occasione dell’Assemblea generale del 5-8 novembre 1961. In alcune sue «modeste osservazioni» (evidentemente richieste) sulla bozza della relazione finale di quell’assemblea, preparata da Siri, tra le altre cose, l’arcivescovo di Milano sottolineò il linguaggio “bellico” del presidente della CEI: «2) toglierei la frase “e la irriducibilità [di ogni altra ideologia od atteggiamento alla cristallina] purezza di essa [scilicet la dottrina sociale della Chiesa]” perché questa sembra non solo segnare la nostra linea, ma irrigidire quella altrui, che vorremmo invece si evolvesse verso migliori — anche se non perfette, ma graduali espressioni. 3) invece di dire “difesa dei diritti” (che la frase perciò suppone violati) — mi parrebbe meglio dire “in favore delle loro legittime aspirazioni”» (appunto di Montini dell’8 novembre 1961 in APGS, fald, CEI, Ass. Gen. 1961-1963, con relativa bozza di relazione di Siri): il cardinale di Milano mise così ben in luce l’atteggiamento “difensivistico” del confratello porporato, quale trapelava anche semplicemente dalla sua forma espressiva.
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sostanza unanimi. Le direttive ci sono state e chiare. Se le lamentele prodotte sono vere, se ne dovrebbe dedurre che non ha funzionato il meccanismo di trasmissione»34. Per meccanismi di trasmissione, Siri intendeva le presidenze delle Regioni Conciliari e le conferenze delle medesime e il richiamo che portò era teso a stabilire una coesione tra centro e periferia della Conferenza peninsulare, innanzitutto per le questioni italiane, secondo i deliberata della Santa Sede35, ma in sostanza per definire la compattezza dell’episcopato italiano, sotto la guida del suo presidente, anche in Concilio36. Il discorso “tecnico” che Siri qui affrontò concerneva 34
Discorso di Siri per l’apertura della Assemblea Generale del 5 novembre 1961, in
APGS, fald. CEI, Ass. Gen. 1961-1963, ff. 2-3 (il discorso e riportato in due diverse copie datti-
loscritte: riporto dalla più completa, presumibilmente quella letta in Assemblea da Siri). 35 «... è chiara volontà della Sede Apostolica, ed è ormai prassi delle stesse Sacre Congregazioni che gli affari relativi a tutta Italia, per quanto è possibile ed ammesso dalla legge canonica o da particolare commissione vengano trattati — al di sotto beninteso della Sede Apostolica — esclusivamente da questa Assemblea» (ibid., f. 3). 36 Siri stava elaborando — stimolato in ciò anche dall’interesse mostrato da Montini e Lercaro — un piano di consultazione dell’Episcopato italiano per decidere la strategia di intervento in Concilio; in questo senso, come risulta da un suo appunto manoscritto, aveva stilato una “scaletta” di appuntamenti per la CEI: «12 Ottobre Consiglio Direttivo per i nomi delle liste / 14 ottobre Assemblea generale dell’Episcopato italiano per la elezione [delle] Commissioni conciliari (preparatorie), alla Domus Mariae ore 10 / Subito, ivi, Assemblea CEI id[em]. / 18 ottobre adunanza CEI per la procedura da seguire nell’orientamento. Domus Mariae ore 16 / 23/X assemblea CEI per orientamento. Decisione sui gruppi esperti da consultare. Domus Mariae ore 17 / 27 Assemblea CEI» (APGS, fald. CEI e Concilio, Pres. Siri). Il programma di incontri venne rispettato, e vi fu anche chi nell’Episcopato italiano lamentò l’insufficiente frequenza (settimanale) con cui la CEI si riuniva; mons. Dino Tomassini, vescovo d’Ischia, scrisse a Siri a conclusione di questo primo ciclo di incontri: «L’attuale riunione settimanale dell’episcopato Italiano non sembra sufficiente ed efficace a tal fine: con un solo incontro di circa due ore una volta ogni otto giorni non è data, ai più che trecento Vescovi, che una possibilità puramente teorica di far udire la propria voce e far presente il proprio pensiero in una preparazione attiva degli interventi in Concilio. Sembrerebbe perciò non solo utile ma necessario utilizzare le Conferenze Regionali» (lettera dell’22 novembre 1962 in APGS, fald. CEI e Concilio, Pres. Siri). Tomassini, in seguito, propose un funzionamento maggiormente “democratico” tra base e vertici dell’Episcopato, con le Conferenze regionali impegnate a proporre una rosa di nomi per le Commissioni, a studiare autonomamente gli schemi lavorando in sintonia con le specifiche Commissioni CEI, anche attraverso il ricorso a espedienti pratici, quali l’alloggio comune a Roma per gli ordinari di ciascuna Regione conciliare; nello stesso tempo, la CEI avrebbe dovuto raccogliere e ordinare tutti gli stimoli regionali, seguire il lavoro delle Commissioni e istituire una propria segreteria
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il valore che si doveva attribuire alle indicazioni promanate dalla CEI, in quanto soggetto ecclesialmente significativo e autorevole, secondo la norma canonica, ma anche secondo la nuova sensibilità che si stava diffondendo: «Ho parlato di necessità di trasmissione: è ovvio che essa va intesa tenendo conto che le “risoluzioni” non possono ritenersi definitive, se non dopo il nulla osta della Santa Sede, siccome dispone l’articolo 7 al titolo VIII dello Statuto della CEI»37. Ma se la subordinazione alle direttive della Santa Sede restava chiaramente confermata, Siri trovò nuovi spunti per accrescere il significato delle deliberazioni della Conferenza. Da una parte la ricordata via diplomatica felicemente perseguita, «il fatto della importanza attribuita dalla Santa Sede alla CEI — della quale è tra l’altro insigne documento la lettera dello Em.mo Segretario di Stato, comunicato in apertura di questa Sessione»38; dall’altra l’interpretazione dell’articolo II dello Statuto della CEI che stabiliva: «Le risoluzioni della CEI non hanno forza di legge né per gli assenti, né per i presenti: esse devono ritenersi come suggerimenti o consigli sopra i singoli punti»39. Un articolo che — sottolineava Siri — era passibile di differenti interpretazioni: o «in modo da svuotare di contenuto, di coesione e di efficacia la azione della Conferenza Episcopale Italiana, dando luogo ad una certa anarchia in problemi sui quali si deve, per tutelare il bene della Chiesa, essere uniti»40 — e per il prelato ligure tale interpretazione veniva ormai a cadere dal confronto con l’attualità, essendo una posizione che «non può comporsi con quanto la Santa Sede suole ormai attribuire alla CEI»41. L’altra interpretazione del citato articolo dello Statuto, quella che Siri intravedeva favorevole al suo presieduta da un vescovo dedicata al dialogo con le Conferenze regionali. Alle ottime preoccupazioni di Tomassin sfuggì forse che la maggior cura del Presidente della CEI in quel frangente del Concilio era — nei fatti — quello di utilizzare gli strumenti intermedi (appunto le Conferenze Regionali) per inviare direttive ai singoli vescovi e mantenere compatto sotto la sua guida l’Episcopato italiano, piuttosto che esercitare un lungo e complesso lavoro di mediazione tra le parti e le singole proposte, come auspicava la lettura “democratica” del vescovo d’Ischia. 37 Discorso di Siri per l’apertura della Assemblea Generale del 5 novembre 1961, cit., f. 4. 38 L. c. 39 S. Congregazione Concistoriale, Statuto CEI, 1959. 40 Discorso di Siri all’Assemblea Generale del 5 novembre 1961, cit., f. 4. 41 L. c.; in termini ancor più espliciti sull’accresciuto peso delle deliberazioni della CEI,
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disegno di valorizzazione della CEI stessa, volgeva sul punto della capacità giuridica di generare obbligazioni secondo il diritto canonico. Se tale possibilità riguardo le obbligazioni “reali” (ovvero quelle «create dalla Legge o dall’uso di vera e propria giurisdizione», per la CEI doveva essere esclusa a norma dei canoni 281-282 del codice42, il presidente della CEI non vedeva in tale impedimento una restrizione assoluta alla capacità per la Conferenza italiana di emettere direttive valide. Argomentò il prelato: «L’articolo 2 del Titolo II, opportunamente decide secondo la mente della Legge canonica, ma non esclude, né — a mio modesto giudizio — può escludere altri titoli giuridici o morali, capaci di generare una obbligazione. Infatti non si può escludere il diritto naturale. Ora, altri titoli giuridici capaci di generare una obbligazione, comechessia, sono l’impegno liberamente preso, il condictum … il dovere sempre presente nei singoli della solidarietà verso altre persone per i legami di ufficio, per la parola data, per la unità di causa etc. — e concludeva — Credo che tutti questi titoli che valgono per tutti gli uomini, possano essere utilmente considerati agli effetti di impedire in momenti gravi una molteplicità di impostazioni, le quali andrebbero a tutto vantaggio dei nemici di Dio e della Chiesa»43. Più che un aggiramento Siri si sarebbe espresso nella successiva Conferenza Episcopale Ligure del 7 dicembre 1961 (cfr verbale riportato in P. GHEDA, La CEI e la preparazione del Concilio, cit., 114, nota 58). 42 «Sicché alla Conferenza come tale non rimane che per dare suggerimenti e consigli sui singoli punti» (discorso di Siri all’Assemblea Generale del 5 novembre 1961, cit., f. 5). 43 L.c. La riflessione giuridica di Siri era maturata anche attraverso il confronto con una lettera inviata da mons. Carli a Castelli il 6 aprile 1960, nella quale l’ordinario di Segni (e alleato del presidente CEI) si era chiesto — mercé una polemica con gli organi di stampa — quale fosse il reale statuto della CEI, se solo un organismo «super-episcopale», foriero di indicazioni pastorali, oppure «un organo rappresentativo dell’Episcopato italiano», per cui «le decisioni dovrebbero essere prese collegialmente: mediante periodiche riunioni di tutti i Vescovi», scelta caldeggiata dal porporato. Siri aveva risposto a Carli sostenendo che, pur non essendo la CEI contemplata nel Codice di Diritto Canonico e non potendo emanare di per sé ordini, ciò non significava precisamente che la CEI non avesse un’efficacia, perché tra il “nulla” e la capacità di generare obbligazioni giuridiche in senso stretto, doveva esistere qualcosa di medio (cfr P. GHEDA, La CEI e la preparazione del Concilio, cit., 9). In APGS (fald. CEI e Concilio, Presidenza Siri) si trova un appunto dattiloscritto di Siri relativo alla lettera di Carli del 6 aprile, dedicato alla «Natura giuridica della CEI», dove si riprende questa argomentazione e si sottolineano due punti: il primo, che la CEI «a) agisce per suggerimento della Santa Sede. In tal caso i Vescovi sanno che interviene una volontà superiore e, nello spirito Loro di obbedienza a Pietro, anche fuori dagli interventi solenni o solamente ufficiali, sanno
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delle indicazioni canoniche si vede qui la necessità di articolare norme che i tempi mutati stavano rendendo ormai inadeguate a pressanti esigenze di espressione; il principale fatto che muoveva Siri a cercare spazi di libertà d’azione e di autorevolezza sulla sua giurisdizione per la giovane Conferenza italica fu, in fondo, la convinzione che questa era anche la volontà della Santa Sede, che aveva intrapreso un nuovo atteggiamento — più responsabilizzante — nei confronti della riunione dei vescovi peninsulari. Nel saluto iniziale del citato discorso, il presidente della CEI, dopo aver ricordato il primo decennale della Conferenza, i suoi padri ispiratori (Schuster, Dalla Costa, Mancinelli), i meriti nonché i «gravi problemi» e le «responsabilità non piccole» che essa da subito aveva dovuto affrontare44, sottolineò: «Il fatto più importante verificatosi nell’ultima parte del commemorato decennio è la importanza singolarissima attribuita alla C.E.I. dalla Santa Sede, la quale trovandosi qui a Roma, per divina volontà, e pertanto in Italia, deve mantenere rispetto alle cose italiane quel rapporto di indipendenza che meglio ne assicura la funzione universale»45.
benissimo trarre le giuste conseguenze. Tale modo di intervenire della Santa Sede “mediante alio” è tradizionale e risponde legittimamente alla necessità di ottenere effetti col minimo di rumore, di responsabilità e col massimo di cautela […] b) stabilisce una linea. Essa, non arriverà certo a creare una obbligazione in senso stretto ed è ben che sia così, proprio per lasciare la necessaria elasticità che considera situazioni locali e accetta il giudizio di chi è localmente responsabile. Tuttavia nessuno può sottovalutare l’orientamento di una assemblea che accoglie i Presidenti di tutte le Regioni Conciliari, un non disprezzabile numero di Membri del Sacro Collegio e che fruisce di una tale vicinanza alla Santa Sede. Si deve tener conto del fatto che le decisioni diventano esecutive solo dopo la approvazione di “semplice massima” da parte della Santa Sede. In conclusione non si tocca certo la “soglia” della stretta obbligazione, ma non sarebbe a posto la coscienza di un Vescovo che leggermente se la passasse di una autorevole presa di posizione e dimostrerebbe di sottovalutare, contro tutta la tradizione cattolica, la saggezza collettiva. Infatti, anche solo dal punto di vista umano, la CEI rappresenta una robusta autorità magisteriale». È evidente che se Siri si mantenne come sempre ossequioso dell’ordinamento canonico e del ruolo primaziale della Santa Sede, cercava parimenti una via per attribuire la maggiore autorevolezza possibile alla Conferenza da lui presieduta. 44 Cfr discorso di Siri all’Assemblea Generale del 5 novembre 1961, cit., f. 1. 45 Ibid., f. 2. Sul processo di attribuzione di responsabilità alle Conferenze nazionali da parte della Santa Sede e sul ruolo particolare dell’Italia cfr, in generale, G. FELICIANI, Le Conferenze Episcopali, Bologna 1974.
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Allo stesso modo fu determinante l’intervento di Siri alla adunanza plenaria dell’Episcopato Italiano di domenica 14 ottobre 196246, nel quale, pur esercitando una prudenza non solo diplomatica ma di contenuto circa i rischi di un eccessivo condizionamento che poteva derivare ai singoli padri dall’assemblea, definì i margini operativi della conferenza ormai intendendola quale “entità” episcopale con un carattere soggettivo ben definito e soprattutto, nel frangente conciliare, con un ruolo strategico preciso, quello di introdurre nell’assise figure di prelati italiani che mantenessero uno spirito equilibratore tra i gruppi di pressione opposti: «La adunanza è indetta per due motivi: a) è stata consigliata autorevolmente b) è stata chiesta da autorevoli Membri dello Episcopato Italiano. Questa adunanza non intende violare il sacro diritto di ogni Padre Conciliare di esercitare la sua libera scelta e di agire secondo la sua coscienza. Ha pertanto solamente scopo informativo il quale: a) risponda al desiderio comune di essere aiutati nel compiere una scelta tanto importante; b) dia modo di avere presenti quelle considerazioni, senza delle quali la elezione potrebbe avvenire piuttosto casualmente, senza rispetto al criterio di competenza e dando luogo a Commissioni unilaterali»47. In realtà Siri mirava a conferire una maggiore “personalità” alla conferenza da lui condotta, come risulta più riservatamente, nello stesso Diario48. 46 Per quanto riguarda le riunioni plenarie dell’Episcopato italiano al Concilio, cfr F. SPORTELLI, I vescovi italiani al Vaticano II: il ruolo della CEI, in Rivista di Scienze Religiose XII/1 (1998), Appendice: Ordini del giorno delle riunioni plenarie dell’Episcopato italiano a Roma per il concilio Vaticano II (1963-1965), 56-62. 47 Questo testo «Elezione Commissioni Conciliari – C.E.I.», che è richiamato da Siri nel suo Diario (f. 9, sub data 16 ottobre 1962), l’ho reperito non allegato al diario, in APGS, fald. CEI e Concilio, Pres. Siri 1962 – XIV. 48 «Parte informativa: Il Consiglio Direttivo della C.E.I., anche dietro invito di molti Padri, ha redatto una lista nella quale sono stati inclusi dei nomi ratione competentiae. Questa lista è in mano dei Padri. Credo si debba aggiungere qualche nome. Il Consiglio Direttivo ha risolto di chiedere a fonti competenti e cioè anzitutto ad altre maggiori conferenze nazionali di voler far conoscere un certo numero di loro Membri che sono ritenuti competenti. In tal modo la indicazione viene da fonti che si debbono ritenere obbiettive. Soprattutto, si agisce nella chiarezza. Criteri 1 – Senza Compattezza non riescono eletti candidati 2 – perché i pochi candidati italiani proposti riescano, bisogna siano eletti anche da altri gruppi. Questi daranno il voto, se sapranno che anche noi votiamo i loro. Pertanto bisogna fare e sarà fatta da tutti i nominativi [esteri] proposti una lista, la quale, senza eccedere i limiti detti — per onestà — risponda a tale criterio e dia garanzia loro,
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Il presidente della CEI si presentò all’adunanza con un foglio di appunti relativo a domande che sperava venissero accolte dai confratelli italiani presenti: «È stato chiesto si facciano adunanze dello Episcopato: a) per orientarsi nelle decisioni conciliari b) per illuminarsi a vicenda e poter ciascheduno ottenere vicendevolmente informazioni e nozioni; c) per non restare indietro rispetto agli altri gruppi che sono attivi assai. Aggiungerei che più esiste questo lavoro fatto da tutti i gruppi e più si eviterà il formarsi in concilio di gruppi di pressione. Ciò lascerà maggiore autorità e libertà ai Padri conciliari. Si chiede la opinione in merito / Procedure: — adunanze plenarie? — sistema di gruppo con invito a chi vuole venire? — stabilire calendario di tali gruppi? — pregare qualcuno che in tale gruppo riferisca per illuminare i Padri? — determinare i relatori per il Concilio in modo da evitare lungaggini nella esposizione e sempre salva a chiunque la libertà di parlare secondo il dettame della sua coscienza? — stabilire un gruppo di studio per preparare sempre tutto questo? [a mano, glossava il foglio] gradualità, singole conferenze, CEI»49. L’impegno di mantenere unito l’Episcopato italiano derivò quindi in Siri soprattutto dalla consapevolezza della solidità delle conferenze straniere; il compito precipuo del gruppo italiano sarebbe dovuto essere quello di soggetto equilibratore, tale da impedire lo spadroneggiare in Concilio dei citati “gruppi di pressione”50. Un particolare stimolo per Siri su questo tema venne, in seguito, dal vescovo di Verona Carraro, che nella prima fase dell’assise doveva avere acquistato una certa autorevolezza, tanto da essere posto alla guida di un gruppo di prelati italiani che doveva contrapporsi ai francesi. Questi, il 4 ottobre 1963, inviò al presidente della CEI un dattiloscritto di 3 pagine «Sul funzionamento della Conferenza Episcopale Italiana nel periodo conciliare»51, documento che dovette essere foriero di qualche stimolo per il prelato ligure; nella lettera, Carraro stigmatizzò «un certo torpore da parte assicurando il loro appoggio ai candidati. Tale lista viene raccomandata per le ragioni addotte. Concludendo: Quanto detto non è per restringere una libertà, ma per aiutare ad ottenere un effetto che sia ordinato e utile all’andamento del Concilio, che sia soprattutto alieno da qualsivoglia spirito di parte» (l. c.). 49 Appunto di Siri in APGS, fald. CEI e Concilio, Presidenza Siri 1962. 50 Scriveva in quei giorni sul Diario: «Continuo a organizzare: si decide l’incontro coi francesi e capeggerà i nostri Mons. Carraro» (f. 39 sub data Lunedì 19 Novembre 1962). 51 Dattiloscritto in APGS, fald. Conc. Vat. II 1963 – VIII, f. [1].
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di alcuni, forse troppi, Vescovi italiani», che avrebbe diminuito il grado di incisività del gruppo italiano in Concilio. Nelle sue «umili proposte» partecipate a Siri, il vescovo di Verona insisteva su alcuni punti: fissare un calendario di riunioni periodiche delle Conferenze Regionali per il Concilio, con ordini del giorno fissati sugli schemi in discussione al momento; conseguentemente, fissare un calendario di riunioni del Comitato Direttivo della CEI, con all’ordine del giorno le sintesi dei lavori regionali sugli schemi presentate dai legittimi rappresentanti, nonché eventuali proposte di interventi di singoli Padri in Aula concertati; infine, completare un calendario «almeno di massima» delle Assemblee Generali della CEI, con una sistematica trattazione dei singoli schemi, preferibilmente a cura dei vescovi italiani facenti parte delle relative Commissioni52. Quindi, anche Carraro propose un coinvolgimento della “base” episcopale italiana (mediante le Conferenze Regionali), ma in ogni caso, sarebbe stato il Comitato Direttivo a filtrare ed orchestrare la discussione per l’Assemblea Generale.
3. SIRI E I “PERITI” Che l’atteggiamento del presidente a favore di una CEI “forte” fosse dettato da una autentica preoccupazione di opporre una ferma guida — a suo giudizio rappresentata soprattutto dalla tradizione teologica italiana, a possibili derive, e non da una semplice promozione “politica” e antagonista della istituzione che guidava, lo prova anche la sua preoccupazione di dare vita a una squadra di “esperti”, i cosiddetti periti conciliari53 che da tale 52
Cfr ibid., f. [2-3]. Al vescovo di Treviso, mons. Antonio Mistrorigo, Siri confidò come avesse di sua iniziativa attivato i vescovi italiani per radunare un gruppo di teologi periti della CEI: «Era necessario anche gli Italiani avessero un gruppo. Ho pensato di farlo a puro titolo personale, per evitare lungaggini ed altro. Chiesi ai Vescovi coi quali ebbi contatto gli ultimi giorni a Roma (prima della chiusura di sessione) un orientamento per la scelta in tutta Italia» (APGS, fald. Conc. Vat. II, VIII, 1963). In una sua lettera a Castelli del 29 dicembre 1962 (APGS, fald. CEI – Corrispondenza 1961-1962), Siri richiamò l’attenzione del segretario sulla necessità di istituire un équipe di periti («gruppo studi»); di seguito, Castelli gli rispose comunicandogli una lista di possibili periti: «… Le manderò al più presto, per l’approvazione e il completamento da parte di Vostra Eminenza, i nomi dei Teologi che potrebbero formare il «Gruppo Studi» (lettera cit. del 2 gennaio 1963). 53
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scuola provenissero, onde contrastare le pressioni teologiche, specie francotedesche54 .Una cura particolare, in assise, Siri la dedicò alla presenza dei 54 La convinzione di Siri della necessità che la CEI si avvalesse di periti teologi durante il Concilio (soprattutto per contrastare gli agguerriti esteri) fu condivisa dall’arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini. Questi, amico fraterno di Siri, era stato in precedenza rettore della Università del Laterano, di cui condivise molte prudenze durante il Concilio (sul suo ruolo durante l’assise e in particolare sulla sua posizione intransigente circa il De Fontibus Revelationis, cfr F.M. STABILE, Il Cardinal Ruffini e il Vaticano II. Lettere di un “intransigente”, in Cristianesimo nella storia 11 [1990] 85-87); a Ruffini, Siri scrisse il 6 aprile 1963, lamentando la mancanza di una «forte schiera di Teologi seri e sicuri» italiani, affermando, senza mezzi termini: «Abbiamo tutti rimarcato il danno di non avere tale équipe, mentre tutti abbiamo visto il predominio anche smaccato, goduto da chi aveva una équipe al proprio servizio» e lo informava di avere già avuto approvazione dal segretario di Stato; il cardinale gli replicò da Palermo il 24 aprile 1963: «Convengo con V.E. che sarebbe opportuno mettere a disposizione dei Vescovi italiani — nel Concilio — un gruppo di teologi seri e sicuri» — tra i potenziali candidati Ruffini, nella medesima lettera, segnalava vivamente mons. Antonio Piolanti, rettore della Lateranense, carica anche da lui stesso occupata in precedenza (APGS, fald. Conc. Vat. II, I, Preparazione). Sorprendentemente, lo stesso mons. Florit di Firenze scrisse a Siri poco dopo, il 7 agosto, sulla questione, facendola passare come una sua personale idea: «Colgo l’occasione per esprimere a Vostra Eminenza un mio modesto parere: non sarebbe bene che anche la CEI avesse a disposizione un numero di periti conciliari ben qualificati e possibilmente a cominciare dal prossimo incontro. Gli impegni pastorali non permettono a noi Vescovi di poter dedicare ai lavori del Concilio il tempo che sarebbe necessario e pertanto dei buoni periti sarebbero di valido aiuto. Del resto così fanno quasi tutti gli episcopati nazionali…» (APGS, fald. CEI, Corrispondenza 1963). Siri rispose naturalmente che già da tempo era al lavoro per radunare tale gruppo di esperti, qualificati e intelligenti, ma che faceva fatica, anche per la resistenza di qualche ordinario a concederli; e concludeva: «Non credevo fosse cosa tanto difficile. Ma continuo nei miei sforzi e ringrazio di avermi confortato in essi» (risposta di Siri a Florit [minuta] del 10 agosto 1963 in APGS, fald. CEI, Corrispondenza 1963). Siri inviò lettere simili di sensibilizzazione per i periti italiani anche a mons. Mistrorigo (cfr risposta del vescovo di Treviso — il quale suggeriva il nome del teologo don Giuseppe Pelloso — a Siri del 9 aprile 1963, e contro risposta di Siri dell’11 aprile seguente in l. c.); a mons. Carraro (cfr in l. c. risposta del vescovo di Verona — il quale gli indicò i nomi di Luigi Sartori, Pietro Rossetti, e Isacco Meggiolaro — dell’8 febbraio 1963 e sua contro risposta del giorno successivo, dove affermava: «L’orientamento obbiettivo, rispettoso di quanto sempre la Chiesa ha creduto ed insegnato, scientifico proprio perché alieno dall’ammettere confusioni create da mere ipotese da altri eterogenei motivi, è fondamentale per la costituzione di un solido gruppo di studiosi. Se si deve dare un’etichetta, essa può essere questa: il Presidente della CEI intende preparare gli strumenti valevoli per l’Episcopato Italiano, come hanno già fatto altri Episcopati» — alla lettera accompagna un «Nota» per la richiesta di un teologo «di sicurissima adamantina e pugnace ortodossia»). Due appunti di telefonate con Castelli (presumibilmente risalenti alla prima sessione) contengono
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periti in Concilio, che volle costituire come parte in causa della rappresentanza italiana, col fine precipuo di contrastare il crescente predominio di quelli d’oltralpe55, da lui giudicati pericolosi per le posizioni teologiche troppo innovatrici e poco attente al primato della Santa Sede. Per questo ribadì l’importanza della piena consapevolezza da parte dei padri conciliari dei temi teologici trattati nell’assise56. Nel complesso, il cardinale di Genova vide i periti sempre più come i veri egemoni del Vaticano II, sovente elenchi di potenziali esperti per la CEI: vi si fanno i nomi — tra gli altri — di Boyer, Piolanti, Maccarrone, Molari, Betti, Carlo Colombo, Luigi Sartori, Luigi Rossi, Pietro Rossetti, Francesco Padalino e Angelo Noto (cfr APGS, fald. CEI e Concilio, Pres. Siri) 55 A un teologo consigliatogli da mons. Carraro di Verona (Sartori?, Pietro Rossetti?), Siri inviò un promemoria-tipo, illustrante lo scopo del gruppo di teologi italiani e i suoi «punti di orientamento»; uno schema innanzitutto mentale, tutto improntato in chiave “difensivistica” nei confronti degli episcopati transalpini. Per Siri, infatti, i periti scelti per rappresentare la CEI avrebbero dovuto nell’ordine: «1 – avvertire nettamente la combinata manovra, che ha queste tappe: snervare la Sacra Scrittura, inde costringere in forme più difficili e rare il Magistero, decentrare il potere papale non con proposizioni contrarie alla Verità definita, ma collo estenuare la Curia Romana organo necessario dello esercizio del Primato, pertanto costruire tutta una Teologia Nuova […] 2 – avvertire chiaramente che l’attacco alla Tradizione esiste e che esiste l’attacco alla Bibbia e che tale attacco è fondamentale e nasce dalla stessa ragione istoricistica e razionalista, dalla quale è parzialmente almeno sgorgato il modernismo (!) 3 – Avvertire che si vede netto l’orientamento a costituire una conduzione del Concilio, se non della Chiesa addirittura, da parte di alcune persone della area di lingua francese ed alto e basso tedesco. 4 – Avvertire che in Italia esiste abbastanza leggerezza ed abbastanza infatuazione dello straniero, perché molti nella migliore buona fede non capiscano tutto questo, aiutati anche dalla deplorevole divisione operatasi a causa delle questioni politiche» (Promemoria «Gruppo teologi» con lettera accompagnatoria di Siri a un teologo professore, minuta dattiloscritta s.d., in APGS, fald. CEI e Concilio, Pres. Siri). 56 Nel suo appunto di intervento per la riunione CEI del 25 ottobre 1962, Siri scrisse: «la discussione va presa con senso di riconoscenza a tutti coloro che dicono qualcosa, perché aiutano tutti i singoli a chiarire bene le idee. vedere in osservazioni fatte con sincera buona fede, dei partiti presi, non è confacente allo stile del Concilio. Pretendere delle approvazioni a priori è ugualmente alieno allo stile di un Concilio, pertanto bisogna desiderare che la più accurata critica si faccia allo scopo di migliorare il testo» (APGS, fald. CEI e Concilio, Pres. Siri). Il presidente della CEI voleva soprattutto indicare ai vescovi italiani la bontà di fondo dei testi conciliari proposti in Aula, al fine di evitarei eccessive critiche o rifiuti drastici. Siri alluse a un giudizio esercitato «solo dal livello della Chiesa universale e non dal livello di una particolare situazione» (l. c.). La cura del cardinale di Genova era come sempre indirizzata ai potenziali esiti sul piano teologico degli interventi di giudizio dei Padri: «si attenda bene che dalla accettazione o reiezione di qualche emendamento dipenderà se si incoraggia o meno qualche tentativo nel campo teologico. E questo è il punto» (l. c.).
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giudicati incapaci, a volte nemmeno sottoposti al controllo dei relativi ordinari, che sarebbero dovuti essere garanti della correttezza teologica delle loro conclusioni57. Scrisse a padre Fellman: «... Sempre nella prima sessione del Concilio si è notata la grande influenza di persone ed organismi, degni di ogni considerazione — come Teologi ed Università — ma che non avevano voce tra i Padri del Concilio. Il fatto va analizzato alla luce dello indiscutibile principio che giudici, sono i Padri e non gli altri. La espressione di Teologi, fattisi loquaci in clima conciliare va accuratamente filtrata da coloro ai quali lo Spirito Santo ha commesso di regere [sic] la Chiesa di Dio»58. Conseguentemente a questo atteggiamento protagonista e vagamente “teatrale” degli esperti teologi andava conformandosi anche il rapporto tra assise e mondo della stampa. Siri denunciò ripetutamente le continue esternazioni dei partecipanti al Concilio59, che ne facevano ai suoi occhi più uno spettacolo che un momento di profonda e intima riflessione all’interno della Chiesa. Questa sensazione montante — oltre all’estremismo con cui venivano trattate questioni delicate (come, ad esempio, la collegialità, il primato del papa …)60 — fece avvertire al cardinale di Genova sempre più 57
Scriveva a padre Fellman: «Molti Prelati si sono messi in mano di loro teologhelli o periti, talvolta di pochissimo reale valore, talvolta già bastonati dal Santo Ufficio e con la volontà di vendicarsi del medesimo» (lettera del 16 dicembre 1963, cit.). 58 L c. 59 «Le espressioni di stampa hanno raggiunto modanature assai libere e qualche volta preoccupanti anche per il poco rispetto del segreto conciliare. Al segreto conciliare è legata la libertà dei Padri e del Concilio stesso» (l. c.). 60 «In talune questioni le espressioni hanno raggiunto toni estremisti, che non possono non preoccupare chi conosce la logica con cui si legano tra loro verità ed errori...» (l. c.). In particolare Siri si attivò sul confronto tra la collegialità e il primato petrino, che trovò sbocco nella Nota Previa specialmente riservata al S. Padre sullo «Schema Constitutionis De Ecclesia», firmata da 19 cardinali, esprimenti una minoranza conciliare, e fatta pervenire la sera del 13 settembre, alla vigilia dell’apertura della III sessione, a Paolo VI (le votazioni sullo schema riguardante la Chiesa iniziarono il 16 settembre 1964, mentre quelle sul c III cominciarono il 21 settembre e furono 39, concludendosi il 29 settembre. Cfr G. CAPRILE, Il concilio Vaticano II, IV, Roma 196?, 101ss). Nella Nota si esprimevano riserve sul terzo capitolo dello schema circa i temi del primato petrino, della collegialità e l’origine del potere di giurisdizione episcopale. Cfr G. CAPRILE, Contributo alla storia della nota explicativa praevia, in Paolo VI e i problemi ecclesiologici al Concilio, Brescia 1986, 587697 (riporta le lettere inedite sulla nota praevia); cfr, inoltre, ID., Aspetti positivi della terza sessione del Concilio, in La Civiltà Cattolica 116/1 (1965) 317-341. Il capitolo oggetto della Nota Praevia concerneva il tema della collegialità e i suoi rapporti con il primato papale. Siri
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intensamente la necessità di una celere chiusura del Vaticano II, per evitare degenerazioni e possibili ingerenze anche rispetto al giudizio dei Padri. Alla base. di queste considerazioni stava la convinzione di Siri circa la responsabilità della Chiesa in quanto garante delle verità di fede: «Noi dobbiamo custodire il depositum fidei. Qualunque sia lo scopo santissimo che ci si prefigge — come ci è stato prefisso — non possiamo non compiere il nostro dovere allorché la verità patisce qualche danno»61. Ancora prima dell’inizio del Concilio, aveva confidato a don Brusadelli, aprendo il proprio cuore in una lettera «strettamente personale»: «Ci sono poi quelli che debbono far “camminare la Chiesa”. Ma, verso dove? Deve essa impazzire come gli altri? Il cammino della Chiesa è verso un maggiore distacco del cuore dai beni terreni, verso maggiore umiltà obbedienza pazienza sacrificio dedi— preoccupato dalle influenze d’oltralpe che vedevano nella collegialità episcopale una capacità di potere autonomo derivante dalla consacrazione, in sostanza minante l’universalità del potere del pontefice — ne aveva solo pochi giorni prima scritto al papa, argomentando che «se Questo [scil. il papa] infatti, per costituzione divina, nell’esercizio del suo potere supremo è unito al Collegio Episcopale, sembra logico concludere che Egli non potrà agire validamente se non collegialmente». Siri, per risolvere, suggerì di avvalersi del can. 222, par. 2, secondo il quale al papa «spetta in modo esclusivo decidere quali materie debbano trattarsi nel Concilio», per evitare il tema definendolo “immaturo’ per una definizione conciliare, e ricordò come tale prassi fosse già stata seguita in occasione del Concilio di Trento e del Vaticano I. La minuta della lettera riporta la data, cassata, del 14 luglio ’64 — una risposta di Montini del 7 settembre accusa ricevuta di una lettera di Siri del 29 agosto, che dovrebbe essere la stessa (magari ritoccata, le due lettere sono state trovate nel medesimo fascicolo). In tale risposta, il papa, pur esprimendo stima per lo zelo del prelato ligure, non accoglieva l’osservazione di Siri, appoggiandosi alle «studiatissime conclusioni della Commissione teologica, le quali rendono difficile accogliere il suggerimento, indicato con la lettera b) (cfr APGS, fald. Conc. Vat. II, I, Preparazione). Infine, il 16 luglio 1964, apparse sulla «Rivista Diocesana Genovese» una precisazione dottrinale di Siri indirizzata al clero della sua diocesi, Nota sulla collegialità, per contrastare «le facili affermazioni, non corroborate da sano criterio teologico» (cfr La giovinezza della Chiesa, cit., 113); in essa si ribadì la dottrina del primato, e si valutarono alcune ipotesi interpretative riguardo il concetto teologico di «collegialità», salvando quella (la quinta), la quale affermava che «i vescovi costituiscono un collegio late dictum. Essi formano certamente un’unità quando con Pietro, sotto Pietro e mediante Pietro, vengono raccolti perché con lui si pronuncino su qualche questione» (ibid., 116). Siri concludeva confermando la sua tipica prudenza sul tema della collegialità, la quale veniva esaltata da chi era desideroso di innalzare la dignità episcopale, ottenendo invece l’effetto contrario. 61 Cfr lettera di Siri a padre Fellman del 16 dicembre 1963, cit.
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zione. È il progresso dei primi apostoli e per gli apostoli scagionati nei secoli, di progresso vero, non c’è che questo. Il rimanente è strumentalità, […] che è effimera e che non va mai presa sul serio più di quanto si prenda sul serio la scopa con cui si pulisce in terra»62. È questo un Siri in veste “non ufficiale”, che dava libero sfogo alla sua idea di Chiesa, quell’idea che con maggiori prudenze stava cercando di far affermare anche in Concilio, soprattutto mediante l’episcopato da lui diretto. È evidente come il presidente della CEI tenesse ad avere in aula conciliare una discussione appropriata, così come avvertisse la necessità di fornire all’episcopato italiano da lui diretto una rappresentanza teologica significativa. L’amico card. Ruffini che, come detto, condivideva appieno le sue cure, gli scrisse questo commento: «In realtà, secondo il mio umile parere, alcuni Padri, tra gli Esteri, che, senza aver approfondito personalmente la questione, si sono fidati dei loro teologi, non hanno fatto la migliore figura; è però utile usare i loro stessi mezzi per essere almeno alla pari ...»63.
4. IL DECLINO Al di là di alcune oscillazioni momentanee, il Siri della prima parte del Concilio (sin dalla elezione delle commissioni conciliari64, la prima
62
Lettera di Siri a Brusadelli del 4 ottobre 1961, cit. Lettera cit. di Ruffini a Siri del 24 aprile 1963. Il tema dell’individuazione dei periti era già presente nel promemoria di Siri del 12 ottobre (cfr supra, nota 55). In seguito, il presidente della CEI, pur rifacendosi all’ordine del giorno fissato nelle precedenti riunioni del 18 e 22 ottobre, aggiunse una comunicazione relativa alla costituzione di due gruppi di esperti, uno per lo schema sulla Sacra liturgia e l’altro per la «materia teologica», con la finalità di «presentare le considerazioni, le più obbiettive possibili, perché i Padri possano avere a loro disposizioni [sic] elementi di giudizio. Ognuno resta libero. I componenti dei gruppi sono stati designati dalla Assemblea CEI» (APGS, fald. CEI e Concilio, Presidenza Siri 1962). Se l’orientamento sul tema liturgico appariva a Siri «in sostanza abbastanza unitario», per cui si trattava unicamente di giocare sull’equilibrio tra troppo o troppo poco cambiamento, egli rincuorava ad attrezzarsi per l’ormai imminente discussione sul primo schema teologico (cfr l. c.). 64 Come Siri stesso ricorda nel suo Diario (sub data 12 Ottobre – Venerdì 1962, f 5\13), vi fu la questione delle due liste presentate dall’Episcopato italiano, la prima 63
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sessione e sino all’avvento al soglio pontificio di Montini), fu e volle essere figura protagonista nel contesto dell’indirizzo che andavano assumendo i lavori conciliari; era a capo dell’episcopato più numeroso — sebbene ancora in fase di organizzazione interna; si trovava in forte relazione con alcune delle figure chiave della Santa Sede (come il card. Ottaviani); godeva, infine, della stima e soprattutto di un certa libertà di manovra da parte di papa Roncalli65, un atteggiamento che rientrava nel disegno complessivo della Santa Sede di delegare alla CEI la cura degli affari italiani66. I successivi sviluppi del Concilio, e soprattutto l’improvvisa morte di Giovanni XXIII erano destinati a far declinare progressivamente l’influenza di Siri sull’episcopato italiano. Ancora un “colpo d’ala”, Siri lo diede nel suo discorso tenuto alla CEI riunita in Assemblea straordinaria per il Concilio il 27-28 agosto 1963 — proprio la circostanza per la quale Montini novello papa aveva inviato la sua celebre lettera all’episcopato italiano67 —, denunciando alcuni elementi di turbamento che stavano pericolosamente incombendo sui lavori conciliari: «2) Nella prima sessione si è potuto rilevare il fatto che una non grande parte della Chiesa, più largamente dotata di mezzi culturali ha esercitata una influenza che potrebbe essere anche da taluno ritenuta superiore alla effettiva portata…»68.
stampata e presentata il 14 ottobre, la seconda ciclostilata e distribuita in extremis cfr B. Lai, Il papa non eletto, cit., 184-187. In APGS (fald. CEI e Concilio, Presidenza Siri) ho reperito una copia di nominativi di Italiani delle «Altre Commissioni»: Vescovi e Diocesi (anche Castelli e mons. Giovanni Ferro), Disciplina del clero e del popolo cristiano (anche Nicodemo), Religiosi (anche Tinivella), Disciplina dei sacramenti (anche Fares e Calabria), Sacra liturgia (anche Carlo rossi, Guano e Mistrorigo), Seminari (anche Giovanni Colombo), Chiese orientali, Missioni, Apostolato dei fedeli (anche mons. Amici). 65 Siri provò sempre una profonda devozione per Roncalli, alla quale accompagnava però la preoccupazione che lo spirito elevato di Giovanni XXIII potesse mancare di praticità. Nella sua deposizione per la causa di beatificazione del papa bergamasco si legge riguardo all’indizione del Concilio: «Certamente ebbe un’idea semplice, credo pensasse che in pochi mesi tutto si finisse: lui ripeteva sempre “Bisogna guardare all’altra sponda”! (Il Paradiso)» (Summarium super virtutibus, vol II, pars I, 1130, teste unico card. Giuseppe Siri). 66 Come disse lo stesso Siri nel suo discorso di insediamento alla presidenza della CEI, il 13 ottobre 1959; cfr supra, nota 9. 67 Cfr infra, nota 73. 68 APGS, fald. CEI, Corrispondenza 1963, schema dattiloscritto di Siri per l’Assemblea straordinaria CEI del 27-28 agosto 1963.
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Siri, nel frangente, confermò i suoi timori verso gli episcopati transalpini69 e la loro visione teologica giudicata troppo innovativa e quindi pericolosa (per quanto cercasse apparentemente di mitigare il tenore delle sue espressioni, negando di parlare apertamente di un «gruppo di pressione»70); certo qui la sua azione — per quanto sempre dettata da nobili intenzioni e da un’inossidabile fedeltà alla Sede pontificia — più che entrare nel merito delle questioni teologiche e pastorali, tendeva ad esercitarsi a livello “politico” nel contesto dell’assise, ovvero giocando sull’equilibrio mediante contrapposizione tra i gruppi, soprattutto nelle votazioni. Un atteggiamento di “defensor fidei”, che certo le dense problematiche sollevate in Aula conciliare nel succedersi delle congregazioni aveva acuito, ma che in fondo era parte costitutiva del suo carattere umano prima ancora che ecclesiastico; un timore quasi istintivo provato nel confronto con le altrui posizioni che costituì innegabilmente un limite quando si impose la necessità di affrontare una sana dialettica per sostenere il progresso della Chiesa. In quest’ottica è interessante notare come fosse stato proprio il card. Montini a rilevare questo atteggiamento psicologico nel prelato ligure, e in 69 Siri teneva molto a riuscire ad operare un confronto “ad armi pari” con i temuti episcopati transalpini. Un’annotazione del 30 ottobre illustra la sua strategia di comportamento con i rappresentanti degli altri episcopati: «1 – Occorre anzitutto individuare i raggruppamenti: a) desiderosi solamente di avere rapporti e conoscerci o farsi conoscere; b) desiderosi di essere pilotati; c) gruppi erranti e in contatto con centrali europee. — ed esplicitava — 2 – Al primo gruppo appartengono i FF. [francesi] e i TT. [Tedeschi]; al secondo i Fil. etc forse anche dei NN.; al terzo frazioni brasiliane ed argentine etc. 3 – Occorre subito individuare uno o più dei nostri per i singoli “tipi” di gruppo, cominciare a presentarli ed introdurli, dare ai medesimi un orientamento che possa riuscire positivo e seriamente producente. 4 – I Rappresentanti per il primo tipo debbono essere i più ferrati, fermi ed abili: soprattutto i più sicuri, affinché non ci smarriscano un po’ essi stessi. Sono essi che “con metodo diverso” (si parla dei Rappresentanti in genere) debbono far avere gli elaborati dei gruppi esperti. 5 – È bene cominciare subito, in questi giorni» (APGS, fald. CEI e Concilio, Presidenza Siri 1962). 70 «È ben lungi da me il ritenere che questo possa rassomigliarsi alla costituzione di un “gruppo di pressione”, ma ritengo che sia meglio intervenire per aversi una più equilibrata distribuzione di influenze» (schema dattiloscritto di Siri per l’Assemblea straordinaria CEI del 27-28 agosto 1963, cit.). Ma pare più probabile che piuttosto di una convinzione personale, questa limitazione fosse una cautela che Siri usava per non allarmare troppo il suo episcopato, dove sapeva non esserci concordia unanime sulla sua posizione difensiva verso gli episcopati transalpini.
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tempi non sospetti, prima dell’inizio del Vaticano II, desumendolo semplicemente dal suo stile di scrittura71. Ufficialmente un esaurimento nervoso72, che lo costrinse forzatamente a tenersi lontano per qualche tempo da Roma, chiude questo primo periodo, e il Siri che si legge nei documenti dopo il suo ritorno in assise è figura ben diversa, anche in concomitanza con l’ascesa e il progressivo controllo sull’episcopato peninsulare esercitato da papa Montini73. A venir meno fu il piglio direttivo del cardinale di Genova — certamente anche alle prese con impedimenti personali di carattere fisico — tanto da spingere il segretario della CEI mons. Castelli a prendere in mano la situazione. Questi infatti, il 3 febbraio 1964 sollecitò al suo Presidente il prosieguo delle 71
Cfr supra, nota 33. Siri in una risposta a mons. Tinivella, vescovo coadiutore di Torino del 19 febbraio 1964, gli aveva ricordato: «In questo periodo sono stato colpito da una influenza maligna, che mi ha impedito e tuttora (sono convalescente) mi impedisce di recarmi a Roma» (APGS, fald. CEI – Ass. Gen. 1961-1963). Ancora il 4 marzo successivo, scriveva a mons. Fenocchio, vescovo di Pontremoli: «Leggo la sua lettera e condivido pienamente preoccupazioni ed intenti a proposito del Concilio. Me ne sono occupato in modo tale che ora debbo curarmi per un forte esaurimento nervoso» (APGS, fald. CEI – Corrispondenza 1964-1965). Fu assente anche nella assemblea plenaria dell’Episcopato italiano del 14-16 aprile 1964 alla Domus Mariae, quando la Conferenza Episcopale Italiana incontrò papa Montini, che nel suo discorso ricordò così l’allora presidente: «Ci duole di sapere indisposto, e perciò assente, il Signor Cardinale Siri»; cfr Paolo VI. Discorsi ai vescovi italiani (a cura di C. Ghidelli), Quaderni dell’Istituto Paolo VI, Brescia 1997, 2. Dal Diario si deduce una persistenza della malattia (cfr sub data 27 settembre 1964), e ancora il 6 novembre 1964: «Io sono in parte immobilizzato dalla mia situazione di convalescente e reduce da terribili crisi di labirinto, anche perché le ondate nervose in taluni giorni si manifestano con una grande fiacchezza fisica. Faccio però quello che posso e presiedo io le adunanze della C.E.I.(ibid., sub data 6 novembre 1964). 73 Il primo intervento da papa di Montini nei confronti della CEI fu la ricordata lettera inviata a Siri il 22 agosto 1963 e distribuita con vincolo di segretezza a tutti i membri della Conferenza, in occasione della riunione plenaria dei giorni 27-28 agosto successivi; un documento in cui Paolo VI richiamava la CEI al suo impegno religioso e pastorale. Cfr copia a stampa conservata in APGS, fald. CEI, Corrispondenza 1963, con sottolineature di Siri: al secondo punto della lettera di Montini, concernente il Concilio, Siri evidenziò in particolare dove il papa insiste sull’importanza dell’Episcopato italiano, in ragione «del numero dei suoi membri, sia del fatto della sua vicinanza locale e storica alla Santa Sede, sia del suo esempio, a cui altri Vescovi possono guardare con influsso sul proprio comportamento» (ibid., 13-14); una sottolineatura della responsabilità della CEI, da parte di papa Montini, che non poteva non stimolare positivamente il prelato ligure. 72
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attività della Conferenza per il Vaticano II: «Eminentissimo Principe, da alcuni giorni mi gira per la testa la proposta di cui ecco che Le scrivo. Riterrei conveniente, per la prima settimana di marzo, una Assemblea generale di tutto l’episcopato italiano, in primo luogo per trattare dei due decreti conciliari, poi per la terza sessione del Concilio. La riunione potrebbe durare tre giorni. Mons. Amici potrebbe riferire e proporre sul decreto delle Comunicazioni Sociali e il Card. Lercaro74 su quello della Liturgia75. Tutti i Vescovi faranno le loro proposte, e si procederà alla elezione delle commissioni necessarie, che le voteranno secondo le indicazioni che l’assemblea darà. — e ancora — In questo mese le conferenze regionali potranno radunarsi, e portare il loro pensiero sugli schemi del Concilio. Ma forse sarà meglio che tutto si faccia, quanto alle conclusioni, davanti a tutti»76. Castelli aveva preso in mano la conduzione della conferenza, pur restando fedele al suo presidente, ora limitato e privato del suo distintivo piglio di comando. Sempre corretto, il segretario della CEI specificava: «Naturalmente, se Vostra Eminenza vorrà, bisognerà chiedere il benestare almeno del Consiglio Direttivo della C.E.I., e il permesso della 74 Arcivescovo di Bologna. Su di lui, cfr G. BATTELLI, Tra Chiesa locale e Chiesa universale. Le scelte pastorali e le linee di governo dell’arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro (1952-1968), in Chiese italiane e Concilio, esperienze pastorali nella Chiesa italiana tra Pio XII e Paolo VI, a cura di G. Alberigo, Genova 1988, 151-185; AA.VV., Giacomo Lercaro. Vescovo nella Chiesa di Dio (1891-1976), Genova 1991; N. BUONASORTE, Giacomo Lercaro: contributo alla conoscenza del pensiero genovese (1891-1947), in Cristianesimo nella storia 20 (1999) 91-195. 75 Castelli suggeriva il nome di Lercaro a Siri per la Liturgia, e non quello di mons. Florit, che con il presidente della CEI condivideva allora una posizione favorevole ma cauta sulla riforma liturgica, auspicando «che essa avvenisse nella linea già tracciata da Pio XII, come dimostra la sua richiesta per una nuova edizione del Salterio» (R. BURIGANA, Il magistero episcopale tra Roma e Firenze. La partecipazione di Ermenegildo Florit al Concilio Vaticano II, in Il Vescovo fra storia e teologia. Saggi in onore del card. Silvano Piovanelli, in Vivens Homo XI/1 (2000) 270 – Sul contributo dato da Florit agli schemi conciliari De Divina Revelatione e al De Libertate Religiosa cfr ibid., spec. pp. 284-298). Florit fu membro della Commissione conciliare preparatoria sui vescovi e il governo delle diocesi e giocò un ruolo importante dopo l’inizio dell’assise, sia a livello di sensibilizzazione della diocesi fiorentina che presiedeva, sia come membro della Commissione dottrinale presieduta dal card. Ottaviani. 76 Lettera di Castelli a Siri non protocollata del 3 febbraio 1964, in APGS, fald. CEI, Ass. Gen. 1964.
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Segreteria di Stato. Ma non mi muoverò prima della risposta di Vostra Eminenza. Credo che ci potranno stare tutti alla Domus Mariae. La cosa ci potrà costare un po’, ma credo che valga la spesa. — e concludeva — Per allora Vostra Eminenza sarà in perfetta efficienza, perché deve star bene prima, se il Signore ascolterà le mie povere preghiere»77. L’Assemblea Generale venne così disegnata secondo il progetto del segretario Castelli, e si tenne il 14-16 aprile 196478. Il cardinale di Genova non fu ancora presente per ragioni di salute, ricevendo però nella circostanza l’augurio di papa Montini, intervenuto all’incontro con un corposo discorso79. Va individuato in questo episodio anche l’epilogo della esperienza di Siri come presidente della CEI: il 12 agosto successivo, il papa lo sostituì con il card. Luigi Traglia, pro-vicario generale di Roma, come propresidente ad interim. Anche nel Diario Siri appare, da questo momento, più come lo spettatore — spesso disincantato e talvolta ironico —, l’uomo di Chiesa che avvertiva soprattutto la necessità di una rapida conclusione dell’assise (sebbene marcando, di contro, l’eccessiva “fretta” con cui temi delicati venivano liquidati in coda al Concilio stesso), preoccupato della burocratizzazione delle commissioni, e del rischio di trasformare un evento straordinario per la Chiesa — quale, riteneva fosse sin nell’intuizione di papa Roncalli —, in una sorta di tempo ordinario, per di più esposto alle specu-
77 L. c. A mons. Tinivella, coadiutore di Torino, che gli aveva richiesto numi circa il ventilato incontro, Siri rispose: «ho dato incarico a mons. Castelli di fare un sondaggio, se era possibile un’adunanza della CEI, resa necessaria dai compiti affidati alle Conferenze Nazionali dalla Costituzione Conciliare sulla Liturgia. Non so ancora l’esito e neppur io ho ricevuto inviti» (minuta di Siri a Tinivella del 19 febbraio 1964, cit.); il tono di disinformazione e un certo disorientamento trasmettono l’immagine di un Siri piuttosto ridimensionato rispetto a quello dell’inizio del Vaticano II. 78 Come testimonia l’Ordine del Giorno della stessa, con al punto 2. la relazione di Lercaro sulla Costituzione conciliare De sacra Liturgia, e al 3. di Amici sul Decreto conciliare relativo agli “Strumenti della Comunicazione Sociale” (copia in APGS, fald. CEI, Ass. Gen. 1964). 79 L’omaggio al papa venne tenuto, in vece di Siri, dal card. Ruffini (cfr ibid., 1).
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lazioni giornalistiche80. Siri mantenne comunque, nel frangente, un solido legame con gli amici più fidati, soprattutto con il card. Ruffini81.
5. FEDELE ALLA SANTA SEDE E ALLA CHIESA ITALIANA La linea di fondo tenuta dal cardinale di Genova durante il Vaticano II, quale si desume dagli scritti ufficiali e privati, è quella di un’assoluta fedeltà al primato del papa, ribadita soprattutto laddove, 80 All’amico padre Fellman, che in un suo appunto inviatogli sullo stato del Concilio (lettera del 13 dicembre 1963 in APGS, fald. CEI e Concilio) aveva lamentato l’invadenza e il pressapochismo dei giornalisti, intenti a spettacolarizzare l’evento, Siri rispondeva: «Per il giornalismo direi che è stato uno scandalo. Ma la colpa è di coloro — e sappiamo chi sono — i quali contro ogni riserbo e talvolta contro ogni segreto, avevano costituita una rete di informazioni non so se a scopo fazioso […] È una brutta pagina. Le posso dire che coi difetti propri degli uomini, il Concilio fu una cosa infinitamente migliore di quello che la stampa ha tratteggiato» (lettera di Siri a Fellman del 16 dicembre 1963, cit.). 81 Siri vide sempre in Ruffini un fondamentale alleato e confidente, ma soprattutto una “colonna” indispensabile al buon esito del Concilio. Scriveva ancora nel 1965: «Eminenza Reverendissima e Carissima, mi viene fatto molte volte di pensare a Lei, in questa angustiosa vigilia della IV sessione Conciliare, come ad un vero pilastro che il Signore ha concesso allo stesso agitato Concilio» (APGS, fald. Conc. Vat. II, XI, fasc. 1965, minuta di Siri a Ruffini del 6 agosto 1965); le preoccupazioni di Siri al momento erano tutte dirette agli schemi conciliari in elaborazione: lo schema “13”, il De Libertate Religiosa e il De Revelatione. Prospettò quindi al confratello porporato la necessità di un suo autorevole intervento presso il papa, volto a correggere l’andamento conciliare («Credo che almeno per questi tre schemi, bisogna agire fortemente ante Sessionem Concilii. Mi perdoni, Eminenza, se oso chiedere a Vostra Eminenza stessa di scrivere tempestivamente al Papa. Chiederei di sapere su quale argomento o su quali argomenti intenderà scrivere. Infatti, ho in animo di scrivere anch’io, ma vorrei farlo subordinatamente a quello che farà vostra Eminenza» (l. c.). Siri scriveva così a Ruffini, appellandosi quindi a quanto lui stesso aveva già fatto con papa Montini sul problema della collegialità episcopale, e sostenendo che il papa stesso aveva richiesto il loro aiuto (cfr l. c.), ma il cardinale di Palermo gli rispose a breve giro, il 12 agosto successivo, che — pur condividendo le preoccupazioni, soprattutto sullo schema 13 (che a suo dire poteva portare il concilio a divenire «una sezione dell’O.N.U.») —, gli pareva fosse al momento più importante non contristare il papa con nuove opposizioni, dopo quelle da lui stesso inoltrate con Ottaviani e Larraona, che gli avevano recato «tanto dispiacere da farGli desiderare addirittura la morte». Meglio sarebbe quindi stato intervenire in sessione, che rischiare di perdere l’autorevolezza in Aula per una pressione indebita sul pontefice (lettera di Ruffini da Chianciano del 12 agosto 1965 in APGS, fald. Conc. Vat. II, XI, 1965).
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durante il Concilio, in qualche modo poteva essere messa in discussione dal peso che da più parti si voleva attribuire alla collegialità82; in questo senso va letta anche la sua piena lealtà nei confronti della Curia romana, giudicata come la prima esecutrice delle volontà papali, e un’insistita prudenza — sebbene fosse consapevole della necessità di snellire le procedure — nel vederne modificato il ruolo seguendo alcune impulsività presenti in Concilio. Scrisse al vescovo di Melfi, mons. Petroni: «Sono anch’io pienamente d’avviso che si debbano semplificare molte cose e che si debbano snellire talune procedure, abolire molte riserve […] Non potrei però essere d’accordo con chi volesse in questo fare tutto, fare troppo, fare precipitosamente, fare subito. Qui occorre gradualità e buon senso. La ragione è la seguente. La Curia è lo strumento dello esercizio del Primato e toccare lo strumento significherebbe anche toccare l’esercizio. […] Non dobbiamo dimenticare che il fatto di “dover ricorrere a Roma” è per noi vescovi […] uno dei rimedi più sicuri ed efficaci […] Non sono d’accordo con nessuno che abbia elevato critiche inopportune e demoralizzanti circa la Curia romana in ambiente di Concilio. Che succederebbe se i sacerdoti fossero chiamati a dare pareri e giudizi sulle Curie delle rispettive diocesi e questo in pubblico? Soprattutto deploro le insinuazioni contro la Suprema Congregazione del Santo Ufficio. Di questa è Prefetto il Papa, che deve tutto approvare. Ho la impressione che questo non sia stato ricordato da tutti»83. Siri, dunque, si mostrò sempre fedele alla Santa Sede, anche quando, con l’ascesa di Montini, essa lo avrebbe privato del suo ruolo di guida dell’episcopato italiano. Vi fu, inoltre, nel presidente della CEI, un forte legame con la tradizione della scuola romana a livello esegetico e teologico; infine, la radicata convinzione del ruolo centrale — per il suo rapporto storicamente privilegiato con la sede petrina — spettante all’episcopato italiano nello svolgimento e nei risultati del dibattito conciliari. In queste posizioni egli 82 In una riservata indirizzata a don Rolando l’8 gennaio 1964 (novello perito teologo della CEI per il Concilio), Siri stigmatizzò le intenzioni di «certa gente», che a suo dire voleva «ridurre la portata del Romano Pontefice. Il modo di impostare tutto il discorso sulla “collegialità”, gli attacchi alla Curia ed alla Diplomazia pontificia, le sornione proposte di un Consiglio dei Vescovi o di un Segretariato permanente dei Vescovi, non sono che forme diverse, più o meno coscienti per arrivare a questo scopo» (APGS, fald. Conc. Vat. II, X, Corrispondenza). 83 Lettera di Siri a Petroni del 25 febbraio 1963, in APGS, fald. CEI e Concilio, Pres. Siri.
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si mantenne sempre più vicino alla sensibilità spirituale e biblica di prelati più conservatori quali Carli, Ruffini (che considerava un «vero pilastro» del Vaticano II84), piuttosto che a quella innovativa degli esponenti della scuola teologica franco-tedesca, a cui furono più legati Montini e Guano85 (quest’ultimo particolarmente inviso a Siri, tanto da non perdonare mai nemmeno all’amico Lercaro86 la stima per il vescovo di Livorno). Partendo da queste posizioni, Siri visse così la sua personale avventura in Concilio, ponendosi da un punto di vista ovviamente “di parte”, eppure sempre scevro da interessi personalistici, me onestamente teso al bene della Chiesa universale. Una posizione che ottenne critiche e consensi, e che non gli impedì di formarsi una sua visione complessiva di un evento centrale del Novecento quale il Vaticano II. A pochi giorni dalla 84
Cfr supra, nota 81. Vescovo di Livorno. Cfr L. ROLANDI, Emilio Guano. Religione e cultura nella Chiesa italiana del Novecento, Soveria Mannelli (Cz) 2001. Il rapporto tra i due prelati dovette essere piuttosto teso in quegli anni: Guano conservava presso le sue carte una durissima lettera contro Siri da Moventa di Piave del 14 agosto 1961, in cui ci si scagliava contro lo sfarzo cardinalizio in un inno al pauperismo protocristiano (cfr Arch. Paolo VI – Roma, fondo Guano, busta 136); in seguito, nel Diario, Siri avrebbe definito un intervento di Guano come una «tiritera» (sub data 13 Novembre-Martedì, f); lo stesso Rolandi riporta una testimonianza “esterna” raccolta dal vescovo emerito di Reims e Meaux: «Guano non era accettato da tutti, vi erano molti nell’episcopato italiano al Concilio e nella curia, che lo consideravano troppo audace e fautore di una linea che usciva dalle vecchie logiche sui criteri di apostolato […] Spesso era un po’ involuto quasi avesse paura della reazione dei Card. Siri e Ottaviani ...» (L. ROLANDI, Emilio Guano, cit., 213, n. 48). 86 Al cardinale di Bologna Siri non risparmiò all’occorrenza anche osservazioni, soprattutto per porre freno ad una intraprendenza che in alcuni casi gli pareva eccessiva nei confronti della Conferenza episcopale. Un caso lampante è quello di mons. Antonio Santin, vescovo di Trieste, che nel 1961 aveva fatto a Siri esplicita richiesta di tassare gli Ordinari della Penisola in favore del Santuario di Fatima innalzato nella città friulana, nella convinzione che tale iniziativa avesse goduto in precedenza del plauso esplicito della CEI. Una convinzione che Siri medesimo non condivideva affatto — scrivendone a Castelli il 25 aprile 1961, per chiedergli dettagli — e ipotizzando il cardinale di Bologna come vero artefice del progetto: «Il Cardinale Lercaro probabilmente ha spinto, magari dicendo che… ma Lui non è la CEI. Credo sia Lui a suggerire il sistema di “Tassare”, ma è un sistema che io non posso approvare…» (APGS, fald. Conc. Vat. II, I, Presidenza (corsivo mio); in ibid., allegata risposta di Castelli a Siri [28 aprile 1961] certificante l’inesistenza di un esplicito impegno preso dalla CEI a riguardo, come da verbale riportato dell’Assemblea Generale CEI del 12-14 dicembre 1958 [p. 26]; inoltre, risposta successiva di Siri a Santin del 19 aprile 1961, che rimandava la questione alla Assemblea Generale del 14 giugno seguente). 85
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conclusione della prima Sessione, commentava in un suo appunto per un convegno «La presenza e la fusione delle culture delle civiltà mondiali al Conc[ilio]. Ecum[enico]. Vaticano II»: «1 – Cultura germanica / Erudizionistica — critica — meno sintetica ma con tendenza alla weltangschauung: legata al solco filosofico aperto da Lutero e ferma nel solco maiestatico del sacro romano impero. Analitica e unilaterale. Cattolicamente preoccupata [dei] protestanti e diaspora missionaria 2 – Cultura francese Coscienza francese (10 secoli) squisitezza e finezza di un ambiente che fu lungamente il più brillante del mondo, prevalenza letteraria, indipendenza, esperienze estreme. Più superficiale. Accademia di Francia che guida la nazione. Preoccupazione di piacere, esperienza di perdita e pertanto volontà di accomodare (accomodare) 3 – Cultura nord americana / Cultura tecnica poco umanistica — più preoccupazione pragmatistica che speculativa. 4 – Cultura sud americana / Periodo di elaborazione, meticciato, situazione sociale, grado meschino. Provincia che riceve e non dà. 5 – Culture afro asiatiche / Non sono culture, ma sono reliquie di civiltà e cicli chiusi a involuzioni e senza osmosi. Sono vestite di pezze occidentali. Sono rigagnoli e ripetitori di aree occidentali pervasi da fremiti reazionari in sensi diversi, ma non ancora autonomi. Poche memorie passate, nessuna metafisica. Sono oberate da problemi di adeguamento ad un mondo più comodo appena appena conosciuto…»87. Molto diverso appare qui il giudizio di Siri sulla tradizione italiana e latina: «Cultura italiana ed in genere latina / La continuità, le maggiori altezze, il carattere mai nazionalistico. Ha evaso dai limiti della provincia perché fu nazione sempre senza essere legata a limiti politici o a tirannie o poteri generali. Equilibrio incontro concordia. Più il problema della verità 87 Appunto di Siri per un convegno del 20 dicembre 1962, in APGS, fald. CEI e Concilio, Pres. Siri (il testo maiuscolo è riportato dall’originale). Siri, in consonanza con l’ala conservatrice della Curia Romana, mantenne sempre un atteggiamento critico, quando non ostile, soprattutto nei confronti delle correnti della scuola teologica francese; ancora nel 1964, scrive a Castelli (APGS, fald. CEI – Corrispondenza 1964-65, lettera a Castelli del 3 aprile 1964 [copia]): «Ricevo una lettera di protesta da parte del Card. Ottaviani a proposito dell’elaborato Beni, cui si è data diffusione. Ho risposto come ho potuto. Certo il Beni è fuoristrada ed evidentemente si lascia guidare del tutto dalle pubblicazioni francesi, oggi più che sospette. Sarà bene mettere in circolo qualcosa che contenga e corregga: te ne prego vivamente. Non è tanto la lettera a muovermi, ma il fatto in se stesso» (corsivo mio).
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in se stessa del diritto della perennità più indipendenza dalle mode più olimpica serenità nel volgere del tempo Signora!…»88. Un quadro, questo, che esprime tutto l’attaccamento del cardinale di Genova per la cultura della Penisola, che in Concilio, attraverso gli interventi dei suoi ordinari, avrebbe dovuto fungere da fattore di equilibrio e di richiamo fermo e autorevole delle verità teologiche considerate intangibili89. Quindi, se per il prelato ligure bisognava inevitabilmente aspettarsi differenze di fondo tra i vari episcopati, le differenti posizioni avrebbero dovuto «comporsi» e anzi «fondersi» in una sintesi comune che doveva tenere in massimo conto «il senso della Chiesa / il senso del Primato / la dedizione al Magistero / la salute delle anime / la volontà della unione universale»90. Una fusione finale di cui solo l’apporto di tradizione e maturità teologica dell’episcopato italiano avrebbe potuto, in ultima analisi, garantire, in un quadro conciliare che vide sempre caratterizzato da una forte libertà di espressione da parte dei padri91. La medesima dedizione all’episcopato italiano mostrata in Concilio vide Siri, tra il 1964 e il 1965 — già esautorato dalla carica di presidente della CEI —, profondersi nell’elaborazione del nuovo Statuto, che avrebbe contribuito a definire l’immagine moderna della Conferenza italiana. Ne fa cenno lui stesso nel Diario, riferendo di un suo colloquio a riguardo con
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Appunto di Siri del 20 dicembre 1962, cit. Lo leggeva direttamente in molti interventi dei prelati italiani in assise: si veda, ad esempio, questo suo commento espresso circa la discussione sullo schema De Fontibus del 16 Novembre-Venerdì 1962 (f 38): «Il sole torna in tutti i sensi. I Francesi fanno un passo indietro col discorso Guerry (solo questione di forma, dice lui!). Gli interventi degli Italiani sono splendidi e danno la misura del valore agli altri, che tirano fuori i soliti argomenti triti». 90 Appunto di Siri per un convegno del 20 dicembre 1962, cit. 91 Il presidente della CEI fu sempre convinto che, grande fosse la libertà lasciata ai Padri nell’assise conciliare. Alcuni anni dopo, nel 1969, affermò durante una conferenza a Cannes: «La prova che la libertà [nel Concilio] fu veramente grande sta in due fatti: si dissero anche delle mezze eresie da parte di taluno, si fecero audacie quasi sconvolgenti e tuttavia — che si sappia — nessuno fu ripreso; il segreto non fu affatto rispettato e, salvo un blando richiamo, non furono più azionati i freni per contenerlo. Furono visti Padri uscire dall’aula per portare le notizie fuori prima che finissero le sedute. La libertà concessa fu certamente anzitutto un diritto rispettato e fu un bene, ma — come accade spesso dei diritti e dei beni — le esagerazioni dell’uso ci furono e furono dannose al Concilio in se stesso, che continuò, praticamente, come se fosse tenuto su una piazza» (G. SIRI, Il post-Concilium dal punto di vista storico, dal punto di vista della provvidenza, cit., in La giovinezza della Chiesa, cit., 181). 89
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papa Montini: «Si è parlato della CEI. Ho chiesto il nuovo Statuto92. “A chi si può commettere di farlo?” ha ripreso Lui [scilicet: Montini]. “Alla Concistoriale”. “Ma, soggiunse, alla prima Sezione della Segreteria di Stato hanno più materiale ed hanno studiato meglio la cosa”. “Si può dare alla Prima Sezione” ribattei io. “Sentiremo tutte e due — concluse il Papa —. Lei intanto mandi tutti i suggerimenti che ritiene utili”93. Feci allora rilevare che uno Statuto CEI deve essere considerato a parte e perché l’Episcopato Italiano è la guardia del corpo del Papa e perché i Vescovi sono 283, oltre gli ausiliari, etc. Ho anche illustrato come il conto che si può fare sulle commissioni sia modesto e come sarà bene affidare al voto segreto la elezione dei Presidenti delle medesime»94. Il prelato ligure, attraverso le sue pazienti osservazioni, trasmetteva così gli esiti di una lunga esperienza personale alla nuova struttura del massimo organismo di rappresentanza dell’episcopato italiano95. Gli 92
Sull’evoluzione dello statuto della CEI dalla primitiva versione del 1 agosto 1954, al nuovo testo del 30 settembre 1959, cfr P. GHEDA, La CEI e la preparazione del Concilio, cit., par. La CEI negli anni Cinquanta. Il nuovo statuto in questione fu emanato con decreto della Concistoriale il 16 dicembre 1965 (per il contributo di Siri a questa versione definitiva del testo, cfr in APGS, fald. CEI varie – Presidenza Siri 1965, Nuovo Statuto CEI). 93 Siri avrebbe seguito l’indicazione del papa, inviando la bozza con i capi del nuovo statuto alla Concistoriale — come risulta da una sua lettera a Castelli del 10 dicembre 1964 «rielaborati secondo la mente del ‘De pastorali munere Episcoporum in Ecclesia, capo III’, approvato dai Padri in Concilio»(APGS, fald. CEI, Corrispondenza, 1964-1965; cfr, in ibid., fald. CEI, Varie — Presidenza Siri 1965 le «Osservazioni al progetto di Statuto per la C.E.I.» dello stesso Siri). 94 Diario, sub data 9 ottobre 1964 («Terza sessione del Concilio», f 7). Al contrario, l’art. 26 dello statuto cei del 1965 prevederà l’elezione da parte dei membri stessi della commissione. 95 Il carteggio tra Siri e Castelli relativo all’elaborazione del nuovo Statuto si inizia il 10 dicembre 1964, quando appunto l’ormai ex presidente trasmise al segretario della CEI la ricordata lettera della Concistoriale che sollecitava la preparazione di una bozza disegnata «secondo la mente del “De pastorali munere Episcoporum in Ecclesia”, capo III, approvato dai Padri in Concilio» (cfr supra, nota 93). Nell’occasione, Siri confermò a Castelli il suo desiderio di vedere mantenuti nel nuovo regolamento il Consiglio e il Comitato Direttivo della CEI, come già funzionavano, specificando le materie in cui i deliberati della Conferenza medesima sarebbe stati riconosciuti come obbliganti, lasciando la “stretta non obbligatorietà” per i restanti. Alla base di questa specificazione stava nel prelato ligure una preoccupazione: «Non bisogna creare feudi per l’avvenire e si deve tutelare la libertà dei singoli Vescovi, anche se sono Vescovi di Diocesi insignificante. La vicinanza di tante cose in Concilio ci ha
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indirizzi andavano soprattutto nel senso di una semplificazione che mettesse la Conferenza in grado di essere efficacemente operativa, debellando tutti i potenziali orpelli burocratici; a questo riguardo, scriveva Siri a Castelli: «La esperienza ci insegna: che bisogna semplificare, […] che le Commissioni, Comitati etc. funzionano solo quando in esse si trova un uomo che con senso responsabile dedichi veramente una parte di se stesso […] che funzionano veramente solo la Segreteria Generale colla Presidenza CEI e gli Uffici permanenti. Dove c’è l’Ufficio qualcosa si ottiene, altrimenti è generalmente tempo perso…»96. Definire per la CEI un ruolo dotato della sua specifica autorevolezza restò sempre il principale obiettivo di Siri. Ancora in questa lettera a Castelli, l’arcivescovo di Genova riprese il tema che aveva caratterizzato tutto il suo mandato di presidenza: il reale peso delle indicazioni della Conferenza: «in questo Statuto manca completamente la dicitura relativa alla obbligatorietà o meno delle decisioni. Infatti lo Statuto vigente esclude la obbligatorietà e questo pare giusto, ma non sempre. La questione è da ristudiare. Si desidererebbe un più esplicito asserto sulla “competenza”, la cui questione è appunto connessa con quella della obbligatorietà»97. Castelli avrebbe in seguito rivisto lo schema dello Statuto secondo le indicazioni di Siri98, conducendolo così in porto99, e dando così vita alla “nuova” CEI del dopo Concilio, quale anche oggi è conosciuta. Questo confermati in questa opinione» (lettera di Siri a Castelli del 19 dicembre 1964, in APGS, fald. CEI e Concilio, Pres. Siri). 96 Lettera di Siri a Castelli dell’8 gennaio 1965, in APGS, in fald. CEI e Concilio, Pres. Siri. (si tratta di una risposta alla lettera accompagnatoria di Castelli del 4 gennaio [in ibid.], dove accludeva «un primo schema per la preparazione del nuovo Statuto della CEI». 97 L. c. 98 Cfr lettera di Castelli a Siri del 3 febbraio 1965, in APGS, fald. CEI e Concilio, Pres. Siri: «Le mando la nuova stesura, e Le vorrei chiedere che cosa fare dopo che Vostra Eminenza la avrà approvata…». Ad essa Siri rispose in data 7 febbraio 1965, trasmettendo le sue ultime osservazioni e chiedendo che il testo rielaborato dello Statuto venisse così rinviato alla Concistoriale, «dicendo che esso è il frutto di una ristretta commissione e delle osservazioni fatte dalla Presidenza, senza interpellanza di tutti i Membri» (in l. c.). Siri concludeva raccomandando di inserire il numero minore possibile di uffici, onde evitare costi eccessivi e inutili intasamenti burocratici (cfr l. c.). 99 Il 15 giugno 1965 Siri scrisse a Castelli: «il testo ultimo del nuovo Statuto CEI è tale ormai, che mi pare di non dover fare osservazioni e può essere presentato» (in APGS, fald. CEI e Concilio).
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documento statutario è da considerarsi, in ultima analisi, la cifra dell’esperienza di Siri come presidente della CEI durante gli anni del Concilio, la sintesi della visione di Chiesa di un pastore al quale sono stati spesso attribuiti accenti conservatori e che pure ha dato forma compiuta a un’idea di Chiesa italiana più autonoma e organizzata. Un Siri che fu spesso disincantato nello scarnificare tutte le inefficienze del Vaticano II ma rimase convinto — come avrebbe scritto nel 1966 — che «questo Concilio come è andato oltre le intenzioni degli uomini e certo contro le intenzioni di taluni uomini, dimostrando in tal modo la mano di Dio, diventa, per tale ragione, un preludio alla speranza. Senza questo Concilio, temo che non avremmo orizzonti. Ora li abbiamo. Sappiamone, ciascuno per la parte che può, varcare la luminosa soglia!»100.
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Il Concilio e l’avvenire, cit., in La giovinezza della Chiesa, cit., 154.
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I LUOGHI DI AGGREGAZIONE NELLA SICILIA MODERNA. LE CONFRATERNITE: IL CASO DI S. ORSOLA
ELENA FRASCA*
La ricerca si propone di analizzare uno degli aspetti più caratterizzanti la realtà urbana e, in particolare, i rapporti sociali che, inevitabilmente, si intrecciano all’interno del complesso tessuto cittadino. A tale scopo, la scelta di studiare Catania appare emblematica in quanto la città si pone alla stregua di un microcosmo dal quale è possibile attingere informazioni utili ed esempi significativi per comprendere il più articolato macrocosmo delle diverse realtà urbane presenti nel Regno delle Due Sicilie in una trancia cronologica relativa alla prima metà del secolo XIX. La tematica guida della ricerca è l’analisi delle relazioni sociali che, come detto, nascono all’interno del contesto urbano. In questo senso, l’approfondimento di una realtà specifica e radicata nei gangli cittadini appare una scelta quasi obbligata al fine di una corretta interpretazione di ciò che all’epoca si intendeva quale “luogo di aggregazione”. Alla luce di ciò, l’oggetto di studio prescelto è il fenomeno mutualistico e confraternale nella accezione più propriamente socio-politica che, gradualmente, esso assume all’interno del tessuto cittadino. In questo senso, come già detto, si è voluta privilegiare l’analisi di un determinato contesto urbano nel quale le confraternite sorsero numerose, al fine di osservare, da un angolo visuale specifico, le diverse funzionalità e le varie sfaccettature che le suddette istituzioni assunsero nella variegata realtà sociale nell’epoca trattata. Una particolare attenzione è stata puntata sull’approfondimento di una determinata realtà confraternale catanese — l’Arciconfraternita di * Assegnista di Storia moderna presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Catania.
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S. Orsola — proprio allo scopo di analizzare più da vicino l’ingerenza politica, oltre che religiosa e assistenziale, che tali aggregazioni ebbero nella città etnea. Il tema delle confraternite e del loro significato socio-politicoreligioso ha recentemente interessato parte della storiografia contemporanea. Studiosi come Bornstein1 e Meerseeman2 hanno focalizzato l’attenzione sul ruolo che le confraternite rivestivano in età medievale, quando esse si ponevano come vere e proprie protagoniste della “vita religiosa laicale”. A fronte di una palese difficoltà circa il reperimento di fonti relative al fenomeno confraternale durante il Medioevo — che, come evidenzia Rusconi3, è imputabile alle numerose vicissitudini patite dagli archivi delle congregazioni particolarmente tra Sette e Ottocento — la storia delle confraternite in età moderna risulta agevolata in primo luogo dalla legislazione tridentina, che regolamentò la loro struttura interna, e, in secondo luogo, dalla più facile reperibilità del materiale archivistico e documentario. Tra gli studiosi che si sono occupati dell’argomento, Giancarlo Angelozzi4 ha evidenziato la genesi e lo sviluppo di tali associazioni, analizzando in particolare la loro struttura interna e il ruolo che i confratelli ricoprivano all’interno di esse. Antonio Cestaro5, di contro, ha soffermato la sua attenzione sullo scopo prettamente socio-religioso delle confraternite e sullo spirito di “solidarismo cristiano” che ne caratterizzò gli intenti soprattutto in età moderna, secondo una logica che, sostiene Woolf6, si traduceva nel binomio “carità-elevazione spirituale”. 1 D.E. BORNSTEIN, Corporazioni spirituali proprietà delle confraternite e pietà dei laici, in Ricerche di storia sociale e religiosa 48 (1995) 77-90. 2 G.G. MEERSEEMAN, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, III, Roma 1997. 3 R. RUSCONI, Confraternite, compagnie e devozioni, in G. CHITTOLINI – G. MICCOLI (a cura di), La Chiesa e il potere politico dal medioevo all’età moderna, in Storia d’Italia, Annali 9, Torino 1987, 467-506. 4 G. ANGELOZZI, Le confraternite laicali. Un’esperienza tra medioevo ed età moderna, Brescia 1978. 5 A. CESTARO, Il fenomeno confraternale nel Mezzogiorno: aspetti e problemi, in Ricerche di storia sociale e religiosa 19 (1990) nn. 37-38, pp. 15-54. 6 S.J. WOOLF, Porca miseria. Poveri ed assistenza nell’età moderna, Roma-Bari 1988, 22.
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L’aspetto propriamente mutualistico è stato ampiamente analizzato da studiosi come Robertazzi Delle Donne7, Pennisi8, Cucinotta9, Scherma10 e Borzomati11, rilevando come e quanto la beneficenza e l’assistenza12 prevaricassero il mero compito evangelico. A completare il quadro, scrive ancora Borzomati, è interessante focalizzare l’attenzione sullo scopo politico che, inevitabilmente, le confraternite assumevano, in quanto sostenevano l’ordine sociale, avviavano i giovani alle responsabilità della vita pubblica e servivano come modelli di autogestione13. Un crescente interesse per l’argomento lo testimoniano gli studi intrapresi in tal senso da Paglia e Sindoni che, studiando l’organizzazione societaria di queste aggregazioni, ne evidenziano il valore sociale ai fini dell’esercizio dell’autogoverno. Si tratta di un interesse crescente nei confronti delle strutture della sociabilità e delle dinamiche associazionistiche. Come afferma Borzomati, la storia delle confraternite in età moderna è tutta da scrivere. In questo senso i luoghi di aggregazione si collocano nell’Ottocento anche come luoghi di identificazione e autoidentificazione sociale, di rappresentazione e autorappresentazione, di acquisizione e definizione di status e di ruolo.
7 E. ROBERTAZZI DELLE DONNE, Stato borbonico-tanucciano ed istituzione confraternale, in Ricerche di storia sociale e religiosa 19 (1990) nn. 37-38, pp. 55-74. 8 M. PENNISI, I movimenti laicali in Sicilia, in AA.VV., La Chiesa in Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, Roma-Caltanissetta 1994, 345-381. 9 S. CUCINOTTA, Popolo e clero in Sicilia nella dialettica socio-religiosa fra CinqueSeicento, Messina 1986. 10 G. SCHERMA, Delle maestranze in Sicilia, Palermo 1896. 11 P. BORZOMATI, Confraternite e Terzi ordini, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, II, Torino 1981, 229-231. 12 Sull’analisi del passaggio dal concetto di beneficenza a quello di assistenza cfr S. RAFFAELE, Dalla beneficenza all’assistenza. Momenti di politica assistenziale nella Sicilia moderna, Catania 1990. 13 Cfr P. BORZOMATI, Confraternite e Terzi ordini, cit., 230.
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1. LE CONFRATERNITE IN SICILIA (XVIII-XIX SECOLO) Le confraternite, così come le corporazioni, cominciarono a costituirsi in maniera regolare soprattutto intorno al XII secolo14. In Sicilia, il maggiore sviluppo di tali congregazioni laicali si ebbe intorno al XIV secolo. Fino alla metà del Settecento, le autorità ecclesiastiche, in primo luogo il vescovo, godevano di ampi poteri in seno all’amministrazione delle opere pie, le quali trovavano collocazione presso chiese e monasteri. Questa ingerenza spirituale era stata sancita dal Concilio di Trento e continuò indisturbata fino al 1741, quando re Carlo III di Borbone, nel tentativo di accentramento del potere regio, firmò un Concordato con papa Benedetto XIV15. Con esso, le opere pie vennero sottratte alla potestà ecclesiastica, e venne istituito un Tribunale misto, composto da laici e uomini di chiesa, il cui fine era la vigilanza sia dei luoghi pii laicali che delle fondazioni di culto e beneficenza. Per terminar le dispute e controversie, che da più secoli nel regno di Napoli sono state su diversi capi tra curie laiche, ed ecclesiastiche, e per torre con ciò ogni occasione di discordie tra le due potestà. La Santità di nostro signore Benedetto XIV e la Maestà di Carlo Infante di Spagna, Re delle due Sicilie, per mezzo de’loro plenipotenziari, muniti delle necessarie facoltà, dopo diligentissimo esame, e matura deliberazione, nella quale per parte di Sua Santità si è inteso il potere di alcuni signori cardinali, son convenuti ne’ seguenti capitoli, che dovranno da ambedue le parti per l’avvenire perpetuamente ed inviolabilmente osservarsi, col cominciarsene l’esecuzione in tutto ciò che potrà subito. Così recita il proemio al Concordato16 tra la Santa sede ed il sovrano redatto a Napoli il 29 luglio del 1741, relativo alla distinzione dei poteri in materia clericale e laicale. Nel Capo V viene affermato che vescovi ed ecclesiastici possono visitare chiese, cappelle e confraternite quoad spiritualia tantum, possono 14
Cfr G. ANGELOZZI, Le confraternite laicali, cit. Cfr G. FILIPPONE ED EPIRO, Istruzioni per l’amministrazione degli stabilimenti di beneficenza e dei luoghi pii laicali del Regno delle Due Sicilie, 2 voll, Palermo 1847. 16 G. FILIPPONE ED EPIRO, Atti legislativi e governativi dal 1847 al 1852 sugli stabilimenti di beneficenza e luoghi pii laicali del Regno delle Due Sicilie di seguito alle R. istruzioni del 20 maggio 1820 ed alla collezione di simili atti dal 1741 al 1846, Palermo 1853, 101-133. 15
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revisionare i conti, senza tuttavia essere pagati. Per quanto riguarda tale problema l’articolo 5 preannuncia l’oggetto del Capo IX ossia Dovrà il Tribunal misto, da erigersi in Napoli, invigilare, e sopraintendere che quanto ne’ precedenti articoli si è disposto intorno alla visita e rendimento de’conti degli ospedali, confraternite ed altri luoghi pii laicali governati e amministrati dai laici. Per tutto il XVIII secolo il governo emana una serie di leggi e decreti relativi al controllo dei luoghi pii laicali, delle confraternite e di tutte le corporazioni religiose. Un real rescritto17 del 12 maggio 1742 stabilisce che: Essendo confraternite, o altri collegi laicali, con autorità legittima costituiti, la elezione spetta a confratelli. In altro caso la elezione si faccia dalla università in pubblico parlamento, conforme si pratica per l’elezione degli amministratori della università, colla condizione, che gli amministratori della università, colla condizione che gli amministratori, e razionali, che hanno da eleggersi non sieno debitori de’luoghi pii. Ancora meglio, il reale rescritto18 del 13 febbraio 1745 puntualizza le procedure relative alle elezioni e alle competenze dei funzionari. A partire dagli anni Cinquanta del Settecento la legislazione ribadisce più volte la necessità del regio assenso per la fondazione di qualsiasi sodalizio. In una prammatica19 edita a Palermo il 26 agosto 1751 si legge: e quantunque da per tutto questa società sia stata rigorosamente bandita, ed i diletti nostri sudditi siano avvezzi a non ligarsi in corpo, collegio o sodalizio, o solidità alcuna, anche indirizzata ad opere di pietà, senza la Nostra Real approvazione; pure tale straniera conventicola, attendando a questa nostra maggiore regalia, ha insidiosamente penetrato fin anche nei nostri Domini. Negli anni Sessanta del Settecento la legislazione pone sempre più l’accento verso il controllo sovrano sui luoghi ecclesiastici. Il provvedimento20 del 24 aprile del 1762 sancisce che: coloro, li
17 L. GIUSTINIANI, Nuova Collezione delle Prammatiche del Regno di Napoli, Napoli 1803-1805, 239-240. 18 L. c. 19 Siculae Sanctiones, V, Panormi 1750-1755, 237-238, in F. SCADUTO, Stato e Chiesa nelle Due Sicilie, Palermo 1887, 199. 20 D. GATTA, Regali dispacci nelli quali si contengono le sovrane determinazioni de’ punti generali, Napoli 1733-1801, titolo XX, 317-318.
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quali vanno questuando in nome de’ Santi e de’ Luoghi pii, senza il regal permesso, sono carcerati. Il fenomeno dell’associazionismo confraternale, si è detto, ci ha indotti a privilegiare lo studio di un limitato contesto storico e geografico nel quale le confraternite fiorirono copiose, al fine di analizzare in maniera specifica ed esauriente i molteplici aspetti che le suddette organizzazioni ricoprivano all’interno della società. Dalla loro origine in questi luoghi, in linea di massima attestata per tutte tra il XVI e il XVII secolo, fino al secolo “borbone”, l’Ottocento, le confraternite giocarono un ruolo di primo piano nelle realtà cittadine dell’epoca, coinvolgendo aspetti insieme sociali e politici, religiosi e assistenziali. Il decennio francese napoletano comportò una serie di provvedimenti in materia, volti a destabilizzare ancora di più l’influenza della chiesa sulle associazioni pie laicali. Esse furono affidate alla vigilanza del Ministero dell’Interno e il patrimonio delle opere pie venne liberalizzato, adeguandosi alle vigenti leggi francesi21. Il ritorno dei Borbone a Napoli, e la successiva nascita del Regno delle Due Sicilie, determinò un nuovo assetto per le associazioni di beneficenza. Venne istituito il Consiglio degli ospizi, con a capo l’Intendente, al quale veniva affidata l’amministrazione delle opere pie laicali, mentre le confraternite godettero del privilegio di vigilare sul proprio patrimonio22. Principale premura del nuovo sovrano fu, ancora una volta, la promulgazione di una serie di leggi relative al Regio assenso, cioè di quella condizione sine qua non tutte le opere di beneficenza pubblica non avrebbero potuto costituirsi quale ente morale legalmente approvato. Ferdinando I, appena ritornato al trono, decise di mantenere il Consiglio degli ospizi, supremo ente di controllo dell’amministrazione assistenziale e di beneficenza, mutuato dalla legislazione francese23. Due anni dopo, il medesimo sovrano stipulò un importante Concordato24 insieme a 21
L. c. L. c. 23 F. SCADUTO, Stato e Chiesa nelle Due Sicilie, cit., 1 febbraio 1816, 202. 24 G. FILIPPONE ED EPIRO, Atti legislativi e governativi dal 1847 al 1852 sugli stabilimenti di beneficenza e luoghi pii laicali del Regno delle Due Sicilie di seguito alle R. istruzioni del 20 maggio 1820 ed alla collezione di simili atti dal 1741 al 1846, cit., 21 marzo 1818, 217-230. 22
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papa Pio VII. Il precedente governo napoleonico aveva chiuso forzatamente numerosi istituti religiosi; per ovviare a questa mancanza, il re si appellò alla generosità di pubblici e privati, che con donazioni ed elargizioni in denaro, avrebbero permesso la riapertura di quanti più enti assistenziali possibile, prediligendo gli stabilimenti dediti all’educazione dei fanciulli, e quelli preposti all’assistenza degli infermi. Sebbene il Concordato sembrasse ristabilire parte dell’autorità ecclesiastica, esso in realtà segnò un punto in favore dell’autorità sovrana, desiderosa di ribadire con prepotenza il suo dominio temporale e, parzialmente, anche quello spirituale. Nel 1820, Ferdinando decise di promulgare un importante corpo di leggi, inerente all’amministrazione degli stabilimenti di beneficenza e dei luoghi pii laicali25, nel quale l’ingerenza dello Stato emerse in maniera forte e sistematica. L’articolo 2 specificava che per stabilimenti di beneficenza, e luoghi pii laicali s’intendono gli ospedali, gli orfanotrofj, i conservatorj, e ritiri, e monti de’ pegni, de’ maritaggi, o di elemosine, i monti frumentarj, le arciconfraternità, e congregazioni, le cappelle laicali, e finalmente tutte quelle istituzioni, legati, ed opere, che sotto qualunque denominazione, e titolo si trovano, o che saranno addette al sollievo degl’infermi, degl’indigenti, e de’ projetti. In pratica, ogni forma di assistenza pubblica e privata presente nel Regno veniva sottoposta all’autorità dei Consigli degli ospizi, e delle Intendenze nelle quali essi si trovavano26. L’articolo 90 prescriveva che ove vi sieno arciconfraternite, e congregazioni, avrà ciascuna di esse la sua particolare amministrazione a’ termini del Real decreto del primo febbraro 1816. Quest’amministrazione sarà confidata a quel numero di 25 Si comunicano le istruzioni per l’amministrazione degli stabilimenti di beneficenza pubblica, e dè luoghi pii laicali, in Giornale degli Atti dell’Intendenza del Valle di Catania, Catania, 20 maggio 1820, n. 66, pp. 3-47. 26 I Consigli, dipendenti dal Ministero degli affari interni, erano composti dagli intendenti, dagli ordinari delle diocesi dei capoluoghi di provincia, da tre consiglieri e da un segretario, nominati da sua maestà il re. La loro durata in carica era triennale. Le riunioni del Consiglio dovevano avvenire almeno due volte la settimana. Scopo precipuo dell’ente era sorvegliare la condotta degli istituti di beneficenza e dei luoghi pii laicali, verificarne lo stato attuale, i regolamenti particolari e gli eventuali abusi. La Sezione I (Delle diverse commessioni amministrative locali) specificava, all’articolo 87, che ogni comune doveva dotarsi di una commissione amministrativa, denominata comunale, composta dal sindaco e da due amministratori, scelti tra i cittadini possidenti, forniti di probità, ed intelligenza. A queste commissioni erano affidati i fanciulli proietti, tutti i luoghi pii, gli stabilimenti e le cappelle.
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fratelli, che verranno scelti dalla rispettiva corporazione legittimamente riunita nel modo prescritto dalle regole munite di regio assenso. E ancora, il successivo articolo 91: Producendosi dà confratelli di una congregazione dei reclami contro la elezione degli offiziali, ovvero contro le persone elette, saranno i medesimi discussi economicamente da’ consigli degli ospizj. Nel caso di dissenso delle parti rimane in libertà delle medesime di sperimentar le loro ragioni innanzi ai consigli delle intendenze. La normativa appena esaminata rappresenta un palese esempio di come e quanto l’autorità sovrana si ingerisse con fermezza nella vita delle associazioni laicali di pubblica beneficenza, allo scopo di determinarne le regole interne e di controllarne eventuali velleità libertarie che stonavano non poco con la logica accentratrice borbonica. Dunque, queste e altre norme facevano ben comprendere il preciso disegno regio, dettato dalla volontà di controllo su tutte le realtà sociali dell’epoca. E in quest’ottica deve leggersi la decisione di fondare una Commessione provvisoria27 in Sicilia, con sede a Palermo, il cui scopo era quello di esaminare, previo incarico del Governo, la natura di tutte le fondazioni chiesastiche e de’ benefizj presenti nell’isola. Un nuovo Regolamento generale, relativo alle pie confraternite laicali del Regno, venne promulgato nel 184228. Esso, firmato dal ministro degli affari interni, venne approvato dall’intendente del Valle di Catania. L’articolo 1 specificava che scopo precipuo delle confraternite laicali era esercitarsi sull’esempio vicendevole negli atti di religione, ed esercizj di pietà. Ogni confratello, entro due mesi dal suo ingresso nella congrega, riceveva il sacco, semplice e sobrio, consistente in un camice di tela bianca con cappuccio. Ogni congregazione aveva il suo padre spirituale, eletto dai confratelli, previa approvazione dell’ordinario della diocesi. Egli istruiva i confrati, li confessava e celebrava la messa, senza però godere di voce attiva o passiva all’interno dell’istituzione. Chi aspirava a divenire membro di una 27 È istituita in Palermo una Commessione provvisoria per esaminare la natura delle fondazioni chiesastiche, e de’ benefizj in Sicilia, in Giornale degli Atti dell’Intendenza del Valle di Catania, cit., 16 settembre 1821, n. 85, p. 349. 28 G. FILIPPONE ED EPIRO, Atti legislativi e governativi dal 1847 al 1852 sugli stabilimenti di beneficenza e luoghi pii laicali del Regno delle Due Sicilie di seguito alle R. istruzioni del 20 maggio 1820 ed alla collezione di simili atti dal 1741 al 1846, cit., 5 maggio 1842, 544-562.
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confraternita laicale, inoltrava una domanda scritta al governo della stessa. I Maestrj de’ novizj, accertata la moralità civile e cristiana del richiedente, proponevano l’ammissione, che avveniva tramite scrutinio segreto (col sistema del bussolo) di tutti i confratelli. Il nuovo adepto, soggetto a un noviziato della durata minima di sei mesi, era obbligato al pagamento di una tassa d’ingresso, la cui entità variava a seconda dell’età (solo i figli dei fratelli già ammessi godevano di uno sconto). Tutti i confratelli pagavano un contributo mensile e, se per quattro mesi consecutivi essi non adempivano a questo obbligo, venivano considerati contumaci. Un sacerdote desideroso di entrare a far parte di una confraternita, vi era ammesso direttamente, senza espletare il procedimento di votazione con bussolo, ma egli era tenuto a pagare la tassa di entrata e il contributo mensile al pari degli altri. Ogni confratello defunto veniva sepolto all’interno della congregazione, che si impegnava a pagare le spese del funerale e del lugubre apparato. Il governo della confraternita veniva eletto la terza domenica di dicembre di ogni anno da tutti i confratelli riuniti. Passabili di elezione erano coloro i quali avessero compiuto trent’anni e che si trovavano all’interno della congrega da almeno cinque. Essi dovevano saper leggere e scrivere, non essere debitori della confraternita e godere all’interno di essa di voce attiva e passiva. Agli eletti spettava il compito di nominare gli uffiziali minori, cioè un Segretario, un Fiscale, due Maestri de’ novizj, due Maestri di cerimonie, un Sagrestano, un Cassiere e due Revisori dei conti. Numerosi i doveri della confraternita, primi tra tutti gli esercizi di religione. Inoltre, i confrati erano tenuti a prestare beneficenza cristiana al prossimo bisognoso, soprattutto agli indigenti, ai malati ricoverati negli ospedali, ai carcerati. E ancora spettava ad essi la cura degli orfani, ai quali bisognava insegnare un mestiere onde poter vivere onestamente, e non darsi, fatti adulti, alle ribalderie. Raccogliendo delle piccole somme di denaro, i confratelli dediti alla beneficenza provvedevano a vestire un nudo, o a fornire un pagliaccio al miserabile. Dovevano essi allontanare i giovani dalle bettole, dal vizio del gioco e da tutti quei luoghi di scandalo, conducendoli nella chiesa, e istruendoli ai doveri cristiani. Ogni confraternita — ribadiva ancora la norma — era tenuta a premunirsi del famoso regio assenso, senza il quale essa non poteva riunirsi e non costituiva un corpo legalmente riconosciuto. A dimostrazione della sempre più forte presenza del potere temporale all’interno di queste congreghe, si conferiva alle
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autorità civili il compito di vigilanza dei luoghi pii laicali, unitamente all’Ordinario della diocesi, il quale era il superiore di tutte le confraternite presenti nel territorio di sua competenza. Anche i parroci erano chiamati in causa nella sorveglianza delle confraternite e, qualora scoprissero degli abusi, dovevano immediatamente informarne l’Ordinario. Alcuni luoghi pii laicali aprivano le loro porte anche alle donne, per le quali era previsto il solito procedimento di votazione, già analizzato per gli uomini desiderosi di entrare nella congregazione. Ma, al contrario di questi ultimi, le sorelle, come venivano chiamate, non avevano nessuna ingerenza nell’amministrazione della confraternita, e non potevano giammai aver luogo distinto nelle pubbliche processioni. Le sorelle venivano impiegate nei soli tipi di beneficenza cristiana che prevedevano il soccorso delle donne. Questa esauriente normativa spiegava doviziosamente il regime di vita interno ed esterno della confraternita, fugando ogni eventuale dubbio per quelle in via di formazione e per quelle di antica istituzione, e ribadendo l’obbligo per tutte del necessario regio assenso per far sì che esse fossero considerate legali. Le ultime norme preunitarie relative alle confraternite e alle associazioni di beneficenza erano tutte di natura prettamente fiscale e, perlopiù, consistevano in aggiornamenti della legislazione già vigente e in approfondimenti della stessa. Lo scopo precipuo perseguito dalle confraternite tra Sette e Ottocento, come si è visto, era quello prettamente religioso, fondato sull’esplicazione di tutto ciò che concerneva la vita spirituale, la preghiera, l’aspetto devozionale, il culto per il santo protettore. Quindi, si può affermare che le nostre confraternite sorsero e si svilupparono come dei veri e propri “centri di formazione cristiana”29. La promozione di una “didattica” della religione di Cristo non era riservata ai soli appartenenti al sodalizio, ma veniva estesa a tutta la popolazione e diffusa soprattutto attraverso le pubbliche processioni lungo le vie cittadine, dove i confrati si impegnavano a convertire chi attende a pascersi in vanità30. Quindi, l’attività delle confra29 Cfr G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (18671894), Acireale 1987, 471. 30 ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI CATANIA (= A.S.D.C.), Miscellanea Paesi Diocesi, carpetta 86, Confraternite e Congregazioni, fascicolo 3, Capitoli Regolamentari della confraternita di Gesù e Maria di Paternò, c II.
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ternite si tradusse ben presto in un elemento coesivo estremamente importante nella società, rendendole sempre di più luoghi rilevanti di socialità e solidarietà31. L’educazione religiosa impartita ai confrati trovava espressione nei principi fondamentali dell’etica cristiana quali il rispetto verso il prossimo, l’espletamento di tutte le pratiche divine, la preghiera, il digiuno, la confessione, la comunione, il silenzio rispettoso nei luoghi sacri32. Accanto all’aspetto squisitamente devozionale proprio delle confraternite, che si traduceva in realtà particolarmente in occasione di ricorrenze liturgiche e solennità cristiane, dobbiamo sottolineare la pratica forse più importante delle associazioni laiche, una pratica che divenne sin dalle origini il loro segno distintivo e inconfondibile: assicurare una degna sepoltura ai confratelli, nonché ai poveri e a chi ne facesse espressa richiesta, e celebrare messe in suffragio per l’anima dei defunti. Le norme statutarie di ciascuna confraternita riportano questo aspetto essenziale tra gli scopi principali del sodalizio, e questo si riscontra anche nei capitoli regolamentari più antichi, a testimonianza di una pratica particolarmente sentita da queste associazioni. Taluni regolamenti sottolineano l’iter seguito dai soci nei casi di morte di un confratello, veri e propri riti dal sapore quasi pagano, con l’intento propiziatorio di assicurare al defunto un sereno trapasso. Le esequie funebri venivano estese anche alle moglie, ai figli e ai parenti più prossimi del confrate, assicurando loro quel diritto di obito riportato in tutti gli statuti. Ulteriore aspetto essenziale nella vita delle confraternite era il mutuo soccorso tra i fratelli, che si traduceva in aiuto spirituale e materiale, in vita e in morte, elemento catalizzatore delle forze di tante congreghe. Ma lo spirito di soccorso, come abbiamo già accennato, veniva esteso anche all’esterno del sodalizio, soprattutto nei riguardi della popolazione negletta, secondo una logica di lotta al pauperismo che contraddistinse tutte le associazioni laicali33. Numerosi ospedali, Monti di Pietà34, Monti di 31 Cfr E. IACHELLO, Il vino e il mare: trafficanti siciliani tra ’700 e ’800 nella contea di Mascali, Catania 1997. 32 Cfr Capitoli della Confraternita di S. Maria degli Angeli, in ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA (= A.S.C.), Consiglio Generale degli Ospizi, elenco 9, casella 171, vol 115. 33 Cfr S. RAFFAELE, Dalla beneficenza all’assistenza, cit. 34 Cfr A. SINDONI, Le Confraternite in Sicilia nell’età moderna, in Ricerche di storia sociale e religiosa, 19 (1990) nn. 37-38, p. 335.
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Maritaggio35, furono fondati grazie all’aiuto concreto offerto dalla confraternite e da numerosi privati, i quali elargivano donazioni, lasciti e elemosine perseguendo il duplice obiettivo di tentare di arginare i mali della società e, soprattutto, di assicurarsi con la beneficenza un posto nel regno dei cieli. L’aspetto prettamente “religioso” dei sodalizi confraternali assumeva contorni nitidi in occasione delle festività religiose, quando ogni singola congrega metteva in moto una complessa macchina organizzativa che, in qualche modo, serviva anche ad evidenziare le proprie prerogative “di ceto”. Si è già largamente evidenziato l’aspetto prettamente religioso e devozionale rivestito dalle confraternite, a conferma dell’importanza “spirituale” che esse ebbero nella società del tempo. Proprio per assecondare questa finalità che la caratterizzava, ogni confraternita sorgeva scegliendo un oggetto di devozione36, al quale dedicare solennità e festeggiamenti, processioni e suffragi. La pratica del culto verso un santo protettore costituiva un elemento di fondamentale importanza all’interno del cenobio confraternale37. Quindi le congregazioni laicali, al di là di una loro omogeneità di intenti e di pratiche assistenziali, si differenziavano l’una dall’altra proprio per la scelta del loro specifico oggetto di culto38, aspetto, quest’ultimo, particolarmente avvertito nel sud Italia, dove le specificità locali facevano sentire fortemente il loro peso39. Nel XVI secolo, la grande maggioranza dei titoli prescelti all’atto di creazione di una confraternita presenta una particolare predilezione per la Vergine Maria. L’exploit della devozione mariana fu certamente aiutato, nel secolo successivo, dalla solerzia dei padri gesuiti e domenicani i quali, nell’ottica mutuata dal Concilio di Trento, promossero un rinvigorimento del culto della Vergine quale madre misericordiosa, amabile intermediaria 35 Ad esempio, la confraternita dei Calzolai di Piazza Armerina fondò un Monte di Maritaggio, destinato a raccogliere oboli per le fanciulle orfane o povere. Cfr ARCHIVIO DI STATO DI PIAZZA ARMERINA, carpetta IV, fascicolo 4. 36 R. FIAMINGO, Le confraternite nel diritto canonico e civile, Napoli 1917, 10. 37 V. ROBLES, Vescovi e confraternite nel Mezzogiorno: una storia in parallelo, in Ricerche di storia sociale e religiosa 19 (1990) nn. 37-38, p. 267. 38 R.M. ABBONDANZA, La sociabilità religiosa del Mezzogiorno nel Sette-Ottocento: le confraternite laicali, in Ricerche di storia sociale e religiosa 19 (1990) nn. 37-38, p. 111. 39 A. MIRIZIO, L’esempio di Monopoli, in Ricerche di Storia sociale e religiosa 19 (1990) nn. 37-38, p. 309.
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tra l’uomo e Dio e “avvocata per una buona morte”40, aspetto, quest’ultimo, particolarmente sentito dai confrati41. Nel XVII secolo, accanto alla devozione mariana, larga diffusione ebbe il culto del Santissimo Sacramento. La bolla papale emessa da Paolo III nel 153942 concesse l’indulgenza a quelle confraternite votate proprio alla pratica devozionale dell’Eucarestia43. L’affiliazione di individui accomunati dal medesimo mestiere, inoltre, portò alla diffusione di congreghe nelle quali il culto per un determinato patrono rispondeva a quell’antica devozione popolare e cristiana che investiva taluni santi quali protettori di una specifica categoria lavorativa. In questo senso, l’aspetto specificamente “aggregativo” assumeva contorni particolarmente nitidi che si traducevano spesso in conflitti di élites e che trasformavano le confraternite in luoghi di identificazione non soltanto sociale ma anche, e soprattutto, politica. E a contornare di “dignità giuridica” le congregazioni laicali vennero progressivamente redatti, per ciascuna di esse, gli statuti, che oggi si rivelano fonti privilegiate, insieme a documenti di varia natura conservati 40 R.M. ABBONDANZA, La sociabilità religiosa del Mezzogiorno nel Sette-Ottocento: le confraternite laicali, cit., 111-112. 41 Nella sola città di Catania ben 25 congregazioni erano dedicate al culto mariano, distinte l’una dall’altra solo da appellativi differenti quali, per fare qualche esempio, Maria SS. Addolorata, S. Maria del Monserrato, S. Maria dell’Ogninella, S. Maria del Soccorso. 42 R.M. ABBONDANZA, La sociabilità religiosa del Mezzogiorno nel Sette-Ottocento: le confraternite laicali, cit. 43 Secondo quanto asserisce Sindoni, la prima confraternita siciliana votata al culto del SS. Sacramento avrebbe visto la luce a Messina addirittura nel lontano 1060 per difendere le sacre pissidi dall’oltraggio dei Saraceni, allora padroni dell’isola. In ogni caso, le congregazioni di questo titolo si moltiplicarono copiosamente nel XVII secolo, come già detto, con lo scopo principale di amministrare il Viatico agli infermi e ai moribondi. Pare che esse si diffusero sia nelle città che nelle zone rurali e molte di loro si associarono alla confraternita dal medesimo titolo presente a Roma, Santa Maria sopra Minerva. A conferma di ciò, l’associazione laicale del SS. Sacramento intra moenia di Catania sottolineava, nei suoi Capitoli, l’aggregazione con la sorella romana. A. SINDONI, Le confraternite in Sicilia nell’età moderna, in Ricerche di storia sociale e religiosa 19 (1990) nn. 37-38, p. 333. Cfr anche S. CUCINOTTA, Popolo e clero in Sicilia nella dialettica socio-religiosa fra Cinque e Seicento, Messina 1986, 224; A.S.D.C., Confraternite e Congregazioni, carpetta I, fascicolo 5, Capitoli della confraternita del SS. Sacramento eretta nella Colleggiata di S. Maria dell’Elemosina ed aggregata all’Arciconfraternita della Minerva di Roma, 1784-1820.
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presso archivi e biblioteche, per condurre uno studio esauriente e approfondito sulla loro organizzazione interna ed esterna. Essi, denominati anche capitoli o regolamenti, racchiudevano le norme statutarie proprie di ciascuna congregazione, riportando per iscritto tutte quelle regole che scandivano la vita dei confrati all’interno del sodalizio. Per utilizzare le parole di Angelozzi, lo statuto era una carta costituzionale, di solito approvata da tutti i confratelli riuniti in assemblea plenaria44. L’usanza di redigere una sorta di corpo di leggi specifico per ciascuna confraternita risale all’epoca medievale45 e quindi, molto spesso, statuti relativamente recenti non sono altro che una rielaborazione di quelli più antichi. Alla luce della nuova volontà borbonica, i sodalizi dovettero riformare in parte l’antichi Capitoli e stabilirne dè nuovi per maggior nostro regolamento e per andare d’accordo col R. ordine del nostro amabilissimo Sovrano46. Inoltre, le citate Istruzioni emanate nel 1820, già ampiamente analizzate, fecero un ulteriore passo avanti nella limitazione dell’autonomia interna delle congregazioni, fissando delle norme specifiche relative alla corretta stesura degli statuti, alle quali le confraternite già esistenti e quelle in procinto di costituirsi dovevano obbligatoriamente adeguarsi. Nonostante gli statuti costituiscano la fonte privilegiata per uno studio sulle confraternite, è necessario sottolineare un loro limite evidente, relativo proprio alle informazioni che essi ci forniscono. Infatti, le norme contenute in ciascuno di essi riportano le regole impartite a ciascun confratello, ma non vi è alcuna precisazione relativa all’effettiva ubbidienza da parte di esso alle disposizioni anzidette. La consapevolezza di questi limiti ha turbato non pochi studiosi47. Tuttavia, al di là di eventuali carenze oggettive, gli statuti presi in esame sembrano quasi rifarsi ad una sorta di “modello unico”, presentando tutti le medesime suddivisioni e, praticamente, la medesima normativa. 44
G. ANGELOZZI, Le confraternite laicali, cit., 49. G.G. MEERSSEMAN, Ordo fraternitatis, cit., 18-21. 46 Cfr Capitoli della confraternita S. Giovanni Evangelista sotto il titolo di S. Eolio, in ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO, Direzione Generale di Polizia, casella 240, busta 14, c 21, prefazione. 47 Cfr D.E. BORNSTEIN, Corporazioni spirituali, proprietà delle confraternite e pietà dei laici, 78-79; cfr G. ANGELOZZI, Le confraternite laicali, cit., 49. 45
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Largo spazio veniva dato ai metodi di elezione del corpo amministrativo interno ad ogni sodalizio, evidenziando per ciascun eletto i diritti e i doveri48. Un altro tema centrale nella redazione dei capitoli normativi è, senza dubbio, quello relativo all’ammissione di un nuovo adepto. Accedere ad una confraternita richiedeva caratteristiche morali ben precise e avveniva solo dopo un periodo variamente lungo di noviziato49. Spesso, oltre a particolari rassicurazioni di stampo etico, la congrega richiedeva al papabile neofita determinate caratteristiche sociali. Infatti, erano numerose le confraternite che ammettevano al loro interno individui appartenenti ad uno specifico ceto o lavoratori esercitanti il medesimo mestiere50, anche se, nella maggioranza dei casi, i sodalizi si distinguevano per la loro prerogativa interclassista. Le elezioni del corpo amministrativo di una confraternita avvenivano in un preciso giorno dell’anno, che era stabilito dai capitoli regolamentari di ciascun sodalizio. Generalmente, le votazioni avvenivano mediante il sistema del bussolo, che consisteva appunto nell’imbussolare i nominativi dei candidati ritenuti più idonei per poi procedere all’estrazione. Molto spesso, invece, le nomine avvenivano con voto segreto di ciascun confrate, da riporre dentro un’apposita urna. Quando tutti gli aventi diritto avevano espresso la loro preferenza, si procedeva alle operazioni di scrutinio e, quindi, alla proclamazione degli eletti. La carica più importante presso ogni congregazione era, come si è detto, quella di Governatore, denominato anche Prefetto, Presidente, Priore o Rettore. Diversi i compiti delegati a questo “capo” della congrega: curare gli interessi spirituali e temporali del sodalizio, far rispettare le norme statutarie, vigilare sulla buona condotta dei confratelli, richiamare e punire i trasgressori, rappresentare l’associazione di fronte all’autorità religiosa e a quella civile, convocare le assemblee direttive. A coadiuvare l’operato del Governatore erano due Assistenti, o Consiglieri, i cui compiti consistevano nel consigliare e assistere il Governatore in tutte le occorrenze e necessità della Compagnia, sforzandosi a far sì, che insieme con lui si osservino li presenti Capitoli e costumanze della Compagnia, e procurino finalmente ad 48 49 50
Cfr in seguito il paragrafo relativo agli amministratori. Cfr in seguito il paragrafo relativo agli amministrati. Cfr in seguito il paragrafo relativo alla stratificazione sociale.
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essere li primi negli esercizi di pietà della stessa, per esser così di esempio a tutti gli altri confrati51. Inoltre, essi facevano le veci del superiore della congrega in caso di sua assenza, impedimento, dimissioni o morte. Un’altra figura importante all’interno dell’associazione laicale era quella del Cancelliere, o Segretario. Egli era il responsabile dell’archivio del sodalizio, nel quale venivano conservati i libri, gli atti e i documenti relativi ad esso e a tutti i confrati. Annotava in un apposito registro i beni immobili e mobili della compagnia e, in un secondo libro, registrava i nomi di tutti i confratelli, compresi quelli defunti. Analogamente, egli si occupava della redazione di un libro ove elencava le riunioni che si tenevano all’interno del sodalizio e le relative deliberazioni che vi erano sancite, e si impegnava a redigere i capitoli regolamentari. Inoltre, suo compito precipuo era quello di trascrivere i nomi delle persone decedute alle quali la confraternita dava sepoltura52. Per la natura delle sue mansioni, il Cancelliere doveva necessariamente essere abile nello scrivere e leggere53. L’ufficio del Tesoriere, o Cassiere, consisteva nel tenere la contabilità della confraternita, e trascrivere in un apposito registro le somme versate mensilmente da ogni singolo confratello, oltre alle donazioni, i lasciti, le eredità e le elemosine elargite alla confraternita. Egli, allo scadere del suo mandato, doveva presentare una relazione al Consiglio degli ospizi, secondo quanto prescritto dalle Istruzioni del 182054. Non furono rari i casi in cui i Tesorieri vennero accusati di abuso del loro potere55. Ogni confraternita aveva un proprio Cappellano, un sacerdote secolare addetto alla celebrazione delle messe e incaricato di confessare e comunicare ogni confrate. Inoltre, era suo compito intervenire a tutte le processioni e ai funerali, e assistere spiritualmente i fratelli moribondi. Egli 51
Capitoli regolamentari dell’Arciconfraternita dè Bianchi di Catania, Catania
1854. 52 Cfr ARCHIVIO ARCICONFRATERNITA DI S. ORSOLA (= A.A.S.O.), Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, c IX, Dell’officio del cancelliere. 53 Capitoli della confraternita dei SS. Crispino e Crispiniano, Catania 1893, c III. 54 Cfr il paragrafo inerente la normativa nel presente lavoro. 55 A.S.C., Consiglio degli Ospizi, casella 154, b. 25, Catania, 6 aprile 1843. Un esempio eclatante è dato dalla confraternita di S. Agata La Vetere di Catania il cui Priore, nel 1843, accusò il Cassiere Grassi di essersi appropriato indebitamente di alcuni mobili di proprietà del sodalizio
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poteva anche non essere socio della congrega e la sua nomina doveva essere approvata dall’autorità ecclesiastica. Spesso, le mansioni del Cappellano venivano retribuite dagli stessi confratelli56. Il Sagrestano si occupava dell’oratorio e di tenere sempre in ordine e puliti gli arredi sacri e i paramenti propri della confraternita57. Figura estremamente importante all’interno dell’associazione era — come si è visto — quella del Maestro de’ novizi. Egli, spesso prescelto tra gli ex Governatori, aveva il compito di guidare gli aspiranti confrati durante tutto il periodo di noviziato, istruendoli alla vita del sodalizio ed educandoli ad essere dei buoni cristiani, onesti e umili. Dopo aver vigilato sulla loro condotta, allo scadere del termine prefissato per il noviziato, il Maestro de’ novizi si pronunciava positivamente o negativamente circa il loro ingresso nella confraternita. Le cariche analizzate fino a questo momento sono sicuramente quelle più riscontrabili presso quasi tutte le congregazioni prese in esame. Ma esistevano numerosi altri incarichi, variamente presenti nei sodalizi, di cui ci limiteremo a riportare quelli più interessanti. I Nunzi si premuravano di informare celermente il Governatore circa la malattia o la morte di un confratello. Spesso essi, denominati anche Ambasciatori ed eletti dal Governatore, richiamavano al loro dovere i fratelli più reticenti, ammonendoli e, se le circostanze lo richiedevano, accusandoli al direttivo del sodalizio. I Maestri di cerimonia, solitamente prescelti tra la rosa degli ex Consiglieri, si occupavano del buon andamento di tutte le funzioni pubbliche e private della congrega, oltre a far eseguire le penitenze inflitte a i confrati colpevoli di qualche mancanza. Da due a quattro variava il numero dei Visitatori degli infermi, o Infermieri, il cui compito era quello di visitare i carcerati o gli ammalati, portando loro conforto spirituale e pregando per le loro anime. Dovere dei Pacieri era quello di far rispettare e regnare l’ordine all’interno della confraternita, e di dirimere ogni eventuale contrasto tra i confratelli. 56 Cfr ARCHIVIO PRIVATO DELLA CONFRATERNITA DI S. ANTONIO ABATE DI NICOLOSI, Capitoli, 1820, art. XXVI. 57 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, c XXIII, Dell’officio di sacristani.
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Per concludere, curiosa la figura dei Cantori i quali dovevano recitare inni, salmi e litanie e, per fare ciò, dovevano essere in grado di leggere e scrivere. Relativamente alla procedura d’ingresso all’interno di un sodalizio confraternale, primo passo richiesto ad un aspirate confrate era quello di formulare un’apposita domanda al Governatore nella quale doveva specificare i propri dati personali e dimostrare di essere in buona salute58. Ciò dimostra la volontà, comune a tutte le associazioni laicali, di ammettere al loro interno gente sana in quanto non risultava conveniente pagare le spese di sepoltura per un confrate appena iscritto. Anche per questo, numerose confraternite prevedevano dei limiti d’età, al di fuori dei quali non era possibile accedervi. Ulteriore condicio sine qua non affinché il futuro fratello potesse aspirare ad entrare a far parte del sodalizio era che fosse confessato, comunicato e riconciliato con il prossimo59. Inoltre, egli doveva essere battezzato, professare la religione cattolica e non aderire ad alcuna setta espressamente condannata dalla Chiesa60. Ovviamente, l’aspirante confrate doveva dimostrare una condotta morale integerrima, e non dedicarsi a vizi di alcun genere come il gioco delle carte o il vino. Per indagare sulla veridicità o meno della buona condotta morale e religiosa del probabile neofita, il Governatore ne affidava la vigilanza ai già citati Maestri de’ novizi i quali dovevano accertarsi della reale presenza dei requisiti richiesti, durante un periodo di noviziato che variava a seconda delle confraternite. All’atto di ingresso, il neoeletto doveva versare la “pia entratura”61, una sorta di tassa d’accesso che variava da un sodalizio all’altro. Essa, 58 BIBLIOTECA ZELANTEA, misc. vol 93, n. 24, sezione La Spina, 1887. In questo senso, è interessante leggere l’articolo 10 dello statuto della confraternita della Misericordia, presente ad Acireale, nella quale requisiti fondamentali per poter entrare a far parte del sodalizio erano: che non sia bevone, che sia sano, robusto, non zoppo, e non sconcio nella persona da muovere a ribrezzo o a schifo. 59 ARCHIVIO PRIVATO DELLA CONFRATERNITA DI S. ANTONIO ABATE DI NICOLOSI, Capitoli, 1820, art. XIII. 60 Cfr G. ANGELOZZI, Le confraternite laicali, cit., 8. 61 F. VOLPE, Statuti di confraternite e vita socio- religiosa nel Settecento, in Ricerche di storia sociale e religiosa 19 (1990) nn. 37-38, p. 78.
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chiamata anche ceppo, deposito o mesata, spesso si differenziava anche a seconda dell’età del neofita. Inoltre, una volta entrato a far parte del sodalizio, il confrate doveva versare dei contributi mensili, nella maggioranza dei casi volontari e, qualora un socio ritardasse nei pagamenti per un periodo di tempo che variava dai tre ai sei mesi, veniva automaticamente escluso dalla confraternita, mantenendo però il diritto di sepoltura62. Spesso, però, anche questo andava perduto63. Comunque, alcune confraternite si mostravano più magnanime con i debitori, concedendo loro un periodo di tempo per poter saldare il debito, a patto che la motivazione di tale morosità fosse più che valida64. Tra i doveri di ogni confrate vi era quello di assistere spiritualmente i fratelli malati, confortandoli nell’agonia e recitando preghiere per loro. Uguale solerzia doveva essere dimostrata in caso di morte del confratello, per il quale erano previste numerose messe in suffragio. Questo spirito di carità cristiana si manifestava anche nei riguardi dei poveri o dei carcerati, categorie particolarmente care all’attenzione delle congregazioni laicali. Inoltre, era compito dei confrati partecipare alle processioni previste dal sodalizio, rigorosamente abbigliati con il “sacco” proprio di ogni associazione, tra le quali le più importanti erano quelle fatte in occasione della Settimana Santa, della festa del Corpus Domini, della commemorazione dei defunti, oltre alle funzioni in onore del santo protettore. Essi dovevano, altresì, prendere parte alle frequenti assemblee che periodicamente si svolgevano all’interno di ogni sodalizio e, per gli assenti ingiustificati, era previsto il pagamento di una multa. Ulteriori obblighi del confrate erano la totale ubbidienza agli amministratori, particolarmente al Governatore, la confessione, la comunione, la partecipazione alle messe e la recita delle preghiere giornaliere. Onere dei confratelli era anche quello di raccogliere le elemosine da elargire in favore dei bisognosi65.
62 Cfr A.S.C., Consiglio degli Ospizi, casella 160, b. 55, Confraternita di Gesù e Maria di Adernò, Articoli in aggiunta ai Capitoli regolamentari, art. 14. 63 Cfr Statuto della confraternita dei SS. Crispino…, cit., c VII, art.32. 64 Cfr Statuto della confraternita di S. Agata Le Sciare - S. Barbara, Catania 1912, c II, art.9. 65 Cfr Capitoli della Congregazione del SS. Suffragio dell’anima del SS. Purgatorio, in BIBLIOTECA ZELANTEA, misc. acese, vol 40, n. 34, Acireale 1897.
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Tutti potevano essere eletti alle varie cariche previste dal sodalizio e, eventualmente, contestare l’operato degli amministratori. Inoltre, come si è visto, essi godevano del diritto di obito. Ogni confrate defunto, ancora, riceveva messe in suffragio della propria anima mentre quelli viventi potevano contare sull’aiuto spirituale e materiale dei fratelli, secondo il celebre spirito di mutuo soccorso che animava le confraternite. Ritengo opportuno ricordare che, solitamente, le associazioni laicali non prevedevano un numero massimo di adepti, aprendo le porte a chiunque volesse accedervi. Nonostante ciò, chiaramente, esistevano delle eccezioni alla regola. La caratteristica della maggior parte delle confraternite, infatti, consiste, si è detto, proprio nell’interclassismo. Questa caratteristica fa sì che all’interno della medesima congrega si possano trovare individui provenienti dalle più diversificate classi sociali o esercitanti svariati mestieri. Ma, una volta entrati a far parte del gruppo laico, essi acquisivano pari dignità, godevano degli stessi diritti e assolvevano ai medesimi doveri. Stando così le cose, sembra quasi che le confraternite rappresentino una sorta di città utopistica di campanelliana memoria, dove le barriere sociali vengono abbattute e gli individui superano ogni sorta di discriminazione. Nei fatti, tuttavia, le cose non stavano così. La stratificazione sociale che, spesso, contraddistingueva le associazioni laicali sovente creava attriti tra una congregazione e l’altra, soprattutto durante le processioni per le vie cittadine66. Infatti, occasioni come queste creavano il pretesto per quelle confraternite composte dal ceto medio-alto di far risaltare la loro importanza e la loro supposta superiorità rispetto a quelle riservate alle categorie meno abbienti, dimenticando spesso il fine religioso e assistenziale che avrebbe dovuto caratterizzare le associazioni laicali, senza alcuna apparente distinzione.
66 A questo proposito, è interessante segnalare una querelle sorta tra la confraternita del SS. Sacramento e quella di S. Caterina, entrambe di Paternò: la prima, composta da avvocati, notai, impiegati civili, aveva come colore caratterizzante il rosso. La scelta della seconda, i cui adepti erano porcai, pecorai e ortolani, di assumere il medesimo colore, suscitò la ribellione dei confrati del SS. Sacramento, preoccupati della confusione generata da tale rassomiglianza in occasione delle pubbliche processioni. Cfr A.S.D.C., Confraternite e Congregazioni, fasc. 5, lettera del 16 giugno 1876.
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2. L’ASSOCIAZIONISMO LAICALE A CATANIA La concentrazione di confraternite fondate a Catania nel XVII secolo sembrava sostituire, in questo secolo così frastornato dai noti eventi catastrofici, quegli istituti destinati all’assistenza-reclusione fortemente presenti, invece, nella ricostruzione post-terremoto, ritardando — così, in un certo senso — il fenomeno del grand renfermemant, proprio del Seicento europeo. La città di Catania, a seguito del terribile terremoto che la sconvolse nel 169367, vide una ricostruzione del suo assetto urbano, nel quale la precipua attenzione rivolta ai problemi igienico-sanitari, nonché a quelli legati alla beneficenza e all’assistenza occuparono un posto di primo piano nella nuova struttura cittadina. Accanto a una fiorente edilizia religiosa, sorsero numerosi enti destinati alla cura di persone indigenti e malate quali l’Ospedale S. Marta, la Casa del S. Bambino, la Casa di nutrizione per i fanciulli proietti, e numerosi altri. Inoltre quando, nel 1818, la riforma amministrativa promosse Catania al ruolo di capovalle della neonata Intendenza, la città compì un ulteriore balzo in avanti nella sua politica filantropica, assecondata dal fatto rilevante che l’intendente era altresì il responsabile dei problemi edilizi e sanitari. Tutto ciò favorì l’espansione delle confraternite in ambito urbano, equamente distribuite nella zona sudovest, ad alta concentrazione di popolazione operaia, e in quella nord-est, residenza favorita da nobili e civili68. A conferma della volontà assistenziale prediletta dalle congregazioni laicali, si osserva come alcune di esse (S. Agata la Vetere, S. Agata al Carcere, S. Cristoforo le Sciare, S. Maria di Maddalena, S. Maria dei Miracoli) si trovassero ubicate nella zona dove sorgeva il Monastero dei Benedettini, in prossimità dell’Ospedale S. Marco, della Casa di nutrizione e della Casa del S. Bambino69. Ma, nonostante i quartieri “poveri” contassero il maggior numero di confraternite, la già citata zona nord-est, storicamente attribuita alla “Catania bene”, ne annoverava in quantità notevole, soprattutto concentrate nelle piazze principali (tra tutte, S. Maria dell’Ogninella al Rinazzo, S. Michele Minore, 67 68 69
S. RAFFAELE, Dalla beneficenza all’assistenza, cit., 89-91. G. GIARRIZZO, Catania, Roma-Bari 1986, 4. Cfr S. RAFFAELE, Dalla beneficenza all’assistenza, cit., 95.
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S. Orsola, detta dei Morti). Il rinnovato interesse verso problemi socio-assistenziali dimostrato dal potere locale, quindi, non mise in disparte l’autorità religiosa, votata per tradizione al soccorso della popolazione negletta. Il rispetto dei luoghi sacri fu una costante nel quadro di rinnovamento urbanistico promosso dall’amministrazione civile70. Nella Catania dell’Ottocento, nella Sicilia della Restaurazione borbonica, questa forma di associazione prevalentemente laicale solo come elemento residuale di un passato che in essa aveva visto un polo aggregativo per le pratiche devozionali, l’assistenza e il mutuo soccorso, o un’appendice delle antiche maestranze. La perdita delle sue funzioni istituzionali diventa definitiva specie dopo le leggi restrittive dell’associazionismo, seguite ai moti liberali, l’abolizione delle maestranze in Sicilia del 13 marzo 1822, la legge del 1862, e infine quella Crispi del 189071 con la quale le funzioni della confraternita sono relegate solo alle odierne ben note finalità igienico-sanitarie. Per Gaetano Zito72 le confraternite costituiscono insieme alla parrocchia un polo di attrazione che, ad eccezione dell’aristocratica Arciconfraternita dei Bianchi, raccoglie le fasce medie e medio-basse della società urbana spesso per lo più non riunite in base ai mestieri. A dispetto del carattere egualitario che accomunava la maggioranza delle confraternite, alcune di esse acquisivano il titolo di arciconfraternite, che le assurgeva a un gradino superiore rispetto alle altre e conferiva loro la dignità di “coordinatrici”73. A Catania le più celebri erano quelle di S. Agata al Carcere, dei Bianchi e di S. Orsola.
70
Cfr E. IACHELLO, Il controllo dello spazio urbano: la Chiesa e i poteri locali a Catania nella prima metà del XIX secolo, in G. ZITO (a cura di), Chiesa e società in Sicilia. I secoli XVII-XIX. Atti del Convegno internazionale organizzato dall’arcidiocesi di Catania, Torino 1995, 237-253. 71 G. BARONE, L’oro di Busacca. Potere, ricchezza e povertà a Scicli (secoli XVI-XX), Palermo 1998, 270ss. 72 G. ZITO (a cura di), Chiesa e società in Sicilia, cit. 73 E. ROBERTAZZI DELLE DONNE, Stato borbonico-tanucciano ed istituzione confraternale, cit., 64-65.
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2.1. L’Arciconfraternita di S. Orsola Lo studio delle confraternite, si è detto, oltre ad aprire una finestra importante per conoscere uno spaccato della Catania ottocentesca, offre interessanti suggestioni a chi vuole accostarsi all’analisi di quei rapporti socio-politici che caratterizzano le città in tarda età moderna. La scelta di analizzare con particolare attenzione il periodo della Restaurazione nasce dalla volontà di scandagliare quanto più possibile un periodo particolarmente significativo, non soltanto per la progressiva affermazione di una élite dirigente “borghese” e professionale che si sostanzia come giovane e nuovo “personale” nei quadri amministrativi urbani, ma anche per le turbolenze politiche che attraversarono quegli anni. Lo studio di una realtà urbana, quindi, non può prescindere dall’analisi peculiare delle differenti “società” che la animano. In questo senso, infatti, il periodo analizzato segna il delicato passaggio da una società fondata sul ceto a un’altra ruotante attorno al censo: i nuovi gruppi sociali si compenetrano progressivamente con i vecchi ceti nobili cittadini, affiancandosi ad essi nella gestione del potere locale. La riforma amministrativa del 181774, mutuata dal Borbone sul modello francese, segna il giro di vite in questo senso nella storia politica siciliana, ridefinendo in chiave “moderna” i rapporti tra monarchia e ceto dirigente isolano, la cui punta di diamante è proprio la nuova figura del “notabile”. L’identificazione di ruolo trova una via maestra anche nell’appartenenza a gruppi sociali ben definiti, non ultime le aggregazioni confraternali, veri e propri anelli della complessa catena socio-amministrativa urbana. La scelta di puntare l’accento proprio sull’Arciconfraternita di S. Orsola di Catania non è certamente casuale. Accostandoci alle vicende del sodalizio nella prima metà dell’Ottocento — particolarmente all’indomani della riforma amministrativa75 — e, soprattutto, scrutando i nomi dei 74
Collezione delle leggi e de’decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Napoli, decreto n. 932 dell’11 ottobre 1817, Decreto sull’amministrazione civile de’dominj oltre il Faro, 245290. 75 Cfr E. I ACHELLO – A. S IGNORELLI , Borghesie urbane dell’Ottocento, in M. AYMARD – G. GIARRIZZO (a cura di), La Sicilia. Le regioni dall’Unità a oggi. Storia d’Italia, Torino 1987.
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governatori e dei consiglieri, è possibile notare una quasi palmare coincidenza tra questi e gli amministratori urbani. Tutto ciò conferma l’ipotesi iniziale dello studio, e cioè la forte incidenza che una confraternita prettamente “civile” aveva nella gestione del potere locale. È stata effettuata la comparazione tra i nomi dei deputati maggiori che gestirono l’arciconfraternita nel secolo XIX e le cosiddette “liste degli eleggibili” della città di Catania, elenchi nominativi nei quali sono riportati tutti quegli individui che, all’indomani della riforma del ’17, avevano i requisiti necessari per potere accedere al Decurionato cittadino. Da tale confronto possono emergere dati significativi relativi ai rapporti intercorrenti tra una realtà associazionistica importante e radicata nel tessuto urbano e la complessa rete amministrativa cittadina. Peraltro, come vedremo, le cesure politiche che attraversarono il secolo XIX — e che non lasciarono indifferente Catania e i suoi quadri politici — ebbero una sorta di “ricaduta” anche sull’arciconfraternita presa in esame, ricaduta confermata non soltanto da un interessante documento d’archivio del 1822, ma anche dalle vicende di alcuni dei suoi soci, non ultimo il medico Euplio Reina, personaggio potente e ambiguo dell’élite catanese ottocentesca. La genesi dell’Arciconfraternita di S. Orsola risale all’aprile 1572, quando l’arrivo a Catania di padre Giovanni Battista Carminato, dell’ordine gesuita, agevolò la fondazione dell’associazione intitolata a questa santa — sul modello dell’Arciconfraternita dei Morti, presente a Roma76 — con lo scopo di seppellere morti poveri e miserabili e fare actu opere pii77. Tuttavia, il primo Statuto dell’arciconfraternita venne stilato solo l’1 aprile 161778, quando si misero per iscritto tutte le norme originarie del sodalizio. A differenza di altre congregazioni laiche, che erano riservate a determinate categorie sociali, tale associazione si distingueva per la prerogativa di essere aperta a chiunque desiderasse accedervi, purché animati dall’amore verso Dio e il prossimo. Nonostante ciò, l’elenco dei 76
Cfr A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600, in Synaxis 17 (1999) 206. 77 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, c I, Ordine et fundatione della decta compagnia di Sancta Orsola sub titulo Mortis nella clarissima cita di Catania. 78 A.A.S.O., Statuto dell’Arciconfraternita di S. Orsola di Catania, Catania, 8 marzo 1973.
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soci iscritti alla confraternita dalla data della sua fondazione fino al periodo qui esaminato, non lascia dubbi sulla natura specificatamente “civile” — per usare un termine prettamente ottocentesco — dei componenti, quasi tutti appartenenti al ceto professionale cittadino e, spesso, anche a quello aristocratico. Tuttavia, quest’ultimo punto non trovava riscontro nel primo corpo di leggi dell’arciconfraternita nel quale, di contro, era sottolineata l’esclusione di coloro facenti parte il ceto nobiliare cittadino79. L’Arciconfraternita di S. Orsola di Catania — si legge in un documento ottocentesco — non accettava soci fuori legge, ossia carbonari80. I confratelli, dopo avere pagato una sorta di “tassa” di iscrizione, si occupavano di quello che era il compito precipuo del sodalizio, cioè la sepoltura dei poveri e dei soci defunti, la cui messa in pratica avveniva secondo un cerimoniale ben preciso. Inoltre, gli affiliati dovevano prendersi cura di chiunque fosse in difficoltà, offrendo aiuti concreti, oltre al sostegno spirituale. L’Arciconfraternita di S. Orsola, come tutte le altre associazioni pie laicali presenti all’epoca a Catania, si attivava alacremente in occasione delle festività più importanti. Particolarmente sentite erano le solennità della Settimana Santa81. Relativamente all’organizzazione interna dell’arciconfraternita, lo Statuto prevedeva una serie di norme volte a regolamentarne l’assetto e a 79 Cfr A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c II, Del numero delli fratelli e qualità di quelle. Tutti quelli personi li quali vorano intrari e agregarsi in decta compagnia essendo persone di buona vita e vertuose e honeste di qualsivoglia conditione e stato […] avertendo però che non siano persone nobili per evitare l’inconveniente che in futuro ponno succedere e quanti volti alcuno fratello o vero officiali che fosse proponesse alcuno della sopradette persone ipso facto s’intenda cancellato e che mai pozza intrari più per nostro Fratello […]. 80 Cfr A.S.C., Consiglio degli Ospizi, elenco 9, casella 155, b. 46, pp. 72-74. 81 Cfr A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c XXIII, Della processione del Sanctissimo Corpo di Christo; c XXXVIII, Dell’officio del Giovedì Sancto; c XXXIX, Della oratione della quaranta hore. L’arciconfraternita di S. Orsola di Catania sentiva con particolare devozione le funzioni relative al Giovedì Santo. In questo giorno, i confrati si riunivano nell’Oratorio, vestendo il loro caratteristico “sacco”, pregando e rivivendo la lavanda dei piedi, così come Gesù Cristo aveva fatto con i suoi Apostoli. Dopo aver espletato questa funzione, i confratelli andavano in processione lungo le vie cittadine, scalzi e portando una croce sulle spalle, visitando quante più chiese potevano.
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suddividere i compiti tra i vari confratelli. L’amministrazione della congrega era affidata a tredici ufficiali maggiori eletti dagli stessi soci secondo la cosiddetta “raccolta di voci”. Tali amministratori erano: il Governatore, due Consiglieri, un Cancelliere, un Tesoriere, due Maestri de’ novizi, due Sagrestani, due Visitatori degli infermi e due Nunzi82. Le elezioni avvenivano due volte l’anno — a marzo e a settembre — sebbene la sola carica di Tesoriere avesse cadenza annuale83. Condicio sine qua non per essere eletti a qualcuna di queste cariche era, in primo luogo, l’età, stabilita in almeno venti anni — per il Governatore essa saliva a venticinque — e, in secondo luogo, l’assicurazione di non essere stati espulsi, in precedenza, da qualsivoglia altra confraternita84. Inoltre, gli amministratori incaricati nel semestre non dovevano essere legati tra loro da alcun vincolo di parentela. Compito precipuo del governatore era quello di mantenere l’ordine all’interno del sodalizio, vigilando sulla condotta dei confratelli e redarguendo o punendo chi mancava ai propri doveri85. Nell’esplicazione di tali funzioni il Governatore era coadiuvato dai due Consiglieri86. Seguendo l’ordine gerarchico della compagnia, dopo i primi tre funzionari maggiori venivano il Cancelliere87 e il Tesoriere88. Ai Maestri de’ novizi, si è detto, veniva affidata l’educazione dei nuovi adepti89 e ai Visitatori degli infermi la cura spirituale e materiale degli 82
A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c III, Dell’officio dei detta Compagnia e Consulta. 83 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c X, Dell’officio del Thesaurero. 84 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c IV, Elezione del gobernatore e consiglieri. 85 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c V, Dell’officio del Gobernatore. Cfr anche c XXVIII, Della negligentia delli fratelli; c XIX, Della corruptione fraterna. 86 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c VII, Dello officio delli consiglieri. 87 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c IX, Dell’officio del cancelliere. 88 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c X, Dell’officio del Thesaurero. 89 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c XI, Dell’officio di mastri di novizi prepositi di pace.
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ammalati. Accanto ai Sagrestani90, i cosiddetti Nunzi erano una sorta di factotum dell’arciconfraternita, chiamati a svolgere diverse mansioni, di varia natura, loro affidate dal Governatore91. Come già evidenziato, l’Arciconfraternita di S. Orsola apriva le sue porte a chiunque volesse farne parte in qualità di socio, prevedendo quali soli veti i limiti di età. Infatti, vi si poteva accedere solo dopo avere compiuto diciotto anni, mentre venivano respinti individui troppo anziani. Il neofita, una volta accettato dai confratelli attraverso il sistema di votazione, entrava a far parte della congrega dopo avere preso parte a un complesso e simbolico cerimoniale, durante il quale indossava il cosiddetto “sacco nero”, una sorta di veste rappresentativa del sodalizio92. Tra i doveri dei confratelli, oltre a quelli già analizzati, era annoverata l’esplicazione dei diversi esercizi spirituali propri della religione cattolica, il rispetto per gli altri soci e la sottomissione agli ufficiali maggiori, le cui decisioni dovevano essere accettate senza riserve93. Tra i vari compiti dei confratelli, inoltre, vi era quello di raccogliere l’elemosina, il cui esercizio era fissato per ogni giovedì. A turno, due soci erano incaricati di questo onere per il quale veniva espressamente vietato l’uso di armi atte a obbligare chiunque a versare un obolo: …decti fratelli non possono portare arme di nisun modo tanto offensive quanto difensive in decta cerca, ne fare atti disonesti ma con ogni modestia domandari e cercari decta elemosina94. Nell’eventualità in cui un confratello fosse impedito a svolgere tale mansione, era obbligato a pagare la somma di due tarì da devolvere per l’elemosina95.
90 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c XXIII, Dell’officio di sacristani. 91 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c XXXVII, Dell’esenzione delli nunti. 92 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c XXVI, Della intrata di novicy. 93 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c XVII, Di quello che sono obbligati li fratelli. 94 A.A.S.O., Libro dei capitoli dell’Arciconfraternita, cit., c XX, Della cerca delli denari placita. 95 La questua — scrive Longhitano — fu abolita nel 1629. Cfr A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600, cit., 215.
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I confratelli defunti, infine, godevano dell’obito, cioè del diritto di avere delle esequie solenni e una sepoltura decorosa. Le confraternite, dunque, oltre che luoghi di identificazione sociale, possono essere definite anche “isole di sociabilità democratica”. All’interno di tali luoghi si esercitava anche una sorta di democrazia sostanziale, fondata sui diritti e i doveri degli associati, dando la possibilità di apprendere modi di vita capaci di promuovere una solidarietà di gruppo. Forme e luoghi di aggregazione diventano quindi momento aggregante per la società mediterranea e siciliana in epoca moderna. L’analisi della struttura interna delle confraternite, dunque, passa attraverso i nomi dei loro soci e, in particolare, di coloro che si occuparono, nella prima metà del secolo XIX, dell’amministrazione interna. È necessario notare che i nomi degli amministratori venivano sempre preceduti dall’appellativo don, titolo solitamente riservato agli individui che occupavano posti di preminenza in ambito cittadino in base al censo, e condizione necessaria per poter essere ammessi alle liste degli eligibili, vero e proprio specchio delle élites dell’epoca96.
Ufficiali maggiori della nostra Confraternita S. Orsola creati ogni prima domenica di marzo Anno
Governatore
Consiglieri
1800 1801 1802
D. Tommaso Ardizzone
1803
D. Domenico Castorina
1804
Dr. D. Giuseppe Martinez
1805
D. Tommaso Daniele
1806 1807 1808
D. Andrea Platania
D. Domenico Reitano S. D. Michele Scammacca Colonna D. Antonino Nicolosi D. Domenico Corvaia Dr. D. Tommaso Amato Dr. D. Gaetano Cantarella Dr. D. Antonino Lombardo D. Domenico Corvaia Dr. D. Erasmo Marletta D. Guglielmo Scammacca B.ne D. Francesco Mannino D. Orazio Pulvirenti D. Agostino Falsari
D. Domenico Reitano
D. Giuseppe Montesano 96
Cfr E. IACHELLO – A. SIGNORELLI, Borghesie urbane dell’Ottocento, cit., 110.
Le Confraternite: il caso di s. Orsola Anno
Governatore
1809 1810
D. Antonino Paternò Castello Marchese di S. Giuliano D. Carmelo Guglielmini
1811
D. Domenico Corvaia
1812
D. Erasmo Marletta
1813
D. Antonino Toscano
1814 1815 1816
D. Mario Calì D. Paolo Geraci
1817
D. Mario Fragalà
1818
D. Gaetano Marziani
1819 1820 1821 1822 1823
D. Vito Nicosia D. Orazio Pulvirenti D. Ignazio Buglio
1824 1825 1826 1827 1828
D. Domenico Parisi
1829
D. Giuseppe Vespaio
1830
D. Matteo Bongiorno
1831
D. Matteo Bongiorno
1832 1833 1834
D. Giacinto Mangione
D. Placido Vespaio D. Giovanni Geraci
D. Pietro Paolo Di Mauro
Consiglieri D. Guglielmo Scammacca B.ne della Bruca D. Andrea Platania D. Domenico Corvaia D. Giuseppe Monicano D. Antonio Amato e Corvaia D. Guglielmo Scammacca B.ne della Bruca D. Carlo De Marco D. Mario Calì D. Giacomo Zappalà D. Salvatore Corsaro D. Sebastiano Saguto D. Erasmo Marletta D. Vito Nicosia D. Simone Pansa D. Luigi Sacchero D. Orazio Pulvirenti D. Andrea Platania D. Benedetto Corsaro D. Giovanni Asciutti D. Natale Condorelli D. Ignazio Buglio D. Erasmo Marletta D. Andrea Platania D. Francesco Gabriele Tineo D. Vito Nicosia D. Sebastiano Saguto D. Getano Marziani D. Erasmo Marletta D. Giovanni Riccioli Scarso D. Domenico Corvaia D. Matteo Platania D. Erasmo Marletta D. Giovanni Mongrona D. Domenico Corvaia D. Matteo Platania D. Domenico Corvaia D. Giovanni Strano D. Orazio Pulvirenti D. Placido Accitano D. Francesco Corvaia D. Giuseppe Toscano Pulvirenti
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Anno
Governatore
Consiglieri
1835
D. Mario Nicotra
1836
D. Alessandro Castro
1837 1838 1839
D. Benedetto Cristoadoro
1840
D. Francesco Calì
1841 1842 1843
D. Giuseppe Lucatascone D. Nicolò Nicotra
1844
D. Nicolò Nicotra
1845
D. Giuseppe Portoghese Amato
1846
D. Giuseppe Portoghese
1847
D. Giuseppe Portoghese
D. Placido Accetta D. Giuseppe Riccioli D. Giuseppe Reitano D. Benedetto Cristoadoro D. Giacinto Mangione D. Francesco Pulvirenti Patti D. Giuseppe Reitano D. Giuseppe Geraci D. Giacinto Magrì D. Raffaele Rossi D. Giuseppe Reitano D. Nicolò Nicotra D. Salvatore Reitano D. Giuseppe Portoghese D. Giovanni De Luca Testa D. Giuseppe Di Stefano D. Giuseppe Quartarone D. Erasmo Marletta D. Giuseppe Reitano D. Erasmo Marletta D. Placido Reitano D. Vincenzo Ravesi
1848 1849 1850 1851 1852 1853
Confermata la stessa sedia Cancelliere D. Benedetto Cristoadoro D. Euplio Reina
1854 1855
D. Alfio Santo Nicolò Nicotra
D. Sebastiano Speciale
D. Salvatore Beretta
D. Matteo Buongiono D. Raffaele Rossi D. Matteo Buongiorno D. Vincenzo Giuffrida D. Giuseppe Portoghese
2.1.1. I confrati “eligibili” L’appartenenza dei confrati dell’Arciconfraternita di S. Orsola alle fasce medio-alte della società catanese è ampiamente dimostrata dall’analisi delle liste degli eleggibili. Le corrispondenze — è chiaro — sono numerosissime. Tuttavia, l’esame della fonte ha messo in evidenza alcuni casi di omonimia, particolarmente nelle liste del 1845 e del 1850,
175
Le Confraternite: il caso di s. Orsola
presentando a chi scrive difficoltà sostanziali per l’esatta identificazione del confrate “effettivo”. Per risolvere la questione, d’altronde, non sono d’aiuto le liste stesse che, in molti casi, presentano evidenti incongruenze relativamente ai dati degli iscritti. È questo il caso, ad esempio, di Euplio Reina, il cui nome risulta registrato per la prima volta nella lista del 1837, nella quale viene trascritta l’età, trent’anni. Nella lista del 1850, tuttavia, il nostro Reina è censito con accanto la specificazione della sua età, 46 anni, dato palesemente inesatto visto che dalla lista precedente sono passati tredici anni, e non sedici. Comunque, al di là di questi limiti, l’analisi delle liste, e il conseguente confronto con i nomi degli amministratori dell’Arciconfraternita di S. Orsola, costituiscono uno studio estremamente affascinante, anche, e soprattutto, per la possibilità di identificare a livello sociale e lavorativo le posizioni occupate dai nostri confrati.
1818-2497 N. ord.
Nome e cognome
Quartiere
Età Professione, arte, mestiere, stato civico
D. Antonio Amato e Corvaja D. Antonino Toscano Grasso D. Andrea Platania e Finocchiaro D. Benedetto Corsaro
S. Agata al Borgo S. Filippo Ajuto S. Filippo
54 54 51 63
Cavaliere Negoziante Negoziante Negoziante
103 107
D. Carmelo Guglielmini D. Domenico Parisi
S. Filippo S. Filippo
65 46
Benestante Possidente
132 161
D. Domenico Corvaja e Amico D. Francesco Mannino
S. Filippo Ajuto
48 70
Cavaliere Possidente
164 182 230
D. Francesco Pulvirenti Patti D. Francesco Tineo Dr. D. Giuseppe Portoghese e Portoghese
S. Gaetano Ajuto S. Filippo
22 44 29
Possidente Cavaliere Possidente
7 35 42 66
97
A.S.C.,
Cariche ricoperte
Parentele
Fratello di D. Diego Attuale decurione Deputato alla salute
Padre di D. Giuseppe e D. Gaetano Padre di D. Giuseppe
Capo d’ufficio della segreteria dell’intendenza; officiale delle dogane Padre di D. Carlo e del baronetto D. Antonino Figlio di D. Orazio
Intendenza borbonica, b. 12, Liste degli eligibili, 1818-1824, cc. n.n.
176
Elena Frasca
N. ord.
Nome e cognome
Quartiere
Età Professione, arte, mestiere, stato civico
Cariche ricoperte
Parentele
233
D. Gaetano Marziani
Idria
38
Possidente
Attuale decurione
254
Giacinto Mangione e Caffi
Carcarella
46
Contabile
271 272 277
D. Giovanni Geraci D. Giuseppe Montesano D. Giuseppe Reitano
Collegiata Collegiata Ajuto
40 50 38
Negoziante Possidente Negoziante
Fratello di D. Pasquale Fratello di D. Domenico Fratello di D. Pietro Fratello di D. Mario
298
D. Giuseppe Toscano Pulvirenti
Ajuto
32
Negoziante
309
D. Guglielmo Scammacca Paternò S. Filippo Castello barone della Bruca
62
Cavaliere
324
D. Gaetano Cantarella
Collegiata
68
Avvocato
329 385
Giuseppe Riccioli D. Luigi Sacchero
S. Filippo S. Gaetano
50 48
Possidente Negoziante
413
Mario Fragalà (morto)
S. Filippo
39
Mercante
422 433 442 486
D. Mario Calì (morto) D. Natale Condorelli Giuffrida D. Orazio Pulvirenti Pistorio D. Simone Panza e Geraci
S. Filippo S. Filippo S. Gaetano Calcarella
44 58 45 84
Negoziante Aromatario Possidente Possidente
Attuale decurione
372
Ignazio Buglio
Carcarella
54
Cavaliere
Attuale decurione; deputato delle strade
424
D. Michele Scammacca
Collegiata
62
Cavaliere
448 520 536
Pietro Paolo Di Mauro e Caponetto Al Borgo D. Tommaso Daniele e Nicotra S. Cosmo D. Vito Nicosia e Tenerello
45 64
Possidente Mercadante
Depositario dell’intendenza, deputato del Monte di Monsignor Deodati Figlio di D. Diego, nipote di D. Gaetano Padre del baronello D. Giuseppe; fratello di D. Baldassarre Fratello di D. Lucio Cantarella Corsaro; padre di D. Lucio Cantarella Giudice Fratello di D. Giovanbattista e D. Giovanni Fratello di D. Francesco
Padre di D. Francesco Zio di D. Andrea e D. Girolamo
Padre del duchino D. Vincenzo, dei cavaliere D. Francesco, D. Giuseppe e D. Gaetano Padre di D. Giuseppe
177
Le Confraternite: il caso di s. Orsola N. ord.
Nome e cognome
Quartiere
Età Professione, arte, mestiere, stato civico
Cariche ricoperte
Parentele
519
D. Tommaso Rosario Ardizzone
S. Filippo
62
Patrizio Protonotaro
Fratello di D. Giovanni, D. Gaetano e D. Antonino; padre di D. Giuseppe, D. Letterio e D. Gaetano
Mercadante
183398 N. ord.
Nome e cognome
Quartieri del domicilio
Età, anni
Proprietari
16 26 35 52 169 208 326 234 337 350 351 352 364 378 457 459 501 564 582 599 613 617 624 701
D. Antonino marchese di S. Giuliano Cav. D. Antonino Amato Corvaja D. Alessandro Castro D. D. Antonino Lombardo D. Domenico Parisi D. D. Erasmo Marletta D. Giuseppe Montesano D. D. Francesco Pulvirenti Patti D. Giuseppe Reitano D. Luigi Sacchero D. D. Giuseppe Portoghese D. Gaetano Marziani D. Giacinto Mangione Caffi D. Giuseppe Toscano Pulvirenti D. Giuseppe Geraci D.Giuseppe Riccioli D. Giuseppe Quartarone D. Mario Nicotra D. Matteo Bongiorno D. Natale Condorelli Giuffrida D. Nicolò Nicotra Dr. D. Orazio Pulvirenti D. Pietro Paolo Di Mauro D. Salvatore Beretta
Collegiata Borgo S. Filippo Calcarella S. Filippo Collegiata Collegiata S. Gaetano Ajuto S. Gaetano S. Filippo Idria Calcarella Ajuto Cifali S. Filippo Ajuto Calcarella Collegiata S. Filippo Calcarella S. Gaetano S. Filippo S. Cosmo
48 60 44 66 60 76 63 36 53 66 46 55 55 46 40 60 40 60 48 60
Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario
98
A.S.C.,
60 54 48
Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario
Arti e mestieri che esercitano
Avvocato Impiegato
Avvocato Negoziante Avvocato Impiegato Contabile Negoziante Negoziante Impiegato Patrocinatore Aromatario Negoziante
Patrocinatore
Intendenza borbonica, b. 12, Liste degli eligibili, 1833, cc. n.n.
178
Elena Frasca
N. ord.
Nome e cognome
Quartieri del domicilio
Età, anni
Proprietari
730 751 775 811 813
D. Salvatore Reitano D. Sebastiano Speciale D. Tommaso Ardizzone D. Vito Nicosia D. Vincenzo Giuffrida
Angelo Custode S. Cosmo S. Filippo S. Filippo Calcarella
40 40 76 54 33
Proprietario
Arti e mestieri che esercitano Contabile
Proprietario Proprietario Impiegato
183799 N. ord.
Nome e cognome
Età, anni
Proprietari
65 92 103 221 253 318 321 362 378 439 504 568 641 655 694 746 758
D. Antonino Lombardo D. Alessandro Castro D. Antonio Paternò marchese di S. Giuliano D. Domenico Corvaja D. Euplio Reina D. Giacinto Mangione D. Giovanni Geraci D. Giuseppe Reitano D. Giuseppe Portoghese D. Giuseppe Geraci D. Luigi Sacchero D. Natale Condorelli Giuffrida D. Matteo Bongiorno D. Placido Reitano D. Paolo Geraci D. Sebastiano Speciale D. Salvatore Reitano
64 45
Proprietario Proprietario Proprietario Proprietario
60 30 58 57 57 57 39
Arti e mestieri che esercitano
Chirurgo Contabile Negoziante Proprietario Avvocato Negoziante
70 48 54 71 41 42
Aromatario Proprietario
Contabile Proprietario
1842100 N. ord.
Nome e cognome
133 261
D. Benedetto Cristadoro D. D. Euplio Reina
99
A.S.C.,
100
A.S.C.,
Domicilio
Età
Professione
Parentele
Strada 4 Canti
33 30
Chirurgo
Fu D. Calcedonio
Intendenza borbonica, b. 12, Liste degli eligibili, 1837, cc. n.n. Intendenza borbonica, b. 12, Liste degli eligibili, 1842, cc. n.n.
179
Le Confraternite: il caso di s. Orsola N. ord.
Nome e cognome
Domicilio
Età
Professione
350 402 433 457 477 481 595 643 679 692 711 724 866 922
D. D. Francesco Pulvirenti Patti D. Giuseppe Toscano D. Giuseppe Portoghese D. Giuseppe Quartarone D. Giovanni Geraci D. Giacinto Mangione D. Giuseppe Geraci D. Salvatore Reitano D. Matteo Bongiorno D. Matteo Platania D. Nicolò Nicotra D. Placido Reitano D. Salvatore Berretta D. Vito Nicosia
S. Caterina Strada Ajuto Strada Mancuso Strada Corso
45 56 42 45 61 55 48 52 46 50 52 60 45 60
Avvocato
Gallazzo Strada Corso Strada Etnea S. Biagio S. Giuseppe Castello
Avvocato Negoziante
Postiere Farmacista
Legale Patrocinatore
Parentele
Fu D. Raffaele Fu D. Agatino Fu D. Francesco Fu D. Giuseppe
Fu D. Antonino Fu D. Ignazio Di Mario Fu D. Domenico Di Francesco Fu D. Giuseppe
1845101 N. ord.
83 89 244
Cognome e nome
Padre
D. Salvatore Berretta Fu D. Paolo D. Matteo Buongiorno Fu D. Antonino
Domicilio Età Rendita Professione
S. Cosimo 48 S. Filippo 54
248
D. Giovanni De Luca S. Filippo 36 Testa D. Giuseppe Di Stefano Fu D. Michelangelo Collegiata
251 347 358
D. Di Stefano Giuseppe Fu D. Antonino D. Vincenzo Giuffrida Fu D. Salvatore D. Giovanni Geraci
S. Biagio 40 Mercè 61 S. Biagio 63
488 518 548
D. Vito Nicosia Fu D. Giuseppe D. Domenico Parisi Fu D. Carmelo D. Giuseppe Portoghese Fu D. Raffaele
S. Filippo 64 S. Filippo 64 S. Filippo 54
101
A.S.C.,
Se sa Parentele scrivere o no Patrocinatore Sa Postiero del Sa lotto Architetto Sa Professore di filosofia Pittore
Incarichi
Postiero del lotto
Sa Sa Sa
Negoziante
Il nipote al n. precedente (Geraci Paolo)
Decurione
Sa Impiegato Avvocato
Il figlio al n. seguente (D. Raffaele)
Intendenza borbonica, b. 12, Liste degli eligibili, 1845, pp. 204-234.
180
Elena Frasca
N. ord.
Cognome e nome
596 607
Padre
Domicilio Età Rendita Professione
Se sa Parentele scrivere o no
50 S. Caterina 50
Sa
619
D. Matteo Platania D. Francesco Pulvirenti Fu D. Orazio Patti D. Giuseppe Quartarone Fu D. Sebastiano
Ajuto
50
629
D. Placido Reitano
Fu D. Domenico
58
Sa
632
D. Salvatore Reitano
Fu D. Domenico
50
Sa
635 637 751
D. Giuseppe Reitano D. Euplio Reina D. Gabriello Tineo
Fu Domenico Fu D. Calcedonio
Angelo Custode Angelo Custode S. Cosimo Idria Idria
60 37 70
100.00
Avvocato
Negoziante Chirurgo Barone
Incarichi
Il genero al n. 556 (D. Concetto Paola)
Sa Senatore aggiunto
1850102 N. ord.
Cognome e nome
Padre
Quartiere del domicilio
Età
Professione
Se sappia scrivere o no
95 111 187 241 326 475 483 496 606 611 745 771 774 827
D. Matteo Bongiorno D. Berretta Salvatore D. Alessandro Castro D. Benedetto Cristadoro D. Giuseppe Distefano D. Giovanni Geraci D. Vincenzo Giuffrida D. Vincenzo Giuffrida D. Erasmo Marletta D. Giacinto Mangione D. Nicolò Nicotra D. Giuseppe Portoghese D. Giuseppe Portoghese D. Francesco Pulvirenti Patti
Fu Antonino Di Paolo Fu Gaetano Fu Giuseppe Fu Antonio Fu Giuseppe Fu Rosario Fu Pietro Di Vincenzo Fu Giuseppe Di Mario Fu Giovanbattista Fu Bonaventura Fu Orazio
Strada della lettera Vico S. Barbara Strada S. Filippo Strada Schioppettieri S. Biagio Spirito Santo Strada del Corso Strada del Teatro Strada del Corso Vico degli Angioli Mercè Strada del Corso Vico Mancuso Strada S. Caterina
80 58 60 40 42 66 42 50 34 64 60 62 30 54
Possidente Patrocinatore Possidente Avvocato Pittore Possidente Notaio Impiegato Possidente Possidente Civile Avvocato Possidente Avvocato
Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì
102
A.S.C.,
Intendenza borbonica, b. 12, Liste degli eligibili, 1850, pp. 155-170.
181
Le Confraternite: il caso di s. Orsola N. ord.
Cognome e nome
Padre
Quartiere del domicilio
Età
Professione
Se sappia scrivere o no
851 856
D. Vincenzo Ravese D. Salvatore Reitano
Fu Rosario Di Domenico
36 58
Negoziante Possidente
Sì Sì
880 892
D. Euplio Reina D. Giuseppe Reitano
Fu Calcedonio Fu Domenico
Vico S. Filippo Strada S. Giuseppe al Transito S. Marta Strada del Corso
46 66
Chirurgo Possidente
Sì Sì
Il dato che emerge con forza dall’analisi delle liste degli eleggibili, relativamente alla presenza di soci appartenenti all’Arciconfraternita di S. Orsola, è chiaramente la natura specificatamente “borghese” dei confrati, con un’alta concentrazione di “professionisti” — particolarmente del ramo giuridico e sanitario — seguiti a ruota da negozianti e impiegati. Il numero esiguo di confrati “nobili” trova decisa conferma dalla lettura delle liste, mentre una sostanziale impennata si rileva per possidenti e proprietari.
2.1.2. I confrati “eletti” I nomi degli amministratori dell’Arciconfraternita di S. Orsola, si è detto, spesso coincidevano con quelli degli amministratori urbani, come si evince da un’attenta analisi della documentazione d’archivio relativa proprio ai quadri dirigenti della città di Catania dal 1818, analisi peraltro tutt’altro che semplice vista la mancanza di veri e propri “elenchi nominativi”. Tuttavia, il materiale documentario reperito ha permesso di sottolineare numerose e interessanti coincidenze. Quali categorie sociali sono presenti nella nostra arciconfraternita? Benché i nomi degli amministratori siano significativamente preceduti dall’appellativo don, solo attraverso un oculato incrocio di fonti è possibile rispondere alla domanda. Pochi i nobili; presenti invece le categorie dei professionisti — avvocati, medici, aromatari — oltre a qualche negoziante e a pochi impiegati. Per il resto, i Governatori ufficiali risultano essere possidenti.
182
Elena Frasca
Interessante notare come si possano individuare alcune “dinastie familiari” — i Geraci, i Reitano e i Platania — presenti nelle liste dell’arciconfraternita e in quelle degli amministratori della città. Quasi a ridosso dell’introduzione della riforma amministrativa del 1817, dunque, già numerosi confrati occupano cariche amministrative e burocratiche. Non mancavano all’interno dell’arciconfraternita membri della nobiltà catanese, come dimostra il caso del barone di S. Vito Tommaso Ardizzone103, senatore nel 1818. Don Michele, appartenente all’aristocratica famiglia degli Scammacca ma registrato solo come possidente, è decurione sempre nel 1818104. Ancora uno Scammacca, don Guglielmo, baronello della Bruca, ricopre cariche amministrative, tra il 1830 e il 1838, dapprima in qualità di senatore, in seguito in quella di decurione105. Don Antonino Paternò Castello di S. Giuliano, è dapprima capo del terzo ufficio, nel 1837, per poi essere eletto, quattro anni dopo, alla direzione della segreteria d’intendenza106. Infine il cavaliere Ignazio Buglio, nel 1818 è decurione e deputato delle strade107. Numerosi i confrati professionisti/amministratori.
103
A.S.C.,
104
A.S.C.,
Intendenza borbonica, b. 56, decreto reale, c. 688, 23 dicembre 1818. Intendenza borbonica, b. 556, decreto reale, c. 534, 3 giugno 1818; b. 56, verbale d’assemblea, c. 572, 12 luglio 1818. È citato anche un don Michele Scammacca Paternò, possidente, decurione. A.S.C., Intendenza borbonica, b. 57, c. 482, verbale d’assemblea, 23 aprile 1824; b. 130, verbale d’assemblea, c. 77, 20 gennaio 1822; b. 58, c. 440, decreto reale, 15 marzo 1858. 105 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 130, decreto reale, c. 200, 22 novembre 1830; b. 57, verbale d’assemblea, c. 273, 2 maggio 1836; b. 57, verbale d’assemblea, c. 291, 9 ottobre 1837; b. 57, verbale d’assemblea, c. 308, 7 giugno 1838. 106 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 192, nota impiegati, c. 68, 11 novembre 1837; b. 132, lettera, c. 252, 13 aprile 1841. 107 Giornale degli Atti dell’Intendenza del Valle di Catania, cit., 7 maggio 1818, n. 4, decreto reale, p. 78; A.S.C., Intendenza borbonica, b. 56, decreto reale, c. 534, 3 giugno 1818; b. 56, verbale di giuramento, c. 673, 29 giugno 1818.
Le Confraternite: il caso di s. Orsola
183
In primo luogo gli avvocati: don Antonio Amato e Corvaia, è giudice municipale della sesta sezione nel 1821108. Particolarmente longeva la carriera politica di Francesco Pulvirenti Patti, decurione in carica dal 1818 fino alle soglie dell’Unità, senatore aggiunto nel ‘18 e senatore neo eletto nel 1830109, e ancora Don Erasmo Marletta (e Gagliani), è un avvocato eletto decurione dal 1825 al 1828110. Negli anni Cinquanta risulta decurione il medico don Euplio Reina, personaggio particolarmente interessante — come vedremo — ai fini dell’analisi in questione111. Anche due aromatari risultano registrati. Si tratta di don Natale Condorelli, che è quasi continuativamente decurione dal 1822 al 1836112, e di don Giuseppe Riccioli, che firma in qualità di decurione due verbali d’assemblea nel 1831 e nel 1832113. Tra gli impiegati si annovera, tra il 1818 e il 1820, don Domenico Parisi, che è impiegato nella segreteria d’intendenza, dapprima ufficiale della segreteria provvisoria del terzo ufficio, per poi essere promosso capo dell’ufficio stesso114.
108
A.S.C.,
109
A.S.C., Intendenza borbonica, b. 56, decreto reale, c. 688, 23 dicembre 1818; b. 130,
Intendenza borbonica, b. 132, elezione impiegati, c. 15, 9 marzo 1821.
decreto reale, c. 200, 22 novembre 1830; b. 132, decreto reale, c. 995, 30 settembre 1840; b. 56, verbale d’assemblea, c. 122, 10 marzo 1843; b. 58, verbale giuramento, c. 572, 10-31857; b. 58, verbale d’assemblea, c. 458, 17 giugno 1859. 110 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 57, verbale d’assemblea, c. 341, 23 novembre 1825; b. 130, verbale d’assemblea, c. 606, 13 dicembre 1826; b. 130, verbale d’assemblea, c. 334, 1 agosto 1827; b. 129, c. 512, 26 aprile 1828. 111 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 58, verbale d’assemblea, c. 774, 17 maggio 1852; b. 58, proposta rimpiazzo della quarta parte del Decurionato per l’anno 1854, c. 427, 11 febbraio 1853; b. 58, decreto reale, c. 440, 15 marzo 1858. 112 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 130, verbale d’assemblea c. 77, 20 gennaio 1822; b. 57, verbale d’assemblea, c. 482, 23 aprile 1824; b. 57, verbale d’assemblea, c. 341, 25 novembre 1825; b. 130, verbale d’assemblea, c. 606, 13 dicembre 1826; b. 130, verbale d’assemblea, c. 334, 1 agosto 1827; b. 57, verbale d’assemblea , c. 273, 2 maggio 1836. 113 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 57, verbale d’assemblea, c. 404, 28 ottobre 1831; b. 57, verbale d’assemblea, c. 338, 28 marzo 1832. 114 Giornale degli Atti dell’Intendenza del Valle di Catania, cit., 14 marzo 1818, n. 3, p. 60; A.S.C., Intendenza borbonica, b. 192, elezione impiegati, c. 411, 22 giugno 1819; b. 192, nota impiegati, c. 1436, 1 febbraio 1820.
184
Elena Frasca
Don Benedetto Giovanni Corsaro, invece, è tesoriere comunale nel 1852115. Numerosi, è ovvio, i possidenti. Don Tommaso Amato (Barcellona) è nel 1834 consigliere d’intendenza116. Francesco Corvaja (Consoli) è registrato come decurione nel biennio 1837-38117. Don Salvatore Beretta risulta decurione nel 1849118. Don Benedetto Cristoadoro, il noto cronista catanese, ricopre la carica di senatore aggiunto per la terza sezione nel 1854119. Anche don Giuseppe Portoghese Amato è senatore aggiunto nella prima sezione nel marzo del 1854, per poi divenire senatore a pieno titolo per la quinta sezione nel novembre dello stesso anno120. Don Vincenzo Ravesi fa parte del Decurionato nel 1859, quando è anche segretario provvisorio di tale organismo121. Permanenza di lunga durata nella gestione della città è registrabile per don Gaetano Marziani che ricopre la carica di decurione sin dall’indomani dell’entrata in vigore della riforma amministrativa, conservan-
115
A.S.C.,
116
A.S.C.,
Intendenza borbonica, b. 133, lettera, c. 635, 18 aprile 1852. Intendenza borbonica, b. 190, decreto reale, c. 1032, 26 luglio 1834. 117 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 57, verbale d’assemblea, c. 291, 9 ottobre 1837; b. 57, verbale d’assemblea, c. 308, 7 maggio 1838. 118 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 58, verbale d’assemblea, c. 1036, 11 settembre 1849. 119 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 133, decreto reale, c. 715, 13 novembre 1854. Da una sua lettera all’intendente di Catania dichiarando la propria condotta integerrima accusa invece di avere subito un furto con scasso di oggetti preziosi e biancheria nella propria abitazione da parte di 12 soldati. A.S.C., Miscellanea risorgimentale, b. 5, p. 1190. 120 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 133, decreto reale, c. 577, 27 marzo 1854; b. 133, decreto reale, c. 715, 13 novembre 1854. 121 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 58, decreto reale, c. 434, 25 gennaio 1859; b. 58, verbale d’assemblea, c. 458, 17 giugno 1859.
Le Confraternite: il caso di s. Orsola
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dola fino al 1832122. Don Carmelo Guglielmini resterà in carica fino al 1824123. Vito Nicosia è consigliere d’intendenza nel 1827124. Ultima categoria riscontrabile è quella dei negozianti: Mario Calì125, decurione nel 1818, e don Toscano Pulvirenti Giuseppe, ugualmente decurione nel 1830126. Infine è interessante notare, come si è detto, la presenza di veri e propri gruppi familiari. La famiglia Geraci, tutti don e possidenti, è presente nei seggi del Decurionato e del senato dal 1818 fino agli inoltrati anni Trenta. Paolo è infatti decurione nel 1818127, Giovanni, eletto nel 1831, conserva la
122 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 56, decreto reale, c. 534, 3 giugno 1818; b. 56, verbale di giuramento, c. 673, 29 giugno 1818; b. 56, verbale d’assemblea, c. 572, 12 luglio 1818; b. 130, verbale d’assemblea, c. 77, 20 gennaio 1822; b. 57 verbale d’assemblea, c. 482, 23 aprile 1824; b. 57, verbale d’assemblea, c. 341, 25 novembre 1825; b. 56, proposta rimpiazzo della quarta parte del Decurionato per l’anno 1830, decurione che rimane in carica; data elezione del decurione 20 marzo 1829 c. 133, 23 novembre 1829; b. 130, verbale d’assemblea, c. 806, 30 aprile 1830; b. 129, verbale d’assemblea, c. 1061, 12 novembre 1830; b. 56, proposta rimpiazzo della quarta parte del Decurionato per l’anno 1831, decurione che rimane in carica, data elezione del decurione 13 giugno 1828, c. 247, 9 dicembre 1830; b. 57, verbale d’assemblea, c. 381, 18 aprile 1831; b. 57, verbale d’assemblea, c. 404, 28 ottobre 1831; b. 57, verbale d’assemblea, c. 338, 28 marzo 1832; b. 56, proposta rimpiazzo della quarta parte del Decurionato per l’anno 1831, decurione da rimpiazzare, c. 249, 24 dicembre 1832. 123 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 56, verbale d’assemblea, c. 572, 12 luglio 1818; b. 130, verbale d’assemblea, c. 77, 20 gennaio 1822; b. 57, verbale d’assemblea, c. 482, 23 aprile 1824. 124 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 130, delibera del consiglio d’intendenza, c. 326, 7 novembre 1827. 125 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 56, decreto reale, c. 534, 3 giugno 1818; b. 56, verbale di giuramento, c. 673, 29 giugno 1818; b. 56, verbale d’assemblea, c. 572, 12 luglio 1818; b. 130, verbale d’assemblea, c. 77, 20 gennaio 1822; b. 57, verbale d’assemblea, c. 482, 23 aprile 1824. 126 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 56, proposta rimpiazzo della quarta parte del Decurionato per l’anno 1831, decurione che rimane in carica, data elezione del decurione 2 marzo 1830, c. 247, 9 dicembre 1830. 127 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 56, decreto reale c. 534, 3 giugno 1818; b. 56, verbale di giuramento, c. 673, 29 giugno 1818.
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carica fino al 1838128. L’anno successivo, Giuseppe è registrato come senatore aggiunto129. Anche i Platania siedono nel decurionato: il negoziante Andrea dal 1818 e il 1824, anno della sua morte130; Matteo, impiegato civile, nel 1830131. I Reitano infine registrano la presenza del negoziante don Giuseppe come cassiere d’intendenza nel 1818 e senatore nel 1829132, e di Salvatore in qualità di decurione provvisorio nel 1854133. Un fetta consistente dei quadri amministrativi dell’Arciconfraternita di S. Orsola, dunque, si ritrova a sedere le poltrone di potere più importanti nella Catania dell’Ottocento, giocando un ruolo significativo anche nell’ottica più ampia degli avvenimenti politici che caratterizzarono quegli anni. In questo senso, il timore che cenacoli di uomini potessero sobillare le masse, costituendo un pericolo reale per la sicurezza del regno, spinse i sovrani borbonici ad emanare una serie di norme restrittive nei loro riguardi, onde evitare qualsiasi forma di sommovimento sociale. Il Codice per lo Regno delle Due Sicilie134, nella sezione inerente le Leggi Penali, prevedeva la proibizione di qualunque associazione illecita che contenesse promessa o vincolo di segreto, indifferentemente dalla natura di tale vincolo, e condannava i suoi componenti all’esilio temporaneo dai territori del regno. Il secondo grado di carcere era previsto per coloro i quali, volon128
A.S.C., Intendenza borbonica, b. 56, decreto reale, c. 311, 23 gennaio 1834; b. 193, proposta rimpiazzo della quarta parte del Decurionato per l’anno 1835, decurione che rimane in carica, data elezione del decurione 23 gennaio 1831, c. 251, 26 agosto 1834; b. 57, verbale d’assemblea, c. 273, 2 maggio 1836; b. 57, verbale d’assemblea, c. 291, 9 ottobre 1837; b. 57, verbale d’assemblea, c. 308, 7 maggio 1838. 129 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 132, decreto reale, c. 430, 18 febbraio 1839. 130 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 56, decreto reale, c. 534, 3 giugno 1818; b. 56, verbale di giuramento, c. 673, 29 giugno 1818; b. 56, verbale d’assemblea, c. 572, 12 luglio 1818; b. 130, verbale d’assemblea, c. 77, 20 gennaio 1822; b. 57, verbale d’assemblea, c. 482, 23 aprile 1824. 131 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 129, verbale d’assemblea, c. 1061, 12 novembre 1830. 132 Giornale degli Atti dell’Intendenza del Valle di Catania, cit., 7 maggio 1818, n. 4, elezione della deputazione delle strade, p. 78; A.S.C., Intendenza borbonica, b. 130, decreto reale, c. 228, 20 dicembre 1829. 133 A.S.C., Intendenza borbonica, b. 58, verbale giuramento, c. 722, 24 novembre 1854. 134 Codice per lo Regno delle Due Sicilie, Napoli 1816.
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tariamente, mettessero a disposizione dei settari la propria abitazione, arrivando all’applicazione di pene superiori nei casi di reati contro la sicurezza interna ed esterna dello Stato. Queste leggi vennero ribadite da un’ordinanza reale, emessa nel 1821135. A Napoli, già durante l’occupazione francese, si era provveduto ad emanare un decreto contro le sette segrete, e in particolar modo contro i Carbonari136. Spinto da tale preoccupazione, re Ferdinando IV, appena restaurato al trono, firmò un decreto137 nel quale si ribadiva ogni forma di riprovazione per le associazioni segrete, le quali possono facilmente degenerare in unioni criminose in quanto esse sono regolate da uno spirito di fazione, di turbamento e di civil discordia. I trasgressori sarebbero stati banditi dai territori del regno da cinque a vent’anni. Ad inasprire ancora di più le leggi relative alle associazioni settarie, nel 1821 Ferdinando I emanò un nuovo decreto138 nel quale si delegava al direttore di polizia l’obbligo di compiere visite improvvise presso le case di probabili settari. Una Corte marziale avrebbe giudicato le cause relative ai Carbonari: essendo scopo delle società carbonarie lo sconvolgimento e la distruzione de’ Governi, sarà punito di morte, qual reo di alto tradimento. Una nuova legge inerente all’argomento venne promulgata dal re il 7 maggio dello stesso anno139. L’articolo 7 vietava le riunioni in campagna, quando sieno al di sopra di cinque persone e che non sieno della stessa famiglia, o collegati in consanguineità o affinità riconosciute dalla legge. Una nuova normativa del 1822140 tornò a occuparsi della repressione 135 Giornale degli Atti dell’Intendenza del Valle di Catania, cit., n. 78, 14 aprile 1821, Manifesto: Direzione Generale di Polizia, 249-250. 136 Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, cit., 4 aprile 1814, n. 2068, Decreto col cui rimangon vietate le associazioni de’così detti Carbonari, 110111. 137 Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, cit., 8 agosto 1816, n. 440, Legge con cui sotto prescritte pene riman vietata ogni specie d’associazioni segrete o sieno sette, 112-114. 138 Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, cit., 9 aprile 1821, n. 22, Decreto con cui vien creata una Corte Marziale per lo subitaneo giudizio e condanna degli asportatori di armi vietate, e per la esecuzione dell’altro decreto dè 28 marzo ultimo riguardante le unioni segrete, 35-37. 139 Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, cit., 7 maggio 1821, n. 33, Decreto che contiene varie disposizioni di legislazione penale, 56-60. 140 Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, cit., 28 settembre 1822, n. 414, Legge contro le associazioni illecite, 561-562.
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delle associazioni segrete, specificando agli articoli 1 e 2 che tutte le precedenti norme in materia cesseranno di aver vigore. Venivano considerate illecite qualunque associazioni organizzate in corpo il cui fine era di riunirsi in determinati giorni per occuparsi di oggetti sieno religiosi, letterari, politici o simili, senza il permesso dell’autorità pubblica. Questa legge venne distribuita agli intendenti dei Valli del regno nel mese di dicembre dello stesso anno141. Le leggi da me rilevate relativamente alla spinosa questione delle associazioni segrete terminano qui. È certamente significativa la data, quel celebre 1822, anno fatidico che vide l’estirpazione delle maestranze da parte dell’autorità regia borbonica. Pare chiaro, quindi, il sottile filo rosso che univa le associazioni di lavoratori alle sette segrete. In realtà, ancora timidi focolai delle antiche corporazioni siciliane tornavano di tanto in tanto a farsi sentire ma ad arginare l’esuberanza dello spirito settario, che andava sempre più estinguendosi, ancora nel 1827142 prima e nel 1828 poi143 il re deliberò l’emanazione di alcuni decreti, atti a confermare le dure disposizioni vigenti contro questi forsennati. Ritornando a S. Orsola, pare che la nostra confraternita possa rappresentare in qualche modo un esempio emblematico in questa direzione, come si rileva da alcuni documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Catania. Già all’indomani della repressione dei moti del 1820-21, il governo diede il via a una serie di controlli a tappeto nei confronti di istituzioni pubbliche e private, alla ricerca di soggetti “in odore” di carboneria. Anche le confraternite, è ovvio, non sfuggirono a questa regola. Da un documento del febbraio 1822, ad esempio, il commissariato di polizia di Catania giudica in tal senso alcuni soci di congregazioni presenti in città. Relativamente a S. Orsola, compare il nome di Ignazio Buglio, ritenuto di buona qualità morale e di buona condotta 141 Giornale degli Atti dell’Intendenza del Valle di Catania, cit., 23 dicembre 1822, n. 102, Si chiede il quadro delle associazioni organizzate in corpo, 581. 142 Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, cit., 21 settembre 1827, n. 1582, Decreto che proroga a tutto il 1828 le disposizioni dè 28 di settembre 1822 contro le associazioni illecite, 179. 143 Giornale degli Atti dell’Intendenza del Valle di Catania, cit., 7 agosto 1828, n. 175, Per le associazioni illecite, 137.
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nelle passate vicende e, in riferimento alla presunta partecipazione alla carboneria, si legge signora assolutamente144. Ma i controlli proseguirono incessantemente anche nei tormentati anni successivi. Da una lettera di Onofrio Silvestri all’intendente di Catania, ad esempio, si rileva che don Salvatore Berretta è accusato di essere appartenuto alle squadre rivoltose e di essere sottoposto a stretta sorveglianza di polizia145. In una lettera del 1834 si accenna a don Guglielmini Carmelo sospettato di carboneria e difeso dal vescovo di Catania Orlando e dal giudice di Mascalucia Marengo che assicurano la sua condotta esemplare146. Un Tommaso Ardizzone di Catania è accusato, nel 1839, di aver preso parte agli avvenimenti del ’37. Il commissario di polizia Toscano conferma le accuse. Arrestato nel 1837 Ardizzone venne posto in libertà provvisoria per due mesi147. In un documento del 1850, un Salvatore Corsaro, di S. Gregorio, viene accusato con un ricorso anonimo di nutrire sentimenti rivoluzionari e di congiurare contro l’ordine pubblico. Il giudice di Mascalucia conferma le accuse148. E, ancora, Vincenzo Ravesi viene accusato presso l’intendente di appartenere a una setta segreta rivoluzionaria della Giovane Italia, il cui scopo è dare vita a una sollevazione unitaria italiana149.
144
Il documento prosegue con i nomi di alcuni componenti della congregazione di S. Domenico in S. Maria La Grande e della confraternita di S. Giuseppe il Transito. Per quanto riguarda la prima, risultano carbonari il sottopriore Salvatore Ingrasia e il cancelliere Salvatore Riccioli; nella seconda, il cancelliere Domenico San Miciele, il cancelliere Giovanni Sottile e il cassiere Gasparo Di Liberto. A.S.C., Consiglio degli ospizi, Opere pie, elenco 9, casella 155, b. 46, Catania, 6 febbraio 1822, 72-74. 145 A.S.C., Miscellanea risorgimentale, b. 4, Commissariato di Polizia, s.d., c. 30. 146 A.S.C., Miscellanea risorgimentale, b. 37 fasc. II, Palermo 24 novembre 1834; Mascalucia 11 dicembre 1834, cc. 505-507. 147 A.S.C., Miscellanea risorgimentale, b. 29, fasc. III, Catania 15 giugno 1839, cc. 623. 148 A.S.C., Miscellanea risorgimentale, b. 32 fasc. II, Catania 11 febbraio 1850, cc. 158161. 149 A.S.C., Miscellanea risorgimentale, b. 30 fasc. II, Catania, s.d., cc. 139-140.
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Ancora nel 1850, l’ondata repressiva seguita ai moti del ’48 portava la polizia a compiere una serie di accertamenti su diversi soggetti. In data 12 maggio 1850, ad esempio, il commissariato di polizia di Catania, in risposta a una richiesta di informi sul conto di Platania Matteo di Catania, invia all’intendente: Signore, ho chiesto delle informazioni sul conto di Platania Matteo, ma non mi sono pervenute. So soltanto che nelle passate vicende politiche, codesto individuo per circa 40 giorni è stato alloggiato nelle nostre campagne per curarsi da una malattia150. In un notamento anonimo, inviato all’intendente di Catania, Giuseppe Reitano è citato tra alcuni rivoluzionari che tramano un’altra rivoluzione e che sono liberi di passeggiare per la città di Catania151. Il luogotenente generale, infine, il 22 aprile 1861, invia all’intendente di Catania le seguenti informazioni riservate: Signore, intendo informarla sul conto di don Riccioli Ignazio Giuseppe, nato a Catania ma esiliato a Malta insieme al figlio. Esita a far ritorno in patria. Egli è stato mandato in esilio per aver recato danno alla quiete pubblica e io la prego di esternarmi al più presto il suo parere sul suo ritorno in patria. Firmato per il generale in capo il direttore di polizia Salvatore Maniscalco152.
3. EUPLIO REINA Reina costituisce un anello di passaggio tra il ruolo delle confraternite come luogo di aggregazione, di autoriconoscimento sociale e leva per raggiungimento di cariche amministrative. La figura emblematica del nostro medico apre anche all’ipotesi di possibili collegamenti tra associazionismo confraternale e sodalizi sovversivi. Euplio Reina, nato a Catania nel 1806, era figlio di Calcedonio, chirurgo ospedaliero molto apprezzato in città, sebbene alla sua fama non corrispondesse altrettanta fortuna in termini di carriera universitaria. Laureatosi giovanissimo in medicina e chirurgia153, Euplio cominciò ben 150
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A.S.C.,
Miscellanea risorgimentale, b. 10, fasc. I, c. illeggibile. Miscellanea risorgimentale b. 32 fasc. II, s.d., cc. 162-163. 152 A.S.C., Miscellanea risorgimentale, b. 11, fasc. II, c. 1. 153 Cfr A. COCO – A. LONGHITANO – S. Raffaele, La facoltà di medicina e l’università di Catania, Firenze 2000, 279.
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presto la sua escalation verso i gradini più alti dell’ateneo catanese fino a ottenere, nel 1839, la titolarità della cattedra di chirurgia e ostetricia. Appena due anni dopo gli venne assegnato l’interinato di clinica chirurgica, carica che mantenne — insieme a quella di ordinario — fino alla sua morte, avvenuta nel 1877 a causa di un’epidemia di tifo. La fortuna accademica di Reina andò sempre di pari passo con una rapida affermazione nel governo cittadino, che trovò concreta attuazione nel ruolo di decurione, carica che mantenne a più riprese, anche a dispetto della sua posizione “ambigua” nei noti avvenimenti politici di quegli anni. Il medico, infatti, seppe mantenere saldi i suoi incarichi universitari e amministrativi, non mostrando mai, almeno in apparenza, una sua eventuale partecipazione ai moti risorgimentali. Tuttavia, la tesi di un suo coinvolgimento “antiborbonico” traspare dalle parole del figlio Calcedonio il quale, nelle sue memorie, così scrive a proposito dei convulsi giorni del 1848 catanese: Mio padre, un mio fratellino, un mio zio sacerdote colla coccarda al petto, affaccendarsi tra la folla […]. Le mie voci risuonavano da mattina a sera dal balcone, ripetendo i canti nazionali […]. Credevo così di pigliare parte attiva contro i regî, di celebrare la patria anch’io154. L’ipotesi di una partecipazione attiva di Reina al moto sembra essere avvalorata anche dalle accuse mosse dalla polizia a Luigi Rizzotti, cognato del medico, denunciato per avere preso parte, in qualità di ufficiale delle truppe rivoluzionarie, alla rivolta di Catania155. Reina, inoltre, durante i fatti del ’48, otteneva la nomina a direttore della Sanità militare, prestando le sue cure — presso l’Ospedale S. Marta dove ricopriva la carica di chirurgo primario — indistintamente a soldati e ribelli. Tuttavia, nonostante questi “indizi” inducano a collocare Reina dalla parte dei rivoluzionari (e rivoluzionari erano molti degli amici di cui si circondava, tra tutti Salvatore Brancaleone e Carlo Ardizzone156), all’indomani della repressione dei moti Reina inviava una supplica all’intendente di Catania e al governo chiedendo la titolarità della cattedra di clinica chirurgica come premio per avere difeso i soldati del re, 154
C. REINA, Giorni passati, Catania 1912, 17-18. A.S.C., Miscellanea risorgimentale, b. 32, fasc. I, Elenco degli arrestati nel comune di Catania per vedute politiche, cc. n.n. 156 A.S.C., Miscellanea risorgimentale, b. 7, fasc. III, Atti relativi a fatti e circostanze di natura soprattutto privata, 14 gennaio 1853, cc. n.n. 155
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ricoverati al S. Marta, dall’assalto dei rivoluzionari catanesi, da lui definiti orda di barbari durante la esecranda rivoluzione del malaugurato gennaio 1848157. A questo proposito, ancora, il sovrano in persona ringraziò il nostro chirurgo, in occasione di una sua visita in città, per le cure prestate ai soldati dell’esercito reale158. Reina, è importante sottolinearlo, rimase ben saldo al potere fino alla sua morte, attraversando indisturbato il delicato passaggio dalla monarchia borbonica a quella sabauda. La “forza” pubblica di Reina si traduceva, in particolare, nella proprietà di addirittura tre cattedre universitarie (benché una da ordinario e due da interino), cosa che, peraltro, gli attirò non poche inimicizie, come quella di Giuseppe Biondi159 — “patriota” mazziniano caldo e attivissimo160 — e di Giuseppe Toscano161, entrambi convinti che la fortuna accademica di Reina fosse dovuta ad amicizie “influenti”. 157
Regia Prefettura III, Opere pie, elenco 2, bb. 38 e 50. E. REINA, Titoli e documenti di anzianità e di benemerenza del professore Euplio Reina, da servire presso la Illustre Deputazione della Regia Università di Catania, nella proposta del nuovo Segretario Cancelliere della stessa, Catania 1857, 17. 159 In una lettera alla Commissione di pubblica istruzione ed educazione di Palermo, Biondi sostiene che la sua richiesta di ottenere “a merito” la cattedra di clinica chirurgica era stata respinta dalla Deputazione degli studi di Catania poiché: taluni membri in fluentissimi di essa, intimi amici del Dr. Dn. Euplio Reina, e nemici dell’Oratore, avevano giurato di trattare costui in tutte le forme, e di non fargli giammai occupare onorevole impiego di sorta […]. Reina vuole occupare tutti i posti della facoltà chirurgica di Catania […]. Si passò per la seconda volta a raccomandare costui al Governo. Cfr Archivio Storico dell’Università di Catania, b. 798, Cattedra di Clinica chirurgica (1844-1881), Catania 23 dicembre 1844, cc. n.n. 160 Sulla figura di Biondi cfr C. NASELLI, I Biondi, patrioti del Risorgimento, in A.S.S.O., a. XLV-XLVI, fasc. I-III, 1949-50, pp. 234-248. Vedi inoltre G. Giarrizzo, Un comune rurale della Sicilia etnea (Biancavilla 1810-1860), Catania, Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale. 161 Toscano, in una supplica alla Commissione palermitana nella quale domandava il concorso per la titolarità della cattedra di clinica chirurgica, occupata dall’interino Reina, elenca nel dettaglio tutte le cariche di cui era già investito quest’ultimo, specificando addirittura se esse prevedessero un compenso in denaro: 1. Professore proprietario di Chirurgia ed Ostetricia (con soldo), Segretario cancelliere proprietario dell’Università (con soldo), Chirurgo nell’Ospedale S. Marta (con soldo), Chirurgo nell’Ospedale S. Marco (con soldo), Chirurgo nel R. Ospizio di Beneficenza (con soldo), Chirurgo nella Società Vaccinica (con soldo), Chirurgo sulla condotta comunale (con soldo), Chirurgo nel Serraglio degli Invalidi (con soldo), Chirurgo nel Serraglio di Ventimiglia (con soldo), Chirurgo della Casa 158
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Forse per questo, all’indomani della sua morte, il nome di Euplio Reina venne — a detta del figlio Calcedonio — “volutamente” dimenticato: il rispetto si mutava nell’abietta sconoscenza e nella più vigliacca noncuranza ad un uomo che avea consumato la sua vita giovando al suo prossimo ed elevando a dottori in Chirurgia certi messeri, degni piuttosto di portare il basto che il diploma di laurea e la busta chirurgica162. Nel 1907, trascorsi trent’anni dalla morte di Euplio, il poeta catanese Mario Rapisardi — intimo amico di Calcedonio — fece affiggere a spese sue la lapide marmorea che ancora oggi campeggia in una parete di quello che fu “palazzo Reina”, proprio di fronte al Giardino Bellini di Catania. Scrive a questo proposito Calcedonio: egli, con generoso pensiero fece quello che amici, cattolici, conoscenti, discepoli, e professori, e clienti saliti al potere non vollero fare […]. Applaudirono cordialmente i buoni cittadini e i vecchi memori delle virtù del padre mio; quantunque passassero biechi dalla via taluni dell’Areopago o del Nosocomio163. Anche da queste amare parole è possibile comprendere quanto, e in quale misura, il “personaggio” Euplio Reina — benché malvisto proprio dai “colleghi” chirurghi — racchiuda in sé tutte le caratteristiche dell’uomo di potere dell’Ottocento catanese, membro di quella società professionale che si faceva strada a grandi passi nelle maglie dell’amministrazione urbana e che trovava una propria identificazione di status anche attraverso la partecipazione attiva all’interno di un’arciconfraternita “borghese” come quella di S. Orsola.
di Nutrizione (con soldo), Istruttore della Levatrice (con soldo), Chirurgo in tutti gli stabilimenti, conventi e case Amministrate. In ultimo Chirurgo dell’Ospedale Militare nominato dal Governo Prodittatoriale e per cui percepisce circa onze 3000 annue. Cfr ARCHIVIO STORICO DELL’UNIVERSITÀ DI CATANIA, b. 798, Cattedra di Clinica chirurgica (1844-1881), Catania 6 dicembre 1860, cc. n.n. 162 C. REINA, Giorni passati, cit., 142. 163 Ibid., 234-235.
Synaxis XXIII/3 (2005) 195-227
L’OPERA DI GIROLAMO E GIUSEPPE PALAZZOTTO NELLA “CASA” DEI MINORITI A CATANIA*
SALVO CALOGERO**
1. INTRODUZIONE Recenti studi hanno messo in luce alcuni documenti riguardanti la presenza dei fratelli Palazzotto nel cantiere della “casa” dei Minoriti a Catania1. Dall’analisi approfondita dei libri contabili e del documento trascritto in appendice2, finora solamente citati dagli studiosi, è stato possibile ricostruire le vicende costruttive e i nomi delle maestranze che lavorarono in questo importante edificio del Settecento catanese. Questi documenti, insieme a quelli già pubblicati nei precedenti numeri di questa rivista3, contribuiscono a chiarire l’opera di Girolamo Palazzotto, e quella di suo fratello Giuseppe che ebbe un ruolo rilevante anche nella costruzione della chiesa dei Minoriti.
* Il presente studio è stato sviluppato grazie agli incoraggiamenti e ai consigli del Prof. Arch. Giuseppe Pagnano. ** Ingegnere specializzato nel restauro di edifici storici e monumentali. 1 R. CAPONETTO, La chiesa di San Michele Arcangelo – Vulgo Minoriti, in Tre chiese a Catania indagine storico costruttiva, Roma 2000, 151-184. 2 Attualmente il fondo archivistico dei minoriti è in corso di riordino, ed è stato possibile consultare solo i tre volumi citati nel presente articolo. Si ringrazia la direzione con tutto il personale dell’Archivio di Stato di Catania, in particolare la dott.ssa Maria Nunzia Villarosa, per avere consentito la consultazione di tali volumi. 3 S. CALOGERO, Fra Liberato al secolo Girolamo Palazzotto, Architetto e «Servo di Dio», in Synaxis 22 (2004) 133-161.
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2. LA COSTRUZIONE DELLA NUOVA “CASA” DEI MINORITI Dai libri contabili4 si evince che i lavori iniziarono sotto le direttive del capo mastro Giuseppe Longobardo5 nel mese di gennaio 1694. Fra novembre e dicembre dello stesso anno intervenne per delineare il perimetro dell’isolato della “casa” dei Minoriti il «signor Giovan Battista Vespa ingegnero»6, il quale fu pagato, insieme al capo mastro, per «allenzare le strade»7. Nel novembre 1701 fra i mastri intagliatori compaiono i nomi dei «mastri Giovanni Bertuccio, Medaglia, Battaglia, Facciabianca padre e figlio con altri al numero di otto», i quali si impegnarono in solido, con atto stipulato presso il notaio Domenico Zappalà nel mese di agosto dello stesso anno, «di fare tutta la nova affacciata di intaglio pietra e mastria. Cioè li pilastri a raggione di onze 1.6 la canna, la finestra grande et una picciola onze 4, li capitelli»8. Il programma costruttivo dei padri minoriti era stato ambizioso sin dall’inizio, come risulta da una nota dell’ottobre 1705 nella quale si legge: «cominciato a fabricare prima la stanza che servirà per hora per sacrestia; quindi col tempo facendosi la nova chiesa e nova sacrestia, […] e successivamente anderà fabricando le altre case appalazzate di modo che dalla parte che guarda il levante, si possi fare e fabricare il corridore e farci il Claustro magnifico»9. Del resto nel settembre 1686 gli stessi padri minoriti 4 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA (A.S.CT), CORPORAZIONI RELIGIOSE SOPPRESSE (CC.RR.SS.), busta 25 (ex 23). Questa busta è citata da Rosa Caponetto con il seguente riferimento archivistico: ASSO, Fondo Corporazioni Religiose Soppresse, vol. 23 (in R. CAPONETTO, La chiesa, cit., 179, nota 20). 5 Ibid., c. 297 r., gennaio 1694. 6 Sull’ingegnere Giovan Battista Vespa vedi L. DUFOUR e H. RAYMOND, 1693. Catania rinascita di una città, Milano 1992, 73. 7 A.S.CT, CC.RR.SS., b. 25 (ex 23)., c. 305 v., novembre 1694, c. 306 r. e 307 v., dicembre 1694. 8 Ibid., c. 348 r., novembre 1701. La Caponetto, trascrivendo «li mastri Giovanni Bertuccio, Medaglia, Battaglia, […] e figlio», lasciava intendere che vi era il mastro Paolo Battaglia e suo figlio Francesco. In realtà da una corretta lettura del documento — «Facciabianca padre e figlio» — si evince che la frase era riferita a mastro Vincenzo Vivilacqua (alias Facciabianca) e a suo figlio, attivi in quel periodo nei cantieri catanesi insieme ad Antonino Amato. 9 Ibid., c. 376 r., ottobre 1705.
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approfittarono della presenza a Catania dell’architetto romano Giovan Battista Contini10 per fargli redigere il progetto della loro chiesa, come risulta dalla paga data «a Giovan Battista Contini Architetto di regalo per li disegni della facciata della Chiesa, Alzato, e spaccato, e della pianta di essa in tavola, onze dodici»11. L’edificazione di questa chiesa fu interrotta a causa dell’evento sismico del 1693 per cui i padri minoriti, durante la costruzione del nuovo edificio, avranno tenuto presente il progetto del Contini per la nuova chiesa, redatto solo sette anni prima del tragico evento. I lavori della “casa” continuarono nel luglio del 1711 «per finire il finestrone di mezzogiorno […] per fare due capitelli e cornicione di detto finestrone di mezzogiorno […] dodici balaustrini per li due finestroni»12. Il 14 febbraio 1712 fu pagato «mastro Geronimo Palazzotto13 in conto dell’Armi della Religione»14, lavoro che fu completato nel mese di marzo dello stesso anno15. Da questo momento in poi mastro Girolamo Palazzotto
10 Giovan Battista Contini nacque a Roma nel 1641 e morì nel 1723 (vedi L. SARULLO, Dizionario degli artisti siciliani, architettura, Palermo 1993, 118). Cfr anche A. DEL BUFALO, G. B. Contini e la tradizione del tardomanierismo nell’architettura tra ’600 e ’700, Roma 1982, che non cita l’attività catanese di Contini. 11 «Le spese della fabbrica della chiesa secondo il disegno nuovo modellato da Giov. Battista Contini Architetto Romano ritrovatosi in Catania per il disegno della nuova chiesa di S. Nicolò dell’Arena, nel mese di marzo 1686 si cominciano a notare in questo libro dal mese di settembre di detto anno decima indizione» (A.S.CT, CC.RR.SS., b. 25 (ex 23), c. 249 r., settembre 1686, citato in R. CAPONETTO, La chiesa, cit. 151). 12 A.S.CT, CC.RR.SS., b. 25 (ex 23), c. 397r., luglio 1711. 13 Girolamo Palazzotto, figlio di Francesco e Andreana Grillo, nacque a Messina il 10 novembre 1686 e morì a Catania il 23 giugno 1754 (vedi S. CALOGERO, Fra Liberato, cit., 135 e 161). 14 A.S.CT, CC.RR.SS., b. 25 (ex 23), c. 404 r., febbraio 1712. La Caponetto scrive che «a partire dal 1712, per i lavori di intaglio, comparirono i nomi di Girolamo Palazzotto con i fratelli Antonino e Filippo», mentre per Giuseppe riporta che fu cugino di Girolamo (R. CAPONETTO, La chiesa, cit., 178 e 179, note 17 e 19). 15 «A mastro Girolamo Palazzotto per complemento di tarì 40 per haver fatto l’Armi della Religione tarì diciannove. A detto per haver fatto li retrosogli delli fenestroni tarì sei» (ibid., c. 405 r., marzo 1712).
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e i suoi fratelli, Filippo16, Antonino17 e Giuseppe18, diventarono gli “intagliatori” di fiducia dei padri minoriti, soprattutto per quanto riguarda i prospetti interni del chiostro19. Nel 1714 si lavorava ancora nella vecchia chiesa20 e le paghe ai fratelli Palazzotto furono continue21. A partire dal mese di marzo 171722 la paga di mastro Filippo Palazzotto fu registrata separatamente da quella dei suoi fratelli, in quanto si sarebbe sposato due mesi dopo23. Nella contabilità del gennaio 1721 si legge: «A dì 18 detto. Pagate a mastro Michele Cannarella di Siracusa onze 1.28.7 per sette canne, e due palmi e mezzo di pietra bianca, portata dal medesimo a’ 7 luglio 1718 quale allora non se la pagò per essersi in quel giorno acclamato Filippo V in Catania, per qual motivo il detto di Cannarella se ne andò presto in Siracusa, senza esigere il denaro della pietra portata, siccome lo trovo scritto nel quinterno del fu don Battista la Porta, e lo testificano ancora li
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Filippo Palazzotto, figlio di Francesco e Andreana Grillo, nacque a Messina il 28 ottobre 1692 e morì a Catania nel giugno 1721 (vedi S. CALOGERO, Fra Liberato, cit, 135 e 149). 17 Antonino Palazzotto, fratello di Girolamo e Filippo, nacque intorno al 1695 ma non si conosce la data della morte (l.c.). 18 Giuseppe Palazzotto, fratello più piccolo di Girolamo, Filippo e Antonino, nacque a Catania il 2 gennaio 1702 e morì nella stessa città il 14 maggio 1764 (l.c.). 19 «A mastro Girolamo Palazzotto e suoi fratelli per intagliare le finestre di mezzogiorno e tramontana […]» (A.S.CT, CC.RR.SS., b. 25 (ex 23), c. 419 v., settembre 1713). «A mastro Gilormo Palazzotto e suoi fratelli […] per sette finestre et una porta et altri finestroni cominciati […]» (A.S.CT, CC.RR.SS., b. 25 (ex 23), c. 421 r., novembre 1713). 20 Ibid., c. 426 v., settembre 1714. 21 In una nota del luglio 1718 furono elencate le loro paghe giornaliere, differenziate in rapporto all’età: mastro Girolamo (anni 32) tarì 4, mastro Filippo (anni 26) tarì 3,10, mastro Antonino (anni 23) tarì 3,00, mastro Giuseppe (anni 16) tarì 1,15; quest’ultima paga era di poco superiore a quella di un qualsiasi “giovane”, pari a tarì 1,10 (ibid., c. 441 v., luglio 1718). 22 Ibid., c. 433 r., marzo 1717. Nel 1720 si annotò «A mastro Girolamo e mastro Antonino Palazzotto per complemento di quanto restarono di havere per l’intaglio dell’anno passato […]. A mastro Filippo Palazzotto per il detto intaglio […]» (ibid., c. 444 v., luglio 1720). 23 S. CALOGERO, Fra Liberato, cit, 148.
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mastri intagliatori Filippo et Antonino Palazzotto»24. Filippo fu pagato fino al 1721, anno in cui morì nel mese di giugno25. Nel novembre 1722 si iniziò a «far li purtuggi nel muro, per metter le catene di ferro alle camere da farsi nel ponente […]. Non si seguitò per esser lontani da Catania li mastri Palazzotti, che sono l’intagliatori di casa quali si aspettano da Messina»26. Quindi i padri minoriti erano disposti a non proseguire i lavori in assenza dei loro intagliatori di fiducia. Nel 1722 lavorò nel cantiere mastro Pasquale Serafino27. Infatti nei libri contabili si legge «A mastro Pascale Nocca, cognato delli Palazzotti, che nel mese di settembre proximi praeteriti aggiustò il soglio della scala, ove assettò l’antiporta di legno, ch’era falso di squadra»28. Dal mese di gennaio 1723 il lavoro venne eseguito dai fratelli Antonino e Giuseppe Palazzotto29, mentre non fu più trascritto il nome di Girolamo. Nella contabilità non si trova il nome dell’architetto che formò il disegno e diresse i lavori, ma la presenza nel cantiere di Girolamo Palazzotto, dal 1712 al 1722, inducono a pensare che il disegno del chiostro sia il suo. Recentemente il prof. Sebastiano Di Fazio ha pubblicato i contratti relativi alla costruzione della chiesa madre di Militello in Val Catania, con i quali le maestranze si impegnarono nel 172530 a realizzare «tutta quell’opera e servizzo d’intaglio necessario per detta nuova fabrica della suddetta venerabile chiesa matrice tanto nel primo come nel secondo ordine dentro e fuori […] giusta il modello, forma, e maniera del disegno di detta
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b. 25 (ex 23), c. 449 v., gennaio 1721. S. CALOGERO, Fra Liberato, cit., 149. 26 A.S.CT, CC.RR.SS., b. 25 (ex 23), c. 459 v., novembre 1722. 27 Mastro Pasquale Serafino, alias Nocca, figlio di Antonino e Francesca Pappalardo, sposò Angela Palazzotto il 6 maggio 1711 (vedi S. CALOGERO, Fra Liberato, cit., 136). 28 A.S.CT, CC.RR.SS., b. 25 (ex 23), c. 461 r., dicembre 1722. 29 Ibid., c. 461 v., gennaio 1723; c. 465 r., maggio 1723; c. 472 r., marzo 1724. 30 Il progetto doveva esistere prima del mese di settembre 1721, in quanto i primi contratti risalgono a tale data (A.S.CT, Atti notaio Prospero Antonio Magro, vol. 1000, cc. 207r e 211 r., trascritti in S. DI FAZIO, La chiesa Matrice di S. Nicolò in Militello. Alcune testimonianze storiche sulla sua ricostruzione (1693 – 1776), Catania 2005, 12-35). 25
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chiesa d’ordine composito, fatto, e sottoscritto da mastro Girolamo Palazzotto di Catania»31. Questo documento ci conferma le capacità progettuali di Girolamo e il ruolo assunto nei cantieri da questo “Capo Mastro” che, come scrisse l’architetto Giovan Battista Vaccarini, «da mastro intagliatore di pietra di xiara pell’abito si pose addosso divenne subito architetto»32. Nel mese di aprile 1724 furono acquistati «otto cartoni per far li moderi della fontana»33 e nel luglio «cominciarono li Palazzotti a lavorare il marmo per la fontana, dovendosi al fine prezzare la maestria»34. Lo stesso Antonino Palazzotto fu pagato «onze undici, tarì due e grana dodici da lui prezzate nel mese di giugno proximi praeteriti per la compra di palmi 52.9 di marmo, comprato in Messina per la fontana»35. Il lavoro di Antonino e Giuseppe Palazzotto fu svolto senza interruzione fino al mese di giugno 172836, quando al loro posto lavorò Pasquale Serafino37. A partire dal gennaio 1730 i due fratelli lavorarono nel “corridore”38 della “casa” dei padri minoriti, lavoro che fu ultimato nell’aprile 1730. Mastro Giuseppe Palazzotto lavorò ancora nel nostro cantiere fra il mese di luglio e il mese di ottobre del 1735. In un contratto stipulato il 25 febbraio 1747 per la costruzione degli stalli del coro nella chiesa di S. Agostino a Catania si legge che dovevano essere «uguali a quello de’ PP. Minoriti di S. Michele» e «finirlo per tutto giugno p.p. 1747 benvisto al Capo mastro Giuseppe Palazzotto»39. Questo documento ci indica che nel 1747, mentre si edificava la chiesa di
31 A.S.CT, Atti notaio Gaetano Frazzetto, vol. 1143, cc. 261 r-262 v. (trascritto in S. DI FAZIO, La chiesa Matrice, cit., 29). 32 ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Min. Affari Ecclesiastici, fasc. 745/8 (pubblicato in M. R. NOBILE, I volti della Sposa, le facciate delle chiese madri nella Sicilia del Settecento, Palermo 2000, 42). 33 A.S.CT, CC.RR.SS., b. 25 (ex 23), c. 472 v., aprile 1724. 34 Ibid., c. 477 r., luglio 1724. 35 Ibid., c. 478 v., agosto 1724. 36 Ibid., c. 483 v. e segg., da luglio 1727. 37 Ibid., c. 488 r. e segg., da giugno 1728; c. 501 v., luglio 1729; c. 511 r., gennaio 1730. 38 Ibid., c. 511 v., gennaio 1730; c. 514 r. aprile 1730; c. 521 r., luglio 1731. 39 A.S.CT, 1° vers., b. 2315, c. 409 v., 25 febbraio 1747, notaio Giuseppe Capaci.
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S. Agostino, la zona presbiterale della chiesa dei Minoriti doveva essere stata ultimata. Infatti i padri agostiniani per la loro nuova chiesa non potevano prendere a modello il disegno degli stalli della vecchia chiesa dei Minoriti, che era stata pensata sin dall’inizio come provvisoria. La citazione che tale lavoro doveva essere benvisto al capo maestro Giuseppe Palazzotto indica che egli ebbe l’incarico di dirigere i lavori, non solo nella chiesa di S. Agostino, nella quale disegnò sicuramente gli altari laterali, ma anche nella chiesa dei Minoriti, nella quale la sua presenza è documentata fino al 1735. Inoltre, i rapporti fra i fratelli Palazzotto e i padri minoriti non si limitavano ai semplici incarichi professionali. Infatti si deve ricordare che Girolamo Palazzotto era capo di una «Confraternita segreta» fondata presso «la Venerabile Casa de’ chierici Minoriti sotto titolo di San Michele» dove, «ottenuta da quel superiore una stanza inferiore ed un Padre, che lor reggesse negl’esercizi spirituali e divoti», quella confraternita continuava a fiorire nel 1781 «con proprietà ed edificazione pur troppo nota» nella stessa città40. Quindi, dai documenti esaminati emerge il nome dei fratelli Palazzotto, in particolare quelli di Girolamo e Giuseppe. Il primo ebbe un ruolo nella progettazione del chiostro (fig. 1), mentre il secondo intervenne, probabilmente, anche nei finestroni principali del chiostro41 (fig. 2), dove sono evidenti i riferimenti stilistici con altre opere che egli eseguì nello stesso periodo42.
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A. DA PATERNÒ, Notizie storiche degli uomini illustri per forma di santità e di lettere, che han fiorito nell’Ordine dei FF. Min. Cappuccini della Provincia di Messina in Sicilia ecc., parte II, Messina 1781, 233-237. 41 Le modifiche al chiostro, effettuate dopo la confisca dei beni agli ordini religiosi, si vedono nei disegni conservati all’Archivio Storico della Provincia Regionale di Catania, dei quali si riportano il disegno del prospetto interno del chiostro e la pianta del 1° piano della “casa”. Questi disegni sono stati pubblicati in G. ANFUSO, Il palazzo dei Minoriti, Catania 2002, 34 e 27. 42 Vedi S. CALOGERO, Fra Liberato, cit., 145.
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Fig. 1 – «Casa degli aboliti PP. Minoriti d’addirsi a Palazzo di Prefettura ed Ufficii Provinciali. Icnografia del 1° piano superiore», Catania 14 maggio 1868.
Fig. 2 – Disegno del prospetto del chiostro risalente alla seconda metà dell’800. Si vede disegnata in rosso la sopraelevazione eseguita in questo periodo.
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3. IL DISEGNO DI GIUSEPPE PALAZZOTTO PER LA CHIESA DEI MINORITI Il prof. Vito Librando nel 1963 scriveva: «A proposito della facciata della chiesa dei Minoriti (S. Michele) le fonti del secolo scorso sono concordi»43. Le fonti citate erano il Cordaro Clarenza, il quale nel 1834 riferiva che «la chiesa poi disegno di Francesco Battaglia44 a tre navate è architettata»45, e il Castorina che nel 1888 riportava la notizia aggiungendo che il Battaglia fece «altre opere»46. La citazione del Cordaro Clarenza implica l’esistenza di un primo disegno non riferibile al Battaglia. Infatti, lo stesso Librando aggiungeva: «Ci risulta che quando fu chiamato Battaglia, la chiesa veniva costruita su pianta e disegni di altro architetto»47 e che in una descrizione delle feste del giugno 1770 si legge: «[…] il prospetto della nuova suddetta chiesa […] è magnifico, e vago in se stesso […] (ornato di damaschi) […] sulla porta, e sulle gran finestre collaterali, come pure il cornicione e le gran colonne […]»48. Quindi nel 1770 si vedeva già completo il primo ordine del prospetto della chiesa, e di conseguenza era completa anche la struttura portante dell’edificio, per lo meno fino al piano d’imposta del tamburo della cupola. Il prof. Librando, riferendosi al Battaglia, asseriva: «Il nostro architetto vi lavorò sin dall’inizio, senza dubbio: anche se il suo nome, a tutte lettere, è segnato soltanto dal 1771 al 178749 per regalie a compenso
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V. LIBRANDO, Francesco Battaglia architetto del XVIII secolo, in Aspetti dell’architettura barocca nella Sicilia orientale, Catania 1971, 21. Il saggio è stato pubblicato per la prima volta nel 1963. 44 Francesco Battaglia, nacque a Catania fra il 1701 e il 1702 da Paolo e Angela Biondo, e morì nel gennaio 1788. (vedi V. LIBRANDO, Francesco Battaglia, cit., 10 e 24). 45 V. CORDARO CLARENZA, Osservazioni sopra la storia di Catania [...], IV, Catania 1834, 85. 46 P. CASTORINA, Elogio storico di Monsignor Salvatore Ventimiglia, Catania 1888, 174. Nello stesso testo il Castorina, a proposito della chiesa Collegiata di Stefano Ittar, scriveva erroneamente che venne «affidata l’esecuzione all’architetto Battaglia». 47 V. LIBRANDO, Francesco Battaglia, cit., 21, nota 44. 48 A.S.CT, CC.RR.SS., b. 74, fogli sciolti (citato in V. LIBRANDO, Francesco Battaglia, cit., 21, nota 44). 49 A.S.CT, CC.RR.SS., b. 7, dal marzo 1771 al novembre 1787
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delle prestazioni»50. Che il Battaglia ebbe l’incarico di dirigere i lavori è confermato, fra l’altro, da un contratto del 26 agosto 1775, relativo ai lavori per una “catusata” per condurre l’acqua nella casa dei Minoriti, nel quale si legge: «quale catusata debba situarsi profonda palmi tre, o più come sarà determinato da don Giuseppe Serafino51 Architetto della Deputazione delle strade […] con farsi suddetto travaglio magistrevolmente, e come ricerca l’arte d’ottimo e perito maestro sempre però colla direzione di don Francesco Battaglia Architetto su ciò seriamente eletto in vigor del presente […]»52. Di recente Rosa Caponetto, riprendendo la ricerca svolta dal Librando, ha scritto che prima del 1771 «spesso compaiono soltanto vaghe voci di “compensi dati a nostro architetto”»53, e che «i nomi più ricorrenti tra i “mastri” intervenuti per la costruzione della chiesa sono invece specificati nei libri contabili»54. Inoltre, aggiunge che «ogni dubbio viene fugato per il timpano (completato nel 1775), la cupola (costruita tra il 1771 e il 1787) e il campanile (successivo al 1787), realizzati tutti dopo la morte di Palazzotto»55. La Caponetto scrive: «Da fonti documentarie si deduce che la pianta è stata disegnata da Giuseppe Palazzotto»56. Pertanto è utile riprendere le suddette fonti documentarie ed analizzarle attentamente, anche se sarebbe indispensabile l’esame di tutti i documenti citati, per il momento non consultabili, per chiarire il ruolo assunto in questo cantiere dal Palazzotto e dal Battaglia57. 50
V. LIBRANDO, Francesco Battaglia, cit., 21, nota 44. Giuseppe Serafino, figlio di Pasquale e Angela Palazzotto, nacque a Catania il 25 marzo 1713 e morì nel 1798 (vedi S. CALOGERO, Fra Liberato, cit., 136). 52 A.S.CT, CC.RR.SS., b. 62 (ex 51), c. 711 v., 26 agosto 1775 (citato in G. ANFUSO, Il palazzo, cit., 9). 53 R. CAPONETTO, La chiesa, cit., 154. La Caponetto non riporta il riferimento archivistico, per cui si presume debba essere quello citato dal prof. Librando. 54 Ibid., 179 nota 23. 55 Ibid., 154. 56 Ibid., 153. 57 Il prof. Librando nella monografia su palazzo Biscari a Catania chiarì che Giuseppe Palazzotto fu l’architetto di fiducia del principe Biscari, per il quale progettò e diresse i lavori del suo palazzo dal 1743 fino alla sua morte, avvenuta il 14 maggio 1764. Mentre, solo a partire dal mese di agosto 1764, fra i documenti si legge: «a Don Francesco Battaglia per 51
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Il documento citato dalla Caponetto è una relazione relativa alla causa promossa da donna Caterina Panza contro i padri minoriti di Catania58. Al perito incaricato dal Concistoro di Palermo, l’architetto palermitano Giuseppe Venanzio Marvuglia59, veniva proposto da entrambe le parti di spostare il campanile, iniziato a costruire nel prospetto laterale della chiesa in linea con la fabbrica, e di valutare la possibilità di collocarlo in quello principale sull’attuale via Etnea, evitando in tal modo la servitù di vista che determinava sulle stanze da letto della signora Panza60. Il prospetto della chiesa era stato ultimato nel 177561, per cui il Marvuglia rispondeva che «ritrovandosi di già compiuto il prospetto della Chiesa, riferisco non essere più possibile di potersi su l’istesso prospetto fabricare un campanile senza che si difformasse l’architettura di esso». Le domande formulate dai ricorrenti contengono termini tecnici, per cui è presumibile che siano state dettate da architetti locali, fra i quali Francesco Battaglia che, da quanto riportato dal Librando, in quel periodo svolgeva ancora la funzione di direttore dei lavori dei minoriti. Dalla suddetta relazione si evince che nel 1787, cioè due anni dopo l’ultimazione dei lavori della chiesa62, i padri minoriti conservavano ancora il «disegno di tutta la nuova fabrica del tempio […] formato da don Giuseppe Palazzotto», in particolare il «disegno della nuova Chiesa e del prospetto della medesima». Dalla richiesta fatta al Marvuglia di ragione di sua assistenza data in detta fabbrica, e per disegni d’essa» (Cfr V. LIBRANDO, Palazzo Biscari in Catania, in Aspetti dell’architettura barocca nella Sicilia orientale, Catania 1971, 45-99). 58 A.S.CT, CC.RR.SS., b. 88 (ex 73), da c. 2 r. a c. 9 v., anno 1787. 59 Giuseppe Venanzio Marvuglia nacque a Palermo nel 1729 da Francesca e Simone Imbarbuglia e morì a Palermo nel 1814 (vedi L. SARULLO, Dizionario, cit. 290). 60 Lo stesso problema, durato oltre sessanta anni fra il capitolo dei canonici della Collegiata e il barone della Sigona, fu risolto nel 1768 dall’architetto Stefano Ittar. 61 Nel prospetto su via Etnea «vi son 5 putti ed un’altra gigantesca statua alla sommità rappresentante S. Michele Arcangelo con la seguente iscrizione: EXPLICAT VICTOR CRVCEM/ MICHAEL/ SALUTIS SIGNIFER/ A. D.NI MDCCLXXV. – Il vincitore Michele signifero della salute, spiega la croce. L’anno del Signore 1775» (G. RASÀ NAPOLI, Guida alle chiese di Catania, Catania 1900, 224). 62 Lateralmente alla porta in una lapide si legge: «TERTIO IDUS SEPTEMBRIS/ MDCCLXXXV/ DEO/ IN HONOREM DIVI MICHAELIS ARCH./ CONRADO. PONTEFICE. CATINENSI/ DICATUM. – Fu dedicato il 4 settembre del 1785 a Dio, in onore di S. Michele Arcangelo, essendo vescovo di Catania Corrado» (G. RASÀ NAPOLI, Guida, cit., 224).
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controllare se la scala fosse «annessa al disegno fatto dal suddetto di Palazzotto», si intuisce che il disegno corrispondeva alla pianta. Inoltre i padri minoriti indicarono il «disegno della nuova Chiesa e del prospetto della medesima», per cui doveva trattarsi di un solo elaborato che conteneva al suo interno la pianta e il prospetto. In una nota dell’architetto Marvuglia si legge che «l’incominciato campanile non è ideato con forma di fabbrica magnificamente architettata corrispondente all’attuale disegno del magnifico tempio, ma solamente per comodo di situare le campane senz’alcuna decorazione a corrispondenza del tempio». Inoltre, alla domanda se la scala vicina al prospetto, collocata «in quella stanza che oggi serve per sala del Rev.mo P. Provinciale», fosse «stata fatta nel corso della fabbrica della Chiesa per salire alla cupola ed alla galleria, e se sia annessa al disegno fatto dal suddetto di Palazzotto», il Marvuglia rispose che non poteva «riferire se sia annessa al disegno fatto dall’Architetto Palazzotto per non avermelo fatto vedere tale disegno». Mentre i padri minoriti indicavano il disegno «formato da don Giuseppe Palazzotto», nella nota del Marvuglia si parla del «disegno fatto dall’Architetto Palazzotto», riconoscendogli il ruolo di architetto. Ma, dalla stessa nota, non si capisce il perché i minoriti non fecero vedere il disegno in loro possesso. La motivazione più plausibile potrebbe essere quella che il campanile riportato nel disegno corrispondeva alle strutture incominciate «solamente per comodo di situare le campane senz’alcuna decorazione», per cui facendolo vedere sarebbe venuta a mancare la pretesa che il campanile doveva servire, fra l’altro, «per rendere maggior ornato alla città». Inoltre, considerato che Giuseppe Palazzotto morì nel 176463 e che i lavori proseguirono fino al 1785 sotto la direzione di Francesco Battaglia, ci si chiede il motivo che spinse i padri minoriti a non esibire i disegni di quest’ultimo. Nella veduta prospettica di Catania di Orlando64, pubblicata nel 1761 (fig. 3), si vede la cupola della chiesa dei Minoriti che primeggia sulle altre già realizzate, come quella della cattedrale65 e l’altra della chiesa di Sant’Agata alla badia, della quale nel 1759 fu ultimato il piedritto66. Il 63
S. CALOGERO, Fra Liberato, cit., 135. A. LEANTI, Lo stato presente della Sicilia, tomo I, Palermo 1761. 65 Sulla cupola primitiva della cattedrale di Catania vedi S. CALOGERO, La ricostruzione della cattedrale di Catania dopo il terremoto del 1693, in Synaxis 22 (2004) 113-148. 66 Recuperare Catania, a cura di S. Barbera, Roma 1998, 247. 64
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disegno di Orlando, come la maggior parte dei disegni riportati nella pubblicazione del Leanti, rappresentavano, oltre allo “stato presente” della Sicilia, i progetti degli edifici più rappresentativi. In questo contesto si può pensare che il progetto della cupola, e quindi quello della chiesa dei Minoriti, sia stato redatto prima del 1761. Infatti la cupola si vede collocata al centro della chiesa, e non nella crociera di una ipotetica pianta a croce latina. Ne consegue che il disegno della pianta della chiesa e della sua cupola, per lo meno nella sua concezione spaziale, risalgano al progetto di Palazzotto. Da quanto visto finora si evince che se vi furono disegni formati da Francesco Battaglia, questi rappresentavano solo il secondo ordine del prospetto e la cupola. Inoltre, essendo la causa civile incentrata sulla posizione del campanile rispetto alla pianta della chiesa e alla collocazione della scala, tutte opere che, in base a quanto riportato dal Librando e dalla Caponetto, furono realizzate prima dell’intervento di Battaglia, è ovvio che il progetto da prendere come riferimento era quello complessivo del Palazzotto.
Fig. 3 – Particolare della veduta prospettica di F. Orlando (Leanti, 1761).
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Dalla relazione dell’architetto Marvuglia si ricavano, inoltre, informazioni utili sulla posizione della “vecchia chiesa”. Il Marvuglia scrisse che «l’antico campanile è situato sopra il colmarello del copertizzo, corrispondente al centro del corridore» e che «fu situato in un luogo adattato per quell’antica Sacrestia ed antica Chiesa»67. Quindi dalla posizione dell’antico campanile possiamo dedurre quella della “vecchia chiesa”. Il Marvuglia aggiunse: «delle fabbriche alte attorno l’antico campanile la più vicina è quella del Barone di S. Demetrio» e che «l’antico campanile trovasi esistente vicino all’angolo del cortile della casa di essi RR. PP. Minoriti, e dietro il secondo arco dell’istesso cortile»68. Quindi la “vecchia chiesa” o chiesa provvisoria, probabilmente, era ubicata vicino al palazzo del barone di San Demetrio con l’ingresso rivolto sull’attuale via Etnea.
4. IL PROSPETTO PRIMA DELLE MODIFICHE OTTOCENTESCHE Per quanto riguarda il prospetto originario della chiesa, modificato nel corso dell’abbassamento del livello stradale nel 186969, disponiamo di alcuni disegni: uno del 1789 di Léon Dufourny70 (fig. 4), uno della prima metà dell’Ottocento di Sebastiano Ittar71 (fig. 5), e quello pubblicato nel 1847 da Salvatore Zurria72.
67
b. 88 (ex 73), c. 5 r. L.c. 69 In questa occasione l’ing. Saverio Cavallai riporta: «[…] l’abbassamento della strada Stesicorea obbliga rinsaldare la parte scoperta delle fondazioni del prospetto del nostro edificio […]» (BIBLIOTECHE RIUNITE CIVICA E URSINO RECUPERO, Riforme da apportare all’edificio provinciale degli ex Minoriti, Catania 1869, 30, coll. U.R. misc. G. 27.17 – riportato in R. CAPONETTO, La chiesa, cit., 181, nota 49). 70 BNF – Bibl. Naz. Parigi, Estampes, Ub 236 (pubblicato in G. PAGNANO, Disegni di Dufourny alla Bibliotheque Nazionale di Parigi, in Il Disegno di Architettura, settembre 1990, n. 2, 13) 71 Museo Civico del Castello Ursino (pubblicato in G. ANFUSO, Il palazzo, cit., 23). 72 S. ZURRIA, Vedute e monumenti antichi di Catania, Catania 1847, tav. 23. 68
A.S.CT, CC.RR.SS.,
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Fig. 4 – Leòn Dufourny: particolare della chiesa dei Minoriti.
Fig. 5 – Sebastiano Ittar: particolare della chiesa dei Minoriti.
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Il primo ordine del partito centrale si presenta attualmente modificato rispetto alla sua forma originaria. Infatti, per adattare il disegno alla nuova quota stradale, il portale d’ingresso fu abbassato lasciando un campo vuoto fra l’architrave della trabeazione e il timpano a omega del portale. Questo vuoto fu parzialmente colmato con lo stemma del Cristo risorto, originariamente posto all’interno del timpano ricurvo73. Inoltre, l’eliminazione dei motivi ornamentali ai lati del portale e la “sottomurazione” del basamento hanno modificato le originarie proporzioni che definivano meglio la concitazione tardobarocca della facciata (fig. 6).
Fig. 6 – Prospetto della chiesa dei Minoriti. 73 Lo stemma del Cristo risorto richiama quello inserito da Giuseppe Palazzotto nel secondo ordine del partito centrale del palazzo degli Elefanti (vedi S. CALOGERO, Il Palazzo degli Elefanti. Documenti inediti dopo il terremoto del 1693, in Tecnica e Ricostruzione 49 [2004] 17-32).
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5. LA PIANTA DELLA CHIESA La pianta della chiesa (fig. 7) è simile a quella che l’architetto Rosario Gagliardi progettò per la chiesa di San Domenico a Noto (fig. 8). La chiesa del Gagliardi fu progettata nel 1737 ed ha un impianto che propone in maniera personale la sintesi tipologica longitudinale e di quella centrale, che è rarissima nelle chiese siciliane sino a questa data74, e che richiama la chiesa romana di San Carlo ai Catinari (1612-1620). Dal confronto dei disegni di rilievo, si evince che quanto detto per la chiesa del Gagliardi, si può riferire anche alla chiesa dei Minoriti a Catania. Considerato che la costruzione della chiesa di Noto fu iniziata nel 1737 mentre quella dei Minoriti, da quanto risulta dalla contabilità finora consultata, è successiva a tale data, ne segue che, probabilmente, l’architetto Giuseppe Palazzotto conosceva le opere del Gagliardi o per lo meno i suoi disegni75 (fig. 9).
Fig. 7 – Pianta della chiesa dei Minoriti a Catania (S. Boscarino 1986). 74
S. BOSCARINO, Sicilia Barocca, Roma 1986, p. 160. Lo schema della pianta di San Domenico fu inserito dal Gagliardi nel suo trattato di architettura con il nome di “Icnografia G” (Cfr L. DI BLASI, F. GENOVESI, Rosario Gagliardi «Architetto dell’Ingegnosa città di Noto», Catania 1972, tav. XXXVII). 75
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Fig. 8 – Pianta della chiesa di San Domenco a Noto (S. Boscarino 1986).
Fig. 9 – Rosario Gagliardi: “Icnografia G” (L. Di Blasi, F. Genovesi, 1972)
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6. LA CUPOLA PRIMITIVA E LE MODIFICHE OTTOCENTESCHE In una stampa di Jean Houel76 (fig. 10) si intravede la cupola della chiesa inserita nello sfondo di piazza Stesicoro.
Fig. 10 – Jean Houel: particolare dell’«Amphiteatre de Catane. …». Sulla sinistra si vede la cupola della chiesa dei padri minoriti.
Fig. 11 – Sebastiano Ittar: Veduta di scorcio della chiesa dei Minoriti. 76 JEAN HOUEL, Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malte et de Lipari […], Parigi 1782 (trad. it, Palermo 1998, 53).
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Jean Houel dimorò in Sicilia fra il 1776 e il 1779, dove dipinse le gouaches delle sue 264 tavole del Voyage pittoresque, per cui la cupola dovette essere ultimata sicuramente prima del 1779. La stessa cupola si vede più chiaramente in uno schizzo di Sebastiano Ittar77 (fig. 11) dei primi dell’Ottocento78. Da questo disegno si evince che la cupola era costituita da un tamburo cilindrico scandito da otto finestre, delle quali le quattro disposte lungo gli assi di simmetria della chiesa, chiamate “cardinali”79, emergevano dalla superficie curva del cilindro, creando delle edicole con timpano triangolare sostenuto da due colonne. La cupola sopportò la scossa sismica del 1783, mentre il terremoto del 1818 provocò un leggero spostamento del lanternino rispetto alla cupola. Infatti, come risulta dal «Rapporto che si presenta dal Padre Provinciale dei Chierici minori Regolari sotto il titolo di San Michele Arcangelo alla Ill.ma nuova Deputazione della Commissione»80, insieme alla riparazione dei danni provocati alla “casa” nella quale era necessario rifare alcune volte e la riforma dei prospetti di ponente e di mezzogiorno81, «Riguardo quindi alla cupola, e lanternino, pratticare quei provvedimenti stabiliti d’un un’anime consenso dal suddetto Architetto Battaglia82, e l’Architetto della sopradetta Ill.ma Deputazione don Salvatore Zhara Buda83, vale a dire d’atterrare il lanternino, perché accagionato non poco dall’attrito impressogli dai 77 Sebastiano Ittar nacque a Catania il 18 maggio 1768, da Stefano e Rosaria Battaglia, quindi nipote di Francesco Battaglia, e morì a Catania il 20 ottobre 1847 (vedi G. DATO – G. PAGNANO, Stefano Ittar: un architetto polacco a Catania, in Lembasi, 1 [1995], n. 1, 97 e 100). 78 Museo Civico del Castello Ursino (pubblicato in G. ANFUSO, Il palazzo, cit., 22). 79 Ibid., 16. 80 A.S.CT, Commissione pe’ tremuoti di Catania, busta 2 (trascritto in G. ANFUSO, Il palazzo, cit., 20, nota 3). 81 «[…] ripristinare con la più solida sicurezza e perpetuità con demolire tutte quelle fabbriche interne, ed esterne […], prospetti di ponente, e a mezzogiorno, delle volte d’alcune camere, ed in parte quelle de’ dormitori, che danneggiate esse furono dai tremuoti de’ 20, e 28 febraro del corrente anno che, a sentimento dell’architetto don Antonino Battaglia gli sono state significate, con ridurre a miglior forma il prospetto di mezzogiorno con una adeguata decorazione del nuovo portone d’entrata in detta casa, corrispondente pel buon ordine al centro del chiostro ed alla piccola porta a fianco della veneranbile Chiesa […]» (l.c.). 82 Antonino Maria Battaglia, figlio di Francesco Battaglia, nacque intorno al 1750. 83 Salvatore Zahra Buda nacque nel 1770 e morì a Catania il 23 dicembre 1832 (vedi L. SARULLO, Dizionario, cit., 444).
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tremuoti suddetti, ed alla cupola, perché in nulla alterata nella sua verticale, disporgli della doppia catena per cingere il tamburo nello friggio della trabeazione, e con altra di doppio ferro il fianco della volta». Dalla citata relazione si evince che il tamburo della cupola mantenne la sua verticalità, e i danni riguardarono, probabilmente, alcune lesioni sulla calotta. Altri due terremoti interessarono Catania nell’Ottocento, quello del 22 aprile 1846 e l’altro dell’11 gennaio 1848, che danneggiarono talmente la cupola, da richiedere la chiusura della chiesa per tre anni84 e la riapertura il 29 settembre 185085. Infatti, nel 1850 dopo una prima perizia redatta dall’ingegnere Lorenzo Maddem86, che prevedeva la demolizione della cupola87, i padri minoriti si rivolsero all’ingegnere Mario Di Stefano88 per fargli redigere la perizia per «la restaurazione de la cupola e Chiesa dei Chierici Regolari Minori»89. I lavori furono eseguiti lo stesso anno, e riguardarono il consolidamento della base dei piloni di levante e di ponente delle cappelle di S. Francesco Caracciolo e di S. Michele, la realizzazione degli «archi grandi» posti «dentro terra», in corrispondenza dei «quattro cantonali del pilone di levante della cappella di S. Francesco Caracciolo», il restauro degli «archi grandi» della cupola e delle volte, la costruzione del camminamento di copertura, la risarcitura all’estradosso e all’intradosso della cupola, la cerchiatura della stessa e l’inserimento di catene di ferro nei 84 Fra le lapidi murate lateralmente alla porta d’ingresso vi è quella in cui si legge: «TERRAE MOTIBUS QUASSUM AC DISSUTUM/ MOERENTE PIETATE/ TRIENNIUM CLAUDEBATUR. – Scosso e rovinato per i terremoti, con dispiacere dei pietosi veniva chiuso per un triennio» (G. RASÀ NAPOLI, Guida, cit., 209). 85 In un’altra lapide si legge: «CURANTIBUS HUIUS FAMILIAE PATRIBUS/ FIRMIUS AC PULCHRIUS/ EXPLETIS CIVIUM VOTIS/ SEPTEMBRIS XXIX MDCCCL RESERABATUR – Per cura dei Padri di questa famiglia furono espletati i voti dei cittadini. Più bellamente e magnificamente si riapriva il 29 settembre 1850» (l.c.). 86 Lorenzo Maddem, nacque ad Acireale il 14 novembre 1801 e vi morì il 14 marzo 1891 (vedi L. SARULLO, Dizionario, cit., 272). 87 Relazione «intorno alla spesa occorrente alla demolizione della cupola della chiesa de’ RR. PP. CC. RR. MM. » (A.S.CT, CC.RR.SS., b. 77, 1850. citato in R. CAPONETTO, La chiesa, cit., 180, nota 29). 88 Mario Di Stefano, nacque nel 1815 e morì nel 1890 (vedi L. SARULLO, Dizionario, cit., 158). 89 A.S.CT, CC.RR.SS., b. 77, 1850 (citato in R. CAPONETTO, La chiesa, cit., 155).
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pilastri del tamburo, nonché i lavori di stuccatura e apposizione di un nuovo intonaco laddove occorreva90. In questa relazione si leggono, fra gli interventi, l’ingrossamento del tamburo mediante «fabrica formata di pezzi di lava vulcanica detti balatoni e cannarozzoni», l’inserimento di «pezzi di pietra calcare necessaria per conformare gli aggetti nel cornicione corrispondenti ai pilastri binati del tamburo» e «alcuni pezzi di lava vulcanica […] per legare le lesioni e rimarginare le unioni dei pezzi di pietra da taglio all’estradosso della stessa» e, infine, per legare le lesioni «gaffe grandi e piccole, zappe di ferro, situate nelle antiche fenditure»91. Si deduce che i lavori di rimozione delle quattro edicole con timpano triangolare sorretto da due colonne della vecchia cupola, fu eseguito nel 1850 dall’ingegnere Mario Di Stefano. Nel restauro della cupola il Di Stefano «applicò il sistema adottato dal Marchese Palmi per il S. Pietro di Roma, mentre per i muri d’ambito si rifece alla tecnica del Molard per il conservatorio di Parigi, ed ai principi del Rondelet per la cupola di S. Genoveffa a Parigi (otto contrafforti e quattro grandi cerchioni in ferro)»92. Questi lavori, insieme al rifacimento dei prospetti e la sopraelevazione dei corpi di fabbrica, hanno modificato l’aspetto originario dell’edificio religioso (fig. 12).
Fig. 12 – Veduta d’insieme della “casa” dei Minoriti (foto G. Anfuso, 2002) 90 91 92
L.c. R. CAPONETTO, La chiesa, cit., 181 nota 55. S. BOSCARINO, Vicende urbanistiche di Catania, Catania 1966, 161-162.
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7. CONCLUSIONE La cupola della chiesa dei Minoriti si vede rappresentata in un disegno di Léon Dufourny che ritrae l’attuale via Etnea vista da piazza Duomo93 (fig. 13). Da questo disegno si intuisce il ruolo che assumeva la cupola nel contesto urbano. Per ottenere questo risultato il progettista della chiesa dei Minoriti non poteva utilizzare la pianta a croce latina, che avrebbe spostato la cupola verso l’attuale via Manzoni sottraendola all’osservatore che camminava per la strada più importante della città.
Fig. 13 – Léon Dufourny: Veduta di via Etnea nel 1789. La cupola della chiesa dei Minoriti emerge dal contesto urbano.
Non poteva utilizzare neanche la pianta ovale, che avrebbe avuto, probabilmente, la copertura a volta, simile a quella adottata da Giuseppe Palazzotto nelle chiese di San Giuliano e di Santa Chiara. Quindi la soluzione planimetrica adottata dal progettista era l’unica che poteva 93 Michele Cometa attribuì questo disegno a Jacob Ignaz Hittorf (J.I. HITTORF, Viaggio in Sicilia, a cura di Michele Cometa, Messina 1993, tav. 27, 144 e 145). Hittorf dimorò a Catania fra il 1823 ed il 1824, mentre in un disegno inserito dal Cometa nella stessa pubblicazione si vede ancora la primitiva cupola della cattedrale (ibid., tav. 26, 142 e 143), demolita nel 1793 (S. CALOGERO, La ricostruzione, cit., 141). Il prof. Pagnano ha rinvenuto tale disegno fra quelli del Dufourny conservati a Parigi ed eseguiti nel 1789 dall’architetto francese, in accordo con le date sopra citate. Pertanto questi due disegni si possono attribuire senza dubbio a Léon Dufourny.
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soddisfare l’esigenza funzionale, di chiesa a tre navate, con quella urbanistica, di mettere in risalto la nuova cupola. Lo stesso risultato urbanistico era stato ottenuto dal Vaccarini nella strada del Corso (oggi via Vittorio Emanuele) con la cupola della badia di S. Agata, alla quale quella dei Minoriti si poneva come antagonista. La facciata era impostata con uno schema compositivo che, come scriveva Librando, si differenziava nettamente dalle facciate progettate dal Battaglia94, per la ricerca dei risalti e per la sapiente e variata distribuzione chiaroscurale. Nel progetto complessivo la facciata doveva servire da cornice alla cupola, lasciandola come unica protagonista nello scenario urbano. Per cui doveva essere concepita priva di quegli elementi che caratterizzavano l’architettura barocca catanese fino al 1750. Rispetto al prospetto della “casa” dei Minoriti, costituito da un piano terra con ammezzato (botteghe) e da in piano primo (dormitorio di levante), la facciata della chiesa emergeva in altezza, accresciuta fra l’altro dalla statua dell’Arcangelo San Michele (fig. 14), delimitando in tal modo la visuale della cupola.
Fig. 14 - Léon Dufourny: Prospetto della «casa» dei Minoriti nel 1789. 94 La facciata della chiesa madre di Aci S. Filippo fu realizzata nel 1776, dopo «una riforma del prospetto» effettuata nel 1774 e un pagamento di onze due nel 1776 «per disegno del prospetto», mentre quella della chiesa madre di Caltagirone fu realizzata dopo il 1766 (vedi V. LIBRANDO, Francesco Battaglia, cit., 16 e 18).
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Fig. 15 – Salvatore Zurria: Prospetto della «casa» dei Minoriti nel 1847, dopo le modifiche apportate dall’architetto Sebastiano Ittar.
Questa impostazione fu modificata dall’architetto Sebastano Ittar che, aggiungendo un altro piano alla “casa”, impedì la completa visuale della cupola all’osservatore che arrivava da piazza Duomo (fig. 15). Dall’esame dei documenti di archivio è stato riscontrato che il disegno della chiesa, per lo meno nella sua concezione spaziale, si deve attribuire a Giuseppe Palazzotto. Al momento non si conoscono opere dell’architetto Palazzotto che contengano cupole e, tanto meno, facciate in stile tardobarocco, mentre sono evidenti le analogie stilistiche con alcune opere dell’architetto Battaglia. Tuttavia, non essendo possibile al momento esaminare tutti i documenti dell’archivio, si rinvia ad un prossimo studio che esamini tutte le fasi costruttive della chiesa, individuando il ruolo assunto dai due architetti, Giuseppe Palazzotto e Francesco Battaglia, per la progettazione della stessa, anche con l’ausilio di grafici. Comunque, dal presente studio emerge l’opera svolta da Girolamo sul chiostro e quella di Giuseppe sul progetto complessivo della nuova chiesa, collocando i fratelli Palazzotto fra i protagonisti dell’architettura del Settecento a Catania. Il fatto che i committenti, nel nostro caso i padri minoriti, conservavano il disegno «formato da don Giuseppe Palazzotto» e lo utilizzavano come documento in una causa civile, dimostra l’importanza che questi attri-
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buivano all’opera svolta dall’architetto catanese95. Lo stesso Librando scriveva: «È ancora difficile precisare quale contributo, soprattutto sino alla metà del secolo, debba riconoscersi a Giuseppe Palazzotto: certamente di gran lunga superiore e più ampio di quanto sinora è stato insufficientemente definito, e con caratteri diversi da quelli del Battaglia»96.
95 Sulle opere di Giuseppe Palazzotto vedi: S. CALOGERO, Il palazzo degli Elefanti. Documenti inediti dopo il terremoto del 1693, in Tecnica e Ricostruzione 59 (2004) 17-32; S. CALOGERO, Nuovi documenti sulla costruzione della chiesa del monastero di S. Giuliano a Catania, in Tecnica e Ricostruzione 57( 2002) 34-46; F. GRANATA, Palazzotto o Vaccarini?, in Popolo di Sicilia, Catania 6 febbraio 1942; S. CALOGERO, Palazzotto, chi?, in Prospettive 19 (2003), n. 1, 6-8; V. LIBRANDO, Palazzo Biscari in Catania, in Aspetti dell’architettura barocca nella Sicilia orientale, Catania 1971, 45-99. 96 V. LIBRANDO, FrancescoBattaglia, cit., 24.
L’opera di Girolamo e Giuseppe Palazzotto nella “casa” dei Minoriti 221 APPENDICE DOCUMENTARIA A.S.CT, CC. RR. SS., B. 88 (EX 73), DA C. 2 R. A C. 9 V., ANNO 1787. – inedito –
«RELAZIONE DATA IN PALERMO AL CONCISTORO GIUSEPPE VENANZIO MARVUGLIA»
DALL’ARCHITETTO DON
«Essendo stato incaricato io infrascritto Architetto dal Tribunale del Concistoro della S. R. C. e per esso dallo Spettabile dottor don Felice Ferralaro Giudice di esso Tribunale in virtù d’atto provisionale spedito sotto li 2 maggio proximi praeteriti 1787 esecutoriato nella Corte Patriziale di Catania sotto li 11 giugno proximi praeteriti per la causa esistente fra li RR. PP. Ch. Minori sotto titolo di S. Michele Arcangelo, e la Sig.ra Donna Caterina Panza della sopradetta Città di Catania, relativo ad altro Atto provisionale de’ 14 aprile dello stesso anno, in cui vengono prescritte le Istruzioni qui sotto calendate fatte ad istanza della sopradetta Sig.ra di Panza, come pure avendo presente l’altro atto provisionale del primo maggio anzidetto spedito d’ordine dello stesso Tribunale ad Istanza de’ riferiti RR. PP. Minoriti, in cui mi s’ordina d’incaricarmi e riferire ancora sopra le trascritte Istruzioni fatte da parte delli stessi RR. PP. Istruzioni da parte della Sig.ra Panza 1. In primis riferir deve detto Perito in quale stato ritrovasi l’incominciato nuovo campanile, e questo se si ritrova situato in frontespizio della casa di essa Panza ed altresì riferir deve la distanza che porta dalla casa medesima. Istruzioni da parte de’ RR. PP. Minoriti 1. Dovendo riferire il Perito in quale stato trovasi l’incominciato campanile, e se trovasi in frontespizio della casa della suddetta di Panza con riferire la distanza della medesima secondo le istruzioni della suddetta di Panza, riferisca insieme quanto sia l’altezza di esso campanile e quanto sopravanza al piano dell’abitazione della suddetta di Panza, con misurare e riferire quanto sia larga la strada publica che si frappone, e quanto sia distante il corridore che si frappone tra il campanile e la suddetta casa, e se il suddetto campanile, ossia il frontespizio del medesimo sia in linea retta o di linea obliqua alla casa di Panza.
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Risposta alle sopradette Istruzioni 1. In risposta alle Istruzioni della Sig.ra di Panza e de’ RR. PP. Minoriti, riferisco che l’incominciato campanile si trova formato con numero 6 Pilastri situati cioè numero tre dirimpetto la casa della Sig.ra donna Caterina Panza incominciando dalla cantoniera dell’edificio che corrisponde lateralmente dietro il semicircolo del cappellone della chiesa de’ RR. PP. Minoriti. A detti tre pilastri seguono nella risvolta di detta cantoniera altri due simili, ed il sesto pilastro è situato nella parte interna dell’edificio dietro il secondo delli tre priadetti pilastri,come meglio si osserva dall’annessa pianta ortografica. L’altezza di essi pilastri è di palmi sette ed once otto misurati da sopra il parapetto, uno di essi però è di palmi sei ed once otto, ed un altro di palmi quattro ed once otto. La distanza del muro dove sono situati detti tre pilastri dalla casa di Panza è di palmi settantaquattro. L’altezza del suddetto campanile dal parapetto sino al piano della strada maestra è di palmi settanta ed once quattro. L’altezza misurata dall’istesso parapetto sino al livello del piano nobile dell’abitazione della Casa di essa Sig.ra Panza è di palmi quarantacinque. La larghezza della strada maestra fra la casa della Sig.ra Panza e la fabrica della casa de’ RR. PP. Minoriti è di palmi trentadue e mezzo. Fra il campanile e la suddetta casa della Sig.ra Panza non vi si frappone fabrica di corridore, ma una fabrica bassa antica che devesi demolire quando si proseguirà il corridore. Il frontespizio di esso nuovo campanile è in parte situato di linea retta ed in parte di linea obliqua alla camera di dormire, e rispetto all’altre camere è situato a linea obliqua, come meglio si osserva dall’annessa pianta. Istruzioni della Sig.ra Panza 2. Riferir deve se dal luogo ove trovasi incominciato detto nuovo campanile si scopre il di dentro delle camere della casa di detta Panza, ed in quali camere ed in che maniera venga a soffrirsi l’anzidetto introspetto. Istruzioni de’ PP. Minoriti 2. Sopra il secondo capitolo delle istruzioni di Panza, riferisca ancora detto luogo ove attualmente è posto il campanile vi sia vestigio di un piano balatato atto a passeggiarvi ed a trattenersi persone che vi era alla stessa altezza dell’attuali aperture di detto nuovo campanile. Risposta alle sopradette istruzioni 2. Riferisco che dal luogo dove trovasi incominciato detto nuovo campanile si scopre parte del di dentro delle camere della casa della Sig.ra
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di Panza, la prima delle quali è la camera a dormire, la seconda è un’anticamera destinata o per dormire o per altro uso, e questa soffre meno introspetto. Siccome ancora dal detto campanile si scopre parte delle due camere del piano mezzalino situate sotto la camera di dormire del piano superiore dove abita la sopradetta Sig.ra di Panza. E in detto luogo dove sono situati li suddetti pilastri ossia il nuovo campanile, vi è un vestigio di esservi stato un piano balatato atto a passeggiarvi e a trattenersi persone nell’istesso luogo, e quasi all’istessa altezza dell’attuali aperture di detto nuovo campanile. Istruzioni della Sig.ra Panza 3. Riferir deve qual sia la fabrica in oggi fatta a formare il detto campanile e quale resti da fare per il totale compimento. Istruzioni de’ PP. Minoriti 3. Sopra il terzo capitolo delle istruzioni di Panza riferisca anche il Perito quale sia la scala per salire al suddetto campanile e da dove principia la scala, se sia di condizione che dimostri essere stata costrutta per salire alle campane. Risposta alle sopradette istruzioni 3. La fabrica fin oggi fatta a formare detto nuovo campanile consiste in n° sei pilastri, come ho riferito nella risposta alla prima istruzione. Volendosi dalli RR. PP. Minoriti posar le campane sopra li suddetti pilastri, resta da aggiungersi ad un pilastro l’altezza di palmo uno; e ad un altro l’altezza di palmi tre per riuscire tutti li pilastri ad un’eguale altezza, per poi piantarsi al di sopra l’istessi pilastri l’archetti, e terminarsi con un frontespizio, o come piace a detti RR. PP. Minoriti, il prospetto di esso campanile. La scala per salire al detto campanile è piccola, a lumaca, la quale principia dal tavoliere, ossia ripiano a metà della salita di quella scala grande che dalla sagrestia si salisce al di sopra del corridore della casa de’ RR. PP. Minoriti, e questa scala a lumaca è di condizione che dimostra essere stata costrutta per salire alle campane. Istruzioni della Sig.ra Panza 4. In qual luogo ritrovasi esistente l’antico campanile, del quale si servono li PP. Minoriti per il suono delle campane, e questo qual distanza porta alla casa di detta Panza, e riferir pur deve il numero e la grandezza delle Campane che attualmente esistono in detto antico campanile. Istruzioni de’ RR. PP. Minoriti 4. Sopra il quarto capitolo se il campanile vecchio sia tutto attorniato
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di fabbriche alte in maniera che impediscano il suono delle campane, riferisca ancora se queste campane che attualmente trovasi situate in detto vecchio campanile siano corrispondenti alla magnificenza del tempio, secondo che gl’altri Tempi di uguale magnificenza hanno le sue campane, oppure se ne ricerchi delle altre più grandi. Se sia vero campanile, oppure un prontuario accomodo fatto sopra l’antica Sagrestia per comodo di quell’antica Chiesa; quale incomodo reca a’ sagrestani il suddetto vecchio campanile per la distanza della nuova sagrestia e chiesa, e se detto campanile sia a fuga di strada o dentro il chiostro. Risposta alle sopradette istruzioni 4. L’antico campanile ritrovasi esistente vicino all’angolo del cortile della casa di essi RR. PP. Minoriti, e dietro il secondo arco dell’istesso cortile, come chiaramente si osserva dalla stessa pianta. La distanza dell’istesso campanile alla casa della Sig.ra Panza, che oggi abita, è di palmi duecento ottanta, come meglio si rileva dalla stessa pianta. Le campane esistenti nell’attuale antico campanile sono due, una di diametro palmi due once dieci e mezza, e l’altra è di palmo uno once undici e mezza. Delle fabriche alte attorno l’antico campanile la più vicina è quella del Barone S. Demetrio, quale fabrica può essere di qualche ostacolo a potersi dapertutto sentire liberamente il suono delle campane, essendo cosa certa che più alti sono li campanili e superiori alle fabbriche vicine si rende più sensibile il suono delle campane da lontano. Le campane che attualmente esistono in detto antico campanile non sono corrispondenti alla magnificenza del tempio, ed in confronto d’altri tempii pare che meriti esservene qualche altra più grande. Il campanile antico fu situato in un luogo adattato per quell’antica sagrestia ed antica Chiesa per interinarlo comodo. La distanza di detto antico campanile alla nuova sagrestia porta incomodo a’ sagrestani, che non lo porterebbe essendo vicino, come da chiunque si concepisce; ed il detto antico campanile non è ne a fuga di strada né dentro il chiostro, ma è situato sopra il colmarello del copertizzo, corrispondente al centro del corridore, come il tutto più chiaramente rilevasi dall’annessa pianta. Istruzioni della Sig.ra Panza 5. Se il luogo ove trovasi incominciato il detto nuovo campanile sia corrispondente all’attuale disegno di tutta la nuova fabrica del tempio suddetto.
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Istruzioni de’ RR. PP. Minoriti 5. Riferendo sopra il quinto capitolo riferisca se nel disegno della nuova Chiesa e del prospetto della medesima formato da don Giuseppe Palazzotto vi si trova campanile disegnato nel suddetto prospetto. E riferisca il Perito la scala fabbricata nel prospetto ove conduce, ed a quale oggetto sii stata fabbricata. Si risponde alle sopradette istruzioni 5. L’incominciato campanile non è ideato con forma di fabbrica magnificamente architettata corrispondente all’attuale disegno del magnifico tempio, ma solamente per comodo di situare le campane sen’alcuna decorazione a corrispondenza del tempio. Ritrovandosi di già compiuto il prospetto della Chiesa, riferisco non essere più possibile di potersi su l’istesso prospetto fabricare un campanile senza che si difformasse l’architettura di esso. La scala a lumaca che si ritrova fabbricata accanto il prospetto, che ho disegnato nella pianta, conduce al corridore che gira attorno tutta la fabbrica della Chiesa nella sua cima, dove vi è un corridore per comodo di passeggiarvi, e la detta scala avrà potuto essere fabbricata a tale fine, o pure per salire ad un campanile che avrebbesi potuto fare nel prospetto, allora quando il disegno fosse stato fatto differente da quello eseguito. Istruzioni della Sig.ra Panza 6. Se il campanile può situarsi in altro luogo di esso tempio, che fosse più conforme alla fabbrica del medesimo tempio, e nel qual luogo venisse a darsi minor incomodo e minor servitù alla predetta di Panza, e se rendesse miglior ornato tanto a detto tempio, quanto alla città. Istruzioni de’ RR. PP. Minoriti 6. Riferendo sopra il sesto capitolo di dette istruzioni, riferir debba ancora il Perito quale danno di fabbriche già fatte, e quale spesa apporterebbe e quale incomodo per la distanza della nuova sagrestia, se si facesse altro campanile in altra parte se potrebbe incontrare da altri le stesse opposizioni che v’incontra la suddetta di Panza. Si risponde alle suddette istruzioni 6. Il campanile può situarsi in altro luogo, che rendesse miglior ornato tanto al detto tempio, quanto alla città, volendosi fare da’ PP. Minoriti un campanile magnificamente architettato. So che non è dell’intenzione di essi RR. PP., giacché il campanile, che oggi si pretende fare, non ha per
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Salvo Calogero
oggetto la decorazione dell’architettura, ma solamente di formare alcuni pilastri, che devono sostenere le campane senza incaricarsi di alcuna magnificenza. E non avendo osservato in nessun altro luogo delle fabriche, fatte, che vi fosse un luogo opportunamente ideato a formare un magnifico campanile, quando mai si volesse oggi così fabricare, apporterebbe il danno di rifare quelle fabbriche di già fatte ad altro oggetto, e tanto per la rifazione di tali fabriche, quanto per la costruzione di un magnifico campanile, necessiterebbe un’ingentissima spesa, che non può affatto aver comparazione con quella che si pretende oggi fare. Volendosi però il campanile in altro luogo dell’istesso tempio, senza quella decorazione che si è detto, ma con semplici pilastri a similitudine di quelli che si ritrovano piantati, si potrebbero situare all’istessa altezza e forma come si pretendono di fare, sopra il muro del laterale del cappellone, dove al di sotto vi è il coretto, che corrisponde perpendicolarmente a quel muro che divide il cappellone dall’anti Sagrestia. Potrebbonsi ancora situare li stessi Pilastri un poco più distanti proseguendo nell’istessa linea sopra il muro che perpendicolarmente corrisponde dov’è la prima architravata nella Chiesa accanto l’istesso cappellone, e nell’uno o nell’altro luogo, quando mai lo giudica il Tribunale, darebbe minor incomodo e minor servitù alla casa di Panza, né da altri in qualunque di essi due luoghi si potrebbero incontrare le stesse opposizioni che v’incontra la suddetta di Panza. Istruzioni della Sig.ra Panza 7. Finalmente riferir deve detto Perito se in un altro luogo del detto nuovo tempio oltre di quello ove s’è incominciato il nuovo campanile si trovi già costrutta una scala di pietra atta al servigio di un campanile. Istruzioni de’ RR. PP. Minoriti 7. Riferendo sopra il settimo capitolo dica ancora il Perito se l’altra scala di cui si parla sii stata fatta nel corso della fabbrica della Chiesa per salire alla cupola ed alla galleria, e se sia annessa al disegno fatto dal suddetto di Palazzotto; e riferisca ancora la grossezza delle mura della suddetta scala. Si risponde alle suddette istruzioni 7. In quella stanza che oggi serve per Sala del Rev.mo P. Provinciale vi è una scala a lumaca, la quale avrebbe potuto servire per salire ad un campanile, allora quando si avesse ideato farsi nel prospetto del tempio; può ancora la detta scala a lumaca, come oggi serve, essere stata fatta per salire
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alla cupola ed alla galleria per comodo di passeggiare li RR. PP. Non potendo riferire se sia annessa al disegno fatto dall’Architetto Palazzotto per non avermelo fatto vedere tale disegno; volendosi poi sapere le grossezze delle mura di essa scala, chiaramente si osservano nell’annessa Pianta ortografica. Istruzioni de’ RR. PP. Minoriti 8. Il Perito riferisca se vi sono in tutto il circuito della casa isolata de’ suddetti RR. PP. finestre e finestroni che stanno in frontespizio ed in minor distanza del campanile alla casa di Panza alle finestre e finestroni di altre case magnatizie. Si risponde al suddetto capitolo 8. In alcune parti del circuito della casa isolata de’ RR. PP. Minoriti vi sono delle finestre e finestroni, che stanno in frontespizio ed in minor distanza del campanile alla casa di Panza alle finestre e finestroni di altre case magnatizie. Istruzioni de’ RR. PP. Minoriti 9. Riferisca ancora se nella città vi sono altri campanili che stanno in prospetto di altre case civili, o in minor distanza del nostro campanile alla casa di Panza. Si risponde al sopradetto capitolo 9. Nella città vi sono altri campanili che stanno in prospetto di altre case civili, ed altri che sono in minor distanza del preteso campanile alla casa di Panza. Istruzioni de’ RR. PP. Minoriti 10. Faccia un’esatta pianta topografica di tutta la casa de’ RR. PP. Minoriti, e della Chiesa, disegnandovi il nuovo campanile ed il vecchio, con notarvi distintamente tutte le distanze tra li medesimi e la casa di Panza, e delle altezze che vi sono. Si risponde al sopradetto capitolo 10. L’annessa pianta ed alzati dimostrano quanto si domanda in questa decima istruzione de’ RR. PP. Minoriti».
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RICORDA, RACCONTA, CAMMINA. VERSO VERONA 2006. SINTESI DEI LAVORI
MARIO TORCIVIA*
Nei giorni 24-27 novembre 2005 si è celebrata a Palermo la prima tappa — altre quattro ne seguiranno — del cammino di preparazione al IV Convegno ecclesiale delle Chiese d’Italia “Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo” (Verona ottobre 2006)1. Il tema di questo primo momento è stato offerto icasticamente da tre verbi: “Ricorda, racconta, cammina”. Organizzatori del Convegno sono stati il Progetto culturale promosso dalla Chiesa Italiana e la Facoltà Teologica di Sicilia “S. Giovanni Evangelista” – Palermo. Diversi i luoghi del convenire: l’Aula Magna della summenzionata Facoltà, la Chiesa del SS. Salvatore, lo Steri (sede del Rettorato dell’Università degli Studi di Palermo), la Chiesa di S. Maria Maddalena, la Cappella Palatina, il Duomo di Monreale, una sede della Facoltà di Giurisprudenza, il Palazzo dei Normanni, la Cattedrale di Palermo. Riguardo ai partecipanti, accanto ai 250 delegati delle Chiese di Sicilia, diversi sono stati i delegati della CEI e delle chiese italiane, prima fra tutte la delegazione di quella veronese. Numerosi, poi, i presenti a titolo personale. *
Docente dello Studio S. Paolo di Catania, delegato alla tre-giorni di Palermo. 1 La scelta del capoluogo siciliano non è stata casuale perché proprio a Palermo si celebrò nel 1995 il precedente Convegno ecclesiale delle Chiese d’Italia.
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L’assise si è aperta nel pomeriggio del 24 novembre, nell’Aula Magna della Facoltà Teologica di Sicilia. Dopo l’introduzione del Preside della Facoltà teologica, don Antonino Raspanti, due sono state le tornate dell’incontro: la disamina de Il cammino della Chiesa italiana dal Convegno Ecclesiale di Palermo ’95 e il dialogo su Religioni, culture, società. Sul primo tema hanno discusso il Segretario Generale della CEI e il Presidente Nazionale dell’A.C.I. Mons. G. Betori ha presentato dapprima il contesto ecclesiale (le tensioni ideologiche all’interno delle comunità ecclesiali e alcune urgenze — famiglia, giovani, ecc. — che premevano maggiormente) e culturale (una certa mutazione antropologica, la perdita dei legami sociali, la fine dell’unità politica dei cattolici, ecc.) della vigilia della celebrazione del Convegno del ’95. Ha, quindi, puntualizzato le scelte emerse nel Convegno di Palermo: il riconoscimento dell’assoluto primato della spiritualità nella e della chiesa (“contemplativi nella storia e memori del mondo dinanzi a Dio”) e la coraggiosa presenza missionaria nella società. Da queste due linee la nascita del Progetto culturale, la cui intuizione fondamentale fu quella di far passare l’evangelizzazione della Chiesa attraverso un rinnovato confronto critico con le forme della cultura diffusa. Il nodo costituivo del Progetto culturale fu pertanto la questione antropologica e, specificamente, il rapporto tra mente e corpo — col rifiutare l’uso della libertà a prescindere dall’oggettivo — e quello tra natura e cultura — col ribadire la necessità di una cultura che porti sempre più a compimento l’uomo. Per vivere sempre meglio il rapporto tra fede e cultura, numerose furono le iniziative poste in essere dal Progetto culturale della Chiesa italiana, consapevole della vanità di un annuncio di fede che non si traducesse in cultura. Tra gli orizzonti apertisi in questo decennio (1995-2005), ha proseguito mons. Betori, v’è stato senza dubbio la crescita della sete di ascolto di Dio e dei fratelli nelle comunità ecclesiali. Tra le urgenze delle chiese, l’iniziazione e l’educazione alla fede, considerata la rimozione epocale della tradizione. Tutto ciò non ha portato però a delle scelte pastorali particolarmente innovative, vuoi anche per l’incapacità delle parrocchie di superare la connotazione storica finora avuta. Urge pertanto far crescere la fede personale dei singoli credenti in vista di una maggiore connaturalità col mistero di Cristo. Consolanti sono comunque i segnali che si avvertono
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oggi: diverse iniziative nuove, il miglioramento qualitativo dei mezzi di comunicazione sociale, la convergenza tra le diverse aggregazioni laicali, nonché, infine, la fioritura della santità. Il prof. L. Alici si è soffermato ad analizzare cos’è cambiato nell’ultimo decennio e sul ruolo dei laici. Per quanto concerne i cambiamenti di questi ultimi anni per il docente universitario maceratese si può parlare di una radicalizzazione delle molte tendenze di allora. Per il Presidente nazionale dell’A.C.I. possiamo parlare oggi a) di un vera e propria estremizzazione della divaricazione tra rapporti corti e rapporti lunghi. Tale fenomeno ha prodotto due concezioni etiche: il soggettivismo etico (tipico dei rapporti corti) e le etiche utilitaristiche e cognitiviste (tipiche di quelli lunghi); b) di una progressiva divaricazione tra privato e pubblico, per cui l’individuo non si riconosce più nelle Istituzioni, anzi le guarda come fonti di alienazione. Di fronte a questa neutralizzazione dello spazio pubblico, due sono le tensioni emergenti: il risveglio identitario e la deriva libertaria che identifica il buono con i legami volontari. Il cambiamento dell’orizzonte politico ha visto, inoltre, una parziale distanza delle chiese dalla politica (nel ’95 si diceva che una certa distanza dalla politica avrebbe fatto bene alle comunità ecclesiali italiane). Oggi, però, si avverte una doppia tentazione della politica: la moltiplicazione dei luoghi di potere invisibili e la strumentalizzazione della dimensione religiosa, specie in periodi elettorali che guardano l’Episcopato come unico interlocutore diretto, suo malgrado. Sul ruolo dei laici, per il prof. Alici si è avvertita una comunione più intensa tra le aggregazioni laicali. Tale nuova situazione è stata causata da una maggiore maturazione teologico-pastorale, più che da diktat provenienti dall’alto. La sfida di Verona, per il Presidente nazionale dell’A.C.I., consisterà, allora, nel vedere se le linee pastorali di questo decennio stanno cambiando veramente le comunità cristiane, riducendo il forte gap generazionale presente e se si è capaci, come comunità ecclesiali, di far riscoprire lo stupore verso la Trascendenza parlando sempre meno di noi e sempre più di Lui. Per fare questo c’è bisogno di disciplina e di declinazione pastorale, di impegno formativo e di saldatura tra cultura e pastorale, cammino ancora incompiuto del Progetto culturale. Compito del laicato, conclude il prof. Alici, non sarà quello di rivendicare spazi nell’ambito ecclesiale, quanto di riattivare una sana dialettica tra pratica di vita e
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istituzione, trovando forme concrete nelle quali si possano sperimentare forme virtuose, visibili e riconoscibili perché queste possano annunciare il Risorto. Per Alici è indubbio il primato dell’annuncio cristiano che, però, è racconto di una testimonianza anche istitutiva — le forme di vita benefiche — e non solo kerygmatica e catechetica. Il dialogo su Religioni, culture, società ha avuto come protagonisti il Card. A. Scola e il prof. P. Barcellona, Docente nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania. Il Patriarca di Venezia ha esordito con l’affermazione che se nel ‘900 le categorie dominanti sono state ragione e giustizia, oggi, in questi primi anni del XXI secolo, primeggiamo felicità/desiderio di compimento e libertà. Tali due ultime categorie — le medesime dell’annuncio di Gesù nel Vangelo — se dapprima erano “proprietà” della letteratura, oggi sono esplose grazie alle scienze bio-mediche, politiche, economiche. Per il Patriarca di Venezia, inoltre, il nostro tempo, il postmoderno, si presenta come un’epoca di grande “travaglio” nel quale tutti ci troviamo ad essere spettatori di un processo in atto: il “meticciato di civiltà”. Tale processo può essere orientato dalla grande traditio, che vi sta dentro, con la forza del testimone, che fa da ponte tra Dio e l’uomo. La corrispondenza tra la domanda di felicità e di libertà e l’annuncio di Cristo diventa così, conclude il Patriarca, per il cristiano un invito alla testimonianza più che l’occasione di astrazioni intellettualistiche che sono diaframma nel rapporto quotidiano con gli altri uomini. Il prof. Barcellona, più che un discorso unitario, ha presentato in modo rapsodico ma profondamente penetrante alcune situazioni problematiche di oggi: l’assalto narcisistico delle culture che manipolano l’uomo, il desiderio di onnipotenza delle scienze e delle neuroscienze, il problema della selezione intelligente, ecc., stigmatizzando anche l’egoismo della società contemporanea. La giornata di venerdì 25 ha visto due momenti comunitari e quattro divisi per gruppi. Alle 9.30 allo Steri, sede del Rettorato dell’Università degli Studi di Palermo, il Rettore G. Silvestri, il Preside della Facoltà di Lettere G. Ruffino
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e il Docente di Filosofia del Diritto nella Facoltà di Giurisprudenza F. Viola si sono confrontati su Cattolicesimo, società italiana e cultura postmoderna. Il Rettore, manifestata l’idea che la spiritualità va tutelata come patrimonio collettivo e che proprio una struttura autenticamente laica ne può essere la difenditrice per eccellenza, ha sottolineato l’inevitabilità del meticciato ed evidenziato il ruolo che l’Università deve avere in questo processo proprio per il metodo che può dare. Il Prof. Silvestri ha poi risposto alla domanda del moderatore sul ruolo giocato dal cattolicesimo nella società italiana affermando che laddove la politica si indebolisce altri soggetti vi entrano. Questo ha fatto sì che il prezzo pagato dalla Chiesa sia stato, a volte, la sovraesposizione e la compromissione; è indubbio però, il ruolo stabilizzatore del sistema democratico da essa esercitato. Il prof. Ruffino, fatto notare che non esiste una reale contraddizione tra la prospettiva dei cattolici e quella dei laici nel vivere la complessità del presente, ha presentato quattro grandi questioni che rendono arduo all’uomo contemporaneo il vivere la suddetta complessità: a) la nuova figura di migrante: il nomade globale, accolto dalla società solo se produce; b) le nuove forme di schiavitù, sottile e perverse, determinate dai nuovi assetti del lavoro (precarietà, instabilità, mobilità fatta sistema) che producono la perdita di identità culturale; c) il controllo oligarchico dell’informazione, sempre più selezionata; d) la modificazione della sfera dell’emotività, sempre più infranta dalla volgarità. La Chiesa, ha concluso il prof. Ruffino è chiamata a confrontarsi su queste grandi e drammatiche questioni, assumendo pienamente la responsabilità che le compete nell’etica dell’accoglienza, dell’ecologia, senza mai permettere che la religione divenga uno strumento della politica. Per il prof. Viola le questioni fondamentali che non solo l’Italia ma tutte le società occidentali devono affrontare — perché oggi non esistono più problemi riguardanti solo il nostro Paese — rientrano in tre grandi questioni da superare insieme perché nessuno ha il monopolio della verità e delle soluzioni: a) il rapporto tra uguaglianza e diversità. La diversità è, oggi, da considerare come uguale. L’estraneo, infatti, non è più colui da escludere ma un interlocutore della costruzione dell’identità cittadina. I cristiani devono essere quindi aperti verso una società ospitale; b) il rapporto tra pubblico e privato. Bisogna ritrovare il senso del bene comune, dell’interesse generale. Pubblico e privato devono interessarsi del bene
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comune e allora sì che vi sarà dialettica feconda tra i due; c) il rapporto tra persona e comunità. La persona è unica e irripetibile e possiede un suo mondo di libertà che va sempre rispettato. D’altra parte, però, la persona è sempre in relazione e, quindi, è della persona proporre bene per tutti. Nella seconda parte della mattinata e nel primo pomeriggio si sono svolti quattro workshop culturali. Al mattino i partecipanti alla tre-giorni si sono divisi in due gruppi scegliendo di ascoltare il critico letterario S. Ferlita e lo scrittore P. Di Stefano su Di che colore è Dio? Domande radicali nella e alla letteratura (Chiesa di S. Maria Maddalena) o l’architetto A. Molfetta e il pittore A. Mazzotta che intrattenevano i delegati su Solo lo stupore conosce: l’arte come comunicazione della fede (Cappella Palatina). Nel primo pomeriggio c’è stato chi ha ascoltato il fotografo G. Chiaramente e il giornalista dell’UPS G. Costa (Cappella Palatina) su Fotografia tra finito e infinito e chi ha partecipato al dibattito tra il poeta D. Rondoni e lo scrittore L. Doninelli su I Cristiani e la letterature del Novecento (Chiesa di S. Maria Maddalena). Alle 17.30 ci si è ritrovati tutti nell’Aula Magna della Facoltà Teologica di Sicilia per partecipare alla tavola rotonda su Generazioni e trasmissioni della cultura e della fede. Diverse le domande poste da S. Martinez, Coordinatore Nazionale del “Rinnovamento dello Spirito”, a E. Palladino, Docente della Facoltà di Scienze Sociali della PUG, ad A. La Spina, Docente della Facoltà di Scienze delle Formazione dell’Università degli Studi di Palermo, a S. Taormina, Dirigente Generale dell’Assessorato alla famiglia della Regione Siciliana, a L. Santolini. La Presidente del Forum delle Famiglie, ribadita la necessità che i genitori, specialmente i padri, riprendano in mano il discorso educativo smettendo di delegare alle altre agenzie (scuola, televisione, parrocchia), ha affermato la soggettualità della famiglia nell’opera di evangelizzazione. La prof. Palladino ha affermato la necessità che gli adulti si riapproprino del senso del tempo e abbiano la consapevolezza di trasmettere ai giovani la bellezza della vita vissuta, senza misconoscere anche il dolore, la sofferenza, la morte stessa. D’altra parte, per la docente della Gregoriana, si trasmette proprio perché coscienti che in futuro non ci saremo più.
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Il prof. La Spina, descritte le tendenze de-socializzanti presenti nella società odierna, ha ribadito l’importanza della tradizione, affermando altresì come trasmettere cultura significa, tra l’altro, trasmettere anche delle norme. Il dott. Taormina, presentati gli attuali orientamenti legislativi sulla famiglia, ha ribadito la necessità che lo Stato riconosca e sostenga sempre più la famiglia, il cui cuore ha il volto dell’educazione, irrinunciabile compito. La mattina di sabato 26 è stata dedicata al tema della santità. Riuniti nel quartiere Ballarò, in una delle sedi della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Palermo, il prof. A. Roccucci, Docente nella Facoltà di Lettere dell’Università di Roma Tre e Segretario Generale della Comunità “S. Egidio” e don T. Staglianò, Docente all’Istituto Teologico Calabro, hanno trattato il tema Quando Dio parla ancora: i santi. Don Staglianò ha affermato, rifacendosi alla riflessione teologica di von Balthasar, che possiamo parlare dei santi come Parola di Dio in quanto rivestimento del Verbo nella carne del mondo. Ribadito poi come il depositum fidei cresca non solo attraverso la teologia e il Magistero, ma anche attraverso l’intelligenza profonda che ogni credente ha delle cose spirituali, Staglianò ha sottolineato come questa intelligenza è più grande del sensum fidelium, perché implica anche le particolari esperienze mistiche dei santi. Il prof. Roccucci ha presentato il martirio come testimonianza di santità, rifacendosi anche al pensiero di Giovanni Paolo II. È a lui che dobbiamo infatti l’ampliamento della categoria di martirio, grazie alla proposizione del martirio di amore di Massimiliano Kolbe, vero e proprio archetipo di martire del ’900. Ed è sempre al defunto Pontefice che dobbiamo l’affermazione evidente di come il martirio del XX secolo sia stato un evento di popolo, proprio perché rimasto fedele, fino al dono della vita, all’insegnamento evangelico. Prima del secondo intervento dei Relatori, sono stati trasmessi due filmati in cui si intervistavano il prof. A. Riccardi, Docente nella Facoltà di Lettere di Roma Tre e Presidente della Comunità “S. Egidio” e Madre A.M. Canopi, abbadessa benedettina di S. Giulio, sul lago d’Orta (Novara). La seconda tornata di sabato ha visto come protagonista don Giuseppe Puglisi, barbaramente assassinato dalla mafia nel 1993. Lo
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sceneggiatore del film Alla luce del sole, D. Gentili, il Postulatore della Causa di beatificazione, mons. D. Mogavero, e la più stretta collaboratrice di don Puglisi, l’assistente sociale A. Ajello hanno svolto il tema «Alla luce del sole». A colloquio con P. Pino Puglisi. Il dott. Gentili ha evidenziato l’arte pedagogica di don Puglisi, volta al recupero dei bambini del quartiere Brancaccio, testimoniando anche il coinvolgimento vissuto dall’intera troupe, man mano che veniva girato il film, proprio per come veniva “imponendosi” la figura del presbitero palermitano. Mons. Mogavero, riconosciuta la difficoltà per quanti hanno conosciuto don Puglisi di inserirlo nel cliché dell’eroe per il suo carattere fortemente schivo e lontano dai riflettori, si è domandato se veramente la Chiesa di Palermo prosegue il cammino del prete ucciso dalla mafia, se, cioè, il suo stile di vita e il suo martirio sono stati pienamente assimilati dai credenti palermitani. Il Sottosegretario della CEI, inoltre, ha esortato a custodire la memoria di Puglisi non permettendo che alcuno possa impossessarsene e ha invitato tutti, infine, ad essere maggiormente arditi e coraggiosi, e ad uscire dai recinti sicuri. A. Ajello ha ripercorso la vita e le scelte ministeriali di don Puglisi, evidenziando come per tanti, giovani e adulti, sia stato compagno di strada e come abbia vissuto pienamente, lì dove il Signore lo chiamava, il suo essere fedele presbitero del Signore e dei fratelli. Il pomeriggio di sabato 26, nella Sala Gialla del Palazzo dei Normanni di Palermo, sede del Parlamento siciliano, si è svolto il confronto tra il Presidente del Senato della Repubblica Italiana, il Sen. M. Pera e l’Arcivescovo di Monreale, S. Ecc.za mons. C. Naro su una tematica che da un po’ di mesi a queste parti è tornata ad essere attuale: Religione e laicità dello Stato. Mons. Naro ha affermato che la laicità è promossa dalla stessa Chiesa perché costitutiva della storia del cristianesimo e che l’etsi Deus non daretur, principio della modernità, ha significato, dalla fine delle guerre di religione fino alla Rivoluzione francese, non tanto l’assenza di Dio quanto la sottolineatura di un significato comune per cristiani appartenenti a confessioni diverse (è, pertanto, solo dalla seconda metà del ’900 che il principio ha assunto un significato di impossibilità di
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conoscenza della realtà). Lo storico della chiesa ha evidenziato, poi, come già alla fine del V secolo, con papa Gelasio, si trattasse del rapporto tra potestas regia e magistero episcopale, affermando infine come, grazie al Vaticano II — assise che, oltre ad avere dato alla comunità ecclesiale la consapevolezza di non essere un corpo estraneo della società, l’ha riconciliata con la storia della libertà — la Chiesa ha sostenuto lo stretto legame esistente tra libertà religiosa e dignità della persona umana. Per il Sen. Pera si è passati dalla concezione ottocentesca dello stato liberale che separa pubblico e privato relegando in quest’ultimo ambito la religione, alla concezione attuale, laicista più che laica, che entra sempre più nella sfera privata, allargando così la sfera pubblica, che sceglie una propria religione — solo che la chiama religione della ragione, della scienza, ecc. — e la impone. Nel secondo giro di interventi mons. Naro ha posto tre domande al Sen. Pera: se esiste oggi la possibilità di un incontro creativo tra la tradizione cattolica e i laici in Italia e in Europa; se l’Italia cattolica, vista la sua forza popolare, può giocare una carta nel panorama europeo; cosa fare per le difficoltà avvertite in ordine all’attuale trasmissione della fede. Il Presidente del Senato ha evidenziato come la differenza non verte tanto la fede quanto la storia politica-temporale della Chiesa e quella anticlericale dei non credenti. Il Sen. Pera ha ribadito inoltre l’esistenza di un insieme di diritti fondamentali previ, perché anteriori alla legislazione positiva — una vera e propria carta comune di diritti della persona — che devono competere a tutti e che esigono, pertanto, l’impegno di tutti, a prescindere dal Paese di appartenenza. Riguardo alla seconda questione posta dal Presule, Pera ha affermato che è la responsabilità dei singoli (e non delle Chiese, degli Stati, in breve, delle Istituzioni), cristiani e non, la strada da percorrere, auspicando una tracimazione del cristianesimo, un suo divenire religione diffusa. Il Presidente Pera definisce, infine, la tradizione come la traduzione laicale della Rivelazione, per cui la tradizione del laico Pera è la Bibbia. Momenti significativi di questi tre-giorni sono stati, infine, il dramma in versi dello scrittore R. Mussapi sulla 1 Lettera di Pietro (Chiesa SS. Salvatore, giovedì 24 alle ore 21.00) e la conversazione con il prof.
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C. Scordato, docente della Facoltà Teologica di Sicilia, su Monreale splendore della fede (Duomo di Monreale, venerdì 25 alle ore 21.00). Due, infine, le celebrazioni liturgiche, svoltesi nella Cattedrale di Palermo e presiedute dall’Arcivescovo di Palermo, il Card. Salvatore De Giorgi. La prima, la Veglia d’Avvento (sabato 26 ore 21.00), ha visto anche la presenza del Vescovo di Verona, mons. F. Carraro e di alcuni presbiteri della diocesi veneta. Al Presule della città veneta, il Card. De Giorgi ha donato la reliquia di S. Rosalia, protettrice della Città di Palermo e una gigantografia del Risorto che domina l’abside della Cattedrale quale testimone della Chiesa palermitana alle altre tappe in preparazione al Convegno di Verona. Durante la liturgia è stata consegnata ai partecipanti all’incontro palermitano il testo della 1 Lettera di Pietro «riferimento biblico della preparazione spirituale e pastorale al Convegno di Verona» (Omelia del Card. De Giorgi). La Celebrazione eucaristica mattutina di domenica 27 ha concluso, infine, l’intera tre giorni palermitana.
Presentazioni Synaxis XXIII/3 (2005) 239-247
D. CANDIDO, I testi del libro di Ester. Il caso dell’ ‘Introitus’ TM 1, 122 - LXXA1-17; 1,1-22; Ta A1-18; 1,1-21 (Analecta Biblica 160), Editrice Pont. Istituto Biblico, Roma 2005, pp. 483. In questo denso volume, I testi dei libro di Ester, Dionisio Candido affronta, con uno studio serrato e ben articolato, che coniuga l’indagine filologica con una rispondente teorizzazione teologica in prospettiva ermeneutica ed ecclesiale (cristiano-cattolica), un’antica questione del libro di Ester. Esso, nella versione greca della Settanta si presenta diverso dal testo ebraico, soprattutto a causa delle cosiddette sei Aggiunte (opportunamente rinominate “sezioni proprie”), che non solo aprono e concludono il racconto (Agg. A, F), ma sviluppano in una nuova ottica alcuni momenti salienti della sua trama (Agg. B, C, D, E). E proprio questa diversità quantitativa e qualitativa del greco rispetto all’ebraico che viene indicata significativamente nel titolo con il plurale “I testi”. Nelle versioni cattoliche che includono le parti deuterocanoniche non riportate dalla Bibbia Ebraica, per il libro di Ester si è creduto di far giustizia dell’intricata questione testuale, inserendo le Aggiunte greche nel corpo del testo ebraico, con il risultato che si presentano così, in una trama unificata, due testi che, ad una attenta analisi delle loro differenze risultano non omogenei e perciò non idonei ad essere assemblati per formare un racconto artificialmente unificato. Recependo le istanze più recenti che ispirano lo studio critico, letterario e teologico della Settanta, Candido approfondisce l’analisi del testo ebraico e di quello greco di Ester per proporre la tesi che nelle traduzioni moderne della Bibbia occorre riportare per intero e separatamente i due testi, evitando l’incongruenza di mescolarli per ricavarne un racconto solo apparentemente omogeneo. Questa tesi finale relativa al caso particolare di Ester riprende e presuppone quella più generale dell’ispirazione della Settanta, una prerogativa teologica che è parallela ed analoga a quella, più ovvia, del testo ebraico dell’AT il quale non ne gode perciò in
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maniera esclusiva. Per giustificare questa posizione si sottolinea come il riconoscimento dell’ispirazione dipenda, storicamente e teologicamente, dalla canonicità, per precisare nello stesso tempo che il riconoscimento della canonicità dipende a sua volta dalla recezione dei testi sacri in una determinata comunità religiosa, prima nell’ambito del giudaismo, e poi nell’ambito della Chiesa d’Oriente e quindi della Chiesa cattolica d’Occidente, che ha ammesso nel suo canone lungo le composizioni non incluse nel canone ebraico. Si tratta di accettare insieme la Bibbia Ebraica e la Settanta (Bibbia greca con un proprio profilo testuale, letterario e teologico), perché riflettono legittimamente due fasi diverse della storia religiosa di differenti comunità credenti, vissute in diversi luoghi e in diversi momenti storici. Da un punto di vita più tecnico si deve fare attenzione a quanto si dice nel sottotitolo del volume: Il caso dell’‘Introitus’ TM 1, 1-22 - LXXA1-17; 1,122; Ta AI-18; 1,1-21. Non essendo possibile analizzare per intero il libro di Ester, l’autore ha scelto come campo di verifica il suo inizio, chiamato “introitus”; esso comprende la prima Aggiunta dei greco (sigla A), e il cap. 1 del libro. Inoltre, per il greco, la ricerca ha giustamente incluso il cosiddetto testo alfa, attestato solo da quattro manoscritti (sec. XI-XIII), che presenta delle peculiarità stilistiche e narrative proprie e che ha richiamato, in modo del tutto nuovo, l’attenzione: degli studiosi negli ultimi decenni. Sebbene quest’ultimo testo venga accuratamente analizzato al pari degli altri, per la tesi finale l’autore si limita a considerare soltanto il testo greco principale, qualificato come quello della Settanta. Inoltre si esaminano i testi della Vulgata e della Vetus Latina, e si tien pure conto dei due Targurn di Ester (citati nell’originale aramaico e tradotti). La tesi finale è che, nelle traduzioni moderne della Bibbia cattolica si dovrebbero pubblicare insieme, solo per Ester, il testo ebraico e quello greco in sinossi. Il lavoro è scritto con un linguaggio chiaro, solido ed anche elegante, pur nella sua tecnicità; l’analisi dei testi è condotta con molta acribia filologica. L’insieme dimostra una matura familiarità con le pubblicazioni (in inglese, tedesco, francese, spagnolo e italiano) che caratterizzano l’attuale panorama internazionale della ricerca biblica (ebraica, protestante e cattolica). L’opera costituisce così una aggiornata messa a punto degli studi attuali su Ester, dal punto di vista testuale, letterario, narrativo e teologico, che registrano in questi ultimi anni una vigorosa fioritura,
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soprattutto in America, per merito dell’esegesi femminista da una parte e per l’importanza del tutto nuova che questo libro biblico riveste nell’ambito dialogo ebraico-cristiano dopo Auschwitz. Il lavoro, che è stato discusso come tesi di dottorato al Pontificio istituto Biblico il 21.05.2004, ottenendo la rara votazione della Summa cum laude (cfr Biblica 85/31[2004], 452), si avvale della prefazione scritta dal card. Carlo M. Martini, che, come specialista di critica testuale, si dichiara del tutto consenziente con l’indirizzo seguito da Candido nell’ambito di questa disciplina; il cardinale apprezza pure «la chiarezza dell’esposizione, grazie alla quale un tema complesso viene ridotto alle sue strutture semplici e reso comprensibile anche ai profani». A questo punto si può anche ricordare, per concludere, che la tesi è stata diretta dal p. Stephen Pisano, successore di Martini nella cattedra di Critica testuale ed attuale rettore dell’Istituto Biblico. Antonino Minissale
S. MILLESOLI, Don Sturzo. La carità politica, Paoline, Milano 2002, pp. 208. Salvo Millesoli, ha il merito di presentare in una pregevole sintesi la ricca e poliedrica personalità umana, sacerdotale e politica di don Sturzo; personaggio attuale e affascinante oggi come negli anni faticosi in cui operava, anche se non facilmente collocabile all’interno dello stesso mondo cattolico. Il libro rilegge la vita e l’esperienza politica di don Sturzo a partire dal suo pensiero espresso in numerosi scritti ed elaborato in modo sistematico nell’opera più importante La Vera Vita: sociologia del soprannaturale (Bologna 1960), un trattato di antropologia sociale cristiana basata su un corretto rapporto tra ordine naturale e ordine soprannaturale che l’Autore ha il merito di far conoscere al grande pubblico. Dopo aver ricostruito l’itinerario che dalle prime esperienze pastorali porta il prete Luigi Sturzo alla maturazione di una lucida e, per alcuni aspetti, attualissima “spiritualità sociale”, Millesoli evidenzia un aspetto peculiare della sua concezione politica, illuminata dalla fede: l’agire sociopolitico è esplicitazione e concretizzazione del «ministerium caritatis»
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(p. 168). Infatti, dalla lettura del volume, emerge chiaramente che l’attività sociale e politica di don Sturzo si fonda sulla carità quale virtù teologale. L’impegno nella e per la polis è espressione dell’amore del prossimo che scaturisce dalla divina Carità effusa nei cuori dei credenti (cfr Rm 5, 5). Esso è perciò segno credibile dell’amore di Dio. L’Autore, tra l’altro, riporta un significativo passo tratto da Hommage à Don Sturzo di J. Maritain, il quale nutriva una profonda stima per il prete calatino, che rivela la fondazione teologica e spirituale dell’impegno politico di don Luigi: «In lui l’attività temporale e la vita spirituale, erano tanto più perfettamente distinte in quanto intimamente unite, nell’amore e nel servizio di Cristo» (p. 160). Il nocciolo duro del pensiero sturziano risiede perciò nella distinzione senza separazione tra fede cristiana e politica. Per parlare con il Calcedonese, l’una e l’altra sono “indivise eppure distinte”, come lo sono la natura divina e la natura umana di Cristo. Il cristianesimo «deve pertanto ispirare anche l’impegno nel temporale e la democrazia, senza però confondersi con essi, evitando sia la secolarizzazione della missione soprannaturale della Chiesa, sia la sacralizzazione della politica» (pp. 175176). Su questi presupposti don Sturzo si prefisse di dar vita ad un partito politico per rendere concreta la presenza dei cattolici nel sociale. Un partito ispirato ai valori evangelici, ma riscattato da ogni dipendenza e mentalità clericale, aconfessionale, tuttavia distante da una visione laicista. Sturzo è convinto che l’ánthropos téleios è al centro del messaggio evangelico in quanto annunzio di salvezza che lo riguarda integralmente. L’uomo è un essere costitutivamente relazionale, chiamato a vivere con gli altri, a costruire lo spazio “umano” della polis. In quanto uomo, anche il cristiano partecipa fattivamente e creativamente alla costruzione della società civile, nonché dell’intera famiglia umana, mosso dall’amore e nel libero e consapevole esercizio della “carità sociale”. La prassi politica perciò scaturisce da una fede che chiede adesione al mondo e da una carità cristiana che esige intrinsecamente un’assunzione di responsabilità nei confronti della storia. Nella puntuale e incisiva prefazione che introduce lo studio di Salvo Millesoli, Michele Pennisi non manca di sottolineare che «Luigi Sturzo sentì come una sua missione quella di introdurre la carità nella vita pubblica nella convinzione che la carità cristiana non può ridursi solo alla
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beneficenza o all’assistenza, ma deve essere l’anima della riforma della moderna società democratica nella quale le persone sono chiamate a partecipare responsabilmente alla vita sociale per realizzare il bene comune. La carità cristiana, per Sturzo, non può essere dissociata dalla ricerca della giustizia, la quale è determinata dall’amore verso il prossimo, che a sua volta è generato dall’amore verso Dio» (p. 10). Su queste solide premesse il prete calatino penserà alla politica come impegno morale e attestato d’amore dove la carità, considerata collante di aggregazione e affiatamento della vita sociale, non annulla il dibattito tra le diverse parti, ma lo mantiene fermo nella verità e lo rende fecondo, e ammetterà la legittima pluralità di posizioni nelle scelte politiche dei cristiani impegnati nel sociale. Il valore del contributo di Salvo Millesoli è quello di aver centrato il nucleo basilare del pensiero e dell’impegno di don Sturzo: per i cristiani il fondamento della prassi politica è la fede intesa come partecipazione per Grazia all’essere di Gesù, il Crocifisso del Golgota, l’“esserci-per-altri”, l’Uomo che, avendo fatto di tutta la sua vita un dono, ha rivelato al mondo la Carità “politica” di Dio. Tale carità — la Carità “politica” di Dio — i cristiani sono chiamati a “pro-ferire” nella città degli uomini loro compagni di viaggio verso il compimento del Regno. Corrado Lorefice
S. CERRUTO, La spiritualità di Giorgio La Pira alla luce dei misteri di Cristo, Argo Edizioni, Ragusa 2005, pp. 391. Nello scenario travagliato dell’Italia del secondo ’900, Giorgio La Pira costituisce certamente un personaggio di rilievo, la cui notorietà viene alla ribalta per un modo ancora originale e, per molti aspetti controverso, di intendere la politica. Il pensiero politico di La Pira, infatti, si basa essenzialmente sul tentativo di riproporre la centralità della persona nel grande quadro del servizio da rendere alla “città degli uomini”. La base concettuale di tale impianto politico è chiaramente legata al pensiero di San Tommaso, di cui il Sindaco di Firenze è grande conoscitore ed estimatore, e anche ad
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un tentativo di conciliare la Dottrina Sociale della Chiesa con il pensiero di una certa scuola personalista, sulla stregua di Mounier e di Maritain. Il primato della persona, nel pensiero di La Pira, conduce all’interno di una indubbia concezione religiosa e cristiana della vita e della storia, per cui il primato della vita spirituale e lo sguardo verso il fine ultimo dell’uomo, diventano i capisaldi del suo orientamento di vita e, conseguentemente, del suo impegno nella storia. Partendo da queste premesse si capisce come la figura di Giorgio La Pira ci introduca anche all’interno del grande tema della santità e della possibilità della sua realizzazione all’interno del travagliato contesto del servizio al mondo, tipico della spiritualità laicale, e fortemente auspicata dal Concilio, il quale traccia nuove coordinate ecclesiali soprattutto per ciò che riguarda il laicato, il quale viene riqualificato e immesso in una dinamica nuova, di “effettiva” compartecipazione alla missione della Chiesa. Tale partecipazione si esprime essenzialmente nella duplice direzione dell’evangelizzazione e della santificazione che realizza il suo fine ultimo nella storia che è la “consecratio mundi” (cfr AA c II). Questo il quadro di riferimento dove va letto il libro La spiritualità di Giorgio La Pira alla luce dei misteri di Cristo edito da Argo Edizioni, Ragusa 2005, pp. 391, in cui l’autore, Don Salvatore Cerruto, sacerdote della diocesi di Noto inserito in diverse realtà di formazione e opere assistenziali, contempla e definisce i contorni della variopinta esistenza del noto sindaco di Firenze. Dal testo si evince come La Pira, quale laico cristiano attento nella lettura dei “segni dei tempi” e aperto alla “voce dello Spirito”, incarna nel suo servizio alla società gli atteggiamenti fondamentali dell’agire cristiano, tra i quali risultano prioritari il rispetto dei i valori umani e la testimonianza di quell’autenticità cristiana che permette a Cristo di continuare la sua opera redentiva nel mondo. Un’autenticità cristiana che si realizza e manifesta soprattutto nell’esercizio della carità, incarnata in un servizio messo in opera praticamente in quelle che conosciamo come “opere di misericordia corporale e spirituale”. Il La Pira presentato da Cerruto è certamente un profeta di novità, infatti ha precorso i tempi e spianato la strada ad un rinnovato impegno laicale che la Chiesa ha recepito e di cui ha fatto emergere pian piano la validità storica, tanto che il magistero post-conciliare ha favorito l’incre-
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mento del senso di responsabilità del laicato, in un itinerario discorsivo che trova nell’esortazione Christifideles laici di Giovanni Paolo II uno dei passaggi più eloquenti. In essa si ribadisce, secondo quanto già affermato dal Concilio, come la vocazione cristiana non chiede ai cristiani laici di uscire dal mondo, ma tale chiamata comporta il loro inserimento nelle realtà temporali, perché la specificità della missione dei laici sta nell’immediatezza del loro rapporto col mondo, per cui loro dovere è: “santificarsi nel mondo”. Così mondo e santità non sono più in antitesi, ma l’uno diventa il luogo dell’altra, luogo dove l’uomo sorretto dalla grazia di Dio realizza pienamente la sua umanità, e trovando in Cristo il modello perfetto fanno di Lui la via da seguire. Così la vita di Cristo, la sua sequela, e la conseguente imitazione per giungere ad una sempre più matura conformazione a Lui, divengono i caratteri essenziali della vita e della spiritualità di Giorgio La Pira, il quale fa della “gloria di Dio” il fine ultimo della vita stessa dell’uomo, il principio su cui si basa la vita e la gestione dell’umana società. Egli trova nella “secolarità”, connotazione essenziale del laico, la forza della sua santificazione. Non accontentandosi di un apostolato “sussidiario” a quello dei Pastori della Chiesa, trova nella secolarità non un semplice contesto empirico e sociologico, ma il suo vero e proprio luogo teologico, quella “vigna del Signore” dove egli da battezzato e da credente si trova immerso nel duplice ruolo di vite e di operaio. Il mondo è il suo campo di lavoro e nel contempo il luogo della sua santificazione. Il libro di Cerruto costituisce un’ottima traccia di riflessione, che conduce il lettore, attraverso un itinerario progressivo di immersione nei misteri di Cristo e della Vergine, a ripercorrere i momenti essenziali della loro vita incarnatisi nell’esistenza, nei pensieri e nelle scelte concrete di Giorgio La Pira. Soprattutto la fedeltà a Cristo e l’amore fiducioso per la Madre di Dio, vengono a costituire i due binari tematici che conducono le riflessioni emergenti da queste pagine dense di spiritualità. Dopo una prefazione di Mons. Giuseppe Malandrino e la debita introduzione, l’autore si incammina in un percorso costituito da venti punti, uno per ogni mistero del Rosario, in cui, dopo l’annuncio del mistero e il brano della Scrittura che lo narra, lo prefigura, o ne delinea il significato profondo, si apre ad una ricca meditazione fatta di vita. Attraverso gli scritti o la narrazione di momenti salienti della vita di
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La Pira, Cerruto fa vedere al lettore come nella storia di questo uomo la fede è diventata vita concreta. Un epilogo mariano e un’appendice biografica concludono il lavoro. Chiarito il piano dell’opera è facile addentrarsi nella meditazione dei misteri, trovando nelle pagine di La Pira, che l’autore con dovizia pone a sostegno di ogni parte discorsiva, quella densità di pensiero che rivela l’animo profondamente mistico di un uomo che ha fatto dell’impegno politico la sua cattedra di fede. Dalle pagine, che scorrono veloci per la profondità dei contenuti, si evince una vera e propria “pedagogia spirituale”, dove l’uomo, La Pira, viene messo continuamente davanti a delle scelte che vanno assunte con criterio e senso di responsabilità, e ciò va fatto ponendosi davanti all’esempio più autentico: la vita di Cristo e i misteri che la compongono. Nella vita di La Pira, e dai suoi pensieri, di cui il libro è davvero ricco, irrompe con forza la figura di Cristo e la sua opera salvifica. Essa è un punto di riferimento imprescindibile per il cristiano, e diventa anche quella insostituibile forza nel momento dell’oscurità e della prova. Così sulla scia della spiritualità classica La Pira, che dimostra una conoscenza profonda della vita e dell’opera dei santi nella storia, si incammina nella sequela di Cristo, che lo porta ad un lento ma progressivo superamento di sé, fino alla dono di sé agli altri che si esprime nel servizio alla “cosa pubblica”, nello spirito del comandamento evangelico della carità. In santo sindaco di Firenze non perde occasione rilevare come la carità non può mai essere disgiunta dalla giustizia, per cui l’opera di chi amministra, in ogni azione sia essa di natura economica, sociale o culturale non può mai essere destinata ad altro che a promuovere un “bene comune”. Da buon amministratore La Pira non si sottrae alla rilettura in chiave cristiana di tutti gli elementi che costituiscono la storia travagliata del secolo ventesimo. Lo schema della sua vita e del suo impegno mi pare ben descritta e sintetizzata nella sua lettera a Marinotti e riportata dall’autore a p. 263, dove parafrasando la parabola dei talenti (Mt 25,14-30) e tirando in ballo citazioni manzoniane, ribadisce come il Vangelo sia carico di implicazioni per tutta la vita del cristiano, soprattutto in ordine alla carità: “quello che avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avrete fatto a me”. I doni che il Signore elargisce, sostiene giustamente La Pira, li
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concede per il bene comune: “La vita terrena è un impegno per gli altri e non per noi” (cit. a p. 263). Credo che questo basti per leggere la santità di un uomo che si è speso per il bene dei fratelli in un servizio, quello reso alla “cosa pubblica”, che ancora non veniva ben decifrato alla luce delle istanze evangeliche, in un contesto storico dove la politica era fatta molto spesso anche di insidie e macchinazioni. A Lui il merito di aver dimostrato con la sua vita che è possibile sanare il mondo con il buon sale di Cristo, tanto da trasformare una carriera politica e il servizio ad essa connesso in un vero e proprio itinerario di santificazione. Il libro di Cerruto si presta, allora, come ottima guida per la meditazione di chi desidera percorrere, come La Pira, la via difficile dell’ascesi cristiana nel servizio al mondo. Salvo Millesoli
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M. GRONCHI – J. ILUNGA MUYA, Gesù di Nazaret. Un personaggio storico, Paoline, Milano 2005, pp. 237. La ricerca storica su Gesù ha raggiunto una tale ampiezza che non solo già da molto tempo si è potuto scrivere una storia della ricerca storica su Gesù, con il suo punto di arrivo e di partenza nella Geschichte der LebenJesu-Forschung [pubblicato nel 1906] di Albert Schweitzer, ma si può anche periodizzare tale storia della ricerca. Il fatto è tanto più sorprendente quanto più si considera la sobrietà, per non dire la povertà, delle fonti storiche. Inoltre, dopo l’opera di Schweitzer e di fronte alla scuola di Rudolf Bultmann, che sembrava avesse detto l’ultima parola in proposito, si riteneva impossibile scrivere una «vita di Gesù». Invece la ricerca è proseguita e, sebbene non sempre sotto la forma di una «vita di Gesù», essa ha condotto a nuovi interessanti risultati. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno di eccezionale rilevanza storica da giustificarne l’interesse. Si tratta, in realtà, della ricerca sulla figura storica di Gesù sorretta dalla storia della tradizione religiosa che da lui prende origine. Se il motore della ricerca storica è la tradizione cristiana, ciò non sminuisce la forza propria della figura di Gesù che sta a fondamento della ricerca storica su di lui. In altri termini, sembra di poter dire così: la tradizione cristiana costituisce l’ambiente dove sorge l’interesse alla conoscenza storica di Gesù, “creduto” e accolto come messia, la persona di Gesù genera non solo la tradizione religiosa che in lui si riconosce, ma superando i confini confessionali si impone come unicum da conoscere. Il testo che abbiamo il piacere di presentare risponde a questa duplice esigenza: fornisce un quadro sintetico, ma sufficientemente completo, dell’attuale stato della ricerca storica su Gesù di Nazaret; non si sottrae all’orizzonte credente, così da mostrare le preoccupazioni teologiche che spingono ad una ricerca storica su Gesù. La struttura del testo riflette l’istanza teologica di fondo: vi è un
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legame insopprimibile tra Gesù e la comunità di coloro che lo “annunciano”. L’ultimo capitolo, il IX, presenta le testimonianze della risurrezione, sebbene esse non siano di pertinenza dello storico che si interroga sulla vicenda terrena di Gesù. «Tuttavia, la convinzione che Gesù fosse risuscitato costituì la finalità verso la quale si orientò la redazione e la custodia delle testimonianze neotestamentarie» [215]. Questo è il motivo per cui le testimonianze della risurrezione di Gesù rientrano in un percorso storico. Sebbene non esplicitato, il capitolo IX si lega al VII che presenta la comunità dei discepoli storici di Gesù, che indubbiamente tramandano i dati storici su di lui in una prospettiva postpasquale. Ciò ci permette di accettare come legittimo l’ultimo capitolo non solo, ovviamente, da un punto di vista teologico, ma anche storico. Sarebbe stato interessante se gli autori avessero confrontato il loro metodo di indagine con quella di chi si ferma alla morte. Ci si può rammaricare, per es., l’assenza di un riferimento all’opera dell’autore ebreo David Flusser [ Gesù. Pubblicato nel 1968 in tedesco e più volte tradotto e rieditato, l’edizione italiana per i tipi di Morcelliana è del 1997]. Il volume di Gronchi - Ilunga, con un linguaggio accessibile anche ai non specialisti, nel primo capitolo mostra lo sviluppo delle tappe della storia della ricerca storica su Gesù, a partire dalla ricostruzione che fa Schweitzer dello studio della vita di Gesù. Dopo questa prima fase, si presentano i termini essenziali della reazione a Bultmann, che aveva decretato la fine della ricerca sulla vita di Gesù, perché ritenuta impossibile dal punto di vista storico, reazione che sfocia nella seconda tappa con una serie di nuove ricerche (da qui la designazione di New Quest), per giungere alla terza tappa, cioè a dire la fase attuale (quindi la «terza ricerca», The Third Quest). Nei capitoli II-III-IV si presentano il metodo, le fonti e si delinea il contesto storico e religioso della vita di Gesù. Proprio in questo contesto sarebbe stato utile guardare al metodo di Flusser, il quale legge la vita di Gesù precisamente a partire dal suo contesto storico-religioso, mostrando la continuità e la discontinuità. I capitoli V e VI sono quelli che illustrano il contenuto del messaggio di Gesù, con la sua predicazione e la sua prassi. Il capitolo VIII ricostruisce l’«esito» della vicenda storica di Gesù: la passione e la morte per crocifissione. La ricostruzione storica, sostan-
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zialmente attraverso le fonti neotestamentarie, fa trasparire un dato che non è di pura cronaca: la consapevolezza di Gesù di andare incontro ad un dramma che compie la sua intera esistenza. Qui si affronta anche la questione teologica dell’autocoscienza di Gesù. Gli autori lo fanno basandosi sulle testimonianza neotestamenarie con i limiti insiti alla questione. Lo storico infatti non ha strumenti per indagare la coscienza dei protagonisti, lo può fare solo sulla base di testimonianze esterne: la prassi, le parole, … Il testo riesce a conseguire un equilibrio tra l’esigenza della ricostruzione storica e quella dell’interpretazione della storia. In conclusione possiamo dire che il testo si raccomanda per la serietà e la chiarezza. Esso si rivolge soprattutto al lettore comune, ma è utile anche agli studenti di teologia. Pur con i limiti delle sintesi esso costituisce certamente uno strumento utile per chi vuole accostare una materia tanto complessa, quanto essenziale per la conoscenza non solo di Gesù, ma dello stesso cristianesimo. Il volume, infine, è corredato da una bibliografia utile per lo studio e l’approfondimento personale. Manca, sfortunatamente, un indice dei nomi, molto utile per un migliore uso del testo. Maurizio Aliotta
GIOVANNI ANCONA, Escatologia cristiana, Nuovo Corso di Teologia Sistematica 13, diretto da G. Canobbio e A. Maffeis, Queriniana, Brescia 2003, pp. 414. L’opera del teologo pugliese, da diversi anni impegnato nell’insegnamento soprattutto dell’Escatologia a cui ha dedicato altri studi e saggi, a partire dalla sua stessa dissertazione dottorale alla Lateranense sul significato escatologico cristiano della morte, è il 13° volume del Nuovo Corso di Teologia Sistematica diretto da G. Canobbio e A. Maffeis, ambizioso progetto portato avanti da un gruppo di teologi membri dell’Associazione Teologica Italiana, che ha già visto la pubblicazione di altri volumi dedicati ad altri ambiti della dogmatica cattolica. Dalla presa di coscienza che la riflessione escatologica contemporanea ormai da molto tempo si è definitivamente emancipata da quella fisica dei fini ultimi e da quella geografia dell’aldilà in cui si era costituita con la
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manualistica neoscolastica, scoprendo se stessa come dimensione inalienabile e privilegiata dell’intera teologia, senza per questo rinunciare ad esprimere la speranza cristiana nel compimento ultimo dell’uomo e del mondo, attraverso una rinnovata ermeneutica delle asserzioni bibliche e della ricca tradizione patristica, si è giunti a riscoprire Cristo morto e risorto come centro del messaggio escatologico del cristianesimo. A partire dall’evento Cristo, escatologicamente connotato, si è così compresa la qualità escatologica dell’esistenza cristiana nella chiesa, con particolare interesse per la questione della morte, intesa come passaggio verso il compimento che comporta il giudizio nella parusia. Il testo rivela immediatamente la sua finalità didattica e la sua natura di manuale (lo stesso A. lo afferma a p. 6) già dalla sua impostazione generale. L’opera, infatti, è composta da tre parti fondamentali, secondo un cliché ormai ampiamente consolidato e fedele alle indicazioni metodologiche offerte da Optatam Totius 16 a cui l’A. esplicitamente si ispira (p. 13). Scopo che l’A. si prefigge sin dalle prime pagine è quello di presentare l’analisi della «globale tradizione cristiana, che dal mondo biblico giunge sino all’età contemporanea» (p. 13). In maniera consequenziale, quindi, la prima parte, preceduta da un’introduzione generale in cui si definisce l’escatologia come «la traduzione critica dell’annuncio della fede circa il futuro definitivo dell’uomo e della sua storia e del suo mondo» (p. 11), presenta diffusamente l’escatologia del mondo biblico, allargando lo sguardo oltre le fonti canoniche anche a quelle extracanoniche, prime tra tutte quelle rappresentate dalle cosiddette apocalissi giudaiche (di grande interesse per approfondire il bagaglio linguistico e simbolico a cui diversi scritti dello stesso NT hanno attinto e da cui sono stati in parte influenzati: pp. 52-79) e quindi cristiane (pp. 120-135). In questa prima sezione del manuale in cui l’A. si sofferma nella presentazione e nell’analisi dei principali testi scritturistici sulle questioni escatologiche, si segue l’ordine canonico, per cui, per quanto riguarda l’AT si analizzano di seguito i temi più rilevanti presenti nella letteratura storica, quindi in quella profetica e infine in quella sapienziale, con l’evidenziazione di alcuni argomenti generali come il futuro, la promessa, la morte, la risurrezione; cercando di mettere di volta in volta in risalto lo sviluppo dei vari enunciati escatologici e del cammino di comprensione della fede di Israele. A questo proposito risulta particolar-
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mente importante il tema della “visita” presente soprattutto nella letteratura sapienziale e dal sapore fortemente escatologico perché capace di aprire al futuro di Dio e di schiudere la possibilità del suo intervento di salvezza (pp. 40-42). Mentre per quanto concerne il NT l’A. prende in considerazione di seguito l’escatologia dei vangeli sinottici, quindi quella propria del IV vangelo e quella paolina, senza tralasciare quella espressa in altri scritti neotestamentari: la Lettera agli Ebrei, le Lettere Cattoliche e l’Apocalisse. La seconda parte, poi, espone dettagliatamente l’escatologia cristiana nel suo sviluppo storico-teologico post-blico, in chiara dipendenza e sequenza con la sezione precedente a cui spesso si rimanda. In questo secondo momento dello svolgimento dell’opera l’A. mostra in maniera puntuale gli elementi primari dell’escatologia antica con tutte le questioni dibattute nel primo periodo cristiano: dall’apologetica della risurrezione della carne, nodo cruciale della fede cristiana, alla dottrina dell’immortalità dell’anima (pp. 139-149); dalla dottrina dell’avvento del regno millenario al tema della morte e quindi del destino finale del cristiano, con le annesse questioni del giudizio, della dannazione e della gloria (pp. 149-161). Dalla teoria dell’apocatastasi e del suo perdurante influsso nel confronto teologico successivo, agli argomenti legati alla fine del mondo, e cioè l’avvento della fine, lo stadio intermedio e le realtà eterne (pp. 161-173). Interessante appare poi la rassegna della riflessione scolastica sull’escatologia. Nel periodo medievale, infatti, si affacciano i primi tentativi di sintesi escatologiche (primo tra tutti va preso in considerazione il Prognosticon futuri saeculi di Giuliano di Toledo le cui linee essenziali vengono esposte con chiarezza dall’A. alle pp. 176-178), e sempre in questo periodo vede la sua nascita e il suo sviluppo l’opera di Gioacchino da Fiore la cui “svolta escatologica” ha avuto un grande influsso sulla teologia successiva e si è rivelata cruciale per l’approfondimento degli enunciati escatologici. Anche a questo teologo e al suo contributo viene dedicato ampio spazio nella presentazione storica (pp. 183-187). Il rapporto sullo sviluppo storicoteologico dell’escatologia prosegue perciò con la sintetica esposizione dell’importante documento magisteriale, la costituzione Benedictus Deus di Benedetto XII (del 1336) in cui vengono fissati alcuni punti fermi della fede della chiesa specialmente sull’escatologia individuale; documento, di cui l’A. presenta il testo per esteso, ma che per la sua importanza avrebbe richiesto comunque uno spazio maggiore nella trattazione e nell’economia
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dell’opera (pp. 196-198). L’escatologia cristiana moderna trova poi un momento importante nell’opera dei Riformatori (Lutero e Calvino in particolare) e nelle scarne ma tuttavia rilevanti affermazioni del Concilio di Trento che ha soffermato la sua attenzione in modo specifico sulle questioni legate al tema del Purgatorio. Dopo la presentazione della scuola romantica di Tubinga e in seguito dell’escatologia propria della Neoscolastica, fatta di luci e di ombre e cristallizzata nei manuali di scuola (fisica dei fini ultimi, “cosificazione” degli eschata, netta separazione tra escatologia universale ed escatologia individuale, ecc.), viene introdotto a ragione il contributo offerto da M.J. Scheeben specialmente nella sua opera I misteri del cristianesimo, in cui il teologo renano fornisce un ampio compendio della teologia dogmatica alla luce della categoria di “mistero”. Il pensiero del teologo tedesco su questo punto della dottrina, infatti, mette a disposizione un apporto che forse non sempre è stato adeguatamente evidenziato dalla maggior parte dei manuali di escatologia, e che invece risulta di grande interesse per la comprensione del complesso cammino dell’escatologia cattolica (pp. 218-223). L’escatologia cristiana contemporanea, infine, ripercorre le tappe fondamentali di ciò che lentamente si è delineato sempre più come un processo di ri-comprensione dell’escatologia come anima dell’intera teologia, come prospettiva centrale e ineluttabile per l’intelligenza della teologia cristiana nella sua vera natura. In questo quadro viene esaminato l’importantissimo contributo del pensiero teologico protestante (soprattutto il dibattito sorto tra gli esponenti dell’escatologia conseguente e quelli dell’escatologia realizzata) di cui si presentano i complessi contorni in maniera sintetica e congiuntamente chiara e precisa; e quindi del pensiero teologico cattolico (opera di Congar, Daniélou, e ancora di von Balthasar, Rahner, e dei maggiori esponenti della “teologia della prassi” e della “teologia speranza”, ovvero Metz, Gutiérrez, Boff, Sobrino e Moltmann) senza tralasciare l’imprescindibile sintesi del Concilio Vaticano II, soprattutto di Lumen Gentium VII e di alcuni numeri di Gaudium et Spes (pp. 247-250). La terza sezione, infine, è costituita da una proposta sistematica suddivisa in quattro parti fondamentali in cui si prende in considerazione l’evento Gesù Cristo come evento escatologico (pp. 261-287); il carattere escatologico dell’esistenza cristiana presente (pp. 288-312); il carattere
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escatologico dell’esistenza cristiana nella morte (pp. 313-338); l’evento escatologico parusiaco (pp. 339-360). La prospettiva costante a partire dalla quale le varie questioni vengono studiate è quella trinitaria e quindi anche ecclesiologica, con un interesse tutto particolare a questioni capitali per la stessa riflessione antropologica, quali ad esempio il tema della morte del morire dell’uomo. Al di là dell’impianto generale dell’opera forse un po’ scontato, di grande importanza risultano certamente le tracce di approfondimenti tematici poste a conclusione di ogni capitolo in cui si segnalano alcune questioni particolarmente rilevanti per una intelligenza più precisa e completa degli argomenti via via trattati, e soprattutto di quei temi che non sono stati presi in esame ma che meriterebbero di certo una ricerca personale che completi la proposta contenutistica. Per questo scopo si forniscono le necessarie indicazioni bibliografiche utili a favorite l’approfondimento critico. Molto utili sono anche i temi di studio posti alla fine di ogni paragrafo e che hanno lo scopo di penetrare più a fondo in aspetti particolari e nelle sfumature più interessanti del tema di volta in volta preso in esame. Anche in questo caso le ricche indicazioni bibliografiche sono quanto mai importanti e preziose e rappresentano un grande contributo per avviare eventuali percorsi di studio sia personali che di gruppo. Per di più, la copiosa bibliografia proposta alla fine dell’opera (quasi 30 pp.), risulta di grande valore anche perché presenta una buona, sebbene non del tutto esaustiva, panoramica della letteratura teologica prodotta negli ultimi anni sull’escatologia. L’opera appare comunque appesantita a tratti dalle lunghe citazioni nel testo di brani (testi biblici, riflessioni dei Padri e dei teologi) che sebbene il più delle volte siano di capitale importanza per afferrare lo svolgimento dell’argomentazione, altre volte corrono il rischio di ingolfare l’esposizione e certamente rendono difficoltosa la lettura (a mo’ d’esempio cfr pp. 69-76). Come saltano subito all’occhio del lettore lunghi e contorti periodi che avrebbero richiesto una maggiore attenzione e cura della forma (a mo’ d’esempio cfr le pp. 10-11; 18; 146). Inoltre, l’eccessiva suddivisione del testo in numerosissimi paragrafi e sottoparagrafi, intercalati dalle proposte di studio e approfondimento, ecc., rende difficile cogliere l’unitarietà del trattato e accentua l’impressione di una certa frammentazione e della debolezza e incertezza
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di natura epistemologica di cui soffre in particolare la riflessione intorno all’escatologia cristiana; rischio di cui si era data tra l’altro ragione sin dalle prime pagine del trattato (pp. 5-6). Non può sfuggire ancora una lacuna presente nel manuale; ovvero la mancanza di una adeguato approfondimento della dimensione cosmica dell’escatologia cristiana. Infatti, se si eccettuano alcuni passaggi sporadici e un breve paragrafo in cui espressamente si affronta questo argomento (p. 111; 357-359), l’A. non dedica adeguato spazio a questo elemento essenziale dell’escatologico cristiano. Eppure la portata cosmica del compimento finale e parusiaco, sottolineata a più riprese soprattutto, ma non solo, dalla letteratura apocalittica, è una componente fondamentale e primaria della speranza escatologica cristiana, e al contempo una problematica verso cui si orienta sempre più la sensibilità dell’uomo contemporaneo, anche per l’importanza che riveste per le tematiche legate alla delicata relazione dell’uomo con il suo ambiente vitale, alla crisi ecologica in atto, al destino ultimo dell’universo intero, ecc. Nel presentare lo sviluppo teologico dell’escatologia contemporanea, unitamente all’importante e indispensabile contributo dei teologi cattolici di lingua tedesca e francese, ci si sarebbe aspettati anche un timido riferimento ai contributi più attuali offerti anche da alcuni teologi italiani che hanno dato il loro apporto in tempi più recenti. Tra i più rappresentativi vanno di certo ricordati soprattutto G. Moioli e M. Bordoni, i quali hanno tentato di costruire una sistematica capace di rileggere in maniera rinnovata l’escatologia cattolica contemporanea. Teologi ai quali comunque l’A. fa riferimento prevalentemente nella costruzione della parte sistematica dell’opera. Ci si sarebbe anche aspettati una qualche, seppure breve, considerazione della riflessione escatologica di teologi ortodossi che hanno mostrato interesse per questo ambito della dottrina. L’A. a questo proposito si è limitato a suggerire alcune piste di approfondimento dell’escatologia propria della chiesa ortodossa senza addentrarsi in quello che si sarebbe rivelato di certo un vitale e fruttuoso confronto (p. 257). Così come ci si sarebbe attesi una maggiore attenzione al contributo derivante dal pensiero filosofico contemporaneo, anche italiano, sul destino ultimo dell’uomo e del mondo (si pensi alle provocazioni offerte da filosofi come M. Cacciari, S. Natoli, V. Vitiello) e all’escatologia propria delle altre religioni, sia per beneficiare della ricchezza contenuta nelle altre tradizioni religiose e nelle
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loro concezioni escatologiche, sia, soprattutto, per mettere ulteriormente in evidenza l’originalità del messaggio escatologico della fede cristiana (timido rimando per la questione della morte a p. 338). Non convince l’affermazione di p. 226 in cui si asserisce che il risultato più evidente del movimento di pensiero che ha portato nel XX sec. al rinnovamento dell’escatologia cristiana, sia stato il «passaggio dall’escatologia, intesa come riflessione sulle cose ultime (De Novissimis), all’escatologia, concepita come un vero e proprio trattato teologico a forte connotazione storico-salvifica», poiché la vera novità non consiste tanto nella produzione di un nuovo tipo di trattato o manuale, quanto piuttosto nella riscoperta della dimensione escatologica dell’intera teologia e perciò delle singole discipline teologiche, prima tra tutte la cristologia, ma anche l’ecclesiologia e l’antropologia, nonché nella riconsiderazione dell’escatologia nel suo essenziale rapporto con l’intera dogmatica. È tuttavia lodevole la capacità dell’A. di presentare in maniera sintetica e altrettanto chiara e nelle sue linee nodali, il travagliato confronto che si è stabilito a cavallo tra la fine del XIX sec. e la prima metà del XX in seno alla teologia protestante (Weiss, Schweitzer, Dodd e in un secondo momento Barth, Bultmann), senza tralasciare il contributo di autori più vicini a noi come Pannenberg e Moltmann (pp. 227-238). Il manuale si presenta nel complesso come un validissimo strumento per lo studio e l’approfondimento dell’escatologia cattolica, e ha il notevole pregio di configurarsi come “opera aperta” in quanto costantemente preoccupato di offrire al lettore che si accosta allo studio dell’escatologia, ampie prospettive e finestre che gli permettono di intraprendere importanti e interessanti percorsi di studio e approfondimento personali, offrendogli al contempo, come si è più volte ribadito, una sufficiente visione delle maggiori questioni dell’escatologia nel suo imprescindibile rapporto con le altre discipline teologiche, e della teologia cristiana in genere, di cui è divenuta sempre più, e a ragione, anima e prospettiva privilegiata. Francesco Brancato
Synaxis XXIII/3 (2005) 259-263
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1. Nomine Osservati i prescritti passaggi statutari: il 4 settembre 2005 il Gran Cancelliere della Facoltà Teologica di Sicilia, card. Salvatore De Giorgi, ha nominato Preside dello Studio Teologico S. Paolo il prof. Salvatore Consoli; il 23 settembre 2005 il Moderatore dello Studio, mons. Salvatore Gristina, ha nominato Vice-preside il prof. Giuseppe Schillaci; il dott. Alessandro Oliveri Amministratore; il 23 settembre 2005 il Preside ha nominato il prof. Gaetano Zito Bibliotecario.
2. Licenziati in Teologia morale Ha conseguito la licenza in Teologia Morale il 13 ottobre 2005: ALESCIO PAOLO, “Chi vuol venire dietro me…” Lettura catecheticoredazionale dei loghia di Gesù in Mt 16,24-28; Mc 8, 34-9; Lc 9,23-27 (relatore prof. Attilio Gangemi)
3. Baccellieri in teologia
Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia il 24 giugno 2005: BUCOLO CARMINE LORENA, Salvatore Famoso e la riforma liturgica. Regesto dell’archivio personale (relatore prof. Gaetano Zito)
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CASELLA FRANCESCO, Temi di teologia dalle pergamene greche di San Nicolò Politi (relatore prof. Luigi Chiovetta) BERTINI MARGHERITA, I racconti evangelici della tempesta sedata. Confronto letterario, fondamenti veterotestamentari, indole pasquale dei racconti (relatore prof. Attilio Gangemi) BARBAGALLO FRANCESCA, “Stavano presso la croce di Gesù… (Gv 19,25)”. La comunità delle donne presso la croce di Gesù in Gv 19,2527 (relatore prof. Attilio Gangemi) DI PIETRO SIMONA MARIA, “Io sono la vite, voi i tralci (Gv 15,5)”. Aspetti letterari, fondamenti veterotestamentari e aspetti tematici nella metafora della vite e dei tralci in Gv 15, 1-8 (relatore prof. Attlio Gangemi) ABBATE GIUSEPPE, Lo statuto giuridico dell’insegnante di religione cattolica in Italia (relatore prof. Adolfo Longhitano) SPARACINO ANTONIO, Il seminario vescovile di Noto (1852-1913) (relatore prof. Gaetano Zito) BOCCACCIO SEBASTIANO, Natura della pace e non violenza nel magistero di Paolo VI (relatore prof. Corrado Lorefice) CARTA ANTONELLA, L’attesa come obbedienza nella riflessione filosofico-spirituale di Simone Weil (relatore prof. Giuseppe Schillaci) MACCHIONE ORAZIO, “Volgetevi a me e sarete salvati…(Is 45,22)” Isaia 45 e il nuovo testamento. La sua ripresa in Gv18, 20-21 e Fil 2,10-11 (relatore prof. Attilio Gangemi) LIA ANGELA, L’iniziazione cristiana come itinerario di vita spirituale nel Libro VII della Vita in Cristo di Nicola Cabasilas (relatore prof. Giuseppe Alberto Neglia )
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SANTAGATI AQUILA, Le beatitudini e la morale cristiana alla luce del Magistero (relatore prof. Salvatore Consoli)
il 13 ottobre 2005: AGOSTA LUCIA, La figura del Cuore di Gesù delineata nella liturgia della Parola della solennità liturgica (relatore prof. Attilio Gangemi) DI SILVESTRO LUCIANO, Il culto di S. Rocco a Scordia (relatore prof. Giuseppe Federico) DONZELLO GIANNI, Il pendolo dei tempi. Note sul Qohelet (relatore prof. Dionisio Candido) GRECO AGOSTINO, Il Cantico dei Cantici e l’interpretazione dei Rabbi Shelomè Ben Jizchaq (Rashi) (relatore prof. Carmelo Raspa) LOREFICE ANTONINO, Ricomprendere la corporeità. Una rilettura teologica (relatore prof. Corrado Lorefice) MODICA ANTONIO, Accentuazioni ecclesiologiche e implicanze pastorali nelle dispense redatte da don Tonino Bello (relatore prof. Corrado Lorefice) PARISI GIORIGIO, La Settimana Santa a Pachino (relatore prof. Giuseppe Federico) RICUPERO IVAN, Il culto liturgico di S. Lucia dal Concilio di Trento alla riforma del Concilio Vaticano II (relatore prof. Giuseppe Federico) SCIUTO GIUSEPPE, Gesù “il Re dei Giudei”. L’iscrizione della croce nei vangeli sinottici. Aspetti letterari, tematici e redazionali (relatore prof. Attilio Gangemi)
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4. Collegio dei docenti Il 4 novembre 2005, su proposta del Collegio docenti, sono stati nominati Docenti incaricati allo Studio Teologico S. Paolo: il prof. Francesco Brancato, docente di Teologia dogmatica il prof. Dionisio Candido, docente di Sacra Scrittura
5. Inaugurazione Anno accademico Il 4 novembre 2005 si è tenuta l’inaugurazione del 37° anno accademico dello Studio Teologico S. Paolo. La mattina i docenti, i membri del Consiglio si sono incontrati con i Vescovi delle Chiese che aderiscono al S. Paolo: Acireale, Caltagirone, Catania, Nicosia, Noto e Siracusa. L’incontro si è incentrato intorno a due temi: i risvolti per lo studio della teologia dell’attuale riordino degli studi teologici in Italia e l’Accordo firmato, il 30 settembre 2005, tra il Rettore dell’Università di Catania e il Preside dello Studio. Il pomeriggio si è tenuto il momento accademico, con la solenne concelebrazione eucaristica presieduta da mons. Pio Vigo, vescovo di Acireale. Alla concelebrazione ha fatto seguito la relazione del Preside mons. Salvatore Consoli, dopo un breve saluto del Moderatore dello Studio Salvatore Gristina arcivescovo di Catania. Il Preside ha sottolineato la corresponsabilità di tutti docenti e studenti e lo spirito di comunione che ha caratterizzato e deve continuare a caratterizzare la vita dello Studio Teologico. Il carattere sinodale che ha contraddistinto la realtà del S. Paolo deve continuare a costituire la garanzia contro ogni forma di soggettivismo e di indifferenza o di monopolizzazione delle altrui risorse umane e spirituali. Il Preside non ha mancato di rivolgere un saluto e un ringraziamento a Gaetano Zito per il lavoro di presidenza svolto in questi sei anni con dinamismo e intraprendenza a vantaggio di una crescita globale dello Studio Teologico. Un saluto cordiale ha rivolto pure ai due professori A. Longhitano e A. Minissale che a partire da quest’anno diventano emeriti. Dopo la relazione del Preside, mons. Adolfo Longhitano, professore di Diritto canonico, ha tenuto la prolusione accademica sul tema: “Istituzioni di cristianità a Catania nel ’400”. Nel quadro generale della cristianità
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medievale europea, egli ha descritto le istituzioni tipiche della Sicilia e di Catania, legate all’ordinamento dato dai Normanni dopo la conquista del secolo XI e ancora operanti nel secolo XIV.